Disastri Archivi - OGzero https://ogzero.org/temi/politico-economica/disastri/ geopolitica etc Fri, 15 Dec 2023 17:29:34 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.4.6 Bhopal, la tragedia tra crimini ambientali e industriali https://ogzero.org/bhopal-la-tragedia-tra-crimini-ambientali-e-industriali/ Fri, 15 Dec 2023 17:28:30 +0000 https://ogzero.org/?p=12139 Bhopal: fu il primo e più clamoroso disastro industriale con copertura mediatica a diffusione internazionale, utile solo a scatenare l’indignazione del mondo ignaro delle condizioni in cui si lavora(va) nelle fabbriche del mondo, in particolare in quelle prive anche delle minime tutele non sempre rispettate nei paesi “occidentali” (solo in Italia basterebbe citare la diossina […]

L'articolo Bhopal, la tragedia tra crimini ambientali e industriali proviene da OGzero.

]]>
Bhopal: fu il primo e più clamoroso disastro industriale con copertura mediatica a diffusione internazionale, utile solo a scatenare l’indignazione del mondo ignaro delle condizioni in cui si lavora(va) nelle fabbriche del mondo, in particolare in quelle prive anche delle minime tutele non sempre rispettate nei paesi “occidentali” (solo in Italia basterebbe citare la diossina di Seveso… fino all’Ilva a Taranto, o il disastro della Thyssen-Krupp a Torino). Può tornare utile rinfrescare la memoria di questo 39° anniversario in un periodo in cui gli apprendisti stregoni soffiano su pozioni magiche e addirittura torna forte il “vento nucleare” come soluzione energetica “pulita”, anche proposta a cuor leggero come alternativa al fossile all’ultima Cop28 di Dubai.

Grazie alla Raghu Rai Foundation per la concessione delle immagini.


Nota come la Hiroshima dei disastri industriali, la tragedia del gas di Bhopal compie quest’anno 39 anni. La notte del 2 dicembre 1984, 45 tonnellate di isocianato di metile (MIC), altamente pericoloso, fuoriuscirono dall’impianto di insetticidi della Union Carbide Corporation, un importante produttore americano di prodotti chimici e protochimici nella città di Bhopal, nel Madhya Pradesh. I sistemi di sicurezza che avrebbero dovuto contenere il gas ed evitarne la fuoriuscita non funzionarono, facendo sì che il gas si diffondesse in ogni parte di Bhopal, esponendo ad esso mezzo milione di persone: circa 25.000 morirono e altre 120.000 stanno ancora soffrendo le conseguenze dei crimini industriali della Union Carbide.

La Union Carbide India Corporation (UCIC) e la Green Revolution

La Union Carbide India Corporation si era costruita una reputazione prima della tragedia. Con un fatturato annuo di 9 miliardi di dollari, l’impegno dell’azienda nelle guerre mondiali ne ha trasformato la crescita: all’inizio della Seconda guerra mondiale l’azienda produceva uranio e concentrati di quel materiale così centrale nelle produzioni radioattive e, poco dopo, divenne la 37a più grande al mondo, costruendosi una solida reputazione. A metà degli anni Venti la UCC mise piede in India, inizialmente producendo batterie a Calcutta, dando vita alla Ever Ready Company Ltd nel 1934. La crescita continua portò alla costruzione della fabbrica di pesticidi di Bhopal nel 1969. L’impulso a produrre pesticidi era strettamente collegato all’ambizione dell’India di essere autosufficiente dal punto di vista alimentare, nota come “Green Revolution” e le carestie dell’India britannica con i loro effetti di lunga durata incrementavano un bisogno urgente di raccolti più abbondanti. Per UCC questo significava un mercato vergine per la produzione di pesticidi.

Bhopal

L’impianto della Union Carbide, 1984 (© Raghu Rai Foundation)

Tuttavia, gli agricoltori indiani che già dovevano affrontare condizioni climatiche estreme come siccità e inondazioni stavano subendo danni alle colture e perdite finanziarie, per cui questi costosi pesticidi divennero inaccessibili. A causa della mancanza di acquirenti, l’azienda subì una perdita di 4 milioni di dollari nel 1984 ma la Union Carbide India Corporation celebrò quell’anno il suo 50° anniversario, con un fatturato annuo di 200 milioni di dollari e 14 impianti già installati in tutta il paese. Tuttavia le previsioni di fatturato furono disattese e la UCIC progettò di liquidare l’impianto, smantellandolo e trasferendolo in Messico o in Indonesia.

L’azienda iniziò a tagliare i costi durante i mesi che portarono al disastro e questo ebbe importanti ripercussioni sulle misure di sicurezza (ricordiamo che già 15 anni prima del disastro l’azienda scaricava spesso rifiuti chimici letali all’interno e nei dintorni della fabbrica).

Elusione delle responsabilità mediche e legali

Mentre inizialmente l’isocianato di metile (MIC) e altre sostanze chimiche venivano importate dagli Stati Uniti in piccole quantità per la produzione di questi pesticidi, l’azienda presto iniziò a produrre strategicamente il MIC in India. Sebbene l’impianto non fosse in grado di funzionare a pieno regime, l’azienda – che stava perdendo il proprio valore – continuò a stoccare grandi quantità di sostanze chimiche pericolose (è stata segnalata la presenza di tre serbatoi contenenti oltre 60 tonnellate di isocianato di metile).

Secondo il rapporto del 2010 del Council for Medical Research indiano (ICMR), «il MIC è un forte veleno, anche se ingerito; la lesione che colpisce le mucose è dovuta alla reazione esotermica quando questo entra in contatto con l’umidità dei tessuti». Il rapporto spiega inoltre che: «Il MIC è considerato così pericoloso che qualsiasi azienda britannica che lo utilizzi o lo conservi dovrebbe presentare piani di emergenza per affrontare le conseguenze in caso di fuoriuscita». Incolore, inodore e altamente volatile, il suo aspetto più letale in caso di fuoriuscita nell’atmosfera è l’impossibilità di contenerlo all’interno di un impianto o di un serbatoio in fabbrica».

Nell’apocalittica notte del 2 dicembre un dipendente dell’UCIC stava cercando di spurgare una tubatura corrosa, e a causa del malfunzionamento di diversi rubinetti l’acqua fluì liberamente nel serbatoio più grande del MIC. Il contatto con l’acqua provocò un’esplosione incontrollabile, il serbatoio iniziò a sprigionare nubi tossiche di cianuro di idrogeno, amina monometilica e MIC, oltre ad altre sostanze chimiche che si diffusero nell’aria di Bhopal e le persone cominciarono a morire.

La Union Carbide chiuse il sito e l’impianto fu abbandonato nell’incuria; la necessaria pulizia dell’impianto non ebbe mai luogo perciò le sostanze chimiche tossiche permangono nel sito ancora a livelli elevati. Nel 1989 la Union Carbide stessa condusse in segreto dei test, i cui risultati mostrarono come le acque sotterranee stessero rapidamente uccidendo i pesci. La raccolta dei campioni avveniva all’interno delle mura della fabbrica – la popolazione locale spesso attingeva l’acqua dalle condutture e dai pozzi che si trovavano al di là di queste mura. Nel 1999 si effettuarono test sull’acqua di pozzo e sulle falde acquifere che rivelarono alti livelli di mercurio, 6 milioni di volte superiori a quelli considerati sicuri dalla Environmental Protection Agency degli Stati Uniti (EPA).

Dopo continue smentite e ritardi legali da parte dell’UCC, nel 1989 si raggiunse un parziale accordo extragiudiziale tra il governo indiano e la Union Carbide, e quest’ultima pur accettando di pagare 470 milioni di dollari a titolo di risarcimento, rifiutò di assumersi qualsiasi responsabilità legale. Le vittime non furono mai consultate durante le trattative; 470 milioni di dollari potrebbero sembrare una somma elevata in termini di valore nominale, ma non sono stati sufficienti a pagare i danni, le vittime e i processi di riabilitazione: a nove vittime su dieci sono stati risarciti 500 dollari a testa o una somma sufficiente a coprire le spese mediche per un massimo di cinque anni. Inoltre, molti di coloro che sono stati esposti al gas hanno perso la capacità di guadagnarsi da vivere: coloro che lavoravano come operai occasionali, non erano più in grado di sostenere attività fisiche impegnative.

Bhopal

Sede del Centro vittime del gas istituito nel 2002 dal Governo (© Raghu Rai Foundation)

Nel 1991, il presidente e amministratore delegato della Union Carbide all’epoca del disastro, Warren Anderson, fu accusato dal sistema di giustizia penale indiano di «omicidio colposo non colposo». Anderson fu arrestato non appena mise piede in India, ma non affrontò mai un processo, poiché gli fu concessa rapidamente la libertà su cauzione dopo aver trascorso alcune ore agli arresti domiciliari e fuggì immediatamente dopo, salendo sul primo volo disponibile. Se fosse stato condannato, Anderson avrebbe rischiato 10 anni di carcere.

Il governo indiano ha chiesto l’estradizione, ma la richiesta è rimasta inascoltata per oltre tre anni e mezzo, fino a quando è stata dimenticata.

Stop Dow Chemical Company!

Nel 2001, la Dow Chemical Company, con sede in Michigan, ha acquisito la Union Carbide con tutte le attività e le passività connesse. Tuttavia, dopo questa fusione, il sito di Bhopal non è mai stato bonificato come avrebbe dovuto, l’impatto tossico del MIC non è mai stato comunicato alla comunità medica indiana e i rapporti sono stati tenuti nascosti agli studiosi che li richiedevano.

Bhopal

Proteste, 2001 (© Raghu Rai Foundation)

I rapporti dei test di follow-up pubblicati nel 2002 hanno rivelato la presenza di tricloroetano, sostanza chimica che causa danni allo sviluppo fetale, e negli anni successivi, gli studi condotti nel 2016-17 hanno rivelato le sostanze chimiche che continuano a essere presenti nelle acque, causando danni cerebrali, cancro e malformazioni congenite. Il 3 ottobre 2023, il tribunale di Bhopal ha emesso un settimo avviso di garanzia alla Dow Chemical Company, dopo che tutti e sei i precedenti erano stati ignorati. Sul sito web della società si continua a negare qualsiasi legame con la Union Carbide.

L’insieme dei crimini ecologici e aziendali

Oggi circa 50.000 bhopali non possono lavorare a causa di quel disastro. L’UCC è ancora responsabile dei danni ambientali che ha causato, argomento che non è mai stato affrontato durante le trattative del 1989. Nel frattempo la contaminazione continua a diffondersi nella città. La tragedia del gas di Bhopal ha segnato la coscienza collettiva degli abitanti.

Il disastro evidenzia i fallimenti della politica urbana, degli standard di sicurezza e di come il progresso industriale non tenga conto dei quadri normativi.

Questo ci ricorda la sconsideratezza delle imprese transnazionali come la Union Carbide, che agiscono non in base a ciò che è giusto, ma a ciò che è redditizio ed efficiente. La tragedia ha avuto luogo negli anni iniziali della globalizzazione economica e quando i diritti umani fondamentali delle persone vengono calpestati in nome dello sviluppo economico si configura un vero e proprio crimine. La tragedia del gas di Bhopal è una testimonianza eloquente della giustizia rinviata e della giustizia negata per le persone decedute e per quelle che continuano a sopravvivere in quelle condizioni ambientali. Come ha giustamente sottolineato il professor Reece Walters:

«Bhopal fornisce lezioni e sfide per la giustizia ambientale, il commercio globalizzato e il potere e la criminalità delle imprese e la giustizia delle vittime, la regolamentazione delle imprese transnazionali e i pericoli derivanti dall’autoregolamentazione orientata al commercio delle compagnie transnazionali».

Bhopal

Vittima della fuga di gas (© Raghu Rai Foundation)

 

L'articolo Bhopal, la tragedia tra crimini ambientali e industriali proviene da OGzero.

]]>
Terremoto in Turchia: la ricostruzione pianificata dall’alto https://ogzero.org/terremoto-in-turchia-la-ricostruzione-pianificata-dallalto/ Thu, 24 Aug 2023 16:08:58 +0000 https://ogzero.org/?p=11471 Terremoto in Turchia. Questa intervista alla professoressa Pelin Pınar Giritlioğlu, del Dipartimento di Amministrazione Pubblica, Problemi Urbani e Ambientali dell’Università di Istanbul e presidente dell’Unione degli Architetti e degli Ingegneri Turchi di Istanbul, a cura di Luca Onesti e Francesco Pasta, è stata realizzata a sei mesi dal terremoto che a febbraio ha devastato parte […]

L'articolo Terremoto in Turchia: la ricostruzione pianificata dall’alto proviene da OGzero.

]]>
Terremoto in Turchia. Questa intervista alla professoressa Pelin Pınar Giritlioğlu, del Dipartimento di Amministrazione Pubblica, Problemi Urbani e Ambientali dell’Università di Istanbul e presidente dell’Unione degli Architetti e degli Ingegneri Turchi di Istanbul, a cura di Luca Onesti e Francesco Pasta, è stata realizzata a sei mesi dal terremoto che a febbraio ha devastato parte della Turchia meridionale e della Siria per analizzare la tipologia di pianificazione imposta dall’alto, dal punto di vista normativo e con una valenza politica, senza tener conto dei problemi ambientali, sanitari e culturali del territorio colpito.
Poi a sei mesi di distanza, con un’inflazione al 46%, carenze di valuta pregiata, difficoltà nel contesto internazionale che vede la Turchia marginalizzata… il tasso di sconto riconosciuto dalla Banca turca è stato rialzato dal 17,5% (già uno sproposito per una qualunque economia) al 25% in un solo giorno, il 24 agosto 2023. Forse qualche difficoltà per i fondamentali dell’economia turca si palesano da questo provvedimento che cerca di riallineare gli eterodossi provvedimenti finanziari della erdoganomics negli ultimi vent’anni. 


Turchia, a quasi sei mesi dalle due scosse di terremoto che il 6 febbraio hanno colpito una vasta area della Turchia meridionale e della Siria settentrionale, e dopo la tornata elettorale che ha confermato Erdoğan come presidente della Repubblica, si procede ora alla ricostruzione su un’area di faglia che conta 13 milioni di abitanti. Per comprendere meglio le criticità pregresse e quelle che stanno emergendo per quanto riguarda la pianificazione urbana nella gestione del disastro, abbiamo intervistato la Professoressa Pelin Pınar Giritlioğlu, del Dipartimento di Amministrazione Pubblica, Problemi Urbani e Ambientali dell’Università di Istanbul e presidente dell’Unione degli Architetti e degli Ingegneri Turchi di Istanbul. La mancata applicazione, o l’applicazione strumentale, della legislazione implementata in Turchia negli ultimi venticinque anni a seguito di diversi terremoti e l’idea di pianificazione calata dall’alto con la completa disattenzione rispetto alle caratteristiche culturali e ambientali del territorio, sono alcuni dei temi toccati dall’intervista.

Pelin Pınar Giritlioğlu, Dipartimento di Amministrazione Pubblica, Problemi Urbani e Ambientali dell’Università di Istanbul e presidente dell’Unione degli Architetti e degli Ingegneri Turchi di Istanbul

Con la politica dei condoni e la mancata applicazione delle leggi prodotte dopo il terremoto del 1999, abbiamo assistito negli scorsi decenni a quello che lei, in un’intervista a Chiara Cruciati su “Il Manifesto”, ha definito un «patto tra capitale e potere». In che modo sono regolate e ripartite tra governo centrale e autorità locali  le responsabilità riguardo ai terremoti e al rischio sismico, in Turchia?

Poiché siamo un paese ad alto rischio sismico, la responsabilità tra il governo centrale e locale e le organizzazioni non governative è regolata dalla legge. Secondo la normativa turca, e secondo la Costituzione, le autorità locali hanno l’obbligo di adottare tutte le misure contro i rischi che minacciano la vita e i beni dei cittadini. Le autorità locali hanno l’obbligo di predisporre la propria giurisdizione contro i terremoti, in base ai rapporti e ai dati scientifici forniti, e hanno determinati obblighi in materia di ispezioni edilizie, devono cioè verificare se gli edifici sono costruiti in linea con il progetto o meno. Se riscontrano edifici a rischio di crollo, di distruzione o di danneggiamento, devono comunicarlo al Comune metropolitano e agire in collaborazione con esso. I Comuni metropolitani hanno l’obbligo di istituire un consiglio di coordinamento dei disastri, regolato dalla legge. La collaborazione e la preparazione contro i disastri e i terremoti sono organizzate anche a livello delle autorità che in Turchia sono chiamate Muhtar, responsabili di un determinato quartiere su scala minore, l’unità amministrativa più piccola della Turchia. Anche a questo livello sono previsti studi e preparativi.

Si è parlato molto della possibilità di un grande terremoto a Istanbul nei prossimi anni. Nel mese di marzo il sindaco Imamoğlu ha presentato il Piano antisismico per la città. Pensa che si stia andando nella giusta direzione a questo proposito?

Il piano annunciato da Imamoğlu è stato pubblicato come risultato di un workshop scientifico al quale sono state invitate tutte le unità, le organizzazioni e le istituzioni interessate. Le Camere professionali hanno partecipato poi a successivi incontri con il Comune metropolitano in merito a questo piano e alla definizione dei ruoli da svolgere.

La difficoltà principale non riguarda però il piano annunciato, ma la sua applicazione, la sua attuazione nella vita reale.

Prima del terremoto del 6 febbraio, L’AFAD, (L’Autorità per la Gestione dei Disastri e delle Emergenze, omologo della Protezione Civile italiana), aveva già pubblicato alcuni documenti ufficiali che dicevano che ci sarebbero stati dei terremoti a Hatay e Kahramanmaraş. L’annuncio era stato fatto, ma nonostante questi scenari fossero stati già analizzati, non abbiamo visto alcuna reazione o risposta sul campo reale, sul campo fisico, non abbiamo preso alcuna misura concreta. Quindi, in termini di legislazione e di documenti ufficiali, la Turchia è in un certo senso pronta a far fronte ai disastri naturali, ma non è in grado di generare risposte nella vita reale: questo è il problema principale.

Terremoto in Turchia

Antiochia (foto di Luca Onesti)

A proposito di questo divario tra la legislazione e la sua attuazione, abbiamo una domanda sulla Legge n. 6306 sulla trasformazione urbana nelle aree a rischio, che è stata approvata nel 2012, dopo il terremoto di Van, e sembra che sia stata applicata in modo piuttosto strumentale. L’obiettivo era quello di accelerare la ricostruzione delle aree urbane a rischio sismico, ma sembra che sia stata utilizzata soprattutto per altre finalità. Cosa ne pensa? Ritiene che la legge in sé sia valida, ma che l’attuazione sia distorta?

In realtà, la legge n° 6306 non serve al suo scopo principale. È questo il problema della legge. L’espressione “disastri naturali” è citata solo due volte nel testo di legge, che peraltro non fornisce soluzioni essenziali e fondamentali contro i disastri naturali. È solo una “legge sui contraenti” (immobiliari) basata sulla demolizione e ricostruzione delle aree definite “a rischio”.

Definisce solo i metodi per farlo, piuttosto che offrire linee guida sulle precauzioni da adottare. Descrive come ricostruire le aree urbane, ma evita di determinare come organizzare, coordinare e fornire soluzioni sociali e scientifiche al rischio sismico.

In effetti, sembra che a volte il rischio sismico venga utilizzato come giustificazione per determinate politiche di pianificazione e sviluppo urbano. Ora, nelle zone terremotate del Sud-Est, si parla di trasferire intere città. TOKI (L’Amministrazione per l’Edilizia Abitativa di Massa) sta già costruendo questi nuovi quartieri fuori dai centri urbani. E a Istanbul, il Ministero per l’Urbanizzazione ha annunciato di voler creare due nuove città satellite per trasferirvi circa un milione di unità abitative. Pensa quindi che il terremoto e la prevenzione possano essere sfruttati come ulteriore spinta per questo tipo di urbanizzazione di terreni non edificati o rurali e per espandere sempre di più le città, come è già avvenuto sotto il governo dell’AKP?

L’idea delle città satellite non è adatta a Istanbul perché lo scopo delle città satellite è di essere costruite fuori dalle città, non all’interno. Ma nel caso di Istanbul un’area esterna al perimetro metropolitano non esiste, perché la città si estende fino ai centri urbani di Tekirdağ da un lato e Kocaeli dall’altro. Ciò significa che le città satellite saranno costruite al suo interno, come nuovi quartieri,

e dunque che i rimanenti spazi vuoti e le aree di riserva all’interno della città, come le aree agricole o le foreste, fondamentali per l’equilibrio ecologico di Istanbul, saranno aperte all’insediamento.

Come pensa che sarà applicata questa politica nella regione del Sud-Est? Pensa che questa ricostruzione possa essere condotta come è avvenuto a Van dopo il terremoto del 2011, e dunque tradursi in un processo di TOKIzzazione e suburbanizzazione replicato su larga scala da Antiochia (Hatay) a Kahramanmaraş?

L’approccio problematico è che si crede di poter far rivivere le città semplicemente costruendo più case, nuove case. L’edilizia abitativa è fondamentale, ma non è possibile far rinascere una città solo costruendo più unità abitative, perché poi sono necessari spazi educativi, spazi di aggregazione, strutture sanitarie, unità industriali e produttive. Bisogna considerare tutti questi aspetti, e molti altri, per far rinascere la città. Non si può solo costruire più case o nuove case; i cittadini di questi nuovi quartieri esterni dovrebbero continuare a vivere in città, dato che i loro posti di lavoro, le opportunità sociali, rimarranno in ambito urbano. I nuovi progetti sono usati solo come strumento di investimento.

Quello di Van è stato criticato come esempio di una politica di pianificazione e di edilizia abitativa dall’alto verso il basso e non partecipativa. E ora, in queste dieci città del Sud-Est è stato dichiarato lo stato di emergenza (OHAL). Come pensa che questo avrà un impatto sulla ricostruzione, dal punto di vista della soddisfazione dei bisogni della gente e delle loro esigenze?

Lo stato di emergenza è stato usato come un facilitatore e uno strumento per il governo per accelerare il processo e l’attività di costruzione. Si è trattato di un’opportunità tale da indurre il presidente a emanare il decreto presidenziale n. 26, subito convertito in legge, che ha tracciato la strada per avviare i progetti di costruzione senza rispettare alcun principio costruttivo o di pianificazione, senza seguire approcci scientifici, dati, opinioni. Questo modo di procedere ci dimostra che, dopo i tanti terremoti che sono seguiti a quello del 1999, il governo non ha tratto alcun insegnamento e ha insistito nel seguire la stessa strategia. Pertanto, i nuovi progetti che verranno attuati, non dovendo rispettare o seguire nessuno dei principi di pianificazione, porteranno ancora una volta a edifici e città fragili, con un certo rischio di fronte alle catastrofi naturali.

Volevamo chiederle un parere sulla questione della gestione dei detriti post-sisma, per la quale ci sono state anche delle proteste nella provincia di Hatay. La rapida demolizione e lo stoccaggio senza precauzioni di questa enorme quantità di macerie sta infatti causando preoccupazione per la presenza di amianto e altri materiali pericolosi per la salute e la natura. Cosa pensa di quanto sta accadendo e come si potrebbe operare diversamente?

Attualmente esiste un importante problema di salute pubblica in questo campo.

Terremoto in Turchia

Antiochia (foto di Luca Onesti)

È un problema talmente cruciale che potrebbe estendersi a tutte le aree colpite dal terremoto e non solo. Naturalmente esiste un metodo scientifico su come effettuare queste attività di demolizione e tutti gli scienziati hanno denunciato il rischio di iniziare queste attività senza precauzioni, perché l’amianto è una sostanza le cui proprietà cancerogene sono state dimostrate. Prima di queste attività avrebbero dovuto evacuare le zone interessate, ma hanno iniziato subito le demolizioni. Oltre al problema della salute pubblica, c’è anche un problema economico e di proprietà, perché le macerie dell’area vengono attualmente sgomberate e rimosse da alcune aziende private e poi gettate in siti, siano essi pubblici o privati, che hanno un valore economico e vengono compromessi o fortemente danneggiati.

E ancora, gettando i rifiuti nei laghi e nei siti naturali, si crea anche un grande problema ambientale.

Un’altra domanda su Antiochia, Hatay, una città che nella storia antica è già stata distrutta da un terremoto e ricostruita. Come si può rispettare e continuare a far vivere il suo ricco patrimonio architettonico e culturale? La ricostruzione urbana potrebbe mettere in pericolo le caratteristiche particolari di questa città, conosciuta per essere un mosaico di diversità e un esempio di tolleranza e coesistenza? Secondo lei, qual è la logica della dichiarazione, dopo due mesi dal sisma, di “zona a rischio sismico” (secondo la Legge n. 6306) per il centro storico?

Qui si sovrappongono due aspetti problematici. Per prima cosa, questa zona è un’importante area di civilizzazione. Allo stesso tempo, essa è un insediamento della linea di faglia in cui vivono tredici milioni di persone. Quindi, in linea di principio, bisogna proteggere il modello culturale, la struttura sociale e la civiltà stabilita in quell’area e allo stesso tempo bisogna garantire che tredici milioni di persone vivano in sicurezza. Dopo la Seconda guerra mondiale, per alcune città europee che erano state distrutte (per esempio, Dresda) si è seguito il modello per cui il tessuto sociale e culturale della città doveva essere preservato, ma andavano comunque ricostruite. Una tabella di marcia corretta dovrebbe seguire questi due principi:

in primo luogo la sicurezza dovrebbe essere garantita, in secondo luogo il tessuto culturale dovrebbe essere protetto.

Dopo il terremoto, in Turchia, il Ministero ha invece immediatamente annunciato un progetto standardizzato, che potrebbe essere posto in essere dovunque ed è completamente irrilevante per l’identità sociale, culturale e autentica della provincia di Hatay e della città di Antiochia. La ricostruzione in realtà dovrebbe anche tenere conto delle relazioni sociali e tradizionali, del metodo e dei sistemi di produzione, della geografia e del clima. Si dovrebbero prendere in considerazione tutti questi fattori, ma quello che succede spesso è che questi vengono trascurati completamente, generando lo stesso progetto che viene applicato in qualsiasi luogo.


In febbraio avevamo sentito Murat Cinar, giornalista di origine anatolica impegnato anche nel sistema di aiuti alle genti terremotate; la sua conoscenza della società e del territorio – ma anche della propaganda e retorica del presidente turco – appare a distanza di 6 mesi, e dopo le elezioni che hanno visto ancora una volta prevalere la narrazione populista di Erdogan, di una lucidità e premonizione confermate dalla manipolazione delle coscienze e dal patto del presidente con lo zoccolo duro della società turca patriarcale, nazionalista, militarista e tradizionalista (compresa una larga fetta della comunità curda connivente con il persecutore dei curdi).

L'articolo Terremoto in Turchia: la ricostruzione pianificata dall’alto proviene da OGzero.

]]>
La carne da cannone imparerà mai a sfuggire al macello? https://ogzero.org/la-carne-da-cannone-imparera-mai-a-sfuggire-al-macello/ Sun, 23 Oct 2022 12:11:03 +0000 https://ogzero.org/?p=9239 Khinstein, un consigliere di Putin, ha dichiarato che la Rosgvardiya metterà sotto maggiore sorveglianza gli uffici di reclutamento di carne da cannone dopo i molti attacchi subiti: evidentemente la propaganda delle operazioni speciali produce invece una consapevolezza sempre più estesa della necessità di boicottare la coscrizione, un recupero da parte dei civili di quella resistenza […]

L'articolo La carne da cannone imparerà mai a sfuggire al macello? proviene da OGzero.

]]>
Khinstein, un consigliere di Putin, ha dichiarato che la Rosgvardiya metterà sotto maggiore sorveglianza gli uffici di reclutamento di carne da cannone dopo i molti attacchi subiti: evidentemente la propaganda delle operazioni speciali produce invece una consapevolezza sempre più estesa della necessità di boicottare la coscrizione, un recupero da parte dei civili di quella resistenza di stampo novecentesco contro qualunque aspetto abbia attinenza con il mondo militare. A un istintivo moto di sottrazione al reclutamento in una guerra zarista cominciano a moltiplicarsi gli episodi di sabotaggio. Questo si spiega anche con l’analisi della provenienza di classe e dalla periferia dell’impero degli arruolati; e proprio da questo prende spunto Yurii per illustrare in una cavalcata attraverso il territorio della Federazione e i luoghi della diaspora, inseguendo resistenza, controinformazione antimilitarista contrapposta alla propaganda del Cremlino… mobilitazioni di madri, mogli, figlie. Ma Yurii non tralascia nemmeno l’arruolamento ucraino, altrettanto subdolo perché si affida a una censura preventiva di chi si fa passare per la parte buona del conflitto; tuttavia l’impegno internazionalista di Assembly scoperchia la bugia dell’unità nazionale che si regge solo come contrasto all’aggressore. 


La mobilitazione “parziale” dell’esercito della Federazione russa imposta da Putin il 21 settembre ha fatto entrare il conflitto russo/ucraino in un una nuova fase che pone non poche domande sia sulla consistenza e reale tenuta dell’esercito della Federazione che sui particolari caratteri di classe e sulle ricadute sociali della guerra stessa.

La propaganda e la guerra ai poveri

I contorni stessi della mobilitazione di carne da cannone sono rimasti vaghi. Formalmente il ministro della difesa russa Sergej Shojgu ha parlato di 300.000 uomini ma resta aperta l’incognita dell’ormai famosi punto 7 del decreto di Putin che si sussurra dovrebbe prevedere il suo ampliamento fino a un milione di uomini in caso di necessità (era già stato previsto l’aumento di 137.000 membri combattenti dell’esercito entro il 1° gennaio 2023).
Il maggiore successo di reclutamento è avvenuto, senza sorpresa alcuna, nelle regioni più povere e degradate del paese. Già ci s’avvicina al 100% dei riservisti programmati presenti nei campi di addestramento o addirittura ormai al fronte, carne da cannone proveniente da regioni come la Cecenia (reddito pro capite annuo 2170 dollari), dal Kabardino- Blakaria (2670 dollari), dalla Buritia (3650 dollari), dall’Altaj (3730). Si tratta di popolazioni anche con tassi di scolarità tra i più bassi della Federazione e quindi più indifesi di fronte alla propaganda sciovinista dei mass-media e dei social network.

Una recente indagine ha portato alla luce che il 69% dei russi non è mai stata all’estero, mentre oltre il 50% non ha neppure il passaporto. Nelle regioni più povere la mancanza di passaporto supera l’80%. Non si è mai viaggiato all’estero per mancanza di mezzi materiali ma anche per mancanza di curiosità culturale. Sono loro la vera “carne da cannone” che hanno alimentato lo sforzo bellico putiniano negli ultimi 8 mesi.

Le cose cambiano radicalmente quando si arriva nelle capitali storiche della Russia, San Pietroburgo e Mosca. Nella città sulla Neva hanno risposto alla lettera di mobilitazione solo il 18% dei riservisti, a Mosca peraltro sono state chiamate a servire la nazione in Ucraina solo 14.000 persone ma buona parte di queste al momento della chiamata avevano già preso la strada dell’esilio. Non è certo un segreto che chi ha seguito la via della fuga appartiene socialmente – in buona parte – a quegli strati della società che potremmo definire “ceto medio” e che condividono “valori occidentali”. Le lunghe teorie di uomini che si sono visti nei primi giorni della mobilitazione attraversare le frontiere con ogni mezzo disponibile però non sono solo giovani; spesso si tratta di intere famiglie che abbandonano il paese definitivamente.

Renitenti a Volgograd

Esposizione infame a Volgograd delle foto dei renitenti

«Non voglio e non posso attendere – ci dice Igor 32 anni di Samara – quando cambierà qualcosa in Russia. Proverò a ricostruirmi una vita in Germania se riuscirò a raggiungerla».

Per ora è andato in Kazakistan e da lì spera di avere un visto europeo, con lui la moglie e il figlio di tre anni. Anche l’emigrazione verso Israele per chi ha sangue ebraico è molto gettonata:

Valerij è ora in Tajikistan: “Si tratta del paese in cui la vita costa di meno, ma sto preparando i documenti per volare a Tel Aviv e ottenere il passaporto israeliano».

Ma quasi nessuno degli oltre 30.000 che hanno fatto per ora richiesta del passaporto d’Israele intende fermarsi lì: «Troppo difficile inserirsi lavorativamente», dice ancora Valerij che sogna i paesi scandinavi.

Il dissenso al minimo sindacale

La decisione della dirigenza di tenere le frontiere aperte (ma nel Donbass con la dichiarazione della Legge marziale sono state prontamente chiuse) si basa su un calcolo cinico: più oppositori e refrattari alla leva se ne andranno, meno potenziali movimenti interni no-war potranno svilupparsi nel futuro. Si tratta tuttavia di calcoli che potrebbero rivelarsi superficiali, se la guerra dovesse continuare a lungo e la lista dei morti e degli invalidi diventasse insostenibile. Del resto le manifestazioni delle donne in Daghestan contro l’invio dei mariti e dei figli al fronte come carne da cannone la dice lunga su come si stia incrinando la narrazione putiniana sulla guerra. Non era mai avvenuta una mobilitazione spontanea di donne musulmane all’interno dei confini della Federazione russa e segnala quanto potrebbe essere inedita la crescita del femminismo in Russia.

I residenti del villaggio di Endirey in Daghestan hanno bloccato l’autostrada federale La polizia spara in aria a Khasavyurt-Makhachkala, dove le donne avevano inscenato una protesta contro la “mobilitazione parziale” dei loro uomini

Allo stesso tempo è evidente che i caratteri del rifiuto della guerra, per certi versi, assumono caratteristiche diverse da quelli della Prima guerra mondiale e pongono in modo nuovo la questione della lotta contro la guerra. Il’ja Budraytskis uno dei più importanti attivisti e intellettuali russi di sinistra, che ha deciso malgrado tutto di restare nel paese, ritiene che «ci sono importanti cose che chi ha deciso di emigrare può comunque fare». Come per esempio creare dei collegamenti stabili sia con gli altri fuoriusciti nei diversi paesi, naturalmente con chi sta in Russia al fine di giungere a una piattaforma comune di chi è contro la guerra. E allo stesso tempo produrre dei materiali di propaganda per chi è andato al fronte, lo sviluppo sistematico di una controinformazione sull’andamento reale del conflitto (anche se ricordiamo che ai reclutati russi a differenza di quelli ucraini sono stati tolti gli smartphone).

Straccioni mercenari, la carne da cannone

Come già nel caso dei contractors e dei “volontari” reclutati nei mesi precedenti, la parziale mobilitazione è stata selettiva in termini di classe anche sotto altri profili: non è casuale che la maggior parte dei mobilitati (secondo i dati ufficiali 230.000) sono attratti dalla possibilità di ricevere paghe da 200.000 rubli al mese (media nazionale 50.000) e moltissimi benefit quali la possibilità di formazione professionale e la possibilità di acquistare una casa a tassi agevolati nel dopoguerra.

Per esempio il governatore della Yugra, Natalija Komarova, ha deciso di fissare la paga del mobilitato a ben 250.000 rubli e altrettanti al momento della smobilitazione. Alle Sakhalin, in Chukotka e Yamal, si va anche oltre: pagano subito 300.000 rubli a testa. In Jakutia, il presidente Aisen Nikolajev ha addirittura emanato un decreto speciale in cui si afferma che, oltre a vari benefici, le famiglie dei residenti mobilitati riceveranno anche una somma forfettaria di 200.000 rubli. È stata diffusa un’altra promessa del presidente della Crimea Sergej Aksenov: ogni coscritto riceverà anche 200.000 rubli dalle autorità dell’unità militare in cui è stato arruolato. Il denaro dovrà arrivare sulla carta entro cinque giorni. Sembra che siano stati promessi 100.000 rubli ciascuno nelle regioni di Belgorod, Irkutsk, Kursk, Omsk, Tula, Adjgea e in diverse altre regioni.

La mobilitazione ha anche il suo lato industriale: andare a combattere spesso significa abbandonare posti di lavoro che sono comunque utili allo sforzo bellico neozarista nelle retrovie.

Gli operai della fabbrica non hanno voglia di combattere. A poco a poco dal fronte vengono a conoscenza della mancanza di tutto ciò di cui hanno bisogno e che devono comprare tutto a proprie spese, che vengono portati al fronte senza preparazione. Non ci sono nemmeno persone che hanno lasciato [il paese].

Dicono: «Dove potremmo andare? Siamo operai. Nessuno vuole gente come noi, cazzo» (l’intervistato si definisce operaio, ma si tratta di un ingegnere della difesa); e aggiunge: «L’atteggiamento dei soldati all’ufficio di arruolamento militare è brutale, ci chiamano “usa e getta”, prendono tutti indistintamente. Come se ci stessero preparando per il macello… Le persone sono diventate nervosissime, ci sono molti casi di depressione. Di fronte alla morte la loro paura della repressione svanisce», afferma un tecnico di una fabbrica di San Pietroburgo.

Molti, tuttavia, accettano il loro destino con fatalismo (tipicamente russo) e non sembrano essere pienamente consapevoli del grado di pericolo. Un fatalismo che molti pagano con la vita: secondo i servizi segreti britannici (che forniscono gli unici dati “equilibrati”) a settembre le perdite russe sarebbero state di oltre 16.500 uomini a cui aggiungere almeno 35.000 feriti).

La propaganda nazionalista di Kyiv basata sulla censura

“Dall’altra parte della barricata” le informazioni sono assai più ridotte. Da una parte sembra funzionare bene una certa censura “preventiva” messa in atto dal ministero della difesa ucraino, dall’altro, i fenomeni di diserzione e anche di malcontento tra le truppe sembrano essere più limitati temporaneamente. In questo senso l’arma della mobilitazione nazionalista sembra aver funzionato molto più per Zelenskij che per Putin e un certo grado di motivazione a combattere è presente sia nell’esercito regolare che tra le Unità Territoriali volontarie. Come ha ricordato da questo punto di vista Assembly, un gruppo libertario di Kharkhiv impegnato nella solidarietà internazionalista ma piuttosto tiepido verso la partecipazione alla “resistenza armata”:

«Dovremmo capire che l’unità nazionale degli ucraini intorno al potere di Zelenskij si basa solo sulla paura della minaccia esterna. Pertanto, gli atti sovversivi contro la guerra in Russia sono indirettamente una minaccia anche per la classe dirigente ucraina, ed è per questo che consideriamo il loro sostegno informativo un atto internazionalista».

Il malcontento sotto le braci dell’occupazione

Allo stesso tempo gli attivisti di Assembly ricordano come «nonostante l’assenza di una differenza qualitativa tra gli stati in guerra, essi differiscono quantitativamente: se tutti i soldati russi smettono di combattere, la guerra finirà, se lo fanno i soldati ucraini, finirà l’Ucraina. La zona di occupazione inizia a 20 km dalla circonvallazione della nostra città, e sappiamo cosa significa: la “scomparsa” di tutti gli abitanti almeno un po’ attivi e l’età della pietra per il resto della popolazione. Allo stesso tempo, dopo che le truppe russe hanno perso per lo più il loro potenziale offensivo, un’ondata di malcontento sociale ha iniziato a manifestarsi anche in Ucraina – ne abbiamo già parlato».

Il diritto a uscire dal paese e non partecipare al conflitto è anche rivendicato da Assembly, tuttavia la formale mobilitazione generale e la chiusura delle frontiere per i maschi in età adulta grazie alla diffusa corruzione nella società ucraina è stato spesso risolto praticamente da chi non intende fare da carne da cannone: secondo alcune fonti bastano poco più 100 dollari per “oliare” le guardie alla frontiera.
La diserzione vera e propria si è quindi concentrata nei periodi di maggiore difficoltà per l’esercito ucraino, durante la lunga offensiva russa nel Donbass di primavera scorsa. In quel periodo lo stesso presidente ucraino sosteneva che il suo esercito perdeva 200-300 uomini al giorno. Come riportava l’agenzia di stampa russa “Tass” all’epoca:

«I casi di diserzione delle truppe ucraine sono sempre più diffusi», ha dichiarato il servizio stampa del Ministero della Difesa. «Così, nei pressi del villaggio di Aleksandropil nella Repubblica Popolare di Donetsk, più di 30 militari ucraini di uno dei battaglioni della XXV Brigata aviotrasportata, dopo aver abbandonato le armi personali, hanno lasciato volontariamente le loro posizioni», si leggerà sull’agenzia russa.

Altri si erano avuti a inizio estate: il 22 giugno il Ministero russo ha dichiarato che i militari della 57a brigata di fanteria motorizzata ucraina che difendevano gli insediamenti di Gorske, Podleske e Vrubovka nella Repubblica Popolare di Luhansk, dopo aver perso oltre il 60% degli uomini, si sono rifiutati di eseguire gli ordini e hanno abbandonato volontariamente le loro posizioni.

Scarsi o nulli invece i fenomeni di fraternizzazione tra soldati dei due paesi slavi anche se alcune decine di soldati russi, dopo l’inizio della mobilitazione si sono volontariamente consegnati prigionieri alle Forze armate di Kyiv, pur di non combattere.

Il ministero della Difesa ha dichiarato che il comando ucraino è stato costretto a formare battaglioni separati di armi leggere con cittadini mobilitati non addestrati per compensare le perdite.


Questo articolo ha avuto un prequel embrionale in un intervento di Yurii su Radio Blackout  l’11 ottobre 2022. Ecco il podcast che espone ulteriormente l’analisi relativa ai tentativi di resistenza antimilitarista durante l’“Operazione speciale”:
“Quale narrazione della guerra in Ucraina esula dalla propaganda militare?”.

L'articolo La carne da cannone imparerà mai a sfuggire al macello? proviene da OGzero.

]]>
Il dazio dell’inondazione pakistana sulle tavole africane https://ogzero.org/il-dazio-dellinondazione-pakistana-sulle-tavole-africane/ Thu, 29 Sep 2022 13:56:07 +0000 https://ogzero.org/?p=9038 Cotone e riso sono stati spazzati via con conseguenze globali, Rispetto alle alluvioni del 2010, i danni di quest’anno sono 4 volte superiori. Con 50 milioni di persone colpite e più di 1100 uccise, circa il 90% dei terreni agricoli è stato spazzato via, colpendo le principali produzioni agricole del Pakistan: cotone e riso. Essendo […]

L'articolo Il dazio dell’inondazione pakistana sulle tavole africane proviene da OGzero.

]]>
Cotone e riso sono stati spazzati via con conseguenze globali, Rispetto alle alluvioni del 2010, i danni di quest’anno sono 4 volte superiori. Con 50 milioni di persone colpite e più di 1100 uccise, circa il 90% dei terreni agricoli è stato spazzato via, colpendo le principali produzioni agricole del Pakistan: cotone e riso. Essendo il paese il quinto produttore di cotone e il quarto di riso, l’impatto di questa perdita sarà sicuramente globale.
Di qui prendeva spunto l’articolo che abbiamo pubblicato di Masha Hassan sull’inondazione pakistana; l’autrice del pezzo ha poi approfondito gli addentellati collegati alla filiera del cotone, più che quella del riso, seguita invece dall’attenzione di Angelo Ferrari (già in luglio un suo intervento lanciava l’allarme alimentare, prima della guerra in Ucraina e dei disastri climatici) per le ripercussioni sull’alimentazione dell’Africa, riproponiamo qui il pezzo ripreso da “AfricaRivista” per completare l’analisi del cataclisma poco seguito dai media occidentali miopi di fronte alle conseguenze del cambiamento climatico subito nei disastri dal Sud del Mondo, ma prodotto soprattutto dal mondo industrializzato.


Secondo gli analisti molti governi dovranno far fronte all’aumento dei prezzi di mercato del riso, un alimento base per gli africani, dovuto alle catastrofi naturali che stanno colpendo l’Asia e alle nuove strette sulle esportazioni imposte da India, Vietnam e Thailandia.

L’Africa non ha pace. La sicurezza è messa a rischio dall’aumento dei prezzi delle materie prime e ora potrebbe aggravarsi ulteriormente per le inondazioni che hanno investito il Pakistan. Il continente africano deve far fronte all’aumento dei prezzi del grano e del mais a causa della guerra in Ucraina, ma, secondo molti analisti economici, dovrà far fronte anche all’aumento dei prezzi di mercato del riso, un alimento base per gli africani, a causa delle inondazioni che hanno investito il Pakistan e alla decisione dell’India di limitare le sue esportazioni.

L’accaparramento asiatico

L’India ha vietato le esportazioni di riso spezzato (frammenti di chicchi rotti) dopo l’inondazione e ha imposto un dazio del 20% sulle esportazioni di riso di qualità superiore. Con questa misura, il più grande esportatore mondiale cerca di abbassare i prezzi a livello locale, dopo che le piogge monsoniche sono state inferiori alla media. Le esportazioni potrebbero, grazie a questa misura, crollare del 25% nei prossimi mesi.

«Tutti i cereali sono aumentati, tranne il riso, ma ora si unirà a questa tendenza», ha spiegato Himanshu Agarwal, direttore di Satyam Balajee – il principale esportatore di riso indiano – sentito dalla Reuters.

Contemporaneamente Thailandia e Vietnam hanno deciso di aumentare i prezzi per remunerare meglio i loro agricoltori. Secondo Phin Zinell, economista alimentare presso la National Australia Bank, ci «saranno tensioni significative sulla sicurezza alimentare in molti paesi». E a farne maggiormente le spese, sarà l’Africa, tanto più che la situazione in Pakistan di fronte alle alluvioni che lo hanno investito potrebbe pesare sui prezzi mondiali.

«Il Pakistan è un grande esportatore di riso, ma un terzo del paese è sott’acqua e quindi il rischio, a lungo termine, è un aumento del prezzo del riso sul mercato internazionale», ha spiegato Nicolas Bricas, titolare della Cattedra mondiale dell’alimentazione dell’Unesco, sentito da France24.

Un altro fattore rischia di aggravare ulteriormente la situazione: la forte domanda cinese di rotture di riso per sostituire il mais, diventato troppo costoso per nutrire il bestiame, ha provocato un innalzamento dei prezzi.

Il fabbisogno africano

Tutto ciò, evidentemente, rappresenta una brutta notizia sul fronte della sicurezza alimentare nell’Africa subsahariana, che dipende in larga misura dalle importazioni di cereali bianchi dall’Asia. L’Africa, quest’anno, potrebbe assorbire il 40% del commercio mondiale di riso, ovvero 20 milioni di tonnellate, un vero e proprio record.

La dipendenza dalle importazioni di riso è cronica e durerà nel tempo, anche perché la produzione locale non è in grado di seguire la curva dei bisogni che cresce con la crescita demografica urbana. In Africa il riso è l’alimento preferito dagli abitanti delle città perché è un prodotto pronto all’uso a differenza dei tradizionali cereali, come il miglio e il sorgo, che hanno bisogni di una preparazione.

Se la sicurezza alimentare in Africa subsahariana non si base esclusivamente sul riso, come in altri continenti, questo rimane il secondo cereale più consumato dopo il mais. Un’impennata dei prezzi rappresenterebbe un nuovo colpo per le popolazioni africane, già indebolite dai prezzi dei generi di prima necessità, soprattutto quelli agricoli. La situazione è particolarmente critica nel Corno d’Africa, che sta attraversando una siccità mai vista negli ultimi quarant’anni. Secondo le Nazioni Unite, dall’Etiopia meridionale al Kenya settentrionale fino alla Somalia, 36 milioni di persone sono a rischio fame.

«Con l’aggravarsi della situazione della sicurezza alimentare in Etiopia, siamo particolarmente preoccupati per l’impatto che sta avendo su donne e ragazze. Anche se CARE è intervenuta tempestivamente con distribuzioni di cibo per alcune comunità colpite, oltre che con interventi nel settore agricolo, trasferimenti di denaro, salute e nutrizione e WASH, il bisogno insoddisfatto rimane sconcertante».

L’aumento del prezzo del riso è, dunque, atteso, ma secondo molti analisti dovrebbe rimanere contenuto e di breve durata. Di sicuro è un azzardo, anche se il raccolto dei principali paesi produttori ed esportatori – India, Thailandia e Vietnam – inizierà tra poche settimane. Questo riso dovrà andare ad aggiungersi alle scorte, già al massimo, e quindi dovrebbe spingere questi paesi a vendere il vecchio raccolto, allentando la pressione sul mercato. Ma bisognerà capire se i maggiori esportatori di riso applicheranno misure di protezionismo del proprio mercato interno.

Di sicuro gli effetti maggiori si vedranno nei primi mesi dell’anno prossimo. Occorre ricordare, infine, che il Pakistan esporta 4 milioni di tonnellate di riso all’anno, contro i 21 milioni dell’India. La domanda è: il mercato sarà in grado di resistere allo shock anche se il Pakistan, come è prevedibile, limiterà le sue esportazioni e l’India manterrà i dazi e il tetto alle esportazioni di riso?

L'articolo Il dazio dell’inondazione pakistana sulle tavole africane proviene da OGzero.

]]>
La crisi dissolve il voto tribale e la stabilità del Kenya? https://ogzero.org/la-crisi-dissolve-il-voto-tribale-e-la-stabilita-del-kenya/ Fri, 05 Aug 2022 14:46:33 +0000 https://ogzero.org/?p=8425 Il passaggio elettorale che il 9 agosto attende il Kenya è ancora un voto tribale che capita in uno snodo epocale manifestatosi come tempesta perfetta. Dopo una pandemia, che in Africa ha moltiplicato i suoi effetti per la carenza dei servizi; seguita da una guerra lontana, che ha ripercussioni peggiori di quelle nel medesimo Corno […]

L'articolo La crisi dissolve il voto tribale e la stabilità del Kenya? proviene da OGzero.

]]>
Il passaggio elettorale che il 9 agosto attende il Kenya è ancora un voto tribale che capita in uno snodo epocale manifestatosi come tempesta perfetta. Dopo una pandemia, che in Africa ha moltiplicato i suoi effetti per la carenza dei servizi; seguita da una guerra lontana, che ha ripercussioni peggiori di quelle nel medesimo Corno d’Africa per la carestia che provoca – con il corredo di shabab che destabilizzano l’intera area; una siccità devastante che sta prostrando il paese. Forse tutto questo può provocare un cambiamento nel sistema del voto tribale che da sempre regola gli equilibri di potere nel paese africano tra i più sviluppati di quelli che si affacciano sull’Oceano Indiano. Riprendiamo per questo il bell’articolo pubblicato sull’Agi da Angelo Ferrari, che è il responsabile della parte africana della nostra collana sulle città e che ha voluto fortemente che Freddie Del Curatolo scrivesse il volume dedicato a Nairobi.    


Gli schieramenti del voto tribale

Mancano pochi giorni alle elezioni presidenziali del 9 agosto in Kenya. La campagna elettorale, tuttavia, si è svolta in un clima di apatia, di disillusione politica e, soprattutto, è stata segnata dalla crisi economica e dall’elevato costo della vita con un’impennata dei prezzi dei generi di prima necessità; mettendo da parte il fattore etnico da sempre determinante nelle elezioni.
Quattro sono i candidati in corsa per la presidenza – in Kenya si voterà anche per le legislative – tra cui il vicepresidente William Ruto e Raila Odinga, ex leader dell’opposizione e ora sostenuto dal presidente uscente Uhuru Kenyatta. A contendersi la poltrona più alta del paese anche gli avvocati David Mwaure e George Wajackoyah – una eccentrica ex spia che vuole legalizzare la cannabis – con pochissime chance di vittoria. Le elezioni si prospettano come un serrato duello tra Ruto e Odinga. Chi vincerà? È difficile dirlo, sembra quasi demandato a un lancio di monetina: tutto si giocherà all’ultimo voto.

Oligarchie e loro interrelazioni malate alle urne

I due favoriti, i cui ritratti campeggiano su enormi cartelloni pubblicitari in tutto il paese, sono volti noti ai keniani. Odinga, 77 anni, è un veterano della lotta democratica, che ha vissuto il carcere prima di diventare primo ministro (2008-2013); si candida alla presidenza per la quinta volta. Ruto, 55 anni, ha ricoperto la carica di vicepresidente per quasi un decennio come delfino del presidente in carica Kenyatta, che lo aveva designato come suo successore. Ma le cose sono poi andate diversamente: un’alleanza inaspettata tra Kenyatta e Odinga lo ha messo da parte già nel 2018. Con un capovolgimento della politica keniana, del resto molto versatile, Odinga è diventato il candidato del presidente uscente; Ruto, da membro del potere, si è trovato a sfidarlo.

«“Evitate di eleggere un ladro”, ha affermato Kenyatta riferendosi chiaramente, pur senza nominarlo, a Ruto. “Non voglio sentirvi piangere e avere rimorsi di coscienza. Ci sono persone che raccontano storie simpatiche, sono dolci come il miele e sanno essere convincenti, ma sono veleno”» (“AfricaRivista”).

Comunque vadano le elezioni si aprirà una nuova pagina dopo oltre vent’anni di presidenze Kikuyu, la prima e molto influente etnia del paese. Infatti Odinga è un Luo e Ruto un Kalenjin, come sentiamo da Freddie Del Curatolo in questo duetto radiofonico con Angelo Ferrar, avvenuto sulle frequenze di Radio Blackout.

Percentuali di tribalità e affarismo sulla bilancia elettorale keniota

Un sistema corrotto, populista ed elitario

La politica keniana degli ultimi anni è stata segnata da manovre di palazzo che non hanno fatto altro che accrescere la disaffezione della popolazione nei confronti della politica. È aumentata l’apatia soprattutto tra i giovani che hanno risposto con meno entusiasmo all’iscrizione nelle liste elettorali. I 22,1 milioni di elettori iscritti dovranno votare per il presidente, ma anche per i parlamentari, i governatori e per circa 1500 funzionari locali elettivi.
C’è disillusione e sono in molti coloro che pensano che la politica non risolverà i problemi della gente, chiunque verrà eletto farà le stesse scelte del suo predecessore. E poi c’è un paese afflitto dalla corruzione che è diventata endemica. Odinga nella sua campagna elettorale ha proprio dato la priorità alla lotta a questo flagello, nominando come vicepresidente l’ex ministro Martha Karu, ritenuta una donna inflessibile proprio sul tema della corruzione, e denunciando i procedimenti legali contro il compagno di corsa di Ruto, Rigathi Gachagua.
Lo sfidante di Odinga ha impostato tutta la campagna elettorale ergendosi a paladino del popolo, promettendo aiuti e lavoro quando tre keniani su dieci vivono con meno di 2 dollari al giorno, secondo la Banca Mondiale…

… e il Fmi “supporta” la crisi

A tenere banco, però, in questa campagna elettorale, è stato il tema del potere di acquisto e la crescita drammatica dei prezzi dei generi di prima necessità.

Eastleigh, Nairobi

Nairobi, Eastleigh in uno scatto di Leni Frau

Un fattore destabilizzante per il Kenya, locomotiva economica dell’Africa orientale, scossa prima dalle conseguenze della pandemia da Covid, poi dalla guerra in Ucraina e infine da una grave siccità che non si vedeva da 40 anni. E a pagarne le conseguenze sono tutti: la gente che acquista sempre meno e i commercianti frustrati dall’innalzamento dei prezzi dei generi alimentari. In questo contesto la questione economica potrebbe soppiantare il voto tribale, da sempre fattore chiave presente nelle cabine elettorali.

Tè, caffè; parchi, spiagge… golf e slum

Nonostante ciò il Kenya è da sempre una delle economie più dinamiche dell’Africa orientale e si è sempre preso cura della sua immagine di hub regionale. Il suo profilo è atipico in Africa: relativamente poche risorse naturali ma un notevole dinamismo economico, in particolare nel settore dei servizi. L’agricoltura è anche uno dei suoi pilastri (22% del Pil) e la principale fonte di esportazione (tè, caffè, fiori). Dopo un calo dello 0,3% correlato alla pandemia del 2020, l’economia del Kenya ha iniziato a riprendersi nel 2021.
Un altro fattore determinante è il turismo, grazie alla cinquantina tra parchi e riserve naturali e alle coste dalle acque cristalline dell’oceano Indiano, che hanno attratto, nel 2021, circa 1,5 milioni di visitatori e che sta crescendo nell’anno in corso. Ma i prezzi del carburante e del cibo sono aumentati vertiginosamente negli ultimi mesi, in particolare quello della farina di mais – cibo base – alimentando così la frustrazione in un paese afflitto dalla corruzione endemica.

Grafico della corruzione percepita nel periodo 2012-2021 in Kenya

Nel 2021 il Kenya è stato classificato al 128esimo posto su 180 paesi da Trasparency International. Le diseguaglianze, inoltre, sono evidenti in Kenya, dove i campi da golf e gli slum possono essere adiacenti e dove il salario minimo mensile è di 15.120 scellini (124 euro). Secondo la ong Oxfam, il patrimonio dei due keniani più ricchi è maggiore del reddito combinato del 30% della popolazione, ovvero 16,5 milioni di persone.

L’impianto tribale di una nazione giovane

La popolazione di circa 50 milioni di persone è per lo più giovane e cristiana. Degli oltre 40 gruppi etnici, i Kikuyu sono il gruppo più numeroso, davanti ai Luhya, ai Kalenjin e ai Luo. Il fattore etnico da sempre gioca un ruolo fondamentale nello stampo elettorale del voto tribale, ma è anche stato un fattore destabilizzante. Sono trascorsi, infatti, quindici anni dalle violenze postelettorali del 2007-2008 che hanno provocato più di 1100 morti, principalmente negli scontri da Kikuyu e Kalenjin. Una ferita mai rimarginata che pesa ancora oggi.

Fotografia del voto tribale: ogni centimetro è coperto dai cartelloni elettorali nel 2017 nella Contea di Nanok, zona Masai

Nel 2017, la contestazione dei risultati elettorali da parte di Odinga ha provocato una severa repressione delle manifestazioni da parte della polizia che ha provocato decine di morti. I risultati elettorali, negli ultimi vent’anni, sono sempre stati contestati, anche davanti alla Corte Suprema nel 2013 e nel 2017, queste ultime presidenziali sono state annullate per “irregolarità” – una prima volta in Africa – e Kenyatta è stato eletto con un nuovo scrutinio.

Lo spettro di possibili violenze incombe anche su queste elezioni presidenziali. La Commissione nazionale per la coesione e l’integrità, un organismo di promozione della pace creato dopo le violenze del 2007-2008, ha stimato in un recente rapporto che la probabilità di violenze nel periodo elettorale è del 53%. L’augurio è che dentro le urne non prevalga il fattore etnico, ma la volontà di rendere stabile la democrazia in Kenya.

L'articolo La crisi dissolve il voto tribale e la stabilità del Kenya? proviene da OGzero.

]]>
Società civile e popoli indigeni: protagonisti dell’accordo di Escazú https://ogzero.org/l-accordo-di-escazu-parla-la-societa-civile-e-i-popoli-indigeni/ Wed, 04 May 2022 15:31:08 +0000 https://ogzero.org/?p=7267 L’America Latina e il Caribe compongono una delle regioni del pianeta con maggiore megadiversità, possiedono cioè un immenso patrimonio di specie animali, vegetali ed ecosistemiche. Inoltre, in questo subcontinente si trova il 28% delle terre coltivabili, un terzo delle riserve di acqua dolce e il 22% delle foreste mondiali. Allo stesso tempo, la regione latinoamericana […]

L'articolo Società civile e popoli indigeni: protagonisti dell’accordo di Escazú proviene da OGzero.

]]>
L’America Latina e il Caribe compongono una delle regioni del pianeta con maggiore megadiversità, possiedono cioè un immenso patrimonio di specie animali, vegetali ed ecosistemiche. Inoltre, in questo subcontinente si trova il 28% delle terre coltivabili, un terzo delle riserve di acqua dolce e il 22% delle foreste mondiali. Allo stesso tempo, la regione latinoamericana è la seconda al mondo per esposizione e vulnerabilità a disastri naturali, che gli effetti del cambio climatico stanno intensificando rapidamente. Infine, l’elevato numero di conflitti socio ambientali in questa area del mondo è legato principalmente alle attività di deforestazione, all’agro business e allo sfruttamento minerario, oltre all’installazione di grandi idroelettriche e mega impianti di energie rinnovabili.

Difensori della terra e della vita

Secondo l’ultimo rapporto della ong Global Witness, durante il 2020 sono avvenuti nel mondo 227 omicidi di persone che difendono la terra, più di 4 alla settimana. È la cifra più alta registrata dal primo monitoraggio del 2012, questo significa che la pandemia e le misure di isolamento non hanno frenato la violenza. Sette dei dieci paesi più colpiti si trovano in America Latina e più di un terzo degli attacchi sono rivolti contro popolazioni indigene.

È in questa cornice che, tra il 20 e il 22 aprile appena passati, si è svolta a Santiago del Cile la prima Conferenza delle Parti (COP) dell’accordo regionale sull’accesso all’informazione, la partecipazione pubblica e la giustizia in materia ambientale in America Latina e nei Caraibi, conosciuto come Accordo di Escazú, dal nome della località dove è stato approvato, in Costa Rica, nel 2018.

Si tratta del primo trattato regionale latinoamericano in materia ambientale – simile alla Convenzione di Aarhus europea, che l’Italia ha ratificato nel 2001 – ma è l’unico al mondo a contenere disposizioni specifiche per la protezione degli attivisti ambientali.

Stabilire come si traduce questo principio in meccanismi e dispositivi concreti sarà uno dei compiti del Comitato di appoggio all’applicazione e al compimento di Escazú, la cui creazione è stato uno dei maggiori risultati di questa COP e che il prossimo anno eleggerà i suoi 7 rappresentanti tra figure indipendenti dalle istituzioni governative e con traiettoria in democrazia ambientale.

L’idea è che serva ad «assicurare l’applicazione delle norme di Escazú, che l’accordo non resti lettera morta», spiega Natalia Gómez, della Ong EarthRights International, una dei sei rappresentanti della società civile alla COP. Quando il Comitato si sarà installato, qualsiasi persona di un paese aderente a Escazú potrà denunciare una violazione direttamente a questa istituzione che dovrà mettere in atto misure di protezione, «è in questo modo che comincerà realmente l’implementazione dei dispositivi di difesa degli attivisti» conclude.

 

La partecipazione è l’essenza di Escazú

Il traguardo della prima COP di Escazú è in realtà soltanto un inizio: tra gli obiettivi della tre giorni di Conferenza c’erano l’elezione del tavolo direttivo e l’approvazione del regolamento interno, documento già ampiamente discusso dai 12 paesi aderenti. Per questo ha colto tutti di sorpresa la proposta della delegazione boliviana di eliminare la partecipazione del pubblico dalle decisioni in materia ambientale, durante la giornata di giovedì 21 aprile. Si tratta di una condizione che è stata inserita nel trattato fin dal 2014, durante il lungo cammino di negoziazioni che hanno portato all’attuale Conferenza.

«Eliminare la partecipazione del pubblico significa tradire lo spirito dell’Accordo», ha affermato lapidario il leader indigeno Nadino Calapucha di fronte alla riunione plenaria, attorno al tavolo rotondo della sede della CEPAL. Con il volto dipinto e il copricapo di piume della sua comunità, il portavoce del Coordinamento di Organizzazioni Indigene della Regione Amazzonica (COICA) ha chiamato a rispettare uno dei pilastri di Escazú: la possibilità che, al tavolo direttivo, prenda la parola qualsiasi persona proveniente dai territori dei paesi aderenti.

L’intervento di Nadino Calapucha (foto Cepal).

Il momento di tensione è rientrato grazie al rifiuto unanime della proposta presentata dalla Bolivia da parte degli oltre 700 delegati presenti, ed è stata così confermata la presenza di un rappresentante del pubblico, inteso come la società civile in senso ampio, al tavolo direttivo della Conferenza.

Ma i delegati del COICA sono andati oltre, con la richiesta di un posto riservato a un portavoce dei popoli indigeni. «Non c’è Accordo di Escazú senza i popoli indigeni», afferma Lolita Piyahuaje, vicepresidente della Confederazione delle Nazioni Indigene dell’Amazzonia Ecuadoriana (CONFENIAE) presentando la proposta, che prevede anche l’implementazione di un caucus, un’assemblea indigena nella COP.

José Gregorio Díaz Mirabal, coordinatore generale del COICA, ha ricordato il Principio 10 della Dichiarazione di Río sull’ambiente del 1992, «che è stato il primo germoglio da cui nato l’Accordo di Escazú», in cui si afferma che «il miglior modo per trattare le questioni ambientali è con la partecipazione di tutti i cittadini interessati», evidenziando che «ci sono 476 milioni di indigeni nel mondo, in America Latina siamo 58 milioni, 826 popoli, non è un tema secondario la partecipazione indigena a Escazú, perché stiamo parlando delle nostre vite, dei nostri diritti, dei nostri territori».

Difensori del territorio, popoli indigeni e giovani generazioni

Durante la COP si sono formati due gruppi di lavoro coordinati dai sei rappresentanti del pubblico, uno ha raccolto l’urgenza della situazione in cui si trovano i difensori ambientali, mentre l’altro ha preso in carico la richiesta di una specifica rappresentanza indigena. «Abbiamo lavorato sulla proposta, che ora deve ottenere l’appoggio di un paese aderente per entrare in discussione», spiega Andrea Sanhueza, direttrice del centro studi cileno Espacio Público e una delle sei persone che attualmente rappresentano la società civile alla Conferenza. Aggiunge che nel frattempo il seggio messo in discussione dalla Bolivia e infine confermato è aperto perché possa sedersi al tavolo delle trattative chiunque lo richieda. «Nessuno può metterlo in discussione perché come pubblico abbiamo diritto a stare nelle negoziazioni», continua Andrés Napoli, un altro degli attuali rappresentanti, direttore della fondazione ambientalista argentina FARN. «Se la mettiamo al voto, ci sono paesi che potrebbero opporsi a una delegazione indigena, ma se c’è un portavoce indigeno seduto nel seggio del pubblico la riunione comincia, questo lo possiamo dire per esperienza».

Secondo i rappresentanti, che saranno eletti nuovamente il prossimo agosto, un’altra differenza importante rispetto alle COP sul cambio climatico che conosciamo da anni è che la società civile non prende la parola alla fine, quando la maggior parte dei delegati se n’è già andata e nessuno ascolta, ma durante il dibattito, alla pari con i funzionari degli stati, e questo favorisce la capacità di incidere nelle decisioni, nonostante il pubblico abbia solo diritto di parola e non di voto.

La società civile prende la parola durante il dibattito (foto Cepal).

«Stiamo iniziando una campagna per invitare le generazioni più giovani a candidarsi per essere i prossimi rappresentanti del pubblico», conclude Sanhueza, riferendosi alla grande presenza di giovani a seguire le attività della COP e all’importanza che abbiano a loro volta un ruolo di rilievo nelle negoziazioni tra i paesi membri.

L’Accordo di Escazú è uno strumento necessario per l’America Latina e il Caribe, ma la sua reale efficacia dipenderà proprio dalla società civile organizzata e dalla sua capacità di incidere nelle decisioni politiche. Una delle principali sfide è ottenere l’adesione dei paesi che non hanno ancora firmato l’accordo: solo 12 dei 33 che compongono la regione sono attualmente parte del tavolo direttivo, altri 12 hanno firmato ma non ratificato e restano in una posizione di osservatori, come il Cile, che ha dato un passo avanti a marzo, con l’assunzione del nuovo governo di Gabriel Boric.

Delle nazioni che condividono il bacino amazzonico, per esempio, fanno parte dell’accordo solo l’Ecuador, la Guyana e la Bolivia, e quest’ultima ha rivelato la sua polemica posizione. Guyana francese, Suriname e Venezuela sono tra i firmatari, mentre la Colombia, il Brasile e il Perù sono i grandi assenti.

I pericoli per l’Amazzonia

«Noi siamo i difensori della vita, chi ci difende?», si domanda durante gli incontri organizzati dalla COP Elsa Merma Ccahua, presidente dell’Associazione di Donne che difendono il territorio e la cultura K’ana a Espinar, nella regione di Cuzco in Perù. «Io sono portavoce di organizzazioni sociali di 11 regioni peruviane che affrontano malattie per metalli pesanti e tossici, conviviamo da 40 anni con le imprese minerarie», spiega. L’estrazione mineraria ha prodotto contaminazione nella zona e colpisce direttamente le comunità contadine originarie: «i nostri animali stanno morendo di malattie sconosciute, le coltivazioni nella chakra si sono impoverite. Come donne, soprattutto, siamo private della terra che è il nostro sostento per mantenere la famiglia, educare i figli, è la nostra sicurezza alimentare».

Nella provincia di Pangoa in Perù, proprio il giorno prima dell’inizio della COP è stato assassinato Ulises Rumiche, leader di un’organizzazione di popoli originari amazzonici, mentre tornava alla sua comunità dopo una riunione con funzionari ministeriali.

In Brasile e in Perù quasi tre quarti degli omicidi avvengono nella zona amazzonica e solo in Colombia sono state uccise 65 persone durante il 2020, portando questo Paese in cima alla lista mondiale stilata da Global Witness per il secondo anno di fila.

In Brasile, il presidente Jair Bolsonaro è stato denunciato davanti alla Corte Penale Internazionale per le sue responsabilità nella deforestazione dell’Amazzonia, eliminando e ostacolando gli organismi e le leggi che proteggono il polmone verde del pianeta. La denuncia, sostenuta da un’equipe di esperti insieme alla ong AllRise, ha calcolato che si può imputare al governo di Bolsonaro la perdita di circa 4000 km quadrati di selva all’anno, da quando ha assunto la presidenza nel 2019 il tasso di deforestazione è aumentato fino all’88%. Il Brasile andrà alle elezioni il prossimo ottobre e la ricandidatura di Lula da Silva potrebbe indicare un cammino diverso nei confronti della foresta amazzonica. In Colombia invece le presidenziali saranno il prossimo 29 maggio e per la prima volta da decenni esiste una possibilità che la coalizione di centro sinistra del Pacto Histórico possa vincere sulla destra legata alla figura di Alvaro Uribe, mentre il progetto di legge per approvare l’Accordo di Escazú nel paese è tornato in discussione al Congresso la scorsa settimana scorsa.

(Foto Cepal)

I prossimi appuntamenti della COP sono nel 2023 per una riunione straordinaria in Argentina, dove saranno eletti i sette responsabili del Comitato incaricato di verificare l’applicazione e il compimento delle regole del trattato, e nel 2024 nuovamente a Santiago del Cile. Qui, il risultato dei prossimi appuntamenti politici nella regione potrebbe avere una forte influenza per avanzare nella protezione dei beni naturali latinoamericani e di chi li difende.

L'articolo Società civile e popoli indigeni: protagonisti dell’accordo di Escazú proviene da OGzero.

]]>
La distribuzione delle armi ai patrioti https://ogzero.org/la-distribuzione-delle-armi-ai-patrioti/ Mon, 28 Feb 2022 02:36:46 +0000 https://ogzero.org/?p=6548 Non è compito, né obiettivo di OGzero riportare notizie, anche se stravolgono il mondo e condizionano ogni aspetto della geopolitica, finché non si decanta il polverone che sollevano, consentendo un’analisi distaccata di ciò che provocano. Questa la natura analitica del sito; poi OGzero ha una sua componente parziale, schierata – per quanto cinica – e […]

L'articolo La distribuzione delle armi ai patrioti proviene da OGzero.

]]>
Non è compito, né obiettivo di OGzero riportare notizie, anche se stravolgono il mondo e condizionano ogni aspetto della geopolitica, finché non si decanta il polverone che sollevano, consentendo un’analisi distaccata di ciò che provocano. Questa la natura analitica del sito; poi OGzero ha una sua componente parziale, schierata – per quanto cinica – e contraria a ogni autoritarismo e militarismo che rivendichiamo come tratto distintivo. E che ci spinge a intervenire quando un’enormità inaccettabile viene assorbita come se non si trattasse di una barbarie: un’“involuzione copernicana”, che non è tanto l’invasione di un paese ex satellite da parte di un autocrate riconosciuto (Biden ha definito Putin un “killer” a inizio mandato), ma che l’Unione Europea con la sua prosopopea sull’approccio burocraticamente democratico si riduca al rango di trafficante per delegare un suo contenzioso. Questo passo è la vera svolta della vicenda ucraina, che per il resto dal punto di vista geopolitico è una delle innumerevoli situazioni di conflitto che ammorbano il pianeta.


Le infinite declinazioni degli aggettivi bellici

La guerra boot on the ground e il Glovo dei missili anticarro

Abbiamo anche avviato uno studium – non perché subodoravamo risvolti guerrafondai, ma perché l’escalation delle guerre di droni e nuovi sistemi di difesa e offesa è in atto da alcuni anni, producendo sempre nuove guerre – che ci impegna per l’intero 2022 (e forse anche oltre) a monitorare le movimentazioni, le consegne, i traffici di armi nel mondo, perché laddove c’è una transazione di questo tipo, prima o poi quell’arma viene usata. Non siamo anime belle che pensano che l’Europa non venda armi a chi è impegnato in un conflitto (chi se non i combattenti adoperano, consumano e ricomprano altre armi, se non chi le sta usando?) e quindi non ci stupiamo che si stanzino alcune centinaia di milioni per comprare armi da girare a un combattente, preoccupa che venga fatto senza infingimenti: hanno trovato il pretesto per poter moltiplicare gli affari per l’industria bellica senza dover pagare dazio. Senza contare che avevano già iniziato il giorno prima degli annunci ufficiali di Von der Leyen, a consegnare – come da consuetudine – armi ai belligeranti:

Guido Limpio, Missili e lanciarazzi. Italia, i primi soldati, “Corriere della Sera”, 27 febbraio 2022, p. 11. Pubblicato la sera precedente l’annuncio di Ursula Von der Leyen sugli stanziamenti UE per acquisto di armi da consegnare all’Ucraina

Il rilievo che ci viene spontaneo è il fatto che la tipologia degli articoli del delivery europeo via Polonia (ma anche le repubbliche baltiche sono tra i protagonisti più attivi già da alcune settimane nella distribuzione) denuncia la classificazione di quella che sarà la proxy war nel cortile di casa per alcuni anni: armi per un contrasto sul terreno, invischiando l’armata russa nella trappola scavata al suo confine a cominciare da Maidan.

Equipaggiamenti per guerre non lineari e guerriglia urbana

E infatti come sito attento ai rivolgimenti geopolitici siamo mitridatizzati alle guerre: uguali a quella carpatica ce ne sono state e se ne stanno combattendo molte altre nel mondo, certo non con una delle 3 potenze mondiali come protagonista diretta, ma sempre sullo sfondo si trovano impegnate tutte le potenze globali e locali. Perciò del gran polverone suscitato in questi giorni ciò che maggiormente indigna OGzero è il fatto che per la prima volta l’UE sovvenziona ufficialmente l’acquisto di armi per consegnarle a un paese terzo in guerra. Non siamo anime belle illuse che immaginano che con le manifestazioni di un weekend si possa fermare una determinazione alla imposizione delle proprie visioni deliranti da parte di un potere che usa spietati mercenari dovunque, uccide oppositori con il polonio, ammazza giornalisti come regalo di compleanno, sostituisce il colonialismo della Françafrique; ci indigniamo piuttosto a scoprire che un cancelliere socialdemocratico, appena valuta le centinaia di migliaia di migranti ucraini che premono ai confini, fa strame di scelte decennali e decide il riarmo tedesco – che non si può sentire dopo la Seconda guerra mondiale e le macerazioni degli anni Settanta a elaborare il senso di colpa di una nazione (cosa che l’ipocrisia cattolica italiana non ha mai consentito) – trovando 100 miliardi (!!!) per rinnovare la Bundeswehr… nemmeno Merkel sarebbe arrivata a una tale faccia di bronzo. Ma sicuramente il rinnegamento dei “valori europei” maggiore è quello che vede l’intera Unione allineata a rinunciare a ogni retorica – bastano 300.000 migranti – e vendere armi letali per costituire una guerriglia antirussa, affidandole probabilmente a Pravi Sektor e al Battaglione di Azov: più nazisti del modello collaborazionista di Bandera. Piuttosto che trovarsi 7 milioni di migranti (bianchi e caucasici) all’uscio, si impedisce che possano emigrare se hanno meno di 60 anni e più di 18 (coscrizione obbligatoria!), li si approvvigionano di armi e si organizza una guerriglia per procura; gli stessi razzisti polacchi che fino a un mese fa hanno fatto morire di freddo e fame nella foresta, riempiendoli di botte, quei migranti che arrivano dalle guerre scatenate dall’Occidente (afgani, africani, di “speci” evidentemente non abbastanza “famigliari”), accolgono fraternamente – e giustamente – i fuggitivi dai massacri della guerra perpetrata da Putin in Ucraina (ma non le sue vittime siriane).

Manifesto anarchico russo: “ No alla guerra degli oligarchi! Vogliono il carbone del Donbass? Combattano e muoiano loro”

Guerra ibrida e guerra nucleare ipermediatizzata: armi tattiche e molotov

La soluzione sarebbe dunque una proxy war in più (in Yemen siamo già oltre i 300.000 morti civili, ma sono distanti e arabi), fa solo più effetto perché europea e perché il bullo del Cremlino sventola la minaccia delle armi tattiche nucleari cercando di mantenere un ruolo da cattivo credibile dopo lo smacco per il fatto che la Blitzkrieg non è riuscita nemmeno questa volta (ricordate dall’altro lato la Mission accomplished?). Inquieta anche perché gli ucraini vengono trattati da europei di serie B – un nuovo apartheid all’interno del continente –  rimandati indietro al confine e “invitati” a imbracciare i fucili e fabbricare le molotov – se solo avessimo preparato in Valsusa gli stessi “pintoni attivi” in favore di telecamera saremmo pericolosi insurrezionalisti – per assaltare carri armati russi; addirittura si agevolano arruolamenti di volontari targati Europa, mentre i compagni che sono andati a condividere la lotta curda in Rojava (quella davvero una lotta antinazista) sono in sorveglianza speciale. Infingimenti geopolitici: guerra mediatica.

Istruzioni per la preparazione di una bottiglia molotov sui social ucraini

Istruzioni per la preparazione di una bottiglia molotov sui social ucraini

La guerra geopolitica

Si evidenzia allora una stortura che ci fa sospettare che la guerra non sia poi così ideologica come vorrebbe spacciare il Cremlino con il suo improbabile antinazismo, ma smaccatamente geopolitica, come non possono ammettere né Biden (che costringe il mondo a schierarsi, per occuparsi del quadrante indopacifico – ottenendo la neutralità dell’India da un lato, ma anche del Kazakhstan dall’altro… e la preponderanza degli affari nelle scelte degli “alleati” arabi; e che dire dell’imbarazzo turco sul trattato di Montreux e il diritto di chiusura dei Dardanelli che non si capisce come e se viene applicato o meno alle navi da guerra russe?). Tantomeno può definirlo “conflitto geopolitico” l’attendismo cinese – che cerca di capire come sfruttare l’occasione con Taiwan, e gli conviene che si ammanti il tutto di nobili principi degni di una guerra santa, o di liberazione; né gli europei spacciatori di armi letali, un altro aspetto tipico della geopolitica, ammantato come sempre di idealismo di liberazione. Come geopolitiche sono le conseguenze delle sanzioni: tutte avvantaggiano le risorse americane. Il gas – molto più caro, perché va trattato – verrebbe erogato da un ponte navale transatlantico, che legherebbe ancora di più gli europei arruolati dallo Zio Sam; le chiusure di rotte aeree richiederanno maggiore consumo di idrocarburi, forniti da Usa e mondo arabo… NordStream2, capitolo chiuso e nuova umiliazione tedesca (che non è mai una bella cosa, se ricordiamo le cause dell’ascesa di Hitler).

Ascolta “Paralisi e delirio a Mosca. Europa anno zero?” su Spreaker.

 

Quindi ci saremmo aspettati anche da Bruxelles reazioni tipicamente geopolitiche, tattiche come le sulfuree mosse del Cremlino, test di alleanze come quelle intessute da Washington, persino i traccheggiamenti in punta di diritto internazionale di Ankara (che evidentemente non considera concluso il rapporto privilegiato con Putin all’interno degli Accordi di Astana e non intrappola le navi russe nel Mar Nero, pur vendendo droni all’Ucraina), o il sornione attendismo di Pechino… invece si spaccia per raffinato pensiero il nuovo ruolo di mediatori di ordigni per guerriglia che l’impaurita Europa si è ritagliata, facendo strame del raffinato pensiero contro la guerra e interpretando la strategia politica come tattica da trafficante. L’Europa come comparsa in commedia nel ruolo del trafficante: una nuova accezione della esigenza di “aiutarli a casa loro”, fornendogli le armi e alimentando altro fiero nazionalismo. Ma schierandosi così in modo esplicito contro Mosca, rimanendo facili bersagli dei missili tattici per impaurire meglio l’opinione pubblica, quella sì non geopolitica ma ideologizzata dai media mainstream.

Comunque dove ci sono molotov che volano addosso al potere costituito o a un esercito di occupazione, qualunque esse siano, ci trovano solidali

L'articolo La distribuzione delle armi ai patrioti proviene da OGzero.

]]>
La rapacità estrattivista distrugge aree protette dell’Amazzonia https://ogzero.org/non-e-un-approccio-a-favore-dell-ambiente/ Fri, 11 Feb 2022 22:06:31 +0000 https://ogzero.org/?p=6285 Due diversi sversamenti di greggio hanno inquinato in gennaio enormi aree protette dell’Amazzonia ecuadoriana attorno a Piedra Fina e le coste peruviane nei pressi di Lima, tra due riserve naturali. Le ricostruzioni riconducono a cause evitabili, se si seguissero protocolli di sicurezza o materiali resistenti, ma ciò che risulta subito evidente è che la causa […]

L'articolo La rapacità estrattivista distrugge aree protette dell’Amazzonia proviene da OGzero.

]]>
Due diversi sversamenti di greggio hanno inquinato in gennaio enormi aree protette dell’Amazzonia ecuadoriana attorno a Piedra Fina e le coste peruviane nei pressi di Lima, tra due riserve naturali. Le ricostruzioni riconducono a cause evitabili, se si seguissero protocolli di sicurezza o materiali resistenti, ma ciò che risulta subito evidente è che la causa prima del disastro ecologico è il sistema estrattivista di un capitalismo rapace, le cui scelte di privatizzazione e di catene di approvvigionamento insicure sono improntate al massimo profitto. E non è mai un approccio a favore dell’ambiente, come si evince dall’esposizione di Diego Battistessa, che in questo pezzo accomuna i due eventi proprio per la riconducibilità palese al sistema di sfruttamento delle risorse fossili.


Nel mese di gennaio due gravissimi disastri ambientali hanno colpito il Perù e l’Ecuador. Non si tratta di casi isolati ma di esternalità negative prodotte da strategie economiche di estrattivismo massivo: esternalità che nel corso degli anni vengono ciclicamente prodotte da un capitalismo predatorio che in America Latina trova il suo asse portante nell’estrazione mineraria e nello sfruttamento delle risorse idriche e di idrocarburi. Le imprese private alla quali i governi latinoamericani garantiscono (o hanno garantito) concessioni lucrative e una quasi totale impunità, hanno calpestato per anni i diritti delle popolazioni indigene, non rispettando in molti casi la Convenzione dei popoli indigeni e tribali del 1989 (n. 169) dell’Oit che garantisce alle stesse il diritto del consenso libero, preventivo e informato sulla costruzione e/o attivazione di progetti con grande impatto socio-ambientale nei loro territori.

Il continuo attacco alle coste pacifiche

Non è un approccio a favore dell'ambiente

21 spiagge di Ventanilla, Santa Rosa y Áncón sono inerdette dopo lo sversamento di petrolio del 15 gennaio 2022

Il primo disastro in ordine di tempo è quello avvenuto in Perù, dove uno sversamento di 11.000 barili di petrolio avvenuto il 15 gennaio nella raffineria La Pampilla (nel quale è coinvolta la petroliera italiana Mare Doricum) ha contaminato decine di chilometri di costa tra cui due aree protette: la  Zona Reservada de Ancón e la Reserva Nacional Sistema de Islas, Islotes y Puntas Guaneras. Lo sversamento si sarebbe prodotto (da quanto ricostruito fino a ora) mentre la Mare Doricum, stava consegnando il suo carico di petrolio nella raffineria gestita dalla compagnia petrolifera spagnola Repsol. Durante le operazioni di scarico la petroliera sarebbe stata colpita dallo tsunami provocato dall’eruzione del vulcano Hunga Tonga-Hunga Ha’apai (Tonga, Oceania): esploso proprio il 15 gennaio liberando una quantità di energia tra i 5 e i 30 megatoni di Tnt (secondo le prime stime realizzate dalla Nasa). Il risultato di quello che è già il più grande disastro ambientale della storia del Perù, sono decine di chilometri di costa pacifica a nord di Lima sommerse dal liquido nero, animali intossicati o uccisi dalla sostanza viscosa e migliaia di pescatori locali che hanno perso il lavoro. Se il danno è certo e visibile, stessa cosa però non si può dire della causa dello sversamento. La versione al vaglio degli inquirenti non è infatti la prima versione data da Repsol, che il 16 gennaio aveva riportato un piccolo incidente con la fuoruscita di poche decine di barili. Solo successivamente, di fronte all’innegabilità dei fatti, la compagnia spagnola ha ritrattato la sua versione offrendo supporto alle operazioni di mitigazioni del danno.

L’incredibile difesa di Repsol

Il presidente di Repsol Perù, Jaime Fernández-Cuesta, ha affermato nei giorni successivi all’accaduto che, sebbene la compagnia abbia commesso degli errori – soprattutto rispetto alle dichiarazioni iniziali sulla quantità di petrolio sversato –, a oggi il piano di contingenza di Repsol è attivo impegnando circa 850 persone sulla costa, oltre a tre macchine per la pulizia marina, sei serbatoi galleggianti, 13 navi di grosse dimensioni grandi e 31 navi più piccole nelle acque circostanti. Un’azione, quella di Repsol, che però è stata giudicata tardiva dalle autorità peruviane che, per bocca della (ora ex) prima ministra Mirtha Vásquez, hanno annunciato a gennaio la possibilità di denunciare la multinazionale in tre diversi ambiti: false dichiarazioni, deficienza e lentezza del piano di contingenza e la obbligatorietà di garantire aiuto umanitario alla popolazione danneggiata per l’accaduto.

La situazione politica in cui capita
Non è un approccio a favore dell'ambiente

L’indagine per “presunto” inquinamento ambientale provocato dalla fuoruscita di greggio della multinazionale spagnola Repsol promanava dall’ex ministro della giustizia, che nel turbillon imposto dalla presidenza di Castillo si trova ora collocato sullo scranno di primo ministro. Una farfalla sbatte le ali alle isole Tonga e una marea di greggio si abbatte sulle coste di Lima… e subito dopo abbatte un premier peruviano.

Una battaglia che si preannuncia lunga e complicata anche per l’incerto orizzonte politico del Perù attuale. Mirtha Vásquez è infatti una delle protagoniste di quello che sicuramente è oggi uno dei panorami politici più complessi della regione. Pedro Castillo, nominato presidente a metà 2021 dopo una serrata, lunga e dura battaglia elettorale contro Keiko Fujimori, non sembra poter trovare il bandolo della matassa e dà l’impressione di camminare in un terreno minato dove è difficile distinguere gli amici dai nemici. Per responsabilità proprie, sabotaggi interni alla sua coalizione e attacchi costanti dall’opposizione (da distribuire secondo le simpatie e percezioni del caso), Castillo è stato incapace di dare continuità alla sua azione di governo e dopo 6 mesi di presidenza si trova in questi giorni a cambiare il suo gabinetto per la quarta volta. A Natale 2021 infatti, il paese e la stampa già facevano i conti con 11 cambi al vertice dei vari ministeri dando conto che dei 19 ministri in carica a quella data, solo 10 avevano iniziato il mandato insieme a Castillo 5 mesi prima.  Il 2022 non è iniziato in modo diverso. L’avvocatessa Mirtha Vásquez ha infatti rinunciato al suo incarico di primo ministro il 31 gennaio, allegando come detonante della sua decisione le dimissioni dell’ex ministro dell’interno Avelino Guillén. Al suo posto Castillo ha nominato a inizio febbraio l’avvocato e congressista Héctor Valer che però ha rinunciato all’incarico dopo soli 8 giorni per lo scandalo prodotto dalla pubblicazione di una serie di denunce per aggressione familiare che lo riguardano. Infine l’8 febbraio il presidente Castillo ha dovuto promuovere in modo repentino e urgente Aníbal Torres Vásquez (che era ministro della Giustizia e Diritti Umani da luglio 2021) al ruolo di presidente del consiglio dei ministri. In tutto questo l’opposizione non sta a guardare e il 18 novembre la congressista di Avanza País, Patty Chirino ha promosso una “moción de vacancia” (istanza di destituzione) per supposta incapacità morale nella guida del paese di Castillo. La mozione non ha prosperato visto che necessitavano 52 voti a favore nella votazione del 7 dicembre e ne sono stati ottenuti solo 46; contrari alla mozione: 76 e 4 astenuti.

Il partito di estrema destra Renovación popular ha però annunciato il 2 febbraio una nuova “moción de vacancia”, negando questa volta a Castillo le competenze per poter governare il paese. La questione risulta ancora più complessa se si pensa che mentre Renovación popular presentava la mozione, era primo ministro Héctor Valer, che in passato aveva militato nelle fila di quella formazione. Insomma una scacchiera degna di Garri Kaspárov.

Ascolta “L’imprevedibile insubordinazione istituzionale di Castillo” su Spreaker.

Basta una pietra a produrre una falla micidiale

Ascolta “Un tubo bucato innaffia di greggio l’Amazzonia ecuadoriana” su Spreaker.

In Ecuador la fuoruscita di 6300 barili di petrolio in Amazzonia nella zona di Piedra Fina, provincia amazzonica di Napo (circa 80 km dalla capitale Quito) ha portato il greggio a raggiungere alcune aree protette nel Parco nazionale Cayambe Coca, provocando un grave disastro ecologico. La fuoruscita è avvenuta il 28 gennaio quando una pietra di grosse dimensioni è franata (a causa della forti piogge) sul grosso tubo dell’oleodotto dell’impresa privata Oleuducto de crudos pesados – Ocp Ecuador. La Confederazione delle nazionalità indigene dell’Ecuador (Conaie) ha denunciato immediatamente attraverso le sue reti la fuoriuscita, allertando riguardo all’enorme danno ambientale e criticando le politiche estrattiviste del nuovo presidente Guillermo Lasso (alla presidenza dal maggio 2021).

Le riparazioni di Ocp Ecuador

Jorge Vugdelija, presidente esecutivo di Ocp Ecuador ha dichiarato a inizio settimana alla stampa ecuadoregna che il 7 febbraio sono terminati i lavori di riparazione all’oleodotto e che le operazioni di trasporto del greggio dall’Amazzonia fino al porto sul Pacifico di Esmeraldas, sono riprese senza inconvenienti. Incalzato rispetto al danno ecologico provocato, Vugdelija ha assicurato che le azioni di riparazione ambientale e compensazione sociale sono già state attivate seguendo gli accordi presi con il governo e con l’appoggio e l’accompagnamento delle autorità. Ocp Ecuador ha confermato che sono state già inviate sul posto tre imprese specializzate in mitigazione del danno ambientale, con un dispiegamento di 790 persone nella zona della fuoruscita. Allo stesso modo è stato comunicato da Vugdelija che sono stati ritirati circa 1000 metri cubi  di terra contaminata, che sono stati già distribuiti 120.000 litri di acqua e kit alimentari alla popolazione vittima del disastro e che sono state inviate delle equipe mediche per iniziare ad affrontare problemi di salute nei centri abitati della zona.

La lunga scia di danni nei 20 anni di oleodotti ecuadoriani

La via dell'Oleodotto ecuadoriano

L’oleodotto Ocp è il secondo più grande dell’Ecuador e trasporta circa il 30% della produzione petrolifera del paese: è lungo 485 chilometri e può trasportare 450.000 barili al giorno (attualmente ne trasporta 180.000). Nel 2001 l’impresa privata Ocp Ecuador ha prodotto uno studio ambientale sull’impatto del progetto che è stato successivamente attivato nel 2003. Fin dall’inizio però si sono manifestate grosse negligenze che hanno portato a severi danni ambientali. Il tragitto dell’Ocp (che va da lago Agrio vicino ai giacimenti petroliferi della regione dell’Oriente dell’Ecuador fino al terminal petrolifero di Balao a Esmeraldas, sulla costa pacifica) infatti corre per buona parte parallelo all’oleodotto SOTE – Sistema de Oleoducto Transecuatoriano: il primo oleodotto partito dall’Amazzonia ecuadoriana nel 1972 e lungo 497 chilometri. Nell’aprile del 2003, durante i lavori per la costruzione dell’oleodotto Ocp è stato danneggiato il Sote, provocando una fuoriuscita di petrolio di 10.000 barili che ha raggiunto la Riserva Cayambe Coca e la laguna di Papallacta, che fornisce circa il 60% dell’acqua potabile di Quito. Da quel momento in poi si sono riportati numerosi incidenti e fuoruscite di petrolio (2009, 2013 zona di Esmeraldas  e 2020 zona cascata San Rafael).

Bucato sull'oleodotto bucato

Stendere il bucato su un oleodotto bucato

La lotta delle comunità indigene

Rispetto a quest’ultima fuoruscita di petrolio di fine gennaio 2022, il ministro dell’Ambiente dell’Ecuador, Gustavo Manrique, ha segnalato che è stata avvistata una chiazza di petrolio arrivata fino ad Añangu, nel Parco nazionale Yasuní. Il rapporto del ministro coincide con quanto già affermato e denunciato dalle comunità indigene (come il video pubblicato dalla leader indigena Nina Gualinga), che hanno stimato che l’ultima fuoriuscita ha interessato almeno 300 chilometri, dall’area in cui l’oleodotto si è rotto fino all’ingresso dell’area dello Yasuní. Il petrolio ha contaminato le fonti di acqua e cibo di centinaia di comunità indigene visto che lo sversamento ha raggiunto gli affluenti del fiume Coca: almeno 60.000 persone sarebbero state colpite da questo disastro.

In un contesto difficile nel quale le comunità indigene e in generale gli abitanti dell’Amazzonia ecuadoriana vivono una ulteriore avanzata del neocolonialismo estrattivo è arrivata però una buona notizia. Il 4 febbraio infatti l’Ong Alianza Ceibo ha pubblicato questo comunicato stampa, dando conto di una grandissima vittoria per le popolazioni indigene ecuadoriane:

«La Corte Costituzionale dell’Ecuador infatti si è pronunciata poco fa a favore del diritto dei popoli indigeni di decidere, in base alle loro forme di governo, il futuro dei loro territori in Amazzonia. Questa sentenza è storica e fornisce uno dei precedenti più potenti al mondo sul diritto dei popoli indigeni ad avere l’ultima parola sui progetti estrattivi che interessano le loro terre. Questo diritto, noto anche come Consenso Libero, Previo e Informato (Fpic), ci offre un potente strumento per proteggere 9,3 milioni di ettari di territori ancestrali in tutto il paese, e quindi affrontare i piani del presidente Guillermo Lasso, che intende intensificare l’estrazione di petrolio e la produzione mineraria. La lunga battaglia che la Comunità di Sinangoe ha condotto per la difesa del proprio territorio è un’azione esemplare condotta dalle popolazioni indigene per mitigare la crisi climatica globale».

L'articolo La rapacità estrattivista distrugge aree protette dell’Amazzonia proviene da OGzero.

]]>
Asean tra decimazione pandemica e decrescita tradizionalista https://ogzero.org/covid-golpe-birmano-e-repressione-thai-l-oriente-a-pezzi/ Wed, 01 Sep 2021 20:09:40 +0000 https://ogzero.org/?p=4769 Covid, golpe birmano, repressione thailandese: elementi di stravolgimento innescati per un cambio di rotta di difficile elaborazione per i criteri occidentali. Il Sudest asiatico va decifrato immergendosi in quel mondo altro e sfuggente ai parametri europei, però in grado di elaborare svolte che risultano incomprensibili per i farang, se non dopo che i processi si […]

L'articolo Asean tra decimazione pandemica e decrescita tradizionalista proviene da OGzero.

]]>
Covid, golpe birmano, repressione thailandese: elementi di stravolgimento innescati per un cambio di rotta di difficile elaborazione per i criteri occidentali. Il Sudest asiatico va decifrato immergendosi in quel mondo altro e sfuggente ai parametri europei, però in grado di elaborare svolte che risultano incomprensibili per i farang, se non dopo che i processi si sono ormai proiettati in una direzione inattesa per quanto linearmente coerente a quell’universo di riferimenti, ma di difficile interpretazione al di fuori di quelli, producendo svolte che estromettono gli elementi alieni alla comunità, che si ritrae nei valori tradizionali, forse per trovarvi nuova linfa in prospettiva futura, benché al momento appaia semplicemente reclinata in uno spirito conservatore e retrivo.

Solo una frequentazione ventennale dell’area come quella di Max Morello può cogliere gli elementi di affanno in cui si sta dibattendo innanzitutto la cultura del Sudest asiatico. E questo produce in lui un moto di delusione per l’implosione della sua fascinazione verso l’approccio filosofico delle società asiatiche che aveva imparato a frequentare, l’illusione di potersi lentamente avvicinare a interpretare quel mondo attraverso la conoscenza della filosofia che lo permea; ora sono quasi irriconoscibili nel loro travaglio… e l’inaudito è che questo forse consente di tornare a riconsiderare l’approccio della cultura occidentale, vista l’assenza di spunti progressivi per uscire da una crisi non solo economica e sanitaria da parte di una filosofia che invece risultava affascinante perché appariva capace di proposte globali e non identitarie.


Il grotesque della danse macabre

«Questa mattina è morto il padre di Cho. Soffocato. Non si trova più l’ossigeno… I militari se lo prendono per loro e i loro protetti. Negli ospedali pubblici c’è l’esercito che decide chi ha diritto al respiratore…».

Così mi ha scritto un amico che per fuggire dal caos e dal virus dilagante in Birmania ha abbandonato la casa che si era costruito a Yangon e si è trasferito in un condominio a Bangkok con il figlio e la moglie Cho.

«Non voglio fare il cinico ma mi sembra inutile fare il conto dei morti in Birmania. Qui si moriva comunque per qualsiasi altra malattia. La differenza è che adesso si muore soffocati»,

mi dice un altro amico rimasto in quel paese. Lui ha cercato di evitare il contagio, le manifestazioni e i combattimenti continuando a spostarsi tra i villaggi più isolati.

La Birmania, Yangon in particolare, è divenuta la scena di una tremenda rappresentazione pulp, splatter, horror, da teatro dell’assurdo e della crudeltà. I paragoni con generi o forme di spettacolo, di patologie psichiche reali o diaboliche, di miti e superstizioni non sono un espediente letterario. Servono a rappresentare una realtà che diviene sempre più difficile da credere, immaginare e descrivere se non si ricorre alla dimensione fantastica, a un vero e proprio lessico dell’orrore che si ritrova nei titoli, negli articoli, nei post, nei tweet.

A fine agosto le vittime della repressione militare sono oltre 1000. Circa 15.000 i morti per Covid. Entrambe le cifre, probabilmente, errate per difetto e sicuramente destinate ad aumentare. Soprattutto la seconda. In alcune zone metà della popolazione potrebbe essere già infetta. A Yangon i morti superano i 2000 al giorno.

Catastrofe umanitaria multidimensionale

«Stiamo morendo tutti. Il Myanmar è sull’orlo della decimazione»,

mi dice un altro amico ancora stremato dal contagio. I cadaveri vengono bruciati anche negli inceneritori, sepolti in fosse comuni o addirittura in discariche. Il Covid si diffonde ulteriormente tra i volontari che li trasportano. Molti muoiono in casa, soffocati, aspettando l’ossigeno che non arriva. L’esercito si riserva il controllo dell’ossigeno le cui scorte vanno esaurendosi.

La perfetta rappresentazione, anche semantica, di questa situazione sta tutta nella dichiarazione di Michelle Bachelet, alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani. Riferendosi alla situazione in Myanmar ha definito una crisi che sta precipitando in una “catastrofe umanitaria multidimensionale”. Espressione che ingloba l’angoscia, l’orrore, la miseria, la violenza del covid e del golpe.

Solo il 40% del già ridotto sistema sanitario birmano è operativo, secondo le stime più ottimistiche solo il 6% di una popolazione di 54 milioni è vaccinato. Molti medici vengono arrestati per aver violato il coprifuoco per visitare qualcuno o portargli ossigeno. Altri medici e infermiere finiscono in prigione per essersi rifiutati di lavorare negli ospedali dei militari. Migliaia di persone si ammalano e muoiono di Covid in carcere. I dirigenti anziani della National League for Democracy sono letteralmente decimati. Si estingue così una generazione sopravvissuta a decenni di lotte e persecuzioni. Insomma, il Covid diviene il miglior mezzo di controllo e repressione: sta stremando l’opposizione, è perfetta scusa alle morti per tortura. Ma soprattutto il Covid riduce la popolazione in uno stato di attonita impotenza, esacerbando diseguaglianze già abissali, condannando i più poveri, il cui numero è destinato a raddoppiare, a soffrire senza possibilità di reazione. Intanto è più che triplicato il numero dei rifugiati interni, uomini donne e bambini che hanno abbandonato i loro villaggi per sfuggire ai conflitti tra esercito e milizie etniche che si sono riaccesi in tutta la Birmania.

È una tempesta perfetta…

in cui non sembra aprirsi alcuno spiraglio. Le milizie sono vittime del “dilemma del prigioniero”: pur sapendo che l’unica possibilità di reale opposizione sta in un’alleanza, non riescono a unirsi per reciproca diffidenza e per l’incapacità di valutare rischi e benefici. Il People’s Defence Force (Pdf), braccio armato del National Unity Government (Nug), a sua volta, sembra paralizzato dal mancato appoggio delle milizie e dalla difficoltà di convertirsi alla lotta armata da parte di un’opposizione che, sotto la guida di Aung San Suu Kyi aveva fatto della non-violenza la sua forza. In molti casi, quindi, i gruppi di resistenza sembrano mossi dalla disperazione, pronti a un sacrificio rituale. Com’è accaduto ai giovani che si sono gettati da una finestra per evitare la cattura e la tortura.

A poco a poco, tuttavia, sembra che alcuni gruppi stiano evolvendo verso forme più organizzate e sofisticate di guerriglia, come l’agguato in cui sono stati uccisi cinque poliziotti proprio come rappresaglia per il suicidio degli studenti.

Sul fronte opposto la giunta militare non sembra in grado di vincere una guerra civile che non aveva previsto. Le forze armate, Tatmadaw, sono decimate anch’esse dal Covid, forse perché ai militari è stato somministrato a loro insaputa il Covaxin, un vaccino indiano ancora non approvato. Secondo fonti dell’opposizione, inoltre, sarebbero già più di 2000 i disertori – soprattutto soldati semplici, sottufficiali e poliziotti – che si sono uniti al Civil Disobedience Movement (Cdm).

In questo scenario da incubo, il programma politico presentato dal generale Min Aung Hlaing, artefice del golpe e autoproclamato primo ministro, appare come un “manifesto di pazzia”, paragonabile a quello dell’Angkar, l’organizzazione dei khmer rossi di Pol Pot, secondo cui chiunque si opponga all’organizzazione stessa è un nemico da sterminare. Anche se ciò significa far strage del proprio popolo. In questo delirio il nemico diviene l’incarnazione del male: Aung San Suu Kyi e la sua Nld sono addirittura accusati di aver violato il dharma, la legge buddhista di cui i militari si ergono a protettori e difensori. Una missione sacra che, secondo i monaci più fanatici, è stata premiata dalla divinità che ha fatto guarire dal Covid l’ultraottantenne generale Than Shwe, dittatore della Birmania dal 1992 al 2011, autore di una sanguinosa repressione con migliaia di dissidenti torturati e imprigionati. Il fatto che Than Shwe e sua moglie abbiano potuto godere di cure precluse al resto della popolazione è anch’esso da considerare come il segno di un karma miracoloso. Al contrario la Signora sarebbe stata punita per la sua incapacità nell’affrontare la crisi sanitaria, nel trovare un accordo con i diversi gruppi etnici e nel mantenere il sostegno dell’Occidente in seguito alla crisi determinata dalle violenze sui rohingya.

Accusa, quest’ultima, che appare grottesca pensando alle responsabilità di buona parte dell’intelligenza occidentale che ha abbandonato Aung San Suu Kyi – e con lei i rohingya – al proprio destino, accusandola di crimini contro l’umanità e genocidio per non essersi opposta con sufficiente forza alla persecuzione compiuta dai militari. È stato proprio l’Occidente, dunque, accecato da una hybris, a creare le condizioni per il golpe.

… per un’epidemia golpista

La situazione in Myanmar sta generando un effetto contagio in tutta l’area. Oltre a ridefinirsi come stato paria, è condannato a essere anche untore. E non solo per le decine di migliaia di persone in fuga. È come se tutti gli orrori della ex Birmania si replicassero o venissero alla luce nelle altre nazioni dell’Asean: la scarsità di ossigeno e di vaccini, il mistero sul numero di morti o contagiati, i cadaveri bruciati nei crematori dei monasteri o sepolti in fosse comuni, la miseria che rende un tampone un lusso (nelle Filippine, per esempio, costa otto volte il minimo salario giornaliero), la rinascita di pratiche magiche in sostituzione di cure mediche inesistenti, l’acuirsi di tensioni etniche, religiose e razziali in cui ognuno cerca nell’altro un capro espiatorio.

Inizialmente sembrava che la resistenza al virus dei popoli del Sudest asiatico fosse l’ennesima prova di una cultura che aveva gli anticorpi per contrastarlo. Per alcuni ricercatori, come l’italiano Antonio Bertoletti dell’Università di Singapore, poteva essere così, ma solo perché si era creata una sorta d’immunità dovuta all’esposizione a virus come la Sars.

Poi, nell’aprile scorso, è arrivata la variante Delta. I contagi e i decessi sono aumentati in modo esponenziale con una crescita superiore a ogni altra parte del mondo. Il Sudest asiatico e i suoi 655 milioni di abitanti sono divenuti l’ultimo hotspot della pandemia, rivelando i malfunzionamenti strutturali della regione: l’autoritarismo o la democrazia limitata, la corruzione e la burocrazia che l’alimenta, le diseguaglianze, il potere delle élite e delle oligarchie, l’assenza di un adeguato sistema di assistenza sociale e sanitaria.

La società disfunzionale e la trasmissione sessuale del virus

La Thailandia è un esempio perfetto di questa società disfunzionale: è stata modello per il golpe birmano e quindi vittima della stessa contaminazione tra Covid e politica, sia pure in forma meno virulenta. Dall’inizio della pandemia sino ad aprile 2021, i casi di Covid erano stati circa 28.000, con 98 morti. Da aprile a fine agosto i contagiati sono circa 400.000, i morti oltre 11.000.

L’epicentro di questa nuova ondata sono stati quei locali, come il Krystal Exclusive Club o l’Emerald, frequentati dai cosiddetti Vvip. Non semplicemente vip, bensì very very important person, che in quei locali incontrano ragazze che non sono semplici escort bensì aspiranti mia noi, moglie minore, amanti ufficiali, cui pagare l’affitto in un residence di lusso (o intestare un appartamento) e assicurare un tenore di vita adeguato allo status del Vvip.

La trasmissione del virus per via sessuale (in senso del tutto traslato), del resto, sembra comune ai paesi del Sudest asiatico. È accaduto anche in Cambogia dove i primi casi della nuova ondata si sono verificati tra i Vvip frequentatori del N8, esclusivo locale di Phnom Penh. A infettarli sarebbero state due delle quattro ragazze arrivate pochi giorni prima da Dubai a bordo di un jet privato.

In pochi giorni il Covid si è diffuso in modo tanto rapido e violento quanto inaspettato. In Thailandia il contagio e la morte, sempre più rapidamente, si sono spostati dai quartieri delle élite come Thonglor e Suan Luang, alle prigioni, ai dormitori dei lavoratori edili, agli slum come Khlong Toey, dove è impossibile qualunque distanziamento sociale, le condizioni igieniche sono precarie, l’assistenza medica limitata. E dove la malattia è vissuta come un ulteriore stigma sociale, il segno di un karma malefico.

Interessi regali in campagne vaccinali thailandesi

La crisi è aggravata dai ritardi nella campagna vaccinale. Il governo thailandese, infatti, l’aveva pianificata con l’uso quasi esclusivo del vaccino AstraZeneca, prodotto dalla compagnia nazionale Siam BioScience, su cui, a quanto sembra, facevano conto anche altri paesi del Sudest asiatico. A fine agosto, solo l’11% della popolazione era completamente vaccinato. Secondo alcuni siti dell’opposizione molte dosi sono state vendute all’estero. Ma sarà impossibile determinare responsabilità o cause: la società farmaceutica, infatti, fa parte del patrimonio della corona, controllato direttamente da re Vajiralongkorn. E qualsiasi critica o semplice dubbio rientra ineluttabilmente sotto la legge di lesa maestà.

Altro responsabile dei ritardi vaccinali è l’ineffabile ministro della Sanità Anutin Charnvirakul, già noto per aver dichiarato che i farang, gli occidentali, erano potenziali untori in quanto “sporchi”. Secondo molte indiscrezioni Anutin avrebbe dichiarato che il vaccino Pfizer non aveva dimostrato la sua efficacia sulle popolazioni asiatiche. Quindi avrebbe dato più fiducia al cinese Sinovac (che secondo le stesse indiscrezioni è in parte controllato da una delle più ricche famiglie thai).

Nonostante gli sforzi compiuti negli ultimi mesi abbiano contenuto il dilagare della crisi sanitaria, il virus ha innescato la peggior crisi economica che abbia colpito la Thailandia negli ultimi vent’anni e 21 milioni di persone rischiano di non avere più mezzi di sostentamento. La Thailandia, che secondo un rapporto del 2018 era al primo posto nella graduatoria delle diseguaglianze sociali, rischia di incrementare in modo esponenziale il suo primato.

Ritorno al futuro della decrescita nella felice vita tradizionale 

La pretestuosità dei valori khwampenthai, la rivolta in salsa prik…

In una situazione del genere appare allucinante una delle soluzioni proposte dall’establishment, ispirata ai valori della khwampenthai, la thailandesità, più che a teorie macroeconomiche: un programma di decrescita felice secondo cui il popolo thai dovrebbe tornare a uno stile di vita tradizionale, che sembra finalizzato soprattutto a un maggior controllo. Sempre più detenuto dalle cinquanta famiglie più potenti del regno, il cui patrimonio combinato ha raggiunto la cifra record di 160 miliardi di dollari. A ogni buon conto, per evitare possibili conseguenze personali per qualsiasi eventuale errore, il ministro Anutin si è fatto latore di una legge che scarichi di qualsiasi responsabilità nella gestione del covid operatori sanitari e funzionari di ogni livello.

In questo clima era inevitabile che riprendessero le manifestazioni di piazza. Ma se prima si trattava soprattutto di una protesta d’élite che metteva in discussione la cultura gerarchica della tradizione thai, compreso il totem e tabù della monarchia, e si svolgevano secondo forme e modi da “indiani metropolitani” in salsa prik, piccante, oggi sono rivolte antigovernative, rabbiose, spesso violente, innescate dalla paura del virus e dal risentimento verso un sistema corrotto che non è riuscito a contenerlo. Altrettanto violenta la reazione della polizia che sempre più spesso fa uso della forza e sembra voler contendere all’esercito il ruolo di gendarme del governo, riappropriandosi del controllo delle strade (con tutti i benefici che ne conseguono).

… e i bachi nei principi della sapienza tradizionale

«La Thailandia sta precipitando in un nuovo caos», ha dichiarato un attivista di Human Rights Watch.

«C’è un certo conforto nella decadenza. È come confrontarsi con la prima nobile verità del Buddha, il dukka, l’inevitabile sofferenza che segna l’esistenza»,

mi aveva detto lo scrittore thailandese Tew Bunnag. Figlio lui stesso dell’ammart, l’élite, che ha ripudiato la sua classe sociale per dedicarsi alla meditazione e all’assistenza ai malati terminali, Bunnag commentava così il suo libro Il viaggio del Naga in cui il serpente gigante della mitologia hindu-buddista simboleggiava la natura che governa i destini umani.

«Vivi nella sensazione di questo sottile equilibrio tra il dukka e il tentativo di cogliere ogni attimo di piacere che ti offre la vita».

Il naga, oggi, sembra incarnarsi nel Coronavirus, ma sembra che la massa della popolazione thai abbia perduto la disperata capacità di cogliere il sanuk, quel piacere che allevia la sofferenza.

La pandemia di Covid-19, insomma, sta facendo crollare quella House of Cards, il castello di carte, che si reggeva sul principio del pii-nong, maggiore-minore, che riguarda l’età, il ruolo familiare, lo status professionale, economico, sociale, culturale, l’esperienza. Un complesso rapporto che era uno degli elementi della khwampenthai, divenuta espressione di un crescente orgoglio nazionale. Per la maggior parte dei locali, che fossero phrai o ammart, membri del popolo o delle élite, uniti in questo come nella passione per il som tam, l’insalata di papaya verde, la salvezza era insita nella loro capacità di rispettare le regole, nei loro rituali, come il wai, il modo di salutarsi giungendo le mani di fronte al volto, che evita ogni contatto.

Gli asiatici, infatti, giustificano ineguaglianze, colpi di stato, restrizioni e violazioni dei diritti umani affermando che per loro non si possono applicare i valori dell’Occidente. Al tempo stesso quegli stessi valori vengono contestati in funzione di una pretesa superiorità morale che deriverebbe dal mantenere immutati i propri valori. È qualcosa che va contro uno dei cardini della logica aristotelica: il principio di non-contraddizione. Ma, ancora una volta, parliamo di una logica occidentale, lineare, ben diversa da quella orientale. Qui vige un principio circolare in cui tutto è o può essere il contrario di tutto.

Il fallimento del minilateralismo

Quello che alcuni osservatori locali hanno definito “minilateralismo” dell’Asean a indicare un modello virtuoso di sviluppo in cui si confrontano gruppi di paesi, si sta rivelando come l’ulteriore limite di un’organizzazione sovrannazionale priva di visione strategica, di quella “centralità” che definisce la capacità di affrontare le sfide esterne al gruppo di nazioni. E come l’Asean si è rivelata del tutto incapace di gestire la crisi politica in Myanmar, ancor meno sembra capace di prendere posizione tra i grandi giocatori che si confrontano nello scacchiere dell’Asia orientale, in particolare nel Mar della Cina meridionale. Quella dell’Asean appare una vera e propria manifestazione di ignavia: i problemi non vengono risolti non tanto per divisioni interne, quanto perché non sono posti o sono rimossi. Ancora una volta si manifesta quel principio che in Thailandia è sintetizzato nell’espressione “mai pen rai”: non pensarci, non preoccuparti. Potrebbe accadere così anche per la ripresa dell’estremismo islamico nell’area – che non ha rinunciato al progetto di un califfato in Sudest asiatico.

Ripiegamento dall’arrembaggio asiatico…

In effetti sta accadendo il contrario di ciò che molti preconizzavano: il “Tramonto dell’Occidente” cui doveva succedere l’alba del “Nuovo secolo asiatico” sembra essersi arrestato al crepuscolo, cui sta seguendo un’improvvisa aurora che illumina l’ovest. Il “Post-Western World” sembra trascorso o comunque si è ristretto entro i confini dell’Impero di Mezzo. Sembra invertito un ordine che aveva assunto le caratteristiche di un processo naturale, quasi genetico, come se l’evoluzione della Repubblica Popolare Cinese si diffondesse in tutta l’Asia per partenogenesi. Un processo di cui facevano vanto soprattutto le nuove tigri asiatiche, le nazioni dell’Asean, del Sudest asiatico. Oggi invece la Cina diventa sempre più inaccessibile: le autorità della provincia dello Yunnan che segna il confine con il Sudest asiatico stanno progettando un muro che li protegga da ondate di profughi.

… e il ripiegamento dall’esotico

Agli occhi di un farang, quell’altrove dove anche le zone d’ombra facevano parte di uno scenario esotico in cui si compiaceva di vivere senza subirne le conseguenze, diviene un teatro della crudeltà dove non può più sottrarsi alla realtà, dove anche lui può divenire una vittima. La prima, più forte reazione a questa presa di coscienza è un desiderio di fuga, di ritorno in patria, con la pretesa di essere accolti come un figliol prodigo. È il preludio alla riconversione, al mea culpa, alla dichiarazione d’appartenenza a un mondo che, pur con tutti i suoi limiti, garantisce i fondamentali diritti umani, si basa su quei valori universali che si era stati tentati di rinnegare per la fatale attrazione degli “Asian Values” che apparivano più efficienti e adatti ad affrontare le sfide del nuovo millennio.

Ancora una volta la dicotomia è il velo alla semplificazione perché l’Asia stessa, i suoi valori cambiano profondamente in funzione geografica, culturale, religiosa, storica: Asia del Sud, centrale, orientale, Sudest asiatico, confucianesimo, buddismo (con le profonde differenze tra il Mahayana e il Theravada), islam, eredità coloniali, ideologia comunista o postmarxista, autocrazia e democrazia entrambe in più varianti del Covid.

Fallimento del policentrismo multipolare

«L’Asia è policentrica, multipolare… In Asia non c’è uniformità in termini di geopolitica e cultura e ognuna di quelle nazioni è un mondo a sé stante».

Lo ha scritto Francis Fukuyama in epoca prepandemica, quando il policentrismo appariva un antidoto alla globalizzazione, una nuova forma evolutiva. Oggi, però, si sta rivelando disfunzionale: la gestione della pandemia si è rivelata tra le peggiori al mondo (almeno secondo il Nikkei Covid-19 Recovery Index), circa 90 milioni di persone sono regredite alla condizione di povertà, la middle class è stata uccisa in culla, l’illiberalismo, l’autocrazia, l’etnonazionalismo e l’integralismo religioso si diffondono col virus. Le nazioni del Sudest asiatico si dimostrano non le nuove tigri bensì anatre zoppe che si dibattono in una palude distopica.

Resistenza confuciana?

In questo scenario apocalittico sembrano “salvarsi” solo Vietnam e Singapore, entrambi accomunati dalla comune radice confuciana. In Vietnam, che pure sta subendo una nuova e grave ondata del Covid, il controllo esercitato dal Partito, una classe dirigente più preparata e una lunghissima esperienza delle emergenze hanno contenuto il contagio e la crisi economica. Singapore, sempre più lanciata nella sua corsa verso la realizzazione di un’utopica Elysium, sta procedendo dalla pandemia all’endemia, ossia alla coesistenza col virus tenuto sotto controllo dai vaccini, dalle nuove terapie e da forme di rilevazione rapida del virus come l’analizzatore del respiro. Sono soprattutto questi modelli che hanno creato in molti occidentali l’illusione che tutto il Sudest asiatico potesse rappresentare un’alternativa politica ed esistenziale. Un equivoco, dunque, all’interno di un inganno.

Resilienza occidentalista?

In questa prospettiva culturale bisognerebbe ripensare a tutte le criticità europee rivalutando un sistema che si sta rivelando davvero resiliente. Tanto per usare in modo adeguato un termine abusato. Nel confronto con le nazioni dell’Asean si può comprendere e apprezzare il vero senso della libertà di cui godiamo. Proprio nei beni immateriali – quali la governance, l’innovazione, lo stato di diritto, il welfare, la cultura della libertà di pensiero e d’espressione – l’Europa può riaffermare il suo ruolo, definire un modello culturale. A condizione che ne abbia coscienza e capacità di affermarlo.

«Senza memoria, non vi è identità. E senza identità, siamo solo polvere sulla superficie dell’infinito», ha detto Jonathan Sacks, leader ecumenico, filosofo. Che avvertiva: «Le civiltà cominciano a morire quando perdono la passione morale che li ha portati a esistere».

  


Il pezzo che abbiamo proposto qui è un aggiornamento e un approfondimento operati dall’autore dopo la pubblicazione di un articolo che Massimo Morello stesso aveva scritto per “Il Foglio” uscito il 29 luglio 2021. Come già nella raffinata operazione iconografica operata da Roland Barthes – le due fotografie che corredavano L’Impero dei segni e riproducevano il ritratto di un medesimo giapponese con lievi, ma sostanziali differenze tra il volto nel primo frontespizio della prima illustrazione e la sua versione modificata al fondo del libro – qui si possono confrontare le due versioni e si noterà un’accresciuta amarezza orrifica proveniente sia dalle testimonianze aggiunte, sia dai nuovi dati sulla pandemia e il montaggio diverso nei due pezzi di argomenti simili e dati aggiornati restituisce moltiplicata la delusione dell’orientalista, il travaglio di una società che sembra fornire solo formule contraddittorie e regressive…

L’Oriente a pezzi

 

L'articolo Asean tra decimazione pandemica e decrescita tradizionalista proviene da OGzero.

]]>
n. 7 – Libano: dove tutto cambia perché nulla cambi https://ogzero.org/libano-dove-tutto-cambia-perche-nulla-cambi/ Sun, 02 May 2021 09:51:01 +0000 https://ogzero.org/?p=3278 Questo contributo di Fabiana Triburgo sulla questione migratoria analizza le condizioni alla base delle nuove rotte dal Medio Oriente e dal Nord Africa, tra instabilità politica, conflitti civili e l’eredità delle Primavere arabe e giungeremo al termine di questa sezione a un’analisi della normativa europea e delle alternative che potrebbero emergere da politiche più coraggiose […]

L'articolo n. 7 – Libano: dove tutto cambia perché nulla cambi proviene da OGzero.

]]>
Questo contributo di Fabiana Triburgo sulla questione migratoria analizza le condizioni alla base delle nuove rotte dal Medio Oriente e dal Nord Africa, tra instabilità politica, conflitti civili e l’eredità delle Primavere arabe e giungeremo al termine di questa sezione a un’analisi della normativa europea e delle alternative che potrebbero emergere da politiche più coraggiose e lungimiranti. Qui l’attenzione è focalizzata sul Libano: dove tutto cambia perché nulla cambi.


n. 7

I principali conflitti che attualmente interessano le migrazioni forzate e le prassi di esternalizzazione poste in essere dall’Unione Europea e dai singoli stati membri portano a una predeterminazione delle rotte dei migranti.

Quello che oggi è inevitabile chiedersi è se il nuovo Patto europeo sulla migrazione e l’asilo, proposto dalla Commissione UE, possa essere realmente considerato una soluzione della gestione del fenomeno migratorio o se invece vi siano soluzioni legali alternative maggiormente lungimiranti e coraggiose.  

«Non vogliamo finire come il Libano»

A un passo dalla guerra civile

Tra i richiedenti la protezione internazionale che negli ultimi dieci anni ho avuto la possibilità di ascoltare, collaborando con colleghi esperti in materia e lavorando per delle associazioni – alcune delle quali presenti al “Tavolo Nazionale Asilo” – sia per la ricostruzione della loro storia personale – finalizzata all’audizione dinanzi alla Commissione Territoriale competente – sia per la redazione dei ricorsi, in opposizione alle decisioni assunte dalle Commissioni, non ho mai incontrato un cittadino libanese. Non intendo con questo dire che in altre realtà lavorative sia necessariamente avvenuta la medesima circostanza, ma si può affermare che la nazionalità libanese non è di certo tra quelle maggiormente rappresentative del fenomeno migratorio verso l’Europa o quantomeno verso l’Italia. Tuttavia, si può dichiarare con sicurezza che tale situazione sia destinata a rimanere immutata nel tempo?

Da alcune stime infatti risulta che nel 2020 siano stati circa 45.000 i libanesi fuggiti dal paese prevalentemente in direzione di Cipro per poi ripartire, per via aerea, verso la Grecia o il Nord Europa.

Lo stallo politico e la crisi economica e sanitaria

Dall’analisi del contesto geopolitico in cui si inserisce il Libano e per alcune sue peculiarità come l’aumento, negli anni più recenti, di un già elevato numero di profughi di altre nazionalità che lo stesso paese accoglie e, soprattutto, data la condizione di forte instabilità – a un passo dal conflitto civile – nella quale oggi esso si trova, lo scenario potrebbe evolversi in altro modo. Infatti, a mio avviso, tra i paesi del Medio Oriente che nel lungo periodo potrebbero essere maggiormente interessati dal fenomeno dell’emigrazione verso l’Europa vi è anche il Libano, trovandosi attualmente in una situazione politica di stallo ma con questioni altamente difficili da superare quali quella di un’importante crisi economica finanziaria – la peggiore dalla guerra civile che ha interessato il paese dal 1975 al 1990 – con una conseguente svalutazione della lira libanese e la mancanza di possibilità di accesso ai beni di prima necessità nonché al carburante, risorsa  essenziale ai fini dell’erogazione dell’energia elettrica.

Non solo, il paese deve anche affrontare la diffusione esponenziale del virus pandemico del Covid-19 tra la popolazione, in una situazione sanitaria che può definirsi drammatica e precaria, peggiorata dall’esplosione del 4 agosto 2020 e che ha comportato un ingente numero di morti e di feriti, la carenza di strutture sanitarie preposte per il contenimento e la cura del virus – così come quelle di  altre patologie – nonché la distruzione  di edifici scolastici e di formazione, di esercizi commerciali e soprattutto di abitazioni, provocando un numero elevato di libanesi senza fissa dimora nonché il peggioramento della condizione di vita dei numerosi rifugiati che, come detto precedentemente, da anni il paese accoglie.

Il valore politico della demografia e le influenze esterne

Tra questi vi sono non solo i rifugiati palestinesi ma anche un milione e mezzo di siriani, numeri assai rilevanti a livello demografico considerato che la popolazione libanese si compone di circa 4.000.000 di abitanti. Rispetto ad altri paesi, il Libano però non ha vissuto nel 2011 una “vera Primavera araba”. Le mobilitazioni di allora, come detto, essenzialmente legate alla situazione economica disastrata – sofferta principalmente dalla popolazione – così come alla richiesta dell’applicazione di criteri democratici, nell’esercizio del potere da parte dei governi centrali, non aveva dieci anni fa ragion di esservi in Libano che, rispetto ai paesi coinvolti nei tumulti del 2011, godeva di un sistema economico e politico migliore dal punto di vista democratico, anche se comunque bisognoso di riforme urgenti e necessarie sulla ripartizione del potere politico-confessionale. Il Libano è infatti un paese eterogeneo che ha subito per molti anni e ancora oggi subisce le tensioni tra le varie comunità in esso presenti e possiede una posizione geopolitica rilevante nell’area del Medio Oriente. Questo spiega in gran parte perché alle rivendicazioni di ciascuna comunità, nel corso della storia, si siano sempre inserite le agende politiche di attori esteri come l’Iran, l’Arabia Saudita e chiaramente Israele che hanno spesso contribuito ad alimentare le tensioni già preesistenti nelle comunità libanesi.

Inoltre, tra gli attori esteri va menzionata la Francia, potenza coloniale del Libano con la quale buona parte della popolazione ha legami storici e culturali e che oggi il presidente Macron vorrebbe avesse un ruolo più importante nel paese. Negli ultimi anni il Libano ha avvertito il contraccolpo di quanto stava avvenendo in Siria e soprattutto in Iraq, anche se in modo minore. Nel 2011 il paese infatti sembrava avesse un’economia fiorente ma in realtà il suo debito pubblico equivaleva al 40 per cento del proprio Pil (esattamente il Libano oggi detiene circa 53 miliardi di debito pubblico).

Le banche libanesi, a distanza di un decennio, sono crollate e sono stati bloccati da parte del governo tutti i conti corrente con il risultato che la popolazione civile, in tale grave situazione economica, non ha la possibilità di prelevare i propri risparmi.

La situazione in Libano ha cominciato a esacerbarsi nel marzo del 2019 quando il primo ministro libanese Hassan Diab ha dichiarato che non avrebbe pagato il debito derivante da un eurobond da 1,2 miliardi di dollari in scadenza nello stesso mese di marzo a causa della disastrata condizione-economico finanziaria che ha portato il paese al default.

Le proteste per le riforme e il potere delle banche

Dal 17 ottobre del 2019 di conseguenza la popolazione civile dinanzi a una situazione di instabilità politica ed economica senza precedenti ha cominciato a manifestare nelle strade delle città libanesi contro il sistema politico settario al governo nonché contro i banchieri ritenuti responsabili, a fronte di un sistema fortemente corrotto, di aver dominato malamente il paese per decenni. Durante le proteste i manifestanti hanno chiesto l’elaborazione di riforme economico-sociali e del sistema politico poiché la classe politica al potere è rimasta pressoché invariata, per cui oggi a governare vi sono i figli o nipoti di coloro i quali hanno governato il paese nei primi decenni dalla dichiarazione di indipendenza nel 1943.

Beirut 26 febbraio 2021: i manifestanti gettano pietre contro la Banca centrale del Libano (foto di Karim Naamani).

Da metà novembre del 2019 le banche inoltre hanno imposto un controllo dei capitali limitando l’accesso alle valute straniere, prime tra tutte il dollaro e l’euro, con una conseguente svalutazione della lira libanese che ha causato anche il graduale impoverimento dei ceti medio-bassi. Quando però, all’inizio del 2020, il paese – grazie ai moti di contestazione portati avanti dalla popolazione civile – stava operando un iniziale processo di cambiamento, è intervenuto il virus, concedendo un’inaspettata “salvezza” per l’oligarchia che fino allora era stata al potere e che stava rischiando una disfatta definitiva.

Il governo tecnico di unità nazionale

Infatti, proprio a causa di tale situazione, a gennaio del 2020 in Libano è stato formato un governo tecnico di unità nazionale guidato da Hassan Diab, una rottura rispetto al modello di governo di rappresentanza di tutte le forze politiche settarie presenti nel paese che lo aveva caratterizzato per 15 anni.

L’intento della formazione di un governo tecnico sebbene la sua creazione sia stata sostenuta da Hezbollah, non è stato altro che un banale escamotage da parte della precedente classe dirigente per evitare di assumersi la responsabilità di un sistema che ormai stava correndo senza sosta verso il baratro, ma che la popolazione civile stava denunciando ad alta voce durante i tumulti già nel 2019.

Il governo tecnico è nato quindi proprio con questa logica: assumersi la responsabilità e gli oneri di decisioni economiche altamente impopolari, data la situazione economica, lasciando immuni da tale difficile governance le rappresentanze settarie precedentemente al governo che ne erano state la causa, in modo che nel mentre avrebbero potuto meglio riorganizzarsi al fine di avere una chance di riscatto della propria posizione politica dinanzi all’opinione pubblica, concretizzata paradossalmente attraverso proprio la diffusione della pandemia.

La diffusione del virus infatti ha concesso ai poteri settari la possibilità di riscattarsi, mediante un aiuto diretto alle comunità delle quali sono espressione e che il governo tecnico, così impegnato a risolvere la questione economica generalizzata, non avrebbe certamente potuto compiere mediante un intervento capillare sanitario e di sostegno a favore delle singole realtà locali. In tale situazione il primo ministro del governo tecnico Diab si è trovato così in una posizione molto difficile che implicava, da una parte la gestione di una pandemia con tutte le misure restrittive che questa comporta e, dall’altra le forti ondate di proteste popolari.

Le proteste hanno coinvolto soprattutto le zone abitate da sunniti come le città di Tripoli e Sidone ma si sono registrati anche tumulti a nord della città di Beirut dove vi è un’alta percentuale di maroniti ossia membri della comunità civile cattolica presente nel paese. Proteste sporadiche invece vi sono state a sud, nelle quali Hezbollah ha un ruolo rilevante e nel centro-sud caratterizzato da frange organizzate rappresentanti del partito comunista libanese.

Il governo ombra di Diab

Va precisato, tuttavia che il governo di Diab è pur sempre un governo ombra manovrato in un modo non molto celato da parte della precedente élite politica. L’esecutivo è comunque controllato dai partiti della coalizione ossia dalla compresenza di Hezbollah e “Corrente patriottica libera” partito formato dall’attuale capo di stato Michel Aoun e da suo genero Gibran Bassil, dal “Partito delle Forze libanesi” e quello delle Falangi che si contendono insieme al partito di Aoun il consenso dei cristiani in prevalenza maroniti.

Il leader dell’allora opposizione Saad Hariri, oggi premier, è sostenuto dall’Arabia Saudita e dai francesi a guida delle comunità sunnite. Nella gestione dell’epidemia questo rinnovato potere settario appare come detto consolidarsi: basti pensare quanto sia stata difficile la cancellazione dei voli verso l’Iran e l’Italia proprio perché fortemente osteggiata da Hezbollah, sostenuto a sua volta da Amal movimento sciita vicino a Damasco – dopo aver dichiarato il 15 marzo 2020 lo stato di “mobilitazione generale” con le conseguenti chiusure e restrizioni necessarie al contenimento del virus.

Mobilitazione e non emergenza: il freno di Hezbollah

Si deve fare attenzione proprio a tale dichiarazione:  in Libano nel 2020 è stato dichiarato lo stato di “mobilitazione nazionale” ma non quello di “emergenza”  proprio a causa delle pressioni esercitate sul primo ministro da Hezbollah ostile a una concessione di maggiori poteri alle forze armate del governo libanese (LAF) in quanto rappresentano l’unica organizzazione istituzionale che mantiene un gradimento da parte della popolazione civile soprattutto di quella cristiana e a capo delle quali vi è un cristiano maronita, secondo il sistema di ripartizione delle quote al governo.

Tra le varie rappresentanze politiche va rilevato infatti che Hezbollah, probabilmente confidando sugli aiuti da parte dell’Iran, ha dichiarato sin da subito che si sarebbe occupato di gestire in prima linea l’emergenza Covid. Effettivamente il cosiddetto “Partito di Dio”, mettendo in campo decine di migliaia di medici e di paramedici per far fronte alla pandemia ha subito offerto la propria capacità di organizzazione e i propri avamposti logistici. Ciò non è estraneo alla sua natura: Hezbollah da anni fonda il suo potere su una vicinanza molto forte alle comunità locali e ha svolto la funzione di uno stato parallelo alle istituzioni spesso non presenti nelle aree rurali o in quelle più periferiche, dotando le comunità anche in passato, di scuole, ospedali, o organizzazioni a sostegno dell’edilizia e delle microimprese locali. Chiaramente il movimento sciita è anche una formazione totalitaria dotata di un proprio apparato di sicurezza e considerato dai tedeschi come un gruppo terrorista, non distinguendo più l’ala armata da quella politica del movimento. Se quindi il governo tecnico è stato costretto ad adottare, per la questione economica e per quella pandemica, decisioni totalmente impopolari, le vecchie élite al potere suddivise su base comunitaria, in modo spesso opportunistico, si sono avvicinate alle necessità concrete della popolazione civile, per esempio distribuendo cibo e test anti-Covid gratuiti e sanificando i quartieri appartenenti alla propria comunità di riferimento.

«Tutti ma proprio tutti!»

Tuttavia, i movimenti di protesta non guardano a nessuna appartenenza politica e si oppongono con il proprio slogan contro la corruzione nel paese al grido di «tutti e quando diciamo tutti intendiamo tutti!», mostrando in tale modo il malessere generalizzato sofferto per anni e ora quasi impossibile da reprimere, data la situazione di forte indigenza in cui si trova il Libano.

Alcuni tra i politici hanno ascoltato la voce dei manifestanti per cui il governo nel 2019 ha approvato all’unanimità un piano di riforme economiche. L’approvazione del piano è stata particolarmente rilevante in quanto ha consentito l’intervento del Fondo monetario internazionale. Tuttavia, nel 2020 il governo e il fondo monetario internazionale hanno sospeso i negoziati per la concessione dei finanziamenti al Libano: i negoziati sono in una fase di stallo in ragione del fatto che il governo, l’Associazione delle Banche e la Banca centrale non convergono in una posizione comune riguardo il calcolo delle perdite economiche registrate negli ultimi anni. Prima di erogare qualsiasi somma l’FMI pretende che vengano forniti dati certi e trasparenti dal punto di vista finanziario e che il governo libanese attui le riforme che sono già state approvate.

Dall’inizio della crisi economica nel 2019 sono decine i libanesi e gli stranieri presenti nel paese che si sono tolti la vita a causa della situazione economica. La sede dell’associazione delle banche è divenuta una sorta di base militare attaccata dai manifestanti che ne hanno chiesto la caduta. La società elettrica, come previsto all’inizio degli scontri, non avendo più carburante, ha cominciato a ridurre l’erogazione dell’energia elettrica in tutto il paese.

Le stime della Banca mondiale a fronte del Covid, in particolare quelle riferite allo stato di disoccupazione in Libano, sono destinate a peggiorare con il tempo. Il Libano, infatti, all’inizio della diffusione della pandemia ha cominciato a rallentare le attività fino alla decisione della totale chiusura il 15 marzo 2020 – anche se possiamo dire che questa non è stata mai rispettata dai libanesi in modo ferreo – insieme all’invito da parte del primo ministro rivolto alla popolazione di non uscire dalle proprie abitazioni salvo casi eccezionali e imponendo il coprifuoco notturno.

Le disparità sociali e l’assenza dello stato

La pandemia ha messo in risalto le disparità sociali già presenti nel paese dal punto di vista socio-economico e l’assenza dello stato centrale nelle aree periferiche lontane dalla capitale. Tale mancanza del potere istituzionale nelle zone rurali e periferiche hanno condotto all’acquisizione di un ruolo di maggiore importanza appunto da parte delle municipalità legate alle diverse comunità locali con l’effetto che queste spesso, ritenendosi una sorta di entità a sé stanti, hanno finito per discostarsi parzialmente o totalmente – mediante una diversa applicazione o non attuazione – dalle leggi o dalle direttive emanate del governo centrale.

Inoltre, deve essere anche valutata la condizione dei profughi in Libano che si si stimano circa in due milioni. Tuttavia, va precisato che il paese non è firmatario della Convenzione di Ginevra, motivo per il quale tali profughi non godono dello status di rifugiato imposto dalla stessa Convenzione. A partire dal 2014 il governo libanese ha ordinato all’Unhcr di interrompere la registrazione dei profughi siriani dei quali solo 900.000 sono stati registrati dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite. Su una popolazione di circa 4 milioni di abitanti i profughi presenti in Libano costituiscono un terzo della popolazione civile. In questa fase in cui gli stessi libanesi si trovano in una condizione di povertà e di vulnerabilità l’ingente accoglienza dei profughi nel paese ha costituito la causa di ulteriori scontri e tensioni.

Distruzione di un campo palestinese nel Nord del Libano (foto trentinness@hotmail.com)

Le infiltrazioni dei terroristi islamici

Per capire meglio il perché di tali condizioni di alta tensione tra la popolazione e i profughi occorre riflettere sul fatto che, a partire dal 2013, tra di loro spesso si sono infiltrati miliziani del sedicente Stato Islamico e del gruppo terrorista Jabhat al-Nusra, rendendosi responsabili di un numero rilevante di attentati di stampo terroristico sia nella capitale che in altre aree del Libano, operando attivamente fino al 2017. A titolo esemplificativo occorre citare la situazione della cittadina libanese di Arsal, a venti chilometri dal confine con la Siria, ossia una delle destinazioni principali dei profughi siriani (la cittadina è arrivata nel 2013 ad avere da 30.000 a 100.000 abitanti) e nell’agosto del 2014 ha subito un forte attacco da parte di un gruppo di miliziani siriani mossi dal duplice fine di aumentare la propria capacità di azione, approdando nel territorio libanese, e di contrastare Hezbollah sostenitore del regime di Bashar al-Assad. Tale attacco ha determinato l’inizio di un conflitto durato circa tre anni che ha finito con il consolidare, aumentare o diminuire il rilievo nello scenario geopolitico di alcuni attori internazionali coinvolti in esso anche solo indirettamente. Va precisato però che il successo iniziale dell’attacco armato con un numero elevato di ostaggi è stato conseguito grazie alla segreta alleanza tra l’allora sindaco di Arsal, Ali Hojairi e le milizie islamiste che, in questo modo, hanno avuto una maggiore conoscenza degli avamposti delle forze militari libanesi. Nonostante Hezbollah sia stato ampiamente criticato in quanto ritenuto responsabile dell’ingresso dei miliziani, dato il suo sostegno al regime siriano, sono state proprio le sue truppe a sferrare l’offensiva finale contro i miliziani nel 2017 nella stessa periferia della cittadina di Arsal con la conseguente decretazione della vittoria da parte di Hassan Nasrallah, leader del gruppo sciita che indubbiamente, dopo il conflitto, ha visto aumentare la propria capacità politica nel paese.

I negoziati con Israele

Questo ruolo di difensore dei confini territoriali libanesi era già stato svolto da Hezbollah in passato nelle operazioni militari nel 2000 e nel 2006 contro Israele ritenuto nemico storico del paese e che di recente è tornato alla ribalta nello scenario libanese proprio in relazione alla questione della delimitazione di confini. Il ministro uscente dei Lavori pubblici libanese di recente ha chiesto con l’emendamento al decreto n. 6433 proposto il 12 aprile 2021 di estendere l’area, ricca di idrocarburi, contesa da anni con Israele da 860 a 1432 chilometri quadrati. L’emendamento si pone all’interno delle dinamiche dei negoziati inaugurati il 14 ottobre del 2020 tra Libano e Israele – mediati dagli Sati Uniti e sotto l’egida delle Nazioni Unite – per la delimitazione dei propri territori in particolare della fascia a sud del paese definita blue line che ha visto in passato concentrarsi gli scontri più violenti tra i due stati in quanto entrambi sostengono che tale area rientri nella propria zona economica esclusiva (Zee) e dove da anni è presente il contingente italiano dell’Onu con la missione UNIFIL.

Pattugliamenti della Missione Unifil nella “blue line”

Tuttavia, il presidente Aoun ad aprile si è rifiutato di approvare tale emendamento. Alcuni hanno precisato che non vi è stato un rifiuto ma solo la richiesta di rinviare la questione alla trattazione nel corso di una riunione a livello governativo, viste le delicate conseguenze che potrebbero derivare dall’approvazione dell’emendamento in questo momento. Inoltre, anche se i negoziati riguardano solo i confini marittimi, c’è da dire che il Libano da anni rivendica anche le cosiddette fattorie di Sheeba, circa un chilometro quadrato da dove gli israeliani non si sono ritirati dal 2000 dopo l’occupazione del Sud del paese iniziata nel 1978 e dove Israele attualmente sta costruendo un muro.

La discriminazione nei confronti dei profughi siriani

Come dicevamo le misure restrittive anti-Covid-19 adottate come necessarie per il contrasto della diffusione della pandemia hanno finito per essere strumentalizzate dal governo centrale, così come dalle singole comunità locali presenti in Libano, con fini discriminatori contro i profughi. Basti pensare che all’inizio del 2020, quando ancora non erano state attivate per la popolazione civile le misure per il contrasto del virus, per il 40 per cento dei siriani veniva già imposto il regime di coprifuoco, per loro i test sono stati eseguiti solamente nel maggio dello scorso anno grazie all’intervento delle Nazioni Unite così come dalle ong già presenti da diversi anni come figure di riferimento nei campi dove questi risiedono. I profughi nel contesto pandemico non sono stati destinatari, diversamente dal resto della popolazione civile, di misure di informazione e di prevenzione necessarie per evitare i contagi. Non solo, in Libano si può essere curati gratuitamente solo in un ospedale a Beirut che difficilmente viene raggiunto dai profughi tanta è la contestazione generalizzata della loro presenza nel paese e dati gli atteggiamenti discriminatori spesso rivolti nei loro confronti. Vi è da dire che anche per molti libanesi provenienti dalle aree rurali è molto complesso raggiungere tale presidio ospedaliero gratuito nella capitale, stante la quasi totale assenza di mezzi di trasporto pubblico, determinata dalla crisi economica.

È chiaro che tutta questa situazione è diventata ancora più drammatica in seguito all’esplosione del 4 agosto 2020, della quale tratteremo in seguito in modo più approfondito, e in esito alla quale oltre a essere andate distrutte scuole e abitazioni sono stati gravemente danneggiati proprio gli stessi ospedali per cui i pazienti ricoverati a Beirut sono stati fatti evacuare in altri ospedali sul territorio nazionale.

Le violazioni della Convenzione di Ginevra

Sia le Nazioni Unite che le ong operano in Libano all’interno del contesto di un piano approvato dal governo insieme all’Onu nel 2015 per il miglioramento delle condizioni di vita tanto dei profughi siriani quanto della popolazione libanese in condizione di vulnerabilità. Il piano esplica i suoi effetti essenzialmente su due fronti: quello umanitario, attraverso l’applicazione di strumenti che possano fronteggiare l’emergenza e quello dello sviluppo, finalizzato all’integrazione dei profughi con la popolazione civile libanese che viene attuato mediante una progressiva inclusione dei profughi siriani nel mercato del lavoro in Libano potenziando anche a loro favore i servizi presenti a livello locale come scuole, ospedali e alloggi. Se però le misure sul fronte umanitario vengono effettivamente poste in essere, quelle volte all’integrazione dei profughi nel paese incontrano maggiori ostacoli nella loro attuazione, vista anche la posizione del presidente siriano Bashar al-Assad che negli ultimi anni sta premendo per il rimpatrio dei propri cittadini fuggiti all’estero in particolare proprio verso i territori libanesi. Al riguardo va sicuramente segnalato il Rapporto di Amnesty International del 23 marzo del 2021 I wish I would die che ha documentato presunte violazioni perpetrate dai servizi segreti militari libanesi contro i rifugiati siriani detenuti preventivamente con l’accusa di terrorismo e che hanno subito non solo la violazione del loro diritto a un equo processo ma anche atti qualificabili come torture, violenze sessuali e trattamenti disumani e degradanti.

Le ricerche sulle quali si basa il report sono state portate avanti dalla nota organizzazione internazionale tra giugno del 2020 e febbraio del 2021 e riguardano fatti avvenuti tra il 2014 e la fine del 2019: sono state intervistate 26 persone aventi una fascia di età compresa tra i 22 e i 55 anni e tra i quali vi sono anche due ragazzi che al momento dell’arresto avevano 15 e 16 anni e alcuni degli intervistati sono ancora in carcere.

Amnesty in esito alle indagini ha scritto due volte al ministero dell’Interno, della Difesa e della Giustizia chiedendo chiarezza. Occorre sottolineare che il Libano oltre a non aver ratificato la Convenzione di Ginevra ha approvato la legge contro la tortura solo nel 2017 ma anche durante la sua vigenza è stata più volte segnalata la sua mancata attuazione.

Fonte: Amnesty International

L’opportunismo dei partiti

È necessario tuttavia precisare che molte ong presenti in Libano possono operare oggi soltanto grazie all’appoggio di alcuni partiti politici e di confessioni religiose, presenti nelle comunità locali, riproponendo così quell’atteggiamento opportunistico che chiede come contropartita degli aiuti offerti ai profughi quella della realizzazione dei propri fini ed interessi personali in un’ottica di rafforzamento del proprio potere all’interno della vita politica in Libano.

Inoltre, c’è da dire che da ormai dieci anni la posizione comune delle fazioni politiche libanesi si è del tutto uniformata sulla posizione di un ritorno dei profughi siriani, nonostante l’intervento esemplare di alcune municipalità come quella di Bsharre, nel Nord del Libano. Tale elemento è fortemente allarmante, data la presenza al potere in Siria del regime contestato ma ancora guidato da Bashar al-Assad.

L’esplosione al porto: e Beirut diventa periferica

A ogni modo, come accennato sopra, la situazione nel paese è peggiorata in modo catastrofico per tutti i residenti in Libano a causa della duplice esplosione del 4 agosto del 2020 considerata la più potente deflagrazione non nucleare della storia e che ha avuto come epicentro proprio il porto di Beirut che, con la seconda esplosione, ha visto la distruzione di tutti i quartieri posizionati sul versante settentrionale della capitale e sulla costa. Fortunatamente una parte dell’esplosione si è riversata in mare ma circa 200 sono state le vittime e migliaia di persone, più di 6000, quelle gravemente ferite e al momento non è chiaro ancora se si tratti di un incidente o di un attentato.

Dopo l’esplosione del 4 agosto 2020 al porto di Beirut (foto Anna_Om).

L’esplosione per intenderci è stata pari a un decimo di quella di Hiroshima. Dalle immagini trasmesse dai media quest’estate a livello internazionale si nota che l’esplosione sia avvenuta in due tempi distinti: la prima con un impatto minore e di un colore tendente al grigiastro, l’altra, immediatamente dopo, di immensa portata e di colore prevalentemente rossastro con un’onda d’urto che ha provocato danni a sette chilometri di distanza dall’epicentro. Come dicevamo, con la deflagrazione, è stato colpito in primo luogo il porto della capitale storico luogo strategico economico commerciale del Medio Oriente e simbolo dell’economia imprenditoriale della città di Beirut che in una situazione già al limite dal punto di vista economico-finanziario, in esito a tale accadimento, ha subito un durissimo contraccolpo. Sono state invece colpite meno le zone centrali e a sud della città e sono stati del tutto risparmiati i quartieri occidentali e sud-occidentali.

Beirut in questo modo ha smesso, almeno per il momento di essere il centro di buona parte degli affari nell’area mediorientale. Inoltre, nonostante le dichiarazioni all’indomani dell’evento, dell’attuale leader di Hezbollah Hassan Nasrallah, questa volta, il movimento politico religioso non ha messo in atto, come in seguito allo scoppio della pandemia, la mobilitazione di aiuti e di sostegno nei propri quartieri di riferimento.

In ogni caso dal 4 agosto 2020 Beirut non è più il centro ma una area periferica del Libano. Tuttavia, il fatto che non sia ancora chiaro se la deflagrazione sia la conseguenza di un incidente o invece di un atto volontario non implica l’impossibilità di formulare delle ipotesi in merito all’accaduto.

Le indagini e i dubbi

La prima ipotesi è sicuramente quella di un “errore umano” o meglio quella di una deflagrazione spontanea in conseguenza del degrado del materiale, costituito da circa 2750 tonnellate di nitrato di ammonio, ossia di un fertilizzante ma con proprietà esplosive, contenuto nell’hangar n. 12 al porto. La comunicazione dell’esistenza di tale materiale era stata più volte notificata alle autorità istituzionali, ossia al presidente Aoun, ai vari premier e ai ministri che si sono succeduti nel tempo.

La seconda ipotesi invece si basa sull’idea di un presunto attacco israeliano (Israele nega qualsiasi coinvolgimento) che avrebbe avuto come mira la mole di missili di Hezbollah presenti in quell’area ma che non ha tenuto conto della presenza di altro materiale suscettibile alla deflagrazione.

La terza ipotesi è riconducibile al fatto che l’evento tragico si è concretizzato in due momenti. Questo può voler dire che la prima esplosione sia derivata da un fatto volontario internazionale, connesso con il processo penale che in quella parte della capitale si stava svolgendo in conseguenza della morte per attentato nel 2005  del premier Rafiq al-Hariri, padre dell’attuale primo ministro, sostenuto dall’Arabia Saudita e non gradito per questo né da parte sciita ossia da Hezbollah – movimento a favore dell’ingerenza iraniana nel Paese – né dai siriani che rivendicano un’influenza estera prevalente nel paese. Secondo sempre tale teoria la seconda esplosione invece sarebbe stata del tutto involontaria.

Infine, la quarta ipotesi, è quella di un attentato premeditato di cui al momento l’autore è sconosciuto finalizzato proprio a far precipitare nel baratro il paese.

Inoltre il giudice Sawan – che inizialmente aveva intrapreso le prime indagini sull’accaduto e in particolare sui ministri che erano stati informati in passato della presenza del materiale esplosivo in prossimità del luogo della  deflagrazione – è stato destituito dalla Corte di Cassazione libanese e al suo posto è stato nominato un nuovo giudice che, sebbene sia considerato uomo valido a capo della Corte del Tribunale di Beirut, ha dato adito a dubbi circa l’imparzialità del potere giurisdizionale in merito alla vicenda.

Gli aiuti non proprio disinteressati

Le prime necessità dopo l’esplosione sono state quelle del rifornimento di medicinali, di alimenti e di materassi per dormire in strada, mentre dal punto di vista delle infrastrutture, è stata data priorità alla ricostruzione delle abitazioni, alcune delle quali patrimonio dell’Unesco. La popolazione, questa volta però, ha chiesto che i fondi derivanti dagli aiuti internazionali siano gestiti direttamente dalle ong e non dai governi locali e il presidente Macron ha dichiarato la necessità della tracciabilità dei medesimi. Infatti, il presidente francese ha visitato tempestivamente il paese esattamente due giorni dopo l’esplosione mentre a seguire immediatamente vi sono stati Russia, Iran, Qatar, Emirati Arabi Uniti, Turchia e Stati Uniti che hanno inviato prevalentemente aiuti medici per la popolazione libanese. Tuttavia, tali aiuti non possono definirsi in tutti i casi “disinteressati” ma rivelano spesso piuttosto la volontà di taluni attori internazionali a sostituirsi al governo del paese in un momento in cui il rapporto di fiducia tra esecutivo e popolazione è totalmente logorato. Simile processo in Libano già si era determinato al momento della diffusione del virus del Covid-19 per cui il Libano è di nuovo oggi il campo su cui si muovono le tattiche geopolitiche di alcuni stati esteri. In questa logica Turchia e Qatar sono alleate tra loro e al loro intervento si oppongono Emirati Arabi Uniti e Russia. La Francia per i motivi succitati ha un ruolo prima facie prevalente mentre Israele ha dimostrato difficoltà a inserirsi in tali dinamiche.

Il divisivo intervento francese in rapporto allo scacchiere internazionale

Secondo l’analisi di questa spinta internazionale alla solidarietà prevale, per taluni, l’ipotesi che l’esplosione del 4 agosto non sia stata uno scoppio accidentale ma organizzato da chi avrebbe un interesse a detenere il potere in Libano; ardua risulta l’individuazione dei possibili mandanti, dati i molteplici attori della politica libanese e, al contempo, le numerose potenze estere che si fronteggiano in quest’area del Medio Oriente. L’immediata partecipazione francese dall’altra parte ha fermato almeno in una prima fase qualsiasi intervento di aiuto da parte dell’Unione Europea. L’Italia nelle vesti dell’allora premier al governo si è recata simbolicamente in Libano l’8 settembre dello scorso anno per dare il suo contributo in questa corsa agli aiuti portata avanti dalle grandi potenze internazionali e mantenendo come spesso avviene un ruolo più marginale. Dall’altra parte infatti il presidente francese in esito all’esplosione ha promesso di organizzare una raccolta fondi per gli aiuti umanitari e ha fissato l’agenda per la formazione di un nuovo esecutivo vantando in questo luogo una posizione maggiormente strategica rispetto a quella che detiene in Libia in cui, negli ultimi anni, hanno dominato Russia e Turchia nell’affermazione di un potere politico straniero da affiancare alle forze politiche locali. La presenza francese in Libano tuttavia divide fortemente e ciò si evince dalle dichiarazioni, in chiave polemica, della parte filosiriana, presente nel paese, la quale nell’agosto del 2020 – dopo le numerose proteste della popolazione civile che hanno portato alle dimissioni del primo ministro Diab – ha affermato che il nuovo premier incaricato dal Parlamento libanese di formare un governo, ossia Mustapha Adib, fosse particolarmente sostenuto da Macron.

Inoltre, la Francia ha affermato in più occasioni che l’ala militare di Hezbollah non debba essere considerata una diversa espressione di un gruppo politico al potere oggi in Libano, quanto piuttosto un gruppo terroristico come sostenuto in modo più drastico già dalla Germania ma completamente in disaccordo con l’opinione del Cremlino che considera il gruppo un rilevante partner politico e non un gruppo terrorista. D’altronde i rapporti tra Russia e Libano hanno radici profonde: Mosca ha aiutato fortemente Hezbollah nella guerra del 2006 in Libano al fine di rafforzare la propria posizione rispetto a Teheran. Infine, il presidente francese, fortemente contestato in Francia per la volontà di applicare misure di austerità economica, in Libano è stato destinatario di molteplici istanze di cambiamento da parte della popolazione civile libanese che ha chiesto di essere aiutata direttamente aggirando la classe politica libanese, ritenuta fortemente corrotta.

Il turnover ai vertici libanesi

Tuttavia, il 27 settembre 2020 il premier incaricato dal parlamento libanese Mustapha Adib si è dimesso e ha deciso di ritornare a svolgere il ruolo di ambasciatore in Germania.  A quel punto il presidente Emmanuel Macron ha contestato tutti i leader politici libanesi incluso il capo di stato Michel Aoun e ha attaccato duramente Hezbollah e Amal sostenendo che il suo principale interesse fosse quello di volere il superamento di un sistema politico confessionale, ma ciò che sembra emergere è piuttosto la volontà di mantenere protetti a ogni costo i propri interessi nell’area.

Nell’ottobre del 2020, il Parlamento ha deciso così di assegnare un nuovo mandato a Saad Hariri, leader del partito politico a carattere sunnita Movimento per il Futuro, già primo ministro del Libano dal 18 dicembre del 2016 al 19 dicembre del 2019, e precedentemente dal 14 febbraio 2005 dopo l’assassinio del padre Rafiq Hariri e, in seguito, da giugno 2009 a gennaio del 2011.

Attualmente il paese si trova comunque ancora in una situazione di stallo politico. Dal 22 ottobre del 2020 Saad Hariri si è impegnato a risanare la situazione politica del paese dopo aver ottenuto 65 voti su 120 da parte del Parlamento. Uscito di scena proprio dall’ottobre del 2019 per via delle proteste popolari, è stato chiamato nuovamente a guidare il Libano in conseguenza della tragica deflagrazione e delle dimissioni conseguenti a questa da parte dei suoi predecessori nell’arco di pochi mesi. A creare questa condizione di stallo sono le divergenze tra il capo di stato Aoun e lo stesso presidente Hariri per cui non si riesce a convergere in una posizione comune rispetto a una riforma della Costituzione.

«Il popolo non perdonerà»

Nel 2021 le proteste della popolazione civile contro la classe politica al potere sono di nuovo scoppiate la sera del 25 gennaio, nonostante le restrizioni e il coprifuoco imposti per via del Covid, a Beirut, a Tripoli nel Nord del Libano e nella città meridionale di Sidone.

Ciò in conseguenza del fatto che il governo, il 21 gennaio 2021, ha annunciato un’estensione delle suddette misure Covid fino all’8 febbraio del 2021 che hanno implicato la chiusura di numerose attività commerciali e uffici istituzionali in un paese al momento nel baratro per la crisi economico-finanziaria, resa nota nel marzo del 2019. Ciò è avvenuto a causa del sensibile aumento della curva dei contagi dopo che il governo libanese, prima delle festività natalizie, aveva concesso un allentamento delle misure per favorire la ripresa della disastrata economia libanese. Inoltre in Libano il 27, il 28 e il 31 gennaio 2021 gli scontri tra la popolazione e i militari hanno causato un secondo morto e si registrano circa 400 feriti dall’inizio delle manifestazioni popolari. A gennaio 2021 vi è stato anche l’attacco da parte dei manifestanti degli uffici del Comune a Beirut ma diversi violenti tumulti si sono verificati anche a Tripoli , definiti dal presidente Hariri crimini organizzati e premeditati. I principali rappresentanti delle comunità cristiane e musulmane libanesi hanno contestato nuovamente l’élite al potere, questa volta al grido “Il popolo non perdonerà. La storia non dimenticherà” chiedendo un governo di “salvezza nazionale”.

Proteste antigovernative in Libano (foto Anna_Om).

Niente aiuti senza un nuovo governo

Per tale ragione a febbraio del 2021 il premier Hariri e il presidente Macron si sono confrontati sulla situazione in un incontro privato all’Eliseo in particolare sugli ostacoli che si stanno determinando tra il leader e il presidente Aoun in merito alla formazione di un nuovo governo libanese, fondamentale per la concessione e l’elargizione delle donazioni delle varie potenze internazionali incluso il Fondo monetario internazionale, vista la perdurante situazione di corruzione. A tale situazione si aggiunge che nel marzo del 2021 la lira libanese ha raggiunto il suo minimo storico toccando quota 10.000 rispetto al dollaro Usa e la crescente svalutazione della moneta nazionale ha comportato un aumento del livello dei prezzi al 144 per cento per i beni di prima necessità. Dal mese di ottobre 2020 la valuta libanese ha infatti subito un calo pari al 70 per cento.

In un discorso in diretta televisiva il 17 marzo 2021 il presidente Aoun ha esortato il premier Hariri a formare un governo o a dimettersi, ma in realtà il premier ha già proposto al capo di stato una squadra il 9 dicembre 2020, composta da 18 ministri apartitici, che non ha ottenuto l’approvazione di Michel Aoun.

Il ministro dell’Interno libanese a fine marzo ha dichiarato che nell’ultimo periodo «c’è maggiore possibilità di violazioni di attentati e omicidi vari nel paese».

Il 22 marzo 2021 quindi si è tenuto un incontro tra il presidente del Libano Aoun e il premier designato Saad Hariri che, tuttavia, anche in questa circostanza non si è concluso con l’approvazione di un governo di salvezza nazionale. Hariri sostiene che l’incontro non ha avuto successo in quanto il capo di stato mette in atto comportamenti ostruzionistici derivanti dalla pretesa che nella squadra di governo vi sia a tutti i costi la maggioranza dei suoi alleati politici. Non solo, Aoun ha consegnato al premier una lista completa con già 18, 20, o 22 ministri con ancora solo alcuni posti vacanti. Hariri – che recentemente ha invitato pubblicamente anche Papa Francesco a far visita al paese come è avvenuto in Iraq – ha considerato tale gesto inaccettabile in quanto il comportamento è qualificabile come anticostituzionale, non essendo di competenza del capo dello stato formare il governo libanese.

Il fallimento delle politiche di sviluppo nel Mediterraneo orientale

La situazione che oggi si coglie in Libano, simile a quanto avvenuto recentemente in Iraq, in  Algeria e Tunisia negli ultimi anni, ha quindi qualcosa in comune con le primavere arabe del 2011; in questo caso specifico però non si tratta solo di destituire la testa di un regime quanto costruire qualcosa di soddisfacente per la popolazione civile che soffre della presenza degli stessi attori regionali del passato ma che mostra oggi, in modo evidente, la forte volontà di trovare soluzioni interne nonostante la vecchia élite politica che, come visto, non è ancora disposta a farsi da parte.

In conclusione, questa crisi può avere un impatto su una nuova ondata migratoria determinando un incremento esponenziale dei movimenti in fuga dal Libano in particolare dalla città di Tripoli: l’Italia ben presto si accorgerà del fallimento delle politiche di sviluppo nell’area del Mediterraneo orientale. A dimostrazione di ciò ci sono già i primi avvertimenti provenienti dalla Bosnia che, con riferimento a quanto sta avvenendo lungo la rotta balcanica, ha dichiarato: «Non vogliamo finire come il Libano».

L'articolo n. 7 – Libano: dove tutto cambia perché nulla cambi proviene da OGzero.

]]>
Geopolitica della siccità: chi ha ucciso il Mekong? https://ogzero.org/la-minaccia-della-siccita-chi-ha-ucciso-il-mekong/ Sun, 29 Nov 2020 19:04:58 +0000 http://ogzero.org/?p=1889 La “madre delle acque” Per il secondo anno consecutivo, la siccità sta divorando il bacino del Mekong. Le piogge monsoniche, che investono il Sudest asiatico tra maggio e agosto, sono state esigue. In ottobre, quando il fiume dovrebbe essere in piena, il livello dell’acqua era invece appena un terzo del normale. Lo stesso era successo […]

L'articolo Geopolitica della siccità: chi ha ucciso il Mekong? proviene da OGzero.

]]>
La “madre delle acque”

Per il secondo anno consecutivo, la siccità sta divorando il bacino del Mekong. Le piogge monsoniche, che investono il Sudest asiatico tra maggio e agosto, sono state esigue. In ottobre, quando il fiume dovrebbe essere in piena, il livello dell’acqua era invece appena un terzo del normale. Lo stesso era successo nel 2019. La Mekong River Commission, organismo intergovernativo che rappresenta i quattro paesi del basso bacino fluviale (Laos, Thailandia, Cambogia e Vietnam), parla di “siccità estrema”. La pesca e l’agricoltura da cui dipendono milioni di persone sono in crisi. E mentre la regione indocinese comincia a contare i danni, economici quanto ecologici, un istituto statunitense che usa immagini satellitari per monitorare i cambiamenti climatici accusa la Cina: avrebbe trattenuto preziosa acqua nei reservoir formati dalle sue undici dighe sull’alto corso del fiume, provocando il disastro a valle. Pechino respinge l’accusa. Ancora una volta, il Mekong si rivela un caso paradigmatico delle tensioni politico-diplomatiche, ambientali e sociali della convivenza lungo un grande fiume dall’ecosistema fragile e dalla storia tormentata.

dighe sul Mekong

Dighe già operative, in costruzione o in fase di progetto sul corso del Mekong

Le parti in causa sono sei paesi. Il Mekong infatti nasce sull’altopiano tibetano, oltre i 4500 metri d’altezza, e scorre per 4900 chilometri fino al Mar Cinese meridionale. La prima metà del suo percorso è in Cina, attraversa la provincia dello Yunnan tra gole spettacolari dove perde circa il 90 per cento del suo dislivello totale: questo è il “bacino dell’Alto Mekong”. Poi entra in Laos nella regione detta “triangolo d’oro”, segna il confine tra Laos e Myanmar e più a valle tra Laos e Thailandia; attraversa la Cambogia e infine forma un grande delta nel Vietnam meridionale: e questo è il “bacino del Basso Mekong”. La distinzione riflette la geografia, ma ancora di più la storia e la geopolitica della regione. A cominciare dal nome: in Cina è il Lancang Jang (“fiume turbolento”), nel resto del mondo è noto con il nome derivato dalla lingua thai, Mae Nam Khong, “madre delle acque”.

Il fiume che “respira”

La Mekong River Commission (Mrc) annuncia quest’anno una situazione ancora più grave che nel 2019.

I segni del disastro sono visibili nel delta, dove la portata d’acqua è così scarsa che i dodici bracci del fiume sono ridotti a rigagnoli e l’acqua salina del Mar Cinese meridionale sta penetrando sempre più all’interno. Più a monte, in Laos, dove il corso del Mekong è disseminato di scogli e rapide, l’inverno scorso il fiume era ridotto a pozze isolate tra ampi tratti in secca: questo inverno ci si aspetta la stessa scena.

Il segno più tangibile del disastro è che quest’anno il Tonle Sap (“grande lago”) non si è riempito. La particolarità del Mekong infatti è che la sua corrente cambia secondo le stagioni. Tra maggio e l’estate, alimentato dallo scioglimento dei ghiacci himalayani e dalle piogge monsoniche, il fiume si gonfia, la corrente è turbolenta e la piena allaga le zone pianeggianti ricoprendole di limo. Poco prima di raggiungere la capitale cambogiana Phnom Penh però la corrente cambia direzione e l’acqua risale un affluente laterale, il Tonle Sap, fino all’omonimo lago. Tra agosto e novembre questo cresce fino a cinque volte per superficie e volume d’acqua; poi si stabilizza e nell’inverno l’acqua riprende a scorrere verso il Mekong e il suo delta. Come se il fiume respirasse, e il Tonle Sap fosse il suo cuore.

Tonle Sap

Villaggio galleggiante sul lago Tonle Sap, sempre più secco, in Cambogia

Da questo “respiro” dipende il ciclo della vita fluviale, e in primo luogo la pesca. Gran parte dei pesci del Mekong sono specie migratorie, che risalgono la corrente nella stagione secca per riprodursi tra gli scogli a monte, per poi scendere con la piena a ingrassare nel Tonle Sap.  Secondo la Fao il basso bacino del Mekong è la più produttiva regione di pesca d’acqua dolce al mondo, con circa il 15 per cento del pescato mondiale (secondo altre fonti arriva al 20 o al 25 per cento del totale); tra pesca e acquacoltura, si stima una produzione annua di circa 4,5 milioni di tonnellate di pesce e altri organismi acquatici. Questo non include del tutto la pesca artigianale, a cui è legata la sussistenza di milioni di persone. Pesce e organismi acquatici sono la principale fonte di proteine animali per gli abitanti della regione (tra 40 e 60 per cento in media, fino all’80 per cento per la popolazione rurale e più povera). Nel Tonle Sap, le circa 500.000 tonnellate di pesce pescate nelle annate normali sono una parte consistente dell’economia locale. In queste settimane però le cronache raccontano di reti vuote, pescatori disperati, interi villaggi rurali sul lastrico. Anche l’agricoltura stagionale è in crisi: di solito, quando la piena si ritira, milioni di abitanti rivieraschi  coltivano orti e risaie sulle terre concimate dal limo, che quest’anno non è arrivato. E il livello del fiume è così basso che le pompe per l’irrigazione dei campi non arrivano a pescare acqua.

Bisogna pensare che circa 60 milioni di persone abitano il basso bacino del Mekong, di cui circa la metà vive entro 15 chilometri dal fiume e ne dipende direttamente. In altre parole, la siccità  minaccia l’economia e la sicurezza alimentare di milioni di persone, e in particolare della popolazione rurale.

Il clima e le dighe

La causa di tutto questo, afferma la Mekong River Commission, sono piogge monsoniche arrivate tardi e troppo scarse, conseguenza del fenomeno meteorologico detto “El Niño”.

Ma se le condizioni climatiche non fossero l’unica causa della crisi? Se il Mekong fosse in secca perché l’acqua viene trattenuta dalle dighe costruite nell’alto corso fluviale, cioè in Cina?

È proprio questa l’accusa lanciata da un istituto di ricerca statunitense, Eyes on Earth, in uno studio pubblicato nell’aprile di quest’anno e condotto insieme a un altro centro specializzato, il Global Environmental Satellite Applications. Sulla base di accurate osservazioni satellitari, lo studio conclude che nei sei mesi centrali del 2019, mentre il basso bacino del Mekong era a corto di piogge, nella parte alta del fiume le precipitazioni erano abbondanti e nel Lancang è affluita una quantità d’acqua superiore alla norma: ma è rimasta quasi tutta a monte, nei reservoir costituiti dalle dighe, e non è defluita a valle. L’accusa è precisa: «Le dighe sul tratto cinese hanno  trattenuto una quantità d’acqua senza precedenti», ha scritto Brian Eyler, direttore del Programma per il Sudest asiatico del Stimson Center (un’altra istituzione di ricerca statunitense), che ha ripreso quello studio in un articolo su “Foreign Policy”. Lo studio americano afferma inoltre che già da alcuni anni la Cina trattiene quantità crescenti d’acqua, cosa che già in passato ha creato condizioni di siccità a valle. Sostiene poi che la gestione delle dighe a monte, con improvvisi rilasci d’acqua, spiega anche le strane ondate di piena viste in passato nella stagione secca, che hanno provocato inondazioni lungo la frontiera laotiano-thailandese.

Toni da guerra fredda tra Cina e Usa

Lo studio qui citato ha monitorato la situazione nel decennio dal 2010 al 2019, con una metodologia che ha passato il vaglio di una peer-review (cioè la revisione di idrologi e climatologi, che hanno trovato convincenti le conclusioni). Eye on Earth è un’istituzione privata, ma lo studio è stato sostenuto dalla Lower Mekong Initiative, una “partnership multinazionale” avviata dagli Stati uniti con Cambogia, Laos, Myanmar, Thailandia e Vietnam, come si legge sul sito Mekongwater.org (fondato dal Dipartimento di stato Usa).

Così non stupisce che Pechino abbia risposto, più o meno con gli stessi strumenti. In luglio un gruppo di istituzioni accademiche coordinate dalla Tsinghua University, la più prestigiosa università statale cinese, ha pubblicato uno studio secondo cui le dighe sul Lancang hanno un effetto positivo nell’alleviare la siccità. «L’ultimo studio di ricercatori cinesi confuta i nessi causali e le sprezzanti accuse di alcuni media statunitensi», osserva il “Global Times”, media cinese in lingua inglese (Gli autori dello studio americano hanno poi ribattuto con un commento sul “Bangkok Post”, principale quotidiano thailandese in inglese).

I toni da guerra fredda sono evidenti. Ciò non toglie che i dati raccolti da Eye on Earth sembrano dare conferma a sospetti annosi.

Infatti è da quando la Cina ha cominciato a pianificare una serie di sbarramenti tra le gole del Lancang-Mekong, fin dagli anni Ottanta del secolo scorso, che il malumore dei paesi a valle è andato crescendo. Anche perché Pechino non ha condiviso molto dei suoi progetti. La diga di Man Wan, la prima, costruita senza consultare i vicini, è entrata in attività nel 1996 (fornisce energia elettrica alla regione industriale di Kunming, capitale dello Yunnan). Poi la costruzione si è intensificata; oggi le dighe sono undici, e altre sono in progetto. Il governo della Repubblica popolare cinese le chiama la “cascata di dighe”. La più imponente oggi è quella di Nouzhadu, entrata in attività tra il 2012 e il 2014. (Secondo l’analisi di Eye on Earth è proprio da allora che il volume d’acqua trattenuto in territorio cinese è aumentato drasticamente).

Si capisce il nervosismo dei paesi a valle: con le sue dighe, la Cina può controllare il flusso d’acqua che raggiunge il basso Mekong. Senza contare che le dighe trattengono una buona parte dei sedimenti indispensabili all’agricoltura, come sottolinea un’organizzazione non governativa come International Rivers, che lavora per la difesa degli ecosistemi fluviali.

Mekong River Commission, ma senza la Cina

Del resto la Cina (insieme a Myanmar) non ha mai voluto aderire alla Mekong River Commission, nata nel 1995, prima e tuttora unica organizzazione stabile di cooperazione regionale nella regione indocinese (il peso dei conflitti indocinesi nell’ultima metà del Novecento è evidente). La Cina è riluttante perfino a condividere le osservazioni delle sue centrali di monitoraggio fluviale, cosa che fa solo in parte. Nel 2016 ha invece fondato il “suo” organismo parallelo, chiamato Lancang-Mekong Cooperation Framework, con Laos, Thailandia, Myanmar, Cambogia e Vietnam, per promuovere la cooperazione tecnica – in un organismo però in cui è dominante, accusano i critici.

La Cina è un vicino ingombrante, ma anche i paesi del basso Mekong si sono lanciati a costruire dighe. In particolare il Laos, povero e stretto tra vicini più potenti, ha fatto della produzione idroelettrica l’elemento portante della sua strategia di sviluppo, e dalla metà degli anni Novanta ha costruito una decina di impianti sugli affluenti del Mekong per esportare energia.

In questa strategia ci sono due momenti chiave. Uno è nei primi anni Duemila quando la Banca Asiatica di Sviluppo ha lanciato un programma regionale di infrastrutture per la “Greater Mekong Subregion”, che include tutti i sei paesi rivieraschi. Al centro del progetto ci sono corridoi stradali e una rete di trasmissione di energia elettrica, oltre a progetti di sviluppo del commercio e del turismo. Tutto alimentato da investimenti propiziati dalla Banca Asiatica di Sviluppo e in parte la Banca Mondiale. In altre parole, la prima sede di “integrazione regionale” non è stato un organismo di cooperazione intergovernativo, ma un programma di investimenti gestito da organismi finanziari internazionali. Inutile dire che una parte considerevole degli investimenti diretti in Laos e Cambogia (le due economie più deboli della regione) sono di fonte cinese, oltre che thailandese e vietnamita.

L’altro momento chiave, per motivi diversi, è stato il 2006, quando i governi di Laos, Cambogia e Thailandia hanno autorizzato i primi studi di fattibilità per costruire dighe sul basso Mekong: non più gli affluenti, ma il fiume principale. La cosa ha suscitato grandi controversie; non solo organizzazioni ambientaliste ma perfino l’intergovernativa e prudente Mekong River Commission ha pubblicato studi estremamente allarmati: sbarrare il fiume avrebbe creato danni irreversibili all’intera vita fluviale, interrotto le vie di migrazione dei pesci e il ciclo delle inondazioni. Un impatto mortale per il fiume, come argomenta la più recente analisi di International Rivers che riprende studi della Mekong Rivers Commission.

Nonostante tutto, il Laos ha costruito la prima diga sul Mekong nella parte centro-settentrionale  del paese (diga di Xayaburi) e un’altra al confine con la Cambogia presso le Siphandone – un punto dove il Mekong forma diversi canali per aggirare una miriade di piccole isole, formando salti e rapide spettacolari (da cui il nome: si-phan-don significa “mille isole” in lingua lao). Altre dighe sul Mekong sono in progetto; almeno tre progetti sono nella fase delle “consultazioni” presso la Mrc. Inutile dire che in queste imprese si sono riscontrati forti investimenti cinesi, oltre che di aziende thailandesi, sudcoreane, e altre.

La diga di Xayaburi in Laos

Nel frattempo il governo laotiano ha messo a tacere le conseguenze del disastro avvenuto due anni fa con il crollo di una diga nel sud del paese (la diga Xe-Pian Xe-Namnoy, di costruzione sudcoreana): 70 persone sono morte o disperse e 7000 sono sfollate, ma le richieste di giustizia sono rimaste vane. Del resto, la sorte degli sfollati di tante dighe non è mai stata all’ordine del giorno, per i governi della regione. Uniche buone notizie, per il fiume: la Cambogia ha annunciato di aver sospeso fino al 2030 ogni progetto di nuove dighe sul suo tratto del Mekong, perché il fabbisogno energetico è ampiamente coperto. Mentre la Thailandia ha sospeso il progetto di dinamitare le rapide del fiume a nord per renderlo navigabile.

È una piccola tregua per la “madre delle acque”. Perché a lavorare per ucciderla sono in molti.

L'articolo Geopolitica della siccità: chi ha ucciso il Mekong? proviene da OGzero.

]]>
È cambiato qualcosa sotto i Cedri? https://ogzero.org/e-cambiato-qualcosa-sotto-i-cedri/ Tue, 10 Nov 2020 16:36:14 +0000 http://ogzero.org/?p=1713 Rappresentanze variabili solo all’università? Lo scorso 8 ottobre dal Libano una notizia è passata in sordina sui media internazionali, forse troppo in fretta considerata propria di una dimensione prettamente locale. Alle elezioni del Consiglio studentesco della Lebanese American University (Lau), per la prima volta nella storia dell’istituto, i candidati indipendenti hanno vinto tutti i seggi […]

L'articolo È cambiato qualcosa sotto i Cedri? proviene da OGzero.

]]>
Rappresentanze variabili solo all’università?

Lo scorso 8 ottobre dal Libano una notizia è passata in sordina sui media internazionali, forse troppo in fretta considerata propria di una dimensione prettamente locale. Alle elezioni del Consiglio studentesco della Lebanese American University (Lau), per la prima volta nella storia dell’istituto, i candidati indipendenti hanno vinto tutti i seggi per cui gareggiavano, contro i ben più quotati e ben meglio “posizionati” candidati delle Forze libanesi (partito della destra cristiana nazionalista) e di Amal (partito sciita del presidente del parlamento, Nabih Berri, e alleato di Hezbollah).

Nel campus di Beirut, i candidati indipendenti – espressione nemmeno troppo indiretta dei moti di protesta anti-establishment esplosi in Libano il 17 ottobre 2019 – hanno ottenuto la maggioranza con 9 seggi su 15, concedendo ai candidati di Amal e delle Forze libanesi rispettivamente 4 e 2 seggi. Alle precedenti elezioni del 2019, avvenute poco prima dell’inizio delle proteste, gli indipendenti avevano ottenuto 2 seggi, contro gli 8 della coalizione composta da Forze libanesi, Futuro e Partito socialista progressista e i 5 di Amal e dei suoi alleati minori. Nel campus di Byblos, a nord della capitale, gli indipendenti hanno comunque ottenuto 5 seggi, i primi della storia dell’ateneo, contro i 9 delle Forze libanesi e solo uno per Amal.

I giovani non cedono più

«È cambiato qualcosa», dice a dire il vero senza troppa convinzione Mayssa, ex studentessa della Lau e sorella di Asma, che ha accompagnato all’Università il giorno della pubblicazione dei risultati. «Questo forse significa che i giovani non cedono più, e sono convinti che ci voglia un cambiamento. Cinque anni fa, quando ho votato io, mi ricordo i responsabili della campagna delle Forze libanesi, che arrivavano a offrire 200 dollari per un voto. Anche io una volta li ho accettati, sono sincera, non mi interessava la politica ed erano tanti soldi», aggiunge, mentre la sorella la prende bonariamente in giro.

Duecento dollari, in Libano, erano già una cifra considerevole prima della crisi economica che ha raggiunto il suo apice nel corso di quest’anno, e che ha fatto perdere alla lira libanese l’80 per cento del suo valore. Quando il tasso di cambio – mantenuto artificialmente stabile dalla Banca centrale, prima di schizzare fuori controllo da novembre 2019 – tra lira e dollaro era di 1,5, il salario minimo nel Paese dei Cedri ammontava a 450 dollari, anche se è alta la quota di popolazione che in Libano svolge lavori informali. Ora che il cambio si aggira sui 7 nel mercato nero, dopo essere arrivato anche a 10, quei duecento dollari non solo varrebbero oro ma sarebbero impossibili da reperire, perché le banche libanesi da 10 mesi hanno imposto severi limiti ai prelievi e il blocco dei conti in dollari. Se fino a due anni fa dollari e lire venivano usati indifferentemente sul mercato – al tasso di 1,5 –, oggi è del tutto impossibile, per un libanese, trovare della valuta forte sul mercato interno, a meno di non volerla cambiare a un tasso che gli prosciugherebbe il conto in banca.

Potere d’acquisto dissolto: la crisi è inarrestabile

Il paese è in una situazione di inarrestabile crisi economica, sociale, bancaria, procedurale e fiduciaria, che vede i libanesi in condizioni molto peggiori anche solo rispetto a un anno fa. Ha dichiarato il fallimento tecnico a marzo, dopo il mancato rimborso di 700 milioni in eurobond, fa i conti con uno dei debiti pubblici più alti al mondo, cresciuto del 2120 per cento dal 1990 a oggi), la scomparsa della classe media, una disoccupazione vicina al 40 per cento, un tasso di povertà del 50 per cento (contro il 28 di meno di due anni fa) e, secondo gli studi di Steve Hanke, professore di Economia applicata della Johns Hopkins University, è il primo stato del Medioriente ad aver sperimentato l’iperinflazione (413 per cento nell’ultimo anno).

Tutto ciò si è aggiunto a una preesistente mancanza o profonda carenza infrastrutturale – l’assenza di una rete elettrica nazionale che garantisca elettricità 24 ore su 24, l’assenza del trasporto pubblico e una tragica gestione dei rifiuti –, legata in parte alla corruzione endemica, in modo non dissimile da come quest’ultima alimenta le enormi sperequazioni economiche, e le differenze abissali tra il 5 per cento più ricco e il 20 per cento più povero in termini di sviluppo umano: il Libano è un paese dove, secondo le Nazioni Unite, l’1 per cento della popolazione detiene circa il 25 per cento del reddito nazionale. Un paese in cui, forse non a caso, i principali istituti di credito fino a due anni fa realizzavano profitti in alcuni casi superiori a quelli dei maggiori istituti britannici, come Standard Chartered, e nel quale almeno un quinto della popolazione vive in campi profughi, in condizioni di enormi difficoltà.

17 ottobre 2019: esplode il Movimento anti-establishment

Più che la pluricitata “tassa su whatsapp”, a provocare la rabbia dei libanesi, innescando il 17 ottobre 2019 una protesta anti-establishment improvvisa, trasversale, altamente partecipata, era stata proprio l’ennesima dimostrazione di carenze infrastrutturali e di negligenza, con la disastrosa gestione da parte delle autorità degli incendi scoppiati nelle foreste dello Chouf in quei giorni. Accortesi con colpevole ritardo della inagibilità dei velivoli antincendio Sikorski, che avrebbero necessitato di manutenzione, hanno dovuto chiedere aiuto a Cipro e Giordania.

Quel 17 ottobre, e almeno per altre due settimane senza mai veder intaccato il livello di partecipazione massiva (per poi comunque stabilizzarsi per mesi su cifre inferiori ma non trascurabili), migliaia di libanesi erano sembrati destarsi all’improvviso dalla loro condizione di “prigionieri di una garanzia”. La (percezione di una) “garanzia”, in particolare per le vecchie generazioni, sta nel confessionalismo, il particolare framework che regola la repubblica parlamentare libanese.

A ognuna delle diverse comunità libanesi – quelle cristiane e musulmane, divise nei vari riti, quella drusa e quella armena – viene garantita la rappresentanza in parlamento e nelle istituzioni pubbliche, con un sistema elettorale che permette a ogni libanese di votare unicamente per il candidato della propria confessione, che corre per il seggio a essa assegnato in una data area, sia nel voto municipale che in quello nazionale. Questo ordine delle cose, soprattutto agli occhi di chi ha vissuto il periodo della guerra civile (1975-1990), costituisce una sorta di assicurazione di rilevanza e rappresentatività, oltre che una tutela contro le eventuali dittature di maggioranze confessionali ai danni delle altre, in un paese in cui tanti over 50 hanno delle remore a metter piede in aree del paese popolate da appartenenti a confessioni che non sono le loro.

Questa garanzia, tuttavia, è anche l’alimento ideale del settarismo, e nutre una realtà in cui le appartenenze confessionali sembrano essere prioritarie rispetto a quella nazionale. Ognuno ha un’idea diversa di cosa sia e di chi sia il Libano, un aspetto ben esemplificato dal fatto che i manuali di storia dei licei arrivano al 1943, anno dell’indipendenza, e si guardano bene dall’affrontare i decenni successivi: men che mai la guerra civile, sulla quale ogni comunità ha la sua ricostruzione, i suoi colpevoli e i suoi innocenti, e dopo la quale non è mai avvenuto un vero processo di riconciliazione nazionale.

Il settarismo, a sua volta, si è dimostrato un ottimo recipiente di corruzione, o di un sistema che può essere definito neopatrimoniale, in base al quale i leader politici si assicurano la fedeltà degli elettori della loro comunità in cambio della concessione di agevolazioni, di un lavoro, dell’iscrizione scolastica dei figli, e della fornitura di servizi che dovrebbero essere forniti dallo stato. In molti, in Libano, sono allo stesso tempo prigionieri e beneficiari di questa logica, e molte delle persone scese in piazza hanno rivendicato proprio questa condizione: essere in sostanza costretti a votare gli stessi leader settari e corrotti, che in cambio del voto – e in virtù del controllo che esercitano sull’economia libanese – sono gli unici in grado di promettergli benefici, che talvolta risultano vitali. È quello che in Libano definirebbero wasta, e in Italia “raccomandazione”, anche se il significato è più esteso e la sua applicazione più pervasiva e sistematica, poiché in Libano è quasi impossibile trovare un lavoro senza la connessione diretta o indiretta col leader politico settario che ha interessi o potere in quell’azienda privata o in quell’istituzione pubblica. La corruzione, in Libano, mette tutti d’accordo: ormai nessuno, nemmeno i politici locali sotto l’occhio del ciclone proprio per esserne gli alfieri, rinuncia a menzionarla come il principale problema, testimoniato dal 127esimo posto nella classifica di Transparency international.

5 agosto 2020: esplode il porto di Beirut… ma qualcosa è cambiato?

L’inasprirsi della crisi economica, contestuale all’avvento della pandemia, a cui si è aggiunta l’esplosione al porto di Beirut, ha via via eroso il volume di partecipazione alle proteste, che ora sembrano attraversare una fase di stanca sia per il venir meno nelle piazze di chi un anno fa aveva da mangiare e oggi fa molta più fatica, sia per via di divisioni legate al timore di strumentalizzazioni della protesta da parte dei partiti settari che oggi sono all’opposizione, e che possono “giocare” sul malinteso tra moti anti-establishment e moti antigovernativi. Si è in certa misura insinuata – soprattutto tra i meno giovani che hanno partecipato – l’idea che la protesta, rimasta sempre “acefala” e non confessionale, potesse in realtà essere manipolata da alcune comunità sulle altre, che poi è lo stesso timore legato alla fine repentina del confessionalismo che i giovani più attivi hanno chiesto a gran voce, forse senza chiedersi fino in fondo quali garanzie possano saltare nel breve termine.

Tuttavia la strada in quella che rimane, a differenza dei regimi della regione incalzati dalla Primavera araba, una democrazia perlomeno sulla carta, è quella perseguita nelle elezioni alla Lau, anche se alle ultime elezioni parlamentari di due anni fa la piattaforma “Kilna Watani” ha ottenuto due soli seggi, nonostante il movimento di anti-establishment si fosse strutturato già dal 2015, l’anno della protesta contro la gestione dei rifiuti. Jad, che quando sono iniziate le proteste ha lasciato il suo lavoro ben pagato negli Emirati arabi uniti per ritrasferirsi nel suo Libano, dove è ancora disoccupato, non ha dubbi: «I partiti sono macchine di propaganda e di corruzione, lo sappiamo che alle prossime elezioni l’80 per cento di quelli che sono in parlamento ci ritorneranno. Ma dobbiamo provarci anche se la strada è lunga, perché qualcosa è cambiato».

La foto di copertina è di Layal Jebran.

L'articolo È cambiato qualcosa sotto i Cedri? proviene da OGzero.

]]>
Onda d’urto nucleare sull’Iran https://ogzero.org/dalla-esplosione-di-natanz-alla-bocciatura-allonu-di-nuove-sanzioni-a-tehran-sabotaggio-e-pressione-rohani/ Fri, 04 Sep 2020 12:17:22 +0000 http://ogzero.org/?p=1141 L'amministrazione Trump ha stracciato l’Accordo sul nucleare che l'Occidente con Obama aveva stipulato con il regime degli ayatollah; e Israele non perde occasione per sabotare gli impianti iraniani, da ultimo l'esplosione di Natanz il 2 luglio. Si crea così un duplice fronte, interno ed esterno all'Iran, insufficiente a mettere in crisi la Repubblica Islamica

L'articolo Onda d’urto nucleare sull’Iran proviene da OGzero.

]]>
Sabotaggio: massima pressione su Rohani

L’ammissione è arrivata con quasi due mesi di ritardo. L’esplosione avvenuta il 2 luglio negli impianti nucleari di Natanz, in Iran, è il risultato di un atto di “sabotaggio”, ha dichiarato il 23 agosto un portavoce dell’Agenzia per l’energia atomica della repubblica islamica iraniana, citato dall’agenzia di stampa ufficiale Irna. Non ha precisato che tipo di esplosione e che materiali siano stati usati: questo «verrà annunciato a momento debito».

L’esplosione, che ha distrutto un intero edificio nell’impianto di Natanz, era stata preceduta da una serie di “misteriosi” incendi e esplosioni nei giorni e settimane precedenti in diverse altre installazioni di carattere militare in Iran, e aveva già suscitato un turbine di ipotesi: bombe, attacchi missilistici, attacco elettronico, sabotaggio? Da parte di dissidenti iraniani, degli Stati uniti, di Israele? Di sicuro l’ipotesi di incidenti fortuiti non ha mai convinto nessuno. In particolare, nel caso di Natanz già pochi giorni dopo l’esplosione il governo annunciava di aver determinato la causa, anche se non poteva per il momento rivelarla per “considerazioni di sicurezza”.

Chi tocca il reattore muore

La parola sabotaggio dunque non sorprende. Del resto non sarebbe la prima volta: sia gli Stati uniti che Israele hanno in passato condotto azioni coperte in Iran, come gli attentati in cui sono stati uccisi diversi scienziati nucleari iraniani (che molti attribuiscono a Israele), o le azioni di sabotaggio elettronico ai danni di impianti atomici attribuite agli Usa (ben prima dell’avvento di Donald Trump). Solo pochi giorni dopo l’esplosione del 2 luglio, il New York Times citava anonimi «agenti di intelligence mediorientali» (tra cui uno delle Guardie della Rivoluzione iraniane) secondo cui l’attacco a Natanz è stato compiuto da Israele con una bomba ad alto potenziale. Cosa in sé plausibile, ma difficilmente vedremo prove o ammissioni ufficiali. Da parte israeliana certo non verranno conferme, e di prassi neppure smentite (interrogato in proposito, il ministro della difesa israeliano Benny Gantz ha semplicemente detto alla radio di stato: «Non tutto quello che accade in Iran ha necessariamente a che fare con noi»: risposta che non è una smentita).

Natanz, regione di Esfahan

Il capoluogo dello sharestan omonimo ospita l’impianto nucleare più imponente dell’Iran

L’uranio di Natanz

Altri interrogativi riguardano l’entità del danno provocato. L’impianto di Natanz, costruito in parte nel sottosuolo non lontano dalla città di Isfahan nell’Iran centrale, è tra quelli soggetti a regolari ispezioni da parte dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea), l’ente delle Nazioni unite per la sicurezza nucleare. È a Natanz che a partire dal 2012 l’Iran ha cominciato a costruire le sofisticate centrifughe necessarie ad arricchire l’uranio. In luglio l’Agenzia atomica iraniana ha ammesso che l’esplosione ha ritardato il programma di arricchimento dell’uranio di alcuni mesi. Alcuni esperti occidentali sostengono invece che i danni all’impianto potrebbero aver ritardato il programma di un paio d’anni.

Che si voglia credere all’agenzia iraniana o agli esperti occidentali, pare chiaro che il sabotaggio potrà al massimo rallentare il programma atomico di Tehran – difficilmente riuscirà a fermarlo. Non ci sono riusciti i sabotaggi del passato. L’Agenzia atomica iraniana ha già annunciato che ricostruirà l’impianto distrutto, «con equipaggiamenti ancora più moderni».

Conviene ricordare che quando nel 2015 l’Iran e sei potenze mondiali hanno firmato il Joint Comprehensive Plan of Action (Jcpoa), più semplicemente chiamato l’“Accordo sul nucleare iraniano”, Tehran aveva accettato di rinunciare a buona parte della sua riserva di uranio già arricchito appunto a Natanz (intorno al 20 per cento, livello necessario alla ricerca medica ma lontano da quello che serve per confezionare armi atomiche); aveva inoltre accettato di non costruire nuove centrifughe per i successivi otto anni. In effetti l’uranio arricchito era stato spedito fuori dal paese, e la costruzione di centrifughe a Natanz era stata fermata, come hanno certificato le regolari ispezioni dell’Aiea. L’Iran ha sempre negato di voler costruire armi nucleari, mentre ha sempre puntato in modo abbastanza esplicito ad avere la “capacità atomica”, cioè la capacità di maneggiare il ciclo nucleare: considerando che dava migliori garanzie di “deterrenza” avere la capacità di costruire un ordigno in caso di necessità, piuttosto che costruirlo effettivamente. Ma anche a voler diffidare delle intenzioni di Tehran, bisogna osservare che dal punto di vista della non proliferazione, il Jcpoa aveva effettivamente messo un freno alle attività iraniane.

L’indipendenza europea sotto tutela

Finché nel maggio 2018 il presidente Trump ha annunciato il ritiro degli Stati uniti dal Jcpoa, ed è allora che a Natanz l’officina di fabbricazione delle centrifughe ha ripreso l’attività. Non subito, bisogna dire: per un anno e mezzo l’Iran ha continuato a osservare la sua parte dell’accordo, chiedendo piuttosto ai partner europei (Francia, Germania e Gran Bretagna sono i firmatari insieme all’Unione europea) di compensare l’Iran per i benefici persi. Sappiamo però che questo è il punto dolente: i paesi europei continuano ad affermare l’importanza del Jcpoa, della diplomazia multilaterale, e del dialogo con l’Iran, ma sul lato pratico non hanno saputo davvero contrastare le sanzioni economiche statunitensi: vivida illustrazione di quanto sia limitata l’autonomia europea in una economia mondiale dominata dal dollaro (ogni transazione rilevante che avviene in dollari, ovunque, è soggetta allo scrutinio delle autorità finanziarie statunitensi). Il meccanismo finanziario chiamato Instex, annunciato dall’Unione europea nel settembre 2018 (ma diventato operativo solo nel gennaio 2020) per offrire un canale per gli scambi commerciali con l’Iran, incluso il settore petrolifero, avrebbe dovuto permettere alle imprese europee di aggirare le sanzioni Usa: ma finora non è andato oltre una singola transazione dimostrativa. Lo stesso vale per un meccanismo che dovrebbe facilitare forniture “umanitarie”, farmaci e attrezzature mediche.

Insomma: di fronte agli indugi europei, nell’ultimo anno gradualmente Tehran ha ripreso ad arricchire uranio oltre il limite previsto dal Jcpoa (anche se resta ben al di sotto delle quantità di cui disponeva prima di firmare l’accordo). Passi molto graduali, definiti da parte iraniana una “riduzione degli impegni”; per il resto l’Aiea nota che Tehran continua ad attenersi agli accordi. Il presidente Hassan Rohani ha più volte ripetuto che le attività riprese sono facilmente reversibili, e che l’Iran è pronto a tornare indietro se gli Stati uniti rientreranno nel Jcpoa o se gli altri firmatari troveranno il modo di compensare il ritiro americano. Il presidente Rohani, e il ministro degli esteri Javad Zarif, sono convinti che restare nei termini dell’accordo sia nell’interesse dell’Iran.

Fronte nucleare interno

Ma è chiaro che la posizione di Rohani è sempre più difficile da tenere, in Iran. Quelli che hanno accusato Rohani di “svendere” gli interessi nazionali, ora possono dire “non bisognava fidarsi degli Stati uniti che firmano un accordo e non lo rispettano”. E dopo il sabotaggio a Natanz le voci contrarie all’accordo nucleare hanno alzato il volume. In parlamento è stato detto che il sabotaggio è frutto delle “infiltrazioni” di “spie” sotto la copertura dell’Aiea. Un gruppo di deputati sta raccogliendo firme su un progetto di legge per il ritiro “automatico” dell’Iran dall’Accordo nucleare nel caso che l’Onu torni a imporre le sue sanzioni come chiesto da Washington. Altri vorrebbero che l’Iran si ritirasse anche dal Trattato di Non Proliferazione, il Tnp, quello da cui discende l’Aiea con tutta la sua architettura di ispezioni e controlli (a cui l’Iran si è sempre sottoposto, si fa notare, al contrario di molti paesi della regione, Pakistan e India a est, Israele a ovest). C’è chi ha detto che l’Iran dovrebbe fare come la Corea del Nord, non subisce attacchi un paese che ha fatto davvero un test nucleare.

Posizioni simili ben poco realistiche, neanche ora che le correnti oltranziste dominano il parlamento: i processi decisionali su questioni di sicurezza nazionale non passano per il Majlis ma per un complicato equilibrio di poteri rappresentati nel Consiglio supremo di sicurezza nazionale, e in ultima istanza sono sanzionati dal Leader, prima autorità dello stato. Ma la crescente retorica antiaccordo è un segno del clima politico. E dopo il sabotaggio a Natanz, appare anche più giustificata.

Falchi americani e falchi iraniani

Il punto è proprio questo. Come in uno specchio, la guerra scatenata dall’amministrazione di Donald Trump ha fatto un enorme favore alle correnti più oltranziste della Repubblica Islamica. Attentati e sabotaggi infatti fanno parte di una vera e propria guerra: non dichiarata, non l’invasione spesso evocata dai falchi e sostenitori del “regime change” che albergano nella Casa Bianca (rappresentati ora dal segretario di stato Mike Pompeo). Ma pur sempre una guerra: in forma militare, come con l’attacco mirato che ha ucciso il generale iraniano Qassem Soleimani a Baghdad lo scorso gennaio, o la guerra economica condotta con le sanzioni. O ancora con le provocazioni, come i jet statunitensi che volano pericolosamente vicino a un aereo civile iraniano. Le provocazioni si moltiplicano: come quando Mike Pompeo è intervenuto alla Convention Repubblicana in videoconferenza da Gerusalemme rivendicando l’uccisione di Soleimani. L’ultima nomina della Casa Bianca alla carica di “inviato per l’Iran” è l’ennesimo segnale di ostilità: Elliott Abrams, è un autentico falco, già coinvolto nell’affare Iran-Contras durante l’amministrazione Reagan.

Ciò non farà crollare il regime. Il muro di sanzioni pesa sull’economia, certo, e sulla vita quotidiana degli iraniani; i sabotaggi e le provocazioni infliggono danni e alzano la tensione in modo pericoloso: ma tutto ciò non spingerà l’Iran a tornare al tavolo dei negoziati con gli Stati uniti (che sarebbe l’obiettivo teorico dichiarato dall’amministrazione Trump).

Invece, ha contribuito a cambiare l’equilibrio dei poteri a Tehran: a screditare i fautori del dialogo, l’amministrazione di Hassan Rohani, i “pragmatici” che avevano riaperto l’Iran al mondo (e allentato il clima di controllo interno: in un paese sotto attacco, anche le libertà civili sono schiacciate). Ha contribuito anche a rafforzare il potere e l’influenza della casta militare, che va ben oltre la difesa: le Guardie della rivoluzione hanno un ruolo essenziale nell’economia sotterranea che si espande proprio a causa delle sanzioni; gruppi industriali legati alle Guardie rilevano i contratti per grandi infrastrutture, petrolifere e non, abbandonate dalle imprese occidentali timorose di incorrere nelle ritorsioni americane.

Qualche scacco allo strapotere americano

In questo quadro però sorgono degli intoppi. Gli Stati uniti hanno subito una rara sconfitta al Consiglio di sicurezza dell’Onu, quando in agosto non sono riusciti a far passare una risoluzione per reimporre sanzioni delle Nazioni unite all’Iran, tra cui un embargo sulle vendite di armi (quello attualmente in vigore scade in ottobre, ai sensi del Jcpoa): la risoluzione Usa ha raccolto solo il voto della Repubblica Dominicana, mentre gli altri 13 membri del Consiglio di sicurezza hanno votato contro o si sono astenuti, inclusi i tradizionali alleati europei. [Sulla minaccia rappresentata dall’Iran, è utile ricordare che Tehran spende per la difesa una frazione rispetto ai paesi vicini, secondo il Stockholm International Peace Research Institute: il budget della difesa iraniano era stimato a quasi 13 miliardi di dollari nel 2019, contro i 62 miliardi dell’Arabia Saudita, i 20,4 miliardi per Israele (e lo stanziamento di 732 miliardi nel budget statunitense)].

Gli Stati uniti hanno allora tentato la carta di avviare il “meccanismo di arbitrato” (dispute mechanism) previsto dal Jcpoa, cioè il meccanismo legale che i firmatari dell’accordo possono avviare se uno dei partecipanti viola gli accordi, e che dovrebbe portare a sanzioni entro 30 giorni. Gli altri firmatari degli accordi però hanno osservato che Washington non è più un membro del Jcpoa, da cui si è ritirato nel 2018, quindi non ha il potere di avviare il meccanismo legale di sanzioni. Commentatori americani hanno osservato con disappunto che invece di isolare l’Iran, l’amministrazione Trump ha messo gli Usa in una posizione imbarazzante.

Mentre l’Iran ha avuto l’occasione di mostrare che in fondo sa prendere decisioni pragmatiche. Il 26 agosto infatti ha annunciato un accordo con l’Aiea, che chiedeva accesso a due siti atomici per ispezioni. L’accordo è stato annunciato insieme dal direttore dell’Agenzia iraniana per l’energia atomica, ali Akbar Salehi, e dal direttore generale dell’Aiea Rafael Grossi al termine di una missione di quest’ultimo a Tehran. L’Iran “dà volontariamente accesso” ai due siti interessati, è stato detto. Una data per la visita degli ispettori è stata concordata (“molto presto”, ha aggiunto Grossi). La questione non riguarda direttamente il Jcpoa (su questo, le ispezioni dell’Aiea non sono mai state interrotte). L’Iran applica un “Protocollo addizionale” che permette all’Aiea ispezioni ulteriori: ma in gennaio si era vista negare l’accesso per verifiche in due siti dove sarebbero state condotte nei primi anni Duemila attività di conversione dell’uranio e test su esplosivi che potrebbero alludere a attività belliche: dubbi che l’Aiea chiede di chiarire dopo aver ricevuto informazioni da Israele (sulla base, pare, di documenti che i servizi israeliani erano riusciti a trafugare dall’Iran). Il fatto che le illazioni siano arrivate da Israele aveva provocato le rimostranze iraniane. Durante la sua visita, Grossi ha precisato che l’Aiea non vuole “politicizzare” la questione. Il comunicato congiunto afferma che «sulla base delle sue informazioni, l’Aiea non ha ulteriori richieste di accesso» con l’Iran: la questione sembra chiusa.

La linea del dialogo dunque tiene – per ora. Ma è precaria: in attesa che gli europei facciano funzionare i canali commerciali con l’Iran, che la cooperazione prevalga sulle provocazioni. In attesa, soprattutto, delle elezioni presidenziali statunitensi: di sapere se alla Casa Bianca siederà il democratico Joe Biden, che promette di riportare gli Stati uniti nell’accordo nucleare con l’Iran, o il presidente Trump che continuerà a perseguire la sua “massima pressione”.

L'articolo Onda d’urto nucleare sull’Iran proviene da OGzero.

]]>
Flint, Michigan: il piombo nell’acqua e i tagli in bilancio https://ogzero.org/flint-michigan-il-piombo-nellacqua-e-i-tagli-in-bilancio/ Fri, 21 Aug 2020 07:40:21 +0000 http://ogzero.org/?p=1095 Lo stato del Michigan dovrà pagare 600 milioni di dollari come risarcimento alle vittime dell’inquinamento dell’acqua pubblica nella città di Flint; migliaia di residenti hanno intentato una causa contro lo stato e dopo 18 mesi di trattative il giudice federale Judith E. Levy (di nomina obamiana nel 2014) ha sancito che chiunque abbia abitato nella […]

L'articolo Flint, Michigan: il piombo nell’acqua e i tagli in bilancio proviene da OGzero.

]]>
Lo stato del Michigan dovrà pagare 600 milioni di dollari come risarcimento alle vittime dell’inquinamento dell’acqua pubblica nella città di Flint; migliaia di residenti hanno intentato una causa contro lo stato e dopo 18 mesi di trattative il giudice federale Judith E. Levy (di nomina obamiana nel 2014) ha sancito che chiunque abbia abitato nella città tra il 2014 e il 2016 riceverà una somma di denaro proporzionata al danno subito entro la primavera del 2021. I lavori di ripristino dell’acquedotto si sarebbero dovuti completare entro gennaio 2020, ma sono stati interrotti a causa della pandemia e sono ripresi solo nel mese di giugno. Nel frattempo la popolazione, per anni, ha dovuto consumare solo acqua in bottiglia per cucinare, lavarsi, bere…

In questo articolo i particolari di quanto accaduto raccontati da Marina Forti e i dettagli della ricaduta sociale di una simile crisi in una città tra le più povere del paese e abitata per la maggior parte da neri, situazione che evidentemente non può non avere avuto un peso nelle decisioni prese dalle istituzioni riguardo i tagli di bilancio. Tema quanto mai attuale, quello del trattamento riservato ai cittadini di serie B afroamericani, se si pensa al movimento di rivendicazione “Black lives matter” attivo in tutto il mondo, che qui a Flint ha trovato particolare sviluppo. [OGzero]


Per oltre un anno i residenti di Flint, nello stato del Michigan, Usa, hanno visto uscire dai loro rubinetti acqua giallastra e maleodorante. Le loro proteste però sono state ignorate dalle autorità, perfino quando le prime analisi hanno rivelato che quell’acqua era piena di piombo, e i medici hanno cominciato a trovare piombo nel sangue dei bambini sotto i 5 anni. Solo parecchi mesi dopo l’allarmante scoperta, il governatore del Michigan, Rick Snyder, ha dichiarato lo stato d’emergenza; poi però è emerso che il governatore e il suo staff erano informati del problema, e anche i dirigenti dell’Ente federale di protezione ambientale ne erano al corrente, e ppure nessuno aveva fatto nulla, fino a quando gruppi di cittadini, ricercatori e giornalisti hanno fatto scoppiare lo scandalo.

Il caso di Flint, centomila abitanti al censimento del 2010, città una volta nota come quartier generale della General Motors, è molto più che un episodio di gestione irresponsabile da parte di alcuni funzionari pubblici. Chiama in causa la logica che porta a sacrificare la salute dei cittadini in nome dei tagli di bilancio, e probabilmente anche una discreta dose di quello che molti chiamano “razzismo istituzionale”, ovvero il disprezzo per una popolazione in gran parte nera e povera in una ex città operaia. Un meccanismo di profonda ingiustizia che ha negato a un’intera cittadinanza l’accesso all’acqua potabile. Vediamo perché.

Tutto è cominciato alla fine nel 2013, quando un commissario speciale nominato dal governatore Snyder per risanare i conti dell’amministrazione di Flint ha deciso di chiudere il contratto di fornitura con l’ente idrico della vicina città di Detroit (che attinge dal lago Huron) e di costruire un proprio sistema di approvvigionamento. Questo però richiedeva alcuni anni di lavori e nel frattempo l’acquedotto cittadino avrebbe attinto dal fiume Flint. In tempi di tagli di bilancio, con enti locali indebitati, l’amministrazione avrebbe risparmiato 5 milioni di dollari nel primo anno e 19 milioni nell’arco di 8 anni – così fu detto alla cittadinanza.

Dunque il 25 aprile del 2014, in nome del risanamento finanziario, l’acquedotto di Flint è stato collegato al fiume omonimo, la stampa locale ha cominciato molto presto a raccogliere lamentele dei residenti, che parlavano di acqua giallastra, maleodorante: «Gli abitanti hanno capito subito che l’acqua era cattiva: aveva un colore orribile, il sapore era cattivo, l’odore cattivo», ha poi testimoniato Curt Guyette, giornalista investigativo che lavora con la American Civil Liberties Union (Aclu) del Michigan e ha contribuito a far emergere lo scandalo.

Per mesi però i cittadini si sono sentiti dire che l’acqua era perfettamente sicura, finché, ormai nei primi mesi del 2015, una residente, LeeAnn Walters, è riuscita a far analizzare la sua acqua dalle autorità, ed è risultato che conteneva oltre 100 parti per miliardo di piombo. Il piombo è un elemento tossico, non esiste una soglia definibile «sicura». Le norme federali Usa considerano che 15 parti per miliardo sia il livello di guardia, e che superato questo limite c’è un rischio per la salute che impone di intervenire. A Flint però nessuno è intervenuto.

Nel frattempo alcuni ricercatori di Virginia Tech, il Politecnico dell’Università della Virginia, a cui si erano rivolti alcuni cittadini, hanno cominciato a raccogliere campioni e analizzare l’acqua che esce dai rubinetti delle case di Flint, sotto la direzione del professor Marc Edward. È stato un vero e proprio lavoro di mobilitazione popolare, con squadre di dottorandi che hanno distribuito ai residenti oltre 300 kit per raccogliere i campioni d’acqua. I ricercatori hanno poi creato un sito web, FlintWaterStudy.org, dove pubblicavano man mano i risultati delle analisi, strada per strada. Il 2 settembre 2015 hanno diffuso le prime conclusioni della loro ricerca: dicevano che l’acqua dell’acquedotto di Flint conteneva livelli preoccupanti di sostanze corrosive, e «questo provoca una minaccia alla salute pubblica nelle case che hanno tubature di piombo», spiegavano.

Allarmata da quanto stavano scoprendo i ricercatori di Virginia Tech, una pediatra del Hurley Medical Center, l’ospedale di Flint, ha pensato di esaminare il sangue dei bambini. La dottoressa Mona Hanna-Attisha ha osservato il livello di piombo nel sangue dei bambini sotto i 5 anni e l’ha confrontato con i dati delle analisi degli anni precedenti: è risultato che il numero di bambini con altissimi livelli di piombo nel sangue era schizzato in alto da quando la città beve dal fiume Flint.

L’attenzione ormai era alta. Il primo rapporto di Virginia Tech è stato diffuso quando ormai un ampio fronte di comitati civici aveva raccolto 26 000 firme su una petizione rivolta al sindaco di Flint, Dayne Walling, per chiedere di tornare alla fornitura del sistema idrico di Detroit. Le autorità però continuavano a negare che esistesse un pericolo per la salute pubblica. Attivisti sociali e giornalisti indipendenti hanno cominciato a loro volta ad analizzare campioni d’acqua. Le proteste sono aumentate. Infine le autorità pubbliche hanno riconosciuto ciò che ormai tutti sospettavano (e alcuno avevano cercato di provare): l’acqua dei rubinetti di Flint non era da bere: il 1° ottobre 2015 il governatore Snyder ha stanziato 12 milioni di dollari perché l’acquedotto di Flint tornasse ad allacciarsi al sistema di Detroit, cosa che è avvenuta il 15 ottobre. I cittadini della città del Michigan avevano bevuto acqua contaminata per un anno e mezzo.

Il danno però era fatto, e per molti bambini rischia di essere irreversibile, perché il piombo agisce sullo sviluppo del cervello e del sistema nervoso, con effetti profondi e permanenti. In seguito un’indagine del Center for Desease Control and Prevention (Cdcp) di Atlanta, il maggiore centro pubblico Usa per la ricerca epidemiologica e sulla prevenzione delle malattie, ha confermato che i bambini sotto i sei anni che hanno bevuto quell’acqua hanno il 50 per cento di probabilità di avere un livello allarmante di piombo nel sangue.

Le indagini hanno ormai chiarito che l’acqua del fiume Flint contiene sostanze corrosive in misura tale che in breve hanno cominciato a corrodere le vecchie tubature di ghisa della città (oltre metà dell’acquedotto di Flint ha più di 75 anni): ora è chiaro che gli amministratori non avevano fatto tutte le necessarie analisi sulla qualità dell’acqua di quel fiume prima di immetterla nell’acquedotto. Paradossale: nell’ottobre 2014 General Motors aveva smesso di usare l’acqua prelevata dal fiume Flint perché faceva arrugginire i suoi motori. I motori hanno ricevuto più attenzione degli esseri umani.

Eppure l’allora sindaco Dayne Walling, aveva segnalato il problema al governatore del Michigan già all’inizio dell’anno, parecchi mesi prima che scoppiasse lo scandalo: lo si deduce da un promemoria datato 1° febbraio 2015, inviato al governatore Snyder dal suo staff, in esso si diceva che «il sindaco [di Flint] cavalca il panico pubblico… per chiedere allo stato di condonargli il debito e ottenere soldi per migliorie delle infrastrutture». Lo stesso promemoria liquidava le lamentele dei cittadini per quell’acqua giallastra e di cattivo sapore, dicendo che la Safe Drinking Water Act (la legge federale sull’acqua potabile) «non regolamenta l’aspetto estetico dell’acqua».

Quel documento non parlava di piombo, ma citava la corrosione delle tubature e i trialometani (gruppo di sostanze usate nella disinfezione), che in concentrazioni alte possono causare tumori. Insomma, fin dal febbraio 2015 l’ufficio del governatore del Michigan aveva abbastanza elementi da suggerire quantomeno una indagine accurata sulla situazione. Invece nulla, la nota al governatore Snyder tagliava corto: «Sarebbe un problema di salute pubblica solo in caso di esposizione cronica, a lungo termine». Un anno dopo, quel memorandum al governatore è diventato parte dello scandalo.

L’emergenza a Flint non è finita. Certo, la città è tornata ad attingere l’acqua dal lago Huron (via l’acquedotto di Detroit), ma gli effetti della contaminazione perdurano. Tanto che il 5 gennaio 2016 il governatore Snyder ha dichiarato lo stato d’emergenza, stanziando 28 milioni di dollari per interventi sanitari e infrastrutturali immediati, mentre infuriavano le polemiche sulle responsabilità di un tale caso di avvelenamento pubblico.

Il 16 gennaio 2016 è intervenuta la Casa Bianca: il presidente Usa, Barack Obama, ha emesso una dichiarazione d’emergenza per lo stato del Michigan e ordinato aiuti federali in aggiunta a quelli ormai disposti dal governo locale (l’intervento presidenziale è stato visto come una implicita critica al governatore, ormai accusato da più parti di aver sottovalutato la situazione). La Fema, l’agenzia federale per le emergenze, è arrivata a Flint a distribuire ai cittadini acqua, filtri, kit per le analisi (l’emergenza è stata poi estesa fino all’agosto 2016).

Bombardato di accuse, il 19 gennaio del 2016, durante il suo discorso annuale su «lo stato dello stato», il governatore Snyder si è scusato con i cittadini per lo “spiacevole” disservizio. Qualche giorno dopo, nel tentativo di parare lo scandalo, ha anche diffuso quasi 300 pagine di e-mail (tra cui la citata nota del suo staff) come chiesto dalle associazioni di cittadini. Il suo portavoce intanto continuava a ripetere che il governatore non ha saputo della gravità del problema fino al 1° ottobre, quando ha preso le misure necessarie. Ma sembra una tesi difficile da sostenere.

Anche perché ormai piovevano le rivelazioni. È emerso per esempio che le autorità federali avevano cominciato a indagare sul caso di Flint già nel febbraio 2015, e che almeno da aprile l’ente di protezione ambientale, Epa, era consapevole che mancava un sistema di controllo sulla corrosione delle tubature: lo ha confermato la responsabile dell’Epa nel Michigan, Susan Headman (poi criticata per aver lasciato quell’informazione nel cassetto).

Insomma: le autorità sanitarie sapevano, il governatore anche, ma hanno lasciato che i cittadini bevessero acqua avvelenata. I ricercatori di Virginia Tech dicono che tutto si poteva evitare filtrando l’acqua, con una spesa di appena 100 dollari al giorno.

Nell’estate 2016 c’erano ancora allarmi sanitari a Flint; i ricercatori di Virginia Tech stavano analizzando una possibile contaminazione da legionellosi, malattia respiratoria causata da un batterio che si diffonde tramite aerosol o acqua contaminata.

Alla fine, la crisi dell’acqua a Flint sarà costata allo stato del Michigan molto più di quanto pretendeva di risparmiare somministrando ai cittadini l’acqua di un fiume contaminato: dopo il primo stanziamento d’emergenza di 28 milioni del gennaio 2016, il governatore Snyder ha stanziato altri 30 milioni per crediti sulle bollette dell’acqua per il 65 per cento dei residenti. Il 29 giugno infine ha approvato la spesa di 165 milioni di dollari per sostituire le vecchie tubature soggette a corrosione.

Molti si sono chiesti se tutto questo sarebbe successo anche in una città di bianchi. Perché Flint è abitata al 56 per cento da neri; è anche una delle città più povere del paese, in piena rust belt («cintura della ruggine», allusione alla deindustrializzazione). Non è più la città operaia raccontata da Ben Hamper in Revithead, entrata in profonda crisi quando la General Motor ha chiuso quasi tutte le sue attività produttive, ormai in città la disoccupazione è altissima, la povertà è la regola, 41 per cento degli abitanti sono considerati sotto la soglia di povertà, mentre i residenti più benestanti se ne sono andati. Proprio come è successo nella vicina Detroit. Ovvio che le amministrazioni municipali vanno in bancarotta: chi poteva pagare tasse è andato via. Alla radice di questa crisi c’è una profonda ingiustizia.

Per aggiungere beffa al danno, nella primavera 2016 il dipartimento alle finanze del comune di Flint ha annunciato un’ondata di distacchi dell’acqua a cittadini che non pagano la bolletta. L’annuncio ha suscitato un coro di indignazione.

La crisi dell’acqua a Flint rimanda ovviamente anche a responsabilità penali: nell’aprile 2016 il procuratore generale dello stato del Michigan, Bill Schuette, ha formalmente incriminato tre persone: due dirigenti del Dipartimento statale responsabile dei controlli ambientali (Mdeq), accusati di «condotta criminale» in violazione alla legge federale sul’acqua potabile (Clean Water Act) e di aver deliberatamente falsificato prove della contaminazione; e l’ex responsabile della gestione dell’acqueotto per aver falsificato le informazioni sulla qualità dell’acqua.

Al di là delle responsabilità penali però, molti a Flint continuano a chiedere le dimissioni del governatore dello stato, Rick Snyder, per il deliberato avvelenamento di una intera popolazione.

 

Cfr. per il testo di Marina Forti Guerra all’acqua. La riduzione delle risorse idriche per mano dell’uomo, a cura di Alessandro C. Mauceri con la collaborazione di Marina Forti, Torino, Rosenberg & Sellier, 2016

L'articolo Flint, Michigan: il piombo nell’acqua e i tagli in bilancio proviene da OGzero.

]]>
La crisi iraniana ai tempi del coronavirus https://ogzero.org/la-crisi-iraniana-ai-tempi-del-coronavirus/ Tue, 28 Jul 2020 17:50:16 +0000 http://ogzero.org/?p=417 I dispacci del ministero della sanità iraniano non lasciano dubbi: in Iran il coronavirus ha ripreso a correre. I contagi sono in costante aumento e il numero totale dei decessi ufficialmente attribuiti al Covid-19 ha superato ormai le 17000 persone. L’allarme era scattato alla fine di giugno, con una media di oltre cento morti al […]

L'articolo La crisi iraniana ai tempi del coronavirus proviene da OGzero.

]]>
I dispacci del ministero della sanità iraniano non lasciano dubbi: in Iran il coronavirus ha ripreso a correre. I contagi sono in costante aumento e il numero totale dei decessi ufficialmente attribuiti al Covid-19 ha superato ormai le 17000 persone. L’allarme era scattato alla fine di giugno, con una media di oltre cento morti al giorno; un mese dopo, il 27 luglio il portavoce del ministero della sanità ha avvertito che la media ormai supera i 200 decessi quotidiani. L’epidemia di Covid-19 così è tornata di prepotenza sulle prime pagine della stampa iraniana, da cui era pressoché scomparsa, con titoli allarmati: Il coronavirus uccide un iraniano ogni 12 minuti. Alcuni parlano di «seconda ondata», altri di «una nuova, pericolosa fase del coronavirus in Iran», e invitano a «prendere il coronavirus sul serio».

I messaggi di allarme sono alternati però a tentativi di rassicurare. Il 25 giugno il presidente Hassan Rohani aveva annunciato che l’uso della mascherina in pubblico sarebbe stato reso obbligatorio, ma aveva aggiunto che non sarebbe stato necessario chiudere gli esercizi commerciali – se tutti avessero mostrato senso di responsabilità e rispettato le norme del “distanziamento”. Alla fine di luglio, di fronte al contagio che continua ad aumentare, il viceministro della Sanità Iraj Harirchi ha osservato che è Tehran la «fonte di diffusione» del coronavirus nel resto del paese, visto che ogni giorno centinaia di migliaia di persone raggiungono l’area metropolitana per lavoro o altro. Un moltiplicatore di contagi sono «usanze e tradizioni locali» come feste e celebrazioni religiose: Harischi cita il caso di 120 persone infettate dopo aver partecipato alla stessa festa di matrimonio. Ha però aggiunto che il 95 per cento dei contagiati guarisce senza bisogno di particolari cure.

Sta di fatto che a metà giugno il ministero della sanità ha dichiarato “zona rossa” cinque province (Bushehr, Khuzestan, Est Azarbaijan, Kermanshah e Hormozgan, nel sud-ovest, ovest e nord del paese) e poi via via altre: ora sono 12, sul totale di 31.

Se basteranno le mascherine e gli appelli al distanziamento, resta da vedere. Intanto, la ripresa dell’epidemia pone un dilemma ai dirigenti della Repubblica Islamica dell’Iran, restìi ad ammettere che le restrizioni imposte in marzo sono state probabilmente tolte troppo presto.

All’inizio di marzo l’Iran era emerso tra i maggiori punti caldi della pandemia del coronavirus Sars-CoV-2 fuori dalla Cina (prima di essere superato dall’Italia). Colta di sorpresa, Tehran aveva dapprima cercato di minimizzare: il primo decesso ufficialmente attribuito al Covid-19 risale al 19 febbraio, ma solo il 5 marzo il governo iraniano ha dichiarato la “mobilitazione nazionale” per contenere l’epidemia. I media internazionali ne hanno riferito soprattutto per accusare le autorità iraniane di lentezza e avanzare dubbi sul conteggio ufficiale dei decessi, che molti in Iran e fuori considerano sottostimati. In effetti una analisi del Centro studi del Parlamento iraniano in aprile suggerisce che il numero reale dei decessi dovuti a Covid-19 sarebbe quasi il doppio di quello dichiarato dal ministero della sanità.

In ogni caso alla vigilia di Nowrooz, il capodanno persiano che quest’anno cadeva il 20 marzo, il governo ha imposto una chiusura generalizzata, benché non totale: chiuse scuole e università, sospese le preghiere del venerdì, annullate tutte le manifestazioni culturali e festival di ogni tipo, limitate le attività commerciali, scoraggiati (benché non vietati) gli spostamenti interni.

Poi però, a partire dall’11 di aprile il blocco è stato gradualmente revocato, nonostante il parere contrario di molti esperti di sanità pubblica: prima le attività “a basso rischio” poi via via tutto il resto (solo eventi culturali, cinema e moschee hanno prolungato la chiusura per tutto maggio).

Il punto è che l’epidemia ha colpito l’Iran in un momento difficile, tra crescenti tensioni internazionali e con un’economia già colpita dalla recessione e dalle sanzioni imposte dagli americani. E con un quadro politico interno decisamente spostato a favore delle fazioni conservatrici, opposte al presidente Rohani e alla sua linea di dialogo internazionale e moderazione interna: sono queste che dominano la nuova legislatura insediata formalmente il 27 maggio.

Per ironia, le elezioni parlamentari tenute il 21 febbraio sarebbero proprio uno dei motivi per cui il governo non aveva voluto dichiarare l’emergenza per il coronavirus né isolare il primo focolaio, registrato allora nella città di Qom, sede delle scuole teologiche molto presenti nella politica interna: temeva di scoraggiare la partecipazione al voto. Infatti era previsione unanime che l’affluenza alle urne sarebbe stata bassa, dopo mesi di crisi: la repressione delle proteste di novembre, l’escalation della tensione con gli Stati Uniti e l’uccisione del generale Soleimani, lo sconcertante episodio dell’aereo ucraino abbattuto per errore. Per non parlare dell’esclusione di gran parte dei candidati “riformisti”. E infatti la nuova legislatura, dominata dagli ultraconservatori, è stata eletta con il voto meno partecipato nella storia della Repubblica Islamica: appena il 42 per cento di affluenza, e solo il 25 per cento a Tehran (le precedenti elezioni parlamentari avevano visto votare il 61 per cento degli elettori, e per le presidenziali del 2017 alle urne si era recato il 73 per cento degli aventi diritto).

Perché l’Iran è uscito dal “lockdown”

Rimettere in moto l’economia era “una necessità” per il paese,  ha argomentato il presidente Rohani in un discorso del 22 aprile: l’Iran non poteva permettersi di prolungare il blocco.

Per capire perché il presidente Rohani abbia preso una decisione così rischiosa sul piano sanitario bisogna ricordare che già prima dell’epidemia, l’Iran era in recessione profonda. Il Prodotto interno lordo aveva registrato una crescita negativa del 7 per cento nell’anno fiscale concluso il 20 marzo (secondo il Fondo monetario internazionale la decrescita sarebbe più profonda, meno 9,5). L’inflazione aveva raggiunto il 41 per cento secondo la stima della Banca centrale iraniana, un livello che non si vedeva dalla fine della disastrosa presidenza di Ahmadi Nejad.

Tutto questo è in buona parte conseguenza della nuova ondata di sanzioni decretata dagli Stati uniti a partire dal maggio 2018, quando il presidente Donald Trump ha deciso di ritirarsi dall’accordo sul nucleare (il Joint Comprehensive Plan of Action, o Jcpoa) firmato nel 2015 dall’Iran e da sei potenze mondiali (Usa, Russia, Cina, e da Francia, Regno unito e Germania in rappresentanza dell’Unione europea). Tre anni dopo le grandi speranze aperte da quell’accordo, per l’Iran è cominciata una nuova stagione di isolamento economico.

Le sanzioni decretate da Washington infatti sono particolarmente pesanti, benché unilaterali, sia perché gli Usa bloccano l’accesso dell’Iran al circuito bancario internazionale, sia perché con il meccanismo delle sanzioni secondarie colpiscono anche i soggetti di paesi terzi che mantengono relazioni economiche con Tehran. I paesi europei firmatari del Jcpoa hanno più volte proclamato la volontà di mantenere aperti canali commerciali con l’Iran; a questo dovrebbe servire uno strumento finanziario chiamato Instex, lungamente discusso e varato infine nel gennaio del 2019: ma senza grandi conseguenze pratiche;  la prima e per ora unica transazione di merci con questo meccanismo è avvenuta nel marzo del 2020.

La prima conseguenza che le esportazioni iraniane sono crollate e le importazioni sono diventate più care. In particolare è crollato l’export di petrolio, specialmente preso di mira da quella che la Casa Bianca  definisce “strategia della massima pressione”.

L’effetto è stato drastico. Nel giugno 2018, quando gli Stati uniti si sono ritirati dall’accordo nucleare, l’Iran esportava 2,7 milioni di barili di greggio al giorno (bpd, barrel-per-day); nel settembre di quell’anno (ancora prima che le nuove sanzioni entrassero in vigore) era già sceso a 1,9 milioni. Da allora ha continuato a scendere: un milione di bpd nell’aprile del 2019, una media di 260000 bpd nell’ottobre 2019. Il ricavato netto è sceso di conseguenza, da un picco di 67 miliardi di dollari nel 2018 a circa 20 miliardi di dollari nei primi sei mesi del 2019 (secondo la Aie, Agenzia internazionale per l’energia). In altre parole, le sanzioni costano all’Iran miliardi di dollari di mancato reddito. Ed è a questo punto che arriva il coronavirus.

La pandemia sotto sanzioni

L’Iran è l’unico paese al mondo che stia combattendo una pandemia sotto sanzioni. Il paese ha un servizio sanitario tra i migliori della regione mediorientale, con una rete di strutture decentrata e personale medico e paramedico di ottimo livello, tra cui molti specializzati all’estero (anche se ha un numero di posti letto per abitante appena sufficiente in tempi normali). Ma sconta una cronica carenza di attrezzature e farmaci, proprio a causa delle sanzioni applicate dagli Stati Uniti. Il materiale sanitario in teoria non è coperto da embargo, ma di fatto anche importare attrezzature mediche o ospedaliere è quasi impossibile perché l’esclusione delle banche iraniane dal sistema bancario globale blocca i normali canali di pagamento. Il 27 febbraio il governo svizzero ha ufficialmente varato un meccanismo finanziario per permettere l’acquisto da parte iraniana di medicinali, cibo e forniture “umanitarie”. Ma due mesi dopo la prima transazione “pilota”, una vendita di materiale medico per 2,5 milioni di dollari, non si è visto più nulla: segno che la “massima pressione” esercitata da Washington continua a dissuadere molte aziende dal vendere all’Iran materiale medico peraltro perfettamente legale.

Il confinamento intanto ha aggravato la recessione, com’era inevitabile. Ha colpito in primo luogo il commercio, perché gli acquisti che precedono il Nowrooz contano per circa metà del fatturato annuo dei negozianti e di molte imprese di beni di consumo. Poi l’industria turistica: ristoranti, agenzie viaggi e hotel sono rimasti semivuoti durante le vacanze più importanti dell’anno; il giro d’affari del settore è crollato di oltre il 90 per cento, secondo le prime stime.

Un bilancio più approfondito resta da fare. L’economia iraniana è molto più diversificata di molti altri paesi grandi produttori di idrocarburi, e le sanzioni hanno accelerato l’emancipazione dell’Iran dal petrolio. Il settore manifatturiero rappresenta già da tempo l’ossatura dell’economia nazionale, con una struttura di piccole e medie imprese che producono sia per un mercato interno di 80 milioni di persone, sia per l’esportazione – in particolare nella regione circostante (dall’Iraq alla Turchia, agli Emirati arabi, alle repubbliche dell’Asia centrale). Anzi: è proprio questo settore – dalle automobili alla meccanica all’agroalimentare – che ha permesso all’economia iraniana di resistere alla “massima pressione” esercitata dalle sanzioni Usa. L’anno scorso l’export di prodotti non-oil ha fatto 41 miliardi di dollari superando per la prima volta il reddito petrolifero. E mentre il settore petrolifero si è contratto del 35 per cento nell’anno appena trascorso a causa delle sanzioni, il manifatturiero si è contratto appena dell’1,8 per cento.

Se questo lascia sperare per una futura ripresa, il punto è che l’epidemia di Covid-19 ha effetti disastrosi nell’immediato.

Secondo alcune stime il prodotto interno iraniano sarà diminuito del 15 per cento a causa del blocco delle attività durante il confinamento. Il valore della valuta iraniana, il Rial, è crollato negli ultimi due anni e ha avuto un ulteriore crollo alla fine di giugno: sotto la duplice spinta delle aspettative nere e di manovre speculative.  Di sicuro sono andati in fumo molti posti di lavoro. Anche qui sono stime preliminari: la  stampa iraniana cita la Mezzaluna rossa iraniana secondo cui due milioni di lavoratori alla giornata hanno perso ogni reddito. Prima del coronavirus circa 3 milioni di iraniani figuravano disoccupati (ma secondo alcune stime erano di più); l’11 aprile un portavoce del governo aveva detto che un lockdown prolungato avrebbe aggiunto altri 4 milioni di disoccupati. In termini di impoverimento e aumento delle diseguaglianze, il futuro è fosco.

L’allarme degli economisti

In una lettera indirizzata al presidente Hassan Rohani il 3 aprile, una cinquantina di economisti iraniani avvertivano che l’impatto dell’epidemia aggraverà in modo insostenibile la recessione e il declino della produzione interna, con la conseguenza di accrescere la povertà e il disagio sociale, approfondire il deficit di bilancio dello stato, far lievitare l’inflazione. Dicevano che l’Iran rischia nuove proteste e disordini nelle periferie urbane a basso reddito – magari alla fine di quest’anno o nei primi mesi del prossimo.

Una prospettiva tutt’altro che remota, per chi ricordi l’ondata di rabbia innescata dall’aumento del prezzo della benzina nel novembre scorso. Allora la repressione fu così brutale da suscitare sconcerto nel paese e spingere il Majlis (il parlamento) a istituire una commissione d’inchiesta. Alla fine di maggio proprio il deputato che presiede quella commissione ha dichiarato che 230 manifestanti sono stati uccisi durante i disordini: la prima ammissione, benché semiufficiale.

Nella loro lettera, gli economisti propongono diverse misure per attutire il crollo dell’economia, a cominciare da una serie di sussidi ai cittadini e alle imprese.

In parte, è proprio ciò che il presidente Rohani ha fatto. Il 16 marzo il suo governo ha annunciato misure come un “bonus” una tantum per i cittadini già percipienti dei programmi di welfare statale; piccoli prestiti senza interesse ripagabili in trent’anni a piccoli negozianti e venditori ambulanti; sussidi e inserimento al lavoro per le madri sole. È stato annunciato anche un aumento del 50 per cento del salario degli impiegati pubblici di basso livello, che rientrano senza dubbio tra le fasce più povere della società.

Questi però sono piccoli interventi. Il governo ha anche sospeso per tre mesi l’esazione delle imposte per le aziende in difficoltà. E ha promesso di stanziare l’equivalente di 6,25 milioni di dollari per garantire prestiti a tasso agevolato (ripagabili in tre anni al tasso del 12 per cento, mentre le banche praticano normalmente tassi del 20 per cento): molti hanno obiettato che doveva offrire almeno prestiti a interesse zero.

In termini di “stimolo” per rilanciare l’economia è ben poco, se si pensa alle migliaia di miliardi mobilitati in Europa. Il fatto è che il governo ha serie difficoltà a offrire assistenza finanziaria  agli imprenditori iraniani, per il semplice motivo che le entrate dello stato si sono ridotte in modo drammatico proprio in questi mesi di crisi sanitaria. La domanda mondiale di petrolio è crollata in seguito alla pandemia, facendo scendere il prezzo, e questo ha colpito le già declinanti esportazioni iraniane. Anche le entrate fiscali sono crollate, con tante aziende costrette a chiudere o in crisi.

Questo ha spinto il governo Rohani prima a chiedere (e ottenere) il permesso del parlamento a prelevare un miliardo di euro dal Fondo nazionale per lo sviluppo, una riserva speciale dello stato. Poi a chiedere di attingere al fondo speciale del Fondo monetario internazionale (Fmi) per la lotta al Covid-19, con un prestito di 5 miliardi di dollari: la prima volta che l’Iran chiede un prestito al  Fmi dalla Rivoluzione del 1979. Un gesto “politico” dunque, con cui Rohani si è guadagnato forti critiche interne dall’opposizione conservatrice. Ma comunque vano: è assai improbabile che il prestito sia concesso, tanto più che Washington ha una posizione preminente nel Consiglio d’Amministrazione del Fmi e blocca la domanda iraniana.

Il governo si è poi rivolto all’interno, proponendo dei titoli di stato (una sorta di “coronavirus bond”) per attingere al risparmio degli iraniani – e magari alle grandi fortune che un certo numero di super-ricchi nazionali tiene ben al sicuro all’estero: con quanta fortuna si vedrà.

C’è però da considerare un altro aspetto della risposta pubblica alla crisi sanitaria. Anche in Iran l’epidemia ha mobilitato a vari livelli la società civile, suscitando un diffuso movimento di solidarietà esemplificata da casi di “crowdfunding” per finanziare servizi medici, o la Campagna chiamata Nafas, “respiro”: una coalizione di organizzazioni umanitarie non governative, imprese e camere di commercio, che ha cercato di facilitare l’importazione di beni necessari (protezioni mediche, per esempio), arrivando ad allestire una clinica specializzata in pazienti Covid (ne accenna qui l’analista Bijan Khajehpour).

Notizie come questa fanno pensare alla capacità di resistenza degli iraniani: abituati a vivere tra crisi e sanzioni, faranno fronte anche all’epidemia.

Il 27 luglio il portavoce del ministero della Sanità iraniano ha annunciato che in media 200 persone al giorno sono morte di Covid-19 nelle ultime due settimane; il numero totale dei decessi attribuiti ufficialmente alla pandemia ora supera i 16000. Le provincie sottoposte a restrizioni per motivi sanitari sono salite a 12 (su 31). Secondo il viceministro della Sanità Iraj Harirchi però è Tehran la “fonte di diffusione” del coronavirus nel resto del paese, visto che centinaia di migliaia di persone vi si recano ogni giorno per lavoro o altro. Il dato positivo e che il 95 per cento delle persone infettate guarisce senza bisogno di particolari cure.

L'articolo La crisi iraniana ai tempi del coronavirus proviene da OGzero.

]]>
Approdo africano della Belt Road Initiative: i meccanismi in gioco nella Great Rift Valley https://ogzero.org/approdo-africano-della-belt-road-initiative-great-rift-valley/ Wed, 24 Jun 2020 10:42:00 +0000 http://ogzero.org/?p=122 l’Africa, l’Asia meridionale e il Sud America sembrano, per molti versi, sopravanzare il mondo euro-moderno, forieri della sua storia-in-fieri, anticipando fenomeni e caratteristiche di “sviluppo”. Che la collocazione dell’Africa nella narrazione dominante della Storia universale sia fondamentalmente errata è un punto che non necessita di ulteriori elaborazioni. Anche se l’Euro-America e il Sud del mondo sono, ora […]

L'articolo Approdo africano della Belt Road Initiative: i meccanismi in gioco nella Great Rift Valley proviene da OGzero.

]]>
l’Africa, l’Asia meridionale e il Sud America sembrano, per molti versi, sopravanzare il mondo euro-moderno, forieri della sua storia-in-fieri, anticipando fenomeni e caratteristiche di “sviluppo”.

Che la collocazione dell’Africa nella narrazione dominante della Storia universale sia fondamentalmente errata è un punto che non necessita di ulteriori elaborazioni. Anche se l’Euro-America e il Sud del mondo sono, ora come ora, inglobati dagli stessi processi storici mondiali è al Sud che gli effetti di tali fenomeni tendono a manifestarsi in maniera più esplicita. I vecchi margini stanno diventando le nuove frontiere, posti in cui il capitale competitivo a livello globale – sempre più, di questi tempi, asiatico e meridionale – trova zone scarsamente regolate in cui riversare i propri affari; nei quali l’industria manifatturiera apre siti sempre più convenienti; dove economie informali e altamente flessibili fioriscono da sempre; dove questi stessi servizi esternalizzati estremamente efficienti hanno sviluppato imperi info-tecnologici, legali e non, all’avanguardia; nei quali i nuovi e tardomoderni linguaggi del lavoro, del tempo e del valore prendono piede, alterando così le pratiche del resto del mondo. Ecco perché, nella dialettica della storia mondiale contemporanea, il Nord sembra “evolvere” verso il Sud.

Frag tratto da Jean, John L. Comaroff, Teoria dal sud del mondo, Torino, Rosenberg & Sellier, 2019

Episodi e strategie geopolitiche distanti tra loro, ricondotte a evidenti calcoli economici locali, volti a tessere efficacemente le trame pensate e messe in atto a livello macroeconomico, come quelle vissute dalle popolazioni coinvolte nell’evoluzione repentina del continente: infrastrutture, costruite e gestite da potenze extrafricane per il naturale contatto con le potenze asiatiche affacciate al di là dell’Oceano (anche l’India, non solo la Cina) o con l’Occidente, convenzioni e investimenti, metissage e tecnologie, risorse e metropoli, pil e inflazione, invasioni di insetti biblici ed epidemie racchiudono un concentrato di interazioni che stanno producendo conseguenze da analizzare per la loro unicità.

Collaborazioni, partnership, potenze economiche in competizione sul territorio del Rift.

  • l’Africa, l’Asia meridionale e il Sud America sembrano, per molti versi, sopravanzare il mondo euro-moderno, forieri della sua storia-in-fieri, anticipando fenomeni e caratteristiche di “sviluppo” (Comaroff, p. 13).
  • Interessi in contrasto da sempre per attingere a risorse sempre più risicate per i bisogni delle singole nazioni locali; il caso della Diga della Rinascita etiope che rischia di scatenare la guerra del Bacino del Nilo.
  • Caratteristiche del neocolonialismo: Belt Road Iniziative e investimenti indiani.

Piaghe del Rift:

  • Infestazione militare del territorio
  • Infestazione del territorio di locuste

Acque contese del Bacino del Nilo

 

L'articolo Approdo africano della Belt Road Initiative: i meccanismi in gioco nella Great Rift Valley proviene da OGzero.

]]>
Parallelismi tra l’evoluzione del SARS-CoV-2 e la diffusione delle locuste in Africa orientale https://ogzero.org/facili-parallelismi-con-levoluzione-del-cosar19-e-la-diffusione-delle-locuste-in-africa-orientale/ Sun, 21 Jun 2020 11:07:19 +0000 http://ogzero.org/?p=124 Risvolti economici del disastro epidemico sommato alla piaga delle locuste e al tracollo dei prezzi dei minerali preziosi Per l’Africa è necessario un piano di sviluppo globale. Un piano fatto insieme all’Africa che dovrà essere in grado di limitare, sempre di più, la bulimia di denaro e potere della stragrande maggioranza di presidenti e governanti […]

L'articolo Parallelismi tra l’evoluzione del SARS-CoV-2 e la diffusione delle locuste in Africa orientale proviene da OGzero.

]]>
Risvolti economici del disastro epidemico sommato alla piaga delle locuste e al tracollo dei prezzi dei minerali preziosi

Per l’Africa è necessario un piano di sviluppo globale. Un piano fatto insieme all’Africa che dovrà essere in grado di limitare, sempre di più, la bulimia di denaro e potere della stragrande maggioranza di presidenti e governanti africani, che assomigliano sempre di più a dinosauri ancorati al trono, noncuranti del popolo. Se non si ha il coraggio di studiare un piano Marshall per l’Africa e con l’Africa, a pagarne le conseguenze saranno milioni di giovani africani che si accalcheranno alle frontiere del mondo ricco per trovare vie di uscita e dignità dove ora non la trovano. 

L’Africa, tuttavia, rimane un continente molto fragile e soggetta agli shock esterni e si appresta a vivere un grave periodo di recessione. Molti fattori, che si intrecciano fra loro, contribuiranno a un calo della crescita. Alle problematiche endemiche, come la povertà, la corruzione, si aggiungono fattori esterni di notevole impatto sui mercati: shock del prezzo del petrolio, coronavirus che porta con sé un calo della domanda turistica e, non ultimo, l’invasione delle locuste nel Corno d’Africa che sta mettendo in ginocchio intere popolazioni già provate dall’insicurezza alimentare. 

Frag tratto da Mal d’Africa, di Raffaele Masto e Angelo Ferrari, postfazione di Marco Trovato, Torino, Rosenberg & Sellier, aprile 2020, disponibile in libreria e su tutte le maggiori piattaforme online.

Angelo Ferrari, 26 marzo 2020, intervento su Radio Blackout: le piaghe africane tra locuste, eredità economica dell’epidemia covid19 e crisi dei prezzi di minerali: strutture sanitarie, crisi sociale e umana, ma anche economica che si innesta sulla crisi alimentare preesistente alle locuste.

La piaga delle locuste ha falcidiato l’intera Rift Valley. L’invasione si presenta così recrudescente a seguito delle piogge della primavera 2020 nel Corno d’Africa, che hanno permesso una ulteriore schiusa delle uova deposte dallo sciame già imperversante da mesi nei paesi dell’Africa orientale: curve matematiche, come quelle dell’epidemia consentono di relazionare questi con altri fenomeni che sono avvenuti, come la riduzione di suoli coltivabili nel nord del Kenya, a seguito del riscaldamento globale. E la difficoltà di seguire gli effetti del riscaldamento climatico impedisce di prevedere come può evolvere, al punto che paradossalmente si auspica da parte di alcuni un periodo di siccità che blocchi la fertilità degli insetti; inoltre è difficile monitorare lo spostamento degli insetti al di fuori del Kenya e dell’Etiopia.

Intervento di Andrea Spinelli Barrile su Radio Blackout del 9 aprile 2020

Oltre al disastro immediato della devastazione dei campi nel momento in cui le coltivazioni stavano giungendo a maturazione, gli effetti si proietteranno sia sulla carestia che porterà a morte milioni di persone, sia sui prezzi dell’esportazione di prodotti in tutto il mondo, ma soprattutto nel commercio interno al continente, in particolare per quel che concerne Kenya ed Etiopia, per i quali questo export rappresenta una bella fetta del pil. Inoltre con l’imperversare dell’epidemia da covid19, che ha imposto il blocco delle importazioni – in particolare in Uganda – non consente l’accesso ai pesticidi di produzione straniera e quindi sottrae un’arma contro le locuste. 

Il sostegno della Banca nazionale africana è ridotto e si limita a concertare l’azione delle banche nazionali con la volontà di investimento: si può contare sui fondi della Cooperazione, che provengono dall’Europa (Francia, Germania, Italia), dall’Arabia Saudita… dalla Cina

Mentre almeno gli aiuti alimentari provenienti dalla Fao sono già potuti entrare in Kenya e in Etiopia, perché le locuste si possono anche mangiare, ma – per quanto proteica – non può essere una dieta sostitutiva e comunque possono fornire cibo per poche settimane poi la devastazione da loro prodotta permane; senza considerare gli effetti su terreni sottoposti all’uso intensivo di pesticidi e l’assenza di fondi per acquistare sementi, andate perdute con il transito di questi voraci ortotteri. E infatti un’opzione considerata è l’uso di ogm, soprattutto in Kenya, che ha timore si estenda la desertificazione avanzante da nord-est. Invece le locuste si sono spostate anche verso sud-ovest in Tanzania (e hanno devastato il Pakistan, raggiungendo anche l’Afghanistan e l’India).

L'articolo Parallelismi tra l’evoluzione del SARS-CoV-2 e la diffusione delle locuste in Africa orientale proviene da OGzero.

]]>
Siria, Iraq: la “terra tra i due fiumi” ha sete https://ogzero.org/siria-iraq-la-terra-tra-i-due-fiumi-ha-sete/ Sun, 29 Mar 2020 21:24:33 +0000 http://ogzero.org/?p=61   Dal primo decennio di questo secolo una siccità devastante affligge il Vicino Oriente, la regione che va dalle coste orientali del Mediterraneo fino all’altopiano iranico: dalla Siria all’Iran, passando per Iraq e Giordania. È probabilmente la più grave ondata di siccità registrata dei tempi moderni, da quando esistono strumenti scientifici per misurare le condizioni […]

L'articolo Siria, Iraq: la “terra tra i due fiumi” ha sete proviene da OGzero.

]]>
 

Dal primo decennio di questo secolo una siccità devastante affligge il Vicino Oriente, la regione che va dalle coste orientali del Mediterraneo fino all’altopiano iranico: dalla Siria all’Iran, passando per Iraq e Giordania. È probabilmente la più grave ondata di siccità registrata dei tempi moderni, da quando esistono strumenti scientifici per misurare le condizioni climatiche. Ha cause diverse, in parte naturali ma in gran parte attribuibili alle attività umane. E ha conseguenze drammatiche.

Qui cerchiamo di mettere a fuoco i due paesi dove le implicazioni sia ambientali, sia soprattutto sociali e umane della crisi idrica sono più profonde: la Siria e l’Iraq, cioè le terre tra i fiumi Tigri ed Eufrate che costituiscono la storica «mezzaluna fertile». 

Siria, il granaio va in polvere

Oggi non è azzardato dire che la siccità, con la profonda crisi sociale che ha innescato in Siria, è una delle cause soggiacenti alle proteste scoppiate nel 2011 e sfociate molto presto in una guerra civile che nell’autunno 2016 sembra ancora lontana da una soluzione. 

Tra il 2006 e il 2010 oltre il 60 per cento del territorio siriano è stato colpito da una siccità acuta. Sono state particolarmente colpite le province nordorientali del paese solcate dall’Eufrate, considerate il tradizionale «granaio» del paese: in particolare i governatorati di Aleppo e Hassakeh, che da soli fanno più di metà della produzione di grano nazionale, e quelli di Idlib, Homs, Dara. 

Nei due anni peggiori, il 2007 e il 2008, le piogge sono state appena il 66 per cento della media calcolata sul lungo termine. Un anno dopo l’altro, gli agricoltori hanno perso gran parte dei raccolti e nel settembre del 2009 nel sistema delle Nazioni unite circolavano notizie allarmanti: quell’anno la produzione di grano era stata appena il 55 per cento del normale; tre quarti delle famiglie avevano perso i raccolti a ripetizione, gli allevatori avevano perso fino all’85 per cento del bestiame, e si calcolava che 800 000 persone avessero perso i mezzi di sostentamento. Un’annata cattiva si può superare, ma nel 2009, dopo la terza annata consecutiva di disastro, il ministero siriano dell’agricoltura stimava che 60 000 famiglie, o circa 250 000 persone, avessero abbandonato la terra per trasferirsi in città. E la crisi si prolungava: nel 2010 fonti delle Nazioni Unite stimavano che solo in quell’anno altre 50 000 famiglie fossero migrate in città. 

Insomma: in pochi anni almeno un milione e mezzo di siriani sono emigrati dalle campagne alle aree urbane. La Siria contava allora 22 milioni di abitanti, e circa la metà viveva di agricoltura. In pochi anni la mancanza d’acqua aveva devastato una grande regione  e messo in crisi la sua economia agricola, innescando un esodo di massa. Una migrazione così massiccia non sarebbe indolore in nessun paese al mondo.

La siccità, un disastro creato dagli umani 

Per capire la portata del disastro dobbiamo fare un passo indietro. A cavallo del secolo la Siria era uno dei grandi produttori agricoli della regione. Fin dagli anni Ottanta, durante il regime di Hafez al Assad, padre dell’attuale presidente siriano, Damasco aveva investito molto nello sviluppo dell’agricoltura con l’obiettivo di dare al paese l’autosufficienza alimentare. Con l’incoraggiamento del governo, nuove terre sono state arate. Tra la metà degli anni Ottanta e il Duemila la superficie coltivata è raddoppiata: da circa 600 000 a oltre 1,2 milioni di ettari. L’espansione è continuata; ancora nel 2006, alla vigilia della grande siccità, il governo ormai guidato da Bachar al Assad pianificava di aumentare ancora la produzione agricola.

Il risultato visibile è che la Siria ha non solo raggiunto l’autosufficienza (mentre gran parte dei paesi del Vicino Oriente spendono milioni di dollari per importare cereali e altri prodotti alimentari), ma fino al 2007 ha anche esportato grano verso la Giordania e l’Egitto. 

A ben guardare però uno sfruttamento agricolo così intenso ha avuto altri risultati, meno visibili nell’immediato ma dalle conseguenze nefaste. Il primo è stato di prosciugare le falde idriche. Nella grande espansione agricola sono state arate anche terre semiaride, dove fino ad allora l’agricoltura era bandita a favore della pastorizia. Per sostenere una tale espansione il governo aveva fatto scavare nuovi pozzi, che sono raddoppiati di numero tra gli anni Ottanta e il Duemila. Ma questo ha contribuito a far crollare il livello dell’acqua di falda. Quando le piogge hanno cominciato a mancare gli agricoltori hanno cercato di supplire pompando acqua dai pozzi, come avevano sempre fatto nei momenti di siccità: ma stavolta hanno trovato che l’acqua non c’era più o era diventata troppo salina. Come vedremo più avanti, nel frattempo anche l’Eufrate era sotto stress.

Insomma, se la siccità è un evento naturale, qui uno sviluppo agricolo insostenibile ha contribuito a trasformarla in catastrofe. Senza contare che neppure le cause della siccità sono del tutto naturali. Il Vicino Oriente ha sempre visto alternarsi periodi più o meno secchi, ma alcuni studiosi ormai sostengono che una crisi così acuta e prolungata sia ben oltre la naturale variabilità. Uno studio pubblicato nel marzo 2015 dall’Accademia delle Scienze degli Stati Uniti conclude che la siccità registrata nell’ultimo decennio nel Vicino Oriente è legata alle «influenze umane sul clima». Gli studiosi qui osservano la tendenza delle precipitazioni, delle temperature e della pressione atmosferica al livello del mare nel corso dell’ultimo secolo. Il calo delle precipitazioni in Siria, spiegano, è legato all’aumento della pressione media sul Mediterraneo orientale; venti più deboli portano meno aria carica di umidità dal mare sulla terraferma, mentre l’aumento della temperatura media ha accelerato l’evaporazione dai terreni. Questo combacia con le simulazioni computerizzate su come la regione risponde all’aumento della concentrazione di gas «di serra» nell’atmosfera. 

Il catalizzatore della crisi

Chiara Cruciati intervenne su Radio Blackout il 16 novembre 2018 sulla desertificazione dello Shatt-al-Arab, con la moria dei pesci a valle del Tigri e dell’Eufrate per la moltiplicazione delle dighe a monte, in territorio turco, siriano e del Kurdistan iracheno

La siccità ha avuto un effetto catalizzatore sulla crisi sociale e politica in Siria. Nel 2011 la produzione nazionale di grano era dimezzata. Buona parte del bestiame era morto o era stato venduto sottocosto e macellato nell’impossibilità di nutrirlo; i silos erano esauriti. Due o tre milioni di persone erano ridotte in povertà, e almeno un milione e mezzo aveva abbandonato la terra.

Gran parte dei migranti dalle zone rurali è andato verso le città di Damasco, Aleppo e Hamah. Le città siriane però erano già in situazione di stress per il grande afflusso di rifugiati venuti dal vicino Iraq dopo l’invasione guidata dagli Stati Uniti nel 2003. Dunque un numero crescente di persone senza grandi mezzi per vivere si è trovato a competere per il poco lavoro disponibile e per servizi e infrastrutture urbane già carenti. Intorno a città come Aleppo o la stessa Damasco sono cresciuti grandi slum, con una popolazione per lo più giovane, con poche chances di trovare un’occupazione, e con addosso una grande frustrazione. 

La gestione della crisi da parte del governo non ha aiutato. Nel maggio 2008, dopo la prima annata di raccolti falliti, il governo del presidente Bachar al Assad ha tagliato drasticamente le sovvenzioni sul prezzo del diesel (usato per azionare le pompe e i macchinari agricoli). Sarà una coincidenza ma le zone roccaforte dei ribelli, in particolare Aleppo, Deir al Zour e Raqqa (divenuta poi la «capitale» dello Stato islamico), sono proprio quelle più devastate dalla siccità.

«Il ruolo di comunità urbane destituite e sotto stress nei movimenti di opposizione è stato significativo», osservavano due studiosi in una analisi sull’impatto del cambiamento del clima nella regione (pubblicato nel febbraio del 2012, il loro è stato il primo di una serie di analisi sul nesso tra siccità, crisi sociale e conflitto). «Negli ultimi anni una serie di cambiamenti sociali, economici, ambientali e climatici in Siria hanno eroso il contratto tra cittadini e governo», contribuendo alla perdita di legittimità del regime.

Una devastazione immane

Nel sesto anno di conflitto, in Siria alla crisi idrica si somma ormai la devastazione della guerra. A partire dal 2012 la superficie coltivata si è ridotta. Le zone una volta più fertili sono teatro della competizione tra gruppi armati, e andare nei campi è un rischio costante. E poi i sistemi di irrigazione, acquedotti e altre infrastrutture sono danneggiati, colpiti dai bombardamenti o semplicemente negletti, in abbandono.

Un monitoraggio congiunto di due agenzie dell’Onu (la Fao, Organizzazione per l’agricoltura e l’alimentazione, e il Pam, Programma alimentare mondiale) nel 2015 ha constatato che la Siria ha prodotto 2445 milioni di tonnellate di grano: è il 40 per cento in meno rispetto alla produzione prima del conflitto, eppure è un terzo di più del raccolto 2014, e meglio anche del 2013. Infatti nel 2012-2013 la siccità aveva di nuovo colpito gran parte del paese, mentre l’inverno 2014-2015 è stato relativamente piovoso: e questo ha in parte aiutato a mitigare l’impatto devastante della guerra. Nel settembre 2016 non abbiamo ancora consuntivi sull’ultimo raccolto: sappiamo però che nell’inverno 2015-2016 poco più di un milione di ettari è stato coltivato a grano (contro 1,5 milioni di ettari nel 2011). La principale zona coltivata è stata quella di Hassakeh, che ha registrato un buon livello di precipitazioni invernali; non così le zone di Aleppo, Idlib e Homs, che restano nella morsa della siccità oltre che del conflitto. 

Anche un raccolto relativamente incoraggiante come quello del 2015 però rappresenta ancora un buco di 800 000 tonnellate rispetto al fabbisogno. Per chi vive oggi in Siria la situazione è insostenibile; il prezzo del pane è triplicato rispetto al 2011 ed è aumentato in particolare proprio nel corso del 2015. Il sistema di distribuzione è crollato, coloro che coltivavano sono fuggiti, il commercio è nel caos. La combinazione di siccità e guerra sta letteralmente cancellando parte del paese. Ormai interi villaggi sono abbandonati, città spopolate dalla violenza, infrastrutture distrutte – senza contare la desolazione e l’odio accumulati in anni di violenza. Anche quando la guerra sarà finita, la ricostruzione non sarà facile.

La portata d'acqua dei due fiumi mesopotamici a confronto nel tempo: evidente desertificazione dello Shatt al Arab
La portata del Tigri e dell’Eufrate nel progressivo inaridimento fino alla foce, grafico tratto da Curdi, di Antonella De Biasi, Giovanni Caputo, Kamal Chomani e Nicola Pedde, Torino, Rosenberg & Sellier, 2019

Nella “terra dei due fiumi” l’acqua è un obiettivo strategico

Uno dei primi obiettivi presi di mira dai miliziani dello Stato Islamico (noto anche come Isis, o Daesh nell’acronimo arabo), quando hanno cominciato la loro fulminea avanzata tra la Siria settentrionale e l’Iraq nell’estate del 2014, sono state alcune dighe sui fiumi Tigri e Eufrate. Non deve stupire: in Mesopotamia, la “terra dei due fiumi”, il controllo dell’acqua può diventare perfino più importante di quello del petrolio. Un’occhiata alla carta geografica può chiarire perché. 

L’Iraq dipende per intero dal Tigri e dall’Eufrate, i fiumi che hanno plasmato la storia umana in questa regione. Acqua potabile per gli abitanti, per alimentare i sistemi di irrigazione e quindi per coltivare, per rifornire le industrie, per produrre energia idroelettrica: in Iraq il 98 per cento dell’acqua dolce superficiale viene da quei due fiumi.

Sia l’Eufrate che il Tigri nascono dai monti dell’Anatolia sudorientale, in Turchia, e scendono tra valli e gole montane. L’Eufrate, 2700 chilometri, compie un lungo giro e attraversa la Siria nordorientale, prima di entrare in Iraq nella provincia di Anbar; nel suo corso verso sudest bagna poi le città di Ramadi, Falluja, Nassiriya. Il Tigri, 1850 chilometri, entra in Iraq nella provincia di Ninive e procede quasi parallelo all’Eufrate, bagnando Mosul, Tikrit, Samarra, la capitale Baghdad. I due fiumi si uniscono nell’ultimo tratto, formando un unico corso d’acqua chiamato Shatt al-Arab, prima di sfociare nel Golfo Persico nel governatorato di Bassora (negli ultimissimi chilometri lo Shatt al-Arab segna il confine tra l’Iraq e l’Iran; in persiano è chiamato Arvand). Sommati, e con i loro affluenti, il Tigri e l’Eufrate formano un bacino di oltre 850 000 chilometri quadrati nei tre paesi. 

Oggi però il bacino mesopotamico è in crisi, e lo era ben prima che la Siria precipitasse nel conflitto o che entrassero in scena i ribelli dello Stato islamico. La portata del Tigri e dell’Eufrate è in declino in parte a causa della siccità e del cambiamento del clima, ma soprattutto per l’effetto di decenni di sovrasfruttamento, della crescita della popolazione umana, dell’inquinamento, dello sviluppo disordinato e non coordinato tra i tre paesi rivieraschi. Già: parte del problema è che il 90 per cento della portata annua dell’Eufrate e quasi metà di quella del Tigri hanno origine in Turchia. E questo significa che la «sicurezza idrica» e alimentare di una popolazione stimabile sui 60 milioni di persone in Siria e in Iraq dipende in larga parte dal vicino locato più a monte. 

Turchia, Siria e Iraq in competizione per l’acqua

Nella seconda metà del Novecento diverse dighe sono state costruite sul Tigri e sull’Eufrate, sia in Iraq che in Siria e in Turchia. Ma è la Turchia che negli ultimi decenni ha avviato i progetti più ambiziosi, pianificando una serie di impianti idroelettrici e di irrigazione nelle sue province sudorientali (come vedremo infra §3.4.4). La prima diga sull’Eufrate in territorio turco risale agli anni Sessanta; cinquant’anni dopo le dighe sui due fiumi sono oltre 140, e altre sono in costruzione o in progetto. Questo ha suscitato non poche controversie con i vicini a valle. 

In particolare le dighe Karakaya (completata nel 1988) e Atatürk (completata nel 1992), entrambe sull’Eufrate, hanno ridotto di circa un terzo il flusso d’acqua che arriva in Siria e poi Iraq. Queste due dighe, tra le maggiori al mondo, fanno parte del Progetto dell’Anatolia sudorientale (in turco Güney Doğu Anadolu Projesi, Gap), promosso del governo turco con lo scopo dichiarato di promuovere l’economia della regione, produrre energia, sviluppare l’agricoltura, creare lavoro. Il progetto Gap include 22 sbarramenti e 19 impianti idroelettrici, tra cui le dighe di Ilisu e di Cizre, sul Tigri. Di fronte a un progetto così grandioso però è chiaro che non si tratta solo di gestione delle risorse idriche; è in gioco anche il potere e il controllo sulla regione, che coincide quasi perfettamente con quella storicamente abitata da popolazione kurda. 

La diga di Ilisu ne è la prova. La costruzione è cominciata nel 2006, tra grandi contestazioni, ed è quasi terminata. Quando sarà completata, la diga sarà alta 135 metri e avrà creato un invaso capace di contenere 10,4 chilometri cubi d’acqua; il nuovo lago sommergerà quasi completamente l’antica città di  Hasankeyf, con numerosi siti storici, e costringerà ottantamila residenti a spostarsi. In pieno Kurdistan, il progetto di Ilisu è stato accompagnato da controversie e pressioni internazionali tali da convincere i finanziatori europei del progetto (Austria, Germania e Svizzera) a ritirare le garanzie di stato al credito. Ma questo ha solo ritardato i lavori; il governo turco ha trovato finanziamenti alternativi. Se non entro il 2016 come inizialmente previsto, l’inaugurazione della nuova diga sembra comunque imminente. Facile prevedere che la diga di Ilisu e quella di Cizre, poco più a monte, saranno un ulteriore elemento di opposizione e di conflitto nella regione kurda.

Quando il progetto Gap sarà completato permetterà di irrigare in territorio turco 1,2 milioni di ettari supplementari, e grazie a questo la Turchia spera di triplicare l’esportazione di prodotti agricoli. Ma ridurrà ulteriormente la quantità d’acqua disponibile a valle. Si stima potrebbe ridurre fino all’80 per cento il flusso d’acqua dell’Eufrate che arriva in Iraq, e di un ulteriore 50 per cento la portata del Tigri.  

Ma anche se il progetto anatolico non fosse completato, già gli impianti fin qui costruiti hanno alterato in modo profondo la natura dei due fiumi. Basti pensare che negli anni Settanta, prima della costruzione delle citate grandi dighe, la portata media dell’Eufrate quando entrava in Iraq era di 720 metri cubi al secondo; oggi è circa 260 metri cubi al secondo. Naturalmente in questo conta anche la situazione generale di siccità, di cui pure l’Anatolia sudorientale ha sofferto (benché in modo meno acuto della Siria). Sta di fatto che le dighe attualmente operanti in territorio turco hanno una capacità di immagazzinare acqua di gran lunga superiore a tutte quelle esistenti a valle.

Così l’acqua è un costante elemento di tensione tra la Turchia e i paesi a valle. Anche perché i meccanismi di negoziazione tra i tre paesi rivieraschi sono sempre stati fragili, e sono tanto più fragili in un periodo di conflitto. Solo in rare occasioni, negli anni Ottanta e Novanta, si sono riuniti comitati tripartiti per discutere la suddivisione delle risorse idriche, per lo più con la mediazione di potenze esterne. Il principale accordo oggi in vigore è quello firmato nel 1998 tra Siria e Turchia, il Trattato di Adana, secondo cui l’Eufrate dovrebbe portare in territorio siriano in media 500 metri cubi al secondo, di cui il 46 per cento dovrebbe poi arrivare in Iraq. Un accordo tra tutti i paesi rivieraschi non esiste. È difficile immaginare negoziati e cooperazione in pieno conflitto; eppure è chiaro che trovare un accordo sulla condivisione dei due fiumi è urgente, e sarà un elemento essenziale di qualunque sforzo per pacificare e ricostruire la regione.

La guerra delle dighe e del grano

Certo è che in Iraq la crisi idrica è potenzialmente esplosiva. Rivolte e guerre hanno aggravato la situazione, mettendo a repentaglio infrastrutture essenziali alla gestione della risorsa idrica – e proprio mentre a causa del conflitto la regione deve far fronte a grandi movimenti di sfollati.

Non stupisce dunque che le dighe sui due fiumi siano diventate obiettivi strategici. L’Eufrate entra in Iraq nella provincia di Anbar; il Tigri nella provincia di Ninive: queste due regioni sono state tra le prime conquistate dallo Stato islamico nella sua avanzata. Da allora lunghi tratti dei due fiumi (ma in particolare dell’Eufrate), e delle regioni agricole circostanti, sono passate e ripassate sotto il controllo di diverse forze, in particolare dello Stato islamico, e restano teatro di guerra anche quando, nell’estate 2016, le fortune militari dell’organizzazione ribelle sembrano diminuire.

In questo contesto le dighe sono allo stesso tempo obiettivo di conquista e arma di guerra. La diga di Nuaimiyah, sull’Eufrate, 5 chilometri a sud di Falluja, provincia di Anbar, ne è un esempio. Quando i ribelli l’hanno conquistata, all’inizio di aprile 2014, hanno sbarrato le chiuse: così a valle, nelle città di Kerbala, Najaf e giù fino a Nassiriya, milioni di persone sono rimaste a secco mentre a monte la città di Abu Ghraib è stata allagata. In seguito lo Stato islamico ha preso la diga di Samarra, sul Tigri (ma non è riuscito a prendere quella di Haditha, sull’Eufrate, che produce circa un terzo dell’energia elettrica del paese e soprattutto rifornisce la capitale Baghdad). Ma il colpo più clamoroso dei miliziani ribelli è stato prendere la città di Mosul e soprattutto l’omonima diga, il 7 agosto 2014. 

La diga di Mosul è la più grande del paese e il suo impianto idroelettrico, con una potenza installata di 1052 megawatt, ha garantito al Kurdistan iracheno rifornimenti costanti di energia elettrica anche quando il resto dell’Iraq viveva con continui blackout. Per questo è stata difesa fino all’ultimo dai peshmerga, i combattenti curdi (di fatto l’esercito della regione autonoma del Kurdistan). E per questo le forze governative si sono lanciate quanto prima a riconquistarla (il 17 agosto 2014 le forze peshmerga e dell’esercito iracheno, con il decisivo appoggio aereo dell’aviazione statunitense, hanno ripreso la diga di Mosul).

Dall’estate del 2014 dunque i ribelli dello Stato islamico hanno tenuto il controllo, sia pure a “macchie”, di gran parte del bacino di Tigri ed Eufrate tra Iraq e Siria. Acqua significa grano: i ribelli hanno preso numerosi depositi governativi di grano nelle zone di Ninive, Kirkuk e Salaheddin, ovvero la regione più fertile del paese, che produce circa il 40 per cento del grano dell’Iraq. Nell’estate 2014 in quei silos si trovavano circa 1,1 milioni di tonnellate di grano che il governo aveva comprato dagli agricoltori della regione, pari a circa un quinto del fabbisogno annuale dell’Iraq: grazie a quelle riserve l’Isis è stato in grado di distribuire farina agli abitanti delle zone che ha conquistato, ormai tagliate fuori dal Sistema di distribuzione pubblica governativo (da cui più di metà della popolazione irachena dipende per sopravvivere). Tra l’altro le ostilità hanno creato una gran massa di sfollati: al dicembre 2015 le Nazioni unite ne contavano circa 3,2 milioni all’interno del paese, di cui quasi due milioni costretti a partire dal gennaio 2014 (cioè da quando lo Stato islamico ha cominciato la sua avanzata).

Dunque anche la produzione di cereali è rimasta ostaggio del conflitto. Nel 2015 l’ente statale che compra i cereali dai produttori (Iraqi Grain Board) aveva comprato dagli agricoltori 3,2 milioni di tonnellate di grano al prezzo sovvenzionato di 600 dollari la tonnellata. È un raccolto inferiore a quello del 2014 (3,4 milioni di tonnellate), ma migliore della media dei cinque anni precedenti: e questo grazie a una buona stagione di piogge. Questo è però ancora molto al di sotto del fabbisogno nazionale. Inoltre, nell’inverno 2015-2016 alcune zone agricole sono state devastate da piogge torrenziali, che hanno messo in pericolo le coltivazioni. Sta di fatto che l’Iraq ha importato 4,4 milioni di tonnellate di grano nel 2014-15 e prevede di importarne 4,5 nel 2015-16. Una larga parte della regione produttrice di cereali resta sotto il controllo diretto del Isis, o è in zone contese, teatro di ostilità, cosa che rende difficile procurarsi sementi e fertilizzanti, e in molti casi perfino rischioso coltivare. Le fonti governative non dichiarano dati sulle zone fuori dal suo controllo; secondo alcune stime, 1,6 milioni di tonnellate di grano sono state raccolte nelle zone sotto il controllo dello Stato islamico nel 2015. 

La diga che riporta l’Italia in Iraq

La diga di Mosul intanto continua a preoccupare le autorità irachene, e non solo per le mire dei ribelli. Il problema è che la diga stessa ha debolezze strutturali che la rendono un potenziale pericolo. 

Alta 113 metri e lunga 3,4 chilometri, la diga è stata costruita tra il 1981 e il 1986 da un consorzio italo-tedesco guidato da Hochtief Aktiengesellschaft. Ha un impianto idroelettrico da 1052 megawatt;  fornisce acqua ed elettricità alla città di Mosul (1,7 milioni di abitanti) e a gran parte della regione. È la diga più grande in Iraq e la quarta del Vicino Oriente, misurata per la capacità del suo invaso artificiale (11,1 chilometri cubi) che immagazzina acqua proveniente dalle montagne della Turchia, appena 110 chilometri a nord. È costruita però su fondamenta carsiche, e questo è il suo difetto originario.

Il problema strutturale è emerso già pochi anni dopo che la diga era entrata in funzione. Grandi crepe, come «buchi», hanno cominciato ad aprirsi sulla roccia permeabile alla base della diga; per questo è necessaria una manutenzione continua, che consiste nel riempire i “buchi” con cemento liquido. Crepe sono state notate negli anni Novanta, poi ancora nel 2003 e nel 2005. Tra il 1986 e il 2014 oltre 350 000 tonnellate di cemento sono state iniettate nelle crepe che si sono via via aperte. Nel settembre 2006 un rapporto del Genio militare degli Stati Uniti (Us Corps of Engineers) avvertiva che «in termini di erosione interna delle fondamenta, la diga di Mosul è la più pericolosa al mondo» e che un improvviso crollo, anche solo parziale, travolgerebbe in poco più di un’ora la città di Mosul con un muro d’acqua alto fino a 20 metri, e in seguito Baghdad con una piena di oltre 4 metri. Sarebbe una catastrofe assicurata. Anzi, l’ultimo studio è ancora più pessimista. Condotto dal Joint research centre (Jrc) dell’Unione Europea, e pubblicato a metà aprile 2016, afferma che se cedesse anche solo un quarto del fronte della diga la città di Mosul sarebbe investita nel giro di un’ora e mezza da un muro d’acqua di un’altezza media di 12 metri che potrebbe arrivare fino a 25; l’ondata travolgerebbe poi Tikrit e Samarra a raggiungerebbe Baghdad dopo tre giorni e mezzo, con una piena alta tra i due e gli otto metri. Lo studio del 2006 parlava di almeno mezzo milione di morti, ma altri hanno parlato anche di un milione o un milione e mezzo.

Il problema strutturale è innegabile (c’è da chiedersi chi e perché scelse il luogo dove costruire lo sbarramento, e perché da allora non siano state individuate delle responsabilità, visto che il problema è noto da circa trent’anni). È vero però che nel corso del tempo sono stati messi accenti più o meno drammatici sul rischio di un crollo. Di recente l’ex ingegnere capo della diga, Nasrat Adamo, ha fatto notare al quotidiano britannico “The Guardian” che a causa del difetto di concezione, l’impianto richiede un continuo lavoro a riempire le crepe alla sua base. Il punto è che la manutenzione era stata interrotta durante l’occupazione dello Stato islamico e anche quando le forze governative hanno ripreso il controllo non tutto il personale è tornato: su trecento addetti ne restano una trentina, diceva Adamo, e i macchinari sono stati rubati o danneggiati. Ripresa la diga, i genieri statunitensi hanno messo 1200 sensori sull’impianto, attivando un monitoraggio continuo; ne hanno concluso che l’impianto resta ad altissimo rischio. 

Nell’ottobre 2015 dunque il governo iracheno ha lanciato una gara d’appalto internazionale per lavori di manutenzione e consolidamento della diga di Mosul. E qui entra in scena l’Italia. Poco tempo dopo, il 15 dicembre, il primo ministro italiano Matteo Renzi ha dichiarato che l’Italia era  pronta a mandare circa 450 soldati in Iraq, oltre ai 700 che vi si trovavano, per garantire la sicurezza della diga; con l’occasione ha annunciato che una ditta italiana, la Trevi s.p.a., aveva vinto la commessa per i lavori. La notizia di un accordo per la difesa non ha avuto immediato riscontro a Baghdad; anzi, è stata decisamente smentita da un portavoce del governo iracheno il 21 dicembre.

Il 22 dicembre la ministra della difesa Roberta Pinotti, nel corso di un’audizione presso il comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica (Copasir) ha dichiarato che il lavoro sarebbe stato affidato a una società italiana, dando la notizia come cosa fatta, ma ha precisato che «prima ci dovrà essere l’assegnazione formale della commessa», e solo allora «ci sarà la pianificazione per l’invio di 450-500 militari italiani chiamati a presidiare il cantiere», ovviamente in accordo con il governo iracheno. A Baghdad però sembra che non tutte le componenti del governo fossero favorevoli alla rafforzata presenza militare italiana. 

Intanto sono circolati nuovi allarmi. Nel febbraio del 2016 l’ambasciata degli Stati Uniti a Baghdad ha diffuso una nota dai toni drastici: paventava il grave rischio di un collasso “improvviso” della diga, e suggeriva di preparare piani d’evacuazione per le città a valle. L’ambasciata ha anche diffuso una scheda in cui si diceva che in caso di crollo della diga una popolazione tra 500 000 e un milione e mezzo di iracheni non sarebbero sopravvissuti, a meno di evacuare le immediate vicinanze del fiume a valle lungo 480 chilometri. La nota sulla diga che sta per crollare è stata ampiamente ripresa dalla stampa internazionale. Si potrebbe pensare che ciò sia servito a indurre un senso di urgenza e “convincere” il governo iracheno ad accelerare l’appalto: ma naturalmente è solo una illazione.

Sta di fatto che il 2 marzo 2016 il governo iracheno ha infine firmato il contratto con la Trevi s.p.a., parte del Gruppo Trevi, azienda specializzata nell’ingegneria del sottosuolo per fondazioni speciali. Un comunicato emesso dall’azienda precisa che il contratto, per 273 milioni di euro, non è stato assegnato per gara ma per «procedura d’urgenza per via della situazione critica della diga». In effetti non è chiaro se la gara sia mai avvenuta, o se Trevi fosse l’unico concorrente. 

Fondato nel 1957 a Cesena da Davide Trevisani, tutt’ora controllato dalla famiglia fondatrice (attraverso Trevi Holding), il Gruppo Trevi è quotato in borsa ed è diventato un nome importante nel settore. Nel 2015 ha fatturato 1,3 miliardi di euro, con una tendenza in crescita da parecchi anni. Il gruppo ha una filiale negli Stati Uniti, Treviicos, e ha lavorato per il Genio militare americano fin dal 2001. 

Nonostante la struttura di gruppo privato, addirittura a conduzione familiare, il Gruppo Trevi è anche in parte un’impresa controllata dallo stato attraverso la Cassa Depositi e Prestiti (Cdp). Infatti nel luglio 2014 la società Fondo Strategico Italiano (Fsi) con la sua controllata Fsi Investimenti, compagnie di investimento di capitale di rischio appartenenti a Cdp, sono entrate nel capitale sociale di Trevi finanziaria con circa 101 milioni di euro, pari a circa il 16 per cento del capitale. Insomma, il secondo azionista del Gruppo Trevi è lo Stato italiano. 

Questo mette in tutt’altra luce il contratto per la diga di Mosul: lo stato ha attivamente promosso una commessa internazionale per un’azienda di cui è azionista, allo stesso tempo impegnando truppe italiane e quindi denaro del contribuente per la sua difesa (molte imprese private lavorano in scenari di rischio, ma certo non tutte hanno il privilegio di una scorta militare).

L’epilogo di questa storia è ancora aperto. Dopo un primo sopralluogo nell’aprile 2016, in giugno sono arrivati presso la diga di Mosul i primi tecnici dell’azienda per preparare l’insediamento(tra le opere preparatorie c’è una caserma per ospitare i bersaglieri italiani). I lavori veri e propri era previsto cominciassero nell’autunno 2016.

In settembre intanto le forze governative e gli alleati occidentali preparavano un’offensiva per riprendere il controllo della città di Mosul e togliere allo Stato islamico la sua seconda roccaforte in territorio iracheno. Il fronte di guerra è dunque molto vicino alla diga. Nei primi giorni di settembre alla stampa italiana sono arrivate indiscrezioni, da fonti di intelligence, secondo cui lo Stato islamico preparerebbe un attacco su vasta scala contro l’impianto. La notizia, considerata dai più come un «allarme di routine» e in qualche modo ovvio e forse perfino esagerato, ha però fatto riemergere diversi interrogativi sulla missione: è il preludio a un maggiore coinvolgimento dell’Italia nell’offensiva contro lo Stato islamico? Per ora è stato precisato che le truppe italiane non partecipano all’offensiva per la città di Mosul e non hanno altro compito che la difesa del cantiere per salvare la diga. Ma la ministra Pinotti aveva pur detto, in quell’audizione parlamentare, che l’Italia si candida a diventare il secondo contingente militare straniero in Iraq, dietro quello degli Stati Uniti. Sembra proprio che la diga di Mosul ne abbia fornito l’occasione.

L’immagine è di Kamal Chomani.

L'articolo Siria, Iraq: la “terra tra i due fiumi” ha sete proviene da OGzero.

]]>