bussola Archivi - OGzero https://ogzero.org/tipologia/bussola/ geopolitica etc Mon, 22 Mar 2021 17:04:29 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.4.6 Non di soli contrasti tribali vive lo scontro etiope… https://ogzero.org/dispute-etniche-e-svolte-liberiste-dietro-la-guerra-in-corno-dafrica/ Wed, 18 Nov 2020 01:55:38 +0000 http://ogzero.org/?p=1775 … anzi, il sottile velo delle dispute etniche non riesce a nascondere gli interessi internazionali, il neocolonialismo che muove i protagonisti locali, la spartizione di risorse, territori, infrastrutture. I ribaltamenti dei sistemi politico-economici non possono che passare attraverso crisi apertamente belliche e quindi dal 4 novembre è scoppiata una guerra civile che può estendersi all’intera […]

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… anzi, il sottile velo delle dispute etniche non riesce a nascondere gli interessi internazionali, il neocolonialismo che muove i protagonisti locali, la spartizione di risorse, territori, infrastrutture. I ribaltamenti dei sistemi politico-economici non possono che passare attraverso crisi apertamente belliche e quindi dal 4 novembre è scoppiata una guerra civile che può estendersi all’intera area della Rift Valley.

Redde rationem trentennale nel superamento dell’etnofederalismo

Abiy Ahmed, oromo giunto rocambolescamente al potere etiope in sostituzione del “controllo” trentennale tigrino e al nobel in premio per un accordo storico con l’Eritrea, utile al primo ministro etiope per contare su naturali alleati storicamente interessati a contenere i vicini tigrini di Macallè (fin dai tempi coloniali, agevolando il compito di quelle potenze occidentali), ma indispensabile anche ad Isaias Afewerki, dittatore eritreo, per mantenere il potere concentrato nelle sue mani – ma forse la guerra può aver creato un’alleanza tra tigrini e oppositori eritrei, tanto che pare che alcuni guerriglieri siano penetrati nel territorio eritreo e dal Tigray è stato bombardato l’aeroporto di Asmara. Già due anni fa, al momento dell’accordo fortemente ricercato dai sauditi di Bin Salman, si scaricarono transfughi eritrei al confine tigrino (minato e costellato da campi profughi), folle corrispondenti a quelle che ora premono sulla frontiera che divide Etiopia e Sudan (forse 100.000).

A completare il quadro del rinnovato sciovinismo del Corno d’Africa (una scena che ha come sfondo il controllo del Mar Rosso) c’è il rischio che venga coinvolta la variegata galassia delle Somalie e il Sudan, ancora in procinto di uscire dalla transizione dopo la cacciata di al-Bashir, teatro nella provincia orientale di Cassala al confine con Eritrea ed Etiopia di scontri proprio per rivendicazioni di maggiore rappresentanza tra tribù Juba.

L’economia detta l’agenda nazional-federale

L’etnia oromo è maggioritaria nel paese ma è rimasta marginalizzata per lo strapotere del Nord, che possedendo la maggioranza delle risorse e infrastrutture del paese ed essendo al centro di vie di comunicazione, controllando l’esercito fino all’epurazione del 2018 effettuata da Abiy Ahmed, aveva potuto mantenere un sistema etnofederalista che salvaguardava non solo le componenti minoritarie, ma impediva svolte neoliberiste che invece si sono imposte nel momento in cui Abiy Ahmed ha preso il potere, cominciando a configurarsi come un regime e il timore ha preso a serpeggiare tra i cittadini etiopi.

Il premio Nobel ha ammantato l’archiviazione del sistema economico con la spinta alla riconciliazione nazionale, che vede solo la resistenza del Tigray, un’etnia con una forte percezione di sé (e della sua storia di contrapposizione al saccheggio delle proprie risorse e all’occupazione militare del proprio territorio, fin dai tempi coloniali) che individua nel cambiamento il conseguente ridimensionamento dell’autonomia regionale. Ovviamente le altre etnie, che rappresentano il 94 per cento della popolazione, mal tollerano la resistenza tigrina, perciò le milizie ahmara hanno appoggiato l’esercito di Addis Abeba intervenuto in risposta a una reazione alla provocazione dello stato centrale che ha inviato ingenti truppe in Tigray.

La percezione del momento nella società etiope

Perciò il 10 novembre 2020 durante la trasmissione “I Bastioni di Orione” sulle frequenze di Radio Blackout si è potuta sentire questa ricostruzione degli eventi fatta da un giovane emigrato etiope, evidentemente non tigrino, che sostanzialmente attribuisce alla minoranza la responsabilità della deriva violenta di queste settimane:

Ascolta “Rivolta tigrina contro il superamento dell’etno-nazionalismo di Ahmed” su Spreaker.

La testimonianza, per quanto pacata, palesa la posizione fortemente critica della maggioranza degli etiopi, probabilmente non tanto per lo strappo attuale, ma per i 30 anni di oppressione tigrina, una reazione che ha fatto parlare di rwandizzazione per descrivere la reazione antitigrina. Difficile valutare se si tratta di esagerazioni, perché Abiy Ahmed ha fatto tesoro della esperienza da ministro delle comunicazioni, quando ha imparato a gestire e controllare i flussi di informazioni telematici: infatti trapelano pochissime notizie.

Il primo tassello da cui partire per descrivere la situazione è dunque l’ancora forte determinazione della minoranza tigrina a contrastare il nazionalismo identitario di Abiy – che dapprima ha dovuto fronteggiare per lo stesso motivo le rimostranze della sua stessa etnia oromo, portato a interpretare la propensione a diluire le differenze tribali nella comune “identità” etiope come un tradimento della propria gente; in realtà la scelta è essenzialmente un cambio di orientamento del modello di sviluppo su istanza cinese, che vede nel Corno d’Africa e nel presidio dello stretto di Bab al Mandab (ovvero di Gibuti) uno snodo essenziale per la Belt Road Inititive. Per fare ciò Abiy ha bisogno di poter gestire centralmente le ingenti risorse del Tigray, di abbracciare il neoliberismo e di indicare simboli che possano rappresentare la nazione etiope, stretta attorno a lui e al suo nuovo corso: a questo scopo si presta perfettamente la Diga della Rinascita sul Nilo azzurro.

Neocolonialismo Corno d'Africa 2020

Infrastrutture, basi militari, territori contesi, vie di comunicazione nella Rift Valley

Qualche snodo storico, ma i fattori divisivi sono infiniti

La crisi del Tigray nasce dallo scontro politico con il Tpfl, che è stato a lungo il partito egemone in seno all’Ersdf: i tigrini avevano sconfitto trent’anni fa il regime comunista e deposto Menghistu (l’ultimo a lanciare un escalation militare in Tigray), gestendo il potere da allora in avanti, senza abbracciare pienamente il neoliberismo. Il Fronte tigrino si è sentito più volte preso di mira dalle riforme del nuovo premier, che intanto ha creato una propria formazione politica, il Partito della prosperità.  Nel Tigray le autorità locali hanno deciso di tenere elezioni indipendenti a settembre, quelle che erano state rinviate ad agosto con la scusa della epidemia di SarsCov2 e il Tpfl è stato riconfermato al governo regionale. Ora lo scontro è diventato militare, con il rischio che la rivalità politica si trasformi in conflitto interetnico. Mulu Nega è stato nominato da Ahmed nuovo governatore ad interim per la regione settentrionale del Tigray. Poco prima il parlamento aveva preso la risoluzione di stabilire un’amministrazione provvisoria.

Per dipanare questo groviglio ne abbiamo discusso con Angelo Ferrari all’interno della stessa trasmissione diffusa da Radio Blackout in cui avevamo proposto la ricostruzione del giovane etiope.

Ascolta “Chi sta sabotando la convivenza e l’integrazione etnica?” su Spreaker.

L’apertura liberista al capitale privato crea attriti nell’intera società; nel Tigray ancora di più; la penetrazione di militari nazionali nella regione settentrionale è quindi vista come intrusione e ha fatto esplodere gli attacchi di Macallè. Si rischia l’esatto opposto del tentativo di unificare: la frammentazione perché ciascuno non si sente rappresentato a sufficienza e la repressione di Addis Abeba può incendiare l’intera area. Intanto sono già 25.000 gli sfollati e innumerevoli i morti (si parla di 500 solo nel massacro del 10 novembre a Mai-Kadra, in Tigray).

Ancora uno scambio di opinioni tra i redattori dei “Bastioni di Orione” di Radio Blackout e l’analista di eventi africani Angelo Ferrari

Ascolta “Nazionalismo e svolta liberista di Ahmed” su Spreaker.

Traffici d’armi e colonialismo

Nel 2019 il governo giallo-verde aveva stipulato attraverso la ministra Trenta accordi militari con il presidente-nobel_per_la_pace_Ahmed: «Difesa e sicurezza, formazione e addestramento, assistenza tecnica, operazioni di supporto alla pace… trasferimento di struttura d’arma e apparecchiatura bellica… è auspicata la promozione di iniziative finalizzate a razionalizzare il controllo sui prodotti a uso militare»; lo smercio di armamenti è comune ai precedenti governi italiani, soprattutto di centrosinistra, che avevano appoggiato la parte eritrea, ora già coinvolta con esplosioni all’Asmara perché Macallè accusa il regime di Afewerki di appoggiare Ahmed, inoltre le milizie ahmara si sono schierate subito con Addis Abeba. Duecento ufficiali tigrini inquadrati nell’African Union Mission in Somalia sono stati disarmati; l’isolamento è totale, probabilmente perché tutte le forze che agiscono in quello scacchiere temono si estenda l’incendio e scommettono sul ridimensionamento del peso del Tigray sull’area.

Colonialismo novecentesco in Corno d'Africa

Etnie e date fondamentali nella corsa novecentesca al Posto al sole

Il mai realmente sopito colonialismo italiano sta cercando di tornare a essere protagonista nel Corno d’Africa, perché gli interessi energetici e di appalti per infrastrutture (la Diga della Rinascita vede allignare ditte italiane nella costruzione progetta a Pechino) fanno gola come il Posto al sole di memoria mussoliniana… e quindi soffierà sul fuoco della guerra in un’area popolata dagli apparati militari di tutte le potenze mondiali (a Gibuti sono presenti compound militari di tutte le potenze globali), che si stanno accaparrando fette di un territorio che controlla traffici, merci, risorse. Una vera operazione neocoloniale nascosta sotto la cooperazione allo sviluppo.

Ascolta “Etiopia meta del complesso militar-industriale italiano” su Spreaker.

Le nazioni sono al soldo di potenze straniere per ridisegnare la geopolitica internazionale come avvenne nel periodo coloniale classico: tutte le potenze sono intente a controllare il passaggio del Mar Rosso da Aden a Suez (infatti a Gibuti, snodo essenziale del Belt Road Initiative, sono presenti tutti i contingenti militari) e ogni mossa è un riposizionamento strategico

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Il vecchio sogno sionista lambisce il Sudan https://ogzero.org/il-vecchio-sogno-sionista-lambisce-il-sudan/ Wed, 28 Oct 2020 16:23:30 +0000 http://ogzero.org/?p=1628 Geopolitica. Termine attorno al quale prolificano think-tank di ogni colore con il compito di spiegare i disastri del nostro mondo: quello di ieri, di oggi e purtroppo del futuro. C’è un altro detto o termine più profondo e analitico, quasi banale, che ci può aiutare a comprendere da dove cominciare quasi ogni analisi. Qualcuno, senza […]

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Geopolitica. Termine attorno al quale prolificano think-tank di ogni colore con il compito di spiegare i disastri del nostro mondo: quello di ieri, di oggi e purtroppo del futuro. C’è un altro detto o termine più profondo e analitico, quasi banale, che ci può aiutare a comprendere da dove cominciare quasi ogni analisi. Qualcuno, senza prove o indizi validi, sostiene che ha origini arabe; altri si rifanno a un trattato di strategia militare di uno scrittore indiano. La verità, probabilmente, coinvolge, come troppi dei disastri del nostro mondo, la Bibbia e i suoi derivati. Nel suo secondo libro (Esodo 23.22), riferendosi a Dio è scritto: «Se tu ascolti la sua voce e fai quanto ti dirò, io sarò il nemico dei tuoi nemici e l’avversario dei tuoi avversari». In italiano, senza troppi fronzoli: «Il nemico del mio nemico è amico mio». Fu, nel 1971, monsignor Ubaldo Calabrese, nunzio apostolico con sede a Kartum a spiegarmi, con un sorriso e le cautele appropriate per un rappresentante ufficiale della Santa Sede, i giochi complessi della guerra civile che da quindici anni tormentava il Sudan meridionale.

La lunga mano del Vaticano

Non mi fece il nome di “Tarzan” (non mi riferisco a quello dei film con Jane e la scimmietta al seguito, ossia il personaggio di Edgar Rice Burroughs) ma tra una forchettata di rigatoni preparati con amore dalle suore che gestivano la nunziatura nella capitale sudanese e un bicchiere di vino, non ebbe difficoltà ad attribuire a Israele e ai suoi servizi segreti esteri – il Mossad – l’addestramento degli anya-anya che lottavano contro gli arabi musulmani del nord. Non andò oltre il sorriso quando gli chiesi se fosse vero, come raccontavano molte fonti (compresi gli stessi israeliani) che a finanziare la rivolta c’era anche la Caritas, lunga mano del Vaticano non sempre controllata dal Papa. Da anni la Chiesa cattolica, attraverso i colti missionari comboniani e altri gruppi religiosi, operava in tutto il paese, ma soprattutto tra i neri delle regioni meridionali quasi tutti animisti, per avvicinarli al Dio di Roma e difenderli contro i musulmani che controllavano le regioni settentrionali di quello che era, allora, lo stato più esteso – e, aggiungo io, più affascinante – del continente africano.

Tel Aviv e Kartum vanno a braccetto: il ricatto americano

Prima di cercare di spiegare i grandi giochi che stanno portando a un accordo di pace (o qualcosa di simile) tra il governo di Kartum e quello di Tel Aviv attraverso la mediazione-ricatto americano, facciamo un passo indietro al 1971 e l’ultimo capoverso di quanto scrissi in un lungo reportage da Juba (o Giuba), capoluogo della regione di Equatoria, per “Il Messaggero”.

«Uno degli elementi che rendono difficile, oggi, una soluzione del problema meridionale è il contesto che esso ha assunto nel quadro della situazione del Medio Oriente e nei rapporti tra le grandi potenze. Nimieiri [allora leader sudanese, N.d.R.] ha firmato accordi con il Ciad e con l’Etiopia cercando così di limitare l’attività dei consiglieri israeliani che operavano da basi in questi paesi. Come contropartita ha dovuto sospendere il suo appoggio al Frolinat, il Fronte di liberazione del Ciad, e al Fle, il fronte di liberazione dell’Eritrea. Dall’altra parte la presenza russa in Sudan e la posizione di questo paese nello schieramento arabo sono tra i fattori che giustificano gli sforzi di Tel Aviv di appoggiare i disordini nelle province meridionali. Potrebbe influire su questa linea di condotta l’eventuale composizione della vertenza meridionale e la svolta a Occidente del governo di Kartum concretizzata nell’ultimo mese con l’arresto di decine di membri del comitato centrale del Partito comunista e con l’invito fatto ad alcuni grandi complessi economici europei di interessarsi direttamente allo sviluppo del paese attraverso grossi investimenti nei settori agricolo e industriale».

Perché da 15 anni il Sudan è lacerato da un conflitto interno che oppone il Nord al Sud

Molta acqua è passata sotto i ponti del Nilo da allora – mezzo secolo di violenza, antagonismo, morte – e dall’altro giorno la Repubblica del Sudan, ormai diviso legalmente dal Sudan del Sud, sembra avviata a un accordo di pace e amicizia con Israele. Si combatte, ancora, in molte regioni delle due nazioni e le incertezze riguardo il futuro dei due stati africani non mancano. Per tentare di comprendere la situazione attuale e la sua, diciamo, politica estera è utile tornare alle origini del Sudan, paese indipendente dal 1956 quando le potenze coloniali – Regno Unito ed Egitto – si ritirarono ufficialmente. Già allora uomini d’affari israeliani e il Mossad si avvicinarono al nuovo governo di Kartum con offerte di aiuti economici e altro con lo scopo evidente di mettere i bastoni tra le ruote delle alleanze panarabe contro Israele.

Gli sforzi di Tel Aviv non furono capaci di vincere sul richiamo del carismatico leader egiziano Nasser e dopo uno dei tanti golpe militari il Sudan si schierò con il resto del blocco nazionalista arabo fino a inviare un minuscolo contingente militare a combattere a fianco dei soldati del Cairo nella Guerra dei sei giorni del 1967. Erano gli anni in cui gli schieramenti locali rispecchiavano lo scontro Usa/Urss e le forze armate sudanesi erano equipaggiate e addestrate da Mosca. Incontrai i loro consiglieri militari nel Sudan meridionale; il ministro della Difesa del Cremlino a Kartum intanto osservava fiero i carristi sudanesi che sfilavano per la festa della rivoluzione. Facevano poco per nascondersi. Tanto chi doveva sapere, sapeva tutto.

Tarzan del Mossad

Fu allora che, con il beneplacito di Washington, entrò in scena “Tarzan”, o meglio David Ben Uziel, con un gruppo scelto di agenti. Il loro compito: aiutare le tribù del Sud Sudan nella loro lotta storica contro il governo centrale di Kartum. Da basi in Kenia e Uganda piloti israeliani paracadutarono armi e munizioni ai ribelli mentre “Tarzan” e i suoi specialisti addestravano i ribelli e li guidavano nei loro attacchi contro le istallazioni militari delle truppe arabe musulmane.

Molte furono le imboscate ed efficace dal punto di vista della guerriglia la distruzione dei pochi ponti sul Nilo bianco. La guerra civile finì entro la metà degli anni Settanta ma il Mossad, come in molti paesi africani, aveva consolidato le sue posizioni in tutto il Sudan. Amicizie e ricatti consentirono agli israeliani di utilizzare conoscenze e basi segrete per far uscire dall’Etiopia gli ebrei neri – i cosiddetti “falascià” – di quel paese. Successivamente, quando il governo di Kartum si era troppo avvicinato all’Iran degli ayatollah, gli agenti segreti di Tel Aviv ormai di casa in Sudan, guidarono i loro cacciabombardieri che colpivano depositi e fabbriche di armi allestiti da o per conto di Teheran. Tutto questo mentre il Sud Sudan, divenuto indipendente, si rivolse a Israele per armarsi e in funzione di un’altra guerra civile tra gruppi tribali rivali in una competizione per il controllo delle risorse petrolifere locali.

Con la deposizione nell’aprile 2019, dopo trent’anni al potere, del generale Omar Hasan Ahmad al-Bashir, le cose cominciarono a cambiare anche nel Sudan (del Nord) non più considerato uno stato canaglia retto da un dittatore colpito da un mandato di cattura dalla Corte internazionale di Giustizia per crimini contro l’umanità. Stati Uniti e Israele avviarono contatti immediati con il nuovo regime, fragile e ancora senza legittimità costituzionale. Da anni, ormai, il nemico principale di Israele e di molti nemici d’Israele era diventato l’Iran. Le divisioni del mondo islamico erano venute al pettine e stavano trascinando soprattutto il Vicino Oriente verso lo scontro armato tra sunniti e sciiti. E così, l’elegante – non meno di James Bond – capo del Mossad, Yossi Cohen, uno 007 con licenza non solo di uccidere ma di fare politica internazionale, va tessendo per volere del premier Netanyahu, le nuove alleanze quanto meno tattiche di Tel Aviv.

Dopo i baci e abbracci tra gli israeliani e i leader degli Emirati e il Bahrein, ministati in cui le famiglie regnanti sono sunnite e la maggioranza delle popolazioni sciita, ora, spronato o meglio ricattato dal presidente americano Trump, anche il governo provvisorio del Sudan si è detto interessato ad avvicinarsi a Israele. Come ha fatto capire anche l’Oman e, con frasi costruite per cercare di non dimenticare la causa palestinese, anche alcuni dei leader dell’Arabia saudita, paese che da anni ha stretti rapporti di collaborazione con le autorità militari israeliane e con il Mossad. Sapremo di più nei prossimi giorni. Ma ci vorrà molto di più per comprendere in quale direzione andranno le cose nel vasto turbolento scacchiere mediorientale dove dominano due elementi: la questione sciita-sunnita da una parte e la consapevolezza che il petrolio, arma economica dei regni totalitari arabi del deserto, sta finendo.

Ascolta “Israele compra a saldo paesi arabi” su Spreaker.

Sarebbe sufficiente la fine del regime degli eredi di Khomeini per sbaragliare il quadro generale. E favorire il ritorno alla vecchia alleanza preferita da Israele: un rapporto privilegiato con l’Iran, paese a maggioranza musulmana che non ha mai partecipato alle guerre arabe contro Tel Aviv. E che negli anni in cui regnava lo Scià, aveva stabilito una forte amicizia anche con il Sudafrica dell’apartheid. Il Mossad, già allora arma letale del giovane stato sionista, addestrava i torturatori iraniani del Savak e quelli non meno feroci dei servizi segreti di Pretoria. Oggi, come sappiamo, il fronte è cambiato nel rispetto dell’equazione “il nemico del mio nemico è amico mio”: Israele e i paesi arabi sunniti contro l’Iran sciita. La loro parola d’ordine: impedire al regime degli ayatollah di ottenere un’arma nucleare. Paradossalmente, poco prima della rivoluzione che portò alla destituzione dello Scià, Israele, per ordine di uno dei suoi più noti leader storici, Shimon Peres padre della tecnologia bellica nucleare israeliana, stava per consegnare all’Iran gli strumenti per la costruzione di uno stabilimento atomico. Furono gli stessi anni in cui Tel Aviv sperimentò nelle acque a sud delle coste del Sudafrica razzista la sua prima bomba, molte volte più potente di quelle lanciate su Hiroshima e Nagasaki. Oggi Israele ha un arsenale stimato in più di cento testate nucleari montate su razzi terra-terra, caricate su bombe pronte a decollare nel giro di pochi minuti e a bordo dei sommergibili di costruzione tedesca che navigano nelle acque del Mediterraneo e dell’Oceano Indiano.

Chiara Cruciati è stata intervistata il 29 ottobre 2020 su Radio BlackOut . Trovate il podcast di approfondimento sugli Abraham Accords nello spreaker inserito in questo punctum.

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La politica estera europea guarda a Oriente https://ogzero.org/la-politica-estera-europea-guarda-a-oriente/ Wed, 14 Oct 2020 19:58:13 +0000 http://ogzero.org/?p=1516 Quando il presidente cinese Xi Jinping visitò Berlino nel marzo 2014, Angela Merkel lo omaggiò di una ristampa tedesca della mappa realizzata dal cartografo francese Jean-Baptiste Bourguignon d’Anville nel 1735 sulla base del precedente lavoro dei gesuiti francesi che, durante il regno dell’imperatore Kangxi dei Qing (1661-1722), furono incaricati di mappare per la prima volta […]

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Quando il presidente cinese Xi Jinping visitò Berlino nel marzo 2014, Angela Merkel lo omaggiò di una ristampa tedesca della mappa realizzata dal cartografo francese Jean-Baptiste Bourguignon d’Anville nel 1735 sulla base del precedente lavoro dei gesuiti francesi che, durante il regno dell’imperatore Kangxi dei Qing (1661-1722), furono incaricati di mappare per la prima volta con criteri scientifici l’estensione territoriale del Celeste Impero.

Il pennuto di D’Anville senza coda né zampe

A quasi tre secoli di distanza, il valore storico della Carte générale de la Chine Dressée sur les Cartes particulières que l’Empereur Cang-hi a fait lever sur les lieux par les Jésuites missionaires dans cet Empire assume sfumature geopolitiche. Anziché un gallo, la Cina di d’Anville è un pennuto senza coda né zampe: le parti mancanti corrispondono, a nordovest, alle attuali regioni autonome del Xinjiang e del Tibet e, a sudest, al Mar Cinese Meridionale, teatro di schermaglie territoriali tra il gigante asiatico e i vicini rivieraschi. Un colore diverso definisce implicitamente le isole di Taiwan e Hainan come realtà distinte.

Rotte commerciali marittime “libere e sicure”

Durante quello stesso incontro, la cancelliera tedesca, citando il “diritto internazionale”, invitò la Cina «a risolvere le dispute territoriali» nelle «corti multinazionali» al fine di «mantenere le rotte commerciali marittime libere e sicure». Chiaro riferimento alla sentenza con cui nel 2016 il Tribunale internazionale dell’Aja contestò i diritti storici rivendicati da Pechino nel Mar Cinese Meridionale, accogliendo la richiesta delle Filippine.

Gli ammonimenti della Merkel sono stati codificati all’inizio di settembre, quando la Germania ha annunciato ufficialmente le nuove linee guida per la politica estera nell’Indo-Pacifico, concetto inaugurato negli anni Venti proprio da un tedesco – il geografo Karl Ernst Haushofer – ripreso nel 2007 dall’ex premier giapponese Shinzo Abe, e rilanciato dieci anni più tardi dall’amministrazione Trump.

L’Indo-Pacifico è un concetto politico variabile

In termini puramente geografici, per Indo-Pacifico si intende una regione biogeografica oceanica che comprende le zone tropicali e subtropicali dell’oceano Indiano e della parte occidentale dell’oceano Pacifico a est, fino alle Hawaii e all’Isola di Pasqua. Ma la sua interpretazione politica cambia da paese a paese. Per Washington, parlare di Indo-Pacifico serve a ridimensionare il ruolo della Cina e della Belt and Road per dare maggiore centralità agli alleati regionali – Australia, Giappone e soprattutto India – in materia di sicurezza e scambi commerciali, con malcelate finalità protezionistiche. E per Berlino? Sfogliando il corposo fascicolo (quasi settanta pagine), si nota l’intenzione di «rafforzare lo stato di diritto e i diritti umani» ma anche e soprattutto l’impegno a «evitare la dipendenza unilaterale [dalla Cina] diversificando le partnership».

L’Europa volge lo sguardo a Oriente, specialmente la Germania

Riconoscendo il valore economico e geopolitico dell’Indo-Pacifico – dove ha sede il 60% della popolazione e un terzo del commercio mondiale – la Germania sfrutta il riposizionamento nel quadrante per rilanciare il multilateralismo e il libero scambio, invocando un dialogo europeo con la NATO e gli attori regionali: Giappone, Corea del Sud, India (citata ben 57 volte) ma anche l’ASEAN, l’organizzazione politica, economica e culturale che riunisce 10 nazioni del Sudest asiatico. La sigla comprende i principali avversari di Pechino nel Mar Cinese Meridionale: Vietnam, Malaysia, Brunei, Filippine e Indonesia. Come sottolinea l’Associazione Italia-ASEAN, è una visione che la Germania punta a trasmettere a livello comunitario, come traspare dal Trio Program formulato dalla presidenza del Consiglio dell’Unione europea, che Berlino lascerà il 31 dicembre al Portogallo e in seguito alla Slovenia.

Mentre le linee guida tedesche segnano un ritorno della prima economia europea tra le Gestaltungsmächten (le “shaping powers” ) – dopo il ridimensionamento militare cominciato alla fine della Guerra Fredda – e un avanzamento in Asia – dopo le distrazioni russe nell’Europa orientale – la Germania non è l’unico paese del Vecchio Continente ad aver voltato lo sguardo a Oriente. Nel 2019, la Francia ha riconosciuto ufficialmente l’importanza della regione con la pubblicazione di un documento programmatico che ne esalta la centralità economica, il peso demografico e la ricchezza di risorse naturali ed energetiche. Anche Parigi parla di “libero commercio”, “multilateralismo” e di un “ordine multipolare”. Ma la svolta indo-pacifica della Germania ha un valore simbolico inedito trattandosi del primo paese “extra-regionale” ad aver formulato una propria strategia, laddove gli interessi francesi sono sostenuti da una presenza fisica massiva.

Come ricorda il documento fin dalle prime righe alludendo ai possedimenti d’oltremare, «il 93% della zona economica esclusiva (ZEE) [della Francia] si trova nell’Oceano Indiano e nel Pacifico, un’area che ospita 1,5 milioni di cittadini francesi e 8000 soldati». La conferma della sovranità sulla Nuova Caledonia – dove è presente la più importante base militare francese del Pacifico – consolida la presa tentacolare di Parigi nella regione, fugando i timori di quanti temevano che un divorzio dalla madrepatria avrebbe lasciato l’arcipelago ricco di nickel in balia della Cina. Mentre l’Indo-Pacific Defense Startegy auspica a chiare lettere maggiori sinergie con Stati Uniti, Giappone, Australia e India, si moltiplicano i segni di un maggior coordinamento anche sul versante europeo.

Francia e Gran Bretagna nel Mar Cinese Meridionale: l’unione fa la forza

Nell’aprile 2017, la missione francese Jeanne d’Arc ha guidato attraverso il Mar Cinese Meridionale una spedizione composta da 52 membri della Royal Navy britannica, 12 ufficiali di varie nazionalità europee e un funzionario UE.  «Visione e valori condivisi» rendono la Gran Bretagna un partner naturale di Parigi. In futuro lo sarà sempre di più. Secondo gli esperti, la minaccia di un no deal con l’Unione europea spingerà gli interessi di Londra anche più a Est. In fondo, si tratterebbe di resuscitare quanto seminato in cinque secoli di colonialismo britannico. Ma il governo di Boris Johnson non sembra volersi fermare qui. L’avvio di trattative per una possibile adesione alla Comprehensive and Progressive Agreement for Trans-Pacific Partnership – l’ex TPP da cui l’America di Trump si è sfilata nel 2017 – ha coinciso con l’emergere di indiscrezioni sulla presunta decisione di inviare, per la prima volta, una delle due portaerei britanniche nella regione. Verosimilmente anche nel Mar Cinese Meridionale. Certo, un maggiore dinamismo economico richiede maggiore stabilità e sicurezza. Ma non giova che l’attivismo militare di Londra giunga proprio mentre Hong Kong e il 5G attentano alla longevità dei rapporti con Pechino. Per contenere lo strappo, le potenze europee paiono aver adottato una vecchia tecnica: in Cina si dice «yī gēn kuàizi róngyì zhé, yī bǎ kuàizi nán zhéduàn». Da noi, semplicemente, «l’unione fa la forza».

Questa non è una Zee

Poco dopo l’annuncio delle linee guida tedesche, nel mese di settembre Germania, Francia e Gran Bretagna hanno rilasciato un comunicato congiunto per denunciare le operazioni dell’Esercito popolare di liberazione nel Mar cinese meridionale. La nota, presentata alle Nazioni Unite, fa eco alle rimostranze di Malaysia, Australia, Indonesia, Vietnam e Filippine, sottolineando «l’importanza di un esercizio senza ostacoli della libertà in alto mare, in particolare la libertà di navigazione e di sorvolo, nonché del diritto di passaggio». Rievocando la sentenza del 2016, i tre paesi hanno anche sottolineato che «i diritti storici – rivendicati da Pechino – non sono conformi al diritto internazionale» e che le isole contese – in quanto artificiali – non generano una zona economica esclusiva, l’area adiacente le acque territoriali, in cui uno stato costiero ha diritti sovrani per la gestione delle risorse naturali, giurisdizione in materia di installazione e uso di strutture artificiali o fisse, ricerca scientifica, protezione e conservazione dell’ambiente marino. Nello specifico, Parigi, Berlino e Londra contestano che le Paracelso costituiscano un arcipelago ai fini della tracciabilità delle cosiddette “linee di base diritte”, metodo utilizzato quando la costa è profondamente incavata e frastagliata per misurare la larghezza del mare territoriale. La questione non è nuova. Nel 2018 il Regno Unito aveva già espresso la propria contrarietà passando entro le 12 miglia nautiche dagli isolotti. Ma è la prima volta che Germania e Francia assumono una posizione chiara a riguardo. Quella dell’Unione europea, invece, continua a esserlo molto meno.

La “neutralità” di Bruxelles…

Come articolato nella EU Global Strategy del 2016, la politica estera di Bruxelles tiene fede a un mix di “pragmatismo” e “Realpolitik con caratteristiche europee”. Una formula che permette al blocco di vendere armi ai paesi ASEAN e, contemporaneamente, rifornire Pechino di “tecnologia dual-use”. Quanto ai contenziosi territoriali, Bruxelles si definisce “neutrale”; invoca la necessità di trovare soluzioni pacifiche all’interno di una cornice normativa condivisa. Si appella alla Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (UNCLOS) – pilastro della EU Maritime Security Strategy – e auspica l’introduzione di un Codice di condotta (Coc) tra le parti. Ma delega ai singoli paesi membri l’onere di «sostenere la libera navigazione» e «combattere le attività illecite». Come per altri dossier, anche nel Mar Cinese Meridionale la mancanza di coesione interna ostacola la formulazione di una risposta concertata, specie quando in gioco ci sono gli interessi economici con il gigante asiatico. Un esempio? La risoluzione UE sull’arbitrato dell’Aja, edulcorata in seguito alle pressioni di Grecia, Ungheria, Slovenia e Croazia. A ciò si aggiunge la necessità di mantenere una delicata equidistanza tra la Cina, primo partner commerciale UE, e gli Stati Uniti, principale alleato militare. Un’impresa sempre più difficile.

… che si avvicina a Taiwan

Ammiccando a Bruxelles, Angela Merkel lo ha detto chiaramente: «la nostra prosperità e la nostra influenza geopolitica degli anni a venire dipenderanno da come collaboreremo con l’Indo-Pacifico». Non solo la regione conta per oltre un terzo degli scambi tra il blocco e i paesi extraeuropei. Davanti a Covid e al rischio di un “decoupling”, questa parte di mondo assumerà anche maggiore rilevanza nell’ottica di una crescente diversificazione della catena di approvvigionamento. In tempi recenti, l’interesse di Bruxelles per il quadrante si è esplicitato in un inedito avvicinamento a Taiwan, l’isola che Pechino considera una “provincia ribelle” da riannettere ai propri territori. Circa una quindicina di nazioni europee – comprese Germania, Francia e Italia – hanno recentemente partecipato per la prima volta a un forum sugli investimenti organizzato dall’European Economic and Trade Office, l’“ambasciata” UE a Taipei. Come auspicato dalla presidente taiwanese Tsai Ing-wen, la nuova piattaforma introduce la possibilità che in futuro il dialogo confluisca nella firma di un trattato bilaterale sugli investimenti all’insegna dell’«apertura, della trasparenza e dell’imparzialità». Tutti qualità per le quali la Cina non eccelle.

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Collane di atolli, rotte commerciali e cavi sottomarini https://ogzero.org/collane-di-atolli-rotte-commerciali-e-cavi-sottomarini/ Tue, 14 Jul 2020 13:17:36 +0000 http://ogzero.org/?p=574 Lattuga, cavolo cinese, bok choi e molto altro. Non siamo in un mercato di Shanghai, bensì a Woody Island, una delle isole artificiali costruite da Pechino nell’arcipelago delle Paracel, nel Mar cinese meridionale, dove la marina militare cinese ha raccolto 750 chili di vegetali dopo aver reso coltivabili 2000 metri quadrati di spiaggia mescolando alla […]

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Lattuga, cavolo cinese, bok choi e molto altro. Non siamo in un mercato di Shanghai, bensì a Woody Island, una delle isole artificiali costruite da Pechino nell’arcipelago delle Paracel, nel Mar cinese meridionale, dove la marina militare cinese ha raccolto 750 chili di vegetali dopo aver reso coltivabili 2000 metri quadrati di spiaggia mescolando alla sabbia una soluzione a base di cellulosa. Una tecnica messa a punto dagli scienziati della Chongqing Jiaotong University nella Mongolia Interna che permetterà di tenere stabili le forniture alimentari dei soldati dislocati in questo strategico tratto di mare.

Controllata dalla Cina fin dal 1956, Woody Island è uno degli atolli al centro delle dispute territoriali che da decenni coinvolgono le Paracel, la catena delle Spratly, le isole Pratas e altri scogli semisommersi contesi con Vietnam, Filippine, Malaysia, Taiwan e Brunei. A partire dal 2013, il gigante asiatico ha trasformato sette barriere coralline in vere e proprie postazioni insulari protette da missili, di cui tre dotate di piste d’atterraggio “dual use”. Si tratta di un’area che si estende per 3,6 milioni di chilometri quadrati, dalla Cina all’Indonesia, e di cui Pechino rivendica come proprio oltre l’80 per cento sulla base di “diritti storici”.

Undici antichi documenti, presentati in sede di disputa internazionale, proverebbero che già intorno al 210 a.C. la dinastia Han aveva costruito un avamposto amministrativo sull’isola di Hainan, estendendo la propria sfera d’influenza fino agli arcipelaghi menzionati. Le vecchie mappe ingiallite non hanno convinto il Tribunale Permanente di Arbitrato dell’Aia che, chiamato in causa da Manila, nel 2016 ha dichiarato illegittime le rivendicazioni cinesi. Ma la sentenza non è bastata a scoraggiare le pretese di Pechino. Da allora, l’avanzata tentacolare del gigante asiatico nella regione ha continuato a inglobare territori disabitati seguendo la cosiddetta tattica salami-slicing: un pezzetto per volta.

Lo scorso maggio, mentre l’emergenza Covid-19 distraeva i vicini rivieraschi, la situazione nel Mar cinese meridionale è tornata d’attualità dopo che la Repubblica Popolare ha annunciato la creazione di due nuove unità amministrative – il distretto di Xisha, che include le Paracel e il Macclesfield Bank (rivendicato da Taiwan e Filippine), e il distretto di Nansha, concentrato sulle isole Spratly (contese con Vietnam, Filippine, Malaysia, Taiwan e Brunei) – che cadranno sotto l’autorità di Sansha, la città-prefettura istituita nel 2012 su Woody Island e parte della provincia di Hainan. La decisione ha coinciso con l’assegnazione di un nome a un’ottantina di formazioni naturali per la prima volta dal 1983. Secondo indiscrezioni del “South China Morning Post”, la prossima mossa potrebbe prevedere l’istituzione di una “zona di identificazione aerea” (Adiz), come già avvenuto nel Mar cinese orientale, dove Pechino contesta la sovranità del Giappone sulle isole Diaoyu/Senkaku.

Per la Cina, ancora ferita dalle umiliazioni ottocentesche, il Mar cinese è soprattutto una questione di sovranità. Ma, come spesso accade nelle dispute territoriali, all’afflato nazionalistico si intrecciano importanti interessi economici. Secondo dati del 2016 raccolti dal Center for Strategic and International Studies, il Mar cinese meridionale ospita circa il 10 per cento del pescato a livello mondiale e risorse energetiche per un valore di 2500 miliardi di dollari. Un terzo del commercio marittimo globale, il 30 per cento delle forniture di greggio e il 64 per cento degli scambi tra la Cina e il resto del mondo solca le sue turbolente acque. E, con il recente sorpasso dell’Asean sull’Unione Europea come prima destinazione dell’export cinese, il traffico regionale è destinato presumibilmente ad aumentare.

Le manovre cinesi nel cortile di casa potrebbero presto raggiungere le acque dell’Oceano più grande del mondo. L’area contesa lambisce la cosiddetta “prima catena di isole”, un termine preso in prestito dagli Stati uniti che negli anni Cinquanta individuarono nella cintura insulare dalle Curili – tra l’estremità nordorientale dell’isola giapponese di Hokkaidō e la penisola russa della Kamčatka – fino al Borneo, un avamposto per circondare l’Unione Sovietica e la Cina. Il piano non decollò mai, ma la minaccia è ancora presente. Sigillare il tratto di mare tra la costa cinese e il Pacifico è diventata una priorità assoluta per Pechino, specialmente da quando Washington ha incrementato le proprie incursioni nel quadrante in supporto alle rivendicazioni marittime degli alleati asiatici. Una posizione ufficializzata per la prima volta il 13 luglio dal dipartimento di Stato con il comunicato “U.S Position on Maritime Claims in the South China Sea”.

Questo spiega la sempre più frequente presenza di aerei e sottomarini cinesi nel canale di Bashi e nello stretto di Miyako, cerniera naturale tra il Mar cinese e il Pacifico occidentale. Stando alle indiscrezioni della stampa nipponica, il Dragone avrebbe già individuato la prossima preda: il piccolo arcipelago delle Pratas controllato da Taiwan, l’isola “ribelle” che la Repubblica popolare vuole riannettere ai propri territori e che Washington, in assenza di relazioni ufficiali, sostiene militarmente.

Pechino giustifica il proprio attivismo regionale in ottica “difensiva”. Ma lo sfoggio di muscoli soverchia i toni rassicuranti del diplomatichese. Con oltre 330 navi da guerra (ma solo due portaerei), la marina cinese ha superato numericamente quella statunitense (285 alla fine del 2019). E se al vantaggio quantitativo non corrisponde una superiorità in termini di efficienza, vero è che l’epidemia da coronavirus – messa ko la marina a stelle e strisce – ha scoperchiato l’evanescenza della supremazia delle undici portaerei americane in situazioni di crisi. Secondo un rapporto del Congressional Research Service, think tank del Congresso statunitense, l’espansionismo cinese costituisce una minaccia per «il controllo [americano] sulle acque profonde del Pacifico occidentale in stato di guerra».

Più a sud il livello d’allarme non è inferiore. «Is China using its South China Sea strategy in the South Pacific?»: è quanto si chiede il think tank governativo Australian Strategic Policy Institute (Aspi), che in un rapporto spiega come il Pacifico meridionale condivida con il Mar cinese meridionale quattro caratteristiche particolarmente attraenti: è ricco di risorse naturali; ospita atolli disabitati e cavi sottomarini; racchiude snodi strategici per le merci globali; dipende economicamente dalla Cina. Queste somiglianze, conclude l’istituto, potrebbero consentire a Pechino di sfruttare canali scientifici e commerciali come pretesto per migliorare la propria conoscenza del territorio in chiave militare.

Con un pil complessivo di appena 33,7 miliardi di dollari e 10 milioni di abitanti – meno della popolazione della Svezia – le isole del Pacifico sono da sempre stati-satellite di Canberra, che con fare paternalistico ne ha supportato economicamente la sopravvivenza investendo a fondo perduto nei servizi di base – sanità e istruzione in primis –, e difeso la stabilità sociale come previsto da accordi stretti con Stati Uniti e Nuova Zelanda negli anni Cinquanta. È stato così fino a quando, nei primi anni Duemila, la “diplomazia dei dollari” perseguita da Pechino in Africa non ha raggiunto questo remoto angolo di mondo. La svolta ha coinciso con la storica visita di Wen Jiabao, nel 2006, la prima di un premier cinese nelle isole del Pacifico. Da allora, il gigante asiatico ha speso almeno 6 miliardi di dollari nelle repubbliche insulari, per lo più in progetti estrattivi e infrastrutturali. La fetta più consistente risulta concentrata nei sette anni di Belt and Road, il progetto con cui Pechino punta a cementare i rapporti economici e diplomatici strappando assegni nei paesi emergenti. C’è chi le definisce vere e proprie delazioni prezzolate quando si prendono in esame le acque del Pacifico. Qui, infatti, si consuma lo scontro più acceso con Taiwan, “l’isola che non c’è” riconosciuta formalmente ormai da appena quindici paesi, di cui quattro (Palau, Nauru, Tuvalu e Isole Marshall) situati proprio nel “nuovissimo continente”. Le numerose defezioni dell’ultimo anno non sembrano aver alterato la strategia regionale di Taipei, che giorni fa ha annunciato la riapertura della sede consolare di Guam con lo scopo conclamato di «facilitare gli scambi con gli alleati del Pacifico».

La resistenza taiwanese ha implicazioni che trascendono il braccio di ferro tra le “due Cine”. Da anni si teme che l’operosità di Pechino negli arcipelaghi a cavallo tra i due emisferi possa assumere connotazioni militaresche, come avvenuto nel Mar cinese meridionale. Basta pensare alle declinazioni strategiche della stazione spaziale cinesi di Kiribati, le isole sottratte a Taiwan lo scorso settembre. Secondo un rapporto della US-China Review Commission, fortificazioni cinesi nel Pacifico meridionale potrebbero bloccare l’accesso americano alla regione e compromettere la stabilità di Australia e Nuova Zelanda. In tempi di “American First” e crisi epidemica, potrebbero essere proprio i player regionali “minori” a dover dettare una linea comune per arginare l’avanzata di Pechino, prescindendo dalle zoppicanti piattaforme multilaterali istituite da Washington nel cosiddetto “Indo-Pacifico”. Come membro del Quadrilateral Security Dialogue (Quad), Canberra è un frequentatore assiduo del Mar cinese meridionale, sebbene non abbia ancora accolto l’invito americano a condurre “operazioni di libera navigazione”, il provocatorio passaggio entro le 12 miglia nautiche dalle isole contese.

Certo, serviranno capacità funamboliche per tutelare gli interessi nazionali senza sfilacciare le relazioni economiche già pregiudicate dalle polemiche sul 5G e la paternità del coronavirus. Tanto più che il peso cinese nelle dinamiche commerciali del quadrante potrebbe aumentare esponenzialmente se, come ventilato dal primo ministro Li Keqiang, il gigante asiatico – già promotore della Regional Comprehensive Economic Partnership (Rcep) – dovesse entrare anche nella Comprehensive and Progressive Agreement for Trans-Pacific Partnership (Cptpp), il mega accordo fortemente voluto da Obama quando ancora si chiamava Tpp e da cui Trump ha annunciato il ritiro tre giorni dopo l’inizio del suo mandato. Così, mentre Canberra si prepara a rafforzare i propri sistemi difensivi con un piano decennale da 270 miliardi di dollari, non tutti approvano un coinvolgimento australiano nel braccio di ferro tra le due superpotenze. Almeno non quando implica missioni in acque più lontane.

In uno studio dal titolo eloquente (Australia and the US: great allies but different agendas in the South China Sea), il think tank di Sydney Lowy Institue, ricordando come solo il 20 per cento dei commerci con l’Australia passa per il Mar cinese meridionale, nel 2015 concludeva che, se «lo spirito materno impone di difendere la libertà di navigazione», in realtà «solo gli Stati Uniti hanno veramente interesse a condurre attività militari» nelle acque contese.

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La Somalia abbandonata finisce nella rete del Sultano https://ogzero.org/la-somalia-abbandonata-finisce-nella-rete-del-sultano/ Thu, 09 Jul 2020 10:08:25 +0000 http://ogzero.org/?p=463 Il 9 maggio 2020 la Somalia è tornata con forza sulle prime pagine di tutti i giornali italiani grazie alla notizia della liberazione della cooperante Silvia Romano, sequestrata 18 mesi prima in Kenya. Il 27 maggio 2020, meno di un mese dopo, alcuni uomini armati di AK-47 sono entrati nel villaggio di Galoley, distretto di […]

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Il 9 maggio 2020 la Somalia è tornata con forza sulle prime pagine di tutti i giornali italiani grazie alla notizia della liberazione della cooperante Silvia Romano, sequestrata 18 mesi prima in Kenya. Il 27 maggio 2020, meno di un mese dopo, alcuni uomini armati di AK-47 sono entrati nel villaggio di Galoley, distretto di Gabiley in Somaliland, Somalia, con indosso uniformi militari. Otto dipendenti della ong somala Zamzam, specializzata in sanità e istruzione, sono stati rapiti e i loro corpi ritrovati il giorno dopo, ciascuno con due proiettili in corpo. Uno in testa e uno nel cuore. Galoley, nel cuore dello stato indipendente – e mai riconosciuto – del Somaliland è molto lontano dal luogo dove è stata liberata la cooperante italiana: 1300 chilometri, in un paese come la Somalia, sono un’infinità. Altrettanto vero è che proprio il Somaliland, dal 2007, intrattiene relazioni ufficiali con l’Unione Europea e rappresenta una vera e propria spina nel fianco per il fragile governo di Mogadiscio.

Il territorio somalo è complesso e frammentato, talmente tanto che nel 2020 non ha quasi più senso parlare di Somalia ma piuttosto di “Somalie”. Una frammentazione che arriva da lontano.

Lo scenario

Nel 1941 la Somalia italiana passò sotto l’amministrazione britannica fino al 1949, quando divenne un’amministrazione fiduciaria delle Nazioni Unite gestita dall’Italia dal 1950 fino al 1° luglio 1960, quando si formò la Repubblica Somala. Nel 1969 Siad Barre ne divenne presidente, nel 1986 esplose la guerra civile e nel 1991 Barre fu destituito. Da quel momento, e fino all’aprile 2012, l’Italia decise di ritirare il proprio ambasciatore dal paese africano seguendo l’ultima profezia di Barre: la Somalia, senza di lui, sarebbe stata ingovernabile. A capodanno del 1993 George Bush visitò le truppe americane rimaste in Somalia in quella che fu l’ultima visita in Somalia di un leader mondiale per i successivi 18 anni: cominciava l’epoca dei Signori della guerra. La Repubblica federale di Somalia, il 20 agosto 2012, si è dotata di un governo (il primo governo centrale permanente dall’inizio del conflitto) e di un nuovo presidente ma nel 2020, di fatto, la guerra dei Signori si è solo trasformata in guerra al, e del, terrorismo. Il paese, dal 2017, è politicamente più stabile ed economicamente in ripresa grazie, anche, all’avvento del presidente Mohamed Abdullahi Mohamed Farmajo, ex ambasciatore negli Stati Uniti ed ex primo ministro; nel 2018 gli Stati Uniti hanno ristabilito la propria presenza militare nel paese e nel tardo 2019 riaperto l’ambasciata americana di Mogadiscio, chiusa come quella italiana nel 1991.

L’assenza diplomatica, militare e politica dell’Europa, delle nazioni africane più prossime e degli Stati Uniti ha costretto Mogadiscio, nel periodo più complicato e devastante della propria storia recente, a cercare amici altrove. La società somala, dilaniata dai Signori della guerra, scopertisi più tardi ambasciatori di un Islam “radicalmente puro”, e dalla corruzione di chi non tiene l’AK-47 in mano, è stata costretta a reinventarsi da sola. Il 26 aprile 2017 il presidente somalo Farmajo è volato con il suo ministro degli Esteri ad Ankara per firmare accordi bilaterali, incassare l’amicizia di Recep Erdoğan e la solidarietà dell’ Erdoğan-pensiero, con il presidente turco critico verso la comunità internazionale per non aver fornito sufficiente supporto alla Somalia durante la guerra civile e nel corso delle siccità che l’ha colpita negli ultimi anni. Ma in verità i rapporti tra Turchia e Somalia sono vecchi di decenni: era il 1969 quando i due Paesi co-fondarono l’OIC, l’Organizzazione per la cooperazione islamica, e era il Medioevo quando gli ottomani stringevano relazioni commerciali e belliche con l’Impero di Ajuran e il sultanato di Adal per sopraffare il dominio portoghese nell’Africa orientale e nell’Oceano Indiano.

Nel 1991 anche i turchi, per ragioni di sicurezza, rimossero l’ambasciatore da Mogadiscio ma raddoppiarono gli sforzi (e il personale) all’ambasciata di Addis Abeba, in Etiopia, proseguendo le relazioni con il governo nazionale di transizione somalo e con il successivo governo federale di transizione. Nel 2011 Erdoğan, 18 anni dopo Bush, atterrò a Mogadiscio e l’ambasciata fu riaperta. La Turchia fu tra i primi al mondo a riprendere le relazioni diplomatiche formali con la Somalia: nel 2012 inviò osservatori ed esperti per monitorare e sostenere, anche economicamente, le elezioni presidenziali e nel gennaio 2015 Mahmoud e Erdoğan inaugurarono una serie di nuovi progetti realizzati dai turchi a Mogadiscio. «La Turchia è stata impavida nel suo impegno a sostenere lo sviluppo in Somalia, non ha aspettato le condizioni giuste per investire e i suoi investimenti hanno contribuito a creare le giuste condizioni per la stabilità e la crescita», disse per l’occasione il Presidente somalo. Nel corso di quella visita fu inaugurato il terminal aeroportuale Aden Adde a Mogadiscio che, ancora oggi, è l’unico luogo di tutta la Repubblica federale in cui è garantita la sicurezza agli stranieri. Il primo Somalia-Italia Business Forum del dicembre 2019 si è tenuto proprio nel terminal aeroportuale, che è anche la base delle Nazioni Unite nel paese. Base dalla quale ai funzionari Onu è caldamente sconsigliato di uscire.

Campo Turksom

Tornando alle relazioni tra Somalia e Turchia, il 30 settembre 2017 il primo ministro turco Hassan Ali Khaire e il capo di stato maggiore delle forze armate turche Hulusi Akar inauguravano a Mogadiscio il nido dell’aquila africana della Repubblica di Turchia, il vero cuore pulsante degli interessi turchi in Africa orientale. Si chiama Campo Turksom, copre uno spazio di circa 4 chilometri quadrati, è costata oltre 50 milioni di dollari e per costruirlo sono stati necessari quasi due anni ma la sua storia comincia almeno 11 anni fa, il 17 aprile 2009.

Quel giorno, ad Ankara, Turchia e Somalia siglarono un accordo di cooperazione tecnica, perfezionato poi negli anni, per la formazione, la cooperazione tecnico-scientifica e l’addestramento militare dell’esercito somalo. Il giorno dell’inaugurazione lo stato maggiore della Difesa turco annunciò che al Campo Turksom sarebbero stati addestrati 10000 nuovi militari somali al ritmo di 1500 alla volta. All’interno del Campo vengono addestrati dai turchi gli ufficiali (un addestramento lungo 2 anni) e i sottoufficiali (1 anno) di tutti i rami delle Forze Armate della Somalia: un campus universitario con decine di aule, una sala conferenze da 400 posti, un campo di addestramento, un tribunale militare, laboratori linguistici, sale di simulazione per l’addestramento marittimo ma anche campi di calcio e di basket, Campo Turksom è un compound militare di eccellenza tra i più prestigiosi di tutta l’Africa orientale. Qui vivono stabilmente circa 200 militari turchi e, al 5 marzo 2020, due mesi prima della liberazione della cooperante Silvia Romano, erano 411 i somali diplomatisi al Campo Turksom. Gli avieri somali, per effetto dell’embargo la Somalia non può ricevere aerei da combattimento e velivoli militari di alcun tipo, vengono invece addestrati direttamente in Turchia.

I diplomati, tutti appartenenti al I Battaglione di fanteria dell’esercito della Repubblica di Somalia, sono identificabili da un berretto color blu cielo, proprio come quello dei militari delle Nazioni Unite, recante lo stemma del Campo Turksom e non quello delle Forze armate somale. In questo senso la base turca a Mogadiscio è una proiezione dell’espansione geopolitica di Ankara in Africa orientale, uno dei simboli più prestigiosi utilizzati dalla Turchia per mostrare il proprio potere e la propria espansione economica e politica nell’area.Oggi a Mogadiscio sono due i luoghi considerabili veramente sicuri: l’aeroporto Aden Adde, costruito dagli italiani nel 1926 e dove la sicurezza è garantita agli stranieri in visita nel paese, e il Campo Turksom, dove i non-militari difficilmente hanno accesso. Sin dalla sua apertura, la base turca ha operato in collaborazione con Amisom, la missione dell’Unione Africana in Somalia, ma contrariamente a quest’ultima, che a ogni estensione di mandato veniva ridimensionata, ha intensificato il personale e aumentato i finanziamenti anno dopo anno. La forza di Campo Turksom, in questo caso, è nell’Islam: Amisom infatti, nel corso degli anni, è stata presa di mira dal gruppo islamista al-Shabaab perché la maggior parte del suo personale era composto da non-musulmani (è stato lo stesso gruppo al-Shabaab, nei comunicati di rivendicazione degli attacchi, a spiegarlo) e la Turchia ha offerto un’alternativa più che valida a questa situazione di conflitto. In tal senso il Campo, e l’attività a esso connessa, ha permesso molte volte alla Turchia di rivendicare un ruolo chiave nel garantire la sicurezza in Somalia, non solo dal punto di vista della formazione militare ma anche della capacità di risoluzione delle tensioni e dei conflitti interni al paese. L’Agenzia per la cooperazione turca (Tika) e la Mezzaluna Rossa turca hanno sede nel Campo e forniscono assistenza per lo sviluppo e la sanità alla Somalia e nel 2011 queste sono state tra le principali organizzazioni al mondo a contribuire ad alleviare le sofferenze della popolazione per la carestia che la colpì nel 2011. Quell’anno la Turchia contribuì con 201 milioni di dollari di aiuti umanitari e la costruzione di infrastrutture e ospedali in territorio somalo, consolidando la propria posizione privilegiata nel dialogo con il governo di Mogadiscio.

Le strategie e il neo-ottomanesimo

La scelta turca di stabilire una presenza militare massiccia in Somalia, sia dal punto di vista operativo che infrastrutturale, poggia le sue basi su diverse ragioni pratiche: economicità, perché ospitare in Turchia gli aspiranti ufficiali e sottoufficiali somali in addestramento è oltremodo costoso; geopolitica, perché in questo modo la Turchia stabilisce un primato tra i paesi Nato nel Corno d’Africa costringendo tutti gli altri a rivolgersi ad Ankara per la risoluzione delle più disparate problematiche – come nel caso della liberazione della cooperante Silvia Romano –; commerciali, perché in questo modo la Turchia ha il pieno controllo delle attività antipirateria nel Golfo di Aden; ed economiche, perché sostenere lo sviluppo in quell’area significa necessariamente sostenere e garantire la sicurezza di chi fa impresa; e strategiche. Nello scacchiere mediorientale la presenza militare turca in Somalia rappresenta un pericolo per gli Emirati arabi uniti e l’Arabia saudita e una garanzia per l’asse Turchia-Qatar: sono molti gli esperti che sottolineano la strategia del “neo-ottomanesimo” di Erdoğan nel Corno d’Africa.

Una scelta che tuttavia implica degli sforzi notevoli nel contrasto all’organizzazione terroristica al-Shabaab, che più volte nel corso degli anni ha attaccato obiettivi turchi allo scopo di minacciare le relazioni istituzionali turco-somale e contrastare gli sforzi in materia di ristrutturazione economica, cooperazione allo sviluppo, programmi di aiuti e investimenti privati, oltre che di minare il sostegno turco al rafforzamento delle istituzioni somale e del sistema politico locale.

La visione strategica della Turchia, che punta entro il 2023 ad aprire nuovi mercati in Asia e Africa, si lega a doppio filo con la politica neo-ottomana che il partito Akp del Presidente Erdoğan promuove sin dalla sua fondazione, nel 2001. In questo senso la politica estera punta al rafforzamento dell’influenza turca sui paesi islamici, in Medio Oriente e in tutto il mondo, e l’impegno militare nel Corno d’Africa è uno dei cardini di questa strategia. Dalla salita di Erdoğan al potere la Turchia ha più che triplicato il numero delle proprie ambasciate in tutto il continente africano (12 prima del 2003, 42 a fine 2019), installando infine il suo fiore all’occhiello in Somalia, una delle realtà africane più problematiche ma geograficamente strategiche. Il complesso diplomatico turco da 80.000 metri quadri a Mogadiscio è tra i più imponenti al mondo. Da un lato c’è l’intenzione di mettersi in mostra di fronte a tutto il continente africano e, dall’altro, di curare i propri interessi da una posizione privilegiata: l’egemonia sullo stretto di Bab-el-Mandeb, che divide il Mar Rosso dal Golfo di Aden e dal Mar Arabico, che è una delle principali e più problematiche rotte commerciali al mondo attraverso la quale la Turchia commercializza i propri prodotti più prestigiosi, quelli del comparto difesa, l’accesso alle risorse e alle materie prime di cui la Somalia è ricchissima e la scalata al potere nella regione mediorientale sono i tre cardini della politica estera di Ankara nella regione.

In questa strategia c’è, gioco-forza, anche l’aspetto umanitario. La Somalia è il paese che riceve più aiuti umanitari in assoluto dalla Turchia e questo, in un territorio abbandonato da tutti per quasi un trentennio, costringe il mondo intero a fare i conti con l’azione di Erdoğan nell’area. La Turchia agisce in modo massiccio, ed efficace, laddove tutti hanno fallito e questo non può non essere tenuto in grande considerazione nello scacchiere internazionale e nei rapporti geopolitici tra le nazioni della Nato.

Corno d'Africa

La cooperazione

In seguito agli investimenti governativi turchi volti a rinnovare l’aeroporto Aden Adde di Mogadiscio, Turkish Airlines è stata la prima compagnia aerea commerciale internazionale a riprendere regolarmente i voli da e per la Somalia. In meno di 10 anni l’aeroporto somalo ha aumentato la propria capacità da 15 a 60 aeromobili e grazie alla compagnia turca Kozuva realizzato il nuovo terminal.

Nel 2015 a Mogadiscio è stato inaugurato il Digfer Hospital, ribattezzato Erdoğan Hospital e realizzato dalla Tika: oltre 200 posti letto (14 in terapia intensiva), 13000 metri quadri e un budget operativo da 135 milioni di dollari coperti al 60 per cento dal governo di Ankara. Oggi i due governi discutono su come riformulare l’intera urbanistica della capitale somala e, nel gennaio 2020, la Somalia ha invitato la Turchia a esplorare i propri mari alla ricerca di petrolio. Il porto di Mogadiscio, dal 2013, è gestito completamente dalla società turca Al-Bayrak, che ha investito oltre 100 milioni di dollari per il suo ammodernamento. All’interno del porto opera un’altra azienda turca, la Pgm Inspection, che si occupa di gestire il sistema di controllo qualità delle merci importate ed esportate da e per la Somalia.

Nel 2015 inoltre l’accordo tra la televisione nazionale somala e la radio nazionale turca ha permesso di aumentare e alimentare il palinsesto televisivo e radiofonico somalo, contribuendo alla diffusione massiccia in Somalia della visione turca del mondo.

Sono tutti tasselli che fanno parte di una strategia ampia e ragionata: una strategia che fa del primato turco in Somalia uno dei punti di forza essenziali. La forza turca in Somalia è emersa agli occhi italiani, che pure con il paese africano hanno ottimi rapporti, quando la stampa italiana ha pubblicato la foto della sorridente Silvia Romano mentre indossa un giubbotto antiproiettile con il logo dei servizi segreti turchi. Laddove non arriva nessuno da decenni la Turchia può muoversi agevolmente e senza problemi.

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L’adesione dell’Africa alla Belt Road Iniziative è stata unanime? https://ogzero.org/la-penetrazione-della-cina-in-tanzania-rispetto-ai-paesi-limitrofi/ Mon, 13 Apr 2020 09:50:20 +0000 http://ogzero.org/?p=142 Grado di penetrazione degli investimenti asiatici in Africa: spartizioni tra India e Cina di OGzero, 21 giugno 2020 La Belt Road Initiative cinese, oltre a essere un’opera di collegamento con l’Europa, privilegia le relazioni con l’Africa orientale, porta di ingresso straordinaria per un’invasione pacifica, ma non senza conseguenze, dell’intero continente. E le porte di accesso […]

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Grado di penetrazione degli investimenti asiatici in Africa: spartizioni tra India e Cina

di OGzero, 21 giugno 2020

La Belt Road Initiative cinese, oltre a essere un’opera di collegamento con l’Europa, privilegia le relazioni con l’Africa orientale, porta di ingresso straordinaria per un’invasione pacifica, ma non senza conseguenze, dell’intero continente. E le porte di accesso sono numerose. L’ultima è rappresentata da Mauritius. Con l’isola nell’Oceano Indiano è stato siglato il primo accordo di libero scambio. L’intesa riguarda il commercio di beni e servizi nonché la cooperazione in materia di investimenti. L’accordo, secondo quel che viene reso noto dal governo cinese, non solo fornirà una più potente garanzia istituzionale per approfondire le relazioni economiche e commerciali bilaterali con Mauritius, ma promuoverà anche la cooperazione economica e commerciale, nonché finanziaria, tra Cina e Africa. La Belt Road Initiative cinese, oltre a essere un’opera di collegamento con l’Europa, privilegia le relazioni con l’Africa orientale, porta di ingresso straordinaria per un’invasione pacifica, ma non senza conseguenze, dell’intero continente. E le porte di accesso sono numerose. L’ultima è rappresentata da Mauritius. Con l’isola nell’Oceano Indiano è stato siglato il primo accordo di libero scambio. L’intesa riguarda il commercio di beni e servizi nonché la cooperazione in materia di investimenti. L’accordo, secondo quel che viene reso noto dal governo cinese, non solo fornirà una più potente garanzia istituzionale per approfondire le relazioni economiche e commerciali bilaterali con Mauritius, ma promuoverà anche la cooperazione economica e commerciale, nonché finanziaria, tra Cina e Africa.

Nel momento in cui si cerca di comprendere lo sviluppo economico e le partnership tra nazioni in via di sviluppo e le potenze economiche che si prefiggono di godere di esclusività nei settori più sensibili e importanti per alcuni stati è indispensabile indossare un paio di occhiali privi di pregiudizi. Vale per tutti i meccanismi di sviluppo globali, ma in particolare per l’immagine deformata delle differenti società africane. Sono situazioni che possono condizionare il mercato mondiale e che vedono in competizione giganti come la Cina, che è molto presente da decenni in Tanzania e che è snodo del Belt Road Iniziative con il porto di Bagamoyo; o l’India che invece ha relazioni privilegiate con Kenya e Sudafrica, anche per la comune tradizione coloniale britannica. Gli investimenti che vengono fatti sono ovviamente sempre comunque mirati a uno sviluppo la cui sostenibilità è sottomessa alla possibilità che consenta ovviamente agli investitori di ottenere profitti

Angelo Ferrari, 23 marzo 2020 su Radio Blackout
© 2015, Railway Gazette

Durante un intervento registrato il 24 novembre 2018 Andrea Spinelli Barrile ha preso spunto dalle infrastrutture per evidenziare la spartizione delle aree tra grandi potenze asiatiche. Del 1964 è il primo progetto cinese per una tratta ferroviaria in Tanzania, una nazione rivolta verso l’Asia che scatena la concorrenza tra Cina e India per soddisfare i loro bisogni (le risorse maggiormente saccheggiate sono legno, petrolio, minerali, gas), arrivando a parlare di investimenti stranieri in Africa orientale e presenza sul territorio anche di maestranze straniere più o meno tollerate in base alle abitudini nazionali.

Andrea Spinelli Barrile, 24 novembre 2018 (Radio Blackout): concorrenza tra grandi potenze asiatiche per controllare le risorse dell’Africa Orientale

L’adesione dell’Africa alla Belt Road Initiative è stata unanime, nessuno escluso. Ma perché attrae tanto la nuova via della seta cinese? I leader africani percepiscono questa iniziativa come una valida e tangibile alternativa agli incerti piani di investimento a lungo periodo proposti da europei e americani. I russi piacciono di più perché offrono su un piatto d’argento armamenti e addestramento militare. Pechino, tuttavia, ha saputo sfruttare la complessità delle garanzie a lungo termine di beni e risorse attraverso un sistema, tanto antico quanto nuovo, di baratto: in cambio del capitale di investimento e dell’infrastruttura, alcuni paesi concedono lo sfruttamento delle proprie risorse e una quota nei progetti infrastrutturali. Insomma, vince il capitalismo di stato. Ma vi è un altro fattore, oltre al denaro, che affascina i governi africani: la politica di non ingerenza negli affari interni ha indotto molti presidenti a individuare nella Cina un partner privilegiato

Andrea Spinelli Barrile descrive lo Zimbabwe in recessione profonda nel 2018, però con una tipologia di formazione educativa molto simile a quella occidentale e quindi con maggiori difficoltà ad avvicinarsi al mondo cinese, più ostico e lontano nell’immaginario e quindi apparentemente in contraddizione con quanto si legge nello stralcio del libro di Masto e Ferrari; in realtà forse è la differenza di accoglienza tra potere economico e politico locale e difficoltà culturale di integrare la presenza cinese. Per esempio la lingua kiswahili si trova arricchita da traslitterazioni cinesi in molte scritte e istruzioni in Tanzania: le lingue avvicinano (i comboniani non a caso hanno traslitterato lo swahili in epoche non recenti, agevolando così i rapporti tra africani e occidentali… che poi questi rapporti evolvano in termini negativi come le conseguenze coloniali, o positivi derivano dall’uso dei mezzi a disposizione), ma in realtà l’approccio dei cinesi che vivono o lavorano in Africa Orientale non concede nulla alle relazioni con le popolazioni locali e si nota anche da come viene percepito il linguaggio.

Andrea Spinelli Barrile su Radio Blackout, 24 novembre 2018: difficile metissage di culture sino-africane

I paesi dell’Africa occidentale – la maggior parte ex colonie francesi e con la famigerata moneta ancorata all’euro e garantita dal tesoro francese – stanno pensando di dotarsi di una moneta propria abbandonando, quindi, il franco Cfa. Tutto ciò è emerso durante una riunione che si è tenuta ad Abidjan tra i ministri delle Finanze e i governatori delle banche centrali dei paesi della Comunità economica degli Stati dell’Africa dell’Ovest (Cedeao); la nuova moneta, l’eco, potrebbe essere ancorato allo yuan cinese, per evitare oscillazioni pericolose per i mercati. Ciò che è accaduto con il franco Cfa ancorato all’euro. Il progetto di moneta unica della Cedeao è fortemente voluto dal Ghana, paese con una moneta abbastanza instabile. Insomma, l’Africa occidentale, se non tutta, vorrebbe passare, con questa decisione, dalla tutela francese a quella cinese. Ciò dimostra, inoltre, che per questi paesi non è pensabile garantire la stabilità monetaria senza un ancoraggio a una moneta forte. Il franco Cfa, negli anni, ha garantito proprio questo: stabilità e bassa inflazione, a differenza di ciò che è accaduto nei paesi dell’area che non avevano adottato quella moneta, il Ghana, ancora, ne è un esempio. Il Ghana è il principale partner commerciale della Cina nell’area: il commercio bilaterale è passato da meno di 100 milioni di dollari nel Duemila a 6,7 miliardi nel 2017. La metà della massa monetaria della comunità economica dell’Africa occidentale circola in Costa d’Avorio e il 40 per cento delle merci viene movimentata attraverso il porto di Abidjan. Nel Duemila il debito nei confronti della Cina era pari a zero, tra il 2010 e il 2015 è diventato di 2,5 miliardi di dollari.

Frags tratti da Mal d’Africa, di Raffaele Masto e Angelo Ferrari, postfazione di Marco Trovato, Torino, Rosenberg & Sellier, 2020, disponibile in libreria e su tutte le maggiori piattaforme online.

Angelo Ferrari il 26 marzo 2020 su Radio Blackout enumerava quanti e quali paesi africani rischiano la sovranità in cambio degli investimenti cinesi e crisi postepidemia

Anche Andrea Spinelli Barrile si occupava dell’economia, immaginando di poter usare occhiali diversi in grado di adattarsi alle soluzioni parziali connaturate alla struttura economica-finanziaria dell’Africa Orientale. Attrarre capitali stranieri serve per sopperire con quella liquidità alla inflazione; la produttiva o il welfare, la ricchezza si sposano a un approccio forse più umano all’economia delle varie Afriche.

Andrea Spinelli Barrile, 24 novembre 2018: monetarismo e sistemi economico-finanziari in Africa Orientale; intervento registrato su Radio Blackout

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La contesa per l’acqua del Nilo https://ogzero.org/la-contesa-per-lacqua-del-nilo/ Thu, 02 Apr 2020 14:16:11 +0000 http://ogzero.org/?p=112 Raffaele Masto, Angelo Ferrari, 2020 Per l’Etiopia la decisione di cercare la pace con l’Eritrea fa parte di una svolta profonda anche nella politica interna. Il comitato esecutivo del partito al potere in una coalizione nella quale rappresenta la grande maggioranza ha anche annunciato la liberalizzazione dei settori delle telecomunicazioni, dell’energia e del trasporto aereo, […]

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Raffaele Masto, Angelo Ferrari, 2020

Per l’Etiopia la decisione di cercare la pace con l’Eritrea fa parte di una svolta profonda anche nella politica interna. Il comitato esecutivo del partito al potere in una coalizione nella quale rappresenta la grande maggioranza ha anche annunciato la liberalizzazione dei settori delle telecomunicazioni, dell’energia e del trasporto aereo, aprendoli a investimenti privati e interni, con l’obiettivo di allentare la presa dello stato sull’economia, una delle più chiuse e controllate del continente africano ma anche una delle più dinamiche e in crescita. Si tratta di riforme promesse dal nuovo premier Abiy Ahmed subentrato al dimissionario Hailemariam Dessalegn che, pur appartenendo a una minoranza etnica, rappresentava gli interessi dell’etnia tigrina al potere dalla cacciata, nei primi anni Novanta, del dittatore Menghistu. In questa svolta la potenziale guerra mai conclusa con l’Eritrea era un impiccio. Discorso diverso per l’Eritrea. Questo paese si è progressivamente chiuso anche grazie al pretesto della guerra con il grande vicino etiopico. Ora che questo spettro non c’è più Isaias Afewerki si trova a doversi riposizionare, sia sul piano esterno che su quello interno. Sulla carta vengono meno i motivi per non applicare la Costituzione, per evitare elezioni e per mantenere decine di migliaia di giovani nelle caserme.

La pace con l’Eritrea avrà delle conseguenze economiche. Stando alle parole dei due leader «verranno ripristinati i legami nei trasporti, nel commercio e nelle telecomunicazioni e rinnovati i legami e le attività diplomatiche». L’Etiopia aveva, proprio per ovviare al suo mancato sbocco sul mare, puntato sulla ferrovia e sulla strada per Gibuti costruite dai cinesi. Gibuti era praticamente diventato il porto dell’Etiopia sul Mar Rosso. Ora però la pace dovrebbe offrire di nuovo ad Addis Abeba i porti di Assab e Massaua. O meglio, si dovrà stare a vedere perché secondo molti analisti la guerra era proprio scoppiata non tanto per le pietraie di Badame, a 2400 metri di quota che ora l’Etiopia ha riconosciuto all’Eritrea, ma proprio perché l’Eritrea aveva richiesto i pagamenti dei diritti portuali in dollari e non più in nakfa, la valuta eritrea.

La pace avrà anche conseguenze regionali e internazionali. Sempre secondo quanto affermano i due leader «entrambi i paesi lavoreranno insieme per assicurare la pace regionale, lo sviluppo e la cooperazione». Questi venti anni di non-pace avevano spostato su fronti opposti negli equilibri regionali Eritrea ed Etiopia. Per esempio sulla diatriba tra Etiopia e Egitto per l’acqua del Nilo e la Diga della Rinascita, l’Eritrea aveva fatto da sponda ai paesi contrari ad Addis Abeba. Come pure in Somalia l’Eritrea veniva accusata di sostenere i ribelli jihadisti di al-Shabaab in funzione antietiopica.

La firma di questa pace storica, a detta di molti analisti, è avvenuta a Gedda, in Arabia Saudita il 16 settembre del 2018, e questo non è un fattore secondario. Se la pace poteva avere conseguenze su tutto il Corno d’Africa, sicuramente il luogo della firma impone la comprensione di nuovi scenari che si aprono in quel fazzoletto di terra. L’Arabia Saudita, come tutte le potenze mondiali, non fa nulla senza che questo abbia ripercussioni positive sui propri interessi sia economici che strategici e non ultimi quelli geopolitici. 

Raffaele Masto, 17 novembre 2019, intervento trasmesso da Radio Blackout sulla contesa relativa alla Diga della Rinascita costruita dall’Etiopia sul Nilo Azzurro

Lo spirito del Nilo patisce le dighe

Il Nilo è l’anima per buona parte dei paesi del suo bacino, che è vasto e costituisce un sistema di relazioni politiche che contribuiscono a formare gli equilibri geostrategici della regione. Nessuno può rinunciare alle sue acque: non gli stati relativamente piccoli intorno alle sue sorgenti come il Ruanda, il Burundi e l’Uganda né, a maggior ragione, grandi nazioni come l’Etiopia e il Sudan. Ma chi più di tutti non può fare a meno delle acque del Nilo è l’Egitto, la cui gloriosa storia passata e quella attuale dipendono quasi totalmente dal grande fiume. L’Egitto, che sia guidato dai faraoni, dai Fratelli Musulmani o dai militari di Nasser, di Mubarak o di al-Sisi, non può tollerare che qualcuno dei paesi del bacino del fiume costruisca opere sul suo corso, diminuendo la portata d’acqua che si riversa a valle. Proprio per questo motivo, da qualche anno, è in corso un pericoloso contrasto tra Egitto e Etiopia che fa comprendere quanto sia delicata la spartizione delle sue acque per gli equilibri di tutta l’Africa orientale. L’Etiopia, una delle nazioni africane più dinamiche dal punto di vista economico, ha in progetto da qualche anno una grande diga sul ramo del Nilo Azzurro, soprannominata la “Diga della Rinascita”. Un’opera che nelle intenzioni dovrebbe produrre energia elettrica per buona parte del paese e anche permettere di esportarla a quelli limitrofi, sostenendo in questo modo la formidabile crescita dell’Etiopia, che aspira al ruolo di potenza regionale. Nel 2013 sono cominciati i lavori, e l’Egitto – nonostante stesse vivendo una grave crisi politica interna – ha scatenato un’offensiva diplomatica arrivando a minacciare guerra e bombardamenti aerei sul cantiere della diga. Le tensioni sono tutt’ora all’ordine del giorno e gettano un timore di scontro tra i due paesi e non solo. Le minacce si alternano – da ambo le parti – a periodi di distensione, senza mai, però, arrivare a una soluzione accettabile per tutti.

L’Egitto fonda la propria posizione su un vecchio protocollo: circa cento anni fa, nei primi anni del secolo scorso, era infatti riuscito a stipulare un’intesa secondo la quale il 95 per cento della portata del Nilo risultava di proprietà egiziana, mentre il resto apparteneva al Sudan e le rimanenti briciole venivano lasciate agli altri stati del bacino. La questione è tutta apertissima e nella partita si sono inseriti anche gli Stati Uniti come forza mediatrice tra le parti. 

I negoziati, nonostante la mediazione degli Stati Uniti, sono stati infruttuosi. Nessuno cede e il pericolo di un conflitto, anche se non armato, ma solo diplomatico potrebbe rappresentare un grave rischio per una regione già attraversata da crisi immani come quelle del Sudan e del Sud Sudan. Il problema, ovviamente, è la riduzione della portata delle acque del Nilo. È evidente che una regione dove le crisi, le guerre, sono state dettate dal petrolio, dall’oro nero, da appetiti nazionali e internazionali, una nuova guerra, quella per l’oro blu, l’acqua, non è auspicabile. Ma le tensioni sull’oro blu potrebbero diventare la miccia per nuove guerre, per nuovi posizionamenti strategici. Coinvolgendo, se ce ne fosse ancora bisogno, le potenze straniere. Ma andiamo per ordine.

Il progressivo cambiamento della portata del Nilo Azzurro dal 2014 al 2019

La questione è questa: la Diga della Rinascita ridurrà inevitabilmente la portata dell’acqua del fiume e, di conseguenza, priverà l’Egitto di una risorsa irrinunciabile che ha consentito a questo paese, dalla civiltà dei faraoni a oggi, di avere il ruolo che ha nel Mediterraneo e nel Maghreb. L’acqua del Nilo, e il limo che deposita nelle ondate di piena, costituiscono letteralmente l’agricoltura dell’Egitto. Negli anni recenti hanno scoperto giacimenti di gas imponenti. Ma senza il Nilo l’Egitto non esiste. Non solo non esiste il suo passato, nemmeno il suo presente e, tantomeno, il suo futuro. Il Nilo è l’Egitto. 

Di contro, l’Etiopia vuole esistere, vuole continuare a crescere. A imporsi. È per questo che Addis Abeba non può rinunciare alla diga che sarà una fonte di energia, e che vuol dire elettricità in un paese che non ha ancora raggiunto l’autosufficienza alimentare. Ma fosse solo questo! Elettricità significa tante cose. Innanzitutto sviluppo. Significa luce per poter studiare. Per gli studenti uscire dall’isolamento. Energia per far funzionare le fabbriche. Vuol dire lavoro. Vuole dire ospedali che funzionano. Possibilità per i giovani di oggi di progettare un futuro che non aspiri, solo, a emigrare. Tanto, oggi, chi lo può fare è una esigua minoranza. Vuol dire poter fare figli sapendo che il loro futuro è garantito. Tutto questo per un paese significa energia vitale, che si traduce in elettricità che contagia, che arriva ovunque. Che la partita sia fondamentale è del tutto evidente. Ed è altrettanto scontato che forse i governanti, se non hanno dalla loro la lungimiranza, potrebbero anche scatenare una guerra per l’oro blu. Convinti, magari, che questa sia la soluzione. E le bombe dove cadrebbero? Proprio sulla diga, e addio elettricità.

Il confronto, dunque, è tra due necessità irrinunciabili. Due grandi paesi a confronto. La soluzione, inevitabilmente, passa attraverso la rinuncia di qualcosa da parte di entrambi i contendenti. Ma chi è disposto a fare il primo passo?

Per comprendere questo scontro è utile sapere cosa c’è in gioco concretamente: il paese delle piramidi potrebbe perdere fino a 300 milioni di dollari di elettricità e un miliardo e mezzo di dollari in agricoltura. Non solo: il Cairo dovrebbe aumentare le sue importazioni alimentari fino a poco meno di 600 milioni di dollari, con una perdita di circa un milione di posti di lavoro. L’Egitto consuma circa 80 miliardi di metri cubi di acqua all’anno, di cui 50 provengono dal Nilo. L’Etiopia, invece, potrebbe perdere lo slancio economico che sta mettendo in campo grazie al suo primo ministro. Il balzo del Pil – attualmente la crescita sfiora le due cifre – potrebbe rimanere una chimera e deludere l’opinione pubblica interna, con conseguenze imprevedibili, vista l’attuale fragilità del tessuto sociale, spesso squassata da rivalità etniche e religiose. Un Pil, tuttavia, che non si riflette sull’economia reale, sul benessere della popolazione.

La diga, intanto, è in fase di costruzione sul confine occidentale dell’Etiopia con il Sudan. Prosegue il suo cammino. Sarà la più grande dell’Africa con un costo complessivo stimato in quattro miliardi di dollari, una capacità di 74 000 metri cubi d’acqua e una produzione di 6500 megawatt. Il negoziato è su tutto, persino sul riempimento della diga. L’Egitto ha chiesto di ottenere un periodo di riempimento di cinque anni anziché tre come proposto dall’Etiopia, una decisione che influenzerebbe fortemente però la quota dell’Egitto sull’acqua del Nilo.

La partita non è solo regionale, ma registra l’interventismo internazionale. In particolare quello cinese. Con l’Etiopia Pechino ha stretto collaborazioni molto promettenti, come l’accordo per un oleodotto che trasporti il gas naturale dei giacimenti dell’Ogaden a Gibuti perché possa essere commercializzato. Ma la Cina ha annunciato una megapartecipazione proprio nella più grande infrastrutturazione del paese. La compagnia Ethiopian Electric Power (Eep) ha firmato un contratto del valore di 40 milioni di dollari con la China Gezhouba Group per la gestione delle attività relative alla Grande Diga della Rinascita, che dovrebbe diventare operativa entro il 2022. L’accordo è stato firmato ad Addis Abeba dagli amministratori delegati di entrambe le società. Nelle intenzioni delle parti, l’intesa consentirà di accelerare il ritmo di realizzazione della diga. Pechino, inoltre, non si fa certo scrupoli, proprio grazie alla sua capacità finanziaria, di siglare accordi e iniettare denaro su progetti che hanno come attori soggetti contrapposti.

Tutto ciò spiega, inoltre, il fatto che l’Egitto boicotti l’iniziativa del bacino del Nilo, istituita con l’accordo di Entebbe firmato da sei paesi: Etiopia, Kenya, Ruanda, Tanzania, Uganda e Burundi. All’accordo non hanno, tuttavia, aderito l’Egitto e il Sudan, a causa della riassegnazione delle quote d’acqua del Nilo che sfavorirebbero questi due paesi. Una contesa lontana dal trovare una soluzione. Una contesa internazionale che potrebbe scatenare la Prima guerra dell’acqua del terzo millennio.

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Oil exploitation in Kurdistan https://ogzero.org/oil-exploitation-in-kurdistan/ Sun, 29 Mar 2020 21:53:03 +0000 http://ogzero.org/?p=66 The KRG oil policies eventually became curse for the people of the Kurdistan Region as on one hand it created a political elite that became billionaires and held the power, on the other hand, the political elite cemented their relations with the regional powers and families so as to protect them in the future when […]

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The KRG oil policies eventually became curse for the people of the Kurdistan Region as on one hand it created a political elite that became billionaires and held the power, on the other hand, the political elite cemented their relations with the regional powers and families so as to protect them in the future when they face domestic resistance. Meanwhile, the KRG oil policies, or more speicifically, the KDP oil policies as the KDP has been the architect of the oil and gas policies, wasn’t only a curse for the people of the Kurdistan Region of Iraq, it was even a curse for the Turkish people, and particularly the Kurds in Turkey, as one of the main reasons President Erdogan strengthened his hold on power and made the Justice and Development Party (AKP) able to maintain the reign was the easy cash Erdogan, his family and the AKP received from the KRG lucrative oil deals.

Since the KDP and AKP relations gained momentum through oil deals, especially after 2011 deals and then 2013 50-yrs oil & gas deal, the KDP, its media & the KRG oil have altogether served Erdogan’s agenda and policies. 

Erdogan and AKP easily exploited the KDP and Barzani’s vulnerable domestic popularity, regional and Iraqi opposition [to the KDP and Barzani policies] and the KDP and Barzani’s rivalry with the PUK, the opposition parties and in particular with the PKK, and eventually with the Rojava. The KDP would not have been able to protect its grip on power if Erdogan had not supported as now approximately 20 Turkish military bases are inside the Kurdistan Region.

Resources and facilities exploitation in KRG, from Curdi, by Antonella De Biasi, Giovanni Caputo, Kamal Chomani e Nicola Pedde, Torino, Rosenberg & Sellier, 2019

As the KRG has a landlocked geography, and Iran and Iraq have been against the KRG’s independent oil exports, the KDP/KRG had no other routes to export its oil to the international market. Erdogan, took this opportunity to make huge profit from the KRG’s geographic and political vulnerability. One of the reasons behind that Erdogan appointed his son-in law Berat Albayrak, Erdoğan’s daughter, Esra Albayrak, husband, as the Turkish Energy Minister. Albayrak’s companies have managed to export the KRG oil and buy the KRG oil from a much lesser price as compared to oil prices in the international market. Meanwhile, Barzani’s family also benefited from the oil exports through Turkey as the KDP’s Prime Minister Nechirvan Barzani has been the architect of the deals and the KDP and the Barzani family have treated the oil as their own property. These deals made the KDP and AKP closer to an extent both parties have been firmly against the achievements of the Rojava in the northern Syria. The KDP soon closed all the Fethulla Gulen schools in Erbil after an order from Erdogan’s government back in 2015 and a Kurdish businessman close to the KDP bought the ownership. And when the Turkish Army entered the Kurdish Region to attack the PKK by 30 kilometres, PM Barzani said: “Why did Turkey violate the border? What is the reason? There should  be a reason. There is a reason why this is happening. That reason must first be  resolved. So long as this reason is not resolved, you cannot talk  about the fallout.” The Wikileaks files revealed that Masoud Barzani considered the PKK as enemy when he met Erdogan as saying that “the PKK is the KDP’s enemy as well, not just the Turks.” 

For Erdogan and AKP, the KRG and the KDP have been useful economically to garner billions of dollars through lucrative oil deals and business in the KRG, and politically to check the PKK in the Qandil Mountains, KRI and somehow Rojava. Likewise, the KDP has received military support from Turkey, found a route to bypass Iraq to export oil and generate money from it and finally to weaken the PKK as the PKK is the main KDP rival politically, ideologically and militarily, as well as in terms of the geopolitics of the KDP as the  PKK’s stronghold in the two parts of Kurdistan Turkey and Syria border with the KDP-controlled area in Iraq. 

The Turkish strong presence in the KRG has pushed the PUK into the Iranian axes to an extent that the PUK cannot make any strategic decisions without returning to Iran.

Cf. the Italian edition in Curdi, by Antonella De Biasi, Giovanni Caputo, Kamal Chomani e Nicola Pedde, Torino, Rosenberg & Sellier, 2019

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Nazionalismo petrolifero e dubaizzazione https://ogzero.org/nazionalismo-petrolifero-e-dubaizzazione/ Sun, 29 Mar 2020 20:49:06 +0000 http://ogzero.org/?p=58 Fino al 2005 il nazionalismo curdo traeva fonte d’ispirazione dall’obiettivo di ottenere i propri diritti democratici e l’autodeterminazione in Iraq, ma – dalla scoperta di petrolio e gas, stipulando contratti con le maggiori compagnie petrolifere del mondo ed esportando sui mercati internazionali di idrocarburi – il nazionalismo curdo si colorò di nazionalismo petrolifero e i due partiti al potere […]

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Fino al 2005 il nazionalismo curdo traeva fonte d’ispirazione dall’obiettivo di ottenere i propri diritti democratici e l’autodeterminazione in Iraq, ma – dalla scoperta di petrolio e gas, stipulando contratti con le maggiori compagnie petrolifere del mondo ed esportando sui mercati internazionali di idrocarburi – il nazionalismo curdo si colorò di nazionalismo petrolifero e i due partiti al potere cercarono di trarne vantaggio in due modi. Innanzitutto usarono le risorse, in particolare il petrolio, per rafforzare la presa sul potere monopolizzando l’intera filiera, dai sondaggi all’esportazione: per dividersi i proventi le famiglie Talabani e Barzani cercarono di comprare il silenzio della nazione in cambio della conversione della Kri in una nuova Dubai e introdussero un sistema di rendite e un capitalismo clientelare, resuscitando quegli elementi di tribalismo che stavano declinando già dal 2003; in secondo luogo la Krg si avvalse del petrolio per attirare compagnie internazionali, in particolare da Europa e Usa con la speranza di proteggere se stessa: Barzani a seguito di un contratto firmato con la Exxon Mobil disse in un discorso tenuto agli studiosi islamici che il «Ceo della Exxon Mobil è più potente del presidente degli Stati Uniti». La Krg cominciò una campagna internazionale all’insegna dell’“Altro Iraq”, esibendo la Kri come una sorta di paradiso nel mezzo della crisi irachena e dipingendolo come un modello di democrazia e di economia in espansione tra i regimi autoritari mediorientali. È proprio lì che i due partiti al potere, e in particolare il Kdp, hanno abbandonato la propaganda nazionalista volta a conseguire i diritti dei curdi per concentrarsi maggiormente sulla ricchezza delle risorse naturali della Federazione, che devono essere sfruttate dai curdi stessi e non dal governo centrale di Baghdad. Le promesse del nazionalismo curdo di democrazia e di libertà si tramutarono in promesse di dubaizzazione della Federazione. Il modello a cui guardava il Kdp non era un modello democratico, ma accarezzava l’idea di una monarchia in cui è in corso un boom economico senza democrazia.

Il governo regionale ha elevato il Pil e il livello di vita, stando ai dati del Dipartimento per la pianificazione; lo sviluppo economico in corso sarebbe indicato dall’incremento diversificato dei prodotti locali nella maggioranza dei settori. Dal quinquennio 2003-2008 le entrate nazionali si accrebbero da 4373 miliardi di dinari iracheni (circa 3 miliardi di euro) a 30 224 miliardi di dinari (22 miliardi di euro), un tasso medio di crescita del 38,3 per cento. Nello stesso periodo il Pil aumentò da 2419 miliardi di dinari (17 miliardi di euro) a 20 954 (150 miliardi), con una performance del 61 per cento tra il 2004 e il 2008. Il Pil pro capite salì da 0,524 milioni di dinari (380 euro) a 4,740 (3400 euro).

La vantaggiosa legge su petrolio e gas 

Contro ogni previsione, le maggiori compagnie petrolifere siglarono contratti con la Krg dopo che il Governo regionale varò la legge 28 del 2007 su petrolio e gas, molto più vantaggiosa per la Krg al confronto di quella nazionale: trasferiva infatti i contratti di fornitura dell’Iraq in base ad accordi per appalti che prevedevano la condivisione della produzione, il che significa che non solo si sarebbero pagati i diritti di prospezione ed estrazione, ma si sarebbero spartiti i guadagni, diversamente dai soliti modelli contrattuali iracheni. La legge divenne uno dei maggiori motivi di disputa tra il Governo regionale e quello federale quando la Exxon Mobil firmò nell’ottobre del 2011 contratti per sei blocchi che coprivano 3 miliardi e mezzo di metri quadri (848 000 acri) della Federazione regionale.

La legge 28 e gli affari del Kdp con la Turchia di Erdoğan 

Non avendo sbocco al mare, la Krg cercò di corteggiare la Turchia per raggiungere i mercati internazionali. E il vicino affamato di petrolio e gas che lamentava da anni la perdita del distretto di Mosul – sotto la direzione di Erdoğan e dell’Akp – accolse con favore l’offerta proveniente nello specifico dal Kdp e i rapporti tra le due entità regionali raggiunsero l’apice; gli esponenti della famiglia Barzani visitarono regolarmente la Turchia, e a Erbil i leader turchi nel marzo 2011 assistettero all’inaugurazione dell’aeroporto internazionale realizzato dalle compagnie turche. Era presente Erdoğan stesso, il primo premier turco a visitare la Kri.

All’inizio dell’invasione dell’Iraq nel 2003 il governo turco aveva definito Barzani un capo tribale e persino minacciato di occupare la Kri. Ad ogni modo gli accordi energetici normalizzarono la situazione, soprattutto dopo quello cinquantennale del 2009 tra i due governi, i cui dettagli non sono mai stati resi pubblici. Il sogno dell’Akp turco di far rinascere il controllo ottomano sulla regione richiedeva un’economia più forte e una strada sicura verso il Golfo Persico. Ma la Krg poteva essere il suo affiliato: circa mille compagnie turche e 30 000 cittadini turchi stavano lavorando all’interno della Kri nel 2011 e gli investimenti e il commercio turco nella Federazione regionale avevano raggiunto i 10 miliardi di dollari. In seguito alla crisi finanziaria e alla guerra al Califfato gli investimenti e gli scambi diminuirono in larga misura; a quel tempo la realtà era che la Turchia non possedeva (non ancora) abbastanza gas e petrolio per soddisfare le proprie esigenze, nonostante Russia e Iran l’avessero approvvigionata, la crisi siriana aveva deteriorato i rapporti tra i turchi e le due potenze regionali e l’Iran era sottoposta a sanzioni, creando difficoltà ad Ankara. Ma la Turchia sembrava essersi guadagnata l’accesso a una maggior quantità di gas a un costo molto minore – dalla Krg. Come è stato successivamente rivelato da alcune fonti, la Turchia aveva ottenuto dalla Krg il gas a metà del prezzo imposto da Russia e Iran.

L’evoluzione nella cooperazione energetica tra Kri e Turchia era interpretata da molti come una via per l’indipendenza della Kri, un sogno curdo lungamente procrastinato; comunque, mettendo tutte le uova nel solo paniere turco alla fine si è creata una dipendenza della Krg dalla Turchia o, come ritenuto da molti, una colonia turca nascente che ha reso la Krg precariamente esposta a ogni slittamento della posizione turca riguardo al Kurdistan: se ne ebbe un esempio nel settembre 2017, quando la Turchia si oppose fermamente al referendum nella Kri sull’indipendenza. Quanto più la Krg faceva prospezioni ed esportava petrolio, tanto più dilagava la corruzione e, invece di diversificare la propria economia, sopprimeva tutti gli altri settori, soprattutto quello agricolo, di cui nelle loro fattorie per secoli i curdi avevano vissuto, provocando così dal 2003 in poi un esodo dai villaggi facilitato da Kdp e Puk che per comprare il consenso elargivano assunzioni nell’esercito o nel governo.

L’abbraccio mortale del nuovo Sultano e la Dinasty curda 

Le politiche petrolifere della Krg non sono state solo una disgrazia per gli abitanti della Regione del Kurdistan iracheno, ma anche per le genti turche, e in particolare per i curdi che vivono in Turchia, dato che Erdoğan ha rafforzato il suo dominio mantenendo il Partito della giustizia e dello sviluppo (Akp) al potere grazie ai soldi facili confluiti nelle sue tasche, in quelle della sua famiglia e del partito provenienti dagli accordi petroliferi altamente lucrativi promossi dalla Krg. 

Da quando le relazioni tra Kdp e Akp registrarono un’accelerazione negli accordi petroliferi, in particolare dopo le concessioni del 2011 e poi con il contratto per la fornitura cinquantennale di petrolio e gas del 2013, il Kdp, i suoi media e il greggio del Governo regionale sono stati del tutto asserviti all’agenda di Erdoğan e alle sue politiche.

Erdoğan e l’Akp hanno agevolmente approfittato della fragilità interna del Kdp e di Barzani, dell’opposizione regionale e nazionale irachena al Kdp e alle sue politiche, e della rivalità del Kdp con il Puk, i partiti di opposizione, in particolare con il Pkk, e infine con il Rojava, di cui si è detto nel capitolo sulla Siria. Il Kdp non sarebbe stato in grado di mantenere il proprio potere se Erdoğan non l’avesse sostenuto. 

Senza sbocco al mare, e con Iran e Iraq contrari all’esportazione indipendente di greggio della regione curdo-irachena, il sistema Kdp/Krg non aveva altre strade per esportare il suo petrolio sui mercati internazionali. Erdoğan ha colto l’opportunità di ottenere enormi profitti dai punti deboli politici e geografici della Krg. Uno dei motivi alla base della nomina a ministro dell’Energia turca da parte di Erdoğan di suo genero Berat Albayrak, è che le sue società gestivano l’esportazione del greggio della Krg, comprandolo a tariffe molto più basse dei prezzi del mercato internazionale. Intanto la famiglia Barzani beneficiò anche dell’esportazione del petrolio attraverso la Turchia, visto che il primo ministro Nechirvan Barzani (nipote di Masoud), era l’ideatore del contratto e il Kdp e la famiglia Barzani consideravano il petrolio una loro proprietà esclusiva. 

Questi accordi avvicinarono sempre più Kdp e Akp: entrambi in un certo modo contrariati dai successi del Rojava nel Nord della Siria. Su preciso ordine del governo di Erdoğan nel 2015 a Erbil il Kdp chiuse immediatamente tutte le scuole di Fethullah Gülen (l’imam di cui si è parlato nel capitolo sulla Turchia) e un affarista curdo vicino al Kdp ne acquisì la proprietà. E quando l’esercito turco penetrò la Regione curda irachena per 30 chilometri con l’intenzione di attaccare il Pkk, il premier Barzani disse: «Perché la Turchia ha violato i confini? Qual è la ragione? Ci deve essere per forza un motivo. Prima va rimossa quella causa, finché questa non sarà risolta, non si può parlare delle ripercussioni». I documenti di Wikileaks hanno rivelato che Masoud Barzani considerava il Pkk ostile quando incontrò Erdoğan, visto che diceva che «il Pkk è allo stesso modo nemico anche del Kdp, non solo dei turchi». La Krg e il Kdp sono stati utili per Erdoğan e l’Akp: economicamente per guadagnare miliardi di dollari attraverso lucrosi affari e accordi petroliferi nella Krg, e politicamente per imbrigliare il Pkk sui monti Qandil, nel Kurdistan iracheno e in qualche modo in Rojava. Dal canto suo il Kdp ha ricevuto importanti aiuti militari dalla Turchia, trovato una via per aggirare l’Iraq ed esportare il petrolio con cui procurarsi denaro e finalmente fiaccare il Pkk – il suo maggiore antagonista politico, ideologico e militare nei suoi calcoli geopolitici, viste le roccaforti del partito di Öcalan nel Kurdistan al confine tra Turchia e Siria.

La forte presenza turca nella Krg ha schiacciato il Puk nell’orbita iraniana a un punto tale che non può prendere decisioni strategiche senza renderne conto all’Iran. 

Perché la città siriana di Idlib è importante nella “proxy war”

La “congelata” guerra di Idlib cambierà enormemente il corso degli eventi in Siria, sebbene non si capisca bene nell’interesse di chi lo farà. Comunque, dati i recenti sviluppi, la caduta di Idlib sotto il regime siriano avrebbe serie ripercussioni sugli interessi turchi in Siria e sulla cosiddetta opposizione siriana e dell’Esercito siriano libero (Esl). La perdita di influenza turca e l’opposizione del regime siriano faranno buon gioco agli interessi dei curdi in Siria dato che l’opposizione siriana ora opera per procura della Turchia. La caduta di Idlib e l’eventuale ritorno in mano ad al-Assad certificherebbero il fallimento dei turchi, dell’opposizione e dei gruppi estremisti che hanno portato all’attacco contro la città di Afrin.

Allo stesso modo, il successo dei curdi di Siria influenzerebbe sicuramente gli interessi curdi in Iraq, in Turchia e persino in Iran. Nei confronti dell’Iraq, i curdi di Siria, vicini al Pkk, si troverebbero nella condizione di poter ostacolare gli interessi turchi legati al Kdp in Siria attraverso un riavvicinamento agli altri partiti curdi in Iraq. Un governo curdo-siriano forte aiuterebbe i curdi in Iraq, con l’eccezione del Kdp, a riunirsi con il Pkk, il ramo iraniano del Pkk (il Pjak) e i curdi siriani, in una sorta di alleanza abbastanza forte da frenare il tentativo del Kdp di estendere la sua egemonia. 

Idlib, d’altro canto, sarebbe stata importante anche per l’alleanza curdo-americana in Siria poiché se gli Stati Uniti avessero lasciato soli i curdi, la caduta di Idlib avrebbe implicato una alleanza più forte tra Siria, Iran e Russia. Quindi, gli Stati Uniti sarebbero stati una garanzia per i curdi in Siria e cercheranno di fermare la ricerca da parte della Russia di un appoggio politico in Iraq tramite le sue compagnie petrolifere, soprattutto la Rosneft, nella Regione del Kurdistan. Il conflitto Stati Uniti / Russia nella regione assicurerà una posizione di forza ai curdi sia in Iraq sia in Siria per poter proteggere i propri interessi a Damasco e Baghdad. Nel medio termine, gli Usa potrebbero avvicinarsi al Puk e il Pkk potrebbe essere espunto dall’elenco delle organizzazioni terroristiche stilato da Stati Uniti ed Europa. 

La legge 28 e gli affari del Puk con l’Iran

Anche l’Iran beneficiò del petrolio della Kri, dal momento che il regime degli ayatollah aprì le frontiere per il Puk e il Kdp al contrabbando di petrolio in Iran, che tramite la Repubblica Islamica raggiungeva i mercati internazionali attraverso Bandar-e Emam, oppure veniva consumato nel mercato interno iraniano. Teheran raggiunse un accordo con Baghdad per costruire un nuovo oleodotto per l’esportazione del petrolio di Kirkuk nei porti iraniani e di lì sui mercati mondiali: un’offerta volta a rafforzare il Puk nelle aree sotto il suo controllo, dato che il partito di Talabani era stato in qualche modo marginalizzato dal Kdp nell’affare petrolifero, in quanto le esportazioni avvenivano attraverso oleodotti diretti in Turchia controllati dal Kdp e appunto da Ankara, suo alleato regionale. 

È prioritario per la Krg trovare altre vie per i prodotti petroliferi, altrimenti rimarrà sempre alla mercé delle potenze regionali se mira all’esportazione indipendente del greggio aggirando l’Iraq; finora, infatti, ha instaurato patti energetici regionali soltanto con la Turchia, una nazione che ha da fare i conti con una propria “questione curda” e che ha massacrato migliaia di curdi.

Le rotte del petrolio dopo la rivoluzione del Rojava 

Dopo la crisi siriana del 2011 e la rivoluzione curda in Siria emersa di conseguenza, là si era data una speranza che i curdi raggiungessero finalmente il mare, ma la strada è ancora lunga. Il Pkk è protagonista sulla scena delle rotte dei prodotti energetici della regione, come disse in un’intervista a “Der Spiegel” il massimo dirigente del Pkk Cemîl Bayik: la sicurezza energetica europea passa attraverso il cuore della terra curda in Siria e il Pkk può sempre svolgere il ruolo di chi decide della stabilità del Medio Oriente poiché è diventato la maggior forza per combattere il terrorismo. Bayik mi ha detto una volta nel 2015 che «Il ruolo della Turchia si è indebolito e i curdi sono assurti al rango di forza strategica. I cambiamenti nel Medio Oriente cominciano da lì, da questo momento il comparto energetico non è più l’unica cosa che conta. D’ora in avanti il petrolio e il gas del Medio Oriente o addirittura del Caucaso possono viaggiare via Rojava nel Kurdistan siriano. È la fine dei piani turchi». Bayik è pienamente consapevole del fatto che una delle più gravi cause di debolezza della Turchia è la mancanza di risorse petrolifere, mentre una delle sue più forti risorse risiede nella sua posizione su ogni rotta del greggio verso l’Europa e questo può cambiare una volta che il Kurdistan siriano sia liberato. In ogni caso la Krg non è stata capace di impiegare il suo petrolio come uno strumento al servizio della politica internazionale perché ha ricercato solo l’interesse di parte e non quello nazionale e prematuramente puntando sulla sola carta turca. 

Il Rojava ha assunto un ruolo di primo piano nella politica siriana e contribuirà a dare forma alla mappa del paese dopo che è diventato un alleato degli Stati Uniti nella regione. Nel dopoguerra ci sarà estremo bisogno di relazioni economiche tra nazioni limitrofe. Il Rojava può avvicinare Damasco ed Erbil – sempreché ovviamente quest’ultima smetta di complottare contro questa entità. Esistono profonde divergenze tra Rojava e Kdp, ma i rapporti del Rojava con tutti gli altri partiti curdi in Iraq si trovano ora al loro massimo livello. Da quando il passaggio di Semalka al confine tra Rojava e Kri è controllato dal Kdp che ha chiuso la frontiera dopo che è stata stabilita l’amministrazione dei curdi di Siria, i contrasti tra Rojava e Kdp sono aumentati. Il Rojava è un modello dietro al quale c’è il Pkk che considera il Kdp e i suoi rappresentanti in Rojava – l’Enks (Consiglio nazionale curdo) – alla stregua di servi degli interessi turchi. Il Kdp e il Pkk sono stati in conflitto per mantenere l’egemonia sulle quattro parti del Kurdistan e il Pkk si è rivelato il vincitore, avendo una ideologia e dei leader più forti, in particolare Öcalan, considerato da molti curdi un capo politico e un filosofo, come raccontato nella sezione del volume dedicata ai curdi di Turchia, a differenza di Barzani che non vanta alcun intellettualismo.

La Krg ha altre opzioni da considerare, soprattutto dopo il fallimento del quesito referendario sull’indipendenza; innanzitutto aprendo una nuova strada attraverso l’Iran, incoraggiando Baghdad a collegare l’oleodotto del Nord con quello meridionale e poi normalizzando le relazioni con il Rojava per arrivare al porto internazionale di Haifa: Israele ha già acquistato il petrolio della Krg, anche questo è stato discusso da alcuni esperti per quanto la Krg dovrebbe superare la pubblica diffidenza irachena verso qualunque accordo con lo stato ebraico. 

Rosneft e BP: russi e inglesi per la rotta del gas

Fin dal 1991 gli Stati Uniti erano stati alle spalle della Krg, fornendo protezione, fondi, assistenza e formazione, nonché sostegno politico a Baghdad. Ma prima del referendum la dirigenza curda aveva già avviato approcci con la Russia suscitando la preoccupazione statunitense per il voto. Se gli Stati Uniti non fossero riusciti a riunire Erbil e Baghdad, i leader curdi avrebbero continuato a cercare aiuto nella Russia, convinti che potesse essere il miglior deterrente contro Turchia e Iran, che si erano riavvicinati in occasione del referendum; inoltre miravano agli investimenti russi sul comparto energetico per finanziare il loro budget futuro. La Rosneft, potente compagnia petrolifera russa, infatti sta attualmente costruendo un gasdotto per portare il gas della regione sui mercati internazionali e in periodo referendario pagò un affitto di due miliardi di dollari alla Krg. Questo irritò i britannici perché la loro compagnia petrolifera (BP) aveva firmato un accordo con il governo di Baghdad nel 2013 per lo sfruttamento di giacimenti petroliferi a Kirkuk.

Kirkuk, la Gerusalemme curda e il controllo dei pozzi

I confinanti turchi e iraniani temevano che i partiti curdi locali volessero ispirarsi ai loro confratelli iracheni; l’Iran non voleva che uno stato indipendente curdo si alleasse con Israele e Arabia Saudita perché troppo debole per difendere i confini ed evitare che sauditi, americani e israeliani installassero le loro basi antiraniane nella Regione autonoma del Kurdistan. La continua opposizione di Turchia e Iran ingigantì i problemi per il Kurdistan iracheno, che importa infatti l’85 per cento di cibo e altre merci attraverso Iran e Turchia, il 95 per cento della sua bilancia commerciale inoltre dipende dall’esportazione di greggio tramite i porti turchi. Le sanzioni turche possono facilmente soffocare lo stato curdo, quindi una simile evenienza avrebbe conseguenze drammatiche sotto il profilo economico per una regione già duramente provata da crisi finanziarie e strozzata da miliardi di dollari di indebitamento a livello locale e internazionale. La leadership curda avrebbe dovuto essere più attenta nel periodo precedente al referendum, in modo che gli errori futuri non solo non ostacolassero gli sforzi per uno stato indipendente, ma non mettessero a rischio la relativa stabilità, migliorando il tenore di vita esperito in passato da molti curdi.

Una fonte politica di alto profilo mi ha raccontato che Masoud Barzani ha promosso un referendum irredentista in modo da ottenere «una forte leva da usare contro il governo iracheno per mantenere i pozzi petroliferi a ovest di Kirkuk nel caso di negoziati sul futuro delle relazioni tra Krg e Baghdad». Molti, infatti, dubitavano dei proclami d’indipendentismo di Masoud Barzani; tra questi Hoshyar Abdullah, membro del Gorran, fazione del parlamento iracheno, convinto che il referendum fosse una carta politica giocata per mantenere i giacimenti petroliferi a ovest di Kirkuk e «stornare l’attenzione delle masse curde dai fallimenti della Krg, consentendo al Kdp di recuperare le posizioni perse a Baghdad». 

Masoud Barzani, Nechirvan Barzani e Masrour Barzani, padre, genero e nipote, erano i sostenitori più accaniti dell’indipendenza curda e le loro principali argomentazioni erano, come per gli altri leader curdi, le seguenti: il governo di Baghdad ha deluso nella spartizione del potere, ignorando le richieste della popolazione curda e tagliando i finanziamenti alla Krg; l’Iraq è uno stato fallito e i curdi non vogliono più essere parte di questo fallimento: l’Accordo Sykes-Picot ha privato i curdi della sovranità e ora essi hanno il diritto di opporsi all’ordine tradizionale, visto che sono stati loro a farne le spese; il governo iracheno ha violato 55 articoli costituzionali e non è mai stato implementato l’articolo 140 che determina la sorte di Kirkuk e di altre aree soggette a contenziosi.

Nel 2014 Nechirvan Barzani, il primo ministro del governo regionale curdo, annunciò «l’indipendenza economica del governo locale come strategia per finanziare la Krg attraverso le esportazioni di petrolio», tuttavia questa fallì per il crollo dei prezzi del greggio, la guerra a Daesh e le azioni del governo centrale contro la Krg per tagliare il budget. Di fronte all’avanzata di Daesh su Kirkuk in quello stesso anno il Kdp schierò due brigate a protezione dei campi di petrolio occidentali. Quando il Puk cominciò a sospettare delle intenzioni del Kdp dispiegò a sua volta truppe in quelli a nord della città per bloccare ulteriori pretese del Kdp. Queste mosse mettevano a rischio il destino di Kirkuk dato che non si trovava l’accordo definitivo riguardo il futuro della città (per questo è considerata la Gerusalemme curda, come spiegato nelle mappe all’inizio del volume). Le prospettive per i campi a ovest furono all’origine del conflitto tra il governo regionale e quello iracheno da un lato e tra il Kdp e il Puk dall’altro. Inoltre il Kdp non intendeva concedere a Baghdad il controllo del petrolio dato che il suo piano strategico di controllo energetico era volto a perseguire efficacemente la sua brama di egemonia tramite giochi politici in Iraq e nella regione curda. 

Nel marzo 2017 una forza conosciuta come Hêze Reşeke (Forza nera), vicina al Puk, fece irruzione nella stazione di pompaggio della North Oil Company per mettere sotto pressione Erbil e Baghdad con lo scopo di costruire una raffineria di petrolio a Kirkuk; la mossa del Puk portò Barzani a inviare altri peshmerga per mettere in sicurezza i campi a ovest di Kirkuk controllati dalle forze del Governo regionale leali al Kdp. I leader del Kdp e del Puk non sono davvero riusciti a venire a capo della politica locale e comprendere l’ordine internazionale. 

 

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Rivalità e sangue tra etnie curde nella politica irachena https://ogzero.org/etnie-curde-in-iraq/ Sun, 29 Mar 2020 15:13:26 +0000 http://ogzero.org/?p=42 Totalitarismo, democrazia e federalismo  In seguito alla Prima guerra mondiale, il colonialismo britannico istituì lo stato dell’Iraq, riunendo – anche con la forza – tutte le componenti della regione. Da allora il popolo curdo iracheno, stanziato principalmente nella parte settentrionale del paese, nei governatorati di Dahuk, Erbil, Kirkuk e Sulaymaniyya, e tra Mosul, Salah-al-Din, Diyala e Baghdad, lotta per salvaguardare […]

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Totalitarismo, democrazia e federalismo 

In seguito alla Prima guerra mondiale, il colonialismo britannico istituì lo stato dell’Iraq, riunendo – anche con la forza – tutte le componenti della regione. Da allora il popolo curdo iracheno, stanziato principalmente nella parte settentrionale del paese, nei governatorati di Dahuk, Erbil, Kirkuk e Sulaymaniyya, e tra Mosul, Salah-al-Din, Diyala e Baghdad, lotta per salvaguardare i propri diritti politici e culturali. Negli anni Venti fu stroncato il primo tentativo guidato dallo sceicco Mahmoud Hafid di istituire uno stato curdo a Sulaymaniyya e da allora il movimento di liberazione curdo continua a opporre una strenua resistenza contro i governi iracheni susseguitisi nel tempo.

I partiti curdi in Iraq hanno impugnato le armi nella lotta politica in diverse fasi della loro storia, ma i governi iracheni hanno sempre operato con pugno di ferro e repressione. Le atrocità da loro perpetrate raggiunsero un picco nel 1988 quando il dittatore Saddam Hussein utilizzò le armi chimiche e promosse la campagna Anfal (cioè un genocidio che approfondiremo più avanti) dalla metà alla fine degli anni Ottanta. I giorni migliori per i curdi iracheni furono quelli annoverati dal resto della popolazione irachena come i peggiori, quando cioè la coalizione guidata dagli Stati Uniti invase il paese nel 2003.

Sebbene negli anni successivi la violenza dilagasse a più livelli, per la prima volta l’Iraq sceglieva la strada della democrazia con l’elezione nel 2005 di un nuovo parlamento seguito dalla stesura della prima Costituzione democratica della storia del paese che riguardava tutte le genti irachene, compresa la nazione curda.

Oltre alla nascita della democrazia, un altro passo importante fu il riconoscimento della regione curda come regione federale irachena anche se la leadership curda non riuscì a praticare politiche utili al popolo iracheno e al Kurdistan. Questo processo portò anche alla costituzione di una élite politica totalitaria e corrotta non così dissimile dagli oppressori curdi del passato. Nel settembre 2017, in seguito alla sconfitta dello Stato Islamico in Iraq e Siria, il presidente curdo Barzani impose prematuramente un referendum ai curdi che portò a un ulteriore deterioramento dei rapporti con Baghdad, distruggendo il sogno indipendentista. 

Tribalismi e nazionalismi a confronto 

Con l’Accordo Sykes-Picot il 16 maggio 1916 l’Iraq finì sotto il mandato britannico; fino all’indipendenza dell’Iraq nell’ottobre 1932, il popolo guidato dal re del Kurdistan – lo sceicco Mahmud Hafid – ingaggiò una guerra sanguinosa contro il governo inglese lottando per la propria indipendenza, ma senza successo, nonostante una strenua resistenza politica e armata. Nel marzo 1931, il leader curdo Mahmud Hafid inviò una dura lettera al capo della Lega delle Nazioni a Parigi, in cui denunciava chiaramente l’annessione del Kurdistan meridionale allo stato iracheno come Regione curda dell’Iraq del Nord.

Quando nel 1932 l’Iraq divenne una nazione indipendente i curdi non ebbero altra scelta – dato il fallimento delle ulteriori rivolte – che accettare la nuova situazione. Mullah Mustafa Barzani, fondò il Partito democratico del Kurdistan (Kdp) nel 1946 ispirandosi al Partito democratico del Kurdistan iraniano (Kdpi). Il Movimento di liberazione curdo si rafforzò durante la monarchia, ampiamente influenzato dal Partito comunista (1934) e dallo stesso Kdp, che aveva controllato la politica curda fino ad allora, e i suoi attivisti riuscirono a mobilitare i contadini per ottenere maggiori diritti democratici. La monarchia fu rovesciata dal colpo di stato di Abd al-Karim Qasim nel 1958 e il popolo curdo lo sostenne; allora Mustafa Barzani tornò dalla Russia, paese che ospitava numerosi profughi dopo il collasso nel 1946 di quella Repubblica di Mahabad in Iran, di cui si è fatto cenno nell’Introduzione di questo libro. Sebbene in un primo tempo i rapporti tra i curdi e Qasim fossero buoni, dopo tre anni scoppiò la rivoluzione. Molti storici attribuiscono a entrambe le parti la colpa del deterioramento dei rapporti a scapito di una collaborazione per il bene dell’Iraq. 

Con il dipanarsi della storia che ha forgiato il nazionalismo e le politiche fino ai giorni nostri la società curda è stata divisa in vari clan e tribù, controllati e strumentalizzati con facilità dai nemici dei curdi chiamati a difenderli dalle tribù rivali, aiuto spesso offerto dai regimi iracheni stessi.

Una delle ragioni principali della fine della luna di miele tra Mullah Mustafa Barzani e Abd al-Karim Qasim fu una questione tribale: quest’ultimo aveva rapporti distesi con le tribù Hark e Zibâri che si opponevano al clan Barzani, così Mullah Mustafa Barzani pensò che Qasim volesse usare i suoi rivali per ridurre il suo potere nel Nord. L’ex presidente iracheno e segretario generale del Puk Jalal Talabani, coprotagonista in quei giorni, scrive nelle sue memorie pubblicate nel 2017 che «il crollo delle relazioni tra Barzani e Qasim cominciò quando Ahmed Agha Zibâri (leader di quella tribù) che era un violento, aveva ucciso molti dei Barzani iniquamente» e aggiunge: «Mullah Mustafa Barzani aveva mandato alcuni della sua cerchia per ucciderlo». In seguito Qasim cercò di trascinare in giudizio gli assassini e Barzani respinse quella soluzione; in risposta Qasim armò la tribù Zibâri. Questa mossa fu considerata da Barzani ostile alla sua tribù e al suo potere in Iraq, in particolare nel Nord. 

Da allora le rivalità e il sangue versato tra tribù e clan curdi hanno certo agevolato i regimi iracheni nell’intento di rintuzzare le rivoluzioni curde. E allo stesso tempo alcune tribù e clan, insieme ai loro leader, sono stati la colonna vertebrale delle rivoluzioni contro i regimi iracheni.

Prima di stabilire un nuovo stato-nazione in Iraq, i curdi accumularono potere attraverso gli emiri locali affiliati all’Impero Ottomano, mantenendo il controllo delle amministrazioni locali, battendo moneta e predicando in qualità di emiri curdi e non come sultani ottomani. Il nuovo stato iracheno insomma non riuscì a portare i curdi totalmente sotto il suo controllo, così come non riuscì a creare un’identità nazionale in grado di raccogliere tutte le componenti regionali oltre al comune sciovinismo nazionalista arabo. Infatti nel Congresso fondativo del Partito baathista del 1947, lo statuto chiaramente affermava: «Il partito nazionalista crede che il nazionalismo sia una inconfutabile verità». E fu così che in Iraq nacque il nazionalismo curdo, in opposizione a quello arabo.

La spartizione del potere 

Dal 1932 al 1946 proliferarono svariati partiti nonché figure-chiave politiche che guidarono la rinascita nazionalista e intellettuale, come Ibrahim Ahmed, Rafiq Hilmi e Ala al-Din Sajadi. 

Tutto ciò lasciò un segno politico e intellettuale sulla popolazione, nonostante la nascita del Kdp di Mustafa Barzani avesse messo tutti gli altri partiti un po’ in ombra. Sebbene l’attuale leader, Masoud Barzani, figlio di Mullah Mustafa, abbia portato i curdi al referendum sull’indipendenza del Kurdistan iracheno tenutosi il 25 settembre 2017, il Kdp richiedeva in realtà l’autonomia all’interno dei confini nazionali iracheni fin dall’inizio del 1992, quando il parlamento curdo si batteva per la costituzione di una Federazione della regione curda dell’Iraq (Kri). Allo stesso tempo, il Kdp non si è mai pronunciato sul diritto all’autodeterminazione fino al 2010, al contrario dell’Unione patriottica del Kurdistan iracheno (Puk) guidata da Jalal Talabani che insisteva su questo punto fin dal 1975.

Si noti come il Kdp sia diventato un movimento popolare che riuniva le più importanti tribù e capitribù, così come gli intellettuali curdi e gli studiosi islamici e, a differenza di altri partiti, riuscì nell’intento di costruire relazioni paradiplomatiche con più di una nazione. Oltre al forte legame con lo scià iraniano, ebbe rapporti con gli Stati Uniti, Israele e la Russia. Quando il legame con la Repubblica irachena si deteriorò il Kdp guidò l’Aylul (la Rivoluzione di Settembre). Nonostante la guerra la rivolta curda si espandeva sempre più: il leader del Kdp Mustafa Barzani era in contrasto con l’Ufficio politico guidato da Ibrahim Ahmed e da Jalal Talabani, e questo portò a una scissione nel 1964, quando Talabani fece ritorno a Baghdad. L’ala fedele all’Ufficio politico accusò Mullah Mustafa Barzani di essere “tribale e conservatore”, mentre i politici curdi dell’epoca erano impregnati di marxismo. Il Kdp fallì, persino la retorica nazionalista curda non era così efficace perché il suo leader non capiva la reale portata intellettuale e ideologica dell’opposizione al regime iracheno. Mentre la rivoluzione curda si rafforzava, lo stato iracheno si indeboliva a causa di due consecutivi colpi di stato dei baathisti nel 1963 e 1968, che li portarono al potere.

Voltafaccia baathisti e iraniani

I baathisti al potere avevano bisogno di rafforzare la loro presa; annunciarono così in prima battuta riforme economiche radicali in Iraq, nazionalizzarono il settore petrolifero e abbracciarono la causa dei diritti del popolo curdo. Tale apertura portò a un’intesa storica l’11 marzo 1970 tra il governo iracheno e il movimento rivoluzionario curdo di Aylul in cui per la prima volta l’identità curda veniva riconosciuta come partner politico in Iraq. I curdi guadagnarono il diritto all’autonomia e si istituirono delle amministrazioni locali curde nei governatorati di Erbil, Sulaymaniyya e Dahuk, mentre Kirkuk rimase una questione in sospeso. 

Una volta che i baathisti si stabilirono al potere, però, iniziarono a fare un passo indietro rispetto agli accordi presi, avvicinandosi al regime dello scià di Persia per trovare un compromesso su alcune zone dello Shat al-Arab in cambio della sospensione del sostegno iraniano alla rivoluzione curda. Nel frattempo, anche gli Stati Uniti non avevano mantenuto la promessa di sostenere il popolo curdo e la più grande rivoluzione curda era fallita per un complotto a livello regionale. Anche se Mullah Mustafa aveva un cospicuo esercito di peshmerga e godeva del sostegno di gran parte della società, era preoccupato delle mosse dello scià di Persia: fermò quindi la rivoluzione e non permise che altri la rinfocolassero e vietò agli altri leader curdi di proseguirla. 

Il governo iracheno di allora, agli inizi degli anni Settanta, complottò contro la rivoluzione curda dopo pochi anni di pace e prosperità nella regione del Kurdistan e in Iraq. Nel 1973 i rapporti curdo-iracheni stavano prendendo un’altra strada quando il regime baathista annunciò un fronte comune con il Partito comunista, più che altro per avversione nei confronti del Kdp. Quindi nel 1974 riprese la guerra tra il governo iracheno e i rivoluzionari curdi e questi ultimi capitolarono nel momento in cui l’Iraq strinse un’intesa con lo scià di Persia, il 6 marzo 1975, nota come gli Accordi di Algeri, con il supporto dell’Occidente, dell’Oriente e degli Stati Uniti. A Baghdad erano ormai rimasti pochi partiti minori senza una base forte all’interno della società curda; erano piuttosto considerati utili al regime iracheno per distruggere il movimento rivoluzionario curdo. 

In seguito alla fine della Rivoluzione di Mullah Mustafa, apparvero sulla scena molti partiti politici e movimenti armati curdi in opposizione al governo. Fino al 1975, il Kdp e Mullah Mustafa Barzani avevano controllato il panorama politico curdo, eppure in quel periodo riuscirono a emergere alcuni importanti partiti e leader che lui riuscì però sempre a marginalizzare rendendo il partito praticamente privo di opposizione. 

Quando Barzani intraprese una campagna militare contro Qasim la maggioranza delle tribù lo sostenne, così raccolse l’appoggio dei clan Balakayati e Pizhdar (utili perché più vicini all’Iran), ma all’interno della Rivoluzione, i capi delle tribù e dei clan erano in disaccordo sul potere e capitò che venissero eliminati attraverso veri e propri eccidi, come nel caso di Hamad Aghay Mergasori e dei suoi figli: i peshmerga più coraggiosi della Rivoluzione Aylul degli anni Sessanta furono uccisi da Barzani, timoroso che volessero prendere il controllo del partito.

I vari regimi iracheni cominciarono ad arruolare tribù e clan in funzione controrivoluzionaria, iniziando da quelli che avevano buone relazioni con Baghdad, in particolare nella zona di Dahuk. All’interno delle tribù e dei clan c’erano sempre state divisioni tra chi aveva sostenuto la rivoluzione e chi l’aveva avversata.

Tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta il regime di Saddam Hussein reclutò molte fragili tribù e clan curdi che controllava fomentando controversie tra di loro in modo che ricorressero all’appoggio del governo. Uno dei motivi per cui così tanti clan e tribù curdi si univano facilmente alle truppe irachene derivava dal fatto che il regime aveva drenato tutte le loro risorse per vivere. Il regime di Saddam aveva distrutto i villaggi e deportato i capitribù in riserve dove migliaia di persone non avevano lavoro. Saddam adottò questa raffinata strategia con l’intento innanzitutto di diminuire la forza dell’opposizione curda e in secondo luogo per fare sì che queste genti rimanessero leali al suo governo evitando di unirsi agli insorti.

Fine dello spirito di Aylul: la fenice curda risorge divisa

L’era successiva al Mullah Mustafa Barzani aprì le porte alla società curda e ai politici di diverse provenienze e ideologie. Nonostante la divisione dei partiti armati abbia portato a una lotta interna fratricida detta birakuji (“guerra civile”), tale diversità portò varie correnti nella politica e nel Movimento di liberazione curdo, dal maoismo all’islamismo.

Il più potente partito fondato da un gruppo di rivoluzionari curdi dentro e fuori dal paese dopo la Rivoluzione Aylul, avversario di Barzani, fu l’Unione patriottica del Kurdistan (Puk), guidato a Damasco dal futuro presidente iracheno Jalal Talabani. Una coalizione di marxisti-leninisti, maoisti e nazionalisti si riunirono con l’impegno preciso di combattere il regime baathista in Iraq e di sfidare l’arretratezza del tribalismo curdo, creando una società curda, socialista e democratica. Il nome specificava l’obiettivo “del diritto all’autodeterminazione del Kurdistan”, un’eredità del Movimento di liberazione curdo, che non intendeva chiedere solo l’autonomia per quella regione. Il Puk modificò anche la retorica del partito poiché si rivolse alla classe lavoratrice ispirandosi allo slogan marxista che invitava i lavoratori e gli oppressi a unirsi. La leadership di partito era giovane e proveniva da vari strati della società, anche con un alto grado di istruzione. Talabani era un leader pragmatico capace di tenere insieme i rivoluzionari più conservatori e i progressisti. Il Puk aveva principalmente tre anime: il Partito dei lavoratori del Kurdistan (Kzp), un gruppo marxista-leninista attivo fin dagli inizi degli anni Settanta; la Linea generale, l’ala che riuniva alcuni capitribù e i conservatori; e il Movimento socialista del Kurdistan. 

Ispirato al maoismo, il Puk era il partito ideologico per tutti, nonché una forza armata notevole, ma adeguò la sua ideologia nel tempo, assecondando le varie potenze internazionali, e da antimperialista e antisionista alla fine degli anni Ottanta si avvicinò alle forze statunitensi.

In seguito alla nascita del Puk (anti-Kdp e anti-Barzani, considerati entrambi “traditori e conservatori”), il Kdp – i cui seguaci erano stati espulsi in Iran e i cui leader, come Barzani, erano rifugiati negli Stati Uniti o in Europa – si riorganizzò nella speranza di costituire un’opposizione. Alcuni membri annunciarono in un incontro tenutosi a Berlino una leadership pro tempore di Serkrdayeti Kati o Qiyada Muwaqata durante la diaspora. 

Presto iniziarono i contrasti tra la leadership pro tempore e il Puk, come proseguimento della rivalità tra il fronte di Talabani/Ahmed e quello di Mullah Mustafa Barzani, un conflitto noto in curdo come Jalali-Mullahi, e presente ancora oggi. Fino al fallimento della Rivoluzione Aylul, la politica interna curda e le rivalità non furono mai violente e con il partito più forte, il Kdp, che deteneva il controllo della politica curda e del Movimento di liberazione curdo, sarebbe stato facile spegnere ogni dissenso. Comunque sia Kdp che Puk, come anche altri partiti, istituirono una propria forza armata e la politica interna curda si trasformò in una cruenta guerra civile costellata persino da massacri. Molti partiti curdi si frammentarono a causa delle interferenze da parte dei governi regionali e di quello centrale iracheno. Il primo scontro armato tra il Puk e il Kdp accadde nel 1978 a Hakkâridove alcuni leader del Puk persero la vita. Molti membri di questo partito furono uccisi durante gli scontri e nonostante il Kdp godesse del sostegno iraniano e il Puk di quello del regime di Hafiz al-Assad, il Puk non fu capace di trarne profitto a causa di questioni di confine. La forza del Puk infatti era concentrata sulle aree di confine con l’Iran a Sulaymaniyya e a nordest di Erbil, cosa che aveva reso difficile far giungere le armi dalla Siria. In quel periodo il Puk subì una spaccatura che si rivelò un vero disastro per il partito, anche se questo non bastò a indebolirlo. All’inizio degli anni Ottanta il Puk considerava impossibile una negoziazione con il regime per risolvere la questione curda in Iraq, ma in seguito ammorbidì la propria posizione e accettò di trattare un accordo in cambio dell’autonomia nella Kri. Il regime di Saddam si era indebolito a causa della guerra Iran-Iraq e, auspicando una tregua, invocò la pace con i curdi. I negoziati partirono ma furono di poco conto. La guerra tra il Puk e il regime iracheno questa volta risultò più sanguinaria: dopo un anno dall’interruzione dei negoziati, l’Iran era sempre più addentro alla questione curda ed era riuscito a portare tutti i partiti sotto l’ombrello del Fronte del Kurdistan (7 maggio 1988). Il Puk era il partito più potente tra gli otto del Fronte. 

Le tribù curde si erano suddivise tra Kdp e Puk ed erano state distribuite posizioni di potere e ad alto livello all’interno del partito e del governo; l’organizzazione in forma di partito era funzionale alla gestione delle questioni sociali e tribali e proprio per questo i due partiti sono sempre stati più forti degli organi giurisdizionali.

Talvolta i capitribù che avevano rifiutato il completo appoggio a un partito politico ne hanno pagato le estreme conseguenze: i partiti hanno sempre usato la retorica nazionalista per accusare qualche rivale di tradimento e giustificarne così l’esecuzione. Durante la guerra civile nel 1996 Masoud Barzani (del Kdp) accusò Hussein Agha Surchi, leader della tribù Surchi, di collaborare con Saddam e con il Puk; questa accusa emerse quando Barzani temette il rafforzamento del rivale. Alla fine, nel 1996, un manipolo del Kdp attaccò la sua casa uccidendo lui e parecchi suoi uomini. Questo spinse gli altri superstiti leader tribali e centinaia di Surchi a sostenere il Puk nella lotta contro il Kdp.

Il bottino del ladro di Baghdad: l’operazione Anfal di Saddam

Alla fine degli anni Settanta, i gruppi rivoluzionari curdi si erano riorganizzati. Il Puk, il Partito socialdemocratico, il Partito comunista, e diversi gruppi minori si unirono nella resistenza contro il regime iracheno che in risposta deportò popolazioni dalle montagne, distruggendo quasi 4000 villaggi che fornivano appoggio logistico, cibo, intelligence e braccia per la rivoluzione. Interruppe i collegamenti e bombardò le strade che portavano ai villaggi nella speranza di ostacolare la lotta armata. Durante la guerra Iran-Iraq il Kdp si avvicinò al regime iraniano, mossa che portò al coinvolgimento curdo nel conflitto. Nel 1983, il Kdp aiutò l’esercito iraniano a guadagnare terreno nella parte settentrionale dell’Iraq a Haji Omaran, dove l’Iraq aveva contrattaccato in modo disumano massacrando oltre 4000 persone della tribù Barzani, gente innocente che viveva nei campi di concentramento (fonti ufficiali curde parlano di 8000 vittime), deportata lì dai villaggi al tempo della resistenza e della rivolta, nella speranza di sterminarli. Questo massacro segnò l’inizio di una serie di stermini noto come Anfal (il bottino). Sebbene il Partito baath iracheno non fosse di matrice islamica, egli utilizzò il nome di un versetto del Corano noto come Anfal per giustificare i suoi crimini e il clima di terrore e per ingannare il mondo arabo e musulmano facendo credere che i curdi sostenessero gli sciiti iraniani. 

Nello sforzo sistematico di annientare la resistenza curda alla metà e alla fine degli anni Ottanta, il regime iracheno sotto la guida diretta di Ali Hassan al-Majid, noto come Ali il ‘Chimico’ in Kurdistan, dal 1987 al 1989 utilizzò tutti i mezzi possibili per terrorizzare e distruggere la resistenza curda e massacrò oltre 50 000 (fonti curde ufficiali dicono addirittura 182 000) uomini, donne e bambini innocenti, a Garmiyan. Vale la pena ricordare che i partiti curdi avrebbero dovuto evitare ogni coinvolgimento diretto con le forze iraniane perché sapevano per esperienza cosa Saddam sarebbe stato capace di fare, cioè massacrare anche i civili. Saddam Hussein avrebbe giustificato l’ostilità curda come un atto di lesa maestà. I partiti curdi avevano già sperimentato l’ostilità del regime, almeno avrebbero dovuto imparare la lezione o quantomeno tenere segreta la collaborazione. 

I crimini iracheni raggiunsero l’apice quando il 16 marzo 1988 fu attaccata la città di Halabja sul confine Iran-Iraq nella provincia di Sulaymaniyya. L’Iran avanzava sulla città con l’aiuto dei peshmerga curdi, per tutta risposta il regime iracheno commise il crimine più barbaro e orrido della storia dell’Iraq quando Ali Hassan al-Majid, d’accordo con Saddam Hussein, ordinò l’utilizzo di armi chimiche per avvelenare la gente di Halabja. In una sola ora 5000 uomini, donne e bambini innocenti morirono soffocati, lasciati soli nella città rasa al suolo; la maggior parte della popolazione dovette fuggire altrove nel paese o trovare rifugio in Iran, dove si dispersero molti bambini, alcuni dei quali, dopo essere stati adottati da famiglie iraniane, tornarono nella regione del Kurdistan. L’impatto dei gas velenosi sull’ambiente di Halabja è ancora presente oggi. 

Dopo la campagna Anfal, i rivoluzionari curdi vissero tempi bui perché la maggior parte dei villaggi fu distrutta e gran parte dei peshmerga furono uccisi o feriti; la guerra Iran-Iraq era finita dando al regime iracheno l’opportunità di affrontare i curdi in modo molto più efficace che se si fosse trattato di uno scontro esclusivamente tra i curdi e il raìs di Baghdad. 

Bagatelle per un genocidio: collaborazionismo Jash

I colpevoli dei bombardamenti chimici della campagna Anfal e di Halabja furono condotti davanti alle corti internazionali quando nel 2003 cadde il regime iracheno: alcuni criminali vennero protetti dal Kdp e dal Puk, altri scapparono all’estero. Gli eventi di Halabja e l’operazione Anfal sono stati riconosciuti come atti di genocidio dal Parlamento iracheno e dall’Alta Corte Penale irachena nel 2007. Il governo non aveva risarcito le vittime, né aveva porto le sue scuse ufficialmente. Nel frattempo i curdi avviarono una campagna internazionale per vedere riconosciuti i crimini del regime precedente come atti di genocidio che potenzialmente potevano incontrare la condanna di paesi come la Svezia, il Regno Unito, la Norvegia, la Corea del Sud e il Canada. Nel 2007 l’Alta Corte Penale ordinò indagini su 423 curdi e arabi iracheni ex baathisti sospettati di coinvolgimento nel genocidio dell’Anfal

Uno degli aspetti più tristi di questa campagna furono i baathisti curdi noti come la milizia Jash, traditori e mustashar (consulenti) collaborazionisti dell’esercito iracheno durante il genocidio. I capitribù curdi che collaboravano con le truppe irachene erano considerati traditori agli occhi dei rivoluzionari. Nonostante tutto, quando alla fine degli anni Ottanta si costituì il Fronte del Kurdistan, venne emanata un’amnistia per i leader e i membri della Jash nella speranza che appoggiassero l’insurrezione pianificata. Quando nel 1991 partì la rivolta, molti dei capi della Jash – cui era già stata concessa un’amnistia – voltarono le spalle al regime di Saddam Hussein, combattendo l’esercito iracheno e sostenendo i peshmerga, rivelandosi uno dei motivi del suo successo. Per quanto questa fosse una mossa vincente per i rivoltosi, presto i capi Jash ottennero nuove cariche e privilegi nei partiti curdi, soprattutto nel Kdp.

L’Alta Corte Penale processò i principali imputati dell’Anfal, Ali Hassan al-Majid fu impiccato nel gennaio 2010. L’ex comandante iracheno Sultan Hashim, uno dei principali comandanti della campagna che aveva persino dato il nome Anfal a sua figlia, fu condannato ma non giustiziato perché difeso dai sunniti: è in prigione, ma l’ex portavoce parlamentare iracheno Salim al-Juburi, che è un sunnita, ha provato a farlo rilasciare per anni, senza per ora riuscirci. 

Nel 2010, l’Alta Corte Penale emise dei mandati di cattura per 258 curdi membri del Partito baath per il loro coinvolgimento nell’infame campagna negli anni Ottanta, ma nessuno è stato ancora arrestato, a causa del sostegno tribale di cui Kdp e Puk possono beneficiare.

Alcuni dei capitribù collaborazionisti durante il genocidio erano rimasti a Baghdad fino al 2003. Alla caduta del regime si sono uniti al Kdp o al Puk. La lotta per il potere spinse i due partiti ad accogliere chiunque.

Per quanto i capitribù stessero perdendo poco per volta il loro potere dato che la nuova generazione e i nuovi movimenti civili e democratici cercavano di superare le politiche tribali, alle elezioni il Kdp e il Puk decisero di presentare figure tribali, in modo che le tribù si sarebbero schierate a sostegno dei loro candidati. Il Kdp ha ottenuto un largo successo nella tornata elettorale del 2013 a Dahuk, dove il partito elesse molte figure tribali perché i clan locali li sostennero.

Guerra e pace dopo Anfal…

Alcuni rivoluzionari curdi però non si scoraggiarono e proseguirono la loro attività: in quei giorni il Puk appariva come il partito più potente. Talabani era all’estero a fare proseliti per la causa curda in seguito al genocidio di Halabja e Nawshirwan Mustafa, all’epoca segretario dell’ala marxista e numero due del partito, riuscì a riorganizzare le forze peshmerga. Talabani fu molto efficace durante la sua permanenza negli Stati Uniti, soprattutto nell’incontro con gli ufficiali americani a Washington, fautori del peggioramento dei rapporti tra Usa e Iraq, durante il quale si stabilì un collegamento iniziale tra Puk e Stati Uniti. Kosrat Rasul, segretario generale del Puk giocò un ruolo fondamentale nella riorganizzazione dei peshmerga nella zona di Erbil. Inoltre il Kdp era meno presente nelle zone di confine e cercava anch’esso di riorganizzarsi attraverso il suo decimo Congresso in Iran in cui erano presenti oltre 300 membri del partito. 

… e di nuovo guerra: la rivolta che unisce. Kurdayetî

Il fallimento del Partito baath iracheno nella guerra Iran-Iraq spinse il regime a dichiarare una nuova guerra contro un vicino solo due anni più tardi: il Kuwait. Il paese fu invaso durante un’operazione di due giorni nell’agosto 1990 che portò a cambiamenti radicali nelle dinamiche della politica irachena: molte furono le sommosse nelle città del Sud a maggioranza sciita. E anche nella Kri, nel Nord dell’Iraq la popolazione iniziò a sollevarsi. Dapprima le sommosse erano architettate dal fronte curdo, in particolare dal Puk, sotto la guida di Nawshirwan Mustafa.

La rivolta scoppiò nel marzo 1991 nella città di Ranya per poi espandersi a Sulaymaniyya, Erbil, Dahuk e Kirkuk, fu uno dei maggiori successi del movimento Kurdayetî, e mostrò aspetti nascosti nel nazionalismo curdo quando il suo successo decretò l’inizio della sua fine: si trattava infatti di un movimento di liberazione e non di libertà, liberazione della terra e non libertà dell’uomo. Inoltre, il Kurdayetî era un movimento di lotta e resistenza, non prevedeva modalità alternative e fallì nel tentativo di portare un modello di vita e di governo diversi rispetto a quelli esistenti. Il Puk aveva promesso di «ricostruire e guidare la società curda secondo linee moderne e democratiche», ma aveva fallito. Inoltre, il Kdp non era mai andato oltre la sua struttura tribale. 

I curdi riuscirono a liberare quasi tutti i loro territori, ma presto furono cacciati da Kirkuk e si verificarono scontri feroci tra i pershmerga e l’esercito iracheno. Il 31 marzo 1991, l’esodo curdo verso i confini iraniani e turchi portò nelle zone limitrofe centinaia di migliaia di curdi terrorizzati dalla possibilità che il regime utilizzasse armi chimiche. Le vite di centinaia di migliaia di curdi erano in pericolo mortale, le strade bloccate, intere famiglie alla fame non avevano più acqua potabile e medicine e i neonati morivano di stenti, il freddo e la pioggia mettevano in pericolo la vita degli anziani nelle zone di montagna, molti perdevano la vita tornando verso i villaggi sui terreni minati e ci si poteva imbattere in cadaveri lungo le strade ai confini iraniani o turchi o in bambini sperduti di cui nessuno poteva prendersi cura. 

La rivolta curda del 5 marzo e l’esodo di massa, noto come Korraw, riunì il popolo e i partiti già furiosi per il sanguinoso antagonismo seguito al fallimento della Rivoluzione Aylul. 

Risoluzione Onu 688. La No-fly Zone

Per la prima volta, le Nazioni Unite presero una decisione importante in favore dei curdi iracheni: la Risoluzione 688 del Consiglio di Sicurezza dell’Onu. Grazie alla comunità internazionale che reagì all’esodo di massa fornendo una No-fly Zone per proteggere i profughi dall’ostilità del regime iracheno istigata dagli Stati Uniti, l’Inghilterra e la Francia (quest’ultima si ritirò nel 1998) assicurarono il controllo curdo su tre province: Dahuk, Erbil e Sulaymaniyya. La Risoluzione 688 fu adottata su richiesta di Francia, Iran e Turchia per mettere fine alla repressione nel Kurdistan iracheno e la No-fly Zone diventò operativa perché Saddam Hussein non si attenne mai alle indicazioni dell’Onu. 

La Risoluzione fu una delle più importanti a influenzare il futuro dei curdi in Iraq e portò alla No-fly Zone, anche se nel programma non se ne faceva menzione esplicita: «Si condanna la repressione della popolazione civile curda in molte zone dell’Iraq, comprese molte aree popolate recentemente dai curdi, con conseguente minaccia della pace e della sicurezza internazionale nella regione» e «si richiede al Segretario generale di perseguire sforzi umanitari in Iraq per agire prontamente – in caso si ritenga appropriato, con una ulteriore missione nella regione – sulla questione che riguarda la popolazione civile irachena, in particolare quella curda, che subisce repressione in tutte le sue forme da parte delle autorità irachene»; e inoltre: «Si richiede all’Iraq, come contributo per rimuovere la minaccia alla pace internazionale e alla sicurezza della regione, di porre fine immediatamente alla repressione, e allo stesso tempo si auspica una ripresa del dialogo per assicurare che i diritti umani e politici dei cittadini iracheni siano rispettati».

Nuove speranze per il nuovo Kurdistan 

Dopo la Risoluzione dell’Onu e l’istituzione della No-fly Zone, il nazionalismo e la politica curda entrarono in una fase in cui le speranze per un nuovo Kurdistan e una nuova società arrivarono al culmine. Dato che i curdi per la prima volta godevano di una parentesi di pace gli intellettuali iniziarono a tenere seminari e convegni in cui si discuteva di democrazia e la società civile si organizzò. Celebrazioni e festeggiamenti si tenevano ovunque così come discussioni e dibattiti sul futuro della Regione del Kurdistan. I media curdi iniziarono a spuntare come funghi; si tenevano marce e dimostrazioni a sostegno dei partiti politici, e si organizzavano scioperi e proteste. Gruppi di lavoratori, contadini, studenti e intellettuali iniziarono a strutturare la società civile, dando vita a comuni in cui si risolvevano questioni sociali, politiche ed economiche, comprese quelle relative alla sicurezza. Fondi della comunità internazionale giungevano nella regione, migliaia di persone deportate alla fine degli anni Settanta e a metà degli Ottanta ritornarono nelle proprie terre d’origine. Migliaia di villaggi furono ricostruiti e la gente tornò a coltivare nelle zone in cui era proibito da anni. Molta gente che si era rifugiata in Iran dopo il fallimento della Rivoluzione Aylul tornò nella Kri. Insegnanti volontari aprirono scuole e per la prima volta quasi tutti gli istituti tornarono a insegnare ai bambini in lingua curda. Riaprì l’università di Salahaddin. Grazie a un movimento senza precedenti furono fondate le università di Sulaymaniyya e Dahuk. Poco dopo il successo della Rivolta, nella Regione del Kurdistan per la prima volta si tennero delle elezioni e – anche se con qualche limite – queste portarono alla fondazione del primo parlamento e governo del Kurdistan. Questi momenti pieni di speranza vennero presto scippati dal Kdp e dal Puk quando iniziarono a fare razzia dei progetti del vecchio regime, come accadde per la diga di Bekhme, il grande progetto per l’energia idrica, in costruzione quando l’amministrazione irachena si ritirò dalla Regione. Purtroppo molta gente comune si unì al saccheggio. Il Kdp e il Puk fermarono la ricostruzione, l’attrezzatura elettrica e industriale fu inviata in Iran e Turchia, svenduta a prezzi scontati, e questo permise loro di mantenere il controllo dell’energia. 

1992, le prime elezioni libere per il parlamento curdo 

Nonostante i suoi limiti e gli oppositori dei valori della rivoluzione da parte dei due principali partiti all’inizio degli anni Novanta, alcune storiche conquiste diedero inizio a un nuovo corso storico. Per la prima volta dopo decenni di guerra, il popolo curdo stabilì il primo governo autonomo e un parlamento. Dopo aver superato alcune sfide, i partiti confluiti nel Fronte del Kurdistan iracheno (Ikf) raggiunsero un accordo sulla data delle elezioni del parlamento che si tennero il 19 maggio 1992, giorno in cui le coalizioni e le varie liste elettorali gareggiarono per superare la soglia del 7 per cento ed entrare nel parlamento curdo. Si trattava comunque della prima esperienza democratica dopo anni di oppressione e repressione: era prevedibile che si verificassero dei brogli. Le elezioni erano comunque una novità, non solo per l’Iraq, ma per molti paesi della regione. La prima esperienza di democrazia in una società postbellica tra conflitti e rivolte costituiva una vittoria in sé.

Il Puk era il favorito perché era il partito più forte con una milizia efficiente e una base sociale organizzata, ma fu il Kdp a vincere le elezioni. Le frodi elettorali riguardavano entrambi i partiti. A parte il Kdp (45,3% e 51 seggi) e il Puk (43,8% e 49 seggi), nessuno degli altri partiti politici riuscì a superare lo sbarramento, anche se si era previsto che fosse alla portata del Movimento islamico curdo (Kim, noto come Bizutnewe, 5,1%) e del Partito socialista curdo (2,6%); il Partito comunista del Kurdistan (2,2%) e il Partito popolare democratico del Kurdistan (1,0%) completarono la débâcle democratica.

Il Puk contestò i risultati accusando il Kdp di aver manipolato i voti, reato che ovviamente avevano commesso entrambi. Alla fine i due partiti si misero d’accordo per dividersi i seggi e le cariche parlamentari equamente. Stranamente il primo parlamento e il primo governo curdi erano composti solo da dirigenti del Kdp e del Puk e soprattutto da coloro che non avevano esperienza di governo perché avevano passato la loro esistenza a combattere contro il regime sulle montagne. Il portavoce parlamentare fu assegnato al Kdp e il primo ministro al Puk. 

Jawhar Namiq Salim, il Segretario dell’Ufficio politico del Kdp, fu eletto il 4 giugno 1992 portavoce del Parlamento curdo e Fuad Masum, membro del Consiglio direttivo del Puk, divenne primo ministro del Kurdistan. Dopo un anno, il Puk rimpiazzò Fuad Masum con Kosrat Rasul Ali; Fuad Masum è stato presidente dell’Iraq fino all’ottobre 2018 e Kosrat Rasul Ali è l’ex vicepresidente della Regione del Kurdistan facente funzione di segretario generale del Puk. Il Puk si attivò per rinsaldare ulteriormente la sua forza militare mentre Rasul era un capo peshmerga senza esperienza di governo.

Guerra civile sanguinosa: tutti contro tutti e una mano lava l’altra 

La prima decisione del Parlamento curdo che improntò al peggio la politica curda fu quella che incoraggiò la Turchia a combattere il Partito curdo dei lavoratori (Pkk) nell’ottobre 1993. Il Pkk aveva incominciato ad aprire sedi in molte città curde, soprattutto a Erbil. Possedeva mezzi di comunicazione molto efficaci e una classe dirigente cresciuta nell’ideologia di Öcalan, a differenza di quelle del Kdp e del Puk che non seguivano un’ideologia specifica. I giovani curdi seguaci del Pkk avevano fatto sì che Kdp e Puk temessero un aumento di consenso per il movimento di Öcalan. D’altro canto, la guerra tra Pkk e Turchia era al culmine e quest’ultima era a caccia dei membri del Pkk in tutto il mondo. Il neonato governo regionale del Kurdistan (Krg) era molto vulnerabile ed economicamente, militarmente e politicamente debole; la Turchia e l’Iran trassero ulteriore vantaggio dai due partiti principali perché temevano che la fondazione della Kri potesse fungere da ispirazione per i fratelli curdi in cerca di autonomia che abitavano nei loro territori. La fondazione della Kri e il ritiro dell’amministrazione curda da Erbil, Dahuk e Sulaymaniyya aprì le porte all’interferenza turca e iraniana nella politica curda e spostò l’attenzione dai campi di battaglia alla lotta contro i gruppi dell’opposizione in Iran e Turchia, al contrario di quanto accadeva durante il regime di Saddam Hussein, il quale stava sostenendo i partiti di opposizione curdo-iraniani, non il Pkk, perché tra quest’ultimo e il regime di Hafiz al-Assad correva buon sangue finché, come visto, il leader del Pkk non fu messo alla porta dal regime di Damasco. 

Vale la pena menzionare che con l’istituzione della Federazione per la regione curda dell’Iraq si sperava di attirare il consenso dei curdi presenti in altre regioni, e così i curdi iraniani furono obbligati a deporre le armi e stabilirsi in campi residenziali all’interno della Kri. A partire dal 1991 fino a oggi, centinaia di membri e dirigenti dell’opposizione curdo-iraniana sono stati assassinati all’interno della Kri dal regime iraniano, come ricordato nell’Introduzione. 

I partiti curdi iraniani furono estremamente influenzati dai cambiamenti nelle dinamiche e nella politica della regione. Durante la guerra Iran-Iraq (1982-1988), i partiti curdi beneficiarono dell’ostilità tra i due paesi, avvantaggiandosi della guerra per costruire solidi legami con l’ex regime baathista in Iraq. Non solo, ma operarono liberamente sulle zone di confine stabilendo lì le proprie basi. Partiti e leadership avevano anche sedi e campi militari all’interno delle città irachene. Quando la guerra finì la situazione si aggravò per i partiti curdo-iraniani a causa dell’allentarsi del sostegno iracheno. Nel frattempo, l’avvicinamento promosso dalla Kri dei curdi iracheni divenne una minaccia incombente sui curdi d’Iran. 

Il Kdpi e altre forze politiche curde si ritirarono, forse è più preciso dire che furono forzate a farlo, dalle montagne sul confine Iran-Iraq (principalmente nelle zone ora sotto il controllo del Pkk) per poi essere ricollocate in vari campi di residenza a Erbil e Sulaymaniyya. Accettarono di deporre le armi perché l’Iran minacciò il Governo regionale del Kurdistan iracheno di prendere provvedimenti contro i due partiti nella Kri. Per fare pressione sia sui curdi iracheni sia sui partiti curdi iraniani, l’Iran condusse una campagna repressiva per eliminare gli attivisti politici e i quadri di partito. I partiti curdi iraniani non ebbero scelta e deposero le armi. Sebbene non tutti fossero d’accordo i membri di questi partiti lo fecero e si rifugiarono nei campi di residenza nel Kurdistan iracheno, e chiamarono questa ritirata kempnišîniî, che letteralmente significa “residenza nei campi”.

Era l’inizio della fine della lotta armata che portò al distacco dalla lotta organizzata in Iran e allo sviluppo ideologico. Da allora, i partiti curdi iraniani furono spazzati via dalla lotta armata, da quella diplomatica, organizzata e ideologica contro la repubblica islamica dell’Iran. Il periodo dei kempnišîniî iniziò nel 1993 e continua ancora oggi, ed è considerato dai curdi di quell’area il peggiore nella storia della zona iraniana del Kurdistan, come vedremo nell’ultima parte del volume. Inoltre, il Puk stava tentando di guadagnarsi l’aiuto di Teheran che lo portò a sostenere l’attacco iraniano agli insediamenti del Kdpi a Koya il 29 luglio 1996. Si trattava dell’inizio del cambiamento delle alleanze regionali per il Kdp e il Puk, che si stava sempre più avvicinando all’Iran, mentre il Kdp propendeva per Iraq e Turchia. Le strategie geopolitiche di Sulaymaniyya portarono il Puk all’interno del blocco iraniano e quelle di Erbil e Dahuk avvicinarono il Kdp alla Turchia. Come allora l’Iran è tornato a colpire il 7 settembre 2018 il Kdpi a Koya, uccidendo 15 esponenti, così perseguendo lo stesso scopo di eliminazione fisica, ma stavolta Turchia e Iran non sono contrapposti. 

Man mano che il legame si indeboliva, progressivamente i partiti curdi iraniani dipendevano sempre più dai curdi iracheni, fino a seguire gli interessi di questi ultimi: il Partito per la libertà del Kurdistan (Pak), fondato nel 1991 e guidato da Hussein Yazdanpana, pareva più un’unità affiliata a Masoud Barzani piuttosto che un partito che combatteva per i diritti dei curdi in Iran. 

Il Kdp e il Puk subivano la pressione dell’Iran per forzare i partiti di opposizione curdo-iraniani a deporre le armi, e in seguito furono incoraggiati dalla Turchia a combattere il Pkk. Data la sua forza e l’esistenza di alcune sedi nella Kri, e i dirigenti che lavoravano all’interno della Federazione (essendo quindi cittadini della Regione del Kurdistan iracheno), il Pkk rifiutò di cedere alle richieste delle due fazioni irachene. All’inizio Talabani aveva giocato un ruolo fondamentale per avviare i primi contatti tra il Pkk e il primo ministro turco Turgut Özal che fu il primo a riconoscere pubblicamente l’esistenza dei curdi dopo la fondazione della repubblica turca – come detto nella parte del volume dedicata ai curdi di Turchia. 

Talabani era in buoni rapporti con Öcalan, che allora viveva a Damasco, e aveva convinto Özal a intavolare negoziati di pace con i curdi. Per la prima volta nella storia della guerra tra Turchia e Pkk, quest’ultimo annunciò un cessate il fuoco alcuni giorni prima della morte di Özal. Talabani aveva detto a Öcalan che il primo ministro turco era davvero intenzionato a risolvere la questione curda, anche se non era riuscito a convincere lo stato, l’esercito e persino il partito di proseguire nel processo di pace. 

La Turchia sostenne la coalizione guidata dagli Stati Uniti per utilizzare la base di İncirlik per colpire l’Iraq, nella speranza che i curdi iracheni non stabilissero un governo proprio, temendo una divisione dell’Iraq o il desiderio di autonomia dei curdi turchi. Intanto Ankara teneva d’occhio Mosul, visto che la considerava parte dell’Impero Ottomano. Allo stesso modo l’Iran era interessato all’Iraq e a qualsiasi forza in grado di indebolire il potere del suo storico nemico, inoltre Teheran riteneva che i curdi iracheni non dovevano spingersi oltre il governo locale, ai fini del mantenimento dell’integrità dello stato iracheno e dei suoi confini, aspetto così importante per un paese sciita che ha a sua volta una minoranza curda. 

Il neonato Governo regionale del Kurdistan iracheno non riuscì ad aprire a tutti e la sua vulnerabilità diede una mano ai partiti a consolidare ancora di più il loro potere. La lotta per il potere tra i partiti curdi stava portando la Regione del Kurdistan verso un futuro oscuro. Ogni partito aveva la sua forza militare, e tentava di consolidare il potere attraverso il finanziamento della propria milizia con mezzi illegali, o ricevendo fondi regionali, cioè dalla Turchia, dall’Iran e dai paesi sunniti del Golfo. Il tentativo non riuscito della Krg di formare un esercito peshmerga unico, rafforzò le milizie che divennero più forti della polizia regionale.

Sebbene il segretario del Puk, il generale Jalal Talabani, avesse annunciato molte volte che i conflitti interni curdi sarebbero finiti e non ci sarebbero più state lotte fratricide, il 20 dicembre 1993, iniziò un’altra fase della guerra civile curda tra il Puk e il Movimento islamico curdo (Kim). Il Puk si considerava il partito legittimo per governare la Kri grazie alla sua potente forza militare e al fatto che aveva organizzato la rivolta che portò alla liberazione della Kri. Comunque, la lotta interna tra Puk e Kim indebolì il primo mentre il secondo fu obbligato ad allearsi con il Kdp in previsione di conflitti futuri. Poiché il Kim era molto più piccolo del Puk questa volta la guerra civile non si estese a tutta la Kri. 

Il Primo Maggio 1994 scoppiò la prima ondata di guerra civile curda con uno scontro tra Kdp e Puk; questi due partiti storicamente si erano sempre combattuti e avevano lottato anche prima del 1991 per il controllo del Movimento di liberazione curdo: ideologicamente lontani, il più profondo motivo di disaccordo successivo al 1991 fu il controllo delle risorse, in special modo le entrate del passaggio di frontiera di Ibrahim Khalil con la Turchia. Il Kdp aveva scelto Dahuk come roccaforte per molte ragioni, e dato che la famiglia di Barzani era di dialetto bahdinai, essi trovarono supporto proprio qui; il presidio del Puk era invece, per altrettante buone ragioni, Sulaymaniyya, dove si parlava il dialetto sorani, la lingua di Talabani. Nella storia moderna questa divisione appartiene ai giorni del conflitto tra l’ala di Talabani e Ibrahim Ahmad nell’Ufficio politico del Kdp e quella di Mullah Mustafa Barzani nella Rivoluzione Aylul. 

Questa lotta interna fu sanguinosa, morirono molte persone e molti furono i feriti, migliaia gli sfollati. La prima fase si compì il 29 agosto 1994 ma la faccenda non finì lì perché la questione non era ideologica ma piuttosto un tentativo di egemonizzare la società curda, il suo popolo e la sua economia. 

Delirio egemonico, divisione amministrativa e controllo straniero

La scissione del 1996: scontro tra clan

Nel dicembre 1994 riprese lo scontro Puk/Kdp e raggiunse il suo picco il 31 agosto 1996 quando il Kdp ricorse a Saddam per riprendersi Erbil dopo che il Puk l’aveva cacciato dalla città; il Puk era ormai vicino alla vittoria ed era subentrato al Kdp pochi giorni prima e allora Barzani stipulò un accordo segreto con il regime iracheno. Fu l’inizio di una nuova epoca storica nella politica curda e fino a oggi la Kri non è riuscita ancora a guarire dalle ferite di quei giorni. Da allora il Kdp si considera l’unico potere presente nella Kri.

Il 31 agosto 1996 si verificò infatti la prima vera scissione nella storia dei curdi, secondo una suddivisione che seguiva quella dei paesi della regione, e dopo quella data qualsiasi evento della politica curda che in passato si sarebbe cercato di evitare divenne la normalità; formare un’alleanza con il regime baathista che aveva commesso le atrocità del genocidio solo otto anni prima può essere considerato l’atto più vergognoso della storia curda. 

L’agosto 1996 cambiò le dinamiche politiche e gli equilibri della Kri; il Kdp spinse il Puk in Iran e questi dopo 40 giorni ritornò, ma senza riuscire a riprendersi Erbil a causa di pressioni esterne. La capitale della Kri, Erbil, passò sotto il controllo del Kdp e Sulaymaniyya cadde sotto l’ala del Puk. La Kri era così divisa amministrativamente in due: il governo Krg-Sulaymaniyya e quello Krg – Erbil e Dahuk. 

Gli scontri tra Kdp e Puk si fermarono, e ripresero quelli tra Puk e Kim a Halabja nell’aprile 1997 finché l’Iran trovò un accordo tra le parti, il Kim si unì al Puk nel governo di Sulaymaniyya e venne cacciato da quello di Erbil. 

Nonostante l’interruzione delle ostilità, non era stato raggiunto un vero accordo. Il Puk e il Pkk si organizzarono insieme per attaccare il Kdp nell’ottobre 1997 e questa volta, insieme, erano abbastanza forti da sconfiggerlo, mentre il Kdp sfruttò l’alleanza dei suoi nemici per invitare la Turchia ad attaccarli: il Kdp, aiutato dall’esercito, dall’aviazione e dai carri armati turchi riuscì a sconfiggere il Puk. 

Arrivano gli yankee 

Nel settembre 1998 il Congresso degli Stati Uniti varò l’Atto di liberazione dell’Iraq che dichiara «dovrebbe essere compito degli Stati Uniti cercare di rimuovere il regime di Saddam Hussein dal potere in Iraq e rimpiazzarlo con un governo democratico» e «autorizza il presidente, dopo la ratifica dei comitati preposti, a fornire alle organizzazioni dell’opposizione democratica irachena: 1) assistenza radiofonica e televisiva; 2) il dipartimento della Difesa (Dod) volto a garantire attrezzature e servizi e un’educazione e un addestramento militare (Imet); e 3) assistenza sanitaria, con particolare attenzione ai bisogni delle persone che siano confluite nei territori sotto il controllo del regime di Saddam Hussein. Inoltre proibisce il sostegno a qualsiasi gruppo o organizzazione che sia impegnata in una collaborazione militare con il regime e autorizza stanziamenti». 

L’Atto di liberazione dell’Iraq spinse gli Stati Uniti a cercare gli attori della politica locale, e i più importanti erano i curdi (per via delle zone da loro liberate dalle milizie) e all’interno dei curdi, il Kdp e il Puk, che stavano perdendo energie in lotte intestine e scontri per il potere. Gli Stati Uniti tentarono una mediazione tra i due partiti e invitarono Barzani e Talabani a firmare gli Accordi di Washington. Vedendo la segretaria di stato Madeleine Albright presentare i due leader mentre si stringevano la mano sorridenti le speranze dei curdi rinacquero. Inoltre, nel 1996 era stato varato l’Oil-for-Food Program delle Nazioni Unite e i primi invii di derrate erano giunti nel marzo 1997, l’anno seguente il livello della qualità della vita era quindi ormai quasi normale. Il Kdp e il Puk ricevettero finanziamenti dagli Stati Uniti, perciò abbandonarono la rivalità per combattere non più solo per i propri interessi e gli Accordi di Washington permettevano di condividere potere e entrate economiche. Con il fine di destituire il regime iracheno, gli Stati Uniti entrarono sempre più nella politica curda in modo tale da spostare l’attenzione sull’Iraq e meno sulle lotte interne curde, quelle che invece stavano fornendo opportunità alla Turchia, all’Iraq e all’Iran di sfruttare i partiti curdi e indebolire le strategie statunitensi in Iraq.

La “discrezione” turca nella regione

La Peace monitoring force (Pmf), un contingente guidato dalla Turchia, promuoveva una tregua tra Kdp e Puk fin dal 1997, guadagnandosi nel tempo un’opportunità di rinforzare la sua influenza nella regione curda. Per la Turchia il controllo di quell’area era strategico al fine di indebolire il Pkk. Sebbene il Pmf fosse solo una forza di osservazione fungeva anche da agente turco nella Kri e lasciò l’area subito dopo la caduta del regime iracheno mentre l’esercito turco vi si insediava, in particolare nella zona controllata dal Kdp; da Zakho a Soran, l’intera catena montuosa al confine con Iran e Turchia era sotto il controllo del Pkk. Il dispiegamento di forze turche non si fermò e attualmente sono presenti una ventina di basi militari nei territori del Kurdistan controllati dal Kdp. Mentre mandiamo in stampa il volume gli scontri nell’area montagnosa di Bradost continuano in particolare sul monte Chyadel a ridosso del confine tra Iraq, Iran e Turchia.

Le lotte intestine tra Kdp e Puk terminarono e il Puk attraversò un momento di cambiamento. Il Kim si divise in due fazioni, un gruppo islamico radicale noto come Ansar al-Islam stabilì la sua base nella zona di Hawraman e il 5 dicembre 2001 gli scontri raggiunsero il culmine; nel 2003 gli Stati Uniti eliminarono questo gruppo durante il processo di liberazione/invasione dell’Iraq. 

Nel 2002 il Puk iniziò a normalizzare i rapporti con la Turchia permettendole di manipolarlo incoraggiando lo scontro con il Pkk. Le ostilità tra Pkk e Puk durarono settimane fino a che il Pkk si ritirò dopo una importante sconfitta ma a quel punto la Turchia non aveva più motivo di fornire il suo sostegno al Puk perché la zona sotto il suo controllo non era strategica per lei, mentre il Kdp costituiva un alleato più affidabile. 

Secondo fonti non ufficiali, durante la Guerra civile degli anni Novanta scomparvero 400 persone, molti prigionieri di guerra furono giustiziati e le perdite furono circa 12 000 su ambo i fronti, e migliaia i profughi, alcuni dei quali sono riusciti a rientrare nelle loro terre d’origine solo ultimamente. 

L’intervento della coalizione in Iraq e lo sviluppo della regione curda

Nel 2002, gli Stati Uniti avevano deciso che il regime iracheno doveva cadere e avevano bisogno dei partiti curdi, che giocavano un ruolo essenziale nell’opposizione al regime in Iraq, possedendo forti milizie e controllando i territori. La rivalità tra i due partiti non si era ancora spenta e il parlamento curdo non si era ancora reinsediato come prescrivevano gli Accordi di Washington. È interessante notare come gli Stati Uniti spingessero entrambe le parti verso una negoziazione che iniziò ai primi di settembre 2002 proprio con la mediazione americana. Un mese dopo, il 4 ottobre 2002, il parlamento curdo tenne la sua prima seduta dopo diversi anni di inattività. 

I curdi diedero il loro contributo nella ricostruzione dell’Iraq e i partiti curdi evitarono ogni divisione settaria mantenendo l’equilibrio tra sunniti e sciiti, aspetto che fornì un ruolo chiave alla leadership curda, in particolare a Talabani, che si rese mediatore dei vari conflitti interni iracheni. Il negoziato tra i gruppi dell’opposizione si concluse positivamente e guadagnò il consenso del sistema federale iracheno. Gli Stati Uniti installarono la Coalition Provisional Authority nel 2003 in seguito alla Fondazione del Consiglio di governo iracheno che avvenne nello stesso anno. I capi di governo si alternavano tra i vari leader iracheni, due dei quali curdi: Jalal Talabani e Masoud Barzani. Il Governo regionale del Kurdistan iracheno (Krg) fu riconosciuto come entità federale. 

In occasione delle elezioni del 2005, i partiti curdi si presentarono per entrare in parlamento con una lista congiunta che si guadagnò 75 seggi su 275. Si tennero anche le elezioni nella Kri e la coalizione Puk-Kdp prese il 90 per cento dei voti, con 104 seggi su 111.

La Regione del Kurdistan iniziò a svilupparsi nel 2003, grazie ai miliardi del petrolio iracheno e agli stanziamenti internazionali, acquistò stabilità mentre le città irachene tendevano all’instabilità. 

Gli Stati Uniti tenevano in gran conto la Kri per diversi motivi; la Regione del Kurdistan era l’unica zona stabile in Iraq in cui i soldati americani venivano accolti calorosamente e non a suon di pallottole, i media internazionali mostravano che la caduta del regime era importante: i curdi del Nord dell’Iraq dopo anni di oppressione stavano sviluppando la loro democrazia che avrebbe potuto fare da modello per l’intera regione. Gli Stati Uniti avevano bisogno dei partiti curdi per controbilanciare l’influenza iraniana a Baghdad, la Kri divenne un luogo sicuro per le missioni americane e i curdi erano abili a mediare le rivalità irachene tanto che i primi ministri iracheni avevano bisogno dell’avallo curdo, e dopo tutto, si supponeva che la Kri possedesse una riserva di barili di petrolio per 45 miliardi e 8000-10 000 miliardi di metri cubi di gas naturale: questi numeri ponevano la Kri all’ottavo posto nella classifica delle riserve mondiali di petrolio e gas naturale. Gli Stati Uniti dovettero confrontarsi con la resistenza di diversi gruppi iracheni, tra cui le forze sciite, ma la Kri sosteneva in ogni modo gli americani per rafforzare il legame che li univa. 

Nel 2006, le amministrazioni di Sulaymaniyya ed Erbil si unirono dando luogo a un nuovo Krg, e oltre al governo esistente la regione curda diede vita alla Presidenza della Regione del Kurdistan. Il Kdp e il Puk si spartirono equamente Erbil e Baghdad, e mentre Jalal Talabani divenne il presidente iracheno, Masoud Barzani governò l’entità politica regionale curda; i primi ministri si sarebbero alternati ogni due anni tra di loro secondo il cosiddetto Accordo Strategico firmato nel 2005, un’estensione degli Accordi di Washington. La condivisione del potere tra Kdp e Puk rese i due partiti più forti agli occhi del popolo, ora che avevano deciso di guidare l’Iraq insieme e di partecipare alle elezioni nella Kri con liste congiunte che, in assenza di un vero partito di opposizione, avrebbero vinto con la maggioranza dei voti. 

Dal 1993 al 2003, la Kri attraversò un periodo di blocco internazionale, un blocco dell’Iraq, una guerra civile, una divisione dei territori, e il 2003 segnò l’inizio di un nuovo periodo storico per la società curda, per i movimenti civili, i media, l’istruzione, la crescita economica e dopotutto anche per le trivellazioni, la produzione e l’esportazione del petrolio e del gas che cambiò il corso della storia curda. 

Dopo il 2003: Proteste, riforme mancate e repressione

Tra il 2003 e il 2009 i media liberi curdi erano diventati potenti, la società civile in questo periodo fu molto incisiva. I tre mezzi di comunicazione indipendenti nella Kri – i quotidiani “Hawlati”, “Awene” e “Lvin” – insieme a pochi altri, mettevano alla prova la politica, la storia e il governo curdi. Le proteste studentesche durante questo periodo si susseguirono ad altre in cui i dimostranti chiedevano democrazia, servizi pubblici, giustizia e l’eliminazione della corruzione. Sfortunatamente, il Kdp e il Puk sedarono ogni protesta, facendo vittime. E l’influenza dei media liberi era così forte da arrivare all’omicidio dei giornalisti Soran Mama Hama, nel 2007 a Kirkuk, Sardasht Othman nel 2010 a Erbil, Kawa Garmyani nel 2013 a Kalar, e Wedat Hussein a Dahuk nel 2016. 

Nel 2006 il deputato della Segreteria generale del Puk Nawshirwan Mustafa diede le dimissioni quando il Puk non rese effettive le riforme politiche, economiche, militari, della comunicazione e delle relazioni internazionali per cui Mustafa lottava. Fondò così la Wusha (World Publishing Corporation), un giornale, e la Tv satellitare Knn. Il 25 luglio 2009, Nawshirwan Mustafa annunciò la fondazione del suo Movimento del cambiamento (Gorran) come lista elettorale in corsa per le elezioni e vinse 25 seggi su 111 nel Parlamento curdo, conferendo maggiori speranze di democratizzazione. 

Le aspettative della gente erano molto alte, e mentre la Krg stava guidando il paese verso un modello di stato autoritario petrolifero simile agli Emirati, i due partiti di governo controllavano ogni cosa: dalle moschee ai pozzi di petrolio, c’era chi si chiedeva se mantenere l’opposizione interna al sistema o scendere in piazza. Il 2011 vide la nascita della Primavera araba e la società curda aveva già assistito a diverse proteste. Il 17 febbraio 2011, i dimostranti curdi si riunirono a Sulaymanyya in sostegno alla rivoluzione egiziana. Ben presto tutto questo si trasformò in una protesta contro l’élite al potere e chiedeva un rinnovamento del sistema politico. Nel giro di 64 giorni, ci furono 10 morti e 500 feriti, centinaia di persone furono rapite e torturare nelle prigioni di Kdp e Puk. 

I due partiti governativi sconfissero ogni opposizione e i media internazionali, i paesi europei e gli Stati Uniti chiusero un occhio perché la Kri costituiva ancora un avamposto stabile in Iraq quando non erano ancora chiari gli sviluppi della Primavera araba. Turchia e Iran avevano anche sviluppato il proprio legame economico e politico con il Kdp e il Puk e un cambiamento di governo non avrebbe giovato ai loro interessi; il governo iracheno si era disfatto dei dimostranti curdi che non ebbero altra alternativa che sospendere le proteste. 

Frags tratti da Curdi, a cura di Antonella Di Biasi, con i contributi di Giovanni Caputo, Kamal Chomani e Nicola Pedde, Torino, Rosenberg & Sellier, 2018, disponibile in libreria e su tutte le principali piattaforme online.

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Sykes-Picot, la madre di tutti i confini. Il tratto di penna che inventò il Medio Oriente https://ogzero.org/unita-minima-1/ Wed, 25 Mar 2020 14:47:19 +0000 http://ogzero.org/?p=14 riassunto

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Thomas Edward Lawrence, meglio noto come Lawrence d’Arabia e il generale Allenby che guidava la conquista del mondo arabo, erano di casa nel vecchio palazzo di Rabbah Effendi al-Husseini, a Gerusalemme. Il funzionario dell’Impero Ottomano l’aveva edificato per ospitare le sue quattro mogli ed era già passato in mano a una famiglia di pellegrini cristiani imparentati, tra l’altro, con Gertrude Bell, archeologa, agente segreto e, diciamo, “consigliere diplomatico” nota per aver aiutato Londra a fondare lo stato moderno dell’Iraq, una delle tante fette della torta-impero da spartire. Oggi, l’American Colony Hotel, albergo di lusso e insieme museo, è nella parte militarmente occupata da Israele e che i palestinesi vorrebbero come capitale del loro stato indipendente. Nei suoi saloni, tra un tè o un bicchiere di vino continuano a riunirsi diplomatici e giornalisti di mezzo mondo alla ricerca di una pace sempre più distante. L’enigmatico Lawrence vi si troverebbe a casa oggi come allora quando a guerra finita si era rinchiuso in se stesso, frustrato per essere stato ingannato dai suoi superiori. Lui, tra un caffè e un tè sotto le tende di sceriffi e altri capi beduini, aveva promesso l’Arabia agli arabi. E impiegò molto per rendersi conto che Londra e le altre potenze coloniali avevano progetti molto meno nobili come ci raccontò, poi, nel suo I sette pilastri della saggezza, che David Lean e Peter O’Toole portarono sul grande schermo con il loro straordinario colossal.

Metafora e parabola e interpretazioni contrastanti dei fatti sono di casa nei luoghi della Bibbia, del Nuovo testamento e del Corano. Da ciò che siamo abituati a chiamare Terra Santa alle sabbie mobili dell’Arabia; dalla Mecca a Gerusalemme. Le antiche mura di Saladino racchiudono una “città vecchia” intrisa di miti, storia contestata e sogni. Meno di un chilometro quadrato diviso in quattro quartieri: ebraico, armeno, musulmano, cristiano. Là come altrove, sinagoghe, chiese e moschee nate e cresciute attorno al medesimo concetto di dio vengono usate, oggi come in passato, per segnare il territorio, ma sono le penne, vere o metaforiche, le armi dei conquistatori. La carta del Vicino Oriente, come l’abbiamo conosciuto negli ultimi cento anni, è il risultato delle spoglie di molte guerre e della fine del grande Impero Ottomano, che fu tagliato a pezzi ineguali per contenuto e dimensione. Regalati o dati in gestione non furono mai veramente digeriti.

Le spoglie dell’Impero Ottomano

«L’accordo dei ladri coloniali», come fu definito da Lenin, fu rivelato al mondo da Lev Trockij con un articolo sull’“Izvestija pubblicato il 24 novembre 1917. I bolscevichi avevano trovato il documento negli archivi dello zar Nicola II subito dopo la rivoluzione e volevano che tutti sapessero quali erano i piani di spartizione dell’Impero Ottomano decisi dalle grandi potenze, o meglio da Gran Bretagna e Francia con il consenso interessato della Russia. Due anni prima, nel 1915, nel corso di una riunione del Gabinetto di guerra a Londra il diplomatico Mark Sykes aveva pronunciato una frase divenuta storica: «Tirare una linea diritta dalla seconda K di Akko alla seconda K di Kirkuk». Ossia da San Giovanni d’Acri a nord di Haifa, oggi Israele, al cuore dell’Iraq. 

Qualcuno, a proposito di scarabocchi sulla sabbia e altrove, forse ricorda il più recente ultimatum del presidente americano Bush dopo l’invasione del Kuwait da parte di Saddam Hussein: «L’America e il mondo tracciarono una linea nella sabbia. Abbiamo dichiarato che l’aggressione contro il Kuwait non sarà tollerata». Eppure anche quel conflitto nel Golfo, voluto da Washington e che ha avviato la disgregazione del Medio Oriente, aveva le sue origini nelle linee mal disegnate, ambigue o incomplete, uscite dalle penne dei colonialisti mentre discutevano del futuro dell’Impero Ottomano. Il moribondo impero islamico, che aveva sostituito quello cristiano di Bisanzio (durato 623 anni, dal 1299 al 1922), si era schierato al fianco della Germania e dei poteri austro-ungarici dell’Europa centrale. E mentre interi popoli nel vecchio continente si massacravano, e altri popoli (o i loro leader) sognavano, Londra, Parigi e Mosca giocarono la loro partita di Monopoli.

La mappa, o se vogliamo lo scacchiere, era immensa. C’è chi dice che la macedonia di frutta derivi il suo nome dalla popolazione estremamente variegata dell’area che nell’antichità fu dominio di Alessandro Magno. La regione geografica del Medio Oriente o, come si diceva, del Vicino Oriente comprende una parte di quelle terre variopinte non soltanto per le naturali divisioni geografiche ma anche e soprattutto per la diversità delle sue popolazioni. Prima del crollo dell’Impero d’Oriente come era chiamato quella islamico di Costantinopoli, arabi, persiani e turchi convivevano, talvolta pacificamente spesso in conflitto, con curdi, azeri, copti, ebrei, aramei, maroniti, circassi, somali, armeni, drusi.

Le prime idee o pretese sulla divisione del bottino subirono numerosi cambiamenti e alla fine fu sottoscritta la proposta di Sykes che spingeva per rafforzare l’influenza di Londra nella regione e del suo collega francese Picot determinato a ottenere il controllo della Siria (che comprendeva l’attuale Libano) per la Francia. Su un punto i due e i loro mandanti non avevano avuto problemi a trovare un’intesa: limitare ogni possibile crescita del rinascente nazionalismo arabo. Lawrence si era innamorato del mare di sabbia, dei colori di Wadi Rum, quasi di fronte a Petra sulla rotta delle spezie, dei beduini in qualche modo eredi dei Nabatei. Li ammirava per il senso di libertà che emanava dal loro vagabondare tra pozzi distanti, rare oasi e ruderi di passate civiltà. Per “Orens”, come lo chiamava Awda Abu Tayi, indomabile guerriero e condottiero degli howeytat, quella terra apparteneva solo ai suoi abitanti. Non riusciva a entrare nella logica imperialista e colonialista dei suoi tempi e nemmeno a riflettere sul peso politico-economico dell’oro nero che al posto dell’altrettanta preziosa acqua, sgorgava da sotto le dune. L’atmosfera magica che Lawrence respirava interessava poco a Parigi e Londra che si divisero i territori dell’ex Impero Ottomano in cinque zone d’influenza, arrogandosi il diritto di adottare su di esse controllo diretto o indiretto in base a eventuali intese con i Paesi arabi o con la loro confederazione.

la suddivisione Sykes-Picot

La spartizione

La costa siriana fin dentro l’Anatolia e buona parte del Libano fu consegnata alla Francia. A Londra toccarono le province di Bagdad e Bassora: in pratica la Mesopotamia centrale e meridionale che includeva anche il Kuwait, motivo per il quale Saddam Hussein nel 1990 pensò di riprendersi ciò che riteneva di diritto parte del suo Paese. Riconoscendo gli interessi di Mosca nella Palestina per il suo carattere religioso, fu deciso di affidare la terra più contesa dell’eredità dell’Impero Ottomano a un’amministrazione internazionale aggirando, almeno sulla carta, le richieste del movimento sionista. Ma non tutta la Palestina: alla Gran Bretagna toccarono la gestione di Haifa e Akko. Il resto della torta, dalla Giordania alla Siria a Mosul nell’Iraq settentrionale, finì sotto l’egida dei capi arabi regionali ma sempre con la supervisione della Francia a nord e della Gran Bretagna a sud.

Questo per quanto riguardava il mondo arabo. Per soddisfare lo zar fu deciso di consentire alla Russia di mantenere un certo controllo su Istanbul, sui territori adiacenti allo stretto del Bosforo e sulle quattro province confinanti con la Russia nell’Anatolia orientale (ai giorni nostri il russo Putin, erede di quel trono e dell’impero sovietico, insiste per essere un attore nel Mediterraneo e in Medio Oriente). Alla Grecia fu assegnato il controllo delle coste occidentali della Turchia e all’Italia il Sud-ovest della Turchia.

Per la Storia, ma non necessariamente per gli studiosi, l’accordo Sykes-Picot è responsabile per i disastri che la regione sta vivendo. Quelle righe disegnate con disdegno per i diritti delle varie popolazioni, percepite più per dividere che unire, ebbero pochi anni di vita pratica. Il mondo che stava emergendo dopo la guerra mondiale era molto più complessa e lo sarebbe stato ancora di più dopo il secondo conflitto, continuazione del primo e, per alcuni, in attesa di un terzo confronto globale. Il colonialismo nei primi decenni del “secolo breve” andava sempre bene, ma era necessario consolidare, modificandole, le scelte abbozzate dai diplomatici francese e inglese. Per l’impero britannico prese in mano una matita rossa Sir Percy Cox. Nel 1921, l’alto commissario di Londra, tracciò poche linee sullo spazio bianco chiamato Arabia. Ecco, disse ai suoi interlocutori, i capi feudali, queste sono le vostre frontiere. Oggi sono i confini dell’Iraq, del Kuwait e dell’Arabia Saudita.

La dichiarazione Balfour

Quattro anni prima, il 2 novembre 1917, con la solita ambiguità che caratterizzava la politica imperiale, l’allora ministro degli Esteri britannico Arthur Balfour aveva scritto una lettera ufficiale a Lord Rothschild, principale rappresentante della comunità ebraica inglese, e referente del movimento sionista, con la quale il governo britannico affermava di guardare con favore alla creazione di un «focolare ebraico» in Palestina. Fu ciò che il polemico giornalista israeliano Gideon Levy, nel recente centenario di quella dichiarazione definisce il “il peccato originale”. «Un impero – scrive – prometteva una terra che non aveva ancora conquistato a un popolo che non vi abitava senza chiedere agli abitanti della terra se erano d’accordo». La Dichiarazione Balfour fu inserita all’interno del Trattato di Sèvres alla fine delle ostilità con l’Impero Ottomano e assegnava la Palestina alla Gran Bretagna. Anche se volutamente vaga in quanto non arrivava a garantire sovranità o indipendenza agli ebrei in Palestina o agli arabi abitanti su quel territorio, fu e resta ancora oggi uno dei maggiori elementi di tensione in tutta la regione.

«Guardi là, in basso verso il mare, quello è Ashdod e poi Aschelon. Erano città migliaia di anni fa. La terra del nostro antico regno come la terra su cui lei in questo momento poggia i suoi piedi», spiegava con aria messianica ai giornalisti, una quindicina d’anni dopo la guerra del 1967, il portavoce di un insediamento ebraico nella Cisgiordania occupata. «È la nostra terra per sempre. Un dono di dio». Indicava, come fosse sua, anche la strada romana che scorre sul dorso della montagna dal quale oltre al Mediterraneo si vedono il deserto, lo specchio tetro del mar Morto, il monte Nebo da dove Mosé guardò la terra promessa, e l’odierna Giordania. O meglio, Regno di Giordania. Londra nel 1921 per premiare l’alleato Hussein sceriffo della Mecca creò per i suoi figli l’Emirato di Transgiordania e il Regno di Iraq, e affidarono al capo beduino Ibn Saud l’immenso territorio che, con il suo nome, sarebbe diventata l’Arabia Saudita.

Divenne subito chiaro che i Paesi europei “illuminati” erano peggio dell’Impero Ottomano appena demolito che alle popolazioni suddite aveva sempre riconosciuto una notevole autonomia. Il matrimonio di convenienza annegò in un bagno di sangue. A Damasco l’esercito francese schiacciò i rivoltosi arabi; contro i curdi in Iraq l’aviazione britannica effettuò il lancio di gas tossici caldeggiato dal ministro della difesa Churchill. E così inventarono il Medio Oriente, oggi più devastato di ieri, che vediamo sulle cartine geografiche.

Gli abitanti della regione erano visti come pedine. A Londra o Parigi o Mosca si prestava poca attenzione ai movimenti politici laici e islamici con i quali le popolazioni locali cercavano di affrancarsi dal dominio straniero. Se alla vigilia della Prima guerra mondiale le richieste dei nazionalisti arabi puntavano a maggiore autonomia, con la fine dell’Impero Ottomano, i movimenti assunsero toni e aspirazioni chiaramente anticoloniali. Islamismo, nazionalismo, panarabismo, socialismo sperimentarono e si scontrarono tra di loro. In qualche caso favorendo l’unità dei diversi gruppi etnici e religiosi in altri e fino a oggi esasperando contrasti dovuti alle spinte estremiste legate, soprattutto, alle diverse fedi.

Progetto panarabo

Nasser, il leader dell’Egitto dopo la deposizione della monarchia nel 1952, sposò il panarabismo che trascinava le folle non soltanto nel più grande e importante Paese della regione. E lo inserì nelle spinte terzomondiste che accentuarono i contrasti tra le potenze imperiali e i Paesi che lottavano ancora contro il colonialismo. Causa le rivalità tra le nazioni e i leader arabi (come quelli di Siria e Iraq che sperimentavano il socialismo ba’th), gli sforzi di unificare il mondo arabo attorno a progetti di sviluppo e di governo laici (e in gran parte estranei al mondo arabo) fallirono.

Ebbe breve vita la Repubblica araba unita (Rau) tra Egitto e Siria alla quale Iraq e Yemen declinarono l’invito a prendervi parte. E fallì il tentativo del giovane Gheddafi, nel 1972, di unificare Libia, Egitto e Siria in una Federazione delle Repubbliche arabe. Contro questi leader, dittatori o no, si muoveva ed è attivo ancora oggi il movimento dei Fratelli musulmani creato dall’Imam al-Ḥasan al-Bannā nel 1928 in Egitto appena dieci anni dopo il collasso dell’Impero Ottomano. Secondo il manifesto del movimento «la comunità musulmana deve essere riportata alla sua forma originaria […] oggi è sepolta tra i detriti delle tradizioni artificiali di diverse generazioni ed è schiacciata sotto il peso di quelle false leggi e usanze che non hanno […] niente a che fare con gli insegnamenti islamici».

Il quadro, allora come ancora oggi, era pronto per lo sfruttamento economico della regione e nella partita entrarono anche gli Stati Uniti. Erano corsi a salvare l’Europa nella Grande guerra e chiedevano di essere compensati. Con il petrolio, soprattutto. Che venne diviso in cinque: Gran Bretagna, Francia, Paesi Bassi e Stati Uniti. Per ognuno il 23,75 per cento. Il restante 5 per cento venne assegnato al barone del petrolio Calouste Gulbenkian, per aver favorito i negoziati. All’Iraq zero fino alla rivoluzione del 1958 che fu uno dei tanti, fondamentali, cambiamenti regionali avvenuti dopo la fine della Seconda guerra mondiale. Il più importante dei quali e sicuramente il più destabilizzante fu la creazione di Israele, avvenuta nel momento in cui le potenze europee uscite vincitrici dal conflitto contro il nazifascismo si erano indebolite e le colonie ormai anacronistiche, con il peso delle rivendicazioni dei loro popoli, erano diventate di difficile gestione. Urss e Stati Uniti, per motivi diversi ma simili, spingevano per la fine degli imperi. L’India sarebbe stata la prima nazione a diventare indipendente ma paradossalmente negli stessi anni, la comunità internazionale – sicuramente spronata dall’Olocausto – decise di accogliere la richiesta del movimento sionista e sposare la dichiarazione Balfour portandola anche oltre le stesse parole relativamente caute con cui fu stilata.

Israeliani a palestinesi

Israele è, dunque, una colonia ebraica in una Palestina araba approvata dall’Onu proprio nel momento in cui il mondo respingeva la colonizzazione? La maggioranza dei sostenitori del nuovo stato respinge la definizione. Molti di loro, però, ammettono che di colonizzazione si deve parlare in riferimento alla situazione creata dopo la guerra del 1967. Il conflitto israelo-palestinese non trova soluzione e i governi israeliani hanno finora respinto le richieste di definire ciò che vorrebbero considerare i confini del loro stato. Il muro – cemento e filo spinato – messo come barriera in mezzo alle case dei palestinesi, ha già modificato per l’ennesima volta i confini approvati dalle Nazioni Unite nel piano di partizione della Palestina. Questo mentre la maggioranza dei confini usciti dalle penne di Sykes e Picot e dai loro contemporanei, appaiono sufficientemente consolidati per non cedere agli scombussolamenti successivi alle Guerre del Golfo, alle primavere arabe e alle storiche istanze nazionaliste di gruppi etnici come i curdi che dagli sviluppi da quelle intese imposte da Londra e Parigi, da Mosca e Washington, furono divisi in stati diversi, per essere sfruttati e talvolta premiati negli scontri tra stati rivali ma sempre privati del loro diritto a uno stato indipendente.

Lo scrittore e giornalista Joseph Roth cantava spesso l’elogio dell’Impero austro-ungarico che, come nei periodi più floridi di quello ottomano, lasciava ampia autonomia ai popoli, non soffocava le istanze e i costumi delle minoranze, garantiva una certa sicurezza e – ed è questo forse l’aspetto che più affascina – consentiva al viaggiatore, pellegrino o mercante o cronista, di vagare quasi indisturbato. Chi volesse visitare oggi la cosiddetta Terrasanta (un pezzo relativamente piccolo ma storicamente importante della regione) si troverebbe a dover attraversare con difficoltà confini riconosciuti e non, spesso chiusi e pericolosi. Eppure, se i popoli fossero in pace, ci si potrebbe svegliare a Gerusalemme con un caffè, espresso o arabo, nel patio dell’American Colony, fare una colazione abbondante meno di due ore dopo ad Amman, cenare a Damasco per proseguire l’indomani, con calma, per il lungomare splendido di Beirut. Volendo, il viaggiatore con poco tempo a disposizione, potrebbe poi scendere la costa, passare davanti alla cittadella di Akko – quella da cui Sykes volle tracciare una delle sue linee nella sabbia – ammirare le rovine di Cesarea e sostare a Tel Aviv, oggi cuore pulsante di modernità e contrasti tra la sua anima occidentale importata e quella orientale della maggioranza d’Israele, per essere a cena al Cairo, all’ombra delle piramidi.

La Terrasanta dei cristiani, con tutte le sue rovine e memorie e favole si specchia nella Terrasanta dei musulmani, frammentati anche loro come i cristiani in numerose schegge. Tutti questi luoghi meno di cento anni fa vedevano convivere popoli e religioni diverse, seppure con animosità teologica. Oggi vecchi e nuovi imperi, pescando nelle diversità religiose, vanno alla ricerca di un nuovo assetto del Medio Oriente. L’Iran degli ayatollah, erede della grande Persia e capitale del mondo sciita, sta consolidando il suo potere sul Levante sfidando l’Arabia Saudita, feudo di una famiglia “custode della Mecca” che governa in nome del mondo sunnita. La Turchia, musulmana come l’Iran ma non araba, sogna un ritorno all’Impero Ottomano e nel 2017, grazie a un accordo con il Sudan, si è installata nell’isola di Suakin, antico avamposto della Sublime Porta nel mar Rosso. Con il crollo della stabilità “europea” voluta dalle penne di Sykes e Picot la partita per la dominazione della regione si è riaperta. Lasciando spazio a un’idea vecchia e nuova assieme, per ora sconfitta ma non necessariamente sepolta. Un unico stato islamico arabo-sunnita in tutta la regione, senza le frontiere imposte cento anni fa.

In un suo discorso del 2012, il leader del movimento terrorista salafita Abu Bakr al-Baghdadi, lanciò la sua sfida-promessa: «Avrete uno stato e un califfato dove arabi e non arabi, bianchi e neri, genti dell’Est e dell’Ovest saranno tutti fratelli». E con un chiaro riferimento a Sykes-Picot proclamò: «Lo Stato Islamico non riconosce né confini fittizi né altre cittadinanze all’infuori dell’islam». I finanziatori iniziali dello Stato Islamico erano, in parte, gli stessi sostenitori economici di al-Qaeda ma sono stati sconfitti da una coalizione internazionale quando era chiaro a tutti che il gioco di destabilizzazione era diventato pericoloso. E così la partita è stata ripresa in mano da alcuni dei giocatori di cento anni fa. A Da Nang, in Vietnam, lontano dalle capitali del Medio Oriente, Stati Uniti e Russia, si sono pronunciati per l’integrità territoriale della Siria e la spartizione della regione in zone d’influenza. Con Iran e Arabia Saudita (e, naturalmente, Israele) come agenti locali a garanzia dei loro interessi geostrategici ed economici. E, forse per poco, energetici.

L'articolo Sykes-Picot, la madre di tutti i confini. Il tratto di penna che inventò il Medio Oriente proviene da OGzero.

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