Movimenti | Temi OGzero https://ogzero.org/temi/politico-culturali/movimenti/ geopolitica etc Tue, 05 Dec 2023 16:01:58 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.4.6 L’epilogo comune del conflitto armato filippino? https://ogzero.org/conflitto-armato-filippino-l-epilogo-comune-del/ Sat, 02 Dec 2023 01:57:49 +0000 https://ogzero.org/?p=11994 Molto interessante la segnalazione di Gianni Sartori a proposito di un processo misconosciuto dai media mainstream – e anche i portali europei più attenti alle lotte di emancipazione non registrano gli “annientamenti” mirati contro i militanti più storici di una lotta che dura da 50 anni nell’arcipelago filippino. Ci sembra particolarmente significativo descrivere il processo […]

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Molto interessante la segnalazione di Gianni Sartori a proposito di un processo misconosciuto dai media mainstream – e anche i portali europei più attenti alle lotte di emancipazione non registrano gli “annientamenti” mirati contro i militanti più storici di una lotta che dura da 50 anni nell’arcipelago filippino. Ci sembra particolarmente significativo descrivere il processo di “pacificazione” del conflitto armato filippino con la guerriglia maoista intrapreso dal potere a Manila assimilabile alle modalità in cui si stanno consumando le soluzioni dei conflitti “epocali” in tutto il mondo: il caso più macroscopico anche per quantità riguarda i palestinesi, ma l’esempio più avvicinabile è il lento stillicidio colombiano delle Farc e probabilmente un futuro curdo che si prospetta per le importanti esperienze del confederalismo democratico, così tristemente simile a un passato Tamil; parzialmente diverso è il caso birmano, dove le comunità temporaneamente alleate contro Tatmadaw sono unite da ragioni meno nobili degli altri “eserciti” di liberazione citati.
Una notazione che ci viene dalla proposta grafica che abbiamo trovato come illustrazione dell’intervento: il tratto o l’inquadratura esibiscono tutti una retorica che sembra provenire da un lontano passato che non è riuscito ad aggiornarsi e anche per questo ha perso il suo appeal sui giovani e perciò l’apparato iconografico dei trattati di pace si compiace di ritrarre vecchi esausti che riconoscono che la contrapposizione armata al potere non è una prassi in grado di portare a risultati in questa fase storica.


L’arcipelago in fiamme da mezzo secolo

Distrazione, correlazioni saltate, oppure… repressione globale?

Tra le tante guerre a (relativamente) “bassa intensità” quella che si svolge nelle Filippine non è certo tra le più conosciute o documentate. Fermo restando che sia le lotte per l’autodeterminazione (indipendentiste o meno) che le eventuali “soluzioni politiche” (dal Sudafrica all’Irlanda, dalla Colombia ai Paesi Baschi…), per quanto frutto di ragioni intrinseche (almeno quelle autentiche, non create ad hoc) dipendono anche – o soprattutto – da ben altro. In particolare dal contesto geopolitico. Per chi preferisce: il “campo” in cui schierarsi, volenti o nolenti.
Dalle Filippine, anche nell’anno in corso, sono arrivate notizie soprattutto di scontri tra militari e guerriglieri (in genere comunisti). Scontri che solitamente – stando almeno a quanto si conosce – si concludono a sfavore dei secondi.
Da segnalare poi come sempre più spesso vengano uccisi elementi di spicco (comandanti…). Un segnale di perfezionamento delle operazioni di intelligence?

Intensificazione di esecuzioni mirate

Tra gli episodi più recenti (inizio novembre 2023), la cattura a Barangay Buhisan (San Agustin) di Cristitoto Tejero, comandante in capo del Fronte di guerriglia 19 della New People’s Army – Comitato regionale del Nordest di Mindanao. Il militante maoista (57 anni) era da tempo ricercato per la sua attività guerrigliera e in particolare per l’uccisione di un militare.
Pochi giorni prima, il 26 di ottobre, un altro esponente della Bagong Hukbong Bayan (Npa) da tempo ricercato, Michael Cabayag (Ka Teddy, comandante del Fronte di guerriglia Sendong) era stato ucciso dai soldati del 10° battaglione di fanteria nel villaggio di Carmen (Misamis Occidentale). Nella stessa circostanza veniva catturato un altro militante, Armida Nabicis (Ka Yumi). Tra le armi trovate in loro possesso: un fucile M-16 Armalite, un CZ (AK-47), una carabina M653 e un lanciagranate M-203.

La mattanza di combattenti irriducibili… e “storici”
Un altro esponente di spicco della guerriglia maoista, Ray Masot Zambrano, era stato precedentemente abbattuto a Barangay Obial (Kalamansig) il 10 ottobre.
L’operazione veniva condotta dai militari della 603° brigata di fanteria. Quasi contemporaneamente un altro membro della Npa (di cui al momento non si era potuto accertare l’identità) soccombeva sulle montagne di Buneg (Lacub, Abra).

Ancora più tragico il bilancio del 29 settembre quando almeno cinque esponenti della Npa perdevano la vita nella città di Leon, provincia di Lloilo.
Tra loro la comandante Azucena Churesca Rivera (Rebecca Alifaro, conosciuta anche come Jing).
Nella guerriglia dal 1980, svolgeva funzioni di Segretaria del Fronte sud della Npa -Komiteng Rehiyon-Panay.
Altri due guerriglieri venivano uccisi da una pattuglia di polizia nei pressi dell’aeroporto di Bicol (tra i villaggi di Bascaran e Alobo).
L’ennesimo guerrigliero era deceduto qualche giorno prima a Esperanza (Agusan del Sur) e almeno sei il 21 settembre nel villaggio di Taburgon (Negros occidentale)
Rispettivamente dal 26° battaglione di fanteria e dal 47° battaglione.
I sei maoisti facevano parte del Fronte sud-ovest della NPA. Tra di loro, Alejo “Peter/Bravo” de los Reyes; Mélissa “Diana” de la Peña ; Marjon “Kenneth” Alvio ; Bobby “Recoy” Pedro e il medico Mario “Reco/Goring” Fajardo Mullon.
Quanto al sesto guerrigliero, all’epoca non era stato ancora identificato.
Oltre ad alcune armi i militari avevano recuperato molto materiale propagandistico e politico.

Ancora sei maoisti (altri sei) erano caduti in combattimento il 7 settembre nel corso di una serie di scontri a fuoco con i militari nella zona di Sitio Ilaya (provincia di Bohol) mentre, intercettati a un posto di blocco, tentavano di sganciarsi.

Invece il 20 marzo era stato un sottufficiale dell’esercito filippino a venir ucciso in un conflitto con una decina di guerriglieri della Npa nell’isola di Masbate.

Comunque un doloroso stillicidio, oltretutto senza apparente via d’uscita e che – stando ai dati ufficiali – avrebbe causato oltre 40.000 morti (in maggioranza civili) in circa mezzo secolo.
Ma recentemente, dopo che precedenti trattative si erano insabbiate, è apparso qualche segnale di possibile soluzione del conflitto. Innanzitutto l’amnistia per i ribelli in carcere e poi una dichiarazione congiunta tra il governo filippino e il National Democratic Front of the Philippines (Pambansang Demokratikong Hanay ng Pilipinas), con cui entrambi intendevano ricucire il dialogo bruscamente interrotto sei anni fa dall’allora presidente Rodrigo Duterte (ex guerrigliero maoista).
Buona parte del merito dell’iniziativa andrebbe al presidente Ferdinand Romuáldez Marcos Jr (eletto nel 2022 e che presumibilmente vuole riscattarsi dalle colpe del padre) il cui Assistente speciale Antonio Ernesto Lagdameo è stato nominato Negoziatore governativo.

Il Fronte, coalizione di una ventina di organizzazioni (tra cui, oltre alla Npa, il Communist Party of the Philippines), ne costituisce la “vetrina politica” e attualmente è guidato da Luis Jalandoni, un ex sacerdote (tra i membri anche la Christians for National Liberation da lui fondata).

Altre organizzazioni che ne fanno parte:
Moro Resistance and Liberation Organization (Mrlo), Katipunan ng Gurong Makabayan (Kaguma), Liga ng Agham para sa Bayan (Lab), Lupon ng Manananggol para sa Bayan (Lumaban), Malayang Kilusan ng Bagong Kababaihan (femministe), Revolutionary Council of Trade Unions (Rctu),Pambansang Katipunan ng Mambubukid (Pkm), Katipunan ng mga Samahang Manggagawa (Kasama), Cordillera People’s Democratic Front (Cpdf)
Un eterogeneo raggruppamento tattico di partiti, associazioni della società civile, sindacati e gruppi armati di sinistra, milizie etniche, tribali e altro che per certi aspetti può ricordare l’attuale coalizione antigovernativa del Myanmar.Se non addirittura –almeno in prospettiva, potenzialmente – la situazione del Rojava.

Le pacifiche soluzioni di Oslo

Il 23 novembre 2023 Jalandoni, rappresentante del Partito comunista, e Lagdameo, assistente di Marcos jr., hanno firmato a Oslo una dichiarazione con cui si impegnano «per una soluzione pacifica ed equa del conflitto armato» e per una “pace giusta e duratura”.

Sottolineando «la necessità di unità come nazione per fare fronte alle minacce esterne alla sicurezza», auspicando indispensabili riforme socio-economiche atte a superare l’attuale situazione alquanto disastrata (anche sotto il profilo ambientale).

Scomparse significative: residuali baluardi dissolti nel nuovo ordine globale

Forse ha indirettamente contribuito all’accelerazione del nuovo corso la recente scomparsa in esilio (nel dicembre 2022) del dirigente comunista maoista Jose Maria Sison.
E proprio per il Communist Party of the Philippines e per il suo “braccio armato” (Npa) è prevista una trasformazione in organizzazione politica (analogamente al processo che ha interessato le Farc colombiane).

 

 

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Sri Lanka 2006-2009 https://ogzero.org/sri-lanka-2006-2009/ Tue, 31 Oct 2023 00:39:11 +0000 https://ogzero.org/?p=11784 Se pensate di riconoscere “fasi” di annientamento di popoli in corso nella stretta attualità, avete colto esattamente il motivo per cui pubblichiamo ora questo saggio inviatoci da Gianni Sartori, un teleobiettivo su una “questione” indipendentista attraverso le cui lenti ripulite dalla distanza del tempo è più facile ricostruire i molti diversi canali che hanno condotto […]

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Se pensate di riconoscere “fasi” di annientamento di popoli in corso nella stretta attualità, avete colto esattamente il motivo per cui pubblichiamo ora questo saggio inviatoci da Gianni Sartori, un teleobiettivo su una “questione” indipendentista attraverso le cui lenti ripulite dalla distanza del tempo è più facile ricostruire i molti diversi canali che hanno condotto a quell’epilogo di annientamento, ghettizzazione… pulizia etnica.. 


“Questione tamil”: dalla ribellione alla pulizia etnica governativa

Risaliva alla fine del settembre 2006 un ripristino di interesse, di attualità per la spesso trascurata “questione Tamil” in Sri Lanka.

Tra il 24 e il 25 settembre in una “battaglia navale” che sarebbe eufemistico definire impari, la marina militare governativa uccideva oltre una settantina di tamil che stavano trasportando armi con una decina di imbarcazioni. Armi molto probabilmente destinate ai guerriglieri delle Ltte (Liberation Tigers of Tamil) assediati da oltre un mese nella penisola settentrionale di Jaffna.
All’epoca si calcolava che in venti anni di conflitto fossero già morte circa 65.000 persone e gli sfollati superassero ormai il milione. In seguito tali numeri erano destinati ad aumentare sensibilmente.

In una “guerra tra poveri” da manuale con entrambi i contendenti vittime di vecchie e nuove colonizzazioni mentre il solco delle reciproche incomprensioni andava a ulteriormente approfondirsi. Proprio nei giorni successivi anche in Italia venivano organizzate da Castis (Campaign agaist separatist terrorism in Sri Lanka) numerose manifestazioni di sostegno al governo di Sri Lanka e contro le “Tigri”. Con il senno di poi, forse una mossa propagandistica propedeutica all’attacco finale contro la ribellione tamil. Un’operazione militare che per certi aspetti era destinata ad assumere il carattere e lo stile di una vera e propria pulizia etnica.

Oltre che a Napoli, Palermo, Brescia, Firenze…una manifestazione venne organizzata anche a Vicenza (24 settembre 2006). E qui avevo potuto incontrare e intervistare alcune dei partecipanti. Tra questi un ex insegnante “singalese e cristiano” che mi chiese di riportare solo le iniziali del suo nome «perché i miei familiari vivono ancora in Sri Lanka».

J.P. raccontava: «Per anni ho trascorso il mattino a scuola con i miei allievi e il resto della giornata nascosto nella foresta per paura degli assalti delle Ltte che rapiscono i bambini per poi addestrarli alla guerriglia». Alla fine J.P. aveva lasciato il suo lavoro, la sua terra ed era fuggito in Europa. Aveva preso tale decisione dopo un episodio drammatico:«Io scrivevo su alcuni giornali, soprattutto poesie contro la guerra. Una notte sono stato aggredito e picchiato». Gli assalitori gli avevano chiesto:“Quale braccio usi per scrivere?”. Mentendo disse di essere mancino e gli spezzarono il braccio sinistro. A questo punto aveva sorriso confessando che «Ho ancora qualche difficoltà a usarlo, ma posso sempre scrivere».

Uccise per il colore dei pantaloni

Nell’agosto del 2006 si era anche parlato del massacro di una cinquantina di studenti, soprattutto ragazze, in una scuola chiamata “Sencholei” nel Nord dello Sri Lanka. Inizialmente l’atto barbarico era stato attribuito alle Ltte, ma in seguito erano emerse le responsabilità dell’esercito governativo.

Mostrando scarsa sensibilità, il nostro interlocutore aveva giustificato l’eccidio in quanto «stando alle nostre informazioni “Sencholei” in realtà era un campo di addestramento delle Ltte, non una scuola». 
A suo avviso quindi “le vittime non erano studentesse, ma miliziane tamil”.

Una prova che di trattava di “Tigri” – per quanto giovanissime – e non di scolare verrebbe dal fatto che «indossavano abiti come quelli usati dai guerriglieri (in particolare pantaloni neri N.d.A.e non le divise bianche che usano normalmente tutti gli studenti».

Sempre secondo il nostro interlocutore all’epoca esisteva anche un’altra base militare tamil chiamata “Ruben” dove venivano addestrati i giovanissimi. Frequentata regolarmente da Velupillei Prabakaran, il capo delle Ltte.

Aggiungeva poi che assolutamente «non si trattava di una questione religiosa; la maggioranza dei singalesi è buddista, ma ci sono anche cristiani (come tra i tamil, in maggioranza induisti N.d.A.)». Diversa è la lingua, ma anche questo «non rappresenta un problema». Per concludere che tra i suoi amici c’erano «sia singalesi che tamil, sia buddisti che induisti e musulmani… Io sono un uomo e basta».

Avevo poi chiesto a Roshan Fernando, presumibilmente legato all’organizzazione di sinistra Jvp (il giorno prima era intervenuto a Radio Blackout di Brescia accusando le Ltte di essere “fasciste”) perché lo Stato dello Sri Lanka si ostinasse a negare ai tamil una loro patria indipendente.

Rispondeva che «le Ltte conducono questa guerra da almeno ventitre anni, ma non hanno ancora convinto la maggioranza dei tamilPer raggiungere il loro obiettivo devono puntare sulla propaganda e sugli aiuti esterni». Si diceva convinto che «dall’interno del paese non avrebbero alcuna possibilità di vincere perché l’attuale livello democratico raggiunto dallo Sri Lanka non lo permetterebbe». Con il senno di poi, visto il massacro compiuto dai governativi ai danni anche dei civili tamil, un’affermazione quanto meno affrettata.

Roshan Fernando ricordava comunque che le “Tigri” non permettevano agli altri partiti, anche quelli Tamil, di fare politica nei territori da loro controllati. Mi spiegava inoltre che tra i partiti presenti nell’isola i più consistenti erano Sri Lanka freedom (Srf), il Partito di unità nazionale (Unp che aveva appena perso le elezioni) e Jvp (Janatha Vimukthi Peramuna – Fronte di liberazione del popolo), partito che si definiva “rivoluzionario e anticolonialista” anche se partecipava alle elezioni e, al momento almeno, sosteneva il governo.

E continuava sostenendo che «le Tigri sopravvivono tenendo in ostaggio la popolazione tamil, arruolando a forza i bambini, obbligando la popolazione a versare mensilmente quote di denaro».

Polemiche con l’Europa

Questo, stando alle sue dichiarazioni, avveniva anche in Europa con gli immigrati. E si chiedeva come potessero «disporre di basi militari, uffici politici (anche all’estero), collegamenti satellitari, canali televisivi, radio». Ribadendo che le loro risorse economiche «provenivano da fuori», ossia dall’estero (con un’accusa sottintesa all’India, presumo). Per questo «noi chiediamo all’Europa di verificare e controllare».

Proprio in quel periodo era esploso un contenzioso tra Sri Lanka e Norvegia che nel giugno 2006 aveva proposto di riprendere a Oslo i colloqui di pace dopo la sospensione decretata dall’Unione europea. Ma quando il rappresentante del governo di Sri Lanka si era presentato, le “Tigri” avevano nuovamente rifiutato le trattative.

Per Roshan Fernando si sarebbe trattato di un espediente per «approfittare dell’occasione per riunire tutti i loro rappresentanti» (“come non riuscivano più a fare da molto tempo”). Inoltre la Norvegia sarebbe stata «a conoscenza delle loro intenzioni e si sarebbe prestata a tale operazione». Qualcosa del genere era già accaduto in Svizzera in quanto «le Ltte usano il pretesto delle trattative per riunirsi tra loro».

Ricordava come nell’aprile del 2006 le Ltte si fossero già ritirate unilateralmente dai colloqui di pace e in seguito, a luglio, fosse ricominciata la lotta armata. Del resto episodi di violenza si erano registrati anche nel 2005 (in dicembre) provocando decine di vittime tra ribelli, soldati e soprattutto civili inermi. Proprio nel 2006, in maggio, le Ltte erano state inserite nella “lista nera” dell’Ue come “gruppo terroristico”. Come avevano fatto da tempo Stati Uniti, Gran Bretagna e Canada.

Ne aveva immediatamente approfittato il presidente dello Sri Lanka reclamando contro Svizzera, Germaniae, Francia in quanto questi stati avrebbero dato ospitalità a esponenti delle Ltte che svolgevano attività politica «nonostante la stessa Ue avesse richiesto esplicitamente di sospendere tale attività». E non mancava qualche osservazione critica anche per l’Italia dove le Ltte avrebbero raccolto fondi sotto la copertura della sigla Tra (Tamils rehabilitation organisation).

Un interesse titanico

Perché tanto interesse, se non addirittura una certa benevolenza, per la causa tamil da parte dei paesi europei? Dipendeva forse, oltre che dalla posizione strategica dell’isola, dal ritrovamento di giacimenti petroliferi (e dalla presenza di un minerale strategico, il titanio)?
Con gli accordi del 2002 per una soluzione politica del conflitto, la Norvegia era stata scelta per monitorare il processo di pace, ma – sosteneva sempre il mio polemico interlocutore «questo paese si era mostrato favorevole ad accordi vantaggiosi per le Ltte». Con tali accordi lo Sri Lanka sarebbe stato “diviso in due”.
Formalmente si parlava di autonomia, ma «alla fine ci sarebbe stato un’altra nazione indipendente». Era infatti prevista la creazione di un parlamento, una polizia autonoma e anche una moneta.

Per Roshan Fernando «una situazione simile a quella che si è creata a Cipro, ma questo modello non è valido per lo Sri Lanka». Inoltre da qualche anno [eravamo nel 2006] «anche tra i tamil va crescendo l’ostilità nei confronti delle Ltte. Perfino un loro ex comandante, il colonnello Karuna Amman, aveva lasciato le Tigri e si stava organizzando nell’Est del paese per contrastarle».

Ricordo che questa sorta di Comandante Zero (quello che si allontanò dai sandinisti negli anni Ottanta) era ritenuto responsabile proprio di alcuni dei più gravi reati che il nostro interlocutore attribuiva alle Ltte come il sequestro di bambini per arruolarli. Il suo contributo all’annientamento dei suoi ex compagni di lotta risulterà comunque decisivo già nel 2007.

Tra i problemi interni delle Ltte uno dei più seri sarebbe stato legato alla questione delle caste. Infatti la maggior parte dei guerriglieri caduti in combattimento appartenevano alle caste inferiori. Il maggior potere sarebbe stato nelle mani degli appartenenti alla casta Vellavar, depositaria dell’ortodossia tamil fondata su un sistema gerarchico. Gli “intoccabili” tra i tamil sarebbero circa il 23%.

La posizione della Lega per i diritti e la lberazione dei popoli

Molto diversa la posizione espressa da Verena Graf, all’epoca segretario generale della Lega per i diritti e la liberazione dei popoli e rappresentante permanente di tale ong presso la sede Onu di Ginevra.

Per questa allieva di Lelio Basso «il conflitto era iniziato con l’indipendenza del 1948 a causa di una serie di politiche governative che, progressivamente e sistematicamente, privarono la popolazione tamil dei diritti fondamentali». Nel 1983 la resistenza, fino a quel momento non violenta, si trasformò in una lotta armata condotta dalle Tigri della liberazione di Tamil Eelam.

Per Verena Graf tre erano gli obiettivi principali dei tamil:

“Uguaglianza di diritti e di opportunità, diritto all’autodeterminazione e allontanamento delle forze governative dalla regione del Nord-est”. 

Di fronte al rifiuto dei governi di prendere in considerazione le loro richieste, una parte dei tamil si era convinta “di poter raggiungere questi obiettivi soltanto con la lotta armata per la creazione di un proprio Stato indipendente”.

Per la Graf l’indipendenza del popolo, della nazione tamil sarebbe stata giustificata in quanto forma di autodeterminazione «per diverse valide ragioni. In primo luogo perché il governo dello Sri Lanka ha privato un’intera collettività dei suoi fondamentali diritti. Basti pensare che si era stabilito per decreto che la sola lingua ammessa era il singalese. Inoltre ai tamil erano stati negati l’accesso all’educazione e l’effettiva partecipazione politica».
In sintesi “«a politica poliziesca del governo, nel suo insieme, poteva essere definita una forma di genocidio economico, sociale e culturale per distruggere la società tamil, minando le basi della sua identità».

Invece di operare per una società multietnica nel quadro dello stato dello Sri Lanka, i governi avrebbero «attuato una politica di esclusione nei confronti dei tamil», relegandoli nella condizione di “indesiderabili”. 

Come ci ricordava Verena Graf, l’anno determinante per il passaggio alle armi dei tamil era stato il 1983. Dopo che ancora nel 1977 al partito Tulf (Tamil United Liberation Front), moderato e autonomista, era stata praticamente interdetta ogni attività politica e quando scoppiarono diversi pogrom antitamil. Tuttavia anche in tempi successivi non erano mancati tentativi di sotterrare l’ascia di guerra e riprendere la lotta in maniera non violenta.

Per esempio nel settembre del 1987, nonostante avesse rifiutato di sottoscrivere un recente accordo di pace (in quanto co-firmato da Sri Lanka e India senza consultare i tamil) il loro leader, Thiruvenkadam Velupillai Prabhakaran, rilanciò la protesta in maniera pacifica. Un altro noto esponente delle Ltte, Amirthalingam Theelepan, iniziò allora uno sciopero della fame fino alla morte per richiamare l’attenzione del primo ministro indiano Rajiv Gandhi (il figlio di Indira, poi assassinato dalle Tigri nel 1991), firmatario del discusso accordo indo-singalese.
La sua fine risultò alquanto spettacolare, per certi aspetti inquietante. Deposto su un giaciglio all’aperto, nel cortile di un santuario indù a Jaffna, durante l’agonia venne visitato e onorato da centinaia di seguaci e la sua morte suscitò rabbia e risentimento. Venne così meno anche la fragile tregua e la parola tornò ai combattenti. Invece alcuni gruppi minori della resistenza tamil si arresero alle Ipkf (Indian Peace Keeping Force) incaricate di far rispettare il cessate il fuoco.

Ricolonizzazione e reinsurrezione

Oltre alle discriminazioni, i tamil subirono – dal 1948 in poi, almeno fino al 1987 – anche la dura questione dei resettlements. Con arbitrari stanziamenti di coloni singalesi nel Nord e nell’Est dell’isola (le aree a maggioranza tamil).
A complicare ulteriormente il quadro in quel lontano, ma determinante, 1987 interveniva un’altra formazione politica, il Jvp (Janatha Vimukthi Peramuna – Fronte di liberazione del popolo “rivoluzionario e anticolonialista”, già citato in quanto nel 2006 di fatto sosteneva il governo). Ugualmente contrario all’accordo indo-singalese (lo consideravano un’ingerenza indiana), ma per ragioni diametralmente opposte a quelle dei “separatisti” tamil.
Il Jvp si rese responsabile, oltre che di un tentativo insurrezionale nel sud del Paese, dell’uccisione di alcuni esponenti filogovernativi. In particolare con un attentato a Colombo rivolto contro lo stesso presidente Jayewardene. Nell’attacco al palazzo del parlamento perse la vita un ministro e rimase gravemente ferito Lalith Athulatmudali, ministro della difesa. negli anni Ottanta – oltre a un migliaio di militanti in prigione – il Jvp disponeva di circa 2000 militanti in servizio attivo e di circa 10.000 fiancheggiatori. Inutile dire che pur protestando vigorosamente per le condizioni di vita delle classi subalterne e per le violazioni dei diritti umani, nei confronti della situazione in cui versavano i tamil mostrava una sostanziale indifferenza.

Soluzione definitiva

Come è noto la “questione tamil” venne bruscamente risolta (eufemismo) tra il 2007 e il 2009 quando l’esercito riuscì ad annichilire le Tigri approfittando della circostanza per massacrare, deportare e internare centinaia di migliaia di civili tamil. I quali si ritrovarono sottoposti a una ulteriore colonizzazione da parte della maggioranza singalese buddista (circa 74% della popolazione).

Difficile anche quantificare il numero delle persone uccise e la portata della repressione. Si ipotizzava un numero tra le diecimila e le ventimila vittime oltre a circa 300.000 civili tamil internati nei campi sotto controllo militare.
Nel maggio 2009, mentre fuggiva, era stato ucciso anche Velupillai Prabhakaran insieme al figlioletto di dodici anni.

Nel giugno 2010 il governo sri-lankese (guidato allora da Mahinda Rajapakse) arrivò a bloccare una delegazione di esperti dell’Onu incaricati di svolgere indagini sulle violazioni dei diritti umani commessi l’anno precedente.

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Niger: la diplomazia al lavoro, mentre Niamey tace https://ogzero.org/niger-la-diplomazia-al-lavoro-mentre-niamey-tace/ Sat, 02 Sep 2023 22:17:57 +0000 https://ogzero.org/?p=11535 Niger, un aggiornamento: la diplomazia al lavoro, mentre Niamey tace. Nelle ultime ore si sono accavallate numerose proposte di transizione rivolte al regime di Tchiani,. Un’azione diplomatica che, inoltre, ha il significato di scongiurare un intervento armato nel paese che infiammerebbe tutta l’Africa Occidentale. Di questo ne sono consapevoli sia i leader africani sia i […]

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Niger, un aggiornamento: la diplomazia al lavoro, mentre Niamey tace. Nelle ultime ore si sono accavallate numerose proposte di transizione rivolte al regime di Tchiani,. Un’azione diplomatica che, inoltre, ha il significato di scongiurare un intervento armato nel paese che infiammerebbe tutta l’Africa Occidentale. Di questo ne sono consapevoli sia i leader africani sia i ministri degli Esteri dell’Unione europea che, infatti, invocano prudenza. Ma le proposte di transizione, formulate da Algeria e Nigeria, per ora rimangono lettera morta e quella nigeriana viene bollata dalla Comunità economica degli Stati dell’Africa Occidentale (Ecowas) come una fake news. Ecowas, infatti, ribadisce, che la soluzione è il ripristino dell’ordine costituzionale e la reintegrazione del deposto presidente Mohamed Bazoum, che diventa una figura simbolica, insieme all’ambasciatore francese: due paradigmi del sistema coloniale utili per aizzare contro la percezione di ogni grandeur (e saccheggio) francese. Poi è facile su questa ondata antifrancese trovare le corde giuste per rovesciare  gli amici dei francesi, ma una volta giunti al potere – a parte resistere alla stigmatizzazione internazionale – non ci sono piani per gestirlo al meglio. Si direbbe non sia chiaro in che direzione andare una volta rimossi i fantocci di poteri altri e le mosse per fare gli interessi della popolazione civile non siano state insegnate nelle scuole militari frequentate dai golpisti.


La proposta nigeriana

Il presidente nigeriano Bola Tinubu, che è anche l’attuale presidente dell’Ecowas, giovedì ha citato come esempio la transizione di nove mesi avvenuta nel suo paese nel 1999. «Il presidente non vede alcun motivo per cui ciò non possa accadere di nuovo in Niger, se le autorità militari sono sincere», si legge in un comunicato della presidenza nigeriana. Più che una proposta è un suggerimento e Tinubu l’avrebbe espresso ricevendo presso la State House di Abuja (capitale della Nigeria) una delegazione guidata dal sultano di Sokoto, Muhammad Sa’ad Abubakar III, personalità molto influente anche in Niger. «Il presidente Tinubu ha osservato che la Nigeria, sotto il generale Abdulsalami Abubakar, ha istituito un programma di transizione di nove mesi nel 1998, che si è rivelato un grande successo, portando il paese in una nuova era di governo democratico», si legge nella nota emessa dalla presidenza nigeriana al termine dell’incontro. Un suggerimento, quindi, non una proposta ufficiale da parte dell’Ecowas che comunque ha tenuto a chiarire la sua posizione, definendola una fake news e comunque non una posizione dell’organizzazione sovranazionale africana anche se Tinubu ne è il presidente di turno.

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La proposta algerina

All’inizio della settimana, l’Algeria, un altro influente vicino del Niger, è stata ancora più specifica nell’offrire al regime militare un “piano di transizione di sei mesi” sotto la supervisione di una “autorità civile”. Per il momento, i generali al potere a Niamey non hanno reagito a queste proposte e il loro unico intervento sull’argomento risale al 19 agosto, quando il nuovo uomo forte del paese, il generale Abdourahamane Tchiani, aveva indicato di volere una transizione da tre anni al massimo. Molti giudicano poco credibile, o troppo lungo, questo periodo di transizione e, dopo i colpi di stato in Mali e Burkina Faso, ma anche in Guinea, le transizioni annunciate, per arrivare a nuove elezioni e il ripristino di un governo democraticamente eletto si sono allungate nel tempo, allontanando il ritorno dell’ordine democratico.

Ultimatum e tensioni diplomatiche

Resta, poi, alta la tensione anche tra il regime di Nimaey e la Francia, ex potenza coloniale e partner del Niger soprattutto nella lotta antijihadista e con numerosi interessi economici nel paese. Le autorità hanno revocato l’immunità e il visto diplomatico all’ambasciatore francese e hanno annunciato l’intenzione di espellerlo in una lettera inviata martedì a Parigi. Venerdì scorso avevano inizialmente concesso 48 ore a Sylvain Itté per lasciare il territorio, ultimatum respinto da Parigi che ritiene questo governo illegittimo e quindi non ha l’autorità per fondare una simile richiesta. E la giunta militare sta facendo molta pressione sull’ambasciata, tanto che, secondo testimonianze raccolte sul luogo, le auto in uscita dall’ambasciata francese sono state perquisite sistematicamente dalla polizia. Un altro ultimatum potrebbe scadere nel finesettimana. Le autorità militari hanno minacciato di accompagnare l’ambasciatore in maniera coatta fuori dal paese.

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La piazza si muove

La tensione cresce anche nelle piazze. L’M62, una coalizione della società civile contraria alla presenza militare francese, ha lanciato un appello per un “sit-in popolare” nel centro di Niamey, già a partire da ieri e per tutto il finesettimana, per chiedere la “partenza delle forze francesi”. Un’altra organizzazione della società civile, il Fronte patriottico per la Sovranità del Niger (Fpsn), dal canto suo ha chiesto un “sit in permanente” da oggi “fino alla partenza di tutti i soldati francesi”. La presenza militare francese in Niger, infatti, è massiccia: 1500 militari, oltre a mezzi e intelligence. Senza contare la presenza americana e italiana, che vanno ad aggiungersi al contingente militare che ha come missione il contrasto al jihadismo e alla tratta di essere umani, per fermare le migrazioni verso il Mediterraneo. Da diversi anni il Niger si trova ad affrontare una violenza jihadista mortale che colpisce la parte sudoccidentale del paese, ai confini del Burkina Faso e del Mali – la cosiddetta area dei Tre Confini – e la sua parte sudorientale vicino al bacino del Lago Ciad e al confine con la Nigeria.

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Attività sospese e diplomazia al lavoro

Infine, le autorità hanno annunciato la sospensione delle attività delle Ong, delle organizzazioni internazionali e delle agenzie delle Nazioni Unite nelle aree delle operazioni militari «a causa dell’attuale situazione di sicurezza». Le zone interessate non sono state specificate, ma secondo l’ufficio locale dell’agenzia umanitaria dell’Onu (Ocha), sarebbero prese di mira le località attorno a Banibangou, Sanam, Anzourou e Bankilaré, tutte situate nella regione di Tillabéri (Sud-ovest), a causa la «recrudescenza della presenza e delle attività» dei gruppi jihadisti. Le Nazioni Unite hanno annunciato di voler contattare i militari dopo questa decisione per «comprendere meglio cosa significa e quali sono le conseguenze per l’attività umanitaria».

Insomma permane una situazione di stallo. Ma le diplomazie sono continuamente al lavoro per scongiurare ogni possibile innalzamento della tensione che potrebbe portare a un intervento armato che infiammerebbe tutta l’Africa occidentale, e non solo, e in prima linea su questo fronte diplomatico c’è la nuova ambasciatrice americana a Niamey che, pur non presentando le sue credenziali alla giunta perché Washington non la riconosce, ha presso possesso della rappresentanza diplomatica.

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Uno spettro si aggira per le banlieues https://ogzero.org/uno-spettro-si-aggira-per-le-banlieues/ Sun, 02 Jul 2023 16:33:02 +0000 https://ogzero.org/?p=11235 Les Invisibles si sono palesati. L’attuale clima incandescente (da pre-insurrezione ?) che attraversa l’esagono riporta fatalmente alla memoria analoghe situazioni del 2005 e 2017… ma anche la “mort indigne” di  malik oussekine A questo aspetto, più strettamente legato all’approccio che collega la rabbia al razzismo subito da banlieues e cités, si aggiunge la gioiosa creatività […]

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Les Invisibles si sono palesati.

L’attuale clima incandescente (da pre-insurrezione ?) che attraversa l’esagono riporta fatalmente alla memoria analoghe situazioni del 2005 e 2017… ma anche la “mort indigne” di  malik oussekine

A questo aspetto, più strettamente legato all’approccio che collega la rabbia al razzismo subito da banlieues e cités, si aggiunge la gioiosa creatività ribelle dei giovanissimi partecipanti agli émeutes, teen-agers come la vittima che li ha scatenati con la sua morte che ha scoperchiato l’impunità feroce e l’improntitudine menzognera del sistema di potere fondato sullo stato di polizia. Questi ragazzini sono oltre le rivendicazioni antirazziste proprio perché di seconda e più spesso terza generazione e dunque si sentono francesi e quindi odiano tutte quelle istituzioni prese a bersaglio negli innumerevoli video sui social: i centri commerciali – i cui prodotti sono sempre più fuori portata con la spirale inflazionistica in corso; commissariati – dove li conducono arbitrariamente gendarmi senza guinzaglio e con la licenza di uccidere; scuole – sempre meno rappresentative di riscatto o strumento di ascensore sociale e invece luoghi di imposizione di cultura e nozioni avulse; distributori di tabacchi – carissimi in Francia per le accise imposte ufficialmente, come per l’alcol, per ridurre la dipendenza; bancomat e dispositivi di controllo con telecamere – i veri luoghi di culto… questi teen-agers hanno ben chiara l’appartenenza innanzitutto a una classe a un territorio, di cui riconoscono con precisione gli spazi occupati dal potere… e li distruggono. I loro espropri – pillages è l’orripilata reazione dei buoni borghesi – sono momenti di riscatto inconsapevolmente situazionista, ma in piena coscienza di diversità esibita.

Una rabbia che si può collegare a quella delle rivolte dei gilet jaune (commistione di destra populista e sinistra insoumise, unite da tariffe) come a quelle di ancora diversa connotazione delle proteste contro la riforma delle retraites (di nuovo disagi nati da mancate risposte economiche); e pure con gli ecologisti del Soulevements de la Terre, sciolti per legge (perché si contrappongono agli interessi delle coltivazioni intensive dell’agroindustria)… è un blocco sociale che rappresenta una larga maggioranza della società francese, che ha riconosciuto nella finanziarizzazione del macronismo il vero nemico. E forse il sano collante proviene dallo spirito libertario mai del tutto sopito oltralpe.
Speriamo che non riesca il potere oligarchico finanziario a tirare la volata all’estrema destra anche in Francia: certo che Zemour ha buon gioco a straparlare di sostituzione etnica e di moschee come luoghi di riferimento per questi ragazzi (che invece sbeffeggiano gli himam), diventando così nuovi motivi di sospetto per i buoni borghesi, imbevuti di razzismo coloniale (ormai senza più colonie) che voteranno impauriti Le Pen, se prosegue la narrazione mediatica della Haine contro una delel più brutali e violente polizie al mondo e la sovrapposizione tra cultura musulmana e banlieues.

Ma affidiamoci a Gianni Sartori che colloca tutto questo groviglio in un contesto che storicamente vede episodi di intolleranza nei confronti dell’invisibile “diversamente francese”, una lunga storia che coinvolge gli immigrati di ogni latitudine dai piemontesi nell’Ottocento, ai maghrebini della Renault nel dopoguerra, fino alle banlieues da Sarkozy a Macron… e soprattutto spiega con esempi da dove provenga il fatto che “tout le monde  déteste la police”


 OGGI BOUNA TRAORÉ E ZYED BENNA AVREBBERO 33 E 35 ANNI…

Ne avevano solo 15 e 17 nell’ottobre 2005.
Due ragazzini morti prematuramente e tragicamente – o forse uccisi in modo “preterintenzionale”, come Nahel nel giugno 2023.

I grandi media molto parlarono o sparlarono della successiva rivolta ma spesero poche righe per dire che, 10 anni dopo, il tribunale di Rennes assolse i due poliziotti, un gendarme maschio e uno femmina, accusati di «mancata assistenza a persona in pericolo» per la morte dei due ragazzi, rimasti folgorati in una cabina elettrica mentre fuggivano dagli agenti a Clichy-sous-Bois, nella banlieue parigina. I due poliziotti, Stephanie Klein e Sebastien Gaillemin, sostennero di non essersi resi conto del pericolo che correvano i due ragazzi. Invece sulla radio della polizia esiste una registrazione con la voce di Gaillemin, che dice di aver visto alcune figure dirigersi verso la centrale elettrica, aggiungendo “se vi entreranno, la loro vita non varrà molto”… ma Klein e Gaillemin non mossero un dito: la vita dei due ragazzi non valeva comunque?

Dodici anni dopo (2017, cinque anni fa) soltanto chi era in malafede (o fin troppo ingenuo) poteva illudersi che le “notti dei fuochi” nelle banlieue di Parigi e di altre grandi città francesi fossero ormai un problema, se non definitivamente risolto, perlomeno sotto controllo, provvisoriamente in letargo o almeno accantonato.

Invece le gravissime violenze della polizia su un ragazzo, Théo, avevano innescato proteste di grande portata, analoghe alla grande rivolta del 2005.

Il volto “anonimo e terribile” dell’insurrezione era riapparso (come una nemesi) per le strade di Aulnay-sous-Bois, Seine-Saint-Denis, Tremblay-en-France.

Così all’inizio del 2017 la protesta violenta dei banlieusard  innalzava nuovamente il suo vessillo, nero di rabbia se non di lutto.

Talvolta definito un “conflitto a bassa intensità” o anche “una rivolta afasica”, le periodiche sollevazioni dei giovani beurs lasciano comunque intravedere un movimento forse “in sé”, ma che sicuramente non ha ancora un “per sé”.

Fattori economici e fattori di cittadinanza

Sarebbe sbrigativo riportare il tutto soltanto alla “ristrutturazione del lavoro e allo smantellamento dello stato sociale”. O anche alla “globalizzazione combinata alla flessibilità che provoca inesorabilmente eccedenze ed esuberi non funzionali allo sviluppo”, come sostenevano alcune voci di sinistra. Sia chiaro: sono fattori questi che sicuramente hanno alimentato l’aumento di povertà e nuove povertà (e non solo tra gli immigrati). Non dimentichiamo che se fino agli anni Settanta l’operaio poteva ancora agire sui meccanismi economici, oggi i “nuovi poveri” (precari, “superflui”…) possono ben poco di fronte a un lavoro automatizzato e alle delocalizzazioni. E il banlieusard in particolare si scopre ogni volta cittadino di serie B, impotente, oltre che umiliato e offeso.

Nel caso dei figli di immigrati non sarebbe (o non soltanto) la “mancanza di integrazione” a determinare disagi e ribellioni. Addirittura, per lo studioso Filippo Del Lucchese, la causa potrebbe essere proprio «l’avvenuta integrazione, l’aver interiorizzato i valori di Libertà e Uguaglianza (per la Fraternità meglio rinviare a tempi migliori, evidentemente – N.d.A.) scoprendo a proprie spese di esserne esclusi».

Nel 2005 per “sedare i tumulti” il governo francese era ricorso addirittura a una legge coloniale sul “coprifuoco”. È partendo da questo fatto che alcuni ricercatori d’oltralpe (ma alle stesse conclusioni giungevano alcuni studiosi italiani come appunto Del Lucchese, Giuseppe Mosconi e Guido Caldiron) hanno cominciato ad analizzare la questione delle banlieues come una forma di “post-colonialismo”.

Importare l’atteggiamento coloniale in patria

Naturalmente, ça va sans dire, le banlieues non vengono sfruttate per le inesistenti materie prime. Rimangono tuttavia, come appunto le colonie, territori in cui “la produzione dell’identità culturale avviene all’interno di un sistema di potere coloniale”. A tale proposito Del Lucchese aveva rievocato nei suoi lavori un fenomeno ancora poco studiato dell’Ottocento, quello degli “zoo umani”. In questi luoghi gruppi di “indigeni” prelevati dalle colonie venivano esposti in vere e proprie gabbie e dovevano rappresentare la loro vita quotidiana, le danze, i riti; oppure gli “effetti benefici della civiltà”, imitando lo stile di vita dei colonizzatori. A questi spettacoli assistevano migliaia di persone. È stato, secondo lo studioso «un modo molto efficace di propagandare il razzismo, facendo toccare con mano la presunta superiorità dell’uomo bianco».

Di queste involontarie esibizioni esiste una vasta rappresentazione fotografica. Sono immagini molto statiche, in posa (per ragioni tecniche dei tempi del fotogramma), di “corpi immobilizzati, domati” . Vien da dire “addomesticati”, una vera e propria imposizione di identità.

Parlando di “immagini senza storia, decontestualizzate, corpi congelati…”

Del Lucchese si chiedeva: «Siamo sicuri che questi metodi siano veramente alle nostre spalle? Siamo certi che lo sguardo che posiamo sulle banlieue non sia sostanzialmente ancora il medesimo?».
In un suo articolo del 2005 dal titolo evocativo (La banlieue come teatro coloniale) metteva in evidenza quali fossero i meccanismi che producono la ghettizzazione, il vivere come colonizzati.

Come aveva spiegato Frantz Fanon (I dannati della terra), parlando delle popolazioni colonizzate di Asia e Africa, «la loro identità è data da uno sguardo diverso dal loro». L’abitante della banlieue viene considerato “arabo” non in senso etnico, ma quasi come “un marchio di infamia” imposto dall’esterno. Ma contemporaneamente gli verrebbe “imposto di scrollarsi di dosso questo stigma”. E questo avviene non solo per i figli, ma anche per i nipoti di immigrati.

Confermare lo stereotipo

Risultato? Alla fine, azzarda Del Lucchese «recitano un ruolo, come se ancora si trovassero nelle gabbie di un nuovo, postmoderno “zoo umano”».
Dalle numerose interviste raccolte in occasione di rivolte e ribellioni emergerebbe proprio questa tendenza a «diventare quella immagine di “arabo” che altri gli hanno cucito addosso». Sorge, ovviamente, un dubbio (non puramente “accademico”). È possibile che meccanismi analoghi di identificazione con uno stereotipo negativo, ma in grado di fornire comunque un’identità, siano entrati in azione anche nei tragici eventi che periodicamente hanno insanguinato la Francia (stragisti suicidi – e non; “lupi solitari”…)?

Per un altro studioso, Giuseppe Mosconi (docente alla Facoltà di scienze politiche di Padova), «sugli incendiari si dicono e si scrivono troppe banalità». Per esempio: «si sentono esclusi, si esprimono simbolicamente…».
Certo, è più facile dire «che cosa non sono, definirli negativamente (e quindi in pratica screditarli – N.d.A.), negare loro ogni dignità politica».

Mosconi sottolineava che a suo avviso «queste persone non si identificano a livello etnico- religioso, non si rifanno a improbabili “guerre sante” che oltretutto sarebbero facilmente recuperabili a livello mediatico». E, nonostante le analogie con le metropoli statunitensi, in particolare Los Angeles, non esprimerebbero nemmeno un generico “spirito di banda”. Probabilmente non aspirano nemmeno a diventare “giovani occidentali dediti al consumismo” ma forse cercano di «essere qualcosa che stanno ancora elaborando, una identità in crescita, in formazione».

Ossia chiedono “una forma di riconoscimento che consenta loro un movimento possibile”. Intrappolati in uno “spazio ancora indistinto”, non riconducibile ad alcuna catalogazione. È vero, nelle banlieue mancano le strutture e il welfare quasi non viene applicato, ma la soluzione non può venire soltanto dallo stato sociale. Tantomeno , ovviamente, dalla repressione.

Drone autorizzato nella repressione delle rivolte del giugno-luglio 2023

 IN DICEMBRE A PARIGI ERA CALDO…

Ma la tragica fine di Nahel riporta alla mente, oltre a quelle di Zyed Benna e Bouma Traoré, anche un’altra “mort indigne”, ancora più lontana nel tempo.
Quella di Malik Oussekine, nel caldo dicembre 1986.

Sabato 6 dicembre 1986. La mezzanotte è passata da 20 minuti

Nel garage della Prèfecture de Paris 43 poliziotti del Peloton de voltigeurs motoportés (cagoule – passamontagna – nero e casco bianco, muniti di matraque – manganello – di legno lungo un metro) ricevono l’ordine atteso per oltre dieci ore: “PMV, en place!”.
Un’ora e mezza più tardi Malik Oussekine incrocerà la strada di questi vigilantes motorizzati. Non ne uscirà vivo.

Un passo indietro

Nell’estate 1986 il sindacato studentesco UNEF-ID aveva lanciato una grande mobilitazione contro il progetto di riforma della scuola superiore proposto dal secrétaire d’Etat aux Universités, Alain Devaquet.

Il 22 novembre venivano convocati gli états généraux étudiants alla Sorbonne. Da qui parte l’indicazione di uno sciopero generale e di una grande manifestazione per il 27 novembre.

Intanto, rispondendo all’appello della Féderation de l’Education nationale, il 23 novembre duecentomila persone scendono in piazza contro la politica educativa del governo. Non è che l’inizio: due giorni dopo, il 25 novembre, sono già una cinquantina (su 78) le università in sciopero. Migliaia di studenti medi organizzano manifestazioni spontanee a Parigi. Il 27 sono oltre 500.000 in tutte le grandi città francesi.

Il 28 novembre il governo rinvia alla commissione il progetto che stava per essere sottoposto all’Assemblea nazionale. Ma non basta: gli studenti esigono che il progetto venga ritirato, non solamente ridiscusso.

Il 29 novembre il coordinamento degli studenti conferma la manifestazione indetta a Parigi per il 4 dicembre.
È ormai notte sull’esplanade des Invalides. Circa 300.000 studenti rimangono ancora in attesa del ritorno delle delegazioni inviate all’Assemblée e al ministére de l’Education nationale. La risposta genera rabbia e sconforto: il progetto viene confermato.
Dopo qualche improvvisato sit-in e sporadici scontri (sul quai d’Orsay) la polizia fa uso di cannoni ad acqua e lanci di granate (causando molti feriti, alcuni gravi) per disperdere la folla.

Il giorno successivo, 5 dicembre, migliaia di studenti si riuniscono spontaneamente, anche se in maniera alquanto disorganizzata, nel quartiere Latino. Si aspetta, senza farsi illusioni, la dichiarazione di René Monory, ministro dell’Education nationale, prevista per le 20. Per il momento non si registrano disordini. Stando ai ricordi dei presenti, la serata, rispetto ai parametri stagionali, è particolarmente douce; le persone passeggiano, si formano capannelli informali di discussione, circola molta cordialità.
Alcuni ragazzi hanno acceso un falò, ma non si vedono barricate, tanto meno saccheggi. Soltanto alcuni sacchi di sabbia vengono prelevati da un cantiere e messi di traverso, alla buona, in rue Racine. Onde evitare “provocazioni”, altri studenti sono prontamente intervenuti per togliere la simbolica barricata (alta non più di 30 centimetri).
Man mano che le ore trascorrono la piazza si va spopolando. Rimangono soltanto 300 manifestanti, in attesa di conoscere i risultati di una assemblea generale “sauvage” in corso alla Sorbonne dove il rettore ha già richiesto alla polizia di intervenire. Lo sgombero viene pianificato con cura dal prefetto Jean Paolini, dal direttore della Sécuritè publique George Le Corre e dai commissari Jean-Paul Copie e Robert Bonnet.

In campo, 8 compagnie di CRS, 3 squadroni di gendarmes mobiles e la compagnie de maintien de l’ordre della Prefettura. Una volta sgomberata la Sorbonne, si dovrà “ripulire” rapidamente il quartiere per evitare che gli studenti si riuniscano nuovamente all’esterno.
L’ordine di evacuazione arriva alle ore 1,08. In pratica, circa tre quarti d’ora dopo che è stato ordinato per radio al PVM di intervenire nel quartiere Latino. Questi motociclisti, definiti “unité de choc” e già noti per la loro brutalità, sono addestrati militarmente per intervenire in contesti ben più gravi. Forse le autorità sopravvalutano il numero e la combattività dei manifestanti? Si teme una riedizione del Maggio Sessantotto a quasi venti anni di distanza? In ogni caso, la decisione di far intervenire il PVM è quantomeno aberrante.

Intanto dalla Sorbonne gli occupanti escono con le braccia alzate e tutto sembra procedere pacificamente. Sembra soltanto. Sarebbe, secondo i testimoni, verso l’1,30 del mattino che il comportamento della polizia comincia a inasprirsi. Un atteggiamento dovuto forse alla fretta di concludere l’operazione. Il PVM piomba su alcuni manifestanti intenti a rovesciare un bidone della spazzatura in rue Gay-Lussac. L’orda di moto semina il panico, sale anche sui marciapiedi, vengono colpite persone che semplicemente rientravano a casa dal bar o dal ristorante. A quell’ora, l’ala destra del plotone (7 equipaggi), guidata dal brigadier-chef Jean Schmitt, risale il boulevard Saint-Michel e imbocca a tutta velocità rue Racine inseguendo una ventina di presunti manifestanti.

Tavole dal racconto disegnato Contrecoups di Puchol e Bollée

È a questo punto che la moto di Schmitt si ribalta, probabilmente per una brusca frenata. Un ragazzo, terrorizzato dalle sirene, dal rombo dei motori, dall’evidente aggressività dei poliziotti sta fuggendo a gambe levate. Non meno spaventato, a pochi metri sta correndo anche Paul Bayzelon, un alto funzionario del ministero delle Finanze, rientrato da una cena nel momento sbagliato. Bayzelon ricorderà poi di aver pensato, sentendo i motori: «non mi picchieranno, sono ben vestito…» ma poi saggiamente comincia a correre. Dalle moto, i poliziotti colpiscono chiunque capiti a tiro. Il ventitreenne Garcia, alla sua prima missione di PVN, scende dal mezzo guidato dal collega Giorgi e comincia a inseguire a piedi i fuggitivi (contravvenendo al regolamento). Il caso, o il destino, metterà Malik a portata della sua matraque.
Arrivato al numero 20 di rue Monsieur-le-Prince, Paul Bayzelon riesce a entrare nel palazzo dove abita. Dietro di lui, terrorizzato, si getta Malik in cerca di rifugio. Bayzelon, ancora nella hall del palazzo, ne intravede il volto incollato all’esterno della porta a vetri. Dirà di essere rimasto colpito dagli occhi pieni di terrore. Gli apre e anche Malik si rifugia nella hall.

Al momento di richiudere la porta, due (o forse tre) poliziotti, tra cui Garcia e Schmitt (e forse anche Christian Giorgi, la dinamica non è mai stata completamente chiarita) entrano di forza e si precipitano su Malik massacrandolo a colpi di manganello. Lo colpiscono soprattutto alla testa e contemporaneamente lo prendono a calci nel ventre e sulla schiena. Bayzelon testimonierà che all’entrata dei poliziotti Malik aveva gridato: «Je n’ai rien fait… Je n’ai rien fait». Poi più niente, solo i grugniti dei picchiatori e i colpi sordi delle manganellate. I poliziotti escono, ma rientreranno subito, pestando anche Bayzelon, in quanto Schmitt aveva perso la sua pistola. Malik è in un mare di sangue. Verrà soccorso, comunque troppo tardi, solo casualmente. Un’ambulanza del SAMU passa per rue Racine e viene fermata da alcuni passanti. Dopo alcuni tentativi di rianimarlo, il medico si rende conto che per il giovane ormai non c’è più speranza. Finge ugualmente un ricovero d’urgenza, forse per evitare disordini data che una piccola folla si va ammassando davanti al civico 20 di rue Monsieur-le-Prince. Il resto è la triste cronaca di una famiglia sconvolta dalla notizia: Malik è morto. Ammazzato di botte dalla polizia.

Chi era Malik Oussekine?

Nato il 18 ottobre 1964, era figlio di un camionista (in precedenza minatore e muratore) di origine algerina morto nel 1978. La famiglia abitava in un HLM (casa popolare) a Meudon-la Foret. Colpito fin dalla nascita da una malattia dei reni, aveva trascorso buona parte della infanzia tra ricoveri ospedalieri, cure, controlli e trattamenti.

«il est confiant dans son avvenir»

Stando alle testimonianza raccolte da Nathalie Prévost, all’epoca studentessa dell’école de journalisme e amica della sorella, Malik era un ragazzo educato e gentile che non parlava mai dei suoi problemi di salute. Così lo ricordava il preside della sua scuola dove si distinse per discrezione e impegno. Sempre “ansioso di vivere” incoraggiato in questo dai fratelli maggiori. Gioca a tennis, nuota, si iscrive a un corso di karaté, si allena a basket in un club. Sogna di diventare musicista, ama soul e funk. Con l’adolescenza i suoi problemi di salute si aggravano. Nel 1986 deve sottoporsi a dialisi e un fratello inizia le pratiche per donargli un rene. Malik rimane comunque un ragazzo intraprendente che ripone molte speranze nel futuro. Per un anno rimane in cura presso un centro di Avon dove può continuare i suoi studi fra un trattamento e l’altro. Quando il fratello Ben Ammar lo porta a vivere vicino a lui, nel XVII, Malik si iscrive all’ESPI, una scuola di economia.

«Assiduo, puntuale, attento alle lezioni»

Forse un po’ solo, geloso della sua indipendenza e sempre molto reticente sulla malattia. Grazie all’aiuto dei familiari (i fratelli sono piccoli imprenditori) ha la possibilità di compiere qualche breve viaggio in Italia, Spagna e Gran Bretagna. Poi, nel settembre 1986, negli Stati Uniti presso la famiglia di un medico dove può essere seguito.
Ritorna a Parigi colmo di entusiasmo. Sicuramente molto idéaliste, non è però impegnato politicamente. Si sente francese e solo per pochi mesi frequenta l’Amicale des Algèriens en Europe e più tardi la Fusion (più che altro per curiosità secondo il fratello). Da sempre interessato alle questioni religiose, avrebbe preso in seria considerazione l’ipotesi di diventare cattolico e forse anche di farsi prete. In tasca, quando viene massacrato, aveva una copia del Nuovo Testamento. Pochi giorni prima aveva voluto incontrare due sacerdoti, P. Baudin e P. Desjobert che lo ricordano come

«molto determinato, anche se forse un po’ impaziente». Sicuramente, – dicono – «Malik è stato colto dalla morte in un momento in cui stava compiendo scelte profonde».

Scelte che due o tre poliziotti hanno stroncato sul nascere, à coups de matraque, quel 6 dicembre 1986.

… OGGI MALIK OUSSEKINE AVREBBE 59 ANNI

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Il Pakistan brucia… la neve distrae, ovattando l’eco dei conflitti https://ogzero.org/il-pakistan-brucia-la-neve-distrae-ovattando-leco-dei-conflitti/ Sun, 21 May 2023 09:51:28 +0000 https://ogzero.org/?p=11093 Il Pakistan, già in sofferenza per gli attacchi dell’estremismo islamico e per i disastri ambientali, rischia forse di precipitare nella guerra civile. Niente di nuovo naturalmente. Almeno per le minoranze etniche e religiose e – soprattutto – per le donne, i bambini, i diseredati. Vittime designate di una costante “guerra a bassa intensità”. Ma l’importante […]

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Il Pakistan, già in sofferenza per gli attacchi dell’estremismo islamico e per i disastri ambientali, rischia forse di precipitare nella guerra civile. Niente di nuovo naturalmente. Almeno per le minoranze etniche e religiose e – soprattutto – per le donne, i bambini, i diseredati. Vittime designate di una costante “guerra a bassa intensità”.
Ma l’importante è continuare a sciare sulle “cime inviolate” del “Terzo Polo”. Come non mancano di segnalarci amabilmente su Instagram gli stessi vacanzieri d’alta quota nostrani… che non boicottano e così immemori non si accorgono di affiancare i militari di uno stato oppressore, in mano a un’oligarchia che spadroneggia su cittadini discriminati. Sintomatico del modo di fare affari, senza badare alla natura delle oligarchie genocidiarie che controllano i paesi con cui si intrecciano.
In questi giorni in cui il Pakistan è tornato alla ribalta per gli scontri con decine di morti dopo l’arresto di Imran Khan ci sembra interessante il modo in cui Gianni Sartori inforca il grandangolo perlustrando l’area pakistana, allargando lo sguardo sia nel tempo che ai temi.  


Il balletto criminale delle elezioni imminenti

Ma cosa sta succedendo in Pakistan? Davvero siamo alle soglie di una guerra civile? O stiamo assistendo al preludio (“con altri mezzi”) della campagna elettorale in vista delle elezioni di ottobre (salvo modifiche, rinvii)?

Il risvolto etnico

In realtà per alcune minoranze etniche o religiose: hazara, beluci, cristiani, sciiti… così come per le donne, i bambini e un gran numero di diseredati, la situazione era già difficile. Tra attentati, aggressioni, (guerra a bassa intensità ?), discriminazioni…che si vengono a sovrapporre (con effetti sinergici) alla grave crisi economica e alla disastrosa situazione sanitaria. Per non parlare di alluvioni e altre emergenze ambientali.

Il risvolto talebano

Un recente avvenimento è sintomo emblematico di una situazione in via di ulteriore degrado (e qui non mi riferisco a quello ambientale).
Qualche giorno fa Muhammad Alam Khan, un poliziotto assegnato alla protezione della Catholic Public High School (una scuola cattolica femminile) nel Nordovest del Pakistan (a Sangota, nella valle dello Swat, provincia del Khyber Pakhtunkhwa), ha aperto il fuoco contro il pulmino che trasportava le allieve uccidendone una di 8 anni e ferendone altre sei e un’insegnante.
Il tragico episodio è avvenuto nella stessa regione da cui proviene Malala Yousafzai, l’attivista premio Nobel per la pace per aver condotto una campagna contro il divieto all’istruzione femminile imposto dal Tehreek-e Taliban Pakistan (Ttp, i talebani pakistani). Nel 2012 anche lei era stata colpita alla testa da un proiettile sull’autobus per tornare a casa da scuola, mentre anni fa la Catholic Public High School aveva dovuto chiudere per le minacce e per gli attentati.

Nel 2022 in questa provincia si sono registrati almeno 225 attentati (“solo” 168 nel 2021). O almeno secondo le cifre ufficiali. Da parte loro i miliziani legati al Ttp ne avevano rivendicato oltre 360. Senza dimenticare gli attacchi di un’altra organizzazione jihadista-terrorista operativa anche in Pakistan: lo Stato islamico che solo nel marzo 2022 aveva ucciso oltre 60 persone.
E anche il 2023 non sembra promettere bene. Solo nei primi quattro mesi sono già 180 quelli ufficiali.

Nel gennaio di quest’anno i talebani pakistani avevano rivendicato anche il sanguinoso attacco suicida (con oltre una trentina di morti e centinaia di feriti) ad una moschea di Peshawar, situata in un complesso dove si trova il quartiere generale della provincia del Khyber Pakhtunkhwa.

Il risvolto separatista

Per completezza va anche ricordato che gli attentati non sono monopolio esclusivo degli estremisti islamici. Un attacco suicida dell’agosto 20121 nella città di Gwadar (contro un veicolo cinese) era stato rivendicato dai separatisti beluci.

Una situazione drammatica, convulsa e foriera di ulteriori lutti.

Le malefatte di Imran Khan

Non per niente tra le questioni sollevate dall’attuale conflitto interno tra governo e opposizione (ma anche tra militari e una parte della società civile) appare rilevante l’accusa di ambiguità rivolta all’ex primo ministro Imran Khan. Per aver consentito, favorito il rientro in patria dei talebani pakistani purché garantissero di deporre le armi (cosa auspicabile ma difficile da realizzare). Come era prevedibile, nonostante le trattative per il loro reinserimento e per una “soluzione politica” del conflitto, dopo poco tempo gli attentati erano ripresi. Alimentando il sospetto che i colloqui, le trattative avessero in realtà consentito al Ttp di riorganizzarsi.

Le persecuzioni contro Imran Khan

Quanto alle numerose azioni giudiziarie lanciate contro lo stesso leader del Pakistan Tehreek-e-Insaf (Pti) per corruzione e reati finanziari (e anche un probabile tentativo di eliminarlo fisicamente, stroncato dalla mobilitazione dei militanti del Pti), presumibilmente in parte strumentali, per ora sembrano aver portato più che altro all’incarcerazione di tanti suoi seguaci. Pare anche dietro sua indicazione: farsi arrestare per “saturare le carceri e screditare il governo”… quanto meno un rischioso azzardo.

Tra le accuse principali, quella relativa all’Al-Qadir Trust, proprietà di Khan e della moglie, a cui l’impresa immobiliare Bahria Town avrebbe fornito un terreno del valore di 530 milioni di rupie (1,71 milioni di euro)
Ma forse Imran Khan sta anche pagando il prezzo di un suo avvicinamento alla Russia (malvisto dagli Usa, oltre che dall’India per ragioni inverse). Questo potrebbe aver innescato la rottura con l’esercito e favorito la sua defenestrazione.

Come è noto l’ex primo ministro è stato arrestato (a quanto sembra da un gruppo paramilitare legato ai servizi segreti) mentre si trovava all’Alta corte di Islamabad per testimoniare in un processo.

Ambiguità pakistane nel posizionamento geopolitico

Naturalmente non mancano (anche a sinistra, tra quella più “campista”) gli estimatori del regime pakistano.
Pensando di intravedervi una componente di possibili “blocchi egemonici alternativi musulmani” per un mondo multipolare contro l’imperialismo statunitense. Blocchi di cui potrebbero far parte sia la Turchia che l’Iran e in buoni rapporti con Russia e Cina. Sarà, ma non mi convince. In realtà è più probabile che il Pakistan (come da tradizione) continuerà a giocare su due tavoli. Se con gli Stati Uniti prevale la collaborazione sul piano militare (e i finanziamenti), con la Cina va sviluppando l’aspetto commerciale (vedi la Via della Seta).

Lasciando per ora da parte l’altro rischio, quello di un possibile conflitto nucleare con l’India. Magari a causa di un “malfunzionamento tecnico”, di un errore. Come quando nel marzo scorso l’India ha lanciato accidentalmente un missile supersonico in Pakistan. Caduto senza danni particolari nel Punjab (distretto di Khanewal).

Indifferenza occidentale

In alta quota si trovano i retaggi degli scambi d’interessi tra imprese occidentali (molto spesso italiane, anche affondando nelle nevi storicamente del passato) e intrecci tra potere canaglia di uno stato dai molteplici scambi interessanti. Sempre intenti a individuare qualche residua “cima inviolata” (lapsus rivelatore?) da cui scendere con gli sci (anche qualche giorno fa nella regione del Gilgit-Baltistan).
Mentre – che so – negli anni Ottanta del secolo scorso era quasi normale (almeno per persone con un minimo di coscienza sociale, politica…) boicottare almeno turisticamente un paese come il Sudafrica dell’apartheid e in epoca più recente la Turchia che reprime il popolo curdo, oggi come oggi andare a trascorrere le “settimane bianche” in Pakistan per alpinisti, escursionisti e sciatori nostrani non sembra assolutamente fuori luogo. Anche a persone che magari poi se la tirano con le questioni umanitarie e ambientali. O quelli che mentre denunciano lo scioglimento dei ghiacciai del “Terzo Polo” vi contribuiscono con i loro mezzi (nel senso di veicoli).

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Una svolta culturale siamese non solo nelle urne thai: Move Forward https://ogzero.org/una-svolta-culturale-siamese-non-solo-nelle-urne-thai-move-forward/ Wed, 17 May 2023 22:21:48 +0000 https://ogzero.org/?p=11056 I due nostri riferimenti autoriali nel Sudest asiatico ci sono di aiuto per dare il corretto rilievo alla trasformazione in corso nella società thailandese, che ha visto nelle elezioni del 14 maggio l’emersione della volontà di “emancipazione” da parte della componente più giovane e che ha incarnato già nella Milk Tea Alliance preCovid la richiesta […]

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I due nostri riferimenti autoriali nel Sudest asiatico ci sono di aiuto per dare il corretto rilievo alla trasformazione in corso nella società thailandese, che ha visto nelle elezioni del 14 maggio l’emersione della volontà di “emancipazione” da parte della componente più giovane e che ha incarnato già nella Milk Tea Alliance preCovid la richiesta di modernizzazione e il rifiuto dell’Orientalismo; per cominciare ad approcciarci allo spirito che si aggira nella monarchia costituzionale controllata dai militari dal golpe del 2014 riprendiamo un articolo di Emanuele Giordana apparso su “L’Atlante delle Guerre” a cui aggiungiamo una lunga chiacchierata fatta nella mattinata di martedì 16 maggio in Radio Blackout con Massimo Morello, che  vive a Bangkok da alcuni anni e ha le antenne giuste per cogliere alcune sfumature che sfuggono alla maggioranza degli analisti privi delle competenze culturali e sociologiche, da lui acquisite soltanto con l’immersione in quel mondo in fermento.

«Il voto di domenica segna la sconfitta dei militari e l’ascesa del partito Move Forward. Ma servono delle “larghe intese”», è l’incipit del pezzo di Emanuele Giordana: questo avviene per il sistema elettorale, che però – come spiega Massimo Morello – incide solo tangenzialmente, perché in realtà l’approccio thailandese è in grado di aggirare e rendere possibile ciò che la società sente e finisce con l’imporre.


L’aria di rinnovamento che spira a Bangkok…

Il Move Forward Party e il Pheu Thai, due organizzazioni che incarnano l’opposizione tailandese a un’imperfetta democrazia gestita da militari in doppiopetto, sono i due partiti più votati della Thailandia. Hanno vinto le elezioni di domenica scorsa e hanno subito formato una coalizione promossa del Move Forward che dovrebbe assicurare 309 voti al futuro governo, ben oltre la maggioranza richiesta di 250 seggi alla Camera Bassa per poter proporre un nuovo gabinetto. Ma non è così semplice formare un governo in Thailandia.
Trecentosettantasei è il numero su cui si gioca il futuro politico della Thailandia dopo che i risultati del voto di domenica hanno dato la maggioranza ai due maggiori partiti di opposizione umiliando quelli legati ai generali, che per un decennio hanno tenuto in scacco la fragile democrazia siamese. La somma aritmetica e costituzionale che il futuro gabinetto deve ottenere dal voto a Camere riunite è infatti 376.

IL PROBLEMA è che le due Camere, il cui totale fa 750 scranni, sono assai diverse: la nuova Camera Bassa infatti si formerà sulla base del voto del 14 maggio, assicurando poco meno di 300 seggi ai due partiti di opposizione che hanno de facto vinto le elezioni: il Move Forward e il Pheu Thai. Ma la Camera Alta, il Senato dell’imperfetta monarchia costituzionale tailandese, è invece di nomina militare. I 500 voti dell’Assemblea – dove ha vinto l’opposizione – sommati ai 250 del Senato richiedono dunque una maggioranza di 376 voti perché il premier in pectore e il suo governo passino l’esame del parlamento. In buona sostanza i partiti dei militari, dei generali Prayut e Prawit – entrambi ex premier – possono farcela pur avendo raggranellato un’umiliante percentuale (meno di 80 seggi) in un’elezione che, a sorpresa, ha premiato il partito Move Forward di Pita Limjaroenrat (151 seggi) che i sondaggi non davano così in alto nei cuori dei tailandesi; è un partito che vuole riformare la legge durissima che punisce chi critica il re (articolo 112 della Costituzione) ed è un partito che vuole migliorare il welfare. Piace ai giovani ma anche agli imprenditori. Quanto ai senatori però, secondo il “Bangkok Post”, non avrebbero nessuna intenzione di approvare la candidatura di un “antimonarchico” per quanto blando, Ma, mai dire mai. C’è chi potrebbe invece farci un pensierino.
Sarà una marcia longa anche se poi tutto si giocherà a breve: nella capacità del Move Forward di tenere insieme la coalizione appena annunciata con altri 5 partiti, tra cui ovviamente Pheu Thai (in dote porta 141 seggi), di cooptare magari altri cespugli o nella possibilità che si formi alla fine un governo di “larghe intese” che faccia leva anche su parte delle minoranze. O ancora che qualcuno nel Senato, fiutando l’aria che tira, non cambi casacca. All’orizzonte dunque ci sono molte incognite e forse molte sorprese. Compresa l’ombra dell’ennesimo golpe anche se tutti lo ritengono ormai improbabile. E il re? Il monarca attuale, non molto amato nel regno, vorrà dire la sua?

QUEL CHE È CERTO è che dal 14 maggio la Thailandia respira un’aria diversa a cominciare da una partecipazione al voto di oltre il 70% degli aventi diritto. Move Forward poi, erede di un partito espulso dal parlamento e senza ombra di dubbio progressista, ha superato le aspettative: col voto giovanile, col voto di chi non vuole una Paese a democrazia limitata e una monarchia intoccabile, col voto di chi non crede nelle ricette neoliberiste del Pheu Thai (che si ispira al tycoon Thaksin Shinawatra che a capo del partito ha messo la figlia Paetongtarn), col voto di chi è stufo di dinastie, stellette e di un’asfittica libertà vigilata. Ora bisogna vedere se la neo coalizione (310 voti) terrà la strada. Ma una cosa è certa: essendo chiaro che il vincitore è Pita, e con lui l’opposizione, qualsiasi tentativo di scavalcarli non andrebbe liscio come in passato. Fuori dai palazzi c’è una piazza che ha già dimostrato – anche col voto – di voler un cambio.

… quell’aria potrebbe soffiare anche altrove in Asean?

VISTE DALL’EUROPA le elezioni thai possono forse sembrare solo un esotico balletto da cui dipende il destino di 70 milioni di sudditi. Ma visto dall’Asia il voto ha ben altro sapore. Queste elezioni sono state seguite con apprensione dall’India – dove ci troviamo – all’Indonesia, ora presidente di turno dell’Asean, l’organizzazione regionale dove siede – benché sotto schiaffo – anche il Myanmar. Al cambio di vertice a Bangkok corrisponderebbe un cambio di marcia verso la giunta birmana. Pita ha già detto – facendo felice Giacarta – che sosterrà l’Asean e la sua mediazione in 5 punti il che vorrebbe dire forse accantonare l’iniziativa (Track 1.5), caldeggiata da Delhi, che aveva il compito di ammorbidire i rapporti con la giunta. Destinati quindi a inasprirsi. Pita lo ha chiarito a poche ore dai primi risultati mostrando di avere idee molto chiare sulla democrazia. E non solo su quella tailandese. «Sarò premier», ha detto. In molti ci sperano.


A corredo di questa precisa analisi del voto di Emanuele siamo andati a Bangkok a incontrare Massimo Morello per collocare questo risultato nel contesto che lo ha reso possibile e nelle parole del reporter che vive da 15 anni nella capitale siamese si coglie l’intuizione che si tratti della scvolta che la generazione Z sia riuscita a imporre la modernizzazione del costume troppo stretto e anacronistico che la tradizione impone con le sue strutture sistemiche, travolte dallo spirito del paese.

“Move Forward è una vera rivoluzione del costume thai”.

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L’utile curdo per il regime turco https://ogzero.org/lutile-curdo-per-il-regime-turco/ Fri, 05 May 2023 22:52:29 +0000 https://ogzero.org/?p=10941 «Apparato operativo dei poteri globali», così la asservita stampa turca del 6 maggio 2023 accoglie e fa suo l’attacco scomposto del presidente a “The Economist”, perché la testata nella sua copertina definiva le elezioni del 14 maggio “le più importanti del 2023”, con un esplicito endorsement per Kılıçdaroğlu, mettendo in bella evidenza adesivi con su […]

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«Apparato operativo dei poteri globali», così la asservita stampa turca del 6 maggio 2023 accoglie e fa suo l’attacco scomposto del presidente a “The Economist”, perché la testata nella sua copertina definiva le elezioni del 14 maggio “le più importanti del 2023”, con un esplicito endorsement per Kılıçdaroğlu, mettendo in bella evidenza adesivi con su scritto «Erdoğan se ne deve andare».

 

Dopo 20 anni di morsa sul potere in ogni suo aspetto, dapprima graduale (da sindaco di Istanbul fino al terremoto di Izmit) e poi assoluta (dopo Taksim e soprattutto il tentato golpe del 2016), s’indovinano le crepe nel sistema di Erdoğan. Si colgono anche dall’affanno con cui reagisce ai titoli come quelli di “The Economist”, o con cui cerca alleanze in vista dell’appuntamento elettorale, anticipato dal presidente stesso prima che il terremoto producesse uno sconquasso nel suo progetto di perpetuare il suo controllo sul paese e sugli affari che hanno prosciugato le casse del paese, stremato l’economia, prodotto inflazione, arricchendo una sparuta oligarchia fondata sul consenso della provincia confessionale, sulla repressione della stampa ormai monopolizzata, come il settore delle infrastrutture, che per una beffa del destino potrebbe essere travolta dalle macerie del terremoto.


Con un piccolo aiuto dai nostri amici curdi

Le elezioni presidenziali e politiche che si svolgeranno in Turchia il 14 maggio hanno un’importanza storica per una serie di ragioni. Tra queste senz’altro il fatto che la maggior parte dei partiti d’opposizione, per la prima volta, abbiano deciso di indicare un candidato unico. Anche per questo, ma non solo, i sondaggi parlano del secondo turno per le presidenziali e di un’avanzata significativa dei partiti di opposizione in quelle politiche. Chiaramente queste dinamiche fanno sì che la coalizione al governo si metta alla ricerca di nuovi alleati a casa e rafforzi quelli all’estero. In questa ricerca è importante il voto della popolazione curdofona presente in Turchia e fuori dai confini.

Il reclutamento di HüdaPar: i devoti curdi ultraconservatori

Il 13 marzo, Numan Kurtulmuş, il vicepresidente generale del Partito dello sviluppo e della giustizia (Akp) si è presentato davanti alle telecamere con Zekeriya Yapıcıoğlu, il presidente generale del partito HüdaPar. In questa apparizione storica Yapıcıoğlu ha comunicato l’appoggio ufficiale del suo partito alla candidatura di Recep Tayyip Erdoğan, per le elezioni presidenziali. Dopo questo avvicinamento ufficiale e plateale, il 9 aprile il partito al governo Akp ha dichiarato ufficialmente che 4 membri del HüdaPar saranno candidati nelle liste del principale partito della Turchia. Con questa notizia HüdaPar entra nella casa dell’Alleanza della Repubblica. Ma chi è HüdaPar e perché oggi entra in questa coalizione già esistente dal 2017?


HüdaPar nasce come partito politico parlamentare nel 2012. Nello sfondo del suo logo è dominante il verde, poi al centro c’è un libro bianco da cui sorge un sole giallo. L’estensione del suo nome sarebbe Hur Dava Partisi, il partito della Causa Libera. Ovviamente va prestata l’attenzione sul significato della parola “Hüda” che trova spazio in diversi versi nel Corano e vuol dire “colui che indica la strada” ma è anche uno dei nomi attribuito ad “Allah” quindi in qualche maniera vuol dire “Dio”. Questa chiave semantica ci aiuta a capire che definirlo un partito conservatore è un eufemismo.
Infatti se andiamo a spulciare molto velocemente lo statuto del partito e anche il programma troviamo una serie di obiettivi, ideali e promesse molto conservatrici.

«Ricostruire il sistema governativo basandosi sui valori di fede della società. Ravviare i valori islamici. Definire l’omosessualità come una devianza, vietarla e punirla. Rafforzare i rapporti commerciali e politici con i paesi musulmani. Riformare il sistema scolastico secondo i valori dell’Islam. Iniziare con le lezioni di Arabo e del Corano già nel primo anno delle elementari. Parificare le scuole religiose con quelle statali. Concedere la possibilità di differenziare le classi nelle scuole pubbliche in base al sesso degli studenti. Definire la composizione della famiglia: uomo e donna».

È abbastanza, chiaro, no?

HüdaPar: dio turco e misogino, ma patria e lingua curde

Insieme a queste promesse e obiettivi vediamo una serie di punti che ci fanno capire il secondo “colore” del partito. Sempre nel programma elettorale e nello statuto leggiamo le seguenti affermazioni:

«Il diritto all’istruzione in lingua madre va riconosciuto e garantito. La Costituzione va privata da qualsiasi riferimento etnico. Il servizio militare deve essere abolito. L’obiezione di coscienza va riconosciuto come un diritto. Va ammesso che la nascita della Repubblica ha danneggiato la storica fraternità tra il popolo turco e quello curdo. La laicità dello stato ha reso difficile la vita ai curdi musulmani. I curdi sono le vittime delle politiche di assimilazione e turchizzazione. Lo stato deve ammettere i suoi crimini commessi nel Sudest del paese, chiedere scusa e risarcire i danni. I curdi devono essere riconosciuti nella Costituzione e la lingua curda deve essere riconosciuta come seconda lingua della Turchia. La forza del governo centrale deve essere alleggerita e il potere delle amministrazioni locali deve essere rafforzato».

Dunque è chiaro che siamo di fronte a una formazione che promette una serie di vittorie e riconoscimenti per le persone curdofone. Ma lo fa con un obiettivo e programma decisamente omofobico, fondamentalista e di certo non laico. Per questo l’HüdaPar rappresenta quella fetta della società curdofona che si identifica con un percorso politico decisamente conservatore e per cui “questi curdi” vanno bene per il partito al governo.
Infatti già nel 2020, l’ex presidente generale del partito, ossia Ishak Sağlam invitò il presidente della repubblica a uscire dalla Convenzione d’Istanbul. Quella convenzione forte e importante che fu creata proprio a Istanbul in Turchia nel 2011 con l’obiettivo di lottare contro i femminicidi e tutelare tutte le identità di genere e gli orientamenti sessuali delle persone. Oggi lo stesso partito, con un altro presidente, parla dell’eliminazione della legge 6284 che riguarda la famiglia e la violenza sulle donne.

Il terrorista curdo buono deve essere fondamentalista…

Purtroppo nel capitolo che riguarda HüdaPar ci sarebbe un altro piccolo approfondimento da fare. Ossia il passato di questo movimento e il suo presunto legame con l’Hezbollah turco.
Si tratta di una formazione paramilitare e armata che appare in Turchia negli anni Ottanta. Per chiarire tutto per una volta, l’Hezbollah turco non avrebbe alcun legame con l’omonimo Partito sciita libanese. Infatti Hezbollah turco sarebbe una formazione armata fondamentalista e sunnita. Il suo profilo terroristico è stato confermato dal Dipartimento di Stato degli Usa, nel 2011, e dalla Presidenza generale della Lotta contro il terrorismo in Turchia nel 2012. Questa formazione paramilitare è stata sempre accusata di avere dei legami con i servizi segreti di Ankara e di prendere di mira quasi esclusivamente quella parte marxista del movimento curdo in Turchia. Di questo parla in modo articolato il famoso giornalista Ruşen Çakır nel suo libro Derin Hizbullah pubblicato nel 2016.
La Turchia è venuta a sapere dell’esistenza di questa organizzazione terrorista nel 2000 quando il suo ex leader, Hüseyin Velioğlu, in uno scontro armato con la polizia è stato ucciso e presso la sua abitazione sono stati trovati numerosi documenti che hanno spalancato nuove porte. Le stesse che hanno portato i poliziotti e i procuratori a scoprire i piani per assassinare le persone e purtroppo anche le fosse comuni dove sono state sepolte numerose persone dopo lunghe e crudeli torture. Secondo il giornalista Çakır si tratta di una formazione politica e armata tra i giovani curdi fondamentalisti negli anni Settanta come una sorta di antitesi del Partito dei Lavoratori del Kurdistan ossia Pkk.

… all’origine di HüdaPar: l’Hezbollah turco

Mentre dopo l’uccisione di Velioglu, Hezbollah turco pian piano scompariva, dall’altra parte nasceva un’associazione con il nome Muztazaf-Der. Anche se questa nuova realtà rigettava ogni accusa di legame con l’Hezbollah turco la Corte di Cassazione nel 2012 ha deciso di chiuderla proprio per questo presunto legame. Il suo presidente, Mehmet Hüseyin Yılmaz, pochi mesi dopo fonda HüdaPar. Un anno dopo, nel 2013, il timone del partito passa nelle mani di Zekeriya Yapıcıoğlu che oggi risulta candidato alle elezioni politiche presso l’Akp.
Oltre a Yapıcıoğlu, nelle liste dell’Akp salta all’occhio anche il nome di Faruk Dinç, accusato di appartenere al Hezbollah turco e trattenuto in carcere per due mesi in relazione con le indagini sul legame tra quest’organizzazione e l’associazione Ihya-Der. Secondo i procuratori l’associazione in questione era stata fondata dalle persone condannate, poi scarcerate, in un altro processo su Hezbollah turco.
Sempre secondo il giornalista Ruşen Çakır non ci sono troppi giri di parole da fare: HüdaPar è l’espressione partitica dell’Hezbollah turco. Infatti la notizia arrivata il 10 aprile, che informa della scarcerazione di 58 persone accusate di essere assassini di 183 persone uccise dall’Hezbollah turco, è una sorta di conferma della tesi di Çakır. Come se l’inserimento del HüdaPar nelle liste dell’Akp avesse trovato un riconoscimento. Addirittura secondo il giornalista Özgür Cebe, del quotidiano “Sözcü”, si potrebbe trattare di una notizia figlia di un accordo elettorale.

Già esisteva un alleato curdo oltreconfine

Molto probabilmente l’Alleanza della Repubblica, inserendo HüdaPar nelle sue liste, cerca di puntare sui voti di quella fetta della popolazione curdofona molto conservatrice e chiede il riconoscimento dei suoi diritti. Inoltre si tratterebbe di un gesto importante che rafforza il profilo conservatore della stessa alleanza, vista una parte del programma elettorale del partito in questione. Infine, questa new entry, oltre che nella politica interna, potrebbe avere un ruolo anche in quella estera. Quest’ultima ipotesi trova corpo grazie a un incontro avvenuto nel mese di aprile.


Sarebbe l’incontro tra Zekeriya Yapıcıoğlu e Masoud Barzani, l’ex presidente della Regione del Kurdistan (iracheno) e il leader storico del Partito democratico del Kurdistan (Pdk). È un incontro molto interessante, prima di tutto, perché si è svolto tra un “semplice” candidato per le elezioni e il personaggio più illustre del “movimento curdo” in Iraq. Quindi per il lato della Turchia non c’era un ministro oppure un sottosegretario ma una new entry dell’alleanza del governo. In secondo luogo il messaggio che è stato diffuso presso l’agenzia di stampa “Ilke” (semiufficialmente l’organo di stampa di HüdaPar) rende particolare quest’incontro «È stato deciso di rafforzare in futuro il rapporto tra HüdaPar e Pdk». Quindi per Barzani è chiaro che l’interlocutore da prendere in considerazione è quella formazione “curda” e fondamentalista che rappresenta Yapıcıoğlu e si trova accanto all’attuale presidente della repubblica di Turchia.

Le visitazioni islamiste

La visita di Yapıcıoğlu il 26 aprile è stata abbastanza proficua. Ha incontrato anche Aydin Maruf, membro del Fronte turcomanno iracheno, nonché il ministro degli Affari Religiosi e Etnici. Maruf è spesso presente in Turchia, si trova in ottimi rapporti con l’attuale governo e si è espresso varie volte a favore delle collaborazioni tra Ankara, Erbil e Bagdad per «lottare contro il terrorismo del Pkk».
Tra le persone visitate da Yapıcıoğlu vediamo anche il nome di Ali Bapir, membro del Movimento Islamico del Kurdistan e del Gruppo della Giustizia in Kurdistan. Si tratta di uno scrittore e studioso concentrato sulla fondazione di un Kudistan islamico. Bapir fu anche, nel 2021, uno degli sporadici personaggi politici al mondo a congratularsi con i Talebani dopo la loro salita al potere attraverso una lettera pubblica tuttora presente sul suo sito web personale.
Yapıcıoğlu in Kurdistan (iracheno) ha incontrato altri politici di formazione fondamentalista come Şeyh İrfan Abdulaziz, il leader attuale del Partito del Movimento islamista, e Rashid al-Azzawi che dirige il Partito islamico dell’Iraq.

Gli oleodotti dei curdi amici

Questi incontri ovviamente sono dei segni importanti se teniamo in considerazione soprattutto la crisi del petrolio nata verso la fine del mese di marzo di quest’anno. Una procedura arbitrale aperta nel 2014 si è conclusa questa primavera. Un percorso giuridico lungo che ha portato 1,4 miliardi di dollari di condanna per Ankara. Si tratta di un’azione portata avanti dal governo di Baghdad perché secondo il governo iracheno, Ankara non rispetta da tempo l’accordo del 1973. Secondo questo accordo sarebbe Baghdad l’unico interlocutore della Turchia per l’acquisto del gas e petrolio mentre invece Ankara da tempo tratta direttamente con Erbil quindi Nechirvan Barzani e Masoud Barzani. Inoltre, in questo processo, la Turchia sarebbe condannata a pagare 500 milioni di dollari perché diverse volte non ha aggiustato in tempo i danni avvenuti nelle “tubature Iraq-Turchia” a causa degli attentati di sabotaggio.

Oil vs Pkk

In questa procedura portata avanti per nove anni presso la Camera di Commercio internazionale di Parigi si notano alcuni appunti che parlano anche dell’avanzata dell’Isis in Iraq nel 2014 verso le città strategiche per il commercio petrolifero e la reazione degli Usa e della Turchia in quel momento. Appunto Ankara sarebbe accusata di approfittare delle dinamiche geopolitiche perché proprio in quel periodo avrebbe iniziato a non rispettare l’accordo del 1973 e avrebbe firmato nuovi contratti per la fornitura del petrolio direttamente con Erbil. Secondo il giornalista turco, Murat Yetkin, in questa fase storica ci sono varie dinamiche importanti come la volontà di ottenere ulteriore sostegno di Erbil nella sua storica lotta contro il Pkk: incassare più velocemente e più soldi scavalcando Baghdad e ottenere più credibilità e sostenitori in zona visto che proprio in quel periodo tra Erdoğan e Obama nascono le prime divergenze in merito a chi sostenere nella guerra in Siria.

In questa procedura arbitrale si cita anche l’illegale commercio del petrolio attraverso i camion cisterna. Un tema che fu sollevato dalla giornalista Bethan McKernan nel 2016 in un articolo pubblicato su “The Independent” che si basa sullo scandalo “Wikileaks”. Secondo questa fuga di e-mail, scatenata dal gruppo hacker turco “Redhack”, sarebbe l’azienda PowerTrans a gestire dal 2014 al 2015 il traffico illegale di petrolio dalle zone occupate dall’Isis in Siria e dal Kurdistan (iracheno) verso la Turchia. Secondo McKernan l’azienda in questione sarebbe legata in qualche maniera al genero del presidente della Repubblica di Turchia, ossia Beraty Albayrak che in quegli anni lavorava come il ministro dell’Energia al governo. Uno scandalo del genere era stato sollevato anche da Mosca nel 2015 durante quei nove mesi di conflitto che ci fu con Ankara. In quel caso fu il figlio del presidente della Repubblica ossia Bilal Erdoğan a finire nel mirino russo più o meno per le stesse accuse rivolte al genero.

I curdi utili fuori e dentro i confini

Oggi le trattative sono in corso. Secondo alcune fonti Ankara si rifiuta di risarcire Baghdad e secondo alcune fonti invece si tratta di trovare una cifra adatta per tutte le parti. In questo periodo di incertezza però c’è una cosa chiara: Ankara ha bisogno del petrolio e del sostegno politico di Erbil. L’amministrazione curda che si trova nel Nord dell’Iraq risulta tuttora il “curdo utile”, fuori dai confini nazionali, per l’attuale governo al potere in Turchia che deve fare i conti con le elezioni del 14 maggio. Il suo nuovo alleato, ossia HüdaPar, invece, sembra che abbia già deciso di muoversi come “mediatore” tra queste due parti indossando il costume del “curdo utile” in casa.

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La guerra birmana esplode al Casinò e uccide a Sagaing https://ogzero.org/la-guerra-birmana-esplode-al-casino-e-uccide-a-sagaing/ Wed, 03 May 2023 21:01:19 +0000 https://ogzero.org/?p=10898 Con il Myanmar OGzero ha un legame particolare fin dallo Studium collegato a Burma Blue, il libro dedicato da Max Morello al paese. Claudio Canal ha scritto un articolo interessante pubblicato su “Volere la Luna“, da dove lo recuperiamo corredato di un’integrazione: un podcast registrato da Radio Blackout con Emanuele Giordana, appena tornato dal confine […]

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Con il Myanmar OGzero ha un legame particolare fin dallo Studium collegato a Burma Blue, il libro dedicato da Max Morello al paese. Claudio Canal ha scritto un articolo interessante pubblicato su “Volere la Luna“, da dove lo recuperiamo corredato di un’integrazione: un podcast registrato da Radio Blackout con Emanuele Giordana, appena tornato dal confine birmano-thailandese. Le due testimonianze si compenetrano perfettamente nella descrizione informata degli eventi e nella analisi socio-culturale delle comunità coinvolte e degli interessi stranieri sul territorio, le esigenze del riciclaggio e dei traffici, che si combinano con la militarizzazione della società a cominciare dal controllo economico da parte degli eserciti.
Il ministro degli esteri cinese Qin Gang è giunto il 3 maggio in Myanmar, avvicinandosi alla riunione dei ministri della Shanghai cooperation organization, chiedendo anche lì di «mantenere confini chiari e stabili», le stesse parole usate da Xi entrando in medias res belliche; in questo caso mettendo in guardia da una “ricaduta” dell’escalation di violenza nel paese del Sudest asiatico e «reprimere la criminalità transfrontaliera» (Scmp, 3 maggio 2023). Il fatto che abbia
 sottolineato l’importanza di mantenere la stabilità nella regione e di promuovere una “cooperazione amichevole” tra i paesi confinanti risulta comprensibile dalla lettura e dall’ascolto di questi due contributi che vi proponiamo.


I can(n)oni di guerra sembrano lontani se tuonano in Myanmar

C’è una guerra in Europa, ci fa paura e ci divide in opposte tifoserie. Ci sono altre guerre nel mondo, non incutono timore perché ci sono ignote o perché ci abbiamo fatto il callo. Siccome l’arte della guerra gode di uno straordinario successo tra gli esseri umani, pensiamo di riconoscerla ovunque. C’è un paese in Asia, tra i più ricchi di risorse e dotato di una crudele bellezza, la Birmania-Myanmar, in cui è in corso una guerra che interpreta fedelmente i canoni dei manuali novecenteschi: eserciti schierati, bombardamenti aerei, artiglieria, guerriglia.

«Ma è così da più di settant’anni!» afferma chi conosce un po’ la storia di questo paese. Infatti, dal momento dell’indipendenza dal colonialismo britannico nel 1947, quando ci si prepara a inventare la nazione, una parte consistente degli abitanti delle Aree di Frontiera, escogitate e così marchiate dagli inglesi, si oppone senza tentennamenti. Le Aree sono refrattarie al progetto politico che la cultura maggioritaria – i Bamar/Bramar/Birmani, principalmente buddhisti  intende realizzare costituendosi come centro egemone di una nazione mai esistita prima, birmanizzando e, in qualche modo, buddhizzando tutto il resto.

Tradizionali guerre per i soliti traffici “etnici” vs. l’“esercito” del potere

Prendono così avvio le interminabili guerre e subguerre che hanno straziato fino a oggi la Birmania e reso l’esercito birmano, il Tatmadaw, un apparato estremamente distruttivo e la più importante potenza economica del paese, senza che sia mai riuscito a vincere una delle guerre che le forze armate locali gli hanno mosso e che mai si sia confrontato con un nemico esterno. Una forma molto originale di esercizio del potere: la guerra come istituzione costituente, la guerra per la guerra, la “guerra civile permanente”, diremmo noi in Europa. Alcune delle formazioni politiche e militari che combattono il potere centrale lo fanno per salvaguardare la loro diversità culturale, linguistica, religiosa; altre per non perdere gli incassi dalla produzione e coltivazione di metanfetamine, oppio, giada, legno pregiato; altre ancora per entrambe le ragioni. Forse perché non riescono più a immaginarsi a fare altro. Un paese dunque predisposto come poligono di tiro diffuso e residence per dittature militari da cui, nei recenti e limitati anni di democrazia approssimativa, sperava di disintossicarsi.

Le efferatezze di Tatmadaw, coacervo di sangue, narcos e crypto-crony capitalism

Un esercito che si identifica con lo stato, sacralizzato da una storia mitica di eroi guerrieri, «impregnato di crony capitalism cronico», una delle tante “apparizioni” del capitalismo, quello della solida rete di compari e amici degli amici attestati nei gangli economici e finanziari. È un impianto sociale di corruzione generalizzata, costruito sul rapporto servo-padrone, sulla impunità garantita, incapace e non particolarmente interessato a costruire l’unificazione dall’alto del paese mediando tra le molteplicità. Nonostante la sua smisurata forza, gli appoggi e gli armamenti ricevuti da Russia e Cina, a tutt’oggi controlla, a esser larghi, la metà del paese. Un esercito così conformato non impiega solo la mascolina brutalità, ma amministra leve materiali e simboliche che gli consentono di non intimorirsi troppo e perfino di esercitare ancora una egemonia culturale debilitata ma non moribonda.

Tradizionali appoggi monastici in periodi di magre elemosine

La manforte la riceve dal sangha, la numerosissima e autorevole comunità monacale buddhista, di scuola Theravada come altri buddhismi del Sudest asiatico, che si compiace del ruolo di avanguardia politica svolto dai monaci durante la lotta anticoloniale contro gli inglesi nella prima metà del Novecento e della loro a tutt’oggi capillare presenza tra la popolazioneMezza comunità è dedita allo studio e alla meditazione, in attesa di tempi migliori; un quarto è dichiaratamente antiregime; il resto è un segmento militante molto eccitato che ha assunto da diversi anni una posizione ultranazionalista, xenofoba, razzista e di conseguenza entusiasta sostenitrice e istigatrice della giunta militare. Nessuna novità, verrebbe da dire, tutto già visto in Birmania. E non solo lì.

Uno dei territori in cui lo scontro è più rabbioso è la zona centrale del paese, in particolare la regione Sagaing, grande quanto l’Italia Settentrionale. Cioè il cuore culturale e storico della Birmania. Abitato da una popolazione in stragrande maggioranza buddhista, partecipe di un ordine simbolico che fino a non molto tempo fa guidava la birmanizzazione forzata del paese. È la prima volta dal dopoguerra e questa innovazione trasforma in modo radicale la geometria politica nazionale che diventa centro contro centro e non solo centro contro periferia. Una parte dell’insurrezione è condotta dal People’s Defence Force (Pdf), braccio armato del National Unity Government (Nug), il governo in esilio o governo ombra che cerca il riconoscimento internazionale e, soprattutto, l’alleanza con le forze politiche e gli eserciti delle Aree di frontieraNon è detto che ci riesca in tempi brevi, ma il progetto è partito.

La strage dal cielo sulle coste dell’Irrawaddy nel centro del Mandalay

Intanto la guerra in sé e per sé va avanti, bombardamenti a tappeto, villaggi in fiamme, droni funesti, imboscate letali [l’esercito birmano perde in media 100 uomini alla settimana], attacchi alle infrastrutture [giovedì 6 aprile l’aeroporto internazionale di Yangon è stato chiuso nella notte perché colpito da artiglieria], incendio e distruzione delle stazioni di polizia, fuga delle popolazioni coinvolte e fioritura di campi profughi… L’Expo dell’arsenale non chiude mai. Il caos e l’emergenza come regola della vita sociale, in un paese tra i più colpiti al mondo dai cambiamenti climatici. La sofferenza dei viventi non incontra ostacoli. Intanto l’Irrawaddy continua bonario a scorrere lungo i suoi 2500 chilometri, i delfini meditano forse sulla loro estinzione e pure gli operosi esseri umani che condividono la vita del fiume.

E il doppio “gioco” cinese in periferia

Quanto durerà la guerra? Movimenti di riforma interni all’esercito? Torneranno nelle caserme i soldati? Un golpe? Un’implosione generale? Impossibili per ora risposte creative a queste domande. Nuove leadership si manifestano nelle Aree di frontiera. Aspirano, come minimo, a uno Stato molto, molto federale. Nel frattempo, il gigante di confine, la Cina, gioca come al solito su due tavoli. Sostiene e foraggia la giunta militare, e nello stesso tempo sussidia generosamente di armamenti e merci il Kokang e lo “Stato” Wa, regioni della Birmania in lotta armata contro la giunta militare.

Cronaca

Aung San Suu Kyi è in isolamento in carcere nella capitale surreale Naypyidaw a scontare i 33 anni a cui è stata condannata. Gli sgherri sono specialisti in vendetta. La resistenza è anche radicata nei mille gruppi e reti che continuano a far funzionare le scuole, a procurare medicine e a fare quanto è possibile in un welfare dal basso ricco di sorrisi e di delicatezze. Il regime ha appena tagliato 200 alberi di Poinciana reale o albero di fuoco nella 38ª strada di Mandalay, nei pressi dell’incantevole mercato della giada. I suoi fiori rosso fiamma rimandavano al colore della Lnd [Lega Nazionale per la Democrazia], il partito di Aung San Suu Kyi, a cui la via era stata intitolata. Terrorismo vegetale

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Non essere indeciso,
il detonatore della rivoluzione
sei solo tu, o io.
(K Za Win [1982-2021] poeta,
ucciso dalla polizia durante una manifestazione da lui organizzata contro la giunta, 3 marzo 2021)


 

La malavita cinese naviga sulle coste del Moei tra Thailandia e Myanmar

Emanuele Giordana a sua volta descrive i legami tra tutti i protagonisti in tragedia, senza indulgenza per una fazione o l’altra: la fotografia che si ricava è quella del malaffare generalizzato che non lascia spazio a interpretazioni desumibili da una qualunque etica: gli affari contrapposti animano le rive del Moei e si vedono sorgere città poi abbandonate, dove tutto è consentito, anzi è il malaffare la legge di una terra senza alcuna regola se non quella della truffa e dell’inganno, ora sempre più finanziario, che ha surclassato persino in parte la destinazione d’uso dei paradisi sessuali e del gioco d’azzardo. Manovre ad altissimo livello internazionale sovrintendono all’occupazione del territorio e alla cooptazione degli addetti nella zona del Karen State.

«Con le false credenziali della Belt and Road Initiative – messe in discussione dal precedente governo del Myanmar guidato da Aung San Suu Kyi e pubblicamente sconfessate dall’ambasciata cinese in Myanmar nel 2020 – la città si trova appena a nord di Mae Sot, in Thailandia. Secondo il materiale promozionale, la città avrà “parchi industriali scientifici e tecnologici, aree per il tempo libero e il turismo, aree per la cultura etnica, aree commerciali e logistiche e aree per l’agricoltura ecologica”. Ci sarà anche una struttura per “l’addestramento alle armi da fuoco”. Shwe Kokko è stato anche definito “la Silicon Valley del Myanmar” e una stazione chiave lungo la “Via della Seta marittima”» (NikkeiAsia), parte di un ponte terrestre tra l’Oceano Indiano che permette di aggirare i pericoli e i dazi della navigazione tra gli stretti del Mar Cinese Meridionale, avvalendosi di una ferrovia che unirà lo Yunnan al mar delle Andamane.  

 

“Shwe Kokko e i suoi modelli”.

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Chi specula sulla questione Saharawi? https://ogzero.org/progressiva-annessione-del-sahara-occidentale/ Sat, 17 Dec 2022 22:08:28 +0000 https://ogzero.org/?p=9799 La diplomazia di Rabat nell’ultimo anno ha ottenuto risultati importanti in vista della progressiva annessione del Sahara Occidentale, anche grazie ai ritorni derivanti dalla guerra in Ukraina: il ricatto nei confronti della Spagna sulla concessione riguardo al passaggio di oleodotti ha drasticamente azzerato la simpatia tra la Spagna e il Saharawi, vista la fame di […]

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La diplomazia di Rabat nell’ultimo anno ha ottenuto risultati importanti in vista della progressiva annessione del Sahara Occidentale, anche grazie ai ritorni derivanti dalla guerra in Ukraina: il ricatto nei confronti della Spagna sulla concessione riguardo al passaggio di oleodotti ha drasticamente azzerato la simpatia tra la Spagna e il Saharawi, vista la fame di gas di Madrid; ma aveva cominciato a ottenere risultati già con la presidenza Trump che ne aveva riconosciuto le pretese di controllo sull’ex Sahara spagnolo, in cambio degli Accordi di Abraham con Israele, che sancivano solamente una collaborazione ormai annosa soprattutto sul piano militare (infatti si sono viste sventolare bandiere palestinesi e algerine dopo la sconfitta dei “Leoni” in semifinale dei mondiali di football a Doha – nonostante l’eliminazione provenisse per mano dell’odiata potenza francese).

Il risultato ai mondiali qatarini è comunque spendibile dal regime per una nuova autorevolezza nel mondo arabo, spostando a ovest gli equilibri disputati con i sauditi; il fatto che sia stato relegato nei giochi della Fifa al quarto posto allargando a orologeria anche al Marocco lo scandalo della corruzione riuscita con il lobbismo dei commissari socialisti europei non può che giocare a favore di Rabat, perché colloca il Marocco tra le nazioni che si accreditano per un lavoro di “convincimento” credibile (e può anche richiamarsi a una sorta di discriminazione dell’ultimo paese africano in lizza).
Per questo ci sembra opportuno rendere pubblico l’articolo di Gianni Sartori che vi proponiamo a poche ore dalla sconfitta della nazionale marocchina nella disputa per il terzo posto con una Croazia, che contemporaneamente rifiuta l’accoglienza a soldati ucraini da addestrare in ambito Nato (“Le Parisien”), temendo di farsi coinvolgere nel conflitto.

OGzero


Corruttori ed eurocorrotti

Stando alle notizie riportate da“Le Soir”, da “Knack” e da “il manifesto”, l’ex deputato europeo Panzeri a Strasburgo si sarebbe occupato soprattutto di “diritti umani e del Maghreb”. Oltre ad aver fondato nel 2019 una ong (Fight Impunity), avrebbe intrattenuto rapporti amichevoli con l’esponente marocchino Abderrahim Atmoun (dal 2019 ambasciatore in Polonia).

Sempre nel 2019, Panzeri figurava tra gli oltre 400 deputati europei che avevano votato a favore di un accordo di pesca che interessava anche le coste del Sahara Occidentale. A tutto vantaggio di Rabat, ma naturalmente senza il consenso del popolo saharawi e del Fronte Polisario. Va sottolineato che questo mare molto pescoso è una delle due principali risorse (l’altra è rappresentata dai fosfati) in grado di garantire la futura sopravvivenza della popolazione saharawi e della Rasd.
Fortunatamente tale accordo iniquo venne poi annullato (ma solo nel 2021) dalla Corte di Giustizia europea in quanto

«sancirebbe il diritto di sfruttamento di uno stato occupante in un territorio riconosciuto internazionalmente come “non autonomo”».

Congiurati socialisti in combutta con Mohammed VI contro il Polisario

Annessione del Sahara Occidentale camuffata

Pressanti le ricorrenti richieste di Rabat all’Unione europea di allinearsi con le posizioni di Washington (nel 2020 con Trump) che di fatto sottoscrivevano quelle marocchine in merito a una non meglio definita (ma comunque limitata) “autonomia del Sahara Occidentale all’interno dei confini del regno del Marocco” – in pratica l’ufficializzazione dell’annessione del Sahara Occidentale.
La proposta risaliva all’aprile 2007: presentata dal Marocco come una

«risposta alle richieste del Consiglio di Sicurezza alle parti per porre fine alla situazione di stallo politico» e rivolta direttamente al Segretario Generale, venne descritta come «l’iniziativa marocchina di negoziazione di uno status d’autonomia per la regione del Sahara».

Scontato che ai saharawi apparisse come una mossa propedeutica alla completa assimilazione.

Recentemente tale prospettiva sembra aver raccolto il favore sia del governo madrileno, sia di alcuni ex esponenti del Polisario, dissidenti nei confronti del Fronte (ma non per questo collaborazionisti del Marocco).

Il dovere della memoria come garanzia della non ripetizione

Sul ruolo sempre più “conciliante” (eufemismo) assunto da Madrid nei confronti di Rabat, era intervenuto Luis Portillo Pasqual del Riquelme (“Etnie”).

Per il docente di scienze economiche alla madrilena Università Complutense, il leader socialista Pedro Sánchez avrebbe «ceduto vergognosamente alle richieste di Mohamed VI perpetrando un secondo tradimento del popolo saharawi». Anzi, aggiungeva, «stando ai miei calcoli addirittura il terzo» (il secondo sarebbe quello operato da Felipe Gonzalez, precedente leader socialista, che già nel 2008 Luis Portillo stigmatizzava su “Rebellion”, sottolineando il lobbismo spinto di Rabat).
L’illustre accademico ricordava come Félix Bolaños, ministro della Presidenza, Relazioni con le Cortes e Memoria Democratica, aveva affermato nel suo intervento che

«la memoria è un diritto, un diritto della cittadinanza e soprattutto un diritto delle vittime».

In sintesi: “Il dovere della memoria come garanzia della non ripetizione”. In riferimento soprattutto alle violazioni dei diritti umani e del diritto dei popoli perpetrate dal franchismo, una questione con cui la Spagna non aveva fatto i conti a momento debito.

Ma questa legge, continuava Bolaños, per quanto riguardava la questione del Sahara Occidentale e del popolo saharawi risultava quantomeno “insoddisfacente”. Nonostante costituisse l’estrema colpa dell’ultimo governo della dittatura fascista.

 

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Guerre di religione: continuazione del colonialismo con altri mezzi https://ogzero.org/guerre-di-religione-continuazione-del-colonialismo-con-altri-mezzi/ Sat, 12 Nov 2022 08:48:30 +0000 https://ogzero.org/?p=9436 Gianni Sartori si propone come autodidatta che propone analisi “a naso”: avercene di nasi così raffinati! E soprattutto con una memoria storica e uno sguardo libertario come il suo. Peraltro l’analisi dei guasti del neocolonialismo è uno dei motivi per cui OGzero è nato e questo scritto ci sembra perfetto per avviare la discussione che […]

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Gianni Sartori si propone come autodidatta che propone analisi “a naso”: avercene di nasi così raffinati! E soprattutto con una memoria storica e uno sguardo libertario come il suo. Peraltro l’analisi dei guasti del neocolonialismo è uno dei motivi per cui OGzero è nato e questo scritto ci sembra perfetto per avviare la discussione che si fonde e intreccia con le altre che muovono masse di disperati, distruggono il clima, depredano territori, spacciano armi, innescano conflitti per controllare risorse. Si può interpretare questo uso della divisione religiosa come un nodo delle diverse emergenze del Finanzkapitalismus nella sua fase iperliberista, un nodo a cui arrivare dagli altri orrori geopolitici, o da cui partire per inserirlo nella rete che mette insieme l’uso politico-aggressivo della religione, il pastone mediatico, la scorciatoia militarista, l’espansionismo imperialista… ma partiamo dallo storico conflitto irlandese tra cattolici separatisti e unionisti protestanti e poi ci espandiamo nelle più complesse – ma riconducibili agli stessi modelli di potere – contrapposizioni mediorientali.


Solo un’ipotesi, la mia. Da “proletario autoalfabetizzato” senza pretese accademiche. A naso diciamo.
Se in passato le “guerre di religione” potevano, forse, esprimere (“fotografare”) in qualche modo i conflitti etnici e/o sociali del tempo (vedi alcune “eresie” e certe “riforme” diretta conseguenza dei conflitti di classe), direi che in seguito, perlomeno dal secolo scorso, il più delle volte sono state la copertura, la “vetrina” di interessate strumentalizzazioni.

Partiamo dall’Irlanda…

A titolo di esempio, il conflitto irlandese, soprattutto dopo la divisione dell’Isola di smeraldo. Se già nel Settecento cattolici e protestanti (discendenti i primi dagli indigeni irlandesi colonizzati, gli altri dai coloni scozzesi presbiteriani) avevano fatto fronte comune per l’indipendenza dell’Irlanda, anche in seguito (vedi gli scioperi di lavoratori salariati cattolici e protestanti a Belfast) non mancarono lotte comuni. A porvi fine intervennero le ricche borghesie filobritanniche (si veda La Casa d’Orange) elargendo piccoli privilegi e organizzando milizie settarie “lealiste” (v. Uvf). Non potendo utilizzare – che so – un diverso colore della pelle o diversità etniche rilevanti (in quanto entrambe le comunità erano di origine celtica, diversamente dagli inglesi anglosassoni – di origine germanica – e anglicani) si accontentarono di ampliare il modesto solco di natura religiosa.


Poi è andata come sappiamo. Esperimento sostanzialmente riuscito, un modello per future strumentalizzazioni a “geometria variabile”.

… e giungiamo tra le comunità beluci, curde e hazara

Quindi ritengo che anche le sanguinose faide mediorientali tra sunniti e sciiti (con ricadute particolarmente gravi per le minoranze qui presenti: yazidi, alaviti, assiro-cristiani, zoroastriani…) siano state perlomeno “pompate”, gonfiate, esasperate ad arte.
Quanto è avvenuto nelle aree curde, occupate militarmente dalla Turchia, di Afrin e di Sere Kaniyê (Nord della Siria) appare emblematico. Non essendo in grado di controllare adeguatamente le proprie milizie mercenarie (vedi l’Esercito Nazionale Siriano, Sna), Ankara si starebbe affidando direttamente al gruppo terrorista Hayat Tahrir al-Sham (Hts, successore di al-Nusra), con tutta probabilità l’emanazione locale di al-Qaeda.

Il ruolo della Turchia

Anche perché tra le fila di alcune formazioni sul libro paga di Ankara ultimamente serpeggiava, oltre al malcontento, anche una certa preoccupazione.

Le voci su un possibile riavvicinamento tra Ankara e Damasco (patrocinato da Mosca) lasciava intravedere la possibilità di venir scaricati, se non addirittura consegnati, per diversi membri delle milizie mercenarie. In quanto ricercati da Damasco potrebbero venire estradati e questo suggerisce una possibile spiegazione su alcuni episodi di insubordinazione. Come per gli scontri a mano armata intercorsi tra membri di Jabhat al-Shamiya e di Jaish al-Islam.
Tali dispute ricorrenti (oltre al rischio concreto di insubordinazione e defezione) tra le diverse fazioni di Sna (forse non adeguatamente attrezzate, oltre che sul piano politico, anche in quello religioso?) avrebbero suggerito a Erdoğan di far leva sul maggiore entusiasmo, fervore religioso (eufemismo per fanatismo) di Hts. Un fanatismo indispensabile per annichilire le minoranze “eretiche” e non omologate (tutti apostati, dissidenti, “pagani”… addirittura comunisti o anarchici talvolta) del nord della Siria. Nella prospettiva di ulteriori invasioni.
Già all’epoca delle prime manifestazioni contro il regime siriano si assisteva a una proliferazione di gruppi armati, in genere appoggiati, oltre che dalla Turchia, da alcuni stati del Golfo come il Qatar.

Negli Usa è ancora in corso il processo contro “Qatar Charity” e contro Qatar Bank per aver finanziato con 800.000 dollari il leader dell’Esercito Islamico Fadhel al-Salim.

Pulizie etnico-religiose nella Mezzaluna sciita

Per inciso, è probabile che questo stia oggi avvenendo in Iran, nel tentativo di strumentalizzare, “dirottare” altrove, le legittime proteste popolari. Con un occhio di riguardo per i beluci, già manovrati in passato anche da qualche potenza imperialista di Oltreoceano. Come da manuale, ça va sans dire, anche i beluci ci mettono “del loro”: per esempio in Pakistan alcuni gruppi indipendentisti beluci sono ritenuti responsabili di vere e proprie stragi ai danni degli hazara, un’altra minoranza, ma di fede sciita.
Va anche detto che da parte sua la Repubblica islamica sembra far di tutto per fornire pretesti in tal senso. In una recente manifestazione (4 novembre 2022) a Khach, provincia di Zahedan, le forze di sicurezza hanno ucciso una ventina di civili beluci (16 le vittime identificate, tra cui alcuni bambini) ferendone oltre sessanta. Da segnalare – stando a quanto dichiarato da alcuni attivisti – che altri feriti erano poi deceduti non essendo stati traspostati all’ospedale dove rischiavano seriamente di essere arrestati.


Un’altra strage di 90 civili beluci era già avvenuta, sempre nella provincia di Zahedana, il 30 settembre.

Appare evidente che – analogamente a quella curda – anche la popolazione minorizzata dei beluci (“minorizzata” e non minoritaria, in quanto divisa da frontiere statali) in Sistan e Baluchistan subisce quotidiane discriminazioni ed è sottoposta a una dura repressione (come del resto altre comunità delle aree periferiche del paese) da parte di Teheran.
Sia per la loro appartenenza etnica, sia per ragioni religiose in quanto sunniti.
Il comandante di al-Nusra, Al-Hana (Abu Mansour al-Maghrebi) arrestato nel 2020 in Iraq aveva rivelato che lo sceicco Khalid Sueliman (della potente famiglia al-Thani), a capo del Jabhat al-Nusra (e pare anche delle organizzazioni derivate), veniva finanziato con qualcosa come un milione di dollari al mese. Turchia e Qatar sosterrebbero, sia finanziariamente, sia con la fornitura di armamenti, i vari gruppi combattenti emanazione dei Fratelli musulmani salafiti in quanto utile strumento per la loro politica estera. Anche in chiave panislamica.

Guerra turca ai curdi in Siria

Alcune organizzazioni hanno stabilito un’analogia, per vastità e inasprimento, tra l’attuale repressione in Iran e i massacri subiti dai beluci a Deraa (in Siria) nel 2011, denunciati dall’Onu come crimini di guerra.
Storicamente accertato che potenze regionali ostili a Damasco avevano favorito la militarizzazione (vedi appunto la formazione di Sna) e l’escalation del conflitto.
Oltre che a Sna, la Turchia non avrebbe lesinato nel fornire sostegno al fronte al-Nusra (dal 2012 nella lista del terrorismo internazionale in quanto ritenuto emanazione di al-Qaeda) e addirittura a Daesh. Formazioni entrambe notoriamente jihadiste.

Quanto al fronte al-Nusra, va ricordato che nell’ottobre 2012 attaccava i distretti autonomi di Şêxmeqsûd e Eşrefiye (regione di Aleppo) uccidendo decine di curdi. Subito dopo gli ascari jihadisti si scagliavano contro Afrin, incontrando però la ferrea resistenza delle Ypg/Ypj. Nel voler annichilire in primis le zone curde del Rojava (dove si sperimentava la rivoluzione del Confederalismo democratico) il Jabhat al -Nusra si smascherava da solo, mostrando apertamente di agire su indicazione della Turchia.

Sempre nel 2012, in novembre, veniva attaccata, partendo direttamente dalla Turchia, anche Serêkaniyê. Un’operazione congiunta tra al-Nusra e alcune milizie curde collaborazioniste legate al Pdk. Entrando in alcuni dei quartieri a maggioranza araba di Serêkaniyê, queste milizie si spacciavano per ribelli antiAssad cercando di stabilire alleanze. Solo successivamente (il 19 novembre) partiva il brutale attacco contro i quartieri a maggioranza curda. Veniva assassinato il sindaco della città e la chiesa diventava un bivacco per il loro quartiere generale.

Nel frattempo la loro già consistente presenza veniva rinforzata dall’apporto della cosiddetta Coalizione nazionale (Etilaf), che – secondo i curdi – sarebbe al Etilaf di Sna o comunque della sua derivazione, il “governo di transizione siriano”. Oltre al seggio di Istanbul, Etilaf ne controlla uno anche a Berlino (oltretutto finanziato dal governo tedesco).
Avrebbe anche una certa influenza in alcuni progetti (ugualmente finanziati dal governo tedesco) che sembrano funzionare come “specchietti per allodole”, allo scopo di creare cortine fumogene sulla realtà della situazione curda. Tra questi, il Centro europeo di studi curdi (Ezks) e il sito Kurdwatch, divulgatore di notizie farlocche intese a giustificare le operazioni militari di Erdoğan nel Nord della Siria e nel Nord dell’Iraq. Ma nonostante questo ulteriore apporto di milizie, successivamente venivano scacciati dalla popolazione insorta dei quartieri curdi, grazie anche all’intervento dei combattenti di Ypg e Ypj.

Gli scontri ripresero, durissimi, nel gennaio 2013. Praticamente una vera e propria ammucchiata di gruppi mercenari guidata da al-Nusra quella che contese per circa due settimane il controllo dei quartieri alle milizie curde. Sconfitte nuovamente, le truppe jihadiste si misero in salvo direttamente oltre il confine turco (immediatamente blindato dai soldati turchi per maggior sicurezza), ma lasciando in mano ai curdi un’ampia documentazione della loro intensa collaborazione con Ankara.
Purtroppo durante la ritirata sia al-Nusra che Daesh non mancarono di vendicarsi sulla popolazione curda con una vile rappresaglia.

Come a Til Eran (luglio 2013) e a Tal Hasil. Dichiarando pubblicamente, attraverso le moschee, che sia il bagno di sangue nei confronti della popolazione curda (circa un’ottantina le vittime accertate) che il sequestro-rapimento delle donne curde (prelevate a centinaia) era giustificato dal punto di vista religioso. Rastrellando poi casa per casa le due località sopracitate alla ricerca di “Apoisti”, ossia di seguaci di Apo Öcalan. Oltre a quelli crudelmente assassinati (alcuni bruciati vivi, con le immagini poi diffuse nei social), vanno considerati anche i desaparecidos (qualche decina) e i cadaveri (una ventina) di cui non è stata possibile l’identificazione.

Til Hasil

Da sottolineare che – per quanto entrambe aspirassero alla supremazia – Al-Nusra e Daesh (o Stato Islamico che dir si voglia) non smisero mai di collaborare proficuamente. Sia garantendo una certa “osmosi” di combattenti –praticamente intercambiabili – da una formazione all’altra (in base alle necessità del momento), sia dandosi il cambio, alternandosi nel controllo delle aree occupate. E soprattutto instaurando congiuntamente durante l’occupazione delle città, dei villaggi e dei quartieri curdi un aspro regime di ispirazione salafita. Anche a livello di tribunali islamici dove operavano in coppia.

Sempre sotto la supervisione di Ankara ovviamente. L’assalto al carcere di Sina à Hesekê (gennaio 2022) era stato pianificato dai territori occupati dalla Turchia.

Come già detto negli ultimi tempi al-Nusra aveva cercato di “riciclarsi” prendendo (almeno ufficialmente) le distanze da al-Qaeda e cambiando pelle e nome. Diventando prima, nel 2016, Liwa Fatah al-Sham e successivamente, nel 2017, appunto Hayat Tahrir al-Sham (Hts, in realtà una finta coalizione di vari gruppi, sostanzialmente sotto il controllo della vecchia al-Nusra, comunque denominata). Attualmente la casa madre sarebbe localizzata in quel di Idlib, in felice coabitazione con l’alleato turco. Allo scopo dichiarato di soffocare il risorgere e la diffusione del Confederalismo democratico in questa parte del Rojava. Esperienza pericolosa perché esemplare e contagiosa, soprattutto così in prossimità del confine turco.

Dal maggio di quest’anno (a seguito dell’incontro di Idlib-Sarmada con esponenti del regime turco) le milizie di Hts hanno ripreso a riposizionarsi e raggrupparsi su Idlib puntando quindi su Afrin. Inoltre si sarebbero acquartierati anche nelle zone di Girê Spî, Azaz, al-Bab, Cerablus e intorno alla città di Minbić (ancora gestita dall’amministrazione autonoma).
Sempre in vista di ulteriori attacchi in Rojava.

Per concludere, pur essendo presto rientrato nella lista nera dei gruppi terroristi, Hts continua a godere dei finanziamenti di Turchia, Qatar, Arabia Saudita…
Pare anche di qualche non meglio identificato “paese occidentale”…

Vai a sapere.

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Vecchie corone e turbanti consunti, curdi e beluci sudditi dell’impero persiano https://ogzero.org/vecchie-corone-e-turbanti-consunti-curdi-e-beluci-sudditi-dellimpero-persiano/ Tue, 18 Oct 2022 20:20:44 +0000 https://ogzero.org/?p=9151 Ospitando queste considerazioni di Gianni Sartori comparse su “Osservatorio repressione” proseguiamo l’interesse per un movimento che non accenna ad arrendersi al brutale massacro di forze di una brutale polizia che fin dai tempi della Savak della famiglia Pahlevi è famigerata per le sue efferatezze; ma la storia fa ben sperare, perché quando il popolo iraniano […]

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Ospitando queste considerazioni di Gianni Sartori comparse su “Osservatorio repressione” proseguiamo l’interesse per un movimento che non accenna ad arrendersi al brutale massacro di forze di una brutale polizia che fin dai tempi della Savak della famiglia Pahlevi è famigerata per le sue efferatezze; ma la storia fa ben sperare, perché quando il popolo iraniano è esausto non recede fino al rovesciamento del potere. Non sappiamo quale sarà l’epilogo ma la determinazione meriterebbe migliori analisi da parte dell’Occidente. Sartori ha il merito di usare occhiali che pescano nell’immaginario ipocrita che attraverso gli organi di stampa mainstream evidenziano episodi, a tratti beatificano, ma poi non considerano il patriarcato e si focalizzano esclusivamente sulla questione del velo senza considerare le istanze sociali e politiche che alimentano il movimento e senza accorgersi del tentativo di organizzazioni nostalgiche dello sha’ intente a scippare le lotte, cercando di replicare la manovra degli ayatollah che sterminarono i rivoltosi progressisti che avevano cacciato i Pahlevi. 


L’antifascismo nelle piazze iraniane

Affrontando i nostalgici del passato e gli oscurantisti del presente

Qualche considerazione, mi auguro non “allineata”, su quanto sta avvenendo in Iran. Già in precedenza avevo sottolineato come l’autodeterminazione dei popoli in generale e l’indipendentismo in particolare, siano divenuti una variabile “USA e getta” a seconda degli interessi geostrategici in gioco. Quella che uno studioso catalano aveva definito “indipendenza a geometria variabile”, di cui si è esaustivamente parlato in un articolo precedente. Gli esempi dei “due pesi e due misure” si sprecano, come avevo segnalato qualche anno fa (in epoca non sospetta) nella “postfazione” a un mio libro sui curdi.
E i curdi, da questo punto di vista, non fanno certo eccezione, se pur loro malgrado.
Beatificati qualche anno fa quando si facevano massacrare per sconfiggere l’Isis, erano stati poi – di fatto – dimenticati. Abbandonati in balia delle milizie islamiste filoturche in Rojava, sotto i bombardamenti turchi (anche con armi proibite dalla convenzione di Ginevra) in Bashur e sepolti vivi nelle carceri di sterminio in Turchia.
Quanto al Rojhilat (il Kurdistan sotto amministrazione iraniana), se si esclude in passato qualche tentativo di strumentalizzazione da parte del Mossad, parevano completamente scomparsi dal radar. Nuovamente alla ribalta in quanto tra i principali protagonisti della rivolta in corso (innescata dall’assassinio di una donna curda, Jina Amini) tornano a godere di qualche attenzione – interessata – da parte dei media occidentali.
Women Life Freedom
Talvolta in maniera paradossale. In un recente articolo apparso su un noto quotidiano italico si celebra “l’arte di resistere” di questo popolo indomito, ma – a mio avviso – in modo alquanto parziale. Ben due paginoni per ricordare, oltre alla lotta contro l’Isis e Daesh, perfino il “rapporto turbolento” dei curdi dell’Iraq con Bagdad e dilungarsi – addirittura – sulle antiche battaglie dei Carduchi (probabili progenitori dei curdi) celebrate da Senofonte in Anabasi.
Ma nessun accenno al Bakur (il Kurdistan sotto occupazione turca) o al “Mandela curdo” Ocalan.

L’analisi deve considerare molti aspetti

Riproponendo comunque una visione riduttiva – sempre a mio modesto avviso – dell’attuale crisi iraniana interpretata come legata essenzialmente alla questione dell’hejjab. In realtà ritengo che il problema, in particolare per le donne curde, sia leggermente più complesso. Andarsi a rivedere le percentuali di donne impiccate per essersi ribellate al patriarcato (con le minorenni – in genere vittime di matrimoni combinati – che se accusate di aver ammazzato il marito o un cognato, rimangono in cella in attesa della maggiore età e dell’esecuzione).

La rivolta in carcere dei fomentatori curdi

Del resto anche la rivolta nel famigerato carcere di Evin (a Teheran) sembrerebbe essere stata innescata (nella serata del 15 ottobre) dai prigionieri politici curdi.
Non i soli qui rinchiusi, ovviamente (ci sarebbero anche personaggi noti, in quanto stranieri, come la franco-iraniana Fariba Adelkhah e almeno fino alla fine di settembre lo statunitense di origine iraniana Siamak Namazi).
Per completezza va riportata anche un’altra inquietante ipotesi. Ossia che potrebbero essere state le stesse autorità carcerarie ad appiccare l’incendio come pretesto per eliminare dei pericolosi dissidenti.
Evin Prison

L’egemonia imperiale persiana

I seguaci dello sha’ cercano di scippare le lotte

In ogni caso, oltre a strumentalizzare le lotte dei curdi, stavolta si è fatto avanti anche chi vorrebbe ora emarginarli, ridimensionare il ruolo fondamentale che questa “minoranza” ha avuto, insieme ai beluci, nella rivolta in atto ormai da oltre un mese.
Il 15 ottobre a Londra, a una manifestazione di sostegno ai manifestanti e rivoltosi iraniani, i nostalgici dell’artificiosa monarchia decaduta nel 1979 hanno cercato di allontanare coloro che inalberavano bandiere del Kurdistan e del Belucistan, in quanto, secondo i seguaci della buonanima di Mohammad Reza Pahlavī, “non graditi”.
E rivendicando il fatto che nel 1936 Reżā Shāh Pahlavī (il padre di Mohammad Reza) aveva proibito per decreto l’uso di hijab e chador. Ma sorvolando, al solito, sulle concessioni fatte tre anni prima alla Anglo-Persian Oil Company, operazione a cui tenterà di porre termine nel 1951 Mossadeq (poi destituito con un colpo di stato imbastito da Usa e G.B.) riuscendo anche per un breve periodo ad allontanare lo sha’ dal Paese.
E così i tardi epigoni di quel regime crudele (ricordate le brutalità, le torture commesse tra il 1957 e il 1979 dalla polizia segreta, la Savak?), mentre con grande faccia tosta pubblicamente invocano l’unità del popolo iraniano contro l’attuale regime, negano a priori i diritti dei popoli minoritari (ma sarebbe più corretto definirli “minorizzati” in quanto sia i curdi che i beluci vivono separati in vari stati, divisi dalle artificiose frontiere).
Popoli sottoposti all’egemonia persiana e a cui viene tuttora negato il diritto alla propria lingua e cultura. Per non parlare di quello all’autodeterminazione.
Oggi con gli ayatollah così come ieri con lo sha’.
Fatti del genere, oltre che a Londra, erano già avvenuti a Parigi davanti all’Hôtel de Ville il 6 ottobre.
Durante – si badi bene – l’omaggio reso dalla sindaca di Parigi Anne Hidalgo a Jina Amini, la giovane curda uccisa dalla polizia.
Appare evidente come questi reazionari monarchici (potremmo, credo, definirli tranquillamente dei “fascisti”) vorrebbero impadronirsi della rivolta popolare, strumentalizzarla ai loro fini. Quanto al fatto che possano riuscirci è tutto un altro paio di maniche. Anche se …

La Realpolitik del diritto all’autodeterminazione

… coltivo qualche perplessità sugli sbocchi assunti da alcune lotte di liberazione in tempi recenti (talvolta strumentalizzate dal sistema industriale-militare – l’imperialismo – o da qualche potenza regionale), ma non per questo rinuncio a schierarmi a fianco degli oppressi e contro l’oppressione.

Per conto di chi agivano i miliziani sciiti di Amal (“Speranza”) che nel 1986 assediavano i campi palestinesi, ormai indifesi e ridotti alla fame dopo l’allontanamento dell’Olp dal Libano? E in base a quali calcoli gli Stati Uniti hanno integrato nell’esercito e nella polizia irachena formazioni come il gruppo Sciri e al-Da’wa, notoriamente filoiraniani e responsabili di violazioni dei diritti umani? Contraddizione nella contraddizione: contemporaneamente Washington starebbe utilizzando in funzione anti-Teheran gruppi di indipendentisti beluci (sunniti) legati ad al-Qaeda. Chi, se non i servizi segreti turchi, può aver organizzato nel 2007 gli assalti – ufficialmente opera di rom – contro le baracche dei profughi curdi a Istanbul?

Indipendenze a geometria variabile

Ormai la strumentalizzazione dei movimenti di liberazione nazionale, come di quelli autonomistici o identitari, non è più appannaggio esclusivo dei servizi segreti. Le varie potenze planetarie operano alla luce del sole decretando la legittimità o meno delle rivendicazioni. Manuel Castells ha parlato di “indipendenze a geometria variabile”, denunciando come la comunità internazionale si dichiari favorevole all’autodeterminazione di un popolo o difenda l’integrità di un paese «a seconda di chi, del come e del quando».

«Le posizioni sul diritto all’autodeterminazione –, sostiene il sociologo catalano, – sono frutto di un cinismo tattico e l’indipendentismo sarebbe divenuto uno strumento geopolitico fondamentale in un mondo globalizzato e interdipendente»

Pensiamo al trattamento riservato ai curdi in Iraq, praticamente autonomi e quasi alleati degli Usa, mentre quelli in territorio turco continuavano a essere bombardati, imprigionati e torturati da Ankara, storicamente alleato strategico degli Stati Uniti. Cui prodest? Non certo alla nazione curda nel suo insieme. E intanto i curdi dell’Iran (“Partito per una vita libera in Kurdistan”, Pjak, considerato il ramo iraniano del Pkk attivo in Turchia), dopo una serie di impiccagioni che l’opinione pubblica mondiale ha ignorato, nel 2010 si sarebbero rassegnati a collaborare anche con il Mossad (lo aveva documentato “Le Monde”, ma poi le cose sarebbero cambiate).

 

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«Kurdistan, Kurdistan: occhi e luce dell’Iran!» https://ogzero.org/kurdistan-kurdistan-occhi-e-luce-delliran/ Sat, 24 Sep 2022 11:58:16 +0000 https://ogzero.org/?p=9006 Un punto di vista attento alle origini curde di Jîna Mahsa Amini per raccontare ulteriori aspetti (rispetto a quelli rilevati da Marina Forti) della vicenda che ha scatenato un movimento determinato a ottenere almeno un allentamento dell’oppressione religiosa… e che forse può avviare un più ampio processo di emancipazione dal sistema oscurantista legato ai turbanti […]

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Un punto di vista attento alle origini curde di Jîna Mahsa Amini per raccontare ulteriori aspetti (rispetto a quelli rilevati da Marina Forti) della vicenda che ha scatenato un movimento determinato a ottenere almeno un allentamento dell’oppressione religiosa… e che forse può avviare un più ampio processo di emancipazione dal sistema oscurantista legato ai turbanti di Tehran, estendendo le proteste al desiderio di liberazione dal manto plumbeo degli ayatollah, con un gesto come i tanti dal hejjab. Gianni Sartori in questo pezzo comparso su “Osservatorio repressione” ricostruisce gli eventi di questi giorni con lo sguardo dei curdi del Khorasan, in particolare del Rojhilat (le province del Nordovest), esteso al resto delle speranze soprattutto dei giovani in piazza in questi giorni, rischiando anche di venire giustiziati, come da richieste degli oscurantisti chiamati in una contromanifestazione dal governo conservatore di Raisi, che si rende conto del pericolo di insurrezione.  


In Iran non si placano le proteste per l’assassinio di Jîna Mahsa Amini

Sappiamo che la popolazione curda del Rojhilat (il Kurdistan orientale, sotto amministrazione iraniana) detiene il record non invidiabile del maggior numero (in percentuale) di giustiziati e giustiziate del pianeta. Altri – e altre – invece sono vittime della tortura.
L’ultimo caso, quello della ventiduenne curda Jîna Mahsa Amini, ha scatenato la rivolta prima nella regione, poi nell’intero paese.
Nei primi cinque giorni (e cinque notti, come a Parma nel 1922) manifestazioni e scontri erano avvenuti a Sine, Dehgulan, Diwandara, Mahabad, Urmia, Piranshahr, Saqqez…
Mentre ancora il 22 settembre i telegiornali parlavano “soltanto” di una decina di manifestanti uccisi dalla polizia iraniana nel Rojhilat, alcune agenzie ne calcolavano già una trentina.

È probabile che ormai le vittime siano più di cinquanta e destinate, purtroppo, ad aumentare. Per non parlare della sorte di centinaia di feriti e di migliaia di persone arrestate.

Immediatamente veniva indetto dal Pjak (Partito per una vita libera nel Kurdistan) e da Kodar (Società democratica e libera del Kurdistan orientale) lo sciopero generale. Sciopero a cui avevano aderito i partiti affiliati al Centro di cooperazione dei partiti del Kurdistan iraniano, il Partito comunista iraniano-Kurdistan, altri partiti del Kurdistan orientale, numerose organizzazioni della società civile e vari esponenti politici. E così il 19 settembre scuole e negozi sono rimasti chiusi in gran parte della regione.
Il giorno dopo, 20 settembre, nel corso di una manifestazione, a Kermanshah moriva un’altra donna curda, Minoo Majidi, madre di tre bambini. Colpita dalle pallottole (dal “fuego real”) delle unità speciali antisommossa, prontamente mobilitate dal regime.

Nel frattempo le proteste per l’uccisione di Jîna Mahsa Amini (22 anni, deceduta per emorragia cerebrale a seguito delle torture subite) si estendevano all’intero paese.

In almeno una quindicina di città uomini e donne (la gran parte delle quali aveva gettato via il velo) sono scesi in strada. Non solo aTeheran, ma anche a Mashhad (nel nord-est), Tabriz (nord-ovest), Rasht (nord), Ispahan (centro) e Kish (sud). Bloccando la circolazione, incendiando i veicoli della polizia, lanciando pietre sulle forze di sicurezza e distruggendo i ritratti degli ayatollah (così come era accaduto a Saqqez, città natale della giovane curda). Oltre naturalmente a scandire slogan contro il regime. Sia quello diffuso tra le donne curde del Bakur e del Rojava: “Jin jiyan azadi“ (La Donna, la Vita, la Libertà), sia uno di nuovo conio:

“Kurdistan, Kurdistan: occhi e luce dell’Iran”.

Identificata dai media come Mahsa Amini, in realtà si chiamava Jîna (o anche Zhina) che significa “donna” (Jin) in curdo. Ma al momento di registrarla all’anagrafe, il funzionario del regime, come in tanti altri casi, si era rifiutato e aveva imposto la sostituzione del nome curdo con quello di Masha. Un evidente caso di colonialismo culturale che costringe milioni di curdi, espropriati del loro stesso nome, a portarne altri turchizzati (in Bakur), arabizzati o persianizzati (in Rojhilat).

Arrestata dalla polizia per un velo portato in maniera “scorretta”, o qualcosa del genere, mentre si trovava nell’auto del fratello da cui si era recata in visita, è morta all’ospedale di Kasra a Teheran, dove era giunta già in stato di morte cerebrale.

Mentre le autorità iraniane si giustificavano evocando improbabili “preesistenti problemi di salute” –  parlando prima di una presunta epilessia, poi di problemi cardiovascolari – dalle lastre e altri esami al cranio della giovane curda emergeva la conferma di quanto già si sospettava: Jina è morta a causa delle torture, delle percosse subite appena dopo l’arresto. In particolare quella che sembra una tomografia assiale computerizzata, ha evidenziato fratture ossee, un’emorragia e un edema cerebrale.
Una fonte ospedaliera ha parlato di “tessuto cerebrale schiacciato, danneggiato da numerosi colpi”. Inoltre i polmoni erano “pieni di sangue e non poteva più essere rianimata”. In alcune delle foto di lei sul letto dell’ospedale si vede chiaramente che le orecchie sanguinano, e ciò sarebbe un segno inequivocabile che il coma era la conseguenza di un trauma cranico.

Indignate manifestazioni di protesta si sono immediatamente svolte soprattutto nel Rojhilat dove scuole e negozi sono rimasti chiusi per lo sciopero generale.

Secondo il giornalista Ammar Goli (Erdelan) le forze di sicurezza del regime iraniano utilizzerebbero anche le ambulanze per reprimere i manifestanti, in violazione del diritto internazionale. Infatti «molte delle persone arrestate vengono portate nei centri di detenzione a bordo delle ambulanze in quanto le forze di sicurezza sanno che non verranno assalite dai manifestanti. E ovviamente molti manifestanti feriti si rifiutano di recarsi negli ospedali per paura di essere arrestati».

Dalla giornalista Behrouz Boochani un appello alla comunità internazionale per intendere la voce delle donne iraniane insorte contro la dittatura islamista: «Le donne dell’Iran sono fonte di ispirazione: stanno costruendo la Storia nelle strade ribellandosi alla dittatura. Non ignoratele; se siete femministe, siate la loro voce, amplificate il loro appello! Questa è una rivoluzione femminista storica».

 

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Inclusività o assimilazione nell’India tribale in rivolta? https://ogzero.org/inclusivita-o-assimilazione-nellindia-tribale-in-rivolta/ Tue, 26 Jul 2022 06:54:22 +0000 https://ogzero.org/?p=8278 Lo schiaffo del partito induista nazionalista al potere a tutto ciò che è alieno, diverso, “intollerabile” diventa scherno con l’elezione di una donna di origine tribale a presidente dell’India. Sicuramente non risolve i problemi di discriminazione e le pulizie etniche su cui Narendra Modi ha costruito il suo potere, ma con altrettanta certezza gli conferisce […]

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Lo schiaffo del partito induista nazionalista al potere a tutto ciò che è alieno, diverso, “intollerabile” diventa scherno con l’elezione di una donna di origine tribale a presidente dell’India. Sicuramente non risolve i problemi di discriminazione e le pulizie etniche su cui Narendra Modi ha costruito il suo potere, ma con altrettanta certezza gli conferisce una patente di tolleranza. Laddove invece registriamo solo militarizzazione e repressione dell’India tribale in rivolta, sia nel Centronord indiano sia nel profondo Sud del Tamil Nadu.
Qui con Gianni Sartori intendiamo dare voce, o almeno testimonianza, del saccheggio e delle modalità di soffocazione di istanze di emancipazione delle comunità tribali a Kallakurichi come a Sukma.
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Diritti e oppressione dei popoli indigeni

Non si può certo affermare che quanto avviene in India ai danni delle popolazioni tribali sia sotto la lente e l’interesse dei media internazionali. Difficilmente si viene adeguatamente informati riguardo a massacri, deportazioni (per consentire alle multinazionali, in particolare quelle dedite all’estrazione mineraria, di appropriarsi dei territori ancestrali delle popolazioni indigene), esecuzioni extragiudiziali, stupri di donne tribali e arresti arbitrari operati dal regime di Narendra Modi.
Si è invece parlato della elezione a presidente dell’India (una carica più che altro formale, cerimoniale…) di Droupadi Murmu, donna di origine tribale (i santhal), in precedenza governatrice del Jharkhand. Originaria dell’Odisha, milita da anni nel Bharatiya Janata Party, il partito dei fondamentalisti indù.
Per carità. Tutto può tornare utile e se questo evento dovesse portare qualche beneficio alle popolazioni tribali (gli adivasi) e alle caste diseredate (i dalit) ben venga.
Anche se l’augurio è che non avvenga nella logica sviluppista (e di devastazione umana e ambientale) che auspica Modi.

Addomesticamento e rivolta delle comunità tribali

È lecito infatti avere qualche riserva su questo coinvolgimento, più che altro spettacolare ed elettorale, dei tribali nel progetto del Bjp. Allargare la propria base di sostenitori farà sicuramente gli interessi del Bjp. Ma è lecito chiedersi quali vantaggi porterà alla conservazione delle lingue e della cultura tradizionale (oltre che alla loro sopravvivenza fisica) degli adivasi. Più che di “inclusività” si dovrebbe forse parlare di assimilazione.
Nel frattempo – ovvio – si mantiene la stretta repressiva, l’addomesticamento forzato delle popolazioni indocili e refrattarie al “progresso” neoliberista.

Landgrabbing e resistenza nel Chhattisgarh

Di questi giorni è la notizia (ignorata dai media internazionali in quanto scoperchiava le passate malefatte governative) dell’avvenuta liberazione (il 15 luglio 2022) nel Chhattisgarh di 121 tribali (tra cui alcuni minorenni) arrestati nel 2017 con una serie di rastrellamenti nei villaggi della zona. Nel frattempo uno degli arrestati (o almeno quello finora accertato) era deceduto dietro le sbarre.
Tutte queste persone, come del resto era evidente fin dall’inizio, sono risultate del tutto estranee all’imboscata, opera di almeno trecento guerriglieri naxaliti (maoisti del People’s Liberation Guerrilla Army), di Sukma (Burkapal, 24 aprile 2017)) in cui avevano perso la vita 26 paramilitari della Crpf.
Sono completamente cadute sia le accuse di possesso di armi, sia di appartenenza al Pci (maoista). Per cui la loro lunga, ingiusta detenzione acquista il senso di una rappresaglia a scopo “educativo” per tutta l’India tribale in rivolta.
A Sukma militari e paramilitari sorvegliavano in armi i lavori per la costruzione di una strada che doveva attraversare i territori tribali per conto di un gruppo industriale. Il gruppo maoista Dkszc (Dand Karanya Special Zone Committee) aveva rivendicato l’attacco.

Villaggio di Silger resistente, dove sono ormai trascorsi 400 giorni dall’inizio della resistenza del movimento del villaggio di Silger al confine tra Bijapur e Sukma nel Bastar meridionale del Chhattisgarh

L’attacco di Sukma

Nel comunicato si sottolineava come l’attacco fosse una risposta di autodifesa non solo nei confronti delle politiche antipopolari del governo, ma soprattutto per le «atrocità sessuali commesse dalle forze di sicurezza contro le donne e le ragazze tribali». Ossia gli innumerevoli stupri opera soprattutto dalle milizie paramilitari filogovernative. In sostanza «per la dignità e il rispetto delle donne tribali».

Il comunicato inoltre smentisce decisamente (come poi è stato riconosciuto anche ministero dell’Interno) che sui corpi dei soldati uccisi si fosse infierito con mutilazioni e castrazioni: «Noi – aveva dichiarato Vikalp, portavoce della guerriglia – non manchiamo di rispetto ai corpi dei soldati uccisi. Sono i media borghesi che diffondono tali false notizie e invece spesso sono i militari che operano brutali trattamenti sui corpi dei guerriglieri maoisti». Così come, aveva continuato «vengono riprese e diffuse nei social immagini riprovevoli delle guerrigliere uccise» (un inciso estraneo all’India tribale in rivolta: questa è una pratica abituale anche da parte dei soldati turchi nei confronti delle combattenti curde).
Per concludere: «I soldati non sono nostri nemici. Tantomeno nemici di classe. Tuttavia si pongono al servizio dell’apparato antipopolare e dello sfruttamento operato dal governo. Rivolgiamo a loro un appello affinché cessino di combattere schierati al fianco dei politici sfruttatori, dei grandi imprenditori, delle compagnie nazionali e internazionali, delle mafie, dei fascisti indù… che sono, per loro stessa natura, nemici dei dalit, dei tribali, delle minoranze religiose e delle donne. Soldati, non sprecate la vostra vita per difendere tali personaggi e le loro ricchezze. Lasciate l’esercito e prendete parte alla lotta popolare».

E adesso la resistenza ricomincia nel Tamil Nadu

Tornando ai nostri giorni, va ricordato che il 17 luglio 2022 nel Sud dell’India si sono verificati duri scontro tra giovani e polizia (con decine di feriti) dopo il suicidio di una studentessa.
I manifestanti penetrarono nel campus (distretto di Kallakurichi nello stato di Tamil Nadu), incendiando veicoli della polizia e bus scolastici.
La ragazza prima di togliersi la vita aveva scritto una lettera in cui denunciava alcuni insegnanti per averla sottoposta a sistematici maltrattamenti (aveva usato il termine “torture”). La stessa cosa sarebbe toccata ad altre studentesse.
All’inizio del mese invece le proteste – con scontri, numerosi feriti e una dozzina di arresti – erano scoppiate a Nepali Nagar. Il 3 luglio una quindicina di bulldozer arrivarono per distruggere un centinaio di abitazioni costruite su terreni pubblici: le autorità locali le avevano definite “abusive” (nonostante da anni fossero stati realizzati gli allacciamenti e venissero raccolte le tasse municipali).
E solo uno stretto braccio di mare divide il Tamil Nadu da quello Sri Lanka in subbuglio.
Una nota di Francesco Valacchi per contestualizzare le rivolte e la figura presidenziale di Droupadi Murmu si trova in “China Files”. Abbiamo registrato un suo breve intervento su Radio Blackout:

“Lavacro tribale del nazionalismo Bjp”.

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Nord Kivu: la tregua tra Ruanda e Congo resuscita l’M23 https://ogzero.org/nord-kivu-la-tregua-tra-ruanda-e-congo-resuscita-lm23/ Thu, 14 Jul 2022 10:52:21 +0000 https://ogzero.org/?p=8201 La distrazione globale derivata dalla guerra in Europa nasconde ancora di più tensioni, conflitti esplosi o quasi, guerre prolungate e seriali. Lo scontro in Nord Kivu è tra i più annosi e coinvolge diversi interessi, in particolare quelli tra comunità che si contendono interessi e sfruttamento delle risorse della regione. I due protagonisti di questa […]

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La distrazione globale derivata dalla guerra in Europa nasconde ancora di più tensioni, conflitti esplosi o quasi, guerre prolungate e seriali. Lo scontro in Nord Kivu è tra i più annosi e coinvolge diversi interessi, in particolare quelli tra comunità che si contendono interessi e sfruttamento delle risorse della regione. I due protagonisti di questa disputa abitano a Kigali e Kinshasa; si sono scatenate guerre, massacri, sfruttamenti e il controllo di miniere maledette di metalli preziosi legittima il perdurare delle tensioni, che richiedono la presenza di antagonisti, conosciuti e riconoscibili. Il movimento M23 nelle province nordorientali della Repubblica democratica del Congo serve per evitare che sui Grandi Laghi scenda il livello di scontro; un Movimento che si muove sempre più come un esercito regolare con la stessa potenza di fuoco, come sottolinea “Nigrizia”. Angelo Ferrari, contestualizzando gli eventi e segnalando il ruolo autonomo di M23 come attore in commedia, ha scritto per l’agenzia Agi questa breve nota che riprendiamo, lasciando immaginare l’incertezza come sistema per perpetuare lo scontro… e gli affari. 


Cosa sta succedendo nel Nordest della Repubblica democratica del Congo?

Ma, soprattutto, a cosa è servito l’incontro del 6 luglio a Luanda tra il presidente congolese, Felix Tshisekedi e quello ruandese, Paul Kagame, mediato dal loro omologo angolano, João Lourenço? Probabilmente a nulla.
I tre dovevano trovare una soluzione alle crescenti tensioni tra Congo e Ruanda che si sono acuite con l’intensificarsi delle attività nel Nord Kivu del gruppo ribelle M23, che si riteneva sconfitto dal 2013, ma che ha ripreso le sue attività provocando decine di vittime e migliaia di sfollati. Kinshasa sostiene che i ribelli siano sostenuti dal Ruanda, quasi una longa manus di Kigali che, invece, nega in maniera decisa.
Smentite che non hanno fatto calare la tensione che, anzi, si è riaccesa dopo l’annuncio del 13 giugno scorso da parte delle Forze armate della Repubblica del Congo (Fardc) che hanno parlato di «un’occupazione della città di confine di Bunagana» da parte delle Forze di difesa del Ruanda (Rdf). A dimostrazione che non si tratta solo di una disputa tra diplomazie ci sono le manifestazioni della popolazione a Goma: una vera e propria rivolta, una marcia verso il confine con il Ruanda al grido “dateci le armi che sconfiggeremo il nemico”, cioè Kigali. Manifestazioni che sono state sedate dalle forze di polizia del Congo.

Nord Kivu

Cessate il fuoco in Nord Kivu: fare la tregua senza l’oste

I tre presidenti, il 6 luglio, si erano accordati per un “cessate il fuoco”, annunciato in pompa magna dal capo di stato angolano e mediatore tra le parti.

«Sono felice di annunciare che abbiamo compiuto progressi, dal momento che abbiamo concordato un cessate il fuoco», ha detto pomposamente Lourenço.

Il presidente del Congo e quello del Ruanda, dal canto loro, avrebbero anche deciso di «creare un meccanismo di monitoraggio ad hoc», che sarà guidato da un ufficiale dell’esercito angolano. La tensione tra i due paesi è “inutile”, ha spiegato Tshisekedi, perché «costituisce un fattore destabilizzante e non contribuisce allo sviluppo e al benessere dei rispettivi popoli». Kagame, dal canto suo ha ritenuto “soddisfacenti” i risultati del vertice di Luanda che prevede, tra l’altro, l’immediata cessazione delle ostilità e il ritiro immediato e incondizionato dell’M23 dalle sue posizioni.

Il giorno dopo il vertice arrivano le dichiarazioni dell’M23, una doccia fredda sugli accordi. Il portavoce del movimento ribelle, Willy Ngoma, spiega che «l’accordo non coinvolge l’M23. Siamo congolesi, non ruandesi. Se c’è un cessate il fuoco, può essere solo tra noi e il governo congolese, non abbiamo niente a che fare con il Ruanda. Ci viene chiesto di partire da qui, ma per andare dove? È impossibile».

Probabilmente a Luanda si sono dimenticati di invitare il terzo attore delle tensioni in Nord Kivu, oppure credono davvero che i ribelli in questione siano realmente sostenuti da Kagame. Non è una questione da poco. L’M23 è un gruppo ribelle a maggioranza tutsi – la stessa etnia che ha le redini del potere a Kigali – che ha ripreso le ostilità alla fine dell’anno scorso, accusando Kinshasa di non aver rispettato gli accordi sulla smobilitazione e il reinserimento dei suoi combattenti.

Ascolta “Nord Kivu: la consuetudine alla guerra” su Spreaker.

Ma la trama si infittisce

Nessun accordo, nessun cessate il fuoco ma solo una tabella di marcia comune “con obiettivi e attività chiari”, in vista del prossimo vertice a Luanda. Così il 12 luglio il governo di Kigali ha ufficialmente smentito la firma o un qualsiasi accordo di cessate il fuoco nell’Est della Repubblica democratica del Congo, come invece annunciato il 6 luglio. La smentita è stata diffusa dal ministro ruandese degli Esteri e della Cooperazione, Vincent Biruta, che ha poi aggiunto che la «disinformazione e il populismo stanno minando l’obiettivo generale di raggiungere la pace» nella Repubblica democratica del Congo.

Nord Kivu: tutto da rifare?

Pare proprio di sì.
Le schermaglie diplomatiche si aggiungono a quelle sul campo e non fanno altro che surriscaldare gli animi. La contesa armata tra Fardc e M23 continua e a farne le spese, come sempre, la popolazione che si trova tra due fuochi, senza comprenderne bene la ragione, sa solo che deve fuggire dalle proprie case; e sono già 170.000 i profughi di questo ritorno di fiamma del conflitto. Il Nord Kivu continua a essere teatro di scontri e delle scorribande di gruppi armati, ribelli o no che siano, da ormai 25 anni e il governo congolese non riesce a governare il territorio dove ha decretato, l’anno scorso, lo stato di emergenza che consente all’esercito pieni poteri e libertà di azione, con risultati, tuttavia, molto scarsi ed è comprensibile visto che neanche i tre presidenti, quello congolese, quello ruandese e quello angolano, riescono a concordare una dichiarazione comune.

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El paro mueve (a las masas) y gana a Quito https://ogzero.org/acta-de-paz-el-paro-mueve-a-las-masas-y-gana-a-quito/ Sun, 03 Jul 2022 08:35:57 +0000 https://ogzero.org/?p=8040 Alle ore 14 del 30 giugno presso la Basilica di Quito Leonidas Iza (Conaie), Eustaquio Tuala (Feine), Gary Espinoza (Fenocin) e Francisco Jiménez, in qualità di Ministro del Governo per conto del presidente della repubblica dell’Ecuador, hanno firmato l’Acta de Paz e posto fine al conflitto sociale. All’incirca nello stesso momento sulle frequenze di Radio […]

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Alle ore 14 del 30 giugno presso la Basilica di Quito Leonidas Iza (Conaie), Eustaquio Tuala (Feine), Gary Espinoza (Fenocin) e Francisco Jiménez, in qualità di Ministro del Governo per conto del presidente della repubblica dell’Ecuador, hanno firmato l’Acta de Paz e posto fine al conflitto sociale.

All’incirca nello stesso momento sulle frequenze di Radio Blackout stavamo ospitando questa testimonianza di Davide Matrone, docente a Quito e attento analista del mondo latinoamericano:

riproponiamo qui il suo articolo pubblicato su “PagineEsteri subito dopo l’intervento in radio, analizzando immediatamente motivazioni e conseguenze, lotte e rivendicazioni, richieste ottenute e tavoli avviati da una mobilitazione popolare e tragica per lo strascico di morti e fatica prodotta… certo, mantenendo la vigile attenzione dovuta nel momento in cui la piazza smobilita e gli accordi proseguono al tavolo negoziale. Quello che ci sembra essenziale è la ricostruzione di chi ha fatto pressione (il capitalismo messo in difficoltà dall’unanime blocco del paese, che per la mediazione si è rivolto all’istituzione principale: la chiesa) e anche la chiosa sulle possibili suture tra sinistre latinoamericane in questo periodo che vede l’avanzata delle istanze di emancipazione in tutto il Cono Sur.


Dopo 18 giorni di forti proteste popolari contro le politiche neoliberiste del governo Lasso, la Confederazione Episcopale dell’Ecuador ha insistito affinché si trovasse un accordo tra le parti in conflitto. In realtà, le pressioni son giunte da più parti e cioè, dal mondo imprenditoriale e dal commercio che messo alle strette ha pressato a sua volta la Conferenza Episcopale affinché giocasse un ruolo determinante in questo duro scontro. La situazione era giunta all’apice e gli ultimi 3 giorni sono stati incandescenti dopo la sollevazione del quartiere popolare di San Miguel de los Bancos di Calderón in cui ci sono stati scontri durissimi con le forze dell’ordine. Altri espisodi analoghi si erano registrati al Puyo, in Amazzonia e nella località di Sant’Antonio del Pichincha dove erano state incediante le caserme della polizia dopo uno spargimento di sangue. Il bilancio di questo sciopero è pesante: 8 morti, centinaia di feriti e violazioni dei diritti umani come dichiara il rapporto della Commissione di Solidarietà dei Diritti Umani di Argentina in visita nel paese dal 24 al 26 giugno.

Grazie alla lotta popolare del movimento indigeno, dei lavoratori, degli studenti, degli operatori sanitari, dei docenti e finanche del settore dei trasporti, il Governo ha dovuto cedere e negoziare alcuni dei 10 punti rivendicati della Conaie. In definitiva, si può concludere che dopo 18 giorni di lotta il movimento indigeno dell’Ecuador porta a casa quanto segue:

  • Riduzione dei carburanti di 0,15 centesimi per ogni gallone,
  • Derogazione del Decreto 95 che vieta l’ampiamento della frontiera petrolifera per proteggere i territori e i diritti collettivi dei popoli indigeni,
  • Riforma del Decreto 151 con il quale si vieta lo sfruttamento delle risorse naturali nelle aree protette, nelle zone dichiarate intangibili, nelle zone archelogiche. Inoltre, si garantisce la consulta previa e libera nei territori interessati allo sfruttamento delle risorse naturali d’accordo a quanto stabilito dalla Corte Interamericana dei Diritti e dalla Corte Costituzionale dell’Ecuador,
  • Emanazione del Decreto 456 che prevede l’aumento del Bonus sociale da 50 a 55 dollari che beneficierà a 1,4 milioni di ecuadoriani, riduzione dei tassi d’interessi dal 10% al 5% per crediti fino a 3000 dollari e i prestiti scaduti fino a 3000 dollari saranno condonati,
  • Si elabora un progetto di Legge di riforma dell’articolo 66 della Legge Organica della Circoscrizione Territoriale Speciale Amazzonica,
  • Raddoppio delle risorse dello stato per l’Educazione Bilingue e Interculturale.

Inoltre, per 90 giorni si istallerà un tavolo di concertazione per continuare il dialogo tra le due parti per risolvere i temi questionati durante lo sciopero nazionale. Tra i quali l’aumento delle risorse statali per l’Educazione pubblica, l’attuazione di politiche statali che aumentino l’occupazione e intervento dello stato in materia di prevenzione alla delinquenza.

Potremmo trarre alcune conclusioni da questo sciopero popolare e nazionale:

  • Il Governo neoliberista del banchiere Lasso ne esce più indebolito e con pochissima legittimità popolare. Dopo 1 anno di governo (24 maggio) i sondaggi registravano una disapprovazione del 72%, oggi è aumentata al 88%. È di fatti un governo impopolare. Inoltre, si registra una delegittimazione all’interno del parlamento in quanto la mozione di sfiducia, presentata dal partito dell’opposizione Unes, pur non riuscendo nell’intento ha raccolto 82 voti che rappresenta la maggioranza del parlamento. Lasso ha raccolto 44 voti e, se dovesse continuare così, non riuscirebbe a governare.
  • Il costo politico ed elettorale di 2 partiti del parlamento e cioè la Izquierda Democratica e il Partito Social Cristiano: dopo l’appoggio a Lasso vedranno quasi sicuramente ridimensionati i loro voti alle prossime elezioni.
  • Il Movimento Indigeno ne esce rafforzato, dimostrando una grande capacità organizzativa in tutto il territorio nazionale. La strategia di accendere fuochi e rivolte in tutto il paese ha raggiunto un risultato vittorioso. Inoltre, il leader Leonidas Iza aumenta il suo capitale politico e simbolico riposizionandosi molto bene all’interno del Movimento Indigeno e nello schiacchiere politico nazionale.
  • C’è un malcontento generale contro le politiche neoliberiste che negli ultimi 5 anni hanno aumentato la povertà relativa ed assoluta nel paese, hanno incrementato la precarizzazione del lavoro, hanno smantellato il sistema di salute pubblica e svenduto il patrimonio pubblico del paese.
  • Si sono aperte delle interessanti contraddizioni in termini politici, all’interno del campo politico, che possono determinare una serie di alleanze all’interno della compagine di centro / sinistra che potrebbe vincere le destre alle prossime elezioni amministrative del 2023.

Inoltre, questo sciopero si inserisce in un quadro regionale interessante che vede nuovamente la vittoria delle sinistre latinoamericane che criticano il paradigma di sviluppo neoliberista. Le ultime vittorie in Cile e in Colombia danno speranza anche per l’Ecuador, se si riuscisse a unire le forze politiche progressiste contro le destre reazionarie e fasciste.

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Società civile e popoli indigeni: protagonisti dell’accordo di Escazú https://ogzero.org/l-accordo-di-escazu-parla-la-societa-civile-e-i-popoli-indigeni/ Wed, 04 May 2022 15:31:08 +0000 https://ogzero.org/?p=7267 L’America Latina e il Caribe compongono una delle regioni del pianeta con maggiore megadiversità, possiedono cioè un immenso patrimonio di specie animali, vegetali ed ecosistemiche. Inoltre, in questo subcontinente si trova il 28% delle terre coltivabili, un terzo delle riserve di acqua dolce e il 22% delle foreste mondiali. Allo stesso tempo, la regione latinoamericana […]

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L’America Latina e il Caribe compongono una delle regioni del pianeta con maggiore megadiversità, possiedono cioè un immenso patrimonio di specie animali, vegetali ed ecosistemiche. Inoltre, in questo subcontinente si trova il 28% delle terre coltivabili, un terzo delle riserve di acqua dolce e il 22% delle foreste mondiali. Allo stesso tempo, la regione latinoamericana è la seconda al mondo per esposizione e vulnerabilità a disastri naturali, che gli effetti del cambio climatico stanno intensificando rapidamente. Infine, l’elevato numero di conflitti socio ambientali in questa area del mondo è legato principalmente alle attività di deforestazione, all’agro business e allo sfruttamento minerario, oltre all’installazione di grandi idroelettriche e mega impianti di energie rinnovabili.

Difensori della terra e della vita

Secondo l’ultimo rapporto della ong Global Witness, durante il 2020 sono avvenuti nel mondo 227 omicidi di persone che difendono la terra, più di 4 alla settimana. È la cifra più alta registrata dal primo monitoraggio del 2012, questo significa che la pandemia e le misure di isolamento non hanno frenato la violenza. Sette dei dieci paesi più colpiti si trovano in America Latina e più di un terzo degli attacchi sono rivolti contro popolazioni indigene.

È in questa cornice che, tra il 20 e il 22 aprile appena passati, si è svolta a Santiago del Cile la prima Conferenza delle Parti (COP) dell’accordo regionale sull’accesso all’informazione, la partecipazione pubblica e la giustizia in materia ambientale in America Latina e nei Caraibi, conosciuto come Accordo di Escazú, dal nome della località dove è stato approvato, in Costa Rica, nel 2018.

Si tratta del primo trattato regionale latinoamericano in materia ambientale – simile alla Convenzione di Aarhus europea, che l’Italia ha ratificato nel 2001 – ma è l’unico al mondo a contenere disposizioni specifiche per la protezione degli attivisti ambientali.

Stabilire come si traduce questo principio in meccanismi e dispositivi concreti sarà uno dei compiti del Comitato di appoggio all’applicazione e al compimento di Escazú, la cui creazione è stato uno dei maggiori risultati di questa COP e che il prossimo anno eleggerà i suoi 7 rappresentanti tra figure indipendenti dalle istituzioni governative e con traiettoria in democrazia ambientale.

L’idea è che serva ad «assicurare l’applicazione delle norme di Escazú, che l’accordo non resti lettera morta», spiega Natalia Gómez, della Ong EarthRights International, una dei sei rappresentanti della società civile alla COP. Quando il Comitato si sarà installato, qualsiasi persona di un paese aderente a Escazú potrà denunciare una violazione direttamente a questa istituzione che dovrà mettere in atto misure di protezione, «è in questo modo che comincerà realmente l’implementazione dei dispositivi di difesa degli attivisti» conclude.

 

La partecipazione è l’essenza di Escazú

Il traguardo della prima COP di Escazú è in realtà soltanto un inizio: tra gli obiettivi della tre giorni di Conferenza c’erano l’elezione del tavolo direttivo e l’approvazione del regolamento interno, documento già ampiamente discusso dai 12 paesi aderenti. Per questo ha colto tutti di sorpresa la proposta della delegazione boliviana di eliminare la partecipazione del pubblico dalle decisioni in materia ambientale, durante la giornata di giovedì 21 aprile. Si tratta di una condizione che è stata inserita nel trattato fin dal 2014, durante il lungo cammino di negoziazioni che hanno portato all’attuale Conferenza.

«Eliminare la partecipazione del pubblico significa tradire lo spirito dell’Accordo», ha affermato lapidario il leader indigeno Nadino Calapucha di fronte alla riunione plenaria, attorno al tavolo rotondo della sede della CEPAL. Con il volto dipinto e il copricapo di piume della sua comunità, il portavoce del Coordinamento di Organizzazioni Indigene della Regione Amazzonica (COICA) ha chiamato a rispettare uno dei pilastri di Escazú: la possibilità che, al tavolo direttivo, prenda la parola qualsiasi persona proveniente dai territori dei paesi aderenti.

L’intervento di Nadino Calapucha (foto Cepal).

Il momento di tensione è rientrato grazie al rifiuto unanime della proposta presentata dalla Bolivia da parte degli oltre 700 delegati presenti, ed è stata così confermata la presenza di un rappresentante del pubblico, inteso come la società civile in senso ampio, al tavolo direttivo della Conferenza.

Ma i delegati del COICA sono andati oltre, con la richiesta di un posto riservato a un portavoce dei popoli indigeni. «Non c’è Accordo di Escazú senza i popoli indigeni», afferma Lolita Piyahuaje, vicepresidente della Confederazione delle Nazioni Indigene dell’Amazzonia Ecuadoriana (CONFENIAE) presentando la proposta, che prevede anche l’implementazione di un caucus, un’assemblea indigena nella COP.

José Gregorio Díaz Mirabal, coordinatore generale del COICA, ha ricordato il Principio 10 della Dichiarazione di Río sull’ambiente del 1992, «che è stato il primo germoglio da cui nato l’Accordo di Escazú», in cui si afferma che «il miglior modo per trattare le questioni ambientali è con la partecipazione di tutti i cittadini interessati», evidenziando che «ci sono 476 milioni di indigeni nel mondo, in America Latina siamo 58 milioni, 826 popoli, non è un tema secondario la partecipazione indigena a Escazú, perché stiamo parlando delle nostre vite, dei nostri diritti, dei nostri territori».

Difensori del territorio, popoli indigeni e giovani generazioni

Durante la COP si sono formati due gruppi di lavoro coordinati dai sei rappresentanti del pubblico, uno ha raccolto l’urgenza della situazione in cui si trovano i difensori ambientali, mentre l’altro ha preso in carico la richiesta di una specifica rappresentanza indigena. «Abbiamo lavorato sulla proposta, che ora deve ottenere l’appoggio di un paese aderente per entrare in discussione», spiega Andrea Sanhueza, direttrice del centro studi cileno Espacio Público e una delle sei persone che attualmente rappresentano la società civile alla Conferenza. Aggiunge che nel frattempo il seggio messo in discussione dalla Bolivia e infine confermato è aperto perché possa sedersi al tavolo delle trattative chiunque lo richieda. «Nessuno può metterlo in discussione perché come pubblico abbiamo diritto a stare nelle negoziazioni», continua Andrés Napoli, un altro degli attuali rappresentanti, direttore della fondazione ambientalista argentina FARN. «Se la mettiamo al voto, ci sono paesi che potrebbero opporsi a una delegazione indigena, ma se c’è un portavoce indigeno seduto nel seggio del pubblico la riunione comincia, questo lo possiamo dire per esperienza».

Secondo i rappresentanti, che saranno eletti nuovamente il prossimo agosto, un’altra differenza importante rispetto alle COP sul cambio climatico che conosciamo da anni è che la società civile non prende la parola alla fine, quando la maggior parte dei delegati se n’è già andata e nessuno ascolta, ma durante il dibattito, alla pari con i funzionari degli stati, e questo favorisce la capacità di incidere nelle decisioni, nonostante il pubblico abbia solo diritto di parola e non di voto.

La società civile prende la parola durante il dibattito (foto Cepal).

«Stiamo iniziando una campagna per invitare le generazioni più giovani a candidarsi per essere i prossimi rappresentanti del pubblico», conclude Sanhueza, riferendosi alla grande presenza di giovani a seguire le attività della COP e all’importanza che abbiano a loro volta un ruolo di rilievo nelle negoziazioni tra i paesi membri.

L’Accordo di Escazú è uno strumento necessario per l’America Latina e il Caribe, ma la sua reale efficacia dipenderà proprio dalla società civile organizzata e dalla sua capacità di incidere nelle decisioni politiche. Una delle principali sfide è ottenere l’adesione dei paesi che non hanno ancora firmato l’accordo: solo 12 dei 33 che compongono la regione sono attualmente parte del tavolo direttivo, altri 12 hanno firmato ma non ratificato e restano in una posizione di osservatori, come il Cile, che ha dato un passo avanti a marzo, con l’assunzione del nuovo governo di Gabriel Boric.

Delle nazioni che condividono il bacino amazzonico, per esempio, fanno parte dell’accordo solo l’Ecuador, la Guyana e la Bolivia, e quest’ultima ha rivelato la sua polemica posizione. Guyana francese, Suriname e Venezuela sono tra i firmatari, mentre la Colombia, il Brasile e il Perù sono i grandi assenti.

I pericoli per l’Amazzonia

«Noi siamo i difensori della vita, chi ci difende?», si domanda durante gli incontri organizzati dalla COP Elsa Merma Ccahua, presidente dell’Associazione di Donne che difendono il territorio e la cultura K’ana a Espinar, nella regione di Cuzco in Perù. «Io sono portavoce di organizzazioni sociali di 11 regioni peruviane che affrontano malattie per metalli pesanti e tossici, conviviamo da 40 anni con le imprese minerarie», spiega. L’estrazione mineraria ha prodotto contaminazione nella zona e colpisce direttamente le comunità contadine originarie: «i nostri animali stanno morendo di malattie sconosciute, le coltivazioni nella chakra si sono impoverite. Come donne, soprattutto, siamo private della terra che è il nostro sostento per mantenere la famiglia, educare i figli, è la nostra sicurezza alimentare».

Nella provincia di Pangoa in Perù, proprio il giorno prima dell’inizio della COP è stato assassinato Ulises Rumiche, leader di un’organizzazione di popoli originari amazzonici, mentre tornava alla sua comunità dopo una riunione con funzionari ministeriali.

In Brasile e in Perù quasi tre quarti degli omicidi avvengono nella zona amazzonica e solo in Colombia sono state uccise 65 persone durante il 2020, portando questo Paese in cima alla lista mondiale stilata da Global Witness per il secondo anno di fila.

In Brasile, il presidente Jair Bolsonaro è stato denunciato davanti alla Corte Penale Internazionale per le sue responsabilità nella deforestazione dell’Amazzonia, eliminando e ostacolando gli organismi e le leggi che proteggono il polmone verde del pianeta. La denuncia, sostenuta da un’equipe di esperti insieme alla ong AllRise, ha calcolato che si può imputare al governo di Bolsonaro la perdita di circa 4000 km quadrati di selva all’anno, da quando ha assunto la presidenza nel 2019 il tasso di deforestazione è aumentato fino all’88%. Il Brasile andrà alle elezioni il prossimo ottobre e la ricandidatura di Lula da Silva potrebbe indicare un cammino diverso nei confronti della foresta amazzonica. In Colombia invece le presidenziali saranno il prossimo 29 maggio e per la prima volta da decenni esiste una possibilità che la coalizione di centro sinistra del Pacto Histórico possa vincere sulla destra legata alla figura di Alvaro Uribe, mentre il progetto di legge per approvare l’Accordo di Escazú nel paese è tornato in discussione al Congresso la scorsa settimana scorsa.

(Foto Cepal)

I prossimi appuntamenti della COP sono nel 2023 per una riunione straordinaria in Argentina, dove saranno eletti i sette responsabili del Comitato incaricato di verificare l’applicazione e il compimento delle regole del trattato, e nel 2024 nuovamente a Santiago del Cile. Qui, il risultato dei prossimi appuntamenti politici nella regione potrebbe avere una forte influenza per avanzare nella protezione dei beni naturali latinoamericani e di chi li difende.

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All’Ovest Sahara qualcosa di nuovo… ma poco rassicurante https://ogzero.org/allovest-sahara-qualcosa-di-nuovo-ma-poco-rassicurante/ Tue, 26 Apr 2022 14:15:51 +0000 https://ogzero.org/?p=7141 Nello scacchiere internazionale si stanno delineando le aree delle future crisi e i vari protagonisti stanno disponendosi nelle alleanze contrapposte, spinti anche da necessità energetiche e da iniziative di grandi potenze che influenzano le scelte di schieramento. Uno dei focolai del prossimo confronto tra potenze mondiali è il Maghreb, in particolare la questione del Sahara […]

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Nello scacchiere internazionale si stanno delineando le aree delle future crisi e i vari protagonisti stanno disponendosi nelle alleanze contrapposte, spinti anche da necessità energetiche e da iniziative di grandi potenze che influenzano le scelte di schieramento. Uno dei focolai del prossimo confronto tra potenze mondiali è il Maghreb, in particolare la questione del Sahara occidentale, e le forze in campo si rimescolano: la mossa spagnola di distensione con il Marocco, dopo forti tensioni tra le due coste limitrofe e contrapposte. Questa scelta ha prodotto forti cambiamenti nei rapporti tra soggetti che insistono sul Mediterraneo occidentale: se l’Italia, interessata al gas, si avvicina all’Algeria, abbandonata nella difesa del popolo saharawi dalla Spagna, quest’ultima abbraccia il Marocco, potenza africana di riferimento in ascesa, con investimenti in infrastrutture, ottimi rapporti con Israele da cui riceve anche armi sofisticate inserite nell’enorme sforzo di riarmo in una competizione strenua con la vicina Algeria, che si approvvigiona con armi russe.
In questo panorama è prevedibile che riesploda un conflitto sulla condizione saharawi, di cui si riconoscono i primi inneschi nei mesi scorsi, perciò abbiamo chiesto a Lorenzo Forlani di fare il punto per evitare di essere colti di sorpresa da una prevedibile evoluzione critica della situazione.


«Serio, credibile, realistico». Con queste inattese parole il governo spagnolo di Pedro Sanchez meno di un mese fa ha definito il piano marocchino di concessione dell’autonomia amministrativa al Sahara occidentale. Un riconoscimento de facto, quindi, della sovranità di Rabat sulla regione al confine con l’Algeria e la Mauritania, che nel giro di un mese ha generato la reazione del Fronte Polisario (FP): lo scorso 10 aprile, infatti, il movimento che dal 1976 – cioè dopo il ritiro delle truppe coloniali spagnole dall’area – persegue l’autodeterminazione del Western Sahara (WS), ha annunciato l’interruzione dei contatti ufficiali con il governo iberico, suo storico “garante” europeo (pur nel quadro di una neutralità strategica). Solo un anno fa Madrid  ne aveva accolto e curato il leader, Brahim Ghali, malato di Covid-19, innescando con la stessa Rabat una crisi diplomatica che può dirsi estinta proprio in queste settimane, col ritorno a Madrid dell’ambasciatrice marocchina, richiamata all’indomani dell’affare Ghali.

Popolo saharawi: vittima sacrificale di nuove proxy war

Una mossa, quella del FP, che secondo molti osservatori è stata in realtà decisa da Algeri, “sponsor” dei Sahrawi, che all’indomani dell’inversione di rotta da parte di Madrid, aveva richiamato a sua volta il proprio ambasciatore dalla Spagna, aprendo contestualmente il varco a migliaia di migranti verso Ceuta e Melilla. Mentre il pianeta rivolge la sua attenzione al conflitto in Ucraina, il riposizionamento quasi improvviso di questi attori regionali racconta essenzialmente di una tensione latente tra due potenze come Marocco e Algeria, e di riflesso fa luce sulla scarsa coesione dell’Unione Europea, la cui mancanza di un approccio integrato in politica estera produce posture massimaliste, proprio come quella che sembra aver improvvisamente assunto la Spagna.

Quella nel Western Sahara è la linea del fronte più lunga al mondo: un terrapieno che si estende per 2700 km nei pressi del quale si sono susseguiti scontri armati nel corso degli ultimi 50 anni, cioè da quando Rabat ha annesso la regione contesa dopo il ritiro degli spagnoli. Nel 1991 si raggiunge un cessate il fuoco tra il Fronte Polisario e Rabat, dopo il quale le Nazioni Unite avviano un processo di pace che finirà per arenarsi: il voto per l’indipendenza che era stato previsto non ha mai avuto luogo e oggi il WS è controllato all’80% dallo stesso Marocco, mentre nella città algerina di Tindouf si sono rifugiati più di 150.000 profughi Sahrawi, coinvolgendo ancor più direttamente Algeri nella disputa, specie se si considera il rischio di radicalizzazione di alcuni segmenti dello stesso popolo Saharawi, nel quale le nuove generazioni spingono per una ripresa del conflitto.

Secondo l’Onu il WS è un “territorio non autonomo”, una definizione che riassume una situazione di grande ambiguità se associata all’annunciato piano marocchino e all’autoproclamazione d’indipendenza da parte dello stesso Fronte Polisario, che invoca stabilmente il referendum per l’indipendenza programmato più di 30 anni fa. Lo scorso dicembre il Consiglio di Sicurezza dell’Onu ha prolungato la missione MINURSO, chiedendo la ripresa dei negoziati e inviando nuovamente il diplomatico Staffan de Mistura, il cui lavoro negli ultimi due anni era stato sostanzialmente impedito dai veti incrociati di Marocco e Algeria.

La posizione massimalista che ha improvvisamente assunto Madrid ha generato spaccature nella maggioranza di governo – con la sinistra molto critica rispetto all’”abbandono” dei sahrawi – ma rispecchia inevitabilmente la mancanza di una strategia occidentale ed europea: già nel 2020 l’ex presidente americano Donald Trump – in cambio della “normalizzazione tra Marocco e Israele – aveva riconosciuto la sovranità marocchina sul WS, contraddicendo la posizione dell’Onu, e nelle ultime settimane l’amministrazione Biden ha aggiunto confusione al quadro, dichiarando di essere favorevoli alla “autodeterminazione del popolo del Western Sahara”, pur non modificando il proprio posizionamento generale, che ribadisce la sovranità marocchina.

Potenze energivore e l’indipendentismo strabico algerino

In questo contesto è interessante seguire le mosse del governo italiano. La recente visita di Mario Draghi ad Algeri è avvenuta appena dopo la svolta spagnola sul WS ed è stata “salutata” dai media algerini come la formalizzazione di un “rimpiazzo” – anche dal punto di vista della collaborazione militare –: «Algeri ha preferito consolidare la partnership con l’Italia a danno della Spagna, che non godrà più della stessa considerazione di prima da parte dell’Algeria», si legge su Dernieres Info d’Algerie (DiaTEbb).

Il gasdotto Enrico Mattei attraversa il Mediterraneo tra Mellilah (in Libia) e Gela (in Sicilia), portando il gas algerino in Europa.

Le tensioni tra Marocco e Algeria sono anche più antiche, profonde; riflesso di assetto e orizzonti diversi, che rendono la situazione in questo quadrante regionale altamente esplosiva, soprattutto dall’ultima rottura dei rapporti diplomatici nell’agosto del 2021, con conseguente stop all’export di gas algerino verso Rabat (e poi verso Madrid), che copriva circa un decimo del suo fabbisogno. La disputa sul confine va avanti dal 1962 e storicamente, laddove Rabat – investito del ruolo di “gendarme” regionale da parte dell’UE, specie sui flussi migratori e sui fenomeni di radicalizzazione jihadista – ha volentieri sostenuto movimenti islamisti che minacciavano il potere dei militari algerini, oltre a offrire incentivi ai cittadini marocchini che vogliano trasferirsi in WS, Algeri da par suo è da decenni un esplicito sostenitore dei movimenti separatisti e rivoluzionari (ha sostenuto Che Guevara, Arafat, Mandela), pur vivendo con apprensione le ambizioni autonomiste di una sua regione, la Cabilia.

Il confine tra Algeria e Marocco è chiuso, e nei mesi scorsi la tensione si è ulteriormente alzata dopo i rumor secondo cui Rabat, servendosi di un software di spionaggio fornitole da Tel Aviv, avrebbe a lungo spiato decine di funzionari algerini. Algeri sostiene i saharawi anche per ragioni squisitamente strategiche: il WS è una regione ricca di petrolio, fosfati e diritti di pesca, un aspetto, quest’ultimo, che rende appetibile l’idea di avere un accesso all’Oceano Atlantico.

Ascesa marocchina, difficoltà algerine

Nel 2017 il Marocco è rientrato nell’Unione Africana (UA), boicottata per 32 anni proprio a causa del diffuso riconoscimento del WS. Oggi meno della metà dei membri dell’UA riconosce l’autonomia del Western Sahara: un aspetto che evidenzia anzitutto l’aumento dell’influenza marocchina, accanto alla diminuzione di quella algerina. Rabat sembra proiettata al futuro: ha le più grandi fabbriche d’auto del continente nonché i treni più veloci; ha vaccinato con due dosi oltre il 60% della popolazione e, nell’ambito della corsa al riarmo con l’Algeria, sta cercando di completare un profondo upgrading delle proprie Forze Armate, all’interno del quale ricade il recente accordo – dello scorso febbraio – con la Israel Aerospace Industries (IAI) per la fornitura dei sistemi di difesa missilistica Barak MX, per un valore di 500 milioni di dollari. Tel Aviv e Rabat a novembre 2021 avevano firmato un accordo nel campo della difesa, che impegna i due paesi a a cooperare nella condivisione di intelligence, nella realizzazione di progetti e nella vendita di armamenti.

L’Algeria, al contrario, è in una fase molto delicata: il piano per rendere l’economia meno vincolata alle entrate petrolifere è miseramente fallito; le proteste antiestablishment (Hirak, in arabo “movimento”) sono state represse; il presidente Abdelmajid  Tebboune è considerato un fantoccio nelle mani degli alti quadri militari. Di riflesso, Algeri è un gigante bellico: secondo i dati del SIPRI, nel 2020 il suo budget militare è stato il più corposo del continente, quasi 10 miliardi di dollari, il doppio di quello marocchino (che è comunque aumentato del 54% dal 2011 al 2020, e che dovrebbe arrivare a 5,5 miliardi di dollari nel 2022), e il suo esercito è numericamente secondo solo a quello egiziano; il 70% degli armamenti algerini provengono dalla Russia, e proprio quest’anno sono state calendarizzate delle forniture di armamenti da Mosca, che includono 14 jet Su-34 e gli stealth Su-57.

Ambiguità del ruolo dei governi maghrebini nel Mediterraneo occidentale

Qualunque confronto militare diretto tra i due eserciti nordafricani rischierebbe di aprire un fronte esplosivo nella regione, mettendo l’uno di fronte all’altro due paesi fondamentali nel mediterraneo, in assenza di adeguati contrappesi garantiti da un’Unione europea sempre più vittima delle strategie particolari dei suoi membri più importanti. Sarebbe forse opportuno elaborare una strategia di lungo termine che da una parte tenga conto del contributo marocchino alla sicurezza del mediterraneo ma che allo stesso tempo non consideri questo contributo come un lasciapassare per l’assertività di Rabat in WS e nei confronti di Algeri, e tantomeno come la merce di scambio per un endorsement europeo (e non più solo spagnolo) al piano marocchino sulla regione.

Il mantenimento di una posizione equilibrata nei confronti dell’Algeria è forse più complicato: questo perché i rapporti – culturali, commerciali, politici – con Algeri sono molto meno profondi che con Rabat, ma la contingenza del conflitto in Ucraina, e le conseguenti sanzioni alla Russia, hanno reso le forniture di gas algerine ancor più importanti in vista di una possibile transizione energetica. Secondo Anthony Dworkin dell’Ecfr, è nell’interesse europeo sviluppare rapporti con l’Algeria tali da allontanarla da Mosca, e ciò può essere realizzato soltanto non allineandosi con Rabat sul WS. E la delicatezza della posizione algerina si può evincere dal suo cambio di postura nel giro dell’ultimo mese: il 2 marzo si era astenuta all’Assemblea generale dell’Onu, sulla mozione di condanna dell’invasione russa in Ucraina; il 7 aprile, invece, ha votato contro l’estromissione di Mosca dal Consiglio dei diritti umani. Al tempo stesso, l’UE dovrebbe dissuadere Algeri dal rafforzare l’assistenza militare al Fronte Polisario, spingendola verso una partecipazione a un nuovo negoziato. Il 20 aprile il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha tenuto una sessione dedicata al dossier Western Sahara, nella quale Staffan De Mistura ha presentato un report sull’evoluzione della crisi.

 

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Podcast Rebelde https://ogzero.org/podcast-rebelde-proiettili-fatti-di-parole/ Tue, 29 Mar 2022 20:34:57 +0000 https://ogzero.org/?p=6921 Complesse e uniche frequenze (r)esistenti Il podcast è diventato un nuovo linguaggio per raccontare l’America latina dall’America latina: un mercato comunicativo in costante crescita, che è stato favorito anche dal confinamento prodotto dalla pandemia. Una specie di nuovo adattamento delle radio comunitarie e dei tessuti di (r)esistenza che hanno giocato un ruolo chiave nel seminare […]

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Complesse e uniche frequenze (r)esistenti

Il podcast è diventato un nuovo linguaggio per raccontare l’America latina dall’America latina: un mercato comunicativo in costante crescita, che è stato favorito anche dal confinamento prodotto dalla pandemia. Una specie di nuovo adattamento delle radio comunitarie e dei tessuti di (r)esistenza che hanno giocato un ruolo chiave nel seminare coscienza, “rebeldia” e rivendicazione sociale tra i “nadie” di Eduardo Galeano.

L’originalità e la varietà di questi podcast riflette l’eterogeneità di una regione uguale e diversa, nella quale si vivono drammi comuni e trasversali ma anche lotte particolari e non riproducibili in altre latitudini. Una chiave di lettura per comprendere questa disarmonica e affascinante complessità regionale è stata offerta dallo scrittore e attivista uruguaiano Raúl Zibechi, in Movimientos sociales en América Latina. El “mundo otro” en movimiento (2017):

«… i movimenti sociali in Europa e Nord America si muovono in società relativamente omogenee in cui il controllo e lo sfruttamento del lavoro avviene essenzialmente attraverso il salario, e dove le relazioni sociali sono relativamente omogenee e quindi, la logica che governa l’insieme, governa anche le parti. Nel frattempo, in America Latina abbiamo cinque tipi di relazioni o modalità di controllo del lavoro: schiavitù, servitù personale, reciprocità, piccola produzione commerciale e salario. Siamo di fronte a quella che Anibal Quijano definisce “eterogeneità storico-strutturale” delle nostre società, in cui si mettono in moto relazioni sociali diverse. Quindi è più conveniente chiamare i nostri movimenti collettivi come “società in movimento” o, come essi stessi si autoidentificano: “popoli” o “nazioni” che lottano per la loro sovranità e autodeterminazione».

proiettili fatti di parole

I movimenti collettivi come “società in movimento” o, come essi stessi si autoidentificano: “popoli” o “nazioni” che lottano per la loro sovranità e autodeterminazione.

La controstoria diversamente “trasmessa”

Sono dunque, nella maggior parte dei casi, queste società in movimento, o chi ne rappresenta le lotte o rivendicazioni, a creare o protagonizzare questi podcast che dipingono una geografia della resistenza, della controstoria e della narrazione altra. Visto in questo modo, il podcast diventa un nuovo strumento di lotta che pervade le maglie di una società plurale che prova a resistere, secondo le parole di Zibechi a una «ricolonizzazione dei nostri territori e dei nostri popoli». L’uruguaiano infatti nel dipingere la situazione vissuta dalla regione nel periodo prepandemia scriveva:

«È importante evidenziare la nascita di nuovi movimenti, in quasi tutti i paesi che incarnano le oppressioni più pressanti, derivate dalla crescita esponenziale dell’estrattivismo predatorio, dei femminicidi e della violenza strutturale contro i poveri. L’attuale fase del capitalismo nel mondo (e nella nostra regione) è la più grande sfida affrontata dai settori popolari organizzati, poiché il sistema scommette sulla loro scomparsa come popoli, classi, etnie, razze, generi e generazioni. Non è un’esagerazione affermare che i poveri dell’America Latina stanno subendo un genocidio di tale intensità e portata come non si conosceva dai tempi del colonialismo. In questo senso, sia economicamente che politicamente, stiamo vivendo una sorta di ricolonizzazione dei nostri territori e dei nostri popoli».

Tutti i mondi nuovi compresi nel nuovo mondo web

In questa lotta per la sopravvivenza di quella speranza così ben plasmata dalle parole del sub-comandante Marcos «È necessario costruire un mondo nuovo. Un mondo nel quale possano convivere molti mondi, dove ci sia spazio per tutti i mondi», i podcast si trasformano in proiettili fatti di parole, in pillole di sensibilizzazione e risveglio che attraversano, grazie a internet, tutta la regione.

Il fatto poi che lo spagnolo sia una lingua veicolare per la maggior parte degli abitanti dell’America Latina, aumenta la capacità di diffusione dei contenuti in questa lingua, espandendo l’onda d’urto dei messaggi e delle storie in essi contenute. A questo contesto si aggiunge poi il Brasile, paese-continente nel quale si parla il portoghese e dove i podcast hanno trovato, anche qui, terreno fertile.

Historias que merecen ser escuchadas

In un contesto così dinamico e impermanente risulta estremamente difficile offrire una mappa completa dei podcast (ribelli, divulgativi o informativi) che nascono quotidianamente nella regione. Nonostante ciò, di seguito una breve lista di podcast (sia nazionali che regionali) che toccano tematiche legate ai diritti umani, all’emancipazione della donna, alle discriminazioni razziali, alle disuguaglianze economiche, ai diritti dei popoli indigeni, alle migrazioni, al collettivo lgbtiq+, alle persone con disabilità, al cambio climatico, all’impunità, alla violenza dello stato, alla difesa dell’ambiente e alla vita comune dei latinoamericani e delle latinoamericane.

Las historias de Radio Ambulante

Una delle piattaforme più famose e premiate è sicuramente Radio Ambulante, un progetto comunicativo che da quasi un decennio racconta storie di tutta l’America Latina: storie commoventi, divertenti e sorprendenti, che rivelano la diversità della regione in tutta la sua complessità. Radio Ambulante è distribuito da NPR, la radio pubblica statunitense e a oggi ha prodotto oltre 200 episodi in più di 20 paesi, dimostrandosi il progetto di giornalismo narrativo più ambizioso dell’America Latina. Racconta la vita latinoamericana con storie di amore e migrazioni, giovani e politica, ambiente e famiglie in circostanze straordinarie, offrendo un vero e proprio ritratto sonoro della regione. Nel 2020 Radio Ambulante si è evoluta in una società di produzione di podcast, lanciando El Hilo, un podcast di notizie settimanali presentato da Silvia Viñas e Eliezer Budasoff, con la direzione editoriale di Daniel Alarcón. El hilo approfondisce le notizie più importanti della settimana in America Latina, offrendo contesto e permettendo di andare oltre i titoli dei giornali.

El Collectivo La Brega

Da Portorico arriva invece La Brega, un progetto di WNYC Studios e Futuro Studios che hanno creato una serie di podcast per raccontare la peculiarità della vita portoricana. Disponibile in inglese e spagnolo e presentato da Alana Casanova-Burgess, La Brega è il risultato del lavoro di un collettivo di giornalisti, produttori, musicisti e artisti portoricani.

La Brega

Bregar: trabajar con entrega y luchar contra las dificultades.

Suena así en Mexico

Dal Messico arriva un esperimento molto interessante, che riunisce una dozzina di podcast con contenuti diversi tra loro: si tratta di Así como suena. Questa piattaforma si presenta così al pubblico: «storie di amore e odio, criminalità, politica, corruzione e quotidianità. Parliamo di persone e di personaggi. Il nostro team di giornalisti non rimane in superficie, scava in profondità. “Así Como Suena” offre brani sonori straordinari. Si tratta anche di discutere del paese e delle sue circostanze. Si tratta di ridere e scoprire musica che nemmeno immaginavamo esistesse. Si tratta di sapere cosa offre ogni notte la nostra città preferita. Chi di noi fa “Así Como Suena” scommette sul suono, sull’intimità che solo l’audio è in grado di creare. E ci piace quello che facciamo: lavoriamo per offrirti storie che meritano di essere ascoltate».

proiettili fatti di parole

En Así como suena contamos historias: historias de amor y de odio, de crimen, de política, de corrupción, de vida cotidiana. Nuestro extraordinario equipo de reporteros no se queda en la superficie, en la nota.

La narrativa indomable

In America centrale troviamo Indomables, una creazione delle giornaliste indipendenti Leila Nilipour y Melissa Pinel, che a ottobre 2018 hanno dato vita al primo podcast narrativo di saggistica a Panama. Il progetto è di grande qualità e fin dall’inizio ha avuto un enorme impatto sia a Panama che in America centrale: basti pensare che il primo episodio Si desaparezco, no me busquen ha ricevuto il Premio Nazionale per il Giornalismo Radiofonico.

Intervistate proprio all’inizio del 2022 dal giornale spagnolo “El Pais”, Nilipour e Pinel hanno confermato che stanno lavorando alla stagione 2022 del podcast e che l’idea è anche quella di raccontare almeno una storia da El Salvador e un’altra dal Costa Rica, dal momento che sono paesi centroamericani che non sono stati raccontati nelle stagioni anteriori.

Nessuna vergogna in Nicaragua

Dal Nicaragua, che in generale non sta certo affrontando il suo miglior momento riguardo alle libertà civili, troviamo il podcast Cuerpos sinvergüenzas (Corpi senza vergogna). Uno spazio radiofonico per condividere preoccupazioni, idee ed esperienze di coloro che sfidano coscientemente il bodyshaming e anche di coloro che lo soffrono e cercano aiuto. Uno spazio dove si parla di sessualità, delle identità maschili e femminili, delle lotte per l’uguaglianza, del desiderio di continuare a rendere il Nicaragua un paese migliore. Un obiettivo ambizioso che nasce dentro lo spazio del programma femminista La Corriente e che è gestito dagli stessi membri dell’organizzazione.

Cuerpos sinvergüenzas

Conversamos sobre los problemas que enfrentan niñas, niños y adolescencia en Nicaragua, particularmente en el actual escenario de crisis.

Il bisogno di informazione in Colombia

Passando all’America del Sud e parlando di Colombia, troviamo che uno dei podcast più famosi e ascoltati del paese è A Fondo Con María Jimena Duzán. Si tratta di uno spazio comunicativo giornalistico protagonizzato da María Jimena Duzán, una giornalista e politologa colombiana con una lunghissima traiettoria professionale e che è diventata una dei riferimenti dell’informazione in Colombia.

“Francia Márquez, attivista afrocolombiana epocale”.

Il movimento cileno diffonde la sua maturità in podcast

Spostandoci in Cile, scopriamo Las Raras Podcast. Uno spazio nel quale vengono raccontate storie di persone che infrangono le regole e combattono per il cambiamento sociale: storie di libertà. L’idea è quella di amplificare voci che non si trovano nei media tradizionali, unendo il personale al politico. Nel manifesto del podcat si legge: «Siamo in sintonia con i movimenti sociali. Siamo femministe. Trattiamo argomenti come l’ambiente, l’arte, la scienza, l’istruzione, il genere, l’amore, la famiglia, la maternità, la migrazione, i diritti umani e altro ancora».

… y el feminismo argentino tambien

In Argentina uno dei podcast più ascoltati nel paese è ConchaPodcast (Feminismo esplicito), con le voci di Laura Passalacqua, Dalia F. Walker e Jimena Outeiro che condividono con il pubblico discorsi femministi tra amiche.

Lusofonia

Dal Brasile e spostandoci quindi sul portoghese, possiamo trovare una vasta gamma di podcast. Qui segnalo per esempio il podcast PAMITÊ , una realizzazione dell’Istituto Maria da Penha che porta riflessioni su questioni di genere e diritti umani. Oppure Mulheres na Comunicação un podcast che mira a diffondere e promuovere la comunicazione popolare, fatta dalle donne e basata sui diritti umani e sulle questioni di genere.

Altro podcast di voci (in spagnolo) dall’America Latina è ProComuNicando Ciberfeminismo, un podcast di Marta García Terán che nasce con l’obiettivo di essere un megafono per le voci e le riflessioni di donne che, in America Latina e Caraibi, promuovono azioni, spazi o iniziative cyberfemministe, o che mettono in relazione le tecnologie dell’informazione (Ict) e la comunicazione di genere .

Ma se non parlate spagnolo, portoghese o inglese non disperate. Dall’Italia e in italiano, meritano sicuramente una menzione Macondo, Café Frio e LatinoAmericando.

Il primo è un progetto che Federico Larsenn e Federico Nastasi, due giornalisti latinoamericani (per nascita o per scelta) hanno proposto nel 2021 sulla piattaforma di Treccani. Un percorso in dieci tappe che ha raccontato l’America Latina, smarcandosi da pregiudizi e stereotipi, e avvicinandosi, con serietà e precisione, a questo complessa regione. I due sono già pronti per la stagione 2022 per aiutarci di nuovo a mettere a fuoco un ritratto trasversale di questo subcontinente, alternando voci e protagonisti italiani e latinoamericani.

Il secondo è un progetto portato avanti da Ivanilde Carvalho e Francesco Guerra, nato dalla collaborazione del comitato Italiano Lula Livre e il blog “LatinoAmericando”. Un podcast che vuole offrire uno sguardo sulle principali notizie settimanali dall’America Latina con una speciale lente d’ingrandimento sul Brasile.

Il terzo è un progetto comunicativo all’insegna della cultura, informazione e musica latinoamericana condotto da Gustavo Claros. Uno spazio che nasce nel seno di Radio Cooperativa e che in formato podcast può essere ascoltato sulla principali piattaforme on demand.

proiettili fatti di parole

I podcast stanno cambiando il volto della regione latinoamericana, democratizzando la produzione di contenuti audio e facilitando l’accesso all’informazione anche da parte di chi non gode di una permanente connessione internet. Il fatto poi che possano essere ascoltati in differita e non in un orario specifico li rende più fruibili e la loro diffusione su diverse piattaforme ne aumenta anche l’impatto. Si tratta dunque di un fenomeno che continuerà a crescere, promosso anche da enti statali che sono interessati a intercettare questa nuova frontiera della comunicazione.

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Appunti per una tragedia yemenita: i droni di Sana′a https://ogzero.org/appunti-per-una-tragedia-yemenita/ Thu, 10 Mar 2022 17:24:49 +0000 https://ogzero.org/?p=6643 Lo scacchiere internazionale vede molteplici guerre sanguinose in corso da anni fuori dall’Europa; lo Yemen viene usato come scenario dove affondano le dispute tribali storiche e locali, che risalgono al tempo in cui il territorio era suddiviso in entità statali del Nord e del Sud; rinfocolate da guerre per procura che contrappongono potenze locali, a […]

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Lo scacchiere internazionale vede molteplici guerre sanguinose in corso da anni fuori dall’Europa; lo Yemen viene usato come scenario dove affondano le dispute tribali storiche e locali, che risalgono al tempo in cui il territorio era suddiviso in entità statali del Nord e del Sud; rinfocolate da guerre per procura che contrappongono potenze locali, a loro volta sostenute militarmente e propagandisticamente da potenze globali. Scatole cinesi belliche aperte in questo studio di Lorenzo Forlani che dischiude un percorso storico a dipanare il filo dei contrasti dal punto di vista del confronto armato e degli addentellati geopolitici insiti negli intrecci soffocati da un abbraccio mortale di quei riferimenti culturali in contrasto per ragioni storiche e costretti a convivere nelle pieghe di dissidi tribali documentati nella parallela analisi di Carlotta Caldonazzo, che non rinuncia a collocarli nello schema geopolitico dell’area compresa tra lo Stretto di Hormuz e Bab el-Mandeb.

Fu la mattina seguente, a venti chilometri da Taïz, nella dolcezza di una luce che il verde dei campi e dei boschetti privava della sua crudezza, in un palazzo che sembrava uscito da una miniatura persiana, che la mia ricerca delle fonti dell’Islam finì negli occhi di un bambino…
Il guardiano del luogo, un bin Maaruf, proveniente dalla regione più selvaggia dell’antico Hedjaz, ha dei lineamenti affilati e canini la cui espressione astuta è, mi dicono, comune a tutti gli uomini della sua tribù, che fu per molto tempo la più odiata in Arabia. Disprezza qualcuno per generazioni e hai buone possibilità di renderlo spregevole, fino al giorno in cui, con le armi in mano, riacquisterà la sua dignità…

Roman Gary, Les Trésors de la mer Rouge, Gallimard, 1971

 

Il Castello di Taïz com'era (e com'è)

Il Castello di Taïz com’era (e com’è)

fin qui il sommario di OGzero…
La penna ora passa a Lorenzo Forlani


Nuovi scenari scaturiscono dai droni houthi

La crisi umanitaria in Yemen, generata da un grave conflitto militare che non accenna a estinguersi, viene raccontata a fasi e intensità alterne dai media internazionali. Letto unicamente attraverso il prisma della rivalità regionale tra Arabia saudita e Iran, ciò che accade nel paese raccontato da Pasolini tende a guadagnare i titoli delle prime pagine quando i suoi spillover – cioè gli “sconfinamenti” di un conflitto in un contesto diverso da quello in cui ha luogo – sono particolarmente visibili, cioè quando coinvolgono paesi più presenti nel (selettivo) immaginario collettivo occidentale.

È successo alla fine del mese di gennaio, quando i ribelli yemeniti di Ansarullah – anche conosciuti come Houthi – nel giro di due settimane hanno sferrato tre distinti attacchi con droni e missili balistici negli Emirati Arabi Uniti (uno dei quali durante la prima visita ufficiale negli Emirati del presidente israeliano Isaac Herzog) con l’obiettivo di colpire la base militare di Al Dhafra – che ospita truppe britanniche e americane –, un aeroporto e un deposito di carburante. Dopo aver intercettato i missili sui cieli di Abu Dhabi, le forze della coalizione filosaudita, di cui gli emiratini sono parte, hanno bombardato alcune aree sotto il controllo degli Houthi, tra cui la capitale Sana′a e la provincia di Saada, cioè l’area dove il movimento si è strutturato negli anni Novanta.

Attacco di uno stormo di droni Houthi sulla base di al-Dhafra

Lo “Yemen utile”, dimezzato e marginalizzato

Dal punto di vista formale, la situazione in Yemen appare quasi speculare a quella determinatasi in Siria: se nel paese levantino l’esercito di Bashar al Assad, coadiuvato da milizie regionali alleate e soprattutto dall’aviazione russa, dopo quasi dieci anni di conflitto ha ripreso il controllo della gran parte del territorio, e anzitutto di quella che gli osservatori definiscono “Siria utile” (cioè l’area del paese più densamente abitata, lungo la direttrice Damasco-Aleppo), in Yemen sono oggi i ribelli – quelli emersi nel tempo come i più organizzati, cioè gli Houthi – a controllare le regioni più abitate, nonché la capitale Sana′a.

 

La guerra in Yemen ha finora prodotto quasi mezzo milione di morti, dei quali il 70 per cento erano bambini. Secondo la Banca mondiale, su una popolazione iniziale di 30 milioni, oggi in Yemen sono non meno di 20 milioni le persone che hanno bisogno di assistenza umanitaria permanente, e almeno 14 milioni a soffrire la fame. Quattro milioni sono gli sfollati, e un bambino su due soffre di malnutrizione. Lo Yemen era già lo stato arabo più povero – il quartultimo per Indice di sviluppo umano, dopo Sudan, Mauritania e Gibuti – prima dell’inizio delle primavere arabe del 2011, e oggi sembra affogare nella più grave crisi umanitaria del pianeta, trovandosi ai margini della narrazione tanto quanto, geograficamente, si trova ai margini della regione.

Lo scenario precedente: le “primavere” del 2011

Come si è arrivati sin qui? Sette anni di feroce conflitto hanno forse contribuito a rendere sfocato il ricordo del 2011: anche a Sana′a, la capitale del paese, nel mese di gennaio esplodono proteste popolari estremamente partecipate, proprio nei giorni successivi alla “cacciata” di Ben Ali in Tunisia. Le proteste – che prendono di mira anzitutto il presidente Ali Abdullah Saleh – si espandono a macchia d’olio in brevissimo tempo, e in diverse aree si trasformano in piccole rivolte, represse duramente. Già ad aprile, un terzo dei diciotto governatorati dello Yemen sfuggono al controllo del governo.

 

Come in tutte le rivolte che aspirano a diventare rivoluzioni, partecipate in modo più o meno orizzontale dalla società civile, c’è sempre un gruppo più organizzato, più radicato, più predisposto a prevalere sugli altri nella conquista e nella successiva gestione del potere, nel sovvertimento delle istituzioni esistenti. Gli Houthi – perlopiù riconducibili al ramo zaydita dell’Islam sciita, cioè quello che prende il nome dal pronipote di Ali Ibn Abi Talib, figura fondante dello sciismo – iniziano a avanzare le loro rivendicazioni e la loro soggettività politica nella prima metà degli anni Novanta, insistendo sulla lotta alla corruzione sul piano interno e sull’ostilità verso gli Stati Uniti, avversando Israele come posizionamento geopolitico. Sin dal principio si oppongono al presidente dello Yemen, Ali Abdullah Saleh (al potere dal 1990), riconducendolo all’interno di una narrazione che lo descrive come vassallo dell’Arabia Saudita, e di riflesso degli Stati Uniti.

Appunti per una tragedia yemenita

Yemen in piazza.

Il punto di svolta, cioè il momento in cui l’opposizione degli Houthi si trasforma in sistematica insorgenza anche armata – a intensità diverse, nel corso del tempo – arriva nel 2004: dopo aver rigettato un mandato d’arresto, il leader del movimento sciita Hussein Badreddine al Houthi viene ucciso dall’esercito durante un’offensiva a Saada. Da quel momento, sarà il fratello Abdelmalik al Houthi a guidare il movimento, ed è proprio lui che nel febbraio 2011 dichiara il suo appoggio alle proteste antigovernative, invitando i suoi a parteciparvi, soprattutto nella “roccaforte” di Saada.

Intrecci settari: regionalismo imposto al radicamento territoriale

 

Non è quindi un caso che il primo dei sei governatorati a scivolare via dalla giurisdizione del governo yemenita sarà proprio quello di Saada, che a fine marzo viene dichiarato indipendente dagli stessi membri di Ansarullah. In questo periodo inizia anche una fase di polarizzazione settaria con altre formazioni antigovernative di orientamento sunnita come Al Islah (vaga espressione della Fratellanza musulmana), accusati dagli Houthi di avere legami con al-Qaeda, laddove invece gli Houthi, anche alla luce di una effettiva identità di posizionamenti internazionali, nonché della affiliazione religiosa, vengono sempre più ricondotti a movimento organico alle strategie internazionali dell’Iran, rivale regionale dell’Arabia saudita.

Un importante sviluppo si ha nel novembre 2011, quando gli Houthi, già detenendo il controllo di una porzione rilevante di territorio, rifiutano un piano mediato dai paesi del Consiglio di Cooperazione del Golfo, che intendeva dividere lo Yemen in sei regioni federali: secondo i ribelli zayditi, il piano non avrebbe cambiato nulla nella distribuzione del potere e nella governance, e anzi avrebbe rafforzato la netta divisione dello Yemen tra regioni ricche e povere. In più avrebbe frazionato aree già sotto il controllo degli Houthi, che in questo vedevano un tentativo di indebolirne la posizione negoziale. È la prima vera rottura di portata regionale, il momento in cui il piano inizia a inclinarsi verso una feroce guerra civile, alimentata anche da istanze esterne, figlie della proxy war tra Iran e Arabia Saudita.

Milizie. Coperture, forniture, alleanze

È in questo periodo che Ansarullah entra stabilmente in contatto con l’Iran e la sua orbita di milizie regionali, che forniscono addestratori e in seguito armi di vario genere. Dopo aver catturato Sana′a nel 2014, gli Houthi resistono ad alcune offensive saudite nella capitale e si scontrano a Est con formazioni qaediste sotto l’ombrello di Aqap (al Qaeda in the Arabic peninsula). L’offensiva saudita viene declinata soprattutto dal cielo: secondo lo Yemen Data Project, sono circa 25.000 i raid aerei sauditi dal 2015 a oggi, con i picchi più severi nel 2015, 2016 e 2020.

Appunti per una tragedia yemenita

Soldati emiratini rientrano dopo un anno di battaglie in Yemen.

D’altro canto dal 2016 gli Houthi smettono in qualche modo di essere solo una formazione dedita alla guerriglia interna – dal 2018 le battaglie più feroci sono quelle contro gli Amaliqah [i Giganti], un esercito di circa 20.000 uomini, sostenuto da Dubai – e portano a termine diversi attacchi oltre confine, prendendo di mira aeroporti, giacimenti petroliferi e di gas, sia in Arabia Saudita che negli Emirati arabi uniti. Lo fanno servendosi di armamenti via via più sofisticati – e sempre più diffusi in movimenti armati che non possono contare su una copertura aerea – come droni e missili a corto raggio. A partire dai dati del Center for Strategic and International studies, Riad avrebbe intercettato circa 4000 tra missili e droni provenienti dalle zone controllate dagli Houthi negli ultimi 5 anni.

Ed è interessante notare come Ansarullah sia entrato in possesso o abbia direttamente assemblato questo tipo di armamenti, se ancora lo scorso gennaio un report delle Nazioni Unite rilevava la violazione dell’embargo sulle armi, continuando «ad ottenere componenti fondamentali per i loro sistemi d’arma da società europee (soprattutto tedesche, i cui componenti arrivano a Sana′a dopo esser transitate per Atene e Teheran, N.d.R.) e asiatiche, utilizzando una complessa rete di intermediari per occultare la catena di custodia».

Droni in dotazione

In modo simile a quanto fatto da altre milizie sciite, più o meno organiche all’impalcatura di politica di sicurezza regionale dell’Iran, anche gli Houthi dal 2019 hanno persino presentato in via semiufficiale una piccola flotta di droni presumibilmente assemblati in Yemen: si tratta dei velivoli da ricognizione Hudhed 1, Raqib, Rased, Sammad 1 e di quelli da combattimento, Sammad 2, Sammad 3, Qasef 1 e Qasef 2k, questi ultimi praticamente identici ai droni Ababil di fabbricazione iraniana. Se fino al 2019 i droni utilizzati erano soprattutto quelli non armati, che però venivano fatti schiantare contro i radar dei sistemi di difesa della coalizione, da almeno due anni i droni utilizzati sono caricati con esplosivo e hanno un raggio più lungo. In sostanza: da qualche anno gli Houthi hanno accresciuto di molto le loro capacità militari, e questo costituisce uno dei motivi della loro resilienza a fronte della campagna di bombardamenti sauditi ed emiratini.

Qasef 2k, il drone in dotazione ai ribelli Houthi utilizzato per colpire obiettivi sauditi ed emiratini

Dopo sette anni dall’inizio dell’offensiva filosaudita, gli Houthi controllano ancora buona parte dell’area occidentale del paese, che a nord incontra un confine di 1300 km con l’Arabia saudita, mentre a ovest termina sulla costa di fronte allo stretto di Bab el Mandeb, una cruciale zona di transito commerciale. L’unica zona occidentale del paese non controllata dai ribelli di Ansarullah è il lembo di terra costiero a sud, dove sorge la città portuale di Aden, che dal 2019 è sotto il controllo del Southern Transitional Council a guida saudita-emiratina, cioè il governo temporaneo dello Yemen, alternativo a quello guidato dagli Houthi e riconosciuto dalla comunità internazionale.

La guerra finisce con lo Yemen

La guerra in Yemen racconta anzitutto di una incomunicabilità strategico-militare: da una parte una coalizione che, a fronte della quota più alta di import di armi in tutta la regione e di un dispiegamento di forze senza precedenti, non riesce a riportare sotto al proprio controllo gran parte di un paese considerato importante per la propria sicurezza regionale; dall’altra un movimento di resistenza yemenita, endogeno, ma la cui crescente integrazione con gli obiettivi regionali iraniani (a loro volta connessi alla propria idea di sicurezza regionale) ne ha aumentato l’isolamento sia interno – a causa di una gestione draconiana del potere e delle amministrazioni locali – che internazionale (il cui ultimo capitolo è l’inserimento nella lista delle organizzazioni terroristiche).

Il dramma dello Yemen sta soprattutto in questa incomunicabilità, in grado di protrarre un conflitto che non sembra poter avere vincitori, né soluzioni politiche che non passino da un accordo tra Iran e Arabia Saudita, a oggi molto lontano. Gli Houthi controllano una parte di paese sofferente e isolato, senza poter disporre dei suoi confini, e dovendo fare i conti con le campagne di bombardamenti che mirano ad annientarli: un movimento di guerriglia che sembra sempre più propenso a difendere le proprie posizioni e sempre meno destinato ad aver un ruolo politico concreto, in un eventuale futuro Yemen pacificato. I sauditi e gli emiratini, dal canto loro, accanto a una impossibilità di trovare una soluzione politica, mostrano alla regione una rischiosa inefficacia militare: non sufficiente a farli desistere, anzi in grado di suggerire pericolosamente che la guerra in Yemen possa finire soltanto quando sarà finito lo stesso Yemen.

 

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La terra, il petrolio e il conflitto https://ogzero.org/la-terra-il-petrolio-e-il-conflitto/ Wed, 26 Jan 2022 00:45:01 +0000 https://ogzero.org/?p=5928 Luz Marina Arteaga Il corpo di Luz Marina Arteaga è stato ritrovato lungo il Río Meta lo scorso 17 gennaio, a 5 giorni dalla scomparsa della donna dalla sua residenza nel paesino di Orocué, nella pianura orientale colombiana non lontana dalla frontiera con il Venezuela. È il drammatico esito di una storia già scritta che […]

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Luz Marina Arteaga

Il corpo di Luz Marina Arteaga è stato ritrovato lungo il Río Meta lo scorso 17 gennaio, a 5 giorni dalla scomparsa della donna dalla sua residenza nel paesino di Orocué, nella pianura orientale colombiana non lontana dalla frontiera con il Venezuela. È il drammatico esito di una storia già scritta che non lascia speranza, tanto che fra dolore e tristezza, molti sospettano che non poteva esserci finale diverso.

Luz Marina Arteaga, medica, attivista, leader sociale e comunitaria, aveva alle spalle una vita intera di lotte per i diritti delle comunità indigene e contadine: una traiettoria politica che l’aveva portata a collaborare nei processi di base delle fasce sociali che più di tutte hanno sofferto il conflitto interno colombiano e che sono sempre rimaste ai margini della storia e della giustizia. Oggi come ieri.

Nei territori di Orocué, Porvenir e Matarratón, zone che si estendono lungo la frontiera fra i dipartimenti del Meta e di Casanare, Luz Marina Arteaga è stata attiva in prima linea e fino alla fine dei suoi giorni nella lotta per la restituzione delle terre alle comunità indigene e contadine che a causa del conflitto armato, del paramilitarismo e della privatizzazione, sono rimaste senza nulla. La sua è stata e continua a essere una lotta che esemplifica chiaramente la conflittualità sociale presente in buona parte della Colombia, del Sudamerica e non solo: una lotta che svela interessi e alleanze, dinamiche di corruzione, di guerra e di violenza. Al centro, il cuore e il motore del conflitto: la tierra, risorsa e condanna per centinaia di migliaia di persone.

Brian Cardenas, avvocato della Corporación Claretiana Norman Pérez Bello, spiega il ruolo di questa organizzazione attiva nell’accompagnamento sociale e giuridico alle comunità contadine e indigene, e poi nel ricordare il ruolo assunto da Luz Marina Arteaga riassume il processo di lotta per il recupero della terra che le è costata la vita.

La lotta per la terra

Impossibile e ovviamente troppo pericoloso indicare mandanti e mercenari responsabili dell’assassinio dell’attivista, ma le dinamiche sono chiare: quelle che passano attraverso azioni di rioccupazione dei territori di proprietà storica.

“Lucha Tierra”.

Tutto ciò si accompagna a un caso giuridico durato anni, le comunità di Matarratón e Porvenir ottengono due sentenze a loro favore da parte degli organi più alti della giustizia colombiana, la Corte Suprema (STP 16298 del 2015) e la Corte Constitucional (SU-426 del 2016), le quali determinano che lo stato deve restituire loro le terre e assicurare diritti con prospettiva etnica e collettiva, servizi pubblici e garanzie di sicurezza. Ma proprio qui, nella pianura infinita che separa il dire e il fare, l’assetto giuridico e la sua realizzazione pratica, si perde la giustizia e si crea un vuoto colmato da gruppi armati che rappresentano gli interessi di chi sta al di sopra della legge.

Il risultato è che lo stato e i grandi latifondisti si organizzano in vari modi: i territori in questione vengono dichiarati zone di interesse per lo sviluppo economico, sostituiscono la popolazione mostrando che la restituzione si sta effettuando secondo le regole salvo poi espellerla per mantenere i titoli di proprietà, vittime e carnefici del conflitto armato si confondono con tutte le conseguenze del caso, e non da ultimo contrattano e organizzano gruppi paramilitari perché prevalga la loro volontà. Così, alla fine, non rimane che l’esito scontato per quelle persone che si ostinano a reclamare diritti e giustizia.

Nel caso di Luz Marina Arteaga come in quello di molte altre attiviste e attivisti, lo stato e le istituzioni hanno una responsabilità diretta anche rispetto all’assenza di protezione e misure di sicurezza che dovrebbero garantire, soprattutto nei casi in cui l’omicidio è preceduto da svariate minacce e ricatti.

Quanto alle modalità, Brian Cardenas della Corporación Claretiana Norman Pérez Bello non ne è per nulla sorpreso: in questo tipo di casi si va ben oltre un semplice proiettile o un “omicidio convenzionale”. L’idea è quella di colpire la figura più emblematica della lotta sociale per mandare un messaggio all’intera comunità, e per questa ragione l’agguato avviene in modo estremamente violento ed è quasi sempre preceduto dalla scomparsa – desaparición – della persona.

 

Centroriente: petrolio e conflitto

Così come l’Occidente colombiano che si apre sull’Oceano Pacifico e che vede nel porto di Buenaventura il principale sbocco per il commercio di ogni tipo di merce e sostanza, anche la pianura Centrorientale assume un ruolo strategico e attrae vari tipi di attori. La vicinanza con la frontiera venezuelana crea commerci di ogni genere, ma il Centroriente colombiano è conosciuto soprattutto per essere zona di estrazione di petrolio (circa un quarto della produzione a livello nazionale trova radici nei dipartimenti di Arauca, Meta e Casanare), per cui non sorprende la presenza di grandi imprese straniere che si dedicano a questa attività.

Già negli anni Trenta venne scoperta la ricchezza presente nel sottosuolo della regione, ma fu solo a partire dai primi anni Cinquanta che l’impresa Texas Petroleum Company (Texaco) cominciò le attività di estrazione di petrolio. Queste ultime si intensificarono esponenzialmente durante gli anni Ottanta, con la scoperta dei pozzi di Caño Limón (dipartimento di Arauca), Cupiagua e Cusiana (dipartimento di Casanare). Si trattava di riserve di petrolio con una capacità stimata in 100 miliardi di barili. In epoca più recente, dal 2010 a questa parte, nei municipi di Trinidad, San Luis de Palenque e Orocué (esattamente dove viveva Luz Marina Arteaga) sono stati destinati vari pozzi all’estrazione da parte di imprese come Alange, Canacol Energy, Pacific Rubiales e Lewis Energy Colombia INC. Altre multinazionali presenti nel territorio sono Parex Resources ed EcoPetrol.

Le implicazioni per le comunità presenti nel territorio sono molte e ancora una volta trovano nella terra il punto di partenza e di arrivo: vanno dall’inquinamento delle acque alla sottrazione di spazi per il pascolo e l’agricoltura, mentre a livello giuridico si traducono nel mancato rispetto del diritto alla consulta previa secondo la quale le comunità presenti nel territorio possono decidere se accettare o meno i “mega-progetti” che le vedono implicate. Infine le più gravi implicazioni in termini di vite e diritti umani consistono negli omicidi selettivi da parte dei gruppi armati e nello sfollamento forzato di intere comunità: la logica denunciata da queste ultime vede nella creazione di “zone di conflitto” e nella militarizzazione del territorio la giustificazione per espellere la popolazione civile e permettere in tal modo l’entrata delle multinazionali, con tutti i giochi di potere e di corruzione del caso.

Pressioni sulle comunità: violenze antisindacali e conflitti tra guerriglie

Squadrismo paramilitare petroliero

In questo scenario il paramilitarismo gioca un ruolo centrale; e del resto in questa zona del paese già durante la violenza degli anni Cinquanta i conservatori crearono i pajaros, gruppo armato impegnato nella repressione della resistenza liberale guidata da Guadalupe Salcedo. Fu poi a partire dagli anni Novanta che si incrementò il fenomeno del paramilitarismo, quando l’impresa British Petroleum (BP) favorì la creazione di “gruppi di sicurezza privata”. Si moltiplicarono così gli esempi: il gruppo Martín Llanos, le Autodefensas Unidas del Casanare e le Autodefensas Campesinas de Casanare (Acc o Los Buitragueños), i quali non entrarono nel processo Jusiticia y Paz di smobilitazione delle più famose Autodefensas Unidas de Colombia (Auc) nel 2005.

Il loro operato si tradusse sempre – e continua a farlo oggi – in attacchi verso le organizzazioni sindacali che si oppongono agli interessi delle imprese, verso le comunità in resistenza per la difesa del territorio, verso i leader sociali e gli attivisti di base.

Quanto accaduto a Luz Marina Arteaga non è che un altro esempio del tipo di repressione che spetta a chi osa toccare gli interessi dei potenti, mentre l’altra certezza è che insieme alla terra, il petrolio ha alimentato il conflitto e la violenza da oltre mezzo secolo a questa parte.

Guerriglie e giochi di potere

Il Centroriente colombiano, soprattutto nei dipartimenti di Arauca e Casanare, è pure territorio storico di controllo della guerriglia: l’Eln principalmente e in minor misura le Farc. Imprese multinazionali, esercito e gruppi paramilitari hanno da sempre dovuto fare i conti con loro e molte zone sono rimaste inaccessibili all’estrazione di petrolio proprio grazie alla presenza della guerriglia.

La situazione fino a qualche mese fa non mostrava grandi differenze rispetto al passato, con una forte presenza politica dell’Eln nel substrato politico e popolare e con l’espansione militare del Frente 10 e 28 delle dissidenze delle Farc agli ordini di alias Gentil Duarte, mai entrati nelle trattative degli Accordi di Pace del 2016. Fra Eln e Farc reggeva un patto di alleanza politica, militare e ideologica stretto nel 2013 e mantenuto anche dopo il 2016, a seguito di una lunga guerra fra il 2004 e il 2010 che costò la vita a 500 civili e 600 combattenti.

Frente e Eln

Nel corso del 2021 qualcosa è tuttavia cambiato: nel mese di marzo è stato dato l’allarme per l’espansione del paramilitarismo nelle zone di controllo storico della guerriglia, e quasi al contempo Maduro ha dichiarato guerra alla dissidenza delle Farc (Frente 10) attiva lungo la frontiera fra Colombia e Venezuela. A inizio 2022 le dissidenze delle Farc hanno dichiarato guerra all’Eln e in un comunicato hanno affermato la costituzione del Comando Conjunto del Oriente, composto dal Frente 10, 28, 45 e 56, con l’idea di riattivare i blocchi di guerra delle antiche Farc. Tutto ciò malgrado un’altra fazione delle Farc pure presente nel territorio, la Segunda Marquetalia agli ordini di Ivan Márquez – entrato nelle negoziazioni degli Accordi di Pace e poi sottrattosi – sarebbe invece alleata con l’Eln.

Sono scenari che possono sembrare irreali ma che rispondono a interessi politici ed economici oltre che a strategie militari; quel che è certo è che in questo inizio di 2022, tali avvicendamenti hanno lasciato una lunga scia di sangue: a farne le spese è stata soprattutto la base civile e il movimento sociale, come dimostrano gli attacchi del Frente 28 delle Farc all’acquedotto autogestito di Saravena e l’autobomba fatta esplodere lo scorso 19 gennaio di fronte alla sede del Congreso de los Pueblos, movimento politico legato ideologicamente alla linea dell’Eln. Oltre a ciò, in questo mese di gennaio si contano 20 omicidi selettivi e 3 stragi nella regione.

Diverse organizzazioni sociali concordano nel dire che lo stato e le dissidenze delle Farc presenti nel territorio si sarebbero alleati per combattere contro l’Eln, e non a caso i principali scontri militari starebbero avvenendo in zone di interesse per l’estrazione di petrolio fino a oggi inaccessibili perché sotto controllo dell’Eln stesso, come è il caso della regione de La Esmeralda. A ciò si aggiunge la forte repressione da parte dello stato, che considera eleno – appartenente alla guerriglia dell’Eln – ogni attivista delle comunità contadine e indigene, mentre al contempo denuncia la complicità del governo venezuelano nell’appoggiare tale guerriglia.

Uno scenario complesso

La scomparsa e il successivo assassinio di Luz Marina Arteaga risponde a una logica piuttosto chiara in quanto rappresenta una punizione per il suo impegno nelle lotte per la restituzione della terra; al contempo si inserisce in un contesto socio-politico specifico e relativamente nuovo, in cui si presentano scontri fra guerriglie e possibili alleanze fra stato, dissidenze e paramilitari, tanto più in una zona di frontiera (chiusa ufficialmente) con il Venezuela e in un clima di relazioni bilaterali pressoché inesistenti specialmente da quando Duque ha smesso di riconoscere Maduro come legittimo presidente.

 

Uno scenario che dimostra la profondità e la complessità del conflitto interno colombiano, tutto fuorché terminato con gli Accordi di Pace del 2016.

Al contempo, dall’altro lato del paese, a Cali, a inizio gennaio l’Eln ha rivendicato un attacco esplosivo che ha ferito 14 agenti dell’Esmad (il corpo antisommossa della polizia) in risposta alla violenta repressione messa in atto durante le proteste del Paro Nacional e all’uccisione del comandante alias Fabián lo scorso mese di settembre. Nella capitale Bogotá, invece, pochi giorni fa è stata trovata una bomba pronta per essere fatta esplodere nella sede del partito di ex combattenti delle Farc, Comunes.

Tutti segnali piuttosto univoci nel suggerire che la campagna elettorale è in pieno corso e che il 2022 promette di essere un altro anno molto intenso.

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L’ordine regna in Kazakhstan e grande è la confusione sotto il cielo russo https://ogzero.org/lordine-regna-in-kazakhstan-e-grande-e-la-confusione-sotto-il-cielo-russo/ Sat, 15 Jan 2022 00:49:02 +0000 https://ogzero.org/?p=5851 Il bilancio dopo il ritorno all’ordine non è così scontato nei molti temi toccati dall’intervento di Yurii Colombo a completamento delle intuizioni incentrate sulla lotta di classe che ha inaugurato il 2022 kazako. Hanno fatto attenzione a reprimere senza umiliare i lavoratori kazaki, che ora attendono mobilitati che le promesse siano mantenute: infatti si è […]

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Il bilancio dopo il ritorno all’ordine non è così scontato nei molti temi toccati dall’intervento di Yurii Colombo a completamento delle intuizioni incentrate sulla lotta di classe che ha inaugurato il 2022 kazako.

Hanno fatto attenzione a reprimere senza umiliare i lavoratori kazaki, che ora attendono mobilitati che le promesse siano mantenute: infatti si è trattato di una reazione da un lato militare e spietata (con morti, arrestati, violenze…), condotta da reparti speciali, soprattutto contro i riot. E dall’altro traspare il sapore populista volto a blandire la piazza che impaurisce l’oligarchia – nella tradizione della satrapia  centrasiatica, che ha visto le stesse manovre precipitose nelle altre nazioni limitrofe che sono terra di conquista della Nato e che vedono gli oligarchi tentati di sfuggire al potere di Mosca. Salvo poi rivolgersi al Cremlino per soffocare rivolte e contese. Mentre Putin mira soltanto a mantenere una cintura di sicurezza, chiedendo attraverso i colloqui con la controparte di stilare un regolamento politico strategico che assicuri che non ci sia possibilità alcuna di confluenza nella Nato di un paese che condivida i confini occidentali della Federazione russa. Ma questo riguarda l’Ucraina, il mantenimento invariato del Kazakhstan non è in discussione.

A fronte di questa situazione internazionale ogni paese di quel cuscinetto di sicurezza ha una sua situazione particolare che rientra comunque negli standard delle risposte prevedibili: ciascuno diverso, ma ognuno uguale nel mantenimento degli equilibri. Il Kazakhstan in particolare è importante per le relazioni internazionali, tanto che non si è vista una reazione fatta di sanzioni o muscolare da parte di europei, che sfruttano le risorse; o di americani, che approfittano per provocare Mosca; o di cinesi , che ci devono far passare la Via della Seta. E allora è importante per tutti mantenere lo status quo, ma anche che i lavoratori producano quelle ricchezze che le potenze straniere e le multinazionali del petrolio intendono sottrarre.

Yurii, dopo gli aspetti sociali (assolutamente centrali) affronta subito, eliminandole, le letture complottiste dietro a cui Toqaev ha tentato di nascondersi. Ma la preoccupazione per i milioni di russofoni abitanti fuori dai confini russi, e anche i tanti provenienti dalle ex repubbliche e vivono in Russia, hanno richiesto uno studio della paura del jihad che dalla guerra in Cecenia in avanti ossessiona Putin.


«L’ordine regna in Kazakhstan» potremmo dire parafrasando Rosa Luxemburg. Dopo agitazioni e rivolte durate quasi una settimana – soprattutto grazie all’intervento delle truppe dell’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva (Csto) – il presidente Qasym-Jomart Toqaev è riuscito a riprendere il controllo della situazione e ha promesso anzi che entro la fine del mese di gennaio quest’ultime verranno ritirate completamente dal paese. Restano però aperte non solo molte questioni interne, ma anche riguardanti la sistemazione dell’ordine regionale e inevitabilmente di quello mondiale visto la dimensione strategica per il mondo occidentale del problema del contenimento del radicalismo islamico e del controllo delle rotte energetiche (il Kazakhstan ha riserve di petrolio per 30 miliardi di barili e di gas per 3 trilioni di metri cubi).

L’intervento del Csto è servito a stabilizzare la situazione che rischiava di sfuggire di mano dopo i vistosi fenomeni di “fraternizzazione” e “timidezza” della polizia (e persino dei reparti speciali) nei confronti dimostranti in varie zone del Kazakhstan. Per avere un quadro delle dimensioni degli avvenimenti kazaki basterà ricordare il bilancio finale degli incidenti in tutto il paese: 164 morti tra i dimostranti e 18 tra forze dell’ordine, oltre 8000 arresti, oltre tre miliardi di danni economici dovuti agli scioperi, al blocco delle comunicazioni e dei trasporti e per i danneggiamenti.

Come si evince dall’infografica è stata coinvolta dai disordini solo una delle tre città più popolate, ma tutti i grandi centri urbani industriali (a parte Alma Aty ovviamente) hanno visto manifestazioni egemonizzate da gruppi di lavoratori e dai sindacati. L’eterogeneità delle rivendicazioni e delle proteste non deve far dimenticare il tratto unificante di una richiesta generalizzata di maggior equità sociale.

Nei giorni successivi, il presidente kazako, soprattutto per giustificare l’intervento esterno, ha enfatizzato i caratteri “arancioni” delle dinamiche nel paese, ma ben presto ha dovuto drasticamente ridurre il numero di mercenari a suo dire attivi nelle manifestazioni da 20000 a 300. Lo stesso tasto, ma con meno vigore è stato premuto da Putin, il quale ha però immediatamente distinto «l’azione terroristica dalle proteste contro il carovita». Secondo i servizi speciali del Tagikistan, il numero di campi e centri di addestramento dei terroristi attivi ai confini meridionali del Csto nelle province nordorientali dell’Afghanistan sarebbero oltre 40, e complessivamente sarebbe composti da 6000 combattenti. Il 12 gennaio Toqaev per la prima volta ha indicato quali sarebbero i “mandanti” dell’“azione terroristica”: «Un atto di aggressione… che ha coinvolto combattenti stranieri provenienti principalmente dai paesi dell’Asia centrale, compreso l’Afghanistan. C’erano anche combattenti del Medio Oriente» ha precisato il leader kazako escludendo così l’ipotesi frettolosamente sostenuta dai vari raggruppamenti del cospirazionalismo internazionale sul ruolo dei paesi occidentali.

Secondo il direttore dell’Institute for Geopolitical Research e capo ricercatore presso l’Istituto di Storia ed Etnologia Asylbek Izbairov, i gruppi dell’estremismo islamico fin dalla loro comparsa nel paese intorno al 2011 sono sempre rimasti “ridotti” e “limitati” a gruppi giovanili capaci solo di realizzare attentati terroristici. Tali gruppi hanno assunto nomi spesso roboanti come “Soldati del Califfato” (Junud al-Califfato), “Difensori della religione” (Ansar-ud-din), Battaglione di Baybars ma il loro radicamento sociale è sempre rimasto incerto e il loro programma politico vago.

Questi gruppi avrebbero sviluppato «concetti quasi coloniali di tendenze sufi sincretiche, che a lungo termine portano a una pericolosa “sintesi” di misticismo pseudo-religioso e nazionalismo etnico di “sangue e suolo”».

Un quadro simile si coniugherebbe assai bene ad altre ipotesi circolate sui mass-media kazaki secondo cui soprattutto ad Alma Aty alcune “cellule dormienti” di questi gruppi siano stati il propulsore dei riot popolari dandogli quell’efficienza lamentata dal Toqaev, giunta fino alla prova di forza dell’occupazione dell’aeroporto internazionale a cui avrebbero partecipati circa 800 rivoltosi.

Questa dimensione sarebbe una delle ragioni che avrebbe spinto Putin a ritirare rapidamente le proprie truppe dal paese per evitare (anche in Kirgizistan e in Tagikistan) l’emergere di forti sentimenti antirussi che potrebbero avere ricadute poco piacevoli nelle metropoli russe dove lavorano milioni di migranti centroasiatici.

D’altro canto ciò spiega anche il sostanziale beneplacito al ristabilimento dell’ordine da parte del Dipartimento di stato Usa: non solo perché così vengono garantiti gli investimenti stranieri (161 miliardi di dollari dall’indipendenza del 1991 al 2020 principalmente nel settore energetico) ma anche soprattutto perché la Russia ha tolto le castagne dal fuoco a tutto il capitalismo internazionale in una fase delicata come quella attuale in cui si sta ancora elaborando il lutto della fuga dall’Afghanistan. In questo trentennio tutti i paesi della fascia centroasiatica dell’ex Urss hanno svolto un ruolo di contenimento della crescita dell’islam radicale e anche se molti foreign fighters si sono per un periodo trasferiti a combattere nell’Isis in Siria e in Iraq il ritorno in patria non ha prodotto fenomeni terroristici in tutta l’area e particolarmente in Russia dove l’ultimo attentato significativo resta quello dell’aprile 2017 a San Pietroburgo.

Malgrado ciò il primo intervento dalla sua fondazione nel 1992 del Ctso segna uno spartiacque dal punto di vista politico e tattico-militare.

«Comprendiamo che gli eventi in Kazakistan non sono il primo e tutt’altro che ultimo tentativo di interferire dall’esterno negli affari interni dei nostri stati. Le misure che abbiamo preso hanno dimostrato chiaramente che non permetteremo che la situazione in patria sia scossa e non permetteremo che si materializzino gli scenari delle “rivoluzioni colorate”», ha sostenuto Putin, durante la riunione con gli stati membri.

Il Csto si configurerebbe per certi versi come una sorta di “Santa Alleanza” come quella delle autocrazie europee dopo il 1815, per frenare ai confini dell’Urss l’insorgenza di rivoluzioni democratiche. Una forza non di occupazione però ma di pronto intervento, per frenare l’ulteriore disgregazione di quelli che furono i “confini naturali” dell’Urss e, per altri versi, della Russia zarista. Operazione complessa perché per ironia della storia era stato proprio il Kazakhstan qualche anno fa a proporre lo scioglimento dell’alleanza, per avere le mani libere nella trattativa con le potenze occidentali. Un raggruppamento comunque spurio, il cui asse fondamentale è basato tra Mosca e Minsk. Del resto il settimanale moscovita “Expert” ha dovuto riconoscere a denti stretti che il presidente tagiko Emomali Rakhmon insiste per la «creazione di una lista unificata delle organizzazioni riconosciute come terroristiche nel formato Csto che non è ancora stata redatta».

Secondo il settimanale moscovita «questa è davvero una questione difficile, perché alcuni paesi membri della Csto (specialmente il Tagikistan) amano classificare varie forze di opposizione che chiedono il diritto alla protesta pacifica come terroristi e islamisti», un approccio non condiviso da Mosca soprattutto dopo che è diventata una necessità tenere aperto un confronto con il governo di Kabul.

Mosca non sembra aver tratto un gran giovamento dalla crisi ha cercato in un primo tempo di far passare come “Vzglyad”, un portale russo di geopolitica filoputiniano, in chiave di egemonia sull’intera area. A differenza della Bielorussia, paese povero di risorse, il governo di Nursultan non è interessato – visti gli enormi interessi economici occidentali nel paese – a legarsi mani e piedi a Mosca anche perché ha i mezzi per sviluppare una politica riformista e relativamente redistributiva.

Putin appare costretto a giocare un ruolo interventista visto anche quanto bolle in pentola con l’Ucraina, a cui rinuncerebbe volentieri.

Secondo il politogo Georg Mirzjan: «Se Mosca si rivela non essere pronta a garantire la sicurezza nello spazio postsovietico, la Turchia e la Gran Bretagna possono assumere questo ruolo. Ci potrebbe essere una cintura di instabilità lungo tutti i confini meridionali della Russia, dal mar Nero alla Mongolia, infettando il Caucaso del Nord, la regione del Volga e altre parti della Russia con l’islamismo e il radicalismo».

Il ruolo di sceriffo del Centroasia in via del tutto teorica potrebbe essere assunto dalla Cina, che, a differenza di Gran Bretagna e Turchia, è interessata a stabilizzare la regione a tutela del progetto della “Via della Seta”, ma il problema è che i “pacificatori” cinesi non porteranno certo la pace perché la Repubblica popolare stenta a trovare una lingua comune con la popolazione musulmana della regione. Le attività aggressive (e talvolta predatorie) del business cinese in Kazakhstan e Tagikistan hanno ripetutamente portato a potenti manifestazioni anticinesi (che prima o poi potremmo vedere anche nella Russia siberiana). È proprio per questo che la presenza militare cinese potrebbe causare solo una nuova ondata di radicalismo, inguaiando ancora di più il Cremlino.

“Kazakhstan di lotta e di geopolitica”.
Il governo kazako sta ora correndo ai ripari. La scossa tellurica delle proteste ha smosso fin dalle fondamenta il paese e il regime intende introdurre un vasto pacchetto di riforme in primo luogo di carattere economico-sociale. Durante la riunione di gabinetto dell’11 gennaio, Toqaev ha soprattutto sottolineato quelle dai tratti più nettamente populistici come la riforma della Banca di sviluppo del Kazakhstan (Dbk).

«Dbk si è essenzialmente trasformata in una banca personale per una stretta cerchia di individui che rappresentano gruppi finanziari-industriali e di costruzione. Conosciamo tutti per nome», ha dichiarato il presidente kazako.

Ha proposto anche una moratoria di cinque anni sull’aumento degli stipendi dei deputati e dei funzionari di alto livello. Ha inoltre promesso che i lavoratori del settore pubblico avranno i loro stipendi aumentati assieme a una moratoria sull’aumento dei prezzi dei beni di prima necessità di tre anni. Sarà quindi istituito un fondo sociale pubblico per risolvere i problemi sociali.

«Dobbiamo dire grazie al primo presidente, Yelbasa (Nursultan Nazarbaev), se si è imposto nel paese un gruppo di aziende molto redditizie e una fascia di persone ricche, anche per gli standard internazionali. Credo che sia il momento di dare credito al popolo del Kazakhstan e di aiutarlo in modo sistematico e regolare», ha commentato sarcastico Toqaev, come se egli durante tutte le amministrazioni precedenti avesse vissuto su un altro pianeta.

Il giorno successivo Il ministro dell’economia del Kazakhstan Alibek Kuantyrov ha annunciato l’introduzione di una tassa supplementare sull’estrazione di minerali solidi. Non ha specificato però quale sarebbe la tassa aggiuntiva o quando entrerebbe in vigore (il Kazakhstan è il più grande produttore di uranio al mondo e ha grandi depositi di rame, di ferro e zinco). Si è ventilato anche un intervento sulla fuga dei capitali verso i paradisi fiscali di cui la famiglia Nazarbaev è sempre stata una gran specialista. Nulla invece sugli idrocarburi, in buona parte controllate da corporation americane, britanniche, olandesi – oltre all’Eni – così come sulla tassazione dei prodotti sui capitali stranieri che controllano il 70% dell’economia del paese. Si prospetta quindi una sorta di gestione “alla Pëtr Stolypin”, l’ultimo ministro delle finanze del potere zarista prima delle rivoluzioni russe: riforme dall’alto accompagnate dal pugno di ferro contro le opposizioni e il movimento operaio. Toqaev ha nominato come nuovo premier il cinquantenne di Alma Aty, Alichan Smailov, una scelta non certo di gran rinnovamento visto che nel passato Smailov è stato vicepremier e ministro delle finanze del paese. Il governo russo ha perfino accusato il nuovo ministro dell’Informazione del Kazakhstan, Askar Umarov, di avere «punti di vista nazisti e sciovinisti sui russi». Il sociologo di Kiev Volodymyr Ishchenko, esperto di dinamiche postsovietiche, è convinto che gli affari per la classe dirigente kazaka non si rimetteranno sui consueti binari dell’accumulazione predatoria tanto facilmente:

«Le tesi sulla “modernizzazione autoritaria”, sulla “rivoluzione passiva” e sull’“imperialismo” mal si adattano alla realtà del capitalismo patronale. Si tratta solo di una conservazione temporanea e intrinsecamente instabile della crisi politica postsovietica che non riesce ancora a trovare una vera soluzione al problema ricorrente della successione».

In questo quadro si deve valutare, il ruolo dell’attore principale di questo passaggio storico, cioè il movimento dei lavoratori. Come abbiamo già scritto su “OGzero” i lavoratori kazaki non da ieri sono entrati in movimento. Si tratta di una classe operaia giovane (soprattutto quella impiegata nei settori più propriamente industriali nella fascia di età giovanile rappresenta più del 30% del totale), concentrata in alcune zone del paese, sperimentata in oltre un ventennio di lotte. Una classe lavoratrice composta in buona misura da donne (il 60,2% delle donne kazake sono occupate) un fattore che rappresenta un baluardo contro la penetrazione del radicalismo islamico più reazionario. Una classe lavoratrice che ha ottenuto alcune vittorie parziali (compresa la riduzione del prezzo del gas) e ha saputo realizzare, seppur in un contesto difficilissimo, in pochi giorni, un ripiegamento ordinato in attesa di vedere se le promesse del governo diverranno realtà. Del resto le rivoluzioni si fanno strada non solo “come nel 1917”, ma anche “come nel 1905”, quando il potere magari regge ma non sa davvero riformarsi: quest’ultimo facendo concessioni significative alla piazza apre nuove contraddizioni nei diversi settori della società e condiziona le mosse delle potenze internazionali.

La classe operaia nell’ex Urss è tornata a essere uno dei fattori della contesa politica dopo una lunga eclisse. Dopo la timida ma in controcorrente apparizione dei nell’ascesa bielorussa, un altro contingente dell’ex Urss si è mobilitato: catapultato sulla scena della storia è divenuto sorprendentemente uno dei fattori del mutamento politico in Kazakhstan. Va sottolineato: non succedeva dai tempi dell’Iran e della Polonia a cavallo tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta del secolo scorso.

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Kazakhstan. La rivolta che montava da tempo inaugura il 2022 https://ogzero.org/kazakhstan-la-rivolta-che-montava-da-tempo/ Thu, 06 Jan 2022 22:51:02 +0000 https://ogzero.org/?p=5770 Nel Kazakistan dell’ultimo capo del Pcus locale, sopravvissuto al potere per 30 anni alla fine dell’Urss, il raddoppio delle tariffe energetiche è arrivato dopo che si è concluso il percorso in tre fasi di privatizzazione dell’energia. Alcuni analisti internazionali riconducono l’incremento di fabbisogno di energia in un paese che la produce (ed è straricco di […]

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Nel Kazakistan dell’ultimo capo del Pcus locale, sopravvissuto al potere per 30 anni alla fine dell’Urss, il raddoppio delle tariffe energetiche è arrivato dopo che si è concluso il percorso in tre fasi di privatizzazione dell’energia. Alcuni analisti internazionali riconducono l’incremento di fabbisogno di energia in un paese che la produce (ed è straricco di risorse energetiche) al fatto che le criptomonete hanno spostato i loro computer dalle sedi cinesi e i calcoli dell’algoritmo consumano talmente tanta energia ogni secondo che assorbono moltissima energia e hanno automaticamente fatto lievitare i prezzi delle fonti energetiche con l’aumento di richiesta. Ma la goccia di gpl è solo quella che ha fatto traboccare il vaso.

In realtà, qualunque contingenza abbia provocato questa emersione della rabbia del popolo kazako, la mobilitazione del proletariato che sta ribellandosi dura da molto più tempo che le privatizzazioni e la lotta di classe negli ultimi mesi aveva ottenuto importanti risultati e dunque ha solo proseguito la ribellione individuando la possibilità di ribaltare finalmente un sistema totalitario, corrotto, oligarchico e predatorio proprio dei proventi di quelle risorse che pretendeva di far pagare il doppio a un paese ricco dove si vive da poveri: una rivolta senza capi che subito è tacciata di intelligenza con gli Usa, ma questa somiglia troppo alla lotta di classe.

Yurii Colombo ha potuto analizzare la situazione attuale, avendo ben presente la rivolta del 2015-2016, ma anche badando agli interessi esterni – cominciando ovviamente da Mosca, ma anche dai paesi europei, dalla Cina partner commerciale, dai finanzieri svizzeri… – mettendo al centro l’evento quasi mitico di un paese in piazza che prende i palazzi del potere in poche ore, si scontra con le forze dell’ordine, un’insurrezione senza capi (probabilmente non ispirata da forze straniere, ma neanche spontanea perché montante da tempo), si ammanta di Storia per il suo divampare improvviso, ma è dotato della forza che le lotte precedenti le hanno infuso. Potranno soffocarla con l’intervento di Putin, ma il potere di Nazarbaev è stato definitivamente archiviato. Ora il problema è di Putin? 


“Ci sono giorni che valgono anni”, dice un vecchio motto. Ed effettivamente se non fossero eventi anche tragici quelli che in queste ore si stanno verificando in Kazakistan, si potrebbe desiderare che il tempo si fermasse per meglio fissare e analizzare i (rari) processi di accelerazione della storia. In soli quattro giorni le prime rivendicazioni operaie e popolari contro l’aumento dei prezzi del gas iniziate nelle regioni Sudoccidentali del paese si sono trasformate in un processo insurrezionale. Fino al punto che per essere sedate il Presidente in carica Quasym-Jormat Toquaev ha chiesto l’intervento dell’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva (Csto), il patto di Varsavia versione dopo il crollo dell’Urss, esattamente 30 anni fa.

Da più parti per spiegare quanto sta avvenendo stanno parlando di “rivolta spontanea”, ma è davvero così? Non proprio, la mobilitazione non è nata come Minerva dalla testa di Giove e mobilitazioni di tale portata forse possono essere improvvisate ma non create dal nulla.

Il focolaio della rivolta: non è la prima volta di Zhanaozen

La ribellione è iniziata il primo dell’anno nella provincia di Mangistau nel Sudest del Kazakistan che si affaccia sul Caspio nella cittadina di Zhanaozen e infettando poi la capitale regionale di Aktau. Tuttavia il cambio di passo è avvenuto il giorno dopo quando sono entrati in sciopero i minatori della regione di Karaganda e della Kazakhmys Corporation nell’ex regione di Zhezkazgan bloccando la ferrovia e l’autostrada a Taraz, Taldykorgan, Ekibastuz, Kokshetau e Uralsk. La rapidità dello sviluppo delle agitazioni non è stata però casuale.

Il movimento operaio kazako ha una grande tradizione di lotta nell’era postsovietica. Le prime ondate rivendicative soprattutto nel settore petrolifero ed estrattivo (oltre che metalmeccanico) condussero alla formazione nel 2004 dei primi sindacati indipendenti kazaki dell’era postsovietica. Il momento culminante di questa ondata rivendicativa (principalmente salariale) che proseguì in crescendo dal 2008 fu raggiunto nel 2011 con i gravi incidenti nella città di Zhanaozen, quando il 16 dicembre, la polizia sparò sugli operai, uccidendone 16, ferendone e arrestandone centinaia.

Malgrado la durissima repressione che ne seguì, forme di resistenza semiclandestina dei lavoratori non cessarono mai da allora. Nel 2021 il processo di ricomposizione delle lotte ha poi accelerato e il 30 giugno scorso i lavoratori dell’azienda di servizi petroliferi Kezbi Llp di Zhanaozen inscenarono una prima fermata “a gatto selvaggio”; gli scioperanti chiedevano aumenti salariali, cambiamenti nell’organizzazione dell’attività e miglioramenti delle condizioni lavorative. La lotta fu coronata da successo e i lavoratori in lotta ottennero un raddoppio salariale: il 100% di aumento, da 200.000 a 400.000 tenghe (da 400 a 800 euro). Visto il successo gli scioperi si allargarono rapidamente a tutta la zona. Il 13 luglio i lavoratori di Kmg-Security incrociarono le braccia seguiti due giorni dopo dai lavoratori dell’azienda di trasporti MunaiSpetsSnab Company. Anche qui breve mobilitazione e vittoria immediata con aumenti del 100% del salario e altre conquiste. Il 21 luglio fu poi la volta della Kunan Holding. In seguito a Zhanaozen è iniziato il primo sciopero delle donne della Nbc, con le stesse richieste di salari più alti e migliori condizioni di lavoro. Un crescendo rossiano di fermate; scioperi alla Aktau Oil Service Company e alla Oilfield Equipment and Service, alla BatysGeofizService, alla Eurest Support Services Llp (Ess), alla Ozenenergoservis, nel campo petrolifero di Karazhanbas, nella regione di Mangistau. E scioperi anche alla Industrial Service Resources Llp, alla Industrial Service Resources Llp, alla Kmg Ep-Catering, alla Ezbi, alla Emir-Oil Kmg Ep-Catering, alla Abuev Group. Scioperarono poi in piena estate anche i corrieri della Glovo di Alma Ata.

Operai in sciopero il 2 agosto 2021. Gli scioperanti vivevano in baracche e guadagnavano in media 200 euro al mese. Sfruttati da privati e aziende pubbliche.

Il 28 giugno un grosso gruppo di donne di Astana presero d’assalto il ministero dell’industria di Astana, chiedendo posti di lavoro, alloggi e maggiori benefici per i bambini. L’8 luglio i lavoratori delle ferrovie di Shymkent bloccarono la circolazione regionale, mentre sempre ad Alma Ata, il 20 luglio, decine di dipendenti dei servizi di soccorso delle ambulanze protestarono contro il ritardo nel pagamento delle indennità “coronavirus” e per le disastrose condizioni di lavoro (tutte queste informazioni sono tratta dalla pagina anarco-sindacalista russa “Kras”).

Abbiamo fatto un così minuzioso (ma in realtà la nostra lista è solo parziale) riassunto delle lotte dei lavoratori kazaki della scorsa estate per un motivo molto semplice. Perché dimostra che la teoria della “spontaneità assoluta” è fuorviante. Se oggi i lavoratori kazaki si stanno muovendo con tanta decisione ciò è dovuto in primo luogo ai successi parziali che ottennero durante quelle agitazioni e ciò ha sicuramente rafforzato in loro convinzione e fiducia.

Ma la “ribellione” si è trasformata in “rivoluzione” non solo per la discesa in campo della classe operaia industriale. Dal secondo giorno ad Alma Ata hanno iniziato a mobilitarsi i giovani delle periferie in veri e propri riot (spesso armati) che hanno conteso palmo a palmo alle forze dell’ordine e ai reparti speciali il territorio, facendo diventare una metropoli di due milioni di abitanti l’epicentro dello scontro, un subbuglio divenuto eminentemente politico visto che le autorità avevano a quel punto accettato di ridurre i prezzi del gas, sussidiare quelli degli alimentari e il governo si era formalmente dimesso.

Expert”, un autorevole settimanale moscovita non certo di sinistra, sostiene che le dimensioni della rivolta ad Alma Ata sono determinate dal fatto che «ci sono molti giovani sfaccendati e spesso disoccupati. Infatti secondo un censimento dell’autunno scorso il 53,69% della popolazione ha meno di 28 anni. Ed è proprio tra questi strati che la disoccupazione è particolarmente alta».

L’estensione geografica delle proteste segnala inoltre come si siano saldati diversi elementi di carattere anche locale. Non solo il Sud e l’Ovest, ma anche il Nord, solitamente depresso e calmo con popolazione russa dominante, sta ribollendo e questa è una novità assoluta. A Taldykorgan un monumento a Nursultan Nazarbaev è stato abbattuto: un’azione che sarebbe stata impensabile fino a pochi giorni fa.

In alcune zone occidentali del paese gli scontri sembrano addirittura cessati e il potere è stato preso dai manifestanti insieme ai funzionari locali e alle forze di sicurezza, per esempio a Zhanaozen. In questo quadro se entro 24-48 ore il governo centrale con l’aiuto delle truppe dell’Alleanza non dovesse riuscire a prendere il controllo della situazione – finora il numero di morti tra i manifestanti resta imprecisato ma nell’ordine minimo di decine di vittime – si potrebbe assistere a un vero e proprio crollo statale per certi versi simile a quello avvenuto in Afghanistan l’estate scorsa. In questo quadro va tenuto conto però conto che non sono apparsi segni di livore antirusso e neppure la variante del fondamentalismo islamico sembra giocare un ruolo significativo mentre non è chiaro dove si andranno a posizionare i vari clan tribali che negli equilibri del paese hanno sempre svolto un certo ruolo.

I segni di “cedimento strutturale” ci sono tutti.

Secondo il portale russo “Meduza” in queste ore «ci sono notizie di decine di jet privati che lasciano il paese, il Kazakistan dell’élite imprenditoriale sta lasciando il paese in fretta e furia»

E lo stesso Nursultan Nazarbaev dopo essere stato dimesso d’imperio dal presidente in carica si dice si sia rifugiato all’estero. Ma che si stesse ballando su un Titanic nessuno se lo immaginava.

In un articolo per “Foreign Policy” nel dicembre scorso Baurzhan Sartbayev, presidente del Consiglio di amministrazione di Kazakh Invest sosteneva con baldanza che «il Kazakistan è emerso come un attore importante nell’economia globale e una destinazione di investimento attraente. In definitiva, il Kazakistan è sulla strada per migliorare il clima degli investimenti e rafforzare la posizione del paese all’interno della comunità globale».

Del resto non sono solo la classe operaia e il sottoproletariato a essere stanchi di un potere che – forse unico insieme all’Azerbaigian – vanta una filiazione diretta dall’ex Urss, essendo stato Nazarbaev anche l’ultimo segretario del Pcus kazako fino proprio al 1991. In questi anni mentre la forbice delle ricchezze sociali si allargava a dismisura si è formato nelle grandi metropoli (Alma Ata e Astana – ora Nur-Sultan) un piccolo strato di classe media urbana che ha mostrato sempre più stanchezza per la corruzione, il nepotismo, l’autoritarismo e la scarsa mobilità sociale che affascia il paese. Questi strati sociali sono anche quelli più sensibili alle argomentazioni prettamente politiche come il fatto che non se ne poteva più di Nazarbaev, l’insoddisfazione per il governo di Tokayev, per un sistema di partiti rigido e antidemocratico, per l’esistenza di leader locali non eletti e così via. Se elementi di “rivoluzione arancione” ci sono nella vicenda kazaka si annidano in questi strati e in queste città dove da sempre sono state attive le ong occidentali, le associazioni culturali turche e la presunta base di Mukhtar Ablyazov, un ex banchiere bancarottiere che guida il partito della Scelta Democratica del Kazakistan, oggi in esilio a Kiev, la cui influenza è scarsa o nulla. Secondo i cospirazionisti di destra e di sinistra però sarebbe stato lui a orchestrare la rivolta per far giungere Putin alle trattative con la Nato – che iniziano il 10 gennaio – debole e impaurito. Tuttavia tutti gli organi informativi russi più accreditati continuano a ripetere che «non esiste alcuna prova o indizio» che la rivolta sia stata manovrata o perfino programmata dall’estero.

Le reazioni soft del resto del mondo

La tesi del “ruolo di forza straniere” viene rilanciata in queste ore per evidenti motivi anche dal ministero degli Esteri russo con un comunicato ad hoc ma senza troppa convinzione. Putin appare, dietro le quinte, convinto che i margini di manovra dell’attuale regime siano stretti, ma non sembra aver altra scelta oggi che sostenere il presidente in carica, un po’ come avvenne nel 2020 con la Bielorussia di Lukashenka. In Russia e a Mosca in particolare vivono molti migranti centroasiatici con cui il potere russo non vuole avere attriti. Anche per questo l’intervento dei soldati russi è stato presentato come un “intervento pacificatorio”.

«I pacificatori armati non portano pace»: infatti si parla di centinaia di morti, militari decapitati, feriti e migliaia di arresti, dopo l’arrivo delle truppe del Csto

Del resto anche i media occidentali hanno evitato – almeno finora – di suonare la grancassa della propaganda antirussa e i motivi sono evidenti: ci sono grandi investimenti stranieri nel paese che ora rischiano di sfumare o di subire pesanti perdite a causa del clima interno del paese – tra cui quelli dei Paesi Bassi, che rimangono il più grande investitore del paese con 3,3 miliardi di dollari, seguiti da Stati Uniti (2,1 miliardi di dollari), Svizzera (1,3 miliardi di dollari), Russia (704. 9 milioni di dollari), Cina, con i suoi 508,7 milioni di dollari. Quest’ultima come spesso le succede ha mostrato per ora il suo solito volto di softpower rifiutandosi di commentare gli avvenimenti.

La situazione per Putin già complessa ai suoi confini occidentali ora potrebbe diventare non agevole anche a oriente. Anche perché la resistenza della classe operaia che non arretrerà, potrebbe impedire quella “riforma dall’alto” del regime interno che la presidenza Toqaev ora sembra pronta a compiere.

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La Colombia della “pace” https://ogzero.org/la-colombia-della-pace/ Sun, 12 Dec 2021 21:25:45 +0000 https://ogzero.org/?p=5547 A 5 anni dagli Accordi di Pace fra il Governo Santos e la guerriglia storica delle Farc, il cammino per lasciarsi il conflitto alle spalle sembra ancora lungo e tortuoso, come il corso degli innumerevoli  corsi d’acqua del Delta del Rio Danubio; il dipartimento del Cauca si affaccia sulla costa pacifica della Colombia, ma di […]

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A 5 anni dagli Accordi di Pace fra il Governo Santos e la guerriglia storica delle Farc, il cammino per lasciarsi il conflitto alle spalle sembra ancora lungo e tortuoso, come il corso degli innumerevoli  corsi d’acqua del Delta del Rio Danubio; il dipartimento del Cauca si affaccia sulla costa pacifica della Colombia, ma di pacifico c’è solo la certezza del conflitto tra narcos. Tullio Togni ci ha inviato questi scatti che illustrano nel suo racconto un paesaggio di difficile composizione del cinquantennale conflitto ufficialmente concluso 5 anni fa dal premio Nobel, il presidente Juan Manuel Santos.


Jefferson commenta lo sparo isolato appena sentito poco lontano, dice che sicuramente non si tratta di un’esecuzione: se il colpo fosse stato diretto al cranio, lo avremmo sentito più soffice e diffuso; attutito. Usa le mani per spiegare qualcosa che va oltre il senso dell’udito, ma per chi non ci è abituato questo rimane un concetto astratto; aleggia nell’aria.

Costa colombiana sul Pacifico

 

Buenaventura, città portuale sulla costa pacifica colombiana, è un inferno a ritmo di salsa che a partire dalle sette di sera tace quasi del tutto: un coprifuoco informale proibisce ogni danza per le strade, nessuno osa togliere la scena alle bande locali che si spartiscono il controllo e il microtraffico; “los chotas” e “los espartanos” da un anno a questa parte si sono dichiarate guerra, ma rimangono parte della stessa struttura illegale detta “La Local”. Le principali occupazioni di quest’ultima sono il narcotraffico e l’estorsione, oltre a quella pratica terribile a cui la Colombia si è abituata nel corso degli anni di conflitto e che si definisce come “pulizia sociale”. La relazione storica è con le “Autodefensas Gaitanistas de Colombia – Agc”, anche dette “Clan del Golfo”, gruppo paramilitare presente a livello nazionale il cui massimo esponente, Dairo Antonio Úsuga David (alias Otoniel), è stato recentemente arrestato. Anche se molti pensano che si sia consegnato nel quadro di un accordo ben più ampio con il governo attuale; del resto, alle elezioni di maggio 2022 non manca molto tempo.

La riconfigurazione del conflitto

Se potesse scegliere, Jefferson non andrebbe mai a Buenaventura, rimarrebbe tutta la vita in uno dei numerosi villaggi di palafitte sparse che si estendono lungo i cosiddetti “Fiumi di Buenaventura”, rami d’acqua che dalla cordigliera occidentale attraversano la foresta del Chocó e del Valle del Cauca per poi sciogliersi nell’Oceano pacifico. Ma c’è una relazione stretta fra gli spari e la casa di legno lasciata vuota davanti alla quale è seduto: in tutta questa zona, la popolazione locale – principalmente afrocolombiana – vive sotto il fuoco incrociato dei gruppi armati presenti, in particolare le dissidenze delle Farc che non sono entrate nel Processo di Pace o vi si sono sottratte, l’Eln – Esercito di Liberazione Nazionale, i paramilitari delle Agc e lo stesso Esercito colombiano. È errato gettare tutto nello stesso calderone, ma nella confusione generale della riconfigurazione del conflitto nel post-Accordo, la stessa guerriglia ha perso la sua identità storica e varia molto a seconda della regione e del contesto in cui opera; nell’Occidente colombiano, punto d’incontro fra l’entroterra e il porto di Buenaventura da cui passa oltre il 60 per cento della merce del paese, quasi tutti i gruppi armati sembrano avere vocazione economica – la cocaina – più che ideologica, per cui anche se nella maggior parte dei casi l’esercito e le Agc si alleano informalmente per combattere la guerriglia, non è raro assistere a scontri armati fra le Farc e l’Eln.

Valle Cauca

Innumerevoli rivoli d’acqua sulla costa colombiana del Pacifico e qualche drappo di rivendicazione territoriale (© – Red de Hermandad y Solidaridad con Colombia)

La riconfigurazione del territorio

Nel conglomerato di villaggi in cui vive Jefferson detta legge la Colonna Mobile Jaime Martinez, dissidenza delle Farc-Ep riunita nel “Comando Coordinador de Occidente”; lo dimostrano i cartelloni che si affacciano sul fiume o la stessa delegazione armata che si presenta: ragazzi sui vent’anni vestiti in civile se non fosse per il giubbotto verde militare, le armi e le munizioni al collo. Ma il controllo territoriale va oltre i fucili e gli spari: è fatto di ordini e restrizioni con mine antiuomo ai margini dei villaggi per limitare la mobilità della popolazione civile e le incursioni dei gruppi armati rivali, è il reclutamento forzato e le isolate esecuzioni extragiudiziali. È quanto successo alla fine di ottobre nel villaggio accanto, quando un membro del consiglio comunitario è stato assassinato perché sospettato di essere un informatore dell’esercito colombiano, dopo che i media avevano strumentalizzato alcune sue dichiarazioni rispetto al conflitto armato nella regione e lo avevano di fatto esposto a un alto rischio. È lo sparo attutito a cui si riferisce Jefferson, è la complessità del vivere in un contesto intricato e precario, in cui chi oggi è costretto a offrire un pranzo a un gruppo armato, domani viene ucciso dall’altro per aver collaborato con il nemico, oppure è perseguito dalla magistratura per aver dialogato con attori illegali presenti nel territorio. Lo stato in tutto questo si limita alla presenza militare, con incursioni frequenti, scontri armati ad alto impatto simbolico e ulteriori danni per le popolazioni locali. Queste ultime, organizzate nei consigli comunitari, denunciano la stessa convivenza fra stato e gruppi armati, chiedono che si rispetti la Legge 70 del 1993 che riconosce le comunità afrocolombiane come gruppo etnico con diritti sul territorio e autonomia di governo, rivendicano garanzie di sicurezza, educazione e sanità in tutta la zona della “Buenaventura rurale”: a proposito, nessun piano di vaccinazione per il Covid è stato ancora previsto qui. Alla guerriglia e in particolare alle dissidenze delle Farc, invece, chiedono semplicemente coerenza. In generale, per come si vive oggi, dicono che si stava meglio prima.

Villaggi su palafitte nella Valle del Cauca (© – Red de Hermandad y Solidaridad con Colombia)

Gli accordi di pace

A 5 anni dalla convulsa firma degli Accordi di Pace del 2016 fra il governo Santos (2010-2018) e le Farc, la Colombia vive una situazione paradossale a cui i numeri fanno da cornice: 299 ex guerriglieri e 1270 leader sociali assassinati, 500 organizzazioni della società civile vittime di minacce, 250.000 persone costrette all’esodo forzato. Numeri importanti che evidenziano una tragica realtà.

La terra rimane a tutti gli effetti il motore del conflitto, lo stato non si è impegnato a restituirla né a redistribuirla, ha abbandonato molti territori precedentemente controllati dalle Farc dando il via libera all’entrata di nuovi gruppi armati. Quando ha investito, lo ha fatto per generare monocolture per l’esportazione o piani di esplorazione per soddisfare gli interessi di multinazionali straniere anziché quelli delle comunità indigene e contadine che più di tutti hanno sofferto. E quanto alla difesa dell’ambiente, benché nella recente Cop26 il presidente Duque abbia dichiarato di essere disposto a difendere gli ecosistemi del paese, solo nel 2020 sono stati registrati oltre 65 omicidi contro attivisti ambientalisti. Per non parlare del processo di sostituzione delle coltivazioni illegali a suon di glifosato e di assenza di alternative valide alla coca.

Cauca indigena, ottobre 2020

Le poche prospettive per la popolazione smobilitata e gli omicidi di ex guerriglieri e attivisti sociali, sono l’altro grande cruccio del bilancio a 5 anni dagli Accordi di Pace, poiché dimostrano che lo spazio per le nuove lotte sociali e l’esercizio delle attività politiche e pubbliche, continuano a costare vite umane. A ciò si aggiunge l’altissimo livello di impunità per chi commette questi crimini e chi li ordina, un fenomeno messo in relazione con la corruzione della classe politica e gli attacchi della destra uribista al sistema di giustizia transizionale (Jep) nato nel 2016.

La Colombia oggi

Oltre a Cali, epicentro del “Paro Nacional”, Buenaventura è destinazione obbligata e recipiente delle popolazioni sfollate di tutta la regione del Pacifico colombiano. Lo scorso agosto è occorso a 1600 persone della zona del “Litoral San Juan”, vittime dei bombardamenti dell’esercito colombiano contro l’Eln, mentre negli ultimi giorni è toccato ad altre centinaia di persone appartenenti alle comunità indigene e afrocolombiane dei “Fiumi di Buenaventura”. Una volta in città, la loro prospettiva è quella di cercare di sopravvivere in un modo o nell’altro nei quartieri popolari, alla mercé delle bande locali e di quel ciclo di violenza che sembra non finire mai.

Da qualche parte a Buenaventura si nasconde anche Santiago, giovanissimo coordinatore delle brigate mediche a Cali che durante i mesi del “Paro Nacional” offrivano i primi ausili ai manifestanti vittime della violenza della polizia. Come successo a molti altri, una volta ristabilitosi l’“ordine sociale” gli sono cominciate a piovere addosso minacce di morte da parte di gruppi non identificati; la pressione su di lui è cresciuta al punto tale che, credendosi perduto, ha voluto farla finita. Ma oggi è ancora vivo, nascosto e protetto da una piccola cerchia di persone di fiducia. Lo stesso, purtroppo, non si può dire di suo fratello: vittima della vendetta trasversale, 10 giorni fa è stato fatto sparire.

Vecchia copia della rivista “Semana” uscita prima che venisse cooptata nella galassia uribista, asservendosi al potere da posizioni di denuncia come queste.

La Colombia del post-Accordo fra Governo e Farc non ha raggiunto una reale fase postbellica; quest’ultima si è semplicemente adattata e rimodellata al presente, forse a causa di alcune debolezze strutturali come la non messa in questione del sistema economico e di “sicurezza nazionale”, oppure il fatto che a vederlo ora, l’accordo appare come un’intesa esclusiva fra le alte sfere di due mondi opposti che hanno commesso lo stesso errore: dimenticarsi delle loro basi.

A circa sei mesi dalle elezioni presidenziali di maggio 2022, è difficile immaginare quale sarà il destino della pace in Colombia.

Un cielo pieno di nubi (© – Red de Hermandad y Solidaridad con Colombia)

 

 

 

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Rimangono pronipoti di schiavi deportati nel Nuovo Mondo? https://ogzero.org/rimangono-pronipoti-di-schiavi-deportati-in-latinamerica/ Fri, 03 Dec 2021 18:42:18 +0000 https://ogzero.org/?p=5497 Se per le popolazioni indigene parliamo di lotta per la sopravvivenza, nel caso delle comunità afrodiscendenti si aggiunge l’elemento di insorgenza e ribellione che ha caratterizzato il lungo cammino per la conquista del riconoscimento come esseri umani prima e come attori sociali e politici poi. La subordinazione e marginalizzazione dei discendenti delle masse di persone […]

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Se per le popolazioni indigene parliamo di lotta per la sopravvivenza, nel caso delle comunità afrodiscendenti si aggiunge l’elemento di insorgenza e ribellione che ha caratterizzato il lungo cammino per la conquista del riconoscimento come esseri umani prima e come attori sociali e politici poi.

La subordinazione e marginalizzazione dei discendenti delle masse di persone africane deportate durante lo schiavismo è rimasto sistema in tutti gli stati in America latina e Caraibi. In questo articolo il quadro di riferimento storico, geografico e culturale quando si parla di America latina e Caraibi comprende il gruppo di paesi considerato dalla Comunidad de Estados Latinoamericanos y Caribeños – Celac. I paesi membri della Celac sono 33: Antigua e Barbuda, Argentina, Bahamas, Barbados, Belize, Bolivia, Brasile, Colombia, Costa Rica, Cuba, Cile, Dominica, Ecuador, El Salvador, Grenada, Guatemala, Guyana, Haiti, Honduras, Giamaica, Messico, Nicaragua, Panama, Paraguay, Perù, Repubblica Dominicana, Saint Kitts e Nevis, Saint Vincent e Grenadine, Santa Lucia, Suriname, Trinidad e Tobago, Uruguay e Venezuela


«La popolazione afrodiscendente dell’America latina e dei Caraibi è composta principalmente da discendenti di popoli africani ridotti in schiavitù durante la tratta degli schiavi operata nella regione per quasi 400 anni. Sebbene si tratti di gruppi umani diversi, risultanti dal processo di schiavitù e dalla riproduzione delle disuguaglianze consolidate a partire dalla creazione dei nuovi stati della regione, le popolazioni afrodiscendenti latinoamericane soffrono senza distinzione il razzismo e la discriminazione strutturale. Nonostante il contesto avverso, gli afrodiscendenti hanno resistito e combattuto in modo permanente, riuscendo a posizionare le loro rivendicazioni storiche nelle agende internazionali, regionali e nazionali, principalmente nel secolo attuale. Uno dei corollari di questo processo è il Decennio Internazionale per gli afrodiscendenti istituito dalle Nazioni Unite per il periodo 2015-2024, basato su tre pilastri: riconoscimento, giustizia e sviluppo».

Cepal, 2017

Una persona su quattro in America Latina e nei Caraibi si riconosce come afrodiscendente ma, nonostante ciò, questo gruppo etnico è sicuramente la minoranza più invisibile della regione. Lo certifica tra gli altri, la Banca Mondiale, che in un report del 2018 contabilizza in 133 milioni gli appartenenti alla comunità afrodiscendente presenti nella regione latinoamericana. Sono il Brasile, il Venezuela, la Colombia, Cuba, il Messico e l’Ecuador a concentrare la maggior parte della popolazione afrodiscendente ma, anche in tutto il resto della regione, la presenza dei discendenti di coloro che furono portati in catene nel Nuovo Mondo, è parte dell’eredità storica e culturale nazionale.

Ascolta “People on the Move from Mesoamerica”.

 

Resistere per esistere

Anacaona è stata l’ultima Principessa dei Caraibi e resistente del popolo Taino. Morì nel 1503 a soli 29 anni, dopo una lunga lotta contro il dominio delle flotte spagnole che avevano saccheggiato e messo in schiavitù l’intera popolazione Taino. Condannata a morte, le fu proposto di aver salva la vita se si fosse offerta come concubina in un galeone spagnolo, Anacaona rifiutò e pertanto fu impiccata senza pietà.

Quella delle persone afrodiscendenti con l’America latina è una relazione carnale, costruita sui loro corpi – e con i loro corpi, templi di resistenza immolati alla causa della libertà. Se per le popolazioni indigene parliamo di lotta per la sopravvivenza, nel caso delle comunità afrodiscendenti si aggiunge l’elemento di insorgenza e ribellione che ha caratterizzato il lungo cammino per la conquista del riconoscimento come esseri umani prima e come attori sociali e politici poi.

La tratta degli schiavi in America Latina e nei Caraibi ebbe inizio per sopperire a un massacro perpetrato dai conquistadores nei confronti delle popolazioni indigene. I primi a soccombere di fronte al massivo sfruttamento dei nativi da parte dei nuovi arrivati furono i due popoli indigeni taino e caribe – da cui deriva il nome di Caraibi – e il loro destino si trova ben descritto nel volume di Sebastián Robiou Lamarche Taínos y caribes: Las culturas aborígenes antillanas (Editorial Punto y Coma, 2003). Le Antille spagnole, nome attribuito alle isole dell’arcipelago delle Antille facenti parte dell’impero spagnolo (dal 1492 al 1898) si trasformano fin da subito in una fonte di grande ricchezza per la Spagna e più tardi anche per altre potenze europee.

Durante tutto il periodo della colonia l’espansione capitalista guidata dalle politiche e dagli interessi delle metropoli del vecchio continente si è basata su una crescente e pressante richiesta di mano d’opera da sfruttare per le attività agricole, l’allevamento, i lavori di costruzione, di estrazione di risorse naturali e anche per le guerre. Come già riportato per il caso dei Taino e dei Caribe, la popolazione indigena fu falcidiata in pochi anni dagli incontri/scontri con i colonizzatori a causa della riduzione in schiavitù, dalle malattie importate dal Vecchio Continente e dalle guerre. Il collasso demografico conseguente a questa situazione portò le potenze europee a concentrare la loro attenzione sull’Africa, nello specifico sul Golfo di Guinea, conosciuto tra il XVII e XIX secolo come la Costa degli Schiavi.

Ile de Goré

Una simbolica porta sull’isola di Goré, da dove le imbarcazioni schiaviste salpavano verso il continente americano, trasportando nelle stive un carico di schiavi catturati come manodopera per i campi oltreatlantico (foto scattata nel 1998).

La struttura gerarchica, classista e razzista dell’epoca coloniale determinò fin da subito una posizione di estrema subordinazione della popolazione africana in America Latina e nei Caraibi, posizione assimilabile a quelle delle popolazioni indigene in termini di povertà materiale ed esclusione sociale e politica. Bisogna sottolineare che questa subordinazione non ha avuto termine con la liberazione delle persone afrodiscendenti dalla condizione di schiavi, ma estende la sua ombra fino ai giorni nostri e si manifesta attraverso il razzismo strutturale che relega queste comunità in una situazione di maggiore tasso di povertà, minor accesso all’educazione, minor accesso ai centri di salute, minore accesso al lavoro degno ed esclusione dagli spazi di decisione politica. A questo si aggiunge un elemento di negazione storica della presenza di persone afrodiscendenti nella regione e della loro partecipazione tanto nei processi di liberazione dal potere coloniale così come nello sviluppo sociale e culturale delle nazioni latinoamericane (Cepal, 2017).

Cosa identifica il termine afrodiscendente ?

«Lo studio della popolazione afrodiscendente presenta numerose sfide, a cominciare dalla mancanza di consenso su chi è e chi non è afrodiscendente, anche all’interno dei contesti nazionali. Il termine è stato adottato per la prima volta da organizzazioni regionali di discendenza afro all’inizio degli anni 2000. La parola descrive persone unite da un’ascendenza comune (ma che vivono in condizioni abbastanza dissimili), che vanno dalle comunità afroindigene, come i garífuna del Centro America, fino a enormi segmenti della società maggioritaria, come i pardos del Brasile. Negro, moreno, pardo, preto, zambo e creole, tra i tanti altri, sono termini molto più vicini alle nozioni di razza e relazioni razziali dei latinoamericani. Comunemente, queste categorie hanno stigmi e pregiudizi associati, come risultato di una lunga storia di discriminazione e razzismo. Nella maggior parte dei paesi, l’adozione del termine afrodiscendente è ancora parziale. In Venezuela, la maggioranza della popolazione morena (di razza mista) spesso rifiuta il termine e le sue implicazioni, mentre nella Repubblica Dominicana la maggioranza degli afrodiscendenti di razza mista preferisce identificarsi come indigeni».

(Banca Mondiale, 2018)

Le difficoltà per identificare, mappare e censire le persone di ascendenza africana nei paesi latinoamericani sono legate a doppio filo con la negazione della discriminazione razziale da parte degli stessi, oltre allo storico tentativo di rendere invisibile la pluralità etnica nella regione. Questa volontaria cecità sociale è figlia dell’opera di conseguimento dell’immagine europea di sviluppo e modernità, chimera vissuta dai governi liberali dell’Ottocento e dell’inizio del Novecento in America latina. In questo schema di emulazione politica e sociale, le popolazioni indigene e gli afrodiscendenti erano visti e interpretati come elementi di disturbo, di arretratezza e di un passato da “pulire” con un’opera di blanqueamiento – lo “sbiancamento razziale”, ovvero quella pratica sociale, politica ed economica utilizzata in molti paesi postcoloniali per raggiungere un supposto ideale di bianchezza. Il termine si origina in America latina e può essere considerato sia in senso simbolico che biologico. Simbolicamente, lo sbiancamento rappresenta un’ideologia nata dalle eredità del colonialismo europeo, descritto dalla teoria della colonialità del potere di Aníbal Quijano, che si rivolge al dominio bianco nelle gerarchie sociali. Biologicamente, lo sbiancamento è il processo realizzato sposando un individuo dalla pelle chiara per produrre una prole dalla pelle non più scura.

Per raggiungere questo scopo venne favorita, da numerosi paesi latinoamericani (basti citare il Venezuela come esempio esplicativo), una massiccia immigrazione di persone dall’Europa: regione vista come culla della civiltà, Mater culturae e fornitrice di intellettualità, creatività, professionalità e soprattutto di pelle bianca. Successivamente, durante il XX secolo e con l’affermazione di identità nazionali fluide e plurali, si diffuse in America Latina la falsa percezione di aver raggiunto una sorta di giustizia sociale multietnica. In quel contesto, l’identificazione di una parte della popolazione come afrodiscendente venne interpretata come un elemento di fomento al razzismo e di conseguenza nessun dato su questa popolazione appariva nelle statistiche latinoamericane. A testimonianza, la Banca Mondiale ci ricorda nel suo report che negli anni Sessanta del XX secolo, solo il Brasile e Cuba includevano delle variabili etniche nei loro censimenti.

È dunque con questa completa mancanza di conoscenza, un vero e proprio abisso statistico a livello demografico e socioeconomico, che i paesi della regione latinoamericana hanno iniziato il terzo millennio. La domanda di chi è o non è afrodiscendente è quindi relativamente nuova e ha acquisito notevole importanza con l’introduzione delle varianti “razziali” nei censimenti nazionali a partire dagli anni 2000. L’autodeterminazione come afrodiscendenti in America latina ha poi ricoperto un ruolo strategico a livello politico, economico e sociale con l’introduzione di un quadro normativo di protezione dei diritti di questa popolazione. In questo scenario, però, si è vista in alcuni casi una perversione legale che ha comportato una nuova forma di discriminazione:

«Con la creazione di quote per gli afrodiscendenti nel mercato del lavoro o nel sistema educativo, per esempio, le persone che sono state escluse nel passato per non essere sufficientemente bianche ora corrono il rischio di essere escluse per non essere sufficientemente nere» (Banca Mondiale, 2018)

Dove vivono le persone afrodiscendenti in America Latina e nei Caraibi

I dati raccolti dalla Banca Mondiale su un totale di 16 paesi della regione latinoamericana parlano di 133 milioni di persone afrodiscendenti, circa il 24% del totale della popolazione. Il Brasile è sicuramente il paese che da solo pesa in modo determinante sulla bilancia demografica, con una popolazione afrodiscendente nel 2015, stimata in 105 milioni di persone. Il Brasile insieme al Venezuela, concentrava all’epoca il 91% della popolazione afrodiscendente della regione e un altro 7% era distribuito tra Colombia, Cuba, Ecuador e Messico. Si evince dunque che le tre aree di concentrazione della popolazione oggetto di studio sono rappresentate dal Brasile, dai Caraibi e dalla costa dell’Oceano Pacifico. Si tratta di una forte eterogeneità determinata dai contesti paese, dalle zone geografiche di residenza e dalla presenza o meno all’interno delle statistiche e dei censimenti nazionali. Ciononostante, la maggior parte delle persone afrodiscendenti della regione condividono non solo le radici africane ma anche una lunga storia di migrazione forzata, oppressione, sfruttamento ed esclusione.

Sono donne, sono afrodiscendenti e stanno facendo la Storia

Ascolta “The importance of being afro”.

 

Il caso più emblematico di questa fine 2021 è sicuramente quello della Repubblica della Barbados, divenuta tale il 30 novembre 2021 con la definitiva separazione dalla corona britannica e l’ingresso nel Commonwealth come repubblica indipendente. A sancire questa transizione storica la nomina del primo presidente dell’isola caraibica, una donna afrodiscendente: Sandra Mason. Un avvenimento dalla enorme simbologia storica, politica, etnica e di rivalsa identitaria. Basti pensare che proprio in un altro territorio inglese caraibico (le Bermudas), vide la luce nel febbraio del 1831, un’opera letteraria unica e che fu determinante per l’abolizione della schiavitù. Si tratta di The history of Mary Prince, a west indian slave written by herselfes, la prima autobiografia scritta da una donna nera schiava originaria delle Bermudas e di nome Mary Prince. Il libro ebbe un impatto enorme non solo in Inghilterra e fu un elemento fondamentale per la promozione dell’abolizione della schiavitù nelle colonie britanniche avvenuta nel 1833 con lo Slavery Abolition Act.

Un documento considerato come un referente della letteratura nera africana delle colonie e che valse a Mary Prince il riconoscimento come una vera e propria eroina delle Bermudas. Il 26 ottobre 2007, per la ricorrenza del 200° anniversario dell’abolizione della tratta degli schiavi (Slave Trade Act del l807) , nella casa in cui Mary Prince visse a Londra nel 1829, venne scoperta una targa in suo onore. La targa recita: “Mary Prince, 1788-1833, la prima donna africana a pubblicare le sue memorie di schiavitù visse in questa casa nel 1829”.

Passato e presente che si intrecciano dunque, in un cammino dove la geografia della resistenza chiude circoli a distanza di generazioni, traccia linee leggibili solo se osserviamo da una certa distanza, a volte di secoli, il quadro originale.

Sandra Mason è però solo l’ultimo tassello di un movimento eterogeneo e trasversale, che vede le donne afrodiscendenti della regione giocare un ruolo centrale nella riscoperta, rivendicazione e posizionamento nelle agende nazionali e internazionali del peso identitario della loro comunità. Da diversi campi d’azione donne come Gessica Geneus,

La regista haitiana di Port-au-Prince ha fatto sentire a Cannes il valore della lingua creola con il suo film Freda, sul coraggio delle donne del suo paese. Film inserito anche nella sezione lungometraggi di finzione del Fespaco di Ouagadougou in Burkina Faso.

la cantante Rihanna; Robyn Rihanna Fenty, nata a Bridgetown, è stata dichiarata “eroina nazionale” di Barbados proprio il 30 novembre giorno della proclamazione della Repubblica delle Barbados per aver, secondo le parole della primo ministro Mia Mottley: “l’immaginazione nel mondo attraverso la ricerca dell’eccellenza con la sua creatività, la sua disciplina e, soprattutto, il suo straordinario impegno per la sua terra”.

 

 

 

la compianta Marielle Franco, Politica e attivista afrobrasiliana assassinata il 14 marzo 2018 da sgherri coperti da organismi della polizia.

 

Shirley Campbell Barr, la poetessa afrodiscente del Costa Rica, autrice della poesía “rotundamente negra”.

 

l’attivista per la difesa della natura e politica afrocolombiana Francia Elena Márquez Mina

gli ori olimpici di Tokyo 2020 Neisi Dajomes (Ecuador), Jasmine Camacho-Quinn (Porto Rico), Elaine Thompson-Herah (Giamaica), Yulimar Rojas (Venezuela), l’attivista e ballerina afrobrasiliana Tuany Nascimento tra le altre centinaia, continuano a costruire una narrazione alternativa che passa per un epistemologia nuova, inclusiva e sgombra della colonialità del potere.

La colonialità del potere è un concetto che mette in relazione le pratiche e le eredità del colonialismo europeo negli ordini sociali e nelle forme di conoscenza, avanzate negli studi postcoloniali, sulla decolonialità e negli studi subalterni latinoamericani, in particolare da Anibal Quijano. Identifica e descrive l’eredità vivente del colonialismo nelle società contemporanee sotto forma di discriminazione sociale che è sopravvissuta al colonialismo formale e si è integrata negli ordini sociali successivi. Il concetto identifica gli ordini gerarchici razziali, politici e sociali imposti dal colonialismo europeo in America Latina che prescriveva valore a determinati popoli/società mentre ne sminuiva o invisilibizzava altri.

 

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Il Pakistan, l’Occidente e la “patata bollente” afgana https://ogzero.org/l-occidente-affida-al-pakistan-le-vicende-afgane/ Sun, 05 Sep 2021 17:09:51 +0000 https://ogzero.org/?p=4829 Il 4 settembre le agenzie battono la notizia dell’arrivo a Kabul di Faiz Hammed, il capo dei servizi di Islamabad, in veste di consulente dei Talebani per stroncare la resistenza del Panjshir; questa apparizione in pieno giorno dovrebbe aver chiarito definitivamente l’apporto pakistano alle vicende afgane: l’Occidente affida al Pakistan il passaggio di consegne nel […]

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Il 4 settembre le agenzie battono la notizia dell’arrivo a Kabul di Faiz Hammed, il capo dei servizi di Islamabad, in veste di consulente dei Talebani per stroncare la resistenza del Panjshir; questa apparizione in pieno giorno dovrebbe aver chiarito definitivamente l’apporto pakistano alle vicende afgane: l’Occidente affida al Pakistan il passaggio di consegne nel controllo militare del paese. Si tratta di uno degli aspetti meno analizzati tra quelli che coinvolgono l’area a seguito del ribaltamento afgano, eppure è l’elemento più significativo e condizionante della vicenda, come si rileva dalla lettura di questo contributo scritto da Beniamino Natale, tra i più assidui frequentatori della storia e cultura pakistana. 


Commentando la disastrosa ritirata delle truppe americane dall’Afghanistan, il primo ministro pakistano Imran Khan non ha nascosto la sua gioia, affermando che «i Taliban hanno spezzato le catene della schiavitù». Gran parte del mondo politico e della popolazione del Pakistan sono d’accordo con lui. Nessuna voce si è fatta sentire per contraddire la “narrazione” che da alcuni decenni l’establishment pakistano diffonde sulla realtà del terrorismo islamico.

L’offensiva contro la stampa

Forse anche perché in Pakistan è in corso un’offensiva che non ha precedenti contro la stampa e più in generale contro le opinioni non ortodosse. Secondo l’organizzazione indipendente Reporters sans frontières, «i media pakistani, che hanno una tradizione di grande vivacità, sono diventati un bersaglio prioritario per il “deep state”, un eufemismo che indica i militari e la loro principale organizzazione segreta, l’Inter Service Intelligence o ISI, e il forte controllo che esercitano sull’esecutivo».

L'Occidente affida al Pakistan

RSF aggiunge che gli attacchi contro media e giornalisti indipendenti si sono intensificati da quando Imran Khan è diventato primo ministro. Un recente, grave caso, è quello del reporter Asad Ali Toor, aggredito e picchiato nella sua abitazione da uomini mascherati che – secondo la testimonianza dello stesso Toor – si sono dichiarati agenti dell’ISI. Un altro giornalista che è stato minacciato di essere sbattuto in carcere, il popolare conduttore televisivo Hamid Mir, ha affermato in un un’intervista alla BBC che Imran Khan – un ex campione di cricket passato alla politica – «non è un primo ministro molto potente, non è in grado di aiutarmi».

Asad Ali Toor e Hamid Mir

La presa dei militari sui governi pakistani non è una novità. L’ esercito ha governato il paese direttamente dal 1958 al 1971, dal 1977 al 1988 e dal 1999 al 2008. Per tutto il resto della sua vita indipendente – il Pakistan è nato nel 1947 dalla dissoluzione dell’Impero Britannico – i militari hanno esercitato un pesante controllo sui governi civili del paese.

Secondo la narrazione ufficiale il Pakistan stesso rappresenta l’islam “buono”, che comprende anche alcuni combattenti, mentre i “cattivi” terroristi sono sostenuti, se non addirittura “creati” dall’“Occidente”,

un termine che viene usato per indicare gli Usa e il loro alleati. I Taliban sono “buoni”: tutti i terroristi che combattono contro le forze di sicurezza indiane nel territorio conteso del Kashmir sono “buoni’. Osama bin Laden – lo “sceicco” saudita responsabile dei massacri dell’11 settembre 2001 negli Usa e di molti altri – potrebbe essere il miglior esempio di terrorista islamico “cattivo”. Però è stato trovato e ucciso dalle forze speciali americane in territorio pakistano, dove si trovava indisturbato probabilmente da anni. La leadership dei Taliban – quando ancora erano “cattivi” – ha sempre operato senza ostacoli dal territorio pakistano.

Una ambiguità ospitalità

Quello di bin Laden è forse l’ esempio più chiaro della profonda ambiguità con la quale il Pakistan gestisce da decenni gli estremisti musulmani, sia quelli nati nel paese che i loro “ospiti” provenienti da altri paesi. Vivono apertamente nel paese, gestiscono organizzazioni caritatevoli – valga per tutti l’esempio di Hafiz Saeed, leader sia della “caritatevole” Jamaat-ud-Dawa che del gruppo terrorista della Lashkar-e-Toiba – e portano avanti sostanzialmente indisturbati le loro attività terroristiche, principalmente contro l’India ma non solo.

L'Occidente affida al Pakistan

Ogni tanto uno di loro viene arrestato e in alcuni casi addirittura consegnato agli americani come nel caso di Khalid Sheik Mohammad, un associato di bin Laden che ha partecipato sia agli attentati dell’Undici Settembre che al rapimento e all’assassinio del giornalista americano Daniel Pearl. Intanto, gli altri continuano a fare il loro comodo.

La storia dei Taliban è una chiara dimostrazione di questa politica basata sulla doppiezza. Secondo uno dei loro mentori, il generale e per alcuni anni ministro della Difesa Nasirullah Babar, essi avrebbero «portato la pace dovunque sono andati».

Il termine taliban vuol dire “studenti” nella lingua pashto, diffusa nel Nordovest del Pakistan (il singolare è talib). Il movimento fu tenuto a battesimo dallo stesso Babar e dal leggendario capo dell’ISI durante il jihad contro gli invasori sovietici, Hamid Gul, nel 1994. Quelli che sarebbero diventati i Taliban erano in gran parte giovani profughi afgani che studiavano nelle madrasas, le scuole islamiche gestite in Pakistan da religiosi della scuola integralista di Deobandh (una località che oggi si trova in India). I giovani si unirono a un gruppo di afgani di etnia pashtun che stavano cercando di mettere fine all’anarchia che regnava in Afghanistan dal 1989. Quel gruppo era guidato da un ex mujaheddin, un combattente contro gli invasori sovietici, il mullah Mohammed Omar. Appoggiati e armati dall’esercito pakistano, i Taliban sbaragliarono le milizie dei signori della guerra che si battevano nel paese, assumendo il controllo di quasi tutto l’Afghanistan nel 1996.

Afghanistan pacificato: progetti visionari

Un Afghanistan pacificato, questa l’idea dei militari e dei politici pakistani, avrebbe reso possibili una serie di visionari ma poco realistici progetti di sviluppo, primo fra tutti quello della costruzione di una serie di oleodotti che avrebbero potuto portare gas e petrolio dalle repubbliche ex sovietiche ai porti sull’Oceano Indiano e da qui nel resto del mondo, evitando i passaggi obbligati dall’Iran o dalla Russia.

Quegli ambiziosi progetti non sono mai stati realizzati e, in vece loro, sono arrivati lo “sceicco” Osama, la “guerra all’America” e tutto quello che ne è seguito.

Il Pakistan, allora governato dal generale Perevz Musharraf, tollerò a malincuore che gli Usa usassero il suo territorio per attaccare gli studenti islamici.

Il Pakistan è nato come patria per i musulmani dell’Impero Britannico per volere dell’avvocato e politico Mohammad Ali Jinnah, il capo della Lega Musulmana, in contrasto con l’India secolare ma a maggioranza hindu del mahatma Gandhi e di Jawaharlal Nehru. A partire dalla prematura scomparsa di Jinnah, nel 1948, il Pakistan è stato dominato dai militari, tanto da far dire ad alcuni commentatori che si trattava non di un paese con un esercito ma di “un esercito con un paese”. Il principale obiettivo dei militari – e dei politici di tutti i partiti pakistani è da allora quello di “liberare”, cioè di conquistare, quella parte del territorio dell’ex regno del Kashmir rimasto sotto il controllo indiano.

La “profondità strategica”

Il secondo è quello di allargare il proprio territorio, un’istanza che nel “politichese” pakistano si chiama “raggiungimento della profondità strategica”. L’Afghanistan era un ovvio candidato per il conseguimento di quest’obiettivo e gli alleati “naturali” del Pakistan erano le pittoresche tribù di etnia pashtun che vivono tuttora a cavallo tra i due paesi dalle due parti della Durand Line. Questa “linea”, che è lunga 2670 chilometri e segna il confine provvisorio tra l’allora Impero Britannico e l’Afghanistan, fu creata nel 1893 con un trattato tra la Corona britannica e l’Emiro Abdur Rahman Khan, che allora governava il paese. Da parte britannica, l’accordo fu firmato dal generale Mortimer Durand.
I pashtun sono circa 25 milioni in Pakistan e circa 11 milioni in Afghanistan, dove sono la maggioranza della popolazione (in tutto 36-38 milioni di persone). Con il ritorno dei Taliban al potere a Kabul dopo il ritiro dell’“Occidente”, i militari pakistani sono più vicini che mai a raggiunge la “profondità strategica”. Però, attenzione: se è vero che i legami tra le tribù pashtun e l’establishment militare pakistano sono antichi e forti – lo stesso Nasirullah Babar era un pashtun, come molti altri ufficiali dell’esercito di Islamabad – è vero anche che esiste da sempre una tendenza analoga e inversa, cioè quella dei governi afghani a espandersi nel Nordovest del Pakistan inglobando le aree tribali abitate dai pashtun. Sempre viva tra le tribù della “frontiera di nordovest” è anche l’idea che punta alla creazione di un Pashtunistan indipendente.

L'Occidente affida al Pakistan

La linea non riconosciuta e le alleanze

Infatti la Durand Line non è mai stata riconosciuta come confine tra Afghanistan e Pakistan da nessun governo di Kabul, nemmeno da quello dei Taliban. Hamid Karzai – il primo presidente dell’Afghanistan dopo la sconfitta dei Taliban – ha affermato che il governo di Kabul «non riconoscerà mai» la Durand Line come confine tra i due paesi. Oggi Karzai è uno dei leader indipendenti candidati a entrare nel governo dei “nuovi” Taliban che si stanno insediando al potere.
Ha scritto il giornalista indiano Rahul Bedi: «Gli analisti della sicurezza anticipano una collaborazione tra i Taliban afghani – una volta che questi avranno preso il controllo completo del paese – e l’alleanza di 13 gruppi che comprende il Tehrik-e-Taliban (Ttp) che opera prevalentemente sulla frontiera tra Pakistan e Afghanistan, che lancerà la rivendicazione del Pashtunistan». Prosegue Bedi: «Essi [gli esperti, probabilmente esponenti dei servizi indiani], sostengono che gli attuali legami simbiotici, logistici e materiali tra l’ISI pakistano e i Taliban sono, nel migliore dei casi, dettati dalla reciproca convenienza; ma, se si considera la complessa storia della regione, fatta di inganni, tradimenti e compromessi è probabile che verranno superati dalle più vaste ambizioni del nazionalismo dell’etnia dei pashtun». O, almeno, questa è la direzione nella quale lavoreranno i servizi segreti indiani.

I Talebani, strumenti pakistani

I Taliban sono dunque considerati dai militari pakistani lo strumento per raggiungere l’agognata “profondità strategica”. Per il Pakistan, i milioni di profughi afghani che si riversarono sul suo territorio negli anni dell’invasione sovietica sono stati una manna: gli aiuti internazionali erano infatti consegnati a Islamabad. Ora sta giocando, con successo, la stessa carta. La cancelliera tedesca Angela Merkel, certamente la principale leader europea, ha sostenuto recentemente che bisogna aiutare economicamente il Pakistan in modo che si tenga in casa i profughi afghani, evitando che si riversino a migliaia in Europa.

L'Occidente affida al Pakistan

Tutto torna come “prima” dunque. Prima di Osama bin Laden e della “guerra al terrorismo”. La gestione della “patata bollente” afgana viene affidata dall’Occidente al Pakistan, nella speranza che non si ripetano i tragici sviluppi dell’inizio del secolo.

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Asean tra decimazione pandemica e decrescita tradizionalista https://ogzero.org/covid-golpe-birmano-e-repressione-thai-l-oriente-a-pezzi/ Wed, 01 Sep 2021 20:09:40 +0000 https://ogzero.org/?p=4769 Covid, golpe birmano, repressione thailandese: elementi di stravolgimento innescati per un cambio di rotta di difficile elaborazione per i criteri occidentali. Il Sudest asiatico va decifrato immergendosi in quel mondo altro e sfuggente ai parametri europei, però in grado di elaborare svolte che risultano incomprensibili per i farang, se non dopo che i processi si […]

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Covid, golpe birmano, repressione thailandese: elementi di stravolgimento innescati per un cambio di rotta di difficile elaborazione per i criteri occidentali. Il Sudest asiatico va decifrato immergendosi in quel mondo altro e sfuggente ai parametri europei, però in grado di elaborare svolte che risultano incomprensibili per i farang, se non dopo che i processi si sono ormai proiettati in una direzione inattesa per quanto linearmente coerente a quell’universo di riferimenti, ma di difficile interpretazione al di fuori di quelli, producendo svolte che estromettono gli elementi alieni alla comunità, che si ritrae nei valori tradizionali, forse per trovarvi nuova linfa in prospettiva futura, benché al momento appaia semplicemente reclinata in uno spirito conservatore e retrivo.

Solo una frequentazione ventennale dell’area come quella di Max Morello può cogliere gli elementi di affanno in cui si sta dibattendo innanzitutto la cultura del Sudest asiatico. E questo produce in lui un moto di delusione per l’implosione della sua fascinazione verso l’approccio filosofico delle società asiatiche che aveva imparato a frequentare, l’illusione di potersi lentamente avvicinare a interpretare quel mondo attraverso la conoscenza della filosofia che lo permea; ora sono quasi irriconoscibili nel loro travaglio… e l’inaudito è che questo forse consente di tornare a riconsiderare l’approccio della cultura occidentale, vista l’assenza di spunti progressivi per uscire da una crisi non solo economica e sanitaria da parte di una filosofia che invece risultava affascinante perché appariva capace di proposte globali e non identitarie.


Il grotesque della danse macabre

«Questa mattina è morto il padre di Cho. Soffocato. Non si trova più l’ossigeno… I militari se lo prendono per loro e i loro protetti. Negli ospedali pubblici c’è l’esercito che decide chi ha diritto al respiratore…».

Così mi ha scritto un amico che per fuggire dal caos e dal virus dilagante in Birmania ha abbandonato la casa che si era costruito a Yangon e si è trasferito in un condominio a Bangkok con il figlio e la moglie Cho.

«Non voglio fare il cinico ma mi sembra inutile fare il conto dei morti in Birmania. Qui si moriva comunque per qualsiasi altra malattia. La differenza è che adesso si muore soffocati»,

mi dice un altro amico rimasto in quel paese. Lui ha cercato di evitare il contagio, le manifestazioni e i combattimenti continuando a spostarsi tra i villaggi più isolati.

La Birmania, Yangon in particolare, è divenuta la scena di una tremenda rappresentazione pulp, splatter, horror, da teatro dell’assurdo e della crudeltà. I paragoni con generi o forme di spettacolo, di patologie psichiche reali o diaboliche, di miti e superstizioni non sono un espediente letterario. Servono a rappresentare una realtà che diviene sempre più difficile da credere, immaginare e descrivere se non si ricorre alla dimensione fantastica, a un vero e proprio lessico dell’orrore che si ritrova nei titoli, negli articoli, nei post, nei tweet.

A fine agosto le vittime della repressione militare sono oltre 1000. Circa 15.000 i morti per Covid. Entrambe le cifre, probabilmente, errate per difetto e sicuramente destinate ad aumentare. Soprattutto la seconda. In alcune zone metà della popolazione potrebbe essere già infetta. A Yangon i morti superano i 2000 al giorno.

Catastrofe umanitaria multidimensionale

«Stiamo morendo tutti. Il Myanmar è sull’orlo della decimazione»,

mi dice un altro amico ancora stremato dal contagio. I cadaveri vengono bruciati anche negli inceneritori, sepolti in fosse comuni o addirittura in discariche. Il Covid si diffonde ulteriormente tra i volontari che li trasportano. Molti muoiono in casa, soffocati, aspettando l’ossigeno che non arriva. L’esercito si riserva il controllo dell’ossigeno le cui scorte vanno esaurendosi.

La perfetta rappresentazione, anche semantica, di questa situazione sta tutta nella dichiarazione di Michelle Bachelet, alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani. Riferendosi alla situazione in Myanmar ha definito una crisi che sta precipitando in una “catastrofe umanitaria multidimensionale”. Espressione che ingloba l’angoscia, l’orrore, la miseria, la violenza del covid e del golpe.

Solo il 40% del già ridotto sistema sanitario birmano è operativo, secondo le stime più ottimistiche solo il 6% di una popolazione di 54 milioni è vaccinato. Molti medici vengono arrestati per aver violato il coprifuoco per visitare qualcuno o portargli ossigeno. Altri medici e infermiere finiscono in prigione per essersi rifiutati di lavorare negli ospedali dei militari. Migliaia di persone si ammalano e muoiono di Covid in carcere. I dirigenti anziani della National League for Democracy sono letteralmente decimati. Si estingue così una generazione sopravvissuta a decenni di lotte e persecuzioni. Insomma, il Covid diviene il miglior mezzo di controllo e repressione: sta stremando l’opposizione, è perfetta scusa alle morti per tortura. Ma soprattutto il Covid riduce la popolazione in uno stato di attonita impotenza, esacerbando diseguaglianze già abissali, condannando i più poveri, il cui numero è destinato a raddoppiare, a soffrire senza possibilità di reazione. Intanto è più che triplicato il numero dei rifugiati interni, uomini donne e bambini che hanno abbandonato i loro villaggi per sfuggire ai conflitti tra esercito e milizie etniche che si sono riaccesi in tutta la Birmania.

È una tempesta perfetta…

in cui non sembra aprirsi alcuno spiraglio. Le milizie sono vittime del “dilemma del prigioniero”: pur sapendo che l’unica possibilità di reale opposizione sta in un’alleanza, non riescono a unirsi per reciproca diffidenza e per l’incapacità di valutare rischi e benefici. Il People’s Defence Force (Pdf), braccio armato del National Unity Government (Nug), a sua volta, sembra paralizzato dal mancato appoggio delle milizie e dalla difficoltà di convertirsi alla lotta armata da parte di un’opposizione che, sotto la guida di Aung San Suu Kyi aveva fatto della non-violenza la sua forza. In molti casi, quindi, i gruppi di resistenza sembrano mossi dalla disperazione, pronti a un sacrificio rituale. Com’è accaduto ai giovani che si sono gettati da una finestra per evitare la cattura e la tortura.

A poco a poco, tuttavia, sembra che alcuni gruppi stiano evolvendo verso forme più organizzate e sofisticate di guerriglia, come l’agguato in cui sono stati uccisi cinque poliziotti proprio come rappresaglia per il suicidio degli studenti.

Sul fronte opposto la giunta militare non sembra in grado di vincere una guerra civile che non aveva previsto. Le forze armate, Tatmadaw, sono decimate anch’esse dal Covid, forse perché ai militari è stato somministrato a loro insaputa il Covaxin, un vaccino indiano ancora non approvato. Secondo fonti dell’opposizione, inoltre, sarebbero già più di 2000 i disertori – soprattutto soldati semplici, sottufficiali e poliziotti – che si sono uniti al Civil Disobedience Movement (Cdm).

In questo scenario da incubo, il programma politico presentato dal generale Min Aung Hlaing, artefice del golpe e autoproclamato primo ministro, appare come un “manifesto di pazzia”, paragonabile a quello dell’Angkar, l’organizzazione dei khmer rossi di Pol Pot, secondo cui chiunque si opponga all’organizzazione stessa è un nemico da sterminare. Anche se ciò significa far strage del proprio popolo. In questo delirio il nemico diviene l’incarnazione del male: Aung San Suu Kyi e la sua Nld sono addirittura accusati di aver violato il dharma, la legge buddhista di cui i militari si ergono a protettori e difensori. Una missione sacra che, secondo i monaci più fanatici, è stata premiata dalla divinità che ha fatto guarire dal Covid l’ultraottantenne generale Than Shwe, dittatore della Birmania dal 1992 al 2011, autore di una sanguinosa repressione con migliaia di dissidenti torturati e imprigionati. Il fatto che Than Shwe e sua moglie abbiano potuto godere di cure precluse al resto della popolazione è anch’esso da considerare come il segno di un karma miracoloso. Al contrario la Signora sarebbe stata punita per la sua incapacità nell’affrontare la crisi sanitaria, nel trovare un accordo con i diversi gruppi etnici e nel mantenere il sostegno dell’Occidente in seguito alla crisi determinata dalle violenze sui rohingya.

Accusa, quest’ultima, che appare grottesca pensando alle responsabilità di buona parte dell’intelligenza occidentale che ha abbandonato Aung San Suu Kyi – e con lei i rohingya – al proprio destino, accusandola di crimini contro l’umanità e genocidio per non essersi opposta con sufficiente forza alla persecuzione compiuta dai militari. È stato proprio l’Occidente, dunque, accecato da una hybris, a creare le condizioni per il golpe.

… per un’epidemia golpista

La situazione in Myanmar sta generando un effetto contagio in tutta l’area. Oltre a ridefinirsi come stato paria, è condannato a essere anche untore. E non solo per le decine di migliaia di persone in fuga. È come se tutti gli orrori della ex Birmania si replicassero o venissero alla luce nelle altre nazioni dell’Asean: la scarsità di ossigeno e di vaccini, il mistero sul numero di morti o contagiati, i cadaveri bruciati nei crematori dei monasteri o sepolti in fosse comuni, la miseria che rende un tampone un lusso (nelle Filippine, per esempio, costa otto volte il minimo salario giornaliero), la rinascita di pratiche magiche in sostituzione di cure mediche inesistenti, l’acuirsi di tensioni etniche, religiose e razziali in cui ognuno cerca nell’altro un capro espiatorio.

Inizialmente sembrava che la resistenza al virus dei popoli del Sudest asiatico fosse l’ennesima prova di una cultura che aveva gli anticorpi per contrastarlo. Per alcuni ricercatori, come l’italiano Antonio Bertoletti dell’Università di Singapore, poteva essere così, ma solo perché si era creata una sorta d’immunità dovuta all’esposizione a virus come la Sars.

Poi, nell’aprile scorso, è arrivata la variante Delta. I contagi e i decessi sono aumentati in modo esponenziale con una crescita superiore a ogni altra parte del mondo. Il Sudest asiatico e i suoi 655 milioni di abitanti sono divenuti l’ultimo hotspot della pandemia, rivelando i malfunzionamenti strutturali della regione: l’autoritarismo o la democrazia limitata, la corruzione e la burocrazia che l’alimenta, le diseguaglianze, il potere delle élite e delle oligarchie, l’assenza di un adeguato sistema di assistenza sociale e sanitaria.

La società disfunzionale e la trasmissione sessuale del virus

La Thailandia è un esempio perfetto di questa società disfunzionale: è stata modello per il golpe birmano e quindi vittima della stessa contaminazione tra Covid e politica, sia pure in forma meno virulenta. Dall’inizio della pandemia sino ad aprile 2021, i casi di Covid erano stati circa 28.000, con 98 morti. Da aprile a fine agosto i contagiati sono circa 400.000, i morti oltre 11.000.

L’epicentro di questa nuova ondata sono stati quei locali, come il Krystal Exclusive Club o l’Emerald, frequentati dai cosiddetti Vvip. Non semplicemente vip, bensì very very important person, che in quei locali incontrano ragazze che non sono semplici escort bensì aspiranti mia noi, moglie minore, amanti ufficiali, cui pagare l’affitto in un residence di lusso (o intestare un appartamento) e assicurare un tenore di vita adeguato allo status del Vvip.

La trasmissione del virus per via sessuale (in senso del tutto traslato), del resto, sembra comune ai paesi del Sudest asiatico. È accaduto anche in Cambogia dove i primi casi della nuova ondata si sono verificati tra i Vvip frequentatori del N8, esclusivo locale di Phnom Penh. A infettarli sarebbero state due delle quattro ragazze arrivate pochi giorni prima da Dubai a bordo di un jet privato.

In pochi giorni il Covid si è diffuso in modo tanto rapido e violento quanto inaspettato. In Thailandia il contagio e la morte, sempre più rapidamente, si sono spostati dai quartieri delle élite come Thonglor e Suan Luang, alle prigioni, ai dormitori dei lavoratori edili, agli slum come Khlong Toey, dove è impossibile qualunque distanziamento sociale, le condizioni igieniche sono precarie, l’assistenza medica limitata. E dove la malattia è vissuta come un ulteriore stigma sociale, il segno di un karma malefico.

Interessi regali in campagne vaccinali thailandesi

La crisi è aggravata dai ritardi nella campagna vaccinale. Il governo thailandese, infatti, l’aveva pianificata con l’uso quasi esclusivo del vaccino AstraZeneca, prodotto dalla compagnia nazionale Siam BioScience, su cui, a quanto sembra, facevano conto anche altri paesi del Sudest asiatico. A fine agosto, solo l’11% della popolazione era completamente vaccinato. Secondo alcuni siti dell’opposizione molte dosi sono state vendute all’estero. Ma sarà impossibile determinare responsabilità o cause: la società farmaceutica, infatti, fa parte del patrimonio della corona, controllato direttamente da re Vajiralongkorn. E qualsiasi critica o semplice dubbio rientra ineluttabilmente sotto la legge di lesa maestà.

Altro responsabile dei ritardi vaccinali è l’ineffabile ministro della Sanità Anutin Charnvirakul, già noto per aver dichiarato che i farang, gli occidentali, erano potenziali untori in quanto “sporchi”. Secondo molte indiscrezioni Anutin avrebbe dichiarato che il vaccino Pfizer non aveva dimostrato la sua efficacia sulle popolazioni asiatiche. Quindi avrebbe dato più fiducia al cinese Sinovac (che secondo le stesse indiscrezioni è in parte controllato da una delle più ricche famiglie thai).

Nonostante gli sforzi compiuti negli ultimi mesi abbiano contenuto il dilagare della crisi sanitaria, il virus ha innescato la peggior crisi economica che abbia colpito la Thailandia negli ultimi vent’anni e 21 milioni di persone rischiano di non avere più mezzi di sostentamento. La Thailandia, che secondo un rapporto del 2018 era al primo posto nella graduatoria delle diseguaglianze sociali, rischia di incrementare in modo esponenziale il suo primato.

Ritorno al futuro della decrescita nella felice vita tradizionale 

La pretestuosità dei valori khwampenthai, la rivolta in salsa prik…

In una situazione del genere appare allucinante una delle soluzioni proposte dall’establishment, ispirata ai valori della khwampenthai, la thailandesità, più che a teorie macroeconomiche: un programma di decrescita felice secondo cui il popolo thai dovrebbe tornare a uno stile di vita tradizionale, che sembra finalizzato soprattutto a un maggior controllo. Sempre più detenuto dalle cinquanta famiglie più potenti del regno, il cui patrimonio combinato ha raggiunto la cifra record di 160 miliardi di dollari. A ogni buon conto, per evitare possibili conseguenze personali per qualsiasi eventuale errore, il ministro Anutin si è fatto latore di una legge che scarichi di qualsiasi responsabilità nella gestione del covid operatori sanitari e funzionari di ogni livello.

In questo clima era inevitabile che riprendessero le manifestazioni di piazza. Ma se prima si trattava soprattutto di una protesta d’élite che metteva in discussione la cultura gerarchica della tradizione thai, compreso il totem e tabù della monarchia, e si svolgevano secondo forme e modi da “indiani metropolitani” in salsa prik, piccante, oggi sono rivolte antigovernative, rabbiose, spesso violente, innescate dalla paura del virus e dal risentimento verso un sistema corrotto che non è riuscito a contenerlo. Altrettanto violenta la reazione della polizia che sempre più spesso fa uso della forza e sembra voler contendere all’esercito il ruolo di gendarme del governo, riappropriandosi del controllo delle strade (con tutti i benefici che ne conseguono).

… e i bachi nei principi della sapienza tradizionale

«La Thailandia sta precipitando in un nuovo caos», ha dichiarato un attivista di Human Rights Watch.

«C’è un certo conforto nella decadenza. È come confrontarsi con la prima nobile verità del Buddha, il dukka, l’inevitabile sofferenza che segna l’esistenza»,

mi aveva detto lo scrittore thailandese Tew Bunnag. Figlio lui stesso dell’ammart, l’élite, che ha ripudiato la sua classe sociale per dedicarsi alla meditazione e all’assistenza ai malati terminali, Bunnag commentava così il suo libro Il viaggio del Naga in cui il serpente gigante della mitologia hindu-buddista simboleggiava la natura che governa i destini umani.

«Vivi nella sensazione di questo sottile equilibrio tra il dukka e il tentativo di cogliere ogni attimo di piacere che ti offre la vita».

Il naga, oggi, sembra incarnarsi nel Coronavirus, ma sembra che la massa della popolazione thai abbia perduto la disperata capacità di cogliere il sanuk, quel piacere che allevia la sofferenza.

La pandemia di Covid-19, insomma, sta facendo crollare quella House of Cards, il castello di carte, che si reggeva sul principio del pii-nong, maggiore-minore, che riguarda l’età, il ruolo familiare, lo status professionale, economico, sociale, culturale, l’esperienza. Un complesso rapporto che era uno degli elementi della khwampenthai, divenuta espressione di un crescente orgoglio nazionale. Per la maggior parte dei locali, che fossero phrai o ammart, membri del popolo o delle élite, uniti in questo come nella passione per il som tam, l’insalata di papaya verde, la salvezza era insita nella loro capacità di rispettare le regole, nei loro rituali, come il wai, il modo di salutarsi giungendo le mani di fronte al volto, che evita ogni contatto.

Gli asiatici, infatti, giustificano ineguaglianze, colpi di stato, restrizioni e violazioni dei diritti umani affermando che per loro non si possono applicare i valori dell’Occidente. Al tempo stesso quegli stessi valori vengono contestati in funzione di una pretesa superiorità morale che deriverebbe dal mantenere immutati i propri valori. È qualcosa che va contro uno dei cardini della logica aristotelica: il principio di non-contraddizione. Ma, ancora una volta, parliamo di una logica occidentale, lineare, ben diversa da quella orientale. Qui vige un principio circolare in cui tutto è o può essere il contrario di tutto.

Il fallimento del minilateralismo

Quello che alcuni osservatori locali hanno definito “minilateralismo” dell’Asean a indicare un modello virtuoso di sviluppo in cui si confrontano gruppi di paesi, si sta rivelando come l’ulteriore limite di un’organizzazione sovrannazionale priva di visione strategica, di quella “centralità” che definisce la capacità di affrontare le sfide esterne al gruppo di nazioni. E come l’Asean si è rivelata del tutto incapace di gestire la crisi politica in Myanmar, ancor meno sembra capace di prendere posizione tra i grandi giocatori che si confrontano nello scacchiere dell’Asia orientale, in particolare nel Mar della Cina meridionale. Quella dell’Asean appare una vera e propria manifestazione di ignavia: i problemi non vengono risolti non tanto per divisioni interne, quanto perché non sono posti o sono rimossi. Ancora una volta si manifesta quel principio che in Thailandia è sintetizzato nell’espressione “mai pen rai”: non pensarci, non preoccuparti. Potrebbe accadere così anche per la ripresa dell’estremismo islamico nell’area – che non ha rinunciato al progetto di un califfato in Sudest asiatico.

Ripiegamento dall’arrembaggio asiatico…

In effetti sta accadendo il contrario di ciò che molti preconizzavano: il “Tramonto dell’Occidente” cui doveva succedere l’alba del “Nuovo secolo asiatico” sembra essersi arrestato al crepuscolo, cui sta seguendo un’improvvisa aurora che illumina l’ovest. Il “Post-Western World” sembra trascorso o comunque si è ristretto entro i confini dell’Impero di Mezzo. Sembra invertito un ordine che aveva assunto le caratteristiche di un processo naturale, quasi genetico, come se l’evoluzione della Repubblica Popolare Cinese si diffondesse in tutta l’Asia per partenogenesi. Un processo di cui facevano vanto soprattutto le nuove tigri asiatiche, le nazioni dell’Asean, del Sudest asiatico. Oggi invece la Cina diventa sempre più inaccessibile: le autorità della provincia dello Yunnan che segna il confine con il Sudest asiatico stanno progettando un muro che li protegga da ondate di profughi.

… e il ripiegamento dall’esotico

Agli occhi di un farang, quell’altrove dove anche le zone d’ombra facevano parte di uno scenario esotico in cui si compiaceva di vivere senza subirne le conseguenze, diviene un teatro della crudeltà dove non può più sottrarsi alla realtà, dove anche lui può divenire una vittima. La prima, più forte reazione a questa presa di coscienza è un desiderio di fuga, di ritorno in patria, con la pretesa di essere accolti come un figliol prodigo. È il preludio alla riconversione, al mea culpa, alla dichiarazione d’appartenenza a un mondo che, pur con tutti i suoi limiti, garantisce i fondamentali diritti umani, si basa su quei valori universali che si era stati tentati di rinnegare per la fatale attrazione degli “Asian Values” che apparivano più efficienti e adatti ad affrontare le sfide del nuovo millennio.

Ancora una volta la dicotomia è il velo alla semplificazione perché l’Asia stessa, i suoi valori cambiano profondamente in funzione geografica, culturale, religiosa, storica: Asia del Sud, centrale, orientale, Sudest asiatico, confucianesimo, buddismo (con le profonde differenze tra il Mahayana e il Theravada), islam, eredità coloniali, ideologia comunista o postmarxista, autocrazia e democrazia entrambe in più varianti del Covid.

Fallimento del policentrismo multipolare

«L’Asia è policentrica, multipolare… In Asia non c’è uniformità in termini di geopolitica e cultura e ognuna di quelle nazioni è un mondo a sé stante».

Lo ha scritto Francis Fukuyama in epoca prepandemica, quando il policentrismo appariva un antidoto alla globalizzazione, una nuova forma evolutiva. Oggi, però, si sta rivelando disfunzionale: la gestione della pandemia si è rivelata tra le peggiori al mondo (almeno secondo il Nikkei Covid-19 Recovery Index), circa 90 milioni di persone sono regredite alla condizione di povertà, la middle class è stata uccisa in culla, l’illiberalismo, l’autocrazia, l’etnonazionalismo e l’integralismo religioso si diffondono col virus. Le nazioni del Sudest asiatico si dimostrano non le nuove tigri bensì anatre zoppe che si dibattono in una palude distopica.

Resistenza confuciana?

In questo scenario apocalittico sembrano “salvarsi” solo Vietnam e Singapore, entrambi accomunati dalla comune radice confuciana. In Vietnam, che pure sta subendo una nuova e grave ondata del Covid, il controllo esercitato dal Partito, una classe dirigente più preparata e una lunghissima esperienza delle emergenze hanno contenuto il contagio e la crisi economica. Singapore, sempre più lanciata nella sua corsa verso la realizzazione di un’utopica Elysium, sta procedendo dalla pandemia all’endemia, ossia alla coesistenza col virus tenuto sotto controllo dai vaccini, dalle nuove terapie e da forme di rilevazione rapida del virus come l’analizzatore del respiro. Sono soprattutto questi modelli che hanno creato in molti occidentali l’illusione che tutto il Sudest asiatico potesse rappresentare un’alternativa politica ed esistenziale. Un equivoco, dunque, all’interno di un inganno.

Resilienza occidentalista?

In questa prospettiva culturale bisognerebbe ripensare a tutte le criticità europee rivalutando un sistema che si sta rivelando davvero resiliente. Tanto per usare in modo adeguato un termine abusato. Nel confronto con le nazioni dell’Asean si può comprendere e apprezzare il vero senso della libertà di cui godiamo. Proprio nei beni immateriali – quali la governance, l’innovazione, lo stato di diritto, il welfare, la cultura della libertà di pensiero e d’espressione – l’Europa può riaffermare il suo ruolo, definire un modello culturale. A condizione che ne abbia coscienza e capacità di affermarlo.

«Senza memoria, non vi è identità. E senza identità, siamo solo polvere sulla superficie dell’infinito», ha detto Jonathan Sacks, leader ecumenico, filosofo. Che avvertiva: «Le civiltà cominciano a morire quando perdono la passione morale che li ha portati a esistere».

  


Il pezzo che abbiamo proposto qui è un aggiornamento e un approfondimento operati dall’autore dopo la pubblicazione di un articolo che Massimo Morello stesso aveva scritto per “Il Foglio” uscito il 29 luglio 2021. Come già nella raffinata operazione iconografica operata da Roland Barthes – le due fotografie che corredavano L’Impero dei segni e riproducevano il ritratto di un medesimo giapponese con lievi, ma sostanziali differenze tra il volto nel primo frontespizio della prima illustrazione e la sua versione modificata al fondo del libro – qui si possono confrontare le due versioni e si noterà un’accresciuta amarezza orrifica proveniente sia dalle testimonianze aggiunte, sia dai nuovi dati sulla pandemia e il montaggio diverso nei due pezzi di argomenti simili e dati aggiornati restituisce moltiplicata la delusione dell’orientalista, il travaglio di una società che sembra fornire solo formule contraddittorie e regressive…

L’Oriente a pezzi

 

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Raisi, il Giudice senza grazia https://ogzero.org/l-iran-e-in-ebollizione-raisi-le-sanzioni-e-le-sfide-internazionali/ Wed, 25 Aug 2021 11:03:15 +0000 https://ogzero.org/?p=4708 Non c’è luna di miele per Ebrahim Raisi, insediato il 5 agosto nella carica di presidente della repubblica iraniana. Nessun “periodo di grazia”, né all’interno di un paese attraversato da proteste sociali e stremata da una nuova ondata di Covid-19, e neppure sul piano internazionale. Durante il suo discorso inaugurale il presidente Raisi si è […]

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Non c’è luna di miele per Ebrahim Raisi, insediato il 5 agosto nella carica di presidente della repubblica iraniana. Nessun “periodo di grazia”, né all’interno di un paese attraversato da proteste sociali e stremata da una nuova ondata di Covid-19, e neppure sul piano internazionale.

Durante il suo discorso inaugurale il presidente Raisi si è dichiarato un «servitore del popolo», e ha detto che la sua priorità sarà risollevare l’economia e portare il benessere «sul tavolo da pranzo di tutti gli iraniani». Ha anche detto che perseguirà una «diplomazia intelligente» per veder togliere le «crudeli sanzioni che opprimono» l’Iran, riferimento ai negoziati in corso a Vienna per riesumare l’accordo sul nucleare iraniano (il Joint Comprehensive Plan of Action, Jcpoa) firmato nel 2015, e vanificato nel maggio 2018 quando l’allora presidente degli Stati uniti Donald Trump ha deciso di uscirne, decretando nuove sanzioni all’Iran.

Il sessantenne Raisi, un religioso di medio rango, è molto vicino al leader supremo Ali Khamenei, di cui era stato allievo. Ha svolto tutta la sua carriera nella magistratura, roccaforte delle correnti più ortodosse della Repubblica Islamica. Negli anni Ottanta è stato nel comitato di giudici incaricati di epurare le carceri iraniane mettendo a morte migliaia di detenuti politici, una delle pagine più inquietanti dell’Iran rivoluzionario. Negli ultimi due anni, come Procuratore capo della repubblica si è fatto paladino della lotta alla corruzione, suo tema di battaglia elettorale. È stato alla testa di una delle più potenti fondazioni islamiche, la Astan Qods Razavi di Mashhad, che controlla un impero commerciale e una rete di beneficenza e opere sociali: un pilastro del consenso al sistema.

Oggi ripete che la sua sarà un’amministrazione «popolare».

Eppure Ebrahim Raisi è stato eletto con il voto meno partecipato nella storia dell’Iran repubblicano: meno di metà degli aventi diritto è andata alle urne. È stato un voto senza concorrenti, poiché gli avversari di qualche peso erano stati esclusi: quella del 18 giugno scorso è stata l’elezione presidenziale meno libera da sempre perfino per gli standard della Repubblica Islamica dell’Iran, dove un organismo che risponde solo al leader supremo ha potere di veto sulle candidature. Insomma, la legittimità popolare del nuovo presidente è molto debole. Lo stesso Raisi riconosce che bisogna «ripristinare la fiducia» degli elettori.

Sta di fatto che, con Raisi alla presidenza, gli oltranzisti del sistema (quelli che alcuni chiamano il deep state, lo stato profondo) controllano tutti i centri di potere della Repubblica Islamica: eletti (il parlamento, la presidenza) e non. La lista dei suoi ministri, sottoposta al parlamento il 12 agosto è significativa: comprende uomini delle Guardie della rivoluzione, ex militari, ex dirigenti dei servizi di intelligence e della Tv di stato (altra roccaforte del sistema). Ci sono anche i dirigenti di due potenti fondazioni islamiche, la Astan Qods Razavi, già citata, e quella intitolata all’Imam Khomeini (rispettivamente ministri dell’istruzione e del lavoro e welfare).

Dunque legge, ordine, forze armate, e welfare. Eppure il neopresidente non avrà periodo di grazia.

La sfida di Vienna

Sul piano internazionale, la prima sfida è proprio quella che si gioca a Vienna. L’amministrazione di Joe Biden ha dichiarato di voler rientrare nell’accordo sul nucleare stracciato da Trump, ma sei round di colloqui tra i partner residui (Iran, Francia, Germania, Regno Unito, Cina e Russia), e indirettamente con gli Usa, non hanno ancora dato esito positivo.

Fare previsioni è inutile; meglio ricapitolare ciò che sappiamo. Il nuovo presidente iraniano ha dichiarato di volere il negoziato, «nei termini indicati dal Leader Supremo» (in effetti è stato Khamenei sei mesi fa ad avallare i colloqui di Vienna). Ebrahim Raisi non ha competenze specifiche in politica internazionale. Come ministro degli Esteri ha scelto un diplomatico di carriera: Hossein Amir-Abdollahian, già viceministro degli Esteri nel primo governo Rohani, poi consigliere di politica internazionale dell’ex presidente del parlamento Ali Larijani. Un uomo di regime con solidi legami con le Guardie della rivoluzione, ma non uno degli oltranzisti che avevano avversato l’accordo sul nucleare (di cui pure erano circolati i nomi). Amir-Abdollahian conosce il dossier nucleare e ha esperienza di colloqui con le controparti occidentali, inclusi gli Usa. Presenterà un volto più duro dei predecessori. Però si può aspettare che nel futuro negoziato l’amministrazione Raisi avrà meno opposizioni interne del suo predecessore Hassan Rohani, il quale è stato boicottato in tutti i modi (interessante il suo ultimo discorso al governo uscente: l’accordo era quasi fatto e le principali sanzioni statunitensi sarebbero cadute già da tempo, ha detto, non fosse stato per l’attivo boicottaggio del parlamento dominato dagli oltranzisti).

Non sarà un negoziato facile neppure per la nuova amministrazione. Non sono di buon auspicio gli “incidenti” navali di fine luglio, che riaccendono i riflettori sulla guerra-ombra in corso tra Israele e Iran (e forse su un nuovo “consenso” anglo-americano contro l’Iran). Ma ci sono anche segnali positivi per la diplomazia: l’inviato dell’Unione Europea ai negoziati sul nucleare, Enrique Mora, era a Tehran per l’inaugurazione del presidente Raisi, con cui si è intrattenuto (anche se il suo gesto è stato criticato da molti difensori per i diritti umani, tra cui l’avvocata Narges Mohammadi).

Un paese impoverito e disilluso

Ma lasciamo per un istante lo scenario internazionale. L’altra sfida per il neopresidente Raisi è all’interno del paese, ed è perfino più urgente. È la crisi dell’economia, appesantita dalle sanzioni internazionali: l’inflazione supera il 44 per cento, le imprese sono in difficoltà, la disoccupazione galoppa, mentre le grandi ricchezze sono sempre più grandi: pochi miliardari e una classe media impoverita. Tutto aggravato dalla lunga pandemia di Covid-19, dalla siccità, i conflitti per l’acqua, la penuria di energia elettrica. Un paese impoverito, disilluso, e senza fiducia nel futuro.

«La tensione nel paese è molto forte e Raisi deve prendere decisioni molto in fretta», dice l’economista e analista politico Saeed Leylaz (riprendo questo commento dal “Financial Times”). Per esempio il contrasto all’inflazione o la conduzione della campagna di vaccinazioni, spiega il presidente:

«ha bisogno di presentare qualche carta vincente, che gli permetta di prendere tempo fino a quando ci saranno decisioni definitive sull’accordo nucleare e sulle sanzioni».

L’urgenza è evidente. L’insediamento di Ebrahim Raisi è stato preceduto da settimane di proteste per la mancanza d’acqua che attanaglia le province occidentali, e per i blackout di corrente elettrica divenuti frequenti in tutto il paese nella stagione estiva.

La rivolta dell’acqua

La rivolta dell’acqua è scoppiata la sera del 15 luglio ad Ahwaz, capoluogo del Khuzestan, provincia occidentale affacciata sul golfo Persico e confinante con l’Iraq.

 

I quattro fiumi della provincia sono ridotti ai minimi storici, l’acqua è razionata, esce dai rubinetti solo un’ora al giorno. La folla gridava «il fiume ha sete», «noi abbiamo sete».  E poi

«abbiamo dato il sangue e la vita per il Karun»,

il fiume che attraversa Ahwaz. I manifestanti chiedevano forniture urgenti d’acqua. Molti chiedevano le dimissioni delle autorità locali accusate di incompetenza, o di corruzione, o entrambe le cose.

La crisi è tutt’altro che inaspettata. In maggio il ministero dell’Energia aveva avvertito che l’Iran andava verso l’estate più secca da 50 anni, con temperature che potevano sfiorare i 50 gradi, e l’allarme era stato ripreso da tutti i giornali. Poi è successo, e le conseguenze sono devastanti: per chi deve sopportare un’estate torrida e umida senza acqua, ma anche per l’agricoltura e l’intera economia.

Il paradosso è che il Khuzestan è tra le province più povere dell’Iran, in termini di sviluppo sociale: la disoccupazione e il tasso di povertà assoluta sono i più alti del paese (secondo Iran Open Data, che analizza statistiche ufficiali), ma è tra le più ricche in termini di risorse: racchiude circa l’80 percento delle riserve di petrolio e il 60 per cento di quelle di gas naturale per paese, e produce una parte importante del prodotto interno lordo iraniano (il 15 per cento nel 2019). Inoltre il Khuzestan era una terra fertile e ricca d’acqua, anche se oggi pare incredibile: ha quattro fiumi tra cui il Karun; due importanti zone umide (incluse le paludi condivise con l’Iraq), e aveva un’importante economia agro-industriale – ora in crisi.

Il sito storico del sistema idrico di Shushtar, patrimonio Unesco.

Il giorno dopo le prime manifestazioni, il governatore provinciale ha mandato camion cisterna a portare acqua in oltre 700 villaggi e cittadine del Khuzestan, cosa che non ha placato gli animi. La penuria d’acqua è da attribuire in parte al cambiamento globale del clima: dall’inizio del secolo il regime delle piogge è sempre più scarso, le temperature sempre più alte, e la siccità è ormai cronica nell’Iran occidentale insieme a ampie zone dei vicini Iraq e Siria.

Le tempeste di sabbia che avvolgono periodicamente città come Ahvaz ne sono una conseguenza tangibile.

È in causa però anche la gestione dell’acqua disponibile. Negli ultimi decenni sono state costruite numerose dighe sui fiumi dell’Iran occidentale, sia per produrre elettricità, sia per sostenere ambiziosi progetti di espansione agricola, o per trasferire acqua verso la provincia centrale di Isfahan.

Il ponte di Allahverdi Khan sul fiume ormai secco, Isfahan (foto Wanchana Phuangwan).

Negli ultimi anni inoltre le autorità hanno autorizzato lo scavo di migliaia di pozzi. Dunque sempre più acqua è estratta dal sottosuolo, ma le piogge non bastano a “ricaricare” le riserve. Il livello delle falde idriche così è crollato; l’acqua salmastra del Golfo penetra sempre più all’interno. La salinità dei terreni causa ulteriori problemi per l’agricoltura; a nord di Ahwaz le famose palme da datteri cominciano a morire. Nelle zone petrolifere inoltre l’acqua disponibile è spesso inquinata da sversamenti di greggio.

Ad aumentare la rabbia poi ci sono ragioni storiche. Le proteste per l’acqua hanno coinvolto città come Abadan, Khorramshahr, e altre: sono nomi che richiamano la Guerra Iran-Iraq. Su Abadan e le sue raffinerie puntava l’esercito di Saddam Hussein quando invase l’Iran nel settembre 1980; nella “città martire” di Khorramshahr si combatté casa per casa. Tutto l’ovest dell’Iran fu il fronte di quella guerra sanguinosa, durata otto anni. In Khuzestan però la ricostruzione è stata solo parziale, le attività economiche non sono mai tornate al benessere precedente. Perché? I dirigenti iraniani adducono la mancanza di mezzi e risorse da investire, o la cronica instabilità nel vicino Iraq. La provincia è abitata da una forte minoranza arabo-iraniana (c’è anche un movimento indipendentista, minuscolo ma foraggiato dai potenti vicini arabi del Golfo). A precedere le proteste generali, il 6 luglio una delegazione di agricoltori e anziani delle tribù arabe era andata a Ahwaz per fare rimostranze alle autorità locali per la penuria d’acqua.

La rivolta “legittima” e la polizia che spara

Insomma: la provincia si sente negletta. L’agricoltura e le fabbriche che ne dipendono sono sempre più in crisi. I giovani non trovano lavoro. Aumenta l’emigrazione verso le grandi città; a Tehran o Isfahan sorgono nuove borgate di migranti arrivati dalle zone rurali del Sudovest.

Cambiamento climatico, dighe, inquinamento, cattiva gestione delle risorse, disoccupazione, discriminazione delle minoranze: tutto spiega la rabbia esplosa in luglio.

«Per otto anni [durante la guerra con l’Iraq] questa provincia è stata devastata, e ora i nostri soldati sparano contro di noi», diceva un manifestante di 24 anni di Dezful al corrispondente di “Middle East Eye”.

Di fronte alla protesta infatti lo stato ha risposto come al solito: con la forza. Anche perché le proteste si sono estese; c’è notizia di manifestazioni a Kermanshah, capoluogo della provincia omonima nell’Iran occidentale, nel Lorestan, a Isfahan, fino a Tehran. Organizzazioni di avvocati, attivisti sociali, l’associazione degli scrittori, hanno manifestato solidarietà. Sui social media sono circolate foto di blindati e veicoli antisommossa scaricati dagli aerei cargo nell’aeroporto di Ahwaz. Le proteste si sono prolungate per giorni. Le autorità hanno sospeso internet in gran parte del Khuzestan, senza riuscire a bloccare del tutto le informazioni.

È cominciata la guerra di notizie: il 20 luglio, dopo la quinta notte consecutiva di proteste, il governatore del Khuzestan ha parlato di un morto, una persona che accompagnava le forze di polizia e sarebbe stato ucciso dai dimostranti (i media di stato hanno addirittura accusato “terroristi armati”). Pochi giorni dopo Amnesty International ha parlato di almeno otto morti, tutti manifestanti.

Le proteste bloccano la strada tra Ahvaz e Andimeshk.

Eppure perfino il Leader supremo l’ayatollah Ali Khamenei ha ammesso che la protesta è legittima. È intervenuto tardi, ben una settimana dopo l’inizio delle manifestazioni e degli scontri, ma infine lo ha riconosciuto:

«Se i problemi dell’acqua e delle fogne in Khuzestan fossero stati risolti, non vedremmo oggi questi problemi». E poi: «Le persone esprimono il loro malcontento perché sono esasperate. (…) Le autorità devono risolvere al più presto i problemi della leale popolazione di questa provincia».

Il fatto è che mentre il leader parlava così, la polizia sparava sui manifestanti. Risolvere il problema dell’acqua è di sicuro una sfida per la nuova amministrazione, come lo è stato per le precedenti: ma richiede strategie a lungo termine, rivedere le scelte di sviluppo, combattere sprechi e malversazioni, rilanciare il dialogo con le minoranze e con gli enti locali. Nell’immediato, reprimere le proteste è più facile.

Le proteste per l’acqua, o quelle segnalate a Tehran alla fine di luglio per i continui blackout di corrente, non alludono a un’opposizione politica organizzata – anche se in alcuni casi sono stati sentiti slogan come «abbasso la Repubblica islamica», o «a morte il dittatore», «a morte Khamenei». Proprio come era successo nel dicembre del 2019 nelle proteste suscitate dall’aumento del prezzo dei carburanti, e due anni prima per il carovita.

Proteste senza una direzione politica riconoscibile, “solo” manifestazioni spontanee di esasperazione.

Ma questo non dovrebbe preoccupare di meno i dirigenti iraniani: al contrario.

Si aggiungano croniche proteste di lavoratori in tutto il paese, e un’ondata di scioperi tra gli addetti dell’industria petrolifera. Mentre la “variante delta” del virus fa strage, i medici lanciano appelli disperati, e solo il 3 per cento degli iraniani è completamente vaccinato: anche nelle code alle farmacie si sente imprecare contro il leader supremo, che mesi fa ha vietato di importare vaccini prodotti in Usa e Regno Unito.

L’Iran dunque è in ebollizione. Il neopresidente Raisi dovrà mostrare qualcosa di concreto, in fretta, che non siano solo i blindati antisommossa. Ma per questo ha anche bisogno di veder togliere le sanzioni che soffocano l’economia del paese: come al solito, le sfide internazionali e quelle interne sono strettamente legate.

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Timori e prospettive russe ai suoi confini meridionali https://ogzero.org/timori-e-prospettive-russe-su-kabul/ Wed, 25 Aug 2021 09:26:07 +0000 https://ogzero.org/?p=4702 Per la Russia il Centrasia è il cortile di casa. Putin, durante un vertice straordinario dell’Organizzazione del Trattato per la Sicurezza Collettiva (Csto), ha affermato che è importante limitare l’espansione dell’estremismo islamico dall’Afghanistan al resto dell’Asia, dopo la presa di potere dei talebani. Il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov, ha affermato che il Csto ha discusso […]

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Per la Russia il Centrasia è il cortile di casa. Putin, durante un vertice straordinario dell’Organizzazione del Trattato per la Sicurezza Collettiva (Csto), ha affermato che è importante limitare l’espansione dell’estremismo islamico dall’Afghanistan al resto dell’Asia, dopo la presa di potere dei talebani. Il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov, ha affermato che il Csto ha discusso delle implicazioni di “un’altra guerra civile in Afghanistan”, ma ha aggiunto: «Nessuno interverrà in questi eventi». La Russia ha adottato un duplice approccio nei confronti del neoproclamato Emirato Islamico. Da una parte, Mosca ha avviato contatti con i rappresentanti del Talebani; dall’altra ha annunciato, il 17 agosto, esercitazioni su larga scala in Tagikistan, lungo il confine con l’Afghanistan. Annunciando che non avrebbe ancora riconosciuto il nuovo regime di Kabul, non ha però ritirato la sua rappresentanza diplomatica; peraltro da almeno 4 anni circolano notizie di collaborazioni militari tra russi e talebani e i più avvertiti tra gli analisti americani pensano che da vecchio scacchista Putin abbia calcolato una mossa del suo gioco afgano verso il declino del sistema liberale delle democrazie occidentali, di cui questa sembra una tappa importante, anche nella lettura degli osservatori russi.

Per comprendere meglio quali contromisure alla veloce conquista talebana può avere in mente Putin e i temi che si dibattono in Russia a proposito dell’area centrasiatica abbiamo ripreso da “Matrioska”, il blog di Yurii Colombo, la raccolta di opinioni di politologi e giornalisti russi tra i più accreditati su quella parte del mondo gettate a caldo nel web nei giorni immediatamente successivi alla presa di Kabul.


Igor Yakovenko, pubblicista

Per tutti i vent’anni in cui gli Stati Uniti sono stati in Afghanistan, mantenendo il paese più o meno sicuro per i suoi vicini, la Russia ha costantemente cercato di giocare brutti scherzi. Sono riusciti a far perdere agli Stati Uniti le loro basi in Asia centrale, e si sono lamentati senza posa tra di loro sull’occupazione militare americana dell’Afghanistan. Ora è un problema del regime di Putin.

Arkady Dubnov, esperto di Asia centrale

Per la Russia, il problema principale nel trattare con i Talebani sarà la riaffermazione delle garanzie che non opererà fuori dall’Afghanistan e che non si espanderà, militarmente e ideologicamente, nell’Asia centrale. Finora i talebani non possono essere incolpati: non una volta nei loro 27 anni di esistenza hanno mostrato di volerlo.

Se verranno confermate tali garanzie, Mosca promuoverà il riconoscimento politico dei Talebani e li toglierà dalla lista delle organizzazioni terroristiche dell’Onu. Se Mosca li rimuoverà dalla sua lista è difficile da dire. Tuttavia, la richiesta dei talebani agli Stati Uniti e all’Onu – una delle principali richieste di oggi – troverà comprensione soprattutto in Russia.

Difficilmente ci si può aspettare che Mosca fornisca un’assistenza finanziaria significativa a Kabul. Gli americani e l’Occidente se ne faranno carico perché sono in gran parte responsabili di ciò che è successo oggi in Afghanistan. La Russia non è coinvolta in questo. Ma naturalmente, la Russia otterrà dividendi politici da questo.

[16 agosto]

Alexey Makarkin, analista politico

Ci sono diversi rischi. Il primo è la tendenza concreta dei Talebani a spingere verso nord. È improbabile che la leadership talebana voglia iniziare l’espansione ora, ma questo non significa che non intraprenderà tale azione in futuro. Soprattutto quando l’aiuto estero viene tagliato – in situazioni finanziarie difficili le guerre di conquista diventano una priorità. Il secondo è la misura reale in cui i leader talebani hanno l’effettivo controllo sui vari gruppi armati che possono agire autonomamente. Il terzo è l’effetto dimostrativo di una vittoria dei terroristi in un singolo paese sui loro simpatizzanti. In ogni caso, la Russia si preoccuperà di contenere i talebani nella regione e di sostenere i suoi alleati… Una vittoria dei Talebani potrebbe dare impulso ai gruppi radicali all’interno della Russia. I Talebani sono tradizionalisti, non wahhabiti, ai quali la Russia associa di solito il radicalismo islamico… Ma questo potrebbe solo accrescere il rischio, poiché la propaganda potrebbe essere fatta nelle comunità tradizionaliste, essendo più compatibile con le loro opinioni e pratiche. Si può diventare un sostenitore dei Talebani senza rompere con la Mazhab Hanafi. L’opposizione sarà condotta sia ideologicamente che dai servizi speciali, usando la forza, e ciò che ne verrà non è chiaro.

[16 agosto]

Ivan Kurilla, storico

Permettetemi di ricordare che la decisione degli Stati Uniti di andare in Afghanistan nel 2001 fu sostenuta dalla Russia, non solo perché Putin allora voleva essere amico dell’America, o perché la guerra in Cecenia fu poi reinterpretata come parte della “guerra globale al terrorismo”. Ma anche perché una delle principali preoccupazioni della politica estera russa all’inizio del secolo era il destino dei paesi dell’Asia centrale, che sembravano senza protezione contro l’islamismo talebano. Questo è il motivo per cui la Russia ha fornito agli Stati Uniti un corridoio aereo e persino un “posto di sosta” a Ulyanovsk, e ha accettato di aprire basi militari statunitensi in Uzbekistan e Kirghizistan.

Quindi è così. La situazione sembra tornare al 2001. Gli Stati Uniti ammettono il fallimento, la Russia e i suoi alleati dell’Asia centrale affrontano una nuova minaccia.

[14 agosto]

Sergey Medvedev, professore

È la più grande vittoria simbolica sugli Stati Uniti e un grande passo verso un mondo demodernizzato e un nuovo Medioevo. Gli echi di questa vittoria risuoneranno ancora per molto tempo, molto più fortemente a Mosca che a Washington; abbiamo il nostro sguardo rivolto verso questo arco di instabilità, è il nostro fronte, non quello americano. Il XXI secolo, iniziato l’11 settembre 2001, continua a rotolare verso il Caos.

[16 agosto]

Lilia Shevtsova, politologa

Naturalmente, il potere dei Talebani rimette all’ordine del giorno la minaccia del terrorismo globale. La cooperazione occidentale con la Russia e la Cina è inevitabile in tal caso. Forse i Talebani ammorbidiranno il confronto ideologico tra i rivali. I Talebani giocheranno anche un altro ruolo, costringendo l’Occidente a pensare a come promuovere i suoi valori per evitare umilianti fallimenti.

L’Occidente è cambiato dopo il Vietnam. L’Occidente sarà diverso dopo l’Afghanistan. La Russia deve prepararsi a questo. E il fatto che una sconfitta degli Stati Uniti crea una zona di instabilità vicino al confine della Russia, e non è chiaro cosa fare al riguardo, suggerisce che la sconfitta americana non è necessariamente una buona notizia per la Russia.

Piuttosto che gongolare e godere del fallimento dell’America, dovremmo imparare la lezione che non abbiamo mai tratto dalla sconfitta in Afghanistan: mai impegnarsi in un’avventura senza conoscerne le conseguenze e sapere come uscirne; ci sono guerre che non possono essere vinte.

[17 agosto]

Stanislav Kucher, giornalista

Per la Russia, il trionfo dei Talebani è una minaccia diretta e chiara alla sicurezza nazionale. Ora tutti i paesi confinanti con l’Afghanistan nella cosiddetta Csi, cioè il ventre meridionale della Russia, sono nella zona ad alto rischio. La prospettiva di espansione dell’Islam ultraradicale non è mai stata così grande come ora… Se si ha la volontà, l’emergere dei Talebani a Dushanbe è semplicemente una questione di tempo… Sia geopoliticamente che ideologicamente, un trionfo talebano è più pericoloso per la Russia che per gli Stati Uniti.

…Posso facilmente immaginare come in Russia, in certe circostanze, un Talebano ortodosso convenzionale alzerà la testa. Cioè, una certa terza forza che odia allo stesso modo il governo corrotto e i suoi alleati, i liberali, e l’Occidente, il quale secondo loro, non ha portato altro che male alla Russia durante la sua storia.

[16 agosto]

Nikolai Mitrokhin, storico, sociologo

A giudicare dalle reazioni delle ambasciate russa, cinese e iraniana, che non stanno per essere evacuate, la cerchia di amici dei talebani e del nuovo Afghanistan sotto la loro guida, è evidente. E la Russia è abbastanza soddisfatta della vittoria dei Talebani. Così è. Come dice in pubblico M. Shevchenko, esperto di contatti segreti con i radicali barbuti, tutta l’ala militare del paese ha studiato in Unione Sovietica ed era membro del partito.

Ma in ogni caso, dal punto di vista della geopolitica ufficiale russa, il crollo della democrazia di tipo europeo in Afghanistan è una grande vittoria per l’internazionale autoritaria conservatrice in cui la Russia gioca un ruolo significativo. Ma al di là dello spettacolo di un nemico umiliato, ancora più importante, è che i Talebani hanno preso il controllo di un paese chiave dell’Asia centrale. E questo significa che gli interessi americani ed europei si sono ritirati dalla zona dell’“interesse vitale” della Federazione Russa o, per dirla meglio, dai confini dell’ex Unione Sovietica. Cioè, se i paesi postsovietici dell’Asia centrale erano di interesse per gli Stati Uniti e l’UE come transito per il contingente in Afghanistan, questo interesse è ora scomparso.

I paesi dell’Asia centrale sono ora stretti tra gli interessi della Cina, della Turchia, della Federazione Russa e dei loro pericolosi vicini del sud. Allo stesso tempo, la Turchia è lontana e non entrerà in guerra nella regione. Pertanto, la Russia ha un’“opportunità” per stabilire le sue guarnigioni ovunque, come ha fatto lo scorso inverno nel Caucaso meridionale. E in seguito, dovrà applicare delicatamente e sistematicamente la sua pressione. Se il Kirghizistan e il Tagikistan sono satelliti russi, l’Uzbekistan ha agito indipendentemente per 20 anni, e il Turkmenistan ha guardato troppo in direzione dell’Iran. Non credo che ora creeranno problemi ai turkmeni, ma tratteranno seriamente con l’Uzbekistan. Le truppe russe sono già lì (per prima volta in 25 anni) ci hanno già messo un paio di migliaia di uomini). Ritengo che la Russia finirà per aprire proprie basi a Termez, Karshi, Fergana (dove i generali russi hanno passato la loro gioventù in addestramento) e una specie di centro di coordinamento e base aerea a Tashkent.

[17 agosto]

 

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n. 11 – Cosa può fermare il caos libico? https://ogzero.org/la-soluzione-del-caos-libico-e-ancora-lontana/ Mon, 26 Jul 2021 15:26:28 +0000 https://ogzero.org/?p=4430 Questo saggio dedicato alle rotte nordafricane appartiene alla serie di contributi in cui Fabiana Triburgo approfondisce la questione migratoria: proseguiamo con la Libia, giungendo – attraverso l’analisi della situazione politica ed etnica interna e degli interessi internazionali che non aiutano l’unificazione e la pacificazione del paese. Campi di detenzione, respingimenti e schiavitù rendono difficile la […]

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Questo saggio dedicato alle rotte nordafricane appartiene alla serie di contributi in cui Fabiana Triburgo approfondisce la questione migratoria: proseguiamo con la Libia, giungendo – attraverso l’analisi della situazione politica ed etnica interna e degli interessi internazionali che non aiutano l’unificazione e la pacificazione del paese. Campi di detenzione, respingimenti e schiavitù rendono difficile la soluzione del caos libico: a quando i corridoi umanitari?


I principali conflitti che attualmente interessano le migrazioni forzate e le prassi di esternalizzazione poste in essere dall’Unione Europea e dai singoli stati membri portano a una predeterminazione delle rotte dei migranti.

Quello che oggi è inevitabile chiedersi è se il nuovo Patto europeo sulla Migrazione e l’Asilo, proposto dalla Commissione UE, possa essere realmente considerato una soluzione della gestione del fenomeno migratorio o se invece vi siano soluzioni legali alternative maggiormente lungimiranti e coraggiose.  


Etnie, tribù e clan nel puzzle libico

La Libia o piuttosto le “Libie” – Cirenaica, Fezzan e Tripolitania – da sempre si è distinta per la pluralità, all’interno del suo territorio, di differenti identità etniche e tribali, tra cui arabi, arabo-berberi, tuareg e berberi-amazigh, appartenenti ai clan o alle realtà cittadine e rispetto alle quali la popolazione libica avverte ancora oggi un forte senso di appartenenza superiore a un sentimento unitario di identità nazionale.

Ciò era valido tanto con Gheddafi quanto ancora oggi e rappresenta una delle prime questioni da prendere in considerazione se si vuole portare a compimento un effettivo processo di pacificazione del paese al di là delle dimensioni istituzionali create ad hoc per dare una parvenza di democratizzazione della Libia, come è avvenuto mediante  la formazione di un governo ad interim – istituito a Ginevra nel febbraio 2021 – approvato nel mese successivo dal parlamento di Tobruk riunitosi a Sirte e finalizzato a condurre il paese verso un trasparente e sicuro processo elettorale previsto il  prossimo 24 dicembre.

Mappa elaborata da OGzero e Chiara Alessio, dal volume di Alfredo Venturi, Il casco di sughero (Rosenberg & Sellier, 2020)

Dopo la caduta di Gheddafi, nessuna unità nazionale

Tali diverse realtà etniche rette all’epoca di Gheddafi da un sistema clientelare consolidato da quarant’anni che prometteva vantaggi all’una o all’altra tribù, in concorrenza tra loro, volto ad assicurare un consenso politico a favore dell’allora dittatura, emersero in tutta la loro irruenza con la caduta del regime – sull’onda delle rivolte tunisine ed egiziane – nel 2011. Da allora il conflitto civile ha provocato un sistema di anarchia caratterizzato dalle violenze e dagli scontri tra le diverse milizie legate all’una o all’altra realtà etnica – con sporadici tentativi di istituzionalizzazione del paese – quando i diversi clan hanno avuto accesso agli armamenti del regime ai quali si sono aggiunti quelli delle forze regionali e di quelle internazionali che sono oggi le vere protagoniste dello scenario libico. I precedenti round elettorali nel 2012 e nel 2014 infatti non hanno portato mai alla creazione di uno stato libico unitario sia per la presenza nell’esecutivo legittimamente eletto, con riferimento al 2012, della componente islamista dei Fratelli Musulmani – ricordiamo che nel 2013 il Parlamento dichiarò la volontà dell’applicazione della legge islamica nei confronti della popolazione libica – sia nel 2014, quando il governo eletto, con un’esigua partecipazione alle urne, è stato fortemente contestato dalle milizie islamiche che hanno acquisito il potere sulla città di Tripoli.

I due governi: Giano bifronte

Più specificatamente nel 2014 il precedente Congresso all’esecutivo si trasformò, senza cedere il potere, in un nuovo Congresso di Unità Nazionale e si contrappose alla Camera dei Rappresentanti e al nuovo governo legittimamente eletti che furono costretti a rifugiarsi nell’est del paese nella città di Tobruk mentre Tripoli finì nelle mani delle milizie musulmane. Venne creandosi così quel “Giano bifronte” del potere libico che vide contrapporsi la parte Est a quella Ovest: in questo contesto si impose il generale Haftar – ritornato nel 2011 dall’esilio negli Stati Uniti dopo l’estromissione dal regime a opera di Gheddafi – mostrandosi come unico uomo forte in grado di scacciare la componente estremista islamica dell’Isis e delle milizie islamiche, cominciando ad acquisire il controllo di un numero sempre maggiore di aree del territorio libico, in particolare in Cirenaica e nel Fezzan, a sud del paese, ponendosi a capo dell’Esercito di Liberazione nazionale.

L’appoggio internazionale diviso e divisivo

Successivamente in Tripolitania nacque – su sostegno della comunità internazionale oltre a quello dell’Italia e della Turchia – un Governo di Accordo nazionale guidato da Fayiz al-Serraj. Tuttavia, la situazione così determinatasi si rivelò da subito fallimentare: Haftar appoggiato da Francia, Russia, Emirati Arabi, Egitto non volle mai riconoscere il nuovo governo, per cui la comunità internazionale avviò senza successo un’opera di riconciliazione, fino a che nell’aprile del 2019 Haftar tentò il secondo colpo di stato, dopo quello del 2014 con “ l’operazione dignità”,  assediando la città di Tripoli – sostenuto dalle potenze di cui sopra – che venne scongiurato, non a caso, soltanto mediante l’intervento della Turchia.

Gli interessi geopolitici

Queste fasi del conflitto libico, essenziali per capire la situazione attuale nel paese, già fanno emergere quel ruolo fondamentale delle potenze internazionali che fin dall’inizio proiettarono nello scenario libico i propri interessi geopolitici ed economici: basti pensare all’intervento Nato con la Francia, gli Usa e la Gran Bretagna nel 2011 e  l’influenza politica delle potenze regionali dispiegata fin da subito in Libia da un lato dalla Turchia e dal Qatar, paesi vicini a un islam politico, ed Emirati arabi ed Egitto dall’altro a sostegno di una stabilizzazione del paese attraverso un processo di militarizzazione. Con il passare del tempo questo ruolo delle potenze internazionali e regionali si è talmente acuito che nei punti all’ordine del giorno della Conferenza di Berlino sulla Libia – in particolare della seconda tenutasi il 23 giugno 2021 – vi è tra i principali obiettivi posti al governo ad interim l’eliminazione delle presenze internazionali nel conflitto. Non sono stati sufficienti infatti né la prima conferenza di Berlino a gennaio del 2020, né la tregua dell’agosto dello stesso anno, né il cessate il fuoco permanente dell’ottobre del 2020 e da ultimo il Governo di Unità Nazionale di Ginevra – istituito grazie al Forum internazionale di dialogo sulla Libia – a concretizzare tale obiettivo. Si ricorda in particolare che al secondo appuntamento del giugno scorso alla Conferenza di Berlino nel quale hanno partecipato 17 stati tra cui Russia, Usa, Francia, Italia ed Egitto, la Turchia ha posto la riserva proprio sul punto riguardante il ritiro dei propri militari dalla Libia.

La Turchia non leva i “boots on the ground”

La Turchia nel paese nordafricano ha mosso le proprie fila non solo per interessi economici-commerciali legati ai giacimenti petroliferi e alla ricostruzione del paese, ma soprattutto per il perseguimento del proprio espansionismo nel Mediterraneo.

Infatti, con il precedente governo di accordo nazionale libico la Turchia ha stretto un patto che legittima la Zee turca da sempre osteggiata dalla comunità internazionale schierata a favore delle rivendicazioni marittime della Grecia e di Cipro. La Turchia inoltre – che ricordiamo aver avuto il “merito” di aver provocato l’ingresso in Libia di migliaia di mercenari siriani che si sono aggiunti a quelli ciadiani e sudanesi – ritiene che la permanenza del proprio potere militare nel paese sia in qualche modo autorizzata dal precedente patto sottoscritto con il governo di accordo nazionale di al-Serraj. Si ricorda che l’attuale primo ministro Dbeibah dall’inizio del suo mandato ha ricevuto in Libia diverse diplomazie internazionali ma il primo paese nel quale si è recato personalmente con 14 membri del nuovo governo è la Turchia.

Inoltre, sia l’attuale primo ministro – ex imprenditore ed ex capo del fondo “Lybian Local Investment and Development Company” varato da Gheddafi nel 2007 – sia il presidente del Consiglio presidenziale Mohammed Yunus al Manfi – ex ambasciatore libico in Grecia– sono figure vicine ideologicamente alla Turchia. Intanto gli altri stati, in particolare i paesi dell’UE e gli Stati Uniti, pur opponendosi alla reticenza turca sul ritiro delle proprie forze militari spesso sono troppo intimoriti da una possibile stabile quanto strategica presenza nel Mediterraneo della Russia. Russia e Turchia schierate rispettivamente a sostegno della parte est e della parte ovest del paese sono rivali nello scenario libico ma questo è solo uno dei contesti internazionali in cui i due paesi, pur essendo in contrapposizione tra loro, non arrivano mai allo scontro diretto condividendo troppi interessi comuni come quelli sul turismo, sul piano energetico, sul nucleare e sugli armamenti militari.

Milizie e contractors russi: il ritiro è lontano (nonostante l’accordo)

Non si dimentichi il ruolo delle due potenze nel conflitto riguardante il Nagorno Karabakh, la Siria e la Georgia. Quindi anche nel corso della seconda Conferenza di Berlino, Russia e Turchia hanno trovato un accordo convenendo sul ritiro di 300 tra mercenari siriani e contractors delle milizie Wagner, la Società russa di sicurezza paramilitare privata vicina al presidente Putin. Si ricorda tuttavia che l’ultimatum per il ritiro delle forze internazionali era previsto per il 23 gennaio del 2021 e che secondo le Nazioni Unite al momento vi sono ancora circa 20.000 mercenari sul territorio libico.

E la nuova Costituzione?

Non solo, oltre al progressivo allontanamento delle potenze estere dal conflitto libico, il Governo di Unità Nazionale deve portare a compimento alcuni altri importanti obiettivi in vista dell’appuntamento di dicembre per il ritorno della popolazione civile alle urne: l’approvazione di una nuova Costituzione, di una legge elettorale e la riforma del sistema di sicurezza nel paese con la creazione di un esercito nazionale libico unito che rappresenta il presupposto fondamentale per un corretto svolgimento delle elezioni e l’unico strumento che possa scongiurare che esse non vengano inficiate da una spirale di violenza determinata dalle milizie appartenenti alle diverse fazioni. Proprio per tale ragione è necessario che l’approvazione della nuova Costituzione prima delle votazioni sia il più possibile inclusiva delle minoranze etniche – alle quali spesso corrispondono altrettante milizie – attraverso il loro riconoscimento all’interno della costituente ma ciò non è un processo di facile attuazione, basti pensare che la componente amazigh-berbera ha già rifiutato un referendum di ratifica di un trattato costituzionale.

 

Se tali questioni non vengono risolte prime delle elezioni il rischio è che un nuovo governo eletto, pur se legittimo, si ritrovi dinanzi le stesse tare dei precedenti governi. Si rammenta a tal fine che l’approvazione del governo tecnico ad interim, di cui il primo ministro è Dbeibah, accolta con un plauso internazionale condiviso si deve leggere attraverso la lente di un alleggerimento delle tensioni tra Turchia ed Emirati, Egitto e Francia e soprattutto in ragione del fatto che tale governo è provvisorio per definizione in quanto gli attuali membri che ne fanno parte non potranno candidarsi alle prossime elezioni. Qualche dubbio che ciò non sarà così emerge sia dal comportamento del primo ministro rispetto alle cancellerie internazionali, sia dai processi di riforma finora attuati, essendo alquanto improbabile che nell’arco di sei mesi possano realizzarsi i succitati obiettivi, anche perché attualmente il governo ad interim sembra aver altri intenti soprattutto di carattere economico, stringendo accordi commerciali con ogni paese con cui può incontrarsi a livello diplomatico.

Europa e Stati Uniti: è davvero pacificazione e ricostruzione?

Cosa può dirsi quindi cambiato in esito a queste tappe politiche e militari così importanti che hanno interessato il paese nel 2020 e nel 2021?

Poco, come detto, sotto il profilo sostanziale per il rafforzamento delle istituzioni rispetto al passato, in un’ottica di una Libia unita pur essendo chiaramente da non sottovalutare la condizione attuale di distensione e di unicità della rappresentanza governativa. Si può però affermare che oggi l’Unione Europea abbia una politica comune in Libia, dato il momentaneo superamento delle contrapposizioni dell’Italia e della Francia nel paese e che gli Stati Uniti, governati dall’amministrazione Biden, anche se mantengono comunque in Libia una posizione non interventista – la stessa che ha caratterizzato le precedenti amministrazioni – con il loro sostegno verbale al processo di democratizzazione del paese hanno indirettamente accelerato la spinta internazionale comune alla ricostruzione dello scenario libico, anche se non sappiamo ancora quanto questo sarà effettivamente determinante per la pacificazione della Libia.

Ciò che sicuramente non è cambiato è l’attenzione al tema delle migrazioni soltanto sfiorato nella recente conferenza di Berlino e delle gravissime violazioni dei diritti umani che continuano a compiersi in Libia. Quello che preoccupa fortemente e che ogni potenza internazionale, impegnata in questa svolta del processo di pacificazione, sembra far finta di non vedere, sono i centri detentivi libici dei quali ventiquattro sono ufficiali mentre trentuno risulterebbero quelli non ufficiali. Alcuni dati possono sicuramente aiutare a comprendere meglio la situazione anche se non danno la reale e drammatica portata umana del fenomeno: più di 700.000 sono i potenziali richiedenti asilo presenti nel paese, 200.000 gli sfollati interni, 5.000 i potenziali richiedenti asilo presenti nei centri detentivi ufficiali, due dei quali Medici Senza Frontiere è stata costretta recentemente ad abbandonare e circa 10.000 quelli stimati presenti nei centri non ufficiali.

Detenzioni e schiavitù

Nei centri i migranti vengono torturati e sono vittime di violenti abusi e gravi sfruttamenti sia sessuali che lavorativi fino spesso alla riduzione in una condizione di schiavitù. Quello che è importante avere in mente è che le persone detenute in questi centri non sono protagonisti di attuali ondate migratorie provenienti dall’Africa Subsahariana transitanti per Agadez come un tempo – essendo stato bloccato il transito dei migranti negli ultimi anni dal Niger alla Libia con la Legge nigerina 36-2015 che criminalizza il traffico umano in accordo con le politiche di esternalizzazione europee – ma persone che sono presenti in Libia in uno stato di detenzione da almeno cinque anni.

Oggi i migranti che passano per il Niger vengono fermati e abbandonati in quel “mare di sabbia” del deserto del Sahara contiguo al Fezzan libico, pericoloso nel suo attraversamento quanto il Mediterraneo centrale.

Rifugiati attraversano il deserto da Agadez in Niger alla Libia, per arrivare in Europa (foto Catay / Shutterstock)

Attualmente inoltre occorre segnalare che l’Unhcr sta cercando di compiere un’attività di evacuazione dei migranti dai centri detentivi libici al Niger, attraverso delle domande di reinsediamento di questi soprattutto in Canada negli Stati Uniti e in alcuni paesi dell’UE. Si rammenta tuttavia che questa procedura non consente garanzie ferme e ufficiali in ordine alla tutela dei richiedenti asilo non essendo né il Niger né la Libia firmatari della Convenzione di Ginevra.

La situazione assume i caratteri della catastrofe umanitaria se analizziamo le attività di respingimento soprattutto a opera della cosiddetta “guardia costiera libica” per cui i migranti detenuti, dopo aver pagato attraverso i propri familiari il prezzo della propria libertà, vengono intercettati e riportati nelle coste libiche e successivamente reinseriti nei centri, in questo caso quasi esclusivamente in quelli detentivi non ufficiali, chiamati più notoriamente Safe House o Connection House.

A quando i corridoi umanitari?

Da quanto sinora esposto sotto profili diversi è chiaro dunque che la Libia non possa ritenersi un paese sicuro, per il quale sarebbe opportuno implementare sistematicamente le pratiche dei corridoi umanitari tenendo conto delle continue notizie delle morti in mare, consentendo lo svuotamento completo dei lager libici, e bloccando subito le pratiche dei respingimenti collettivi delegati e dei finanziamenti europei a esse finalizzati che interessano le attuali  rotte migratorie tra cui quella del Mediterraneo centrale di cui si tratterà immediatamente di seguito.

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Haiti: l’ordine è di uccidere il Presidente https://ogzero.org/haiti-lordine-e-di-uccidere-il-presidente-moise/ Mon, 19 Jul 2021 00:28:22 +0000 https://ogzero.org/?p=4286 Le circostanze che hanno portato alla morte del presidente haitiano Jovenel Moïse sono misteriose, ma soprattutto coinvolgono moltissime diverse realtà e potenze locali (gli appetiti di famiglie avversarie dell’imprenditore bananiero e le ambizioni delle cariche più eminenti), come di interessi e strategie internazionali, non ultimi gli Usa di Biden, la cui considerazione del cortile di […]

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Le circostanze che hanno portato alla morte del presidente haitiano Jovenel Moïse sono misteriose, ma soprattutto coinvolgono moltissime diverse realtà e potenze locali (gli appetiti di famiglie avversarie dell’imprenditore bananiero e le ambizioni delle cariche più eminenti), come di interessi e strategie internazionali, non ultimi gli Usa di Biden, la cui considerazione del cortile di casa non si discosta da quella del suo predecessore, come si evince dalla persistenza delle restrizioni all’embargo contro Cuba volute da Trump. Ci sembrava importante gettare uno sguardo sul mar dei Caraibi in occasione di questo omicidio eccellente, perpetrato utilizzando milizie riconducibili al bacino di paramilitari colombiani addestrati dalle forze più retrive del continente… ci sono abbastanza premesse per rivolgerci a Diego Battistessa che da anni si occupa con disincanto e passione a comprendere gli eventi di quello scacchiere internazionale.

 

Proprio quando pensavamo che la situazione geopolitica della regione latinoamericana e dei Caraibi avesse ormai già raggiunto il punto di massima frizione, è arrivato il 7 luglio il magnicidio del presidente della Repubblica di Haiti, Jovenel Moïse. Presidente contestato che stava promuovendo un referendum per riformare la Costituzione ed avere la possibilità di rimanere al potere. Questo gli era valso lo scontro aperto con la Corte Suprema di Giustizia del Paese e l’osteggiamento dell’opposizione politica che dava il suo mandato per terminato il 7 febbraio scorso.

Si tratta di un fatto gravissimo che attenta alle fondamenta istituzionali del paese caraibico e che apre degli scenari complessi sia a livello nazionale che a livello regionale. Almeno cinque i paesi coinvolti nell’assassinio del presidente: Haiti ovviamente, ma indirettamente anche Stati Uniti, Colombia, Ecuador e Venezuela.

Ascolta “Haiti. La sulfurea anima noire dell’isola di Santo Domingo” su Spreaker.

 

Il magnicidio

Nella notte tra 6 e 7 luglio, un commando di 28 persone ha preso d’assalto la residenza del presidente di Haiti Jovenel Moïse nel quartiere Pelerin, a Pourt-au-Prince, la capitale del Paese. Sette uomini armati sono entrati nella casa sparando 16 colpi al presidente e ferendo anche sua moglie (che si è finta morta per sopravvivere all’attacco), mentre gli altri mercenari presidiavano il perimetro. Fin da subito è emerso che gli assalitori tra di loro parlavano spagnolo e questo ha fatto capire che si trattava di stranieri. L’assalto è avvenuto all’una di notte e per il 53enne Moïse non c’è stato scampo. Nello scontro a fuoco successivo tra il commando e le forze dell’ordine haitiane, 3 assalitori sono stati abbattuti e 18 catturati. Si tratta in maggioranza di ex militari colombiani che sarebbero stati assunti e armati da una compagnia statunitense di proprietà di un venezuelano (Antonio Intriago), grazie a fondi provenienti da una compagnia di investimento ecuadoriana (rappresentata da Walter Veintemilla).

 

I presunti autori intellettuali dell’omicidio

Venerdì 16 luglio il generale della polizia nazionale colombiana, Jorge Luis Vargas Valencia, ha reso noti i risultati delle indagini che indicano uno dei supposti mandanti intellettuali dell’omicidio di Jovenel Moïse. Si tratta di Joseph Felix Badio, un ingegnere vincolato da anni a funzioni pubbliche di rilievo dentro l’apparato statale haitiano. Badio aveva lavorato al Ministerio di Giustizia di Haiti fino al marzo del 2012, momento nel quale venne assegnato all’Unità Anticorruzione (Ulcc) in qualità di coordinatore delle operazioni del Servizio Generale dell’Intelligence. La carriera dell’ingegnere haitiano ha subito però una brusca interruzione proprio all’inizio di questo 2021, precisamente il 17 marzo, quando è stato rimosso dall’incarico per gravi violazioni etiche che includevano anche la corruzione. A oggi Joseph Felix Badio risulta latitante e la polizia colombiana gli imputa i delitti di omicidio, tentato omicidio e possesso illegale di armi.

A Haiti l'ordine è di uccidere il Presidente

Badio avrebbe collaborato con colui che è considerato la vera mente del magnicidio, il medico statunitense di 62 anni, Christian Emmanuel Sanon. L’uomo pianificava di diventare il prossimo presidente di Haiti e sarebbe stato lui a contattare l’impresa statunitense di sicurezza privata CTU Security. Sanon è stato arrestato a Haiti nel fine settimana successivo all’omicidio di Moïse e nella casa dove la polizia lo ha trovato, è stata rinvenuta una consistente quantità di armi e munizioni. Il medico statunitense di origine haitiana si dichiara però innocente e afferma di non aver mai saputo della presenza delle armi e delle munizioni nella casa. Sanon, pastore evangelico che si divide tra la Florida e Haiti, è stato coinvolto in un’intensa attività umanitaria in occasione del terremoto del 2010 ed è sempre stato un forte critico della classe politica dirigente dell’isola, da lui tacciata come irresponsabile e corrotta (come dimostra un suo video del 2011). Un’indagine del “The Washington Post” colloca però Sanon al centro di una trama chiamata “Save Haiti” nata in una riunione del 12 maggio scorso a Fort Lauderdale (Florida), che prevedeva come punto finale la sua ascesa a presidente. In quella riunione avrebbero partecipato anche Intriago e Veintimilla dando inizio a una operazione del valore complessivo di 860.000 dollari per coprire contratti, munizioni, armi e viaggi del personale di sicurezza.

Elemento di collante tra gli autori intellettuali, il commando, l’impresa di sicurezza statunitense e la compagnia che ha finanziato  la maggior parte dell’operazione, sarebbe stato Dimitri Hérard, ex capo della sicurezza del presidente Moïse e arrestato il 14 luglio dalla polizia haitiana. Hèrard è l’uomo che ha viaggiato negli ultimi mesi tra Ecuador, Colombia, Haiti e Repubblica Domenicana per unire il puzzle che ha portato ai fatti del 7 luglio.

Il commando che ha realizzato il magnicidio

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Il commando che ha portato a termine l’omicidio del presidente di Haiti Jovenel Moïse e ha ferito gravemente sua moglie, Martine (che ora sta recuperando in una clinica di Miami), sarebbe stato composto da 28 integranti: 2 haitiani (con nazionalità statunitense) e 26 colombiani. Lo ha rivelato León Charles, direttore della polizia di Haiti, che ha fornito anche i nomi degli assalitori haitiani, James Solages e Joseph Vincent. I due però avrebbero fatto solo da interpreti, convinti che l’operazione si sarebbe limitata al sequestro/arresto di Moïse, mentre i responsabili di campo dell’operazione militare sarebbero due colombiani. Si tratta del sergente ritirato dell’esercito Duberney Capador e del capitano ritirato dell’esercito Germán Rivera. Capador, 40 anni, rimasto ucciso nei momenti successivi all’assalto dalla polizia haitiana mentre Rivera è stato catturato e arrestato. Del commando oltre agli haitiani già identificati e arrestati, la polizia è riuscita ad identificare 21 colombiani (18 arrestati e tre uccisi nello scontro a fuoco) mentre 5 colombiani rimangono latitanti. Capador e Rivera avrebbero riunito gli altri membri colombiani del commando, offrendo loro, secondo quanto emerso finora dalle indagini, un lavoro da bodyguard per Sanon, da 3000 dollari al mese. Il finanziamento per le operazioni e i costi legati al commando, sarebbe arrivato dalla compagnia Worldwide Capital Lending Group, di proprietà dell’ecuadoriano Walter Veintemilla, mentre armi e munizioni sarebbero state fornite dall’impresa di sicurezza privata CTU Security, con sede nel Doral (Miami, Florida) e vincolata al controverso personaggio venezuelano Antonio Intriago.  Worlwide Capital Lending Group avrebbe coperto i costi di viaggio da Miami a Haiti di parte dei mercenari, oltre ai costi di mantenimento dei membri del gruppo che già si trovavano in Repubblica Domenicana da maggio scorso. A giugno Badio avrebbe contattato i capi colombiani del gruppo e comunicato loro che l’ordine era quello di arrestare Moïse per salvare il paese dal tracollo politico e dalla violenza. Tre giorni prima dell’operazione però, ancora Badio avrebbe tenuto una conversazione con Capador e Rivera (della quale sarebbe stata informata anche CTU Service di Intriago) cambiando l’ordine di sequestro con quello di assassinio.

Gli scenari che si aprono sull’isola

Il 23 luglio si celebreranno i funerali di Jovenel Moïse in un paese sommerso dalla violenza, l’incertezza istituzionale e un vuoto di potere senza precedenti.

A Haiti l'ordine è di uccidere il Presidente

In quello che sembra un caos senza fine ora potrebbe succedere davvero di tutto visto che anche Claude Joseph, attuale discusso presidente facente funzioni, è stato accusato di aver partecipato al magnicidio. Lo stesso presidente interino (appoggiato dall’Onu e dagli Usa) ha però minimizzato dichiarando che saranno le indagini a scagionarlo. Joseph era appena stato licenziato da Moïse poco prima del suo assassinio e proprio il 7 luglio avrebbe dovuto giurare come nuovo primo ministro Ariel Henry. La cerimonia è stata ovviamente sospesa e così si è creato un dibattito istituzionale su chi realmente debba assumere la presidenza in qualità di primo ministro legalmente riconosciuto. Il legittimo successore alla presidenza, considerando che il parlamento era stato sciolto a gennaio 2020, avrebbe dovuto essere il presidente della Corte suprema di giustizia, René Silvestre, morto però poche settimane fa per Covid-19. A rendere ancora più complessa la situazione ci si è messo l’annuncio del senato haitiano del 9 di luglio, che ha designato in autonomia Joseph Lambert come il nuovo presidente interino.

Riguardo alle indagini, a oggi sono state arrestate 23 persone per l’omicidio di Jovenel Moïse, dei quali 18 ex militari colombiani e 5 cittadini haitiani-statunitensi. Inoltre sono state applicate misure cautelari a 24 agenti e responsabili dell’unità di sicurezza presidenziale.  Nel frattempo Marta Lucía Ramírez, vicepresidentessa e ministra degli esteri di Colombia ha assicurato che i militari colombiani non sono dei mercenari, cercando di difendere la figura delle forze armate colombiane che però sia dentro che fuori dal paese vedono la loro immagine sempre più compromessa.

Gli Stati Uniti d’America risultano coinvolti su più fronti, non solo per i movimenti di Sanon in Florida, l’impresa CTU service con sede nel Doral e la cittadinanza statunitense di 5 degli arrestati. Da chiarire anche l’eventuale partecipazione della Dea (Drug Enforcement Agency) visto che uno degli haitiani-statunitensi arrestati aveva lavorato in precedenza per l’agenzia e che in casa di Sanon sarebbe stato rinvenuto un cappello con il logo della Dea. Inoltre sono ormai centinaia gli haitiani che hanno preso d’assedio in questi giorni l’ambasciata Usa nel paese caraibico, per chiedere un visto che gli permetta di scappare da quello che sembra sempre di più un inferno in terra.

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n. 10 Maghreb – parte II: Algeria postelettorale, dove il “nuovo” non cambia https://ogzero.org/algeria-postelettorale-in-crisi-economica-e-stallo-politico/ Fri, 09 Jul 2021 10:34:09 +0000 https://ogzero.org/?p=4255 Questo saggio dedicato alle rotte nordafricane appartiene alla serie di contributi in cui Fabiana Triburgo approfondisce la questione migratoria: proseguiamo con l’Algeria, che in questo tempo postelettorale fa i conti con la crisi economica e lo stallo politico, con la repressione del movimento Hirak. E intanto il rapporto con i paesi limitrofi e la definizione […]

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Questo saggio dedicato alle rotte nordafricane appartiene alla serie di contributi in cui Fabiana Triburgo approfondisce la questione migratoria: proseguiamo con l’Algeria, che in questo tempo postelettorale fa i conti con la crisi economica e lo stallo politico, con la repressione del movimento Hirak. E intanto il rapporto con i paesi limitrofi e la definizione delle Zee del Mediterraneo ci portano verso il caos libico.


I principali conflitti che attualmente interessano le migrazioni forzate e le prassi di esternalizzazione poste in essere dall’Unione Europea e dai singoli stati membri portano a una predeterminazione delle rotte dei migranti.

Quello che oggi è inevitabile chiedersi è se il nuovo Patto europeo sulla Migrazione e l’Asilo, proposto dalla Commissione UE, possa essere realmente considerato una soluzione della gestione del fenomeno migratorio o se invece vi siano soluzioni legali alternative maggiormente lungimiranti e coraggiose.  


L’ennesimo roud elettorale

Nella presente sezione riguardante i paesi del Nord Africa – connaturati dall’essere non solo paesi di immigrazione – considerati i flussi migratori provenienti dall’Africa subsahariana, ma anche paesi di transito e di emigrazione degli stessi cittadini nordafricani verso l’Europa – va annoverata l’Algeria, geograficamente la più grande nazione del continente africano con circa 50 milioni di abitanti. Lo scorso 12 giugno questo paese è stato interessato da un ennesimo round elettorale, quello parlamentare, che ha registrato la vittoria indiscussa dell’astensionismo: circa il 70% degli aventi diritto al voto, infatti, non si sono presentati ai seggi per le elezioni del nuovo Parlamento.

Invero il fenomeno non desta particolare stupore perché già nelle precedenti tornate elettorali, in particolare quella del referendum sulla riforma della Costituzione, nel novembre del 2020, così come quella precedente dell’elezione del nuovo Presidente della Repubblica Tebboune il 13 dicembre del 2019 (in seguito alle dimissioni di Bouteflika) si sono distinte per una bassa affluenza alle urne.

Basti pensare che l’attuale presidente è stato eletto con circa il 40% dei voti.

Va ricordato inoltre che il primo ministro algerino Abdelaziz Djerad nominato il 28 dicembre del 2019 e appartenente al gruppo parlamentare degli indipendentisti si è dimesso proprio in esito alle elezioni parlamentari del giugno scorso ed è stato sostituito il 30 giugno dal ministro delle Finanze Ayman Benabderrahmane.

L’astensionismo e la protesta

Le ragioni di un così marcato disinteresse, sino a sfiorare il totale rifiuto, della popolazione algerina nei confronti della classe politica vanno ricercate temporalmente nel febbraio del 2019, data nella quale nacque il movimento di protesta popolare Hirak mediante il quale si sollevarono pacifiche ma decisive mobilitazioni all’indomani delle intenzioni – manifestate da parte dell’ex presidente Bouteflika – di volersi ricandidare per un quinto mandato. L’ex capo di stato, all’epoca in carica da più di venti anni, ottantaduenne e costretto su una sedia a rotelle dal 2013 in seguito a un ictus, pur rivestendo una posizione apicale da diversi anni non aveva più alcuna autonomia d’iniziativa politica e rappresentava soltanto il debole vertice di un apparato statale militare che invece costituisce ancora oggi la vera struttura portante del sistema istituzionale oligarchico algerino. Potere politico e potere militare nella classe dirigente algerina si sovrappongono ed è proprio contro questo impianto che l’Hirak protestò a partire dal 2019, così come avvenne con le proteste popolari in Libano e in Iraq, ottenendo una prima parziale vittoria con le dimissioni di Bouteflika ad aprile dello stesso anno – foraggiate, se non imposte, proprio dall’allora capo di stato maggiore dell’esercito Gaid Salah.

Tuttavia, l’Hirak non è riuscito ancora a scalfire l’impianto sottostante al capo di stato che il movimento di protesta criticava e critica tutt’ora aspramente per le decisioni politiche economiche e sociali adottate nel paese.

Il sistema politico-militare “Povoir”, infatti, che più che una casta rappresenta una struttura “genetica” del potere algerino, è considerato fortemente corrotto e interessato soltanto al mantenimento del proprio status quo, nonostante il tracollo economico che il paese oggi si trova ad affrontare, aggravato ulteriormente a partire dal 2020, dal contesto pandemico. Al riguardo si ricorda che il capo di stato Tebboune ha contratto il Covid-19, in seguito alla sua elezione, e ciò ha provocato un ulteriore stallo politico ed economico nel paese essendosi assentato per un lungo lasso di tempo per sottoporsi alle cure in Germania.

Troppo dipendenti dal petrolio

In tale scenario economico disastroso, contraddistinto da un preoccupante indice di disoccupazione, da un taglio dell’export del 20%, dall’aumento della spesa pubblica e soprattutto da un vertiginoso ribasso del prezzo del petrolio – da 70 dollari al barile a 46 dollari registrati nel 2021 – l’economia algerina ha dimostrato e dimostra le falle di un sistema che non consente l’elargizione dei sussidi necessari per la popolazione civile poiché troppo dipendente dagli introiti derivanti dagli idrocarburi. In particolare, l’Algeria avrebbe la forte necessità di diversificare la propria economia aprendosi maggiormente agli investitori stranieri. Anche se ciò in parte si è cercato di realizzare con alcune riforme legislative, l’impianto, per quanto riguarda la vendita del greggio, non ha subito variazioni.

A ricordarlo è la Legge 49/51 ancora in vigore in Algeria secondo la quale, nell’ipotesi di partecipazioni straniere nelle attività economiche e nelle società algerine, della maggioranza del ricavato deve essere sempre titolare l’apparato statale: caso emblematico è quello della società petrolifera algerina Sonatrach i cui profitti sono intestati per l’80% a dirigenti statali. In tale situazione si ricorda che l’Italia è il primo investitore straniero nell’economia algerina e il 90% del gas importato proviene proprio da quel paese.

La Zee: una rivendicazione unilaterale

Al riguardo occorre sottolineare che nel 2018 l’Algeria, la più grande potenza militare africana, i cui arsenali provengono soprattutto dalla Russia, ha rivendicato unilateralmente la propria zona economica esclusiva (Zee) nell’area marittima che si estende fino a Oristano, più specificatamente a distanza di 60 miglia dalla costa occidentale della Sardegna e almeno a 195 miglia dalla costa algerina, senza che, fino a quest’anno, dal governo italiano vi sia stata alcuna opposizione ufficiale.

Lo scorso giugno anche l’Italia tuttavia ha stabilito la propria Zee che in alcuni casi come quello dell’Algeria ha fatto emergere diverse visioni di giurisdizione.

Vedremo in seguito come tale rivendicazione unilaterale marittima dell’Algeria abbia determinato degli effetti anche sui processi di emigrazione dal paese.

Dopo l’Italia anche la Francia rappresenta un partner economico importante per l’Algeria – che ne era una colonia fino al 1962 – considerato in modo meno benevolo dagli algerini per questioni storiche passate.

Passare per cospiratori: la repressione

Ricordiamo che nel 2021 il presidente Macron dopo molti anni ha ammesso la responsabilità francese di alcune uccisioni durante la guerra di Algeria fino a ora mistificate. I movimenti di protesta dell’Hirak iniziati nel 2019, sospesi momentaneamente nel 2020 a causa delle misure imposte dal governo per il contenimento del virus, sono ripresi in modo vigoroso a partire da febbraio del 2021 e si sono accentuati in prossimità delle elezioni, in particolare nel mese di maggio e giugno di quest’anno. Contro di essi si è imposta una forte repressione caratterizzata da arresti di massa sulla base di false accuse di cospirazione o terrorismo. Inoltre, con emendamenti al Codice penale nel 2021 è stata ampliata la definizione di “terrorismo” secondo la quale rientra anche “il tentativo di conquistare il potere o cambiare il sistema di governo con sistemi incostituzionali”. Più specificatamente alla data del 23 giugno, 273 risultavano essere gli attivisti arrestati e perseguitati solamente per avere esercitato il diritto alla libertà di espressione e di riunione in prossimità delle elezioni, esprimendo il loro dissenso politico.

Tale reazione istituzionale appare contraddittoria rispetto all’operazione di facciata del capo di stato, a febbraio 2021, della liberazione di 37 manifestanti dell’Hirak – lasciandone in carcere comunque ancora 31 – per dimostrare fin da subito una rottura rispetto al passato regime.

L’operazione cosmetica della sicurezza

I manifestanti dell’Hirak in realtà anche nel 2020 sono stati arrestati con l’accusa della violazione delle norme del lockdown o in base alla violazione della legge sulle fake news entrata in vigore lo stesso anno, secondo la quale è prevista la pena detentiva fino a tre anni per i trasgressori. Inoltre, le istituzioni algerine hanno strumentalizzato le misure per il contenimento del Covid-19 per impedire il più possibile le proteste. La stessa approvazione, con referendum popolare della modifica della Costituzione, nel novembre del 2020, era stata vista dalla popolazione come una mera operazione cosmetica che pur registrando delle aperture istituzionali rispetto al regime guidato da Bouteflika – come per esempio l’introduzione della figura del vicepresidente della repubblica  – ha mantenuto la posizione predominante del capo di stato algerino non solo sull’esecutivo, ma anche rispetto al potere legislativo, avendo il presidente la possibilità di porre il veto rispetto alle leggi parlamentari, e su quello giudiziario, restando prevalenti le preferenze che egli esprime sulla nomina dei giudici. La modifica della Costituzione inoltre – entrata in vigore a gennaio del 2021 – se da un lato ha migliorato la protezione delle donne, dall’altro ha indebolito la libertà di parola subordinandola ai valori religiosi e culturali del paese. Oltre a ciò va detto che nel testo della legge contro la discriminazione e l’odio, adottato ad aprile di quest’anno, non vi è alcun riferimento alle discriminazioni legate alla religione, all’orientamento sessuale, e all’identità di genere. Nei confronti delle donne e per le persone Lgbtqi persistono quindi ancora gravi discriminazioni ed è rimasta intatta la disposizione che criminalizza le relazioni sessuali consensuali tra le persone dello stesso sesso per le quali è prevista una pena da due mesi a due anni di carcere oltre a una sanzione pecuniaria. Per le donne le discriminazioni più specificatamente sono state perpetrate in materia di eredità, matrimonio, divorzio, così come è proseguita la violenza di genere e il femminicidio.

Inoltre, si ricorda che è solo grazie all’approvazione di una nuova legge elettorale – lo scorso 7 marzo – che il presidente Tebboune ha potuto indire le elezioni del 12 giugno 2021, anticipandole rispetto alla data del 2022 originariamente prevista per il loro svolgimento.

Perché Tebboune aveva bisogno di anticipare le elezioni?

Tebboune si è posto come l’emblema (falso) dell’appagamento delle istanze sollevate dal movimento Hirak, ringraziando il Movimento stesso per avergli dato la possibilità di salire al potere e riconoscendogli la vittoria per la caduta del precedente regime, ma affermando al contempo che proprio per questo l’Hirak oggi non ha più motivo di esistere in quanto con la propria nomina sarebbe iniziata una nuova era politica per l’Algeria.

Anche qui siamo di fronte alla solita operazione di facciata: Tebboune ha indetto elezioni anticipate con una pluralità di liste parlamentari, circa 1500 per 407 seggi disponibili, ben conscio che il Parlamento in carica al momento della sua nomina si formò nel 2017 sotto il regime di Bouteflika e quindi era privo, in ragione delle successive proteste del movimento Hirak, di una vera legittimazione popolare. Per questo motivo alla vigilia delle elezioni ha dichiarato di non essere poi così interessato a un eventuale astensionismo mentre l’Hirak da parte sua ha cercato di boicottare le elezioni in ogni modo con successo. Se infatti è vero che le elezioni si sono tenute, è vero anche che si è registrata nuovamente l’acquisizione di molti seggi da parte dei partiti emblematici dell’alleanza politica durante il regime di Bouteflika –  il partito Unico del Fronte di Liberazione Nazionale (Fln) con 105 seggi al potere dal 1962 e dal quale proviene l’attuale capo di stato, quello del Ressemblement National Democratique (Rnd) con 57 seggi, al quale apparteneva Bouteflika, e  il partito islamista Movimento per la Società della Pace (Msp) con 64 seggi – che unita all’astensionismo ha fatto fallire in pieno quell’ideale progetto di svolta istituzionale  e di legittimazione popolare che avrebbe voluto mostrare il presidente davanti alla comunità internazionale, tradendo invece più realisticamente la condizione d’impasse o addirittura di regresso politico nella quale si trova attualmente l’Algeria.

Ascolta “Lo stallo ad Algeri e la resistenza del movimento Hirak: un sistema da sovvertire” su Spreaker.

Il “Punto zero”

Il sistema istituzionale algerino desta quindi preoccupazioni sia per la violenta repressione della libertà di espressione, sia di quella politica che quella di credo religioso, che per le persecuzioni nei confronti delle donne e delle comunità Lgbtqi potenzialmente valutabili ai fini del riconoscimento dello status di rifugiato in conformità alla Convenzione di Ginevra del 1951. È sempre in contrasto rispetto a quanto viene stabilito all’articolo 33 (principio di non-refoulement) della medesima Convenzione che da diversi anni l’Algeria si è resa responsabile di deportazioni di massa dei cittadini provenienti dall’Africa subsahariana verso il cosiddetto “Punto zero” nel deserto nigerino, in prossimità della città di Assamaka, l’unico punto ufficiale di passaggio tra Algeria e Niger. La questione ha assunto una rilevanza drammatica nel 2020, anno nel quale, nonostante gli elevati rischi di contagi legati al virus e la chiusura delle frontiere, l’Algeria ha comunque continuato a eseguire espulsioni sistematiche dei migranti provenienti prevalentemente dall’Africa occidentale, più precisamente di 23.175 individui, mentre nel 2021, tra gennaio e aprile, ha respinto specialmente durante le ore notturne 4370 migranti – dopo averli arrestati e detenuti per giorni – verso la zona desertica nigerina privi di mappe e di rilevatori satellitari.

L’appoggio al Polisario e al popolo saharawi

Ciò appare alquanto singolare dato che l’Algeria è anche un paese di accoglienza: da molti anni sostiene il popolo saharawi che negli anni Ottanta rivendicò la propria autonomia rispetto al Marocco riconosciuta anche dall’Unione Africana. L’Algeria infatti ancora oggi appoggia il Fronte Polisario per la Liberazione del Popolo saharawi dall’occupazione marocchina iniziata nel 1975, ospitando in prossimità della città di Tindouf nella zona sudovest del deserto algerino circa 180.000 profughi saharawi. La questione si è ultimamente esacerbata in seguito alle dichiarazioni lo scorso anno da parte dell’amministrazione americana che ha deciso di riconoscere l’autorità marocchina sui territori contesi, mentre l’Algeria continua a sostenere che la questione dell’indipendenza del Sahara Occidentale può essere risolta solo mediante l’applicazione del diritto internazionale con un referendum di autodeterminazione.

La rotta dimenticata

Insieme a tali fenomeni, legati all’immigrazione e all’accoglienza algerina, occorre considerare anche quello dell’emigrazione che interessa da diversi anni il paese e che concerne la cosiddetta rotta “dimenticata” tra Algeria e Sardegna, percorsa quasi esclusivamente dagli stessi algerini. La rotta, sottoposta a un’attenzione mediatica minore rispetto a quella più pericolosa del Mediterraneo centrale, della quale ci occuperemo più dettagliatamente nella sezione del saggio riguardante gli attuali flussi delle correnti umane, dal 2015 ha interessato particolarmente la tratta Annaba (Algeria) – Sulcis, in particolare le spiagge di Sant’Antioco, Teulada e Sant’Anna Arresi che distano circa 100 miglia dal Nord Africa e sulle quali dall’Algeria si può approdare – nel caso di buone condizioni marittime – anche in 24 ore. I mezzi impiegati in tale rotta oltretutto a volte risultano ben diversi rispetto a quelli di fortuna utilizzati per attraversare la rotta del Mediterraneo centrale: è di febbraio del 2021 la notizia dell’arrivo di un gruppo di trenta migranti tra cui donne e minori giunti dall’Algeria nel Sud della Sardegna a bordo di due motoscafi con motori da 200 cavalli. Già all’inizio del 2020 la nazionalità algerina infatti era al primo posto tra quelle dei migranti approdati in Italia, proprio mediante tale rotta, ragione per cui, nello stesso anno, non solo è stato aperto il centro per il rimpatrio di Macomer, ricavato dall’ex carcere presente sull’isola italiana, ma a settembre del 2020 il ministro dell’Interno italiano Lamorgese ha incontrato il suo omologo algerino Beldjoud e hanno convenuto sull’“attuazione di nuovi modelli operativi con particolare riferimento alle procedure di rimpatrio anche per rendere più efficiente e velocizzare la loro esecuzione”.

Verso il caos libico

Infine, interessante è il rapporto che l’Algeria ha con la vicina Libia. L’Algeria si è da sempre opposta alla bipartizione del paese (Russia e Turchia) e attualmente sostiene il governo ad interim delle Nazioni Unite presiedendo il Gruppo di Lavoro politico del Comitato internazionale sulla Libia. Anche nel 2021 infatti il paese a causa del poroso confine desertico con la Libia ha subito diversi attacchi terroristici. Ecco dunque che in tale sezione del saggio ci avviciniamo inevitabilmente a quel “Caos libico” che evidenzia l’annosa questione degli accordi con il governo italiano, tutt’ora in vigore, per il controllo dei flussi migratori del Mediterraneo centrale.

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Popoli indigeni e sciopero nazionale https://ogzero.org/popoli-indigeni-e-sciopero-nazionale/ Wed, 30 Jun 2021 23:18:36 +0000 https://ogzero.org/?p=4077 L’insurrezione in corso in una Colombia stremata da anni di neoliberismo imposto da Uribe, dal latifondo, dalle divise, scatenato dalla riforma fiscale e che vede in piazza da due mesi migliaia di persone determinate e per nulla spaventate dalle centinaia di morti, scomparsi, seppelliti in fosse comuni, vede protagoniste le comunità indigene, oggetto del desiderio […]

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L’insurrezione in corso in una Colombia stremata da anni di neoliberismo imposto da Uribe, dal latifondo, dalle divise, scatenato dalla riforma fiscale e che vede in piazza da due mesi migliaia di persone determinate e per nulla spaventate dalle centinaia di morti, scomparsi, seppelliti in fosse comuni, vede protagoniste le comunità indigene, oggetto del desiderio degli interessi minerari e agrari; del narcotraffico e dei paramilitari. La minga della Cauca fa tremare i monumenti secolari del colonialismo per colpire il neocolonialismo del neoliberismo. 

Tullio Togni continua a ribadirci che «el paro no para» anche attraverso la testimonianza di Edwin Guetio, di cui ci ha fornito alcune interessanti analisi, introiettate in questo articolo, aggiornate poi in questa corrispondenza da Bogotà, trasmessa in diretta il 1° luglio 2021 dalla trasmissione Bastioni di Orione di Radio Blackout.

Ascolta “Differenti protagonisti della rivolta colombiana. La necropolitica uribista” su Spreaker.


Il 7 maggio 2021, a poco più di una settimana dall’inizio delle sollevazioni popolari del Paro Nacional, un gruppo di giovani del popolo indigeno Misak abbattevano a Bogotá la statua dello spagnolo Gonzálo Jimenez de Quesada, a cui si attribuisce la fondazione della capitale della Colombia. In un comunicato a poche ore dai fatti, i manifestanti rivendicavano l’atto in nome del «recupero di uno spazio fisico e simbolico, sottraendolo alle violazioni che da secoli sono state perpetrate da parte dei sicari della conquista».

Gonzálo Jimenez de Quesada

L’abbattimento delle statue è la sineddoche del superamento di quel colonialismo… mentre si avversa il neocolonialismo

Oltre un mese più tardi, il 9 giugno, mentre le mobilitazioni si protraevano a oltranza nel nome di el paro no para, manifestanti indigeni dello stesso gruppo etnico abbattevano la statua di Cristobal Colón e danneggiavano quella della regina Isabella di Castiglia, detta “La cattolica”.

Claudia Lopez, sindaca di Bogotá, non tardava a condannare pubblicamente e con estrema risolutezza tali violenze rivolte al passato e alla memoria; quasi al contempo, in un’intervista rilasciata nelle strade, un manifestante appartenente al popolo Misak specificava che «questa terra non è quella degli spagnoli, bensì quella dei popoli indigeni».

La questione indigena. I numeri…

Nella molteplicità delle forme di lotta e delle rivendicazioni, nell’eterogeneità della piazza e delle mobilitazioni, la questione indigena è di primaria importanza, e dato il contesto attuale oltre che storico sarebbe impossibile negarlo. Per quanto percentualmente limitata rispetto ad altri paesi sudamericani (4,4% della popolazione – 1.905.617 persone), la popolazione indigena in Colombia è ben presente, come dimostra il censimento nazionale del 2018 che ha registrato 115 popoli indigeni presenti in tutto il paese. I dipartimenti in cui si concentrano maggiormente le popolazioni indigene sono Guajira (394.683 abitanti), Cauca (308.455), Nariño (206.455), Córdoba (202.621) e Sucre (104.890). Al contempo, i principali popoli indigeni presenti su suolo colombiano per numero di abitanti, sono i Wayuu (380.460 persone), gli Zenú, (307.091), i Nasa, (243.176) e i Pastos (163.873).

… e la Minga
popoli indigeni e sciopero nazionale

La minga nella Cauca convoca il paro nacional indigeno. La minga è un gruppo di persone piuttosto ampio che si occupa della “sicurezza”, che poi si conforma come minga interpretando il risultato dell’unione di diversi gruppi etnici indigeni. In particolare durante i cortei la marcia indigena è detta “minga”, che in sé racchiude anche il significato di protesta

Il Cric – Consejo Regional Indígena del Cauca conta 10 popoli indigeni e 127 autorità ancestrali, è figlio della resistenza indigena di fronte all’etnocidio che ha caratterizzato gli ultimi 500 anni e, più recentemente, delle lotte per la terra e l’identità portate avanti lungo il secolo XX, in particolare quelle di Martin Quintín Lame e poi dalla Asociación nacional de Usuarios Campesinos (Anuc). Edwin Guetio, coordinatore del settore per la difesa e la promozione dei Diritti Umani, ci spiega in quale situazione si trovano attualmente i popoli indigeni del Cauca colombiano e quale è stato finora il loro coinvolgimento nel Paro Nacional:

“La criminalizzazione della protesta sociale”.

Terra e territorio nella storia e nei simboli

Ha ragione Claudia Lopez, sindaca di Bogotá: le statue sono il passato e la memoria. Attaccarle, però, è un atto simbolico che riporta indietro l’attenzione, aiuta a non dimenticare. Non sorprende dunque che le mobilitazioni dello sciopero nazionale iniziato lo scorso 28 aprile 2021 abbiano voluto andare a toccare anche quella che è indubbiamente una delle radici dei tanti problemi strutturali di questo paese. Non sorprendono nemmeno le parole dei manifestanti indigeni rispetto ai soprusi perpetrati dai colonizzatori spagnoli e al diritto a terra e territori.

Latifondo, monocultura e controllo militare

È forse proprio quest’ultimo punto il centro e l’origine della discriminazione storica contro i popoli indigeni e gli altri considerati “marginali”: la proprietà privata della terra, l’accumulazione e la sottrazione delle proprietà collettive ancestrali. In questo processo storico, si individuano tre momenti fondamentali: il primo coincide con l’espropriazione della terra durante i secoli XVI e XVII – subito dopo la fine della resistenza armata delle comunità indigene del Cauca – e la costituzione delle grandi haciendas; il secondo momento corrisponde con l’espansione del latifondismo durante il secolo XIX e XX, quando alcune grandi famiglie ottennero titoli di proprietà privata a scapito della proprietà collettiva tradizionale dei popoli indigeni; il terzo e più recente momento coincide con l’epoca della “Violenza” degli anni Cinquanta del Novecento, che aumentò considerevolmente l’accumulazione delle terre nelle mani di pochi. Il lungo conflitto interno, la privatizzazione ulteriore e la militarizzazione dei territori con il fenomeno del paramilitarismo, contribuirono poi a fare il resto durante i decenni successivi. La situazione attuale non si distanzia di molto da quella degli anni scorsi, basti pensare che il 60% della terra della regione del Cauca risiede nelle mani del 7,8% della popolazione, mentre l’85% dei piccoli proprietari possiede solo il 26% della terra, che viene inoltre classificata con livello di fertilità basso o molto basso. Rimangono poi le altre problematiche di sempre, come il controllo militare dei territori, le coltivazioni illegali destinate al narcotraffico e le monocolture, prima fra tutte quella della canna da zucchero.

Los resguardos indígenas si definiscono come proprietà collettive di una comunità indigena, come dagli articoli 63 e 329 della Costituzione politica, che le dichiara non trasferibili né alienabili: indispensabili per rispettare il territorio e la cultura in cui ciascun colombiano si riconosce

Los resguardos indígenas si definiscono come proprietà collettive di una comunità indigena, come dagli articoli 63 e 329 della Costituzione politica, che le dichiara non trasferibili né alienabili: indispensabili per rispettare il territorio e la cultura in cui ciascun colombiano si riconosce

Per quanto riguarda i cosiddetti resguardos indígenas – territori appartenenti alle popolazioni indigene – va segnalato che la loro autonomia viene spesso violata sia da gruppi armati di vario tipo sia dalle forze statali, mentre il settore imprenditoriale non perde occasione per chiederne la riduzione in termini di estensione.

Autonomia e partecipazione: le Costituzioni

Vi è un altro asse parallelo nel processo di discriminazione ed esclusione storica delle popolazioni indigene: la loro considerazione e rappresentanza all’interno dello spazio pubblico e politico, i diritti concessi e riconosciuti dalla legge, la loro efficacia. A tal proposito, la Costituzione del 1991, cosiddetta Costituzione dei Diritti Umani arrivata dopo 105 anni dalla precedente, ha segnato una svolta storica, almeno sulla carta. Prima di allora le popolazioni indigene non godevano di alcun tipo di riconoscimento di fronte alla legge, tanto che la Costituzione del 1886 non ne menzionava nemmeno l’esistenza. In generale, l’impostazione portata dagli spagnoli e il modus operandi di fronte agli indigeni si mantenne anche dopo l’Indipendenza nazionale e si tradusse nell’uniformità etnica, religiosa e linguistica. Ne è un chiaro esempio la legge 89 del 1890, che elevò ulteriormente il livello di violenza e assimilazione nei confronti delle popolazioni indigene: l’idea era quella di portare i “selvaggi” alla “civiltà”, l’imposizione della religione cattolica era una condizione sine qua non.

Multiculturalità sulla Carta e diritti da conquistare

popoli indigeni e sciopero nazionale

Trent’anni fa, al momento della creazione dell’Assemblea Costituente, si registra la prima rappresentanza indigena nella storia colombiana costituita da Lorenzo Muelas, Francisco Rojas Birry e l’ex guerrigliero Alfonso Peña Chepe. I risultati furono importanti: divieto costituzionale del razzismo, garanzie per la rappresentanza e la partecipazione politica indigena, riconoscimento dell’autonomia nei resguardos e delle specificità culturali in termini di organizzazione sociale e della proprietà, usi e costumi, educazione, medicina tradizionale. In generale, il principale obiettivo raggiunto fu il riconoscimento della diversità etnica e della multiculturalità, confermato dalla ratifica della Convenzione 169 dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro. Una vittoria su più livelli nonostante varie lacune, prima fra tutte l’assenza di un capitolo esplicito dedicato ai diritti etnici e indigeni; al tempo stesso, però, una minaccia per l’oligarchia al potere e le sue mire di controllo sull’intero territorio nazionale.

Proprio da lì sembra derivare buona parte della violenza che oggi continua a perpetrarsi:

“Il controllo indigeno sul territorio: contro narcos, estrattivismo e gruppi armati”.

Paramilitarismo urbano

Lo sciopero nazionale ha sicuramente esacerbato il grado di violenza con cui si deve confrontare l’opposizione sociale in Colombia, e in tale contesto le popolazioni indigene sono state attaccate da più parti. Emblematico è quanto avvenuto lo scorso 9 maggio a Cali, quando un gruppo di civili armati ha aperto il fuoco contro la minga indígena. Un fatto allarmante in quanto rappresenta l’uscita alla luce pubblica di un fenomeno definibile come paramilitarismo urbano, finora rimasto più o meno nascosto nell’immensa zona grigia della continuità fra simili atti e gli altissimi livelli di impunità.

La solita condotta calunniosa di Uribe

Ma per capire meglio alcuni meccanismi dell’apparato repressivo dello stato, ancora una volta occorre fare un salto nel passato, quando il 30 maggio 1999 l’Esercito di Liberazione Nazionale (Eln) organizzò uno degli attentati più eclatanti della sua storia, conosciuto come il “Secuestro en la Iglesia La Maria”, avvenuto nel quartiere Ciudad Jardín della città di Cali. Decine di guerriglieri dell’Eln proruppero all’interno della chiesa nel momento della celebrazione religiosa e sequestrarono circa 200 persone, obbligandole a salire su dei camion che li portarono nelle montagne circostanti. Tutti furono poi liberati ma il bilancio fu comunque pesante: 3 morti e 1 ferito.

Ebbene, nel momento in cui, 22 anni più tardi, gli indigeni del Valle del Cauca si mobilitavano per raggiungere le manifestazioni del Paro Nacional a Cali, il solito Álvaro Uribe Veléz, in un tweet poi rettificato, “confondeva” la bandiera rossoverde del Cric con quella rossonera dell’Eln, e allarmava la popolazione civile sull’imminente arrivo in città dei guerriglieri:

Grupo terrorista ELN en Jamundí, Valle. El camino es apoyar la acción de las Fuerzas Armadas con estricta observancia de la Constitución; evitar el avance de la defensa privada armada. No repetir preferencia del terrorismo sobre las Fuerzas Armadas, se sufren consecuencias.

 

In altre parole, si trattava di un gravissimo atto di diffamazione nei confronti del Cric e di un forte incitamento alla violenza: il risultato non poteva di certo essere una sorpresa, e non a caso avvenne nello stesso quartiere di 22 anni prima, Ciudad Jardín di Cali:

“Resistenza e repressione: 9 maggio a Cali”.

I prossimi passi

Nella sua visita in Colombia avvenuta in giugno 2021 fra le mille polemiche, la Commissione Interamericana dei Diritti Umani (Cidh) ha espresso serie preoccupazioni per quanto mostrato da parte dello stato in termini di gestione della protesta sociale, di fatto tradottasi in repressione violenta sia a livello fisico che giudiziario. La piattaforma Indepaz ha denunciato che dall’inizio del Paro Nacional e fino al 24 giugno 75 persone sono state uccise. In un rapporto dell’anno scorso, giugno 2020, la stessa organizzazione sottolineava che dal 2016, anno della firma degli Accordi di Pace, 269 attivisti indigeni erano stati assassinati. Nel solo 2021, dei 79 attivisti sociali uccisi in tutto il paese, 26 risultano essere indigeni.

Sono cifre impressionanti e che dipingono in maniera esaustiva lo scenario di “pace fragile” che vive il paese, in cui ampi settori al potere non hanno alcuna intenzione di invertire la rotta e sono pronti a rispondere come hanno sempre fatto: con la forza e la violenza.

Allo stesso tempo, lento ma irreversibile, nell’intersezionalità della lotta procede il cammino verso l’autodeterminazione dei popoli indigeni e di tutti i gruppi etnici considerati “altri”. È un cammino per la vita, per la terra e per la pace, che ha trovato nel Paro Nacional del 2021 un momento di svolta:

“Una Colombia giusta e sociale. Insorgente, ma evitando la Guerra civile”.

La Dichiarazione di Quito

Uno degli slogan che più è risuonato in questi mesi di sciopero, è stato il seguente: A PARAR PARA AVANZAR, come fosse un intreccio fra cosmogonie e concezioni diverse del tempo, più o meno lineari. Allo stesso modo, è opportuno, un’ultima volta, volgere lo sguardo al passato, tornare all’attualità di oltre trent’anni fa, prima ancora dell’Assemblea Costituente del 1991.

È il 1990, è la Dichiarazione di Quito in occasione del Primo Incontro Continentale dei Popoli Indigeni, si parla di autodeterminazione:

“(…) La autodeterminación es un derecho inalienable e imprescriptible de los pueblos indígenas. Los pueblos indígenas luchamos por el logro de nuestra plena autonomía de los marcos nacionales. La autonomía implica el derecho que tenemos los pueblos indios al control de nuestros respectivos territorios, incluyendo el control y manejo de todos los recursos naturales del suelo y subsuelo y espacio aéreo. Asimismo, la autonomía (o soberanía para el caso de los pueblos indios de Norteamérica) implica la defensa y la conservación de la naturaleza, la Pachamama, de la Abya Yala, del equilibrio del ecosistema y la conservación de la vida.

Por otra parte, autonomía significa que los pueblos indios manejaremos nuestros propios asuntos para lo cual constituiremos democráticamente nuestros propios gobiernos (autogobiernos). Exigimos en forma urgente y lucharemos por conquistar las modificaciones de las constituciones de los distintos países de América, a fin de que se establezca en ellas el derecho de los pueblos indios, especificando muy claramente las facultades del autogobierno en materia jurídica, política, económica, cultural y social.

Los pueblos indígenas estamos convencidos de que la autodeterminación y el régimen de autonomía plena sólo podremos lograrlo previa destrucción del actual sistema capitalista y la anulación de toda forma de opresión sociocultural y explotación económica. Nuestra lucha está orientada a lograr ese objetivo que es la construcción de una nueva sociedad plural, democrática, basada en el poder popular”.

[D.R., Bernal Camargo, Autonomía y libre determinación de los pueblos indígenas en el marco del Estado social de derecho de la Constitución política colombiana de 1991, in “Revista Republicana”, ISSN: 1909-4450, nn. 4-5, Corporación Universitaria Republicana].

popoli indigeni e sciopero nazionale

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n. 10 Maghreb – parte I: Tunisia, terra di transito e di povertà https://ogzero.org/terra-di-origine-e-transito-i-flussi-migratori-dalla-tunisia/ Sun, 27 Jun 2021 10:47:02 +0000 https://ogzero.org/?p=4040 Questo saggio dedicato alle rotte nordafricane appartiene alla serie di contributi in cui Fabiana Triburgo approfondisce la questione migratoria: iniziamo dalla Tunisia, terra di origine che presenta una situazione variegata e che produce spostamenti volontari per cause economiche, nonché terra di transito di migranti provenienti da altre regioni: tutte dinamiche che hanno portato ad accordi […]

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Questo saggio dedicato alle rotte nordafricane appartiene alla serie di contributi in cui Fabiana Triburgo approfondisce la questione migratoria: iniziamo dalla Tunisia, terra di origine che presenta una situazione variegata e che produce spostamenti volontari per cause economiche, nonché terra di transito di migranti provenienti da altre regioni: tutte dinamiche che hanno portato ad accordi bilaterali anche con l’Italia. Seguiranno interventi su altri paesi del Nord Africa.


I principali conflitti che attualmente interessano le migrazioni forzate e le prassi di esternalizzazione poste in essere dall’Unione Europea e dai singoli stati membri portano a una predeterminazione delle rotte dei migranti.

Quello che oggi è inevitabile chiedersi è se il nuovo Patto europeo sulla Migrazione e l’Asilo, proposto dalla Commissione UE, possa essere realmente considerato una soluzione della gestione del fenomeno migratorio o se invece vi siano soluzioni legali alternative maggiormente lungimiranti e coraggiose.  


Nord Africa sponda strategica

Oggetto dell’analisi geopolitica in tale sezione del saggio è l’area del Nord Africa e più specificatamente paesi quali Tunisia, Algeria e Libia. L’area invero per definizione è costituita anche da Egitto e Marocco nonostante alcuni studiosi in materia, per comunanze linguistiche, etniche e politiche tendano a ricomprendere in tale contesto geopolitico anche altri paesi africani come la Mauritania e il Sudan facendo anch’essi parte della Lega araba. Il Nord Africa rappresenta geograficamente il canale mediante il quale sia l’Europa sia il Medio Oriente hanno accesso all’area subsahariana del continente africano in quanto essa lambisce l’Oceano Atlantico e il Mar Rosso e al contempo rappresenta una delle principali sponde del Mediterraneo. Al fine di approfondire il processo migratorio volontario o forzato derivante da questa specifica regione risultano dunque rilevanti, rispettivamente, sia le situazioni di instabilità politica rappresentate oggi dalla Tunisia e dall’Algeria quanto le situazioni di conflitto come nel caso della Libia, attualmente “contenute” da parte di un governo transitorio delle Nazioni Unite prima del processo elettorale previsto a dicembre del 2021, come per la Tunisia.

La peculiarità della Tunisia, dell’Algeria e della Libia è da rinvenirsi nel fatto che essi sono paesi di origine e al medesimo tempo di transito dei flussi migratori.

Al riguardo quindi non può essere ignorato il dato secondo il quale lo scorso anno il maggior numero dei migranti sbarcati in Italia, attraversando il Mediterraneo, provenissero proprio dalla Tunisia, oltre 400.000, ma l’aspetto particolarmente rilevante è che in tale circostanza dalla Tunisia non approdarono sulle coste italiane soltanto i migranti dei paesi subsahariani ma i medesimi cittadini tunisini che invece sbarcarono principalmente per motivi economici determinando così un processo di migrazione prettamente volontario fatte salve alcune situazioni specifiche che, come si evincerà dall’analisi completa del paese, potrebbero portare al riconoscimento della protezione internazionale. Tale aspetto risulta di particolare importanza prima di addentrarci più direttamente nella sezione riguardante le nuove rotte migratorie e gli accordi bilaterali a esse sottesi, come quello tra Italia e Tunisia, aventi come fine la limitazione delle correnti umane verso i paesi dell’Unione Europea, espressione di quella prassi illegittima dell’esternalizzazione delle frontiere che costituisce il fulcro argomentativo di questo saggio: si rammenta che la maggior parte dei 12.500 giovani tunisini sbarcati lo scorso anno sono stati rimpatriati proprio in ragione dell’accordo in materia di migrazione tra Italia e Tunisia.

Tunisia: stato debole, immobilismo politico e povertà

L’emigrazione dei giovani tunisini è dovuta principalmente dalla situazione geopolitica del paese caratterizzata attualmente da un crollo economico senza precedenti che, negli scorsi anni, ha già causato numerose proteste da parte della popolazione civile: non possono che riscontrarsi dunque quegli aspetti di assoluta familiarità con le situazioni attuali di instabilità politica, economica e sociale della regione del Medio Oriente, in particolare Libano e Iraq, già precedentemente analizzate.

Anche in Tunisia, infatti, si riscontra al momento un importante indebolimento dell’apparato statale e la conseguente formazione di un governo tecnico guidato da Hichem Mechichi.

Come noto in Tunisia si rilevano sostanziali differenze sociali, industriali, occupazionali, sanitarie e appunto migratorie tra la fascia costiera che gode di un maggiore benessere e quelle interna e meridionale fortemente marginalizzate.

Ciò è fondamentale se si pensa che proprio nella zona interna del paese scoppiarono i moti di proteste che diedero vita alle cosiddette Primavere arabe, termine assolutamente improprio coniato dall’Occidente se si riflette sulle crisi istituzionali che oggi molti di quei paesi – compresa la Tunisia – devono fronteggiare. Inoltre, è sempre nell’area interna del paese che si determinò l’avamposto del Sedicente Stato islamico negli anni successivi alla caduta del regime di Ben Ali tra il 2011 e il 2014 quando i jihadisti di Ansar al-saria – designato come organizzazione terroristica nel 2013 – reclutarono circa 70.000 militanti tunisini.

Il jihadismo: fenomeno fisiologico

Il proselitismo del jihadismo in Tunisia è al momento un fenomeno che rischia di divenire fisiologico: già negli anni precedenti il paese è stato vittima dei brutali attentati del gruppo estremista islamico messi in atto in alcuni dei principali poli turistici nel 2015 così come nelle zone più impervie nelle quali gli attacchi proseguono ancora oggi anche se con minor frequenza rispetto al passato.

Al contempo la Tunisia è stata la nazione che ha esportato il maggior numero di foreign fighters nel conflitto libico e mediorientale come quello siriano e iracheno.

Molti ragazzi tunisini inoltre sono divenuti “cellule” degli attacchi terroristici dell’Isis in Europa, come nel caso del cittadino tunisino Anis Amiri, autore dell’attentato terroristico di Berlino nel 2016. Con il crollo dell’economia è aumentata l’affiliazione al movimento jihadista, soprattutto tra i giovani meno istruiti, essendo talvolta l’unica possibilità di sostentamento dei propri nuclei familiari, mentre i ragazzi con un profilo professionale più rilevante e che hanno completato il loro ciclo di studi, solitamente se possono, fuggono dal paese. La fuga delle professionalità maggiormente qualificate, quali medici e ingegneri, va considerata in relazione al fatto che in passato hanno contribuito non poco alla crescita economica della Libia, ma la continua instabilità determinata dal conflitto libico ha fatto sì che venisse meno una delle principali risorse economiche tunisine ossia quella delle rimesse estere (in particolare quelle libiche): oggi questo flusso legale si è notevolmente ridotto mentre continuano i traffici illegali in particolare nelle città di Madanin e Bin Quantin al confine con la Libia.

Tuttavia, l’instaurazione di un governo ad interim in Libia sotto l’egida delle Nazioni Unite, al fine di accompagnare il paese a un trasparente processo elettorale, ha migliorato seppure solo in parte tale situazione tra i due paesi del Nord Africa.

La chiusura dei confini per pandemia

A peggiorare la situazione economica già al collasso ha ulteriormente contribuito la chiusura dei confini in conseguenza della propagazione del Covid-19: insieme alle rimesse dall’estero infatti, un altro ingente introito dell’economia tunisina era quello legato al turismo che ha visto, a causa della pandemia, la perdita di oltre due milioni di posti di lavoro. In tale contesto dai paesi dell’Unione Europea non arrivano flussi economici di sostentamento per la popolazione civile, diversamente da quanto è avvenuto da parte della Banca Mondiale, ma piuttosto accordi economici sia sul controllo dei migranti che – con riferimento specificatamente ancora all’Italia – sullo smaltimento illecito dei rifiuti provenienti dalla regione Campania.

Il Fondo Monetario Internazionale, invece, a febbraio del 2021 ha esortato la Tunisia ad adottare alcune importanti riforme, come quella della riduzione dei salari, e ha subordinato la concessione dei sussidi economici all’attuazione di queste riforme. Nella recente visita in Italia, il capo di stato tunisino Saied, eletto nel 2019, ha incontrato il presidente Mattarella e il premier Mario Draghi sottolineando come questo evento fosse «una rinnovata occasione per continuare a discutere dei modi per sviluppare i meccanismi di cooperazione e partenariato tra Tunisia e Italia in diversi settori».

Una frammentazione politica eccezionale

Prima ancora Saied si era recato in Libia e in Egitto per rafforzare i rapporti con gli altri due paesi appartenenti alla medesima area geografica. Una delle questioni di maggior interesse per l’analisi degli equilibri istituzionali del paese, del quale il potere è ripartito tra presidente della repubblica, esecutivo e parlamento – continuamente in contrasto tra di loro – in una frammentazione politica eccezionale (circa 200 sigle parlamentari),  è quella delle proteste portate avanti dalla popolazione civile, giovani tra i 15 e i 25 anni, interessata da una nuova ondata partita dalla zona meridionale a gennaio di quest’anno.

Non è certamente la prima volta: la Tunisia invero non ha mai smesso di protestare per la situazione socioeconomica dalla fine della cosiddetta Rivoluzione dei Gelsomini.

Le domande dei tunisini rispetto alla “Primavera” del 2011 non sono tuttavia cambiate anche se oggi non si chiede più la caduta di un regime ma principalmente giustizia sociale; a gennaio vi sono state proteste contro l’esecutivo e contro proteste a sostegno del principale partito tunisino in parlamento Ennahda, partito islamista guidato dall’anziano Rasid Gannusi al vertice del movimento legato ai Fratelli Musulmani. La causa principale delle proteste del 2021 è proprio dovuta alla severa crisi socioeconomica, indubbiamente la peggiore dal 1956, nella quale si registra una vertiginosa caduta del Pil, un forte aumento del tasso di disoccupazione e del debito pubblico, nonché il crollo degli investimenti e la svalutazione del dinaro. Va precisato, tuttavia, che essendo l’economia tunisina soprattutto di tipo informale è difficile rinvenire dati precisi che rispecchino esattamente l’entità dei succitati fenomeni. La pandemia non ha fatto altro che peggiorare tale scenario considerato l’aumento del costo dei generi alimentari, la chiusura di moltissimi hotel del paese nei quali era impiegata buona parte della popolazione tunisina, l’elevato costo dei tamponi rispetto al salario medio di un lavoratore tunisino e il conseguente aumento dei senzatetto che si riscontrano in numero elevato anche nelle strade della capitale.

Disuguaglianze tra zone costiere e interno del paese

Sembra dunque che oggi il paese continui a fare i conti con il passato dal punto di vista economico poiché continuano le disuguaglianze tra le città costiere e le zone interne e dal punto di vista politico poiché, seppure il regime di Ben Ali sia caduto, la popolazione tunisina ha perso totalmente la fiducia vista l’assenza nel paese dell’idea di stato. Tutti i partiti al governo che si sono succeduti a partire dal 2011, inoltre, hanno sempre contato sull’appoggio del partito islamista Ennahda, e continuo è lo scontro tra il premier Mechichi  – sostenuto sia dal partito Ennahda che da quello di Qalb Tounes di stampo liberista e populista del magnate Nabil Karoui – e  il presidente della repubblica Saied che si pone come difensore della Costituzione e primo nemico della corruzione come è avvenuto a gennaio del 2021 quando il capo di stato ha rifiutato la lista dei ministri proposta dal premier Mechichi perché tra i nomi vi erano degli “impresentabili”.

Quello che ha tentato di fare il premier Mechichi era un rimpasto di governo con l’intento di inserire nell’esecutivo figure più vicine ai partiti di maggioranza in modo da trasformare gradualmente il governo del presidente della repubblica in un governo maggiormente “politico”. La classe politica come notiamo è oggi dunque ancora fortemente ripiegata su se stessa, incapace di progettare una società diversa perché ancorata agli stereotipi del passato.

In questo scenario lo stato è per lo più identificato – quando non è ritenuto assente – con le forze di polizia presenti nel paese.

La repressione non si ferma

Rimangono infatti anche nella neonata democrazia tunisina le gravissime violazioni dei diritti umani perpetrati dalle forze di polizia come durante il regime di Habib Bourghiba prima e di Zine el-Abidine Ben Ali dopo, qualificabili come veri stati di polizia che si macchiarono di atroci torture e violentissime repressioni contro i dissidenti. In particolare, occorre sottolineare che a oggi i responsabili degli abusi, delle torture, delle uccisioni commesse dalle forze di polizia nel 2011, in seguito ai moti di protesta della Primavera Araba, restano ancora impuniti (viene ancora loro concessa dal governo la possibilità di non assumersi la responsabilità di quanto avvenuto in passato).  Si ricorda al riguardo che tra il 17 dicembre del 2010 e il 14 gennaio 2021 furono uccisi 132 manifestanti e circa 400 furono feriti, ma il maggiore sindacato di polizia nel paese ha chiesto ai funzionari di non presentarsi alle udienze dei procedimenti penali per le violazioni dei diritti umani compiute in quella circostanza. I sopravvissuti della Rivoluzione dei Gelsomini, in particolare gli eredi dei manifestanti deceduti, le vittime stesse, ossia le persone che hanno subito le violenze, riempiono ancora le aule dei tribunali senza vedersi riconosciuta alcuna forma di risarcimento mentre gli imputati continuano a non presentarsi nonostante molti siano i testimoni. Infatti, pur cambiando il nome di alcuni ministeri o destituendo i ministri al potere durante il regime di Ben Ali, molti funzionari cosiddetti medio-alti perché appena “al di sotto” dei ministri sono attualmente in carica e ritenuti inamovibili. Non sorprende quindi quanto sia avvenuto nel corso delle manifestazioni dello scorso gennaio del 2021 durante le quali sono stati registrati circa 1650 arresti dei manifestanti.

Arresti o sequestri?

Dopo il 30 gennaio del 2021 il sindacato di polizia promise che avrebbe messo in atto una repressione ancora più violenta se i manifestanti avessero continuato. Tra gli abusi delle recenti repressioni si ricorda il caso di Lassad Buajila, mediatore culturale di Torino, avente cittadinanza italiana e tunisina, che venne arrestato per aver filmato le proteste del 15 gennaio 2021 e la conseguente repressione delle forze di polizia: nonostante Buajilla fosse anche un cittadino italiano ha scontato oltre un mese di carcere senza che di lui vi fossero più notizie.

C’è da ricordare inoltre che manifestazioni pacifiche sono state portate avanti anche dalle donne oltre alle persone Lgbtqi, ancora legalmente perseguitate secondo l’art. 230 del codice penale tunisino, denunciando la discriminazione a causa dell’identità di genere o all’orientamento sessuale.

Con riferimento alle donne occorre precisare che, nonostante la Tunisia da sempre sia considerato un paese progressista rispetto al ruolo che queste hanno nella società, avendo riconosciuto loro, già durante il regime di Bourghiba, diversamente dagli altri paesi arabi, alcuni diritti fondamentali come quello al voto o il diritto allo scioglimento del matrimonio, il processo democratico anche in questo caso rimane sospeso poiché ancora oggi queste ereditano la metà di quanto ereditano gli uomini al momento della morte di un familiare, non hanno lo stesso accesso al sistema bancario e soprattutto la maggior parte di loro sono oggi arrestate per prostituzione e adulterio mentre l’adulterio non costituisce reato per gli uomini.

Lo standard minimo non basta

Non sembra pertanto opportuno continuare a considerare la Tunisia quell’unico esempio di successo delle cosiddette Primavere Arabe – nonostante la Costituzione del 2014 e il raggiungimento di “standard minimi  di democratizzazione” – considerata oggi la condizione di povertà estrema della popolazione civile rispetto alla classe dirigente, la diffusa discriminazione di genere, le gravi violazioni dei diritti umani a opera delle forze di polizia nonché l’immobilismo di un sistema politico che non ha saputo compiere un processo di epurazione completo rispetto ai passati regimi e che non osa compiere quelle tanto agognate riforme che porterebbero alla compiutezza del sistema democratico nel paese.

L'articolo n. 10 Maghreb – parte I: Tunisia, terra di transito e di povertà proviene da OGzero.

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n. 9 Iraq: Il Destino comune dei paesi mesopotamici. (I) La fine dello stato e il settarismo https://ogzero.org/una-mobilitazione-costante-in-iraq-il-destino-comune-dei-paesi-mesopotamici/ Tue, 22 Jun 2021 10:41:18 +0000 https://ogzero.org/?p=3949 Lo spazio dedicato alla sezione irachena non a caso cade a ridosso delle puntate siriane nella serie di articoli dedicati alle rotte mediorientali della raccolta di analisi stilate da Fabiana Triburgo sulla questione migratoria. Intanto evidenziamo come a completamento dell’area si assista agli stessi meccanismi condivisi tra Siria, Libano e Iraq, la cui frazione nella serie […]

L'articolo n. 9 Iraq: Il Destino comune dei paesi mesopotamici. (I) La fine dello stato e il settarismo proviene da OGzero.

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Lo spazio dedicato alla sezione irachena non a caso cade a ridosso delle puntate siriane nella serie di articoli dedicati alle rotte mediorientali della raccolta di analisi stilate da Fabiana Triburgo sulla questione migratoria. Intanto evidenziamo come a completamento dell’area si assista agli stessi meccanismi condivisi tra Siria, Libano e Iraq, la cui frazione nella serie di articoli si compone di due interventi strettamente correlati. Anche in Iraq ovviamente mordono ancora i danni della divisione Sykes-Picot e infatti l’Isis simbolicamente si manifestò sul confine tirato senza criterio dalle potenze coloniali per spartirsi i territori dell’impero ottomano al suo crollo.

L’autrice ha dapprima analizzato nel presente articolo il settarismo religioso che ha visto la presa del potere sciita alla caduta di Saddam e le conseguenti proteste sunnite, veicolo della rivendicazione dei diritti civili, espresse in Libano in modo ecumenico con il Movimento popolare e in Siria con l’insurrezione contro al-Assad; tra la protesta repressa da al-Maliki e quella dei movimenti giovanili del 2019 l’Isis scorrazzò per ampia parte del territorio iracheno, sgozzando e perseguendo le minoranze religiose, in particolare gli yazidi; a corollario di ciò l’autrice analizza i risvolti geopolitici degli incontri interreligiosi promossi da Bergoglio.

Nel successivo articolo si occuperà delle tribù curde nel Kurdistan iracheno e della presenza del Pkk sui monti di  Kandil e della conseguente aggressione turca.


n. 9, parte I

I principali conflitti che attualmente interessano le migrazioni forzate e le prassi di esternalizzazione poste in essere dall’Unione Europea e dai singoli stati membri portano a una predeterminazione delle rotte dei migranti.

Quello che oggi è inevitabile chiedersi è se il nuovo Patto europeo sulla migrazione e l’asilo, proposto dalla Commissione UE, possa essere realmente considerato una soluzione della gestione del fenomeno migratorio o se invece vi siano soluzioni legali alternative maggiormente lungimiranti e coraggiose.  

Non c’è pace a 30 anni dalla Guerra del Golfo

Quest’anno ricorre il trentennale della prima guerra del Golfo ma la situazione geopolitica che oggi si riscontra in Iraq è fortemente diversa da quella di allora. Gli elementi peculiari sui quali occorre soffermarsi sono attualmente: il settarismo religioso, la questione curda con l’ingerenza della Turchia nel territorio iracheno, la recrudescenza dello Stato Islamico, l’ingerenza iraniana nel paese, gli scontri tra gli Stati Uniti e l’Iran nonché la mobilitazione costante della popolazione civile contro l’esecutivo al potere. L’Iraq che raggiunse l’indipendenza dal colonialismo inglese nel 1932 e nel 1968 vide l’ascesa del Partito socialista unico (Ba’at). E già si notano le rilevanti “contaminazioni” con gli altri paesi del Medioriente riscontrate nel corso dell’analisi geopolitica del Libano e della Siria, poi fortemente manifestate con le primavere arabe: infatti, nell’instaurazione dell’esecutivo baatista in Iraq non si può ignorare che nello stesso periodo, all’inizio degli anni Settanta, anche in quella Siria geograficamente prossima, il medesimo partito si impose con veemenza e diede inizio al regime degli al-Assad, con Hafiz padre dell’attuale presidente siriano. Nel contesto iracheno baatista però si stagliò in seguito la dittatura di Saddam Hussein salito al potere nel 1979. Da questo momento in poi la storia irachena seguì per alcuni anni un iter peculiare: dapprima lo scontro con l’Iran nel 1980 terminato solo nel 1988, dal quale il paese uscì fortemente indebolito, e successivamente l’invasione del Kuwait, a causa dell’abbassamento dei prezzi del petrolio, nel 1990, alla quale seguì lo scoppio della Prima guerra del Golfo del 1991.

una mobilitazione costante in Iraq

Colin Powell durante il Consiglio di Sicurezza dell’Onu sventola la prova falsa di una provetta di antrace, accusando Saddam di guerra chimica e scatenando la Seconda guerra del Golfo

Tale ultimo conflitto, su iniziativa statunitense e su legittimazione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite che vide il coinvolgimento dell’intervento armato di numerose potenze occidentali e che ebbe un’eco mediatica mai riscontrata fino a quel momento, fu totalmente diverso dall’intervento militare del 2003 per opera di Stati Uniti e Regno Unito – questa volta fortemente osteggiato dal Consiglio di Sicurezza – sulla base dell’esistenza di presunte armi di distruzioni di massa in Iraq, invero mai rinvenute. A ogni modo, ciò che è rilevante notare è che alla destituzione del regime di Saddam Hussein, individuato dalle truppe statunitensi nello stesso anno e impiccato nel 2006, si determinò l’instaurazione di un governo ad interim: un esecutivo basato sulla coalizione curdo-sciita guidato dal premier Nouri al-Maliki. Quando però quest’ultimo incentrò su di sé tutti i poteri con l’ossessivo controllo della popolazione irachena, nel 2011 il suo governo vacillò – come in Siria avvenne per Bashar al-Assad – per cui si pensò a una “primavera irachena”.

La protesta sunnita

In Iraq però la protesta popolare in quegli anni non si accese tanto sulla base della mancanza di riconoscimento delle libertà e dei diritti civili della popolazione come in Siria, quanto piuttosto sulla reazione violenta dei sunniti – stanchi della continua discriminazione religiosa subita dall’esecutivo sciita – che tuttavia non sfociò in un conflitto civile ma in una violentissima repressione del popolo sunnita da parte del governo centrale e alla quale seguì nuovamente la vittoria, nel corso delle elezioni provinciali del 2012, del premier Nouri al-Maliki. La storia irachena ritrova comunanza con la Siria per l’ascesa del sedicente Stato Islamico in entrambi i paesi e così, come in Siria Putin, anche Haydar al-Abadi in Iraq il 9 dicembre del 2017 dichiarò la sconfitta dell’IS in conseguenza dell’intervento armato da parte dell’esercito iracheno, delle milizie sciite e dei peshmerga (“combattenti fino alla morte”) curdi che in quell’anno riconquistarono la città di Mosul, la prima città a essere assediata in Iraq dal sedicente Stato Islamico. Gli anni seguenti, dopo la nomina nel 2018 di un’economista a primo ministro (Adil Abdul Mahdi), si caratterizzarono prevalentemente per una commistione con la situazione socioeconomica libanese. In particolare, nel 2019, così come in Libano, l’Iraq registrò una rovinosa discesa del Pil: venne reso noto dall’esecutivo un deficit economico di più di 50 miliardi di dollari, si attuarono tagli al settore pubblico – nel quale era impiegata il 40% della popolazione – e, infine, si determinò una riduzione dell’export iracheno. Le proteste popolari – delle quali simbolo è l’irachena piazza Tahrir – iniziate il 1° ottobre contro il governo, a causa della situazione economica, della corruzione e della disoccupazione nel paese, vennero promosse principalmente dal leader sciita Muqtada al-Sadr e portarono alle dimissioni a novembre del 2019 di Abdul Mahdi, come in Libano si dimise il primo ministro Saad Hariri in seguito alle proteste del 19 ottobre. Sia in Iraq che in Libano infatti a protestare contro la situazione di indigenza della popolazione e il governo furono prevalentemente i giovani, tuttavia la polizia e le milizie sciite estremiste filoiraniane in Iraq – i c.d. “squadroni della morte” – così come l’esercito libanese, furono sguinzagliati a soffocare la rivolta popolare giovanile con il terrore e con una repressione sanguinaria. Amnesty International intervenne in merito dichiarando che queste sono costate la vita ad almeno 300 iracheni. Al riguardo c’è da dire che il leader sciita Muqtada al-Sadr a capo del partito sadrista se in un primo momento si schierò con i manifestanti, istituendo una forza paramilitare per proteggere i civili scesi in piazza, successivamente utilizzò la medesima forza militare per reprimere le proteste. Tuttavia, nel mese scorso, dopo una momentanea riduzione della mobilitazione popolare, dovuta principalmente alla diffusione del Covid 19, le proteste dei giovani della “rivoluzione di ottobre” contro la corruzione e il regime settario nel paese sono tornate a infiammarsi e con esse anche le violente repressioni della polizia irachena e delle milizie armate sciite fondamentaliste.

una mobilitazione costante in Iraq

Autunno 2019, squadroni della morte di militanti sciiti filoiraniani attaccano e massacrano i giovani manifestanti antisistema a Kerbala e Najaf

La crisi dell’idea di stato condiziona lo scenario geopolitico mediorientale

Mustafa al-Kadhimi – ex capo dell’intelligence irachena, nominato premier nel maggio del 2020 – dopo cinque mesi di stallo politico seguito alle dimissioni di Abdul Madhi – pur dimostrando forti aperture verso le istanze delle proteste popolari e chiedendo che fossero giudicati tutti coloro che si macchiarono della violenta repressione; e oggi è in realtà a capo di un esecutivo  fortemente depotenziato allo stesso modo di quello libanese che, in seguito alle proteste del 2019, subì le dimissioni di tre premier nell’arco di un anno. Tuttavia la necessità dell’immutabilità e della stabilità degli attuali governi è resa esplicita dalle continue conflittualità e dalle ingerenze degli attori regionali e delle potenze internazionali presenti e riscontrata anche in altri paesi dell’area mediorientale, primo tra tutti quello siriano come precedentemente analizzato. Così come in Siria, quest’anno il prossimo 10 ottobre in Iraq sono previste le elezioni fortemente reclamate dai giovani manifestanti già dallo scorso anno, ma proprio come nella repubblica guidata da Bashar al-Assad, la popolazione civile non spera più che queste possano condurre a una svolta politica e sociale nel paese. Rimangono evidenti le difficoltà del presidente di gestire le tensioni politiche tra sunniti, sciiti filoiraniani e sciiti antiraniani. Nel 2021 la centralità dello stato iracheno è messa in discussione da numerosi fattori: tra questi tuttavia, rispetto all’obiettivo che tale sezione del saggio si propone, saranno analizzati soltanto quelli rilevanti perché realmente o potenzialmente induttivi del fenomeno migratorio forzato.

Il settarismo religioso ed etnico in Iraq. Le persecuzioni contro le principali minoranze religiose

Nel periodo della transizione “democratica” del paese dal 2003 al 2013, dopo la caduta di Saddam Hussein, seguì un esecutivo guidato da Nouri al-Maliki con funzioni prevalentemente securitarie che non solo provocò una crescente marginalizzazione della componente sunnita nel paese, ma anche continue intimidazioni nei confronti delle minoranze etnico religiose tra cui quella cristiana. A tale periodo seguì poi quello dell’occupazione del territorio iracheno da parte del sedicente Stato Islamico che aggravò ulteriormente la situazione ponendo in essere violenze generalizzate contro tutte le popolazioni appartenenti alle minoranze locali, in particolare contro i cristiani e gli yazidi ritenuti “infedeli”.

Queste azioni provocarono lo sfollamento di una moltitudine di persone appartenenti alle suddette minoranze dalla piana di Ninive (al confine con la Siria) verso le zone del Nord, in particolare quelle del vicino Kurdistan iracheno. Tale situazione agevolò, infatti, un rilevante aumento degli sfollati interni: più di tre milioni nel 2018 ma, essendo tale provincia autonoma un territorio considerato diverso da quello guidato dall’autorità centrale di Baghdad, gli Idp (Internally displaced persons) dovettero seguire, per vedersi riconosciuta una legittimazione della loro presenza sul territorio, procedure e iter burocratici simili a quelli ai quali sono sottoposti i richiedenti asilo. La costituzione approvata nel 2005 invero non ha mai ovviato alla frammentarietà, al settarismo e alla fragilità del sistema istituzionale del paese nel quale sono prevalenti le comunità sciite, sunnite e curde. Il 95 per cento della popolazione irachena infatti appartiene a due gruppi etnici: gli arabi – che costituiscono circa l’80 per cento della popolazione locale – e i curdi iracheni che costituiscono circa il 15/20 per cento della popolazione; tuttavia entrambi i gruppi sono prevalentemente musulmani: il 65 per cento sono sciiti mentre circa il 30 per cento sunniti.

Distinzioni etno-religiose

Gli sciiti sono quasi totalmente arabi mentre i sunniti comprendono arabi, curdi ma anche azeri e turkmeni. Il restante 5 per cento della popolazione irachena è costituito da cristiani, yazidi, kakai, sabeani, bahai, turkmeni – iracheni, turco-circassi, beduini, shabak, armeni, iracheni neri e romani. Cristiani– il cui luogo di origine è la piana di Ninive – sono i caldei (80 per cento dei cristiani presenti nel paese), i siriaci, gli armeni, gli assiri e gli arabi. In particolare, i caldei sono in comunione con la Chiesa cattolica di Roma, mentre gli assiri fanno parte di una chiesa sorella a quella cattolica di Roma ossia la Chiesa assira d’Oriente del quale patriarcato negli anni Quaranta si trasferì negli Stati Uniti mentre negli ultimi anni ha di nuovo ristabilito la sua sede a Erbil, capoluogo della provincia autonoma curda. A partire dal 2014, ossia dalla dominazione di buona parte del territorio iracheno dal sedicente Stato Islamico, i cristiani hanno subito deportazioni e massacri. Le comunità cristiane tuttavia vennero perseguitate, in ragione del proprio credo, già prima del 2014 quando 1,4 milioni di cristiani fuggirono dall’Iraq e oggi – pur costituendo una minoranza – continuano a essere perseguitate dalle comunità arabe presenti nel paese, soppiantate spesso dal ripopolamento delle tribù sciite nei loro “luoghi storici” e il cui ritorno in tali territori viene reso impossibile dal costante intervento delle diverse milizie arabe presenti nel paese.

Diplomazia pontificia: marzo 2021, Bergoglio incontra al-Sistani

In questo contesto di persecuzione delle minoranze cristiane in Iraq si inserisce la visita di Jorge Bergoglio del 5-8 marzo 2021: tale accadimento ha un valore non solo dal punto di vista religioso ma anche una forte rilevanza politico sociale. Sotto il primo profilo vi è da sottolineare che Bergoglio ha presenziato a una celebrazione nella Piana di Ur luogo nel quale è nato il profeta Abramo più precisamente nella regione meridionale irachena di Dhi Qar. L’evento si riveste di un’importanza religiosa non indifferente se pensiamo che una delle definizioni maggiormente impiegate per le tre religioni monoteistiche è quella di “religioni abramitiche”: Cristianesimo, Ebraismo e Islam condividono tutte la fede nel profeta Abramo anche se la vita e la storia del profeta è ricostruita in modo differente dall’Islam rispetto a quanto riportato nel Vecchio Testamento. In particolare, i musulmani non credono che Abramo appartenga a una delle tre religioni monoteiste ma che debba essere considerato piuttosto come “amico di Dio” e per questo padre di tutti i profeti che si sono succeduti nella storia compreso lo stesso Maometto. Il viaggio del Pontefice svolto con l’intento di ripercorrere le “tappe di Abramo” rievoca l’intenzione manifestata nella terza enciclica del 2020 Fratelli tutti. L’espressione va intesa in tale specifico scenario geopolitico anche nel senso di parità di diritti per ogni individuo a prescindere dall’appartenenza a una determinata etnia, comunità religiosa, politica nazionale o regionale, lasciando intendere anche la necessità di riconsiderare il ruolo delle milizie repressive nel paese nei confronti dei civili. Secondo il patriarca dei caldei in Iraq il termine fratellanza è nominato dal pontefice con l’intento di superare gli scontri religiosi tra le comunità sunnite e sciite da un lato, cristiane e musulmane dall’altro e infine quelli etnici tra arabi e curdi. Secondo aspetto rilevante del viaggio di Bergoglio è quello dell’incontro a Najaf con l’ayatollah sciita Ali al-Sistani, considerato la guida internazionale, spirituale e politica per eccellenza dell’Iraq e in contrasto con la Guida Suprema della rivoluzione iraniana, l’ayatollah Ali Khamenei, guida sciita della rivoluzione iraniana. Sistani, grato agli Usa per l’aiuto per la lotta contro Saddam Hussein ma sempre in opposizione all’ingerenza americana nel paese, nel 2014 legittimò l’uso delle armi da parte dei civili iracheni sotto la sua autorità – fatti confluire all’interno delle forze istituzionali di “Mobilitazione Popolare” – per difendersi dagli attacchi del sedicente Stato Islamico contro i principali luoghi sciiti iracheni. L’ayatollah Ali Sistani caldeggiò inoltre le sopraccitate mobilitazioni popolari del 2019 contro la corruzione e le politiche economiche e occupazionali del governo e lo strapotere delle milizie armate. Tale visita ha quindi una rilevanza maggiormente politica rispetto alla celebrazione liturgica compiuta nella piana di Ur essendo il pontefice ben consapevole che le proteste popolari sono state portate avanti negli ultimi anni non solo dai giovani iracheni ma anche da quelli libanesi, algerini e tunisini. Infine, sempre in tale ottica politico-sociale il papa ha visitato anche Erbil, Qaraqosh e Mosul città violentemente dominata dal sedicente Stato Islamico dal 2014 al 2017. Già a Ur il pontefice aveva detto: «Noi credenti non possiamo tacere quando il terrorismo abusa della religione».

Gli yazidi, ma soprattutto le yazide

una mobilitazione costante in Iraq

Premio Sackarov 2016: Nadia Murad e Lamiya Aji Bashar, due donne yazide vittime dell’Isis sono insignite del premio europeo per chi lotta per i diritti umani

Altra famiglia oggetto di persecuzione nel paese è quella degli yazidi, tribù indigena nei territori del Sinjar. Lo yazidismo inoltre è una religione più antica delle tre religioni abramitiche e i suoi seguaci vennero perseguitati e uccisi perché ritenuti dagli arabi musulmani adoranti il “diavolo”. La loro lingua è il Kurmanji ossia una variante della lingua curda. Quando nel 2014 l’Isis invase i territori del Sinjar molti membri furono uccisi, sfollati e ridotti in schiavitù, circa 7000 persone, principalmente per entrare a combattere tra le milizie del sedicente Stato Islamico o di quelle curde. Nel dicembre del 2014 tuttavia le unità irachene di “Mobilitazione Popolare”, i peshmerga e le stesse milizie yazide determinarono la sconfitta dell’Isis nella stessa zona del Sinjar. Gli Yazidi sfollati nei campi del Kurdistan iracheno si trovano tuttora in campi periferici alle principali città del Kurdistan ma questo non ha impedito un fenomeno di eccezionale ed esemplare peculiarità: diverse donne sfollate interne – nonostante molte di loro siano state in passato rapite e siano divenute oggetto di abusi da parte degli uomini del sedicente Stato Islamico nel periodo dal 2014 al 2017 – hanno ottenuto in tale dimensione autonomia e opportunità che non avrebbero mai avuto nei loro villaggi grazie a progetti educativi – anche sulla sessualità – nonché di alfabetizzazione che gli assistenti sociali nel paese hanno garantito a tutti gli sfollati interni nel Kurdistan. Diversi sono stati i corsi dedicati in particolar modo alle donne non solo di formazione professionale ma anche sull’uguaglianza di genere, sulla genitorialità e più in generale quelli d’informazione sui loro diritti tra cui quello sulla possibilità di denunciare le violenze domestiche.

L'articolo n. 9 Iraq: Il Destino comune dei paesi mesopotamici. (I) La fine dello stato e il settarismo proviene da OGzero.

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n. 9 Iraq: Il Destino comune dei paesi mesopotamici. (II) I curdi iracheni https://ogzero.org/guerre-civili-e-per-procura-e-invadenza-neo-ottomana-in-iraq/ Tue, 22 Jun 2021 10:40:56 +0000 https://ogzero.org/?p=3951 Lo spazio dedicato alla sezione irachena non a caso cade a ridosso delle puntate siriane nella serie di articoli dedicati alle rotte mediorientali della raccolta di analisi stilate da Fabiana Triburgo sulla questione migratoria. Intanto evidenziamo come a completamento dell’area si assista agli stessi meccanismi condivisi tra Siria, Libano e Iraq, la cui frazione nella serie […]

L'articolo n. 9 Iraq: Il Destino comune dei paesi mesopotamici. (II) I curdi iracheni proviene da OGzero.

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Lo spazio dedicato alla sezione irachena non a caso cade a ridosso delle puntate siriane nella serie di articoli dedicati alle rotte mediorientali della raccolta di analisi stilate da Fabiana Triburgo sulla questione migratoria. Intanto evidenziamo come a completamento dell’area si assista agli stessi meccanismi condivisi tra Siria, Libano e Iraq, la cui frazione nella serie di articoli si compone di due interventi strettamente correlati. Anche in Iraq ovviamente mordono ancora i danni della divisione Sykes-Picot e infatti l’Isis simbolicamente si manifestò sul confine tirato senza criterio dalle potenze coloniali per spartirsi i territori dell’impero ottomano al suo crollo.

Questo secondo articolo si occupa delle tribù curde nel Kurdistan iracheno e della presenza del Pkk sui monti di Kandil e della conseguente aggressione turca, collegata con gli anni di al-Baghdadi e l’Isis a Mosul. Analizzando gli stessi eventi riproposti sotto nuova ottica in questo pezzo complementare al precedente in cui l’autrice aveva analizzato il settarismo religioso che ha visto la presa del potere sciita alla caduta di Saddam e le conseguenti proteste sunnite, veicolo della rivendicazione dei diritti civili, espresse in Libano in modo ecumenico con il Movimento di popolo e in Siria con l’insurrezione contro al-Assad; tra la protesta repressa da al-Maliki e quella dei movimenti giovanili del 2019 l’Isis scorrazzò per ampia parte del territorio iracheno, sgozzando e perseguendo le minoranze religiose, in particolare perpetrando un genocidio della popolazione yazida.


n. 9, parte II

I principali conflitti che attualmente interessano le migrazioni forzate e le prassi di esternalizzazione poste in essere dall’Unione Europea e dai singoli stati membri portano a una predeterminazione delle rotte dei migranti.

Quello che oggi è inevitabile chiedersi è se il nuovo Patto europeo sulla migrazione e l’asilo, proposto dalla Commissione UE, possa essere realmente considerato una soluzione della gestione del fenomeno migratorio o se invece vi siano soluzioni legali alternative maggiormente lungimiranti e coraggiose.  

Il Kurdistan di Barzani stringe accordi, tradendo i fratelli turchi

Il 9 ottobre 2020 è stato siglato un accordo tra Baghdad ed Erbil per cooperare in modo congiunto all’espulsione delle cellule del Pkk: la presenza del partito in Iraq rappresenta anche la legittimazione dell’intervento della Turchia nei territori iracheni. In conclusione, la diversità etnica e religiosa di tali due minoranze, come delle altre, pur essendo riconosciuta a livello costituzionale non è adeguatamente tutelata nelle sue garanzie previste per legge venendo escluse queste comunità da qualunque processo decisionale a livello politico, condizione ulteriormente aggravata proprio a causa del precedente dominio del sedicente Stato Islamico nell’area. La situazione di un pluralismo di etnie e religioni che caratterizza il territorio iracheno determina lo scontro interetnico costante non garantendo il governo iracheno un’effettiva decentralizzazione del potere a livello amministrativo locale che invece consentirebbe un’esistenza pacifica tra le diverse etnie, facilitando l’inclusione sociopolitica tra le comunità per il governo dei territori in cui esse sono presenti. Ciò, come già accennato, deve essere ricondotto alla formulazione della Costituzione del 2005 redatta a seguito della caduta di Saddam Hussein soprattutto dai partiti sciiti con l’ausilio dell’Iran interessato al fatto che l’Iraq non acquisisse più lo stesso potere che ebbe durante la dittatura di Saddam Hussein.

L’etnia curda e i conflitti nel Kurdistan iracheno

La semplice cooperazione tra Erbil e Baghdad prevista in Costituzione determina una difficile attribuzione dei ruoli e dei poteri. Con riferimento al popolo curdo – vittima nel 1988 del genocidio di al-Anfal, ordito da Saddam Hussein con l’utilizzo di armi chimiche – la disputa sulla governance investe non più solo attori interni ma anche potenze regionali estere quali la Turchia, l’Iran o internazionali come gli Stati Uniti. Le operazioni militari nel Nord del paese – presenti ancora oggi – hanno provocato trent’anni di vittime, di sfollamenti e di distruzione. Nei mesi scorsi il Christian Peacemaker Team – Iraqi Kurdistan, l’Iraqi Civil Society Iniziative, e il Kurdistan Social Forum hanno chiesto pubblicamente a tutte le organizzazioni locali e internazionali di aderire alla campagna per la fine dei bombardamenti nel Kurdistan iracheno riferendosi in particolar modo a quelli compiuti negli ultimi anni dalla Turchia e dall’Iran.

Il genocidio di al-Anfal fu perpetrato con armi chimiche da Saddam Hussein nel 1988

L’invadenza neo-ottomana

L’auspicio è quello di un cessate il fuoco completo tra le due potenze regionali nel territorio iracheno e l’immediato smantellamento di tutte le basi militari straniere dalla provincia autonoma curda, chiedendo ai governi di Ankara, Tehran, Baghdad, Erbil e alle Nazioni Unite di innescare un processo diplomatico per porre fine ai combattimenti. Negli ultimi mesi si sono verificati diversi attacchi armati che hanno coinvolto la provincia autonoma. Nel giugno del 2020 la Turchia diede inizio all’operazione militare “Artiglio di Tigre”, è considerata la più lunga delle invasioni di Ankara del territorio iracheno, condotta contro il Pkk sostenuto dalla popolazione nel Sudest della Turchia ma attivo anche nel Kurdistan iracheno. L’obiettivo della Turchia è quello di colpire i membri del Partito dei lavoratori in Kurdistan e le loro roccaforti nelle aree irachene. Baghdad ha perciò più volte accusato Ankara di violare la sovranità del territorio curdo chiedendo il ritiro delle proprie truppe e la cessazione delle aggressive attività militari di Ankara. Le milizie turche hanno infatti preso di mira anche i campi profughi nelle città di Makhumar e Sinjar. In particolare, a Sinjar nella provincia settentrionale di Ninive, il governo iracheno ha esortato i membri del Pkk a lasciare la regione senza successo: Ypg/Ypj han preso il controllo della regione nel 2014 in seguito all’intervento a protezione della comunità yazida contro lo Stato Islamico. A febbraio del 2021 è stata decretata la fine dell’operazione turca “Artiglio di Tigre 2” che ha causato la morte di 50 combattenti del Pkk. Ciò nonostante, anche dopo il 14 febbraio, sono continuati i bombardamenti nel Nord dell’Iraq in territorio curdo: 2 aprile 2021 caccia turchi attaccano postazioni militari del Pkk.

guerre civili e per procura

Posto di blocco di resistenti Ypg/Ypj a Kandil nel 2013.

Il 30 aprile Ankara si è detta pronta a ristabilire una propria base militare a Nord dell’Iraq e il ministro della Difesa turco ha annunciato la continuazione di due nuove operazioni militari nel Nord del paese. Secondo Erdoğan: «Non c’è posto per il gruppo separatista terroristico nel futuro della Turchia, dell’Iraq o della Siria» e ha aggiunto «continueremo a combattere fino a quando queste bande criminali che causano solo lacrime e distruzione non verranno sradicate». Infine, nel mese di maggio in particolare il ministro degli Esteri iracheno ha espresso risentimento per la visita del ministro della Difesa turco a una base militare nella provincia di Sirniak senza essersi prima coordinato con l’Iraq che ha nuovamente denunciato: «Continue violazioni della sovranità e dell’inviolabilità del suo territorio e del suo spazio aereo da parte delle forze militari turche». Nella regione curda inoltre, risparmiata dalle proteste popolari che coinvolsero l’intero paese nel 2019, si sono verificate mobilitazioni giovanili a partire dalla fine del 2020 e continuate nel 2021, pur essendo comunque represse nel sangue da parte delle milizie irachene.

Guerre civili e per procura in Kurdistan

In tale ottica si evidenzia il problema storico della necessità della riforma delle forze di sicurezza dei peshmerga e dell’intelligence che non sono organizzazioni ufficiali di polizia della provincia autonoma, ma rispondono piuttosto a partiti di tendenza opposta al Pkk e questo potrebbe innescare una guerra civile e indebolire e dividere il popolo curdo. Inoltre il Kurdistan come il resto del territorio iracheno è il campo sul quale si fronteggiano le forze militari iraniane e quelle statunitensi: il 14 aprile 2021 si è registrato un attacco della sconosciuta milizia sciita “Guardiani del sangue” contro l’aeroporto militare di Erbil e la base della Coalizione internazionale a guida Usa sempre nel capoluogo del Kurdistan; evidenziando come la sicurezza della provincia autonoma sia continuamente esposta all’intensificarsi degli attacchi iraniani contro obiettivi statunitensi.

Il conflitto tra Usa e Iran sul territorio iracheno

Cosi come tra regime turco e Pkk nel Kurdistan iracheno, anche i violenti scontri militari tra Usa e Iran sull’intero territorio dell’Iraq sono una costante. Già nel maggio del 2019 l’allora segretario di stato Mike Pompeo chiese all’allora presidente iracheno Mahdi rassicurazioni sul disarmo delle varie milizie sciite vicine a Tehran (Forze di mobilitazione popolare in Iraq – Pmf), nate in risposta alla richiesta del jihad da parte dell’ayatolllah Ali al-Sistani contro lo Stato islamico, dopo la caduta di Mosul, e successivamente unitesi alle milizie iraniane dell’al-Quds ossia il “braccio armato” dei Guardiani della rivoluzione dell’Iran a capo delle quali vi era il generale Qasem Soleimani. Gli Stati Uniti inoltre vollero rassicurazioni anche in merito alla condizione di sicurezza di circa 6000 militari americani presenti in Iraq e dunque cominciarono a inviare navi da guerra sul territorio. Tale escalation di tensione tra Usa e Iran avvenne in seguito alla visita del presidente iraniano Rohani il 6 marzo 2019 quando incontrò figure politiche militari e religiose irachene ponendo le basi per una collaborazione tra Iran e Iraq in più settori. La situazione tra Stati Uniti e Iran peggiorò con l’uccisione all’aeroporto di Baghdad del generale iraniano Qasem Soleimani il 3 gennaio 2020 – in seguito sostituito da Esmail Ghani – e di altre importanti personalità militari e di sicurezza sciite filoiraniane come Abu Mahdi al-Muhandis, vicecomandante delle Forze di mobilitazione popolare che in passato avevano anche coordinato nel paese i combattimenti contro l’Isis. Dopo questo omicidio il parlamento iracheno votò e approvò una mozione che richiedeva il ritiro immediato delle truppe statunitensi. La decisione dell’uccisione del generale Soleimani – giustificata come misura proporzionata di autodifesa preventiva nel rispetto del diritto internazionale delle Nazioni Unite – venne adottata dall’allora presidente Trump, su consiglio del Pentagono, dopo essersi consultato anche con l’allora segretario di stato Mike Pompeo in seguito all’assalto all’ambasciata statunitense in Iraq condotto dai miliziani iracheni collegati all’Iran. Da allora si ripeterono diversi e violenti attacchi missilistici dell’Iran contro basi militari irachene a Erbil e Ain al-Asad nelle quali erano presenti soldati americani. Il 27 marzo 2020 gli Stati Uniti annunciarono di aver ordinato ai propri impiegati dell’ambasciata americana in Iraq e ai funzionari del consolato di Erbil di lasciare il paese. Gli Stati Uniti decisero di evitare d’inasprire la propria forza militare contro la milizia filoiraniana delle falangi di Hezbollah, pur se particolarmente ostile alle milizie americane e annunciarono di voler ritirare 2000 dei circa 5000 militari statunitensi presenti in Iraq.

In tale scenario occorre menzionare anche il leader sciita di origine libanese Muqtada al-Sadr leader del movimento sadrista del partito Sairoon che vanta una discendenza diretta con il profeta Maometto: le sue milizie furono protagoniste dell’insurrezione armata contro le truppe di occupazione americane nel 2003, ma volendosi ora mostrare distante da Tehran lo scorso anno dichiarò: «L’occupazione americana si combatte in parlamento e non con la violenza, attaccando sedi di cultura e ambasciate». Dopo pochi mesi, tuttavia, ritornò nel quadro delle milizie filoiraniane. Rispetto alla continua attività di belligeranza in Iraq tra le due potenze il nuovo premier Mustafa al-Kadhimi – nominato su comune intesa di Iran e Stati Uniti e considerato il “premier di tutti e di nessuno” – non ha preso una vera posizione, principalmente concentrato su questioni securitarie. Infatti l’attuale premier nonostante abbia dichiarato in più occasioni di voler contrastare l’impunità delle milizie filoiraniane, non ha di fatto mai avviato alcuna attività politica in tal senso. Il 15 febbraio 2021 una dozzina di razzi lanciati da gruppi sciiti sostenuti dall’Iran – come Kata’ib Hezbollah – hanno preso di mira le forze della coalizione a guida Usa fuori dall’aeroporto Internazionale di Erbil.

Il 1° marzo del 2021 Joe Biden ha ordinato un attacco sulla base operativa di un gruppo di miliziani sciiti vicini all’Iran, due giorni dopo diversi missili iraniani hanno colpito nuovamente la base di Ain al-Asad della coalizione anti-Isis a guida statunitense e impiegata altresì dalle truppe britanniche stanziate in Iraq nel governatorato occidentale di Anbar. Le notizie di continui attacchi contro obiettivi statunitensi ancora sono state riportate il 16 e il 29 marzo 2021 così come nel mese di aprile e di maggio sempre a opera di gruppi armati affiliati all’Iran. In tale situazione di continua belligeranza va sottolineata la dichiarazione congiunta di Washington e Baghdad ad aprile: le truppe da combattimento statunitensi, impiegate contro la lotta allo Stato Islamico, abbandoneranno l’Iraq. Le forze Usa tuttavia continueranno a fornire consulenza e addestramento all’esercito iracheno mentre la presenza italiana nella Missione Nato nel paese continua ad aumentare.

I continui attentati nel paese da parte del sedicente Stato Islamico

Con la fine del regime di Saddam nel 2003, lo scioglimento e l’immediata ricostruzione delle forze di difesa statali condussero all’espansione di al-Qaeda in Iraq in particolare a Mosul e Falluja tra i sunniti – in precedenza unitisi nel gruppo dei Fratelli Musulmani – che temevano sia la crescita del potere sciita sia le conseguenti rappresaglie della popolazione curda. Il governo ad interim guidato da Ayad Allawi nel 2004 infatti si impegnò per il rafforzamento sia delle forze armate irachene, con l’inclusione delle unità dei peshmerga, sia delle forze di polizia sciite, in modo da aver un maggiore controllo della città di Mosul. Nel 2005 i sunniti tuttavia boicottarono le elezioni provinciali e ciò portò alla vittoria del Partito democratico del Kurdistan nel Consiglio provinciale alla quale seguì la violenta protesta sciita. Intanto l’anno successivo mentre diminuiva la presenza militare irachena e statunitense proprio a Mosul si faceva già strada quello che sarebbe divenuto il leader del sedicente Stato Islamico Abu Bakr al-Baghdadi. La politica anticurda successivamente portata avanti dal premier Maliki – coincidente questa volta con la volontà della comunità sunnita – determinò l’allontanamento della comunità curda da molti territori di appartenenza e la conseguente vittoria dei sunniti nel 2009 i quali ottennero la maggioranza dei seggi nel Comitato provinciale.

Mappa demografica delle etnie curde in Mesopotamia (tratto da Curdi, a cura di Antonella De Biasi, Rosenberg & Sellier, 2018).

Nel 2011 il rapporto tra il governo centrale e quello locale si deteriorò con un conseguente aumento delle forze federali a scapito di quelle locali e così, quando nel 2012 scoppiò la guerra civile nella vicina Siria, l’Isis ebbe la possibilità di strutturarsi meglio per poi attaccare le forze di sicurezza del paese assediando la città di Mosul dal 2014 al 2017. Dopo la conquista di Mosul nacquero le cosiddette Forze di mobilitazione popolare in Iraq (Pmf) unitesi in seguito alle milizie iraniane del Quds che con i peshmerga e le truppe americane riconquistarono la città nel 2017 dichiarando la sconfitta dell’Isis. Già a partire dal 2019, nonostante l’annuncio degli Stati Uniti dell’uccisione di al-Baghdadi, i funzionari dell’intelligence curda segnalavano che l’Isis fosse tutt’altro che sconfitto e che doveva essere considerato piuttosto come un’organizzazione terrorista risorgente. Nonostante la cattura lo scorso 3 maggio del governatore dell’Isis a Fallujah, Abu Ali al-Jumaili a opera dei servizi segreti iracheni l’Iraq oggi non può considerarsi ancora al sicuro dalla minaccia terroristica dello Stato Islamico che negli ultimi mesi del 2021 ha notevolmente intensificato gli attacchi nel paese.

L’Iraq non è un paese sicuro

In conclusione, oggi l’Iraq non può essere considerato un paese sicuro, tradendo l’attuale esecutivo di al-Kadhimi forti difficoltà a mantenere quei propositi securitari posti all’inizio del suo mandato, stante l’attuale impossibilità di un effettivo contenimento delle milizie filoiraniane, degli attacchi dello Stato Islamico, così come delle continue proteste della popolazione locale. Fallisce in questo modo, mentre si avvicinano le nuove elezioni nel paese, l’idea di un recupero della centralità e dell’influenza dello stato e dell’esercito iracheno che invece risulta sempre maggiormente dipendente dall’aiuto militare esterno locale e internazionale proprio come riscontrato in Siria.

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Colombia: parlano i muri https://ogzero.org/la-lotta-prosegue-in-colombia-e-i-muri-parlano/ Sun, 13 Jun 2021 10:43:01 +0000 https://ogzero.org/?p=3828 Colombia: a oltre un mese dall’inizio dello sciopero nazionale, il bilancio di un paese con clima da guerra civile. Tullio Togni ci racconta – anche con una serie di sue immagini – che, nonostante la dura repressione dell’Esmad, la lotta prosegue e sopra ogni altra voce, anche attraverso i muri, anche se coperti da teli […]

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Colombia: a oltre un mese dall’inizio dello sciopero nazionale, il bilancio di un paese con clima da guerra civile. Tullio Togni ci racconta – anche con una serie di sue immagini – che, nonostante la dura repressione dell’Esmad, la lotta prosegue e sopra ogni altra voce, anche attraverso i muri, anche se coperti da teli neri che li censurano, lo sciopero continua, inaugurando così una serie di articoli inviati dalla Colombia in lotta: potete già anche leggere (e ascoltare la testimonianza di Edwin Guetio) il secondo contributo dedicato all’apporto al “paro nacional” da parte della comunità indigena


Hanno oscurato le pareti di piazza Bolívar, Bogotá, per paura che parlassero. Un immenso telone nero è stato calato sulle facciate principali del Palazzo di Giustizia e del Campidoglio nazionale, così come lungo le arterie principali che portano al cuore della città: sipari bianchi di plastica a protezione degli edifici più significativi, dei centri commerciali e delle statue di conquistatori spagnoli e politici di spicco di uno o due secoli fa. L’idea era che un colpo di spugna sarebbe bastato per lavare tutto il sangue, ma questa volta non è andata così, perché i muri – tutti – durante il lungo maggio di rivolta hanno continuato a parlare. Hanno detto che “il popolo vuole educazione e salute anziché guerra”, che “con la fame ci controllano”, che il “narcostato è corrotto” e che “la polizia tortura”. Ma soprattutto, ovunque e più forte di ogni altra voce, da 40 giorni continuano a gridare che “lo sciopero continua”.

La lotta prosegue

El paro no para

La prima scossa era stata data il 21 novembre 2019 con uno sciopero nazionale che sembrava essere logica conseguenza delle mobilitazioni in Cile ed Ecuador: anche in Colombia si protestava contro l’ennesima offensiva neoliberale e le sue agevolazioni fiscali alle grandi imprese in cambio di tagli ai salari della classe media e dei meno abbienti. A ciò si aggiungeva la prostrazione di fronte alla corruzione endemica della classe politica, la rivendicazione di una reale implementazione degli Accordi di Pace del 2016 fra Governo e Farc e infine il rispetto, da parte dello stato e la sua forza pubblica, del diritto alla protesta sociale. Poi venne la pandemia a placare gli animi o meglio a rinchiuderli in casa, almeno per chi ne aveva una: un rigido e lungo lockdown di quasi 6 mesi diede il colpo di grazia a quella grande fetta di popolazione che sopravviveva grazie all’economia informale. Tre milioni di persone finirono in povertà mentre 2,4 milioni di posti di lavoro si persero per strada: a pagarne le spese, come sempre, i giovani e le donne, oltre alle categorie storicamente e strutturalmente svantaggiate.

El covid es mentira

El covid es mentira – “Il covid è una menzogna”, sussurra un altro muro vicino al Museo nazionale, pieno centro Bogotá. Nessun negazionismo bensì un graffio alla gestione del governo e alle parole del presidente Ivan Duque, che di fronte alle dimissioni del ministro delle Finanze Alberto Carrasquilla, fautore della Riforma Tributaria che ha incendiato il paese intero, lo ha ringraziato per aver realizzato un sistema sociale che ha saputo far fronte alla pandemia. Così, nel picco della terza ondata di Covid-19 e a fronte degli oltre 90.000 morti che si contano in tutto il paese, la stessa Riforma tributaria arrivata senza previa consultazione di alcun tipo si è trasformata in una scintilla: imposizione dell’Iva al 19 per cento su beni e servizi, tagli alle pensioni, ai salari e al sistema sanitario, fra le altre cose. Il 28 aprile il Comitato di Sciopero Nazionale – formato dalle principali organizzazioni sindacali e di studenti, insegnanti, pensionati, contadini, camionisti, indigeni e afrocolombiani, oltre alla comunità lgbtqi – ha indetto il primo giorno di sciopero nazionale e ha espresso le sue rivendicazioni, simili a quelle del 2019 con l’aggiunta di una campagna di vaccinazione di massa, un salario minimo legale mensile, facilitazione di accesso agli studi per gli studenti, rispetto della diversità di genere.

La lotta prosegue

La risposta della popolazione è stata immediata e imponente in tutto il paese, tanto che quasi subito, il 2 maggio, il governo ha ritirato la Riforma Tributaria e annunciato le dimissioni del suo artefice, il ministro delle finanze Alberto Carrasquilla. Ma questo non ha calmato la protesta, che prosegue da oltre un mese e che lo scorso 19 maggio ha ottenuto anche il ritiro della Riforma alla Salute.

Ma non è andato tutto liscio, anzi. Lo dicono i muri, lo urlano più forte che possono.

La lotta prosegue

Nos están matando

Il 29 aprile 2021 appare un tweet – poi eliminato dalla piattaforma per incitamento alla violenza – in cui Alvaro Uribe, uomo forte del partito di estrema destra Centro Democratico al governo, nonché ex presidente in carica fra il 2002 e il 2010, chiede la militarizzazione delle città e sostiene il diritto di soldati e poliziotti di usare le armi. Detto fatto, il suo scagnozzo Ivan Duque dà immediatamente l’ordine, scatenando la violenza indiscriminata e impunita della forza pubblica, che guarda caso nella democrazia colombiana risponde al ministero della Difesa anziché a quello degli Interni. Bastano pochi giorni per far calare un clima di terrore su tutto il paese, contrastato solo dalle manifestazioni rumorose e colorate che imperterrite continuano a sfilare. Si crea ben presto una nuova normalità, termine abusato e dettato ora dall’Esmad, l’unità antisommossa nata nel 1999 sotto la presidenza di Pastrana e poi formalizzata dallo stesso Alvaro Uribe, conosciuta per la ferocia e le brutalità commesse tanto contro gli oppositori politici come ai fini di una “pulizia sociale”. La nuova normalità, molto simile a un ennesimo “stato di eccezione”: mattino tranquillo, pomeriggio di mobilitazioni e notte di scontri e repressione. L’Esmad presidia i centri di potere e quando riceve l’ordine dalle alte gerarchie attacca i cortei sparando lacrimogeni ad altezza umana e usando armi da fuoco, mentre l’esercito schiera soldati, blindati ed elicotteri. A ciò si aggiungono gruppi di civili armati che attaccano i manifestanti.

La lotta prosegue

Poi succede di tutto, dalle irruzioni in casa alla caccia all’uomo, dalle esecuzioni extragiudiziali alle sparizioni forzate: l’atmosfera è surreale. Il caso più emblematico e triste è quello di Alison Salazar, una ragazza di 17 anni morta suicida dopo che il giorno prima, il 12 maggio, era stata catturata e abusata sessualmente da quattro agenti dell’Esmad a Popayan, dipartimento del Cauca. È proprio in questa zona che si è spostato l’epicentro della violenza, insieme alla regione della Valle del Cauca e alla città di Cali: aree con alte percentuali di povertà che coincidono con la maggior presenza di popolazione indigena e afrocolombiana, ma anche con l’insediamento di gruppi armati illegali nei territori smilitarizzati dopo gli Accordi di Pace fra Governo e Farc. I manifestanti e le loro prime linee eterogenee composte da giovani provenienti dai vari settori sociali rispondono con pietre e scudi improvvisati, danno alle fiamme numerosi centri di polizia e di tortura, colpiscono alcuni supermercati e lo scorso 25 maggio hanno incendiato il Palazzo di Giustizia della città di Tuluá in risposta all’uccisione di quattro giovani di cui uno minorenne; ma le azioni più efficienti per la destabilizzazione del settore impresariale al potere sono i blocchi delle strade a cui partecipano anche i camionisti, lasciando transitare solo beni di prima necessità nei cosiddetti corridoi umanitari.

I numeri della violenza

Aggiornati lo scorso 31 maggio, i numeri di quanto sta succedendo – resi noti dalla piattaforma di diritti umani Temblores – confermano che nel paese regna un clima da guerra civile: 3789 casi di violenza poliziesca; 74 persone uccise, 45 dalla forza pubblica e 29 in processo di verifica, casi legati probabilmente ad attacchi da parte di civili armati contro i manifestanti; 1248 persone ferite da polizia ed Esmad, di cui 65 con lesioni oculari; 187 casi di uso di armi da fuoco da parte della forza pubblica; 1649 persone detenute arbitrariamente per aver preso parte alle mobilitazioni; 25 vittime di violenza sessuale perpetrata da agenti della forza pubblica; 91 desaparecidos dall’inizio delle proteste secondo il pubblico ministero – ma il numero reale potrebbe essere molto più alto: persone fatte sparire senza lasciare alcuna traccia, probabilmente rinchiuse in centri di tortura informali. Ironia della sorte, la cosa più tragica è che per il loro bene occorre quasi sperare che siano già morte. Del resto, negli ultimi giorni hanno cominciato a circolare voci e denunce sempre più fondate secondo cui la forza pubblica starebbe sotterrando cadaveri in fosse comuni.

Sappiamo chi ha dato l’ordine

Potrebbe sembrare, ma non è così: la Colombia non ha nulla a che vedere con le dittature militari latinoamericane del secondo Novecento. Lo sostiene l’oligarchia al potere, la stessa che secondo denunce informali sta attualmente reclutando mercenari e pianificando stragi di massa all’interno dei cortei; lo conferma la storia recente e il suo apparato statale che si è sempre mantenuto democratico. Solo qualche macchia: i massacri, l’epoca della “violenza” negli anni Cinquanta, le dottrine di Sicurezza nazionale e poi Sicurezza democratica, la corruzione e le elezioni rubate, il genocidio politico del partito di sinistra Unione Patriotica, il narcotraffico e il paramilitarismo, i 6402 “falsi positivi” e i milioni di dollari americani spesi per combattere il cosiddetto “nemico interno”. E poi la situazione attuale: peggio di così sembra saper fare solo un’altra democrazia, in Medio Oriente.

La lotta prosegue

In tale contesto, è oggi difficile porre le basi per una negoziazione fra il governo e il Comitato di Sciopero Nazionale: nelle tavole rotonde dei giorni scorsi il primo ha dimostrato di non essere disposto a considerare la radice del problema e si ostina a paventare il fantasma del “terrorismo vandalico e le sue infiltrazioni guerrigliere”, mentre il secondo chiede ora a gran voce la riforma della forza pubblica e lo smantellamento dell’Esmad, un punto che era rimasto tabù anche negli accordi di pace del 2016. A proposito, da allora sono stati assassinati quasi 1200 leader sociali, senza contare questo mese di maggio.

Intanto, nell’effervescenza attuale la verità rimane scritta sui muri, che da un mese o forse un secolo lo ripetono all’infinito: Nos estan matando – “ci stanno uccidendo”.

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Destini dirottati: equilibri in bilico nella Federazione russa https://ogzero.org/destini-dirottati-gli-equilibri-della-federazione-russa-in-bilico/ Fri, 28 May 2021 17:40:35 +0000 https://ogzero.org/?p=3678 La vicenda del “dirottamento” del volo Ryanair sui cieli della Bielorussia ha riportato in auge il tema del destino del piccolo paese slavo, dopo i tumultuosi mesi seguiti alle presidenziali del 9 agosto scorso che hanno riconfermato – tra violenze della polizia e manifestazioni oceaniche dell’opposizione – Alexander Lukashenko alla presidenza della Repubblica. Il tema […]

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La vicenda del “dirottamento” del volo Ryanair sui cieli della Bielorussia ha riportato in auge il tema del destino del piccolo paese slavo, dopo i tumultuosi mesi seguiti alle presidenziali del 9 agosto scorso che hanno riconfermato – tra violenze della polizia e manifestazioni oceaniche dell’opposizione – Alexander Lukashenko alla presidenza della Repubblica. Il tema è scottante perché già come scrivemmo nel giugno scorso, rimanda alle prospettive non solo per la Bielorussia e per tutte quelle realtà che un tempo si definivano il “Vicino estero” russo ma soprattutto del destino della Federazione russa stessa, ovvero del vero oggetto del contendere.

Il traghettatore filoccidentale o il golpe soft?

Per lungo tempo – almeno dal 2018 – Vladimir Putin è stato tentato da un soft putsch a Minsk che portasse ai vertici dello stato bielorusso Victor Babariko, esperto banchiere con molti agganci a Mosca, soprattutto a Gazprom. Un’incertezza durata fino a dopo il 20 agosto 2020 quando dopo l’avvelenamento di Alexey Navalny, lo “Zar” ha sentito “odore di bruciato” (cioè si è convinto che ci fosse un tentativo dei paesi baltici e della Polonia di imporre una transizione filoccidentale alla Bielorussia, via manifestazioni di massa) e ha riconfermato il pieno endorsement al governo di Minsk, non solo a parole, ma nei fatti, tanto è vero che la stessa operazione dell’arresto del fondatore di “Nexta” sarebbe stata gestita tra Atene e Minsk proprio dai servizi russi. Dopo lo sgonfiamento delle manifestazioni antiregime (in larga parte determinate dall’insipienza del gruppo dirigente dell’opposizione ancor prima che dalla repressione) l’ipotesi di “golpe soft” che porti al governo di Minsk un traghettatore del paese verso una “Nuova Bielorussia” continua a circolare all’interno di molte cancellerie europee come ci ha confermato una nostra autorevole fonte dell’opposizione bielorussa oggi in esilio a Londra. L’idea che circola insistentemente sarebbe quella di proporre un uomo dell’esercito “rinnovatore e filoccidentale” che però non sia inviso (se non addirittura gradito) a Mosca. Si riproporrebbe così – seppur in un contesto diverso – l’accordo sottobanco sulla Polonia post-1981 quando il generale Wojciech Jaruzelski pilotò il colpo di stato del 13 dicembre. Come diventò evidente in seguito la mossa sovietica fu realizzata tenendo conto delle esigenze occidentali e rappresentò il punto di equilibrio tra la Dottrina Breznev e la conferma dell’impegno da parte di Varsavia con il Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale a pagare i debiti contratti negli anni Settanta.

Il North Stream 2 a rischio

Una variabile che difficilmente oggi potrebbe andare in porto sia perché Lukashenko non sembra disposto a farsi deporre, sia perché Putin potrebbe accettare di valutare tale possibilità solo nel quadro di una trattativa globale che tenga insieme perlomeno la questione del Donbass ma soprattutto il destino dei gasdotti russi in Europa (e in questo senso andrebbe la disponibilità Usa a congelare le sanzioni contro North Stream 2). Secondo Sofia Solomofova del sempre ben informato portale Vzgljad in questi giorni soprattutto Londra starebbe lavorando per far saltare definitivamente il completamento di North Stream 2. Ma soprattutto Boris Johnson punterebbe a bloccare l’altro grande progetto russo: il gasdotto (che attraverserebbe inevitabilmente la Bielorussia e quindi fonte di finanziamento per il regime di Lukashenko), che dovrebbe portare in Germania dalla Siberia Occidentale materia prima per un volume complessivo di 33 miliardi di metri cubi di gas entro il 2022.

La posa della pipeline del Nord Stream 2 nel Mar Baltico (foto Axel Schmidt / © Nord Stream 2).

L’Europa è alla svolta green: o meglio, cambia fornitori…

Schierata ormai apertamente contro la collaborazione energetica tra Russia e UE c’è ora anche il capo della Commissione europea Ursula von der Leyen la quale in questa fase non vorrebbe dare nessuna boccata di respiro all’economia russa. Quello che sarebbe assolutamente da evitare per von der Leyen è che «la Russia tenti di modernizzare la sua economia con i proventi del settore del petrolio e del gas». L’Unione Europea del resto, nel quadro della svolta verso la green economy ha già dichiarato che smetterà di consumare idrocarburi entro il 2050 e nel frattempo potrebbe fare sempre più a meno dell’energia russa puntando non tanto sul gas americano trasportato via mare (che costa davvero troppo) quanto piuttosto sui giacimenti in Algeria e sulle enormi riserve dell’Azerbaigian.

… e la Russia cambia clienti

Igor Yushkov, esperto dell’Università della Finanza del governo della Federazione russa e del Fondo nazionale per la Sicurezza energetica ritiene che ormai Mosca dovrebbe pensare seriamente ad abbandonare l’idea di restare semplicemente una potenza energetica (che rappresenta ancora oggi il 35% del suo Pil) per puntare a una diversificazione della propria economia che guardi all’Asia. Un processo che sarebbe, seppur forse troppo lentamente, già in corso: la Banca mondiale – non a caso – ha rivisto al rialzo le stime per la crescita economica russa che grazie alla scelta “no-lockdown” durante la pandemia dovrebbe crescere con una media del 2,5%-3,5% malgrado i ricavi russi sugli idrocarburi si siano ridotti del 30% nel  2020, l’annus horribilis per eccellenza dell’economia mondiale del Secondo dopoguerra.

Parola d’ordine: diversificare

Sia chiaro, mancando la Russia di una mercato finanziario adeguato alle sue pretese di potenza regionale petrolio e gas restano per ora, come già successe dopo il crack del 1998  (sperando che il prezzo del petrolio continui a restare stabilmente oltre i 40 dollari al barile) la base per qualsiasi ipotesi di differenziazione della propria economia, ma alcune dinamiche sembrano comunque già visibili. In due settori principalmente: agricoltura e industria metallurgica.

1) Agricoltura

Già da qualche anno la Russia sta conoscendo un vero e proprio boom dell’agricoltura dovuto alla modernizzazione delle aziende agricole che l’hanno riportata a vertici mondiali tra gli esportatori di grano (era stato il grande punto di forza dell’economia zarista e la principale debolezza di tutta l’economia sovietica dopo le collettivizzazioni forzate dell’era staliniana). Ma non solo. La Russia putiniana è diventata autosufficiente dal punto di vista delle esigenze del mercato interno nella produzione di carne di manzo (limitando le importazioni a quote provenienti dall’America Latina) e addirittura ha iniziato a inondare i mercati asiatici di proprio pollame e carne suina. E successi significativi il mondo agricolo russo li sta ottenendo anche nella produzione di zucchero, olio di semi e, parzialmente, anche nella produzione di frutta bio.

2) Industria metallurgica

Negli ultimi anni la Rust Belt russa è stata completamente modernizzata. Un esempio lampante dello sviluppo delle industrie ad alta tecnologia russa è la cantieristica (la Russia è leader nella produzione di navi rompighiaccio) e la costruzione di aeromobili. Stiamo parlando principalmente del progetto All Siberian (progettazione e produzione sono stati realizzati a Irkutsk) dell’innovativo aereo civile di linea Irkut Ms-21 a fusoliera stretta, un bireattore monoplano ad ala bassa che non solo dovrebbe sostituire già quest’anno i desueti Tupolev Tu-154 e Tu-204/2014, ma pure altamente concorrenziale rispetto a Airubus e Boeing (e non a caso tale progetto è finito sotto sanzione Usa già da tempo) sul mercato mondiale.

destini dirottati

Il nuovo velivolo di produzione All Siberian.

Business as usual: la resa dei conti tra Bielorussia e Ucraina

La nuova crisi  tra Russia  e Occidente nella variante bielorussa sarebbe quindi una faccenda di business as usual e di rotte energetiche, e assai meno una “querelle antifascista”.  Solo degli inguaribili ingenui come alcuni rossobruni di casa nostra del resto sono riusciti a vedere dietro l’operazione di pirateria aerea di Lukashenko una “svolta antifascista” di Minsk (il suo appello contro una fantomatica ondata “neonazista” in Bielorussia è apparsa davvero bizzarra) e che avrà come ricaduta inevitabile una resa dei conti, a questo punto definitiva, tra Bielorussia e Ucraina. Non che Roman Protasevich e la sua fidanzata non siano stati realmente in prima fila prima nella fase finale delle manifestazioni armate dell’estrema destra in Piazza Maidan e poi  a combattere nel Battaglione Azov in Ucraina orientale sette anni fa, ma la faccenda – per quanto grave – risale a quando Protasevich aveva poco più di 18 anni e successivamente egli ha ripetutamente affermato di aver rotto ogni relazione con il mondo dell’estrema destra. L’ex neofascista preoccupava Lukashenko per altri motivi. In primo luogo per i suoi rapporti con la Cia, da cui nel 2017 ha ottenuto i finanziamenti per aprire il suo fortunato canale telegram “Nexta (oltre un milione di iscritti) – una vera e propria spina nel fianco per Lukashenko – che ha avuto un ruolo non del tutto marginale nelle mobilitazioni dello scorso autunno.

Roman Protasevich

Giochi regionali

Per capire cosa significa la rottura definitiva tra Zelensky e Lukashenko oggi in corso basterà ricordare due aspetti significativi nelle relazioni tra i due paesi slavi. Dopo il cessate il fuoco del 2014 nel Donbass fu proprio il presidente bielorusso a proporsi come mediatore tra Putin e l’allora presidente ucraino Petr Poroshenko, e non a caso la Bielorussia, in quel contesto, non riconobbe l’annessione russa della Crimea (anche se poi non votò le risoluzioni Onu di condanna della Federazione russa). Ora Minsk non potrà più giocare il ruolo dell’ago della bilancia su questo terreno e ciò implica la rottura verticale delle relazioni anche con Ankara che ancora qualche settimana fa ha dichiarato apertamente di voler essere l’alfiere degli interessi di Kiev nella regione, a prescindere dal ruolo che gli Usa vogliano giocare in Ucraina (dove Monsanto ha messo gli occhi sulle fertilissime terre nere).

Mini-Urss: la svolta occidentale rimarrà una chimera?

L’isolamento internazionale di Lukashenko è ormai pressoché totale  e ciò potrebbe far rinascere le aspirazioni mai sopite di Mosca alla formazione di una Confederazione panrussa (una mini-Urss di cui farebbero sostanzialmente parte solo Russia e Bielorussia), e di conseguenza Lukashenko diverrebbe solo un leader regionale. Se l’operazione andasse in porto ciò dovrà avvenire forzatamente entro il 2024, in occasione della rielezione di Putin alla presidenza fino al 2030 e blinderebbe dal punto di vista politico-militare la Bielorussia. A questo punto la svolta filoccidentale di Minsk diverrebbe una chimera e questo spiega perché Polonia e paesi Baltici insistano per un rapido cambio nei rapporti di forza tra Russia e paesi Nato a Est.

A restare schiacciato in un gioco ormai apertamente geopolitico rischia di restare l’ampio movimento democratico e femminista bielorusso dei mesi scorsi che aveva con intelligenza tentato di sottrarsi dalla scelta di schierarsi al di qua o al di là di quella invisibile cortina di ferro che divide ancora l’Europa nel 2021.

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n. 8 – Siria (IV): dopo la Guerra cosa può cambiare? https://ogzero.org/una-nuova-primavera-araba-siria-le-dinamiche-attuali-del-conflitto-2020-2021/ Wed, 26 May 2021 11:33:41 +0000 https://ogzero.org/?p=3634 Nella serie di articoli dedicati alle rotte mediorientali della raccolta di analisi stilate da Fabiana Triburgo sulla questione migratoria la sezione siriana si compone di quattro interventi, ognuno dedicato a uno dei molteplici aspetti che presenta questa diaspora, biblica per proporzioni, e vicissitudini toccate ai più di 12 milioni di individui siriani coinvolti nella catastrofe […]

L'articolo n. 8 – Siria (IV): dopo la Guerra cosa può cambiare? proviene da OGzero.

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Nella serie di articoli dedicati alle rotte mediorientali della raccolta di analisi stilate da Fabiana Triburgo sulla questione migratoria la sezione siriana si compone di quattro interventi, ognuno dedicato a uno dei molteplici aspetti che presenta questa diaspora, biblica per proporzioni, e vicissitudini toccate ai più di 12 milioni di individui siriani coinvolti nella catastrofe umanitaria che ha fatto seguito allo scatenarsi del conflitto siriano dell’ultimo decennio. Dove porteranno questi anni di Guerra civile? Potrà riemergere una nuova Primavera araba?

L’autrice ha dapprima analizzato le attuali condizioni di siriani ormai integrati in realtà esterne al paese ai quali ora viene chiesto di rimpatriare, rischiando la vita e rinunciando alla nuova esistenza costruita faticosamente in esilio. L’analisi è proseguita valutando le condizioni economiche e umanitarie in cui si tengono le elezioni il 26 maggio, senza dimenticare la specificità della Primavera araba nelle diverse regioni siriane; ha proseguito poi collegando le modalità di protesta alla particolare peculiarità del regime alauita del clan al-Assad; le fasi della politica di Bashir – fino alla Primavera araba e il conflitto esploso nel 2011, che ha fatto del territorio siriano uno scenario usato dalle potenze globali e locali per imporre la propria supremazia. Da ultimo in questo articolo ancora più dedicato alla geopolitica si cerca di fare il punto dei conflitti nelle 4 partizioni di territorio tra i vari protagonisti scontratisi in particolare nell’ultimo biennio.


n. 8, parte IV

I principali conflitti che attualmente interessano le migrazioni forzate e le prassi di esternalizzazione poste in essere dall’Unione Europea e dai singoli stati membri portano a una predeterminazione delle rotte dei migranti.

Quello che oggi è inevitabile chiedersi è se il nuovo Patto europeo sulla migrazione e l’asilo, proposto dalla Commissione UE, possa essere realmente considerato una soluzione della gestione del fenomeno migratorio o se invece vi siano soluzioni legali alternative maggiormente lungimiranti e coraggiose.  

Il conflitto siriano: gli ultimi due anni di Guerra

Come già notato nel precedente articolo sulla situazione in Siria, in particolare con riferimento alle pregresse tappe del conflitto – ormai perdurante da oltre dieci anni –, appare evidente l’interazione in esso tra le milizie appartenenti alle forze governative, le potenze della regione mediorientale e quelle internazionali.

La ripartizione ottomana e le relazioni locali del territorio

Più specificatamente la presenza di attori regionali nel territorio siriano deve rinvenirsi in ragione di alcune dinamiche dal punto di vista storico. Prima della dissoluzione dell’Impero Ottomano le province mediorientali erano determinate non solo da suddivisioni meramente amministrative quanto anche da alcune realtà informali. Attigue alle regioni dominate da Istanbul infatti vi erano delle subregioni che venivano gestite dalle élites locali e che possedevano una certa autonomia rispetto al governo centrale dell’impero perseguendo abitualmente i propri interessi politici ed economici e interagendo tra di loro. Citiamo come caso esemplificativo del fenomeno in questione le relazioni tra le città di Damasco e Aleppo con Nablus, oggi città della Cisgiordania. Allo stesso tempo nelle zone rurali i gruppi comunitari stanziati in prossimità del monte druso-maronita, nell’attuale stato libanese, intrattenevano i loro rapporti con i gruppi residenti nelle montagne alauite a est di Latakia, nell’attuale territorio siriano. Tuttavia la creazione degli stati nazionali non prese in considerazione né le suddivisioni amministrative né quelle informali, sia cittadine che rurali, preesistenti nell’area.

A ogni modo molte delle relazioni di cui sopra sono rimaste intatte anche a fronte delle suddivisioni coloniali dei territori dell’impero ottomano: basti pensare agli scambi commerciali che vi sono oggi tra la pianura di Hims in Siria e Hermel in Libano, o tra la città siriana di Dara’a e quella giordana di Mafraq.

Le comunità locali sono in ogni caso ancora oggi consapevoli della sovrapposizione tra la realtà nazionale e quella locale caratterizzata dalla reciprocità con altre realtà dell’area mediorientale.

Tali comunità locali sono solite riferirsi all’una o all’altra a seconda degli interessi in gioco.

Con riferimento al conflitto in corso in Siria queste duplici dimensioni spiegano le ragioni per le quali molti miliziani sciiti, provenienti dall’Iraq, siano andati a combattere in Siria tra le milizie leali al governo di Assad sulla base di una presunta necessità di proteggere i luoghi santi sciiti dagli attacchi violenti della comunità sunnita. Stesso fenomeno si può considerare rispetto alle forze di opposizione sunnite al regime di Damasco nelle quali, dopo pochi mesi dall’inizio del conflitto, sono confluiti i militanti estremisti islamici provenienti da altri paesi del Medioriente per compiere il jihad che tuttavia non aveva alcun apparente legame con le proteste del 2011 da parte delle forze di opposizione contro Assad.

Protagonisti, accordi internazionali e…

Le potenze internazionali nel conflitto siriano riconducibili a strategie statali attualmente sono in particolare: l’Iran e la Russia a sostegno delle forze governative di Assad, la Turchia che combatte a favore di alcune delle forze ribelli che operano nel Nord del paese e gli Usa a supporto delle milizie curde. Quello che appare chiaro è che il governo del regime di al-Assad, così come d’altro canto le forze di opposizione, difficilmente possono attualmente determinare vittorie decisive nel conflitto in corso a loro favore senza l’appoggio delle potenze estere regionali del Medioriente e internazionali.

Tuttavia, a intervenire in Siria non vi sono solo attori regionali o internazionali – militari e politici statali – ma anche attori umanitari e militari internazionali non statali, nonché numerose ong straniere.

A tal proposito va menzionato il ruolo delle Nazioni Unite e specificatamente quello del Consiglio di Sicurezza – nel quale tra i membri permanenti vi è la Russia ma non la Turchia – nonché quello della Nato, nel quale invece tra i membri vi è la Turchia (dal 1952) e ovviamente non la Russia. Ricordiamo che Russia e Turchia sono al momento le due principali potenze straniere presenti nel paese. Inoltre la missione Onu di supervisione delle Nazioni Unite in Siria istituita dalla Risoluzione n. 2043 del Consiglio di Sicurezza del 21 aprile 2012 venne sospesa nel giro di pochi mesi. In tale conflitto l’Onu più volte è uscita sconfitta dal suo ruolo di risolutore pacifico. Al riguardo, occorre invece soffermarsi sul Processo di Astana nel quale le Nazioni Unite svolgono un ruolo di osservatore permanente.

Il processo di Astana è un processo finalizzato all’instaurazione di un sistema di pace in Siria siglato da Turchia, Russia e Iran – complementare a quello ufficiale dell’Onu a Ginevra – iniziato a dicembre del 2016 con i negoziati nella capitale del Kazakhistan, grazie all’iniziativa diplomatica dei suddetti paesi, dopo l’intervento armato della Russia e al fine di realizzare gli obiettivi della risoluzione n. 2254 delle Nazioni Unite con la quale sono state tracciate le linee guida verso una transizione politica del conflitto guidata dagli stessi siriani. Tale accordo nel 2017 ha portato alla definizione di quattro zone di “de-escalation” del conflitto. L’accordo avrebbe dovuto coinvolgere a partire dal 2018 (Accordo di Sochi) insieme ai diplomatici delle tre nazioni, anche i rappresentanti del regime di al-Assad e una parte delle forze di opposizione, ma, come detto in precedenza, l’accordo è stato più volte violato nel 2019 dalle potenze contraenti.

… ripartizione in 4 zone di controllo

Il 5 marzo del 2020 Mosca e Ankara – sempre all’interno del processo di Astana – hanno raggiunto un’altra importante intesa che prevede una zona di sicurezza lungo l’autostrada M4 che congiunge Aleppo alla costa e rispetto alla quale viene garantito il pattugliamento da parte di militari russi e turchi. Il 16 febbraio del 2021 si è siglato un ulteriore accordo tra le parti sempre in linea con lo spirito del Processo di Astana avente come oggetto l’elaborazione di una costituzione per il dopoguerra, la transizione politica nel paese nonché il ritorno in sicurezza dei rifugiati.

Tutto ciò premesso, si può affermare che nell’ultimo anno il conflitto siriano non si è caratterizzato per interventi militari dispiegati su larga scala da parte di tutti gli attori presenti nelle aree sotto il controllo del regime, ma il paese rimane comunque intrappolato nel conflitto armato per i continui scontri nell’area a Nordovest e di quella a Nordest, ossia due delle tre zone che costituiscono oggi la ripartizione del paese nelle cosiddette “Sirie”. Come accennato dunque occorre far riferimento per un’analisi degli accadimenti bellici più recenti – ossia quelli dal 2020 a oggi – a questa ripartizione geografica, analizzando contestualmente le azioni militari più rilevanti di ogni singolo attore regionale e internazionale presente in Siria che, come detto, sono i principali fautori delle dinamiche del conflitto iniziato nel 2011.

1) I recenti sviluppi nella zona sotto il controllo governativo e il Sud del paese:

Russia e Israele in Siria

Con lo Stato d’Israele il 18 febbraio 2021 il presidente Bashar al-Assad ha raggiunto un’intesa relativa allo scambio di prigionieri, un israeliano e due siriani, in conseguenza di negoziati condotti dalla Russia. Secondo alcune fonti israeliane, inoltre, sempre nel mese di febbraio del 2021 il premier Benjamin Netanyahu e il presidente Vladimir Putin hanno tenuto colloqui telefonici nel corso dei quali Tel Aviv avrebbe chiesto a Mosca l’assistenza per le questioni “umanitarie” riguardanti la Siria. Poco dopo la notizia della liberazione degli ostaggi da entrambe le parti è stato anche comunicato che il consigliere per la sicurezza israeliano si era recato a Mosca per una visita diplomatica. Non si comprende bene se questo possa essere considerato un primo passo verso un tentativo di ristabilire un rapporto di fiducia con la Russia:

in realtà passare da intese a livello umanitario a possibili intese tra le due nazioni sul piano militare risulta a oggi molto difficile, considerata la presenza regionale iraniana nel conflitto alla base dei continui attacchi israeliani, prevalentemente raid missilistici, nei territori siriani come avvenuto di recente.

Il 22 aprile 2021 nel Sud di Israele è esploso un missile terra-aria al quale Tel Aviv ha risposto con il lancio di raid aerei contro obiettivi in prossimità della capitale Damasco come aveva già fatto in passato: l’attacco siriano poiché realizzato in un’area vicino al reattore nucleare di Dimona aveva suscitato preoccupazione nello stato israeliano.

Successivamente però è stato accertato che il missile proveniente dalla Siria non era frutto di un intervento militare deliberato contro il territorio israeliano ma si trattava – secondo “The Time of Israel” – di un missile antiaereo vagante lanciato come reazione contro un caccia israeliano, durante uno scontro aereo tra i due paesi avente a oggetto alcuni obiettivi nelle Alture del Golan. Inoltre è stato successivamente precisato che il missile non ha colpito il reattore, avendo interessato un’area a 30 chilometri di distanza dallo stesso.

Iran e Israele in Siria

Le tensioni tra Israele e Iran si sono intensificate recentemente sia a causa della decisione iraniana di proseguire le ricerche del processo di arricchimento dell’uranio al 60 per cento – il livello più elevato finora raggiunto – sia per l’incidente presso l’impianto nucleare iraniano a Natanz del quale Israele ritiene responsabile l’Iran. In precedenza, Israele nel conflitto siriano si è più che altro resa responsabile di attacchi missilistici contro il gruppo libanese Hezbollah – alleato dell’Iran – cercando in ogni modo di evitare l’inserimento iraniano nelle fazioni militari presenti nel territorio siriano.

Israele percepisce l’Iran come una minaccia alla propria esistenza nell’area mediorientale. Le dichiarazioni del capo di stato maggiore dell’esercito israeliano Aviv Kochavi rilasciate nel 2021 e riprese da Reuters, sono state chiare: «Gli attacchi missilistici israeliani nel 2020 sono riusciti a evitare il trinceramento dell’Iran in Siria, ma abbiamo ancora molta strada da fare».

Il ministro degli Esteri iraniano ha replicato che Teheran continuerà la sua politica di resistenza contro il potere statunitense e israeliano nella regione mediorientale.

Dal 2020 a oggi gli attacchi israeliani, tuttavia, non si sono più limitati alle Alture del Golan o nella parte della Siria meridionale – al confine con lo Stato d’Israele – o vicino Damasco ma, come vedremo, anche verso Nordovest contro la città di Aleppo, quella di Hama, al confine con l’Iraq, e a Homs. Un esempio di questo espansionismo militare israeliano è l’attacco missilistico dello scorso 5 maggio verso Latakia.

Va invece qui menzionato l’attacco avvenuto 24 ore dopo, ossia il 6 maggio 2021, da parte di Israele contro il governatorato di Quneitra a Sudovest della Siria: gli obiettivi del raid israeliano, secondo gli attivisti umani presenti nella zona, sarebbero state le postazioni e le truppe a sostegno del governo di Assad.

L’Isis invece è riuscito a stabilire nel 2021 una sua roccaforte nella regione di Badia collocata in una zona desertica che va dal Sudest al Nordest del Paese difficilmente raggiungibile da carri armati o aerei da guerra da parte delle forze lealiste che proprio da qui subiscono gli improvvisi attacchi del gruppo terrorista.

2) I recenti conflitti nella Zona a Nord e Nordovest del paese:

Accordi e interessi contrastanti nel Gruppo di Astana

Il 5 maggio del 2021 le forze di difesa siriane hanno intercettato un attacco missilistico di Israele contro diverse aree a nordovest della Siria, e uno dei missili, ha causato un morto e sei feriti. L’esercito siriano ha dichiarato di essere riuscito ad intercettare più missili israeliani. Più precisamente alcuni di questi hanno colpito la città di Latakia, Hifa e quella di Maysaf. Secondo alcune fonti delle intelligence occidentali l’intento di Israele sarebbe quello di colpire obiettivi legati all’Iran e presenti in Siria. L’Iran infatti sostiene le milizie di Hezbollah che in Siria controllano non solo le aree meridionali e orientali, le zone di frontiera tra Siria e Libano e alcune aree intorno a Damasco, ma anche zone a Nordovest. A loro volta i militanti di Hezbollah sostengono le forze militari del regime di Assad.

La Russia già nel 2020 si è assicurata una presenza importante nel porto siriano di Tartus e ha mantenuto il suo quartier generale presso l’aeroporto tra Jabla e Latakia, ma deve prestare attenzione continuamente al suo alleato (vedi processo di Astana) e, allo stesso tempo, rivale turco in quanto milizie filoturche in Siria sono di fatto fortemente contrastate dalle forze siro-iraniane e da quelle russe.

Nell’area, a causa della scarsità di risorse finanziare, determinata dalla crisi economica sono diminuite le risorse a disposizione anche del governo di Damasco che si è fortemente indebolito. Tale indigenza ha prodotto delle conseguenze anche sul piano militare determinando una temporanea interruzione dell’intervento delle forze lealiste verso le altre zone (Nordovest e Nordest) che ancora sfuggono al controllo di Assad. Non solo, ma la zona è stata interessata dall’accordo del 5 marzo del 2020 tra Turchia e Russia che ha stabilito il “cessate il fuoco” nella provincia di Idlib e una zona “cuscinetto” – pattugliata dalle forze militari di entrambi i paesi – lungo l’autostrada M4 che congiunge Aleppo a Latakia. Tuttavia nel febbraio del 2021 ancora non era stata riaperta la strada internazionale M4 e i pattugliamenti russi e turchi sono stati spesso ostacolati da gruppi militanti locali costituiti anche da alcuni gruppi jihadisti legati ad al-Qaeda.

Il nodo jihadista

In conseguenza di tale accordo infatti si è sollevata una parte della popolazione locale che teme un’ulteriore avanzata delle forze lealiste nell’area; invece la coalizione filoturca del Fronte Nazionale per la Liberazione componente dell’Esercito nazionale siriano ha sostenuto l’accordo. Tuttavia, non sono mancati anche gli scontri diretti tra Russia e Turchia come quello compiuto nella giornata del 26 ottobre del 2020 dal governo siriano di Damasco e dalla Russia in una zona al confine tra Siria e Turchia, più precisamente nell’area di Jabal al Dweila nella quale moltissimi siriani sfollati si erano rifugiati.

Alla base della decisione dell’attacco vi sarebbe la volontà di Mosca di colpire uno dei principali gruppi armati sostenuto da Erdoǧan con un intento chiaramente ammonitivo nei confronti della Turchia.

Médecins sans frontières ha dichiarato tale evento fortemente preoccupante per i 78 morti e i numerosi feriti e per il fatto che l’attacco sia stato compiuto in una zona relativamente sicura che tuttavia già il 21 ottobre 2020, era stata oggetto dei bombardamenti in particolare nei villaggi di al-Magarah e di al-Rami occupati dal gruppo islamista militante Hts ossia Hayat Tahir al-Sham – un tempo legato ad al-Qaeda e, come detto sopra, dal Fronte nazionale di liberazione.

Quello del 26 ottobre è stato l’attacco più violento dall’entrata in vigore del cessate il fuoco nel marzo dello stesso anno. Anche nel marzo del 2021 sono aumentati in modo esponenziale gli attacchi da parte delle forze militari che sostengono il regime: in particolare è stato colpito un ospedale presso al-Atarib nei pressi di Aleppo, sono stati sferrati attacchi missilistici da parte dei russi, nella zona al confine con la Turchia, più precisamente in prossimità di Bab al-Hawa. Nel Nord della Siria al momento vi sono circa 60 postazioni militari turche stanziatesi sul territorio proprio in conseguenza dell’intesa tra Mosca e Ankara, in particolare a Idlib, ad Aleppo, a Hama e anche a Latakia.

Va precisato che nell’area l’Hts ha un ruolo prevalente e, dopo alcune tensioni con le forze militari turche, ha adottato un atteggiamento maggiormente distensivo nei confronti della Turchia non manifestato da parte di altri gruppi ancora affiliati ad al-Qaeda in particolare dal gruppo Tanzim Hurras al-Din che invece ha abbandonato l’Hts. Tali gruppi jihadisti estranei a Hts sono divenuti autori di diversi attacchi nell’area Nordovest del paese sia contro le truppe turche che contro quelle russe. In risposta il gruppo Hts nel 2020 ha sferrato una violenta offensiva contro il gruppo Tanzim Hurras al-Din e gli altri gruppi affiliati ad al-Qaeda.

Anche nel 2021 il gruppo HTS ha continuato a colpire le cellule di al-Qaeda presenti nel paese cercando di consolidare maggiormente la propria posizione nella provincia di Idlib, sia per assicurarsi il riconoscimento del ruolo di valido interlocutore locale da parte della Turchia, sia per dimostrare chiaramente di prendere le distanze dagli atti violenti compiuti dai militanti jihadisti d’ispirazione qaedista anch’essi nell’area.

Tuttavia il 12 aprile 2021 le forze militari siriane insieme a quelle russe hanno lanciato decine di raid dalla mattina contro le postazioni del sedicente Stato Islamico: in particolare a Nordovest nelle regioni di Hama e Aleppo. È dall’inizio del 2021, infatti, che l’organizzazione terroristica IS ha continuato ad attaccare l’esercito governativo causando vittime tra le milizie locali e, nonostante le attività di reazione militare poste in essere da Damasco e Mosca, le cellule del sedicente Stato Islamico continuano a permanere nel territorio siriano a Nordovest in particolare nei governatorati di Hama e Homs ma anche, come vedremo in seguito, a nordest a Raqqa e Dayr az Zawr.

Va precisato che l’offensiva delle forze governative e russe nel Nordovest si è verificata in conseguenza di un rapimento di 19 siriani, 11 civili e 8 agenti di polizia, in seguito a un attacco dell’IS, il 16 aprile del 2021 nella regione di Hama, mentre altre 40 persone risultano al momento disperse.

Gli scontri caratterizzati da lancio di missili e attacchi aerei dei gruppi armati locali quali Russia, Turchia, Hts (IS) e gruppi legati ad al-Qaeda continuano quindi a mettere a dura prova la popolazione civile.

3) I recenti conflitti nella Zona a Nordest del paese:

Zona controllata dai curdi: Pyd, Ypg/Ypj, Fds

L’area del Nordest è governata dall’Amministrazione autonoma del Partito dell’Unione democratica curda (Pyd) la cui ala militare è rappresentata dall’Ypg/Ypj, ossia dall’Unità di protezione popolare. Come accennato, in quest’area, più specificatamente nella parte compresa nella regione desertica della Badia, sono fortemente presenti le forze del sedicente Stato Islamico autrici di continui attacchi contro le Forze democratiche siriane (Fds), coalizione a guida statunitense comprendente le milizie governative ma soprattutto le forze curde dell’Ypj/Ypg.

L’IS in questo periodo sta portando avanti una guerriglia sia con le Sdf che contro le milizie filogovernative cercando in ogni modo di destabilizzare l’area e dimostrare che il regime non ha il controllo del territorio. Tuttavia, a marzo del 2021 alcuni jet russi hanno bombardato delle postazioni del sedicente Stato Islamico nella campagna di Hama, e nelle aree desertiche nelle quali il gruppo estremista è stanziato da diverso tempo, mentre lo scorso aprile un raid areo russo ha causato la morte di 200 terroristi nella regione.

Altra formazione estremista jihadista dell’area è il succitato gruppo legato ad al-Qaeda Tanzim Hurras al-Din responsabile nel 2021 di un’offensiva militare ai danni delle milizie russe nella campagna di Raqqa. Infine, sempre nel Nord-Est è divenuta preponderante la presenza della Turchia che ha stretto sotto il proprio controllo alcune importanti città precedentemente sotto l’amministrazione autonoma, come quella di Afrin, e che ostacola militarmente le forze dell’Ypj/Ypg per la loro attiguità con l’ideologia del Pkk – Partito dei lavoratori del Kurdistan – qualificato dalla Turchia ma anche da Stati Uniti e Unione Europea come organizzazione terroristica.

United States are back

Rispetto agli Usa va ricordato che la prima operazione militare del neoeletto presidente Biden nel 2021 è stata quella in Siria del 25 febbraio contro le postazioni delle milizie filoiraniane al confine con l’Iran; il Pentagono ha dichiarato che l’azione militare è stata compiuta come reazione al raid missilistico del 15 febbraio che ha ucciso un contractor e ha ferito militari statunitensi negli avamposti americani del Kurdistan iracheno, azione che sarebbe stata rivendicata da una milizia irachena legata all’Iran. Il Pentagono ha poi riferito che il presidente agirà nell’area per proteggere il personale della coalizione americana.

Il ritiro delle truppe statunitensi dalla Siria, fortemente promosso dall’amministrazione Trump è in fase di arresto con Biden.

Come nel caso dell’amministrazione Trump, Biden però non intende prendere parte alla destituzione del regime che garantisce la stabilità nell’area mediorientale, quindi da un lato gli Stati Uniti continuano a bloccarlo economicamente per indebolirlo, attraverso l’applicazione delle sanzioni Caesar, dall’altro danno la possibilità ad Assad attraverso la Russia di uscire dal conflitto, sempre tenendo sotto controllo Teheran e il programma sul nucleare.

Rojava e Kurdistan iracheno

Gravi tensioni si sono registrate nella zona del Nordest nello scorso anno, con l’accerchiamento delle città di al-Qamshli e di al-Hasaka, da parte delle Forze Democratiche, già sotto il controllo dell’Amministrazione autonoma curda, disconosciuta da Damasco e guidata dal Democratic union party (Dup). Nell’area persistono anche nel 2021 violenti scontri tra le milizie filogovernative ossia le Forze nazionali di difesa (Ndf) con le Forze democratiche siriane (Fds) a maggioranza curda.

Occorre altresì tener conto degli attacchi tra le Fds e le milizie filoturche: le Fds temono che la Russia e il regime possano giungere a un accordo che implichi la loro espulsione dalla zona. In particolare, il 20 aprile 2021 un veicolo delle Ndf è stato attaccato dalle forze di sicurezza curde Asayish (forze di sicurezza della coalizione delle Fds) e gli scontri si sono protratti in modo così violento da richiedere l’intervento della Russia come mediatore.

Il 26 aprile è stato quindi raggiunto un accordo secondo il quale le forze curde Asayish sono riuscite a ottenere l’allontanamento delle Ndf filogovernative da alcuni quartieri delle città di al-Qamshli e al-Hasaka nelle quali comunque il potere è ancora ripartito tra il regime di Assad e le Fds.

Il 5 marzo 2021 il Ministero della Difesa americano ha dichiarato che la presenza militare russa in Siria viola «il meccanismo di distensione del conflitto» non attenendosi agli accordi stretti con la colazione delle Fds per il contenimento degli scontri nell’area. Ciò risulta particolarmente pericoloso in quanto già nel 2020 si era giunti a uno scontro diretto tra militari russi e statunitensi. Alle accuse portate avanti dal Ministero della Difesa Usa tuttavia la Russia ha risposto affermando che la presenza militare statunitense nel Nordest del paese è illegale e ha dichiarato che «Washington non ha il diritto di criticare l’attività militare legale delle forze armate russe in Siria» in quanto operano «in accordo con il governo del paese».

Ultima questione da analizzare nell’area è quella del campo di al-Hawl nel Nord della Siria al confine con l’Iraq nel quale vivono circa 70.000 persone tra cui circa 11.000 familiari di presunti membri dell’IS: al momento 50.000 membri delle Forze curde sono impegnate in un’operazione di sicurezza volta ad arrestare sostenitori dell’IS nel campo profughi di al-Hawl.

Russia vs. Turchia / Iran vs. Israele

In conclusione le nuove situazioni che oggi preoccupano maggiormente sono: il possibile definitivo deterioramento dei rapporti tra Russia e Turchia rivali tra di loro ma finora sempre scesi a patti; tuttavia, dallo scorso anno i rapporti tra le due potenze si sono resi sempre più logori anche perché la Turchia ha deciso di assumere un ruolo strategico anche in Ucraina contro le milizie filorusse. Se nell’ultimo periodo Mosca aveva annunciato la riapertura dei valichi di frontiera tra le zone sotto il controllo dell’opposizione e quelle sotto il controllo del regime, per alleviare anche la crisi economica in cui si trova il paese, la Turchia ha smentito seccamente tali dichiarazioni.

Altro problema è il possibile affronto militare diretto tra Iran e Israele.

lo scontro tra i due paesi si è ulteriormente esacerbato come abbiamo visto dopo il ritrovamento del missile a Dimona nel quale si trova l’impianto nucleare israeliano. Infine, il governo è ormai arrivato a un tal punto di dipendenza sia dalla Russia che dall’Iran che sarà difficile continuare a sostenere le spese derivanti da tale sostegno in ambito militare, finora mantenuto grazie alla presenza di posti di blocco che estorcono denaro alla popolazione locale senza prospettare un sistema di erogazione di risorse pubbliche a beneficio dei principali alleati nel conflitto.

Un’altra Primavera?

Rispetto a quanto finora riportato si può affermare dunque non solo che il conflitto è tutt’altro che concluso ma che tra circa un decennio si potranno presentare nuovamente i moti del 2011, data la condizione nella quale si trova attualmente il paese: a protestare saranno individui nati e cresciuti durante il conflitto armato, vissuti in condizioni di indigenza, e che non hanno avuto acceso ad alcun tipo d’istruzione.

 

una nuova Primavera araba?

Una generazione abituata a combattere e sopravvivere (foto Mohammad Bash).

Appare così inevitabile prima o poi lo sgretolamento effettivo del regime oggi fortemente depotenziato e tenuto in vita da altre forze internazionali e regionali.

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n. 8 – Siria (III): il clan al-Assad e la Guerra civile https://ogzero.org/il-clan-al-assad-e-la-guerra-civile-siriana/ Wed, 26 May 2021 11:33:21 +0000 https://ogzero.org/?p=3559 Nella serie di articoli dedicati alle rotte mediorientali della raccolta di analisi stilate da Fabiana Triburgo sulla questione migratoria la sezione siriana si compone doverosamente di alcuni interventi ciascuno dedicato a uno dei molteplici aspetti che presenta questa diaspora, biblica per proporzioni, e vicissitudini toccate ai più di 12 milioni di individui siriani coinvolti nella […]

L'articolo n. 8 – Siria (III): il clan al-Assad e la Guerra civile proviene da OGzero.

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Nella serie di articoli dedicati alle rotte mediorientali della raccolta di analisi stilate da Fabiana Triburgo sulla questione migratoria la sezione siriana si compone doverosamente di alcuni interventi ciascuno dedicato a uno dei molteplici aspetti che presenta questa diaspora, biblica per proporzioni, e vicissitudini toccate ai più di 12 milioni di individui siriani coinvolti nella catastrofe umanitaria che ha fatto seguito allo scatenarsi del conflitto siriano dell’ultimo decennio.

L’autrice ha dapprima analizzato le attuali condizioni di siriani ormai integrati in realtà esterne al paese ai quali ora viene chiesto di rimpatriare, rischiando la vita e rinunciando alla nuova esistenza costruita faticosamente in esilio. L’analisi è proseguita valutando le condizioni economiche e umanitarie in cui si tengono le elezioni il 26 maggio, senza dimenticare la specificità della Primavera araba nelle diverse regioni siriane; prosegue qui collegando le modalità di protesta alla particolare peculiarità del regime alauita del clan al-Assad; le fasi della politica di Bashir – fino alla Primavera araba e il conflitto esploso nel 2011, che ha fatto del territorio siriano uno scenario usato dalle potenze globali e locali per imporre la propria supremazia.


n. 8, parte III

I principali conflitti che attualmente interessano le migrazioni forzate e le prassi di esternalizzazione poste in essere dall’Unione Europea e dai singoli stati membri portano a una predeterminazione delle rotte dei migranti.

Quello che oggi è inevitabile chiedersi è se il nuovo Patto europeo sulla migrazione e l’asilo, proposto dalla Commissione UE, possa essere realmente considerato una soluzione della gestione del fenomeno migratorio o se invece vi siano soluzioni legali alternative maggiormente lungimiranti e coraggiose.  

Il conflitto siriano: il clan al-Assad e la Guerra civile

I regimi degli al-Assad

Nonostante in Siria si riscontri l’esistenza di istituzioni statali come il parlamento, il consiglio dei ministri, il potere decisionale è sempre nelle mani di un solo clan ossia quello di Assad e dei suoi familiari e dai capi dei servizi di intelligence.

il clan al Assad

Come noto Bashar al-Assad è succeduto al padre Hafiz, a capo della nazione per trent’anni, in seguito alla sua morte nel 2000. Il figlio Basil che avrebbe dovuto succedergli, al momento della sua morte, è deceduto in un incidente stradale nel 1994; in sua vece quindi nel 2000 subentrò al potere il secondogenito Bashar. Tra le immediate nomine “familiari” del neoeletto presidente, all’interno del regime, citiamo quella del fratello minore Mahir al-Assad e della sorella Bushra al-Assad al comando della Quarta divisione corazzata dell’Esercito Siriano e quella del cognato Assef Shawkat designato vicecapo di stato maggiore e all’epoca già a capo del Mis – Il Dipartimento di intelligence militare siriana – in particolare nella sezione Perquisizioni (sezione 235).

La legge d’emergenza controlla la libera espressione

Il presidente della Siria, già durante il regime instaurato da Hafiz a partire dal 1970, riunì nella sua persona la carica di capo dello stato, quella di comandante delle forze armate, quella di segretario generale del Partito ba’at al potere e quella di presidente del Fronte nazionale progressista, sotto il quale vi furono tutte le forze politiche di opposizione autorizzate dal regime. In quest’ottica va citata la “legge d’emergenza” in vigore dal 1963 che garantisce il ferreo controllo di ogni manifestazione di dissenso di libera espressione politica, il divieto di assembramenti pubblici, il fermo di sospetti dissidenti e infine indica per quali accuse il fermo può trasformarsi in arresto. La legge inoltre definisce il ruolo dei tribunali speciali per i dissidenti, impone rigidi controlli sui mezzi d’informazione ma soprattutto concede ampi poteri alle quattro agenzie di sicurezza operative in tutto il paese. Rispetto al regime da lui guidato va detto però che Bashar è un primus inter pares ossia a capo di un’oligarchia composta dai membri della famiglia al-Assad, da alleati e da alcuni ufficiali legati al clan familiare, e non un capo indiscusso come lo era il padre Hafiz. La Siria, infatti ha acquisito l’indipendenza dai francesi nel 1946, tuttavia con l’indipendenza non si è raggiunta una stabilità politica ma si sono succeduti nel tempo una serie di colpi di stato e di guerre come quella dei 6 giorni nel 1967 con Israele, paese ancora oggi considerato nemico dai siriani.

A ogni modo già tra la fine degli anni Quaranta e l’inizio degli anni Cinquanta si registrò l’ascesa della comunità alauita – minoranza sciita originaria delle montagne a est di Latakia e delle sue pianure costiere a sud – la quale si unì al Partito ba’at (Partito della resurrezione, movimento panarabo nazionalista, socialista e laico) nel quale Hafiz al-Assad entrò a far parte a soli 16 anni perseguendo al contempo la carriera militare. Nel 1963 il Partito ba’at, per effetto di un colpo di stato, conquistò il potere e da lì cominciò l’ascesa di Hafiz che nel 1964 venne nominato generale, quindi nel 1965 capo dell’Aereonautica.

Un nuovo colpo di stato

Tuttavia, la succitata guerra dei 6 giorni con Israele nella quale la Siria venne sconfitta, fece vacillare il potere di al-Assad ma, nel 1970, Hafiz portò avanti un ennesimo colpo di stato – non sanguinario come i precedenti – definito come “Rivoluzione Correttiva” mediante il quale ottenne in modo indiscusso il governo del paese che ebbe sempre un maggiore controllo del territorio siriano.

Nel 1976, inoltre, è importante ricordare che il regime di Damasco decise di fare del Libano un proprio protettorato, condizione che resterà salda fino al 2005 quando venne assassinato il premier libanese Rafiq al-Hariri, intervenendo militarmente e politicamente nella guerra civile libanese che ebbe luogo dal 1975 fino al 1990.

Ciò che risulta interessante è che la composizione alauita del regime non seguì fin da subito una logica confessionale per la sua affermazione, ma mirò piuttosto all’appoggio della borghesia urbana e delle periferie:

A sostenere il regime infatti fu non solo la destra alauita della quale faceva parte Hafiz ma anche i drusi e i cristiani che temevano la presenza della maggioranza sunnita nel paese.

Allo stesso tempo i sunniti si allearono in quegli anni con il clero islamico ortodosso, ossia la frangia estremista rappresentata quasi totalmente dalla Fratellanza Musulmana. Iniziarono cruenti attentati da parte dei sunniti e violentissime repressioni da parte del regime fino a quando nel 1982 Hafiz decise di bombardare la città di Hamah – definita da Hafiz “la testa del serpente” in quanto patria dei maggiori conservatori tra i sunniti in Siria – per reprimere la rivolta della comunità musulmana sunnita dando inizio a uno dei più cruenti conflitti civili. In quella circostanza si parlò di almeno 10.000 siriani uccisi nel conflitto. Hafiz volle affermare con tale efferata e sanguinaria repressione, fatta di esecuzioni di massa, di fosse comuni, di feriti, di donne e di bambini sepolti vivi tra le macerie, che la religione veniva dopo lo stato ba’atista e che l’uso politico di questa non sarebbe mai stato tollerato dal regime.

il clan al Assad

La distruzione della città di Hamah perpetrata da Assad nel 1982.

Le atrocità commesse nei confronti dei sunniti non furono finalizzate solo a prevalere sulla Fratellanza Musulmana ma anche come ammonizione, per i sopravvissuti e per i membri di tutte le altre organizzazioni che si opponevano al regime, di quello che sarebbe potuto accadere nell’ipotesi di ulteriori atti di disobbedienza in futuro.

La repressione sanguinaria e le promesse tradite

Dopo circa trent’anni dal massacro di Hamah nel 2011 il figlio di Hafiz, Bashar al-Assad si trovò quindi ad affrontare una nuova escalation di proteste, contro le quali decise, come il padre, di scatenare una sanguinaria repressione, nonostante queste avessero poco a che fare con l’elemento religioso – caratteristico delle rivolte della popolazione sunnita del 1982 – quanto piuttosto con un senso di tradimento avvertito dalla popolazione siriana legato al mancato riconoscimento delle libertà e dello sviluppo economico. Questi ultimi erano stati promessi infatti dal governo ba’atista di Bashar che tuttavia avrebbe accumulato nel tempo tutte le ricchezze per sé stesso. Da quanto si sta verificando fino a oggi, dopo dieci anni dall’inizio del conflitto civile, Bashar al-Assad non sembra aver riproposto la forza armata “risolutiva” del conflitto che aveva dimostrato il padre nel 1982.

il clan al Assad

Manifestazione a Homs.

Non si può tacere tuttavia che, se le proteste del 2011 sono state sicuramente meno accanite di quelle del 1982, allo stesso tempo – per il fatto di non essere strettamente legate alla questione confessionale sunnita – hanno saputo raccogliere importanti consensi in ambito nazionale e internazionale molto più ampi rispetto al passato.

Tuttavia, per capire come si sia arrivati a tali proteste e per apprendere meglio la ragioni dell’intervento di più forze internazionali nel conflitto siriano occorre fare una breve sintesi degli eventi concernenti gli anni del governo di Bashar al-Assad prima del 2011.

La politica di Bashar al Assad dal 2000 al 2011

Nel 2000 Bashar al-Assad riprese il dialogo con gli “ulama” (il clero islamico), tra cui il leader del movimento islamico Zayd – in quegli anni considerato forza religiosa prevalente a Damasco. Il regime invece non si riavvicinò ai Fratelli Musulmani ormai di base a Londra.

Quindi nel 2005, poiché come detto il regime fu sospettato dell’assassinio dell’ex premier libanese Rafiq al-Hariri, Damasco dovette ritirare, su pressione popolare libanese e internazionale dell’Onu, degli Usa e della Francia, le sue truppe dal Libano. In quell’anno i Fratelli Musulmani crearono, in opposizione al regime, il Fronte di salvezza nazionale costretto poi a dissolversi nel 2009, a causa del rinnovato vigore politico e militare di Damasco, grazie all’appoggio dato a Hamas durante in conflitto israelo-palestinese nella Striscia di Gaza.

Allo stesso modo nel 2006 una nuova generazione di islamisti in esilio creò a Londra il Movimento di giustizia e sviluppo (ispirato all’Apk turco di Erdoǧan), movimento musulmano più democratico che islamista. Tuttavia, la questione dell’opposizione islamista in esilio manifestò subito i suoi problemi strutturali, quali la sua estrema frammentarietà e la sua mancata rappresentatività all’interno della Siria, dato che i loro interessi erano divergenti rispetto a quegli degli ulama – interessati più all’indebolimento dell’apparato statale di sicurezza che al multipartitismo nella repubblica – e dato che questi non potevano svolgere alcun ruolo di rappresentanza politica di forte opposizione al regime per il timore costante della repressione.

Il legame col Libano

Dal 2008 il regime ristabilì un’influenza politica sul Libano, data la sua importanza strategica dal punto di vista geopolitico, rafforzando l’armamento di Hezbollah e, godendo di una quasi completa riabilitazione da parte dell’Occidente, rinunciò completamente alla causa di riappacificazione con gli ulama. Dal 2008 Damasco infatti iniziò una politica di affermazione di superiorità del proprio potere politico su quello religioso, cercando di escludere l’influenza del movimento islamico in diversi settori della società come nelle scuole e nelle associazioni benefiche presenti nel paese.

Quando nel marzo 2011 esplosero le proteste contro il regime, Bashar al-Assad strategicamente accolse come in passato le istanze del clero musulmano per paura che anche esso si unisse alle rivendicazioni democratiche del resto della popolazione: venne chiuso il casinò di Damasco, vennero reinserite “le insegnanti con il velo”, vennero creati un istituto islamico pubblico e un’emittente nazionale musulmana.

Tale strategia ebbe successo poiché assicurò il silenzio del clero musulmano rispetto ai movimenti di protesta che in quell’anno dominarono la scena politica del paese.

Inoltre, per le politiche messe in atto dal regime di Damasco nel Libano, Hezbollah fornì pieno appoggio a Bashar al-Assad già durante le rivolte del 2011, mentre Ankara – pur essendo passata da un autoritarismo militare laico a una democrazia conservatrice dei valori musulmani, unita a una politica iperliberista sul piano economico – nel 2011 prese inizialmente le distanze sia dai movimenti di protesta che dalle dure repressioni esercitate da Damasco.

Le tappe del conflitto dal 2011 a oggi

Nei dieci anni precedenti al conflitto la Siria era quindi già un avamposto nel quale si dispiegarono numerose questioni politiche, sociali ed economiche non solo in ragione del desiderio di acquisizione del potere centrale nella repubblica, ma anche per le trattative intessute in questi anni tra il potere centrale, le comunità locali e le forze internazionali; inoltre nel conflitto hanno avuto e continuano ad avere peso diversi fattori etnici, confessionali, politici, individuali e culturali.

Occorre sottolineare che ciascuna potenza internazionale intervenuta nel conflitto ha visto nella guerra siriana la possibilità di consolidarsi nella regione del Medioriente rispetto ad altre potenze rivali nell’area.

Il 18 marzo 2011 le milizie governative di Assad spararono contro i manifestanti a Dara’a uccidendo quattro persone: le manifestazioni e, di conseguenza anche la loro repressione, ebbero un’eco sempre maggiore, mentre ad aprile dello stesso anno nella città di Homs, una delle città più grandi del paese, migliaia di cittadini siriani organizzarono un importante “sit in” che rievocò le manifestazioni in piazza Tahrir contro il regime di Mubarak. Gli scontri continuarono per tutto il 2011 e portarono come detto alla formazione dell’Esercito siriano libero – oggi forza militare marginale sostituita da jihadistimotivo per cui il regime mise in campo forze militari di artiglieria e di aviazione. Il 18 luglio 2012 dalla rivolta si raggiunse l’apice della guerra civile: i manifestanti bombardarono il Palazzo di sicurezza nazionale, durante una riunione di crisi, provocando l’uccisione di quattro funzionari del regime tra cui il succitato cognato di Assad e l’allora ministro della Difesa. Le forze militari del governo di Assad assediarono il quartiere di Baba Amir sempre a Homs. In quella circostanza all’Esercito siriano libero si affiancarono i combattenti di al-Nusra, gruppo jihadista nato da al-Qaeda e composto da fondamentalisti sunniti che miravano alla destituzione del regime per poter instaurare uno Stato Islamico nel paese.

Arrivano le forze internazionali

Il 2013 invece segnò l’inizio della presenza di forze internazionali nel conflitto siriano: la condizione nasce dal fatto che gli Stati Uniti, nella persona dell’allora presidente Barack Obama, dichiararono che l’utilizzo di armi chimiche avrebbe condizionato il coinvolgimento degli Usa nel conflitto. Nel 2013 iniziò l’indagine delle Nazioni Unite relativamente alla morte di 26 persone civili e soldati nella città di Khan Shaykhun e, rispetto al quale, tanto il regime quanto le forze di opposizione rinnegarono ogni responsabilità. L’Onu, anche se non riuscirà mai a conoscere la verità sulla responsabilità dell’attacco, dichiarerà in seguito che si trattò di un attentato compiuto mediante l’utilizzo di gas nervino. Inoltre, sempre nel 2013, un attacco chimico nella periferia della capitale Damasco uccise centinaia di persone. Gli Stati Uniti a quel punto attribuirono la responsabilità della strage al regime decidendo in un primo momento di intervenire nel conflitto, ma successivamente ritirarono le loro dichiarazioni. Tuttavia il Consiglio di Sicurezza dell’Onu impose al regime la distruzione di tutte le proprie armi chimiche come conseguenza di un surreale accordo tra Stati Uniti e Russia, per cui Bashar al-Assad fu costretto a firmare il 14 ottobre 2013 la Convenzione sulle armi chimiche che ne vieta la produzione, lo stoccaggio e l’utilizzo.

Le ultime armi chimiche a disposizione del regime siriano verranno dichiarate rimosse l’anno successivo dall’Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche, nonostante l’opposizione sostenesse che l’esecutivo continuava a disporne di ulteriori.

L’osservazione internazionale sull’elemento chimico della guerra nel 2013 determinò così il decisivo intervento diplomatico della Russia nel conflitto siriano che conferì a Bashar al-Assad un possibile ruolo di “attore-interlocutore” per il processo di pace nel paese.

Nel maggio del 2013, inoltre, anche il gruppo militante libanese Hezbollah si inserisce nel conflitto siriano accanto ad Assad, in questo caso a livello militare, attaccando e riconquistando la città di Qusair al confine tra i due paesi. Anche il sostegno fornito dal gruppo sciita libanese, quindi, ha finito per internazionalizzare il conflitto siriano in quanto – in conseguenza della presenza di Hezbollah in Siria – decisero di intervenire da un lato l’Arabia Saudita, il Qatar e gli Emirati Arabi e la Turchia a favore delle forze di opposizione e dall’altro l’Iran e l’Iraq, i quali appoggiarono il regime di Assad. Intanto gli insorti appartenenti all’opposizione si frammentarono nel corso degli anni in gruppi militari laici e islamisti per cui la coalizione tra l’Esercito siriano libero e al-Nusra si ruppe definitivamente nel 2014.

La fuga della popolazione dallo Stato Islamico

Il 2014 rappresentò tuttavia uno degli anni più rilevanti del conflitto siriano anche per altre ragioni: nel giugno dello stesso anno si tennero nel paese le elezioni presidenziali, il cui verdetto vide riconfermato capo di stato, con l’88 per cento dei voti a favore, Bashar al-Assad  ma il 30 giugno 2014 il sedicente Stato Islamico dichiarò il Califfato nelle aree che ormai erano poste sotto il suo controllo, non solo in Iraq, ma anche in Siria, provocando la fuga di migliaia di cittadini siriani dal paese. Nel settembre del 2014 gli Usa cominciarono a sferrare attacchi aerei contro gli avamposti del sedicente Stato Islamico in Siria.

Nel 2015 il regime siriano raccolse una serie di sconfitte militari in conseguenza dei continui attacchi sia dei ribelli che dell’IS e inoltre il 28 marzo del 2015 la città nordoccidentale di Idlib cadde nelle mani dei militanti islamici guidati da al-Nusra. Proprio in quest’anno si ricorda il ritrovamento del corpo del bambino siriano Alan Kurdi di tre anni su una spiaggia turca: quest’immagine che forse sarà ancora presente negli occhi di molti lettori portò l’opinione pubblica internazionale a non voltare più lo sguardo rispetto alla condizione dei profughi fuggiti in conseguenza del conflitto siriano e speriamo che non occorrano ancora immagini come quella per scegliere l’opzione dei canali umanitari e non quella assurda della prassi delle esternalizzazioni delle frontiere.

Le potenze regionali intervengono

Nell’autunno del 2015, quindi, poiché il regime siriano rischiava ormai di collassare, la Russia decise di intervenire militarmente nella Siria occidentale lanciando i primi raid aerei e attrezzando di nuovo militarmente le basi militari di Tartus e Latakia e successivamente il Consiglio di Sicurezza approvò all’unanimità la Risoluzione Onu n. 2254 finalizzata alla costituzione di un processo di pace nel paese.

Nel 2016 si registrò la vittoria del Partito ba’at di Assad nelle consultazioni parlamentari ma il conflitto proseguì duramente, in particolare nella città di Aleppo, portato avanti però più che dalle forze militari del regime da parte di quelle internazionali, nello specifico da quelle russe.

Il 2016 tuttavia segnò per la prima volta l’intervento della Turchia, proprio a nord di Aleppo, mentre i quartieri a est della città rientrarono, dopo mesi di assedio, sotto il controllo delle milizie lealiste in particolare di quelle iraniane e russe. Allo stesso tempo la coalizione curdo-araba – ossia le Forze democratiche siriane anti-Isis, guidata dagli Stati Uniti nel Nordest del paese – riconquistarono la città di Raqqa, storica roccaforte dello Stato Islamico, con una campagna che si concluse nell’anno seguente.

Gli attacchi chimici

Nell’aprile del 2017 vi fu un attacco di gas nervino nuovamente nella città settentrionale di Kahna Sheikhoun, in quel periodo in mano ai ribelli, la responsabilità del quale venne negata da Mosca e Damasco. Tuttavia, gli Usa, in risposta a tale attacco chimico, spararono missili crociera direttamente contro il territorio dominato dal regime di Damasco, mentre i ribelli si ritirarono a Homs. Anche Israele in conseguenza del presunto attacco chimico per opera del regime è intervenuto nel 2017 con bombardamenti contro una base aerea militare siriana. Sempre nel 2017 venne ripreso il controllo anche di altre città in tale area del paese e Putin a dicembre dello stesso anno dichiarò la definitiva sconfitta dello Stato Islamico in Siria.

il clan al Assad

Le rovine della città di Homs (foto gsafarek).

Nel 2018 la novità fu quella di sostenere che al-Assad ormai avesse vinto la guerra.

Ma, nonostante le forze governative riconquistassero in quest’anno anche il Sudovest del paese e la regione agricola orientale di Ghouta a ridosso della città Damasco – regione dal 2012 sottratta al controllo del regime – le milizie turche consolidarono la loro posizione nel Nordovest della Siria in particolare nella città di Idlib. Quest’ultima prende il nome dalla stressa provincia, intorno alla quale, la Russia e la Turchia volevano creare una zona “cuscinetto” di circa venti chilometri, mediante la stipula dell’Accordo di Sochi siglato nell’autunno del 2018 dalle due potenze e aggiornato con la recente intesa del marzo del 2020 principalmente per evitare che i futuri sfollati siriani si dirigessero nuovamente verso la Turchia come in passato. L’area a Nordovest infatti nel 2018 era considerata l’ultima roccaforte delle forze di opposizione jihadiste. Rispetto a Israele, paese sempre maggiormente preoccupato della continua espansione iraniana nel conflitto siriano, la Russia è corsa ai ripari negoziando proprio con l’Iran l’allontanamento dalle frontiere di Israele per circa 80 chilometri dalle alture del Golan, garantendo il monitoraggio dell’area attraverso le proprie truppe militari.

Truppe israeliane al confine con la Siria (foto Alexeys).

Le diverse violazioni dell’Accordo di Sochi

Ciò non fu sufficiente a evitare più volte la violazione dell’Accordo di Sochi, soprattutto nel 2019, quando le truppe russe cercarono di invadere la provincia di Idlib al confine con la Turchia – stante la permanenza delle forze di opposizione in particolare di quelle jihadiste dell’Hts (Hay’et Tahrir al-Sham) – sostenute proprio dalla Turchia che a sua volta cercò di contrastare le milizie curde dell’Ypg/Ypj (ramo siriano del Pkk turco) che combattono per uno stato indipendente nel Nord del paese.

Le violazioni degli accordi di Sochi: i russi intervengono in Siria invadendo la provincia di Idlib.

Inoltre, la promessa Usa del 2018 del ritiro definitivo delle proprie truppe americane dall’area a Nordest del paese – che si ponevano a guida della coalizione arabo-curda delle Forze democratiche siriane – venne mantenuta verso la fine del 2019, motivo per cui le Forze democratiche siriane dopo l’abbandono Usa dal Nordest si spostarono principalmente sul versante Nordovest del paese per resistere all’avanzata turca.

L’offensiva anticurda della Turchia

Dopo il ritiro degli Usa, infatti, il 10 ottobre del 2019 la Turchia portò avanti un’offensiva contro i combattenti curdi. Il succitato accordo del marzo del 2020 tra Putin ed Erdoğan per un cessate il fuoco nel Nordovest della Siria è riuscito a scongiurare un confronto diretto delle forze armate filogovernative russe contro quelle turche e ha bloccato un’importante offensiva del regime verso la città di Idlib. Tali condizioni sono state accettate da Damasco perché certa non era la possibilità di riuscita contro le forze di opposizione a Idlib, senza l’aiuto di Ankara.

Come si evince dalla sintesi del conflitto siriano dopo 10 anni si può giungere alla conclusione che le scelte politiche, e di conseguenza quelle militari, che caratterizzano le dinamiche e le interazioni nella repubblica siriana vengono assunte prevalentemente dalle potenze straniere, mentre un ruolo del tutto marginale rivestono ormai le scelte e le azioni poste in essere dalle rappresentanze politiche interne al paese compreso lo stesso regime. È solo partendo da questo presupposto che potremo cercare di comprendere successivamente i recenti accadimenti che stanno interessando il paese, consapevoli che interazioni, interessi, negoziazioni oggi sono prevalentemente tra le potenze esterne: sono tali azioni che possono essere oggetto di una valutazione prognostica autentica rispetto alla concreta realizzabilità del tanto auspicato processo di pace nel paese ormai devastato dal conflitto civile. Analizzeremo dunque ogni attore estero e il ruolo che attualmente possiede nella determinazione della condizione della Siria, rivelando ciò che oggi è già chiaro:

la Siria e il “suo” conflitto stanno divenendo la cartina al tornasole di tutte le questioni di conflittualità esistenti tra i paesi dell’area mediorientale, i movimenti jihadisti in esso presenti, e tra le grandi potenze straniere, fuori dall’area, che avvertono “la responsabilità” di intervenire nel conflitto.

Analizzando le azioni di queste forze sembra che poco si stia compiendo nell’interesse della popolazione civile siriana: infatti le decisioni di ciascuna potenza estera appaiono maggiormente volte all’affermazione di sé legata o a un’idea di espansionismo geopolitico, o agli interessi economici, o alla volontà di riscatto personale contro un paese rivale nella medesima area. “Ai posteri l’ardua sentenza”, se questo si può definire un passaggio necessario per la definizione del conflitto o se possa essere a questo punto gestito in modo alternativo, valutando il bilancio delle vittime, la distruzione dei territori e l’immutabilità dell’impianto politico esistente dopo un decennio di guerra.

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n. 8 – Siria (II): la Primavera e le “tre Sirie” https://ogzero.org/le-tre-sirie-non-tutte-voteranno-siria-8ii-specificita-della-primavera-siriana-e-attuale-situazione/ Wed, 26 May 2021 11:32:05 +0000 https://ogzero.org/?p=3552 Nella serie di articoli dedicati alle rotte mediorientali della raccolta di analisi stilate da Fabiana Triburgo sulla questione migratoria la sezione siriana si compone doverosamente di alcuni interventi ciascuno dedicato a uno dei molteplici aspetti che presenta questa diaspora, biblica per proporzioni, e vicissitudini toccate ai più di 12 milioni di individui siriani coinvolti nella […]

L'articolo n. 8 – Siria (II): la Primavera e le “tre Sirie” proviene da OGzero.

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Nella serie di articoli dedicati alle rotte mediorientali della raccolta di analisi stilate da Fabiana Triburgo sulla questione migratoria la sezione siriana si compone doverosamente di alcuni interventi ciascuno dedicato a uno dei molteplici aspetti che presenta questa diaspora, biblica per proporzioni, e vicissitudini toccate ai più di 12 milioni di individui siriani coinvolti nella catastrofe umanitaria che ha fatto seguito allo scatenarsi del conflitto siriano dell’ultimo decennio, in un paese che oggi è diviso nelle tre Sirie che costituiscono una situazione geopolitica nuova.

L’autrice ha dapprima analizzato le attuali condizioni di siriani ormai integrati in realtà esterne al paese ai quali ora viene chiesto di rimpatriare, rischiando la vita e rinunciando alla nuova esistenza costruita faticosamente in esilio. L’analisi prosegue ora seguendo un percorso parzialmente a ritroso: le elezioni indette il prossimo 26 maggio, con una disamina della condizione economica e umanitaria in cui si svolgeranno e la specificità della Primavera araba nelle diverse regioni siriane; proseguirà poi collegando le modalità di protesta alla particolare peculiarità del regime alauita del clan al-Assad; le fasi della politica di Bashir – fino alla Primavera araba e dal 2011 in avanti.


n. 8, parte II

I principali conflitti che attualmente interessano le migrazioni forzate e le prassi di esternalizzazione poste in essere dall’Unione Europea e dai singoli stati membri portano a una predeterminazione delle rotte dei migranti.

Quello che oggi è inevitabile chiedersi è se il nuovo Patto europeo sulla migrazione e l’asilo, proposto dalla Commissione UE, possa essere realmente considerato una soluzione della gestione del fenomeno migratorio o se invece vi siano soluzioni legali alternative maggiormente lungimiranti e coraggiose.  

Il conflitto siriano

Specificità della Primavera siriana e attuale situazione

26 maggio 2021: elezioni siriane

Il conflitto armato siriano giunge in questo periodo a un processo importante che avverrà con le elezioni del prossimo 26 maggio. Invero molti non ravvisano, per varie ragioni in tale tornata elettorale, quella svolta tanto auspicata per il paese ormai dilaniato da una crisi umanitaria. Già nel 2014, sempre nel corso del conflitto, si sono tenute nel paese elezioni che hanno registrato la vittoria di Bashar al-Assad con circa l’80 per cento dei voti a favore. Tuttavia i presupposti che si pensava dovessero realizzarsi in occasione di tale ricorrenza istituzionale attuale, non si sono compiuti.

Ripartizione geopolitica del territorio

Queste elezioni diversamente da quelle tenutesi nel 2014 si svolgeranno in una condizione geopolitica completamente diversa: al momento le forze governative di Bashar al-Assad hanno il controllo di due terzi del territorio siriano, tanto che oggi più che di Siria si parla di “Sirie” essendo attualmente la Repubblica suddivisa in tre parti: la regione del Nord Ovest che vede come città principali Idlib e la parte a ovest della città di Aleppo, la regione a Est sotto l’amministrazione autonoma a maggioranza curda e l’area sottoposta al controllo del Regime che nel corso del conflitto ha recuperato diverse importanti e storiche roccaforti come la città di Damasco e la parte orientale della città di Aleppo, grazie soprattutto all’intervento delle milizie russe e filoiraniane.

Proprio per questa ripartizione geopolitica, oggi presente in Siria, le elezioni presidenziali non si svolgeranno in tutto il paese ma soltanto nelle aree poste sotto il controllo di Bashar al-Assad, nelle aree invece controllate dall’Amministrazione autonoma curda con buona probabilità saranno aperti i seggi solo nelle zone poste sotto il controllo di Damasco tra cui la città di Hasakah e Qamashil. Infine, nelle regioni ancora oggetto di conflitti armati da parte degli oppositori, in particolare nella parte Nord Ovest del paese, non vi sarà alcun nuovo round elettorale. Al momento Assad, tuttavia, sembra essere l’unico vero candidato e se vincesse le elezioni resterà al governo per altri sette anni. La lista dei 51 candidati dovrà infatti essere sottoposta alla Commissione elettorale secondo la Costituzione approvata in Siria nel 2012: i candidati devono ottenere il consenso di almeno 35 dei 250 membri dell’Assemblea popolare. Il raggiungimento di tale quota però sembra essere davvero irrealistico dato che il parlamento è dominato dal Partito ba’at al quale da anni appartiene la famiglia Assad e che ogni membro dell’Assemblea popolare può concedere il suo sostegno a un candidato soltanto.

Candidature e legittimazione della consultazione elettorale

Quindi è ragionevole pensare che l’Assemblea darà la possibilità soltanto ad altri tre individui, tra cui una donna, di potersi candidare al fianco di Assad per il ruolo di presidente: operazione questa che sembra essere di facciata, volta a lasciare intendere all’opinione pubblica internazionale che le elezioni si svolgeranno secondo un processo democratico.

Rispetto a questo va precisato che, come già accennato, alcuni membri permanenti del Consiglio di Sicurezza, in particolare Francia, Usa e Regno Unito, hanno delegittimato anticipatamente il risultato elettorale che emergerà in esito alle elezioni del 26 maggio 2021 qualunque esso sia. Tale delegittimazione in primo luogo è intervenuta in ragione del fatto che le elezioni si svolgeranno in contrapposizione a quanto è stato stabilito con la risoluzione Onu n. 2254 adottata all’unanimità nel 2015, secondo la quale le elezioni si sarebbero dovute tenere con una supervisione internazionale e soltanto in esito all’adozione di una nuova Costituzione – ancora oggi in una fase d’impasse – che avrebbe dovuto garantire la loro trasparenza e la partecipazione da parte di tutti i cittadini siriani al voto.

La situazione economica e umanitaria nel paese

Il 15 marzo 2021 è ricorso il decennale dall’inizio del conflitto armato anche se questo si dovrebbe far coincidere con il mese di luglio del 2011, quando nacque la prima formazione ufficiale militare dei ribelli ossia l’Esercito siriano libero. Il 15 marzo 2011 iniziarono le proteste della popolazione civile nei confronti del regime guidato dal presidente Bashar al-Assad allora da undici anni al potere in Siria.

Della “primavera araba sirianagià citata insieme a quella in Tunisia, in Egitto, in Yemen e in Libia – analizzeremo in questo articolo in modo più approfondito dinamiche e caratteri peculiari. Tuttavia occorre far riferimento alla condizione generale in cui il paese si trova oggi.

Sanzioni e legame con il tracollo della banche libanesi: regime indebolito

L’attuale contesto siriano è caratterizzato da un aggravamento della situazione economica, in conseguenza anche delle sanzioni “Caesar” imposte dagli Stati Uniti il 17  giugno del 2020, alle quali  si aggiungono quelle del Regno Unito imposte proprio il 15 marzo del 2021, applicate prevalentemente ad aziende che investono nel paese – non molto comprensibili, considerata tale condizione economica soprattutto con riferimento agli effetti che queste comportano prevalentemente sulla condizione della popolazione civile – nonché da una forte svalutazione della lira siriana come abbiamo già avuto modo di rilevare con riferimento alla lira libanese.

Inoltre proprio il collasso del sistema bancario libanese dichiarato nel marzo del 2020 ha aggravato la situazione economica siriana in quanto il paese in passato aveva chiesto sostegno economico alle banche di Beirut proprio per evitare le conseguenze delle sanzioni “Caesar”.

Su una popolazione attuale di 17,5 milioni di abitanti sono circa 12 milioni le persone aventi bisogno di assistenza, essendo salito il tasso di povertà nell’ultimo periodo a circa il 90% della popolazione e viene stimato al 60% il crollo delle attività economiche. A ciò si deve aggiungere anche la complicata situazione determinatasi a seguito della diffusione del virus del Covid-19 in una situazione sanitaria già al collasso per il perdurante conflitto civile nel paese.

A causa della scarsità di risorse a disposizione del governo, vi è stato poi un indebolimento dell’esecutivo di Assad che ha prodotto come conseguenza la sospensione per qualche mese dell’avanzata delle forze lealiste verso il Nordovest del paese, nel quale sono ancora presenti le forze di opposizione e la sempre maggiore dipendenza dalle milizie russe e da quelle iraniane.

Tuttavia, Russia e Iran come vedremo devono oggi porre attenzione a non creare ancora più forti tensioni con la Turchia vista la sua ferrea volontà di mantenere una zona cuscinetto di 20-30 chilometri al confine con la Siria.

Bisogni primari e catastrofe umanitaria

Ne consegue che dieci anni dopo si può constatare che i bisogni umanitari della popolazione civile sono aumentati: dal cibo, alla casa, alle cure mediche e alle infrastrutture. Inoltre, come abbiamo accennato, non si può ignorare la condizione di circa 7 milioni di sfollati interni, numero impressionante se si aggiunge a quello di circa 6 milioni e mezzo di profughi che per il conflitto hanno lasciato il paese. Le famiglie in Siria non hanno la possibilità di comprare né cibo, né medicinali e “sopravvivono” attraverso il lavoro minorile, la riduzione dei pasti nei nuclei familiari e mediante attività illegali.

I minori sono quelli che preoccupano di più: spesso costretti ad abbandonare la scuola proprio per aiutare i genitori e i fratelli più piccoli lavorando. Ed è proprio tra i minori che si registra il drammatico aumento del numero di suicidi, soprattutto nel Nordovest del paese, dato che secondo Save the Children, nel Rapporto pubblicato il 29 aprile del 2021; il numero è salito di circa l’86 per cento in più rispetto all’anno precedente per cui in tale zona si è passati da 132 casi di suicidi all’inizio del 2020 fino a 246 a fine anno: quasi un tentativo di suicidio su cinque è di un bambino di età pari o inferiore a 15 anni.

 

Questa situazione è di una gravità senza precedenti e difficile da accettare penso per qualsiasi individuo. Occorre quindi soffermarsi un istante a pensare: se si arriva al compimento di tale atto possiamo solo immaginare quanto sia percepito ostile da parte dei bambini siriani l’ambiente in cui si trovano. Questi bambini sono minori che non hanno da diversi anni quasi alcuna possibilità di istruzione, cresciuti anno dopo anno nella guerra e ora anche nell’indigenza familiare e nella condizione della diffusione di un virus senza mezzi per contenerlo o curarlo. Per loro è assente ogni speranza per il futuro. Se più bambini arrivano a pensare questo vuol dire che si sta consumando una catastrofe. Quindi data l’analisi della situazione dei minori, con particolare riferimento al Nord Ovest del paese, appare più appropriato – considerata anche la suddivisione territoriale politica che attualmente si registra in Siria – cercare di dare uno sguardo in seguito partendo dalla situazione che emerge in ciascuna delle macroaree nelle quali oggi è suddivisa la repubblica, vivendo queste – pur se inserite nella generale crisi umanitaria ed economica che coinvolge l’intera nazione – una distinta situazione geopolitica che inevitabilmente si riflette sulla condizione delle collettività in esse presenti.  

La specificità della Primavera araba siriana

Come già accennato nel marzo del 2011 si innestava quell’onda di proteste popolari che diede origine alla cosiddetta “Primavera araba siriana”. Le proteste che cominciarono a sconvolgere anche il Medioriente, oltre al Nordafrica, iniziarono in Siria nella città di Dara’a, dopo che alcuni ragazzi avevano imbrattato i muri di una scuola con graffiti contro il presidente Bashar al-Assad (“Ora tocca a te, Dottore”) – riferendosi alla caduta del regime egiziano di Mubarak – ragione per la quale i ragazzi vennero immediatamente arrestati, picchiati e torturati. In realtà, nonostante la dura e sanguinaria repressione a esse inflitta, le proteste portate avanti da migliaia di siriani per lo più giovani, pur contestando fortemente il regime, non furono inizialmente espressione di un’istanza di destituzione del regime di Assad, quanto piuttosto di quella concernente il riconoscimento delle libertà civili come quella di stampa e quella legata alla manifestazione di pensiero nonché del riconoscimento dei diritti fondamentali in favore dei cittadini siriani.

Le tre Sirie

Già in questo carattere più moderato delle proteste si riscontra la prima differenza della “primavera siriana” rispetto ad altre “primavere” nate in opposizione a regimi dittatoriali come quello di Mubarak in Egitto. Non solo, i caratteri di tali moti portati avanti dieci anni fa in Siria sono da riscontrarsi peculiari anche rispetto ad altri fenomeni. In primo luogo, in Siria diversamente da quanto è avvenuto in Egitto, il potere militare era già da anni tenuto sotto controllo dalla famiglia Assad in quanto i suoi vertici sono profondamente legati al clan familiare del regime al potere in Siria: in particolare questo aspetto ha indirettamente implicato che il presidente della repubblica non fosse destituito ma anzi sostenuto, in conseguenza dalle proteste popolari, da parte delle milizie governative. Anche se, infatti per la prima volta l’esecutivo siriano, guidato da Muhammad al-Utri, zio della moglie di Assad, il 29 marzo è stato costretto alle dimissioni, a causa delle pressioni popolari, gli equilibri del regime di Damasco non sono crollati affatto.

In secondo luogo, la cosiddetta “primavera araba siriana” non solo non ha condotto alla nomina di un nuovo capo dello stato e all’instaurazione di un nuovo sistema di governo ma è sconfinata, come vedremo meglio, in un sanguinoso quanto lungo conflitto civile nel quale il potere centrale però è rimasto sempre presente e attivo militarmente.

Vedremo che, come nel caso della Libia, nel conflitto in cui sono sconfinate le proteste, nel tempo si sono inserite altre potenze internazionali, interessate sia al mantenimento della stabilità dell’area che al mantenimento dei propri interessi nel paese.

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Hamas, il principe di Gaza https://ogzero.org/hamas-il-principe-di-gaza/ Mon, 17 May 2021 00:41:29 +0000 https://ogzero.org/?p=3496 La tempesta perfetta per israeliani e palestinesi. Un’analisi dell’organizzazione al comando nella Striscia e del vantaggio che ne trae la destra israeliana Due forze di destra ultraconservatrice, entrambe sostenute dalle rispettive superstizioni confessionali nelle frange più estremiste, si confrontano legittimandosi a vicenda. Abbiamo chiesto ai sodali di “Atlante delle guerre” di riprendere l’articolo di Eric […]

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La tempesta perfetta per israeliani e palestinesi.

Un’analisi dell’organizzazione al comando nella Striscia

e del vantaggio che ne trae la destra israeliana

Due forze di destra ultraconservatrice, entrambe sostenute dalle rispettive superstizioni confessionali nelle frange più estremiste, si confrontano legittimandosi a vicenda.

Abbiamo chiesto ai sodali di “Atlante delle guerre” di riprendere l’articolo di Eric Salerno publicato il 15 maggio per arricchire il nostro Studium sulle Terre resistenti e la comunanza tra le realtà oppresse intorno al Mediterraneo risulta sempre più valido. Quello che ci è sembrata una sorta di cancrena, che continua a riproporsi da più di trent’anni di impunità sancita dal blocco di ogni organismo di controllo, è dimostrata dagli articoli scritti da Eric a suo tempo – e qui riprodotti – che fotografano esattamente il momento in cui è scattata la trappola.

Trentaquattro anni fa la popolazione della Striscia era un quinto dell’attuale e l’estensore dell’articolo era già stupito della densità e della precarietà della condizione delle esistenze in quell’inferno, che già nel 1987 era chiaramente inquadrato come un sistema di apartheid («Qui siamo come a Soweto»), ma “la bomba a orologeria” è stata fatta brillare più volte senza fare danni, se non riducendo diritti, producendo vittime palestinesi e mettendo le radici di quella società bi-etnica che ora anima la guerra civile in corso nelle città israeliane abitate da arabi ed ebrei.

Eric Salerno, “Il Messaggero”, 1° giugno 1987

Non è peregrino che il titolo alluda a Belfast, come vedremo nel prosieguo del dossier sulle Terre resistenti

Oltre alla società bi-etnica i Servizi israeliani hanno scientemente messo le radici per costruire il nemico adatto, quell’avversario strategicamente perfetto che consente di rimanere impuniti anche a fronte di qualsiasi nefandezza. Il Golem però potrebbe rivelarsi esiziale, come nel mito ebraico?


Machiavelli, quel nostro principe che amava raccontare e suggerire gli intrighi più complessi, si sarebbe divertito a guardare il conflitto israelo-palestinese e le palesi contorsioni di alcuni suoi protagonisti che gli osservatori non solo italiani, spettatori sempre più relegati al ruolo di commentatori inutili, non sembrano capaci – o non vogliono? – denunciare. Eppure quello che si svolge davanti ai nostri occhi ricalca un nostro – antico romano e non italico – progetto: Dīvĭdĕ et ĭmpĕrā. Il modo migliore per controllare un popolo è dividerlo, provocando rivalità e fomentando discordie.

Hamas, che in queste ore, è nell’obiettivo dei bombardieri israeliani, deve molto a Israele. Per almeno dieci anni, tra il 1978 e il 1987, il movimento fondamentalista, costola dei Fratelli musulmani egiziani, è riuscito a sviluppare nella striscia di Gaza una base formidabile di consensi, grazie anche ai servizi segreti di Tel Aviv. Gaza, allora, era territorio occupato come la Cisgiordania. Nella striscia si erano istallati undicimila coloni israeliani tra i più radicali. Protetti da un apparato militare imponente la cui amministrazione vedeva di buon occhio l’avvento di un movimento islamico religioso come contraltare ai laici dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp) guidata da Yasser Arafat e tendente a sinistra. Un funzionario israeliano, intervistato nel 2009 dal “Wall Street Journal”, raccontò molto di quell’operazione che, spiegò, appariva convincente ma che si sarebbe dimostrato, «per molti di noi», un errore. O no?

Tel Aviv vedeva nel leader del movimento, il paraplegico Sceik Yassin, un uomo di fede da contrapporre all’Olp. La sua “Mujama”, una organizzazione caritatevole con scuole, cliniche, una biblioteca e una università, poteva alleggerire la pressione sugli occupanti e ridurre la tensione che rischiava di esplodere. «Se fossi nato e cresciuto qui – mi disse allora Giulio Andreotti durante una visita nella Striscia – diventerei un terrorista». Tornai a Gaza appena scoppiata la prima Intifada e vi incontrai i leader di Hamas che erano usciti allo scoperto aggiungendo alla loro attività di assistenza sociale una Carta intrisa di antisemitismo e votata alla distruzione di Israele.

Eric Salerno, “Il Messaggero”, 9 gennaio 1988

Dopo Oslo

Poi vennero gli accordi di Oslo (agosto 1993), la bozza di pace firmata da Rabin, Peres e Arafat sotto gli occhi di Clinton sul prato della Casa bianca. Il mondo esultò. O quasi. I ricordi sono sempre utili: ne ho uno di quel pomeriggio, dopo la firma, particolarmente significativo. Ero presente al ricevimento offerto dall’ambasciata israeliana per i suoi leader e i giornalisti accreditati in Israele. Un giornalista ebreo americano, molto noto per le sue posizioni, affrontò Rabin con un’accusa: «Come hai potuto fare questo a noi!». Pace sì, voleva, ma senza i palestinesi. Anche Hamas voleva la pace, ma senza gli israeliani. E lo fece capire diventando sul piano militare la più grossa minaccia all’occupazione israeliana. E alla credibilità di Arafat, in quegli anni chiuso nella sua fortezza di Ramallah circondato dalle forze israeliane e che lasciò per farsi curare in Francia e dove tornò per essere sepolto. E con lui gli accordi che aveva firmato a Washington e che non piacevano al centro-destra israeliano o, direi, alla maggioranza degli israeliani.

Rabin (paragonato a un traditore anche da Netanyahu) venne assassinato e le sue ceneri riportarono al potere i discepoli di Jabotinsky, sionista di estrema destra, discepolo-protetto di Mussolini. 

Vladimir “Ze’ev” Jabotinski

E torniamo a Gaza. A Hamas. Ariel Sharon, ex generale diventato politico, responsabile (quanto meno indirettamente) dei massacri nei capi palestinesi di Sabra e Shatila (Beirut) da premier si lanciò in ciò che poteva apparire come un passo avanti verso la fine dell’occupazione israeliana dei Territori. «Lasciamo Gaza, – annunciò al mondo, – via le nostre truppe e via gli undicimila coloni con i loro insediamenti».

Abu Mazen, il successore di Arafat, si congratulò ma, quasi in ginocchio, esortò Sharon a concordare con lui il ritiro per consentire all’Autorità nazionale palestinese e alla nuova politica del dialogo di guadagnare punti invece di far apparire il ritiro come una vittoria della lotta armata, o terrorismo, portata avanti con fervore dai militanti di Hamas. La risposta fu un netto rifiuto. E alla elezioni successive in Palestina, le ultime [14 anni fa], Hamas vinse non soltanto a Gaza ma anche in molti centri abitati della Cisgiordania compresa la capitale, Ramallah.

Israele non ha mai voluto distruggere Hamas. Probabilmente dopo aver ridotto per l’ennesima volta il suo potenziale militare, la lascerà ancora viva.

E con i palestinesi sempre più disperati e divisi, i vari Netanyahu continueranno a imperare.

Der Golem

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n. 7 – Libano: dove tutto cambia perché nulla cambi https://ogzero.org/libano-dove-tutto-cambia-perche-nulla-cambi/ Sun, 02 May 2021 09:51:01 +0000 https://ogzero.org/?p=3278 Questo contributo di Fabiana Triburgo sulla questione migratoria analizza le condizioni alla base delle nuove rotte dal Medio Oriente e dal Nord Africa, tra instabilità politica, conflitti civili e l’eredità delle Primavere arabe e giungeremo al termine di questa sezione a un’analisi della normativa europea e delle alternative che potrebbero emergere da politiche più coraggiose […]

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Questo contributo di Fabiana Triburgo sulla questione migratoria analizza le condizioni alla base delle nuove rotte dal Medio Oriente e dal Nord Africa, tra instabilità politica, conflitti civili e l’eredità delle Primavere arabe e giungeremo al termine di questa sezione a un’analisi della normativa europea e delle alternative che potrebbero emergere da politiche più coraggiose e lungimiranti. Qui l’attenzione è focalizzata sul Libano: dove tutto cambia perché nulla cambi.


n. 7

I principali conflitti che attualmente interessano le migrazioni forzate e le prassi di esternalizzazione poste in essere dall’Unione Europea e dai singoli stati membri portano a una predeterminazione delle rotte dei migranti.

Quello che oggi è inevitabile chiedersi è se il nuovo Patto europeo sulla migrazione e l’asilo, proposto dalla Commissione UE, possa essere realmente considerato una soluzione della gestione del fenomeno migratorio o se invece vi siano soluzioni legali alternative maggiormente lungimiranti e coraggiose.  

«Non vogliamo finire come il Libano»

A un passo dalla guerra civile

Tra i richiedenti la protezione internazionale che negli ultimi dieci anni ho avuto la possibilità di ascoltare, collaborando con colleghi esperti in materia e lavorando per delle associazioni – alcune delle quali presenti al “Tavolo Nazionale Asilo” – sia per la ricostruzione della loro storia personale – finalizzata all’audizione dinanzi alla Commissione Territoriale competente – sia per la redazione dei ricorsi, in opposizione alle decisioni assunte dalle Commissioni, non ho mai incontrato un cittadino libanese. Non intendo con questo dire che in altre realtà lavorative sia necessariamente avvenuta la medesima circostanza, ma si può affermare che la nazionalità libanese non è di certo tra quelle maggiormente rappresentative del fenomeno migratorio verso l’Europa o quantomeno verso l’Italia. Tuttavia, si può dichiarare con sicurezza che tale situazione sia destinata a rimanere immutata nel tempo?

Da alcune stime infatti risulta che nel 2020 siano stati circa 45.000 i libanesi fuggiti dal paese prevalentemente in direzione di Cipro per poi ripartire, per via aerea, verso la Grecia o il Nord Europa.

Lo stallo politico e la crisi economica e sanitaria

Dall’analisi del contesto geopolitico in cui si inserisce il Libano e per alcune sue peculiarità come l’aumento, negli anni più recenti, di un già elevato numero di profughi di altre nazionalità che lo stesso paese accoglie e, soprattutto, data la condizione di forte instabilità – a un passo dal conflitto civile – nella quale oggi esso si trova, lo scenario potrebbe evolversi in altro modo. Infatti, a mio avviso, tra i paesi del Medio Oriente che nel lungo periodo potrebbero essere maggiormente interessati dal fenomeno dell’emigrazione verso l’Europa vi è anche il Libano, trovandosi attualmente in una situazione politica di stallo ma con questioni altamente difficili da superare quali quella di un’importante crisi economica finanziaria – la peggiore dalla guerra civile che ha interessato il paese dal 1975 al 1990 – con una conseguente svalutazione della lira libanese e la mancanza di possibilità di accesso ai beni di prima necessità nonché al carburante, risorsa  essenziale ai fini dell’erogazione dell’energia elettrica.

Non solo, il paese deve anche affrontare la diffusione esponenziale del virus pandemico del Covid-19 tra la popolazione, in una situazione sanitaria che può definirsi drammatica e precaria, peggiorata dall’esplosione del 4 agosto 2020 e che ha comportato un ingente numero di morti e di feriti, la carenza di strutture sanitarie preposte per il contenimento e la cura del virus – così come quelle di  altre patologie – nonché la distruzione  di edifici scolastici e di formazione, di esercizi commerciali e soprattutto di abitazioni, provocando un numero elevato di libanesi senza fissa dimora nonché il peggioramento della condizione di vita dei numerosi rifugiati che, come detto precedentemente, da anni il paese accoglie.

Il valore politico della demografia e le influenze esterne

Tra questi vi sono non solo i rifugiati palestinesi ma anche un milione e mezzo di siriani, numeri assai rilevanti a livello demografico considerato che la popolazione libanese si compone di circa 4.000.000 di abitanti. Rispetto ad altri paesi, il Libano però non ha vissuto nel 2011 una “vera Primavera araba”. Le mobilitazioni di allora, come detto, essenzialmente legate alla situazione economica disastrata – sofferta principalmente dalla popolazione – così come alla richiesta dell’applicazione di criteri democratici, nell’esercizio del potere da parte dei governi centrali, non aveva dieci anni fa ragion di esservi in Libano che, rispetto ai paesi coinvolti nei tumulti del 2011, godeva di un sistema economico e politico migliore dal punto di vista democratico, anche se comunque bisognoso di riforme urgenti e necessarie sulla ripartizione del potere politico-confessionale. Il Libano è infatti un paese eterogeneo che ha subito per molti anni e ancora oggi subisce le tensioni tra le varie comunità in esso presenti e possiede una posizione geopolitica rilevante nell’area del Medio Oriente. Questo spiega in gran parte perché alle rivendicazioni di ciascuna comunità, nel corso della storia, si siano sempre inserite le agende politiche di attori esteri come l’Iran, l’Arabia Saudita e chiaramente Israele che hanno spesso contribuito ad alimentare le tensioni già preesistenti nelle comunità libanesi.

Inoltre, tra gli attori esteri va menzionata la Francia, potenza coloniale del Libano con la quale buona parte della popolazione ha legami storici e culturali e che oggi il presidente Macron vorrebbe avesse un ruolo più importante nel paese. Negli ultimi anni il Libano ha avvertito il contraccolpo di quanto stava avvenendo in Siria e soprattutto in Iraq, anche se in modo minore. Nel 2011 il paese infatti sembrava avesse un’economia fiorente ma in realtà il suo debito pubblico equivaleva al 40 per cento del proprio Pil (esattamente il Libano oggi detiene circa 53 miliardi di debito pubblico).

Le banche libanesi, a distanza di un decennio, sono crollate e sono stati bloccati da parte del governo tutti i conti corrente con il risultato che la popolazione civile, in tale grave situazione economica, non ha la possibilità di prelevare i propri risparmi.

La situazione in Libano ha cominciato a esacerbarsi nel marzo del 2019 quando il primo ministro libanese Hassan Diab ha dichiarato che non avrebbe pagato il debito derivante da un eurobond da 1,2 miliardi di dollari in scadenza nello stesso mese di marzo a causa della disastrata condizione-economico finanziaria che ha portato il paese al default.

Le proteste per le riforme e il potere delle banche

Dal 17 ottobre del 2019 di conseguenza la popolazione civile dinanzi a una situazione di instabilità politica ed economica senza precedenti ha cominciato a manifestare nelle strade delle città libanesi contro il sistema politico settario al governo nonché contro i banchieri ritenuti responsabili, a fronte di un sistema fortemente corrotto, di aver dominato malamente il paese per decenni. Durante le proteste i manifestanti hanno chiesto l’elaborazione di riforme economico-sociali e del sistema politico poiché la classe politica al potere è rimasta pressoché invariata, per cui oggi a governare vi sono i figli o nipoti di coloro i quali hanno governato il paese nei primi decenni dalla dichiarazione di indipendenza nel 1943.

Beirut 26 febbraio 2021: i manifestanti gettano pietre contro la Banca centrale del Libano (foto di Karim Naamani).

Da metà novembre del 2019 le banche inoltre hanno imposto un controllo dei capitali limitando l’accesso alle valute straniere, prime tra tutte il dollaro e l’euro, con una conseguente svalutazione della lira libanese che ha causato anche il graduale impoverimento dei ceti medio-bassi. Quando però, all’inizio del 2020, il paese – grazie ai moti di contestazione portati avanti dalla popolazione civile – stava operando un iniziale processo di cambiamento, è intervenuto il virus, concedendo un’inaspettata “salvezza” per l’oligarchia che fino allora era stata al potere e che stava rischiando una disfatta definitiva.

Il governo tecnico di unità nazionale

Infatti, proprio a causa di tale situazione, a gennaio del 2020 in Libano è stato formato un governo tecnico di unità nazionale guidato da Hassan Diab, una rottura rispetto al modello di governo di rappresentanza di tutte le forze politiche settarie presenti nel paese che lo aveva caratterizzato per 15 anni.

L’intento della formazione di un governo tecnico sebbene la sua creazione sia stata sostenuta da Hezbollah, non è stato altro che un banale escamotage da parte della precedente classe dirigente per evitare di assumersi la responsabilità di un sistema che ormai stava correndo senza sosta verso il baratro, ma che la popolazione civile stava denunciando ad alta voce durante i tumulti già nel 2019.

Il governo tecnico è nato quindi proprio con questa logica: assumersi la responsabilità e gli oneri di decisioni economiche altamente impopolari, data la situazione economica, lasciando immuni da tale difficile governance le rappresentanze settarie precedentemente al governo che ne erano state la causa, in modo che nel mentre avrebbero potuto meglio riorganizzarsi al fine di avere una chance di riscatto della propria posizione politica dinanzi all’opinione pubblica, concretizzata paradossalmente attraverso proprio la diffusione della pandemia.

La diffusione del virus infatti ha concesso ai poteri settari la possibilità di riscattarsi, mediante un aiuto diretto alle comunità delle quali sono espressione e che il governo tecnico, così impegnato a risolvere la questione economica generalizzata, non avrebbe certamente potuto compiere mediante un intervento capillare sanitario e di sostegno a favore delle singole realtà locali. In tale situazione il primo ministro del governo tecnico Diab si è trovato così in una posizione molto difficile che implicava, da una parte la gestione di una pandemia con tutte le misure restrittive che questa comporta e, dall’altra le forti ondate di proteste popolari.

Le proteste hanno coinvolto soprattutto le zone abitate da sunniti come le città di Tripoli e Sidone ma si sono registrati anche tumulti a nord della città di Beirut dove vi è un’alta percentuale di maroniti ossia membri della comunità civile cattolica presente nel paese. Proteste sporadiche invece vi sono state a sud, nelle quali Hezbollah ha un ruolo rilevante e nel centro-sud caratterizzato da frange organizzate rappresentanti del partito comunista libanese.

Il governo ombra di Diab

Va precisato, tuttavia che il governo di Diab è pur sempre un governo ombra manovrato in un modo non molto celato da parte della precedente élite politica. L’esecutivo è comunque controllato dai partiti della coalizione ossia dalla compresenza di Hezbollah e “Corrente patriottica libera” partito formato dall’attuale capo di stato Michel Aoun e da suo genero Gibran Bassil, dal “Partito delle Forze libanesi” e quello delle Falangi che si contendono insieme al partito di Aoun il consenso dei cristiani in prevalenza maroniti.

Il leader dell’allora opposizione Saad Hariri, oggi premier, è sostenuto dall’Arabia Saudita e dai francesi a guida delle comunità sunnite. Nella gestione dell’epidemia questo rinnovato potere settario appare come detto consolidarsi: basti pensare quanto sia stata difficile la cancellazione dei voli verso l’Iran e l’Italia proprio perché fortemente osteggiata da Hezbollah, sostenuto a sua volta da Amal movimento sciita vicino a Damasco – dopo aver dichiarato il 15 marzo 2020 lo stato di “mobilitazione generale” con le conseguenti chiusure e restrizioni necessarie al contenimento del virus.

Mobilitazione e non emergenza: il freno di Hezbollah

Si deve fare attenzione proprio a tale dichiarazione:  in Libano nel 2020 è stato dichiarato lo stato di “mobilitazione nazionale” ma non quello di “emergenza”  proprio a causa delle pressioni esercitate sul primo ministro da Hezbollah ostile a una concessione di maggiori poteri alle forze armate del governo libanese (LAF) in quanto rappresentano l’unica organizzazione istituzionale che mantiene un gradimento da parte della popolazione civile soprattutto di quella cristiana e a capo delle quali vi è un cristiano maronita, secondo il sistema di ripartizione delle quote al governo.

Tra le varie rappresentanze politiche va rilevato infatti che Hezbollah, probabilmente confidando sugli aiuti da parte dell’Iran, ha dichiarato sin da subito che si sarebbe occupato di gestire in prima linea l’emergenza Covid. Effettivamente il cosiddetto “Partito di Dio”, mettendo in campo decine di migliaia di medici e di paramedici per far fronte alla pandemia ha subito offerto la propria capacità di organizzazione e i propri avamposti logistici. Ciò non è estraneo alla sua natura: Hezbollah da anni fonda il suo potere su una vicinanza molto forte alle comunità locali e ha svolto la funzione di uno stato parallelo alle istituzioni spesso non presenti nelle aree rurali o in quelle più periferiche, dotando le comunità anche in passato, di scuole, ospedali, o organizzazioni a sostegno dell’edilizia e delle microimprese locali. Chiaramente il movimento sciita è anche una formazione totalitaria dotata di un proprio apparato di sicurezza e considerato dai tedeschi come un gruppo terrorista, non distinguendo più l’ala armata da quella politica del movimento. Se quindi il governo tecnico è stato costretto ad adottare, per la questione economica e per quella pandemica, decisioni totalmente impopolari, le vecchie élite al potere suddivise su base comunitaria, in modo spesso opportunistico, si sono avvicinate alle necessità concrete della popolazione civile, per esempio distribuendo cibo e test anti-Covid gratuiti e sanificando i quartieri appartenenti alla propria comunità di riferimento.

«Tutti ma proprio tutti!»

Tuttavia, i movimenti di protesta non guardano a nessuna appartenenza politica e si oppongono con il proprio slogan contro la corruzione nel paese al grido di «tutti e quando diciamo tutti intendiamo tutti!», mostrando in tale modo il malessere generalizzato sofferto per anni e ora quasi impossibile da reprimere, data la situazione di forte indigenza in cui si trova il Libano.

Alcuni tra i politici hanno ascoltato la voce dei manifestanti per cui il governo nel 2019 ha approvato all’unanimità un piano di riforme economiche. L’approvazione del piano è stata particolarmente rilevante in quanto ha consentito l’intervento del Fondo monetario internazionale. Tuttavia, nel 2020 il governo e il fondo monetario internazionale hanno sospeso i negoziati per la concessione dei finanziamenti al Libano: i negoziati sono in una fase di stallo in ragione del fatto che il governo, l’Associazione delle Banche e la Banca centrale non convergono in una posizione comune riguardo il calcolo delle perdite economiche registrate negli ultimi anni. Prima di erogare qualsiasi somma l’FMI pretende che vengano forniti dati certi e trasparenti dal punto di vista finanziario e che il governo libanese attui le riforme che sono già state approvate.

Dall’inizio della crisi economica nel 2019 sono decine i libanesi e gli stranieri presenti nel paese che si sono tolti la vita a causa della situazione economica. La sede dell’associazione delle banche è divenuta una sorta di base militare attaccata dai manifestanti che ne hanno chiesto la caduta. La società elettrica, come previsto all’inizio degli scontri, non avendo più carburante, ha cominciato a ridurre l’erogazione dell’energia elettrica in tutto il paese.

Le stime della Banca mondiale a fronte del Covid, in particolare quelle riferite allo stato di disoccupazione in Libano, sono destinate a peggiorare con il tempo. Il Libano, infatti, all’inizio della diffusione della pandemia ha cominciato a rallentare le attività fino alla decisione della totale chiusura il 15 marzo 2020 – anche se possiamo dire che questa non è stata mai rispettata dai libanesi in modo ferreo – insieme all’invito da parte del primo ministro rivolto alla popolazione di non uscire dalle proprie abitazioni salvo casi eccezionali e imponendo il coprifuoco notturno.

Le disparità sociali e l’assenza dello stato

La pandemia ha messo in risalto le disparità sociali già presenti nel paese dal punto di vista socio-economico e l’assenza dello stato centrale nelle aree periferiche lontane dalla capitale. Tale mancanza del potere istituzionale nelle zone rurali e periferiche hanno condotto all’acquisizione di un ruolo di maggiore importanza appunto da parte delle municipalità legate alle diverse comunità locali con l’effetto che queste spesso, ritenendosi una sorta di entità a sé stanti, hanno finito per discostarsi parzialmente o totalmente – mediante una diversa applicazione o non attuazione – dalle leggi o dalle direttive emanate del governo centrale.

Inoltre, deve essere anche valutata la condizione dei profughi in Libano che si si stimano circa in due milioni. Tuttavia, va precisato che il paese non è firmatario della Convenzione di Ginevra, motivo per il quale tali profughi non godono dello status di rifugiato imposto dalla stessa Convenzione. A partire dal 2014 il governo libanese ha ordinato all’Unhcr di interrompere la registrazione dei profughi siriani dei quali solo 900.000 sono stati registrati dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite. Su una popolazione di circa 4 milioni di abitanti i profughi presenti in Libano costituiscono un terzo della popolazione civile. In questa fase in cui gli stessi libanesi si trovano in una condizione di povertà e di vulnerabilità l’ingente accoglienza dei profughi nel paese ha costituito la causa di ulteriori scontri e tensioni.

Distruzione di un campo palestinese nel Nord del Libano (foto trentinness@hotmail.com)

Le infiltrazioni dei terroristi islamici

Per capire meglio il perché di tali condizioni di alta tensione tra la popolazione e i profughi occorre riflettere sul fatto che, a partire dal 2013, tra di loro spesso si sono infiltrati miliziani del sedicente Stato Islamico e del gruppo terrorista Jabhat al-Nusra, rendendosi responsabili di un numero rilevante di attentati di stampo terroristico sia nella capitale che in altre aree del Libano, operando attivamente fino al 2017. A titolo esemplificativo occorre citare la situazione della cittadina libanese di Arsal, a venti chilometri dal confine con la Siria, ossia una delle destinazioni principali dei profughi siriani (la cittadina è arrivata nel 2013 ad avere da 30.000 a 100.000 abitanti) e nell’agosto del 2014 ha subito un forte attacco da parte di un gruppo di miliziani siriani mossi dal duplice fine di aumentare la propria capacità di azione, approdando nel territorio libanese, e di contrastare Hezbollah sostenitore del regime di Bashar al-Assad. Tale attacco ha determinato l’inizio di un conflitto durato circa tre anni che ha finito con il consolidare, aumentare o diminuire il rilievo nello scenario geopolitico di alcuni attori internazionali coinvolti in esso anche solo indirettamente. Va precisato però che il successo iniziale dell’attacco armato con un numero elevato di ostaggi è stato conseguito grazie alla segreta alleanza tra l’allora sindaco di Arsal, Ali Hojairi e le milizie islamiste che, in questo modo, hanno avuto una maggiore conoscenza degli avamposti delle forze militari libanesi. Nonostante Hezbollah sia stato ampiamente criticato in quanto ritenuto responsabile dell’ingresso dei miliziani, dato il suo sostegno al regime siriano, sono state proprio le sue truppe a sferrare l’offensiva finale contro i miliziani nel 2017 nella stessa periferia della cittadina di Arsal con la conseguente decretazione della vittoria da parte di Hassan Nasrallah, leader del gruppo sciita che indubbiamente, dopo il conflitto, ha visto aumentare la propria capacità politica nel paese.

I negoziati con Israele

Questo ruolo di difensore dei confini territoriali libanesi era già stato svolto da Hezbollah in passato nelle operazioni militari nel 2000 e nel 2006 contro Israele ritenuto nemico storico del paese e che di recente è tornato alla ribalta nello scenario libanese proprio in relazione alla questione della delimitazione di confini. Il ministro uscente dei Lavori pubblici libanese di recente ha chiesto con l’emendamento al decreto n. 6433 proposto il 12 aprile 2021 di estendere l’area, ricca di idrocarburi, contesa da anni con Israele da 860 a 1432 chilometri quadrati. L’emendamento si pone all’interno delle dinamiche dei negoziati inaugurati il 14 ottobre del 2020 tra Libano e Israele – mediati dagli Sati Uniti e sotto l’egida delle Nazioni Unite – per la delimitazione dei propri territori in particolare della fascia a sud del paese definita blue line che ha visto in passato concentrarsi gli scontri più violenti tra i due stati in quanto entrambi sostengono che tale area rientri nella propria zona economica esclusiva (Zee) e dove da anni è presente il contingente italiano dell’Onu con la missione UNIFIL.

Pattugliamenti della Missione Unifil nella “blue line”

Tuttavia, il presidente Aoun ad aprile si è rifiutato di approvare tale emendamento. Alcuni hanno precisato che non vi è stato un rifiuto ma solo la richiesta di rinviare la questione alla trattazione nel corso di una riunione a livello governativo, viste le delicate conseguenze che potrebbero derivare dall’approvazione dell’emendamento in questo momento. Inoltre, anche se i negoziati riguardano solo i confini marittimi, c’è da dire che il Libano da anni rivendica anche le cosiddette fattorie di Sheeba, circa un chilometro quadrato da dove gli israeliani non si sono ritirati dal 2000 dopo l’occupazione del Sud del paese iniziata nel 1978 e dove Israele attualmente sta costruendo un muro.

La discriminazione nei confronti dei profughi siriani

Come dicevamo le misure restrittive anti-Covid-19 adottate come necessarie per il contrasto della diffusione della pandemia hanno finito per essere strumentalizzate dal governo centrale, così come dalle singole comunità locali presenti in Libano, con fini discriminatori contro i profughi. Basti pensare che all’inizio del 2020, quando ancora non erano state attivate per la popolazione civile le misure per il contrasto del virus, per il 40 per cento dei siriani veniva già imposto il regime di coprifuoco, per loro i test sono stati eseguiti solamente nel maggio dello scorso anno grazie all’intervento delle Nazioni Unite così come dalle ong già presenti da diversi anni come figure di riferimento nei campi dove questi risiedono. I profughi nel contesto pandemico non sono stati destinatari, diversamente dal resto della popolazione civile, di misure di informazione e di prevenzione necessarie per evitare i contagi. Non solo, in Libano si può essere curati gratuitamente solo in un ospedale a Beirut che difficilmente viene raggiunto dai profughi tanta è la contestazione generalizzata della loro presenza nel paese e dati gli atteggiamenti discriminatori spesso rivolti nei loro confronti. Vi è da dire che anche per molti libanesi provenienti dalle aree rurali è molto complesso raggiungere tale presidio ospedaliero gratuito nella capitale, stante la quasi totale assenza di mezzi di trasporto pubblico, determinata dalla crisi economica.

È chiaro che tutta questa situazione è diventata ancora più drammatica in seguito all’esplosione del 4 agosto 2020, della quale tratteremo in seguito in modo più approfondito, e in esito alla quale oltre a essere andate distrutte scuole e abitazioni sono stati gravemente danneggiati proprio gli stessi ospedali per cui i pazienti ricoverati a Beirut sono stati fatti evacuare in altri ospedali sul territorio nazionale.

Le violazioni della Convenzione di Ginevra

Sia le Nazioni Unite che le ong operano in Libano all’interno del contesto di un piano approvato dal governo insieme all’Onu nel 2015 per il miglioramento delle condizioni di vita tanto dei profughi siriani quanto della popolazione libanese in condizione di vulnerabilità. Il piano esplica i suoi effetti essenzialmente su due fronti: quello umanitario, attraverso l’applicazione di strumenti che possano fronteggiare l’emergenza e quello dello sviluppo, finalizzato all’integrazione dei profughi con la popolazione civile libanese che viene attuato mediante una progressiva inclusione dei profughi siriani nel mercato del lavoro in Libano potenziando anche a loro favore i servizi presenti a livello locale come scuole, ospedali e alloggi. Se però le misure sul fronte umanitario vengono effettivamente poste in essere, quelle volte all’integrazione dei profughi nel paese incontrano maggiori ostacoli nella loro attuazione, vista anche la posizione del presidente siriano Bashar al-Assad che negli ultimi anni sta premendo per il rimpatrio dei propri cittadini fuggiti all’estero in particolare proprio verso i territori libanesi. Al riguardo va sicuramente segnalato il Rapporto di Amnesty International del 23 marzo del 2021 I wish I would die che ha documentato presunte violazioni perpetrate dai servizi segreti militari libanesi contro i rifugiati siriani detenuti preventivamente con l’accusa di terrorismo e che hanno subito non solo la violazione del loro diritto a un equo processo ma anche atti qualificabili come torture, violenze sessuali e trattamenti disumani e degradanti.

Le ricerche sulle quali si basa il report sono state portate avanti dalla nota organizzazione internazionale tra giugno del 2020 e febbraio del 2021 e riguardano fatti avvenuti tra il 2014 e la fine del 2019: sono state intervistate 26 persone aventi una fascia di età compresa tra i 22 e i 55 anni e tra i quali vi sono anche due ragazzi che al momento dell’arresto avevano 15 e 16 anni e alcuni degli intervistati sono ancora in carcere.

Amnesty in esito alle indagini ha scritto due volte al ministero dell’Interno, della Difesa e della Giustizia chiedendo chiarezza. Occorre sottolineare che il Libano oltre a non aver ratificato la Convenzione di Ginevra ha approvato la legge contro la tortura solo nel 2017 ma anche durante la sua vigenza è stata più volte segnalata la sua mancata attuazione.

Fonte: Amnesty International

L’opportunismo dei partiti

È necessario tuttavia precisare che molte ong presenti in Libano possono operare oggi soltanto grazie all’appoggio di alcuni partiti politici e di confessioni religiose, presenti nelle comunità locali, riproponendo così quell’atteggiamento opportunistico che chiede come contropartita degli aiuti offerti ai profughi quella della realizzazione dei propri fini ed interessi personali in un’ottica di rafforzamento del proprio potere all’interno della vita politica in Libano.

Inoltre, c’è da dire che da ormai dieci anni la posizione comune delle fazioni politiche libanesi si è del tutto uniformata sulla posizione di un ritorno dei profughi siriani, nonostante l’intervento esemplare di alcune municipalità come quella di Bsharre, nel Nord del Libano. Tale elemento è fortemente allarmante, data la presenza al potere in Siria del regime contestato ma ancora guidato da Bashar al-Assad.

L’esplosione al porto: e Beirut diventa periferica

A ogni modo, come accennato sopra, la situazione nel paese è peggiorata in modo catastrofico per tutti i residenti in Libano a causa della duplice esplosione del 4 agosto del 2020 considerata la più potente deflagrazione non nucleare della storia e che ha avuto come epicentro proprio il porto di Beirut che, con la seconda esplosione, ha visto la distruzione di tutti i quartieri posizionati sul versante settentrionale della capitale e sulla costa. Fortunatamente una parte dell’esplosione si è riversata in mare ma circa 200 sono state le vittime e migliaia di persone, più di 6000, quelle gravemente ferite e al momento non è chiaro ancora se si tratti di un incidente o di un attentato.

Dopo l’esplosione del 4 agosto 2020 al porto di Beirut (foto Anna_Om).

L’esplosione per intenderci è stata pari a un decimo di quella di Hiroshima. Dalle immagini trasmesse dai media quest’estate a livello internazionale si nota che l’esplosione sia avvenuta in due tempi distinti: la prima con un impatto minore e di un colore tendente al grigiastro, l’altra, immediatamente dopo, di immensa portata e di colore prevalentemente rossastro con un’onda d’urto che ha provocato danni a sette chilometri di distanza dall’epicentro. Come dicevamo, con la deflagrazione, è stato colpito in primo luogo il porto della capitale storico luogo strategico economico commerciale del Medio Oriente e simbolo dell’economia imprenditoriale della città di Beirut che in una situazione già al limite dal punto di vista economico-finanziario, in esito a tale accadimento, ha subito un durissimo contraccolpo. Sono state invece colpite meno le zone centrali e a sud della città e sono stati del tutto risparmiati i quartieri occidentali e sud-occidentali.

Beirut in questo modo ha smesso, almeno per il momento di essere il centro di buona parte degli affari nell’area mediorientale. Inoltre, nonostante le dichiarazioni all’indomani dell’evento, dell’attuale leader di Hezbollah Hassan Nasrallah, questa volta, il movimento politico religioso non ha messo in atto, come in seguito allo scoppio della pandemia, la mobilitazione di aiuti e di sostegno nei propri quartieri di riferimento.

In ogni caso dal 4 agosto 2020 Beirut non è più il centro ma una area periferica del Libano. Tuttavia, il fatto che non sia ancora chiaro se la deflagrazione sia la conseguenza di un incidente o invece di un atto volontario non implica l’impossibilità di formulare delle ipotesi in merito all’accaduto.

Le indagini e i dubbi

La prima ipotesi è sicuramente quella di un “errore umano” o meglio quella di una deflagrazione spontanea in conseguenza del degrado del materiale, costituito da circa 2750 tonnellate di nitrato di ammonio, ossia di un fertilizzante ma con proprietà esplosive, contenuto nell’hangar n. 12 al porto. La comunicazione dell’esistenza di tale materiale era stata più volte notificata alle autorità istituzionali, ossia al presidente Aoun, ai vari premier e ai ministri che si sono succeduti nel tempo.

La seconda ipotesi invece si basa sull’idea di un presunto attacco israeliano (Israele nega qualsiasi coinvolgimento) che avrebbe avuto come mira la mole di missili di Hezbollah presenti in quell’area ma che non ha tenuto conto della presenza di altro materiale suscettibile alla deflagrazione.

La terza ipotesi è riconducibile al fatto che l’evento tragico si è concretizzato in due momenti. Questo può voler dire che la prima esplosione sia derivata da un fatto volontario internazionale, connesso con il processo penale che in quella parte della capitale si stava svolgendo in conseguenza della morte per attentato nel 2005  del premier Rafiq al-Hariri, padre dell’attuale primo ministro, sostenuto dall’Arabia Saudita e non gradito per questo né da parte sciita ossia da Hezbollah – movimento a favore dell’ingerenza iraniana nel Paese – né dai siriani che rivendicano un’influenza estera prevalente nel paese. Secondo sempre tale teoria la seconda esplosione invece sarebbe stata del tutto involontaria.

Infine, la quarta ipotesi, è quella di un attentato premeditato di cui al momento l’autore è sconosciuto finalizzato proprio a far precipitare nel baratro il paese.

Inoltre il giudice Sawan – che inizialmente aveva intrapreso le prime indagini sull’accaduto e in particolare sui ministri che erano stati informati in passato della presenza del materiale esplosivo in prossimità del luogo della  deflagrazione – è stato destituito dalla Corte di Cassazione libanese e al suo posto è stato nominato un nuovo giudice che, sebbene sia considerato uomo valido a capo della Corte del Tribunale di Beirut, ha dato adito a dubbi circa l’imparzialità del potere giurisdizionale in merito alla vicenda.

Gli aiuti non proprio disinteressati

Le prime necessità dopo l’esplosione sono state quelle del rifornimento di medicinali, di alimenti e di materassi per dormire in strada, mentre dal punto di vista delle infrastrutture, è stata data priorità alla ricostruzione delle abitazioni, alcune delle quali patrimonio dell’Unesco. La popolazione, questa volta però, ha chiesto che i fondi derivanti dagli aiuti internazionali siano gestiti direttamente dalle ong e non dai governi locali e il presidente Macron ha dichiarato la necessità della tracciabilità dei medesimi. Infatti, il presidente francese ha visitato tempestivamente il paese esattamente due giorni dopo l’esplosione mentre a seguire immediatamente vi sono stati Russia, Iran, Qatar, Emirati Arabi Uniti, Turchia e Stati Uniti che hanno inviato prevalentemente aiuti medici per la popolazione libanese. Tuttavia, tali aiuti non possono definirsi in tutti i casi “disinteressati” ma rivelano spesso piuttosto la volontà di taluni attori internazionali a sostituirsi al governo del paese in un momento in cui il rapporto di fiducia tra esecutivo e popolazione è totalmente logorato. Simile processo in Libano già si era determinato al momento della diffusione del virus del Covid-19 per cui il Libano è di nuovo oggi il campo su cui si muovono le tattiche geopolitiche di alcuni stati esteri. In questa logica Turchia e Qatar sono alleate tra loro e al loro intervento si oppongono Emirati Arabi Uniti e Russia. La Francia per i motivi succitati ha un ruolo prima facie prevalente mentre Israele ha dimostrato difficoltà a inserirsi in tali dinamiche.

Il divisivo intervento francese in rapporto allo scacchiere internazionale

Secondo l’analisi di questa spinta internazionale alla solidarietà prevale, per taluni, l’ipotesi che l’esplosione del 4 agosto non sia stata uno scoppio accidentale ma organizzato da chi avrebbe un interesse a detenere il potere in Libano; ardua risulta l’individuazione dei possibili mandanti, dati i molteplici attori della politica libanese e, al contempo, le numerose potenze estere che si fronteggiano in quest’area del Medio Oriente. L’immediata partecipazione francese dall’altra parte ha fermato almeno in una prima fase qualsiasi intervento di aiuto da parte dell’Unione Europea. L’Italia nelle vesti dell’allora premier al governo si è recata simbolicamente in Libano l’8 settembre dello scorso anno per dare il suo contributo in questa corsa agli aiuti portata avanti dalle grandi potenze internazionali e mantenendo come spesso avviene un ruolo più marginale. Dall’altra parte infatti il presidente francese in esito all’esplosione ha promesso di organizzare una raccolta fondi per gli aiuti umanitari e ha fissato l’agenda per la formazione di un nuovo esecutivo vantando in questo luogo una posizione maggiormente strategica rispetto a quella che detiene in Libia in cui, negli ultimi anni, hanno dominato Russia e Turchia nell’affermazione di un potere politico straniero da affiancare alle forze politiche locali. La presenza francese in Libano tuttavia divide fortemente e ciò si evince dalle dichiarazioni, in chiave polemica, della parte filosiriana, presente nel paese, la quale nell’agosto del 2020 – dopo le numerose proteste della popolazione civile che hanno portato alle dimissioni del primo ministro Diab – ha affermato che il nuovo premier incaricato dal Parlamento libanese di formare un governo, ossia Mustapha Adib, fosse particolarmente sostenuto da Macron.

Inoltre, la Francia ha affermato in più occasioni che l’ala militare di Hezbollah non debba essere considerata una diversa espressione di un gruppo politico al potere oggi in Libano, quanto piuttosto un gruppo terroristico come sostenuto in modo più drastico già dalla Germania ma completamente in disaccordo con l’opinione del Cremlino che considera il gruppo un rilevante partner politico e non un gruppo terrorista. D’altronde i rapporti tra Russia e Libano hanno radici profonde: Mosca ha aiutato fortemente Hezbollah nella guerra del 2006 in Libano al fine di rafforzare la propria posizione rispetto a Teheran. Infine, il presidente francese, fortemente contestato in Francia per la volontà di applicare misure di austerità economica, in Libano è stato destinatario di molteplici istanze di cambiamento da parte della popolazione civile libanese che ha chiesto di essere aiutata direttamente aggirando la classe politica libanese, ritenuta fortemente corrotta.

Il turnover ai vertici libanesi

Tuttavia, il 27 settembre 2020 il premier incaricato dal parlamento libanese Mustapha Adib si è dimesso e ha deciso di ritornare a svolgere il ruolo di ambasciatore in Germania.  A quel punto il presidente Emmanuel Macron ha contestato tutti i leader politici libanesi incluso il capo di stato Michel Aoun e ha attaccato duramente Hezbollah e Amal sostenendo che il suo principale interesse fosse quello di volere il superamento di un sistema politico confessionale, ma ciò che sembra emergere è piuttosto la volontà di mantenere protetti a ogni costo i propri interessi nell’area.

Nell’ottobre del 2020, il Parlamento ha deciso così di assegnare un nuovo mandato a Saad Hariri, leader del partito politico a carattere sunnita Movimento per il Futuro, già primo ministro del Libano dal 18 dicembre del 2016 al 19 dicembre del 2019, e precedentemente dal 14 febbraio 2005 dopo l’assassinio del padre Rafiq Hariri e, in seguito, da giugno 2009 a gennaio del 2011.

Attualmente il paese si trova comunque ancora in una situazione di stallo politico. Dal 22 ottobre del 2020 Saad Hariri si è impegnato a risanare la situazione politica del paese dopo aver ottenuto 65 voti su 120 da parte del Parlamento. Uscito di scena proprio dall’ottobre del 2019 per via delle proteste popolari, è stato chiamato nuovamente a guidare il Libano in conseguenza della tragica deflagrazione e delle dimissioni conseguenti a questa da parte dei suoi predecessori nell’arco di pochi mesi. A creare questa condizione di stallo sono le divergenze tra il capo di stato Aoun e lo stesso presidente Hariri per cui non si riesce a convergere in una posizione comune rispetto a una riforma della Costituzione.

«Il popolo non perdonerà»

Nel 2021 le proteste della popolazione civile contro la classe politica al potere sono di nuovo scoppiate la sera del 25 gennaio, nonostante le restrizioni e il coprifuoco imposti per via del Covid, a Beirut, a Tripoli nel Nord del Libano e nella città meridionale di Sidone.

Ciò in conseguenza del fatto che il governo, il 21 gennaio 2021, ha annunciato un’estensione delle suddette misure Covid fino all’8 febbraio del 2021 che hanno implicato la chiusura di numerose attività commerciali e uffici istituzionali in un paese al momento nel baratro per la crisi economico-finanziaria, resa nota nel marzo del 2019. Ciò è avvenuto a causa del sensibile aumento della curva dei contagi dopo che il governo libanese, prima delle festività natalizie, aveva concesso un allentamento delle misure per favorire la ripresa della disastrata economia libanese. Inoltre in Libano il 27, il 28 e il 31 gennaio 2021 gli scontri tra la popolazione e i militari hanno causato un secondo morto e si registrano circa 400 feriti dall’inizio delle manifestazioni popolari. A gennaio 2021 vi è stato anche l’attacco da parte dei manifestanti degli uffici del Comune a Beirut ma diversi violenti tumulti si sono verificati anche a Tripoli , definiti dal presidente Hariri crimini organizzati e premeditati. I principali rappresentanti delle comunità cristiane e musulmane libanesi hanno contestato nuovamente l’élite al potere, questa volta al grido “Il popolo non perdonerà. La storia non dimenticherà” chiedendo un governo di “salvezza nazionale”.

Proteste antigovernative in Libano (foto Anna_Om).

Niente aiuti senza un nuovo governo

Per tale ragione a febbraio del 2021 il premier Hariri e il presidente Macron si sono confrontati sulla situazione in un incontro privato all’Eliseo in particolare sugli ostacoli che si stanno determinando tra il leader e il presidente Aoun in merito alla formazione di un nuovo governo libanese, fondamentale per la concessione e l’elargizione delle donazioni delle varie potenze internazionali incluso il Fondo monetario internazionale, vista la perdurante situazione di corruzione. A tale situazione si aggiunge che nel marzo del 2021 la lira libanese ha raggiunto il suo minimo storico toccando quota 10.000 rispetto al dollaro Usa e la crescente svalutazione della moneta nazionale ha comportato un aumento del livello dei prezzi al 144 per cento per i beni di prima necessità. Dal mese di ottobre 2020 la valuta libanese ha infatti subito un calo pari al 70 per cento.

In un discorso in diretta televisiva il 17 marzo 2021 il presidente Aoun ha esortato il premier Hariri a formare un governo o a dimettersi, ma in realtà il premier ha già proposto al capo di stato una squadra il 9 dicembre 2020, composta da 18 ministri apartitici, che non ha ottenuto l’approvazione di Michel Aoun.

Il ministro dell’Interno libanese a fine marzo ha dichiarato che nell’ultimo periodo «c’è maggiore possibilità di violazioni di attentati e omicidi vari nel paese».

Il 22 marzo 2021 quindi si è tenuto un incontro tra il presidente del Libano Aoun e il premier designato Saad Hariri che, tuttavia, anche in questa circostanza non si è concluso con l’approvazione di un governo di salvezza nazionale. Hariri sostiene che l’incontro non ha avuto successo in quanto il capo di stato mette in atto comportamenti ostruzionistici derivanti dalla pretesa che nella squadra di governo vi sia a tutti i costi la maggioranza dei suoi alleati politici. Non solo, Aoun ha consegnato al premier una lista completa con già 18, 20, o 22 ministri con ancora solo alcuni posti vacanti. Hariri – che recentemente ha invitato pubblicamente anche Papa Francesco a far visita al paese come è avvenuto in Iraq – ha considerato tale gesto inaccettabile in quanto il comportamento è qualificabile come anticostituzionale, non essendo di competenza del capo dello stato formare il governo libanese.

Il fallimento delle politiche di sviluppo nel Mediterraneo orientale

La situazione che oggi si coglie in Libano, simile a quanto avvenuto recentemente in Iraq, in  Algeria e Tunisia negli ultimi anni, ha quindi qualcosa in comune con le primavere arabe del 2011; in questo caso specifico però non si tratta solo di destituire la testa di un regime quanto costruire qualcosa di soddisfacente per la popolazione civile che soffre della presenza degli stessi attori regionali del passato ma che mostra oggi, in modo evidente, la forte volontà di trovare soluzioni interne nonostante la vecchia élite politica che, come visto, non è ancora disposta a farsi da parte.

In conclusione, questa crisi può avere un impatto su una nuova ondata migratoria determinando un incremento esponenziale dei movimenti in fuga dal Libano in particolare dalla città di Tripoli: l’Italia ben presto si accorgerà del fallimento delle politiche di sviluppo nell’area del Mediterraneo orientale. A dimostrazione di ciò ci sono già i primi avvertimenti provenienti dalla Bosnia che, con riferimento a quanto sta avvenendo lungo la rotta balcanica, ha dichiarato: «Non vogliamo finire come il Libano».

L'articolo n. 7 – Libano: dove tutto cambia perché nulla cambi proviene da OGzero.

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n. 6 – Primavere, rivolte e rivoluzioni: dieci anni di utili contaminazioni https://ogzero.org/l-eredita-delle-primavere-arabe-e-le-rivoluzioni-di-oggi/ Sun, 02 May 2021 09:50:35 +0000 https://ogzero.org/?p=3244 Questo articolo introduce una sezione nuova della raccolta di articoli di Fabiana Triburgo sulla questione migratoria: analizzeremo le condizioni alla base delle nuove rotte dal Medioriente e dal Nord Africa, tra instabilità politica, conflitti civili e l’eredità delle Primavere arabe, e giungeremo al termine di questa sezione a un’analisi della normativa europea e delle alternative […]

L'articolo n. 6 – Primavere, rivolte e rivoluzioni: dieci anni di utili contaminazioni proviene da OGzero.

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Questo articolo introduce una sezione nuova della raccolta di articoli di Fabiana Triburgo sulla questione migratoria: analizzeremo le condizioni alla base delle nuove rotte dal Medioriente e dal Nord Africa, tra instabilità politica, conflitti civili e l’eredità delle Primavere arabe, e giungeremo al termine di questa sezione a un’analisi della normativa europea e delle alternative che potrebbero emergere da politiche più coraggiose e lungimiranti.


n. 6

I principali conflitti che attualmente interessano le migrazioni forzate e le prassi di esternalizzazione poste in essere dall’Unione Europea e dai singoli stati membri portano a una predeterminazione delle rotte dei migranti.

Quello che oggi è inevitabile chiedersi è se il nuovo Patto europeo sulla migrazione e l’asilo, proposto dalla Commissione UE, possa essere realmente considerato una soluzione della gestione del fenomeno migratorio o se invece vi siano soluzioni legali alternative maggiormente lungimiranti e coraggiose.  

Correnti umane da un Medio Oriente interconnesso

L’area del Medio Oriente è particolarmente rilevante per l’analisi delle situazioni di instabilità politica o di perdurante conflitto dei paesi d’origine dei migranti che sfociano o che potrebbero presto sfociare, come nel caso del Libano, in correnti umane lungo la rotta dell’Egeo e lungo quella balcanica, per approdare in prossimità dei confini europei.

Dalla Rivoluzione dei Gelsomini alla fuga di Saleh

Al riguardo occorre sottolineare che difficilmente la precarietà istituzionale o gli episodi di violenza presenti in uno dei paesi mediorientali non va a dispiegare i propri effetti su un altro paese appartenente alla medesima area, anche se in modalità diverse e con diversa intensità. Se è vero, tuttavia, che l’onda propulsiva degli eventi che interessano i paesi del Medio Oriente è caratterizzata dalla contaminazione di un paese con l’altro, va altresì riconosciuto che l’area nell’ultimo decennio ha subito il contraccolpo degli effetti politici e sociali che dieci anni fa si sono generati mediante le cosiddette Primavere arabe – termine coniato dai media occidentali – a loro volta conseguenza delle proteste popolari contro le autorità dittatoriali allora detentrici del potere. Infatti, nel dicembre 2010 un venditore ambulante in Tunisia, Mohamed Bouazizi, si diede fuoco davanti al municipio della città di Sidi Bouzid come tragico simbolo di protesta contro il perdurante eccesso dell’impiego della violenza e della repressione delle forze di polizia fedeli al regime di Zine El-Abidine Ben Ali, a quel tempo da 23 anni al potere, nei confronti della popolazione civile. Nel caso specifico di Mohamed Bouazizi la polizia tunisina aveva sequestrato arbitrariamente il suo banco di vendita del pesce dinanzi all’assoluta indifferenza delle autorità. Da quel momento la Tunisia s’incendiò in tumulti popolari definiti come la “Rivoluzione dei Gelsomini” che portarono il presidente-dittatore all’esilio e al primo innesto di un processo democratico nel paese. Invece il presidente yemenita Ali Abdullah Saleh fuggì in esilio in Arabia Saudita rassegnando le dimissioni e lasciando il paese in una situazione di completa instabilità. Le immagini di tale gesto di immolazione in Tunisia arrivarono negli altri paesi del Medio Oriente grazie all’emittente Al-Jazeera. Nel corso di qualche mese l’ondata di proteste si dispiegò in altri paesi dell’area del Nord Africa e in alcuni del Medio Oriente che progressivamente videro i vari regimi crollare uno a uno come le tessere di un domino: ciò avvenne in primo luogo in Egitto con le celebri proteste del 25 gennaio 2011 in piazza Tahrir. Non solo, se monarchie quali Giordania, Marocco resistettero a tali tumulti attraverso concessioni alle richieste del popolo grazie a esigue modifiche delle rispettive costituzioni, in altri paesi le proteste mutarono rapidamente in sanguinosi conflitti civili non ancora del tutto risolti, come avvenne in Siria contro il regime di Bashar al-Assad, in Libia durante la dittatura di Gheddafi e infine nello Yemen contro Ali Abdullah Saleh che nel 2012 lasciò il potere.

L'eredità delle Primavere arabe

Campo di ribelli della coalizione anti-Gaddafi, Ajdabiya in Libia, aprile 2011 (foto Rosen Ivanov Iliev).

In tutti i paesi interessati da tali reazioni popolari sono rintracciabili tre elementi comuni qualificabili quali: il disagio economico, la concentrazione della ricchezza nelle mani di pochi individui, quasi in una sorta di oligarchia economica ravvisabile in particolar modo nella cerchia di soggetti affiliati al regime di Ben Ali in Tunisia o quello di Bashar al-Assad in Siria e, infine, il controllo fortemente repressivo e autoritario della vita pubblica.

Le Primavere arabe sono davvero fallite?

Ad ogni modo, guardando alla situazione attuale degli stessi stati, tra cui l’Egitto retto oggi dal presidente dittatore Abdel Fattah al-Sisi, paese nel quale dieci anni fa i poteri autoritari erano stati sovvertiti dal popolo, si parla spesso di un fallimento di tali “primavere” e dell’incompiutezza del sistema democratico al quale esse stesse miravano attraverso l’affermazione di principi di libertà e di uguaglianza e la rivendicazione dei diritti civili, ma è realmente così?

Il dubbio tuttavia che un fenomeno importante – seppur incompiuto – si determinò a partire dalla fine del 2010 attraverso le cosiddette Primavere arabe, proviene proprio dall’analisi dei movimenti  di protesta che si sono dispiegati nel decennio successivo allo scoppio delle rivolte e che da ultimo, nel 2019,  hanno condotto alle dimissioni il presidente dell’Algeria Abdelaziz Bouteflika, e alla destituzione di Omar Hasan Ahmad al-Bashir in Sudan, nonché l’ondata di disperate proteste iniziate negli scorsi anni da parte della popolazione irachena e di quella libanese.

Ascolta “Lo stallo ad Algeri e la resistenza del movimento Hirak: un sistema da sovvertire” su Spreaker.

In particolare, in Libano gli scontri nell’ottobre del 2019 si sono verificati contro l’élite politica da sempre contraddistinta per la sua corruzione ed emersa con evidenza con la dichiarazione da parte del governo del default finanziario nel marzo del 2019 del quale ci occuperemo più specificamente in seguito. Con riferimento a tali paesi oggi si parla più che di “primavere” di vere e proprie “rivolte arabe” o di “rivoluzioni arabe”. Le proteste in Iraq e in Libano si muovono oltretutto in modo più maturo e consapevole dimostrando capacità di resistenza popolare alle provocazioni istituzionali durante gli scontri, nonché capacità dei manifestanti di riorganizzarsi e di essere costantemente presenti nonostante le misure anti-Covid-19 imposte dal governo, e purtroppo spesso da questo strumentalizzate con un fine chiaramente repressivo volto al mantenimento del proprio status quo.

Cosa quindi possiamo dire si sia generato con quelle controreazioni del popolo rispetto agli abusi dei poteri istituzionali, cosa è andato rompendosi in modo definitivo allora, nonostante dalle macerie ancora oggi non risorga in quei paesi la fenice di uno stato democratico?  Occorre fare una riflessione preliminare: i moti di protesta detti Primavere arabe, non sono altro che un fenomeno che rappresenta solamente la punta dell’icerberg di un malessere profondo e generalizzato per anni covato negli animi della popolazione civile di diversi paesi impossibilitata a vivere in stati non rispettosi dei propri diritti e delle proprie libertà non riconosciute a causa dei regimi totalitari presenti in essi.

Prestiti in cambio di una politica liberista

I primi accenni del malcontento popolare in realtà si devono ricercare nel fallimento economico degli anni Ottanta e Novanta che ha interessato molti paesi arabi. I sistemi di questi paesi negli anni Settanta si contraddistinguevano per essere delle economie socialiste mentre nei decenni successivi sono passati a un sistema di libero mercato che non ha avvantaggiato la popolazione ma esclusivamente l’élite al potere. Negli anni Ottanta in particolare si determinò la crisi del sistema economico e iniziarono le proteste da parte del popolo che non beneficiava del medesimo benessere e che invece veniva ostentato dalla classe politica. I paesi arabi negli anni accumularono infatti ingenti debiti pubblici che li portarono a negoziare nuovamente con la Banca mondiale i fondi internazionali ricevuti, promettendo in cambio un approccio neoliberista delle proprie economie che come detto determinò una disparità sociale con un peggioramento della condizione popolare. Ciò avvenne in primo luogo in Algeria nel 1988 con il crollo dei prezzi del petrolio. Ci si rese ben presto conto tuttavia che le egemonie allora al potere in molti paesi arabi non avevano alcun interesse alla promozione di un sistema democratico che resta ancora oggi un’utopia in quest’area. La società invece era retta sempre da un sistema di forte repressione e di controllo della popolazione civile. L’errore in quel caso fu anche da parte dell’Occidente, illuso di poter negoziare con gli autoritarismi arabi, dandone per scontata la stabilità politica e la loro condizione di immobilismo, preoccupati dell’instaurazione di un sistema di privatizzazione economica da parte dei regimi islamici.

Il popolo anestetizzato e oggetto passivo della politica

Nel 2011 la natura dei poteri contestati dalla popolazione furono monarchie come Marocco, Giordania e Arabia Saudita che legittimano il loro potere nell’appartenenza a clan familiari o le repubbliche nazionaliste dittatoriali come l’Egitto che dichiaravano di assicurare una sorta di welfare generalizzato dei servizi pubblici per la popolazione, tuttavia senza mai dotarsi di un apparato per la loro erogazione. La narrazione infatti da parte delle autorità politiche delle repubbliche nazionaliste in questo caso si concentrò sulla costante minaccia di qualche potere esterno finalizzata al rafforzamento politico interno della loro condizione e anestetizzando il popolo con tale retorica per diversi anni rispetto a quanto stava realmente accadendo. Infine, il Libano invece costituiva in quegli anni un unicum rispetto al sistema statale, essendo contraddistinto da un sistema confessionale del potere al quale passò anche l’Iraq dopo il 2003.  A crollare, come detto sopra, nel 2011 furono soprattutto le egemonie nazionaliste venendo messo in discussione per la prima volta in modo propulsivo il patto sociale tra la popolazione civile e le autorità al potere. Infatti, a parte le specificità di ogni singolo paese, ciò che emerse già negli anni Ottanta e Novanta così come nei primi anni del Duemila fu la volontà del popolo arabo di affermare la propria cittadinanza attiva che si manifestò proprio in quei paesi nei quali il potere non investiva sul protagonismo e sulla volontà popolare come in Algeria o in Egitto. In questi paesi, già allora e successivamente mediante le primavere arabe, e ancora oggi, il popolo richiede il riconoscimento da parte delle istituzioni della società da esso costituita e contraddistinta e di tutte le sue articolazioni, stanco ormai di essere mero oggetto passivo della politica. A distanza di anni, proprio alla luce di valutazioni che affermano il fallimento di tali moti rispetto al processo di democratizzazione, si deve dunque riflettere se semplicemente nel 2011 non sia stata maturata la capacità di operare una precisa e corretta individuazione, da parte del popolo, della causa della mancanza di riconoscimento delle libertà civili e dei diritti politici. Infatti, come si comprende meglio dopo dieci anni, tale mancanza di riconoscimento non è tanto da rinvenirsi nelle figure autoritarie, allora al potere, come per esempio Hosni Mubarak e Abdelaziz Bouteflika, quanto piuttosto nel sistema a esse sottostante, ossia quello di regimi che come vediamo non sono mutati ma piuttosto peggiorati.

Non a caso, nonostante il colpo di stato, ancora oggi, con la salita al potere del presidente al-Sisi, l’Egitto rimane oggetto di numerose contestazioni popolari alle quali il governo risponde con l’applicazione di una forza militare altamente repressiva. Di fatti i manifestanti egiziani oggi dirigono le loro proteste non più verso lo stato civile quanto piuttosto contro il regime militare.

I malcontenti sono gli stessi…

Tornando poi al malcontento popolare, manifestato più specificamente dal 2018 al 2020 in Algeria, Iraq e Libano, vi è da sottolineare che le primavere arabe dispiegarono i loro effetti in parte, senza essere sovversive del sistema politico allora al potere, o per nulla in questi paesi, diversamente da quanto avvenne in altri, sia del Nord Africa che del Medio Oriente, come già evidenziato sopra. In Libano, in Iraq o in Algeria sono emersi comunque oggi gli stessi malcontenti di allora: in Algeria ancora una volta contro il presidente Abdelaziz Bouteflika, costretto a dimettersi il 2 aprile del 2019.

L'eredità delle Primavere arabe

Algeri, 5 aprile 2019: Rachid Nekkaz, attivista fondatore del Mouvement de Jeune et Changement (MJC), dopo la cacciata di Bouteflika (foto Soheib Mehdaoui). Si trova in isolamento in carcere dal dicembre 2019.

Migliaia di manifestanti tunisini, algerini, come in passato e iracheni e libanesi per la prima volta, sono scesi negli ultimi anni in strada accusando le forze di sicurezza e l’élite al potere di corruzione e di gravi violazioni dei diritti umani. Questo aiuta a comprendere oggi come alcuni fenomeni rimandino più all’idea che le Primavere arabe furono la manifestazione di una “malattia cronica” e non “semplicemente acuta”. I ragazzi che oggi manifestano hanno vissuto la dittatura durante la loro infanzia e vivono la condizione di una democrazia sospesa, a questo va aggiunto il ruolo delle forze del sedicente Stato Islamico che hanno portato un aggravio di situazioni sociali e politiche già logorate.

L'eredità delle Primavere arabe

Proteste a Beirut (foto alichehade).

… ma è aumentata la povertà

Si può dunque ipotizzare che le primavere del 2011 abbiano cambiato solo la facciata dei sistemi politici allora al potere, ma ne sono rimaste per decenni intatte le loro dinamiche. Inoltre, con riferimento ai recenti tumulti che hanno interessato Algeria, Iraq e Libano va detto che la pandemia diffusasi nello scorso anno non ha fatto altro che accelerare ed esacerbare tali dinamiche legate ai poteri di sempre e che portano tuttora i giovani a manifestare per l’acquisizione degli stessi diritti, ma in una condizione di povertà senza precedenti.

In conclusione, quindi si può affermare che anche se le richieste politiche economiche e sociali sono ancora disattese – nonostante le Primavere arabe e le rivoluzioni arabe verificatesi negli ultimi anni – occorre forse che trascorra ancora del tempo affinché tali istanze civili possano effettivamente determinarsi con un conseguente cambiamento del sistema politico e del ruolo della società civile. Sarà tuttavia il popolo capace di resistere ancora una volta?

L'articolo n. 6 – Primavere, rivolte e rivoluzioni: dieci anni di utili contaminazioni proviene da OGzero.

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n. 2 – Mali e Niger: conflitti e instabilità nel Sahel https://ogzero.org/n-2-mali-e-niger-conflitti-e-instabilita-nel-sahel/ Sun, 11 Apr 2021 08:22:10 +0000 https://ogzero.org/?p=2912 Questo saggio fa parte di una raccolta di articoli che fornisce una panoramica sulla questione migratoria: analizzeremo insieme a Fabiana Triburgo le varie rotte che si sono delineate nel tempo a causa di conflitti o e instabilità che provocano questo fenomeno per giungere infine a un’analisi della normativa europea e delle alternative che potrebbero emergere […]

L'articolo n. 2 – Mali e Niger: conflitti e instabilità nel Sahel proviene da OGzero.

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Questo saggio fa parte di una raccolta di articoli che fornisce una panoramica sulla questione migratoria: analizzeremo insieme a Fabiana Triburgo le varie rotte che si sono delineate nel tempo a causa di conflitti o e instabilità che provocano questo fenomeno per giungere infine a un’analisi della normativa europea e delle alternative che potrebbero emergere da politiche più coraggiose e lungimiranti. Qui il secondo contributo, focalizzato sulla regione del Sahel.


n. 2

I principali conflitti che attualmente interessano le migrazioni forzate e le prassi di esternalizzazione poste in essere dall’Unione Europea e dai singoli stati membri portano a una predeterminazione delle rotte dei migranti.

Quello che oggi è inevitabile chiedersi è se il nuovo Patto europeo sulla migrazione e l’asilo, proposto dalla Commissione UE, possa essere realmente considerato una soluzione della gestione del fenomeno migratorio o se invece vi siano soluzioni legali alternative maggiormente lungimiranti e coraggiose.  


Sahel: estrema povertà, crescita demografica e marginalità delle comunità periferiche

Secondo l’interpretazione dell’Unione Europea a far parte di quest’area sono i cosiddetti paesi del G5, ossia Mali, Mauritania, Burkina Faso, Ciad e Niger. Nell’area è presente un forte attivismo dei gruppi armati jihadisti in particolare nei territori del Mali, Niger e Mauritania, favoriti anche dai confini estremamente porosi tra i tre paesi. Ad ogni modo tutti gli stati appartenenti all’area del Sahel sono oggi interessati da traffici illeciti di armi, droga e di uomini nonché da massicci fenomeni migratori che spingono l’Europa a esternalizzare nella regione le sue frontiere, come vedremo in seguito. I paesi del Sahel infatti si trovano in una condizione di instabilità dalla caduta del regime di Gheddafi in Libia. Già nel 2014 emergeva la drammatica condizione del Sahel: estrema povertà dell’area, forte crescita demografica e marginalità delle comunità periferiche. Questi fenomeni sono stati acuiti proprio dalla caduta di Gheddafi, dalle Primavere Arabe determinate nel Nord del continente africano, e dalla diffusione degli estremisti di matrice fondamentalista.

Le missioni Onu

Soprattutto in ragione della presenza di gruppi terroristi nei territori del Sahel è dovuto l’intervento di forze internazionali ed europee nell’area con la missione Onu Minusma, missione di pace nella regione del Mali, e rispettivamente con le missioni europee: Eucap in Niger per fornire assistenza alle forze di sicurezza interne al paese e per un maggiore coordinamento con altri paesi del Sahel, in particolare con Mali e Mauritania, Eucap in Mali con lo scopo di difendere la democrazia già flebile per ristabilire l’autorità di uno stato in un territorio dove le forze jihadiste sembrano inarrestabili. Infine, si segnalano l’Eutm, ossia la missione europea per fornire assistenza e mentoring alle forze armate maliane, e la Racc missione europea per consentire in Mauritania e in Ciad una maggiore e più stabile presenza europea.

Missione Minusma in Mali (foto del Ministero della Difesa dei Paesi Bassi)

Il mese di marzo è stato interessato da diversi scontri tra le ramificazioni di al-Qaeda e l’Isis nel Sahel, nella regione delle tre frontiere tra Burkina Faso, Mali e Niger. Il conflitto si è verificato da ultimo tra il gruppo di sostegno all’islam e ai musulmani ossia lo Jnim affiliato ad al-Qaeda e l’Isgs ossia lo Stato Islamico nel grande Sahara. Secondo l’istituto per gli studi di politica internazionale tale conflitto può essere legittimamente qualificato come uno dei più cruenti al mondo.

Conflitti e instabilità nel Sahel

Video propagandistico rilasciato dalle milizie Jnim (foto Menastream)

Jnim e Isgs condividono origini comuni nella rete di al-Qaeda nel Maghreb islamico (Aqmi). Tra i due gruppi infatti vi erano legami personali e di lungo periodo basati anche su azioni coordinate per affrontare nemici che allora erano comuni, contraddistinti dalla mancanza assoluta di lotte intestine jihadiste tra loro.

Tuttavia, negli ultimi anni si sono strutturati in maniera diversa: l’Isgs si è fondato nel 2015 dopo essersi separato da al-Mourabiton, movimento affiliato ad al-Qaeda. Tuttavia, il suo rapporto con al-Qaeda non è mai terminato e anzi, ancora oggi, si riscontrano tra loro accordi, collusioni e relazioni di coesistenza nel territorio.  Lo Jnim, fondato invece nel 2017, ha riunito diversi gruppi jihadisti disparati in diverse aree, tra cui proprio il gruppo al-Mourabiton e il gruppo jihadista burkinabè Ansarul Islam.

L’Isgs, gruppo piccolo e oscuro, dotato di una rudimentale infrastruttura multimediale ha saputo sfruttare l’assenza dello stato nelle comunità remote, intercettando le sensazioni di abbandono della popolazione civile e gli interessi delle comunità pastorali presenti nell’area, al contempo non ha dimostrato alcuna reticenza a incorporare anche unità dello Jnim, indebolite o marginalizzate. Lo Jnim nello stesso periodo ha preferito maggiormente rafforzare il suo processo d’integrazione nell’Isis. Nel 2019 con un’azione simultanea le due forze jihadiste hanno preso possesso della regione al confine dei tre stati costringendo al ritiro gli eserciti locali. Oggi l’Isgs sfida apertamente lo Jnim vantandosi delle sue vittorie su questo. Lo Jnim scredita apertamente l’Isgs per le vittime civili a causa dei suoi militanti.  A questa situazione si aggiunge la pressione delle forze militari contro il terrorismo, guidate dalla Francia nella missione Barkhane. È necessario quindi interrogarsi come sia nata tale missione e a che punto si trovi oggi rispetto ai fini precostituiti in passato e che legittimano la sua esistenza nella regione del Sahel.

I francesi nel Sahel: i movimenti in Azawad

La Francia era stata già presente militarmente nell’area del Sahel con la missione Serval. Il presidente Hollande nel 2013 è intervenuto con tale operazione in esito ad alcuni accadimenti di particolare rilievo che avevano interessato il Mali. Dopo la caduta di Gheddafi, infatti, la maggiore instabilità del Sahel si era riscontrata nei territori sahariani del Nord del Mali, nella regione dell’Azawad, che dopo l’indipendenza dalla Francia nel 1960, sono passati a Bamako.

La caduta del regime dittatoriale libico infatti ha provocato la formazione di movimenti filoindipendentisti tuareg nei quali militavano non solo cittadini maliani, ma anche altri cittadini africani con un background militare non indifferente. Alcuni di loro provenivano proprio dalle fila militari lealiste di Gheddafi. Tali militanti insieme hanno fondato l’Mnla, ossia il Movimento di Liberazione dell’Azawad. Questo fenomeno e la concomitante condizione di malcontento nelle caserme militari e l’incapacità delle forze militari maliane di fermare gli stessi movimenti filo-indipendentisti, nonché l’appoggio fornito ai tuareg da parte di al-Qaeda, hanno contribuito in modo fondamentale alla determinazione del colpo di stato nel dicembre 2012 in Mali. Il colpo di stato è stato infatti condotto dai tuareg e dai gruppi estremisti islamici. Tuttavia, dopo il colpo di stato, i gruppi estremisti hanno sempre più limitato la presenza dei tuareg negli interventi militari e hanno portato il conflitto sempre più a sud del paese fino ad arrivare a Konna, località non lontana dalla capitale Bamako. A questo punto il governo maliano ha chiesto aiuto e supporto a Parigi e alle forze militari francesi, in accordo con la comunità economica degli stati dell’Africa occidentale.

Dall’operazione Serval a Barkhane

L’operazione Serval, quindi, prima attraverso dei bombardamenti aerei, poi con dei gruppi militari di terra, costringendo i ribelli a fuggire nuovamente a Nord, ha consentito che Bamako riacquisisse il controllo di quasi tutto il territorio del Mali. In seguito a tale operazione, nel 2014, i francesi con l’operazione Barkhane, sono intervenuti nuovamente a livello militare in Africa, non solo in Mali, ma anche in tutta la regione del Sahel comprendente i cinque stati sopracitati. L’operazione Serval, quindi, è stata ristrutturata e rinominata.

I colpi di stato

In ogni caso questa volta, nonostante la presenza militare della Francia, ad agosto del 2020, si è verificato un nuovo colpo di stato simile a quello del 2012. Infatti, vi è stato l’ammutinamento della base militare a Katim e il presidente Ibrahim Boubacar Keita è stato rimosso. Ritorna l’elemento comune al colpo di stato del 2012 del malcontento delle Forze armate del Mali rispetto al governo centrale.  Ad agosto del 2020 Amnesty International con un comunicato si è detta estremamente preoccupata per l’arresto dell’ormai ex presidente del Mali, Ibrahim Boubacar Keita, dell’ex primo ministro Boubou Cissé e di altri esponenti del deposto governo a opera del Comitato nazionale per la Salvezza del Popolo, autore del colpo di stato del 18 agosto 2020. L’organizzazione ha chiesto alla giunta militare che ha assunto il potere di liberare tutte le persone arrestate – tranne quelle per cui possono provare che siano state autrici di crimini riconosciuti dal diritto internazionale – e di impegnarsi a rispettare i diritti umani. Amnesty International ha espresso preoccupazione anche per la notizia riguardante la morte di 4 persone e il ferimento di 15 colpite da armi da fuoco in circostanze ancora poco chiare. Il colpo di stato si è verificato, come specifica l’organizzazione umanitaria, in un contesto di forte crisi politica, nata in seguito alla proclamazione dei risultati delle elezioni legislative dell’aprile del 2020 e acuitasi durante le proteste di massa, promosse e dirette, dal mese di giugno, dal Movimento 5 giugno Fronte patriottico di resistenza. Il 10 luglio scorso le proteste, infatti, ricorda Amnesty erano state soppresse dalle forze di sicurezza con estrema brutalità. Alla fine della giornata i morti erano stati almeno 14 e i feriti 300. La crisi istituzionale, infatti, è stata esacerbata dalla questione Covid, che ha provocato numerosi scioperi e un peggioramento del sistema educativo. Per tali motivi il presidente ha deciso il rinvio delle elezioni legislative in Mali e, in seguito, i giudici della Corte Costituzionale in Mali hanno accolto il ricorso dell’ex presidente Boubacar Keita assegnandogli 8 seggi in più rispetto a quanti ne risultavano dall’esito delle votazioni. Questo è stato uno degli elementi che ha portato al colpo di stato questa estate.

Milizie e gruppi terroristici

In tutta l’area del Sahel, ad ogni modo, si rileva la presenza costante di gruppi terroristi ed è per questo che molte forze internazionali ed europee hanno deciso di intervenire negli ultimi anni nella regione. Tra tali gruppi terroristici, tuttavia, ci sono state molte tensioni negli ultimi anni come tra al-Qaeda e Stato Islamico nel Sahel, per cui oggi, con riferimento alla regione, si parla di “terrorismo non unitario”. Tuttavia, vi sono anche moltissimi gruppi armati non terroristici (groupes armés non identifiès) che sono da considerarsi comunque pericolosi come quelli terroristici e così anche le forze armate maliane autrici di molteplici abusi che rappresentano un terzo delle violenze perpetrate nell’area. È bene, tuttavia, soffermarsi sui gruppi non terroristici presenti nell’area. La proliferazione di gruppi non statali armati nel Sahel ha determinato violenza e insicurezza nella regione; tali gruppi, come visto, oltre a quelli estremisti violenti, sono gruppi armati politicamente motivati, le milizie di autodifesa, i gruppi di sicurezza locali. L’aumento di tutti i gruppi armati presenti nella regione riflette in ogni caso l’incapacità degli stati del Sahel di esercitare il monopolio della forza in modo da proteggere efficacemente i loro cittadini e preservare l’integrità del territorio. Gli attori non statali infatti operano in modo scioccante in spazi in cui la presenza dello stato è debole o contestata, come per esempio le aree rurali e di confine, così come le aree maggiormente periferiche. Il Niger – nonostante una politica che afferma “tolleranza zero” verso le milizie locali e i gruppi di autodifesa – non è stato risparmiato dai gruppi estremistici violenti che stanno guadagnando sempre più terreno nel territorio nigerino. In Mali, invece, le regioni di Mopti e di Segon, interessate da conflitti secolari, da una limitata presenza delle forze di sicurezza dello stato e da un facile accesso alle armi, hanno condotto alla creazione di gruppi locali di autodifesa su base comunitaria e di milizie locali.

Ascolta “Le frontiere liquide del Sahel” su Spreaker.

I gruppi armati non violenti ed estremisti, ma politicamente motivati, invece in Mali sono stati ritenuti ufficialmente partner legittimi per lo stato con cui lavorare, come è avvenuto con gli accordi di pace e di riconciliazione del 2015.

Barkhane: una missione controversa

In questo scenario è importante capire quali siano dunque le prospettive per l’operazione Barkhane nel Sahel. Macron, infatti, ha ribadito l’impegno della Francia nell’area del Sahel con la missione, senza una diminuzione delle forze armate militari impiegate nell’area. L’obiettivo principale di Macron è quello di annientare militarmente i principali gruppi terroristi jihadisti che hanno fatto del Sahel la propria roccaforte. Barkhane è la più ingente missione europea su suolo africano e fornisce training, mentoring, supporto logistico ed intelligence alle forze armate e all’intelligence dei paesi del G5, in un’ottica di cooperazione governativa della politica di sicurezza contro il terrorismo. Tale ultima dichiarazione del presidente francese ha destato non poco stupore in ambito internazionale poiché Macron aveva precedentemente comunicato la volontà di ritirare circa 600 uomini facenti parte dell’unità di supporto in Burkhinabé, facendo trapelare l’intento di rimodulazione dell’intervento del contingente, in linea con parte dell’opinione pubblica francese che ha assunto opinioni critiche sulla missione.

Takouba: quando Barkhane non basta

Infatti, la Francia nella missione ha visto il verificarsi di molteplici incidenti e 55 vittime tra i militari francesi nonostante con Barkhane si siano riportati dei “successi” come l’uccisione di Abdelmalek Proukdel, il leader di al-Qaeda nel Maghreb islamico. La missione viene criticata perché concepita solo sotto il profilo militare e diversa dagli approcci degli stati G5 e delle Nazioni Unite che concepiscono come strumento utile per lo state-building, la riduzione dei conflitti e la capacità di negoziare con i principali gruppi insorgenti nell’area in quanto darebbe a Parigi la possibilità di strutturarsi come presenza di medio-lungo periodo nella regione del Sahel.

Conflitti e instabilità nel Sahel

Operazioni della Missione Takouba

Su queste basi infatti sembrerebbe nata l’idea della missione francese Takouba, ossia una missione che implicherebbe il coinvolgimento di altri paesi in sostegno alla propria attività militare nel Sahel alla quale hanno già aderito, a livello intenzionale, Belgio, Danimarca, Italia, Estonia, Olanda e Repubblica Ceca. Tuttavia, la missione Takouba sembra fondarsi più su un approccio massimalista che riflessivo, ossia poiché Barkhane non sta funzionando come previsto, occorre aggiungere altro supporto militare e quindi chiedere ad altri paesi europei di partecipare alla propria missione militare con forze congiunte.

Al proposito Antonio Mazzeo può approfondire l’aspetto relativo all’impegno militare, estendendo il discorso a strategie neocolonialiste

Ascolta “Missioni coloniali in Sahel: tassello della guerra globale e della spartizione del mercato africano” su Spreaker.

Le armi come aiuti umanitari

I conflitti armati nel Sahel hanno coinciso con un aumento di importazione delle armi da parte dei paesi G5, in particolare Mali e Burkina Faso. Alcuni di questi trasferimenti sono stati finanziati dall’Unione Europea o sono stati consegnati come aiuti umanitari da parte della Francia, del Qatar o degli Emirati Arabi Uniti. Secondo il Sipri, infatti, diverse grandi potenze stanno usando le forniture di armi come uno strumento di politica estera per aumentare l’influenza nell’area.

Inoltre, in Niger si è registrata negli ultimi giorni una recrudescenza dei conflitti che desta grande preoccupazione a livello internazionale. Il 15 marzo 2021 sono rimaste uccise 58 persone e si registrano molti feriti in seguito all’attacco sferrato contro gli abitanti dei villaggi che facevano ritorno dal mercato settimanale di Banibangou, nella regione di Tilabèri, in prossimità del confine con il Mali.

Insicurezza interna

Gli autori di questa strage anche in questa circostanza sono ritenuti “gruppi armati non identificati”; il medesimo giorno i gruppi hanno attaccato anche il villaggio di Darey Dey nel quale sono rimasti uccisi tutti gli abitanti e si sono verificati episodi di saccheggio, devastazioni e incendi. Lo scopo di tali attacchi è quello di costringere la popolazione locale, attraverso atti violenti e vandalici, a lasciare i territori di appartenenza. La sessa zona di Tilabèri, tra l’altro, era stata interessata a gennaio del 2020, da un’uccisione di massa rivendicata, in questo caso, dallo Stato Islamico nel Grande Sahara.

Ancora, il 21 marzo 2021 sono stati uccisi 40 civili nei villaggi di Intazayene, Bakorat, e AkiFakit nel distretto di Tillia, nella regione di Tahoua, sempre in prossimità del confine con il Mali. La regione stessa ospita diversi rifugiati maliani. In questa zona di confine normalmente operano diversi gruppi terroristi, in particolare lo Stato Islamico nel Grande Sahara. Anche la responsabilità di questo ulteriore drammatico evento viene attribuita a “non meglio identificati individui armati”.  In realtà, a causa dell’attacco nel distretto di Tillia, di domenica 21 marzo, è salito a 137 il bilancio delle vittime.

Tra dicembre 2020 e marzo 2021, mentre in Niger erano in corso le elezioni, infatti, sono state uccise complessivamente circa 262 persone, tutte civili, la maggior parte proprio da gruppi armati non identificati. La questione si incardina proprio nell’impossibilità di comprendere il fenomeno alla base di tali attacchi poiché quasi nessuno di essi è stato rivendicato. La tesi prevalente è quella, al momento, che tali gruppi armati non identificati vogliano operare, attraverso le proprie attività criminali, una sorta di pulizia etnica.

In questo momento storico dunque il Niger si trova ad affrontare, oltre agli atti di natura terroristica anche gli scontri politici determinati dagli esiti delle votazioni elettorali del 21 febbraio del 2021 che hanno decretato la vittoria ufficiale di Mahamane Bazoum, contestata fortemente dall’altro candidato, Mahamane Ousmane che ha denunciato brogli e ha promesso forti proteste nel paese. Per Bazoum, quindi, che assumerà la carica il prossimo, 2 aprile 2021, la questione securitaria è certamente la prima da affrontare.

Fonti:

L'articolo n. 2 – Mali e Niger: conflitti e instabilità nel Sahel proviene da OGzero.

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n. 4 – Senegal: Ousmane Sonko vs. Macky Sall. Esplode la rabbia https://ogzero.org/conflitti-e-instabilita-in-senegal-causa-di-migrazione-forzata/ Sun, 11 Apr 2021 08:21:19 +0000 https://ogzero.org/?p=3011 Questo saggio fa parte di una raccolta di articoli che fornisce una panoramica sulla questione migratoria: analizzeremo insieme a Fabiana Triburgo le varie rotte che si sono delineate nel tempo a causa di conflitti o e instabilità che provocano questo fenomeno per giungere infine a un’analisi della normativa europea e delle alternative che potrebbero emergere […]

L'articolo n. 4 – Senegal: Ousmane Sonko vs. Macky Sall. Esplode la rabbia proviene da OGzero.

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Questo saggio fa parte di una raccolta di articoli che fornisce una panoramica sulla questione migratoria: analizzeremo insieme a Fabiana Triburgo le varie rotte che si sono delineate nel tempo a causa di conflitti o e instabilità che provocano questo fenomeno per giungere infine a un’analisi della normativa europea e delle alternative che potrebbero emergere da politiche più coraggiose e lungimiranti. Qui il quarto contributo, focalizzato sul Senegal.


n. 4

I principali conflitti che attualmente interessano le migrazioni forzate e le prassi di esternalizzazione poste in essere dall’Unione Europea e dai singoli stati membri portano a una predeterminazione delle rotte dei migranti.

Quello che oggi è inevitabile chiedersi è se il nuovo Patto europeo sulla migrazione e l’asilo, proposto dalla Commissione UE, possa essere realmente considerato una soluzione della gestione del fenomeno migratorio o se invece vi siano soluzioni legali alternative maggiormente lungimiranti e coraggiose.  


L’instabilità politica e i recenti scontri in Senegal

Il Marzo senegalese

Il 4 marzo 2021, in Senegal, si è verificata un’ondata di proteste sollevate dalla popolazione civile, in particolare da parte dei giovani senegalesi, in conseguenza dell’arresto di mercoledì 3 marzo 2021 di Ousmane Sonko, leader del partito di opposizione Patriotes du Sénégal pour le travail, l’èthique et la fraternité (Pastef), e principale politico oppositore del governo del paese guidato dal presidente Macky Sall.

Il 3 marzo il deputato Sonko, dopo aver perso l’immunità parlamentare già il 26 febbraio, si stava recando in Tribunale, accompagnato da una folla di suoi sostenitori, poiché convocato per rispondere all’accusa di stupro e di minacce di morte nei confronti di una ragazza di vent’anni. Le accuse sono state avanzate contro di lui da parte di una dipendente di un salon de beautè, Salon che Sonko frequentava abitualmente per sottoporsi a dei massaggi per il mal di schiena. Sonko, arrivato terzo alle elezioni presidenziali del 2019, aveva precedentemente respinto ogni accusa professandosi innocente rispetto all’imputazione per stupro, e dichiarando che le «accuse infondate sono ormai lo strumento consolidato dall’attuale governo per rimuovere i candidati alle prossime elezioni». Le accuse a lui rivolte per stupro risultano, effettivamente, del tutto infondate e anche esponenti del partito Pastef dichiarano che i certificati medici smentiscono la violenza sulla donna e i suoi sostenitori parlano di un complotto finalizzato alla eliminazione di Sonko dalla scena politica.

In conseguenza delle manifestazioni popolari che lo hanno accompagnato mentre si recava in Tribunale, Sonko è stato poi arrestato immediatamente per i reati di “disturbo dell’ordine pubblico” e organizzazione di “manifestazione non autorizzata”. Da quel momento in poi per tre giorni a Dakar e nel sud del Senegal si sono accese forti proteste da parte della popolazione a sostegno di Sonko, soprattutto giovani, che hanno colto l’occasione anche per rivendicare diritti come quello della libertà di espressione, del rispetto della separazione dei poteri, in particolare quello giudiziario da quello esecutivo, e il divieto delle Forze di Polizia a compiere atti violenti contro manifestanti pacifici in opposizione al governo.

Più specificatamente gli attivisti hanno criticato: il licenziamento di Sonko dalla pubblica amministrazione senza possibilità di difesa solamente per aver parlato di un fascicolo contro il presidente Macky Sall – relativo al reato di appropriazione indebita (il cosiddetto 7 miliardi di Taiwan); la violenza usata dalle forze armate del governo contro una sostenitrice di Sonko e la sua uccisione; un seggio saccheggiato in esito alle votazioni del 2019 e la violazione del domicilio della madre di Sonko per recuperare fascicoli del Pastef che avevano causato l’arresto di un gendarme. Ancora, i manifestanti hanno sottolineato: la corruzione dilagante nell’affare milionario in mano al fratello dell’attuale presidente denunciato nel 2019; le accuse false su un presunto contributo della Tullow Oil rivolte a Sonko e la volontà espressa, tramite comunicato stampa del presidente, di sciogliere il partito Pastef con il fine di innovare le modalità di finanziamento delle sue attività.

Gli scontri e l’insurrezione antifrancese

Manifestazioni a Dakar per l’allontanamento di Macky Sall

Il Movimento per la difesa e per la democrazia M2D, considerata la forza di opposizione alla guida delle manifestazioni in seguito all’arresto di Sonko, aveva annunciato nella giornata di venerdì 5 marzo altri giorni di protesta. Tali proteste, tuttavia, sono sfociate in una vera e propria guerriglia urbana. I giovani urlando Liberate Sonko! hanno attaccato con lanci di pietre i poliziotti che hanno risposto con deflagrazioni e lanci di granate. Secondo la Croce Rossa senegalese 235 persone sono rimaste ferite nel corso delle proteste del 5 marzo a Dakar in centro durante le quali, secondo i media, sono state arrestate in modo arbitrario circa 100 persone. Otto invece sarebbero i morti secondo Amnesty International e in diversi quartieri a Dakar e in altre città del paese, nel quartiere di Medina così come nella regione di Casamance, ci sono stati altri scontri violentissimi.

Nella capitale si sono chiusi i negozi e si sono svuotate le strade lasciando spazio alla guerriglia urbana e il governo ha ordinato la chiusura delle scuole con “l’invito” contestuale ai genitori di tenere sotto controllo i propri figli manifestanti giovanissimi. Allo stesso tempo, il governo ha oscurato alcuni canali televisivi nazionali e ha limitato l’accesso alla rete internet durante i giorni degli scontri e ha controllato ossessivamente lo scambio di foto, messaggi e video su quanto stava accadendo.

OGzero aveva raccolto il 5 marzo la testimonianza di un intellettuale senegalese simpatizzante per l’opposizione a Macky Sall, che aveva potuto descrivere in diretta da Dakar gli eventi; questo il podcast:

“La rabbia di Dakar e la repressione di Sall”.

Inoltre, anche i senegalesi in Europa hanno organizzato delle manifestazioni e dei presidi, come è avvenuto con il presidio del 5 marzo di Milano al motto No alla dittatura. No alla violenza! e con un comunicato del Pastef a Napoli che ha dichiarato che in Senegal «sono riusciti a liquidare già due importanti leader di opposizione, di cui uno in esilio in Qatar e l’altro, appena uscito dal carcere, non ha più diritti civili. Ora stanno cercando di liquidare l’oppositore più forte Ousmane Sonko».

Le proteste in Senegal non hanno portato all’ascolto delle istanze sollevate dai manifestanti e il Ministero dell’interno senegalese le ha qualificate come atti di saccheggio e di vandalismo, nonché «atti di banditismo e di terrorismo» e ha promesso di utilizzare «tutti i mezzi necessari per un ritorno all’ordine», mentre il presidente Macky Sall, al potere da quasi dieci anni, si è trincerato inizialmente dietro un muro di silenzio.

Amnesty International ha invitato il governo senegalese a chiarire le circostanze che circondano la morte di un manifestante ed a spiegare le violazioni dei diritti umani dall’arresto di Sonko, il 3 marzo del 2021. I manifestanti sono stati infatti attaccati e arrestati dalle forze di sicurezza senegalesi, accompagnati da uomini in abiti civili e armati di mazze e, secondo la nota organizzazione umanitaria, la forza che hanno usato eccessivamente contro i manifestanti è una «chiara violazione del diritto internazionale e dei diritti umani» e ha invitato le autorità ad indagare sull’incidente e perseguire i responsabili delle violazioni.

In questa situazione è intervenuto il Mediatore della Repubblica, una carica istituzionale specifica del Senegal, Alioune Badara Cissè dicendo: «Abbiamo bisogno di compassione per la nostra gente. Finché restiamo al piano di sopra e pensiamo di non dover rendere conto a nessuno, gonfiamo il petto perché siamo stati criticati ma non faremo mai un lavoro utile». A tale intervento si è aggiunto quello dell’ex presidente Abdoulaye Wade che si è rivolto direttamente al presidente Macky Sall dicendo «alcuni magistrati cercano di indovinare cosa può piacere al presidente e lo fanno con zelo», riferendosi anche al caso del figlio che è stato liquidato giudizialmente alle ultime elezioni presidenziali. Il 7 marzo è stata anche diffusa una comunicazione congiunta dei paesi dell’Unione Europea e del Canada, della Corea del Sud, del Giappone, del Regno Unito, degli Stati uniti e della Svizzera che esprime preoccupazione per la vicenda politica in corso e che auspica una sua risoluzione pacifica. Del medesimo contenuto è stato anche il comunicato del 6 marzo del presidente dell’Unione Africana Moussa Faki Mahamat.

Liberazione di Sonko e seconda fase delle proteste

 L’ 8 marzo e per i tre giorni successivi è stata indetta, quindi, una mobilitazione pacifica per la liberazione del leader dell’opposizione Sonko proposta dalla piattaforma Aar Sunu democratie (Movimento per la difesa della democrazia) e organizzata da parte di un collettivo di oppositori anche sulla base dell’invito, del medesimo Sonko, che ha chiamato a partecipare alla manifestazione tutti i senegalesi “desiderosi di giustizia”.  Mobilitazione pacifica presentata come un’esortazione a comparire «in massa per le strade di Dakar e nelle regioni, dipartimenti, comuni e villaggi per 3 giorni da lunedì 8 marzo, giorno di lotta e affermazione dei diritti delle donne» che sono state invitate a uscire a fianco di figli e nipoti «per aiutarli nella loro ricerca di un futuro migliore».

 

Tuttavia, nella serata del 7 marzo, è intervenuta la revoca da parte del pubblico ministero del provvedimento di custodia cautelare a carico di Ousmane Sonko e delle sue guardie del corpo, con l’invito a Sonko di comparire il giorno seguente, ossia proprio l’8 marzo alle 11 di mattina davanti al decano dei giudici. A quel punto la manifestazione dell’8 marzo 2021 non c’è stata perché la popolazione civile, quando ha appreso la notizia della sua liberazione, è andata in massa verso Sonko e lo ha accompagnato per sostenerlo nel ritorno verso casa. Rimaneva un appuntamento alle ore 15 per un grande raduno pacifico dei manifestanti per celebrare tale liberazione, durante il quale, avrebbero parlato i leader dell’opposizione ma alcuni gruppi autonomi hanno ripreso gli scontri con la polizia ed è stato annullato.

L’8 marzo, le autorità hanno comunque rafforzato le misure di sicurezza e i controlli, hanno prolungato il divieto di circolazione di moto e motorini, e hanno comunicato la chiusura delle scuole. Dakar è stata blindata per diversi giorni durante i quali hanno sfilato i carri armati militari verso il quartiere nel quale sono ubicate la maggior parte delle istituzioni senegalesi.

Nonostante la revoca dell’arresto e la presentazione davanti al decano dei giudici, Sonko, leader del Pastef, è stato rilasciato su cauzione ma rimane sottoposto alle indagini giudiziarie, persistendo a suo carico ancora l’incriminazione per stupro e l’obbligo a presentarsi ogni quindici giorni dinanzi ai giudici. In seguito, il presidente Sall, una volta ascoltate soprattutto le autorità religiose senegalesi, che hanno sottolineato la gravità della situazione e la necessità di agire, lo stesso 8 marzo finalmente si è rivolto alla nazione, affermando di aver compreso le preoccupazioni dei giovani e ha strategicamente chiesto di far tacere il rancore ed evitare gli scontri come quelli verificatisi nei giorni precedenti, chiamando la popolazione civile al dialogo e alla collaborazione con il governo. Sall ha poi fissato per l’11 marzo la data di lutto nazionale per celebrare le vittime delle manifestazioni.

Sonko, pur libero per il momento, non ha risparmiato tuttavia accuse al presidente, in carica dal 2012, considerato «il responsabile degli accadimenti di questi giorni», ossia  di aver tradito il popolo senegalese e di perseguitare gli oppositori e ha reclamato la liberazione immediata di tutti i prigionieri politici chiedendogli altresì di dichiarare pubblicamente la propria volontà di non volersi più candidare, nel 2024, per un terzo mandato, mediante la modifica della costituzione vigente nel paese, consuetudine questa appartenente oramai a quasi tutti i leader degli Stati africani.

Mambaye, videomaker senegalese ha seguito la mobilitazione e il 9 marzo ha riassunto la situazione per Radio Blackout e OGzero, analizzando sia la composizione della piazza, sia l’evoluzione del Movimento di protesta, raccontando con passione e ironia ciò cui aveva potuto assistere e i possibili sviluppi dopo le dichiarazioni televisive dei due leader. Ecco il suo intervento in italiano da Dakar:

“Le Sénégal dit à la France: Dégage!”.

Brodo sociale in cui si cala il movimento senegalese

Gli accadimenti che si sono verificati, in Senegal, dopo l’arresto di Sonko, il 3 marzo, infatti, celano una gravissima situazione di instabilità politica nel paese – nonostante esso sia considerato erroneamente uno dei più solidi stati in Africa anche in ragione di essere l’unico a non aver mai subito un colpo di stato. Si può, quindi, onestamente affermare che tali eventi hanno costituito solo la scintilla che ha fatto esplodere una situazione sociale molto turbolenta, già presente e acuita dalla crisi pandemica per il Covid , in conseguenza della  quale nel paese si è registrato un notevole abbassamento del prodotto interno lordo. Le misure, infatti, che sono state adottate dal presidente Macky Sall per il contenimento della pandemia hanno ulteriormente mortificato un’economia informale che si fondava proprio sul principio della possibilità di muoversi liberamente per quanto riguarda soprattutto i giovani senegalesi. La maggior parte di loro sono scolarizzati ma non hanno nessuno sbocco occupazionale e, quindi, l’unica soluzione che rimane loro per condurre una vita dignitosa è rischiare la vita in mare per dirigersi verso le coste dei paesi dell’Unione Europea come è avvenuto durante la scorsa estate con l’attraversamento della rotta atlantica. La gioventù senegalese vede in Sonko un punto di riferimento, essendo a capo di un partito di patrioti che lotta per il lavoro, l’etica e la fraternità e che si rivolge in modo particolare alle classi urbane scolarizzate comprese quelle della diaspora.

Ousmane Sonko, ovvero i giovani scolarizzati disperati

I giovani senegalesi scolarizzati avevano accolto Ousmane Sonko all’Università di Dakar il 18 febbraio, prima degli scontri

Non sarebbe la prima volta che il presidente Macky Sall cerca, e riesce con successo, a liberarsi dei suoi oppositori politici attraverso il sistema giudiziario: è quanto è accaduto come abbiamo detto al figlio dell’ex presidente e anche al precedente sindaco di Dakar, entrambi al momento detenuti in prigione. Anche nel caso di Sonko l’incriminazione per stupro sembra essere totalmente montata: le prove, tra cui quelle mediche, come già accennato, non reggono assolutamente le accuse a lui rivolte e per di più sono state raccolte da forze di polizia che, come noto, non sono nient’altro che forze affiliate al presidente Macky Sall e definibili come milizie “al soldo” del presidente, una sorta di agenzia di contractor.

L’accanimento del governo senegalese, in particolare, da parte del presidente Sall nei confronti di Sonko è da ricercarsi nel fatto che egli rappresenta l’oppositore maggiormente credibile per sfidare l’attuale presidente in vista delle elezioni del 2024.  Sonko, arrivato già terzo alle elezioni del 2019, conquistando il 15% dei voti, oggi viene percepito come l’uomo del cambiamento e questo per diverse ragioni. La più rilevante è quella che Sonko si distingue per il fatto di non far parte dell’élite politica da anni presente in Senegal che tra le sue caratteristiche ha quella di non condividere le ricchezze del paese con la popolazione. Sonko, infatti, nasce non come politico ma come funzionario dell’erario e poiché durante il suo incarico ha denunciato attività economiche poco chiare, poste in essere dal governo in passato, è stato destituito dal suo incarico.

Macky Sall, ovvero il neocolonialismo francese e le sue multinazionali

Dietro le attività di Macky Sall, invece, si nasconde come per tanti altri leader africani il potere esercitato da Parigi. I giovani d’altra parte lo hanno ben compreso: non sono casuali, infatti, gli attacchi sferrati conto i simboli dell’ingombrante presenza politica ed economica della Francia in Senegal, come la distruzione o gli incendi che i manifestanti hanno commesso, nel corso delle proteste, a danno dei punti di rifornimento della compagnia petrolifera Total, della catena dei supermercati Auchan, contro i punti vendita della compagnia telefonica Orange e contro le autostrade a pedaggio Eiffage.

conflitti e instabilità

Servitude et soif de liberté

Il malcontento per l’ingerenza della politica francese nel paese in ogni caso non riguarda solo i giovani o i sostenitori di Sonko ma è comune a gran parte della popolazione senegalese : è ormai nota l’esistenza di accordi segreti – ma anche pubblici, di tipo economico – stipulati tra Macky Sall ed Emmanuel Macron, nonché la percezione di quanti benefici ottenga la Francia dallo sfruttamento delle risorse naturali senegalesi, come avvenuto con il recente ritrovamento di giacimenti petroliferi in mare a circa 100 km da Dakar.

Il petrolio

In particolare, anche in conseguenza di tale ritrovamento petrolifero, l’attuale presidente ha creduto, prima del propagarsi della pandemia, di poter dar vita a un progetto faraonico di rinascita del Senegal da attuarsi in un lungo periodo di sua reggenza politica, ossia potenzialmente fino al 2035. Come noto, invece, la crisi pandemica ha causato l’abbassamento del prezzo del petrolio e le corse delle compagnie verso i rifornimenti si sono ridotte notevolmente. È noto anche il fenomeno di corruzione nel quale è stato coinvolto il cognato del presidente Sall a cui è stata versata una tangente di 250.000 dollari da parte di una compagnia petrolifera interessata al recente ritrovamento di giacimenti nel paese.

Franc Cfa: il grimaldello francese

Non solo, la moneta senegalese il franco Cfa consente notevoli vantaggi monetari per la Francia nei rapporti commerciali con il Senegal. Nel potere della Francia di Emmanuel Macron, quindi, si trova la chiave di lettura del potere di Macky Sall, così come quello di tutti gli altri politici al potere, tranne Sonko il quale ha scritto un libro che denuncia proprio l’utilizzo sbagliato di alcuni fondi da parte dell’attuale presidente. Il deputato Sonko, infatti, in merito alla “questione francese” ha espresso un’opinione ben chiara: se nel 2024 riceverà il consenso da parte della popolazione senegalese rinegozierà tutti gli accordi economici con la Francia e svelerà quelli nascosti al fine di conseguire un maggior vantaggio per l’economia del Senegal. Sonko è l’espressione di una volontà politica di un partito, partigiano, anticolonialista, che si basa sul panafricanismo e che da anni mette in luce gli atti di chi controlla le risorse del paese e dei fenomeni di corruzione interna a essi collegati. Ciò nonostante, Sonko non ha chiesto, anche in conseguenza di tali accadimenti, le dimissioni immediate dell’attuale presidente che invece vuole gran parte della popolazione locale, ma che piuttosto non si candidi per un terzo mandato e che indica elezioni regionali nel paese che non si tengono da circa due anni. D’altra parte i manifestanti stessi, tra l’altro non tutti sostenitori del partito Pastef, sono giunti il giorno dell’arresto di Sonko da diverse zone del paese: non solo da Dakar ma anche da Casamance, da Saint-Louis e da Louga.

Ad aggravare una situazione già così tesa tra il presidente Sall e i partiti di opposizione sulla vicenda del presunto stupro è stata la pubblica apparizione in televisione, alla presenza del suo legale, della ragazza Adji Sarr durante la quale ha dichiarato l’inesistenza di un complotto a carico di Sonko e lo ha invitato pubblicamente a giurare sul Corano di non aver avuto rapporti sessuali con lei. Chiaramente il contenuto di tale comparizione ha riacceso i riflettori su una vicenda ancora in sospeso e sulla quale esistono tuttora indagini segretate. Al di là delle valutazioni etiche, religiose, psicologiche delle dichiarazioni, tale ulteriore sviluppo fa intendere che la ragazza abbia delle prove, non tanto in grado di dimostrare lo stupro, ma di attestare una relazione adulterina con Sonko e, non esprimersi in modo cristallino rispetto a una gravidanza riconducibile a Sonko, aumenta tali sospetti.

Adji Sarr è la massaggiatrice del Salon de Beautè che accusa Ousmane Sonko di stupro

Dopo questa frattura profonda tra dirigenti politici e i partiti di opposizione, primo tra tutti il Pastef, e Sonko in particolare, sostenuto in modo impressionante dalla popolazione civile, ma non dalle confraternite religiose – che rappresentano il livello più influente di potere nel paese – il cambiamento può dirsi ormai in atto, ma sarà in grado il presidente Sall di intercettare e soddisfare, a prescindere da Sonko, le istanze della popolazione e soprattutto dei giovani  o avrà la meglio su di lui la paura del cambiamento?

Per ora, all’inizio di aprile 2021, si direbbe che il presidente si giochi le classiche carte neocolonialiste della demonizzazione per opera dei religiosi marabutti che gettano acqua sul fuoco della rivolta e, anodina per il Senegal, l’invenzione di un’antagonismo tribale tra poular e wolof, mai esistito nella nazione, ma insinuato dal potere per dividere e poter ancora imperare al servizio del neocolonialismo francese. Questo il contributo di Mambaye registrato l’8 aprile su Radio Blackout

Ascolta “Marabutti e divisioni etniche: il repertorio neocoloniale di Macky Sall” su Spreaker.

Fonti:

L'articolo n. 4 – Senegal: Ousmane Sonko vs. Macky Sall. Esplode la rabbia proviene da OGzero.

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Nazione di poeti, navigatori e… trafficanti d’armi https://ogzero.org/italia-nazione-di-trafficanti-darmi/ Sun, 21 Mar 2021 11:25:30 +0000 https://ogzero.org/?p=2638 L’attenzione per la repressione sanguinosa in Myanmar e gli addentellati con i traffici d’armi dell’industria italiana hanno smosso nei nostri ricordi alcuni collegamenti che si dipanano dal Sudest asiatico al Sahara occidentale, attraversando la storia dell’industria bellica italiana dal 1973, anno della Guerra del Kippur (e della sua conseguenza sull’approvvigionamento energetico mondiale), fino alle armi […]

L'articolo Nazione di poeti, navigatori e… trafficanti d’armi proviene da OGzero.

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L’attenzione per la repressione sanguinosa in Myanmar e gli addentellati con i traffici d’armi dell’industria italiana hanno smosso nei nostri ricordi alcuni collegamenti che si dipanano dal Sudest asiatico al Sahara occidentale, attraversando la storia dell’industria bellica italiana dal 1973, anno della Guerra del Kippur (e della sua conseguenza sull’approvvigionamento energetico mondiale), fino alle armi che fanno strage dei resistenti di Mandalay e un’inchiesta di Atlante delle Guerre e Opal ha dimostrato come abbiano aggirato l’embargo più che decennale nei confronti del Myanmar

La tradizionale presenza della industria bellica italiana nei teatri di guerra

Riprendiamo a proporre gli articoli che Eric Salerno scrisse per “Il Messaggero” seguendo le prime azioni del Polisario, quelle che prendevano di mira le truppe mauritane illuse di poter partecipare della spartizione delle spoglie del Sahara ex spagnolo. Bastò l’incipit del catenaccio, le raffiche sul palazzo presidenziale di Nouakchott e i mauritani lasciarono perdere: i colonizzatori avevano puntato sui marocchini per perpetuare lo sfruttamento delle risorse.

La lettura dell’ingerenza delle potenze coloniali è massicciamente presente nell’articolo di Eric, dove si respirano le tensioni positive che parlavano di panafricanismo – chiamato proprio a difesa delle sacrosante rivendicazioni saharawi, e gli stati africani rispondevano a tono, mentre ora sono in coda per accedere agli Abraham Accords – e di altre illusioni di un periodo esaltante, dove non era una bestemmia parlare del ruolo svolto dall’Italia nell’“aggressione condotta dall’imperialismo” contro la lotta di liberazione: era il 5 luglio 1977.

Polisario contro Mauritania

Primi attacchi del Polisario e scoperta dell’approvvigionamento di armi italiane all’esercito mauritano

 

Ma perché ci siamo affrettati ora a passare a un nuovo appuntamento con gli articoli di Eric Salerno pubblicati nel 1977 proprio in questo periodo concitato che cerca di capire come il mondo trascorre dall’epoca di Trump a quella di Biden? Semplice: perché in questi giorni alcune realtà complici della nostra testata hanno scoperchiato la vergogna di armi di fabbricazione italiana usate da Tatmadaw contro i manifestanti birmani che si ribellano al golpe in Myanmar. E in questo articolo in enjambement trovate un lungo pezzo, incastonato in centro al reportage che rilascia una scia di disgusto non ancora consumata: «La presenza dell’industria italiana sul mercato mondiale della armi ci vede oggi impegnati in un dibattito che tocca i punti fondamentali dello scontro di classe in Italia» [e oggi era il 1977, non è cambiato nulla se non in peggio].

Ma è soprattutto la combinazione dei due elementi compresenti nell’articolo (l’Flm, coinvolta a sostegno della lotta saharawi; e le armi costruite dalle maestranze italiane, probabilmente aderenti alla Federazione lavoratori metalmeccanici) che vanno a unirsi in un altro testo che ricordava quegli anni e va nel ricordo a comporli insieme: il redattore era un amico di Eric, uno di quelli che avevano fortemente voluto la nascita di un sindacato forte e internazionalista come poteva essere negli anni Settanta la Federazione di tutti i lavoratori metalmeccanici: Alberto Tridente si impegnò infatti anche a lungo per sostenere la lotta saharawi.

In particolare a corredo dell’articolo di Eric Salerno ci piace riproporre stralci da questo racconto autobiografico di Alberto Tridente, raccolto nel volume da lui redatto nel 2011, poco prima di arrendersi al cancro dopo 10 anni di resistenza alla malattia senza smettere di denunciare i trafficanti di morte e l’ipocrisia che li ha sempre coperti nella vulgata italiana: Dalla parte dei diritti (Torino, Rosenberg & Sellier, 2011, pp. 178 e sgg.).

Scommettere sulla guerra?

Nel dicembre del 1973 dalla Oto Melara di La Spezia, nota fabbrica di sistemi d’arma esportati in tutto il mondo, era partita una nave carica di cannoni Oto-Mat diretta al Cile di Pinochet. All’inizio del 1974 andai a La Spezia e mi confermarono il cinico invio di armi al governo assassino. Non potevo crederci. Ne parlai a lungo con i sindacalisti e seppi che il Pci stava organizzando una “Conferenza di produzione”.

Era l’iniziativa attraverso la quale il Pci (in quella critica fase di ripensamento della sua strategia del compromesso storico in seguito ai fatti cileni) andava da tempo realizzando nelle grandi fabbriche, cercando di accreditare la sua idoneità a governare il paese, presentandosi alle imprese come interlocutore fondamentale per lo sviluppo delle attività produttive. L’incremento occupazionale era lo scopo dichiarato della “Conferenza di produzione”.

Un passo indietro a questo punto. necessario. Negli anni torinesi avevo conosciuto Achille Croce, giovane animatore del Movimento non violento valsusino. Nel 1972 Croce era impegnato a convincere i lavoratori delle Officine di Moncenisio, fabbrica che riparava carri ferroviari, a non accettare la trasformazione dell’azienda in fabbrica di sistemi d’arma. L’incontro con Achille Croce era stato un altro di quelli che lasciavano il segno. Testimoniava la resistenza allo scandalo del cinico scambio: quello di produrre più armi in cambio di maggiori occupati. Nel sindacato avevamo affrontato da tempo i temi del “cosa e come produrre”, ma quello delle armi era ancora un argomento scabroso del quale non si parlava perché non facile da trattare. Non mi ero mai direttamente occupato, come tutto il sindacato del resto, dell’industria bellica, delle implicazioni che quelle produzioni comportavano dal punto di vista morale, né delle prospettive che maggiori commesse belliche significavano per l’occupazione. Achille aveva invece le idee chiare. Era membro del direttivo della Fim provinciale e nelle riunioni dell’organismo aveva qualche volta posto il problema della produzione bellica che il sindacato non poteva trascurare di affrontare. Allora non aveva trovato molto ascolto, sembrava che parlasse nel deserto, ma quelle sue appassionate parole non erano state dimenticate. All’assemblea della Oto Melara, all’inizio del 1974, mi trovavo di fronte a una straordinaria e lacerante sfida: come accettare, dopo tante manifestazioni e proteste contro il colpo di stato di Pinochet in Cile e la morte di Allende, che un’importante fabbrica italiana, a capitale pubblico e altamente sindacalizzata, provvedesse a rifornire di cannoni i golpisti?

Cannoni navali in lavorazione nella fabbrica dell’Oto Melara di La Spezia nel 1980

La situazione aveva del paradossale. L’invio di un carico di cannoni a Pinochet avveniva senza proteste o un minimo di obiezioni da parte del Consiglio di fabbrica e del sindacato provinciale della Flm di La Spezia. Al contrario si organizzava una “Conferenza di produzione”, il cui fine era maggiore produzione bellica per ulteriore occupazione, ovvero si scommetteva sulla guerra. Erano annunciate significative presenze: il Consiglio di fabbrica, la sezione interna del Pci alla Oto Melara, il sindaco di La Spezia, il presidente della provincia, insieme all’amministratore delegato, ingegner Stefanini. La scommessa sulla guerra era non solo implicita, ma andava oltre: ne auspicava cinicamente altre, magari più estese, al fine di ottenere incrementi produttivi e occupazionali. Non ricordo se il film Finché c’è guerra c’è speranza con Alberto Sordi nella parte del mercante di armi fosse apparso sugli schermi italiani prima o dopo la Conferenza della Oto Melara, fatto sta che decisi di parteciparvi a nome della Flm nazionale, per parlare ai lavoratori contro le ragioni che l’avevano proposta, rovesciando lo slogan che dà titolo al film di Sordi.

 

Nella segreteria nazionale Flm proposi che se ne discutesse a fondo, non senza contrasti da parte di coloro che, specie nella Fiom e nella Uilm, non percepivano ancora con chiarezza la contraddizione del produrre armi in cambio di occupazione, come se queste fossero prodotti come gli altri. Ottenni comunque il consenso a sostenere la tesi che non era nella linea della Flm affidare la garanzia della maggiore occupazione alla speranza di maggiori conflitti nel mondo. Con questa convinta posizione andai a La Spezia. Una foto del mio intervento testimonia questa mia prima personale e diretta esperienza in un’assemblea di lavoratori che auspicava maggiori produzioni belliche. La mia “conversione sulla via delle Officine Moncenisio di Condove”, in bassa Valle di Susa, e la memoria dell’incontro con Achille Croce mi aiutarono ad affrontare un cammino che si annunciava tutto in salita.

Il refettorio della Oto Melara dove si teneva l’assemblea era strapieno di operai e impiegati. Parlarono i provinciali della Flm, il Consiglio di fabbrica, l’amministratore della Oto Melara, ingegner Stefanini, e poi toccò a me concludere.

Sparai – . proprio il caso di dirlo, data la fabbrica – tutte le mie cartucce contro l’illusione della “scommessa sulle guerre”. Dissi che era inaccettabile: «Manifestare il sabato contro i colpi di stato fascisti e, poi, dal lunedì al venerdì, lavorare e rifornire di armi coloro che le avrebbero usate per reprimere nel sangue la democrazia! Le guerre sarebbero, prima o poi, finite e la crisi del settore bellico avrebbe sgonfiato tutte le illusioni delle conferenze produttive di quel tipo… Sarebbe stato più saggio, oltre che morale, pensare per tempo a produzioni alternative, per non trovarsi sprovvisti di altre opportunità di produzione e lavoro, strangolati dalla mancanza di alternative a quella bellica, e che appariva rischioso affidare ai conflitti nel mondo le speranze produttive e occupazionali».

Era stata una provocatoria, temeraria e frontale accusa a tutti i presenti che avevano organizzato e creduto in quella iniziativa, che privilegiava apertamente una scelta cinica, contraddittoria e immorale che inavvertitamente corrompeva le coscienze dei lavoratori e tradiva coerenti scelte politiche. E aggiungevo: «Seppure l’intento di avere più occupati in futuro potrà apparire un obiettivo nobile, questo non dovrà avvenire auspicando il passaggio dalla guerra fredda a quella calda, in ogni parte del pianeta!» Silenzio e sconcerto accompagnarono le mie conclusioni. Le tesi da me esposte rovesciavano la “torta appena confezionata”. Gelido il commento dell’ingegner Stefanini, così come dei dirigenti sindacali e di partito presenti. Al termine della Conferenza,

il solo ad avvicinarsi e a parlarmi fu un delegato della Fiom, Claudio Rissicini, che mi disse: «Belìn, cosa volevi, che ti applaudissero? Lo avrebbero fatto volentieri, ma con le mani sulla tua faccia! Lo sai che parlare in questa fabbrica di conversione al civile ha significato nel dopoguerra solo disoccupazione?». Claudio, negli anni che seguirono, divenne un caro, fraterno amico e compagno di importanti iniziative nel settore della cooperazione. Fu uno dei primi a partire per anni di missione in Mozambico, nel quadro dei programmi di cooperazione che per conto della Flm firmai con quel paese, quando si liberò dal colonialismo portoghese.

Cresce il fatturato bellico italiano.

Nella mia attività mi stavo dedicando anima e corpo a queste idee centrali, complicate e difficili, che avevano saturato anche il mio poco tempo libero: convincere i lavoratori del settore sulla validità della distinzione storica fra interessi dei lavoratori e quelli delle lobby dell’industria bellica, persuaderli a non produrre armi e in ogni caso a non venderle ai regimi dittatoriali e razzisti; elaborare un coerente intervento del sindacato sui temi della pace e della solidarietà e, nello stesso tempo, proteggere l’occupazione in quelle stesse fabbriche. In quel momento la produzione bellica e il suo commercio crescevano a ritmi impressionanti in Italia e all’estero. Erano perciò un ostacolo in più, ai numerosi che già si ergevano sul cammino del disarmo e della pace.

Questo lavoro si raccordava inoltre con l’attività del Tribunale Russell, che affrontava spesso la vergogna delle esportazioni di armi in quei paesi considerati criminali dall’attività del Tribunale. Il volume produttivo e commerciale collocava il nostro paese al primo posto nel gruppo dei minori esportatori di sistemi d’arma. Il fatturato totale esportato dal nostro paese aveva ormai raggiunto e oltrepassato i 5000 miliardi di lire a metà degli anni Settanta: un record mai raggiunto dall’industria bellica italiana. L’aumento della produzione e l’affermazione dei prodotti sui mercati internazionali avevano fatto dire al ministro del commercio estero di allora, il socialista Enrico Manca, che la vendita di undici navi militari (quattro fregate e sei corvette, più una nave appoggio) all’Iraq di Saddam Hussein era un fatto inedito e veramente straordinario. Per quantità e qualità del naviglio venduto lo si poteva definire “l’affare del secolo”. Prima dell’attacco al Kuwait, oltre all’Italia, vendevano armi a Saddam soprattutto i francesi. Fornivano cacciabombardieri Mirage e Super Standard e i relativi missili che li equipaggiavano. Da parte loro i sovietici vendevano carri armati e blindati, i brasiliani blindati e autocarri. Generoso l’aiuto finanziario statunitense all’Iraq, affinché potesse comprarne di più e su tutti i mercati. Saddam era un “buon cliente e amico”, si preparava ad attaccare il “cattivo dell’area”, l’Iran di Khomeyni, e fin lì tutto andava bene, per gli americani, per l’Occidente e per “madama la marchesa”!

Italia nazione di trafficanti

Elicottero AW109M costruito da AgustaWestland partecipata di Leonardo, azienda controllata dallo stato italiano

A Firenze nacque un gruppo che si proponeva di studiare a fondo il tema e che tuttora [2012, N.d.R.] continua a pubblicare ricerche sull’argomento. Era cresciuto nel frattempo il numero dei lavoratori e dei Consigli di fabbrica che collaboravano. Il lavoro sull’industria bellica aveva già prodotto i primi obiettori di coscienza nelle fabbriche dove lavoravano: tra questi, Elio Pagani, operaio dell’Aermacchi, e Marco Tamburini dell’Agusta elicotteri. Ero fermamente convinto che il difficile lavoro per la riconversione richiedeva anche momenti fortemente emozionali per farsi ascoltare da assemblee talvolta scettiche, se non ostili o nettamente contrarie alla sola idea di rischiare il posto di lavoro per quelle che erano ritenute utopie. La produzione e la vendita di sistemi d’arma creava infatti occupazione e apparivano stolti coloro che opponevano scrupoli morali allo sviluppo di un settore che migliorava la bilancia commerciale. All’assemblea della Aermacchi, la prima in una fabbrica italiana di aerei da guerra e addestratori che commerciavano con il Sudafrica razzista, mi aveva accompagnato Antonio Mongalo, l’africano di etnia Zulu, rappresentante in Italia dell’Africa National Congress del carismatico leader Nelson Mandela, allora ancora in carcere. L’impatto fu emotivamente fortissimo. Alle obiezioni di alcuni operai e capetti, che giustificavano in nome del lavoro la liceità del commercio con quel regime, Antonio parlò con passione della sua gente: «Segregata, sfruttata come schiavi nelle miniere, relegata nei tuguri malsani delle disperate periferie delle città da un regime spietato, lì, nella loro stessa terra, usurpata con la forza da coloni bianchi. Non cittadini, senza i più elementari diritti in quella che era stata da sempre la loro patria».

Imposto un embargo si trova l’inghippo

L’aggiramento dei divieti era da tempo collaudato; nel caso del Sudafrica l’embargo veniva aggirato attraverso il cosiddetto commercio triangolare: le imprese vendevano a un paese autorizzato a riceverle e questo le girava al paese sotto embargo e il gioco era fatto. Pajetta era furibondo. Mi accusava di aver attaccato l’iniziativa della conferenza e mi sfidava a provare quanto affermavo. L’irritazione era fondata: a Livorno il Pci era forte, specie fra i portuali. Anche Granelli mi domandò, più educatamente, se quanto denunciavo nell’intervista al “Corriere della Sera” era accaduto per davvero.

L’intervento dei mozambicani nel dibattito mi aiutò, confermando quanto detto da me nell’intervista. Essi affermarono: «In effetti questo accadeva ed era accaduto spesso nel passato», aggiungendo che erano talvolta sconcertati perché non capivano come l’Italia, da sempre impegnata nella solidarietà, vendesse armi a paesi che le usavano contro di loro. La soddisfazione per me fu enorme. Granelli in seguito si scusò: aveva accertato che la mia denuncia era fondata.

Il prodotto venduto che più ci copriva di vergogna nel mondo erano le mine antiuomo della Valsella e della Valmara. Erano armi povere per vittime povere. Infinito il numero di bimbi e di contadini mutilati alla fine di ogni conflitto: vittime di esplosioni subdole, perché “ritardate” nella loro criminale efficacia. Finalizzate per uccidere, come tutte le altre armi, erano state progettate (e lasciate nel terreno) per terrorizzare e mutilare le potenziali vittime, soprattutto quelle innocenti di tutti i dopoguerra. Il divieto alla loro esportazione era stato, finalmente, un modesto successo, che confermava e incoraggiava a proseguire nel lavoro. Molte produzioni erano e sono tuttora “dualistiche”, basate su tecnologie che permettono di realizzare prodotti sia civili che militari, offrendo così merci alternative. Consorzi di imprese inter-armi erano e sono stati promossi per integrarne le produzioni e facilitarne la penetrazione nei mercati. Il modello del Consorzio Melara, prodotto “chiavi in mano”. ormai diffuso con successo.

 

E con le mine antiuomo torniamo al Saharawi, che fa da perno a questa triangolazione virtuosa tra inchiesta di Opal, Atlante delle guerre, Rete Pace Disarmo sfociata in una serie di articoli di Emanuele Giordana e Alessandro De Pascale sulla presenza di armi di fabbricazione italiana nel Myanmar dei golpisti; lavoro di una vita antimilitarista di Alberto Tridente, narrata nel suo libro-testamento, infarcito di figure mitiche dell’indignazione del profitto derivante dalle guerre; la testimonianza di Eric Salerno collocata nel Sahara occidentale e risalente al 1977 delle prime imprese del Frente Polisario, che vide tra gli ambasciatori di giustizia proprio Alberto Tridente, attivo nel denunciare la presenza delle micidiali mine nel deserto abitato dagli esuli Saharawi. Non con sole armi l’Italia esporta guerre, ma anche con scuole di polizia per l’addestramento di  apparati speciali, assimilabile alla famigerata Escuela de Las Americas, per questo aspetto è interessante seguire il lavoro di Antonio Mazzeo

 

 

 

 

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Popoli oppressi vs cinismo tattico: quale soluzione? https://ogzero.org/il-diritto-dei-popoli-all-autodeterminazione-le-lotte-comuni/ Fri, 26 Feb 2021 12:26:50 +0000 https://ogzero.org/?p=2482 Riprendiamo sul nostro sito un articolo di Gianni Sartori pubblicato il 31 agosto 2014 dalla rivista “Etnie” (dove trovate, l’articolo in versione integrale) con il titolo “Indipendentismo e anarchismo: relazione impossibile?”. Ne riportiamo qui alcuni brani che danno un senso compiuto al concetto di autodeterminazione che ci interessa particolarmente quando riferito a popoli che lottano […]

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Riprendiamo sul nostro sito un articolo di Gianni Sartori pubblicato il 31 agosto 2014 dalla rivista “Etnie” (dove trovate, l’articolo in versione integrale) con il titolo “Indipendentismo e anarchismo: relazione impossibile?”. Ne riportiamo qui alcuni brani che danno un senso compiuto al concetto di autodeterminazione che ci interessa particolarmente quando riferito a popoli che lottano – al di là delle istanze religiose o nazionaliste – per la propria identità, con la volontà di liberare dal controllo dall’esterno di un territorio e delle genti che lo abitano.


Una premessa. Personalmente considero l’indipendentismo come uno degli aspetti assunti dalle lotte per i diritti e per l’autodeterminazione dei popoli. E l’indipendenza uno sbocco possibile, non un destino necessario.

Alla richiesta di analizzare la possibilità di un rapporto organico, stabile e strutturale tra anarchismo e indipendentismo di sinistra, ho sempre risposto con una buona dose di scetticismo.
Tuttavia, dato che le circostanze e le scelte mi avevano portato a solidarizzare con irlandesi, baschi, corsi, curdi e altri (in quanto vittime di una forma di oppressione, una delle tante che devastano questa “valle di lacrime”), senza mai rinnegare i miei trascorsi giovanili inequivocabilmente libertari, ho cercato di vivere dentro questa contraddizione. Per quanto mi è stato possibile, in base al principio della makhnovsina: «Con gli oppressi contro gli oppressori, sempre».
Che poi ci sia anche riuscito, questo è un altro paio di maniche.

L’apparato statale è indispensabile?

In una fase precedente, evidentemente in preda all’ecumenismo, mi ero spinto oltre, scrivendo che «lottare per il superamento della forma-stato a favore dell’autorganizzazione totale delle classi subalterne deriva da una concezione del mondo non dissimile da quella di chi teorizza il superamento dello stato-nazione per l’autorganizzazione della comunità popolare» 1). E mi salvavo l’anima aggiungendo un indispensabile “Forse”. Del resto le “nazioni senza stato” che hanno saputo sopravvivere, conservare tradizioni e linguaggi, combattere l’oppressione e lo sfruttamento e talvolta anche difendere la propria terra dal degrado, non dimostrano, magari senza volerlo, che l’apparato statale non è poi così indispensabile?
Penso quindi che tra libertari e indipendentisti di sinistra (“nazionalisti”? “nazionalitari”? “abertzale”?) ci si possa comunque sopportare, si possa convivere. E talvolta, di fronte al comune nemico del momento, solidarizzare, lottare insieme 2).

Lotte comuni e condivisione

La Storia infatti ha registrato lotte comuni contro capitalismo, fascismo e imperialismo, contro il nucleare e in difesa dell’ambiente, dei diritti umani e dei prigionieri…. Oltre naturalmente alla condivisione di repressione, galera, esilio. Non sono poi mancate reciproche contaminazioni, biografie familiari e personali che si sovrappongono, osmosi tra gruppi libertari e indipendentisti di sinistra.

[…]

Popoli manovrati

Ma negli ultimi anni lo scenario sembra essersi ulteriormente complicato. Non tanto per la possibilità, comunque scarse, di coniugare in maniera duratura le istanze libertarie con quelle indipendentiste. E nemmeno perché questi “nazionalisti” siano cambiati in peggio. Da parte mia mantengo un profondo rispetto per tutti quei militanti baschi, catalani, irlandesi o curdi (da Bobby Sands al Txiki) che hanno perso la vita cercando di coniugare liberazione nazionale e sociale.

Quello che è cambiato, sicuramente in peggio, è l’accresciuta capacità del sistema tecno-industriale-militare dominante (il “caro”, vecchio imperialismo, fase suprema eccetera eccetera) di strumentalizzare i movimenti di liberazione. Anche questo un “effetto collaterale” della globalizzazione? L’autodeterminazione rischia davvero di ridursi, come avvertiva il sociologo catalano Manuel Castells, a una variabile che si usa o si getta a seconda del caso?
Una questione che ovviamente non riguarda soltanto gli anarchici, ma tutta quella sinistra antagonista, non omologata e non addomesticata che ancora si confronta con il diritto dei popoli all’autodeterminazione.
Certo, per i colonizzatori il divide et impera non è una novità. Viene praticato con successo almeno dai tempi di Giulio Cesare.
Le milizie curde alleate della Turchia che (come ha riconosciuto il Parlamento curdo in esilio) parteciparono al massacro degli armeni durante il genocidio del 1915 possono aver fornito un protocollo per l’utilizzo da parte della Francia, e in seguito degli Usa, di alcune minoranze indocinesi contro la resistenza vietnamita. In Irlanda del Nord era il proletariato protestante, maggiormente garantito, a condurre la “guerra sporca” (omicidi settari, spesso indiscriminati) contro gli abitanti dei ghetti cattolici. Da sottolineare che entrambi, indigeni irlandesi e coloni scozzesi, erano di origine celtica (non germanica, come gli inglesi, angli e sassoni). Un elemento in più per sottolineare l’artificiosità e la strumentalità, a tutto vantaggio dell’imperialismo di Londra, della divisione in due comunità reciprocamente ostili.
Putin ha potuto “pacificare” la Cecenia con il ferro e con il fuoco, utilizzando anche bande di ex guerriglieri indipendentisti divenuti collaborazionisti. Sul piano religioso, sciiti e sunniti, a fasi alterne, vengono strumentalizzati in Medio Oriente. Lo stesso avviene con le popolazioni minorizzate – curdi, beluci, turcomanni – alimentando e armando le loro aspirazioni a una maggiore autonomia o all’indipendenza.

Contraddizioni e guerre tra poveri

Per conto di chi agivano i miliziani sciiti di Amal (“Speranza”) che nel 1986 assediavano i campi palestinesi, ormai indifesi e ridotti alla fame dopo l’allontanamento dell’Olp dal Libano? E in base a quali calcoli gli Stati Uniti hanno integrato nell’esercito e nella polizia irachena formazioni come il gruppo Sciri e al-Da’wa, notoriamente filoiraniani? Contraddizione nella contraddizione: contemporaneamente gli Usa avrebbero utilizzato in funzione anti-Teheran gruppi di indipendentisti beluci (sunniti) legati ad al-Qaeda. Chi, se non i servizi segreti turchi, può aver organizzato nel 2007 gli assalti – ufficialmente opera di rom – contro le baracche dei profughi curdi a Istanbul?
Anche le “guerre tra poveri” che hanno insanguinato il subcontinente indiano danno l’impressione di essere state in parte manovrate. Nel 2007 alcuni gravi attentati compiuti in occasione di feste nazionali e anniversari dell’India, vennero inizialmente attribuiti ai gruppi islamici. Successivamente emerse la pista dei separatisti del nord-est (bodo, naga…). Nel secolo scorso lo scontro era stato particolarmente duro nell’Assam, dove la maggioranza della popolazione è induista. Dal 1989 al 1996 la guerriglia dei bodo (in maggioranza cristiani) avrebbe causato la morte di migliaia di persone. Nel dicembre 1996 un attentato al Brahamaputra Express, mentre attraversava l’Assam, provocò più di trecento morti. Ancora prima delle rivendicazioni, l’atto terroristico venne attribuito ai bodo che due giorni prima avevano fatto saltare un ponte ferroviario.

Strategia della tensione mascherata da lotta per l’autodeterminazione?

Molto probabilmente in alto loco qualcuno pensa che è “sempre meglio che si ammazzino tra di loro”, purché il controllo del territorio e delle risorse rimanga saldamente nelle mani di chi detiene il potere. Si tratti di un esercito di occupazione, di una multinazionale o di criminalità organizzata come nei pogrom di Ponticelli. E naturalmente anche l’oppresso, il diseredato di turno ci metterà “del suo”.
Un caso limite, a mio avviso, quello dei karen, in perenne fuga tra Birmania e Thailandia e che da qualche tempo verrebbero sostenuti da gruppi neofascisti europei.
Ormai la strumentalizzazione dei movimenti di liberazione nazionale e di quelli autonomistici non è più appannaggio esclusivo dei servizi segreti. Le varie potenze planetarie operano alla luce del sole decretando la legittimità o meno delle rivendicazioni. Non a caso Manuel Castells ha parlato di «indipendenze a geometria variabile», denunciando come la comunità internazionale si dichiari favorevole all’autodeterminazione di un popolo o difenda l’integrità di un paese «a seconda di chi, del come e del quando». Ricordava che osseti e abkhazi si erano ribellati contro la Georgia nello stesso periodo in cui i ceceni si sollevavano contro la Russia. Inizialmente gli Usa appoggiarono l’insurrezione cecena, ma tollerarono facilmente la repressione da parte della Georgia. Analogamente nel caso del Kosovo (dove è stata poi costruita un’immensa base statunitense) si è invocato il diritto all’autodeterminazione, mentre per il Tibet non si va oltre qualche protesta simbolica. Quanto agli uiguri, sembra quasi che non esistano come popolo.

Il cinismo tattico caso per caso

«Le posizioni sul diritto all’autodeterminazione – ha scritto il sociologo catalano – sono frutto di un cinismo tattico» e l’indipendentismo sarebbe divenuto uno «strumento geopolitico fondamentale in un mondo globalizzato e interdipendente». Gli esempi si sprecano. Pensiamo al diverso trattamento riservato ai curdi in Iraq, già praticamente autonomi (e alleati degli Usa a cui hanno consentito di installare alcune basi militari), mentre quelli della Turchia continuavano a essere bombardati, imprigionati e torturati da Ankara, grande alleato degli Stati Uniti. Cui prodest? Non certo alla nazione curda nel suo insieme. Nel 2010, dopo una serie di impiccagioni di militanti curdi che l’opinione pubblica mondiale aveva completamente ignorato, i curdi dell’Iran (Partito per una vita libera in Kurdistan, Pjak, considerato il ramo iraniano del Pkk attivo in Turchia) sembravano essersi rassegnati a collaborare anche con il Mossad (lo aveva rivelato “Le Monde”, ma poi la situazione sembra essere cambiata).
Nel caso di Timor Est, la popolazione subì per anni un vero e proprio genocidio nell’indifferenza dell’opinione pubblica. Tra le poche eccezioni, negli anni Settanta, Noam Chomski e la Lega internazionale per i diritti e la liberazione dei popoli (Lidlip). Solo di fronte al rischio concreto di una dissoluzione dell’Indonesia intervennero le forze internazionali, ripescando l’ex guerrigliero Gusmão, leader del Frente revolucionària de Timor-Leste independente (Fretilin) per farne il presidente. Pare che inizialmente non ne fosse particolarmente entusiasta, dato che aspirava a ritirarsi dalla vita politica e darsi all’agricoltura. Paradossale che per garantire l’indipendenza di Timor Est venissero impiegati anche soldati inglesi provenienti dalle caserme di Belfast.
E a proposito di Belfast, due situazioni molto simili come l’Irlanda del Nord e il Paese basco negli ultimi anni sembravano aver imboccato strade antitetiche. Soluzione politica, abbandono della lotta armata da parte di Ira, Inla e delle principali milizie lealiste, liberazione dei prigionieri politici e cogestione del governo locale a Belfast e Derry.

Repressione, ancora casi di tortura, tregue effimere, illegalizzazione di partiti (Herri Batasuna, Batasuna, Bildu, Sortu…), associazioni ( Jarrai, Haika, Segi, Gestoras pro Amnistia, Askatasuna…) e giornali (“Egin”, “Egunkaria”) a Bilbo, Donosti e Gasteiz. Solo nel 2012, con la definitiva rinuncia alle armi di Eta e la possibilità per la “sinistra abertzale” di partecipare alle elezioni (con Sortu), si è riaperta la possibilità di una soluzione politica del conflitto. Ma al momento Arnaldo Otegi e altri esponenti indipendentisti rimangono ancora in galera (come se durante le trattative Blair avesse fatto arrestare Gerry Adams) e per i prigionieri politici baschi, in particolare per gli etarras, la situazione rimane molto difficile 3).
La mia ipotesi è che negli anni Novanta il «grande laboratorio a cielo aperto per la controinsurrezione» dell’Irlanda del Nord dovesse chiudere in vista della partecipazione britannica alle guerre in Afghanistan-Iraq e del ruolo fondamentale assunto da Londra. Meno convincente la tesi della conversione di Blair al cattolicesimo, anche se non si può mai dire. Quanto agli Usa, Clinton avrebbe agito per conservare il voto dei cittadini statunitensi di origine irlandese che solitamente votano per i Democratici.

L’ombra dei poteri globali

È ipotizzabile che in Irlanda del Nord la stessa Cia abbia dato una mano per togliere di mezzo qualche capo delle milizie lealiste (filobritanniche) che non aveva compreso la nuova situazione. Ipotesi formulata anche dal compianto Stefano Chiarini. Al contrario, già negli anni Novanta Washington inviava agenti della Cia nel Paese basco per coadiuvare l’apparato repressivo.
Il problema di “quale autodeterminazione” si pone soprattutto nel caso di stati nati dalla colonizzazione, dato che le loro frontiere sono state stabilite in base a trattati europei con cui si decideva arbitrariamente il destino delle popolazioni. I poteri globali reali (economici, militari, tecnologici) stabiliscono caso per caso, di volta in volta, se appoggiare una lotta di liberazione, legittimarne la repressione o anche inventarne una di sana pianta. Al limite della farsa l’episodio che ha visto un gruppo di aspiranti golpisti (quasi tutti membri di una loggia massonica) arruolare mercenari per sobillare la rivolta secessionista nel Cabinda, regione angolana ricca di petrolio. Episodio da segnalare per l’uso spregiudicato di due onlus (Freedom for Cabinda e Freedom for Cabinda Confederation) create appositamente per ricevere donazioni.

Alcuni casi esemplari, storici, di separatismo a puro uso e consumo di qualche potenza coloniale (come il Katanga di Tshombe nell’ex Congo belga) potrebbero tornare di attualità. Per esempio in Bolivia con Santa Cruz, capoluogo di una regione ricca, abitata prevalentemente da discendenti dei colonizzatori, che ha spinto per l’indipendenza. Chissà? Forse Evo Morales (il presidente boliviano esponente del Ma, Movimento al socialismo) ha rischiato davvero di finire come Lumumba, il presidente progressista del Congo, assassinato nel 1961 dagli sgherri di Tshombe al servizio dell’imperialismo belga.
E forse non è un caso che nel 2008, dopo anni di impegno a fianco dei popoli oppressi, la Lega internazionale per i diritti e la liberazione dei popoli (Lidlip), riconosciuta dall’Onu e dall’Unesco, abbia definitivamente sospeso le sue attività. Fondata da Lelio Basso, la Lidlip è stata per trent’anni portavoce delle minoranze, delle popolazioni perseguitate, dei movimenti di liberazione dal colonialismo.

 

NOTE

1) Gianni Sartori, Catalogna – Storia di una nazione senza stato, ed. Scantabauchi, 2007.
2) Ovviamente mi riferisco all’indipendenza come sbocco di una lotta di liberazione, dall’oppressione coloniale classica, “da manuale”. Come nel caso di Algeria, Guinea Bissau, Mozambico, Angola, Irlanda… o dal “colonialismo interno” come potrebbe essere per i Paesi baschi, il Tibet e la Cecenia. A mio avviso si può legittimamente parlare di movimenti di liberazione quando la lotta è anche contro il sistema economico responsabile dell’oppressione (capitalismo, neoliberismo, capitalismo di stato…). Escludendo, per quanto mi riguarda, dall’interessante dibattito partiti come l’Adsav bretone, la Lega Nord o alcuni indipendentisti fiamminghi nostalgici del nazismo.
3) Ma l’auspicata soluzione politica del conflitto è tornata nuovamente al palo dopo la retata del 1° ottobre 2013 contro 18 esponenti di Herrira (tra cui il portavoce Benat Zarrabeitia). Il giudice Eloy Velasco ha accusato l’associazione basca per i diritti umani dei prigionieri politici di essere “un tentacolo di Eta” in quanto avrebbe organizzato manifestazioni di “esaltazione” dei prigionieri baschi.

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Un muro di sabbia che divide gli uomini https://ogzero.org/normalizzazione-del-conflitto-muro-di-sabbia-che-divide-gli-uomini/ Tue, 23 Feb 2021 15:08:05 +0000 https://ogzero.org/?p=2449 In occasione della ricorrenza della nascita – il 27 febbraio 1976 – della Repubblica Democratica Araba dei Saharawi proclamata formalmente dal Fronte del Polisario, riconosciuta da 76 stati, principalmente africani e sudamericani, dall’Unione Africana ma non dall’Onu, pubblichiamo un contributo di Alice Pistolesi sulla situazione dentro e fuori dai campi profughi dell’area. Lo stesso Fronte […]

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In occasione della ricorrenza della nascita – il 27 febbraio 1976 – della Repubblica Democratica Araba dei Saharawi proclamata formalmente dal Fronte del Polisario, riconosciuta da 76 stati, principalmente africani e sudamericani, dall’Unione Africana ma non dall’Onu, pubblichiamo un contributo di Alice Pistolesi sulla situazione dentro e fuori dai campi profughi dell’area. Lo stesso Fronte è riconosciuto solo da alcuni paesi come rappresentante dei separatisti e nessuno stato ha riconosciuto finora formalmente l’annessione del Sahara Occidentale da parte del Marocco. Il muro di sabbia divide la popolazione profuga nel deserto da quella che abita nel Sahara Occidentale, dove tra la normalizzazione del conflitto, repressione ed emergenza sanitaria con aiuti umanitari in ritardo le condizioni di vita sono inconciliabili con il concetto di vita stesso. La rivendicazione saharawi evidenzia una religiosità non riconducibile ad alcuna ortodossia: questa è una caratteristica che accomuna un po’ tutte le comunità che rivendicano una sorta di autodeterminazione e hanno provato a costruirsela.

In attesa della decolonizzazione che non arriverà mai

La linea tratteggiata su una mappa geografica assume più significati: il territorio è conteso, il riconoscimento dello stato non è avvenuto e, altamente probabile, chi lo abita vive quotidiane violazioni di diritti. Uno su tutti, quello all’autodeterminazione.

È questo il caso del Sahara Occidentale, occupato dall’esercito marocchino nel 1975 e considerato dalle stesse Nazioni Unite come l’ultima colonia africana esistente, inserita nella lista dei 17 territori non autonomi in attesa di decolonizzazione.

Nel territorio è attiva dal 1991, anno del cessate il fuoco tra l’esercito marocchino e il Fronte Polisario (la forza armata saharawi), la missione Onu Minurso con il compito di vigilare sulla tregua e di organizzare il referendum che avrebbe dovuto portare il popolo saharawi a decidere del proprio destino, ma che non si è mai svolto.

La popolazione saharawi è quindi tuttora divisa tra chi in quel 1975 lasciò le proprie case cercando rifugio nel deserto algerino e da lì non si è più mosso, è cresciuto, ha composto famiglia, è invecchiato, è morto. E chi invece non ha mai lasciato il Sahara Occidentale e vive sotto occupazione.

Riprendere a combattere

La vita in entrambe le aree è peggiorata con la ripresa delle armi, scaturita il 13 novembre 2020 in seguito alla violazione del cessate il fuoco da parte dell’esercito marocchino. Violazione arrivata dopo che, per 21 giorni, i saharawi avevano occupato il valico di Guerguerat, all’interno dell’area cuscinetto che insiste sul muro di 2700 chilometri fatto costruire a partire dal 1980 dal Marocco e che divide la popolazione profuga nel deserto da quella che abita nel Sahara Occidentale.

Con la ripresa del conflitto è cresciuta di giorno in giorno la repressione esercitata dalle forze marocchine contro la popolazione civile saharawi e nelle carceri. Chi vive nel Sahara Occidentale fa ogni giorno i conti con le costanti violazioni dei diritti umani, testimoniate da numerose organizzazioni internazionali. La stampa estera non può entrare e ogni forma di giornalismo “di strada” è perseguito, così come la stessa cultura saharawi. Nel Sahara Occidentale non ci sono università e ospedali specializzati e il tasso di disoccupazione è altissimo.

Proteste in sostegno dell’attivista Sultana Khaya, dopo l’aggressione a Bojdour

Alcuni casi di repressione

Il giornalista Mohamed Lamin Haddi si trova in carcere in Marocco da 10 anni, con ancora 15 da scontare. Si trova in isolamento, non riceve visite da un anno, può parlare a telefono con la sua famiglia solo pochi minuti a settimana. Ha un’ulcera ma non riceve cure mediche. Dal 13 gennaio 2021 Haddi è in sciopero della fame per protestare contro le condizioni di detenzione. La protesta è iniziata, riferisce “Équipe Média”, agenzia di stampa saharawi che opera in clandestinità, dopo essere stato più volte attaccato nella sua cella da alcuni funzionari.

La Corte di Cassazione marocchina ha confermato il 25 novembre 2020 le pene contro Haddi e altri 22 attivisti saharawi per i fatti avvenuti nel campo di Gdeim Iziz, nella periferia di El Aaiún (la capitale del Sahara Occidentale) nel 2010, quando vennero uccisi 2 manifestanti e 11 agenti marocchini. Nel campo di Gdeim Izik, si erano stabiliti circa 25.000 saharawi per rivendicare diritti sociali. Le condanne confermate dall’ultimo grado di giudizio vanno dai 20 anni di carcere all’ergastolo e sono state imposte, secondo una dichiarazione congiunta di Human Right Watch e Amnesty International «in processi viziati da accuse di tortura» e basati sulle loro confessioni alla polizia, senza altre prove.

L’attivista saharawi Sultana Khaya è stata gravemente ferita il 15 febbraio sotto la sua casa a Bojdour, dove stava scontando da 87 giorni gli arresti domiciliari. Secondo quanto riferiscono fonti vicine alla famiglia, è stata aggredita da agenti di polizia che hanno lanciato pietre contro di lei e sua sorella, ferendole la bocca e rompendole alcuni denti. Nel 2007, durante una manifestazione, un’aggressione della polizia marocchina le era costata un occhio. Dopo l’ultimo atto di violenza decine di persone sono scese in strada in difesa della loro connazionale e per chiedere il rispetto dei diritti umani.

Proteste in sostegno dell’attivista Sultana Khaya, dopo l’aggressione a Bojdour

Costanti anche i rapimenti. A El Aaiún il giovane attivista Ghali Bouhala è stato rapito il 12 febbraio dalle forze di polizia: non se n’è avuta notizia fino a quando non è comparso davanti al Tribunale di primo grado di El Aaiún, accusato di traffico di droga.

Modalità simili anche nei confronti dell’attivista Mohamed Nafaa Boutasoufra. Rapiti il 15 febbraio anche due minori saharawi nella città di Laayoune dalla polizia in borghese.

Da sempre, ma ancor più con la ripresa della guerra, popolano le strade del Sahara Occidentale decine di poliziotti in borghese che controllano i gruppi che si formano nelle strade. Dal 13 novembre sono state molte le manifestazioni di sostegno al Polisario nelle varie città: la polizia si infiltra tra la gente, filmandola, per poi intervenire nei giorni successivi. Le manifestazioni, nei territori, si organizzano prima con il passaparola, poi tramite messaggi.

Vivere da attivisti

Le vite degli attivisti sono simili tra loro. Per essere considerato tale basta davvero poco: cantare canzoni della cultura saharawi, esporre bandiere, vestire il darrâa, l’abito tradizionale.

La paura è una costante. Tutti coloro che si impegnano per la causa sanno che presto o tardi il rapimento, la reclusione, l’aggressione potrebbe capitare a loro e a qualcuno della propria famiglia. Difficile dire quanti siano adesso i prigionieri saharawi nelle carceri marocchine. Prima della guerra le associazioni vicine ai saharawi ne contavano 39. Il 20 novembre 2021 “Équipe Média” individuava 25 nuovi arresti a El Aaiún e diversi casi di maltrattamenti. Nella primavera 2020 era stata lanciata una campagna per la liberazione dei detenuti saharawi avvalorata dal rischio contagio da Covid-19 e sostenuta anche da numerosi parlamentari europei, da diverse ong e da Michelle Bachelet, Alto Commissario Onu per i diritti umani. L’appello è però rimasto inascoltato.

Il Fronte Polisario ha sottolineato che l’attuale ritorno delle azioni militari nel Sahara Occidentale sta provocando «un drammatico aumento della repressione e delle violazioni dei diritti fondamentali dei civili saharawi nel Sahara Occidentale». A dirlo anche organizzazioni internazionali come Human Rights Watch e Amnesty International, che hanno ripetutamente denunciato l’escalation di repressione nei territori saharawi occupati.

Covid-19 e aiuti internazionali in ritardo

Nei campi profughi nel deserto algerino la vita è stata complicata dal combinato disposto tra Covid-19 e guerra. La pandemia ha fatto sì che gli aiuti internazionali, fondamentali per la popolazione che abita in un deserto in cui le condizioni climatiche non permettono in nessun caso l’autosostentamento, sono stati a lungo bloccati. Solo a titolo di esempio, l”associazione spagnola Hurria ha denunciato che i 15.000 chili di aiuti raccolti nel comune spagnolo di Andoain all’inizio del 2020 sono arrivati nei campi nel gennaio 2021.

Campo profughi nel deserto algerino (foto di Camilla Caparrini)

Il terremoto Trump e i suoi lasciti

A complicare la vita dei civili saharawi c’è poi l’accordo che l’ex presidente Usa Donald Trump ha concluso con il Marocco sul riconoscimento della presunta sovranità sul Sahara Occidentale, in cambio di una normalizzazione delle relazioni con Israele.

A questo si somma poi l’apertura di un consolato americano a Dakhla, il grande porto del Sahara Occidentale. Al momento Biden non si è espresso sulla questione ma osservatori rilevano che il percorso del neopresidente non si discosterà troppo da quello del predecessore, come richiesto da buona parte della comunità internazionale e, il 24 gennaio, dal presidente dell’Unione Africana (e del Sud Africa) Cyril Ramaphosa.

Normalizzare la guerra, il vero rischio

A latere di tutto questo c’è la guerra con scontri più o meno quotidiani che da due mesi si susseguono lungo il muro, area altamente militarizzata e costellata da milioni di mine antiuomo. Se nei primi giorni della ripresa del conflitto l’attenzione si era levata su una zona del mondo spesso dimenticata, adesso c’è il rischio che alla normalità del vivere da esuli nei campi profughi in uno dei territori più inospitali del mondo, dell’insicurezza e della repressione dell’abitare sotto un’occupazione, si vada ad aggiungere una nuova normalità: quella di un’ennesima guerra inutile, dannosa e che si poteva decisamente evitare.

Campo profughi nel deserto algerino (foto di Camilla Caparrini)

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Occhi sull’India: agricoltori uniti contro le riforme agricole https://ogzero.org/occhi-sull-india-agricoltori-uniti-contro-le-riforme-agricole/ Tue, 09 Feb 2021 00:51:09 +0000 http://ogzero.org/?p=2396 L’inverno è una stagione produttiva Per gli agricoltori in India, è la stagione del rabi, in cui vengono coltivati alimenti essenziali come grano, orzo, lenticchie, piselli e patate, tra gli altri. Poiché le colture di rabi hanno bisogno di un clima caldo per germogliare e di un clima freddo per crescere, vengono piantate durante la […]

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L’inverno è una stagione produttiva

Per gli agricoltori in India, è la stagione del rabi, in cui vengono coltivati alimenti essenziali come grano, orzo, lenticchie, piselli e patate, tra gli altri. Poiché le colture di rabi hanno bisogno di un clima caldo per germogliare e di un clima freddo per crescere, vengono piantate durante la stagione dei monsoni e raccolte in primavera. Questo inverno, tuttavia, gli agricoltori di tutta l’India sono stati costretti a lasciare i loro campi e le risaie per dedicarsi a un diverso tipo di lavoro. Sono passati più di due mesi da quando si sono accampati ai confini di Delhi in una dharna indefinita. Sebbene dharna possa essere semplicemente tradotto con “sit-in”, in hindi il termine non implica solo l’occupazione fisica dello spazio ma anche un esercizio di perseveranza: fissare la propria mente su un obiettivo o risultato chiaro. In termini di applicazione pratica, una dharna di solito si svolge alla porta di un delinquente o di un debitore ed è uno strumento mediante il quale le componenti più vulnerabili della società possono costringere un soggetto più potente a rispondere alle loro richieste. Per esempio, una dharna potrebbe essere messa in scena al di fuori dell’ufficio di un esattore delle tasse, del capo di una azienda o della casa di un proprietario. Nel caso della protesta dei contadini, il colpevole sembra essere il governo centrale che, mentre presiedeva gli uffici parlamentari di Delhi, ha approvato una serie di progetti di legge che ribaltano completamente il modo in cui si regola l’agricoltura in India.

Il punto cruciale delle 3 proposte di legge può essere riassunto come segue:
  • La creazione di nuovi spazi commerciali che aggirano le restrizioni esistenti sulla vendita e l’acquisto di prodotti agricoli.
  • L’abilitazione dell’agricoltura a contratto con obblighi minimi (a differenza dell’attuale accordo, gli agricoltori saranno in grado di commerciare in diversi stati).
  • La rimozione delle restrizioni sulle scorte di merci essenziali (il che significa che i grandi acquirenti possono trarre profitto dall’accumulazione).

Gli agricoltori devono essere consapevoli dei molteplici fattori che influenzano la crescita, la resa e il commercio dei raccolti. Ciò include la conoscenza della maturità del raccolto, delle variazioni del clima e della qualità del suolo, nonché il prezzo di fertilizzanti e benzina, e anche fattori logistici come la disponibilità di strutture di trasporto e stoccaggio. In questo modo, l’agricoltura è un’attività che comporta molti rischi e variabili che vanno oltre il solo lavoro degli agricoltori. Capire questo aiuta a chiarire meglio perché le nuove riforme proposte dal governo indiano stanno subendo una così feroce resistenza da parte di coloro che hanno passato tutta la vita a lavorare la terra. Nonostante la retorica neoliberale usata per persuadere gli agricoltori – per esempio che le nuove riforme garantiscano loro una maggiore “libertà” di vendere a qualunque prezzo vogliano e farla finita con l’“uomo di mezzo”, l’intermediario – gli agricoltori temono che l’apertura di uno spazio di mercato parallelo, come propone il primo disegno di legge, porterà inevitabilmente al crollo del sistema mandi attualmente in vigore.

Il sistema mandi: aste regolamentate e consolidate

In India, i mandi sono spazi d’asta regolamentati in cui i prodotti agricoli vengono acquistati e venduti in base a una serie di accordi specifici dello stato. In questi spazi, i commercianti all’ingrosso e al dettaglio non possono acquistare direttamente dagli agricoltori e le transazioni vengono invece effettuate tramite commercianti autorizzati che fungono da salvaguardia contro lo sfruttamento dei prezzi. Il sistema mandi dovrebbe anche garantire agli agricoltori un prezzo minimo di sostegno (Msp) per determinate colture, ovvero un prezzo al quale lo stato deve acquistare i loro prodotti. Ciò garantisce che il lavoro del raccolto non vada sprecato, sebbene gli agricoltori dicano che spesso finiscono comunque per ricevere un prezzo al di sotto del minimo. Anche se da tempo gli agricoltori chiedono riforme nel sistema, sono convinti che la soluzione non sia abolirlo. In stati come il Bihar, dove i mandi sono già stati sciolti con il pretesto di promesse simili, ciò ha solo portato a una maggiore volatilità dei prezzi dei cereali e alla monopolizzazione dei mercati da parte delle grandi aziende agricole. Gli agricoltori del Bihar, che sono tra i più poveri del paese, riferiscono anche che le loro scorte possono rimanere inutilizzate per mesi senza ricevere alcun pagamento e che sono spesso costretti a vendere a prezzi poco convenienti per liberarsene.

Non c’è libertà a meno che non ci venga garantito un prezzo minimo o garantita la possibilità di far sentire la nostra voce all’alta corte o alla Corte Suprema. Ora hanno detto (secondo le nuove proposte di legge) che puoi solo andare all’Sdm (tribunale inferiore) e, come sappiamo, l’Sdm appartiene a chi ha i soldi.

 

“Consapevolezza e determinazione contadina: resistere all’annientamento identitario di Modi”.
La riforma si abbatte sui piccoli agricoltori…

L’elenco delle complicazioni che circondano le leggi è ampio. In India, gli agricoltori piccoli e marginali (che possiedono meno di due ettari di terra) costituiscono l’86,2% di tutti gli agricoltori, ma possiedono solo il 47,3% della superficie coltivata. Inutile dire che questi agricoltori sono destinati a essere colpiti in modo peggiore rispetto ai proprietari terrieri più grandi e probabilmente, a lungo termine, saranno costretti a vendere la loro terra. Tuttavia, anche queste statistiche trascurano una quota fondamentale della forza lavoro agricola: le donne. A causa del fatto che l’agricoltura è vista prevalentemente come una professione “maschile”, le donne sono troppo spesso escluse dalla narrazione sull’agricoltura indiana. Questo nonostante il fatto che le donne rappresentino la maggioranza dei lavoratori agricoli complessivi (70%) e tendano anche a lavorare più ore rispetto agli uomini, pur possedendo solo il 12,8% dei terreni agricoli. Le donne contadine, a cui raramente viene concesso il potere decisionale in famiglia – per non parlare del potere di negoziare con le grandi compagnie – saranno senza dubbio quelle che soffriranno di più a causa dei nuovi accordi agricoli dell’India. Oltre a dover affrontare l’espropriazione economica (con scarse possibilità di occupazioni alternative), dovranno anche sostenere il peso di gestire la carenza di cibo in casa, che è quasi inevitabile se alle imprese viene consentito di accumulare beni essenziali.

… e la mobilitazione parte dal Punjab

“Canto punjabi di protesta a Delhi”.

A differenza del lavoro agricolo e del suo collegamento ai cicli stagionali, il lavoro dei governi fascisti è più in sintonia con i cicli di crisi e opportunità. E quale migliore opportunità per approvare una serie di proposte di legge contro i poveri, contro le donne e contro gli agricoltori che nel bel mezzo di una crisi sanitaria globale? Tuttavia, nel rendersi conto di alcuni dei modi in cui gli agricoltori rischiano di soccombere, quelli dello stato del Punjab (il terzo più grande stato produttore di colture in India) sono stati tra i primi a mobilitarsi dopo che le leggi sono state promosse in parlamento lo scorso settembre. Avendo avuto luogo senza alcuna consultazione pubblica o il coinvolgimento esplicito dei governi statali, molte persone hanno anche sottolineato che le leggi erano completamente incostituzionali. Tuttavia, dopo due mesi di proteste locali e nessuna risposta da parte del governo centrale, i contadini del Punjab hanno deciso di lanciare un appello per assaltare la capitale, portando le loro lamentele direttamente al parlamento. Con lo slogan #dillichallo (andiamo a Delhi), la chiamata è stata sostenuta dagli agricoltori del vicino stato di Haryana che si sono uniti a loro sulle autostrade. È solo dopo essere arrivati ai confini di Delhi che i contadini sono stati fermati dalla polizia pesantemente armata e dalle forze di azione rapida (Raf). Eppure qualcosa di incredibile era già avvenuto nel processo.

Trattori indiani

Blocco di Delhi per impedire una riforma che cancella la già immiserita agricoltura delle piccole aziende

Creare ostacoli nell’anno del Covid rinfocola una reazione collettiva

Dopo essersi lasciati andare all’arresto indiscriminato di studenti attivisti durante tutto l’anno, oltre a smantellare le leggi sul lavoro e le politiche di protezione ambientale, i conti con le aziende agricole era forse solo un altro obiettivo che il governo di Modi pensava di poter raggiungere all’ombra della pandemia. Dal punto di vista di quelli di noi impegnati nei sit-in della capitale, forse inizialmente sembrava anche così. Tuttavia, mentre gli agricoltori del Punjab si facevano strada verso di noi, siamo rimasti incollati ai nostri feed dei social media e alle possibilità politiche che si stavano aprendo davanti ai nostri occhi. Le autostrade dell’India sono state improvvisamente trasformate in un palcoscenico per eroici atti di disobbedienza, con video di persone che lanciavano transenne della polizia nel fiume e trattori che tiravano via lastre di cemento che proliferavano nello spazio digitale. Facendosi strada tra cannoni ad acqua e lanci di gas lacrimogeni, i contadini erano riusciti a capovolgere la situazione: non era l’indebolimento della marcia, ma la brutalità dello stato che, appunto, veniva smascherato. Penetrando attraverso la dissoluzione e la depressione politica che annebbiano i nostri cuori, tali scene ci hanno lasciato sbalorditi. Una battaglia era certamente iniziata, e mentre il governo era impegnato a scavare buche nella strada, ogni ostacolo che i contadini riuscivano a superare alimentava solo ulteriormente lo spirito collettivo.

All’inizio abbiamo sentito che Delhi è così lontana, cosa faremo una volta arrivati? Ma ogni trattore e camion ha riempito da 5 a 10.000 rupie di diesel per arrivare qui perché sappiamo che se non prendiamo una posizione ora, non saremo in grado di stare in piedi.

Una volta raggiunta Delhi, anche gli agricoltori di molti altri stati dell’India hanno cominciato ad affluire, insieme agli studenti, ai sindacati dei trasporti e agli alleati di diversi settori. Dormire dieci per un camion, al riparo di una stazione di servizio abbandonata, o in tende improvvisate tra pneumatici di trattori e carrelli, attualmente occupano cinque principali autostrade che portano in città. L’atmosfera è gioiosa, con cucina, giochi di carte, discorsi e kirtan dal vivo (canto devozionale) che si svolgono l’uno accanto all’altro. Secondo la pratica sikh, numerose cucine comunitarie (langar) sono state istituite in tutto il sito e chiunque e tutti i passanti sono incoraggiati a sedersi e mangiare. Con rifornimenti freschi in arrivo dai villaggi del Punjab e dell’Haryana ogni giorno, i contadini si vantano di avere abbastanza da sfamare se stessi e l’intera Delhi. Nei primi giorni della dharna, l’India ha anche assistito al più grande sciopero della storia mondiale, con oltre 250 milioni di lavoratori che si sono schierati a sostegno degli agricoltori. Sotto la bandiera di #bharatbandh (chiusura dell’India), si sono svolte marce in varie città del paese, con canti di kisaan majdoor ekta zindabad (lunga vita all’unità dei contadini e dei lavoratori) che hanno riempito le strade. «L’intero paese si è riunito. Se Modi non avesse fatto questa legge non avremmo saputo della situazione degli agricoltori in luoghi diversi. Non saremmo stati in grado di unirci … ora non puoi fare distinzioni anche tra di noi!».

Contadini indiani

Gli agricoltori indiani scesi a bloccare la capitale

Ambiente vs. neoliberismo

Tuttavia le attuali proteste dovrebbero essere viste come il punto di svolta all’interno di una lunga storia di disagio agrario, che è stato solo esacerbato da quando Modi è salito al potere nel 2014. Un’indicazione di ciò risiede nei tassi catastrofici di suicidio degli agricoltori in India, con oltre 20.000 agricoltori che hanno riferito di essersi tolti la vita tra il 2017 e il 2019: stress finanziario legato a prestiti predatori, alti oneri del debito e la pressione che ciò esercita sui rapporti personali sono stati identificati come tra le ragioni principali. Naturalmente ci sono anche fattori meno percettibili di cui tenere conto. Gli agricoltori in India, come nel resto del mondo, sono in prima linea nella crisi climatica e i cambiamenti nelle condizioni meteorologiche e delle precipitazioni hanno avuto effetti devastanti sui raccolti. Anche le politiche di pianificazione in India trascurano ampie aree rurali, dedicando invece risorse statali allo sviluppo di economie produttive e di servizi. Di conseguenza, i sindacati degli agricoltori si sono da tempo organizzati in tutto il paese, con azioni particolarmente intense in risposta alle successive politiche neoliberiste introdotte con Modi. Oltre alla mobilitazione sindacale, è necessario riconoscere che gran parte della forza dietro l’attuale agitazione proviene dagli agricoltori sikh della regione del Punjab, per i quali l’agricoltura è parte integrante dell’identità culturale. Dopo aver subito la divisione del Punjab (la loro patria originale) nel 1947, e un genocidio per mano dello stato indiano nel 1984, anche la comunità sikh è stata sistematicamente cacciata e detenuta per decenni come parte delle guerre segrete dell’India contro le sue “minacce alla sicurezza” percepite. Questa storia di lotta e il particolare rapporto con lo stato indiano da questa generato rafforza il movimento contro le tattiche di divisione dello stato. Per questa ragione, tra le diverse bandiere sindacali, si trova anche la Nishaan Sahib (una bandiera Sikh) che viene issata. Tra le varie fazioni di contadini, si trovano anche Nihang Sikh che si prendono cura dei loro cavalli e praticano le loro abilità con la spada. In qualità di esercito ufficiale della comunità sikh, si sono schierati in prima linea sulle barricate, direttamente di fronte alla polizia e alle forze della Raf.

Fanno volare i droni sul sito ogni giorno per guardarci e tenere d’occhio il movimento.

Ma vedi quel Baaj [falco] nel cielo? Appartiene al Nihang. Abbiamo la nostra sicurezza, vedi.

Nonostante i molteplici round di colloqui tra leader sindacali e funzionari governativi, la situazione rimane in una condizione di stallo politico. Gli agricoltori da un lato sono risoluti a non accettare niente di meno del ritiro completo delle fatture e hanno inoltre richiesto che l’Msp sia convertito in legge per tutte le colture e in tutti gli stati, poiché questo è l’unico modo per garantire la sua corretta attuazione. Il partito al potere, d’altra parte, è impegnato nelle sue campagne di propaganda, dipingendo gli agricoltori come separatisti militanti o come confusi sui termini delle fatture. Collaborando con la polizia, ha anche inviato assassini pagati (che sono stati catturati dai manifestanti) per eliminare i leader sindacali e molti altri recentemente, hanno usato scagnozzi assunti per lanciare pietre contro i manifestanti e abbattere le loro tende. Tuttavia, fino ad ora, a ogni attacco è stato risposto da un numero ancora maggiore di agricoltori arrivati sul posto. In un paese di oltre 1,3 miliardi di cui il 70 per cento dei mezzi di sussistenza sono legati all’agricoltura, i numeri sono uno dei maggiori punti di forza che gli agricoltori hanno.

Anche la mia figlia più piccola mi dice di non tornare a mani vuote: «Legate Modi e portatelo di nuovo qui (in Punjab) su un trattore».

Eppure l’inverno è anche la stagione più dura

Soprattutto i mesi di dicembre e gennaio in cui le temperature quest’anno sono scese fino a 1° Celsius a Delhi. È importante notare che la stragrande maggioranza di coloro che sono accampati alle frontiere sono anziani, molti dei quali anche affetti da malattie croniche. Tra i 170 contadini martirizzati dall’inizio delle proteste a settembre, molti sono morti a causa della loro esposizione al freddo e all’esaurimento generale. Altri sono morti per incidente stradale o suicidio. Tuttavia, la dharna rimane incrollabile. Tutti gli agricoltori intervenuti hanno detto che non avevano intenzione di andarsene fino a quando le loro richieste non saranno soddisfatte, non importa quanti mesi o anni questo può richiedere. In tal modo, gli agricoltori spesso si riferivano a vite oltre la loro; dei loro figli, nipoti e pronipoti a venire. In India, la terra non costituisce solo fonte di reddito e sicurezza sociale, ma è anche profondamente implicita nella nozione di famiglia. Quindi rappresenta un senso di continuità; una promessa tra antenati e generazioni future quella attuale generazione di agricoltori intende mantenere.

“Modi ascolta!”.
A partire dal 29 gennaio, il governo indiano ha chiuso i servizi Internet nei vari siti di protesta situati ai confini di Delhi. Anche l’elettricità e l’acqua sono state interrotte e le punte di ferro sono state cementate sulla strada per impedire l’arrivo di altri manifestanti. Con il dispiegamento della sicurezza intensificato alle frontiere e il crescente arresto e detenzione di giornalisti, la Fortezza Delhi è l’ultima strategia per isolare gli agricoltori e reprimere il movimento. Adesso è un momento critico. Questo governo è guidato da un uomo che ha già commesso due massacri sponsorizzati dallo stato. Abbiamo bisogno di occhi sull’India.

Traduzione di Masha e Nicola

[L’articolo non riporta i cognomi dell’autrice e dei traduttori per preservare la loro libertà e integrità]

Fotografie di Mohd Abuzar Chaudhary

e di Amit

[l’articolo sarà pubblicato in inglese sul prossimo LavaLetters]

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La mezzaluna sciita si dissemina per raccogliere la svolta di Biden https://ogzero.org/il-proliferare-di-milizie-nella-mezzaluna-sciita/ Thu, 28 Jan 2021 11:55:02 +0000 http://ogzero.org/?p=2320 Il nastro si riavvolge riproponendo attentati Venerdì 22 gennaio, nel centro di Baghdad, 32 persone sono morte in un attentato suicida rivendicato dall’Isis. Suona come una notizia tristemente familiare, eppure erano quasi tre anni – 2018 sempre a gennaio, 27 vittime – che in Iraq non si verificava un attacco suicida di queste proporzioni. Attribuirlo […]

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Il nastro si riavvolge riproponendo attentati

Venerdì 22 gennaio, nel centro di Baghdad, 32 persone sono morte in un attentato suicida rivendicato dall’Isis. Suona come una notizia tristemente familiare, eppure erano quasi tre anni – 2018 sempre a gennaio, 27 vittime – che in Iraq non si verificava un attacco suicida di queste proporzioni. Attribuirlo in modo esclusivo alla graduale compromissione delle condizioni e dei dispositivi di sicurezza in Iraq nel corso dell’ultimo anno è forse un’operazione prematura e parziale ma è significativo che l’attentato sia avvenuto in questo momento storico, in una città i cui quartieri e ingressi sono presidiati dall’Esercito iracheno e da una miriade di milizie governative e non, molte delle quali protagoniste della stessa sconfitta dell’Isis nel 2014, e finanziate dall’Iran.

Nelle settimane precedenti all’attentato le sensazioni di un cittadino iracheno potevano risultare contrastanti: da un lato l’idea che attorno al 2 gennaio, primo anniversario dell’assassinio del generale iraniano Qassem Soleimani e del suo luogotenente iracheno, il comandante Abu Mahdi Al Muhandis, molte delle citate milizie potessero organizzare una qualche forma di rappresaglia su obiettivi americani, insieme ai rischi di sicurezza storicamente connessi ai grandi assembramenti, proprio come quello organizzato per l’anniversario; dall’altro la consapevolezza, diffusa forse più sui media internazionali che nella società civile ma comunque fondata, che fino al 20 gennaio – giorno dell’insediamento di Joe Biden alla presidenza degli Stati Uniti – Teheran avesse diffidato le milizie dal compiere qualunque azione in grado di fornire all’uscente presidente Trump un pretesto per un’operazione militare last-minute contro l’Iran. Ha prevalso la seconda, se si escludono dei lanci dimostrativi di alcuni razzi da parte di formazioni sempre più fuori controllo.

L’eredità di Soleimani

Quel che però è successo lo scorso 22 gennaio può stimolare alcune riflessioni sulle conseguenze di lungo termine dell’assassinio di Soleimani: all’apparenza, e nella percezione americana, un duro colpo alla capacità di mobilitazione paramilitare in Iraq contro gli interessi statunitensi, per via della paternità e dell’ascendente di quest’ultimo su gran parte di quelle milizie. In realtà, e al di là degli aspetti di illegalità – Soleimani era in visita con passaporto diplomatico in un paese, l’Iraq, che lo aveva invitato –, l’assassinio di Soleimani e Al Muhandis ha contribuito a rendere ancor più imprevedibile una situazione già instabile. E che potrebbe sfuggire di mano anche all’Iran stesso.

Perché i due militari avevano sì il potere di coordinare gran parte delle milizie e le loro azioni contro le truppe americane ma di riflesso anche quello, sostanzialmente esclusivo, di contenerle o farle cessare. Di “razionalizzare”, e non solo “alimentare”, la diffusa ostilità alla presenza militare americana. Una capacità perlomeno utile, nella prospettiva di una possibile riapertura del negoziato sul nucleare da cui Donald Trump era uscito unilateralmente, inaugurando una nuova e per certi versi improvvisa stagione di crociera in nuove tensioni, a ridosso dell’escalation.

Le milizie, formazioni di difesa locale o di offesa globale?

L'eredità di Soleimani

Sebbene l’abbandono del Joint Comprehensive Plan of Action (Jcpoa) sul nucleare iraniano abbia costituito un fatto senza precedenti nella storia delle relazioni tra Stati Uniti e Repubblica islamica dell’Iran, anche per via della sua natura ufficiale e multilaterale, non è la prima volta che gli Stati Uniti fanno un passo indietro o recedono da una qualche forma di intesa formale con Teheran. La motivazione addotta è più o meno sempre la stessa: le attività di “destabilizzazione regionale” degli iraniani, la cui cessazione per gli Stati Uniti costituisce sin dagli anni Ottanta una sorta di presupposto implicito – quindi non formalizzato – di qualunque compromesso con Teheran. E quando le diverse amministrazioni americane – a cominciare da quella di Trump, soprattutto per bocca del suo segretario di Stato, Mike Pompeo – parlano di “espansionismo” e “attività terroristiche e destabilizzanti” dell’Iran in Asia occidentale, fanno riferimento proprio a quelle milizie che la Repubblica islamica ha finanziato, addestrato e mobilitato negli anni in diversi paesi della regione: dal Libano, passando per la Siria, fino allo Iraq, cioè l’arena in cui l’influenza di Teheran è forse più rilevante e visibile.

Esiste, a monte, una fondamentale questione di percezioni. Gli Stati Uniti considerano nella forma e nella sostanza le milizie filoiraniane e gli stessi Guardiani della Rivoluzione (Irgc) delle entità equiparabili all’Isis e ad Al Qaeda: soggetti con un’agenda prettamente offensiva, operatività potenzialmente globale e utilizzo sistematico del terrorismo, in una visione che non distingue nemmeno formalmente le vittime civili da quelle militari. Tutte caratteristiche che non appartengono alle milizie, che sono invece formazioni locali, nate per combattere l’invasione americana dell’Iraq nel 2003, alla stregua della nascita di Hezbollah in Libano agli inizi degli anni Ottanta contro l’invasione israeliana.

Il potere dal territorio, frammentato in sfere d’influenza…

Non si tratta solo di errate valutazioni circa la loro natura: il sostegno iraniano a queste milizie viene letto dagli Usa in ottica offensiva, come espressione di un cieco fanatismo espansionista e antioccidentale. L’Iran – esercitando un soft e hard power composito, e che in parte ha inglobato l’eredità reputazionale dello stato antagonista, di principale recipiente dell’“antiamericanismo” (prima riconducibile all’Urss) – ha invece usato le milizie come strumento difensivo avanzato. Lo ha fatto e lo fa in una regione frammentata dal punto di vista amministrativo e altamente militarizzata, nella quale Teheran coltiva alleati locali – o, nel caso del conflitto siriano, il regime contro le formazioni a esso ostili – per erodere il suo storico isolamento e costruire una sua sfera d’influenza, che rafforzi la sua “cintura” di sicurezza e le riconosca un ruolo di potenza regionale.

Quella delle milizie è un’arma asimmetrica e imprevedibile, funzionale a forme di deterrenza rispetto a paesi rivali – Arabia Saudita e Israele in particolare – che hanno spese militari molto più ingenti e armamenti più avanzati, rispetto alla presenza militare americana in diversi paesi confinanti con l’Iran e rispetto alle diverse formazioni dell’internazionale jihadista di matrice soprattutto wahhabita, notoriamente animate da radicale avversione per gli sciiti.

Centralità dell’Iraq nella strategia iraniana

È abbastanza facile capire perché sia l’Iraq il paese col più alto numero di milizie filoiraniane e non, tutte accomunate da gradi diversi di ostilità alla presenza militare americana: un confine di 1500 km con un paese che dal 2003 è in frantumi, privo di un vero stato, e nove basi militari americane al suo interno, alcune molto vicine al confine iraniano. Implicito è l’aspetto demografico, visto che l’Iraq del post-Saddam è tornato a essere un paese a maggioranza sciita come l’Iran, e che le milizie in gran parte – ma non tutte – sono animate da immaginario e simbolismo sciita.

Composizione delle milizie filoiraniane nella mezzaluna sciita

Le Forze di Mobilitazione popolare (Pmf, in arabo Hashd al Sha’abi) si presentano ufficialmente, in forma embrionale, tra il 2012 e il 2014, quando l’allora primo ministro Nuri Al Maliki inizia a reclutare piccoli gruppi di volontari nelle Brigate di Difesa Popolare (Saraya al Dif’a al sha’abi). Il “bollo di autenticità” arriva il 13 giugno 2014 – l’Isis quasi alle porte di Baghdad –, quando la principale autorità religiosa irachena, l’Ayatollah Ali Al Sistani, emette una fatwa che invita i cittadini iracheni (non solo sciiti) a combattere contro l’Isis: le Pmf assumono una forma ufficiale, che in seguito alle fondamentali vittorie militari nei confronti dell’Isis le porterà a essere inquadrate nell’Esercito iracheno. Come ricorda Michael Knights, se in un sondaggio del 2011 solo il 15% degli iracheni nutriva fiducia nelle Pmf per la gestione della sicurezza in Iraq, nel 2017 questa percentuale è schizzata al 91% per gli iracheni sciiti e al 65% per i sunniti.

Lo zoccolo duro delle milizie irachene direttamente collegate all’Irgc iraniana è composto dalla Kata’ib Hezbollah, “cugina” di Hezbollah in Libano e guidata fino a un anno fa proprio da Al Muhandis, che può contare almeno su 10.000 uomini, e la Kata’ib al Imam Ali, con circa 8000 effettivi. Entrambe molto attive contro l’Isis ma anche accusate di violazioni dei diritti umani ai danni della popolazione sunnita evacuata nelle aree controllate dall’Isis. Le altre milizie con rapporti di diverso grado con Teheran sono la Brigata Badr di Hadi Al Amiri – rilevante anche per i rapporti con le milizie sunnite nelle aree tribali – e Asa’ib Hal al-Haq (Aah, che è anche un partito con 15 seggi in Parlamento), con 10.000 effettivi e guidata da Qais Al Khazali, sul quale si tornerà più avanti. Alla fine del 2014 il numero stimato di miliziani delle Pmf era di circa 60.000, a cui sommare almeno 20.000 uomini non inquadrati ufficialmente nelle Pmf.

Ghaani, grigio funzionario e il sotterraneo lavoro di intelligence

Anche all’indomani dell’uccisione di Al Muhandis e Soleimani, i diffusi timori che innescasse una escalation erano stati in parte sopiti dalla reazione contenuta e in qualche modo “calcolata” di Teheran, che l’8 gennaio seguente aveva colpito con alcuni missili a lunga gittata la base americana in Iraq di Al Asad, ferendo un centinaio di soldati. Nel frattempo, il Parlamento iracheno aveva votato il ritiro delle truppe americane dall’Iraq, che chiaramente non è avvenuto. In tempi relativamente brevi, quindi, l’Iran ha nominato come successore di Soleimani a capo dei reparti Al Quds dell’Irgc. Ghaani però, a differenza di Soleimani, non parla arabo, conosce poco l’Iraq e non ha nessuna relazione personale con i capi delle milizie. Come ricorda Suadad Al Salhy, viene considerato un semplice messaggero, senza particolari prerogative o qualità diplomatiche e strategico-militari.

La sua nomina, che alla luce di queste informazioni è stata letta da alcuni come il segnale di un indebolimento delle milizie e soprattutto dell’influenza iraniana, è stata in effetti accolta dai comandanti delle principali milizie con sorpresa. Ma in realtà segnala qualcosa di più profondo, cioè il ritorno del ruolo dell’intelligence iraniana in Iraq. Durante gli anni Ottanta, quelli del conflitto tra Iran e Iraq, i servizi iraniani erano molto attivi a Baghdad e dintorni. Dal 2005, dopo la caduta di Saddam Hussein, il loro ruolo inizia invece a declinare. Vengono gradualmente sostituite dalle Forze Al Quds, guidate da Soleimani dal 1998, che organizzano alcune delle nascenti milizie popolari per combattere gli americani e scongiurare la possibilità che un paese in preda all’anarchia non si trasformasse né in una “base” statunitense per eventuali regime change a Teheran né in avamposto per gruppi jihadisti antisciiti. L’apice del potere delle Forze Al Quds dell’Irgc è nel 2014, quando Teheran per prima assiste militarmente Baghdad e il governo autonomo del Kurdistan, alle prese con l’invasione di Mosul e di larghe parti del paese da parte dell’Isis, e contestualmente attiva le sue milizie.

La barriera di giovani corpi del Movimento sulla strada delle milizie

L'eredità di Soleimani

In seguito alla sconfitta dell’Isis le milizie rafforzano progressivamente sia i loro rapporti con l’Iran che la loro preminenza politico-militare in Iraq: figlia dei loro successi bellici ma madre di diversi malumori generati negli iracheni, culminati con le proteste di fine 2019. Proprio le proteste, insieme all’assassinio di Soleimani e Al Muhandis, secondo una fonte irachena vicina all’Iran e citata da Al Salhy, avrebbero avuto l’effetto collaterale di arrestare un processo di ristrutturazione delle milizie innescato nel 2017, dopo che lo stesso Al Sistani aveva chiesto un ridimensionamento dell’influenza iraniana.

In particolare, Teheran stava avviando lo smantellamento di alcune formazioni (come la Brigata Khorasani) e una strategia basata sulla fiducia al premier iracheno Mustafa Al Khadimi, sulla diversificazione delle fonti di finanziamento dei suoi alleati politici iracheni e sul loro leverage nella politica economica locale; sul ricollocamento di migliaia di miliziani, non inquadrati nelle Pmf, in ruoli civili, sul rafforzamento delle fondazioni e imprese legate alla ricostruzione, sul modello della Jihad-e-Sazandegi dopo la guerra contro l’Iraq o Jihad al Bina in Libano dopo i bombardamenti israeliani. In generale, una maggiore enfasi sulla politica e la diplomazia (anche quella parallela delle Hawza, le scuole religiose sciite irachene e iraniane) rispetto al militarismo

La diversa “fedeltà” a Tehran delle milizie

Senza Qassem Soleimani, hanno preso forma due opposte tendenze centrifughe: una serie di milizie – come Liwa Ali Al Akbar, Firqat al Imam Ali Al Qitaliyah, Liwa Ansar al Marjaiya – si sono progressivamente sfilate dall’ombrello iraniano, alcune in aperta protesta contro la corruzione diffusa in alcune formazioni delle Pmf. Le cosiddette “fazioni del Mausoleo”, cioè particolarmente vicine all’Ayatollah Al Sistani, in una conferenza dello scorso 2 dicembre a Najaf hanno ribadito la propria richiesta di separarsi dalle Pmf, e di poter riportare esclusivamente al ministero della Difesa e al primo ministro.

Altre sono invece andate fuori controllo in senso opposto: è il caso della Aah di Qais al Khazali. Forte del suo peso politico – l’obiettivo è andare oltre gli attuali 15 seggi e guidare l’intera coalizione di Al Fatah – e militare, Aah negli ultimi tempi è stata protagonista di crescenti scaramucce sul controllo di alcuni checkpoint intorno a Baghdad con Kata’ib Hezbollah e con Harakat Hezbollah al Nujaba, anche per via della rivalità tra Al Khazali e Akram Al Kaabi, il capo della seconda, che peraltro è nata da una scissione da Aah nel 2013. In modo ancor più significativo, poi, ha più d’una volta contravvenuto all’ordine di non lanciare razzi verso obiettivi americani nelle ultime settimane del mandato di Trump: l’ultima volta lo scorso dicembre, dopo l’assassinio dello scienziato iraniano Mohsen Fakhrizadeh, spingendo lo stesso Ghaani a incontrare Al Khadimi proprio per recapitare agli Stati Uniti un messaggio sulla propria estraneità ai fatti. Nello stesso giorno a Baghdad sono stati arrestati Hossam Al Zerjawi di Aah (ritenuto responsabile dei lanci) e Hamed Al Jezairy e Ali Al Yasiri, comandanti della dismessa Brigata Khorasani (di cui una settimana prima erano stati arrestati altri 30 membri).

Sembra che Al Khazali fosse contrariato dalla nomina di Abu Fadak Al Muhammadawi (Kata’ib Hezbollah) a capo delle Pmf, e che pensi tuttora di meritare la leadership della muqawama (“resistenza”). Teheran, invece, lo considera poco gestibile militarmente e lo vedrebbe più come uno di quei politici da coltivare e con cui sviluppare la strategia accennata, puntando su un blocco parlamentare solido, specie se si considera il parziale raffreddamento delle relazioni politiche con il blocco di Muqtada Al Sadr, anch’egli orientato al contenimento del ruolo iraniano, oltre che di quello americano.

Il vento nucleare sospeso in attesa di Biden

Questa strategia, però, è vincolata all’idea che Joe Biden rientri quanto prima nell’accordo sul nucleare, e che lo faccia alle stesse condizioni del precedente, senza tentare di inserire il programma di missili balistici – che sono una linea rossa per Teheran – e le stesse milizie in un nuovo negoziato. È infatti assai possibile che alle elezioni presidenziali iraniane del prossimo giugno vinca un candidato principalista, più vicino alle prerogative dell’Irgc e meno incline a fidarsi nuovamente della diplomazia statunitense, motivo per cui il tempo per quest’ultima potrebbe essere più favorevole nei primissimi mesi della presidenza Biden.

Una presidenza che potrebbe ricalibrare all’insegna del realismo le sue percezioni sulle Pmf, abbandonando l’idea che esse costituiscano delle organizzazioni terroristiche globali e funzionali a supposti progetti di dominio dell’Iran. Provando magari a negoziare separatamente un loro ridimensionamento, in cambio del ritiro americano o perlomeno di uno speculare contenimento delle proprie attività in Iraq. Sarebbe in ogni caso opportuno operare nella consapevolezza che una politica non esplicitamente volta a sconfessare quella di Trump, o che decida di trattare egualmente le milizie come formazioni terroristiche, sortirebbe effetti prevedibili: perché si può anche “potare” qualunque legame con l’Iran, eliminare Soleimani o dichiarare guerra senza quartiere alle milizie irachene sue “orfane”, ma è molto difficile che l’hard power e le risorse belliche americane siano in grado di estinguere le ragioni della nascita e dell’esistenza di quelle stesse milizie, cioè proprio la presenza militare americana. Decisamente più probabile è che questa ragione ne esca rinvigorita. E che sullo sfondo, in un Iraq da troppo tempo non in condizione di controllare il proprio destino, attentati come quello di venerdì 22 gennaio tornino a essere routine.

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Alexey Navalny, questo sconosciuto: una prospettiva https://ogzero.org/alexey-navalny-questo-sconosciuto-una-prospettiva/ Wed, 27 Jan 2021 11:16:20 +0000 http://ogzero.org/?p=2312 Il riaffiorare delle proteste antiregime in Russia ripropone il tema dello stato di salute socio-economico del paese, delle prospettive della presidenza Putin e della riemersione di Alexey Navalny (dopo l’avvelenamento con Novichok ad agosto in Siberia e l’arresto al ritorno in patria) come possibile alternativa democratica. Rimandando ad altra occasione l’approfondimento, importante, dei primi due […]

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Il riaffiorare delle proteste antiregime in Russia ripropone il tema dello stato di salute socio-economico del paese, delle prospettive della presidenza Putin e della riemersione di Alexey Navalny (dopo l’avvelenamento con Novichok ad agosto in Siberia e l’arresto al ritorno in patria) come possibile alternativa democratica. Rimandando ad altra occasione l’approfondimento, importante, dei primi due aspetti, vediamo di concentrarci sulla figura del blogger antisistema tanto discussa quanto poco conosciuta anche in Occidente.

Dall’opposizione mainstream a Narod

Navalny muove i suoi primi passi nel mondo politico nei primi anni Duemila nell’universo dell’opposizione “mainstream” di Yabloko di Viktor Yavlinskij uno stimato accademico, vice primo ministro in era gorbacioviana che propone ricette economiche di liberismo temperato sulla falsariga dei cristiano-sociali tedeschi condite con disponibilità e aperture alle questioni dei diritti civili, Lgbt compresi. Ma per Navalny si tratta di un mondo compassato e old fashion che gli sta stretto: il giovane blogger vuole una politica più aggressiva, più militante e costruita sull’uso professionale delle nuove tecnologie. Nel 2007 lascia Yabloko per fondare il Movimento nazional-democratico “Narod” (“Popolo”): un pot-pourri in cui si agglutinano soprattutto gli ex nazional-bolscevichi di Limonov. Controllo rigido della migrazione interna e stato forte caratterizzano una forza politica che non decollerà, anche perché quello spazio politico è ben presidiato da Vladimir Zirinovsky, lo xenofobo leader del Partito liberaldemocratico.

Dal fascino della destra e al maquillage populista

Tre anni dopo, e siamo nel 2010, Navalny prende parte a “Russky Marsh” la manifestazione dell’estrema destra in cui si sprecano le bandiere nere con la celtica, le foto di Ivan Grozny, e i cui partecipanti non si vergognano di dichiararsi antisemiti e omofobi. Ma con la candidatura per sindaco di Mosca, nel 2012, su consiglio dei suoi spin-doctor Navalny “ribrandizza” la sua immagine per intercettare l’elettorato giovanile della capitale, educato al liberalismo di stampo occidentale. Un riposizionamento che gli frutterà il 27,2% dei consensi. Un maquillage populista, il suo programma elettorale alla carica di sindaco, che accanto alla rivendicazione del diritto al matrimonio gay alterna l’attacco a Putin sui temi della corruzione, ma anche una politica sull’immigrazione centroasiatica reazionaria non molto diversa da quella della Lega di Salvini. Nel frattempo parteciperà, in prima fila, alle grandi manifestazioni contro i brogli delle elezioni presidenziali del 2011-2012.

Navalny sconosciuto

Alexey Navalny alla Marcia Russa il 4 novembre a Mosca nel 2011

Una macchina politica fondata sul personaggio

Il riflusso di quelle che per ora restano le più grandi manifestazioni di protesta da quando è nata la Federazione russa lo inducono a riflettere. Da allora in poi inizia a costruire una propria macchina politica centralizzata di stile “leninista” che ruota tutto intorno alla sua persona che cresce negli anni in oltre sessanta provincie in tutto il paese, dimostrando, va detto, notevole coraggio in uno stato dove qualsiasi cosa si muova viene messo subito sotto la lente d’ingrandimento dei servizi segreti e della polizia. Si tratta di un’intuizione forte: per i russi, tradizionalmente, la politica è sempre qualcosa che ruota intorno a un leader carismatico – non importa se si chiami Pietro I o Stalin, Ivan Grozny o Pugacev. Il nome del suo partito cambia spesso, più importanti sono le front organizations di cui la principale è “il centro anticorruzione” (che ha prodotto il recente film – oltre 70 milioni di visualizzazioni – sull’ormai famosa residenza di Putin da 38.000 metri quadrati in Crimea) ma al cui centro c’è sempre e solamente il portale navalny.com. Non a caso quando viene escluso dalla corsa per le presidenziali del 2018 a causa di una condanna penale (un reato fiscale che molti osservatori sostengono sia stato fabbricato dall’Fsb) preferisce non puntare su qualche suo braccio destro ma chiamare al boicottaggio del voto.

Il programma politico neoliberale

È in questo periodo che mette a punto il suo programma politico che non ha mai voluto troppo pubblicizzare, temendo come altri politici populisti in ascesa, i “temi divisivi”. Il suo piano economico per lo sviluppo della Russia è sin troppo semplice: aumento del salario minimo a 25.000 rubli al mese, aumento delle pensioni e dei servizi sociali dalla Sanità all’Istruzione. Da dove reperire queste risorse? Le ricette, neoliberali, non sono molto diverse da quelle attuate in Occidente che si sono dimostrate disastrose per le classi subalterne: «Il nostro programma include un’ampia gamma di misure per liberare gli imprenditori dalla pressione della burocrazia, dei funzionari della sicurezza e dei monopoli. Stiamo implementando un programma per demonopolizzare l’economia e ridurre i prezzi. Ridurremo il numero di organismi di regolamentazione e ne liquideremo alcuni. […] Aboliremo la contabilità fiscale separata e passeremo completamente alla rendicontazione contabile in conformità con gli standard internazionali. Vieteremo l’avvio di procedimenti penali nel caso in cui si consideri lo stesso caso nel quadro di una controversia commerciale, così come mettere in custodia gli imprenditori per reati economici in attesa di una sentenza».

Le sue bordate ovviamente sono contro quella “rinazionalizzazione” dell’economia volta da Putin – una sorta di bicefalo di capitalismo di stato con turboliberismo nel mondo lavorativo – che ha rimesso sotto controllo statale tutti i settori strategici dell’economia, comprese le banche e quello immobiliare. «In Russia ora c’è una sorta di capitalismo incomprensibile, in cui lo stato controlla più della metà dell’economia e domina gli uomini d’affari. Un tale sistema ostacola lo sviluppo del paese», denuncia Navalny, peccato però che buona parte degli oligarchi e dei businessmen a cui si rivolge hanno prosperato sotto l’economia di “pianificazione comandata neoliberale” di Putin: sono ormai cento gli oligarchi miliardari in dollari in un paese dove la forbice della ricchezza è tornata a essere quella dei tempi del 1905 che mise in moto la prima rivoluzione sovietica, come ha dimostrato Thomas Piketty.

La ricetta fiscale: il federalismo nel federalismo

L’uovo di Colombo per l’oppositore sarebbe un’ulteriore riduzione delle tasse – questa volta per il piccolo e medio business – in un paese dove esiste già un prelievo ridottissimo (flat tax al 13-15%). L’oneroso sistema della difesa che assorbe – e siamo ai dati del 2021 – il 14,5% del budget statale verrebbe inoltre ridotto grazie all’introduzione dell’esercito professionale: «la Russia è in grado di permettersi un esercito completamente “a contratto”: 500.000 soldati con uno stipendio medio di 200.000 rubli al mese (il nostro obiettivo) sono 1200 miliardi di rubli all’anno. Il budget militare di oggi è di circa 3 mila miliardi…». Un altro tassello fondamentale della sua amministrazione sarebbe il federalismo fiscale in un paese già federale ma dove troppe risorse finirebbero al centro: «Il nostro programma di riforma del bilancio prevede un aumento della quota di imposte e tasse trattenute nelle regioni. […] Oggi il denaro va avanti e indietro: prima viene prelevato dalle regioni e poi assegnato sotto forma di sussidi. Questo viene fatto per mettere le regioni in una posizione politicamente subordinata. Siamo categoricamente contrari a questo. Una giusta distribuzione del gettito fiscale tra centro e regioni dovrebbe essere di 50/50 in pochi anni (negli ultimi anni si è arrivati a 70/30 a favore del centro)». Null’altro. Davvero troppo per risolvere i problemi di dipendenza dell’economia russa dalla produzione ed esportazione di idrocarburi (che rappresenta il 30% del Pil) dal cronico deficit di capitali e da una valuta fragile e volatile. Per non parlare di un mondo del lavoro in cui la precarietà, l’inesistenza di diritti e tutele, oltre che i bassi salari sono la norma.

La politica nazionalista: il regime dei visti

La riforma del sistema giudiziario e un’organizzazione degli apparati di sicurezza completano il menù “riformista” interno. Allo stesso tempo Navalny non ha mai nascosto di voler perseguire una politica “realmente nazionalista” – sulla falsariga di quella promossa dalle forze sovraniste e di destra nell’Unione Europea – nei confronti delle ondate migratorie dal Centro-Asia. La sua latente posizione xenofoba era già venuta a galla durante la sua campagna elettorale per la carica di sindaco di Mosca nel 2013 quando si era detto favorevole alla deportazione coatta dei migranti illegali e il divieto della costruzione di moschee. Posizione riaffermata in modo più vago anche nel suo programma politico sostenendo la necessità di «introdurre un regime dei visti con i paesi dell’Asia centrale e della Transcaucasia».

Navalny sconosciuto

Mosca 2013, uno striscione pubblicizza la candidatura di Navalny

La minaccia per Putin: la sua politica estera

Ma ciò che rende il suo programma particolarmente insidioso per Putin sono le direttrici della politica estera. Navalny non ha fatto mai mistero di considerare avventurista la politica russa dal 2014 in poi in Ucraina. Più di una volta ha infatti sostenuto che se assumesse il potere chiuderebbe rapidamente il contenzioso nel Donbass e proporrebbe un nuovo referendum per decidere lo status giuridico internazionale della Crimea. E di voler puntare a un’integrazione con l’Unione Europea. «La Russia dovrebbe tornare all’ideologia del partenariato strategico e dell’integrazione con i paesi dell’UE sulla base del concetto di “quattro spazi comuni”, individuando come obiettivo finale la creazione di una zona di libero scambio tra l’UE e l’EurAsEC», sostiene sempre nel suo programma politico. Tutta musica per le orecchie di Bruxelles ancor prima che di Washington, se si aggiunge che Navalny abbandonerebbe al loro destino sia Assad sia Maduro – strategici alleati di Mosca – e rimodulerebbe le relazioni con Erdoğan. Il che rappresenterebbe il ritorno di quell’ipotesi di inserimento della Russia nella Nato che era stata ipotizzata, se non accarezzata, dallo stesso Putin nei suoi primi anni di amministrazione.

L’Europa si allontana da Putin: una partita da giocare

Tuttavia fino a questa estate né la UE né la Casa Bianca (o meglio il Pentagono) avevano considerato seriamente l’ipotesi di sostenere gli sforzi dell’oppositore russo. Poi si sono determinati una serie di fattori che hanno indotto Macron ad archiviare le sue aperture al Cremlino (facendo baluginare più volte l’idea di una versione riveduta e corretta del sogno gollista di un’Europa da Lisbona a Vladivostok) e la Merkel a non portare a compimento la megapipeline North Stream 2 che prevede un raddoppio dell’afflusso di gas russo in Germania. La crisi politica in Bielorussia, l’allontanamento da Putin della storica alleata Serbia in direzione stelle-striscie, il cambio della guardia in Moldavia che ha riportato i filo-UE alla presidenza dopo il mandato di Igor Dodon a cui si aggiunge l’avventuristico uso ormai reiterato da parte dell’Fsb di armi chimiche, ha fatto ritenere alle cancellerie europee che ogni possibilità di dialogo con il regime putiniano – almeno per il momento – siano giunte al capolinea e che si possa tentare di lavorare al fine di provocare il collasso del suo regime in tempi medi, usando appunto anche il cavallo di troia dell’opposizione di Navalny, l’unica oggi strutturata e capace di essere il magnete del variegato scontento che serpeggia nel paese. Una scommessa azzardata perché dovrebbe puntare a una scissione dentro i poteri forti russi: il complesso militar-industriale, i cinovniki degli idrocarburi e i servizi segreti. Forse per questo la partita geopolitica iniziata con il crollo dell’Urss trent’anni fa è ancora in gran parte da giocare.

Dopo le manifestazioni del 31 gennaio Yurii Colombo è intervenuto più volte a commentare la situazione dal suo osservatorio privilegiato:

“I disperati del Putin declinante”.

 

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«Abbiamo bisogno di cambiamento». Chiavi thai per una rivoluzione culturale nel regno del Siam https://ogzero.org/abbiamo-bisogno-di-cambiamento-chiavi-thai-per-una-rivoluzione-culturale-nel-regno-del-siam/ Sat, 23 Jan 2021 16:47:42 +0000 http://ogzero.org/?p=2288 Le trame della realtà affondano in radici magiche e simboli culturali «Pensa alla magia, non alla politica». È il consiglio, a volte inquietante, che spesso viene rivolto a uno studioso del mondo magico thailandese. Lui stesso un “indovino”, un mo du [il dottore che osserva], colui che vede il destino. Che sia un farang, come […]

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Le trame della realtà affondano in radici magiche e simboli culturali

«Pensa alla magia, non alla politica». È il consiglio, a volte inquietante, che spesso viene rivolto a uno studioso del mondo magico thailandese. Lui stesso un “indovino”, un mo du [il dottore che osserva], colui che vede il destino. Che sia un farang, come in Thailandia chiamano gli stranieri, complica le cose. Per i thai è un’anomalia nel mondo della khwampenthai, la “thailandesità”. Per gli occidentali sfugge ai codici canonici dell’accademico.

Edoardo Siani, giovane italiano dalla storia romanzesca, antropologo, docente di studi del Sudest asiatico all’università Ca’ Foscari di Venezia, reincarna quegli studiosi come Elémire Zolla, “il conoscitore di segreti”, che interpretano la realtà ricercandone le radici magiche e psicologiche.

Le vicende della contemporaneità thai vanno osservate come se si assistesse al Ramakien – il poema ispirato all’indiano Ramayana – in cui le trame e i simboli sono al tempo stesso struttura culturale. Nella versione rappresentata oggi nella scena thai gli episodi vedono l’apparizione di nuovi personaggi in nuove trame: la pandemia, la rivoluzione culturale e la restaurazione.

Le analisi compiute con questo metodo spesso riescono a spiegare ciò che è incomprensibile a molti osservatori che si ostinano ad applicare una logica occidentale nello scenario del buddhismo theravada. In Thailandia, il dharma, le regole che governano il cosmo, è in uno stato di fluttuazione perché soggetto all’anijja, l’“impermanenza”: la transitorietà dei fenomeni.

Prathet Ku Mee

Rivendicazioni che mantengono la struttura dei 10 punti rivendicati dal Free Youth Movement

Dharma, anija e sanuk: evitano l’Orientalismo e… spiegano anche l’epidemia

Il dharma e l’impermanenza sono la chiave per approfondire le nuove trame thai evitando le banalizzazioni narrative, l’Orientalismo. «Come recita la legge buddhista dell’impermanenza, ogni cosa, anche la legge sulla lesa maestà, si manifesta, esiste e scompare, al pari delle norme etiche e culturali della società. Nulla è permanente» scrive Matthew Wheeler dell’International Crisis Group, riferendosi al tabù che è anche il nodo centrale della politica thai.

Per uno di quei fenomeni di sincronicità, coincidenze casuali, che sono tra i concetti cardine del pensiero junghiano, maestro del pensiero magico come medium di psicanalisi, l’attesa di un ritorno in Thailandia, che appare sempre più come un’anabasi esistenziale, diviene prova e manifestazione dell’impermanenza.

Un farang che oggi cerchi di tornare in quel paese permane sull’orlo di una crisi di nervi: per la burocrazia e i costi da affrontare. Ma pochi rinunciano: troppo forte è l’attrazione del clima, dell’apparente sicurezza del regno. E soprattutto del sanuk. Letteralmente significa divertimento, ma ha un contenuto più profondo. Si può definire “la via della gioia di vivere”, base dell’edonistica cultura thai. Le sue forme d’espressione sono innumerevoli: feste e gioco, teatro tradizionale e soap opera, muay thai e combattimenti dei galli, shopping e spiagge. E, ovviamente, il sesso. Per ravvivare il turismo, nel settembre scorso era stato proposto di permettere ai turisti di frequentare le “sale massaggi” vicine agli alberghi dove trascorrevano la quarantena.

Ma all’inizio dello scorso anno, quando la pandemia sembrava circoscritta a Cina e dintorni (come nel 2002 con la prima epidemia di Sars) e si temeva di restare bloccati in un incubo virale, quegli stessi farang tempestavano le ambasciate, le compagnie aeree, per trovare una via di fuga che li riportasse nella comfort-zone dell’Occidente. La Thailandia, Bangkok in particolare, era in pieno lockdown, sottoposta a coprifuoco, materializzava un Hotel California da cui non si può fuggire, dove lo straniero è intrappolato dai suoi stessi desideri.

Il futuro prossimo potrebbe segnare un’ulteriore transitorietà. Se fino a metà dicembre il Thailand Center for Covid-19 segnalava una situazione stabile con poco più di 4000 casi di contagio e 60 decessi, a metà gennaio i casi erano saliti a oltre 11000 e 70 morti. Nel frattempo, il 4 gennaio è stato dichiarato un nuovo, parziale lockdown dopo mesi di apertura.

La pandemia diventa contaminazione culturale

Rispetto alla prima ondata sono cambiati gli untori. Ora sono i lavoratori birmani, dato che il contagio è ripreso in un mercato del pesce vicino a Bangkok e si è diffuso nei quartieri ghetto dei migranti birmani. Il rischio è che divengano ancor più “dannati”, vittime di quel senso di superiorità diffuso in Sudest asiatico nei confronti dei più poveri.

Nella prima ondata, invece, la xenofobia era nei confronti dei farang, giudicati sporchi (come ebbe a dichiarare il ministro della Sanità), ma soprattutto portatori di comportamenti malsani. Il virus che possono trasmettere non è solo il Covid, bensì qualcosa di più insidioso: la contaminazione culturale.

È un fenomeno anch’esso virale: tutto il Sudest asiatico appare circondato da una nuova cortina di bambù. Secondo molti asiatici, sul tramonto dell’Occidente è ormai scesa la notte. Ci attende l’alba di una storia postpandemica: gli autoritarismi asiatici, “la democrazia fiorente nella disciplina”, si sono rivelati più efficaci delle democrazie occidentali. Un nuovo ordine mondiale post-covid di conflitti e contraddizioni è il titolo di un articolo del Commodoro C. Uday Bhaskar, direttore della “Society for Policy Studies” di Delhi. «Per i thai è troppo tardi per sfuggire all’abbraccio cinese, possiamo solo cercare di non farcene soffocare» ha dichiarato un diplomatico di Bangkok. Pechino segue la politica – che in Occidente definiamo “amorale” – di non interferenza negli affari interni dei paesi dell’area e ora ha rinforzato questo “soft power” con la “Vaccine diplomacy”. La Thailandia, per esempio, dovrebbe ricevere entro il prossimo mese le prime 200.000 dosi del Sinovac anti-Covid. In Occidente, in compenso, anziché cercare di comprendere ciò che si sperimenta in Asia, tutto viene assunto a prova di una marginalità asiatica, di una sua alterità, a volte mostruosità (di cui è simbolo il “virus cinese” diffuso in orridi “wet market”).

A fari della democrazia spenti nella notte

Il caos delle elezioni americane (che per gli osservatori delle vicende asiatiche è stato ancor più traumatico nel paragone con la “normalità” di quelle svolte in Birmania dopo solo una settimana) è apparso come un ulteriore segno della decadenza del paese considerato faro di democrazia. In Thailandia i sostenitori del generale Prayuth, denunciando interferenze a favore delle proteste, non hanno mancato di rilevare che per l’America è sempre più difficile ergersi a giudice.

Da parte dell’opposizione democratica thai, invece, Trump è stato paragonato (anche in molte vignette) a Suthep Thaugsuban, leader del People’s Democratic Reform Committee (Pdrc), la formazione ultraconservatrice delle “camicie gialle” che con le manifestazioni del 2014 aprì la strada al golpe di quell’anno. Paragone tanto realistico quanto inquietante.

Suthep Thaugsuban come Donald Trump

Sovranisti di tutto il mondo uniti… nell’ironia delle vignette

In Thailandia, dunque, la pandemia è stata un’ottima scusa per dichiarare una sorta di legge marziale. La chiusura quasi totale del paese, giustificata per tutelare il regno da contagi, ha generato una crisi economica i cui effetti potrebbero avere conseguenze interne e internazionali difficilmente valutabili secondo gli standard occidentali, considerando che in Thailandia l’1% della popolazione controlla il 66,9% della ricchezza. Ma anche la crisi è divenuta lo strumento per propagandare un nuovo modello di sviluppo. Come dimostra uno spot televisivo che inneggia alla decrescita felice, al ritorno alle radici tradizionali, una recherche dell’antico regno del Siam.

In questo brodo di coltura la protesta si è sviluppata come una variante del virus. Le manifestazioni studentesche sono iniziate nel febbraio 2020 a seguito dello scioglimento di Future Forward (Ffp), il partito d’opposizione fondato dal giovane miliardario Thanathorn Juangroongruangkit che aveva ottenuto un eccezionale risultato alle elezioni del marzo 2019.

Il Free Youth Movement e i precedenti

Alla base delle manifestazioni – interrotte per Covid in aprile e poi riprese con forza alla fine di luglio con un picco tra agosto e novembre – c’è la richiesta di dimissioni del premier Prayuth Chan-ocha, la riforma costituzionale e il ritorno a una vera democrazia. L’ex generale Prayuth è al governo dal 2014, prima al comando della giunta militare che prese il potere (il diciannovesimo golpe dopo l’istituzione della monarchia costituzionale nel 1932), poi primo ministro autonominato, infine premier di un partito che alle elezioni del 2019 ha ottenuto la maggioranza grazie a una modifica costituzionale ad hoc. Ma non è bastata a quello che ormai va definendosi come l’espressione dell’Ancien Régime: il Ffp appariva una variante troppo pericolosa perché trasmessa dai figli di una borghesia medio-alta. Non più quei “bufali rossi” com’erano sprezzantemente definite le “camicie rosse”, i popolani e i contadini dell’Isaan, la regione più povera del paese, che nel 2010 occuparono Bangkok in una protesta repressa nel sangue.

Secondo Duncan McCargo e Anyarat Chattharakul, analisti di politica thai, nel saggio Future Forward: The Rise and Fall of a Thai Political Party, quel partito guidato da un “hyperleader” che sfidava sia il potere dei militari sia delle grandi famiglie che monopolizzano l’economia (per quanto anche lui ne sia figlio)  ha avuto un effetto “più emozionale che razionale”, riuscendo a coagulare consensi che apparivano più simili a quelli di un gruppo K-pop che non a un movimento politico tradizionale. A questi si univano i “fans radical” di Piyabutr Saengkanokkul, altro fondatore dell’Ffp, attivista legale, “seguace” della Rivoluzione Francese (che in una monarchia come la thai appare una minaccia contemporanea, considerando che nel 1932, il People’s Party, un gruppo di giovani turchi ispirati agli ideali della Rivoluzione Francese rovesciò la monarchia assoluta promulgando la prima costituzione).

Le rivoluzioni francesi, del 1789 come del 1968, sembrano ispirare la contestazione. Se n’è avuta dichiarazione il 3 agosto, quando l’avvocato Anon Nampa ha proclamato la necessità della riforma della monarchia. Ancor più la sera del 10 agosto, nel campus della Thammasat University di Bangkok, quando la ventunenne Panusaya “Rung” Sithijirawattanakul ha letto il manifesto della contestazione: dieci punti che richiedevano una forte limitazione dei poteri reali. È stata anche la scenografica rappresentazione di quel momento che l’ha fatta divenire la star del movimento e inserire nella lista della Bbc delle 100 donne più “ispiratrici” del 2020.

cambiamento in chiave thai

10 richieste per il cambiamento

Dalle rivoluzioni nate a Parigi sono derivati anche gli slogan di Bangkok. “Né dio, né re, solo umano” riecheggia quelli del Sessantotto. Alla trinità “Nazione, religione, monarchia” i manifestanti hanno opposto lo slogan, “Nazione, religione, il popolo”. Il gesto simbolo delle manifestazioni, il braccio alzato con tre dita unite, ripreso dal film Hunger Games per indicare l’opposizione alla tirannide, è interpretato come l’unione dei valori di Liberté, Égalité, Fraternité della Rivoluzione Francese. La rappresentazione plastica dei fantasmi evocati dalla rivoluzione è la foto, forse casuale, che ritrae il passaggio dell’auto della regina Suthida tra due ali di manifestanti il 14 ottobre. Il volto della regina, perfettamente a fuoco dietro il finestrino, appare smarrito, quasi impaurito. Era la prima volta che una folla di manifestanti arrivava così vicino a un membro della famiglia reale, salvo quando si trattava di manifestazioni di devozione e la folla era in ginocchio.

[riproponiamo qui un’analisi di Massimo Morello che puntualizza bene i motivi della sollevazione, ringraziando Giampaolo Musumeci e Radio24 per averci permesso di utilizzare il suo intervento trasmesso all’interno della puntata di Nessun luogo è lontano del 15 ottobre 2020 («raccontare, raccontare, raccontare…»)]
Ascolta “Cosa scuote il sistema pi-nong, impalcatura della monarchia tailandese?” su Spreaker.

 

Nuovi modelli di cultura thai

«La Thailandia è in una crisi di legittimazione, d’identità senza precedenti e deve confrontarsi con una nuova generazione intelligente, che propone una visione del tutto nuova della società, che sia nella filosofia politica, nelle diversità di genere, nelle questioni etniche…», ha scritto David Streckfuss, storico del Sudest asiatico. Questa interpretazione, un po’ falsata dalla sociologia occidentale, ha fatto sì che molti paragonassero le proteste di Bangkok a quelle di Hong Kong. Forse la contestazione thai è più importante per i giovani hongkonger, che la vedono come prova del contagio democratico in Asia. In Thailandia Hong Kong è un modello soprattutto stilistico, in una forma che fonde modelli e segni della cultura pop asiatica (come le papere gonfiabili utilizzate come scudi agli idranti), l’uso di flash mob e dei social che diviene quasi una performance al pari dei video del gruppo Rap Against Dictatorship, il cui primo lavoro Prathet Ku Mi (Questo è il mio paese) è divenuto virale, mentre l’ultimo Reform è stato bloccato su YouTube thai.

La patriottica metafora malata

Nella Thailandia del Covid si ritrovano diverse storie e le loro narrazioni sono un’intricata trama di politica, economia, magia, virus, sanuk, totem e tabù. La contestazione in atto, più che politica è culturale, contesta un sistema di norme che costituisce l’impalcatura della società. Quel sistema è definibile nel rapporto pii-nong, “maggiore-minore”. Un rapporto gerarchico e di deferenza molto complesso: riguarda l’età, le gerarchie familiari, professionali, economiche, sociali, culturali. È un sistema che negli ultimi anni ha creato notevoli tensioni perché cristallizza le stratificazioni sociali, già viste come un’espressione del karma, un destino assegnato in funzione delle vite precedenti. Secondo lo studioso realista Bowornsak Uwanno, per esempio, ogni limite alla libertà d’espressione «riflette le norme etiche e culturali che ogni thai dovrebbe seguire». Seguendo tale assioma, chi richiede una riforma della monarchia è un “eretico”. Per il generale Apirat Kongsompong, ex capo di stato maggiore e oggi viceciambellano di corte, i contestatori sono individui “malati”, soffrono di chang chart, “odio verso la madrepatria”, sindrome molto più grave dello stesso Covid. Più reali le sindromi da stress e depressione che colpiscono molti manifestanti, dovute sia al rischio delle loro azioni sia alle pressioni dei genitori che li accusano di disonorarli, tanto che è stato proposto di diseredare i figli ribelli. In Thailandia, inoltre, ogni problema psicologico è marchiato da uno stigma sociale e religioso in quanto considerato effetto di un karma negativo.

cambiamento in chiave thai

Prathet Ku Mee dei Rap Against Dictatorship è diventata virale, perché sciorina tutte le storture del sistema pii-nong

Il tracollo della monarchia etica

In questa dimensione psicopolitica la situazione è resa ancor più oscura dalla presenza di un “cigno nero”, un evento imprevedibile in quanto dipendente anch’esso dall’impermanenza: la monarchia. Re Rama IX, sua maestà Bhumibol Adulyadej, scomparso nel 2016 dopo settant’anni di regno, per la maggior parte dei thai resta l’incarnazione delle virtù buddiste, un Dhammaraja, che governa secondo il Dasarajadhamma, “i principi del re virtuoso”. Nel periodo del Bhumibol consensus, tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli Ottanta, riuscì a evitare che la Thailandia subisse lo stesso destino degli altri paesi dell’area, là dove la Guerra Fredda divenne incandescente. Con i suoi programmi di economia sostenibile – forse non compiuti ma certo preveggenti – e i suoi spostamenti nel paese per promuovere progetti quali la riconversione delle colture da oppio, era considerato un innovatore, forte del consenso sino alla venerazione popolare.

Come è stato osservato, la società thai si è sviluppata in uno stato di “caos controllato” e il re ha svolto il ruolo di controllore. «La sua autorità morale è enorme: per i thai è un punto di riferimento nei momenti di sfiducia nei confronti dei politici». Il che, commenta Thitinan Pongsudhirak, professore di dottrine politiche, «induce a una riflessione sulle carenze della nostra democrazia. Quando ci troviamo di fronte in un’impasse, il popolo guarda al re come il solo che può risolvere la situazione».

La crisi attuale è detonata con la morte di Rama IX. Rama X, suo figlio Maha Vajiralongkorn, non gode dello stesso favore. È sempre apparso come l’antitesi del “re virtuoso”, ma sembra credersi un Devaraja, “il dio-re”, cui tutto è concesso. Ha accentrato un enorme potere, compresa la nomina del Supremo Patriarca buddhista e il controllo del patrimonio della corona, circa 40 miliardi di dollari, con interessi in ogni settore. Sua anche la Siam Bioscience che con AstraZeneca produrrà il secondo vaccino usato in Thailandia. Per proteggere tale potere ha affidato alla guardia reale (vero e proprio corpo di pretoriani) il controllo della capitale. Inoltre il nuovo re si è alienato le simpatie popolari (e non solo) perché trascorre più tempo in Germania che in Thailandia e per un comportamento, come ripristinare lo status speciale per le concubine reali, che fa “perdere la faccia” al paese.

Ma Vajiralongkorn è anche un “Principe” in senso machiavellico, diverso da come lo descrivono molti osservatori occidentali. «La Thailandia è la terra del compromesso» ha risposto a un giornalista straniero che gli ha chiesto se e come si potesse risolvere la crisi. E negli ultimi tempi ha fatto numerose apparizioni in pubblico, quasi sempre al fianco della regina Suthida, spesso intrattenendosi con i sudditi. Un comportamento che, pare, ha fatto crescere la sua popolarità. Per ammissione dello stesso primo ministro Prayuth, è stato il re a chiedere di non ricorrere alla draconiana legge sulla lesa maestà quale forma di deterrenza.

cambiamento in chiave thai

Restart Thailand – Revolution Thai – Republic of Thailand

In questo flusso d’impermanenza, il movimento d’opposizione ha commesso un clamoroso errore. Il Free Youth Movement ha lanciato un nuovo simbolo: RT. Che ufficialmente significa Restart Thailand, per altri indica Revolution Thai. Per altri ancora il significato è più minaccioso: Republic of Thailand. Un simbolo, inoltre, rappresentato con un altro simbolo: la falce e martello (disegnate da R e T).

Come ha scritto il nostro mo du Siani: «Sovraimporre l’identità marxista al movimento è pericoloso». Perché implica quell’idea di repubblica che è lo spettro dei conservatori, perché il comunismo per la maggior parte dei thai identifica coloro “senza religione”, perché potrebbe portare a una restaurazione della monarchia assoluta o a una repressione come quella del 1976, quando furono massacrati un centinaio di studenti. Allora lo scenario geopolitico era profondamente diverso: la Thailandia era la pedina centrale nel “domino” del Sudest Asiatico tra Stati Uniti e Unione Sovietica. Ma il ricordo della guerra è ancora radicato nell’inconscio collettivo. «Muoio perché ho ucciso troppi comunisti» dice Lung Bunmi Raluek Chat [Lo zio Boonmee che può richiamare le sue precedenti vite], personaggio che dà titolo al film del thailandese Apichatpong Weerasethakul, vincitore del 63° Festival di Cannes. Di fatto sembra che il riapparire di antichi spettri abbia segnato un nuovo colpo di scena. «La legge sulla lesa maestà si manifesta con un’escalation senza precedenti», ha commentato il politologo Thitinan Pongsudhirak.

 

[a proposito del reato di lesa maestà è interessante ascoltare un intervento di Sabrina Moles su Radio Blackout del 21 gennaio 2021, un paio di giorni dopo la stesura di questo articolo di Massimo Morello: un intervento che prende spunto dalla legge 112, per collocare l’episodio che vede Anchan Preelert protagonista, utilizzandolo per spiegare il contesto attuale, il momento del golpe – periodo storico in cui è avvenuto il reato contestato ad Anchan e il mondo di riferimento delle nuove generazioni]

Ascolta “Una condanna esemplare del retrivo regno del Siam” su Spreaker.

La crisi è sembrata risolversi a dicembre, quando i leader della protesta hanno annunciato una tregua durante la stagione delle festività. Secondo la maggior parte dei commentatori era la dimostrazione dei primi dissidi all’interno del movimento e una forma di ritirata di fronte all’inasprirsi della repressione. Ma potrebbe anche essere l’ennesima espressione del sanuk, il pervasivo edonismo thai.

Per il momento è difficile capire come si manifesterà l’impermanenza, perché a gennaio, con l’aumento dei casi di Covid ogni manifestazione pubblica è stata bandita e la tregua prolungata sino a metà 2021. Nel frattempo, come a metà gennaio, potrebbero verificarsi nuovi scontri, magari in seguito ai dissidi tra i gruppi del servizio d’ordine, crearsi nuove alleanze, per esempio tra studenti e camicie rosse, Thanathorn potrebbe ripresentarsi sulla scena, oppure potrebbero riapparire le camicie gialle realiste.

 

cambiamento in chiave thai

Dove andrà la loro nazione senza dirlo?

In Thailandia il futuro è nelle mani dei maghi.

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L’armata rurale assedia la Grande Delhi https://ogzero.org/assedio-a-delhi/ Sat, 23 Jan 2021 15:27:12 +0000 http://ogzero.org/?p=2281 Chi avrebbe mai detto che una protesta di agricoltori avrebbe creato un problema politico capace di mettere in imbarazzo il governo di Narendra Modi, in India. Eppure è proprio così. Da due mesi la capitale indiana Delhi è assediata da una moltitudine di coltivatori e lavoratori agricoli. Sono centinaia di migliaia di persone venute soprattutto […]

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Chi avrebbe mai detto che una protesta di agricoltori avrebbe creato un problema politico capace di mettere in imbarazzo il governo di Narendra Modi, in India. Eppure è proprio così. Da due mesi la capitale indiana Delhi è assediata da una moltitudine di coltivatori e lavoratori agricoli. Sono centinaia di migliaia di persone venute soprattutto dai grandi stati della pianura indogangetica ma in parte anche dal resto dell’India. Dalla fine di novembre sono accampati intorno alla Grande Delhi; chiedono l’abrogazione di tre nuove leggi che liberalizzano il mercato agricolo, approvate lo scorso settembre dal parlamento nazionale in gran fretta e senza dibattito. Sono determinati: hanno resistito prima alle cariche di polizia e poi al freddo invernale.

Una prova di forza

Ora, dopo undici round di incontri inconclusivi con rappresentanti del governo, le trattative sono rotte. Il governo offre di sospendere l’applicazione delle leggi contestate per 12 o 18 mesi, ma non tratterà altro. I coltivatori ripetono che non se ne andranno finché quelle leggi non saranno abrogate.

Si prepara una prova di forza. I rappresentanti degli agricoltori confermano una “marcia dei trattori” il 26 gennaio, giorno della festa delle Repubblica, quando a Delhi si svolge un’imponente parata militare. Il governo sperava di evitarlo: ma la Corte Suprema, interpellata, ha rifiutato di emettere un divieto. La dimostrazione di potenza dell’India “emergente” oscurata da un’armata rurale.

Vivere della terra

Un movimento popolare così ampio ha spiazzato il governo. La protesta dei coltivatori è stata descritta dai grandi media indiani come la rivolta di un gruppo sociale che vive di sovvenzioni di stato e teme di perdere i propri privilegi: rappresentanti di un vecchio mondo assistito che frenano le riforme necessarie a modernizzare un settore agricolo inefficiente e insostenibile. Come ha ripetuto il primo ministro Modi, le nuove leggi «liberano gli agricoltori indiani», che potranno finalmente competere sul mercato. Molti hanno sottolineato che in fondo l’agricoltura fa solo il 16 per cento del Prodotto interno lordo indiano, una fetta marginale rispetto all’industria e soprattutto i servizi cresciuti negli ultimi vent’anni. Dimenticano però di aggiungere che il 55 per cento della forza lavoro è occupata in agricoltura, e anche neppure questo dato riflette la realtà: 800 milioni di persone, su un miliardo e 300 milioni di indiani, vivono direttamente o indirettamente della terra. La protesta dell’India rurale mette in imbarazzo il governo perché ogni dirigente indiano sa che la terra e i coltivatori restano la base della società e della legittimità politica della nazione.

Sette campi di protesta, sette città temporaneee

Chi ha visitato i sette campi di protesta che circondano la Grande Delhi infatti ha raccolto una storia ben diversa da quella raccontata dai media mainstream.
La scena. Le prime colonne di trattori e camion sono arrivate dagli stati del Punjab e dell’Haryana a nord-ovest della capitale federale. Bloccati dalla polizia al confine del territorio di Delhi (è un Territorio dell’Unione, come un ministato), si sono accampati là, in località Singhu. Altre colonne di protesta sono arrivate dall’Uttar Pradesh e dal Bihar a est, e in parte dal Rajasthan a ovest; delegazioni sono giunte dal Maharashtra (lo stato con capitale Mumbai) e dal Kerala a sud. Poco a poco sono sorti ben sette siti di protesta: il più grande, a Singhu, si estende per oltre dieci chilometri. Come città temporanee popolate da uomini e donne, vecchi e giovani. Ci sono caste rurali e anche Dalit (i fuoricasta, lo scalino più basso della gerarchia sociale indiana).

L'assedio di Delhi

Gli accampamenti nella Grande Delhi (foto da Kisan Ekta Morcha)

La solidarietà palpabile

Secondo un’inviata di “The Wire”, «l’ossatura della protesta sono contadini senza terra e coltivatori marginali», parola che indica una misura precisa: le proprietà agricole “marginali” sono quelle sotto un ettaro, “piccole” quelle sotto i due ettari. Secondo il censimento agricolo, in India l’86 per cento degli agricoltori sono appunto marginali e piccoli, vivono su meno di due ettari di terra; nel Punjab, da cui vengono molti dei manifestanti, un terzo delle proprietà sono sotto due ettari e un altro terzo sotto 4 ettari. l’India rurale è fatta di una miriade di piccolissimi produttori. Gli accampamenti sono organizzati per resistere. I rimorchi dei camion sono diventati alloggi di fortuna. Altri hanno montato tende. Centinaia di cucine da campo servono cibo a tutti, di ogni religione o casta. «In ogni sito di protesta il livello di organizzazione e il senso di solidarietà, è palpabile», riferisce un inviato del magazine “Frontline”. Intorno agli agricoltori si è costituita una rete di solidarietà; attivisti sociali hanno organizzato dispensari medici e dormitori in edifici pubblici; sono state allestite lavanderie, perfino biblioteche.

L'assedio di Delhi

Un agricoltore manifestante in preghiera durante la protesta a Dehli (foto Im_rohitbhakar)

L’atmosfera oscilla tra la resistenza e la festa popolare, con decine di assemblee pubbliche, eventi culturali, lezioni, musica. Le notti d’inverno però sono gelide nell’India settentrionale. C’è notizia di numerose persone morte di ipotermia, o infarto o altro.

Protesta diffusa: le comunità sono unite

Ma nonostante tutto la protesta continua, e questo è possibile perché ha un retroterra. In Punjab, secondo numerose testimonianze, da ciascuno dei 13.000 villaggi sono partite delegazioni di decine di persone, coltivatori e anche maestri di scuola, camionisti, rappresentanti dei municipi rurali.
«In Punjab c’è un’insurrezione», scrive un’inviata del giornale online “The Wire”, che in una sola provincia di questo grande stato ha contato 68 sit-in permanenti, grandi e piccoli. Descrive comizi e raduni pubblici, e raccolte di viveri, coperte, tende da mandare a quelli che sono andati a Delhi. I manifestanti si alternano; c’è chi torna a casa per occuparsi del raccolto mentre altri danno il cambio. «Tutte le comunità sono unite», spiegano alcuni manifestanti.
Al movimento partecipano circa 500 organizzazioni di agricoltori e sindacati rurali, raggruppati n 40 organizzazioni ora raggruppate in un coordinamento. «Il governo pensa che i coltivatori oggi siano la massa impotente e ingenua descritta dalla letteratura preindipendenza. Ma i coltivatori oggi hanno assorbito l’eredità del movimento per la libertà [il movimento anticoloniale nella prima metà del Novecento], i giovani hanno ereditato quello spirito», spiega a “Frontline” un agricoltore ed ex soldato nel sito di Ghazipur, a est di Delhi. Non per nulla tra cartelli e volantini riemerge il volto di Bhagat Singh, leggendario leader socialista rivoluzionario novecentesco.

Assedio a Delhi

L’arrivo in città dei manifestanti da ogni parte del paese (foto da Kisan Ekta Morcha)

Il contrasto alla propaganda governativa

«Abbiamo capito che bisognava contrastare la propaganda che rimbalza sulla tv e sui social media», spiega (sempre a “Frontline”) un giovane ingegnere informatico impegnato nella protesta: con un piccolo gruppo di volontari ha creato una piattaforma elettronica che mette online conferenze stampa quotidiane, interviste, testimonianze: si chiama Kisan Ekta Morcha, è divenuta la grancassa del movimento.
Ai primi di dicembre il governo aveva offerto qualche emendamento alle leggi contestate, se i manifestanti avessero sgomberato le strade. Ma quando questi hanno rifiutato di tornare a casa prima di ottenere la revoca di quelle leggi, il governo li ha accusati di essere facinorosi, estremisti, “khalistani” – riferimento al movimento separatista armato che negli anni Ottanta si batteva per uno stato indipendente in Punjab, il Khalistan. Per questo tra i cartelli comparsi nei siti di protesta molti dicono «siamo coltivatori, non terroristi».
Il movimento dunque continua. È rimasto unito, e pacifico. La prima vittoria l’ha avuta quando, il 20 dicembre, la Corte Suprema ha chiesto al governo di sospendere l’applicazione delle leggi contestate e aprire il dialogo. Le foto dei primi incontri ritraggono i rappresentanti delle 40 organizzazioni rurali intorno a un lunghissimo tavolo, con i rappresentanti di tre ministeri del governo centrale (agricoltura, commercio, ferrovie). Da parte governativa però si sono presentati solo junior ministers, l’equivalente di sottosegretari, figure senza potere decisionale: non i ministri titolari e tantomeno il primo ministro. Benché incalzato da un nuovo intervento della Corte Suprema nella prima settimana di gennaio, il governo Modi continua a prendere tempo.

I “mercati regolamentati”: la posta in gioco

Cosa è in gioco? In estrema sintesi, il sistema di regolamentazioni statali che dagli anni Sessanta del secolo scorso offre qualche protezione ai coltivatori indiani.
La prima delle tre leggi contestate infatti permetterà di commercializzare la produzione agricola al di fuori dei mercati all’ingrosso statali (mandi), attualmente regolamentati dagli Agricultural Produce Market Committees, Apcm. Secondo il governo è una riforma che «aprirà nuove opportunità per tutti i coltivatori», perché moltiplica i possibili compratori per i loro raccolti e li “libera” dalla burocrazia e dagli intermediari. Ma non ha convinto gli agricoltori: i quali temono che sul “libero mercato” non saranno loro a fissare i prezzi, bensì i grandi acquirenti. Temono anche di perdere altri servizi essenziali oggi offerti dai mercati di stato, tra cui i silos e gli anticipi per le sementi.
Le altre leggi contestate aboliscono i limiti allo stoccaggio di derrate agricole, salvo casi di emergenza (era una norma antiaccaparramento): ma così, secondo i critici, i grandi traders potranno comprare derrate quando la produzione è abbondante e immagazzinarle per metterle sul mercato quando più conviene. La terza legge infine promuove la “coltivazione a contratto”, cioè la possibilità di stipulare contratti tra l’agricoltore e il futuro compratore. Il governo sostiene che questo darà sicurezza ai coltivatori, perché sapranno che il futuro raccolto è piazzato a un prezzo pattuito in anticipo. Molti agricoltori conoscono già questo sistema, e sono scettici.
Il punto è che i “mercati regolamentati” fanno parte del sistema che include il prezzo minimo di supporto (Msp), a sua volta funzionale al Sistema pubblico di distribuzione (Pds), con cui lo stato fornisce alimenti di base a prezzi calmierati a tutti gli indiani, in particolare ai più poveri. È un intero sistema creato negli anni Sessanta per garantire un prezzo equo ai produttori e allo stesso tempo assicurare l’accesso al cibo a tutti i cittadini. È questo che oggi è in gioco.

La crisi ecologica

La Rivoluzione verde è finita. Il Prezzo minimo è sorto con la rivoluzione agraria basata sulle varietà ibride “ad alto rendimento” di grano e poi di riso arrivate negli anni Sessanta e Settanta. In India la “rivoluzione verde” ha avuto successo grazie alla fertilità della pianura indogangetica e alle sue abbondanti riserve idriche sotterranee. Convinti dalle rese abbondanti, e dalla garanzia che lo stato avrebbe comprato i raccolti a un prezzo stabilito, gli agricoltori sono passati alle nuove sementi. In Punjab e Haryana grano e riso hanno rapidamente sostituito ogni altra coltura: da poco meno di metà della superficie coltivata nel 1970, a oltre l’80 per cento nel 2010. Già negli anni Novanta l’India era passata da importare cibo a esportarne.
Ormai però il suolo fertile e l’acqua abbondante sono esauriti. In Punjab la falda freatica cala in media di 33 centimetri l’anno, tanto che va cercata con pozzi sempre più profondi, ed è spesso inquinata da residui di fitofarmaci e concimi azotati. I suoli sono sempre meno produttivi. Eppure Punjab e Haryana restano il “granaio” dell’India, grazie alle pompe che estraggono l’acqua rimasta e un grande uso di concimi: nei quarant’anni trascorsi tra il 1978 e il 2019 la produzione di grano e riso in Punjab è aumentata del 134 per cento (da 126 a 285 milioni di tonnellate), ma il consumo di fertilizzanti è aumentato oltre il 600 per cento (da 4,2 a 27,2 milioni di tonnellate: riprendo i dati dall’economista Prem Shankar Jha).
La conseguenza è duplice. Da un lato, l’India produce grandi surplus alimentari che ha cominciato a esportare. Dall’altro però la monocoltura intensiva ha innescato una spaventosa crisi ecologica. E questo ha anche fatto calare la produttività e salire le spese di produzione.

Liberalizzazione vs insostenibilità?

I sostenitori della liberalizzazione argomentano che il prezzo minimo e i numerosi sussidi di stato ormai perpetuano un’agricoltura insostenibile, ha creato una classe di coltivatori dipendenti dalle sovvenzioni, disincentiva a diversificare le colture. Altri, tra cui Jha, fanno notare che molti coltivatori hanno già diversificato, anche in quelle regioni “granaio”, e coltivano ortaggi per il mercato urbano, o altre derrate: ma proprio per questo sanno già cosa significa essere in balia del “libero mercato”. Mentre nessun governo ha mai tenuto la promessa di investire in infrastrutture, magazzini refrigerati o altro a sostegno del mercato agricolo, e devono affidarsi a intermediari che hanno un potere spropositato.
Il sistema è insostenibile? Molti in India, anche tra gli oppositori alle leggi oggi contestate, concordano che il meccanismo dei mercati regolamentati va rivisto. Che quei Comitati di gestione (i succitati Agricoltural Produce Market Committees) in cui sono rappresentati enti locali e organizzazioni di agricoltori riflettono molti dei vizi della società più generale, dalle divisioni di casta e di classe, alle azioni di lobby di vari interessi, alla burocrazia. E però «non c’è dubbio che continuano a mitigare l’arbitrarietà dei prezzi e limitare le malversazioni ai danni dei coltivatori», osserva un editoriale di “Frontline”.

Il surplus di produzione tra esportazione e interessi privati

È anche vero che i silos della Food Corporation of India (ente di stato) straboccano di derrate: quasi 28 milioni di tonnellate di riso e 55 milioni di tonnellate di grano alla fine di giugno 2020, ben 42 milioni di tonnellate più di quelle che sono considerate riserve strategiche. Così l’India ha cominciato a esportare riso (12 milioni di tonnellate l’anno scorso) e grano (circa 6 milioni di tonnellate destinate a mangimi animali). Prem Shankar Jha osserva che, dai dati ufficiali, quel riso è stato venduto sul mercato internazionale a poco più di 7 miliardi di dollari, con un profitto di 4,18 miliardi di dollari rispetto al “prezzo mimino di supporto” che lo stato aveva pagato ai coltivatori. Fin troppo facile la conclusione: «Gli immediati beneficiari [della liberalizzazione] saranno i grandi esportatori a cui la Food Corporation venderà i suoi surplus» a poco più del prezzo minimo, conclude Jha. Tra i manifestanti è convinzione diffusa che tra questi i beneficiari abbiano un nome: le imprese di Mukesh Ambani e di Gautam Adani, due multimiliardari molto legati al primo ministro Modi (i quali smentiscono di avere interessi nel mercato agricolo). Non a caso in tutto il Punjab le proteste hanno preso di mira stazioni di benzina e ripetitori dei telefonini del gruppo Reliance (di Ambani), o i silos refrigerati del gruppo Adani.

La protesta attuale è solo una parte del problema

Forse è vero, la protesta di queste settimane rappresenta solo una parte del complesso mondo rurale indiano. Il sistema dei mercati regolamentati e del prezzo minimo in effetti riguarda solo riso e grano (il progetto di estenderlo ad altre derrate non è mai decollato), e non copre le zone più periferiche. Mentre la gran parte dei coltivatori – di cereali, cotone, ortaggi o altro – è già in balia del libero mercato: di intermediari che stabiliscono le regole; di grossisti che fissano prezzi e standard. Degli usurai a cui devono chiedere anticipi per comprare sementi e concimi. Delle oscillazioni dei mercati e del clima.
Senza contare che gran parte dell’India rurale, quella più marginale, coltiva per la sussistenza, non rientra nel computo economico, e dipende dall’uso delle terre comuni. È la parte più penalizzata dall’inarrestabile accaparramento di terre avvenuto negli ultimi trent’anni per permettere l’espansione di miniere, fabbriche e grandi imprese agro-industriali.
Gli agricoltori che assediano Delhi non hanno l’aspetto di “privilegiati”. Sono convinti che le tre leggi contestate siano il preludio ad abolire anche il Prezzo minimo e smantellare quel che resta del sistema di redistribuzione costruito negli anni postindipendenza: e allora sarà peggio non solo per loro ma per tutta l’India rurale. La posta in gioco è proprio questa.

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Tracce della distanza https://ogzero.org/africa-teatro-della-storia/ Sat, 16 Jan 2021 09:11:31 +0000 http://ogzero.org/?p=2221 Una primavera africana d’autunno   The sky carries a boil of anguish | Let burst Let the sky’s boil of anguish burst today | The pain of earth be soothed di Niyi Osundare [Il cielo porta con sé una bolla d’angoscia | Fa’ che scoppi Fa che la bolla d’angoscia nel cielo scoppi oggi | Si plachi […]

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Una primavera africana d’autunno

 

The sky carries a boil of anguish | Let burst

Let the sky’s boil of anguish burst today | The pain of earth be soothed

di Niyi Osundare

[Il cielo porta con sé una bolla d’angoscia | Fa’ che scoppi

Fa che la bolla d’angoscia nel cielo scoppi oggi | Si plachi il dolore della terra]

Due mesi di manifestazioni di massa, scontri con la polizia, feriti, morti, arresti, sparizioni. Donne, uomini, giovani, cristiani, musulmani, altri. Un’unica parola d’ordine: End Sars! Che non è un virus, ma un corpo di polizia [SARS Special Anti-Robbery Squad], istituito nel 1992] brutale, assassino, stupratore, torturatore. Parola d’ordine che poi diventa: Vogliamo un cambiamento! Maree di popolo, ora alte ora basse.

Nigeria: tre volte l’Italia, 200 milioni di abitanti, 250 gruppi nazionali/etnici, lingue e pratiche culturali e religiose diverse. È divisa in 36 Stati. La complessità non è a scelta.

Mappa dei 36 stati della Nigeria

I 36 stati della Nigeria con gli aspetti orogeografici

#EndSARS è l’hashtag di twitter che convoca in strada, elabora spostamenti e incontri, informa internazionalmente sugli eventi e le finalità, la Feminist Coalition organizza la campagna di raccolta fondi, l’assistenza medica e la tutela legale.

Il generale in pensione, Muhammadu Buhari (1942), attuale presidente della Nigeria, eletto nel 2015 e nel 2019, già capo di stato col golpe militare del 1983, sostituisce il SARS con uno Special Weapons and Tactics (SWAT) nuovo di zecca.

Negli stati del Nordest e ora anche del Nordovest, Boko Haram con affiliati e concorrenti intensifica la politica del caos con un’orgia di uccisioni, rapimenti, incursioni armate.

In questa occasione non lo si esamina.

Africa vero teatro della storia mondiale

Manifestazioni #EndSARS

Qua

Bisogna essere rabdomanti esperti per trovare nei media nostrani qualche goccia, qualche zampillo informativo. I nostri recettori sono molto selettivi. Black lives matter! Ma qui come fai che le nere vite stanno da entrambe le parti della barricata? Come possiamo sfoggiare il nostro impeccabile antirazzismo prêt-à-porter? Siamo in Africa, dove sono i bambini macilenti dal ventre gonfio? Un “Autunno nigeriano”, dici? Perché sono così complicate le società africane?

Aisha Yesufu

#BringBackOurGirls e #EndSARS sono la stessa faccia della medaglia, quella di Aisha Yesufu

Questa signora dal sorriso soffice e dal pugno energico si chiama Aisha Yesufu, è stata una delle promotrici di Bring Back Our Girls, il gruppo che ha fatto di tutto per riportare a casa le 276 liceali di Chibok rapite il 15 aprile 2014 dai miliziani di Boko Haram, riuscendoci solo parzialmente. Continua a essere molto attiva sia in #EndSARS sia sul piano dei diritti delle donne battibeccando con governo e dintorni.

Il suo dinamismo può scombinare il nostro sguardo cieco cementato duecento anni fa da G.W.F. Hegel, il mago fantasma che ancora ci incanta: «Come abbiamo già detto, il negro incarna l’uomo allo stato di natura in tutta la sua selvatichezza e sfrenatezza … Non è un continente storico, un continente che abbia da esibire un movimento e uno sviluppo … Per Africa in senso vero e proprio intendiamo quel mondo privo di storia, chiuso, che è ancora del tutto prigioniero nello spirito naturale … dopo aver sgombrato il campo dal continente africano, ci troviamo nel vero teatro della storia mondiale».

 

Sokoto Caliphate

Estensione del Califfato sovrapposta alla geografia politica attuale

A metà dicembre il sultano di Sokoto, Nigeria Nordovest, Sa’ad Abubakar ha detto quasi disperato: «Abbiamo perso così tante vite in passato che non siamo neppure in grado di contarle. È diventata una cosa normale, quotidiana. Così normale che è una notizia da raccontare quando non c’è nessun ucciso in qualche parte del nostro Paese».

Il sultano di Sokoto non ha più potere politico, è leader della confraternita (tariqa) sufi Qadiriyya, che risale all’XI secolo, ma resta una guida spirituale dei musulmani della Nigeria.

Mi pare di ricordare che nel XIX secolo anche in Europa diversi stati e staterelli abbiano avviato ingarbugliati processi di unificazione tramite guerre e diplomazia.È discendente di Uthman dan Fodio, filosofo, riformatore islamico, capo sufi, che nel 1804 dà il via a un jihad che rimpiazza i molti piccoli regni e le città-stato che caratterizzavano l’area, portando alla formazione di un Califfato con molti Emirati che, in qualche modo, governa venti milioni di persone. Già nel 1811 dan Fodio si ritira per tornare a studiare e predicare, muore nel 1817, 14 anni prima di Hegel.

A inizio Novecento la presenza inglese in Africa Occidentale si fa conclusiva: nel 1903 il potere politico passa di mano anche nel Sokoto, che diventa “protettorato britannico”.

 

La mia officina storica propone un esperimento minuscolo: si prenda un importante testo di storia della Nigeria (Toyin Falola, Matthew M. Heaton, A History of Nigeria, Cambridge University Press, 2008) e nelle numerose pagine dedicate, come si deve, a dan Fodio e al Califfato di Sokoto si riconosca l’invisibile, un’assenza, un vuoto. Nonostante il nigeriano Toyin Falola, docente negli Usa, sia oggi uno degli africanisti più accreditati con bibliografia da paura, non una riga, neppure in nota, concede in questa pregevole storia della Nigeria a Nana Asma’u.

Nana Asma’u (1793–1864) è figlia di dan Fodio, non è un’ombra molesta. Scrive 9 poemi in arabo, 42 in fulfulde (Fula dicono i linguisti), parlata oggi da 65 milioni persone, 26 in hausa, altra lingua dell’area, oggi usata da 47 milioni di parlanti. Organizza circoli educativi e letterari di donne che chiama Yan Taru [quelle che si riuniscono assieme, in hausa). Ritiene l’educazione delle donne fondamentale: «Donne, un avvertimento: non lasciate la casa senza buone ragioni. Si può uscire per cercare cibo o educazione. Nell’Islam è un dovere religioso cercare la conoscenza. Le donne possono liberamente lasciare la casa con questo scopo».

Le donne del gruppo poi si sparpagliano per formarne altre come educatrici itineranti (jajiis) e come seguaci del sufismo. Anche le sue cinque sorelle saranno molto attive sul piano culturale. Nina Asma’u esercita dunque un ruolo pubblico e avrà per questo una profonda influenza su altre donne, pensatrici e predicatrici, dell’Africa musulmana.

 

Annotava nel 1828 il governatore francese del Senegal, baron Roger, che nel paese «c’erano più neri in grado di scrivere e leggere in arabo, che per loro è una lingua morta e di istruzione, di quanti contadini francesi fossero in grado di leggere e scrivere in francese».

Appendice all’esperimento. G.W.F. Hegel dall’alto dell’Absolute Geist [“Spirito Assoluto”] annuncia urbi et orbi che der Neger ist Geschichtslos [senza storia], dunque Non-Umano. Figuriamoci la “negra”!

A far saltare i nervi al governo coloniale britannico nella seconda metà degli anni Venti del Novecento si erano impegnate molte donne, soprattutto nel Sud/Est della Nigeria. Iniziative di protesta collettive contro una tassazione mirata a loro stesse, che sfociano in un vero e proprio conflitto a fine 1929. Non un riot, un tumulto, ma un movimento sociale e politico con tracce di matriarcato precoloniale, di consolidate pratiche, mikiri, di aggregazione tra donne, di rituali danzanti di sberleffo del maschio – sitting on a man, di forte determinazione a migliorare la propria condizione. Vi partecipano sei diverse nazionalità/etnie, non solo Igbo, come recitano manuali ed enciclopedie. È una mascherata di donne con canti, danze rituali e improvvisate. Inizia al mercato e poi si dirige ai palazzi del potere. Quando non bastano le voci e le gambe, mani e braccia afferrano, spaccano, colpiscono, come storia insegna. Trascrivono in gesti la loro potenza.

Nonostante la feroce repressione e le cinquantatre donne uccise, l’apparato coloniale di governo deve riformarsi in profondità.

Foucault scrive da qualche parte che non ricordo: «ovunque vado, segretamente mi segue sempre Hegel».

Se Hegel fosse più o meno razzista lo decidano gli storici della filosofia, a noi tocca avviare la nostra svestizione dai comodi panni hegeliani.

 

Sud Nigeria, donne di una generazione successiva ricantano e ridanzano ancora contro una arbitraria tassazione imposta dal reuccio locale, Alake, indirect rule, warrant Chief, governatore al servizio degli inglesi: è dalla vagina che vuoi uomini siete nati, usi il tuo pene per sostenere che sei nostro marito | noi oggi usiamo la vagina per agire come tuo marito. Questa lingua sciolta dei loro canti è stata parlata e pensata da una mobilitazione di donne durata anni e culminata nella rivolta di Abeokuta nel 1949. Animatrice e organizzatrice Funmilayo Ransome-Kuti, esemplare modello di femminista del Novecento e madre di Fela Kuti, genio musicale, afrobeat, rivoluzionario, misogino.

[il 18 febbraio 1977, quando mille soldati irrompono nella residenza dell’eversivo Fela, la Kalakuta Republic a Lagos, la madre viene gettata dalla finestra del secondo piano. Muore l’anno dopo per le ferite riportate].

Africa vero teatro della storia mondiale

Educatrice nigeriana, militante politica, suffragista, attivista dei diritti delle donne.

Durante le manifestazioni #EndSARS è di nuovo riecheggiata Beasts of No Nation di Fela Kuti.

Ascolti

e scopri che i commenti ne riconoscono la visionaria attualità.

Nuovissime leve espandono il suono: Fikky

o Jeriq,

altre songs vengono assimilate prima ancora che gli autori prendano posizione,

come Fem di Davido


o Killin Dem di Zlatan X Burna Boy.

Il più direttamente politico This is Nigeria di Falz;

anche la spirituale Asa.


Un vero Sound System che si intreccia con la protesta e la nutre.

È l’audiopolitica che si snoda con le socialità collettive, non sta ai bordi, rinsalda voci, suoni, rumori e silenzio.

L’acustica di uno sbarco di emigranti a Lampedusa, degli slogan di una manifestazione ad Hong Kong, di un ospedale da campo in Libia, degli elicotteri pasciuti che scendono a Davos per resettare il mondo, dei blindati israeliani a Betlemme, dei passi sulla neve sopra Bardonecchia direzione Francia, delle piazze silenziose di certe metropoli in coprifuoco, del canto delle donne argentine dopo la nuova legge sull’aborto, delle voci dei bambini rohingya che scorrazzano sull’isola nell’oceano dove sono stati deportati, del mercato di Kabul, senza esplosioni. La ritmica di un call center, lo scioglimento sincopato dei ghiacciai, il rumore bianco di movida precovid, la polifonia fiamminga di un reparto maternità…

Non l’ho inventata io l’audiopolitica, l’ha concepita un giovinotto di Recanati (ehm!) duecento anni fa: le morte stagioni, la presente e viva e il suon di lei, con cui rivolge un invito a indagare anche il passato. Che suono aveva Auschwitz? Hiroshima? il socialismo reale, il comando coloniale…

Che swing hanno i droni delle neoguerre? Le fibre ottiche del web? Il contrappunto degli high frequency tradings? Qual è il canzoniere del neoliberismo…?

Ragazze liberate a Chibok

Liberate dalla prigionia le studentesse di Chibok, rapite da Boko Haram

[Qui, nel nostro canale linkedin trovate un ragionato apparato bibliografico elaborato da Claudio Canal, che approfondisce le tracce sparse in questo sguardo sulla Nigeria, con il chiaro intento di non essere condizionato dall’etnocentrismo occidentale: https://www.linkedin.com/pulse/tracce-della-distanza-adriano-boano/?trackingId=AvSXQ0pYSAC9eE2DLqIJDQ%3D%3D]

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Minsk: perché l’opposizione non ha rovesciato il regime? https://ogzero.org/minsk-perche-lopposizione-non-ha-rovesciato-il-regime/ Fri, 08 Jan 2021 12:49:46 +0000 http://ogzero.org/?p=2187 In Bielorussia proseguono le manifestazioni di protesta contro il regime di Alexander Lukashenko anche in questo gelido inverno. I riflettori dei media occidentali si sono andati via via spegnendo sulla tragedia di un popolo imprigionato da un bizzarro dittatore e con l’avanzare della stagione fredda anche le mobilitazioni autorganizzate in molte città si sono rarefatte. […]

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In Bielorussia proseguono le manifestazioni di protesta contro il regime di Alexander Lukashenko anche in questo gelido inverno. I riflettori dei media occidentali si sono andati via via spegnendo sulla tragedia di un popolo imprigionato da un bizzarro dittatore e con l’avanzare della stagione fredda anche le mobilitazioni autorganizzate in molte città si sono rarefatte. Da più di un mese i gruppi dell’opposizione e i collettivi informali di caseggiato a Minsk hanno deciso di evitare l’organizzazione di manifestazioni centrali che aveva punteggiato la straordinaria estate bielorussa, e si sono concentrati su iniziative di quartiere. Per far “passare ’a nuttata”, ma soprattutto per evitare un impietoso confronto tra le mobilitazioni oceaniche di qualche mese fa e quelle che l’opposizione sarebbe in grado di mettere in campo ora.

proteste a Minsk

Proteste oceaniche a Minsk in agosto 2020 (foto di Ruslan Kalnitsky)

Dunque a cinque mesi dall’inizio delle proteste seguite alle presidenziali, elezioni-farsa del 9 agosto scorso, la prospettiva di un cambio di regime appare oggi meno probabile, almeno a breve termine. E molti si chiedono: perché l’opposizione non è riuscita a rovesciare il Conducator di Minsk? Quali sono stati i suoi limiti? E, soprattutto, quali sono le prospettive?

Per rispondere a queste domande varrà la pena fare un passo indietro, anzi due.

Perché non hanno rovesciato il Conducator?

La società bielorussa già da anni appare divisa. Da una parte ci sono i settori più dinamici della società, raccolti intorno alla nuovissima industria hi-tech, al commercio al minuto, a un crescente movimento femminista (non tout court riconducibile per tematiche e radicalità a quello occidentale), alla gioventù delle aree metropolitane che richiedono a gran voce allentamento dell’autoritarismo, della grettezza misogina, un nuovo ascensore sociale che permetta l’ascesa non solo per chi è legato all’apparato presidenziale o alla filiera dell’industria statale. Si tratta di settori sociali urbani e metropolitani solo parzialmente riconducibili a una tendenza verso l’integrazione con il mercato dell’Unione Europea e ai suoi “valori”.

L’economia bielorussa è rimasta dall’epoca sovietica profondamente integrata a quella sovietica e la sua industria continua ad avere come mercato di sbocco (per il 60%) il mercato russo. La Russia volente o nolente, anche per i profondi legami culturali, resta un fattore della chiave per la Bielorussia, e lo resterà verosimilmente anche nel futuro. Non è un caso che solo raramente – e solo dopo che Putin ha chiaramente espresso il suo endorsement per Lukashenko – sono apparsi dei cartelli antirussi durante le manifestazioni dell’opposizione. Dall’altra parte, il regime continua a raccogliere un certo consenso – seppur passivo – nel vasto mondo agricolo bielorusso, il cui export è praticamente solo in direzione di Mosca e dell’apparato amministrativo. Un primo errore dell’opposizione è stato sottovalutare questa parte della società.

Il ruolo della classe operaia: la vendita della pelle dell’orso bielorusso

L’irrisione di “Sasha 3%” dopo un improbabile sondaggio che dava il presidente in carica una popolarità ridottissima se è servita inizialmente a dar coraggio a una opposizione marginalizzata, ha finito per diventare un boomerang quando una parte del movimento antiregime ha iniziato a credere che Lukashenko avesse perso completamente contatto con la società civile. Non essendoci elezioni libere e non manipolate nel paese è difficile valutare il grado di consenso attuale di Lukashenko ma è immaginabile pensare che possa godere ancora del 40-50% di sostegno. Ripetiamo, passivo ma sufficientemente ampio. In mezzo ai due schieramenti, c’è essenzialmente, la classe operaia. Una vasta working class composta di tradizionalissime tute blu, per nulla postfordista, che rappresenta ancora oggi nel paese slavo la metà della popolazione attiva.

Negli anni Novanta del secolo scorso e nel primo decennio del nuovo millennio questa classe operaia fu la spina dorsale del regime bielorusso. A differenza degli altri paesi ex sovietici infatti Lukashenko aveva impedito la privatizzazione di buona parte delle imprese e, malgrado i bassi salari, la piena occupazione era stata garantita assieme al mantenimento del welfare seppur in salsa sovietica. Ma le cose sono iniziate a cambiare negli ultimi anni quando i salari reali hanno cominciato a ridursi, è stata avviata la “riforma” del sistema previdenziale con l’aumento dell’età pensionabile e sono state introdotte forme di lavoro precario e tra le tute blu è iniziata a serpeggiare l’inquietudine. Si può ritenere che la maggioranza dei lavoratori delle grandi impresi delle grandi città il 9 agosto 2020 abbiano votato per la candidata unitaria dell’opposizione Svetlana Tichanovskaya, seppur con qualche perplessità.

opposizione

Svetlana Tichanovskaya, leader dell’opposizione al regime, con le sue collaboratrici (foto di Svetlana Turchenick)

Il malumore latente degli operai nei confronti del regime è poi venuto fuori in modo ancora più evidente dopo la mattanza di stile cileno contro i manifestanti seguita alle poderose manifestazioni della prima settimana dopo le elezioni-farsa che portarono alla morte di 4 persone, a decine di feriti gravi, a migliaia di arresti e alle torture in carcere. Nel giro di pochi giorni, in quel frangente, gli operai scesero in sciopero e in assemblea e misero di fatto la parola fine alle violenze più efferate degli Omon e delle forze dell’ordine. Ma non si spinsero oltre, non abbatterono il regime con lo sciopero generale. Non solo, e non soprattutto perché, la macchina repressivo-paternalistica dei “direttori rossi” si mise in moto per far rientrare gli scioperi, ma in particolare perché non si fidarono di un’ipotesi – quella propugnata dalla “direzione” del movimento di opposizione – che allude a privatizzazione e turbo-neoliberismo per la Bielorussia di domani.

La sottile linea rossa: limite invalicabile per il Cremlino

D’altro canto la presunta “direzione” del movimento si è squagliata o è stata repressa rapidamente. Ciò che è rimasto in campo è un vasto movimento semispontaneo articolato e ramificato di comitati di quartiere, studenteschi e collettivi femministi difficilmente riconducibile a ipotesi politiche definite. Un elemento di ricchezza che rappresenta al contempo un elemento di debolezza di fronte a un sistema repressivo che non ha subito defezioni e fratture particolari. Allo stesso tempo il sostegno di Putin a Lukashenko è stato in grado di stabilizzare negli ultimi mesi la situazione interna.

La traiettoria della crisi bielorussa resta una pedina decisiva nella scacchiera politica estera russa. Dmitry Peskov, il portavoce di Putin, ha sostenuto in una recente intervista televisiva, che la Bielorussia “resta una linea rossa” da non superare per i paesi occidentali e lo stesso vale per la Moldavia, o meglio ancora per la Transnistria: lo sgretolamento delle ultime cittadelle ex sovietiche alleate di Mosca rende agitati, inevitabilmente, i sonni al Cremlino.

Il livello di benessere dei cittadini bielorussi ha continuato a contrarsi, lentamente ma inesorabilmente, negli ultimi anni. Dopo aver raggiunto il suo apice nel 2014 quando, secondo la Banca mondiale, il Pil pro capite aveva raggiunto gli 8300 dollari al tasso attuale di cambio, nel 2019 si è attestato a 6700 dollari. Il confronto con la vicina Polonia dove è quasi il triplo, continua a essere, da questo punto di vista, impietoso. La gestione – disastrosa, in tutta una prima fase da parte di Lukashenko – della pandemia è stata corretta in una posizione non apertamente “negazionista” anche se di lockdown non si è mai parlato e Mosca ora sta mandando a Minsk già decine di migliaia di dosi di vaccino anti-Covid19. Mosca ha teso una mano alla repubblica bielorussa già da settembre: durante un incontro ai massimi vertici a Soci il presidente russo non è stato prodigo solo di un sostegno formale a Lukashenko, ma ha concordato un prestito a Minsk per un importo di 1,5 miliardi di dollari.

Il dispendioso paternalismo energetico russo potrà contenere il malcontento?

In precedenza Mosca aveva sovvenzionato una media del 10% del Pil bielorusso attraverso prestiti, sconti sul petrolio e gas, altre regalie. La stessa centrale nucleare appena costruita da Rosatom sul territorio del piccolo paese slavo è stata di fatto completamente finanziata da Mosca e non verrà, verosimilmente, mai ripagata. Si tratta di una politica di patronato che un alleato come la Russia, anche in epoca sovietica, ha sempre tradizionalmente sviluppato, per tenere al guinzaglio i paesi delle allora “democrazie popolari”, però costosa e non priva di rischi.

Riprenderanno dunque vigore le manifestazioni con i primi tepori primaverili? C’è da ritenere di sì. La società bielorussa appare ormai frantumata e le contraddizioni apertesi non appaiono più ricomponibili. L’ipotesi che si vada verso uno scenario polacco appare verosimile. Dopo l’esplosione di Solidarność il generale Yaruzelski, negli anni Ottanta del XX secolo, riuscì a mantenere a galla il paese con l’aiuto del “grande fratello” russo per qualche anno, ma non riuscì mai a stabilizzare definitivamente la situazione. Per Lukashenko si tratta di un incubo, ma le alternative per lui non sono molte. Un effetto di trascinamento della crisi, allo stesso tempo, spingerebbe il movimento democratico sempre più nelle braccia dei paesi occidentali come già successe a Varsavia, i quali anelano a trasformare la Bielorussia in una sorta di Svizzera tax-free con forza-lavoro a basso prezzo. Una soluzione a cui guardano con particolare interesse i paesi del gruppo di Visegrád e i baltici. In questo contesto la Bielorussia rischierebbe di trasformarsi in un altro tassello di quella filiera di paesi dell’Unione Europea, politicamente reazionari soprattutto per quanto riguarda i diritti civili e dei lavoratori.

Boiardi bielorussi in orbita moscovita: disperati epigoni di Sasha

Una prospettiva che i facitori della politica estera del Cremlino vogliono disperatamente evitare. Per mantenere la sua influenza in Bielorussia, Mosca intende creare una rete di leader politici, strutture, think tank e anche una rete informativa. A questo proposito, si sta sviluppando la cosiddetta “Strategia di lavoro nella Repubblica di Bielorussia”, per giungere alla formazione di un partito di opposizione moderato filorusso, che secondo il portale “The Insider”, dovrebbe denominarsi “Diritto del popolo”. Già da settembre-ottobre si starebbe alacremente lavorando a questa soluzione dopo che Lukashenko si è rifiutato di scarcerare Viktor Babariko, il candidato più moderato tra quelli non ammessi al voto di quest’estate e legato a doppio filo con il colosso del gas russo Gazprom.

Tra gli uomini che dovrebbero far salpare a breve il “partito russo” ci sarebbero il presidente del consiglio di amministrazione dell’associazione Assistenza e sviluppo Maxim Leonenkov, il fondatore della Ferment Valery Bestolkov, il presidente del consiglio di amministrazione di Farmland Ivan Logovoy, il direttore del Centro per la trasformazione digitale Maxim Tarasevich, il presidente di Confindustria bielorussa Alexander Shvets, il cofondatore della Ipm Business School, Pavel Daneiko. Un pacchetto di mischia di tecnocrati pronto a gestire l’addio di Lukashenko senza allentare gli storici legami con Mosca. L’obiettivo sarebbe quello di trovare consenso nella “classe media” bielorussa con un programma ben calibrato di privatizzazioni di piccole e medie imprese e un ampliamento e modernizzazione del sistema distributivo. Che l’operazione possa riuscire è dubbio, anche perché rischia di essere una gara contro il tempo. E il tempo a Minsk rischia di scadere, se non è già scaduto.

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Iraq: la rabbia dei giovani non si ferma con i proiettili https://ogzero.org/iraq-la-rabbia-dei-giovani-non-si-ferma-con-i-proiettili/ Tue, 29 Dec 2020 11:41:56 +0000 http://ogzero.org/?p=2132 L’anno scorso migliaia di iracheni scesero in strada per protestare contro la corruzione delle istituzioni. Le proteste erano guidate soprattutto dai giovani, una generazione cresciuta con TikTok e PUBG e altri social media che intendeva ricordare ai partiti politici al potere e ai loro leader che il potere era nelle loro mani, non nella fortezza […]

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L’anno scorso migliaia di iracheni scesero in strada per protestare contro la corruzione delle istituzioni. Le proteste erano guidate soprattutto dai giovani, una generazione cresciuta con TikTok e PUBG e altri social media che intendeva ricordare ai partiti politici al potere e ai loro leader che il potere era nelle loro mani, non nella fortezza costituita dalla Green Zone.

Le rivendicazioni riguardavano disoccupazione, incompetenza del governo, mancanza di servizi, corruzione endemica, la presenza di milizie armate e la diffusione crescente della povertà nel paese. La popolazione irachena è giovane, il 37,2 per cento sotto i 14 anni, il 19,8% tra i 15 e il 24 per cento. Questa nuova generazione costituisce circa il 60 per cento della popolazione totale e i suoi sogni, le aspirazioni e la realtà sono completamente diversi da quelli della generazione precedente. Non ricordano la brutalità del regime precedente o i crimini perpetrati contro famiglie e amici – ricordano e parlano dei crimini e delle atrocità che hanno conosciuto dal 2003 in poi; sono pieni di rabbia contro l’1 per cento della popolazione che ha razziato le ricchezze del loro paese.

L’Iraq dopo il 2003

L’Iraq non era capace di instaurare una democrazia efficiente o una prosperità economica dopo la caduta di Saddam Hussein. Piuttosto, dopo il 2003 il paese è stato imbrigliato nella corruzione, nel settarismo, nei processi di privatizzazione, nella cleptocrazia e nel potere dei gruppi armati. Nonostante questo, il popolo iracheno si è dimostrato resiliente, si è assistito a un cambio della guardia ai vertici, alla nascita di nuove piattaforme mediatiche pubbliche, di organizzazioni della società civile e in qualche misura anche di un sistema politico pluralista.

La rabbia pubblica affonda le proprie radici nella mancanza di fiducia nel processo politico. Si richiedono elezioni libere e giuste. I politici sunniti, curdi e sciiti hanno continuato a fomentare un sentimento nazionalista e settario per ottenere legittimazione e di conseguenza consolidare il proprio potere, ma i giovani si sono stufati di queste vuote istanze di fronte a una strutturale povertà.

La realtà economica e la corruzione

La rendita di posizione del sistema economico iracheno basata sul petrolio ha devastato l’economia e la dipendenza da questa materia prima per appianare il bilancio di stato ha rafforzato i gruppi armati, depauperato le finanze pubbliche e reso irrisolvibile il problema della corruzione; ha portato al declino dell’agricoltura – i ceti più bassi e poveri hanno fatto le spese della privatizzazione e il mercato libero manca di una reale e genuina competizione. Al contrario, i partiti politici, le tribù di appartenenza e le loro milizie hanno monopolizzato l’intero mercato. Questo modello economico non attira i giovani perché senza l’ancora di salvezza della corruzione non avrebbero accesso al sistema che è costruito a beneficio di pochi e a detrimento dei più.

Il governo non è in grado di creare posti di lavoro. Il settore privato non è dinamico e la mancanza di stabilità impedisce gli investimenti stranieri che si concentrano per lo più sul settore petrolifero e trascura altri ambiti. Il fallimento dell’Iraq nel diversificare la propria economia e mettere fine a un sistema economico disfunzionale ha portato alla formazione di una generazione che brama un vero cambiamento e politiche lungimiranti in grado di rivitalizzare un’economia sana.

Al di fuori del sistema divisivo

Furono i giovani a dar vita alle proteste, delusi dal sistema attuale. Gli iracheni hanno patito la guerra al terrorismo e hanno dato ai loro leader più di una possibilità di riformare il paese, ma questi hanno nuovamente fallito, continuando a perseguire una mentalità tribale, non una strategia politica nazionale volta a dare prosperità al paese.

Allo scoppiare delle rivolte nell’ottobre 2019 le organizzazioni e i partiti politici iracheni hanno tentato di fiancheggiare la protesta con l’intento di rafforzare il consenso e legittimare la loro presenza. Tra questi il leader populista Muqtada al-Sadr, che appoggiava i rivoltosi e le loro richieste. Mentre i manifestanti miravano per lo più a stabilire una democrazia efficiente, a creare opportunità lavorative, ci si chiede come potessero accettare il sostegno di qualcuno Muqtada al-Sadr che non crede nell’uguaglianza tra generi e considera la democrazia uno strumento per ottenere potere, non un principio su cui fondare politiche basate su valori sociali. La risposta a questa domanda è che l’assenza di un apparato di sicurezza in Iraq significa che i dissidenti possono essere rapiti dalle milizie filoiraniane e che a volte il governo chiude un occhio in cambio di forme di protezione da parte di personaggi come Muqtada al-Sadr.

In Iraq esiste una serie di movimenti liberal, comunisti e filodemocratici che hanno sempre sostenuto le proteste. Anche le donne hanno giocato un ruolo cruciale, e si può dire che questa è stata la prima occasione in cui il loro ruolo è stato visibile in modo significativo durante le manifestazioni. Inoltre, i dimostranti sono riusciti a sfuggire al sistema etnico divisivo preminente nella politica del paese.

Repressione e manipolazione

Parecchi fattori hanno contribuito all’esaurimento delle manifestazioni: innanzitutto il ruolo del governo e della milizia armata nell’azione brutale di repressione dei manifestanti, dove si stima che 700 siano stati uccisi, 15.000 feriti e a centinaia si contano le persone arrestate, rapite o costrette a far perdere le proprie tracce; alcuni protagonisti del movimento hanno trovato rifugio nel Kurdistan iracheno. A ciò si aggiunge il fatto che Muqtada al-Sadr ha ritirato il suo appoggio alle proteste una volta raggiunto il suo obiettivo, una volta conseguito da parte dei manifestanti il risultato dello scioglimento del governo.

L’epidemia da coronavirus esplosa globalmente ha posto sostanzialmente fine a tutte le proteste perché nessuno era nella condizione di potersi mobilitare. Si prevede che una contrazione della crescita irachena di 9,5% nel 2020, l’anno peggiore dal 2003. Questo ha spinto il governo a pubblicare un Libro bianco, un documento politico in soccorso alla nazione in questa pericolosa congiuntura, consentendo di approvare una legge deroga sul deficit, che permetterebbe al governo di ottenere un prestito di 10 miliardi di dollari per coprire le spese straordinarie. Il governo non è riuscito a convincere il parlamento a richiedere un prestito di 35 miliardi di dollari, e questo ha portato a un’imposizione della svalutazione della divisa irachena rispetto alla valuta statunitense, dato che l’Iraq vende il suo petrolio in dollari e paga i dipendenti pubblici in dinari iracheni. Il motivo principale della riduzione è l’attivazione delle riforme economiche per evitare un grave deficit di bilancio.

Il governo iracheno ha anche avviato misure di austerità, che tuttavia porteranno ulteriore svantaggio a chi è già povero e con mezzi di sostentamento limitati, senza offrire opportunità di lavoro per coloro già oltremodo disagiati.

Il nuovo governo di Mustafa al-Khadimi

Il nuovo governo, condotto dall’ex capo dei servizi segreti, l’attuale primo ministro Mustafa al-Khadimi, si trova ad affrontare numerosi ostacoli. Aveva sperato di tenere elezioni generali il prossimo anno per poter attuare riforme istituzionali. Tuttavia, l’incombente conflitto tra Usa e Iran (per procura in Iraq), le dispute con il governo regionale curdo la pandemia globale per coronavirus, le incursioni turche nel Nord del paese, la costante presenza della milizia iraniana, l’insorgere di attacchi terroristici, il forte calo dei prezzi del petrolio rendono impossibile immaginare per il governo di poter venire incontro alle richieste dei dimostranti.

Quindi è probabile che le proteste ricominceranno in Iraq, è solo questione di tempo. Il lato positivo di tutto ciò è che i giovani iracheni sono disposti a rischiare la loro vita, finché non verrà loro proposta una reale democrazia e un percorso di risanamento economico. Non sono più disposti a sopportare le dichiarazioni retoriche a effetto sul futuro della nazione.

La protesta dilaga nel Kurdistan iracheno

Sulla medesima lunghezza d’onda le proteste in Iraq possono aver ispirato le manifestazioni nelle città curde del dicembre 2020. I giovani curdi, allo stesso modo di quelli di Baghdad, erano pieni di rabbia, e han dato fuoco a diversi uffici del partito politico al potere. L’aspetto sostanzialmente più importante di questi scontri nella regione del Kurdistan è che i manifestanti erano tutti estremamente giovani, senza aspirazioni o ideologie politiche, e semplicemente arrabbiati per le ineguaglianze e la sistematica corruzione che hanno sopportato per anni. Le autorità curde hanno represso le manifestazioni sparando munizioni vere, uccidendo 8 persone, ferendone molte altre e arrestando centinaia di attivisti.

Le proteste nella regione del Kurdistan iracheno potrebbero essere in qualche modo immuni questa volta da interferenze politiche perché la rivalità politica in quest’area vede un minor grado di competizione rispetto a Baghdad dato che qui i due partiti politici di riferimento e le loro tribù hanno già consolidato il loro potere a tal punto da tenere sotto controllo anche i principali partiti d’opposizione che avrebbero potuto sostenere le proteste.

Una sfida che credo qualunque movimento di protesta si trovi ad affrontare è la vulnerabilità nel venire sequestrato e dirottato dai suoi iniziali obiettivi e dalle legittime richieste – come hanno cercato di fare al-Sadr, le fazioni filoamericane e filoiraniane – specialmente dal momento che il movimento non ha un leader palese. Vediamo per esempio volti di primo piano della protesta diventare membri importanti dell’amministrazione di Kadhimi ed è evidente il tentativo di quest’ultimo di corrompere componenti del movimento per portarli dalla propria parte, ma senza farsi carico realmente delle richieste dei dimostranti.

I proiettili non li fermeranno

Se c’è una cosa da imparare dalla storia è che le aspirazioni giovanili e le manifestazioni non finiscono quando le forze di sicurezza sparano proiettili veri. Fermentano, la rabbia infuria e sale finché raggiunge il punto di ebollizione. Ancora più importante è il fatto che fin dalla costituzione dello stato iracheno alla fine della Prima guerra mondiale, i governi sono stati rovesciati da colpi di stato, poteri stranieri, o pressioni di partiti politici, ma nel 2020 il governo è stato costretto a dimettersi per la pressione dei giovani manifestanti. Questo è un cambiamento essenziale per il paese, e può semplicemente modificare la direzione della nazione in modo permanente.

Lunedì 28 dicembre 2020 nella trasmissione “Bastioni di Orione” su Radio Blackout si è tratto spunto da questo articolo per rievocare l’anno di lotta di questo movimento iracheno:

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La sfida dei curdi è una sfida per l’umanità https://ogzero.org/la-sfida-anarchica-del-rojava/ Mon, 14 Dec 2020 22:17:21 +0000 http://ogzero.org/?p=2071 Prendiamola larga. Riguardo all’annoso dilemma se sia nato prima l’uovo o la gallina, dopo accurate ricerche storico-paleontologiche, propendo decisamente per l’uovo. L’uovo, naturalmente, di qualche piccolo dinosauro ricoperto di piume e penne che – gradualmente o con un improvviso “salto evolutivo” – produsse quello da cui nacque l’antenato ancestrale della gallina. Ovviamente si può dissentire. […]

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Prendiamola larga. Riguardo all’annoso dilemma se sia nato prima l’uovo o la gallina, dopo accurate ricerche storico-paleontologiche, propendo decisamente per l’uovo. L’uovo, naturalmente, di qualche piccolo dinosauro ricoperto di piume e penne che – gradualmente o con un improvviso “salto evolutivo” – produsse quello da cui nacque l’antenato ancestrale della gallina. Ovviamente si può dissentire.

Parimenti, sull’altra sofferta questione se sia nato prima il capitalismo o lo sfruttamento, le gerarchie sociali… propendo – come mi pare sostenga anche Öcalan – per assegnare la primogenitura alla gerarchia, al potere.

Ma – così come le galline disseminano di uova il pollaio e le immediate vicinanze – così il capitalismo ha diffuso a pioggia l’oppressione nelle sue svariate e molteplici forme.

Esiste tuttavia qualche differenza sostanziale. Personalmente (in quanto vegetariano, ma non solo) non appenderei mai una gallina al lampione.

10-100-1000… Rojava?

Il Rojava, un enigma sospeso tra mille buone ragioni e qualche “effetto collaterale” magari indesiderato.

Tra la guerra e l’autogestione, la resistenza e l’ecologia, il rifiuto delle gerarchie e la necessità dell’autodifesa, la rivoluzione delle donne e le milizie in armi…

Un “groviglio” non indifferente.

Per capirci qualcosa di più, abbiamo consultato la mappa realizzata da Norma Santi e Salvo Vaccaro. Un paziente lavoro di documentazione dell’avventuroso, audace esperimento sociale intrapreso dai curdi e dagli altri popoli presenti nella regione considerata, il Rojava. Un testo che analizza – criticamente – soprattutto il versante libertario, la componente “anarchica” (in senso lato).

In La sfida anarchica nel Rojava (pubblicato da “La Biblioteca Franco Serantini”), risulta particolarmente stimolante e chiarificatore  – oltre a quelli di Salvo Vaccaro, Norma Santi e Debbie Bookchin – l’intervento di Raul Zibechi. Essenziale, direi.

Acutamente, risolve una – solo apparente – contraddizione. Ossia, il fatto che tali accadimenti («…il popolo in armi, il ruolo di spicco delle donne, l’autogoverno…») sembrano attendere, per manifestarsi adeguatamente, i tempi duri, le condizioni difficili, se non addirittura disperate («…durante una guerra, in una situazione estremamente critica per la sopravvivenza»). Come avvenne del resto in Ucraina nel 1921 e in Catalunya nel 1936.

Dopo una breve ricostruzione storica delle essenziali vicende (accordi segreti Sykes-Picot del 1916, Dichiarazione Balfour, Trattato di Sèvres del 1920, Trattato di Losanna del 1923, Trattato di Residenza Forzata imposto dalla Turchia nel 1930, le numerose – una trentina – rivolte tra il 1920 e il 1940, l’insurrezione di Dersim nel 1938, la repressione turca degli anni Ottanta e Novanta…), lo scrittore uruguayano spiega come proprio dalla sostanziale evaporazione delle strutture  statali nel Nord della Siria (2011) sgorgasse sia la necessità che la possibilità di formare le Unità di Protezione del Popolo (Ypg) e le Unità di Difesa delle Donne (Ypj), le milizie che l’anno dopo avrebbero liberato Kobane e altre città consentendo al Pyd (Partito dell’Unione Democratica) e al Knc (Consiglio Nazionale Curdo) di amministrare in base ai principi del Confederalismo democratico (ossia del municipalismo libertario). E in seguito – nel gennaio 2013 – ai cantoni di Jazira, Efrin e Kobane di proclamare la loro autonomia. Tra le macerie della guerra civile, i curdi avevano cercato e individuato la «loro strada attraverso l’autogoverno». Un esempio di possibile convivenza pacifica tra curdi, arabi, aramaici, armeni, turcomanni, ceceni…

Zibechi sembra poi voler polemizzare – se pur garbatamente – con l’inveterata abitudine di attribuire sempre e comunque «l’adozione del Confederalismo democratico alla prigionia di Abdullah Öcalan e all’influenza del pensatore  e militante statunitense Murray Bookchin». In fin dei conti, sostiene, «si tratta di una visione colonialista». Invece «la popolazione curda, come gli indigeni latinoamericani, si costituisce attorno a comunità contadine che determinano la loro  identità e la loro cultura». E la proposta del Confederalismo democratico sarebbe quindi «ancorata al recupero delle tradizioni della Mesopotamia». Quelle che altrove definisce «tradizioni libertarie del popolo curdo».

E proprio il nuovo orientamento del Pkk, precedente alla carcerazione di Apo, costituì un elemento che doveva scatenare la «reazione furibonda  degli Stati Uniti e dei loro alleati che decisero di definirlo terrorista e di perseguire il suo dirigente Abdullah Öcalan». I fatti successivi sono tristemente noti. Espulso dalla Siria, poi anche dalla Russia, dopo un breve soggiorno in Italia (pare che in un primo momento D’Alema avesse garantito a Bertinotti l’asilo politico per il leader curdo perseguitato), Öcalan venne catturato – in un’operazione attribuita alla Cia e al Mossad – mentre dall’ambasciata greca in Kenya si recava in Sudafrica (su invito di Nelson Mandela).

Per Zibechi il Pkk costituirebbe un serio problema per l’imperialismo in quanto «ora possiede una proposta  per tutti i popoli del Medio Oriente». Esprimendo le note “quattro critiche”  allo stato-nazione (in sintesi: qualsiasi stato si fonda sul dominio di una classe, presuppone il dominio di un gruppo etnico o religioso sopra gli altri, tutti gli stati si appoggiano sul patriarcato, lo stato ha necessità di una economia produttivistica che porta alla distruzione della madre Terra).

Per cui «non si può farla finita con il capitalismo senza eliminare lo stato e non possiamo liberarci dello stato senza liberarci del patriarcato».

Di passaggio l’autore rimprovera ai partiti della sinistra turca, anche a quelli della sinistra rivoluzionaria, l’evidente inadeguatezza di fronte alla questione curda. A tale riguardo andrebbe evidenziato come invece, proprio le esperienze di resistenza e autogoverno dei curdi sia in Rojava che – per quanto umanamente possibile – in Bakur, abbiano risvegliato – “ringiovanito” – la sinistra turca, rimasta parzialmente “tetanizzata” dopo il golpe del 1980*.

Contributi statunitensi

Tra i vari contributi, numerosi  – prevalenti direi – quelli di autori statunitensi (Debbie Bookchin, Paul Z. Simons, Janeth Biehl, Marcel Cartier*, David Graeber, il sito itsgoingdown).

Non è detto (pensando alla storia della sinistra d’oltreoceano) che siano sempre i più indicati per comprendere tali dinamiche.

È possibile infatti che La Commune, Kronstadt, la Maknovicina, le collettivizzazioni in Catalunya e Aragona del 1936-1937… (fonte di ispirazione, se non addirittura propedeutiche, per quella analoga del Rojava) siano esperienze riconducibili alla tormentata, secolare storia delle classi subalterne europee**. Per qualche autore, niente di più e niente di meno che la «prosecuzione con altri mezzi» delle jacqueries del 1300, delle guerre contadine e delle insorgenze ereticali. Non certo al «turbinio di cattivo acido, al mandarino, di amore libero e della famiglia Manson» che – come doveva ammettere il compianto Paul Z. Simon – contraddistinse le “comuni” nordamericane.

Murray Bookchin: ripensare l’etica, la natura e la società 

Senza fare però di ogni erba un fascio e sottolineando che comunque ci sono nordamericani e nordamericani.

Significativo e importante conoscere – attraverso la testimonianza della figlia – l’origine del rapporto tra il pensatore anarchico – statunitense, ma di origine russa – Murray Bookchin (che molti di noi ricordano, basco in testa, a Venezia nel 1984) e Öcalan.

Racconta la giornalista Debbie Bookchin, esponente dell’Institute for Social Ecology, di quando Murray le rivelò – in modo casuale e disinvolto – che «apparentemente i curdi hanno letto il mio lavoro e stanno cercando di mettere in pratica le mie idee». Un corpo di idee che il filosofo e storico aveva denominato «ecologia sociale». In quei giorni (aprile 2004) Bookchin padre aveva ricevuto una lettera da un intermediario (un traduttore tedesco, Reimar Heider) che scriveva a nome del militante curdo imprigionato a Imrali.

Comprensibile un certo iniziale stupore, visto e considerato che fino ad allora nulla dell’ideologia del fondatore del Pkk «sembrava in alcun modo assomigliare a quella di mio padre». Invece, come spiegò Heider, «Öcalan stava leggendo le traduzioni turche dei libri di mio padre in carcere e si considerava un suo bravo studente»***. Libri che Öcalan aveva potuto ottenere in carcere in quanto necessari alla preparazione di una strategia legale per la propria difesa durante il processo per tradimento. Individuando nella formazione e sviluppo dello stato-nazione (a partire dalle prime espressioni conosciute in Mesopotamia, in contemporanea con la nascita dell’agricoltura, dell’allevamento, della schiavitù, dell’oppressione delle donne…) le origini storiche del conflitto turco-curdo ed elaborando una soluzione democratica per ristabilire un rapporto di reciproco rispetto e di convivenza. Non solo tra curdi e turchi, ma fra tutti i popoli del Medio Oriente.

Il cammino intrapreso dal Pkk (fino ad approdare – nel 1998 – al Confederalismo democratico) era iniziato nei primi anni Novanta (quindi prima della cattura di Öcalan) in coincidenza con la caduta del socialismo reale. Una nuova strategia che rifletteva – tra l’altro – i cambiamenti demografici avvenuti nella società curda. Dei tredici milioni di abitanti di Istanbul, ricorda la giornalista «sei milioni sono curdi» e altri quattro milioni sarebbero i curdi emigrati in Europa. Al punto che ormai, secondo Debbie Bookchin «la maggior parte dei curdi non vive in Kurdistan». Ne consegue pertanto che «la lotta principale non  è più nazionale, ma sociale».

In qualche modo “più attraente” anche per tutti quei soggetti oppressi e sfruttati, umiliati e offesi che – senza esser curdi – subiscono comunque il tallone di ferro dell’imperialismo e dei vari regimi.

Purtroppo le circostanze sfavorevoli non consentirono un incontro di persona tra i due. Bookchin era già anziano e con problemi di salute, Öcalan in carcere, spesso sottoposto a lunghi periodi di isolamento. Per cui i loro contatti si limitarono a uno scambio epistolare. Nell’ultima lettera aveva scritto: «La mia speranza è che il popolo curdo possa un giorno essere in grado di creare una società libera e razionale che permetta al loro splendore ancora una volta di prosperare. Hanno la fortuna di avere un leader del talento di Öcalan per guidarli».

Alla morte di Bookchin (30 luglio 2006), il Pkk lo volle ricordare con una dichiarazione – presumibilmente dettata dallo stesso Öcalan – di due pagine in cui lo definiva «uno dei più grandi scienziati sociali del ventesimo secolo».

E aggiungeva: «Ci ha introdotti al pensiero dell’ecologia sociale, e per questo verrà ricordato con gratitudine dall’umanità. […]  Ci impegniamo a far vivere Bookchin nella nostra lotta. Metteremo questa promessa in pratica come la prima società che stabilisce un tangibile Confederalismo democratico».

Altrettanto meritevoli di attenzione altri contributi internazionali e internazionalisti: latino-americani (l’uruguayano Raul Zibechi, già nominato), turchi (l’intervista a Devrimci Anarsiste Faaliyet) italiani (Norma Santi, Salvo Vaccaro, Eleonora Corace), curdi (Dilar Dirik, Hawzhin Azeer – citata in “Rivoluzionari o pedine dell’Impero?”), tedeschi e – presumibilmente – francesi (G.D. & T.L.).

Per la rivoluzione, non per il martirio e nemmeno per farsi pubblicità

Esaurienti e significative le interviste a chi materialmente “si è sporcato le mani”, i militanti integrati nelle Ypg, Ypj e Irpgf.

In Non per il martirio (a cura di CrimethInc), oltre a spiegare le diverse motivazioni che possono aver spinto giovani turchi, europei, statunitensi a combattere con i curdi, non si lesina qualche critica a certi atteggiamenti e comportamenti. Per esempio di quelli che «provano un enorme piacere a mostrare i loro volti, posano con le armi in pugno e gongolano dei loro successi». Spiegando che – purtroppo – non sono mancati i casi di volontari che «hanno usato il conflitto nel Rojava come veicolo per farsi pubblicità, che fa un po’ parte della logica dell’età del selfie e dei social media». Questo ha permesso ad alcuni di loro (comunque una «piccola percentuale dei combattenti internazionali, in nessun modo rappresentativi delle motivazioni e delle azioni della maggior parte») di «guadagnare piccole fortune scrivendo libri e usando la rivoluzione per i loro guadagni personali». E questa, lo dicono fuori dai denti «è la peggior forma di avventurismo e di opportunismo».

Anche per rispetto a tutti gli internazionalisti morti combattendo contro il califfato (Daesh) o contro l’esercito turco. Tra cui molte compagne: Barbara Kistler, Andrea Wolf, Ivana Hoffman, Ayse Deniz Karacagil, Anna Campbell, Alina Sanchez…

E nel  suo “Poscritto” Norma Santi ricorda in particolare i compagni anarchici caduti: Michael Israel, Robert Grodt, Haukur Hilarsson, Anna Montgomery Campbell (già ricordata), Sehid Sevger Ara Makhno, Lorenzo Orsetti.

Senza dimenticare altri cinque anarchici (Alper Sapan, Evrim Deniz Erol, Caner Delissu, Serat Devrim, Medali Barutcu) uccisi nella strage jihadista di Suruc (20 luglio 2015) costato la vita a 33 giovani turchi e curdi (membri della Federazione delle Associazioni dei Giovani Socialisti) che intendevano portare aiuti ai civili evacuati da Kobane.

Un libro da consultare – si diceva – da studiare. Non solamente, pare ovvio, dagli anarchici o aspiranti tali. Uno spaccato a 360 gradi (o quasi) della complessa situazione (il famoso “groviglio”) del Rojava (ma nel libro si parla anche del Bakur – i territori curdi sotto amministrazione-occupazione turca – e dei monti Qandil).

Qualche ulteriore osservazione senza intenti polemici

Tra le righe de La sfida anarchica nel Rojava si coglie una preoccupazione ricorrente (e comunque legittima per chi se la vuol porre). Ossia quanto siano veramente “rivoluzionari” i compagni curdi. Quanto realmente “anticapitalisti”. E anche quanto realmente “libertari”, se non proprio anarchici.

Preoccupazione legittima – si diceva – ma forse talvolta eccessiva. Dato che non abbiamo a che fare soltanto con una o più organizzazioni (Ypg, Jpg, Pkk…), ma anche – soprattutto – con un popolo. Un popolo che – come altre comunità minoritarie o minorizzate (in quanto separate da artificiosi confini statali) presenti in quei territori – rischia periodicamente, se non il vero e proprio genocidio, quantomeno l’etnocidio o l’assimilazione (forzata e non).

Quindi direi che – forse – non è il caso di cercare, sempre e comunque, il pelino nell’uovo (ancora!).

Ritengo che per i curdi rimanga prioritario il fatto di resistere, sopravvivere. Sia agli eserciti statali che alle milizie parastatali, così come alle squadre della morte… talvolta anche ad altri curdi, più o meno collaborazionisti (vedi, talvolta, il Pdk).

Viceversa, andrebbe apprezzato – e molto – il fatto che in un contesto come quello mediorientale – e di questi tempi poi – qualcuno (se non un intero popolo, almeno una sua componente significativa)  si autorganizzi mettendo radicalmente in discussione le gerarchie consolidate (di stato, di classe, di genere… perfino l’antropocentrismo talvolta).

 

  • * a parziale conferma di quanto sostenuto – la minor adeguatezza degli statunitensi nel comprendere i processi rivoluzionari – e non solo quelli –  riporto quanto scrive Cartier. Senza nemmeno – almeno apparentemente – un filo di ironia: «Sembra il paradosso dei paradossi. Gli Stati Uniti e i loro alleati occidentali sono impegnati in una guerra spietata e implacabile contro il governo siriano di Damasco, proprio questi cosiddetti difensori della democrazia e della libertà che sostengono una delle più spregevoli organizzazioni terroristiche e reazionarie mai viste nella storia recente…». Dove appare alquanto disdicevole (e lo è ovviamente) la copertura data – almeno in una certa fase – a Daesh dagli Usa. Mentre appare – o almeno così sembra, potrebbe sembrare – assai meno disdicevole l’attacco imperialista alla Siria (fermo restando il giudizio negativo su Assad). Messa giù così – senza contestualizzare – si potrebbe anche pensare (è una domanda la mia) che in fondo gli Usa non sbagliano nel sentirsi autorizzati, legittimati a intervenire militarmente contro chi non corrisponde ai loro parametri o si frappone ai loro intenti predatori… o no?
  • ** Per quanto siano state esperienze finora sostanzialmente fallimentari,  rimangono – a mio avviso – non solo valide, ma generalizzabili e applicabili ovunque in futuro dovessero crearsene le condizioni. Con maggior fortuna ci si augura.
  • *** Oltre che da Bookchin, Öcalan sarebbe stato influenzato dal pensiero di Braudel, Wallerstein, Mies, Foucault. Presumibilmente anche dal Comandante Marcos, a sua volta influenzato dal situazionismo di Guy Debord che – lo ricordava la figlia – fu tra coloro (cita anche Herbert Marcuse, Daniel Cohn-Bendit, Huey Newton…) che ebbero con Bookchin uno scambio proficuo di idee e di reciproche contaminazioni.

Abbiamo proposto qui un articolo dal taglio insolito per OGzero: solitamente non pubblichiamo recensioni di libri ma Gianni Sartori in questo caso ha intessuto un legame tra i saggi citati e i temi che ci sono più cari (resistenza, autogoverno, rifiuto delle gerarchie e del patriarcato…) rendendo il “groviglio” mediorientale un paradigma rintracciabile in molte delle vicende che su questo sito cerchiamo di narrare. Inoltre si tratta di portare l’attenzione su un dibattito che riguarda l’atteggiamento rivoluzionario di esperimenti sociali alternativi al modello capitalistico a livello globale – quindi geopolitico – tanto nell’attuale situazione, quanto a livello diacronico.

La foto in copertina è di Kamal Chomani e raffigura un gruppo di curdi che tentano di passare il confine sui monti tra Iraq e Iran.

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Spirali destabilizzanti avvolgono Cabo Delgado https://ogzero.org/cabo-delgado-periferie-insorgenti-creano-zone-franche-per-ogni-traffico/ Sun, 06 Dec 2020 09:16:27 +0000 http://ogzero.org/?p=1979 L’opportunismo jihadista sfrutta la pandemia Il terrorismo ha da sempre trovato nei periodi di crisi nuove opportunità per promuovere i propri obiettivi, e il coronavirus, per molti gruppi jihadisti è diventato un alleato fondamentale, quasi essenziale. La crisi economica innescata dalla pandemia, l’immobilismo di molti stati davanti al virus, hanno creato l’ambiente “ideale” nel quale i […]

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L’opportunismo jihadista sfrutta la pandemia

Il terrorismo ha da sempre trovato nei periodi di crisi nuove opportunità per promuovere i propri obiettivi, e il coronavirus, per molti gruppi jihadisti è diventato un alleato fondamentale, quasi essenziale. La crisi economica innescata dalla pandemia, l’immobilismo di molti stati davanti al virus, hanno creato l’ambiente “ideale” nel quale i miliziani di Allah hanno trovato nuovi spazi di movimento. L’Africa non è esente da tutto ciò. Anche se i numeri della pandemia non sono nemmeno paragonabili – per numero di morti e contagi – con quelli occidentali, il virus ha aggravato crisi economiche e sociali già di per sé precarie sulle quali, spesso, il jihadismo costruisce la sua fortuna. Se alcuni analisti si aspettavano un rallentamento della violenza terroristica, sono stati smentiti dai fatti. Anzi c’è stata un’accelerazione e i dati sono lì a dimostrarlo. Ma non solo.

Gli esperti, infatti, sottolineano che questi gruppi legati al terrorismo islamico sanno bene di non essere immuni al pericolo sanitario. Infatti, nell’incitare i propri membri a mettere in atto nuovi attacchi, il leader non mancano di diffondere documenti su come prevenire la diffusione del virus, in alcuni casi utilizzano anche le linee guida ufficiali dell’Organizzazione mondiale della sanità. Insomma, si ergono a difensori delle popolazioni più diseredate e dimenticate dai governi del continente africano. Il coronavirus, dunque, come arma per creare consenso.

Si allarga la spirale del Califfato nero sulle regioni subsahariane

In tutta l’Africa i gruppi che si ispirano all’Isis e ad al-Qaeda sono attivi più che mai, e non solo nella regione del Sahel piombata nel caos con il ripetersi di attentati terroristici per mano di gruppi jihadisti che stanno mettendo fuori controllo paesi come il Mali e il Burkina Faso. Con il rischio concreto che a sud della Libia nasca un Califfato nero. L’attenzione è dunque massima in Sahel, soprattutto da parte delle potenze mondiali che seguono quanto sta succedendo. Il contesto è andato deteriorandosi di mese in mese. Le operazioni militari, in particolare quelle della Francia, sembrano non avere il successo sperato. Di certo, oggi possiamo chiamare questa fascia di territorio che va dalla Somalia alla Mauritania fino al Senegal… Il Sahelistan, per paragonarlo ai grandi spazi dell’Afghanistan e del Pakistan e per il ruolo che gioca il terrorismo internazionale. Un nome non casuale: in questa regione regna il caos.

Il Sahelistan

I jihadisti hanno alzato il livello dello scontro un po’ ovunque, seminano terrore, anche se non controllano concretamente territori – per ora – come hanno fatto in Medio Oriente. Ma molta parte del continente è teatro di scontri e attentati feroci. Nell’Africa Occidentale, nelle regioni a maggioranza musulmana. In Somalia dove al Shabaab terrorizza la popolazione da anni, nell’Est della Repubblica democratica del Congo dove la guerra fa parte della quotidianità e dove le risorse naturali sono enormi. In Nigeria dove Boko Haram ha moltiplicato i suoi attacchi. Nel Nord del Mozambico dove l’islam è radicato da secoli e dove da tre anni imperversa un gruppo affiliato all’Isis. I terroristi sanno approfittare delle debolezze dei governi, che si tratti di stati “falliti” come la Somalia o impotenti come la Nigeria. La pericolosità di questi gruppi, e le conseguenti difficoltà da parte dei governi nazionali e delle coalizioni internazionali nel combatterli, sta proprio nel fatto che non vi è una struttura gerarchica e, dunque, un centro di controllo unico. Piuttosto operano in “franchising” come capita in molti paesi dove, per altro, cambiano persino nome o si appropriano di altre sigle, pur non avendo la stessa matrice di affiliazione. E il caso del jihadismo in Mozambico è emblematico, relativamente giovane, e che già sta varcando i confini lanciando i propri attacchi in Tanzania. Il “caso” Mozambico merita un approfondimento.

Di qua e di là del fiume Ruvuma

La spirale esplosiva della povertà intrecciata a quella jihadista

L’orrore non ha limiti in un Mozambico squassato dal terrorismo jihadista, in particolare nella regione del Nord di Cabo Delgado. Una regione dimenticata dallo stato, dove si fatica a vivere e ad arrivare a fine giornata. La povertà è dilagante. Ma Cabo Delgado è anche una regione ricca di risorse. Qui agisce e opera un gruppo jihadista che inizialmente si faceva chiamare al-Shabaab “i giovani”, come il gruppo jihadista somalo. Non è chiaro, tuttavia, se e quali legami esistano tra i due gruppi. Di certo la versione mozambicana fa riferimento all’Isis, mentre quella somala ad al-Qaeda. Tanto che nel rendere note le sue azioni fa sfoggio di passamontagna e drappi neri tipici dello Stato Islamico. La ferocia, poi, è tipica di questi gruppi. L’affiliazione all’Isis, tuttavia, non è verificabile, potrebbe essere semplicemente emulazione e una sorta di “libero franchising”. L’inizio, anche un po’ sgangherato, delle azioni terroristiche di questo gruppo viene fatto risalire al 5 ottobre del 2017 quando vengono attaccate tre stazioni di polizia nella città di Mocimboa da Praia. Da lì inizia una spirale di violenza in un’area periferica, tradizionalmente tranquilla ed economicamente depressa, tra le più povere del paese.

Cabo Delgado

Zona di attività insurgentes, Nord del Mozambico

La spirale implosiva dell’impotenza mercenaria di fronte al caos assoluto

Il governo, in più riprese, ha sferrato dure offensive contro i gruppi terroristici, ma con successi alterni, riprendendosi territori occupati dai jihadisti, per poi riperderli.  In molte occasioni ha fatto affidamento su mercenari provenienti dall’estero: i Wagner, russi, e mercenari provenienti dal Sudafrica. Operazioni che non hanno avuto grande successo. I mercenari russi, già attivi in Siria, Libano e Repubblica Centrafricana non sono riusciti a venire a capo della ribellione. Non si sa molto, per ovvie ragioni, delle loro attività nel paese, ma di certo hanno subito diverse perdite tra le loro fila. Così come i mercenari sudafricani che avrebbero perso, oltre che uomini anche mezzi. Questi gruppi, ben addestrati e armati, sembrano essere impotenti di fronte al dilagare dell’offensiva jihadista. Questi fatti, inoltre, definiscono un salto di qualità del gruppo terroristico che nel Nord del paese si fa chiamare Ahlus Sunna wal Jamaa, puntando a sconfinare in Tanzania, attraversando e seguendo il corso del fiume Ruvuma.

La spirale di violenza attinge forza da periferie insorgenti e… dal mare

Se i primi attacchi sono stati infatti portati con mezzi di fortuna (coltelli, machete…), quelli organizzati di recente hanno fatto registrare un balzo di qualità. I miliziani sono dotati di armi automatiche nuove ed efficienti. Non solo. Anche il livello di addestramento è cresciuto. Questi gruppi sanno impiegare in modo professionale ed efficace gli armamenti di cui dispongono. Il vescovo cattolico di Pemba, Luiz Fernando Lisboa ha spiegato, recentemente, che questi uomini, che inizialmente si spostavano con vecchie motociclette, «ora hanno armi e veicoli e possono eseguire attacchi su vaste aree».

Gli attacchi non si placano. Dopo aver occupato numerose cittadine e aver terrorizzato migliaia di persone, i miliziani che si rifanno all’Isis, hanno lanciato raid contro alcune isole al largo di Palma e sono rientrati in alcuni centri abitati nel distretto di Muidumbe dove di recente le forze governative erano riuscite a stabilire propri presidi. Non solo i ribelli sono riusciti ad annullare i progressi parziali che erano stati compiuti dalle forze governative ma, ed è un particolare nuovo, hanno dimostrato la capacità di condurre attacchi di un certo rilievo anche via mare. Un fatto che ha messo a rischio collegamenti, fino a poco tempo fa sicuri, e che hanno convinto il governo a sospendere almeno per ora i rifornimenti via mare per la città di Palma.

La spirale speculativa: una zona franca di traffici di persone ed eroina, gas ed estrazionismo, fauna e legname

Lo scopo dichiarato di questi gruppi è voler imporre l’islam radicale. Formalmente, appunto, perché dietro questa dichiarazione di intenti si nasconde il traffico di stupefacenti e lo sfruttamento illegale delle miniere, di cui il Nord del Mozambico è ricco. E si fanno forti della povertà che regna in quel territorio mozambicano. Come se ci fosse una sorta di “islamizzazione della rivolta”. Una reazione alla marginalità e alla povertà profonda in un’area ricca di risorse minerarie e di giacimenti di petrolio.

spirale speculativa

Piattaforme nell’Oceano Indiano

Il fatto che i gruppi islamisti del Mozambico ricevano probabilmente armi, munizioni e attrezzature dall’esterno non è l’unico segnale che li avvicina ad altri gruppi che operano nel continente africano. Eric Morier-Genoud, un accademico di Belfast esperto di Mozambico, sottolinea che esistono forti somiglianze tra l’evoluzione dell’insurrezione in Mozambico e l’emergere di Boko Haram nel Nord della Nigeria.

La spirale di terrore degli sfollati

A farne le spese è, come sempre, la popolazione inerme, che fugge dai villaggi, si nasconde nella boscaglia per non essere sgozzata. Secondo la Displacement Tracking Matrix dell’Oim, almeno 424.000 persone sono sfollate alla fine di settembre, un aumento del 17 per cento rispetto al mese precedente. Sul totale degli sfollati, oltre 144.000 si trovano in aree difficili da raggiungere a causa di problemi di sicurezza. «Abbiamo dovuto lasciare la nostra zona a causa di molteplici attacchi e trasferirci nella città di Pemba – ha detto Nlabite Chafim, una delle otto persone della stessa famiglia che sono fuggite a piedi attraverso le foreste a luglio prima di trovare un mezzo di trasporto per la capitale provinciale –. Mia nipote ha assistito all’uccisione dei suoi genitori, e lei non è più la stessa».

«Sembra stiano cercando di rimuovere l’intera popolazione della parte settentrionale della provincia di Cabo Delgado, cacciando la gente comune senza alcuna pietà», spiega suor Blanca Nubia Zapata, religiosa delle Carmelitane Teresiane di San Giuseppe, in un colloquio con la fondazione pontificia Aiuto alla Chiesa che Soffre (ACS). La religiosa risiede a Pemba, il capoluogo della provincia nel mirino dei terroristi. «Nelle ultime settimane sono arrivate qui oltre 12.000 persone. Alcuni sono morti lungo la strada. Sono 180 chilometri, ma non potete immaginare cosa siano le nostre “strade”, tre o quattro giorni di seguito senza cibo, senza acqua, con bambini sulle spalle. Ci sono donne che hanno partorito per strada. Sono semplicemente terrorizzati. Molte famiglie – prosegue Sister Blanca – ci hanno chiesto aiuto e le abbiamo messe in salvo nella scuola».

Il vescovo di Pemba, Luiz Fernando Lisboa, in un video di Caritas Mozambico inviato ad ACS, descrive la situazione di Paquitequete, un sobborgo della capitale che si affaccia sulla costa: «Sono arrivati già 10000 rifugiati e altri sono in arrivo. Non hanno un luogo in cui dormire, solo coperte e rifugi improvvisati. Alcune persone sono morte durante il tragitto. Si tratta di una situazione umanitaria disperata – prosegue il prelato – per la quale stiamo chiedendo, anzi implorando l’aiuto e la solidarietà della comunità internazionale».

Le testimonianze si moltiplicano e descrivono l’orrore che le popolazioni stanno vivendo. Testimonianze che, in particolare, arrivano da svariate realtà missionarie che operano nell’area e che hanno la possibilità di poterle raccontare perché in contatto costante con le case madri in occidente.

Sfollati Mozambicani

La spirale di un conflitto asimmetrico su base continentale

Il villaggio di Muambula è diventato quasi un luogo fantasma: gli abitanti sono fuggiti tutti, tranne qualche persona molto anziana. Il distretto di Muidumbe, nella provincia di Cabo Delgado, conta circa 80000 abitanti ed è composto da 26 comunità, per la maggior parte di etnia maconde. Si tratta perlopiù di gente dedita all’agricoltura. Qui vive e lavora padre padre Edegard da Silva, missionario brasiliano della congregazione Nostra Signora de La Salette. La sua testimonianza è stata raccolta dalla rivista “Nigrizia”: «Molti ci chiedono il perché di questa guerra che dura ormai da tre anni. Per noi missionari che viviamo con la gente di questi villaggi, l’unica risposta è che questa guerra ha ucciso molte persone innocenti. Sono i poveri che muoiono. E non hanno nulla a che fare con le motivazioni che portano i jihadisti per prendere il controllo della regione. Più di 500000 persone sono state costrette ad abbandonare le loro terre e comunità. Una parte di questi profughi, spesso intere famiglie, sono accolti da amici e parenti nelle altre cittadine della regione; altri vivono, in condizioni precarie, nei campi profughi costruiti dal governo. È una guerra crudele, folle, diabolica, che separa le persone». Il missionario, tuttavia, tiene a specificare che i jihadisti non compiono attacchi mirati contro le missioni cattoliche. Le incursioni hanno lo scopo di destabilizzare l’intera comunità, colpendo i servizi essenziali come gli ospedali, le scuole o le banche. E conclude «Al momento non possiamo contare sulle forze di sicurezza. Non si vede, da parte loro la capacità o la volontà di proteggere questo territorio».

Per affermarsi, questi gruppi sfruttano i risentimenti locali, la miseria, l’abbandono delle popolazioni locali da parte del governo centrale e l’arretratezza economica osservata nello sviluppo della regione. Una volta affermata la loro presenza, i gruppi terrorizzano le comunità per creare un clima di paura ma offrono anche un’alternativa ai giovani disoccupati che accettano di essere arruolati.  Il Nord del Mozambico, infatti, è una regione complessa. Ha sofferto molto durante la guerra di indipendenza (1964-1974) e durante quella civile (1977-1992) ed è una delle aree più trascurate del paese. A livello nazionale, ha i più elevati tassi di analfabetismo, disuguaglianza e malnutrizione infantile. È una delle poche province a maggioranza musulmana – mentre il resto del paese è cristiano – ma è un islam moderato che, da sempre, segue una tradizione sufi moderata. Il Mozambico, dopo aver cercato di minimizzare la minaccia, ha iniziato a schierare un numero maggiore di poliziotti e militari per controllare meglio la regione.  Un’operazione per rassicurare anche gli investitori stranieri che hanno investito milioni di dollari per lo sfruttamento dei giacimenti petroliferi nel Nord.

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È cambiato qualcosa sotto i Cedri? https://ogzero.org/e-cambiato-qualcosa-sotto-i-cedri/ Tue, 10 Nov 2020 16:36:14 +0000 http://ogzero.org/?p=1713 Rappresentanze variabili solo all’università? Lo scorso 8 ottobre dal Libano una notizia è passata in sordina sui media internazionali, forse troppo in fretta considerata propria di una dimensione prettamente locale. Alle elezioni del Consiglio studentesco della Lebanese American University (Lau), per la prima volta nella storia dell’istituto, i candidati indipendenti hanno vinto tutti i seggi […]

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Rappresentanze variabili solo all’università?

Lo scorso 8 ottobre dal Libano una notizia è passata in sordina sui media internazionali, forse troppo in fretta considerata propria di una dimensione prettamente locale. Alle elezioni del Consiglio studentesco della Lebanese American University (Lau), per la prima volta nella storia dell’istituto, i candidati indipendenti hanno vinto tutti i seggi per cui gareggiavano, contro i ben più quotati e ben meglio “posizionati” candidati delle Forze libanesi (partito della destra cristiana nazionalista) e di Amal (partito sciita del presidente del parlamento, Nabih Berri, e alleato di Hezbollah).

Nel campus di Beirut, i candidati indipendenti – espressione nemmeno troppo indiretta dei moti di protesta anti-establishment esplosi in Libano il 17 ottobre 2019 – hanno ottenuto la maggioranza con 9 seggi su 15, concedendo ai candidati di Amal e delle Forze libanesi rispettivamente 4 e 2 seggi. Alle precedenti elezioni del 2019, avvenute poco prima dell’inizio delle proteste, gli indipendenti avevano ottenuto 2 seggi, contro gli 8 della coalizione composta da Forze libanesi, Futuro e Partito socialista progressista e i 5 di Amal e dei suoi alleati minori. Nel campus di Byblos, a nord della capitale, gli indipendenti hanno comunque ottenuto 5 seggi, i primi della storia dell’ateneo, contro i 9 delle Forze libanesi e solo uno per Amal.

I giovani non cedono più

«È cambiato qualcosa», dice a dire il vero senza troppa convinzione Mayssa, ex studentessa della Lau e sorella di Asma, che ha accompagnato all’Università il giorno della pubblicazione dei risultati. «Questo forse significa che i giovani non cedono più, e sono convinti che ci voglia un cambiamento. Cinque anni fa, quando ho votato io, mi ricordo i responsabili della campagna delle Forze libanesi, che arrivavano a offrire 200 dollari per un voto. Anche io una volta li ho accettati, sono sincera, non mi interessava la politica ed erano tanti soldi», aggiunge, mentre la sorella la prende bonariamente in giro.

Duecento dollari, in Libano, erano già una cifra considerevole prima della crisi economica che ha raggiunto il suo apice nel corso di quest’anno, e che ha fatto perdere alla lira libanese l’80 per cento del suo valore. Quando il tasso di cambio – mantenuto artificialmente stabile dalla Banca centrale, prima di schizzare fuori controllo da novembre 2019 – tra lira e dollaro era di 1,5, il salario minimo nel Paese dei Cedri ammontava a 450 dollari, anche se è alta la quota di popolazione che in Libano svolge lavori informali. Ora che il cambio si aggira sui 7 nel mercato nero, dopo essere arrivato anche a 10, quei duecento dollari non solo varrebbero oro ma sarebbero impossibili da reperire, perché le banche libanesi da 10 mesi hanno imposto severi limiti ai prelievi e il blocco dei conti in dollari. Se fino a due anni fa dollari e lire venivano usati indifferentemente sul mercato – al tasso di 1,5 –, oggi è del tutto impossibile, per un libanese, trovare della valuta forte sul mercato interno, a meno di non volerla cambiare a un tasso che gli prosciugherebbe il conto in banca.

Potere d’acquisto dissolto: la crisi è inarrestabile

Il paese è in una situazione di inarrestabile crisi economica, sociale, bancaria, procedurale e fiduciaria, che vede i libanesi in condizioni molto peggiori anche solo rispetto a un anno fa. Ha dichiarato il fallimento tecnico a marzo, dopo il mancato rimborso di 700 milioni in eurobond, fa i conti con uno dei debiti pubblici più alti al mondo, cresciuto del 2120 per cento dal 1990 a oggi), la scomparsa della classe media, una disoccupazione vicina al 40 per cento, un tasso di povertà del 50 per cento (contro il 28 di meno di due anni fa) e, secondo gli studi di Steve Hanke, professore di Economia applicata della Johns Hopkins University, è il primo stato del Medioriente ad aver sperimentato l’iperinflazione (413 per cento nell’ultimo anno).

Tutto ciò si è aggiunto a una preesistente mancanza o profonda carenza infrastrutturale – l’assenza di una rete elettrica nazionale che garantisca elettricità 24 ore su 24, l’assenza del trasporto pubblico e una tragica gestione dei rifiuti –, legata in parte alla corruzione endemica, in modo non dissimile da come quest’ultima alimenta le enormi sperequazioni economiche, e le differenze abissali tra il 5 per cento più ricco e il 20 per cento più povero in termini di sviluppo umano: il Libano è un paese dove, secondo le Nazioni Unite, l’1 per cento della popolazione detiene circa il 25 per cento del reddito nazionale. Un paese in cui, forse non a caso, i principali istituti di credito fino a due anni fa realizzavano profitti in alcuni casi superiori a quelli dei maggiori istituti britannici, come Standard Chartered, e nel quale almeno un quinto della popolazione vive in campi profughi, in condizioni di enormi difficoltà.

17 ottobre 2019: esplode il Movimento anti-establishment

Più che la pluricitata “tassa su whatsapp”, a provocare la rabbia dei libanesi, innescando il 17 ottobre 2019 una protesta anti-establishment improvvisa, trasversale, altamente partecipata, era stata proprio l’ennesima dimostrazione di carenze infrastrutturali e di negligenza, con la disastrosa gestione da parte delle autorità degli incendi scoppiati nelle foreste dello Chouf in quei giorni. Accortesi con colpevole ritardo della inagibilità dei velivoli antincendio Sikorski, che avrebbero necessitato di manutenzione, hanno dovuto chiedere aiuto a Cipro e Giordania.

Quel 17 ottobre, e almeno per altre due settimane senza mai veder intaccato il livello di partecipazione massiva (per poi comunque stabilizzarsi per mesi su cifre inferiori ma non trascurabili), migliaia di libanesi erano sembrati destarsi all’improvviso dalla loro condizione di “prigionieri di una garanzia”. La (percezione di una) “garanzia”, in particolare per le vecchie generazioni, sta nel confessionalismo, il particolare framework che regola la repubblica parlamentare libanese.

A ognuna delle diverse comunità libanesi – quelle cristiane e musulmane, divise nei vari riti, quella drusa e quella armena – viene garantita la rappresentanza in parlamento e nelle istituzioni pubbliche, con un sistema elettorale che permette a ogni libanese di votare unicamente per il candidato della propria confessione, che corre per il seggio a essa assegnato in una data area, sia nel voto municipale che in quello nazionale. Questo ordine delle cose, soprattutto agli occhi di chi ha vissuto il periodo della guerra civile (1975-1990), costituisce una sorta di assicurazione di rilevanza e rappresentatività, oltre che una tutela contro le eventuali dittature di maggioranze confessionali ai danni delle altre, in un paese in cui tanti over 50 hanno delle remore a metter piede in aree del paese popolate da appartenenti a confessioni che non sono le loro.

Questa garanzia, tuttavia, è anche l’alimento ideale del settarismo, e nutre una realtà in cui le appartenenze confessionali sembrano essere prioritarie rispetto a quella nazionale. Ognuno ha un’idea diversa di cosa sia e di chi sia il Libano, un aspetto ben esemplificato dal fatto che i manuali di storia dei licei arrivano al 1943, anno dell’indipendenza, e si guardano bene dall’affrontare i decenni successivi: men che mai la guerra civile, sulla quale ogni comunità ha la sua ricostruzione, i suoi colpevoli e i suoi innocenti, e dopo la quale non è mai avvenuto un vero processo di riconciliazione nazionale.

Il settarismo, a sua volta, si è dimostrato un ottimo recipiente di corruzione, o di un sistema che può essere definito neopatrimoniale, in base al quale i leader politici si assicurano la fedeltà degli elettori della loro comunità in cambio della concessione di agevolazioni, di un lavoro, dell’iscrizione scolastica dei figli, e della fornitura di servizi che dovrebbero essere forniti dallo stato. In molti, in Libano, sono allo stesso tempo prigionieri e beneficiari di questa logica, e molte delle persone scese in piazza hanno rivendicato proprio questa condizione: essere in sostanza costretti a votare gli stessi leader settari e corrotti, che in cambio del voto – e in virtù del controllo che esercitano sull’economia libanese – sono gli unici in grado di promettergli benefici, che talvolta risultano vitali. È quello che in Libano definirebbero wasta, e in Italia “raccomandazione”, anche se il significato è più esteso e la sua applicazione più pervasiva e sistematica, poiché in Libano è quasi impossibile trovare un lavoro senza la connessione diretta o indiretta col leader politico settario che ha interessi o potere in quell’azienda privata o in quell’istituzione pubblica. La corruzione, in Libano, mette tutti d’accordo: ormai nessuno, nemmeno i politici locali sotto l’occhio del ciclone proprio per esserne gli alfieri, rinuncia a menzionarla come il principale problema, testimoniato dal 127esimo posto nella classifica di Transparency international.

5 agosto 2020: esplode il porto di Beirut… ma qualcosa è cambiato?

L’inasprirsi della crisi economica, contestuale all’avvento della pandemia, a cui si è aggiunta l’esplosione al porto di Beirut, ha via via eroso il volume di partecipazione alle proteste, che ora sembrano attraversare una fase di stanca sia per il venir meno nelle piazze di chi un anno fa aveva da mangiare e oggi fa molta più fatica, sia per via di divisioni legate al timore di strumentalizzazioni della protesta da parte dei partiti settari che oggi sono all’opposizione, e che possono “giocare” sul malinteso tra moti anti-establishment e moti antigovernativi. Si è in certa misura insinuata – soprattutto tra i meno giovani che hanno partecipato – l’idea che la protesta, rimasta sempre “acefala” e non confessionale, potesse in realtà essere manipolata da alcune comunità sulle altre, che poi è lo stesso timore legato alla fine repentina del confessionalismo che i giovani più attivi hanno chiesto a gran voce, forse senza chiedersi fino in fondo quali garanzie possano saltare nel breve termine.

Tuttavia la strada in quella che rimane, a differenza dei regimi della regione incalzati dalla Primavera araba, una democrazia perlomeno sulla carta, è quella perseguita nelle elezioni alla Lau, anche se alle ultime elezioni parlamentari di due anni fa la piattaforma “Kilna Watani” ha ottenuto due soli seggi, nonostante il movimento di anti-establishment si fosse strutturato già dal 2015, l’anno della protesta contro la gestione dei rifiuti. Jad, che quando sono iniziate le proteste ha lasciato il suo lavoro ben pagato negli Emirati arabi uniti per ritrasferirsi nel suo Libano, dove è ancora disoccupato, non ha dubbi: «I partiti sono macchine di propaganda e di corruzione, lo sappiamo che alle prossime elezioni l’80 per cento di quelli che sono in parlamento ci ritorneranno. Ma dobbiamo provarci anche se la strada è lunga, perché qualcosa è cambiato».

La foto di copertina è di Layal Jebran.

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Bangkok: la reazione alla vittoria della piazza https://ogzero.org/bangkok-la-reazione-alla-vittoria-della-piazza/ Thu, 15 Oct 2020 17:35:04 +0000 http://ogzero.org/?p=1521 Un nuovo aggiornamento proviene dal Movimento di nuovo sceso in piazza in forze il 2 dicembre 2020, in occasione della sentenza della Corte costituzionale thailandese . [OGzero] Interpellato anche stavolta Emanuele Giordana lascia trapelare ammirazione per la fresca efficacia del Movimento che da febbraio supera difficoltà da pandemia e si fa gioco della polizia di Bangkok, […]

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Un nuovo aggiornamento proviene dal Movimento di nuovo sceso in piazza in forze il 2 dicembre 2020, in occasione della sentenza della Corte costituzionale thailandese . [OGzero]

Interpellato anche stavolta Emanuele Giordana lascia trapelare ammirazione per la fresca efficacia del Movimento che da febbraio supera difficoltà da pandemia e si fa gioco della polizia di Bangkok, manifestando gioiosamente e inventando strumenti utili alla difesa ma anche validi gadget sfruttati efficacemente sui social e predisposti all’adozione da parte dei media globali, confermando una proposta innovativa di proporre movimenti di protesta innanzitutto comunicativi.
Qui si trovano i 4 podcast dell’analisi di Emanuele: il primo risale all’8 ottobre, gli altri tre sono stati registrati il 2 dicembre, anche questi provengono dalle mattinate info di radio blackout

Ascolta “10 richieste per il cambiamento” su Spreaker.

Dopo la proclamazione l’8 ottobre dello stato di emergenza, la polizia ha sciolto la manifestazione accampatasi attorno al palazzo presidenziale da ieri pomeriggio quando un vasto corteo di migliaia di thailandesi ha marciato dal monumento alla democrazia nel centro di Bangkok fino alla sede dell’esecutivo chiedendo la testa del premier e una revisione della Costituzione. La polizia, che ha schierato 2000 agenti per evitare nuovi assembramenti, ha arrestato diversi manifestanti tra cui Panusaya “Rung” Sithijirawattanakul, Arnon Numpha, Parit Chiwarak and Prasit Krutharote, i volti più noti della protesta. Il decreto, firmato dal Premier Prayut, vieta riunioni pubbliche di oltre 5 persone e vieta la pubblicazione di “messaggi illegali” sui social media. La svolta di questa mattina è la risposta alla giornata di mercoledì che si è dimostrata un successo per gli organizzatori di una protesta che va avanti ormai da mesi e che, per la prima volta nella storia recente del regno siamese, mette sotto accusa anche la casa reale che la Costituzione privilegia del diritto di punire duramente la lesa maestà.

Migliaia in corteo contro Governo e privilegi

La manifestazione, che era prevista ieri alle 2 del pomeriggio di mercoledì è in realtà iniziata in anticipo, alle 8, per protestare contro l’arresto la sera prima di alcuni attivisti che si aggiravano attorno alla piazza centrale dove campeggia il monumento alla democrazia, divenuto ormai simbolo della protesta e che ieri si è riempito nuovamente di migliaia di manifestanti con l’idea di marciare sul palazzo del Governo per chiedere conto delle richieste popolari finora non esaudite (il dibattito sulla Costituzione è stato rinviato).

Quando il corteo si è mosso si è trovato di fronte le “camicie gialle”, gruppi di lealisti fedelissimi della corona che avevano organizzato – molte bandiere ma poca gente – una contro manifestazione. La polizia è intervenuta per evitare incidenti ma qualche calcio e pugno è volato. Non è stata l’unica sorpresa. Re e consorte hanno pensato bene di attraversare l’area interessata dal corteo forse per ribadire il diritto del monarca a fare le strade che più gli aggradano. Una provocazione, non è chiaro quanto studiata, ma a cui i manifestanti hanno reagito solo salutando il corteo reale con le tre dita alzate, il simbolo della protesta. Intanto la polizia bloccava gli accessi alla strada che porta verso il palazzo del Governo dove il corteo avrebbe voluto dirigersi.

Sovrani tailandesi di passaggio a Bangkok

Una vittoria della piazza

Passato il re ed esauritosi il confronto con le camice gialle (portate dalla polizia, secondo i manifestanti, lungo il tragitto che avrebbe percorso il re), il corteo è comunque riuscito a dirigersi verso il palazzo dell’esecutivo dove ha aspettato il calar delle tenebre e dove si è deciso di rimanere a vegliare gli affari del Governo per tre giorni. La prova di forza dunque è riuscita: il corteo ha avuto luogo e i numeri sono nell’ordine delle decine di migliaia. Anzi, delle centinaia di migliaia, almeno secondo alcuni manifestanti che, riportava ieri il “Bangkok Post”, rivendicano una presenza di 300.000 persone. Una valutazione forse per eccesso. La polizia comunque è rimasta ferma e adesso la palla torna nel campo del governo che, per il momento, ha deciso una repressione leggera in una battaglia che finora vede vincere la piazza.

Intanto, mentre i manifestanti iniziavano a prepararsi per la marcia, martedì sera arrivava a Bangkok il ministro degli Esteri cinese Wang Yi. La scelta del momento ha un risvolto prevalentemente economico ma, data la protesta, anche politico visto che per la Cina Prayut resta il Premier checché ne dica un movimento che assomiglia molto a quello di Hong Kong. Una visita ufficiale adesso equivale dunque a un sostegno al primo ministro con cui Bangkok ha iniziato a uscire, seppur con cautela, dalla sola sfera di influenza americana. I cinesi vogliono rafforzare i loro investimenti al Corridoio economico orientale (Eec), agenzia pubblica nata per incoraggiare gli investimenti, aumentare l’innovazione e la tecnologia avanzata in Thailandia per trasformarla in hub tecnologico. L’anno scorso – ricorda il South China Morning Post – la Cina ha sostituito il Giappone come principale fonte di investimenti esteri con scambi bilaterali che ora valgono quasi 80 miliardi di dollari. La Thailandia spera nei cinesi per superare l’impasse Covid e vendere più prodotti agricoli mentre Pechino spera che Bangkok superi finalmente i dubbi sul collegamento ferroviario ad alta velocità che dallo Yunnan – passando per Laos, Thailandia e Malaysia – arriverà a Singapore. Va anche ricordato che la Thailandia, tradizionale mercato di Washington, ha anche già acquistato carri armati, sottomarini e tecnologia militare cinese.

Le immagini sono fotogrammi tratti da servizi trasmessi su Channel News Asia.

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Richieste di cambiamento a Bangkok https://ogzero.org/10-richieste-per-cambiare-a-bangkok/ Mon, 12 Oct 2020 12:04:02 +0000 http://ogzero.org/?p=1488 Sfida all’ultima monarchia assoluta Il 14 ottobre è una giornata importante per il movimento tailandese che da mesi attraversa le piazze di Bangkok e di altre città della Thailandia chiedendo le dimissioni del premier e una riforma costituzionale che riveda la legge elettorale e limiti i poteri della monarchia, una delle più longeve del pianeta. […]

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Sfida all’ultima monarchia assoluta

Il 14 ottobre è una giornata importante per il movimento tailandese che da mesi attraversa le piazze di Bangkok e di altre città della Thailandia chiedendo le dimissioni del premier e una riforma costituzionale che riveda la legge elettorale e limiti i poteri della monarchia, una delle più longeve del pianeta. Per quella data il movimento degli studenti, che nel tempo ha raccolto consensi anche tra la classe media e tra alcuni membri dell’opposizione in parlamento, si è nuovamente dato appuntamento nella centrale piazza di Bangkok dove campeggia un simbolico monumento alla democrazia per quella che è l’ennesima prova di forza con il governo di Prayut Chan-o.Cha, un ex generale golpista che si è assicurato un nuovo mandato nel 2019 grazie a una maggioranza blindata garantita da un senato non eletto. Ma la prova di forza è anche con il re Rama X, un monarca poco amato dal suo popolo ma protetto da una delle più dure leggi contro chi diffama la casa reale, reato per cui vengono comminate pene severissime.

Ascolta “10 richieste per il cambiamento” su Spreaker.

Milk Tea Alliance: Bangkok come HK e Taiwan

Il movimento, che ha già dei leader consacrati come Parit “Penguin” Chiwarak e la collega Panasaya “Rung” Sitthijirawattanakul (studentessa come lui dell’università Thammasat della capitale), già passati per le maglie di una repressione che per ora li ha però lasciati in libertà, ha la sua fucina proprio alla Thammasat, dove Rung il 10 agosto ha letto un Manifesto in dieci punti in cui, per la prima volta, si faceva esplicito riferimento al re e ai suoi poteri.

Autoidentificatosi come Free Youth Movement, il movimento ha come simboli le tre dita alzate – mediate dal film di fantascienza del 2012 Hunger Games –, il monumento alla democrazia nel centro di Bangkok e una sorta di alleanza regionale (Milk Tea Alliance) con altri movimenti giovanili abbastanza simili: a Taiwan e Hong Kong soprattutto. E la piazza tailandese non sembra aver nulla da invidiare ai colleghi dell’ex colonia britannica: sfidare il re che vive nel palazzo reale di Bangkok non è meno rischioso che sfidare Pechino. La nuova sigla che fa da ombrello alle varie anime del movimento è quella del “People’s Party 2020”, un riferimento al gruppo di militari e civili che rovesciarono la monarchia assoluta nel 1932 e stabilirono un governo parlamentare. Episodio divenuto un altro simbolo della protesta.

 

Trame parlamentari tangenziali al movimento

Proprio la vicenda della contestazione monarchica, speculano gli osservatori locali, farebbe però correre il rischio di un minor consenso alla piazza che mercoledì 14 dovrà dimostrare con i numeri di averne a sufficienza per non farsi schiacciare da una repressione per ora morbida ma che in Thailandia, paese dominato oltreché dalla monarchia dalla casta militare; potrebbe essere molto dura specie se il movimento dovesse sgonfiarsi.

In realtà per ora a tirarsi indietro sarebbero solo le “camice rosse” dell’United Front for Democracy Against Dictatorship, un’organizzazione che fa riferimento al partito Pheu Thai, espressione della famiglia Shinawatra (l’ex premier-tycoon Thaksin, che fu soprannominato il Berlusconi d’Asia, e sua sorella pure lei ex premier Yingluck, entrambi in esilio). I parlamentari del Pheu Thai sarebbero divisi: alcuni vorrebbero appoggiare il movimento (come già hanno fatto uscendo dal parlamento dopo il rinvio del voto sugli emendamenti costituzionali il 24 settembre scorso) ma la de facto nuova leader del partito – Khunying Potjaman (ex moglie di Thaksin Shinawatra) – sarebbe contraria: riapparsa sulla scena nei giorni scorsi mentre scadeva il mandato della leadership del partito, ha pensato bene di farsi veder a una cerimonia reale così da far subito capire da che parte deve andare il Pheu Thai.

Restano ancora i parlamentari del Move Forward Party, erede del Future Forward Party, partito progressista squalificato dopo le elezioni del 2019 dove aveva ottenuto un’ottima affermazione. Proprio i cavilli legali con cui il Ffp fu escluso dall’arena – gli stessi con cui è stato espulso dal parlamento il suo leader, il miliardario progressista e socialdemocratico Thanathorn Juangroongruangkit – erano stati la goccia che aveva fatto traboccare il vaso dando la stura alle proteste che poi sono sempre più cresciute, nonostante le misure anticovid.

10 punti verso lo sciopero generale del 14 ottobre

Da luglio, quando le misure si sono allentate, il movimento ha ripreso fiato arrivando il 10 agosto alla famosa lettura in piazza del Manifesto in dieci punti con cui, oltre a chiedere le dimissioni di Prayut e una nuova Costituzione, il movimento criticava apertamente il ruolo della monarchia, chiedendo la divisione dei suoi beni (tra quelli personali del re e quelli della corona) e un diritto di critica che equivale nel regno a lesa maestà.

C’è da aggiungere che il Pheu Thai – al netto dei calcoli della famiglia Shinawatra che spera sempre in un ritorno di Thaksin e dunque nel perdono del monarca – aveva preso subito le distanze da quell’uscita poco consona alle regole tradizionali anche se poi si era schierato con gli studenti, appoggiando il movimento e dando battaglia in parlamento. Adesso le carte sono tutte sul tavolo e il gioco si fa sempre più impegnativo. E, per il movimento, gravido di rischi. Non certo per l’assenza delle camicie rosse quanto per la presenza di oltre 3000 agenti già schierati nella capitale.

Thailandia in Movimento

Le 10 Richieste

«These demands are not a proposal to topple the monarchy. They are a good-faith proposal made for the monarchy to be able to continue to be esteemed by the people within a democracy»

  1. Revoke Article 6 of the 2017 Constitution that forbids any accusation against the King. And add an article to allow parliament to examine wrongdoing of the King, as was stipulated in the constitution promulgated by the People’s Party.
  2. Revoke Article 112 of the Criminal Code, to allow the people to exercise freedom of expression about the monarchy and amnesty all those prosecuted for criticizing the monarchy.
  3. Revoke the Crown Property Act of 2018 and make a clear division between the assets of the King under the control of the Ministry of Finance and his personal assets.
  4. Reduce the amount of the national budget allocated to the King in line with the economic conditions of the country.
  5. Abolish the Royal Offices. Units with a clear duty, such the Royal Security Command, should be transferred and placed under other agencies. Unnecessary units, such as the Privy Council, should be disbanded.
  6. Cease all giving and receiving of donations by royal charity funds in order for all assets of the monarchy to be open to audit.
  7. Cease the exercise of the royal prerogative over the expression of political opinions in public.
  8. Cease all public relations and education that excessively and one-sidedly glorifies the monarchy.
  9. Investigate the facts about the murders of those who criticized or had some kind of relation with the monarchy.
  10. The king must not endorse any further coups.

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Flint, Michigan: il piombo nell’acqua e i tagli in bilancio https://ogzero.org/flint-michigan-il-piombo-nellacqua-e-i-tagli-in-bilancio/ Fri, 21 Aug 2020 07:40:21 +0000 http://ogzero.org/?p=1095 Lo stato del Michigan dovrà pagare 600 milioni di dollari come risarcimento alle vittime dell’inquinamento dell’acqua pubblica nella città di Flint; migliaia di residenti hanno intentato una causa contro lo stato e dopo 18 mesi di trattative il giudice federale Judith E. Levy (di nomina obamiana nel 2014) ha sancito che chiunque abbia abitato nella […]

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Lo stato del Michigan dovrà pagare 600 milioni di dollari come risarcimento alle vittime dell’inquinamento dell’acqua pubblica nella città di Flint; migliaia di residenti hanno intentato una causa contro lo stato e dopo 18 mesi di trattative il giudice federale Judith E. Levy (di nomina obamiana nel 2014) ha sancito che chiunque abbia abitato nella città tra il 2014 e il 2016 riceverà una somma di denaro proporzionata al danno subito entro la primavera del 2021. I lavori di ripristino dell’acquedotto si sarebbero dovuti completare entro gennaio 2020, ma sono stati interrotti a causa della pandemia e sono ripresi solo nel mese di giugno. Nel frattempo la popolazione, per anni, ha dovuto consumare solo acqua in bottiglia per cucinare, lavarsi, bere…

In questo articolo i particolari di quanto accaduto raccontati da Marina Forti e i dettagli della ricaduta sociale di una simile crisi in una città tra le più povere del paese e abitata per la maggior parte da neri, situazione che evidentemente non può non avere avuto un peso nelle decisioni prese dalle istituzioni riguardo i tagli di bilancio. Tema quanto mai attuale, quello del trattamento riservato ai cittadini di serie B afroamericani, se si pensa al movimento di rivendicazione “Black lives matter” attivo in tutto il mondo, che qui a Flint ha trovato particolare sviluppo. [OGzero]


Per oltre un anno i residenti di Flint, nello stato del Michigan, Usa, hanno visto uscire dai loro rubinetti acqua giallastra e maleodorante. Le loro proteste però sono state ignorate dalle autorità, perfino quando le prime analisi hanno rivelato che quell’acqua era piena di piombo, e i medici hanno cominciato a trovare piombo nel sangue dei bambini sotto i 5 anni. Solo parecchi mesi dopo l’allarmante scoperta, il governatore del Michigan, Rick Snyder, ha dichiarato lo stato d’emergenza; poi però è emerso che il governatore e il suo staff erano informati del problema, e anche i dirigenti dell’Ente federale di protezione ambientale ne erano al corrente, e ppure nessuno aveva fatto nulla, fino a quando gruppi di cittadini, ricercatori e giornalisti hanno fatto scoppiare lo scandalo.

Il caso di Flint, centomila abitanti al censimento del 2010, città una volta nota come quartier generale della General Motors, è molto più che un episodio di gestione irresponsabile da parte di alcuni funzionari pubblici. Chiama in causa la logica che porta a sacrificare la salute dei cittadini in nome dei tagli di bilancio, e probabilmente anche una discreta dose di quello che molti chiamano “razzismo istituzionale”, ovvero il disprezzo per una popolazione in gran parte nera e povera in una ex città operaia. Un meccanismo di profonda ingiustizia che ha negato a un’intera cittadinanza l’accesso all’acqua potabile. Vediamo perché.

Tutto è cominciato alla fine nel 2013, quando un commissario speciale nominato dal governatore Snyder per risanare i conti dell’amministrazione di Flint ha deciso di chiudere il contratto di fornitura con l’ente idrico della vicina città di Detroit (che attinge dal lago Huron) e di costruire un proprio sistema di approvvigionamento. Questo però richiedeva alcuni anni di lavori e nel frattempo l’acquedotto cittadino avrebbe attinto dal fiume Flint. In tempi di tagli di bilancio, con enti locali indebitati, l’amministrazione avrebbe risparmiato 5 milioni di dollari nel primo anno e 19 milioni nell’arco di 8 anni – così fu detto alla cittadinanza.

Dunque il 25 aprile del 2014, in nome del risanamento finanziario, l’acquedotto di Flint è stato collegato al fiume omonimo, la stampa locale ha cominciato molto presto a raccogliere lamentele dei residenti, che parlavano di acqua giallastra, maleodorante: «Gli abitanti hanno capito subito che l’acqua era cattiva: aveva un colore orribile, il sapore era cattivo, l’odore cattivo», ha poi testimoniato Curt Guyette, giornalista investigativo che lavora con la American Civil Liberties Union (Aclu) del Michigan e ha contribuito a far emergere lo scandalo.

Per mesi però i cittadini si sono sentiti dire che l’acqua era perfettamente sicura, finché, ormai nei primi mesi del 2015, una residente, LeeAnn Walters, è riuscita a far analizzare la sua acqua dalle autorità, ed è risultato che conteneva oltre 100 parti per miliardo di piombo. Il piombo è un elemento tossico, non esiste una soglia definibile «sicura». Le norme federali Usa considerano che 15 parti per miliardo sia il livello di guardia, e che superato questo limite c’è un rischio per la salute che impone di intervenire. A Flint però nessuno è intervenuto.

Nel frattempo alcuni ricercatori di Virginia Tech, il Politecnico dell’Università della Virginia, a cui si erano rivolti alcuni cittadini, hanno cominciato a raccogliere campioni e analizzare l’acqua che esce dai rubinetti delle case di Flint, sotto la direzione del professor Marc Edward. È stato un vero e proprio lavoro di mobilitazione popolare, con squadre di dottorandi che hanno distribuito ai residenti oltre 300 kit per raccogliere i campioni d’acqua. I ricercatori hanno poi creato un sito web, FlintWaterStudy.org, dove pubblicavano man mano i risultati delle analisi, strada per strada. Il 2 settembre 2015 hanno diffuso le prime conclusioni della loro ricerca: dicevano che l’acqua dell’acquedotto di Flint conteneva livelli preoccupanti di sostanze corrosive, e «questo provoca una minaccia alla salute pubblica nelle case che hanno tubature di piombo», spiegavano.

Allarmata da quanto stavano scoprendo i ricercatori di Virginia Tech, una pediatra del Hurley Medical Center, l’ospedale di Flint, ha pensato di esaminare il sangue dei bambini. La dottoressa Mona Hanna-Attisha ha osservato il livello di piombo nel sangue dei bambini sotto i 5 anni e l’ha confrontato con i dati delle analisi degli anni precedenti: è risultato che il numero di bambini con altissimi livelli di piombo nel sangue era schizzato in alto da quando la città beve dal fiume Flint.

L’attenzione ormai era alta. Il primo rapporto di Virginia Tech è stato diffuso quando ormai un ampio fronte di comitati civici aveva raccolto 26 000 firme su una petizione rivolta al sindaco di Flint, Dayne Walling, per chiedere di tornare alla fornitura del sistema idrico di Detroit. Le autorità però continuavano a negare che esistesse un pericolo per la salute pubblica. Attivisti sociali e giornalisti indipendenti hanno cominciato a loro volta ad analizzare campioni d’acqua. Le proteste sono aumentate. Infine le autorità pubbliche hanno riconosciuto ciò che ormai tutti sospettavano (e alcuno avevano cercato di provare): l’acqua dei rubinetti di Flint non era da bere: il 1° ottobre 2015 il governatore Snyder ha stanziato 12 milioni di dollari perché l’acquedotto di Flint tornasse ad allacciarsi al sistema di Detroit, cosa che è avvenuta il 15 ottobre. I cittadini della città del Michigan avevano bevuto acqua contaminata per un anno e mezzo.

Il danno però era fatto, e per molti bambini rischia di essere irreversibile, perché il piombo agisce sullo sviluppo del cervello e del sistema nervoso, con effetti profondi e permanenti. In seguito un’indagine del Center for Desease Control and Prevention (Cdcp) di Atlanta, il maggiore centro pubblico Usa per la ricerca epidemiologica e sulla prevenzione delle malattie, ha confermato che i bambini sotto i sei anni che hanno bevuto quell’acqua hanno il 50 per cento di probabilità di avere un livello allarmante di piombo nel sangue.

Le indagini hanno ormai chiarito che l’acqua del fiume Flint contiene sostanze corrosive in misura tale che in breve hanno cominciato a corrodere le vecchie tubature di ghisa della città (oltre metà dell’acquedotto di Flint ha più di 75 anni): ora è chiaro che gli amministratori non avevano fatto tutte le necessarie analisi sulla qualità dell’acqua di quel fiume prima di immetterla nell’acquedotto. Paradossale: nell’ottobre 2014 General Motors aveva smesso di usare l’acqua prelevata dal fiume Flint perché faceva arrugginire i suoi motori. I motori hanno ricevuto più attenzione degli esseri umani.

Eppure l’allora sindaco Dayne Walling, aveva segnalato il problema al governatore del Michigan già all’inizio dell’anno, parecchi mesi prima che scoppiasse lo scandalo: lo si deduce da un promemoria datato 1° febbraio 2015, inviato al governatore Snyder dal suo staff, in esso si diceva che «il sindaco [di Flint] cavalca il panico pubblico… per chiedere allo stato di condonargli il debito e ottenere soldi per migliorie delle infrastrutture». Lo stesso promemoria liquidava le lamentele dei cittadini per quell’acqua giallastra e di cattivo sapore, dicendo che la Safe Drinking Water Act (la legge federale sull’acqua potabile) «non regolamenta l’aspetto estetico dell’acqua».

Quel documento non parlava di piombo, ma citava la corrosione delle tubature e i trialometani (gruppo di sostanze usate nella disinfezione), che in concentrazioni alte possono causare tumori. Insomma, fin dal febbraio 2015 l’ufficio del governatore del Michigan aveva abbastanza elementi da suggerire quantomeno una indagine accurata sulla situazione. Invece nulla, la nota al governatore Snyder tagliava corto: «Sarebbe un problema di salute pubblica solo in caso di esposizione cronica, a lungo termine». Un anno dopo, quel memorandum al governatore è diventato parte dello scandalo.

L’emergenza a Flint non è finita. Certo, la città è tornata ad attingere l’acqua dal lago Huron (via l’acquedotto di Detroit), ma gli effetti della contaminazione perdurano. Tanto che il 5 gennaio 2016 il governatore Snyder ha dichiarato lo stato d’emergenza, stanziando 28 milioni di dollari per interventi sanitari e infrastrutturali immediati, mentre infuriavano le polemiche sulle responsabilità di un tale caso di avvelenamento pubblico.

Il 16 gennaio 2016 è intervenuta la Casa Bianca: il presidente Usa, Barack Obama, ha emesso una dichiarazione d’emergenza per lo stato del Michigan e ordinato aiuti federali in aggiunta a quelli ormai disposti dal governo locale (l’intervento presidenziale è stato visto come una implicita critica al governatore, ormai accusato da più parti di aver sottovalutato la situazione). La Fema, l’agenzia federale per le emergenze, è arrivata a Flint a distribuire ai cittadini acqua, filtri, kit per le analisi (l’emergenza è stata poi estesa fino all’agosto 2016).

Bombardato di accuse, il 19 gennaio del 2016, durante il suo discorso annuale su «lo stato dello stato», il governatore Snyder si è scusato con i cittadini per lo “spiacevole” disservizio. Qualche giorno dopo, nel tentativo di parare lo scandalo, ha anche diffuso quasi 300 pagine di e-mail (tra cui la citata nota del suo staff) come chiesto dalle associazioni di cittadini. Il suo portavoce intanto continuava a ripetere che il governatore non ha saputo della gravità del problema fino al 1° ottobre, quando ha preso le misure necessarie. Ma sembra una tesi difficile da sostenere.

Anche perché ormai piovevano le rivelazioni. È emerso per esempio che le autorità federali avevano cominciato a indagare sul caso di Flint già nel febbraio 2015, e che almeno da aprile l’ente di protezione ambientale, Epa, era consapevole che mancava un sistema di controllo sulla corrosione delle tubature: lo ha confermato la responsabile dell’Epa nel Michigan, Susan Headman (poi criticata per aver lasciato quell’informazione nel cassetto).

Insomma: le autorità sanitarie sapevano, il governatore anche, ma hanno lasciato che i cittadini bevessero acqua avvelenata. I ricercatori di Virginia Tech dicono che tutto si poteva evitare filtrando l’acqua, con una spesa di appena 100 dollari al giorno.

Nell’estate 2016 c’erano ancora allarmi sanitari a Flint; i ricercatori di Virginia Tech stavano analizzando una possibile contaminazione da legionellosi, malattia respiratoria causata da un batterio che si diffonde tramite aerosol o acqua contaminata.

Alla fine, la crisi dell’acqua a Flint sarà costata allo stato del Michigan molto più di quanto pretendeva di risparmiare somministrando ai cittadini l’acqua di un fiume contaminato: dopo il primo stanziamento d’emergenza di 28 milioni del gennaio 2016, il governatore Snyder ha stanziato altri 30 milioni per crediti sulle bollette dell’acqua per il 65 per cento dei residenti. Il 29 giugno infine ha approvato la spesa di 165 milioni di dollari per sostituire le vecchie tubature soggette a corrosione.

Molti si sono chiesti se tutto questo sarebbe successo anche in una città di bianchi. Perché Flint è abitata al 56 per cento da neri; è anche una delle città più povere del paese, in piena rust belt («cintura della ruggine», allusione alla deindustrializzazione). Non è più la città operaia raccontata da Ben Hamper in Revithead, entrata in profonda crisi quando la General Motor ha chiuso quasi tutte le sue attività produttive, ormai in città la disoccupazione è altissima, la povertà è la regola, 41 per cento degli abitanti sono considerati sotto la soglia di povertà, mentre i residenti più benestanti se ne sono andati. Proprio come è successo nella vicina Detroit. Ovvio che le amministrazioni municipali vanno in bancarotta: chi poteva pagare tasse è andato via. Alla radice di questa crisi c’è una profonda ingiustizia.

Per aggiungere beffa al danno, nella primavera 2016 il dipartimento alle finanze del comune di Flint ha annunciato un’ondata di distacchi dell’acqua a cittadini che non pagano la bolletta. L’annuncio ha suscitato un coro di indignazione.

La crisi dell’acqua a Flint rimanda ovviamente anche a responsabilità penali: nell’aprile 2016 il procuratore generale dello stato del Michigan, Bill Schuette, ha formalmente incriminato tre persone: due dirigenti del Dipartimento statale responsabile dei controlli ambientali (Mdeq), accusati di «condotta criminale» in violazione alla legge federale sul’acqua potabile (Clean Water Act) e di aver deliberatamente falsificato prove della contaminazione; e l’ex responsabile della gestione dell’acqueotto per aver falsificato le informazioni sulla qualità dell’acqua.

Al di là delle responsabilità penali però, molti a Flint continuano a chiedere le dimissioni del governatore dello stato, Rick Snyder, per il deliberato avvelenamento di una intera popolazione.

 

Cfr. per il testo di Marina Forti Guerra all’acqua. La riduzione delle risorse idriche per mano dell’uomo, a cura di Alessandro C. Mauceri con la collaborazione di Marina Forti, Torino, Rosenberg & Sellier, 2016

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