Dazi su merci Archivi - OGzero https://ogzero.org/temi/politico-economica/dazi-su-merci/ geopolitica etc Tue, 12 Sep 2023 12:18:39 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.4.6 G20: l’Africa non è più nel menu ma ‘partecipa’ al banchetto https://ogzero.org/g20/ Mon, 11 Sep 2023 20:57:23 +0000 https://ogzero.org/?p=11571 Nella foto del G20 di copertina in primo piano ci sono 3 membri fondatori dei Brics… ma da membro dei Brics impegnato su più tavoli Modi agisce da battitore “libero” o da gregario per tirare la volata ad altre potenze per proporsi ancora una volta al continente africano come soci “interessati”? Tutti appaiono concordi sull’estensione […]

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Nella foto del G20 di copertina in primo piano ci sono 3 membri fondatori dei Brics… ma da membro dei Brics impegnato su più tavoli Modi agisce da battitore “libero” o da gregario per tirare la volata ad altre potenze per proporsi ancora una volta al continente africano come soci “interessati”?
Tutti appaiono concordi sull’estensione alla Unione africana della partecipazione a partire dal prossimo G21
brasiliano. Ma come sempre Angelo Ferrari correttamente si chiede cui prodest? e la risposta può non andare questa volta verso una nuova spinta verso gli interessi dei Brics, di cui l’India è un socio tra i più potenti, che hanno già aperto dal canto loro ai mercati africani e, se i russi sono protagonisti in Sahel, centrafrica e gli affari cinesi sono ovunque nell’Africa orientale, è più facile che la porta del G21 possa venire usata più dagli Usa che non dalle potenze asiatiche.
Forse proprio quella Via antiBri in nuce e che vede gli indiani impegnati a riavvicinarsi all’Occidente può trovare nel coinvolgimento del Sud del Mondo un nuovo grimaldello per essere concorrenziale nei vari snodi della Via della seta cinese… ma queste elucubrazioni, ci suggerisce l’africanista Angelo, non considerano il particolare che questa opportunità – nel momento in cui si registrano sommovimenti bollati sbrigativamente come anticoloniali – sarebbe davvero a disposizione di una potenza come l’Unione africana che è un organismo con lo stesso peso dell’Unione europea. Perciò lasciamo spazio ai dati e alle ipotesi di Angelo Ferrari (Agi.it, 11 settembre 2023).  


La proposta indiana

L’Africa si siede al tavolo dei potenti e non è più solo nel menu. L’entrata come membro permanente dell’Unione africana (Ua) nel G20, tra i grandi del mondo, è un segnale molto forte per il continente e una vittoria diplomatica dell’India ma, anche un modo per provare a disinnescare la “mina” dei Brics. Ma non solo: i 55 stati africani hanno un Pil complessivo di 3000 miliardi di dollari e, già dal 2021, hanno dato vita a un’area di libero scambio continentale, con lo scopo di sviluppare gli scambi interafricani tra oltre 1,2 miliardi di persone. Un potenziale enorme. Tuttavia ora, e sarà tutto nelle mani della Unione africana, deve mettere a frutto questo patrimonio che, fino a ora, era solo menzionato nel menu dei vertici internazionali.

Una delle aspirazioni dell’Unione africana, presente nella sua agenda per il 2063, era quella di avere un posto di rilievo nelle relazioni internazionali. La presenza nel G21 va proprio in questa direzione. Ma c’è dell’altro. E cioè che l’Africa ora può lavorare concretamente affinché il continente non sia più considerato un rischio per gli investimenti, ma un’opportunità, in una logica tra pari e non relegato alla subalternità. Ciò permetterà, inoltre, di sviluppare, in un mondo multipolare, strategie usando il dialogo Sud-Sud in maniera tale che le questioni che riguardano lo sviluppo del continente siano considerate prioritarie per e nell’economia globale.

Tutto ciò, inoltre, ha una rilevanza non solo negoziale, ma anche squisitamente economica legata proprio all’Area di libero scambio continentale, dove dovrebbe prevalere la negoziazione multilaterale, cioè tra grandi aree economiche, rispetto a quella bilaterale, ma per fare ciò è necessario che vi sia un interlocutore globale come può essere solo l’Unione africana. Ciò permetterebbe, solo per fare un esempio, all’Unione europea su diversi temi e criticità, di avere un interlocutore unico e, allora, quando vengono evocati piani Marshall per l’Africa, questi non sarebbero più calati dall’alto, ma verrebbero negoziati alla pari con il continente africano.

Hai voluto la bici? adesso vai in fuga, sfuggi alla trappola!

L’istituzione dell’Area di libero scambio africana (Afcfta) potrebbe consentire un aumento di oltre il 50% degli scambi tra i paesi del continente e avrà, anche un effetto significativo sugli scambi tra l’Africa e il resto del mondo con un aumento delle esportazioni del 29% e delle importazioni del 7%, secondo i dati del Fondo monetario internazionale; e ciò può produrre un aumento di “oltre il 10%” del Pil reale medio pro capite.
Il Fondo monetario, tuttavia, sostiene che, perché l’area di libero scambio possa avere un impatto significativo sulle economie, i paesi africani dovranno, necessariamente, mettere in campo una serie di riforme economiche e politiche per sostenere il mercato unico. Non è sufficiente la riduzione delle barriere tariffarie e non tariffarie se questa non si accompagna a un miglioramento del clima imprenditoriale. Senza riforme, secondo il Fondo monetario, l’impatto dell’area di libero scambio africano sarà minore: la semplice riduzione delle barriere, tariffarie o meno, consentirà agli scambi tra i paesi africani di crescere solo del 15%, portando a un aumento dell’1,25% del Pil reale medio pro capite.

Per cogliere tutte le opportunità «sarà necessario investire in capitale fisico e umano, creare un solido quadro macroeconomico e modernizzare il sistema di protezione sociale per sostenere i più vulnerabili durante la fase di transizione».

Una Unione africana protagonista nei consessi internazionali e non più osservatore, può determinare un cambio di passo proprio sullo sviluppo reale del continente.

Non ha caso la decisione presa in India ha avuto il plauso di tutte per le parti coinvolte. Ovviamente, in particolare, dei leader africani: se il Sudafrica era già rappresentato al G20, come Stato unico africano, ciò non ha impedito al suo presidente di accogliere con favore l’ingresso dell’Unione africana.

Cyril Ramaphosa ha sottolineato la necessità di «una cooperazione multilaterale per combattere l’insicurezza alimentare ed energetica». Presente in India anche il comoriano Azali Assoumani, attuale presidente dell’Ua, ha parlato di «culmine di una lotta a lungo termine. È un grande giorno per tutta l’Africa». Il peso massimo del continente, il presidente della Nigeria, Bola Tinubu, ha espresso la sua impazienza di «portare avanti le nostre aspirazioni sulla scena globale utilizzando la piattaforma del G20». Quello del Kenya, William Ruto, dal canto suo, ha parlato di «una sede che permetterà di orientare le decisioni del G20 per garantire la promozione degli interessi del continente». Il senegalese Macky Sall ha enfatizzato “la decisione storica”. Infine, il presidente della Commissione dell’Unione africana, il ciadiano Moussa Faki Mahamat, ritiene che l’integrazione dell’Ua offra ora «un quadro favorevole per amplificare l’advocacy a favore del continente».

I temi sul tavolo sono molti e vanno dai cambiamenti climatici, alla crescita demografica, alla riduzione del debito e della povertà endemica del continente, in una parola: solo “sviluppo”, sia economico, sia politico e sociale – senza dimenticare che si dovrà mettere mano al tema endemico della corruzione – e tutto ciò discutendone da pari con i grandi del mondo. Un cambio di paradigma che l’Unione Africana dovrà gestire al meglio perché questa decisone rappresenti una svolta epocale.

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Paradossi petroliferi africani https://ogzero.org/paradossi-petroliferi-africani/ Mon, 05 Jun 2023 17:17:05 +0000 https://ogzero.org/?p=11181 Il primo provvedimento che Tinubu, subentrato il 29 maggio a Buhari nella guida della Nigeria, ha notificato ai cittadini è stata la cancellazione dei sussidi pubblici sui carburanti, che costano alla Nnpc 810 milioni di euro al mese, ed ecco uno dei paradossi petroliferi africani: i nigeriani dovranno quindi aspettarsi un rincaro dei prezzi dei […]

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Il primo provvedimento che Tinubu, subentrato il 29 maggio a Buhari nella guida della Nigeria, ha notificato ai cittadini è stata la cancellazione dei sussidi pubblici sui carburanti, che costano alla Nnpc 810 milioni di euro al mese, ed ecco uno dei paradossi petroliferi africani: i nigeriani dovranno quindi aspettarsi un rincaro dei prezzi dei trasporti privati e collettivi, e dell’elettricità, spesso ottenuta dai generatori, viste le carenze della rete elettrica: infatti il prezzo calmierato della benzina era uno dei pochi benefici concessi dallo stato. Un precedente tentativo di cancellarli, fatto nel 2012 dal presidente Goodluck Jonathan, aveva scatenato rivolte sanguinose. Angelo Ferrari assimila la situazione innescata ad Abuja alla concomitante, seppur graduale, decisione presa a Luanda di ridurre progressivamente i sussidi sui prodotti petroliferi, proprio a un paio di settimane dal rilancio degli investimenti mondiali (in primis cinesi) sulla produzione e il trasporto del greggio angolano in previsione di una nuova era dello sviluppo energetico.
Lo strapotere dei più grossi produttori di greggio, a elezioni archiviate, mette tra parentesi il bisogno di consenso dei vertici, che si dimostrano espressione delle lobbies degli idrocarburi. Un sistema che innesca il paradosso secondo il quale la Nigeria – e anche l’Angola – reimportano i derivati del petrolio spendendo 10 milioni di dollari al giorno per sostenere Nncp e questo aveva spinto il regime militare di Obasanjo a introdurre il sussidio nel 1977… vedremo come andrà a finire il taglio del paracadute.  


Tempo di far pagare agli africani il rilancio petrolifero

Angola e Nigeria, grandi produttori di petrolio dell’Africa subsahariana, hanno deciso di togliere i sussidi ai carburanti con gravi ripercussioni sull’inflazione e sullo stato generale dell’economia. In Nigeria la decisione ha provocato il caos. Dunque il mandato del nuovo presidente nigeriano, Bola Tinubu, non è iniziato sotto i migliori auspici. Nel discorso di insediamento di lunedì scorso il neopresidente ha annunciato la fine dei sussidi sul carburante e subito è scoppiato il caos. La gente si è accalcata ai distributori di benzina per fare scorte con scene di panico e la conseguenza è stata una sorta di speculazione in piccolo: molti distributori hanno aumentato i prezzi, vista la domanda impazzita, anche del 200% alla pompa. Tinubu, vista la situazione, ha dovuto in qualche modo tornare sui suoi passi: pur non smentendo la fine dei sussidi si è affrettato a dire.

«il panico che si è scatenato in seguito alla comunicazione è inutile, non avrà effetto immediato»,

perché i sussidi non termineranno prima della fine di giugno.

Ma ormai è il caos, anche perché la compagnia petrolifera statale nigeriana, subito dopo, ha reso noto un prossimo aumento del prezzo della benzina. La Nigerian national Petroleum corporation (Nnpc), attraverso una nota ufficiale, spiega che la mossa è in linea con la realtà di mercato:

«I prezzi continueranno a fluttuare per riflettere le dinamiche del mercato».

Il prezzo attuale della benzina è di circa 40 centesimi di euro al litro, e la Nnpc non ha specificato quale sarà il nuovo prezzo né a decorrere da quando, ma secondo i media nigeriani la nuova fascia di prezzo è compresa tra 0,97 euro e 1,19 euro al litro. Un aumento enorme che avrà ripercussioni importanti sull’economia e sull’inflazione – già elevata – nigeriana.
Come era prevedibile, negli ultimi giorni il carburante ha cominciato a scarseggiare e i prezzi sono schizzati con un impatto sul settore della logistica e dei trasporti, costretto a trasferire i costi più elevati sui prezzi di consegna, con un aumento tra il 20% e il 50%. Allo stesso modo i servizi di mobilità come Bolt e Uber sono stati costretti ad adeguare le loro tariffe. I prossimi mesi saranno cruciali per valutare la portata dell’impatto economico a lungo termine.

I paradossi petroliferi

Ma non poteva mancare la ciliegina sulla torta: il parlamento nigeriano ha richiesto un audit forense dopo che in un suo rapporto è stato rilevato che negli ultimi dieci anni sono stati spesi 25 miliardi di dollari per cercare di riparare e ammodernare le fatiscenti raffinerie di petrolio del paese. Nonostante gli enormi costi, il rapporto ha rilevato che queste lavorano a una capacità del 30% inferiore rispetto alle loro potenzialità. La buona notizia, ma solo in parte, è che nel mese di luglio dovrebbe entrare in funzione una raffineria costruita dal noto uomo d’affari nigeriano, Aliko Dangote, l’uomo più ricco della Nigeria.

Ma rimane il paradosso. La Nigeria, uno dei più grandi produttori di petrolio dell’Africa subsahariana, importa l’80% del suo fabbisogno di carburante.

Angola

L’altro grande produttore di petrolio, l’Angola non è da meno. Secondo un rapporto pubblicato l’11 maggio dall’Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio, l’Angola è il primo produttore di greggio dell’Africa, con 1,06 milioni di barili al giorno ad aprile e, tuttavia, è un grande importatore di carburante. In Angola, come in Nigeria, solo la raffineria di Luanda è attualmente operativa, mentre quelle di Lobito, Cabinda e Soyo sono ancora in costruzione.
Ecco dunque che anche il governo angolano ha deciso la graduale rimozione dei sussidi al carburante. Il prezzo della benzina passerà dagli attuali 0,27 dollari a 0,51 dollari al litro, con un aumento dell’87,5%, a partire dal 2 giugno. Mentre i prezzi degli altri derivati dal petrolio, come diesel, l’olio illuminante, rimarranno invariati. Il ministro angolano per il Coordinamento Economico, Manuel Nunes Junior, ha spiegato che la rimozione dei sussidi per il carburante è

«una misura necessaria per promuovere una solida crescita economica in grado di affrontare i gravi problemi del paese».

Secondo il ministro, le spese per i sussidi al carburante ammontavano, nel 2022, a 3,8 miliardi di dollari.
In un documento del ministero delle Finanze si legge che con la completa rimozione dei sussidi – dovrebbe concludersi entro il 2025 – per il gasolio e la benzina, l’Angola manterrà comunque un prezzo del petrolio competitivo all’interno della regione. Il rapporto specifica, inoltre, che i sussidi hanno un impatto negativo sulle finanze pubbliche, generando costi fiscali crescenti e insostenibili nel medio e lungo termine, ostacolando la capacità finanziaria del paese di investire nei servizi di base e nei progetti di sviluppo sociale. Nell’immediato ha l’effetto di far crescere i prezzi dei generi di prima necessità, diminuire il potere di acquisto e impoverire ulteriormente la popolazione. Ma all’Angola, evidentemente, sta molto a cuore l’industria petrolifera che, a detta del ministero delle Finanze, è minacciata proprio dai sussidi che incoraggerebbero il contrabbando di petrolio verso i paesi vicini, con prezzi di oltre il 70% superiori rispetto a quelli dell’Angola.

paradossi petroliferi

Il 2022 si è chiuso con i prezzi di mercato della benzina e del gasolio superiori ai prezzi sovvenzionati in Angola rispettivamente del 202% e del 279%. I sussidi per i carburanti nel 2022 rappresentavano circa il 92% delle spese per la sanità e l’istruzione del paese nello stesso anno. In quel rapporto si legge che potrebbero raggiungere circa il 3,5% del prodotto interno lordo del 2022 e circa il 20% del bilancio generale previsto per il 2023 in Angola.

A causa del «significativo impatto della rimozione dei sussidi per il carburante sull’inflazione e sulla solvibilità delle famiglie» il rapporto propone misure di mitigazione per riassegnare tali sussidi all’energia, ai trasporti pubblici e ai programmi sociali. Staremo a vedere.
Stando ai dati aggiornati alla fine di maggio del sito web Global Petrol Prices, dopo l’aumento del prezzo della benzina in Angola, il paese passerà dal quarto più economico al mondo al decimo in termini di prezzo della benzina.

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Litio, legno e… tamponare l’emorragia africana https://ogzero.org/litio-legno-e-tamponare-lemorragia-africana/ Mon, 16 Jan 2023 12:46:24 +0000 https://ogzero.org/?p=10094 La Svezia ha scoperto l’11 gennaio a Kiruna quello che sembra uno dei più significativi giacimenti di terre rare, valutato in circa un milione di tonnellate di ossidi; sicuramente la più grande miniera europea di metalli strategici per la transizione ecologica e digitale. Ma ci vorranno almeno una dozzina di anni prima che si possa […]

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La Svezia ha scoperto l’11 gennaio a Kiruna quello che sembra uno dei più significativi giacimenti di terre rare, valutato in circa un milione di tonnellate di ossidi; sicuramente la più grande miniera europea di metalli strategici per la transizione ecologica e digitale. Ma ci vorranno almeno una dozzina di anni prima che si possa procedere all’estrazione. Quindi è necessario nel frattempo approvvigionarsi altrove, magari continuando a saccheggiare l’Africa.
Il 21 dicembre 2022 il governo di Harare ha adottato il decreto “Base Minerals Export Control” forse con l’obiettivo di imporre restrizioni all’esportazione del litio grezzo; apparentemente è una disposizione volta a imporre alle potenze straniere – in un momento di estremo bisogno di materia prima – di impiantare stabilimenti di lavorazione in territorio africano, prima di portarlo in Occidente. Specifichiamo i porti di destinazione, perché una nota di Reuters, ripresa da “GreenReport” ha segnalato la deroga nei confronti di tre importanti compagnie minerarie cinesi che hanno investito 678 milioni di dollari nel 2022.

E poi c’è l’emorragia del contrabbando da cui ha preso le mosse questo informatissimo articolo di Angelo Ferrari, che in un unico flusso di minerali con numero atomico compreso tra 51 e 71 lega nel discorso l’intera Africa australe, ma poi assumendo come criterio i meccanismi di saccheggio del continente raggiunge il mercato dell’ammoniaca autoctona del Maghreb, attraverso il legno grezzo rapinato dai cinesi al Congo. In questo Angelo è affiancato da Massimo Zaurrini nel breve podcast inserito dove, partendo dalla travagliata regione in cui il 15 gennaio le bombe hanno risvegliato per un giorno le coscienze mondiali, si legano facilmente scontri, tensioni e milizie agli interessi minerari.

OGzero


Le arterie pulsanti dell’Africa

Lo Zimbabwe ha vietato l’esportazione del litio grezzo. Un materiale preziosissimo utilizzato per la fabbricazione delle batterie. Senza il litio è impossibile pensare a un futuro di energie rinnovabili e per l’auto elettrica su vasta scala. La decisione dello Zimbabwe può essere storica e diventare punto di riferimento anche per altri paesi africani ricchi di materie prime e terre rare. Il paese dell’Africa australe intende avviare con questa decisione una propria industria di trasformazione.
Le materie prime vengono esportate grezze per poi essere trasformate altrove. Inoltre la decisione dello Zimbabwe vuole mettere un freno ai minatori “artigianali” che lo estraggono più o meno illegalmente e poi lo esportano all’estero. Secondo le stime fatte dal governo tutto ciò costa 1,7 miliardi di mancati guadagni a causa del contrabbando in Sudafrica e negli Emirati Arabi Uniti. A trarne maggiore beneficio, dunque, sono le multinazionali del settore e in particolare quelle cinesi che ne hanno praticamente il monopolio. Se questa scommessa avrà successo, molti consigli di amministrazione delle multinazionali non dormono sonni tranquilli, ma soprattutto i governi africani potranno cominciare a pensare a uno sviluppo dell’industria mineraria non più sbilanciata verso l’esterno, tesa piuttosto ad avviare processi di trasformazione nei paesi di estrazione.

I preziosi dello Zimbabwe: oro, diamanti e… litio

Per Harare il litio è una risorsa enorme: lo Zimbabwe è il terzo produttore africano e detiene le più grandi riserve di minerale del continente che, nei calcoli del governo, dovrebbero essere sufficienti per soddisfare un quinto del fabbisogno mondiale. Il paese poi si spinge ancora più in là: gli operatori minerari che operano nel paese dovranno pagare alcune delle royalties in metallo raffinato anziché in denaro contante. È lo stesso presidente dello Zimbabwe, Emmerson Mnangagwa, ad annunciarlo attraverso un articolo pubblicato del “Sunday Mail”; il paese, infatti, ha abbondanti riserve di minerali come l’oro e i metalli del gruppo del platino (Pgm), ma i problemi di approvvigionamento energetico, la mancanza di industrie ausiliarie per supportare l’estrazione mineraria e le fluttuazioni valutarie rendono complicato tranne profitto dal boom del mercato. L’iniziativa, dunque, riguarda quattro principali minerali estratti nel paese: oro, diamanti, Pgm e litio.
L’obiettivo è quello di costruire una riserva nazionale di metalli preziosi e “riserve critiche” a beneficio della popolazione attuale e delle generazioni future. Il presidente scrive così sul “Sunday Mail”:

«Non possiamo, come governo attuale e come generazione attuale, gestire risorse limitate in modo dissoluto, senza alcun riguardo per le generazioni a venire».

Se tutto ciò diventerà realtà, potrà rappresentare un cambio di paradigma per l’intero continente. Quindi le compagnie che operano nel settore, come le sudafricane Impala Platinum e Anglo American Platinum, dovranno adeguarsi così come quelle cinesi che hanno il monopolio del litio.
Le restrizioni imposte dallo Zimbabwe non riguarderanno, con molta probabilità, le miniere a livello industriale perché dovrebbero esportare solo materiale trattato, un “concentrato di litio”. Miniere, però, che sono ancora in fase di realizzazione, dato che l’unica importante produttrice di litio è quella di Bikita.

E la Namibia apre all’UE: uranio, diamanti e… litio

Sono anche altri i paesi, sempre rimanendo nell’Africa australe, che stanno lanciando timidi segnali di volersi svincolare dallo sfruttamento selvaggio delle risorse. La Namibia ha infatti interrotto le operazioni di esplorazione dell’uranio affidate dal 2019 a One Uranium, sussidiaria dell’agenzia statale russa per l’energia atomica Rosatom, dicendosi preoccupata per la potenziale contaminazione delle acque sotterranee. La One Uranium, infatti, non è riuscita a dimostrare che il suo metodo estrattivo non causa inquinamento.

La Namibia poi ha ambizioni anche in altri settori minerari; l’Europa sta cercando partner per lo sfruttamento delle terre rare in Africa, finora detenuto dalla Cina. In questo quadro si inserisce l’accordo concluso tra la Namibia e l’Unione europea per la vendita delle terre rare, minerali essenziali per lo sviluppo del settore delle energie rinnovabili come le turbine eoliche e le batterie delle auto elettriche. Windhoek, capitale della Namibia, sta sviluppando con la canadese NCM un progetto per lo sfruttamento e la trasformazione del disprosio e del terbio. Più in generale, il paese dell’Africa meridionale intende posizionarsi come attore globale nella transizione verso le energie verdi.
Mentre la Cina detiene il monopolio virtuale della produzione di terre rare nel mondo, molti paesi sono alla ricerca di alternative (e la Svezia ha annunciato l’11 gennaio la scoperta di imponenti giacimenti di terre rare, ma non in tempi brevi). Per gli europei il progetto Lofdal, attualmente in fase di sviluppo da parte di un’azienda canadese, rappresenta un serio vantaggio. La miniera potrebbe produrre negli anni a venire più di cento tonnellate di disprosio e 17 tonnellate di terbio, due metalli usati nei magneti per le turbine eoliche e le batterie delle auto. La concorrenza in questo settore è molto forte: infatti anche il Giappone è in corsa per acquisire parte della produzione.
Windhoek desidera che la lavorazione industriale avvenga in loco e vede nello sviluppo di questa miniera un’opportunità per diversificare un settore minerario che sta guadagnando slancio.
Oltre ai diamanti e all’uranio, già operativi, il paese si sta posizionando anche come attore nel mercato del litio. Più in generale, la Namibia spera di diventare un hub per fornire idrogeno verde privo di emissioni di carbonio all’Europa. Un grande progetto misto, eolico e solare, mira a produrre idrogeno verde che verrebbe poi esportato in Europa. La Germania ha collaborato con diversi paesi africani per sviluppare un atlante del potenziale idrogeno e stanziato 45,7 milioni di dollari per la Strategia nazionale di sviluppo dell’idrogeno verde proprio in Namibia. L’idrogeno verde, secondo gli esperti giocherà un ruolo cruciale nella futura economia europea decarbonizzata.

Infrastrutture, il problema di fondo

Ma tutto dipenderà dalle infrastrutture che verranno realizzate per il trasporto. Questo è uno dei nodi. Anche per questo l’Europa sta cercando di sviluppare partenariati con i paesi della costa sud del Mediterraneo, in particolare il Marocco e in seconda battuta la Tunisia. Inoltre qualsiasi strategia per sviluppare le esportazioni di idrogeno – come scrive Massimo Zaurrini su “Africa e Affari” – dovrà tenere conto dell’uso interno africano e delle ambizioni di politica industriale di importanti attori del continente.

“Terre rare nella polveriera Africa”.

Fertilizzanti, ammoniaca e tecnologie dell’idrogeno

Il Marocco, uno dei principali esportatori di fertilizzanti, prevede di sostituire le importazioni di ammoniaca convenzionale (utilizzata per la preparazione di questi prodotti) con ammoniaca verde nazionale, grazie a un progetto che dovrebbe vedere la luce a breve che immagina, appunto, l’impiego di idrogeno pulito anziché a base di idrocarburi. Analogamente, l’Egitto sta investendo in un impianto per la produzione di un milione di tonnellate di ammoniaca verde all’anno. Il Sudafrica ha lanciato una strategia finalizzata non solo alla produzione di idrogeno, ma anche alla produzione nazionale di tecnologie e prodotti legati all’idrogeno.

L’inutile sacrificio di ettari di legno congolese

Sull’Africa, dunque, aleggia una nuova aria? Forse, ma le regole si possono aggirare con facilità. In Congo Brazzaville, per esempio, è vietata l’esportazione dei tronchi interi, ma solo di prodotti semilavorati, proprio per favorire l’industria locale. Un’iniziativa che, però, non ha avuto grande successo, o l’ha avuto solo in parte, perché le aziende cinesi del settore che operano nel paese, sono riuscite ad aggirare il divieto attraverso “oculate strategie di convincimento” delle autorità. In una parola: corruzione. Dal porto di Pointe Noire, sull’oceano Atlantico, continuano a partire i tronchi interi e non i semilavorati. La Cina sia nella Repubblica del Congo sia in Gabon – insieme rappresentano circa il 60% dell’area del Bacino del Congo – taglia in maniera indiscriminata e, soprattutto, importa legno grezzo, non i semilavorati come vorrebbero le regole. Tutto ciò oltre a distruggere milioni di ettari di foreste, non porta alcun beneficio alla popolazione, perché viene saltato un passaggio fondamentale, quello che crea lavoro, perché i semilavorati vanno elaborati nei paesi produttori. Dopo quattro anni di investigazioni sotto copertura, terminate nel 2019, la ong britannica, Environmental Investigation Agency (Eia), ha evidenziato come il legname africano tagliato illegalmente sia stato poi trasformato in prodotti che venivano venduti come “eco-frendly” negli Stati Uniti.

Fatta la legge, trovato l’inganno

Tutto ciò è imputabile a un gruppo cinese, il Djia Group che controlla oltre 1,5 milioni di ettari di foresta del Gabon e della Repubblica del Congo. Ettari di foresta ottenuti attraverso pratiche corruttive. Il gruppo cinese, attraverso queste elargizioni di denaro, ha potuto sovrasfruttare le concessioni, esportando tronchi interi, per un valore di 80 milioni di dollari in violazione della legge nazionale in un periodo di quattro anni e avrebbe eluso le tasse per diversi milioni di dollari in ogni anno di attività. Quei tronchi “illegali”, poi, potrebbero essere finiti anche in Europa, attraverso i semilavorati, visto che la Cina è il maggior fornitore di legno dell’Europa. Insomma, la morale è: una volta fatta la legge si può comodamente aggirarla proprio grazie agli stessi legislatori a cui sono state “regalate” valigette stracolme di denaro.

Il solito serbatoio che non diventa mercato

Per tornare allo Zimbabwe, il governo di Harare, con le restrizioni che ha imposto, intende favorire aziende locali per la trasformazione in loco del minerale così che possa essere utilizzato direttamente dall’industria dei veicoli elettrici. Per decenni, infatti, così come altri stati africani ricchi di minerali e risorse naturali, lo Zimbabwe ha permesso che le sue risorse fossero estratte dalle multinazionali, senza sviluppare industrie locali che potessero lavorarle e creare posti di lavoro dignitosi. Vedremo se questa iniziativa avrà il successo sperato o non si troverà il modo, anche qui, di aggirare i divieti e le restrizioni.

L’Africa, più in generale, risulta essere un grande serbatoio di risorse energetiche ma non ancora un mercato “interessante” per chi vende energia. Gli investimenti in infrastrutture non sono ancora adeguati e molta parte del continente rimane al buio. Ecco perché occorre trovare un bilanciamento: il continente è caratterizzato da un’ampia disponibilità di risorse minerarie, ma anche di potenziali risorse verdi, idroelettrico per i grandi fiumi, fotovoltaico nelle ampie zone desertiche, eolico e anche geotermico. Se ben valorizzata politicamente, la grande disponibilità di risorse rinnovabili può mitigare la competizione tra l’esigenza di vendere energia e quella di usarla per il proprio sviluppo. È una strada da percorrere; il divario di competenze tecniche tra occidente e paesi africani sta diventando progressivamente meno esclusivo. Per queste ragioni i paesi africani, come sta cercando di fare la Namibia, cercheranno dei partner con cui stabilire un rapporto più equo.

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Competizione africana tra Usa e Cina sul litio https://ogzero.org/competizione-africana-tra-usa-e-cina-sul-litio/ Sat, 07 Jan 2023 12:23:14 +0000 https://ogzero.org/?p=10014 Competizione africana tra Usa e Cina sul litio La corsa al litio nascosto nel suolo delle nazioni-minerarie africane prosegue, nonostante alcuni governi cerchino di “proteggere” l’emorragia di terre rare; certi giacimenti sono già controllati e di proprietà cinese. Forse su imbeccata americana, oppure invece solo innescando meccanismi di confronto tra poteri interni ai paesi, si […]

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Competizione africana tra Usa e Cina sul litio

La corsa al litio nascosto nel suolo delle nazioni-minerarie africane prosegue, nonostante alcuni governi cerchino di “proteggere” l’emorragia di terre rare; certi giacimenti sono già controllati e di proprietà cinese. Forse su imbeccata americana, oppure invece solo innescando meccanismi di confronto tra poteri interni ai paesi, si è operato in modo da imbrigliare l’esportazione per aggirare il monopolio che stavano costituendo i possedimenti stranieri dei minerali più ricercati. Una corsa che ha accelerato negli ultimi mesi la sua corsa, perché indispensabili nelle lavorazioni delle nuove tecnologie e dei prodotti collegati al superamento dell’energia fossile. Da un lato il bell’articolo che Marco dell’Aguzzo ha scritto per “StartMag” il 2 gennaio si sofferma sull’episodio dell’export ban del litio adottato dal governo dello Zimbabwe, con la anodina e conseguente decisione di Pechino di aprire raffinerie di litio in loco (ma episodi di precedenti cantieri lasciano immaginare che anche le maestranze saranno importate), anche se si ha notizia di una deroga al bando delle esportazioni nel caso di investimenti annosi – e dunque le miniere cinesi risulterebbero in gran parte esentate; dall’altro Giuseppe Gagliano il 6 gennaio ha ripreso l’argomento sempre su “StartMag”, approfondendo gli aspetti collegati al boom della richiesta di litio che ha fatto lievitare i prezzi di 10 volte in 2 anni, con gli episodi di corruzione (in particolare in Namibia) che hanno interessato i governi di quel paese. Abbiamo chiesto di riprendere i due articoli (le immagini non appartengono agli articoli originali) perché completano il quadro che OGzero ha realizzato nel dossier sulle armi da cui sta prendendo forma un libro dedicato al traffico nel 2022 come paradigma delle modalità dello spaccio di armi, mettendo in relazione quale compra-vendita di macchinari bellici si può riscontrare a fronte del frenetico estrattivismo in terra africana innescato dalla guerra in Ucraina e dalla conseguente diversificazione energetica.

 


2 gennaio 2023,

di Marco dell’Aguzzo

Export ban del litio in Zimbabwe

Il 20 dicembre il ministro delle Miniere dello Zimbabwe, nell’Africa meridionale, ha annunciato un divieto di esportazione di litio grezzo, un metallo utilizzato per le batterie dei veicoli elettrici.
Le esportazioni di minerali valgono circa il 60 per cento delle entrate zimbabwesi legate alle esportazioni; il settore minerario, invece, contribuisce al prodotto interno lordo per il 16 per cento.

Harare punta a sfruttare le materie prime di cui dispone per stimolare la crescita, sul territorio nazionale, di una filiera industriale completa, che non si limiti cioè all’estrazione del litio ma comprenda anche la sua raffinazione e la produzione di batterie, le due attività a maggior valore aggiunto.
Lo Zimbabwe possiede i depositi di litio più grandi di tutta l’Africa. La miniera di Bikita, la più importante del paese, contiene riserve per 10,8 milioni di tonnellate.

Dopo che lo Zimbabwe ha comunicato la decisione le aziende cinesi che hanno investito nella nazione dovranno costruirvi anche degli impianti di raffinazione del materiale.

La miniera di litio di Bikita, in Zimbabwe.

Quali sono gli interessi coinvolti?

È uno sviluppo rilevante, perché il litio è un metallo critico per la transizione energetica, essendo fondamentale per la produzione delle batterie dei veicoli elettrici. Lo Zimbabwe ne è il sesto maggiore produttore al mondo, e si pensa che possieda i depositi inesplorati più grandi di tutta l’Africa. La Cina, invece, vale da sola circa il 60 per cento della capacità di raffinazione globale.

Gli intenti dello Zimbabwe (e altre nazioni)

Attraverso il ban all’esportazione del litio grezzo, lo Zimbabwe punta a sfruttare le materie prime di cui dispone per stimolare la crescita sul proprio territorio di una filiera industriale completa: ossia di una supply chain che non si limiti all’estrazione del metallo, ma comprenda anche la sua raffinazione e la produzione di batterie, le due attività a maggior valore aggiunto.

La mossa dello Zimbabwe non è unica: anche l’Indonesia ha fatto grossomodo la stessa cosa, e con gli stessi obiettivi, con l’esportazione di nichel (un altro metallo critico per le batterie) e più recentemente di allumina (un minerale necessario alla produzione di acciaio). È un approccio che i critici hanno definito “nazionalismo delle risorse”.

Cosa comporta per gli interessi cinesi…

Le aziende cinesi che operano nell’industria zimbabwese del litio, e che in passato hanno effettuato acquisizioni di asset dal valore complessivo di miliardi di dollari, hanno due opzioni per continuare a esportare il metallo: aprire degli stabilimenti di raffinazione nel paese, oppure ottenere dal governo l’autorizzazione all’export della materia grezza per casi eccezionali.

 «L’apertura di raffinerie in Zimbabwe avrà un costo di centinaia di milioni di dollari e richiederà un periodo di due-tre anni tra costruzione e messa in servizio» (Chris Berry, presidente della società di consulenza sulle commodities House Mountain Partners, al quotidiano cinese “South China Morning Post).

… e per i prezzi…

Berry ha aggiunto che se altri paesi dovessero seguire l’esempio dello Zimbabwe, i prezzi del litio e degli altri metalli per la transizione energetica, come il cobalto, potrebbero aumentare. Negli ultimi due anni quelli del litio sono già cresciuti di circa il 1100 per cento a causa dello squilibrio tra offerta e domanda. In Cina (il mercato delle auto elettriche più grande al mondo) il prezzo spot del carbonato di litio ha raggiunto il valore record di 84.000 dollari a tonnellata lo scorso novembre.

… e per i mercati

Secondo Lauren Johnston, che si occupa dei rapporti tra Cina e Africa all’Istituto sudafricano di affari internazionali, «se un numero maggiore di paesi africani vieterà l’esportazione di minerali chiave per l’energia rinnovabili, ma non sono ancora pronti per lavorarli in patria a causa di problemi di governance, infrastrutture, energia e manodopera, questo potrebbe ostacolare lo sviluppo delle rinnovabili a livello globale».

La reazione cinese

L’anno scorso tre società estrattive cinesi – Huayou Cobalt, Sinomine e Chengxin Lithium – hanno acquisito progetti sul litio in Zimbabwe per un valore complessivo di 679 milioni di dollari. Due di queste – ossia Huayou Cobalt e Chengxin Lithium – stanno già lavorando allo sviluppo di stabilimenti di lavorazione, e dunque verranno esentate dal divieto di esportazione.

Huayou Cobalt, in particolare, ha acquisito la miniera di Arcadia, dove si estrae litio dalle rocce, dall’azienda australiana Prospect Resources per 422 milioni di dollari. Il governo zimbabwese aveva imposto a Huayou Cobalt la condizione che il minerale estratto dovesse venire lavorato nel paese per produrre batterie.

A settembre la compagnia cinese aveva detto al “South China Morning Post” che stava investendo 300 milioni nello sviluppo del sito, con l’obiettivo di aumentare la produzione di materiali per l’industria dell’auto elettrica. Aveva inoltre assicurato che non avrebbe esportato litio grezzo.

Chengxin Lithium, invece, ha speso 77 milioni per l’acquisizione dei diritti minerari nel progetto Sabi Star, nello Zimbabwe orientale, che contiene giacimenti di litio e di tantalio (un metallo utilizzato nella produzione di componentistica elettronica) perlopiù inesplorati. Ha destinato 130 milioni all’apertura di una raffineria di litio.

La Competizione USA-Cina sui metalli africani

A dicembre gli Stati Uniti hanno siglato un memorandum d’intesa con la Repubblica democratica del Congo e con lo Zambia per lo sviluppo di una “catena del valore dei veicoli elettrici”: i due paesi ospitano importanti giacimenti importanti di cobalto.

In occasione della firma del documento, il segretario di Stato Antony Blinken disse che Washington «esplorerà meccanismi di finanziamento e di sostegno agli investimenti nelle catene del valore africane dei veicoli elettrici».

Le aziende cinesi possiedono gran parte delle miniere di cobalto in Congo, che vale oltre il 70 per cento della produzione mondiale di questo metallo. Gli Stati Uniti, dunque, potrebbero voler cercare di contrastare l’enorme influenza di Pechino sul mercato delle materie prime per la transizione energetica.

Il Kivu: un non-luogo


Perché il prezzo del litio schizza in alto

6 gennaio 2023,

di Giuseppe Gagliano

L’aumento della domanda di litio manterrà alti i prezzi

Il prezzo del litio, ingrediente chiave nelle batterie dei veicoli elettrici, è salito del 1000% dal 2020 a 82.000 dollari per tonnellata a dicembre. L’aumento della domanda, man mano che la produzione di veicoli elettrici si espande, manterrà i prezzi alti.

Ci sarà carenza di litio?

Gli esperti del settore prevedono una carenza mentre le aziende occidentali e cinesi combattono con le unghie e con i denti per avere più risorse. Alla conferenza annuale Mines and Money a Londra il 29 novembre è stata sottolineata la necessità di dare priorità ai collegamenti della catena di approvvigionamento ai nuovi depositi più lo sviluppo della capacità produttiva intermedia.

Altrimenti, hanno avvertito gli esperti, la desiderata transizione energetica verde di molti paesi verso il trasporto a emissioni zero non sarebbe realizzabile entro il 2030.

Il ruolo della Cina e della Namibia

Mentre la Cina domina la produzione di batterie agli ioni di litio utilizzate nei veicoli elettrici, per le quali è il mercato più grande, rappresenta solo una piccola quantità di produzione mineraria di litio.

Infatti la Namibia e gli altri paesi africani con risorse di litio finora non sfruttate e altri “metalli per le batterie” – tra cui cobalto, grafite e nichel – sono stati presi di mira da aziende occidentali e cinesi alla disperata ricerca di nuove fonti di approvvigionamento.

Ad esempio la Lepidico australiana sta sviluppando una miniera di litio da 63 milioni di dollari e un impianto di lavorazione nei vecchi giacimenti di Helikon e Rubikon vicino a Karibib nella regione centrale di Erongo;

l’impianto in loco realizzerà concentrato per l’esportazione in un nuovo impianto di conversione chimica di 203 milioni di dollari ad Abu Dhabi. L’azienda prevede un tasso di rendimento interno annuo del 42% in 15 anni.

La Namibia indaga sulla Cina

Nel frattempo, le autorità namibiane stanno indagando sulle circostanze in cui un’azienda cinese finora sconosciuta, Xinfeng Investments, è riuscita ad acquisire una licenza al litio. La Commissione anticorruzione indipendente sta indagando sulle accuse secondo cui i funzionari del ministero delle Miniere e dell’energia (MME) hanno impropriamente facilitato l’acquisizione da parte di 50 milioni di dollari della Namibia (2,3 milioni di dollari) da parte di Xinfeng dei diritti di esplorazione e esportazione del litio vicino a Omaruru nel nord-ovest di Erongo.

Ad agosto all’azienda cinese è stata concessa una licenza mineraria fino al 2042 per metalli di base e gli addetti ai lavori affermano che i funzionari MME sono ampiamente sospettati di utilizzare i loro parenti e associati per richiedere diritti di esplorazione in aree con depositi minerari di alto valore, specialmente quando c’è interesse da parte di investitori cinesi e altri investitori stranieri.

Nel frattempo, Xinfeng ha attirato polemiche tentando presumibilmente di esportare grandi volumi di minerale di litio – tra 54.000 e 135.000 tonnellate – come “campioni di prova” in Cina senza test locali o elaborazione di prova.

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Il dazio dell’inondazione pakistana sulle tavole africane https://ogzero.org/il-dazio-dellinondazione-pakistana-sulle-tavole-africane/ Thu, 29 Sep 2022 13:56:07 +0000 https://ogzero.org/?p=9038 Cotone e riso sono stati spazzati via con conseguenze globali, Rispetto alle alluvioni del 2010, i danni di quest’anno sono 4 volte superiori. Con 50 milioni di persone colpite e più di 1100 uccise, circa il 90% dei terreni agricoli è stato spazzato via, colpendo le principali produzioni agricole del Pakistan: cotone e riso. Essendo […]

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Cotone e riso sono stati spazzati via con conseguenze globali, Rispetto alle alluvioni del 2010, i danni di quest’anno sono 4 volte superiori. Con 50 milioni di persone colpite e più di 1100 uccise, circa il 90% dei terreni agricoli è stato spazzato via, colpendo le principali produzioni agricole del Pakistan: cotone e riso. Essendo il paese il quinto produttore di cotone e il quarto di riso, l’impatto di questa perdita sarà sicuramente globale.
Di qui prendeva spunto l’articolo che abbiamo pubblicato di Masha Hassan sull’inondazione pakistana; l’autrice del pezzo ha poi approfondito gli addentellati collegati alla filiera del cotone, più che quella del riso, seguita invece dall’attenzione di Angelo Ferrari (già in luglio un suo intervento lanciava l’allarme alimentare, prima della guerra in Ucraina e dei disastri climatici) per le ripercussioni sull’alimentazione dell’Africa, riproponiamo qui il pezzo ripreso da “AfricaRivista” per completare l’analisi del cataclisma poco seguito dai media occidentali miopi di fronte alle conseguenze del cambiamento climatico subito nei disastri dal Sud del Mondo, ma prodotto soprattutto dal mondo industrializzato.


Secondo gli analisti molti governi dovranno far fronte all’aumento dei prezzi di mercato del riso, un alimento base per gli africani, dovuto alle catastrofi naturali che stanno colpendo l’Asia e alle nuove strette sulle esportazioni imposte da India, Vietnam e Thailandia.

L’Africa non ha pace. La sicurezza è messa a rischio dall’aumento dei prezzi delle materie prime e ora potrebbe aggravarsi ulteriormente per le inondazioni che hanno investito il Pakistan. Il continente africano deve far fronte all’aumento dei prezzi del grano e del mais a causa della guerra in Ucraina, ma, secondo molti analisti economici, dovrà far fronte anche all’aumento dei prezzi di mercato del riso, un alimento base per gli africani, a causa delle inondazioni che hanno investito il Pakistan e alla decisione dell’India di limitare le sue esportazioni.

L’accaparramento asiatico

L’India ha vietato le esportazioni di riso spezzato (frammenti di chicchi rotti) dopo l’inondazione e ha imposto un dazio del 20% sulle esportazioni di riso di qualità superiore. Con questa misura, il più grande esportatore mondiale cerca di abbassare i prezzi a livello locale, dopo che le piogge monsoniche sono state inferiori alla media. Le esportazioni potrebbero, grazie a questa misura, crollare del 25% nei prossimi mesi.

«Tutti i cereali sono aumentati, tranne il riso, ma ora si unirà a questa tendenza», ha spiegato Himanshu Agarwal, direttore di Satyam Balajee – il principale esportatore di riso indiano – sentito dalla Reuters.

Contemporaneamente Thailandia e Vietnam hanno deciso di aumentare i prezzi per remunerare meglio i loro agricoltori. Secondo Phin Zinell, economista alimentare presso la National Australia Bank, ci «saranno tensioni significative sulla sicurezza alimentare in molti paesi». E a farne maggiormente le spese, sarà l’Africa, tanto più che la situazione in Pakistan di fronte alle alluvioni che lo hanno investito potrebbe pesare sui prezzi mondiali.

«Il Pakistan è un grande esportatore di riso, ma un terzo del paese è sott’acqua e quindi il rischio, a lungo termine, è un aumento del prezzo del riso sul mercato internazionale», ha spiegato Nicolas Bricas, titolare della Cattedra mondiale dell’alimentazione dell’Unesco, sentito da France24.

Un altro fattore rischia di aggravare ulteriormente la situazione: la forte domanda cinese di rotture di riso per sostituire il mais, diventato troppo costoso per nutrire il bestiame, ha provocato un innalzamento dei prezzi.

Il fabbisogno africano

Tutto ciò, evidentemente, rappresenta una brutta notizia sul fronte della sicurezza alimentare nell’Africa subsahariana, che dipende in larga misura dalle importazioni di cereali bianchi dall’Asia. L’Africa, quest’anno, potrebbe assorbire il 40% del commercio mondiale di riso, ovvero 20 milioni di tonnellate, un vero e proprio record.

La dipendenza dalle importazioni di riso è cronica e durerà nel tempo, anche perché la produzione locale non è in grado di seguire la curva dei bisogni che cresce con la crescita demografica urbana. In Africa il riso è l’alimento preferito dagli abitanti delle città perché è un prodotto pronto all’uso a differenza dei tradizionali cereali, come il miglio e il sorgo, che hanno bisogni di una preparazione.

Se la sicurezza alimentare in Africa subsahariana non si base esclusivamente sul riso, come in altri continenti, questo rimane il secondo cereale più consumato dopo il mais. Un’impennata dei prezzi rappresenterebbe un nuovo colpo per le popolazioni africane, già indebolite dai prezzi dei generi di prima necessità, soprattutto quelli agricoli. La situazione è particolarmente critica nel Corno d’Africa, che sta attraversando una siccità mai vista negli ultimi quarant’anni. Secondo le Nazioni Unite, dall’Etiopia meridionale al Kenya settentrionale fino alla Somalia, 36 milioni di persone sono a rischio fame.

«Con l’aggravarsi della situazione della sicurezza alimentare in Etiopia, siamo particolarmente preoccupati per l’impatto che sta avendo su donne e ragazze. Anche se CARE è intervenuta tempestivamente con distribuzioni di cibo per alcune comunità colpite, oltre che con interventi nel settore agricolo, trasferimenti di denaro, salute e nutrizione e WASH, il bisogno insoddisfatto rimane sconcertante».

L’aumento del prezzo del riso è, dunque, atteso, ma secondo molti analisti dovrebbe rimanere contenuto e di breve durata. Di sicuro è un azzardo, anche se il raccolto dei principali paesi produttori ed esportatori – India, Thailandia e Vietnam – inizierà tra poche settimane. Questo riso dovrà andare ad aggiungersi alle scorte, già al massimo, e quindi dovrebbe spingere questi paesi a vendere il vecchio raccolto, allentando la pressione sul mercato. Ma bisognerà capire se i maggiori esportatori di riso applicheranno misure di protezionismo del proprio mercato interno.

Di sicuro gli effetti maggiori si vedranno nei primi mesi dell’anno prossimo. Occorre ricordare, infine, che il Pakistan esporta 4 milioni di tonnellate di riso all’anno, contro i 21 milioni dell’India. La domanda è: il mercato sarà in grado di resistere allo shock anche se il Pakistan, come è prevedibile, limiterà le sue esportazioni e l’India manterrà i dazi e il tetto alle esportazioni di riso?

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Risorse e rotte artiche in tempo di guerra https://ogzero.org/risorse-e-rotte-artiche-in-tempo-di-guerra/ Sun, 01 May 2022 21:58:15 +0000 https://ogzero.org/?p=7227 L’inviato speciale Ue per l’Artico, Michael Mann ha commentato il 30 aprile 2022 le decisioni del Consiglio artico rispetto alla collaborazione con la Russia, ritenendo che nonostante le tensioni, «grazie ai fondi europei l’Artico può diventare un laboratorio di sviluppo di tecnologie e risorse sostenibili con cui vincere la sfida della crisi energetica», però un […]

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L’inviato speciale Ue per l’Artico, Michael Mann ha commentato il 30 aprile 2022 le decisioni del Consiglio artico rispetto alla collaborazione con la Russia, ritenendo che nonostante le tensioni, «grazie ai fondi europei l’Artico può diventare un laboratorio di sviluppo di tecnologie e risorse sostenibili con cui vincere la sfida della crisi energetica», però un sempre maggior numero di navi russe navigano nell’Artico.

L’importanza delle risorse artiche a cui il riscaldamento globale consente di accedere (per le tecnologie e per la transizione energetica – che ridurrebbe la capacità di ricatto russo) e lo scontro per la Northern Sea Route che si va liberando dai ghiacci e che Mosca intende controllare considerandola parte integrante del proprio territorio, producono anche nel Grande Nord ribaltamenti geopolitici e costringono a trovare soluzioni alternative alla cooperazione sostenibile finora perseguita tra le potenze mondiali. Ciò che è destinato a patire di questa contingenza è l’ambiente, l’accesso a energia sostenibile… e gli interessi cinesi. Alessandra Colarizi fornisce qualche elemento per comprendere quali fossero i progetti e la pianificazione di Pechino riguardo al Mar Glaciale Artico e cosa ne rimane dopo la crisi ucraina.


L’“amicizia senza limiti” e le forniture di gas russo. È quanto le cronache internazionali ricordano dell’ultimo – ormai storico – incontro tra Vladimir Putin e il presidente cinese Xi Jinping. Ma, durante quelle ore trascorse insieme a ridisegnare l’ordine internazionale, i due leader si sono soffermati su un’altra questione centrale tanto per la stabilità energetica mondiale, quanto per i futuri assetti geostrategici: la necessità di promuovere una Cooperazione sostenibile e pratica nell’Artico, come recita il motto della presidenza moscovita iniziata nel maggio 2021.

L’estremo Nord rappresenta, insieme all’Asia centrale, lo scacchiere regionale in cui i due giganti collaborano più attivamente. È anche una delle aree più colpite dal colpo di coda della crisi ucraina. Compiendo un passo decisivo, il 24 marzo 2022 i membri del Consiglio Artico (Canada, Danimarca, Finlandia, Islanda, Norvegia, Svezia e Stati Uniti) hanno sospeso tutti i colloqui con Mosca. Non una cosa di poco conto: la Russia controlla oltre metà della costa bagnata dall’Oceano Artico ed è al centro delle principali iniziative multilaterali, dalla ricerca scientifica allo sviluppo economico passando per la collaborazione militare. Ora la sua estromissione rischia di paralizzare il funzionamento della principale organizzazione regionale.
Per Pechino, non è una buona notizia.

La Cina un “paese quasi artico”

Geograficamente parlando un outsider, la Cina si definisce un “paese quasi artico”.  Dal 2013 è membro osservatore del Consiglio (paradossalmente, dal punto di vista geografico, lo è anche l’Italia). Ma frequenta la zona addirittura dal 1925, ovvero da quando siglò il trattato delle Svalbard che disciplina le attività commerciali nelle isole a metà strada tra la Norvegia e il Polo Nord. Il perché è spiegato nel libro bianco sull’Artide pubblicato dal governo cinese quattro anni fa (dove si dispiega l’Operazione Dragone Bianco): nonostante la distanza, le «condizioni naturali dell’Artico e i loro cambiamenti hanno un impatto diretto sul sistema climatico e sull’ambiente ecologico della Cina e, a loro volta, sui suoi interessi economici nell’agricoltura, la silvicoltura, la pesca, l’industria marina e altri settori».

Non è quindi solo un fenomeno di interesse scientifico. ll riscaldamento ambientale sta causando un progressivo scioglimento dei ghiacci, rendendo sempre più navigabili acque un tempo impercorribili. Proprio alla creazione di nuove rotte commerciali tra l’Asia orientale, l’Europa e il Nordamerica passando attraverso l’Artide, guarda la cosiddetta “Via della seta polare”, declinazione artica della Belt and Road Initiative, la strategia di politica estera con cui Pechino sostiene la penetrazione internazionale delle aziende statali cinesi e dei suoi standard industriali attraverso la costruzione di grandi vie di comunicazione marittime e terrestri in Eurasia.

I nuovi corridoi settentrionali non solo permetteranno di aggirare “lo stretto di Malacca”, l’impervio passaggio (uno dei chokepoint mondiali) sotto il controllo degli Stati Uniti e dei suoi alleati asiatici. Contribuiranno anche ad accorciare i tempi di percorrenza delle merci tra i porti cinesi e gli scali europei. Passando per Suez oggi una nave che parte da Shanghai diretta a Rotterdam impiega circa 50 giorni; attraverso la rotta nordica e la Via della Seta Polare lo stesso viaggio durerebbe circa 33 giorni. Per il momento la tratta è ancora in fase di test: il colosso cinese China Ocean Shipping Company (Cosco) effettua circa nove spedizioni all’anno. Ma il numero è destinato a salire e alcune società sono già in trattative per garantire un volume di transazioni prestabilito ogni anno.

La Cina come player responsabile

Commercio a parte, gli interessi cinesi nel quadrante includono scopi scientifici, ambientali, e diplomatici. Inserita nell’ultimo “piano quinquennale” 2021-2025, la strategia polare cinese annovera tra gli obiettivi la realizzazione di esplorazioni in acque profonde, la pianificazione di missioni spaziali, e la tutela del diritto internazionale marittimo. Conscia del suo nuovo status internazionale, negli ultimi anni la Cina ha utilizzato il Consiglio Artico per presentare un’immagine di sé più responsabile, soprattutto alla luce delle accuse che dall’altra parte dell’Eurasia accompagnano l’espansionismo cinese nelle acque contese con i vicini rivieraschi.

Nel white paper Pechino spiega che il suo coinvolgimento nel quadrante è teso a «comprendere, proteggere, sviluppare e partecipare alla governance dell’Artico, in modo da salvaguardare gli interessi comuni di tutti i paesi e la comunità internazionale e promuovere lo sviluppo sostenibile» della regione. Ne consegue un’immagine rassicurante ma parziale della Polar Silk Road. A giudicare dai report comparsi sulla stampa cinese, infatti, gli aspetti militari, sebbene mai espliciti, sono altrettanto fondamentali per comprendere la crescente assertività di Pechino nell’area.

La marina cinese vede nel passaggio a Nordest una scorciatoia per spostare truppe dal Pacifico all’Atlantico, in mancanza di basi militari (la più vicina è a Gibuti, nel Corno d’Africa) da cui tenere a tiro la costa americana con i propri bombardieri e missili balistici intercontinentali. Un sogno vagheggiato da Mao nel 1959 e che l’Unione sovietica di Chruščëv congelò per decenni. Secondo il tabloid nazionalista “Huanqiu Shibao”, se i sottomarini cinesi dotati di armi nucleari riuscissero ad accedere indisturbati al Mar Glaciale Artico, i rapporti di forza con gli States e gli alleati Nato cambierebbero radicalmente rendendo la Cina una “potenza militare mondiale”.

Se la Cina perde la Russia

Consapevole dei suoi limiti geografici, fino a oggi la Cina ha puntato a cementare la propria presenza nello scacchiere polare in partnership con Mosca. Passando dentro la zona economica esclusiva russa, la Rotta del Mare del Nord è in balia delle decisioni del Cremlino in termini di tariffe e accesso alle infrastrutture marittime lungocosta. Soprattutto dopo l’occupazione della Crimea e il crescente isolamento internazionale di Mosca, la Cina è riuscita a sfruttare il proprio ascendente su Mosca per ottenere importanti quote di partecipazione nei principali progetti energetici in Siberia. A partire dal 2016 la statale China National Petroleum Corporation (Sinopec) e il Silk Road Fund hanno affiancato la russa Novatek e l’azienda francese Total nello sviluppo di un giacimento di gas naturale liquefatto nella penisola di Yamal. Società petrolifere statali cinesi stanno lavorando all’ultimazione di Arctic LNG-2 e del giacimento di Payakha, mentre Pechino ha già messo gli occhi sulle infrastrutture di trasporto, vero fiore all’occhiello della Silk Road: secondo un accordo del 2016, la costruzione di un porto d’altura vicino ad Arkhangelsk, sul Mar Bianco, doterà Cosco di un’importante base logistica lungo la rotta a Nordest. E, nonostante sia in fase di stallo da circa vent’anni, la Cina ha espresso interesse anche per la ferrovia di Belkomur, con cui le autorità locali puntano a creare un sistema di trasporto unificato nei territori settentrionali.

Non è solo una questione di business. L’allineamento con la Russia è servito, come in altri frangenti, a sostanziare la postura cinese con una visione strategica di più ampio respiro. Senza Mosca la Cina nell’estremo Nord rimane un intruso, anche piuttosto sgradito. In tempi recenti, nel resto dell’Artide, la Via della Seta Polare ha incontrato notevoli ostacoli, spesso a causa delle preoccupazioni di paesi, come Canada e Svezia, con cui Pechino ha rapporti politici tesi. Gli Stati Uniti non hanno nascosto il proprio disagio per le mire del gigante asiatico sull’industria mineraria in Groenlandia – prima che la vittoria nel 2021 della sinistra ambientalista di Inuit Ataqatigiit sospendesse le attività estrattive.

Cosa succederà adesso? 

C’è chi, guardando al passato recente, pronostica un attivismo anche maggiore del gigante asiatico nel quadrante artico. Secondo gli ottimisti, senza alternative, la Russia sarà costretta a darsi mani e piedi alla Cina: gli yuan sostituiranno i capitali sborsati delle multinazionali europee e giapponesi, continuando a foraggiare i piani artici di Mosca. Non tutti concordano, però. Non solo perché, aldilà della sbandierata pseudo-alleanza, dall’introduzione delle misure punitive le aziende cinesi hanno mostrato una maggiore cautela nel fare affari con l’Orso. Lo dimostra il rallentamento delle attività di Sinopec in Russia, nonché il calo delle importazioni di carbone russo nei primi mesi dell’anno.

Mentre, per alcuni esperti cinesi, la rottura tra gli otto stati membri del Consiglio Artico non comprometterà automaticamente la strategia cinese nella regione, le sanzioni internazionali contro Mosca potrebbero eccome. Soprattutto considerati i divieti (diretti e indiretti) sull’export di tecnologia americana, da cui il progetto di Yamal dipende enormemente.

I risvolti politici non sono meno insidiosi. Per l’Artic Institute Pechino pagherà il prezzo di quella che i vertici Ue hanno definito una “neutralità filorussa”: secondo il think tank con base a Washington, infatti, «è difficile immaginare che gli Stati Uniti, il Canada o i cinque paesi nordici del Consiglio acconsentiranno ad approfondire la cooperazione economica o a integrare la Cina nei forum regionali se [Pechino] continuerà a schierarsi con la Russia». Fattore che potrebbe inficiare di riflesso la “diplomazia omnidirezionale” condotta dal governo comunista con Svezia, Finlandia e Norvegia nei settori aerospaziale, dei cambiamenti climatici e dell’esplorazione scientifica. Ora che – contrariamente alle intenzioni di Putin – la crisi ucraina ha intensificato la cooperazione tra la Nato, Helsinki e Stoccolma, separare la ricerca pacifica dalla sicurezza armata risulta sempre più difficile. Collaborando con Mosca nella regione polare, Pechino rischia di dover rispondere ad accuse che trascendono il presunto supporto militare in Ucraina.

C’è poi un problema più profondo, che riguarda la natura stessa della cooperazione sino-russa. Mosca non ha mai visto di buon occhio lo sconfinamento cinese nel proprio cortile di casa. Anche dopo l’ingresso della Cina nel Consiglio Artico, la partnership polare tra i due giganti ha continuato a risentire della diffidenza che storicamente contraddistingue le relazioni sino-russe. Nel 2020 il direttore dell’Arctic Civic Academy di San Pietroburgo è finito agli arresti per aver passato a Pechino informazioni classificate sulla ricerca idroacustica e il rilevamento di sottomarini. L’invasione russa dell’Ucraina irrompe in una crisi di fiducia che il mancato coordinamento dei rispettivi vertici sul fronte europeo rischia persino di esacerbare.

Le considerazioni economiche aggiungono ulteriori incognite all’equazione polare. Perché se è vero che gli investitori cinesi potrebbero trarre benefici dal ripiegamento dei competitor occidentali dai giacimenti russi, la sostenibilità dei finanziamenti nei combustibili fossili è tutt’altro che scontata. Da quando Pechino ha annunciato l’obiettivo emissioni zero entro il 2060, i prestiti cinesi destinati al comparto energetico lungo la Belt and Road sono crollati verticalmente. Nelle terre dei ghiacci prevarranno i calcoli politici o le valutazioni ambientali?

La politica estera o l’agenda interna?

Cambiano gli equilibri mondiali, ma cambiano soprattutto le priorità cinesi. È il grande limite dell’“amicizia senza limiti” tra Cina e Russia.

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Sipario sull’ouverture tattica in Donbass. Ora la strategia si impronta al dissidio https://ogzero.org/sipario-sullouverture-tattica-in-donbass-ora-la-strategia-si-impronta-al-dissidio/ Wed, 23 Feb 2022 23:13:01 +0000 https://ogzero.org/?p=6479 Il sipario, sceso sulle ultime note della rabbiosa ricostruzione storica di Putin eseguita a canali unificati, ora si rialza su una trama  molto meno definita dell’ouverture in Donbass, che ha seguito un canovaccio previsto e definito nei suoi passaggi: sancito il controllo russo sul Donbass, acquisite le conseguenti – ancora blande – sanzioni americane, accolte […]

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Il sipario, sceso sulle ultime note della rabbiosa ricostruzione storica di Putin eseguita a canali unificati, ora si rialza su una trama  molto meno definita dell’ouverture in Donbass, che ha seguito un canovaccio previsto e definito nei suoi passaggi: sancito il controllo russo sul Donbass, acquisite le conseguenti – ancora blande – sanzioni americane, accolte obtorto collo dagli europei; quest’ultimi vittime sacrificali delle trame dell’uno, mosso dal livore della nemesi storica dell’implosione dell’impero sovietico (ereditato dal bolscevismo, peraltro ripudiato da Putin il 21 febbraio come creatore dell’Ucraina), e anche dell’altro, poco interessato al quadrante europeo e proiettato verso l’Indo-pacifico, non rimane che la guerra scatenata dal presidente russo nelle prime ore del 24 febbraio, simbolicamente festa russa del “Difensore della patria”: l’interpretazione degli ultimi 10-12 anni nella mente scacchistica di Putin lo ha portato a intendere la costante erosione dell’impero ex sovietico (ma il 21 si è riferito direttamente alla Russia zarista) come una morsa volta a strozzare la Russia.

Fin qui era in buona sostanza prevedibile come si sarebbe dipanata la trama, sfociata nella sorprendente messa in scena (un decadente barocchismo novecentesco) del Consiglio di sicurezza russo con gli “yesman” a sancire la scontata annessione che concludeva  l’incipit del monumentale Guerra e Pace riscritto da Putin. La scena finale è stata rivelatrice di quanto i criteri che sottostanno all’approccio storico moscovita provengano da interpretazioni divergenti in partenza rispetto alla cultura storica occidentale… da qui sorge il dissidio che, come insegna Jean-François Lyotard, non trovando un punto di partenza comune è quindi di difficile composizione. Da qui menti poco lungimiranti fanno la scelta della Guerra e i 27 minuti trasmessi in Tv nella notte del 24 febbraio – ma registrati il 21 – con minacce di ritorsioni (non sanzioni) contro chiunque si frapponga ai piani militari dell’invincibile esercito russo sono il primo esemplare momento di propaganda bellica nella sfida mondiale.

[fin qui OGzero…]

Per farci un’idea di come la società russa ha reagito a questa fuga in avanti di Putin, che forse ha perso il collegamento con la realtà russa, Yurii Colombo ha fotografato prima dei bombardamenti alcuni momenti di questi giorni convulsi…


La decisione russa di riconoscere le due repubbliche autoproclamate del Donbass porta la crisi delle relazioni tra Russia e Occidente in territorio sconosciuto, di cui è per adesso difficile prevedere gli esiti. Soprattutto quelli a medio e lungo termine.

In modo abbastanza inconsueto Putin ha assunto la storica decisione usando due lunghe differite trasmesse pubblicamente in Tv sui canali a reti unificate.

Riconoscimento o annessione? Vada al punto, Sergey “Fracchia” Naryshkin

La prima è stata quello del Consiglio di Sicurezza dove tutti gli uomini del “cerchio magico”, i più stretti collaboratori di una vita, sono passati in passerella per dire il loro sì all’«annessione». L’effetto è stato straniante: le facce rese terre dal timore reverente, le parole ripetute spesso con retorica stentorea, il capo dei Servizi segreti per l’estero Sergey Naryshkin balbettando ha persino tentato di proporre il rilancio del dialogo diplomatico subito rintuzzato con durezza dallo stesso Putin.

Bignami di uso geopolitico della storia

L’annuncio della decisione è stato ufficializzato in un discorso del presidente russo di 70 minuti infarcito di richiami storici – in primo luogo in chiave anticomunista, dove non veniva tanto preso di mira Josip Vissarionovich Stalin, quanto lo stesso fondatore dell’Urss, Vladimir Ilic Lenin. Un discorso in cui si rinverdiva la tradizione imperiale del paese rivolto essenzialmente all’opinione pubblica di lingua russa e più in generale alla “diaspora sovietica”.

La trasmissione del discorso era stata sapientemente anticipata in Tv dalle immagini in diretta dove nel grande palasport di Mosca si festeggiava il ritorno degli atleti russi vincitori delle 32 medaglie in diverse discipline alle Olimpiadi invernali di Pechino. Grande entusiasmo: i pianti e l’inno russo intonato ben due volte in coro prima di dare la parola al presidente per “le comunicazioni straordinarie al popolo russo”.

La decisione era stata anche anticipata dalla mossa di procedere alla rapida evacuazione delle donne e dei bambini in buona parte fallita: fino a ora meno di 100.000 abitanti della regione (su oltre 4 milioni), secondo i dati ufficiali, hanno abbandonato le loro case. Lo scorso sabato i blogger di Donetsk hanno fatto fare il giro del mondo ad alcuni video registrati nelle discoteche della città stracolme di giovani ad alto tasso adrenalinico, dove tutto sembrava consumarsi – soprattutto libagioni – meno che una tragedia. Abitudine alla guerra forse ma anche poca voglia di imbarcarsi in un trasferimento incerto e forse senza ritorno.


Così la “crisi dei profughi” che ormai in tutto il mondo dalla Libia fino alla Polonia è diventata un’arma “ibrida” nella definizione dei rapporti di forza a livello internazionale, è risultata un’arma spuntata rapidamente accantonata dall’arsenale propagandistico.

Oro alla Patria sbeffeggiato: Russia distaccata e disillusa

Di sicuro l’“effetto Crimea” non c’è. Le grandi manifestazioni di giubilo e di orgoglio nazionalistico seguite all’annessione che si videro nel 2014, non si sono registrate 8 anni dopo. Se è vero che una maggioranza passiva ha sostenuto il riconoscimento, oggi è la paura e la preoccupazione a prevalere. Nel 2014, malgrado le grandi proteste seguite alle presidenziali del 2012, si attendeva una ripartenza dell’economia del paese, un “nuovo balzo in avanti”, dopo le grandi performances economiche del periodo 2000-2008.

Oggi il clima è completamente diverso: l’economia è formalmente ripartita grazie agli alti prezzi degli idrocarburi degli ultimi mesi, ma il rublo resta debolissimo e i redditi dei lavoratori dipendenti e dei piccoli commercianti in calo. I grandi progetti di modernizzazione delle infrastrutture restano ai blocchi di partenza e la popolarità di Putin ridotta ai minimi termini. L’annuncio che la ricostruzione del Donbass potrebbe costare 20 miliardi di rubli e la conseguente proposta della Duma di destinare a questo scopo le tredicesime dei russi hanno scatenato il sarcasmo e l’ironia negli uffici e sui social network.

Riconoscimenti “bizzarri”, fino a dove e da chi?

A 24 ore dal “riconoscimento” la confusione regnava comunque sovrana persino al Cremlino. I novelli stati indipendenti sostengono di voler controllare le intere aree delle provincie in buona parte controllate ancora dal governo ucraino. Ma se in un primo momento il portavoce di Putin aveva contraddetto questa postura sostenendo che «la giurisdizione sarà nelle aree già controllate dalle Repubbliche» dopo poche ore il Ministero degli Esteri è intervenuto per chiarire che «tale aspetto deve essere ancora definito»; il che fa la differenza tra Guerra aperta in Donbass o un’eventuale Guerra guerreggiata e dimostra il grado di autonomia politica e amministrativa dei due nuovi soggetti internazionali per ora riconosciuti solo da una modestissima pattuglia di paesi: Cuba, Nicaragua e Venezuela. Fa specie che né il Kazakhstan (a cui recentemente l’esercito russo ha portato la sua determinante “solidarietà internazionalista” per bloccare la rivolta operaia e popolare scoppiata nel paese), né tutti gli altri paesi aderenti alla Organizzazione del trattato di sicurezza collettiva (Csto) – in primis la Bielorussia che in questi giorni ha l’esercito russo di stanza sul proprio territorio – si siano allineati nel riconoscimento per evitare le sanzioni occidentali.

Svolte belliche autoimposte

Nella decisione di rompere gli indugi c’è evidentemente anche la crisi definitiva della mancata realizzazione seppur parziale degli accordi di pace di Minsk. Zelensky infatti non appariva disposto a concedere uno status speciale di autonomia alle due provincie (che gli sarebbe costata la rielezione), mentre Putin avrebbe dovuto fare un complicato dietrofront a una annessione, de facto, già realizzata con la concessione del passaporto ai cittadini del Donbass (lo avrebbero preso già in 2 milioni) e l’integrazione della sua economia in quella russa già dallo scorso novembre. Tuttavia così Putin si è posto da solo in un tunnel di cui non si vede l’uscita, togliendo dal mazzo l’unica carta che aveva per una trattativa globale sull’area e spingendo le relazioni con l’Ucraina alla rottura formale che il governo di Kiev ha subito deciso con la richiesta formale di adesione alla Nato (e il richiamo in servizio dei riservisti).

L’esercito russo ora potrebbe dare facilmente una “sculacciata” a quello ucraino sullo stile dell’azione in Georgia del 2008 per poi ritirarsi ma è impensabile che possa realizzare un’occupazione dell’Ucraina per cui non ha la forza prima di tutto economica e che provocherebbe la reazione inevitabile della Turchia. Le conseguenze sarebbero comunque gigantesche e condurrebbero al completo allineamento di Emmanuel Macron e Olaf Scholz dietro Joe Biden, un’eventualità che annullerebbe i già scarsi spazi di manovra a Putin, sul quale si possono dire tante cose meno che fino a oggi non sia stato un abile tattico capace di lavorare sulle contraddizioni del campo avversario come si è visto in Siria.

A tutto gas con le sanzioni

Olaf Scholz, seppur a malincuore, ha dovuto procedere al blocco della ratificazione di North Stream2. Se ne riparlerà ad eventuali acque calme ma questo arrivederci potrebbe diventare presto un addio. La reazione di Mosca è stata furibonda:

Il vicepresidente del Consiglio di sicurezza russo Dmitriy Medvedev ha dichiarato su Twitter: «Il cancelliere tedesco Olaf Scholz ha ordinato di fermare la certificazione del gasdotto North Stream2. Bene, benvenuti nel nuovo mondo dove gli europei pagheranno presto 2000 euro per mille metri cubi di gas!»

Una minaccia che se messa in pratica avrebbe ulteriori conseguenze politiche ed economiche in tutto il continente ma che dimostra quanto Mosca sia pronta ad alzare l’asticella dello scontro.

Le mosse europee occidentali appaiono per ora limitate a un pacchetto di sanzioni a dire il vero però già abbastanza corposo. Blocco totale su due grandi istituzioni finanziarie russe, VEB e Promsvyazbank, così come 42 delle loro filiali; contro il debito sovrano russo:

lo stato russo non potrà più accedere ai finanziamenti e commerciare il suo nuovo debito sovrano sui nostri mercati o su quelli europei.

Particolare scalpore ha fatto l’allargamento delle sanzioni anche ai figli e ai parenti dei grandi imprenditori e funzionari di stato abituati a viaggiare e studiare all’estero invisi alla gran parte della popolazione per i loro stili di vita e per i loro privilegi stentoreamente mostrati. Dopo la riunione dei ministri degli esteri dell’Unione europea, il capo della diplomazia europea ha fatto scattare anche il blocco finanziario e la possibilità di viaggiare in Occidente anche per i 351 deputati della Duma che hanno votato l’unificazione. L’asso di cuori, cioè l’ipotesi di sganciare la Russia dal sistema Swift sembra messa per ora in naftalina perché rischierebbe di essere un boomerang capace di destabilizzare l’insieme della finanza internazionale.

Appeasement europeo / containment americano

Fino a qualche giorno fa si era ironizzato da parte russa riguardo alla Conferenza di Monaco sulla sicurezza dei paesi occidentali, facendo un’analogia con il fallimento della politica di appeasement di quella del 1938: incertezza atlantica contro decisionismo putiniano. Ma presto si è smorzata. La dipendenza dagli idrocarburi russi gioca certo un ruolo in questa circospezione occidentale, tuttavia ora che il gioco si fa duro anche gli europei sembrano voler aderire alla versione riveduta e corretta del “containment” portata avanti dalla Casa bianca già nella Prima guerra fredda.

La teoria era stata formulata per la prima volta da George F. Kennan nel 1947, l’ambasciatore Usa a Mosca di quel periodo. Il risultato fu il cosiddetto “Long Telegram” che conteneva una valutazione della situazione politica nell’Unione Sovietica in cui Kennan spiegava non solo le premesse alla base della politica estera di Mosca, cercando di immaginare su quali direttrici avrebbe potuto dispiegarsi l’azione di Stalin ma suggeriva anche a Washington come si sarebbero potute efficacemente fronteggiare le iniziative sovietiche.

Kennan, in una maniera apparentemente molto precisa e “scientifica”, rilevava come l’Unione Sovietica desiderava evitare una guerra, ma il ritratto che ne faceva era comunque quello di un nemico implacabile e inevitabile. Come gli Stati Uniti avrebbero dovuto agire contro la potenza sovietica fu spiegato da Kennan in una conferenza del 17 settembre 1946, tenuta davanti a funzionari e personale del Dipartimento di stato.

In questa occasione egli affermò che gli Usa avevano un decisivo margine di vantaggio sugli avversari sovietici che avrebbe permesso loro «di contenerli sia militarmente che politicamente per un lungo periodo a venire». Una tesi poi affinata sul “Foreign Affairs” nel luglio del 1947: «In queste circostanze è chiaro che l’elemento principale di qualsiasi politica degli Stati Uniti nei confronti dell’Unione Sovietica deve essere quella di un contenimento a lungo termine, paziente ma saldo e vigile, delle tendenze espansioniste russe. È importante notare, tuttavia, che una tale politica non ha nulla a che fare con l’isteria esteriore: con minacce o gesti sfuocati o superflui di ‘durezza esteriore’ […]. Per l’autore l’unico modo per contenere la pressione sovietica contro le libere istituzioni dell’Occidente era «l’applicazione abile e attenta di una forza contraria in una serie di punti geografici e politici che si spostano in continuazione, in corrispondenza degli spostamenti e delle manovre della politica sovietica».

La comune valutazione occidentale sarebbe quella di limitare il raggio d’azione dell’amministrazione putiniana sulla base dell’esperienza storica che la Russia non si batte mai in campo aperto militare come dimostrano le sfortunate avventure di Hitler e Napoleone ma risucchiandola in un lungo confronto soprattutto finanziario-economico in cui ha tutto da perdere.

Ma oggi non appare così certo che la Russia voglia evitare a tutti i costi la guerra. In questo quadro la richiesta di Putin al Consiglio della Federazione di avere la possibilità in quanto capo dell’esercito di poter usare le forze armate in zone extraterritoriali, per ora limitate al Donbass, potrebbe essere il cattivo presagio di un’invasione in grande stile dell’Ucraina. Questa ipotesi che solo fino a poche settimane sembrava fantapolitica ora è diventata oggetto di studio su scala mondiale. Se il leader russo decidesse di intraprendere una tale avventura vorrebbe dire che si è deciso a giocarsi il tutto per tutto, persino la sua futura permanenza al Cremlino.

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Bit & Coin: la geostrategia criptata https://ogzero.org/il-bitcoin-divide-la-geostrategia-criptata/ Fri, 18 Feb 2022 22:15:02 +0000 https://ogzero.org/?p=6301 Una cosa è certa: il Bitcoin divide. Da una parte ci sono quelli, come la Banca Centrale Russa, che vogliono bandire la criptovaluta per il rischio di forte instabilità finanziaria che ne scaturirebbe, rendendo fragile la sovranità del paese e vanificando le sue politiche monetarie. Dall’altra quelli, come El Salvador, che l’hanno addirittura adottata come moneta in […]

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Una cosa è certa: il Bitcoin divide. Da una parte ci sono quelli, come la Banca Centrale Russa, che vogliono bandire la criptovaluta per il rischio di forte instabilità finanziaria che ne scaturirebbe, rendendo fragile la sovranità del paese e vanificando le sue politiche monetarie. Dall’altra quelli, come El Salvador, che l’hanno addirittura adottata come moneta in corso legale: il primo paese al mondo a consentire ai cittadini di fare acquisti in tutti i negozi e di pagare le tasse tramite Bitcoin. A discapito di una crescente preoccupazione della propria popolazione, nonché del FMI, che in un comunicato del 25 gennaio scorso ha espressamente chiesto al paese di rinunciare alla criptomoneta. Ben lungi dal voler essere esaustivi di un argomento oltremodo complesso, cerchiamo di fare luce sulle due decisioni.

Questo era l’incipit di un bell’articolo di Marco Grisenti apparso su “Atlante delle Guerre”, quando l’ultimo rapporto del Financial Stability Board avvertiva che le criptovalute «presto potrebbero mettere in pericolo la stabilità finanziaria globale»; e allora Joe Biden sta per firmare un decreto presidenziale sulle blockchain, per mobilitare le istituzioni (gli Usa sono il primo paese al mondo per attività di mining, si stima che circa 60 milioni di americani detengano delle criptovalute) e portare il braccio della legge nell’anarchica frontiera digitale, che nel 2021 è giunta a valere 2600 miliardi di dollari. La Cina ha completamente bandito pure il mining per concentrarsi sulla diffusione dello Yuan digitale. La Russia sta decidendo se bandire o regolamentare (Vladimir Putin propende per la seconda). L’India tassa i cripto-profitti al 30%, legittimando le valute digitali e scatenando un’ondata di entusiasmo

(fin qui OGzero… )

Claudio Canal ci fornisce un punto di vista che approfondisce in modo suggestivo e originale gli “indici” del Bitcoin. 


In principio era un mistero: chi è Satoshi Nakamoto il creatore di Bitcoin? È lui, il nippo-americano della California. No, è l’ingegnere svizzero. Che dici? Satoshi è un team di persone. È Elon Musk. È l’australiano Craig Steve Wright. Chi, l’impostore? Mio cuggino dice di conoscere Satoshi. Gli hanno anche dedicato un busto a Budapest.

il Bitcoin divide

Il busto dedicato al fantomatico Satoshi Nakamoto a Budapest.

Sono trascorsi quattordici anni e il famoso capitalismo della sorveglianza non è riuscito a scoprire chi stia dietro allo pseudonimo Satoshi Nakamoto che nel 2008 ha pubblicato un paper in cui spiega cosa intende per e come si può costruire una moneta virtuale crittografica peer-to-peer governata da algoritmi e senza intermediari, cioè Bitcoin.

Il fantasma in questione dalla quarta o quinta dimensione in cui dimora stabilmente può prendersi le sue soddisfazioni rimirando il pianeta Terra e il videogioco geopolitico in atto.

I paradisi dei minatori

Il Kazakhstan, un sandwich tra Cina e Russia, al momento è scomparso ai nostri videocchi, ma alcune evidenze si sono manifestate oltre alle proteste, i morti e la brutalità poliziesca: siamo nel secondo produttore al mondo di moneta digitale, dietro solo agli Stati Uniti. Dopo la proibizione di Bitcoin da parte del governo cinese, il Kazakhstan ne era diventato un santuario: 90.000 società di estrattori di criptovaluta, i famosi miners, erano emigrate nel paese caucasico. Il clima freddo che evita le spese dei refrigeratori per i computers sempre al massimo dei giri e il basso costo dell’energia – prodotta dal carbone! – ne avevano fatto il paradiso del Bitcoin, convenzionalmente indicato come BTC.

Non si surriscaldano solo i computers, ma anche le società e il governo ha bloccato per sei giorni le connessioni internet nel riuscito tentativo di fermare la protesta dando però una severa mazzata anche alla rete di minatori. Molte imprese restano incerte sul da farsi. Il deserto gelido o nuovi lidi?

BTC si rivela non così svincolato e affrancato dal potere dello stato come sostengono i suoi predicatori e lo scorso 2021 ha visto una bella miscela di segnali contrastanti, che è un po’ il distintivo di fondo di un’innovazione sociotecnica come questa:

  • gli Stati Uniti hanno approvato gli investimenti in BTC sui fondi ETS,
  • è stato realizzato un fondamentale aggiornamento tecnico detto Taproot che consente maggiore privacy, scalabilità, cioè aumento di scala secondo le necessità, e sicurezza,
  • la Nigeria ha posto severe restrizioni alle banche commerciali di trattare criptovalute, la Turchia ha proibito i pagamenti, anche l’Iran ha tentato a più riprese qualcosa di simile
  • salgono a 8 i paesi che, con tempistiche diverse, hanno vietato di trattare in BTC, tra cui la Cina ovviamente.
  • El Salvador, il pulgarcito-pollicino dell’America Latina, adotta BTC come moneta ufficiale e progetta una città dedita alla moneta virtuale alimentata dalla energia geotermica dei vulcani. Ho, addirittura, coltivato anteriore intimità con questo paese, il cui brillante presidente, Nayib Bukele, si autoqualifica sull’amatissimo Twitter come Amministratore Delegato [CEO] di El Salvador.

il Bitcoin divide

Bitcoin City (fonte: Architectura viva).

Roba per cuori forti

Nel radioso 2022 appena avviato si è di nuovo manifestata un’altra delle caratteristiche strutturali di BTC: ama il dondolo, su e giù su e giù,  ovvero spiccata volatilità. Da novembre ad oggi, fine gennaio 2022, ha perso più del 50%, trascinandosi dietro anche le altre numerose criptovalute. Chi ha investito ed è debole di cuore, oggi non riesce a frenare le sue palpitazioni. Ieri era Paperone, oggi non riesce a fare il pieno di benzina. Ogni stormir di fronde mette in moto inarrestabili montagne russe degli indici. A proposito. La Russia ha appena posto forti restrizioni alle transazioni in cripto e il paese non sta alla periferia della rete globale criptovalute, ma viene subito dopo i già nominati Stati Uniti e Kazakhstan. Infatti, per dirla in dialetto bitcoinico, ha un elevato hashrate, che indica l’unità di misura di potenza di elaborazione della rete BTC. Un hash rate di 10 Th/s, indica che il network è in grado di realizzare un trilione di calcoli al secondo. La Russia di Putin detiene l’11,2% della potenza globale. Non bruscoletti.

Il gioco, che già non era uno scherzo, si fa durissimo. Narendra Modi, primo ministro dell’India, in video conferenza al Forum Economico Mondiale di Davos ha invitato le nazioni a far qualcosa in comune e in fretta per affrontare il problema delle criptovalute. Non si era ancora ripreso dal fatto che un mese fa il suo canale Twitter ufficiale era stato hackerato e aveva prodotto per i suoi 73 milioni di followers la seguente solenne dichiarazione: «In India la valuta ufficiale ora è il Bitcoin».

Dopodiché Modi si è barcamenato tra banno o non banno le cripto? Nel frattempo, come negli Stati Uniti, da metà gennaio è possibile investire in Bitcoin sui fondi ETS e il primo ministro vagheggia una CBDC, che al momento resta un brusio su cui si dirà più avanti.

Primo: BTC non piace agli stati, soprattutto se autoritari

È decentralizzata, non ha bisogno di Banche Centrali, non consente controlli statali. Consuma troppa energia. C’è chi la considera uno strumento contro il colonialismo monetario. C’è chi la considera per quello che è, un gigante della speculazione.

Ci sono stati che invece ne incentivano l’uso, come l’Uruguay, che ha appena installato un “bancomat” per criptovalute. In Italia ce ne sono una settantina e complessivamente la crescita degli impianti si sta incrementando:

Fonte Cointamtradar.

Gli corrisponde in rete una profusione di blog, siti, guru, illusionisti, riviste e piattaforme, in ogni lingua immaginabile che, mentre addestrano alla terminologia e ai “segreti” del BTC e della blockchain che gli sottostà, propongono e facilitano investimenti da fiaba.  Torna l’imperituro mantra: Arricchitevi!

Non è mai stato facile distinguere la retorica dalla realtà. In America latina poi il realismo magico sprizza dappertutto. Le magagne  e i pregi delle criptovalute si affastellano aggrovigliandosi e tutti ci provano: Venezuela, Cuba, Argentina, ColombiaCripto alle masse! È la parola d’ordine.

  • Le cripto facilitano l’invio delle rimesse degli emigrati, che sono il salvagente di svariati paesi.
  • Si svincolano, almeno in parte, dal dominio del dollaro, non a caso il Fondo Monetario Internazionale bacchetta El Salvador sulla legalizzazione della criptomoneta e lo fa adesso [fine gennaio 2022], quando BTC sta scivolando ai minimi rischiando di diventare merdomoneta.
  • Le cripto permettono un libero accesso alla finanza a milioni di persone che non hanno un conto in banca. La definiscono inclusione finanziaria ed è una tappa dell’incessante processo di finanziarizzazione/valorizzazione dell’umanità che il capitalismo da mo’ persegue con metodica determinazione. Anche tu, piccolo indigeno Aymara delle montagne boliviane potrai finalmente acquistare il forno a microonde su Amazon con due clic senza passare per banche e società come Mastercard Tu e Jeff Bezos, faccia a faccia.
  • Permettono l’indipendenza finanziaria delle donne. Forse. Si dice. Parrebbe.
  • Le criptomonete non sono così virtuali come sembra, ingurgitano energia senza pudore. Se il loro uso continuasse a espandersi dovremmo ricorrere alle candele e alla legna da ardere. Queste fondamenta materialisticamente reali potrebbero in tempi per niente geologici pericolosamente sprofondare.

L’Assoluto Mistico della crescita illimitata e perpetua sembra non accorgersi che le emissioni di carbonio di un anno di BTC sono pari a quelle della Nuova Zelanda, per ora.

Con lo stesso entusiasmo c’è chi guarda all’Africa dove nel 2020 il mercato delle cripto è cresciuto nel 1200%  e nel 2021 è andata ancora meglio, tanto che l’ultimo rapporto di ChainalysisAnalysis of Geographic Trends Cryptocurrency Adoption and Usage October 2021 ne parla (a p. 108), in questi termini accalorati [grassetto mio]:

Africa has the smallest cryptocurrency economy of any region we study, having received $105.6 billion worth of cryptocurrency between July 2020 and June 2021, but despite that it’s also one of the most dynamic and exciting. Not only has Africa’s cryptocurrency market grown over 1200% by value received in the last year, but the region also has some of the highest grassroots adoption in the world, with Kenya, Nigeria, South Africa, and Tanzania all ranking in the top 20 of our Global Crypto Adoption Index. In addition to being the third-fastest growing cryptocurrency economy, Africa also has a bigger share of its overall transaction volume made up of retail-sized transfers than any other region at just over 7%, versus the global average of 5.5%.

il Bitcoin divide

Se dici moneta dici scambi commerciali, investimenti, territori, politiche economico-sociali, sovranità.

Uno spettro si aggira per il mondo. La moneta è un modo di governare il mondo.
Tutte le monete sono spettri. [sillogismo sgangherato]

  • Tutte le monete sono virtuali, anche il dollaro,  essendo segni del denaro che è una riserva di valore che si basa su… [citare D. Ricardo, K. Marx, G. Simmel, J.M. Keynes, F. Hayek…].
  • Alcune sono digitali [per esempio, Visa…]
  • Alcune digitali sono criptate, cioè “nascoste”, visibili/utilizzabili solo conoscendo un determinato codice informatico. Entità governate algoritmicamente da un grande registro di scambi detto “Blockchain”, in cui la conservazione e lo scambio è regolato e certificato per condivisione [per esempio BTC e tutte le altre, Ethereum…].

Dopo una fatica bestiale di scavo, i miners-minatori devono portare i loro sudati bitcoin alla cassa [Coinbase, Kraken, Local Bitcoins], se intendono ottenere moneta spendibile fuori del mondo cripto. Ciò che fa l’habitué di un qualsiasi Casino con le fiches che ha vinto. Ottenere moneta vera, quella che ha una Banca Centrale alle spalle, uno stato.

Non è tutto oro ciò che luccica. Saluti e baci a Libra o Diem, la criptovaluta che era stata pomposamente lanciata nel 2019 da Facebook, nella forma di stablecoin, cioè ancorata a un’attività di riserva stabile come il dollaro statunitense o l’oro. FB l’ha venduta al miglior offerente.

Secondo: sono digitali le central bank digital currency

CBDC, come Petro del Venezuela, lanciata nel 2018,  che usa blockchain o lo Yuan elettronico della Cina atteso prossimamente. Sono digitali, ma seguono una logica opposta a BTC e affini perché sono o saranno gestite da autorità governative e dalle banche centrali che sono anche prestatori e garanti di ultima istanza. Stesse tecnologie, finalità incompatibili.

il BItcoin divide

Dove la criptopolitica diventa geopolitica

E qui giochiamo in casa. La geopolitica trova la sua grammatica e può cantare i suoi ritornelli. Gli attori del contendere sono i ben visibili e consolidati stati e non ectoplasmi monetari come le criptovalute con cui il nostro comprendonio suda le note camicie.

La spettro-valuta chiamata $

C’è qualcuno che domina la finanza mondiale con uno spettro-valuta che si chiama $, qualcun altro vuole sottrarsi a questa egemonia, che sia una riconosciuta, temuta Grande Potenza o uno stato malandrino o ancora una combriccola di stati denominata UE momentaneamente fuori stanza. Si tratta anche qui di una guerra già guerreggiata assai che meriterebbe inviati speciali più attenti perché ne va del futuro. Come non bastasse tutto il rimanente.

eNaria

La primizia della Nigeria, che aveva lanciato nell’ottobre scorso la propria moneta digitale eNaria, adesso sta zoppicando ed è molto curioso che a cimentarsi con questi esperimenti di fintech [Finance e Technology] siano microstati come Le Bahamas, Antigua e Barbuda, Grenada, Saint Kitts e Nevis, Saint Lucia e colossi come Nigeria e Cina. Disposti su un atlante darebbero filo da torcere anche al più navigato geopolitico e tuttavia sono il sintomo di una trasformazione globale in corso.

Tether

E gli USA, gli USA cosa fanno? Temporeggiano, studiano, discutono. Il dollaro digitale non è alle porte anche se induce in tentazione. D’altra parte la terza più grande, discussa e discutibile, criptovaluta, Tether, è ancorata al dollaro, è cioè una stablecoin, ha una capitalizzazione di 98 miliardi di dollari, come dichiarano i suoi dirigenti, senza che nessuno l’abbia mai verificato, e la sua moneta è nominata USDT. Funge da banca centrale delle cripto e affronta gagliarda i processi che le vengono intentati.

Una interessante conversazione in video con l’amministratore delegato di Tether, Paolo Alboino, la si può trovare qui.

Euro digitale

Per l’euro digitale non c’è fretta. È allo studio, i dibattiti si infittiscono, il prototipo fra tre o quattro anni, poi fase di sperimentazione e finalmente…

Pausa di riflessione

C’è un libro importante, curato da due studiosi italiani, Nicola Bilotta e Fabrizio Botti, che fa il punto su quest’ultimo tipo di monete: The (Near) Future of Central Bank Digital Currencies, Risks and Opportunities for the Global Economy and Society (Peter Lang, 2021), che, udite udite, è liberamente scaricabile qui. In italiano N. Bilotta ha scritto un report dell’IAI [Istituto Affari Internazionali] confidenzialmente intitolato Cbdc per principianti. Tutto quello che c’è da sapere sulla moneta digitale della banca centrale (e perché non dovrebbe far paura) come in un film della compianta Lina Wertmüller.

Resterebbe da sciogliere il dilemma quantistico: che fine ha fatto il gatto di Schrödinger contemporaneamente vivo e morto? Ovvero: le monete digitali nelle loro diverse incarnazioni sono contemporaneamente di destra e di sinistra?

Lascio a chi se ne intende la soluzione del quesito, rimando ad altra occasione l’eventuale discussione di piccole esperienze locali non trite e ritrite, come The Socialist Blockchain, Trustlines, Aleeza Howitt  e molte altre che non conosco.

Io mi posiziono su questi appoggi

  • La rivista statunitenseJacobindel 21 gennaio 2022 titola un articolo:
  • La criptomoneta è un gigantesco schema Ponzi, di Sohale Andrus Mortazavi. La prima frase dell’articolo è: La criptomoneta è una truffa.   Per chi l’avesse dimenticato lo schema Ponzi consisteva nel promettere fraudolentemente agli investitori alti guadagni, pagando gli interessi maturati dai vecchi investitori con i soldi dei nuovi investitori. Non fa male ricordare che Bernard Madoff con la sua truffa tra i 50/65 miliardi di dollari in stile Ponzi coinvolse i più pregiati istituti finanziari mondiali, tra cui molti italiani [ad esempio Unicredit].
    È morto in carcere il 14 aprile del 2021.
    Jacobin argomenta anche tecnicamente una interpretazione radicale. Mi auguro segua un’ampia discussione.
  • Edemilson Paraná un giovane e brillante ricercatore brasiliano, già autore di Digitalized Finance: financial capitalism and informational revolution (Brill, 2019); Haymarket, 2020, ha pubblicato Bitcoin: a utopia tecnocrática do dinheiro apolítico (Autonomia Literária, 2020) [acquistabile su Kindle, € 6,49]. Non mi sogno di riassumerlo qui. Segnalo alcuni spunti che mi hanno interessato:
    → BTC pone sfide interessanti alle grandi banche, alle istituzioni finanziarie internazionali, ai governi. Va preso sul serio questo paradosso, senza prostrarsi ai santoni del criptoevangelismo che ne decantano le virtù terapeutiche universali
    → BTC chiede al neoliberismo, di cui è figlio ribelle,  di realizzare le sue promesse: competere per promuovere innovazione, incoraggiare mercificazione e privatizzazione, esasperare la turbotendenza a trasformare qualsiasi cosa in un generatore di reddito, in una risorsa scambiabile: assetisation of everything [com’è già che la chiamava il barbone di Treviri?]
    → nonostante il radicalismo libertario, BTC e consanguinei sono interni all’ortodossia dominante per cui la moneta è una cosa, quando invece è una relazione sociale. I miliardi messi in movimento sono tutti “depositati” in una stratosfera magica ed eterea [… Ethereum] che ha vita solo sui monitor luccicanti e letteralmente muore con il loro spegnimento. La metafora dominante delle criptovalute è invece, non a caso, ipermaterialistica: a far funzionare la cortina fumogena è l’epica dei minatori che scavano alla ricerca dell’oro.

Conclusione filmica

In rete pullulano Predicatori del culto Bitcoin con centinaia di migliaia di fedeli.

Proposta n. 1: avviare un’analisi dei contenuti, delle tecniche espositive, dell’antropologia visuale, della maschilità dilagante, dei commenti ecc.

Proposta 2: montare un docu di spassosa rappresentazione dello zombie capitalismo imperante.

Assaggi: qui, qui, qui, qui  …   …   …   …

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Gli iraniani cercano casa, in Turchia https://ogzero.org/gli-iraniani-cercano-casa-in-turchia/ Thu, 10 Feb 2022 20:00:43 +0000 https://ogzero.org/?p=6255 Il governo Raisi fronteggia una forte emigrazione di cittadini iraniani (soprattutto in Turchia, dove la lira si è indebolita) e la crisi interna ha bisogno dell’eliminazione delle sanzioni. Molto dipende dall’esito dei colloqui in corso a Vienna per salvare l’accordo sul nucleare, intanto la Cina aggira i blocchi Usa e acquista il petrolio iraniano. In […]

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Il governo Raisi fronteggia una forte emigrazione di cittadini iraniani (soprattutto in Turchia, dove la lira si è indebolita) e la crisi interna ha bisogno dell’eliminazione delle sanzioni. Molto dipende dall’esito dei colloqui in corso a Vienna per salvare l’accordo sul nucleare, intanto la Cina aggira i blocchi Usa e acquista il petrolio iraniano. In questo articolo Marina Forti fornisce un quadro economico e sociale della realtà iraniana.


Sono sempre di più gli iraniani che cercano di comprare casa. Non stupisce: l’immobiliare sembra tra i pochi investimenti sicuri in tempi incerti. Gli iraniani però comprano casa all’estero, e soprattutto in Turchia. Non solo gli iraniani più abbienti, e non solo ville o proprietà di alto standard: gli acquirenti di case sono spesso professionisti, universitari, insegnanti, piccoli negozianti, infermieri. Media o piccola borghesia, persone che cercano di mettere in salvo i risparmi. Magari puntano a comprare casa per prendere la cittadinanza e poi spostarsi ancora più lontano – Regno Unito, Canada, Australia, Usa.

A Tehran, si sente spesso di persone che vendono la seconda casa, o magari l’appartamento dei nonni defunti, o perfino quello in cui vivono, per raggranellare il possibile e tentare il grande passo. Non ci sono dati precisi sull’emigrazione degli iraniani, ma alcuni indizi sono chiari.

In parte vengono proprio dalla Turchia, uno dei pochi paesi dove gli iraniani possano andare senza visto, e dove sono un po’ meno penalizzati in termini di potere d’acquisto. Infatti la moneta iraniana, il rial, ha dimezzato il suo valore negli ultimi tre anni. Ma anche la lira turca ha perso almeno il 20 per cento del suo valore nel corso dell’anno passato, cosa che ha contribuito a impoverire milioni di cittadini turchi ma ha favorito l’arrivo di acquirenti stranieri sul mercato immobiliare, a Istanbul e altrove. Ebbene, nel 2021 al primo posto tra gli stranieri c’erano gli iraniani, seguiti da iracheni e russi; nel periodo tra gennaio e novembre gli iraniani hanno comprato 8594 case (ma il trend era già visibile negli anni precedenti; nello stesso periodo del 2020 ne avevano comprate 6425).

Secondo dati raccolti dal “Financial Times”, inoltre, più di 42.000 iraniani sono emigrati (hanno preso la residenza) in Turchia nel 2019; nello stesso anno circa 18.000 iraniani hanno lasciato la Turchia, ma non è chiaro se per tornare in Iran o emigrare altrove.

Altri segnali si possono raccogliere dalla stampa iraniana, o dai dibattiti parlamentari. L’ex ministro della Scienza, Mansour Gholami, ha dichiarato mesi fa in parlamento che 900 professori universitari hanno lasciato l’Iran nel solo 2019. Il Consiglio medico (l’organismo che rilascia la licenza all’esercizio della professione medica) fa sapere che ogni anno se ne vanno circa 3000 dottori. L’emigrazione, in particolare di persone istruite e con buone qualifiche professionali, non è una novità nella storia della Repubblica islamica dell’Iran: ora però sembra accelerare. In parlamento, sui giornali, si parla di “fuga dei cervelli”. Il leader supremo, ayatollah Ali Khamenei, di recente ha accusato chi semina “illusioni” nell’animo di tanti giovani spinti a cercare chissà cosa all’estero.

E poi non solo giovani. Si racconta di persone che vendono tutto e si affidano a intermediari per trovare la casa da acquistare e poi trasferire il denaro per vie traverse, dato che i normali trasferimenti bancari sono bloccati e portare grosse somme in contanti è rischioso e illegale. L’intermediazione è un mercato a sé, ovviamente sommerso; si racconta di speculatori e di truffe.

Ma cosa spinge tante persone a mettere i propri risparmi in mano a intermediari e speculatori nella speranza di comprare un appartamento in una periferia turca? Le risposte sono verosimilmente molte, ma si possono riassumere nelle parole “incertezza” e “sfiducia”.

Incertezza economica, in primo luogo, dopo due anni di recessione profonda. Riassumiamo. Sull’Iran gravano le sanzioni, le più drastiche mai viste nei 42 anni di vita della Repubblica islamica, quelle decretate dall’amministrazione di Donald Trump dopo che nel maggio 2018 ha stracciato l’accordo sul nucleare (il Joint Comprehensive Plan of Action, Jcpoa, firmato dall’Iran e da cinque potenze mondiali). Sono centinaia di sanzioni mirate ai principali settori dell’industria, a cominciare da quella petrolifera; colpiscono enti, imprese, banche, individui, perfino aerei, navi e petroliere. Gli Usa sono riusciti a imporle a tutto il mondo grazie alle sanzioni secondarie (contro le imprese di paesi terzi che commerciano con l’Iran). Non solo: nel 2020 le banche iraniane sono state espulse dalla Society for Worldwide Interbank Financial Telecommunication (Swift), che garantisce le comunicazioni interbancarie (è un meccanismo internazionale, ma ha sede a Washington ed è sotto il controllo Usa). Senza un codice Swift nessuna transazione internazionale è possibile. Poi la Financial Action Task Force (Fatf), che ha sede a Parigi e veglia su norme antiriciclaggio, ha messo l’Iran sulla lista dei paesi sospetti.

Così l’isolamento è pressoché totale, nessun settore dell’economia è risparmiato. E queste sanzioni restano in vigore con il presidente Joe Biden, in attesa dell’esito dei colloqui in corso a Vienna per rilanciare l’accordo sul nucleare.

Questo dovrebbe far riflettere sul potere ma anche i limiti delle sanzioni. Non c’è dubbio, la “massima pressione” imposta da Trump ha fatto precipitare l’Iran nella recessione. L’inflazione, che il governo dell’ex presidente Hassan Rohani era riuscito a tenere sotto controllo, è riesplosa – oggi è ufficialmente del 42%, aveva raggiunto il 48% nel febbraio 2021, e nell’esperienza reale è molto più alta. Le imprese pubbliche e private stentano; a volte pagano in ritardo i salari o non li pagano affatto. La disoccupazione cresce: ufficialmente al 9% della forza lavoro, ma molto più alta per i giovani. Il crollo del rial rende tutto più costoso, anche mandare un figlio a studiare all’estero. È quasi impossibile importare farmaci e attrezzature mediche, benché non siano sotto sanzioni, per il semplice motivo che non si riesce a trasferire i pagamenti – perfino in tempi di pandemia sono state fatte solo rare eccezioni.

Il paese, e ogni singolo cittadino, pagano tutto questo in modo pesante. E però l’economia iraniana non è collassata. La “economia di resistenza”, ovvero la strategia di sviluppare capacità industriali interne, promuovere l’export di prodotti diversi dal petrolio, rafforzare legami commerciali con i paesi della regione oltre che con la Cina e la Russia, ha permesso all’Iran di sopravvivere.

Il lavoro minorile in Iran, una delle conseguenze della crisi economica (fonte Asianews).

Anzi, i dati parlano di ripresa. Nell’anno 2020-2021 (l’anno fiscale comincia il 21 marzo, secondo il calendario persiano) il Prodotto interno lordo è cresciuto del 3,4 per cento, stima la Banca mondiale, grazie al settore manifatturiero e a una timida ripresa dell’industria petrolifera. Nell’anno che sta per concludersi la crescita è stimata tra il due e il tre per cento. Quanto al petrolio, nel novembre 2021 la produzione si aggirava su 2,4 milioni di barili al giorno (barrel-per-day, bpd): ancora lontano dai 3,8 milioni bpd del 2017 prima delle sanzioni Trump, ma in lenta ripresa. Quanto all’export di prodotti petroliferi, nei primi mesi del 2018 l’Iran esportava 2,5 milioni bpd, nel 2020 era crollato a circa 400.000; oggi si parla di un milione di barili al giorno (sono stime: è un’attività sotto embargo e non ci sono dati ufficiali).

Dunque l’economia cresce: ma non bisogna ingannarsi, cresce da una base molto bassa dopo il crollo precedente.

La Banca Mondiale osserva che in termini reali, il Pil iraniano si trova più o meno al livello di un decennio fa: nel frattempo però una generazione di giovani per lo più istruiti si è affacciata sul mercato del lavoro e non ha trovato occupazione. Per loro è stato un decennio perso.

E poi, i segnali di ripresa contrastano con l’esperienza quotidiana di prezzi sempre più alti, disoccupazione, ristrettezze. Tutto aggravato dalla lunga pandemia di Covid-19 e dalla siccità. L’Iran resta un paese impoverito e disilluso. Si capisce che molti sognino di emigrare.

In questo quadro vanno visti i conflitti sociali che han segnato gli ultimi mesi. E anche le prime mosse del presidente Ebrahim Raisi, insediato lo scorso agosto.

Le piazze si riempiono

Il 13 gennaio centinaia di migliaia di insegnanti hanno riempito strade e piazze nelle maggiori città dell’Iran. Era la quarta giornata di mobilitazione da settembre, proclamata dal Consiglio nazionale dei sindacati degli insegnanti. A Tehran una folla massiccia ha manifestato davanti al parlamento, con slogan come “la penna è più forte del fucile”, “gli insegnanti contro la discriminazione”. Chiedono aumenti salariali e miglioramenti normativi. Chiedono anche il rilascio dei sindacalisti e insegnanti arrestati dopo i primi scioperi: in effetti ogni giornata di protesta è stata seguita da arresti, che però non hanno impedito alla mobilitazione di crescere.

Il caso degli insegnanti è indicativo. Come tutti i dipendenti pubblici, e come i pensionati, hanno visto crollare i salari reali almeno del 40 per cento tra il marzo 2018 e il marzo 2021, causa l’inflazione. Il governo Rohani aveva aumentato gli stanziamenti per l’istruzione e la previdenza sociale, nella finanziaria del 2020-2021 (portati al 55 per cento della spesa pubblica, contro il 45% dell’anno precedente), nel tentativo di proteggere dalla crisi la piccolissima borghesia per lo più urbana. Ma la perdita di potere d’acquisto reale è stata comunque più forte. Ora, quando gli insegnanti hanno visto che i promessi aumenti erano stati cancellati nella finanziaria di quest’anno, sono scesi in piazza.

Proteste in piazza per la crisi economica (foto CC – Fars Media Corporation).

Gli insegnanti non sono soli. Nei primi mesi dell’anno numerose proteste hanno coinvolto i pensionati. Tra giugno e agosto ci sono stati scioperi a singhiozzo e mobilitazioni dei lavoratori petroliferi, in particolare quelli precari (anche a loro l’amministrazione uscente ha concesso aumenti di salario). Le agitazioni si sono intensificate in settembre, il primo mese di effettivo lavoro della nuova amministrazione: decine di proteste, alcune locali, altre di portata più ampia. Tra novembre e dicembre sono riesplose anche le proteste per l’acqua a Isfahan, che rimandano a un complicato scontro di interessi tra regioni rurali e urbane per la suddivisione delle scarse risorse idriche.

Come ha risposto l’amministrazione di Ebrahim Raisi, il presidente eletto con il voto meno partecipato della storia dell’Iran repubblicano?

Favorito dall’establishment (al punto che ogni serio concorrente era stato escluso dalla competizione elettorale), Raisì è arrivato con la promessa di portare benessere “sulla tavola di tutti gli iraniani”. Nei primi cento giorni del suo mandato ha girato il paese in lungo e in largo, con visite nelle province che ricordano un po’ quelle del presidente Mahmoud Ahmadi Nejad. Anche Raisi è andato in ospedali, farmacie, quartieri popolari. Ma andare “vicino al popolo” e promettere giustizia non basta. Servivano segnali concreti: e il primo è stato ordinare massicce importazioni di vaccini contro il Covid-19.

Nel solo mese di settembre in Iran sono arrivate 30 milioni di dosi di vaccino, contro 19 milioni in tutti i 7 mesi precedenti. D’improvviso, pratiche di importazione che prima richiedevano settimane si sono sbloccate. I vaccini sono importati dalla Mezzaluna Rossa Iraniana, per lo più attraverso accordi bilaterali e tramite la Croce Rossa Cinese; vaccini cinesi, russi, o il Covishield di Astra Zeneca (fabbricato in India) grazie al programma delle Nazioni unite Covax. Anche vaccini di produzione nazionale sono ora disponibili. Fatto sta che alla vigilia dell’insediamento di Raisì erano state somministrate circa 10 milioni di dosi a una popolazione di 80 milioni di iraniani; oggi 60 milioni di persone hanno ricevuto la prima dose e 53 milioni la seconda, secondo l’Organizzazione mondiale per la sanità.

Questo però è l’unico successo concreto da esibire, per ora. Il fatto è che importare vaccini in fondo è più semplice che rilanciare l’economia.

Per questo bisogna guardare al parlamento, che in queste settimane sta discutendo la legge finanziaria: presentata in dicembre, va approvata in tempo per entrare in vigore con l’anno nuovo, il 21 marzo. La prima finanziaria del presidente Raisi afferma obiettivi ambiziosi, parla di crescita dell’8 per cento. Afferma che le linee guida saranno “aumentare la produzione e l’occupazione” nel quadro della “economia di resistenza”. Il governo prevede di aumentare del 10% le entrate nel bilancio generale dello stato, e del 25% il bilancio delle imprese statali (attraverso cui è gestita una buona parte dell’economia). Spera di contenere l’inflazione sotto il 40 per cento, e di aumentare le entrate fiscali del sessanta per cento anche con la lotta all’evasione. L’amministrazione Raisi basa le sue previsioni sull’ipotesi di esportare 1,2 milioni di barili al giorno di prodotti petroliferi, messi in bilancio al prezzo medio di 60 dollari a barile.

Se questo basterà a contenere la perdita di potere d’acquisto degli iraniani, resta da vedere. Il parlamento ha ripristinato gli aumenti per gli insegnanti e sta discutendo di aumentare il salario degli impiegati pubblici tra il 5 e il 28 per cento: considerata l’inflazione però resta una diminuzione di reddito netta. Moshen Rezai, ex comandante delle Guardie della Rivoluzione e oggi uno dei massimi consiglieri economici del presidente Raisi, ha annunciato che il governo raddoppierà i sussidi in contanti distribuiti agli iraniani sotto una certa soglia di povertà. Istituito da Ahmadi Nejad, si tratta di un assegno di 455.000 rials: solo che nel 2010 equivaleva a 40 dollari, oggi al cambio libero equivale a meno di 2 dollari.

Già, il cambio. Il parlamento sta discutendo anche la proposta di abolire il cambio ufficiale imposto nel 2018, che aveva “congelato” la parità a 42.000 rial per un dollaro – mentre sul mercato libero oggi per un dollaro servono 275.000 rial. Il cambio di stato serve a finanziare le importazioni di beni essenziali e strategici e calmierare i costi, ma ha dato luogo ad arbitri e corruzione; lasciare tutto al mercato libero però potrebbe aumentare ancor più l’inflazione.

Il presidente Raisi riuscirà a mantenere la sua promessa di benessere? Secondo un osservatore informato come Bijan Khajehpour, molto dipenderà dalle sanzioni. L’Iran ha dimostrato di avere una economia diversificata (non solo petrolio: esporta automobili, prodotti meccanici, agroalimentare e altro), e di riuscire a vivere nonostante l’isolamento internazionale. Un effetto delle sanzioni è stato ridirigere le relazioni commerciali iraniane verso i paesi vicini, l’Asia centrale, la Cina e la Russia.

Tehran ha firmato accordi di cooperazione economica con Pechino e ne sta negoziando con Mosca – anche se non è ancora chiaro quale sarà l’impatto concreto.

Ma finché restano le sanzioni sul sistema bancario il costo di ogni transazione renderà molto più costose sia le importazioni che le esportazioni. Per sostenere la crescita inoltre servono investimenti in infrastrutture, e anche questi sono frenati dalle sanzioni.

Certo, il probabile aumento dei prezzi petroliferi potrebbe aiutare l’Iran. Anche qui però pesano le sanzioni: la Cina è divenuta il principale acquirente di petrolio iraniano, ma finora è stato tutto in via ufficiosa; solo a metà gennaio, per la prima volta dal dicembre 2020, Pechino ha annunciato una importazione di greggio iraniano sfidando le sanzioni Usa.

In definitiva il governo Raisi ha bisogno di veder togliere le sanzioni, se vuole davvero riportare “il benessere a tutti gli iraniani”. Così molto dipende dall’esito dei colloqui in corso a Vienna per salvare l’accordo sul nucleare: anche i salari e le pensioni degli iraniani, e le prospettive di una generazione che sogna di emigrare.

 

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Che ci fa la Turchia in Ucraina? https://ogzero.org/che-ci-fa-la-turchia-in-ucraina/ Wed, 09 Feb 2022 17:16:54 +0000 https://ogzero.org/?p=6229 Il presidente della repubblica di Turchia, Recep Tayyip Erdoğan, ha incontrato il presidente dell’Ucraina, Volodymyr Zelensky, il 3 febbraio, ufficialmente con l’intento di svolgere il ruolo di mediatore nella crisi in corso tra Kiev, Mosca e Nato. L’apparente confusione frenetica dei movimenti strategici di ogni protagonista – le 5 ore di incontro tra Putin e […]

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Il presidente della repubblica di Turchia, Recep Tayyip Erdoğan, ha incontrato il presidente dell’Ucraina, Volodymyr Zelensky, il 3 febbraio, ufficialmente con l’intento di svolgere il ruolo di mediatore nella crisi in corso tra Kiev, Mosca e Nato.

L’apparente confusione frenetica dei movimenti strategici di ogni protagonista – le 5 ore di incontro tra Putin e Macron, il contemporaneo volo di Scholz da Biden; le agenzie e gli allarmi che fanno gioco alla pressione della Nato sui confini russi, che spingono Putin a partecipare alle cerimonie olimpiche di Xi Jinping; la Nato è la pietra dello scandalo, e un suo membro scandalosamente energivoro, che ormai da alcuni anni gioca da fuori, s’insinua in ogni conflitto per vendere i suoi micidiali ordigni senza pilota, o per appropriarsi di energia – di cui è ghiotto. La Turchia, in crisi economica e con inflazione a due cifre abbondanti, è protagonista a tutto campo e quindi anche nello scacchiere più esplorato dall’inizio del 2022 troviamo l’attivismo di Erdoğan e dei suoi droni. Perché? Murat Cinar s’ingegna a spiegarcelo e per farlo ha bisogno di mantenere l’aspetto economico scevro dalla fuffa di pseudolegami tra Ucraina e Turchia: crisi, bilancia commerciale, traffici di armi, droga e gas… la capacità di trasformare le crisi in opportunità.


Perché Ankara?

Il governo turco ha preso posizione schierandosi dalla parte di quello ucraino quasi sin dall’inizio del conflitto, 2004, soprattutto sostenendo i tentativi di autonomia della popolazione tatara che si trova in Crimea e dopo dieci anni di scontri è passata sotto il controllo di Mosca.

Ankara sostiene la tesi della sistematica discriminazione che la popolazione tatara subisce dagli abitanti russi presenti in zona. Ormai è risaputo come Ankara si propone come “portavoce del mondo musulmano” su molte piattaforme e in differenti zone. Anche se questo ruolo ha registrato svariati problemi di coerenza (e anche di opportunità politica che ha dettato le scelte in momenti diversi) in Egitto, Cina, Siria e Palestina. Considerando che la maggior parte dei tatari sono musulmani, le strategie di Ankara assumono una forma vicina al governo centrale ucraino e rientrano quasi automaticamente nell’ottica “antirussa”.

Non è solo una questione romantica

Ovviamente la posizione, a livello geopolitico, molto interessante dell’Ucraina ha fatto sì che questi due paesi condividessero una serie di punti in comune. Il processo per l’integrazione nell’Unione europea, l’Onu, l’Osce, la Blackseafor e l’Operazione Black Sea Harmony sono alcune realtà molto importanti in cui Kiev e Ankara si trovano alleate.

Senz’altro un’eventuale guerra tra Russia e Ucraina danneggerebbe fortemente la Turchia prima di tutto in termini economici poi a livello politico: il paese è soffocato da una profonda crisi economica in corso dal 2018 e il rapporto commerciale che ha costruito il governo centrale con Mosca in questi ultimi dieci anni è enorme. Come era stato comunicato nell’ultimo incontro pubblico del Consiglio di Lavoro Turchia-Russia, l’obiettivo è raggiungere per il 2022 la soglia dei 100 miliardi di dollari statunitensi come volume commerciale.

Dipendenze asimmetriche

Ankara dipende fortemente dalla Russia prima di tutto nel campo energetico ma anche in altri settori. All’inizio di questa crisi economica la svalutazione della Lira nel 2018 aveva colpito il prezzo della carta dei giornali perché la Turchia paga circa 53 milioni di dollari all’anno per acquistarla dalla Russia, questo volume costituisce circa il 65% del fabbisogno nazionale. Il discorso si espande senz’altro su altri campi come il turismo, il nucleare e le spese militari soprattutto tenendo in considerazione che Ankara in questi ultimi anni si è allontanato sempre di più, a livello politico e commerciale, dai suoi storici partner economici: Unione europea e Washington.

Questo rapporto commerciale in crescita vale anche per l’Ucraina. Secondo la Camera di Commercio di Istanbul (Ito) nel 2021 il volume commerciale superava i 7,4 miliardi di dollari Usa e nel 2022 l’obiettivo è raggiungere i 10. Solo nell’ultimo incontro avvenuto il 3 febbraio sono stati firmati ben 8 accordi commerciali tra Erdoğan e Zelensky. La collaborazione tra questi due paesi è in forte crescita anche nel campo militare.

Droni Bayraktar Siha turchi venduti all'Ukraina

Bayraktar SİHAs, che Ankara ha venduto all’Ucraina lo scorso anno, ha suscitato la reazione della Russia. Mosca aveva avvertito che questi UAV non dovrebbero essere usati contro i filorussi nell’Ucraina orientale.

Come ha specificato qualche giorno fa il primo ministro ucraino, Denys Šmihal’, tra i progetti c’è anche quello di costruire una fabbrica sul territorio ucraino per produrre i droni armati Made in Turkey. Quei famosi droni infami che in diverse parti del mondo stanno cambiando l’andamento dei conflitti armati. In particolare quelli che vende Ankara sono prodotti della famiglia Bayraktar, quella del genero di Erdoğan. Questi droni armati, i Bayraktar SİHA, che Kiev aveva già acquistato e usato contro i separatisti filorussi nell’Est, saranno utilizzati durante l’esercitazione militare del 10 febbraio.

Il tema dei droni è un tema molto caldo. Infatti nel mese di aprile del 2021, Mosca in un video in cui presentava il suo nuovo drone kamikaze simulava un attacco fatto contro un drone armato, prodotto dalla Turchia. Diverse volte i vertici del governo russo si sono espressi per comunicare la loro amarezza in merito alla vendita dei droni turchi a Kiev. La questione è diventata ultimamente molto interessante perché John Kirby, il portavoce del Ministero della Difesa nazionale statunitense, ha sostenuto, il 4 febbraio, durante l’ordinaria conferenza stampa, che Mosca si stava preparando per divulgare un finto video in cui avrebbe sostenuto che i droni turchi comandati da Kiev avrebbero colpito le postazioni russe così la Russia avrebbe legittimato un eventuale intervento militare in Ucraina. Un po’ come le foto taroccate che l’ex segretario di stato statunitense, Colin Powell, mostrò il 5 febbraio del 2003 dinanzi al Consiglio di sicurezza dell’Onu per legittimare l’invasione dell’Iraq da parte degli Usa.

Un conflitto, un problema e un guadagno per Ankara?

Ovviamente un’eventuale guerra in Ucraina metterebbe Ankara in una posizione molto difficile dato che in questi ultimi anni ha provato a fare tutto il possibile per curare rapporti sia con Kiev sia con Mosca. Per via della sua posizione all’interno della Nato, Ankara potrebbe trovarsi con la necessità di attuare un embargo commerciale nei confronti di Mosca e questo sarebbe il colpo di grazia per mandare in bancarotta l’economia turca e molto probabilmente confermerebbe la fine della carriera politica di Erdoğan che è già molto vicina al capolinea, visto il malessere collettivo e gli ultimi sondaggi elettorali (elezioni presidenziali si svolgeranno nel 2023).

In particolare questo scenario per la famiglia Erdoğan sarebbe una disgrazia poiché è fortemente coinvolta nel commercio di droga, lo spaccio di petrolio illegale e la forte corruzione.

L’incontro avvenuto tra Erdoğan e Zelensky è stato il decimo incontro sotto l’ombrello del Consiglio Strategico di Alto Livello. Si tratta di un incontro che era stato anticipato da numerosi inviti inoltrati dal presidente della repubblica di Turchia, rivolti a tutte le parti interessate da questa crisi. A prima vista sembra che Erdoğan abbia una forte intenzione di svolgere quel ruolo di “mediatore”. Tuttavia non va ignorata anche l’esistenza di quella posizione complicata e difficile in cui si trovano le relazioni internazionali di Ankara. Dunque oltre la crisi economica, che è un punto fondamentale da tenere in considerazione, molto probabilmente anche il gioco di “mantenere gli equilibri sensibili” è stato uno degli obiettivi perseguiti da Erdoğan.

Bombardamenti nella regione di Idlib.

Gli azzardi bellici nell’ultimo lustro

Infatti le scelte politiche, militari ed economiche che Ankara ha fatto in questi ultimi 5 anni, prima di tutto in Siria poi in Libia, sono state molto pericolose e fragili. Ankara, pur in conflitto politico ed economico con il regime di Assad, sostenuto da Mosca, è riuscita a ottenere l’autorizzazione da Putin di entrare sul territorio siriano almeno 5 volte con un gruppo di mercenari jihadisti. Una scelta e un’alleanza molto critiche che hanno causato addirittura la morte di 33 soldati turchi nel mese di febbraio del 2020 a causa di un bombardamento russo.

La presenza della Turchia anche in Libia è una scelta molto delicata dato che Ankara ufficialmente, economicamente, politicamente ma soprattutto militarmente ha sempre sostenuto il governo di Tripoli ossia al-Sarraj che è stato in guerra aperta con il generale Haftar sostenuto in tutti i modi da Mosca.

Oltre questo “equilibrio” molto delicato anche in Libia il ruolo dei droni turchi è stato determinante perché al-Sarraj potesse vincere il conflitto armato.

L’ultima mossa pragmatica e molto delicata di Ankara è stata quella di sostenere Baku nel conflitto armato tra Azerbaijan e Armenia. Un’altra guerra in cui, in teoria, Ankara e Mosca si sarebbero trovate in conflitto dato che Erevan riceveva il sostegno politico di Putin. Tuttavia anche in questo conflitto l’appoggio militare ed economico della Turchia è stato determinante, almeno a livello mediatico, e la guerra si è conclusa con una serie di “vittorie” per Baku. L’accordo per la “pace” è stato firmato a Mosca e in  seguito e per il futuro il territorio sarà controllato da Mosca collegando l’Azerbaijan tramite un corridoio con la Turchia.

Il ruolo assunto da Ankara non si è concluso ancora, il rischio per un conflitto armato che potrebbe coinvolgere altri attori anche al di fuori del territorio ucraino esiste tuttora. Ma per Ankara è assolutamente necessario che la situazione si calmi dato che ha bisogno sia di Kiev sia di Mosca per motivi politici, economici e militari. Inoltre Ankara resta ancora un membro importante della Nato e risulta un partner strategico per Washington.

Infatti il primo messaggio di congratulazioni è già arrivato da Jens Stoltenberg, il segretario generale della Nato: «Ho sentito il presidente Erdoğan e l’ho ringraziato per il suo personale e attivo sostegno volto a trovare una soluzione politica e per il suo sostegno pratico all’Ucraina».

Se non funziona?

Ovviamente gli scenari sono tanti ma se la mediazione di Ankara non funzionasse e la crisi diventasse più profonda senz’altro Mosca potrebbe decidere di usare la carta del “gas” contro l’Unione europea. Esattamente come ha fatto in tutti questi anni, Erdoğan, insieme al suo partito e ai suoi imprenditori, potrebbe decidere di attivare nuovi piani per trasformare la crisi in un’opportunità. Si è visto con che velocità, lo scorso autunno, sono stati ripristinati i rapporti politici, economici e militari con gli Emirati, quel paese ch’era stato accusato da Ankara di essere uno dei progettisti del fallito golpe del 2016.

Alternative

Infatti sono giorni che Ankara dedica spazio e tempo alla diplomazia per capire se il gas azero, qatariota o addirittura quello israeliano può essere portato in Turchia e rivenduto ai paesi europei. Nel mese di gennaio, Kadri Simson, Commissaria europea per l’Energia, aveva annunciato che la Commissione stava sondando anche Baku per valutare l’opzione del gas azero. Si tratta del famoso Corridoio meridionale del gas (conosciuto come Tap Tanap) che attraversa tutto il territorio della Turchia per concludere il suo flusso in Salento.

Il progetto del gasdotto Tap Tanap.

Una seconda opzione sarebbe il gas israeliano. Infatti nella sua visita in Albania il presidente della repubblica di Turchia aveva parlato di quest’opzione, rilasciando quest’affermazione apodittica: «Non si può portare il gas israeliano senza coinvolgere la Turchia». Lo stesso tema è stato riproposto dallo stesso presidente anche al rientro in Turchia dopo la visita in Ucraina:

«Nel mese di marzo il presidente israeliano Herzog sarà in Turchia, parleremo dell’idea di portare il gas israeliano in Turchia. Dopo averne usato per la nostra necessità nazionale siamo disposti a rivenderlo all’Europa».

Quindi anche in questo caso il disegno economico e politico che strozza la Turchia da più di 20 anni è un attore importante e potrebbe acquisire maggior ruolo soprattutto grazie a una cultura politica, economica e militare perversa e distruttiva che diventa sempre più dominante nel Medio Oriente e in Europa.

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Russia-Ucraina: la possibile guerra del dottor Stranamore https://ogzero.org/russia-ucraina-la-possibile-guerra-del-dottor-stranamore/ Sat, 05 Feb 2022 18:46:06 +0000 https://ogzero.org/?p=6152 Come promesso, ecco il secondo intervento di Yurii Colombo sulla situazione ucraina. Si ripercorrono qui gli snodi principali dell’evoluzione della crisi, tra risorse energetiche irrinunciabili, la paura delle potenze internazionali di dispiacere all’alleato americano, le disomogeneità tra la Russia e l’Ucraina, nonché i veri motivi della protesta sociale russa che spesso è stata superficialmente collegata […]

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Come promesso, ecco il secondo intervento di Yurii Colombo sulla situazione ucraina. Si ripercorrono qui gli snodi principali dell’evoluzione della crisi, tra risorse energetiche irrinunciabili, la paura delle potenze internazionali di dispiacere all’alleato americano, le disomogeneità tra la Russia e l’Ucraina, nonché i veri motivi della protesta sociale russa che spesso è stata superficialmente collegata al fascino di leader come Navalny o Zyuganov. Tutti dettagli di un quadro che ancora non è definito e che rischia di sfociare in futuro in un conflitto sebbene questo sia esattamente quello che tutte le parti in gioco vogliono evitare.


La scontro tra Usa e Russia sull’Ucraina non avrà immediate ricadute belliche come avevamo già previsto nel precedente articolo su OGzero. Le forze in campo ai confini non sarebbero mai state sufficienti come rivela in articolo pubblicato molto ben documentato su “Novaya Gazeta” da Valery Shiryaev.

Mostrare i muscoli

Malgrado ciò molti media e social russi hanno continuato a dispensare a piene mani immagini nel web dove si vedono attrezzature militari russe che si spostano su treni dalla Siberia e dall’Estremo Oriente verso ovest sostenendo persino che l’esercito russo potrebbe giungere ad ammassare sul confine ucraino circa 500.000 soldati (ma nessuno smentisce e neppure segnala che il complesso delle forze armate della Federazione è a oggi composto complessivamente da circa 280.000 uomini!).

Che un’incursione russa non sia all’ordine del giorno ne è convinto anche LInstitute for the Study of War, uno dei think tank più aggressivi degli Stati Uniti, sostenuto dalle donazioni dei giganti dell’industria militare, che a dicembre ha pubblicato uno studio sui possibili sviluppi del negoziato. Nel rapporto del 27 gennaio intitolato Putin’s Likely Course of Action in Ukraine: Updated Course of Action Assessment si sostiene una linea di ragionamento che è tutta l’opposto di quella della propaganda dell’establishment americano. In particolare si legge che: «Uno sguardo più ravvicinato su cosa comporterebbe una tale invasione […] e ai rischi e ai costi che Putin dovrebbe correre […] ci porta a prevedere che è improbabile che quest’inverno verrà lanciata un’invasione dell’Ucraina. Potrebbe lanciare un’invasione limitata del Sudest non occupato dell’Ucraina che non sarà all’altezza di un’invasione su vasta scala […]. Un’invasione russa su vasta scala dell’Ucraina sarebbe di gran lunga l’operazione militare più importante, più audace e più rischiosa che Mosca abbia lanciato dall’invasione dell’Afghanistan nel 1979. Sarebbe molto più difficile delle guerre statunitensi contro l’Iraq del 1991 o del 2003. E sarebbe un netto allontanamento dagli approcci su cui Putin ha fatto affidamento dal 2015 (come racconto nel mio libro La spada e lo scudo). Ciò costerebbe alla Russia molti soldi e probabilmente molte migliaia di vittime».

Reticenza e cautela

Si tratta di timori fondati che attraversano anche l’opinione pubblica russa in gran parte poco propensa a “morire per Kiev” e comunque comporterebbe il ritorno a stili di vita autarchici dell’epoca sovietica che inevitabilmente si imporrebbero in seguito alle messe di sanzioni finanziarie già promesse dagli Usa in caso di “escalation”.

L’assetto degli schieramenti nella disputa (fonte Ispi / The Washington Post)

Ma anche per Joe Biden, in questo momento, mantenere la tensione alta sull’Europa orientale risulta difficile.

In primo luogo perché i paesi dell’Unione Europea risultano sempre più reticenti a infilarsi in una guerra “calda” in cui hanno ben poco da guadagnare. Il gioco potrebbe eventualmente valere la candela se una pressione anche militare portasse a un crollo del regime putiniano facendo diventare la Russia terreno di caccia per le multinazionali internazionali, ma allo stato dell’arte la cosa è altamente improbabile. La Germania in particolare attraverso il leader della Cdu tedesca Friedrich Merz ha segnalato forte preoccupazione in caso di fuoriuscita della Russia dal sistema Swift: «Se disconnettiamo la Russia da Swift, c’è un grande pericolo che il sistema crolli e potremmo dover passare al sistema di pagamento cinese. Ci faremmo un grande torto», ha sostenuto alla fine di gennaio. Si tratta di preoccupazioni condivise anche al cancellierato.

La Cina da parte sua sta nicchiando come al solito, ma all’Onu non ha fatto mancare il suo sostegno al Cremlino.

Nella notte del 1° febbraio il Consiglio di Sicurezza si è riunito a New York per discutere di Ucraina su proposta degli Stati Uniti. Gli americani avevano bisogno di 9 voti su 15 dei membri permanenti e provvisori del Consiglio di Sicurezza, escluse le astensioni, per mettere il tema in agenda. Ci sono riusciti per il rotto della cuffia ma hanno dovuto incassare il netto no di Pechino e una più cauta astensione di Delhi, un’astensione che però nella circostanza era un sostanziale voto contrario.

L’India insiste per la soluzione negoziata, preoccupata anche per la sua importante comunità di studenti presente oggi a Kiev e dal suo ruolo di bilancia in Asia che l’ha portata ad acquistare ingenti forniture militari russe.

Ancora più netta è l’ultraconservatrice Ungheria di Orban, la quale spacca il fronte di Visegrád per schierarsi «nettamente contro ogni intervento Nato».

Orbán giunto a Mosca all’inizio di febbraio ha lasciato stupefatti quando ha avanzato la sfrontata proposta: datemi più gas a prezzi stracciati che ci penserò io a venderlo… all’Ucraina! Nello stesso giorno l’Ungheria iniziava a fornire gas russo all’Ucraina approfittando del fatto di poterlo ottenere grazie a un contratto stipulato fino al 2036 a prezzi 5 volte inferiori a quelli del mercato attuale.

Non c’è alternativa al gas russo

Tutto ciò mette a nudo una prosaica realtà che quasi nessuno in Europa vuol guardare in faccia pur di non dispiacere all’alleato americano: al netto delle prospettive fumose della green economy planetaria non ci sono a oggi alternative al gas russo neppure per l’Ucraina. Per ora Zelensky ha sostituito le forniture di idrocarburi russi con armi americane (l’ultima fornitura di fine gennaio è per un miliardo di dollari), ma com’è noto queste ultime rappresentano solo una zavorra per il bilancio, se non vengono utilizzate in un conflitto. Anche perché presto il contribuente europeo potrebbe essere messo al corrente di un’amara realtà:

che il riarmo ucraino viene pagato da Bruxelles con la nuova tranche di prestiti all’Ucraina per un miliardo e mezzo di euro appena fornita, proprio mentre gli Usa vendevano armi a Zelensky.

La triangolazione Mosca-Budapest-Kiev non può non avere ricadute politiche su più vasta scala. L’escalation con Putin a questo punto diverrebbe una sola esigenza americana per tenere insieme un’Europa sempre più sfrangiata nell’atteggiamento da tenere con la Russia. Da questo punto di vista c’è da ritenere che la guerra militare e non solo diplomatica e commerciale in Europa – in prospettiva – non sia solo un’ipotesi di scuola.

Come se l’Ucraina fosse un membro della Nato

Per la prima volta nella storia della Nato, lo scorso 11 dicembre un aereo da ricognizione strategica statunitense Boeing RC-135 partito dalla base aerea britannica Mildenhall ha effettuato un profondo raid lungo i confini della Federazione Russa. Ha raccolto informazioni sulla configurazione del sistema di difesa aerea e sulla struttura della difesa russa, volando lungo il confine della Bielorussia: Kharkov, Dnepropetrovsk, regioni di Zaporozhye e finendo in Crimea. In questo caso, l’esercito americano ha agito esattamente come se l’Ucraina fosse un membro a pieno titolo della Nato. Un approccio che coinvolge appieno la Nato visto che i droni da ricognizione RQ-4 Global Hawk, che regolarmente volano sul Donbass partono dalla base aerea di Sigonella. Da parte sua la Csto, il Patto di Varsavia versione XXI secolo, dopo il blitz in Kazakhstan, svolge un’esercitazione operativa congiunta non programmata delle forze armate di Bielorussia e Russia denominata “Allied Resolve-2022”. Le prime unità (non più di 15.000 uomini in totale, 12 caccia e 2 battaglioni S-400) sono già arrivate in zona. War games, si dirà, ma che si collocano in una crisi, quella Ucraina, che non trovando soluzione si è incancrenita sempre di più.

 

Manifestazione contro la guerra a Kiev

La visione russa

La radice dei problemi delle relazioni tra Ucraina e Russia affonda nelle relazioni tra i due paesi slavi sin dalle origini, sin dalla formazione della Rus’ nel X secolo. Il comune ceppo e l’appartenenza a una comune area territoriale è stato segnalato non a caso da Vladimir Putin in un lungo articolo (qui nella sua versione inglese) che giustamente è stato definito “strategico”, in quanto il leader osserva le relazioni tra i due popoli non nella contingenza ma in prospettiva.

Tuttavia il lungo excursus storico che passa attraverso la vicenda della dominazione mongola fino ai giorni nostri, appare rozzo, russocentrico, incapace di relazionarsi con una identità nazionale ormai pienamente formata.

In particolare, pesa nella ricostruzione del presidente russo, soprattutto il mancato riconoscimento del ruolo nefasto giocato dallo stalinismo in epoca sovietica per quanto riguarda il vero e proprio genocidio (Holomodor) nei confronti della popolazione contadina negli anni Trenta durante la collettivizzazione forzata delle terre imposta dal potere sovietico e con le repressioni dei tatari di Crimea. Tuttavia il comune ceppo slavo e la lunga coabitazione per settant’anni aveva reso fortemente integrate le due repubbliche: dal punto di vista economico ma anche sociale con la formazione di un gran numero di famiglie “miste” dentro un paese che conservava forti tratti di disomogeneità. Basti pensare alle differenze culturali e etniche tra gli ex cittadini polacchi o rumeni integrati nell’Urss dopo il “Patto Molotov-Ribbentrop” e gli abitanti delle zone del Donbass, definite da sempre “Piccola, Nuova Russia” (Malaja, Novaja Rossija). L’indipendenza ucraina, giunta alla fine del 1991 ebbe da questo punto di vista conseguenze nefaste: lungo 30 anni l’economia ucraina non si è più ripresa forgiando un’oligarchia parassitaria tanto quella russa ma senza il vantaggio di poter esportare le materie prime.

La visione ucraina

Da questo punto di vista l’Ucraina fino al grande crack del 2014 con l’insurrezione reazionaria della Maidan, la guerra nel Donbass e l’annessione della Crimea hanno sempre oscillato tra attrazione verso la UE e fattivo legame economico e sociale con la Russia (per una ricostruzione dettagliata della storia ucraina dal 1991 a oggi si veda il mio libro su questa tema Svoboda).

La necessità da parte della nuova nomenklatura antirussa emersa dopo il 2014 esigeva che si creasse una narrazione storica lontana dagli stilemi sovietici che per una serie di motivi si è andata ad agglutinare nelle ideologie del nazionalismo indipendentista di Stepan Bandera, collaborazionista del nazismo durante la Seconda guerra mondiale ma spacciato come “terzocampista” equidistante tra Urss e nazismo. Ciò permetteva, tra l’altro, di usare come volontari militari e guardie nazionali, quei militanti neofascisti formatisi con quelle ideologie negli anni Duemila. Come si può cogliere, si tratta di un intricato groviglio storico-economico-politico difficile da districare, una bomba pronta a riesplodere in ogni momento.

Addestramento ucraino nelle foreste di Kharkiv (fonte Euronews).

L’Ucraina colonia delle potenze occidentali

Anche perché la situazione interna dei due paesi resta difficile. Contraddizioni sociali interne nei due paesi, alimentano spinte nazionaliste e belliciste come arma di distrazione di massa. L’Ucraina dal punto di vista socio-economico continua a essere il fanalino di coda europeo. Il suo Prodotto interno lordo è ripartito negli ultimi anni ma sta raggiungendo solo ora la parità in termini assoluti (e tenendo conto delle amputazioni della Crimea e del Donbass). Con 130 miliardi di dollari di debiti soprattutto nei confronti del Fondo monetario internazionale, gli Usa e la UE (che rappresentano circa l’81% del Pil nazionale annuo secondo i dati della Banca Mondiale) l’Ucraina si è trasformata in una vera e propria colonia delle potenze occidentali dimostrandosi solerte nel pagare le rate trimestrali ai suoi creditori ma schiacciando sempre di più i redditi di un’economia che come quella russa resta in buona parte dipendente dallo stato. I salari superano a stento i 150 dollari mensili mentre il reddito medio supera di poco i 4000 collocando il paese al 133° posto della classifica dei paesi più abbienti, ben dietro Iraq, Guatemala o Belize. E, non a caso, il paese resta quello a più ampia conflittualità rivendicativa nel Vecchio continente, benché snobbata dalla stampa internazionale. Dopo le grandi manifestazioni dei minatori nel paese di ottobre che pretendevano il pagamento dei salari arretrati non pagati (come riporta “Apostroph”), alla fine di novembre si sono tenute dimostrazioni a Kiev, sfociate in scontri con la polizia contro gli aumenti delle tariffe elettriche. Il degrado economico è tale che il presidente Zelensky si è potuto permettere di rimbrottare Joe Biden per aver spinto l’acceleratore sui pericoli di guerra con la Russia che alla fine di gennaio stavano affossando il mercato finanziario interno, come immediatamente rilevato il 2 febbraio dal “Financial Times”.

Il peso e il ruolo della Difesa nel bilancio russo

La Russia ha problemi diversi da quello del vicino slavo. Nei primi dieci anni del millennio – negli anni della ripresa economica – Putin fu in grado di pagare per intero il debito estero e di accumulare grandi riserve di oro e di valuta occidentale per far fronte alla volatilità del rublo. Si tratta di un approccio a lungo termine se è vero quanto è scritto nel 46° Rapporto sull’economia russa della Vsemirnyj Bank uscito il 1° dicembre, dove si legge che buona parte degli utili determinati dall’aumento dei profitti dovuti all’aumento dei prezzi delle materie prime energetiche sono stati investiti.

Ora però, malgrado i “fondamentali” (a parte l’inflazione) restino eccellenti, da un decennio l’economia ristagna, i redditi diminuiscono e si coglie soprattutto nelle città europee uno iato sempre più profondo tra le aspettative e le promesse elargite a piene mani dal regime e la realtà corrente.

Questa è stata la base sociale della protesta intercettata in modo diverso da Navalny e dal Partito comunista di Zyuganov.

Al fondo resta il peso improduttivo di quel 25% di bilancio dello stato investito in sicurezza; in primo luogo nella Difesa che alimenta il ruolo dei Dottor Stranamore all’interno del Cremlino e riduce la possibilità di grandi investimenti nelle infrastrutture ancora particolarmente carenti nel Nord europeo del paese e in buona parte della Siberia.

Ecco perché la guerra russo-ucraina, che nessuno è così pazzo da voler scientemente perseguire, resta un’ipotesi possibile nel futuro anche prossimo.

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Potenze coloniali, mandarini e conseguenze di lungo periodo https://ogzero.org/volpicelli/ Wed, 03 Nov 2021 21:55:31 +0000 https://ogzero.org/?p=5267 All’inizio della fine dell’Impero ottomano  scoviamo in un’intuizione di Luigi Barzini senior le radici del risveglio della potenza cinese nel momento in cui le scelte propulsive di Xi Jinping sono poste sotto pressione a livello globale: la produzione cinese rallenta ormai per il secondo trimestre di seguito; problemi di approvvigionamento, tensioni muscolari nel Pacifico, diminuzione […]

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All’inizio della fine dell’Impero ottomano  scoviamo in un’intuizione di Luigi Barzini senior le radici del risveglio della potenza cinese nel momento in cui le scelte propulsive di Xi Jinping sono poste sotto pressione a livello globale: la produzione cinese rallenta ormai per il secondo trimestre di seguito; problemi di approvvigionamento, tensioni muscolari nel Pacifico, diminuzione dei consumi ancora in seguito alla pandemia, che ha prodotto costi cospicui, hanno colpito l’economia che s’incentra sulla Belt Road Initiative. Dimostrando così che ormai Pechino è centrale negli interscambi e regola il mercato, essendosi inserita in ogni ganglio dell’interscambio e della produzione di beni, come mettevano sull’avviso con lungimiranza Barzini e il mandarino di 4° grado Volpicelli.


Un secolo di “Made in China”

«Noi non abbiamo idea delle grandi forze latenti della Cina, dell’intelligenza acuta, della perspicacia e dell’abilità del cinese. Ma lasciamolo dormire in pace questo immenso popolo sonnacchioso e divertente; sarà tanto meglio per noi. Guardate i giapponesi che cosa hanno saputo fare in poco tempo! I cinesi sarebbero capaci di ammazzare in cinquant’anni tutte le nostre industrie e quelle americane. Quattrocento milioni di uomini instancabili, intelligenti, sobri: ma che vi pare! Troveremo il “made in China” persino in fondo alle nostre mutande» [Luigi Barzini].

Il grande inviato del “Corriere della Sera” Luigi Barzini, 120 anni fa più o meno, aveva capito tutto. Gli era bastato poco tempo in giro per l’Asia per scrivere queste righe di ammonimento che ho ritrovato mentre anni fa andavo alla scoperta di quel mondo per raccontare la storia di un interprete-diplomatico italiano che vi visse buona parte della sua vita adulta. Noi italiani e le grandi potenze occidentali eravamo i conquistatori, i colonizzatori. E Barzini oltre a raccontare le violenze perpetrate contro la popolazione cinese dalle armate civilizzatrici, le stesse che si erano impegnate nel grande continente africano e in America Latina, aveva compreso ciò che molti analisti di oggi non vogliono ancora accettare. Forse perché, come per altre realtà, evitano di leggere la storia.

Scavando per ricostruire le vicende di Eugenio Felice Maria Zanoni Hind Volpicelli mi erano capitate anche altre valutazioni su ciò che stava accadendo e poteva succedere in quel mondo così lontano  e che raccontai nel mio Dante in Cina (il Saggiatore, 2018). Queste le parole di Lord Wolseley, uno dei più grandi generali britannici dell’epoca vittoriana, in un’intervista pubblicata il 6 luglio 1900:

«La Cina ha tutti i requisiti per conquistare il mondo. Ha una popolazione di 400 milioni che parlano tutti la stessa lingua o dialetti comprensibili da un lato all’altro dell’Impero. Ha un’enorme ricchezza in attesa di essere sviluppata. Oltretutto non hanno paura della morte. Comincia con una base di milioni e milioni di possibili soldati come questi e ditemi se ci riuscite quale sarà la fine».

Il protagonista della mia ricerca si era formato in ciò che era, per molti versi, la grande scuola dei colonialisti. L’Orientale di Napoli ha le sue radici nel colonialismo religioso, precursore di quello nazional-economico. Là si preparavano giovani cinesi per estendere la presenza della chiesa e del pensiero cattolico a casa loro. Là, all’ombra del Vesuvio, all’epoca di Volpicelli, ossia nell’Ottocento, vi si istruivano, tra gli altri, gli interpreti indispensabili per la penetrazione della Cina, del Giappone e delle terre contese del Sud asiatico. E per la gestione del bottino. Diplomatici e tecnici, al servizio delle grandi potenze occidentali:

«Quando il governo britannico cercava di stabilire relazioni diplomatiche con la Cina, l’unico posto in Europa dove riuscì a trovare un interprete fu nel Collegio dei cinesi a Napoli», avrebbe scritto il protagonista del mio libro.

Per meglio comprendere le cronache degli scontri, delle tensioni montanti tra la Cina comunista-capitalista proiettata verso il mondo e le grandi potenze che sono le stesse di allora, come l’Europa e la Russia e persino gli Usa, che a cento anni erano ancora relativamente giovani e appaiono oggi, dopo altri cento anni, consumati e sulla difensiva, potrebbe aiutare questo capitolo tratto da Dante in Cina.

Volpicelli presenzia alla cerimonia per il secentenario dantesco a Hong Kong con la fascia rossa al braccio

Console, console generale, Hong Kong e i pirati

Un “raccoglitore di notizie”, come si autodefinisce Volpicelli in un dispaccio diretto ai suoi superiori, non è necessariamente una spia. L’interprete italiano, nel 1898, non era più alle dipendenze delle Dogane imperiali. Dopo quattro mesi tra Siberia e Russia europea era tornato a Roma per essere formalmente reclutato dal servizio consolare del Regno e ricevette le sue istruzioni per una carica amministrativa. La sua giurisdizione – Hong Kong, Canton e tutta la Cina meridionale – aveva un’importanza che andava molto al di là della presenza fisica degli italiani nella regione. Con l’approfondimento delle lingue Volpicelli si era preparato a compiti più vasti di quelli svolti per l’amministrazione delle Dogane. Con i suoi viaggi in Cina, Russia e Giappone si era fatto una conoscenza diretta dei tre paesi; dei costumi e delle usanze della gente comune. Aveva studiato a fondo i loro apparati militari. I suoi contatti si erano estesi anche al di fuori della cerchia stretta dei leader e degli amministratori che aveva frequentato fino ad allora. Nei primi anni dell’ultima decade del secolo, il nostro interprete aveva stupito la vasta comunità straniera di Shanghai con le sue pubblicazioni e conferenze. C’è chi tra gli storici moderni cita ancora i suoi studi e ricerche sugli antichi rapporti commerciali, politici e militari della Cina con il resto del mondo. Molti applausi ebbe dai soci della Royal Asiatic Society parlando del commercio degli arabi con la Cina e dei primi insediamenti coloniali portoghesi: giochi diplomatici e strategie globali come le complesse partite di Wei Yi che da tempo aveva spiegato agli occidentali.

Con il suo corpo alto e atletico, una folta barba che ricordava quella del rivoluzionario russo Bakunin che tanto gli piaceva e anche dell’intellettuale italiano un po’ anarchico De Gubernatiis, imparentato con lo stesso Bakunin, Zanoni entrò con il piede giusto nella colonia inglese in un momento cruciale per la Cina e per chi la voleva dominare. Si fece subito notare per la sua cultura e intraprendenza. Compiva tutte le mosse e i riti che spettavano al nuovo arrivato e anche quelle che non rientravano nel protocollo diplomatico. Gli avvenimenti importanti si susseguivano con una velocità insolita e lui si sarebbe ritrovato al centro non soltanto delle questioni diplomatiche ma anche dell’attività del Corpo di spedizione italiano che si sarebbe unito alle marine delle altre potenze e ai progetti di espansione territoriale europee e del Giappone.

La Germania, arrabbiata per l’uccisione di due missionari tedeschi a Shantung chiese, o meglio impose con la minaccia delle armi, di essere ricompensata con la consegna di Kiano Chow e la sua baia. La Russia occupò Port Arthur, una base navale situata in Manciuria ora chiamata Lüshunkou. La Francia si piazzò a Guangzhouwan, ossia “Baia di Guangzhou”, una piccola enclave sulla costa meridionale della Cina collegata all’Indochina. A giugno, l’Inghilterra ottenne l’estensione della sua concessione di Hong Kong allargando i possedimenti fino a Kowloon e un mese dopo fino a Weihaiwei. A settembre il giovane imperatore Kuang Hsu, fu messo agli arresti nel proprio palazzo, il premier Li Hung Chang fu spedito a casa e l’imperatrice Dowager – un termine in inglese che significa vedova o ereditiera – salì al trono del Dragone. Da lì a poco Londra avrebbe preteso i cosiddetti Nuovi territori per allargare ulteriormente Hong Hong.

Vi è compresa Lantao con la sua cima imponente, radicata nelle tradizioni e nella mitologia locali. Oggi l’isola ospita il modernissimo aeroporto internazionale. I Nuovi territori, tra vasti parchi naturali, una splendida università e zone residenziali edificate nel rispetto dello spazio e anche dell’uomo, costituiscono una magnifica lezione di urbanistica. Centoquindici anni fa, Hong Kong era già una colonia importante alla quale l’Inghilterra aveva dedicato enormi investimenti visibili ancora oggi che l’intero territorio (con uno status di autonomia amministrativa) è stato restituito alla Repubblica popolare cinese.

Volpicelli, prima di approdare a Hong Kong aveva girato per lungo e per largo la Cina, muovendosi tra Canton e Shanghai, tra Macao e Pechino. Conosceva tutti. Era rispettato. Il suo nome era ben noto: circolava anche fuori dal cerchio degli addetti ai lavoro, grazie al giornale inglese di Shanghai. Il North China Herald pubblicava di tutto, dalle notizie più importanti giunte dall’Europa e dagli Stati Uniti, alla cronaca quotidiana dell’Impero. Una rubrica annottava arrivi e partenze, conferenze, nozze e battesimi. Al ballo annuale della comunità straniera di Shanghai dedicarono una pagina intera con i nomi di tutti gli invitati, compresi “i signori Volpicelli”. Sotto il titolo “Funzione interessante”, nel dicembre 1899, i cronisti raccontarono la consegna a un caporale inglese di una medaglia al valore conferitogli dal Re d’Italia per aver salvato un marinaio italiano a Candia, sull’isola di Creta. «Il generale Cascogne pronunciò un discorso e strinse la mano all’eroe e il signor Volpicelli appuntò la decorazione sul petto del caporale. Nel suo discorso il Console espresse la sua alta ammirazione per le qualità splendide dei soldati britannici».

Erano gli anni della nuova colonizzazione e l’Italia voleva la sua fetta. A Roma il parlamentare Angelo Valle aprì una discussione vivace che, diceva, «deve elevarsi ai più alti concetti e ai maggiori interessi dello stato». Era il primo maggio 1899, pochi anni dopo che quel giorno era stato fissato per legge la festa dei lavoratori.

«La Camera decida se vuol seguire una politica, quale spetta all’Italia per le sue tradizioni, per la sua posizione geografica, per lo spirito nazionale, per il suo genio, per la sua intraprendenza e attività — prendendo parte a tutte le questioni mondiali;— oppure — se rinnegando il passato — voglia restringersi nel suo guscio, seguitando una politica che la ridurrebbe all’anemia, alla miseria, all’isolamento…». Angelo Valle guardava nella direzione in cui ci avrebbe portato Mussolini con la sua via dei Fori Imperiali, lastricata di conquiste, crimini e false speranze per il futuro di Roma.

«Vorrà l’Italia, un tempo la prima e più potente nazione colonizzatrice del mondo, rimanere ultima in questo movimento generale? La trasformazione del Mondo è inevitabile; può l’Italia disinteressarsene? L’Italia deve domandare il suo risorgimento economico non alla sola agricoltura, ma altresì all’attività degli scambi, alla sua produzione industriale, quindi la necessità delle colonie allo sviluppo economico di un popolo. Senza colonie non può esservi commercio esterno. Senza una politica coloniale non è possibile a una grande potenza ma ben presto quello immigrante, che perde lingua e nazionalità, A me piacciono colonie che abbiano costumi, leggi, Governo italiano, a seconda del classico concetto Romano, adottato oggi dagli inglesi.

Il mondo comincia a divenir piccolo e quindi è necessario affrettarsi a prenderne la nostra parte. Non dobbiamo spaventarci degli insuccessi in Africa, né prendersi paura dell’ignoto. Né dobbiamo fare della politica coloniale una questione di partito, ma seguire il nobile esempio dei Parlamenti inglese, franasse e tedesco, ove, quando sorgono questioni di politica estera, le opposizioni, meno i socialisti, si affrettano a dichiarare ai rispettivi Governi, che nella politica estera avranno il loro appoggio incondizionato».

E ancora: «La Cina è la grande carcassa dell’Asia, e sei aquile europee e americane vi girano attorno premendosi e spingendosi l’una sull’altra. Essa è destinata ad essere assorbita alle potenze europee, e perché noi non dovremmo averne la nostra parte?…»

Lelio Bonin Longare, sottosegretario agli Esteri, nel corso del dibattito parlamentare offrì una sua interessante intuizione: «…a parer mio, il maggior pericolo che può attendere un giorno gli stati che mettono piede nell’Estremo Oriente per procurarvisi possedimenti territoriali può venire dai cinesi medesimi. Noi troppo spesso, parlando della Cina, dimentichiamo i cinesi, ed è un errore che si spiega facilmente perché succede di frequente a tutti di confondere la Cina ufficiale con la nazione, cinese, o piuttosto con quel conglomerato di popoli è di razze differenti, uniti insieme dai vincoli di antichissime tradizioni, che per comodità di linguaggio si può chiamare nazione cinese».

Mandarino di 4° grado

Volpicelli, console rispettato in quanto rispettoso della cultura cinese

E andò avanti per ricordare un episodio della storia coloniale nel quale Volpicelli, ancora non console e nemmeno al servizio dell’Italia, era stato coinvolto come interprete. «Non dimentichiamo quello che è successo alla Francia nel Tonchino dove i francesi, più che con l’esercito regolare, ebbero a fare con irregolari e con la popolazione. Quella campagna segnò alcune delle date più tristi della storia militare della vicina Repubblica. Ed oggi pure non mancano i segni ammonitori: nel settembre scorso il Kwang-sì era in mano di un esercito di 20.000 ribelli che saccheggiarono ed incendiarono intere città, e nel mese di ottobre il settlement francese di Shanghai era attaccato dalla popolazione e dovette essere difeso dai marinai delle navi ancorate nella rada.

Abbiamo di questi giorni veduti i Tedeschi a Kiao-Tchiao e gli Inglesi a Hong Kong intraprendere spedizioni all’interno per domare alcune ribellioni. Si vede già all’opera l’azione agitatrice di sette politiche, che il Brandt paragona agli Armeni dell’Anatolia, uomini dal più ardente patriottismo e poco scrupolosi nella scelta dei lezzi coi quali possono nuocere ai loro nemici».

Hong Kong nell’estate del 1993, vista dal Peak Victoria. All’incirca dallo stesso punto di vista della copertina.

Volpicelli, per quanto ancora figura dai tratti incerti e misteriosi, era decisamente un anticolonialista (e anche un antifascista al punto da rinunciare alla vecchiaia in Italia e alla compagnia di sua moglie e finire la sua vita in Giappone). Odiava talmente tanto l’espansionismo britannico da apparire agli occhi di Londra come un alleato, quasi un agente della Germania avviata a essere nazista. Purtroppo i giochi ambigui di quel mondo sono ampiamente specchiati in quelli delle diplomazie occidentali di oggi incapaci di affrontare con coerenza e una strategia comune il risveglio di quell’immenso popolo sonnacchioso visto e analizzato poco più di un secolo fa dall’inviato del “Corriere della Sera”.

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L’influenza russa nel Sudest asiatico passa per le armi https://ogzero.org/l-industria-bellica-di-mosca-e-il-sudest-asiatico/ Wed, 21 Jul 2021 17:04:12 +0000 https://ogzero.org/?p=4340 L’attenzione prestata da OGzero nei mesi scorsi alla vicenda birmana e all’intero Sudest asiatico e i molti interventi da noi ospitati riguardo alla strategia geopolitica russa ci hanno indotto a riprendere oggi questo interessante articolo scritto da Agnese Ranaldi per l’Associazione Italia-Asean il 9 luglio, perché segnala sforzi, difficoltà, offerte e penetrazioni di mercati da parte […]

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L’attenzione prestata da OGzero nei mesi scorsi alla vicenda birmana e all’intero Sudest asiatico e i molti interventi da noi ospitati riguardo alla strategia geopolitica russa ci hanno indotto a riprendere oggi questo interessante articolo scritto da Agnese Ranaldi per l’Associazione Italia-Asean il 9 luglio, perché segnala sforzi, difficoltà, offerte e penetrazioni di mercati da parte dell’industria bellica di Mosca che ci sembra possano compendiare e integrare le analisi sui traffici che si stanno compiendo in quell’area. Riproponiamo questo articolo nei giorni in cui cinque clienti stranieri hanno già inviato delle offerte per l’acquisto del nuovo caccia russo Su-57 di quinta generazione: l’annuncio del direttore di Rosoboronexport, Aleksandr Mikheev, è stato diffuso in occasione del salone dell’aeronautica di Mosca Maks-2021. Lasciamo a voi, dopo la lettura di questo articolo, la risposta su quali siano i 5 clienti della società per l’export militare di Putin che hanno opzionato il nuovo caccia da guerra.


All’inizio del mese di luglio del 2021 il Ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov ha incontrato l’omonimo laotiano Saleumxay Kommasith a Vientiane, capitale del Laos. Il Ministro Kommasith ha ringraziato la Russia per l’aiuto ricevuto durante la pandemia da Covid-19. L’incontro si innesta nel quadro della più ampia politica Turn to the East perseguita da Mosca come strategia per rafforzare le relazioni con l’Asia-Pacifico, che si impernia sul primato russo nella vendita di armi e negli investimenti difensivi. Strategia che proprio di recente ha visto sviluppi in Laos, con l’avvio della costruzione congiunta di un aeroporto e di infrastrutture difensive.

Vladimir Putin riconosce nel Sudest asiatico un grande potenziale, e avanza i propri obiettivi strategici puntando sulla diplomazia della difesa. Questa enfasi sull’hard power è  una peculiarità della politica estera del Cremlino, la cui cultura politica valorizza meno la pervasività del soft power. Secondo diversi analisti, sono proprio le velleità geostrategiche e gli imperativi di sicurezza di Mosca che hanno consentito un rafforzamento della cooperazione con la regione dell’Asia-Pacifico.

Negli ultimi anni Mosca ha intensificato gli sforzi per la vendita di armi in Asia orientale. Il primato incontestato nella vendita di forniture militari nella regione sembra mostrare, però, segni di cedimento. Le esportazioni sono in declino, perlopiù per via del Countering America’s Adversaries Through Sanctions Act (Caatsa), approvato nel 2017 dall’amministrazione Trump. Davanti al continuo coinvolgimento della Russia nelle guerre in Ucraina e Siria e alla sua interferenza nelle elezioni statunitensi del 2016, la reazione di Washington non si è fatta attendere: la legge impone sanzioni a chiunque abbia rapporti commerciali col complesso militare-industriale russo. Nel periodo 2015-19, le esportazioni di armi della Russia nella regione dell’Asia sudorientale ammontavano a 2,7 miliardi di dollari, in calo rispetto 4,7 miliardi di dollari del 2010-14, secondo Ian Storey dell’Institute for Southeast Asian Studies (Iseas). Tra il 2010 e il 2019 anche le esportazioni globali della Russia sono diminuite, scendendo da 36,8 miliardi di dollari nel 2010 a 30,1 miliardi di dollari nel 2019 con un calo del 18 per cento.

I paesi del Sudest asiatico rivestono un ruolo strategico. La crescita della spesa nazionale per la difesa è andata di pari passo con lo sviluppo economico. «Le armi sono affluite nel Sudest asiatico negli ultimi anni in parte perché le nazioni dell’Asean possono ora permettersi di acquistarle» ha dichiarato Siemon Wezeman, ricercatore presso lo Stockholm International Peace Research Institute (Sipri). Il commercio con la Russia presenta diversi vantaggi: i prezzi delle armi russe sono decisamente più competitivi di quelli dei concorrenti quali Usa, Cina ed Unione Europea. In più «La Russia è flessibile sui metodi di pagamento diversi dai contanti, il che le dà un vantaggio nelle economie in via di sviluppo», ha affermato Shinji Hyodo, direttore degli studi politici presso l’Istituto Nazionale Giapponese per gli Studi sulla Difesa. Per esempio, l’Indonesia dovrebbe pagare metà del suo pagamento per i jet Su-35 con esportazioni di olio di palma, gomma e altri prodotti. Ma il vero vantaggio strategico è il fatto che Mosca non richiede alcuna contropartita ideologica, al contrario di quanto accade con Stati Uniti ed UE, che richiedono garanzie sul trattamento dei diritti umani e sulla democrazia. A questo proposito, il Myanmar non può importare armi dall’UE per via di un embargo in vigore già dal 1990 e anche in Thailandia il colpo di stato militare del 2014 ha provocato restrizioni da parte dei fornitori europei.

Vietnam e Myanmar sono invece le principali destinazioni di armi russe, seguite da Malaysia, Indonesia e Laos. In Vietnam la Russia domina il 60 per cento delle importazioni per la difesa. In Myanmar il ruolo di fornitore di armi è oggi particolarmente controverso, a causa del recente colpo di stato militare. Il mese scorso una delegazione russa ha visitato segretamente la giunta militare golpista, tra le proteste degli attivisti per i diritti umani. Tra gli altri membri della delegazione anche una rappresentante di Rosoboronexport – agenzia statale che si occupa di esportazioni di beni e servizi legati alla difesa. Il Generale golpista birmano Min Aung Hlaing ha ricambiato la visita il 22 giugno, a riprova che la cooperazione militare tra i due paesi non sembra mostrare segni di cedimento. Anzi: la Russia è stata tra i paesi che alle Nazioni Unite si sono astenuti alla risoluzione assembleare che richiedeva un embargo sulle armi in Myanmar: Russia e Cina sono infatti i due maggiori fornitori di armi del paese.

I paesi della regione si stanno ritagliando un ruolo autonomo dell’arena politica internazionale, e i vantaggi competitivi rappresentati dalla Russia potrebbero essere surclassati da calcoli diversi. All’urgenza di gestire questioni securitarie come il Myanmar e il Mar Cinese meridionale, si aggiunge il desiderio di tutelare la stabilità regionale e il quieto vivere dei suoi abitanti. La diplomazia della difesa del Cremlino dovrà diversificare la sua offerta di beni e servizi legati alla difesa se vorrà competere con l’aumento della concorrenza internazionale.

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Il trailer del kolossal hollywoodiano “America is back” https://ogzero.org/america-is-back-la-regia-del-road-movie-di-biden/ Sun, 20 Jun 2021 01:34:58 +0000 https://ogzero.org/?p=3925 «America is back» in Europe, but… Biden torna a proporre la politica multipolare americana, che mira a presentare gli Stati Uniti come riferimento di un’ampia alleanza in cui si distribuiscono patenti di democrazia a tutti, tollerando in parte anche il regime putiniano (o comunque mostrando di voler aprire un dialogo), purché si adotti un profilo […]

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«America is back» in Europe, but… Biden torna a proporre la politica multipolare americana, che mira a presentare gli Stati Uniti come riferimento di un’ampia alleanza in cui si distribuiscono patenti di democrazia a tutti, tollerando in parte anche il regime putiniano (o comunque mostrando di voler aprire un dialogo), purché si adotti un profilo intransigente verso Pechino o si rendano meno stretti legami e partnership con l’unico rivale riconosciuto. Infatti la regia raffinata ha dapprima restituito una riunione di famiglia nella verde Cornovaglia, dove il vecchio patriarca è venuto in Europa a cercare location adatte per una ridistribuzione dei ruoli all’interno del consesso europeo, lanciando segnali distensivi di collaborazione che superassero l’isolazionismo dell’amministrazione precedente – di cui si sono frettolosamente cancellati gli sgarbi –, ma sancendo la globalizzazione e lo spostamento dal marcato eurocentrismo, già abbandonato da Obama, all’asse indopacifico.

America is back

Ripulitura preventiva delle deiezioni trumpiane

E di nuovo la trama del film lascia trasparire il messaggio anticinese dell’intreccio.

Il Convitato di Pietra

E allora scomponendo il film del viaggio di formazione della presidenza Biden nei suoi duetti, cominceremmo con quello non ancora avvenuto tra Xi Jinping e Biden – ma di cui c’è già stata una prolessi nei titoli di coda, immaginandolo nella cornice del G20 italiano, in scena esattamente vent’anni dopo quello tragico genovese. Ci pare che cominciare l’analisi dei fotogrammi del road-movie europeo di Biden dal fuoricampo in cui è rimasto collocato per tutto il tempo il co-protagonista principale sia l’ottica attraverso cui assistere almeno a una sequenza della pellicola. Quella che consideriamo centrale e che ci sforziamo di inquadrare come nel film Dark Passage con Humphrey Bogart (regia di Delmer Davies per un titolo perfetto nel 1947 come per sottotitolare l’attuale film di Biden), in cui Vincent non viene inquadrato se non con particolari degli occhi e invece la cinecamera coincide con il suo sguardo, cercando di restituire l’ottica della soggettiva fuori scena di Xi Jinping, il controcampo del Convitato.

Don Giovanni 1979, di Joseph Losey

Per quanto sommessa, accennata e rimasta impigliata nel resto della trama, fatta invece di spettacolari palcoscenici e forti illuminazioni (quasi a voler spostare l’attenzione su episodi collaterali, come avviene spesso nei road-movie); la mano tesa del Convitato di pietra ha preso il fuoriscena come nel finale del Don Giovanni, relegando l’annuncio di un percorso delle merci alternativo a quello promosso dalla Bri, la nuova Via della seta, al rango del catalogo di Leporello: una smargiassata fin dall’allitterazione del nome Build Back Better World.

Il messaggio principale del film, sempre sottotraccia, è che vanno ridimensionati innanzitutto i rapporti commerciali con i cinesi, ma fingendo che si tratti di una guerra morale alle violazioni dei diritti civili.

E parlando di questa sequenza con Sabrina Moles (@moles_sabrina), il film si è trasformato in un viaggio interstellare, con al centro la nuova piattaforma spaziale cinese, che ha costretto Biden a un aggiornamento dell’articolo 5 dell’accordo Nato, estendendolo al dominio spaziale:

“La pantomima globalizzata della Guerra morale alla Cina”.

Il servo di due padroni

Di tutta la pantomima messa in scena nel viaggio di formazione del mondo di Biden infatti, riconsiderando il tourbillon dei messaggi mediatici, una volta conclusa la kermesse e lasciate decantare le dichiarazioni, spenti i riflettori, a posteriori nel consuntivo non si annoverano risultati apparentemente tangibili, ma è stata come una proiezione di slide della sceneggiatura da recitare nei prossimi anni della serie-tv che potrebbe intitolarsi The Great Game. The Revenge, la cui regia è affidata a Biden, con Blinken aiutoregista nelle sequenze del ritiro da Kabul, quindi al di là di ogni simulacro simbolico – che non avrà mai lo stesso impatto dell’ultimo elicottero che il 1° maggio 1975 lasciava l’ambasciata americana in Vietnam, anche se si tratta proprio di quel remake – offerto in pasto alle telecamere i nodi del film vero ruotano ancora attorno a Donbass e Crimea – come ci racconterà Yurii Colombo alla fine di questo articolo – e di conseguenza alle ex repubbliche sovietiche, che ritroviamo nel discorso di Baku, pronunciato da Erdoğan guarda caso proprio il giorno dopo il ritorno nell’alveo della Nato, con il compito speciale di andarsi a immolare in Afghanistan, come già avvenne quando la Turchia dovette pagare l’ingresso nella Nato dissanguandosi nella Guerra di Corea.

M.A.S.H., 1970, regia di Robert Altman

Stavolta il presidente turco di buon grado allunga i suoi tentacoli anche verso il Khorasan con la benevolenza degli Usa, che gli delegano così controllo militare, sfruttamento e ricostruzione di un’area fondamentale per il passaggio di merci tra XInjiang uyguro, Karakum turkmeno, Pamir tajiko, HinduKush multitribale, Karakorum e pianure indo-pakistane… monti e pianure persiane. Nomi evocativi di pellicole in costumi di mercanti: l’autentica antica Via della seta – il copyright – da contrapporre alla Belt Road Initiative per conto americano.

D’altronde nel duetto realmente interpretato con Putin si è giunti a una comunità di intenti («un dialogo bilaterale sulla “stabilità strategica”») su quel territorio che ha visto i due imperialismi rimanere impantanati nella Campagna d’Afghanistan.  Come riporta l’Osservatorio sulla Sicurezza Internazionale della Luiss: «Nella conferenza stampa tenuta da Biden, a seguito dell’incontro che è durato circa 3 ore, il presidente ha affermato di aver discusso dell’interesse condiviso di Stati Uniti e Russia nel prevenire «una recrudescenza del terrorismo in Afghanistan»; [anche se ci sono prove del “Times” di aiuti economici e in armi elargiti da Mosca ai Talebani, ai quali erano anche state promesse taglie dal Cremlino per ogni soldato statunitense ucciso]. Un giornalista gli ha quindi chiesto se avesse fatto qualche domanda a Putin al riguardo. «No, è stato lui a chiedere dell’Afghanistan. Ha detto che spera che saremo in grado di mantenere un po’ di pace e sicurezza, e io ho detto: “questo dipende molto da voi”».

Dunque si direbbe che entrambe le potenze appaltino a Erdoğan il vuoto lasciato dal ritiro, ma poi gli affari azeri hanno inebriato il presidente turco spingendolo a parlare di imminente unità d’intenti tra 6 nazioni, tra queste le tre che hanno animato i protocolli di Astana e che si inserivano nella assenza trumpiana per spartirsi l’area (Russia, Turchia, Iran). Il colpo di scena turco di Baku allarga il novero a Georgia, Azerbaijan e… Armenia (!), dichiarando nella composizione dell’accordo quanto sia centrale proprio l’area caucasica, un’area che Putin non si può permettere sia sotto il controllo occidentale. E in questo caso l’ottica adottata nelle proiezioni della trama del film imbastita a Bruxelles, a cui hanno assistito Biden e Erdoğan alterna quello del documentario in stile Settimana Incom, con la promozione delle prodezze dei droni Bayraktar in Caucaso; mentre l’altro stile retorico utile per inquadrare lo sforzo richiesto alla Turchia in territorio libico non è più quello del materiale mediatico per l’arruolamento nelle Private military and security companies, quanto la brochure patinata delle imprese edili per la ricostruzione con l’imprimatur di Biden.

Illuminante risulta cercare di adottare lo sguardo di Ankara sull’incontro di Bruxelles, il primo tra Biden e Erdoğan, usando la lucida ironia di Murat Cinar (@muratcinar):
“Finto multilateralismo al servizio di reali democrature affaristiche”.

Il Terzo Uomo

Dunque in qualche modo Erdoğan dimostra ambiguità anche genuflettendosi a Bruxelles il giorno prima da Biden e quello successivo intraprendendo anche lui un road-movie interno all’Azerbaijan per controllare appalti e rilanciare l’alleanza di Astana allargata a un’area limitrofa e complementare a quella che coinvolge l’Afghanistan… e che è fondamentale per la politica di Putin, di cui il presidente turco rimane alleato. 

Proprio del terzo incontro del Gran Tour bideniano rimane da parlare, dopo la presenza inquietante del Convitato ingombrante Xi e l’infido Erdoğan, la scena madre e l’epilogo del viaggio di formazione vedeva la compresenza nell’inquadratura del “Killer dagli occhi di ghiaccio e senz’anima”, come lo stesso Biden aveva definito Putin

America is back

L’occhio che uccide, 1960, di Powell e Pressburger

Il consumato stratega aveva organizzato la sfida non tanto come nel torneo di The Quick and the Dead (Sam Raimi, 1995), piuttosto spingendo sull’atmosfera da spy story, per evocare i giornalisti uccisi e i dissidenti avvelenati, senza con questo appendere il Cremlino al cappio dei diritti umani e quindi cambiando registro narrativo l’incontro non ha risolto i veri nodi che rappresentano il dissidio tra Russia e Stati Uniti, ma si è trasformato in una partita a scacchi in stallo… riguardo al possibile  scacco di uno dei due contendenti possiamo seguire lo sguardo moscovita di Yurii Colombo (@matrioska2021):

“Le relazioni insolubili”.

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Non ci si salva da soli nella Guerra dei vaccini https://ogzero.org/la-guerra-dei-vaccini-nessuno-si-salva-da-solo/ Sat, 29 May 2021 08:17:40 +0000 https://ogzero.org/?p=3676 La Guerra dei vaccini è iniziata. Sotto il benevolo ombrello “non ci si salva da soli”, le potenze occidentali hanno cominciato a capire che uno strumento diplomatico fondamentale per riconquistare mercati, prestigio e influenza in Africa passa, appunto, dai vaccini. Russia e Cina hanno cominciato la loro sfida da molti mesi. L’Occidente l’ha lanciata prima, […]

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La Guerra dei vaccini è iniziata. Sotto il benevolo ombrello “non ci si salva da soli”, le potenze occidentali hanno cominciato a capire che uno strumento diplomatico fondamentale per riconquistare mercati, prestigio e influenza in Africa passa, appunto, dai vaccini. Russia e Cina hanno cominciato la loro sfida da molti mesi. L’Occidente l’ha lanciata prima, durante il minivertice africano di Parigi e poi con il Global Health Summit di Roma.

La sfida dietro ai brevetti

Washington

Pregevole, e per nulla scontata, l’iniziativa del presidente americano Joe Biden di “sospendere i brevetti” e trasferire tecnologie per la produzione dei vaccini nel continente africano.

 

La Direttrice Generale della World Trade Organization (WTO), Ngozi Okonjo-Iweala, ha dichiarato che sospendere i brevetti sui vaccini garantirebbe ai paesi in via di sviluppo un accesso equo alla vaccinazione il più rapidamente possibile.

Immediatamente gli ha fatto eco il suo omologo francese, Emmanuel Macron, e poi la presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen. Parole importanti, piene di significato politico, forse anche umanitario, ma non può sfuggire che la mossa occidentale ha più il sapore della sfida a Russia e Cina che un vero e pregevole impegno per aiutare l’Africa a vaccinarsi. Ma andiamo per ordine.

Parigi

Oltre alle questioni legate al finanziamento delle economie africane, i partecipanti al vertice di Parigi, che si è tenuto sul tema il 18 e il 19 maggio, hanno affrontato le problematiche relative alla distribuzione dei vaccini anti-Covid-19 in Africa.

La richiesta, arrivata da un po’ tutte le parti in causa, è, appunto, l’eliminazione dei brevetti “per consentirne la produzione in Africa”.

Di questo si è fatto portavoce il presidente francese Emmanuel Macron che nella conferenza stampa finale ha aggiunto: «Chiediamo all’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), all’Organizzazione mondiale del commercio (Omc) e al Medicines patent pool di rimuovere tutti i vincoli in termini di proprietà intellettuale che bloccano la produzione di alcuni tipi di vaccini».

La paura delle potenziali varianti

Macron, dopo aver citato la lentezza della vaccinazione come uno dei principali problemi del continente, ha quindi fissato l’obiettivo di vaccinare il 40 per cento delle persone in Africa entro la fine del 2021, sottolineando che «la situazione attuale non è sostenibile, è ingiusta e inefficiente». Secondo il presidente francese infatti «non riuscendo a vaccinare gli africani si rischia di far emergere nel continente varianti di Covid-19 potenzialmente pericolose che poi potrebbero diffondersi in tutto il mondo». La direttrice del Fondo monetario internazionale (Fmi) Kristalina Georgieva ha avvertito che la mancata accelerazione del lancio del vaccino in Africa avrebbe anche conseguenze economiche: «È chiaro che non c’è un’uscita duratura dalla crisi economica se non si esce dalla crisi sanitaria». «Dobbiamo sostenere l’Africa nella costruzione delle proprie industrie e infrastrutture sanitarie.

«Il Team Europe lancerà un’iniziativa per aiutare a potenziare la produzione di vaccini in Africa, trasferendo le tecnologie necessarie», questo l’impegno preso dalla presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen.

Roma

Durante il vertice di Roma l’Unione europea, infatti, ha promesso di impegnarsi per creare capacità produttiva nei paesi africani. Il continente, oggi, importa il 99 per cento dei vaccini.

L’iniziativa è a tutto tondo: investimenti in infrastrutture e impianti di produzione, sostegno alla gestione e la definizione del quadro normativo.

L’idea di fondo è quella di creare degli hub regionali così da dare impulso al trasferimento di tecnologie per la produzione di vaccini, ma anche di altro materiale sanitario.

Covax delay

Oltre alle difficoltà nella produzione locale, ad avere un impatto negativo nella copertura vaccinale dell’Africa sono i ritardi nelle consegne dei lotti. Dall’arrivo delle prime dosi di vaccino previste dal programma Covax dell’Oms, molti paesi africani hanno segnalato, nelle ultime settimane, ritardi nella consegna dei secondi lotti. A confermarlo a metà aprile è stato John Nkengasong, direttore dell’agenzia Africa Centres for disease control and prevention (Africa Cdc). E il Ruanda ha dovuto interrompere la vaccinazione contro il coronavirus a causa dei ritardi nelle consegne. A Roma, poi, si sono registrate promesse di nuovi finanziamenti per il programma Covax sia da parte di governi sia di case farmaceutiche.

In ogni caso, allo stato attuale, il programma è ampiamente sottofinanziato.

L’obiettivo dichiarato al termine del Glogal health summit è quello di arrivare a un accordo entro il vertice del G20 che si terrà alla fine di ottobre. Insomma, i negoziati, se mai inizieranno, saranno lunghi.

Ankara

All’appuntamento con la storia, poi, non poteva mancare il sultano di Ankara, che di affari in Africa ne ha molti ed è tutto teso ad ampliare la sua sfera di influenza sul continente. Anche lui ha chiesto un accesso equo per tutti i paesi. «Ci sono gravi ingiustizie nell’acquisizione dei vaccini», ha detto Recep Tayyip Erdoğan, e l’80 per cento di essi sono stati acquistati dai paesi ad alto o medio reddito. «Sebbene la maggior parte della popolazione nei paesi sviluppati sia stata vaccinata almeno con una dose, questo tasso non ha nemmeno raggiunto l’1 per cento nell’Africa subsahariana».

Iniziative sanitarie e finanziarie

Dosi gratis subito

Non vi è dubbio che tutte queste iniziative siano lodevoli. Macron chiede che venga vaccinato il 40 per cento della popolazione africana, ciò significa, grosso modo, 600 milioni di persone entro il 2021. Per raggiungere l’obiettivo, oltre a un’imponente macchina logistica, occorre fornire al continente più di un miliardo di dosi. Sospendere i brevetti e trasferire tecnologie servirà per il futuro, non certo per il presente. Sicuramente porterà sviluppo. Ma per raggiungere l’obiettivo fissato dal presidente Macron si deve fare uno sforzo in più e subito:

donare le dosi in eccesso prodotte dai paesi occidentali. Non si può aspettare che l’Africa sia in grado da sola di produrre vaccini. Donare dosi o, come intende fare Big Pharma, venderle a un prezzo calmierato, senza guadagno.

Vedremo se sarà in grado di farlo.

Finanziamenti gratis subito

G20

Al vertice di Parigi, poi, si è discusso di finanziamenti per sostenere le economie africane. Una decisione è stata presa. È stata confermata l’emissione di Diritti speciali di prelievo (Dsp) per un importo di 33 miliardi di dollari per l’intero continente, di cui 24 per l’Africa subsahariana. Il Dsp non è altro che una sorta di assegno convertibile in dollari, distribuito in proporzione al peso specifico dei paesi e al loro contributo alle risorse. In molti considerano il Dsp come una moneta del Fondo monetario internazionale. Denari concessi a prestito e a tasso zero. Comunque, da restituire. Il G20, tuttavia, si era detto favorevole all’emissione di diritti speciali fino a 650 miliardi di dollari.

La società civile, invece, proponeva di emettere diritti per almeno 3000 miliardi di dollari, così da creare una massa di liquidità considerevole per rilanciare le economie africane.

Nella dichiarazione finale i partecipanti al minivertice di Parigi hanno detto di fare affidamento sul sistema finanziario internazionale. È necessaria «una decisione rapida su un’assegnazione generale di Dsp per un importo senza precedenti, che dovrebbe raggiungere 650 miliardi di dollari, di cui quasi 33 miliardi destinati ad aumentare le attività di riserva dei paesi africani e a implementarlo appena possibile, e chiediamo ai paesi di utilizzare queste nuove risorse in modo trasparente ed efficiente», si legge nella nota finale.

Abidjan

Uno sforzo multilaterale che coinvolgerà la rete di Banche pubbliche di sviluppo africane, che coinvolgono la Banca africana per lo sviluppo (Afdb) – con sede ad Abidjan – e istituzioni finanziarie pubbliche nazionali e regionali. «Per alleviare le economie africane che soffrono di vulnerabilità legate al loro debito pubblico estero, i creditori del G20 e del Club di Parigi agiscono come concordato nel comunicato stampa dei ministri delle Finanze e dei governatori delle banche Centrali del G20 ad aprile e il quadro comune per i trattamenti del debito oltre la Debt service suspension initiative (Issd) adottata nel novembre 2020», hanno approvato i firmatari. Tradotto in soldoni significa moratoria del debito per il 2020 e il 2021. Per promuovere la crescita e la creazione di posti di lavoro, i partecipanti hanno espresso sostegno alle strategie nazionali africane accogliendo con favore l’ambizione di sviluppare un’alleanza per l’imprenditorialità in Africa, che avrà un’ampia portata panafricana e garantirà un posto preponderante per le aziende.

Questa alleanza, nelle intenzioni, renderà possibile mobilitare tutti i partner che desiderano mettere risorse finanziarie e tecniche al servizio dello sviluppo del settore privato in Africa.

Pieno appoggio all’iniziativa del G20 sul sostegno all’industrializzazione in Africa e nei paesi meno sviluppati, del partenariato del G20 con l’Africa, Compact with Africa.

Parole importanti e belle. Anche qui i tempi non sono propriamente brevi. Nelle prossime settimane verranno avviati i lavori tecnici, che dovrebbero sfociare in un accordo politico tra giugno e ottobre. Buon per loro. Insomma, un New Deal per l’Africa attraverso la creazione di nuove linee di credito. Anche qui staremo a vedere come e quando questi pronunciamenti si tradurranno in fatti concreti.

ReleaseG20: riconvertire il pagamento del debito in investimento

Roma

Insomma, timidi passi in avanti. Anche la rete di ong Link2007 giudica positivamente, almeno vede nelle affermazioni finali un passo in avanti per l’Africa. Il presidente della rete di ong, Roberto Ridolfi, spiega a “InfoAfrica”, che ci sono diversi punti da evidenziare: «Il primo è che al vertice non hanno partecipato tutti i paesi africani e non hanno partecipato tutti i paesi del G20, una partecipazione significativa, ma non massiccia». Per Ridolfi ci sono stati alcuni messaggi importanti, come quello sui diritti speciali di prelievo, che, tuttavia, «non bastano. Parliamo di 33 miliardi per tutta l’Africa su un totale sollecitato di 650». E poi c’è la questione che riguarda la vulnerabilità dei paesi africani. «Questa richiede un’attitudine diversa delle banche di sviluppo, più propensa al rischio. Le banche di sviluppo devono essere capaci di prenderlo questo rischio». C’è poi la sospensione dei pagamenti dei debiti: «Non è sufficiente, noi di Link2007 lo abbiamo detto più volte ed è ciò che portiamo avanti con la nostra proposta ReleaseG20, che il gruppo di lavoro e sviluppo del G20 mi sembra stia prendendo in considerazione: cancellare laddove possibile ma in larga parte riconvertire il pagamento del debito in un’azione di investimento verso gli obiettivi di sviluppo sostenibile», una sorta di recovery fund per i paesi fragili. «Si menziona poi un’alleanza con il settore privato, che va alimentata e per questo torno sul fondo di riconversione del debito – conclude Ridolfi – che può essere costituito a livello nazionale e diventare un fondo Sdgs (Sustainable development goals founds, un meccanismo di cooperazione internazionale a favore dello sviluppo sostenibile) per alimentare e proteggere gli investimenti privati».

Durante il vertice francese la parola sostenibilità non è stata mai menzionata.

Parigi, Africa

Al vertice di Parigi non hanno partecipato tutti i paesi africani e nemmeno tutti quelli del G20, ma quelli che contano sì: dalla Cina all’Arabia Saudita, dagli Stati Uniti agli Emirati, dal Giappone al Portogallo, dalla Germania all’Italia e altre ex potenze coloniali. Per quando riguarda l’Africa i paesi strategici c’erano tutti: dal Sudafrica all’Angola, dal Congo alla Costa d’Avorio, dall’Egitto al Kenya, dalla Nigeria al Ruanda.

Situazioni ufficiali, parate e discorsi…

… In coda per ricevere il vaccino…

 

 

 

 

 

 

 

 

… o per ricevere aiuti alimentari…

Un minivertice, dunque, con il quale Parigi intende riaffermare e sviluppare la sua presenza nel Continente, nonché la sua influenza.

All’Africa, tuttavia, non servono parole. E non ha bisogno nemmeno che diventi terreno fertile per un’altra guerra diplomatica tra potenze occidentali. Servono fatti e subito. In cinque parole: l’Africa-ha-bisogno-di-giustizia.

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L’Iran guarda a Est https://ogzero.org/attacco-cibernetico-a-natanz/ Tue, 13 Apr 2021 09:02:44 +0000 https://ogzero.org/?p=3058 Il più importante impianto nucleare iraniano è di nuovo al centro dell’attenzione internazionale: il 10 aprile Rohani aveva inaugurato lì, a Natanz, in pompa magna una nuova serie di centrifughe per l’arricchimento dell’uranio. Il giorno dopo però l’impianto è stato colpito da un attacco cibernetico che le autorità iraniane hanno definito “terrorismo nucleare”. Già il […]

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Il più importante impianto nucleare iraniano è di nuovo al centro dell’attenzione internazionale: il 10 aprile Rohani aveva inaugurato lì, a Natanz, in pompa magna una nuova serie di centrifughe per l’arricchimento dell’uranio. Il giorno dopo però l’impianto è stato colpito da un attacco cibernetico che le autorità iraniane hanno definito “terrorismo nucleare”. Già il 2 luglio 2020 l’impianto di Natanz era stato oggetto di un attacco, presumibilmente israeliano. Questa volta la responsabilità di Israele è asserita da fonti dell’intelligence statunitense citate dal New York Times. Il ministro degli esteri iraniano Javad Zarif ha dichiarato, lunedì 12 aprile, che l’Iran “risponderà” all’attacco, e ha accusato: Israele «ha voluto vendicarsi per i nostri progressi sulla via la revoca delle sanzioni». Insomma:  il nuovo attacco a Natanz  accentua i rischi di escalation tra Iran e Israele, e minaccia di ipotecare i colloqui appena avviati a Vienna per rilanciare l’accordo del 2015 sul programma nucleare iraniano.

L’articolo di Marina Forti che proponiamo colloca il contenzioso sul nucleare iraniano nel contesto, allargando lo sguardo ad altri protagonisti, ponendo le basi per interpretare la collocazione geopolitica dell’Iran nei prossimi anni.


Uno spostamento, verso Est?

La firma di un accordo venticinquennale di partenariato tra l’Iran e la Cina è stata accolta da commenti contrastanti. Firmato il 27 marzo a Tehran dai ministri degli Esteri iraniano e cinese, Javad Zarif e Wang Yi, l’accordo riguarda commercio, investimenti e difesa. È uno sviluppo importante, per il merito, e forse prima ancora per il momento in cui viene annunciato.

Presupposti per la ripresa del Jcpoa

Infatti, una delle partite più difficili affrontate oggi dalla diplomazia internazionale riguarda il possibile rilancio dell’accordo sul nucleare iraniano – il Joint Comprehensive Plan of Action, o Jcpoa, firmato da sei potenze mondiali con l’Iran nel 2015, da cui gli Stati Uniti si sono ritirati unilateralmente nel maggio 2018 per volere dell’allora presidente Donald Trump.

Il suo successore Joe Biden, appena insediato alla Casa Bianca, ha affermato l’intenzione di riportare gli Stati Uniti in quell’accordo: a condizione però che l’Iran torni a osservare le limitazioni alle sue attività nucleari previste dal Jcpoa, in parte abbandonate negli ultimi mesi. Tehran ha risposto che è stata Washington a rompere gli accordi: dunque prima gli Usa revocano le sanzioni draconiane e unilaterali che da due anni e mezzo soffocano l’economia iraniana, poi anche l’Iran torna a osservare i patti. La questione di chi debba compiere il primo passo ne nasconde altre, non ultimo il fatto che sia a Washington, sia a Tehran lavorano gruppi di interesse contrari alla ripresa di quegli accordi.

L’impasse si è prolungata per oltre due mesi. Finché gli Stati Uniti hanno accettato di partecipare a un vertice dei firmatari dell’accordo nucleare (Francia, Regno Unito, Germania, Russia, Cina, Unione europea e Iran), che si è tenuto a Vienna nella settimana dopo Pasqua, con i rappresentanti europei nel ruolo di mediatori. Iran e Stati Uniti hanno dunque accettato di definire un meccanismo di rientro simultaneo: gli Usa revocano le sanzioni del periodo Trump mentre l’Iran torna a limitare l’arricchimento dell’uranio secondo il vecchio accordo. Definire le modalità non sarà semplice, ma il percorso è aperto.

C’entra qualcosa tutto questo con l’accordo di cooperazione sino-iraniano, annunciato solo pochi giorni prima? Direttamente no, certo. E però, è chiaro che un partenariato economico tra l’Iran e la Cina limita l’efficacia del principale strumento di pressione usato da Washington verso Tehran, cioè le sanzioni commerciali. «L’Iran sta cercando di dire che ha dei partner, anche in un momento di tensione e difficoltà», commenta Esfandiar Batmangheligj, direttore della newsletter Bourse and Bazar specializzata in Iran e Asia centrale (citato da “The Independent”).

L’importanza di questo accordo però va oltre il dossier nucleare, e si inquadra nella più ampia strategia di sviluppo dell’Iran tra Europa e Asia.

Cosa sappiamo degli accordi tra Cina e Iran?

Per la verità non conosciamo molti dettagli sul “patto di cooperazione strategica” firmato a Tehran. Sappiamo che è stato in gestazione per cinque anni: ne parlò per la prima volta il presidente cinese Xi Jinping nel gennaio 2016 durante la sua visita a Tehran, dove aveva incontrato il Leader supremo, ayatollah Ali Khamenei. Sul momento la cosa sembrava caduta; si tornò a parlarne solo nel febbraio del 2019, quando l’allora presidente del parlamento iraniano Ali Larijani, in visita a Pechino, ne riparlò con il presidente Xi. Nel luglio di quell’anno lo stesso Larijani dichiarò che l’Iran aveva elaborato una bozza di accordo da discutere con le controparti cinesi. I negoziati sono proseguiti nel più assoluto riserbo; nel settembre 2019, quando il giornale “Petroleum News” ha dato notizia di un accordo negoziato “in segreto”, è sembrata una sorpresa.

Nel luglio del 2020 un’agenzia di stampa iraniana ha affermato di avere la bozza dell’accordo appena approvata dal governo di Hassan Rohani; poco dopo la stessa bozza è stata diffusa da “IranWire”, sito di oppositori iraniani all’estero.

Tanta segretezza ha suscitato molte polemiche in Iran. Le correnti più oltranziste hanno accusato il governo Rohani di “svendere” il paese; si diceva che avesse dato in concessione alla Cina alcune isolette iraniane nel Golfo Persico, forse addirittura l’isola di Kish, nota destinazione turistica. Il governo ha smentito. Il parlamento (dominato da deputati ultraconservatori) ha convocato il ministro degli Esteri per rispondere a interrogazioni molto ostili. L’ex presidente Mahmoud Ahmadi Nejad ha accusato Rohani di trasformare l’Iran in un protettorato cinese. Polemiche basate su illazioni e anche vane, poiché è noto che un tale accordo non si potrebbe negoziare senza il coinvolgimento del Consiglio di sicurezza nazionale e il consenso del Leader supremo. (Interessante però che le stesse accuse al governo Rohani siano state mosse dagli ultraconservatori interni e dagli exilés di “IranWire”).

Anche il “New York Times” nel luglio 2020 ha affermato di aver ricevuto il documento in 18 pagine che delinea la cooperazione tra Iran e Cina: secondo il giornale newyorkese, gli è stata data «da qualcuno al corrente dei negoziati con l’intenzione di mostrare l’ampiezza dei progetti considerati». In altre parole, fonti della Repubblica Islamica intenzionate a far sapere agli Stati Uniti (c’era ancora Trump) quanto la strategia di “massima pressione” fosse vana.

Dettagli del Patto di cooperazione sino-iraniana

In ogni caso, tutto ciò che sappiamo di quell’accordo si basa su quella bozza (secondo fonti citate sempre dal “New York Times” non sarebbe cambiata in modo sostanziale). Se dobbiamo prenderla per buona dunque sappiamo che la “cooperazione strategica” permetterà alla Cina di espandere la propria presenza in Iran nei settori delle telecomunicazioni, porti, ferrovie, nel sistema bancario, industria energetica, sanità, turismo e molti altri.

Città petrolifere alla foce dello Shatt-el Arab (foto di Wollwerth).

L’accordo elenca un centinaio di progetti, dai treni ad alta velocità alla creazione di “zone economiche speciali”: a Maku, nel Nordovest dell’Iran; a Abadan, città di installazioni petrolifere dove il fiume che separa Iran e Iraq (Shatt-el Arab per gli iracheni, Arvand per gli iraniani) si butta nel Golfo Persico; e sull’isola di Qeshm, nel Golfo. Si parla poi di infrastrutture per la rete di telecomunicazioni 5G, del sistema di posizionamento globale Beidou (il “Gps cinese”), di sistemi di monitoraggio del cyberspazio (controllare ciò che circola sulla rete).

Il sistema di posizionamento cinese Beidou

I progetti elencati non hanno nulla di stupefacente: sono quelli che la Cina ha proposto ovunque nell’ambito della sua “Belt Road Initiative”, il progetto globale di infrastrutture con cui sta espandendo commercio e investimenti cinesi nel mondo. Però denotano che Pechino non ha avuto troppe remore, anche ai tempi dell’amministrazione Trump, a pianificare investimenti in Iran nonostante il rischio di incorrere nelle “sanzioni secondarie” degli Stati Uniti – quelle che gli Usa applicano a paesi e aziende di paesi terzi che intrattengono relazioni economiche con l’Iran. (Si ricordi che la compagnia di telecom cinese Huawei è stata punita negli Usa proprio per non aver rispettato l’embargo all’Iran.)

Investimenti e accordi militari del Patto di cooperazione sino-iraniana

Le fonti citate dal “New York Times” dicono che la Cina investirà un totale di 400 miliardi di dollari nel periodo coperto dagli accordi (25 anni), in gran parte nei primi anni. E che riceverà in cambio regolari forniture di petrolio iraniano, a quanto pare a prezzi molto scontati: l’interesse sarebbe reciproco, perché Pechino importa tre quarti del suo fabbisogno di greggio, mentre l’Iran è tra i maggiori produttori mondiali ma ha visto il suo export assottigliarsi proprio a causa delle sanzioni statunitensi.

Quanto alla cifra di 400 miliardi di dollari non ci sono conferme, e secondo alcuni esperti è molto esagerata. Il portavoce del ministero degli Esteri cinese, Zhao Lijan, ha dichiarato che l’accordo non prevede “target definiti” sul volume degli scambi e degli investimenti; c’è solo la volontà di sviluppare «il potenziale di cooperazione dei due paesi nel campo economico, umano e altro».

L’accordo ha anche un capitolo sulla difesa, e qui i dettagli sono ancora più scarsi: si parla di addestramenti ed esercitazioni congiunte, ricerca, scambio di intelligence. Non è una novità assoluta. La cooperazione militare tra Cina e Iran ha già portato a tenere esercitazioni congiunte almeno tre volte dal 2014 a oggi; l’ultima nel dicembre scorso quando una nave da guerra cinese ha raggiunto quelle di Iran e Russia in una esercitazione nel golfo di Oman. Dire che sia un’alleanza in chiave antiamericana è esagerato (la Cina ha ottimi rapporti e acquista petrolio anche da paesi che invece sono nel campo americano, a cominciare dall’Arabia saudita). Però il segnale resta, e l’Iran tiene a sottolinearlo. In occasione delle manovre navali sino-russo-iraniane l’agenzia ufficiale cinese, Xinhua, aveva citato il comandante della Marina militare iraniana, Ammiraglio Hossein Khanzadi, secondo cui «l’era delle invasioni americane nella regione è finita».

Ricaduta infrastrutturale del Patto di cooperazione sino-iraniana

Quale sarà la traduzione pratica di questi accordi è presto per dire. Lo sviluppo più significativo per la Cina sarà rafforzare la sua presenza in un paese al crocevia geografico dell’Eurasia – e consolidare una presenza strategica sulle coste iraniane del mare d’Oman: si parla di un porto a Jask, appena fuori dallo stretto di Hormuz, quindi all’imboccatura del Golfo Persico tanto importante per il trasporto di petrolio mondiale (non a caso sul lato opposto di quel mare, in Bahrein, ha base la Quinta flotta degli Stati Uniti). Non pare che l’Iran si prepari a concedere una base militare alla Cina sulle sue coste (la sola base navale cinese all’estero oggi è a Gibuti, costruita nel 2015 a poche miglia da una base statunitense). Ma è chiaro che anche i porti commerciali hanno una valenza strategica, e negli ultimi decenni la Cina ne ha costruita una serie in tutto l’oceano Indiano, da Hambantota nello Sri Lanka meridionale a Gwadar in Pakistan, sulla rotta per Suez.

Per l’Iran invece lo sviluppo più concreto sono proprio i potenziali investimenti in infrastrutture e altri progetti economici. E secondo diversi osservatori questo si inserisce nel quadro di un riorientamento strategico delle priorità iraniane, che va ben oltre la necessità di resistere alle sanzioni statunitensi.

La Cina soppianta l’Unione europea

Le relazioni economiche tra Tehran e Pechino in effetti non sono nuove. Già nel 2011 la Cina aveva preso il posto dell’Unione europea come primo partner commerciale dell’Iran. Il motivo è semplice: tra il 2010 e il 2014, durante il secondo mandato del presidente Ahmadi Nejad, l’Iran si era trovato circondato da un muro di sanzioni (allora erano multilaterali, decretate dell’Onu oltre che da Unione europea e Stati Uniti), che aveva reso molto difficile importare qualunque cosa.

Allora però la Cina era solo un ripiego; per l’Iran il partner economico prioritario restava l’Europa. Così nel 2015, quando il moderato presidente Rohani ha firmato l’accordo sul nucleare, l’Iran ha puntato a rafforzare gli scambi e attirare gli investimenti europei. In effetti, per qualche tempo delegazioni commerciali da tutta Europa sono arrivate a Tehran in cerca di affari, e decine di memorandum d’intesa sono state firmate. Le aspettative però hanno tardato a realizzarsi (anche perché l’Iran restava escluso dal sistema bancario internazionale, controllato dagli Usa attraverso il dollaro). Poi l’avvento del presidente Trump ha decretato per l’Iran un isolamento economico ancora più forte delle precedenti sanzioni multilaterali. Gli investimenti europei, che in ogni caso erano rimasti sulla carta, si sono dileguati. E Tehran ha cominciato a riconsiderare la sua strategia.

Scelte di partnership alternative forzate dal protrarsi di sanzioni

Per resistere all’accerchiamento economico l’Iran doveva assicurarsi fonti alternative per le sue importazioni, soluzioni alternative per le transazioni finanziarie, vie alternative per esportare il proprio petrolio, e soprattutto modi per espandere le esportazioni di manufatti e prodotti non petroliferi. Ed è ciò che ha fatto.

Oggi due elementi vanno sottolineati. Il primo è «una crescente importanza dei paesi vicini come partner commerciali e lo spostamento delle fonti di importazione dai paesi occidentali a quelli della regione e orientali», osserva l’analista e imprenditore iraniano Bijan Khajehpour, che si basa sui dati diffusi dal ministero degli esteri iraniano per i primi dieci mesi dell’ultimo anno fiscale (dal 20 marzo 2020 al 20 gennaio 2021).

Il volume totale degli scambi, esclusi petrolio e prodotti petroliferi, ammontava in quei dieci mesi a 58,7 miliardi di dollari (è il 18 per cento meno del periodo corrispondente l’anno prima, ma pesa la pandemia di Covid-19). Le esportazioni non-petrolifere ammontavano a circa 28 miliardi di dollari, di cui oltre il 76 per cento è andato a cinque paesi: per il 26 per cento alla Cina (primo mercato per i prodotti iraniani), poi all’Iraq, gli Emirati Arabi Uniti, la Turchia e l’Afghanistan.

Nello stesso periodo l’Iran ha importato poco più di 30 miliardi di dollari di beni e servizi (il 20 per cento meno dell’anno prima), e i primi cinque paesi d’origine sono Cina (24,8 per cento), Emirati, Turchia, India e Germania (poco meno del 5 per cento).

Quanto all’export di petrolio bisogna fare delle ipotesi, perché i dati restano confidenziali (ovvio: sfugge ai monitoraggi ufficiali, perché chiunque ammetta di importare petrolio iraniano rischia ritorsioni da parte statunitense). Khajehpour ipotizza che l’export di greggio nei dieci mesi considerati ammonti a 7,2 miliardi di dollari, calcolando circa 600.000 barili al giorno al prezzo medio di 40 dollari a barile. (Per avere un’idea di quanto le sanzioni Usa costino all’economia iraniana si pensi che nel giugno 2018, quando gli Stati uniti si sono ritirati dall’accordo nucleare, l’Iran esportava 2,7 milioni di barili di greggio al giorno.)

Riconversione economica e sviluppo di medio-piccola manifattura locale

Il secondo elemento da sottolineare è che nelle esportazioni iraniane l’industria manifatturiera ha superato gli idrocarburi, e non solo nell’ultimo anno di pandemia. Già nel 2019 l’export non-petrolifero aveva totalizzato 41 miliardi di dollari, superando quello del petrolio. Non solo: mentre il settore petrolifero si era contratto del 35 per cento a causa delle sanzioni, il manifatturiero si era contratto appena dell’1,8 per cento.

Questo conferma che l’economia iraniana è molto più diversificata di quelle di altri paesi grandi produttori di idrocarburi: e sebbene fosse una tendenza già visibile nei primi anni del secolo, sono state proprio le sanzioni ad accelerarla. L’industria manifatturiera iraniana – automobili, meccanica, agroalimentare, farmaceutica e altro – rappresenta ormai l’ossatura dell’economia nazionale, con una struttura di piccole e medie imprese che producono sia per un mercato interno di 84 milioni di persone, sia per esportare nella regione circostante.

Strategia di resistenza

È questo che negli ultimi tre anni ha permesso all’economia iraniana di resistere alla “massima pressione” esercitata dagli Usa. La cosiddetta “economia di resistenza”, cioè la strategia di consolidare la produzione industriale interna, non è servita solo a sostituire le importazioni (sempre più costose a causa delle sanzioni), ma anche a consolidare «una strategia mista, promuovere le esportazioni e diversificare le fonti delle importazioni», osserva Khajehpour (così anche nelle importazioni pesano meno di una volta i beni di consumo finiti; nell’ultimo anno il 70 per cento delle importazioni erano beni intermedi, destinati all’industria interna).

La strategia di resistenza è stata questa: espandere la produzione nazionale anche per rafforzare l’export; rafforzare gli scambi con i paesi vicini, inclusa la Russia e l’Asia centrale; ridurre la dipendenza tecnologica dall’Occidente diversificando le importazioni. E guardare all’Eurasia, stabilire accordi di cooperazione a lungo termine con la Cina e nel prossimo futuro la Russia.

Si può immaginare che tutto questo andrà ben oltre l’esito dei colloqui cominciati a Vienna, la (auspicabile) revoca di almeno parte delle sanzioni statunitensi e il possibile rilancio dell’accordo sul nucleare. L’Iran ha cominciato a guardare all’Eurasia.

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Segnali di fumo dal Bosforo a Washington https://ogzero.org/segnali-di-fumo-dal-bosforo-a-washington/ Fri, 13 Nov 2020 12:59:02 +0000 http://ogzero.org/?p=1757 Annusate le possibilità di nuove concessioni con il cambio della guardia alla Casa Bianca si fanno notare i movimenti del presidente turco per sondare e preparare una nuova faccia rispetto a quella adottata con l’abbandono da parte di Trump degli interessi americani in Medio Oriente, delegati a sauditi e israeliani, tollerando le scorrerie turche; mentre […]

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Annusate le possibilità di nuove concessioni con il cambio della guardia alla Casa Bianca si fanno notare i movimenti del presidente turco per sondare e preparare una nuova faccia rispetto a quella adottata con l’abbandono da parte di Trump degli interessi americani in Medio Oriente, delegati a sauditi e israeliani, tollerando le scorrerie turche; mentre nei quattro anni di amministrazione evanescente i motivi di attrito erano soprattutto in materia di embarghi, sanzioni non rispettati, minacce di dazi e collisione tra i traffici di armi, gli affari con Cina, Russia e Iran… Le elezioni statunitensi con il cambio in Pennsylvania avenue impongono il riposizionamento.

Cina e Iran convitati di pietra   

Per Biden due sono i problemi centrali della politica estera statunitense: la Cina e l’Iran. Nel primo caso la Turchia è ben posizionata, perché ha continuato a fare affari e perché è uno degli hub della Belt Road Iniziative, da tantissimo tempo la Cina vende armi alla Turchia, i due paesi collaborano da tempo in materia di antipirateria e nel contrasto dell’irredentismo uyguro, la cui diaspora è in parte tollerata da Ankara ma in forma di controllo per conto di Pechino, soprattutto sui rifugiati privati dei contatti con la famiglia e tenuti in un limbo senza speranze.

Ma anche per quel che riguarda l’Iran, con cui Erdoğan partecipa delle decisioni prese nei tanti accordi intestati ad Astana triangolando con Putin, la Turchia si trova a intersecare il punto di incontro tra il bisogno degli ayatollah di trovare un intermediario e le necessità di ricostruire un lavoro diplomatico statunitense. La soluzione siriana è stata trovata insieme, come avvenuto in Nagorno in un modo ancora più smaccato a favore della Turchia; senza considerare che il problema delle rivendicazioni curde si ritrovano identiche per i territori a maggioranza curda al confine turkmeno con l’Iran, come quelli da sempre occupati dai curdi in Anatolia. La Turchia ha sempre aggirato anche l’embargo contro Tehran, allo stesso modo in cui si è accordata sulle merci cinesi.

Ascolta “La Turchia nei dossier “Iran” e “Cina” della Casa Bianca” su Spreaker.

Dunque in qualche modo la Turchia si trova ben posizionata con entrambi gli schieramenti.

Perciò la diplomazia di lungo corso che la figura di Biden rappresenta non potrà che venire a patti, cercando di far rientrare a pieno Erdoğan nella Nato, aprendo questi due dossier e considerando quanto la Turchia sarà disponibile a offrire, ma soprattutto anticipando gli aspetti su cui è in grado di tornare indietro sulle forzature e sugli strappi creati finora. I rumors sui nomi che entreranno a far parte dell’amministrazione Biden lasciano immaginare un orizzonte di questo tipo.

Rapporti con la Nato, questione di schieramenti

Ankara può ribaltare tutti i rapporti perseguiti con gli altri potenti che in questi 4 anni di vacanza strategica internazionale degli Stati Uniti sono stati gli interlocutori principali di Erdoğan per spartirsi le spoglie abbandonate da Washington in Medio Oriente: è il modo di adattarsi a Biden e alla sua politica, tornando magari ad altre forme di difesa targate Usa, stracciando per esempio i contratti di fornitura degli S-400.

Ascolta “Rapporti con Nato, questione di schieramenti” su Spreaker.

Caatsa disatteso: sanzioni applicabili da Biden

L’interazione commerciale con Mosca, da cui Ankara dipende per l’enorme fame di energia che contraddistingue la Turchia. Anche qui Erdoğan si è inserito nel solco delle sanzioni del 2017 (Countering America’s Adversaries through Sanctions Act) contro chi collabora con Corea del Nord, Iran e Russia, finora disattese. Erdoğan dovrà immaginare una contromossa nel caso Biden decida di applicarle.

Ascolta “Caatsa disatteso: sanzioni applicabili da Biden?” su Spreaker.

Albayrak vittima sacrificale in dono a Biden?

Potentissimo fino al 9 novembre 2020, con cariche ministeriali e il controllo di affari strategici in Africa, ma inviso all’elettorato di Erdoğan e quindi, pur essendo erede di una delle famiglie oligarchiche e genero dello stesso presidente, compromesso con l’amministrazione Trump, è il capro espiatorio ideale per avviare un nuovo corso di relazioni con la Casa Bianca di Biden e stornare l’attenzione dal sultano riguardo alla miseria che si allarga nel paese. Si è dimesso con un messaggio su Instagram, Twitter gli è stato sottratto… palesando le forme di censura e solo dopo la nota ufficiale di Erdoğan si è potuta diffondere la notizia. La stampa rimane strettamente sotto il controllo del governo di Ankara.

Ascolta “Albayrak offerto sull’altare di rapporti nuovi con la nuova Casa Bianca” su Spreaker.

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Onda d’urto nucleare sull’Iran https://ogzero.org/dalla-esplosione-di-natanz-alla-bocciatura-allonu-di-nuove-sanzioni-a-tehran-sabotaggio-e-pressione-rohani/ Fri, 04 Sep 2020 12:17:22 +0000 http://ogzero.org/?p=1141 L'amministrazione Trump ha stracciato l’Accordo sul nucleare che l'Occidente con Obama aveva stipulato con il regime degli ayatollah; e Israele non perde occasione per sabotare gli impianti iraniani, da ultimo l'esplosione di Natanz il 2 luglio. Si crea così un duplice fronte, interno ed esterno all'Iran, insufficiente a mettere in crisi la Repubblica Islamica

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Sabotaggio: massima pressione su Rohani

L’ammissione è arrivata con quasi due mesi di ritardo. L’esplosione avvenuta il 2 luglio negli impianti nucleari di Natanz, in Iran, è il risultato di un atto di “sabotaggio”, ha dichiarato il 23 agosto un portavoce dell’Agenzia per l’energia atomica della repubblica islamica iraniana, citato dall’agenzia di stampa ufficiale Irna. Non ha precisato che tipo di esplosione e che materiali siano stati usati: questo «verrà annunciato a momento debito».

L’esplosione, che ha distrutto un intero edificio nell’impianto di Natanz, era stata preceduta da una serie di “misteriosi” incendi e esplosioni nei giorni e settimane precedenti in diverse altre installazioni di carattere militare in Iran, e aveva già suscitato un turbine di ipotesi: bombe, attacchi missilistici, attacco elettronico, sabotaggio? Da parte di dissidenti iraniani, degli Stati uniti, di Israele? Di sicuro l’ipotesi di incidenti fortuiti non ha mai convinto nessuno. In particolare, nel caso di Natanz già pochi giorni dopo l’esplosione il governo annunciava di aver determinato la causa, anche se non poteva per il momento rivelarla per “considerazioni di sicurezza”.

Chi tocca il reattore muore

La parola sabotaggio dunque non sorprende. Del resto non sarebbe la prima volta: sia gli Stati uniti che Israele hanno in passato condotto azioni coperte in Iran, come gli attentati in cui sono stati uccisi diversi scienziati nucleari iraniani (che molti attribuiscono a Israele), o le azioni di sabotaggio elettronico ai danni di impianti atomici attribuite agli Usa (ben prima dell’avvento di Donald Trump). Solo pochi giorni dopo l’esplosione del 2 luglio, il New York Times citava anonimi «agenti di intelligence mediorientali» (tra cui uno delle Guardie della Rivoluzione iraniane) secondo cui l’attacco a Natanz è stato compiuto da Israele con una bomba ad alto potenziale. Cosa in sé plausibile, ma difficilmente vedremo prove o ammissioni ufficiali. Da parte israeliana certo non verranno conferme, e di prassi neppure smentite (interrogato in proposito, il ministro della difesa israeliano Benny Gantz ha semplicemente detto alla radio di stato: «Non tutto quello che accade in Iran ha necessariamente a che fare con noi»: risposta che non è una smentita).

Natanz, regione di Esfahan

Il capoluogo dello sharestan omonimo ospita l’impianto nucleare più imponente dell’Iran

L’uranio di Natanz

Altri interrogativi riguardano l’entità del danno provocato. L’impianto di Natanz, costruito in parte nel sottosuolo non lontano dalla città di Isfahan nell’Iran centrale, è tra quelli soggetti a regolari ispezioni da parte dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea), l’ente delle Nazioni unite per la sicurezza nucleare. È a Natanz che a partire dal 2012 l’Iran ha cominciato a costruire le sofisticate centrifughe necessarie ad arricchire l’uranio. In luglio l’Agenzia atomica iraniana ha ammesso che l’esplosione ha ritardato il programma di arricchimento dell’uranio di alcuni mesi. Alcuni esperti occidentali sostengono invece che i danni all’impianto potrebbero aver ritardato il programma di un paio d’anni.

Che si voglia credere all’agenzia iraniana o agli esperti occidentali, pare chiaro che il sabotaggio potrà al massimo rallentare il programma atomico di Tehran – difficilmente riuscirà a fermarlo. Non ci sono riusciti i sabotaggi del passato. L’Agenzia atomica iraniana ha già annunciato che ricostruirà l’impianto distrutto, «con equipaggiamenti ancora più moderni».

Conviene ricordare che quando nel 2015 l’Iran e sei potenze mondiali hanno firmato il Joint Comprehensive Plan of Action (Jcpoa), più semplicemente chiamato l’“Accordo sul nucleare iraniano”, Tehran aveva accettato di rinunciare a buona parte della sua riserva di uranio già arricchito appunto a Natanz (intorno al 20 per cento, livello necessario alla ricerca medica ma lontano da quello che serve per confezionare armi atomiche); aveva inoltre accettato di non costruire nuove centrifughe per i successivi otto anni. In effetti l’uranio arricchito era stato spedito fuori dal paese, e la costruzione di centrifughe a Natanz era stata fermata, come hanno certificato le regolari ispezioni dell’Aiea. L’Iran ha sempre negato di voler costruire armi nucleari, mentre ha sempre puntato in modo abbastanza esplicito ad avere la “capacità atomica”, cioè la capacità di maneggiare il ciclo nucleare: considerando che dava migliori garanzie di “deterrenza” avere la capacità di costruire un ordigno in caso di necessità, piuttosto che costruirlo effettivamente. Ma anche a voler diffidare delle intenzioni di Tehran, bisogna osservare che dal punto di vista della non proliferazione, il Jcpoa aveva effettivamente messo un freno alle attività iraniane.

L’indipendenza europea sotto tutela

Finché nel maggio 2018 il presidente Trump ha annunciato il ritiro degli Stati uniti dal Jcpoa, ed è allora che a Natanz l’officina di fabbricazione delle centrifughe ha ripreso l’attività. Non subito, bisogna dire: per un anno e mezzo l’Iran ha continuato a osservare la sua parte dell’accordo, chiedendo piuttosto ai partner europei (Francia, Germania e Gran Bretagna sono i firmatari insieme all’Unione europea) di compensare l’Iran per i benefici persi. Sappiamo però che questo è il punto dolente: i paesi europei continuano ad affermare l’importanza del Jcpoa, della diplomazia multilaterale, e del dialogo con l’Iran, ma sul lato pratico non hanno saputo davvero contrastare le sanzioni economiche statunitensi: vivida illustrazione di quanto sia limitata l’autonomia europea in una economia mondiale dominata dal dollaro (ogni transazione rilevante che avviene in dollari, ovunque, è soggetta allo scrutinio delle autorità finanziarie statunitensi). Il meccanismo finanziario chiamato Instex, annunciato dall’Unione europea nel settembre 2018 (ma diventato operativo solo nel gennaio 2020) per offrire un canale per gli scambi commerciali con l’Iran, incluso il settore petrolifero, avrebbe dovuto permettere alle imprese europee di aggirare le sanzioni Usa: ma finora non è andato oltre una singola transazione dimostrativa. Lo stesso vale per un meccanismo che dovrebbe facilitare forniture “umanitarie”, farmaci e attrezzature mediche.

Insomma: di fronte agli indugi europei, nell’ultimo anno gradualmente Tehran ha ripreso ad arricchire uranio oltre il limite previsto dal Jcpoa (anche se resta ben al di sotto delle quantità di cui disponeva prima di firmare l’accordo). Passi molto graduali, definiti da parte iraniana una “riduzione degli impegni”; per il resto l’Aiea nota che Tehran continua ad attenersi agli accordi. Il presidente Hassan Rohani ha più volte ripetuto che le attività riprese sono facilmente reversibili, e che l’Iran è pronto a tornare indietro se gli Stati uniti rientreranno nel Jcpoa o se gli altri firmatari troveranno il modo di compensare il ritiro americano. Il presidente Rohani, e il ministro degli esteri Javad Zarif, sono convinti che restare nei termini dell’accordo sia nell’interesse dell’Iran.

Fronte nucleare interno

Ma è chiaro che la posizione di Rohani è sempre più difficile da tenere, in Iran. Quelli che hanno accusato Rohani di “svendere” gli interessi nazionali, ora possono dire “non bisognava fidarsi degli Stati uniti che firmano un accordo e non lo rispettano”. E dopo il sabotaggio a Natanz le voci contrarie all’accordo nucleare hanno alzato il volume. In parlamento è stato detto che il sabotaggio è frutto delle “infiltrazioni” di “spie” sotto la copertura dell’Aiea. Un gruppo di deputati sta raccogliendo firme su un progetto di legge per il ritiro “automatico” dell’Iran dall’Accordo nucleare nel caso che l’Onu torni a imporre le sue sanzioni come chiesto da Washington. Altri vorrebbero che l’Iran si ritirasse anche dal Trattato di Non Proliferazione, il Tnp, quello da cui discende l’Aiea con tutta la sua architettura di ispezioni e controlli (a cui l’Iran si è sempre sottoposto, si fa notare, al contrario di molti paesi della regione, Pakistan e India a est, Israele a ovest). C’è chi ha detto che l’Iran dovrebbe fare come la Corea del Nord, non subisce attacchi un paese che ha fatto davvero un test nucleare.

Posizioni simili ben poco realistiche, neanche ora che le correnti oltranziste dominano il parlamento: i processi decisionali su questioni di sicurezza nazionale non passano per il Majlis ma per un complicato equilibrio di poteri rappresentati nel Consiglio supremo di sicurezza nazionale, e in ultima istanza sono sanzionati dal Leader, prima autorità dello stato. Ma la crescente retorica antiaccordo è un segno del clima politico. E dopo il sabotaggio a Natanz, appare anche più giustificata.

Falchi americani e falchi iraniani

Il punto è proprio questo. Come in uno specchio, la guerra scatenata dall’amministrazione di Donald Trump ha fatto un enorme favore alle correnti più oltranziste della Repubblica Islamica. Attentati e sabotaggi infatti fanno parte di una vera e propria guerra: non dichiarata, non l’invasione spesso evocata dai falchi e sostenitori del “regime change” che albergano nella Casa Bianca (rappresentati ora dal segretario di stato Mike Pompeo). Ma pur sempre una guerra: in forma militare, come con l’attacco mirato che ha ucciso il generale iraniano Qassem Soleimani a Baghdad lo scorso gennaio, o la guerra economica condotta con le sanzioni. O ancora con le provocazioni, come i jet statunitensi che volano pericolosamente vicino a un aereo civile iraniano. Le provocazioni si moltiplicano: come quando Mike Pompeo è intervenuto alla Convention Repubblicana in videoconferenza da Gerusalemme rivendicando l’uccisione di Soleimani. L’ultima nomina della Casa Bianca alla carica di “inviato per l’Iran” è l’ennesimo segnale di ostilità: Elliott Abrams, è un autentico falco, già coinvolto nell’affare Iran-Contras durante l’amministrazione Reagan.

Ciò non farà crollare il regime. Il muro di sanzioni pesa sull’economia, certo, e sulla vita quotidiana degli iraniani; i sabotaggi e le provocazioni infliggono danni e alzano la tensione in modo pericoloso: ma tutto ciò non spingerà l’Iran a tornare al tavolo dei negoziati con gli Stati uniti (che sarebbe l’obiettivo teorico dichiarato dall’amministrazione Trump).

Invece, ha contribuito a cambiare l’equilibrio dei poteri a Tehran: a screditare i fautori del dialogo, l’amministrazione di Hassan Rohani, i “pragmatici” che avevano riaperto l’Iran al mondo (e allentato il clima di controllo interno: in un paese sotto attacco, anche le libertà civili sono schiacciate). Ha contribuito anche a rafforzare il potere e l’influenza della casta militare, che va ben oltre la difesa: le Guardie della rivoluzione hanno un ruolo essenziale nell’economia sotterranea che si espande proprio a causa delle sanzioni; gruppi industriali legati alle Guardie rilevano i contratti per grandi infrastrutture, petrolifere e non, abbandonate dalle imprese occidentali timorose di incorrere nelle ritorsioni americane.

Qualche scacco allo strapotere americano

In questo quadro però sorgono degli intoppi. Gli Stati uniti hanno subito una rara sconfitta al Consiglio di sicurezza dell’Onu, quando in agosto non sono riusciti a far passare una risoluzione per reimporre sanzioni delle Nazioni unite all’Iran, tra cui un embargo sulle vendite di armi (quello attualmente in vigore scade in ottobre, ai sensi del Jcpoa): la risoluzione Usa ha raccolto solo il voto della Repubblica Dominicana, mentre gli altri 13 membri del Consiglio di sicurezza hanno votato contro o si sono astenuti, inclusi i tradizionali alleati europei. [Sulla minaccia rappresentata dall’Iran, è utile ricordare che Tehran spende per la difesa una frazione rispetto ai paesi vicini, secondo il Stockholm International Peace Research Institute: il budget della difesa iraniano era stimato a quasi 13 miliardi di dollari nel 2019, contro i 62 miliardi dell’Arabia Saudita, i 20,4 miliardi per Israele (e lo stanziamento di 732 miliardi nel budget statunitense)].

Gli Stati uniti hanno allora tentato la carta di avviare il “meccanismo di arbitrato” (dispute mechanism) previsto dal Jcpoa, cioè il meccanismo legale che i firmatari dell’accordo possono avviare se uno dei partecipanti viola gli accordi, e che dovrebbe portare a sanzioni entro 30 giorni. Gli altri firmatari degli accordi però hanno osservato che Washington non è più un membro del Jcpoa, da cui si è ritirato nel 2018, quindi non ha il potere di avviare il meccanismo legale di sanzioni. Commentatori americani hanno osservato con disappunto che invece di isolare l’Iran, l’amministrazione Trump ha messo gli Usa in una posizione imbarazzante.

Mentre l’Iran ha avuto l’occasione di mostrare che in fondo sa prendere decisioni pragmatiche. Il 26 agosto infatti ha annunciato un accordo con l’Aiea, che chiedeva accesso a due siti atomici per ispezioni. L’accordo è stato annunciato insieme dal direttore dell’Agenzia iraniana per l’energia atomica, ali Akbar Salehi, e dal direttore generale dell’Aiea Rafael Grossi al termine di una missione di quest’ultimo a Tehran. L’Iran “dà volontariamente accesso” ai due siti interessati, è stato detto. Una data per la visita degli ispettori è stata concordata (“molto presto”, ha aggiunto Grossi). La questione non riguarda direttamente il Jcpoa (su questo, le ispezioni dell’Aiea non sono mai state interrotte). L’Iran applica un “Protocollo addizionale” che permette all’Aiea ispezioni ulteriori: ma in gennaio si era vista negare l’accesso per verifiche in due siti dove sarebbero state condotte nei primi anni Duemila attività di conversione dell’uranio e test su esplosivi che potrebbero alludere a attività belliche: dubbi che l’Aiea chiede di chiarire dopo aver ricevuto informazioni da Israele (sulla base, pare, di documenti che i servizi israeliani erano riusciti a trafugare dall’Iran). Il fatto che le illazioni siano arrivate da Israele aveva provocato le rimostranze iraniane. Durante la sua visita, Grossi ha precisato che l’Aiea non vuole “politicizzare” la questione. Il comunicato congiunto afferma che «sulla base delle sue informazioni, l’Aiea non ha ulteriori richieste di accesso» con l’Iran: la questione sembra chiusa.

La linea del dialogo dunque tiene – per ora. Ma è precaria: in attesa che gli europei facciano funzionare i canali commerciali con l’Iran, che la cooperazione prevalga sulle provocazioni. In attesa, soprattutto, delle elezioni presidenziali statunitensi: di sapere se alla Casa Bianca siederà il democratico Joe Biden, che promette di riportare gli Stati uniti nell’accordo nucleare con l’Iran, o il presidente Trump che continuerà a perseguire la sua “massima pressione”.

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L’Iran da Astana all’Eurasia https://ogzero.org/liran-da-astana-alleurasia/ Sun, 02 Aug 2020 22:20:34 +0000 http://ogzero.org/?p=990 Massima pressione americana e scenario multilaterale regionale È passato inosservato l’ultimo vertice dei presidenti di Russia, Turchia e Iran, riuniti il 1° luglio scorso (in videoconferenza) per discutere gli ultimi sviluppi della situazione in Siria. Il virtuale incontro però aveva la sua importanza. Per cominciare, ha riaffermato che il cosiddetto “processo di Astana” non è […]

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Massima pressione americana e scenario multilaterale regionale

È passato inosservato l’ultimo vertice dei presidenti di Russia, Turchia e Iran, riuniti il 1° luglio scorso (in videoconferenza) per discutere gli ultimi sviluppi della situazione in Siria. Il virtuale incontro però aveva la sua importanza. Per cominciare, ha riaffermato che il cosiddetto “processo di Astana” non è defunto, come molti andavano annunciando.

Con questo nome si indica la serie di colloqui cominciata del dicembre 2016 nella città di Astana (Kazakhstan) per iniziativa di Vladimir Putin, Recep Tayyip Erdoğan e Hassan Rohani con l’inviato del segretario generale dell’Onu per la Siria: una iniziativa diplomatica per la pace in Siria, parallela agli (inconcludenti) colloqui sponsorizzati dall’Onu a Ginevra. Il format di Astana ha portato nel settembre 2017 a un accordo per istituire quattro “zone di de-escalation” nel territorio siriano, di cui le tre potenze si sono fatte “garanti”.

Non entreremo qui nei dettagli di come questi accordi si sono tradotti sul terreno: che la Siria sia ancora lontana da una effettiva stabilizzazione è sotto gli occhi di tutti. Il punto che qui interessa è che sotto lo stravagante format intitolato a una citta kazakha abbiamo tre potenze regionali che discutono compromessi e accordi in uno scenario, la Siria e il Vicino Oriente, dove però le rispettive agende politiche sono diverse e spesso in aperto conflitto. A cominciare dal fatto che la Turchia appoggia le formazioni ribelli sunnite che cercano di rovesciare il governo di Bashar al Assad, mentre la Russia e l’Iran si sono adoperati anche militarmente per tenerlo in piedi.

Più in particolare, il vertice di luglio è stato il primo da quando Turchia da un lato, Russia e Iran dall’altro si sono scontrati nella provincia di Idlib, la più ampia delle zone di “de-escalation” (la tensione era salita in febbraio con 33 militari turchi uccisi da un raid attribuito a jet russi, a cui la Turchia ha risposto attaccando forze del regime siriano e milizie sciite filoiraniane). Una relativa calma è tornata dopo che Erdoğan in marzo è volato a Mosca e ha concordato con Putin un cessate il fuoco, con un meccanismo di “corridoi di sicurezza” per garantire le vie di comunicazione, e di pattugliamenti comuni che però dovrebbe preludere alla ripresa di controllo delle forze di Damasco sulla provincia di Idlib (ovvero, sembrerebbe che Ankara abbia dovuto accettare le condizioni russe). In realtà molti segnali dal terreno fanno temere una ripresa di ostilità.

 

Integrazione attraverso scambi, favori e relazioni complicate

Eppure il comunicato congiunto del vertice tripartito lascia intendere che la Russia lascerà alla Turchia più tempo per concludere ciò che si è impegnata a fare nel quadro degli accordi di Astana, e cioè mettere sotto controllo i ribelli jihadisti siriani che operano nella provincia di Idlib. Le variabili sono numerose e complicate: dalla dinamica tra le formazioni ribelli più dipendenti dal sostegno turco (come Hayat Tahrir Shams) e quelle più radicali – al controllo delle province nordorientali a maggioranza kurda, che la Turchia considera una propria zona di pertinenza (tanto che occupa un’ampia “zona cuscinetto” con l’accordo di fatto degli Usa e anche della Russia). Concedere alla Turchia di occupare altro territorio siriano-kurdo potrebbe diventare moneta di scambio per recuperare zone strategiche controllate dai ribelli sunniti più a sud. Altre variabili poi ci porterebbero in Libia, un altro teatro di guerra internazionalizzata dove Mosca e Ankara sono su fronti contrapposti: le due crisi sono molto intrecciate.

Tutto questo dice quanto sia ancora lontano un assetto stabile che sia preludio alla pace in Siria. Intanto però il format di Astana afferma la sua esistenza sulla scena mediorientale come un fronte politico-diplomatico contrapposto a quello a conduzione statunitense.

La dichiarazione dei tre presidenti per esempio se la prende con «l’appropriazione e trasferimento illegale di risorse petrolifere che appartengono alla Repubblica Araba di Siria», allusione alle forze degli Stati Uniti che presidiano due campi petroliferi nella provincia nord-orientale siriana, la cui amministrazione autonoma curda (controllata dalle Forze democratiche siriane, filo Usa) ha di recente concesso a compagnie Usa il diritto di commercializzare il petrolio estratto. I tre presidenti ribadiscono inoltre l’impegno a difendere «sovranità, indipendenza e integrità territoriale» della Siria, quindi a «respingere iniziative illegali di autogoverno» – riferimento alla tentazione di affermare un’autonomia territoriale curda nel Nordest difesa dagli Usa. Condannano le sanzioni statunitensi contro la Siria.

La dichiarazione congiunta poi condanna «gli attacchi militari di Israele in Siria», e questa è una concessione al presidente Rohani: si riferisce alla serie di raid condotti nelle ultime settimane da forze israeliane contro obiettivi iraniani e delle milizie filoiraniane intorno a Damasco (l’ultimo episodio è del 20 luglio). Ma proprio questo è anche un esempio di come il format tripartito copra agende molto diverse. Infatti è dubbio che la Russia abbia davvero intenzione di reagire agli attacchi di Israele contro obiettivi iraniani in Siria. C’è perfino chi parla di un vero e proprio accordo dietro le quinte tra Mosca e Tel Aviv (che peraltro hanno intensi contatti diplomatici) per ridimensionare le milizie filoiraniane, e in generale la presenza dell’Iran in Siria.

Lo scenario è complicato, e anche le relazioni tra Tehran e Mosca lo sono. Nel 2015 l’Iran ha concesso ai jet russi in partenza dalle basi nella regione del Caucaso di sorvolare il proprio spazio aereo per andare a bombardare le postazioni dello Stato islamico in Siria, e a Tehran la cosa era presentata come il primo passo di una nuova alleanza strategica con Mosca. L’occasione era la comune “guerra alla Stato islamico”, o Daesh secondo l’acronimo in arabo (pare che ai russi interessasse in particolare colpire le milizie cecene all’interno delle formazioni jihadiste). L’Iran aveva già mandato forze speciali sul terreno a sostenere l’esercito governativo e organizzare milizie; l’entrata in gioco della Russia ha contribuito in modo decisivo a cambiare le sorti militari del conflitto siriano e salvato il regime di Assad.

Dal punto di vista dell’Iran, l’interesse strategico in Siria è evidente. Si tratta di un raro “paese amico” tra i vicini arabi (e da lunga data: negli anni Ottanta Damasco con Hafez al Assad, è stata l’unica capitale araba a non appoggiare l’invasione dell’Iran da parte dell’Iraq di Saddam Hussein), e di un’area di influenza strategica importante, via di comunicazione verso il Mediterraneo, accesso verso l’alleato movimento di Hezbollah in Libano: dunque quella che Tehran considera la sua “profondità strategica” nei confronti di Israele. Vedere a Damasco un governo sunnita di stampo saudita sarebbe per Tehran un disastro da evitare a tutti i costi. Per questo ha sostenuto l’esercito governativo siriano e varie milizie filogovernative, spesso addestrate e organizzate dalle Guardie della rivoluzione iraniana (anche se nessuno ne darà mai conferma ufficiale): cosa che continuerà finché le varie reincarnazioni di Daesh e di al-Qaeda avranno i loro sponsor. L’obiettivo iraniano è assicurarsi in futuro che a Damasco sieda un governo non ostile. Anche la Russia, che ha in Siria la sua unica base militare nel Mediterraneo, ha tutto l’interesse a garantirsi in Siria un governo amico.

Le convergenze di interessi però non sono eterne, e comunque non esclusive. Le milizie organizzate dalle Guardie della Rivoluzione iraniane in Siria (e in Iraq) sono state fondamentali per respingere l’offensiva dello Stato islamico (e il principale artefice di questo successo sul terreno è stato il comandante delle forze speciali al Qods, Qassem Soleimani, poi ucciso da un raid statunitense nei primi giorni di gennaio 2020 a Baghdad). Ma quelle milizie sono diventate ingombranti per molti, sia in Iraq che in Siria: che esista o meno un accordo dietro le quinte tra Israele e Russia, entrambe le parti hanno interesse a ridimensionare l’influenza iraniana sul terreno.

Questo non significa che l’alleanza strategica sia finita. E in ogni caso non impedirà a Russia, Turchia e Iran di tenere “al più presto” il prossimo vertice del “processo tripartito”, questa volta in presenza a Tehran su invito del governo iraniano (ma non c’è ancora una data).

 

Astana per uscire dall’isolamento: cooperazione e infrastrutture

Come valutare il “processo di Astana”, visto da Tehran? Per rispondere bisogna allargare lo sguardo. L’Iran ha un evidente interesse a far parte di una sede di diplomazia multilaterale. In primo luogo per restare nel gioco regionale: riaffermare che una soluzione per la Siria non può prescindere da tutte le parti in causa nella regione, e l’Iran è una di queste (si ricordi che i primi, vani tentativi di dialogo sulla Siria promossi in sede Onu avevano escluso l’Iran a causa del veto Usa: solo dopo l’accordo sul nucleare del 2015, su insistenza russa, i rappresentanti di Tehran sono stati ammessi ai “colloqui sulla Siria” – benché finora inconcludenti).

L’interesse però va oltre la Siria, per quanto importante. Il punto è che la Repubblica Islamica dell’Iran fa i conti con uno storico accerchiamento nella regione: politico, diplomatico, a volte militare (come quando le truppe Usa si trovavano in Iraq, in Afghanistan, oltre a pattugliare il Golfo Persico). L’accordo sul nucleare del 2015 (il Joint Comprehensive Plan of Action, Jcpoa, firmato da sei potenze mondiali e dall’Iran) aveva rotto l’isolamento. Ma da quando nel maggio 2018 il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha deciso di buttare alle ortiche l’accordo, intorno all’Iran si è costruito un nuovo blocco: un muro di sanzioni senza precedenti. Benché unilaterali, il sistema di sanzioni Usa riesce a isolare l’Iran grazie al ricatto delle sanzioni secondarie (che colpiscono aziende e paesi terzi che abbiano contatti commerciali con Tehran). È la strategia della “massima pressione”. Non che sia riuscita a far crollare l’Iran, e difficilmente ci riuscirà: ma certo sta pesando molto. Dal crollo delle esportazioni di greggio alla difficoltà di acquistare pezzi di ricambio industriali, derrate alimentari o materiale medico, gli iraniani stanno pagando un prezzo molto alto.

L’Iran ha un disperato bisogno di rompere questo isolamento. Per questo, con il “programma tripartito” di Astana e ben oltre, l’Iran ha un interesse fondamentale ad approfondire la cooperazione strategica con la Russia, come del resto con la Cina. E con i paesi vicini. Con la Turchia in particolare l’Iran ha legami di vecchia data, sia politici che commerciali, culturali, umani (la Turchia è tra i pochissimi paesi dove i cittadini con passaporto iraniano non abbiano bisogno di un visto d’ingresso). Benché spesso in concorrenza sulla scena regionale, Tehran e Ankara mantengono una “cooperazione strategica” nell’interesse reciproco.

Tanto più importante è la sponda russa. Il 22 luglio scorso il ministro degli esteri iraniano Javad Zarif ha concluso una missione a Mosca, dove ha portato un “messaggio speciale” del presidente Hassan Rohani a Vladimir Putin (il contenuto del messaggio non è stato diffuso), e dove ha discusso con il suo omologo, il ministro degli esteri Sergey Lavrov, una serie di questioni bilaterali e di coordinamento regionale. Non sapremo cosa si sono detti circa lo scacchiere siriano. Sappiamo però che Iran e Russia hanno concordato di definire un nuovo accordo ventennale di cooperazione strategica, che vada oltre quello attualmente in vigore (che scade in marzo).

Analogo accordo è quello che l’Iran ha in ballo con la Cina: un accordo venticinquennale di cooperazione economica e di sicurezza, che secondo alcune fonti sarebbe addirittura già stato firmato anche se finora è circolata solo una bozza ufficiosa e numerose illazioni (cosa che ha suscitato grandi critiche in Iran, e attacchi dell’opposizione conservatrice che accusa il governo di Rohani di “svendere” il paese). L’accordo è in discussione da quando il presidente Xi Jinping in visita a Tehran nel 2016 ne ha parlato con l’ayatollah Ali Khamenei, e tratterà di energia, telecomunicazioni, infrastrutture come porti e ferrovie – e del petrolio che la Cina comprerà dall’Iran.

Gli accordi di cooperazione con Russia e Cina sono di sicuro il tentativo, per l’Iran, di allentare la “massima pressione” statunitense cercando la partnership di due potenze altre (entrambe membri permanenti del Consiglio di sicurezza dell’Onu). Ma in entrambi i casi la cooperazione è cominciata ben prima dell’avvento di Trump a Washington. La realtà è che la “massima pressione” avrà solo accelerato una dinamica che sarebbe emersa comunque, la tendenza a una maggiore integrazione in quello spazio di scambi e relazioni politiche ed economiche spesso chiamato “Eurasia” e di cui l’Iran è un tassello centrale, in senso geografico e politico: in cui si incrociano corridoi di trasporti e progetti industriali, la Belt Road Initiative cinese, i gasdotti russi, ferrovie, porti (come quello Chabahar sulla costa iraniana, possibile sbocco nell’oceano Indiano per molte repubbliche centroasiatiche). Uno spazio multilaterale in cui Tehran sta a pieno titolo.

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La crisi iraniana ai tempi del coronavirus https://ogzero.org/la-crisi-iraniana-ai-tempi-del-coronavirus/ Tue, 28 Jul 2020 17:50:16 +0000 http://ogzero.org/?p=417 I dispacci del ministero della sanità iraniano non lasciano dubbi: in Iran il coronavirus ha ripreso a correre. I contagi sono in costante aumento e il numero totale dei decessi ufficialmente attribuiti al Covid-19 ha superato ormai le 17000 persone. L’allarme era scattato alla fine di giugno, con una media di oltre cento morti al […]

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I dispacci del ministero della sanità iraniano non lasciano dubbi: in Iran il coronavirus ha ripreso a correre. I contagi sono in costante aumento e il numero totale dei decessi ufficialmente attribuiti al Covid-19 ha superato ormai le 17000 persone. L’allarme era scattato alla fine di giugno, con una media di oltre cento morti al giorno; un mese dopo, il 27 luglio il portavoce del ministero della sanità ha avvertito che la media ormai supera i 200 decessi quotidiani. L’epidemia di Covid-19 così è tornata di prepotenza sulle prime pagine della stampa iraniana, da cui era pressoché scomparsa, con titoli allarmati: Il coronavirus uccide un iraniano ogni 12 minuti. Alcuni parlano di «seconda ondata», altri di «una nuova, pericolosa fase del coronavirus in Iran», e invitano a «prendere il coronavirus sul serio».

I messaggi di allarme sono alternati però a tentativi di rassicurare. Il 25 giugno il presidente Hassan Rohani aveva annunciato che l’uso della mascherina in pubblico sarebbe stato reso obbligatorio, ma aveva aggiunto che non sarebbe stato necessario chiudere gli esercizi commerciali – se tutti avessero mostrato senso di responsabilità e rispettato le norme del “distanziamento”. Alla fine di luglio, di fronte al contagio che continua ad aumentare, il viceministro della Sanità Iraj Harirchi ha osservato che è Tehran la «fonte di diffusione» del coronavirus nel resto del paese, visto che ogni giorno centinaia di migliaia di persone raggiungono l’area metropolitana per lavoro o altro. Un moltiplicatore di contagi sono «usanze e tradizioni locali» come feste e celebrazioni religiose: Harischi cita il caso di 120 persone infettate dopo aver partecipato alla stessa festa di matrimonio. Ha però aggiunto che il 95 per cento dei contagiati guarisce senza bisogno di particolari cure.

Sta di fatto che a metà giugno il ministero della sanità ha dichiarato “zona rossa” cinque province (Bushehr, Khuzestan, Est Azarbaijan, Kermanshah e Hormozgan, nel sud-ovest, ovest e nord del paese) e poi via via altre: ora sono 12, sul totale di 31.

Se basteranno le mascherine e gli appelli al distanziamento, resta da vedere. Intanto, la ripresa dell’epidemia pone un dilemma ai dirigenti della Repubblica Islamica dell’Iran, restìi ad ammettere che le restrizioni imposte in marzo sono state probabilmente tolte troppo presto.

All’inizio di marzo l’Iran era emerso tra i maggiori punti caldi della pandemia del coronavirus Sars-CoV-2 fuori dalla Cina (prima di essere superato dall’Italia). Colta di sorpresa, Tehran aveva dapprima cercato di minimizzare: il primo decesso ufficialmente attribuito al Covid-19 risale al 19 febbraio, ma solo il 5 marzo il governo iraniano ha dichiarato la “mobilitazione nazionale” per contenere l’epidemia. I media internazionali ne hanno riferito soprattutto per accusare le autorità iraniane di lentezza e avanzare dubbi sul conteggio ufficiale dei decessi, che molti in Iran e fuori considerano sottostimati. In effetti una analisi del Centro studi del Parlamento iraniano in aprile suggerisce che il numero reale dei decessi dovuti a Covid-19 sarebbe quasi il doppio di quello dichiarato dal ministero della sanità.

In ogni caso alla vigilia di Nowrooz, il capodanno persiano che quest’anno cadeva il 20 marzo, il governo ha imposto una chiusura generalizzata, benché non totale: chiuse scuole e università, sospese le preghiere del venerdì, annullate tutte le manifestazioni culturali e festival di ogni tipo, limitate le attività commerciali, scoraggiati (benché non vietati) gli spostamenti interni.

Poi però, a partire dall’11 di aprile il blocco è stato gradualmente revocato, nonostante il parere contrario di molti esperti di sanità pubblica: prima le attività “a basso rischio” poi via via tutto il resto (solo eventi culturali, cinema e moschee hanno prolungato la chiusura per tutto maggio).

Il punto è che l’epidemia ha colpito l’Iran in un momento difficile, tra crescenti tensioni internazionali e con un’economia già colpita dalla recessione e dalle sanzioni imposte dagli americani. E con un quadro politico interno decisamente spostato a favore delle fazioni conservatrici, opposte al presidente Rohani e alla sua linea di dialogo internazionale e moderazione interna: sono queste che dominano la nuova legislatura insediata formalmente il 27 maggio.

Per ironia, le elezioni parlamentari tenute il 21 febbraio sarebbero proprio uno dei motivi per cui il governo non aveva voluto dichiarare l’emergenza per il coronavirus né isolare il primo focolaio, registrato allora nella città di Qom, sede delle scuole teologiche molto presenti nella politica interna: temeva di scoraggiare la partecipazione al voto. Infatti era previsione unanime che l’affluenza alle urne sarebbe stata bassa, dopo mesi di crisi: la repressione delle proteste di novembre, l’escalation della tensione con gli Stati Uniti e l’uccisione del generale Soleimani, lo sconcertante episodio dell’aereo ucraino abbattuto per errore. Per non parlare dell’esclusione di gran parte dei candidati “riformisti”. E infatti la nuova legislatura, dominata dagli ultraconservatori, è stata eletta con il voto meno partecipato nella storia della Repubblica Islamica: appena il 42 per cento di affluenza, e solo il 25 per cento a Tehran (le precedenti elezioni parlamentari avevano visto votare il 61 per cento degli elettori, e per le presidenziali del 2017 alle urne si era recato il 73 per cento degli aventi diritto).

Perché l’Iran è uscito dal “lockdown”

Rimettere in moto l’economia era “una necessità” per il paese,  ha argomentato il presidente Rohani in un discorso del 22 aprile: l’Iran non poteva permettersi di prolungare il blocco.

Per capire perché il presidente Rohani abbia preso una decisione così rischiosa sul piano sanitario bisogna ricordare che già prima dell’epidemia, l’Iran era in recessione profonda. Il Prodotto interno lordo aveva registrato una crescita negativa del 7 per cento nell’anno fiscale concluso il 20 marzo (secondo il Fondo monetario internazionale la decrescita sarebbe più profonda, meno 9,5). L’inflazione aveva raggiunto il 41 per cento secondo la stima della Banca centrale iraniana, un livello che non si vedeva dalla fine della disastrosa presidenza di Ahmadi Nejad.

Tutto questo è in buona parte conseguenza della nuova ondata di sanzioni decretata dagli Stati uniti a partire dal maggio 2018, quando il presidente Donald Trump ha deciso di ritirarsi dall’accordo sul nucleare (il Joint Comprehensive Plan of Action, o Jcpoa) firmato nel 2015 dall’Iran e da sei potenze mondiali (Usa, Russia, Cina, e da Francia, Regno unito e Germania in rappresentanza dell’Unione europea). Tre anni dopo le grandi speranze aperte da quell’accordo, per l’Iran è cominciata una nuova stagione di isolamento economico.

Le sanzioni decretate da Washington infatti sono particolarmente pesanti, benché unilaterali, sia perché gli Usa bloccano l’accesso dell’Iran al circuito bancario internazionale, sia perché con il meccanismo delle sanzioni secondarie colpiscono anche i soggetti di paesi terzi che mantengono relazioni economiche con Tehran. I paesi europei firmatari del Jcpoa hanno più volte proclamato la volontà di mantenere aperti canali commerciali con l’Iran; a questo dovrebbe servire uno strumento finanziario chiamato Instex, lungamente discusso e varato infine nel gennaio del 2019: ma senza grandi conseguenze pratiche;  la prima e per ora unica transazione di merci con questo meccanismo è avvenuta nel marzo del 2020.

La prima conseguenza che le esportazioni iraniane sono crollate e le importazioni sono diventate più care. In particolare è crollato l’export di petrolio, specialmente preso di mira da quella che la Casa Bianca  definisce “strategia della massima pressione”.

L’effetto è stato drastico. Nel giugno 2018, quando gli Stati uniti si sono ritirati dall’accordo nucleare, l’Iran esportava 2,7 milioni di barili di greggio al giorno (bpd, barrel-per-day); nel settembre di quell’anno (ancora prima che le nuove sanzioni entrassero in vigore) era già sceso a 1,9 milioni. Da allora ha continuato a scendere: un milione di bpd nell’aprile del 2019, una media di 260000 bpd nell’ottobre 2019. Il ricavato netto è sceso di conseguenza, da un picco di 67 miliardi di dollari nel 2018 a circa 20 miliardi di dollari nei primi sei mesi del 2019 (secondo la Aie, Agenzia internazionale per l’energia). In altre parole, le sanzioni costano all’Iran miliardi di dollari di mancato reddito. Ed è a questo punto che arriva il coronavirus.

La pandemia sotto sanzioni

L’Iran è l’unico paese al mondo che stia combattendo una pandemia sotto sanzioni. Il paese ha un servizio sanitario tra i migliori della regione mediorientale, con una rete di strutture decentrata e personale medico e paramedico di ottimo livello, tra cui molti specializzati all’estero (anche se ha un numero di posti letto per abitante appena sufficiente in tempi normali). Ma sconta una cronica carenza di attrezzature e farmaci, proprio a causa delle sanzioni applicate dagli Stati Uniti. Il materiale sanitario in teoria non è coperto da embargo, ma di fatto anche importare attrezzature mediche o ospedaliere è quasi impossibile perché l’esclusione delle banche iraniane dal sistema bancario globale blocca i normali canali di pagamento. Il 27 febbraio il governo svizzero ha ufficialmente varato un meccanismo finanziario per permettere l’acquisto da parte iraniana di medicinali, cibo e forniture “umanitarie”. Ma due mesi dopo la prima transazione “pilota”, una vendita di materiale medico per 2,5 milioni di dollari, non si è visto più nulla: segno che la “massima pressione” esercitata da Washington continua a dissuadere molte aziende dal vendere all’Iran materiale medico peraltro perfettamente legale.

Il confinamento intanto ha aggravato la recessione, com’era inevitabile. Ha colpito in primo luogo il commercio, perché gli acquisti che precedono il Nowrooz contano per circa metà del fatturato annuo dei negozianti e di molte imprese di beni di consumo. Poi l’industria turistica: ristoranti, agenzie viaggi e hotel sono rimasti semivuoti durante le vacanze più importanti dell’anno; il giro d’affari del settore è crollato di oltre il 90 per cento, secondo le prime stime.

Un bilancio più approfondito resta da fare. L’economia iraniana è molto più diversificata di molti altri paesi grandi produttori di idrocarburi, e le sanzioni hanno accelerato l’emancipazione dell’Iran dal petrolio. Il settore manifatturiero rappresenta già da tempo l’ossatura dell’economia nazionale, con una struttura di piccole e medie imprese che producono sia per un mercato interno di 80 milioni di persone, sia per l’esportazione – in particolare nella regione circostante (dall’Iraq alla Turchia, agli Emirati arabi, alle repubbliche dell’Asia centrale). Anzi: è proprio questo settore – dalle automobili alla meccanica all’agroalimentare – che ha permesso all’economia iraniana di resistere alla “massima pressione” esercitata dalle sanzioni Usa. L’anno scorso l’export di prodotti non-oil ha fatto 41 miliardi di dollari superando per la prima volta il reddito petrolifero. E mentre il settore petrolifero si è contratto del 35 per cento nell’anno appena trascorso a causa delle sanzioni, il manifatturiero si è contratto appena dell’1,8 per cento.

Se questo lascia sperare per una futura ripresa, il punto è che l’epidemia di Covid-19 ha effetti disastrosi nell’immediato.

Secondo alcune stime il prodotto interno iraniano sarà diminuito del 15 per cento a causa del blocco delle attività durante il confinamento. Il valore della valuta iraniana, il Rial, è crollato negli ultimi due anni e ha avuto un ulteriore crollo alla fine di giugno: sotto la duplice spinta delle aspettative nere e di manovre speculative.  Di sicuro sono andati in fumo molti posti di lavoro. Anche qui sono stime preliminari: la  stampa iraniana cita la Mezzaluna rossa iraniana secondo cui due milioni di lavoratori alla giornata hanno perso ogni reddito. Prima del coronavirus circa 3 milioni di iraniani figuravano disoccupati (ma secondo alcune stime erano di più); l’11 aprile un portavoce del governo aveva detto che un lockdown prolungato avrebbe aggiunto altri 4 milioni di disoccupati. In termini di impoverimento e aumento delle diseguaglianze, il futuro è fosco.

L’allarme degli economisti

In una lettera indirizzata al presidente Hassan Rohani il 3 aprile, una cinquantina di economisti iraniani avvertivano che l’impatto dell’epidemia aggraverà in modo insostenibile la recessione e il declino della produzione interna, con la conseguenza di accrescere la povertà e il disagio sociale, approfondire il deficit di bilancio dello stato, far lievitare l’inflazione. Dicevano che l’Iran rischia nuove proteste e disordini nelle periferie urbane a basso reddito – magari alla fine di quest’anno o nei primi mesi del prossimo.

Una prospettiva tutt’altro che remota, per chi ricordi l’ondata di rabbia innescata dall’aumento del prezzo della benzina nel novembre scorso. Allora la repressione fu così brutale da suscitare sconcerto nel paese e spingere il Majlis (il parlamento) a istituire una commissione d’inchiesta. Alla fine di maggio proprio il deputato che presiede quella commissione ha dichiarato che 230 manifestanti sono stati uccisi durante i disordini: la prima ammissione, benché semiufficiale.

Nella loro lettera, gli economisti propongono diverse misure per attutire il crollo dell’economia, a cominciare da una serie di sussidi ai cittadini e alle imprese.

In parte, è proprio ciò che il presidente Rohani ha fatto. Il 16 marzo il suo governo ha annunciato misure come un “bonus” una tantum per i cittadini già percipienti dei programmi di welfare statale; piccoli prestiti senza interesse ripagabili in trent’anni a piccoli negozianti e venditori ambulanti; sussidi e inserimento al lavoro per le madri sole. È stato annunciato anche un aumento del 50 per cento del salario degli impiegati pubblici di basso livello, che rientrano senza dubbio tra le fasce più povere della società.

Questi però sono piccoli interventi. Il governo ha anche sospeso per tre mesi l’esazione delle imposte per le aziende in difficoltà. E ha promesso di stanziare l’equivalente di 6,25 milioni di dollari per garantire prestiti a tasso agevolato (ripagabili in tre anni al tasso del 12 per cento, mentre le banche praticano normalmente tassi del 20 per cento): molti hanno obiettato che doveva offrire almeno prestiti a interesse zero.

In termini di “stimolo” per rilanciare l’economia è ben poco, se si pensa alle migliaia di miliardi mobilitati in Europa. Il fatto è che il governo ha serie difficoltà a offrire assistenza finanziaria  agli imprenditori iraniani, per il semplice motivo che le entrate dello stato si sono ridotte in modo drammatico proprio in questi mesi di crisi sanitaria. La domanda mondiale di petrolio è crollata in seguito alla pandemia, facendo scendere il prezzo, e questo ha colpito le già declinanti esportazioni iraniane. Anche le entrate fiscali sono crollate, con tante aziende costrette a chiudere o in crisi.

Questo ha spinto il governo Rohani prima a chiedere (e ottenere) il permesso del parlamento a prelevare un miliardo di euro dal Fondo nazionale per lo sviluppo, una riserva speciale dello stato. Poi a chiedere di attingere al fondo speciale del Fondo monetario internazionale (Fmi) per la lotta al Covid-19, con un prestito di 5 miliardi di dollari: la prima volta che l’Iran chiede un prestito al  Fmi dalla Rivoluzione del 1979. Un gesto “politico” dunque, con cui Rohani si è guadagnato forti critiche interne dall’opposizione conservatrice. Ma comunque vano: è assai improbabile che il prestito sia concesso, tanto più che Washington ha una posizione preminente nel Consiglio d’Amministrazione del Fmi e blocca la domanda iraniana.

Il governo si è poi rivolto all’interno, proponendo dei titoli di stato (una sorta di “coronavirus bond”) per attingere al risparmio degli iraniani – e magari alle grandi fortune che un certo numero di super-ricchi nazionali tiene ben al sicuro all’estero: con quanta fortuna si vedrà.

C’è però da considerare un altro aspetto della risposta pubblica alla crisi sanitaria. Anche in Iran l’epidemia ha mobilitato a vari livelli la società civile, suscitando un diffuso movimento di solidarietà esemplificata da casi di “crowdfunding” per finanziare servizi medici, o la Campagna chiamata Nafas, “respiro”: una coalizione di organizzazioni umanitarie non governative, imprese e camere di commercio, che ha cercato di facilitare l’importazione di beni necessari (protezioni mediche, per esempio), arrivando ad allestire una clinica specializzata in pazienti Covid (ne accenna qui l’analista Bijan Khajehpour).

Notizie come questa fanno pensare alla capacità di resistenza degli iraniani: abituati a vivere tra crisi e sanzioni, faranno fronte anche all’epidemia.

Il 27 luglio il portavoce del ministero della Sanità iraniano ha annunciato che in media 200 persone al giorno sono morte di Covid-19 nelle ultime due settimane; il numero totale dei decessi attribuiti ufficialmente alla pandemia ora supera i 16000. Le provincie sottoposte a restrizioni per motivi sanitari sono salite a 12 (su 31). Secondo il viceministro della Sanità Iraj Harirchi però è Tehran la “fonte di diffusione” del coronavirus nel resto del paese, visto che centinaia di migliaia di persone vi si recano ogni giorno per lavoro o altro. Il dato positivo e che il 95 per cento delle persone infettate guarisce senza bisogno di particolari cure.

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l’Africa, l’Asia meridionale e il Sud America sembrano, per molti versi, sopravanzare il mondo euro-moderno, forieri della sua storia-in-fieri, anticipando fenomeni e caratteristiche di “sviluppo”.

Che la collocazione dell’Africa nella narrazione dominante della Storia universale sia fondamentalmente errata è un punto che non necessita di ulteriori elaborazioni. Anche se l’Euro-America e il Sud del mondo sono, ora come ora, inglobati dagli stessi processi storici mondiali è al Sud che gli effetti di tali fenomeni tendono a manifestarsi in maniera più esplicita. I vecchi margini stanno diventando le nuove frontiere, posti in cui il capitale competitivo a livello globale – sempre più, di questi tempi, asiatico e meridionale – trova zone scarsamente regolate in cui riversare i propri affari; nei quali l’industria manifatturiera apre siti sempre più convenienti; dove economie informali e altamente flessibili fioriscono da sempre; dove questi stessi servizi esternalizzati estremamente efficienti hanno sviluppato imperi info-tecnologici, legali e non, all’avanguardia; nei quali i nuovi e tardomoderni linguaggi del lavoro, del tempo e del valore prendono piede, alterando così le pratiche del resto del mondo. Ecco perché, nella dialettica della storia mondiale contemporanea, il Nord sembra “evolvere” verso il Sud.

Frag tratto da Jean, John L. Comaroff, Teoria dal sud del mondo, Torino, Rosenberg & Sellier, 2019

Episodi e strategie geopolitiche distanti tra loro, ricondotte a evidenti calcoli economici locali, volti a tessere efficacemente le trame pensate e messe in atto a livello macroeconomico, come quelle vissute dalle popolazioni coinvolte nell’evoluzione repentina del continente: infrastrutture, costruite e gestite da potenze extrafricane per il naturale contatto con le potenze asiatiche affacciate al di là dell’Oceano (anche l’India, non solo la Cina) o con l’Occidente, convenzioni e investimenti, metissage e tecnologie, risorse e metropoli, pil e inflazione, invasioni di insetti biblici ed epidemie racchiudono un concentrato di interazioni che stanno producendo conseguenze da analizzare per la loro unicità.

Collaborazioni, partnership, potenze economiche in competizione sul territorio del Rift.

  • l’Africa, l’Asia meridionale e il Sud America sembrano, per molti versi, sopravanzare il mondo euro-moderno, forieri della sua storia-in-fieri, anticipando fenomeni e caratteristiche di “sviluppo” (Comaroff, p. 13).
  • Interessi in contrasto da sempre per attingere a risorse sempre più risicate per i bisogni delle singole nazioni locali; il caso della Diga della Rinascita etiope che rischia di scatenare la guerra del Bacino del Nilo.
  • Caratteristiche del neocolonialismo: Belt Road Iniziative e investimenti indiani.

Piaghe del Rift:

  • Infestazione militare del territorio
  • Infestazione del territorio di locuste

Acque contese del Bacino del Nilo

 

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Nazionalismo petrolifero e dubaizzazione https://ogzero.org/nazionalismo-petrolifero-e-dubaizzazione/ Sun, 29 Mar 2020 20:49:06 +0000 http://ogzero.org/?p=58 Fino al 2005 il nazionalismo curdo traeva fonte d’ispirazione dall’obiettivo di ottenere i propri diritti democratici e l’autodeterminazione in Iraq, ma – dalla scoperta di petrolio e gas, stipulando contratti con le maggiori compagnie petrolifere del mondo ed esportando sui mercati internazionali di idrocarburi – il nazionalismo curdo si colorò di nazionalismo petrolifero e i due partiti al potere […]

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Fino al 2005 il nazionalismo curdo traeva fonte d’ispirazione dall’obiettivo di ottenere i propri diritti democratici e l’autodeterminazione in Iraq, ma – dalla scoperta di petrolio e gas, stipulando contratti con le maggiori compagnie petrolifere del mondo ed esportando sui mercati internazionali di idrocarburi – il nazionalismo curdo si colorò di nazionalismo petrolifero e i due partiti al potere cercarono di trarne vantaggio in due modi. Innanzitutto usarono le risorse, in particolare il petrolio, per rafforzare la presa sul potere monopolizzando l’intera filiera, dai sondaggi all’esportazione: per dividersi i proventi le famiglie Talabani e Barzani cercarono di comprare il silenzio della nazione in cambio della conversione della Kri in una nuova Dubai e introdussero un sistema di rendite e un capitalismo clientelare, resuscitando quegli elementi di tribalismo che stavano declinando già dal 2003; in secondo luogo la Krg si avvalse del petrolio per attirare compagnie internazionali, in particolare da Europa e Usa con la speranza di proteggere se stessa: Barzani a seguito di un contratto firmato con la Exxon Mobil disse in un discorso tenuto agli studiosi islamici che il «Ceo della Exxon Mobil è più potente del presidente degli Stati Uniti». La Krg cominciò una campagna internazionale all’insegna dell’“Altro Iraq”, esibendo la Kri come una sorta di paradiso nel mezzo della crisi irachena e dipingendolo come un modello di democrazia e di economia in espansione tra i regimi autoritari mediorientali. È proprio lì che i due partiti al potere, e in particolare il Kdp, hanno abbandonato la propaganda nazionalista volta a conseguire i diritti dei curdi per concentrarsi maggiormente sulla ricchezza delle risorse naturali della Federazione, che devono essere sfruttate dai curdi stessi e non dal governo centrale di Baghdad. Le promesse del nazionalismo curdo di democrazia e di libertà si tramutarono in promesse di dubaizzazione della Federazione. Il modello a cui guardava il Kdp non era un modello democratico, ma accarezzava l’idea di una monarchia in cui è in corso un boom economico senza democrazia.

Il governo regionale ha elevato il Pil e il livello di vita, stando ai dati del Dipartimento per la pianificazione; lo sviluppo economico in corso sarebbe indicato dall’incremento diversificato dei prodotti locali nella maggioranza dei settori. Dal quinquennio 2003-2008 le entrate nazionali si accrebbero da 4373 miliardi di dinari iracheni (circa 3 miliardi di euro) a 30 224 miliardi di dinari (22 miliardi di euro), un tasso medio di crescita del 38,3 per cento. Nello stesso periodo il Pil aumentò da 2419 miliardi di dinari (17 miliardi di euro) a 20 954 (150 miliardi), con una performance del 61 per cento tra il 2004 e il 2008. Il Pil pro capite salì da 0,524 milioni di dinari (380 euro) a 4,740 (3400 euro).

La vantaggiosa legge su petrolio e gas 

Contro ogni previsione, le maggiori compagnie petrolifere siglarono contratti con la Krg dopo che il Governo regionale varò la legge 28 del 2007 su petrolio e gas, molto più vantaggiosa per la Krg al confronto di quella nazionale: trasferiva infatti i contratti di fornitura dell’Iraq in base ad accordi per appalti che prevedevano la condivisione della produzione, il che significa che non solo si sarebbero pagati i diritti di prospezione ed estrazione, ma si sarebbero spartiti i guadagni, diversamente dai soliti modelli contrattuali iracheni. La legge divenne uno dei maggiori motivi di disputa tra il Governo regionale e quello federale quando la Exxon Mobil firmò nell’ottobre del 2011 contratti per sei blocchi che coprivano 3 miliardi e mezzo di metri quadri (848 000 acri) della Federazione regionale.

La legge 28 e gli affari del Kdp con la Turchia di Erdoğan 

Non avendo sbocco al mare, la Krg cercò di corteggiare la Turchia per raggiungere i mercati internazionali. E il vicino affamato di petrolio e gas che lamentava da anni la perdita del distretto di Mosul – sotto la direzione di Erdoğan e dell’Akp – accolse con favore l’offerta proveniente nello specifico dal Kdp e i rapporti tra le due entità regionali raggiunsero l’apice; gli esponenti della famiglia Barzani visitarono regolarmente la Turchia, e a Erbil i leader turchi nel marzo 2011 assistettero all’inaugurazione dell’aeroporto internazionale realizzato dalle compagnie turche. Era presente Erdoğan stesso, il primo premier turco a visitare la Kri.

All’inizio dell’invasione dell’Iraq nel 2003 il governo turco aveva definito Barzani un capo tribale e persino minacciato di occupare la Kri. Ad ogni modo gli accordi energetici normalizzarono la situazione, soprattutto dopo quello cinquantennale del 2009 tra i due governi, i cui dettagli non sono mai stati resi pubblici. Il sogno dell’Akp turco di far rinascere il controllo ottomano sulla regione richiedeva un’economia più forte e una strada sicura verso il Golfo Persico. Ma la Krg poteva essere il suo affiliato: circa mille compagnie turche e 30 000 cittadini turchi stavano lavorando all’interno della Kri nel 2011 e gli investimenti e il commercio turco nella Federazione regionale avevano raggiunto i 10 miliardi di dollari. In seguito alla crisi finanziaria e alla guerra al Califfato gli investimenti e gli scambi diminuirono in larga misura; a quel tempo la realtà era che la Turchia non possedeva (non ancora) abbastanza gas e petrolio per soddisfare le proprie esigenze, nonostante Russia e Iran l’avessero approvvigionata, la crisi siriana aveva deteriorato i rapporti tra i turchi e le due potenze regionali e l’Iran era sottoposta a sanzioni, creando difficoltà ad Ankara. Ma la Turchia sembrava essersi guadagnata l’accesso a una maggior quantità di gas a un costo molto minore – dalla Krg. Come è stato successivamente rivelato da alcune fonti, la Turchia aveva ottenuto dalla Krg il gas a metà del prezzo imposto da Russia e Iran.

L’evoluzione nella cooperazione energetica tra Kri e Turchia era interpretata da molti come una via per l’indipendenza della Kri, un sogno curdo lungamente procrastinato; comunque, mettendo tutte le uova nel solo paniere turco alla fine si è creata una dipendenza della Krg dalla Turchia o, come ritenuto da molti, una colonia turca nascente che ha reso la Krg precariamente esposta a ogni slittamento della posizione turca riguardo al Kurdistan: se ne ebbe un esempio nel settembre 2017, quando la Turchia si oppose fermamente al referendum nella Kri sull’indipendenza. Quanto più la Krg faceva prospezioni ed esportava petrolio, tanto più dilagava la corruzione e, invece di diversificare la propria economia, sopprimeva tutti gli altri settori, soprattutto quello agricolo, di cui nelle loro fattorie per secoli i curdi avevano vissuto, provocando così dal 2003 in poi un esodo dai villaggi facilitato da Kdp e Puk che per comprare il consenso elargivano assunzioni nell’esercito o nel governo.

L’abbraccio mortale del nuovo Sultano e la Dinasty curda 

Le politiche petrolifere della Krg non sono state solo una disgrazia per gli abitanti della Regione del Kurdistan iracheno, ma anche per le genti turche, e in particolare per i curdi che vivono in Turchia, dato che Erdoğan ha rafforzato il suo dominio mantenendo il Partito della giustizia e dello sviluppo (Akp) al potere grazie ai soldi facili confluiti nelle sue tasche, in quelle della sua famiglia e del partito provenienti dagli accordi petroliferi altamente lucrativi promossi dalla Krg. 

Da quando le relazioni tra Kdp e Akp registrarono un’accelerazione negli accordi petroliferi, in particolare dopo le concessioni del 2011 e poi con il contratto per la fornitura cinquantennale di petrolio e gas del 2013, il Kdp, i suoi media e il greggio del Governo regionale sono stati del tutto asserviti all’agenda di Erdoğan e alle sue politiche.

Erdoğan e l’Akp hanno agevolmente approfittato della fragilità interna del Kdp e di Barzani, dell’opposizione regionale e nazionale irachena al Kdp e alle sue politiche, e della rivalità del Kdp con il Puk, i partiti di opposizione, in particolare con il Pkk, e infine con il Rojava, di cui si è detto nel capitolo sulla Siria. Il Kdp non sarebbe stato in grado di mantenere il proprio potere se Erdoğan non l’avesse sostenuto. 

Senza sbocco al mare, e con Iran e Iraq contrari all’esportazione indipendente di greggio della regione curdo-irachena, il sistema Kdp/Krg non aveva altre strade per esportare il suo petrolio sui mercati internazionali. Erdoğan ha colto l’opportunità di ottenere enormi profitti dai punti deboli politici e geografici della Krg. Uno dei motivi alla base della nomina a ministro dell’Energia turca da parte di Erdoğan di suo genero Berat Albayrak, è che le sue società gestivano l’esportazione del greggio della Krg, comprandolo a tariffe molto più basse dei prezzi del mercato internazionale. Intanto la famiglia Barzani beneficiò anche dell’esportazione del petrolio attraverso la Turchia, visto che il primo ministro Nechirvan Barzani (nipote di Masoud), era l’ideatore del contratto e il Kdp e la famiglia Barzani consideravano il petrolio una loro proprietà esclusiva. 

Questi accordi avvicinarono sempre più Kdp e Akp: entrambi in un certo modo contrariati dai successi del Rojava nel Nord della Siria. Su preciso ordine del governo di Erdoğan nel 2015 a Erbil il Kdp chiuse immediatamente tutte le scuole di Fethullah Gülen (l’imam di cui si è parlato nel capitolo sulla Turchia) e un affarista curdo vicino al Kdp ne acquisì la proprietà. E quando l’esercito turco penetrò la Regione curda irachena per 30 chilometri con l’intenzione di attaccare il Pkk, il premier Barzani disse: «Perché la Turchia ha violato i confini? Qual è la ragione? Ci deve essere per forza un motivo. Prima va rimossa quella causa, finché questa non sarà risolta, non si può parlare delle ripercussioni». I documenti di Wikileaks hanno rivelato che Masoud Barzani considerava il Pkk ostile quando incontrò Erdoğan, visto che diceva che «il Pkk è allo stesso modo nemico anche del Kdp, non solo dei turchi». La Krg e il Kdp sono stati utili per Erdoğan e l’Akp: economicamente per guadagnare miliardi di dollari attraverso lucrosi affari e accordi petroliferi nella Krg, e politicamente per imbrigliare il Pkk sui monti Qandil, nel Kurdistan iracheno e in qualche modo in Rojava. Dal canto suo il Kdp ha ricevuto importanti aiuti militari dalla Turchia, trovato una via per aggirare l’Iraq ed esportare il petrolio con cui procurarsi denaro e finalmente fiaccare il Pkk – il suo maggiore antagonista politico, ideologico e militare nei suoi calcoli geopolitici, viste le roccaforti del partito di Öcalan nel Kurdistan al confine tra Turchia e Siria.

La forte presenza turca nella Krg ha schiacciato il Puk nell’orbita iraniana a un punto tale che non può prendere decisioni strategiche senza renderne conto all’Iran. 

Perché la città siriana di Idlib è importante nella “proxy war”

La “congelata” guerra di Idlib cambierà enormemente il corso degli eventi in Siria, sebbene non si capisca bene nell’interesse di chi lo farà. Comunque, dati i recenti sviluppi, la caduta di Idlib sotto il regime siriano avrebbe serie ripercussioni sugli interessi turchi in Siria e sulla cosiddetta opposizione siriana e dell’Esercito siriano libero (Esl). La perdita di influenza turca e l’opposizione del regime siriano faranno buon gioco agli interessi dei curdi in Siria dato che l’opposizione siriana ora opera per procura della Turchia. La caduta di Idlib e l’eventuale ritorno in mano ad al-Assad certificherebbero il fallimento dei turchi, dell’opposizione e dei gruppi estremisti che hanno portato all’attacco contro la città di Afrin.

Allo stesso modo, il successo dei curdi di Siria influenzerebbe sicuramente gli interessi curdi in Iraq, in Turchia e persino in Iran. Nei confronti dell’Iraq, i curdi di Siria, vicini al Pkk, si troverebbero nella condizione di poter ostacolare gli interessi turchi legati al Kdp in Siria attraverso un riavvicinamento agli altri partiti curdi in Iraq. Un governo curdo-siriano forte aiuterebbe i curdi in Iraq, con l’eccezione del Kdp, a riunirsi con il Pkk, il ramo iraniano del Pkk (il Pjak) e i curdi siriani, in una sorta di alleanza abbastanza forte da frenare il tentativo del Kdp di estendere la sua egemonia. 

Idlib, d’altro canto, sarebbe stata importante anche per l’alleanza curdo-americana in Siria poiché se gli Stati Uniti avessero lasciato soli i curdi, la caduta di Idlib avrebbe implicato una alleanza più forte tra Siria, Iran e Russia. Quindi, gli Stati Uniti sarebbero stati una garanzia per i curdi in Siria e cercheranno di fermare la ricerca da parte della Russia di un appoggio politico in Iraq tramite le sue compagnie petrolifere, soprattutto la Rosneft, nella Regione del Kurdistan. Il conflitto Stati Uniti / Russia nella regione assicurerà una posizione di forza ai curdi sia in Iraq sia in Siria per poter proteggere i propri interessi a Damasco e Baghdad. Nel medio termine, gli Usa potrebbero avvicinarsi al Puk e il Pkk potrebbe essere espunto dall’elenco delle organizzazioni terroristiche stilato da Stati Uniti ed Europa. 

La legge 28 e gli affari del Puk con l’Iran

Anche l’Iran beneficiò del petrolio della Kri, dal momento che il regime degli ayatollah aprì le frontiere per il Puk e il Kdp al contrabbando di petrolio in Iran, che tramite la Repubblica Islamica raggiungeva i mercati internazionali attraverso Bandar-e Emam, oppure veniva consumato nel mercato interno iraniano. Teheran raggiunse un accordo con Baghdad per costruire un nuovo oleodotto per l’esportazione del petrolio di Kirkuk nei porti iraniani e di lì sui mercati mondiali: un’offerta volta a rafforzare il Puk nelle aree sotto il suo controllo, dato che il partito di Talabani era stato in qualche modo marginalizzato dal Kdp nell’affare petrolifero, in quanto le esportazioni avvenivano attraverso oleodotti diretti in Turchia controllati dal Kdp e appunto da Ankara, suo alleato regionale. 

È prioritario per la Krg trovare altre vie per i prodotti petroliferi, altrimenti rimarrà sempre alla mercé delle potenze regionali se mira all’esportazione indipendente del greggio aggirando l’Iraq; finora, infatti, ha instaurato patti energetici regionali soltanto con la Turchia, una nazione che ha da fare i conti con una propria “questione curda” e che ha massacrato migliaia di curdi.

Le rotte del petrolio dopo la rivoluzione del Rojava 

Dopo la crisi siriana del 2011 e la rivoluzione curda in Siria emersa di conseguenza, là si era data una speranza che i curdi raggiungessero finalmente il mare, ma la strada è ancora lunga. Il Pkk è protagonista sulla scena delle rotte dei prodotti energetici della regione, come disse in un’intervista a “Der Spiegel” il massimo dirigente del Pkk Cemîl Bayik: la sicurezza energetica europea passa attraverso il cuore della terra curda in Siria e il Pkk può sempre svolgere il ruolo di chi decide della stabilità del Medio Oriente poiché è diventato la maggior forza per combattere il terrorismo. Bayik mi ha detto una volta nel 2015 che «Il ruolo della Turchia si è indebolito e i curdi sono assurti al rango di forza strategica. I cambiamenti nel Medio Oriente cominciano da lì, da questo momento il comparto energetico non è più l’unica cosa che conta. D’ora in avanti il petrolio e il gas del Medio Oriente o addirittura del Caucaso possono viaggiare via Rojava nel Kurdistan siriano. È la fine dei piani turchi». Bayik è pienamente consapevole del fatto che una delle più gravi cause di debolezza della Turchia è la mancanza di risorse petrolifere, mentre una delle sue più forti risorse risiede nella sua posizione su ogni rotta del greggio verso l’Europa e questo può cambiare una volta che il Kurdistan siriano sia liberato. In ogni caso la Krg non è stata capace di impiegare il suo petrolio come uno strumento al servizio della politica internazionale perché ha ricercato solo l’interesse di parte e non quello nazionale e prematuramente puntando sulla sola carta turca. 

Il Rojava ha assunto un ruolo di primo piano nella politica siriana e contribuirà a dare forma alla mappa del paese dopo che è diventato un alleato degli Stati Uniti nella regione. Nel dopoguerra ci sarà estremo bisogno di relazioni economiche tra nazioni limitrofe. Il Rojava può avvicinare Damasco ed Erbil – sempreché ovviamente quest’ultima smetta di complottare contro questa entità. Esistono profonde divergenze tra Rojava e Kdp, ma i rapporti del Rojava con tutti gli altri partiti curdi in Iraq si trovano ora al loro massimo livello. Da quando il passaggio di Semalka al confine tra Rojava e Kri è controllato dal Kdp che ha chiuso la frontiera dopo che è stata stabilita l’amministrazione dei curdi di Siria, i contrasti tra Rojava e Kdp sono aumentati. Il Rojava è un modello dietro al quale c’è il Pkk che considera il Kdp e i suoi rappresentanti in Rojava – l’Enks (Consiglio nazionale curdo) – alla stregua di servi degli interessi turchi. Il Kdp e il Pkk sono stati in conflitto per mantenere l’egemonia sulle quattro parti del Kurdistan e il Pkk si è rivelato il vincitore, avendo una ideologia e dei leader più forti, in particolare Öcalan, considerato da molti curdi un capo politico e un filosofo, come raccontato nella sezione del volume dedicata ai curdi di Turchia, a differenza di Barzani che non vanta alcun intellettualismo.

La Krg ha altre opzioni da considerare, soprattutto dopo il fallimento del quesito referendario sull’indipendenza; innanzitutto aprendo una nuova strada attraverso l’Iran, incoraggiando Baghdad a collegare l’oleodotto del Nord con quello meridionale e poi normalizzando le relazioni con il Rojava per arrivare al porto internazionale di Haifa: Israele ha già acquistato il petrolio della Krg, anche questo è stato discusso da alcuni esperti per quanto la Krg dovrebbe superare la pubblica diffidenza irachena verso qualunque accordo con lo stato ebraico. 

Rosneft e BP: russi e inglesi per la rotta del gas

Fin dal 1991 gli Stati Uniti erano stati alle spalle della Krg, fornendo protezione, fondi, assistenza e formazione, nonché sostegno politico a Baghdad. Ma prima del referendum la dirigenza curda aveva già avviato approcci con la Russia suscitando la preoccupazione statunitense per il voto. Se gli Stati Uniti non fossero riusciti a riunire Erbil e Baghdad, i leader curdi avrebbero continuato a cercare aiuto nella Russia, convinti che potesse essere il miglior deterrente contro Turchia e Iran, che si erano riavvicinati in occasione del referendum; inoltre miravano agli investimenti russi sul comparto energetico per finanziare il loro budget futuro. La Rosneft, potente compagnia petrolifera russa, infatti sta attualmente costruendo un gasdotto per portare il gas della regione sui mercati internazionali e in periodo referendario pagò un affitto di due miliardi di dollari alla Krg. Questo irritò i britannici perché la loro compagnia petrolifera (BP) aveva firmato un accordo con il governo di Baghdad nel 2013 per lo sfruttamento di giacimenti petroliferi a Kirkuk.

Kirkuk, la Gerusalemme curda e il controllo dei pozzi

I confinanti turchi e iraniani temevano che i partiti curdi locali volessero ispirarsi ai loro confratelli iracheni; l’Iran non voleva che uno stato indipendente curdo si alleasse con Israele e Arabia Saudita perché troppo debole per difendere i confini ed evitare che sauditi, americani e israeliani installassero le loro basi antiraniane nella Regione autonoma del Kurdistan. La continua opposizione di Turchia e Iran ingigantì i problemi per il Kurdistan iracheno, che importa infatti l’85 per cento di cibo e altre merci attraverso Iran e Turchia, il 95 per cento della sua bilancia commerciale inoltre dipende dall’esportazione di greggio tramite i porti turchi. Le sanzioni turche possono facilmente soffocare lo stato curdo, quindi una simile evenienza avrebbe conseguenze drammatiche sotto il profilo economico per una regione già duramente provata da crisi finanziarie e strozzata da miliardi di dollari di indebitamento a livello locale e internazionale. La leadership curda avrebbe dovuto essere più attenta nel periodo precedente al referendum, in modo che gli errori futuri non solo non ostacolassero gli sforzi per uno stato indipendente, ma non mettessero a rischio la relativa stabilità, migliorando il tenore di vita esperito in passato da molti curdi.

Una fonte politica di alto profilo mi ha raccontato che Masoud Barzani ha promosso un referendum irredentista in modo da ottenere «una forte leva da usare contro il governo iracheno per mantenere i pozzi petroliferi a ovest di Kirkuk nel caso di negoziati sul futuro delle relazioni tra Krg e Baghdad». Molti, infatti, dubitavano dei proclami d’indipendentismo di Masoud Barzani; tra questi Hoshyar Abdullah, membro del Gorran, fazione del parlamento iracheno, convinto che il referendum fosse una carta politica giocata per mantenere i giacimenti petroliferi a ovest di Kirkuk e «stornare l’attenzione delle masse curde dai fallimenti della Krg, consentendo al Kdp di recuperare le posizioni perse a Baghdad». 

Masoud Barzani, Nechirvan Barzani e Masrour Barzani, padre, genero e nipote, erano i sostenitori più accaniti dell’indipendenza curda e le loro principali argomentazioni erano, come per gli altri leader curdi, le seguenti: il governo di Baghdad ha deluso nella spartizione del potere, ignorando le richieste della popolazione curda e tagliando i finanziamenti alla Krg; l’Iraq è uno stato fallito e i curdi non vogliono più essere parte di questo fallimento: l’Accordo Sykes-Picot ha privato i curdi della sovranità e ora essi hanno il diritto di opporsi all’ordine tradizionale, visto che sono stati loro a farne le spese; il governo iracheno ha violato 55 articoli costituzionali e non è mai stato implementato l’articolo 140 che determina la sorte di Kirkuk e di altre aree soggette a contenziosi.

Nel 2014 Nechirvan Barzani, il primo ministro del governo regionale curdo, annunciò «l’indipendenza economica del governo locale come strategia per finanziare la Krg attraverso le esportazioni di petrolio», tuttavia questa fallì per il crollo dei prezzi del greggio, la guerra a Daesh e le azioni del governo centrale contro la Krg per tagliare il budget. Di fronte all’avanzata di Daesh su Kirkuk in quello stesso anno il Kdp schierò due brigate a protezione dei campi di petrolio occidentali. Quando il Puk cominciò a sospettare delle intenzioni del Kdp dispiegò a sua volta truppe in quelli a nord della città per bloccare ulteriori pretese del Kdp. Queste mosse mettevano a rischio il destino di Kirkuk dato che non si trovava l’accordo definitivo riguardo il futuro della città (per questo è considerata la Gerusalemme curda, come spiegato nelle mappe all’inizio del volume). Le prospettive per i campi a ovest furono all’origine del conflitto tra il governo regionale e quello iracheno da un lato e tra il Kdp e il Puk dall’altro. Inoltre il Kdp non intendeva concedere a Baghdad il controllo del petrolio dato che il suo piano strategico di controllo energetico era volto a perseguire efficacemente la sua brama di egemonia tramite giochi politici in Iraq e nella regione curda. 

Nel marzo 2017 una forza conosciuta come Hêze Reşeke (Forza nera), vicina al Puk, fece irruzione nella stazione di pompaggio della North Oil Company per mettere sotto pressione Erbil e Baghdad con lo scopo di costruire una raffineria di petrolio a Kirkuk; la mossa del Puk portò Barzani a inviare altri peshmerga per mettere in sicurezza i campi a ovest di Kirkuk controllati dalle forze del Governo regionale leali al Kdp. I leader del Kdp e del Puk non sono davvero riusciti a venire a capo della politica locale e comprendere l’ordine internazionale. 

 

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