Religioni | Temi OGzero https://ogzero.org/temi/politico-culturali/religioni/ geopolitica etc Fri, 26 Apr 2024 17:49:35 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.4.6 L’equilibrista di Ankara sul filo del conflitto mediorientale https://ogzero.org/lequilibrista-di-ankara-sul-filo-del-conflitto-mediorientale/ Thu, 25 Apr 2024 20:18:45 +0000 https://ogzero.org/?p=12587 Le mosse strategiche nella regione Mena sono diventate più frenetiche dagli Accordi di Abramo in poi, fino alla reazione di Hamas del 7 ottobre, apparentemente avventata ma mirata a legittimarsi come movimento e contrastare l’accelerazione del governo Netanyahu volta a cancellare la presenza palestinese nella regione. I sei mesi di pantano genocida non sono stati […]

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Le mosse strategiche nella regione Mena sono diventate più frenetiche dagli Accordi di Abramo in poi, fino alla reazione di Hamas del 7 ottobre, apparentemente avventata ma mirata a legittimarsi come movimento e contrastare l’accelerazione del governo Netanyahu volta a cancellare la presenza palestinese nella regione. I sei mesi di pantano genocida non sono stati risolutivi per lo Stato ebraico e così si assiste al particolare dinamismo da parte di molti attori locali, in particolare di Erdoğan.
La diplomazia turca e il presidente stesso hanno intrapreso un tourbillon di incontri presso i vertici degli stati che compongono la regione mediorientale, proponendosi come mediatore, cercando di raccogliere il testimone lasciato cadere dal Qatar, logorato dal boicottaggio israeliano. Ma soprattutto Erdoğan ha individuato nel conflitto che si vuole estendere dal confronto tra Stato ebraico e Repubblica islamica la nuova centralità dell’Iraq, controllato da Teheran attraverso una ragnatela di accordi con la complessità delle formazioni e delle comunità che abitano il territorio iracheno; insinuandosi nei contrasti interni, il presidente turco mira al petrolio di Erbil e a cacciare il Pkk dai monti del Kurdistan iracheno… Murat Cinar dispiega la sottile tela che si va tessendo, in particolare ricostruendo il ruolo turco e l’avvicinamento di Hamas (evidentemente più rassicurato dall’abbraccio di Ankara – contemporaneamente paese Nato e rivale di Israele – che non dalle petrocrazie arabe) sia nella complessa carneficina della guerra ormai esportata nel resto dei paesi all’interno dei quali le presenze filoiraniane dettano la politica, sia nella strategia per inserirsi nel controllo del territorio e dell’energia irachena, comprandosi Baghdad ed Erbil. E di nuovo, come spesso ci ha raccontato Cinar, spuntano gli oleodotti di Barzani [a proposito: l’immagine in copertina è la fortezza di Erbil pavesata a festa per l’arrivo del presidente turco]  e le dighe su Tigri ed Eufrate, le acque del Medioriente…


Erdoğan è vicino a tutti

 

“Da oltre cento anni, le acque nel Medioriente non trovano pace”, questo è un dato certo. Tuttavia, proprio nelle ultime settimane, siamo testimoni di un fenomeno straordinario. Un fenomeno che coinvolge diversi attori, ma tra essi uno spicca particolarmente: la Turchia.

Dal 7 ottobre fino a oggi, le relazioni tra il partito al governo in Turchia, l’Akp, e l’organizzazione armata Hamas, sono diventate una questione internazionale, chiara e trasparente. L’esponente più autorevole dello stato turco e del partito al potere da oltre vent’anni, ovvero il presidente della Repubblica, dopo alcune settimane di silenzio dal 7 ottobre, ha deciso di comunicare la sua posizione: «Hamas è un’organizzazione di patrioti, non un’organizzazione terroristica». Così, dopo l’Iran, la Turchia è diventata il secondo paese al mondo a esprimere un avvicinamento così netto a Hamas.


Una posizione che entra in contraddizione con i partner europei, con gli alleati Nato, nonché con la Lega Araba e l’Organizzazione della Cooperazione Islamica. In fondo, non si tratta di una novità assoluta. La linea politica ed economica rappresentata dall’Akp è sempre stata vicina ai movimenti fondamentalisti come i Fratelli Musulmani e a una serie di formazioni armate religiose nel Medio Oriente. Inoltre Hamas ha sempre trovato accoglienza, sostegno e riconoscimento presso l’Akp e sotto l’ala protettiva del presidente della Repubblica di Turchia. Tuttavia, questa esposizione così netta, in pieno conflitto, non ha provocato reazioni, sanzioni o embarghi da parte dell’UE e/o della Nato. Poche settimane dopo, nel mese di dicembre, il mondo ha appreso, grazie alle inchieste giornalistiche di Metin Cihan, che persino per Israele non costituiva un grande problema, poiché Tel Aviv continuava a fare acquisti presso aziende turche, incluse quelle statali.

Affannosamente al centro di ogni possibile accordo

Nel mentre Ankara ha tentato diverse volte di assumere il ruolo di “mediatore”, anche se finora senza successo; tuttavia, oggi sembra che questi sforzi stiano finalmente portando dei risultati. Il ministro degli Esteri turco, Hakan Fidan, ha incontrato in Qatar il leader politico di Hamas, Ismail Haniyeh, proprio quando Doha stava per abbandonare il suo ruolo di mediatore. Infatti il primo ministro del Qatar, Sheikh Mohammed bin Abdulrahman bin Jassim Al Thani, il 16 aprile aveva comunicato a Fidan che il suo governo stava per rinunciare. Tuttavia il tentativo del Ministro turco sembra poter ottenere dei risultati positivi. Le dichiarazioni di Fidan ci offrono spunti di riflessione su una serie di scenari:

«Come ho costantemente riferito ai nostri alleati occidentali, Hamas è a favore di uno stato palestinese basato sui confini del 1967 e, una volta creato, è disposto a rinunciare alle armi e a intraprendere la via della politica parlamentare», ha affermato Fidan. Tale dichiarazione prevede anche il riconoscimento di Israele da parte di Hamas, la possibilità di porre fine al conflitto armato, il rilascio degli ostaggi e lo scambio di detenuti politici. Si tratterebbe dell’inizio di una nuova era: «Questo segna il cammino verso la creazione di uno stato palestinese», ha concluso Fidan.

Quando e perché viene fuori una dichiarazione del genere?

Potrà una comunità fondarsi su un altro genocidio come quello di Gaza senza essere una caserma come lo Stato ebraico… o la Repubblica turca?

Senza dubbio il massacro a Gaza ha esaurito innanzitutto i principali protagonisti. Ci troviamo di fronte a un governo sionista, rappresentato da Benjamin Netanyahu, che sta perdendo sempre più il sostegno interno. Da mesi ormai, le strade di Israele sono attraversate da manifestazioni che chiedono le dimissioni di Bibi. In realtà, non è una novità, considerando che nel 2023 Israele aveva già vissuto un lungo periodo di proteste contro il governo per le sue proposte di cambiamento radicale del sistema giudiziario. Oggi Netanyahu è impegnato in una guerra che non sta producendo risultati. Gli ostaggi sono ancora in mano a Hamas, molti sono morti (anche a causa dell’esercito israeliano), e il governo israeliano continua a perdere sostegno a livello internazionale. Le critiche severe che giungono da Washington non sono sporadiche, soprattutto attraverso il più importante esponente politico degli Stati Uniti, ovvero Biden, che tra pochi mesi dovrà affrontare delle elezioni cruciali, dove la situazione israeliana avrà sicuramente un ruolo di rilievo.

Sintonie politico-militari tra leader nazionalisti-identitari

Quindi l’avvicinamento di Ankara a Hamas e il tentativo di portarla eventualmente al tavolo dei negoziati, ottenendo il riconoscimento dello Stato di Israele, la creazione di uno stato palestinese indipendente e il rilascio degli ostaggi, sicuramente portano all’Akp un notevole vantaggio politico. Biden si libera dalla pressione politica e mediatica avvicinandosi alle elezioni, mentre Ankara appare come un mediatore con un canale privilegiato verso un gruppo armato che ha legami diretti solo con l’Iran, attualmente molto isolato.
Infatti, proprio in questi giorni il presidente della Repubblica di Turchia ha paragonato Hamas alla formazione armata che ha fondato la Turchia, la Kuva-i Milliye (anche se con profili ideologici decisamente diversi). Lo stesso parallelo era stato tracciato dallo stesso presidente per l’Esercito Libero Siriano nel 2018, un gruppo di jihadisti che aveva supportato le forze armate turche nelle loro operazioni in Siria. Oggi Erdoğan sembra cercare di presentarsi nuovamente come l’unico intermediario per le organizzazioni terroristiche, a servizio della Nato, dell’Europa e persino di Israele. Non va dimenticato il tentativo di costruire un rapporto diretto con i Talebani nel 2021, quando Erdoğan disse:

«Abbiamo un pensiero ideologico molto simile».

Questo avvenne proprio mentre il mondo era sconvolto dalla fuga degli americani dall’Afghanistan e il ritorno dei Talebani al potere.

Tattiche e affari turchi; accoglienza senza schierarsi

Quindi Hamas rappresenta una nuova opportunità per Ankara, forse anche per garantire un certo sostegno a Bibi. Nonostante gli attriti e le dichiarazioni aspre, Erdoğan e Netanyahu hanno sempre mantenuto un rapporto commerciale molto proficuo, in costante crescita. Anche durante il conflitto, secondo il report dell’Istituto di Statistica turco, Tuik, il volume degli scambi commerciali tra Ankara e Tel Aviv è aumentato del 20%. Tra i prodotti venduti troviamo tutto il necessario per sostenere l’occupazione e l’invasione. Chi altro potrebbe offrire un aiuto così significativo a Netanyahu, in difficoltà al punto da tentare di coinvolgere persino l’Iran in una guerra?

Sì, l’accoglienza diretta e il sostegno a Hamas da parte di Ankara avvengono proprio mentre nel mondo crescono le preoccupazioni riguardo a una possibile guerra tra Iran e Israele.

Tattiche e affari iraniani, intrecci speculari con quelli israeliani

In questo momento di difficoltà interna e internazionale il governo israeliano decide di colpire le postazioni diplomatiche iraniane presenti in Siria, il 1° aprile. Ovviamente sarebbe stato assurdo pensare che l’Iran non avrebbe reagito. Ma in che modo e con quali tempi?

Teheran ha atteso ben due settimane prima di reagire. In Israele l’ansia era palpabile: si sono verificate lunghe code nei supermercati, la popolazione era pronta per la guerra e le critiche nei confronti di Netanyahu si erano intensificate. Tuttavia Teheran, considerando la propria situazione economica e l’instabilità politica interna da anni, non poteva permettersi una vera guerra. Alla fine sono stati lanciati più di 300 razzi/droni verso Israele, ma nessun bersaglio civile è stato colpito e solo una persona è rimasta ferita. Era prevedibile che Tel Aviv avrebbe neutralizzato questo attacco con il suo avanzato sistema di sicurezza? Forse sì. Allora, a cosa è servito tutto ciò?
Innanzitutto Teheran non è rimasto in silenzio dopo l’attacco subito, ha dimostrato al mondo che in qualche modo avrebbe potuto tentare di colpire Israele. Dopo il 7 ottobre, e per la prima volta dopo anni, uno stato ha cercato di colpire Israele mentre tutti i paesi del Golfo osservavano ciò che accadeva a Gaza. Israele ha fermato l’attacco grazie ai suoi alleati, non da solo. In primo luogo la Giordania, poi le forze americane e inglesi hanno dato una mano a Tel Aviv. Quindi, per il governo israeliano, questa non è una vittoria ottenuta da solo.

Inoltre per Israele potrebbe essere stato un tentativo, forse, di spostare l’attenzione da Gaza a Teheran. Forse cercava di coinvolgere gli Stati Uniti in questa guerra, o di ottenere nuovi alleati in un eventuale conflitto futuro. Alla fine della giornata, chi non ha qualche problema con l’Iran? Tuttavia, secondo fonti dell’agenzia di stampa Axios, Bibi non ha ottenuto il sostegno che si aspettava da Biden. «You got a win. Take the win» sarebbe stato il riassunto della posizione del presidente statunitense. In altre parole: “mo’ basta, non ti sostengo più”. Ora Israele molto probabilmente si sta preparando a colpire l’Iran. Non sappiamo ancora in che modo, ma Tel Aviv non è l’unico a cercare di mettere in discussione la presenza dell’Iran in quella zona in questi giorni. Anche Ankara sta cercando di eliminare Teheran dall’Iraq.

Affari e opportunità, rimestando nel caos iracheno

Lorenzo Forlani ci aiuta a inquadrare la mezzaluna sciita: “No “Mena” Land: lo strame di 30 anni di proxy war in MO”.

Erdoğan e l’ossessione anticurda

Pochi giorni prima delle elezioni amministrative tenutesi in Turchia il 31 marzo, una significativa delegazione turca si era recata a Baghdad, ottenendo un risultato di rilievo grazie alla firma di un accordo storico. Con questo accordo, il governo iracheno esprimeva la sua solidarietà ad Ankara nella “lotta contro il Pkk” e prometteva di impegnarsi anche militarmente in questa missione. Oggi è giunto il momento di valutarne i risultati.

Dodici anni dopo il presidente della Repubblica di Turchia si è recato in Iraq il 22 aprile per incontrare il governo centrale a Baghdad e successivamente gli esponenti dell’Amministrazione autonoma del Kurdistan a Erbil. Quali sono gli elementi in gioco e qual è il coinvolgimento dell’Iran?
Uno dei principali problemi che Baghdad fatica ad affrontare è quello economico. Infatti, nel mese di marzo di quest’anno, l’Iraq ha avviato il progetto della “Strada dello Sviluppo”, che prevede il coinvolgimento diretto della Turchia per una serie di prodotti, sfruttando anche la sua posizione geografica strategica. La “Development Road” sarebbe importante anche per diventare un’alternativa per una serie di paesi e aziende occidentali che negli ultimi tempi hanno incontrato difficoltà nel Mar Rosso, una zona controllata da Ansar Allah (Houthi), cioè dall’Iran. Quella formazione armata che spesso impedisce alle navi commerciali di attraversare la zona. Quindi si tratta di un progetto che avrebbe l’ambizione, almeno in parte, di minare il potere politico ed economico di Teheran. Naturalmente l’attuazione del progetto renderà la Turchia un attore importante, che sembra voler approfittare di questa occasione per introdurre ulteriori elementi nel gioco.

E l’ambigua ossessione antiraniana per conto dell’energivoro Occidente

Infatti tra i temi discussi da Erdoğan durante la visita in Iraq c’è anche il consolidamento dell’alleanza diretta per combattere il Pkk, una formazione armata definita “terroristica” dalla Turchia, con alcune sue basi e numerosi vertici situati proprio in Iraq. In questo contesto è importante ricordare che da circa tre anni, durante gli incontri tra Ankara e Baghdad, si discute anche di una possibile collaborazione per eliminare la formazione armata Hashdi Shabi dal territorio iracheno. Questo rappresenterebbe un nuovo gesto contro l’Iran, dato che l’organizzazione in questione è stata costantemente sostenuta e armata da Teheran ed è stata sempre considerata una “minaccia per la sicurezza nazionale” da parte di Baghdad. Pertanto unire la lotta contro il Pkk a quella contro l’Hashdi Shabi potrebbe diventare una missione comune per questi due paesi confinanti.

Quindi, per Ankara, l’attuazione del progetto “Development Road” rappresenta anche un’opportunità per trasformare Baghdad in un vero alleato nella sua missione di contrastare e forse distruggere il Pkk. Dopo che Baghdad ha definito il Pkk “un’organizzazione terroristica” nel mese di marzo, ora non ci sarebbero più ostacoli per avviare le operazioni militari. È importante considerare che un Iraq sicuro, non soggetto a bombardamenti da parte di nessuno, libero dal conflitto armato tra Pkk e Ankara e infine libero dalla presenza iraniana, consentirebbe a tutte le aziende europee e statunitensi di operare “in pace”. Pertanto l’operazione economica e militare proposta da Ankara non gioverebbe solo ai suoi interessi. Infatti, proprio il giorno dell’arrivo di Erdoğan in Iraq, il portavoce dell’Association of the Petroleum Industry of Kurdistan, Myles Caggins, ha dichiarato ai microfoni del canale televisivo iracheno Rûdaw TV:

«Mi aspetto che Erdoğan convinca i dirigenti iracheni a far giungere il petrolio del Kurdistan al mondo attraverso la Turchia».

Dalla padella della mezzaluna sciita filoiraniana alla brace della fratellanza filoturca?

È indubbiamente importante considerare una serie di dinamiche. In Iraq nel 2025 si terranno le elezioni e nel paese non c’è un consenso politico e/o popolare sulla posizione nei confronti del Pkk e sull’avvicinamento con la Turchia. Per esempio, Bafel Jalal Talabani, leader dell’importante partito politico curdo Puk, spesso dichiara che il Pkk non è il suo nemico. Inoltre, è ancora fresca la condanna subita da Ankara per il commercio petrolifero, definito “scorretto”, con l’amministrazione curda. Nel 2023, Ankara è stata multata di 1,4 miliardi di dollari dalla Icc, la Corte Internazionale di Arbitrato.

Ma evidentemente il presidente turco è stato convincente (forniture militari, sicurezza, risorse idriche, promesse varie…), tanto che il portavoce del governo iracheno, Basim el-Avvadi ha rilasciato una dichiarazione il 25 aprile: «Ai membri del Pkk sarà riconosciuto il titolo da rifugiato politico. L’organizzazione invece sarà definita illegale», un’altra diaspora attende i resistenti curdi; contemporaneamente Hamas può trovare ricovero proprio presso il persecutore del Pkk.

Dighe contro le popolazioni mesopotamiche: preludio a un nuovo focolaio di guerra

Oltre a questa questione ancora aperta c’è anche il problema dell’acqua, che rappresenta un tema cruciale. Secondo l’accordo del 1980 la Turchia è tenuta a gestire correttamente il regime dei fiumi che attraversano i suoi confini e scorrono verso l’Iraq. A causa del riscaldamento globale Baghdad cerca da anni di rinegoziare questo accordo, ma Ankara continua a rimandare la questione. Tuttavia, soprattutto durante l’estate, ciò causa un enorme disagio per l’intera nazione, e l’opinione pubblica è convinta che la Turchia stia usando l’acqua come un’arma contro l’Iraq.

La portata del Tigri e dell’Eufrate nel progressivo inaridimento fino alla foce, grafico tratto da Curdi, di Antonella De Biasi, Giovanni Caputo, Kamal Chomani e Nicola Pedde, Torino, Rosenberg & Sellier, 2019

Dopo l’incontro del 22 aprile è molto probabile che Erdoğan abbia ottenuto risultati significativi non solo dal punto di vista economico, ma anche in vista di un’operazione militare imminente. La sua prossima visita, fissata per il 9 maggio a Washington direttamente con Biden, probabilmente includerà anche l’ottenimento di una sorta di “lasciapassare” in Iraq. Non sarebbe fuori luogo aspettarsi un inizio di guerra entro fine maggio.

Perpetuazione del mondo caoticamente multipolare

Il governo turco è apparentemente molto determinato nel lavoro volto a portare Hamas al tavolo dei negoziati, per ottenere una serie di risultati a breve e lungo termine, sia politici che economici, diretti e indiretti. La fine della guerra probabilmente porterà benefici anche a Benjamin Netanyahu, permettendogli di restare al potere senza doversi dimettere. Quindi in Israele potrebbe rimanere un uomo che, tutto sommato, non ha creato grossi problemi a Erdoğan. Anzi, durante la sua carriera politica, il presidente turco ha beneficiato di un notevole benessere economico, sia per le aziende vicine al suo governo che per quelle della sua famiglia.

In quest’ottica, uno Stato ebraico stabile e una repubblica islamica che non esce dai suoi “confini” e rimane al di fuori del gioco in Iraq permetteranno ad Ankara e ai suoi alleati di continuare a giocare la stessa partita anche nei prossimi anni.

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Il crogiolo caucasico tra i confini fittizi dei vincitori https://ogzero.org/il-crogiolo-caucasico-tra-i-confini-fittizi-dei-vincitori/ Mon, 09 Oct 2023 23:43:29 +0000 https://ogzero.org/?p=11677 Dopo il corridoio di Lachin, ora c’è quello di Meghri nel mirino e l’Iran non potrà limitarsi a non gradire l’aggressione turco-azera. L’Artsakh avrebbe dovuto essere un caso di indipendente convivenza di comunità cristiane e musulmane, altaici azeri turcofoni e indoeuropei armeni di ceppo greco-germanico; non è mai stata una esperienza realmente paritaria, perché – […]

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Dopo il corridoio di Lachin, ora c’è quello di Meghri nel mirino e l’Iran non potrà limitarsi a non gradire l’aggressione turco-azera. L’Artsakh avrebbe dovuto essere un caso di indipendente convivenza di comunità cristiane e musulmane, altaici azeri turcofoni e indoeuropei armeni di ceppo greco-germanico; non è mai stata una esperienza realmente paritaria, perché – soprattutto dall’esterno – si sono fatti prevalere contrasti etnici a condivisione di territorio tradizionalmente abitato da famiglie eterogenee, condizionate da invasioni e dominazioni variabili e costanti. E quando soffiano i venti nazionalisti si scompaginano le comunità per creare stati usati per soffocarle, ognuno secondo la propria tradizione verso il vicino; in questo caso è sintomatico come i paesi islamici più lontani come l’Algeria definiscano gli armeni cristiani colonizzatori, mentre l’Iran sciita come il popolo azero appoggi Erevan per mere questioni di metri di confine da salvaguardare, mentre il miglior alleato dei “fratelli altaici” azeri è il vicino sunnita Erdoğan, interessato alla creazione di un unico territorio ottomano senza interruzioni di confini.
Ciò che rende ancora più impellente l’abbandono della terra avita da parte della ex maggioranza armena fuggita dall’Artsakh è la ferocia autoritaria del regime dinastico ex sovietico… mentre perdurano i bombardamenti turchi sui curdi e i sionisti passano per vittime, pur essendo Nethanyauh dalla parte dei carnefici, come gli Aliyev o il despota Erdoğan; tutti in qualche modo collegati e con interessi intrecciati, tra le vittime dei contenziosi decennali mancano solo i saharawi. 


La secolare replica del genocidio armeno

L’attuale violenza (massacri, deportazioni…) subita dagli armeni rievoca fatalmente il genocidio del 1915.
C’ è ancora spazio per una qualsivoglia “soluzione politica” che garantisca minimamente i diritti della popolazione armena del Nagorno-Karabach?
Meglio non raccontarsi balle. Ormai – a meno di imprevedibili eventi di portata planetaria – la questione è chiusa definitivamente. Anzi, potrebbe anche andare peggio.
Non si può infatti escludere che dopo l’Artsakh venga invasa anche la stessa Armenia, in particolare il corridoio per congiungere l’esclave azera di Karki al confine con l’Iran (e la Turchia).

Vediamo intanto di riepilogare la tragica catena degli ultimi tre anni.
I bombardamenti azeri del 19 settembre avevano riportato nella cronaca un conflitto forzatamente dimenticato, tuttavia l’attacco di Baku contro il Nagorno-Karabach e quanto poi avvenuto ai danni del popolo armeno non calava inspiegabilmente dal cielo. Come già si era ipotizzato in agosto.
Era perlomeno probabile.
Il Nagorno Karabakh era una repubblica autoproclamata (ribattezzata con l’antico nome di Artsaj) abitata in prevalenza da armeni, ma posta forzatamente all’interno dei confini dell’Azerbaijan. E che già prima del 1991 si batteva per la propria indipendenza.

Pulizia etnica alternata

Nel conflitto del 1988-1994 la vittoria era andata agli armeni con la conseguente espulsione di migliaia di azeri.

Nella Seconda guerra del Nagorno-Karabach (autunno 2020) le parti si invertirono e per oltre 40 giorni l’esercito azero si scatenò sulla popolazione civile compiendo ogni genere di efferatezze. Qualificabili come una brutale pulizia etnica.
Al punto che molti armeni in fuga riesumarono i loro cari dalle tombe e fuggirono con le bare fissate al portapacchi delle auto dopo aver incendiato la propria casa.

L’evanescente interposizione russa

In realtà solo un terzo della provincia indipendentista era passato sotto il controllo di Baku, ma erano chiare le intenzioni di completare l’opera quanto prima. Nonostante la poco convinta opera di interposizione dei soldati di Mosca, soprattutto dopo che l’Armenia aveva accettato di partecipare a esercitazioni congiunte con truppe Nato (direi un autogol di Erevan).
Ovviamente anche all’odierna (definitiva?) sconfitta degli Armeni (anche per essere stati isolati e privati di mezzi di sussistenza da circa nove mesi) di fronte alle preponderanti forze azere, date le premesse, era fatalmente scontata.

Neottomanesimo via Baku

Smantellata l’amministrazione armena della enclave ribelle, Baku ha dichiarato di volere «integrarla totalmente nella società e nello Stato azeri».

Quanto alle voci di una possibile concessione di “autonomia”, la cosa appare piuttosto fantasiosa. Se nell’Azerbaigian non gode di alcun riconoscimento la consistente “minoranza” Talish (una popolazione di lingua iraniana che supera il milione di persone) cosa potrebbe toccare ai circa 120.000 armeni del Nagorno-Karabach? Peraltro ormai fuggiti nella quasi totalità e poco propensi a rientrare nonostante le rassicurazioni del governo di Baku.

La coltre di gas

Dal canto suo l’Unione Europea si guarda bene dall’intervenire pensando ai consistenti accordi con l’Azerbaijan in materia di gas.

Solidarietà al popolo armeno è stata espressa vigorosamente dal Consiglio esecutivo del Congresso nazionale del Kurdistan (Knk).

Nel comunicato ha denunciato «la tragedia umana che avviene sotto gli occhi del mondo nell’Artsakh (Alto Karabach) dove un centinaio di migliaia di Armeni sono costretti all’esilio». E il Knk ricordava anche le immagini terribili del 2020 con «i soldati azeri che tagliavano nasi e orecchie ai civili e vandalizzavano i monasteri».

Ovvio il parallelismo con quanto avviene “nelle zone curde occupate dalla Turchia” (il principale alleato dell’Azerbaigian).
Ma esiste anche un altro timore, ossia che “se cade l’Artsaj, cade anche l’Armenia”.

Una lingua di terra turca a unire Caspio e Mediterraneo

Già nel 2020 l’Azerbaijan aveva occupato territori ufficialmente dell’Armenia nella regione di Syunik. Una lingua di terra che si frappone alla dichiarata intenzione di Turchia e Azerbaijan di unire il Mediterraneo con il Caspio via terra. Ricordo che Turchia e Azerbaigian sono già confinanti grazie all’enclave azera di Najicheván che – toh, coincidenza! – Erdogan ha appena visitato per la prima volta.

Forse paradossalmente (visto che gli azeri sono in maggioranza sciiti come gli iraniani) l’unico paese con cui l’Armenia mantiene stabili e diretti rapporti commerciali (nel 2020 forse s’aspettava anche sostegno militare, ma invano) è l’Iran. La perdita della regione di Syunik le sarebbe quindi fatale.

L’analogo trattamento turco destinato ai curdi

Per il Knk comunque non ci sono dubbi «Si tratta di pulizia etnica orchestrata dall’Azerbaigian e dalla Turchia., motivata dall’ambizione geopolitica pan-turca che intende riunire queste due nazioni (…). Dopo 108 anni il popolo armeno si ritrova di nuovo vittima di massacri e deportazioni orchestrati dalle forze statali animate da odio razzista verso la cultura e il popolo armeno. Di conseguenza la pulizia etnica attualmente in corso nell’Artsakh deve essere considerata come la continuazione del genocidio armeno del 1915 perpetrato dai Giovani Turchi».
E conclude paragonando le attuali sofferenze degli armeni a quelle analogamente patite dai curdi a Shengal, Afrin e Serêkaniyê: «Nomi e vittime di questi massacri possono cambiare, ma le motivazioni rimangono identiche».

Diretto interventismo turco nell’area curdo-armena

Risalendo all’ottobre 2020 già allora appariva evidente come il conflitto tra Armenia e Azerbaijan fosse propedeutico all’intervento diretto della Turchia contro l’Armenia.
Nella guerra intrapresa dall’Azerbaijan, il ruolo di Ankara si andava sempre più definendo. In particolare con la fornitura di migliaia di mercenari e jihadisti (sunniti) provenienti dalla Siria (e forse anche dalla Libia) per combattere a fianco degli azeri (sciiti) contro gli armeni cristiani.
Un destino, quello della cittadina al confine turco-armeno di Kars, analogo a quello delle città frontaliere di Ceylanpinar e di Reyhanli nel conflitto siriano. Ugualmente utilizzate per smistare le milizie islamo-fasciste.

Per il giornalista curdo Mustafa Mamay non ci sarebbe stato quindi di che stupirsi se «da ora in poi vedremo i salafiti passeggiare per le vie di Kars».

D’altra parte era quasi scontato che Erdogan intervenisse a gamba tesa nella questione del Nagorno-Karabakh ai primi segnali di ripresa del conflitto, mettendo a disposizione di Baku, oltre ai già citati mercenari e terroristi, aerei F-16, droni Bayraktar TB-2, veicoli e consiglieri militari.

Niente di nuovo

2009

Ancora nel 2009 (10 ottobre) a Zurigo la firma – già concordata – dell’accordo di “normalizzazione diplomatica” e per la riapertura delle frontiere tra la Turchia e l’Armenia era rimasta per molte ore in sospeso. Il motivo? La legittima contrarietà della delegazione armena per il previsto discorso del ministro degli Esteri turco, Ahmet Davutoglu. Addirittura, la berlina di Hillary Clinton – già in viaggio verso l’Università di Zurigo per raggiungere le delegazioni svizzere, francesi, russe ed europee – aveva fatto repentinamente dietrofront per ritornare all’hotel da dove – secondo alcune versioni direttamente dal parcheggio – avrebbe tempestato di telefonate i ministri turco e armeno per sbloccare la situazione.
Poi la cosa era rientrata e il discorso rimasto nel cassetto. Ma il giornale “Hurriyet” ne era ugualmente entrato in possesso appurando che il contenzioso verteva proprio sulla questione del Nagorno-Karabakh. In sostanza Davutoglu esigeva il ritiro di Erevan dalla provincia, formalmente sottoposta all’Azerbaijan, ma controllata dall’Armenia dal 1993. Posizione ribadita – anche per rassicurare il governo di Baku – nei giorni successivi dal primo ministro turco Recep Tayyp Erdoğan. Storicamente amico e alleato di Ankara, l’Azerbaijan vedeva tale accordo come fumo negli occhi.
Ostilità che trovava precise assonanze nel Parlamento turco che avrebbe dovuto poi ratificare l’accordo. Anche per il parlamentare kemalista Onur Oymen (esponente dell’opposizione nazionalista, quasi un progressista, comunque non un seguace di Erdoğan) si trattava nientemeno che di una «abdicazione, di un cedimento alle pressioni esterne» esprimendo «inquietudine per l’avvenire del paese» (senza però specificare se si preoccupasse più della Turchia o dell’Azerbaijan).

Contestazioni, se pur in tono minore, provenivano anche dall’Armenia, in particolare dal partito nazionalista Dachnak. Migliaia di persone avevano partecipato a una manifestazione indetta a Erevan, chiedendo che prima di ogni accordo la Turchia riconoscesse le proprie responsabilità in merito al genocidio del 1915.

1988

Risalivano al febbraio 1988 le manifestazioni degli armeni nella città di Stepanakert per la riunificazione con l’allora sovietica Repubblica d’Armenia.
E il 20 febbraio 1988 – dopo essere echeggiata anche per le vie di Erevan – la richiesta dei manifestanti veniva approvata dal parlamento regionale del Karabakh con 110 voti contro 17. Rigettata da Mosca, forniva comunque l’innesco per le prime avvisaglie del lungo, aspro conflitto armeno/azero. Il 22 febbraio una marcia – non certo spontanea – di migliaia di azeri si muoveva da Agdam in direzione di Askeran (nel cuore dell’entità autonoma: oblast, provincia) prendendo di mira sia la popolazione, sia le proprietà armeni. Nei disordini di Askeran si conteranno decine di feriti (sia armeni che azeri) e almeno due azeri uccisi. È il segnale per una miriade di scontri “settari” tra le due comunità, sia nel Nagorno-Karabakh che nell’Azerbaijan, ai danni soprattutto delle rispettive minoranze.

Mosca intanto permaneva nella sostanziale incomprensione del problema ponendo, nel novembre 1989, la provincia autonoma sotto il diretto controllo dell’amministrazione azera.
Quanto alla richiesta ufficiale di riunificazione, proclamata con una sessione straordinaria del Soviet supremo armeno e del Consiglio nazionale del Nagorno-Karabakh, resterà lettera morta. Nel novembre 1991 lo statuto di autonomia veniva definitivamente abolito e il Nagorno-Karabah si ritrova interamente sottoposto al totale controllo di Baku.

1991

In un referendum organizzato per il 10 dicembre 1991 – boicottato dalla minoranza azera – la proposta di uno stato indipendente sarà approvata con il 99% dei voti.
A questo punto anche la proposta di ripristino di un’ampia autonomia – tardivamente avanzata da Mosca – veniva rispedita al mittente (sia dagli armeni che dagli azeri, anche se per ragioni opposte). La parola passava definitivamente alle armi al momento dell’indipendenza dell’Armenia (23 settembre 1991) e dell’Azerbaijan (18 ottobre 1991).
Mentre la situazione andava precipitando e il conflitto si alimentava con la partecipazione di migliaia di combattenti, per la provincia – erroneamente definita “separatista” – il sostegno militare dell’Armenia indipendente risulterà nevralgico.
A fianco degli azeri, oltre ai Lupi Grigi turchi, anche combattenti afgani e ceceni.
Con gli armeni miliziani provenienti dall’Ossezia e – discretamente e solo a livello logistico – la Grecia.
Entrambi i belligeranti inoltre avrebbero fatto ricorso a mercenari provenienti dai territori dell’ex Urss (russi e ucraini).

Quanto alla Russia, sembrava volersi mantenere equidistante vendendo armi a entrambi i belligeranti.
Le vittime, combattenti e civili, alla fine del 1993 si contavano a migliaia. Centinaia di migliaia, come previsto, gli sfollati e rifugiati interni su entrambi i fronti. Ai primi di maggio del 1994 gli armeni ormai controllavano circa il 14% del territorio dell’Azerbaijan e i primi negoziati (cessate il fuoco del 12 maggio) prendevano il via sotto la supervisione di Mosca.

Il fallimento del Gruppo di Minsk

1994

Con la creazione nel maggio 1994 del Gruppo di Minsk per la Conferenza sulla sicurezza e la cooperazione in Europa (attualmente denominato Osce) Francia, Russia e Stati Uniti (a cui successivamente si uniranno Italia, Turchia, Germania…) avevano inteso promuovere una soluzione pacifica del conflitto.
Tuttavia – almeno col senno di poi – con scarsi risultati, vista l’attuale deriva.

Qualche considerazione in merito alle efficaci operazioni propagandistiche (soprattutto da parte di Baku e Ankara) rivolte principalmente ai media europei. Con qualche discreto risultato. Forse perché – tutto sommato – già allora conveniva schierarsi con l’Azerbaijan (e con la Turchia) piuttosto che con la piccola, quasi insignificante sullo scacchiere internazionale, Armenia.
Per esempio, spesso gli armeni del Nagorno-Karabakh vengono impropriamente definiti “separatisti”. Una definizione mai utilizzata per il Nord di Cipro occupata dalla Turchia fin dal 1974. Per non parlare della continua evocazione di una – non documentata – partecipazione di militanti del Pkk ai combattimenti (a fianco degli armeni ovviamente).

Nel frattempo (gli affari sono affari) la Francia non smetteva di vendere armi e tecnologia militare all’alleato della Turchia, l’Azerbaijan. Non era e non è l’unico paese a farlo naturalmente (vedi l’Italia che dovrebbe fornire anche minisommergibili). Ma la cosa appariva stridente pensando al ruolo di antagonista storico di Ankara assunto periodicamente da Parigi. Per esempio, all’epoca, nella querelle sulla questione dell’espansionismo turco nelle acque del mar Mediterraneo.
Armi sofisticate, comunque. Forse le stesse con cui le forze militari di Baku colpivano direttamente la popolazione di Stepanakert.

E già allora in qualche modo il conflitto tra Armenia e Azerbaijan appariva propedeutico all’intervento diretto della Turchia contro l’Armenia (o ne era addirittura la “vetrina”). Intravedendo una prosecuzione (magari “con altri mezzi”, ma poi neanche tanto) di quella politica e di quella strategia che nel 1915 avevano determinato lo sterminio della popolazione armena.

Due parole poi sul ruolo assunto da Teheran

Anche se poteva apparire incongrua, da più parti si formulava l’ipotesi di un Iran deciso a schierarsi con l’Armenia nel conflitto con l’Azerbaijan.
Incongrua soprattutto pensando che in entrambi i paesi, Iran e Azerbaijan, è prevalente la fede sciita.

Ma poi (come forse era lecito aspettarsi) alcuni autorevoli esponenti politici iraniani erano intervenuti dichiarando che «l’Iran non sceglie l’Armenia a sfavore dell’Azerbaijan».

Il giornalista Raman Ghavami si diceva convinto che «sia probabile che dovremo assistere a una significativa collaborazione tra l’Iran, la Turchia, l’Azerbaijan (e presumibilmente anche la Russia a questo punto, N.d.A.) sia sull’Armenia, sia su altre questioni che interessano la regione».

Si sarebbe andato infatti configurando un nuovo livello di sostanziale collaborazione nelle relazioni tra Azerbaijan e Iran. Addirittura Teheran avrebbe (notizia non confermata) richiesto all’Armenia di “restituire” (nientemeno ?!?) il Nagorno-Karabakh a Baku.

Per Raman Ghavami in realtà l’Iran «da sempre preferisce rapportarsi con gli azeri sciiti piuttosto che con gli Armeni». Come avveniva già molto prima dell’insediarsi del regime degli ayatollah.

Nuovo intreccio dei destini armeni e curdi

A tale riguardo riporta l’esempio della provincia dell’Azerbaijan occidentale (posta entro i confini iraniani) che in passato era abitata prevalentemente da curdi e armeni.
Ma tale demografia venne scientificamente modificata, nel corso del Ventesimo secolo, dai vari governi persiani che vi trasferirono popolazioni azere. Sia per allontanarvi i curdi, sia per arginare gli effetti collaterali del contenzioso turco-armeno entro i confini persiani.
Molti armeni e curdi vennero – di fatto – costretti a lasciare le loro case.
Inoltre, in tale maniera, si creava una artificiosa separazione tra le popolazioni curde di Iraq, Turchia e Siria e quelle in Iran. Cambiando anche la denominazione geografica. Da Aturpatakan a quella di Azerbaijan occidentale.

Altro elemento di tensione tra Erevan e Teheran – sempre secondo Raman Ghavami – deriverebbe dal ruolo della chiesa armena nell’incremento di conversioni al cristianesimo da parte di una fetta di popolazione iraniana.

Legami finanziari Teheran-Baku

Da sottolineare poi l’importanza vitale, per un paese come l’Iran sottoposto a sanzioni, dei legami finanziari con l’Azerbaijan. Ricordava sempre Raman Ghavami come, non a caso, la succursale della Melli Bank a Baku è seconda per dimensioni soltanto a quella della sede centrale di Teheran.
Un altro elemento rivelatore sarebbe il modo in cui, rispettivamente, Baku ed Erevan hanno reagito alla cosiddetta “Campagna di massima pressione” sull’Iran in materia di sanzioni: mentre gli scambi commerciali tra Armenia e Iran si riducevano del 30%, quelli con l’Azerbaijan si intensificavano.
Ad alimentare la tensione poi, il riconoscimento da parte dell’Armenia di Gerusalemme come capitale di Israele. Una avventata presa di posizione di cui Erevan potrebbe in seguito essersi pentita. Vedi il successivo contenzioso (e ritiro dell’ambasciatore) a causa della vendita da parte di Israele di droni kamikaze IAI HAROP all’Azerbaijan.

Ulteriore complicazione (ma anche questa era forse prevedibile) la notizia che erano già in atto scontri armati tra i mercenari di Ankara inviati in Azerbaijan (presumibilmente jihadisti, sicuramente sunniti) e gli azeri sciiti.

Insomma, il solito groviglio mediorientale.

La spartizione di Astana: Russia e Turchia e gli oleodotti dell’Artzakh

Nel novembre 2020 si concretizzava poi un vero capolavoro di cinico realismo: gli accordi con cui Russia e Turchia si spartivano il Nagorno-Karabakh garantendosi il controllo della vasta rete di oleodotti che attraversano (o attraverseranno) il territorio storicamente conteso tra Armenia e Azerbaijan. Paese, quest’ultimo che fornisce alla Turchia un quinto delle sue importazioni di gas naturale (oltre a ingenti quantità di barili di petrolio dal Mar Caspio) direttamente all’hub di Ceyhan.
E qualche briciola non di poco conto andava anche al Belpaese (se abbiamo interpretato correttamente le dichiarazioni di Di Maio).
Ricapitoliamo. Il 10 novembre 2020 l’Armenia (il paese sconfitto) e l’Azerbaijan (il vincitore) firmavano un “accordo di pace” sotto la tutela ufficiale di Mosca e ufficiosa di Ankara.

Mentre le colonne dei profughi dal Nagorno-Karabakh) si allungavano per abbandonare il paese invaso dagli “alleati” (ascari?) di Ankara (l’esercito azero e le milizie mercenarie jihadiste qui inviate dai territori già invasi della Siria), iniziava il dispiegamento lungo la linea di contatto dei duemila – inizialmente – soldati russi (presumibilmente integrati con truppe turche, sul modello delle “pattuglie-miste” nel Nord della Siria). Durata prevista della loro presenza, cinque anni rinnovabili.

Un risultato niente male per Erdogan che vedeva ratificata la sua alleanza strategica con Baku. Così come venivano confermate le conquiste azere (almeno trecento insediamenti tra cui Susi, strategicamente rilevante). Non meno rilevante, l’acquisizione da parte dell’Azerbaijan di un collegamento diretto con Nachichevan (la sua enclave) e quindi con la Turchia.

Ovviamente gli armeni non l’avevano presa bene. A farne le spese il primo ministro Nikol Pashinyan (un leader “di plastica” secondo alcuni commentatori, messo su dall’Occidente un paio di anni prima per allontanare l’Armenia dal suo alleato tradizionale russo) di cui la piazza ha richiesto le immediate dimissioni.
Gli eventi sono noti: il palazzo del governo letteralmente preso d’assalto, il parlamento occupato e il presidente Ararat Mirzanyan che quasi rischiava di essere linciato dalla folla inferocita. I manifestanti erano anche andati a cercare direttamente a casa sua il primo ministro (presumibilmente non per una pacata conversazione), ma senza trovarlo (buon per lui, naturalmente).

L’interesse italico

a sei zampe…

Si diceva delle vaghe (o svagate?) dichiarazioni di Di Maio («Monitoreremo con attenzione gli sviluppi nelle aree dove si registra un particolare attivismo turco, vigilando affinché siano tutelati il rispetto del diritto internazionale, gli interessi italiani anche economici e con l’obiettivo di scongiurare qualsiasi escalation»). E chi vuol intendere...intenda.

Del resto, con buona pace della piccola Armenia, la cooperazione con l’Azerbaijan è da tempo consolidata. L’Italia – oltre che il maggior destinatario delle esportazioni petrolifere – risulta essere uno dei principali partner commerciali di Baku con un interscambio annuale – si calcola – di sei miliardi di euro. Sarebbero almeno tremila le imprese italiane che hanno investito nella repubblica caucasica. Risaltano in particolare Eni e Unicredit con interessi stimati in seicento milioni di dollari.

… e Leonardo-Finmeccanica

Cooperazione quindi ben consolidata, si diceva. Ma non solo in campo energetico. Magari indirettamente, anche militare. Risale, per dirne una, al 2012 la vendita di una decina di elicotteri Augusta Westland (società controllata da Leonardo-Finmeccanica), ufficialmente per uso civile (ma vengono in mente gli elicotteri venduti alla Turchia negli anni Novanta, su cui poi venivano applicate le mitragliere vendute separatamente). Nel 2017 l’amministratore delegato di Leonardo firmava a Baku – sotto lo sguardo del ministro Calenda – un accordo con la Socar (società statale petrolifera azera) per incrementare la sicurezza e l’efficienza delle infrastrutture energetiche grazie appunto alle tecnologie italiche.

Con un diretto riferimento al gasdotto di 4000 chilometri che la Socar stava realizzando per far giungere in Puglia e quindi in Europa (vedi la questione del Tap), dopo aver attraversato la Georgia, la Turchia, la Grecia e l’Albania, i previsti 20 miliardi di metri cubi (annuali) di gas di provenienza dall’Azerbaijan. Particolarmente rilevante e significativo il ruolo assunto da alcune aziende italiane (Snam S.p.A. di San Donato Milanese, Saipem, Eni, Maire Tecnimont…). Appare evidente come in tale contesto l’Armenia sia ormai fuori gioco, estromessa, marginalizzata (nonostante – a titolo di parziale consolazione – qualche ipocrita piagnisteo sul genocidio subito da parte della Turchia).

L’onnipresente invasività israeliana

Tornando alla breve, ma comunque devastante, guerra intercorsa nel 2020 tra Erevan e Baku, andrebbe poi approfondito il ruolo assuntovi da Israele.
Se la Turchia sembra aver fornito a Baku – oltre ai mercenari jihadisti – aerei e droni, cosa avrà fornito Israele? In qualche modo deve aver comunque contribuito visto che durante i festeggiamenti per la schiacciante vittoria, i manifestanti azeri inalberavano e sventolavano, oltre al vessillo nazionale e alle bandiere turche, numerosi drappi con la Stella di David.

Risalgono invece ai primi di ottobre (2023) le rivelazioni dell’intelligence francese sul fatto che i comandi militari azeri avrebbero ringraziato sentitamente Israele per il sostegno nel recente attacco al Nagorno-Karabach. Sia a livello espressamente militare (armamenti vari, soprattutto droni della Israel Aerospace Industries, della Rafael Advanced Defense Systems e della Israel Militari Industries), sia di intelligence (Mossad e Aman’s Unit 8200).
Sempre da fonti dell’Esagono risulta che nel corso del conflitto di settembre una quindicina di aerei cargo azeri sono atterrati nell’area militare di Ouda (Negev). Circa un centinaio di altri aerei cargo azeri erano ugualmente qui atterrati nel corso degli ultimi sei-sette anni. Presumibilmente non per rifornirsi di pompelmi. Inoltre Israele avrebbe fornito anche sostegno nel campo della Cyber Warfare (tramite l’Nso Group).
A ulteriore conferma dello stretto rapporto con Baku, il ministro israeliano della difesa si è recato recentemente nella capitale azera per verificare di persona l’efficacia del sostegno israeliano all’Azerbaijan.

Un bel caos geopolitico comunque

Proxy war disequilibrata

E arriviamo al febbraio di quest’anno, quando mentre a Erevan si ricordavano le vittime del pogrom del 1988, in Iran gli armeni manifestavano a sostegno della repubblica dell’Artsakh. Niente di strano.
Anche all’epoca dell’attacco dell’Azerbaijan ai territori armeni della Repubblica dell’Artsakh (con il sostegno di Ankara) nel 2020, c’era chi si aspettava un maggiore sostegno all’Armenia da parte dell’Iran, in linea con una certa tradizione. Dal canto suo Israele non mancava di mostrare sostegno (fornendo droni presumibilmente) alle richieste azere, ovviamente in chiave antiraniana. Misteri della geopolitica. Anche se poi sappiamo che le cose andarono diversamente, resta il fatto che comunque in Iran gli armeni costituiscono una minoranza tutto sommato tutelata, garantita (sicuramente più di altre, vedi curdi obeluci) e anche la causa dell’Artsakh gode ancora di qualche simpatia.

Commemorazioni dei massacri passati, in preparazione di quelli presenti

O almeno così sembrava leggendo la notizia del raduno di solidarietà con la popolazione armena della Repubblica dell’Artsakh (Nagorno Karabakh) che si era tenuto presso il monastero di Sourp Amenaprguitch (Santo Salvatore) di Ispahan nella mattinata del 24 febbraio 2023 (nonostante, ci dicono, le condizioni atmosferiche inclementi). Oltre alle comunità armene di Nor Jugha (Nuova Djulfa, un quartiere di Ispahan fondato dagli armeni di Djulfa nel Diciassettesimo secolo) e di Shahinshahr, erano presenti molti armeni provenienti da ogni parte dell’Iran.
Numerosi gli interventi e i messaggi arrivati a sostegno alla causa della popolazione armena della Repubblica (de facto, anche se non riconosciuta in ambito onusiano) dell’Artsakh.

Quasi contemporaneamente, due giorni dopo, in Armenia venivano commemorate le vittime del massacro di Sumgaït (quartiere industriale a nord di Baku). Il presidente armeno Vahagn Khatchatourian con il primo ministro Nikol Pašinyan, il presidente del parlamento Alen Simonyan e altre figure istituzionali si sono recati al memoriale di Tsitsernakaberd a Erevan deponendo una corona e mazzi di fiori.
Il memoriale ricorda le persone uccise nei pogrom avvenuti (con la probabile complicità delle autorità azere) nel febbraio 1988 a Sumgaït, Kirovabad e Baku. Il massacro (in qualche modo un preludio alla guerra del 1992 in quanto legato alla questione del Nagorno Karabakh) sarebbe stato innescato da rifugiati azeri provenienti dalle città armene. Almeno ufficialmente. In realtà i responsabili andrebbero identificati tra i circa duemila limitčiki (operai immigrati delle fabbriche chimiche) a cui le autorità avevano distribuito alcolici in sovrabbondanza.
Se le fonti ufficiali azere parlarono soltanto di trentadue vittime, per gli armeni queste furono centinaia. Addirittura millecinquecento secondo il partito armeno Dashnak (oltre a centinaia di stupri).
Inoltre i militari inviati per fermare i disordini impiegarono ben due giorni per percorrere i circa trenta chilometri che separano Baku da Sumgaït. Vennero arrestate centinaia di persone, ma i processi si conclusero senza sostanziali condanne.

Guerra annunciata, forza di pace distratta

Tutti defilati… tranne i curdi

Nel marzo 2023, pressata da più parti affinché intervenisse, finalmente Mosca aveva parlato tramite il ministero della Difesa, accusando Baku di aver violato gli accordi sul Nagorno-Karabakh del 2020. Meglio tardi che mai, anche se la Federazione Russa appariva sempre più incerta (o disinteressata?) al destino dell’Armenia, praticamente abbandonata a se stessa (quasi da tutti sia chiaro, non solo dalla Russia; con la nobile eccezione dei curdi).
Eppure i segnali della possibilità di un ennesimo conflitto (guerra a relativamente “bassa intensità”) non erano mancati. Il 5 marzo si era registrato un altro scontro armato nel corridoio di Lachin (per gli azeri, di Zangezur) tra Stepanakert e Goris, bloccato ormai da tre mesi da presunti “manifestanti ecologisti” azeri. La sparatoria era avvenuta tra la polizia armena e i militari azeri che avevano arbitrariamente fermato un veicolo e – nonostante fosse costata la vita di cinque persone – era passata quasi inosservata.
Invano Nikol Pašinyan, primo ministro di Erevan, aveva richiesto, rivolto anche al tribunale internazionale dell’Onu, l’istituzione di una missione internazionale di indagine sulla situazione in cui veniva a trovarsi l’unica via di collegamento tra l’Armenia e la repubblica del Nagorno-Karabakh, ormai ridotta alla condizione di enclave sotto assedio, con oltre 120.000 persone di etnia armena sprovviste di cibo e medicinali. In base all’accordo trilaterale del 9 novembre 2020 (e riconfermato per ben due volte nel 2021 e ancora nell’ottobre 2022), alla Russia spettava il compito di controllare e assicurare i trasporti nel “corridoio” con una sua forza di pace.

Estrattivismo abusivo e pretestuoso ecologismo

Il pretesto avanzato dai sedicenti “ecologisti” azeri che da mesi bloccavano il passaggio sarebbe quello di poter controllare le miniere (private, non statali) di Gyzylbulag (oro) e di Demirl (rame e molibdeno) dove gli armeni avrebbero compiuto “estrazioni illegali”.
Dopo le ripetute accuse di “mancata osservanza dell’impegno di controllo”, fino a quel momento da parte di Mosca erano giunte soltanto rassicurazioni verbali (dicembre 2022). Ma anche la dichiarazione che «le forze di pace possono agire soltanto quando entrambe le parti sono d’accordo».

«Gli azeri continuano ad avanzare pretese massimaliste, senza concedere alcuna forma di compromesso», aveva denunciato Vagram Balayan, presidente della commissione affari esteri dell’assemblea nazionale del Nagorno-Karabakh. Sostanzialmente in quanto Baku “non intende riconoscere l’esistenza del Nagorno-Karabakh e del popolo dell’Artsakh”. Ossia, detta fuori dai denti, “vogliono soltanto farci scomparire dalla storia” (come sembra confermato dagli ultimi eventi). Costringendo gli armeni a scegliere tra un’evacuazione “volontaria” e la deportazione.

Fine annunciata

E intanto con il mese di agosto il tragico epilogo si profilava all’orizzonte.
Con gli Armeni del Nagorno-Karabakh ormai presi per fame, in un articolo di quei giorni mi ero chiesto se «si può già parlare di genocidio o dobbiamo aspettare qualche migliaio di morti per inedia?».
Domanda retorica ovviamente.

A un certo punto l’evidente, colpevole, latitanza della Russia (storicamente “protettrice “ della piccola Armenia) sulla questione del Nagorno-Karabakh sembrava aver lasciato campo aperto all’intervento pacificatore – o perlomeno a un tentativo di mediazione – di Unione Europea e Stati Uniti.
Ma l’irrisolta questione del Corridoio di Lachin (unico corridoio tra Armenia e Nagorno-Karabakh) conduceva fatalmente al nulla di fatto. E intanto per gli armeni del Nagorno-Karabakh la situazione continuava a peggiorare.
Chi in quei giorni aveva avuto la possibilità di percorrere le strade di Stepanakert parlava di lunghe file di persone che – dopo ore di attesa – ottenevano letteralmente un tozzo di pane. Per non parlare di quanti crollavano – sempre letteralmente – a terra a causa della fame. Almeno 120.000 persone colpite dall’isolamento totale e dalla conseguente crisi umanitaria (sia a livello sanitario che alimentare).
Senza dimenticare che – ovviamente – l’Azerbaigian da tempo aveva provveduto a interrompere il rifornimento di gas. Difficoltoso, in netto calo, anche quelli di energia elettrica e di acqua. A rischio le riserve idriche con tutte le prevedibili conseguenze.
Quanto all’alimentazione ormai si era ridotti alle ultime scorte di pane e angurie. Il peggioramento si era andato accentuando da quando veniva impedito (con posti di blocco installati illegalmente dall’Azerbaigian) l’accesso anche alla Croce Rossa e alle truppe russe di interposizione che comunque finora avevano rifornito di cibo – oltre che di medicinali – la popolazione armena.

Silenzio tombale e pennivendoli distratti

Bloccato da mesi alla frontiera anche un convoglio di aiuti umanitari (oltre una ventina di camion) inviato da Erevan.
In pratica, un grande campo di concentramento.
Al punto che un cittadino armeno gravemente ammalato, mentre veniva trasportato dalla Croce Rossa in un ospedale dell’Armenia (e quindi sotto protezione umanitaria internazionale), veniva sequestrato, privato del passaporto, sottoposto a interrogatorio e spedito a Baku dove – pare – sarebbe stato anche processato per eventi risalenti al primo conflitto scoppiato in Nagorno-Karabakh negli anni Novanta.

E ogni appello rivolto alle autorità e organizzazioni internazionali (Unione Europea, Consiglio di Sicurezza dell’Onu, Russia, Gruppo di Minsk…) era destinato a restare inascoltato.
Con un preciso riferimento al blocco del Corridoio di Lachin operato dall’Azerbaijan, un ex esponente della Corte Penale Internazionale, l’avvocato argentino Luis Moreno Ocampo, aveva espressamente evocato un possibile genocidio.
Ma la sua appariva la classica “voce che grida nel deserto”. Quello dell’informazione almeno.

Poi la conferma dei peggiori timori con il tragico epilogo avviato il 19 di settembre.


Il giorno dopo la Guerra lampo dei fratelli turcofoni avevamo sentito Simone Zoppellaro, la cui analisi consentiva di comprendere nei dettagli cause e conseguenze delal dissoluzione dell’indipendenza dell’Artzakh

“Cala un sipario plumbeo sull’Artsakh”.

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Il Pakistan brucia… la neve distrae, ovattando l’eco dei conflitti https://ogzero.org/il-pakistan-brucia-la-neve-distrae-ovattando-leco-dei-conflitti/ Sun, 21 May 2023 09:51:28 +0000 https://ogzero.org/?p=11093 Il Pakistan, già in sofferenza per gli attacchi dell’estremismo islamico e per i disastri ambientali, rischia forse di precipitare nella guerra civile. Niente di nuovo naturalmente. Almeno per le minoranze etniche e religiose e – soprattutto – per le donne, i bambini, i diseredati. Vittime designate di una costante “guerra a bassa intensità”. Ma l’importante […]

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Il Pakistan, già in sofferenza per gli attacchi dell’estremismo islamico e per i disastri ambientali, rischia forse di precipitare nella guerra civile. Niente di nuovo naturalmente. Almeno per le minoranze etniche e religiose e – soprattutto – per le donne, i bambini, i diseredati. Vittime designate di una costante “guerra a bassa intensità”.
Ma l’importante è continuare a sciare sulle “cime inviolate” del “Terzo Polo”. Come non mancano di segnalarci amabilmente su Instagram gli stessi vacanzieri d’alta quota nostrani… che non boicottano e così immemori non si accorgono di affiancare i militari di uno stato oppressore, in mano a un’oligarchia che spadroneggia su cittadini discriminati. Sintomatico del modo di fare affari, senza badare alla natura delle oligarchie genocidiarie che controllano i paesi con cui si intrecciano.
In questi giorni in cui il Pakistan è tornato alla ribalta per gli scontri con decine di morti dopo l’arresto di Imran Khan ci sembra interessante il modo in cui Gianni Sartori inforca il grandangolo perlustrando l’area pakistana, allargando lo sguardo sia nel tempo che ai temi.  


Il balletto criminale delle elezioni imminenti

Ma cosa sta succedendo in Pakistan? Davvero siamo alle soglie di una guerra civile? O stiamo assistendo al preludio (“con altri mezzi”) della campagna elettorale in vista delle elezioni di ottobre (salvo modifiche, rinvii)?

Il risvolto etnico

In realtà per alcune minoranze etniche o religiose: hazara, beluci, cristiani, sciiti… così come per le donne, i bambini e un gran numero di diseredati, la situazione era già difficile. Tra attentati, aggressioni, (guerra a bassa intensità ?), discriminazioni…che si vengono a sovrapporre (con effetti sinergici) alla grave crisi economica e alla disastrosa situazione sanitaria. Per non parlare di alluvioni e altre emergenze ambientali.

Il risvolto talebano

Un recente avvenimento è sintomo emblematico di una situazione in via di ulteriore degrado (e qui non mi riferisco a quello ambientale).
Qualche giorno fa Muhammad Alam Khan, un poliziotto assegnato alla protezione della Catholic Public High School (una scuola cattolica femminile) nel Nordovest del Pakistan (a Sangota, nella valle dello Swat, provincia del Khyber Pakhtunkhwa), ha aperto il fuoco contro il pulmino che trasportava le allieve uccidendone una di 8 anni e ferendone altre sei e un’insegnante.
Il tragico episodio è avvenuto nella stessa regione da cui proviene Malala Yousafzai, l’attivista premio Nobel per la pace per aver condotto una campagna contro il divieto all’istruzione femminile imposto dal Tehreek-e Taliban Pakistan (Ttp, i talebani pakistani). Nel 2012 anche lei era stata colpita alla testa da un proiettile sull’autobus per tornare a casa da scuola, mentre anni fa la Catholic Public High School aveva dovuto chiudere per le minacce e per gli attentati.

Nel 2022 in questa provincia si sono registrati almeno 225 attentati (“solo” 168 nel 2021). O almeno secondo le cifre ufficiali. Da parte loro i miliziani legati al Ttp ne avevano rivendicato oltre 360. Senza dimenticare gli attacchi di un’altra organizzazione jihadista-terrorista operativa anche in Pakistan: lo Stato islamico che solo nel marzo 2022 aveva ucciso oltre 60 persone.
E anche il 2023 non sembra promettere bene. Solo nei primi quattro mesi sono già 180 quelli ufficiali.

Nel gennaio di quest’anno i talebani pakistani avevano rivendicato anche il sanguinoso attacco suicida (con oltre una trentina di morti e centinaia di feriti) ad una moschea di Peshawar, situata in un complesso dove si trova il quartiere generale della provincia del Khyber Pakhtunkhwa.

Il risvolto separatista

Per completezza va anche ricordato che gli attentati non sono monopolio esclusivo degli estremisti islamici. Un attacco suicida dell’agosto 20121 nella città di Gwadar (contro un veicolo cinese) era stato rivendicato dai separatisti beluci.

Una situazione drammatica, convulsa e foriera di ulteriori lutti.

Le malefatte di Imran Khan

Non per niente tra le questioni sollevate dall’attuale conflitto interno tra governo e opposizione (ma anche tra militari e una parte della società civile) appare rilevante l’accusa di ambiguità rivolta all’ex primo ministro Imran Khan. Per aver consentito, favorito il rientro in patria dei talebani pakistani purché garantissero di deporre le armi (cosa auspicabile ma difficile da realizzare). Come era prevedibile, nonostante le trattative per il loro reinserimento e per una “soluzione politica” del conflitto, dopo poco tempo gli attentati erano ripresi. Alimentando il sospetto che i colloqui, le trattative avessero in realtà consentito al Ttp di riorganizzarsi.

Le persecuzioni contro Imran Khan

Quanto alle numerose azioni giudiziarie lanciate contro lo stesso leader del Pakistan Tehreek-e-Insaf (Pti) per corruzione e reati finanziari (e anche un probabile tentativo di eliminarlo fisicamente, stroncato dalla mobilitazione dei militanti del Pti), presumibilmente in parte strumentali, per ora sembrano aver portato più che altro all’incarcerazione di tanti suoi seguaci. Pare anche dietro sua indicazione: farsi arrestare per “saturare le carceri e screditare il governo”… quanto meno un rischioso azzardo.

Tra le accuse principali, quella relativa all’Al-Qadir Trust, proprietà di Khan e della moglie, a cui l’impresa immobiliare Bahria Town avrebbe fornito un terreno del valore di 530 milioni di rupie (1,71 milioni di euro)
Ma forse Imran Khan sta anche pagando il prezzo di un suo avvicinamento alla Russia (malvisto dagli Usa, oltre che dall’India per ragioni inverse). Questo potrebbe aver innescato la rottura con l’esercito e favorito la sua defenestrazione.

Come è noto l’ex primo ministro è stato arrestato (a quanto sembra da un gruppo paramilitare legato ai servizi segreti) mentre si trovava all’Alta corte di Islamabad per testimoniare in un processo.

Ambiguità pakistane nel posizionamento geopolitico

Naturalmente non mancano (anche a sinistra, tra quella più “campista”) gli estimatori del regime pakistano.
Pensando di intravedervi una componente di possibili “blocchi egemonici alternativi musulmani” per un mondo multipolare contro l’imperialismo statunitense. Blocchi di cui potrebbero far parte sia la Turchia che l’Iran e in buoni rapporti con Russia e Cina. Sarà, ma non mi convince. In realtà è più probabile che il Pakistan (come da tradizione) continuerà a giocare su due tavoli. Se con gli Stati Uniti prevale la collaborazione sul piano militare (e i finanziamenti), con la Cina va sviluppando l’aspetto commerciale (vedi la Via della Seta).

Lasciando per ora da parte l’altro rischio, quello di un possibile conflitto nucleare con l’India. Magari a causa di un “malfunzionamento tecnico”, di un errore. Come quando nel marzo scorso l’India ha lanciato accidentalmente un missile supersonico in Pakistan. Caduto senza danni particolari nel Punjab (distretto di Khanewal).

Indifferenza occidentale

In alta quota si trovano i retaggi degli scambi d’interessi tra imprese occidentali (molto spesso italiane, anche affondando nelle nevi storicamente del passato) e intrecci tra potere canaglia di uno stato dai molteplici scambi interessanti. Sempre intenti a individuare qualche residua “cima inviolata” (lapsus rivelatore?) da cui scendere con gli sci (anche qualche giorno fa nella regione del Gilgit-Baltistan).
Mentre – che so – negli anni Ottanta del secolo scorso era quasi normale (almeno per persone con un minimo di coscienza sociale, politica…) boicottare almeno turisticamente un paese come il Sudafrica dell’apartheid e in epoca più recente la Turchia che reprime il popolo curdo, oggi come oggi andare a trascorrere le “settimane bianche” in Pakistan per alpinisti, escursionisti e sciatori nostrani non sembra assolutamente fuori luogo. Anche a persone che magari poi se la tirano con le questioni umanitarie e ambientali. O quelli che mentre denunciano lo scioglimento dei ghiacciai del “Terzo Polo” vi contribuiscono con i loro mezzi (nel senso di veicoli).

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L’utile curdo per il regime turco https://ogzero.org/lutile-curdo-per-il-regime-turco/ Fri, 05 May 2023 22:52:29 +0000 https://ogzero.org/?p=10941 «Apparato operativo dei poteri globali», così la asservita stampa turca del 6 maggio 2023 accoglie e fa suo l’attacco scomposto del presidente a “The Economist”, perché la testata nella sua copertina definiva le elezioni del 14 maggio “le più importanti del 2023”, con un esplicito endorsement per Kılıçdaroğlu, mettendo in bella evidenza adesivi con su […]

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«Apparato operativo dei poteri globali», così la asservita stampa turca del 6 maggio 2023 accoglie e fa suo l’attacco scomposto del presidente a “The Economist”, perché la testata nella sua copertina definiva le elezioni del 14 maggio “le più importanti del 2023”, con un esplicito endorsement per Kılıçdaroğlu, mettendo in bella evidenza adesivi con su scritto «Erdoğan se ne deve andare».

 

Dopo 20 anni di morsa sul potere in ogni suo aspetto, dapprima graduale (da sindaco di Istanbul fino al terremoto di Izmit) e poi assoluta (dopo Taksim e soprattutto il tentato golpe del 2016), s’indovinano le crepe nel sistema di Erdoğan. Si colgono anche dall’affanno con cui reagisce ai titoli come quelli di “The Economist”, o con cui cerca alleanze in vista dell’appuntamento elettorale, anticipato dal presidente stesso prima che il terremoto producesse uno sconquasso nel suo progetto di perpetuare il suo controllo sul paese e sugli affari che hanno prosciugato le casse del paese, stremato l’economia, prodotto inflazione, arricchendo una sparuta oligarchia fondata sul consenso della provincia confessionale, sulla repressione della stampa ormai monopolizzata, come il settore delle infrastrutture, che per una beffa del destino potrebbe essere travolta dalle macerie del terremoto.


Con un piccolo aiuto dai nostri amici curdi

Le elezioni presidenziali e politiche che si svolgeranno in Turchia il 14 maggio hanno un’importanza storica per una serie di ragioni. Tra queste senz’altro il fatto che la maggior parte dei partiti d’opposizione, per la prima volta, abbiano deciso di indicare un candidato unico. Anche per questo, ma non solo, i sondaggi parlano del secondo turno per le presidenziali e di un’avanzata significativa dei partiti di opposizione in quelle politiche. Chiaramente queste dinamiche fanno sì che la coalizione al governo si metta alla ricerca di nuovi alleati a casa e rafforzi quelli all’estero. In questa ricerca è importante il voto della popolazione curdofona presente in Turchia e fuori dai confini.

Il reclutamento di HüdaPar: i devoti curdi ultraconservatori

Il 13 marzo, Numan Kurtulmuş, il vicepresidente generale del Partito dello sviluppo e della giustizia (Akp) si è presentato davanti alle telecamere con Zekeriya Yapıcıoğlu, il presidente generale del partito HüdaPar. In questa apparizione storica Yapıcıoğlu ha comunicato l’appoggio ufficiale del suo partito alla candidatura di Recep Tayyip Erdoğan, per le elezioni presidenziali. Dopo questo avvicinamento ufficiale e plateale, il 9 aprile il partito al governo Akp ha dichiarato ufficialmente che 4 membri del HüdaPar saranno candidati nelle liste del principale partito della Turchia. Con questa notizia HüdaPar entra nella casa dell’Alleanza della Repubblica. Ma chi è HüdaPar e perché oggi entra in questa coalizione già esistente dal 2017?


HüdaPar nasce come partito politico parlamentare nel 2012. Nello sfondo del suo logo è dominante il verde, poi al centro c’è un libro bianco da cui sorge un sole giallo. L’estensione del suo nome sarebbe Hur Dava Partisi, il partito della Causa Libera. Ovviamente va prestata l’attenzione sul significato della parola “Hüda” che trova spazio in diversi versi nel Corano e vuol dire “colui che indica la strada” ma è anche uno dei nomi attribuito ad “Allah” quindi in qualche maniera vuol dire “Dio”. Questa chiave semantica ci aiuta a capire che definirlo un partito conservatore è un eufemismo.
Infatti se andiamo a spulciare molto velocemente lo statuto del partito e anche il programma troviamo una serie di obiettivi, ideali e promesse molto conservatrici.

«Ricostruire il sistema governativo basandosi sui valori di fede della società. Ravviare i valori islamici. Definire l’omosessualità come una devianza, vietarla e punirla. Rafforzare i rapporti commerciali e politici con i paesi musulmani. Riformare il sistema scolastico secondo i valori dell’Islam. Iniziare con le lezioni di Arabo e del Corano già nel primo anno delle elementari. Parificare le scuole religiose con quelle statali. Concedere la possibilità di differenziare le classi nelle scuole pubbliche in base al sesso degli studenti. Definire la composizione della famiglia: uomo e donna».

È abbastanza, chiaro, no?

HüdaPar: dio turco e misogino, ma patria e lingua curde

Insieme a queste promesse e obiettivi vediamo una serie di punti che ci fanno capire il secondo “colore” del partito. Sempre nel programma elettorale e nello statuto leggiamo le seguenti affermazioni:

«Il diritto all’istruzione in lingua madre va riconosciuto e garantito. La Costituzione va privata da qualsiasi riferimento etnico. Il servizio militare deve essere abolito. L’obiezione di coscienza va riconosciuto come un diritto. Va ammesso che la nascita della Repubblica ha danneggiato la storica fraternità tra il popolo turco e quello curdo. La laicità dello stato ha reso difficile la vita ai curdi musulmani. I curdi sono le vittime delle politiche di assimilazione e turchizzazione. Lo stato deve ammettere i suoi crimini commessi nel Sudest del paese, chiedere scusa e risarcire i danni. I curdi devono essere riconosciuti nella Costituzione e la lingua curda deve essere riconosciuta come seconda lingua della Turchia. La forza del governo centrale deve essere alleggerita e il potere delle amministrazioni locali deve essere rafforzato».

Dunque è chiaro che siamo di fronte a una formazione che promette una serie di vittorie e riconoscimenti per le persone curdofone. Ma lo fa con un obiettivo e programma decisamente omofobico, fondamentalista e di certo non laico. Per questo l’HüdaPar rappresenta quella fetta della società curdofona che si identifica con un percorso politico decisamente conservatore e per cui “questi curdi” vanno bene per il partito al governo.
Infatti già nel 2020, l’ex presidente generale del partito, ossia Ishak Sağlam invitò il presidente della repubblica a uscire dalla Convenzione d’Istanbul. Quella convenzione forte e importante che fu creata proprio a Istanbul in Turchia nel 2011 con l’obiettivo di lottare contro i femminicidi e tutelare tutte le identità di genere e gli orientamenti sessuali delle persone. Oggi lo stesso partito, con un altro presidente, parla dell’eliminazione della legge 6284 che riguarda la famiglia e la violenza sulle donne.

Il terrorista curdo buono deve essere fondamentalista…

Purtroppo nel capitolo che riguarda HüdaPar ci sarebbe un altro piccolo approfondimento da fare. Ossia il passato di questo movimento e il suo presunto legame con l’Hezbollah turco.
Si tratta di una formazione paramilitare e armata che appare in Turchia negli anni Ottanta. Per chiarire tutto per una volta, l’Hezbollah turco non avrebbe alcun legame con l’omonimo Partito sciita libanese. Infatti Hezbollah turco sarebbe una formazione armata fondamentalista e sunnita. Il suo profilo terroristico è stato confermato dal Dipartimento di Stato degli Usa, nel 2011, e dalla Presidenza generale della Lotta contro il terrorismo in Turchia nel 2012. Questa formazione paramilitare è stata sempre accusata di avere dei legami con i servizi segreti di Ankara e di prendere di mira quasi esclusivamente quella parte marxista del movimento curdo in Turchia. Di questo parla in modo articolato il famoso giornalista Ruşen Çakır nel suo libro Derin Hizbullah pubblicato nel 2016.
La Turchia è venuta a sapere dell’esistenza di questa organizzazione terrorista nel 2000 quando il suo ex leader, Hüseyin Velioğlu, in uno scontro armato con la polizia è stato ucciso e presso la sua abitazione sono stati trovati numerosi documenti che hanno spalancato nuove porte. Le stesse che hanno portato i poliziotti e i procuratori a scoprire i piani per assassinare le persone e purtroppo anche le fosse comuni dove sono state sepolte numerose persone dopo lunghe e crudeli torture. Secondo il giornalista Çakır si tratta di una formazione politica e armata tra i giovani curdi fondamentalisti negli anni Settanta come una sorta di antitesi del Partito dei Lavoratori del Kurdistan ossia Pkk.

… all’origine di HüdaPar: l’Hezbollah turco

Mentre dopo l’uccisione di Velioglu, Hezbollah turco pian piano scompariva, dall’altra parte nasceva un’associazione con il nome Muztazaf-Der. Anche se questa nuova realtà rigettava ogni accusa di legame con l’Hezbollah turco la Corte di Cassazione nel 2012 ha deciso di chiuderla proprio per questo presunto legame. Il suo presidente, Mehmet Hüseyin Yılmaz, pochi mesi dopo fonda HüdaPar. Un anno dopo, nel 2013, il timone del partito passa nelle mani di Zekeriya Yapıcıoğlu che oggi risulta candidato alle elezioni politiche presso l’Akp.
Oltre a Yapıcıoğlu, nelle liste dell’Akp salta all’occhio anche il nome di Faruk Dinç, accusato di appartenere al Hezbollah turco e trattenuto in carcere per due mesi in relazione con le indagini sul legame tra quest’organizzazione e l’associazione Ihya-Der. Secondo i procuratori l’associazione in questione era stata fondata dalle persone condannate, poi scarcerate, in un altro processo su Hezbollah turco.
Sempre secondo il giornalista Ruşen Çakır non ci sono troppi giri di parole da fare: HüdaPar è l’espressione partitica dell’Hezbollah turco. Infatti la notizia arrivata il 10 aprile, che informa della scarcerazione di 58 persone accusate di essere assassini di 183 persone uccise dall’Hezbollah turco, è una sorta di conferma della tesi di Çakır. Come se l’inserimento del HüdaPar nelle liste dell’Akp avesse trovato un riconoscimento. Addirittura secondo il giornalista Özgür Cebe, del quotidiano “Sözcü”, si potrebbe trattare di una notizia figlia di un accordo elettorale.

Già esisteva un alleato curdo oltreconfine

Molto probabilmente l’Alleanza della Repubblica, inserendo HüdaPar nelle sue liste, cerca di puntare sui voti di quella fetta della popolazione curdofona molto conservatrice e chiede il riconoscimento dei suoi diritti. Inoltre si tratterebbe di un gesto importante che rafforza il profilo conservatore della stessa alleanza, vista una parte del programma elettorale del partito in questione. Infine, questa new entry, oltre che nella politica interna, potrebbe avere un ruolo anche in quella estera. Quest’ultima ipotesi trova corpo grazie a un incontro avvenuto nel mese di aprile.


Sarebbe l’incontro tra Zekeriya Yapıcıoğlu e Masoud Barzani, l’ex presidente della Regione del Kurdistan (iracheno) e il leader storico del Partito democratico del Kurdistan (Pdk). È un incontro molto interessante, prima di tutto, perché si è svolto tra un “semplice” candidato per le elezioni e il personaggio più illustre del “movimento curdo” in Iraq. Quindi per il lato della Turchia non c’era un ministro oppure un sottosegretario ma una new entry dell’alleanza del governo. In secondo luogo il messaggio che è stato diffuso presso l’agenzia di stampa “Ilke” (semiufficialmente l’organo di stampa di HüdaPar) rende particolare quest’incontro «È stato deciso di rafforzare in futuro il rapporto tra HüdaPar e Pdk». Quindi per Barzani è chiaro che l’interlocutore da prendere in considerazione è quella formazione “curda” e fondamentalista che rappresenta Yapıcıoğlu e si trova accanto all’attuale presidente della repubblica di Turchia.

Le visitazioni islamiste

La visita di Yapıcıoğlu il 26 aprile è stata abbastanza proficua. Ha incontrato anche Aydin Maruf, membro del Fronte turcomanno iracheno, nonché il ministro degli Affari Religiosi e Etnici. Maruf è spesso presente in Turchia, si trova in ottimi rapporti con l’attuale governo e si è espresso varie volte a favore delle collaborazioni tra Ankara, Erbil e Bagdad per «lottare contro il terrorismo del Pkk».
Tra le persone visitate da Yapıcıoğlu vediamo anche il nome di Ali Bapir, membro del Movimento Islamico del Kurdistan e del Gruppo della Giustizia in Kurdistan. Si tratta di uno scrittore e studioso concentrato sulla fondazione di un Kudistan islamico. Bapir fu anche, nel 2021, uno degli sporadici personaggi politici al mondo a congratularsi con i Talebani dopo la loro salita al potere attraverso una lettera pubblica tuttora presente sul suo sito web personale.
Yapıcıoğlu in Kurdistan (iracheno) ha incontrato altri politici di formazione fondamentalista come Şeyh İrfan Abdulaziz, il leader attuale del Partito del Movimento islamista, e Rashid al-Azzawi che dirige il Partito islamico dell’Iraq.

Gli oleodotti dei curdi amici

Questi incontri ovviamente sono dei segni importanti se teniamo in considerazione soprattutto la crisi del petrolio nata verso la fine del mese di marzo di quest’anno. Una procedura arbitrale aperta nel 2014 si è conclusa questa primavera. Un percorso giuridico lungo che ha portato 1,4 miliardi di dollari di condanna per Ankara. Si tratta di un’azione portata avanti dal governo di Baghdad perché secondo il governo iracheno, Ankara non rispetta da tempo l’accordo del 1973. Secondo questo accordo sarebbe Baghdad l’unico interlocutore della Turchia per l’acquisto del gas e petrolio mentre invece Ankara da tempo tratta direttamente con Erbil quindi Nechirvan Barzani e Masoud Barzani. Inoltre, in questo processo, la Turchia sarebbe condannata a pagare 500 milioni di dollari perché diverse volte non ha aggiustato in tempo i danni avvenuti nelle “tubature Iraq-Turchia” a causa degli attentati di sabotaggio.

Oil vs Pkk

In questa procedura portata avanti per nove anni presso la Camera di Commercio internazionale di Parigi si notano alcuni appunti che parlano anche dell’avanzata dell’Isis in Iraq nel 2014 verso le città strategiche per il commercio petrolifero e la reazione degli Usa e della Turchia in quel momento. Appunto Ankara sarebbe accusata di approfittare delle dinamiche geopolitiche perché proprio in quel periodo avrebbe iniziato a non rispettare l’accordo del 1973 e avrebbe firmato nuovi contratti per la fornitura del petrolio direttamente con Erbil. Secondo il giornalista turco, Murat Yetkin, in questa fase storica ci sono varie dinamiche importanti come la volontà di ottenere ulteriore sostegno di Erbil nella sua storica lotta contro il Pkk: incassare più velocemente e più soldi scavalcando Baghdad e ottenere più credibilità e sostenitori in zona visto che proprio in quel periodo tra Erdoğan e Obama nascono le prime divergenze in merito a chi sostenere nella guerra in Siria.

In questa procedura arbitrale si cita anche l’illegale commercio del petrolio attraverso i camion cisterna. Un tema che fu sollevato dalla giornalista Bethan McKernan nel 2016 in un articolo pubblicato su “The Independent” che si basa sullo scandalo “Wikileaks”. Secondo questa fuga di e-mail, scatenata dal gruppo hacker turco “Redhack”, sarebbe l’azienda PowerTrans a gestire dal 2014 al 2015 il traffico illegale di petrolio dalle zone occupate dall’Isis in Siria e dal Kurdistan (iracheno) verso la Turchia. Secondo McKernan l’azienda in questione sarebbe legata in qualche maniera al genero del presidente della Repubblica di Turchia, ossia Beraty Albayrak che in quegli anni lavorava come il ministro dell’Energia al governo. Uno scandalo del genere era stato sollevato anche da Mosca nel 2015 durante quei nove mesi di conflitto che ci fu con Ankara. In quel caso fu il figlio del presidente della Repubblica ossia Bilal Erdoğan a finire nel mirino russo più o meno per le stesse accuse rivolte al genero.

I curdi utili fuori e dentro i confini

Oggi le trattative sono in corso. Secondo alcune fonti Ankara si rifiuta di risarcire Baghdad e secondo alcune fonti invece si tratta di trovare una cifra adatta per tutte le parti. In questo periodo di incertezza però c’è una cosa chiara: Ankara ha bisogno del petrolio e del sostegno politico di Erbil. L’amministrazione curda che si trova nel Nord dell’Iraq risulta tuttora il “curdo utile”, fuori dai confini nazionali, per l’attuale governo al potere in Turchia che deve fare i conti con le elezioni del 14 maggio. Il suo nuovo alleato, ossia HüdaPar, invece, sembra che abbia già deciso di muoversi come “mediatore” tra queste due parti indossando il costume del “curdo utile” in casa.

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Fondato disincanto e probabile implosione nigeriana https://ogzero.org/fondato-disincanto-e-probabile-implosione-nigeriana/ Tue, 14 Mar 2023 00:25:11 +0000 https://ogzero.org/?p=10480 Il precedente articolo dedicato alla Nigeria riguardava ancora le elezioni, le stesse. Non c’era tanto entusiasmo, ma comunque qualche speranza per u minimo cambiamento, in primis lo scardinamento dell’alternanza Sud/Nord, cattolici/musulmani; Obi era il laico “giovane” – o comunque quello meno inviso ai giovani – ma forse i nigeriani erano già consapevoli di come funziona […]

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Il precedente articolo dedicato alla Nigeria riguardava ancora le elezioni, le stesse. Non c’era tanto entusiasmo, ma comunque qualche speranza per u minimo cambiamento, in primis lo scardinamento dell’alternanza Sud/Nord, cattolici/musulmani; Obi era il laico “giovane” – o comunque quello meno inviso ai giovani – ma forse i nigeriani erano già consapevoli di come funziona il loro paese: infatti la maggioranza dei potenziali influencer si guardava bene dal prendere posizione… come il 73% dei potenziali votanti, che non sono andati alle urne, probabilmente consapevoli che il presidente era già decretato. I brogli sono tanti e la divisione di un paese in crisi non consente di indovinare a cosa andrà incontro la nuova presidenza dell’ultrasettantenne Tinubu, a capo di una nazione giovane che in genere ha un terzo dei suoi anni, lasciatagli in eredità da Buhari con una povertà sempre più estesa, come la violenza, scorciatoia in risposta dell’indifferenza del potere.


Inutile votare, ma anche soltanto sperare

Mai nella storia democratica della Nigeria un presidente è stato eletto con una percentuale così bassa di voti. Nonostante ciò, Bola Ahmed Tinubu, nuovo capo di Stato – elezione contestata dall’opposizione – dovrà affrontare sfide senza precedenti e risolvere problemi immensi. Noti per la loro resilienza, i 216 milioni di abitanti del paese più popoloso dell’Africa vivono nella morsa di una diffusa insicurezza e di una grave crisi economica, e tutti gli indicatori sono allarmanti. Sullo sfondo di una gigantesca penuria di banconote e benzina, Bola Tinubu ha vinto le elezioni presidenziali di fine febbraio dopo una tornata elettorale segnata da numerosi guasti tecnici e da accuse di “massicce frodi”. Dopo la vittoria, Tinubu ha invitato l’opposizione a “lavorare insieme” per “raccogliere i pezzi” della Nigeria. Ma i suoi due principali oppositori, candidati alla presidenza senza successo, hanno contestato i risultati e sono in corso procedimenti legali.

«Tinubu dovrà prima lavorare sodo per costruire la sua legittimità, visto come le elezioni si sono svolte con una Commissione elettorale (Inec) incompetente o complice», ha affermato Nnamdi Obasi, esperto dell’International Crisis Group (Icg).

Un quadriennio ibernato dal letargico vecchio

A 70 anni (o più probabilmente 77), il candidato del partito al governo (Apc) ha vinto le elezioni raccogliendo solo 8,8 milioni di voti, ovvero il 36% di coloro che si sono recati alle urne, un risultato mai così basso se si conta che gli aventi diritti erano circa 87 milioni. L’astensione è stata da record, 73%, dovuta sia all’insicurezza in cui versa il paese, ma anche al disincanto della maggioranza della popolazione nei confronti della politica. Ma anche per colpa degli otto anni di potere del presidente uscente, Muhammadu Buhari. Durante i suoi due mandati, Buhari non è stato capace di arginare la povertà che, anzi, è esplosa, e la violenza, anch’essa cresciuta. Il presidente uscente non è stato in grado di mantenere le promesse e di raggiungere gli obiettivi che si era dato: riduzione della povertà e sconfitta del terrorismo di Boko Haram e dello Stato Islamico. A ciò si è aggiunta una crescente violenza dovuta al proliferare di bande armate e a lotte intercomunitarie per l’accaparramento della terra.

Per legittimarsi, Tinubu – considerato uno degli uomini più ricchi e influenti del paese e accusato di corruzione senza mai essere stato condannato – dovrà mandare “segnali forti e molto velocemente” e soprattutto non seguire l’esempio del suo predecessore che aveva aspettato sei mesi per formare un governo, sostiene Obasi dell’International Crisis Group. A ciò si aggiunge, a complicare ulteriormente la situazione, la sua età e problemi di salute che non è riuscito a nascondere durante la campagna elettorale. Fattore che aggrava “il suo problema di legittimità”, spiega Tunde Ajileye, esperto della società di consulenza nigeriana SBM Intelligenze. Tinubu, inoltre, dovrà cercare di fare presa sui giovani, in Nigeria il 60% della popolazione ha meno di 25 anni. Il nuovo presidente, secondo molti analisti sul campo, dovrà “molto probabilmente” affrontare la rabbia popolare, lui che ha annunciato una serie di decisioni “necessarie” ma con “conseguenze economiche molto negative nel breve termine”. Con la presidenza Buhari, l’economia è solo peggiorata, soprattutto dopo la pandemia e in conseguenza della guerra in Ucraina.

La disoccupazione supera il 33%, l’inflazione sfiora il 22%, il debito pubblico cresce e la povertà è colossale, con 133 milioni di persone che vivono al di sotto della soglia di povertà, cioè il 63% circa della popolazione. D’accordo con il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale, Tinubu, per esempio, ha assicurato che avrebbe abolito immediatamente i sussidi per il carburante. Ma sarebbe alienare un popolo già in ginocchio, lui che già non gode di grande popolarità.

Perché una tale decisione «raddoppierebbe il prezzo di un litro di benzina e provocherebbe un’inflazione su larga scala», avverte Obasi, «la gente sarà davvero arrabbiata».

Ma la rimozione dei sussidi consentirà alla Nigeria grande produttore di petrolio, di «gestire la crisi di bilancio e investire in programmi di istruzione, infrastrutture e protezione sociale», sottolinea Mucahid Durmaz, analista di Verisk Maplecroft.

Urne vuote in Nigeria

L’economia bruciata nel petrolio e negli abusi di polizia

Anche porre fine al furto di petrolio su larga scala che costa alla Nigeria 2 miliardi di dollari all’anno è una priorità, sostengono gli esperti. Occorre, tuttavia, ricordare che la Nigeria è il più grande produttore di petrolio dell’Africa Subsahariana, con circa 2 milioni di barili giorno, ma è anche il paese che importa l’80% del suo fabbisogno di carburante.

L’economia in crisi e sotto costante stress ha prodotto una maggiore insicurezza. La violenza rimane diffusa, tra gruppi jihadisti, separatisti e criminali. Da parte loro, le forze armate e la polizia sono a corto di personale, sono mal equipaggiate e regolarmente accusate di gravi violazioni dei diritti umani. Anche questo settore ha bisogno di «riforme strutturali di vasta portata e programmi di formazione completi», insiste Durmaz. Pure questa dovrà essere una priorità, anche perché nel Nordest, roccaforte dei gruppi jihadisti, l’esercito non riesce a porre fine a 13 anni di conflitto che ha provocato 40.000 morti e 2 milioni di sfollati.

«Non vi è alcuna indicazione che la strategia cambierà con l’arrivo di un nuovo presidente», ha affermato Jacob Zenn, ricercatore presso la Jamestown Foundation. «Questo stallo può semplicemente continuare».

Ma Tinubu dovrà anche scongiurare la “profezia” del premio Nobel per la letteratura Wole Soyinka che, solo due anni fa, sosteneva che la Nigeria sembra proprio essere un paese a rischio implosione.

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Guerre di religione: continuazione del colonialismo con altri mezzi https://ogzero.org/guerre-di-religione-continuazione-del-colonialismo-con-altri-mezzi/ Sat, 12 Nov 2022 08:48:30 +0000 https://ogzero.org/?p=9436 Gianni Sartori si propone come autodidatta che propone analisi “a naso”: avercene di nasi così raffinati! E soprattutto con una memoria storica e uno sguardo libertario come il suo. Peraltro l’analisi dei guasti del neocolonialismo è uno dei motivi per cui OGzero è nato e questo scritto ci sembra perfetto per avviare la discussione che […]

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Gianni Sartori si propone come autodidatta che propone analisi “a naso”: avercene di nasi così raffinati! E soprattutto con una memoria storica e uno sguardo libertario come il suo. Peraltro l’analisi dei guasti del neocolonialismo è uno dei motivi per cui OGzero è nato e questo scritto ci sembra perfetto per avviare la discussione che si fonde e intreccia con le altre che muovono masse di disperati, distruggono il clima, depredano territori, spacciano armi, innescano conflitti per controllare risorse. Si può interpretare questo uso della divisione religiosa come un nodo delle diverse emergenze del Finanzkapitalismus nella sua fase iperliberista, un nodo a cui arrivare dagli altri orrori geopolitici, o da cui partire per inserirlo nella rete che mette insieme l’uso politico-aggressivo della religione, il pastone mediatico, la scorciatoia militarista, l’espansionismo imperialista… ma partiamo dallo storico conflitto irlandese tra cattolici separatisti e unionisti protestanti e poi ci espandiamo nelle più complesse – ma riconducibili agli stessi modelli di potere – contrapposizioni mediorientali.


Solo un’ipotesi, la mia. Da “proletario autoalfabetizzato” senza pretese accademiche. A naso diciamo.
Se in passato le “guerre di religione” potevano, forse, esprimere (“fotografare”) in qualche modo i conflitti etnici e/o sociali del tempo (vedi alcune “eresie” e certe “riforme” diretta conseguenza dei conflitti di classe), direi che in seguito, perlomeno dal secolo scorso, il più delle volte sono state la copertura, la “vetrina” di interessate strumentalizzazioni.

Partiamo dall’Irlanda…

A titolo di esempio, il conflitto irlandese, soprattutto dopo la divisione dell’Isola di smeraldo. Se già nel Settecento cattolici e protestanti (discendenti i primi dagli indigeni irlandesi colonizzati, gli altri dai coloni scozzesi presbiteriani) avevano fatto fronte comune per l’indipendenza dell’Irlanda, anche in seguito (vedi gli scioperi di lavoratori salariati cattolici e protestanti a Belfast) non mancarono lotte comuni. A porvi fine intervennero le ricche borghesie filobritanniche (si veda La Casa d’Orange) elargendo piccoli privilegi e organizzando milizie settarie “lealiste” (v. Uvf). Non potendo utilizzare – che so – un diverso colore della pelle o diversità etniche rilevanti (in quanto entrambe le comunità erano di origine celtica, diversamente dagli inglesi anglosassoni – di origine germanica – e anglicani) si accontentarono di ampliare il modesto solco di natura religiosa.


Poi è andata come sappiamo. Esperimento sostanzialmente riuscito, un modello per future strumentalizzazioni a “geometria variabile”.

… e giungiamo tra le comunità beluci, curde e hazara

Quindi ritengo che anche le sanguinose faide mediorientali tra sunniti e sciiti (con ricadute particolarmente gravi per le minoranze qui presenti: yazidi, alaviti, assiro-cristiani, zoroastriani…) siano state perlomeno “pompate”, gonfiate, esasperate ad arte.
Quanto è avvenuto nelle aree curde, occupate militarmente dalla Turchia, di Afrin e di Sere Kaniyê (Nord della Siria) appare emblematico. Non essendo in grado di controllare adeguatamente le proprie milizie mercenarie (vedi l’Esercito Nazionale Siriano, Sna), Ankara si starebbe affidando direttamente al gruppo terrorista Hayat Tahrir al-Sham (Hts, successore di al-Nusra), con tutta probabilità l’emanazione locale di al-Qaeda.

Il ruolo della Turchia

Anche perché tra le fila di alcune formazioni sul libro paga di Ankara ultimamente serpeggiava, oltre al malcontento, anche una certa preoccupazione.

Le voci su un possibile riavvicinamento tra Ankara e Damasco (patrocinato da Mosca) lasciava intravedere la possibilità di venir scaricati, se non addirittura consegnati, per diversi membri delle milizie mercenarie. In quanto ricercati da Damasco potrebbero venire estradati e questo suggerisce una possibile spiegazione su alcuni episodi di insubordinazione. Come per gli scontri a mano armata intercorsi tra membri di Jabhat al-Shamiya e di Jaish al-Islam.
Tali dispute ricorrenti (oltre al rischio concreto di insubordinazione e defezione) tra le diverse fazioni di Sna (forse non adeguatamente attrezzate, oltre che sul piano politico, anche in quello religioso?) avrebbero suggerito a Erdoğan di far leva sul maggiore entusiasmo, fervore religioso (eufemismo per fanatismo) di Hts. Un fanatismo indispensabile per annichilire le minoranze “eretiche” e non omologate (tutti apostati, dissidenti, “pagani”… addirittura comunisti o anarchici talvolta) del nord della Siria. Nella prospettiva di ulteriori invasioni.
Già all’epoca delle prime manifestazioni contro il regime siriano si assisteva a una proliferazione di gruppi armati, in genere appoggiati, oltre che dalla Turchia, da alcuni stati del Golfo come il Qatar.

Negli Usa è ancora in corso il processo contro “Qatar Charity” e contro Qatar Bank per aver finanziato con 800.000 dollari il leader dell’Esercito Islamico Fadhel al-Salim.

Pulizie etnico-religiose nella Mezzaluna sciita

Per inciso, è probabile che questo stia oggi avvenendo in Iran, nel tentativo di strumentalizzare, “dirottare” altrove, le legittime proteste popolari. Con un occhio di riguardo per i beluci, già manovrati in passato anche da qualche potenza imperialista di Oltreoceano. Come da manuale, ça va sans dire, anche i beluci ci mettono “del loro”: per esempio in Pakistan alcuni gruppi indipendentisti beluci sono ritenuti responsabili di vere e proprie stragi ai danni degli hazara, un’altra minoranza, ma di fede sciita.
Va anche detto che da parte sua la Repubblica islamica sembra far di tutto per fornire pretesti in tal senso. In una recente manifestazione (4 novembre 2022) a Khach, provincia di Zahedan, le forze di sicurezza hanno ucciso una ventina di civili beluci (16 le vittime identificate, tra cui alcuni bambini) ferendone oltre sessanta. Da segnalare – stando a quanto dichiarato da alcuni attivisti – che altri feriti erano poi deceduti non essendo stati traspostati all’ospedale dove rischiavano seriamente di essere arrestati.


Un’altra strage di 90 civili beluci era già avvenuta, sempre nella provincia di Zahedana, il 30 settembre.

Appare evidente che – analogamente a quella curda – anche la popolazione minorizzata dei beluci (“minorizzata” e non minoritaria, in quanto divisa da frontiere statali) in Sistan e Baluchistan subisce quotidiane discriminazioni ed è sottoposta a una dura repressione (come del resto altre comunità delle aree periferiche del paese) da parte di Teheran.
Sia per la loro appartenenza etnica, sia per ragioni religiose in quanto sunniti.
Il comandante di al-Nusra, Al-Hana (Abu Mansour al-Maghrebi) arrestato nel 2020 in Iraq aveva rivelato che lo sceicco Khalid Sueliman (della potente famiglia al-Thani), a capo del Jabhat al-Nusra (e pare anche delle organizzazioni derivate), veniva finanziato con qualcosa come un milione di dollari al mese. Turchia e Qatar sosterrebbero, sia finanziariamente, sia con la fornitura di armamenti, i vari gruppi combattenti emanazione dei Fratelli musulmani salafiti in quanto utile strumento per la loro politica estera. Anche in chiave panislamica.

Guerra turca ai curdi in Siria

Alcune organizzazioni hanno stabilito un’analogia, per vastità e inasprimento, tra l’attuale repressione in Iran e i massacri subiti dai beluci a Deraa (in Siria) nel 2011, denunciati dall’Onu come crimini di guerra.
Storicamente accertato che potenze regionali ostili a Damasco avevano favorito la militarizzazione (vedi appunto la formazione di Sna) e l’escalation del conflitto.
Oltre che a Sna, la Turchia non avrebbe lesinato nel fornire sostegno al fronte al-Nusra (dal 2012 nella lista del terrorismo internazionale in quanto ritenuto emanazione di al-Qaeda) e addirittura a Daesh. Formazioni entrambe notoriamente jihadiste.

Quanto al fronte al-Nusra, va ricordato che nell’ottobre 2012 attaccava i distretti autonomi di Şêxmeqsûd e Eşrefiye (regione di Aleppo) uccidendo decine di curdi. Subito dopo gli ascari jihadisti si scagliavano contro Afrin, incontrando però la ferrea resistenza delle Ypg/Ypj. Nel voler annichilire in primis le zone curde del Rojava (dove si sperimentava la rivoluzione del Confederalismo democratico) il Jabhat al -Nusra si smascherava da solo, mostrando apertamente di agire su indicazione della Turchia.

Sempre nel 2012, in novembre, veniva attaccata, partendo direttamente dalla Turchia, anche Serêkaniyê. Un’operazione congiunta tra al-Nusra e alcune milizie curde collaborazioniste legate al Pdk. Entrando in alcuni dei quartieri a maggioranza araba di Serêkaniyê, queste milizie si spacciavano per ribelli antiAssad cercando di stabilire alleanze. Solo successivamente (il 19 novembre) partiva il brutale attacco contro i quartieri a maggioranza curda. Veniva assassinato il sindaco della città e la chiesa diventava un bivacco per il loro quartiere generale.

Nel frattempo la loro già consistente presenza veniva rinforzata dall’apporto della cosiddetta Coalizione nazionale (Etilaf), che – secondo i curdi – sarebbe al Etilaf di Sna o comunque della sua derivazione, il “governo di transizione siriano”. Oltre al seggio di Istanbul, Etilaf ne controlla uno anche a Berlino (oltretutto finanziato dal governo tedesco).
Avrebbe anche una certa influenza in alcuni progetti (ugualmente finanziati dal governo tedesco) che sembrano funzionare come “specchietti per allodole”, allo scopo di creare cortine fumogene sulla realtà della situazione curda. Tra questi, il Centro europeo di studi curdi (Ezks) e il sito Kurdwatch, divulgatore di notizie farlocche intese a giustificare le operazioni militari di Erdoğan nel Nord della Siria e nel Nord dell’Iraq. Ma nonostante questo ulteriore apporto di milizie, successivamente venivano scacciati dalla popolazione insorta dei quartieri curdi, grazie anche all’intervento dei combattenti di Ypg e Ypj.

Gli scontri ripresero, durissimi, nel gennaio 2013. Praticamente una vera e propria ammucchiata di gruppi mercenari guidata da al-Nusra quella che contese per circa due settimane il controllo dei quartieri alle milizie curde. Sconfitte nuovamente, le truppe jihadiste si misero in salvo direttamente oltre il confine turco (immediatamente blindato dai soldati turchi per maggior sicurezza), ma lasciando in mano ai curdi un’ampia documentazione della loro intensa collaborazione con Ankara.
Purtroppo durante la ritirata sia al-Nusra che Daesh non mancarono di vendicarsi sulla popolazione curda con una vile rappresaglia.

Come a Til Eran (luglio 2013) e a Tal Hasil. Dichiarando pubblicamente, attraverso le moschee, che sia il bagno di sangue nei confronti della popolazione curda (circa un’ottantina le vittime accertate) che il sequestro-rapimento delle donne curde (prelevate a centinaia) era giustificato dal punto di vista religioso. Rastrellando poi casa per casa le due località sopracitate alla ricerca di “Apoisti”, ossia di seguaci di Apo Öcalan. Oltre a quelli crudelmente assassinati (alcuni bruciati vivi, con le immagini poi diffuse nei social), vanno considerati anche i desaparecidos (qualche decina) e i cadaveri (una ventina) di cui non è stata possibile l’identificazione.

Til Hasil

Da sottolineare che – per quanto entrambe aspirassero alla supremazia – Al-Nusra e Daesh (o Stato Islamico che dir si voglia) non smisero mai di collaborare proficuamente. Sia garantendo una certa “osmosi” di combattenti –praticamente intercambiabili – da una formazione all’altra (in base alle necessità del momento), sia dandosi il cambio, alternandosi nel controllo delle aree occupate. E soprattutto instaurando congiuntamente durante l’occupazione delle città, dei villaggi e dei quartieri curdi un aspro regime di ispirazione salafita. Anche a livello di tribunali islamici dove operavano in coppia.

Sempre sotto la supervisione di Ankara ovviamente. L’assalto al carcere di Sina à Hesekê (gennaio 2022) era stato pianificato dai territori occupati dalla Turchia.

Come già detto negli ultimi tempi al-Nusra aveva cercato di “riciclarsi” prendendo (almeno ufficialmente) le distanze da al-Qaeda e cambiando pelle e nome. Diventando prima, nel 2016, Liwa Fatah al-Sham e successivamente, nel 2017, appunto Hayat Tahrir al-Sham (Hts, in realtà una finta coalizione di vari gruppi, sostanzialmente sotto il controllo della vecchia al-Nusra, comunque denominata). Attualmente la casa madre sarebbe localizzata in quel di Idlib, in felice coabitazione con l’alleato turco. Allo scopo dichiarato di soffocare il risorgere e la diffusione del Confederalismo democratico in questa parte del Rojava. Esperienza pericolosa perché esemplare e contagiosa, soprattutto così in prossimità del confine turco.

Dal maggio di quest’anno (a seguito dell’incontro di Idlib-Sarmada con esponenti del regime turco) le milizie di Hts hanno ripreso a riposizionarsi e raggrupparsi su Idlib puntando quindi su Afrin. Inoltre si sarebbero acquartierati anche nelle zone di Girê Spî, Azaz, al-Bab, Cerablus e intorno alla città di Minbić (ancora gestita dall’amministrazione autonoma).
Sempre in vista di ulteriori attacchi in Rojava.

Per concludere, pur essendo presto rientrato nella lista nera dei gruppi terroristi, Hts continua a godere dei finanziamenti di Turchia, Qatar, Arabia Saudita…
Pare anche di qualche non meglio identificato “paese occidentale”…

Vai a sapere.

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Vecchie corone e turbanti consunti, curdi e beluci sudditi dell’impero persiano https://ogzero.org/vecchie-corone-e-turbanti-consunti-curdi-e-beluci-sudditi-dellimpero-persiano/ Tue, 18 Oct 2022 20:20:44 +0000 https://ogzero.org/?p=9151 Ospitando queste considerazioni di Gianni Sartori comparse su “Osservatorio repressione” proseguiamo l’interesse per un movimento che non accenna ad arrendersi al brutale massacro di forze di una brutale polizia che fin dai tempi della Savak della famiglia Pahlevi è famigerata per le sue efferatezze; ma la storia fa ben sperare, perché quando il popolo iraniano […]

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Ospitando queste considerazioni di Gianni Sartori comparse su “Osservatorio repressione” proseguiamo l’interesse per un movimento che non accenna ad arrendersi al brutale massacro di forze di una brutale polizia che fin dai tempi della Savak della famiglia Pahlevi è famigerata per le sue efferatezze; ma la storia fa ben sperare, perché quando il popolo iraniano è esausto non recede fino al rovesciamento del potere. Non sappiamo quale sarà l’epilogo ma la determinazione meriterebbe migliori analisi da parte dell’Occidente. Sartori ha il merito di usare occhiali che pescano nell’immaginario ipocrita che attraverso gli organi di stampa mainstream evidenziano episodi, a tratti beatificano, ma poi non considerano il patriarcato e si focalizzano esclusivamente sulla questione del velo senza considerare le istanze sociali e politiche che alimentano il movimento e senza accorgersi del tentativo di organizzazioni nostalgiche dello sha’ intente a scippare le lotte, cercando di replicare la manovra degli ayatollah che sterminarono i rivoltosi progressisti che avevano cacciato i Pahlevi. 


L’antifascismo nelle piazze iraniane

Affrontando i nostalgici del passato e gli oscurantisti del presente

Qualche considerazione, mi auguro non “allineata”, su quanto sta avvenendo in Iran. Già in precedenza avevo sottolineato come l’autodeterminazione dei popoli in generale e l’indipendentismo in particolare, siano divenuti una variabile “USA e getta” a seconda degli interessi geostrategici in gioco. Quella che uno studioso catalano aveva definito “indipendenza a geometria variabile”, di cui si è esaustivamente parlato in un articolo precedente. Gli esempi dei “due pesi e due misure” si sprecano, come avevo segnalato qualche anno fa (in epoca non sospetta) nella “postfazione” a un mio libro sui curdi.
E i curdi, da questo punto di vista, non fanno certo eccezione, se pur loro malgrado.
Beatificati qualche anno fa quando si facevano massacrare per sconfiggere l’Isis, erano stati poi – di fatto – dimenticati. Abbandonati in balia delle milizie islamiste filoturche in Rojava, sotto i bombardamenti turchi (anche con armi proibite dalla convenzione di Ginevra) in Bashur e sepolti vivi nelle carceri di sterminio in Turchia.
Quanto al Rojhilat (il Kurdistan sotto amministrazione iraniana), se si esclude in passato qualche tentativo di strumentalizzazione da parte del Mossad, parevano completamente scomparsi dal radar. Nuovamente alla ribalta in quanto tra i principali protagonisti della rivolta in corso (innescata dall’assassinio di una donna curda, Jina Amini) tornano a godere di qualche attenzione – interessata – da parte dei media occidentali.
Women Life Freedom
Talvolta in maniera paradossale. In un recente articolo apparso su un noto quotidiano italico si celebra “l’arte di resistere” di questo popolo indomito, ma – a mio avviso – in modo alquanto parziale. Ben due paginoni per ricordare, oltre alla lotta contro l’Isis e Daesh, perfino il “rapporto turbolento” dei curdi dell’Iraq con Bagdad e dilungarsi – addirittura – sulle antiche battaglie dei Carduchi (probabili progenitori dei curdi) celebrate da Senofonte in Anabasi.
Ma nessun accenno al Bakur (il Kurdistan sotto occupazione turca) o al “Mandela curdo” Ocalan.

L’analisi deve considerare molti aspetti

Riproponendo comunque una visione riduttiva – sempre a mio modesto avviso – dell’attuale crisi iraniana interpretata come legata essenzialmente alla questione dell’hejjab. In realtà ritengo che il problema, in particolare per le donne curde, sia leggermente più complesso. Andarsi a rivedere le percentuali di donne impiccate per essersi ribellate al patriarcato (con le minorenni – in genere vittime di matrimoni combinati – che se accusate di aver ammazzato il marito o un cognato, rimangono in cella in attesa della maggiore età e dell’esecuzione).

La rivolta in carcere dei fomentatori curdi

Del resto anche la rivolta nel famigerato carcere di Evin (a Teheran) sembrerebbe essere stata innescata (nella serata del 15 ottobre) dai prigionieri politici curdi.
Non i soli qui rinchiusi, ovviamente (ci sarebbero anche personaggi noti, in quanto stranieri, come la franco-iraniana Fariba Adelkhah e almeno fino alla fine di settembre lo statunitense di origine iraniana Siamak Namazi).
Per completezza va riportata anche un’altra inquietante ipotesi. Ossia che potrebbero essere state le stesse autorità carcerarie ad appiccare l’incendio come pretesto per eliminare dei pericolosi dissidenti.
Evin Prison

L’egemonia imperiale persiana

I seguaci dello sha’ cercano di scippare le lotte

In ogni caso, oltre a strumentalizzare le lotte dei curdi, stavolta si è fatto avanti anche chi vorrebbe ora emarginarli, ridimensionare il ruolo fondamentale che questa “minoranza” ha avuto, insieme ai beluci, nella rivolta in atto ormai da oltre un mese.
Il 15 ottobre a Londra, a una manifestazione di sostegno ai manifestanti e rivoltosi iraniani, i nostalgici dell’artificiosa monarchia decaduta nel 1979 hanno cercato di allontanare coloro che inalberavano bandiere del Kurdistan e del Belucistan, in quanto, secondo i seguaci della buonanima di Mohammad Reza Pahlavī, “non graditi”.
E rivendicando il fatto che nel 1936 Reżā Shāh Pahlavī (il padre di Mohammad Reza) aveva proibito per decreto l’uso di hijab e chador. Ma sorvolando, al solito, sulle concessioni fatte tre anni prima alla Anglo-Persian Oil Company, operazione a cui tenterà di porre termine nel 1951 Mossadeq (poi destituito con un colpo di stato imbastito da Usa e G.B.) riuscendo anche per un breve periodo ad allontanare lo sha’ dal Paese.
E così i tardi epigoni di quel regime crudele (ricordate le brutalità, le torture commesse tra il 1957 e il 1979 dalla polizia segreta, la Savak?), mentre con grande faccia tosta pubblicamente invocano l’unità del popolo iraniano contro l’attuale regime, negano a priori i diritti dei popoli minoritari (ma sarebbe più corretto definirli “minorizzati” in quanto sia i curdi che i beluci vivono separati in vari stati, divisi dalle artificiose frontiere).
Popoli sottoposti all’egemonia persiana e a cui viene tuttora negato il diritto alla propria lingua e cultura. Per non parlare di quello all’autodeterminazione.
Oggi con gli ayatollah così come ieri con lo sha’.
Fatti del genere, oltre che a Londra, erano già avvenuti a Parigi davanti all’Hôtel de Ville il 6 ottobre.
Durante – si badi bene – l’omaggio reso dalla sindaca di Parigi Anne Hidalgo a Jina Amini, la giovane curda uccisa dalla polizia.
Appare evidente come questi reazionari monarchici (potremmo, credo, definirli tranquillamente dei “fascisti”) vorrebbero impadronirsi della rivolta popolare, strumentalizzarla ai loro fini. Quanto al fatto che possano riuscirci è tutto un altro paio di maniche. Anche se …

La Realpolitik del diritto all’autodeterminazione

… coltivo qualche perplessità sugli sbocchi assunti da alcune lotte di liberazione in tempi recenti (talvolta strumentalizzate dal sistema industriale-militare – l’imperialismo – o da qualche potenza regionale), ma non per questo rinuncio a schierarmi a fianco degli oppressi e contro l’oppressione.

Per conto di chi agivano i miliziani sciiti di Amal (“Speranza”) che nel 1986 assediavano i campi palestinesi, ormai indifesi e ridotti alla fame dopo l’allontanamento dell’Olp dal Libano? E in base a quali calcoli gli Stati Uniti hanno integrato nell’esercito e nella polizia irachena formazioni come il gruppo Sciri e al-Da’wa, notoriamente filoiraniani e responsabili di violazioni dei diritti umani? Contraddizione nella contraddizione: contemporaneamente Washington starebbe utilizzando in funzione anti-Teheran gruppi di indipendentisti beluci (sunniti) legati ad al-Qaeda. Chi, se non i servizi segreti turchi, può aver organizzato nel 2007 gli assalti – ufficialmente opera di rom – contro le baracche dei profughi curdi a Istanbul?

Indipendenze a geometria variabile

Ormai la strumentalizzazione dei movimenti di liberazione nazionale, come di quelli autonomistici o identitari, non è più appannaggio esclusivo dei servizi segreti. Le varie potenze planetarie operano alla luce del sole decretando la legittimità o meno delle rivendicazioni. Manuel Castells ha parlato di “indipendenze a geometria variabile”, denunciando come la comunità internazionale si dichiari favorevole all’autodeterminazione di un popolo o difenda l’integrità di un paese «a seconda di chi, del come e del quando».

«Le posizioni sul diritto all’autodeterminazione –, sostiene il sociologo catalano, – sono frutto di un cinismo tattico e l’indipendentismo sarebbe divenuto uno strumento geopolitico fondamentale in un mondo globalizzato e interdipendente»

Pensiamo al trattamento riservato ai curdi in Iraq, praticamente autonomi e quasi alleati degli Usa, mentre quelli in territorio turco continuavano a essere bombardati, imprigionati e torturati da Ankara, storicamente alleato strategico degli Stati Uniti. Cui prodest? Non certo alla nazione curda nel suo insieme. E intanto i curdi dell’Iran (“Partito per una vita libera in Kurdistan”, Pjak, considerato il ramo iraniano del Pkk attivo in Turchia), dopo una serie di impiccagioni che l’opinione pubblica mondiale ha ignorato, nel 2010 si sarebbero rassegnati a collaborare anche con il Mossad (lo aveva documentato “Le Monde”, ma poi le cose sarebbero cambiate).

 

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«Kurdistan, Kurdistan: occhi e luce dell’Iran!» https://ogzero.org/kurdistan-kurdistan-occhi-e-luce-delliran/ Sat, 24 Sep 2022 11:58:16 +0000 https://ogzero.org/?p=9006 Un punto di vista attento alle origini curde di Jîna Mahsa Amini per raccontare ulteriori aspetti (rispetto a quelli rilevati da Marina Forti) della vicenda che ha scatenato un movimento determinato a ottenere almeno un allentamento dell’oppressione religiosa… e che forse può avviare un più ampio processo di emancipazione dal sistema oscurantista legato ai turbanti […]

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Un punto di vista attento alle origini curde di Jîna Mahsa Amini per raccontare ulteriori aspetti (rispetto a quelli rilevati da Marina Forti) della vicenda che ha scatenato un movimento determinato a ottenere almeno un allentamento dell’oppressione religiosa… e che forse può avviare un più ampio processo di emancipazione dal sistema oscurantista legato ai turbanti di Tehran, estendendo le proteste al desiderio di liberazione dal manto plumbeo degli ayatollah, con un gesto come i tanti dal hejjab. Gianni Sartori in questo pezzo comparso su “Osservatorio repressione” ricostruisce gli eventi di questi giorni con lo sguardo dei curdi del Khorasan, in particolare del Rojhilat (le province del Nordovest), esteso al resto delle speranze soprattutto dei giovani in piazza in questi giorni, rischiando anche di venire giustiziati, come da richieste degli oscurantisti chiamati in una contromanifestazione dal governo conservatore di Raisi, che si rende conto del pericolo di insurrezione.  


In Iran non si placano le proteste per l’assassinio di Jîna Mahsa Amini

Sappiamo che la popolazione curda del Rojhilat (il Kurdistan orientale, sotto amministrazione iraniana) detiene il record non invidiabile del maggior numero (in percentuale) di giustiziati e giustiziate del pianeta. Altri – e altre – invece sono vittime della tortura.
L’ultimo caso, quello della ventiduenne curda Jîna Mahsa Amini, ha scatenato la rivolta prima nella regione, poi nell’intero paese.
Nei primi cinque giorni (e cinque notti, come a Parma nel 1922) manifestazioni e scontri erano avvenuti a Sine, Dehgulan, Diwandara, Mahabad, Urmia, Piranshahr, Saqqez…
Mentre ancora il 22 settembre i telegiornali parlavano “soltanto” di una decina di manifestanti uccisi dalla polizia iraniana nel Rojhilat, alcune agenzie ne calcolavano già una trentina.

È probabile che ormai le vittime siano più di cinquanta e destinate, purtroppo, ad aumentare. Per non parlare della sorte di centinaia di feriti e di migliaia di persone arrestate.

Immediatamente veniva indetto dal Pjak (Partito per una vita libera nel Kurdistan) e da Kodar (Società democratica e libera del Kurdistan orientale) lo sciopero generale. Sciopero a cui avevano aderito i partiti affiliati al Centro di cooperazione dei partiti del Kurdistan iraniano, il Partito comunista iraniano-Kurdistan, altri partiti del Kurdistan orientale, numerose organizzazioni della società civile e vari esponenti politici. E così il 19 settembre scuole e negozi sono rimasti chiusi in gran parte della regione.
Il giorno dopo, 20 settembre, nel corso di una manifestazione, a Kermanshah moriva un’altra donna curda, Minoo Majidi, madre di tre bambini. Colpita dalle pallottole (dal “fuego real”) delle unità speciali antisommossa, prontamente mobilitate dal regime.

Nel frattempo le proteste per l’uccisione di Jîna Mahsa Amini (22 anni, deceduta per emorragia cerebrale a seguito delle torture subite) si estendevano all’intero paese.

In almeno una quindicina di città uomini e donne (la gran parte delle quali aveva gettato via il velo) sono scesi in strada. Non solo aTeheran, ma anche a Mashhad (nel nord-est), Tabriz (nord-ovest), Rasht (nord), Ispahan (centro) e Kish (sud). Bloccando la circolazione, incendiando i veicoli della polizia, lanciando pietre sulle forze di sicurezza e distruggendo i ritratti degli ayatollah (così come era accaduto a Saqqez, città natale della giovane curda). Oltre naturalmente a scandire slogan contro il regime. Sia quello diffuso tra le donne curde del Bakur e del Rojava: “Jin jiyan azadi“ (La Donna, la Vita, la Libertà), sia uno di nuovo conio:

“Kurdistan, Kurdistan: occhi e luce dell’Iran”.

Identificata dai media come Mahsa Amini, in realtà si chiamava Jîna (o anche Zhina) che significa “donna” (Jin) in curdo. Ma al momento di registrarla all’anagrafe, il funzionario del regime, come in tanti altri casi, si era rifiutato e aveva imposto la sostituzione del nome curdo con quello di Masha. Un evidente caso di colonialismo culturale che costringe milioni di curdi, espropriati del loro stesso nome, a portarne altri turchizzati (in Bakur), arabizzati o persianizzati (in Rojhilat).

Arrestata dalla polizia per un velo portato in maniera “scorretta”, o qualcosa del genere, mentre si trovava nell’auto del fratello da cui si era recata in visita, è morta all’ospedale di Kasra a Teheran, dove era giunta già in stato di morte cerebrale.

Mentre le autorità iraniane si giustificavano evocando improbabili “preesistenti problemi di salute” –  parlando prima di una presunta epilessia, poi di problemi cardiovascolari – dalle lastre e altri esami al cranio della giovane curda emergeva la conferma di quanto già si sospettava: Jina è morta a causa delle torture, delle percosse subite appena dopo l’arresto. In particolare quella che sembra una tomografia assiale computerizzata, ha evidenziato fratture ossee, un’emorragia e un edema cerebrale.
Una fonte ospedaliera ha parlato di “tessuto cerebrale schiacciato, danneggiato da numerosi colpi”. Inoltre i polmoni erano “pieni di sangue e non poteva più essere rianimata”. In alcune delle foto di lei sul letto dell’ospedale si vede chiaramente che le orecchie sanguinano, e ciò sarebbe un segno inequivocabile che il coma era la conseguenza di un trauma cranico.

Indignate manifestazioni di protesta si sono immediatamente svolte soprattutto nel Rojhilat dove scuole e negozi sono rimasti chiusi per lo sciopero generale.

Secondo il giornalista Ammar Goli (Erdelan) le forze di sicurezza del regime iraniano utilizzerebbero anche le ambulanze per reprimere i manifestanti, in violazione del diritto internazionale. Infatti «molte delle persone arrestate vengono portate nei centri di detenzione a bordo delle ambulanze in quanto le forze di sicurezza sanno che non verranno assalite dai manifestanti. E ovviamente molti manifestanti feriti si rifiutano di recarsi negli ospedali per paura di essere arrestati».

Dalla giornalista Behrouz Boochani un appello alla comunità internazionale per intendere la voce delle donne iraniane insorte contro la dittatura islamista: «Le donne dell’Iran sono fonte di ispirazione: stanno costruendo la Storia nelle strade ribellandosi alla dittatura. Non ignoratele; se siete femministe, siate la loro voce, amplificate il loro appello! Questa è una rivoluzione femminista storica».

 

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Sollevato il velo di Mahsa. La società iraniana sfida la “morale” repressiva https://ogzero.org/mahsa-amini-la-societa-iraniana-sfida-la-morale-repressiva/ Fri, 23 Sep 2022 23:57:45 +0000 https://ogzero.org/?p=8988 La sensibilità della vivace società iraniana è avvezza alla protesta di piazza senza paura della feroce repressione del sistema ispirato da una dottrina morale ormai scollata dal comune sentire. Abbiamo dato conto in altre occasioni al malcontento sfociato in rivolta: individualmente, quando donne ai semafori platealmente liberavano le chiome, sfidando le basi del paternalismo; oppure […]

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La sensibilità della vivace società iraniana è avvezza alla protesta di piazza senza paura della feroce repressione del sistema ispirato da una dottrina morale ormai scollata dal comune sentire. Abbiamo dato conto in altre occasioni al malcontento sfociato in rivolta: individualmente, quando donne ai semafori platealmente liberavano le chiome, sfidando le basi del paternalismo; oppure nei momenti in cui la siccità minava i precari equilibri della sopravvivenza nelle aree rurali; oppure quando l’autarchia imposta dalle sanzioni erodeva l’economia popolare. Questa volta però in piazza, in occasione della morte di Mahsa Amini, scendono uomini e donne per un’enormità intollerabile, che però mina le fondamenta del sistema… e questo sentire comune si va espandendo incontenibile in tutto il paese a difesa dei diritti delle donne. Dopo il rientro di Raisi dall’intervento all’Onu la repressione si è moltiplicata con il conteggio dei morti, ma sembra non riuscire ancora a soffocare le proteste che in una settimana sempre più hanno posto nel mirino i vertici di un sistema che si sta esprimendo con esagerati giri di vite conservatori che hanno esacerbato il rapporto con la società civile. E stavolta la rivolta è fuori controllo. Ne abbiamo parlato con Marina Forti – e potete trovare nel podcast inserito nel suo articolo la sua voce che approfondisce alcuni aspetti accennati nell’articolo, dove vengono illustrati tutti i singoli elementi che compongono questo snodo epocale – per collocare nella storia dell’Iran e nella comunità che attualmente abita il paese questa incontenibile indignazione che può fare paura al sistema che da 43 anni governa e impone la morale con una polizia anacronistica.
Si è poi aggiunto un nuovo contributo propostoci da Gianni Sartori sulle lotte che in questi giorni fanno scricchiolare il consenso degli ayatollah nelle strade iraniane.


La spontanea protesta contro morali anacronistiche

Una folla di giovani circonda un falò, in una piazza: gridano “azadi”, libertà. Una ragazza si avvicina volteggiando, si toglie dalla testa il foulard e lo agita prima di gettarlo tra le fiamme, poi si si riunisce alla folla danzando. Altre la seguono, altre sciarpe finiscono bruciate tra gli applausi. È una delle numerose scene di protesta venute dall’Iran negli ultimi giorni, catturate da miriadi di telefonini e circolate sui social media in tutto il mondo.

Sono proteste spontanee, proseguono da una settimana nonostante la repressione. E se è già avvenuto in anni recenti che proteste spontanee infiammino il paese, è la prima volta che questo avviene in nome della libertà delle donne.
Ad accendere le proteste infatti è la morte di una giovane donna, Mahsa Amini, 22 anni. Era stata fermata il 13 settembre a Tehran dalla “polizia morale”, quella incaricata di far rispettare le norme di abbigliamento islamico: a quanto pare portava pantaloni attillati e il foulard lasciava scoperti i capelli. Qualche ora dopo il fermo Mahsa era in coma; trasferita all’ospedale Kasra di Tehran, è morta il 16 settembre.

La sorte di questa giovane donna di Saqqez, nella provincia del Kurdistan iraniano, in visita a Tehran insieme al fratello, ha suscitato grande emozione: fin da quando è circolata la foto di lei incosciente sul lettino, con flebo e respiratore e segni di ematomi sul volto. Davanti all’ospedale si sono riunite molte persone in attesa di notizie, e l’annuncio della morte ha suscitato profonda indignazione. Al funerale, avvenuto il giorno dopo nella cittadina del Kurdistan dove vive la famiglia Amini, la tensione era palpabile; le foto circolate mostrano una famiglia distrutta dal dolore.

Le proteste sono cominciate all’indomani: le prime e più intense proprio in Kurdistan, poi a Tehran e altrove. Al 23 settembre c’era notizia di dimostrazioni in almeno 18 città, da Rasht sul mar Caspio a Isfahan e Shiraz; da Kermanshah a ovest a Mashhad a est, fino a Kerman nel sud.

Le sfide

Migliaia di brevi video caricati sui social media mostrano folle di donne e uomini, per lo più giovani ma non solo, che esprimono grande rabbia. Molti video mostrano ragazze che bruciano il foulard; una si taglia pubblicamente i capelli in segno di lutto e protesta (a Kerman, 20 settembre). A Mashhad, sede di un famoso mausoleo shiita e luogo di pellegrinaggio, una ragazza senza foulard arringa la folla dal tetto di un’automobile: le nipoti della rivoluzione si rivoltano contro i nonni, commenta chi ha messo in rete il video.

 


A morte il dittatore

Le forze di sicurezza reagiscono. Altre immagini mostrano agenti in motocicletta che salgono sul marciapiede per intimidire i cittadini mentre un agente in borghese manganella alcune donne. La polizia che spara lacrimogeni contro i manifestanti in una nota piazza di Tehran. Agenti con manganelli che inseguono dimostranti; un agente circondato da giovani infuriati che lo gettano a terra e prendono a calci (a Rasht, 20 settembre). Si sentono ragazze urlare “vergogna, vergogna” agli agenti dei Basij (la milizia civile inquadrata nelle Guardie della Rivoluzione spesso usata per reprimere le proteste).

Manifestazioni particolarmente numerose sono avvenute nelle università di Tehran, sia nel campus centrale che al Politecnico. All’Università Azad è stato udito lo slogan “Uccideremo chi ha ucciso nostra sorella”. Anche negli atenei di altre città si segnalano proteste. Ovunque si sente gridare “la nostra pazienza è finita”, “libertà”, e spesso anche “a morte il dittatore”: lo slogan urlato a suo tempo contro lo shah Reza Pahlavi. A Tehran si sentiva “giustizia, libertà, hejjab facoltativo”, e “Mahsa è il nostro simbolo”.

La vicenda di Mahsa Amini: riformare la polizia morale?

La sorte di Mahsa Amini ha suscitato reazioni anche oltre le proteste di piazza. Il giorno del suo funerale, la foto della giovane sorridente e gli interrogativi sulla sua morte erano sulle prime pagine di numerosi quotidiani in Iran, di ispirazione riformista e non solo. Dure critiche alla “polizia morale” sono venute da esponenti riformisti e perfino vicine alla maggioranza conservatrice al governo. La morte di una donna in custodia di polizia non è giustificabile con nessun codice, e ha messo in imbarazzo il governo, a pochi giorni dall’intervento del presidente Ebrahim Raisì all’Assemblea generale dell’Onu.

Così il presidente Raisi in persona ha telefonato al signor Amini, per esprimere il suo cordoglio: «Come fosse mia figlia», gli ha detto, promettendo una indagine per chiarire fatti e responsabilità.

In effetti il ministero dell’interno ha ordinato un’inchiesta; così la magistratura e pure il Majles (il parlamento). Il capo della polizia morale, colonnello Mirzai, è stato sospeso in attesa di accertare i fatti, si leggeva il 19 settembre sul quotidiano “Hamshari (“Il cittadino”, di proprietà della municipalità di Tehran e considerato vicino a correnti riformiste). Perfino l’ayatollah Ali Khamenei, Leader supremo della Repubblica islamica, ha mandato un suo stretto collaboratore dalla famiglia Amini per esprimere “il suo grande dolore”: secondo l’agenzia stampa Tasnim (affiliata alle Guardie della Rivoluzione), l’inviato del leader ha detto che «tutte le istituzioni prenderanno misure per difendere i diritti che sono stati violati».

Per il momento però la polizia si attiene alla sua prima versione: Mahsa Amini avrebbe avuto un infarto mentre si trovava nella sala del commissariato, una morte dovuta a condizioni pregresse. Ha anche distribuito un video in cui si vede la ragazza che discute con una poliziotta, nella sala del commissariato, poi si accascia su sé stessa. Ma il video è chiaramente manipolato.

 

Sentito al telefono giovedì 22 settembre dalla Bbc, il signor Amini ha smentito che sua figlia avesse problemi di cuore. «Sono tutte bugie», ha detto, i referti medici sono pieni di menzogne, non ha potuto vedere il corpo della figlia né i filmati integrali di quelle ore; si è sentito rispondere che le body-cam degli agenti erano fuori uso perché scariche.

Le giovani donne fermate con Mahsa Amini – o Jina, il nome curdo noto agli amici – hanno raccontato invece che la giovane è stata colpita da violente manganellate nel cellulare che le trasferiva nello speciale commissariato dove alle donne fermate per “abbigliamento improprio” viene di solito impartita una lezione sulla moralità dei costumi islamici. Chi è passato attraverso quell’esperienza parla di umiliazioni verbali e spesso fisiche. Questa volta è andata molto peggio.

Prima di ripartire da New York, a margine del suo intervento ufficiale (in cui non ha fatto parola delle proteste in corso), il presidente iraniano Raisì ha tenuto una conferenza stampa per esprimere cordoglio e confermare di aver ordinato una indagine sulla morte della giovane Mahsa Amini.

Le promesse di indagini, le telefonate e le visite altolocate alla famiglia Amini non hanno certo calmato le proteste. Né hanno impedito che fossero represse con violenza.

Il bilancio è pesante. In diverse occasioni la polizia ha usato proiettili di metallo ad altezza d’uomo, secondo notizie raccolte da Amnesty International. Al 24 settembre la polizia ammette 35 morti ma circolano stime molto più alte, forse più di cinquanta, tra cui alcuni poliziotti. Dirigenti di polizia e magistrati ora parlano di “provocatori esterni”, nemici infiltrati. Martedì il capo della polizia del Kurdistan, brigadiere-generale Ali Azadi, ha attribuito la morte di tre dimostranti a imprecisati “gruppi ostili” perché, ha detto all’agenzia di stampa Tasnim, le armi usate non sono quelle di ordinanza delle forze di sicurezza. A Kermanshah, il procuratore capo ha dichiarato che due manifestanti morti il 21 settembre sono stati uccisi da “controrivoluzionari”.

Il governatore della provincia di Tehran, Mohsen Mansouri, ha detto che secondo notizie di intelligence, circa 1800 tra i dimostranti visti nella capitale «hanno preso parte a disordini in passato» e molti hanno «pesanti precedenti giudiziari». In un post su Twitter se la prende con l’attivo intervento di «servizi di intelligence e ambasciate stranieri».

Elementi ostili, infiltrati, facinorosi: ogni volta che l’Iran ha visto proteste di massa, la narrativa ufficiale ha additato “nemici esterni”. Al sesto giorno di proteste, i media ufficiali hanno cominciato a usare il termine “disordini”. Da mercoledì 21 settembre il servizio internet è soggetto a interruzioni; i social media sono stati bloccati “per motivi di sicurezza”. Da giovedì 22 è bloccato Instagram, ultimo social media ancora disponibile, e così anche WhatsApp. Nelle strade ormai si respira tensione: provocazioni da un lato, rabbia dall’altro.

Tutto questo sembra preludere a un intervento d’ordine più violento per mettere fine davvero alla protesta, ora che il presidente Raisi non è più sotto i riflettori a New York.

Mahsa Amini: una insofferenza collettiva

“La protesta avvolta nel velo di morte di Mahsa Amini”.

Restano però i veli bruciati nelle strade: come un gesto di insofferenza collettiva verso una delle prescrizioni simboliche fondamentali della Repubblica Islamica.

L’insofferenza in effetti è profonda. Nei cortei si vedevano giovani donne in chador e altre con i semplici soprabiti e foulard ormai più comuni, accomunate dalla protesta. Molti ormai in Iran considerano assurde e datate le prescrizioni sull’abbigliamento femminile, e ancor di più la “polizia morale”. Assurde le proibizioni sulla musica, sui colori, sui comportamenti personali. Solo pochi oltranzisti considerano normale che lo stato si permetta di dire alle famiglie come devono coprire le proprie figlie. Alcuni autorevoli ayatollah ripetono da tempo che l’obbligo del velo è insostenibile e datato.

Hassan Rohani, pragmatico e fautore di aperture politiche ma pur sempre un clerico ed esponente della nomenklatura rivoluzionaria, quando era presidente ironizzava sulla polizia morale che «vuole mandare tutti per forza in paradiso».

Il fatto è che l’abbigliamento femminile, come del resto ogni ambito della vita pubblica e della cultura, sono un terreno di battaglia politica in Iran. E l’avvento dell’ultraconservatore Raisi ha segnato un giro di vite. È stato il suo governo a proclamare il 12 luglio “giorno del hejjab e della castità”. Il presidente si è detto addolorato dalla morte di Mahsa Amini: ma è stato proprio lui a firmare, il 15 agosto, un decreto per ripristinare le corrette norme di abbigliamento islamico e prescrivere punizioni severe per chi viola il codice, sia in pubblico che online (è diventato comune mettere sui social media proprie foto a testa scoperta, video di persone che ballano, in aperta sfida alle prescrizioni ufficiali).

Sarà costretto a fare qualche marcia indietro? Ora diverse voci tornano a chiedere di abolire la cosiddetta “polizia morale”, che dipende dal ministero della “cultura e della guida islamica”, noto come Ershad.

Tanto che il ministro della cultura Mohammad Mehdi Esmaili, sulla difensiva, ha dichiarato che stava considerando di riformare la polizia morale già prima della morte di Amini: «Siamo consapevoli di molte critiche e problemi», ha detto.

Il vertice della repubblica islamica però dovrebbe ormai sapere che nella società iraniana la rabbia e la frustrazione sono profonde. Ed è già successo che proteste nate da un preciso episodio poi si allargano. L’Iran sta attraversando una crisi economica che ha impoverito anche le classi medie. Ogni rincaro dei generi alimentari o della benzina colpisce gli strati più modesti della società, e quindi il sistema di consenso che regge da quattro decenni le basi della Repubblica islamica. Soprattutto, i giovani iraniani non vedono un futuro. Si sentono soffocare. La rabbia è pronta a esplodere a ogni occasione. Non che sia una minaccia immediata, per il vertice politico: sono proteste spontanee, non ci sono forze organizzate che possano abbattere il sistema. Ma lo scollamento sociale cresce. Un sistema che tiene alla sua sopravvivenza dovrà tenerne conto.

 

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n. 19 – L’Afghanistan e i corridoi umanitari fantasma https://ogzero.org/corridoi-umanitari-dall-afghanistan-abbandono-e-false-promesse/ Sat, 28 May 2022 20:34:17 +0000 https://ogzero.org/?p=7731 Procede il lavoro accurato di Fabiana di ricostruzione dei “percorsi migranti” e delle loro cause in un’ottica giurisprudenziale, che evidenzia sempre più le contraddizioni razziste e colonialiste dell’Occidente persino in quell’ambito che dovrebbe distinguerlo dalla barbarie autocratica, dimostrando quanto tutto sia infingimento e gioco delle parti. Questa volta Fabiana si occupa dei corridoi umanitari per […]

L'articolo n. 19 – L’Afghanistan e i corridoi umanitari fantasma proviene da OGzero.

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Procede il lavoro accurato di Fabiana di ricostruzione dei “percorsi migranti” e delle loro cause in un’ottica giurisprudenziale, che evidenzia sempre più le contraddizioni razziste e colonialiste dell’Occidente persino in quell’ambito che dovrebbe distinguerlo dalla barbarie autocratica, dimostrando quanto tutto sia infingimento e gioco delle parti.

Questa volta Fabiana si occupa dei corridoi umanitari per gli afgani tanto sbandierati quando già in agosto ci occupavamo della terrificante situazione afgana poi scomparsa dai radar geopolitici e creatasi in seguito all’assurdo accordo tra Trump e i Talebani – messo in atto da Biden. Un abbandono repentino che ha causato le attuali condizioni in cui versano le persone rimaste intrappolate nel regime talebano, una responsabilità ormai sancita anche dall’ispettorato per l’Afghanistan istituito dal Congresso. Il capo del Sigar, Sopko ha scritto: «La limitazione dei raid aerei (contro le forze avversarie) dopo la firma dell’accordo Usa-Talebani, ha lasciato l’Andsf senza un vantaggio chiave. Molti afgani – ha aggiunto – pensavano che l’accordo Usa-Talebani fosse un atto di malafede e un segnale che gli Stati Uniti stavano consegnando l’Afghanistan al nemico e che si precipitavano a lasciare il paese».
Anche molti afgani hanno lasciato il paese o vorrebbero farlo, ma si trovano di fronte a un nuovo abbandono con false promesse di corridoi umanitari; Fabiana incrocia nuovamente il loro percorso, già altre volte descritto – per esempio sulla rotta balcanica o al confine bielorusso.


Quando nell’agosto del 2021 i talebani hanno preso possesso della città di Kabul, assicurandosi il controllo della totalità del territorio afghano, l’opinione pubblica internazionale e i governi dei paesi Nato – prima tra tutti l’amministrazione americana guidata da Joe Biden – sono rimasti attoniti dinanzi a una tale rapidità dell’ascesa al potere da parte del gruppo estremista islamico. A ciò è seguito oltretutto un improvviso cambiamento dello scenario politico, militare e sociale: l’esercito afgano è stato costretto ad arrendersi, si è resa necessaria l’evacuazione immediata – oltre che dei cittadini afghani – degli esponenti dei membri del precedente esecutivo guidato da Ashraf Ghani e dei cittadini stranieri presenti in Afghanistan a qualsiasi titolo in quel momento, mentre le forze internazionali militari – stanziate nel territorio da oltre venti anni – convergevano verso una repentina ritirata. Una disfatta totale per l’intero versante occidentale dell’emisfero che tuttavia non si è determinata certamente nell’arco di dieci giorni ma più precisamente nel corso di diciotto mesi, ossia dalla stipula del famigerato accordo di Doha – siglato nel febbraio del 2020 – che ha visto sedere al tavolo dei negoziati, accanto all’amministrazione Trump, i “rappresentanti diplomatici” dei talebani, primo tra tutti Abdul Ghani Baradar che Islamabad per anni si è rifiutata di consegnare agli Stati Uniti.

Nel corso dei negoziati gli Stati Uniti – accecati dalla volontà di riconquistare consensi da parte dell’opinione pubblica interna americana e di occuparsi principalmente di limitare l’espansionismo di Cina e Russia – si sono accontentati di vaghe promesse da parte talebana, acconsentendo anche alla liberazione di molti prigionieri appartenenti al gruppo. Inoltre, accanto a una rinnovata veste diplomatica del movimento dei taliban (c.d. corrente degli studenti pashtun) al tavolo internazionale, si è affiancata – nei mesi immediatamente precedenti la proclamazione del nuovo Emirato islamico – da parte del gruppo estremista un’opera di persuasione e di captazione dei consensi di alcuni dei più rilevanti esponenti delle comunità locali afgane – situate soprattutto nel Nord e nell’Ovest del paese – di alcuni miliziani, nonché di dissidenti dell’esercito nazionale che ha accelerato la conquista del territorio. I paesi Nato che avevano seguito immediatamente gli Usa venti anni prima nella “guerra al terrorismo” – senza che per essa fosse stato previsto alcun exit plan – ad agosto del 2021 hanno scelto non solo dunque di chinare il capo e concludere il proprio impegno militare, ma anche di voltare le spalle ai civili lì intrappolati e che a oggi – a parte un primo piano di evacuazione – sono stati lasciati completamente a loro stessi. C’è da dire che vista l’attuale regressione del paese in meno di un anno dal punto di vista del rispetto dei diritti fondamentali nei confronti della popolazione civile (oltre che da quello economico-finanziario) avvenuta con la proclamazione dell’Emirato islamico, facili appaiono le conclusioni in merito all’effettiva utilità del conflitto, considerate la totale incapacità della creazione, da parte delle forze occidentali, di un effettivo sistema di state building come risultato, il numero ingente dei costi che questo ha comportato, nonché il numero di vite perse. Pertanto l’effettiva accoglienza dei profughi afgani sarebbe oggi l’unico passo di civiltà che potrebbe consentire a tutti gli stati che hanno partecipato al conflitto di acquisire una qualche credibilità rispetto all’opinione pubblica di un popolo che già in passato ha mostrato sconcerto e rabbia a causa dell’abbandono da parte del mondo occidentalenello specifico da parte degli Stati Uniti che misero in atto dinamiche limitate alla sola militarizzazione e all’addestramento della popolazione civile e con la medesima preoccupazione di oggi ossia il contenimento della Russia – l’allora Unione Sovietica – alla quale ora però, come detto, si affianca nell’alveo dei timori egemonici statunitensi, la Cina.

Per quanto riguarda l’Italia l’idea dell’accoglienza immediata dei profughi afgani è stata prontamente sollevata dalle associazioni comprese quelle religiose del terzo settore e dalle organizzazioni internazionali con la richiesta dell’attivazione dei cosiddetti corridoi umanitari.

È un’espressione questa che nell’ultimo periodo con la “crisi afgana” si è quasi svuotata del suo significato: un classico di quando si ripete all’infinito lo stesso insieme di parole senza specificarne però il significato in concreto. I corridoi umanitari vengono infatti menzionati attraverso i consueti canali mediatici ogni qual volta si verificano flussi migratori rilevanti ma spesso senza che vengano approfonditi e analizzati gli aspetti strutturali di tale “rimedio” e senza chiedersi se questi possano costituire soluzioni effettivamente attuabili nel lungo periodo per affrontare in modo sistemico il “problema” della mobilità umana. Si cerca pertanto in questa sede di dare, preliminarmente all’analisi del fallimento del loro impiego rispetto ai profughi afgani almeno fino a oggi, alcune nozioni fondamentali dell’istituto in oggetto.

Va in primo luogo specificato che i corridoi umanitari non sono previsti da alcuna legge, né dal nostro ordinamento giuridico, né da quello dell’Unione europea, né tanto meno dall’insieme di norme che costituiscono il diritto internazionale.

I corridoi umanitari infatti altro non sono che progetti che consentono – mediante l’intervento delle associazioni del terzo settore e delle organizzazioni internazionalia determinate categorie di individui, in condizioni di vulnerabilità e presenti in paesi diversi da quello di origine, di giungere nel territorio dell’Unione – in questo caso l’Italia – attraverso vie legali e sicure come i voli di linea, evitando i cosiddetti “viaggi della morte” per poter poi presentare domanda di protezione internazionale. L’Italia ha fatto da apripista nella conduzione di tali iniziative mediante l’attività di impulso – iniziata nel 2015 – dalla Comunità di Sant’Egidio in collaborazione con la Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia e la Tavola Valdese.

Monaco di Baviera, 2015, rifugiati da Siria, Afghanistan e Balcani.

I primi profughi arrivati nel nostro paese attraverso tale prassi sono stati prevalentemente nuclei familiari di cittadini siriani provenienti dal Libano, nel 2016. Dal 2015 a oggi i progetti sono stati tuttavia rinnovati più volte e sono aumentate anche le associazioni e le organizzazioni che hanno aderito a tali iniziative come Caritas Italiana, e altre non aventi carattere ecumenico come l’Arci. Si è implementato altresì il novero dei paesi di transito che hanno consentito la partenza attraverso tali vie legali e sicure (Etiopia e Grecia – in particolare dall’isola di Lesbo – Giordania, Turchia, Kenya) per cui dal 2016 sono arrivati mediante i corridoi umanitari circa 3000 profughi. Anche se apparentemente questo può sembrare un numero esiguo – considerando i milioni di profughi attualmente presenti nel mondo che fuggono da conflitti armati o da situazioni di violenza generalizzata – se si considerano gli aspetti peculiari di tali progetti, il risultato è sicuramente rilevante e apprezzabile tanto da essere definiti dal parlamento europeo una “best practice” italiana da replicare in tutti gli altri paesi dell’Unione. Oltretutto il fatto che siano stati portati avanti dei progetti di tale tipo, in assenza di un impianto giuridico che li regolamenti, ha del sorprendente e lo ha ancor di più se si pensa che

non solo l’attività di impulso, ma anche la gestione di tutti i costi dei corridoi umanitari sono a carico esclusivamente delle associazioni proponenti e delle realtà ecumeniche senza che per lo stato italiano vi sia alcun costo diretto.

Tuttavia, se l’iniziativa e la gestione dei corridoi umanitari dipende da tali soggetti giuridici è pur vero che questi progetti per poter essere attuati necessitano dell’approvazione da parte del Ministero degli Esteri e degli Interni. Proprio però la concertazione in sede di attuazione con i due ministeri talvolta ha costituito un “intoppo” alla loro effettiva realizzazione, come nel caso dei corridoi umanitari – ancora mai partiti – a favore dei cittadini afgani in seguito alla proclamazione dell’Emirato islamico da parte dei talebani. Altro aspetto che occorre sottolineare è, come annunciato in precedenza, il fatto che tali corridoi siano attivabili soltanto per specifiche categorie di soggetti che fuggono da conflitti armati, da situazioni di violenza generalizzata o di violazione prolungata dei diritti umani e da persecuzioni, in comprovate condizioni di vulnerabilità per le quali si fa riferimento prevalentemente al Capo IV, art. 21 della Direttiva 2013/33/UE che individua tra i soggetti vulnerabili i minori stranieri – accompagnati o meno – i disabili, gli anziani, le donne in stato di gravidanza, le vittime di tratta, di stupri e torture e le persone affette da malattie o da gravi disturbi mentali.

Il meccanismo per l’attivazione dei corridoi umanitari si struttura in tale modo: chiese, associazioni, ong e organizzazioni internazionali, attraverso contatti diretti in loco – ossia nei paesi di transito in cui si trovano i profughi – predispongono liste dei potenziali beneficiari, trasmesse alle autorità consolari italiane dei paesi interessati per consentire i dovuti controlli da parte del Ministero degli Interni. Solo a questo punto i consolati dei paesi europei – come quello italiano – rilasciano visti con validità territoriale limitata a quegli stati membri dell’Unione nelle quali normalmente hanno sede le associazioni che hanno predisposto le liste.

Va infatti sottolineato che l’unico vero appiglio normativo ai quali i corridoi umanitari si ancorano è l’art. 25 al Capo IV del Codice comunitario dei visti (Regolamento CE N. 810/2009) che al punto 1 lett. a) prevede che uno stato membro possa eccezionalmente rilasciare un visto di ingresso a un cittadino di un paese terzo se lo ritiene necessario per motivi umanitari, di interesse nazionale o derivante da obblighi internazionali.

Occorre tuttavia rilevare che – nonostante la legittima applicabilità del riferimento normativo di cui sopra alla prassi dei corridoi umanitari – tutti i progetti attivati dal 2015 a oggi hanno visto l’ingresso dei profughi prevalentemente con visti per turismo! Una volta giunti in Italia i profughi vengono accolti nelle strutture dei soggetti promotori dei corridoi umanitari, prevalentemente secondo il modello dell’accoglienza diffusa e facilitano il processo di integrazione dei profughi nel territorio attraverso l’assistenza legale – per la presentazione delle domande di protezione internazionale – l’apprendimento della lingua italiana e la scolarizzazione per i minorenni. È il caso a questo punto di specificare la differenza tra corridoi umanitari e reinsediamenti – i cosiddetti resettlementmenzionati spesso dai media e più volte citati negli articoli riguardanti le attuali rotte migratorie – in particolare rispetto alla rotta del Mediterraneo centrale – con riferimento a quelli attuati in Niger, con il supporto dell’Unhcr. I due istituti spesso infatti vengono confusi tra loro – nonostante abbiano aspetti differenti – a ragione del carattere di emergenzialità che contraddistingue entrambi, motivo per cui non possono rappresentare strumenti idonei per affrontare la questione migratoria in modo strutturato.

I resettlement consistono in programmi che prevedono il trasferimento di individui fuggiti dal proprio paese d’origine – già riconosciuti rifugiati dall’Unhcr – per i quali nel paese di primo arrivo non vi è possibilità di integrazione e la protezione accordata loro potrebbe essere a rischio (per esempio perché il paese di primo arrivo non ha ratificato la Convenzione di Ginevra del 1951).

Per tale ragione si chiede il reinsediamento del rifugiato in un paese terzo – chiaramente diverso da quello di primo arrivo – nel quale al rifugiato potrà invece essere assicurata una protezione effettiva e permanente. Va precisato che i programmi di reinsediamento – per i quali gli afgani sono ai primi posti tra i soggetti potenzialmente beneficiari – hanno come presupposto fondamentale la volontà del paese terzo – nel quale i rifugiati si dovranno stabilire definitivamente – di aderire al trasferimento dei medesimi nel proprio territorio e di “selezionarli” basandosi o sui dossier dell’Unhcr, o su un’intervista individuale o ancora su entrambi i metodi, al momento l’opzione maggiormente impiegata.

In questa analisi – mediante la quale comunque si coglie l’occasione per ribadire una sentita preoccupazione per i cittadini e le cittadine afgane rimasti intrappolati in Afghanistan e per quanti sono tutt’ora bloccati e respinti lungo la rotta balcanica – già prima dell’agosto del 2021 – occorre soffermarsi sulle ragioni del fallimento dell’impiego dei corridoi umanitari rispetto ai profughi afgani bloccati al momento in Iran e in Pakistan ancora in attesa che vengano attivati i progetti.

Già, perché dopo ripetuti appelli al Ministero degli Esteri da parte delle organizzazioni della società civile, prima fra tutte Asgi, il 4 novembre del 2021 Sant’Egidio, Arci, Caritas Italiana, Fcei, Oim e Unhcr hanno firmato un protocollo di intesa con il Ministero degli Interni e degli Esteri per l’attivazione di corridoi umanitari destinati a 1200 beneficiari afgani, ma a oggi questo non è stato ancora attuato nonostante le associazioni proponenti continuino a ribadire di essere pronte per l’accoglienza e disposte a pagare ogni costo del progetto, compresi quelli aggiuntivi legati ai voli di linea richiesti dai due ministeri nell’addendum al protocollo.

Ciò che a ogni modo risulta ancora più assurdo è la ragione per la quale, a detta dei ministeri, il protocollo non sarebbe partito: ossia la mancanza nei due consolati italiani – rispettivamente in Iran e in Pakistan – della macchinetta rodata per le impronte digitali che serve al ministero degli Interni per fare i controlli sull’identità dei profughi per ragioni di sicurezza.

Tuttavia, la maggior parte dei profughi inseriti nelle liste sono già dotati di passaporto internazionale che dovrebbe essere sufficiente alla loro identificazione in quanto viene rilasciato mediante rilevazione dei dati biometrici. Non solo, le associazioni di cui sopra si sono proposte di acquistare loro stesse le macchinette per le impronte nonostante ciascuna abbia un costo di circa 10.000 euro. Si rifletta quanto sia paradossale che degli individui rischino la propria vita per ragioni di questa natura: buona parte dei profughi in attesa dei visti per fare ingresso in Italia infatti hanno dei visti in scadenza o scaduti in Iran e in Pakistan – nell’attesa delle macchinette per le impronte. Al riguardo va sottolineato che nei suddetti paesi è previsto che se non si è regolari sul territorio – come appunto nell’ipotesi di visto scaduto – non si può beneficiare di un exit permit per recarsi in un altro stato, in questo caso l’Italia, e si deve disporre il rimpatrio immediato dei migranti nel paese d’origine, in questo caso l’Afghanistan!! E va precisato altresì che la questione produrrà dei danni gravi, se non verrà risolta rapidamente, in quanto in questi paesi il secondo rinnovo del visto non è garantito e dopo il terzo non si ha la possibilità di concederne un altro quindi il rimpatrio nel paese d’origine è quasi automatico. Sempre con specifico riferimento ai corridoi umanitari per i cittadini afgani, è opportuno inoltre fare riferimento alla pronuncia del Tribunale di Roma intervenuta il 21 dicembre del 2021 nei confronti di due giornalisti afgani che fuggiti dal paese in mano ai talebani hanno presentato ricorso d’urgenza ex art. 700 del codice di procedura civile, reso necessario a causa della mancata risposta del ministero degli Esteri rispetto a una segnalazione a questo inviata, nella quale era stato evidenziato il pericolo al quale erano esposti i due giornalisti.

Il Tribunale di Roma si è pronunciato affermando che «nel caso di specie ricorrono condizioni idonee al rilascio del visto per motivi umanitari, specificando che se per l’autorità statale questo è una mera facoltà, per il giudice dei diritti fondamentali è un’attività doverosa poiché il nostro ordinamento attribuisce al giudice il compito di adottare i provvedimenti d’urgenza necessari».

Tuttavia, ciò non è stato sufficiente per il ministero degli Esteri che ha presentato reclamo sostenendo che i due giornalisti debbano beneficiare dei corridoi umanitari e non della concessione di un visto ai sensi dell’art 25 del Codice comunitario dei visti: peccato che i corridoi umanitari – almeno in via di principio – si basino, come detto, proprio sull’art. 25!! La contestazione appare dunque evidentemente contraddittoria e pretestuosa.

Mentre si perde tempo prezioso tra macchinette delle impronte e reclami in Tribunale, in Afghanistan la situazione è drammatica: metà della popolazione soffre a causa della siccità e i minori oltre a non avere più accesso all’istruzione – come d’altronde le donne, costrette definitivamente al burqa in pubblico – sono in gran parte in una condizione di malnutrizione mentre le sanzioni internazionali e il congelamento dei fondi della Banca Centrale peggiorano la situazione economica generale nella quale il prezzo dei beni essenziali è salito in maniera vertiginosa.

Prima di addentrarci quindi nel successivo articolo in merito alla vicenda dello scorso novembre riguardo al mancato accesso al diritto d’asilo per migliaia di profughi – tra cui gli stessi afgani – al confine polacco-bielorusso e delle modifiche apportate ad hoc nelle legislazioni nazionali in materia di immigrazione da parte di Polonia, Lituania e Lettonia – in contrasto con il diritto europeo e internazionale – è necessario trarre conclusioni importanti circa i rimedi emergenziali finora analizzati, ossia i corridoi umanitari.

Tuttavia, si segnalano caratteri di precarietà anche rispetto ai reinsediamenti, alle evacuazioni e da ultimo alla protezione temporanea, riconosciuta applicabile dal Consiglio europeo ai cittadini ucraini ma non a quelli afgani e che analizzeremo nell’articolo giuridico dedicato alla crisi migratoria Ucraina.

I corridoi umanitari infatti pur essendo un lodevole e importante rimedio per l’accesso in modo sicuro al territorio dell’Unione, in particolare a quello italiano – replicati con numeri inferiori da altri paesi europei come Germania e Francia – sono pur sempre uno strumento che non può fronteggiare, anche se implementato, la gestione dei flussi migratori che invece richiede decisioni politiche più coraggiose o più semplicemente che non siano volte a ostacolare l’applicazione del diritto europeo e internazionale vigente, come avvenuto negli ultimi anni con la proposta della Commissione del nuovo patto europeo sulla migrazione e l’asilo del settembre del 2020 e con quella di modifica del Codice Frontiere Schengen del dicembre del 2021.

I corridoi umanitari infatti hanno alcuni elementi di criticità che non permettono un pieno rispetto del diritto alla mobilità dei migranti.

In primo luogo, è molto forte il carattere discrezionale dell’istituto in quanto la lista dei migranti potenzialmente beneficiari dei corridoi viene predisposta sulla base di una scelta del tutto imponderabile delle associazioni promotrici; inoltre, poiché il procedimento non è disciplinato da alcuna disposizione di legge, non è totalmente trasparente in tutte le sue fasi per i migranti anche nell’ipotesi in cui venissero riconosciuti beneficiari del progetto; infine, nell’ipotesi di esclusione, non è previsto alcun tipo di rimedio giurisdizionale con il quale il migrante possa impugnare la decisione di esclusione dalla lista predisposta dalle associazioni. Anche se quindi l’impegno negli ultimi anni dell’associazionismo ecumenico e laico in ambito migratorio ha un’importanza straordinaria, esso non può sostituirsi alla politica che è e rimane l’unica vera responsabile sia a livello nazionale che internazionale, non solo per le prassi negative e le leggi poste in essere in spregio ai basilari diritti dei migranti, ma anche per quello che non ha avuto il coraggio di fare o di smettere di fare, come con gli accordi Italia-Libia che non sono stati fermati in cinque anni da nessun partito al governo in Italia. A questo punto quindi finché la politica agirà o non agirà in questo modo è doveroso, non solo per rispetto dei cittadini afgani ma per tutti gli individui che fuggono da conflitti, come quello in Yemen o in Corno d’Africa, che la società civile continui a dare visibilità e a denunciare quello che da anni si vuole nascondere inutilmente.

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Appunti per una tragedia yemenita: i droni di Sana′a https://ogzero.org/appunti-per-una-tragedia-yemenita/ Thu, 10 Mar 2022 17:24:49 +0000 https://ogzero.org/?p=6643 Lo scacchiere internazionale vede molteplici guerre sanguinose in corso da anni fuori dall’Europa; lo Yemen viene usato come scenario dove affondano le dispute tribali storiche e locali, che risalgono al tempo in cui il territorio era suddiviso in entità statali del Nord e del Sud; rinfocolate da guerre per procura che contrappongono potenze locali, a […]

L'articolo Appunti per una tragedia yemenita: i droni di Sana′a proviene da OGzero.

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Lo scacchiere internazionale vede molteplici guerre sanguinose in corso da anni fuori dall’Europa; lo Yemen viene usato come scenario dove affondano le dispute tribali storiche e locali, che risalgono al tempo in cui il territorio era suddiviso in entità statali del Nord e del Sud; rinfocolate da guerre per procura che contrappongono potenze locali, a loro volta sostenute militarmente e propagandisticamente da potenze globali. Scatole cinesi belliche aperte in questo studio di Lorenzo Forlani che dischiude un percorso storico a dipanare il filo dei contrasti dal punto di vista del confronto armato e degli addentellati geopolitici insiti negli intrecci soffocati da un abbraccio mortale di quei riferimenti culturali in contrasto per ragioni storiche e costretti a convivere nelle pieghe di dissidi tribali documentati nella parallela analisi di Carlotta Caldonazzo, che non rinuncia a collocarli nello schema geopolitico dell’area compresa tra lo Stretto di Hormuz e Bab el-Mandeb.

Fu la mattina seguente, a venti chilometri da Taïz, nella dolcezza di una luce che il verde dei campi e dei boschetti privava della sua crudezza, in un palazzo che sembrava uscito da una miniatura persiana, che la mia ricerca delle fonti dell’Islam finì negli occhi di un bambino…
Il guardiano del luogo, un bin Maaruf, proveniente dalla regione più selvaggia dell’antico Hedjaz, ha dei lineamenti affilati e canini la cui espressione astuta è, mi dicono, comune a tutti gli uomini della sua tribù, che fu per molto tempo la più odiata in Arabia. Disprezza qualcuno per generazioni e hai buone possibilità di renderlo spregevole, fino al giorno in cui, con le armi in mano, riacquisterà la sua dignità…

Roman Gary, Les Trésors de la mer Rouge, Gallimard, 1971

 

Il Castello di Taïz com'era (e com'è)

Il Castello di Taïz com’era (e com’è)

fin qui il sommario di OGzero…
La penna ora passa a Lorenzo Forlani


Nuovi scenari scaturiscono dai droni houthi

La crisi umanitaria in Yemen, generata da un grave conflitto militare che non accenna a estinguersi, viene raccontata a fasi e intensità alterne dai media internazionali. Letto unicamente attraverso il prisma della rivalità regionale tra Arabia saudita e Iran, ciò che accade nel paese raccontato da Pasolini tende a guadagnare i titoli delle prime pagine quando i suoi spillover – cioè gli “sconfinamenti” di un conflitto in un contesto diverso da quello in cui ha luogo – sono particolarmente visibili, cioè quando coinvolgono paesi più presenti nel (selettivo) immaginario collettivo occidentale.

È successo alla fine del mese di gennaio, quando i ribelli yemeniti di Ansarullah – anche conosciuti come Houthi – nel giro di due settimane hanno sferrato tre distinti attacchi con droni e missili balistici negli Emirati Arabi Uniti (uno dei quali durante la prima visita ufficiale negli Emirati del presidente israeliano Isaac Herzog) con l’obiettivo di colpire la base militare di Al Dhafra – che ospita truppe britanniche e americane –, un aeroporto e un deposito di carburante. Dopo aver intercettato i missili sui cieli di Abu Dhabi, le forze della coalizione filosaudita, di cui gli emiratini sono parte, hanno bombardato alcune aree sotto il controllo degli Houthi, tra cui la capitale Sana′a e la provincia di Saada, cioè l’area dove il movimento si è strutturato negli anni Novanta.

Attacco di uno stormo di droni Houthi sulla base di al-Dhafra

Lo “Yemen utile”, dimezzato e marginalizzato

Dal punto di vista formale, la situazione in Yemen appare quasi speculare a quella determinatasi in Siria: se nel paese levantino l’esercito di Bashar al Assad, coadiuvato da milizie regionali alleate e soprattutto dall’aviazione russa, dopo quasi dieci anni di conflitto ha ripreso il controllo della gran parte del territorio, e anzitutto di quella che gli osservatori definiscono “Siria utile” (cioè l’area del paese più densamente abitata, lungo la direttrice Damasco-Aleppo), in Yemen sono oggi i ribelli – quelli emersi nel tempo come i più organizzati, cioè gli Houthi – a controllare le regioni più abitate, nonché la capitale Sana′a.

 

La guerra in Yemen ha finora prodotto quasi mezzo milione di morti, dei quali il 70 per cento erano bambini. Secondo la Banca mondiale, su una popolazione iniziale di 30 milioni, oggi in Yemen sono non meno di 20 milioni le persone che hanno bisogno di assistenza umanitaria permanente, e almeno 14 milioni a soffrire la fame. Quattro milioni sono gli sfollati, e un bambino su due soffre di malnutrizione. Lo Yemen era già lo stato arabo più povero – il quartultimo per Indice di sviluppo umano, dopo Sudan, Mauritania e Gibuti – prima dell’inizio delle primavere arabe del 2011, e oggi sembra affogare nella più grave crisi umanitaria del pianeta, trovandosi ai margini della narrazione tanto quanto, geograficamente, si trova ai margini della regione.

Lo scenario precedente: le “primavere” del 2011

Come si è arrivati sin qui? Sette anni di feroce conflitto hanno forse contribuito a rendere sfocato il ricordo del 2011: anche a Sana′a, la capitale del paese, nel mese di gennaio esplodono proteste popolari estremamente partecipate, proprio nei giorni successivi alla “cacciata” di Ben Ali in Tunisia. Le proteste – che prendono di mira anzitutto il presidente Ali Abdullah Saleh – si espandono a macchia d’olio in brevissimo tempo, e in diverse aree si trasformano in piccole rivolte, represse duramente. Già ad aprile, un terzo dei diciotto governatorati dello Yemen sfuggono al controllo del governo.

 

Come in tutte le rivolte che aspirano a diventare rivoluzioni, partecipate in modo più o meno orizzontale dalla società civile, c’è sempre un gruppo più organizzato, più radicato, più predisposto a prevalere sugli altri nella conquista e nella successiva gestione del potere, nel sovvertimento delle istituzioni esistenti. Gli Houthi – perlopiù riconducibili al ramo zaydita dell’Islam sciita, cioè quello che prende il nome dal pronipote di Ali Ibn Abi Talib, figura fondante dello sciismo – iniziano a avanzare le loro rivendicazioni e la loro soggettività politica nella prima metà degli anni Novanta, insistendo sulla lotta alla corruzione sul piano interno e sull’ostilità verso gli Stati Uniti, avversando Israele come posizionamento geopolitico. Sin dal principio si oppongono al presidente dello Yemen, Ali Abdullah Saleh (al potere dal 1990), riconducendolo all’interno di una narrazione che lo descrive come vassallo dell’Arabia Saudita, e di riflesso degli Stati Uniti.

Appunti per una tragedia yemenita

Yemen in piazza.

Il punto di svolta, cioè il momento in cui l’opposizione degli Houthi si trasforma in sistematica insorgenza anche armata – a intensità diverse, nel corso del tempo – arriva nel 2004: dopo aver rigettato un mandato d’arresto, il leader del movimento sciita Hussein Badreddine al Houthi viene ucciso dall’esercito durante un’offensiva a Saada. Da quel momento, sarà il fratello Abdelmalik al Houthi a guidare il movimento, ed è proprio lui che nel febbraio 2011 dichiara il suo appoggio alle proteste antigovernative, invitando i suoi a parteciparvi, soprattutto nella “roccaforte” di Saada.

Intrecci settari: regionalismo imposto al radicamento territoriale

 

Non è quindi un caso che il primo dei sei governatorati a scivolare via dalla giurisdizione del governo yemenita sarà proprio quello di Saada, che a fine marzo viene dichiarato indipendente dagli stessi membri di Ansarullah. In questo periodo inizia anche una fase di polarizzazione settaria con altre formazioni antigovernative di orientamento sunnita come Al Islah (vaga espressione della Fratellanza musulmana), accusati dagli Houthi di avere legami con al-Qaeda, laddove invece gli Houthi, anche alla luce di una effettiva identità di posizionamenti internazionali, nonché della affiliazione religiosa, vengono sempre più ricondotti a movimento organico alle strategie internazionali dell’Iran, rivale regionale dell’Arabia saudita.

Un importante sviluppo si ha nel novembre 2011, quando gli Houthi, già detenendo il controllo di una porzione rilevante di territorio, rifiutano un piano mediato dai paesi del Consiglio di Cooperazione del Golfo, che intendeva dividere lo Yemen in sei regioni federali: secondo i ribelli zayditi, il piano non avrebbe cambiato nulla nella distribuzione del potere e nella governance, e anzi avrebbe rafforzato la netta divisione dello Yemen tra regioni ricche e povere. In più avrebbe frazionato aree già sotto il controllo degli Houthi, che in questo vedevano un tentativo di indebolirne la posizione negoziale. È la prima vera rottura di portata regionale, il momento in cui il piano inizia a inclinarsi verso una feroce guerra civile, alimentata anche da istanze esterne, figlie della proxy war tra Iran e Arabia Saudita.

Milizie. Coperture, forniture, alleanze

È in questo periodo che Ansarullah entra stabilmente in contatto con l’Iran e la sua orbita di milizie regionali, che forniscono addestratori e in seguito armi di vario genere. Dopo aver catturato Sana′a nel 2014, gli Houthi resistono ad alcune offensive saudite nella capitale e si scontrano a Est con formazioni qaediste sotto l’ombrello di Aqap (al Qaeda in the Arabic peninsula). L’offensiva saudita viene declinata soprattutto dal cielo: secondo lo Yemen Data Project, sono circa 25.000 i raid aerei sauditi dal 2015 a oggi, con i picchi più severi nel 2015, 2016 e 2020.

Appunti per una tragedia yemenita

Soldati emiratini rientrano dopo un anno di battaglie in Yemen.

D’altro canto dal 2016 gli Houthi smettono in qualche modo di essere solo una formazione dedita alla guerriglia interna – dal 2018 le battaglie più feroci sono quelle contro gli Amaliqah [i Giganti], un esercito di circa 20.000 uomini, sostenuto da Dubai – e portano a termine diversi attacchi oltre confine, prendendo di mira aeroporti, giacimenti petroliferi e di gas, sia in Arabia Saudita che negli Emirati arabi uniti. Lo fanno servendosi di armamenti via via più sofisticati – e sempre più diffusi in movimenti armati che non possono contare su una copertura aerea – come droni e missili a corto raggio. A partire dai dati del Center for Strategic and International studies, Riad avrebbe intercettato circa 4000 tra missili e droni provenienti dalle zone controllate dagli Houthi negli ultimi 5 anni.

Ed è interessante notare come Ansarullah sia entrato in possesso o abbia direttamente assemblato questo tipo di armamenti, se ancora lo scorso gennaio un report delle Nazioni Unite rilevava la violazione dell’embargo sulle armi, continuando «ad ottenere componenti fondamentali per i loro sistemi d’arma da società europee (soprattutto tedesche, i cui componenti arrivano a Sana′a dopo esser transitate per Atene e Teheran, N.d.R.) e asiatiche, utilizzando una complessa rete di intermediari per occultare la catena di custodia».

Droni in dotazione

In modo simile a quanto fatto da altre milizie sciite, più o meno organiche all’impalcatura di politica di sicurezza regionale dell’Iran, anche gli Houthi dal 2019 hanno persino presentato in via semiufficiale una piccola flotta di droni presumibilmente assemblati in Yemen: si tratta dei velivoli da ricognizione Hudhed 1, Raqib, Rased, Sammad 1 e di quelli da combattimento, Sammad 2, Sammad 3, Qasef 1 e Qasef 2k, questi ultimi praticamente identici ai droni Ababil di fabbricazione iraniana. Se fino al 2019 i droni utilizzati erano soprattutto quelli non armati, che però venivano fatti schiantare contro i radar dei sistemi di difesa della coalizione, da almeno due anni i droni utilizzati sono caricati con esplosivo e hanno un raggio più lungo. In sostanza: da qualche anno gli Houthi hanno accresciuto di molto le loro capacità militari, e questo costituisce uno dei motivi della loro resilienza a fronte della campagna di bombardamenti sauditi ed emiratini.

Qasef 2k, il drone in dotazione ai ribelli Houthi utilizzato per colpire obiettivi sauditi ed emiratini

Dopo sette anni dall’inizio dell’offensiva filosaudita, gli Houthi controllano ancora buona parte dell’area occidentale del paese, che a nord incontra un confine di 1300 km con l’Arabia saudita, mentre a ovest termina sulla costa di fronte allo stretto di Bab el Mandeb, una cruciale zona di transito commerciale. L’unica zona occidentale del paese non controllata dai ribelli di Ansarullah è il lembo di terra costiero a sud, dove sorge la città portuale di Aden, che dal 2019 è sotto il controllo del Southern Transitional Council a guida saudita-emiratina, cioè il governo temporaneo dello Yemen, alternativo a quello guidato dagli Houthi e riconosciuto dalla comunità internazionale.

La guerra finisce con lo Yemen

La guerra in Yemen racconta anzitutto di una incomunicabilità strategico-militare: da una parte una coalizione che, a fronte della quota più alta di import di armi in tutta la regione e di un dispiegamento di forze senza precedenti, non riesce a riportare sotto al proprio controllo gran parte di un paese considerato importante per la propria sicurezza regionale; dall’altra un movimento di resistenza yemenita, endogeno, ma la cui crescente integrazione con gli obiettivi regionali iraniani (a loro volta connessi alla propria idea di sicurezza regionale) ne ha aumentato l’isolamento sia interno – a causa di una gestione draconiana del potere e delle amministrazioni locali – che internazionale (il cui ultimo capitolo è l’inserimento nella lista delle organizzazioni terroristiche).

Il dramma dello Yemen sta soprattutto in questa incomunicabilità, in grado di protrarre un conflitto che non sembra poter avere vincitori, né soluzioni politiche che non passino da un accordo tra Iran e Arabia Saudita, a oggi molto lontano. Gli Houthi controllano una parte di paese sofferente e isolato, senza poter disporre dei suoi confini, e dovendo fare i conti con le campagne di bombardamenti che mirano ad annientarli: un movimento di guerriglia che sembra sempre più propenso a difendere le proprie posizioni e sempre meno destinato ad aver un ruolo politico concreto, in un eventuale futuro Yemen pacificato. I sauditi e gli emiratini, dal canto loro, accanto a una impossibilità di trovare una soluzione politica, mostrano alla regione una rischiosa inefficacia militare: non sufficiente a farli desistere, anzi in grado di suggerire pericolosamente che la guerra in Yemen possa finire soltanto quando sarà finito lo stesso Yemen.

 

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Che ci fa la Turchia in Ucraina? https://ogzero.org/che-ci-fa-la-turchia-in-ucraina/ Wed, 09 Feb 2022 17:16:54 +0000 https://ogzero.org/?p=6229 Il presidente della repubblica di Turchia, Recep Tayyip Erdoğan, ha incontrato il presidente dell’Ucraina, Volodymyr Zelensky, il 3 febbraio, ufficialmente con l’intento di svolgere il ruolo di mediatore nella crisi in corso tra Kiev, Mosca e Nato. L’apparente confusione frenetica dei movimenti strategici di ogni protagonista – le 5 ore di incontro tra Putin e […]

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Il presidente della repubblica di Turchia, Recep Tayyip Erdoğan, ha incontrato il presidente dell’Ucraina, Volodymyr Zelensky, il 3 febbraio, ufficialmente con l’intento di svolgere il ruolo di mediatore nella crisi in corso tra Kiev, Mosca e Nato.

L’apparente confusione frenetica dei movimenti strategici di ogni protagonista – le 5 ore di incontro tra Putin e Macron, il contemporaneo volo di Scholz da Biden; le agenzie e gli allarmi che fanno gioco alla pressione della Nato sui confini russi, che spingono Putin a partecipare alle cerimonie olimpiche di Xi Jinping; la Nato è la pietra dello scandalo, e un suo membro scandalosamente energivoro, che ormai da alcuni anni gioca da fuori, s’insinua in ogni conflitto per vendere i suoi micidiali ordigni senza pilota, o per appropriarsi di energia – di cui è ghiotto. La Turchia, in crisi economica e con inflazione a due cifre abbondanti, è protagonista a tutto campo e quindi anche nello scacchiere più esplorato dall’inizio del 2022 troviamo l’attivismo di Erdoğan e dei suoi droni. Perché? Murat Cinar s’ingegna a spiegarcelo e per farlo ha bisogno di mantenere l’aspetto economico scevro dalla fuffa di pseudolegami tra Ucraina e Turchia: crisi, bilancia commerciale, traffici di armi, droga e gas… la capacità di trasformare le crisi in opportunità.


Perché Ankara?

Il governo turco ha preso posizione schierandosi dalla parte di quello ucraino quasi sin dall’inizio del conflitto, 2004, soprattutto sostenendo i tentativi di autonomia della popolazione tatara che si trova in Crimea e dopo dieci anni di scontri è passata sotto il controllo di Mosca.

Ankara sostiene la tesi della sistematica discriminazione che la popolazione tatara subisce dagli abitanti russi presenti in zona. Ormai è risaputo come Ankara si propone come “portavoce del mondo musulmano” su molte piattaforme e in differenti zone. Anche se questo ruolo ha registrato svariati problemi di coerenza (e anche di opportunità politica che ha dettato le scelte in momenti diversi) in Egitto, Cina, Siria e Palestina. Considerando che la maggior parte dei tatari sono musulmani, le strategie di Ankara assumono una forma vicina al governo centrale ucraino e rientrano quasi automaticamente nell’ottica “antirussa”.

Non è solo una questione romantica

Ovviamente la posizione, a livello geopolitico, molto interessante dell’Ucraina ha fatto sì che questi due paesi condividessero una serie di punti in comune. Il processo per l’integrazione nell’Unione europea, l’Onu, l’Osce, la Blackseafor e l’Operazione Black Sea Harmony sono alcune realtà molto importanti in cui Kiev e Ankara si trovano alleate.

Senz’altro un’eventuale guerra tra Russia e Ucraina danneggerebbe fortemente la Turchia prima di tutto in termini economici poi a livello politico: il paese è soffocato da una profonda crisi economica in corso dal 2018 e il rapporto commerciale che ha costruito il governo centrale con Mosca in questi ultimi dieci anni è enorme. Come era stato comunicato nell’ultimo incontro pubblico del Consiglio di Lavoro Turchia-Russia, l’obiettivo è raggiungere per il 2022 la soglia dei 100 miliardi di dollari statunitensi come volume commerciale.

Dipendenze asimmetriche

Ankara dipende fortemente dalla Russia prima di tutto nel campo energetico ma anche in altri settori. All’inizio di questa crisi economica la svalutazione della Lira nel 2018 aveva colpito il prezzo della carta dei giornali perché la Turchia paga circa 53 milioni di dollari all’anno per acquistarla dalla Russia, questo volume costituisce circa il 65% del fabbisogno nazionale. Il discorso si espande senz’altro su altri campi come il turismo, il nucleare e le spese militari soprattutto tenendo in considerazione che Ankara in questi ultimi anni si è allontanato sempre di più, a livello politico e commerciale, dai suoi storici partner economici: Unione europea e Washington.

Questo rapporto commerciale in crescita vale anche per l’Ucraina. Secondo la Camera di Commercio di Istanbul (Ito) nel 2021 il volume commerciale superava i 7,4 miliardi di dollari Usa e nel 2022 l’obiettivo è raggiungere i 10. Solo nell’ultimo incontro avvenuto il 3 febbraio sono stati firmati ben 8 accordi commerciali tra Erdoğan e Zelensky. La collaborazione tra questi due paesi è in forte crescita anche nel campo militare.

Droni Bayraktar Siha turchi venduti all'Ukraina

Bayraktar SİHAs, che Ankara ha venduto all’Ucraina lo scorso anno, ha suscitato la reazione della Russia. Mosca aveva avvertito che questi UAV non dovrebbero essere usati contro i filorussi nell’Ucraina orientale.

Come ha specificato qualche giorno fa il primo ministro ucraino, Denys Šmihal’, tra i progetti c’è anche quello di costruire una fabbrica sul territorio ucraino per produrre i droni armati Made in Turkey. Quei famosi droni infami che in diverse parti del mondo stanno cambiando l’andamento dei conflitti armati. In particolare quelli che vende Ankara sono prodotti della famiglia Bayraktar, quella del genero di Erdoğan. Questi droni armati, i Bayraktar SİHA, che Kiev aveva già acquistato e usato contro i separatisti filorussi nell’Est, saranno utilizzati durante l’esercitazione militare del 10 febbraio.

Il tema dei droni è un tema molto caldo. Infatti nel mese di aprile del 2021, Mosca in un video in cui presentava il suo nuovo drone kamikaze simulava un attacco fatto contro un drone armato, prodotto dalla Turchia. Diverse volte i vertici del governo russo si sono espressi per comunicare la loro amarezza in merito alla vendita dei droni turchi a Kiev. La questione è diventata ultimamente molto interessante perché John Kirby, il portavoce del Ministero della Difesa nazionale statunitense, ha sostenuto, il 4 febbraio, durante l’ordinaria conferenza stampa, che Mosca si stava preparando per divulgare un finto video in cui avrebbe sostenuto che i droni turchi comandati da Kiev avrebbero colpito le postazioni russe così la Russia avrebbe legittimato un eventuale intervento militare in Ucraina. Un po’ come le foto taroccate che l’ex segretario di stato statunitense, Colin Powell, mostrò il 5 febbraio del 2003 dinanzi al Consiglio di sicurezza dell’Onu per legittimare l’invasione dell’Iraq da parte degli Usa.

Un conflitto, un problema e un guadagno per Ankara?

Ovviamente un’eventuale guerra in Ucraina metterebbe Ankara in una posizione molto difficile dato che in questi ultimi anni ha provato a fare tutto il possibile per curare rapporti sia con Kiev sia con Mosca. Per via della sua posizione all’interno della Nato, Ankara potrebbe trovarsi con la necessità di attuare un embargo commerciale nei confronti di Mosca e questo sarebbe il colpo di grazia per mandare in bancarotta l’economia turca e molto probabilmente confermerebbe la fine della carriera politica di Erdoğan che è già molto vicina al capolinea, visto il malessere collettivo e gli ultimi sondaggi elettorali (elezioni presidenziali si svolgeranno nel 2023).

In particolare questo scenario per la famiglia Erdoğan sarebbe una disgrazia poiché è fortemente coinvolta nel commercio di droga, lo spaccio di petrolio illegale e la forte corruzione.

L’incontro avvenuto tra Erdoğan e Zelensky è stato il decimo incontro sotto l’ombrello del Consiglio Strategico di Alto Livello. Si tratta di un incontro che era stato anticipato da numerosi inviti inoltrati dal presidente della repubblica di Turchia, rivolti a tutte le parti interessate da questa crisi. A prima vista sembra che Erdoğan abbia una forte intenzione di svolgere quel ruolo di “mediatore”. Tuttavia non va ignorata anche l’esistenza di quella posizione complicata e difficile in cui si trovano le relazioni internazionali di Ankara. Dunque oltre la crisi economica, che è un punto fondamentale da tenere in considerazione, molto probabilmente anche il gioco di “mantenere gli equilibri sensibili” è stato uno degli obiettivi perseguiti da Erdoğan.

Bombardamenti nella regione di Idlib.

Gli azzardi bellici nell’ultimo lustro

Infatti le scelte politiche, militari ed economiche che Ankara ha fatto in questi ultimi 5 anni, prima di tutto in Siria poi in Libia, sono state molto pericolose e fragili. Ankara, pur in conflitto politico ed economico con il regime di Assad, sostenuto da Mosca, è riuscita a ottenere l’autorizzazione da Putin di entrare sul territorio siriano almeno 5 volte con un gruppo di mercenari jihadisti. Una scelta e un’alleanza molto critiche che hanno causato addirittura la morte di 33 soldati turchi nel mese di febbraio del 2020 a causa di un bombardamento russo.

La presenza della Turchia anche in Libia è una scelta molto delicata dato che Ankara ufficialmente, economicamente, politicamente ma soprattutto militarmente ha sempre sostenuto il governo di Tripoli ossia al-Sarraj che è stato in guerra aperta con il generale Haftar sostenuto in tutti i modi da Mosca.

Oltre questo “equilibrio” molto delicato anche in Libia il ruolo dei droni turchi è stato determinante perché al-Sarraj potesse vincere il conflitto armato.

L’ultima mossa pragmatica e molto delicata di Ankara è stata quella di sostenere Baku nel conflitto armato tra Azerbaijan e Armenia. Un’altra guerra in cui, in teoria, Ankara e Mosca si sarebbero trovate in conflitto dato che Erevan riceveva il sostegno politico di Putin. Tuttavia anche in questo conflitto l’appoggio militare ed economico della Turchia è stato determinante, almeno a livello mediatico, e la guerra si è conclusa con una serie di “vittorie” per Baku. L’accordo per la “pace” è stato firmato a Mosca e in  seguito e per il futuro il territorio sarà controllato da Mosca collegando l’Azerbaijan tramite un corridoio con la Turchia.

Il ruolo assunto da Ankara non si è concluso ancora, il rischio per un conflitto armato che potrebbe coinvolgere altri attori anche al di fuori del territorio ucraino esiste tuttora. Ma per Ankara è assolutamente necessario che la situazione si calmi dato che ha bisogno sia di Kiev sia di Mosca per motivi politici, economici e militari. Inoltre Ankara resta ancora un membro importante della Nato e risulta un partner strategico per Washington.

Infatti il primo messaggio di congratulazioni è già arrivato da Jens Stoltenberg, il segretario generale della Nato: «Ho sentito il presidente Erdoğan e l’ho ringraziato per il suo personale e attivo sostegno volto a trovare una soluzione politica e per il suo sostegno pratico all’Ucraina».

Se non funziona?

Ovviamente gli scenari sono tanti ma se la mediazione di Ankara non funzionasse e la crisi diventasse più profonda senz’altro Mosca potrebbe decidere di usare la carta del “gas” contro l’Unione europea. Esattamente come ha fatto in tutti questi anni, Erdoğan, insieme al suo partito e ai suoi imprenditori, potrebbe decidere di attivare nuovi piani per trasformare la crisi in un’opportunità. Si è visto con che velocità, lo scorso autunno, sono stati ripristinati i rapporti politici, economici e militari con gli Emirati, quel paese ch’era stato accusato da Ankara di essere uno dei progettisti del fallito golpe del 2016.

Alternative

Infatti sono giorni che Ankara dedica spazio e tempo alla diplomazia per capire se il gas azero, qatariota o addirittura quello israeliano può essere portato in Turchia e rivenduto ai paesi europei. Nel mese di gennaio, Kadri Simson, Commissaria europea per l’Energia, aveva annunciato che la Commissione stava sondando anche Baku per valutare l’opzione del gas azero. Si tratta del famoso Corridoio meridionale del gas (conosciuto come Tap Tanap) che attraversa tutto il territorio della Turchia per concludere il suo flusso in Salento.

Il progetto del gasdotto Tap Tanap.

Una seconda opzione sarebbe il gas israeliano. Infatti nella sua visita in Albania il presidente della repubblica di Turchia aveva parlato di quest’opzione, rilasciando quest’affermazione apodittica: «Non si può portare il gas israeliano senza coinvolgere la Turchia». Lo stesso tema è stato riproposto dallo stesso presidente anche al rientro in Turchia dopo la visita in Ucraina:

«Nel mese di marzo il presidente israeliano Herzog sarà in Turchia, parleremo dell’idea di portare il gas israeliano in Turchia. Dopo averne usato per la nostra necessità nazionale siamo disposti a rivenderlo all’Europa».

Quindi anche in questo caso il disegno economico e politico che strozza la Turchia da più di 20 anni è un attore importante e potrebbe acquisire maggior ruolo soprattutto grazie a una cultura politica, economica e militare perversa e distruttiva che diventa sempre più dominante nel Medio Oriente e in Europa.

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L’assalto al carcere di Sina “forse” orchestrato da Ankara e Damasco https://ogzero.org/assalto-al-carcere-forse-orchestrato-da-ankara-e-damasco/ Thu, 03 Feb 2022 17:10:52 +0000 https://ogzero.org/?p=6122 Quattro giorni di ininterrotti scontri tra i combattenti dello Stato Islamico (Isis) e le forze curdo-siriane (Fds), che presidiavano il carcere assalito da miliziani ben equipaggiati. Il bilancio finale è stato di più di 330 morti, molti jihadisti fuggiti (un migliaio i catturati dalla pronta reazione curda); un preoccupante segnale di quanto la rete jihadista […]

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Quattro giorni di ininterrotti scontri tra i combattenti dello Stato Islamico (Isis) e le forze curdo-siriane (Fds), che presidiavano il carcere assalito da miliziani ben equipaggiati. Il bilancio finale è stato di più di 330 morti, molti jihadisti fuggiti (un migliaio i catturati dalla pronta reazione curda); un preoccupante segnale di quanto la rete jihadista si sia ricostruita, ancora più allarmante se si riconduce a una precisa orchestrazione occulta da cercare ad Ankara – e non solo – questo improvviso assalto dei tagliagole del Daesh al carcere curdo in cui erano reclusi i foreign fighters che gli occidentali non rivogliono indietro. Un ritorno dell’interesse occidentale per la questione dei jihadisti stranieri detenuti deve aver sollecitato il presidente turco a intervenire; e il risultato è stato l’annientamento di Abu Ibrahim al Hashimi Al Qurayshi, leader dell’Isis, dopo l’insuccesso del piano ordito dai satrapi turco-siriani.

A questo proposito abbiamo ricevuto alcune rilevanti osservazioni di Gianni Sartori, confermate dai bombardamenti avvenuti una settimana dopo per mano dell’aviazione di Erdoğan, come racconta l’articolo di Chiara Cruciati per “il manifesto” del 3 febbraio 2022, che proponiamo qui sotto. Riprendiamo dunque il pezzo di Sartori comparso sulla rivista “Etnie”, corredandolo tra le altre con un’immagine di Matthias Canapini, con il quale inauguriamo una collaborazione che immaginiamo proficua.


Lo davamo per scontato. Intravedere dietro l’attacco di Daesh al carcere di Sina (nel quartiere di Xiwêran/Gweiran della città di Hesîçe/Hassaké) la complicità di Ankara era tutto meno che un esercizio di fantasia. Ma a quanto sembra la manina inopportuna non era l’unica. In base ai primi accertamenti, le fonti curde hanno denunciato un ruolo, oltre che dell’intelligence turca, anche di quella siriana.

Bombardamenti turchi sui curdi siriani dopo l'assalto jihadista

3 febbraio 2022. Bombardamenti turchi sul Confederalismo democratico dei curdi siriani dopo l’assalto jihadista del 20 gennaio: evidente l’impronta di Ankara.

Premesse dell’assalto e mandanti

Iniziato il 20 gennaio, l’assalto operato dallo Stato islamico dell’Iraq e del Levante (Daesh) veniva se non stroncato sul nascere, perlomeno ridotto ai minimi termini. Purtroppo aveva avuto il tempo di provocare “danni collaterali” non irrilevanti. Sono almeno una cinquantina (ma il bilancio potrebbe accrescersi) i caduti tra membri di Fds, Asayish e civili curdi accorsi volontariamente per contrastare l’operazione jihadista. Dopo mesi di sostanziale menefreghismo per la sorte delle popolazioni (curde, ma non solo) del Nord e dell’Est della Siria sottoposte all’occupazione o comunque agli attacchi dell’esercito e dell’aviazione turca, l’Occidente è parso ridestarsi e prendere coscienza che la minaccia dell’Isis/Daesh non era stata definitivamente cancellata.
Per cui, non detto ma pensato, anche la presenza curda recuperava spessore e spazio sui media. Perlomeno come argine al fanatismo degli estremisti islamici.
Se pur lentamente, emergono le prime connessioni – interne ed estere – che hanno reso operativo il progetto per liberare i circa 5000 detenuti (membri o sostenitori di Daesh) rinchiusi a Sina. E tutte invariabilmente conducono ad Ankara o a Damasco. O magari a entrambe. Si tratta di elementi, indizi riguardanti le riunioni preliminari, le varie fasi di pianificazione, gli obiettivi individuati dalla banda degli assalitori. Non si sarebbe trattato quindi di un’azione pianificata esclusivamente dall’Isis, ma di una complessa operazione con il sostegno – come dire: bilaterale – proveniente dall’esterno del gruppo jihadista (per quanto questo sia presumibilmente infiltrato come un colabrodo da servizi vari).
A quanto sembra, condizionale sempre d’obbligo, l’operazione potrebbe essere stata decisa e pianificata in Turchia. I membri di Daesh catturati dalle Fds avrebbero confessato che era stata preceduta da una lunga preparazione (almeno 7-8 mesi) e che le riunioni di pianificazione si sarebbero tenute a Serêkaniyê (Ras al-Ain) ossia in un’area attualmente sotto occupazione turca. Vi avrebbero partecipato membri di varie “cellule dormienti” sia locali che provenienti dalla Turchia. E tutte indistintamente sarebbero state rifornite di adeguati armamenti.
Dato che tra i prigionieri si trovavano diversi esponenti di alto livello dell’organizzazione terrorista, è evidente che l’operazione rivestiva una certa importanza.
Per prima cosa, con qualche mese di anticipo, vari esponenti dell’organizzazione terrorista, sia individualmente che in piccoli gruppi, erano venuti ad abitare nel quartiere di Gweiran/Xiwêran, dove sorge la prigione (una ex scuola provvisoriamente adibita a carcere) e in quello di Heyî Zihur.
Nel comunicato delle Fds del 25 gennaio si legge che «almeno 200 esponenti dello stato islamico si erano installati a Serêkaniyê, Girê Spî e Ramadî, in particolare nel quartiere di Gweiran e nei dintorni del carcere».
Contemporaneamente anche i detenuti si organizzavano per la rivolta.
Va ribadito che in maggioranza si tratta di persone addestrate alla guerra e di origine straniera (muhajir ossia “migranti”, termine utilizzato per indicare i miliziani stranieri che combattono per Daesh). Persone che – in genere – i rispettivi paesi di provenienza si rifiutano di riportare in patria.

Dinamica dell’assalto e indizi sui mandanti

Orchestrazione Isis
Il primo veicolo imbottito di esplosivo era stato posto in prossimità dello svincolo di una condotta petrolifera (moltiplicando quindi la potenza dell’attentato) mentre venivano bloccate le strade d’accesso al carcere. Altri veicoli, ugualmente riempiti con materiale esplodente, colpivano la porta della prigione e l’edificio delle Forze di autodifesa (Erka Xweparastinê). Entravano allora in azione anche le “cellule dormienti” precedentemente installate nel quartiere. Catturando alcuni civili (da usare come ostaggi o scudi umani) e abbattendo un muro della prigione con una ruspa.
Assalto al carcere di Sina

Famiglia yazida a Dohuk (© Matthias Canapini)

Una volta entrati, distribuivano le armi ai detenuti islamisti e prendevano altri ostaggi tra il personale del carcere.

Risposta Fds

La priorità per le Fds e per le forze della sicurezza interna (Asayish) è stata quella di proteggere i civili. Nel contempo circondavano (bloccandone a loro volta le vie d’accesso) e mettevano in sicurezza (procedendo all’evacuazione degli abitanti) i quartieri di Gweiran e di Heyî Zihur. Al momento sarebbero circa 200 (per almeno tre quarti facenti parte delle “cellule dormienti” esterne al carcere) gli esponenti di Daesh uccisi in cinque giorni di combattimenti. Alcune centinaia degli evasi poi sono già stati ripresi.

Quello che sta emergendo, sia dalle prove raccolte che dalle testimonianze e dagli interrogatori, è un probabile ruolo di Ankara e Damasco nell’orchestrare il grave episodio.
Equipaggiamento turco, attività siriana

Tra gli “indizi” (ma messi tutti in fila acquistano le sembianze di prove) a sostegno della tesi di un diretto coinvolgimento di Turchia e Siria: le armi – della Nato – con numeri di serie turchi trovate in mano ai terroristi dell’Isis; la registrazione di telefonate dei membri di Daesh in prigione con la Turchia; le confessioni di quelli catturati mentre cercavano di rientrare a Serêkaniyê (sotto l’ombrello turco); le carte d’identità siriane di recente emissione in mano ai miliziani jihadisti; l’incremento di attività del regime siriano nella regione…

Assalto al carcere di Sina

Jihadisti evasi dalla prigione secondo l’agenzia russa “Sputnik”.

Altri elementi, altre prove, assicurano le Fds saranno presto messi a disposizione dell’opinione pubblica. Nel giro di qualche giorno.

Pianificazione a lunga scadenza:

contrattempi…
Stando ai piani preliminari, l’attacco avrebbe dovuto svolgersi ancora in ottobre o novembre, in coincidenza con un ennesimo attacco turco nel nord e nell’est della Siria e con il previsto rafforzamento dei suoi presidi e avamposti militari nelle zone già occupate. Proprio in ottobre Erdoğan si era consultato sia con Biden che con Putin ed è plausibile pensare che non ne abbia ottenuto il tacito assenso per l’ulteriore invasione.
Un contrattempo (per Ankara e Daesh beninteso) a cui se ne aggiunse presto un altro. Quando le Fds avevano individuato e arrestato alcune “cellule dormienti” a Hesekê e Raqqa ricevendo da uno dei caporioni arrestati la confessione che il loro obiettivo era il carcere di Hesekê. Un progetto quindi apparentemente disinnescato dall’operazione delle Fds, ma in realtà solo rinviato.
… e coincidenze d’intelligence
Altra coincidenza. Con un tempismo perfetto, al momento dell’attacco jihadista al carcere, l’esercito e l’aviazione turchi attaccavano simultaneamente Zirgan, Tel Tamer (da dove avrebbero potuto intervenire agevolmente in sostegno a Daesh) e Ain Issa causando vittime tra i civili.
Questo per quanto riguarda Ankara. E Damasco?
Rimane sempre a guardare mentre il territorio della Siria viene occupato da forze straniere? In realtà prima dell’attacco jihadista si era registrata un’intensa attività militare dell’esercito siriano proprio a Hesekê. Ma soprattutto era andata intensificandosi una violenta campagna diffamatoria nel confronti dell’amministrazione autonoma (Aanes) delle Fds sui media siriani filogovernativi. Inevitabile collegare tutto ciò ai recenti incontri tra il Mit (intelligence turca) e il Mukhabarat (intelligence siriana).
Un riavvicinamento tra i rispettivi servizi (ostili e su fronti opposti per molte questioni, ma sostanzialmente concordi nei confronti del “pericolo curdo”) che li aveva visti confrontarsi alla fine di dicembre (stando almeno a quanto riportava la stampa turca) in Giordania, ad Aqaba.
Sempre basandoci su quanto scrivevano i giornali turchi, nel corso della riunione si sarebbe discusso anche di «operazioni congiunte nel Nordest della Siria» e in particolare di «un’operazione militare turca per la profondità di 35 chilometri in revisione agli accordi di Adana; la sollevazione delle tribù (in chiave anticurda, ça va sans dire, come ci aggiornano regolarmente alcuni siti rosso-bruni italici N.d.A) a Deir ez-Zor, Hesekê  e Raqqa; la liberazione dei detenuti nelle prigioni e la ricostruzione di Aleppo».
Sempre sulla stampa turca – e quindi la cosa va presa con beneficio d’inventario – si suggeriva che Mosca e Damasco apparivano interessati, favorevolmente, alle richieste turche.

Un complotto annunciato contro l’amministrazione autonoma

Minacce velate

Qualche giorno prima, il 22 dicembre 2021, c’era stata la dichiarazione congiunta dell’ultima (per ora, siamo già alla diciassettesima) riunione di Astana tra Russia, Turchia e Iran, dove si stabiliva che le parti interessate erano concordi nell’«opporsi alle attività separatiste che minacciano la sicurezza nazionale dei paesi vicini all’est dell’Eufrate». Inoltre venivano definite “illegali” (anzi, un vero e proprio “sequestro”) i redditi provenienti dal petrolio siriano. Con un evidente riferimento al fatto che i curdi, dovendo comunque sopravvivere e tenere in piedi l’amministrazione autonoma, le milizie di autodifesa e soprattutto garantire prezzi calmierati (sia del pane che del combustibile) alla popolazione, si rivendono il petrolio. Del resto perché non dovrebbero farne uso visto che sgorga su quei territori dove convivono con arabi, turcomanni, armeni e altre popolazioni? Territori, ricordo, liberati dalla presenza di Daesh soprattutto grazie al sacrificio di migliaia di curdi delle Ypg.
Per chi vuole intendere, se pur dietro un linguaggio formalmente corretto, il messaggio era chiaro.

Il complotto dei Servizi

Ora, secondo i curdi, in questa dichiarazione si intravedono i presupposti per un autentico complotto contro l’amministrazione autonoma (Aanes) e il Rojava. In caso di vittoria dell’operazione al carcere di Hesekê è probabile che la Turchia sarebbe intervenuta da Tell Tamer (da nord) mentre Damasco avrebbe attaccato da Tabqa, Raqqa e Deir ez- Zor (da sud). Così come si era probabilmente stabilito nell’incontro tra il Mit e il Mukhabarat.
Magari con la scusa di porre fine al massacro (facilmente prevedibile se Daesh non fosse stata fermata in tempo) da loro stessi promosso, previsto e forse pianificato.
Se la pronta, coraggiosa risposta delle Fds ha impedito comunque un disastro ben peggiore, rimane il dubbio che a conti fatti quanto è accaduto possa ugualmente portare acqua al mulino dei due regimi. Potrebbe infatti fornire il pretesto (non solo a Damasco e Ankara, ma anche a Mosca e Teheran) per accusare l’amministrazione autonoma di incapacità e inadeguatezza. Di essere esposta ai rigurgiti di Daesh. Prima alimentati e innescati, poi strumentalizzati come alibi per “riportare l’ordine” in Rojava.
A consolazione, va ricordato che i curdi hanno dimostrato ancora una volta di essere un osso duro. Oltre che per i cani rabbiosi di Daesh, anche per i mastini di Ankara e Damasco.
Assalto al carcere di Sina

A completamento della ingarbugliata serie di eventi intrecciati nella zona denominata Mena giunge notizia (la riporta “Mediapart”) dell’eliminazione del capo dello Stato Islamico in seguito a un raid dell’esercito americano: un’esplosione ha raso al suolo la casa di tre piani che ospitava il turkmeno Abu Ibrahim al-Hashimi al-Qurayshi (alias Abdullah Kardaş, ufficiale di Saddam Hussein, ovvero Amir Mohammed Abdul Rahman al Mawli al Salbi) e parte della sua famiglia che si è fatto saltare in aria al momento dell’attacco ordinato da Biden. Abitava ad Atamah, un villaggio nei pressi di un campo profughi al confine tra Siria e Turchia, in quella provincia di Idlib, che fa da zona cuscinetto pretesa da Erdoğan al momento della sconfitta dell’Isis di al-Baghdadi e da lui controllata… un’altra coincidenza?

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Geova: repressione organizzata, discriminazione e pugno di ferro https://ogzero.org/la-situazione-contraddittoria-dei-testimoni-di-geova/ Fri, 19 Nov 2021 10:56:47 +0000 https://ogzero.org/?p=5380 La situazione contraddittoria dei Testimoni di Geova tra persecuzioni, assurde accuse, repressione e resistenza nel mondo, in particolare nell’ex Urss, nella Federazione russa, in Bielorussia e nelle repubbliche separatiste, raccontata da Yurii Colombo qui e in un ampio capitolo del suo nuovo libro pubblicato da OGzero, La spada e lo scudo.  I Testimoni di Geova […]

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La situazione contraddittoria dei Testimoni di Geova tra persecuzioni, assurde accuse, repressione e resistenza nel mondo, in particolare nell’ex Urss, nella Federazione russa, in Bielorussia e nelle repubbliche separatiste, raccontata da Yurii Colombo qui e in un ampio capitolo del suo nuovo libro pubblicato da OGzero, La spada e lo scudo


I Testimoni di Geova sono  stati spesso al centro delle polemiche in tutto mondo. I loro metodi di proselitismo, la forte coesione interna dei credenti, le prescrizioni e i divieti (come per esempio alla trasfusione), il loro rifiuto ostinato di esercitare il servizio militare hanno spinto talvolta alcuni paesi autoritari se non apertamente dittatoriali a reprimere i suoi aderenti. È abbastanza nota la vicenda della repressione dei Testimoni nella Germania nazista. Nell’ormai classico studio di Detlef Garbe del Between Resistance and Martyrdom: Jehovah’s Witnesses in the Third Reich è stato raccontato nel dettaglio come fu che a partire dal 1935 oltre 10.000 Testimoni di Geova, per la maggior parte di nazionalità tedesca, venissero imprigionati nei campi di concentramento hitleriani. Divennero riconoscibili nei lager tedeschi con l’infame segno sulle casacche di un triangolo viola. In seguito a partire dal 1939 una parte di loro furono deportati in altri paesi del Centro Europa e si stima che circa 5000 credenti perirono nelle prigioni e nei campi nazisti.

I Testimoni nel mondo

Durante il conflitto i Testimoni subirono persecuzioni anche negli Stati Uniti d’America. Successivamente vennero attaccati e subirono una significativa riduzione dei propri diritti in paesi autoritari come la Cina e Cuba (fuorilegge dal 1° luglio 1974 ma la misura è stata successivamente annullata), o come il Sud Africa; ma anche da paesi che si professano campioni della democrazia e dei diritti umani come la Francia. Oggi sono decine ancora i paesi del mondo che vietano il culto della religione avventista, mentre in molti altri la loro attività è appena tollerata.

Il caso più tragico resta quello dell’Eritrea. Qui tutti i cittadini tra i 18 e i 50 anni sono tenuti per legge a servire nell’esercito per 18 mesi. A causa del loro rifiuto di servire sulla base del loro credo religioso, i Testimoni di Geova sono stati privati nel paese africano della cittadinanza, è stato negato l’accesso alle opportunità di lavoro e ai benefici governativi, e sono stati arbitrariamente imprigionati in cattive condizioni.

A novembre 2020, c’erano in Eritrea 52 Testimoni di Geova imprigionati per aver partecipato a riunioni o cerimonie religiose, alla predicazione e all’obiezione di coscienza al servizio militare. Alcuni di questi Testimoni sono stati imprigionati per più di 20 anni. Secondo i rapporti forniti dalla congregazione, quattro Testimoni di Geova sono morti in prigione e tre anziani sono morti poco dopo il loro rilascio, a causa delle cattive condizioni di detenzione e dei maltrattamenti da parte delle autorità carcerarie.

 

In Russia la situazione è appena migliore

La tragica epopea sotto lo stalinismo dei credenti in Geova in Urss e la reiterazione di misure repressive nei loro confronti a partire dal 2017 anche nella Federazione russa è già stata descritta in un capitolo del mio libro La spada e lo scudo pubblicato da OGzero.

Negli ultimi mesi la situazione è restata comunque complessa: sono 73 i seguaci di Geova a oggi in prigione, 31 quelli agli arresti domiciliari mentre i casi penali che li riguardano sono oltre mille.

E a fronte della determinazione dei “fratelli” di proseguire le loro attività di culto, sono frequentissimi le perquisizioni in case private.

Come abbiamo già sottolineato il divieto della pratica e dell’attività di proselitismo della “Torre di Guardia” in Russia non può essere ricondotto alla posizione di fatto preferenziale data alla Chiesa ortodossa, visto che la sproporzione tra le due religioni in termini di influenza culturale e disponibilità economiche è abissale e il culto della religione musulmana in repubbliche autonome come il Tatarstan è ampiamente tutelato. Si tratta piuttosto della convergenza di almeno tre fattori e rimandi.

Il primo è il rifiuto dei Testimoni a prestare il servizio militare.

In un paese in cui con l’esplosione della Guerra Fredda 2.0 il confronto con l’Occidente è tornato a essere un elemento fondante della narrazione propagandistica e dove il complesso militar-industriale resta uno dei pilastri dell’economia, l’esistenza di un settore – seppur minuscolo – della popolazione che ostinatamente si dichiara contro qualsiasi collaborazione quando si tratta di imbracciare le armi rappresenta potenzialmente un pericolo per la coesione sociale. Tanto è vero che i credenti vengono perseguitati formalmente non per l’attività di proselitismo quanto per “estremismo”.

Questo aspetto si collega al secondo: il timore o la percezione degli organi dell’intelligence russa che la fede in Geova sia in realtà un cavallo di Troia del governo americano per fomentare dissidenza e opposizione in Russia.

Negli anni Cinquanta del XX secolo la denuncia dei Testimoni negli Stati Uniti delle persecuzioni subite in Urss qua e là assunse i toni – secondo alcuni studiosi – della propaganda anticomunista e anche oggi il governo americano ha fatto da megafono spesso alle denunce dei Testimoni, alimentando fobie e sospetti. I Testimoni però, da parte loro, hanno sempre negato qualsiasi legame con la Casa Bianca o la Cia: «Siamo apolitici e non interferiamo negli affari interni di qualsiasi paese in cui facciamo opera di proselitismo», sostengono i vertici dell’organizzazione religiosa.

Il terzo aspetto è la compattezza solidaristica interna dei nuclei del Testimoni, un elemento in controtendenza in una società russa sempre più atomizzata.

Tuttavia un piccolo  spiraglio ultimamente sembra essersi aperto.

Si apre uno spiraglio contraddittorio

Il 28 ottobre 2021, il plenum della Corte Suprema della Federazione russa ha stabilito che i servizi divini dei Testimoni di Geova, i loro rituali e cerimonie congiunti non costituiscono di per sé un crimine ai sensi dell’art. 282.2 del Codice penale della Federazione Russa, nonostante la liquidazione delle loro persone giuridiche. Durante la riunione della sessione plenaria, il giudice relatore Elena Peisikova ha osservato che erano emersi nuovi chiarimenti in esecuzione delle istruzioni del presidente della Russia (segnali di apertura erano venuti da Putin  già nel 2018). Inoltre, durante la riunione della Plenaria, è stato osservato che i nuovi chiarimenti sono stati ripetutamente discussi nelle riunioni del gruppo di lavoro allargato con la partecipazione dell’Fsb (i servizi segreti russi). «Sembra – ha concluso il giudice relatore – che tale spiegazione consentirà di unificare la prassi esistente di applicazione dell’articolo 282.2 del Codice penale ed evitare casi di irragionevole perseguimento delle persone unicamente in relazione alla manifestazione esterna del loro atteggiamento nei confronti della religione». Un’apertura che va in controtendenza con il rigetto delle domande dei condannati della revisione dei processi e nelle colonie penali. Ultimamente le sentenze di 11 credenti condannati sono già state esaminate nei tribunali di Cassazione, ma la legislazione russa si riserva il diritto di presentare un secondo ricorso per Cassazione – alla Corte suprema della Federazione russa. La settantenne Valentina Baranovskaya inoltre, che, nonostante un ictus subito durante le indagini, si trova in una colonia, sta preparando un ricorso per cassazione alla Corte Suprema della Federazione russa, per poter essere liberata per motivi umanitari.

Valentina Baranovskaya, la Testimone di Geova che si appella alla liberazione per motivi umanitari.

 

Dennis Christensen, cittadino danese e membro dei Testimoni di Geova, colpevole di “organizzare l’attività di un’organizzazione estremista” in Russia che è stato condannato a sei anni di carcere. Christensen, pur detenendo il passaporto danese, risiede in Russia dal 1999. È stato arrestato a Oryol nel maggio 2017, un mese dopo che il gruppo religioso era stato bandito.

Fuorilegge nell’ex Urss…

Contraddittoria appare complessivamente la situazione dei Testimoni in tutta l’ex Urss. Se in Turkmenistan e Tagikistan i seguaci di Geova sono fuorilegge e rischiano sanzioni penali e amministrative, anche in Georgia la situazione resta delicata dopo che la Corte europea dei Diritti dell’Uomo aveva denunciato una decina di anni fa una strisciante discriminazione nei confronti dei Testimoni. Non appare brillante il quadro neppure in Ucraina malgrado questo paese abbia chiesto di entrare nell’Unione Europea e di voler rispettare i diritti umani. A Kryvyj Rih, nell’Ucraina orientale, dopo che le autorità avevano rifiutato di assegnare alla chiesa un terreno per costruire un tempio la Corte europea dei Diritti dell’Uomo ha ordinato a Kiev, nel  2019, di pagare un risarcimento alla chiesa dei Testimoni di Geova.

… e accusati di essere nazisti…

Di totale chiusura verso i Testimoni è invece l’atteggiamento dei separatisti delle Repubbliche popolari di Lugansk e di Donetsk accusata di «fornire assistenza all’Sbu (i servizi segreti ucraini N.d.R.) e ai gruppi neonazisti», come ha affermato Aleksandr Basov, uno dei responsabili della sicurezza di Lugansk. «Durante l’ispezione dei locali appartenenti all’organizzazione religiosa dei Testimoni di Geova nella città di Lugansk e nella città di Alchevsk, sono stati trovati e sequestrati materiali di propaganda contenenti simboli e attributi nazisti, così come volantini che invitano alla cooperazione con i servizi speciali ucraini», ha sottolineato Basov.

… ma liberi a Minsk

Di tutt’altro segno invece, paradossalmente, la situazione in Bielorussia. Malgrado il governo di Alexander Lukashenko resti sotto la lente d’ingrandimento delle istituzioni internazionali e dei diritti dell’uomo dopo la violenta repressione delle manifestazioni antiregime dell’estate del 2020, a Minsk e nelle altre città del piccolo paese slavo i cristiani avventisti svolgono le loro attività regolarmente, compresi i battesimi di massa negli stadi. Anzi, molti Testimoni russi, sono emigrati proprio in Bielorussia e godono della protezione del governo. Nell’aprile del 2020 il tribunale bielorusso ha rifiutato l’estradizione di un Testimone richiesta dalla polizia di San Pietroburgo che lo ricercava da tempo. E non si tratta di un’eccezione. A Brest e in altre città della Bielorussia molti russi credenti in Geova sono stati rilasciati dalla polizia dopo normali controlli e continuano la loro vita di ospiti-esuli del paese senza problemi particolari. Non si può prevedere quale sarà l’atteggiamento di Minsk nei confronti della piccola organizzazione religiosa nel futuro visti i legami politici oltre che economici sempre più stretti tra la Russia e la Bielorussia, ma a oggi l’atteggiamento delle autorità bielorusse resta quello della prudente apertura.

Pavel Yadlovsky, il presidente dell’organizzazione bielorussa dei Testimoni di Geova, attribuisce il rifiuto dell’estradizione al fatto che i Testimoni di Geova operano legalmente in Bielorussia. Sono registrati come un’organizzazione nazionale autogestita con 27 gruppi a livello di comunità in varie città. «È difficile dire [perché le richieste di estradizione sono state negate]. Forse ci sono differenze nella formulazione degli articoli sull’estremismo nella legislazione russa e bielorussa che hanno permesso all’ufficio del procuratore di prendere una tale decisione», suggerisce Yadlovsky.

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Il Pakistan, l’Occidente e la “patata bollente” afgana https://ogzero.org/l-occidente-affida-al-pakistan-le-vicende-afgane/ Sun, 05 Sep 2021 17:09:51 +0000 https://ogzero.org/?p=4829 Il 4 settembre le agenzie battono la notizia dell’arrivo a Kabul di Faiz Hammed, il capo dei servizi di Islamabad, in veste di consulente dei Talebani per stroncare la resistenza del Panjshir; questa apparizione in pieno giorno dovrebbe aver chiarito definitivamente l’apporto pakistano alle vicende afgane: l’Occidente affida al Pakistan il passaggio di consegne nel […]

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Il 4 settembre le agenzie battono la notizia dell’arrivo a Kabul di Faiz Hammed, il capo dei servizi di Islamabad, in veste di consulente dei Talebani per stroncare la resistenza del Panjshir; questa apparizione in pieno giorno dovrebbe aver chiarito definitivamente l’apporto pakistano alle vicende afgane: l’Occidente affida al Pakistan il passaggio di consegne nel controllo militare del paese. Si tratta di uno degli aspetti meno analizzati tra quelli che coinvolgono l’area a seguito del ribaltamento afgano, eppure è l’elemento più significativo e condizionante della vicenda, come si rileva dalla lettura di questo contributo scritto da Beniamino Natale, tra i più assidui frequentatori della storia e cultura pakistana. 


Commentando la disastrosa ritirata delle truppe americane dall’Afghanistan, il primo ministro pakistano Imran Khan non ha nascosto la sua gioia, affermando che «i Taliban hanno spezzato le catene della schiavitù». Gran parte del mondo politico e della popolazione del Pakistan sono d’accordo con lui. Nessuna voce si è fatta sentire per contraddire la “narrazione” che da alcuni decenni l’establishment pakistano diffonde sulla realtà del terrorismo islamico.

L’offensiva contro la stampa

Forse anche perché in Pakistan è in corso un’offensiva che non ha precedenti contro la stampa e più in generale contro le opinioni non ortodosse. Secondo l’organizzazione indipendente Reporters sans frontières, «i media pakistani, che hanno una tradizione di grande vivacità, sono diventati un bersaglio prioritario per il “deep state”, un eufemismo che indica i militari e la loro principale organizzazione segreta, l’Inter Service Intelligence o ISI, e il forte controllo che esercitano sull’esecutivo».

L'Occidente affida al Pakistan

RSF aggiunge che gli attacchi contro media e giornalisti indipendenti si sono intensificati da quando Imran Khan è diventato primo ministro. Un recente, grave caso, è quello del reporter Asad Ali Toor, aggredito e picchiato nella sua abitazione da uomini mascherati che – secondo la testimonianza dello stesso Toor – si sono dichiarati agenti dell’ISI. Un altro giornalista che è stato minacciato di essere sbattuto in carcere, il popolare conduttore televisivo Hamid Mir, ha affermato in un un’intervista alla BBC che Imran Khan – un ex campione di cricket passato alla politica – «non è un primo ministro molto potente, non è in grado di aiutarmi».

Asad Ali Toor e Hamid Mir

La presa dei militari sui governi pakistani non è una novità. L’ esercito ha governato il paese direttamente dal 1958 al 1971, dal 1977 al 1988 e dal 1999 al 2008. Per tutto il resto della sua vita indipendente – il Pakistan è nato nel 1947 dalla dissoluzione dell’Impero Britannico – i militari hanno esercitato un pesante controllo sui governi civili del paese.

Secondo la narrazione ufficiale il Pakistan stesso rappresenta l’islam “buono”, che comprende anche alcuni combattenti, mentre i “cattivi” terroristi sono sostenuti, se non addirittura “creati” dall’“Occidente”,

un termine che viene usato per indicare gli Usa e il loro alleati. I Taliban sono “buoni”: tutti i terroristi che combattono contro le forze di sicurezza indiane nel territorio conteso del Kashmir sono “buoni’. Osama bin Laden – lo “sceicco” saudita responsabile dei massacri dell’11 settembre 2001 negli Usa e di molti altri – potrebbe essere il miglior esempio di terrorista islamico “cattivo”. Però è stato trovato e ucciso dalle forze speciali americane in territorio pakistano, dove si trovava indisturbato probabilmente da anni. La leadership dei Taliban – quando ancora erano “cattivi” – ha sempre operato senza ostacoli dal territorio pakistano.

Una ambiguità ospitalità

Quello di bin Laden è forse l’ esempio più chiaro della profonda ambiguità con la quale il Pakistan gestisce da decenni gli estremisti musulmani, sia quelli nati nel paese che i loro “ospiti” provenienti da altri paesi. Vivono apertamente nel paese, gestiscono organizzazioni caritatevoli – valga per tutti l’esempio di Hafiz Saeed, leader sia della “caritatevole” Jamaat-ud-Dawa che del gruppo terrorista della Lashkar-e-Toiba – e portano avanti sostanzialmente indisturbati le loro attività terroristiche, principalmente contro l’India ma non solo.

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Ogni tanto uno di loro viene arrestato e in alcuni casi addirittura consegnato agli americani come nel caso di Khalid Sheik Mohammad, un associato di bin Laden che ha partecipato sia agli attentati dell’Undici Settembre che al rapimento e all’assassinio del giornalista americano Daniel Pearl. Intanto, gli altri continuano a fare il loro comodo.

La storia dei Taliban è una chiara dimostrazione di questa politica basata sulla doppiezza. Secondo uno dei loro mentori, il generale e per alcuni anni ministro della Difesa Nasirullah Babar, essi avrebbero «portato la pace dovunque sono andati».

Il termine taliban vuol dire “studenti” nella lingua pashto, diffusa nel Nordovest del Pakistan (il singolare è talib). Il movimento fu tenuto a battesimo dallo stesso Babar e dal leggendario capo dell’ISI durante il jihad contro gli invasori sovietici, Hamid Gul, nel 1994. Quelli che sarebbero diventati i Taliban erano in gran parte giovani profughi afgani che studiavano nelle madrasas, le scuole islamiche gestite in Pakistan da religiosi della scuola integralista di Deobandh (una località che oggi si trova in India). I giovani si unirono a un gruppo di afgani di etnia pashtun che stavano cercando di mettere fine all’anarchia che regnava in Afghanistan dal 1989. Quel gruppo era guidato da un ex mujaheddin, un combattente contro gli invasori sovietici, il mullah Mohammed Omar. Appoggiati e armati dall’esercito pakistano, i Taliban sbaragliarono le milizie dei signori della guerra che si battevano nel paese, assumendo il controllo di quasi tutto l’Afghanistan nel 1996.

Afghanistan pacificato: progetti visionari

Un Afghanistan pacificato, questa l’idea dei militari e dei politici pakistani, avrebbe reso possibili una serie di visionari ma poco realistici progetti di sviluppo, primo fra tutti quello della costruzione di una serie di oleodotti che avrebbero potuto portare gas e petrolio dalle repubbliche ex sovietiche ai porti sull’Oceano Indiano e da qui nel resto del mondo, evitando i passaggi obbligati dall’Iran o dalla Russia.

Quegli ambiziosi progetti non sono mai stati realizzati e, in vece loro, sono arrivati lo “sceicco” Osama, la “guerra all’America” e tutto quello che ne è seguito.

Il Pakistan, allora governato dal generale Perevz Musharraf, tollerò a malincuore che gli Usa usassero il suo territorio per attaccare gli studenti islamici.

Il Pakistan è nato come patria per i musulmani dell’Impero Britannico per volere dell’avvocato e politico Mohammad Ali Jinnah, il capo della Lega Musulmana, in contrasto con l’India secolare ma a maggioranza hindu del mahatma Gandhi e di Jawaharlal Nehru. A partire dalla prematura scomparsa di Jinnah, nel 1948, il Pakistan è stato dominato dai militari, tanto da far dire ad alcuni commentatori che si trattava non di un paese con un esercito ma di “un esercito con un paese”. Il principale obiettivo dei militari – e dei politici di tutti i partiti pakistani è da allora quello di “liberare”, cioè di conquistare, quella parte del territorio dell’ex regno del Kashmir rimasto sotto il controllo indiano.

La “profondità strategica”

Il secondo è quello di allargare il proprio territorio, un’istanza che nel “politichese” pakistano si chiama “raggiungimento della profondità strategica”. L’Afghanistan era un ovvio candidato per il conseguimento di quest’obiettivo e gli alleati “naturali” del Pakistan erano le pittoresche tribù di etnia pashtun che vivono tuttora a cavallo tra i due paesi dalle due parti della Durand Line. Questa “linea”, che è lunga 2670 chilometri e segna il confine provvisorio tra l’allora Impero Britannico e l’Afghanistan, fu creata nel 1893 con un trattato tra la Corona britannica e l’Emiro Abdur Rahman Khan, che allora governava il paese. Da parte britannica, l’accordo fu firmato dal generale Mortimer Durand.
I pashtun sono circa 25 milioni in Pakistan e circa 11 milioni in Afghanistan, dove sono la maggioranza della popolazione (in tutto 36-38 milioni di persone). Con il ritorno dei Taliban al potere a Kabul dopo il ritiro dell’“Occidente”, i militari pakistani sono più vicini che mai a raggiunge la “profondità strategica”. Però, attenzione: se è vero che i legami tra le tribù pashtun e l’establishment militare pakistano sono antichi e forti – lo stesso Nasirullah Babar era un pashtun, come molti altri ufficiali dell’esercito di Islamabad – è vero anche che esiste da sempre una tendenza analoga e inversa, cioè quella dei governi afghani a espandersi nel Nordovest del Pakistan inglobando le aree tribali abitate dai pashtun. Sempre viva tra le tribù della “frontiera di nordovest” è anche l’idea che punta alla creazione di un Pashtunistan indipendente.

L'Occidente affida al Pakistan

La linea non riconosciuta e le alleanze

Infatti la Durand Line non è mai stata riconosciuta come confine tra Afghanistan e Pakistan da nessun governo di Kabul, nemmeno da quello dei Taliban. Hamid Karzai – il primo presidente dell’Afghanistan dopo la sconfitta dei Taliban – ha affermato che il governo di Kabul «non riconoscerà mai» la Durand Line come confine tra i due paesi. Oggi Karzai è uno dei leader indipendenti candidati a entrare nel governo dei “nuovi” Taliban che si stanno insediando al potere.
Ha scritto il giornalista indiano Rahul Bedi: «Gli analisti della sicurezza anticipano una collaborazione tra i Taliban afghani – una volta che questi avranno preso il controllo completo del paese – e l’alleanza di 13 gruppi che comprende il Tehrik-e-Taliban (Ttp) che opera prevalentemente sulla frontiera tra Pakistan e Afghanistan, che lancerà la rivendicazione del Pashtunistan». Prosegue Bedi: «Essi [gli esperti, probabilmente esponenti dei servizi indiani], sostengono che gli attuali legami simbiotici, logistici e materiali tra l’ISI pakistano e i Taliban sono, nel migliore dei casi, dettati dalla reciproca convenienza; ma, se si considera la complessa storia della regione, fatta di inganni, tradimenti e compromessi è probabile che verranno superati dalle più vaste ambizioni del nazionalismo dell’etnia dei pashtun». O, almeno, questa è la direzione nella quale lavoreranno i servizi segreti indiani.

I Talebani, strumenti pakistani

I Taliban sono dunque considerati dai militari pakistani lo strumento per raggiungere l’agognata “profondità strategica”. Per il Pakistan, i milioni di profughi afghani che si riversarono sul suo territorio negli anni dell’invasione sovietica sono stati una manna: gli aiuti internazionali erano infatti consegnati a Islamabad. Ora sta giocando, con successo, la stessa carta. La cancelliera tedesca Angela Merkel, certamente la principale leader europea, ha sostenuto recentemente che bisogna aiutare economicamente il Pakistan in modo che si tenga in casa i profughi afghani, evitando che si riversino a migliaia in Europa.

L'Occidente affida al Pakistan

Tutto torna come “prima” dunque. Prima di Osama bin Laden e della “guerra al terrorismo”. La gestione della “patata bollente” afgana viene affidata dall’Occidente al Pakistan, nella speranza che non si ripetano i tragici sviluppi dell’inizio del secolo.

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Syngué sabour: appunti per un’Orestiade afgana https://ogzero.org/l-occidente-non-ha-mai-compreso-larea-centrasiatica/ Sat, 04 Sep 2021 13:40:21 +0000 https://ogzero.org/?p=4811 L’Occidente non ha mai compreso l’area centrasiatica, perché l’ha assimilata nell’immaginario alla propria mentalità e alla propria filosofia, senza sforzarsi di collocare i sistemi delle comunità nella loro tradizione di riferimento. A decolonizzazione avvenuta si può forse tentare di inquadrare alcuni aspetti per intessere poi una tragedia pasoliniana che possa raccontare il Great Game come […]

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L’Occidente non ha mai compreso l’area centrasiatica, perché l’ha assimilata nell’immaginario alla propria mentalità e alla propria filosofia, senza sforzarsi di collocare i sistemi delle comunità nella loro tradizione di riferimento. A decolonizzazione avvenuta si può forse tentare di inquadrare alcuni aspetti per intessere poi una tragedia pasoliniana che possa raccontare il Great Game come è avvenuto e perché si è arrivati a questo epilogo. E di lì imparare a trovare la corretta e rispettosa forma relazionale con il mondo compreso tra l’Hindu-Kush e il deserto iranico.

Syngué sabour: la pietra paziente, la pietra ascolta, finché non si frantuma.


La clanicità esibita dal processo di talebanizzazione

Rassicuranti non lo sono mai stati e le loro biffe senza sorriso non lo saranno mai. Ma ora sono cambiati: i Talebani hanno imparato soprattutto il modo di promuoversi sugli schermi occidentali e quanto sia importante la comunicazione in un mondo mediatico, dove persino l’impressione levantina dei capi e quella orrifica dei tagliagole, nei loro stracci e barboni vecchi di due millenni nell’iconografia stantia e un po’ razzista, diventano folklore; se fanno la parte a loro assegnata da Trump, risultando credibili a Doha, perché svolgono il ruolo di negoziatori (attribuitogli dal circo mediatico per assicurare il business degli accordi geopolitici), consentono al mondo di sfilare gli scarponi costosi dal terreno e consegnare al Pakistan, loro mentore, di controllare il territorio su mandato americano.

Un ruolo quello di negoziatori che la loro cultura riconosce ai capiclan maschi e che è quella ricercata dalla controparte fatta di maschi americani. Ciò che li ha accomunati è l’appartenenza al più vieto conservatorismo di entrambe le società.
Certo l’evoluzione degli squadristi diventa la requisizione delle auto degli anziani hazara nella provincia di Ghazni, come ci racconta un afgano delal diaspora di ciò che è avvenuto a suo padre al villaggio durante un rastrellamento (a cui il fratello si è sottratto scappando in montagna), quando 30 anni fa avrebbero perpetrato l’abigeato di tutti gli armenti; ma in fondo anche i fascisti nostrani usano con spregiudicatezza i social, pur rimanendo buzzurri celoduristi.

Colonizzatori si nasce

La solita eccezione culturale francese si chiede se sia possibile confrontarsi, e quindi conferirgli un riconoscimento, con le posizioni talebane senza venir meno ai propri principi. Una posizione palesemente ancora fondamentalmente colonialista perché connota il gruppo in senso razzista e prevede una superiorità di principi da esportare: in realtà quei principi dovrebbero riuscire a comprendere come ragiona la controparte per poter individuare i punti su cui avviare la trattativa (ed eventualmente insinuare un elemento che possa fare da base a un sincretismo che permetta un’evoluzione di entrambi), perché senza il confronto non c’è che la soluzione di forza, visto che non si è potuta creare una alternativa nazionale credibile riconosciuta dagli afgani ai quali si sono volute imporre figure – corrotte e inconsistenti – ritagliate sul modello occidentale, alieno a chi rimaneva povero e sfruttato dagli occidentali come dai Signori della Guerra – tutti ugualmente fondamentalisti (uzbeki di Dostum, tajik di Massoud, hazara di Mazari, pashtun di Hekmatyar). E questo è il risultato.

L’anima feroce

Vero che il movimento politicamente retrivo dei Talebani ha due facce: una pashtun, quindi interna alla nazione – anche se proveniente dall’unica cultura dei monti del Waziristan divisi dalla Durand Line tra Pakistan e Afghanistan – le cui tribù si possono scoprire nel capitolo (collocato nel 1960!) dedicato al Pakistan da Eric Salerno nel suo volume Orizzonti perduti, orizzonti ritrovati – e guida politica di questo tradizionalismo che ambisce a dare vita a un governo che imponga tutte le convinzioni tribali, legittimate da un sunnismo invariato anche perché utilizzato per fungere da collante contro le molte aggressioni coloniali a cui ha fatto fronte proprio grazie alla sua chiusura; l’altra, in parte uzbeka e in buona parte araba – saudita, qatariota e tutta la compagnia di giro del jihadismo – che costituisce il nerbo dell’ala militare, feroce e pervasa di volontà di vendetta fanatica, che impone il giro di vite sui diritti all’interno della nazione… e questo potrebbe risvegliare le coscienze della società civile che mal tollerava la presenza straniera e ora guarda con altrettanto dispetto ai jihadisti di varia provenienza – con aggiunta di orrore nelle notti riempite da musiche inneggianti alla guerra santa sparate a tutto volume nei pressi dei quartieri hazara, minacciosa e incombente presenza che prelude a rastrellamenti e abusi come nelle notti kabuline subito dopo la fuga statunitense. Un disimpegno che ha permesso già molti abusi e atti di violenza: l’uccisione in diretta Fb di un hazara cittadino australiano che riprendeva violenze, apostrofato dagli squadristi e ucciso sotto gli occhi di moglie e figli; l’umiliazione di dover seguire un percorso attraverso le fogne per arrivare all’aeroporto e venire sollevati di peso e rigettati dai marines sul gregge vociante, ma incapace di ribellione (perché non è nelle modalità previste da nessun clan); essere sottomessi al trattamento dei militari addestrati dallo US Army, che nell’aeroporto ti fanno abbassare la mascherina per riconoscere i connotati hazara e a quel punto avvicinano l’arma al tuo orecchio, esplodendo colpi che sfiorano tua moglie… questi sono episodi narrati con indignato terrore da un hazara che usava le ferie per ottenere documenti per il ricongiungimento e che il Console buono ha sedotto e abbandonato.

Clan e tribù: la coazione a ripetere

Per capire come funziona un accordo che si va a stringere con una realtà simile a quella talebana ci si deve ancora una volta immergere nell’idea clanica, opposta a quella di comunità di individui postilluminista: ciò che accomuna gli afgani – a qualunque appartenenza culturale facciano riferimento (pashtun, tajik, uzbek, hazara, turkmeni, kirghizi, nuri, aimak, wakhi…) – è la consapevolezza che tutto si regge sulla tradizionale competizione tra tribù fondata sulla coazione a ripetere invariata di ogni singola consuetudine della struttura, e quindi dei riti, delle cerimonie, dei matrimoni combinati, ma soprattutto dei ruoli; ciò che l’Occidente non è in grado di capire, perché ha scardinato quel sistema secoli fa e non ne ha più memoria, è che nessuno dei fondamenti custoditi dai potenti del clan può venir meno, a rischio di implosione di tutto. E quindi, come ribadiscono testimoni abbandonati dai ponti aerei, le donne non devono poter accedere alla istruzione per più di 7 anni (perché la cultura è l’antidoto contro ogni forma di repressione), le barbe non vanno tagliate (perché si è sempre fatto così), le donne non possono indossare pantaloni bianchi (mamnu, perché il loro culo contaminerebbe il colore della bandiera talebana)… sciocchezze per altre tradizioni, ma metodi già ripristinati con il corredo di taglio di mani ai ladri e lapidazione alle adultere, per rassicurare chi ha introiettato un ordine prescrittivo forte che non tralascia alcun dettaglio per perpetuare invariato un mondo, preservandolo da incrinature che potrebbero rovesciare i rapporti di controllo sulla società.

L’articolo di Giuliano Battiston è stato pubblicato da “il manifesto” il 29 agosto 2021 e si trova tra gli articoli di analisi prodotti da “Lettera 22

La ribellione non è contemplata

Ma non è un caso che non ci siano state resistenze all’avvento delle orde talebane: erano già collaterali a una società che tra occupanti portatori di affari e tradizionalisti aveva già deciso come regolarsi. Sarebbe bastata quella incrinatura a minare il “cimitero degli Imperi” ben più di un’oliata macchina da guerra tecnologica. In realtà la ribellione, anzi anche solo la protesta, non è contemplata. Per esempio le donne (poche significative decine inizialmente e poi sempre di più, ma ancora minoranza, nonostante il supporto di molti uomini estranei alla tradizione patriarcale) che il 2 settembre hanno inscenato manifestazioni in particolare a Herat sono il risultato dei vent’anni di apparente vacanza dal controllo della tradizione: il fatto che abbiano potuto farlo senza una reazione significativa iniziale da parte dei fondamentalisti dimostra come non le considerino realmente pericolose e che i vent’anni di affari e traffici senza immaginare di poter consentire la creazione di un sistema alternativo non hanno emancipato che pochi individui… e che i Talebani hanno imparato anche come in certe situazioni conviene fingersi tolleranti: finisce che fa gioco mostrare che non si reprimono manifestazioni pubbliche. E non ci si può scandalizzare per un po’ di lacrimogeni il giorno successivo a Kabul, perché altrimenti gli stessi giornalisti inorriditi dai manganelli a Kabul, dovrebbero farlo anche in Val di Susa; piuttosto è da valutare l’imbarazzo e la reazione legata alla sorpresa di scoprire un mondo femminile sconosciuto, e così diventano le situazioni quotidiane, che vengono represse dal patriarcato, a fare la differenza rispetto alla predisposizione a un confronto dialettico impossibile, non avendo una lingua comune. Sparare nervosamente in aria, perché non si può (ancora) sparare addosso a questi che sono alieni per l’universo di riferimento talebano, è la più esplicita esibizione di lontananza dal mondo cresciuto in questi vent’anni a Kabul e nelle grandi città, spazi fuori controllo rispetto ai giochetti rassicuranti dei vilayet dei monti. Lo stesso distacco, che non può tollerare la ricetta oscurantista, produce un mondo separato di repressi, brutalmente – e quindi per la legge islamica giustamente terrorizzati dai poco lucidi e ancor meno rassicuranti filopakistani. E quelle donne a loro volta vengono sottoposte a minacce da parte dei confusi (dall’impatto con la metropoli) Talebani e sgomente al punto di indossare il burqa –anche manifestando – pur se nessuno lo ha prescritto.

Herat, manifestazione di donne 3 settembre 2021

Dal fronte femminile si registrano alcune ribellioni, contestazioni – impossibile sognare che si svolgano provocatoriamente senza veli: sarebbe davvero suicidio –, o prese di posizione che possano infastidire, ma non è vero che non agiscano “autonomamente”: sono sempre più numerosi i casi di mogli selezionate dal clan che – dopo un tempo più o meno lungo di permanenza nei paesi in cui i giovani afgani protagonisti della migrazione di 15 anni fa le hanno ricongiunte – abbandonano il tetto coniugale per raggiungere i paesi del Nordeuropa attraverso una rete che organizza il trasferimento. Fin dal primo momento insistono per ricollocarsi in paesi in cui le possibilità sono migliori di quelle del Sudeuropa – evidente la missione assegnata dal clan anche a loro, un incarico che non prevede il coinvolgimento del coniuge, ridotto a semplice passeur legale che spesso non è nemmeno a conoscenza dell’intenzione iniziale della famiglia, benché la blanda opposizione lasci intendere che l’epilogo era messo in conto, conoscendo i calcoli clanici. Anche in questo caso in cui apparentemente sembra che le donne prendano in mano il loro futuro, sono ancora una volta strumenti della volontà della famiglia patriarcale.

Una storia, tante storie

Figurarsi quanto possono radicarsi e durare i diritti mai realmente compenetrati nella società afgana, perché non è una società di individui: persino quando scrivono i libri che raccontano la loro storia, commuovendo l’Occidente, ciascuno dei giovani afgani, stimolati a far conoscere la loro storia dagli amici europei ammaliati dall’esotismo e colpiti dalle vicissitudini, non riesce a fare una biografia ma la figura dell’io narrante comprende tante storie di tanti esuli: tutti insieme costituiscono la comunità afgana della diaspora e la sua narrazione che è unica e collettiva e quindi è anche eticamente corretto per loro attribuirsi episodi non vissuti in prima persona, ma comuni ai “conoscenti” afgani che hanno incrociato nel viaggio e nell’inserimento nella società europea e contemporaneamente i nuovi rituali degli expat e le telefonate quotidiane con il clan.

Scatto di Seyf Karimi, Kabul – Chindawol, 4 settembre 2021

Una realtà che non si fonda sull’individuo riconosce solo il ruolo collettivo in cui il singolo è un numero la cui attività è regolata dalla tradizione: infatti ora i Talebani si trovano di fronte a un incrocio: i giovani che in questi 20 anni sono stati contaminati dalla frequentazione di mentalità e comportamenti estranei alla tradizione, o i ragazzi della diaspora costretti all’emigrazione – che tutti, nessuno escluso, hanno mantenuto i contatti con il clan e ne sono stati in qualche modo condizionati e manipolati, soprattutto per legami matrimoniali o per mantenere il ruolo che era loro prescritto già alla partenza – ora trentenni con metà della vita trascorsa in Europa, pur sempre avvolti o protetti o comunque coinvolti dalla comunità expat, sono portatori di modi di pensare e vivere che sarebbero letali per il meccanismo clanico, quindi vanno trattenuti per il loro know how tecnologico utile all’emirato di “trogloditi in turbante” come vengono concepiti da quelli intrappolati a Kabul dalla loro repentina avanzata, oppure è meglio consentirgli di abbandonare il territorio per continuare a mandare rimesse senza contaminare la restaurazione? Forse che vengano riconosciuti come elementi ormai irrecuperabili all’islam e quindi nocivi può consentire il successo dei corridoi umanitari; dopo probabilmente i restanti verranno eliminati, pena mantenere attivi e inglobati nella realtà congelata locale potenziali tarli capaci di minare il processo di conservazione.
Poi gli affari si fanno con chiunque anche da confini nei quali la cultura estranea non può insinuarsi, ma pecunia non olet.

Emanuele Giordana è attento da tempo alle potenziali esportazioni di califfati fuori dalla Mesopotamia, fin dal volume collettaneo pubblicato da Rosenberg & Sellier nel 2017: A oriente del califfo.

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Raisi, il Giudice senza grazia https://ogzero.org/l-iran-e-in-ebollizione-raisi-le-sanzioni-e-le-sfide-internazionali/ Wed, 25 Aug 2021 11:03:15 +0000 https://ogzero.org/?p=4708 Non c’è luna di miele per Ebrahim Raisi, insediato il 5 agosto nella carica di presidente della repubblica iraniana. Nessun “periodo di grazia”, né all’interno di un paese attraversato da proteste sociali e stremata da una nuova ondata di Covid-19, e neppure sul piano internazionale. Durante il suo discorso inaugurale il presidente Raisi si è […]

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Non c’è luna di miele per Ebrahim Raisi, insediato il 5 agosto nella carica di presidente della repubblica iraniana. Nessun “periodo di grazia”, né all’interno di un paese attraversato da proteste sociali e stremata da una nuova ondata di Covid-19, e neppure sul piano internazionale.

Durante il suo discorso inaugurale il presidente Raisi si è dichiarato un «servitore del popolo», e ha detto che la sua priorità sarà risollevare l’economia e portare il benessere «sul tavolo da pranzo di tutti gli iraniani». Ha anche detto che perseguirà una «diplomazia intelligente» per veder togliere le «crudeli sanzioni che opprimono» l’Iran, riferimento ai negoziati in corso a Vienna per riesumare l’accordo sul nucleare iraniano (il Joint Comprehensive Plan of Action, Jcpoa) firmato nel 2015, e vanificato nel maggio 2018 quando l’allora presidente degli Stati uniti Donald Trump ha deciso di uscirne, decretando nuove sanzioni all’Iran.

Il sessantenne Raisi, un religioso di medio rango, è molto vicino al leader supremo Ali Khamenei, di cui era stato allievo. Ha svolto tutta la sua carriera nella magistratura, roccaforte delle correnti più ortodosse della Repubblica Islamica. Negli anni Ottanta è stato nel comitato di giudici incaricati di epurare le carceri iraniane mettendo a morte migliaia di detenuti politici, una delle pagine più inquietanti dell’Iran rivoluzionario. Negli ultimi due anni, come Procuratore capo della repubblica si è fatto paladino della lotta alla corruzione, suo tema di battaglia elettorale. È stato alla testa di una delle più potenti fondazioni islamiche, la Astan Qods Razavi di Mashhad, che controlla un impero commerciale e una rete di beneficenza e opere sociali: un pilastro del consenso al sistema.

Oggi ripete che la sua sarà un’amministrazione «popolare».

Eppure Ebrahim Raisi è stato eletto con il voto meno partecipato nella storia dell’Iran repubblicano: meno di metà degli aventi diritto è andata alle urne. È stato un voto senza concorrenti, poiché gli avversari di qualche peso erano stati esclusi: quella del 18 giugno scorso è stata l’elezione presidenziale meno libera da sempre perfino per gli standard della Repubblica Islamica dell’Iran, dove un organismo che risponde solo al leader supremo ha potere di veto sulle candidature. Insomma, la legittimità popolare del nuovo presidente è molto debole. Lo stesso Raisi riconosce che bisogna «ripristinare la fiducia» degli elettori.

Sta di fatto che, con Raisi alla presidenza, gli oltranzisti del sistema (quelli che alcuni chiamano il deep state, lo stato profondo) controllano tutti i centri di potere della Repubblica Islamica: eletti (il parlamento, la presidenza) e non. La lista dei suoi ministri, sottoposta al parlamento il 12 agosto è significativa: comprende uomini delle Guardie della rivoluzione, ex militari, ex dirigenti dei servizi di intelligence e della Tv di stato (altra roccaforte del sistema). Ci sono anche i dirigenti di due potenti fondazioni islamiche, la Astan Qods Razavi, già citata, e quella intitolata all’Imam Khomeini (rispettivamente ministri dell’istruzione e del lavoro e welfare).

Dunque legge, ordine, forze armate, e welfare. Eppure il neopresidente non avrà periodo di grazia.

La sfida di Vienna

Sul piano internazionale, la prima sfida è proprio quella che si gioca a Vienna. L’amministrazione di Joe Biden ha dichiarato di voler rientrare nell’accordo sul nucleare stracciato da Trump, ma sei round di colloqui tra i partner residui (Iran, Francia, Germania, Regno Unito, Cina e Russia), e indirettamente con gli Usa, non hanno ancora dato esito positivo.

Fare previsioni è inutile; meglio ricapitolare ciò che sappiamo. Il nuovo presidente iraniano ha dichiarato di volere il negoziato, «nei termini indicati dal Leader Supremo» (in effetti è stato Khamenei sei mesi fa ad avallare i colloqui di Vienna). Ebrahim Raisi non ha competenze specifiche in politica internazionale. Come ministro degli Esteri ha scelto un diplomatico di carriera: Hossein Amir-Abdollahian, già viceministro degli Esteri nel primo governo Rohani, poi consigliere di politica internazionale dell’ex presidente del parlamento Ali Larijani. Un uomo di regime con solidi legami con le Guardie della rivoluzione, ma non uno degli oltranzisti che avevano avversato l’accordo sul nucleare (di cui pure erano circolati i nomi). Amir-Abdollahian conosce il dossier nucleare e ha esperienza di colloqui con le controparti occidentali, inclusi gli Usa. Presenterà un volto più duro dei predecessori. Però si può aspettare che nel futuro negoziato l’amministrazione Raisi avrà meno opposizioni interne del suo predecessore Hassan Rohani, il quale è stato boicottato in tutti i modi (interessante il suo ultimo discorso al governo uscente: l’accordo era quasi fatto e le principali sanzioni statunitensi sarebbero cadute già da tempo, ha detto, non fosse stato per l’attivo boicottaggio del parlamento dominato dagli oltranzisti).

Non sarà un negoziato facile neppure per la nuova amministrazione. Non sono di buon auspicio gli “incidenti” navali di fine luglio, che riaccendono i riflettori sulla guerra-ombra in corso tra Israele e Iran (e forse su un nuovo “consenso” anglo-americano contro l’Iran). Ma ci sono anche segnali positivi per la diplomazia: l’inviato dell’Unione Europea ai negoziati sul nucleare, Enrique Mora, era a Tehran per l’inaugurazione del presidente Raisi, con cui si è intrattenuto (anche se il suo gesto è stato criticato da molti difensori per i diritti umani, tra cui l’avvocata Narges Mohammadi).

Un paese impoverito e disilluso

Ma lasciamo per un istante lo scenario internazionale. L’altra sfida per il neopresidente Raisi è all’interno del paese, ed è perfino più urgente. È la crisi dell’economia, appesantita dalle sanzioni internazionali: l’inflazione supera il 44 per cento, le imprese sono in difficoltà, la disoccupazione galoppa, mentre le grandi ricchezze sono sempre più grandi: pochi miliardari e una classe media impoverita. Tutto aggravato dalla lunga pandemia di Covid-19, dalla siccità, i conflitti per l’acqua, la penuria di energia elettrica. Un paese impoverito, disilluso, e senza fiducia nel futuro.

«La tensione nel paese è molto forte e Raisi deve prendere decisioni molto in fretta», dice l’economista e analista politico Saeed Leylaz (riprendo questo commento dal “Financial Times”). Per esempio il contrasto all’inflazione o la conduzione della campagna di vaccinazioni, spiega il presidente:

«ha bisogno di presentare qualche carta vincente, che gli permetta di prendere tempo fino a quando ci saranno decisioni definitive sull’accordo nucleare e sulle sanzioni».

L’urgenza è evidente. L’insediamento di Ebrahim Raisi è stato preceduto da settimane di proteste per la mancanza d’acqua che attanaglia le province occidentali, e per i blackout di corrente elettrica divenuti frequenti in tutto il paese nella stagione estiva.

La rivolta dell’acqua

La rivolta dell’acqua è scoppiata la sera del 15 luglio ad Ahwaz, capoluogo del Khuzestan, provincia occidentale affacciata sul golfo Persico e confinante con l’Iraq.

 

I quattro fiumi della provincia sono ridotti ai minimi storici, l’acqua è razionata, esce dai rubinetti solo un’ora al giorno. La folla gridava «il fiume ha sete», «noi abbiamo sete».  E poi

«abbiamo dato il sangue e la vita per il Karun»,

il fiume che attraversa Ahwaz. I manifestanti chiedevano forniture urgenti d’acqua. Molti chiedevano le dimissioni delle autorità locali accusate di incompetenza, o di corruzione, o entrambe le cose.

La crisi è tutt’altro che inaspettata. In maggio il ministero dell’Energia aveva avvertito che l’Iran andava verso l’estate più secca da 50 anni, con temperature che potevano sfiorare i 50 gradi, e l’allarme era stato ripreso da tutti i giornali. Poi è successo, e le conseguenze sono devastanti: per chi deve sopportare un’estate torrida e umida senza acqua, ma anche per l’agricoltura e l’intera economia.

Il paradosso è che il Khuzestan è tra le province più povere dell’Iran, in termini di sviluppo sociale: la disoccupazione e il tasso di povertà assoluta sono i più alti del paese (secondo Iran Open Data, che analizza statistiche ufficiali), ma è tra le più ricche in termini di risorse: racchiude circa l’80 percento delle riserve di petrolio e il 60 per cento di quelle di gas naturale per paese, e produce una parte importante del prodotto interno lordo iraniano (il 15 per cento nel 2019). Inoltre il Khuzestan era una terra fertile e ricca d’acqua, anche se oggi pare incredibile: ha quattro fiumi tra cui il Karun; due importanti zone umide (incluse le paludi condivise con l’Iraq), e aveva un’importante economia agro-industriale – ora in crisi.

Il sito storico del sistema idrico di Shushtar, patrimonio Unesco.

Il giorno dopo le prime manifestazioni, il governatore provinciale ha mandato camion cisterna a portare acqua in oltre 700 villaggi e cittadine del Khuzestan, cosa che non ha placato gli animi. La penuria d’acqua è da attribuire in parte al cambiamento globale del clima: dall’inizio del secolo il regime delle piogge è sempre più scarso, le temperature sempre più alte, e la siccità è ormai cronica nell’Iran occidentale insieme a ampie zone dei vicini Iraq e Siria.

Le tempeste di sabbia che avvolgono periodicamente città come Ahvaz ne sono una conseguenza tangibile.

È in causa però anche la gestione dell’acqua disponibile. Negli ultimi decenni sono state costruite numerose dighe sui fiumi dell’Iran occidentale, sia per produrre elettricità, sia per sostenere ambiziosi progetti di espansione agricola, o per trasferire acqua verso la provincia centrale di Isfahan.

Il ponte di Allahverdi Khan sul fiume ormai secco, Isfahan (foto Wanchana Phuangwan).

Negli ultimi anni inoltre le autorità hanno autorizzato lo scavo di migliaia di pozzi. Dunque sempre più acqua è estratta dal sottosuolo, ma le piogge non bastano a “ricaricare” le riserve. Il livello delle falde idriche così è crollato; l’acqua salmastra del Golfo penetra sempre più all’interno. La salinità dei terreni causa ulteriori problemi per l’agricoltura; a nord di Ahwaz le famose palme da datteri cominciano a morire. Nelle zone petrolifere inoltre l’acqua disponibile è spesso inquinata da sversamenti di greggio.

Ad aumentare la rabbia poi ci sono ragioni storiche. Le proteste per l’acqua hanno coinvolto città come Abadan, Khorramshahr, e altre: sono nomi che richiamano la Guerra Iran-Iraq. Su Abadan e le sue raffinerie puntava l’esercito di Saddam Hussein quando invase l’Iran nel settembre 1980; nella “città martire” di Khorramshahr si combatté casa per casa. Tutto l’ovest dell’Iran fu il fronte di quella guerra sanguinosa, durata otto anni. In Khuzestan però la ricostruzione è stata solo parziale, le attività economiche non sono mai tornate al benessere precedente. Perché? I dirigenti iraniani adducono la mancanza di mezzi e risorse da investire, o la cronica instabilità nel vicino Iraq. La provincia è abitata da una forte minoranza arabo-iraniana (c’è anche un movimento indipendentista, minuscolo ma foraggiato dai potenti vicini arabi del Golfo). A precedere le proteste generali, il 6 luglio una delegazione di agricoltori e anziani delle tribù arabe era andata a Ahwaz per fare rimostranze alle autorità locali per la penuria d’acqua.

La rivolta “legittima” e la polizia che spara

Insomma: la provincia si sente negletta. L’agricoltura e le fabbriche che ne dipendono sono sempre più in crisi. I giovani non trovano lavoro. Aumenta l’emigrazione verso le grandi città; a Tehran o Isfahan sorgono nuove borgate di migranti arrivati dalle zone rurali del Sudovest.

Cambiamento climatico, dighe, inquinamento, cattiva gestione delle risorse, disoccupazione, discriminazione delle minoranze: tutto spiega la rabbia esplosa in luglio.

«Per otto anni [durante la guerra con l’Iraq] questa provincia è stata devastata, e ora i nostri soldati sparano contro di noi», diceva un manifestante di 24 anni di Dezful al corrispondente di “Middle East Eye”.

Di fronte alla protesta infatti lo stato ha risposto come al solito: con la forza. Anche perché le proteste si sono estese; c’è notizia di manifestazioni a Kermanshah, capoluogo della provincia omonima nell’Iran occidentale, nel Lorestan, a Isfahan, fino a Tehran. Organizzazioni di avvocati, attivisti sociali, l’associazione degli scrittori, hanno manifestato solidarietà. Sui social media sono circolate foto di blindati e veicoli antisommossa scaricati dagli aerei cargo nell’aeroporto di Ahwaz. Le proteste si sono prolungate per giorni. Le autorità hanno sospeso internet in gran parte del Khuzestan, senza riuscire a bloccare del tutto le informazioni.

È cominciata la guerra di notizie: il 20 luglio, dopo la quinta notte consecutiva di proteste, il governatore del Khuzestan ha parlato di un morto, una persona che accompagnava le forze di polizia e sarebbe stato ucciso dai dimostranti (i media di stato hanno addirittura accusato “terroristi armati”). Pochi giorni dopo Amnesty International ha parlato di almeno otto morti, tutti manifestanti.

Le proteste bloccano la strada tra Ahvaz e Andimeshk.

Eppure perfino il Leader supremo l’ayatollah Ali Khamenei ha ammesso che la protesta è legittima. È intervenuto tardi, ben una settimana dopo l’inizio delle manifestazioni e degli scontri, ma infine lo ha riconosciuto:

«Se i problemi dell’acqua e delle fogne in Khuzestan fossero stati risolti, non vedremmo oggi questi problemi». E poi: «Le persone esprimono il loro malcontento perché sono esasperate. (…) Le autorità devono risolvere al più presto i problemi della leale popolazione di questa provincia».

Il fatto è che mentre il leader parlava così, la polizia sparava sui manifestanti. Risolvere il problema dell’acqua è di sicuro una sfida per la nuova amministrazione, come lo è stato per le precedenti: ma richiede strategie a lungo termine, rivedere le scelte di sviluppo, combattere sprechi e malversazioni, rilanciare il dialogo con le minoranze e con gli enti locali. Nell’immediato, reprimere le proteste è più facile.

Le proteste per l’acqua, o quelle segnalate a Tehran alla fine di luglio per i continui blackout di corrente, non alludono a un’opposizione politica organizzata – anche se in alcuni casi sono stati sentiti slogan come «abbasso la Repubblica islamica», o «a morte il dittatore», «a morte Khamenei». Proprio come era successo nel dicembre del 2019 nelle proteste suscitate dall’aumento del prezzo dei carburanti, e due anni prima per il carovita.

Proteste senza una direzione politica riconoscibile, “solo” manifestazioni spontanee di esasperazione.

Ma questo non dovrebbe preoccupare di meno i dirigenti iraniani: al contrario.

Si aggiungano croniche proteste di lavoratori in tutto il paese, e un’ondata di scioperi tra gli addetti dell’industria petrolifera. Mentre la “variante delta” del virus fa strage, i medici lanciano appelli disperati, e solo il 3 per cento degli iraniani è completamente vaccinato: anche nelle code alle farmacie si sente imprecare contro il leader supremo, che mesi fa ha vietato di importare vaccini prodotti in Usa e Regno Unito.

L’Iran dunque è in ebollizione. Il neopresidente Raisi dovrà mostrare qualcosa di concreto, in fretta, che non siano solo i blindati antisommossa. Ma per questo ha anche bisogno di veder togliere le sanzioni che soffocano l’economia del paese: come al solito, le sfide internazionali e quelle interne sono strettamente legate.

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Timori e prospettive russe ai suoi confini meridionali https://ogzero.org/timori-e-prospettive-russe-su-kabul/ Wed, 25 Aug 2021 09:26:07 +0000 https://ogzero.org/?p=4702 Per la Russia il Centrasia è il cortile di casa. Putin, durante un vertice straordinario dell’Organizzazione del Trattato per la Sicurezza Collettiva (Csto), ha affermato che è importante limitare l’espansione dell’estremismo islamico dall’Afghanistan al resto dell’Asia, dopo la presa di potere dei talebani. Il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov, ha affermato che il Csto ha discusso […]

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Per la Russia il Centrasia è il cortile di casa. Putin, durante un vertice straordinario dell’Organizzazione del Trattato per la Sicurezza Collettiva (Csto), ha affermato che è importante limitare l’espansione dell’estremismo islamico dall’Afghanistan al resto dell’Asia, dopo la presa di potere dei talebani. Il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov, ha affermato che il Csto ha discusso delle implicazioni di “un’altra guerra civile in Afghanistan”, ma ha aggiunto: «Nessuno interverrà in questi eventi». La Russia ha adottato un duplice approccio nei confronti del neoproclamato Emirato Islamico. Da una parte, Mosca ha avviato contatti con i rappresentanti del Talebani; dall’altra ha annunciato, il 17 agosto, esercitazioni su larga scala in Tagikistan, lungo il confine con l’Afghanistan. Annunciando che non avrebbe ancora riconosciuto il nuovo regime di Kabul, non ha però ritirato la sua rappresentanza diplomatica; peraltro da almeno 4 anni circolano notizie di collaborazioni militari tra russi e talebani e i più avvertiti tra gli analisti americani pensano che da vecchio scacchista Putin abbia calcolato una mossa del suo gioco afgano verso il declino del sistema liberale delle democrazie occidentali, di cui questa sembra una tappa importante, anche nella lettura degli osservatori russi.

Per comprendere meglio quali contromisure alla veloce conquista talebana può avere in mente Putin e i temi che si dibattono in Russia a proposito dell’area centrasiatica abbiamo ripreso da “Matrioska”, il blog di Yurii Colombo, la raccolta di opinioni di politologi e giornalisti russi tra i più accreditati su quella parte del mondo gettate a caldo nel web nei giorni immediatamente successivi alla presa di Kabul.


Igor Yakovenko, pubblicista

Per tutti i vent’anni in cui gli Stati Uniti sono stati in Afghanistan, mantenendo il paese più o meno sicuro per i suoi vicini, la Russia ha costantemente cercato di giocare brutti scherzi. Sono riusciti a far perdere agli Stati Uniti le loro basi in Asia centrale, e si sono lamentati senza posa tra di loro sull’occupazione militare americana dell’Afghanistan. Ora è un problema del regime di Putin.

Arkady Dubnov, esperto di Asia centrale

Per la Russia, il problema principale nel trattare con i Talebani sarà la riaffermazione delle garanzie che non opererà fuori dall’Afghanistan e che non si espanderà, militarmente e ideologicamente, nell’Asia centrale. Finora i talebani non possono essere incolpati: non una volta nei loro 27 anni di esistenza hanno mostrato di volerlo.

Se verranno confermate tali garanzie, Mosca promuoverà il riconoscimento politico dei Talebani e li toglierà dalla lista delle organizzazioni terroristiche dell’Onu. Se Mosca li rimuoverà dalla sua lista è difficile da dire. Tuttavia, la richiesta dei talebani agli Stati Uniti e all’Onu – una delle principali richieste di oggi – troverà comprensione soprattutto in Russia.

Difficilmente ci si può aspettare che Mosca fornisca un’assistenza finanziaria significativa a Kabul. Gli americani e l’Occidente se ne faranno carico perché sono in gran parte responsabili di ciò che è successo oggi in Afghanistan. La Russia non è coinvolta in questo. Ma naturalmente, la Russia otterrà dividendi politici da questo.

[16 agosto]

Alexey Makarkin, analista politico

Ci sono diversi rischi. Il primo è la tendenza concreta dei Talebani a spingere verso nord. È improbabile che la leadership talebana voglia iniziare l’espansione ora, ma questo non significa che non intraprenderà tale azione in futuro. Soprattutto quando l’aiuto estero viene tagliato – in situazioni finanziarie difficili le guerre di conquista diventano una priorità. Il secondo è la misura reale in cui i leader talebani hanno l’effettivo controllo sui vari gruppi armati che possono agire autonomamente. Il terzo è l’effetto dimostrativo di una vittoria dei terroristi in un singolo paese sui loro simpatizzanti. In ogni caso, la Russia si preoccuperà di contenere i talebani nella regione e di sostenere i suoi alleati… Una vittoria dei Talebani potrebbe dare impulso ai gruppi radicali all’interno della Russia. I Talebani sono tradizionalisti, non wahhabiti, ai quali la Russia associa di solito il radicalismo islamico… Ma questo potrebbe solo accrescere il rischio, poiché la propaganda potrebbe essere fatta nelle comunità tradizionaliste, essendo più compatibile con le loro opinioni e pratiche. Si può diventare un sostenitore dei Talebani senza rompere con la Mazhab Hanafi. L’opposizione sarà condotta sia ideologicamente che dai servizi speciali, usando la forza, e ciò che ne verrà non è chiaro.

[16 agosto]

Ivan Kurilla, storico

Permettetemi di ricordare che la decisione degli Stati Uniti di andare in Afghanistan nel 2001 fu sostenuta dalla Russia, non solo perché Putin allora voleva essere amico dell’America, o perché la guerra in Cecenia fu poi reinterpretata come parte della “guerra globale al terrorismo”. Ma anche perché una delle principali preoccupazioni della politica estera russa all’inizio del secolo era il destino dei paesi dell’Asia centrale, che sembravano senza protezione contro l’islamismo talebano. Questo è il motivo per cui la Russia ha fornito agli Stati Uniti un corridoio aereo e persino un “posto di sosta” a Ulyanovsk, e ha accettato di aprire basi militari statunitensi in Uzbekistan e Kirghizistan.

Quindi è così. La situazione sembra tornare al 2001. Gli Stati Uniti ammettono il fallimento, la Russia e i suoi alleati dell’Asia centrale affrontano una nuova minaccia.

[14 agosto]

Sergey Medvedev, professore

È la più grande vittoria simbolica sugli Stati Uniti e un grande passo verso un mondo demodernizzato e un nuovo Medioevo. Gli echi di questa vittoria risuoneranno ancora per molto tempo, molto più fortemente a Mosca che a Washington; abbiamo il nostro sguardo rivolto verso questo arco di instabilità, è il nostro fronte, non quello americano. Il XXI secolo, iniziato l’11 settembre 2001, continua a rotolare verso il Caos.

[16 agosto]

Lilia Shevtsova, politologa

Naturalmente, il potere dei Talebani rimette all’ordine del giorno la minaccia del terrorismo globale. La cooperazione occidentale con la Russia e la Cina è inevitabile in tal caso. Forse i Talebani ammorbidiranno il confronto ideologico tra i rivali. I Talebani giocheranno anche un altro ruolo, costringendo l’Occidente a pensare a come promuovere i suoi valori per evitare umilianti fallimenti.

L’Occidente è cambiato dopo il Vietnam. L’Occidente sarà diverso dopo l’Afghanistan. La Russia deve prepararsi a questo. E il fatto che una sconfitta degli Stati Uniti crea una zona di instabilità vicino al confine della Russia, e non è chiaro cosa fare al riguardo, suggerisce che la sconfitta americana non è necessariamente una buona notizia per la Russia.

Piuttosto che gongolare e godere del fallimento dell’America, dovremmo imparare la lezione che non abbiamo mai tratto dalla sconfitta in Afghanistan: mai impegnarsi in un’avventura senza conoscerne le conseguenze e sapere come uscirne; ci sono guerre che non possono essere vinte.

[17 agosto]

Stanislav Kucher, giornalista

Per la Russia, il trionfo dei Talebani è una minaccia diretta e chiara alla sicurezza nazionale. Ora tutti i paesi confinanti con l’Afghanistan nella cosiddetta Csi, cioè il ventre meridionale della Russia, sono nella zona ad alto rischio. La prospettiva di espansione dell’Islam ultraradicale non è mai stata così grande come ora… Se si ha la volontà, l’emergere dei Talebani a Dushanbe è semplicemente una questione di tempo… Sia geopoliticamente che ideologicamente, un trionfo talebano è più pericoloso per la Russia che per gli Stati Uniti.

…Posso facilmente immaginare come in Russia, in certe circostanze, un Talebano ortodosso convenzionale alzerà la testa. Cioè, una certa terza forza che odia allo stesso modo il governo corrotto e i suoi alleati, i liberali, e l’Occidente, il quale secondo loro, non ha portato altro che male alla Russia durante la sua storia.

[16 agosto]

Nikolai Mitrokhin, storico, sociologo

A giudicare dalle reazioni delle ambasciate russa, cinese e iraniana, che non stanno per essere evacuate, la cerchia di amici dei talebani e del nuovo Afghanistan sotto la loro guida, è evidente. E la Russia è abbastanza soddisfatta della vittoria dei Talebani. Così è. Come dice in pubblico M. Shevchenko, esperto di contatti segreti con i radicali barbuti, tutta l’ala militare del paese ha studiato in Unione Sovietica ed era membro del partito.

Ma in ogni caso, dal punto di vista della geopolitica ufficiale russa, il crollo della democrazia di tipo europeo in Afghanistan è una grande vittoria per l’internazionale autoritaria conservatrice in cui la Russia gioca un ruolo significativo. Ma al di là dello spettacolo di un nemico umiliato, ancora più importante, è che i Talebani hanno preso il controllo di un paese chiave dell’Asia centrale. E questo significa che gli interessi americani ed europei si sono ritirati dalla zona dell’“interesse vitale” della Federazione Russa o, per dirla meglio, dai confini dell’ex Unione Sovietica. Cioè, se i paesi postsovietici dell’Asia centrale erano di interesse per gli Stati Uniti e l’UE come transito per il contingente in Afghanistan, questo interesse è ora scomparso.

I paesi dell’Asia centrale sono ora stretti tra gli interessi della Cina, della Turchia, della Federazione Russa e dei loro pericolosi vicini del sud. Allo stesso tempo, la Turchia è lontana e non entrerà in guerra nella regione. Pertanto, la Russia ha un’“opportunità” per stabilire le sue guarnigioni ovunque, come ha fatto lo scorso inverno nel Caucaso meridionale. E in seguito, dovrà applicare delicatamente e sistematicamente la sua pressione. Se il Kirghizistan e il Tagikistan sono satelliti russi, l’Uzbekistan ha agito indipendentemente per 20 anni, e il Turkmenistan ha guardato troppo in direzione dell’Iran. Non credo che ora creeranno problemi ai turkmeni, ma tratteranno seriamente con l’Uzbekistan. Le truppe russe sono già lì (per prima volta in 25 anni) ci hanno già messo un paio di migliaia di uomini). Ritengo che la Russia finirà per aprire proprie basi a Termez, Karshi, Fergana (dove i generali russi hanno passato la loro gioventù in addestramento) e una specie di centro di coordinamento e base aerea a Tashkent.

[17 agosto]

 

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Gli sguardi centrasiatici sul paese al centro dell’Asia centrale https://ogzero.org/gli-spunti-di-analisi-degli-stan-nel-great-game-afgano/ Sat, 14 Aug 2021 19:00:02 +0000 https://ogzero.org/?p=4615 “Belt and Road Watcher” è la fonte originale che ha assemblato in lingua cinese i molteplici spunti di analisi dell’Eurasian Rhythm Network che gli “stan” vanno sviluppando per digerire e collocare l’evoluzione del Great Game afgano nella giusta dimensione dal punto di vista regionale. L’ennesimo giro di valzer che il mondo inscena per continuare a […]

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“Belt and Road Watcher” è la fonte originale che ha assemblato in lingua cinese i molteplici spunti di analisi dell’Eurasian Rhythm Network che gli “stan” vanno sviluppando per digerire e collocare l’evoluzione del Great Game afgano nella giusta dimensione dal punto di vista regionale. L’ennesimo giro di valzer che il mondo inscena per continuare a sfruttare il paese all’ombra dei nuovi vecchi padroni dell’Afghanistan, che abbiamo cercato di approfondire nello studium “La solita musica afgana?”, chiedendoci se sarà un altro Afghanistan quello imbandito in questi due mesi di approcci internazionali.

Sabrina Moles ha scovato e tradotto per noi questo lavoro redazionale di “Belt and Road Watcher” firmato da Edward Polletayev, utile per acquisire un ulteriore approccio al garbuglio centrasiatico, questa volta elencando il punto di vista dei paesi limitrofi, ma con l’interessante mediazione dell’“occhio cinese”.


L’Afghanistan unirà in una strategia panregionale i paesi dell’Asia centrale?

Fotografia scattata al momento dell’analisi

Il portavoce dei Talebani Zabihullah Mujahid ha affermato sui social media che le milizie hanno occupato il capoluogo di provincia Ghazni, è la decima città a cadere sotto il loro controllo, a soli 150 km dalla capitale Kabul. Funzionari della difesa degli Stati Uniti hanno affermato che i militanti talebani potrebbero tagliare la capitale afgana Kabul dal mondo esterno entro 30 giorni e potrebbero occupare Kabul entro 90 giorni.

In questi ultimi mesi alcuni media dell’ex Unione Sovietica hanno pubblicato diversi articoli di analisti ed esperti che parlano dei problemi delle nazioni dell’Asia centrale. Il tutto motivato principalmente dal ritiro degli Stati Uniti e delle truppe Nato dall’Afghanistan. Si cerca di rispondere a due domande in particolare: “Ora che cosa dovremmo fare?” e “Quanto la crisi afghana influenzerà la sicurezza della regione?”. Di conseguenza cresce la tensione generale, tensione che continua ad aumentare a causa della crescente incertezza su quello che accadrà nelle prossime settimane.

Fino a oggi le nazioni dell’Asia centrale non sono state in grado di rispondere con una strategia unitaria, anche se sono aumentate di recente le occasioni di confronto e dialogo tra i capi di stato. Per esempio, il Turkmenistan ha ospitato lo scorso 6 agosto la terza assemblea generale degli stati dell’Asia centrale. Ogni incontro è stata occasione per parlare della questione afghana sia da un punto di vista militare che di sviluppo. Il 24 luglio il presidente russo Vladimir Putin e il presidente del Kazakistan Kassym-Jomart Tokayev si sono concentrati sul possibile impatto della crisi afghana sulla sicurezza e sulla stabilità della regione.

KazAID, un possibile aiuto finanziario regionale

La stabilità dell’Afghanistan influisce oggi sulla ridefinizione della regione, diventando l’interesse principale che le nazioni dell’Asia centrale hanno in comune. Molti esperti di affari della regione hanno discusso della questione in occasione dell’incontro intitolato Asia centrale dopo il 2021: sfide e opportunità. Il Kazakistan ha recentemente istituito l’Agenzia per la cooperazione allo sviluppo internazionale KazAID, che si occupa dell’Afghanistan e dell’Asia centrale e fornisce sostegno finanziario ai progetti. Nel luglio di quest’anno, il presidente Tokayev ha approvato le principali direttive politiche nazionali per l’assistenza ufficiale allo sviluppo per il periodo 2021-2025. Il documento afferma che «i paesi dell’Asia centrale e la Repubblica islamica dell’Afghanistan diventeranno la priorità degli aiuti allo sviluppo». Tuttavia, la minaccia afghana e la definizione dei confini del paese in Asia centrale, così come la sostenibilità della sua politica interna, sono state a lungo oggetto di dibattito.

La situazione in Afghanistan è una minaccia per l’Asia centrale?

La ricercatrice dell’Istituto kazako di Studi strategici Irina Chernykh ha sottolineato:

Quello di cui stiamo parlando ora è simile al dialogo dalla fine degli anni Novanta all’inizio del XXI secolo. L’Asia centrale esiste come regione o no? Per me è regionalizzato. Qual è lo standard? Circa 20 anni fa, abbiamo menzionato il Great Game in Asia centrale. A quel tempo, l’Afghanistan era la principale minaccia per la regione. Qualche anno dopo, ritorna ancora una volta la questione della sicurezza e dell’unificazione dell’Asia centrale.

Guzel Majtdinova, direttore del Centro di studi geopolitici e professore del Dipartimento di politica estera presso l’Università russo-tagika, ritiene che l’Asia centrale moderna sia nel pieno di un processo che punta a ripristinare l’integrità geopolitica basata su fattori storici, economici e culturali che accomunano i paesi dell’area. Ha detto:

L’Asia centrale non è solo le cinque ex repubbliche sovietiche definite dalle Nazioni Unite, ma include parti dell’India, del Pakistan, dell’Iran e dell’intero Afghanistan, nonché della Cina occidentale. Finora si è ottenuto un certo livello di cooperazione nell’area settentrionale dell’ex Unione Sovietica. Al contrario, l’unità regionale dell’Asia meridionale è lontana dall’essere una realtà, a causa dei problemi di connettività e di sicurezza. In realtà, se si fa riferimento ai cinque paesi dell’ex Unione sovietica, l’Asia centrale negli ultimi anni ha compiuto progressi in alcune aree di cooperazione e il livello di interazione regionale bilaterale e multilaterale è notevolmente aumentato. Per esempio, l’approfondimento delle relazioni con l’Uzbekistan è inseparabile dall’Unione economica eurasiatica.

Lavshan Nazarov, professore associato del Dipartimento distaccato di economia della Plekhanov Russian University of Economics a Tashkent, ha dichiarato:

L’Afghanistan è una parte imprescindibile dell’Asia centrale. Bisogna chiarirlo a più riprese, quella che interpretiamo come Asia centrale è l’Asia del post-Unione Sovietica. Quindi l’Afghanistan non può essere ‘scollato’ da questo concetto”.

Nazarov sostiene che il problema principale dell’Afghanistan è che manca di un passato di occupazione coloniale.

I pashtun che un tempo vivevano nell’impero britannico oggi sono cittadini del Pakistan. Il loro tasso di alfabetizzazione era quattro volte quello dei Pashtun in Afghanistan. Mentre, al contrario, non ha senso parlare di divario culturale tra gli altri stati dell’Asia centrale, dove invece il tasso di alfabetizzazione non è inferiore al 97 per cento.

Tuttavia, Lesya Karatayeva, ricercatrice dell’Istituto presidenziale del Kazakistan per gli studi strategici, ritiene che non importa quale nuovo slancio abbia avuto la discussione sulla qualità della regionalizzazione dell’Asia centrale postsovietica: in ogni caso sarà difficile compiere progressi significativi nel rafforzamento regionale. Ha spiegato:

La sicurezza è un fattore importante. In questo caso, ha senso prestare attenzione al fatto che l’instabilità della situazione politica in un determinato paese o il deterioramento delle relazioni bilaterali influenzerà la situazione di altri paesi della regione? L’esperienza ci ha insegnato che non c’è un’influenza grave. Quando crisi occasionali accadono, bisogna rispondere con decisioni politiche; ogni deterioramento occasionale richiede una risposta politica, ma per i paesi che non si lasciano coinvolgere non rappresenta un rischio per la sicurezza, né vi è alcuna escalation in instabilità regionale.

Un altro problema importante: il processo di state-building afghano ha dei rischi per la regione?

Karatayeva ha poi spiegato:

La posizione di ciascun paese su questo tema dipende dal grado di vicinanza all’Afghanistan. Per esempio, per il Tagikistan e il Kazakistan, il grado di percezione del rischio è diverso. Ironia della sorte, il suo ruolo di ‘outsider’ ha notevolmente promosso l’integrazione dell’Asia centrale. Per almeno un quarto di secolo, la riluttanza dell’Afghanistan a unirsi al piccolo gruppo dei paesi dell’Asia centrale ha sostenuto l’agenda di politica estera dell’intera regione.

La ricercatrice ha anche affermato che dal 2018 la visione sul ruolo dell’Afghanistan è cambiata e anche la situazione interna in Afghanistan è cambiata.

Al momento è difficile fare previsioni, ci sono troppi fattori di incertezza. Da un lato, la realizzazione di progetti economici richiede sicurezza. Nessuno è interessato a investire in territori instabili. Dall’altro, se la situazione economica ha bisogno di migliorare, come raggiungere la stabilità? Partecipanti diversi, interessi diversi, posizioni diverse. Una cosa è certa: non c’è bisogno di aspettarsi risultati presto.

Marat Shibutov, membro del Kazakistan National Public Trust Committee e membro dell’Almaty Public Committee, ha dichiarato:

Il recente conflitto al confine di Gita è di grande importanza per l’Asia centrale. Questo è il vero risultato, possiamo addirittura dire che sia una nuova epoca per il rilancio delle relazioni tra questi paesi. Non dobbiamo avere paura dei Talebani, la maggior parte di loro sono una minaccia “inventata, esagerata”. Ciò che è necessario ora è guardarci l’un l’altro: l’Asia centrale ha una mole enorme di conflitti irrisolti. Di conseguenza, i conflitti passano da potenziali a armati Ci sono anche molte ragioni per i conflitti. Per esempio, è arrivato il periodo di siccità e la siccità estiva durerà per tre anni. Non si sa ancora cosa ne deriverà. Potrebbero esserci conflitti armati a causa dell’estrazione dell’acqua. È meglio spostare l’attenzione dall’Afghanistan alle questioni regionali, altrimenti rischiamo di diventare nuovamente estranei tra di noi.

Come ha affermato il professore della Kazakh-German University Rustam Burnashev, per 30 anni i paesi dell’Asia centrale non sono stati in grado di stabilire relazioni nel campo della sicurezza regionale. Ma a suo avviso, il fallimento è proprio perché questi paesi non hanno avuto conflitti importanti. Ha detto:

Non si è mai creata l’esigenza di cooperare. Se, per esempio, il Kirghizistan e il Tagikistan entrassero in una fase di conflitto violento, allora sarebbe immediatamente necessaria la cooperazione regionale. Finché non si presentano occasioni di tale gravità, vivremo tutti al sicuro nel nostro ‘buco’.

Burnashev ritiene che l’Uzbekistan oggi stia costruendo il suo ideale di Asia centrale, ma si presentano due problematiche impreviste. Spiega:

Il primo è rafforzare i legami con l’Afghanistan: non tiene più le distanze e comincia a vederlo come un’opportunità. L’Uzbekistan è un ponte verso l’Asia meridionale e il Medio Oriente. Esistono ancora collegamenti con l’Iran. Ciò fornisce all’Uzbekistan maggiori opportunità per entrare nel mercato mondiale ed espandere il proprio.

Il secondo punto è il cambiamento nella percezione della sicurezza. Burnashev dice:

La recente conferenza internazionale sull’Asia centrale e meridionale a Tashkent ha chiarito che per l’Uzbekistan il concetto di sicurezza va ora ben oltre la cosiddetta “sicurezza nuda” in quanto tale, ma si estende anche alla sicurezza degli esseri umani, dell’ambiente e dell’economia. Allo stesso tempo, l’Istituto di ricerca internazionale dell’Asia centrale nella capitale dell’Uzbekistan è stato ufficialmente messo in funzione.

In ogni caso, tutti gli esperti concordano sul fatto che il modello tradizionale di risoluzione del problema afghano stia diventando un ricordo del passato. Sergey Belyakov, professore alla Siberian School of Management, ha dichiarato:

L’Asia centrale ha bisogno di sviluppare un suo modo di risoluzione di questo problema e sviluppare una propria strategia. Forse l’idea di una potenziale espansione esterna dei talebani è un po’ esagerata, perché i Pashtun si concentrano principalmente sul controllo del proprio Paese. Ma in ogni caso, in quanto vicini dell’Afghanistan, abbiamo molti legami in comune, etnie in comune. Questo significa che una risposta pronta deve essere necessaria.

 

La normalizzazione talebana: meglio non scuotere l’albero

Andrei Chebotarev, direttore del Kazakhstan Center for Alternative Contemporary Research, ritiene che le vaghe prospettive di ulteriore sviluppo della situazione in Afghanistan abbiano oggettivamente stimolato i paesi dell’Asia centrale non solo a proseguire il processo di cooperazione multilaterale intraregionale avviato nel 2018, ma anche ad accelerare il processo di instaurazione di meccanismi di coordinamento e azione.

Ha sottolineato:

Il punto centrale della questione riguarda la sicurezza della regione. La base giuridica di questi accordi risale già al 2000, ma non è mai stato attuato concretamente il Trattato per combattere il terrorismo, l’estremismo politico e religioso, la criminalità organizzata transnazionale e altre minacce alla stabilità e alla sicurezza. I suoi firmatari sono Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan e Uzbekistan. Questi paesi potrebbero da subito avviare discussioni di cooperazione nell’ambito di questo documento e invitare il Turkmenistan ad aderire.

Un altro aspetto, sostiene Chebotarev, riguarda il fatto che le controversie nei rapporti bilaterali tra le varie nazioni dell’Asia centrale potrebbero ostacolare questo processo di integrazione.

Soprattutto i problemi irrisolti di confine. In questo caso, è meglio che i paesi della regione considerino e discutano l’istituzione di un meccanismo di mediazione congiunto per facilitare la risoluzione di determinate controversie e conflitti. Questo potrebbe avvicinare i cinque paesi.

Anche Doron Aben, ricercatore presso l’Accademia delle scienze eurasiatica, si trova d’accordo con questa interpretazione. Ha affermato:

La normalizzazione della situazione in Afghanistan è nell’interesse di tutte le parti. Pertanto, nella realtà attuale, è necessario prestare attenzione, in modo pragmatico, alla cooperazione tra Uzbekistan e Kazakistan, che sono i principali attori in questo. Quando il bacino idrico di Saldoba è crollato e l’acqua si è riversata in Kazakistan, le due parti hanno dato l’esempio di come sia possibile cooperare in una situazione di emergenza. L’Uzbekistan ha contribuito alle operazioni postcrisi e al risarcimento dei danni al Kazakistan. Allo stesso tempo, le due parti stanno risolvendo la questione della creazione di un centro di cooperazione internazionale transfrontaliera al confine tra i due paesi. In altre parole, «possiamo cooperare e abbiamo il potenziale di cooperare».

Anche l’analista Zamir Karazhanov tende a credere che la situazione non sia così grave. Ha detto:

In generale ci sono pochissime regioni al mondo che si stanno integrando e hanno gli stessi obiettivi e interessi. Per esempio, quando è comparsa la crisi del debito e i relativi problemi in Europa, c’era persino una tendenza a dividersi, non è un’organizzazione o un’associazione perfetta. I problemi esistono e l’attenzione deve andare su come superarli. Questo potrebbe essere l’indicatore più importante di integrazione e regionalizzazione.

L’esperto ha sottolineato che l’Afghanistan è oggi uno dei motori principali di questa tendenza. Sebbene in linea di principio l’Afghanistan influisca da 30 anni sui paesi postsovietici della regione, anche solo perché questi ultimi non hanno accesso ai porti del Sud, dell’Oceano Indiano, del Pakistan e dell’India. Karazhanov ha dichiarato:

Tutti capiscono che i Talebani influiscono sulla stabilità dell’Afghanistan. Forse, con i talebani che finalmente saliranno al potere, la situazione in Afghanistan tornerà alla normalità. Se sia possibile negoziare con loro o meno non è ancora certo, ma sappiamo bene che sono tanti gli obbiettivi e interessi comuni. Tuttavia, l’attuazione di questi progetti è possibile solo se sarà garantita la sicurezza della regione. In Afghanistan, dobbiamo trovare il male minore.

Nel frattempo, Karazhanov confida nel fatto che i paesi dell’Asia centrale possono creare dei forti legami di cooperazione. E conclude:

Tutti sono paesi senza sbocco sul mare. È come un albero con degli uccelli posati sopra: meglio non scuoterlo, altrimenti voleranno tutti via.

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n. 11 – Cosa può fermare il caos libico? https://ogzero.org/la-soluzione-del-caos-libico-e-ancora-lontana/ Mon, 26 Jul 2021 15:26:28 +0000 https://ogzero.org/?p=4430 Questo saggio dedicato alle rotte nordafricane appartiene alla serie di contributi in cui Fabiana Triburgo approfondisce la questione migratoria: proseguiamo con la Libia, giungendo – attraverso l’analisi della situazione politica ed etnica interna e degli interessi internazionali che non aiutano l’unificazione e la pacificazione del paese. Campi di detenzione, respingimenti e schiavitù rendono difficile la […]

L'articolo n. 11 – Cosa può fermare il caos libico? proviene da OGzero.

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Questo saggio dedicato alle rotte nordafricane appartiene alla serie di contributi in cui Fabiana Triburgo approfondisce la questione migratoria: proseguiamo con la Libia, giungendo – attraverso l’analisi della situazione politica ed etnica interna e degli interessi internazionali che non aiutano l’unificazione e la pacificazione del paese. Campi di detenzione, respingimenti e schiavitù rendono difficile la soluzione del caos libico: a quando i corridoi umanitari?


I principali conflitti che attualmente interessano le migrazioni forzate e le prassi di esternalizzazione poste in essere dall’Unione Europea e dai singoli stati membri portano a una predeterminazione delle rotte dei migranti.

Quello che oggi è inevitabile chiedersi è se il nuovo Patto europeo sulla Migrazione e l’Asilo, proposto dalla Commissione UE, possa essere realmente considerato una soluzione della gestione del fenomeno migratorio o se invece vi siano soluzioni legali alternative maggiormente lungimiranti e coraggiose.  


Etnie, tribù e clan nel puzzle libico

La Libia o piuttosto le “Libie” – Cirenaica, Fezzan e Tripolitania – da sempre si è distinta per la pluralità, all’interno del suo territorio, di differenti identità etniche e tribali, tra cui arabi, arabo-berberi, tuareg e berberi-amazigh, appartenenti ai clan o alle realtà cittadine e rispetto alle quali la popolazione libica avverte ancora oggi un forte senso di appartenenza superiore a un sentimento unitario di identità nazionale.

Ciò era valido tanto con Gheddafi quanto ancora oggi e rappresenta una delle prime questioni da prendere in considerazione se si vuole portare a compimento un effettivo processo di pacificazione del paese al di là delle dimensioni istituzionali create ad hoc per dare una parvenza di democratizzazione della Libia, come è avvenuto mediante  la formazione di un governo ad interim – istituito a Ginevra nel febbraio 2021 – approvato nel mese successivo dal parlamento di Tobruk riunitosi a Sirte e finalizzato a condurre il paese verso un trasparente e sicuro processo elettorale previsto il  prossimo 24 dicembre.

Mappa elaborata da OGzero e Chiara Alessio, dal volume di Alfredo Venturi, Il casco di sughero (Rosenberg & Sellier, 2020)

Dopo la caduta di Gheddafi, nessuna unità nazionale

Tali diverse realtà etniche rette all’epoca di Gheddafi da un sistema clientelare consolidato da quarant’anni che prometteva vantaggi all’una o all’altra tribù, in concorrenza tra loro, volto ad assicurare un consenso politico a favore dell’allora dittatura, emersero in tutta la loro irruenza con la caduta del regime – sull’onda delle rivolte tunisine ed egiziane – nel 2011. Da allora il conflitto civile ha provocato un sistema di anarchia caratterizzato dalle violenze e dagli scontri tra le diverse milizie legate all’una o all’altra realtà etnica – con sporadici tentativi di istituzionalizzazione del paese – quando i diversi clan hanno avuto accesso agli armamenti del regime ai quali si sono aggiunti quelli delle forze regionali e di quelle internazionali che sono oggi le vere protagoniste dello scenario libico. I precedenti round elettorali nel 2012 e nel 2014 infatti non hanno portato mai alla creazione di uno stato libico unitario sia per la presenza nell’esecutivo legittimamente eletto, con riferimento al 2012, della componente islamista dei Fratelli Musulmani – ricordiamo che nel 2013 il Parlamento dichiarò la volontà dell’applicazione della legge islamica nei confronti della popolazione libica – sia nel 2014, quando il governo eletto, con un’esigua partecipazione alle urne, è stato fortemente contestato dalle milizie islamiche che hanno acquisito il potere sulla città di Tripoli.

I due governi: Giano bifronte

Più specificatamente nel 2014 il precedente Congresso all’esecutivo si trasformò, senza cedere il potere, in un nuovo Congresso di Unità Nazionale e si contrappose alla Camera dei Rappresentanti e al nuovo governo legittimamente eletti che furono costretti a rifugiarsi nell’est del paese nella città di Tobruk mentre Tripoli finì nelle mani delle milizie musulmane. Venne creandosi così quel “Giano bifronte” del potere libico che vide contrapporsi la parte Est a quella Ovest: in questo contesto si impose il generale Haftar – ritornato nel 2011 dall’esilio negli Stati Uniti dopo l’estromissione dal regime a opera di Gheddafi – mostrandosi come unico uomo forte in grado di scacciare la componente estremista islamica dell’Isis e delle milizie islamiche, cominciando ad acquisire il controllo di un numero sempre maggiore di aree del territorio libico, in particolare in Cirenaica e nel Fezzan, a sud del paese, ponendosi a capo dell’Esercito di Liberazione nazionale.

L’appoggio internazionale diviso e divisivo

Successivamente in Tripolitania nacque – su sostegno della comunità internazionale oltre a quello dell’Italia e della Turchia – un Governo di Accordo nazionale guidato da Fayiz al-Serraj. Tuttavia, la situazione così determinatasi si rivelò da subito fallimentare: Haftar appoggiato da Francia, Russia, Emirati Arabi, Egitto non volle mai riconoscere il nuovo governo, per cui la comunità internazionale avviò senza successo un’opera di riconciliazione, fino a che nell’aprile del 2019 Haftar tentò il secondo colpo di stato, dopo quello del 2014 con “ l’operazione dignità”,  assediando la città di Tripoli – sostenuto dalle potenze di cui sopra – che venne scongiurato, non a caso, soltanto mediante l’intervento della Turchia.

Gli interessi geopolitici

Queste fasi del conflitto libico, essenziali per capire la situazione attuale nel paese, già fanno emergere quel ruolo fondamentale delle potenze internazionali che fin dall’inizio proiettarono nello scenario libico i propri interessi geopolitici ed economici: basti pensare all’intervento Nato con la Francia, gli Usa e la Gran Bretagna nel 2011 e  l’influenza politica delle potenze regionali dispiegata fin da subito in Libia da un lato dalla Turchia e dal Qatar, paesi vicini a un islam politico, ed Emirati arabi ed Egitto dall’altro a sostegno di una stabilizzazione del paese attraverso un processo di militarizzazione. Con il passare del tempo questo ruolo delle potenze internazionali e regionali si è talmente acuito che nei punti all’ordine del giorno della Conferenza di Berlino sulla Libia – in particolare della seconda tenutasi il 23 giugno 2021 – vi è tra i principali obiettivi posti al governo ad interim l’eliminazione delle presenze internazionali nel conflitto. Non sono stati sufficienti infatti né la prima conferenza di Berlino a gennaio del 2020, né la tregua dell’agosto dello stesso anno, né il cessate il fuoco permanente dell’ottobre del 2020 e da ultimo il Governo di Unità Nazionale di Ginevra – istituito grazie al Forum internazionale di dialogo sulla Libia – a concretizzare tale obiettivo. Si ricorda in particolare che al secondo appuntamento del giugno scorso alla Conferenza di Berlino nel quale hanno partecipato 17 stati tra cui Russia, Usa, Francia, Italia ed Egitto, la Turchia ha posto la riserva proprio sul punto riguardante il ritiro dei propri militari dalla Libia.

La Turchia non leva i “boots on the ground”

La Turchia nel paese nordafricano ha mosso le proprie fila non solo per interessi economici-commerciali legati ai giacimenti petroliferi e alla ricostruzione del paese, ma soprattutto per il perseguimento del proprio espansionismo nel Mediterraneo.

Infatti, con il precedente governo di accordo nazionale libico la Turchia ha stretto un patto che legittima la Zee turca da sempre osteggiata dalla comunità internazionale schierata a favore delle rivendicazioni marittime della Grecia e di Cipro. La Turchia inoltre – che ricordiamo aver avuto il “merito” di aver provocato l’ingresso in Libia di migliaia di mercenari siriani che si sono aggiunti a quelli ciadiani e sudanesi – ritiene che la permanenza del proprio potere militare nel paese sia in qualche modo autorizzata dal precedente patto sottoscritto con il governo di accordo nazionale di al-Serraj. Si ricorda che l’attuale primo ministro Dbeibah dall’inizio del suo mandato ha ricevuto in Libia diverse diplomazie internazionali ma il primo paese nel quale si è recato personalmente con 14 membri del nuovo governo è la Turchia.

Inoltre, sia l’attuale primo ministro – ex imprenditore ed ex capo del fondo “Lybian Local Investment and Development Company” varato da Gheddafi nel 2007 – sia il presidente del Consiglio presidenziale Mohammed Yunus al Manfi – ex ambasciatore libico in Grecia– sono figure vicine ideologicamente alla Turchia. Intanto gli altri stati, in particolare i paesi dell’UE e gli Stati Uniti, pur opponendosi alla reticenza turca sul ritiro delle proprie forze militari spesso sono troppo intimoriti da una possibile stabile quanto strategica presenza nel Mediterraneo della Russia. Russia e Turchia schierate rispettivamente a sostegno della parte est e della parte ovest del paese sono rivali nello scenario libico ma questo è solo uno dei contesti internazionali in cui i due paesi, pur essendo in contrapposizione tra loro, non arrivano mai allo scontro diretto condividendo troppi interessi comuni come quelli sul turismo, sul piano energetico, sul nucleare e sugli armamenti militari.

Milizie e contractors russi: il ritiro è lontano (nonostante l’accordo)

Non si dimentichi il ruolo delle due potenze nel conflitto riguardante il Nagorno Karabakh, la Siria e la Georgia. Quindi anche nel corso della seconda Conferenza di Berlino, Russia e Turchia hanno trovato un accordo convenendo sul ritiro di 300 tra mercenari siriani e contractors delle milizie Wagner, la Società russa di sicurezza paramilitare privata vicina al presidente Putin. Si ricorda tuttavia che l’ultimatum per il ritiro delle forze internazionali era previsto per il 23 gennaio del 2021 e che secondo le Nazioni Unite al momento vi sono ancora circa 20.000 mercenari sul territorio libico.

E la nuova Costituzione?

Non solo, oltre al progressivo allontanamento delle potenze estere dal conflitto libico, il Governo di Unità Nazionale deve portare a compimento alcuni altri importanti obiettivi in vista dell’appuntamento di dicembre per il ritorno della popolazione civile alle urne: l’approvazione di una nuova Costituzione, di una legge elettorale e la riforma del sistema di sicurezza nel paese con la creazione di un esercito nazionale libico unito che rappresenta il presupposto fondamentale per un corretto svolgimento delle elezioni e l’unico strumento che possa scongiurare che esse non vengano inficiate da una spirale di violenza determinata dalle milizie appartenenti alle diverse fazioni. Proprio per tale ragione è necessario che l’approvazione della nuova Costituzione prima delle votazioni sia il più possibile inclusiva delle minoranze etniche – alle quali spesso corrispondono altrettante milizie – attraverso il loro riconoscimento all’interno della costituente ma ciò non è un processo di facile attuazione, basti pensare che la componente amazigh-berbera ha già rifiutato un referendum di ratifica di un trattato costituzionale.

 

Se tali questioni non vengono risolte prime delle elezioni il rischio è che un nuovo governo eletto, pur se legittimo, si ritrovi dinanzi le stesse tare dei precedenti governi. Si rammenta a tal fine che l’approvazione del governo tecnico ad interim, di cui il primo ministro è Dbeibah, accolta con un plauso internazionale condiviso si deve leggere attraverso la lente di un alleggerimento delle tensioni tra Turchia ed Emirati, Egitto e Francia e soprattutto in ragione del fatto che tale governo è provvisorio per definizione in quanto gli attuali membri che ne fanno parte non potranno candidarsi alle prossime elezioni. Qualche dubbio che ciò non sarà così emerge sia dal comportamento del primo ministro rispetto alle cancellerie internazionali, sia dai processi di riforma finora attuati, essendo alquanto improbabile che nell’arco di sei mesi possano realizzarsi i succitati obiettivi, anche perché attualmente il governo ad interim sembra aver altri intenti soprattutto di carattere economico, stringendo accordi commerciali con ogni paese con cui può incontrarsi a livello diplomatico.

Europa e Stati Uniti: è davvero pacificazione e ricostruzione?

Cosa può dirsi quindi cambiato in esito a queste tappe politiche e militari così importanti che hanno interessato il paese nel 2020 e nel 2021?

Poco, come detto, sotto il profilo sostanziale per il rafforzamento delle istituzioni rispetto al passato, in un’ottica di una Libia unita pur essendo chiaramente da non sottovalutare la condizione attuale di distensione e di unicità della rappresentanza governativa. Si può però affermare che oggi l’Unione Europea abbia una politica comune in Libia, dato il momentaneo superamento delle contrapposizioni dell’Italia e della Francia nel paese e che gli Stati Uniti, governati dall’amministrazione Biden, anche se mantengono comunque in Libia una posizione non interventista – la stessa che ha caratterizzato le precedenti amministrazioni – con il loro sostegno verbale al processo di democratizzazione del paese hanno indirettamente accelerato la spinta internazionale comune alla ricostruzione dello scenario libico, anche se non sappiamo ancora quanto questo sarà effettivamente determinante per la pacificazione della Libia.

Ciò che sicuramente non è cambiato è l’attenzione al tema delle migrazioni soltanto sfiorato nella recente conferenza di Berlino e delle gravissime violazioni dei diritti umani che continuano a compiersi in Libia. Quello che preoccupa fortemente e che ogni potenza internazionale, impegnata in questa svolta del processo di pacificazione, sembra far finta di non vedere, sono i centri detentivi libici dei quali ventiquattro sono ufficiali mentre trentuno risulterebbero quelli non ufficiali. Alcuni dati possono sicuramente aiutare a comprendere meglio la situazione anche se non danno la reale e drammatica portata umana del fenomeno: più di 700.000 sono i potenziali richiedenti asilo presenti nel paese, 200.000 gli sfollati interni, 5.000 i potenziali richiedenti asilo presenti nei centri detentivi ufficiali, due dei quali Medici Senza Frontiere è stata costretta recentemente ad abbandonare e circa 10.000 quelli stimati presenti nei centri non ufficiali.

Detenzioni e schiavitù

Nei centri i migranti vengono torturati e sono vittime di violenti abusi e gravi sfruttamenti sia sessuali che lavorativi fino spesso alla riduzione in una condizione di schiavitù. Quello che è importante avere in mente è che le persone detenute in questi centri non sono protagonisti di attuali ondate migratorie provenienti dall’Africa Subsahariana transitanti per Agadez come un tempo – essendo stato bloccato il transito dei migranti negli ultimi anni dal Niger alla Libia con la Legge nigerina 36-2015 che criminalizza il traffico umano in accordo con le politiche di esternalizzazione europee – ma persone che sono presenti in Libia in uno stato di detenzione da almeno cinque anni.

Oggi i migranti che passano per il Niger vengono fermati e abbandonati in quel “mare di sabbia” del deserto del Sahara contiguo al Fezzan libico, pericoloso nel suo attraversamento quanto il Mediterraneo centrale.

Rifugiati attraversano il deserto da Agadez in Niger alla Libia, per arrivare in Europa (foto Catay / Shutterstock)

Attualmente inoltre occorre segnalare che l’Unhcr sta cercando di compiere un’attività di evacuazione dei migranti dai centri detentivi libici al Niger, attraverso delle domande di reinsediamento di questi soprattutto in Canada negli Stati Uniti e in alcuni paesi dell’UE. Si rammenta tuttavia che questa procedura non consente garanzie ferme e ufficiali in ordine alla tutela dei richiedenti asilo non essendo né il Niger né la Libia firmatari della Convenzione di Ginevra.

La situazione assume i caratteri della catastrofe umanitaria se analizziamo le attività di respingimento soprattutto a opera della cosiddetta “guardia costiera libica” per cui i migranti detenuti, dopo aver pagato attraverso i propri familiari il prezzo della propria libertà, vengono intercettati e riportati nelle coste libiche e successivamente reinseriti nei centri, in questo caso quasi esclusivamente in quelli detentivi non ufficiali, chiamati più notoriamente Safe House o Connection House.

A quando i corridoi umanitari?

Da quanto sinora esposto sotto profili diversi è chiaro dunque che la Libia non possa ritenersi un paese sicuro, per il quale sarebbe opportuno implementare sistematicamente le pratiche dei corridoi umanitari tenendo conto delle continue notizie delle morti in mare, consentendo lo svuotamento completo dei lager libici, e bloccando subito le pratiche dei respingimenti collettivi delegati e dei finanziamenti europei a esse finalizzati che interessano le attuali  rotte migratorie tra cui quella del Mediterraneo centrale di cui si tratterà immediatamente di seguito.

L'articolo n. 11 – Cosa può fermare il caos libico? proviene da OGzero.

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Afghanistan: il quadro interno e le forze in campo https://ogzero.org/afghanistan-il-quadro-interno/ Thu, 22 Jul 2021 10:14:39 +0000 https://ogzero.org/?p=4356 L’arduo compito di valutare la situazione attuale tra le varie fazioni in Afghanistan non poteva che venire conferito a Emanuele Giordana, tra i più competenti analisti di quell’area. Ne risulta una lucida fotografia che fa ruotare sul palcoscenico tutti i protagonisti che possono esprimere una pressione dall’interno sugli eventi che si produrranno nel momento in […]

L'articolo Afghanistan: il quadro interno e le forze in campo proviene da OGzero.

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L’arduo compito di valutare la situazione attuale tra le varie fazioni in Afghanistan non poteva che venire conferito a Emanuele Giordana, tra i più competenti analisti di quell’area. Ne risulta una lucida fotografia che fa ruotare sul palcoscenico tutti i protagonisti che possono esprimere una pressione dall’interno sugli eventi che si produrranno nel momento in cui ai Talebani verrà sottratto l’unico argomento forte che hanno – la presenza militare straniera nel territorio afgano. L’affresco raccoglie le biffe di personaggi poco raccomandabili, le cui armi consentono loro di spadroneggiare ormai dall’inizio della guerra, 40 anni fa; ma questo non toglie che attraverso i loro alleati, o citando mire economiche, si sviluppino prassi securitarie e predatorie strategie.

Questo contributo più interno all’anima del paese si affianca ad altri due interventi contemporanei ospitati sul sito, uno di Sabrina Moles, mosso dalla curiosità di capire gli interessi cinesi sui corridoi commerciali, e l’altro di Yurii Colombo, volto a ritessere la tela russa a 30 anni dal ripiegamento sovietico, completando la panoramica sulla situazione geopolitica afgana in seguito al ritiro delle truppe americane dal paese che abbiamo intrapreso cominciando da una tavola rotonda che li ha visti partecipi e trasmessa in diretta nella serata del 13 luglio da Radio Blackout, un’analisi che poi abbiamo cercato di approfondire nello studium “La solita musica afgana?”, chiedendoci se sarà un altro Afghanistan quello imbandito in questi due mesi di approcci internazionali.


Minacciosi fuochi sacrificali sulla festa

Martedì 20 luglio, mentre nel palazzo presidenziale di Arg si pregava per la festa del sacrificio Eid al-Adha, una salva di razzi ha colpito i distretti uno e due della capitale. Benché il presidente Ghani abbia continuato a pregare, gli scoppi degli ordigni si udivano forti ad Arg e davano il segnale preciso che, negoziati o meno, la guerra va avanti su più fronti. I Talebani hanno negato ogni responsabilità (e in seguito l’Isis ha rivendicato il lancio di sei Katyusha) ma Ghani li ha comunque tirati in ballo, accusandoli di non volere la pace. A due giorni dall’ultima tornata negoziale a Doha, in Qatar, tra governo di Kabul e guerriglia – conclusasi con un nulla di fatto – la guerra delle parole si somma alla guerra guerreggiata, la propaganda alle armi. Anche se era abbastanza evidente sin dal mattino che i razzi non fossero di marca talebana, colpire a pochi metri dal simbolo del potere che fino a ieri era difeso anche dai soldati che per oltre vent’anni hanno occupato l’Afghanistan, non è un bel segnale.

Rivela, se ancora ve ne fosse bisogno, che gli attori della guerra sono assai più numerosi che non i due contendenti – Talebani e Governo – che si fronteggiano a Doha o nei 421 distretti che compongono la galassia territoriale del paese.

Sindrome di Saigon

Di questi 421 distretti, la metà (229 secondo gli analisti dell’Afghanistan Anlysts Network) sono in mano ai Talebani. Si tratta di centri spesso minori o periferici ma alcuni di essi sono attorno ai capoluoghi provinciali dove l’esercito afgano ha schierato le sue difese lasciando in molti casi al nemico i centri più complicati da difendere. La lezione militare è comunque importante e al contempo politica: anche se difficilmente i Talebani potrebbero prendere le grandi città (e gli stessi hanno escluso di volerlo fare) l’effetto valanga delle conquiste (come rivela la mappa) ha un ovvio impatto psicologico ancor prima che bellico.

Distretti afgani contesi tra Talebani e governo di Kabul - luglio 2021

Distretti afgani contesi tra Talebani e governo di Kabul – luglio 2021

Aiuta a diffondere la “sindrome di Saigon” – la paura che cada la capitale – che certo non aiuta l’esecutivo di Kabul. E aver preso gran parte dei posti di frontiera, oltreché un colpo di teatro, priva il Governo dei cespiti derivati del commercio che vengono intascati dalla guerriglia. La lettura più ovvia è che la guerriglia voglia far pesare la pressione psicologico-militare sul negoziato per ottenere di più. E cedere finalmente su un cessate il fuoco che resta una chimera anche se la giornata di martedì, primo giorno della festa di Eid, ha segnalato una tregua di fatto tra Talebani e Governo. Vediamo dunque le forze in campo nella situazione attuale.

Andarsene ma restare: la scelta di Washington

L’abbandono della base di Bagram in gran fretta, ha dato l’idea che gli americani non solo siano determinati ad andarsene ma che vogliano farlo – e lo stanno facendo – nel minor tempo possibile. È proprio così?

Afghanistan: il quadro interno

L’amministrazione Trump aveva previsto una riduzione iniziale della presenza militare Usa da 13.000 a 8600 uomini entro luglio 2020, seguita da un ritiro completo entro il 1° maggio 2021. L’Amministrazione Biden ha poi annunciato in aprile che avrebbe continuato il ritiro, ma oltre maggio e con una data finale che coincide con l’11 settembre. Decisione poi ancora anticipata e che, secondo gli osservatori, avrebbe solo rafforzato la decisione dei Talebani di diventare più aggressivi onde arrivare a un negoziato da posizioni di forza. Intanto è diventata esecutiva anche la decisione dei paesi aderenti alla coalizione Nato che, sempre in aprile, hanno deciso di iniziare il ritiro delle forze della missione Resolute Support il 1° maggio 2021, per completarlo entro la prima metà di luglio (nel febbraio 2021, il personale Nato ammontava a 9592 uomini – di cui 2500 americani – da 36 Paesi. La mappa si può vedere qui). La Nato comunque si impegnerebbe a proseguire l’addestramento in Europa di soldati afgani e i governi della coalizione dovrebbero continuare a sostenere finanziariamente le forze armate afgane. All’inizio della settimana, il 19 luglio, 15 paesi e il rappresentante Nato a Kabul hanno lanciato un appello ai Talebani perché fermino la loro avanzata. Una mossa forse dovuta ma che lascia il tempo che trova.

Modalità di permanenza militare statunitense

Oltre al sostegno finanziario, gli americani però non intendono esattamente uscire del tutto dalla scena afgana. Dovrebbero dunque rimanere attenti su due fronti: quello dei servizi (la Cia sta preparando nei paesi confinanti basi da cui operare anche se non è impresa facile) e quello di un aumento dell’impegno della marina statunitense nel Golfo, da cui monitorare quanto avviene in Afghanistan. Sia per eventuali attività terroristiche non per forza talebane (Isis, qaedisti) ma anche nel caso in cui le cose dovessero precipitare e i Talebani dovessero tentare di far cadere Kabul. Si tratterebbe di utilizzare soprattutto l’aviazione: droni, aerei spia e caccia da impiegare nel teatro afgano in modalità che non sono ancora chiare ma con opzioni interventiste non escluse dal segretario alla Difesa Lloyd J. Austin, secondo il quale le operazioni di sorveglianza aerea sono già iniziate assai prima del ritiro completo e ancora in luglio sono tornate a essere veri e propri bombardamenti aerei partiti da basi esterne al territorio afgano in supporto dell’azione delle forze d’elite di Kabul impegnate nel tentativo di riconquistare territori occupati dai Talebani; le azioni sarebbero concentrate nei distretti di Kunduz e Kandahar e gli ufficiali preposti lamentano sotto anonimato una minore efficacia, dovuta alla diminuita capacità di concentrazione sul bersaglio della missione da parte dell’intelligence dislocata a terra.

I protagonisti autoctoni

La forza dei Talebani

Alle aperture che Hibatullah Akhundzada, il leader dei Talebani, ha fatto il 18 luglio in una nota apparsa sul sito ufficiale dell’Emirato islamico d’Afghanistan sostenendo che la guerriglia vuole la pace e il dialogo, si alterna la durezza nella tattica politica negoziale rafforzata dalla pressione sul terreno in una ventina delle 34 province afgane. Il passato sembra però raccontare di una spallata difficile se i Talebani volessero tentare una scalata militare che arrivi sin nella capitale. Non ci riuscirono i mujahedin quando i sovietici abbandonarono il paese nel 1989, anche se contavano molti più uomini di quanti non ne abbia oggi la guerriglia in turbante. I mujahedin infatti dovettero aspettare il taglio dei fondi che Mosca smise di versare a Kabul. Fu solo a quel punto, nel 1992 – ben tre anni dopo! – che, senza più stipendio, l’esercito che faceva capo al governo amico di Mosca del dottor Najibullah si dissolse aprendo la strada alla conquista della capitale. Difficile comunque valutare attualmente la forza effettiva dei guerriglieri: secondo l’ultima stima disponibile delle Nazioni Unite, i Talebani potrebbero contare su una forza militare che va da 55.000 a 85.000 uomini. Un “esercito” che arriverebbe a 100.000 unità contando anche i non combattenti, gli informatori e i fiancheggiatori. Si tratterebbe di circa la metà dei soldati dell’esercito nazionale afgano (Ansf) che a sua volta può contare su 150.000 poliziotti e personale di intelligence. Se è davvero questo il rapporto di forza, prendere le città è un’impresa pressoché impossibile.

Afghanistan: il quadro interno

Il ritorno dei Signori della guerra

I vecchi e ormai ottuagenari Signori della guerra uniti alla congerie di capi tribali dell’epoca della resistenza contro i sovietici – che appare come una riedizione della vecchia Alleanza del Nord – ritornano sulla scena per gestire quella che hanno già chiamato “seconda resistenza” (moqawamat-e do): eventualità cui si preparano da tempo. Nelle settimane successive all’annuncio del ritiro degli occupanti, diversi gruppi di potere periferico si sono impegnati in manovre armate per posizionarsi come attori “negli sforzi di guerra o di pace” e per controllare il teatro politico e militare. Questi vecchi islamisti, non molto meno radicali dei Talebani e che hanno in media un’ottantina d’anni (c’è anche qualche figlio: è il caso di Batur Dostum o di Ahmad Massud, figlio del famoso comandante del Jamiat, Ahmad Shah Massud) costituiscono uno dei rischi principali di una nuova sanguinosa guerra civile di cui già sono stati buoni attori nel passato. I nomi sono noti: Abdul Rasul Sayyaf, Abdul Rashid Dostum, Muhammad Ismail Khan, il ras di Herat che ha già schierato i suoi uomini a difesa della città occidentale che controlla da sempre (sostiene di poter contare addirittura su 500.000 uomini!). Ovviamente quello dei Signori della guerra non sarebbe un esercito unico e unito ma semmai uno spurio battaglione formato da milizie etniche con lo scopo di difendere le identità delle diverse province; ma soprattutto con la finalità di controllare le rendite di posizione personali dei vari leader nei territori e nel Governo di Kabul. Ghani sembra voler puntare su di loro come sostegno all’esercito della repubblica. La Storia si ripete (su di loro avevano puntato anche gli americani).

Afghanistan: il quadro interno

Un fragile esecutivo

Al di là dell’aspetto militare (che sembra scontare un addestramento perseguito con i canoni degli occupanti che, avendo perso la guerra coi Talebani, non sembrano essere o esser stati i consiglieri migliori), un problema è rappresentato proprio dall’esecutivo afgano o meglio dal presidente Ashraf Ghani, che non vuole mollare la poltrona e rifiuta sia un governo di transizione sia l’idea di farsi da parte. Ashraf Ghani, che non ha brillato nei tentativi negoziali coi Talebani e che all’ultimo incontro a Doha non ha neppure partecipato, è in rotta di collisione con diverse province dove la nomina dei governatori (a lui fedeli) ha sollevato malumori che si sono tramutati anche in incidenti. Né ha trovato consenso la sua ultima trovata di un Supremo Consiglio di Stato, superorganismo (ovviamente solo consultivo) per coinvolgere anche chi è fuori dal governo o si senta politicamente escluso. Ci dovevano essere l’ex presidente Hamid Karzai e il leader di Hizb-e-Islami Gulbiddin Hekmatyar così come Salahuddin Rabbani, il capo di una fazione del Jamiat-e-Islami, assieme ad altri 15 influenti personalità politiche. Ma proprio Karzai, Rabbani ed Hekmatyar hanno rifiutato l’invito, individuando nella decisione del presidente l’ennesima manovra di Ghani per far finta di condividere decisioni che in realtà vuol prendere da solo. Ghani è a capo dell’apparato militare e può contare sulle persone che ha nominato ai vertici dello stato, nell’esercito e nelle province in questi anni.

Ma questa forza apparente del presidente è di fatto una debolezza che rischia di riflettersi anche sul piano militare – dove appunto si vanno aggiungendo i vecchi mujahedin – ed è scomparso l’alleato che dava le indicazioni: Washington.

Quel che resta di Isis e al-Qaeda

Le bombe Eid al-Adha o l’attacco in maggio alla scuola nel quartiere sciita Dasht-i-Barchi di Kabul, ci ricorda la presenza attiva di quel che rimane dell’Isis o meglio della Provincia del Khorasan affiliata all’autoproclamato ed ex Stato Islamico di Raqqa. Schegge apparentemente senza padrone (circa un paio di migliaia) che continuano a colpire e ad attrarre quando possono ex talebani irriducibili o in rotta coi vertici o ex miliziani stranieri (Iraq, Siria) in cerca di un nuovo lavoro. Fenomeno in parte residuale, come la presenza di al-Qaeda, ma che crea caos ulteriore confondendo acque già torbide. Si teme che tutte queste variabili possano essere comprate dal miglior offerente, discorso che vale anche per Talebani e mujahedin.

Come in passato, la presenza di più forze in campo, che necessitano di finanziamenti esterni (i Talebani meno di altri), può alimentare nuovamente le ceneri del conflitto interno per servire l’agenda di chi vuole condizionare da fuori il futuro dell’Afghanistan.

Una lista lunga: dai russi ai pachistani, dagli indiani ai cinesi, dall’Iran alle potenze piccole e grandi del Golfo.

La popolazione civile

C’è un ultimo elemento poco considerato dagli osservatori, molto concentrati sugli aspetti e gli apparati militari (esercito, talebani, milizie): la popolazione civile. Prima di tutto rappresenta una resistenza forte nelle città a un nuovo avvento di un governo oscurantista. Meno vera nelle campagne, questa avversione verso i Talebani si salda comunque probabilmente con una stanchezza diffusa della guerra come dimostrarono le “marce della pace” che attraversarono in lungo e in largo il paese tra il 2018 e il 2019. Ma la gente delle città può anche diventare una forza militare qualora i Talebani tentassero la spallata. Se Governo e Talebani (e forze d’occupazione) avessero ascoltato questo attore solo apparentemente secondario in passato, le cose forse non sarebbero arrivate a questo punto. Resta, comunque la si voglia vedere, una risorsa nel buio tunnel del conflitto.

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Kabul post-Usa: il Cremlino corre ai ripari in Centrasia https://ogzero.org/astana-e-realmente-tramontata-l-afghanistan-e-la-ritirata-usa/ Thu, 22 Jul 2021 10:13:50 +0000 https://ogzero.org/?p=4306 Il punto di vista di Yurii Colombo sulla situazione che la Russia si trova ad affrontare con il ritiro delle truppe Usa dal suolo afgano. L’equilibrio dei paesi ex sovietici traballa e Putin si muove cautamente: dopo le vicende in Nagorno-Karabach e di fronte alla conquista neotalebana che potrebbe riportare l’islamismo radicale nei paesi più […]

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Il punto di vista di Yurii Colombo sulla situazione che la Russia si trova ad affrontare con il ritiro delle truppe Usa dal suolo afgano. L’equilibrio dei paesi ex sovietici traballa e Putin si muove cautamente: dopo le vicende in Nagorno-Karabach e di fronte alla conquista neotalebana che potrebbe riportare l’islamismo radicale nei paesi più poveri del Centrasia la Russia non può che trattare con molta cautela direttamente con i Talebani. Al Cremlino si pensa che gli Stati Uniti abbiano intenzione di usare l’Asia centrale come trampolino di lancio per contenere Russia, Cina, Turchia e Iran. Astana è realmente tramontata?

Questo articolo di Yurii Colombo si affianca ad altri due interventi contemporanei ospitati sul sito, uno di Emanuele Giordana e l’altro di Sabrina Moles, completando la panoramica sulla situazione geopolitica afgana in seguito al ritiro delle truppe americane dal paese che abbiamo intrapreso cominciando da una tavola rotonda che li ha visti partecipi e trasmessa in diretta nella serata del 13 luglio da Radio Blackout, un’analisi che poi abbiamo cercato di approfondire nello studium “La solita musica afgana?”, chiedendoci se sarà un altro Afghanistan quello imbandito in questi due mesi di approcci internazionali.


L’ormai prossima conquista da parte dei neotalebani di tutto il territorio afgano sta inquietando non poco il Cremlino. I motivi sono evidenti. Malgrado Mosca non abbia più confini con Kabul, tre paesi centroasiatici ex sovietici (Tagikistan, Uzbekistan e Turkmenistan) si trovano a diretto contatto con il paese più conteso dell’area, facendo diventare molto concreta la possibilità di una futura penetrazione in Russia della guerriglia radicale islamica.

Fonte: elaborazione OGzero, da La Grande Illusione. L’Afghanistan in guerra dal 1979, a cura di Emanuele Giordana (Rosenberg & Sellier, 2019)

Dopo che Michail Gorbaciov ordinò il ritiro delle truppe sovietiche, l’Urss e poi la Federazione Russa non cessarono naturalmente di interessarsi alle vicende afgane: sostennero il regime di Najibullah e seppur con accortezza, anche lo sforzo bellico degli Usa e dei suoi alleati per stabilizzare e neocolonizzare il paese dopo l’Undici Settembre. Non è un caso che quando l’amministrazione Trump decise di lasciare l’Afghanistan al suo destino, al Cremlino non hanno avuto ragioni per festeggiare la ritirata americana, anzi. Il ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov ha espresso un giudizio molto netto sui 20 anni di presenza Nato in Afghanistan e sulle sue prospettive:

«La situazione tende a un rapido deterioramento, anche nel contesto del ritiro precipitoso delle truppe americane e di altre truppe della Nato, che nei decenni della loro permanenza in questo paese non hanno raggiunto risultati tangibili in termini di stabilizzazione della situazione».

Il confine afgano-tagiko

La Russia però, ancor prima di pensare a strategie ad ampio raggio, ha bisogno di affrontare con urgenza la situazione apertasi al confine tra Afghanistan e Tagikistan con l’inizio dell’estate. Ai primi di luglio 2021, le guardie di frontiera del Tagikistan hanno permesso l’ingresso nel paese a più di 1000 soldati afgani in rotta dopo un duro scontro con i Talebani. Secondo quanto riportato da fonti dell’intelligence russa, i Talebani controllerebbero già oltre il 70 per cento dei 1344 chilometri del confine afgano-tagiko. Che le valutazioni russe siano in linea di massima corrette è stato confermato dal Comitato di Stato per la sicurezza nazionale del Tagikistan, il quale sostiene che i Talebani sarebbero riusciti a impossessarsi dell’ufficio del comandante di frontiera di Ovez nella contea di Hohon. Si tratta del Gorno-Badakhshan, dove gli insediamenti tagiki e afgani si trovano uno di fronte all’altro, separati solo dal fiume Pyanj.

Putin e l’impegno coi tagiki

Vladimir Putin sta monitorando la situazione da vicino e ha espresso dopo un colloquio con il presidente tagiko Emomali Rahmon, anche formalmente la sua disponibilità a fornire sostegno al Tagikistan su base bilaterale e nel quadro dell’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva (l’alleanza militare guidata dalla Russia che ha sostituito il Patto di Varsavia e di cui fanno parte oltre la Federazione Kazakistan, Tagikistan, Kirghizistan l’Armenia e la Bielorussia) se i Talebani dovessero decidere di far penetrare le loro strutture militari nel paese ex sovietico. La Russia ha una presenza non propriamente simbolica in Tagikistan: la sua base militare nel paese è a soli 70 chilometri dal confine afgano e può garantire in pochissimo tempo l’arrivo in zona di truppe e di artiglieria pesante. Tuttavia l’avvertimento del presidente russo per ora sembra più che altro formale come già era avvenuto con l’Armenia in autunno durante la guerra dello scorso autunno nel Nagorno-Karabach. La Russia è rimasta scottata in Afghanistan e ha dovuto constatare che neppure l’alleanza militare più forte del mondo è riuscita a sconfiggere l’islamismo radicale e quindi agirà con molta cautela.

Tanto è vero che mentre rassicurava l’alleato tagiko ha invitato per una due-giorni di colloqui informali a Mosca proprio una delegazione talebana (a dimostrazione che in politica e diplomazia tutto è possibile visto che l’organizzazione musulmana in questione è fuorilegge in Russia).

Una delegazione dell’ufficio politico del movimento talebano composta da quattro persone e guidata dallo sceicco Shahabuddin Delawar ha provato a rassicurare i russi sulle loro intenzioni una volta che avranno conquistato Kabul. I Talebani, secondo il comunicato del ministero degli Esteri russo seguito agli incontri, «hanno confermato il loro interesse a raggiungere una pace sostenibile nel paese attraverso negoziati, tenendo conto degli interessi di tutti i gruppi etnici della popolazione del paese, nonché della loro disponibilità a rispettare i diritti umani, comprese le donne nel quadro delle norme islamiche e delle tradizioni afgane».

I Talebani hanno perfino sostenuto di voler combattere l’Isis sul proprio territorio e di non voler violare i confini degli stati dell’Asia Centrale.

Non credete alle promesse dei Talebani

Forse i Talebani sono cambiati, forse sono meno rigidi ideologicamente e più “glamour”, ma è pur sempre un’organizzazione radicale, è un “ordine della sharia” di cui i russi non si fidano. Si tratta di un approccio condiviso da Andrey Serenko, direttore del centro di analisi della Società russa di scienze politiche, che aggiunge: «Non bisogna credere alle promesse talebane di combattere il narcotraffico, le cui entrate ammontano oggi ad almeno la metà dell’intero bilancio dei Talebani (cioè circa un miliardo di dollari), e neppure bisogna far conto sulle loro promesse di non proliferazione della guerra oltre i confini afgani».

I russi si sarebbero trovati di fronte alla stessa faccia moderata che gli islamici radicali hanno già tentato di mostrare agli americani, anche se nessuno ovviamente può realmente prevedere quali saranno le loro intenzioni una volta che conquisteranno Kabul. Mosca però deve fare di necessità virtù e ha accolto positivamente le rassicurazioni e sottobanco probabilmente si è dimostrata persino disponibile a finanziare la ricostruzione delle infrastrutture afgane proponendo di fornire bollette petrolifere low-cost al futuro governo a trazione talebana.

Turkmeni e uzbeki: di nuovo sotto l’ala di Mosca?

La prudenza del Cremlino è stata intesa perfettamente a Dushanbe tanto è vero che il presidente tagiko Emomali Rahmon ha capito che per ora dovrà difendersi da solo e ha incaricato il ministro della Difesa di mobilitare 20.000 riservisti per rafforzare il confine tagiko-afgano.

Anche gli altri paesi centro-asiatici sono sul chi vive e mostrano preoccupazione, soprattutto il Turkmenistan e l’Uzbekistan, i quali dopo il crollo dell’Urss si erano defilati su posizioni neutrali ma che ora potrebbero essere costretti, almeno temporaneamente, a tornare sotto l’ala protettrice di Mosca.

Le autorità uzbeke hanno già chiuso il ponte di Termez, attraverso il quale i soldati sovietici entrarono in Afghanistan nel 1979 e se ne andarono nel 1989 e il loro esercito sta conducendo esercitazioni su larga scala al confine con l’Afghanistan, mentre nelle scuole si tengono corsi di addestramento militare.

L’arrivo di Lavrov in Uzbekistan.

Il terreno fertile per il successo dei Talebani

Se si esclude il Kazakistan dove la crescita economica sta perfino conducendo alla formazione di una significativa classe media, gli altri paesi centroasiatici restano poverissimi, sono spesso governati da caste corrotte e autoritarie e alimentano costanti flussi migratori verso le metropoli russe.

I Talebani una volta insediatisi al potere potrebbero far diventare il paese la “terra promessa” per radicali e islamisti di tutto il mondo ma soprattutto attirare dalla loro parte quelle frange giovanili del Centrasia che hanno partecipato in migliaia all’avventura dell’Isis in Siria.

Mercenari siriani alleati della Turchia

Tra le fila talebane del resto già adesso si trovano molti giovani militanti di etnia uzbeka, turkmena e tagika, attirati dalle sirene di un’ideologia reazionaria che si presenta radicale e non incline ai compromessi. Ma anche organizzazioni più strutturate e con una certa tradizione come per esempio il Movimento islamico del Turkestan orientale piuttosto attivo nella regione negli ultimi anni, soprattutto in Kirghizistan. Dopo le disfatte subite dall’esercito cinese negli scorsi decenni, questa formazione ha costruito legami stabili anche con i Talebani.

I Talebani verso l’Asia Centrale

Secondo l’editorialista di “Kommersant” Maxim Yushin anche la stessa determinazione dei Talebani a combattere lo Stato Islamico potrebbe rivelarsi un boomerang per i russi e i propri alleati. «I Talebani – scrive Yushin – possono iniziare l’espansione in Asia Centrale, possono cacciare i loro avversari dello Stato Islamico. Ci sarebbero allora decine di migliaia di tagiki e uzbeki, in precedenza arruolati nell’Isis, in fuga dai nuovi padroni del paese che potrebbero riversarsi in Tagikistan e Uzbekistan, il che inevitabilmente aumenterebbe la tensione sociale e politica in questi stati, dove già ci sono abbastanza problemi».

Se la situazione prendesse un tale corso, secondo lo specialista russo di Afghanistan, Mosca allora non potrebbe abbandonare i regimi laici di Dushanbe, Tashkent, Ashgabat e Bishkek al loro destino. «La radicalizzazione della popolazione dell’Asia centrale – conclude Yushin – è uno scenario disastroso per le autorità russe, dato che milioni di persone di queste repubbliche lavorano nel nostro paese. Tutto sommato, da un mal di testa americano, l’Afghanistan molto presto potrebbe trasformarsi in un mal di testa russo».

Un ragionamento che filerebbe fino in fondo se non fosse che una parte dei gruppi dirigenti dei paesi del Centrasia sarebbe tentata di avere relazioni dirette con i Talebani per evitare di tornare a essere delle specie di protettorati russi.

Resta da vedere per la Russia anche quali relazioni stabilire pure con il traballante governo di Kabul. Secondo gli specialisti del Fsb l’esercito afgano sta perdendo la partita con la guerriglia musulmana sul terreno motivazionale come la persero i vietnamiti filoamericani negli anni Sessanta. In teoria il governo in carica dovrebbe avere una struttura di 300.000 uomini bene equipaggiata e dotata di artiglieria pesante che avrebbe agevolmente la meglio contro i 75.000 miliziani talebani. Ma negli ultimi mesi a fronte dell’avanzata dell’opposizione in diverse province, interi distaccamenti governativi, intere tribù, che in precedenza avevano giurato fedeltà a Kabul, avrebbero fatto il più prosaico “salto della quaglia”.

Nessun sostegno a Ghani

Putin continua ovviamente a tenere i contatti con il governo in carica guidato dal presidente Ashraf Ghani provando a capire quanto ancora potrebbe reggere e quanto sia pronto a farsi da parte, alla malaparata, in buon ordine. Secondo un grande esperto di Asia centrale e Afghanistan come Arkady Dubnov,

Mosca non sarebbe pronta ad assicurare il sostegno a Ghani dopo la partenza definitiva degli americani, perché ciò danneggerebbe il dialogo recentemente aperto proprio con i Talebani.

Questi ultimi avrebbero fatto intendere – durante la loro visita moscovita – che la figura di Ghani sarebbe per loro del tutto inaccettabile in qualsiasi ipotesi di governo di coalizione ed è proprio il fatto che lo stesso Ghani cerchi di restare a galla che finisce per irritare Mosca.

Secondo Dubnov, «più a lungo Ghani si aggrappa al potere, maggiore sarà la portata dello spargimento di sangue in Afghanistan e minore sarà l’influenza di Mosca sul futuro governo di Kabul».

E malgrado Kabul abbia fatto di tutto per accreditarsi di fronte a Putin negli ultimi anni, facendo anche scelte bizzarre, come il riconoscimento dell’annessione della Federazione della Crimea nel 2014.

Il tradimento Usa

Mosca non nasconde che vive il ritiro americano come un piccolo tradimento. Quando gli Stati Uniti intervennero in Afghanistan nel 2001, Mosca appoggiò la risoluzione 1368 e più tardi, nel 2008, quando i Talebani iniziarono ad attaccare la rotta pakistana, attraverso la quale veniva effettuato l’80 per cento dei rifornimenti per le truppe della Nato, la Russia garantì all’Alleanza persino il suo spazio aereo. Ora con l’Accordo di Doha, che prevede l’evacuazione delle forze armate statunitensi e la riconciliazione nazionale in Afghanistan, la Russia si è trovata spiazzata di fronte a una mossa che riconosce legittimità all’islamismo radicale e anche per questo ha deciso di trattare direttamente con i Talebani senza ritessere troppo il filo con gli americani.

Al Cremlino si è inteso che gli Stati Uniti non sarebbero tanto interessati a mantenere il controllo sulla situazione in Afghanistan quanto di utilizzare l’Asia centrale come trampolino di lancio per contenere Russia, Cina, Turchia e Iran.

Il ritorno di Astana

Oggi del resto sono le truppe turche a garantire la sicurezza dell’aeroporto di Kabul, la Cina si è offerta di finanziare la ripresa del paese proponendo di farlo entrare di sbieco nel grande progetto della Via della Seta e l’Iran ha già annunciato di volersi proporre come grande mediatore tra Talebani e autorità ufficiali afgane. Se Astana è tramontata, con la ritirata Usa in Afghanistan potrebbe ripresentarsi però in inedite e più estese varianti.

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n. 10 Maghreb – parte I: Tunisia, terra di transito e di povertà https://ogzero.org/terra-di-origine-e-transito-i-flussi-migratori-dalla-tunisia/ Sun, 27 Jun 2021 10:47:02 +0000 https://ogzero.org/?p=4040 Questo saggio dedicato alle rotte nordafricane appartiene alla serie di contributi in cui Fabiana Triburgo approfondisce la questione migratoria: iniziamo dalla Tunisia, terra di origine che presenta una situazione variegata e che produce spostamenti volontari per cause economiche, nonché terra di transito di migranti provenienti da altre regioni: tutte dinamiche che hanno portato ad accordi […]

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Questo saggio dedicato alle rotte nordafricane appartiene alla serie di contributi in cui Fabiana Triburgo approfondisce la questione migratoria: iniziamo dalla Tunisia, terra di origine che presenta una situazione variegata e che produce spostamenti volontari per cause economiche, nonché terra di transito di migranti provenienti da altre regioni: tutte dinamiche che hanno portato ad accordi bilaterali anche con l’Italia. Seguiranno interventi su altri paesi del Nord Africa.


I principali conflitti che attualmente interessano le migrazioni forzate e le prassi di esternalizzazione poste in essere dall’Unione Europea e dai singoli stati membri portano a una predeterminazione delle rotte dei migranti.

Quello che oggi è inevitabile chiedersi è se il nuovo Patto europeo sulla Migrazione e l’Asilo, proposto dalla Commissione UE, possa essere realmente considerato una soluzione della gestione del fenomeno migratorio o se invece vi siano soluzioni legali alternative maggiormente lungimiranti e coraggiose.  


Nord Africa sponda strategica

Oggetto dell’analisi geopolitica in tale sezione del saggio è l’area del Nord Africa e più specificatamente paesi quali Tunisia, Algeria e Libia. L’area invero per definizione è costituita anche da Egitto e Marocco nonostante alcuni studiosi in materia, per comunanze linguistiche, etniche e politiche tendano a ricomprendere in tale contesto geopolitico anche altri paesi africani come la Mauritania e il Sudan facendo anch’essi parte della Lega araba. Il Nord Africa rappresenta geograficamente il canale mediante il quale sia l’Europa sia il Medio Oriente hanno accesso all’area subsahariana del continente africano in quanto essa lambisce l’Oceano Atlantico e il Mar Rosso e al contempo rappresenta una delle principali sponde del Mediterraneo. Al fine di approfondire il processo migratorio volontario o forzato derivante da questa specifica regione risultano dunque rilevanti, rispettivamente, sia le situazioni di instabilità politica rappresentate oggi dalla Tunisia e dall’Algeria quanto le situazioni di conflitto come nel caso della Libia, attualmente “contenute” da parte di un governo transitorio delle Nazioni Unite prima del processo elettorale previsto a dicembre del 2021, come per la Tunisia.

La peculiarità della Tunisia, dell’Algeria e della Libia è da rinvenirsi nel fatto che essi sono paesi di origine e al medesimo tempo di transito dei flussi migratori.

Al riguardo quindi non può essere ignorato il dato secondo il quale lo scorso anno il maggior numero dei migranti sbarcati in Italia, attraversando il Mediterraneo, provenissero proprio dalla Tunisia, oltre 400.000, ma l’aspetto particolarmente rilevante è che in tale circostanza dalla Tunisia non approdarono sulle coste italiane soltanto i migranti dei paesi subsahariani ma i medesimi cittadini tunisini che invece sbarcarono principalmente per motivi economici determinando così un processo di migrazione prettamente volontario fatte salve alcune situazioni specifiche che, come si evincerà dall’analisi completa del paese, potrebbero portare al riconoscimento della protezione internazionale. Tale aspetto risulta di particolare importanza prima di addentrarci più direttamente nella sezione riguardante le nuove rotte migratorie e gli accordi bilaterali a esse sottesi, come quello tra Italia e Tunisia, aventi come fine la limitazione delle correnti umane verso i paesi dell’Unione Europea, espressione di quella prassi illegittima dell’esternalizzazione delle frontiere che costituisce il fulcro argomentativo di questo saggio: si rammenta che la maggior parte dei 12.500 giovani tunisini sbarcati lo scorso anno sono stati rimpatriati proprio in ragione dell’accordo in materia di migrazione tra Italia e Tunisia.

Tunisia: stato debole, immobilismo politico e povertà

L’emigrazione dei giovani tunisini è dovuta principalmente dalla situazione geopolitica del paese caratterizzata attualmente da un crollo economico senza precedenti che, negli scorsi anni, ha già causato numerose proteste da parte della popolazione civile: non possono che riscontrarsi dunque quegli aspetti di assoluta familiarità con le situazioni attuali di instabilità politica, economica e sociale della regione del Medio Oriente, in particolare Libano e Iraq, già precedentemente analizzate.

Anche in Tunisia, infatti, si riscontra al momento un importante indebolimento dell’apparato statale e la conseguente formazione di un governo tecnico guidato da Hichem Mechichi.

Come noto in Tunisia si rilevano sostanziali differenze sociali, industriali, occupazionali, sanitarie e appunto migratorie tra la fascia costiera che gode di un maggiore benessere e quelle interna e meridionale fortemente marginalizzate.

Ciò è fondamentale se si pensa che proprio nella zona interna del paese scoppiarono i moti di proteste che diedero vita alle cosiddette Primavere arabe, termine assolutamente improprio coniato dall’Occidente se si riflette sulle crisi istituzionali che oggi molti di quei paesi – compresa la Tunisia – devono fronteggiare. Inoltre, è sempre nell’area interna del paese che si determinò l’avamposto del Sedicente Stato islamico negli anni successivi alla caduta del regime di Ben Ali tra il 2011 e il 2014 quando i jihadisti di Ansar al-saria – designato come organizzazione terroristica nel 2013 – reclutarono circa 70.000 militanti tunisini.

Il jihadismo: fenomeno fisiologico

Il proselitismo del jihadismo in Tunisia è al momento un fenomeno che rischia di divenire fisiologico: già negli anni precedenti il paese è stato vittima dei brutali attentati del gruppo estremista islamico messi in atto in alcuni dei principali poli turistici nel 2015 così come nelle zone più impervie nelle quali gli attacchi proseguono ancora oggi anche se con minor frequenza rispetto al passato.

Al contempo la Tunisia è stata la nazione che ha esportato il maggior numero di foreign fighters nel conflitto libico e mediorientale come quello siriano e iracheno.

Molti ragazzi tunisini inoltre sono divenuti “cellule” degli attacchi terroristici dell’Isis in Europa, come nel caso del cittadino tunisino Anis Amiri, autore dell’attentato terroristico di Berlino nel 2016. Con il crollo dell’economia è aumentata l’affiliazione al movimento jihadista, soprattutto tra i giovani meno istruiti, essendo talvolta l’unica possibilità di sostentamento dei propri nuclei familiari, mentre i ragazzi con un profilo professionale più rilevante e che hanno completato il loro ciclo di studi, solitamente se possono, fuggono dal paese. La fuga delle professionalità maggiormente qualificate, quali medici e ingegneri, va considerata in relazione al fatto che in passato hanno contribuito non poco alla crescita economica della Libia, ma la continua instabilità determinata dal conflitto libico ha fatto sì che venisse meno una delle principali risorse economiche tunisine ossia quella delle rimesse estere (in particolare quelle libiche): oggi questo flusso legale si è notevolmente ridotto mentre continuano i traffici illegali in particolare nelle città di Madanin e Bin Quantin al confine con la Libia.

Tuttavia, l’instaurazione di un governo ad interim in Libia sotto l’egida delle Nazioni Unite, al fine di accompagnare il paese a un trasparente processo elettorale, ha migliorato seppure solo in parte tale situazione tra i due paesi del Nord Africa.

La chiusura dei confini per pandemia

A peggiorare la situazione economica già al collasso ha ulteriormente contribuito la chiusura dei confini in conseguenza della propagazione del Covid-19: insieme alle rimesse dall’estero infatti, un altro ingente introito dell’economia tunisina era quello legato al turismo che ha visto, a causa della pandemia, la perdita di oltre due milioni di posti di lavoro. In tale contesto dai paesi dell’Unione Europea non arrivano flussi economici di sostentamento per la popolazione civile, diversamente da quanto è avvenuto da parte della Banca Mondiale, ma piuttosto accordi economici sia sul controllo dei migranti che – con riferimento specificatamente ancora all’Italia – sullo smaltimento illecito dei rifiuti provenienti dalla regione Campania.

Il Fondo Monetario Internazionale, invece, a febbraio del 2021 ha esortato la Tunisia ad adottare alcune importanti riforme, come quella della riduzione dei salari, e ha subordinato la concessione dei sussidi economici all’attuazione di queste riforme. Nella recente visita in Italia, il capo di stato tunisino Saied, eletto nel 2019, ha incontrato il presidente Mattarella e il premier Mario Draghi sottolineando come questo evento fosse «una rinnovata occasione per continuare a discutere dei modi per sviluppare i meccanismi di cooperazione e partenariato tra Tunisia e Italia in diversi settori».

Una frammentazione politica eccezionale

Prima ancora Saied si era recato in Libia e in Egitto per rafforzare i rapporti con gli altri due paesi appartenenti alla medesima area geografica. Una delle questioni di maggior interesse per l’analisi degli equilibri istituzionali del paese, del quale il potere è ripartito tra presidente della repubblica, esecutivo e parlamento – continuamente in contrasto tra di loro – in una frammentazione politica eccezionale (circa 200 sigle parlamentari),  è quella delle proteste portate avanti dalla popolazione civile, giovani tra i 15 e i 25 anni, interessata da una nuova ondata partita dalla zona meridionale a gennaio di quest’anno.

Non è certamente la prima volta: la Tunisia invero non ha mai smesso di protestare per la situazione socioeconomica dalla fine della cosiddetta Rivoluzione dei Gelsomini.

Le domande dei tunisini rispetto alla “Primavera” del 2011 non sono tuttavia cambiate anche se oggi non si chiede più la caduta di un regime ma principalmente giustizia sociale; a gennaio vi sono state proteste contro l’esecutivo e contro proteste a sostegno del principale partito tunisino in parlamento Ennahda, partito islamista guidato dall’anziano Rasid Gannusi al vertice del movimento legato ai Fratelli Musulmani. La causa principale delle proteste del 2021 è proprio dovuta alla severa crisi socioeconomica, indubbiamente la peggiore dal 1956, nella quale si registra una vertiginosa caduta del Pil, un forte aumento del tasso di disoccupazione e del debito pubblico, nonché il crollo degli investimenti e la svalutazione del dinaro. Va precisato, tuttavia, che essendo l’economia tunisina soprattutto di tipo informale è difficile rinvenire dati precisi che rispecchino esattamente l’entità dei succitati fenomeni. La pandemia non ha fatto altro che peggiorare tale scenario considerato l’aumento del costo dei generi alimentari, la chiusura di moltissimi hotel del paese nei quali era impiegata buona parte della popolazione tunisina, l’elevato costo dei tamponi rispetto al salario medio di un lavoratore tunisino e il conseguente aumento dei senzatetto che si riscontrano in numero elevato anche nelle strade della capitale.

Disuguaglianze tra zone costiere e interno del paese

Sembra dunque che oggi il paese continui a fare i conti con il passato dal punto di vista economico poiché continuano le disuguaglianze tra le città costiere e le zone interne e dal punto di vista politico poiché, seppure il regime di Ben Ali sia caduto, la popolazione tunisina ha perso totalmente la fiducia vista l’assenza nel paese dell’idea di stato. Tutti i partiti al governo che si sono succeduti a partire dal 2011, inoltre, hanno sempre contato sull’appoggio del partito islamista Ennahda, e continuo è lo scontro tra il premier Mechichi  – sostenuto sia dal partito Ennahda che da quello di Qalb Tounes di stampo liberista e populista del magnate Nabil Karoui – e  il presidente della repubblica Saied che si pone come difensore della Costituzione e primo nemico della corruzione come è avvenuto a gennaio del 2021 quando il capo di stato ha rifiutato la lista dei ministri proposta dal premier Mechichi perché tra i nomi vi erano degli “impresentabili”.

Quello che ha tentato di fare il premier Mechichi era un rimpasto di governo con l’intento di inserire nell’esecutivo figure più vicine ai partiti di maggioranza in modo da trasformare gradualmente il governo del presidente della repubblica in un governo maggiormente “politico”. La classe politica come notiamo è oggi dunque ancora fortemente ripiegata su se stessa, incapace di progettare una società diversa perché ancorata agli stereotipi del passato.

In questo scenario lo stato è per lo più identificato – quando non è ritenuto assente – con le forze di polizia presenti nel paese.

La repressione non si ferma

Rimangono infatti anche nella neonata democrazia tunisina le gravissime violazioni dei diritti umani perpetrati dalle forze di polizia come durante il regime di Habib Bourghiba prima e di Zine el-Abidine Ben Ali dopo, qualificabili come veri stati di polizia che si macchiarono di atroci torture e violentissime repressioni contro i dissidenti. In particolare, occorre sottolineare che a oggi i responsabili degli abusi, delle torture, delle uccisioni commesse dalle forze di polizia nel 2011, in seguito ai moti di protesta della Primavera Araba, restano ancora impuniti (viene ancora loro concessa dal governo la possibilità di non assumersi la responsabilità di quanto avvenuto in passato).  Si ricorda al riguardo che tra il 17 dicembre del 2010 e il 14 gennaio 2021 furono uccisi 132 manifestanti e circa 400 furono feriti, ma il maggiore sindacato di polizia nel paese ha chiesto ai funzionari di non presentarsi alle udienze dei procedimenti penali per le violazioni dei diritti umani compiute in quella circostanza. I sopravvissuti della Rivoluzione dei Gelsomini, in particolare gli eredi dei manifestanti deceduti, le vittime stesse, ossia le persone che hanno subito le violenze, riempiono ancora le aule dei tribunali senza vedersi riconosciuta alcuna forma di risarcimento mentre gli imputati continuano a non presentarsi nonostante molti siano i testimoni. Infatti, pur cambiando il nome di alcuni ministeri o destituendo i ministri al potere durante il regime di Ben Ali, molti funzionari cosiddetti medio-alti perché appena “al di sotto” dei ministri sono attualmente in carica e ritenuti inamovibili. Non sorprende quindi quanto sia avvenuto nel corso delle manifestazioni dello scorso gennaio del 2021 durante le quali sono stati registrati circa 1650 arresti dei manifestanti.

Arresti o sequestri?

Dopo il 30 gennaio del 2021 il sindacato di polizia promise che avrebbe messo in atto una repressione ancora più violenta se i manifestanti avessero continuato. Tra gli abusi delle recenti repressioni si ricorda il caso di Lassad Buajila, mediatore culturale di Torino, avente cittadinanza italiana e tunisina, che venne arrestato per aver filmato le proteste del 15 gennaio 2021 e la conseguente repressione delle forze di polizia: nonostante Buajilla fosse anche un cittadino italiano ha scontato oltre un mese di carcere senza che di lui vi fossero più notizie.

C’è da ricordare inoltre che manifestazioni pacifiche sono state portate avanti anche dalle donne oltre alle persone Lgbtqi, ancora legalmente perseguitate secondo l’art. 230 del codice penale tunisino, denunciando la discriminazione a causa dell’identità di genere o all’orientamento sessuale.

Con riferimento alle donne occorre precisare che, nonostante la Tunisia da sempre sia considerato un paese progressista rispetto al ruolo che queste hanno nella società, avendo riconosciuto loro, già durante il regime di Bourghiba, diversamente dagli altri paesi arabi, alcuni diritti fondamentali come quello al voto o il diritto allo scioglimento del matrimonio, il processo democratico anche in questo caso rimane sospeso poiché ancora oggi queste ereditano la metà di quanto ereditano gli uomini al momento della morte di un familiare, non hanno lo stesso accesso al sistema bancario e soprattutto la maggior parte di loro sono oggi arrestate per prostituzione e adulterio mentre l’adulterio non costituisce reato per gli uomini.

Lo standard minimo non basta

Non sembra pertanto opportuno continuare a considerare la Tunisia quell’unico esempio di successo delle cosiddette Primavere Arabe – nonostante la Costituzione del 2014 e il raggiungimento di “standard minimi  di democratizzazione” – considerata oggi la condizione di povertà estrema della popolazione civile rispetto alla classe dirigente, la diffusa discriminazione di genere, le gravi violazioni dei diritti umani a opera delle forze di polizia nonché l’immobilismo di un sistema politico che non ha saputo compiere un processo di epurazione completo rispetto ai passati regimi e che non osa compiere quelle tanto agognate riforme che porterebbero alla compiutezza del sistema democratico nel paese.

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Stabilizzare Eurasia passando da Erevan https://ogzero.org/tenere-fuori-dal-gioco-washington-e-stabilizzare-l-eurasia/ Sun, 27 Jun 2021 10:00:23 +0000 https://ogzero.org/?p=4050 Sembra che ci sia ancora qualche sparuto paese al mondo in cui la dittatura delle società che realizzano i sondaggi elettorali non spadroneggi: tra questi c’è sicuramente l’Armenia. Nelle settimane precedenti alle elezioni legislative anticipate del 20 giugno, resesi non più procrastinabili dopo la disfatta nella guerra nel Nagorno Karabakh, il premier Nikol Pashinyan era […]

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Sembra che ci sia ancora qualche sparuto paese al mondo in cui la dittatura delle società che realizzano i sondaggi elettorali non spadroneggi: tra questi c’è sicuramente l’Armenia.

Nelle settimane precedenti alle elezioni legislative anticipate del 20 giugno, resesi non più procrastinabili dopo la disfatta nella guerra nel Nagorno Karabakh, il premier Nikol Pashinyan era infatti dato perdente da tutte le rilevazioni delle principali società demoscopiche. Il partner della prestigiosa Gallup International in Armenia – la società Mpg – prevedeva una corsa sul filo di lana di Pashinyan con il suo avversario, l’ex presidente del paese e capo del Blocco Armeno, Robert Kocharian è l’agenzia Ria Novosti, che aveva condotto una rilevazione solo 6 giorni prima del voto, aveva perfino stimato per Kocharyan il 32% delle preferenze contro il 24% di Pashinyan. Inaspettatamente invece il Contratto Civile guidato proprio dal primo ministro Nikol Pashinyan ha fatto saltare il banco ed è decollato al 53,92% dei voti espressi, detronizzando il suo rivale che pur chiamando alla rivalsa contro il disprezzato nemico azero, si è fermato al 21,04%. La terza forza a entrare in parlamento è stata quella guidata dall’ex capo del servizio di sicurezza nazionale del paese Artur Vanetsyan che pur non avendo superato lo sbarramento del 7% (come altri 22 partiti che avevano partecipato alla campagna elettorale) dato che per legge il numero di partiti rappresentati non può essere meno di tre, con il suo 5,2% farà parte lo stesso del consesso legislativo.

Robert Kocharian, lo sconfitto leader del Blocco armeno

Il Blocco armeno ha denunciato brogli ma non è stato preso sul serio neppure dai suoi sostenitori e nessuno è sceso in piazza a protestare a Erevan come invece era successo massicciamente dopo la cocente sconfitta militare dello scorso autunno.

Sviluppi internazionali dopo la sorpresa elettorale

Cosa dunque è successo nelle settimane precedenti al voto da rendere inefficaci le interviste delle società di sondaggio?

Ipotesi sull’incidenza dell’armistizio sul voto

Le elezioni erano in primo luogo un plebiscito sull’armistizio che ha fatto perdere all’Armenia tre quarti del territorio conteso con l’Azerbaijan. La maggioranza degli elettori da questo punto di vista non ha probabilmente cambiato opinione e continua a considerare ancora oggi una “capitolazione” l’accordo di pace firmato sotto l’egida di Mosca, tuttavia è cambiata con il raffreddarsi delle emozioni del momento, la sua percezione della dinamica politica in corso.

«Le elezioni si sono concluse inaspettatamente per molti in Russia, ma questa sorpresa è stata dovuta a sondaggi dubbi o alle valutazioni di alcuni esperti che si sono schierati piuttosto con una delle forze politiche e non hanno fornito un’analisi obiettiva della situazione», ha affermato il ricercatore presso l’Istituto di studi postsovietici e interregionali (Riac) Alexander Gushchin. «Le elezioni hanno dimostrato che la vecchia élite e i suoi leader non sono stati in grado di consolidare attorno a sé la quota principale dell’opinione pubblica armena nemmeno sull’onda dell’insoddisfazione per la sconfitta militare nella seconda guerra del Karabakh. La scia di pubblica negatività verso l’“ex” si è rivelata troppo grande, mentre l’elettorato di Pashinyan è stato mobilitato al massimo» ha osservato ancora Gushchin.

«Le elezioni in Armenia hanno confermato il sostegno alla formula per la futura pace nella regione, elaborata con la mediazione di Mosca lo scorso novembre», sostiene inoltre Andrej Fedorov, direttore del Centro russo per la ricerca politica, su “Kommersant” del 22 giugno 2021. «Se il corso verso la normalizzazione continuerà, per la Russia significherà la possibilità di neutralizzare ai suoi confini meridionali un focolaio di instabilità a lungo termine potenzialmente pericoloso. Allo stesso tempo, il percorso per ridurre il confronto tra Armenia e Azerbaijan dovrebbe facilitare il compito di coinvolgere Baku nei processi di integrazione in Eurasia». Pertanto secondo Fedorov «dopo le elezioni in Armenia, nella nuova fase, la crescente influenza della Russia può essere determinata sia dal mantenimento della pace sia da un ruolo più attivo nella costruzione di nuove relazioni tra le parti coinvolte nel conflitto del Karabakh».

L’emotività dei sondaggi seppellita dalla Realpolitik nelle urne

Ciò che non è risultato credibile – soprattutto ai cittadini armeni che vivono nelle campagne e proverbialmente più saggi e moderati di quelli urbani – è che si possa rimettere in discussione l’accordo raggiunto con il cessate il fuoco o persino riprendere la guerra. Il fatto che Pashinyan, nato e divenuto celebre come attivista dei diritti umani filoccidentale e sostenitore delle esigenze degli strati del lavoro intellettuale, abbia potuto attecchire nell’Armenia profonda e perfino trasformarsi in un politico che guarda a Mosca come ciambella di salvataggio anche nel futuro, è interessante per capire come opinione pubblica e leader possano cambiare pelle rapidamente nel mondo attuale, ma ciò ancora non spiega lo iato tra i polls virtuali che lo davano al 20% e il più del 50% di voti veri ottenuti nei seggi. In realtà – come ha sottolineato Gevorg Mirzayan, professore di Scienze politiche all’Università di Mosca – la maggior parte degli oppositori di Pashinyan è rimasta a casa, e sarebbero loro in maggioranza a formare l’esercito costituito da 1,2 milioni di elettori armeni che non si sono presentati al voto, a cui di fatto va aggiunto quel 17% che ha votato per liste che non avevano alcuna possibilità di entrare in parlamento: due modi di protestare contro la scarsa concretezza di Kocharian piuttosto che un sostegno al premier uscente.

Strategia russa di stabilizzazione e controllo

Questo quadro darebbe qualche chance a Putin di giocare il ruolo di facilitatore del coinvolgimento di Baku nei processi di integrazione in Eurasia e in misura minore di stabilizzazione dei difficili rapporti con la Turchia.

Il fattore più importante del voto, è che la “sacralizzazione” del problema del Karabakh e l’idea di vendetta nazionale non sono già più in cima ai pensieri di ampi strati della società armena, che hanno già altre priorità, in primo luogo la ripresa economica.

Tenere fuori dal gioco Washington

Ad aprile era stata annunciata la costruzione congiunta di una centrale nucleare russo-armena, ulteriore segnale dell’abbraccio economico-energetico russo

Inoltre, la maggioranza degli armeni si è dimostrata più realista del re, comprendendo che nelle condizioni attuali nel Caucaso meridionale e intorno al Artsakh, i partiti “bellicisti” armeni, anche se avessero vinto le elezioni, difficilmente sarebbero stati in grado di capovolgere la situazione a loro favore.

Mosca ha effettivamente tirato un sospiro di sollievo dal voto a Erevan perché garantisce la road-map tripartita definita in autunno e soprattutto la presenza di proprie truppe nella regione per anni. Non è un caso che il giorno dopo il voto senza attendere la conferenza stampa dell’opposizione, il Cremlino ha annunciato il suo «sostegno alla scelta del popolo armeno». Del resto Mosca non solo ha visto quanto Pashinyan nei suoi confronti abbia abbandonato i modi del bizzoso destriero e ora vada al passo come un ubbidiente pony, ma si sia dimostrato negli ultimi mesi un politico accorto. Infatti mentre la diaspora di Parigi e New York si batteva il petto per il Karabakh perduto e l’orgoglio nazionale infranto ma restava a osservare da lontano le vicende patrie, il popolo armeno dimostrava nell’urna più voglia di “normalità” e “pace”, se non proprio con gli invisi azeri almeno con gli altri popoli della regione, russi compresi.

Pashinyan allineato e coperto con il Cremlino

È interessante notare che nel suo primo discorso alla nazione dopo le elezioni, Nikol Pashinyan, da parte sua ha fatto un bel po’ più che un gesto dimostrativo nei confronti della leadership russa. «Esprimo la mia gratitudine alla Federazione Russa, al presidente russo Vladimir Putin e al primo ministro Mikhail Mishustin per il sostegno che hanno fornito all’Armenia e al popolo armeno in questa situazione», ha affermato Pashinyan in Tv. «L’Armenia dovrà approfondire seriamente la cooperazione militare e strategica con la Russia – ha aggiunto il leader armeno – a fronte della politica aggressiva dell’Azerbaijan», ha perfino aggiunto.

Su scala regionale il ruolo di Erevan del resto visto lo stato in cui versa la sua economia e il suo esercito, si riduce a cercare di contrastare l’alleanza sempre più stretta tra Ankara e Baku brandendo come può l’arma del genocidio turco.

Strategia turca di stabilizzazione e controllo

Le cose dalla parte della barricata turcofona si stanno muovendo rapidissimamente. Mentre in Armenia si chiudeva la campagna elettorale, il 15 giugno, il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan giungeva a Şuşa, città simbolo della vittoria militare azera di qualche mese fa, dove con Ilham Aliyev, ha firmato una dichiarazione di Alleanza che d’ora in poi per i contraenti si chiamerà “Storica Dichiarazione di Şuşa”. Dietro ai titoli pomposi, a Şuşa si sono fatti comunque dei concreti passi avanti per quanto riguarda la cooperazione bilaterale nel campo della sicurezza, accordandosi perché l’Azerbaijan crei un «modello ridotto dell’esercito turco». Ankara e Baku conducono regolarmente e già da tempo esercitazioni militari congiunte e operazioni antiterrorismo ma per ora Baku non ha dato alcun segno di voler aderire alla Nato, segno che Ankara potrebbe desiderare avere nelle proprie disponibilità un arsenale e delle truppe autonome e fuori dal controllo Usa.

Allargamento di Astana?

In questa occasione il leader turco ha voluto anche mostrare la sua versione dialogante, diventata la sua postura dominante dell’ultimo periodo: ha chiesto ad Aliyev la normalizzazione delle relazioni con Erevan e ha proposto un format di cooperazione a sei nel Caucaso meridionale, che veda la partecipazione di Turchia, Russia, Azerbaijan, Armenia, Georgia e Iran. L’aver aggiunto nel menù anche l’Iran è un gesto di non poco conto che al Cremlino hanno preso in seria considerazione non solo in vista dei nuovi passi americani di apertura nei confronti del paese islamico ma soprattutto del realismo e del gradualismo con cui la Turchia voglia sviluppare la sua politica egemonica nella regione.

Qualche ora prima, del resto, Erdoğan aveva incontrato il presidente Usa Biden e si era dimostrato anche in questo caso assai disponibile e quasi remissivo malgrado lo “sgambettino stellestrisce” del riconoscimento ufficiale dell’“Olocausto armeno”. Il presidente turco ha promesso a Biden di restare “alleato sincero della Nato” ma non ha ceduto di un palmo né sulla questione del suo ruolo in Siria e Libia né sull’acquisto di sistemi missilistici antiaerei russi S-400.

Biden era venuto in Europa anche per verificare lo stato delle relazioni con Georgia e Ucraina in vista di una loro futura adesione alla Nato ma anche su questo terreno, dovrà tenere conto delle mosse bilaterali degli attori regionali.

Fatale attrazione caucasica per Erdoğan

Recentemente il primo ministro di Tblisi, Irakli Garibashvili, ha visitato Ankara proponendosi ai turchi come potenziale secondo alleato regionale, malgrado la Georgia sia un paese cristiano: una eventualità che sembra piacere ad Erdoğan proprio in vista dell’ingresso del paese ex sovietico nella Alleanza atlantica.

Tenere fuori dal gioco Washington

Ma la Georgia è attiva anche in direzione di un altro paese chiave della zona e cioè l’Ucraina anch’essa predestinata a diventare membro della Nato nonché dell’Unione europea. Tblisi è più avanti nel processo di adesione ma grazie al “fattore Donbass” che potrebbe tornare a essere dirimente in Europa in qualsiasi momento, Kiev potrebbe superarla al fotofinish, malgrado la Georgia abbia anch’essa in Abkhazia e Ossezia del Sud dei contenziosi aperti con la Russia e proprio la comune avversione a essa è il mastice che tiene insieme i due paesi ex sovietici.

Siamo a un passaggio fondamentale. L’ascendente di Ankara cerca di emarginare la declinante Mosca nella regione senza però per il momento farsela nemica come invece è nelle corde di Ucraina e Georgia: tenere fuori dal gioco Washington è nel loro comune interesse.

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n. 9 Iraq: Il Destino comune dei paesi mesopotamici. (I) La fine dello stato e il settarismo https://ogzero.org/una-mobilitazione-costante-in-iraq-il-destino-comune-dei-paesi-mesopotamici/ Tue, 22 Jun 2021 10:41:18 +0000 https://ogzero.org/?p=3949 Lo spazio dedicato alla sezione irachena non a caso cade a ridosso delle puntate siriane nella serie di articoli dedicati alle rotte mediorientali della raccolta di analisi stilate da Fabiana Triburgo sulla questione migratoria. Intanto evidenziamo come a completamento dell’area si assista agli stessi meccanismi condivisi tra Siria, Libano e Iraq, la cui frazione nella serie […]

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Lo spazio dedicato alla sezione irachena non a caso cade a ridosso delle puntate siriane nella serie di articoli dedicati alle rotte mediorientali della raccolta di analisi stilate da Fabiana Triburgo sulla questione migratoria. Intanto evidenziamo come a completamento dell’area si assista agli stessi meccanismi condivisi tra Siria, Libano e Iraq, la cui frazione nella serie di articoli si compone di due interventi strettamente correlati. Anche in Iraq ovviamente mordono ancora i danni della divisione Sykes-Picot e infatti l’Isis simbolicamente si manifestò sul confine tirato senza criterio dalle potenze coloniali per spartirsi i territori dell’impero ottomano al suo crollo.

L’autrice ha dapprima analizzato nel presente articolo il settarismo religioso che ha visto la presa del potere sciita alla caduta di Saddam e le conseguenti proteste sunnite, veicolo della rivendicazione dei diritti civili, espresse in Libano in modo ecumenico con il Movimento popolare e in Siria con l’insurrezione contro al-Assad; tra la protesta repressa da al-Maliki e quella dei movimenti giovanili del 2019 l’Isis scorrazzò per ampia parte del territorio iracheno, sgozzando e perseguendo le minoranze religiose, in particolare gli yazidi; a corollario di ciò l’autrice analizza i risvolti geopolitici degli incontri interreligiosi promossi da Bergoglio.

Nel successivo articolo si occuperà delle tribù curde nel Kurdistan iracheno e della presenza del Pkk sui monti di  Kandil e della conseguente aggressione turca.


n. 9, parte I

I principali conflitti che attualmente interessano le migrazioni forzate e le prassi di esternalizzazione poste in essere dall’Unione Europea e dai singoli stati membri portano a una predeterminazione delle rotte dei migranti.

Quello che oggi è inevitabile chiedersi è se il nuovo Patto europeo sulla migrazione e l’asilo, proposto dalla Commissione UE, possa essere realmente considerato una soluzione della gestione del fenomeno migratorio o se invece vi siano soluzioni legali alternative maggiormente lungimiranti e coraggiose.  

Non c’è pace a 30 anni dalla Guerra del Golfo

Quest’anno ricorre il trentennale della prima guerra del Golfo ma la situazione geopolitica che oggi si riscontra in Iraq è fortemente diversa da quella di allora. Gli elementi peculiari sui quali occorre soffermarsi sono attualmente: il settarismo religioso, la questione curda con l’ingerenza della Turchia nel territorio iracheno, la recrudescenza dello Stato Islamico, l’ingerenza iraniana nel paese, gli scontri tra gli Stati Uniti e l’Iran nonché la mobilitazione costante della popolazione civile contro l’esecutivo al potere. L’Iraq che raggiunse l’indipendenza dal colonialismo inglese nel 1932 e nel 1968 vide l’ascesa del Partito socialista unico (Ba’at). E già si notano le rilevanti “contaminazioni” con gli altri paesi del Medioriente riscontrate nel corso dell’analisi geopolitica del Libano e della Siria, poi fortemente manifestate con le primavere arabe: infatti, nell’instaurazione dell’esecutivo baatista in Iraq non si può ignorare che nello stesso periodo, all’inizio degli anni Settanta, anche in quella Siria geograficamente prossima, il medesimo partito si impose con veemenza e diede inizio al regime degli al-Assad, con Hafiz padre dell’attuale presidente siriano. Nel contesto iracheno baatista però si stagliò in seguito la dittatura di Saddam Hussein salito al potere nel 1979. Da questo momento in poi la storia irachena seguì per alcuni anni un iter peculiare: dapprima lo scontro con l’Iran nel 1980 terminato solo nel 1988, dal quale il paese uscì fortemente indebolito, e successivamente l’invasione del Kuwait, a causa dell’abbassamento dei prezzi del petrolio, nel 1990, alla quale seguì lo scoppio della Prima guerra del Golfo del 1991.

una mobilitazione costante in Iraq

Colin Powell durante il Consiglio di Sicurezza dell’Onu sventola la prova falsa di una provetta di antrace, accusando Saddam di guerra chimica e scatenando la Seconda guerra del Golfo

Tale ultimo conflitto, su iniziativa statunitense e su legittimazione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite che vide il coinvolgimento dell’intervento armato di numerose potenze occidentali e che ebbe un’eco mediatica mai riscontrata fino a quel momento, fu totalmente diverso dall’intervento militare del 2003 per opera di Stati Uniti e Regno Unito – questa volta fortemente osteggiato dal Consiglio di Sicurezza – sulla base dell’esistenza di presunte armi di distruzioni di massa in Iraq, invero mai rinvenute. A ogni modo, ciò che è rilevante notare è che alla destituzione del regime di Saddam Hussein, individuato dalle truppe statunitensi nello stesso anno e impiccato nel 2006, si determinò l’instaurazione di un governo ad interim: un esecutivo basato sulla coalizione curdo-sciita guidato dal premier Nouri al-Maliki. Quando però quest’ultimo incentrò su di sé tutti i poteri con l’ossessivo controllo della popolazione irachena, nel 2011 il suo governo vacillò – come in Siria avvenne per Bashar al-Assad – per cui si pensò a una “primavera irachena”.

La protesta sunnita

In Iraq però la protesta popolare in quegli anni non si accese tanto sulla base della mancanza di riconoscimento delle libertà e dei diritti civili della popolazione come in Siria, quanto piuttosto sulla reazione violenta dei sunniti – stanchi della continua discriminazione religiosa subita dall’esecutivo sciita – che tuttavia non sfociò in un conflitto civile ma in una violentissima repressione del popolo sunnita da parte del governo centrale e alla quale seguì nuovamente la vittoria, nel corso delle elezioni provinciali del 2012, del premier Nouri al-Maliki. La storia irachena ritrova comunanza con la Siria per l’ascesa del sedicente Stato Islamico in entrambi i paesi e così, come in Siria Putin, anche Haydar al-Abadi in Iraq il 9 dicembre del 2017 dichiarò la sconfitta dell’IS in conseguenza dell’intervento armato da parte dell’esercito iracheno, delle milizie sciite e dei peshmerga (“combattenti fino alla morte”) curdi che in quell’anno riconquistarono la città di Mosul, la prima città a essere assediata in Iraq dal sedicente Stato Islamico. Gli anni seguenti, dopo la nomina nel 2018 di un’economista a primo ministro (Adil Abdul Mahdi), si caratterizzarono prevalentemente per una commistione con la situazione socioeconomica libanese. In particolare, nel 2019, così come in Libano, l’Iraq registrò una rovinosa discesa del Pil: venne reso noto dall’esecutivo un deficit economico di più di 50 miliardi di dollari, si attuarono tagli al settore pubblico – nel quale era impiegata il 40% della popolazione – e, infine, si determinò una riduzione dell’export iracheno. Le proteste popolari – delle quali simbolo è l’irachena piazza Tahrir – iniziate il 1° ottobre contro il governo, a causa della situazione economica, della corruzione e della disoccupazione nel paese, vennero promosse principalmente dal leader sciita Muqtada al-Sadr e portarono alle dimissioni a novembre del 2019 di Abdul Mahdi, come in Libano si dimise il primo ministro Saad Hariri in seguito alle proteste del 19 ottobre. Sia in Iraq che in Libano infatti a protestare contro la situazione di indigenza della popolazione e il governo furono prevalentemente i giovani, tuttavia la polizia e le milizie sciite estremiste filoiraniane in Iraq – i c.d. “squadroni della morte” – così come l’esercito libanese, furono sguinzagliati a soffocare la rivolta popolare giovanile con il terrore e con una repressione sanguinaria. Amnesty International intervenne in merito dichiarando che queste sono costate la vita ad almeno 300 iracheni. Al riguardo c’è da dire che il leader sciita Muqtada al-Sadr a capo del partito sadrista se in un primo momento si schierò con i manifestanti, istituendo una forza paramilitare per proteggere i civili scesi in piazza, successivamente utilizzò la medesima forza militare per reprimere le proteste. Tuttavia, nel mese scorso, dopo una momentanea riduzione della mobilitazione popolare, dovuta principalmente alla diffusione del Covid 19, le proteste dei giovani della “rivoluzione di ottobre” contro la corruzione e il regime settario nel paese sono tornate a infiammarsi e con esse anche le violente repressioni della polizia irachena e delle milizie armate sciite fondamentaliste.

una mobilitazione costante in Iraq

Autunno 2019, squadroni della morte di militanti sciiti filoiraniani attaccano e massacrano i giovani manifestanti antisistema a Kerbala e Najaf

La crisi dell’idea di stato condiziona lo scenario geopolitico mediorientale

Mustafa al-Kadhimi – ex capo dell’intelligence irachena, nominato premier nel maggio del 2020 – dopo cinque mesi di stallo politico seguito alle dimissioni di Abdul Madhi – pur dimostrando forti aperture verso le istanze delle proteste popolari e chiedendo che fossero giudicati tutti coloro che si macchiarono della violenta repressione; e oggi è in realtà a capo di un esecutivo  fortemente depotenziato allo stesso modo di quello libanese che, in seguito alle proteste del 2019, subì le dimissioni di tre premier nell’arco di un anno. Tuttavia la necessità dell’immutabilità e della stabilità degli attuali governi è resa esplicita dalle continue conflittualità e dalle ingerenze degli attori regionali e delle potenze internazionali presenti e riscontrata anche in altri paesi dell’area mediorientale, primo tra tutti quello siriano come precedentemente analizzato. Così come in Siria, quest’anno il prossimo 10 ottobre in Iraq sono previste le elezioni fortemente reclamate dai giovani manifestanti già dallo scorso anno, ma proprio come nella repubblica guidata da Bashar al-Assad, la popolazione civile non spera più che queste possano condurre a una svolta politica e sociale nel paese. Rimangono evidenti le difficoltà del presidente di gestire le tensioni politiche tra sunniti, sciiti filoiraniani e sciiti antiraniani. Nel 2021 la centralità dello stato iracheno è messa in discussione da numerosi fattori: tra questi tuttavia, rispetto all’obiettivo che tale sezione del saggio si propone, saranno analizzati soltanto quelli rilevanti perché realmente o potenzialmente induttivi del fenomeno migratorio forzato.

Il settarismo religioso ed etnico in Iraq. Le persecuzioni contro le principali minoranze religiose

Nel periodo della transizione “democratica” del paese dal 2003 al 2013, dopo la caduta di Saddam Hussein, seguì un esecutivo guidato da Nouri al-Maliki con funzioni prevalentemente securitarie che non solo provocò una crescente marginalizzazione della componente sunnita nel paese, ma anche continue intimidazioni nei confronti delle minoranze etnico religiose tra cui quella cristiana. A tale periodo seguì poi quello dell’occupazione del territorio iracheno da parte del sedicente Stato Islamico che aggravò ulteriormente la situazione ponendo in essere violenze generalizzate contro tutte le popolazioni appartenenti alle minoranze locali, in particolare contro i cristiani e gli yazidi ritenuti “infedeli”.

Queste azioni provocarono lo sfollamento di una moltitudine di persone appartenenti alle suddette minoranze dalla piana di Ninive (al confine con la Siria) verso le zone del Nord, in particolare quelle del vicino Kurdistan iracheno. Tale situazione agevolò, infatti, un rilevante aumento degli sfollati interni: più di tre milioni nel 2018 ma, essendo tale provincia autonoma un territorio considerato diverso da quello guidato dall’autorità centrale di Baghdad, gli Idp (Internally displaced persons) dovettero seguire, per vedersi riconosciuta una legittimazione della loro presenza sul territorio, procedure e iter burocratici simili a quelli ai quali sono sottoposti i richiedenti asilo. La costituzione approvata nel 2005 invero non ha mai ovviato alla frammentarietà, al settarismo e alla fragilità del sistema istituzionale del paese nel quale sono prevalenti le comunità sciite, sunnite e curde. Il 95 per cento della popolazione irachena infatti appartiene a due gruppi etnici: gli arabi – che costituiscono circa l’80 per cento della popolazione locale – e i curdi iracheni che costituiscono circa il 15/20 per cento della popolazione; tuttavia entrambi i gruppi sono prevalentemente musulmani: il 65 per cento sono sciiti mentre circa il 30 per cento sunniti.

Distinzioni etno-religiose

Gli sciiti sono quasi totalmente arabi mentre i sunniti comprendono arabi, curdi ma anche azeri e turkmeni. Il restante 5 per cento della popolazione irachena è costituito da cristiani, yazidi, kakai, sabeani, bahai, turkmeni – iracheni, turco-circassi, beduini, shabak, armeni, iracheni neri e romani. Cristiani– il cui luogo di origine è la piana di Ninive – sono i caldei (80 per cento dei cristiani presenti nel paese), i siriaci, gli armeni, gli assiri e gli arabi. In particolare, i caldei sono in comunione con la Chiesa cattolica di Roma, mentre gli assiri fanno parte di una chiesa sorella a quella cattolica di Roma ossia la Chiesa assira d’Oriente del quale patriarcato negli anni Quaranta si trasferì negli Stati Uniti mentre negli ultimi anni ha di nuovo ristabilito la sua sede a Erbil, capoluogo della provincia autonoma curda. A partire dal 2014, ossia dalla dominazione di buona parte del territorio iracheno dal sedicente Stato Islamico, i cristiani hanno subito deportazioni e massacri. Le comunità cristiane tuttavia vennero perseguitate, in ragione del proprio credo, già prima del 2014 quando 1,4 milioni di cristiani fuggirono dall’Iraq e oggi – pur costituendo una minoranza – continuano a essere perseguitate dalle comunità arabe presenti nel paese, soppiantate spesso dal ripopolamento delle tribù sciite nei loro “luoghi storici” e il cui ritorno in tali territori viene reso impossibile dal costante intervento delle diverse milizie arabe presenti nel paese.

Diplomazia pontificia: marzo 2021, Bergoglio incontra al-Sistani

In questo contesto di persecuzione delle minoranze cristiane in Iraq si inserisce la visita di Jorge Bergoglio del 5-8 marzo 2021: tale accadimento ha un valore non solo dal punto di vista religioso ma anche una forte rilevanza politico sociale. Sotto il primo profilo vi è da sottolineare che Bergoglio ha presenziato a una celebrazione nella Piana di Ur luogo nel quale è nato il profeta Abramo più precisamente nella regione meridionale irachena di Dhi Qar. L’evento si riveste di un’importanza religiosa non indifferente se pensiamo che una delle definizioni maggiormente impiegate per le tre religioni monoteistiche è quella di “religioni abramitiche”: Cristianesimo, Ebraismo e Islam condividono tutte la fede nel profeta Abramo anche se la vita e la storia del profeta è ricostruita in modo differente dall’Islam rispetto a quanto riportato nel Vecchio Testamento. In particolare, i musulmani non credono che Abramo appartenga a una delle tre religioni monoteiste ma che debba essere considerato piuttosto come “amico di Dio” e per questo padre di tutti i profeti che si sono succeduti nella storia compreso lo stesso Maometto. Il viaggio del Pontefice svolto con l’intento di ripercorrere le “tappe di Abramo” rievoca l’intenzione manifestata nella terza enciclica del 2020 Fratelli tutti. L’espressione va intesa in tale specifico scenario geopolitico anche nel senso di parità di diritti per ogni individuo a prescindere dall’appartenenza a una determinata etnia, comunità religiosa, politica nazionale o regionale, lasciando intendere anche la necessità di riconsiderare il ruolo delle milizie repressive nel paese nei confronti dei civili. Secondo il patriarca dei caldei in Iraq il termine fratellanza è nominato dal pontefice con l’intento di superare gli scontri religiosi tra le comunità sunnite e sciite da un lato, cristiane e musulmane dall’altro e infine quelli etnici tra arabi e curdi. Secondo aspetto rilevante del viaggio di Bergoglio è quello dell’incontro a Najaf con l’ayatollah sciita Ali al-Sistani, considerato la guida internazionale, spirituale e politica per eccellenza dell’Iraq e in contrasto con la Guida Suprema della rivoluzione iraniana, l’ayatollah Ali Khamenei, guida sciita della rivoluzione iraniana. Sistani, grato agli Usa per l’aiuto per la lotta contro Saddam Hussein ma sempre in opposizione all’ingerenza americana nel paese, nel 2014 legittimò l’uso delle armi da parte dei civili iracheni sotto la sua autorità – fatti confluire all’interno delle forze istituzionali di “Mobilitazione Popolare” – per difendersi dagli attacchi del sedicente Stato Islamico contro i principali luoghi sciiti iracheni. L’ayatollah Ali Sistani caldeggiò inoltre le sopraccitate mobilitazioni popolari del 2019 contro la corruzione e le politiche economiche e occupazionali del governo e lo strapotere delle milizie armate. Tale visita ha quindi una rilevanza maggiormente politica rispetto alla celebrazione liturgica compiuta nella piana di Ur essendo il pontefice ben consapevole che le proteste popolari sono state portate avanti negli ultimi anni non solo dai giovani iracheni ma anche da quelli libanesi, algerini e tunisini. Infine, sempre in tale ottica politico-sociale il papa ha visitato anche Erbil, Qaraqosh e Mosul città violentemente dominata dal sedicente Stato Islamico dal 2014 al 2017. Già a Ur il pontefice aveva detto: «Noi credenti non possiamo tacere quando il terrorismo abusa della religione».

Gli yazidi, ma soprattutto le yazide

una mobilitazione costante in Iraq

Premio Sackarov 2016: Nadia Murad e Lamiya Aji Bashar, due donne yazide vittime dell’Isis sono insignite del premio europeo per chi lotta per i diritti umani

Altra famiglia oggetto di persecuzione nel paese è quella degli yazidi, tribù indigena nei territori del Sinjar. Lo yazidismo inoltre è una religione più antica delle tre religioni abramitiche e i suoi seguaci vennero perseguitati e uccisi perché ritenuti dagli arabi musulmani adoranti il “diavolo”. La loro lingua è il Kurmanji ossia una variante della lingua curda. Quando nel 2014 l’Isis invase i territori del Sinjar molti membri furono uccisi, sfollati e ridotti in schiavitù, circa 7000 persone, principalmente per entrare a combattere tra le milizie del sedicente Stato Islamico o di quelle curde. Nel dicembre del 2014 tuttavia le unità irachene di “Mobilitazione Popolare”, i peshmerga e le stesse milizie yazide determinarono la sconfitta dell’Isis nella stessa zona del Sinjar. Gli Yazidi sfollati nei campi del Kurdistan iracheno si trovano tuttora in campi periferici alle principali città del Kurdistan ma questo non ha impedito un fenomeno di eccezionale ed esemplare peculiarità: diverse donne sfollate interne – nonostante molte di loro siano state in passato rapite e siano divenute oggetto di abusi da parte degli uomini del sedicente Stato Islamico nel periodo dal 2014 al 2017 – hanno ottenuto in tale dimensione autonomia e opportunità che non avrebbero mai avuto nei loro villaggi grazie a progetti educativi – anche sulla sessualità – nonché di alfabetizzazione che gli assistenti sociali nel paese hanno garantito a tutti gli sfollati interni nel Kurdistan. Diversi sono stati i corsi dedicati in particolar modo alle donne non solo di formazione professionale ma anche sull’uguaglianza di genere, sulla genitorialità e più in generale quelli d’informazione sui loro diritti tra cui quello sulla possibilità di denunciare le violenze domestiche.

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n. 9 Iraq: Il Destino comune dei paesi mesopotamici. (II) I curdi iracheni https://ogzero.org/guerre-civili-e-per-procura-e-invadenza-neo-ottomana-in-iraq/ Tue, 22 Jun 2021 10:40:56 +0000 https://ogzero.org/?p=3951 Lo spazio dedicato alla sezione irachena non a caso cade a ridosso delle puntate siriane nella serie di articoli dedicati alle rotte mediorientali della raccolta di analisi stilate da Fabiana Triburgo sulla questione migratoria. Intanto evidenziamo come a completamento dell’area si assista agli stessi meccanismi condivisi tra Siria, Libano e Iraq, la cui frazione nella serie […]

L'articolo n. 9 Iraq: Il Destino comune dei paesi mesopotamici. (II) I curdi iracheni proviene da OGzero.

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Lo spazio dedicato alla sezione irachena non a caso cade a ridosso delle puntate siriane nella serie di articoli dedicati alle rotte mediorientali della raccolta di analisi stilate da Fabiana Triburgo sulla questione migratoria. Intanto evidenziamo come a completamento dell’area si assista agli stessi meccanismi condivisi tra Siria, Libano e Iraq, la cui frazione nella serie di articoli si compone di due interventi strettamente correlati. Anche in Iraq ovviamente mordono ancora i danni della divisione Sykes-Picot e infatti l’Isis simbolicamente si manifestò sul confine tirato senza criterio dalle potenze coloniali per spartirsi i territori dell’impero ottomano al suo crollo.

Questo secondo articolo si occupa delle tribù curde nel Kurdistan iracheno e della presenza del Pkk sui monti di Kandil e della conseguente aggressione turca, collegata con gli anni di al-Baghdadi e l’Isis a Mosul. Analizzando gli stessi eventi riproposti sotto nuova ottica in questo pezzo complementare al precedente in cui l’autrice aveva analizzato il settarismo religioso che ha visto la presa del potere sciita alla caduta di Saddam e le conseguenti proteste sunnite, veicolo della rivendicazione dei diritti civili, espresse in Libano in modo ecumenico con il Movimento di popolo e in Siria con l’insurrezione contro al-Assad; tra la protesta repressa da al-Maliki e quella dei movimenti giovanili del 2019 l’Isis scorrazzò per ampia parte del territorio iracheno, sgozzando e perseguendo le minoranze religiose, in particolare perpetrando un genocidio della popolazione yazida.


n. 9, parte II

I principali conflitti che attualmente interessano le migrazioni forzate e le prassi di esternalizzazione poste in essere dall’Unione Europea e dai singoli stati membri portano a una predeterminazione delle rotte dei migranti.

Quello che oggi è inevitabile chiedersi è se il nuovo Patto europeo sulla migrazione e l’asilo, proposto dalla Commissione UE, possa essere realmente considerato una soluzione della gestione del fenomeno migratorio o se invece vi siano soluzioni legali alternative maggiormente lungimiranti e coraggiose.  

Il Kurdistan di Barzani stringe accordi, tradendo i fratelli turchi

Il 9 ottobre 2020 è stato siglato un accordo tra Baghdad ed Erbil per cooperare in modo congiunto all’espulsione delle cellule del Pkk: la presenza del partito in Iraq rappresenta anche la legittimazione dell’intervento della Turchia nei territori iracheni. In conclusione, la diversità etnica e religiosa di tali due minoranze, come delle altre, pur essendo riconosciuta a livello costituzionale non è adeguatamente tutelata nelle sue garanzie previste per legge venendo escluse queste comunità da qualunque processo decisionale a livello politico, condizione ulteriormente aggravata proprio a causa del precedente dominio del sedicente Stato Islamico nell’area. La situazione di un pluralismo di etnie e religioni che caratterizza il territorio iracheno determina lo scontro interetnico costante non garantendo il governo iracheno un’effettiva decentralizzazione del potere a livello amministrativo locale che invece consentirebbe un’esistenza pacifica tra le diverse etnie, facilitando l’inclusione sociopolitica tra le comunità per il governo dei territori in cui esse sono presenti. Ciò, come già accennato, deve essere ricondotto alla formulazione della Costituzione del 2005 redatta a seguito della caduta di Saddam Hussein soprattutto dai partiti sciiti con l’ausilio dell’Iran interessato al fatto che l’Iraq non acquisisse più lo stesso potere che ebbe durante la dittatura di Saddam Hussein.

L’etnia curda e i conflitti nel Kurdistan iracheno

La semplice cooperazione tra Erbil e Baghdad prevista in Costituzione determina una difficile attribuzione dei ruoli e dei poteri. Con riferimento al popolo curdo – vittima nel 1988 del genocidio di al-Anfal, ordito da Saddam Hussein con l’utilizzo di armi chimiche – la disputa sulla governance investe non più solo attori interni ma anche potenze regionali estere quali la Turchia, l’Iran o internazionali come gli Stati Uniti. Le operazioni militari nel Nord del paese – presenti ancora oggi – hanno provocato trent’anni di vittime, di sfollamenti e di distruzione. Nei mesi scorsi il Christian Peacemaker Team – Iraqi Kurdistan, l’Iraqi Civil Society Iniziative, e il Kurdistan Social Forum hanno chiesto pubblicamente a tutte le organizzazioni locali e internazionali di aderire alla campagna per la fine dei bombardamenti nel Kurdistan iracheno riferendosi in particolar modo a quelli compiuti negli ultimi anni dalla Turchia e dall’Iran.

Il genocidio di al-Anfal fu perpetrato con armi chimiche da Saddam Hussein nel 1988

L’invadenza neo-ottomana

L’auspicio è quello di un cessate il fuoco completo tra le due potenze regionali nel territorio iracheno e l’immediato smantellamento di tutte le basi militari straniere dalla provincia autonoma curda, chiedendo ai governi di Ankara, Tehran, Baghdad, Erbil e alle Nazioni Unite di innescare un processo diplomatico per porre fine ai combattimenti. Negli ultimi mesi si sono verificati diversi attacchi armati che hanno coinvolto la provincia autonoma. Nel giugno del 2020 la Turchia diede inizio all’operazione militare “Artiglio di Tigre”, è considerata la più lunga delle invasioni di Ankara del territorio iracheno, condotta contro il Pkk sostenuto dalla popolazione nel Sudest della Turchia ma attivo anche nel Kurdistan iracheno. L’obiettivo della Turchia è quello di colpire i membri del Partito dei lavoratori in Kurdistan e le loro roccaforti nelle aree irachene. Baghdad ha perciò più volte accusato Ankara di violare la sovranità del territorio curdo chiedendo il ritiro delle proprie truppe e la cessazione delle aggressive attività militari di Ankara. Le milizie turche hanno infatti preso di mira anche i campi profughi nelle città di Makhumar e Sinjar. In particolare, a Sinjar nella provincia settentrionale di Ninive, il governo iracheno ha esortato i membri del Pkk a lasciare la regione senza successo: Ypg/Ypj han preso il controllo della regione nel 2014 in seguito all’intervento a protezione della comunità yazida contro lo Stato Islamico. A febbraio del 2021 è stata decretata la fine dell’operazione turca “Artiglio di Tigre 2” che ha causato la morte di 50 combattenti del Pkk. Ciò nonostante, anche dopo il 14 febbraio, sono continuati i bombardamenti nel Nord dell’Iraq in territorio curdo: 2 aprile 2021 caccia turchi attaccano postazioni militari del Pkk.

guerre civili e per procura

Posto di blocco di resistenti Ypg/Ypj a Kandil nel 2013.

Il 30 aprile Ankara si è detta pronta a ristabilire una propria base militare a Nord dell’Iraq e il ministro della Difesa turco ha annunciato la continuazione di due nuove operazioni militari nel Nord del paese. Secondo Erdoğan: «Non c’è posto per il gruppo separatista terroristico nel futuro della Turchia, dell’Iraq o della Siria» e ha aggiunto «continueremo a combattere fino a quando queste bande criminali che causano solo lacrime e distruzione non verranno sradicate». Infine, nel mese di maggio in particolare il ministro degli Esteri iracheno ha espresso risentimento per la visita del ministro della Difesa turco a una base militare nella provincia di Sirniak senza essersi prima coordinato con l’Iraq che ha nuovamente denunciato: «Continue violazioni della sovranità e dell’inviolabilità del suo territorio e del suo spazio aereo da parte delle forze militari turche». Nella regione curda inoltre, risparmiata dalle proteste popolari che coinvolsero l’intero paese nel 2019, si sono verificate mobilitazioni giovanili a partire dalla fine del 2020 e continuate nel 2021, pur essendo comunque represse nel sangue da parte delle milizie irachene.

Guerre civili e per procura in Kurdistan

In tale ottica si evidenzia il problema storico della necessità della riforma delle forze di sicurezza dei peshmerga e dell’intelligence che non sono organizzazioni ufficiali di polizia della provincia autonoma, ma rispondono piuttosto a partiti di tendenza opposta al Pkk e questo potrebbe innescare una guerra civile e indebolire e dividere il popolo curdo. Inoltre il Kurdistan come il resto del territorio iracheno è il campo sul quale si fronteggiano le forze militari iraniane e quelle statunitensi: il 14 aprile 2021 si è registrato un attacco della sconosciuta milizia sciita “Guardiani del sangue” contro l’aeroporto militare di Erbil e la base della Coalizione internazionale a guida Usa sempre nel capoluogo del Kurdistan; evidenziando come la sicurezza della provincia autonoma sia continuamente esposta all’intensificarsi degli attacchi iraniani contro obiettivi statunitensi.

Il conflitto tra Usa e Iran sul territorio iracheno

Cosi come tra regime turco e Pkk nel Kurdistan iracheno, anche i violenti scontri militari tra Usa e Iran sull’intero territorio dell’Iraq sono una costante. Già nel maggio del 2019 l’allora segretario di stato Mike Pompeo chiese all’allora presidente iracheno Mahdi rassicurazioni sul disarmo delle varie milizie sciite vicine a Tehran (Forze di mobilitazione popolare in Iraq – Pmf), nate in risposta alla richiesta del jihad da parte dell’ayatolllah Ali al-Sistani contro lo Stato islamico, dopo la caduta di Mosul, e successivamente unitesi alle milizie iraniane dell’al-Quds ossia il “braccio armato” dei Guardiani della rivoluzione dell’Iran a capo delle quali vi era il generale Qasem Soleimani. Gli Stati Uniti inoltre vollero rassicurazioni anche in merito alla condizione di sicurezza di circa 6000 militari americani presenti in Iraq e dunque cominciarono a inviare navi da guerra sul territorio. Tale escalation di tensione tra Usa e Iran avvenne in seguito alla visita del presidente iraniano Rohani il 6 marzo 2019 quando incontrò figure politiche militari e religiose irachene ponendo le basi per una collaborazione tra Iran e Iraq in più settori. La situazione tra Stati Uniti e Iran peggiorò con l’uccisione all’aeroporto di Baghdad del generale iraniano Qasem Soleimani il 3 gennaio 2020 – in seguito sostituito da Esmail Ghani – e di altre importanti personalità militari e di sicurezza sciite filoiraniane come Abu Mahdi al-Muhandis, vicecomandante delle Forze di mobilitazione popolare che in passato avevano anche coordinato nel paese i combattimenti contro l’Isis. Dopo questo omicidio il parlamento iracheno votò e approvò una mozione che richiedeva il ritiro immediato delle truppe statunitensi. La decisione dell’uccisione del generale Soleimani – giustificata come misura proporzionata di autodifesa preventiva nel rispetto del diritto internazionale delle Nazioni Unite – venne adottata dall’allora presidente Trump, su consiglio del Pentagono, dopo essersi consultato anche con l’allora segretario di stato Mike Pompeo in seguito all’assalto all’ambasciata statunitense in Iraq condotto dai miliziani iracheni collegati all’Iran. Da allora si ripeterono diversi e violenti attacchi missilistici dell’Iran contro basi militari irachene a Erbil e Ain al-Asad nelle quali erano presenti soldati americani. Il 27 marzo 2020 gli Stati Uniti annunciarono di aver ordinato ai propri impiegati dell’ambasciata americana in Iraq e ai funzionari del consolato di Erbil di lasciare il paese. Gli Stati Uniti decisero di evitare d’inasprire la propria forza militare contro la milizia filoiraniana delle falangi di Hezbollah, pur se particolarmente ostile alle milizie americane e annunciarono di voler ritirare 2000 dei circa 5000 militari statunitensi presenti in Iraq.

In tale scenario occorre menzionare anche il leader sciita di origine libanese Muqtada al-Sadr leader del movimento sadrista del partito Sairoon che vanta una discendenza diretta con il profeta Maometto: le sue milizie furono protagoniste dell’insurrezione armata contro le truppe di occupazione americane nel 2003, ma volendosi ora mostrare distante da Tehran lo scorso anno dichiarò: «L’occupazione americana si combatte in parlamento e non con la violenza, attaccando sedi di cultura e ambasciate». Dopo pochi mesi, tuttavia, ritornò nel quadro delle milizie filoiraniane. Rispetto alla continua attività di belligeranza in Iraq tra le due potenze il nuovo premier Mustafa al-Kadhimi – nominato su comune intesa di Iran e Stati Uniti e considerato il “premier di tutti e di nessuno” – non ha preso una vera posizione, principalmente concentrato su questioni securitarie. Infatti l’attuale premier nonostante abbia dichiarato in più occasioni di voler contrastare l’impunità delle milizie filoiraniane, non ha di fatto mai avviato alcuna attività politica in tal senso. Il 15 febbraio 2021 una dozzina di razzi lanciati da gruppi sciiti sostenuti dall’Iran – come Kata’ib Hezbollah – hanno preso di mira le forze della coalizione a guida Usa fuori dall’aeroporto Internazionale di Erbil.

Il 1° marzo del 2021 Joe Biden ha ordinato un attacco sulla base operativa di un gruppo di miliziani sciiti vicini all’Iran, due giorni dopo diversi missili iraniani hanno colpito nuovamente la base di Ain al-Asad della coalizione anti-Isis a guida statunitense e impiegata altresì dalle truppe britanniche stanziate in Iraq nel governatorato occidentale di Anbar. Le notizie di continui attacchi contro obiettivi statunitensi ancora sono state riportate il 16 e il 29 marzo 2021 così come nel mese di aprile e di maggio sempre a opera di gruppi armati affiliati all’Iran. In tale situazione di continua belligeranza va sottolineata la dichiarazione congiunta di Washington e Baghdad ad aprile: le truppe da combattimento statunitensi, impiegate contro la lotta allo Stato Islamico, abbandoneranno l’Iraq. Le forze Usa tuttavia continueranno a fornire consulenza e addestramento all’esercito iracheno mentre la presenza italiana nella Missione Nato nel paese continua ad aumentare.

I continui attentati nel paese da parte del sedicente Stato Islamico

Con la fine del regime di Saddam nel 2003, lo scioglimento e l’immediata ricostruzione delle forze di difesa statali condussero all’espansione di al-Qaeda in Iraq in particolare a Mosul e Falluja tra i sunniti – in precedenza unitisi nel gruppo dei Fratelli Musulmani – che temevano sia la crescita del potere sciita sia le conseguenti rappresaglie della popolazione curda. Il governo ad interim guidato da Ayad Allawi nel 2004 infatti si impegnò per il rafforzamento sia delle forze armate irachene, con l’inclusione delle unità dei peshmerga, sia delle forze di polizia sciite, in modo da aver un maggiore controllo della città di Mosul. Nel 2005 i sunniti tuttavia boicottarono le elezioni provinciali e ciò portò alla vittoria del Partito democratico del Kurdistan nel Consiglio provinciale alla quale seguì la violenta protesta sciita. Intanto l’anno successivo mentre diminuiva la presenza militare irachena e statunitense proprio a Mosul si faceva già strada quello che sarebbe divenuto il leader del sedicente Stato Islamico Abu Bakr al-Baghdadi. La politica anticurda successivamente portata avanti dal premier Maliki – coincidente questa volta con la volontà della comunità sunnita – determinò l’allontanamento della comunità curda da molti territori di appartenenza e la conseguente vittoria dei sunniti nel 2009 i quali ottennero la maggioranza dei seggi nel Comitato provinciale.

Mappa demografica delle etnie curde in Mesopotamia (tratto da Curdi, a cura di Antonella De Biasi, Rosenberg & Sellier, 2018).

Nel 2011 il rapporto tra il governo centrale e quello locale si deteriorò con un conseguente aumento delle forze federali a scapito di quelle locali e così, quando nel 2012 scoppiò la guerra civile nella vicina Siria, l’Isis ebbe la possibilità di strutturarsi meglio per poi attaccare le forze di sicurezza del paese assediando la città di Mosul dal 2014 al 2017. Dopo la conquista di Mosul nacquero le cosiddette Forze di mobilitazione popolare in Iraq (Pmf) unitesi in seguito alle milizie iraniane del Quds che con i peshmerga e le truppe americane riconquistarono la città nel 2017 dichiarando la sconfitta dell’Isis. Già a partire dal 2019, nonostante l’annuncio degli Stati Uniti dell’uccisione di al-Baghdadi, i funzionari dell’intelligence curda segnalavano che l’Isis fosse tutt’altro che sconfitto e che doveva essere considerato piuttosto come un’organizzazione terrorista risorgente. Nonostante la cattura lo scorso 3 maggio del governatore dell’Isis a Fallujah, Abu Ali al-Jumaili a opera dei servizi segreti iracheni l’Iraq oggi non può considerarsi ancora al sicuro dalla minaccia terroristica dello Stato Islamico che negli ultimi mesi del 2021 ha notevolmente intensificato gli attacchi nel paese.

L’Iraq non è un paese sicuro

In conclusione, oggi l’Iraq non può essere considerato un paese sicuro, tradendo l’attuale esecutivo di al-Kadhimi forti difficoltà a mantenere quei propositi securitari posti all’inizio del suo mandato, stante l’attuale impossibilità di un effettivo contenimento delle milizie filoiraniane, degli attacchi dello Stato Islamico, così come delle continue proteste della popolazione locale. Fallisce in questo modo, mentre si avvicinano le nuove elezioni nel paese, l’idea di un recupero della centralità e dell’influenza dello stato e dell’esercito iracheno che invece risulta sempre maggiormente dipendente dall’aiuto militare esterno locale e internazionale proprio come riscontrato in Siria.

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Afghanistan: tolto il ciocco che attizza il fuoco, il vuoto si riempie di caos https://ogzero.org/il-vuoto-che-si-riempie-di-caos/ Tue, 15 Jun 2021 07:32:13 +0000 https://ogzero.org/?p=3819 Gli anni del Great Game afgano superano ormai la quarantina, la popolazione è stremata da scontri e Signori della guerra e non ne può più di scontri. E forse su questo si può contare affinché le forze talebane non ripetano l’esperienza di un regime oscurantista intollerabile. In un articolo per “Atlante delle Guerre” Emanuele Giordana […]

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Gli anni del Great Game afgano superano ormai la quarantina, la popolazione è stremata da scontri e Signori della guerra e non ne può più di scontri. E forse su questo si può contare affinché le forze talebane non ripetano l’esperienza di un regime oscurantista intollerabile. In un articolo per “Atlante delle Guerre” Emanuele Giordana espone queste speranze, ribadite ai nostri microfoni nel podcast estratto da Radio Blackout, mentre Giuliano Battiston si aggira per Kabul, registrando umori, scelte di campo, decisioni che gli afgani di ogni comunità, stirpe, ceto o credo religioso si ripromettono di seguire nel momento in cui lo straniero se ne sarà andato. E lo fa stilando un diario di appunti quotidiano, pubblicato su “Lettera22“, che riporta le molteplici ricostruzioni dei giochi di potere, a seconda dell’interlocutore. Intanto la violenza cresce e il vero pericolo è questo: il vuoto che si riempie di caos.


Il futuro dell’Afghanistan

Emanuele Giordana ci ricorda che in passato, in questi 40 anni di guerra continua e occupazioni, i “ritiri” non sono mai stati indolori e auspica un livello di cooperazione internazionale che permetta sostegno vero alla popolazione, a guida Onu e non della Nato che comprenda anche i paesi musulmani, per evitare che il vuoto non porti a una soluzione pacifica.

La dipartita completa delle truppe straniere dall’Afghanistan prevista a settembre solleva una serie di preoccupazioni, in parte condivisibili in parte forse sovrastimate, che sembrano a volte sottintendere che, magari… sarebbe stato meglio restare. Tensione e timori sono comprensibili, assai meno una specie di racconto del caos in cui l’Afghanistan precipiterebbe proprio perché noi ce ne andiamo. Con un ragionamento molto semplice e quasi banale, viene infatti da pensare che, se si leva dal fuoco il ciocco più grosso (la guerra contro gli stranieri), dovrebbe esser più facile governare le ceneri per quanto ancora calde. La Storia può dare una mano.

1989: Quando le donne non portavano il burqa

Quando nel 1989 dopo dieci anni di una guerra fallimentare l’Urss si ritirò dall’Afghanistan, nessuno si preoccupò del baratro su cui il paese era sospeso: con una guerra civile in corso, uno stato fallimentare ormai privo di aiuti (che l’Urss cominciò a sospendere dal ritiro) e un futuro oscuro per donne che, all’epoca del soviet afgano, erano ministre o direttrici di giornali che non portavano il burqa. Proprio quanto avvenne ai tempi dell’Urss dovrebbe servire di lezione perché col ritiro delle truppe andrebbe previsto un piano a lungo termine, una visione per ricompensare almeno in parte i danni di un conflitto durato vent’anni. Allora non era semplice farlo ma oggi si può.
Quando dopo gli accordi di Ginevra dell’aprile 1988 Urss, Usa e Pakistan si accordarono sul ritiro dell’Armata rossa, a patto che nessuno più finanziasse la resistenza, a maggio iniziò il ritiro dei soldati che si concluse in febbraio. Il governo di Najibullah però resisteva: è nota la battaglia di Jalalabad dell’aprile 1989 quando i mujahedin, che Usa e Pakistan continuavano a rifornire violando gli accordi, non riuscirono a prendere la città che sta sulla frontiera col Pakistan, retroterra dell’intera coalizione guerrigliera. Fu solo dopo il 1990 che le cose si complicarono: gli Usa smisero di sostenere i combattenti islamici (ma non cosi Islamabad e Riad) mentre Gorbachov si rifiutò di continuare a pagare Najibullah. Non potendo più erogare gli stipendi, il suo esercito si sciolse come neve al sole e i mujahedin, gente non molto più progressista dei Talebani, entrarono vittoriosi a Kabul dove iniziarono a guerreggiare tra loro.

Un gruppo di mujaheddin nella provincia di Kunar nel 1987 (foto erwinlux).

2021: il consenso dei Talebani al lumicino

Trent’anni dopo, pur con tutte le differenze, siamo a un punto simile. I Talebani controllano in parte campagne e piccoli centri ma hanno un consenso al lumicino, fiaccato da vent’anni di guerra. Non possono prendere le città e, in presenza di un piano di reclutamento nelle file dell’esercito nazionale, si troverebbero senza manodopera. Continuando a finanziare l’esercito afgano con stipendi decorosi e stimolando la creazione di un partito politico (non sarebbe il primo partito radicale dell’Afghanistan), i Talebani potrebbero essere coinvolti nel gioco parlamentare, con qualche ministero e posti nell’amministrazione pubblica e nell’esercito. Quanto alle donne afgane, esse hanno da temere dai Talebani non molto più di quanto già non debbano temere da una società maschile che non ha risparmiato loro, nemmeno in democrazia, la negazione dei diritti fondamentali.

Kabul 2004 (foto timsimages.uk).

Naturalmente è necessario continuare a sostenerle, finanziando i loro progetti e rafforzando una società civile cui i governi Karzai e Ghani hanno sempre riservato uno spazio esiguo.

Jalalabad 2021, proteste delle donne del Nangarhar.

L’Italia, per esempio, ha speso per l’apparato militare 8,4 miliardi di euro in 20 anni (cui vanno forse detratti spiccioli della cosiddetta cooperazione civile-militare). Solo 320 in cooperazione civile, nemmeno il 5 per cento…

Il quadro di accompagnamento

La comunità internazionale e l’Italia potrebbero allora lavorare a un piano che preveda un forte aumento della spesa di cooperazione, un sostegno politico alle istituzioni, riconfermando un contributo finanziario per molti anni con dei paletti, e l’appoggio alle ong – locali e internazionali – attive nel paese. Andrebbe aggiunto un quadro di “accompagnamento” guidato dall’Onu – non certo dalla Nato – con l’allargamento a partner regionali (Russia compresa) finora tenuti fuori dai negoziati. Una riformulazione dell’impegno potrebbe anche passare dall’impiego, se davvero necessario, di una forza di interposizione a guida Onu che coinvolga anche i paesi musulmani, dall’Indonesia al Marocco. Ma di tutto ciò, a parte un’iniziativa turca – che proprio perché nelle mani di Erdogan lascia perplessi – nulla si vede tranne qualche frase di rito che appare un po’ retorica. Se tornare a casa lascerà un vuoto sarà più facile che a riempirlo sia il caos.

Kabul: l’attentato del 13 giugno 2021.


Diario afgano

E a riempire il caos con voci dissonanti raccolte estemporaneamente ci pensa Giuliano Battiston con l’esordio del suo diario kabulino, pubblicato da “Lettera22”, la prima e la seconda puntata raccontano la nascita della “seconda resistenza” all’oscurantismo talebano.

«Piuttosto che finire sotto i Talebani prendo un’arma anche io». Abdul (nome di fantasia) è avvocato, lavora in un progetto per la riforma della giustizia, con fondi americani. Parla di transitional justice, ma se si mette male si dice pronto a fare quello che non ha mai fatto: “prendere un’arma”. Il giovedì pomeriggio il caffè Simple, nel quartiere di Kart-e-Char, si riempie di giovani come lui. Ventenni e trentenne istruiti, che parlano inglese e chiacchierano nei caffè del quartiere, a poche centinaia di metri dall’università di Kabul, chiusa per Covid.

È un tardo pomeriggio prefestivo. Tavolini e panchetti esterni sono pieni. Incontriamo quattro ragazzi, tre hanno avuto il Covid. Uno indossa la mascherina. Molto meno congestionata del solito, la città non si spenge. «Come potranno i Talebani controllare una città come questa, cinque milioni di abitanti, oppure Herat, la stessa Kandahar?».

Sotto i Talebani, qui non ci vogliono stare. Come altrove nel paese. «Siamo pronti alla pace ma anche alla guerra», ripetono tutti. È tempo di “moqawamat-e-do”, di una seconda resistenza. Contro l’eventuale offensiva militare dei Talebani, si sta formando un’alleanza armata simile a quella che ha resistito negli anni Novanta all’Emirato islamico.

«Retrospettivamente, con prima resistenza si intende quella condotta contro i Talebani dalla cosiddetta Alleanza del Nord, soprattutto il Jamiat-e-Islami, il Jumbesh-e-Milli e il Hezb-e-Whadat. La “seconda resistenza” è un termine diffuso da qualche mese dagli stessi protagonisti», ci spiega Ali Adili, ricercatore dell’Afghanistan Analysts Network, che sul tema ha appena pubblicato un articolo informato.

La seconda resistenza nasce dall’impasse del processo negoziale intra-afghano. «Mi pare che nessuno dei due attori, Talebani e fronte repubblicano, consideri più il processo di pace come il piano A», ci dice Ali Adili. «Entrambi hanno intensificato il conflitto. I Talebani occupando nuovi distretti, il governo concentrandosi sulle capitali provinciali». Il fronte repubblicano è più diviso che mai. «Non c’è una strategia comune, nessun consenso su cosa fare». Lo dimostra l’impasse sul Consiglio Supremo di Stato.

Kabul divisa, periferie in fermento

Il ritiro delle truppe innesca dinamiche nuove: si gonfiano i muscoli e ci si arma. Rivendicando sui social le milizie, oltre l’autorità di Kabul. «Restando attaccato al potere Ghani ostacola la soluzione. L’unico modo per uscire dall’impasse è convincerlo a farsi da parte, facendo nascere un governo a interim», ci raccontano due abituali interlocutori qui, nella capitale afghana. La sovranità centrale del governo e delle stesse forze di sicurezza viene apertamente sfidata. «Se non è in grado di proteggerci, lo faremo da noi», si dice. Sul cancello non lontano dall’ingresso della scuola Sayed al-Shohada, nel quartiere sciita di Dasht-e-Barchi, dove un mese fa un attentato ha ucciso 85 studentesse, uno striscione funebre chiede giustizia, «o ci prenderemo la nostra vendetta».

Alla scuola Sayed al-Shohada, i familiari delle studentesse ferite nell’attentato chiedono sostegno (foto Giuliano Battiston).

Ci si protegge da sé. Il processo di pace mal gestito da Washington ha rafforzato i Talebani, «che rimangono un movimento sostanzialmente pashtun», sottolinea ai tavolini del caffè Simple Abdul, la cui famiglia viene da Bamiyan. «Per noi sono come i fascisti che voi avete combattuto in Europa», sostiene Jawad, che lavora in una ong. Canteranno pure vittoria, ma non si illudano di prendere Kabul e le città, i Talebani. La seconda resistenza nazionale è pronta.

Nel suo articolo Ali Adili elenca una serie di casi. A Herat, nella sua residenza il dominus della provincia Ismail Khan, Jamiat-e-Islami, celebra i vecchi mujahedin, accoglie nuovi uomini armati e si dice pronto: «Abbiamo più di 500.000 uomini, difenderemo questa terra. Il governo centrale ci lasci fare». Ahmad Massud, figlio del comandante Massud, si dice pronto a «restaurare il vero sistema islamico che era obiettivo dei nostri martiri e mujahedin». L’ex peso massimo del Jamiat e ora fuoriuscito, Atta Mohammad Noor, dice ai Talebani che è bene «capiscano che siamo ancora vivi e che la nazione si difenderà».

L’hazara Mohammed Mohaqeq manda messaggi simili. Nell’Hazarajat spunta la milizia “Dai Chahar”. L’ex presidente Karzai dichiara a “Der Spiegel”: «stiamo serrando i ranghi e organizzando la resistenza. Dico al Pakistan: siate ragionevoli». A Maimana, capoluogo della provincia nordoccidentale di Faryab, gli uomini del generale Dostum e del suo Jombesh-e-Melli si oppongono con le armi all’insediamento del governatore provinciale, scelto dal palazzo presidenziale.

Sull’“Atlantic Council”, Tamim Asey, già viceministro della Difesa afghano, scrive che i Talebani «vanno dissuasi militarmente dall’idea di cercare la vittoria con la guerra». La “resistenza 2.0 è inevitabile” e sarà fatta anche di milizie, sostenute dagli attori regionali anti-Talebani.

«Ci aspettano tempi bui», dicono i ragazzi del caffè Simple. Sulla strada per casa, superato il passo Gardanah-ye Sakhi e scendendo verso la grande arteria Salang Wat, sventola un bandierone. Non è nero, rosso e verde. Non è la bandiera nazionale della Repubblica islamica d’Afghanistan. È verde, bianca e nera: la bandiera dello Stato islamico d’Afghanistan. Il governo di Rabbani e dei mujahedin anti-Talebani.

Le voci sul presidente Ghani

Kabul – Incontro Seema– nome di fantasia – nel suo ufficio con aria condizionata di Qala-e-Fatullah. È direttrice di una ong che ha fatto propria la liturgia liberale del periodo post-Talebano: democracy, empowerment, good governance, civil society. Progetti, progetti, progetti. Partner o donatori sono Usaid, le ambasciate britannica, danese e statunitense, tra gli altri. Ha ricoperto incarichi importanti nelle istituzioni. Lamenta il disimpegno diplomatico e finanziario della comunità internazionale, parallelo al ritiro delle truppe. Sa che i fondi verranno meno. Sul fronte interno dice che «c’è una sola soluzione: convincere Ghani a farsi da parte».

Il negoziato tra Talebani e fronte repubblicano è lento. La violenza cresce. Le posizioni negoziali sono più rigide di prima. I Talebani capitalizzano il ritiro delle truppe straniere, guadagnano distretti, fanno propaganda. Il governo riproduce il conflitto intorno a sempre nuovi corpi istituzionali che servivano a disinnescarlo. Contenitori costruiti per concedere potere a chi non lo aveva. L’Alto consiglio per la riconciliazione nazionale, l’organismo creato per far ingoiare ad Abdullah Abdullah il nuovo mandato di Ghani dopo le ultime contestate elezioni, ancora non è del tutto formato. Eppure ora ci si accapiglia su struttura, mandato e nomi del Consiglio supremo di stato.

(Foto Giuliano Battiston)

Previsto nell’accordo del maggio 2020 «per accomodare chi era rimasto escluso dall’accordo tra Ghani e Abdullah, soprattutto Rabbani, Karzai, Hekmatyar», ci spiega Ali Adili, dell’“Afghanistan Analysts Network”.

Una seconda resistenza

Nel paese intanto si parla apertamente di una seconda resistenza, come quella dei mujahedin contro i Talebani. Milizie sostenute da attori regionali anti-Talebani, suggerisce qualcuno. In posti come Sar-e-Pul, Samangan, che non sono mai finiti sotto il controllo degli studenti coranici, ci si attrezza.

«Una parte del quadro politico imputa al presidente una resistenza eccessiva. Ghani ritiene di poter inglobare i Talebani nelle strutture esistenti, concedendo porzioni di potere. Ed esclude invece il governo a interim», sostiene Adili. Già prima delle elezioni presidenziali, Ghani aveva resistito alle pressioni per rinunciarvi in favore di un governo di transizione. Cercava un mandato forte da giocare sul tavolo negoziale con i Talebani. Ne è uscito con elezioni contestate e un mandato debole. «Il governo non è migliore dei Talebani», dice più di uno, qui a Kabul. Ci si fida poco dei Talebani quanto del governo.

Per Seema, Ghani è il problema. Talmente attaccato al potere da essere «pronto a trasferire il palazzo presidenziale a Paghman e continuare a governare da lì, anche se i Talebani prendessero Kabul… Ma sono solo rumors», precisa. Uno dei ragazzi hazara del caffè Simple, ieri raccontava una storia diversa, su Ghani: «Pur di non lasciare il paese in mano a non-pashtun, è disposto a darlo ai Talebani e a tornarsene negli Usa».

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n. 8 – Siria (III): il clan al-Assad e la Guerra civile https://ogzero.org/il-clan-al-assad-e-la-guerra-civile-siriana/ Wed, 26 May 2021 11:33:21 +0000 https://ogzero.org/?p=3559 Nella serie di articoli dedicati alle rotte mediorientali della raccolta di analisi stilate da Fabiana Triburgo sulla questione migratoria la sezione siriana si compone doverosamente di alcuni interventi ciascuno dedicato a uno dei molteplici aspetti che presenta questa diaspora, biblica per proporzioni, e vicissitudini toccate ai più di 12 milioni di individui siriani coinvolti nella […]

L'articolo n. 8 – Siria (III): il clan al-Assad e la Guerra civile proviene da OGzero.

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Nella serie di articoli dedicati alle rotte mediorientali della raccolta di analisi stilate da Fabiana Triburgo sulla questione migratoria la sezione siriana si compone doverosamente di alcuni interventi ciascuno dedicato a uno dei molteplici aspetti che presenta questa diaspora, biblica per proporzioni, e vicissitudini toccate ai più di 12 milioni di individui siriani coinvolti nella catastrofe umanitaria che ha fatto seguito allo scatenarsi del conflitto siriano dell’ultimo decennio.

L’autrice ha dapprima analizzato le attuali condizioni di siriani ormai integrati in realtà esterne al paese ai quali ora viene chiesto di rimpatriare, rischiando la vita e rinunciando alla nuova esistenza costruita faticosamente in esilio. L’analisi è proseguita valutando le condizioni economiche e umanitarie in cui si tengono le elezioni il 26 maggio, senza dimenticare la specificità della Primavera araba nelle diverse regioni siriane; prosegue qui collegando le modalità di protesta alla particolare peculiarità del regime alauita del clan al-Assad; le fasi della politica di Bashir – fino alla Primavera araba e il conflitto esploso nel 2011, che ha fatto del territorio siriano uno scenario usato dalle potenze globali e locali per imporre la propria supremazia.


n. 8, parte III

I principali conflitti che attualmente interessano le migrazioni forzate e le prassi di esternalizzazione poste in essere dall’Unione Europea e dai singoli stati membri portano a una predeterminazione delle rotte dei migranti.

Quello che oggi è inevitabile chiedersi è se il nuovo Patto europeo sulla migrazione e l’asilo, proposto dalla Commissione UE, possa essere realmente considerato una soluzione della gestione del fenomeno migratorio o se invece vi siano soluzioni legali alternative maggiormente lungimiranti e coraggiose.  

Il conflitto siriano: il clan al-Assad e la Guerra civile

I regimi degli al-Assad

Nonostante in Siria si riscontri l’esistenza di istituzioni statali come il parlamento, il consiglio dei ministri, il potere decisionale è sempre nelle mani di un solo clan ossia quello di Assad e dei suoi familiari e dai capi dei servizi di intelligence.

il clan al Assad

Come noto Bashar al-Assad è succeduto al padre Hafiz, a capo della nazione per trent’anni, in seguito alla sua morte nel 2000. Il figlio Basil che avrebbe dovuto succedergli, al momento della sua morte, è deceduto in un incidente stradale nel 1994; in sua vece quindi nel 2000 subentrò al potere il secondogenito Bashar. Tra le immediate nomine “familiari” del neoeletto presidente, all’interno del regime, citiamo quella del fratello minore Mahir al-Assad e della sorella Bushra al-Assad al comando della Quarta divisione corazzata dell’Esercito Siriano e quella del cognato Assef Shawkat designato vicecapo di stato maggiore e all’epoca già a capo del Mis – Il Dipartimento di intelligence militare siriana – in particolare nella sezione Perquisizioni (sezione 235).

La legge d’emergenza controlla la libera espressione

Il presidente della Siria, già durante il regime instaurato da Hafiz a partire dal 1970, riunì nella sua persona la carica di capo dello stato, quella di comandante delle forze armate, quella di segretario generale del Partito ba’at al potere e quella di presidente del Fronte nazionale progressista, sotto il quale vi furono tutte le forze politiche di opposizione autorizzate dal regime. In quest’ottica va citata la “legge d’emergenza” in vigore dal 1963 che garantisce il ferreo controllo di ogni manifestazione di dissenso di libera espressione politica, il divieto di assembramenti pubblici, il fermo di sospetti dissidenti e infine indica per quali accuse il fermo può trasformarsi in arresto. La legge inoltre definisce il ruolo dei tribunali speciali per i dissidenti, impone rigidi controlli sui mezzi d’informazione ma soprattutto concede ampi poteri alle quattro agenzie di sicurezza operative in tutto il paese. Rispetto al regime da lui guidato va detto però che Bashar è un primus inter pares ossia a capo di un’oligarchia composta dai membri della famiglia al-Assad, da alleati e da alcuni ufficiali legati al clan familiare, e non un capo indiscusso come lo era il padre Hafiz. La Siria, infatti ha acquisito l’indipendenza dai francesi nel 1946, tuttavia con l’indipendenza non si è raggiunta una stabilità politica ma si sono succeduti nel tempo una serie di colpi di stato e di guerre come quella dei 6 giorni nel 1967 con Israele, paese ancora oggi considerato nemico dai siriani.

A ogni modo già tra la fine degli anni Quaranta e l’inizio degli anni Cinquanta si registrò l’ascesa della comunità alauita – minoranza sciita originaria delle montagne a est di Latakia e delle sue pianure costiere a sud – la quale si unì al Partito ba’at (Partito della resurrezione, movimento panarabo nazionalista, socialista e laico) nel quale Hafiz al-Assad entrò a far parte a soli 16 anni perseguendo al contempo la carriera militare. Nel 1963 il Partito ba’at, per effetto di un colpo di stato, conquistò il potere e da lì cominciò l’ascesa di Hafiz che nel 1964 venne nominato generale, quindi nel 1965 capo dell’Aereonautica.

Un nuovo colpo di stato

Tuttavia, la succitata guerra dei 6 giorni con Israele nella quale la Siria venne sconfitta, fece vacillare il potere di al-Assad ma, nel 1970, Hafiz portò avanti un ennesimo colpo di stato – non sanguinario come i precedenti – definito come “Rivoluzione Correttiva” mediante il quale ottenne in modo indiscusso il governo del paese che ebbe sempre un maggiore controllo del territorio siriano.

Nel 1976, inoltre, è importante ricordare che il regime di Damasco decise di fare del Libano un proprio protettorato, condizione che resterà salda fino al 2005 quando venne assassinato il premier libanese Rafiq al-Hariri, intervenendo militarmente e politicamente nella guerra civile libanese che ebbe luogo dal 1975 fino al 1990.

Ciò che risulta interessante è che la composizione alauita del regime non seguì fin da subito una logica confessionale per la sua affermazione, ma mirò piuttosto all’appoggio della borghesia urbana e delle periferie:

A sostenere il regime infatti fu non solo la destra alauita della quale faceva parte Hafiz ma anche i drusi e i cristiani che temevano la presenza della maggioranza sunnita nel paese.

Allo stesso tempo i sunniti si allearono in quegli anni con il clero islamico ortodosso, ossia la frangia estremista rappresentata quasi totalmente dalla Fratellanza Musulmana. Iniziarono cruenti attentati da parte dei sunniti e violentissime repressioni da parte del regime fino a quando nel 1982 Hafiz decise di bombardare la città di Hamah – definita da Hafiz “la testa del serpente” in quanto patria dei maggiori conservatori tra i sunniti in Siria – per reprimere la rivolta della comunità musulmana sunnita dando inizio a uno dei più cruenti conflitti civili. In quella circostanza si parlò di almeno 10.000 siriani uccisi nel conflitto. Hafiz volle affermare con tale efferata e sanguinaria repressione, fatta di esecuzioni di massa, di fosse comuni, di feriti, di donne e di bambini sepolti vivi tra le macerie, che la religione veniva dopo lo stato ba’atista e che l’uso politico di questa non sarebbe mai stato tollerato dal regime.

il clan al Assad

La distruzione della città di Hamah perpetrata da Assad nel 1982.

Le atrocità commesse nei confronti dei sunniti non furono finalizzate solo a prevalere sulla Fratellanza Musulmana ma anche come ammonizione, per i sopravvissuti e per i membri di tutte le altre organizzazioni che si opponevano al regime, di quello che sarebbe potuto accadere nell’ipotesi di ulteriori atti di disobbedienza in futuro.

La repressione sanguinaria e le promesse tradite

Dopo circa trent’anni dal massacro di Hamah nel 2011 il figlio di Hafiz, Bashar al-Assad si trovò quindi ad affrontare una nuova escalation di proteste, contro le quali decise, come il padre, di scatenare una sanguinaria repressione, nonostante queste avessero poco a che fare con l’elemento religioso – caratteristico delle rivolte della popolazione sunnita del 1982 – quanto piuttosto con un senso di tradimento avvertito dalla popolazione siriana legato al mancato riconoscimento delle libertà e dello sviluppo economico. Questi ultimi erano stati promessi infatti dal governo ba’atista di Bashar che tuttavia avrebbe accumulato nel tempo tutte le ricchezze per sé stesso. Da quanto si sta verificando fino a oggi, dopo dieci anni dall’inizio del conflitto civile, Bashar al-Assad non sembra aver riproposto la forza armata “risolutiva” del conflitto che aveva dimostrato il padre nel 1982.

il clan al Assad

Manifestazione a Homs.

Non si può tacere tuttavia che, se le proteste del 2011 sono state sicuramente meno accanite di quelle del 1982, allo stesso tempo – per il fatto di non essere strettamente legate alla questione confessionale sunnita – hanno saputo raccogliere importanti consensi in ambito nazionale e internazionale molto più ampi rispetto al passato.

Tuttavia, per capire come si sia arrivati a tali proteste e per apprendere meglio la ragioni dell’intervento di più forze internazionali nel conflitto siriano occorre fare una breve sintesi degli eventi concernenti gli anni del governo di Bashar al-Assad prima del 2011.

La politica di Bashar al Assad dal 2000 al 2011

Nel 2000 Bashar al-Assad riprese il dialogo con gli “ulama” (il clero islamico), tra cui il leader del movimento islamico Zayd – in quegli anni considerato forza religiosa prevalente a Damasco. Il regime invece non si riavvicinò ai Fratelli Musulmani ormai di base a Londra.

Quindi nel 2005, poiché come detto il regime fu sospettato dell’assassinio dell’ex premier libanese Rafiq al-Hariri, Damasco dovette ritirare, su pressione popolare libanese e internazionale dell’Onu, degli Usa e della Francia, le sue truppe dal Libano. In quell’anno i Fratelli Musulmani crearono, in opposizione al regime, il Fronte di salvezza nazionale costretto poi a dissolversi nel 2009, a causa del rinnovato vigore politico e militare di Damasco, grazie all’appoggio dato a Hamas durante in conflitto israelo-palestinese nella Striscia di Gaza.

Allo stesso modo nel 2006 una nuova generazione di islamisti in esilio creò a Londra il Movimento di giustizia e sviluppo (ispirato all’Apk turco di Erdoǧan), movimento musulmano più democratico che islamista. Tuttavia, la questione dell’opposizione islamista in esilio manifestò subito i suoi problemi strutturali, quali la sua estrema frammentarietà e la sua mancata rappresentatività all’interno della Siria, dato che i loro interessi erano divergenti rispetto a quegli degli ulama – interessati più all’indebolimento dell’apparato statale di sicurezza che al multipartitismo nella repubblica – e dato che questi non potevano svolgere alcun ruolo di rappresentanza politica di forte opposizione al regime per il timore costante della repressione.

Il legame col Libano

Dal 2008 il regime ristabilì un’influenza politica sul Libano, data la sua importanza strategica dal punto di vista geopolitico, rafforzando l’armamento di Hezbollah e, godendo di una quasi completa riabilitazione da parte dell’Occidente, rinunciò completamente alla causa di riappacificazione con gli ulama. Dal 2008 Damasco infatti iniziò una politica di affermazione di superiorità del proprio potere politico su quello religioso, cercando di escludere l’influenza del movimento islamico in diversi settori della società come nelle scuole e nelle associazioni benefiche presenti nel paese.

Quando nel marzo 2011 esplosero le proteste contro il regime, Bashar al-Assad strategicamente accolse come in passato le istanze del clero musulmano per paura che anche esso si unisse alle rivendicazioni democratiche del resto della popolazione: venne chiuso il casinò di Damasco, vennero reinserite “le insegnanti con il velo”, vennero creati un istituto islamico pubblico e un’emittente nazionale musulmana.

Tale strategia ebbe successo poiché assicurò il silenzio del clero musulmano rispetto ai movimenti di protesta che in quell’anno dominarono la scena politica del paese.

Inoltre, per le politiche messe in atto dal regime di Damasco nel Libano, Hezbollah fornì pieno appoggio a Bashar al-Assad già durante le rivolte del 2011, mentre Ankara – pur essendo passata da un autoritarismo militare laico a una democrazia conservatrice dei valori musulmani, unita a una politica iperliberista sul piano economico – nel 2011 prese inizialmente le distanze sia dai movimenti di protesta che dalle dure repressioni esercitate da Damasco.

Le tappe del conflitto dal 2011 a oggi

Nei dieci anni precedenti al conflitto la Siria era quindi già un avamposto nel quale si dispiegarono numerose questioni politiche, sociali ed economiche non solo in ragione del desiderio di acquisizione del potere centrale nella repubblica, ma anche per le trattative intessute in questi anni tra il potere centrale, le comunità locali e le forze internazionali; inoltre nel conflitto hanno avuto e continuano ad avere peso diversi fattori etnici, confessionali, politici, individuali e culturali.

Occorre sottolineare che ciascuna potenza internazionale intervenuta nel conflitto ha visto nella guerra siriana la possibilità di consolidarsi nella regione del Medioriente rispetto ad altre potenze rivali nell’area.

Il 18 marzo 2011 le milizie governative di Assad spararono contro i manifestanti a Dara’a uccidendo quattro persone: le manifestazioni e, di conseguenza anche la loro repressione, ebbero un’eco sempre maggiore, mentre ad aprile dello stesso anno nella città di Homs, una delle città più grandi del paese, migliaia di cittadini siriani organizzarono un importante “sit in” che rievocò le manifestazioni in piazza Tahrir contro il regime di Mubarak. Gli scontri continuarono per tutto il 2011 e portarono come detto alla formazione dell’Esercito siriano libero – oggi forza militare marginale sostituita da jihadistimotivo per cui il regime mise in campo forze militari di artiglieria e di aviazione. Il 18 luglio 2012 dalla rivolta si raggiunse l’apice della guerra civile: i manifestanti bombardarono il Palazzo di sicurezza nazionale, durante una riunione di crisi, provocando l’uccisione di quattro funzionari del regime tra cui il succitato cognato di Assad e l’allora ministro della Difesa. Le forze militari del governo di Assad assediarono il quartiere di Baba Amir sempre a Homs. In quella circostanza all’Esercito siriano libero si affiancarono i combattenti di al-Nusra, gruppo jihadista nato da al-Qaeda e composto da fondamentalisti sunniti che miravano alla destituzione del regime per poter instaurare uno Stato Islamico nel paese.

Arrivano le forze internazionali

Il 2013 invece segnò l’inizio della presenza di forze internazionali nel conflitto siriano: la condizione nasce dal fatto che gli Stati Uniti, nella persona dell’allora presidente Barack Obama, dichiararono che l’utilizzo di armi chimiche avrebbe condizionato il coinvolgimento degli Usa nel conflitto. Nel 2013 iniziò l’indagine delle Nazioni Unite relativamente alla morte di 26 persone civili e soldati nella città di Khan Shaykhun e, rispetto al quale, tanto il regime quanto le forze di opposizione rinnegarono ogni responsabilità. L’Onu, anche se non riuscirà mai a conoscere la verità sulla responsabilità dell’attacco, dichiarerà in seguito che si trattò di un attentato compiuto mediante l’utilizzo di gas nervino. Inoltre, sempre nel 2013, un attacco chimico nella periferia della capitale Damasco uccise centinaia di persone. Gli Stati Uniti a quel punto attribuirono la responsabilità della strage al regime decidendo in un primo momento di intervenire nel conflitto, ma successivamente ritirarono le loro dichiarazioni. Tuttavia il Consiglio di Sicurezza dell’Onu impose al regime la distruzione di tutte le proprie armi chimiche come conseguenza di un surreale accordo tra Stati Uniti e Russia, per cui Bashar al-Assad fu costretto a firmare il 14 ottobre 2013 la Convenzione sulle armi chimiche che ne vieta la produzione, lo stoccaggio e l’utilizzo.

Le ultime armi chimiche a disposizione del regime siriano verranno dichiarate rimosse l’anno successivo dall’Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche, nonostante l’opposizione sostenesse che l’esecutivo continuava a disporne di ulteriori.

L’osservazione internazionale sull’elemento chimico della guerra nel 2013 determinò così il decisivo intervento diplomatico della Russia nel conflitto siriano che conferì a Bashar al-Assad un possibile ruolo di “attore-interlocutore” per il processo di pace nel paese.

Nel maggio del 2013, inoltre, anche il gruppo militante libanese Hezbollah si inserisce nel conflitto siriano accanto ad Assad, in questo caso a livello militare, attaccando e riconquistando la città di Qusair al confine tra i due paesi. Anche il sostegno fornito dal gruppo sciita libanese, quindi, ha finito per internazionalizzare il conflitto siriano in quanto – in conseguenza della presenza di Hezbollah in Siria – decisero di intervenire da un lato l’Arabia Saudita, il Qatar e gli Emirati Arabi e la Turchia a favore delle forze di opposizione e dall’altro l’Iran e l’Iraq, i quali appoggiarono il regime di Assad. Intanto gli insorti appartenenti all’opposizione si frammentarono nel corso degli anni in gruppi militari laici e islamisti per cui la coalizione tra l’Esercito siriano libero e al-Nusra si ruppe definitivamente nel 2014.

La fuga della popolazione dallo Stato Islamico

Il 2014 rappresentò tuttavia uno degli anni più rilevanti del conflitto siriano anche per altre ragioni: nel giugno dello stesso anno si tennero nel paese le elezioni presidenziali, il cui verdetto vide riconfermato capo di stato, con l’88 per cento dei voti a favore, Bashar al-Assad  ma il 30 giugno 2014 il sedicente Stato Islamico dichiarò il Califfato nelle aree che ormai erano poste sotto il suo controllo, non solo in Iraq, ma anche in Siria, provocando la fuga di migliaia di cittadini siriani dal paese. Nel settembre del 2014 gli Usa cominciarono a sferrare attacchi aerei contro gli avamposti del sedicente Stato Islamico in Siria.

Nel 2015 il regime siriano raccolse una serie di sconfitte militari in conseguenza dei continui attacchi sia dei ribelli che dell’IS e inoltre il 28 marzo del 2015 la città nordoccidentale di Idlib cadde nelle mani dei militanti islamici guidati da al-Nusra. Proprio in quest’anno si ricorda il ritrovamento del corpo del bambino siriano Alan Kurdi di tre anni su una spiaggia turca: quest’immagine che forse sarà ancora presente negli occhi di molti lettori portò l’opinione pubblica internazionale a non voltare più lo sguardo rispetto alla condizione dei profughi fuggiti in conseguenza del conflitto siriano e speriamo che non occorrano ancora immagini come quella per scegliere l’opzione dei canali umanitari e non quella assurda della prassi delle esternalizzazioni delle frontiere.

Le potenze regionali intervengono

Nell’autunno del 2015, quindi, poiché il regime siriano rischiava ormai di collassare, la Russia decise di intervenire militarmente nella Siria occidentale lanciando i primi raid aerei e attrezzando di nuovo militarmente le basi militari di Tartus e Latakia e successivamente il Consiglio di Sicurezza approvò all’unanimità la Risoluzione Onu n. 2254 finalizzata alla costituzione di un processo di pace nel paese.

Nel 2016 si registrò la vittoria del Partito ba’at di Assad nelle consultazioni parlamentari ma il conflitto proseguì duramente, in particolare nella città di Aleppo, portato avanti però più che dalle forze militari del regime da parte di quelle internazionali, nello specifico da quelle russe.

Il 2016 tuttavia segnò per la prima volta l’intervento della Turchia, proprio a nord di Aleppo, mentre i quartieri a est della città rientrarono, dopo mesi di assedio, sotto il controllo delle milizie lealiste in particolare di quelle iraniane e russe. Allo stesso tempo la coalizione curdo-araba – ossia le Forze democratiche siriane anti-Isis, guidata dagli Stati Uniti nel Nordest del paese – riconquistarono la città di Raqqa, storica roccaforte dello Stato Islamico, con una campagna che si concluse nell’anno seguente.

Gli attacchi chimici

Nell’aprile del 2017 vi fu un attacco di gas nervino nuovamente nella città settentrionale di Kahna Sheikhoun, in quel periodo in mano ai ribelli, la responsabilità del quale venne negata da Mosca e Damasco. Tuttavia, gli Usa, in risposta a tale attacco chimico, spararono missili crociera direttamente contro il territorio dominato dal regime di Damasco, mentre i ribelli si ritirarono a Homs. Anche Israele in conseguenza del presunto attacco chimico per opera del regime è intervenuto nel 2017 con bombardamenti contro una base aerea militare siriana. Sempre nel 2017 venne ripreso il controllo anche di altre città in tale area del paese e Putin a dicembre dello stesso anno dichiarò la definitiva sconfitta dello Stato Islamico in Siria.

il clan al Assad

Le rovine della città di Homs (foto gsafarek).

Nel 2018 la novità fu quella di sostenere che al-Assad ormai avesse vinto la guerra.

Ma, nonostante le forze governative riconquistassero in quest’anno anche il Sudovest del paese e la regione agricola orientale di Ghouta a ridosso della città Damasco – regione dal 2012 sottratta al controllo del regime – le milizie turche consolidarono la loro posizione nel Nordovest della Siria in particolare nella città di Idlib. Quest’ultima prende il nome dalla stressa provincia, intorno alla quale, la Russia e la Turchia volevano creare una zona “cuscinetto” di circa venti chilometri, mediante la stipula dell’Accordo di Sochi siglato nell’autunno del 2018 dalle due potenze e aggiornato con la recente intesa del marzo del 2020 principalmente per evitare che i futuri sfollati siriani si dirigessero nuovamente verso la Turchia come in passato. L’area a Nordovest infatti nel 2018 era considerata l’ultima roccaforte delle forze di opposizione jihadiste. Rispetto a Israele, paese sempre maggiormente preoccupato della continua espansione iraniana nel conflitto siriano, la Russia è corsa ai ripari negoziando proprio con l’Iran l’allontanamento dalle frontiere di Israele per circa 80 chilometri dalle alture del Golan, garantendo il monitoraggio dell’area attraverso le proprie truppe militari.

Truppe israeliane al confine con la Siria (foto Alexeys).

Le diverse violazioni dell’Accordo di Sochi

Ciò non fu sufficiente a evitare più volte la violazione dell’Accordo di Sochi, soprattutto nel 2019, quando le truppe russe cercarono di invadere la provincia di Idlib al confine con la Turchia – stante la permanenza delle forze di opposizione in particolare di quelle jihadiste dell’Hts (Hay’et Tahrir al-Sham) – sostenute proprio dalla Turchia che a sua volta cercò di contrastare le milizie curde dell’Ypg/Ypj (ramo siriano del Pkk turco) che combattono per uno stato indipendente nel Nord del paese.

Le violazioni degli accordi di Sochi: i russi intervengono in Siria invadendo la provincia di Idlib.

Inoltre, la promessa Usa del 2018 del ritiro definitivo delle proprie truppe americane dall’area a Nordest del paese – che si ponevano a guida della coalizione arabo-curda delle Forze democratiche siriane – venne mantenuta verso la fine del 2019, motivo per cui le Forze democratiche siriane dopo l’abbandono Usa dal Nordest si spostarono principalmente sul versante Nordovest del paese per resistere all’avanzata turca.

L’offensiva anticurda della Turchia

Dopo il ritiro degli Usa, infatti, il 10 ottobre del 2019 la Turchia portò avanti un’offensiva contro i combattenti curdi. Il succitato accordo del marzo del 2020 tra Putin ed Erdoğan per un cessate il fuoco nel Nordovest della Siria è riuscito a scongiurare un confronto diretto delle forze armate filogovernative russe contro quelle turche e ha bloccato un’importante offensiva del regime verso la città di Idlib. Tali condizioni sono state accettate da Damasco perché certa non era la possibilità di riuscita contro le forze di opposizione a Idlib, senza l’aiuto di Ankara.

Come si evince dalla sintesi del conflitto siriano dopo 10 anni si può giungere alla conclusione che le scelte politiche, e di conseguenza quelle militari, che caratterizzano le dinamiche e le interazioni nella repubblica siriana vengono assunte prevalentemente dalle potenze straniere, mentre un ruolo del tutto marginale rivestono ormai le scelte e le azioni poste in essere dalle rappresentanze politiche interne al paese compreso lo stesso regime. È solo partendo da questo presupposto che potremo cercare di comprendere successivamente i recenti accadimenti che stanno interessando il paese, consapevoli che interazioni, interessi, negoziazioni oggi sono prevalentemente tra le potenze esterne: sono tali azioni che possono essere oggetto di una valutazione prognostica autentica rispetto alla concreta realizzabilità del tanto auspicato processo di pace nel paese ormai devastato dal conflitto civile. Analizzeremo dunque ogni attore estero e il ruolo che attualmente possiede nella determinazione della condizione della Siria, rivelando ciò che oggi è già chiaro:

la Siria e il “suo” conflitto stanno divenendo la cartina al tornasole di tutte le questioni di conflittualità esistenti tra i paesi dell’area mediorientale, i movimenti jihadisti in esso presenti, e tra le grandi potenze straniere, fuori dall’area, che avvertono “la responsabilità” di intervenire nel conflitto.

Analizzando le azioni di queste forze sembra che poco si stia compiendo nell’interesse della popolazione civile siriana: infatti le decisioni di ciascuna potenza estera appaiono maggiormente volte all’affermazione di sé legata o a un’idea di espansionismo geopolitico, o agli interessi economici, o alla volontà di riscatto personale contro un paese rivale nella medesima area. “Ai posteri l’ardua sentenza”, se questo si può definire un passaggio necessario per la definizione del conflitto o se possa essere a questo punto gestito in modo alternativo, valutando il bilancio delle vittime, la distruzione dei territori e l’immutabilità dell’impianto politico esistente dopo un decennio di guerra.

L'articolo n. 8 – Siria (III): il clan al-Assad e la Guerra civile proviene da OGzero.

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n. 8 – Siria (II): la Primavera e le “tre Sirie” https://ogzero.org/le-tre-sirie-non-tutte-voteranno-siria-8ii-specificita-della-primavera-siriana-e-attuale-situazione/ Wed, 26 May 2021 11:32:05 +0000 https://ogzero.org/?p=3552 Nella serie di articoli dedicati alle rotte mediorientali della raccolta di analisi stilate da Fabiana Triburgo sulla questione migratoria la sezione siriana si compone doverosamente di alcuni interventi ciascuno dedicato a uno dei molteplici aspetti che presenta questa diaspora, biblica per proporzioni, e vicissitudini toccate ai più di 12 milioni di individui siriani coinvolti nella […]

L'articolo n. 8 – Siria (II): la Primavera e le “tre Sirie” proviene da OGzero.

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Nella serie di articoli dedicati alle rotte mediorientali della raccolta di analisi stilate da Fabiana Triburgo sulla questione migratoria la sezione siriana si compone doverosamente di alcuni interventi ciascuno dedicato a uno dei molteplici aspetti che presenta questa diaspora, biblica per proporzioni, e vicissitudini toccate ai più di 12 milioni di individui siriani coinvolti nella catastrofe umanitaria che ha fatto seguito allo scatenarsi del conflitto siriano dell’ultimo decennio, in un paese che oggi è diviso nelle tre Sirie che costituiscono una situazione geopolitica nuova.

L’autrice ha dapprima analizzato le attuali condizioni di siriani ormai integrati in realtà esterne al paese ai quali ora viene chiesto di rimpatriare, rischiando la vita e rinunciando alla nuova esistenza costruita faticosamente in esilio. L’analisi prosegue ora seguendo un percorso parzialmente a ritroso: le elezioni indette il prossimo 26 maggio, con una disamina della condizione economica e umanitaria in cui si svolgeranno e la specificità della Primavera araba nelle diverse regioni siriane; proseguirà poi collegando le modalità di protesta alla particolare peculiarità del regime alauita del clan al-Assad; le fasi della politica di Bashir – fino alla Primavera araba e dal 2011 in avanti.


n. 8, parte II

I principali conflitti che attualmente interessano le migrazioni forzate e le prassi di esternalizzazione poste in essere dall’Unione Europea e dai singoli stati membri portano a una predeterminazione delle rotte dei migranti.

Quello che oggi è inevitabile chiedersi è se il nuovo Patto europeo sulla migrazione e l’asilo, proposto dalla Commissione UE, possa essere realmente considerato una soluzione della gestione del fenomeno migratorio o se invece vi siano soluzioni legali alternative maggiormente lungimiranti e coraggiose.  

Il conflitto siriano

Specificità della Primavera siriana e attuale situazione

26 maggio 2021: elezioni siriane

Il conflitto armato siriano giunge in questo periodo a un processo importante che avverrà con le elezioni del prossimo 26 maggio. Invero molti non ravvisano, per varie ragioni in tale tornata elettorale, quella svolta tanto auspicata per il paese ormai dilaniato da una crisi umanitaria. Già nel 2014, sempre nel corso del conflitto, si sono tenute nel paese elezioni che hanno registrato la vittoria di Bashar al-Assad con circa l’80 per cento dei voti a favore. Tuttavia i presupposti che si pensava dovessero realizzarsi in occasione di tale ricorrenza istituzionale attuale, non si sono compiuti.

Ripartizione geopolitica del territorio

Queste elezioni diversamente da quelle tenutesi nel 2014 si svolgeranno in una condizione geopolitica completamente diversa: al momento le forze governative di Bashar al-Assad hanno il controllo di due terzi del territorio siriano, tanto che oggi più che di Siria si parla di “Sirie” essendo attualmente la Repubblica suddivisa in tre parti: la regione del Nord Ovest che vede come città principali Idlib e la parte a ovest della città di Aleppo, la regione a Est sotto l’amministrazione autonoma a maggioranza curda e l’area sottoposta al controllo del Regime che nel corso del conflitto ha recuperato diverse importanti e storiche roccaforti come la città di Damasco e la parte orientale della città di Aleppo, grazie soprattutto all’intervento delle milizie russe e filoiraniane.

Proprio per questa ripartizione geopolitica, oggi presente in Siria, le elezioni presidenziali non si svolgeranno in tutto il paese ma soltanto nelle aree poste sotto il controllo di Bashar al-Assad, nelle aree invece controllate dall’Amministrazione autonoma curda con buona probabilità saranno aperti i seggi solo nelle zone poste sotto il controllo di Damasco tra cui la città di Hasakah e Qamashil. Infine, nelle regioni ancora oggetto di conflitti armati da parte degli oppositori, in particolare nella parte Nord Ovest del paese, non vi sarà alcun nuovo round elettorale. Al momento Assad, tuttavia, sembra essere l’unico vero candidato e se vincesse le elezioni resterà al governo per altri sette anni. La lista dei 51 candidati dovrà infatti essere sottoposta alla Commissione elettorale secondo la Costituzione approvata in Siria nel 2012: i candidati devono ottenere il consenso di almeno 35 dei 250 membri dell’Assemblea popolare. Il raggiungimento di tale quota però sembra essere davvero irrealistico dato che il parlamento è dominato dal Partito ba’at al quale da anni appartiene la famiglia Assad e che ogni membro dell’Assemblea popolare può concedere il suo sostegno a un candidato soltanto.

Candidature e legittimazione della consultazione elettorale

Quindi è ragionevole pensare che l’Assemblea darà la possibilità soltanto ad altri tre individui, tra cui una donna, di potersi candidare al fianco di Assad per il ruolo di presidente: operazione questa che sembra essere di facciata, volta a lasciare intendere all’opinione pubblica internazionale che le elezioni si svolgeranno secondo un processo democratico.

Rispetto a questo va precisato che, come già accennato, alcuni membri permanenti del Consiglio di Sicurezza, in particolare Francia, Usa e Regno Unito, hanno delegittimato anticipatamente il risultato elettorale che emergerà in esito alle elezioni del 26 maggio 2021 qualunque esso sia. Tale delegittimazione in primo luogo è intervenuta in ragione del fatto che le elezioni si svolgeranno in contrapposizione a quanto è stato stabilito con la risoluzione Onu n. 2254 adottata all’unanimità nel 2015, secondo la quale le elezioni si sarebbero dovute tenere con una supervisione internazionale e soltanto in esito all’adozione di una nuova Costituzione – ancora oggi in una fase d’impasse – che avrebbe dovuto garantire la loro trasparenza e la partecipazione da parte di tutti i cittadini siriani al voto.

La situazione economica e umanitaria nel paese

Il 15 marzo 2021 è ricorso il decennale dall’inizio del conflitto armato anche se questo si dovrebbe far coincidere con il mese di luglio del 2011, quando nacque la prima formazione ufficiale militare dei ribelli ossia l’Esercito siriano libero. Il 15 marzo 2011 iniziarono le proteste della popolazione civile nei confronti del regime guidato dal presidente Bashar al-Assad allora da undici anni al potere in Siria.

Della “primavera araba sirianagià citata insieme a quella in Tunisia, in Egitto, in Yemen e in Libia – analizzeremo in questo articolo in modo più approfondito dinamiche e caratteri peculiari. Tuttavia occorre far riferimento alla condizione generale in cui il paese si trova oggi.

Sanzioni e legame con il tracollo della banche libanesi: regime indebolito

L’attuale contesto siriano è caratterizzato da un aggravamento della situazione economica, in conseguenza anche delle sanzioni “Caesar” imposte dagli Stati Uniti il 17  giugno del 2020, alle quali  si aggiungono quelle del Regno Unito imposte proprio il 15 marzo del 2021, applicate prevalentemente ad aziende che investono nel paese – non molto comprensibili, considerata tale condizione economica soprattutto con riferimento agli effetti che queste comportano prevalentemente sulla condizione della popolazione civile – nonché da una forte svalutazione della lira siriana come abbiamo già avuto modo di rilevare con riferimento alla lira libanese.

Inoltre proprio il collasso del sistema bancario libanese dichiarato nel marzo del 2020 ha aggravato la situazione economica siriana in quanto il paese in passato aveva chiesto sostegno economico alle banche di Beirut proprio per evitare le conseguenze delle sanzioni “Caesar”.

Su una popolazione attuale di 17,5 milioni di abitanti sono circa 12 milioni le persone aventi bisogno di assistenza, essendo salito il tasso di povertà nell’ultimo periodo a circa il 90% della popolazione e viene stimato al 60% il crollo delle attività economiche. A ciò si deve aggiungere anche la complicata situazione determinatasi a seguito della diffusione del virus del Covid-19 in una situazione sanitaria già al collasso per il perdurante conflitto civile nel paese.

A causa della scarsità di risorse a disposizione del governo, vi è stato poi un indebolimento dell’esecutivo di Assad che ha prodotto come conseguenza la sospensione per qualche mese dell’avanzata delle forze lealiste verso il Nordovest del paese, nel quale sono ancora presenti le forze di opposizione e la sempre maggiore dipendenza dalle milizie russe e da quelle iraniane.

Tuttavia, Russia e Iran come vedremo devono oggi porre attenzione a non creare ancora più forti tensioni con la Turchia vista la sua ferrea volontà di mantenere una zona cuscinetto di 20-30 chilometri al confine con la Siria.

Bisogni primari e catastrofe umanitaria

Ne consegue che dieci anni dopo si può constatare che i bisogni umanitari della popolazione civile sono aumentati: dal cibo, alla casa, alle cure mediche e alle infrastrutture. Inoltre, come abbiamo accennato, non si può ignorare la condizione di circa 7 milioni di sfollati interni, numero impressionante se si aggiunge a quello di circa 6 milioni e mezzo di profughi che per il conflitto hanno lasciato il paese. Le famiglie in Siria non hanno la possibilità di comprare né cibo, né medicinali e “sopravvivono” attraverso il lavoro minorile, la riduzione dei pasti nei nuclei familiari e mediante attività illegali.

I minori sono quelli che preoccupano di più: spesso costretti ad abbandonare la scuola proprio per aiutare i genitori e i fratelli più piccoli lavorando. Ed è proprio tra i minori che si registra il drammatico aumento del numero di suicidi, soprattutto nel Nordovest del paese, dato che secondo Save the Children, nel Rapporto pubblicato il 29 aprile del 2021; il numero è salito di circa l’86 per cento in più rispetto all’anno precedente per cui in tale zona si è passati da 132 casi di suicidi all’inizio del 2020 fino a 246 a fine anno: quasi un tentativo di suicidio su cinque è di un bambino di età pari o inferiore a 15 anni.

 

Questa situazione è di una gravità senza precedenti e difficile da accettare penso per qualsiasi individuo. Occorre quindi soffermarsi un istante a pensare: se si arriva al compimento di tale atto possiamo solo immaginare quanto sia percepito ostile da parte dei bambini siriani l’ambiente in cui si trovano. Questi bambini sono minori che non hanno da diversi anni quasi alcuna possibilità di istruzione, cresciuti anno dopo anno nella guerra e ora anche nell’indigenza familiare e nella condizione della diffusione di un virus senza mezzi per contenerlo o curarlo. Per loro è assente ogni speranza per il futuro. Se più bambini arrivano a pensare questo vuol dire che si sta consumando una catastrofe. Quindi data l’analisi della situazione dei minori, con particolare riferimento al Nord Ovest del paese, appare più appropriato – considerata anche la suddivisione territoriale politica che attualmente si registra in Siria – cercare di dare uno sguardo in seguito partendo dalla situazione che emerge in ciascuna delle macroaree nelle quali oggi è suddivisa la repubblica, vivendo queste – pur se inserite nella generale crisi umanitaria ed economica che coinvolge l’intera nazione – una distinta situazione geopolitica che inevitabilmente si riflette sulla condizione delle collettività in esse presenti.  

La specificità della Primavera araba siriana

Come già accennato nel marzo del 2011 si innestava quell’onda di proteste popolari che diede origine alla cosiddetta “Primavera araba siriana”. Le proteste che cominciarono a sconvolgere anche il Medioriente, oltre al Nordafrica, iniziarono in Siria nella città di Dara’a, dopo che alcuni ragazzi avevano imbrattato i muri di una scuola con graffiti contro il presidente Bashar al-Assad (“Ora tocca a te, Dottore”) – riferendosi alla caduta del regime egiziano di Mubarak – ragione per la quale i ragazzi vennero immediatamente arrestati, picchiati e torturati. In realtà, nonostante la dura e sanguinaria repressione a esse inflitta, le proteste portate avanti da migliaia di siriani per lo più giovani, pur contestando fortemente il regime, non furono inizialmente espressione di un’istanza di destituzione del regime di Assad, quanto piuttosto di quella concernente il riconoscimento delle libertà civili come quella di stampa e quella legata alla manifestazione di pensiero nonché del riconoscimento dei diritti fondamentali in favore dei cittadini siriani.

Le tre Sirie

Già in questo carattere più moderato delle proteste si riscontra la prima differenza della “primavera siriana” rispetto ad altre “primavere” nate in opposizione a regimi dittatoriali come quello di Mubarak in Egitto. Non solo, i caratteri di tali moti portati avanti dieci anni fa in Siria sono da riscontrarsi peculiari anche rispetto ad altri fenomeni. In primo luogo, in Siria diversamente da quanto è avvenuto in Egitto, il potere militare era già da anni tenuto sotto controllo dalla famiglia Assad in quanto i suoi vertici sono profondamente legati al clan familiare del regime al potere in Siria: in particolare questo aspetto ha indirettamente implicato che il presidente della repubblica non fosse destituito ma anzi sostenuto, in conseguenza dalle proteste popolari, da parte delle milizie governative. Anche se, infatti per la prima volta l’esecutivo siriano, guidato da Muhammad al-Utri, zio della moglie di Assad, il 29 marzo è stato costretto alle dimissioni, a causa delle pressioni popolari, gli equilibri del regime di Damasco non sono crollati affatto.

In secondo luogo, la cosiddetta “primavera araba siriana” non solo non ha condotto alla nomina di un nuovo capo dello stato e all’instaurazione di un nuovo sistema di governo ma è sconfinata, come vedremo meglio, in un sanguinoso quanto lungo conflitto civile nel quale il potere centrale però è rimasto sempre presente e attivo militarmente.

Vedremo che, come nel caso della Libia, nel conflitto in cui sono sconfinate le proteste, nel tempo si sono inserite altre potenze internazionali, interessate sia al mantenimento della stabilità dell’area che al mantenimento dei propri interessi nel paese.

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Hamas, il principe di Gaza https://ogzero.org/hamas-il-principe-di-gaza/ Mon, 17 May 2021 00:41:29 +0000 https://ogzero.org/?p=3496 La tempesta perfetta per israeliani e palestinesi. Un’analisi dell’organizzazione al comando nella Striscia e del vantaggio che ne trae la destra israeliana Due forze di destra ultraconservatrice, entrambe sostenute dalle rispettive superstizioni confessionali nelle frange più estremiste, si confrontano legittimandosi a vicenda. Abbiamo chiesto ai sodali di “Atlante delle guerre” di riprendere l’articolo di Eric […]

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La tempesta perfetta per israeliani e palestinesi.

Un’analisi dell’organizzazione al comando nella Striscia

e del vantaggio che ne trae la destra israeliana

Due forze di destra ultraconservatrice, entrambe sostenute dalle rispettive superstizioni confessionali nelle frange più estremiste, si confrontano legittimandosi a vicenda.

Abbiamo chiesto ai sodali di “Atlante delle guerre” di riprendere l’articolo di Eric Salerno publicato il 15 maggio per arricchire il nostro Studium sulle Terre resistenti e la comunanza tra le realtà oppresse intorno al Mediterraneo risulta sempre più valido. Quello che ci è sembrata una sorta di cancrena, che continua a riproporsi da più di trent’anni di impunità sancita dal blocco di ogni organismo di controllo, è dimostrata dagli articoli scritti da Eric a suo tempo – e qui riprodotti – che fotografano esattamente il momento in cui è scattata la trappola.

Trentaquattro anni fa la popolazione della Striscia era un quinto dell’attuale e l’estensore dell’articolo era già stupito della densità e della precarietà della condizione delle esistenze in quell’inferno, che già nel 1987 era chiaramente inquadrato come un sistema di apartheid («Qui siamo come a Soweto»), ma “la bomba a orologeria” è stata fatta brillare più volte senza fare danni, se non riducendo diritti, producendo vittime palestinesi e mettendo le radici di quella società bi-etnica che ora anima la guerra civile in corso nelle città israeliane abitate da arabi ed ebrei.

Eric Salerno, “Il Messaggero”, 1° giugno 1987

Non è peregrino che il titolo alluda a Belfast, come vedremo nel prosieguo del dossier sulle Terre resistenti

Oltre alla società bi-etnica i Servizi israeliani hanno scientemente messo le radici per costruire il nemico adatto, quell’avversario strategicamente perfetto che consente di rimanere impuniti anche a fronte di qualsiasi nefandezza. Il Golem però potrebbe rivelarsi esiziale, come nel mito ebraico?


Machiavelli, quel nostro principe che amava raccontare e suggerire gli intrighi più complessi, si sarebbe divertito a guardare il conflitto israelo-palestinese e le palesi contorsioni di alcuni suoi protagonisti che gli osservatori non solo italiani, spettatori sempre più relegati al ruolo di commentatori inutili, non sembrano capaci – o non vogliono? – denunciare. Eppure quello che si svolge davanti ai nostri occhi ricalca un nostro – antico romano e non italico – progetto: Dīvĭdĕ et ĭmpĕrā. Il modo migliore per controllare un popolo è dividerlo, provocando rivalità e fomentando discordie.

Hamas, che in queste ore, è nell’obiettivo dei bombardieri israeliani, deve molto a Israele. Per almeno dieci anni, tra il 1978 e il 1987, il movimento fondamentalista, costola dei Fratelli musulmani egiziani, è riuscito a sviluppare nella striscia di Gaza una base formidabile di consensi, grazie anche ai servizi segreti di Tel Aviv. Gaza, allora, era territorio occupato come la Cisgiordania. Nella striscia si erano istallati undicimila coloni israeliani tra i più radicali. Protetti da un apparato militare imponente la cui amministrazione vedeva di buon occhio l’avvento di un movimento islamico religioso come contraltare ai laici dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp) guidata da Yasser Arafat e tendente a sinistra. Un funzionario israeliano, intervistato nel 2009 dal “Wall Street Journal”, raccontò molto di quell’operazione che, spiegò, appariva convincente ma che si sarebbe dimostrato, «per molti di noi», un errore. O no?

Tel Aviv vedeva nel leader del movimento, il paraplegico Sceik Yassin, un uomo di fede da contrapporre all’Olp. La sua “Mujama”, una organizzazione caritatevole con scuole, cliniche, una biblioteca e una università, poteva alleggerire la pressione sugli occupanti e ridurre la tensione che rischiava di esplodere. «Se fossi nato e cresciuto qui – mi disse allora Giulio Andreotti durante una visita nella Striscia – diventerei un terrorista». Tornai a Gaza appena scoppiata la prima Intifada e vi incontrai i leader di Hamas che erano usciti allo scoperto aggiungendo alla loro attività di assistenza sociale una Carta intrisa di antisemitismo e votata alla distruzione di Israele.

Eric Salerno, “Il Messaggero”, 9 gennaio 1988

Dopo Oslo

Poi vennero gli accordi di Oslo (agosto 1993), la bozza di pace firmata da Rabin, Peres e Arafat sotto gli occhi di Clinton sul prato della Casa bianca. Il mondo esultò. O quasi. I ricordi sono sempre utili: ne ho uno di quel pomeriggio, dopo la firma, particolarmente significativo. Ero presente al ricevimento offerto dall’ambasciata israeliana per i suoi leader e i giornalisti accreditati in Israele. Un giornalista ebreo americano, molto noto per le sue posizioni, affrontò Rabin con un’accusa: «Come hai potuto fare questo a noi!». Pace sì, voleva, ma senza i palestinesi. Anche Hamas voleva la pace, ma senza gli israeliani. E lo fece capire diventando sul piano militare la più grossa minaccia all’occupazione israeliana. E alla credibilità di Arafat, in quegli anni chiuso nella sua fortezza di Ramallah circondato dalle forze israeliane e che lasciò per farsi curare in Francia e dove tornò per essere sepolto. E con lui gli accordi che aveva firmato a Washington e che non piacevano al centro-destra israeliano o, direi, alla maggioranza degli israeliani.

Rabin (paragonato a un traditore anche da Netanyahu) venne assassinato e le sue ceneri riportarono al potere i discepoli di Jabotinsky, sionista di estrema destra, discepolo-protetto di Mussolini. 

Vladimir “Ze’ev” Jabotinski

E torniamo a Gaza. A Hamas. Ariel Sharon, ex generale diventato politico, responsabile (quanto meno indirettamente) dei massacri nei capi palestinesi di Sabra e Shatila (Beirut) da premier si lanciò in ciò che poteva apparire come un passo avanti verso la fine dell’occupazione israeliana dei Territori. «Lasciamo Gaza, – annunciò al mondo, – via le nostre truppe e via gli undicimila coloni con i loro insediamenti».

Abu Mazen, il successore di Arafat, si congratulò ma, quasi in ginocchio, esortò Sharon a concordare con lui il ritiro per consentire all’Autorità nazionale palestinese e alla nuova politica del dialogo di guadagnare punti invece di far apparire il ritiro come una vittoria della lotta armata, o terrorismo, portata avanti con fervore dai militanti di Hamas. La risposta fu un netto rifiuto. E alla elezioni successive in Palestina, le ultime [14 anni fa], Hamas vinse non soltanto a Gaza ma anche in molti centri abitati della Cisgiordania compresa la capitale, Ramallah.

Israele non ha mai voluto distruggere Hamas. Probabilmente dopo aver ridotto per l’ennesima volta il suo potenziale militare, la lascerà ancora viva.

E con i palestinesi sempre più disperati e divisi, i vari Netanyahu continueranno a imperare.

Der Golem

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n. 7 – Libano: dove tutto cambia perché nulla cambi https://ogzero.org/libano-dove-tutto-cambia-perche-nulla-cambi/ Sun, 02 May 2021 09:51:01 +0000 https://ogzero.org/?p=3278 Questo contributo di Fabiana Triburgo sulla questione migratoria analizza le condizioni alla base delle nuove rotte dal Medio Oriente e dal Nord Africa, tra instabilità politica, conflitti civili e l’eredità delle Primavere arabe e giungeremo al termine di questa sezione a un’analisi della normativa europea e delle alternative che potrebbero emergere da politiche più coraggiose […]

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Questo contributo di Fabiana Triburgo sulla questione migratoria analizza le condizioni alla base delle nuove rotte dal Medio Oriente e dal Nord Africa, tra instabilità politica, conflitti civili e l’eredità delle Primavere arabe e giungeremo al termine di questa sezione a un’analisi della normativa europea e delle alternative che potrebbero emergere da politiche più coraggiose e lungimiranti. Qui l’attenzione è focalizzata sul Libano: dove tutto cambia perché nulla cambi.


n. 7

I principali conflitti che attualmente interessano le migrazioni forzate e le prassi di esternalizzazione poste in essere dall’Unione Europea e dai singoli stati membri portano a una predeterminazione delle rotte dei migranti.

Quello che oggi è inevitabile chiedersi è se il nuovo Patto europeo sulla migrazione e l’asilo, proposto dalla Commissione UE, possa essere realmente considerato una soluzione della gestione del fenomeno migratorio o se invece vi siano soluzioni legali alternative maggiormente lungimiranti e coraggiose.  

«Non vogliamo finire come il Libano»

A un passo dalla guerra civile

Tra i richiedenti la protezione internazionale che negli ultimi dieci anni ho avuto la possibilità di ascoltare, collaborando con colleghi esperti in materia e lavorando per delle associazioni – alcune delle quali presenti al “Tavolo Nazionale Asilo” – sia per la ricostruzione della loro storia personale – finalizzata all’audizione dinanzi alla Commissione Territoriale competente – sia per la redazione dei ricorsi, in opposizione alle decisioni assunte dalle Commissioni, non ho mai incontrato un cittadino libanese. Non intendo con questo dire che in altre realtà lavorative sia necessariamente avvenuta la medesima circostanza, ma si può affermare che la nazionalità libanese non è di certo tra quelle maggiormente rappresentative del fenomeno migratorio verso l’Europa o quantomeno verso l’Italia. Tuttavia, si può dichiarare con sicurezza che tale situazione sia destinata a rimanere immutata nel tempo?

Da alcune stime infatti risulta che nel 2020 siano stati circa 45.000 i libanesi fuggiti dal paese prevalentemente in direzione di Cipro per poi ripartire, per via aerea, verso la Grecia o il Nord Europa.

Lo stallo politico e la crisi economica e sanitaria

Dall’analisi del contesto geopolitico in cui si inserisce il Libano e per alcune sue peculiarità come l’aumento, negli anni più recenti, di un già elevato numero di profughi di altre nazionalità che lo stesso paese accoglie e, soprattutto, data la condizione di forte instabilità – a un passo dal conflitto civile – nella quale oggi esso si trova, lo scenario potrebbe evolversi in altro modo. Infatti, a mio avviso, tra i paesi del Medio Oriente che nel lungo periodo potrebbero essere maggiormente interessati dal fenomeno dell’emigrazione verso l’Europa vi è anche il Libano, trovandosi attualmente in una situazione politica di stallo ma con questioni altamente difficili da superare quali quella di un’importante crisi economica finanziaria – la peggiore dalla guerra civile che ha interessato il paese dal 1975 al 1990 – con una conseguente svalutazione della lira libanese e la mancanza di possibilità di accesso ai beni di prima necessità nonché al carburante, risorsa  essenziale ai fini dell’erogazione dell’energia elettrica.

Non solo, il paese deve anche affrontare la diffusione esponenziale del virus pandemico del Covid-19 tra la popolazione, in una situazione sanitaria che può definirsi drammatica e precaria, peggiorata dall’esplosione del 4 agosto 2020 e che ha comportato un ingente numero di morti e di feriti, la carenza di strutture sanitarie preposte per il contenimento e la cura del virus – così come quelle di  altre patologie – nonché la distruzione  di edifici scolastici e di formazione, di esercizi commerciali e soprattutto di abitazioni, provocando un numero elevato di libanesi senza fissa dimora nonché il peggioramento della condizione di vita dei numerosi rifugiati che, come detto precedentemente, da anni il paese accoglie.

Il valore politico della demografia e le influenze esterne

Tra questi vi sono non solo i rifugiati palestinesi ma anche un milione e mezzo di siriani, numeri assai rilevanti a livello demografico considerato che la popolazione libanese si compone di circa 4.000.000 di abitanti. Rispetto ad altri paesi, il Libano però non ha vissuto nel 2011 una “vera Primavera araba”. Le mobilitazioni di allora, come detto, essenzialmente legate alla situazione economica disastrata – sofferta principalmente dalla popolazione – così come alla richiesta dell’applicazione di criteri democratici, nell’esercizio del potere da parte dei governi centrali, non aveva dieci anni fa ragion di esservi in Libano che, rispetto ai paesi coinvolti nei tumulti del 2011, godeva di un sistema economico e politico migliore dal punto di vista democratico, anche se comunque bisognoso di riforme urgenti e necessarie sulla ripartizione del potere politico-confessionale. Il Libano è infatti un paese eterogeneo che ha subito per molti anni e ancora oggi subisce le tensioni tra le varie comunità in esso presenti e possiede una posizione geopolitica rilevante nell’area del Medio Oriente. Questo spiega in gran parte perché alle rivendicazioni di ciascuna comunità, nel corso della storia, si siano sempre inserite le agende politiche di attori esteri come l’Iran, l’Arabia Saudita e chiaramente Israele che hanno spesso contribuito ad alimentare le tensioni già preesistenti nelle comunità libanesi.

Inoltre, tra gli attori esteri va menzionata la Francia, potenza coloniale del Libano con la quale buona parte della popolazione ha legami storici e culturali e che oggi il presidente Macron vorrebbe avesse un ruolo più importante nel paese. Negli ultimi anni il Libano ha avvertito il contraccolpo di quanto stava avvenendo in Siria e soprattutto in Iraq, anche se in modo minore. Nel 2011 il paese infatti sembrava avesse un’economia fiorente ma in realtà il suo debito pubblico equivaleva al 40 per cento del proprio Pil (esattamente il Libano oggi detiene circa 53 miliardi di debito pubblico).

Le banche libanesi, a distanza di un decennio, sono crollate e sono stati bloccati da parte del governo tutti i conti corrente con il risultato che la popolazione civile, in tale grave situazione economica, non ha la possibilità di prelevare i propri risparmi.

La situazione in Libano ha cominciato a esacerbarsi nel marzo del 2019 quando il primo ministro libanese Hassan Diab ha dichiarato che non avrebbe pagato il debito derivante da un eurobond da 1,2 miliardi di dollari in scadenza nello stesso mese di marzo a causa della disastrata condizione-economico finanziaria che ha portato il paese al default.

Le proteste per le riforme e il potere delle banche

Dal 17 ottobre del 2019 di conseguenza la popolazione civile dinanzi a una situazione di instabilità politica ed economica senza precedenti ha cominciato a manifestare nelle strade delle città libanesi contro il sistema politico settario al governo nonché contro i banchieri ritenuti responsabili, a fronte di un sistema fortemente corrotto, di aver dominato malamente il paese per decenni. Durante le proteste i manifestanti hanno chiesto l’elaborazione di riforme economico-sociali e del sistema politico poiché la classe politica al potere è rimasta pressoché invariata, per cui oggi a governare vi sono i figli o nipoti di coloro i quali hanno governato il paese nei primi decenni dalla dichiarazione di indipendenza nel 1943.

Beirut 26 febbraio 2021: i manifestanti gettano pietre contro la Banca centrale del Libano (foto di Karim Naamani).

Da metà novembre del 2019 le banche inoltre hanno imposto un controllo dei capitali limitando l’accesso alle valute straniere, prime tra tutte il dollaro e l’euro, con una conseguente svalutazione della lira libanese che ha causato anche il graduale impoverimento dei ceti medio-bassi. Quando però, all’inizio del 2020, il paese – grazie ai moti di contestazione portati avanti dalla popolazione civile – stava operando un iniziale processo di cambiamento, è intervenuto il virus, concedendo un’inaspettata “salvezza” per l’oligarchia che fino allora era stata al potere e che stava rischiando una disfatta definitiva.

Il governo tecnico di unità nazionale

Infatti, proprio a causa di tale situazione, a gennaio del 2020 in Libano è stato formato un governo tecnico di unità nazionale guidato da Hassan Diab, una rottura rispetto al modello di governo di rappresentanza di tutte le forze politiche settarie presenti nel paese che lo aveva caratterizzato per 15 anni.

L’intento della formazione di un governo tecnico sebbene la sua creazione sia stata sostenuta da Hezbollah, non è stato altro che un banale escamotage da parte della precedente classe dirigente per evitare di assumersi la responsabilità di un sistema che ormai stava correndo senza sosta verso il baratro, ma che la popolazione civile stava denunciando ad alta voce durante i tumulti già nel 2019.

Il governo tecnico è nato quindi proprio con questa logica: assumersi la responsabilità e gli oneri di decisioni economiche altamente impopolari, data la situazione economica, lasciando immuni da tale difficile governance le rappresentanze settarie precedentemente al governo che ne erano state la causa, in modo che nel mentre avrebbero potuto meglio riorganizzarsi al fine di avere una chance di riscatto della propria posizione politica dinanzi all’opinione pubblica, concretizzata paradossalmente attraverso proprio la diffusione della pandemia.

La diffusione del virus infatti ha concesso ai poteri settari la possibilità di riscattarsi, mediante un aiuto diretto alle comunità delle quali sono espressione e che il governo tecnico, così impegnato a risolvere la questione economica generalizzata, non avrebbe certamente potuto compiere mediante un intervento capillare sanitario e di sostegno a favore delle singole realtà locali. In tale situazione il primo ministro del governo tecnico Diab si è trovato così in una posizione molto difficile che implicava, da una parte la gestione di una pandemia con tutte le misure restrittive che questa comporta e, dall’altra le forti ondate di proteste popolari.

Le proteste hanno coinvolto soprattutto le zone abitate da sunniti come le città di Tripoli e Sidone ma si sono registrati anche tumulti a nord della città di Beirut dove vi è un’alta percentuale di maroniti ossia membri della comunità civile cattolica presente nel paese. Proteste sporadiche invece vi sono state a sud, nelle quali Hezbollah ha un ruolo rilevante e nel centro-sud caratterizzato da frange organizzate rappresentanti del partito comunista libanese.

Il governo ombra di Diab

Va precisato, tuttavia che il governo di Diab è pur sempre un governo ombra manovrato in un modo non molto celato da parte della precedente élite politica. L’esecutivo è comunque controllato dai partiti della coalizione ossia dalla compresenza di Hezbollah e “Corrente patriottica libera” partito formato dall’attuale capo di stato Michel Aoun e da suo genero Gibran Bassil, dal “Partito delle Forze libanesi” e quello delle Falangi che si contendono insieme al partito di Aoun il consenso dei cristiani in prevalenza maroniti.

Il leader dell’allora opposizione Saad Hariri, oggi premier, è sostenuto dall’Arabia Saudita e dai francesi a guida delle comunità sunnite. Nella gestione dell’epidemia questo rinnovato potere settario appare come detto consolidarsi: basti pensare quanto sia stata difficile la cancellazione dei voli verso l’Iran e l’Italia proprio perché fortemente osteggiata da Hezbollah, sostenuto a sua volta da Amal movimento sciita vicino a Damasco – dopo aver dichiarato il 15 marzo 2020 lo stato di “mobilitazione generale” con le conseguenti chiusure e restrizioni necessarie al contenimento del virus.

Mobilitazione e non emergenza: il freno di Hezbollah

Si deve fare attenzione proprio a tale dichiarazione:  in Libano nel 2020 è stato dichiarato lo stato di “mobilitazione nazionale” ma non quello di “emergenza”  proprio a causa delle pressioni esercitate sul primo ministro da Hezbollah ostile a una concessione di maggiori poteri alle forze armate del governo libanese (LAF) in quanto rappresentano l’unica organizzazione istituzionale che mantiene un gradimento da parte della popolazione civile soprattutto di quella cristiana e a capo delle quali vi è un cristiano maronita, secondo il sistema di ripartizione delle quote al governo.

Tra le varie rappresentanze politiche va rilevato infatti che Hezbollah, probabilmente confidando sugli aiuti da parte dell’Iran, ha dichiarato sin da subito che si sarebbe occupato di gestire in prima linea l’emergenza Covid. Effettivamente il cosiddetto “Partito di Dio”, mettendo in campo decine di migliaia di medici e di paramedici per far fronte alla pandemia ha subito offerto la propria capacità di organizzazione e i propri avamposti logistici. Ciò non è estraneo alla sua natura: Hezbollah da anni fonda il suo potere su una vicinanza molto forte alle comunità locali e ha svolto la funzione di uno stato parallelo alle istituzioni spesso non presenti nelle aree rurali o in quelle più periferiche, dotando le comunità anche in passato, di scuole, ospedali, o organizzazioni a sostegno dell’edilizia e delle microimprese locali. Chiaramente il movimento sciita è anche una formazione totalitaria dotata di un proprio apparato di sicurezza e considerato dai tedeschi come un gruppo terrorista, non distinguendo più l’ala armata da quella politica del movimento. Se quindi il governo tecnico è stato costretto ad adottare, per la questione economica e per quella pandemica, decisioni totalmente impopolari, le vecchie élite al potere suddivise su base comunitaria, in modo spesso opportunistico, si sono avvicinate alle necessità concrete della popolazione civile, per esempio distribuendo cibo e test anti-Covid gratuiti e sanificando i quartieri appartenenti alla propria comunità di riferimento.

«Tutti ma proprio tutti!»

Tuttavia, i movimenti di protesta non guardano a nessuna appartenenza politica e si oppongono con il proprio slogan contro la corruzione nel paese al grido di «tutti e quando diciamo tutti intendiamo tutti!», mostrando in tale modo il malessere generalizzato sofferto per anni e ora quasi impossibile da reprimere, data la situazione di forte indigenza in cui si trova il Libano.

Alcuni tra i politici hanno ascoltato la voce dei manifestanti per cui il governo nel 2019 ha approvato all’unanimità un piano di riforme economiche. L’approvazione del piano è stata particolarmente rilevante in quanto ha consentito l’intervento del Fondo monetario internazionale. Tuttavia, nel 2020 il governo e il fondo monetario internazionale hanno sospeso i negoziati per la concessione dei finanziamenti al Libano: i negoziati sono in una fase di stallo in ragione del fatto che il governo, l’Associazione delle Banche e la Banca centrale non convergono in una posizione comune riguardo il calcolo delle perdite economiche registrate negli ultimi anni. Prima di erogare qualsiasi somma l’FMI pretende che vengano forniti dati certi e trasparenti dal punto di vista finanziario e che il governo libanese attui le riforme che sono già state approvate.

Dall’inizio della crisi economica nel 2019 sono decine i libanesi e gli stranieri presenti nel paese che si sono tolti la vita a causa della situazione economica. La sede dell’associazione delle banche è divenuta una sorta di base militare attaccata dai manifestanti che ne hanno chiesto la caduta. La società elettrica, come previsto all’inizio degli scontri, non avendo più carburante, ha cominciato a ridurre l’erogazione dell’energia elettrica in tutto il paese.

Le stime della Banca mondiale a fronte del Covid, in particolare quelle riferite allo stato di disoccupazione in Libano, sono destinate a peggiorare con il tempo. Il Libano, infatti, all’inizio della diffusione della pandemia ha cominciato a rallentare le attività fino alla decisione della totale chiusura il 15 marzo 2020 – anche se possiamo dire che questa non è stata mai rispettata dai libanesi in modo ferreo – insieme all’invito da parte del primo ministro rivolto alla popolazione di non uscire dalle proprie abitazioni salvo casi eccezionali e imponendo il coprifuoco notturno.

Le disparità sociali e l’assenza dello stato

La pandemia ha messo in risalto le disparità sociali già presenti nel paese dal punto di vista socio-economico e l’assenza dello stato centrale nelle aree periferiche lontane dalla capitale. Tale mancanza del potere istituzionale nelle zone rurali e periferiche hanno condotto all’acquisizione di un ruolo di maggiore importanza appunto da parte delle municipalità legate alle diverse comunità locali con l’effetto che queste spesso, ritenendosi una sorta di entità a sé stanti, hanno finito per discostarsi parzialmente o totalmente – mediante una diversa applicazione o non attuazione – dalle leggi o dalle direttive emanate del governo centrale.

Inoltre, deve essere anche valutata la condizione dei profughi in Libano che si si stimano circa in due milioni. Tuttavia, va precisato che il paese non è firmatario della Convenzione di Ginevra, motivo per il quale tali profughi non godono dello status di rifugiato imposto dalla stessa Convenzione. A partire dal 2014 il governo libanese ha ordinato all’Unhcr di interrompere la registrazione dei profughi siriani dei quali solo 900.000 sono stati registrati dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite. Su una popolazione di circa 4 milioni di abitanti i profughi presenti in Libano costituiscono un terzo della popolazione civile. In questa fase in cui gli stessi libanesi si trovano in una condizione di povertà e di vulnerabilità l’ingente accoglienza dei profughi nel paese ha costituito la causa di ulteriori scontri e tensioni.

Distruzione di un campo palestinese nel Nord del Libano (foto trentinness@hotmail.com)

Le infiltrazioni dei terroristi islamici

Per capire meglio il perché di tali condizioni di alta tensione tra la popolazione e i profughi occorre riflettere sul fatto che, a partire dal 2013, tra di loro spesso si sono infiltrati miliziani del sedicente Stato Islamico e del gruppo terrorista Jabhat al-Nusra, rendendosi responsabili di un numero rilevante di attentati di stampo terroristico sia nella capitale che in altre aree del Libano, operando attivamente fino al 2017. A titolo esemplificativo occorre citare la situazione della cittadina libanese di Arsal, a venti chilometri dal confine con la Siria, ossia una delle destinazioni principali dei profughi siriani (la cittadina è arrivata nel 2013 ad avere da 30.000 a 100.000 abitanti) e nell’agosto del 2014 ha subito un forte attacco da parte di un gruppo di miliziani siriani mossi dal duplice fine di aumentare la propria capacità di azione, approdando nel territorio libanese, e di contrastare Hezbollah sostenitore del regime di Bashar al-Assad. Tale attacco ha determinato l’inizio di un conflitto durato circa tre anni che ha finito con il consolidare, aumentare o diminuire il rilievo nello scenario geopolitico di alcuni attori internazionali coinvolti in esso anche solo indirettamente. Va precisato però che il successo iniziale dell’attacco armato con un numero elevato di ostaggi è stato conseguito grazie alla segreta alleanza tra l’allora sindaco di Arsal, Ali Hojairi e le milizie islamiste che, in questo modo, hanno avuto una maggiore conoscenza degli avamposti delle forze militari libanesi. Nonostante Hezbollah sia stato ampiamente criticato in quanto ritenuto responsabile dell’ingresso dei miliziani, dato il suo sostegno al regime siriano, sono state proprio le sue truppe a sferrare l’offensiva finale contro i miliziani nel 2017 nella stessa periferia della cittadina di Arsal con la conseguente decretazione della vittoria da parte di Hassan Nasrallah, leader del gruppo sciita che indubbiamente, dopo il conflitto, ha visto aumentare la propria capacità politica nel paese.

I negoziati con Israele

Questo ruolo di difensore dei confini territoriali libanesi era già stato svolto da Hezbollah in passato nelle operazioni militari nel 2000 e nel 2006 contro Israele ritenuto nemico storico del paese e che di recente è tornato alla ribalta nello scenario libanese proprio in relazione alla questione della delimitazione di confini. Il ministro uscente dei Lavori pubblici libanese di recente ha chiesto con l’emendamento al decreto n. 6433 proposto il 12 aprile 2021 di estendere l’area, ricca di idrocarburi, contesa da anni con Israele da 860 a 1432 chilometri quadrati. L’emendamento si pone all’interno delle dinamiche dei negoziati inaugurati il 14 ottobre del 2020 tra Libano e Israele – mediati dagli Sati Uniti e sotto l’egida delle Nazioni Unite – per la delimitazione dei propri territori in particolare della fascia a sud del paese definita blue line che ha visto in passato concentrarsi gli scontri più violenti tra i due stati in quanto entrambi sostengono che tale area rientri nella propria zona economica esclusiva (Zee) e dove da anni è presente il contingente italiano dell’Onu con la missione UNIFIL.

Pattugliamenti della Missione Unifil nella “blue line”

Tuttavia, il presidente Aoun ad aprile si è rifiutato di approvare tale emendamento. Alcuni hanno precisato che non vi è stato un rifiuto ma solo la richiesta di rinviare la questione alla trattazione nel corso di una riunione a livello governativo, viste le delicate conseguenze che potrebbero derivare dall’approvazione dell’emendamento in questo momento. Inoltre, anche se i negoziati riguardano solo i confini marittimi, c’è da dire che il Libano da anni rivendica anche le cosiddette fattorie di Sheeba, circa un chilometro quadrato da dove gli israeliani non si sono ritirati dal 2000 dopo l’occupazione del Sud del paese iniziata nel 1978 e dove Israele attualmente sta costruendo un muro.

La discriminazione nei confronti dei profughi siriani

Come dicevamo le misure restrittive anti-Covid-19 adottate come necessarie per il contrasto della diffusione della pandemia hanno finito per essere strumentalizzate dal governo centrale, così come dalle singole comunità locali presenti in Libano, con fini discriminatori contro i profughi. Basti pensare che all’inizio del 2020, quando ancora non erano state attivate per la popolazione civile le misure per il contrasto del virus, per il 40 per cento dei siriani veniva già imposto il regime di coprifuoco, per loro i test sono stati eseguiti solamente nel maggio dello scorso anno grazie all’intervento delle Nazioni Unite così come dalle ong già presenti da diversi anni come figure di riferimento nei campi dove questi risiedono. I profughi nel contesto pandemico non sono stati destinatari, diversamente dal resto della popolazione civile, di misure di informazione e di prevenzione necessarie per evitare i contagi. Non solo, in Libano si può essere curati gratuitamente solo in un ospedale a Beirut che difficilmente viene raggiunto dai profughi tanta è la contestazione generalizzata della loro presenza nel paese e dati gli atteggiamenti discriminatori spesso rivolti nei loro confronti. Vi è da dire che anche per molti libanesi provenienti dalle aree rurali è molto complesso raggiungere tale presidio ospedaliero gratuito nella capitale, stante la quasi totale assenza di mezzi di trasporto pubblico, determinata dalla crisi economica.

È chiaro che tutta questa situazione è diventata ancora più drammatica in seguito all’esplosione del 4 agosto 2020, della quale tratteremo in seguito in modo più approfondito, e in esito alla quale oltre a essere andate distrutte scuole e abitazioni sono stati gravemente danneggiati proprio gli stessi ospedali per cui i pazienti ricoverati a Beirut sono stati fatti evacuare in altri ospedali sul territorio nazionale.

Le violazioni della Convenzione di Ginevra

Sia le Nazioni Unite che le ong operano in Libano all’interno del contesto di un piano approvato dal governo insieme all’Onu nel 2015 per il miglioramento delle condizioni di vita tanto dei profughi siriani quanto della popolazione libanese in condizione di vulnerabilità. Il piano esplica i suoi effetti essenzialmente su due fronti: quello umanitario, attraverso l’applicazione di strumenti che possano fronteggiare l’emergenza e quello dello sviluppo, finalizzato all’integrazione dei profughi con la popolazione civile libanese che viene attuato mediante una progressiva inclusione dei profughi siriani nel mercato del lavoro in Libano potenziando anche a loro favore i servizi presenti a livello locale come scuole, ospedali e alloggi. Se però le misure sul fronte umanitario vengono effettivamente poste in essere, quelle volte all’integrazione dei profughi nel paese incontrano maggiori ostacoli nella loro attuazione, vista anche la posizione del presidente siriano Bashar al-Assad che negli ultimi anni sta premendo per il rimpatrio dei propri cittadini fuggiti all’estero in particolare proprio verso i territori libanesi. Al riguardo va sicuramente segnalato il Rapporto di Amnesty International del 23 marzo del 2021 I wish I would die che ha documentato presunte violazioni perpetrate dai servizi segreti militari libanesi contro i rifugiati siriani detenuti preventivamente con l’accusa di terrorismo e che hanno subito non solo la violazione del loro diritto a un equo processo ma anche atti qualificabili come torture, violenze sessuali e trattamenti disumani e degradanti.

Le ricerche sulle quali si basa il report sono state portate avanti dalla nota organizzazione internazionale tra giugno del 2020 e febbraio del 2021 e riguardano fatti avvenuti tra il 2014 e la fine del 2019: sono state intervistate 26 persone aventi una fascia di età compresa tra i 22 e i 55 anni e tra i quali vi sono anche due ragazzi che al momento dell’arresto avevano 15 e 16 anni e alcuni degli intervistati sono ancora in carcere.

Amnesty in esito alle indagini ha scritto due volte al ministero dell’Interno, della Difesa e della Giustizia chiedendo chiarezza. Occorre sottolineare che il Libano oltre a non aver ratificato la Convenzione di Ginevra ha approvato la legge contro la tortura solo nel 2017 ma anche durante la sua vigenza è stata più volte segnalata la sua mancata attuazione.

Fonte: Amnesty International

L’opportunismo dei partiti

È necessario tuttavia precisare che molte ong presenti in Libano possono operare oggi soltanto grazie all’appoggio di alcuni partiti politici e di confessioni religiose, presenti nelle comunità locali, riproponendo così quell’atteggiamento opportunistico che chiede come contropartita degli aiuti offerti ai profughi quella della realizzazione dei propri fini ed interessi personali in un’ottica di rafforzamento del proprio potere all’interno della vita politica in Libano.

Inoltre, c’è da dire che da ormai dieci anni la posizione comune delle fazioni politiche libanesi si è del tutto uniformata sulla posizione di un ritorno dei profughi siriani, nonostante l’intervento esemplare di alcune municipalità come quella di Bsharre, nel Nord del Libano. Tale elemento è fortemente allarmante, data la presenza al potere in Siria del regime contestato ma ancora guidato da Bashar al-Assad.

L’esplosione al porto: e Beirut diventa periferica

A ogni modo, come accennato sopra, la situazione nel paese è peggiorata in modo catastrofico per tutti i residenti in Libano a causa della duplice esplosione del 4 agosto del 2020 considerata la più potente deflagrazione non nucleare della storia e che ha avuto come epicentro proprio il porto di Beirut che, con la seconda esplosione, ha visto la distruzione di tutti i quartieri posizionati sul versante settentrionale della capitale e sulla costa. Fortunatamente una parte dell’esplosione si è riversata in mare ma circa 200 sono state le vittime e migliaia di persone, più di 6000, quelle gravemente ferite e al momento non è chiaro ancora se si tratti di un incidente o di un attentato.

Dopo l’esplosione del 4 agosto 2020 al porto di Beirut (foto Anna_Om).

L’esplosione per intenderci è stata pari a un decimo di quella di Hiroshima. Dalle immagini trasmesse dai media quest’estate a livello internazionale si nota che l’esplosione sia avvenuta in due tempi distinti: la prima con un impatto minore e di un colore tendente al grigiastro, l’altra, immediatamente dopo, di immensa portata e di colore prevalentemente rossastro con un’onda d’urto che ha provocato danni a sette chilometri di distanza dall’epicentro. Come dicevamo, con la deflagrazione, è stato colpito in primo luogo il porto della capitale storico luogo strategico economico commerciale del Medio Oriente e simbolo dell’economia imprenditoriale della città di Beirut che in una situazione già al limite dal punto di vista economico-finanziario, in esito a tale accadimento, ha subito un durissimo contraccolpo. Sono state invece colpite meno le zone centrali e a sud della città e sono stati del tutto risparmiati i quartieri occidentali e sud-occidentali.

Beirut in questo modo ha smesso, almeno per il momento di essere il centro di buona parte degli affari nell’area mediorientale. Inoltre, nonostante le dichiarazioni all’indomani dell’evento, dell’attuale leader di Hezbollah Hassan Nasrallah, questa volta, il movimento politico religioso non ha messo in atto, come in seguito allo scoppio della pandemia, la mobilitazione di aiuti e di sostegno nei propri quartieri di riferimento.

In ogni caso dal 4 agosto 2020 Beirut non è più il centro ma una area periferica del Libano. Tuttavia, il fatto che non sia ancora chiaro se la deflagrazione sia la conseguenza di un incidente o invece di un atto volontario non implica l’impossibilità di formulare delle ipotesi in merito all’accaduto.

Le indagini e i dubbi

La prima ipotesi è sicuramente quella di un “errore umano” o meglio quella di una deflagrazione spontanea in conseguenza del degrado del materiale, costituito da circa 2750 tonnellate di nitrato di ammonio, ossia di un fertilizzante ma con proprietà esplosive, contenuto nell’hangar n. 12 al porto. La comunicazione dell’esistenza di tale materiale era stata più volte notificata alle autorità istituzionali, ossia al presidente Aoun, ai vari premier e ai ministri che si sono succeduti nel tempo.

La seconda ipotesi invece si basa sull’idea di un presunto attacco israeliano (Israele nega qualsiasi coinvolgimento) che avrebbe avuto come mira la mole di missili di Hezbollah presenti in quell’area ma che non ha tenuto conto della presenza di altro materiale suscettibile alla deflagrazione.

La terza ipotesi è riconducibile al fatto che l’evento tragico si è concretizzato in due momenti. Questo può voler dire che la prima esplosione sia derivata da un fatto volontario internazionale, connesso con il processo penale che in quella parte della capitale si stava svolgendo in conseguenza della morte per attentato nel 2005  del premier Rafiq al-Hariri, padre dell’attuale primo ministro, sostenuto dall’Arabia Saudita e non gradito per questo né da parte sciita ossia da Hezbollah – movimento a favore dell’ingerenza iraniana nel Paese – né dai siriani che rivendicano un’influenza estera prevalente nel paese. Secondo sempre tale teoria la seconda esplosione invece sarebbe stata del tutto involontaria.

Infine, la quarta ipotesi, è quella di un attentato premeditato di cui al momento l’autore è sconosciuto finalizzato proprio a far precipitare nel baratro il paese.

Inoltre il giudice Sawan – che inizialmente aveva intrapreso le prime indagini sull’accaduto e in particolare sui ministri che erano stati informati in passato della presenza del materiale esplosivo in prossimità del luogo della  deflagrazione – è stato destituito dalla Corte di Cassazione libanese e al suo posto è stato nominato un nuovo giudice che, sebbene sia considerato uomo valido a capo della Corte del Tribunale di Beirut, ha dato adito a dubbi circa l’imparzialità del potere giurisdizionale in merito alla vicenda.

Gli aiuti non proprio disinteressati

Le prime necessità dopo l’esplosione sono state quelle del rifornimento di medicinali, di alimenti e di materassi per dormire in strada, mentre dal punto di vista delle infrastrutture, è stata data priorità alla ricostruzione delle abitazioni, alcune delle quali patrimonio dell’Unesco. La popolazione, questa volta però, ha chiesto che i fondi derivanti dagli aiuti internazionali siano gestiti direttamente dalle ong e non dai governi locali e il presidente Macron ha dichiarato la necessità della tracciabilità dei medesimi. Infatti, il presidente francese ha visitato tempestivamente il paese esattamente due giorni dopo l’esplosione mentre a seguire immediatamente vi sono stati Russia, Iran, Qatar, Emirati Arabi Uniti, Turchia e Stati Uniti che hanno inviato prevalentemente aiuti medici per la popolazione libanese. Tuttavia, tali aiuti non possono definirsi in tutti i casi “disinteressati” ma rivelano spesso piuttosto la volontà di taluni attori internazionali a sostituirsi al governo del paese in un momento in cui il rapporto di fiducia tra esecutivo e popolazione è totalmente logorato. Simile processo in Libano già si era determinato al momento della diffusione del virus del Covid-19 per cui il Libano è di nuovo oggi il campo su cui si muovono le tattiche geopolitiche di alcuni stati esteri. In questa logica Turchia e Qatar sono alleate tra loro e al loro intervento si oppongono Emirati Arabi Uniti e Russia. La Francia per i motivi succitati ha un ruolo prima facie prevalente mentre Israele ha dimostrato difficoltà a inserirsi in tali dinamiche.

Il divisivo intervento francese in rapporto allo scacchiere internazionale

Secondo l’analisi di questa spinta internazionale alla solidarietà prevale, per taluni, l’ipotesi che l’esplosione del 4 agosto non sia stata uno scoppio accidentale ma organizzato da chi avrebbe un interesse a detenere il potere in Libano; ardua risulta l’individuazione dei possibili mandanti, dati i molteplici attori della politica libanese e, al contempo, le numerose potenze estere che si fronteggiano in quest’area del Medio Oriente. L’immediata partecipazione francese dall’altra parte ha fermato almeno in una prima fase qualsiasi intervento di aiuto da parte dell’Unione Europea. L’Italia nelle vesti dell’allora premier al governo si è recata simbolicamente in Libano l’8 settembre dello scorso anno per dare il suo contributo in questa corsa agli aiuti portata avanti dalle grandi potenze internazionali e mantenendo come spesso avviene un ruolo più marginale. Dall’altra parte infatti il presidente francese in esito all’esplosione ha promesso di organizzare una raccolta fondi per gli aiuti umanitari e ha fissato l’agenda per la formazione di un nuovo esecutivo vantando in questo luogo una posizione maggiormente strategica rispetto a quella che detiene in Libia in cui, negli ultimi anni, hanno dominato Russia e Turchia nell’affermazione di un potere politico straniero da affiancare alle forze politiche locali. La presenza francese in Libano tuttavia divide fortemente e ciò si evince dalle dichiarazioni, in chiave polemica, della parte filosiriana, presente nel paese, la quale nell’agosto del 2020 – dopo le numerose proteste della popolazione civile che hanno portato alle dimissioni del primo ministro Diab – ha affermato che il nuovo premier incaricato dal Parlamento libanese di formare un governo, ossia Mustapha Adib, fosse particolarmente sostenuto da Macron.

Inoltre, la Francia ha affermato in più occasioni che l’ala militare di Hezbollah non debba essere considerata una diversa espressione di un gruppo politico al potere oggi in Libano, quanto piuttosto un gruppo terroristico come sostenuto in modo più drastico già dalla Germania ma completamente in disaccordo con l’opinione del Cremlino che considera il gruppo un rilevante partner politico e non un gruppo terrorista. D’altronde i rapporti tra Russia e Libano hanno radici profonde: Mosca ha aiutato fortemente Hezbollah nella guerra del 2006 in Libano al fine di rafforzare la propria posizione rispetto a Teheran. Infine, il presidente francese, fortemente contestato in Francia per la volontà di applicare misure di austerità economica, in Libano è stato destinatario di molteplici istanze di cambiamento da parte della popolazione civile libanese che ha chiesto di essere aiutata direttamente aggirando la classe politica libanese, ritenuta fortemente corrotta.

Il turnover ai vertici libanesi

Tuttavia, il 27 settembre 2020 il premier incaricato dal parlamento libanese Mustapha Adib si è dimesso e ha deciso di ritornare a svolgere il ruolo di ambasciatore in Germania.  A quel punto il presidente Emmanuel Macron ha contestato tutti i leader politici libanesi incluso il capo di stato Michel Aoun e ha attaccato duramente Hezbollah e Amal sostenendo che il suo principale interesse fosse quello di volere il superamento di un sistema politico confessionale, ma ciò che sembra emergere è piuttosto la volontà di mantenere protetti a ogni costo i propri interessi nell’area.

Nell’ottobre del 2020, il Parlamento ha deciso così di assegnare un nuovo mandato a Saad Hariri, leader del partito politico a carattere sunnita Movimento per il Futuro, già primo ministro del Libano dal 18 dicembre del 2016 al 19 dicembre del 2019, e precedentemente dal 14 febbraio 2005 dopo l’assassinio del padre Rafiq Hariri e, in seguito, da giugno 2009 a gennaio del 2011.

Attualmente il paese si trova comunque ancora in una situazione di stallo politico. Dal 22 ottobre del 2020 Saad Hariri si è impegnato a risanare la situazione politica del paese dopo aver ottenuto 65 voti su 120 da parte del Parlamento. Uscito di scena proprio dall’ottobre del 2019 per via delle proteste popolari, è stato chiamato nuovamente a guidare il Libano in conseguenza della tragica deflagrazione e delle dimissioni conseguenti a questa da parte dei suoi predecessori nell’arco di pochi mesi. A creare questa condizione di stallo sono le divergenze tra il capo di stato Aoun e lo stesso presidente Hariri per cui non si riesce a convergere in una posizione comune rispetto a una riforma della Costituzione.

«Il popolo non perdonerà»

Nel 2021 le proteste della popolazione civile contro la classe politica al potere sono di nuovo scoppiate la sera del 25 gennaio, nonostante le restrizioni e il coprifuoco imposti per via del Covid, a Beirut, a Tripoli nel Nord del Libano e nella città meridionale di Sidone.

Ciò in conseguenza del fatto che il governo, il 21 gennaio 2021, ha annunciato un’estensione delle suddette misure Covid fino all’8 febbraio del 2021 che hanno implicato la chiusura di numerose attività commerciali e uffici istituzionali in un paese al momento nel baratro per la crisi economico-finanziaria, resa nota nel marzo del 2019. Ciò è avvenuto a causa del sensibile aumento della curva dei contagi dopo che il governo libanese, prima delle festività natalizie, aveva concesso un allentamento delle misure per favorire la ripresa della disastrata economia libanese. Inoltre in Libano il 27, il 28 e il 31 gennaio 2021 gli scontri tra la popolazione e i militari hanno causato un secondo morto e si registrano circa 400 feriti dall’inizio delle manifestazioni popolari. A gennaio 2021 vi è stato anche l’attacco da parte dei manifestanti degli uffici del Comune a Beirut ma diversi violenti tumulti si sono verificati anche a Tripoli , definiti dal presidente Hariri crimini organizzati e premeditati. I principali rappresentanti delle comunità cristiane e musulmane libanesi hanno contestato nuovamente l’élite al potere, questa volta al grido “Il popolo non perdonerà. La storia non dimenticherà” chiedendo un governo di “salvezza nazionale”.

Proteste antigovernative in Libano (foto Anna_Om).

Niente aiuti senza un nuovo governo

Per tale ragione a febbraio del 2021 il premier Hariri e il presidente Macron si sono confrontati sulla situazione in un incontro privato all’Eliseo in particolare sugli ostacoli che si stanno determinando tra il leader e il presidente Aoun in merito alla formazione di un nuovo governo libanese, fondamentale per la concessione e l’elargizione delle donazioni delle varie potenze internazionali incluso il Fondo monetario internazionale, vista la perdurante situazione di corruzione. A tale situazione si aggiunge che nel marzo del 2021 la lira libanese ha raggiunto il suo minimo storico toccando quota 10.000 rispetto al dollaro Usa e la crescente svalutazione della moneta nazionale ha comportato un aumento del livello dei prezzi al 144 per cento per i beni di prima necessità. Dal mese di ottobre 2020 la valuta libanese ha infatti subito un calo pari al 70 per cento.

In un discorso in diretta televisiva il 17 marzo 2021 il presidente Aoun ha esortato il premier Hariri a formare un governo o a dimettersi, ma in realtà il premier ha già proposto al capo di stato una squadra il 9 dicembre 2020, composta da 18 ministri apartitici, che non ha ottenuto l’approvazione di Michel Aoun.

Il ministro dell’Interno libanese a fine marzo ha dichiarato che nell’ultimo periodo «c’è maggiore possibilità di violazioni di attentati e omicidi vari nel paese».

Il 22 marzo 2021 quindi si è tenuto un incontro tra il presidente del Libano Aoun e il premier designato Saad Hariri che, tuttavia, anche in questa circostanza non si è concluso con l’approvazione di un governo di salvezza nazionale. Hariri sostiene che l’incontro non ha avuto successo in quanto il capo di stato mette in atto comportamenti ostruzionistici derivanti dalla pretesa che nella squadra di governo vi sia a tutti i costi la maggioranza dei suoi alleati politici. Non solo, Aoun ha consegnato al premier una lista completa con già 18, 20, o 22 ministri con ancora solo alcuni posti vacanti. Hariri – che recentemente ha invitato pubblicamente anche Papa Francesco a far visita al paese come è avvenuto in Iraq – ha considerato tale gesto inaccettabile in quanto il comportamento è qualificabile come anticostituzionale, non essendo di competenza del capo dello stato formare il governo libanese.

Il fallimento delle politiche di sviluppo nel Mediterraneo orientale

La situazione che oggi si coglie in Libano, simile a quanto avvenuto recentemente in Iraq, in  Algeria e Tunisia negli ultimi anni, ha quindi qualcosa in comune con le primavere arabe del 2011; in questo caso specifico però non si tratta solo di destituire la testa di un regime quanto costruire qualcosa di soddisfacente per la popolazione civile che soffre della presenza degli stessi attori regionali del passato ma che mostra oggi, in modo evidente, la forte volontà di trovare soluzioni interne nonostante la vecchia élite politica che, come visto, non è ancora disposta a farsi da parte.

In conclusione, questa crisi può avere un impatto su una nuova ondata migratoria determinando un incremento esponenziale dei movimenti in fuga dal Libano in particolare dalla città di Tripoli: l’Italia ben presto si accorgerà del fallimento delle politiche di sviluppo nell’area del Mediterraneo orientale. A dimostrazione di ciò ci sono già i primi avvertimenti provenienti dalla Bosnia che, con riferimento a quanto sta avvenendo lungo la rotta balcanica, ha dichiarato: «Non vogliamo finire come il Libano».

L'articolo n. 7 – Libano: dove tutto cambia perché nulla cambi proviene da OGzero.

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n. 5 – Afghanistan: la soluzione si allontana https://ogzero.org/una-difficile-eredita-mina-la-soluzione-dei-conflitti-in-afghanistan/ Wed, 21 Apr 2021 07:13:24 +0000 https://ogzero.org/?p=3177 Prosegue la raccolta di articoli che fornisce una panoramica sulla questione migratoria: analizzeremo insieme a Fabiana Triburgo le varie rotte che si sono delineate nel tempo a causa di conflitti o e instabilità che provocano questo fenomeno per giungere infine a un’analisi della normativa europea e delle alternative che potrebbero emergere da politiche più coraggiose […]

L'articolo n. 5 – Afghanistan: la soluzione si allontana proviene da OGzero.

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Prosegue la raccolta di articoli che fornisce una panoramica sulla questione migratoria: analizzeremo insieme a Fabiana Triburgo le varie rotte che si sono delineate nel tempo a causa di conflitti o e instabilità che provocano questo fenomeno per giungere infine a un’analisi della normativa europea e delle alternative che potrebbero emergere da politiche più coraggiose e lungimiranti. Il quinto contributo focalizza l’attenzione sull’Afghanistan.


n. 5

I principali conflitti che attualmente interessano le migrazioni forzate e le prassi di esternalizzazione poste in essere dall’Unione Europea e dai singoli stati membri portano a una predeterminazione delle rotte dei migranti.

Quello che oggi è inevitabile chiedersi è se il nuovo Patto europeo sulla migrazione e l’asilo, proposto dalla Commissione UE, possa essere realmente considerato una soluzione della gestione del fenomeno migratorio o se invece vi siano soluzioni legali alternative maggiormente lungimiranti e coraggiose.  

Una guerra che dura da più di 40 anni

La nazionalità afgana è tra le maggiormente riscontrate tra i migranti che percorrono le attuali rotte migratorie, in particolare quella balcanica. Infatti, uno dei conflitti più longevi che si registra a livello internazionale, con riferimento all’area dell’Asia centrale, è quello che interessa l’Afghanistan. Quest’anno ricorre il ventennale del conflitto, iniziato per mano dell’intervento armato degli Stati Uniti e della Nato nel 2001, in conseguenza alla strage terrorista di al-Qaeda, dell’Undici Settembre dello stesso anno compiuta negli Stati Uniti. Il paese è comunque in guerra da più di quarant’anni e al momento non ci sono buone prospettive né in ordine a una risoluzione realmente pacifica del conflitto in corso che possa rassicurare la popolazione civile,  né tantomeno in ordine a un riconoscimento  di una posizione di stabilità dell’esecutivo, presieduto formalmente dal presidente Ashraf Ghani, rispetto alla costante guerriglia per opera di Talebani e del sedicente Stato Islamico in Afghanistan, costituitosi nel 2015, nonostante la presenza militare degli Usa e degli stati membri della Nato.

Il palazzo Darul Aman a Kabul subì ingenti danni durante gli anni di scontri tra mujaheddin e talebani (foto JonoPhotography)

Dai mujaheddin ai Talebani e ritorno

Come noto l’Afghanistan dal 1979 al 1989 è stato oggetto dell’offensiva e dell’occupazione armata da parte dell’ex Unione Sovietica, alle quali sono corrisposti gli attacchi armati contro il regime di Naijbullah e dei suoi alleati sovietici, da parte dei guerrieri islamici mujaheddin (“coloro che compiono il jihad, la lotta”), sostenuti da diversi governi stranieri in particolare dal Pakistan, dall’Arabia Saudita e proprio dagli Stati Uniti che fornirono loro denaro, addestramento e armi, durante tutta la durata del conflitto, preoccupati com’erano dal continuo espansionismo dell’Urss e dei quali faceva parte lo stesso Osama Bin Laden. Tale sostegno da parte degli Usa venne definito l’ultimo conflitto simbolo della Guerra Fredda tra i due paesi: nel 1989 l’Urss fu costretta a ritirarsi decretando così la vittoria dei mujaheddin e abbandonò l’invasione militare dell’Afghanistan, portando con sé il pesante fardello della perdita di migliaia dei propri uomini. Tuttavia, una volta caduto il regime sovietico di Mohammed Najibullah, che ormai non godeva più dell’appoggio dell’Urss, i mujaheddin conquistarono Kabul destituendo la Repubblica democratica dell’Afghanistan (Rda) nel 1992, proclamando la nascita dello Stato Islamico dell’Afghanistan. Dopo tale proclamazione vi furono dissidi politici e ideologici tra le diverse fazioni e ciò agevolò la costituzione del movimento armato dei Talebani (“studiosi del Corano”) i cui membri si erano addestrati in Pakistan. Il gruppo venne fondato nel 1994 da Mohammad Omar, che nel 1996 destituì lo Stato Islamico e instaurò un Emirato Islamico, ossia un regime teocratico, fondato sulla ferrea applicazione della legge coranica. Tale regime si consolidò negli anni successivi ma i mujaheddin nel 1997 si allearono tra loro formando l’Alleanza del Nord (Fronte islamico nazionale unito per la Salvezza dell’Afghanistan), e si scontrarono nuovamente con i Talebani dando inizio a una sanguinaria guerra civile. I Talebani progressivamente durante la guerra ottennero il controllo di quasi tutto il territorio afgano (alla fine del 2000 più del 95 per cento), nonché il riconoscimento dal Pakistan, dall’Arabia Saudita e dagli Emirati Arabi. I mujaheddin continuarono comunque a opporsi ai Talebani, soprattutto nel Nord del paese e riacquisirono il potere nel novembre del 2001, solo dopo l’intervento militare della Nato in Afghanistan, in esito all’attentato terroristico alle torri gemelle a causa dei legami del regime talebano con il gruppo terrorista al-Qaeda, ritenuto responsabile della strage negli Stati Uniti.

Le sanzioni e il governo provvisorio

La nota organizzazione terroristica, infatti, fondata proprio da Osama Bin Laden, di origine saudita, negli anni Novanta si avvicinò al regime dei Talebani dal quale ottenne per diversi anni sostegno e protezione.  Gli attentati alle ambasciate americane in Kenya e in Tanzania, attribuiti ad al-Qaeda e gli insuccessi dei tentativi della diplomazia internazionale di riavviare il dialogo fra i Talebani e l’Alleanza del Nord portarono all’inasprimento delle sanzioni da parte dell’Onu per la mancata consegna da parte dei Talebani di Bin Laden, nel 2000. Si accentuò cosi l’intransigenza del governo talebano: nel 2001 venne ucciso Ahmad Shah Massud, capo militare e politico dell’opposizione dei Talebani, e il giorno successivo avvenne l’attacco terroristico dell’11 settembre negli Usa.

Massud, figura culto nel Panshir (foto di Michal Hvorecky)

La guerra statunitense, in coalizione con la Nato contro il gruppo terrorista di al-Qaeda, guidato dallo stesso Osama Bin Laden, iniziò nell’ottobre del 2001 in modo del tutto singolare: l’organizzazione venne considerata, fin da subito, dagli Usa al pari di un’organizzazione statuale. Il governo statunitense appoggiò le forze dell’Alleanza del Nord fino al definitivo abbattimento del regime talebano nel novembre 2001.

Tuttavia il conflitto armato che si instaurò in Afghanistan a partire dal 2001 ha visto il succedersi di diversi accadimenti nei quali i Talebani hanno registrato “sconfitte” e “vittorie”. Dopo la capitolazione di Kabul del novembre del 2001 infatti con gli accordi di Bonn siglati tra le varie fazioni politiche presenti nel paese fu istituito un governo provvisorio formato dalle diverse etnie presenti in Afghanistan a capo del quale venne nominato il presidente di etnia pashtun Hamid Karzai affiancato dalle Nazioni Unite. Nel mentre le truppe speciali americane continuarono la ricerca nel 2001 di Osama Bin Laden e l’individuazione dei gruppi armati dei Talebani che intanto sferravano costantemente la loro guerriglia anche contro il contingente internazionale presente nel paese. Il 9 ottobre del 2004 si tennero le prime elezioni nazionali presidenziali durante le quali Karzai venne eletto con il 55 per cento dei voti a favore, confermandosi così come presidente. Con la nuova tornata elettorale del 2009 che confermò nuovamente la presidenza di Karzai crebbe l’attività terroristica che si basò sulle accuse di brogli elettorali che decretarono la vittoria dell’allora presidente. Anche per questa ragione Karzai propose di intraprendere dei dialoghi di pace con i Talebani che questi rifiutarono. Dopo l’uccisione di Osama Bin Laden nel 2011 una volta individuato il suo rifugio nei pressi della città di Islamabad sono invece stati intrapresi tra Usa e Talebani colloqui volti all’identificazione di una soluzione politica alla guerra. Da quanto esposto si comprende come i Talebani non sono mai usciti di scena nel conflitto afgano fino a costituire, ancora oggi, una forza così influente nel paese da essere stati chiamati dall’amministrazione Trump, nel 2019, a sedere al tavolo dei negoziati con gli Usa per la costituzione di un sistema di pace in Afghanistan.

La madre di tutte le bombe

In questo processo storico però non va taciuto il ruolo del sedicente Stato Islamico in Afghanistan, costituitosi nel 2015 e contro il quale nel 2017 nella regione di Nangharan, nel Nordest afgano, dove risiede prevalentemente il gruppo terrorista, è stato lanciato un ordigno esplosivo di undici tonnellate da parte degli Usa, considerata la madre di tutte le bombe (Moab – Mother of all the bomb). In particolare, l’IS-K – lo Stato Islamico della provincia di Khorasan nell’area nordoccidentale del paese (oggi regione divisa tra Iran, Turkmenistan e nella sua parte sud con l’Afghanistan) – è stato fondato nel 2015 da ex membri dei Talebani pakistani e ha diffuso la propria ideologia nelle aree rurali del paese come la provincia di Kunar nella quale si evidenzia una maggiore presenza di musulmani salafiti, lo stesso ramo religioso dell’Islam sunnita del sedicente Stato Islamico in Afghanistan. Nel 2019 Kabul, come esito di una campagna militare durata diversi anni, ha ripreso di nuovo possesso dei territori da questi occupati.

Gli Stati Uniti hanno dichiarato ufficialmente la sconfitta dello Stato Islamico in Afghanistan, ma ciò non corrisponde alla realtà come si evince dai recenti attentati che hanno interessato il paese.

Doha, il negoziato

Nel 2019 iniziano ufficialmente i negoziati di pace tra Stati Uniti e Talebani a Doha nel Qatar dove la forza talebana vanta di avere una sorta di ambasciata. Ciò che si pone alquanto sconcertante è, dopo vent’anni di guerra nel paese e dopo due tornate elettorali che hanno visto vincitore Ghani, l’estromissione dal tavolo dei negoziati del Governo di Kabul presieduto dallo stesso, compiendo in questo modo una vera e propria sua delegittimazione.

I negoziati, finalizzati a un accordo di pace, che verrà poi firmato il 29 febbraio 2020, per quanto riguarda gli Usa sono gestiti da Zaimai Khalizai, diplomatico afgano americano già ambasciatore dell’Afghanistan negli Stati Uniti, i Talebani, invece, sono rappresentati da Mohammad Abbas Stanikzai diplomatico a capo dell’ufficio di Doha e da mullah Abdul Ghani Baradar cofondatore dei Talebani rilasciato nel 2018 da una prigione pakistana.

L’oggetto dell’accordo di febbraio 2020 è stato essenzialmente basato su due punti: il ritiro di tutte le truppe armate straniere entro il primo maggio del 2021 e l’impegno da parte dei Talebani a che il territorio afgano non sia più la base di attività terroristiche o di minaccia nei confronti degli Usa; nonché l’avvio di un dialogo interno tra afgani. Tuttavia, va detto che se gli Usa mirano a portare sostegno principalmente militare per il consolidamento di un governo di tipo repubblicano in Afghanistan, i Talebani vogliono creare di nuovo l’istituzione di un Emirato islamico auspicabilmente retto da Pakistan, Iran, Cina e Arabia Saudita.

La sigla dell’accordo è avvenuta alla presenza dei ministri e delle rappresentanze delle organizzazioni internazionali di trenta paesi. L’accordo, quindi, ha sicuramente una rilevanza internazionale ma non è ancora risolutivo in quanto, a oggi, non si registra né la fine della guerra né tantomeno quella dell’intervento americano in Afghanistan.

Gli equilibri dell’area: l’utilità (tutta Usa) della pressione

L’accordo dimostra inevitabilmente la sconfitta riportata dall’amministrazione americana rispetto al conflitto afgano, questione che intende abbandonare – come già avvenuto in passato – lasciando alle forze di influenza locali la risoluzione effettiva del medesimo per occuparsi di questioni che al momento le premono maggiormente, come l’avanzata dell’egemonia economica internazionale da parte della Cina o il controllo delle aree di influenza della Russia. Tuttavia, è chiaro allo stesso tempo che risulta sempre importante mantenere per gli Usa una certa pressione sull’Afghanistan, data la sua geolocalizzazione, vicina com’è all’Iran alla Cina alla Russia e al Pakistan con i quali gli Stati Uniti sono in contrasto o in competizione. La sconfitta americana nel conflitto si evince anche dalla progressiva diminuzione dei toni della narrazione delle amministrazioni americane che si sono susseguite nel tempo rispetto agli obiettivi iniziali della guerra in Afghanistan da parte degli Usa, per i quali, dopo venti anni di conflitti, è sufficiente la sigla di un accordo con gli insorti talebani anche se gli attacchi a opera di questi sono ancora oggi tutt’altro che sedati. Il disimpegno completo delle forze armate statunitensi, quindi, è stato previsto dopo 14 mesi dalla stipula dell’accordo, mentre i militari della Nato e altri alleati determineranno un progressivo disimpegno in modo proporzionale. L’amministrazione Trump si è impegnata formalmente anche a rimuovere tutte le sanzioni che gravano sui Talebani e ha promesso la liberazione dei loro prigionieri. Da parte loro, i Talebani devono assicurare una notevole diminuzione degli atti di violenza e l’impegno a negoziare con il governo afgano, oltre che, come detto, a far sì che il gruppo terrorista non rappresenti una minaccia per gli Stati Uniti.

L’indagine dell’Aja sui crimini di guerra (di tutti)

Non è in ogni caso da sottovalutare quanto è avvenuto immediatamente dopo la stipula dell’accordo Usa-Talebani, ossia la decisione all’unanimità, da parte del Tribunale Internazionale dell’Aja del 5 marzo del 2020, con la quale si è autorizzato il procuratore generale Fatou Bensouda ad avviare un’indagine sui crimini di guerra commessi in Afghanistan da parte dei Talebani, degli Usa e delle forze del governo afgano. La richiesta di avviare un’indagine era già stata presentata alla Camera preliminare della Corte internazionale nel 2017 in esito alle denunce delle vittime dei familiari per i crimini puniti dal diritto internazionale compiuti nel conflitto, ma all’epoca era stata respinta sulla base della mancata collaborazione che le parti chiamate in causa avrebbero sicuramente posto in essere rispetto a una chiarificazione degli avvenimenti oggetto delle indagini. Inoltre l’altra motivazione addotta dalla Camera fu quella concernente l’elevato costo che un processo di questo tipo avrebbe comportato. Se lo scorso anno si è arrivati a ribaltare la sentenza è sia per il cambiamento dello scenario politico del conflitto afgano, sia perché vi sono nuove evidenze fattuali portate avanti dall’accusa che non possono essere ignorate e sulla base delle quali è soddisfatto sicuramente il fumus delicti. Ciò che va sottolineato è che oggetto delle indagini non saranno soltanto i crimini commessi nel territorio afgano ma anche quelli compiuti in altri paesi connessi con il conflitto afgano, come Lituania, Polonia e Romania e che, non solo, si procederà per i crimini per i quali è stata richiesta l’autorizzazione a procedere da parte del procuratore generale presso il Tribunale dell’Aja, ma anche per qualsiasi crimine di competenza della Corte che emergesse nel corso delle indagini, collegato a tale conflitto. Secondo Amnesty International si tratta di «una decisione storica con cui il massimo organo di giustizia internazionale, rimediando a un suo terribile errore, si è posto da parte delle vittime dei crimini di guerra e dei crimini contro l’umanità commessi da tutte le parti coinvolte nel conflitto afgano».

Inoltre l’Ispettorato generale delle forze di difesa australiane in un rapporto pubblicato nel 2020, basato su un’inchiesta diretta dal giudice Paul Brereton durata 4 anni, ha ritenuto credibili le informazioni circa la responsabilità da parte delle forze speciali australiane di gravi violazioni dei diritti umani, in particolare dell’uccisione di 39 civili e di trattamenti disumani commessi tra il 2005 e il 2016 in Afghanistan, raccomandando un’indagine penale in merito. La Commissione indipendente dei diritti umani dell’Afghanistan ha quindi invitato gli Stati Uniti e il Regno Unito a seguire l’esempio australiano e a indagare in merito ad alcuni atti commessi dalle proprie forze speciali potenzialmente qualificabili come crimini di guerra.

Il 2020 inoltre viene ricordato anche per essere stato l’anno in cui si è registrato il più alto numero di vittime dall’inizio del conflitto nel 2001 e in cui sono iniziati dei nuovi negoziati, questa volta, tra il governo di Kabul e i Talebani sempre finalizzati, come quelli del 2019, tra Usa e Talebani, alla costituzione di un sistema di pace in Afghanistan.

I nuovi negoziati e la delegittimazione di Ghani

Tali nuovi negoziati, portati avanti a partire da settembre del 2020, sono stati – come detto precedentemente – conseguenza diretta delle condizioni poste alla base dell’accordo siglato nel febbraio 2020 tra Stati Uniti e Talebani. I rappresentanti delle due diverse fazioni nel paese sono dal lato della squadra nazionale della Repubblica islamica in Afghanistan (IRoaA team), Abdullah Abdullah, in quanto presidente dell’Alto Consiglio di Riconciliazione Nazionale (Hncnr) e, per la delegazione talebana, Mawlavi Abdul Hazim Ishaqzai, figura di alto rilievo religioso nel paese e vicino a Hibatullah Akhunzada.

Il governo bicefalo

Le cause dell’estromissione dell’esecutivo retto dall’attuale presidente Ghani in tali negoziati intrafgani vanno individuate in due fenomeni. Il primo è costituito dal fatto che i Talebani non hanno mai riconosciuto le vittorie elettorali ottenute da Ghani, sia nel 2014 che nel 2019, ritenendo che in entrambe le occasioni vi sia stata una manipolazione dei risultati elettorali; il secondo fenomeno invece è fondato sull’ampia contestazione subita, sempre in conseguenza dell’esito delle votazioni, da parte dei partiti di opposizione e così accesa d’aver costretto l’esecutivo neoeletto, nel 2014, ad affidare ad Abdullah Abdullah, il leader del principale partito di opposizione, il ruolo di amministratore delegato del governo presieduto da Ghani e, dopo le elezioni del 2019, a concedergli proprio la carica di capo del Consiglio di pace in Afghanistan. Infatti, il risultato delle elezioni di settembre del 2019 non è stato mai avallato da Abdullah Abdullah che aveva costituito un governo “ombra” speculare a quello di Ghani, tentando di impedirne l’insediamento, fino al maggio del 2020 quando, con l’intensificarsi degli attacchi dei Talebani, i due leader hanno concordato una ripartizione proporzionata degli incarichi all’interno del neoeletto esecutivo. Per questo motivo il governo di Kabul oggi viene definito bicefalo. Per aggirare questi ostacoli già nel 2019 all’inizio dei negoziati Usa-Talebani, per l’accordo siglato a febbraio del 2020, il capo negoziatore del governo afgano Stanikzai ha inventato lui stesso il termine “squadra nazionale inclusiva efficace”, identificata poi nel 2020 come team IRoA.

Parte del Team IRoA incontra il ministro degli Esteri americano Pompeo

Tuttavia l’attuale repubblica che siede accanto ai Talebani nei negoziati intrafgani, avviati a settembre del 2020, non esprime tanto un pluralismo democratico presente nel paese, quanto una frammentazione delle forze politiche afgane. La posizione dei Talebani, dopo i negoziati intrafgani, sembra spingere più verso un sistema di governo ibrido islamico che verso un nuovo Emirato. Per quanto riguarda invece l’influenza degli altri attori regionali, quali Pakistan, Russia Iran e Cina, anche se hanno svolto un ruolo importante per l’instaurarsi dei negoziati, la loro influenza nella formalizzazione di un accordo conseguente a questi non deve essere sopravvalutata: i vicini dell’Afghanistan infatti hanno poca capacità di plasmare il pensiero dei Talebani che sanno di potersi liberamente sganciare da eventuali concessioni o promesse di supporto a un governo repubblicano afgano, potendo rinunciare ai colloqui intrafgani e persistere con i propri atti di guerriglia.

Una difficile eredità

A novembre del 2020, inoltre, l’allora segretario americano alla difesa Christopher Miller ha annunciato che gli Stati Uniti avrebbero ritirato le proprie truppe dall’Afghanistan con un’ulteriore riduzione delle stesse dopo le 8000 ritirate lo scorso anno, fino ad arrivare a 2500 entro il mese di gennaio 2021. Questa decisione si è determinata in esito alla vittoria elettorale di Joe Biden, il 7 novembre del 2020, prima del suo insediamento il 20 gennaio del 2021. Biden infatti al momento sta gestendo la difficile eredità lasciata dal suo predecessore nel conflitto afgano dovendo fare i conti, da un lato con le condizioni poste dall’accordo Usa-Talebani del febbraio 2020, dall’altro con l’esacerbarsi degli attacchi armati per mano dei Talebani e del sedicente Stato Islamico in Afghanistan.

Trump, dal canto suo, non ha mancato di evidenziare più volte i risultati diplomatici ottenuti dalla sua amministrazione rispetto alla questione afgana, in particolare: il ritiro delle truppe americane, le garanzie sull’antiterrorismo e del cessate il fuoco, in una prospettiva futura, da parte dei Talebani nonché dell’inizio dei negoziati intrafgani con due incontri rispettivamente tenutisi a settembre del 2020, e all’inizio di gennaio del 2021. Tuttavia, il conflitto resta oggi tutt’altro che concluso.

Il ritiro condizionato delle truppe

Alla data del suo insediamento nel 2021, anno in cui ricorre il ventennale dall’inizio del conflitto in Afghanistan, Biden ha, in tale sede geopolitica, come primo elemento con cui confrontarsi, quello temporale dettato dall’accordo Usa-Talebani siglato a Doha, ossia quello del ritiro, entro il primo maggio del 2021 di tutte le truppe americane.

Al riguardo si sottolineano le dichiarazioni del neoeletto consigliere per la sicurezza nazionale Jake Sullivan che ha ritenuto, fin da subito, di chiarire l’intenzione della nuova amministrazione a rivedere l’accordo siglato con i Talebani a febbraio del 2020 per verificare se, effettivamente, i Talebani stiano ponendo del tutto fine ai loro legami con i gruppi terroristi e se questa verifica potrebbe comportare la proroga di ulteriori sei mesi della presenza delle truppe americane in Afghanistan, dilazionando la data del loro ritiro. Ciò, in ragione anche del fatto che il ritiro delle forze armate statunitensi deve essere interpretato, secondo l’attuale amministrazione americana, nel senso che questo avverrà solo se vi saranno evidenze fattuali circa l’effettivo adempimento, da parte dei Talebani, delle condizioni dettate nell’accordo con gli Usa.

Fonte: “la Repubblica”, 15 aprile 2021

La società civile: attore e osservatore permanente

In tale scenario il ruolo della società civile afgana si è evoluto nel tempo: all’inizio del XX secolo i rappresentati della società civile erano il clero e gli attori religiosi mentre a partire dalla metà del XX secolo, la rappresentanza della società civile è stata identificata nei professionisti, nei politici, negli artisti e più in generale in tutti i cittadini con alle spalle un sistema di istruzione superiore. Con l’invasione sovietica vi è una rilevante mutazione degli attori della società civile, sia durante il conflitto contro l’Urss, sia nel corso del governo del paese da parte dei mujaheddin sia in seguito, con gli stessi Talebani. La società civile, da questo momento in poi, sarà stata costituita prevalentemente dalle organizzazioni non governative nazionali e internazionali.

A partire dal 2001 la società civile afgana, invece, ha operato in un contesto maggiormente inclusivo grazie al riconoscimento del suo ruolo da parte delle istituzioni statali e ha lavorato nell’ambito dell’educazione civica ricoprendo posizioni di rilievo anche nei media e nelle organizzazioni di diverso tipo.

Infine, oggi, la società civile in Afghanistan è composta da ong, sindacati, organizzazioni sociali e culturali, organizzazioni comunitarie, organizzazioni femminili e di cittadini che promuovono l’organizzazione religiosa, i diritti delle donne, la libertà di parola e più in generale i diritti umani. In quest’ottica è facile comprendere come essa costituisca un attore rilevante per il raggiungimento di un’effettiva condizione di pace nel paese, quantomeno come osservatore permanente.

L’escalation di attacchi terroristici

Nel mese di marzo 2021 infatti – nonostante l’accordo di pace firmato il 29 febbraio del 2020 tra Stati Uniti e Talebani e le due tornate negoziali intra- afgane – si è registrata un’escalation degli attacchi terroristici nel paese. Intanto si avvicina sempre maggiormente il termine del Primo Maggio per il ritiro delle truppe americane. Gli attacchi di cui sopra hanno interessato soprattutto le donne. A essere rimaste uccise, infatti, agli inizi di marzo, sono state una giovane dottoressa afgana che si stava recando al lavoro nella città di Jalalabad, a causa di un ordigno esplosivo posizionato sotto la sua automobile e di tre giornaliste dipendenti della stessa emittente locale, in esito a tre diversi attentati, mentre, tre mesi prima, era già stata uccisa la presentatrice della stessa emittente. Il 30 marzo 2021 Amnesty International inoltre ha riportato l’assassinio di tre operatrici sanitarie, impegnate nella campagna di vaccinazione contro la poliomielite, sempre nella città di Jalalabad, definendo tale atto «codardo, contro tre donne impegnate a proteggere la salute di 10 milioni di bambine e bambini al di sotto dei cinque anni di età, all’inizio della campagna di vaccinazione».

Negli ultimi mesi gli omicidi sono stati rivolti specificatamente a un tipo di appartenenti alla società civile: giornalisti, giovani istruiti, attiviste per i diritti umani. Tali uccisioni sono finalizzate a distruggere la speranza di quanti si impegnano quotidianamente per un futuro diverso dell’Afghanistan e sono stati rivendicati dal gruppo terrorista dello Stato Islamico in Afghanistan con l’intento di affermare la propria presenza sul territorio al pari di al-Qaeda e dei Talebani.

Per questo motivo, in esito agli omicidi di marzo, Fatima Gailani, una delle negoziatrici a Doha per l’accordo Usa-Afghanistan, ha chiesto che i Talebani, distaccandosene, condannino pubblicamente gli attacchi rivendicati dall’IS-K e che si impegnino maggiormente a favore dei cittadini afgani, con una buona istruzione, affinché rivestano ruoli di rilievo nella società civile.

Regioni strategiche: il Nangarhar…

Come visto, i recenti attentati si sono accentuati proprio nella regione del Nangarhar di cui la capitale è la città di Jalalabad, e l’autore è sempre l’IS-K che, come detto, è stato ufficialmente dichiarato sconfitto nel 2019 dagli Usa, ma che in realtà non è stato mai debellato dal territorio afgano e, negli ultimi mesi, sta sferrando sanguinari attacchi prevalentemente sulla popolazione civile come quelli avvenuti dall’11 al 17 marzo e tra il 20 e il 21 marzo del 2021. Secondo il governo di Kabul, pur essendo la maggior parte degli attacchi rivendicati dal sedicente Stato Islamico, essi vengono realizzati con l’appoggio dei Talebani che forniscono militanti e agevolano le attività del gruppo terrorista, Talebani che, a loro volta, sarebbero sostenuti da alcuni militanti pakistani.

La regione del Nangarhar è particolarmente coinvolta dagli attacchi terroristi per diverse ragioni. In primo luogo, la città di Jalalabad ha una posizione strategica, essendo il primo centro urbano prima del confine a Nordest dell’Afghanistan con il Pakistan, nel quale, fin dagli anni Ottanta, si è stanziato, dopo l’occupazione sovietica, il gruppo dei Talebani. In secondo luogo, la regione ha una rilevante importanza poiché la zona risulta essere un punto di snodo cruciale per i due paesi in ragione del passaggio di merci e delle risorse del territorio prettamente rurale. A tali caratteristiche, tipiche dell’area, si aggiunge poi l’attuale presenza massiccia di esponenti del sedicente Stato Islamico, per cui in tali territori si sono accesi negli ultimi anni gli scontri più cruenti tra Stato Islamico e Talebani con conseguenze disastrose sotto il profilo economico, ambientale e rispetto alla condizione della popolazione civile locale, considerando le migliaia di sfollati interni dirette in altre aree del paese e di rifugiati nei paesi limitrofi, provenienti da quest’area.

una difficile eredità

Siyad Darah (foto JonoPhotography)

… e linee tracciate sulla carta

Infine, si aggiunge il problema della certa determinazione del confine territoriale tra tale parte Nordest dell’Afghanistan e il Pakistan, in quanto l’attuale delimitazione viene contestata e non è stata mai riconosciuta dall’Afghanistan poiché imposta sotto il dominio inglese senza tener conto che in prossimità dei due lati del confine risiedevano e risiedono da sempre molti individui di etnia pashtun. Da ciò si comprende anche la molteplicità di aspetti culturali, etnici, religiosi condivisi tra i due paesi e che, nel corso degli anni e ancora oggi, i Talebani hanno saputo sfruttare per il perseguimento dei propri obiettivi. I Talebani, tuttavia, sono responsabili attualmente di un diverso tipo di attentati rivolti, non tanto verso la popolazione civile come nel caso del sedicente Stato Islamico, quanto piuttosto verso le istituzioni dell’esecutivo afgano: come i convogli militari e di polizia gli stessi edifici istituzionali, facendo emergere così il preoccupante cambiamento in ambito securitario seguito al parziale ritiro delle truppe statunitensi nel 2019.

 

18 marzo: la conferenza di pace di Mosca

Infatti, come dimostrano gli accadimenti di metà marzo il rapporto Talebani-Usa, in virtù dell’accordo, non può certo considerarsi disteso: il 17 marzo 2021 i militari statunitensi hanno dichiarato di aver compiuto un attacco aereo contro i Talebani a sostegno del governo afgano che ha provocato la morte di 48 persone nella provincia di Kandahar. Tuttavia, se da un lato gli Stati Uniti hanno affermato che è stato eseguito in piena conformità con l’accordo di Doha, i Talebani hanno invece ritenuto che l’attacco aereo sia da considerarsi una violazione esplicita dell’accordo di pace di febbraio dello scorso anno.  In tale contesto, il 18 marzo, si è tenuta una conferenza internazionale sulla pace in Afghanistan a Mosca coerente con l’intento americano di includere anche gli altri stati che esercitano una sfera d’influenza sull’Afghanistan. Infatti, la conferenza è stata l’occasione per la sottoscrizione di una dichiarazione congiunta della Russia, della Cina, degli Stati Uniti e dal Pakistan in merito al conflitto afgano, mediante la quale hanno deciso che non offriranno sostegno alla creazione di un nuovo Emirato islamico in Afghanistan ma che sosterranno un’azione diplomatica per la risoluzione del conflitto. La dichiarazione è suddivisa in dieci sezioni nelle quali si afferma: l’esistenza di una ferma volontà del popolo afgano rispetto a una condizione di pace duratura nel paese da conquistare solo mediante un’azione diplomatica; la richiesta della riduzione degli atti di violenza del paese e più specificamente la richiesta ai Talebani di non portare avanti ulteriori offensive in primavera; l’impossibilità per i paesi partecipanti alla conferenza di sostenere il ripristino di un Emirato islamico; la necessità del proseguimento dei negoziati intrafgani con una specifica tabella di marcia rispetto agli obiettivi che le parti si propongono; l’imprescindibilità di creare un governo afgano indipendente, sovrano, unificato e democratico; la garanzia dell’assenza di qualsiasi legame con gruppi terroristi; il presupposto fondamentale  della  protezione di tutti i cittadini afgani; l’importanza di un dialogo internazionale dell’Afghanistan in grado di fronteggiare la crisi del paese; l’apprezzamento per il sostegno offerto da Qatar a ospitare i colloqui di pace e, infine, la nomina del segretario generale delle Nazioni Unite Jean Arnault  come inviato nel paese.

La possibile proroga del ritiro delle truppe Usa

Inoltre il 22 marzo del 2021, il segretario alla difesa Lloyd Austyn si è recato in Afghanistan: Il capo del Pentagono infatti ha ritenuto necessario incontrare personalmente l’attuale presidente Ashraf Ghani per discutere dell’escalation degli attentati nel paese e, il 22 marzo, il portavoce dei Talebani ha confermato alla stampa che si sta mettendo in atto un piano di sostanziale di riduzione della violenza nel paese entro 90 giorni, tuttavia ancora non qualificabile come un vero e proprio “cessate il fuoco”. Inoltre, il presidente della Commissione delle Forze Armate Statunitensi Adam Smith, il 25 marzo, ha rivelato l’intenzione dell’amministrazione Biden di negoziare una proroga della scadenza per il ritiro delle truppe statunitensi – condivisa dalla Nato che è pronta ad aspettare con gli Usa il ritiro delle proprie forze – e che, tuttavia, i militanti talebani stanno combattendo contro l’IS-K, quanto contro il governo afgano. Al riguardo si sottolinea che il parlamento tedesco, il 25 marzo 2021, ha già però avallato il rinnovo della partecipazione delle truppe tedesche Nato nel conflitto afgano fino alla fine del 2022. Infine, il 31 marzo, secondo il quotidiano “Tolo News” gli stati Uniti sarebbero sul punto di decidere per una proroga dai 3 ai 6 mesi per il ritiro delle truppe, mentre i Talebani hanno richiesto la liberazione di 7000 loro detenuti nelle prigioni afgane.

Intanto le violenze nel paese si stanno esacerbando sempre di più. La sensazione che si ha, quindi, è che sia nel caso in cui Joe Biden rispettasse la condizione del ritiro delle truppe dal Primo Maggio entro l’11 settembre, conseguenza dell’accordo formalizzato dalla precedente amministrazione degli Stati Uniti con i Talebani, sia nel caso in cui il presidente neoeletto decidesse di non rispettarla, prorogando i termini di alcuni mesi, potrebbero comunque verificarsi nuovi scontri e attacchi armati: nel primo caso perché i Talebani e il sedicente Stato Islamico potrebbero, in questo modo, continuare a contrastare il consolidamento dell’esecutivo afgano, avendo maggiore campo libero e approfittando del totale disimpegno delle truppe americane, mentre nel secondo caso avrebbero l’alibi del mancato rispetto del termine per giustificare il perdurare delle loro attività sanguinarie di guerriglia.

Quello che si evince in tale scenario politico e che condiziona anche le dinamiche strategiche e tattiche degli altri paesi interessati alla stabilizzazione dell’area è il principio secondo il quale, per risolvere situazioni complesse come quella afgana, l’intervento militare è una soluzione meramente transitoria nel processo di pace che coinvolge il paese. Questo infatti dovrebbe essere accompagnato da politiche basate principalmente sul miglioramento del sistema scolastico-educativo per la popolazione civile e sulla messa in atto di strumenti di state building rispetto alle forze politiche locali: solo in questo modo si potrebbe raggiungere effettivamente il tanto auspicato cambiamento.

L'articolo n. 5 – Afghanistan: la soluzione si allontana proviene da OGzero.

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n. 1 – Corno d’Africa: Migranti e secolari conflitti etnici e coloniali https://ogzero.org/una-visione-di-insieme-degli-scenari-che-provocano-migrazioni/ Sun, 11 Apr 2021 08:22:39 +0000 https://ogzero.org/?p=2976 Questo saggio fa parte di una raccolta di articoli che fornisce una panoramica sulla questione migratoria: analizzeremo insieme a Fabiana Triburgo le varie rotte che si sono delineate nel tempo a causa di conflitti o e instabilità che provocano questo fenomeno per giungere infine a un’analisi della normativa europea e delle alternative che potrebbero emergere […]

L'articolo n. 1 – Corno d’Africa: Migranti e secolari conflitti etnici e coloniali proviene da OGzero.

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Questo saggio fa parte di una raccolta di articoli che fornisce una panoramica sulla questione migratoria: analizzeremo insieme a Fabiana Triburgo le varie rotte che si sono delineate nel tempo a causa di conflitti o e instabilità che provocano questo fenomeno per giungere infine a un’analisi della normativa europea e delle alternative che potrebbero emergere da politiche più coraggiose e lungimiranti. Qui il primo contributo, focalizzato sul Corno d’Africa.


n. 1

I principali conflitti che attualmente interessano le migrazioni forzate e le prassi di esternalizzazione poste in essere dall’Unione Europea e dai singoli stati membri portano a una predeterminazione delle rotte dei migranti.

Quello che oggi è inevitabile chiedersi è se il nuovo Patto europeo sulla migrazione e l’asilo, proposto dalla Commissione UE, possa essere realmente considerato una soluzione della gestione del fenomeno migratorio o se invece vi siano soluzioni legali alternative maggiormente lungimiranti e coraggiose.  


Le diverse culle dell’emigrazione dal continente africano e l’accoglienza in Europa

Occorre da principio analizzare alcuni dei conflitti e situazioni di instabilità politica che continuano a interessare diverse aree del Mondo per poter capire meglio quali siano le nazionalità coinvolte nelle attuali correnti umane quantomeno di quelle forzate. Gli accadimenti bellici determinatisi in Etiopia dal mese di novembre 2020 per esempio, con particolare riferimento alla regione del Tigray, hanno proiettato nuovamente il rischio di un’instabilità politica dell’area che si pensava superata con l’elezione del nuovo presidente Abiy Ahmed Ali e dagli accordi di non belligeranza del 2018. Tali accadimenti hanno di fatto riportato l’attenzione della Comunità internazionale in questa area del Corno D’Africa.

Il campo di Dadaab che il Kenya intende chiudere. Il Corno d’Africa è l’area del mondo che produce e accoglie il maggior numero di sfollati, circa 11 milioni.

Le dinamiche di tale conflitto che il Governo Federale Etiope cerca di tenere sotto controllo, nonostante le attuali guerriglie, anche in vista delle prossime elezioni, coinvolgono non solo L’Etiopia ma anche L’Eritrea, la Somalia, il Sudan, paesi già interessati tra l’altro da conflitti interni, nonché l’Egitto che, caratterizzato da un sistema autoritario, mantiene comunque forti interessi economici nella zona. Non solo, la Libia da diversi anni, in una situazione di assenza di un governo unitario del paese, è concretamente divisa in due aree d’influenza politica la Cirenaica e la Tripolitania nelle quali i rispettivi esponenti Khalifa Haftar da un lato e Fayez al-Sarraj dall’altro si contendono l’egemonia e le risorse del paese nel quale vi sono anche altre presenze internazionali ossia Russia, Egitto e Francia da un lato, Turchia e Italia dall’altro; l’idea al momento è quella di creare un governo transitorio che guidi il paese fino alle elezioni di dicembre del 2021.

La Tunisia, invece, dove ebbero inizio dieci anni fa le cosiddette primavere arabe, dal 2010 ha formalmente adottato un sistema democratico ma al contempo ha visto susseguirsi, negli ultimi anni, diversi governi ed è attualmente interessata da numerose e continue proteste popolari che denunciano il mancato rispetto da parte dell’attuale governo di alcuni diritti civili fondamentali. A tali scenari si aggiungono le situazioni geopolitiche non ancora risolte riguardanti più in generale l’Africa subsahariana ossia non solo paesi come la Nigeria ma anche l’area del Sahel in particolare il Mali e il Niger mentre sul fronte del Medio Oriente a destare maggiori preoccupazioni sono l’Afghanistan, l’Iraq e la Siria.

In tale contesto internazionale si inserisce la politica europea e dei singoli stati membri dell’UE in materia di immigrazione che, vista la perdurante applicabilità dal Regolamento di Dublino e dei criteri da esso stabiliti, ha determinato di fatto un condizionamento o meglio un vero impedimento per i migranti ad attraversare determinate frontiere. Ciò è avvenuto mediante la definizione da parte dell’UE o di singoli paesi dell’UE di accordi bilaterali, contraddistinti dai continui respingimenti dei migranti (dei quali i numeri per il solo anno 2020 sono impressionanti anche con riferimento alle vittime), con i paesi che geograficamente sono collocati alle porte dell’UE: l’accordo con la Turchia nel 2016 per fermare i flussi migratori verso la Grecia (rotta dell’Egeo), con la guardia costiera Libica, con il Niger e la Tunisia, per bloccare i flussi migratori verso l’Italia e Malta (rotta del Mediterraneo centrale), con il Marocco per fermare l’emigrazione verso la Spagna (rotta Atlantica). Il supporto finanziario per il contrasto al fenomeno migratorio di flussi misti si è spinto oltre: l’agenzia europea Frontex ha coadiuvato tali controlli e respingimenti delle frontiere insieme alla polizia croata, per i migranti provenienti dalla Bosnia, e anche a quella Italiana rispetto ai migranti provenienti dalla Slovenia (Rotta Balcanica) che hanno quindi così garantito la riuscita del cosiddetto “Game”.

Per quanto riguarda le “frontiere liquide”, ossia quelle marittime, occorre prestare attenzione alla definizione delle zone Sar (“Search and Rescue”) e alla criminalizzazione del diritto al soccorso in mare in evidente violazione delle Convenzioni internazionali in materia, nelle quali il soccorso in mare prima ancora di un diritto è un obbligo.

Divisione Sar mediterranee

In conclusione ci si chiede se sia corretta l’approvazione del parlamento europeo e del consiglio europeo di una proposta di una normativa della commissione che mira alla creazione di campi di confinamento, ossia grandi “hotspot” in prossimità delle frontiere UE, non solo per l’identificazione (attività di “screening”) ma anche per una valutazione accelerata della domanda d’asilo, che continua a mantenere il criterio gerarchico del primo paese d’arrivo e che infine considera l’obbligo del diritto al soccorso in mare come un diritto il cui monopolio spetta alle singole autorità statali dell’Unione Europea. Le minori garanzie per i diritti dei migranti e i rischi per la loro vita si potrebbero superare con una vera inversione di rotta: un sistema giuridico fondato principalmente, e non in via residuale, su “canali legali” quali i corridoi umanitari, su una maggiore concessione di visti di ingresso da parte dei paesi UE e da ultimo un sistema obbligatorio di ripartizione per quote delle domande d’asilo, pratiche sicuramente meno negazioniste del fenomeno dell’emigrazione.

Flussi della mobilità umana indotti da teatri di guerra

I conflitti e le situazioni di instabilità politica che attualmente interessano diversi paesi del Nordafrica, cosi come quelli riguardanti la zona del Sahel e dell’Africa subsahariana più in generale, e i paesi dell’Area Mediorientale, hanno ripercussioni inevitabili sulle correnti umane – definibili come flussi delle migrazioni forzate – alcune già in essere, altre invece che manifestano già ora il loro carattere di potenzialità di determinazione in un prossimo futuro. Tali situazioni geopolitiche non possono pertanto lasciarci indifferenti traducendosi in correnti che hanno come punto di arrivo la stessa Europa se non, come in molti casi, proprio l’Italia.  Prenderne atto o averne una conoscenza anche minima ci offre la possibilità di uscire dal nostro ristretto punto di vista ed entrare in contatto, in modo maggiormente consapevole, con un fenomeno che è quello della mobilità umana, in questi casi, chiaramente non volontaria, ma imposta da accadimenti esterni, da sempre presente nella storia.

Porre uno sguardo attento e senza pregiudizi verso i paesi per noi lontani o diversi può essere il modo di prendere atto dell’inarrestabilità del fenomeno migratorio e di come esso, anche nel tentativo di essere contenuto, non smetterà di esistere. Perché dunque non concederci una possibilità di riflessione e capire come a volte cambiare la nostra ottica voglia dire entrare maggiormente in contatto con la realtà senza doverla a tutti i costi rinnegare o soffocare?

Quello che si propone questa serie di articoli è dare una visione di insieme che cercherà di essere il più possibile inclusiva degli scenari internazionali che riguardano le aree maggiormente a rischio di implosione nel momento attuale e le ragioni di tali  rischi, per poi meglio comprendere le tappe delle migrazioni forzate fino a formulare una proposta di gestione alternativa del fenomeno migratorio che non può essere avulsa dall’analisi delle prassi, attualmente messe in campo dall’Unione Europea e da alcuni dei paesi membri, nonché  dalle proposte normative di contenimento delle correnti umane verso l’occidente ponendo attenzione a quanto è accaduto negli ultimi anni e chiedendosi non solo se tali prassi e proposte legislative siano eticamente orientate ma se prima di tutte siano logiche.

Il conflitto in Etiopia e nel Corno d’Africa

I massacri

Uno dei conflitti più recenti, al momento apparentemente sedato, ma interessato da una costante guerriglia, è quello riguardante l’area del Corno d’Africa e, più specificamente, l’Etiopia e la regione del Tigray posta al suo interno. Il 4 novembre del 2020 ha visto l’inizio delle operazioni militari ad opera del primo ministro etiope Abiy Ahmed Ali, a fronte di supposti attacchi da parte delle milizie della forza politica prevalente della regione del Tigray – il Fronte popolare di liberazione del Tigray (Tplf) – contro il governo centrale federale. Quello che doveva essere un intervento lampo, secondo il primo ministro etiope, non è stato così.

In particolare, Amnesty International riporta che il 9 novembre e il 10 novembre 2020 nella città di Mai- Kadra nello stato del Tigray, c’è stato uno spaventoso massacro di civili, circa 500, ufficialmente non identificato per quanto riguarda l’attribuzione di una responsabilità. Tuttavia, vi sono testimoni oculari che hanno chiamato in causa forze leali al Tlpf, tra cui la polizia speciale del Tigray, riportando che queste si sarebbero accanite contro la popolazione della città di Mai-Kadra (di etnia amhara) in risposta all’ attacco subito, il medesimo giorno, da parte delle Forze armate federali e della Forza speciale amhara nella regione del Tigray.

Mai-Kadra, Tigray

Il massacro di Mai-Kadra il 9 e 10 novembre ha contato 600 morti di etnia amhara

Inoltre, tra il 28 e il 29 novembre 2020, questa volta, le truppe eritree, presenti anch’esse nella regione del Tigray, già a partire dal 16 novembre 2020, hanno ucciso centinaia di civili nella città di Axum per il controllo della regione mettendo in essere esecuzioni sommarie, bombardamenti e saccheggi a danno dei civili tali da poter essere lecitamente qualificati, il 4 marzo 2021, come “crimini contro l’umanità”, da parte delle Nazioni Unite.

Gli eventi sono stati riportati da parte di alcuni etiopi sopravvissuti e da altri presenti nei campi rifugiati in Sudan. Nuove fosse comuni sono state identificate in prossimità delle due chiese di Axum, attraverso le immagini satellitari di Amnesty International, riportando che il massacro sarebbe avvenuto poco prima della celebrazione della Festa cristiana ortodossa etiope di Santa Maria di Sion. La festa ricorre il 30 novembre e vede partecipare ogni anno, oltre ai cittadini della città santa di Axum, diversi turisti e fedeli provenienti anche da altre zone dell’Etiopia. La documentazione di quanto avvenuto è resa quasi impossibile dalla reticenza del governo etiope a qualsiasi ingerenza, anche mediatica, a livello internazionale sulla questione locale.

Il superamento della coalizione di fazioni etniche

Dopo tali avvenimenti l’attenzione generale sulla “questione etiope” è quasi scomparsa – tanto che il conflitto è stato dichiarato ufficialmente cessato il 28 novembre 2020 – nonostante al momento sia ancora presente una situazione di guerriglia armata. Per capire quanto è avvenuto dunque occorre analizzare le cause storiche e politiche che hanno esacerbato il conflitto nella regione etiope del Tigray. Tale scenario attuale è maturato gradualmente a partire dal 2018, anno che può essere considerato rivoluzionario per gli equilibri politici del Corno d’Africa. Infatti, da più di due anni era presente in Etiopia lo scontro tra due gruppi dirigenti all’interno della medesima forza politica che ha guidato l’Etiopia negli ultimi trent’anni, ossia il Fronte democratico rivoluzionario del popolo etiope, una coalizione di partiti creata su base etnica all’inizio degli anni Novanta dal Fronte Popolare di Liberazione del Tigray e da questo controllata fino al 2018 quando è salito al potere il primo ministro Abiy Ahmed.

Il cambio di governo ha sancito l’ascesa di una nuova alleanza nella coalizione tra i partiti corrispondenti ad altrettanti gruppi etnici ossia amhara e oromo dal quale proviene lo stesso primo ministro, e che, fino ad allora, avevano giocato un ruolo secondario nel governo dell’Etiopia e che però dal 2018 divengono forze egemoniche. Da quel momento si determina un aspro processo di rinegoziazione delle sfere di influenza all’interno delle istituzioni federali del paese. Infatti il primo ministro Abiy Ahmed ha subito individuato il Fronte popolare di liberazione del Tigray come primo e unico responsabile delle malversazioni del passato, cercando sia di creare un terreno di sintesi delle forze di opposizione e determinandosi come uomo del cambiamento, celando quelle che invece erano le sue continuità con il passato regime, sia di legittimare un ricambio dei vertici tigrini delle istituzioni federali e delle Forze Armate con figure a lui fedeli.

Questo processo di ricambio ha raggiunto il suo apice alla fine del 2019 quando Abiy Ahmed ha sciolto la coalizione del Fronte democratico rivoluzionario del popolo etiope e, in sua vece, ha creato un partito autenticamente nazionale a guida fortemente centralizzata ossia il Partito della prosperità a cui però il Fronte popolare del Tigray si è rifiutato di aderire venendo così escluso da ogni incarico nel governo federale. Il Fronte popolare del Tigray ha risposto sottolineando che si stava determinando ideologicamente la costituzione di uno stato etiopico unitario e il superamento del principio di autodeterminazione dei gruppi etnici e dell’effettiva autonomia delle regioni etiopi rispetto al potere centrale. In questo modo il Fronte di Liberazione Popolare del Tigray, da un lato ha rotto l’autoisolamento in cui il Tigray versava dal 2018, dall’altro ha legittimato quello che gradualmente è divenuto il suo ruolo ossia uno stato nello stato, in nome del principio di autonomia regionale, al quale Abiy Ahmed ha risposto con ordini di cattura da parte della procura federale verso gli ufficiali politici tigrini e con il rinvio delle elezioni presidenziali del 2020 a causa della pandemia, elezioni che al momento sono previste per il 5 giugno 2021. Quindi è seguita la decisione del Tigray di indire elezioni in maniera autonoma nel solo stato regionale settentrionale che ha sancito il culmine di questo scontro istituzionale. L’amministrazione federale si è rifiutata di riconoscere il risultato delle elezioni regionali in Tigray che riconfermavano quasi all’unanimità il Fronte popolare di liberazione tigrino e da quel momento non ha riconosciuto più l’amministrazione regionale come interlocutore istituzionale. Il Fronte popolare a sua volta ha annunciato di non riconoscere più la legittimità dell’amministrazione federale in quanto decorso il termine di 5 anni dall’inizio del mandato di governo senza che vi fossero nuove elezioni. Quindi, come detto, la guerra civile è scoppiata il 4 novembre 2020 quando vi è stato un attacco delle forze militari tigrine contro una base dell’esercito federale etiope nel nord del paese. Il conflitto del Tigray dunque può essere letto come il tentativo del Fronte popolare di liberazione nazionale di resistere a una marginalizzazione dalla scena politica etiope.

Inoltre, va considerata anche la maggiore influenza nell’amministrazione federale etiope di forze militari nazionaliste, come quelle del partito legato all’etnia “amhara”, che già dal 3 novembre sono state posizionate tra lo stato dell’Amhara e quello del Tigray e che oggi sono ancora presenti nell’Ovest della regione. Ciò ha un rilievo storico non indifferente: tali territori dal 1991 fanno parte del Tigray, ma sono storicamente reclamati dallo stato regionale dell’Amhara, che, proprio in conseguenza del conflitto scoppiato nell’area del Tigray, oggi ha acquisito l’amministrazione, seppure temporanea di essi.

Internazionalizzazione del conflitto

Il Sudan

 

una visione di insieme

4000 rifugiati etiopi dopo aver attraversato la frontiera con il Sudan

Il conflitto della regione del Tigray è poi strettamente connesso con il conflitto tra Etiopia e Sudan (che si appresta a divenire uno stato federale) che da settimane ha provocato decine di morti e centinaia di sfollati. In evidenza il tentativo sudanese di sostenere l’intervento bellico condotto dal Fronte popolare di liberazione nazionale del Tigray che, quando negli anni precedenti al 2018 era al governo, aveva costituito un’asse privilegiato con il governo di Khartum. Inoltre, questo asse aveva implicato un accordo di confine tra Etiopia e Sudan, secondo il quale, proprio su alcuni territori reclamati dall’etnia amhara, era stata riconosciuta una sovranità sudanese ed erano stati militarizzati.

Infatti l’Etiopia e il Sudan condividono un confine di circa 1600 chilometri e questa contiguità ha provocato una tensione legata alla rivendicazione di taluni territori “comuni” da diversi anni. Nel 1902 fu stipulato tra la Gran Bretagna, allora potenza coloniale del Sudan, e l’Etiopia un accordo per individuare una frontiera ma non venne specificata una demarcazione territoriale ben definita tra i due paesi. Regolari riunioni tra Etiopia e Sudan, su tale questione, si sono svolte tra il 2002 e il 2006 mentre gli ultimi colloqui riguardanti i confini territoriali sono di maggio del 2020. È chiaro che oggi, quindi, ponendo il governo federale etiope le milizie dello stato regionale dell’Amhara come forza di controllo di alcuni territori al confine tra i due paesi, il conflitto civile etiope potrebbe trasformarsi in una guerra di più vasto rilievo.

La Diga della Rinascita e al-Fashqa

Lo scorso marzo lo scontro etiope con Il Sudan si è intensificato sulla piana di al-Fashqa, contesa da decenni dai due paesi, e almeno 50 soldati etiopi sarebbero stati uccisi proprio in ragione dello scontro in quest’area. Gli scontri sono iniziati il 4 febbraio 2021 quando l’Etiopia ha lanciato una serie di attacchi contro le forze sudanesi nell’area di Umm Karura. A metà gennaio il Sudan aveva denunciato lo sconfinamento di caccia etiopi nello spazio aereo sudanese aggravando le tensioni già alte per la diga sul Nilo e i problemi causati dai 56.000 profughi etiopi fuggiti dal Tigray, in seguito all’offensiva dell’esercito etiope lo scorso 4 novembre. Alla base rimane sempre la tensione che coinvolge Etiopia, Sudan ed Egitto per la “grande diga” sul Nilo che Addis Abeba sta terminando e sulla quale non si registrano progressi negli accordi.  Nell’area di al-Fashqa, inoltre, circa 2000 militari eritrei avrebbero attraversato il confine tra Etiopia e Sudan nei pressi di Wadi-al-Charab per supportare l’esercito etiope nella difesa dell’area contesa di al-Fashqa. Tuttavia, a fine marzo, il Governo di transizione del Sudan ha appoggiato la proposta degli Emirati Arabi Uniti di mediare nella disputa con Il governo etiope. Tale atteggiamento, assertivo di un tentativo di riconciliazione con l’Etiopia da parte del Sudan, è avvenuto solo in esito alle dichiarazioni del presidente Abiy Ahmed che ha affermato, martedì 23 marzo 2021, di non voler iniziare una guerra con Il Sudan ma di voler risolvere pacificamente le tensioni su al-Fashqa e sulla questione della grande diga (Grand Ethiopian Renaissance Dam).

Il Tigray. Tra Eritrea, Etiopia e Somalia

Va in seguito sottolineata chiaramente, soprattutto alla luce di questi eventi sovraesposti, il tipo di relazione che vi è tra Tigray, Governo Federale Etiope da un lato, ed Eritrea dall’altro. Nel 2019 è stata firmata dal governo federale etiope e l’Eritrea una pace storica che ha determinato il riconoscimento del Premio Nobel per la pace ad Abiy Ahmed Ali.

Tuttavia, la relazione tra i due paesi è ancora molto complessa e va ricercata in alcuni accadimenti avvenuti diversi anni prima dell’inizio del conflitto del 2020. I tigrini del Fronte popolare di liberazione del Tigray in passato erano di fatto il fronte armato gemello del Fronte di liberazione popolare dell’Eritrea e si erano alleati negli anni Ottanta tra di loro per condurre i rispettivi paesi verso la ribellione contro un governo di tipo sovietico. Dal 1991 al 1998, infatti, i due fronti avevano delle relazioni così pacifiche che gli etiopi utilizzavano su consenso eritreo gli sbocchi sul mare dei porti di Assab e Massaua per i propri interessi economici. Nel 1998 questa relazione pacifica è stata invece interrotta da una guerra tra il Fronte popolare di liberazione eritreo e quello etiope: questo creerà delle basi per la sedimentazione di una conflittualità e dei sentimenti di odio tra i due paesi oltre che un gran numero di morti e di persone deportate fino all’elezione dell’attuale presidente etiope.

Interessi eritrei in Tigray e spartizione degli aiuti e di aree di influenza

una visione di insieme

Interessi e presenze internazionali nel Corno d’Africa

Tutto ciò premesso, deve essere analizzata la partecipazione dell’Eritrea nell’attuale conflitto etiope, a sostegno di Abiy Ahmed Ali e, in opposizione al Fronte popolare di liberazione del Tigray, che possiede i caratteri di quello che si potrebbe definire un “regolamento di conti” nei confronti del popolo tigrino.

Sulla base di quanto avvenuto lo scorso novembre si può legittimamente affermare che la pace tra i due paesi – siglata nel 2019 – deve essere considerata soltanto l’inizio di un completo processo di pace tra i medesimi e che quindi, con riferimento all’intervento eritreo nell’attuale conflitto civile etiope, occorre tenere ben a mente il rapporto tra il Fronte popolare di liberazione nazionale Etiope e l’Eritrea a partire proprio dal 1998. In secondo luogo, devono essere analizzate le annose questioni degli aiuti internazionali, già in passato elargiti ai due paesi, da parte della Comunità internazionale e, infine, la questione dei rifugiati eritrei.

Per quanto concerne l’aspetto degli aiuti internazionali va detto che l’Eritrea e l’Etiopia ricevono circa 3,5 milioni di dollari annui, che implicano anche la stipula di accordi commerciali con altri paesi non presenti nel Corno d’Africa, e dei quali entrambi i paesi vogliono continuare a beneficiare. Questo rinfocola il sospetto che la guerra contro il Tigray sarebbe l’ultimo passo per una stabilizzazione degli accordi commerciali tra Addis Abeba e Asmara. Infatti, pur essendo l’Eritrea riconosciuta come un sanguinario regime militare, nel quale la leva è obbligatoria per tutti i cittadini, dai 18 ai 50 anni gli uomini, dai 18 ai 40 anni le donne, il suo attuale presidente gode di una legittimazione internazionale essendo stato coinvolto nella stipula di accordi commerciali con diversi paesi occidentali tra cui l’Italia. D’altra parte, anche l’Etiopia è beneficiaria di un fondo rilasciato dalla Banca Mondiale in cambio di un programma di privatizzazioni. Tuttavia, i partner di maggior rilievo a livello commerciale sono quelli mediorientali, in particolare l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti che hanno sponsorizzato l’accordo tra Etiopia ed Eritrea firmato simbolicamente a Gedda. In conseguenza del conflitto tra la regione del Tigray e lo Stato federale etiope, infatti, sono emerse accuse nei confronti degli Emirati Arabi Uniti per aver messo a disposizione dei droni, stanziati nella base militare ad Assab in Eritrea, a favore della repressione della rivolta da parte del Fronte popolare di liberazione nazionale.

Alla luce di tutto ciò deve essere riletto anche quindi il processo di pace tra Eritrea ed Etiopia con il dubbio, che si aveva già da principio, che sia prevalentemente un accordo di regolamentazione dei rapporti economico-commerciali tra i due paesi. Sul conflitto in Tigray, d’altra parte, oggi continua intanto la pressione internazionale per fare entrare in modo libero e accessibile gli aiuti umanitari internazionali in conseguenza del conflitto per tutta la popolazione tigrina a rischio denutrizione, come ribadito da molti allarmi delle agenzie umanitarie. Denutrizione causata anche dagli ostacoli provocati dal governo etiope all’ingresso di cibo e farmaci nella regione settentrionale. In un comunicato stampa pubblicato il 15 marzo “Medici senza Frontiere” ha condannato una serie di attacchi alle cliniche nella regione del Tigray che sono state saccheggiate, vandalizzate e distrutte.

Altra questione particolarmente rilevante, data l’ingerenza militare da parte dell’Eritrea nel conflitto tra la Regione del Tigray e l’Etiopia, è quella della condizione dei rifugiati: sono migliaia gli eritrei che si sono rifugiati nella regione del Tigray, dal 2001 – anno del golpe di Isaias Afewerki – fuggendo dalla dittatura di Asmara. Tale situazione ha oggi subito una drammatica deriva proprio in conseguenza dell’attuale conflitto e sembra rappresentare la tragica contropartita dell’Eritrea per il suo intervento militare di sostegno all’azione armata del governo federale etiope. Infatti, la guerra civile etiope non soltanto avrebbe provocato la presenza in Sudan di 56.000 rifugiati etiopi conseguenti al conflitto, così come di rifugiati eritrei, ma anche la deportazione in Eritrea da parte delle milizie di circa 6000/7000 eritrei rifugiati in Etiopia, che sarebbero stati prelevati dai campi rifugiati del nord dell’Etiopia, proprio in conseguenza del conflitto. A febbraio 2021, infatti, l’Alto Commissario Onu per i rifugiati, Filippo Grandi, ha denunciato la presenza di 20.000 rifugiati eritrei che, secondo testimoni da lui incontrati, sarebbero stati uccisi e deportati in Eritrea dai militari del regime di Afewerki.

Massacro di Debre Abbay

La Somalia

Va considerato, inoltre, non solo il coinvolgimento del Sudan e dell’Eritrea nel conflitto civile etiope ma anche quello della Somalia. L’Eritrea infatti, come riportato a gennaio del 2021, avrebbe inviato armi pesanti all’esercito somalo e una delle partite di scambio risulterebbe essere l’intervento dei militari somali nel Tigray. Secondo la rivista “Somali Guardian” in Eritrea sono stati addestrati almeno 10.000 militari somali, originariamente preposti per difendere il governo della Somalia dagli attacchi degli al Shabab, e una parte di queste reclute sarebbe stata inviata già a novembre del 2020 nella regione del Tigray. In corrispondenza di ciò le truppe etiopi sono state ritirate dalla missione Amisom in Somalia proprio per andare a combattere nella guerriglia contro il Fronte popolare di liberazione del Tigray a discapito della missione che sostiene il fragile governo somalo. L’ indebolimento di Amisom, così rischia di dare un seguito maggiormente rilevante alla destabilizzazione del governo federale somalo messa in atto dagli al Shabab.

Inoltre, nel mese di marzo 2021, in seguito alla pubblicazione il 26 febbraio scorso di un documento redatto  da Amnesty International sul conflitto etiope, in particolare sull’intervento delle truppe eritree nella città di Axum,  il capo dell’Alto Commissariato Onu per i diritti umani, Michelle Bachelet ha accettato la richiesta del governo etiope di avviare un’indagine congiunta nella regione a Nord del paese,  dove si presume siano stati commessi crimini di guerra e contro l’umanità. Infatti, in un lungo discorso al parlamento etiope il primo ministro ha recentemente dichiarato che “il popolo e il governo eritreo hanno fatto un favore ai nostri soldati durante il conflitto” e ha continuato dicendo “nonostante ciò, dopo che l’esercito eritreo ha attraversato il confine, qualsiasi danno abbia fatto al nostro popolo è inaccettabile. Non lo accettiamo perché è l’esercito eritreo, e non lo accetteremmo se fossero i nostri soldati. La campagna militare era contro i nostri nemici chiaramente mirati, non contro il popolo. Ne abbiamo discusso quattro-cinque volte con il governo eritreo”.

Sempre il 23 marzo di quest’anno, Abiy Ahmed ha ammesso che le truppe eritree sono state presenti durante il conflitto nella regione settentrionale del Tigray suggerendo che potrebbero essere state coinvolte in abusi contro i civili. L’ammissione è intervenuta dopo mesi di smentite, sia da parte dell’Etiopia che da parte dell’Eritrea, del coinvolgimento di uomini appartenenti alle rispettive forze armate nella violazione dei diritti umani, nei massacri e nei crimini di guerra compiuti i mesi scorsi.

Il 25 marzo, intanto, le Nazioni Unite hanno reso noto che almeno 516 casi di stupri sono stati segnalati da alcune cliniche presenti nella regione del Tigray e il presidente etiope – che ha preso molto seriamente tale comunicato –  il 26 marzo, secondo l’agenzia di stampa internazionale “Reuters”, ha annunciato su “Twitter” che l’Eritrea ha accettato il ritiro delle proprie milizie dal confine etiope. Tale dichiarazione è stata resa pubblicamente dal presidente etiope in seguito all’incontro in Eritrea con il presidente Afewerki ad Asmara.

una visione di insieme

L’amministrazione Biden

Inoltre, sempre nella guerra civile, che continua a dispiegare i suoi effetti, nel quasi totale silenzio – data anche la difficoltà ad ottenere informazioni in merito, per le restrizioni imposte dall’attuale presidente ai Media – sono recentemente intervenuti gli Stati Uniti con una reazione che può qualificarsi il più veemente interessamento della Comunità internazionale in merito a quanto avvenuto nei mesi scorsi nell’area. 

Gli Usa hanno dichiarato la loro presenza mediante l’intervento dell’agenzia umanitaria statunitense “Usaid”, notoriamente intrecciata con operazioni gestite dalla Cia, annunciando di aver schierato un “Disaster Assisance Response Team” nella regione del Tigray. Infatti il 27 febbraio il segretario di stato americano Blinken, ha imposto al presidente etiope di aprire il Tigray all’accesso degli aiuti umanitari e di essere preoccupato per i crimini di guerra che molto probabilmente sono stati compiuti in conseguenza del conflitto nell’area. Questo interessamento degli Stati Uniti per la regione del Tigray si è manifestato, in seguito, con la pubblica condanna, da parte del segretario di Stato Antony Blinken, degli atti di pulizia etnica avvenuti nella regione e per i quali ha chiesto la piena responsabilità del governo etiope e il ritiro delle truppe eritree.

Il 10 marzo scorso Blinken ha, altresì, espresso chiaramente di non accettare forze di sicurezza nella regione che si rendano responsabili della violazione dei diritti umani del popolo del Tigray o che commettano atti di pulizia etnica. Il giorno seguente Gizhachew Muluneh, docente alla Sharda University e portavoce amhara, ha condannato le dichiarazioni di Blinken considerandole fuorvianti, ritenendo che il territorio del Tigray, occupato dalle sue forze regionali, debba effettivamente essere considerato, da ora in poi, parte della regione dell’Amhara. Le dichiarazioni di Blinken sono state rilasciate in seguito sia alla pubblicazione del Rapporto di Amnesty International, sia alle dimissioni di Berhane Kidane Mariam, vicecapo della missione presso l’ambasciata etiope a Washington DC che ha sottolineato che il presidente Abiy Ahmed sta conducendo il suo paese verso un “sentiero oscuro verso la distruzione e la disintegrazione” e di essersi dimessa per “protestare contro la guerra genocida nel Tigray”.

Infine, l’attuale presidente degli Stati Uniti Biden, a fine marzo, ha deciso di inviare il senatore americano Chris Coons ad incontrare il primo ministro etiope per discutere delle accuse di pulizia etnica nella regione del Tigray. L’intervento americano, tuttavia, deve essere considerato in un’ottica più complessa: le operazioni del presidente etiope a partire dal conflitto dovrebbero essere analizzate valutando l’ambizione geopolitica degli Usa di controllare la regione del Corno D’Africa attraverso la manipolazione del presidente etiope, con la volontà di escludere la Cina e la Russia da quest’area di influenza.

In conclusione, anche in passato era già avvenuto in Etiopia che a una transizione politica facesse seguito un periodo di instabilità del paese, ma oggi l’Etiopia non si appresta a divenire uno “stato fallito” ed è invece in grado di chiamare altri poteri Internazionali in suo aiuto che probabilmente eviteranno un processo di “balcanizzazione” dell’attuale stato federale etiope.

Proponiamo infine un intervento di Angelo Ferrari, registrato il 15 novembre 2020 durante la trasmissione dedicata alla crisi etiope da I Bastioni di Orione, rubrica di affari internazionali di Radio Blackout

“Resa dei conti tra tribù etiopi”.

Fonti:

L'articolo n. 1 – Corno d’Africa: Migranti e secolari conflitti etnici e coloniali proviene da OGzero.

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n. 4 – Senegal: Ousmane Sonko vs. Macky Sall. Esplode la rabbia https://ogzero.org/conflitti-e-instabilita-in-senegal-causa-di-migrazione-forzata/ Sun, 11 Apr 2021 08:21:19 +0000 https://ogzero.org/?p=3011 Questo saggio fa parte di una raccolta di articoli che fornisce una panoramica sulla questione migratoria: analizzeremo insieme a Fabiana Triburgo le varie rotte che si sono delineate nel tempo a causa di conflitti o e instabilità che provocano questo fenomeno per giungere infine a un’analisi della normativa europea e delle alternative che potrebbero emergere […]

L'articolo n. 4 – Senegal: Ousmane Sonko vs. Macky Sall. Esplode la rabbia proviene da OGzero.

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Questo saggio fa parte di una raccolta di articoli che fornisce una panoramica sulla questione migratoria: analizzeremo insieme a Fabiana Triburgo le varie rotte che si sono delineate nel tempo a causa di conflitti o e instabilità che provocano questo fenomeno per giungere infine a un’analisi della normativa europea e delle alternative che potrebbero emergere da politiche più coraggiose e lungimiranti. Qui il quarto contributo, focalizzato sul Senegal.


n. 4

I principali conflitti che attualmente interessano le migrazioni forzate e le prassi di esternalizzazione poste in essere dall’Unione Europea e dai singoli stati membri portano a una predeterminazione delle rotte dei migranti.

Quello che oggi è inevitabile chiedersi è se il nuovo Patto europeo sulla migrazione e l’asilo, proposto dalla Commissione UE, possa essere realmente considerato una soluzione della gestione del fenomeno migratorio o se invece vi siano soluzioni legali alternative maggiormente lungimiranti e coraggiose.  


L’instabilità politica e i recenti scontri in Senegal

Il Marzo senegalese

Il 4 marzo 2021, in Senegal, si è verificata un’ondata di proteste sollevate dalla popolazione civile, in particolare da parte dei giovani senegalesi, in conseguenza dell’arresto di mercoledì 3 marzo 2021 di Ousmane Sonko, leader del partito di opposizione Patriotes du Sénégal pour le travail, l’èthique et la fraternité (Pastef), e principale politico oppositore del governo del paese guidato dal presidente Macky Sall.

Il 3 marzo il deputato Sonko, dopo aver perso l’immunità parlamentare già il 26 febbraio, si stava recando in Tribunale, accompagnato da una folla di suoi sostenitori, poiché convocato per rispondere all’accusa di stupro e di minacce di morte nei confronti di una ragazza di vent’anni. Le accuse sono state avanzate contro di lui da parte di una dipendente di un salon de beautè, Salon che Sonko frequentava abitualmente per sottoporsi a dei massaggi per il mal di schiena. Sonko, arrivato terzo alle elezioni presidenziali del 2019, aveva precedentemente respinto ogni accusa professandosi innocente rispetto all’imputazione per stupro, e dichiarando che le «accuse infondate sono ormai lo strumento consolidato dall’attuale governo per rimuovere i candidati alle prossime elezioni». Le accuse a lui rivolte per stupro risultano, effettivamente, del tutto infondate e anche esponenti del partito Pastef dichiarano che i certificati medici smentiscono la violenza sulla donna e i suoi sostenitori parlano di un complotto finalizzato alla eliminazione di Sonko dalla scena politica.

In conseguenza delle manifestazioni popolari che lo hanno accompagnato mentre si recava in Tribunale, Sonko è stato poi arrestato immediatamente per i reati di “disturbo dell’ordine pubblico” e organizzazione di “manifestazione non autorizzata”. Da quel momento in poi per tre giorni a Dakar e nel sud del Senegal si sono accese forti proteste da parte della popolazione a sostegno di Sonko, soprattutto giovani, che hanno colto l’occasione anche per rivendicare diritti come quello della libertà di espressione, del rispetto della separazione dei poteri, in particolare quello giudiziario da quello esecutivo, e il divieto delle Forze di Polizia a compiere atti violenti contro manifestanti pacifici in opposizione al governo.

Più specificatamente gli attivisti hanno criticato: il licenziamento di Sonko dalla pubblica amministrazione senza possibilità di difesa solamente per aver parlato di un fascicolo contro il presidente Macky Sall – relativo al reato di appropriazione indebita (il cosiddetto 7 miliardi di Taiwan); la violenza usata dalle forze armate del governo contro una sostenitrice di Sonko e la sua uccisione; un seggio saccheggiato in esito alle votazioni del 2019 e la violazione del domicilio della madre di Sonko per recuperare fascicoli del Pastef che avevano causato l’arresto di un gendarme. Ancora, i manifestanti hanno sottolineato: la corruzione dilagante nell’affare milionario in mano al fratello dell’attuale presidente denunciato nel 2019; le accuse false su un presunto contributo della Tullow Oil rivolte a Sonko e la volontà espressa, tramite comunicato stampa del presidente, di sciogliere il partito Pastef con il fine di innovare le modalità di finanziamento delle sue attività.

Gli scontri e l’insurrezione antifrancese

Manifestazioni a Dakar per l’allontanamento di Macky Sall

Il Movimento per la difesa e per la democrazia M2D, considerata la forza di opposizione alla guida delle manifestazioni in seguito all’arresto di Sonko, aveva annunciato nella giornata di venerdì 5 marzo altri giorni di protesta. Tali proteste, tuttavia, sono sfociate in una vera e propria guerriglia urbana. I giovani urlando Liberate Sonko! hanno attaccato con lanci di pietre i poliziotti che hanno risposto con deflagrazioni e lanci di granate. Secondo la Croce Rossa senegalese 235 persone sono rimaste ferite nel corso delle proteste del 5 marzo a Dakar in centro durante le quali, secondo i media, sono state arrestate in modo arbitrario circa 100 persone. Otto invece sarebbero i morti secondo Amnesty International e in diversi quartieri a Dakar e in altre città del paese, nel quartiere di Medina così come nella regione di Casamance, ci sono stati altri scontri violentissimi.

Nella capitale si sono chiusi i negozi e si sono svuotate le strade lasciando spazio alla guerriglia urbana e il governo ha ordinato la chiusura delle scuole con “l’invito” contestuale ai genitori di tenere sotto controllo i propri figli manifestanti giovanissimi. Allo stesso tempo, il governo ha oscurato alcuni canali televisivi nazionali e ha limitato l’accesso alla rete internet durante i giorni degli scontri e ha controllato ossessivamente lo scambio di foto, messaggi e video su quanto stava accadendo.

OGzero aveva raccolto il 5 marzo la testimonianza di un intellettuale senegalese simpatizzante per l’opposizione a Macky Sall, che aveva potuto descrivere in diretta da Dakar gli eventi; questo il podcast:

“La rabbia di Dakar e la repressione di Sall”.

Inoltre, anche i senegalesi in Europa hanno organizzato delle manifestazioni e dei presidi, come è avvenuto con il presidio del 5 marzo di Milano al motto No alla dittatura. No alla violenza! e con un comunicato del Pastef a Napoli che ha dichiarato che in Senegal «sono riusciti a liquidare già due importanti leader di opposizione, di cui uno in esilio in Qatar e l’altro, appena uscito dal carcere, non ha più diritti civili. Ora stanno cercando di liquidare l’oppositore più forte Ousmane Sonko».

Le proteste in Senegal non hanno portato all’ascolto delle istanze sollevate dai manifestanti e il Ministero dell’interno senegalese le ha qualificate come atti di saccheggio e di vandalismo, nonché «atti di banditismo e di terrorismo» e ha promesso di utilizzare «tutti i mezzi necessari per un ritorno all’ordine», mentre il presidente Macky Sall, al potere da quasi dieci anni, si è trincerato inizialmente dietro un muro di silenzio.

Amnesty International ha invitato il governo senegalese a chiarire le circostanze che circondano la morte di un manifestante ed a spiegare le violazioni dei diritti umani dall’arresto di Sonko, il 3 marzo del 2021. I manifestanti sono stati infatti attaccati e arrestati dalle forze di sicurezza senegalesi, accompagnati da uomini in abiti civili e armati di mazze e, secondo la nota organizzazione umanitaria, la forza che hanno usato eccessivamente contro i manifestanti è una «chiara violazione del diritto internazionale e dei diritti umani» e ha invitato le autorità ad indagare sull’incidente e perseguire i responsabili delle violazioni.

In questa situazione è intervenuto il Mediatore della Repubblica, una carica istituzionale specifica del Senegal, Alioune Badara Cissè dicendo: «Abbiamo bisogno di compassione per la nostra gente. Finché restiamo al piano di sopra e pensiamo di non dover rendere conto a nessuno, gonfiamo il petto perché siamo stati criticati ma non faremo mai un lavoro utile». A tale intervento si è aggiunto quello dell’ex presidente Abdoulaye Wade che si è rivolto direttamente al presidente Macky Sall dicendo «alcuni magistrati cercano di indovinare cosa può piacere al presidente e lo fanno con zelo», riferendosi anche al caso del figlio che è stato liquidato giudizialmente alle ultime elezioni presidenziali. Il 7 marzo è stata anche diffusa una comunicazione congiunta dei paesi dell’Unione Europea e del Canada, della Corea del Sud, del Giappone, del Regno Unito, degli Stati uniti e della Svizzera che esprime preoccupazione per la vicenda politica in corso e che auspica una sua risoluzione pacifica. Del medesimo contenuto è stato anche il comunicato del 6 marzo del presidente dell’Unione Africana Moussa Faki Mahamat.

Liberazione di Sonko e seconda fase delle proteste

 L’ 8 marzo e per i tre giorni successivi è stata indetta, quindi, una mobilitazione pacifica per la liberazione del leader dell’opposizione Sonko proposta dalla piattaforma Aar Sunu democratie (Movimento per la difesa della democrazia) e organizzata da parte di un collettivo di oppositori anche sulla base dell’invito, del medesimo Sonko, che ha chiamato a partecipare alla manifestazione tutti i senegalesi “desiderosi di giustizia”.  Mobilitazione pacifica presentata come un’esortazione a comparire «in massa per le strade di Dakar e nelle regioni, dipartimenti, comuni e villaggi per 3 giorni da lunedì 8 marzo, giorno di lotta e affermazione dei diritti delle donne» che sono state invitate a uscire a fianco di figli e nipoti «per aiutarli nella loro ricerca di un futuro migliore».

 

Tuttavia, nella serata del 7 marzo, è intervenuta la revoca da parte del pubblico ministero del provvedimento di custodia cautelare a carico di Ousmane Sonko e delle sue guardie del corpo, con l’invito a Sonko di comparire il giorno seguente, ossia proprio l’8 marzo alle 11 di mattina davanti al decano dei giudici. A quel punto la manifestazione dell’8 marzo 2021 non c’è stata perché la popolazione civile, quando ha appreso la notizia della sua liberazione, è andata in massa verso Sonko e lo ha accompagnato per sostenerlo nel ritorno verso casa. Rimaneva un appuntamento alle ore 15 per un grande raduno pacifico dei manifestanti per celebrare tale liberazione, durante il quale, avrebbero parlato i leader dell’opposizione ma alcuni gruppi autonomi hanno ripreso gli scontri con la polizia ed è stato annullato.

L’8 marzo, le autorità hanno comunque rafforzato le misure di sicurezza e i controlli, hanno prolungato il divieto di circolazione di moto e motorini, e hanno comunicato la chiusura delle scuole. Dakar è stata blindata per diversi giorni durante i quali hanno sfilato i carri armati militari verso il quartiere nel quale sono ubicate la maggior parte delle istituzioni senegalesi.

Nonostante la revoca dell’arresto e la presentazione davanti al decano dei giudici, Sonko, leader del Pastef, è stato rilasciato su cauzione ma rimane sottoposto alle indagini giudiziarie, persistendo a suo carico ancora l’incriminazione per stupro e l’obbligo a presentarsi ogni quindici giorni dinanzi ai giudici. In seguito, il presidente Sall, una volta ascoltate soprattutto le autorità religiose senegalesi, che hanno sottolineato la gravità della situazione e la necessità di agire, lo stesso 8 marzo finalmente si è rivolto alla nazione, affermando di aver compreso le preoccupazioni dei giovani e ha strategicamente chiesto di far tacere il rancore ed evitare gli scontri come quelli verificatisi nei giorni precedenti, chiamando la popolazione civile al dialogo e alla collaborazione con il governo. Sall ha poi fissato per l’11 marzo la data di lutto nazionale per celebrare le vittime delle manifestazioni.

Sonko, pur libero per il momento, non ha risparmiato tuttavia accuse al presidente, in carica dal 2012, considerato «il responsabile degli accadimenti di questi giorni», ossia  di aver tradito il popolo senegalese e di perseguitare gli oppositori e ha reclamato la liberazione immediata di tutti i prigionieri politici chiedendogli altresì di dichiarare pubblicamente la propria volontà di non volersi più candidare, nel 2024, per un terzo mandato, mediante la modifica della costituzione vigente nel paese, consuetudine questa appartenente oramai a quasi tutti i leader degli Stati africani.

Mambaye, videomaker senegalese ha seguito la mobilitazione e il 9 marzo ha riassunto la situazione per Radio Blackout e OGzero, analizzando sia la composizione della piazza, sia l’evoluzione del Movimento di protesta, raccontando con passione e ironia ciò cui aveva potuto assistere e i possibili sviluppi dopo le dichiarazioni televisive dei due leader. Ecco il suo intervento in italiano da Dakar:

“Le Sénégal dit à la France: Dégage!”.

Brodo sociale in cui si cala il movimento senegalese

Gli accadimenti che si sono verificati, in Senegal, dopo l’arresto di Sonko, il 3 marzo, infatti, celano una gravissima situazione di instabilità politica nel paese – nonostante esso sia considerato erroneamente uno dei più solidi stati in Africa anche in ragione di essere l’unico a non aver mai subito un colpo di stato. Si può, quindi, onestamente affermare che tali eventi hanno costituito solo la scintilla che ha fatto esplodere una situazione sociale molto turbolenta, già presente e acuita dalla crisi pandemica per il Covid , in conseguenza della  quale nel paese si è registrato un notevole abbassamento del prodotto interno lordo. Le misure, infatti, che sono state adottate dal presidente Macky Sall per il contenimento della pandemia hanno ulteriormente mortificato un’economia informale che si fondava proprio sul principio della possibilità di muoversi liberamente per quanto riguarda soprattutto i giovani senegalesi. La maggior parte di loro sono scolarizzati ma non hanno nessuno sbocco occupazionale e, quindi, l’unica soluzione che rimane loro per condurre una vita dignitosa è rischiare la vita in mare per dirigersi verso le coste dei paesi dell’Unione Europea come è avvenuto durante la scorsa estate con l’attraversamento della rotta atlantica. La gioventù senegalese vede in Sonko un punto di riferimento, essendo a capo di un partito di patrioti che lotta per il lavoro, l’etica e la fraternità e che si rivolge in modo particolare alle classi urbane scolarizzate comprese quelle della diaspora.

Ousmane Sonko, ovvero i giovani scolarizzati disperati

I giovani senegalesi scolarizzati avevano accolto Ousmane Sonko all’Università di Dakar il 18 febbraio, prima degli scontri

Non sarebbe la prima volta che il presidente Macky Sall cerca, e riesce con successo, a liberarsi dei suoi oppositori politici attraverso il sistema giudiziario: è quanto è accaduto come abbiamo detto al figlio dell’ex presidente e anche al precedente sindaco di Dakar, entrambi al momento detenuti in prigione. Anche nel caso di Sonko l’incriminazione per stupro sembra essere totalmente montata: le prove, tra cui quelle mediche, come già accennato, non reggono assolutamente le accuse a lui rivolte e per di più sono state raccolte da forze di polizia che, come noto, non sono nient’altro che forze affiliate al presidente Macky Sall e definibili come milizie “al soldo” del presidente, una sorta di agenzia di contractor.

L’accanimento del governo senegalese, in particolare, da parte del presidente Sall nei confronti di Sonko è da ricercarsi nel fatto che egli rappresenta l’oppositore maggiormente credibile per sfidare l’attuale presidente in vista delle elezioni del 2024.  Sonko, arrivato già terzo alle elezioni del 2019, conquistando il 15% dei voti, oggi viene percepito come l’uomo del cambiamento e questo per diverse ragioni. La più rilevante è quella che Sonko si distingue per il fatto di non far parte dell’élite politica da anni presente in Senegal che tra le sue caratteristiche ha quella di non condividere le ricchezze del paese con la popolazione. Sonko, infatti, nasce non come politico ma come funzionario dell’erario e poiché durante il suo incarico ha denunciato attività economiche poco chiare, poste in essere dal governo in passato, è stato destituito dal suo incarico.

Macky Sall, ovvero il neocolonialismo francese e le sue multinazionali

Dietro le attività di Macky Sall, invece, si nasconde come per tanti altri leader africani il potere esercitato da Parigi. I giovani d’altra parte lo hanno ben compreso: non sono casuali, infatti, gli attacchi sferrati conto i simboli dell’ingombrante presenza politica ed economica della Francia in Senegal, come la distruzione o gli incendi che i manifestanti hanno commesso, nel corso delle proteste, a danno dei punti di rifornimento della compagnia petrolifera Total, della catena dei supermercati Auchan, contro i punti vendita della compagnia telefonica Orange e contro le autostrade a pedaggio Eiffage.

conflitti e instabilità

Servitude et soif de liberté

Il malcontento per l’ingerenza della politica francese nel paese in ogni caso non riguarda solo i giovani o i sostenitori di Sonko ma è comune a gran parte della popolazione senegalese : è ormai nota l’esistenza di accordi segreti – ma anche pubblici, di tipo economico – stipulati tra Macky Sall ed Emmanuel Macron, nonché la percezione di quanti benefici ottenga la Francia dallo sfruttamento delle risorse naturali senegalesi, come avvenuto con il recente ritrovamento di giacimenti petroliferi in mare a circa 100 km da Dakar.

Il petrolio

In particolare, anche in conseguenza di tale ritrovamento petrolifero, l’attuale presidente ha creduto, prima del propagarsi della pandemia, di poter dar vita a un progetto faraonico di rinascita del Senegal da attuarsi in un lungo periodo di sua reggenza politica, ossia potenzialmente fino al 2035. Come noto, invece, la crisi pandemica ha causato l’abbassamento del prezzo del petrolio e le corse delle compagnie verso i rifornimenti si sono ridotte notevolmente. È noto anche il fenomeno di corruzione nel quale è stato coinvolto il cognato del presidente Sall a cui è stata versata una tangente di 250.000 dollari da parte di una compagnia petrolifera interessata al recente ritrovamento di giacimenti nel paese.

Franc Cfa: il grimaldello francese

Non solo, la moneta senegalese il franco Cfa consente notevoli vantaggi monetari per la Francia nei rapporti commerciali con il Senegal. Nel potere della Francia di Emmanuel Macron, quindi, si trova la chiave di lettura del potere di Macky Sall, così come quello di tutti gli altri politici al potere, tranne Sonko il quale ha scritto un libro che denuncia proprio l’utilizzo sbagliato di alcuni fondi da parte dell’attuale presidente. Il deputato Sonko, infatti, in merito alla “questione francese” ha espresso un’opinione ben chiara: se nel 2024 riceverà il consenso da parte della popolazione senegalese rinegozierà tutti gli accordi economici con la Francia e svelerà quelli nascosti al fine di conseguire un maggior vantaggio per l’economia del Senegal. Sonko è l’espressione di una volontà politica di un partito, partigiano, anticolonialista, che si basa sul panafricanismo e che da anni mette in luce gli atti di chi controlla le risorse del paese e dei fenomeni di corruzione interna a essi collegati. Ciò nonostante, Sonko non ha chiesto, anche in conseguenza di tali accadimenti, le dimissioni immediate dell’attuale presidente che invece vuole gran parte della popolazione locale, ma che piuttosto non si candidi per un terzo mandato e che indica elezioni regionali nel paese che non si tengono da circa due anni. D’altra parte i manifestanti stessi, tra l’altro non tutti sostenitori del partito Pastef, sono giunti il giorno dell’arresto di Sonko da diverse zone del paese: non solo da Dakar ma anche da Casamance, da Saint-Louis e da Louga.

Ad aggravare una situazione già così tesa tra il presidente Sall e i partiti di opposizione sulla vicenda del presunto stupro è stata la pubblica apparizione in televisione, alla presenza del suo legale, della ragazza Adji Sarr durante la quale ha dichiarato l’inesistenza di un complotto a carico di Sonko e lo ha invitato pubblicamente a giurare sul Corano di non aver avuto rapporti sessuali con lei. Chiaramente il contenuto di tale comparizione ha riacceso i riflettori su una vicenda ancora in sospeso e sulla quale esistono tuttora indagini segretate. Al di là delle valutazioni etiche, religiose, psicologiche delle dichiarazioni, tale ulteriore sviluppo fa intendere che la ragazza abbia delle prove, non tanto in grado di dimostrare lo stupro, ma di attestare una relazione adulterina con Sonko e, non esprimersi in modo cristallino rispetto a una gravidanza riconducibile a Sonko, aumenta tali sospetti.

Adji Sarr è la massaggiatrice del Salon de Beautè che accusa Ousmane Sonko di stupro

Dopo questa frattura profonda tra dirigenti politici e i partiti di opposizione, primo tra tutti il Pastef, e Sonko in particolare, sostenuto in modo impressionante dalla popolazione civile, ma non dalle confraternite religiose – che rappresentano il livello più influente di potere nel paese – il cambiamento può dirsi ormai in atto, ma sarà in grado il presidente Sall di intercettare e soddisfare, a prescindere da Sonko, le istanze della popolazione e soprattutto dei giovani  o avrà la meglio su di lui la paura del cambiamento?

Per ora, all’inizio di aprile 2021, si direbbe che il presidente si giochi le classiche carte neocolonialiste della demonizzazione per opera dei religiosi marabutti che gettano acqua sul fuoco della rivolta e, anodina per il Senegal, l’invenzione di un’antagonismo tribale tra poular e wolof, mai esistito nella nazione, ma insinuato dal potere per dividere e poter ancora imperare al servizio del neocolonialismo francese. Questo il contributo di Mambaye registrato l’8 aprile su Radio Blackout

Ascolta “Marabutti e divisioni etniche: il repertorio neocoloniale di Macky Sall” su Spreaker.

Fonti:

L'articolo n. 4 – Senegal: Ousmane Sonko vs. Macky Sall. Esplode la rabbia proviene da OGzero.

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Il dramma dimenticato degli hazara in Pakistan https://ogzero.org/gli-hazara-di-quetta/ Thu, 11 Feb 2021 17:27:11 +0000 http://ogzero.org/?p=2405 Emozioni elitarie ad alta quota Vuoi per “provocazione amichevole”, vuoi per sapere cosa ne penso (in riferimento al polverone sollevato l’anno scorso dal mio articolo sulla relazione tra alpinismo e colonialismo), qualche compagno ha voluto scomodarsi per aggiornarmi su alcune recenti “imprese” alpinistiche extraeuropee. Vedi sul K2 destinato – azzardo – a diventare la nuova, […]

L'articolo Il dramma dimenticato degli hazara in Pakistan proviene da OGzero.

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Emozioni elitarie ad alta quota

Vuoi per “provocazione amichevole”, vuoi per sapere cosa ne penso (in riferimento al polverone sollevato l’anno scorso dal mio articolo sulla relazione tra alpinismo e colonialismo), qualche compagno ha voluto scomodarsi per aggiornarmi su alcune recenti “imprese” alpinistiche extraeuropee. Vedi sul K2 destinato – azzardo – a diventare la nuova, costosa meta di prestigio per ricchi turisti in cerca di emozioni elitarie (e presumibilmente a trasformarsi nella seconda grande discarica d’alta quota, dopo l’ormai inflazionato Everest).

Cos’altro posso dire che non abbia già detto?  Forse soltanto: “A volte ritornano” (crisi d’astinenza o coazione a ripetere?).

Peccato comunque per i leopardi delle nevi che nel corso del 2020 – come sostenevano alcuni naturalisti – si stavano  riappropriando dei legittimi spazi e territori. Grazie alla consistente rarefazione di turisti-alpinisti (effetto collaterale – benigno – del Covid-19).

Peccato, ripeto. Resta sempre il problema di come si possa fare serenamente del turismo – se pure d’alta quota – in un paese che opprime e reprime donne, diseredati e minoranze.

In precedenza mi ero occupato dei beluci. Non sono gli unici naturalmente.

Una premessa di carattere generale: tutto il mondo è paese

Inoltrandosi nel complicato “groviglio” orientale può capitare, per quanto in buonafede, di trascurare alcune “minoranze” (termine riduttivo, in realtà si dovrebbe parlare di “popoli minorizzati”, in genere forzatamente).

Popolazioni che talvolta emergono dall’anonimato in cui le vorrebbe segregate qualche potenza regionale (magari cambiando denominazione: vedi l’epiteto di “turchi di montagna” usato per i curdi del Bakur) soltanto per qualche rivolta disperata a cui segue – fatalmente – un’impietosa repressione. Oppure quando qualche potenza concorrenziale cerca di utilizzarli per scopi non certo disinteressati.

O ancora, sempre pensando ai curdi (ma stavolta del Bashur), ripercorrendo quanto avvenne 30 anni fa con la prima guerra del Golfo, quando le rivolte curda (a nord) e sciita (a sud) stavano per abbattere autonomamente – sia pure come effetto collaterale dell’attacco statunitense – il regime (e non solo l’ormai impresentabile Saddam, alleato storico dell’Occidente). Temendo che la situazione sfuggisse loro di mano, gli Usa preferirono liberare e riarmare – con elicotteri e carri armati in parte di produzione italica – i soldati iracheni già sconfitti e catturati. Consentendo loro di scatenare l’ennesima, sanguinosa repressione. Fatte le debite proporzioni, ricordava quanto avvenne in Francia all’epoca della Commune. Quando i prussiani – temendo il “contagio” della grandiosa sollevazione popolare – ugualmente liberarono e riarmarono i soldati francesi. Per consentirgli di “ristabilire l’ordine a Parigi” massacrando i comunardi.

Gli hazara del Pakistan, minoranza nativa sciita

Messi da parte contrasti e inimicizie, alla fine – quasi sempre – i potenti trovano un accordo. Perlomeno quando si tratta di conservare il controllo, la sottomissione di classi subalterne, minoranze indocili e popoli ribelli.

Ma non tutti i popoli, purtroppo, approdano in maniera significativa alle pagine dei giornali o del web.

È questo – mi pare – il caso degli hazara insediati nella regione pachistana del Belucistan (la maggior parte, circa 500.000, a Quetta). Da considerare ormai alla stregua di “minoranza nativa” in quanto discendono da coloro che qui emigrarono dall’Afghanistan più di un secolo fa.

Di religione sciita, periodicamente sono sottoposti a uccisioni mirate, rapimenti e massacri.

Una mappa dei gruppi etnolinguistici dell’area, tratta da “La Grande Illusione”, a cura di Emanuele Giordana, Torino, Rosenberg & Sellier, 2019

E non da ora. Risalendo indietro nel tempo, vediamo che tra il 2001 e il 2011 almeno 600 hazara avevano perso la vita in attacchi settari. Solo nei primi tre mesi del 2012 altri 30.

All’epoca la maggior parte degli attentati vennero rivendicati dai fondamentalisti sunniti di Lashkar-e-Jhangvi Al-Alami, braccio armato del Sipah Sahaba Pakistan (Ssp), entrambi – presumibilmente – manipolati dai servizi segreti pachistani.

Dopo essere state dichiarate illegali, le due organizzazioni si ricostituirono come Millat Islamia Pakistan e Ahl-e-Sunnat Wal Jamat.

Quetta, attivisti di Ahle Sunnat Wal Jamat (ASWJ, fondamentalisti sunniti) cantano slogan contro la dissacrazione del Corano durante una protesta nel dicembre 2013 (foto Arsalan Naseer/PPI Images).

La ribellione senza velleità separatiste

Da parte loro, gli hazara rispondevano solo politicamente, con scioperi e proteste. E, particolare non irrilevante, senza particolari velleità separatiste (anche per non fornire alibi alla repressione governativa).

La manifestazione del 21 settembre 2011 – indetta per protestare contro una strage di pellegrini sciiti che viaggiavano in autobus – era entrata nella storia per la grande partecipazione popolare.

Ma solo dopo pochi giorni, il 4 ottobre 2011, la violenza settaria colpiva un altro autobus e diversi hazara – operai che andavano al lavoro – perdevano la vita.

Con le stesse modalità il 29 marzo 2012 venivano ammazzati otto hazara, mentre il 6 aprile altri sei venivano trucidati in una bottega artigianale. Nei primi mesi del 2013 si parlava addirittura di quasi 200 hazara morti in attentati settari.

In precedenza, nel 2010, era stato assassinato Hussein Ali Youssafi, presidente del Partito democratico hazara (fondato nel 2003). A lui subentrava Abdul Khaliq Hazara che – quando si recò a Islamabad per denunciare la situazione in cui versava il suo popolo – si sentì chiedere di sospendere le manifestazioni di protesta.

L’ingerenza saudita

Per la cronaca, circa nello stesso periodo i fondamentalisti sunniti tornavano a colpire anche gli hazara dell’Afghanistan (oltre due milioni), accusandoli – ovviamente – di essere “infedeli”. Venne poi accertato che alcuni degli attentati più devastanti erano opera non dei talebani afgani, ma di miliziani provenienti dal Pakistan legati a Lashkar-e-Jhangvi Al-Alami.

Intanto continuava lo stillicidio di omicidi settari e vere e proprie stragi nelle strade di Quetta (e alcuni osservatori vi intravedono ingerenze, infiltrazioni e finanziamenti sauditi).

A Quetta (2,3 milioni di abitanti) vivono sia pasthun che beluci e aimak, ma è fuori discussione che – almeno in percentuale – il maggior numero di vittime sono hazara.

Non solo. Per anni questa “comunità sotto controllo” è vissuta praticamente confinata, segregata in enclave circondate da posti di blocco (tipo Irlanda del Nord). In teoria potrebbero circolare liberamente per la città, ma a proprio rischio e pericolo.

Gli hazara di Quetta

E la comunità internazionale?

Quanto alla comunità internazionale – Usa e Unione europea in particolare – non sembra aver mai mostrato particolare interesse per le vicende di tale minoranza che in quanto sciiti venivano – e vengono – considerati potenziali alleati di Teheran. Così come, coincidenza o analogia, all’epoca nessuno mostrò particolare interesse per la “primavera” sciita nel Barhein (repressa con l’intervento di Arabia Saudita e Qatar e il tacito assenso dell’Occidente).

E invece l’Iran «non ci aiuta, cerca piuttosto di infiltrarci e controllarci tramite la religione».

O almeno così sosteneva, ritengo a ragion veduta, in una conferenza stampa Khaliq Hazara.

Comunque, proseguiva «grazie ai finanziamenti di Teheran, gruppi filoiraniani come Tehreik-e-NifazFiqa-e-Jafria avevano aperto a Quetta dozzine di scuole coraniche, ma noi siamo laici e lottiamo per la giustizia sociale, la democrazia, il rispetto della vita umana e la tolleranza».

Ricordando che «i due milioni di hazara (in gran parte rifugiati dall’Afghanistan N. d. A.) che vivono in Iran sono trattati come cittadini di serie C». In qualche modo ostaggi dei conflitti di influenza tra l’Iran sciita e l’Arabia saudita sunnita (e non si può escludere che talvolta i responsabili vadano individuati tra i beluci sunniti).

Le violenze continuano anche in Afghanistan

Ai nostri giorni le violenze ai danni degli sciiti hazara, delle loro scuole e luoghi di culto proseguono inesorabili.

Per esempio, nel settembre dell’anno scorso, un attentato suicida (rivendicato da Wahhabi Daesh e da Lashkar-e- Jhangvi) ha causato più di venti morti e oltre cinquanta feriti in un mercato.

Quest’anno, il 3 gennaio, 11 membri della comunità hazara sono stati prima sequestrati e poi assassinati dall’Isis nella città di Machh. Si trattava di minatori qui emigrati – spinti dalla miseria – da Daikondi (Afghanistan).

Le famiglie delle vittime avevano espresso la loro rabbia manifestando nelle strade contro il governo (definito “complice”). Addirittura si rifiutavano di seppellire i morti come forma di protesta per la mancata protezione.

Anche se poi, come hanno dichiarato alcuni familiari: «alla fine dovremo seppellirli e non avremo altra scelta che chiedere ai nostri parenti in Afghanistan e all’estero di aiutarci a pagare». Una ulteriore umiliazione per chi versa in condizioni di estrema povertà. Peraltro da entrambe le parti della Durand Line.

E non sono certo bastate a placare gli animi le pubbliche dichiarazioni – di circostanza – venute da vari esponenti dell’apparato politico-militare al potere. Comprese quelle del primo ministro Imran Khan che in varie occasioni ha espresso solidarietà alle vittime.

Nessuna risposta, nessuna protesta

Amnesty International ha condannato con forza le molteplici violazioni dei diritti umani subite dagli hazara. In particolare ha chiesto che «il capo di Stato maggiore dell’esercito venga a Quetta per vedere di persona la miseria e le difficoltà del popolo hazara».

Senza – almeno per ora – ricevere risposta.Tutto questo, ripeto, nel paese che un sempre maggior numero di scanzonati turisti benestanti d’alta quota (il cui livello di consapevolezza sociale e ambientale lascia quantomeno a desiderare) ha individuato come “parco giochi spettacolare”. Invece di boicottarlo come ai vecchi tempi si faceva con il Sudafrica dell’apartheid.

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La mezzaluna sciita si dissemina per raccogliere la svolta di Biden https://ogzero.org/il-proliferare-di-milizie-nella-mezzaluna-sciita/ Thu, 28 Jan 2021 11:55:02 +0000 http://ogzero.org/?p=2320 Il nastro si riavvolge riproponendo attentati Venerdì 22 gennaio, nel centro di Baghdad, 32 persone sono morte in un attentato suicida rivendicato dall’Isis. Suona come una notizia tristemente familiare, eppure erano quasi tre anni – 2018 sempre a gennaio, 27 vittime – che in Iraq non si verificava un attacco suicida di queste proporzioni. Attribuirlo […]

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Il nastro si riavvolge riproponendo attentati

Venerdì 22 gennaio, nel centro di Baghdad, 32 persone sono morte in un attentato suicida rivendicato dall’Isis. Suona come una notizia tristemente familiare, eppure erano quasi tre anni – 2018 sempre a gennaio, 27 vittime – che in Iraq non si verificava un attacco suicida di queste proporzioni. Attribuirlo in modo esclusivo alla graduale compromissione delle condizioni e dei dispositivi di sicurezza in Iraq nel corso dell’ultimo anno è forse un’operazione prematura e parziale ma è significativo che l’attentato sia avvenuto in questo momento storico, in una città i cui quartieri e ingressi sono presidiati dall’Esercito iracheno e da una miriade di milizie governative e non, molte delle quali protagoniste della stessa sconfitta dell’Isis nel 2014, e finanziate dall’Iran.

Nelle settimane precedenti all’attentato le sensazioni di un cittadino iracheno potevano risultare contrastanti: da un lato l’idea che attorno al 2 gennaio, primo anniversario dell’assassinio del generale iraniano Qassem Soleimani e del suo luogotenente iracheno, il comandante Abu Mahdi Al Muhandis, molte delle citate milizie potessero organizzare una qualche forma di rappresaglia su obiettivi americani, insieme ai rischi di sicurezza storicamente connessi ai grandi assembramenti, proprio come quello organizzato per l’anniversario; dall’altro la consapevolezza, diffusa forse più sui media internazionali che nella società civile ma comunque fondata, che fino al 20 gennaio – giorno dell’insediamento di Joe Biden alla presidenza degli Stati Uniti – Teheran avesse diffidato le milizie dal compiere qualunque azione in grado di fornire all’uscente presidente Trump un pretesto per un’operazione militare last-minute contro l’Iran. Ha prevalso la seconda, se si escludono dei lanci dimostrativi di alcuni razzi da parte di formazioni sempre più fuori controllo.

L’eredità di Soleimani

Quel che però è successo lo scorso 22 gennaio può stimolare alcune riflessioni sulle conseguenze di lungo termine dell’assassinio di Soleimani: all’apparenza, e nella percezione americana, un duro colpo alla capacità di mobilitazione paramilitare in Iraq contro gli interessi statunitensi, per via della paternità e dell’ascendente di quest’ultimo su gran parte di quelle milizie. In realtà, e al di là degli aspetti di illegalità – Soleimani era in visita con passaporto diplomatico in un paese, l’Iraq, che lo aveva invitato –, l’assassinio di Soleimani e Al Muhandis ha contribuito a rendere ancor più imprevedibile una situazione già instabile. E che potrebbe sfuggire di mano anche all’Iran stesso.

Perché i due militari avevano sì il potere di coordinare gran parte delle milizie e le loro azioni contro le truppe americane ma di riflesso anche quello, sostanzialmente esclusivo, di contenerle o farle cessare. Di “razionalizzare”, e non solo “alimentare”, la diffusa ostilità alla presenza militare americana. Una capacità perlomeno utile, nella prospettiva di una possibile riapertura del negoziato sul nucleare da cui Donald Trump era uscito unilateralmente, inaugurando una nuova e per certi versi improvvisa stagione di crociera in nuove tensioni, a ridosso dell’escalation.

Le milizie, formazioni di difesa locale o di offesa globale?

L'eredità di Soleimani

Sebbene l’abbandono del Joint Comprehensive Plan of Action (Jcpoa) sul nucleare iraniano abbia costituito un fatto senza precedenti nella storia delle relazioni tra Stati Uniti e Repubblica islamica dell’Iran, anche per via della sua natura ufficiale e multilaterale, non è la prima volta che gli Stati Uniti fanno un passo indietro o recedono da una qualche forma di intesa formale con Teheran. La motivazione addotta è più o meno sempre la stessa: le attività di “destabilizzazione regionale” degli iraniani, la cui cessazione per gli Stati Uniti costituisce sin dagli anni Ottanta una sorta di presupposto implicito – quindi non formalizzato – di qualunque compromesso con Teheran. E quando le diverse amministrazioni americane – a cominciare da quella di Trump, soprattutto per bocca del suo segretario di Stato, Mike Pompeo – parlano di “espansionismo” e “attività terroristiche e destabilizzanti” dell’Iran in Asia occidentale, fanno riferimento proprio a quelle milizie che la Repubblica islamica ha finanziato, addestrato e mobilitato negli anni in diversi paesi della regione: dal Libano, passando per la Siria, fino allo Iraq, cioè l’arena in cui l’influenza di Teheran è forse più rilevante e visibile.

Esiste, a monte, una fondamentale questione di percezioni. Gli Stati Uniti considerano nella forma e nella sostanza le milizie filoiraniane e gli stessi Guardiani della Rivoluzione (Irgc) delle entità equiparabili all’Isis e ad Al Qaeda: soggetti con un’agenda prettamente offensiva, operatività potenzialmente globale e utilizzo sistematico del terrorismo, in una visione che non distingue nemmeno formalmente le vittime civili da quelle militari. Tutte caratteristiche che non appartengono alle milizie, che sono invece formazioni locali, nate per combattere l’invasione americana dell’Iraq nel 2003, alla stregua della nascita di Hezbollah in Libano agli inizi degli anni Ottanta contro l’invasione israeliana.

Il potere dal territorio, frammentato in sfere d’influenza…

Non si tratta solo di errate valutazioni circa la loro natura: il sostegno iraniano a queste milizie viene letto dagli Usa in ottica offensiva, come espressione di un cieco fanatismo espansionista e antioccidentale. L’Iran – esercitando un soft e hard power composito, e che in parte ha inglobato l’eredità reputazionale dello stato antagonista, di principale recipiente dell’“antiamericanismo” (prima riconducibile all’Urss) – ha invece usato le milizie come strumento difensivo avanzato. Lo ha fatto e lo fa in una regione frammentata dal punto di vista amministrativo e altamente militarizzata, nella quale Teheran coltiva alleati locali – o, nel caso del conflitto siriano, il regime contro le formazioni a esso ostili – per erodere il suo storico isolamento e costruire una sua sfera d’influenza, che rafforzi la sua “cintura” di sicurezza e le riconosca un ruolo di potenza regionale.

Quella delle milizie è un’arma asimmetrica e imprevedibile, funzionale a forme di deterrenza rispetto a paesi rivali – Arabia Saudita e Israele in particolare – che hanno spese militari molto più ingenti e armamenti più avanzati, rispetto alla presenza militare americana in diversi paesi confinanti con l’Iran e rispetto alle diverse formazioni dell’internazionale jihadista di matrice soprattutto wahhabita, notoriamente animate da radicale avversione per gli sciiti.

Centralità dell’Iraq nella strategia iraniana

È abbastanza facile capire perché sia l’Iraq il paese col più alto numero di milizie filoiraniane e non, tutte accomunate da gradi diversi di ostilità alla presenza militare americana: un confine di 1500 km con un paese che dal 2003 è in frantumi, privo di un vero stato, e nove basi militari americane al suo interno, alcune molto vicine al confine iraniano. Implicito è l’aspetto demografico, visto che l’Iraq del post-Saddam è tornato a essere un paese a maggioranza sciita come l’Iran, e che le milizie in gran parte – ma non tutte – sono animate da immaginario e simbolismo sciita.

Composizione delle milizie filoiraniane nella mezzaluna sciita

Le Forze di Mobilitazione popolare (Pmf, in arabo Hashd al Sha’abi) si presentano ufficialmente, in forma embrionale, tra il 2012 e il 2014, quando l’allora primo ministro Nuri Al Maliki inizia a reclutare piccoli gruppi di volontari nelle Brigate di Difesa Popolare (Saraya al Dif’a al sha’abi). Il “bollo di autenticità” arriva il 13 giugno 2014 – l’Isis quasi alle porte di Baghdad –, quando la principale autorità religiosa irachena, l’Ayatollah Ali Al Sistani, emette una fatwa che invita i cittadini iracheni (non solo sciiti) a combattere contro l’Isis: le Pmf assumono una forma ufficiale, che in seguito alle fondamentali vittorie militari nei confronti dell’Isis le porterà a essere inquadrate nell’Esercito iracheno. Come ricorda Michael Knights, se in un sondaggio del 2011 solo il 15% degli iracheni nutriva fiducia nelle Pmf per la gestione della sicurezza in Iraq, nel 2017 questa percentuale è schizzata al 91% per gli iracheni sciiti e al 65% per i sunniti.

Lo zoccolo duro delle milizie irachene direttamente collegate all’Irgc iraniana è composto dalla Kata’ib Hezbollah, “cugina” di Hezbollah in Libano e guidata fino a un anno fa proprio da Al Muhandis, che può contare almeno su 10.000 uomini, e la Kata’ib al Imam Ali, con circa 8000 effettivi. Entrambe molto attive contro l’Isis ma anche accusate di violazioni dei diritti umani ai danni della popolazione sunnita evacuata nelle aree controllate dall’Isis. Le altre milizie con rapporti di diverso grado con Teheran sono la Brigata Badr di Hadi Al Amiri – rilevante anche per i rapporti con le milizie sunnite nelle aree tribali – e Asa’ib Hal al-Haq (Aah, che è anche un partito con 15 seggi in Parlamento), con 10.000 effettivi e guidata da Qais Al Khazali, sul quale si tornerà più avanti. Alla fine del 2014 il numero stimato di miliziani delle Pmf era di circa 60.000, a cui sommare almeno 20.000 uomini non inquadrati ufficialmente nelle Pmf.

Ghaani, grigio funzionario e il sotterraneo lavoro di intelligence

Anche all’indomani dell’uccisione di Al Muhandis e Soleimani, i diffusi timori che innescasse una escalation erano stati in parte sopiti dalla reazione contenuta e in qualche modo “calcolata” di Teheran, che l’8 gennaio seguente aveva colpito con alcuni missili a lunga gittata la base americana in Iraq di Al Asad, ferendo un centinaio di soldati. Nel frattempo, il Parlamento iracheno aveva votato il ritiro delle truppe americane dall’Iraq, che chiaramente non è avvenuto. In tempi relativamente brevi, quindi, l’Iran ha nominato come successore di Soleimani a capo dei reparti Al Quds dell’Irgc. Ghaani però, a differenza di Soleimani, non parla arabo, conosce poco l’Iraq e non ha nessuna relazione personale con i capi delle milizie. Come ricorda Suadad Al Salhy, viene considerato un semplice messaggero, senza particolari prerogative o qualità diplomatiche e strategico-militari.

La sua nomina, che alla luce di queste informazioni è stata letta da alcuni come il segnale di un indebolimento delle milizie e soprattutto dell’influenza iraniana, è stata in effetti accolta dai comandanti delle principali milizie con sorpresa. Ma in realtà segnala qualcosa di più profondo, cioè il ritorno del ruolo dell’intelligence iraniana in Iraq. Durante gli anni Ottanta, quelli del conflitto tra Iran e Iraq, i servizi iraniani erano molto attivi a Baghdad e dintorni. Dal 2005, dopo la caduta di Saddam Hussein, il loro ruolo inizia invece a declinare. Vengono gradualmente sostituite dalle Forze Al Quds, guidate da Soleimani dal 1998, che organizzano alcune delle nascenti milizie popolari per combattere gli americani e scongiurare la possibilità che un paese in preda all’anarchia non si trasformasse né in una “base” statunitense per eventuali regime change a Teheran né in avamposto per gruppi jihadisti antisciiti. L’apice del potere delle Forze Al Quds dell’Irgc è nel 2014, quando Teheran per prima assiste militarmente Baghdad e il governo autonomo del Kurdistan, alle prese con l’invasione di Mosul e di larghe parti del paese da parte dell’Isis, e contestualmente attiva le sue milizie.

La barriera di giovani corpi del Movimento sulla strada delle milizie

L'eredità di Soleimani

In seguito alla sconfitta dell’Isis le milizie rafforzano progressivamente sia i loro rapporti con l’Iran che la loro preminenza politico-militare in Iraq: figlia dei loro successi bellici ma madre di diversi malumori generati negli iracheni, culminati con le proteste di fine 2019. Proprio le proteste, insieme all’assassinio di Soleimani e Al Muhandis, secondo una fonte irachena vicina all’Iran e citata da Al Salhy, avrebbero avuto l’effetto collaterale di arrestare un processo di ristrutturazione delle milizie innescato nel 2017, dopo che lo stesso Al Sistani aveva chiesto un ridimensionamento dell’influenza iraniana.

In particolare, Teheran stava avviando lo smantellamento di alcune formazioni (come la Brigata Khorasani) e una strategia basata sulla fiducia al premier iracheno Mustafa Al Khadimi, sulla diversificazione delle fonti di finanziamento dei suoi alleati politici iracheni e sul loro leverage nella politica economica locale; sul ricollocamento di migliaia di miliziani, non inquadrati nelle Pmf, in ruoli civili, sul rafforzamento delle fondazioni e imprese legate alla ricostruzione, sul modello della Jihad-e-Sazandegi dopo la guerra contro l’Iraq o Jihad al Bina in Libano dopo i bombardamenti israeliani. In generale, una maggiore enfasi sulla politica e la diplomazia (anche quella parallela delle Hawza, le scuole religiose sciite irachene e iraniane) rispetto al militarismo

La diversa “fedeltà” a Tehran delle milizie

Senza Qassem Soleimani, hanno preso forma due opposte tendenze centrifughe: una serie di milizie – come Liwa Ali Al Akbar, Firqat al Imam Ali Al Qitaliyah, Liwa Ansar al Marjaiya – si sono progressivamente sfilate dall’ombrello iraniano, alcune in aperta protesta contro la corruzione diffusa in alcune formazioni delle Pmf. Le cosiddette “fazioni del Mausoleo”, cioè particolarmente vicine all’Ayatollah Al Sistani, in una conferenza dello scorso 2 dicembre a Najaf hanno ribadito la propria richiesta di separarsi dalle Pmf, e di poter riportare esclusivamente al ministero della Difesa e al primo ministro.

Altre sono invece andate fuori controllo in senso opposto: è il caso della Aah di Qais al Khazali. Forte del suo peso politico – l’obiettivo è andare oltre gli attuali 15 seggi e guidare l’intera coalizione di Al Fatah – e militare, Aah negli ultimi tempi è stata protagonista di crescenti scaramucce sul controllo di alcuni checkpoint intorno a Baghdad con Kata’ib Hezbollah e con Harakat Hezbollah al Nujaba, anche per via della rivalità tra Al Khazali e Akram Al Kaabi, il capo della seconda, che peraltro è nata da una scissione da Aah nel 2013. In modo ancor più significativo, poi, ha più d’una volta contravvenuto all’ordine di non lanciare razzi verso obiettivi americani nelle ultime settimane del mandato di Trump: l’ultima volta lo scorso dicembre, dopo l’assassinio dello scienziato iraniano Mohsen Fakhrizadeh, spingendo lo stesso Ghaani a incontrare Al Khadimi proprio per recapitare agli Stati Uniti un messaggio sulla propria estraneità ai fatti. Nello stesso giorno a Baghdad sono stati arrestati Hossam Al Zerjawi di Aah (ritenuto responsabile dei lanci) e Hamed Al Jezairy e Ali Al Yasiri, comandanti della dismessa Brigata Khorasani (di cui una settimana prima erano stati arrestati altri 30 membri).

Sembra che Al Khazali fosse contrariato dalla nomina di Abu Fadak Al Muhammadawi (Kata’ib Hezbollah) a capo delle Pmf, e che pensi tuttora di meritare la leadership della muqawama (“resistenza”). Teheran, invece, lo considera poco gestibile militarmente e lo vedrebbe più come uno di quei politici da coltivare e con cui sviluppare la strategia accennata, puntando su un blocco parlamentare solido, specie se si considera il parziale raffreddamento delle relazioni politiche con il blocco di Muqtada Al Sadr, anch’egli orientato al contenimento del ruolo iraniano, oltre che di quello americano.

Il vento nucleare sospeso in attesa di Biden

Questa strategia, però, è vincolata all’idea che Joe Biden rientri quanto prima nell’accordo sul nucleare, e che lo faccia alle stesse condizioni del precedente, senza tentare di inserire il programma di missili balistici – che sono una linea rossa per Teheran – e le stesse milizie in un nuovo negoziato. È infatti assai possibile che alle elezioni presidenziali iraniane del prossimo giugno vinca un candidato principalista, più vicino alle prerogative dell’Irgc e meno incline a fidarsi nuovamente della diplomazia statunitense, motivo per cui il tempo per quest’ultima potrebbe essere più favorevole nei primissimi mesi della presidenza Biden.

Una presidenza che potrebbe ricalibrare all’insegna del realismo le sue percezioni sulle Pmf, abbandonando l’idea che esse costituiscano delle organizzazioni terroristiche globali e funzionali a supposti progetti di dominio dell’Iran. Provando magari a negoziare separatamente un loro ridimensionamento, in cambio del ritiro americano o perlomeno di uno speculare contenimento delle proprie attività in Iraq. Sarebbe in ogni caso opportuno operare nella consapevolezza che una politica non esplicitamente volta a sconfessare quella di Trump, o che decida di trattare egualmente le milizie come formazioni terroristiche, sortirebbe effetti prevedibili: perché si può anche “potare” qualunque legame con l’Iran, eliminare Soleimani o dichiarare guerra senza quartiere alle milizie irachene sue “orfane”, ma è molto difficile che l’hard power e le risorse belliche americane siano in grado di estinguere le ragioni della nascita e dell’esistenza di quelle stesse milizie, cioè proprio la presenza militare americana. Decisamente più probabile è che questa ragione ne esca rinvigorita. E che sullo sfondo, in un Iraq da troppo tempo non in condizione di controllare il proprio destino, attentati come quello di venerdì 22 gennaio tornino a essere routine.

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«Abbiamo bisogno di cambiamento». Chiavi thai per una rivoluzione culturale nel regno del Siam https://ogzero.org/abbiamo-bisogno-di-cambiamento-chiavi-thai-per-una-rivoluzione-culturale-nel-regno-del-siam/ Sat, 23 Jan 2021 16:47:42 +0000 http://ogzero.org/?p=2288 Le trame della realtà affondano in radici magiche e simboli culturali «Pensa alla magia, non alla politica». È il consiglio, a volte inquietante, che spesso viene rivolto a uno studioso del mondo magico thailandese. Lui stesso un “indovino”, un mo du [il dottore che osserva], colui che vede il destino. Che sia un farang, come […]

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Le trame della realtà affondano in radici magiche e simboli culturali

«Pensa alla magia, non alla politica». È il consiglio, a volte inquietante, che spesso viene rivolto a uno studioso del mondo magico thailandese. Lui stesso un “indovino”, un mo du [il dottore che osserva], colui che vede il destino. Che sia un farang, come in Thailandia chiamano gli stranieri, complica le cose. Per i thai è un’anomalia nel mondo della khwampenthai, la “thailandesità”. Per gli occidentali sfugge ai codici canonici dell’accademico.

Edoardo Siani, giovane italiano dalla storia romanzesca, antropologo, docente di studi del Sudest asiatico all’università Ca’ Foscari di Venezia, reincarna quegli studiosi come Elémire Zolla, “il conoscitore di segreti”, che interpretano la realtà ricercandone le radici magiche e psicologiche.

Le vicende della contemporaneità thai vanno osservate come se si assistesse al Ramakien – il poema ispirato all’indiano Ramayana – in cui le trame e i simboli sono al tempo stesso struttura culturale. Nella versione rappresentata oggi nella scena thai gli episodi vedono l’apparizione di nuovi personaggi in nuove trame: la pandemia, la rivoluzione culturale e la restaurazione.

Le analisi compiute con questo metodo spesso riescono a spiegare ciò che è incomprensibile a molti osservatori che si ostinano ad applicare una logica occidentale nello scenario del buddhismo theravada. In Thailandia, il dharma, le regole che governano il cosmo, è in uno stato di fluttuazione perché soggetto all’anijja, l’“impermanenza”: la transitorietà dei fenomeni.

Prathet Ku Mee

Rivendicazioni che mantengono la struttura dei 10 punti rivendicati dal Free Youth Movement

Dharma, anija e sanuk: evitano l’Orientalismo e… spiegano anche l’epidemia

Il dharma e l’impermanenza sono la chiave per approfondire le nuove trame thai evitando le banalizzazioni narrative, l’Orientalismo. «Come recita la legge buddhista dell’impermanenza, ogni cosa, anche la legge sulla lesa maestà, si manifesta, esiste e scompare, al pari delle norme etiche e culturali della società. Nulla è permanente» scrive Matthew Wheeler dell’International Crisis Group, riferendosi al tabù che è anche il nodo centrale della politica thai.

Per uno di quei fenomeni di sincronicità, coincidenze casuali, che sono tra i concetti cardine del pensiero junghiano, maestro del pensiero magico come medium di psicanalisi, l’attesa di un ritorno in Thailandia, che appare sempre più come un’anabasi esistenziale, diviene prova e manifestazione dell’impermanenza.

Un farang che oggi cerchi di tornare in quel paese permane sull’orlo di una crisi di nervi: per la burocrazia e i costi da affrontare. Ma pochi rinunciano: troppo forte è l’attrazione del clima, dell’apparente sicurezza del regno. E soprattutto del sanuk. Letteralmente significa divertimento, ma ha un contenuto più profondo. Si può definire “la via della gioia di vivere”, base dell’edonistica cultura thai. Le sue forme d’espressione sono innumerevoli: feste e gioco, teatro tradizionale e soap opera, muay thai e combattimenti dei galli, shopping e spiagge. E, ovviamente, il sesso. Per ravvivare il turismo, nel settembre scorso era stato proposto di permettere ai turisti di frequentare le “sale massaggi” vicine agli alberghi dove trascorrevano la quarantena.

Ma all’inizio dello scorso anno, quando la pandemia sembrava circoscritta a Cina e dintorni (come nel 2002 con la prima epidemia di Sars) e si temeva di restare bloccati in un incubo virale, quegli stessi farang tempestavano le ambasciate, le compagnie aeree, per trovare una via di fuga che li riportasse nella comfort-zone dell’Occidente. La Thailandia, Bangkok in particolare, era in pieno lockdown, sottoposta a coprifuoco, materializzava un Hotel California da cui non si può fuggire, dove lo straniero è intrappolato dai suoi stessi desideri.

Il futuro prossimo potrebbe segnare un’ulteriore transitorietà. Se fino a metà dicembre il Thailand Center for Covid-19 segnalava una situazione stabile con poco più di 4000 casi di contagio e 60 decessi, a metà gennaio i casi erano saliti a oltre 11000 e 70 morti. Nel frattempo, il 4 gennaio è stato dichiarato un nuovo, parziale lockdown dopo mesi di apertura.

La pandemia diventa contaminazione culturale

Rispetto alla prima ondata sono cambiati gli untori. Ora sono i lavoratori birmani, dato che il contagio è ripreso in un mercato del pesce vicino a Bangkok e si è diffuso nei quartieri ghetto dei migranti birmani. Il rischio è che divengano ancor più “dannati”, vittime di quel senso di superiorità diffuso in Sudest asiatico nei confronti dei più poveri.

Nella prima ondata, invece, la xenofobia era nei confronti dei farang, giudicati sporchi (come ebbe a dichiarare il ministro della Sanità), ma soprattutto portatori di comportamenti malsani. Il virus che possono trasmettere non è solo il Covid, bensì qualcosa di più insidioso: la contaminazione culturale.

È un fenomeno anch’esso virale: tutto il Sudest asiatico appare circondato da una nuova cortina di bambù. Secondo molti asiatici, sul tramonto dell’Occidente è ormai scesa la notte. Ci attende l’alba di una storia postpandemica: gli autoritarismi asiatici, “la democrazia fiorente nella disciplina”, si sono rivelati più efficaci delle democrazie occidentali. Un nuovo ordine mondiale post-covid di conflitti e contraddizioni è il titolo di un articolo del Commodoro C. Uday Bhaskar, direttore della “Society for Policy Studies” di Delhi. «Per i thai è troppo tardi per sfuggire all’abbraccio cinese, possiamo solo cercare di non farcene soffocare» ha dichiarato un diplomatico di Bangkok. Pechino segue la politica – che in Occidente definiamo “amorale” – di non interferenza negli affari interni dei paesi dell’area e ora ha rinforzato questo “soft power” con la “Vaccine diplomacy”. La Thailandia, per esempio, dovrebbe ricevere entro il prossimo mese le prime 200.000 dosi del Sinovac anti-Covid. In Occidente, in compenso, anziché cercare di comprendere ciò che si sperimenta in Asia, tutto viene assunto a prova di una marginalità asiatica, di una sua alterità, a volte mostruosità (di cui è simbolo il “virus cinese” diffuso in orridi “wet market”).

A fari della democrazia spenti nella notte

Il caos delle elezioni americane (che per gli osservatori delle vicende asiatiche è stato ancor più traumatico nel paragone con la “normalità” di quelle svolte in Birmania dopo solo una settimana) è apparso come un ulteriore segno della decadenza del paese considerato faro di democrazia. In Thailandia i sostenitori del generale Prayuth, denunciando interferenze a favore delle proteste, non hanno mancato di rilevare che per l’America è sempre più difficile ergersi a giudice.

Da parte dell’opposizione democratica thai, invece, Trump è stato paragonato (anche in molte vignette) a Suthep Thaugsuban, leader del People’s Democratic Reform Committee (Pdrc), la formazione ultraconservatrice delle “camicie gialle” che con le manifestazioni del 2014 aprì la strada al golpe di quell’anno. Paragone tanto realistico quanto inquietante.

Suthep Thaugsuban come Donald Trump

Sovranisti di tutto il mondo uniti… nell’ironia delle vignette

In Thailandia, dunque, la pandemia è stata un’ottima scusa per dichiarare una sorta di legge marziale. La chiusura quasi totale del paese, giustificata per tutelare il regno da contagi, ha generato una crisi economica i cui effetti potrebbero avere conseguenze interne e internazionali difficilmente valutabili secondo gli standard occidentali, considerando che in Thailandia l’1% della popolazione controlla il 66,9% della ricchezza. Ma anche la crisi è divenuta lo strumento per propagandare un nuovo modello di sviluppo. Come dimostra uno spot televisivo che inneggia alla decrescita felice, al ritorno alle radici tradizionali, una recherche dell’antico regno del Siam.

In questo brodo di coltura la protesta si è sviluppata come una variante del virus. Le manifestazioni studentesche sono iniziate nel febbraio 2020 a seguito dello scioglimento di Future Forward (Ffp), il partito d’opposizione fondato dal giovane miliardario Thanathorn Juangroongruangkit che aveva ottenuto un eccezionale risultato alle elezioni del marzo 2019.

Il Free Youth Movement e i precedenti

Alla base delle manifestazioni – interrotte per Covid in aprile e poi riprese con forza alla fine di luglio con un picco tra agosto e novembre – c’è la richiesta di dimissioni del premier Prayuth Chan-ocha, la riforma costituzionale e il ritorno a una vera democrazia. L’ex generale Prayuth è al governo dal 2014, prima al comando della giunta militare che prese il potere (il diciannovesimo golpe dopo l’istituzione della monarchia costituzionale nel 1932), poi primo ministro autonominato, infine premier di un partito che alle elezioni del 2019 ha ottenuto la maggioranza grazie a una modifica costituzionale ad hoc. Ma non è bastata a quello che ormai va definendosi come l’espressione dell’Ancien Régime: il Ffp appariva una variante troppo pericolosa perché trasmessa dai figli di una borghesia medio-alta. Non più quei “bufali rossi” com’erano sprezzantemente definite le “camicie rosse”, i popolani e i contadini dell’Isaan, la regione più povera del paese, che nel 2010 occuparono Bangkok in una protesta repressa nel sangue.

Secondo Duncan McCargo e Anyarat Chattharakul, analisti di politica thai, nel saggio Future Forward: The Rise and Fall of a Thai Political Party, quel partito guidato da un “hyperleader” che sfidava sia il potere dei militari sia delle grandi famiglie che monopolizzano l’economia (per quanto anche lui ne sia figlio)  ha avuto un effetto “più emozionale che razionale”, riuscendo a coagulare consensi che apparivano più simili a quelli di un gruppo K-pop che non a un movimento politico tradizionale. A questi si univano i “fans radical” di Piyabutr Saengkanokkul, altro fondatore dell’Ffp, attivista legale, “seguace” della Rivoluzione Francese (che in una monarchia come la thai appare una minaccia contemporanea, considerando che nel 1932, il People’s Party, un gruppo di giovani turchi ispirati agli ideali della Rivoluzione Francese rovesciò la monarchia assoluta promulgando la prima costituzione).

Le rivoluzioni francesi, del 1789 come del 1968, sembrano ispirare la contestazione. Se n’è avuta dichiarazione il 3 agosto, quando l’avvocato Anon Nampa ha proclamato la necessità della riforma della monarchia. Ancor più la sera del 10 agosto, nel campus della Thammasat University di Bangkok, quando la ventunenne Panusaya “Rung” Sithijirawattanakul ha letto il manifesto della contestazione: dieci punti che richiedevano una forte limitazione dei poteri reali. È stata anche la scenografica rappresentazione di quel momento che l’ha fatta divenire la star del movimento e inserire nella lista della Bbc delle 100 donne più “ispiratrici” del 2020.

cambiamento in chiave thai

10 richieste per il cambiamento

Dalle rivoluzioni nate a Parigi sono derivati anche gli slogan di Bangkok. “Né dio, né re, solo umano” riecheggia quelli del Sessantotto. Alla trinità “Nazione, religione, monarchia” i manifestanti hanno opposto lo slogan, “Nazione, religione, il popolo”. Il gesto simbolo delle manifestazioni, il braccio alzato con tre dita unite, ripreso dal film Hunger Games per indicare l’opposizione alla tirannide, è interpretato come l’unione dei valori di Liberté, Égalité, Fraternité della Rivoluzione Francese. La rappresentazione plastica dei fantasmi evocati dalla rivoluzione è la foto, forse casuale, che ritrae il passaggio dell’auto della regina Suthida tra due ali di manifestanti il 14 ottobre. Il volto della regina, perfettamente a fuoco dietro il finestrino, appare smarrito, quasi impaurito. Era la prima volta che una folla di manifestanti arrivava così vicino a un membro della famiglia reale, salvo quando si trattava di manifestazioni di devozione e la folla era in ginocchio.

[riproponiamo qui un’analisi di Massimo Morello che puntualizza bene i motivi della sollevazione, ringraziando Giampaolo Musumeci e Radio24 per averci permesso di utilizzare il suo intervento trasmesso all’interno della puntata di Nessun luogo è lontano del 15 ottobre 2020 («raccontare, raccontare, raccontare…»)]
Ascolta “Cosa scuote il sistema pi-nong, impalcatura della monarchia tailandese?” su Spreaker.

 

Nuovi modelli di cultura thai

«La Thailandia è in una crisi di legittimazione, d’identità senza precedenti e deve confrontarsi con una nuova generazione intelligente, che propone una visione del tutto nuova della società, che sia nella filosofia politica, nelle diversità di genere, nelle questioni etniche…», ha scritto David Streckfuss, storico del Sudest asiatico. Questa interpretazione, un po’ falsata dalla sociologia occidentale, ha fatto sì che molti paragonassero le proteste di Bangkok a quelle di Hong Kong. Forse la contestazione thai è più importante per i giovani hongkonger, che la vedono come prova del contagio democratico in Asia. In Thailandia Hong Kong è un modello soprattutto stilistico, in una forma che fonde modelli e segni della cultura pop asiatica (come le papere gonfiabili utilizzate come scudi agli idranti), l’uso di flash mob e dei social che diviene quasi una performance al pari dei video del gruppo Rap Against Dictatorship, il cui primo lavoro Prathet Ku Mi (Questo è il mio paese) è divenuto virale, mentre l’ultimo Reform è stato bloccato su YouTube thai.

La patriottica metafora malata

Nella Thailandia del Covid si ritrovano diverse storie e le loro narrazioni sono un’intricata trama di politica, economia, magia, virus, sanuk, totem e tabù. La contestazione in atto, più che politica è culturale, contesta un sistema di norme che costituisce l’impalcatura della società. Quel sistema è definibile nel rapporto pii-nong, “maggiore-minore”. Un rapporto gerarchico e di deferenza molto complesso: riguarda l’età, le gerarchie familiari, professionali, economiche, sociali, culturali. È un sistema che negli ultimi anni ha creato notevoli tensioni perché cristallizza le stratificazioni sociali, già viste come un’espressione del karma, un destino assegnato in funzione delle vite precedenti. Secondo lo studioso realista Bowornsak Uwanno, per esempio, ogni limite alla libertà d’espressione «riflette le norme etiche e culturali che ogni thai dovrebbe seguire». Seguendo tale assioma, chi richiede una riforma della monarchia è un “eretico”. Per il generale Apirat Kongsompong, ex capo di stato maggiore e oggi viceciambellano di corte, i contestatori sono individui “malati”, soffrono di chang chart, “odio verso la madrepatria”, sindrome molto più grave dello stesso Covid. Più reali le sindromi da stress e depressione che colpiscono molti manifestanti, dovute sia al rischio delle loro azioni sia alle pressioni dei genitori che li accusano di disonorarli, tanto che è stato proposto di diseredare i figli ribelli. In Thailandia, inoltre, ogni problema psicologico è marchiato da uno stigma sociale e religioso in quanto considerato effetto di un karma negativo.

cambiamento in chiave thai

Prathet Ku Mee dei Rap Against Dictatorship è diventata virale, perché sciorina tutte le storture del sistema pii-nong

Il tracollo della monarchia etica

In questa dimensione psicopolitica la situazione è resa ancor più oscura dalla presenza di un “cigno nero”, un evento imprevedibile in quanto dipendente anch’esso dall’impermanenza: la monarchia. Re Rama IX, sua maestà Bhumibol Adulyadej, scomparso nel 2016 dopo settant’anni di regno, per la maggior parte dei thai resta l’incarnazione delle virtù buddiste, un Dhammaraja, che governa secondo il Dasarajadhamma, “i principi del re virtuoso”. Nel periodo del Bhumibol consensus, tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli Ottanta, riuscì a evitare che la Thailandia subisse lo stesso destino degli altri paesi dell’area, là dove la Guerra Fredda divenne incandescente. Con i suoi programmi di economia sostenibile – forse non compiuti ma certo preveggenti – e i suoi spostamenti nel paese per promuovere progetti quali la riconversione delle colture da oppio, era considerato un innovatore, forte del consenso sino alla venerazione popolare.

Come è stato osservato, la società thai si è sviluppata in uno stato di “caos controllato” e il re ha svolto il ruolo di controllore. «La sua autorità morale è enorme: per i thai è un punto di riferimento nei momenti di sfiducia nei confronti dei politici». Il che, commenta Thitinan Pongsudhirak, professore di dottrine politiche, «induce a una riflessione sulle carenze della nostra democrazia. Quando ci troviamo di fronte in un’impasse, il popolo guarda al re come il solo che può risolvere la situazione».

La crisi attuale è detonata con la morte di Rama IX. Rama X, suo figlio Maha Vajiralongkorn, non gode dello stesso favore. È sempre apparso come l’antitesi del “re virtuoso”, ma sembra credersi un Devaraja, “il dio-re”, cui tutto è concesso. Ha accentrato un enorme potere, compresa la nomina del Supremo Patriarca buddhista e il controllo del patrimonio della corona, circa 40 miliardi di dollari, con interessi in ogni settore. Sua anche la Siam Bioscience che con AstraZeneca produrrà il secondo vaccino usato in Thailandia. Per proteggere tale potere ha affidato alla guardia reale (vero e proprio corpo di pretoriani) il controllo della capitale. Inoltre il nuovo re si è alienato le simpatie popolari (e non solo) perché trascorre più tempo in Germania che in Thailandia e per un comportamento, come ripristinare lo status speciale per le concubine reali, che fa “perdere la faccia” al paese.

Ma Vajiralongkorn è anche un “Principe” in senso machiavellico, diverso da come lo descrivono molti osservatori occidentali. «La Thailandia è la terra del compromesso» ha risposto a un giornalista straniero che gli ha chiesto se e come si potesse risolvere la crisi. E negli ultimi tempi ha fatto numerose apparizioni in pubblico, quasi sempre al fianco della regina Suthida, spesso intrattenendosi con i sudditi. Un comportamento che, pare, ha fatto crescere la sua popolarità. Per ammissione dello stesso primo ministro Prayuth, è stato il re a chiedere di non ricorrere alla draconiana legge sulla lesa maestà quale forma di deterrenza.

cambiamento in chiave thai

Restart Thailand – Revolution Thai – Republic of Thailand

In questo flusso d’impermanenza, il movimento d’opposizione ha commesso un clamoroso errore. Il Free Youth Movement ha lanciato un nuovo simbolo: RT. Che ufficialmente significa Restart Thailand, per altri indica Revolution Thai. Per altri ancora il significato è più minaccioso: Republic of Thailand. Un simbolo, inoltre, rappresentato con un altro simbolo: la falce e martello (disegnate da R e T).

Come ha scritto il nostro mo du Siani: «Sovraimporre l’identità marxista al movimento è pericoloso». Perché implica quell’idea di repubblica che è lo spettro dei conservatori, perché il comunismo per la maggior parte dei thai identifica coloro “senza religione”, perché potrebbe portare a una restaurazione della monarchia assoluta o a una repressione come quella del 1976, quando furono massacrati un centinaio di studenti. Allora lo scenario geopolitico era profondamente diverso: la Thailandia era la pedina centrale nel “domino” del Sudest Asiatico tra Stati Uniti e Unione Sovietica. Ma il ricordo della guerra è ancora radicato nell’inconscio collettivo. «Muoio perché ho ucciso troppi comunisti» dice Lung Bunmi Raluek Chat [Lo zio Boonmee che può richiamare le sue precedenti vite], personaggio che dà titolo al film del thailandese Apichatpong Weerasethakul, vincitore del 63° Festival di Cannes. Di fatto sembra che il riapparire di antichi spettri abbia segnato un nuovo colpo di scena. «La legge sulla lesa maestà si manifesta con un’escalation senza precedenti», ha commentato il politologo Thitinan Pongsudhirak.

 

[a proposito del reato di lesa maestà è interessante ascoltare un intervento di Sabrina Moles su Radio Blackout del 21 gennaio 2021, un paio di giorni dopo la stesura di questo articolo di Massimo Morello: un intervento che prende spunto dalla legge 112, per collocare l’episodio che vede Anchan Preelert protagonista, utilizzandolo per spiegare il contesto attuale, il momento del golpe – periodo storico in cui è avvenuto il reato contestato ad Anchan e il mondo di riferimento delle nuove generazioni]

Ascolta “Una condanna esemplare del retrivo regno del Siam” su Spreaker.

La crisi è sembrata risolversi a dicembre, quando i leader della protesta hanno annunciato una tregua durante la stagione delle festività. Secondo la maggior parte dei commentatori era la dimostrazione dei primi dissidi all’interno del movimento e una forma di ritirata di fronte all’inasprirsi della repressione. Ma potrebbe anche essere l’ennesima espressione del sanuk, il pervasivo edonismo thai.

Per il momento è difficile capire come si manifesterà l’impermanenza, perché a gennaio, con l’aumento dei casi di Covid ogni manifestazione pubblica è stata bandita e la tregua prolungata sino a metà 2021. Nel frattempo, come a metà gennaio, potrebbero verificarsi nuovi scontri, magari in seguito ai dissidi tra i gruppi del servizio d’ordine, crearsi nuove alleanze, per esempio tra studenti e camicie rosse, Thanathorn potrebbe ripresentarsi sulla scena, oppure potrebbero riapparire le camicie gialle realiste.

 

cambiamento in chiave thai

Dove andrà la loro nazione senza dirlo?

In Thailandia il futuro è nelle mani dei maghi.

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Antiche strade che decidono il destino https://ogzero.org/le-vie-del-controllo/ Sun, 17 Jan 2021 12:06:04 +0000 http://ogzero.org/?p=2238 Alto è sicurezza. Alto è potere. Alto domina il paesaggio e come mi illustrava nel 1980 con una nota di orgoglio il portavoce dell’insediamento israeliano tra Gerusalemme e Hebron nella Cisgiordania occupata: «da qui si vede tutto: il nostro passato, il nostro presente, il nostro futuro». Quaranta anni fa la colonizzazione ebraica in Palestina, a […]

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Alto è sicurezza. Alto è potere. Alto domina il paesaggio e come mi illustrava nel 1980 con una nota di orgoglio il portavoce dell’insediamento israeliano tra Gerusalemme e Hebron nella Cisgiordania occupata: «da qui si vede tutto: il nostro passato, il nostro presente, il nostro futuro». Quaranta anni fa la colonizzazione ebraica in Palestina, a macchia di leopardo e apparentemente senza coordinamento, appariva ancora un fenomeno destinato a soccombere presto. L’Egitto di Sadat aveva firmato la pace con Israele e, si diceva, prima o poi la leadership israeliana e quella palestinese avrebbero trovato una via d’uscita dal conflitto. Due popoli si contendevano la stessa terra. Si trattava di mettersi d’accordo soltanto su un compromesso. Ma quale?

Camp David, nel 1978: Begin, Carter e Sadat

Di chi è la terra?

«Là in fondo verso il mare – insisteva il colono (termine che fa pensare a un agricoltore ma nella realtà dei territori occupati è quasi sempre tutt’altra cosa) – ci sono Ashkelon e Ashdod, due nostre antiche città. E poi… si giri. Da quest’altro lato c’è la discesa verso il mar Morto. Vede quel tracciato? È un’antica strada romana». Invece di polemizzare lanciai una provocazione. «Credo di comprendere quello che sente. Sono romano e quella strada l’hanno costruito i miei antenati. Questa terra era nostra…».

Essere ebrei dentro e fuori da Israele

L’archeologia, molto spesso al servizio dell’occupazione, conferma la vasta presenza delle comunità israelitiche nell’antichità relegando in secondo piano o addirittura nascondendo il passato delle altre popolazioni che abitavano questa terra. Quello che Bibbia e Storia non confermano è la pretesa che Israele sia “la patria storica del popolo ebraico”. A respingere questa teoria alla base del sionismo religioso è tornato recentemente uno degli uomini politici israeliani più noti e battaglieri. Avraham Burg, figlio di uno dei fondatori dello stato e del Partito nazional-religioso, ha militato a lungo nel partito laburista, è stato presidente della knesset, il parlamento israeliano, e anche presidente dell’Agenzia Ebraica, l’organizzazione israeliana che sostiene l’ebraicità di Israele e opera in stretto collegamento con le comunità ebraiche in tutto il mondo. «Il patriarca Abramo scoprì Dio al di fuori delle frontiere della Terra d’Israele, le tribù divennero un popolo al di fuori della Terra d’Israele, la Torà fu data fuori dalla Terra d’Israele, e il Talmud di Babilonia, che è molto più importante del Talmud di Gerusalemme, fu scritto fuori della Terra d’Israele. E aggiunge: “Gli ultimi duemila anni, che hanno formato il giudaismo di questa generazione, si svolsero fuori d’Israele. L’attuale popolo ebraico non è nato in Israele”».

Quando la religione costruisce le “vie” dell’occupazione

È una polemica che riguarda il mondo ebraico ma anche chi vuole comprendere origine e strategia della destra israeliana e dei suoi alleati e il furto strisciante delle terre palestinesi. Se una lettura di comodo della religione è – qui come per altri credenti – uno strumento di lotta, pianificazione urbanistica e territoriale sono le armi con le quali va avanti, in modo sistematico, l’occupazione. I vasti quartieri costruiti negli anni immediatamente successivi alla presa di Gerusalemme Est dopo la guerra del 1967 e buona parte degli insediamenti in Cisgiordania sono usciti dalle penne di architetti e strateghi militari. Per loro era essenziale un modello capace di garantire la difesa della nuova popolazione dagli attacchi dall’esterno. Questi stessi pianificatori studiarono a fondo la storia della vasta rete stradale, non soltanto regionale, degli antichi romani, che a loro volta avevano avuto come insegnanti egizi, etruschi, greci. I nuovi conquistatori (all’inizio circondati da paesi nemici) avevano bisogno di vie capaci di consentire uno spostamento rapido di truppe e mezzi militari, spesso da un fronte all’altro. Dal Sinai al Golan o viceversa. Nei territori occupati la rete, oltre a garantire il rapido schieramento di soldati e polizia, ha il compito di facilitare il movimento dei coloni e ridurre al massimo il contatto tra loro e la popolazione palestinese.

Vie di confine e di occupazione (foto di Eric Salerno)

La scuola romana: strategie di colonizzazione

I resti ancora visibili di quella via romana minore indicati dal colono ebraico sul costone dal quale si dominano mare e deserto risalgono ai primi decenni del secondo secolo d.C.. Giulio Cesare, nel 46 a.C. cominciò la presa dell’Africa e la costruzione di intere città lungo la costa meridionale del Mediterraneo. Meno di cento anni dopo la via Nerva, dal nome dell’imperatore che l’aveva ordinata, fu completata da Traiano. Collegava gli insediamenti romani d’Occidente con Alessandria d’Egitto e con la rete viaria che li legava alla Palestina, sul mare, e ai monti e ai deserti all’interno dell’Arabia. Poco meno di duemila anni dopo, i genieri israeliani, hanno seguito gli insegnamenti della scuola romana nel tracciare, a partire dal 1967, la prima grande arteria voluta dal progetto politico dei laburisti per il futuro dei Territori. La Via Allon scorre da Nord a Sud lungo le montagne di Samaria e Giudea. Il suo nome si rifaceva a Yigal Allon, politico e militare israeliano. Il suo scopo era chiaro. Metteva in conto l’eventuale restituzione alla Giordania di parte dei territori occupati salvo Gerusalemme e un vasto corridoio di terra lungo le rive del fiume Giordano per garantire a Israele una minima profondità strategica rispetto ai paesi con cui era formalmente in guerra. Mentre la piattaforma del Likud, il partito di centro di cui oggi Netanyahu è il leader e l’esponente più noto, ha sempre rivendicato per lo stato d’Israele tutto il territorio tra il Mediterraneo e il Giordano, i laburisti apparivano disposti a negoziare anche se ritenevano che per la difesa del paese era necessario annettere almeno una parte, non densamente popolata, della Cisgiordania. Il piano Allon gettò le basi per la situazione attuale in quanto stabiliva la creazione in quel “corridoio” di insediamenti agricoli e residenziali. Dal 1967 al 1977 i governi laburisti, spronati da Shimon Peres – premio Nobel con Rabin e Arafat per gli accordi di Oslo – ne autorizzarono ben ventuno accanto agli avamposti militari, tutti in alto, come Masada. L’antica fortezza che domina il mar Morto e fu scelta, curiosamente, come simbolo della eroica resistenza ebraica antica ai romani: secondo la storia tramandata, i suoi difensori, ribelli contro l’occupazione, si uccisero per non finire in mano ai conquistatori.

La scuola romana: la rete viaria in tempo tra pace e guerra

Israele-Palestina, un pezzo di ciò che i cristiani conoscono come Terra Santa, è intrisa di richiami religiosi e altri legati alle conquiste antiche e meno. In Marco 8:27 si legge: «Poi Gesù partì con i suoi discepoli verso i villaggi intorno a Cesarèa di Filippo; e per via interrogava i suoi discepoli dicendo: “Chi dice la gente che io sia?”». La “via” era un antico tracciato romano poche centinaia di chilometri a nord di Masada. Collegava la Galilea con Damasco, il centro amministrativo di Roma, passando dalle alture del Golan, terra siriana che gli israeliani hanno annesso e colonizzato. Coltivazioni, colonie agricole, tanto filo spinato, campi ancora minati e scavi archeologici per dimostrare che gli ebrei abitavano l’altopiano strategico millenni fa. La linea di confine, disegnata da Gran Bretagna e Francia nel 1924, per definire Libano, Israele-Palestina e Siria, segue un tracciato di una delle più importanti arterie della rete stradale romana che tra Mediterraneo e fiume Giordano raggiungeva una lunghezza di mille chilometri. Nel 1983, sottolineando come quella rete fu probabilmente il più importante progetto dell’amministrazione imperiale romana, Israel Roll, uno dei maggiori archeologi israeliani, pubblicò un sommario delle ricerche fatte dagli studiosi a partire dall’Ottocento. «Come per molti imperi – sottolineava – le preoccupazioni maggiori di Roma riguardavano l’amministrazione della provincia nei periodi di calma, e l’organizzazione e trasporto di unità militari alle aree chiave nei momenti di guerra e ribellione». Israele ha imparato la lezione.

“Alto” è potere, sicurezza, controllo

In cima a un’altura sul Golan che si affaccia sulla linea d’armistizio e alcune cittadine siriane, accanto a una postazione della forza di pace dell’Onu e a un bar-ristorante per turisti e pellegrini, gli israeliani hanno piantato un palo con le distanze delle città vicine e più distanti. È là per indicare insieme paura e aggressività anche se, come confermano gli stessi generali israeliani, pochi pensano più a scontri ravvicinati: carri armati e forze di terra sono stati ridotti a favore di droni e missili. E questo, in qualche modo, dovrebbe ridurre anche la giustificazione israeliana per l’occupazione del territorio palestinese come cuscinetto difensivo contro il mondo arabo.

“Alto” è controllo (foto di Eric Salerno)

L’autostrada per l’annessione: il progetto di dominio

Le strade, ormai autostrade, sono così diventate strumento di occupazione e di strisciante annessione della Cisgiordania. Yehuda Shaul, come quasi tutti gli israeliani, ha fatto il servizio militare. È oggi è uno dei leader del movimento per la pace. «Tutti sono convinti che l’annessione della West Bank sia stata congelata con la firma degli accordi di normalizzazione con gli Emirati arabi uniti ma in realtà Israele continua ad accelerare i lavori sull’autostrada per lannessione attraverso lo sviluppo di infrastrutture che consentiranno di raddoppiare il numero dei coloni e di solidificare per sempre il nostro controllo sul popolo palestinese». Pochi giorni dopo la presentazione della sua denuncia, è arrivata da B’Tselem, l’ong ebraica per i diritti umani un’altra denuncia: «Non c’è metro quadrato tra il fiume Giordano e il Mediterraneo in cui un palestinese e un ebreo siano uguali». E per la prima volta l’organizzazione parla apertamente di apartheid. L’accusa è stata subito definita antisemitismo puro. Il nuovo piano urbanistico e stradario per la Cisgiordania occupata, però, sembra confermare l’imposizione e le paure dei pacifisti israeliani. Per almeno due motivi. Da una parte le autostrade in costruzione o già funzionanti creano corridoi e spazi separati per le due popolazioni. Dall’altra, la rete nuova sarà collegata a quella israeliana, sempre più vasta, per consentire un legame diretto tra le comunità all’interno della “linea verde” – i confini finora riconosciuti di Israele –- e quelli dei coloni nei territori occupati.

La conquista dell’Arabia e di quella parte del Vicino Oriente – da Gaza al Libano e nell’interno fino ad Aqaba, sul mar Rosso, e Petra nel deserto della Giordania – non fu formalmente festeggiata da Roma se non dopo il completamento della via Traiana Nova negli anni 120. Soltanto da allora cominciarono ad apparire monete con l’effige di Traiano su un lato, e sull’altro un cammello. Israele non ha ancora completato il suo progetto di dominio su tutto il territorio dal mar Mediterraneo al fiume Giordano.

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Racconto di Natale: linee cancellate e riemerse dal suolo d’Africa https://ogzero.org/africa-un-continente-non-un-paese-racconto-di-natale-di-eric-salerno/ Thu, 24 Dec 2020 08:21:58 +0000 http://ogzero.org/?p=2114 In questo anno difficile che si chiude con uno “strano” Natale abbiamo pensato di condividere con voi lettori un racconto che racchiude un mondo perduto: quello che un tempo scaturiva dai reportage di viaggio. Ecco, ci piacerebbe che un po’ di quello spirito passasse attraverso questo scritto di un giornalista-autore che ha accettato di accompagnarci […]

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In questo anno difficile che si chiude con uno “strano” Natale abbiamo pensato di condividere con voi lettori un racconto che racchiude un mondo perduto: quello che un tempo scaturiva dai reportage di viaggio. Ecco, ci piacerebbe che un po’ di quello spirito passasse attraverso questo scritto di un giornalista-autore che ha accettato di accompagnarci nell’impresa in cui ci siamo gettati pochi mesi fa, per festeggiare il primo Natale insieme. In attesa di poter nuovamente viaggiare davvero, leggetelo, gustatevelo, immaginate di percorrere strade ferrate in un continente in perenne fermento, e di conoscere il mondo!


Un continente, non un paese

«I problemi dellAfrica». «Quegli africani tutti uguali…». «Andiamo in vacanza in Africa». Quante volte ci si riferisce a quel luogo a sud del Mediterraneo – hic sunt leones – come un solo paese, non il terzo continente per grandezza della Terra. Gli studiosi più cauti al massimo guardano a quel pezzo di mondo come se fossero due: in alto Marocco, Algeria, Tunisia, Libia ed Egitto che considerano estensione del Medio Oriente; a sud del Sahara altre quarantotto nazioni o territori dove vivono – o sopravvivono – ben oltre un miliardo di persone. Uniti, più o meno, dal colore della pelle. Divisi da duemila lingue, da una moltitudine di credenze e religioni, dalle rivalità tipiche del genere umano. Popoli con radici antiche e storie ancora in parte sconosciute, sicuramente sottovalutate. Popoli che gli insegnamenti ereditati dal passato ci fanno chiamare tribù (termine poi usato dagli stessi africani) per indurci a non capire che molti dei conflitti armati che tormentano il continente hanno radici nei confini tracciati con noncuranza dalle potenze coloniali europee in una conferenza a Berlino (1894-95) e alla fine della Prima guerra mondiale.

I confini: un tracciato incerto

Tra la fine degli anni Sessanta e nel decade successivo, con la decolonizzazione ancora in corso, sono stato tre volte nel Camerun: 475.442 chilometri quadrati, oltre 100 più dell’Italia. A guardarli sulla carta, i suoi confini sembrano opera di un bambino di due anni a cui i genitori hanno chiesto di disegnare un animale preistorico. Dal Golfo di Guinea si allungano come un serpente in movimento nel cuore del continente, a ridosso del lago Ciad: un tracciato sempre incerto. Come oggi è incerto il futuro del paese, bacino apparentemente interminabile di un flusso migratorio versa la speranza. E come per motivi simili è incerto il futuro di altre realtà del continente dove si combatte e si muore e dove forze estranee, vecchie e nuove, sono sempre più protagoniste di un grande gioco. O, meglio, di più giochi. Nel maggio 1963, gli stati africani indipendenti, in una conferenza ad Addis Abeba, fondarono l’Organizzazione per l’Unità africana. Il panafricanista Kwame Nkrumah (rivoluzionario e primo presidente del Ghana) voleva veder nascere nel suo continente quello che sognava Altiero Spinelli per l’Europa ma si dovette accontentare di uno statuto meno ambizioso e che, comunque, metteva in primo piano la necessità di non mettere in dubbio le frontiere uscite dal colonialismo. La parola d’ordine per tutti: evitiamo la balcanizzazione del continente.

Camerun

Dal “Messaggero” del 3 agosto 1969 il racconto di Eric Salerno della costruzione della Transcamerunense, le prospettive (tradite?) di ricchezza e di progresso in Africa Equatoriale

Diversi Camerun in un solo paese

Quei tre viaggi in Camerun offrivano all’osservatore dosi calcolate di ottimismo dove oggi – e anche allora – è guerra. Cominciamo questo percorso da Douala, un grande porto dove in un ristorante francese, retaggio positivo del colonialismo, assaggiai per la prima volta le cosce di rana e dove uno chef parigino di nascita preparò un incredibile soufflé di cioccolato per coronare un pasto di gran livello. Mangiai dei crostacei raffinatissimi quasi d’obbligo perché è da loro che il paese prese il suo nome. Gli esploratori portoghesi che nel XV secolo approdarono da quelle parti non avevano dubbi: il delta del Wouri, ricco di quegli animali acquatici, divenne Rio dos Camarãos (“Fiume dei gamberi”); il paese, con il passare del tempo, Camerun.

Insegne nel Camerun francofono… (foto di Eric Salerno)

Erano alcuni giorni che ero costretto a rispolverare il mio francese, lingua comune per le molte etnie di quella parte del paese, ed ebbi quasi un sussulto quando, usciti da Douala e arrivati dopo non molto quasi alla base del Monte Camerun mi accorsi che le insegne delle botteghe erano improvvisamente tutte in inglese. Avevamo attraversato una frontiera che era stata cancellata e che oggi, mezzo secolo dopo quel viaggio, segna la linea di confronto tra due mondi in contrapposizione. In un posto di ristoro a Buea, il capoluogo della regione del Sudovest, 870 metri di altitudine sulle pendici meridionali del monte più alto (4040 m) di tutta l’Africa centrale (è un vulcano attivo), mi offrirono un muffin, retaggio non proprio sofisticato della breve presenza degli inglesi.

insegna inglese

Foto di Eric Salerno

La Repubblica federale che (non)unisce del tutto

Trovai, in quella e nelle altre visite, poco o nulla degli anni in cui questo lembo d’Africa si chiamava Kamerun, i suoi padroni parlavano il tedesco, ed era ancora più grande grazie a uno scambio territorio-favori (il trattato Marocco-Congo del 1911) tra Berlino e Francia. Una mossa sulla plancia della Monopoli africana simile ad altre tra le potenze colonialiste. Londra e Parigi, dopo la sconfitta della Germania, si divisero il bottino africano della Grande Guerra. Passarono di mano anche il Tanganika, oggi Tanzania dopo una non sempre tranquilla unione con Zanzibar; il Togo dove lotta un movimento separatista nel West Togoland, quella parte dell’ex colonia tedesca che dopo la decolonizzazione divenne una provincia del Ghana. Il Kamerun fu diviso in due: Camerun inglese, accanto alla vasta colonia britannica della Nigeria, Camerun francese, appoggiato agli ex possedimenti di Parigi a nord e a est. Poi dopo varie fasi incerte nacque la Repubblica federale che avrebbe dovuto rispettare l’autonomia della popolazione anglofona rispetto alla preponderanza di quella francofona. Non fu così e la spaccatura avvenne proprio sulla questione linguistica, eredità coloniale e fattore unificante di gruppi etnici e popoli non soltanto in questo paese. Tre anni fa, la proclamazione della Repubblica federale di Ambazonia da parte degli anglofoni e la nascita di movimenti separatisti armati ha portato a un conflitto ancora in atto. E che ricorda quello che infuriava nella stessa regione cinquanta anni fa che, come scrissi allora, riguarda la competizione tra i bamiléké (nelle regioni anglofone) e gli altri, e aveva radici profonde ma anche motivazioni, diciamo, aggiornate.

Un reportage di Eric Salerno dal Camerun, apparso su “Il Messaggero”, l’8 agosto 1969: rivalità tribali vs. unità nazionale

“I bamiléké sono progrediti in questi ultimi anni a grandi sbalzi, superando quasi sempre lo sviluppo economico e sociale degli altri gruppi etnici. I sistemi feudali delle loro tribù sono stati aboliti e la società bamiléké ha sostituito le strutture dei villaggi con cooperative, associazioni comunitarie per il commercio. Oggi possiedono piantagioni, ricche e altamente produttive, stabilimenti per il trattamento del caffè, garage e magazzini, e gestiscono la quasi totalità dei servizi di trasporto terrestre del paese”

L’allora presidente Ahidjo, un foulbé (etnia minoritaria, musulmano, del Nord) sosteneva la necessità di raggiungere la non facile unità nazionale prima di impegnarsi nello sviluppo economico del paese. Oggi il paese è tra i più solidi grazie alle risorse naturali, compresi petrolio e gas, legnami pregiati e prodotti agricoli ma la ricchezza è concentrata nelle regioni meridionali. La scena politica è da anni dominata da un partito (Movimento democratico del Popolo camerunese) e dal suo presidente Paul Biya, 85 anni, al potere dal 1982 e al suo settimo mandato dopo le contestate elezioni del 2018.

L’eredità coloniale delle religioni

Credo che sia importante, qui, sottolineare un altro elemento di coesione e in molti casi di tragica lotta fratricida in questo paese come in tutto il continente: le religioni come eredità coloniale. L’islam, arrivato soprattutto nel Sahel, lungo la costa Mediterranea e quella dell’Oceano Indiano ancora prima della conquista europea del continente, è un fattore unificante ma anche di scontro spesso all’interno della sua complessa galassia. Nel suo nome vengono portate avanti crociate che sfruttano contrasti più tradizionali come quelli tra coltivatori e pastori quando, come ora, il clima ha reso più difficile la sopravvivenza delle popolazioni. Gruppi islamisti, finanziati e sostenuti da attori esterni al continente, sono attivi nelle regioni settentrionali del Camerun e in quasi tutta la fascia del Sahel dove i musulmani sono preponderanti. La realtà del Camerun – dal Golfo di Guinea al lago Ciad – deve la sua complessità anche a chi disegnò le sue frontiere. Circa il 70 per cento della sua popolazione è cristiana: la maggioranza cattolica nella parte francofona, i protestanti in quella che fu dominata dalla Gran Bretagna. La gravità della situazione è stata sottolineata a febbraio di quest’anno nella lettera di un gruppo di vescovi che sollecitavano il governo di Yaoundé a rinunciare al centralismo che impone l’identità francofona sugli anglofoni.

La violenza e le atrocità commesse da tutte le parti in conflitto hanno costretto 656.000 camerunesi di lingua inglese a lasciare le loro case, 800.000 bambini a non andare più a scuola (inclusi i 400.000 alunni delle scuole cattoliche), 50.000 persone a fuggire in Nigeria, distrutto centinaia di villaggi e ucciso almeno 2000 persone

Le risorse naturali, vera causa delle guerre civili

Purtroppo l’esempio del Camerun è soltanto uno dei meno noti dei conflitti africani. Del Sudan e del Sud Sudan, paesi indipendenti dopo guerre civili spesso manovrate dall’esterno, ma sempre con “problemi tribali” al loro interno, si parla spesso. Come si è parlato nell’ultimo mese della guerra che rischia di smembrare l’Etiopia, uno dei più antichi paesi del mondo. L’Unione africana, alcuni anni fa, aveva designato il 2020 l’anno della pace nel continente. L’obiettivo, mettere fine a tutti i conflitti. Da quelli di cui si parla sovente – Libia, Sudan, Mali – a quelli poco trattati dai media nella Repubblica democratica del Congo, nella Repubblica Centrafricana, in Somalia, Kenia e, da poco tempo, nel Nord del Mozambico ricco di idrocarburi. Le risorse naturali sono, come sempre, l’interesse principale degli attori esterni. E la causa di molte guerre civili africane. Una per tutte: la guerra del Biafra (una regione della Repubblica federale della Nigeria super-ricca di petrolio) scoppiata pochi anni dopo l’indipendenza (1967-1970). Si preferì parlare, allora, di “rivalità etniche”, che sicuramente esistevano ed esistono ancora oggi in quel vasto paese.

Il fascino del potere

E qui, seppure con cautela per non sottovalutare il passato, è d’obbligo sottolineare che oltre mezzo secolo dopo la decolonizzazione anche l’attuale dirigenza africana deve assumersi le proprie responsabilità. Tra queste, l’incapacità o la mancanza di volontà di modificare le strutture economiche e politiche di sfruttamento dei cittadini e l’attaccamento al potere di molti leader,  uomini politici inizialmente innovatori ormai dittatori attaccati al potere e a tutto ciò che rappresenta. L’impegno di mettere fine a tutte le guerre entro quest’anno era sicuramente irrealistico. Anche perché le rivalità e divergenze tra i leader dei 27 stati dell’Unione europea sono nulla rispetto a quelle che dividono i governi dei 55 paesi africani, alcuni dei quali colpevoli anche di favorire i conflitti civili e i movimenti separatisti nei loro vicini di casa.

La foto utilizzata in copertina è stata esposta alla mostra “A sud del Sahara. Fotoreporters italiani nell’Africa nera 1969/1979”, tenutasi a Palazzo Isimbardi a Milano nel maggio 1980, con opere di Paola Agosti, Romano Cagnoni, Carlo Cisventi, Augusta Conchiglia, Mario Dondero, Fausto Giaccone, Uliano Lucas… Eric Salerno. L’immagine illustra un gruppo di viaggiatori in attesa del treno alla stazione di Nanga-Boko, fine luglio 1969.

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Rohingya: il genocidio silenzioso di una comunità musulmana nella sua città https://ogzero.org/rohingya-il-genocidio-silenzioso-di-una-comunita-musulmana-nella-sua-citta/ Tue, 08 Dec 2020 18:49:27 +0000 http://ogzero.org/?p=1991 Questo reportage è il frutto di un viaggio a Sittwe, capitale del Rakhine, nel luglio 2020. È stato pubblicato nell’ottobre 2020 sul n. 44 de “Il Reportage”, trimestrale diretto da Riccardo De Gennaro. Qui se ne riporta la versione integrale dell’Autore. Il duplice volto di Sittwe Sittwe (Stato del Rakhine). Quanto tempo ci vuole per […]

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Questo reportage è il frutto di un viaggio a Sittwe, capitale del Rakhine, nel luglio 2020. È stato pubblicato nell’ottobre 2020 sul n. 44 de “Il Reportage”, trimestrale diretto da Riccardo De Gennaro. Qui se ne riporta la versione integrale dell’Autore.

Il duplice volto di Sittwe

Sittwe (Stato del Rakhine). Quanto tempo ci vuole per dimenticare il dolore? E quanto ce ne vuole perché il dolore diventi abitudine, sistema di vita, quotidianità? Un musulmano di Sittwe lo sa anche se in questa città settentrionale del Myanmar le apparenze possono ingannare. La capitale del Rakhine, lo stato birmano da cui tra il 2012 e il 2017 almeno 850.000 musulmani rohingya sono stati obbligati a fuggire da una sistematica persecuzione, sembra una città tranquilla e invitante. Il lungomare porta a un belvedere affacciato da una parte sul Golfo del Bengala e dall’altra sul delta di un grande fiume limaccioso che confonde le sue acque con quelle del Mar delle Andamane. Lungo la passeggiata, coppiette mano nelle mano, bambini festosi e giovani che si allenano. Qualche surfista occidentale e giovani allegri che nuotano su pneumatici gonfiati come enormi salvagenti. Sulla spiaggia decine di baracchette con birra, gamberi arrostiti, piacevolezze da weekend e sorrisi. Sullo sfondo, pagode ristrutturate con lamine dorate.

Tempi dorati Rakhine

Il capo sul mar delle Andamane. Foto di Svetva Portecali

La città vecchia non dimentica

Nel cuore della città vecchia però si respira tutt’altra aria. Se l’occhio va oltre l’alto muro di cinta che circonda la grande moschea di Sittwe, l’antica costruzione ottocentesca – un piccolo gioiello dell’arte islamica con suggestioni mogul – è ora un ammasso di rovine. La struttura esterna ha resistito ma dentro tutto è devastato. Le piante si arrampicano rapide lungo i muri sbrecciati, corrosi dall’umidità e dall’incuria. E se dimenticare è difficile, alla natura bastano otto anni per cominciare a ripigliarsi ciò che era suo. Succede lo stesso per altri luoghi di culto islamici della città ed è accaduto anche a monasteri e templi buddisti, seppur in maniera minore. Non lontano dalla moschea si apre il ghetto islamico. Non ci si può entrare e non ci si può uscire. Quanti sono? Una stima dice 4000. Quanti erano? Forse 80.000. Come sopravvivono? È un altro mistero di una città divisa da una guerra per bande scoppiata nel 2012 che, nel giro di qualche mese, ha chiuso un bilancio per il solo Rakhine – dice un rapporto del 2013 di Pysichians for Human Rights – di almeno 280 morti, circa 135.000 sfollati e la distruzione di oltre 10.000 abitazioni, decine di moschee, madrase e monasteri.

Antica moschea abbandonata a Sittwe

La grande moschea devastata e chiusa. Foto di Svetva Portecali

La scintilla che scatena i pogrom

Se buddisti, cristiani e musulmani rohingya (una comunità di lingua bengalo-assamese ed etnicamente indo-ariana che vive qui da secoli) convivevano più o meno pacificamente, al netto di qualche ricorrente dissidio, nel 2012 uno stupro mortale di cui sono accusati tre musulmani scatena il caos. Un autobus viene assalito e vengono giustiziati dieci rohingya. Parte la caccia all’uomo dalle due parti ma con due grossi svantaggi per la comunità islamica: sono minoranza in un paese devoto a Budda il compassionevole e l’esercito chiude un occhio. Un occhio lo chiudono anche le autorità religiose buddiste che solo in seguito prenderanno le distanze dal movimento “969” del monaco oltranzista Ashin Wirathu, i cui infiammati sermoni istigano all’odio e alla violenza etnico-religiosa. Una violenza che si espande in decine di siti in tutto il paese – Meiktila, Yamethin, Mandalay – ma che ha il suo fulcro nel Rakhine, a Sittwe, dove i musulmani vengono “evacuati” nei campi sfollati fuori dalla capitale.
Il pogrom antimusulmano si ripete cinque anni dopo, nel 2017, quando un gruppo islamico (Arakan Rohingya Salvation Army – Arsa) attacca alcuni siti delle forze di sicurezza birmane nel Rakhine. È la loro risposta al 2012, ma per l’esercito birmano – conosciuto come Tatmadaw – è l’occasione per far piazza pulita. Nel giro di un mese quasi 700.000 rohingya scappano in Bangladesh a ingrossare le fila nei campi profughi oltre confine. Presto se ne aggiungono altri. Il Myanmar non è più casa loro: per Naypyidaw sono bengalesi immigrati, quindi clandestini, senza diritto a un documento. La parola rohingya è bandita dal vocabolario in quella che diventa la prima grande operazione di pulizia etnica del XXI secolo che si consuma, dopo 50 anni di governo militare, all’ombra del primo esecutivo civile con a capo un premio Nobel, la signora Aung San Suu Kyi. Poi, tra la fine 2018 e l’inizio del 2019, per Tatmadaw appare un’altra sfida: l’Arakan Army, autonomisti arakanesi per lo più buddisti e armati. Sono nati nel 2009 e sono attivi dal 2015 ma questa volta fanno sul serio. Non sono gli straccioni armati di machete e moschetto dell’Arsa. Una nuova guerra si riaccende tra le pianure del Rakhine e le montagne dello stato Chin, dove l’AA mantiene le sue basi operative.

Sfollati e vulnerabili

A fine 2019 il più recente aggiornamento dell’Ufficio Onu per gli affari umanitari (Ocha) diceva che circa la metà della popolazione sfollata in Myanmar a causa del conflitto vive nello stato del Rakhine: circa 241.000 sfollati – il 77% sono donne e bambini – vivono in campi o in situazioni simili a campi negli stati Kachin, Kayin, Shan e Rakhine. Ciò include – sempre secondo Ocha – circa 92.000 persone nel Kachin, 15.000 nello Shan, 5600 nel Kayin e quasi 130.000 persone nel Rakhine, in gran parte sfollate a causa delle violenze del 2012. Numeri che crescono e che il sito dell’Unhcr stimava nel 2019 a oltre 700.000 persone (prese in carico a diverso titolo, tra cui 600.000 rohingya). La condizione in cui vivono gli sfollati nei campi è di estrema vulnerabilità: persistenza dei conflitti armati, apolidia, restrizioni di movimento, malnutrizione, malattie. Le agenzie umanitarie fanno quel che possono ma «l’accesso ai campi sfollati viene impedito dall’esercito a qualunque straniero. Possiamo arrivarci – dice il funzionario di un’organizzazione internazionale che chiede l’anonimato – solo con personale locale». C’è una diffusa reticenza a parlare coi reporter da parte delle varie strutture internazionali – dalle Nazioni Unite alle Ong – presenti a Sittwe. Probabilmente è dovuta anche al fatto che nel 2014 ci fu una vera e propria sollevazione contro gli internazionali ritenuti pro-rohingya e a un episodio dell’aprile di quest’anno, quando è stato ucciso nel Rakhine un autista dell’Oms. Nessuno se la sente di parlare con un giornalista, nemmeno off the record. «Argomento troppo sensibile», è la vaga risposta quando una risposta viene data.

Una casa musulmana abbandonata. Foto di Svetva Portecali

Accesso vietato

A Yangon un funzionario Onu accetta di parlare ma anonimamente: «La situazione si è molto complicata dal 2019: in termini di flussi, stiamo parlando di 70 nuovi siti – difficile, dice, chiamarli “campi” – con 45.000 sfollati che nei primi sei mesi del 2020 sono raddoppiati: 150 siti con un totale di 90.000 sfollati. In queste aree del Rakhine il nostro lavoro è ostacolato da una burocrazia di permessi che comincia col governo ma finisce con i militari. E il Western Comand, che controlla l’area, ha sempre l’ultima parola. Per il personale non birmano l’accesso è praticamente impossibile e anche per i locali non è facile: ci sono cinque livelli da superare per avere un permesso nelle aree off limits salvo che il primo check point non ti rispedisca a casa. L’accesso è migliore nelle aree urbane ma in quelle rurali – nelle zone di Paletwa, Rathedaung e Buthidaung – non c’è niente da fare. Il mantra è “sicurezza” cui si sono aggiunte – conclude – le restrizioni del Covid». È abbastanza chiaro che non è molto piacevole dover ammettere di non aver quasi nessuna capacità di controllo sull’emergenza umanitaria degli sfollati che richiede comunque una spesa di circa 150 milioni di dollari l’anno. È possibile solo un monitoraggio a distanza che lascia libero Tatmadaw di controllare la situazione e la segregazione. Va aggiunto poi che, al di fuori di Sittwe, la regione è da oltre un anno isolata da Internet. Impossibile dunque persino comunicare, figurarsi controllare.

Impossibile comunicare: isolamento e mancanza di controllo

Anche ottenere i dati è complesso e i siti internet, cui le organizzazioni rimandano, non sono di grande aiuto. Quel che è certo e che la statistica non è di casa nel Rakhine. E difficile sapere con certezza le variazioni demografiche di Sittwe, l’unico posto che uno straniero possa raggiungere. In aereo. La città è sigillata e non si può uscire perché attorno si spara e «a volte in città scoppia qualche bomba», confida una fonte locale. L’Arakan Army è più vicino di quanto non si pensi e nel primo quadrimestre del 2020 ha messo a bilancio oltre 80 azioni armate al mese. A inizio agosto ci sono stati scontri con vittime tra Tatmadaw e l’AA nelle città di Rathedaung e Buthidaung, a Nord di Sittwe e, a fine luglio, due raid aerei dell’esercito birmano hanno bombardato l’area tra Kyauktaw e Mrauk U – a circa 150 chilometri Est da Sittwe per rispondere a un attacco dell’AA. Il giorno dopo, vediamo una colonna di camion trasporto truppe attraversare la capitale. Una cinquantina di soldati per camion usciti da una delle tante caserme di Sittwe. Molti residenti, si dice, avrebbero abbandonato l’area: la zona dista una sessantina di chilometri in linea d’aria dal territorio di Paletwa, nel Chin, dove, con la popolazione civile, sono intrappolati dai continui scontri armati anche alcuni sacerdoti cattolici. È l’altro fronte della guerra nei due “stati caldi” dove il processo di pace tra Naypyidaw e gli eserciti armati degli stati periferici birmani (l’ultimo vertice si e tenuto in agosto) non funziona. Con le fazioni che hanno firmato l’accordo di cessate il fuoco c’è tutt’al più qualche scaramuccia. Nel Chin e nel Rakhine si combatte. Quotidianamente.
Una fonte locale confida che «la guerra è purtroppo una realtà quotidiana anche nelle aree di Myay Bon e di Min Bya», sempre a Est di Sittwe, dove «si combatte tutti i giorni». A Nord della capitale è forse ancora peggio: a giugno «la situazione della sicurezza nelle aree settentrionali dello stato Rakhine rimane instabile, con continui combattimenti e una maggiore presenza di forze di sicurezza nel distretto di Rathedaung – scrive un rapporto congiunto Ocha-Unhcr – tuttavia i numeri sono difficili da verificare a causa della fluidità della crisi» ma quasi 3000 persone avrebbero lasciato la zone degli scontri. «È stata fornita assistenza agli sfollati, ma l’accesso per valutare e rispondere ai bisogni rimane una sfida, in particolare nelle zone rurali… aggravata dal Covid-19». Se il controllo sugli aiuti è difficile, quello sulle attività di Tatmadaw lo è ancora di più: «Molto semplice: bruciano tutto, passano coi bulldozer e dopo qualche settimana la foresta ricopre tutto», sostiene un’altra fonte a Yangon. Lo confermano le riprese satellitari che Amnesty o Human Right Watch fanno ciclicamente per monitorare, dal 2017, cosa succede da queste parti dove è facile sparire senza che se ne sappia più nulla.

Ambala: un lager a cielo aperto

All’ingresso di Aung Mingalar o “Ambala”, com’è conosciuto il quartiere musulmano di Sittwe, i gabbiotti azzurri della polizia presidiano mucchi di spazzatura e impediscono che ci si avvicini a un’area in cui non è permesso entrare e da cui non è permesso uscire. Un lager a cielo aperto col titolo di quartiere «in cui vivono circa 4000 persone», secondo Nay San Lwin, cofondatore della Free Rohingya Coalition: «Solo poche persone – dice – possono uscire dal quartiere per fare spesa ogni due settimane. Sorvegliati dalla polizia». Molte case musulmane sono semplicemente abbandonate, altre sono diventate caserme o aree di rispetto interdette. In una settimana a Sittwe incontriamo non più di tre quattro donne con l’hijab e quando ci imbattiamo in un gruppetto di ragazzi dai tratti somatici indiani, specificano subito di essere “indostani”, vale a dire non rohingya. Secondo le statistiche ufficiali del 2016, rielaborazione dei dati del censimento del 2014, nel Rakhine il 96,2% degli abitanti è buddista (il dato nazionale è 87,9%) mentre i musulmani sarebbero solo l’1,4% contro il 4,3% nazionale. Ma nel Nord Rakhine la percentuale cambia: 60% di buddisti contro 30% di musulmani (70% a 29 o 67% a 24 secondo altre fonti) anche se ormai la bilancia etnico-religiosa è cambiata. Con la fuga di quasi un milione di rohingya negli ultimi anni, i pochi che restano sono i prigionieri di Sittwe e dei campi sfollati.

Sittwe

Fuori dal mercato di Sittwe. Foto di Svetva Portecali

Il distretto di Sittwe conta oltre un milione di abitanti e per Sittwe città la stima è attualmente di oltre 150.000 di cui circa il 70% vive nell’area urbana. Quanti musulmani sono andati via dalla città e quanti ne sono rimasti, se gli sfollati a giugno 2017 erano – scrive il Sittwe Camp Profiling Report* – ancora quasi 100.000 distribuiti in 15 campi nell’area rurale di Sittwe e altri 20.000 dispersi in un’altra ventina di campi nel Nord Rakhine? La fotografia del 2017 non dice quanti di loro abbiano raggiunto, prima o dopo il 2017, l’ondata di profughi rohingya riversatasi in Bangladesh o abbiano scelto la via del mare verso Thailandia o Malaysia. Quel che si sa con certezza è che la piccola minoranza dei Kaman – una popolazione musulmana del Rakhine che è però riconosciuta tra le 135 nazionalità ufficiali (da cui i rohingya sono esclusi) – sarebbe sfollata a Yangon. Un provvedimento cui nel 2018 si oppone un ex ministro vicino ai militari, sostenendo che così si «esporta il cancro» nella parte sana del paese. Quanto ai musulmani nei campi attorno a Sittwe, nel 2017 l’84% proveniva dalla città che ne doveva dunque ospitare, prima del pogrom, almeno 80.000. Se contare i musulmani prigionieri a Sittwe è un’operazione incerta, qualche dato comunque illumina: per esempio il numero di trattamenti all’ospedale generale della città nel periodo settembre-dicembre 2019 che ha a bilancio 26.046 interventi per “razze nazionali” contro 814 per “musulmani”. Con una divisione razziale dei pazienti che, da sola, messa nero su bianco, mette i brividi.

Un conflitto senza soluzione?

Il Myanmar – ha scritto International Crisis Group nel suo ultimo rapporto sul Rakhine (giugno 2020) – «ha anche sviluppato una strategia legale per difendersi dalle accuse di genocidio (per il dossier rohingya [N.d.A.]) alla Corte internazionale di giustizia. Ma sembra non avere una più ampia strategia per risolvere la crisi di fondo… dovrà riconoscere che il conflitto con l’AA e la crisi dei rohingya sono collegati, ed entrambi devono essere affrontati per stabilizzare il Rakhine e migliorare significativamente le sue prospettive di sviluppo. Senza fine al conflitto con l’AA, il rimpatrio volontario dei rohingya (dal Bangladesh [N.d.A.]) è inconcepibile. Inoltre, qualsiasi progresso sostenibile nel miglioramento della vita dei rohingya richiede una consultazione con la popolazione del Rakhine per ottenere il suo via libera. Eppure nel contesto attuale, tutto ciò sembra quasi inconcepibile, dato che l’impegno a livello politico tra il governo e il popolo del Rakhine – conclude Ics – è del tutto assente».

Rohingya: il genocidio silenzioso

A Sittwe, mentre sul lungomare si gustano calamari e gamberoni, si consuma in sostanza un genocidio silenzioso dove i killer nei lager a cielo aperto sono anonimi: fame, malattie, depressione, prigionia. E tempo. Lo sterminio attraverso un lento stillicidio di quel che rimane di una comunità.

* Dati raccolti con questionario da CCCM, Danish Refugee Council, Unhcr. Il Rapporto (155 pagine più annessi) utilizza una sola volta il termine “rohingya” a testimoniare quanto l’argomento resti “sensibile”: «For the purposes of this paper, the term Muslims is used to refer to the population the Government refers to as “Bengali” and who refer to themselves as “Rohingya”. The labelling of this group in Rakhine State is a contentious issue and continues to fuel misunderstanding».

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Spirali destabilizzanti avvolgono Cabo Delgado https://ogzero.org/cabo-delgado-periferie-insorgenti-creano-zone-franche-per-ogni-traffico/ Sun, 06 Dec 2020 09:16:27 +0000 http://ogzero.org/?p=1979 L’opportunismo jihadista sfrutta la pandemia Il terrorismo ha da sempre trovato nei periodi di crisi nuove opportunità per promuovere i propri obiettivi, e il coronavirus, per molti gruppi jihadisti è diventato un alleato fondamentale, quasi essenziale. La crisi economica innescata dalla pandemia, l’immobilismo di molti stati davanti al virus, hanno creato l’ambiente “ideale” nel quale i […]

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L’opportunismo jihadista sfrutta la pandemia

Il terrorismo ha da sempre trovato nei periodi di crisi nuove opportunità per promuovere i propri obiettivi, e il coronavirus, per molti gruppi jihadisti è diventato un alleato fondamentale, quasi essenziale. La crisi economica innescata dalla pandemia, l’immobilismo di molti stati davanti al virus, hanno creato l’ambiente “ideale” nel quale i miliziani di Allah hanno trovato nuovi spazi di movimento. L’Africa non è esente da tutto ciò. Anche se i numeri della pandemia non sono nemmeno paragonabili – per numero di morti e contagi – con quelli occidentali, il virus ha aggravato crisi economiche e sociali già di per sé precarie sulle quali, spesso, il jihadismo costruisce la sua fortuna. Se alcuni analisti si aspettavano un rallentamento della violenza terroristica, sono stati smentiti dai fatti. Anzi c’è stata un’accelerazione e i dati sono lì a dimostrarlo. Ma non solo.

Gli esperti, infatti, sottolineano che questi gruppi legati al terrorismo islamico sanno bene di non essere immuni al pericolo sanitario. Infatti, nell’incitare i propri membri a mettere in atto nuovi attacchi, il leader non mancano di diffondere documenti su come prevenire la diffusione del virus, in alcuni casi utilizzano anche le linee guida ufficiali dell’Organizzazione mondiale della sanità. Insomma, si ergono a difensori delle popolazioni più diseredate e dimenticate dai governi del continente africano. Il coronavirus, dunque, come arma per creare consenso.

Si allarga la spirale del Califfato nero sulle regioni subsahariane

In tutta l’Africa i gruppi che si ispirano all’Isis e ad al-Qaeda sono attivi più che mai, e non solo nella regione del Sahel piombata nel caos con il ripetersi di attentati terroristici per mano di gruppi jihadisti che stanno mettendo fuori controllo paesi come il Mali e il Burkina Faso. Con il rischio concreto che a sud della Libia nasca un Califfato nero. L’attenzione è dunque massima in Sahel, soprattutto da parte delle potenze mondiali che seguono quanto sta succedendo. Il contesto è andato deteriorandosi di mese in mese. Le operazioni militari, in particolare quelle della Francia, sembrano non avere il successo sperato. Di certo, oggi possiamo chiamare questa fascia di territorio che va dalla Somalia alla Mauritania fino al Senegal… Il Sahelistan, per paragonarlo ai grandi spazi dell’Afghanistan e del Pakistan e per il ruolo che gioca il terrorismo internazionale. Un nome non casuale: in questa regione regna il caos.

Il Sahelistan

I jihadisti hanno alzato il livello dello scontro un po’ ovunque, seminano terrore, anche se non controllano concretamente territori – per ora – come hanno fatto in Medio Oriente. Ma molta parte del continente è teatro di scontri e attentati feroci. Nell’Africa Occidentale, nelle regioni a maggioranza musulmana. In Somalia dove al Shabaab terrorizza la popolazione da anni, nell’Est della Repubblica democratica del Congo dove la guerra fa parte della quotidianità e dove le risorse naturali sono enormi. In Nigeria dove Boko Haram ha moltiplicato i suoi attacchi. Nel Nord del Mozambico dove l’islam è radicato da secoli e dove da tre anni imperversa un gruppo affiliato all’Isis. I terroristi sanno approfittare delle debolezze dei governi, che si tratti di stati “falliti” come la Somalia o impotenti come la Nigeria. La pericolosità di questi gruppi, e le conseguenti difficoltà da parte dei governi nazionali e delle coalizioni internazionali nel combatterli, sta proprio nel fatto che non vi è una struttura gerarchica e, dunque, un centro di controllo unico. Piuttosto operano in “franchising” come capita in molti paesi dove, per altro, cambiano persino nome o si appropriano di altre sigle, pur non avendo la stessa matrice di affiliazione. E il caso del jihadismo in Mozambico è emblematico, relativamente giovane, e che già sta varcando i confini lanciando i propri attacchi in Tanzania. Il “caso” Mozambico merita un approfondimento.

Di qua e di là del fiume Ruvuma

La spirale esplosiva della povertà intrecciata a quella jihadista

L’orrore non ha limiti in un Mozambico squassato dal terrorismo jihadista, in particolare nella regione del Nord di Cabo Delgado. Una regione dimenticata dallo stato, dove si fatica a vivere e ad arrivare a fine giornata. La povertà è dilagante. Ma Cabo Delgado è anche una regione ricca di risorse. Qui agisce e opera un gruppo jihadista che inizialmente si faceva chiamare al-Shabaab “i giovani”, come il gruppo jihadista somalo. Non è chiaro, tuttavia, se e quali legami esistano tra i due gruppi. Di certo la versione mozambicana fa riferimento all’Isis, mentre quella somala ad al-Qaeda. Tanto che nel rendere note le sue azioni fa sfoggio di passamontagna e drappi neri tipici dello Stato Islamico. La ferocia, poi, è tipica di questi gruppi. L’affiliazione all’Isis, tuttavia, non è verificabile, potrebbe essere semplicemente emulazione e una sorta di “libero franchising”. L’inizio, anche un po’ sgangherato, delle azioni terroristiche di questo gruppo viene fatto risalire al 5 ottobre del 2017 quando vengono attaccate tre stazioni di polizia nella città di Mocimboa da Praia. Da lì inizia una spirale di violenza in un’area periferica, tradizionalmente tranquilla ed economicamente depressa, tra le più povere del paese.

Cabo Delgado

Zona di attività insurgentes, Nord del Mozambico

La spirale implosiva dell’impotenza mercenaria di fronte al caos assoluto

Il governo, in più riprese, ha sferrato dure offensive contro i gruppi terroristici, ma con successi alterni, riprendendosi territori occupati dai jihadisti, per poi riperderli.  In molte occasioni ha fatto affidamento su mercenari provenienti dall’estero: i Wagner, russi, e mercenari provenienti dal Sudafrica. Operazioni che non hanno avuto grande successo. I mercenari russi, già attivi in Siria, Libano e Repubblica Centrafricana non sono riusciti a venire a capo della ribellione. Non si sa molto, per ovvie ragioni, delle loro attività nel paese, ma di certo hanno subito diverse perdite tra le loro fila. Così come i mercenari sudafricani che avrebbero perso, oltre che uomini anche mezzi. Questi gruppi, ben addestrati e armati, sembrano essere impotenti di fronte al dilagare dell’offensiva jihadista. Questi fatti, inoltre, definiscono un salto di qualità del gruppo terroristico che nel Nord del paese si fa chiamare Ahlus Sunna wal Jamaa, puntando a sconfinare in Tanzania, attraversando e seguendo il corso del fiume Ruvuma.

La spirale di violenza attinge forza da periferie insorgenti e… dal mare

Se i primi attacchi sono stati infatti portati con mezzi di fortuna (coltelli, machete…), quelli organizzati di recente hanno fatto registrare un balzo di qualità. I miliziani sono dotati di armi automatiche nuove ed efficienti. Non solo. Anche il livello di addestramento è cresciuto. Questi gruppi sanno impiegare in modo professionale ed efficace gli armamenti di cui dispongono. Il vescovo cattolico di Pemba, Luiz Fernando Lisboa ha spiegato, recentemente, che questi uomini, che inizialmente si spostavano con vecchie motociclette, «ora hanno armi e veicoli e possono eseguire attacchi su vaste aree».

Gli attacchi non si placano. Dopo aver occupato numerose cittadine e aver terrorizzato migliaia di persone, i miliziani che si rifanno all’Isis, hanno lanciato raid contro alcune isole al largo di Palma e sono rientrati in alcuni centri abitati nel distretto di Muidumbe dove di recente le forze governative erano riuscite a stabilire propri presidi. Non solo i ribelli sono riusciti ad annullare i progressi parziali che erano stati compiuti dalle forze governative ma, ed è un particolare nuovo, hanno dimostrato la capacità di condurre attacchi di un certo rilievo anche via mare. Un fatto che ha messo a rischio collegamenti, fino a poco tempo fa sicuri, e che hanno convinto il governo a sospendere almeno per ora i rifornimenti via mare per la città di Palma.

La spirale speculativa: una zona franca di traffici di persone ed eroina, gas ed estrazionismo, fauna e legname

Lo scopo dichiarato di questi gruppi è voler imporre l’islam radicale. Formalmente, appunto, perché dietro questa dichiarazione di intenti si nasconde il traffico di stupefacenti e lo sfruttamento illegale delle miniere, di cui il Nord del Mozambico è ricco. E si fanno forti della povertà che regna in quel territorio mozambicano. Come se ci fosse una sorta di “islamizzazione della rivolta”. Una reazione alla marginalità e alla povertà profonda in un’area ricca di risorse minerarie e di giacimenti di petrolio.

spirale speculativa

Piattaforme nell’Oceano Indiano

Il fatto che i gruppi islamisti del Mozambico ricevano probabilmente armi, munizioni e attrezzature dall’esterno non è l’unico segnale che li avvicina ad altri gruppi che operano nel continente africano. Eric Morier-Genoud, un accademico di Belfast esperto di Mozambico, sottolinea che esistono forti somiglianze tra l’evoluzione dell’insurrezione in Mozambico e l’emergere di Boko Haram nel Nord della Nigeria.

La spirale di terrore degli sfollati

A farne le spese è, come sempre, la popolazione inerme, che fugge dai villaggi, si nasconde nella boscaglia per non essere sgozzata. Secondo la Displacement Tracking Matrix dell’Oim, almeno 424.000 persone sono sfollate alla fine di settembre, un aumento del 17 per cento rispetto al mese precedente. Sul totale degli sfollati, oltre 144.000 si trovano in aree difficili da raggiungere a causa di problemi di sicurezza. «Abbiamo dovuto lasciare la nostra zona a causa di molteplici attacchi e trasferirci nella città di Pemba – ha detto Nlabite Chafim, una delle otto persone della stessa famiglia che sono fuggite a piedi attraverso le foreste a luglio prima di trovare un mezzo di trasporto per la capitale provinciale –. Mia nipote ha assistito all’uccisione dei suoi genitori, e lei non è più la stessa».

«Sembra stiano cercando di rimuovere l’intera popolazione della parte settentrionale della provincia di Cabo Delgado, cacciando la gente comune senza alcuna pietà», spiega suor Blanca Nubia Zapata, religiosa delle Carmelitane Teresiane di San Giuseppe, in un colloquio con la fondazione pontificia Aiuto alla Chiesa che Soffre (ACS). La religiosa risiede a Pemba, il capoluogo della provincia nel mirino dei terroristi. «Nelle ultime settimane sono arrivate qui oltre 12.000 persone. Alcuni sono morti lungo la strada. Sono 180 chilometri, ma non potete immaginare cosa siano le nostre “strade”, tre o quattro giorni di seguito senza cibo, senza acqua, con bambini sulle spalle. Ci sono donne che hanno partorito per strada. Sono semplicemente terrorizzati. Molte famiglie – prosegue Sister Blanca – ci hanno chiesto aiuto e le abbiamo messe in salvo nella scuola».

Il vescovo di Pemba, Luiz Fernando Lisboa, in un video di Caritas Mozambico inviato ad ACS, descrive la situazione di Paquitequete, un sobborgo della capitale che si affaccia sulla costa: «Sono arrivati già 10000 rifugiati e altri sono in arrivo. Non hanno un luogo in cui dormire, solo coperte e rifugi improvvisati. Alcune persone sono morte durante il tragitto. Si tratta di una situazione umanitaria disperata – prosegue il prelato – per la quale stiamo chiedendo, anzi implorando l’aiuto e la solidarietà della comunità internazionale».

Le testimonianze si moltiplicano e descrivono l’orrore che le popolazioni stanno vivendo. Testimonianze che, in particolare, arrivano da svariate realtà missionarie che operano nell’area e che hanno la possibilità di poterle raccontare perché in contatto costante con le case madri in occidente.

Sfollati Mozambicani

La spirale di un conflitto asimmetrico su base continentale

Il villaggio di Muambula è diventato quasi un luogo fantasma: gli abitanti sono fuggiti tutti, tranne qualche persona molto anziana. Il distretto di Muidumbe, nella provincia di Cabo Delgado, conta circa 80000 abitanti ed è composto da 26 comunità, per la maggior parte di etnia maconde. Si tratta perlopiù di gente dedita all’agricoltura. Qui vive e lavora padre padre Edegard da Silva, missionario brasiliano della congregazione Nostra Signora de La Salette. La sua testimonianza è stata raccolta dalla rivista “Nigrizia”: «Molti ci chiedono il perché di questa guerra che dura ormai da tre anni. Per noi missionari che viviamo con la gente di questi villaggi, l’unica risposta è che questa guerra ha ucciso molte persone innocenti. Sono i poveri che muoiono. E non hanno nulla a che fare con le motivazioni che portano i jihadisti per prendere il controllo della regione. Più di 500000 persone sono state costrette ad abbandonare le loro terre e comunità. Una parte di questi profughi, spesso intere famiglie, sono accolti da amici e parenti nelle altre cittadine della regione; altri vivono, in condizioni precarie, nei campi profughi costruiti dal governo. È una guerra crudele, folle, diabolica, che separa le persone». Il missionario, tuttavia, tiene a specificare che i jihadisti non compiono attacchi mirati contro le missioni cattoliche. Le incursioni hanno lo scopo di destabilizzare l’intera comunità, colpendo i servizi essenziali come gli ospedali, le scuole o le banche. E conclude «Al momento non possiamo contare sulle forze di sicurezza. Non si vede, da parte loro la capacità o la volontà di proteggere questo territorio».

Per affermarsi, questi gruppi sfruttano i risentimenti locali, la miseria, l’abbandono delle popolazioni locali da parte del governo centrale e l’arretratezza economica osservata nello sviluppo della regione. Una volta affermata la loro presenza, i gruppi terrorizzano le comunità per creare un clima di paura ma offrono anche un’alternativa ai giovani disoccupati che accettano di essere arruolati.  Il Nord del Mozambico, infatti, è una regione complessa. Ha sofferto molto durante la guerra di indipendenza (1964-1974) e durante quella civile (1977-1992) ed è una delle aree più trascurate del paese. A livello nazionale, ha i più elevati tassi di analfabetismo, disuguaglianza e malnutrizione infantile. È una delle poche province a maggioranza musulmana – mentre il resto del paese è cristiano – ma è un islam moderato che, da sempre, segue una tradizione sufi moderata. Il Mozambico, dopo aver cercato di minimizzare la minaccia, ha iniziato a schierare un numero maggiore di poliziotti e militari per controllare meglio la regione.  Un’operazione per rassicurare anche gli investitori stranieri che hanno investito milioni di dollari per lo sfruttamento dei giacimenti petroliferi nel Nord.

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Ultimi colpi di coda di un baro e dei suoi complici? https://ogzero.org/devastante-viaggio-diplomatico-in-medio-oriente-di-pompeo/ Sat, 21 Nov 2020 09:39:55 +0000 http://ogzero.org/?p=1800 Ormai sembra inevitabile che il riottoso Trump sia costretto a breve a traslocare dalla Casa Bianca, salvo colpi di scena al momento imprevedibili. Ma l’assurdo sistema statunitense riguardo al cambio di amministrazione federale consente a lui e ai suoi complici di imbastire nei mesi di interregno trame e perseguire progetti di politica estera che non […]

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Ormai sembra inevitabile che il riottoso Trump sia costretto a breve a traslocare dalla Casa Bianca, salvo colpi di scena al momento imprevedibili.

Ma l’assurdo sistema statunitense riguardo al cambio di amministrazione federale consente a lui e ai suoi complici di imbastire nei mesi di interregno trame e perseguire progetti di politica estera che non si possono certo definire nel quadro della “amministrazione ordinaria”, come sarebbe previsto dalle regole di correttezza e dalla legalità istituzionale. Lo dimostra anche lo scenario disegnato in questi giorni dal viaggio in Medio Oriente del segretario di stato Mike Pompeo.

Rottura della tradizione diplomatica Usa

Lo scenario regionale, in particolare il conflitto israelo-palestinese, è stato il contesto in cui più attiva e dirompente è stata la politica estera dell’amministrazione Trump. Interrompendo una tradizione consolidata di equidistanza, formale quanto fittizia, dei governi statunitensi tra le parti in conflitto, il presidente Usa e i suoi consiglieri si sono apertamente schierati a favore delle pretese israeliane: riconoscimento dell’annessione delle alture del Golan, spostamento dell’ambasciata Usa a Gerusalemme, affermazione del diritto di esercitare la sovranità israeliana su gran parte dei territori palestinesi occupati, attacco esplicito al diritto al ritorno dei profughi palestinesi, imposizione di un piano di pace (il cosiddetto “accordo del secolo”) che recepisce quasi tutte le richieste di Israele, senza peraltro preoccuparsi neppure di consultare l’altra parte in conflitto. Non che gli Usa siano mai stati mediatori imparziali e abbiano imposto a Israele il rispetto degli accordi firmati. Persino Obama, il presidente che è stato considerato il più ostile e a cui il governo israeliano ha fatto sgarbi diplomatici e una sorda guerra di posizione, alla fine del suo mandato ha firmato la concessione di aiuti militari più generosa da sempre. Ma nessuno era mai intervenuto in un contesto così delicato ignorando leggi internazionali, risoluzioni Onu, cautela diplomatica. Non a caso Trump si è circondato di personaggi direttamente implicati nel progetto di colonizzazione israeliana della Cisgiordania, e costoro si sono comportati di conseguenza.

Pompeo: l’uomo del secondo mandato a Trump

Almeno in Medio Oriente, gli uomini di Trump si comportano come se quest’ultimo avesse vinto le elezioni. Dopo aver affermato che «ci sarà una facile transizione verso un secondo mandato di Trump», il segretario di Stato ha intrapreso un devastante viaggio “diplomatico” in Medio Oriente. Benché l’obiettivo più ambizioso di questa iniziativa riguardi un possibile attacco contro l’Iran (che pare Trump intendesse intraprendere qualche giorno fa), arrivato in Israele Pompeo ha espresso le sue convinzioni riguardo ai presunti diritti israeliani e ha inanellato una serie di esternazioni, visite di grande significato simbolico e iniziative molto concrete. Non è sembrato il viaggio di commiato di un segretario di stato che stesse per lasciare il proprio incarico, quanto motivato piuttosto dalla volontà di rilanciare su varie questioni cruciali. Di per sé le affermazioni di Pompeo, così come il disprezzo delle leggi e della diplomazia internazionale, non hanno fatto altro che confermare quanto già si sapeva. È noto che Pompeo, come il vicepresidente Mike Pence e una parte consistente dell’elettorato di Trump, aderisce a una congregazione cristiano-sionista. Ma è stato l’atteggiamento protervo e al contempo proattivo a lasciare sconcertati molti osservatori.

Lotta al BDS, legittimazione delle colonie, divisione dei territori

Le prime hanno riguardato critiche alla legge dell’UE che prevede l’etichettatura che specifichi la provenienza di prodotti importati dalle colonie israeliane, non identificabili come israeliani. Invece secondo Pompeo le esportazioni, sia dei palestinesi che dei coloni che vi vivono, provenienti dall’Area C (secondo gli accordi di Oslo sotto totale ma temporaneo controllo da parte di Israele) devono essere considerate israeliane. Ovviamente non si tratta solo di una questione commerciale, quanto soprattutto del riconoscimento formale della situazione di fatto e dell’illegittima occupazione dei territori palestinesi da parte di Israele. In più, con un’iniziativa tragicamente grottesca, ha anche annunciato l’intenzione di etichettare in modo differenziato i prodotti palestinesi provenienti dalla Cisgiordania rispetto a quelli di Gaza. In questo caso si tratta invece della sanzione ufficiale di un altro obiettivo della politica israeliana: la separazione tra i due territori palestinesi come mezzo per favorire l’annessione della West Bank e modificarne il rapporto demografico a favore dei palestinesi. Per esempio, Israele favorisce gli spostamenti dalla Cisgiordania verso Gaza, rendendo invece particolarmente difficile il flusso in senso opposto.

Inoltre Pompeo ha definito “antisemita” e “un cancro” il movimento BDS (Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni), che lotta in modo nonviolento in difesa dei diritti dei palestinesi e del rispetto delle leggi internazionali. Ha anche promesso iniziative del governo Usa per combattere il movimento, suscitando le proteste di ong come Amnesty International e Human Rights Watch, che pure non aderiscono alla campagna ma difendono il diritto di opinione degli attivisti BDS. Poi, primo segretario di stato a farlo, si è recato sulle alture del Golan, ribadendo che si tratta di un territorio israeliano, e ha visitato l’impresa vitivinicola israeliana di Psâgot, che sorge su terreni di proprietari privati palestinesi e raccoglie le uve provenienti da altre zone palestinesi occupate ed espropriate. Lì è stato omaggiato di un vino che porta il suo cognome. In realtà il proprietario dell’azienda visitata da Pompeo non solo non avrebbe di che lamentarsi dell’obbligo di specificare la provenienza del suo vino dai territori occupati, in quanto ha dichiarato anzi che ciò gli ha permesso di aumentare le vendite. Comunque, per chi avesse qualche dubbio, Pompeo ha definito la sua visita «il semplice riconoscimento [della colonia] come parte di Israele», aggiungendo che «oggi il Dipartimento di stato degli Stati Uniti è decisamente favorevole al riconoscimento del fatto che le colonie si possono costruire in modo legale, giusto e corretto».

Insediamenti ebraici

Pompeo ha visitato da segretario di stato la colonia illegale di Psagot

Reazione disperata alla sconfitta o un passo verso il futuro?

I commentatori politici si chiedono quali possano essere le ragioni di questa iniziativa di un’amministrazione (non certo solo di Pompeo) ormai destinata a sloggiare. Oltre alle convinzioni religiose del segretario di stato, la spiegazione più banale, anche se probabilmente non del tutto ininfluente, è quella sostenuta da Douglas Macgregor, colonnello e consulente del Pentagono: «Dovete andare a vedere le persone che fanno donazioni a questi individui. [Pompeo] chiede soldi alla lobby israeliana, ai sauditi e ad altri», ha affermato in un’intervista rilasciata alla CNN. Naturalmente lo stesso discorso vale a maggior ragione per Trump, il cui principale finanziatore è stato il miliardario Sheldon Adelson, che è anche un sostenitore delle colonie e di Netanyahu.

Una pesante eredità

C’è anche una ragione più strettamente politica che può spiegare il comportamento del segretario di Stato: la sua ambizione di presentarsi come candidato repubblicano alle elezioni del 2024. La sua (ultima?) mossa potrebbe permettergli di conquistare i favori dell’elettorato filoisraeliano di Trump, a cominciare dall’Aipac, la più potente associazione della lobby filoisraeliana negli Usa.

Infine, queste iniziative lasciano un’eredità piuttosto pesante da gestire all’amministrazione entrante. Non sarà facile per Biden rinnegare quanto fatto da Trump e dai suoi consiglieri a favore di Israele, tanto più che sia lui che Kamala Harris, la vicepresidente entrante, durante la loro vita politica e la campagna elettorale hanno più volte manifestato la propria vicinanza allo Stato di Israele. Biden vanta anche un’amicizia personale con Netanyahu. Come ha scritto un commentatore del sito ebraico di notizie “Mondoweiss”: «Per poter annullare queste iniziative dell’ultimo momento, intese a legittimare ulteriormente l’annessione e delegittimare l’opposizione all’apartheid israeliana contro i palestinesi, Biden dovrà pagare costi politici molto pesanti per poterli annullare».

Come afferma Barak Obama in un brano nelle sue memorie citato dal sito “JewishInsider”: «I parlamentari e i candidati che hanno criticato la politica di Israele in modo troppo deciso hanno rischiato di essere etichettati come “anti-israeliani” (e magari anche antisemiti) e nelle elezioni successive hanno dovuto fare i conti con avversari molto ben finanziati».

Non è detto che Biden sia disposto a correre il rischio e a smantellare il quadro idilliaco dei rapporti tra Usa e Israele dipinto in questi 4 anni dall’amministrazione Trump.

 

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Non di soli contrasti tribali vive lo scontro etiope… https://ogzero.org/dispute-etniche-e-svolte-liberiste-dietro-la-guerra-in-corno-dafrica/ Wed, 18 Nov 2020 01:55:38 +0000 http://ogzero.org/?p=1775 … anzi, il sottile velo delle dispute etniche non riesce a nascondere gli interessi internazionali, il neocolonialismo che muove i protagonisti locali, la spartizione di risorse, territori, infrastrutture. I ribaltamenti dei sistemi politico-economici non possono che passare attraverso crisi apertamente belliche e quindi dal 4 novembre è scoppiata una guerra civile che può estendersi all’intera […]

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… anzi, il sottile velo delle dispute etniche non riesce a nascondere gli interessi internazionali, il neocolonialismo che muove i protagonisti locali, la spartizione di risorse, territori, infrastrutture. I ribaltamenti dei sistemi politico-economici non possono che passare attraverso crisi apertamente belliche e quindi dal 4 novembre è scoppiata una guerra civile che può estendersi all’intera area della Rift Valley.

Redde rationem trentennale nel superamento dell’etnofederalismo

Abiy Ahmed, oromo giunto rocambolescamente al potere etiope in sostituzione del “controllo” trentennale tigrino e al nobel in premio per un accordo storico con l’Eritrea, utile al primo ministro etiope per contare su naturali alleati storicamente interessati a contenere i vicini tigrini di Macallè (fin dai tempi coloniali, agevolando il compito di quelle potenze occidentali), ma indispensabile anche ad Isaias Afewerki, dittatore eritreo, per mantenere il potere concentrato nelle sue mani – ma forse la guerra può aver creato un’alleanza tra tigrini e oppositori eritrei, tanto che pare che alcuni guerriglieri siano penetrati nel territorio eritreo e dal Tigray è stato bombardato l’aeroporto di Asmara. Già due anni fa, al momento dell’accordo fortemente ricercato dai sauditi di Bin Salman, si scaricarono transfughi eritrei al confine tigrino (minato e costellato da campi profughi), folle corrispondenti a quelle che ora premono sulla frontiera che divide Etiopia e Sudan (forse 100.000).

A completare il quadro del rinnovato sciovinismo del Corno d’Africa (una scena che ha come sfondo il controllo del Mar Rosso) c’è il rischio che venga coinvolta la variegata galassia delle Somalie e il Sudan, ancora in procinto di uscire dalla transizione dopo la cacciata di al-Bashir, teatro nella provincia orientale di Cassala al confine con Eritrea ed Etiopia di scontri proprio per rivendicazioni di maggiore rappresentanza tra tribù Juba.

L’economia detta l’agenda nazional-federale

L’etnia oromo è maggioritaria nel paese ma è rimasta marginalizzata per lo strapotere del Nord, che possedendo la maggioranza delle risorse e infrastrutture del paese ed essendo al centro di vie di comunicazione, controllando l’esercito fino all’epurazione del 2018 effettuata da Abiy Ahmed, aveva potuto mantenere un sistema etnofederalista che salvaguardava non solo le componenti minoritarie, ma impediva svolte neoliberiste che invece si sono imposte nel momento in cui Abiy Ahmed ha preso il potere, cominciando a configurarsi come un regime e il timore ha preso a serpeggiare tra i cittadini etiopi.

Il premio Nobel ha ammantato l’archiviazione del sistema economico con la spinta alla riconciliazione nazionale, che vede solo la resistenza del Tigray, un’etnia con una forte percezione di sé (e della sua storia di contrapposizione al saccheggio delle proprie risorse e all’occupazione militare del proprio territorio, fin dai tempi coloniali) che individua nel cambiamento il conseguente ridimensionamento dell’autonomia regionale. Ovviamente le altre etnie, che rappresentano il 94 per cento della popolazione, mal tollerano la resistenza tigrina, perciò le milizie ahmara hanno appoggiato l’esercito di Addis Abeba intervenuto in risposta a una reazione alla provocazione dello stato centrale che ha inviato ingenti truppe in Tigray.

La percezione del momento nella società etiope

Perciò il 10 novembre 2020 durante la trasmissione “I Bastioni di Orione” sulle frequenze di Radio Blackout si è potuta sentire questa ricostruzione degli eventi fatta da un giovane emigrato etiope, evidentemente non tigrino, che sostanzialmente attribuisce alla minoranza la responsabilità della deriva violenta di queste settimane:

Ascolta “Rivolta tigrina contro il superamento dell’etno-nazionalismo di Ahmed” su Spreaker.

La testimonianza, per quanto pacata, palesa la posizione fortemente critica della maggioranza degli etiopi, probabilmente non tanto per lo strappo attuale, ma per i 30 anni di oppressione tigrina, una reazione che ha fatto parlare di rwandizzazione per descrivere la reazione antitigrina. Difficile valutare se si tratta di esagerazioni, perché Abiy Ahmed ha fatto tesoro della esperienza da ministro delle comunicazioni, quando ha imparato a gestire e controllare i flussi di informazioni telematici: infatti trapelano pochissime notizie.

Il primo tassello da cui partire per descrivere la situazione è dunque l’ancora forte determinazione della minoranza tigrina a contrastare il nazionalismo identitario di Abiy – che dapprima ha dovuto fronteggiare per lo stesso motivo le rimostranze della sua stessa etnia oromo, portato a interpretare la propensione a diluire le differenze tribali nella comune “identità” etiope come un tradimento della propria gente; in realtà la scelta è essenzialmente un cambio di orientamento del modello di sviluppo su istanza cinese, che vede nel Corno d’Africa e nel presidio dello stretto di Bab al Mandab (ovvero di Gibuti) uno snodo essenziale per la Belt Road Inititive. Per fare ciò Abiy ha bisogno di poter gestire centralmente le ingenti risorse del Tigray, di abbracciare il neoliberismo e di indicare simboli che possano rappresentare la nazione etiope, stretta attorno a lui e al suo nuovo corso: a questo scopo si presta perfettamente la Diga della Rinascita sul Nilo azzurro.

Neocolonialismo Corno d'Africa 2020

Infrastrutture, basi militari, territori contesi, vie di comunicazione nella Rift Valley

Qualche snodo storico, ma i fattori divisivi sono infiniti

La crisi del Tigray nasce dallo scontro politico con il Tpfl, che è stato a lungo il partito egemone in seno all’Ersdf: i tigrini avevano sconfitto trent’anni fa il regime comunista e deposto Menghistu (l’ultimo a lanciare un escalation militare in Tigray), gestendo il potere da allora in avanti, senza abbracciare pienamente il neoliberismo. Il Fronte tigrino si è sentito più volte preso di mira dalle riforme del nuovo premier, che intanto ha creato una propria formazione politica, il Partito della prosperità.  Nel Tigray le autorità locali hanno deciso di tenere elezioni indipendenti a settembre, quelle che erano state rinviate ad agosto con la scusa della epidemia di SarsCov2 e il Tpfl è stato riconfermato al governo regionale. Ora lo scontro è diventato militare, con il rischio che la rivalità politica si trasformi in conflitto interetnico. Mulu Nega è stato nominato da Ahmed nuovo governatore ad interim per la regione settentrionale del Tigray. Poco prima il parlamento aveva preso la risoluzione di stabilire un’amministrazione provvisoria.

Per dipanare questo groviglio ne abbiamo discusso con Angelo Ferrari all’interno della stessa trasmissione diffusa da Radio Blackout in cui avevamo proposto la ricostruzione del giovane etiope.

Ascolta “Chi sta sabotando la convivenza e l’integrazione etnica?” su Spreaker.

L’apertura liberista al capitale privato crea attriti nell’intera società; nel Tigray ancora di più; la penetrazione di militari nazionali nella regione settentrionale è quindi vista come intrusione e ha fatto esplodere gli attacchi di Macallè. Si rischia l’esatto opposto del tentativo di unificare: la frammentazione perché ciascuno non si sente rappresentato a sufficienza e la repressione di Addis Abeba può incendiare l’intera area. Intanto sono già 25.000 gli sfollati e innumerevoli i morti (si parla di 500 solo nel massacro del 10 novembre a Mai-Kadra, in Tigray).

Ancora uno scambio di opinioni tra i redattori dei “Bastioni di Orione” di Radio Blackout e l’analista di eventi africani Angelo Ferrari

Ascolta “Nazionalismo e svolta liberista di Ahmed” su Spreaker.

Traffici d’armi e colonialismo

Nel 2019 il governo giallo-verde aveva stipulato attraverso la ministra Trenta accordi militari con il presidente-nobel_per_la_pace_Ahmed: «Difesa e sicurezza, formazione e addestramento, assistenza tecnica, operazioni di supporto alla pace… trasferimento di struttura d’arma e apparecchiatura bellica… è auspicata la promozione di iniziative finalizzate a razionalizzare il controllo sui prodotti a uso militare»; lo smercio di armamenti è comune ai precedenti governi italiani, soprattutto di centrosinistra, che avevano appoggiato la parte eritrea, ora già coinvolta con esplosioni all’Asmara perché Macallè accusa il regime di Afewerki di appoggiare Ahmed, inoltre le milizie ahmara si sono schierate subito con Addis Abeba. Duecento ufficiali tigrini inquadrati nell’African Union Mission in Somalia sono stati disarmati; l’isolamento è totale, probabilmente perché tutte le forze che agiscono in quello scacchiere temono si estenda l’incendio e scommettono sul ridimensionamento del peso del Tigray sull’area.

Colonialismo novecentesco in Corno d'Africa

Etnie e date fondamentali nella corsa novecentesca al Posto al sole

Il mai realmente sopito colonialismo italiano sta cercando di tornare a essere protagonista nel Corno d’Africa, perché gli interessi energetici e di appalti per infrastrutture (la Diga della Rinascita vede allignare ditte italiane nella costruzione progetta a Pechino) fanno gola come il Posto al sole di memoria mussoliniana… e quindi soffierà sul fuoco della guerra in un’area popolata dagli apparati militari di tutte le potenze mondiali (a Gibuti sono presenti compound militari di tutte le potenze globali), che si stanno accaparrando fette di un territorio che controlla traffici, merci, risorse. Una vera operazione neocoloniale nascosta sotto la cooperazione allo sviluppo.

Ascolta “Etiopia meta del complesso militar-industriale italiano” su Spreaker.

Le nazioni sono al soldo di potenze straniere per ridisegnare la geopolitica internazionale come avvenne nel periodo coloniale classico: tutte le potenze sono intente a controllare il passaggio del Mar Rosso da Aden a Suez (infatti a Gibuti, snodo essenziale del Belt Road Initiative, sono presenti tutti i contingenti militari) e ogni mossa è un riposizionamento strategico

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È cambiato qualcosa sotto i Cedri? https://ogzero.org/e-cambiato-qualcosa-sotto-i-cedri/ Tue, 10 Nov 2020 16:36:14 +0000 http://ogzero.org/?p=1713 Rappresentanze variabili solo all’università? Lo scorso 8 ottobre dal Libano una notizia è passata in sordina sui media internazionali, forse troppo in fretta considerata propria di una dimensione prettamente locale. Alle elezioni del Consiglio studentesco della Lebanese American University (Lau), per la prima volta nella storia dell’istituto, i candidati indipendenti hanno vinto tutti i seggi […]

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Rappresentanze variabili solo all’università?

Lo scorso 8 ottobre dal Libano una notizia è passata in sordina sui media internazionali, forse troppo in fretta considerata propria di una dimensione prettamente locale. Alle elezioni del Consiglio studentesco della Lebanese American University (Lau), per la prima volta nella storia dell’istituto, i candidati indipendenti hanno vinto tutti i seggi per cui gareggiavano, contro i ben più quotati e ben meglio “posizionati” candidati delle Forze libanesi (partito della destra cristiana nazionalista) e di Amal (partito sciita del presidente del parlamento, Nabih Berri, e alleato di Hezbollah).

Nel campus di Beirut, i candidati indipendenti – espressione nemmeno troppo indiretta dei moti di protesta anti-establishment esplosi in Libano il 17 ottobre 2019 – hanno ottenuto la maggioranza con 9 seggi su 15, concedendo ai candidati di Amal e delle Forze libanesi rispettivamente 4 e 2 seggi. Alle precedenti elezioni del 2019, avvenute poco prima dell’inizio delle proteste, gli indipendenti avevano ottenuto 2 seggi, contro gli 8 della coalizione composta da Forze libanesi, Futuro e Partito socialista progressista e i 5 di Amal e dei suoi alleati minori. Nel campus di Byblos, a nord della capitale, gli indipendenti hanno comunque ottenuto 5 seggi, i primi della storia dell’ateneo, contro i 9 delle Forze libanesi e solo uno per Amal.

I giovani non cedono più

«È cambiato qualcosa», dice a dire il vero senza troppa convinzione Mayssa, ex studentessa della Lau e sorella di Asma, che ha accompagnato all’Università il giorno della pubblicazione dei risultati. «Questo forse significa che i giovani non cedono più, e sono convinti che ci voglia un cambiamento. Cinque anni fa, quando ho votato io, mi ricordo i responsabili della campagna delle Forze libanesi, che arrivavano a offrire 200 dollari per un voto. Anche io una volta li ho accettati, sono sincera, non mi interessava la politica ed erano tanti soldi», aggiunge, mentre la sorella la prende bonariamente in giro.

Duecento dollari, in Libano, erano già una cifra considerevole prima della crisi economica che ha raggiunto il suo apice nel corso di quest’anno, e che ha fatto perdere alla lira libanese l’80 per cento del suo valore. Quando il tasso di cambio – mantenuto artificialmente stabile dalla Banca centrale, prima di schizzare fuori controllo da novembre 2019 – tra lira e dollaro era di 1,5, il salario minimo nel Paese dei Cedri ammontava a 450 dollari, anche se è alta la quota di popolazione che in Libano svolge lavori informali. Ora che il cambio si aggira sui 7 nel mercato nero, dopo essere arrivato anche a 10, quei duecento dollari non solo varrebbero oro ma sarebbero impossibili da reperire, perché le banche libanesi da 10 mesi hanno imposto severi limiti ai prelievi e il blocco dei conti in dollari. Se fino a due anni fa dollari e lire venivano usati indifferentemente sul mercato – al tasso di 1,5 –, oggi è del tutto impossibile, per un libanese, trovare della valuta forte sul mercato interno, a meno di non volerla cambiare a un tasso che gli prosciugherebbe il conto in banca.

Potere d’acquisto dissolto: la crisi è inarrestabile

Il paese è in una situazione di inarrestabile crisi economica, sociale, bancaria, procedurale e fiduciaria, che vede i libanesi in condizioni molto peggiori anche solo rispetto a un anno fa. Ha dichiarato il fallimento tecnico a marzo, dopo il mancato rimborso di 700 milioni in eurobond, fa i conti con uno dei debiti pubblici più alti al mondo, cresciuto del 2120 per cento dal 1990 a oggi), la scomparsa della classe media, una disoccupazione vicina al 40 per cento, un tasso di povertà del 50 per cento (contro il 28 di meno di due anni fa) e, secondo gli studi di Steve Hanke, professore di Economia applicata della Johns Hopkins University, è il primo stato del Medioriente ad aver sperimentato l’iperinflazione (413 per cento nell’ultimo anno).

Tutto ciò si è aggiunto a una preesistente mancanza o profonda carenza infrastrutturale – l’assenza di una rete elettrica nazionale che garantisca elettricità 24 ore su 24, l’assenza del trasporto pubblico e una tragica gestione dei rifiuti –, legata in parte alla corruzione endemica, in modo non dissimile da come quest’ultima alimenta le enormi sperequazioni economiche, e le differenze abissali tra il 5 per cento più ricco e il 20 per cento più povero in termini di sviluppo umano: il Libano è un paese dove, secondo le Nazioni Unite, l’1 per cento della popolazione detiene circa il 25 per cento del reddito nazionale. Un paese in cui, forse non a caso, i principali istituti di credito fino a due anni fa realizzavano profitti in alcuni casi superiori a quelli dei maggiori istituti britannici, come Standard Chartered, e nel quale almeno un quinto della popolazione vive in campi profughi, in condizioni di enormi difficoltà.

17 ottobre 2019: esplode il Movimento anti-establishment

Più che la pluricitata “tassa su whatsapp”, a provocare la rabbia dei libanesi, innescando il 17 ottobre 2019 una protesta anti-establishment improvvisa, trasversale, altamente partecipata, era stata proprio l’ennesima dimostrazione di carenze infrastrutturali e di negligenza, con la disastrosa gestione da parte delle autorità degli incendi scoppiati nelle foreste dello Chouf in quei giorni. Accortesi con colpevole ritardo della inagibilità dei velivoli antincendio Sikorski, che avrebbero necessitato di manutenzione, hanno dovuto chiedere aiuto a Cipro e Giordania.

Quel 17 ottobre, e almeno per altre due settimane senza mai veder intaccato il livello di partecipazione massiva (per poi comunque stabilizzarsi per mesi su cifre inferiori ma non trascurabili), migliaia di libanesi erano sembrati destarsi all’improvviso dalla loro condizione di “prigionieri di una garanzia”. La (percezione di una) “garanzia”, in particolare per le vecchie generazioni, sta nel confessionalismo, il particolare framework che regola la repubblica parlamentare libanese.

A ognuna delle diverse comunità libanesi – quelle cristiane e musulmane, divise nei vari riti, quella drusa e quella armena – viene garantita la rappresentanza in parlamento e nelle istituzioni pubbliche, con un sistema elettorale che permette a ogni libanese di votare unicamente per il candidato della propria confessione, che corre per il seggio a essa assegnato in una data area, sia nel voto municipale che in quello nazionale. Questo ordine delle cose, soprattutto agli occhi di chi ha vissuto il periodo della guerra civile (1975-1990), costituisce una sorta di assicurazione di rilevanza e rappresentatività, oltre che una tutela contro le eventuali dittature di maggioranze confessionali ai danni delle altre, in un paese in cui tanti over 50 hanno delle remore a metter piede in aree del paese popolate da appartenenti a confessioni che non sono le loro.

Questa garanzia, tuttavia, è anche l’alimento ideale del settarismo, e nutre una realtà in cui le appartenenze confessionali sembrano essere prioritarie rispetto a quella nazionale. Ognuno ha un’idea diversa di cosa sia e di chi sia il Libano, un aspetto ben esemplificato dal fatto che i manuali di storia dei licei arrivano al 1943, anno dell’indipendenza, e si guardano bene dall’affrontare i decenni successivi: men che mai la guerra civile, sulla quale ogni comunità ha la sua ricostruzione, i suoi colpevoli e i suoi innocenti, e dopo la quale non è mai avvenuto un vero processo di riconciliazione nazionale.

Il settarismo, a sua volta, si è dimostrato un ottimo recipiente di corruzione, o di un sistema che può essere definito neopatrimoniale, in base al quale i leader politici si assicurano la fedeltà degli elettori della loro comunità in cambio della concessione di agevolazioni, di un lavoro, dell’iscrizione scolastica dei figli, e della fornitura di servizi che dovrebbero essere forniti dallo stato. In molti, in Libano, sono allo stesso tempo prigionieri e beneficiari di questa logica, e molte delle persone scese in piazza hanno rivendicato proprio questa condizione: essere in sostanza costretti a votare gli stessi leader settari e corrotti, che in cambio del voto – e in virtù del controllo che esercitano sull’economia libanese – sono gli unici in grado di promettergli benefici, che talvolta risultano vitali. È quello che in Libano definirebbero wasta, e in Italia “raccomandazione”, anche se il significato è più esteso e la sua applicazione più pervasiva e sistematica, poiché in Libano è quasi impossibile trovare un lavoro senza la connessione diretta o indiretta col leader politico settario che ha interessi o potere in quell’azienda privata o in quell’istituzione pubblica. La corruzione, in Libano, mette tutti d’accordo: ormai nessuno, nemmeno i politici locali sotto l’occhio del ciclone proprio per esserne gli alfieri, rinuncia a menzionarla come il principale problema, testimoniato dal 127esimo posto nella classifica di Transparency international.

5 agosto 2020: esplode il porto di Beirut… ma qualcosa è cambiato?

L’inasprirsi della crisi economica, contestuale all’avvento della pandemia, a cui si è aggiunta l’esplosione al porto di Beirut, ha via via eroso il volume di partecipazione alle proteste, che ora sembrano attraversare una fase di stanca sia per il venir meno nelle piazze di chi un anno fa aveva da mangiare e oggi fa molta più fatica, sia per via di divisioni legate al timore di strumentalizzazioni della protesta da parte dei partiti settari che oggi sono all’opposizione, e che possono “giocare” sul malinteso tra moti anti-establishment e moti antigovernativi. Si è in certa misura insinuata – soprattutto tra i meno giovani che hanno partecipato – l’idea che la protesta, rimasta sempre “acefala” e non confessionale, potesse in realtà essere manipolata da alcune comunità sulle altre, che poi è lo stesso timore legato alla fine repentina del confessionalismo che i giovani più attivi hanno chiesto a gran voce, forse senza chiedersi fino in fondo quali garanzie possano saltare nel breve termine.

Tuttavia la strada in quella che rimane, a differenza dei regimi della regione incalzati dalla Primavera araba, una democrazia perlomeno sulla carta, è quella perseguita nelle elezioni alla Lau, anche se alle ultime elezioni parlamentari di due anni fa la piattaforma “Kilna Watani” ha ottenuto due soli seggi, nonostante il movimento di anti-establishment si fosse strutturato già dal 2015, l’anno della protesta contro la gestione dei rifiuti. Jad, che quando sono iniziate le proteste ha lasciato il suo lavoro ben pagato negli Emirati arabi uniti per ritrasferirsi nel suo Libano, dove è ancora disoccupato, non ha dubbi: «I partiti sono macchine di propaganda e di corruzione, lo sappiamo che alle prossime elezioni l’80 per cento di quelli che sono in parlamento ci ritorneranno. Ma dobbiamo provarci anche se la strada è lunga, perché qualcosa è cambiato».

La foto di copertina è di Layal Jebran.

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Trump o Biden? Per i palestinesi pari sono https://ogzero.org/trump-o-biden-per-i-palestinesi-pari-sono/ Fri, 06 Nov 2020 18:21:05 +0000 http://ogzero.org/?p=1674 Mentre il mondo è in trepida attesa che il bizzarro sistema elettorale statunitense consenta di sapere chi sarà l’uomo più potente del pianeta nei prossimi quattro anni, c’è chi sa già di non potersi aspettare niente di buono, comunque vada: i palestinesi. Non che non ci siano novità rilevanti. Per esempio, queste elezioni segnano il […]

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Mentre il mondo è in trepida attesa che il bizzarro sistema elettorale statunitense consenta di sapere chi sarà l’uomo più potente del pianeta nei prossimi quattro anni, c’è chi sa già di non potersi aspettare niente di buono, comunque vada: i palestinesi.

Non che non ci siano novità rilevanti. Per esempio, queste elezioni segnano il divorzio forse definitivo tra gli ebrei israeliani e quelli americani. Mentre nei sondaggi più del 63 per cento dei primi si augura la vittoria di Trump, Biden ha ottenuto l’appoggio di oltre il 70 per cento dei secondi. Solo tra gli ebrei ortodossi (circa il 10 per cento della comunità ebraica nordamericana) c’è una netta maggioranza a favore di Trump. Questa differenza di posizioni si era già manifestata in precedenza, per esempio nel caso di Obama, esecrato in Israele ed entusiasticamente votato dagli ebrei statunitensi. Tuttavia questa volta la polarizzazione esasperata indotta da Trump e le politiche sempre più razziste e annessioniste di Netanyahu sostenute dal presidente suprematista sembrano aver scavato un solco difficile da rimarginare, come sostiene Sylvain Cypel nel suo L’État d’Israël contre les juifs (Paris, La Découverte, 2020, pp. 237-262).

Trump: antisemita e filoisraeliano

È vero che l’elettorato ebraico è sempre stato più propenso a votare democratico, ma in questo caso evidentemente chi vive negli Stati Uniti è particolarmente preoccupato per le cattive frequentazioni, il razzismo più o meno esplicito e le tendenze autocratiche dell’inquilino della Casa Bianca. Durante incontri con organizzazioni ebraiche l’attuale presidente ha più volte accusato gli ebrei americani di essere sleali nei suoi confronti, dato tutto quello che ha fatto per Israele, e affermato che Israele «è il vostro paese» e che «Netanyahu è il vostro primo ministro». Si tratta di affermazioni che molti considerano antisemite. Infatti implicano che in realtà gli ebrei non sono a tutti gli effetti cittadini statunitensi, che il loro posto, il loro paese, è altrove. Ed è nota la vicinanza di Trump a gruppi suprematisti bianchi, il cui antisemitismo si è manifestato anche in episodi sanguinosi, come nel caso dell’attacco terroristico dell’ottobre 2018 contro una sinagoga conservatrice (che, a dispetto del nome, è una corrente religiosa ebraica non dogmatica) a Pittsburgh, costato la vita a 11 persone. La partecipazione di Trump alle esequie venne accompagnata da manifestazioni ostili, anche da parte della comunità ebraica locale, con slogan come le parole hanno un significato e costruiamo ponti e non muri, in riferimento all’ambiguità del presidente rispetto alle violenze dell’estrema destra e alle sue politiche contro l’immigrazione.

Trump ha fatto di tutto per ingraziarsi Israele e i suoi sostenitori. Da subito si è circondato di finanziatori di colonie, come il genero e consigliere per il Medio Oriente Jared Kushner e l’ambasciatore in Israele David Friedman, in precedenza suo avvocato. Ha nominato Mike Pompeo, un cristiano-sionista, segretario di stato. Uno dei suoi principali finanziatori è il miliardario Sheldon Adelson, altro benefattore delle colonie. Non si può dire che Trump abbia deluso la destra israeliana.

Accolti e ispirati tutti i più reconditi sogni sionisti

Nei quattro anni al potere, ignorando totalmente il diritto internazionale e l’Onu, ha riconosciuto la sovranità israeliana sulle Alture del Golan occupate, ha spostato l’ambasciata degli Usa a Gerusalemme, ha tagliato gli aiuti all’Autorità nazionale palestinese e all’agenzia Onu che si occupa dei rifugiati infine ha affermato, come Israele, che non vanno più considerati tali. Ha proposto il cosiddetto “accordo del secolo”, che ignora praticamente ogni rivendicazione dei palestinesi. Esso prevede per loro uno stato frammentato, su modello dei bantustan sudafricani, ossia la formalizzazione dell’attuale situazione sul terreno, e quindi della colonizzazione israeliana dei territori palestinesi occupati. Ha spinto Emirati arabi uniti, Bahrein e Sudan a firmare accordi “di Abramo” per normalizzare le relazioni con Israele, rompendo il fronte solidale con i palestinesi. Negli ultimi giorni della campagna elettorale la sua amministrazione ha preso due iniziative clamorose.  Prima il segretario di Stato Mike Pompeo ha proposto di inserire nella lista delle organizzazioni antisemite alcune importanti ong per i diritti umani critiche con Israele, tra cui Amnesty International, Human Rights Watch e Oxfam. Poi l’amministrazione americana ha firmato un accordo che annulla il veto ai finanziamenti provenienti da Washington alle istituzioni scientifiche che si trovano nelle colonie, in particolare all’università di Ariel, già lautamente foraggiata da Adelson. Trattandosi di un accordo internazionale, la prossima amministrazione statunitense non potrà annullarlo unilateralmente. Oltre agli ovvi vantaggi economici, si tratta di un riconoscimento di fatto delle colonie israeliane, illegali in base al diritto internazionale.

Sette evangeliche, coloni e millenarismo cristiano-sionista

La predilezione di Trump per Israele non deriva solo dalla vicinanza con le posizioni nazionaliste e razziste che dominano ormai da anni il paese. Una parte consistente, e determinante per numero e attivismo, dell’elettorato dell’attuale presidente è rappresentato dalle sette evangeliche cristiano-sioniste. Non a caso due pastori di queste congregazioni hanno partecipato all’inaugurazione dell’ambasciata statunitense a Gerusalemme. Si tratta di decine di milioni di fedeli, con posizioni molto conservatrici. Nell’ultimo numero de “L’Espresso” un articolo su di loro li descrive come tradizionalisti e antiabortisti, ma tace sulla loro allucinata visione escatologica che li porta a sostenere ciecamente Israele: il ritorno di tutto il popolo ebraico nella Terra promessagli da dio porterà alla fine del mondo e al giudizio universale. A quel punto gli ebrei che non si convertiranno alla vera fede verranno condannati alle pene dell’inferno. Il sionismo cristiano, risalente al cristianesimo apocalittico medievale, ha preceduto anche in epoca contemporanea il sionismo ebraico. Questa teologia millenarista corrisponde significativamente (tranne che per l’esito finale) con quella dei coloni israeliani più estremisti, come per esempio i nazional-religiosi di cui fa un quadro Renzo Guolo in Terra e redenzione. Il fondamentalismo nazional-religioso in Israele (Milano, Guerini e associati, 2005). Per loro la riconquista di tutta la terra dei padri (che, a seconda delle interpretazioni, può includere buona parte del Medio Oriente, e sicuramente tutta la Giordania) porterà alla comparsa del messia e alla liberazione dell’umanità. Sia per i nazional-religiosi che per i cristiano-sionisti un passo fondamentale è rappresentato dalla ricostruzione del Terzo Tempio sul luogo dove ora si trova la Spianata delle Moschee. Di questa teologia apocalittica, estremamente radicale e pericolosa, non si parla praticamente mai nelle cronache dal Medio Oriente, oppure viene considerata alla stregua di un’innocua bizzarria. Eppure vari deputati della Knesset e ministri dei governi Netanyahu fanno parte di questo movimento strettamente legato ai coloni più estremisti. Il rapporto tra le due correnti religiose è talmente stretto e il favore di cui godono i cristiano-sionisti presso il governo israeliano è tale che, nonostante il blocco determinato dalla seconda ondata del Covid-19, a una sessantina di cristiano sionisti è stato consentito di entrare in Israele per aiutare i coloni israeliani nella vendemmia.

Differenze apparenti, prassi consolidate

Ma la propensione a votare Biden da parte della comunità ebraica americana non significa di per sé un allontanamento da Israele, anche se la spudorata identificazione di Netanyahu con Trump ha alienato almeno in parte le simpatie nei confronti dell’attuale governo israeliano. Nonostante le note differenze tra i due candidati alla Casa Bianca, sulla questione del conflitto israelo-palestinese c’è un sostanziale accordo. Le differenze sono più di metodo che di merito. C’è da supporre che, se eletto, Biden sarà un presidente più felpato e non si muoverà con la delicatezza di un elefante in una cristalleria come il suo predecessore. Il candidato democratico è stato il vicepresidente di Obama, che ha più volte manifestato insofferenza, anche a livello personale, nei confronti delle intemperanze e della sfrontatezza di Netanyahu. L’accordo sul nucleare iraniano e il tentativo fallito di congelare la colonizzazione della Cisgiordania hanno messo i due politici in palese conflitto. Ma a fine mandato lo stesso Obama ha firmato un accordo per la concessione di aiuti militari a Israele: 10 miliardi di dollari in 10 anni, una cifra senza precedenti nella storia della politica estera statunitense.

Biden e Harris; un amore condizionato per Israele

La campagna per le primarie democratiche e poi per le presidenziali ha dimostrato la condiscendenza di Biden nei confronti di Israele. Su pressione della lobby israeliana, dal programma elettorale del partito democratico è stata tolta la definizione di Israele come “potenza occupante”. Inoltre il candidato democratico ha dichiarato che manterrà l’ambasciata americana a Gerusalemme occupata e appoggerà l’accordo di Abramo promosso da Trump tra Israele e alcuni paesi arabi. Pur affermando di essere a favore della soluzione a due stati (ormai di fatto impraticabile), ha dichiarato che si opporrà in tutti i modi a ogni risoluzione dell’Onu che condanni le violazioni del diritto internazionale da parte di Israele. Quanto alla sostanza di quanto avviene sul terreno, se sarà eletto riprenderà l’estenuante manfrina dei “negoziati di pace”, che non sono altro che la foglia di fico diplomatica che ha finora consentito a Israele di continuare con la colonizzazione e l’occupazione. Inoltre pare che abbia un ottimo rapporto personale con Netanyahu. Infine Tony Blinken, consigliere di Biden, ha garantito l’impegno del futuro presidente per contrastare il movimento per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni (Bds) contro Israele.

Per parte sua, Kamala Harris, candidata alla vice-presidenza, è ancora più filoisraeliana di Biden. Ha affermato che gli aiuti militari a Israele non saranno subordinati alle decisioni politiche del suo governo, garantendo implicitamente che non ci saranno reazioni significative nel caso in cui Israele annetta parte dei territori occupati. Harris ha partecipato a vari incontri con le organizzazioni della lobby filoisraeliana. Suo marito, l’avvocato ebreo Douglas Emhoff, durante un comizio in Florida ha affermato che per la moglie «Israele non è un gioco politico. Il suo futuro come stato ebreo e democratico sicuro non è negoziabile. Ve lo posso assicurare».

C’è infine da aggiungere che, oltre alle rispettive convinzioni personali, Biden e Harris devono adeguare la propria posizione agli interessi dei principali finanziatori della loro campagna elettorale, tra cui ci sono alcuni potenti gruppi e personaggi che appoggiano attivamente Israele.

Comunque Israele non sta perdendo tempo. La coordinatrice umanitaria dell’Onu per i territori palestinesi occupati ha denunciato che martedì scorso, proprio durante il voto Usa, forze israeliane hanno distrutto il villaggio palestinese Khirbet Humsa, lasciando senza casa 73 persone, tra cui 41 minori, nel pieno dell’autunno e con l’incombere dell’epidemia di Covid-19.

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Il vecchio sogno sionista lambisce il Sudan https://ogzero.org/il-vecchio-sogno-sionista-lambisce-il-sudan/ Wed, 28 Oct 2020 16:23:30 +0000 http://ogzero.org/?p=1628 Geopolitica. Termine attorno al quale prolificano think-tank di ogni colore con il compito di spiegare i disastri del nostro mondo: quello di ieri, di oggi e purtroppo del futuro. C’è un altro detto o termine più profondo e analitico, quasi banale, che ci può aiutare a comprendere da dove cominciare quasi ogni analisi. Qualcuno, senza […]

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Geopolitica. Termine attorno al quale prolificano think-tank di ogni colore con il compito di spiegare i disastri del nostro mondo: quello di ieri, di oggi e purtroppo del futuro. C’è un altro detto o termine più profondo e analitico, quasi banale, che ci può aiutare a comprendere da dove cominciare quasi ogni analisi. Qualcuno, senza prove o indizi validi, sostiene che ha origini arabe; altri si rifanno a un trattato di strategia militare di uno scrittore indiano. La verità, probabilmente, coinvolge, come troppi dei disastri del nostro mondo, la Bibbia e i suoi derivati. Nel suo secondo libro (Esodo 23.22), riferendosi a Dio è scritto: «Se tu ascolti la sua voce e fai quanto ti dirò, io sarò il nemico dei tuoi nemici e l’avversario dei tuoi avversari». In italiano, senza troppi fronzoli: «Il nemico del mio nemico è amico mio». Fu, nel 1971, monsignor Ubaldo Calabrese, nunzio apostolico con sede a Kartum a spiegarmi, con un sorriso e le cautele appropriate per un rappresentante ufficiale della Santa Sede, i giochi complessi della guerra civile che da quindici anni tormentava il Sudan meridionale.

La lunga mano del Vaticano

Non mi fece il nome di “Tarzan” (non mi riferisco a quello dei film con Jane e la scimmietta al seguito, ossia il personaggio di Edgar Rice Burroughs) ma tra una forchettata di rigatoni preparati con amore dalle suore che gestivano la nunziatura nella capitale sudanese e un bicchiere di vino, non ebbe difficoltà ad attribuire a Israele e ai suoi servizi segreti esteri – il Mossad – l’addestramento degli anya-anya che lottavano contro gli arabi musulmani del nord. Non andò oltre il sorriso quando gli chiesi se fosse vero, come raccontavano molte fonti (compresi gli stessi israeliani) che a finanziare la rivolta c’era anche la Caritas, lunga mano del Vaticano non sempre controllata dal Papa. Da anni la Chiesa cattolica, attraverso i colti missionari comboniani e altri gruppi religiosi, operava in tutto il paese, ma soprattutto tra i neri delle regioni meridionali quasi tutti animisti, per avvicinarli al Dio di Roma e difenderli contro i musulmani che controllavano le regioni settentrionali di quello che era, allora, lo stato più esteso – e, aggiungo io, più affascinante – del continente africano.

Tel Aviv e Kartum vanno a braccetto: il ricatto americano

Prima di cercare di spiegare i grandi giochi che stanno portando a un accordo di pace (o qualcosa di simile) tra il governo di Kartum e quello di Tel Aviv attraverso la mediazione-ricatto americano, facciamo un passo indietro al 1971 e l’ultimo capoverso di quanto scrissi in un lungo reportage da Juba (o Giuba), capoluogo della regione di Equatoria, per “Il Messaggero”.

«Uno degli elementi che rendono difficile, oggi, una soluzione del problema meridionale è il contesto che esso ha assunto nel quadro della situazione del Medio Oriente e nei rapporti tra le grandi potenze. Nimieiri [allora leader sudanese, N.d.R.] ha firmato accordi con il Ciad e con l’Etiopia cercando così di limitare l’attività dei consiglieri israeliani che operavano da basi in questi paesi. Come contropartita ha dovuto sospendere il suo appoggio al Frolinat, il Fronte di liberazione del Ciad, e al Fle, il fronte di liberazione dell’Eritrea. Dall’altra parte la presenza russa in Sudan e la posizione di questo paese nello schieramento arabo sono tra i fattori che giustificano gli sforzi di Tel Aviv di appoggiare i disordini nelle province meridionali. Potrebbe influire su questa linea di condotta l’eventuale composizione della vertenza meridionale e la svolta a Occidente del governo di Kartum concretizzata nell’ultimo mese con l’arresto di decine di membri del comitato centrale del Partito comunista e con l’invito fatto ad alcuni grandi complessi economici europei di interessarsi direttamente allo sviluppo del paese attraverso grossi investimenti nei settori agricolo e industriale».

Perché da 15 anni il Sudan è lacerato da un conflitto interno che oppone il Nord al Sud

Molta acqua è passata sotto i ponti del Nilo da allora – mezzo secolo di violenza, antagonismo, morte – e dall’altro giorno la Repubblica del Sudan, ormai diviso legalmente dal Sudan del Sud, sembra avviata a un accordo di pace e amicizia con Israele. Si combatte, ancora, in molte regioni delle due nazioni e le incertezze riguardo il futuro dei due stati africani non mancano. Per tentare di comprendere la situazione attuale e la sua, diciamo, politica estera è utile tornare alle origini del Sudan, paese indipendente dal 1956 quando le potenze coloniali – Regno Unito ed Egitto – si ritirarono ufficialmente. Già allora uomini d’affari israeliani e il Mossad si avvicinarono al nuovo governo di Kartum con offerte di aiuti economici e altro con lo scopo evidente di mettere i bastoni tra le ruote delle alleanze panarabe contro Israele.

Gli sforzi di Tel Aviv non furono capaci di vincere sul richiamo del carismatico leader egiziano Nasser e dopo uno dei tanti golpe militari il Sudan si schierò con il resto del blocco nazionalista arabo fino a inviare un minuscolo contingente militare a combattere a fianco dei soldati del Cairo nella Guerra dei sei giorni del 1967. Erano gli anni in cui gli schieramenti locali rispecchiavano lo scontro Usa/Urss e le forze armate sudanesi erano equipaggiate e addestrate da Mosca. Incontrai i loro consiglieri militari nel Sudan meridionale; il ministro della Difesa del Cremlino a Kartum intanto osservava fiero i carristi sudanesi che sfilavano per la festa della rivoluzione. Facevano poco per nascondersi. Tanto chi doveva sapere, sapeva tutto.

Tarzan del Mossad

Fu allora che, con il beneplacito di Washington, entrò in scena “Tarzan”, o meglio David Ben Uziel, con un gruppo scelto di agenti. Il loro compito: aiutare le tribù del Sud Sudan nella loro lotta storica contro il governo centrale di Kartum. Da basi in Kenia e Uganda piloti israeliani paracadutarono armi e munizioni ai ribelli mentre “Tarzan” e i suoi specialisti addestravano i ribelli e li guidavano nei loro attacchi contro le istallazioni militari delle truppe arabe musulmane.

Molte furono le imboscate ed efficace dal punto di vista della guerriglia la distruzione dei pochi ponti sul Nilo bianco. La guerra civile finì entro la metà degli anni Settanta ma il Mossad, come in molti paesi africani, aveva consolidato le sue posizioni in tutto il Sudan. Amicizie e ricatti consentirono agli israeliani di utilizzare conoscenze e basi segrete per far uscire dall’Etiopia gli ebrei neri – i cosiddetti “falascià” – di quel paese. Successivamente, quando il governo di Kartum si era troppo avvicinato all’Iran degli ayatollah, gli agenti segreti di Tel Aviv ormai di casa in Sudan, guidarono i loro cacciabombardieri che colpivano depositi e fabbriche di armi allestiti da o per conto di Teheran. Tutto questo mentre il Sud Sudan, divenuto indipendente, si rivolse a Israele per armarsi e in funzione di un’altra guerra civile tra gruppi tribali rivali in una competizione per il controllo delle risorse petrolifere locali.

Con la deposizione nell’aprile 2019, dopo trent’anni al potere, del generale Omar Hasan Ahmad al-Bashir, le cose cominciarono a cambiare anche nel Sudan (del Nord) non più considerato uno stato canaglia retto da un dittatore colpito da un mandato di cattura dalla Corte internazionale di Giustizia per crimini contro l’umanità. Stati Uniti e Israele avviarono contatti immediati con il nuovo regime, fragile e ancora senza legittimità costituzionale. Da anni, ormai, il nemico principale di Israele e di molti nemici d’Israele era diventato l’Iran. Le divisioni del mondo islamico erano venute al pettine e stavano trascinando soprattutto il Vicino Oriente verso lo scontro armato tra sunniti e sciiti. E così, l’elegante – non meno di James Bond – capo del Mossad, Yossi Cohen, uno 007 con licenza non solo di uccidere ma di fare politica internazionale, va tessendo per volere del premier Netanyahu, le nuove alleanze quanto meno tattiche di Tel Aviv.

Dopo i baci e abbracci tra gli israeliani e i leader degli Emirati e il Bahrein, ministati in cui le famiglie regnanti sono sunnite e la maggioranza delle popolazioni sciita, ora, spronato o meglio ricattato dal presidente americano Trump, anche il governo provvisorio del Sudan si è detto interessato ad avvicinarsi a Israele. Come ha fatto capire anche l’Oman e, con frasi costruite per cercare di non dimenticare la causa palestinese, anche alcuni dei leader dell’Arabia saudita, paese che da anni ha stretti rapporti di collaborazione con le autorità militari israeliane e con il Mossad. Sapremo di più nei prossimi giorni. Ma ci vorrà molto di più per comprendere in quale direzione andranno le cose nel vasto turbolento scacchiere mediorientale dove dominano due elementi: la questione sciita-sunnita da una parte e la consapevolezza che il petrolio, arma economica dei regni totalitari arabi del deserto, sta finendo.

Ascolta “Israele compra a saldo paesi arabi” su Spreaker.

Sarebbe sufficiente la fine del regime degli eredi di Khomeini per sbaragliare il quadro generale. E favorire il ritorno alla vecchia alleanza preferita da Israele: un rapporto privilegiato con l’Iran, paese a maggioranza musulmana che non ha mai partecipato alle guerre arabe contro Tel Aviv. E che negli anni in cui regnava lo Scià, aveva stabilito una forte amicizia anche con il Sudafrica dell’apartheid. Il Mossad, già allora arma letale del giovane stato sionista, addestrava i torturatori iraniani del Savak e quelli non meno feroci dei servizi segreti di Pretoria. Oggi, come sappiamo, il fronte è cambiato nel rispetto dell’equazione “il nemico del mio nemico è amico mio”: Israele e i paesi arabi sunniti contro l’Iran sciita. La loro parola d’ordine: impedire al regime degli ayatollah di ottenere un’arma nucleare. Paradossalmente, poco prima della rivoluzione che portò alla destituzione dello Scià, Israele, per ordine di uno dei suoi più noti leader storici, Shimon Peres padre della tecnologia bellica nucleare israeliana, stava per consegnare all’Iran gli strumenti per la costruzione di uno stabilimento atomico. Furono gli stessi anni in cui Tel Aviv sperimentò nelle acque a sud delle coste del Sudafrica razzista la sua prima bomba, molte volte più potente di quelle lanciate su Hiroshima e Nagasaki. Oggi Israele ha un arsenale stimato in più di cento testate nucleari montate su razzi terra-terra, caricate su bombe pronte a decollare nel giro di pochi minuti e a bordo dei sommergibili di costruzione tedesca che navigano nelle acque del Mediterraneo e dell’Oceano Indiano.

Chiara Cruciati è stata intervistata il 29 ottobre 2020 su Radio BlackOut . Trovate il podcast di approfondimento sugli Abraham Accords nello spreaker inserito in questo punctum.

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Astana agli sgoccioli. Chi ha più filo da filare tra Mosca e Ankara? https://ogzero.org/astana-agli-sgoccioli-chi-ha-piu-filo-da-filare-tra-mosca-e-ankara/ Thu, 22 Oct 2020 08:38:32 +0000 http://ogzero.org/?p=1563 Traiettorie diverse di attraversamento transcaucasico-mediorientale L’alleanza tra Vladimir Putin e Recep Erdoğan è sempre stata a tempo e i due contraenti non ne hanno fatto mai mistero. Isolati e osservati con diffidenza da buona parte della comunità internazionale, strategicamente concorrenti e avversari in Medio Oriente, hanno fatto di necessità virtù per cinque anni ma ora […]

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Traiettorie diverse di attraversamento transcaucasico-mediorientale

L’alleanza tra Vladimir Putin e Recep Erdoğan è sempre stata a tempo e i due contraenti non ne hanno fatto mai mistero. Isolati e osservati con diffidenza da buona parte della comunità internazionale, strategicamente concorrenti e avversari in Medio Oriente, hanno fatto di necessità virtù per cinque anni ma ora la politica di appeasement tra i due paesi seguita alle scuse del presidente turco per l’abbattimento del Su-24 russo sui cieli siriani nel 2015, potrebbe essere agli sgoccioli.

Il ritorno di fiamma della guerra in Nagorno-Karabach lo dimostra con evidenza. Non a caso in una recente intervista il ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov ha voluto sottolineare di considerare la Turchia «non un alleato ma un interlocutore stretto».

Mosca e Ankara sono le due principali potenze regionali nell’area che va dal mar Nero al Medio Oriente, passa per la Transcaucasia e lambisce la Persia. Con due traiettorie però assai diverse.

Ascolta “La Russia è solo una potenza regionale” su Spreaker.

 

Confrontando le parabole di Turchia e Russia

L’economia turca a partire dall’inizio del nuovo millennio è cresciuta costantemente, triplicando il proprio Pil. Un decollo economico accompagnato da un potente incremento demografico che ha fatto passare la sua popolazione complessiva da 67 a 83 milioni (a cui va aggiunta la diaspora). Il “neoimperialismo ottomano”, in questo quadro, è il prodotto di una crisi di crescita del paese a cui ormai vanno stretti i confini definiti nel primo Dopoguerra.

La Russia invece, dopo il boom del primo decennio del XXI secolo basato essenzialmente sugli alti prezzi degli idrocarburi sul mercato mondiale e la stabilizzazione sociale interna, vede da molti anni la propria economia stagnare. Dal 2018 la sua popolazione è tornata a contrarsi malgrado milioni di ucraini e centroasiatici abbiano acquisito il passaporto della Federazione: la Banca Mondiale stima che se non ci sarà una svolta, la Russia passerà dagli attuali 145 milioni di abitanti a 131 nel 2050. Dopo la facile vittoria nella guerra con la Georgia del 2008 – che aveva mostrato però dei limiti soprattutto logistico-satellitari – dagli anni Dieci in poi il declino dell’egemonia strategico-militare di Putin sul vicino estero ex sovietico è continuata con la perdita definitiva dell’Ucraina (compensata solo in parte dall’annessione della Crimea) e ora esiste il rischio concreto – a seguito dello sviluppo del movimento di opposizione in Bielorussia – di perdere un altro alleato fondamentale proprio laddove la Nato, grazie all’integrazione di Polonia e paesi baltici, è più aggressiva.

La partnership economica tra le due potenze locali (turismo, abbigliamento, prodotti alimentari e soprattutto forniture di gas russo attraverso Turkish Stream) ha reso più fluide anche le relazioni diplomatiche. La luna di miele tra i due paesi ha raggiunto il suo zenit nel periodo che va dall’acquisto da parte turca del sistema difensivo antiaereo russo S-400 (preferito ai Patriot americani con gran dispetto di Washington) e il sostegno convinto di Erdoğan a Nicolas Maduro nella crisi venezuelana del 2019 e suggellato dagli accordi di Astana per la sistemazione della matassa siriana. Dopo di allora però, lentamente ma inesorabilmente, il corso delle relazioni turco-russe è andato via via peggiorando e la guerra nel Nagorno-Karabach, qualunque sarà il suo esito, marcherà il passaggio in una fase che potremmo definire “postAstana”, foriera di nuove tempeste e procelle nella regione.

In quali intrecci si sta azzoppando Astana?

Le prime avvisaglie che si stava entrando in una fase nuova emerse a inizio 2020 quando ci fu più di una scaramuccia tra Siria e Turchia che vide coinvolto il contingente russo. Qualche mese dopo i due paesi si trovavano a confrontarsi ancora su fronti avversi in Libia. La Turchia sostiene da sempre il governo libico riconosciuto dalle Nazioni Unite, guidato da Fayez al-Serraj, che sta lottando da più di un anno per resistere a un assalto alla capitale Tripoli da parte del comandante ribelle Khalifa Haftar. Quest’ultimo è sostenuto, anche se non formalmente, dalla Russia grazie alla penetrazione dei suoi gruppi di foreign fighters organizzati nell’ormai celebre agenzia dei “wagneriani”, già presente in vari teatri, non ultimi quelli africani. Un modo per la Russia, quello dell’uso di compagnie di ventura, per giocare un ruolo di ago della bilancia in diverse crisi senza esporsi direttamente e soprattutto dai costi economici relativi.

Sia la Russia che la Turchia hanno investito molto in Libia: la Federazione in termini di reputazione, influenza e potenziali accordi petroliferi e la Turchia con interessi commerciali ed energetici ancora più ampi, ma hanno evitato in ogni modo di confrontarsi direttamente. «Quella libica potrebbe essere la loro più grande divergenza, ma ce ne sono altre. Sono a disagio per il ruolo crescente dell’Iran nella regione, che Putin generalmente sostiene fintanto che infastidisce gli Stati Uniti. I turchi odiano il regime di al-Sisi in Egitto che Putin giudica invece positivamente. E sono da sempre ai ferri corti anche con gli israeliani, con i quali Putin ha un solido rapporto di partnership», sostiene Jonathan Schanzer della Foundation for Defense of Democracies, un think tank con sede a Washington.

Presenze strategiche dei due contendenti sullo scacchiere internazionale

Ma nel complesso la partnership rischia di crollare a causa dell’inconciliabilità delle ambizioni geopolitiche. Schanzer, a tale proposito, segnala la grandiosa visione ottomana delineata da uno dei massimi consiglieri di Erdoğan, il generale in pensione Adnan Tanrıverdi, che interpreta la Turchia emergente come una superpotenza islamica con capacità di esercitare autorità e influenza su 61 paesi musulmani con Istanbul a capitale di un inedito califfato.

Putin ha forse obiettivi meno ambiziosi – più tattico che stratega è abituato a misurare ogni passo di politica estera – ma non meno importanti per gli equilibri internazionali. A fronte dell’ulteriore sgretolamento dell’influenza nell’area ex sovietica, Mosca è interessata a inserire dei cunei di propria presenza su scala globale che le permettano di restare al centro di quanto si va definendo nei diversi scacchieri. Un approccio parzialmente diverso da quello del tradizionale contenimento sviluppato dal Cremlino fino a qualche anno fa e che poggiava in gran parte sul suo ruolo di potenza nucleare. La ripresa della guerra in Nagorno-Karabach non sta facendo che accelerare, da questo punto di vista, delle tendenze già in atto.

Un Anschluss turco-azero?

Ma se le scaramucce tra Armenia e Azerbaigian del luglio potevano lasciare presagire che lo scontro ruotasse intorno ai gasdotti azeri Baku-Tbilisi-Ceyhan e quello nel Caucaso meridionale ovvero sulle rotte del reperimento di risorse energetiche alternative a quelle russe nella regione, la guerra iniziata il 27 settembre 2020 dall’alleanza turco-azera ha ben altri obiettivi, in primo luogo di ridefinizione complessiva degli equilibri nella regione. Evidentemente, Erdoğan intende saggiare la reazione russa e dei paesi Nato a fronte di un chiaro tentativo espansionista: in questo senso l’alleanza turco-azera basata sulla teoria “un popolo, due stati” sta realizzando seppur in trentaduesimi, la stessa politica che la Germania negli anni Trenta del XX secolo portò avanti con l’Anschluss e l’occupazione della Cecoslovacchia. Da questo punto di vista Erdoğan ha ricevuto segnali positivi riuscendo a mettere sotto scacco l’Europa con il ricatto dell’ondata migratoria dalla Siria e paralizzando una Russia già alle prese con la crisi in Bielorussia e la querelle di Navalny. Malgrado Francia, Usa e Russia abbiano chiesto con due dichiarazioni comuni il cessate il fuoco, malgrado siano arrivati segnali di inquietudine da parte di molti altri stati, la macchina bellica turco-azera non si è fermata.

Valore “locale” del conflitto caucasico

Allo stesso tempo non va però dimenticato che l’offensiva in Nagorno-Karabach ha obiettivi tutti interni al quadro transcaucasico. Sin dall’inizio del conflitto, malgrado l’Armenia sia parte integrante del Trattato di sicurezza collettiva (l’alleanza militare guidata dalla Russia dopo la fine del Patto di Varsavia), a differenza che in Bielorussia, la Federazione non ha minacciato interventi a fianco di Erevan se non nel caso estremo di aggressione diretta dentro i confini armeni. Una postura che non è certo piaciuta a Nikol Pashinyan, il premier armeno asceso al potere dopo la Rivoluzione di Velluto del 2018. Pashynian è un ex difensore dei diritti civili che guarda per sua formazione e cultura a Occidente. Tuttavia in nome della Realpolitik e delle forniture di idrocarburi a prezzi low-cost è restato legato finora a Mosca, ma l’evidente neutralità assunta dalla Russia nel conflitto nel Nagorno-Karabach potrebbe fargli riconsiderare – a medio termine – il legame con Mosca, ripiegando su una posizione di neutralità. Non è un caso che tutti i suoi sforzi per giungere al cessate il fuoco nelle prime settimane del conflitto abbiano cercato di far leva sui timori della UE (e di Merkel in particolare) per la crescente aggressività turca, anche se Berlino in realtà ha le mani legate perché – piaccia o no – la Turchia resta un membro imprescindibile della Nato.

In questo quadro proprio l’Alleanza Atlantica sta accelerando il suo programma di allargamento a Est. Due settimane dopo l’inizio del conflitto, il segretario generale della Nato Jens Stoltenberg ha invitato apertamente la Georgia ad aderire al sistema difensivo occidentale: «Siamo concentrati sulla regione del Mar Nero, stiamo sviluppando le nostre capacità marittime, la difesa costiera della Georgia e stiamo conducendo visite di navi Nato nei porti georgiani. Nei nostri negoziati sottolineiamo l’importanza strategica della regione del Mar Nero sia per la Georgia che per gli stati della Nato e siamo pronti ad accoglierla nell’alleanza», ha affermato il segretario generale. Un quadro fosco per la Russia soprattutto in caso di sgancio della Bielorussia e dell’Armenia.

Si tratta ora di capire se il punto di caduta dello scontro nel Nagorno-Karabakh, escludendo la catastrofe di un confronto diretto tra Russia e Turchia, sarà una vittoria completa azera o se, come continuano ad affermare gli esperti di strategia russi, Ilham Aliyev si accontenterà di sedersi al tavolo della trattativa dopo essersi ripreso i corridoi che collegano il Nagorno-Karabakh all’Armenia. In entrambi i casi, Mosca ne uscirà indebolita e dovrà ripensare seriamente ai suoi rapporti con Ankara. A settembre Erdoğan ha annunciato di aver trovato giacimenti di gas nel Mar Nero che dovrebbero garantire entro il 2023 l’autonomia energetica al suo paese. A quel punto allora, i buoni rapporti con Putin, potrebbero per lui essere solo un intralcio.

I timori dell’Occidente per l’attivismo turco

L’Azerbaijan ha fatto intendere che non vuole iniziare alcuna trattativa per risolvere la contesa sull’enclave etnico armeno, senza che vi partecipi direttamente la Turchia. Una posizione che manderebbe in soffitta definitivamente il format del “gruppo di Minsk” a cui partecipano, oltre ai paesi coinvolti nel conflitto, la Francia, gli Usa e la Russia. Un Diktat a cui è seguito l’inevitabile stop di Erevan mentre il segretario di stato Mike Pompeo esortava Erdoğan «a evitare di interferire nel conflitto». La presa di posizione dell’Eliseo, seppur non ufficiale, è stata particolarmente dura. «Il presidente francese ha già espresso preoccupazione per il ruolo della Turchia nel conflitto in Nagorno-Karabach. È motivo di preoccupazione che Erdoğan stia moltiplicando le sue avventure, non tenendo conto della necessità di garantire una sicurezza comune», si legge in un comunicato fatto circolare dalla diplomazia francese nella giornata del 18 ottobre. Macron teme che Erdoğan voglia tastare il polso alla Comunità europea per capire fino a che punto possa spingersi nella propria impunità.

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La pace di Doha è quella sospirata dagli afgani? https://ogzero.org/la-pax-talebana-preparata-a-doha-dagli-americani/ Sun, 13 Sep 2020 12:07:56 +0000 http://ogzero.org/?p=1233 O non è piuttosto quella di Mike Pompeo, segretario di stato statunitense, di Abdul Ghani Baradar, numero due della gerarchia talebana, e persino di Abdullah Abdullah, capo dell’Alto consiglio per la riconciliazione nazionale? La pax (elettorale) americana si combina con l’occasione storica per il movimento jihadista di riprendersi il paese (ora Repubblica, nel 2001 Emirato […]

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O non è piuttosto quella di Mike Pompeo, segretario di stato statunitense, di Abdul Ghani Baradar, numero due della gerarchia talebana, e persino di Abdullah Abdullah, capo dell’Alto consiglio per la riconciliazione nazionale? La pax (elettorale) americana si combina con l’occasione storica per il movimento jihadista di riprendersi il paese (ora Repubblica, nel 2001 Emirato islamico) senza colpo ferire.

Una guerra lunga 40 anni

Gli americani sono apparentemente arbitri, l’intento di Trump è quello di ritirare le truppe (a fine ottobre si ridurranno a 4000 unità, secondo gli accordi del 29 febbraio con i Talebani) a scopi elettorali e ottenere uno stato non troppo islamico, controllato attraverso l’indispensabile erogazione di fondi e assistenza a un tessuto socio-economico reso incapace di reggersi da 40 anni di guerra ininterrotta; ai Talebani è richiesta un’abiura dei legami con al-Qaeda, un brand a cui hanno aderito obtorto collo per l’aggressività di Bush, di cui il negoziato è la più patente sconfitta; il governo di Ghani e Abdullah è da sempre debole, quotidianamente sotto scacco per gli attentati che costano la vita a 50 persone al giorno e che vedono Isis e al-Qaeda disputarsi la leadership jihadista, un potere fondato su elezioni andate deserte e i cui risultati hanno impiegato mesi a essere diramati e che deve presenziare a negoziati che hanno come fine la dissoluzione del governo stesso per crearne uno condiviso tra tutte le fazioni, le culture e le tribù che costituiscono la nazione.

Il vicepresidente Amrullah Saleh, tagico della cerchia di Masud ed ex capo dei servizi nel governo Karzai, è il più scettico sull’opportunità dei negoziati con i Talebani, che considera marionette in mano ai militari pakistani. È infatti scampato al secondo attentato ai suoi danni; lui è rimasto illeso, non così le decine di feriti e i 10 morti procurati da quella bomba piazzata a Kabul – in un quartiere residenziale non a caso presidiato dagli americani – emblematicamente quattro giorni prima che iniziassero i negoziati. E già una settimana dopo l’inizio dei negoziati era stato ucciso il presunto responsabile dell’attentato (il mullah Sangeen, il numero due della Red Unit talebana) in un’operazione condotta a Surobi.

Quello intrafgano è un negoziato tra fronti opposti delegittimati agli occhi degli afgani, che non li ha mai considerati propri rappresentanti: poche frange tribali al confine pakistano riconoscono l’autorità dei Talebani, le richieste dei quali sono il ritiro delle truppe straniere e l’imposizione di uno stato islamico; peraltro nessuno riconosce l’autorevolezza di un governo corrotto e fondato sugli interessi di lobbies oligarchiche, che ha obbedito agli accordi siglati dall’amministrazione Trump in campagna elettorale e in assenza di rappresentanti del governo e della società civile afgani, così Ghani ha dovuto liberare obtorto collo 5000 prigionieri talebani (in cambio di mille governativi).

Intanto all’inizio della seconda settimana il leader del partito Jamiat-e-Islam, Salahuddin Rabbani, che è stato anche a capo dell’Alto Consiglio per la pace del governo Karzai ha esposto notevoli dubbi sull’efficacia della road map dei temi proposti, proponendo di rivedere anche il sistema politico attuale.

In previsione di un approfondimento che intendiamo proporre una volta che gli sviluppi consentano valutazioni sulle trattative, riproponiamo uno stralcio dell’analisi che inquadra precisamente la situazione attuale. Un saggio scritto quasi un anno fa da Giuliano Battiston, e compreso in La Grande Illusione, volume a cura di Emanuele Giordana sull’Afghanistan in guerra dal 1979, di cui l’attuale teatrino qatariota (regime sunnita filojihadista) è il nuovo atto messo in scena, mentre i civili – fisicamente vulnerabili – muoiono per gli attentati, o – vulnerabili economicamente – sopravvivono sotto la soglia di povertà.

[OGzero]


Delegazione talebana a Doha il 12 settembre 2020

Dipendenza dall’estero: sovranità parziali e segmentate

La questione che qui vogliamo sottolineare è che il progetto di state-building ha avuto effetti controproducenti. Ha generato uno state-rentier, frammentato, debole, fortemente dipendente dalle risorse esterne. Il welfare sociale, l’educazione, la salute, le infrastrutture, l’esercito, la regolamentazione e la pianificazione economica: in Afghanistan ogni aspetto della vita pubblica è dipendente da aiuti esterni. La dipendenza dall’esterno ha inficiato la legittimità dello stato e del governo, ha modificato radicalmente il panorama della governance, la stessa nozione di potere, le relazioni tra il territorio e la politica, producendo principi politici, valori morali e culturali, fonti di potere e di legittimità diversi. In poche parole, ha prodotto “sovranità segmentate”, parziali, per ricorrere ancora una volta al lessico di Territorio, autorità, diritti. A ben vedere, poi, sebbene questi nuovi network di potere globale abbiano istituito tra di loro rapporti diversi e discontinui, a volte competendo, a volte confliggendo, a volte finendo per cooperare, è la loro stessa presenza ad aver impedito che il governo centrale trovasse e potesse rivendicare fonti autonome ed esclusive di legittimità normativa e politica. Infine, ma non da ultimo, l’emergere di nuove forme di sovranità e governance ha indebolito non soltanto lo stato, ma la stessa capacità dei cittadini di rivendicare trasparenza, aumentando la distanza tra governo/stato e popolazione. In poche parole, il processo di state-building centripeto ha creato un regime di poteri multipli, privi di responsabilità e di “responsività” verso i cittadini. Un esito che ha conseguenze anche sul processo di pace. Vediamo come.

Governo e Talebani: attori illegittimi

All’interno della complessa geografia di poteri appena descritta, esistono due attori – non monolitici e diversificati al loro interno (due reti di potere sarebbe più opportuno definirli) – che almeno a livello simbolico giocano un ruolo preminente: il governo di Kabul e i Talebani. I Talebani sono il principale movimento di opposizione armata in Afghanistan. Ci interessa però sottolineare alcuni aspetti, funzionali al nostro discorso. Il primo è che i Talebani rappresentano una galassia articolata al proprio interno, con centri di potere (le shure, i consigli) diversificati, con indirizzi strategici, finanziatori, priorità diverse e a volte confliggenti; il secondo è che la postura dei Talebani recentemente è stata condizionata dall’ingresso in Afghanistan di un altro attore della guerriglia, la “Provincia del Khorasan”, la branca locale dello stato islamico di Abu Bakr al-Baghdadi; il terzo è che, proprio in ragione del rapporto dialettico tra le varie componenti dei Talebani e gli sponsor stranieri, come il governo/stato anche i Talebani sono percepiti come un attore soltanto parzialmente legittimo, perché non del tutto autonomo, ma eterocondizionato; il quinto punto è che non sono una forza residuale, ma un gruppo consapevole delle proprie potenzialità, tanto da sommare ai successi strategici sul campo anche quelli politici: deboli, divisi e sfiduciati all’inizio del 2002, oggi i Talebani hanno fatto digerire all’Amministrazione degli Stati Uniti l’idea che l’opzione militare sia ormai impraticabile e che l’unica opzione plausibile per mettere fine alla guerra sia quella diplomatica. Fino a pochi anni fa soltanto dei “terroristi” o dei pariah, oggi godono di una patente di legittimità politica. Se non degli alleati veri e propri contro l’espansione dello Stato Islamico in Asia centrale, sono diventati degli interlocutori politici a tutti gli effetti.   

Resistenti sul campo di battaglia, forti al tavolo negoziale, finanziariamente ancora piuttosto solidi, i Talebani appaiono però fragili in casa, in termini di consenso. Se in alcune aree e fasce sociali godono di un appoggio logistico e dell’adesione della popolazione, altrove sono guardati con sospetto: troppo pesante l’eredità del loro governo, troppo pesante il bilancio delle vittime civili, troppo lontani dal sentire comune le loro idee sull’economia e sulla società, sull’Afghanistan che verrà. La domanda da porsi allora è: perché rimangono un attore egemone? Per tre motivi principali. La prima rimanda a quella particolare economia politica di guerra a cui abbiamo fatto riferimento. La seconda è la presenza delle truppe straniere, di per sé un fattore di mobilitazione antigovernativa, un carburante per la macchina della propaganda jihadista. La terza è il forte deficit di legittimità del governo, screditato agli occhi della popolazione.

Delegazione governativa a Doha

L’attuale governo ha una storia particolare, che merita di essere raccontata. Il governo si basa su un compromesso politico, imposto dall’esterno, uno dei simboli della subalternità alle reti di potere globale. Per porre fine alla lunga contesa sugli esiti del ballottaggio presidenziale del 14 giugno 2014, l’allora segretario di stato Usa John Kerry ha sollecitato un accordo che prevedeva un governo bicefalo: accanto alla carica del presidente – attribuita ad Ashraf Ghani – è stata introdotta una nuova figura istituzionale, quella del Chief of Executive Officer, con poteri «simili a quelli di un primo ministro», attribuita allo sfidante Abdullah Abdullah. L’inedito esperimento di ingegneria istituzionale non ha funzionato, finendo con il paralizzare le attività dell’esecutivo, istituzionalizzando la rivalità che intendeva sanare. Anche se politicamente debole e diviso, il governo di unità nazionale è rimasto in carica per un intero mandato, cinque anni, per due ragioni: la debolezza delle opposizioni e il sostegno della comunità internazionale, che in assenza di alternative ha preferito accordargli credito, come dimostrano i 15,2 miliardi di dollari stanziati al termine della conferenza dei donatori di Bruxelles dell’ottobre 2016.

Al di là del ruolo giocato dagli attori esterni, l’impasse in cui si è ritrovato il governo Ghani-Abdullah rimanda a una discussione interna, la grande questione irrisolta della governance dell’Afghanistan posTalebano. Affrontata già negli incontri preliminari alla conferenza di Bonn del 2001, è stata particolarmente dibattuta nel corso della Loya Jirga costituzionale del 2003, quando si sono contrapposti due grandi blocchi etnico-politici: da una parte il blocco “pashtun”, con l’idea di un sistema presidenziale fortemente centralizzato, modellato sulla Costituzione del 1964, poi adottata con alcune modifiche; dall’altra il blocco “tagico”, propugnatore di un sistema di governo più rappresentativo e meno centralizzato, che includesse la carica del primo ministro, anche come contrappeso alla storica, contestata egemonia dei pashtun come reggenti dello stato-nazione. Dietro all’antagonismo e alla reciproca diffidenza personale tra Ashraf Ghani e Abdullah Abdullah si è giocata dunque una partita cruciale: quella tra rappresentanza, società ed esercizio istituzionale del potere. Una partita simile a quella che si gioca ora, o che si potrebbe giocare, tra il governo da una parte e i Talebani dall’altra. Una partita che va sotto il nome di processo di pace, ma che non si esaurisce in quello.

Reti di potere, pace politica e pace sociale

«Leader dei Talebani, la decisione è nelle vostre mani. Accettate la pace, sedetevi al tavolo negoziale e costruiamo insieme il paese». È con queste parole che il 28 febbraio 2018 il presidente Ashraf Ghani ha offerto ai Talebani il riconoscimento come partito politico, l’implicita garanzia dell’immunità, la possibilità di rivedere la Costituzione, l’inclusione nelle istituzioni, un ufficio politico a Kabul e l’ipotesi di un cessate il fuoco, realizzato poi per tre giorni nel giugno 2018. In quel discorso Ghani ha fatto riferimento alla possibilità di affrontare «aspetti controversi della futura presenza internazionale», questione dirimente per i Talebani. Un riferimento che lasciava presagire margini di manovra futuri per un dialogo diretto tra i Talebani e gli Stati Uniti, un negoziato che ha assunto una forma concreta con gli incontri tenuti nell’estate del 2018 tra esponenti del movimento antigovernativo e l’inviato di Donald Trump, Zalmay Khalilzad, da cui è scaturito nel gennaio 2019 una bozza di accordo.

Anche la proposta di Ghani di una «revisione congiunta» della Costituzione era un passo verso gli “studenti coranici”, che però hanno continuato a lungo a invocarne la riscrittura completa. Oltre ai dissidi interni del fronte antigovernativo, incapace di trovare una linea comune sul “che fare” una volta che le armi verranno deposte, dietro alla questione della revisione costituzionale e dell’architettura politico-istituzionale si nasconde un nodo politico: per i Talebani il governo di Kabul è illegittimo, semplice braccio amministrativo delle forze di occupazione, soltanto un pezzo di una rete di potere globale, un interlocutore privo di coesione, facile da manipolare e dividere. A dispetto dell’unità di facciata e dei successi politici che li hanno condotti al tavolo negoziale di Doha, in Qatar, anche i Talebani però, come abbiamo visto, sono un attore attraversato da spinte centrifughe, frutto dell’adesione delle diverse anime del movimento alle diverse reti di potere globale emerse in Afghanistan negli ultimi anni. Da questo punto di vista, se il dibattito con gli americani, un nemico esterno, può essere facilmente condotto sulla base di posizioni condivise dalla maggioranza, quello con il governo di Kabul sulla governance postnegoziato potrebbe risultare molto più difficile e frammentare ulteriormente il già composito fronte antigovernativo.

In sintesi, proprio a causa della presenza delle reti di potere globale che abbiamo provato a descrivere, sia il governo/stato sia i Talebani sono divisi al loro interno e godono di una scarsa legittimità agli occhi degli afgani. Ciò rende rischioso e costitutivamente fragile qualunque accordo i due attori possano trovare in futuro, sottolineano molti esponenti della società civile. In termini generali, tra gli intervistati prevale l’idea che la soluzione militare si sia rivelata inefficace e che sia indispensabile seguire la via del dialogo politico, attraverso un piano di riconciliazione nazionale e un contestuale processo di pace. Si registra la tendenza a sostenere l’ipotesi che i Talebani possano ottenere posizioni di potere in un futuro governo di “ampia coalizione”, a due condizioni: che ciò serva davvero a porre fine al conflitto e che non pregiudichi, se non l’architettura politico-istituzionale creata dopo il 2001, le conquiste legislative e sociali degli ultimi anni, spesso associate a tale architettura. Le aspettative che i Talebani siano in grado o siano disposti a soddisfare tali condizioni sono superiori a quelle registrate dallo stesso autore negli anni passati, ma rimangono piuttosto basse. Quanto alla capacità dei rappresentanti governativi di garantire la sopravvivenza dell’ordine normativo/istituzionale corrente, si registrano aspettative molto basse, che sembrano rimandare alla convinzione che i Talebani siano “più forti” del fronte governativo-statuale, giudicato litigioso e fragile. Comunque tutti gli attori risultano scarsamente legittimi.

Per questo gran parte degli intervistati distingue tra “pace politica” e “pace sociale” e reclama un doppio approccio al processo di pace: al negoziato politico-diplomatico che punta nel breve periodo all’interruzione del conflitto dovrebbe accompagnarsi un parallelo processo sociale di lungo periodo che punti alla ricostruzione delle relazioni tra le comunità locali. E che offra canali di comunicazione e confronto agli attori che, pur godendo di maggiore legittimità e rappresentatività del governo o dei Talebani, sono stati esclusi dalle reti di potere globale emerse in Afghanistan. Molti degli intervistati condividono infatti una diagnosi di partenza: alla base dell’instabilità del paese ci sono molti fattori, endogeni ed esogeni, ma uno di questi è la crisi identitaria causata da quattro decenni di guerra. Il tessuto connettivo che fa di una società una nazione sarebbe stato indebolito dalla guerra e questa fragilità sarebbe stata sfruttata dagli attori endogeni che fanno parte delle reti di potere globale, parzialmente esogene. Reti opache, che non possono essere smantellate attraverso un negoziato, dall’alto al basso, ma che vanno prima “rese trasparenti”, poi trasformate con processi sociali di lunga durata, dal basso all’alto. Senza una sottostante pace sociale che gli dia solidità e consistenza, sostengono gli intervistati, ogni accordo politico tra attori illegittimi è destinato a produrre risultati effimeri. Il dialogo politico-diplomatico è lo strumento più adatto per porre fine al conflitto nel breve periodo, ma il dialogo sociale, il recupero di sovranità e autonomia di fronte all’egemonia delle reti di potere globale, sono gli strumenti per costruire un nuovo spazio sociale e politico dotato di legittimità, unico antidoto a una nuova esplosione del conflitto.

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Onda d’urto nucleare sull’Iran https://ogzero.org/dalla-esplosione-di-natanz-alla-bocciatura-allonu-di-nuove-sanzioni-a-tehran-sabotaggio-e-pressione-rohani/ Fri, 04 Sep 2020 12:17:22 +0000 http://ogzero.org/?p=1141 L'amministrazione Trump ha stracciato l’Accordo sul nucleare che l'Occidente con Obama aveva stipulato con il regime degli ayatollah; e Israele non perde occasione per sabotare gli impianti iraniani, da ultimo l'esplosione di Natanz il 2 luglio. Si crea così un duplice fronte, interno ed esterno all'Iran, insufficiente a mettere in crisi la Repubblica Islamica

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Sabotaggio: massima pressione su Rohani

L’ammissione è arrivata con quasi due mesi di ritardo. L’esplosione avvenuta il 2 luglio negli impianti nucleari di Natanz, in Iran, è il risultato di un atto di “sabotaggio”, ha dichiarato il 23 agosto un portavoce dell’Agenzia per l’energia atomica della repubblica islamica iraniana, citato dall’agenzia di stampa ufficiale Irna. Non ha precisato che tipo di esplosione e che materiali siano stati usati: questo «verrà annunciato a momento debito».

L’esplosione, che ha distrutto un intero edificio nell’impianto di Natanz, era stata preceduta da una serie di “misteriosi” incendi e esplosioni nei giorni e settimane precedenti in diverse altre installazioni di carattere militare in Iran, e aveva già suscitato un turbine di ipotesi: bombe, attacchi missilistici, attacco elettronico, sabotaggio? Da parte di dissidenti iraniani, degli Stati uniti, di Israele? Di sicuro l’ipotesi di incidenti fortuiti non ha mai convinto nessuno. In particolare, nel caso di Natanz già pochi giorni dopo l’esplosione il governo annunciava di aver determinato la causa, anche se non poteva per il momento rivelarla per “considerazioni di sicurezza”.

Chi tocca il reattore muore

La parola sabotaggio dunque non sorprende. Del resto non sarebbe la prima volta: sia gli Stati uniti che Israele hanno in passato condotto azioni coperte in Iran, come gli attentati in cui sono stati uccisi diversi scienziati nucleari iraniani (che molti attribuiscono a Israele), o le azioni di sabotaggio elettronico ai danni di impianti atomici attribuite agli Usa (ben prima dell’avvento di Donald Trump). Solo pochi giorni dopo l’esplosione del 2 luglio, il New York Times citava anonimi «agenti di intelligence mediorientali» (tra cui uno delle Guardie della Rivoluzione iraniane) secondo cui l’attacco a Natanz è stato compiuto da Israele con una bomba ad alto potenziale. Cosa in sé plausibile, ma difficilmente vedremo prove o ammissioni ufficiali. Da parte israeliana certo non verranno conferme, e di prassi neppure smentite (interrogato in proposito, il ministro della difesa israeliano Benny Gantz ha semplicemente detto alla radio di stato: «Non tutto quello che accade in Iran ha necessariamente a che fare con noi»: risposta che non è una smentita).

Natanz, regione di Esfahan

Il capoluogo dello sharestan omonimo ospita l’impianto nucleare più imponente dell’Iran

L’uranio di Natanz

Altri interrogativi riguardano l’entità del danno provocato. L’impianto di Natanz, costruito in parte nel sottosuolo non lontano dalla città di Isfahan nell’Iran centrale, è tra quelli soggetti a regolari ispezioni da parte dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea), l’ente delle Nazioni unite per la sicurezza nucleare. È a Natanz che a partire dal 2012 l’Iran ha cominciato a costruire le sofisticate centrifughe necessarie ad arricchire l’uranio. In luglio l’Agenzia atomica iraniana ha ammesso che l’esplosione ha ritardato il programma di arricchimento dell’uranio di alcuni mesi. Alcuni esperti occidentali sostengono invece che i danni all’impianto potrebbero aver ritardato il programma di un paio d’anni.

Che si voglia credere all’agenzia iraniana o agli esperti occidentali, pare chiaro che il sabotaggio potrà al massimo rallentare il programma atomico di Tehran – difficilmente riuscirà a fermarlo. Non ci sono riusciti i sabotaggi del passato. L’Agenzia atomica iraniana ha già annunciato che ricostruirà l’impianto distrutto, «con equipaggiamenti ancora più moderni».

Conviene ricordare che quando nel 2015 l’Iran e sei potenze mondiali hanno firmato il Joint Comprehensive Plan of Action (Jcpoa), più semplicemente chiamato l’“Accordo sul nucleare iraniano”, Tehran aveva accettato di rinunciare a buona parte della sua riserva di uranio già arricchito appunto a Natanz (intorno al 20 per cento, livello necessario alla ricerca medica ma lontano da quello che serve per confezionare armi atomiche); aveva inoltre accettato di non costruire nuove centrifughe per i successivi otto anni. In effetti l’uranio arricchito era stato spedito fuori dal paese, e la costruzione di centrifughe a Natanz era stata fermata, come hanno certificato le regolari ispezioni dell’Aiea. L’Iran ha sempre negato di voler costruire armi nucleari, mentre ha sempre puntato in modo abbastanza esplicito ad avere la “capacità atomica”, cioè la capacità di maneggiare il ciclo nucleare: considerando che dava migliori garanzie di “deterrenza” avere la capacità di costruire un ordigno in caso di necessità, piuttosto che costruirlo effettivamente. Ma anche a voler diffidare delle intenzioni di Tehran, bisogna osservare che dal punto di vista della non proliferazione, il Jcpoa aveva effettivamente messo un freno alle attività iraniane.

L’indipendenza europea sotto tutela

Finché nel maggio 2018 il presidente Trump ha annunciato il ritiro degli Stati uniti dal Jcpoa, ed è allora che a Natanz l’officina di fabbricazione delle centrifughe ha ripreso l’attività. Non subito, bisogna dire: per un anno e mezzo l’Iran ha continuato a osservare la sua parte dell’accordo, chiedendo piuttosto ai partner europei (Francia, Germania e Gran Bretagna sono i firmatari insieme all’Unione europea) di compensare l’Iran per i benefici persi. Sappiamo però che questo è il punto dolente: i paesi europei continuano ad affermare l’importanza del Jcpoa, della diplomazia multilaterale, e del dialogo con l’Iran, ma sul lato pratico non hanno saputo davvero contrastare le sanzioni economiche statunitensi: vivida illustrazione di quanto sia limitata l’autonomia europea in una economia mondiale dominata dal dollaro (ogni transazione rilevante che avviene in dollari, ovunque, è soggetta allo scrutinio delle autorità finanziarie statunitensi). Il meccanismo finanziario chiamato Instex, annunciato dall’Unione europea nel settembre 2018 (ma diventato operativo solo nel gennaio 2020) per offrire un canale per gli scambi commerciali con l’Iran, incluso il settore petrolifero, avrebbe dovuto permettere alle imprese europee di aggirare le sanzioni Usa: ma finora non è andato oltre una singola transazione dimostrativa. Lo stesso vale per un meccanismo che dovrebbe facilitare forniture “umanitarie”, farmaci e attrezzature mediche.

Insomma: di fronte agli indugi europei, nell’ultimo anno gradualmente Tehran ha ripreso ad arricchire uranio oltre il limite previsto dal Jcpoa (anche se resta ben al di sotto delle quantità di cui disponeva prima di firmare l’accordo). Passi molto graduali, definiti da parte iraniana una “riduzione degli impegni”; per il resto l’Aiea nota che Tehran continua ad attenersi agli accordi. Il presidente Hassan Rohani ha più volte ripetuto che le attività riprese sono facilmente reversibili, e che l’Iran è pronto a tornare indietro se gli Stati uniti rientreranno nel Jcpoa o se gli altri firmatari troveranno il modo di compensare il ritiro americano. Il presidente Rohani, e il ministro degli esteri Javad Zarif, sono convinti che restare nei termini dell’accordo sia nell’interesse dell’Iran.

Fronte nucleare interno

Ma è chiaro che la posizione di Rohani è sempre più difficile da tenere, in Iran. Quelli che hanno accusato Rohani di “svendere” gli interessi nazionali, ora possono dire “non bisognava fidarsi degli Stati uniti che firmano un accordo e non lo rispettano”. E dopo il sabotaggio a Natanz le voci contrarie all’accordo nucleare hanno alzato il volume. In parlamento è stato detto che il sabotaggio è frutto delle “infiltrazioni” di “spie” sotto la copertura dell’Aiea. Un gruppo di deputati sta raccogliendo firme su un progetto di legge per il ritiro “automatico” dell’Iran dall’Accordo nucleare nel caso che l’Onu torni a imporre le sue sanzioni come chiesto da Washington. Altri vorrebbero che l’Iran si ritirasse anche dal Trattato di Non Proliferazione, il Tnp, quello da cui discende l’Aiea con tutta la sua architettura di ispezioni e controlli (a cui l’Iran si è sempre sottoposto, si fa notare, al contrario di molti paesi della regione, Pakistan e India a est, Israele a ovest). C’è chi ha detto che l’Iran dovrebbe fare come la Corea del Nord, non subisce attacchi un paese che ha fatto davvero un test nucleare.

Posizioni simili ben poco realistiche, neanche ora che le correnti oltranziste dominano il parlamento: i processi decisionali su questioni di sicurezza nazionale non passano per il Majlis ma per un complicato equilibrio di poteri rappresentati nel Consiglio supremo di sicurezza nazionale, e in ultima istanza sono sanzionati dal Leader, prima autorità dello stato. Ma la crescente retorica antiaccordo è un segno del clima politico. E dopo il sabotaggio a Natanz, appare anche più giustificata.

Falchi americani e falchi iraniani

Il punto è proprio questo. Come in uno specchio, la guerra scatenata dall’amministrazione di Donald Trump ha fatto un enorme favore alle correnti più oltranziste della Repubblica Islamica. Attentati e sabotaggi infatti fanno parte di una vera e propria guerra: non dichiarata, non l’invasione spesso evocata dai falchi e sostenitori del “regime change” che albergano nella Casa Bianca (rappresentati ora dal segretario di stato Mike Pompeo). Ma pur sempre una guerra: in forma militare, come con l’attacco mirato che ha ucciso il generale iraniano Qassem Soleimani a Baghdad lo scorso gennaio, o la guerra economica condotta con le sanzioni. O ancora con le provocazioni, come i jet statunitensi che volano pericolosamente vicino a un aereo civile iraniano. Le provocazioni si moltiplicano: come quando Mike Pompeo è intervenuto alla Convention Repubblicana in videoconferenza da Gerusalemme rivendicando l’uccisione di Soleimani. L’ultima nomina della Casa Bianca alla carica di “inviato per l’Iran” è l’ennesimo segnale di ostilità: Elliott Abrams, è un autentico falco, già coinvolto nell’affare Iran-Contras durante l’amministrazione Reagan.

Ciò non farà crollare il regime. Il muro di sanzioni pesa sull’economia, certo, e sulla vita quotidiana degli iraniani; i sabotaggi e le provocazioni infliggono danni e alzano la tensione in modo pericoloso: ma tutto ciò non spingerà l’Iran a tornare al tavolo dei negoziati con gli Stati uniti (che sarebbe l’obiettivo teorico dichiarato dall’amministrazione Trump).

Invece, ha contribuito a cambiare l’equilibrio dei poteri a Tehran: a screditare i fautori del dialogo, l’amministrazione di Hassan Rohani, i “pragmatici” che avevano riaperto l’Iran al mondo (e allentato il clima di controllo interno: in un paese sotto attacco, anche le libertà civili sono schiacciate). Ha contribuito anche a rafforzare il potere e l’influenza della casta militare, che va ben oltre la difesa: le Guardie della rivoluzione hanno un ruolo essenziale nell’economia sotterranea che si espande proprio a causa delle sanzioni; gruppi industriali legati alle Guardie rilevano i contratti per grandi infrastrutture, petrolifere e non, abbandonate dalle imprese occidentali timorose di incorrere nelle ritorsioni americane.

Qualche scacco allo strapotere americano

In questo quadro però sorgono degli intoppi. Gli Stati uniti hanno subito una rara sconfitta al Consiglio di sicurezza dell’Onu, quando in agosto non sono riusciti a far passare una risoluzione per reimporre sanzioni delle Nazioni unite all’Iran, tra cui un embargo sulle vendite di armi (quello attualmente in vigore scade in ottobre, ai sensi del Jcpoa): la risoluzione Usa ha raccolto solo il voto della Repubblica Dominicana, mentre gli altri 13 membri del Consiglio di sicurezza hanno votato contro o si sono astenuti, inclusi i tradizionali alleati europei. [Sulla minaccia rappresentata dall’Iran, è utile ricordare che Tehran spende per la difesa una frazione rispetto ai paesi vicini, secondo il Stockholm International Peace Research Institute: il budget della difesa iraniano era stimato a quasi 13 miliardi di dollari nel 2019, contro i 62 miliardi dell’Arabia Saudita, i 20,4 miliardi per Israele (e lo stanziamento di 732 miliardi nel budget statunitense)].

Gli Stati uniti hanno allora tentato la carta di avviare il “meccanismo di arbitrato” (dispute mechanism) previsto dal Jcpoa, cioè il meccanismo legale che i firmatari dell’accordo possono avviare se uno dei partecipanti viola gli accordi, e che dovrebbe portare a sanzioni entro 30 giorni. Gli altri firmatari degli accordi però hanno osservato che Washington non è più un membro del Jcpoa, da cui si è ritirato nel 2018, quindi non ha il potere di avviare il meccanismo legale di sanzioni. Commentatori americani hanno osservato con disappunto che invece di isolare l’Iran, l’amministrazione Trump ha messo gli Usa in una posizione imbarazzante.

Mentre l’Iran ha avuto l’occasione di mostrare che in fondo sa prendere decisioni pragmatiche. Il 26 agosto infatti ha annunciato un accordo con l’Aiea, che chiedeva accesso a due siti atomici per ispezioni. L’accordo è stato annunciato insieme dal direttore dell’Agenzia iraniana per l’energia atomica, ali Akbar Salehi, e dal direttore generale dell’Aiea Rafael Grossi al termine di una missione di quest’ultimo a Tehran. L’Iran “dà volontariamente accesso” ai due siti interessati, è stato detto. Una data per la visita degli ispettori è stata concordata (“molto presto”, ha aggiunto Grossi). La questione non riguarda direttamente il Jcpoa (su questo, le ispezioni dell’Aiea non sono mai state interrotte). L’Iran applica un “Protocollo addizionale” che permette all’Aiea ispezioni ulteriori: ma in gennaio si era vista negare l’accesso per verifiche in due siti dove sarebbero state condotte nei primi anni Duemila attività di conversione dell’uranio e test su esplosivi che potrebbero alludere a attività belliche: dubbi che l’Aiea chiede di chiarire dopo aver ricevuto informazioni da Israele (sulla base, pare, di documenti che i servizi israeliani erano riusciti a trafugare dall’Iran). Il fatto che le illazioni siano arrivate da Israele aveva provocato le rimostranze iraniane. Durante la sua visita, Grossi ha precisato che l’Aiea non vuole “politicizzare” la questione. Il comunicato congiunto afferma che «sulla base delle sue informazioni, l’Aiea non ha ulteriori richieste di accesso» con l’Iran: la questione sembra chiusa.

La linea del dialogo dunque tiene – per ora. Ma è precaria: in attesa che gli europei facciano funzionare i canali commerciali con l’Iran, che la cooperazione prevalga sulle provocazioni. In attesa, soprattutto, delle elezioni presidenziali statunitensi: di sapere se alla Casa Bianca siederà il democratico Joe Biden, che promette di riportare gli Stati uniti nell’accordo nucleare con l’Iran, o il presidente Trump che continuerà a perseguire la sua “massima pressione”.

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Considerazioni sul Libano che vanno oltre il Libano https://ogzero.org/considerazioni-sul-libano-che-vanno-oltre-il-libano/ Thu, 03 Sep 2020 09:08:42 +0000 http://ogzero.org/?p=1121 Archiviare i rapporti di forza coloniali in questo periodo di nazionalismi esasperati può ricondurre a modelli vecchi di secoli, anziché soddisfare le richieste di emancipazione dei popoli repressi: l'impero ottomano e quello russo tentano di ricreare le antiche sfere di influenza.

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«Noi, popoli della Padania, solennemente proclamiamo: “la Padania è una repubblica federale indipendente e sovrana. Noi offriamo, gli uni agli altri, a scambievole pegno, le nostre vite, le nostre fortune e il nostro sacro onore”». Parole di Umberto Bossi nella sua dichiarazione d’indipendenza della Padania, 15 settembre 1996. Una sfida, una provocazione politica. Ma anche la realtà di un mondo in cui le Nazioni, come sono state disegnate negli ultimi secoli, non necessariamente corrispondono agli elementi coesivi che finora hanno consentito loro di sopravvivere in pace.

Anni fa sentivo un giovane militare israeliano stanco della guerra contro l’indipendentismo palestinese affermare: «A cosa serve tutto questo. Presto il mondo sarà globalizzato e le nazioni, come le conosciamo oggi, non esisteranno più. Ognuno vivrà dove meglio si trova». Quel futuro (non solo per il Covid) c’è e non c’è. E invece assistiamo a una lenta e spesso cruenta trasformazione del mondo come fu tracciato nella sabbia o sulle cime dei monti dai nostri nonni e bisnonni. Divisioni e non consolidamento.

Confini tracciati altrove

Da Bossi e la Padania, tra razzismo e settarismo religioso, non è difficile approdare sulle sponde meridionali del Mediterraneo. Non soltanto perché sono poche ore d’aereo ma perché il Vicino Oriente come lo vediamo sulle cartine geografiche e nelle cronache dei telegiornali, fu creato o disegnato nel Castello Devachan a Sanremo tra il 19 e il 26 aprile 1920 e consolidato – si fa per dire – pochi mesi dopo a Sèvres, in una antica fabbrica di porcellane a sud di Parigi. Il tutto sulle rovine di uno dei più longevi, affascinanti, poco studiati e spesso incompresi imperi della storia. Di cui anche il minuscolo territorio che conosciamo come Libano faceva parte.

Segno di cambiamento degli equilibri

L’esplosione del 4 agosto 2020 a Beirut, che ha ucciso oltre 200 persone e ferito altre 7000 devastando vaste zone della capitale libanese, ha riportato il paese dei cedri sulle prime pagine dei giornali. Accanto a dubbi, incertezze, ipotesi (attentato o incidente?) sono riprese le considerazioni sulla stabilità, direi quasi la sopravvivenza, del piccolo paese creato dalla Francia e di cui Parigi sembra rivendicare un diritto di tutela se non di più. I legami tra Francia e Libano risalgono al XVI secolo quando la monarchia parigina si rivolse al sultano ottomano per proteggere i cristiani di una regione che, dalla nascita di Gesù in poi, il mondo religioso cresciuto attorno alla sua memoria definisce “Terra santa” ma che per 623 anni, dal 1299 al 1922, faceva parte di uno degli imperi più longevi e potenti e spesso più illuminati della storia controllando, in nome dell’islam sunnita, fette importanti dell’Europa e dell’Asia.

Dove le feroci Crociate dei cristiani d’Europa non riuscirono nel loro intento di dominare la terra d’altri, la forza militare e la diplomazia degli imperi più recenti del vecchio continente ebbero maggiore successo. Con la sconfitta tedesca nella Prima guerra mondiale e la conseguente distruzione del suo alleato di comodo – l’impero Ottomano appunto – francesi, inglesi e italiani (con il consenso dello zar di tutte le Russie) si divisero le spoglie. Non fu un processo indolore. Il trattato di Sèvres provocò la reazione immediata dei nazionalisti turchi sopravvissuti alla sconfitta del vecchio impero. Mustafa Kemal Atatürk, il padre della Turchia moderna, guidò una serie di guerre per cacciare francesi, italiani, greci dall’Anatolia e dopo appena tre anni, con il Trattato di Losanna, gli europei furono costretti a fare un piccolo passo indietro riconoscendo i confini della Turchia di oggi. Un prezzo relativamente modesto visto come Gran Bretagna e Francia erano riusciti a consolidare la loro presenza nel Vicino Oriente e determinare la realtà di nuove entità come Siria, Iraq, e a gettare le basi, con il patto semiclandestino di Sykes-Picot (16 maggio 1916), per la creazione di Israele. Nelle loro menti probabilmente più che un regalo ai sionisti ebrei (peraltro quasi tutti europei) doveva essere un elemento di disturbo nel mondo arabo dominato dalle due anime principali dell’islam.

Mandato coloniale permanente?

Torniamo al Libano. La Società delle Nazioni, ratificando l’accordo Sykes-Picot, affidò la Grande Siria (la Siria attuale e cinque province che costituiscono l’attuale Libano) al controllo diretto della Francia. E Parigi agendo da padrone colonialista, nel settembre 1920 istituì la Repubblica libanese con Beirut come capitale sul territorio allora in gran parte cristiana ma con una forte minoranza musulmana (oggi maggioranza) e drusa. Il paese divenne indipendente alla fine della Seconda guerra mondiale. Fu adottata una Costituzione che voleva garantire i diritti delle varie comunità con un sistema di divisione del potere. Per molti anni ha funzionato trasformando il piccolo stato sulle rive del Mediterraneo in una specie di Svizzera del Medio Oriente: nel bene e nel male.

Gli sviluppi politici nella regione dopo la creazione dello stato d’Israele e, più di recente, con la rivoluzione khomeinista in Iran, assommato ai grandi cambiamenti demografici in Libano, hanno portato alla situazione che vediamo oggi. Con una provocatoria petizione online firmata da 60000 tra residenti e membri della grande e influente diaspora libanese, è stato chiesto alla Francia di tornare a prendersi cura del Libano con un nuovo Mandato. «La Francia non lascerà mai il Libano», parole del leader francese Macron in visita a Beirut devastata dall’esplosione al porto. «Il cuore del popolo francese batte ancora al polso di Beirut». Solo retorica o il neocolonialismo francese fatica a morire? Per sottolineare il legame storico, Macron ha fatto il bis tornando a Beirut il 1° settembre, cento anni dopo quel famoso “Mandato”. Ancora parole, ma forse la consapevolezza che troppi fattori, locali e regionali, giocano contro un ruolo di Parigi che vada oltre eventuali piogge di euro per sostenere un sistema corrotto e fallimentare. Di sicuro, con la divisione del potere costituzionale che non rispecchia più la realtà demografica del Libano, il futuro della piccola nazione è sempre più in bilico in un mondo in cui montano le tendenze autonomiste, si inasprisce lo scontro tra Iran e Arabia saudita, gestori delle due verità contrapposte dell’islam, e prendono impeto le aspirazioni di vecchie potenze imperiali, tra cui la Turchia. Una nota: gli stati nazionali radicati nella storia della regione di cui parliamo sono appena quattro: Egitto, Iran, Yemen e Turchia.

Il passato, un incubo rinnovabile

La disgregazione dell’Unione sovietica e della Jugoslavia hanno aggiunto nuove nazioni all’Onu e si è parlato molto negli ultimi anni di ridisegnare i confini del Medio Oriente per soddisfare le istanze, per esempio, dei curdi, traditi dalle spartizioni postimpero Ottomano. Stesse ipotesi aleggiano per risolvere il conflitto interno della Libia, altra realtà complessa disegnata dall’Italia coloniale dopo la cacciata dei turchi da Cirenaica e Tripolitania. In essenza, è in corso nel bacino del Mediterraneo un grande gioco i cui protagonisti rispecchiano più il passato che un’idea rivoluzionaria per il futuro. Mentre la Francia rincorre la sua gloria appassita e la Russia agisce pensando non tanto all’Urss, di relativamente breve memoria storica, quanto al grande impero degli zar che molti osservatori tendono a dimenticare, la Turchia (membro della Nato, formalmente alleato dell’Occidente e, purtroppo, più volte respinta come possibile membro dell’Unione europea) sembra voler ripristinare la gloria dell’impero d’Oriente e dell’islam sunnita che dominarono per sei secoli sulle rovine dell’impero cristiano di Costantinopoli. La nuova classe dirigente turca e buona parte degli ufficiali superiori rivendicano quanto meno un ruolo di potenza regionale soprattutto sul Vicino Oriente islamico.

Per i servizi segreti israeliani, che guardano con simpatia alle mosse di Macron, e per la Cia, in uno stato di confusione anche per la politica attuale della Casa Bianca, la Turchia di Erdoğan (in corso di collisione con la Grecia per lo sfruttamento dei giacimenti petroliferi nel Mediterraneo) «è più pericolosa dell’Iran» degli ayatollah. Di sicuro l’estensione della presenza militare di Ankara – dalla Libia a Siria, Libano settentrionale, Iraq, Qatar, Afghanistan, Somalia e i Balcani – non è mai stata tanto vasta dai giorni dell’Impero Ottomano. L’accordo tra gli Emirati arabi uniti (che hanno paura dell’Iran) e Israele (nemico principale di Tehran) fa parte del Grande gioco regionale che mette in difficoltà soprattutto le pedine più piccole e deboli. Quelle create a tavolino.

Assisteremo a nuove guerre e alla creazione di nuovi confini? Una piccola scintilla potrebbe far esplodere le istanze autonomiste di cui conflitti religiosi e tribali sono i sintomi sempre più evidenti. Se la nostra Padania non è veramente a rischio perché non vi esistono le condizioni fondamentali per rivendicare l’autodeterminazione, non è così per molte delle realtà nel Vicino Oriente (e non soltanto) dove vi sono popoli riconosciuti come tali sottomessi da governi non rappresentativi che li discrimina come razza, credo o colore.

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Galassia jihadista in Sahel https://ogzero.org/galassia-jihadista-in-sahel/ Mon, 06 Jul 2020 07:30:44 +0000 http://ogzero.org/?p=383 La guerra contro la diversità intraislamica: spettacolarizzazione della violenza tra brand dall’outbidding fino all’uccisione di Droukdel La pandemia di Covid 19 ha colpito il continente africano in modo più contenuto rispetto a gran parte del mondo, anche se non si può certo dire che lo abbia risparmiato. Nel quadrante del Sahel, una fascia di territorio […]

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La guerra contro la diversità intraislamica: spettacolarizzazione della violenza tra brand dall’outbidding fino all’uccisione di Droukdel

La pandemia di Covid 19 ha colpito il continente africano in modo più contenuto rispetto a gran parte del mondo, anche se non si può certo dire che lo abbia risparmiato. Nel quadrante del Sahel, una fascia di territorio dell’Africa subsahariana che comprende o lambisce una decina di paesi – Senegal, Mauritania, Ciad, Mali, Algeria, Burkina Faso, Niger, Nigeria, Camerun, Eritrea e Sudan – sono stati finora (a metà giugno) registrati in aggregato circa 60mila casi di Coronavirus, con un numero di decessi superiore ai 2mila. I picchi sono stati registrati prevedibilmente nei paesi più densamente abitati, come la Nigeria (16mila casi) e il Camerun (quasi 10mila).

L’emergenza sanitaria globale ha avuto sul pubblico europeo l’effetto di cristallizzare la percezione degli avvenimenti non correlati al coronavirus, come se sul mondo ci fosse un’unica finestra, affacciata sull’epidemia. È però bene tener presente che la pandemia non ha arrestato alcuni processi in corso, anzi, in alcuni casi li ha rafforzati. È anzi possibile sostenere che se essa non si fosse verificata probabilmente oggi si parlerebbe proprio del Sahel come l’area più calda e instabile del pianeta. È in questa porzione di mondo che la galassia jihadista mostra le evoluzioni e prefigura le prospettive più preoccupanti.

Nel solo mese di marzo, in corrispondenza dell’innalzamento del picco dei contagi in gran parte dei paesi del Sahel, i gruppi jihadisti legati ad al-Qaeda e all’Isis hanno compiuto attentati sanguinari in Camerun, Nigeria, Burkina Faso (dove alla fine di aprile si contano quasi 900mila sfollati interni, aumentati di quasi 300mila da febbraio), Mali e Ciad, uccidendo centinaia di persone. D’altronde proprio in quei giorni l’Isis aveva diffuso un comunicato in cui invitava i suoi affiliati a «non avere pietà e lanciare attacchi contro gli infedeli durante la pandemia», considerata di per sé dall’organizzazione terroristica come una «punizione divina per i non musulmani».

Il 24 marzo, la fazione di Boko Haram guidata da Abubakar Shekau ha ucciso 94 soldati ciadiani in un’imboscata nei pressi del Lago Ciad, mentre nelle stesse ore perdevano la vita 47 soldati nigeriani in un’altra azione condotta dall’Islamic State in West Africa Province (Iswap), ossia l’organismo affiliato a Daesh in cui è confluita una parte dell’organizzazione Boko Haram. Pochi giorni prima, il 19 marzo, in Mali altri 29 soldati venivano uccisi in un attacco condotto dai miliziani qaedisti di Jama’a Nusrat al Islam wa al Muslimin (Gsim).

Nel mese di febbraio sono stati almeno tre gli attentati terroristici coordinati tra i due gruppi, che nel Levante arabo si fanno la guerra l’uno contro l’altro mentre in Africa occidentale, da qualche mese, sembravano aver iniziato a unire gli sforzi per prendere il controllo del territorio di stati politicamente e militarmente deboli. «I combattenti dei due gruppi sembrano coordinarsi negli attacchi e sembrano dividersi aree di influenza nel Sahel, concludendo accordi», aveva detto a fine febbraio alla Associated Press il generale delle Forze speciali americane, Dagvin Anderson. L’evoluzione del protagonismo operativo e dei rapporti tra al-Qaeda e Isis in questo quadrante sono aspetti che richiedono alcune riflessioni, perché il pesante deterioramento delle condizioni di sicurezza nel Sahel occidentale è in corso almeno da cinque anni, e anche perché potrebbero generare alcuni paradossi. Secondo le stime dell’International Centre for Counter-terrorism, con base in Olanda, solo nel 2019 sono state 4mila le persone che in quest’area hanno perso la vita in attentati condotti da organizzazioni terroristiche locali e transnazionali, riconducibili a Isis o al-Qaeda.

Questo scenario ha incontrato un punto di possibile svolta lo scorso 3 giugno, quando le Forze speciali francesi coinvolte nell’operazione Barkhane (cominciata nel luglio 2014) hanno individuato e ucciso in Mali l’algerino Abdelmalek Droukdel, capo di al-Qaeda nel Maghreb islamico (Aqmi).

3 giugno 2020: annuncio dell’uccisione di Abdelmalek Droukdel, capo e fondatore di al-Qaeda nel Maghreb islamico, in Mali ad opera della missione Barkhane

Abdelmalek Droukdel, laureato in chimica, ex veterano del Gis algerino, esperto in particolare di esplosivi, non era solo il responsabile della “internazionalizzazione” del jihad nella stessa Algeria e nel Sahel, della saldatura di movimenti di guerriglia locali al più ampio e transnazionale jihadismo globalista di al-Qaeda; era anche l’ultimo leader di etnia araba di al-Qaeda nel Maghreb (Aqmi). La sua morte suggerisce innanzitutto che il jihadismo locale rappresentato ora soprattutto dal Gsim è ben avviato in un processo di “africanizzazione” che passerà per il contestuale sfaldamento di Aqmi, più riconducibile a una leadership militare e a ideologi arabi, spesso legati alle prime generazioni di qaedisti (quelli che hanno combattuto contro i sovietici in Afghanistan).

Come spiega in un report del 2018 Djallil Lounnas, il Gsim è oggi il più potente gruppo jihadista attivo nel Sahel. È stato creato nel marzo 2017, risultato della fusione di quattro formazioni: il ramo saheliano di Aqmi guidato da Yahya Abu Al-Hammam (all’anagrafe Djamel Okacha, anch’esso poi ucciso dai francesi nel febbraio 2019); Al-Mourabitoun, formazione qaedista capeggiata da Mokhtar Belmokhtar; Ansareddine, milizia di ispirazione salafita con a capo Iyad Ag Ghali (sul quale si tornerà più avanti); e la katiba (battaglione) Macina, già precedentemente legata alla stessa Ansareddine, alla cui testa c’è il jihadista maliano di etnia peul-fulani, Amadou Koufa.

La guida del Gsim è stata assunta proprio da Iyad Ag Ghali: di etnia tuareg, Ghali ha lunghi trascorsi tra le fila delle legioni internazionali di Gheddafi. Poi è diventato un contrabbandiere, nemico del governo di Bamako, con cui all’inizio del nuovo millennio si riappacifica fino a ottenere l’incarico di consigliere culturale a Jedda, in Arabia Saudita, da cui sarà però espulso nel 2010 proprio per aver provato ad allacciare contatti con al-Qaeda. Nel 2011 prova a intestarsi la guida del Movimento nazionale per la liberazione dell’Azawad (Mnla), una formazione di ribelli laici di etnia tuareg che vorrebbero l’indipendenza della regione, tenendosi ben a distanza da al-Qaeda. Fallisce nel progetto di farsi eleggere alla guida del gruppo e decide di fondare Ansareddine, col sostegno finanziario di al-Qaeda. Nel 2012 una guerra civile si esaurirà con il sostanziale inglobamento dello stesso Mnla nel Consiglio di Transizione dello Stato islamico Azawad.

È proprio ad Abdelmalek Droukdel e al capo di al-Qaeda, Ayman al-Zawahiri, che Iyad Ag Ghali, il giorno della dichiarazione ufficiale di istituzione del Gsim, giura fedeltà. Ma non solo. La saldatura del Gsim al network jihadista globale è evidente quando ai nomi dei due terroristi si aggiunge quello di Hibatullah Akhunzada, leader dei Talebani afghani, riconosciuto qualche tempo prima “comandante dei credenti” dai vertici del gruppo fondato da Osama Bin Laden. La decisione di includerlo, inoltre, conferma un altro aspetto importante: il Gsim rigetta l’idea della fedeltà allo Stato Islamico proclamato a Mosul (Iraq) nell’estate 2014 da Abu Bakr al-Baghdadi. Da un punto di vista geopolitico, invece, si tratta di una risposta alla creazione – avvenuta ufficialmente nel 2014 – del G5 Sahel, una piattaforma di coordinamento soprattutto sui temi di sicurezza da parte di Mauritania, Burkina Faso, Ciad, Mali e Niger, sotto la leadership francese.

Parallelamente, nell’Est e nel Sud del Mali, nei pressi dei confini con Burkina Faso e Niger, è nato nel maggio 2015 il meno numeroso (circa 450 combattenti) tra gli “Stati islamici” dichiarati in giro per il mondo dalla comparsa sulla scena di Abu Bakr al-Baghdadi. Lo Stato islamico del Sahara maggiore (Isgs) è il risultato di una scissione all’interno del citato movimento qaedista di al-Murabitoun, che a sua volta è nato nel 2013 come “joint venture” tra il Mujao (Movimento per l’unicità del Jihad in Africa occidentale) e la katiba Mulaththamin (“battaglione degli inturbantati”) di Belmokhtar, separatosi dall’Aqmi. La nascita formale dell’Isgs viene riconosciuta dall’Isis, che ne proclama l’affiliazione ufficiale, oltre un anno dopo, nell’ottobre 2016.

Il motivo risiede nella sua scarsa popolarità locale rapportata a quella del Gsim, ben più radicato, e nel maggiore riguardo che i vertici dello Stato islamico hanno verso un altro Stato islamico, quello delle province dell’Africa occidentale (Iswap), in particolare la Nigeria. Si tratta di Boko Haram, il gruppo attivo dal 2009 e balzato agli orrori delle cronache occidentali soprattutto dopo il rapimento delle 276 ragazze chibok. Nel 2015 si affilia all’Isis, assumendo la denominazione di Iswap e diventando la più numerosa formazione jihadista riconducibile all’Isis di tutta l’Africa (quasi 4mila uomini). La guida nell’estate 2016 è affidata direttamente da al-Baghdadi ad Abu Musab al-Barnawi, figlio del fondatore di Boko Haram, Mohammad Yusuf, mentre una costola dell’Iswap continuerà a operare come Boko Haram, sotto il comando dell’irrequieto Abubakar Shekau (per certi versi marginalizzato dai vertici dell’Isis, anche se formalmente ancora affiliato).

I rapporti tra al-Qaeda e l’Isis sono sempre stati difficili. Se però in Siria e Iraq le battaglie tra i due gruppi (soprattutto nelle espressioni dello Stato islamico del Levante e di Jabhat al Nusra, ramo siriano di al-Qaeda) sono state frequenti e diffuse, nel Sahel c’è stata un’unica battaglia nel giugno 2015 all’interno della regione Gao (Mali), tra Aqmi e Isgs, nella quale il capo di questi ultimi, Adnan Abu Walid al-Sahrawi, venne gravemente ferito. Per il resto, i due gruppi hanno sempre evitato scontri diretti.

Al-Qaeda e Isis differiscono soprattutto negli obiettivi strategici: se per al-Qaeda la creazione di un “Califfato mondiale” è un obiettivo ultimo, quasi filosofico, lontano, sviluppo naturale di una strategia con cui si intende “sfinire” l’Occidente attraverso la realizzazione di attentati, scatenando reazioni militari che poi dovrebbero indurre le popolazioni arabe a insorgere contro quest’ultimo, creando alla fine uno Stato islamico, per l’Isis la fondazione di uno Stato islamico in un dato territorio è un fine concreto, immediato.

Se per al-Qaeda i musulmani dovrebbero colpire gli infedeli ovunque per perseguire una strategia che porti all’istituzione futura di uno Stato islamico, per l’Isis le azioni militari vanno realizzate anche col fine di difendere il territorio già amministrato. Dal punto di vista operativo e strettamente militare, poi, l’Isis rispetto ad al-Qaeda rivendica anche l’uccisione di altri musulmani nelle sue azioni terroristiche, e soprattutto non si limita a esse: gli uomini fedeli al Califfato sono infatti addestrati al combattimento regolare, e partecipano a battaglie convenzionali proprio per conquistare via via porzioni di territorio.

L’Isis ha ancora un suo quartier generale e si finanzia in modo sistematico, anche con la vendita del petrolio, mentre al-Qaeda è ormai frammentata in una miriade di formazioni locali e reperisce risorse soprattutto attraverso i rapimenti. Il fatto che l’Isis abbia creato uno stato, che emetteva addirittura dei passaporti e per un certo periodo è arrivato a battere moneta, spiega anche la sua maggiore capacità di attrazione di “lupi solitari”, di radicalizzati che vengono facilmente coinvolti in una impresa in qualche modo “patriottica”, a difesa di uno stato vero e proprio, anziché di una semplice idea, o promessa.

Nel Sahel, nonostante l’inimicizia ideologica tra Gsim e Isgs, alla fine del 2019 le due formazioni sembravano alle prese con una fase di convergenza tattica, sancita anche dai comunicati stampa diffusi da alcuni loro teologi. Poi, però, è successo qualcosa: i miliziani dell’Isgs, in pieno “stile Isis”, hanno condotto alcune operazioni militari contro soldati nigeriani, ciadiani, maliani e burkinabé, rilasciando i soliti filmati spettacolari a uso propagandistico. Ciò, nell’immediato, ha provocato un’ondata di defezioni dal Gsim allo stesso Isgs. Così, la prospettiva che l’Isgs si saldasse con l’Iswap (che negli ultimi mesi ha marginalizzato i qaedisti di Ansaru), arrivando a controllare potenzialmente un territorio più grande di quello controllato dall’Isis tra Siria e Iraq, ha spinto il Gsim – che rimane il gruppo più potente nell’area – a prendere delle contromisure, sotto forma di un rinnovato protagonismo militare.

L’uccisione di Droukdel arriva in un momento che gli osservatori hanno ragione di ritenere delicatissimo: sembra infatti che l’algerino sia stato eliminato pochi giorni prima di prendere parte a un summit convocato proprio in Mali da Iyad Ag Ghali, capo del Gsim, forse per riorganizzare una strategia contro l’Isis in chiave marcatamente transnazionale, facendola discendere da un coordinamento con i leader arabi di al-Qaeda e cercando di indebolire i leader locali come Amadou Koufa (e come lo stesso Ghali, che ha però rapporti di lungo corso con jihadisti afghani, pakistani e arabi). Secondo altri, invece, Droukdel stava svolgendo un compito speculare: mediare una pace tra l’Isgs di al- Sahrawi (e Iswap) e il Gsim, anche per scongiurare l’ipotesi di un negoziato tra questi ultimi e il governo maliano di Ibrahim Boubakar Keita, alle prese con forti proteste popolari. Come hanno più volte ricordato alcuni report di Amnesty International, solo tra febbraio e aprile del 2020 tra Mali, Burkina Faso e Niger ci sono state circa 200 uccisioni extragiudiziali commesse sui civili dai diversi eserciti locali, con tutto quel che ne consegue in termini di possibilità di reclutamento per i gruppi jihadisti.

Secondo l’analista Colin Clarke sul “Washington post” il motivo principale per cui al-Qaeda e Isis – pur non scontrandosi apertamente e con eguale frequenza nel Sahel, rispetto a quanto fanno in Iraq e in Siria – evitano di sancire forme ufficiali di cooperazione risiede nel timore che rendere pubblico un tale sviluppo possa stimolare un rafforzamento dei dispositivi antiterrorismo e delle risposte militari dei paesi interessati e dell’Occidente.

Seguendo il ragionamento, è possibile sostenere che in Occidente la notizia di una tensione o di un conflitto tra al-Qaeda e l’Isis (nelle loro espressioni locali saheliane) venga accolta positivamente, poiché suggerisce l’idea che combattendosi tra loro i due gruppi finiscano per indebolirsi a vicenda, fino a distruggersi. C’è però un paradosso, spesso sottovalutato, che poggia anche su alcune basi empiriche: per molti versi la competizione locale tra due organizzazioni terroristiche è benefica per queste ultime, al di là degli effettivi sacrificati e delle risorse impiegate, perché rafforza e rende più diffuse le dinamiche di reclutamento, oltre a stimolare l’innovazione e la creatività, attraverso un processo che l’esperta di terrorismo Miriam Bloom ha definito di “outbidding”, teso ad attirare simpatizzanti e affiliati.

In sostanza, se due gruppi terroristici sono nemici tra loro, il protagonismo dell’uno sarà di volta in volta imitato o superato in sofisticazione e letalità dal protagonismo dell’altro, in un circolo vizioso di spettacolarizzazione della violenza finalizzata all’affermazione, del quale ovviamente fanno le spese i civili coinvolti in attentati. Un esempio lo si è avuto lo scorso marzo, quando gli uomini di Abubakar Shekau (Boko Haram) hanno realizzato il più sanguinoso attentato della storia del Ciad, “solo” per rispondere a una analoga azione dell’Iswap. Come ricorda Brian Phillips su “Foreign Policy”, la rivalità tra organizzazioni terroristiche può rafforzare la loro capacità di sopravvivenza, poiché può spingere i civili a prender parte per l’una o per l’altra, stimola l’innovazione (come un’azienda in crisi), fornisce nuovi incentivi e motivazioni agli affiliati, e non ultimo può far deragliare dei processi di pace (come quello che il governo del Mali vorrebbe portare avanti con il Gsim). Questo vale a maggior ragione per gruppi che hanno obiettivi politici diversi, anziché convergenti.

Per questo il caso del Sahel è particolarmente delicato: senza un negoziato di pace è inverosimile la sconfitta delle centinaia di gruppi jihadisti diffusi in un territorio perlopiù ostile, impervio, in cui è difficile condurre operazioni vincenti in modo convenzionale e in cui le rivendicazioni economiche, sociali e umanitarie rendono sempre fertile il terreno del reclutamento. Se la guerra tra Isis e al-Qaeda dovesse esplodere anche nel Sahel, come accaduto in Siria e Iraq, ciò potrebbe indurre l’Isis a giocare la carta del deragliamento programmatico delle prospettive di pace, arrivando a giocare un ruolo via via sempre più centrale, fino a replicare lo scenario del 2012, in cui in Mali venne imposto un regime simil-talebano, dal quale venivano lanciati altri attacchi nella regione. La morte di Droukdel paradossalmente può avere due effetti speculari: finire per rafforzare la prospettiva di un accordo di pace tra governo maliano e Gsim oppure scongiurarlo, favorendo una integrazione tra un Gsim oggi più “africanizzato” e l’universo jihadista dell’Isis.

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Lo Spirito del tempo che percorre il territorio del Sahel https://ogzero.org/lo-spirito-del-tempo-che-percorre-il-territorio-del-sahel/ Mon, 06 Jul 2020 07:28:38 +0000 http://ogzero.org/?p=393 Nei due anni che vanno dal maggio 2018 al giugno 2020 nel territorio del Sahel si sono verificati cambiamenti che forse oltrepassano i rivolgimenti di una pandemia, poiché sta recedendo la graduale estensione del controllo di Aqmi (al-Qaeda del Maghreb islamico), ma con appoggi saharawi laicissimi, tuareg nomadi che combattevano peul stanziali, con cui han […]

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Nei due anni che vanno dal maggio 2018 al giugno 2020 nel territorio del Sahel si sono verificati cambiamenti che forse oltrepassano i rivolgimenti di una pandemia, poiché sta recedendo la graduale estensione del controllo di Aqmi (al-Qaeda del Maghreb islamico), ma con appoggi saharawi laicissimi, tuareg nomadi che combattevano peul stanziali, con cui han finito con il convergere nella lotta contro gli invasori coloniali occidentali, dando una patina di legittimazione religiosa a conflitti le cui motivazioni vanno ricercate tra entità locali divise tradizionalmente, che cercano di controllare le vie dei traffici illeciti (la droga sovvenziona Daesh) e dei migranti, che sostanzialmente coincidono… e dall’altro lato ci sono settori di collaborazionisti con le politiche antiterroriste di potenze europee, in primis la Francia.

Importante è sottolineare che il Sahel comprende un’area periferica tra le più povere al mondo, con scarso accesso all’acqua, soprattutto a seguito del progressivo prosciugamento del lago Ciad, e con nessuna tradizione nazionale, in quanto fino a pochi anni fa molti erano privi di documenti che attestassero l’appartenenza a uno stato.

Il 4 maggio 2018 avevamo registrato un intervento radiofonico lucidissimo e ancora molto illuminante di Luca Raineri che qui trovate inserito in tre parti per avviare un’analisi incentrata sul Sahel nel momento in cui si assiste a frenetiche manovre a più livelli per sostituire le influenze. Qui è descritto il quadro relativo al contesto, fatto di frontiere liquide e guerre a bassa intensità, al contrario della Siria, dove i brand jihadisti si sono combattuti apertamente:

Ascolta “Giochi di influenze nel Sahel” su Spreaker.

Oltre al passaggio di merci tra Africa subsahariana e Maghreb, quali risorse del territorio sono appetibili ora? Luca Raineri parla di Uranio – più che di petrolio i cui giacimenti maliani sono di scarso valore –, una manna per la voracità delle centrali nucleari francesi, ma meno per il Niger dopo il tracollo del prezzo dell’uranio a seguito del disastro di Fukushima, che ha imposto la ricerca di alternative. Per cui va studiata anche la trasformazione di quell’area dedita alla pastorizia e ora crogiolo e snodo degli interessi globali per quel che riguardano i traffici di armi (crocevia delle guerre in Mali e in Libia), droga e migranti (tra i principali affari dei tuareg, alternativamente impegnati nel contenimento dell’espansione dell’Isis e nella alleanza con lo stesso Daesh contro le forze antiterrorismo del Fc-G5s)

 

Ascolta “Quali interessi economici si intersecano nel crocevia di traffici del Sahel?” su Spreaker.

Forse assistiamo ora al ridimensionamento di quell’interventismo del Marocco a cui alludeva nel maggio 2018 Luca Raineri, che vedeva la monarchia alawide contrapporsi all’Iran, che da sempre cerca di fomentare disordini nell’area per destabilizzarla, eversione avversata dal Marocco. Peraltro più che i gruppetti eversivi stavano cominciando a diventare maggioritarie talune fazioni che mirano a imporre la shari’ia per via di una spinta democratica delle popolazioni.

Ascolta “Le frontiere liquide del Sahel” su Spreaker.

Interessante la ricostruzione della storia del jihad in Sahel e della situazione attuale dopo l’eliminazione a Talahandak dell’emiro algerino Abd al-Malik Droukdel (leader di Aqmi, basata sulla promozione di alleanze claniche) e il conseguente rafforzamento della componente saheliana del jihad qaidista e la definitiva africanizzazione del jihad in Sahel (e infatti si stanno ampliando gli attacchi etnici nel Mopti che contrappone dogon e fulani), che Lorenzo Forlani ha fornito a OGzero con questo Punctum.

 

 

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Il jihad come instrumentum regni https://ogzero.org/il-jihad-come-instrumentum-regni/ Sat, 30 May 2020 08:27:40 +0000 http://ogzero.org/?p=182 Segmentazione e unificazione tribale periodica nel contesto magmatico dei brand jihadisti. La capacità di resistere alla centralizzazione dello stato Elisa Giunchi, novembre 2019 – maggio 2020 L’islam tribale e la sua militarizzazione Già nell’Ottocento funzionari, etnografi e viaggiatori britannici annotarono quanto sarebbe poi stato confermato dagli studi antropologici a partire dagli anni Cinquanta del Novecento: […]

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Segmentazione e unificazione tribale periodica nel contesto magmatico dei brand jihadisti. La capacità di resistere alla centralizzazione dello stato

Elisa Giunchi, novembre 2019 – maggio 2020

L’islam tribale e la sua militarizzazione

Già nell’Ottocento funzionari, etnografi e viaggiatori britannici annotarono quanto sarebbe poi stato confermato dagli studi antropologici a partire dagli anni Cinquanta del Novecento: le tribù pashtun del Sudest erano caratterizzate da un codice etico, il pashtunwali, incentrato su alcuni valori che, pur presenti anche presso altre comunità, erano stati qui tradotti in norme minuziose, da una struttura acefala che rendeva necessaria la pratica del consenso attraverso assemblee consultive (jirga) e da una sostanziale indipendenza dal potere centrale, che era facilitata dalle distanze e dalla natura impervia del Sudest. Tra i pashtun dell’Ovest, per lo più Durrani, e quelli detribalizzati vi era sì una “memoria tribale”, fondata su genealogie mitiche, ma la struttura sociale era maggiormente legata allo stato e gli elementi caratterizzanti del pashtunwali risultavano meno evidenti. Non che le tribù del Sudest fossero realmente indipendenti, come immaginavano i britannici: nella seconda metà dell’Ottocento esse erano legate da tempo al centro da un sistema di sussidi, favori e privilegi, e come contropartita assicuravano al potere politico centrale il loro sostegno militare, in un rapporto di reciprocità che sostanzialmente rimarrà invariato fino agli anni Venti-Trenta del Novecento. 

In materia religiosa, la differenza tra pashtunwali e sharia, spesso rimarcata dagli studiosi, non era percepita come problematica dai pashtun: nella concezione comune i legami genealogici che collegano al profeta Muhammad l’ascendente apicale Qais bin Rashid rendevano i pashtun inerentemente musulmani: osservare il pashtunwali – “fare pashtun” – significava essere musulmani. La sostanziale assenza del potere centrale e il modello acefalo, tendenzialmente egalitario, che era prevalente tra i pashtun più “tribalizzati”, in particolare nel Sudest, provocava tensioni e faide continue tra i segmenti che componevano la comunità. In questa situazione di conflittualità endemica, la composizione delle faide e la ricomposizione del tessuto sociale dopo le violazioni del pashtunwali potevano avvenire solo grazie a figure esterne. Tra queste, le figure religiose, che erano “esterne” in un duplice senso: innanzitutto, in quanto appartenevano a rami minori della genealogia locale o provenivano da altre tribù; in secondo luogo, soprattutto se erano dotate di baraka, rappresentavano la dimensione sacrale, e si prestavano a mediare, quindi, in quanto parte non interessata, con riferimento al volere divino e non a un segmento specifico della tribù.

Questi aspetti si ritrovano attualizzati nella decentralizzazione del controllo del paese alle tribù pashtun del Sudest del paese ma con una forza minore del potere centrale delegittimato dalle compromissioni con gli americani e con potenze regionali come il Pakistan con maggiore possibilità di gestire il territorio a cavallo della Durand Line e di indirizzare il jihad. Si riscontrano similitudini con il passato e differenze, come le interferenze di altri paesi e la necessità di trovare l’accordo con le altre etnie che costituiscono il paese, in precedenza marginalizzate da Durrani, come si coglie in questa clip dell’intervento di Elisa Giunchi registrato il 28 maggio 2020 sulle frequenze di Radio Blackout:

Elisa Giunchi, 28 maggio 2020: Similitudini e differenze tra altre epoche di decentramento controllato e attuale difficoltà di Kabul a controllare il territorio
Porzione della mappa delle separazioni territoriali coloniali contenuta nel volume Sconfinate, a cura di Emanuele Giordana, Torino, Rosenberg & Sellier, 2018. Al numero 1 si dipana la Durand Line; la Radcliffe Line corrisponde al numero 2; lungo la linea 9 scorre l’Hindukush; il numero 11 coincide con il Khyber Pass. A, B, C indicano le tre zone in cui è diviso il Kashmir.

Il ruolo dei religiosi in ambito tribale

Contro una presupposta laicità del sistema tribale, sulla quale hanno insistito alcuni antropologi, le figure religiose, anche quando non prendevano parte alle jirga, o lo facevano esprimendosi solo su aspetti specifici della fede, assicuravano la liceità religiosa delle decisioni comunitarie: approvavano le decisioni della jirga pur non concorrendo sempre alla loro elaborazione, potevano avviare procedimenti contro individui o clan e disponevano spesso di proprie milizie, composte dai loro deputati e seguaci e da membri della comunità locale che si attivavano ad hoc per rendere effettive le decisioni dei “religiosi carismatici”. Un ruolo di non poco conto che i religiosi ricoprirono più volte presso le tribù pashtun nel corso dell’Ottocento era quello di proclamare e guidare il jihad contro nemici esterni, con l’effetto di ricomporre temporaneamente le differenze interne. Il riferimento ai valori sacrali e, nel caso di coloro che possedevano la baraka, l’incarnazione – per così dire – di quei valori, permettevano di superare la segmentazione locale e di mobilitare più tribù, compito che risultava impossibile al malek/khan che rappresentava uno specifico segmento clanico o tribale. Non è un caso, quindi, che nelle due guerre anglo-afgane (1839-1842 e 1878-1880) i religiosi ricoprissero un ruolo importante, mobilitando la popolazione tribale in nome del jihad e, in diversi casi, soprattutto nel Sudest, guidando le milizie contro l’esercito anglo-indiano. Nelle sollevazioni che scoppiarono al Sud e Sudest sul finire del secolo in reazione alla forward policy britannica le figure carismatiche della variante marabutica riuscirono ancora una volta a unire clan e tribù, superando almeno temporaneamente divisioni e rivalità locali.

Gli stessi inglesi, paradossalmente, contribuirono alla turbolenza tribale e alla militarizzazione delle figure religiose: innanzitutto, i tentativi di occupazione perseguiti con le due guerre anglo-afgane, e le annessioni e ingerenze successive, favorirono il compattamento delle tribù pashtun sotto la guida dei religiosi carismatici, accrescendo l’influenza di questi ultimi rispetto ai capitribù, inerentemente impossibilitati a superare, come si è visto, la segmentazione locale. In secondo luogo, le necessità del jihad contro gli inglesi (e i russi, che premevano da Nord) aumentò la domanda di armi e munizioni, che verso la fine del secolo iniziarono ad affluire in grandi quantità dal Golfo. Al traffico illegale di armi provenienti dall’Europa si sommavano fucili e munizioni provenienti dagli arsenali governativi, sottratti ai sepoy in India e prodotti localmente. Sia i capitribù sia i religiosi più influenti, che si avvalevano di milizie di murid/talib, si dotarono così di armi moderne, costringendo l’Indian Army ad aggiustamenti tattici e il governo in India a incorrere in nuove spese, proprio in una fase in cui la minaccia russa tornava a turbare i sonni di politici e strateghi a Londra e Calcutta. In terzo luogo, la politica inglese di istituire tribal levies e di armare i khassadar perché proteggessero le postazioni britanniche e i passi contribuirono alla militarizzazione delle aree al confine con l’India, di cui i religiosi erano parte integrante. 

Un islam di stato

All’evoluzione dell’islam tribale sul finire dell’Ottocento contribuì, con ogni probabilità, anche l’uso strumentale che l’emiro Abdurrahman (1844-1901) fece dell’islam non solo in funzione antimperialista, ma anche con l’obiettivo di accentrare e unire il paese.

Al potere dal 1880, Abdurrahman si adoperò per trasformare una struttura politica in cui l’assenso all’emiro era contrattato ad hoc e si fondava sulla reciprocità in una monarchia assoluta. L‘emiro fino ad allora era stato una sorta di primus inter pares che poteva in qualsiasi momento, se non andava incontro alle istanze e ai valori pashtun, perdere il sostegno delle tribù e, quindi, il trono. Il potere centrale era quindi fortemente instabile, e chi deteneva le redini del potere era impossibilitato a perseguire riforme di ampio respiro, soprattutto se contraddicevano gli interessi e l’ethos pashtun. E difatti la storia afgana è puntellata da rivolte guidate da figure religiose, che esprimevano la resistenza di ampi settori della popolazione pashtun a imposizioni percepite come devianti rispetto al sistema valoriale e agli interessi delle tribù dalle quali dipendeva in ultima analisi il potere dell’emiro. Già nel 1880 a Shinwar il mullah Najm al-Din, noto nelle fonti britanniche come ‘mullah Hadda’, accusò l’emiro, che si era appena insediato al potere con l’aiuto britannico, di essere un infedele; accusa di non poco conto, visto che il mullah aveva moltissimi seguaci, soprattutto a Est del paese, ma anche nelle aree a maggioranza pashtun sottoposte al controllo del Raj britannico. 

Negli anni successivi i tentativi dell’emiro di ridurre i privilegi e l’autonomia delle figure religiose, e la delimitazione nel 1893 della Durand Line, che attribuiva alcuni territori pashtun ai britannici, costituirono l’occasione di nuove proteste in cui mullah e pir ricoprivano un ruolo fondamentale. Le proteste non dissuasero l’emiro, che anzi moltiplicò i tentativi di arginare la loro influenza e centralizzare il potere. A tal fine, oltre a mettere a morte alcuni mawlawi e a costringerne all’esilio altri, rafforzò il potere dell’esecutivo, diminuì l’indipendenza economica delle figure religiose – sottoponendo i waqf al controllo centrale, imponendo una tassa sulle proprietà religiose e riducendo i finanziamenti alle khanaqa – e integrò mawlawi e mullah nell’apparato statale, favorendone la fedeltà: i mawlawi ottennero il diritto a percepire uno stipendio previo esame da parte di una commissione nominata dall’emiro, al quale spettava il compito di controllare che la loro dottrina non si discostasse dall’islam “corretto”, vale a dire dall’interpretazione approvata dall’emiro. Muhtasib e qazi dovevano vigilare sull’applicazione dei precetti religiosi, epurati dalle loro degenerazioni popolari e di ogni carica eversiva. Agli ulama più fidati fu chiesto, infine, di propagare l’islam ufficiale nel paese, uniformando la pratica religiosa. Significativamente, se nei testi religiosi non trovavano una risposta, i qadi, che erano nominati dall’emiro, erano tenuti non a esercitare l’ijtihad (l’interpretazione di Corano e Sunna), ma a rivolgersi ad Abdurrahman. Fu sempre sotto Abdurrahman che sorse la prima scuola coranica finanziata dal governo, la Madarasa-e-shahi, i cui studenti, una volta diplomati, diventavano funzionari dello stato, secondo un processo di “statalizzazione” dei religiosi che si è verificato ovunque, nel mondo musulmano, tra la seconda metà dell’Ottocento e la prima metà del secolo successivo. 

Le dinamiche illustrate in questo brano pubblicato nella raccolta La Grande Illusione che si applicano all’analisi del rapporto tra apparati religiosi, tribali e statali nei secoli precedenti nel territorio del Khorasan trovano continuità in queste delucidazioni sull’attualità che Elisa Giunchi ha esposto intervenendo il 28 maggio 2020 durante la mattinata informativa di Radio Blackout, dove descrive il contesto magmatico instabile sui due lati della Durand Line in cui operano i jihadisti – adattandosi alle strutture tribali pashtun – con i diversi intenti che contrappongono i brand: governare uno stato come obiettivo ultimo per l’Isis, mentre al Qaeda è dedita a creare basi da cui lanciare attacchi al potere centrale. Entrambi non rappresentano comunque una novità nella storia afgana, bensì si potrebbe trattare della attualizzazione di quel «ruolo dei religiosi presso le tribù pashtun di proclamare e guidare il jihad contro nemici esterni», di cui si accennava nel testo:

Elisa Giunchi, 28 maggio 2020 (Radio Blackout): continuità delle prassi tribali di contrapposizione nei gruppi jihadisti affiliati sia a Isis che ad al Qaeda

Il jihad come instrumentum regni

Abdurrahman decise di enfatizzare, nei manuali religiosi e nei pamphlet che autorizzava e in alcuni casi scriveva di proprio pugno, la necessità di compiere il jihad contro gli infedeli, contribuendo a consolidare la tradizione militante delle aree pashtun. Il jihad, beninteso, poteva essere proclamato solo dall’emiro. Se era l’emiro a proclamarlo, era dovere di ogni afgano combattere o contribuire alla battaglia con i propri averi. Il jihad senza il suo benestare equivaleva invece a una forma di kufr, principio che permetteva di bollare come blasfema ogni forma di sedizione. Si recuperava quindi la componente quietista della dottrina sunnita classica: per giustificare l’importanza dell’obbedienza al potere costituito si sottolineava che Dio aveva delegato ai sovrani la conduzione degli affari dei fedeli; disobbedire all’emiro significava quindi contravvenire al volere di Dio. Oltre a essere un obbligo religioso, l’obbedienza al potere costituito preservava la comunità dalla fitna, l’anarchia sociale paventata dai giuristi classici. Persino un sovrano ingiusto era preferibile al caos che sarebbe risultato dalla sua deposizione. Ma se, da una parte, si sottolineava che spettava all’emiro proclamare il jihad, al contempo, delegando la difesa del territorio ai leader carismatici pashtun – gli unici in grado di coagulare e guidare i segmenti tribali –, si manteneva in vita e anzi si alimentava la turbolenza tribale e, paradossalmente, la sua capacità di resistere alla centralizzazione dello stato. 

Il jihad, oltre a costituire un utile strumento anticoloniale, si prestava a essere usato per ottenere il consenso dei religiosi proprio nel momento in cui si intaccava la loro autonomia. Tra il 1891 e il 1893 l’emiro organizzò, infatti, diverse spedizioni contro gli sciiti hazara, che furono privati dei terreni più fertili, ridotti in schiavitù e costretti a fuggire in Iran e in Baluchistan; sempre a lui si deve la conversione forzata dei kafiri nel 1895-1896, che era già iniziata sul finire del Cinquecento con una spedizione dei mughal. I mullah – incluso quel mullah Hadda che si era inizialmente opposto all’emiro – furono impiegati nel processo di conversione dei kafiri, beneficiarono dell’espropriazione dei terreni hazara e, di conseguenza, sul finire del regno di Abdurrahman erano nel complesso ben disposti nei suoi confronti.

Quando, nel contesto di una crescente ostilità popolare contro il colonialismo europeo, Habibullah (regnante tra il 1901 e il 1919) si rifiuterà di rinnegare gli accordi conclusi dal padre con i britannici, e quando Amanullah (che regnò fino al 1929) cercherà di imporre dall’alto riforme volte a trasformare in senso “moderno” l’ambito più privato – la famiglia – e a intaccare i valori prevalenti tra i pashtun, mawlawi e pir torneranno, soprattutto nel Sudest, a opporsi frontalmente al potere centrale, grazie alla loro tradizionale capacità di mobilitare e unire i segmenti tribali e alle armi affluite nella regione nei decenni precedenti. Habibullah sarà ucciso e Amanullah, prima di abdicare, si vedrà costretto a rinnegare le riforme che aveva introdotto.

Gli aspetti correlati alla frammentazione del territorio e alle pulsioni a resistere all’accentramento da parte dello stato e il richiamo al jihad come strumento anticoloniale che accentua la turbolenza tribale e l’incapacità di costituire un’“afganità” si ritrova nell’attualità descritta sempre da Elisa Giunchi nel prosieguo dell’intervento, laddove si occupa di ricondurre ai contrasti tradizionali tra le strutture verticistiche verticali della cultura turkmena-mongola con quella orizzontale acefala del sistema pashtun, che rappresentano la tensione costante tra tendenza ad accentrare/decentrare il controllo del potere: Durrani e il periodo della difesa della cintura pashtun emarginava le altre etnie, da cui le rivolte contro l’accentramento; mentre ora i gruppi sono infiltrati da potenze esterne (con i corrispondenti signori della guerra), che favoriscono la frammentazione etnica regionale volta a impedire a Kabul la possibilità di essere un centro forte in grado di impedire interferenze e mediare tra le identità di base. L’instabilità deriva forse proprio dall’eccessivo decentramento. L’unica soluzione sarebbe un programma di emancipazione sociale che esuli da apparato confessionale e etnicità, coagulando gruppi diversi su un programma socioeconomico che si concentrino attorno a figure carismatiche di varie componenti; si parla di Massoud, ma forse è troppo connotato e quindi potrebbe rinfocolare il dissidio tra pashtun e tajik.

Elisa Giunchi, 28 maggio 2020 (Radio Blackout): il superamento della frammentazione etnica regionale può passare attraverso uno sviluppo sociale che superi divisioni etniche e religiose, mancano leader e gruppi disposti a svoltare rispetto a un passato ingombrante di divisioni.

Enfatizzare l’identità religiosa rispetto ad altri fattori identitari

La nascita dei Talebani (letteralmente “studenti”) nei primi anni Novanta all’interno delle madrase affiliate al Jamiat-e Ulema-e Pakistan, il partito pakistano deobandita, trae le sue origini proprio dal legame formatosi a partire dalla fine dell’Ottocento tra madrase deobandite e “religiosi carismatici” del Sudest afgano. Anche altre influenze esterne penetrarono nel paese attraverso i suoi porosi confini meridionali, dal nazionalismo confessionale della Lega musulmana, che nel 1947 avrebbe portato alla nascita del Pakistan, al nazionalismo etnico di Ghaffar Khan, venato di istanze egalitarie e alleato al Congresso nazionale indiano. Negli anni Sessanta, grazie a una limitata apertura politica e in un clima di grande effervescenza intellettuale, si diffusero in ambito urbano movimenti islamisti che, ispirandosi al pensiero di Qutb e Maududi, criticavano la religiosità popolare a favore di un approccio più scritturalista e dogmatico; a essi si sommeranno, durante la resistenza antisovietica, militanti jihadisti, provenienti per lo più dal mondo arabo, che contribuiranno a delegittimare le autorità tribali tradizionali e introdurranno nella società pashtun una rigidità e una spietatezza nuove. Queste concezioni militanti dell’islam si sono diffuse nelle aree tribali, talora intrecciandosi con le reti religiose marabutiche, altre volte scontrandosi con la religiosità e le strutture di autorità locali. Il loro effetto è stato di enfatizzare l’identità religiosa rispetto ad altri fattori identitari, di diffondere una religiosità più normativa, di fornire ai “religiosi carismatici” un’agenda più vasta e di svalutarne parallelamente le competenze “tradizionali”, minando di conseguenza anche la loro capacità di mediare in ambito tribale; parallelamente, le jirga hanno perso la loro autorità originaria; il pashtunwali, infine, appare oggi più un’idealizzazione del passato che una realtà, e quel che è rimasto di questo codice etico si trova a competere con altri sistemi valoriali. L’opinione secondo la quale sia stato il solo jihadismo di matrice araba ad avere impresso una svolta militante all’islam tribale e determinato la nascita del fenomeno Talebano è tuttavia difficilmente condivisibile. Anche l’enfasi sul ruolo che le madrase pachistane hanno avuto nella “nascita” dei Talebani e sugli interessi geostrategici che hanno indotto Islamabad e Riad a sostenere l’estremismo in Afghanistan è eccessiva, e offusca sia le specificità pashtun degli “studenti coranici” sia i processi storici che, ben prima degli anni Ottanta del Novecento, influirono sulla loro militanza. 

Sulla natura pashtun dei Talebani – basti qui dire che negli anni Novanta, quando emersero sulla scena afgana, i loro vertici, per quanto avessero studiato per periodi più o meno lunghi nelle madrase pachistane, provenivano dall’ambiente rurale e tribale pashtun, un ambiente che, nonostante le influenze esterne, manteneva alcune peculiarità. Il mullah Omar, che guiderà i Talebani fino alla sua morte, avvenuta nel 2013, era il mullah di un villaggio vicino a Kandahar ed era sostenuto da altri mullah della sua provincia originaria, l’Uruzgan. Almeno il 60 per cento dei vertici Talebani aveva ricevuto quasi tutta la propria istruzione nelle hujra, un’istituzione tradizionale degli ambienti tribali. Molti erano intrisi della religiosità popolare – quella, in particolare, tipica del sufismo marabutico, fatta di amuleti, reliquie e visite alle tombe dei pir: lo stesso mullah Omar prendeva le proprie decisioni sulla base dei sogni, secondo modalità tipiche dei pir. Alcuni suoi stretti collaboratori erano pir o murid, e il simbolismo sufi era onnipresente nel movimento. Sarà questo, tra l’altro, un elemento di attrito tra i Talebani e al-Qaeda, che porterà quest’ultima a interrogarsi sull’ortodossia degli “studenti” coranici. I Talebani mantenevano inoltre negli anni Novanta, e mantengono tutt’ora, alcune peculiarità dell’ambiente tribale da cui provengono – continuando per esempio a seguire pratiche decisionali inclusive, tipiche delle jirga, che smussano quel potere assoluto dei singoli comandanti che caratterizza i gruppi jihadisti arabi. 

Frags tratti da L’islam: la declinazione afgana della parola del Profeta, di Elisa Giunchi, in La grande Illusione. L’Afghanistan in guerra dal 1979, a cura di Emanuele Giordana, Torino, Rosenberg & Sellier, 2019, disponibile in libreria e su tutte le maggiori piattaforme online.

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Questioni dottrinarie in Medio Oriente https://ogzero.org/questioni-dottrinarie-in-medio-oriente/ Sun, 29 Mar 2020 16:26:48 +0000 http://ogzero.org/?p=56 Ma come avevano reagito gli sceicchi alauiti all’abbraccio sciita degli ayatollah al-Sadr e al-Shirazi? Ed era cambiato qualche cosa nella loro dottrina? Rispondere a questo quesito è assai complicato: un conto era quanto veniva proclamato in pubblico, ben altro era stabilire davvero quale dottrina seguissero gli alauiti in segreto. Forse alcuni degli sceicchi più giovani […]

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Ma come avevano reagito gli sceicchi alauiti all’abbraccio sciita degli ayatollah al-Sadr e al-Shirazi? Ed era cambiato qualche cosa nella loro dottrina? Rispondere a questo quesito è assai complicato: un conto era quanto veniva proclamato in pubblico, ben altro era stabilire davvero quale dottrina seguissero gli alauiti in segreto. Forse alcuni degli sceicchi più giovani e istruiti avevano cominciato a formulare una sorta di riformismo alauita per avvicinarsi maggiormente alla teologia e alla filosofia dello sciismo duodecimano. In realtà in una fede esoterica come quella alauita le dispute dottrinarie tendevano a restare confinate a una cerchia ristretta di iniziati: le bocche erano cucite e le lingue si scioglievano soltanto per ripetere che gli alauiti appartenevano allo sciismo, una sorta di mantra recitato per respingere l’accusa di essere miscredenti.

Le questioni dottrinarie poi erano quasi inseparabili dalle dispute sull’autorità religiosa: e in questo campo non ci furono cambiamenti. Gli sceicchi alauiti siriani non riconobbero nessuna autorità e nessuno di loro seguì mai i fatwa o le indicazioni religiose che venivano da Qom e Najaf.

Questo era un punto cruciale. Fino a quando si fossero rifiutati di riconoscere l’autorità religiosa dei più importanti mullah sciiti, gli alauiti non avrebbero mai potuto ottenere un riconoscimento dei grandi ayatollah della statura di un Abol Qassem Khoi a Najaf oppure di Qassem Shariatmadari a Qom, considerati dei marja e-taqlid, fonti di imitazione, quindi dotati di un prestigio assoluto nel mondo sciita del tempo e che oggi può vantare soltanto Alì al-Sistani, il grande ayatollah iraniano, allievo di Khoi, che risiede dagli anni Settanta in Iraq.

I Naqshbandi

Tutto questo è dimostrato da una vicenda per niente secondaria. L’ayatollah Shariatmadari, protagonista della rivoluzione del 1979 contro lo shah e che aveva attirato l’interesse dei reporter occidentali, oltre che del filosofo francese Michel Foucault, intrattenne una lunga corrispondenza con Ahmed Kuftaro, gran muftì della Siria e strettamente legato al clan degli al-Asad. Fu Kuftaro, di origini curde, capo anche della confraternita Naqshabandi, ad accompagnare Giovanni Paolo II nella sua famosa visita alla grande moschea ommayade di Damasco nel 2001: era la prima volta che un papa entrava in una moschea. 

È curioso che la guida del papa fosse il capo in Siria della Naqshbandyya, una tariqa, una confraternita molto antica, che vantava la sua origine dai discendenti di Maometto e che fu in seguito associata al grande mistico del xiv secolo Muhammad Bahah al-Din al-Naqshbandi, da cui ha preso la denominazione. 

I Naqshbandi, detti anche Naksibendi in Turchia, hanno un ruolo chiave nelle sotterranee solidarietà della politica mediorientale. Durante una delle tante finte elezioni presidenziali irachene negli anni Novanta, Izzat Ibrahim al-Douri, vice di Saddam Hussein ed eminente esponente baathista, si fece accompagnare dalla stampa a Tikrit, città natale di Saddam, dove aveva forgiato i legami con il raìs. 

In quella occasione fu più facile del solito avvicinarlo e al-Douri ci rivelò di essere assai religioso: ogni venerdì andava a pregare in una delle moschee più importanti della capitale. Da un membro del suo seguito scoprimmo che apparteneva all’Ordine dei Naqshbandi, la confraternita estesa dall’Asia centrale alla Turchia alla Mesopotamia. Queste credenziali religiose dovevano averlo reso affidabile anche gli occhi del Califfato e del suo capo Abu Baqr al-Baghdadi che si vantava di essere membro di questa tariqa

Che i baathisti avessero dato una mano importante all’ascesa dello Stato Islamico di al-Baghdadi lo dimostrava anche il messaggio caloroso rivolto ai jihadisti con cui nel 2014 era riaffiorato alle cronache Izzat Ibrahim al-Douri dopo un decennio da imprendibile latitante tra Siria e Iraq. Al-Douri, che sarebbe stato ucciso nel 2015 a Suleymania, non era l’unico politico della regione affiliato all’ordine. 

In Turchia la confraternita dei Naksibendi nel dopoguerra trova il suo rinnovatore nell’imam Mehmet Zahid Kotku. Anche lui era un sufi che trasformò il sonnolento ordine della Naqshbandyya turca in una vera scuola socio-politica: sono stati seguaci di Kotku il presidente Turgut Ozal, il primo ministro islamista Necmettin Erbakan e lo stesso presidente Tayyp Erdogan, capo del partito musulmano Akp.

Quando si pensa ai protagonisti della scena mediorientale nessun legame deve essere trascurato e alcuni di questi possono apparire sorprendenti soltanto perché li ignoriamo. Per questo fui meno sorpreso quando due giorni prima della caduta di Baghdad, nella primavera 2003, feci colazione con il segretario di Saddam. Il dottor Ahmad mi venne a prendere nella hall dello Sheraton dove erano accampati alcuni islamisti che avevano sfilato qualche settimana prima per le vie della capitale con le cinture esplosive. «Ma questi prima non li impiccavate ai pali della luce?» osservai. «È vero – rispose Ahmad – ma adesso ci servono anche loro». Erano membri del gruppo islamista Ansar e facevano riferimento proprio a Izzat Ibrahim al-Douri. Qualche tempo dopo si sarebbero fatti esplodere ai check point degli americani e nelle moschee degli sciiti, i nuovi padroni dell’Iraq.

Proprio nel fatale 1979, l’anno della rivoluzione iraniana, il gran muftì siriano Kuftaro visitò Qom e si diffusero voci che fosse andato proprio dall’ayatollah Shariatmadari per ottenere un riconoscimento ufficiale degli alauiti come membri dello sciismo. Ma Shariatmadari non disse una parola al riguardo né fece alcun gesto in questa direzione: il silenzio assordante di Qom lasciò delusi diversi sceicchi alauiti e lo stesso clan degli al-Asad che avevano riposto la loro massima fiducia nella mediazione di Kuftaro, molto noto per la sua abilità nell’intrecciare il dialogo interreligioso.

La rivoluzione iraniana e gli alauiti

La rivoluzione iraniana e lo sciismo militante arrivarono a Damasco prima ancora che l’imam Khomeini facesse ritorno a Teheran il primo febbraio 1979 dopo la fuga dello shah Reza Palhevi. Nel giugno del 1977 era stato sepolto a Damasco, accanto al famoso mausoleo di Zeynab, Alì Shariati, uno dei simboli della rivoluzione.

La storia me la racconta nella sua casa di Teheran Ibrahim Yazdi, testimone di quel tempo. Alla parete della sala c’è la sua foto, quella di un uomo maturo e vigoroso, con un folta capigliatura corvina che arringa una folla oceanica a Korramshar. Un’immagine in bianco e nero, netta, senza sbavature, come poteva apparire in quel momento l’orizzonte dell’Iran: il passato, lo shah, era stato travolto e la rivoluzione prometteva un mondo nuovo. Yazdi il 1° febbraio 1979 era sbarcato a Teheran con il volo da Parigi insieme all’ayatollah Khomeini: pochi giorni dopo sarebbe diventato ministro degli Esteri del primo governo della Repubblica islamica. 

Fu lui, Yazdi, a presentare il progetto di costituzione a Khomeini. Sul frontespizio c’era scritto: «Costituzione della repubblica dell’Iran», l’imam prese una penna e aggiunse: «Costituzione della repubblica islamica dell’Iran». Dieci mesi più tardi il governo di Mehdi Bazargan, che aveva lasciato fuori dalla porta i mullah, si dimetteva e Yazdi passava, per sempre, all’opposizione: 30 anni dopo con i capelli bianchi, qualche anno di carcere alle spalle, un cancro superato, aveva ancora voglia di raccontare.

«Con la sua interpretazione marxista dell’islam Alì Shariati fu l’ideologo più influente della sua epoca e l’inventore dello “sciismo rosso”. Per lui la storia degli sciiti, con il martirio di Hussein a Kerbala nel 680, ucciso dai califfi sunniti, non era altro che la dialettica della lotta di classe, destinata a culminare nella rivoluzione». Delle idee di Shariati e degli slogan sulla rivolta degli oppressi si impossessarono la leadership religiosa e l’imam Khomeini, che però legittimarono il loro potere con il millenarismo sciita. Khomeini fu abile a trasformare la caduta dello shah, alla quale parteciparono nazionalisti, liberali, comunisti e gruppi di sinistra, nella rivoluzione dei turbanti. 

Islamologia, il volume più famoso di Shariati, in poco tempo divenne una sorta di “libretto rosso” tra le giovani generazioni iraniane. Tale fu il successo di Shariati che nel 1973 il regime dello shah lo arrestò imponendogli una durissima carcerazione. Liberato su forti pressioni internazionali andò in esilio in Europa dove aveva studiato negli anni Sessanta a Parigi, appassionandosi a Frantz Fanon e diventando amico di Sartre. 

A Londra il 18 giugno 1977 ricevette una telefonata dalla moglie in cui lo avvertiva che lei e una delle figlie erano state fermate all’aeroporto. Accompagnato da alcuni amici si recò velocemente a Southampton dove attese con grande ansia il complicato superamento dei controlli doganali da parte della moglie e della figlia. Tornato a casa, Shariati si addormentò per l’ultima volta; il mattino seguente fu ritrovato morto nel letto, c’è chi dice a causa di un arresto cardiaco e chi perché caduto vittima di un agguato notturno della polizia segreta dello shah.

«Fu 24 ore dopo la sua morte – racconta Yazdi – che ci trovammo a Londra con Sadq Gotzbadeh e Abholassam Banisadr per decidere dove seppellirlo: la sua volontà era di essere tumulato vicino al mausoleo di Zeynab a Damasco e mi incaricai dell’operazione». Gotzbadeh diventato ministro dopo la rivoluzione fu giustiziato da un plotone di esecuzione nel 1982 per aver partecipato a un complotto contro Khomeini; Banisadr, primo presidente della repubblica islamica, fu deposto nel 1981 e costretto all’esilio in Francia. L’altro fondatore insieme a Yazdi del Movimento per la libertà iraniana negli anni Sessanta, cui aveva aderito anche Shariati, era Mostafa Chamaran, ex fisico della Nasa: nominato ministro della Difesa fu ucciso nel 1981 sul fronte nella guerra Iran-Iraq. La rivoluzione e la guerra divoravano così i protagonisti della storia insieme a un milione di giovani iraniani che cadevano nelle paludi dello Shatt al-Arab.

La tomba di Shariati è una stanza accanto al mausoleo di Seyeda Zeynab, la figlia di Alì e di Fatima, quindi nipote di Maometto. È meta di lunghi pellegrinaggi da parte degli sciiti iraniani che con i pasdaran montano la guardia al complesso monumentale situato nel governatorato di Damasco. Shariati è sepolto in una stanza dove ci sono le sue foto, mazzi di fiori e una piccola biblioteca che espone alcuni dei suoi libri, compresi Islamologia e Fatima è Fatima, un libro dedicato da Shariati alla figlia del Profeta e al ruolo delle donne rivoluzionarie. Anche gli alauiti vanno a trovare Zeynab, in quanto figlia di Alì, e il mausoleo è una meta delle visite non solo degli sciiti ma anche delle correnti sufi devote al culto della nipote di Maometto.

La scelta di seppellire Shariati a Damasco non fu casuale. Dopo il 1973 e la legittimazione elargita dall’imam Musa al-Sadr, le autorità siriane avevano cominciato a dare rifugio ai fuoriusciti iraniani, soprattutto religiosi, che formavano l’opposizione allo shah Reza Palhevi ed erano perseguitati dalla Savak, la polizia segreta.

E non fu casuale che a officiare le esequie di Alì Shariati fosse proprio Musa al-Sadr, che aveva incoraggiato i rapporti tra il regime di al-Asad e gli ayatollah antishah. Da parte loro i siriani non potevano certo immaginare che il variopinto corteo dei dissidenti iraniani, dai mullah con il turbante ai giovani esponenti delle correnti marxiste, potesse un giorno rovesciare il regime di Teheran fortemente sostenuto dagli Stati Uniti che ne avevano fatto una sorta di guardiano del Golfo. Lo stesso presidente democratico Jimmy Carter, un anno prima dello scoppio della Rivoluzione, era andato a Teheran dallo shah per brindare con le mogli al Capodanno 1978: le due coppie furono fotografate che alzavano calici di champagne e sorridevano agli obiettivi.

Agli alauiti di Damasco importava soprattutto tenere buoni rapporti con gli ayatollah sciiti. Non avevano potuto ottenere l’appoggio del celebre Shariatmadari ma forse speravano in quello dell’imam Khomeini che allora si trovava ancora a Najaf. Dopo tutto Khomeini era un rivoluzionario che subordinava la tradizione religiosa all’obiettivo primario di abbattere lo shah e anche lui, come del resto Musa al-Sadr, aveva bisogno di amici influenti. Non è chiaro fino a che punto gli alauiti siriani al potere si spinsero a chiedere il sostegno religioso di Khomeini per la loro legittimazione ma è certo che corteggiavano i religiosi sciiti in esilio: quando Khomeini fu costretto a lasciare Najaf e gli fu rifiutato l’ingresso in Kuwait prese in considerazione di stabilirsi a Damasco prima di scegliere la Francia.

1979: paradossale alleanza strategica siro-iraniana

I rapporti tra siriani e iraniani diventarono strategici dopo la rivoluzione del 1979. La Siria tollerava la presenza dei pasdaran iraniani nella valle della Bekaa dove stava nascendo il movimento degli Hezbollah in un Libano sotto lo stretto controllo di Hafez al-Asad. In cambio l’Iran stese il silenzio sulla repressione da parte del regime siriano dei Fratelli musulmani che erano scesi in rivolta a Hama. E quando Saddam Hussein attaccò l’Iran il 22 settembre del 1980 i siriani si schierarono con Teheran. 

Era un paradosso: da una parte l’Iran combatteva contro l’Iraq baathista di Saddam, presentando il regime sunnita di Baghdad come l’emblema dell’empietà, dall’altra gli ayatollah iraniani erano in stretti rapporti con un altro regime baathista, quello di Damasco, in mano agli alauiti ritenuti dai sunniti degli incorreggibili miscredenti.

La posta in gioco tra i laici di Damasco e i religiosi di Teheran era altissima: senza la cooperazione della Siria l’Iran non poteva estendere la sua influenza fino alle coste del Mediterraneo e i siriani senza la collaborazione della Repubblica islamica non potevano tenere sotto controllo il Sud sciita del Libano, una pistola puntata contro Israele che aveva occupato le alture siriane del Golan nel 1967 proprio quando Hafez al-Asad era comandante dell’aviazione.

I due regimi, quello di Damasco e quello di Teheran, avevano credenze religiose diverse ma condividevano lo stesso destino geopolitico: è stato così fino ai nostri giorni con l’asse sciita tra Teheran-Baghdad-Damasco e gli Hezbollah libanesi.

L’Iran ha quindi fornito al regime di al-Asad una legittimazione religiosa derivante dai suoi interessi strategici ma lo ha fatto sempre in maniera indiretta e sottile. Quando i religiosi iraniani della Repubblica islamica, anche quelli che in passato sono stati direttamente legati all’imam Khomeini, visitano Damasco parlano sempre il linguaggio della politica. Non si soffermano mai a discutere di dottrina o a fare riferimenti di carattere religioso, non accennano minimamente ai rituali degli alauiti. Parlano di solidarietà politica tra Damasco e Teheran e si appellano genericamente all’ecumenismo tra musulmani, alla necessità di essere uniti contro la minaccia dell’imperialismo, del colonialismo e del sionismo. Sottolineano sempre i grandi sacrifici compiuti dai siriani su questi fronti ma si guardano bene dal toccare argomenti religiosi per non aprire capitoli scottanti tra loro e gli alauiti che si autoproclamano seguaci dello sciismo. Tanto più dopo che nel 2015 la Russia, potenza cristiano-ortodossa, è scesa direttamente in campo con le sue forze armate per sostenere Bashar al-Asad.

Non c’è dubbio però che la rivoluzione iraniana abbia fatto sentire i suoi effetti anche sull’esigenza di riforme all’interno della comunità alauita. Nel 1989 Hafez al-Asad incontrò più volte gli sceicchi alauiti a Qardaha chiedendo una modernizzazione della dottrina e di rafforzare i legami culturali con i maggiori centri dello sciismo duodecimano. Alcune centinaia di studenti alauiti vennero spediti a Qom ma non è chiaro fino a che punto poi ci sia stata una reale riforma interna e se gli sceicchi siriani abbiano davvero sacrificato la loro verità eterna alle esigenze effimere del potere. Il velo del silenzio e il mantello del segreto proteggono ancora il mistero alauita.

Frags tratti da Il musulmano errante. Storia degli alauiti e dei misteri del Medio Oriente, di Alberto Negri, con una prefazione di Lucio Caracciolo, Torino, Rosenberg & Sellier, 2017

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Lo sciismo nella terra dei due fiumi https://ogzero.org/lo-sciismo-nella-terra-dei-due-fiumi/ Sun, 29 Mar 2020 15:45:15 +0000 http://ogzero.org/?p=51 Questo era il mondo nella Qom dell’imam Musa al-Sadr, che se non fosse scomparso in Libia nel 1978 forse avrebbe cambiato la traiettoria dello sciismo. Figlio dell’imam Sadr al-Din, dopo essersi formato nello studio delle scienze religiose, si laureò in sharia e scienze politiche presso l’Università di Teheran nel 1956 prima di insediarsi a Tiro […]

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Questo era il mondo nella Qom dell’imam Musa al-Sadr, che se non fosse scomparso in Libia nel 1978 forse avrebbe cambiato la traiettoria dello sciismo. Figlio dell’imam Sadr al-Din, dopo essersi formato nello studio delle scienze religiose, si laureò in sharia e scienze politiche presso l’Università di Teheran nel 1956 prima di insediarsi a Tiro del Libano nel 1960. Fu il fondatore del movimento Amal, particolarmente attivo e seguito nel Sud del Libano a forte maggioranza sciita. 

Alto, affascinante, con occhi verdi mobili ed espressivi, Musa al-Sadr parlava molte lingue ed era un oratore brillante, ascoltato anche dalle altre comunità libanesi. Possedeva anche grandi capacità organizzative e abilità nel raccogliere fondi che servirono a cause sociali, umanitarie e alla fondazione delle milizie di Amal, nei cui campi di addestramento passarono attivisti iracheni, iraniani e un corpo di pasdaran, le Guardie della rivoluzione khomeinista.

Musa al-Sadr fu il primo imam musulmano a pregare in una chiesa alla cerimonia di Pasqua, a entrare nel salotto buono della Beirut cristiana citando in un famoso discorso Sartre, Jaspers e Marx, a scrivere un saggio su “Le Monde”. 

Gli al-Sadr in Siria

Al-Asad e gli alauiti lo interessavano. Fu lui, capo allora dell’Alto consiglio sciita del Libano, a emettere nel 1973 un fatwa (un responso sulla legge religiosa) in cui si sanciva che gli alauiti erano membri a pieno titolo della grande comunità islamica degli sciiti come seguaci di Alì, il primo dei Dodici imam. Da allora lo sciismo diventò uno dei pilastri del regime, con la conseguente diffusione di rituali e pellegrinaggi che hanno poi legato sempre di più Damasco alla repubblica islamica iraniana, con la quale un tempo condivideva anche un nemico comune, il presidente iracheno Saddam Hussein.

Questo è il motivo originario per cui gli al-Asad, passato lo scettro dopo la morte di Hafez al figlio Bashar nel 2000, sono ancora oggi alleati di ferro di Teheran: i religiosi sciiti legittimarono il loro potere politico a Damasco di fronte ai sunniti. Ma questa fu anche la fine dell’alauitismo originario. Gli alauiti non andavano in moschea, non praticavano il ramadan e osservavano rituali completamente diversi, inoltre credevano nella metempsicosi, la trasmigrazione della anime. Con l’affiliazione allo sciismo gli al-Asad cominciarono a comportarsi come “veri” musulmani e trascinarono con loro gran parte della minoranza alauita. Il loro modello religioso era quello sciita.

L’imam Seyed Musa al-Sadr aveva avuto un ruolo fondamentale nella trasformazione della setta degli alauiti. Gli al-Sadr sono una delle dinastie più prestigiose dello sciismo e la famiglia di Musa al-Sadr attraverso le parentele con gli Sharefeddine e i Noureddine faceva risalire le sue origini al settimo dei Dodici imam Musa al-Kazim a sua volta discendente di Alì e Fatima, la figlia di Maometto. E come tutti i discendenti di Maometto i religiosi al-Sadr, ramificati con i loro alberi genealogici collaterali dall’Iran, all’Iraq, al Libano, al Golfo, indossano come segno distintivo il turbante nero e vantano l’appellativo di seyyed

Hasab e Nasab, la genealogia e la stima acquisita sono più importanti in questo mondo del luogo di nascita e la fama di un grande ayatollah e della sua famiglia trascendono ampiamente le frontiere del Medio Oriente. 

Gli al-Sadr in Iraq

Quella degli al-Sadr è una storia con un prestigio quasi senza eguali nello sciismo, non solo sotto il profilo religioso e dottrinario ma anche per l’influenza politica. Era cugino di Musa al-Sadr, per esempio, Mohammed Baqr al-Sadr, grande giurista e politologo, definito una sorta di Khomeini dell’Iraq, che insieme alla sorella fu giustiziato da Saddam nel 1980. E Mohammed Baqr era lo zio di Muqtada al-Sadr, uno dei capi degli sciiti iracheni dopo l’invasione americana del 2003, il cui padre Sadiq al-Sadr venne anche lui giustiziato dal regime sunnita iracheno nel 1999.

Cosa significasse essere un al-Sadr lo toccai con mano in Iraq dove quella famiglia rappresentava la resistenza al potere sunnita monopolizzato dal clan di Tikrit di Saddam Hussein. La sua storia coincideva con quella degli sciiti iracheni. Fu in base agli interessi della Corona britannica che Gertrude Bell, grande scrittrice e agente dei servizi di sua Maestà, disegnò l’Iraq e lo affidò a una minoranza sunnita per contrastare i religiosi sciiti che durante e dopo la Prima guerra mondiale avevano condotto la rivolta contro gli inglesi, inchiodandoli in furibonde battaglie con 90 000 morti. Sul trono salì l’hashemita Feisal, figlio dello sceicco spodestato della Mecca, al quale seguì il nipote Feisal II, rovesciato e ucciso da un colpo di stato del generale Kassem nel 1958. Ma il monopolio sunnita del potere proseguì con il golpe del 1963 dei fratelli Arif e quello baathista del 1968 che proiettò ai vertici il clan di Tikrit con Saddam, che quando si presentò l’occasione ordinò di impiccare o assassinare tutti gli ayatollah più importanti, deportò migliaia di sciiti nel 1979-1980 e con la repressione della rivolta della primavera 1991, seguita alla guerra del Golfo, ne massacrò nel Sud almeno 100 000. 

«È necessario andare oltre a queste vicende sanguinose, trovare il modo di superare le divisioni, stringerci la mano e agire per il bene dell’Iraq», ripeteva dal suo esilio di Londra Abdul Majdi al-Khoi, figlio del grande ayatollah Seyed al-Khoi, il cui fratello Taqi era stato assassinato nel 1994 dai sicari di Saddam. I suoi appelli alla pacificazione, che suonano ancora oggi d’attualità dopo la barbarie del Califfato, però non ebbero fortuna: quando tornò in Iraq fu accoltellato nella moschea di Alì a Najaf il 10 aprile 2003 mentre Saddam Hussein era in fuga, braccato dagli americani. Questi ultimi accusarono della sua morte proprio Muqtada al-Sadr ed emisero contro di lui un mandato di cattura, poi annullato per sedare una delle frequenti rivolte delle sue milizie denominate l’Esercito del Mahdi.

Con la fine del regime baathista nel 2003 gli Stati Uniti avevano di fatto consegnato il governo alla maggioranza sciita alleata dell’Iran: una rivincita storica e un risultato che Teheran aveva ottenuto senza muovere un pasdaran, come del resto era accaduto nel 2001 con la caduta dei talebani, arcinemici della repubblica islamica sciita. E non è certo un caso che quando il raìs venne impiccato, prima che il suo corpo fosse inghiottito dalla botola, gridasse tutte le sue maledizioni contro l’Iran mentre i suoi giustizieri inneggiavano a Muqtada al-Sadr e alla famiglia diventata il simbolo della resistenza al potere sunnita. 

Di quella scena fosca abbiamo soltanto le immagini labili e sfocate girate con i cellulari: riguardandole dopo qualche anno appare più chiara la parabola di al-Qaida nella Terra dei due fiumi guidata all’epoca da Abu Musab Zarqawi, ucciso dagli americani nel 2006, e diventa anche più distinta la traiettoria dell’allievo di Zarqawi, Abu Baqr al-Baghadi, il fondatore del Califfato il 29 giugno 2014 a Mosul, che per sollevare i sunniti in Iraq e in Siria si alleò con gli ex ufficiali di Saddam.

Il ritratto di Muqtada allora era ovunque, accompagnato da quello del leader libanese degli Hezbollah, Hassan Nasrallah. Le altre foto di Sadr City, uno dei più grandi quartieri di Baghdad disegnato negli anni Cinquanta sul modello urbanistico di Manhattan, ricordavano a tutti la genealogia di Muqtada: c’erano oltre al ritratto dello zio, Mohammed Baqr, anche quello del padre, Sadiq al-Sadr, ucciso dal raìs nel 1999 insieme ai due fratelli di Muqtada.

I due “martiri al-Sadr”, Musa e Sadiq, gli avevano trasmesso un’eredità molto significativa, spirituale e materiale. Il prestigio politico e quello religioso, nonostante Muqtada nei suoi studi teologici si fosse fermato prima della laurea islamica. Ma soprattutto aveva ereditato come fosse una proprietà di famiglia inalienabile una rete di decine di migliaia di seguaci a Baghdad ed estesa a tutto il Sud dell’Iran. 

Per questo quando gli americani tentarono per due volte di metterlo alle strette nel 2004 esplosero rivolte ovunque, da Baghdad a Najaf, a Nassiriya e nel 2008 anche a Bassora. 

Custode di questa rete, che comprende le consistenti elemosine dei credenti e le entrate dai pellegrinaggi, era stato per anni l’ayatollah Kazem Hussein Haeri di Qom, considerato il successore di Mohammed Baqer al-Sadr, lo zio di Muqtada. Haeri, insieme alla leadership di Teheran, aveva convinto Muqtada a trasformare il suo movimento sul modello degli Hezbollah libanesi: partito politico e milizia, organizzato con una forte presenza sociale sul territorio.

Muqtada al-Sadr

Nel dicembre 2006, in occasione di un’intervista con Muqtada, entrai ancora una volta nel tempio di Alì a Najaf sormontato dalla famosa cupola d’oro. 

Prima della caduta del raìs iracheno, all’ingresso dell’ufficio del custode era incollata una grande targa nera con caratteri in oro che riportava l’albero genealogico di Saddam: il leader baathista, sunnita e secolarista aveva trovato il modo di far risalire la sua famiglia a quella del genero e cugino di Maometto. Si trattava, ovviamente, di un falso ed era stata rimossa. Una stanza era stata invece riservata alla tomba del grande ayatollah Khoei, ritenuto una specie di santo e guaritore: accanto erano stati sepolti i suoi due figli brutalmente assassinati.

Il giornalista iracheno che mi accompagnava, Sadiq Sattar al-Husayni, mi fece notare che due delle quattro porte del tempio erano controllate da uomini di Muqtada e da lì era vietato l’ingresso a chiunque: «Il grande ayatollah Alì al-Sistani, il più importante religioso iracheno, ne ha una sola. Un’altra è per i membri anziani dell’hawza, il consiglio del clero. Non c’era dubbio alcuno che qui comanda Muqtada, un mullah di 32 anni che pure non ha nessuna qualifica di alto grado nella gerarchia religiosa». Senza l’aiuto di Sattar, che aveva studiato a Najaf e sapeva come superare le insidie del viaggio da Baghdad, andare da Muqtada sarebbe stato rischioso e anche inutile. 

Febbraio 2014

Il giovane mullah, con il turbante nero, una barba mal coltivata e una tunica larga che non riusciva a nascondere una sagoma intorno al quintale, aveva un’aria svogliata. Erede di una famiglia di ayatollah – il padre, lo zio e due fratelli furono uccisi da Saddam Hussein – Muqtada, sposato con una cugina, senza figli, era trincerato a Najaf, da dove minacciava un jihad (sforzo contro gli infedeli per la causa islamica) contro gli americani se non se ne fossero andati presto dal paese. 

«Ho fatto testamento e comprato la stola di cotone bianco che adorna i defunti – confidò nervosamente – perché americani, saddamisti e terroristi mi vogliono morto». Respirò pesantemente prendendo fiato e fece una lunga tirata: «Odio l’America perché ha importato il terrorismo in Iraq: continuerà a scorrere un fiume di sangue finché ci saranno soldati stranieri. Noi siamo pronti a parlare con i sunniti moderati. Ma ci stiamo anche preparando a una grande battaglia contro i terroristi sunniti e al-Qaida. Loro hanno voluto la guerra distruggendo la moschea di Samarra, dopo che Bin Laden aveva approvato un fatwa per ammazzare gli sciiti. Quella è stata la svolta. Il capo degli ulema sunniti, Haret al-Dhari appoggia al-Qaida e ha impedito la ricostruzione della moschea facendo uccidere tecnici e operai che avevo mandato con i soldi raccolti tra i fedeli di Najaf e Kerbala. È amico dei sauditi, sempre pronti a finanziare i terroristi sunniti. Sono stato per un giro diplomatico nei Paesi arabi: ho constatato che, tranne qualche eccezione, sono tutti nostri nemici».

Muqtada contava nel 2006 su migliaia di uomini armati, questa era la sua massa di manovra più temibile, ma aveva anche ottenuto la quota maggiore dei seggi nel blocco sciita vincitore delle elezioni del 2005. Tra rivolte e battaglie, l’ultima quella di Bassora nel 2008, Muqtada al-Sadr non è però riuscito nell’obiettivo di conquistare la leadership sciita e del paese, ed è stato convinto dall’Iran a rinfoderare le armi e a usarle soltanto per costituire le milizie anti-Califfato. Ma le roccaforti del suo potere restano ancora oggi, nel 2016, intatte.

Secondo Sattar, che conosceva bene le trame dei mullah iracheni per averli a lungo frequentati, «Muqtada voleva diventare il leader dell’Iraq mettendo in secondo piano anche l’autorità dell’Hawza, l’alto consiglio religioso di Najaf composto da quattro Grandi Ayatollah, l’iracheno Said al-Hakim, l’iraniano Alì al-Sistani, il più prestigioso, Mohamed Seyed Fayad, afghano, e Bashir al-Najafi, di origini indiane. Come vedi – sottolineava Sattar – il consiglio di Najaf è una sorta di “multinazionale” sciita: per questo Muqtada insiste sul nazionalismo iracheno come carattere distintivo del suo movimento». Un obiettivo molto ambizioso, avversato, oltre che dagli americani, dai sunniti e dagli stessi sciiti come la famiglia Hakim, eterni rivali degli al-Sadr. 

La posta in gioco è sempre il potere, il prestigio religioso e politico con la strumentalizzazione della fede settaria, il controllo delle finanze del clero e, soprattutto, del petrolio del Sud, il carburante indispensabile con i petrodollari dei grandi progetti politici di questa parte del Medio Oriente. 

Ma la «mezzaluna sciita» avrebbe potuto scrivere una storia diversa da quella già conosciuta in questa regione, non in Iraq, forse, ma in Libano, dove un giorno arrivò Musa al-Sadr. 

Come svanisce un ayatollah

Ci sono molti modi di essere un al-Sadr. Nell’estate del 2006, mentre infuriava la battaglia tra gli Hezbollah libanesi e Israele, vado a Tiro. L’ufficio di Fatima alla Fondazione dell’imam Musa al-Sadr è un accampamento. Fatima sta raccogliendo gli aiuti, fa una lista delle persone scomparse e ospita come può i bimbi senza genitori e con le famiglie divise. Non ha tempo per rispondere a domande ma invoca un sostegno, un aiuto di qualunque tipo. L’emergenza in Medio Oriente non finisce mai: ai profughi di allora in Libano si sono aggiunti quelli dalla Siria, un milione su una popolazione di 4,2 milioni di persone. 

La foto dell’imam, scomparso in Libia a 50 anni, si trova ovunque a Tiro: fu qui che il religioso iraniano cominciò la sua attività pubblica. Il partito da lui fondato, Amal, “la speranza”, qui vince ancora regolarmente le elezioni municipali battendo gli Hezbollah di Nasrallah. Colto, elegante, ammantato del fascino dei Seyed, i discendenti del sangue di Maometto, Musa al-Sadr arrivò nel Jabal Amil, il Sud del Libano dove la sua famiglia aveva vissuto fino al xviii secolo, alla fine degli anni Cinquanta: con lui iniziò il risveglio degli sciiti, il loro riscatto morale, economico.

La sorella dell’imam Musa al-Sadr, Robabeh, oggi dirige la Fondazione, istituita nel 1960, che sostiene con borse di studio 1200 studenti, assiste migliaia di orfani e ogni anno cura oltre 50 000 persone. È aiutata dal figlio, Rida Charafeddine, laureato all’Università americana e manager della Byblos Bank, esponente di una generazione di sciiti moderna, emancipata. E non in contraddizione con gli insegnamenti di Musa al-Sadr. Il turbante nero di al-Sadr, frenetico viaggiatore, non esitava a corteggiare politici arabi, intellettuali cristiani e sunniti, uomini d’affari e banchieri, per sostenere la causa sciita.

«Prima della partenza per il suo ultimo viaggio a Tripoli lo aiutai a preparare una valigia piena di libri, c’erano anche cassette di musica persiana», ricorda la sorella Robabeh al-Sadr Charafeddine. E anche una lettera, mai spedita, a Khomeini. 

Due giorni prima della partenza da Beirut per la Libia Musa al-Sadr aveva inviato un articolo a “Le Monde” sulla lotta in Iran tra lo shah e l’opposizione religiosa degli ayatollah. L’Iran era la sua patria e naturalmente si sentiva coinvolto in prima persona, come persiano ed esponente religioso di primo piano. «In Iran – scrisse anticipando i tempi – è in corso un’autentica rivoluzione che non è di destra o di sinistra ma di un intero popolo nella sua diversità, vi partecipano studenti, lavoratori, intellettuali e uomini di religione. Il leader della rivoluzione,– aggiunse – il grande imam Khomeini, esprime le dimensioni nazionali, culturali e libertarie di questa rivoluzione». Fu un giudizio influente che pesò successivamente anche in Occidente sulla prospettiva con cui vennero valutati gli eventi che travolsero dopo qualche mese l’Iran e portarono alla fuga dello shah: Khomeini tornò trionfalmente in Iran il primo febbraio 1979.

Ma forse l’imam Musa pagò soprattutto un’intervista che diede a Tripoli due giorni prima di scomparire: è l’ipotesi, piuttosto fondata, che avanzava qualche anno fa Fouad Ajami, celebre studioso della politica araba e profondo conoscitore delle vicende di al-Sadr. Musa al-Sadr sosteneva sul giornale kuwaitiano “Al Nahda” che era venuto il momento di trattare con Israele: per dare la caccia ai palestinesi dell’Olp lo stato ebraico aveva appena invaso il Libano del Sud uccidendo un migliaio di sciiti e provocando l’esodo di altri 250 000. «Gli sciiti – dichiarò Musa al-Sadr – avevano perso le loro case, la loro terra e molte vite: forse avrebbero potuto evitarlo se avessero accettato di collaborare con Israele». Parole dette allora che probabilmente ancora oggi possono suonare come una condanna a morte per un leader musulmano agli occhi dei radicali: allora dominava il “fronte del rifiuto” di ogni negoziato con gli israeliani e il Colonnello libico Gheddafi insieme alla Siria degli al-Asad ne faceva parte. 

La sorella Robabeh mi raccontò la sua versione della storia, assai interessante: «Israele aveva invaso il Libano meridionale e rifiutava di ritirarsi secondo la risoluzione 425 dell’Onu. Mio fratello riteneva fosse suo dovere informare i leader arabi della situazione di crisi politica e umanitaria. Si recò quindi in Siria, Giordania, Arabia Saudita, Algeria, per chiedere una conferenza araba sul Sud del Libano. Al termine di un colloquio durato quattro ore con Houari Boumèdiène, il presidente algerino gli consigliò di fare rotta sulla Libia da Gheddafi: «Il mio fratello libico – disse Boumèdiène – ha informazioni sbagliate sulla situazione libanese». Fu così che cominciò la trattativa per il suo viaggio a Tripoli: si accordarono per il 25 agosto ma Musa al-Sadr avvertì i libici che sarebbe dovuto partire comunque il 1° settembre per una visita alla moglie che doveva essere operata in un ospedale di Parigi. Scomparve cinque giorni dopo la partenza ma in tutto il periodo che restò a Tripoli non abbiamo mai ricevuto da lui nessuna telefonata o notizia, neppure dai suoi compagni di viaggio. Un comportamento davvero insolito per l’imam ma anche per Badreddin, il giornalista che lo accompagnava. Io credo che Gheddafi fosse ostile alle posizioni politiche di Musa al-Sadr e soprattutto al suo piano di avviare trattative con Israele».

La sparizione di Musa al-Sadr

La scomparsa di al-Sadr è una vicenda controversa che riaffiora continuamente. L’imam arrivò nella capitale libica il 25 agosto del 1978 insieme a due compagni di viaggio, un religioso, lo shaykh Muhammad Yakoub, e un giornalista Abbas Badreddin, direttore dell’agenzia di notizie libanese: fu visto per l’ultima volta il 31 agosto in un hotel di Tripoli, Al Shati, da cui uscì verso mezzogiorno. Incontrando una delegazione di libanesi nella lobby affermò che stava andando a un appuntamento con Gheddafi. Secondo i libici invece aveva lasciato la capitale proprio quel giorno con un volo Alitalia diretto a Roma. Ma in Italia arrivò soltanto la sua valigia depositata all’Holiday Inn da due agenti di Gheddafi che misero sul letto della sua camera anche il mantello scuro dell’imam. 

Dopo la caduta di Gheddafi nel 2011, venne fuori che negli anni Ottanta i servizi segreti italiani, per mantenere buoni rapporti con il raìs libico, avevano avallato la versione del regime secondo il quale Musa al-Sadr nell’estate del 1978 si era volatilizzato durante una tappa a Roma. Ma nessuna testimonianza, né del personale dell’Alitalia né di quello dell’Holiday Inn confermava questa versione dei fatti. 

Nell’autunno del 2015 si cercavano ancora le sue tracce. Uno dei figli di Gheddafi, Hannibal, si era rifugiato a Damasco ma in un viaggio a Beirut venne arrestato dagli Hezbollah che lo interrogarono con metodi brutali sulla fine di Musa al-Sadr per poi consegnarlo controvoglia alla magistratura libanese in un momento politico delicato in cui si doveva decidere il candidato cristiano alla carica di presidente. Hannibal accusò Jallud, il numero due del regime libico, di aver fatto scomparire l’imam al-Sadr. La storia e il mito dell’imam scomparso in tutti questi decenni non si sono mai offuscati e gli sciiti non smettono di cercare la verità.

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