Politica-Cultura Archivi - OGzero https://ogzero.org/temi/politico-culturali/ geopolitica etc Fri, 03 Jan 2025 00:23:29 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.4.6 Le missioni di Peacekeeping. 1: profili giuridici e la Monusco in Congo https://ogzero.org/le-missioni-di-peacekeeping-1-profili-giuridici-e-la-monusco-in-congo/ Thu, 02 Jan 2025 23:32:12 +0000 https://ogzero.org/?p=13594 Una ulteriore questione posta dalla necessità di riequilibrare regioni sottoposte a tensioni, guerre civili e, più spesso, percorse dai residui venefici del colonialismo è tipicamente quella inerente agli aspetti giuridici regolatori le missioni cosiddette portatrici di pace, presunta e foriera di nuovi interessi lesivi della autodeterminazione dei popoli forzati a riceverla perché le nazioni si […]

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Una ulteriore questione posta dalla necessità di riequilibrare regioni sottoposte a tensioni, guerre civili e, più spesso, percorse dai residui venefici del colonialismo è tipicamente quella inerente agli aspetti giuridici regolatori le missioni cosiddette portatrici di pace, presunta e foriera di nuovi interessi lesivi della autodeterminazione dei popoli forzati a riceverla perché le nazioni si possano spartire i miliardi stanziati. Fabiana Triburgo affronta questa montagna di interessi intrecciati in due puntate, in questa prima esemplificando sulla missione Monusco. 


Regole d’ingaggio di Guerra e norme di Peacekeeping

I molteplici scenari di guerra che attualmente si stanno diramando a livello globale e le evidenti crepe dell’impianto Onu createsi dall’immobilismo del Consiglio di Sicurezza – per il sistema dei veti incrociati –, nonché dall’inefficacia in concreto delle recenti pronunce degli organi di giustizia internazionale, fanno emergere quella crisi del sistema di sicurezza internazionale che già si era manifestata durante il periodo della guerra fredda. Oggi, come allora, una delle principali ragioni di questa crisi è da ricercarsi in una sezione della Carta delle Nazioni Unite che non ha mai trovato attuazione ossia il capitolo VII – più in particolare gli articoli 42 e seguenti – nel quale, all’indomani della seconda guerra mondiale, si stabilì che l’uso della forza armata per la risoluzione dei conflitti non si sarebbe mai più dovuto rimettere all’iniziativa del singolo stato – tranne nei casi di legittima difesa ex art. 51 della Carta – ma a un contingente internazionale facente capo esclusivamente al Consiglio, quale garante della pace e della sicurezza internazionale.

Secondo tali norme – poste al fine di garantire obiettività e imparzialità per ogni azione di carattere militare – il Consiglio, non solo avrebbe avuto il potere decisionale in merito all’uso della forza armata, ma avrebbe dovuto anche assumere la direzione delle operazioni militari. Rispetto a tale contingente – così come previsto dalla Carta delle Nazioni Unite (artt. 42, 43, 44, 45) – sarebbe poi dovuto sussistere l’obbligo per ciascuno degli stati membri dell’Onu, di stipulare con il Consiglio di Sicurezza dei veri e propri accordi per decidere il numero, il grado di preparazione nonché la dislocazione delle forze armate di volta in volta utilizzabili parzialmente o totalmente da parte del Consiglio. L’azione militare del Consiglio prevista dalla Carta delle Nazioni Unite nel Capitolo VII sarebbe stata quindi un’azione di polizia internazionale che si sarebbe dovuta esplicare previe risoluzioni del Consiglio di Sicurezza aventi il carattere di delibere operative. Tale azione di polizia sarebbe stata strettamente vincolata nella sua attuazione a sole due ipotesi: quella contro uno stato responsabile di aggressione, di minaccia o di violazione della pace o quella dispiegata in un singolo stato se al suo interno, in ragione di un conflitto civile, si fossero ravvisati gli estremi della minaccia alla pace.

Riscontrata dunque la mancata attuazione dell’impianto giuridico della forza militare internazionale – originariamente prevista dalla Carta delle Nazioni Unite per sottrarre al singolo Stato l’iniziativa dell’uso della forza armata – si può più agevolmente comprendere la nascita delle operazioni di “peacekeeping” comunemente definite “Missioni di Pace” o “Caschi blu dell’Onu”.

L’istituto del peacekeeping non è previsto in alcun articolo della Carta delle Nazioni Unite ma è strutturato su una norma consuetudinaria particolare nell’ambito del capitolo VII che si è formata a integrazione della Carta e a titolo della quale il Consiglio di Sicurezza ha sempre agito ogni volta che ha istituito una singola missione di pace. Inoltre il Consiglio di Sicurezza non ha solo il potere di creare le forze per il mantenimento della pace ma anche di regolarne l’attività. Allo stesso tempo, uno degli aspetti altrettanto importanti del peacekeeping è la delega che il Consiglio di Sicurezza emana nei confronti del Segretario generale dell’Onu per compiere – mediante accordi con gli stati membri – le attività necessarie di reperimento e di comando delle forze internazionali in ordine a tali operazioni di pace. I principi fondanti dell’iniziale costituzione del peacekeeping furono infatti: la necessità del consenso alla sua azione da parte delle autorità territoriali di uno Stato; la neutralità del suo operato rispetto alle parti in conflitto; l’uso della forza limitato alla protezione dei propri militari o più in generale della missione (sempre mediante il reperimento dei militari con accordi stipulati con i singoli stati). Tuttavia, come è facile immaginare il peacekeeping ebbe un timido inizio durante il periodo della guerra fredda ma con la caduta delle ultime repubbliche socialiste negli anni Novanta – in particolare durante il conflitto nell’ex Jugoslavia – raggiunse l’apice del proprio interventismo arrivando ad ampliare i propri settori di competenza e spesso a derogare, almeno in parte, a uno o più di quei tre principi fondanti del peacekeeping di cui sopra.

L’allargamento delle finalità inceppa l’ingranaggio

Già dopo il 1989 infatti si passa dall’iniziale attività di peacekeeping – attuata in scenari locali nei quali Usa e Urss non potevano affrontarsi direttamente – a missioni con finalità più ampie come il controllo del rispetto dei diritti umani, l’attività di monitoraggio di libere elezioni, il rimpatrio dei rifugiati e le attività di soccorso in catastrofi naturali. Ad ogni modo, negli anni successivi il peacekeeping arriva a voler soddisfare, con il proprio intervento, obiettivi sempre più ambiziosi che rientrano nelle cosiddette attività di “peace enforcement” ossia alla vera e propria imposizione della pace raggiunta con l’uso della forza militare, derogando quindi a uno dei tre principi fondanti che avrebbero dovuto caratterizzare la sua attività ossia a quello del non uso della forza. se non per autodifesa o difesa del mandato della missione. È quanto avvenuto nel 2013 (Risoluzione n. 2098) con il tentativo di Peace enforcement della “Brigata di Intervento”, cioè: una forza offensiva di combattimento del contingente Onu, destinata a venire impiegata per vere e proprie operazioni militari contro i gruppi armati presenti nella Repubblica Democratica del Congo, prorogata fino al 2017 con una risoluzione del Consiglio di Sicurezza. In particolare, tale Brigata era autorizzata a condurre operazioni offensive mirate a neutralizzare i gruppi armati al fine di determinare una stabilità politica nel paese ma, considerata la vastità del territorio, si è coordinata con l’esercito congolese nello svolgimento delle proprie attività che potevano prevedere attacchi militari su propria iniziativa fino al bombardamento aereo.

Il disastroso impegno in Kivu: Monusco

Tale attività in ogni caso sembra non aver conseguito alcun risultato duraturo nel tempo, considerato che già nel 1999 era stata istituita, con la Risoluzione del Consiglio di Sicurezza n. 1279, la missione di osservazione Monuc (United Nation Organization in the Democratic Republic of Congo) operante nel territorio fino al 2010, a sua volta sostituita nello stesso anno da una nuova operazione di peacekeeping ossia la Monusco (United Nations Organization Stabilization Mission in the Democratic Republic of the Congo) con la Risoluzione del Consiglio di Sicurezza n. 1925 del 29 maggio 2010. Si ricorda che la Monusco, prorogata in un primo momento fino al 31 dicembre 2018, è tuttora operante. Più nello specifico, se la Missione di osservazione Monuc aveva il compito di monitorare l’implementazione dell’“accordo di Lusaka” che ha posto fine alla Seconda guerra del Congo (1997-2003) – detta anche Prima guerra mondiale africana, nata dalla rottura dell’alleanza del Congo con Ruanda e Uganda – il mandato principale della Missione di pace Monusco invece «è quello di proteggere i civili e supportare il governo congolese nel consolidamento del processo di pace». La regione interessata da decenni di violenze e saccheggi è in particolar modo quella del Kivu – a Est del paese, al confine con Burundi, Ruanda e Uganda – ricca di Coltan ossia un prezioso materiale utilizzato per la fabbricazione degli schermi dei cellulari e di altri minerali preziosi quali diamanti, oro e rame nonché di legnami di altissima qualità.

Il personale delle Nazioni Unite è malvisto dai gruppi armati in tale regione anche perché è testimone dei traffici di questi materiali a livello internazionale pur non avendo – come appare evidente – alcun potere, capacità o la reale volontà di limitare il contrabbando e lo sfruttamento illegale delle risorse del territorio congolese.

Il contrabbando delle ricchezze della regione del Kivu viene favorito dalle multinazionali europee e americane nei paesi confinanti, primo fra tutti il Ruanda che si configura tra i primi produttori mondiali di Coltan, nonostante il proprio territorio sia del tutto privo di tale minerale. È proprio il criminale riciclaggio delle risorse minerarie della Repubblica Democratica del Congo – mediante lo sfruttamento della popolazione civile – a determinare il rafforzamento dei gruppi armati che combattono contro le forze militari del governo congolese – in particolare i miliziani dell’M23 (Movimento 23 marzo)accusati da Kinshasa e dalle Nazioni Unite di essere sovvenzionati dal Ruanda, con la conseguente impossibilità a ripristinare la pace e la sicurezza nel territorio. Ad ogni modo, il rappresentante speciale del Segretario dell’Onu, responsabile della Missione Minurso, Bintou Keita ha dichiarato recentemente che anche neutralizzare la milizia Adf (Allied Democratic Force) nel nord del Kivu – responsabile nel giugno del 2024 dell’uccisione di 274 civili – rimane una delle priorità della Missione di pace. La fine della missione – per l’aggravarsi delle relazioni tra le forze di pace e la popolazione civile nel Nord Kivu in conseguenza di alcuni eventi accaduti nel biennio precedente – era stata prevista in un primo momento il 30 giugno del 2024.

Tuttavia in prossimità della scadenza l’ambasciatore della Repubblica Democratica del Congo presso le Nazioni Unite, in un discorso dinanzi al Consiglio di Sicurezza, ha dichiarato che «in conseguenza della continua aggressione del Ruanda nel Nord Kivu la seconda fase di ritiro delle truppe della Monusco, in seguito a una comune valutazione, sarà posta in essere quando le condizioni lo consentiranno».

Anche il capo della Missione Bintou Keita ha affermato che non esiste una tempistica per il ritiro dalle province del Nord del Kivu e dell’Ituri per cui le forze di pace nell’Est del paese hanno sospeso il loro ritiro, iniziato a febbraio 2024, senza che attualmente vi sia una nuova tempistica fissata per la fase conclusiva delle operazioni di pace.

Il Governo dei territori

Un’altra forma di intervento delle Forze dell’Onu, ancora più ingerente, che ha finito per riguardare di nuovo l’ex Jugoslavia si è verificata quando il Consiglio – invocando il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale – ha organizzato per prassi un governo dei territori. La differenza ontologica più rilevante del peacekeeping rispetto al cosiddetto governo dei territori è che il primo prevede un potere pubblico limitato delle forze delle Nazioni Unite che si deve affiancare – almeno in linea di principio – necessariamente a quello delle autorità locali mentre nelle ipotesi di “governo dei territori” vi è una sostituzione integrale dell’Onu a tali autorità anche solo temporaneamente. Il governo dei territorisul piano ideologico pur se rientrante nel peacekeeping – ha avuto origine nel principio di autodeterminazione dei popoli e nel processo di decolonizzazione sviluppatosi a partire dagli anni Sessanta, per cui nei territori interessati dalla fine di un conflitto civile o nei quali era messa in discussione la sovranità statale l’Onu ha cercato di ergersi quale garante in concreto degli interessi delle popolazioni locali. Questo processo di deviazione del peacekeeping tuttavia si è intensificato alla fine della Guerra Fredda quando sono scoppiati numerosi conflitti civili in stati ex colonie ma in un’ottica sempre più orientata di fatto verso il Peacebuilding postbellico – ossia verso quel processo di consolidamento della pace e della sicurezza internazionale – garantito dalle Forze dell’Onu nei territori interessati.

Le missioni di peacekeeping si sono quindi moltiplicate e ampliate fino al punto che alcune di esse hanno previsto di fatto lo svolgimento di alcune funzioni di governo nei territori nei quali hanno operato. La competenza del Consiglio, in questo modo, non solo è passata inevitabilmente dalle guerre internazionali a quelle civili, ma più volte alla vera e propria ricostruzione degli stati al termine dei conflitti armati. Infatti, muovendosi nella dimensione del peacebuilding, è stato più agevole per il Consiglio di Sicurezza – nelle situazioni postconflitto – sconfinare verso il governo dei territori, come è avvenuto tra il 1995 e il 1999 nell’ex Jugoslavia ovverosia quando le forze internazionali di pace finirono con il sostituirsi del tutto ai governi nazionali. Si può lecitamente affermare quindi che la prassi del Consiglio di Sicurezza ha ampiamente deviato dalle norme del Capitolo VII fino a interpretare come minaccia alla pace e alla sicurezza internazionale – delle quali il Consiglio di Sicurezza ha la principale responsabilità – qualsiasi “situazione di pericolo” all’interno di uno stato. In questo modo non solo si è finito con il legittimare l’applicazione di qualsiasi misura che apparisse al Consiglio sufficientemente adeguata. ma si è provocata la trasformazione delle originarie missioni di peacekeeping in missioni di fatto di governo dei territori, se non addirittura come vedremo in vere e proprie missioni di state building.

continua nei Balcani: Peacekeeping 2

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Le missioni di Peacekeeping. 2: le missioni Onu nei Balcani https://ogzero.org/le-missioni-di-peacekeeping-2-le-missioni-onu-nei-balcani/ Thu, 02 Jan 2025 22:06:42 +0000 https://ogzero.org/?p=13589 Prosegue lo studio di Fabiana Triburgo sugli aspetti giuridici a monte delle missioni cosiddette portatrici di pace e tombe per l’autodeterminazione dei popoli forzati a riceverla perché le nazioni si possano spartire i miliardi stanziati. Questa seconda puntata sposta l’attenzione dalla Monusco congolese alla missione Unmik in Kosovo, lo snodo che trent’anni fa portò i […]

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Prosegue lo studio di Fabiana Triburgo sugli aspetti giuridici a monte delle missioni cosiddette portatrici di pace e tombe per l’autodeterminazione dei popoli forzati a riceverla perché le nazioni si possano spartire i miliardi stanziati. Questa seconda puntata sposta l’attenzione dalla Monusco congolese alla missione Unmik in Kosovo, lo snodo che trent’anni fa portò i governi progressisti a guida Clinton-Blair ad aprire la strada allo sfrenato strame delel regole di pacifica convivenza nate con la fine del nazi-fascismo storico, ricreando l’humus per la riedificazione dell’autoritarismo sovranista.


Il disastroso impegno nei Balcani: Unprofor

Altra missione rispetto alla quale si è fatto ricorso al Peace Enforcement, con deroga non solo del principio fondante del non impiego della forza armata da parte dei peacekeepers ma anche di quello dell’imparzialità e del consenso dello stato di dislocamento, avvenne nell’ex Jugoslavia con la missione Unprofor (United Nations Protection Force) istituita in Bosnia Erzegovina e in Croazia, Risoluzione del Consiglio n. 743 del 21 febbraio del 1992, e dichiarata conclusa, Risoluzione del Consiglio n. 1031 del 15 dicembre 1995, con gli accordi di Dayton nello stesso anno.

Con tale risoluzione il Consiglio decise per l’impiego della forza sotto la propria autorità al fine di creare «Le condizioni di pace e di sicurezza necessarie per la negoziazione di una situazione globale della crisi in Jugoslavia» invitando il Segretario Generale a prendere le «misure necessarie».

A tale risoluzione, infatti, successivamente ne seguirono altre sulla stessa linea dell’impiego della forza, come quella con la quale (Risoluzione del 6 ottobre 1992 n. 779), il Consiglio ordinò alle forze di peacekeeping di «sorvegliare il ritiro completo dell’armata jugoslava dalla Croazia e la smilitarizzazione della penisola di Prevlaka» o quella (Risoluzione del 4 giugno 1995 n. 836) mediante la quale affidò alla Forza Onu di difendere alcune città bosniache e relativi dintorni, dichiarati aree protette già in precedenti risoluzioni. La missione Unprofor quindi non ha intrapreso azioni belliche ma non è stata una missione istituita dal Consiglio di Sicurezza esclusivamente o prevalentemente orientata verso il mantenimento della pace. Comunque il ricorso al Peace Enforcement si è dimostrato non efficace – se non addirittura controproducente sul piano politico, legislativo e su quello militare – rispetto agli scenari internazionali nei quali il Consiglio lo ha disposto.

La prima deroga: il Kosovo… ascesa e declino

La deviazione dall’originale intento delle missioni di peacekeeping è avvenuta con la Missione Unmik (United Nation Interim Administration Mission in Kosovo). La missione – tuttora operativa – è stata istituita in Kosovo con la Risoluzione n. 1244 del 10 giugno 1999, al termine dell’intervento aereo della Nato nel 1998 durato tre mesi che ha costretto il governo di Belgrado al ritiro. In un primo momento, infatti, la Missione ha visto il Consiglio di Sicurezza determinare il governo dei territori delegando al Segretario Generale ogni potere legislativo, giudiziario ed esecutivo anche se l’autorità amministrante faceva comunque capo al Consiglio di Sicurezza che – come già detto – ha sempre ritenuto di agire “conformemente” al Capitolo VII della Carta, qualificando la situazione in loco come minaccia alla pace. In seguito alla dichiarazione di indipendenza del Kosovo nel giugno del 2008 la Missione – assumendo i caratteri di una missione di state building più che di peacekeeping – ha prefigurato come obiettivi fondamentali quelli di organizzare istituzioni temporanee di autogoverno alle quali poi, una volta divenute definitive, ha trasferito ogni potere sotto la guida di un Rappresentante speciale del Segretario Generale Onu, avvalendosi di altri attori internazionali ossia l’Osce (Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa) per la democratizzazione del territorio, l’UE in materia di sviluppo economico (Eulex- European Union Rule of Law) e la Nato (Kpfor – Kosovo Force) per la difesa esterna del territorio.

Si ricorda infatti che nel Capitolo VIII della Carta è prevista la possibilità per il Consiglio di avvalersi su propria “autorizzazione” di organi regionali (come la Nato) per l’adempimento delle proprie funzioni. Successivamente infatti in Kosovo a livello costituzionale sono state istituite l’Assemblea parlamentare e altri organi rappresentativi del paese e si è proceduto alla nomina di un presidente del Kosovo, per cui oggi il paese può essere definito come una repubblica parlamentare monocamerale. Vi è da precisare però che l’indipendenza dichiarata dal paese nel 2008 – riconosciuta da circa cento stati membri tra cui gli Stati Uniti e molti stati dell’Ue ma fortemente contestata dalla Serbia e dalla Federazione Russa – è alla base ancora oggi di fortissime tensioni che dividono la comunità internazionale tra i serbi del Nord del Kosovo circa 100.000 e la comunità albanese rappresentante la maggior parte della popolazione kosovara. Né il parere consultivo della Corte di Giustizia – richiesto dall’Assemblea Generale su iniziativa serba – espresso in modo favorevole circa la conformità della dichiarazione di indipendenza del Kosovo rispetto al diritto internazionale, ha sedato gli scontri politici tra le due anime del paese. Ciò è avvenuto per la mancata definizione nel testo della pronuncia della Corte sullo Status del Kosovo per cui il Rappresentante speciale, già nel 2010, dichiarava al Consiglio di Sicurezza la prosecuzione della missione Unmik – ancora coadiuvata dagli attori internazionali di cui sopra – al fine di garantire una condizione pacifica estesa a tutti i kosovari, nonché di promuovere la tanto agognata stabilità regionale dei Balcani occidentali che alcune vicende, come la cosiddetta “disputa delle targhe”, dimostrano quanto tale obiettivo sia ancora lontano.

“La manipolazione nazionalista controlla ancora la Serbia”.
Infatti, nel 2021 Pristina ha imposto alle automobili serbe di esporre targhe provvisorie recanti la dicitura “Repubblica del Kosovo” per entrare nel Paese. Tale decisione delle autorità kosovare è dettata dal fatto che la Serbia non ha consentito ai veicoli in entrata nel paese dal Kosovo di esporre targhe kosovare. Nel 2011 si è raggiunto un accordo, mediato dall’Ue, di riconoscere vicendevolmente le targhe. A questo accordo però non è stata data piena attuazione e le automobili in entrata in entrambi i paesi dovevano avere apposti specifici bolli che coprissero i loro simboli nazionali. L’accordo del 2011, rinnovato nel 2016, è però nel 2021 scaduto senza arrivare a un compromesso. Solo nel 2024 la disputa è stata risolta, infatti – dopo che il governo serbo nel 2023 ha comunicato che dal primo gennaio 2024 tutte le automobili kosovare avrebbero potuto liberamente attraversare il confine con la Serbia – anche il governo kosovaro ha adottato la stessa misura a favore della Serbia.

Come noto, la disputa delle targhe è soltanto il simbolo di una rottura ben più profonda tra il governo kosovaro di Kurti e quello serbo di Vuçic che ha visto emergere forti tensioni con scontri e violenze nel Nord del Kosovo, richiedendo anche l’intervento del personale Nato (Kpfor) rimasto ferito durante le guerriglie. La Serbia considera la regione come il cuore del proprio stato e della propria religione anche per i numerosi monasteri cristiani ortodossi che si trovano in Kosovo. Dall’altra parte la maggioranza albanese considera il Kosovo il proprio paese dopo la dichiarazione di indipendenza e la minoranza serba come una forza di occupazione e di repressione. Sul fronte della politica interna invece il paese resta bloccato in istituzioni solo formalmente democratiche poiché in preda a una classe politica fortemente nazionalista incapace di assumere decisioni progressiste. La coercizione e l’assertività delle Forze esterne, inoltre, ha portato non solo alla creazione di istituzioni poco efficienti con scarsa legittimità locale ma anche alla tolleranza di un sistema clientelare di corruzione legato a esse. Per tale ragione gli ultimi anni sono caratterizzati da un proliferare di movimenti di protesta sia contro la classe politica corrotta e nazionalista che contro quella internazionale considerata distante, indifferente e compiacente. Per il fallimento degli organismi esterni operanti nel paese – compresi quelli dell’Unione Europea – la popolazione kosovara guarda con maggior disincanto verso l’Occidente e con maggior interesse verso Russia e Cina in particolare i serbi del Nord del Kosovo. Si ricorda che la Serbia è stato l’unico Paese a non aver introdotto sanzioni nei confronti della Russia, all’indomani dell’invasione dell’Ucraina, mentre la Russia è consapevole che investendo in Serbia soprattutto attraverso i suoi programmi di “informazione” può influenzare politicamente, per via della comunanza linguistica, quasi tutta l’area dei Balcani come Bosnia Erzegovina, Croazia e Montenegro.

Da ultimo va ricordato che rientra nella prassi del governo dei territori da parte dell’Onu l’istituzione dei tribunali internazionali per la punizione dei crimini compiuti dagli individui come il Tribunale penale internazionale per i crimini commessi nell’ex Jugoslavia e il Tribunale penale internazionale per i crimini commessi nel Ruanda.

Oltre a questi, sempre mediante il governo dei territori, il Consiglio di Sicurezza ha istituito anche tribunali misti o ibridi perché composti sia da giudici nazionali dello stato in cui sono insediati che da giudici stranieri. Ciò è avvenuto con i Panels in Kosovo istituiti nel 2000 dall’Unmik con Regolamento n. 64: le camere specialistiche del Kosovo sono state poi istituite con legge, all’interno del sistema giudiziario kosovaro, il 3 agosto 2015 dall’assemblea del Kosovo per processare i crimini internazionali commessi durante e dopo il conflitto.

continua nel Sudovest asiatico: Peacekeeping 3

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Le missioni di Peacekeeping. 3: la guardia al bidone di Unifil in Sudovest asiatico https://ogzero.org/le-missioni-di-peacekeeping-3-la-guardia-al-bidone-di-unifil-in-sudovest-asiatico/ Thu, 02 Jan 2025 21:47:02 +0000 https://ogzero.org/?p=13568 Con questa terza puntata si conclude per ora lo studio di Fabiana Triburgo sulla giurisprudenza internazionale che regola le missioni dell’Onu e che esemplarmente sono state analizzate nelle due puntate precedenti in Congo (Monusco) e nei Balcani (Unmik). La missione oggetto di studio è una delle più citate negli ultimi tempi, ma l’intera  sua storia […]

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Con questa terza puntata si conclude per ora lo studio di Fabiana Triburgo sulla giurisprudenza internazionale che regola le missioni dell’Onu e che esemplarmente sono state analizzate nelle due puntate precedenti in Congo (Monusco) e nei Balcani (Unmik). La missione oggetto di studio è una delle più citate negli ultimi tempi, ma l’intera  sua storia è stata travagliata, perché finché la diplomazia internazionale era regolata dai principi scaturiti dall’equilibrio scaturito con la fine della Seconda guerra mondiale Unifil aveva posto un apparente argine al neocolonialismo ebraico.


Risoluzione 1701: La ventennale Blue Line dell’Unifil libanese

Mediante il medesimo meccanismo è stato istituito il Tribunale speciale per il Libano creato nel 2007 dalle Nazioni Unite con il governo libanese. L’accordo tuttavia non è stato ratificato dal parlamento libanese per cui l’attività del tribunale è stata imposta dal Consiglio di Sicurezza ex Capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite con Risoluzione n. 1757 del 30 maggio 2007. Anche in Libano, terreno nel quale ancora oggi si scontrano Israele ed Hezbollah, è schierata dal 2006 una forza di pace delle Nazioni Unite: l’Unifil (United Nation Interim Force in Lebanon) per quasi vent’anni era riuscita a evitare che tra i due opposti schieramenti si verificassero più gravi eventi che avrebbero potuto far degenerare la situazione. Tuttavia i recenti scontri tra Hezbollah (o “Partito di Dio”) e Israele hanno portato a far riflettere più stati – a livello internazionale – sulla necessità di ritirare i propri soldati dalla Missione. La missione Unifil in realtà è stata originariamente istituita nel 1978 (Risoluzione n. 425/426) per confermare il ritiro delle forze israeliane, ripristinare la pace internazionale e assicurare che il governo del Libano riprendesse l’effettivo esercizio della sua autorità territoriale nell’area. Successivamente, nel 1982, con la Risoluzione n. 501 la missione è stata implementata e potenziata al fine di garantire la protezione e l’assistenza umanitaria alla popolazione. Il 1982 infatti è l’anno della prima guerra israelo-libanese, iniziata mediante l’operazione “Pace in Galilea” condotta da Israele per sradicare dal Sud del Libano la presenza di palestinesi armati che ipotizzava si nascondessero tra i profughi proseguendo poi fino a Beirut, città nella quale aveva sede l’Olp (Organizzazione per la liberazione della Palestina). Con l’intervento sotto il patrocinio delle Nazioni Unite si è cercato quindi di evitare un’ulteriore escalation della guerra per cui si è agevolata la partenza da Beirut per Tunisi del presidente dell’Olp Arafat e dei suoi uomini, costringendo gli altri appartenenti alle forze armate palestinesi a riversarsi nelle città limitrofe. Nel 2000 con il ritiro delle forze israeliane, la missione Unifil – mantenendosi nuovamente sul ripristino della pace e della sicurezza internazionale – è divenuta una missione di monitoraggio e di osservazione. Così nello stesso anno è stata istituita dalle forze dell’Onu la Blue Line ossia la demarcazione del confine tra i due stati lunga circa 51 chilometri come limite del ritiro delle forze militari israeliane dal Sud del Libano. Nel 2004 con la Risoluzione n. 1559 il Consiglio di Sicurezza ha richiesto il rigoroso rispetto dell’integrità territoriale e dell’indipendenza del Libano chiedendo ufficialmente il completo ritiro delle forze militari israeliane dal paese nonché il disarmo di tutte le forze militari sul campo, libanesi e non. Il 2006 invece è l’anno del secondo conflitto israelo-libanese iniziato con l’offensiva di Hezbollah contro una pattuglia dell’esercito israeliano e proseguito con la violenta reazione di Israele che aveva lo scopo di neutralizzare l’intero apparato di Hezbollah. È in questo contesto che l’11 agosto del 2006 il Consiglio di Sicurezza dell’Onu è intervenuto con la Risoluzione n. 1701 che ha imposto l’immediata cessazione delle ostilità, il ritiro di Israele dal Sud del Libano, il supporto allo spiegamento delle forze libanesi in tutto il Libano meridionale, la garanzia dell’accesso umanitario alla popolazione civile, l’assicurazione del ritorno volontario e sicuro degli sfollati, nonché l’assistenza al governo libanese per impedire l’accesso irregolare di armi e per  proteggere i suoi confini. Infatti ancora oggi lo scopo della missione Unifil è quello di presidiare la cosiddetta “Blue Line”, ossia quella zona cuscinetto nella quale è consentito solo all’esercito libanese e ai peacekeepers dell’Onu di possedere armi ed equipaggiamento militare.

La Risoluzione n. 1701 è stata rinnovata ad agosto del 2024 con la quale il Consiglio di Sicurezza ha mantenuto per Unifil lo stesso mandato della Risoluzione del 2006 ma prolungandolo fino ad agosto 2025. Alla fine di settembre del 2024 tuttavia le Forze di difesa Israeliane (Idf) hanno ucciso un numero di persone equivalente a un mese di combattimenti nell’estate del 2006: tra la notte di domenica 22 settembre e martedì 24 settembre le vittime libanesi sono state oltre 550. L’obiettivo di Netanyahu è indebolire Hezbollah e il suo alleato iraniano per eliminare la minaccia dei razzi sul nord di Israele e quello di offrire a decine di migliaia di civili israeliani, sfollati da oltre un anno, di tornare alle proprie case. Non solo, Israele vuole costringere Hezbollah a ritirarsi dal fiume Litani a circa 40 chilometri dalla Blue Line che separa gli schieramenti militari in quanto non esiste ancora un confine internazionale riconosciuto tra il Libano e Israele. Il “Partito di Dio” dalla fine di ottobre del 2023, in seguito all’inizio della guerra israelo-palestinese, ha affermato di voler aderire al fronte anti-israeliano per accelerare la fine del progetto coloniale sionista aprendo il valico del Sud del Libano e dando sostegno a Hamas e ai palestinesi. Tuttavia, a partire dall’estate del 2024 lo stato israeliano perpetra l’assassinio di diversi capi di Hezbollah. In primo luogo, viene ucciso da Israele Fuad Situkr, alto comandante di Hezbollah e successivamente Hassan Nasrallah, storico leader alla guida di Hezbollah che ha visto il gruppo trasformarsi da una fazione di guerriglia alla forza politica più potente del Libano.
Netanyahu ha anche eliminato altri miliziani del partito facendo esplodere migliaia di “cerca persone” e “walkie talkie”, in loro dotazione, dando l’ordine di esecuzione mentre si trovava a New York presso il palazzo delle Nazioni Unite. Infine, il 30 settembre 2024 l’esercito israeliano è entrato direttamente in Libano con carri militari oltrepassando la Blue Line.

La forza Onu di mantenimento della pace ha ribadito che «qualsiasi attraversamento della linea blu viola la sovranità e l’integrità territoriale del Libano nonché la Risoluzione n. 1701 del 11 agosto 2006 dopo la guerra tra il Libano e Israele».

Da qui l’attacco israeliano contro le basi dell’Onu nel Sud del Libano, il 13 ottobre 2024. L’attacco è avvenuto dopo che nei giorni precedenti Israele ha chiesto alle truppe Unifil di spostarsi 5 km più a nord ma i soldati della missione hanno deciso di non muoversi. Con un comunicato ufficiale l’Unifil – rispetto all’attacco subito – ha dichiarato che un carro armato israeliano ha sparato contro una torretta di osservazione di una delle basi della missione più precisamente a Naqura, facendo cadere due operatori di pace di nazionalità indonesiana che sono stati ricoverati in ospedale. È stata inoltre ripetutamente colpita dalle forze militari israeliane la base principale della missione di pace sempre a Naqura.

Si ricorda che attualmente la missione Unifil – impiegata nel sud del Libano – conta oltre diecimila soldati provenienti da cinquanta paesi di cui sedici dell’Unione europea. Netanyahu ha affermato che l’Unifil deve evacuare il Sud del Libano poiché ritiene che i militari stiano fornendo «uno scudo umano ad Hezbollah». Nel novembre del 2024 c’è stato un secondo attacco alla missione con tre distinte operazioni militari mediante razzi (la prima verso il quartier generale dell’Unifil a Shama, la seconda colpendo una base della missione a Ramyet e l’ultima verso una pattuglia Unifil nei pressi del villaggio Kharbat Silim). Dopo il terzo attacco contro l’Unifil mediante il lancio di due razzi contro la “base UNP2-3” di Shama, nelle prime ore del 22 novembre 2024, l’Unifil ha dichiarato che gli ultimi due attacchi alla missione «sono avvenuti per opera di attori non statali presenti sul territorio libanese». Tuttavia si ricorda che la Missione non ha capacità sovrana, Hezbollah non ha interesse a collaborare con le Forze Onu e Israele non ha fiducia che questa possa assicurare la liberazione dal Libano meridionale dalla presenza di Hezbollah. In tale ottica solo il Consiglio di Sicurezza – che tuttavia, come noto, ha posizioni contrastanti al suo interno rispetto a tale conflitto – può dissuadere lo Stato ebraico dall’intensificare i suoi attacchi contro Unifil.

Per ora la comunità internazionale si accontenta dell’accordo del cessate il fuoco raggiunto alla fine di novembre 2024 tra i miliziani di Hamas e il governo israeliano ma emerge tutta l’impotenza dell’impianto Onu a fronteggiare effettivamente le guerre internazionali per cui quella Carta redatta all’indomani della Seconda guerra mondiale, più che un coercitivo impedimento affinché la pace e la sicurezza internazionale non vengano mai violate, sembra essere un nostalgico ricordo scritto di intenti e di speranze spesso smentito dalla realtà dei fatti.

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L’equilibrista di Ankara sul filo del conflitto mediorientale https://ogzero.org/lequilibrista-di-ankara-sul-filo-del-conflitto-mediorientale/ Thu, 25 Apr 2024 20:18:45 +0000 https://ogzero.org/?p=12587 Le mosse strategiche nella regione Mena sono diventate più frenetiche dagli Accordi di Abramo in poi, fino alla reazione di Hamas del 7 ottobre, apparentemente avventata ma mirata a legittimarsi come movimento e contrastare l’accelerazione del governo Netanyahu volta a cancellare la presenza palestinese nella regione. I sei mesi di pantano genocida non sono stati […]

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Le mosse strategiche nella regione Mena sono diventate più frenetiche dagli Accordi di Abramo in poi, fino alla reazione di Hamas del 7 ottobre, apparentemente avventata ma mirata a legittimarsi come movimento e contrastare l’accelerazione del governo Netanyahu volta a cancellare la presenza palestinese nella regione. I sei mesi di pantano genocida non sono stati risolutivi per lo Stato ebraico e così si assiste al particolare dinamismo da parte di molti attori locali, in particolare di Erdoğan.
La diplomazia turca e il presidente stesso hanno intrapreso un tourbillon di incontri presso i vertici degli stati che compongono la regione mediorientale, proponendosi come mediatore, cercando di raccogliere il testimone lasciato cadere dal Qatar, logorato dal boicottaggio israeliano. Ma soprattutto Erdoğan ha individuato nel conflitto che si vuole estendere dal confronto tra Stato ebraico e Repubblica islamica la nuova centralità dell’Iraq, controllato da Teheran attraverso una ragnatela di accordi con la complessità delle formazioni e delle comunità che abitano il territorio iracheno; insinuandosi nei contrasti interni, il presidente turco mira al petrolio di Erbil e a cacciare il Pkk dai monti del Kurdistan iracheno… Murat Cinar dispiega la sottile tela che si va tessendo, in particolare ricostruendo il ruolo turco e l’avvicinamento di Hamas (evidentemente più rassicurato dall’abbraccio di Ankara – contemporaneamente paese Nato e rivale di Israele – che non dalle petrocrazie arabe) sia nella complessa carneficina della guerra ormai esportata nel resto dei paesi all’interno dei quali le presenze filoiraniane dettano la politica, sia nella strategia per inserirsi nel controllo del territorio e dell’energia irachena, comprandosi Baghdad ed Erbil. E di nuovo, come spesso ci ha raccontato Cinar, spuntano gli oleodotti di Barzani [a proposito: l’immagine in copertina è la fortezza di Erbil pavesata a festa per l’arrivo del presidente turco]  e le dighe su Tigri ed Eufrate, le acque del Medioriente…


Erdoğan è vicino a tutti

 

“Da oltre cento anni, le acque nel Medioriente non trovano pace”, questo è un dato certo. Tuttavia, proprio nelle ultime settimane, siamo testimoni di un fenomeno straordinario. Un fenomeno che coinvolge diversi attori, ma tra essi uno spicca particolarmente: la Turchia.

Dal 7 ottobre fino a oggi, le relazioni tra il partito al governo in Turchia, l’Akp, e l’organizzazione armata Hamas, sono diventate una questione internazionale, chiara e trasparente. L’esponente più autorevole dello stato turco e del partito al potere da oltre vent’anni, ovvero il presidente della Repubblica, dopo alcune settimane di silenzio dal 7 ottobre, ha deciso di comunicare la sua posizione: «Hamas è un’organizzazione di patrioti, non un’organizzazione terroristica». Così, dopo l’Iran, la Turchia è diventata il secondo paese al mondo a esprimere un avvicinamento così netto a Hamas.


Una posizione che entra in contraddizione con i partner europei, con gli alleati Nato, nonché con la Lega Araba e l’Organizzazione della Cooperazione Islamica. In fondo, non si tratta di una novità assoluta. La linea politica ed economica rappresentata dall’Akp è sempre stata vicina ai movimenti fondamentalisti come i Fratelli Musulmani e a una serie di formazioni armate religiose nel Medio Oriente. Inoltre Hamas ha sempre trovato accoglienza, sostegno e riconoscimento presso l’Akp e sotto l’ala protettiva del presidente della Repubblica di Turchia. Tuttavia, questa esposizione così netta, in pieno conflitto, non ha provocato reazioni, sanzioni o embarghi da parte dell’UE e/o della Nato. Poche settimane dopo, nel mese di dicembre, il mondo ha appreso, grazie alle inchieste giornalistiche di Metin Cihan, che persino per Israele non costituiva un grande problema, poiché Tel Aviv continuava a fare acquisti presso aziende turche, incluse quelle statali.

Affannosamente al centro di ogni possibile accordo

Nel mentre Ankara ha tentato diverse volte di assumere il ruolo di “mediatore”, anche se finora senza successo; tuttavia, oggi sembra che questi sforzi stiano finalmente portando dei risultati. Il ministro degli Esteri turco, Hakan Fidan, ha incontrato in Qatar il leader politico di Hamas, Ismail Haniyeh, proprio quando Doha stava per abbandonare il suo ruolo di mediatore. Infatti il primo ministro del Qatar, Sheikh Mohammed bin Abdulrahman bin Jassim Al Thani, il 16 aprile aveva comunicato a Fidan che il suo governo stava per rinunciare. Tuttavia il tentativo del Ministro turco sembra poter ottenere dei risultati positivi. Le dichiarazioni di Fidan ci offrono spunti di riflessione su una serie di scenari:

«Come ho costantemente riferito ai nostri alleati occidentali, Hamas è a favore di uno stato palestinese basato sui confini del 1967 e, una volta creato, è disposto a rinunciare alle armi e a intraprendere la via della politica parlamentare», ha affermato Fidan. Tale dichiarazione prevede anche il riconoscimento di Israele da parte di Hamas, la possibilità di porre fine al conflitto armato, il rilascio degli ostaggi e lo scambio di detenuti politici. Si tratterebbe dell’inizio di una nuova era: «Questo segna il cammino verso la creazione di uno stato palestinese», ha concluso Fidan.

Quando e perché viene fuori una dichiarazione del genere?

Potrà una comunità fondarsi su un altro genocidio come quello di Gaza senza essere una caserma come lo Stato ebraico… o la Repubblica turca?

Senza dubbio il massacro a Gaza ha esaurito innanzitutto i principali protagonisti. Ci troviamo di fronte a un governo sionista, rappresentato da Benjamin Netanyahu, che sta perdendo sempre più il sostegno interno. Da mesi ormai, le strade di Israele sono attraversate da manifestazioni che chiedono le dimissioni di Bibi. In realtà, non è una novità, considerando che nel 2023 Israele aveva già vissuto un lungo periodo di proteste contro il governo per le sue proposte di cambiamento radicale del sistema giudiziario. Oggi Netanyahu è impegnato in una guerra che non sta producendo risultati. Gli ostaggi sono ancora in mano a Hamas, molti sono morti (anche a causa dell’esercito israeliano), e il governo israeliano continua a perdere sostegno a livello internazionale. Le critiche severe che giungono da Washington non sono sporadiche, soprattutto attraverso il più importante esponente politico degli Stati Uniti, ovvero Biden, che tra pochi mesi dovrà affrontare delle elezioni cruciali, dove la situazione israeliana avrà sicuramente un ruolo di rilievo.

Sintonie politico-militari tra leader nazionalisti-identitari

Quindi l’avvicinamento di Ankara a Hamas e il tentativo di portarla eventualmente al tavolo dei negoziati, ottenendo il riconoscimento dello Stato di Israele, la creazione di uno stato palestinese indipendente e il rilascio degli ostaggi, sicuramente portano all’Akp un notevole vantaggio politico. Biden si libera dalla pressione politica e mediatica avvicinandosi alle elezioni, mentre Ankara appare come un mediatore con un canale privilegiato verso un gruppo armato che ha legami diretti solo con l’Iran, attualmente molto isolato.
Infatti, proprio in questi giorni il presidente della Repubblica di Turchia ha paragonato Hamas alla formazione armata che ha fondato la Turchia, la Kuva-i Milliye (anche se con profili ideologici decisamente diversi). Lo stesso parallelo era stato tracciato dallo stesso presidente per l’Esercito Libero Siriano nel 2018, un gruppo di jihadisti che aveva supportato le forze armate turche nelle loro operazioni in Siria. Oggi Erdoğan sembra cercare di presentarsi nuovamente come l’unico intermediario per le organizzazioni terroristiche, a servizio della Nato, dell’Europa e persino di Israele. Non va dimenticato il tentativo di costruire un rapporto diretto con i Talebani nel 2021, quando Erdoğan disse:

«Abbiamo un pensiero ideologico molto simile».

Questo avvenne proprio mentre il mondo era sconvolto dalla fuga degli americani dall’Afghanistan e il ritorno dei Talebani al potere.

Tattiche e affari turchi; accoglienza senza schierarsi

Quindi Hamas rappresenta una nuova opportunità per Ankara, forse anche per garantire un certo sostegno a Bibi. Nonostante gli attriti e le dichiarazioni aspre, Erdoğan e Netanyahu hanno sempre mantenuto un rapporto commerciale molto proficuo, in costante crescita. Anche durante il conflitto, secondo il report dell’Istituto di Statistica turco, Tuik, il volume degli scambi commerciali tra Ankara e Tel Aviv è aumentato del 20%. Tra i prodotti venduti troviamo tutto il necessario per sostenere l’occupazione e l’invasione. Chi altro potrebbe offrire un aiuto così significativo a Netanyahu, in difficoltà al punto da tentare di coinvolgere persino l’Iran in una guerra?

Sì, l’accoglienza diretta e il sostegno a Hamas da parte di Ankara avvengono proprio mentre nel mondo crescono le preoccupazioni riguardo a una possibile guerra tra Iran e Israele.

Tattiche e affari iraniani, intrecci speculari con quelli israeliani

In questo momento di difficoltà interna e internazionale il governo israeliano decide di colpire le postazioni diplomatiche iraniane presenti in Siria, il 1° aprile. Ovviamente sarebbe stato assurdo pensare che l’Iran non avrebbe reagito. Ma in che modo e con quali tempi?

Teheran ha atteso ben due settimane prima di reagire. In Israele l’ansia era palpabile: si sono verificate lunghe code nei supermercati, la popolazione era pronta per la guerra e le critiche nei confronti di Netanyahu si erano intensificate. Tuttavia Teheran, considerando la propria situazione economica e l’instabilità politica interna da anni, non poteva permettersi una vera guerra. Alla fine sono stati lanciati più di 300 razzi/droni verso Israele, ma nessun bersaglio civile è stato colpito e solo una persona è rimasta ferita. Era prevedibile che Tel Aviv avrebbe neutralizzato questo attacco con il suo avanzato sistema di sicurezza? Forse sì. Allora, a cosa è servito tutto ciò?
Innanzitutto Teheran non è rimasto in silenzio dopo l’attacco subito, ha dimostrato al mondo che in qualche modo avrebbe potuto tentare di colpire Israele. Dopo il 7 ottobre, e per la prima volta dopo anni, uno stato ha cercato di colpire Israele mentre tutti i paesi del Golfo osservavano ciò che accadeva a Gaza. Israele ha fermato l’attacco grazie ai suoi alleati, non da solo. In primo luogo la Giordania, poi le forze americane e inglesi hanno dato una mano a Tel Aviv. Quindi, per il governo israeliano, questa non è una vittoria ottenuta da solo.

Inoltre per Israele potrebbe essere stato un tentativo, forse, di spostare l’attenzione da Gaza a Teheran. Forse cercava di coinvolgere gli Stati Uniti in questa guerra, o di ottenere nuovi alleati in un eventuale conflitto futuro. Alla fine della giornata, chi non ha qualche problema con l’Iran? Tuttavia, secondo fonti dell’agenzia di stampa Axios, Bibi non ha ottenuto il sostegno che si aspettava da Biden. «You got a win. Take the win» sarebbe stato il riassunto della posizione del presidente statunitense. In altre parole: “mo’ basta, non ti sostengo più”. Ora Israele molto probabilmente si sta preparando a colpire l’Iran. Non sappiamo ancora in che modo, ma Tel Aviv non è l’unico a cercare di mettere in discussione la presenza dell’Iran in quella zona in questi giorni. Anche Ankara sta cercando di eliminare Teheran dall’Iraq.

Affari e opportunità, rimestando nel caos iracheno

Lorenzo Forlani ci aiuta a inquadrare la mezzaluna sciita: “No “Mena” Land: lo strame di 30 anni di proxy war in MO”.

Erdoğan e l’ossessione anticurda

Pochi giorni prima delle elezioni amministrative tenutesi in Turchia il 31 marzo, una significativa delegazione turca si era recata a Baghdad, ottenendo un risultato di rilievo grazie alla firma di un accordo storico. Con questo accordo, il governo iracheno esprimeva la sua solidarietà ad Ankara nella “lotta contro il Pkk” e prometteva di impegnarsi anche militarmente in questa missione. Oggi è giunto il momento di valutarne i risultati.

Dodici anni dopo il presidente della Repubblica di Turchia si è recato in Iraq il 22 aprile per incontrare il governo centrale a Baghdad e successivamente gli esponenti dell’Amministrazione autonoma del Kurdistan a Erbil. Quali sono gli elementi in gioco e qual è il coinvolgimento dell’Iran?
Uno dei principali problemi che Baghdad fatica ad affrontare è quello economico. Infatti, nel mese di marzo di quest’anno, l’Iraq ha avviato il progetto della “Strada dello Sviluppo”, che prevede il coinvolgimento diretto della Turchia per una serie di prodotti, sfruttando anche la sua posizione geografica strategica. La “Development Road” sarebbe importante anche per diventare un’alternativa per una serie di paesi e aziende occidentali che negli ultimi tempi hanno incontrato difficoltà nel Mar Rosso, una zona controllata da Ansar Allah (Houthi), cioè dall’Iran. Quella formazione armata che spesso impedisce alle navi commerciali di attraversare la zona. Quindi si tratta di un progetto che avrebbe l’ambizione, almeno in parte, di minare il potere politico ed economico di Teheran. Naturalmente l’attuazione del progetto renderà la Turchia un attore importante, che sembra voler approfittare di questa occasione per introdurre ulteriori elementi nel gioco.

E l’ambigua ossessione antiraniana per conto dell’energivoro Occidente

Infatti tra i temi discussi da Erdoğan durante la visita in Iraq c’è anche il consolidamento dell’alleanza diretta per combattere il Pkk, una formazione armata definita “terroristica” dalla Turchia, con alcune sue basi e numerosi vertici situati proprio in Iraq. In questo contesto è importante ricordare che da circa tre anni, durante gli incontri tra Ankara e Baghdad, si discute anche di una possibile collaborazione per eliminare la formazione armata Hashdi Shabi dal territorio iracheno. Questo rappresenterebbe un nuovo gesto contro l’Iran, dato che l’organizzazione in questione è stata costantemente sostenuta e armata da Teheran ed è stata sempre considerata una “minaccia per la sicurezza nazionale” da parte di Baghdad. Pertanto unire la lotta contro il Pkk a quella contro l’Hashdi Shabi potrebbe diventare una missione comune per questi due paesi confinanti.

Quindi, per Ankara, l’attuazione del progetto “Development Road” rappresenta anche un’opportunità per trasformare Baghdad in un vero alleato nella sua missione di contrastare e forse distruggere il Pkk. Dopo che Baghdad ha definito il Pkk “un’organizzazione terroristica” nel mese di marzo, ora non ci sarebbero più ostacoli per avviare le operazioni militari. È importante considerare che un Iraq sicuro, non soggetto a bombardamenti da parte di nessuno, libero dal conflitto armato tra Pkk e Ankara e infine libero dalla presenza iraniana, consentirebbe a tutte le aziende europee e statunitensi di operare “in pace”. Pertanto l’operazione economica e militare proposta da Ankara non gioverebbe solo ai suoi interessi. Infatti, proprio il giorno dell’arrivo di Erdoğan in Iraq, il portavoce dell’Association of the Petroleum Industry of Kurdistan, Myles Caggins, ha dichiarato ai microfoni del canale televisivo iracheno Rûdaw TV:

«Mi aspetto che Erdoğan convinca i dirigenti iracheni a far giungere il petrolio del Kurdistan al mondo attraverso la Turchia».

Dalla padella della mezzaluna sciita filoiraniana alla brace della fratellanza filoturca?

È indubbiamente importante considerare una serie di dinamiche. In Iraq nel 2025 si terranno le elezioni e nel paese non c’è un consenso politico e/o popolare sulla posizione nei confronti del Pkk e sull’avvicinamento con la Turchia. Per esempio, Bafel Jalal Talabani, leader dell’importante partito politico curdo Puk, spesso dichiara che il Pkk non è il suo nemico. Inoltre, è ancora fresca la condanna subita da Ankara per il commercio petrolifero, definito “scorretto”, con l’amministrazione curda. Nel 2023, Ankara è stata multata di 1,4 miliardi di dollari dalla Icc, la Corte Internazionale di Arbitrato.

Ma evidentemente il presidente turco è stato convincente (forniture militari, sicurezza, risorse idriche, promesse varie…), tanto che il portavoce del governo iracheno, Basim el-Avvadi ha rilasciato una dichiarazione il 25 aprile: «Ai membri del Pkk sarà riconosciuto il titolo da rifugiato politico. L’organizzazione invece sarà definita illegale», un’altra diaspora attende i resistenti curdi; contemporaneamente Hamas può trovare ricovero proprio presso il persecutore del Pkk.

Dighe contro le popolazioni mesopotamiche: preludio a un nuovo focolaio di guerra

Oltre a questa questione ancora aperta c’è anche il problema dell’acqua, che rappresenta un tema cruciale. Secondo l’accordo del 1980 la Turchia è tenuta a gestire correttamente il regime dei fiumi che attraversano i suoi confini e scorrono verso l’Iraq. A causa del riscaldamento globale Baghdad cerca da anni di rinegoziare questo accordo, ma Ankara continua a rimandare la questione. Tuttavia, soprattutto durante l’estate, ciò causa un enorme disagio per l’intera nazione, e l’opinione pubblica è convinta che la Turchia stia usando l’acqua come un’arma contro l’Iraq.

La portata del Tigri e dell’Eufrate nel progressivo inaridimento fino alla foce, grafico tratto da Curdi, di Antonella De Biasi, Giovanni Caputo, Kamal Chomani e Nicola Pedde, Torino, Rosenberg & Sellier, 2019

Dopo l’incontro del 22 aprile è molto probabile che Erdoğan abbia ottenuto risultati significativi non solo dal punto di vista economico, ma anche in vista di un’operazione militare imminente. La sua prossima visita, fissata per il 9 maggio a Washington direttamente con Biden, probabilmente includerà anche l’ottenimento di una sorta di “lasciapassare” in Iraq. Non sarebbe fuori luogo aspettarsi un inizio di guerra entro fine maggio.

Perpetuazione del mondo caoticamente multipolare

Il governo turco è apparentemente molto determinato nel lavoro volto a portare Hamas al tavolo dei negoziati, per ottenere una serie di risultati a breve e lungo termine, sia politici che economici, diretti e indiretti. La fine della guerra probabilmente porterà benefici anche a Benjamin Netanyahu, permettendogli di restare al potere senza doversi dimettere. Quindi in Israele potrebbe rimanere un uomo che, tutto sommato, non ha creato grossi problemi a Erdoğan. Anzi, durante la sua carriera politica, il presidente turco ha beneficiato di un notevole benessere economico, sia per le aziende vicine al suo governo che per quelle della sua famiglia.

In quest’ottica, uno Stato ebraico stabile e una repubblica islamica che non esce dai suoi “confini” e rimane al di fuori del gioco in Iraq permetteranno ad Ankara e ai suoi alleati di continuare a giocare la stessa partita anche nei prossimi anni.

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L’epilogo comune del conflitto armato filippino? https://ogzero.org/conflitto-armato-filippino-l-epilogo-comune-del/ Sat, 02 Dec 2023 01:57:49 +0000 https://ogzero.org/?p=11994 Molto interessante la segnalazione di Gianni Sartori a proposito di un processo misconosciuto dai media mainstream – e anche i portali europei più attenti alle lotte di emancipazione non registrano gli “annientamenti” mirati contro i militanti più storici di una lotta che dura da 50 anni nell’arcipelago filippino. Ci sembra particolarmente significativo descrivere il processo […]

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Molto interessante la segnalazione di Gianni Sartori a proposito di un processo misconosciuto dai media mainstream – e anche i portali europei più attenti alle lotte di emancipazione non registrano gli “annientamenti” mirati contro i militanti più storici di una lotta che dura da 50 anni nell’arcipelago filippino. Ci sembra particolarmente significativo descrivere il processo di “pacificazione” del conflitto armato filippino con la guerriglia maoista intrapreso dal potere a Manila assimilabile alle modalità in cui si stanno consumando le soluzioni dei conflitti “epocali” in tutto il mondo: il caso più macroscopico anche per quantità riguarda i palestinesi, ma l’esempio più avvicinabile è il lento stillicidio colombiano delle Farc e probabilmente un futuro curdo che si prospetta per le importanti esperienze del confederalismo democratico, così tristemente simile a un passato Tamil; parzialmente diverso è il caso birmano, dove le comunità temporaneamente alleate contro Tatmadaw sono unite da ragioni meno nobili degli altri “eserciti” di liberazione citati.
Una notazione che ci viene dalla proposta grafica che abbiamo trovato come illustrazione dell’intervento: il tratto o l’inquadratura esibiscono tutti una retorica che sembra provenire da un lontano passato che non è riuscito ad aggiornarsi e anche per questo ha perso il suo appeal sui giovani e perciò l’apparato iconografico dei trattati di pace si compiace di ritrarre vecchi esausti che riconoscono che la contrapposizione armata al potere non è una prassi in grado di portare a risultati in questa fase storica.


L’arcipelago in fiamme da mezzo secolo

Distrazione, correlazioni saltate, oppure… repressione globale?

Tra le tante guerre a (relativamente) “bassa intensità” quella che si svolge nelle Filippine non è certo tra le più conosciute o documentate. Fermo restando che sia le lotte per l’autodeterminazione (indipendentiste o meno) che le eventuali “soluzioni politiche” (dal Sudafrica all’Irlanda, dalla Colombia ai Paesi Baschi…), per quanto frutto di ragioni intrinseche (almeno quelle autentiche, non create ad hoc) dipendono anche – o soprattutto – da ben altro. In particolare dal contesto geopolitico. Per chi preferisce: il “campo” in cui schierarsi, volenti o nolenti.
Dalle Filippine, anche nell’anno in corso, sono arrivate notizie soprattutto di scontri tra militari e guerriglieri (in genere comunisti). Scontri che solitamente – stando almeno a quanto si conosce – si concludono a sfavore dei secondi.
Da segnalare poi come sempre più spesso vengano uccisi elementi di spicco (comandanti…). Un segnale di perfezionamento delle operazioni di intelligence?

Intensificazione di esecuzioni mirate

Tra gli episodi più recenti (inizio novembre 2023), la cattura a Barangay Buhisan (San Agustin) di Cristitoto Tejero, comandante in capo del Fronte di guerriglia 19 della New People’s Army – Comitato regionale del Nordest di Mindanao. Il militante maoista (57 anni) era da tempo ricercato per la sua attività guerrigliera e in particolare per l’uccisione di un militare.
Pochi giorni prima, il 26 di ottobre, un altro esponente della Bagong Hukbong Bayan (Npa) da tempo ricercato, Michael Cabayag (Ka Teddy, comandante del Fronte di guerriglia Sendong) era stato ucciso dai soldati del 10° battaglione di fanteria nel villaggio di Carmen (Misamis Occidentale). Nella stessa circostanza veniva catturato un altro militante, Armida Nabicis (Ka Yumi). Tra le armi trovate in loro possesso: un fucile M-16 Armalite, un CZ (AK-47), una carabina M653 e un lanciagranate M-203.

La mattanza di combattenti irriducibili… e “storici”
Un altro esponente di spicco della guerriglia maoista, Ray Masot Zambrano, era stato precedentemente abbattuto a Barangay Obial (Kalamansig) il 10 ottobre.
L’operazione veniva condotta dai militari della 603° brigata di fanteria. Quasi contemporaneamente un altro membro della Npa (di cui al momento non si era potuto accertare l’identità) soccombeva sulle montagne di Buneg (Lacub, Abra).

Ancora più tragico il bilancio del 29 settembre quando almeno cinque esponenti della Npa perdevano la vita nella città di Leon, provincia di Lloilo.
Tra loro la comandante Azucena Churesca Rivera (Rebecca Alifaro, conosciuta anche come Jing).
Nella guerriglia dal 1980, svolgeva funzioni di Segretaria del Fronte sud della Npa -Komiteng Rehiyon-Panay.
Altri due guerriglieri venivano uccisi da una pattuglia di polizia nei pressi dell’aeroporto di Bicol (tra i villaggi di Bascaran e Alobo).
L’ennesimo guerrigliero era deceduto qualche giorno prima a Esperanza (Agusan del Sur) e almeno sei il 21 settembre nel villaggio di Taburgon (Negros occidentale)
Rispettivamente dal 26° battaglione di fanteria e dal 47° battaglione.
I sei maoisti facevano parte del Fronte sud-ovest della NPA. Tra di loro, Alejo “Peter/Bravo” de los Reyes; Mélissa “Diana” de la Peña ; Marjon “Kenneth” Alvio ; Bobby “Recoy” Pedro e il medico Mario “Reco/Goring” Fajardo Mullon.
Quanto al sesto guerrigliero, all’epoca non era stato ancora identificato.
Oltre ad alcune armi i militari avevano recuperato molto materiale propagandistico e politico.

Ancora sei maoisti (altri sei) erano caduti in combattimento il 7 settembre nel corso di una serie di scontri a fuoco con i militari nella zona di Sitio Ilaya (provincia di Bohol) mentre, intercettati a un posto di blocco, tentavano di sganciarsi.

Invece il 20 marzo era stato un sottufficiale dell’esercito filippino a venir ucciso in un conflitto con una decina di guerriglieri della Npa nell’isola di Masbate.

Comunque un doloroso stillicidio, oltretutto senza apparente via d’uscita e che – stando ai dati ufficiali – avrebbe causato oltre 40.000 morti (in maggioranza civili) in circa mezzo secolo.
Ma recentemente, dopo che precedenti trattative si erano insabbiate, è apparso qualche segnale di possibile soluzione del conflitto. Innanzitutto l’amnistia per i ribelli in carcere e poi una dichiarazione congiunta tra il governo filippino e il National Democratic Front of the Philippines (Pambansang Demokratikong Hanay ng Pilipinas), con cui entrambi intendevano ricucire il dialogo bruscamente interrotto sei anni fa dall’allora presidente Rodrigo Duterte (ex guerrigliero maoista).
Buona parte del merito dell’iniziativa andrebbe al presidente Ferdinand Romuáldez Marcos Jr (eletto nel 2022 e che presumibilmente vuole riscattarsi dalle colpe del padre) il cui Assistente speciale Antonio Ernesto Lagdameo è stato nominato Negoziatore governativo.

Il Fronte, coalizione di una ventina di organizzazioni (tra cui, oltre alla Npa, il Communist Party of the Philippines), ne costituisce la “vetrina politica” e attualmente è guidato da Luis Jalandoni, un ex sacerdote (tra i membri anche la Christians for National Liberation da lui fondata).

Altre organizzazioni che ne fanno parte:
Moro Resistance and Liberation Organization (Mrlo), Katipunan ng Gurong Makabayan (Kaguma), Liga ng Agham para sa Bayan (Lab), Lupon ng Manananggol para sa Bayan (Lumaban), Malayang Kilusan ng Bagong Kababaihan (femministe), Revolutionary Council of Trade Unions (Rctu),Pambansang Katipunan ng Mambubukid (Pkm), Katipunan ng mga Samahang Manggagawa (Kasama), Cordillera People’s Democratic Front (Cpdf)
Un eterogeneo raggruppamento tattico di partiti, associazioni della società civile, sindacati e gruppi armati di sinistra, milizie etniche, tribali e altro che per certi aspetti può ricordare l’attuale coalizione antigovernativa del Myanmar.Se non addirittura –almeno in prospettiva, potenzialmente – la situazione del Rojava.

Le pacifiche soluzioni di Oslo

Il 23 novembre 2023 Jalandoni, rappresentante del Partito comunista, e Lagdameo, assistente di Marcos jr., hanno firmato a Oslo una dichiarazione con cui si impegnano «per una soluzione pacifica ed equa del conflitto armato» e per una “pace giusta e duratura”.

Sottolineando «la necessità di unità come nazione per fare fronte alle minacce esterne alla sicurezza», auspicando indispensabili riforme socio-economiche atte a superare l’attuale situazione alquanto disastrata (anche sotto il profilo ambientale).

Scomparse significative: residuali baluardi dissolti nel nuovo ordine globale

Forse ha indirettamente contribuito all’accelerazione del nuovo corso la recente scomparsa in esilio (nel dicembre 2022) del dirigente comunista maoista Jose Maria Sison.
E proprio per il Communist Party of the Philippines e per il suo “braccio armato” (Npa) è prevista una trasformazione in organizzazione politica (analogamente al processo che ha interessato le Farc colombiane).

 

 

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Lettera22: luoghi e tempi per immaginare il sequel https://ogzero.org/lettera22-luoghi-e-tempi-per-immaginare-il-sequel/ Thu, 09 Nov 2023 16:17:25 +0000 https://ogzero.org/?p=11838 Nell’estate 2023 è uscito dopo una accorta e lunga gestazione, il numero zero di “Lettera22”, manifestazione in forma di rivista del consorzio omonimo di giornalisti indipendenti in occasione del trentennale della creazione del gruppo di professionisti che testimoniano la realtà dove si svolge, essendone esperti di lunga data. La produzione è descritta nell’editoriale come “lento […]

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Nell’estate 2023 è uscito dopo una accorta e lunga gestazione, il numero zero di “Lettera22”, manifestazione in forma di rivista del consorzio omonimo di giornalisti indipendenti in occasione del trentennale della creazione del gruppo di professionisti che testimoniano la realtà dove si svolge, essendone esperti di lunga data.
La produzione è descritta nell’editoriale come “lento ruminare” che racconta l’addensarsi dell’esplorazione dello spazio scritto a specchio di quella dei luoghi dove gli eventi, liberati dalle colonne della cronaca geopolitica, fuoriescono per costituire i capitoli di un libro in forma di magazine; l’oggetto dell’esplorazione diventa così una “terra di mezzo”, come esplicitano gli autori che rivendicano l’ibridazione delle forme narrative: dalla graphic novel al saggio sociologico, dal reportage di viaggio al racconto storico immerso in un orto o in un aeroporto al momento dello scoppio di una “operazione militare speciale”… rigoroso, circostanziato, preciso, eppure godibile per la creatività spontanea.
Rilegate in una confezione raffinata le storie graficamente impreziosite dei complici dell’Associazione di giornalisti indipendenti ci portano a spasso per il mondo con storie che si dipanano tra Corno d’Africa e Sudest asiatico, dal preludio al ritorno dei Talebani in Afghanistan all’Italia del fascismo – quello precedente e parallelo alla contemporanea invasione nazista della Serbia descritta nei disegni inediti di Zograf

Alla fine della lettura abbiamo pensato che valesse la pena tornare su alcuni dei luoghi evocati nel libro-fascicolo: ciascuno degli interventi è corredato da un Secondo Tempo, ci sembra che un buon approccio per OGzero per interpretare l’utilità di questa formula editoriale – e proporne un processo di lettura in sintonia con gli obiettivi di entrambe le testate – sia quello di partire dalla realtà in cui si stanno evolvendo ora i processi che troviamo in nuge tra le righe di questo volume e rintracciarvi le tracce o i prodromi; una sorta di Terzo tempo che ritorna sulla meditazione dei testi proposti per rilanciarne la attualità che li ribadisce.


In the mook del giornalismo indipendente

Gli afgani collaterali

Il fascicolo si apre sul quartiere del Politecnico di Kabul dopo il ripristino della shari’a, ma la storia rievocata da Giuliano Battiston insieme al padre della vittima, a cui le illustrazioni pointilliste di Giacomo Nanni conferiscono cromatismi psichedelici, percorre il 3 maggio 2009 una strada vicino a Gozarah…

Illustrazione di Giacomo Nanni

Ora si è richiuso il sipario sul paese abbandonato dalla Nato definitivamente due anni fa, ma quell’episodio di sprezzo per la vita delle popolazioni civili autoctone da parte del contingente italiano ai tempi in cui Ignazio Benito era ministro della Difesa rimane irrisolto e il generale Rosario Castellano ha potuto andare in pensione come generale di corpo d’armata il 28 giugno 2023 senza macchia e con tutti gli onori; solo un ulteriore episodio del corollario di collateral damage, perla lessicale eufemistica coniata da Bush per le stragi perpetrate dagli eserciti alleati. Nei vent’anni di occupazione euro-americana l’Afghanistan è stato oggetto di aiuti che servivano di più alle organizzazioni e istituzioni occidentali, che hanno gestito il paese in maniera diversamente coloniale, spesso con disprezzo per una cultura che nessuno ha voluto conoscere e che le truppe non incrociavano nell’apartheid armato che vigeva e che causò l’omicidio al centro della ricostruzione di Battiston. Il risultato è la diffidenza restituita dagli afgani che si sono sentiti presi in giro e non hanno trovato motivi per resistere al ritorno dei Talebani a seguito di una nuova fuga dopo quelle dei britannici del Great Game e del generale Gromov, mentre attraversava il ponte della Fratellanza, prima crepa sul muro dell’imperialismo sovietico. Le condizioni del paese fanno da sfondo alla precisa restituzione della testimonianza del padre della vittima effettuata da Battiston e si ripresentano invariate: la situazione delle carceri, le spie, l’economia dell’oppio dell’Hellmand sostituita dalla produzione di metanfetamine, la prevenzione inesistente per i disastri dei terremoti (con il corredo di migliaia di morti nell’autunno delle province dell’Ovest), proprio dove operava quel contingente italiano.

OGzero ha frequentato spesso la tragedia afgana e raccolto i racconti dei ragazzi, le cui radici affondano in quella cerniera tra mondo persiano, continente indiano e corridoi per le merci dal mondo cinese al di là dell’Himalaya, da dove sono espatriati quasi vent’anni fa, mantenendo forti contatti con le famiglie, tornando tutti a sposare donne scelte dal clan, a volte ancora nelle case avite di Ghazni, in altri casi già trapiantati a Quetta fin dalla disfatta sovietica. La novità di questo periodo è quella che la diaspora di un popolo espulso dalle sue terre non ha fine e il governo pakistano ha decretato la cacciata degli afgani dal proprio territorio, adducendo il pretesto che molti degli attentati jihadisti sono attribuibili a profughi afgani.

 

 

Ma proprio quei ragazzi hazara ci invitano ad approfondire chi sarebbero quel paio di milioni di afgani che devono lasciare il Pakistan e la loro destinazione, per comprendere meglio il disegno che potrebbe nascondersi dietro il loro rimpatrio. Innanzitutto i senza documenti afgani non stanno a Quetta, ma a Nord e i Talebani afgani saprebbero già dove collocarli: sarebbero destinati al territorio confinante con il Tagikistan e l’Uzbekistan, perché nella regione a maggioranza tagika e uzbeca scarsi sono gli islamisti e la deportazione dei pashtun molto probabilmente affini ai talebani servirebbero a diventare maggioranza in un territorio in cui si è completato un canale, il Qosh Tepa, che dirotta le acque del Amu Darya, in grado di irrigare i terreni desertici e poco abitati, dando opportunità di lavoro a comunità poco rappresentate in zona. Ma soprattutto possono esportare nei paesi limitrofi il radicalismo islamista caro ai talebani, e in particolare l’Uzbekistan potrebbe essere a rischio di infiltrazione, ovvero la nazione a ridosso della quale si trova l’area più arretrata dell’Afghanistan, quella con minori risorse.

Mappa tratta dal volume La grande illusione (Rosenberg &Sellier, 2019)

A proposito di deportazioni e diaspore capitano a fagiolo due dei racconti del “Secondo tempo” di “Lettera22”, quello che vede protagonista Ahmad Naser Sarmast, fondatore dell’Istituto nazionale di musica, chiuso dai talebani provocando la fuga all’estero delle allieve musiciste e il breve racconto da Kandahar, la capitale delle melograne, dove il conflitto si fece aspro quando gli americani precipitosamente restituirono il paese all’oscurantismo e gli agricoltori dovettero abbandonare case e terreni. Ora «la guerra è finita e siamo tornati a lavorare i campi».

Questo avviene più al Sud del paese; al Nord si stanno preparando penetrazioni del jihad verso le repubbliche centrasiatiche, attraverso una possibile “sostituzione etnica”; proprio le due repubbliche che Francia e Unione europea hanno preso in considerazione per imbastire una rete di relazioni commerciali, in alternativa alle risorse minerarie di cui non riescono più ad approvvigionarsi in Africa. E il viaggio di un paio di giorni di Mattarella a Samarcanda non può non avere risvolti strategici in questo senso.

Una serie di dubbi di una serie con troppi spunti e ipotesi, che proprio il cofondatore di “Lettera22” ci aiuta a ricomporre in questo podcast:

“L’ingombrante presenza afgana in Pakistan risolta con l’espulsione?”.

 

Il giornalista a una dimensione: quella in viaggio

Uno dei fili rossi del numero zero di “Lettera22” si può individuare nel reportage, talvolta seguendo itinerari di camminanti alla scoperta di territori; più spesso i paesaggi sono di conflitti e talvolta di intrichi delittuosi; in altri casi si tratta di semplici brevi spostamenti nello spazio, ma sprofondati nell’utopia delle performance voguing inseguita in Germania o dislocamenti lontani nel tempo a disvelare delitti irrisolti nella Lucania insurrezionale postborbonica. Appassionanti comunque, non ci soffermiamo su questi apporti contenuti nel fascicolo solo perché il nostro ambito è già fin troppo ampio delimitandolo alle questioni geopolitiche.

La tassonomia coloniale come classificazione della specie

Illustrazione di Adriana Marineo

Un approccio neanche tanto nascosto tra le pieghe dell’intelligente apporto di Paola Caridi che mette al centro la Sicilia, quella dell’annuncio mussoliniano dell’impero dell’agosto 1937– sembra di assistere ancora una volta alle immagini dell’Istituto Luce – quello dalla vicina Libia e del remoto Corno d’Africa. Entrambe aree non a caso in fibrillazione: 120 anni di storia di un colonialismo (e protettorato dell’Agip/Eni) straccione hanno prodotto scollamento e odio intercomunitario come eredità delle nefandezze. La Sicilia al centro geografico dell’impero che rende colonialismo l’emigrazione, e ora diventa testimonianza di ciò che di quella Palermo hanno lasciato i bombardamenti: Villa Giulia e l’Orto botanico – “colonizzati” ora per contrappasso dall’immigrazione bengalese per praticare il cricket. Quella Sicilia al centro dello schieramento strategico Nato nel Mediterraneo: Sigonella, il Muos… come racconta un altro complice di “OGzero” e “Lettera22”, Antonio Mazzeo.

Come si vede s’intrecciano in poche pagine serie di argomenti che regolano i rapporti mondiali tuttora, affondando le radici in quel precedente regime fascista – e in quell’altra Guerra mondiale –, retaggi della storia che tornano, evocati da quei luoghi che nella storia hanno rappresentato le stazioni di molte tappe. Anche se ora il Giardino coloniale non esiste più fisicamente, però le piante dell’Altro ci hanno conquistato, dimostrando come si ripeta la seduzione eclettica della cultura aliena che aveva ellenizzato la vittoria militare della Roma antica. Ma soprattutto l’aggettivo del Giardino è importante nell’evoluzione dell’articolo di Paola Caridi che si può gustare da pagina 68 di “Lettera22” numero zero: l’approccio coloniale dell’Italia fascista rispunta nella sua brutalità come la gramigna sulla falsariga di britannici e soprattutto degli olandesi descritti da Amitav Gosh a proposito della noce moscata. Scrive l’estensore del saggio:

«L’agricoltura coloniale doveva imporre alle comunità native un modo di coltivare secondo la nostra impostazione agricola. Allo stesso tempo doveva formare tecnici italiani capaci di coltivare le specie locali», a cui nel trasporto in “patria” gli scienziati italiani avevano persino cambiato nome a piante che loro ritenevano di aver “scoperto” e riconducendole alla sistematica classificazione linneana, ma che stavano lì da sempre, con quell’atteggiamento che Gerima, il regista etiope, stigmatizza da sempre: l’imposizione di un punto di vista culturale esogeno che fa della “integrazione” delle Species plantarum un paradigma per quella delle “razze”, per dirla alla Almirante. E infatti nell’articolo di Caridi lo spostamento dall’Orto botanico palermitano a quello romano trova protagonista una donna di origine somala, lingua letteraria italiana e «cosmogonia botanica complessa», che mette in relazione lo stato «sofferente, striminzito, piccolo» di una pianta d’incenso, che erano le stesse condizioni in cui si sentiva l’animo della donna; per poi tornare all’Orto siciliano e lì ritrovare gli insegnamenti paterni e l’originario nome della coltura. Le jacaranda palermitane però sono solo una “citazione lontana” delle strade di Gaza… quando esisteva ancora: forse per non offuscare la bellezza della copia si è operato in modo da cancellare l’originale.

In questa tassonomia non poteva mancare la supponenza bonapartista della reinterpretazione in chiave orientalista della cultura dei popoli attraversati dalle armate francesi:

«Dare un nome alle piante significa non soltanto appropriarsene, ma cancellare completamente una storia. È la storia all’interno di un preciso ecosistema che viene resa invisibile, anche attraverso il “nominare”. E assieme a questo battesimo non richiesto ci son le ramificazioni scientifiche, mediche, culturali».

Le stesse usate da Bonaparte: è la cancellazione degli eventi precedenti all’arrivo del colonizzatore, in modo da restituire una verginità culturale su cui imbastire una narrazione occidentale che faccia sue le risorse altrui. Il pessimo ultimo colonialismo italiano si insediò con le scuole di agraria. Sempre meglio che esternalizzare lager in Albania.

Quel treno per Yunnan

E questo “orientalismo” ci consente di salire insieme a Emanuele Giordana sul Cina-Laos Express, senza provare l’ebbrezza del viaggio verso le terre evocate dall’Orient Express.

Mappa di Andrea Bruno

L’estensore aveva accennato a questo percorso già in un intervento radiofonico (dal minuto 45 di questo podcast) in cui illustrava con evidente ammirazione il percorso ferroviario che porta da Kunming nello Yunnan cinese a Singapore, attraverso Vientiane. Un ramo di quella rete di trasporti che i cinesi hanno inserito nella Belt Road Initiative per omogeneizzare e far crescere l’Asean, aggirando il chockpoint potenziale dello Stretto di Malacca:

“Il mattatoio birmano dopo 2 anni: dati, analisi, prospettive allargate all’Asean”.

Subito il pezzo di Emanuele Giordana si dipana dalla capitale del Laos, ma anche sollevando il velo del tempo sulla prima esperienza degli anni Settanta: facile il confronto… anche perché allora persino la Thailandia era coinvolta dagli Yankee nella guerra al Vietnam. Gli spostamenti e l’attraversamento come sempre relativi alla situazione epocale si alternano nel racconto che è sempre avventura: in questo caso si trascorre da ricordi “stupefacenti” di rivoluzioni e sostanze, monaci e Ak-47, bombe e principi rossi, a taxi carissimi e le difficoltà a muoversi autonomamente; cimeli museali di chemins de fer e “scommesse” (arriveremo a Boten in una delle tappe del treno: «centro del gioco d’azzardo con annessi e connessi») cinesi sul futuro avamposto laotiano, trascorrendo dal periodo coloniale classico al neocolonialismo, attraversando nuvole di oppio che escono dal treno su cui risaliamo a Vang Vieng, dopo una pausa narrativa tutta da godere nel Triangolo d’oro, di cui ancora vagheggiamo in certi articoli. Adesso i divertimenti sono equiparabili a divertifici economici a basso contenuto culturale e infima attenzione ecologica… ma si può proseguire alla tappa successiva Luang Prabang; ma soprattutto il viaggio racconta tante verità sul paese e sulla condizione dei laotiani (e forse di un po’ tutto il Sudest asiatico), che il testimone rileva da par suo: infrastrutture cinesi e platea di consumatori laotiani; appaltatori e tecnologie… ovvero il Bignami della Bri fatto tratta ferroviaria… con tutto il contorno di affari e presenza cinesi.

Illustrazione di Andrea Bruno

E allora si coglie la politica della rieducazione dell’intera area effettuata da Pechino alla propria cultura, alla propria lingua; e il treno – lo insegna il vecchio West e Sam Peckimpah – è fattore unificante e ficcante, utile per diffondere idee e modi di vita ad “alta velocità”.

E così arriviamo a Boten: come Oudom Xai è l’ombelico del mondo ferroviario, così Boten è la fenice locale che risorge sempre dalle sue ceneri… però solo il ricordo del viaggiatore, che negli ultimi decenni è transitato di qui periodicamente, può restituire l’evoluzione del territorio. E Boten è di nuovo un fulgido modello di molte città sul confine di stati, dove è concesso ciò che altrove non si può fare. E intanto il Laos muta la sua natura: ambiziosi progetti cinesi visti dal finestrino tolgono spazio al Laos agricolo e rurale… ma queste lampisterie non sono che alcuni passaggi di un racconto preciso e a tutto tondo dell’evoluzione del paese ai lati della ferrovia… che i cinesi vorrebbero portare fino a Bangkok, e infatti i tailandesi temono il progetto, perché con il treno si estende l’influenza di Pechino.

Ma questa è un’altra storia e vedremo di raccontarla sia con “Lettera22” che nei libri di “OGzero”

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L’invincibile intreccio tra industria bellica, finanza, politica e istituzioni americane https://ogzero.org/industria-bellica-e-finanza/ Thu, 02 Nov 2023 19:09:10 +0000 https://ogzero.org/?p=11798 Industria bellica e finanza, protagoniste dell’escalation in un’economia di sostegno alla guerra. Nella giornata di Halloween i principali leader militari e diplomatici degli Usa hanno esortato un Congresso sempre più diviso a inviare importanti aiuti immediati a Israele e all’Ucraina, sostenendo in un’audizione al Senato che un ampio sostegno all’assistenza darebbe un segnale di forza […]

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Industria bellica e finanza, protagoniste dell’escalation in un’economia di sostegno alla guerra. Nella giornata di Halloween i principali leader militari e diplomatici degli Usa hanno esortato un Congresso sempre più diviso a inviare importanti aiuti immediati a Israele e all’Ucraina, sostenendo in un’audizione al Senato che un ampio sostegno all’assistenza darebbe un segnale di forza degli Stati Uniti agli avversari in tutto il mondo.
La testimonianza del Segretario alla Difesa Lloyd Austin e del Segretario di Stato Antony Blinken è arrivata mentre la massiccia richiesta di aiuti d’emergenza dell’amministrazione per i conflitti nei due paesi, pari a 105 miliardi di dollari, incontrava ostacoli.

Eccitatissima la finanza: balzano nuovamente i titoli del comparto dell’industria pesante, dopo i dividendi a 9 cifre dopo la guerra in Ucraina;  si tratta di investimenti sicuri che provengono da contratti governativi a lungo termine e sicuri, finché prevale l’economia e la politica di guerra dell’amministrazione democratica. Altri miliardi di dollari gettati in guerre destinate a non trovare soluzione, perché non devono risolversi fino allo scoppio provocato di un nuovo orizzonte di guerra; foraggiare le grosse industrie belliche (strettamente correlate con l’amministrazione Biden e con il Pentagono) e… causare massacri di civili. In Usa vengono arrestati i manifestanti israeliti (300) contro questo dispendio di denaro; in Italia si estendono le servitù militari e le vendite di armi, le relazioni tra Idf, politecnici, industria delle armi.

Non può non stravincere la manovra guerrafondaia della amministrazione di Washington, perché l’economia di guerra è l’unica strategia rimasta a Biden per mantenere agli Usa il predominio sul mondo; dunque per chi avversa l’economia di guerra aprire una breccia in quel muro di miliardi bruciati nei missili è l’unica salvezza per evitare l’escalation che consentirebbe al sistema armi-potere-istituzioni di sopravvivere alla propria implosione.

Perciò abbiamo ritenuto utile riprendere un articolo di Eric Salerno uscito su “il manifesto” del 22 ottobre 2023 (i link esterni e interni sono stati aggiunti da ogzero), perché sta tornando nei palinsesti il confronto sul bilancio federale, che si scontra con lo stanziamento di 100 miliardi in supporti bellici per i 3 teatri di guerra (60 a Kyiv, 10 a Tel Aviv, il resto a Taipei): i 3 sostegni dell’economia di guerra; poi ci sono gli altri conflitti che assorbono altre armi, altre strategie, altre economie di guerra speculari e dipendenti da quello che è lo sgocciolamento sui conflitti periferici della economia di guerra di riferimento, proxy della nazione predominante


Non può non vincere l’import-export delle armi statunitensi

Chi sta vincendo? Chi vincerà?

Israele, certamente una grande potenza, ricca di un arsenale di armi nucleari di ultima generazione che non può utilizzare? Hamas, un movimento integralista, dotato, come si è visto, di armi a sufficienza per andare avanti almeno due settimane? Prima di cercare di rispondere credo che valga la pena raccontare un mio incontro, di molti anni fa, con il premier israeliano Benjamin Netanyahu. Non era ancora stato eletto premier ma aveva già scritto e pubblicato un libro – edito anche in Italia da Mondadori – sul terrorismo.
Per lui erano terroristi anche i combattenti, donne e uomini, del Fronte di liberazione algerino – Fln – che erano riusciti a costringere i francesi a lasciare il loro “territorio d’oltremare” e cercare, senza molto successo, di aprire un capitolo nuovo nella loro a dir poco devastante relazione con il popolo magrebino.
La nostra conversazione fu interrotta da una telefonata. C’era stato un attacco di militanti di Hezbollah contro una pattuglia israeliana. Se ricordo bene alcuni militari furono uccisi o feriti. Per lei sono terroristi?, chiesi. «Per me quelli di Hezbollah sono terroristi anche se, questa volta, attaccando una pattuglia di militari in divisa, hanno compiuto un’azione militare». I militanti di Hamas che hanno ucciso donne, bambini, uomini azioni, sono terroristi; quelli che hanno ucciso o catturato militari israeliani in divisa, dunque, hanno compiuto un’azione militare.

Non hanno vinto la loro guerra e anche se è presto per tirare le somme, dubito che usciranno vincitori da questo conflitto. E nemmeno, se parliamo di azioni armate, il popolo palestinese riuscirà a vincere. Israele allora? Sta vincendo? Ci vorranno molti anni, forse più di una generazione perché il popolo ebraico di quel giovane paese mediorientale possa considerarsi vincente.
E allora, chi vincerà? Quello che il generale americano Eisenhower, eroe della guerra in Europa e presidente degli Stati Uniti disse lasciando la Casa bianca: mise in guardia il popolo americano sul grande potere del “complesso politico-militare”. Mentre ora Biden chiede più di 100 miliardi di dollari al Congresso per le guerre in corso, per Israele, l’Ucraina e in vista per Taiwan, la grande industria americana degli armamenti ha già incassato miliardi, negli ultimi due anni, con la guerra in Ucraina e ora si prepara a guadagnare ancora di più con il conflitto Hamas-Israele.

Pacchetti di armi americane e proteste di americani

Il presidente Biden, interessato da sempre al benessere di Israele ma, comprensibilmente, oggi ancora più interessato a far vincere al suo partito (Democratico) le presidenziali dell’anno prossimo. Vorrebbe, dice, restare alla Casa bianca o quanto meno mantenere l’ambita poltrona per un suo collega di partito. Non tutti i democratici sono d’accordo con la politica di Biden e non solo quella che riguarda la sua politica e le sue alleanze incerte spesso contraddittorie. E proprio ora che ha promesso un nuovo pacchetto di armi per Israele arrivano una marea di proteste da sostenitori americani, molti dei quali ebrei.

Fedeli funzionari

Un funzionario del Dipartimento di stato americano con un ruolo chiave negli accordi sulle armi ha annunciato mercoledì le proprie dimissioni, citando le decisioni «miopi, distruttive, ingiuste e contraddittorie» dell’amministrazione Biden che lo hanno costretto a innumerevoli «compromessi morali». Josh Paul – così si chiama – per undici anni ha lavorato all’Ufficio per gli affari politico-militari del dipartimento che supervisiona proprio il commercio di armi con altri paesi e ha definito la risposta della Casa bianca all’attacco di Hamas

«una reazione impulsiva costruita su pregiudizi, convenienza politica, bancarotta intellettuale e inerzia burocratica».

Analisti finanziari

Gli analisti dei mercati finanziari, però, sono super-eccitati. Come leggiamo sul sito di uno dei grandi gestori di fondi e investimenti:

«Il National Defense Authorization Act per l’anno fiscale 2024 prevede 886,3 miliardi di dollari di spesa per la difesa statunitense, in aumento del 3,3% rispetto ai livelli del 2023. La guerra in Ucraina ha già incrementato la spesa degli Stati Uniti e dei suoi alleati, ma le dinamiche nel settore della difesa sono cambiate radicalmente dopo che Hamas ha attaccato Israele il 7 ottobre, portando alla successiva dichiarazione di guerra di Israele».

L’analista della Bank of America, Ronald Epstein afferma che

«la guerra in Medio Oriente potrebbe costringere il governo degli Stati Uniti ad aumentare gli investimenti nell’industria della difesa, e alcuni titoli del settore della difesa hanno registrato un balzo dall’inizio del conflitto. I titoli della difesa sono investimenti interessanti – spiega – perché spesso hanno contratti governativi prevedibili e a lungo termine».

Le cifre del Sipri

Dal Sipri, un po’ di cifre. Tre dei primi 10 importatori nel 2018-22 sono in Medio Oriente: Arabia Saudita, Qatar ed Egitto. L’Arabia Saudita è stata il secondo più grande importatore di armi al mondo nel 2018-22 e ha ricevuto il 9,6% di tutte le importazioni di armi in quel periodo. Le importazioni di armi del Qatar sono aumentate del 311% tra il 2013-17 e il 2018-22, rendendolo il terzo importatore di armi al mondo nel 2018-2022.

La grande maggioranza delle importazioni di armi in Medio Oriente proveniva dagli Stati Uniti (54%), seguita dalla Francia (12%), dalla Russia (8,6%) e dall’Italia (8,4%). Includevano più di 260 aerei da combattimento avanzati, 516 nuovi carri armati e 13 fregate. Gli Stati arabi della sola regione del Golfo hanno effettuato ordini per altri 180 aerei da combattimento, mentre 24 sono stati ordinati dalla Russia e dall’Iran (che non ha ricevuto praticamente armi importanti durante il 2018-2022).

L’escalation innescata da fanatici innominabili

Un dato molto interessante, quest’ultimo, quando si ascoltano voci che vorrebbero Teheran il maggiore sostenitore di Hamas mentre nessun, per ora, incolpa alcuni grandi acquirenti arabi notoriamente vicini all’organizzazione che ha sferrato l’attacco a Israele. Attacco che rischia di trascinare una parte del mondo in un conflitto di più vaste proporzioni.

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Sri Lanka 2006-2009 https://ogzero.org/sri-lanka-2006-2009/ Tue, 31 Oct 2023 00:39:11 +0000 https://ogzero.org/?p=11784 Se pensate di riconoscere “fasi” di annientamento di popoli in corso nella stretta attualità, avete colto esattamente il motivo per cui pubblichiamo ora questo saggio inviatoci da Gianni Sartori, un teleobiettivo su una “questione” indipendentista attraverso le cui lenti ripulite dalla distanza del tempo è più facile ricostruire i molti diversi canali che hanno condotto […]

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Se pensate di riconoscere “fasi” di annientamento di popoli in corso nella stretta attualità, avete colto esattamente il motivo per cui pubblichiamo ora questo saggio inviatoci da Gianni Sartori, un teleobiettivo su una “questione” indipendentista attraverso le cui lenti ripulite dalla distanza del tempo è più facile ricostruire i molti diversi canali che hanno condotto a quell’epilogo di annientamento, ghettizzazione… pulizia etnica.. 


“Questione tamil”: dalla ribellione alla pulizia etnica governativa

Risaliva alla fine del settembre 2006 un ripristino di interesse, di attualità per la spesso trascurata “questione Tamil” in Sri Lanka.

Tra il 24 e il 25 settembre in una “battaglia navale” che sarebbe eufemistico definire impari, la marina militare governativa uccideva oltre una settantina di tamil che stavano trasportando armi con una decina di imbarcazioni. Armi molto probabilmente destinate ai guerriglieri delle Ltte (Liberation Tigers of Tamil) assediati da oltre un mese nella penisola settentrionale di Jaffna.
All’epoca si calcolava che in venti anni di conflitto fossero già morte circa 65.000 persone e gli sfollati superassero ormai il milione. In seguito tali numeri erano destinati ad aumentare sensibilmente.

In una “guerra tra poveri” da manuale con entrambi i contendenti vittime di vecchie e nuove colonizzazioni mentre il solco delle reciproche incomprensioni andava a ulteriormente approfondirsi. Proprio nei giorni successivi anche in Italia venivano organizzate da Castis (Campaign agaist separatist terrorism in Sri Lanka) numerose manifestazioni di sostegno al governo di Sri Lanka e contro le “Tigri”. Con il senno di poi, forse una mossa propagandistica propedeutica all’attacco finale contro la ribellione tamil. Un’operazione militare che per certi aspetti era destinata ad assumere il carattere e lo stile di una vera e propria pulizia etnica.

Oltre che a Napoli, Palermo, Brescia, Firenze…una manifestazione venne organizzata anche a Vicenza (24 settembre 2006). E qui avevo potuto incontrare e intervistare alcune dei partecipanti. Tra questi un ex insegnante “singalese e cristiano” che mi chiese di riportare solo le iniziali del suo nome «perché i miei familiari vivono ancora in Sri Lanka».

J.P. raccontava: «Per anni ho trascorso il mattino a scuola con i miei allievi e il resto della giornata nascosto nella foresta per paura degli assalti delle Ltte che rapiscono i bambini per poi addestrarli alla guerriglia». Alla fine J.P. aveva lasciato il suo lavoro, la sua terra ed era fuggito in Europa. Aveva preso tale decisione dopo un episodio drammatico:«Io scrivevo su alcuni giornali, soprattutto poesie contro la guerra. Una notte sono stato aggredito e picchiato». Gli assalitori gli avevano chiesto:“Quale braccio usi per scrivere?”. Mentendo disse di essere mancino e gli spezzarono il braccio sinistro. A questo punto aveva sorriso confessando che «Ho ancora qualche difficoltà a usarlo, ma posso sempre scrivere».

Uccise per il colore dei pantaloni

Nell’agosto del 2006 si era anche parlato del massacro di una cinquantina di studenti, soprattutto ragazze, in una scuola chiamata “Sencholei” nel Nord dello Sri Lanka. Inizialmente l’atto barbarico era stato attribuito alle Ltte, ma in seguito erano emerse le responsabilità dell’esercito governativo.

Mostrando scarsa sensibilità, il nostro interlocutore aveva giustificato l’eccidio in quanto «stando alle nostre informazioni “Sencholei” in realtà era un campo di addestramento delle Ltte, non una scuola». 
A suo avviso quindi “le vittime non erano studentesse, ma miliziane tamil”.

Una prova che di trattava di “Tigri” – per quanto giovanissime – e non di scolare verrebbe dal fatto che «indossavano abiti come quelli usati dai guerriglieri (in particolare pantaloni neri N.d.A.e non le divise bianche che usano normalmente tutti gli studenti».

Sempre secondo il nostro interlocutore all’epoca esisteva anche un’altra base militare tamil chiamata “Ruben” dove venivano addestrati i giovanissimi. Frequentata regolarmente da Velupillei Prabakaran, il capo delle Ltte.

Aggiungeva poi che assolutamente «non si trattava di una questione religiosa; la maggioranza dei singalesi è buddista, ma ci sono anche cristiani (come tra i tamil, in maggioranza induisti N.d.A.)». Diversa è la lingua, ma anche questo «non rappresenta un problema». Per concludere che tra i suoi amici c’erano «sia singalesi che tamil, sia buddisti che induisti e musulmani… Io sono un uomo e basta».

Avevo poi chiesto a Roshan Fernando, presumibilmente legato all’organizzazione di sinistra Jvp (il giorno prima era intervenuto a Radio Blackout di Brescia accusando le Ltte di essere “fasciste”) perché lo Stato dello Sri Lanka si ostinasse a negare ai tamil una loro patria indipendente.

Rispondeva che «le Ltte conducono questa guerra da almeno ventitre anni, ma non hanno ancora convinto la maggioranza dei tamilPer raggiungere il loro obiettivo devono puntare sulla propaganda e sugli aiuti esterni». Si diceva convinto che «dall’interno del paese non avrebbero alcuna possibilità di vincere perché l’attuale livello democratico raggiunto dallo Sri Lanka non lo permetterebbe». Con il senno di poi, visto il massacro compiuto dai governativi ai danni anche dei civili tamil, un’affermazione quanto meno affrettata.

Roshan Fernando ricordava comunque che le “Tigri” non permettevano agli altri partiti, anche quelli Tamil, di fare politica nei territori da loro controllati. Mi spiegava inoltre che tra i partiti presenti nell’isola i più consistenti erano Sri Lanka freedom (Srf), il Partito di unità nazionale (Unp che aveva appena perso le elezioni) e Jvp (Janatha Vimukthi Peramuna – Fronte di liberazione del popolo), partito che si definiva “rivoluzionario e anticolonialista” anche se partecipava alle elezioni e, al momento almeno, sosteneva il governo.

E continuava sostenendo che «le Tigri sopravvivono tenendo in ostaggio la popolazione tamil, arruolando a forza i bambini, obbligando la popolazione a versare mensilmente quote di denaro».

Polemiche con l’Europa

Questo, stando alle sue dichiarazioni, avveniva anche in Europa con gli immigrati. E si chiedeva come potessero «disporre di basi militari, uffici politici (anche all’estero), collegamenti satellitari, canali televisivi, radio». Ribadendo che le loro risorse economiche «provenivano da fuori», ossia dall’estero (con un’accusa sottintesa all’India, presumo). Per questo «noi chiediamo all’Europa di verificare e controllare».

Proprio in quel periodo era esploso un contenzioso tra Sri Lanka e Norvegia che nel giugno 2006 aveva proposto di riprendere a Oslo i colloqui di pace dopo la sospensione decretata dall’Unione europea. Ma quando il rappresentante del governo di Sri Lanka si era presentato, le “Tigri” avevano nuovamente rifiutato le trattative.

Per Roshan Fernando si sarebbe trattato di un espediente per «approfittare dell’occasione per riunire tutti i loro rappresentanti» (“come non riuscivano più a fare da molto tempo”). Inoltre la Norvegia sarebbe stata «a conoscenza delle loro intenzioni e si sarebbe prestata a tale operazione». Qualcosa del genere era già accaduto in Svizzera in quanto «le Ltte usano il pretesto delle trattative per riunirsi tra loro».

Ricordava come nell’aprile del 2006 le Ltte si fossero già ritirate unilateralmente dai colloqui di pace e in seguito, a luglio, fosse ricominciata la lotta armata. Del resto episodi di violenza si erano registrati anche nel 2005 (in dicembre) provocando decine di vittime tra ribelli, soldati e soprattutto civili inermi. Proprio nel 2006, in maggio, le Ltte erano state inserite nella “lista nera” dell’Ue come “gruppo terroristico”. Come avevano fatto da tempo Stati Uniti, Gran Bretagna e Canada.

Ne aveva immediatamente approfittato il presidente dello Sri Lanka reclamando contro Svizzera, Germaniae, Francia in quanto questi stati avrebbero dato ospitalità a esponenti delle Ltte che svolgevano attività politica «nonostante la stessa Ue avesse richiesto esplicitamente di sospendere tale attività». E non mancava qualche osservazione critica anche per l’Italia dove le Ltte avrebbero raccolto fondi sotto la copertura della sigla Tra (Tamils rehabilitation organisation).

Un interesse titanico

Perché tanto interesse, se non addirittura una certa benevolenza, per la causa tamil da parte dei paesi europei? Dipendeva forse, oltre che dalla posizione strategica dell’isola, dal ritrovamento di giacimenti petroliferi (e dalla presenza di un minerale strategico, il titanio)?
Con gli accordi del 2002 per una soluzione politica del conflitto, la Norvegia era stata scelta per monitorare il processo di pace, ma – sosteneva sempre il mio polemico interlocutore «questo paese si era mostrato favorevole ad accordi vantaggiosi per le Ltte». Con tali accordi lo Sri Lanka sarebbe stato “diviso in due”.
Formalmente si parlava di autonomia, ma «alla fine ci sarebbe stato un’altra nazione indipendente». Era infatti prevista la creazione di un parlamento, una polizia autonoma e anche una moneta.

Per Roshan Fernando «una situazione simile a quella che si è creata a Cipro, ma questo modello non è valido per lo Sri Lanka». Inoltre da qualche anno [eravamo nel 2006] «anche tra i tamil va crescendo l’ostilità nei confronti delle Ltte. Perfino un loro ex comandante, il colonnello Karuna Amman, aveva lasciato le Tigri e si stava organizzando nell’Est del paese per contrastarle».

Ricordo che questa sorta di Comandante Zero (quello che si allontanò dai sandinisti negli anni Ottanta) era ritenuto responsabile proprio di alcuni dei più gravi reati che il nostro interlocutore attribuiva alle Ltte come il sequestro di bambini per arruolarli. Il suo contributo all’annientamento dei suoi ex compagni di lotta risulterà comunque decisivo già nel 2007.

Tra i problemi interni delle Ltte uno dei più seri sarebbe stato legato alla questione delle caste. Infatti la maggior parte dei guerriglieri caduti in combattimento appartenevano alle caste inferiori. Il maggior potere sarebbe stato nelle mani degli appartenenti alla casta Vellavar, depositaria dell’ortodossia tamil fondata su un sistema gerarchico. Gli “intoccabili” tra i tamil sarebbero circa il 23%.

La posizione della Lega per i diritti e la lberazione dei popoli

Molto diversa la posizione espressa da Verena Graf, all’epoca segretario generale della Lega per i diritti e la liberazione dei popoli e rappresentante permanente di tale ong presso la sede Onu di Ginevra.

Per questa allieva di Lelio Basso «il conflitto era iniziato con l’indipendenza del 1948 a causa di una serie di politiche governative che, progressivamente e sistematicamente, privarono la popolazione tamil dei diritti fondamentali». Nel 1983 la resistenza, fino a quel momento non violenta, si trasformò in una lotta armata condotta dalle Tigri della liberazione di Tamil Eelam.

Per Verena Graf tre erano gli obiettivi principali dei tamil:

“Uguaglianza di diritti e di opportunità, diritto all’autodeterminazione e allontanamento delle forze governative dalla regione del Nord-est”. 

Di fronte al rifiuto dei governi di prendere in considerazione le loro richieste, una parte dei tamil si era convinta “di poter raggiungere questi obiettivi soltanto con la lotta armata per la creazione di un proprio Stato indipendente”.

Per la Graf l’indipendenza del popolo, della nazione tamil sarebbe stata giustificata in quanto forma di autodeterminazione «per diverse valide ragioni. In primo luogo perché il governo dello Sri Lanka ha privato un’intera collettività dei suoi fondamentali diritti. Basti pensare che si era stabilito per decreto che la sola lingua ammessa era il singalese. Inoltre ai tamil erano stati negati l’accesso all’educazione e l’effettiva partecipazione politica».
In sintesi “«a politica poliziesca del governo, nel suo insieme, poteva essere definita una forma di genocidio economico, sociale e culturale per distruggere la società tamil, minando le basi della sua identità».

Invece di operare per una società multietnica nel quadro dello stato dello Sri Lanka, i governi avrebbero «attuato una politica di esclusione nei confronti dei tamil», relegandoli nella condizione di “indesiderabili”. 

Come ci ricordava Verena Graf, l’anno determinante per il passaggio alle armi dei tamil era stato il 1983. Dopo che ancora nel 1977 al partito Tulf (Tamil United Liberation Front), moderato e autonomista, era stata praticamente interdetta ogni attività politica e quando scoppiarono diversi pogrom antitamil. Tuttavia anche in tempi successivi non erano mancati tentativi di sotterrare l’ascia di guerra e riprendere la lotta in maniera non violenta.

Per esempio nel settembre del 1987, nonostante avesse rifiutato di sottoscrivere un recente accordo di pace (in quanto co-firmato da Sri Lanka e India senza consultare i tamil) il loro leader, Thiruvenkadam Velupillai Prabhakaran, rilanciò la protesta in maniera pacifica. Un altro noto esponente delle Ltte, Amirthalingam Theelepan, iniziò allora uno sciopero della fame fino alla morte per richiamare l’attenzione del primo ministro indiano Rajiv Gandhi (il figlio di Indira, poi assassinato dalle Tigri nel 1991), firmatario del discusso accordo indo-singalese.
La sua fine risultò alquanto spettacolare, per certi aspetti inquietante. Deposto su un giaciglio all’aperto, nel cortile di un santuario indù a Jaffna, durante l’agonia venne visitato e onorato da centinaia di seguaci e la sua morte suscitò rabbia e risentimento. Venne così meno anche la fragile tregua e la parola tornò ai combattenti. Invece alcuni gruppi minori della resistenza tamil si arresero alle Ipkf (Indian Peace Keeping Force) incaricate di far rispettare il cessate il fuoco.

Ricolonizzazione e reinsurrezione

Oltre alle discriminazioni, i tamil subirono – dal 1948 in poi, almeno fino al 1987 – anche la dura questione dei resettlements. Con arbitrari stanziamenti di coloni singalesi nel Nord e nell’Est dell’isola (le aree a maggioranza tamil).
A complicare ulteriormente il quadro in quel lontano, ma determinante, 1987 interveniva un’altra formazione politica, il Jvp (Janatha Vimukthi Peramuna – Fronte di liberazione del popolo “rivoluzionario e anticolonialista”, già citato in quanto nel 2006 di fatto sosteneva il governo). Ugualmente contrario all’accordo indo-singalese (lo consideravano un’ingerenza indiana), ma per ragioni diametralmente opposte a quelle dei “separatisti” tamil.
Il Jvp si rese responsabile, oltre che di un tentativo insurrezionale nel sud del Paese, dell’uccisione di alcuni esponenti filogovernativi. In particolare con un attentato a Colombo rivolto contro lo stesso presidente Jayewardene. Nell’attacco al palazzo del parlamento perse la vita un ministro e rimase gravemente ferito Lalith Athulatmudali, ministro della difesa. negli anni Ottanta – oltre a un migliaio di militanti in prigione – il Jvp disponeva di circa 2000 militanti in servizio attivo e di circa 10.000 fiancheggiatori. Inutile dire che pur protestando vigorosamente per le condizioni di vita delle classi subalterne e per le violazioni dei diritti umani, nei confronti della situazione in cui versavano i tamil mostrava una sostanziale indifferenza.

Soluzione definitiva

Come è noto la “questione tamil” venne bruscamente risolta (eufemismo) tra il 2007 e il 2009 quando l’esercito riuscì ad annichilire le Tigri approfittando della circostanza per massacrare, deportare e internare centinaia di migliaia di civili tamil. I quali si ritrovarono sottoposti a una ulteriore colonizzazione da parte della maggioranza singalese buddista (circa 74% della popolazione).

Difficile anche quantificare il numero delle persone uccise e la portata della repressione. Si ipotizzava un numero tra le diecimila e le ventimila vittime oltre a circa 300.000 civili tamil internati nei campi sotto controllo militare.
Nel maggio 2009, mentre fuggiva, era stato ucciso anche Velupillai Prabhakaran insieme al figlioletto di dodici anni.

Nel giugno 2010 il governo sri-lankese (guidato allora da Mahinda Rajapakse) arrivò a bloccare una delegazione di esperti dell’Onu incaricati di svolgere indagini sulle violazioni dei diritti umani commessi l’anno precedente.

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Il crogiolo caucasico tra i confini fittizi dei vincitori https://ogzero.org/il-crogiolo-caucasico-tra-i-confini-fittizi-dei-vincitori/ Mon, 09 Oct 2023 23:43:29 +0000 https://ogzero.org/?p=11677 Dopo il corridoio di Lachin, ora c’è quello di Meghri nel mirino e l’Iran non potrà limitarsi a non gradire l’aggressione turco-azera. L’Artsakh avrebbe dovuto essere un caso di indipendente convivenza di comunità cristiane e musulmane, altaici azeri turcofoni e indoeuropei armeni di ceppo greco-germanico; non è mai stata una esperienza realmente paritaria, perché – […]

L'articolo Il crogiolo caucasico tra i confini fittizi dei vincitori proviene da OGzero.

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Dopo il corridoio di Lachin, ora c’è quello di Meghri nel mirino e l’Iran non potrà limitarsi a non gradire l’aggressione turco-azera. L’Artsakh avrebbe dovuto essere un caso di indipendente convivenza di comunità cristiane e musulmane, altaici azeri turcofoni e indoeuropei armeni di ceppo greco-germanico; non è mai stata una esperienza realmente paritaria, perché – soprattutto dall’esterno – si sono fatti prevalere contrasti etnici a condivisione di territorio tradizionalmente abitato da famiglie eterogenee, condizionate da invasioni e dominazioni variabili e costanti. E quando soffiano i venti nazionalisti si scompaginano le comunità per creare stati usati per soffocarle, ognuno secondo la propria tradizione verso il vicino; in questo caso è sintomatico come i paesi islamici più lontani come l’Algeria definiscano gli armeni cristiani colonizzatori, mentre l’Iran sciita come il popolo azero appoggi Erevan per mere questioni di metri di confine da salvaguardare, mentre il miglior alleato dei “fratelli altaici” azeri è il vicino sunnita Erdoğan, interessato alla creazione di un unico territorio ottomano senza interruzioni di confini.
Ciò che rende ancora più impellente l’abbandono della terra avita da parte della ex maggioranza armena fuggita dall’Artsakh è la ferocia autoritaria del regime dinastico ex sovietico… mentre perdurano i bombardamenti turchi sui curdi e i sionisti passano per vittime, pur essendo Nethanyauh dalla parte dei carnefici, come gli Aliyev o il despota Erdoğan; tutti in qualche modo collegati e con interessi intrecciati, tra le vittime dei contenziosi decennali mancano solo i saharawi. 


La secolare replica del genocidio armeno

L’attuale violenza (massacri, deportazioni…) subita dagli armeni rievoca fatalmente il genocidio del 1915.
C’ è ancora spazio per una qualsivoglia “soluzione politica” che garantisca minimamente i diritti della popolazione armena del Nagorno-Karabach?
Meglio non raccontarsi balle. Ormai – a meno di imprevedibili eventi di portata planetaria – la questione è chiusa definitivamente. Anzi, potrebbe anche andare peggio.
Non si può infatti escludere che dopo l’Artsakh venga invasa anche la stessa Armenia, in particolare il corridoio per congiungere l’esclave azera di Karki al confine con l’Iran (e la Turchia).

Vediamo intanto di riepilogare la tragica catena degli ultimi tre anni.
I bombardamenti azeri del 19 settembre avevano riportato nella cronaca un conflitto forzatamente dimenticato, tuttavia l’attacco di Baku contro il Nagorno-Karabach e quanto poi avvenuto ai danni del popolo armeno non calava inspiegabilmente dal cielo. Come già si era ipotizzato in agosto.
Era perlomeno probabile.
Il Nagorno Karabakh era una repubblica autoproclamata (ribattezzata con l’antico nome di Artsaj) abitata in prevalenza da armeni, ma posta forzatamente all’interno dei confini dell’Azerbaijan. E che già prima del 1991 si batteva per la propria indipendenza.

Pulizia etnica alternata

Nel conflitto del 1988-1994 la vittoria era andata agli armeni con la conseguente espulsione di migliaia di azeri.

Nella Seconda guerra del Nagorno-Karabach (autunno 2020) le parti si invertirono e per oltre 40 giorni l’esercito azero si scatenò sulla popolazione civile compiendo ogni genere di efferatezze. Qualificabili come una brutale pulizia etnica.
Al punto che molti armeni in fuga riesumarono i loro cari dalle tombe e fuggirono con le bare fissate al portapacchi delle auto dopo aver incendiato la propria casa.

L’evanescente interposizione russa

In realtà solo un terzo della provincia indipendentista era passato sotto il controllo di Baku, ma erano chiare le intenzioni di completare l’opera quanto prima. Nonostante la poco convinta opera di interposizione dei soldati di Mosca, soprattutto dopo che l’Armenia aveva accettato di partecipare a esercitazioni congiunte con truppe Nato (direi un autogol di Erevan).
Ovviamente anche all’odierna (definitiva?) sconfitta degli Armeni (anche per essere stati isolati e privati di mezzi di sussistenza da circa nove mesi) di fronte alle preponderanti forze azere, date le premesse, era fatalmente scontata.

Neottomanesimo via Baku

Smantellata l’amministrazione armena della enclave ribelle, Baku ha dichiarato di volere «integrarla totalmente nella società e nello Stato azeri».

Quanto alle voci di una possibile concessione di “autonomia”, la cosa appare piuttosto fantasiosa. Se nell’Azerbaigian non gode di alcun riconoscimento la consistente “minoranza” Talish (una popolazione di lingua iraniana che supera il milione di persone) cosa potrebbe toccare ai circa 120.000 armeni del Nagorno-Karabach? Peraltro ormai fuggiti nella quasi totalità e poco propensi a rientrare nonostante le rassicurazioni del governo di Baku.

La coltre di gas

Dal canto suo l’Unione Europea si guarda bene dall’intervenire pensando ai consistenti accordi con l’Azerbaijan in materia di gas.

Solidarietà al popolo armeno è stata espressa vigorosamente dal Consiglio esecutivo del Congresso nazionale del Kurdistan (Knk).

Nel comunicato ha denunciato «la tragedia umana che avviene sotto gli occhi del mondo nell’Artsakh (Alto Karabach) dove un centinaio di migliaia di Armeni sono costretti all’esilio». E il Knk ricordava anche le immagini terribili del 2020 con «i soldati azeri che tagliavano nasi e orecchie ai civili e vandalizzavano i monasteri».

Ovvio il parallelismo con quanto avviene “nelle zone curde occupate dalla Turchia” (il principale alleato dell’Azerbaigian).
Ma esiste anche un altro timore, ossia che “se cade l’Artsaj, cade anche l’Armenia”.

Una lingua di terra turca a unire Caspio e Mediterraneo

Già nel 2020 l’Azerbaijan aveva occupato territori ufficialmente dell’Armenia nella regione di Syunik. Una lingua di terra che si frappone alla dichiarata intenzione di Turchia e Azerbaijan di unire il Mediterraneo con il Caspio via terra. Ricordo che Turchia e Azerbaigian sono già confinanti grazie all’enclave azera di Najicheván che – toh, coincidenza! – Erdogan ha appena visitato per la prima volta.

Forse paradossalmente (visto che gli azeri sono in maggioranza sciiti come gli iraniani) l’unico paese con cui l’Armenia mantiene stabili e diretti rapporti commerciali (nel 2020 forse s’aspettava anche sostegno militare, ma invano) è l’Iran. La perdita della regione di Syunik le sarebbe quindi fatale.

L’analogo trattamento turco destinato ai curdi

Per il Knk comunque non ci sono dubbi «Si tratta di pulizia etnica orchestrata dall’Azerbaigian e dalla Turchia., motivata dall’ambizione geopolitica pan-turca che intende riunire queste due nazioni (…). Dopo 108 anni il popolo armeno si ritrova di nuovo vittima di massacri e deportazioni orchestrati dalle forze statali animate da odio razzista verso la cultura e il popolo armeno. Di conseguenza la pulizia etnica attualmente in corso nell’Artsakh deve essere considerata come la continuazione del genocidio armeno del 1915 perpetrato dai Giovani Turchi».
E conclude paragonando le attuali sofferenze degli armeni a quelle analogamente patite dai curdi a Shengal, Afrin e Serêkaniyê: «Nomi e vittime di questi massacri possono cambiare, ma le motivazioni rimangono identiche».

Diretto interventismo turco nell’area curdo-armena

Risalendo all’ottobre 2020 già allora appariva evidente come il conflitto tra Armenia e Azerbaijan fosse propedeutico all’intervento diretto della Turchia contro l’Armenia.
Nella guerra intrapresa dall’Azerbaijan, il ruolo di Ankara si andava sempre più definendo. In particolare con la fornitura di migliaia di mercenari e jihadisti (sunniti) provenienti dalla Siria (e forse anche dalla Libia) per combattere a fianco degli azeri (sciiti) contro gli armeni cristiani.
Un destino, quello della cittadina al confine turco-armeno di Kars, analogo a quello delle città frontaliere di Ceylanpinar e di Reyhanli nel conflitto siriano. Ugualmente utilizzate per smistare le milizie islamo-fasciste.

Per il giornalista curdo Mustafa Mamay non ci sarebbe stato quindi di che stupirsi se «da ora in poi vedremo i salafiti passeggiare per le vie di Kars».

D’altra parte era quasi scontato che Erdogan intervenisse a gamba tesa nella questione del Nagorno-Karabakh ai primi segnali di ripresa del conflitto, mettendo a disposizione di Baku, oltre ai già citati mercenari e terroristi, aerei F-16, droni Bayraktar TB-2, veicoli e consiglieri militari.

Niente di nuovo

2009

Ancora nel 2009 (10 ottobre) a Zurigo la firma – già concordata – dell’accordo di “normalizzazione diplomatica” e per la riapertura delle frontiere tra la Turchia e l’Armenia era rimasta per molte ore in sospeso. Il motivo? La legittima contrarietà della delegazione armena per il previsto discorso del ministro degli Esteri turco, Ahmet Davutoglu. Addirittura, la berlina di Hillary Clinton – già in viaggio verso l’Università di Zurigo per raggiungere le delegazioni svizzere, francesi, russe ed europee – aveva fatto repentinamente dietrofront per ritornare all’hotel da dove – secondo alcune versioni direttamente dal parcheggio – avrebbe tempestato di telefonate i ministri turco e armeno per sbloccare la situazione.
Poi la cosa era rientrata e il discorso rimasto nel cassetto. Ma il giornale “Hurriyet” ne era ugualmente entrato in possesso appurando che il contenzioso verteva proprio sulla questione del Nagorno-Karabakh. In sostanza Davutoglu esigeva il ritiro di Erevan dalla provincia, formalmente sottoposta all’Azerbaijan, ma controllata dall’Armenia dal 1993. Posizione ribadita – anche per rassicurare il governo di Baku – nei giorni successivi dal primo ministro turco Recep Tayyp Erdoğan. Storicamente amico e alleato di Ankara, l’Azerbaijan vedeva tale accordo come fumo negli occhi.
Ostilità che trovava precise assonanze nel Parlamento turco che avrebbe dovuto poi ratificare l’accordo. Anche per il parlamentare kemalista Onur Oymen (esponente dell’opposizione nazionalista, quasi un progressista, comunque non un seguace di Erdoğan) si trattava nientemeno che di una «abdicazione, di un cedimento alle pressioni esterne» esprimendo «inquietudine per l’avvenire del paese» (senza però specificare se si preoccupasse più della Turchia o dell’Azerbaijan).

Contestazioni, se pur in tono minore, provenivano anche dall’Armenia, in particolare dal partito nazionalista Dachnak. Migliaia di persone avevano partecipato a una manifestazione indetta a Erevan, chiedendo che prima di ogni accordo la Turchia riconoscesse le proprie responsabilità in merito al genocidio del 1915.

1988

Risalivano al febbraio 1988 le manifestazioni degli armeni nella città di Stepanakert per la riunificazione con l’allora sovietica Repubblica d’Armenia.
E il 20 febbraio 1988 – dopo essere echeggiata anche per le vie di Erevan – la richiesta dei manifestanti veniva approvata dal parlamento regionale del Karabakh con 110 voti contro 17. Rigettata da Mosca, forniva comunque l’innesco per le prime avvisaglie del lungo, aspro conflitto armeno/azero. Il 22 febbraio una marcia – non certo spontanea – di migliaia di azeri si muoveva da Agdam in direzione di Askeran (nel cuore dell’entità autonoma: oblast, provincia) prendendo di mira sia la popolazione, sia le proprietà armeni. Nei disordini di Askeran si conteranno decine di feriti (sia armeni che azeri) e almeno due azeri uccisi. È il segnale per una miriade di scontri “settari” tra le due comunità, sia nel Nagorno-Karabakh che nell’Azerbaijan, ai danni soprattutto delle rispettive minoranze.

Mosca intanto permaneva nella sostanziale incomprensione del problema ponendo, nel novembre 1989, la provincia autonoma sotto il diretto controllo dell’amministrazione azera.
Quanto alla richiesta ufficiale di riunificazione, proclamata con una sessione straordinaria del Soviet supremo armeno e del Consiglio nazionale del Nagorno-Karabakh, resterà lettera morta. Nel novembre 1991 lo statuto di autonomia veniva definitivamente abolito e il Nagorno-Karabah si ritrova interamente sottoposto al totale controllo di Baku.

1991

In un referendum organizzato per il 10 dicembre 1991 – boicottato dalla minoranza azera – la proposta di uno stato indipendente sarà approvata con il 99% dei voti.
A questo punto anche la proposta di ripristino di un’ampia autonomia – tardivamente avanzata da Mosca – veniva rispedita al mittente (sia dagli armeni che dagli azeri, anche se per ragioni opposte). La parola passava definitivamente alle armi al momento dell’indipendenza dell’Armenia (23 settembre 1991) e dell’Azerbaijan (18 ottobre 1991).
Mentre la situazione andava precipitando e il conflitto si alimentava con la partecipazione di migliaia di combattenti, per la provincia – erroneamente definita “separatista” – il sostegno militare dell’Armenia indipendente risulterà nevralgico.
A fianco degli azeri, oltre ai Lupi Grigi turchi, anche combattenti afgani e ceceni.
Con gli armeni miliziani provenienti dall’Ossezia e – discretamente e solo a livello logistico – la Grecia.
Entrambi i belligeranti inoltre avrebbero fatto ricorso a mercenari provenienti dai territori dell’ex Urss (russi e ucraini).

Quanto alla Russia, sembrava volersi mantenere equidistante vendendo armi a entrambi i belligeranti.
Le vittime, combattenti e civili, alla fine del 1993 si contavano a migliaia. Centinaia di migliaia, come previsto, gli sfollati e rifugiati interni su entrambi i fronti. Ai primi di maggio del 1994 gli armeni ormai controllavano circa il 14% del territorio dell’Azerbaijan e i primi negoziati (cessate il fuoco del 12 maggio) prendevano il via sotto la supervisione di Mosca.

Il fallimento del Gruppo di Minsk

1994

Con la creazione nel maggio 1994 del Gruppo di Minsk per la Conferenza sulla sicurezza e la cooperazione in Europa (attualmente denominato Osce) Francia, Russia e Stati Uniti (a cui successivamente si uniranno Italia, Turchia, Germania…) avevano inteso promuovere una soluzione pacifica del conflitto.
Tuttavia – almeno col senno di poi – con scarsi risultati, vista l’attuale deriva.

Qualche considerazione in merito alle efficaci operazioni propagandistiche (soprattutto da parte di Baku e Ankara) rivolte principalmente ai media europei. Con qualche discreto risultato. Forse perché – tutto sommato – già allora conveniva schierarsi con l’Azerbaijan (e con la Turchia) piuttosto che con la piccola, quasi insignificante sullo scacchiere internazionale, Armenia.
Per esempio, spesso gli armeni del Nagorno-Karabakh vengono impropriamente definiti “separatisti”. Una definizione mai utilizzata per il Nord di Cipro occupata dalla Turchia fin dal 1974. Per non parlare della continua evocazione di una – non documentata – partecipazione di militanti del Pkk ai combattimenti (a fianco degli armeni ovviamente).

Nel frattempo (gli affari sono affari) la Francia non smetteva di vendere armi e tecnologia militare all’alleato della Turchia, l’Azerbaijan. Non era e non è l’unico paese a farlo naturalmente (vedi l’Italia che dovrebbe fornire anche minisommergibili). Ma la cosa appariva stridente pensando al ruolo di antagonista storico di Ankara assunto periodicamente da Parigi. Per esempio, all’epoca, nella querelle sulla questione dell’espansionismo turco nelle acque del mar Mediterraneo.
Armi sofisticate, comunque. Forse le stesse con cui le forze militari di Baku colpivano direttamente la popolazione di Stepanakert.

E già allora in qualche modo il conflitto tra Armenia e Azerbaijan appariva propedeutico all’intervento diretto della Turchia contro l’Armenia (o ne era addirittura la “vetrina”). Intravedendo una prosecuzione (magari “con altri mezzi”, ma poi neanche tanto) di quella politica e di quella strategia che nel 1915 avevano determinato lo sterminio della popolazione armena.

Due parole poi sul ruolo assunto da Teheran

Anche se poteva apparire incongrua, da più parti si formulava l’ipotesi di un Iran deciso a schierarsi con l’Armenia nel conflitto con l’Azerbaijan.
Incongrua soprattutto pensando che in entrambi i paesi, Iran e Azerbaijan, è prevalente la fede sciita.

Ma poi (come forse era lecito aspettarsi) alcuni autorevoli esponenti politici iraniani erano intervenuti dichiarando che «l’Iran non sceglie l’Armenia a sfavore dell’Azerbaijan».

Il giornalista Raman Ghavami si diceva convinto che «sia probabile che dovremo assistere a una significativa collaborazione tra l’Iran, la Turchia, l’Azerbaijan (e presumibilmente anche la Russia a questo punto, N.d.A.) sia sull’Armenia, sia su altre questioni che interessano la regione».

Si sarebbe andato infatti configurando un nuovo livello di sostanziale collaborazione nelle relazioni tra Azerbaijan e Iran. Addirittura Teheran avrebbe (notizia non confermata) richiesto all’Armenia di “restituire” (nientemeno ?!?) il Nagorno-Karabakh a Baku.

Per Raman Ghavami in realtà l’Iran «da sempre preferisce rapportarsi con gli azeri sciiti piuttosto che con gli Armeni». Come avveniva già molto prima dell’insediarsi del regime degli ayatollah.

Nuovo intreccio dei destini armeni e curdi

A tale riguardo riporta l’esempio della provincia dell’Azerbaijan occidentale (posta entro i confini iraniani) che in passato era abitata prevalentemente da curdi e armeni.
Ma tale demografia venne scientificamente modificata, nel corso del Ventesimo secolo, dai vari governi persiani che vi trasferirono popolazioni azere. Sia per allontanarvi i curdi, sia per arginare gli effetti collaterali del contenzioso turco-armeno entro i confini persiani.
Molti armeni e curdi vennero – di fatto – costretti a lasciare le loro case.
Inoltre, in tale maniera, si creava una artificiosa separazione tra le popolazioni curde di Iraq, Turchia e Siria e quelle in Iran. Cambiando anche la denominazione geografica. Da Aturpatakan a quella di Azerbaijan occidentale.

Altro elemento di tensione tra Erevan e Teheran – sempre secondo Raman Ghavami – deriverebbe dal ruolo della chiesa armena nell’incremento di conversioni al cristianesimo da parte di una fetta di popolazione iraniana.

Legami finanziari Teheran-Baku

Da sottolineare poi l’importanza vitale, per un paese come l’Iran sottoposto a sanzioni, dei legami finanziari con l’Azerbaijan. Ricordava sempre Raman Ghavami come, non a caso, la succursale della Melli Bank a Baku è seconda per dimensioni soltanto a quella della sede centrale di Teheran.
Un altro elemento rivelatore sarebbe il modo in cui, rispettivamente, Baku ed Erevan hanno reagito alla cosiddetta “Campagna di massima pressione” sull’Iran in materia di sanzioni: mentre gli scambi commerciali tra Armenia e Iran si riducevano del 30%, quelli con l’Azerbaijan si intensificavano.
Ad alimentare la tensione poi, il riconoscimento da parte dell’Armenia di Gerusalemme come capitale di Israele. Una avventata presa di posizione di cui Erevan potrebbe in seguito essersi pentita. Vedi il successivo contenzioso (e ritiro dell’ambasciatore) a causa della vendita da parte di Israele di droni kamikaze IAI HAROP all’Azerbaijan.

Ulteriore complicazione (ma anche questa era forse prevedibile) la notizia che erano già in atto scontri armati tra i mercenari di Ankara inviati in Azerbaijan (presumibilmente jihadisti, sicuramente sunniti) e gli azeri sciiti.

Insomma, il solito groviglio mediorientale.

La spartizione di Astana: Russia e Turchia e gli oleodotti dell’Artzakh

Nel novembre 2020 si concretizzava poi un vero capolavoro di cinico realismo: gli accordi con cui Russia e Turchia si spartivano il Nagorno-Karabakh garantendosi il controllo della vasta rete di oleodotti che attraversano (o attraverseranno) il territorio storicamente conteso tra Armenia e Azerbaijan. Paese, quest’ultimo che fornisce alla Turchia un quinto delle sue importazioni di gas naturale (oltre a ingenti quantità di barili di petrolio dal Mar Caspio) direttamente all’hub di Ceyhan.
E qualche briciola non di poco conto andava anche al Belpaese (se abbiamo interpretato correttamente le dichiarazioni di Di Maio).
Ricapitoliamo. Il 10 novembre 2020 l’Armenia (il paese sconfitto) e l’Azerbaijan (il vincitore) firmavano un “accordo di pace” sotto la tutela ufficiale di Mosca e ufficiosa di Ankara.

Mentre le colonne dei profughi dal Nagorno-Karabakh) si allungavano per abbandonare il paese invaso dagli “alleati” (ascari?) di Ankara (l’esercito azero e le milizie mercenarie jihadiste qui inviate dai territori già invasi della Siria), iniziava il dispiegamento lungo la linea di contatto dei duemila – inizialmente – soldati russi (presumibilmente integrati con truppe turche, sul modello delle “pattuglie-miste” nel Nord della Siria). Durata prevista della loro presenza, cinque anni rinnovabili.

Un risultato niente male per Erdogan che vedeva ratificata la sua alleanza strategica con Baku. Così come venivano confermate le conquiste azere (almeno trecento insediamenti tra cui Susi, strategicamente rilevante). Non meno rilevante, l’acquisizione da parte dell’Azerbaijan di un collegamento diretto con Nachichevan (la sua enclave) e quindi con la Turchia.

Ovviamente gli armeni non l’avevano presa bene. A farne le spese il primo ministro Nikol Pashinyan (un leader “di plastica” secondo alcuni commentatori, messo su dall’Occidente un paio di anni prima per allontanare l’Armenia dal suo alleato tradizionale russo) di cui la piazza ha richiesto le immediate dimissioni.
Gli eventi sono noti: il palazzo del governo letteralmente preso d’assalto, il parlamento occupato e il presidente Ararat Mirzanyan che quasi rischiava di essere linciato dalla folla inferocita. I manifestanti erano anche andati a cercare direttamente a casa sua il primo ministro (presumibilmente non per una pacata conversazione), ma senza trovarlo (buon per lui, naturalmente).

L’interesse italico

a sei zampe…

Si diceva delle vaghe (o svagate?) dichiarazioni di Di Maio («Monitoreremo con attenzione gli sviluppi nelle aree dove si registra un particolare attivismo turco, vigilando affinché siano tutelati il rispetto del diritto internazionale, gli interessi italiani anche economici e con l’obiettivo di scongiurare qualsiasi escalation»). E chi vuol intendere...intenda.

Del resto, con buona pace della piccola Armenia, la cooperazione con l’Azerbaijan è da tempo consolidata. L’Italia – oltre che il maggior destinatario delle esportazioni petrolifere – risulta essere uno dei principali partner commerciali di Baku con un interscambio annuale – si calcola – di sei miliardi di euro. Sarebbero almeno tremila le imprese italiane che hanno investito nella repubblica caucasica. Risaltano in particolare Eni e Unicredit con interessi stimati in seicento milioni di dollari.

… e Leonardo-Finmeccanica

Cooperazione quindi ben consolidata, si diceva. Ma non solo in campo energetico. Magari indirettamente, anche militare. Risale, per dirne una, al 2012 la vendita di una decina di elicotteri Augusta Westland (società controllata da Leonardo-Finmeccanica), ufficialmente per uso civile (ma vengono in mente gli elicotteri venduti alla Turchia negli anni Novanta, su cui poi venivano applicate le mitragliere vendute separatamente). Nel 2017 l’amministratore delegato di Leonardo firmava a Baku – sotto lo sguardo del ministro Calenda – un accordo con la Socar (società statale petrolifera azera) per incrementare la sicurezza e l’efficienza delle infrastrutture energetiche grazie appunto alle tecnologie italiche.

Con un diretto riferimento al gasdotto di 4000 chilometri che la Socar stava realizzando per far giungere in Puglia e quindi in Europa (vedi la questione del Tap), dopo aver attraversato la Georgia, la Turchia, la Grecia e l’Albania, i previsti 20 miliardi di metri cubi (annuali) di gas di provenienza dall’Azerbaijan. Particolarmente rilevante e significativo il ruolo assunto da alcune aziende italiane (Snam S.p.A. di San Donato Milanese, Saipem, Eni, Maire Tecnimont…). Appare evidente come in tale contesto l’Armenia sia ormai fuori gioco, estromessa, marginalizzata (nonostante – a titolo di parziale consolazione – qualche ipocrita piagnisteo sul genocidio subito da parte della Turchia).

L’onnipresente invasività israeliana

Tornando alla breve, ma comunque devastante, guerra intercorsa nel 2020 tra Erevan e Baku, andrebbe poi approfondito il ruolo assuntovi da Israele.
Se la Turchia sembra aver fornito a Baku – oltre ai mercenari jihadisti – aerei e droni, cosa avrà fornito Israele? In qualche modo deve aver comunque contribuito visto che durante i festeggiamenti per la schiacciante vittoria, i manifestanti azeri inalberavano e sventolavano, oltre al vessillo nazionale e alle bandiere turche, numerosi drappi con la Stella di David.

Risalgono invece ai primi di ottobre (2023) le rivelazioni dell’intelligence francese sul fatto che i comandi militari azeri avrebbero ringraziato sentitamente Israele per il sostegno nel recente attacco al Nagorno-Karabach. Sia a livello espressamente militare (armamenti vari, soprattutto droni della Israel Aerospace Industries, della Rafael Advanced Defense Systems e della Israel Militari Industries), sia di intelligence (Mossad e Aman’s Unit 8200).
Sempre da fonti dell’Esagono risulta che nel corso del conflitto di settembre una quindicina di aerei cargo azeri sono atterrati nell’area militare di Ouda (Negev). Circa un centinaio di altri aerei cargo azeri erano ugualmente qui atterrati nel corso degli ultimi sei-sette anni. Presumibilmente non per rifornirsi di pompelmi. Inoltre Israele avrebbe fornito anche sostegno nel campo della Cyber Warfare (tramite l’Nso Group).
A ulteriore conferma dello stretto rapporto con Baku, il ministro israeliano della difesa si è recato recentemente nella capitale azera per verificare di persona l’efficacia del sostegno israeliano all’Azerbaijan.

Un bel caos geopolitico comunque

Proxy war disequilibrata

E arriviamo al febbraio di quest’anno, quando mentre a Erevan si ricordavano le vittime del pogrom del 1988, in Iran gli armeni manifestavano a sostegno della repubblica dell’Artsakh. Niente di strano.
Anche all’epoca dell’attacco dell’Azerbaijan ai territori armeni della Repubblica dell’Artsakh (con il sostegno di Ankara) nel 2020, c’era chi si aspettava un maggiore sostegno all’Armenia da parte dell’Iran, in linea con una certa tradizione. Dal canto suo Israele non mancava di mostrare sostegno (fornendo droni presumibilmente) alle richieste azere, ovviamente in chiave antiraniana. Misteri della geopolitica. Anche se poi sappiamo che le cose andarono diversamente, resta il fatto che comunque in Iran gli armeni costituiscono una minoranza tutto sommato tutelata, garantita (sicuramente più di altre, vedi curdi obeluci) e anche la causa dell’Artsakh gode ancora di qualche simpatia.

Commemorazioni dei massacri passati, in preparazione di quelli presenti

O almeno così sembrava leggendo la notizia del raduno di solidarietà con la popolazione armena della Repubblica dell’Artsakh (Nagorno Karabakh) che si era tenuto presso il monastero di Sourp Amenaprguitch (Santo Salvatore) di Ispahan nella mattinata del 24 febbraio 2023 (nonostante, ci dicono, le condizioni atmosferiche inclementi). Oltre alle comunità armene di Nor Jugha (Nuova Djulfa, un quartiere di Ispahan fondato dagli armeni di Djulfa nel Diciassettesimo secolo) e di Shahinshahr, erano presenti molti armeni provenienti da ogni parte dell’Iran.
Numerosi gli interventi e i messaggi arrivati a sostegno alla causa della popolazione armena della Repubblica (de facto, anche se non riconosciuta in ambito onusiano) dell’Artsakh.

Quasi contemporaneamente, due giorni dopo, in Armenia venivano commemorate le vittime del massacro di Sumgaït (quartiere industriale a nord di Baku). Il presidente armeno Vahagn Khatchatourian con il primo ministro Nikol Pašinyan, il presidente del parlamento Alen Simonyan e altre figure istituzionali si sono recati al memoriale di Tsitsernakaberd a Erevan deponendo una corona e mazzi di fiori.
Il memoriale ricorda le persone uccise nei pogrom avvenuti (con la probabile complicità delle autorità azere) nel febbraio 1988 a Sumgaït, Kirovabad e Baku. Il massacro (in qualche modo un preludio alla guerra del 1992 in quanto legato alla questione del Nagorno Karabakh) sarebbe stato innescato da rifugiati azeri provenienti dalle città armene. Almeno ufficialmente. In realtà i responsabili andrebbero identificati tra i circa duemila limitčiki (operai immigrati delle fabbriche chimiche) a cui le autorità avevano distribuito alcolici in sovrabbondanza.
Se le fonti ufficiali azere parlarono soltanto di trentadue vittime, per gli armeni queste furono centinaia. Addirittura millecinquecento secondo il partito armeno Dashnak (oltre a centinaia di stupri).
Inoltre i militari inviati per fermare i disordini impiegarono ben due giorni per percorrere i circa trenta chilometri che separano Baku da Sumgaït. Vennero arrestate centinaia di persone, ma i processi si conclusero senza sostanziali condanne.

Guerra annunciata, forza di pace distratta

Tutti defilati… tranne i curdi

Nel marzo 2023, pressata da più parti affinché intervenisse, finalmente Mosca aveva parlato tramite il ministero della Difesa, accusando Baku di aver violato gli accordi sul Nagorno-Karabakh del 2020. Meglio tardi che mai, anche se la Federazione Russa appariva sempre più incerta (o disinteressata?) al destino dell’Armenia, praticamente abbandonata a se stessa (quasi da tutti sia chiaro, non solo dalla Russia; con la nobile eccezione dei curdi).
Eppure i segnali della possibilità di un ennesimo conflitto (guerra a relativamente “bassa intensità”) non erano mancati. Il 5 marzo si era registrato un altro scontro armato nel corridoio di Lachin (per gli azeri, di Zangezur) tra Stepanakert e Goris, bloccato ormai da tre mesi da presunti “manifestanti ecologisti” azeri. La sparatoria era avvenuta tra la polizia armena e i militari azeri che avevano arbitrariamente fermato un veicolo e – nonostante fosse costata la vita di cinque persone – era passata quasi inosservata.
Invano Nikol Pašinyan, primo ministro di Erevan, aveva richiesto, rivolto anche al tribunale internazionale dell’Onu, l’istituzione di una missione internazionale di indagine sulla situazione in cui veniva a trovarsi l’unica via di collegamento tra l’Armenia e la repubblica del Nagorno-Karabakh, ormai ridotta alla condizione di enclave sotto assedio, con oltre 120.000 persone di etnia armena sprovviste di cibo e medicinali. In base all’accordo trilaterale del 9 novembre 2020 (e riconfermato per ben due volte nel 2021 e ancora nell’ottobre 2022), alla Russia spettava il compito di controllare e assicurare i trasporti nel “corridoio” con una sua forza di pace.

Estrattivismo abusivo e pretestuoso ecologismo

Il pretesto avanzato dai sedicenti “ecologisti” azeri che da mesi bloccavano il passaggio sarebbe quello di poter controllare le miniere (private, non statali) di Gyzylbulag (oro) e di Demirl (rame e molibdeno) dove gli armeni avrebbero compiuto “estrazioni illegali”.
Dopo le ripetute accuse di “mancata osservanza dell’impegno di controllo”, fino a quel momento da parte di Mosca erano giunte soltanto rassicurazioni verbali (dicembre 2022). Ma anche la dichiarazione che «le forze di pace possono agire soltanto quando entrambe le parti sono d’accordo».

«Gli azeri continuano ad avanzare pretese massimaliste, senza concedere alcuna forma di compromesso», aveva denunciato Vagram Balayan, presidente della commissione affari esteri dell’assemblea nazionale del Nagorno-Karabakh. Sostanzialmente in quanto Baku “non intende riconoscere l’esistenza del Nagorno-Karabakh e del popolo dell’Artsakh”. Ossia, detta fuori dai denti, “vogliono soltanto farci scomparire dalla storia” (come sembra confermato dagli ultimi eventi). Costringendo gli armeni a scegliere tra un’evacuazione “volontaria” e la deportazione.

Fine annunciata

E intanto con il mese di agosto il tragico epilogo si profilava all’orizzonte.
Con gli Armeni del Nagorno-Karabakh ormai presi per fame, in un articolo di quei giorni mi ero chiesto se «si può già parlare di genocidio o dobbiamo aspettare qualche migliaio di morti per inedia?».
Domanda retorica ovviamente.

A un certo punto l’evidente, colpevole, latitanza della Russia (storicamente “protettrice “ della piccola Armenia) sulla questione del Nagorno-Karabakh sembrava aver lasciato campo aperto all’intervento pacificatore – o perlomeno a un tentativo di mediazione – di Unione Europea e Stati Uniti.
Ma l’irrisolta questione del Corridoio di Lachin (unico corridoio tra Armenia e Nagorno-Karabakh) conduceva fatalmente al nulla di fatto. E intanto per gli armeni del Nagorno-Karabakh la situazione continuava a peggiorare.
Chi in quei giorni aveva avuto la possibilità di percorrere le strade di Stepanakert parlava di lunghe file di persone che – dopo ore di attesa – ottenevano letteralmente un tozzo di pane. Per non parlare di quanti crollavano – sempre letteralmente – a terra a causa della fame. Almeno 120.000 persone colpite dall’isolamento totale e dalla conseguente crisi umanitaria (sia a livello sanitario che alimentare).
Senza dimenticare che – ovviamente – l’Azerbaigian da tempo aveva provveduto a interrompere il rifornimento di gas. Difficoltoso, in netto calo, anche quelli di energia elettrica e di acqua. A rischio le riserve idriche con tutte le prevedibili conseguenze.
Quanto all’alimentazione ormai si era ridotti alle ultime scorte di pane e angurie. Il peggioramento si era andato accentuando da quando veniva impedito (con posti di blocco installati illegalmente dall’Azerbaigian) l’accesso anche alla Croce Rossa e alle truppe russe di interposizione che comunque finora avevano rifornito di cibo – oltre che di medicinali – la popolazione armena.

Silenzio tombale e pennivendoli distratti

Bloccato da mesi alla frontiera anche un convoglio di aiuti umanitari (oltre una ventina di camion) inviato da Erevan.
In pratica, un grande campo di concentramento.
Al punto che un cittadino armeno gravemente ammalato, mentre veniva trasportato dalla Croce Rossa in un ospedale dell’Armenia (e quindi sotto protezione umanitaria internazionale), veniva sequestrato, privato del passaporto, sottoposto a interrogatorio e spedito a Baku dove – pare – sarebbe stato anche processato per eventi risalenti al primo conflitto scoppiato in Nagorno-Karabakh negli anni Novanta.

E ogni appello rivolto alle autorità e organizzazioni internazionali (Unione Europea, Consiglio di Sicurezza dell’Onu, Russia, Gruppo di Minsk…) era destinato a restare inascoltato.
Con un preciso riferimento al blocco del Corridoio di Lachin operato dall’Azerbaijan, un ex esponente della Corte Penale Internazionale, l’avvocato argentino Luis Moreno Ocampo, aveva espressamente evocato un possibile genocidio.
Ma la sua appariva la classica “voce che grida nel deserto”. Quello dell’informazione almeno.

Poi la conferma dei peggiori timori con il tragico epilogo avviato il 19 di settembre.


Il giorno dopo la Guerra lampo dei fratelli turcofoni avevamo sentito Simone Zoppellaro, la cui analisi consentiva di comprendere nei dettagli cause e conseguenze delal dissoluzione dell’indipendenza dell’Artzakh

“Cala un sipario plumbeo sull’Artsakh”.

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G20: l’Africa non è più nel menu ma ‘partecipa’ al banchetto https://ogzero.org/g20/ Mon, 11 Sep 2023 20:57:23 +0000 https://ogzero.org/?p=11571 Nella foto del G20 di copertina in primo piano ci sono 3 membri fondatori dei Brics… ma da membro dei Brics impegnato su più tavoli Modi agisce da battitore “libero” o da gregario per tirare la volata ad altre potenze per proporsi ancora una volta al continente africano come soci “interessati”? Tutti appaiono concordi sull’estensione […]

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Nella foto del G20 di copertina in primo piano ci sono 3 membri fondatori dei Brics… ma da membro dei Brics impegnato su più tavoli Modi agisce da battitore “libero” o da gregario per tirare la volata ad altre potenze per proporsi ancora una volta al continente africano come soci “interessati”?
Tutti appaiono concordi sull’estensione alla Unione africana della partecipazione a partire dal prossimo G21
brasiliano. Ma come sempre Angelo Ferrari correttamente si chiede cui prodest? e la risposta può non andare questa volta verso una nuova spinta verso gli interessi dei Brics, di cui l’India è un socio tra i più potenti, che hanno già aperto dal canto loro ai mercati africani e, se i russi sono protagonisti in Sahel, centrafrica e gli affari cinesi sono ovunque nell’Africa orientale, è più facile che la porta del G21 possa venire usata più dagli Usa che non dalle potenze asiatiche.
Forse proprio quella Via antiBri in nuce e che vede gli indiani impegnati a riavvicinarsi all’Occidente può trovare nel coinvolgimento del Sud del Mondo un nuovo grimaldello per essere concorrenziale nei vari snodi della Via della seta cinese… ma queste elucubrazioni, ci suggerisce l’africanista Angelo, non considerano il particolare che questa opportunità – nel momento in cui si registrano sommovimenti bollati sbrigativamente come anticoloniali – sarebbe davvero a disposizione di una potenza come l’Unione africana che è un organismo con lo stesso peso dell’Unione europea. Perciò lasciamo spazio ai dati e alle ipotesi di Angelo Ferrari (Agi.it, 11 settembre 2023).  


La proposta indiana

L’Africa si siede al tavolo dei potenti e non è più solo nel menu. L’entrata come membro permanente dell’Unione africana (Ua) nel G20, tra i grandi del mondo, è un segnale molto forte per il continente e una vittoria diplomatica dell’India ma, anche un modo per provare a disinnescare la “mina” dei Brics. Ma non solo: i 55 stati africani hanno un Pil complessivo di 3000 miliardi di dollari e, già dal 2021, hanno dato vita a un’area di libero scambio continentale, con lo scopo di sviluppare gli scambi interafricani tra oltre 1,2 miliardi di persone. Un potenziale enorme. Tuttavia ora, e sarà tutto nelle mani della Unione africana, deve mettere a frutto questo patrimonio che, fino a ora, era solo menzionato nel menu dei vertici internazionali.

Una delle aspirazioni dell’Unione africana, presente nella sua agenda per il 2063, era quella di avere un posto di rilievo nelle relazioni internazionali. La presenza nel G21 va proprio in questa direzione. Ma c’è dell’altro. E cioè che l’Africa ora può lavorare concretamente affinché il continente non sia più considerato un rischio per gli investimenti, ma un’opportunità, in una logica tra pari e non relegato alla subalternità. Ciò permetterà, inoltre, di sviluppare, in un mondo multipolare, strategie usando il dialogo Sud-Sud in maniera tale che le questioni che riguardano lo sviluppo del continente siano considerate prioritarie per e nell’economia globale.

Tutto ciò, inoltre, ha una rilevanza non solo negoziale, ma anche squisitamente economica legata proprio all’Area di libero scambio continentale, dove dovrebbe prevalere la negoziazione multilaterale, cioè tra grandi aree economiche, rispetto a quella bilaterale, ma per fare ciò è necessario che vi sia un interlocutore globale come può essere solo l’Unione africana. Ciò permetterebbe, solo per fare un esempio, all’Unione europea su diversi temi e criticità, di avere un interlocutore unico e, allora, quando vengono evocati piani Marshall per l’Africa, questi non sarebbero più calati dall’alto, ma verrebbero negoziati alla pari con il continente africano.

Hai voluto la bici? adesso vai in fuga, sfuggi alla trappola!

L’istituzione dell’Area di libero scambio africana (Afcfta) potrebbe consentire un aumento di oltre il 50% degli scambi tra i paesi del continente e avrà, anche un effetto significativo sugli scambi tra l’Africa e il resto del mondo con un aumento delle esportazioni del 29% e delle importazioni del 7%, secondo i dati del Fondo monetario internazionale; e ciò può produrre un aumento di “oltre il 10%” del Pil reale medio pro capite.
Il Fondo monetario, tuttavia, sostiene che, perché l’area di libero scambio possa avere un impatto significativo sulle economie, i paesi africani dovranno, necessariamente, mettere in campo una serie di riforme economiche e politiche per sostenere il mercato unico. Non è sufficiente la riduzione delle barriere tariffarie e non tariffarie se questa non si accompagna a un miglioramento del clima imprenditoriale. Senza riforme, secondo il Fondo monetario, l’impatto dell’area di libero scambio africano sarà minore: la semplice riduzione delle barriere, tariffarie o meno, consentirà agli scambi tra i paesi africani di crescere solo del 15%, portando a un aumento dell’1,25% del Pil reale medio pro capite.

Per cogliere tutte le opportunità «sarà necessario investire in capitale fisico e umano, creare un solido quadro macroeconomico e modernizzare il sistema di protezione sociale per sostenere i più vulnerabili durante la fase di transizione».

Una Unione africana protagonista nei consessi internazionali e non più osservatore, può determinare un cambio di passo proprio sullo sviluppo reale del continente.

Non ha caso la decisione presa in India ha avuto il plauso di tutte per le parti coinvolte. Ovviamente, in particolare, dei leader africani: se il Sudafrica era già rappresentato al G20, come Stato unico africano, ciò non ha impedito al suo presidente di accogliere con favore l’ingresso dell’Unione africana.

Cyril Ramaphosa ha sottolineato la necessità di «una cooperazione multilaterale per combattere l’insicurezza alimentare ed energetica». Presente in India anche il comoriano Azali Assoumani, attuale presidente dell’Ua, ha parlato di «culmine di una lotta a lungo termine. È un grande giorno per tutta l’Africa». Il peso massimo del continente, il presidente della Nigeria, Bola Tinubu, ha espresso la sua impazienza di «portare avanti le nostre aspirazioni sulla scena globale utilizzando la piattaforma del G20». Quello del Kenya, William Ruto, dal canto suo, ha parlato di «una sede che permetterà di orientare le decisioni del G20 per garantire la promozione degli interessi del continente». Il senegalese Macky Sall ha enfatizzato “la decisione storica”. Infine, il presidente della Commissione dell’Unione africana, il ciadiano Moussa Faki Mahamat, ritiene che l’integrazione dell’Ua offra ora «un quadro favorevole per amplificare l’advocacy a favore del continente».

I temi sul tavolo sono molti e vanno dai cambiamenti climatici, alla crescita demografica, alla riduzione del debito e della povertà endemica del continente, in una parola: solo “sviluppo”, sia economico, sia politico e sociale – senza dimenticare che si dovrà mettere mano al tema endemico della corruzione – e tutto ciò discutendone da pari con i grandi del mondo. Un cambio di paradigma che l’Unione Africana dovrà gestire al meglio perché questa decisone rappresenti una svolta epocale.

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Niger: la diplomazia al lavoro, mentre Niamey tace https://ogzero.org/niger-la-diplomazia-al-lavoro-mentre-niamey-tace/ Sat, 02 Sep 2023 22:17:57 +0000 https://ogzero.org/?p=11535 Niger, un aggiornamento: la diplomazia al lavoro, mentre Niamey tace. Nelle ultime ore si sono accavallate numerose proposte di transizione rivolte al regime di Tchiani,. Un’azione diplomatica che, inoltre, ha il significato di scongiurare un intervento armato nel paese che infiammerebbe tutta l’Africa Occidentale. Di questo ne sono consapevoli sia i leader africani sia i […]

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Niger, un aggiornamento: la diplomazia al lavoro, mentre Niamey tace. Nelle ultime ore si sono accavallate numerose proposte di transizione rivolte al regime di Tchiani,. Un’azione diplomatica che, inoltre, ha il significato di scongiurare un intervento armato nel paese che infiammerebbe tutta l’Africa Occidentale. Di questo ne sono consapevoli sia i leader africani sia i ministri degli Esteri dell’Unione europea che, infatti, invocano prudenza. Ma le proposte di transizione, formulate da Algeria e Nigeria, per ora rimangono lettera morta e quella nigeriana viene bollata dalla Comunità economica degli Stati dell’Africa Occidentale (Ecowas) come una fake news. Ecowas, infatti, ribadisce, che la soluzione è il ripristino dell’ordine costituzionale e la reintegrazione del deposto presidente Mohamed Bazoum, che diventa una figura simbolica, insieme all’ambasciatore francese: due paradigmi del sistema coloniale utili per aizzare contro la percezione di ogni grandeur (e saccheggio) francese. Poi è facile su questa ondata antifrancese trovare le corde giuste per rovesciare  gli amici dei francesi, ma una volta giunti al potere – a parte resistere alla stigmatizzazione internazionale – non ci sono piani per gestirlo al meglio. Si direbbe non sia chiaro in che direzione andare una volta rimossi i fantocci di poteri altri e le mosse per fare gli interessi della popolazione civile non siano state insegnate nelle scuole militari frequentate dai golpisti.


La proposta nigeriana

Il presidente nigeriano Bola Tinubu, che è anche l’attuale presidente dell’Ecowas, giovedì ha citato come esempio la transizione di nove mesi avvenuta nel suo paese nel 1999. «Il presidente non vede alcun motivo per cui ciò non possa accadere di nuovo in Niger, se le autorità militari sono sincere», si legge in un comunicato della presidenza nigeriana. Più che una proposta è un suggerimento e Tinubu l’avrebbe espresso ricevendo presso la State House di Abuja (capitale della Nigeria) una delegazione guidata dal sultano di Sokoto, Muhammad Sa’ad Abubakar III, personalità molto influente anche in Niger. «Il presidente Tinubu ha osservato che la Nigeria, sotto il generale Abdulsalami Abubakar, ha istituito un programma di transizione di nove mesi nel 1998, che si è rivelato un grande successo, portando il paese in una nuova era di governo democratico», si legge nella nota emessa dalla presidenza nigeriana al termine dell’incontro. Un suggerimento, quindi, non una proposta ufficiale da parte dell’Ecowas che comunque ha tenuto a chiarire la sua posizione, definendola una fake news e comunque non una posizione dell’organizzazione sovranazionale africana anche se Tinubu ne è il presidente di turno.

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La proposta algerina

All’inizio della settimana, l’Algeria, un altro influente vicino del Niger, è stata ancora più specifica nell’offrire al regime militare un “piano di transizione di sei mesi” sotto la supervisione di una “autorità civile”. Per il momento, i generali al potere a Niamey non hanno reagito a queste proposte e il loro unico intervento sull’argomento risale al 19 agosto, quando il nuovo uomo forte del paese, il generale Abdourahamane Tchiani, aveva indicato di volere una transizione da tre anni al massimo. Molti giudicano poco credibile, o troppo lungo, questo periodo di transizione e, dopo i colpi di stato in Mali e Burkina Faso, ma anche in Guinea, le transizioni annunciate, per arrivare a nuove elezioni e il ripristino di un governo democraticamente eletto si sono allungate nel tempo, allontanando il ritorno dell’ordine democratico.

Ultimatum e tensioni diplomatiche

Resta, poi, alta la tensione anche tra il regime di Nimaey e la Francia, ex potenza coloniale e partner del Niger soprattutto nella lotta antijihadista e con numerosi interessi economici nel paese. Le autorità hanno revocato l’immunità e il visto diplomatico all’ambasciatore francese e hanno annunciato l’intenzione di espellerlo in una lettera inviata martedì a Parigi. Venerdì scorso avevano inizialmente concesso 48 ore a Sylvain Itté per lasciare il territorio, ultimatum respinto da Parigi che ritiene questo governo illegittimo e quindi non ha l’autorità per fondare una simile richiesta. E la giunta militare sta facendo molta pressione sull’ambasciata, tanto che, secondo testimonianze raccolte sul luogo, le auto in uscita dall’ambasciata francese sono state perquisite sistematicamente dalla polizia. Un altro ultimatum potrebbe scadere nel finesettimana. Le autorità militari hanno minacciato di accompagnare l’ambasciatore in maniera coatta fuori dal paese.

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La piazza si muove

La tensione cresce anche nelle piazze. L’M62, una coalizione della società civile contraria alla presenza militare francese, ha lanciato un appello per un “sit-in popolare” nel centro di Niamey, già a partire da ieri e per tutto il finesettimana, per chiedere la “partenza delle forze francesi”. Un’altra organizzazione della società civile, il Fronte patriottico per la Sovranità del Niger (Fpsn), dal canto suo ha chiesto un “sit in permanente” da oggi “fino alla partenza di tutti i soldati francesi”. La presenza militare francese in Niger, infatti, è massiccia: 1500 militari, oltre a mezzi e intelligence. Senza contare la presenza americana e italiana, che vanno ad aggiungersi al contingente militare che ha come missione il contrasto al jihadismo e alla tratta di essere umani, per fermare le migrazioni verso il Mediterraneo. Da diversi anni il Niger si trova ad affrontare una violenza jihadista mortale che colpisce la parte sudoccidentale del paese, ai confini del Burkina Faso e del Mali – la cosiddetta area dei Tre Confini – e la sua parte sudorientale vicino al bacino del Lago Ciad e al confine con la Nigeria.

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Attività sospese e diplomazia al lavoro

Infine, le autorità hanno annunciato la sospensione delle attività delle Ong, delle organizzazioni internazionali e delle agenzie delle Nazioni Unite nelle aree delle operazioni militari «a causa dell’attuale situazione di sicurezza». Le zone interessate non sono state specificate, ma secondo l’ufficio locale dell’agenzia umanitaria dell’Onu (Ocha), sarebbero prese di mira le località attorno a Banibangou, Sanam, Anzourou e Bankilaré, tutte situate nella regione di Tillabéri (Sud-ovest), a causa la «recrudescenza della presenza e delle attività» dei gruppi jihadisti. Le Nazioni Unite hanno annunciato di voler contattare i militari dopo questa decisione per «comprendere meglio cosa significa e quali sono le conseguenze per l’attività umanitaria».

Insomma permane una situazione di stallo. Ma le diplomazie sono continuamente al lavoro per scongiurare ogni possibile innalzamento della tensione che potrebbe portare a un intervento armato che infiammerebbe tutta l’Africa occidentale, e non solo, e in prima linea su questo fronte diplomatico c’è la nuova ambasciatrice americana a Niamey che, pur non presentando le sue credenziali alla giunta perché Washington non la riconosce, ha presso possesso della rappresentanza diplomatica.

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Terremoto in Turchia: la ricostruzione pianificata dall’alto https://ogzero.org/terremoto-in-turchia-la-ricostruzione-pianificata-dallalto/ Thu, 24 Aug 2023 16:08:58 +0000 https://ogzero.org/?p=11471 Terremoto in Turchia. Questa intervista alla professoressa Pelin Pınar Giritlioğlu, del Dipartimento di Amministrazione Pubblica, Problemi Urbani e Ambientali dell’Università di Istanbul e presidente dell’Unione degli Architetti e degli Ingegneri Turchi di Istanbul, a cura di Luca Onesti e Francesco Pasta, è stata realizzata a sei mesi dal terremoto che a febbraio ha devastato parte […]

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Terremoto in Turchia. Questa intervista alla professoressa Pelin Pınar Giritlioğlu, del Dipartimento di Amministrazione Pubblica, Problemi Urbani e Ambientali dell’Università di Istanbul e presidente dell’Unione degli Architetti e degli Ingegneri Turchi di Istanbul, a cura di Luca Onesti e Francesco Pasta, è stata realizzata a sei mesi dal terremoto che a febbraio ha devastato parte della Turchia meridionale e della Siria per analizzare la tipologia di pianificazione imposta dall’alto, dal punto di vista normativo e con una valenza politica, senza tener conto dei problemi ambientali, sanitari e culturali del territorio colpito.
Poi a sei mesi di distanza, con un’inflazione al 46%, carenze di valuta pregiata, difficoltà nel contesto internazionale che vede la Turchia marginalizzata… il tasso di sconto riconosciuto dalla Banca turca è stato rialzato dal 17,5% (già uno sproposito per una qualunque economia) al 25% in un solo giorno, il 24 agosto 2023. Forse qualche difficoltà per i fondamentali dell’economia turca si palesano da questo provvedimento che cerca di riallineare gli eterodossi provvedimenti finanziari della erdoganomics negli ultimi vent’anni. 


Turchia, a quasi sei mesi dalle due scosse di terremoto che il 6 febbraio hanno colpito una vasta area della Turchia meridionale e della Siria settentrionale, e dopo la tornata elettorale che ha confermato Erdoğan come presidente della Repubblica, si procede ora alla ricostruzione su un’area di faglia che conta 13 milioni di abitanti. Per comprendere meglio le criticità pregresse e quelle che stanno emergendo per quanto riguarda la pianificazione urbana nella gestione del disastro, abbiamo intervistato la Professoressa Pelin Pınar Giritlioğlu, del Dipartimento di Amministrazione Pubblica, Problemi Urbani e Ambientali dell’Università di Istanbul e presidente dell’Unione degli Architetti e degli Ingegneri Turchi di Istanbul. La mancata applicazione, o l’applicazione strumentale, della legislazione implementata in Turchia negli ultimi venticinque anni a seguito di diversi terremoti e l’idea di pianificazione calata dall’alto con la completa disattenzione rispetto alle caratteristiche culturali e ambientali del territorio, sono alcuni dei temi toccati dall’intervista.

Pelin Pınar Giritlioğlu, Dipartimento di Amministrazione Pubblica, Problemi Urbani e Ambientali dell’Università di Istanbul e presidente dell’Unione degli Architetti e degli Ingegneri Turchi di Istanbul

Con la politica dei condoni e la mancata applicazione delle leggi prodotte dopo il terremoto del 1999, abbiamo assistito negli scorsi decenni a quello che lei, in un’intervista a Chiara Cruciati su “Il Manifesto”, ha definito un «patto tra capitale e potere». In che modo sono regolate e ripartite tra governo centrale e autorità locali  le responsabilità riguardo ai terremoti e al rischio sismico, in Turchia?

Poiché siamo un paese ad alto rischio sismico, la responsabilità tra il governo centrale e locale e le organizzazioni non governative è regolata dalla legge. Secondo la normativa turca, e secondo la Costituzione, le autorità locali hanno l’obbligo di adottare tutte le misure contro i rischi che minacciano la vita e i beni dei cittadini. Le autorità locali hanno l’obbligo di predisporre la propria giurisdizione contro i terremoti, in base ai rapporti e ai dati scientifici forniti, e hanno determinati obblighi in materia di ispezioni edilizie, devono cioè verificare se gli edifici sono costruiti in linea con il progetto o meno. Se riscontrano edifici a rischio di crollo, di distruzione o di danneggiamento, devono comunicarlo al Comune metropolitano e agire in collaborazione con esso. I Comuni metropolitani hanno l’obbligo di istituire un consiglio di coordinamento dei disastri, regolato dalla legge. La collaborazione e la preparazione contro i disastri e i terremoti sono organizzate anche a livello delle autorità che in Turchia sono chiamate Muhtar, responsabili di un determinato quartiere su scala minore, l’unità amministrativa più piccola della Turchia. Anche a questo livello sono previsti studi e preparativi.

Si è parlato molto della possibilità di un grande terremoto a Istanbul nei prossimi anni. Nel mese di marzo il sindaco Imamoğlu ha presentato il Piano antisismico per la città. Pensa che si stia andando nella giusta direzione a questo proposito?

Il piano annunciato da Imamoğlu è stato pubblicato come risultato di un workshop scientifico al quale sono state invitate tutte le unità, le organizzazioni e le istituzioni interessate. Le Camere professionali hanno partecipato poi a successivi incontri con il Comune metropolitano in merito a questo piano e alla definizione dei ruoli da svolgere.

La difficoltà principale non riguarda però il piano annunciato, ma la sua applicazione, la sua attuazione nella vita reale.

Prima del terremoto del 6 febbraio, L’AFAD, (L’Autorità per la Gestione dei Disastri e delle Emergenze, omologo della Protezione Civile italiana), aveva già pubblicato alcuni documenti ufficiali che dicevano che ci sarebbero stati dei terremoti a Hatay e Kahramanmaraş. L’annuncio era stato fatto, ma nonostante questi scenari fossero stati già analizzati, non abbiamo visto alcuna reazione o risposta sul campo reale, sul campo fisico, non abbiamo preso alcuna misura concreta. Quindi, in termini di legislazione e di documenti ufficiali, la Turchia è in un certo senso pronta a far fronte ai disastri naturali, ma non è in grado di generare risposte nella vita reale: questo è il problema principale.

Terremoto in Turchia

Antiochia (foto di Luca Onesti)

A proposito di questo divario tra la legislazione e la sua attuazione, abbiamo una domanda sulla Legge n. 6306 sulla trasformazione urbana nelle aree a rischio, che è stata approvata nel 2012, dopo il terremoto di Van, e sembra che sia stata applicata in modo piuttosto strumentale. L’obiettivo era quello di accelerare la ricostruzione delle aree urbane a rischio sismico, ma sembra che sia stata utilizzata soprattutto per altre finalità. Cosa ne pensa? Ritiene che la legge in sé sia valida, ma che l’attuazione sia distorta?

In realtà, la legge n° 6306 non serve al suo scopo principale. È questo il problema della legge. L’espressione “disastri naturali” è citata solo due volte nel testo di legge, che peraltro non fornisce soluzioni essenziali e fondamentali contro i disastri naturali. È solo una “legge sui contraenti” (immobiliari) basata sulla demolizione e ricostruzione delle aree definite “a rischio”.

Definisce solo i metodi per farlo, piuttosto che offrire linee guida sulle precauzioni da adottare. Descrive come ricostruire le aree urbane, ma evita di determinare come organizzare, coordinare e fornire soluzioni sociali e scientifiche al rischio sismico.

In effetti, sembra che a volte il rischio sismico venga utilizzato come giustificazione per determinate politiche di pianificazione e sviluppo urbano. Ora, nelle zone terremotate del Sud-Est, si parla di trasferire intere città. TOKI (L’Amministrazione per l’Edilizia Abitativa di Massa) sta già costruendo questi nuovi quartieri fuori dai centri urbani. E a Istanbul, il Ministero per l’Urbanizzazione ha annunciato di voler creare due nuove città satellite per trasferirvi circa un milione di unità abitative. Pensa quindi che il terremoto e la prevenzione possano essere sfruttati come ulteriore spinta per questo tipo di urbanizzazione di terreni non edificati o rurali e per espandere sempre di più le città, come è già avvenuto sotto il governo dell’AKP?

L’idea delle città satellite non è adatta a Istanbul perché lo scopo delle città satellite è di essere costruite fuori dalle città, non all’interno. Ma nel caso di Istanbul un’area esterna al perimetro metropolitano non esiste, perché la città si estende fino ai centri urbani di Tekirdağ da un lato e Kocaeli dall’altro. Ciò significa che le città satellite saranno costruite al suo interno, come nuovi quartieri,

e dunque che i rimanenti spazi vuoti e le aree di riserva all’interno della città, come le aree agricole o le foreste, fondamentali per l’equilibrio ecologico di Istanbul, saranno aperte all’insediamento.

Come pensa che sarà applicata questa politica nella regione del Sud-Est? Pensa che questa ricostruzione possa essere condotta come è avvenuto a Van dopo il terremoto del 2011, e dunque tradursi in un processo di TOKIzzazione e suburbanizzazione replicato su larga scala da Antiochia (Hatay) a Kahramanmaraş?

L’approccio problematico è che si crede di poter far rivivere le città semplicemente costruendo più case, nuove case. L’edilizia abitativa è fondamentale, ma non è possibile far rinascere una città solo costruendo più unità abitative, perché poi sono necessari spazi educativi, spazi di aggregazione, strutture sanitarie, unità industriali e produttive. Bisogna considerare tutti questi aspetti, e molti altri, per far rinascere la città. Non si può solo costruire più case o nuove case; i cittadini di questi nuovi quartieri esterni dovrebbero continuare a vivere in città, dato che i loro posti di lavoro, le opportunità sociali, rimarranno in ambito urbano. I nuovi progetti sono usati solo come strumento di investimento.

Quello di Van è stato criticato come esempio di una politica di pianificazione e di edilizia abitativa dall’alto verso il basso e non partecipativa. E ora, in queste dieci città del Sud-Est è stato dichiarato lo stato di emergenza (OHAL). Come pensa che questo avrà un impatto sulla ricostruzione, dal punto di vista della soddisfazione dei bisogni della gente e delle loro esigenze?

Lo stato di emergenza è stato usato come un facilitatore e uno strumento per il governo per accelerare il processo e l’attività di costruzione. Si è trattato di un’opportunità tale da indurre il presidente a emanare il decreto presidenziale n. 26, subito convertito in legge, che ha tracciato la strada per avviare i progetti di costruzione senza rispettare alcun principio costruttivo o di pianificazione, senza seguire approcci scientifici, dati, opinioni. Questo modo di procedere ci dimostra che, dopo i tanti terremoti che sono seguiti a quello del 1999, il governo non ha tratto alcun insegnamento e ha insistito nel seguire la stessa strategia. Pertanto, i nuovi progetti che verranno attuati, non dovendo rispettare o seguire nessuno dei principi di pianificazione, porteranno ancora una volta a edifici e città fragili, con un certo rischio di fronte alle catastrofi naturali.

Volevamo chiederle un parere sulla questione della gestione dei detriti post-sisma, per la quale ci sono state anche delle proteste nella provincia di Hatay. La rapida demolizione e lo stoccaggio senza precauzioni di questa enorme quantità di macerie sta infatti causando preoccupazione per la presenza di amianto e altri materiali pericolosi per la salute e la natura. Cosa pensa di quanto sta accadendo e come si potrebbe operare diversamente?

Attualmente esiste un importante problema di salute pubblica in questo campo.

Terremoto in Turchia

Antiochia (foto di Luca Onesti)

È un problema talmente cruciale che potrebbe estendersi a tutte le aree colpite dal terremoto e non solo. Naturalmente esiste un metodo scientifico su come effettuare queste attività di demolizione e tutti gli scienziati hanno denunciato il rischio di iniziare queste attività senza precauzioni, perché l’amianto è una sostanza le cui proprietà cancerogene sono state dimostrate. Prima di queste attività avrebbero dovuto evacuare le zone interessate, ma hanno iniziato subito le demolizioni. Oltre al problema della salute pubblica, c’è anche un problema economico e di proprietà, perché le macerie dell’area vengono attualmente sgomberate e rimosse da alcune aziende private e poi gettate in siti, siano essi pubblici o privati, che hanno un valore economico e vengono compromessi o fortemente danneggiati.

E ancora, gettando i rifiuti nei laghi e nei siti naturali, si crea anche un grande problema ambientale.

Un’altra domanda su Antiochia, Hatay, una città che nella storia antica è già stata distrutta da un terremoto e ricostruita. Come si può rispettare e continuare a far vivere il suo ricco patrimonio architettonico e culturale? La ricostruzione urbana potrebbe mettere in pericolo le caratteristiche particolari di questa città, conosciuta per essere un mosaico di diversità e un esempio di tolleranza e coesistenza? Secondo lei, qual è la logica della dichiarazione, dopo due mesi dal sisma, di “zona a rischio sismico” (secondo la Legge n. 6306) per il centro storico?

Qui si sovrappongono due aspetti problematici. Per prima cosa, questa zona è un’importante area di civilizzazione. Allo stesso tempo, essa è un insediamento della linea di faglia in cui vivono tredici milioni di persone. Quindi, in linea di principio, bisogna proteggere il modello culturale, la struttura sociale e la civiltà stabilita in quell’area e allo stesso tempo bisogna garantire che tredici milioni di persone vivano in sicurezza. Dopo la Seconda guerra mondiale, per alcune città europee che erano state distrutte (per esempio, Dresda) si è seguito il modello per cui il tessuto sociale e culturale della città doveva essere preservato, ma andavano comunque ricostruite. Una tabella di marcia corretta dovrebbe seguire questi due principi:

in primo luogo la sicurezza dovrebbe essere garantita, in secondo luogo il tessuto culturale dovrebbe essere protetto.

Dopo il terremoto, in Turchia, il Ministero ha invece immediatamente annunciato un progetto standardizzato, che potrebbe essere posto in essere dovunque ed è completamente irrilevante per l’identità sociale, culturale e autentica della provincia di Hatay e della città di Antiochia. La ricostruzione in realtà dovrebbe anche tenere conto delle relazioni sociali e tradizionali, del metodo e dei sistemi di produzione, della geografia e del clima. Si dovrebbero prendere in considerazione tutti questi fattori, ma quello che succede spesso è che questi vengono trascurati completamente, generando lo stesso progetto che viene applicato in qualsiasi luogo.


In febbraio avevamo sentito Murat Cinar, giornalista di origine anatolica impegnato anche nel sistema di aiuti alle genti terremotate; la sua conoscenza della società e del territorio – ma anche della propaganda e retorica del presidente turco – appare a distanza di 6 mesi, e dopo le elezioni che hanno visto ancora una volta prevalere la narrazione populista di Erdogan, di una lucidità e premonizione confermate dalla manipolazione delle coscienze e dal patto del presidente con lo zoccolo duro della società turca patriarcale, nazionalista, militarista e tradizionalista (compresa una larga fetta della comunità curda connivente con il persecutore dei curdi).

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Il Sahelistan dall’Atlantico al Mar Rosso https://ogzero.org/il-sahelistan-dallatlantico-al-mar-rosso/ Mon, 21 Aug 2023 20:51:37 +0000 https://ogzero.org/?p=11453 La rapida fuga dei francesi cacciati dalla Françafrique, con i doverosi distinguo, richiama alla mente – soprattutto per la rapidità del dissolvimento di un potere coloniale – la precipitosa fuga americana da Kabul. La regione immediatamente subsahariana – che molto è intrecciata con i movimenti irredentisti del Maghreb, esplosi con la crisi libica (scatenata da […]

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La rapida fuga dei francesi cacciati dalla Françafrique, con i doverosi distinguo, richiama alla mente – soprattutto per la rapidità del dissolvimento di un potere coloniale – la precipitosa fuga americana da Kabul. La regione immediatamente subsahariana – che molto è intrecciata con i movimenti irredentisti del Maghreb, esplosi con la crisi libica (scatenata da Sarkozy) che furono alleati del jihad che imperversa nel territorio su cui sono segnati i confini tra Mali, Burkina e Niger – ha assistito alla penetrazione di nuove potenze (in particolare Russia con la presenza di Wagner e Cina che ha aperto una sede per manutenzione di veicoli della Norinco a Dakar – pronta a difendere i vasti interessi di Pechino nei tre paesi dei golpe, ma operativa anche in Senegal, Costa d’Avorio –, ma anche Turchia e paesi della penisola araba), che hanno sfruttato dispute interne, sentimenti antifrancesi, insorgere del jihad per piegare a loro favore lo sfruttamento delle risorse del territorio e la collocazione strategica di cerniera tra Africa centrale (e Corno d’Africa) e Mediterraneo da sud a nord; tra l’Oceano e l’importantissimo corridoio del Mar Rosso sul classico asse ovest/est. L’incendio si va estendendo ormai da quel Triangolo di paesi attualmente retti da giunte militari golpiste fino a legarsi al sanguinoso conflitto sudanese ormai impossibile da comporre (che sta causando nuovi esodi di massa, coinvolgendo in questo modo altri paesi in sofferenza, perché non più in grado di accogliere profughi, creando così nuovi motivi di tensione nell’area dopo quelli che hanno scosso l’Etiopia negli ultimi due anni).
A chi serve creare un’area a forte instabilità sul modello afgano di dimensioni così enormi? è tutto parte di un disegno globale di ridimensionamento del predominio dell’Occidente, oppure è un percorso senza alternative di decolonizzazione, che fa della Realpolitik l’accettazione di potenze alternative, pur di disfarsi del giogo classicamente coloniale? le reazioni interventiste dei paesi limitrofi sono ispirate dalla paura dell’epidemia; oppure dagli sponsor europei, come il solito Eliseo (Adamu Garba, esponente dell’Apc ha accusato Usa e Francia di aver voluto mandare avanti l’Ecowas per innescare una guerra regionale e recuperare posizioni “coloniali”, sfruttando l’instabilità e l’ennesima guerra per procura che finirebbe con il distruggere l’Africa occidentale)
?  Oppure nascono dalla consapevolezza che la regione è stata integralmente posta in un caos per cui nulla sarà più come prima? Sicuramente si sta spostando in campo africano lo scontro anche militare che contrappone gli interessi dei Brics allargati all’egemonia occidentale.
Angelo Ferrari ha cercato di fare il punto mettendo in relazione tutti gli elementi in campo per dipanare l’ingarbugliata matassa.


Il golpe nigerino sblocca definitivamente il modello afgano per l’intero Sahel?

A ovest del lago Ciad

Rulli di tamburi…

Tutti i riflettori della diplomazia internazionale sono puntati sul Niger, dopo il colpo di stato del 26 luglio. Mentre ciò accade il Sahel rischia di piombare in un caos senza precedenti che potrebbe coinvolgere tutta l’Africa occidentale e non solo: l’intera  striscia saheliana è attraversata da tensioni che vanno dal sentimento antifrancese e antioccidentale, che sta montando un po’ ovunque, a una crisi politica, umanitaria e di sicurezza senza precedenti. La decisione della Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale (Ecowas) di intervenire militarmente in Niger sta esacerbando ulteriormente le opinioni pubbliche di diversi stati della regione; non più, dunque, una minaccia, ma un piano militare messo a punto dopo due giorni di vertice ad Accra, capitale del Ghana. Non si conoscono i dettagli dell’operazione, si sa solo che dovrebbe essere “lampo” perché nel Sahel c’è stato “un colpo di stato militare di troppo”, a detta dei generali riuniti ad Accra. Intervento armato, tuttavia, che non avrebbe alcuna legittimità internazionale: l’Unione africana infatti ha già detto il suo no e le Nazioni Unite non hanno nessuna intenzione di autorizzarlo.

… timide mosse diplomatiche…

Mentre si parla di piani militari, la diplomazia è ancora al lavoro. Una delegazione dell’Ecowas è arrivata a Niamey dove ha potuto incontrare il presidente destituito, Mohamed Bazoum; non solo, a Niamey è arrivata anche la nuova ambasciatrice degli Stati Uniti, Kathleen FitzGibbon, anche se non presenterà le credenziali alla giunta militare – perché Washington non la riconosce – esprimendo tuttavia l’intenzione americana di perseguire la via diplomatica e «per sostenere gli sforzi che aiutino a risolvere la crisi politica in questo momento». Un segno, dunque, che la giunta militare non respinge del tutto il dialogo.
tanto che in un discorso alla televisione pubblica nigerina, Télé Sahel, il generale Abdourahamane Tchiani, a capo della giunta militare, ha annunciato l’istituzione di un «dialogo nazionale inclusivo» entro 30 giorni e ha annunciato una transizione che «non può durare oltre i tre anni». L’obiettivo è formulare «proposte concrete per porre le basi di una nuova vita costituzionale».
Un mantra, quest’ultimo, che ha precedenti in Mali, Burkina Faso e Guinea, paesi che sono stati teatro di colpi di stato negli ultimi due anni e dove le transizioni si prolungano senza che vengano convocate elezioni per un ritorno dei civili al governo di questi paesi. Il generale Tchiani, tuttavia, non accetta la minaccia dell’Ecowas di un intervento militare e rilancia: «L’Ecowas si prepara ad attaccare il Niger allestendo un esercito di occupazione in collaborazione con un esercito straniero», ha detto Tchiani senza citare il paese “straniero”, ma in molti pensano alla Francia.

… esibizione di muscoli

«Né il Consiglio Nazionale per la Salvaguardia della Patria né il popolo del Niger vogliono la guerra, ma se dovesse essere intrapresa un’aggressione, non sarà la svolta in cui alcuni credono» e ha ammonito: «Le forze di difesa del Niger non si tireranno indietro», sostenute da Burkina Faso, Mali e Guinea, ha detto. «La nostra ambizione non è quella di confiscare il potere», ha anche promesso.

A est del lago Ciad

Il conflitto tra al-Burhan e Hemedti si estende a tutti i Signori della guerra

Mentre ciò accade nell’estremo ovest della striscia saheliana, il Sudan è entrato nel quinto mese di guerra senza che si intraveda all’orizzonte una soluzione. Anzi, sembra proprio che i contendenti vogliano arrivare alle estreme conseguenze. Intanto il conflitto si è esteso, impantanato, aggravato provocando un dramma umanitario che nemmeno l’Onu è in grado di affrontare. La guerra contrappone l’esercito regolare del generale al-Burhan alle Forze di supporto rapido (Fsr) dei paramilitari guidati dal generale Hemedti. Il conflitto ha causato più di quattromila morti, anche se la cifra delle vittime è sottostimata, e milioni tra profughi e sfollati interni. Quando la guerra è scoppiata, il 15 aprile 2023, il generale al-Burhan ha detto che sarebbe finita in due settimane, mentre Hemedti prometteva la vittoria. Oggi nessuna delle due parti sembra prendere un vantaggio decisivo. I militari dominano ancora lo spazio aereo, mentre soffrono la debolezza della loro fanteria, un compito, ironia della sorte, che avevano affidato proprio alle Fsr. L’esercito ha subito battute d’arresto nel Sud Kordofan, nel Nilo Azzurro e nel Darfur, le Forze di supporto rapido sembrano avere nelle mani la maggior parte del territorio di Khartoum, la capitale.
Il conflitto dunque, anziché attenuarsi, si intensifica è sta coinvolgendo altri movimenti armati che partecipano ai combattimenti. Insomma, questo conflitto, iniziato tra due generali, rischia di trasformarsi in una vera e propria guerra civile, secondo l’Onu, volgendo verso una situazione di anarchia totale. I negoziati, inoltre, non sono mai decollati e sono in una fase di stallo e i cessate il fuoco non sono mai durati.

S’intrecciano le crisi umanitarie regionali

Profughi e sfollati, di nuovo sulle sponde del Nilo

Sul versante umanitario le cifre sono da capogiro con oltre 3 milioni di sfollati e quasi 1 milione di rifugiati. Inoltre, entro settembre si prevede che il 40% della popolazione soffrirà di insicurezza alimentare. Le organizzazioni umanitarie stanno affrontando una situazione a dir poco scoraggiante con una mancanza allarmante di fondi, all’appello mancano due miliardi di dollari per far fronte alla crisi. Le donne sono particolarmente colpite, sono vittime di violenze e stupri perpetrati dai combattenti e private di un’adeguata assistenza psicologica e medica, hanno spiegato i portavoce delle agenzie umanitarie durante una riunione a Ginevra. Le agenzie possono aiutare circa 19 milioni di persone in Sudan e nei paesi limitrofi, tuttavia gli interventi sono finanziati solo al 27%. Le Nazioni Unite hanno lanciato due appelli, uno per finanziare gli aiuti all’interno del paese per un totale di 2,57 miliardi di dollari e l’altro per i rifugiati fuggiti dal Sudan per un importo di 566,4 milioni di dollari. Ma dopo la crisi innescata dal colpo di stato in Niger, del Sudan sembra si siano dimenticati tutti e ciò rischia di aggiungere catastrofe a catastrofe.

Profughi e sfollati, di nuovo sulle sponde del Niger

Le conseguenze di un intervento militare dell’Ecowas a Niamey sarebbero devastanti sia sul piano umanitario sia sul piano della sicurezza dell’intera regione. Già si vedono spostamenti di persone sul fiume Niger nella parte che confina con il Benin, considerato, ancora, uno stato sicuro. Nel paese la crisi umanitaria si sta già manifestando. Le frontiere chiuse impediscono il passaggio di merci necessarie alla sopravvivenza della popolazione, così come l’elettricità scarseggia in più parti del paese per via delle interruzioni delle forniture che arrivano dall’estero. Una guerra, per quanto lampo sia, aggraverebbe ulteriormente la situazione umanitaria.

A Ovest (speriamo) niente di nuovo

Una guerra, che potrebbe estendersi a buona parte del Sahel – Mali e Burkina Faso hanno già assicurato il loro appoggio al Niger – avrebbe ripercussioni preoccupanti sul fronte della lotta al terrorismo e ai gruppi jihadisti che imperversano nell’area, in particolare nella regione dei tre confini – Niger (Tilaberi), Mali (Tessit) e Burkina Faso (Tamba), dove storicamente la pastorizia nomade si scontra con coltivatori stanziali – ma anche sulla capacità dei paesi del Golfo di Guinea, già colpiti dal terrorismo a nord dei loro confini – Costa d’Avorio, Benin e Togo – di farvi fronte. Una situazione, dunque, esplosiva.

Recrudescenza jihadista dopo Barkhane

Dal colpo di stato in Niger di fine luglio, infatti, sono stati registrati nove attacchi jihadisti. Una tendenza che preoccupa gli osservatori. Con la recrudescenza degli attacchi islamisti, il timore è di “un rapido deterioramento della situazione”, in primo luogo perché Parigi ha sospeso la sua cooperazione militare con il Niger. L’esercito nazionale quindi non beneficia più dell’appoggio dell’esercito francese. Non ci sono più operazioni congiunte, aerei e droni non danno più supporto e i terroristi approfittano del vuoto. Poi, le minacce di intervento armato dell’Ecowas hanno portato a una riduzione del sistema militare occidentale, che hanno sospeso le loro attività ai confini. Ciò potrebbe portare un calo della reattività dell’esercito nigerino e i gruppi jihadisti potrebbero approfittarne riconquistando la loro libertà di manovra con un radicamento dello Stato Islamico proprio nell’area dei tre confini. Le preoccupazioni vanno ancora oltre, con la possibile creazione di zone grigie, in parte controllate da gruppi armati, in Mali, Burkina, Niger, persino Sudan, che potrebbero destabilizzare il vicino Ciad. Il Ciad, pur non essendo membro dell’Ecowas, condivide con il Niger 1200 chilometri di confine e dispone, oltre ad avere solidi rapporti con la Francia, di un esercito tra i più potenti dell’area. Quindi il Niger ha necessità di assicurarsi rapporti di buon vicinato – il primo ministro nigerino, nominato dalla giunta militare, ha fatto visita al presidente ciadiano Mahamat Idriss Deby – anche se N’Djamena è alle prese con una crisi interna di legittimità del potere e con l’emergenza profughi che arrivano a decine di migliaia dal Sudan.

A rischio sconfinamenti i paesi del Golfo

Si teme, inoltre, che i gruppi jihadisti possano contagiare anche i paesi del Golfo di Guinea. Questa è la maggior preoccupazione della Costa d’Avorio che è già alle prese con sconfinamenti dal Burkina Faso e con centinaia di profughi burkinabé che cercano rifugio nel nord del Paese. Ciò, inoltre, potrebbe spiegare la ferma posizione del presidente ivoriano, Alassane Ouattara, che si è schierato con decisione per un intervento militare in Niger, dicendosi disponibile a fornire un battaglione del suo esercito al contingente dell’Ecowas. Occorre ricordare che Ouattara è uno dei pochi “fedeli” alla Francia rimasti nella regione. E il presidente ivoriano è preoccupato che anche nel suo paese possa montare un sentimento antifrancese alimentato, soprattutto, dal suo rivale di sempre l’ex presidente Laurent Gbagbo, 78 anni, che non nasconde le sue velleità di tornare alla presidenza della Costa d’Avorio, nel 2025, con il suo nuovo Partito dei popoli africani-Costa d’Avorio (Ppa-Ci), di ispirazione e orientamento socialista e panafricanista, nemmeno troppo velatamente antifrancese.

Scosso anche il gigante Senegal da sommovimenti interni

Non meno turbolenta appare la situazione nell’estremo ovest della striscia saheliana, in un Senegal che vive un periodo di forte crisi politica e di legittimità democratica, soprattutto dopo l’arresto dell’oppositore Ousmane Sonko, uno dei leader politici più amati dai giovani senegalesi. Arresto che ha provocato manifestazioni di piazza violente, che hanno lasciato sulle strade numerosi feriti ma anche morti. In conseguenza di queste proteste il ministro dell’interno senegalese, Antoine Diome, ha annunciato lo scioglimento proprio del partito di Sonko, il Pastef – Les patriotes. Il leader dei “giovani senegalesi” è stato condannato per diffamazione e per corruzione giovanile. Secondo le opposizioni queste condanne non hanno altro significato che escludere Sonko, che gode di un buon seguito, dalle elezioni presidenziali del 2024. Il Senegal è un altro paese in forte ebollizione e non è bastata la decisone di Macky Sall, attuale presidente, di non candidarsi per un terzo mandato alle presidenziali a inizio luglio per stemperare la tensione nel paese. In punta di diritto potrebbe farlo, anche se la Costituzione prevede solo due mandati, ma è stata riformata, con una rimodulazione della lunghezza del mandato, proprio sotto la presidenza Sall. Le opposizioni, infatti, si rammaricano del fatto che il presidente Sall e il suo governo rimangano sordi alle richieste di allentamento, pacificazione e fine delle restrizioni agli spazi di libertà. I mesi, dunque, che separano il Senegal alle presidenziali del febbraio 2024 saranno particolarmente difficili. Non è un caso, inoltre, che le opposizioni senegalesi si siano schierate contro l’intervento militare dell’Ecowas in Niger.
Sono molte le ragioni che dovrebbero dissuadere dal mettere in atto lo scenario peggiore per il Sahel e per l’intera Africa occidentale. Un conflitto armato su vasta scala potrebbe scatenare reazioni non proprio prevedibili e trasformare il Sahel in un “Sahelistan” di afgana memoria.

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L’ancora irrisolto colpo di stato in Niger https://ogzero.org/lancora-irrisolto-colpo-di-stato-in-niger/ Sun, 30 Jul 2023 22:51:19 +0000 https://ogzero.org/?p=11387 Intanto i differenti militari hanno sollevato il presidente, il potere però sembra sia gestito da svariati uomini forti a cominciare dal capo della Guardia presidenziale Tchiani e ora sembrano essere in attesa di capire in che modo schierarsi nelle relazioni internazionali; come se fossero sulla piazza, al miglior offerente… ma probabilmente divisi tra diverse forze […]

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Intanto i differenti militari hanno sollevato il presidente, il potere però sembra sia gestito da svariati uomini forti a cominciare dal capo della Guardia presidenziale Tchiani e ora sembrano essere in attesa di capire in che modo schierarsi nelle relazioni internazionali; come se fossero sulla piazza, al miglior offerente… ma probabilmente divisi tra diverse forze armate e le differenti “scuole d’armi” frequentate. Forse Bazoum aveva dato l’impressione di non voler mettere in discussione minimamente lo schieramento con la parte dell’Occidente e quindi il rischio per chi intendeva omogeneizzare le scelte antiatlantiste del resto del Sahel era quello di essere esautorati dagli incarichi autorevoli che ricoprivano. Forse ha prevalso l’idea che nel gran rivolgimento dell’intero continente risultasse perdente per la nazione non operare alcun cambiamento. Forse il timore che si mancasse anche stavolta la partecipazione all’ondata di rigetto antifrancese (molto popolare presso i giovani potrebbe aver spinto alla rimozione dell’ostacolo presidenziale… di certo l’incertezza sulla affidabilità e collocazione di uno stato chiave, l’ultimo nel Sahel ancora sotto l’egida di una Francia affamata di uranio, produce fibrillazioni in seno all’intera comunità internazionale, motivo per cui – al contrario del solito – abbiamo pensato fosse il caso di occuparsene quando ancora non si è depositato il polverone di ipotesi suscitate dal golpe. … Intanto Parigi ha dichiarato che – rispetto agli altri paesi sahelini (che non sono cassaforte di uranio) – da Niamey sarà più difficile cacciarli, però il governo golpista ha sospeso le forniture di oro e uranio alla Francia. E comunque sul territorio c’è il più grosso contingente americano in Africa e gli addestratori italiani (più di 300 giovani e forti, 13 mezzi terrestri e 5 aerei, inquadrati nella Misin che opera agli ordini del Comando operativo di vertice interforze (Covi), guidato dal generale di Corpo d’armata Francesco Paolo Figliuolo, sempre lui). Il blocco dell’Africa occidentale riunito a Abuja (Cedeao), ha dichiarato la sospensione delle relazioni con il Niger autorizzando l’uso della forza se il presidente non verrà reintegrato entro una settimana: l’emissario del messaggio è il non-allineato Déby (in carica dinasticamente per volontà dell’Eliseo), un pessimo segnale in una fase di rivolgimento totale, che la paura dell’epidemia si diffonda in tutta l’Africa occidentale, mettendo le premesse perché divampi una guerra estesa, concede pericolosi spazi per una nuova guerra per procura in terra africana.
Angelo Ferrari affronta l’evento cercando di districarsi tra le notizie ancora contraddittorie, analizzandole per capire almeno le intenzioni di ciascun protagonista, in primis i generali nigerini, ma poi anche le diplomazie mondiali e la manipolazione mediatica delle piazze locali, lasciando solo trapelare il malcontento giovanile
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Sbalorditivi risultati dopo il vertice di San Pietroburgo?

Una vicenda ancora dai contorni pochi chiari – non potevano mancare le affermazioni del capo dei mercenari della Wagner che ha applaudito alla presa di potere dei militari. Parole piene di retorica anticoloniale:

«Quello che è successo in Niger non è altro che la lotta del popolo nigerino contro i colonizzatori che stanno cercando di imporre loro le loro regole di vita”, ha detto Evgenij Prigožin in un messaggio a lui attribuito.

Parole che fanno intendere che la Wagner, qualora i golpisti lo volessero, è pronta a entrare nello scenario nigerino con un ruolo di primo piano. Non ci sono, per ora, segnali che dietro il golpe ci siano gli uomini della Wagner. Se fosse così sarebbe un doppio schiaffo per l’occidente che, è bene dirlo, si è fatto sorprendere proprio nell’ultima roccaforte della lotta antijihadista dopo l’uscita di scena dal Mali e dal Burkina Faso. Le domande sono molte.

 

La prima: come è stato possibile che nessuna cancelleria occidentale avesse avuto un sentore di ciò che sarebbe potuto accadere?

Non c’è una risposta e se c’è nessuno la vuole dare, forse perché sarebbe troppo imbarazzante. Sta di fatto che in Niger sono presenti migliaia di militari stranieri: 1500 francesi, più di mille americani e oltre trecento italiani, oltre ai mezzi militari, molti di questi di stanza a Niamey, la capitale. Di certo, nei prossimi giorni si chiariranno molte cose. Secondo i francesi il colpo di stato “non è definitivo”. Il presidente Emmanuel Macron ha parlato in più occasioni con il suo omologo destituito, Mohamed Bazoum. Forse da queste telefonate deduce che ci sia ancora uno spiraglio di trattativa tra il capo di stato democraticamente eletto e i golpisti che, intanto, hanno messo a guida del paese il capo della guardia presidenziale, il generale Abdourahamane Tchiani, in qualità di “presidente del Consiglio nazionale per la salvaguardia della patria”, la giunta che ha rovesciato il presidente eletto. Il capo della guardia presidenziale, il generale Tchiani, nuovo uomo forte del Niger, ha giustificato il golpe con “il deterioramento della situazione della sicurezza” nel paese minato dalla violenza dei gruppi jihadisti. Il presidente Bazoum, a detta sua, voleva far credere che “va tutto bene”, mentre c’è

«la dura realtà con la sua quota di morti, sfollati, umiliazioni e frustrazioni». Secondo Tchiani «l’attuale approccio di sicurezza non ha permesso di mettere in sicurezza il paese nonostante i pesanti sacrifici compiuti dai nigerini e l’apprezzabile e apprezzato supporto dei nostri partner esterni».

Rassicurazioni da militare

A ogni insorgenza si sentono sempre queste parole. Sono una consuetudine vissuta anche in altri scenari del Sahel: il Mali e il Burkina Faso, paesi governati da giunte militari frutto di 4 colpi di stato. Tutte le giunte militari, inoltre, si affrettano a sostenere che gli impegni presi dal paese non cambieranno e verranno rispettati. Un tentativo di rassicurare gli alleati, ed è capitato anche in Niger, per poi fare retromarce clamorose. In Mali – la nuova Costituzione stabilisce che il francese non è più la lingua ufficiale – come in Burkina Faso, hanno “cacciato” la Francia per mettersi totalmente nelle mani della Russia, affidandosi alla Compagnia Wagner per la lotta ai gruppi jihadisti che imperversano nel Sahel. Hanno preoccupato le manifestazioni, a Niamey, a sostegno dei golpisti, con la gente che sventolava le bandiere russe, per altro subito disperse dalla giunta miliare. I timori, dunque, delle cancellerie occidentali sono più che fondati. E la “guerra economica e diplomatica” tra Ovest ed Est del mondo sembra proprio essersi trasferita in Africa. I segnali ci sono tutti.

Il Sahel ha sancito la fine di un’epoca?

Dopo il Mali e il Burkina Faso, dunque, anche il Niger è caduto sotto il controllo di un regime militare che potrebbe sconvolgere la lotta contro i gruppi armati jihadisti nel Sahel. Di fronte all’avanzata dei terroristi, le giunte militari hanno preso il sopravvento su democrazie ritenute inefficienti e corrotte da parte delle popolazioni saheliane. I militari che hanno, infatti, preso il potere in Niger hanno già annunciato un nuovo orientamento strategico.

«L’attuale approccio non ha permesso di mettere in sicurezza il Paese nonostante i pesanti sacrifici compiuti dai nigerini», ha detto il generale Tchiani.

Il Niger e il suo presidente, eletto democraticamente, erano i principali alleati dei paesi occidentali nel Sahel travolto dalla violenza jihadista e da un’ondata di autoritarismo venato di sovranità russofila. Bamako si è rivolto ai mercenari della Wagner per far fronte ai gruppi jihadisti, provocando la partenza delle truppe francesi nel 2022. Le autorità di Ouagadougou, capitale del Burkina Faso, hanno optato per la mobilitazione di cittadini armati e hanno chiesto il ritiro delle forze speciali francesi nel paese, non senza l’appoggio della Wagner. Il presidente nigerino, invece, aveva scelto di mantenere sul suo territorio la presenza di soldati francesi, americani e italiani, temendo di essere coinvolto nel divorzio tra l’occidente e le giunte saheliane.
Queste giunte «tendono naturalmente ad addossare la responsabilità del deterioramento della sicurezza agli alleati dei regimi che hanno rovesciato. Questi colpi di stato sono sostenuti da una parte della popolazione che ha già mostrato un atteggiamento ostile nei confronti dei francesi o degli occidentali presenti nel Sahel», spiega Ibrahim Yahaya Ibrahim, ricercatore dell’International Crisis Group.
Fin dal suo primo intervento, il generale Tchiani ha preferito rivolgersi ai suoi omologhi saheliani, interrogandosi «sul senso e sulla portata di un approccio securitario alla lotta al terrorismo che escluda ogni reale collaborazione con Burkina Faso e Mali» nell’area nota come i tre confini.

L’auspicata cooperazione tra sahelini… ma antifrancese

A causa delle tensioni diplomatiche, i militari nigerini e francesi non hanno potuto operare liberamente contro le basi dello Stato Islamico dall’altra parte del confine con il Mali, dove l’organizzazione compie attacchi sul territorio nigerino. Questa crisi non potrebbe essere risolta senza la cooperazione con il Mali, secondo il generale Tchiani. Insomma, è facile prevedere che vi sia un “miglioramento” delle relazioni e una maggiore cooperazione tra i paesi vicini.
Dal lato dei partner occidentali le prospettive sono più fosche: l’Unione europea ha annunciato la sospensione di tutti gli aiuti di bilancio e le azioni di cooperazione nel campo della sicurezza. Le sanzioni internazionali potrebbero colpire il regime come nel vicino Mali. Una possibile partenza delle forze francesi, americane e italiane lascerebbe un vuoto in una regione particolarmente travagliata, secondo gli analisti.
Il Niger confina con il caos libico, la Nigeria con Boko Haram e Iswap, il nord del Benin molto colpito dal jihadismo e ovviamente Mali e Burkina Faso.

Niamey era un polo di stabilità nonostante i problemi di sicurezza sul territorio.

Il Niger sta vivendo un afflusso di rifugiati dal Mali e dalla Nigeria in preda alla violenza, stimato in 255.000 nel 2022 dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Unchr). Bazoum incarnava un modello di cooperazione in materia di sicurezza per le democrazie occidentali e i loro donatori. Il mantra del presidente nigerino era la “stabilizzazione” delle comunità prese di mira dal reclutamento jihadista e la reintegrazione dei loro combattenti, soprattutto i giovani. Il governo di Niamey stava attuando programmi in gran parte finanziati da partner internazionali, il cui futuro è ora sospeso. Contrariamente al potere civile che ha accettato di dialogare con alcuni leader di gruppi armati, il generale Tchiani ha denunciato nel suo discorso di “insediamento” la “liberazione extragiudiziale” di “capi terroristi” da parte del regime di Mohamed Bazoum. In Mali e Burkina Faso i militari al potere hanno optato per una strategia ultraoffensiva contro i gruppi jihadisti, viziata da accuse di abusi ricorrenti contro la popolazione. E a pagarne il maggior peso sono i civili.

Recrudescenza jihadista

Una strategia che contribuisce alla destabilizzazione e può alimentare tensioni intercomunitarie e intracomunitarie. Un approccio, inoltre, che non ha avuto l’esito sperato. Gli attacchi jihadisti in questa regione, ma anche nell’Africa occidentale, si sono moltiplicati. Solo nei primi sei mesi del 2023 si sono registrati più di 1800 attacchi di matrice terroristica, nei quali hanno perso la vita quasi 4600 persone e che hanno avuto conseguenze umanitarie disastrose. A riferirlo è Omar Touray, presidente della Commissione della Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale (Ecowas) intervenendo al Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite. Delle circa 4600 persone uccise in questi attacchi terroristici tra gennaio e la fine di giugno, 2725 morti sono avvenute in Burkina Faso, 844 in Mali, 77 in Niger e 70 in Nigeria. Touray ha citato anche il Benin e il Togo, due paesi della subregione storicamente risparmiati dagli attacchi terroristici ma che oggi vivono, invece, grandi preoccupazioni per la sicurezza. Questi paesi sono stati presi di mira, di recente, da una serie di attacchi, che Touray ha descritto come

«un’indicazione lampante della diffusione del terrorismo negli stati» del Golfo di Guinea, «una situazione che rappresenta un’ulteriore minaccia per la regione».

Touray ha detto anche che l’insicurezza continua a infliggere dolore e sofferenza a milioni di persone, con conseguenze di vasta portata: questi attacchi terroristici hanno provocato lo sfollamento di mezzo milione di rifugiati e quasi 6,2 milioni di sfollati interni. La Costa d’Avorio, solo per fare un esempio, ha già predisposto campi per l’accoglienza dei profughi provenienti dal Burkina Faso. Il numero di persone con necessità di sicurezza e assistenza, poi, salirà a 42 milioni «se non ci sarà un’adeguata risposta internazionale ai 30 milioni di persone attualmente bisognose di cibo».


I francesi e l’Occidente non si possono permettere di perdere il Niger: passa dalla soluzione di questa crisi il definitivo declino dell’Occidente, oppure la contrapposizione allo scacco del blocco antiatlantico… l’incrocio tra Sahel e l’area centrafricana è uno snodo essenziale, ben più critico del corridoio polacco verso Kaliningrad. E forse per evitare il contagio può essere un’interpretazione valida quella avanzata da Angelo Ferrari e Marco Trovato in un visdeo di “AfricaRivista”riguardo al successivo “golpe” con caratteristiche del tutto differenti che ha colpito il Gabon, stato quasi monarchico che la repubblica francese ha dato in affido alla famiglia Bongo da 57 anni e che avrebbe rischiato maggiormente se le sommosse per il malcontento nei confronti della cleptocrazia non fossero venute dalla guardia presidenziale, ma dai cittadini ridotti in miseria dal sistema neocoloniale – e c’erano tutti i prodromi di una reazione violenta ai brogli delle elezioni tenutesi senza internet funzionante e in stato di emergenza, senza osservatori. Invece Brice Clotaire Oligui Nguema, nuovo uomo forte – senza bandiere russe o stemmi con il teschio della fantasmatica Wagner – ha assegnato ad Ali Bongo Ondimba quella retraite per la difesa della quale i cittadini francesi sono scesi nelle piazze per mesi. Ma qui non siamo in Sahel, non si è ancora affacciato il pericolo jihadista, la Francia non si può permettere di perdere un alleato così fedele.

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Il sovranismo è l’altro colonialismo. Raisi l’Africano https://ogzero.org/il-sovranismo-e-laltro-colonialismo-raisi-lafricano/ Fri, 21 Jul 2023 09:49:29 +0000 https://ogzero.org/?p=11316 Razzisti e colonialisti di radice fascista e reazionaria di ogni latitudine stanno annusando l’aria di affari in un continente in bilico, dove i riferimenti coloniali classici (coperti finora dalla foglia di fico dell’appartenenza ideologica alle democrazie liberali) sono messi in crisi e quindi si propongono con i loro modelli ipocriti di cooperazione stracciona, senza orpelli […]

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Razzisti e colonialisti di radice fascista e reazionaria di ogni latitudine stanno annusando l’aria di affari in un continente in bilico, dove i riferimenti coloniali classici (coperti finora dalla foglia di fico dell’appartenenza ideologica alle democrazie liberali) sono messi in crisi e quindi si propongono con i loro modelli ipocriti di cooperazione stracciona, senza orpelli di richiamo retorica a un presunto riguardo all’umanitarismo. Meloni con Saied, due razzisti a pianificare lo sterminio di africani, Raisi con Museveni, due omofobi in sintonia… tutti, al di là degli accordi sbandierati, trovano terreni comuni in transazioni economiche, inventando fittizie posizioni di cooperazione alla pari.
Proprio quello è il vero interesse: concentrarsi sul continente terreno di scontro e spartizione globale. Ora persino il regime persiano dei turbanti, quasi mai interessato  all’Africa, organizza un viaggio ufficiale in tre stati non casualmente scelti, cercando di piazzare prodotti che non sono petroliferi – in primis i droni… ma per l’agricoltura, ovviamente –, ma soprattutto esportando un modello dittatoriale, come spiega con precisione Angelo Ferrari.


Visite all’Africa bazaar: offerte speciali di aree di influenza

ll presidente iraniano, Ebrahim Raisi, è sbarcato in Africa per un tour storico di tre giorni dove ha visitato il Kenya, poi l’Uganda e, infine, lo Zimbabwe. Il continente africano – e anche questa visita lo dimostra – è diventato il terreno “ideale” per le diplomazie dell’Est del Mondo per contrastare l’Occidente e ridisegnare la geopolitica mondiale. Dall’inizio dell’invasione dell’Ucraina da parte della Russia si è avuta un’accelerazione diplomatica sul continente senza precedenti. Lo scontro tra Occidente e Oriente si è trasferito, anche ma non solo, in Africa e tutti cercano di portare i paesi africani dalla propria parte. Condendo il tutto con la retorica anticoloniale: «Alcuni paesi hanno una visione colonialista dell’Africa, ma la nostra visione verso questo continente si basa sulla dignità umana e sulla sinergia», ha detto Raisi prima di lasciare Teheran.
L’obiettivo che vuole raggiungere Raisi è quello di aprire nuovi canali commerciali, da un lato, e dall’altro aprire vie diplomatiche che gli consentano di sviluppare le esportazioni non petrolifere verso il continente africano. Questo tour riflette il desiderio dichiarato di Teheran di moltiplicare i partner politici ed economici, anche per cercare di aggirare le sanzioni occidentali che le sono state imposte a causa del suo programma nucleare.

Lo spirito di Astana trasferito in Africa: le nuove “guerre siriane” da regolare

Dopo undici anni, dunque, torna sul suolo africano un presidente iraniano così da avviare “un nuovo inizio”, ha spiegato il portavoce del ministero degli Esteri iraniano, Nasser Kanani, con paesi che sono “molto ansiosi” – a detta sua – «di sviluppare le loro relazioni con l’Iran». Ma non solo. Secondo Teheran questo riavvicinamento – che si concretizza dopo il rafforzamento delle relazioni con Cina e Russia nell’ambito di una strategia rivolta a Est – sta avvenendo anche sulla base di “una visione comune”. Non è un caso, inoltre, che l’Iran sia entrato a fare parte della Shanghai Cooperation Organization (Sco), una struttura regionale creata nel 2001 di cui Cina e Russia sono membri fondatori.

Relazioni iraniane globalmente “antimperialiste”

Per cercare di capire questa nuova e quasi inedita offensiva diplomatica non si può non considerare la grave crisi economica che sta attraversando l’Iran e quindi, quel viaggio, si inserisce nella ricerca di nuove vie d’uscita alle numerose sfide che Teheran deve affrontare. La visita, poi, incornicia un quadro che il presidente iraniano Raisi ha spiegato ricevendo il ministro degli Esteri algerino, Ahmed Attaf: sviluppare relazioni politiche ed economiche con Algeri come con le tre capitali africane che ha visitato. E il tour africano si inserisce, inoltre, nel quadro delle visite che Raisi ha effettuato in Indonesia e con i tre “paesi amici” in America Latina, cioè Venezuela, Nicaragua e Cuba. Viaggi che gli hanno dato l’occasione di ribadire l’avversione di Teheran alle “potenze imperialiste”, avendo nel mirino, in particolare, gli Stati Uniti. Ma, durante questi viaggi, ha colto l’occasione per ribadire il suo appello a spezzare l’egemonia del dollaro sull’economia mondiale. Fattore che sta molto a cuore anche ai paesi africani e a quelli del Brics – Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica – che nel vertice che si svolgerà il prossimo agosto in Sudafrica discuteranno anche di questo e delle richieste di numerosi paesi africani, che vogliono entrare a far parte di questo consesso internazionale.

La prima tappa: il Kenya di Ruto

Raisi, in Kenya ha incontrato, a Nairobi, il suo omologo William Ruto. Dopo un colloquio “cordiale” ha incontrato i giornalisti spiegando la sua visita in Kenya come «un punto di svolta nelle relazioni tra i due paesi», aggiungendo che queste discussioni hanno rispecchiato “la determinazione” dei due paesi a «estendere la loro cooperazione economica, commerciale, politica e culturale». Dal canto suo, Ruto ha descritto l’Iran come «un partner strategico essenziale per il Kenya» e ha annunciato la firma bilaterale di cinque memorandum d’intesa in vari settori tra cui quello tecnologico, la promozione degli investimenti e la pesca. «Questi protocolli», ha spiegato il presidente keniano, «svilupperanno e approfondiranno ulteriormente le nostre relazioni per consentire una crescita e uno sviluppo più sostenuti tra i nostri due paesi». L’Iran, inoltre, ha annunciato la volontà di creare una fabbrica nella città portuale di Mombasa per «produrre un veicolo di fabbricazione iraniana chiamato Kifaru, che in lingua kiswalili significa rinoceronte». I simboli hanno sempre un loro valore e fanno, a volte, più della diplomazia.

Il cuore del viaggio: 21 accordi commerciali

Il tour africano ha consentito di annunciare che la compagnia di navigazione Islamic repubblic of Iran Shipping Lines intende aprire un ufficio regionale nel continente per garantire la continuità delle proprie linee marittime dirette in Africa. Attualmente sono già operative linee di navigazione dirette tra l’Iran e l’Africa settentrionale e orientale, ma la compagnia iraniana prevede di espandere i propri servizi anche in altre regioni del continente.
Gli accordi commerciali sono fondamentali per l’Iran – ne sono stati firmati 21 con i tre paesi che ha visitato – ma Raisi si trova molto a suo agio con omologhi del suo stesso rango. A parte il Kenya, paese che sta cercando, non senza fatica, di far crescere la propria democrazia, consolidandola e riaffermandosi in un ruolo centrale per l’Africa orientale, gli altri paesi visitati – Uganda e Zimbabwe – assomigliano di più a vere e proprie dittature. Raisi, proprio in questi paesi, ha dato il meglio di sé in termini di propaganda e di sostegno ai due dittatori.

Museveni folgorato dal modello iraniano alternativo all’Occidente

Ma il vero affondo nella retorica antioccidentale, Raisi lo ha lanciato in Uganda. «L’imperialismo e l’occidente preferiscono che i paesi esportino petrolio e materie prime, consentendo loro di convertire queste risorse in prodotti a valore aggiunto, i nostri sforzi in Iran si concentrano sulla prevenzione delle esportazione delle materie prime», e ha sottolineato l’importanza di evitare le esportazioni verso l’occidente, «come auspicato dai paesi imperialisti». Museveni, dal canto suo, ha espresso la necessità di imparare dalle preziose «esperienze dell’Iran nel contrastare l’egemonia occidentale».

La seconda tappa: l’Uganda di Museveni

Cominciamo dall’Uganda. Senza troppo girarci intorno, Raisi, incontrando il suo omologo Yoweri Museveni – in quanto a longevità al potere non ha eguali – ha elogiato la legge “antiomosessualità” dell’Uganda, una delle più repressive al mondo che prevede sanzioni che possono arrivare fino alla pena di morte e vieta la “promozione dell’omosessualità”. «L’occidente, – ha detto Raisi, – sta cercando oggi di promuovere l’idea dell’omosessualità e, promuovendola, sta cercando di porre fine alla specie umana». Diversi paesi, tra cui gli Stati Uniti, hanno promesso sanzioni economiche contro l’Uganda. Ma l’Uganda tira dritto: «L’occidente non verrà a governare il nostro paese», parole del presidente del parlamento ugandese. Museveni, accogliendo le parole di Raisi ha spiegato che «i paesi occidentali stanno agendo contro il patrimonio delle culture e delle nazioni». Si può capire quale sia la “visione politica comune” che il presidente iraniano ha evocato prima di lasciare Teheran per recarsi in Africa. E di sicuro Museveni ringrazia.

Mnangagwa, il patriota senza critiche per legge

Poi c’è lo Zimbabwe, che non è secondo a nessuno in termini di repressione di tutto ciò che non è allineato al potere. Rober Mugabe, padre della patria e dittatore insegna. Non solo, prima di lasciare questo mondo aveva giurato che il suo fantasma avrebbe perseguito per sempre il paese.

La terza tappa: lo Zimbabwe di Mnangagwa

Fantasma che si è reincarnato perfettamente nell’attuale dittatore, Emmerson Mnangagwa, salito al potere con un golpe nel 2017 rovesciando proprio Mugabe. Nel paese ogni voce dissenziente è messa a tacere. Ma il presidente iraniano Raisi è arrivato ad Harare in un momento cruciale per il paese: cioè le elezioni per la presidenza che si dovrebbero tenere il 23 agosto e Mnangagwa è candidato. Tra dittatori ci si spalleggia. Ma arrivano in un momento ben preciso: il presidente ha appena firmato una legge “patriottica” che vieta ogni critica al paese. Raisi, c’è da crederci, avrà dato qualche suggerimento, sul tema, al suo amico zimbabwano. Ora, in Zimbabwe, è considerato un crimine “danneggiare deliberatamente la sovranità e l’interesse nazionale” del paese e sarà punito chiunque partecipi a riunioni o incontri con persone che promuovono sanzioni contro lo Zimbabwe. Una legge molto “vaga” che lascia una grande libertà di manovra a chi governa e che può decidere a suo piacimento cosa è male e cosa è bene per il paese. Insomma, una legge “patriottica” che consentirebbe di condannare a morte persone percepite – solo percepite – come critiche nei confronti del governo. Il ministro dell’Informazione, Monica Mutsvangwa, ha spiegato che il «ruolo di questa legge è garantire che i cittadini amino il proprio paese. Bisogna essere patriottici». Più che amare il paese, i sudditi devono amare incondizionatamente il dittatore. Un bel capolavoro.
Questo testo conferma che lo Zimbabwe è una dittatura a tutti gli effetti con un regime peggiore di quello di Robert Mugabe, ha assicurato l’avvocato Fadzayi Mahere, portavoce della Citizens Coalition for Change, un partito fondato nel 2022 e guidato da Nelson Chamisa, avversario numero uno di Mnangagwa nella corsa alle presidenziali. I sodali di questo partito di opposizione hanno già subito ondate di arresti e numerosi procedimenti giudiziari.

Davvero un “nuovo inizio” nelle relazioni tra Iran e continente africano.

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n. 2 – L’Assemblea Generale tra diritto di veto, immobilismo e sessioni speciali https://ogzero.org/assemblea-generale-onu-tra-diritto-di-veto-e-immobilismo/ Thu, 13 Jul 2023 11:07:30 +0000 https://ogzero.org/?p=11288 Prosegue la serie di contributi di Fabiana Triburgo che analizzano con approccio giuridico gli organismi sovrastatali come l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Questo saggio in particolare si concentra sulle risoluzioni adottate in sessioni speciali dall’Assemblea Generale in occasione del conflitto russo-ucraino e sulle contraddizioni insite nel potere di veto della Russia quale membro permanente nel […]

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Prosegue la serie di contributi di Fabiana Triburgo che analizzano con approccio giuridico gli organismi sovrastatali come l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite.

Questo saggio in particolare si concentra sulle risoluzioni adottate in sessioni speciali dall’Assemblea Generale in occasione del conflitto russo-ucraino e sulle contraddizioni insite nel potere di veto della Russia quale membro permanente nel Consiglio di Sicurezza. Probabilmente le stesse discussioni assembleari porteranno a una riconsiderazione del diritto di veto per superare l’immobilismo del Consiglio di Sicurezza.


La questione che viene lecito porsi – analizzati i limiti che determina l’apposizione del diritto di veto – è se questo possa essere in qualche modo superato o meglio “aggirato” da un altro organo fondamentale delle Nazioni Unite ovverosia l’Assemblea Generale. Se infatti rispetto al conflitto russo-ucraino è emerso l’immobilismo totale del Consiglio di Sicurezza – proprio a causa del diritto di veto esercitato dalla Russia quale membro permanente – l’Assemblea Generale si è riunita molteplici volte in sessione straordinaria per deliberare in merito a tale “Operazione speciale” così come definita dal leader del Cremlino. D’altra parte, se il Consiglio di Sicurezza – secondo l’art. 24 – è il principale organo delle Nazioni Unite al quale vengono demandati il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale, la Carta delle Nazioni Unite, in particolare all’art. 11 par. 2 e più in generale all’art. 14, conferisce in tale ambito anche all’Assemblea Generale un ruolo rilevante pur non essendo essa titolare di quei poteri coercitivi implicanti o meno l’uso della forza, propri del Consiglio di Sicurezza.

L’Assemblea Generale infatti, nel caso del mantenimento della pace e della sicurezza internazionale, può soltanto emettere atti privi di forza vincolante aventi il carattere delle raccomandazioni ma può esercitare quelle funzioni conciliative di cui al capo VI della Carta – così come d’altronde il Consiglio di Sicurezza – che si esplicitano attraverso l’istituzione di buoni uffici, di attività di mediazione o di negoziato nei confronti dei paesi membri. D’altro canto, anche l’Assemblea Generale come il Consiglio può disporre le cosiddette “misure temporanee” di cui all’art. 40 della Carta come per esempio le richieste di “cessate il fuoco”, di liberazione pacifica dei prigionieri e d’invito agli stati a non introdurre le armi nei conflitti tra loro. Infine, spetta all’Assemblea Generale in siffatte situazioni quel potere di inchiesta di cui all’art. 34 della Carta pur se, diversamente da quanto avviene nel caso del Consiglio di Sicurezza, esso non può essere finalizzato all’applicazione delle misure coercitive di cui sopra nei confronti degli stati come definite dagli artt. 41 e 42.

Uniting for Peace: come superare l’immobilismo del Consiglio di Sicurezza Onu

Inoltre, benché le risoluzioni dell’Assemblea non abbiano carattere cogente è bene ricordare che lo stato che non adempie le prescrizioni contenute in esse è sottoposto a specifiche responsabilità non solo dinanzi all’Assemblea ma anche dinanzi alla Corte di Giustizia delle Nazioni Unite, in particolare nell’ipotesi in cui uno stato membro si ritenga leso,  come nel caso dell’Ucraina, dallo stato destinatario delle prescrizioni. In tale quadro di funzioni e poteri dei due organi delle Nazioni Unite occorre richiamare la già citata risoluzione dell’Assemblea Generale n. 377 meglio conosciuta come “Uniting for Peace emessa nel 1950 ma quanto mai attuale in considerazione dell’intervento armato russo in Ucraina. La risoluzione allora venne emanata infatti proprio in considerazione dell’immobilismo del Consiglio di Sicurezza nella guerra di Corea del 1950 ed essa, al di là delle conseguenze che abbia poi effettivamente determinato in relazione a tale conflitto – considerata la forte opposizione che ha ricevuto dagli stati socialisti che ha portato anche gli altri stati membri a desistere – ha comunque introdotto un principio innovativo rispetto ai tradizionali poteri che sono conferiti dalla Carta all’Assemblea Generale. La risoluzione n. 377, al momento ancora in essere, stabilisce infatti che se il Consiglio di Sicurezza non può contare sull’unanimità dei suoi membri permanenti – tale da non poter esercitare le sue funzioni per il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale – l’Assemblea Generale nei casi in cui possa esservi una minaccia o un atto di aggressione deve considerare immediatamente la questione al fine di adottare raccomandazioni approfondite ai membri delle Nazioni Unite incluso, in caso di rottura della pace o di un atto di aggressione, l’uso delle forze armate proprio per mantenere o ripristinare la pace e la sicurezza internazionale.

La sessione che diede vita alla risoluzione 377 denominata “Uniting for Peace”.

Più verosimilmente rispetto a quest’ultimo potere di disporre misure coercitive come quelle implicanti l’uso della forza si ritiene che la risoluzione ad oggi – anche rispetto al conflitto russo ucraino – sia più agevolmente invocabile affinché l’Assemblea eserciti pienamente (in caso di immobilismo del Consiglio di Sicurezza) quei poteri conciliativi di cui al capitolo VI della Carta che le sono propri. Tale risoluzione inoltre appare particolarmente rilevante perché ha depotenziato il principio della litispendenza tra i due organi sancito con riferimento già alla sola funzione conciliativa dell’Assemblea dall’art. 12 della Carta.

Secondo tale articolo infatti l’Assemblea non può svolgere le funzioni conciliative rispetto a una determinata questione qualora essa sia già pendente dinanzi al Consiglio di Sicurezza o in esame in seno a questo, proprio in ragione della primaria responsabilità in materia secondo il già citato art. 24.

Tale precetto non riguarda la semplice iscrizione a ruolo di una questione dinanzi al Consiglio ma piuttosto le ipotesi nelle quali il Consiglio stia già discutendo in merito a una specifica questione o se ne stia occupando o ancora se vi sia anche la sola probabilità che se ne occupi. Per tale principio le sessioni straordinarie d’urgenza dell’Assemblea, che come vedremo più nel dettaglio rispetto al conflitto russo-ucraino sono state molteplici dopo un’assenza lunga oltre quarant’anni, devono comunque essere richieste dal Consiglio di Sicurezza e dovrebbero avere il carattere dell’eccezionalità.

La condanna all’aggressione: prima risoluzione speciale, non per tutti

La prima risoluzione dell’Assemblea Generale in sessione speciale a essere stata adottata è quella del 2 marzo del 2022 di condanna dell’aggressione russa dell’Ucraina con la contestuale richiesta di cessazione immediata delle ostilità (A/ES-11/L.1). La richiesta che l’Assemblea Generale si riunisse in sessione speciale è stata avanzata dal Consiglio proprio in conseguenza dell’apposizione del veto russo in seno ad esso, veto che la Federazione Russa non può apporre invece nelle delibere assembleari che vengono adottate a maggioranza semplice o dei due terzi degli stati membri come nel caso – secondo quanto stabilito dal paragrafo 2 dell’art. 18 della Carta delle Nazioni Unite – delle raccomandazioni che riguardano il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale. La risoluzione è stata adottata con 141 voti a favore, 38 astenuti e 5 contrari ossia, oltre alla Russia, la Bielorussia, la Corea del Nord, la Siria e l’Eritrea.

Tra gli astenuti vi sono diversi paesi asiatici tra cui la Cina, coerente alla propria linea di non interferenza negli affari interni delle singole nazioni e alleato ideologico della Federazione Russa secondo il cosiddetto patto implicito del conferimento primario della prosperità che promette il benessere sociale collettivo in cambio del controllo politico e sociale della società. Così come la Cina anche l’India si è astenuta dal voto: come vedremo in seguito entrambe le nazioni nella quasi totalità delle successive delibere assembleari manterranno questo “non schieramento”.

La risoluzione del 2 marzo 2022 sull’aggressione russa all’Ucraina (fonte Dipartimento della Difesa)

Si ricorda che India e Russia hanno una partnership consolidata nel tempo che si fonda principalmente nella concessione di petrolio e di armi da parte della Federazione Russa anche se quest’ultima è ben consapevole che l’India mantiene dei margini di manovra anche con i paesi occidentali suoi oppositori. Tali relazioni economiche tra i due paesi si sono intensificate dallo scoppio della guerra in Ucraina, poiché per la Russia l’India rappresenta sia un’importante soluzione alternativa alle sanzioni occidentali che l’hanno portata a un pressoché totale isolamento economico che un limite all’espansionismo nell’area da parte della Cina. D’altra parte, l’India oltre a giovare del prezzo a ribasso del petrolio offerto dalla Russia – dalla quale dal 2% delle importazioni dallo scoppio del conflitto ha raggiunto oggi la soglia del 23% delle importazioni dell’oro nero – ambisce anche a un sostegno della Federazione Russa nell’ottenimento di un seggio permanente all’interno del Consiglio di Sicurezza. Non solo, l’importazione delle armi dalla Federazione Russa da parte dell’India risale all’inizio del regime sovietico ed è continuato anche dopo il suo crollo. Basti pensare che le stesse forze armate indiane sono di formazione sovietica e molti ufficiali del paese si sono formati nelle accademie dell’Impero comunista. Particolarmente rilevante è anche l’astensione di ben diciassette paesi africani emblema dell’impegno delle milizie di Wagner – nate nel 2013 con il nome di “Corpi Slavi” formalmente indipendenti ma finanziate e gestite dal Cremlino – che hanno operato oltre che in Siria e in Ucraina anche in molteplici paesi del continente africano da quasi un decennio, beneficiando come contropartita delle risorse del sottosuolo di tali paesi in particolare delle miniere di oro, di diamanti e di uranio, come nel caso del Sudan nel quale i mercenari di Wagner ancora presenti nel paese inizialmente offrirono sostegno al presidente Omar al-Bashir presidiando il confine con il Sud Sudan.

Lo schieramento dell’Asia in particolare (fonte Ispi).

Lo schieramento nel continente africano (fonte Ispi).

La seconda risoluzione e le conseguenze umanitarie

La seconda risoluzione dell’Assemblea Generale in sessione speciale è quella relativa alle conseguenze umanitarie causate dall’aggressione russadel 21 marzo 2022 (A/ES-11/L.2) avanzata dalla stessa Ucraina e appoggiata da altri novanta paesi membri sostenitori e adottata anche in questo caso con un un’ampia maggioranza ossia con 140 voti a favore mentre 38 sono stati i paesi membri che si sono astenuti e 5 ad aver votato contro. Con il termine conseguenze umanitarie l’Assemblea Generale fa riferimento più specificatamente all’assedio perpetrato dalla Federazione Russa in diverse città dell’Ucraina nonché ai bombardamenti che non solo hanno colpito civili ma anche strutture pubbliche come scuole e ospedali nonché infrastrutture idriche e igienico-sanitarie. Inoltre, nella risoluzione la Federazione Russa – considerate le conseguenze umanitarie già causate – viene richiamata al rispetto di puntuali prescrizioni per il futuro, come la tutela dei civili e la protezione di quelli in fuga, compresi gli stranieri, dei beni essenziali per la loro sopravvivenza e infine di porre fine agli assedi nelle città ucraine. Alla Russia viene chiesto inoltre il rispetto del diritto internazionale umanitario compresa la Convenzione di Ginevra e il suo protocollo addizionale. Allo stesso tempo gli altri stati membri vengono invitati a finanziare gli aiuti umanitari delle Nazioni Unite in Ucraina e a incoraggiare i negoziati attraverso la mediazione e il dialogo politico.

Il rappresentante russo presso l’Assemblea delle Nazioni Unite ha definito tale risoluzione “una manipolazione umanitaria” e ha richiamato in modo provocatorio l’intervento armato della Nato nella Repubblica federale di Jugoslavia con l’inizio – il 24 marzo del 1999 – dell’Operazione Allied Force rispetto alla quale il Consiglio di Sicurezza aveva espresso il proprio voto contrario.

Fuori dal Consiglio dei Diritti umani e le conseguenze effettive

La successiva risoluzione dell’Assemblea Generale in sessione speciale è quella che ha disposto la sospensione della Russia dal Consiglio dei Diritti umani. Questa, adottata con la maggioranza dei due terzi dei votanti, è intervenuta in seguito all’emersione di foto che ritraevano nella città di Bucha innumerevoli corpi di civili morti abbandonati lungo le strade e la presenza di fosse comuni. La Russia, a parte la Libia – in conseguenza della repressione delle proteste nel 2011 da parte di Gheddafi poi “destituito” – è l’unico paese nella storia a essere stato sospeso dal Consiglio dei Diritti umani delle Nazioni Unite, dopo essere stata eletta soltanto l’anno precedente proprio dall’Assemblea Generale con un mandato di tre anni. Ciò che tuttavia non può essere ignorato è che tale risoluzione ha registrato un numero di voti a favore nettamente inferiore rispetto alle due precedenti risoluzioni assembleari. I voti a favore in tale circostanza sono stati infatti 93 a fronte dei circa 140 voti delle altre risoluzioni e non è un caso poiché questa è di fatto la prima delibera dell’Assemblea Generale a implicare con la sua adozione conseguenze effettive nei confronti della Federazione Russa.

Il 16 settembre 2022 la Russia viene sospesa dalla Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo.

Il dibattito formale dopo l’esercizio del diritto di veto

L’ulteriore risoluzione dell’Assemblea Generale mandato permanente per un dibattito dell’Assemblea Generale in caso di veto del Consiglio di Sicurezza” del 26 aprile 2022 (A/ 77/L.52) – adottata senza votazione – è stata definita invece storica in quanto ha affrontato nuovamente la questione del diritto di veto ma in modo del tutto innovativo.  L’Assemblea Generale infatti con tale risoluzione ha stabilito che il proprio personale convochi una riunione formale dell’organo assembleare, composto da tutti i paesi membri delle Nazioni Unite, entro 10 giorni dalla data dell’apposizione del diritto di veto da parte di uno o più membri del Consiglio di Sicurezza, nella quale si discuta sulla situazione per la quale è stato posto il veto sempre purché essa non si riunisca in seduta straordinaria d’urgenza sulla medesima questione. L’Assemblea Generale ha proseguito con l’invito rivolto al Consiglio di Sicurezza a presentare un rapporto speciale dell’uso del veto – qualora venga apposto in seno a esso – almeno 72 ore prima che la discussione abbia inizio. Il testo della risoluzione è stato proposto dal Lichtestein e sponsorizzato da 83 paesi membri tra cui tre membri permanenti più specificatamente Francia, Regno Unito e Stati Uniti.

La proposta francese di sospensione del diritto di veto

La Federazione Russa ha espresso contrarietà rispetto a tale delibera assembleare adottata senza votazione in quando secondo la sua opinione l’apposizione in seno al Consiglio di Sicurezza del veto è ancora utilizzata come extrema ratio. Interessante la posizione di un altro membro permanente rispetto a tale risoluzione, la Francia che, dopo aver sottolineato di aver utilizzato il veto “soltanto” 18 volte dal 1945 e di non averlo apposto per più di tre anni, ha precisato tuttavia che  l’Assemblea in questo modo diverrebbe il giudice del Consiglio di Sicurezza e dei suoi membri richiamando ancora una volta invece l’opportunità dell’adozione della propria proposta di riforma rispetto all’uso del veto secondo la quale esso dovrebbe essere sospeso da parte di ogni membro permanente del Consiglio di Sicurezza nelle ipotesi di atrocità di massa, genocidio, crimini di guerra e crimini contro l’umanità. Di estrema importanza è poi la risoluzione assembleare del 12 ottobre 2022 (A/ES-11-4) di condanna della Russia per i referendum nel Donbass rubricata come risoluzione “sull’integrità territoriale dell’Ucraina in difesa dei principi della Carta delle Nazioni Unite” adottata con il voto favorevole di 143 paesi membri.

Nel testo della risoluzione vengono richiamate le prime due risoluzioni dell’Assemblea Generale sul conflitto in Ucraina – già analizzate in precedenza – sottolineando la salvaguardia dell’integrità territoriale di ogni stato secondo il diritto internazionale per cui deve considerarsi illegale qualsiasi acquisizione territoriale di uno stato nei confronti di un altro che si sia determinata mediante la minaccia o l’uso della forza armata. Il riferimento in concreto è ovviamente quanto avvenuto con i referendum indetti dalla Federazione Russa di annessione degli oblast‘ di Donetsk, Luhansk, Kherson e Zaporizhzhia aventi esito positivo come dichiarato dalla Russia il 29 settembre 2022 e in conseguenza dei quali – con atti esecutivi della Federazione Russa – sono stati dichiarati indipendenti i territori ucraini di Zaporizhzhia e Kherson. Tali referendum si sarebbero tuttavia svolti non solo con l’intimidazione nei confronti dei civili da parte delle autorità nominate in modo illegittimo dalla Russia nei territori occupati, ma anche in condizioni non idonee a garantire una partecipazione democratica al voto tali da integrare la piena violazione del diritto internazionale in materia. La risoluzione adottata richiama inoltre le vicende storiche antecedenti che hanno interessato la Russia e l’Ucraina ossia gli scontri nel Donbass tra il 2014 e il 2015 tra l’esercito ucraino e i cittadini ucraini insorti per il rifiuto nel 2013 da parte dell’allora presidente ucraino di dar seguito ai patti di libero scambio con l’Unione Europea. Scontri nei quali si era inserita la Federazione Russa con il tentativo di ripristinare il controllo su alcune porzioni del territorio ucraino e ai quali era seguita la proclamazione unilaterale delle Repubbliche popolari di Donetsk e di Lugansk nel Donbass. Con l’accordo di Minsk del 2015 – mai attuato in concreto – sottoscritto da Russia, Ucraina e Germania veniva tuttavia sancito il cessate il fuoco, la liberazione di prigionieri e l’impegno dell’Ucraina a riformare la propria costituzione garantendo piena autonomia alle Repubbliche separatiste, che però continuavano a essere parte del territorio dell’Ucraina e sottoposte alla sua autorità, nonché il ritiro di forze armate e di veicoli militari stranieri.

Con tale risoluzione dunque vengono dichiarati illegali e invalidi i suddetti referendum per cui si invitano tutti gli stati della comunità internazionale, le agenzie delle Nazioni Unite e tutte le organizzazioni internazionali a disconoscere quanto proclamato dal Cremlino il 29 settembre 2022 in quanto tali referendum non hanno determinato alcuna variazione del territorio ucraino.

Vale la pena ricordare che il 16 settembre 2022, prima della dichiarazione del Capo del Cremlino sull’esito dei referendum, la Russia cessava di essere parte della Convenzione europea per i Diritti dell’Uomo così come stabilito dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa.

Il meccanismo di risarcimento

In una successiva sessione speciale più specificatamente il 14 novembre 2022 l’Assemblea Generale ha invece adottato una risoluzione con la quale ha raccomandato l’istituzione di un meccanismo di riparazione dei danni causati dalla Federazione Russa con la guerra in Ucraina e l’istituzione di un registro internazionale dei medesimi finalizzato ad archiviare prove e documenti a supporto delle richieste di risarcimento da parte ucraina. L’obbligo di riparazione avrebbe a oggetto oltre gli ingenti danni anche le perdite e le lesioni causate a persone fisiche e giuridiche nonché allo stato ucraino più in generale. Con la risoluzione inoltre viene chiesto alla Russia non solo di provvedere al pagamento dei danni ma anche di interrompere le operazioni militari e ritirare le proprie truppe in Ucraina. La risoluzione è stata adottata anche in questo caso con un numero di voti più ristretto delle iniziali delibere assembleari specificatamente con 94 voti a favore e circa 73 astenuti.

Il mancato schieramento di un numero così elevato di paesi membri è l’emblema della difficoltà della comunità internazionale a essere maggiormente schierata e coesa quando la votazione sulle risoluzioni dell’Assemblea Generale implichi delle conseguenze di fatto o di diritto rispetto alla Russia.

In tale ipotesi infatti è chiaro che la votazione a favore della suddetta risoluzione significhi indirettamente ammettere la responsabilità della Federazione Russa per le violazioni del diritto internazionale e umanitario integrate con l’invasione del territorio ucraino dalle quali appunto discenderebbe l’obbligo di riparazione dei danni.

Tuttavia il giorno precedente la ricorrenza di un anno dall’invasione russa dell’Ucraina l’Assemblea Generale è intervenuta con la risoluzione del 23 febbraio 2023 sul ritiro immediato della Russia dal territorio dell’Ucraina. Essa, più nel dettaglio, contiene nel testo la richiesta di una pace corretta, giusta e duratura in Ucraina, della cessazione delle ostilità, il ritiro immediato delle forze militari russe dal territorio ucraino oltre al riconoscimento della sovranità, dell’unità e dell’integrità dell’Ucraina. La risoluzione è stata adottata con 141 voti a favore 32 astenuti tra cui India e Cina – per cui valgono le precedenti considerazioni in merito agli interessi geopolitici ed economici dei due paesi con la Russia – e 7 voti contrari, ossia oltre la Russia, la Bielorussia, la Corea del Nord, l’Eritrea e il Mali. Rispetto a quest’ultimo paese si rileva che qui sono fortemente presenti i mercenari appartenenti al gruppo di Wagner mediante un accordo con la giunta golpista di Bamako.

La cooperazione rafforzata

Infine, ad aprile di quest’anno vanno menzionate due attività particolarmente rilevanti dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. In primo luogo, si registra a un anno di distanza dalla storica risoluzione precedentemente analizzata sul diritto di veto, adottata senza votazione da parte dell’Assemblea Generale, che i paesi membri delle Nazioni Unite si sono nuovamente incontrati in seduta assembleare per discutere sull’uso del diritto di veto all’interno del Consiglio di Sicurezza e su come intervenire affinché l’Organizzazione delle Nazioni Unite sia più efficiente.

In secondo luogo, l’Assemblea Generale ha adottato una rilevante risoluzione rubricata come “Cooperazione tra le Nazioni Unite e le organizzazioni regionali e altre organizzazioni: la cooperazione tra le Nazioni Unite e il Consiglio d’Europa” proposta da 48 stati membri tra cui la stessa Ucraina. Significativo quanto enunciato nel testo della risoluzione nel quale viene fatto riferimento alle sfide che l’Europa si trova oggi ad «affrontare dopo l’aggressione della Federazione Russa contro l’Ucraina e prima ancora contro la Georgia» in considerazione anche della cessazione dell’appartenenza della Federazione Russa al Consiglio d’Europa che «richiedono una cooperazione rafforzata tra le Nazioni Unite e il Consiglio d’Europa in particolare al fine di ripristinare e mantenere tempestivamente la pace […]». La risoluzione è di straordinaria importanza non tanto per il numero dei voti a favore con la quale è stata adottata ossia 122 paesi su 145 paesi votanti, ma perché

per la prima volta tra questi si annoverano Cina e India che approvando il testo della risoluzione hanno ammesso ufficialmente l’aggressione della Russia nei confronti dell’Ucraina che implica la violazione dell’integrità territoriale e dell’indipendenza politica di quest’ultima.

In conclusione tutte le dinamiche dell’Assemblea Generale finora analizzate si sono inserite in modo poliedrico nella stasi del Consiglio di Sicurezza accrescendo inevitabilmente l’importanza del ruolo di tale organo nel mantenimento della pace e della sicurezza internazionale non solo poiché le votazioni delle risoluzioni in seno a esso sono divenute l’unica cartina al tornasole delle mutevoli posizioni dei paesi membri delle Nazioni Unite nello scacchiere internazionale rispetto alla guerra russo-ucraina ma anche poiché probabilmente le stesse discussioni assembleari porteranno a una riconsiderazione del diritto di veto come è avvenuto con la succitata storica risoluzione dell’Assemblea Generale del 26 Aprile del 2022 che ha perfezionato quella prima breccia nella Carta delle Nazioni Unite operata oltre settant’anni fa (!) dalla risoluzione “Uniting for Peace” nell’immobilismo del Consiglio di Sicurezza durante la Guerra Fredda.

L'articolo n. 2 – L’Assemblea Generale tra diritto di veto, immobilismo e sessioni speciali proviene da OGzero.

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Uno spettro si aggira per le banlieues https://ogzero.org/uno-spettro-si-aggira-per-le-banlieues/ Sun, 02 Jul 2023 16:33:02 +0000 https://ogzero.org/?p=11235 Les Invisibles si sono palesati. L’attuale clima incandescente (da pre-insurrezione ?) che attraversa l’esagono riporta fatalmente alla memoria analoghe situazioni del 2005 e 2017… ma anche la “mort indigne” di  malik oussekine A questo aspetto, più strettamente legato all’approccio che collega la rabbia al razzismo subito da banlieues e cités, si aggiunge la gioiosa creatività […]

L'articolo Uno spettro si aggira per le banlieues proviene da OGzero.

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Les Invisibles si sono palesati.

L’attuale clima incandescente (da pre-insurrezione ?) che attraversa l’esagono riporta fatalmente alla memoria analoghe situazioni del 2005 e 2017… ma anche la “mort indigne” di  malik oussekine

A questo aspetto, più strettamente legato all’approccio che collega la rabbia al razzismo subito da banlieues e cités, si aggiunge la gioiosa creatività ribelle dei giovanissimi partecipanti agli émeutes, teen-agers come la vittima che li ha scatenati con la sua morte che ha scoperchiato l’impunità feroce e l’improntitudine menzognera del sistema di potere fondato sullo stato di polizia. Questi ragazzini sono oltre le rivendicazioni antirazziste proprio perché di seconda e più spesso terza generazione e dunque si sentono francesi e quindi odiano tutte quelle istituzioni prese a bersaglio negli innumerevoli video sui social: i centri commerciali – i cui prodotti sono sempre più fuori portata con la spirale inflazionistica in corso; commissariati – dove li conducono arbitrariamente gendarmi senza guinzaglio e con la licenza di uccidere; scuole – sempre meno rappresentative di riscatto o strumento di ascensore sociale e invece luoghi di imposizione di cultura e nozioni avulse; distributori di tabacchi – carissimi in Francia per le accise imposte ufficialmente, come per l’alcol, per ridurre la dipendenza; bancomat e dispositivi di controllo con telecamere – i veri luoghi di culto… questi teen-agers hanno ben chiara l’appartenenza innanzitutto a una classe a un territorio, di cui riconoscono con precisione gli spazi occupati dal potere… e li distruggono. I loro espropri – pillages è l’orripilata reazione dei buoni borghesi – sono momenti di riscatto inconsapevolmente situazionista, ma in piena coscienza di diversità esibita.

Una rabbia che si può collegare a quella delle rivolte dei gilet jaune (commistione di destra populista e sinistra insoumise, unite da tariffe) come a quelle di ancora diversa connotazione delle proteste contro la riforma delle retraites (di nuovo disagi nati da mancate risposte economiche); e pure con gli ecologisti del Soulevements de la Terre, sciolti per legge (perché si contrappongono agli interessi delle coltivazioni intensive dell’agroindustria)… è un blocco sociale che rappresenta una larga maggioranza della società francese, che ha riconosciuto nella finanziarizzazione del macronismo il vero nemico. E forse il sano collante proviene dallo spirito libertario mai del tutto sopito oltralpe.
Speriamo che non riesca il potere oligarchico finanziario a tirare la volata all’estrema destra anche in Francia: certo che Zemour ha buon gioco a straparlare di sostituzione etnica e di moschee come luoghi di riferimento per questi ragazzi (che invece sbeffeggiano gli himam), diventando così nuovi motivi di sospetto per i buoni borghesi, imbevuti di razzismo coloniale (ormai senza più colonie) che voteranno impauriti Le Pen, se prosegue la narrazione mediatica della Haine contro una delel più brutali e violente polizie al mondo e la sovrapposizione tra cultura musulmana e banlieues.

Ma affidiamoci a Gianni Sartori che colloca tutto questo groviglio in un contesto che storicamente vede episodi di intolleranza nei confronti dell’invisibile “diversamente francese”, una lunga storia che coinvolge gli immigrati di ogni latitudine dai piemontesi nell’Ottocento, ai maghrebini della Renault nel dopoguerra, fino alle banlieues da Sarkozy a Macron… e soprattutto spiega con esempi da dove provenga il fatto che “tout le monde  déteste la police”


 OGGI BOUNA TRAORÉ E ZYED BENNA AVREBBERO 33 E 35 ANNI…

Ne avevano solo 15 e 17 nell’ottobre 2005.
Due ragazzini morti prematuramente e tragicamente – o forse uccisi in modo “preterintenzionale”, come Nahel nel giugno 2023.

I grandi media molto parlarono o sparlarono della successiva rivolta ma spesero poche righe per dire che, 10 anni dopo, il tribunale di Rennes assolse i due poliziotti, un gendarme maschio e uno femmina, accusati di «mancata assistenza a persona in pericolo» per la morte dei due ragazzi, rimasti folgorati in una cabina elettrica mentre fuggivano dagli agenti a Clichy-sous-Bois, nella banlieue parigina. I due poliziotti, Stephanie Klein e Sebastien Gaillemin, sostennero di non essersi resi conto del pericolo che correvano i due ragazzi. Invece sulla radio della polizia esiste una registrazione con la voce di Gaillemin, che dice di aver visto alcune figure dirigersi verso la centrale elettrica, aggiungendo “se vi entreranno, la loro vita non varrà molto”… ma Klein e Gaillemin non mossero un dito: la vita dei due ragazzi non valeva comunque?

Dodici anni dopo (2017, cinque anni fa) soltanto chi era in malafede (o fin troppo ingenuo) poteva illudersi che le “notti dei fuochi” nelle banlieue di Parigi e di altre grandi città francesi fossero ormai un problema, se non definitivamente risolto, perlomeno sotto controllo, provvisoriamente in letargo o almeno accantonato.

Invece le gravissime violenze della polizia su un ragazzo, Théo, avevano innescato proteste di grande portata, analoghe alla grande rivolta del 2005.

Il volto “anonimo e terribile” dell’insurrezione era riapparso (come una nemesi) per le strade di Aulnay-sous-Bois, Seine-Saint-Denis, Tremblay-en-France.

Così all’inizio del 2017 la protesta violenta dei banlieusard  innalzava nuovamente il suo vessillo, nero di rabbia se non di lutto.

Talvolta definito un “conflitto a bassa intensità” o anche “una rivolta afasica”, le periodiche sollevazioni dei giovani beurs lasciano comunque intravedere un movimento forse “in sé”, ma che sicuramente non ha ancora un “per sé”.

Fattori economici e fattori di cittadinanza

Sarebbe sbrigativo riportare il tutto soltanto alla “ristrutturazione del lavoro e allo smantellamento dello stato sociale”. O anche alla “globalizzazione combinata alla flessibilità che provoca inesorabilmente eccedenze ed esuberi non funzionali allo sviluppo”, come sostenevano alcune voci di sinistra. Sia chiaro: sono fattori questi che sicuramente hanno alimentato l’aumento di povertà e nuove povertà (e non solo tra gli immigrati). Non dimentichiamo che se fino agli anni Settanta l’operaio poteva ancora agire sui meccanismi economici, oggi i “nuovi poveri” (precari, “superflui”…) possono ben poco di fronte a un lavoro automatizzato e alle delocalizzazioni. E il banlieusard in particolare si scopre ogni volta cittadino di serie B, impotente, oltre che umiliato e offeso.

Nel caso dei figli di immigrati non sarebbe (o non soltanto) la “mancanza di integrazione” a determinare disagi e ribellioni. Addirittura, per lo studioso Filippo Del Lucchese, la causa potrebbe essere proprio «l’avvenuta integrazione, l’aver interiorizzato i valori di Libertà e Uguaglianza (per la Fraternità meglio rinviare a tempi migliori, evidentemente – N.d.A.) scoprendo a proprie spese di esserne esclusi».

Nel 2005 per “sedare i tumulti” il governo francese era ricorso addirittura a una legge coloniale sul “coprifuoco”. È partendo da questo fatto che alcuni ricercatori d’oltralpe (ma alle stesse conclusioni giungevano alcuni studiosi italiani come appunto Del Lucchese, Giuseppe Mosconi e Guido Caldiron) hanno cominciato ad analizzare la questione delle banlieues come una forma di “post-colonialismo”.

Importare l’atteggiamento coloniale in patria

Naturalmente, ça va sans dire, le banlieues non vengono sfruttate per le inesistenti materie prime. Rimangono tuttavia, come appunto le colonie, territori in cui “la produzione dell’identità culturale avviene all’interno di un sistema di potere coloniale”. A tale proposito Del Lucchese aveva rievocato nei suoi lavori un fenomeno ancora poco studiato dell’Ottocento, quello degli “zoo umani”. In questi luoghi gruppi di “indigeni” prelevati dalle colonie venivano esposti in vere e proprie gabbie e dovevano rappresentare la loro vita quotidiana, le danze, i riti; oppure gli “effetti benefici della civiltà”, imitando lo stile di vita dei colonizzatori. A questi spettacoli assistevano migliaia di persone. È stato, secondo lo studioso «un modo molto efficace di propagandare il razzismo, facendo toccare con mano la presunta superiorità dell’uomo bianco».

Di queste involontarie esibizioni esiste una vasta rappresentazione fotografica. Sono immagini molto statiche, in posa (per ragioni tecniche dei tempi del fotogramma), di “corpi immobilizzati, domati” . Vien da dire “addomesticati”, una vera e propria imposizione di identità.

Parlando di “immagini senza storia, decontestualizzate, corpi congelati…”

Del Lucchese si chiedeva: «Siamo sicuri che questi metodi siano veramente alle nostre spalle? Siamo certi che lo sguardo che posiamo sulle banlieue non sia sostanzialmente ancora il medesimo?».
In un suo articolo del 2005 dal titolo evocativo (La banlieue come teatro coloniale) metteva in evidenza quali fossero i meccanismi che producono la ghettizzazione, il vivere come colonizzati.

Come aveva spiegato Frantz Fanon (I dannati della terra), parlando delle popolazioni colonizzate di Asia e Africa, «la loro identità è data da uno sguardo diverso dal loro». L’abitante della banlieue viene considerato “arabo” non in senso etnico, ma quasi come “un marchio di infamia” imposto dall’esterno. Ma contemporaneamente gli verrebbe “imposto di scrollarsi di dosso questo stigma”. E questo avviene non solo per i figli, ma anche per i nipoti di immigrati.

Confermare lo stereotipo

Risultato? Alla fine, azzarda Del Lucchese «recitano un ruolo, come se ancora si trovassero nelle gabbie di un nuovo, postmoderno “zoo umano”».
Dalle numerose interviste raccolte in occasione di rivolte e ribellioni emergerebbe proprio questa tendenza a «diventare quella immagine di “arabo” che altri gli hanno cucito addosso». Sorge, ovviamente, un dubbio (non puramente “accademico”). È possibile che meccanismi analoghi di identificazione con uno stereotipo negativo, ma in grado di fornire comunque un’identità, siano entrati in azione anche nei tragici eventi che periodicamente hanno insanguinato la Francia (stragisti suicidi – e non; “lupi solitari”…)?

Per un altro studioso, Giuseppe Mosconi (docente alla Facoltà di scienze politiche di Padova), «sugli incendiari si dicono e si scrivono troppe banalità». Per esempio: «si sentono esclusi, si esprimono simbolicamente…».
Certo, è più facile dire «che cosa non sono, definirli negativamente (e quindi in pratica screditarli – N.d.A.), negare loro ogni dignità politica».

Mosconi sottolineava che a suo avviso «queste persone non si identificano a livello etnico- religioso, non si rifanno a improbabili “guerre sante” che oltretutto sarebbero facilmente recuperabili a livello mediatico». E, nonostante le analogie con le metropoli statunitensi, in particolare Los Angeles, non esprimerebbero nemmeno un generico “spirito di banda”. Probabilmente non aspirano nemmeno a diventare “giovani occidentali dediti al consumismo” ma forse cercano di «essere qualcosa che stanno ancora elaborando, una identità in crescita, in formazione».

Ossia chiedono “una forma di riconoscimento che consenta loro un movimento possibile”. Intrappolati in uno “spazio ancora indistinto”, non riconducibile ad alcuna catalogazione. È vero, nelle banlieue mancano le strutture e il welfare quasi non viene applicato, ma la soluzione non può venire soltanto dallo stato sociale. Tantomeno , ovviamente, dalla repressione.

Drone autorizzato nella repressione delle rivolte del giugno-luglio 2023

 IN DICEMBRE A PARIGI ERA CALDO…

Ma la tragica fine di Nahel riporta alla mente, oltre a quelle di Zyed Benna e Bouma Traoré, anche un’altra “mort indigne”, ancora più lontana nel tempo.
Quella di Malik Oussekine, nel caldo dicembre 1986.

Sabato 6 dicembre 1986. La mezzanotte è passata da 20 minuti

Nel garage della Prèfecture de Paris 43 poliziotti del Peloton de voltigeurs motoportés (cagoule – passamontagna – nero e casco bianco, muniti di matraque – manganello – di legno lungo un metro) ricevono l’ordine atteso per oltre dieci ore: “PMV, en place!”.
Un’ora e mezza più tardi Malik Oussekine incrocerà la strada di questi vigilantes motorizzati. Non ne uscirà vivo.

Un passo indietro

Nell’estate 1986 il sindacato studentesco UNEF-ID aveva lanciato una grande mobilitazione contro il progetto di riforma della scuola superiore proposto dal secrétaire d’Etat aux Universités, Alain Devaquet.

Il 22 novembre venivano convocati gli états généraux étudiants alla Sorbonne. Da qui parte l’indicazione di uno sciopero generale e di una grande manifestazione per il 27 novembre.

Intanto, rispondendo all’appello della Féderation de l’Education nationale, il 23 novembre duecentomila persone scendono in piazza contro la politica educativa del governo. Non è che l’inizio: due giorni dopo, il 25 novembre, sono già una cinquantina (su 78) le università in sciopero. Migliaia di studenti medi organizzano manifestazioni spontanee a Parigi. Il 27 sono oltre 500.000 in tutte le grandi città francesi.

Il 28 novembre il governo rinvia alla commissione il progetto che stava per essere sottoposto all’Assemblea nazionale. Ma non basta: gli studenti esigono che il progetto venga ritirato, non solamente ridiscusso.

Il 29 novembre il coordinamento degli studenti conferma la manifestazione indetta a Parigi per il 4 dicembre.
È ormai notte sull’esplanade des Invalides. Circa 300.000 studenti rimangono ancora in attesa del ritorno delle delegazioni inviate all’Assemblée e al ministére de l’Education nationale. La risposta genera rabbia e sconforto: il progetto viene confermato.
Dopo qualche improvvisato sit-in e sporadici scontri (sul quai d’Orsay) la polizia fa uso di cannoni ad acqua e lanci di granate (causando molti feriti, alcuni gravi) per disperdere la folla.

Il giorno successivo, 5 dicembre, migliaia di studenti si riuniscono spontaneamente, anche se in maniera alquanto disorganizzata, nel quartiere Latino. Si aspetta, senza farsi illusioni, la dichiarazione di René Monory, ministro dell’Education nationale, prevista per le 20. Per il momento non si registrano disordini. Stando ai ricordi dei presenti, la serata, rispetto ai parametri stagionali, è particolarmente douce; le persone passeggiano, si formano capannelli informali di discussione, circola molta cordialità.
Alcuni ragazzi hanno acceso un falò, ma non si vedono barricate, tanto meno saccheggi. Soltanto alcuni sacchi di sabbia vengono prelevati da un cantiere e messi di traverso, alla buona, in rue Racine. Onde evitare “provocazioni”, altri studenti sono prontamente intervenuti per togliere la simbolica barricata (alta non più di 30 centimetri).
Man mano che le ore trascorrono la piazza si va spopolando. Rimangono soltanto 300 manifestanti, in attesa di conoscere i risultati di una assemblea generale “sauvage” in corso alla Sorbonne dove il rettore ha già richiesto alla polizia di intervenire. Lo sgombero viene pianificato con cura dal prefetto Jean Paolini, dal direttore della Sécuritè publique George Le Corre e dai commissari Jean-Paul Copie e Robert Bonnet.

In campo, 8 compagnie di CRS, 3 squadroni di gendarmes mobiles e la compagnie de maintien de l’ordre della Prefettura. Una volta sgomberata la Sorbonne, si dovrà “ripulire” rapidamente il quartiere per evitare che gli studenti si riuniscano nuovamente all’esterno.
L’ordine di evacuazione arriva alle ore 1,08. In pratica, circa tre quarti d’ora dopo che è stato ordinato per radio al PVM di intervenire nel quartiere Latino. Questi motociclisti, definiti “unité de choc” e già noti per la loro brutalità, sono addestrati militarmente per intervenire in contesti ben più gravi. Forse le autorità sopravvalutano il numero e la combattività dei manifestanti? Si teme una riedizione del Maggio Sessantotto a quasi venti anni di distanza? In ogni caso, la decisione di far intervenire il PVM è quantomeno aberrante.

Intanto dalla Sorbonne gli occupanti escono con le braccia alzate e tutto sembra procedere pacificamente. Sembra soltanto. Sarebbe, secondo i testimoni, verso l’1,30 del mattino che il comportamento della polizia comincia a inasprirsi. Un atteggiamento dovuto forse alla fretta di concludere l’operazione. Il PVM piomba su alcuni manifestanti intenti a rovesciare un bidone della spazzatura in rue Gay-Lussac. L’orda di moto semina il panico, sale anche sui marciapiedi, vengono colpite persone che semplicemente rientravano a casa dal bar o dal ristorante. A quell’ora, l’ala destra del plotone (7 equipaggi), guidata dal brigadier-chef Jean Schmitt, risale il boulevard Saint-Michel e imbocca a tutta velocità rue Racine inseguendo una ventina di presunti manifestanti.

Tavole dal racconto disegnato Contrecoups di Puchol e Bollée

È a questo punto che la moto di Schmitt si ribalta, probabilmente per una brusca frenata. Un ragazzo, terrorizzato dalle sirene, dal rombo dei motori, dall’evidente aggressività dei poliziotti sta fuggendo a gambe levate. Non meno spaventato, a pochi metri sta correndo anche Paul Bayzelon, un alto funzionario del ministero delle Finanze, rientrato da una cena nel momento sbagliato. Bayzelon ricorderà poi di aver pensato, sentendo i motori: «non mi picchieranno, sono ben vestito…» ma poi saggiamente comincia a correre. Dalle moto, i poliziotti colpiscono chiunque capiti a tiro. Il ventitreenne Garcia, alla sua prima missione di PVN, scende dal mezzo guidato dal collega Giorgi e comincia a inseguire a piedi i fuggitivi (contravvenendo al regolamento). Il caso, o il destino, metterà Malik a portata della sua matraque.
Arrivato al numero 20 di rue Monsieur-le-Prince, Paul Bayzelon riesce a entrare nel palazzo dove abita. Dietro di lui, terrorizzato, si getta Malik in cerca di rifugio. Bayzelon, ancora nella hall del palazzo, ne intravede il volto incollato all’esterno della porta a vetri. Dirà di essere rimasto colpito dagli occhi pieni di terrore. Gli apre e anche Malik si rifugia nella hall.

Al momento di richiudere la porta, due (o forse tre) poliziotti, tra cui Garcia e Schmitt (e forse anche Christian Giorgi, la dinamica non è mai stata completamente chiarita) entrano di forza e si precipitano su Malik massacrandolo a colpi di manganello. Lo colpiscono soprattutto alla testa e contemporaneamente lo prendono a calci nel ventre e sulla schiena. Bayzelon testimonierà che all’entrata dei poliziotti Malik aveva gridato: «Je n’ai rien fait… Je n’ai rien fait». Poi più niente, solo i grugniti dei picchiatori e i colpi sordi delle manganellate. I poliziotti escono, ma rientreranno subito, pestando anche Bayzelon, in quanto Schmitt aveva perso la sua pistola. Malik è in un mare di sangue. Verrà soccorso, comunque troppo tardi, solo casualmente. Un’ambulanza del SAMU passa per rue Racine e viene fermata da alcuni passanti. Dopo alcuni tentativi di rianimarlo, il medico si rende conto che per il giovane ormai non c’è più speranza. Finge ugualmente un ricovero d’urgenza, forse per evitare disordini data che una piccola folla si va ammassando davanti al civico 20 di rue Monsieur-le-Prince. Il resto è la triste cronaca di una famiglia sconvolta dalla notizia: Malik è morto. Ammazzato di botte dalla polizia.

Chi era Malik Oussekine?

Nato il 18 ottobre 1964, era figlio di un camionista (in precedenza minatore e muratore) di origine algerina morto nel 1978. La famiglia abitava in un HLM (casa popolare) a Meudon-la Foret. Colpito fin dalla nascita da una malattia dei reni, aveva trascorso buona parte della infanzia tra ricoveri ospedalieri, cure, controlli e trattamenti.

«il est confiant dans son avvenir»

Stando alle testimonianza raccolte da Nathalie Prévost, all’epoca studentessa dell’école de journalisme e amica della sorella, Malik era un ragazzo educato e gentile che non parlava mai dei suoi problemi di salute. Così lo ricordava il preside della sua scuola dove si distinse per discrezione e impegno. Sempre “ansioso di vivere” incoraggiato in questo dai fratelli maggiori. Gioca a tennis, nuota, si iscrive a un corso di karaté, si allena a basket in un club. Sogna di diventare musicista, ama soul e funk. Con l’adolescenza i suoi problemi di salute si aggravano. Nel 1986 deve sottoporsi a dialisi e un fratello inizia le pratiche per donargli un rene. Malik rimane comunque un ragazzo intraprendente che ripone molte speranze nel futuro. Per un anno rimane in cura presso un centro di Avon dove può continuare i suoi studi fra un trattamento e l’altro. Quando il fratello Ben Ammar lo porta a vivere vicino a lui, nel XVII, Malik si iscrive all’ESPI, una scuola di economia.

«Assiduo, puntuale, attento alle lezioni»

Forse un po’ solo, geloso della sua indipendenza e sempre molto reticente sulla malattia. Grazie all’aiuto dei familiari (i fratelli sono piccoli imprenditori) ha la possibilità di compiere qualche breve viaggio in Italia, Spagna e Gran Bretagna. Poi, nel settembre 1986, negli Stati Uniti presso la famiglia di un medico dove può essere seguito.
Ritorna a Parigi colmo di entusiasmo. Sicuramente molto idéaliste, non è però impegnato politicamente. Si sente francese e solo per pochi mesi frequenta l’Amicale des Algèriens en Europe e più tardi la Fusion (più che altro per curiosità secondo il fratello). Da sempre interessato alle questioni religiose, avrebbe preso in seria considerazione l’ipotesi di diventare cattolico e forse anche di farsi prete. In tasca, quando viene massacrato, aveva una copia del Nuovo Testamento. Pochi giorni prima aveva voluto incontrare due sacerdoti, P. Baudin e P. Desjobert che lo ricordano come

«molto determinato, anche se forse un po’ impaziente». Sicuramente, – dicono – «Malik è stato colto dalla morte in un momento in cui stava compiendo scelte profonde».

Scelte che due o tre poliziotti hanno stroncato sul nascere, à coups de matraque, quel 6 dicembre 1986.

… OGGI MALIK OUSSEKINE AVREBBE 59 ANNI

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Africa Day: le sfide anticoloniali sono sempre attuali https://ogzero.org/africa-day-le-sfide-anticoloniali-sono-sempre-attuali/ Thu, 25 May 2023 21:40:42 +0000 https://ogzero.org/?p=11124 Se il buongiorno dell’Africa Day si vede dal mattino, lo schianto del Freetown Cotton Tree, albero simbolo della libertà dallo schiavismo, proprio quando sta per sorgere l’alba del sessantesimo anno dell’Unione Africana non è di buon auspicio… e si va ad aggiungere ai molti conflitti sparsi un po’ in ogni area continentale. Eppure l’Africa è […]

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Se il buongiorno dell’Africa Day si vede dal mattino, lo schianto del Freetown Cotton Tree, albero simbolo della libertà dallo schiavismo, proprio quando sta per sorgere l’alba del sessantesimo anno dell’Unione Africana non è di buon auspicio… e si va ad aggiungere ai molti conflitti sparsi un po’ in ogni area continentale.
Eppure l’Africa è al centro di ogni affare (Descalzi incontra Nguesso per inaugurare il “Congo Lng”), interesse (Kuleba incontra i leader dell’UA in vista di mediazione sulla guerra), ricchezza (Tshisekedi – nato nel 1963, come l’UA – si accorda sul cobalto con Xi)… queste solo alcune delle notizie odierne. In Ghana Gold Fields e AngloGold Ashanti si uniscono per creare la più grande miniera d’oro africana e contemporaneamente un tornado sradica l’albero della libertà… ci sarà una qualche correlazione?


Dopo il colonialismo… 60 anni di neocolonialismo

Le celebrazioni, in Africa, hanno sempre un valore simbolico. Ricche di retorica ma anche di auspici. Appartengono alla vita delle comunità e degli stati. Anche in questo giorno, in cui si celebra l’Africa Day, il continente si è mobilitato.
Oggi si ricordava la fondazione dell’Organizzazione dell’Unità africana (Oua), che avvenne il 25 maggio del 1963, sessant’anni fa. In alcuni paesi prende il sopravvento la retorica condita di anticolonialismo. In altri, invece, si guarda al futuro e alle sfide, che retoriche non sono, che attendono un continente provato dalla pandemia di Covid, dall’inflazione dei prezzi dei generi energetici e, soprattutto, alimentari dovuto alla situazione economica globale aggravata dalla guerra in Ucraina.

Le sfide del continente

Ma sono anche altre le sfide. Il terrorismo, per esempio, e tutt’altro che sconfitto anzi, dilaga in molti paesi come il Mali, Il Burkina Faso, che sembrano essere incapaci di farvi fronte nonostante i paesi siano stati squassati da colpi di stato. Dall’arrivo dei militari al potere la situazione, se possibile, si è ancora aggravata e nulla ha potuto la retorica anticoloniale, in particolare il sentimento antifrancese che pervade le popolazioni di questi due paesi, ma anche la simpatia, che è diventata rapporto strutturale con la Russia, che fornisce armi e mercenari della Compagnia Wagner. Tutto il Sahel è pervaso da una ondata jihadista senza precedenti, con le cancellerie internazionali preoccupate per la possibile saldatura con le organizzazioni criminali internazionali.  Cancellerie che, tuttavia, non sono state in grado di risolvere il problema perché hanno privilegiato l’intervento securitario – necessario – alla cooperazione allo sviluppo. Il terrorismo nel Sahel, così come in Somalia, si alimenta della povertà dilagante, dell’incapacità degli stati di far fronte ai bisogni della popolazione. Verrebbe da dire che l’arma più efficace per combattere i terroristi sarebbe mettere in campo riforme economiche e un welfare state degno di questo nome, così da togliere da sotto i piedi dei terroristi il loro terreno privilegiato, cioè la povertà. Lavoro non da poco.
Ma sono molte altre le sfide che attendono il continente, soprattutto economiche. L’intera Africa deve avere come faro la diversificazione economica, non può affidarsi, solo, alle materie prime, pur preziose per avere le risorse per creare un tessuto industriale manifatturiero. Significativo da questo punto di vista lo sbilanciamento delle relazioni con la Cina, il primo partner commerciale del continente. Nei primi quattro mesi del 2023 le esportazioni cinesi verso i paesi africani sono cresciute del 26,9%, mentre quelle dell’Africa verso la Cina sono diminuite dell’11,8%. Uno squilibrio evidente, aggravato dal fatto che Pechino esporta in Africa prodotti finiti – tessile, abbigliamento, macchinari, elettronica – mentre le esportazioni africane verso la Cina sono dominate da materie prime come petrolio greggio, rame, cobalto e minerale di ferro, di cui il Dragone ha estremamente bisogno. Proprio per queste ragioni il continente deve lavorare con più determinazione per la costruzione di un tessuto produttivo manifatturiero.
Questa, inoltre, è la grande sfida che attende l’Area di libero scambio continentale africana (Afcta) – entrata in vigore nel gennaio del 2021 – un mercato di 1,2 miliardi di persone e di un Pil combinato di circa 3,4 trilioni di dollari. Un’area commerciale che stenta a decollare per la mancanza di infrastrutture sicure, capaci di collegare gli stati ma soprattutto per la risibilità della manifattura africana. Tra i paesi del continente non possono circolare, solo, le materie prime, queste se le accaparrano le multinazionali e portano beneficio a pochi. L’Africa vive un paradosso: è ricca di risorse, ma, per fare un esempio, i due colossi nella produzione di petrolio in Africa subsahariana – Angola e Nigeria – importano circa l’80% del loro fabbisogno in carburante. Da non trascurare che le materie prime sono soggette alle oscillazioni dei mercati internazionali.
Altra sfida è quella dell’energia elettrica. Ancora nel 2023 milioni di africani rimangono al buio, e anche questo è un paradosso viste le potenzialità del continente: solare, idroelettrico, geotermico, eolico, energie pulite come l’idrogeno verde. Mettere a sistema tutto ciò darebbe un impulso al mercato unico e quindi a uno sviluppo sostenibile ma, soprattutto durabile.  Questione che solo un’organizzazione sovranazionale, come l’Unione Africana, può affrontare.

Oligarchie dinastiche senza fine…

Poi ci sono questioni puramente politiche. Lasciamo da parte i presidenti africani che durano in eterno senza produrre benefici per le popolazioni ma solo animati da bulimia di potere e, spesso, sostenuti dallo stesso occidente così attento allo stato di diritto. Il punto, per rimanere alle celebrazioni di oggi, sarebbe l’attribuzione di un ruolo da pari nei consessi internazionali all’Unione africana.

vs un seggio permanente all’Onu

Un’ipotesi che si sta materializzando e potrebbe diventare concreta: un seggio, per così dire, permanente, non solo da osservatore, come spesso è capitato nei vari G20 o G7 che siano, dove di volta in volta, veniva invitato qualche presidente africano o gli stessi esponenti dell’Unione africana. Così come soddisfare la richiesta dell’Unione africana di occupare un seggio permanente al Consiglio di sicurezza dell’Onu. Formalizzare e concretizzare una presenza “permanente” avrebbe il significato di trasformare il continente africano in potenza che decide, non più, dunque, con un ruolo subalterno che ogni volta negozia con questo o quello stato occidentale, ma protagonista del proprio futuro di fronte alle potenze internazionali. Tutto ciò sarebbe un cambio di paradigma perché porterebbe l’Africa a discutere, da pari, del proprio sviluppo sia economico sia politico e sociale, con l’occidente sviluppato.

Non è una cosa qualunque, sarebbe epocale.


Come epocale è l’espianto del Freetown Cotton Tree in questa data simbolica

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Il Pakistan brucia… la neve distrae, ovattando l’eco dei conflitti https://ogzero.org/il-pakistan-brucia-la-neve-distrae-ovattando-leco-dei-conflitti/ Sun, 21 May 2023 09:51:28 +0000 https://ogzero.org/?p=11093 Il Pakistan, già in sofferenza per gli attacchi dell’estremismo islamico e per i disastri ambientali, rischia forse di precipitare nella guerra civile. Niente di nuovo naturalmente. Almeno per le minoranze etniche e religiose e – soprattutto – per le donne, i bambini, i diseredati. Vittime designate di una costante “guerra a bassa intensità”. Ma l’importante […]

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Il Pakistan, già in sofferenza per gli attacchi dell’estremismo islamico e per i disastri ambientali, rischia forse di precipitare nella guerra civile. Niente di nuovo naturalmente. Almeno per le minoranze etniche e religiose e – soprattutto – per le donne, i bambini, i diseredati. Vittime designate di una costante “guerra a bassa intensità”.
Ma l’importante è continuare a sciare sulle “cime inviolate” del “Terzo Polo”. Come non mancano di segnalarci amabilmente su Instagram gli stessi vacanzieri d’alta quota nostrani… che non boicottano e così immemori non si accorgono di affiancare i militari di uno stato oppressore, in mano a un’oligarchia che spadroneggia su cittadini discriminati. Sintomatico del modo di fare affari, senza badare alla natura delle oligarchie genocidiarie che controllano i paesi con cui si intrecciano.
In questi giorni in cui il Pakistan è tornato alla ribalta per gli scontri con decine di morti dopo l’arresto di Imran Khan ci sembra interessante il modo in cui Gianni Sartori inforca il grandangolo perlustrando l’area pakistana, allargando lo sguardo sia nel tempo che ai temi.  


Il balletto criminale delle elezioni imminenti

Ma cosa sta succedendo in Pakistan? Davvero siamo alle soglie di una guerra civile? O stiamo assistendo al preludio (“con altri mezzi”) della campagna elettorale in vista delle elezioni di ottobre (salvo modifiche, rinvii)?

Il risvolto etnico

In realtà per alcune minoranze etniche o religiose: hazara, beluci, cristiani, sciiti… così come per le donne, i bambini e un gran numero di diseredati, la situazione era già difficile. Tra attentati, aggressioni, (guerra a bassa intensità ?), discriminazioni…che si vengono a sovrapporre (con effetti sinergici) alla grave crisi economica e alla disastrosa situazione sanitaria. Per non parlare di alluvioni e altre emergenze ambientali.

Il risvolto talebano

Un recente avvenimento è sintomo emblematico di una situazione in via di ulteriore degrado (e qui non mi riferisco a quello ambientale).
Qualche giorno fa Muhammad Alam Khan, un poliziotto assegnato alla protezione della Catholic Public High School (una scuola cattolica femminile) nel Nordovest del Pakistan (a Sangota, nella valle dello Swat, provincia del Khyber Pakhtunkhwa), ha aperto il fuoco contro il pulmino che trasportava le allieve uccidendone una di 8 anni e ferendone altre sei e un’insegnante.
Il tragico episodio è avvenuto nella stessa regione da cui proviene Malala Yousafzai, l’attivista premio Nobel per la pace per aver condotto una campagna contro il divieto all’istruzione femminile imposto dal Tehreek-e Taliban Pakistan (Ttp, i talebani pakistani). Nel 2012 anche lei era stata colpita alla testa da un proiettile sull’autobus per tornare a casa da scuola, mentre anni fa la Catholic Public High School aveva dovuto chiudere per le minacce e per gli attentati.

Nel 2022 in questa provincia si sono registrati almeno 225 attentati (“solo” 168 nel 2021). O almeno secondo le cifre ufficiali. Da parte loro i miliziani legati al Ttp ne avevano rivendicato oltre 360. Senza dimenticare gli attacchi di un’altra organizzazione jihadista-terrorista operativa anche in Pakistan: lo Stato islamico che solo nel marzo 2022 aveva ucciso oltre 60 persone.
E anche il 2023 non sembra promettere bene. Solo nei primi quattro mesi sono già 180 quelli ufficiali.

Nel gennaio di quest’anno i talebani pakistani avevano rivendicato anche il sanguinoso attacco suicida (con oltre una trentina di morti e centinaia di feriti) ad una moschea di Peshawar, situata in un complesso dove si trova il quartiere generale della provincia del Khyber Pakhtunkhwa.

Il risvolto separatista

Per completezza va anche ricordato che gli attentati non sono monopolio esclusivo degli estremisti islamici. Un attacco suicida dell’agosto 20121 nella città di Gwadar (contro un veicolo cinese) era stato rivendicato dai separatisti beluci.

Una situazione drammatica, convulsa e foriera di ulteriori lutti.

Le malefatte di Imran Khan

Non per niente tra le questioni sollevate dall’attuale conflitto interno tra governo e opposizione (ma anche tra militari e una parte della società civile) appare rilevante l’accusa di ambiguità rivolta all’ex primo ministro Imran Khan. Per aver consentito, favorito il rientro in patria dei talebani pakistani purché garantissero di deporre le armi (cosa auspicabile ma difficile da realizzare). Come era prevedibile, nonostante le trattative per il loro reinserimento e per una “soluzione politica” del conflitto, dopo poco tempo gli attentati erano ripresi. Alimentando il sospetto che i colloqui, le trattative avessero in realtà consentito al Ttp di riorganizzarsi.

Le persecuzioni contro Imran Khan

Quanto alle numerose azioni giudiziarie lanciate contro lo stesso leader del Pakistan Tehreek-e-Insaf (Pti) per corruzione e reati finanziari (e anche un probabile tentativo di eliminarlo fisicamente, stroncato dalla mobilitazione dei militanti del Pti), presumibilmente in parte strumentali, per ora sembrano aver portato più che altro all’incarcerazione di tanti suoi seguaci. Pare anche dietro sua indicazione: farsi arrestare per “saturare le carceri e screditare il governo”… quanto meno un rischioso azzardo.

Tra le accuse principali, quella relativa all’Al-Qadir Trust, proprietà di Khan e della moglie, a cui l’impresa immobiliare Bahria Town avrebbe fornito un terreno del valore di 530 milioni di rupie (1,71 milioni di euro)
Ma forse Imran Khan sta anche pagando il prezzo di un suo avvicinamento alla Russia (malvisto dagli Usa, oltre che dall’India per ragioni inverse). Questo potrebbe aver innescato la rottura con l’esercito e favorito la sua defenestrazione.

Come è noto l’ex primo ministro è stato arrestato (a quanto sembra da un gruppo paramilitare legato ai servizi segreti) mentre si trovava all’Alta corte di Islamabad per testimoniare in un processo.

Ambiguità pakistane nel posizionamento geopolitico

Naturalmente non mancano (anche a sinistra, tra quella più “campista”) gli estimatori del regime pakistano.
Pensando di intravedervi una componente di possibili “blocchi egemonici alternativi musulmani” per un mondo multipolare contro l’imperialismo statunitense. Blocchi di cui potrebbero far parte sia la Turchia che l’Iran e in buoni rapporti con Russia e Cina. Sarà, ma non mi convince. In realtà è più probabile che il Pakistan (come da tradizione) continuerà a giocare su due tavoli. Se con gli Stati Uniti prevale la collaborazione sul piano militare (e i finanziamenti), con la Cina va sviluppando l’aspetto commerciale (vedi la Via della Seta).

Lasciando per ora da parte l’altro rischio, quello di un possibile conflitto nucleare con l’India. Magari a causa di un “malfunzionamento tecnico”, di un errore. Come quando nel marzo scorso l’India ha lanciato accidentalmente un missile supersonico in Pakistan. Caduto senza danni particolari nel Punjab (distretto di Khanewal).

Indifferenza occidentale

In alta quota si trovano i retaggi degli scambi d’interessi tra imprese occidentali (molto spesso italiane, anche affondando nelle nevi storicamente del passato) e intrecci tra potere canaglia di uno stato dai molteplici scambi interessanti. Sempre intenti a individuare qualche residua “cima inviolata” (lapsus rivelatore?) da cui scendere con gli sci (anche qualche giorno fa nella regione del Gilgit-Baltistan).
Mentre – che so – negli anni Ottanta del secolo scorso era quasi normale (almeno per persone con un minimo di coscienza sociale, politica…) boicottare almeno turisticamente un paese come il Sudafrica dell’apartheid e in epoca più recente la Turchia che reprime il popolo curdo, oggi come oggi andare a trascorrere le “settimane bianche” in Pakistan per alpinisti, escursionisti e sciatori nostrani non sembra assolutamente fuori luogo. Anche a persone che magari poi se la tirano con le questioni umanitarie e ambientali. O quelli che mentre denunciano lo scioglimento dei ghiacciai del “Terzo Polo” vi contribuiscono con i loro mezzi (nel senso di veicoli).

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Una svolta culturale siamese non solo nelle urne thai: Move Forward https://ogzero.org/una-svolta-culturale-siamese-non-solo-nelle-urne-thai-move-forward/ Wed, 17 May 2023 22:21:48 +0000 https://ogzero.org/?p=11056 I due nostri riferimenti autoriali nel Sudest asiatico ci sono di aiuto per dare il corretto rilievo alla trasformazione in corso nella società thailandese, che ha visto nelle elezioni del 14 maggio l’emersione della volontà di “emancipazione” da parte della componente più giovane e che ha incarnato già nella Milk Tea Alliance preCovid la richiesta […]

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I due nostri riferimenti autoriali nel Sudest asiatico ci sono di aiuto per dare il corretto rilievo alla trasformazione in corso nella società thailandese, che ha visto nelle elezioni del 14 maggio l’emersione della volontà di “emancipazione” da parte della componente più giovane e che ha incarnato già nella Milk Tea Alliance preCovid la richiesta di modernizzazione e il rifiuto dell’Orientalismo; per cominciare ad approcciarci allo spirito che si aggira nella monarchia costituzionale controllata dai militari dal golpe del 2014 riprendiamo un articolo di Emanuele Giordana apparso su “L’Atlante delle Guerre” a cui aggiungiamo una lunga chiacchierata fatta nella mattinata di martedì 16 maggio in Radio Blackout con Massimo Morello, che  vive a Bangkok da alcuni anni e ha le antenne giuste per cogliere alcune sfumature che sfuggono alla maggioranza degli analisti privi delle competenze culturali e sociologiche, da lui acquisite soltanto con l’immersione in quel mondo in fermento.

«Il voto di domenica segna la sconfitta dei militari e l’ascesa del partito Move Forward. Ma servono delle “larghe intese”», è l’incipit del pezzo di Emanuele Giordana: questo avviene per il sistema elettorale, che però – come spiega Massimo Morello – incide solo tangenzialmente, perché in realtà l’approccio thailandese è in grado di aggirare e rendere possibile ciò che la società sente e finisce con l’imporre.


L’aria di rinnovamento che spira a Bangkok…

Il Move Forward Party e il Pheu Thai, due organizzazioni che incarnano l’opposizione tailandese a un’imperfetta democrazia gestita da militari in doppiopetto, sono i due partiti più votati della Thailandia. Hanno vinto le elezioni di domenica scorsa e hanno subito formato una coalizione promossa del Move Forward che dovrebbe assicurare 309 voti al futuro governo, ben oltre la maggioranza richiesta di 250 seggi alla Camera Bassa per poter proporre un nuovo gabinetto. Ma non è così semplice formare un governo in Thailandia.
Trecentosettantasei è il numero su cui si gioca il futuro politico della Thailandia dopo che i risultati del voto di domenica hanno dato la maggioranza ai due maggiori partiti di opposizione umiliando quelli legati ai generali, che per un decennio hanno tenuto in scacco la fragile democrazia siamese. La somma aritmetica e costituzionale che il futuro gabinetto deve ottenere dal voto a Camere riunite è infatti 376.

IL PROBLEMA è che le due Camere, il cui totale fa 750 scranni, sono assai diverse: la nuova Camera Bassa infatti si formerà sulla base del voto del 14 maggio, assicurando poco meno di 300 seggi ai due partiti di opposizione che hanno de facto vinto le elezioni: il Move Forward e il Pheu Thai. Ma la Camera Alta, il Senato dell’imperfetta monarchia costituzionale tailandese, è invece di nomina militare. I 500 voti dell’Assemblea – dove ha vinto l’opposizione – sommati ai 250 del Senato richiedono dunque una maggioranza di 376 voti perché il premier in pectore e il suo governo passino l’esame del parlamento. In buona sostanza i partiti dei militari, dei generali Prayut e Prawit – entrambi ex premier – possono farcela pur avendo raggranellato un’umiliante percentuale (meno di 80 seggi) in un’elezione che, a sorpresa, ha premiato il partito Move Forward di Pita Limjaroenrat (151 seggi) che i sondaggi non davano così in alto nei cuori dei tailandesi; è un partito che vuole riformare la legge durissima che punisce chi critica il re (articolo 112 della Costituzione) ed è un partito che vuole migliorare il welfare. Piace ai giovani ma anche agli imprenditori. Quanto ai senatori però, secondo il “Bangkok Post”, non avrebbero nessuna intenzione di approvare la candidatura di un “antimonarchico” per quanto blando, Ma, mai dire mai. C’è chi potrebbe invece farci un pensierino.
Sarà una marcia longa anche se poi tutto si giocherà a breve: nella capacità del Move Forward di tenere insieme la coalizione appena annunciata con altri 5 partiti, tra cui ovviamente Pheu Thai (in dote porta 141 seggi), di cooptare magari altri cespugli o nella possibilità che si formi alla fine un governo di “larghe intese” che faccia leva anche su parte delle minoranze. O ancora che qualcuno nel Senato, fiutando l’aria che tira, non cambi casacca. All’orizzonte dunque ci sono molte incognite e forse molte sorprese. Compresa l’ombra dell’ennesimo golpe anche se tutti lo ritengono ormai improbabile. E il re? Il monarca attuale, non molto amato nel regno, vorrà dire la sua?

QUEL CHE È CERTO è che dal 14 maggio la Thailandia respira un’aria diversa a cominciare da una partecipazione al voto di oltre il 70% degli aventi diritto. Move Forward poi, erede di un partito espulso dal parlamento e senza ombra di dubbio progressista, ha superato le aspettative: col voto giovanile, col voto di chi non vuole una Paese a democrazia limitata e una monarchia intoccabile, col voto di chi non crede nelle ricette neoliberiste del Pheu Thai (che si ispira al tycoon Thaksin Shinawatra che a capo del partito ha messo la figlia Paetongtarn), col voto di chi è stufo di dinastie, stellette e di un’asfittica libertà vigilata. Ora bisogna vedere se la neo coalizione (310 voti) terrà la strada. Ma una cosa è certa: essendo chiaro che il vincitore è Pita, e con lui l’opposizione, qualsiasi tentativo di scavalcarli non andrebbe liscio come in passato. Fuori dai palazzi c’è una piazza che ha già dimostrato – anche col voto – di voler un cambio.

… quell’aria potrebbe soffiare anche altrove in Asean?

VISTE DALL’EUROPA le elezioni thai possono forse sembrare solo un esotico balletto da cui dipende il destino di 70 milioni di sudditi. Ma visto dall’Asia il voto ha ben altro sapore. Queste elezioni sono state seguite con apprensione dall’India – dove ci troviamo – all’Indonesia, ora presidente di turno dell’Asean, l’organizzazione regionale dove siede – benché sotto schiaffo – anche il Myanmar. Al cambio di vertice a Bangkok corrisponderebbe un cambio di marcia verso la giunta birmana. Pita ha già detto – facendo felice Giacarta – che sosterrà l’Asean e la sua mediazione in 5 punti il che vorrebbe dire forse accantonare l’iniziativa (Track 1.5), caldeggiata da Delhi, che aveva il compito di ammorbidire i rapporti con la giunta. Destinati quindi a inasprirsi. Pita lo ha chiarito a poche ore dai primi risultati mostrando di avere idee molto chiare sulla democrazia. E non solo su quella tailandese. «Sarò premier», ha detto. In molti ci sperano.


A corredo di questa precisa analisi del voto di Emanuele siamo andati a Bangkok a incontrare Massimo Morello per collocare questo risultato nel contesto che lo ha reso possibile e nelle parole del reporter che vive da 15 anni nella capitale siamese si coglie l’intuizione che si tratti della scvolta che la generazione Z sia riuscita a imporre la modernizzazione del costume troppo stretto e anacronistico che la tradizione impone con le sue strutture sistemiche, travolte dallo spirito del paese.

“Move Forward è una vera rivoluzione del costume thai”.

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L’utile curdo per il regime turco https://ogzero.org/lutile-curdo-per-il-regime-turco/ Fri, 05 May 2023 22:52:29 +0000 https://ogzero.org/?p=10941 «Apparato operativo dei poteri globali», così la asservita stampa turca del 6 maggio 2023 accoglie e fa suo l’attacco scomposto del presidente a “The Economist”, perché la testata nella sua copertina definiva le elezioni del 14 maggio “le più importanti del 2023”, con un esplicito endorsement per Kılıçdaroğlu, mettendo in bella evidenza adesivi con su […]

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«Apparato operativo dei poteri globali», così la asservita stampa turca del 6 maggio 2023 accoglie e fa suo l’attacco scomposto del presidente a “The Economist”, perché la testata nella sua copertina definiva le elezioni del 14 maggio “le più importanti del 2023”, con un esplicito endorsement per Kılıçdaroğlu, mettendo in bella evidenza adesivi con su scritto «Erdoğan se ne deve andare».

 

Dopo 20 anni di morsa sul potere in ogni suo aspetto, dapprima graduale (da sindaco di Istanbul fino al terremoto di Izmit) e poi assoluta (dopo Taksim e soprattutto il tentato golpe del 2016), s’indovinano le crepe nel sistema di Erdoğan. Si colgono anche dall’affanno con cui reagisce ai titoli come quelli di “The Economist”, o con cui cerca alleanze in vista dell’appuntamento elettorale, anticipato dal presidente stesso prima che il terremoto producesse uno sconquasso nel suo progetto di perpetuare il suo controllo sul paese e sugli affari che hanno prosciugato le casse del paese, stremato l’economia, prodotto inflazione, arricchendo una sparuta oligarchia fondata sul consenso della provincia confessionale, sulla repressione della stampa ormai monopolizzata, come il settore delle infrastrutture, che per una beffa del destino potrebbe essere travolta dalle macerie del terremoto.


Con un piccolo aiuto dai nostri amici curdi

Le elezioni presidenziali e politiche che si svolgeranno in Turchia il 14 maggio hanno un’importanza storica per una serie di ragioni. Tra queste senz’altro il fatto che la maggior parte dei partiti d’opposizione, per la prima volta, abbiano deciso di indicare un candidato unico. Anche per questo, ma non solo, i sondaggi parlano del secondo turno per le presidenziali e di un’avanzata significativa dei partiti di opposizione in quelle politiche. Chiaramente queste dinamiche fanno sì che la coalizione al governo si metta alla ricerca di nuovi alleati a casa e rafforzi quelli all’estero. In questa ricerca è importante il voto della popolazione curdofona presente in Turchia e fuori dai confini.

Il reclutamento di HüdaPar: i devoti curdi ultraconservatori

Il 13 marzo, Numan Kurtulmuş, il vicepresidente generale del Partito dello sviluppo e della giustizia (Akp) si è presentato davanti alle telecamere con Zekeriya Yapıcıoğlu, il presidente generale del partito HüdaPar. In questa apparizione storica Yapıcıoğlu ha comunicato l’appoggio ufficiale del suo partito alla candidatura di Recep Tayyip Erdoğan, per le elezioni presidenziali. Dopo questo avvicinamento ufficiale e plateale, il 9 aprile il partito al governo Akp ha dichiarato ufficialmente che 4 membri del HüdaPar saranno candidati nelle liste del principale partito della Turchia. Con questa notizia HüdaPar entra nella casa dell’Alleanza della Repubblica. Ma chi è HüdaPar e perché oggi entra in questa coalizione già esistente dal 2017?


HüdaPar nasce come partito politico parlamentare nel 2012. Nello sfondo del suo logo è dominante il verde, poi al centro c’è un libro bianco da cui sorge un sole giallo. L’estensione del suo nome sarebbe Hur Dava Partisi, il partito della Causa Libera. Ovviamente va prestata l’attenzione sul significato della parola “Hüda” che trova spazio in diversi versi nel Corano e vuol dire “colui che indica la strada” ma è anche uno dei nomi attribuito ad “Allah” quindi in qualche maniera vuol dire “Dio”. Questa chiave semantica ci aiuta a capire che definirlo un partito conservatore è un eufemismo.
Infatti se andiamo a spulciare molto velocemente lo statuto del partito e anche il programma troviamo una serie di obiettivi, ideali e promesse molto conservatrici.

«Ricostruire il sistema governativo basandosi sui valori di fede della società. Ravviare i valori islamici. Definire l’omosessualità come una devianza, vietarla e punirla. Rafforzare i rapporti commerciali e politici con i paesi musulmani. Riformare il sistema scolastico secondo i valori dell’Islam. Iniziare con le lezioni di Arabo e del Corano già nel primo anno delle elementari. Parificare le scuole religiose con quelle statali. Concedere la possibilità di differenziare le classi nelle scuole pubbliche in base al sesso degli studenti. Definire la composizione della famiglia: uomo e donna».

È abbastanza, chiaro, no?

HüdaPar: dio turco e misogino, ma patria e lingua curde

Insieme a queste promesse e obiettivi vediamo una serie di punti che ci fanno capire il secondo “colore” del partito. Sempre nel programma elettorale e nello statuto leggiamo le seguenti affermazioni:

«Il diritto all’istruzione in lingua madre va riconosciuto e garantito. La Costituzione va privata da qualsiasi riferimento etnico. Il servizio militare deve essere abolito. L’obiezione di coscienza va riconosciuto come un diritto. Va ammesso che la nascita della Repubblica ha danneggiato la storica fraternità tra il popolo turco e quello curdo. La laicità dello stato ha reso difficile la vita ai curdi musulmani. I curdi sono le vittime delle politiche di assimilazione e turchizzazione. Lo stato deve ammettere i suoi crimini commessi nel Sudest del paese, chiedere scusa e risarcire i danni. I curdi devono essere riconosciuti nella Costituzione e la lingua curda deve essere riconosciuta come seconda lingua della Turchia. La forza del governo centrale deve essere alleggerita e il potere delle amministrazioni locali deve essere rafforzato».

Dunque è chiaro che siamo di fronte a una formazione che promette una serie di vittorie e riconoscimenti per le persone curdofone. Ma lo fa con un obiettivo e programma decisamente omofobico, fondamentalista e di certo non laico. Per questo l’HüdaPar rappresenta quella fetta della società curdofona che si identifica con un percorso politico decisamente conservatore e per cui “questi curdi” vanno bene per il partito al governo.
Infatti già nel 2020, l’ex presidente generale del partito, ossia Ishak Sağlam invitò il presidente della repubblica a uscire dalla Convenzione d’Istanbul. Quella convenzione forte e importante che fu creata proprio a Istanbul in Turchia nel 2011 con l’obiettivo di lottare contro i femminicidi e tutelare tutte le identità di genere e gli orientamenti sessuali delle persone. Oggi lo stesso partito, con un altro presidente, parla dell’eliminazione della legge 6284 che riguarda la famiglia e la violenza sulle donne.

Il terrorista curdo buono deve essere fondamentalista…

Purtroppo nel capitolo che riguarda HüdaPar ci sarebbe un altro piccolo approfondimento da fare. Ossia il passato di questo movimento e il suo presunto legame con l’Hezbollah turco.
Si tratta di una formazione paramilitare e armata che appare in Turchia negli anni Ottanta. Per chiarire tutto per una volta, l’Hezbollah turco non avrebbe alcun legame con l’omonimo Partito sciita libanese. Infatti Hezbollah turco sarebbe una formazione armata fondamentalista e sunnita. Il suo profilo terroristico è stato confermato dal Dipartimento di Stato degli Usa, nel 2011, e dalla Presidenza generale della Lotta contro il terrorismo in Turchia nel 2012. Questa formazione paramilitare è stata sempre accusata di avere dei legami con i servizi segreti di Ankara e di prendere di mira quasi esclusivamente quella parte marxista del movimento curdo in Turchia. Di questo parla in modo articolato il famoso giornalista Ruşen Çakır nel suo libro Derin Hizbullah pubblicato nel 2016.
La Turchia è venuta a sapere dell’esistenza di questa organizzazione terrorista nel 2000 quando il suo ex leader, Hüseyin Velioğlu, in uno scontro armato con la polizia è stato ucciso e presso la sua abitazione sono stati trovati numerosi documenti che hanno spalancato nuove porte. Le stesse che hanno portato i poliziotti e i procuratori a scoprire i piani per assassinare le persone e purtroppo anche le fosse comuni dove sono state sepolte numerose persone dopo lunghe e crudeli torture. Secondo il giornalista Çakır si tratta di una formazione politica e armata tra i giovani curdi fondamentalisti negli anni Settanta come una sorta di antitesi del Partito dei Lavoratori del Kurdistan ossia Pkk.

… all’origine di HüdaPar: l’Hezbollah turco

Mentre dopo l’uccisione di Velioglu, Hezbollah turco pian piano scompariva, dall’altra parte nasceva un’associazione con il nome Muztazaf-Der. Anche se questa nuova realtà rigettava ogni accusa di legame con l’Hezbollah turco la Corte di Cassazione nel 2012 ha deciso di chiuderla proprio per questo presunto legame. Il suo presidente, Mehmet Hüseyin Yılmaz, pochi mesi dopo fonda HüdaPar. Un anno dopo, nel 2013, il timone del partito passa nelle mani di Zekeriya Yapıcıoğlu che oggi risulta candidato alle elezioni politiche presso l’Akp.
Oltre a Yapıcıoğlu, nelle liste dell’Akp salta all’occhio anche il nome di Faruk Dinç, accusato di appartenere al Hezbollah turco e trattenuto in carcere per due mesi in relazione con le indagini sul legame tra quest’organizzazione e l’associazione Ihya-Der. Secondo i procuratori l’associazione in questione era stata fondata dalle persone condannate, poi scarcerate, in un altro processo su Hezbollah turco.
Sempre secondo il giornalista Ruşen Çakır non ci sono troppi giri di parole da fare: HüdaPar è l’espressione partitica dell’Hezbollah turco. Infatti la notizia arrivata il 10 aprile, che informa della scarcerazione di 58 persone accusate di essere assassini di 183 persone uccise dall’Hezbollah turco, è una sorta di conferma della tesi di Çakır. Come se l’inserimento del HüdaPar nelle liste dell’Akp avesse trovato un riconoscimento. Addirittura secondo il giornalista Özgür Cebe, del quotidiano “Sözcü”, si potrebbe trattare di una notizia figlia di un accordo elettorale.

Già esisteva un alleato curdo oltreconfine

Molto probabilmente l’Alleanza della Repubblica, inserendo HüdaPar nelle sue liste, cerca di puntare sui voti di quella fetta della popolazione curdofona molto conservatrice e chiede il riconoscimento dei suoi diritti. Inoltre si tratterebbe di un gesto importante che rafforza il profilo conservatore della stessa alleanza, vista una parte del programma elettorale del partito in questione. Infine, questa new entry, oltre che nella politica interna, potrebbe avere un ruolo anche in quella estera. Quest’ultima ipotesi trova corpo grazie a un incontro avvenuto nel mese di aprile.


Sarebbe l’incontro tra Zekeriya Yapıcıoğlu e Masoud Barzani, l’ex presidente della Regione del Kurdistan (iracheno) e il leader storico del Partito democratico del Kurdistan (Pdk). È un incontro molto interessante, prima di tutto, perché si è svolto tra un “semplice” candidato per le elezioni e il personaggio più illustre del “movimento curdo” in Iraq. Quindi per il lato della Turchia non c’era un ministro oppure un sottosegretario ma una new entry dell’alleanza del governo. In secondo luogo il messaggio che è stato diffuso presso l’agenzia di stampa “Ilke” (semiufficialmente l’organo di stampa di HüdaPar) rende particolare quest’incontro «È stato deciso di rafforzare in futuro il rapporto tra HüdaPar e Pdk». Quindi per Barzani è chiaro che l’interlocutore da prendere in considerazione è quella formazione “curda” e fondamentalista che rappresenta Yapıcıoğlu e si trova accanto all’attuale presidente della repubblica di Turchia.

Le visitazioni islamiste

La visita di Yapıcıoğlu il 26 aprile è stata abbastanza proficua. Ha incontrato anche Aydin Maruf, membro del Fronte turcomanno iracheno, nonché il ministro degli Affari Religiosi e Etnici. Maruf è spesso presente in Turchia, si trova in ottimi rapporti con l’attuale governo e si è espresso varie volte a favore delle collaborazioni tra Ankara, Erbil e Bagdad per «lottare contro il terrorismo del Pkk».
Tra le persone visitate da Yapıcıoğlu vediamo anche il nome di Ali Bapir, membro del Movimento Islamico del Kurdistan e del Gruppo della Giustizia in Kurdistan. Si tratta di uno scrittore e studioso concentrato sulla fondazione di un Kudistan islamico. Bapir fu anche, nel 2021, uno degli sporadici personaggi politici al mondo a congratularsi con i Talebani dopo la loro salita al potere attraverso una lettera pubblica tuttora presente sul suo sito web personale.
Yapıcıoğlu in Kurdistan (iracheno) ha incontrato altri politici di formazione fondamentalista come Şeyh İrfan Abdulaziz, il leader attuale del Partito del Movimento islamista, e Rashid al-Azzawi che dirige il Partito islamico dell’Iraq.

Gli oleodotti dei curdi amici

Questi incontri ovviamente sono dei segni importanti se teniamo in considerazione soprattutto la crisi del petrolio nata verso la fine del mese di marzo di quest’anno. Una procedura arbitrale aperta nel 2014 si è conclusa questa primavera. Un percorso giuridico lungo che ha portato 1,4 miliardi di dollari di condanna per Ankara. Si tratta di un’azione portata avanti dal governo di Baghdad perché secondo il governo iracheno, Ankara non rispetta da tempo l’accordo del 1973. Secondo questo accordo sarebbe Baghdad l’unico interlocutore della Turchia per l’acquisto del gas e petrolio mentre invece Ankara da tempo tratta direttamente con Erbil quindi Nechirvan Barzani e Masoud Barzani. Inoltre, in questo processo, la Turchia sarebbe condannata a pagare 500 milioni di dollari perché diverse volte non ha aggiustato in tempo i danni avvenuti nelle “tubature Iraq-Turchia” a causa degli attentati di sabotaggio.

Oil vs Pkk

In questa procedura portata avanti per nove anni presso la Camera di Commercio internazionale di Parigi si notano alcuni appunti che parlano anche dell’avanzata dell’Isis in Iraq nel 2014 verso le città strategiche per il commercio petrolifero e la reazione degli Usa e della Turchia in quel momento. Appunto Ankara sarebbe accusata di approfittare delle dinamiche geopolitiche perché proprio in quel periodo avrebbe iniziato a non rispettare l’accordo del 1973 e avrebbe firmato nuovi contratti per la fornitura del petrolio direttamente con Erbil. Secondo il giornalista turco, Murat Yetkin, in questa fase storica ci sono varie dinamiche importanti come la volontà di ottenere ulteriore sostegno di Erbil nella sua storica lotta contro il Pkk: incassare più velocemente e più soldi scavalcando Baghdad e ottenere più credibilità e sostenitori in zona visto che proprio in quel periodo tra Erdoğan e Obama nascono le prime divergenze in merito a chi sostenere nella guerra in Siria.

In questa procedura arbitrale si cita anche l’illegale commercio del petrolio attraverso i camion cisterna. Un tema che fu sollevato dalla giornalista Bethan McKernan nel 2016 in un articolo pubblicato su “The Independent” che si basa sullo scandalo “Wikileaks”. Secondo questa fuga di e-mail, scatenata dal gruppo hacker turco “Redhack”, sarebbe l’azienda PowerTrans a gestire dal 2014 al 2015 il traffico illegale di petrolio dalle zone occupate dall’Isis in Siria e dal Kurdistan (iracheno) verso la Turchia. Secondo McKernan l’azienda in questione sarebbe legata in qualche maniera al genero del presidente della Repubblica di Turchia, ossia Beraty Albayrak che in quegli anni lavorava come il ministro dell’Energia al governo. Uno scandalo del genere era stato sollevato anche da Mosca nel 2015 durante quei nove mesi di conflitto che ci fu con Ankara. In quel caso fu il figlio del presidente della Repubblica ossia Bilal Erdoğan a finire nel mirino russo più o meno per le stesse accuse rivolte al genero.

I curdi utili fuori e dentro i confini

Oggi le trattative sono in corso. Secondo alcune fonti Ankara si rifiuta di risarcire Baghdad e secondo alcune fonti invece si tratta di trovare una cifra adatta per tutte le parti. In questo periodo di incertezza però c’è una cosa chiara: Ankara ha bisogno del petrolio e del sostegno politico di Erbil. L’amministrazione curda che si trova nel Nord dell’Iraq risulta tuttora il “curdo utile”, fuori dai confini nazionali, per l’attuale governo al potere in Turchia che deve fare i conti con le elezioni del 14 maggio. Il suo nuovo alleato, ossia HüdaPar, invece, sembra che abbia già deciso di muoversi come “mediatore” tra queste due parti indossando il costume del “curdo utile” in casa.

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La guerra birmana esplode al Casinò e uccide a Sagaing https://ogzero.org/la-guerra-birmana-esplode-al-casino-e-uccide-a-sagaing/ Wed, 03 May 2023 21:01:19 +0000 https://ogzero.org/?p=10898 Con il Myanmar OGzero ha un legame particolare fin dallo Studium collegato a Burma Blue, il libro dedicato da Max Morello al paese. Claudio Canal ha scritto un articolo interessante pubblicato su “Volere la Luna“, da dove lo recuperiamo corredato di un’integrazione: un podcast registrato da Radio Blackout con Emanuele Giordana, appena tornato dal confine […]

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Con il Myanmar OGzero ha un legame particolare fin dallo Studium collegato a Burma Blue, il libro dedicato da Max Morello al paese. Claudio Canal ha scritto un articolo interessante pubblicato su “Volere la Luna“, da dove lo recuperiamo corredato di un’integrazione: un podcast registrato da Radio Blackout con Emanuele Giordana, appena tornato dal confine birmano-thailandese. Le due testimonianze si compenetrano perfettamente nella descrizione informata degli eventi e nella analisi socio-culturale delle comunità coinvolte e degli interessi stranieri sul territorio, le esigenze del riciclaggio e dei traffici, che si combinano con la militarizzazione della società a cominciare dal controllo economico da parte degli eserciti.
Il ministro degli esteri cinese Qin Gang è giunto il 3 maggio in Myanmar, avvicinandosi alla riunione dei ministri della Shanghai cooperation organization, chiedendo anche lì di «mantenere confini chiari e stabili», le stesse parole usate da Xi entrando in medias res belliche; in questo caso mettendo in guardia da una “ricaduta” dell’escalation di violenza nel paese del Sudest asiatico e «reprimere la criminalità transfrontaliera» (Scmp, 3 maggio 2023). Il fatto che abbia
 sottolineato l’importanza di mantenere la stabilità nella regione e di promuovere una “cooperazione amichevole” tra i paesi confinanti risulta comprensibile dalla lettura e dall’ascolto di questi due contributi che vi proponiamo.


I can(n)oni di guerra sembrano lontani se tuonano in Myanmar

C’è una guerra in Europa, ci fa paura e ci divide in opposte tifoserie. Ci sono altre guerre nel mondo, non incutono timore perché ci sono ignote o perché ci abbiamo fatto il callo. Siccome l’arte della guerra gode di uno straordinario successo tra gli esseri umani, pensiamo di riconoscerla ovunque. C’è un paese in Asia, tra i più ricchi di risorse e dotato di una crudele bellezza, la Birmania-Myanmar, in cui è in corso una guerra che interpreta fedelmente i canoni dei manuali novecenteschi: eserciti schierati, bombardamenti aerei, artiglieria, guerriglia.

«Ma è così da più di settant’anni!» afferma chi conosce un po’ la storia di questo paese. Infatti, dal momento dell’indipendenza dal colonialismo britannico nel 1947, quando ci si prepara a inventare la nazione, una parte consistente degli abitanti delle Aree di Frontiera, escogitate e così marchiate dagli inglesi, si oppone senza tentennamenti. Le Aree sono refrattarie al progetto politico che la cultura maggioritaria – i Bamar/Bramar/Birmani, principalmente buddhisti  intende realizzare costituendosi come centro egemone di una nazione mai esistita prima, birmanizzando e, in qualche modo, buddhizzando tutto il resto.

Tradizionali guerre per i soliti traffici “etnici” vs. l’“esercito” del potere

Prendono così avvio le interminabili guerre e subguerre che hanno straziato fino a oggi la Birmania e reso l’esercito birmano, il Tatmadaw, un apparato estremamente distruttivo e la più importante potenza economica del paese, senza che sia mai riuscito a vincere una delle guerre che le forze armate locali gli hanno mosso e che mai si sia confrontato con un nemico esterno. Una forma molto originale di esercizio del potere: la guerra come istituzione costituente, la guerra per la guerra, la “guerra civile permanente”, diremmo noi in Europa. Alcune delle formazioni politiche e militari che combattono il potere centrale lo fanno per salvaguardare la loro diversità culturale, linguistica, religiosa; altre per non perdere gli incassi dalla produzione e coltivazione di metanfetamine, oppio, giada, legno pregiato; altre ancora per entrambe le ragioni. Forse perché non riescono più a immaginarsi a fare altro. Un paese dunque predisposto come poligono di tiro diffuso e residence per dittature militari da cui, nei recenti e limitati anni di democrazia approssimativa, sperava di disintossicarsi.

Le efferatezze di Tatmadaw, coacervo di sangue, narcos e crypto-crony capitalism

Un esercito che si identifica con lo stato, sacralizzato da una storia mitica di eroi guerrieri, «impregnato di crony capitalism cronico», una delle tante “apparizioni” del capitalismo, quello della solida rete di compari e amici degli amici attestati nei gangli economici e finanziari. È un impianto sociale di corruzione generalizzata, costruito sul rapporto servo-padrone, sulla impunità garantita, incapace e non particolarmente interessato a costruire l’unificazione dall’alto del paese mediando tra le molteplicità. Nonostante la sua smisurata forza, gli appoggi e gli armamenti ricevuti da Russia e Cina, a tutt’oggi controlla, a esser larghi, la metà del paese. Un esercito così conformato non impiega solo la mascolina brutalità, ma amministra leve materiali e simboliche che gli consentono di non intimorirsi troppo e perfino di esercitare ancora una egemonia culturale debilitata ma non moribonda.

Tradizionali appoggi monastici in periodi di magre elemosine

La manforte la riceve dal sangha, la numerosissima e autorevole comunità monacale buddhista, di scuola Theravada come altri buddhismi del Sudest asiatico, che si compiace del ruolo di avanguardia politica svolto dai monaci durante la lotta anticoloniale contro gli inglesi nella prima metà del Novecento e della loro a tutt’oggi capillare presenza tra la popolazioneMezza comunità è dedita allo studio e alla meditazione, in attesa di tempi migliori; un quarto è dichiaratamente antiregime; il resto è un segmento militante molto eccitato che ha assunto da diversi anni una posizione ultranazionalista, xenofoba, razzista e di conseguenza entusiasta sostenitrice e istigatrice della giunta militare. Nessuna novità, verrebbe da dire, tutto già visto in Birmania. E non solo lì.

Uno dei territori in cui lo scontro è più rabbioso è la zona centrale del paese, in particolare la regione Sagaing, grande quanto l’Italia Settentrionale. Cioè il cuore culturale e storico della Birmania. Abitato da una popolazione in stragrande maggioranza buddhista, partecipe di un ordine simbolico che fino a non molto tempo fa guidava la birmanizzazione forzata del paese. È la prima volta dal dopoguerra e questa innovazione trasforma in modo radicale la geometria politica nazionale che diventa centro contro centro e non solo centro contro periferia. Una parte dell’insurrezione è condotta dal People’s Defence Force (Pdf), braccio armato del National Unity Government (Nug), il governo in esilio o governo ombra che cerca il riconoscimento internazionale e, soprattutto, l’alleanza con le forze politiche e gli eserciti delle Aree di frontieraNon è detto che ci riesca in tempi brevi, ma il progetto è partito.

La strage dal cielo sulle coste dell’Irrawaddy nel centro del Mandalay

Intanto la guerra in sé e per sé va avanti, bombardamenti a tappeto, villaggi in fiamme, droni funesti, imboscate letali [l’esercito birmano perde in media 100 uomini alla settimana], attacchi alle infrastrutture [giovedì 6 aprile l’aeroporto internazionale di Yangon è stato chiuso nella notte perché colpito da artiglieria], incendio e distruzione delle stazioni di polizia, fuga delle popolazioni coinvolte e fioritura di campi profughi… L’Expo dell’arsenale non chiude mai. Il caos e l’emergenza come regola della vita sociale, in un paese tra i più colpiti al mondo dai cambiamenti climatici. La sofferenza dei viventi non incontra ostacoli. Intanto l’Irrawaddy continua bonario a scorrere lungo i suoi 2500 chilometri, i delfini meditano forse sulla loro estinzione e pure gli operosi esseri umani che condividono la vita del fiume.

E il doppio “gioco” cinese in periferia

Quanto durerà la guerra? Movimenti di riforma interni all’esercito? Torneranno nelle caserme i soldati? Un golpe? Un’implosione generale? Impossibili per ora risposte creative a queste domande. Nuove leadership si manifestano nelle Aree di frontiera. Aspirano, come minimo, a uno Stato molto, molto federale. Nel frattempo, il gigante di confine, la Cina, gioca come al solito su due tavoli. Sostiene e foraggia la giunta militare, e nello stesso tempo sussidia generosamente di armamenti e merci il Kokang e lo “Stato” Wa, regioni della Birmania in lotta armata contro la giunta militare.

Cronaca

Aung San Suu Kyi è in isolamento in carcere nella capitale surreale Naypyidaw a scontare i 33 anni a cui è stata condannata. Gli sgherri sono specialisti in vendetta. La resistenza è anche radicata nei mille gruppi e reti che continuano a far funzionare le scuole, a procurare medicine e a fare quanto è possibile in un welfare dal basso ricco di sorrisi e di delicatezze. Il regime ha appena tagliato 200 alberi di Poinciana reale o albero di fuoco nella 38ª strada di Mandalay, nei pressi dell’incantevole mercato della giada. I suoi fiori rosso fiamma rimandavano al colore della Lnd [Lega Nazionale per la Democrazia], il partito di Aung San Suu Kyi, a cui la via era stata intitolata. Terrorismo vegetale

.

Non essere indeciso,
il detonatore della rivoluzione
sei solo tu, o io.
(K Za Win [1982-2021] poeta,
ucciso dalla polizia durante una manifestazione da lui organizzata contro la giunta, 3 marzo 2021)


 

La malavita cinese naviga sulle coste del Moei tra Thailandia e Myanmar

Emanuele Giordana a sua volta descrive i legami tra tutti i protagonisti in tragedia, senza indulgenza per una fazione o l’altra: la fotografia che si ricava è quella del malaffare generalizzato che non lascia spazio a interpretazioni desumibili da una qualunque etica: gli affari contrapposti animano le rive del Moei e si vedono sorgere città poi abbandonate, dove tutto è consentito, anzi è il malaffare la legge di una terra senza alcuna regola se non quella della truffa e dell’inganno, ora sempre più finanziario, che ha surclassato persino in parte la destinazione d’uso dei paradisi sessuali e del gioco d’azzardo. Manovre ad altissimo livello internazionale sovrintendono all’occupazione del territorio e alla cooptazione degli addetti nella zona del Karen State.

«Con le false credenziali della Belt and Road Initiative – messe in discussione dal precedente governo del Myanmar guidato da Aung San Suu Kyi e pubblicamente sconfessate dall’ambasciata cinese in Myanmar nel 2020 – la città si trova appena a nord di Mae Sot, in Thailandia. Secondo il materiale promozionale, la città avrà “parchi industriali scientifici e tecnologici, aree per il tempo libero e il turismo, aree per la cultura etnica, aree commerciali e logistiche e aree per l’agricoltura ecologica”. Ci sarà anche una struttura per “l’addestramento alle armi da fuoco”. Shwe Kokko è stato anche definito “la Silicon Valley del Myanmar” e una stazione chiave lungo la “Via della Seta marittima”» (NikkeiAsia), parte di un ponte terrestre tra l’Oceano Indiano che permette di aggirare i pericoli e i dazi della navigazione tra gli stretti del Mar Cinese Meridionale, avvalendosi di una ferrovia che unirà lo Yunnan al mar delle Andamane.  

 

“Shwe Kokko e i suoi modelli”.

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Etiopia Saudita. Fornire migranti usa-e-getta https://ogzero.org/etiopia-saudita-fornire-migranti-usa-e-getta/ Sun, 30 Apr 2023 11:33:24 +0000 https://ogzero.org/?p=10858 Qui Gianni Sartori offre un bello spaccato sui diritti a geometria variabile insiti nell’approccio alla filosofia ed economia politica dell’Arabia Saudita. Un mondo antropologicamente diverso retto da norme differenti, di cui  l’estensore del pezzo evidenzia le storture umanitarie, lo schiavismo e lo sfruttamento in particolare di genti etiopi. Motivo per cui l’articolo che proponiamo  è […]

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Qui Gianni Sartori offre un bello spaccato sui diritti a geometria variabile insiti nell’approccio alla filosofia ed economia politica dell’Arabia Saudita. Un mondo antropologicamente diverso retto da norme differenti, di cui  l’estensore del pezzo evidenzia le storture umanitarie, lo schiavismo e lo sfruttamento in particolare di genti etiopi. Motivo per cui l’articolo che proponiamo  è tutto sul filo del rapporto tra le due sponde del Mar Rosso. Il podcast dell’intervento di Laura Silvia Battaglia su Radio Blackout del 20aprile 2023, inserito a corredo del testo, inquadra la posizione nello scacchiere internazionale della Arabia Saudita in uno snodo epocale che con la rivoluzione di partnership operata da Mbs con il sua Vision2030 produrrà conseguenze per l’intero Medio Oriente e zone limitrofe… e al di là del Mar Rosso sono già evidenti con lo scardinamento della diarchia in Sudan, che di nuovo coinvolge l’Etiopia e il gioco di alleanze… e il cambio in ambito di diritti delle popolazioni locali non sta cambiando in meglio.

Il ruolo dell’Etiopia?

Serbatoio di mano d’opera docile e a buon mercato, disciplinata e addomesticata, per la borghesia saudita

Curioso. Solo un anno fa veniva siglato un accordo tra governo di Addis Abeba e Arabia Saudita per cui oltre centomila migranti etiopi dovevano venir espulsi dall’Arabia Saudita per essere riportati in patria (come poi sostanzialmente era avvenuto in questi ultimi mesi).
La notizia coincideva con l’arrivo (30 marzo 2022) nell’aeroporto di Addis-Abeba del primo migliaio (900 per la precisione, tra cui molte donne con figli), accolti e rifocillati dagli operatori dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim).

Per l’occasione un accorato appello veniva rivolto dal governo di Addis-Abeba alle Nazioni Unite e alle varie agenzie umanitarie affinché intervenissero per far fronte alle impellenti necessità.
Negli ultimi quattro anni l’Arabia Saudita ne aveva già rimandati in Etiopia oltre 350.000. Soprattutto persone con problemi di salute o comunque vulnerabili, in difficoltà: donne incinte, anziani, malati sia a livello fisico che mentale (applicando quindi una sorta di selezione poco “naturale”, ma funzionale al mercato del lavoro-sfruttamento).

Durante l’ultimo anno i programmi di rimpatrio si sono mantenuti, se non addirittura rinforzati per «garantire un rientro ordinato dei cittadini etiopi emigrati» (leggi: “non più funzionali alle esigenze delle classi dominanti saudite”).

Dal 12 novembre 2022 al 30 dicembre 2022 più di 20.000 etiopi sono rientrati in patria dall’Arabia Saudita

Per la cronaca, si calcola (presumibilmente per difetto) che attualmente siano almeno 750.000 i migranti etiopi presenti nel Reame (di cui circa 450.000 vi sarebbero giunti in maniera irregolare).
Così come previsto dal Piano regionale di sostegno ai migranti in situazioni di vulnerabilità e alle comunità di accoglienza nei Paesi del Corno d’Africa sulle rotte migratorie verso l’est (in genere con destinazione Arabia Saudita attraverso Gibuti e Yemen), erano intervenuti finanziariamente l’Ufficio dei rifugiati e delle migrazioni del Dipartimento di Stato americano (leggi: statunitense), l’Agenzia svedese  di cooperazione internazionale allo sviluppo e per le operazioni europee di protezione civile e di aiuto umanitario.

In controtendenza (ma solo apparente, se pensiamo che in realtà lo scopo è il medesimo: controllare i flussi migratori,  “addomesticarli” per renderli funzionali al sistema economico imperante) in questi giorni il governo regionale dell’Amhara ha annunciato un programma di reclutamento e formazione professionale (come donne di servizio nelle magioni dei benestanti sauditi) per migliaia di cittadine della regione. Garantendo che i loro salari in moneta straniera verranno depositato come moneta nazionale (birr) al tasso attuale del “mercato nero” e non a quello, sfavorevole, ufficiale.

Anche se questo sembra non turbare più di tanto le autorità etiopi (sia a livello regionale che nazionale), non si contano i casi di abusi sessuali subiti dalle donne di servizio di origine africana nei paesi del Golfo (ben sapendo che quelli denunciati o di cui comunque si viene a conoscenza, costituiscono solo la punta dell’iceberg). Per non parlare delle ricorrenti accuse di “trattamenti disumani” (torture, uccisioni…) nei centri di detenzione per migranti.

Come aveva denunciato Human Rights Watch «per anni l’Arabia Saudita ha arrestato e detenuto arbitrariamente migliaia di migranti etiopici in condizioni spaventose, incluse torture, pestaggi a morte e condizioni degradanti, deportandone a migliaia».

Stando a quanto riportava “Al Jazeera”, sarebbero almeno mezzo milione le donne (età compresa tra i 18 e i 40 anni) di cui si va pianificando il reclutamento per inviarle in Arabia Saudita come lavoratrici domestiche. Con una vera e propria campagna promozionale anche con cartelloni pubblicitari nelle maggiori città che invitano a registrarsi presso gli uffici governativi. Le donne verranno poi trasportate in aereo nel Golfo a spese del governo di Addis-Abeba.

Tutto questo, ripeto, mentre le organizzazioni umanitarie denunciavano il ritorno forzato in Etiopia di migliaia di donne e uomini vittime di abusi fisici e sessuali da parte dei loro datori di lavoro sauditi.

Questo il comunicato ufficiale dell’amministrazione dell’Amhara:
«In ragione dei forti legami diplomatici del nostro paese con l’Arabia Saudita, sono state rese disponibili opportunità di lavoro per 500.000 etiopiche, tra cui 150.000 dalla regione Amhara»

Il ruolo dell’Arabia Saudita?

Serbatoio di sfruttamento schiavista

Niente di nuovo sotto il sole naturalmente. Ricorda per certi aspetti quanto avveniva in Namibia quando era occupata dal Sudafrica (e sottoposta all’apartheid) con i lavoratori delle miniere di uranio rispediti a casa loro, nei villaggi, quando manifestavano i sintomi della malattia. O i migranti dai bantustan reclusi nei dormitori-prigioni (“ostelli” eufemisticamente), lontano dalle famiglie, forza lavoro a basso costo in condizioni di semischiavitù.

“L’epocale repentino cambiamento dei riferimenti sauditi”.
Volendo anche i nostri minatori in Belgio (previo accordo tra i governi dell’epoca) all’epoca di Marcinelle.

Coincidenza. Mentre avviava queste operazioni di ferreo controllo dei flussi migratori, il governo etiope procedeva allo smantellamento delle milizie regionali.

Stando a un comunicato del 6 aprile, si ripromette di «integrare le forze speciali regionali all’interno delle forze dell’esercito federale (Endf) e delle forze di polizia federale».

Allo scopo evidente di centralizzare il controllo sui gruppi armati e sminuire la relativa autonomia delle singole regioni.
La cosa non è risultata gradita proprio nello stato-regione dell’Amhara dove sono già scoppiate proteste e rivolte.

Quindi, per il governo centrale: Sì alla fornitura di forza-lavoro subalterna, ma No all’autodeterminazione regionale.

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La vita in codice https://ogzero.org/la-vita-in-codice/ Sun, 02 Apr 2023 21:32:17 +0000 https://ogzero.org/?p=10575 ChatGPT  (Generative Pretrained Transformer di OpenAI) viene sospeso dal garante il 31 marzo 2023; in precedenza Elon Musk, ma soprattutto ingegneri ed esperti di Intelligenza Artificiale, avevano chiesto una moratoria della ricerca e dell’interazione con sistemi informatici che si programmano per autoapprendimento. Si profilano scenari da Blade Runner in mezzo ai soliti lanci di allarmi […]

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ChatGPT  (Generative Pretrained Transformer di OpenAI) viene sospeso dal garante il 31 marzo 2023; in precedenza Elon Musk, ma soprattutto ingegneri ed esperti di Intelligenza Artificiale, avevano chiesto una moratoria della ricerca e dell’interazione con sistemi informatici che si programmano per autoapprendimento. Si profilano scenari da Blade Runner in mezzo ai soliti lanci di allarmi – spesso interessati (come nel caso di prodotti open source) –, e forse di quel film di Ridley Scott vengono a riproporsi piuttosto le figure inquiete di demiurghi alla Eldon Tyrell, contro cui le sue Creature “replicanti” si ribellano; certo che le proposte creative delle performance dell’Intelligenza Artificiale non offrono particolari guizzi geniali (dove forse si trovano a essere messi in gioco “concatenamenti” frutto di elaborazioni del pensiero personale), ma si riducono a compitini, a vacue accozzaglie di banalità… che possono essere confusi con brani o creazioni artistiche solo per la superficialità della maggioranza delle pubblicazioni culturali che ottengono successo solo grazie all’abbassamento del livello dell’elaborazione dei prodotti di ingegno della società – almeno quella italiana, narcotizzata da tutti gli organi di informazione e lo smantellamento di tutte le sedi preposte a istruire e diffondere erudizione. E il garantismo insito nella democrazia sconterà sempre un gap rispetto alle ricette superficiali ma repentine della tecnologia, non riuscendo a imbrigliare la sua pericolosità.
L’esatto opposto delle basi di questo intervento tanto creativo quanto colto e informato di Claudio Canal in bilico sul crinale tra Dna e tecnologia, tra le informazioni genetiche e quelle culturali; tra umanesimo, transumanesimo, postumanesimo, inumanesimo… mettendo in relazione i neuroni a disposizione del cervello umano dotato di sinapsi ben più avanzate degli algoritmi, in grado di replicare solo canovacci stantii e banali.

fin qui OGzero, ora le argomentazioni provenienti dalle sinapsi di Claudio Canal


De Sossiri – C’è un’aria tagliente oggi o solo io la sento?

Casnov – Non sbaglia, caro collega, infatti sono qui per fare il solito ritaglio, ma non vedo la cara Ribonu. Senza di lei come ci arrivo?

Ribonu – Scusate, ero sovrappensiero. Direi: Crìspalo, crìspalo adesso!

Si sente come un colpo di forbici grandi: Zac!

Shakespeare, Measure for Measure, Atto II, scena 1° [rivista]


L’agente CRISPR sfida la lotta per la vita sul pianeta.
Geopolitica della geogenomica

Qual è il ballo preferito dal Dna? Il tango, la mazurka o una balsamica zumba? Neanche per idea, Dna ama le marcette veloci nei rigorosi due/quattro tempi. L’hanno dimostrato molti laboratori che si sono applicati  alla sua sonificazione. Non metterei la mano sul fuoco sulla sostanza scientifica di certe applicazioni. C’è chi, al MIT di Boston, trascrive le vibrazioni sonore delle Variazioni Goldberg di J.S.Bach  in architetture di nuove proteine e, per quanto posso capire io, non mi sembra una baggianata. Scriveva Leonardo: Non sai tu che la nostra anima è composta di armonia? [Trattato della pittura, I/23: “Risposta del re Mattia ad un poeta che gareggiava con un pittore”].

Mattonelle del Castello di Buda di Mattia Corvino

Si può dunque ascoltare il Dna? Gli manca solo la parola, anche se possiede un alfabeto piccolo piccolo di quattro lettere con cui codifica ogni vivente e non solo (virus). Un cuoco con pochi ingredienti che cucina la vita.

Dna, in arte Acido Disossiribonucleico, ha dovuto aspettare non poco per essere scoperto e raccontarci con eleganza di che pasta siamo fatti. Da quando la sfortunata Rosalind Franklin ha mostrato la foto 51, i serpentelli in amore, la doppia elica danzante è entrata nel nostro immaginario tanto che è diventato luogo comune un po’ abusato dichiarare di avere questo o quello nel proprio Dna anche o soprattutto quando non è vero niente.

Era il maggio freddoloso del 1952, al King’s College di Londra la foto n. 51 veniva di fatto scippata dalle mani di Rosalind e iniziava la sua avventura sul palcoscenico della scienza. Sei anni dopo la scienziata sarebbe morta, trentaduenne. Ignota ai più.

Rosalind Franklon “osserva” la foto n. 51

 

Radici biotecnologiche

Lo sposalizio tra bio e tecnologie non risuona rassicurante, come succede invece al mistico bio prefisso a diversità, agricoltura, cibo, etica, architettura
Anche il Dna è dondolo, suscita a getto continuo speranze e paure, sogni e incubi. Nel 2002 l’editore Laterza pubblicava Il sogno del genoma umano e altre illusioni della scienza [originale del 2000] di Richard Lewontin, noto biologo e genetista statunitense, deceduto nel 2021. Nella quarta di copertina si poteva leggere:

«Una volta che avremo a disposizione la mappa completa dei nostri geni, saremo in grado di predire lo sviluppo del nostro corpo, delle malattie, della nostra personalità? Comprenderemo meglio le relazioni sociali? Saremo capaci di creare la vita stessa? Da Darwin alla pecora Dolly, inclusi il determinismo biologico, le eredità della selezione naturale, la psicologia evolutiva, le indagini sociologiche sulle abitudini sessuali, la clonazione e il progetto Genoma umano: le critiche di Lewontin sferzano una falsa scienza e si abbattono sull’eccessivo orgoglio di quanti pretendono di dominare, oggi o in un futuro molto vicino, tutti i segreti della vita».

Domande e risposte buttate lì per promuovere un libro, ma non campate in aria. Dopo vent’anni ci è abbastanza chiaro.

Le Biotecnologie si prenderebbero la testa fra le mani se dovessero fornire una definizione di se stesse. Fare formaggio o yogurt è una biotecnologia. Anche il trapianto di fegato o di cuore lo è. Hanno a che fare con ciò che chiamiamo vita e, in certi casi, Vita, in rigoroso maiuscolo. Un campo di ricerca e applicazione in espansione accelerata che si scinde in subsegmenti di subsegmenti. Come la vita, d’altra parte, in cui bíos – la vita individuale e sociale – e zoé  – la vita biologica – si intersecano, si azzuffano e alla fine sembrano scambiarsi i ruoli.

«Io avrei affrontato in me stessa un grado di vita così primario da essere prossimo all’anonimato» (Clarice Lispector, La passione secondo G.H., La Rosa, Torino, 1982, pag. 17).

Per scrutare il Dna era stata concepita negli anni Ottanta del Novecento la Genomica, essendo la Genetica troppo generalista. Al suo fianco la bioinformatica per la eccezionale quantità di dati da trattare. Ne segue una esaltazione classificatoria che si diffonde nei laboratori e la genomica viene sottoposta a una “divisione cellulare” da cui si generano tecnoscienze che sbandierano la desinenza omics: proteomica, metabolomica, epigenomica, trascrittomica, lipidomicaignoroma.

da “Nature Reviews Gastroenterology & Hepatology”

Sembra una c.omica [nessuna parentela etimologica…] l’ingorgo di sentieri di ricerca da febbre dell’oro, dove l’oro è il processo che da qualche miliardo di anni guida il regno della vita e i suoi rituali cellulari. La discesa nel Dna e nei suoi infiniti brusii e moti primari si combina con l’esuberante potenza degli algoritmi. Questo accoppiamento postnovecentesco sollecita aspettative e promesse che nessuno sa se saranno mantenute, tradite o deviate. Mettere le mani sul codice della vita e manipolarlo con o senza secondi fini è l’ampio orizzonte entro cui si muove la genomica e la sua rigogliosa prole – da Joshua Lederberg, ‘Ome Sweet ‘Omics– A Genealogical Treasury of Words  (“The Scientist”, aprile 2001), a Separation Techniques Applied to Omics Sciences. From Principles to Relevant Applications, a cura di Ana Valéria Colnaghi Simionato (Springer, 2021); Wikipedia alla voce List of Omics Topics in Biology ne elenca, per ora, 45. La sesta edizione di 1520 pagine di un trattato universitario Biologia Molecolare della Cellula (traduzione Zanichelli di un’opera collettiva statunitense nota come “l’Alberts”), prevede per ognuno dei 24 capitoli un esteso paragrafo finale Quello che non sappiamo, che, a seconda dell’ottica con cui lo leggiamo, può essere di conforto o di disperazione.
Potremmo chiamarlo un hackeraggio del Dna.

Dispositivo CRISPR

Questo affanno epistemologico ha subìto un ulteriore stress quando una sigla tra le tante che fluttuano nel mare delle scienze ha cominciato a farsi notare:
Crispr. Si scioglie così: Clustered Regularly Interspaced Short Palindromic Repeats che alla lettera si può tradurre Brevi ripetizioni palindrome raggruppate e separate in modo regolare, ancora meno comprensibile dell’originale. Provo: sequenze ripetute di Dna impiegate dai batteri come un vero e proprio sistema immunitario di protezione da acidi nucleici provenienti da altri batteri o da virus.
Venticinque anni di ricerca di base per capire che la sequenza Crispr è uno “schedario” dei Dna dei virus e batteri che in passato avevano sferrato attacchi ai batteri sotto osservazione. Lo “schedario” permette di riconoscere eventuali nuove incursioni e neutralizzarle con una proteina Cas9 [Crispr associated] adibita al taglio del Dna del virus o batterio invasore. Una specie di video gioco in cui, zak!,  non bisogna sbagliare il taglio del cordino infinitesimo che è minaccia.
La mia blasfema sintesi per dire che Crispr-Cas9 è un dispositivo che appartiene agli esseri viventi, perfetti sudditi della natura, come scriveva Giacomo di Recanati.

Nel 2012 due ricercatrici, Jennifer Doudna ed Emmanuelle Charpentier, precedute da una marea di studiosi e dall’attenta analisi della fermentazione del formaggio (e dello yogurt), si rendono conto che il congegno di taglia e incolla praticato dai batteri può essere con una certa facilità riprodotto da esseri umani dotati di intelligenza e di competenza adatte, senza dover spolpare i bilanci di super Stati, come succede ad esempio per l’energia atomica.
In sostanza, Crispr-Cas9 è un insieme di tecniche che permettono di localizzare una sequenza nel Dna di una cellula, rimuoverla, modificarla o sostituirla con una qualsiasi altra sequenza.

 

Si prende il meccanismo in prestito dai batteri e lo si trasforma in una tecnologia di intervento sulla vita. Cioè un prodotto ovvero una merce. Alla genomica vengono improvvisamente i capelli bianchi. Un invecchiamento folgorante. Era infatti concentrata sulla lettura del genoma, mentre si tratta a questo punto non solo di trascrivere-editing il Dna dei viventi [umani e non umani], ma di ricomporlo. Compito della biologia sintetica. Non più una interpretazione del reale, una teoria dell’esistente, ma – citando Bernanr Stiegler da un libro del 2008 (Ėconomie de l’hypermatériel et psychopouvoir-Entretiens avec Philippe Petit et Vincent Bontems) una teoria del possibile, una tecnoscienza che fa avvenire ciò che diviene. E Edward Bryan fornisce pure la prova dei mercati finanziari che scommettono sulla biologia sintetica in un dossier pubblicato nel febbraio 2022 per AllianceBernstein, La rivoluzione della biologia sintetica-Investire nella scienza della sostenibilità

Parte la maratona: migliaia di laboratori si mettono febbricitanti al lavoro, Nobel per la chimica 2020 alle due scienziate. Si può modificare il Dna dei viventi, con discreta facilità, precisione mai vista prima, relativa poca spesa. Sogni, chimere, castelli in aria. Si può guidare l’evoluzione umana, anzi, dei viventi tutti, proclama orgogliosamente la tecnoscienza asserendo, forse a sua insaputa, la materialità della vita e la sua universalità. Non noi e loro, ma solo noi viventi, di qualsiasi specie.

Questa interferenza suscita immediatamente due campi contrapposti:

  1. l’umanità ha una configurazione fissa che deve essere conservata. Guai a chi…! Sugli altri viventi – animali e piante – possiamo intenderci.
  2. l’essenza umana, se c’è, è flessibile e modificabile. In evoluzione, appunto.

Opposte categorie: umanesimo, transumanesimo, postumanesimo, inumanesimo

C’è, mimetizzato da qualche parte, un fronte neo hitleriano? Comunque la si voglia mettere, con CRISPR la biopolitica ha la sua celebrazione solenne. Un potere sulla vita, diretto, allo stato puro, drastico. Vita come campo di battaglia.

Il tumultuoso ginepraio di tecniche Crispr si traduce in migliaia di brevetti con le relative applicazioni industrial-commerciali, che manifestano una tendenza a crisperizzare presente e futuro. In simultanea si alzano grida di allarme: non tutto è innocente e benefico, si documentano danni irreparabili al genoma o esiti cancerosi. Crispr arma di distruzione di massa o elisir di vita nova? Il Nuovo Mondo è veramente brave new world?

Geopolitica

Il 26 novembre 2018 un sorridente biofisico annuncia  che sono nate due bambine a cui in fase embrionale ha modificato il Dna con tecnica CRISPR per renderle immuni all’HIV [AIDS]. Scalpore mondiale. Designer babies. Dopo un po’ il suo governo lo arresta e condanna a tre anni di carcere (non è chiaro in seguito a quale violazione di legge). Il biofisico si chiama He Jankui. Il governo è quello cinese. Lulù e Nana, le due bambine, sembra che non ne abbiano tratto vantaggio, anzi. E se un giorno He Jankui ricevesse il Nobel?
La biopolitica in forma di tecnoscienza inciampa così nella geopolitica. Il momento non è magico. Il Maestro del Mondo tentenna molto nella sua signoria. La splendida solitudine praticata dal 1989 viene poco alla volta rosicchiata dall’esterno e anche dall’interno. Siamo in un’epoca di ridefinizione dei rapporti di potenza e l’ex Contadino Arrabbiato dell’Estremo Oriente contende al Signore del Mondo la sua prerogativa. I due, Cina e Stati Uniti, sono molto interdipendenti economicamente (Global Times), non possono brutalmente disaccoppiarsi, decoupling come dicono gli addetti ai lavori. Il loro divorzio va per le lunghe, la loro separazione non consensuale procede un po’ alla volta e si realizza per ora sul piano della tecnologia, facilitando, di rimbalzo, il coupling, l’accoppiamento Cina/Russia. Sullo sfondo una guerra fredda che si intiepidisce e potrebbe anche diventare calda, se si presta attenzione alla nube che appanna Taiwan.

Il sistema mondo ha bisogno di un rimaneggiamento

Scriveva Giovanni Arrighi: «Uno stato dominante esercita una funzione egemonica se guida il sistema degli stati in una direzione desiderata e, nel far questo, è percepito come se perseguisse un interesse generale» (Il lungo XX secolo – Denaro, potere e le origini del nostro tempo, il Saggiatore, 2014, pag. 51)

Ecco, quest’ultima condizione per gli Stati Uniti non è più riconosciuta da buona parte del pianeta, esclusi governi italiani e consanguinei. Neppure la Cina sprigiona affabilità, nonostante i suoi rilevanti tentativi, la Belt Road Initiative – la nuova Via della Seta –, la fattiva presenza in Africa e in buona parte dell’Asia [ed Europa…], il suo prendere le distanze dal cosiddetto Occidente.  Dalla sua ha una straripante popolazione, in tendenziale decrescita, una coesione sociale imposta dall’alto che funziona epperò scricchiola, una crescita economica travolgente e tuttavia oggi in affanno, una capacità quasi unica di mobilitare menti e intelligenze e non solo corpi.
Anche la Cina deve prendere atto che conta molto la geo, la terra e non solo la politica. Geopolitica. La spaventosa siccità dei mesi estivi del 2022 e la conseguente drastica riduzione del motore dello sviluppo, la banale acqua, hanno messo in graticola popolazione e apparati, piani quinquennali e sviluppo. È indispensabile scongiurare una guerra con la Cina, ma altrettanto lo è esorcizzare una frenata della macchina produttiva cinese, a cui siamo ancora meno preparati.

Il lago Poyang nel tratto di Jinxian il 21 agosto 2022

I due contendenti intitolano il conflitto sulle nuove tecnologie alla propria “sicurezza nazionale” che inevitabilmente genera una spirale di insicurezza reciproca. I due governi sanno che il controllo delle nuove tecnologie emergenti determinerà il successo nel XXI secolo. Il vincitore di questa corsa sarà quello in posizione per guidare l’economia globale e godere dell’influenza e del potere che ne derivano.
Il primato degli Stati Uniti nelle scienze della vita e nelle biotecnologie è indiscutibile. Tuttavia è bene ricordare che fu sì l’URSS la prima a conquistare i cieli con lo Sputnik 1, ma a mettere per primo il piede sulla luna fu Neil Armstrong dell’Ohio. Come allora si tratta non di emulazione, ma di rivalità che negli ultimi tempi ha fatto a pezzi la feconda e significativa cooperazione che intercorreva tra i due. Il panico per le conquiste cinesi nell’intelligenza artificiale si è esteso anche alle biotecnologie (Il “balzo in avanti” nella ricerca scientifica compiuto dalla Cina non ha uguali: Qingnan Xie, Richard B. Freeman, Bigger Than You Thought: China’s Contribution to Scientific Publications and Its Impact on the Global Economy, “China & World Economy”, 2019, 27), con diverse drastiche iniziative di chiusura. Ma il settore biotecnologico è diverso da altri (per esempio quello dei semiconduttori), in particolare l’editing genomico è per sua natura transnazionale e a evoluzione rapidissima (Eric.S.Lander, The Heroes of Crispr, in Cell, 164, 1-2, 2016 la mappa n. 2). C’è rischio che la politica degli Stati Uniti si dia la zappa sui piedi.

Contro Usa contro Cina contro

Due decenni fa gli analisti pensavano che la Cina non avrebbe potuto diventare un gigante economico per l’eccessiva popolazione e per un reddito annuo pro capite pari a quello delle Filippine. Poi, nel decennio successivo, sarebbe invalsa l’abitudine di proclamare che sì, la Cina è economicamente gigantesca, ma tutto si basa sull’abilità di copiare i prodotti delle economie avanzate, non sull’innovazione, la quale ha bisogno di una società libera, di pensatori liberi e indipendenti, non sotto la cappa autoritaria di un regime centralizzatore… I sinologi più avvertiti davano un nome a questa abilità di riprodurre, Shanzhai, un neologismo riferito alla tecnologia che significa contraffatto, imitato. Per noi occidentali un termine spregiativo. Vuoi mettere la romantica creatività dell’individuo in cui si accende per miracolo la lampadina della ispirazione nella sua feconda testa e da cui a cascata poi piovono soluzioni scientifiche, prodotti, sinfonie, poemi. I cinesi in genere, soprattutto se giovani, interpretano Shanzhai come la capacità di incrementare, di migliorare, di far evolvere un quid già esistente. Per dirla in musica, variazioni su un tema.

Epistemologia caotica

Quatto quatto arriva il futuro nel nostro presente e si scopre, soprattutto gli Stati Uniti scoprono, che la Cina è diventata concorrente di livello, anzi competitor, che in effetti dà più l’idea, in questi settori chiave delle nuove tecnologie:

– intelligenza artificiale,
– telefonia di 5° generazione [5G]
– semiconduttori,
– QIS Quantum Information Science [meccanica quantistica applicata all’informazione computazionale]
– biotecnologie,
– energia green.

E non le nanotecnologie, la robotica, le scienze dei materiali, le neuroscienze, il metaverso ecc.? Va bene qualsiasi altro elenco che frulli digitale in mousse con qualcos’altro. È la famosa chaos-epistemology, da non intendersi come epistemologia del caos, il quale abbonda nella realtà, quanto proprio una epistemologia caotica, che non si preoccupa di conoscere, ma di agitare i sogni e i sonni. Lo fa gridando al lupo, al lupo e buttando sul piatto miliardi di dollari per rincorrere, sorpassare, lasciare indietro la Cina.

Se poi il presidente della medesima candidamente dichiara: Noi abbiamo afferrato ben bene lo scopo strategico di costruire un potere scientifico e tecnologico di livello mondiale… e sforzarci per essere i primi nei settori base e in quelli di frontiera non c’è scampo alla costernazione occidentale.

Il paradigma è cambiato. Se la Cina prima era il colosso dai soliti piedi di argilla, adesso è la minaccia da sconfiggere. Con ogni mezzo.

L’analogico senziente

Dentro gli stravolgimenti paradigmatici si sente un rumorino: è l’analogico che avanza, che torna da protagonista sulla scena. È doloroso che sia la guerra a ricordarcelo in mezzo alla nostra infatuazione per il digitale, il virtuale e le tecnologie che se ne nutrono. Bombardamenti, torture, stupri, devastazione, morte, dice la guerra. La vita dice: troppo caldo, troppo freddo, troppa acqua, troppo poca. Bellezza e virus. Nuovi sogni, nuove emozioni, nuova infanzia, nuova lunga vecchiaia. Pieno di gente che rovista nei cassonetti del mondo e quattro gatti [jeff bezos, mark zuckerberg, elon musk, bill gates] che potrebbero comprarsi sull’unghia metà del pianeta. Se gli addizioni il grappolo di oligarchi sparsi qua e là, si comprano tutto il pianeta, satelliti inclusi. Questo per dire che sarà pure una contesa tecnologica quella tra Cina e Stati Uniti, con rispettive confraternite, ma stiamo tutti col fiato sospeso in attesa che la stessa Cina decida o non decida di cosa fare di quella Cina che si chiama Taiwan, per fare un esempio molto analogico e scarsamente virtuale.

Le magnifiche sorti e progressive del digitale non imbottiscono tutto il futuro (David Sax, The Future is Analog, Public Affairs, New York, 2022).

Semaforo verde per Prometeo? Se si può fare una cosa, dobbiamo farla, dice il mito dell’imperativo tecnologico invece di soppesare quello che rischia di fare e sarebbe meglio non facesse. Non siamo forse stati creati come imago Dei? Dice una tradizione cristiana un po’ tirata per i capelli. Quindi con lui co-creatori. Giocando a dio siamo legittimati a cambiare l’evoluzione, a dirigerla come ci pare? Sì, naturalmente, evoluzione significa processo in trasformazione, non un codice fisso per l’eternità.

La paura del Demiurgo al cospetto della Creatura

«Ma noi abbiamo bisogno di pensare a fondo alle vaste implicazioni di una tecnologia potente e di come svilupparla in modo responsabile», dice Jennifer Doudna una delle due scienziate Nobel per il Crispr.

È in scena il rimorso degli inventori. Lo abbiamo già visto con l’energia nucleare o, più alla buona, la scienziata in quanto statunitense ha ben presente il caso dell’afroamericana Henrietta Lacks e il macroscopico business costruito sulle sue cellule immortali. Di cosa si preoccupa Doudna, che ha il DNA addirittura nel suo cognome? Del lato oscuro di Crispr? Sandy Sufian, Rosemarie Garland-Thomson sono due ricercatrici disabili che pongono domande vincolanti nel loro saggio del febbraio 2021 (The Dark Side of CRISPR). E infatti Doudna ribadisce:

«L’editing delle cellule germinali può inavvertitamente trascrivere nel nostro codice genetico le disuguaglianze finanziarie delle nostre società» (A Crack in Creation. Gene Editing and the Unthinkable Power to Control EvolutionCrack in Creation, p. 233)

Chissà perché cancellerei l’inavvertitamente?

Ma forse Doudna si preoccupa della ormai praticabile eugenetica di velluto? Vieni qua che ti togliamo il gene cattivo e, soprattutto, lo togliamo anche ai tuoi discendenti: più nessuno con i capelli rossi. La biodiversità va bene per piante e fiori, ma per gli umani è solo una disgrazia. Estremizzo, ma neppure tanto, una posizione presente in alcune correnti del postumano, del transumanesimo e, molto probabilmente, in alcuni laboratori genetici. Tutti convinti che sia finalmente arrivato il tempo dell’enhancemenet, del potenziamento, dell’aumento della condizione umana, del superamento dei limiti, del salto biologico di qualità. Un futuro aumentato. Sgombrato il negativo dalla vita, cioè la morte, ingombro fastidioso. Immortalità garantita, fra un po’.

Pensieri intriganti e intricati

«C’è una analogia strutturale tra genitori che modificano geneticamente i figli e genitori che li educano tradizionalmente… Non tutte le modificazioni genetiche sono moralmente legittime come non tutti i tipi di educazione sono moralmente appropriati».

Stefan Lorenz Sorgner è un filosofo assertivo e affilato, di cui sto appiattendo un pensiero composito, che non distoglie lo sguardo da una realtà completamente inedita: «guardo la forbice genetica di Crispr o l’editing genetico in generale, come la più importante invenzione scientifica di questo inizio del XXI secolo». Aggiungo, di mio: fino a non molto tempo fa si riteneva che più di due terzi del Dna fosse spazzatura, una materia oscura inerte, poi si è scoperto che invece no, pur non dando origine a proteine, ha un compito regolatore molto importante. Adesso si chiama DNA non codificante-Noncoding DNA. La scienza, come al solito, procede a sbalzi. Sempre più difficile essere lungimiranti.

Ruipeng Lei e Renzong Qiu sono una ricercatrice della School of Philosophy, Huazhong University of Science and Technology, e un ricercatore dell’Institute of Philosophy, Chinese Academy of Social Sciences, in Cina. Ragionando sulle radicali differenze tra l’editing genetico di cellule germinali, che hanno materiale genetico che può essere trasmesso ai discendenti, e quello praticato su cellule somatiche – per esempio quelle del fegato, che invece non hanno questa proprietà – toccano il tema della moralità di Crispr. Concludono con un esempio elementare, ma calzante circa la nostra attuale responsabilità verso il futuro degli umani:

«uno stato A lancia un missile sullo stato B e uccide persone innocenti violando il loro diritto alla vita. Lo stato A lancia oggi un missile che orbita per due secoli e solo dopo va a uccidere persone innocenti. Moralmente è del tutto irrilevante che il missile colpisca subito dopo il lancio o fra due secoli»

Si guardano ormai in cagnesco Cina e Stati Uniti, gli uni mettono tutti i possibili bastoni fra le ruote e lei canta l’inno all’autoproduzione, autosufficienza, autarchia, sovranità scientifico tecnica. Con i corollari che ne possono seguire in chiave di politica nazional/nazionalistica. Sono primedonne della ribalta globale, ma tra le quinte altri protagonisti si affacciano, per esempio l’India che nel campo delle biotecnologie e in specifico nell’Editing genomico sta accumulando una esperienza sostanziosa e mostrando un impegno più che ragguardevole, soprattutto nell’ambito delle coltivazioni, della produttività animale e delle malattie endemiche del Sud Asia [17]. E il Giappone, e il Qatar  e …

Editing the world

Battaglioni corazzati di ricercatori in tutto il mondo stanno espandendo a marce forzate le diverse configurazioni della tecnica Crispr. I geni dei virus, dei batteri, del bioma umano, animale e vegetale non si sono mai sentiti così tanto osservati e maneggiati. C’è un’atmosfera di esaltazione e di ansia utopica nei laboratori, che alimenta inediti sconquassi bioculturali e abissi di abominio. Sono in gioco i parametri fondamentali della vita, tanto che vedere il sommovimento in atto solo come una questione geopolitica tra grandi potenze si rivela una scena incartapecorita. E, come per qualsiasi tecnoscienza, si infiamma una famelica spinta industriale e commerciale che con l’acquolina in bocca intravede miraggi finanziari. Se questo inatteso brodo primordiale sia una chimera è troppo presto per dirlo. Non è invece presto, tornando alla geopolitica spicciola, sottolineare qualche tendenza significativa in ambito militare e agricolo, trascurando la sterminata applicazione in campo medico, difficilmente sintetizzabile.

Premessa simpatica e antipatica: chiunque con una formazione di scuola media superiore è oggi in grado di modificare il genoma di un essere vivente, animale o pianta, senza dover ricorrere a finanziatori formidabili bensì utilizzando i kit adatti a crisperizzarlo, ampiamente disponibili in rete – il caso della società The Odin del biohacker Josiah Zayner è il più noto (la rete è piena di ciarlatani, di genialoidi, di geni [plurale di genio] che operano con Crispr nella versione fai da te). La pericolosità di una proliferazione incontrollata della tecnica Crispr, il cui costo dei reagenti sul mercato Usa si aggira sui 20 dollari, è accuratamente analizzato nel cap. 6° di Genome Editing and Biological Weapons. Assessing the Risk of Misuse, di Katherine Paris (Springer, 2023).

Dual-use

Il criterio che cercava di definire il duplice uso / dual use di un prodotto ovvero la sua destinazione civile con accertate possibilità di impiego militare, caso paradigmatico l’energia nucleare, va svaporando in ambito biotecnologico pur continuando  la Cina a essere accusata di abusarne.  Se, per esempio, con la tecnica Crispr sarà possibile curare qualche tipo di cancro, sarà ugualmente possibile provocarlo, se sarà possibile incrementare una coltivazione basilare, sarà anche possibile ostacolarla. Altro esempio lampante dell’interscambiabilità e fluidità dei risultati è la Neuralink Corporation di Elon Musk che conta, a breve termine, di impiantare un chip neurale nel cervello umano, con finalità – ci mancherebbe – terapeutiche, anche se, al momento, la società è indagata per aver procurato la morte non necessaria in fase di sperimentazione ad almeno 1500 animali. Un piano di ricerca quello dell’interfaccia cervello-computer molto frequentato in ambito militare e Nato in particolare.

La militarizzazione delle biotecnologie non solo in Cina, ma dovunque, può realizzarsi senza recedere dalla loro destinazione “civile”. La nebbia di guerra, di cui parlava Clausewitz, aumenta, non diminuisce nella lettura di Wallace.
La smisurata e lievitante disponibilità di dati sul genoma dei viventi, rende l’applicazione bellica desiderabile e, combinata con altre tecnologie, utilizzabile nel teatro di guerra, senza dover incappare nella deterrenza nucleare che ha regolato la Guerra Fredda: tu spari il primo colpo atomico, io rispondo ed è la fine per entrambi. Cassandra suggerisce che si potrebbero avviare genocidi con bersaglio una certa popolazione ben taggata geneticamente, avendo come mandanti non solo grandi potenze o consueti stati canaglia o regimi apocalittici, come qualcuno li chiama, ma anche compagnie di ventura private, i contractors, ben attivi sul mercato geopolitico, reti mafiose onnipresenti, gruppi terroristici di varia specializzazione.
Attori statali e molti attori non statali. Guardando indietro: l’impero coloniale inglese è stato creato da una compagnia commerciale ben organizzata e non dall’esercito di Sua Maestà. Questa panoramica che risuona di echi di guerra appare linda e stuzzicante perché riesce a strofinare via il suo prodotto finale più genuino, il sangue umano sparso a terra.

Lo scorso ottobre un gruppo di genetisti ha pubblicato su Nature l’articolo Contrastare la militarizzazione della ricerca genetica da parte degli estremisti in cui documenta come la diffusione dei risultati di laboratorio possa incrementare tendenze razziste già ben presenti nella società, in questo caso gli Stati Uniti. Uno degli autori si era accorto che nel documento di 180 pagine pubblicato sui social dal suprematista bianco e fascista orgoglioso, il diciottenne Payton Gendron, era citata con ammirazione una sua ricerca. A maggio il razzista ha ucciso in diretta streaming dieci persone, quasi tutte afroamericane, sparando con un fucile in un supermercato di Buffalo, NY.

Foschia di guerra

In contrasto con questa popolarizzazione delle tecniche di editing genomico, negli ambienti militari prolifera un’ossessione golemica: la creazione del soldato aumentato, non solo per le armi letali che maneggia, ma per la sua strabiliante qualità umana. Opera notte e giorno, non sa cos’è il dolore, quello degli altri meno che mai, sopravvive in ambienti infernali, ha la vista dell’aquila, l’aggressività del leone affamato, è nefasto come un fulmine, immune da fragilità fisiopsichiche come un cherubino, intelligente almeno come Einstein. Un campo di battaglia gremito di vispi David che abbattono uno dopo l’altro i corpulenti Golia che osano presentarsi. Il sogno dei generali, dalla Guerra di Troia. L’alta concentrazione di studi (e di laboratori) sul guerriero superman, Übermensch, può darsi dia qualche risultato bellico, ma soprattutto racconta di un’antropologia militare tentata dalla mitologia in versione contemporanea cioè transumanista, un frullato di Ercole, Maciste, Rambo e Batman. Il Ministero della difesa britannico con quello tedesco parlano infatti di augmentation e non di miglioramento, come consentirebbe il termine enhancement, riferendolo ovviamente all’uomo maschio perché quando si tratta di uomo femmina per accedere alle meraviglie dell’aumentazione deve prima praticare la suppression delle mestruazioni, tanto per cominciare.

Nella foschia il microchip ci vede benissimo

Il nostro sguardo è concentrato sulle Grandi e Medie Potenze, su ciò che arriva ai nostri occhi, e non mi pare che si vedano in giro altri Julian Assange a rovistare  nei sancta sanctorum delle Potenze medesime mettendo in gioco la propria esistenza. È uno sguardo appannato quello con cui scrutiamo gli alti comandi degli stati e forse dovremmo anche scandagliare i tanti hitlerini che gironzolano per il pianeta con intenti predatori. Grabbing non solo di terre, materie prime, acque, biodiversità… ma anche di Dna che la tecnica Crispr ha reso manipolabili e indirizzabili. Sarebbe bene frugare a passi felpati in anonime cucine, cantine, garages, capannoni di periferia, imprese familiari, per mettersi al riparo da future sorprese non gradite e, nello stesso tempo, trarre frutto da questa caotica democrazia genetica per acquisire innovazioni che promuovano equità e non nuove disuguaglianze, che scalfiscano la scienza cementificata nelle istituzioni e nelle imprese multinazionali, che ogni volta aprano e incentivino una discussione pubblica su ciò che è veramente umano. Nella vasta e dispersa comunità di biohackers sarà necessario trovare il punto di equilibrio tra le sperimentazioni dissennate e i disciplinamenti arbitrari. Crispr si lascerà governare?
Mentre noi ci disponiamo ad aguzzare lo sguardo, se ne posa uno su di noi, molto penetrante, nel nostro intimo che più intimo non si può. La sorveglianza genetica in Cina da parte degli apparati governativi ha già racimolato un gruzzoletto di 80 milioni di Dna, negli Stati Uniti si rastrellano quelli degli immigrati, dei detenuti, dei delinquenti e,  meglio essere previdenti, dei neonati. La cara Unione Europea si impegna a far la sua parte.
Che siamo noi stessi a fornirli gioiosamente alla rete o siano scavati ed estratti da altri, il finale non cambia: fantastilioni di dati personali sono minuziosamente accatastati in megacapannoni detti data base, sparsi per il mondo e posseduti da una dozzina di proprietari che ne fanno merce squillante per i loro salvadanai. Le biobanche, in particolare, cresceranno esponenzialmente perché tutti vogliamo che siano debellate quelle malattie che ci fanno paura e quei virus malefici che si sono risvegliati, ben vengano perciò sequenziamenti e screening genetici di massa e magazzini di materiale biologico. Il tecno ottimismo che ci guida (detto anche tecno misticismo) lo esige e se Crispr, o chi per esso, ci promette una panacea per la nostra salute siamo disposti a rinunce anche consistenti. Dentro questa contraddizione, internet + genomica, siamo sballottati e senza grandi idee sul come attraversarla, mentre la Guerra Fredda 2.0 si sta srotolando sul contenimento tecnologico soprattutto dei microprocessori, i chips, che in quanto manufatti prodotti da un’industria rientrano in un quadro visivo tradizionale, più familiare. Una fabbrica con operai e operaie che vanno e vengono, un prodotto impacchettabile, dei consumatori in carne e ossa. La principale azienda produttrice si chiama TSMC, ha sede a Taiwan, ha filiali in Cina e, fra poco, anche in Arizona. Triangolazione bollente che riconosciamo al primo colpo. Crispr e ingegnerie genomiche affini sono meno a vista d’occhio, dunque quasi per niente avvistabili e soprattutto contenibili dalla sorveglianza istituzionale, dalle legislazioni, dalle etiche oggi prevalenti né, presumo, da quelle future.

Dacci oggi

Bazooka, granate e mitragliatrici, rimpiazzate da funghi, muffe e animaletti. Non è un nuovo videogioco per bebè, è uno scenario di guerra. Di agroguerra, un termine che mi invento ipso facto e che applico a una variante della guerra dei mondi che il capitalismo periodicamente ci regala. La cattivissima Cina può impossessarsi del Dna di un seme ogm usato negli Stati Uniti e alterarlo in modo tale da distruggere i raccolti. Proprio così, scrive un rapporto di una commissione governativa di Washington, anche se fino a poco fa vantavano la loro trentennale collaborazione nel settore agrario. Succede nelle migliori famiglie che, aumentando i dissapori, ogni gesto sia percepito come ostilità dichiarata. Nelle collettività in subbuglio tutto diventa strategico. In Iran lo è per le donne togliersi il velo e per il regime impiccarle e con loro chi le appoggia. È un vicolo cieco, finché non si capovolge la strategia dominante. Per farlo è necessario ogni tanto distogliere lo sguardo dai contrasti tra Grandi e setacciare invece lembi e frammenti di una realtà in grande fermento

Agricultural Biotechnology: Latest Research and Trends è un libro di 741 pagine sulle novità delle biotecnologie in agricoltura curato da Dinesh Kumar Srivastava, Ajay Kumar Thakur, Pankaj Kumar; sfogliandolo si sente sgorgare a più voci un’ode alle prodezze dell’ingegneria genomica, le NBT (New Breeding Techniques- nuove tecniche di ibridazione), Crispr e consanguinei. Molti paesi subiscono la scarsità di precipitazioni? Non possiamo ancora modificare il Dna della pioggia, ma possiamo crisperizzare semi, piante e terreni per insegnargli, già dopodomani. a fare a meno dell’acqua.
Fa molto caldo, per equilibrare il loro tasso metabolico i parassiti diventano sempre più voraci? Crisperizziamo a man bassa piante e tutto il resto. In certi luoghi del pianeta si crisperizzano alla vecchia maniera: Dacci oggi il nostro pane quotidiano.
Ci sono, non dubito, elementi di verità in queste attese un po’ messianiche e nelle migliaia di ricerche, esperimenti e applicazioni che si avvantaggiano del caos normativo che differenzia e qualche volta contrappone il comportamento degli stati. Le spinte del mercato costringono i legislatori a riprendere la discussione sugli ogm, mentre il fronte dei crisperizzatori ribatte che non si tratta di transgenico, non viene infilato un gene di altra specie, ma viene semplicemente aggiustato il genoma, la vita sulla terra non viene seviziata. L’effervescenza  del settore è alta, promette bene, piccoli e grandi attori ci scommettono, vale dunque la pena osservare ciò che si agita alle falde.

Biopirateria

Nel 1876 Henry Wickham arriva in Amazzonia per conto dei Reali Giardini Botanici di Londra, raccoglie 70.000 semi di gomma, si fa spiegare ben bene dai nativi come conservarli perché facilmente deperibili e, com’è come non è, a fine Ottocento il Brasile perde il monopolio della gomma che passa all’impero coloniale britannico. Il drenaggio delle risorse genetiche, come ci ha mirabilmente spiegato Crosby, è un tratto essenziale del rapporto Nord/Sud del mondo ed è molto in auge anche oggi, con due varianti. Quella tradizionale, chiamiamola estrattiva, che si impossessa direttamente del materiale genetico vegetale e animale, spesso frutto di un sapere antico, per esempio in Kenya, in Brasile e in generale, quella contemporanea che chiamerei, privatistica, che può accumulare dati genetici a piene mani impugnando una biotecnologia molto sviluppata. La frenesia genomica ha fatto sì che un sistema di conservazione dei miliardi di dati riguardanti il sequenziamento del Dna sia diventato una miniera d’oro in far west normativo. Sono tre i grandi contenitori di dati genetici: GenBank negli Stati Uniti, l’europeo EMBL-EBI e il giapponese DDBJ, pubblici e accessibili. Ci sono poi migliaia di banche dati private, di cui non si sa quali e quanti dati genetici custodiscano, sappiamo però che usufruiscono ampiamente delle banche pubbliche per realizzare le loro sperimentazioni e i loro affari. Si è riusciti nel 2016 a immagazzinare un video musicale, 100 libri e un data base di semi su un filamento di Dna grande come una punta di matita. Si riesce nel gennaio 2023 a produrre sequenze di proteine avendone decodificate 280 milioni. L’abbiamo già incontrata, è la biologia sintetica (o biologia di sintesi o SynBio) che consente, decodificando e ricodificando, il trasferimento digitale senza scambio fisico di materia biologica. E siccome tutto è merce, come predica l’andazzo prevalente, tutto è mercificabile, anche la vita stessa, soprattutto se in forma di astratto codice che di per sé non dà segni di vita, non piange, non ride. Fa da bancomat.

Privatizzazione e commercializzazione

È una pacchia. Scarichi una sequenza e la ricrei in laboratorio. I ricercatori che credono di sapere il latino dicono che tutto avviene in silico, gli altri parlano di Digital Sequence Information- DSI. Acchiappi la zanzara giusta, l’anofele, responsabile della malaria che, in Africa specialmente, uccide centinaia di migliaia di persone, soprattutto bambini e bambine, fai una microriparazione al Dna (detta Gene drive o genetica direzionata) e il gene diventa estintivo,  in questo modo poi lo si può brevettare e commercializzare. Le care estinte sono le zanzare femmine che portano così al collasso l’intera popolazione di animaletti assassini. In laboratorio. All’aria aperta non è ben chiaro se tutto fili così liscio. I piedi di piombo o principio di precauzione sarebbero benvenuti. Nel caso delle cuginette, le vespe,  l’estinzione avviene solo parzialmente e quindi l’esperimento fino a questo momento non sembra funzionare come da previsione. Sarebbe comunque gradito un registro pubblico dei test di gene drive o forzatura genetica, per evitare che le sperimentazioni dal vivo siano generosamente praticate là dove il neocolonialismo continua ad insediarsi con caparbietà, per esempio l’Africa.

Accaparrare biodiversità (“l’inventore” della biodiversità Nicolaj Vavilov [1887-1943] finì la sua vita nel gulag staliniano e, come lui, Aleksandr Čajanov [1888-1939], il più significativo teorico dell’impresa contadina a conduzione familiare) è diventato un must per molte corporations agroindustriali – farmaceutiche e simili – e per agrogenetisti a disposizione del miglior offerente. Si riproduce qui il dual use già evocato.

Tecnologie che sfiorano l’onnipotenza possono essere impiegate per distruggere territori interi o per farne fiorire altri. A scelta. L’infatuazione genomica apre le porte all’eugenetica tuttigusti, per grandi e piccini, ricchi e poverini. Piante in stile e fashion o augmented and multitasking animals: le fantazoologie di Emily Anthes e di Sukanta Mondal sono alla portata di molti.

Mi attrae un libro dal titolo allettante (Women in Sustainable Agriculture and Food Biotechnology. Key Advances and Perspectives on Emerging Topics di Laura Privalle) e dalle inedite informazioni storiche, dalle lodevoli intenzioni pedagogiche (Biotechnology in the Classroom), dalla solidarietà all’Africa’s Fight for Freedom to Innovate e, in ultimo, dalla curatrice che è una ricercatrice dipendente della BayerCropScience, North Carolina, cioè ex Monsanto acquisita dalla Bayer ovvero il connubio luciferino bigpharma e agroindustria globale.

Il biocapitalismo ci sa fare: «Siate astuti come serpenti e puri come colombe» (Matteo 10,16), diceva lui, ma si rivolgeva ai poveracci della Galilea e non agli impresari locali né agli affaristi romani in trasferta.

Il capitolo primo dell’eugenetica è stato scritto nel secolo XX, ed è una lettura ripugnante. Il capitolo secondo lo si sta scrivendo e non è chiara la trama, che oscilla tra lifting della natura a fini produttivistici o estetici e biopirateria e bioprospecting che si sovrappongono starnazzando come la gallina dalle uova d’oro. Ha un nome geopolitico un po’ altisonante lo strillo: agroterrorismo, dal futuro garantito e da una storia non  trascurabile. Può applicarsi alla catena di distribuzione del cibo, alla salute degli animali e di conseguenza a quella umana, ai patogeni per le piante…Una vasta gamma di eugenetiche o, meglio, di disgenetiche per combattere in una qualsiasi forma di guerra, che da sempre è una tecnologia sociale che procede per accumulo. La baionetta si accompagna tranquillamente con i droni, il ratto delle Sabine [=lo stupro di massa] con i bombardamenti a tappeto, le compagnie di ventura [=mercenari parastatali tipo Gruppo Wagner] con gli eserciti professionali di stato e Stati Maggiori. Le avvisaglie di un insolito teatro bellico non mancano. Non ci si potrà più lamentare delle braccia rubate all’agricoltura.

Morale della favola / Favola della morale

C’era una volta una scuola a cui accompagnavo ogni tanto un’amica, si insegnava Taglio e Cucito. Tecniche di ieri, molto in vigore oggi, non per aggiustare tessuti, ma per correggere la vita. Si annunciano benefici, si fiutano sventure. Non è chiaro se siamo immersi in una biofiction, come la chiamano, o se effettivamente i viventi tutti stiano per rigenerarsi, chi oggi chi domani o dopodomani, volenti nolenti.

Il futuro non sta bene di salute. È incerto. C’è chi ne ha paura, chi lo cavalca in sogni diurni, chi lo scambia col passato. Lui capita qua e là in incognito, sempre più biopolitico a prospettare mutazioni dei corpi e dei sistemi neurologici/cervelli, umani animali vegetali.
Questa farfalla non è una farfalla.  No, effettivamente è una farfalla. Insomma, è una farfalla umanizzata. Contiene un gene di una persona, il bioartista Yiannis Melanitis esponente dell’arte transgenica. In più la farfalla e l’uomo condividono lo stesso nome, lei è Leda Melanitis.  Non solo, dunque, ontologie linguistiche, ma scambio genetico come è di norma nella riproduzione dei viventi. Una riaffermazione della interconnettività tra esseri? Un reiterato dominio dell’umano? Una disinvolta indagine sulla vita? Arte chiaroveggente?

Un Ovidio futuro avrà materiale per poetare sulle nuove metamorfosi. Sarebbe meglio che prima di allora si creassero nuove metafore sull’interazione tra i regni viventi (regni!), tra vita sociale-biologia-tecnologie. Le scienze sono potenti, ma non onnipotenti. Corruttibili e, qualche volta, colluse. Le tecnologie godono in modo sproporzionato della loro sacralità. Non confessano depravazioni ed empietà, che hanno patito e patiscono invece le religioni. La vita sociale, che sia quella umana o quella delle api, fa la parte del parente povero. Il clamore mediatico qualche volta si agita ben bene prima dell’uso, intorbidando, o stordisce, tacendo.  Un’informazione non burattina sarebbe già una conquista. I viventi umani potrebbero dedicarsi a elaborare una genEtica non dozzinale e vulnerabile. Se siamo ancora in tempo.

Questo romanzo è opera di fantasia, tranne per le parti che non lo sono (Michael Crichton, Next, 2006).


Alcuni testi di riferimento:

Per ricostruire precedenti e conseguenti della scoperta di CRISPR-Cas9 sono a disposizione ormai bibliografie sterminate: Anna Meldolesi, E l’uomo creò l’uomo. CRISPR e la rivoluzione dell’editing genomico, BollatiBoringhieri, Torino, 2021; l’ottimo blog da lei diretto Crispermania e l’edizione italiana non fluentissima di Kevin Davies, Riscrivere l’umanità. La rivoluzione CRISPR e la nuova era dell’editing genetico, Raffaele Cortina editore, Milano, 2021.
Di Jennifer A.  Doudna e Samuel H. Sternberg, A Crack in Creation. Gene Editing and the Unthinkable Power to Control Evolution, Houghton Mifflin Harcourt, NY, 2017. Importante anche perché Doudna un po’ “mette le mani avanti”  sui pericoli insiti nella tecnica a cui ha contribuito.
Dare un nome alle cose: su come si è giunti a Crispr v. il capitolo terzo di CRISPR People. The Science & Ethics of Editing Humans, di Henry T. Greely, MIT Press, Cambridge, Mass., 2021. Senza tener conto del fatto che c’è ancora un contenzioso apertissimo su chi abbia veramente inventato la biotecnologia Crispr se le due Nobel o Feng Zhang dell’MIT: H. Leidfort,  Major CRISPR Patent Decision won’t end tangled dispute, in Nature, 17.03.2022. I criteri usati dall’Accademia di Svezia non sono quelli dell’Ufficio Brevetti degli Stati Uniti.

Categorie schierate sui due fronti: Umanesimo, transumanesimo, postumanesimo, inumanesimo:
E. Kirksey, The Mutant Project: Inside the Global Race to Genetically Modify Humans, Bristol University Press, 2021;
Aa.Vv., Critica al transumanesimo, Nautilus, Torino, 2019.

Sul concetto di “Shanzhai”:
Jeroen de Kloet, Chow Yiu Fai, and Lena Scheen, a cura di, Boredom, Shanzhai, and Digitisation in the Time of Creative China, Amsterdam University Press, 2019

Stefan Lorenz Sorgner, We Have Always Been Cyborg. Digital Data, Gene Technologies, and an Ethics of Transhumanism, Bristol University Press, 2022, pgg: 8-9, 193. Nonostante insegni in Italia, presso la John Cabot University di Roma, non mi pare che il lavoro complessivo di questo pensatore tedesco abbia suscitato nel nostro paese reazioni significative. Posso sbagliarmi, neppure il tema in generale ha incuriosito, eccetto gli importanti lavori di Mauro Mandrioli, docente di genetica all’università di Modena e Reggio, From genome editing to human genetic enhancement: a new time for discussing eugenics?, in Scienza&Filosofia, n. 27, 2022, e idem L’uomo creatore di se stesso. La rivoluzione della genetica tra nuove possibilità e (in)evitabili rischi, in Scienza&Filosofia, n. 24, 2020.

Su che cosa stia cambiando tra gli eterni contendenti cino/indiani è ben chiarito da Abhay Kumar Singh,  India-China Rivalry: Asymmetric No Longer An Assessment of China’s Evolving Perceptions of India,  Manohar Parrikar Institute for Defence Studies and Analyses, New Delhi, 2021: Il futuro delle due potenze sarà una cooperazione competitiva o un conflitto per l’egemonia?

Per approfondire la relazione in ambito bellico dell’interfaccia uomo-macchina, oltre ai capitoli curati da Alessandro De Pascale e da Gabriele Battaglia per l’opera collettanea 2023: Orizzonti di guerra (OGzero, 2023), un testo datato ma ancora valido è quello di Jonathan D. Moreno, Mind Wars. Brain Science and the Military in the Twenty-First Century, Bellevue Literary Press NY, 2012. Sul proverbiale accrescimento della truppa da parte degli Alti Comandi: Norman Ohler, Tossici. L’arma segreta del Reich. La droga nella Germania nazista, trad. Chicca Galli, Rachele Salerno e Roberta Zuppet di Der totale Rausch. Drogen im dritten Reich, Rizzoli, 2015; ma anche Łukasz Kamieński Shooting up. Storia dell’uso militare delle droghe, Trad. Chiara Baffa, Utet, 2017; la correlata somministrazione di sostanze per inibire remore o per accentuare le prestazioni fisiche, come il recente uso del Captagon nel conflitto siriano: Héloïse Goodley, Pharmacological performance enhancement and the military. Exploring an ethical and legal framework for ‘supersoldiers’ (The Royal Institute of International Affairs Chatham House, novembre.  2020). Jean-François Caron tenta una metainterpretazione comparativa in A Theory of the Super Soldier. The morality of capacity-increasing technologies in the military, Bellevue Literary Press, NY, 2018.

A proposito di microchip: Chris Miller (Chip War. The Fight for the World’s most critical Technology, Scribner, 2022) ricorda giustamente Federico Faggin, il creatore del primo chip nel 1971, ma non dedica un accenno alle biotecnologie e a Crispr. Ruolo dell’Europa in questa “guerra” di semiconduttori. Mi ripeto: gratta gratta anche le tecnologie più di frontiera hanno bisogno di quella cosa molto terra terra chiamata terra. In caso di siccità la produzione di chips ne patisce molto avendo un ingente bisogno di acqua pura. No water no microchips.

Una panoramica ben documentata su privatizzazione e commercio di Dna si trova in Biotechnology, Patents and Morality. A Deliberative and Participatory Paradigm for Reform, di Maureen O’Sullivan (Routledge, 2020).  

Alcune dritte sul Teatro bellico: Panoramica generale,  Panoramica generale n. 2, Panoramica generale n. 3 e curiosa pretesa di dotarsi di “armi bioterroristiche”, Nepal, Le difficoltà di difesa dall’agroterrorismo, l’India, Sospetti sulla Cina e Russia?  Agroterrorismo in Brasile, Modelli di difesa dall’agroterrorismo,  Maria Lodovica Gullino, James P. Stack, Jacqueline Fletcher, John D. Mumford (a cura di): Practical Tools for Plant and Food Biosecurity. Results from a European Network of Excellence, Springer, 2017, in particolare il cap. 2 di Frédéric Suffert: Characterization of the Threat Resulting from Plant Pathogen Use as Anti-cropBioweapons: An EU Perspective on Agroterrorism.
Alberto Cique Moja, Pedro Luis Lorenzo González, Del empleo estratégico de las armas biológicas al agroterrorismo: preparación y respuesta, cap. V di un ampio studio sulla Amenaza biológica dell’ Instituto Español de Estudios Estratégicos: IEEE, 2023, con speciali riferimenti a Crispr.

 

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La rincorsa delle armi al mercato della guerra https://ogzero.org/la-rincorsa-delle-armi-al-mercato-della-guerra/ Tue, 21 Mar 2023 00:31:00 +0000 https://ogzero.org/?p=10526 “Dual”: non solo il metodo di produzione di oggetti a scopo bellico (e pure civile) lo è, ma risulta duale anche l’anello logistico delle armi, come si evince dal rapporto Sipri, descritto da Emanuele Giordana per l’Atlante dei conflitti e delle guerre del mondo: da un lato, in linea con l’intuizione del nostro Studium per […]

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“Dual”: non solo il metodo di produzione di oggetti a scopo bellico (e pure civile) lo è, ma risulta duale anche l’anello logistico delle armi, come si evince dal rapporto Sipri, descritto da Emanuele Giordana per l’Atlante dei conflitti e delle guerre del mondo: da un lato, in linea con l’intuizione del nostro Studium per cui la guerra capiterà presto laddove si stanno accumulando armi (in questo caso in prospettiva il quadrante indo-pacifico?); dall’altro in un climax classico della corsa al riarmo, addensandosi e accumulandosi dove già si erano concentrate armi per far esplodere un conflitto. Emanuele è tra gli autori del volume “2023: Orizzonti di guerra” curato da OGzero per  approfondire in questo momento particolare quel traffico d’armi che possono regolare il riequilibrio strategico delle forze in campo per una nuova disposizione dell’ordine mondiale, messo in discussione da superpotenze palestrate che mostrano i muscoli e si attrezzano ad assorbire e consumare la produzione bellica mondiale. Proprio il commercio di armi è al centro dei periodici rapporti del Sipri, citati e analizzati anche nel monitoraggio che sta a monte del volume appena pubblicato da OGzero con l’apporto del parterre di autori che l’hanno reso possibile.


La guerra si avvicina all’Asia preceduta dalle armi

L’Asia orientale è in testa alla classifica del commercio mondiale delle armi dominata dagli Stati Uniti e da una corsa al riarmo europeo.

Asia e Oceania hanno ricevuto il 41 per cento dei principali trasferimenti di armi nel 2018-22. È una quota leggermente inferiore rispetto al 2013-17 che rientra in una generale diminuzione del livello globale dei trasferimenti internazionali di armi, un decremento di oltre il 5%. Ma il calo complessivo non deve trarre in inganno, come lo Stockholm International Peace Research Institute (Sipri) ha spiegato alcuni giorni fa in una dettagliata analisi sul mercato mondiale degli armamenti dove hanno inciso pandemia, problemi di logistica e cambio di priorità per la guerra ucraina.

Una dimensione di quanto delicato sia diventato il quadrante orientale

Sono dati che illuminano una scena – quella indo-pacifica – dove i numeri evidenziano come sei stati sono tra i dieci maggiori importatori a livello globale nel 2018-22: India, Australia, Cina, Corea del Sud, Pakistan e Giappone. Quadrante con una guerra in corso in Myanmar, mercato che è difficile sondare perché rigorosamente occultato nonostante le parate con carri, aerei e blindati di marca russa o cinese.

“Il mattatoio birmano dopo 2 anni: dati, analisi, prospettive allargate all’Asean”.
Un buco nero che rientra a fatica nei dati Sipri anche perché è un conflitto oscurato da quello in Europa. Un’Europa che ha comunque aumentato la sua quota di acquisti del 47 per cento negli otto anni che vanno dal 2013 al 2018.

Il boom del traffico si è spostato in Occidente con la guerra

Stoccolma spiega che le importazioni di armi dei soli membri europei della Nato sono aumentate del 65 per cento mentre il livello globale dei trasferimenti internazionali di armi è diminuito del 5,1 per cento. Le importazioni di armi sono diminuite complessivamente ovunque ma, come abbiamo visto, i maggiori attori in questa fetta di mondo (Cina, India, Australia e Giappone) continuano ad armarsi. Sono in buona compagnia: la quota degli Stati Uniti nelle esportazioni globali di armi è aumentata dal 33 al 40 per cento.

L’aumento del budget cinese allineato

Quanto ai cinesi, Pechino ha da poco annunciato un aumento del 7,2 percento del suo budget per la difesa, un dato i cui effetti troveremo nei dati Sipri del 2024: per l’ottavo anno consecutivo aumenta la percentuale di spesa militare del secondo budget militare del pianeta (OGzero ne ha parlato con Lorenzo Lamperti).

“Quanti fili si annodano attorno a Taiwan all’alba del terzo mandato di Xi?”.

Autarchia armiera russa…

L’export russo segna invece una diminuzione del 31 per cento tra il 2013-17 e il 2018-22 mentre la sua quota di esportazioni globali di armi si è ridotta di 6 punti percentuali.

«Anche se i trasferimenti di armi sono diminuiti a livello globale, quelli verso l’Europa sono aumentati notevolmente a causa delle tensioni tra la Russia e la maggior parte degli altri Stati europei», ha detto a Stoccolma Pieter Wezeman, ricercatore del Sipri Arms Transfers Programme: «Dopo l’invasione russa, gli Stati europei vogliono importare più armi e più velocemente. La competizione strategica continua anche altrove: le importazioni di armi verso l’Asia orientale – ha ribadito – sono aumentate e quelle verso il Medio Oriente rimangono a un livello elevato».

Secondo il Sipri è probabile che la guerra ucraina limiterà ulteriormente le esportazioni di armi di Mosca che «darà la priorità alla fornitura delle proprie forze armate» mentre «la domanda da parte di altri stati rimarrà bassa a causa delle sanzioni commerciali e per la crescente pressione da parte di Usa e alleati affinché non si acquistino armi russe».

… addiction ucraina dall’import armiero 

Quanto all’Ucraina, in seguito agli aiuti militari di Stati Uniti ed Europa dopo l’invasione, Kiev è diventata la terza maggior importatrice di armi importanti nell’anno passato (dietro a Qatar e India). E l’Italia? Tra i primi sette esportatori di armi dopo Usa, Russia e Francia, cinque Paesi hanno registrato un calo dell’export mentre due portano a casa forti incrementi: Italia (+45 per cento) e Corea del Sud (+74 per cento).

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Fondato disincanto e probabile implosione nigeriana https://ogzero.org/fondato-disincanto-e-probabile-implosione-nigeriana/ Tue, 14 Mar 2023 00:25:11 +0000 https://ogzero.org/?p=10480 Il precedente articolo dedicato alla Nigeria riguardava ancora le elezioni, le stesse. Non c’era tanto entusiasmo, ma comunque qualche speranza per u minimo cambiamento, in primis lo scardinamento dell’alternanza Sud/Nord, cattolici/musulmani; Obi era il laico “giovane” – o comunque quello meno inviso ai giovani – ma forse i nigeriani erano già consapevoli di come funziona […]

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Il precedente articolo dedicato alla Nigeria riguardava ancora le elezioni, le stesse. Non c’era tanto entusiasmo, ma comunque qualche speranza per u minimo cambiamento, in primis lo scardinamento dell’alternanza Sud/Nord, cattolici/musulmani; Obi era il laico “giovane” – o comunque quello meno inviso ai giovani – ma forse i nigeriani erano già consapevoli di come funziona il loro paese: infatti la maggioranza dei potenziali influencer si guardava bene dal prendere posizione… come il 73% dei potenziali votanti, che non sono andati alle urne, probabilmente consapevoli che il presidente era già decretato. I brogli sono tanti e la divisione di un paese in crisi non consente di indovinare a cosa andrà incontro la nuova presidenza dell’ultrasettantenne Tinubu, a capo di una nazione giovane che in genere ha un terzo dei suoi anni, lasciatagli in eredità da Buhari con una povertà sempre più estesa, come la violenza, scorciatoia in risposta dell’indifferenza del potere.


Inutile votare, ma anche soltanto sperare

Mai nella storia democratica della Nigeria un presidente è stato eletto con una percentuale così bassa di voti. Nonostante ciò, Bola Ahmed Tinubu, nuovo capo di Stato – elezione contestata dall’opposizione – dovrà affrontare sfide senza precedenti e risolvere problemi immensi. Noti per la loro resilienza, i 216 milioni di abitanti del paese più popoloso dell’Africa vivono nella morsa di una diffusa insicurezza e di una grave crisi economica, e tutti gli indicatori sono allarmanti. Sullo sfondo di una gigantesca penuria di banconote e benzina, Bola Tinubu ha vinto le elezioni presidenziali di fine febbraio dopo una tornata elettorale segnata da numerosi guasti tecnici e da accuse di “massicce frodi”. Dopo la vittoria, Tinubu ha invitato l’opposizione a “lavorare insieme” per “raccogliere i pezzi” della Nigeria. Ma i suoi due principali oppositori, candidati alla presidenza senza successo, hanno contestato i risultati e sono in corso procedimenti legali.

«Tinubu dovrà prima lavorare sodo per costruire la sua legittimità, visto come le elezioni si sono svolte con una Commissione elettorale (Inec) incompetente o complice», ha affermato Nnamdi Obasi, esperto dell’International Crisis Group (Icg).

Un quadriennio ibernato dal letargico vecchio

A 70 anni (o più probabilmente 77), il candidato del partito al governo (Apc) ha vinto le elezioni raccogliendo solo 8,8 milioni di voti, ovvero il 36% di coloro che si sono recati alle urne, un risultato mai così basso se si conta che gli aventi diritti erano circa 87 milioni. L’astensione è stata da record, 73%, dovuta sia all’insicurezza in cui versa il paese, ma anche al disincanto della maggioranza della popolazione nei confronti della politica. Ma anche per colpa degli otto anni di potere del presidente uscente, Muhammadu Buhari. Durante i suoi due mandati, Buhari non è stato capace di arginare la povertà che, anzi, è esplosa, e la violenza, anch’essa cresciuta. Il presidente uscente non è stato in grado di mantenere le promesse e di raggiungere gli obiettivi che si era dato: riduzione della povertà e sconfitta del terrorismo di Boko Haram e dello Stato Islamico. A ciò si è aggiunta una crescente violenza dovuta al proliferare di bande armate e a lotte intercomunitarie per l’accaparramento della terra.

Per legittimarsi, Tinubu – considerato uno degli uomini più ricchi e influenti del paese e accusato di corruzione senza mai essere stato condannato – dovrà mandare “segnali forti e molto velocemente” e soprattutto non seguire l’esempio del suo predecessore che aveva aspettato sei mesi per formare un governo, sostiene Obasi dell’International Crisis Group. A ciò si aggiunge, a complicare ulteriormente la situazione, la sua età e problemi di salute che non è riuscito a nascondere durante la campagna elettorale. Fattore che aggrava “il suo problema di legittimità”, spiega Tunde Ajileye, esperto della società di consulenza nigeriana SBM Intelligenze. Tinubu, inoltre, dovrà cercare di fare presa sui giovani, in Nigeria il 60% della popolazione ha meno di 25 anni. Il nuovo presidente, secondo molti analisti sul campo, dovrà “molto probabilmente” affrontare la rabbia popolare, lui che ha annunciato una serie di decisioni “necessarie” ma con “conseguenze economiche molto negative nel breve termine”. Con la presidenza Buhari, l’economia è solo peggiorata, soprattutto dopo la pandemia e in conseguenza della guerra in Ucraina.

La disoccupazione supera il 33%, l’inflazione sfiora il 22%, il debito pubblico cresce e la povertà è colossale, con 133 milioni di persone che vivono al di sotto della soglia di povertà, cioè il 63% circa della popolazione. D’accordo con il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale, Tinubu, per esempio, ha assicurato che avrebbe abolito immediatamente i sussidi per il carburante. Ma sarebbe alienare un popolo già in ginocchio, lui che già non gode di grande popolarità.

Perché una tale decisione «raddoppierebbe il prezzo di un litro di benzina e provocherebbe un’inflazione su larga scala», avverte Obasi, «la gente sarà davvero arrabbiata».

Ma la rimozione dei sussidi consentirà alla Nigeria grande produttore di petrolio, di «gestire la crisi di bilancio e investire in programmi di istruzione, infrastrutture e protezione sociale», sottolinea Mucahid Durmaz, analista di Verisk Maplecroft.

Urne vuote in Nigeria

L’economia bruciata nel petrolio e negli abusi di polizia

Anche porre fine al furto di petrolio su larga scala che costa alla Nigeria 2 miliardi di dollari all’anno è una priorità, sostengono gli esperti. Occorre, tuttavia, ricordare che la Nigeria è il più grande produttore di petrolio dell’Africa Subsahariana, con circa 2 milioni di barili giorno, ma è anche il paese che importa l’80% del suo fabbisogno di carburante.

L’economia in crisi e sotto costante stress ha prodotto una maggiore insicurezza. La violenza rimane diffusa, tra gruppi jihadisti, separatisti e criminali. Da parte loro, le forze armate e la polizia sono a corto di personale, sono mal equipaggiate e regolarmente accusate di gravi violazioni dei diritti umani. Anche questo settore ha bisogno di «riforme strutturali di vasta portata e programmi di formazione completi», insiste Durmaz. Pure questa dovrà essere una priorità, anche perché nel Nordest, roccaforte dei gruppi jihadisti, l’esercito non riesce a porre fine a 13 anni di conflitto che ha provocato 40.000 morti e 2 milioni di sfollati.

«Non vi è alcuna indicazione che la strategia cambierà con l’arrivo di un nuovo presidente», ha affermato Jacob Zenn, ricercatore presso la Jamestown Foundation. «Questo stallo può semplicemente continuare».

Ma Tinubu dovrà anche scongiurare la “profezia” del premio Nobel per la letteratura Wole Soyinka che, solo due anni fa, sosteneva che la Nigeria sembra proprio essere un paese a rischio implosione.

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Western, merchandising e resistenza indiana https://ogzero.org/western-merchandising-e-resistenza-indiana/ Tue, 07 Mar 2023 15:23:50 +0000 https://ogzero.org/?p=10442 Da vecchi cinefili, un’attenzione quella per la pellicola imprescindibile per la nostra generazione, ci siamo appassionati innanzitutto alla ribellione inoculata dai film del regista indoamericano per eccellenza: Sam Peckimpah. Perciò non abbiamo saputo resistere alla proposta di Gianni Sartori. Fu efficace il contributo del cinema per liberare l’immaginario degli spettatori, soprattutto i boomer allora giovani, […]

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Da vecchi cinefili, un’attenzione quella per la pellicola imprescindibile per la nostra generazione, ci siamo appassionati innanzitutto alla ribellione inoculata dai film del regista indoamericano per eccellenza: Sam Peckimpah. Perciò non abbiamo saputo resistere alla proposta di Gianni Sartori. Fu efficace il contributo del cinema per liberare l’immaginario degli spettatori, soprattutto i boomer allora giovani, che cominciarono a occuparsi di emancipazioni di comunità represse, violate, estinte dall’Uomo bianco proprio con Leonard Peltier in carcere dal 6 febbraio 1976, accusato in modo palesemente falso di delitti attribuitigli dalla Fbi per il suo impegno nella liberazione del mondo dei nativi americani.


Preambolo cine-autobiografico

Risalenti a fine dei Sessanta e ai primi Settanta si sostanziano succulenti ricordi cinematografici, specchio della liberazione irripetuta di quegli anni. Oltre a qualche pellicola precedente, degli anni Cinquanta, vista da bambino nel cinema parrocchiale di Debba (tra cui Il massacro di Fort Apache – per Domenico Buffarini forse il primo esempio di una pellicola non apertamente razzista con i “pellerossa”). Successivamente, sempre in cinema parrocchiali – ma di Vicenza (Santa Chiara soprattutto) –, ci sono state altre visioni; al momento ne ricordo uno in particolare: E venne il giorno della vendetta che molti anni dopo avrei saputo ispirato dalla vicenda del “Chico” Sabaté. A cui fece seguito il corredo di cinema impegnato di tempi gravidi di speranze destinate a rimanere tali.
Insomma tutta quella roba lì con cui almeno un paio di generazioni si son fatte intortare pregustando improbabili “domani che cantano”. Di passaggio, quasi “de sforo”, le scarsamente filologiche rivoluzioni messicane evocate in ¡Vamos a matar, compañeros!, Tepepa, Faccia a faccia e il pretenzioso Giù la testa (In origine C’era una volta la rivoluzione) che ispirò – forse a sproposito – i giovani proletari milanesi della Banda Bellini.
Perfino, confesso, robaccia come Easy Rider o Woodstock. Con il senno di poi “armi di distrazione di massa”. Fine del preambolo.

PRIMO TEMPO:
SAND CREEK (Soldato blu)

Ma se c’è qualche film dell’epoca che merita di essere ricordato e conservato ritengo siano fondamentalmente due: Soldato blu e Piccolo grande uomo (anche se all’epoca apprezzai il primo, molto meno il secondo), entrambi del 1970.
Per altri aspetti (culturali, etnici..) aggiungerei Un uomo chiamato cavallo… forse.


L’idea di ritornarci su mi è venuta scoprendo che spesso vengono sottovalutati. Ritengo a sproposito in quanto all’epoca rappresentarono un rovesciamento non da poco delle ideologie dominanti, direi quasi un “cambio di paradigma”. O quantomeno risentirono pesantemente, subirono il contagio, dello spirito di rivolta che agitava le masse planetarie.
Anche se le vicende storiche si confondevano (forse troppo ?) rischiando di sfumare, con quelle personali, con gli amori e le scontate vicissitudini – tragiche o comiche – dei protagonisti. Per quanto impegnata, rimaneva pur sempre “Società dello spettacolo”, della merce, dell’intrattenimento, del consumo… Con un malcelato filo di ammirazione-invidia per un sistema tanto esperto (e privo di scrupoli) da saper trarre profitti anche condannando i massacri del passato, comunque imputabili a quel sistema (da ragionarci sopra effettivamente). D’altra parte – soprattutto se li confrontiamo con l’andazzo attuale – rimangono testimonianza preziosa di come anche “un altro cinema era possibile”. Detto questo, ho potuto verificare che tra chi conosceva Soldato blu, la maggior parte era convinta che il massacro, orrendo ma veritiero, descritto nel film corrispondesse a quello che ha goduto di maggior notorietà, ossia al Wounded Knee.
In realtà in Soldato blu si narra – con dettagli truculenti, ma corrispondenti a quanto era realmente accaduto (anche la scena terribile della fucilazione di donne e bambini rifugiati in una grotta) – della strage di stato subita dai Cheyenne (e da alcuni Arapaho qui accampati) il 29 novembre 1864 al Sand Creek).

Dove Pentola Nera aveva effettivamente innalzato la bandiera a stelle e strisce (nel film la sorregge andando incontro ai soldati per poi scagliarla a terra quando questi sparano e verrà simbolicamente calpestata dai cavalli al galoppo) insieme a quella bianca sul suo tepee. E qui si erano radunati donne e bambini pensando di sfuggire alle fucilate delle Giacche Blu. In realtà una sorta di milizia (seicento uomini del reggimento del Colorado) guidata dal colonnello Chivington, un predicatore fallito che intendeva riciclarsi in politica («Maledetto sia chiunque simpatizza con gli indiani! Io sono venuto a uccidere gli indiani e credo sia giusto e onorevole usare qualsiasi mezzo Dio ci abbia messo a disposizione per uccidere gli indiani» – così si era espresso Chivington contro il capitano Silas Soule, che durante il massacro aveva proibito ai suoi uomini di aprire il fuoco, e i tenenti Joseph Cramer e James Connor che protestavano contro l’ordine del colonnello di attaccare il villaggio di Pentola Nera. Ritenendolo un “assassinio nel senso pieno della parola”). Tra l’altro, la maggior parte dei “volontari” si erano arruolati per combattere gli indiani solo per sfuggire alla leva obbligatoria che li avrebbe inviati contro i sudisti (il che era molto più pericoloso ovviamente). Per cui inventarsi “battaglie sanguinose” con gli Indiani “ostili” garantiva di restarsene sostanzialmente al sicuro dai terribili combattimenti della Guerra Civile.
Gli indiani uccisi, in maggioranza donne e bambini, vennero scalpati e mutilati, per essere poi abbandonati in pasto gli animali della prateria.
Emblematico il caso di una donna – Kohiss – fuggita con tre bambini, uno per mano, uno sul petto (l’unico che si salvò) e un altro sul dorso. Purtroppo nella fuga due vennero colpiti e uccisi dagli spari dei bianchi. La donna conservò per tutta la vita il ricordo e le cicatrici di quel giorno, una testimonianza vivente delle ingiustizie subite dai nativi.

A titolo personale, di Soldato blu ricordo soprattutto un momento esemplare, indicativo di quale sia stato lo “spirito del tempo”: il film era terminato e nella sala le persone si stavano alzando per uscire quando apparve la didascalia, il commento finale con la voce fuori campo:

«Il 29 novembre del 1864, un reparto di 700 cavalleggeri del Colorado Cavalleria, attaccò un pacifico villaggio Cheyenne a Sand Creek, nel Colorado. Gli indiani sventolarono la bandiera americana e la bandiera bianca in segno di resa. Nonostante questo il reparto attaccò, massacrando 500 indiani; più della metà erano donne e bambini. Oltre 100 furono scotennati, molti corpi furono squartati, molte donne vennero violentate. Il generale Nelson Miles, capo di stato maggiore dell’esercito, così definì questo tremendo episodio: “È forse l’atto più vile ed ingiusto di tutta la storia americana”».

Tutti rimasero semplicemente bloccati, immobili, annichiliti. In un silenzio assoluto che però pareva un urlo. Nessuno fiatava, nessuno faceva il minimo movimento – letteralmente. Ricordo davanti a me due persone già in procinto di alzarsi rimanere quasi ripiegate. Chissà, forse pensavamo tutti al Vietnam, al relativamente recente massacro di Mỹ Lai (16 marzo 1968)…  Certo, per chi fino a poco tempo prima (riguardatevi i western, orrendi per quanto riguarda gli indiani, degli anni cinquanta e sessanta) era abituato a film dove i valorosi pionieri si dedicavano al tiro a segno sui nativi, lo scarto era notevole. E soprattutto era chiaro che si parlava anche del presente.

SECONDO TEMPO:
WASHITA E LITTLE BIGHORN (Piccolo grande uomo)

Nella realtà il capo Pentola Nera (sostanzialmente un pacifista, disposto non solo al dialogo, ma anche a compromessi con l’invasore) sfuggì al massacro (insieme a Piccolo Mantello, poi “ascaro” di Custer). Così come alcuni Arapaho (Mano Sinistra, No-ta-neee…). Era però scritto nel suo destino di dover soccombere insieme ad altri superstiti nel massacro del Washita di quattro anni dopo (27 novembre 1868). Operazione questa condotta dal “generale” Custer. Questa seconda strage subita dai Cheyenne (e nuovamente anche dagli Arapaho, intervenuti per salvare un gruppo di bambini Cheyenne inseguiti dai cavalleggeri statunitensi) ) viene raccontata in “Piccolo grande uomo”. Nel film il “mulattiere” Dustin Hoffman lo rinfaccerà a Custer a Little Bighorn prima della battaglia finale. Ma come quella del Sand Creek in Soldato blu, anche la strage del Washita in Piccolo, grande uomo viene talvolta confusa con Wounded Knee.


L’apoteosi nel film viene raggiunta con la grande vittoria dei nativi (Lakota,Cheyenne, Araphao…) guidati da Cavallo Pazzo (Oglala), Fiele e Toro Seduto (Hunkpapa) e Due Lune (Cheyenne) contro il militarismo colonialista delle giacche blu a Little Bighorn (25 giugno 1876). Dove il criminale di guerra colonnello George A. Custer, comandante del 7° Cavalleria, pagò infine per i suoi peccati.
Se vogliamo, la rivincita dei guerrieri usciti direttamente dal neolitico sui cadetti di West Point. Per una volta almeno.
Niente riferimenti a Wounded Knee quindi in questi due classici. Verrà invece citato (con una evidente forzatura, strumentalmente), oltre che in qualche serie televisiva, in Hidalgo. Un film discutibile, ma che si in parte si salva per l’epica scena finale quando i mustang destinati a essere ammazzati vengono liberati (soprattutto perché a un certo punto essi stessi abbattono gli steccati). Mi piace pensare che avrebbe commosso anche Bill Rodgers.

Come è noto dopo la vittoria del Little Bighorn le cose per gli Indiani precipitarono. Costretto, per non veder morire di fame e di freddo il suo popolo braccato, Tashunka Witko (Cavallo Pazzo) si consegnò ai soldati e venne assassinato (5 settembre 1877). Colpito con una baionetta dal soldato William Gentles, mentre era trattenuto dall’indiano collaborazionista Piccolo Grande Uomo (quello storico naturalmente, non quello del film che si ispira – forse – a un Piccolo Uomo Bianco vissuto a lungo tra gli indiani). Il suo cadavere, prelevato dai familiari, venne portato in un luogo nascosto nella valle del Wounded Knee.

Tatanka Yotanka (Toro Seduto), dopo essersi rifugiato nel 1877 in Canada, nel 1881 fu costretto a rientrare negli Stati Uniti dove venne arrestato. In seguito per un breve periodo si prestò a lavorare, interpretando se stesso, nello spettacolo viaggiante dello sterminatore di bisonti Buffalo Bill, ma ogni dollaro guadagnato lo donava ai poveri e ai senzatetto della sua tribù. Coincidenza? Uno dei maggiori esponenti dell’American Indian Movement, Russel Means (1939-2012, le sue ceneri vennero sparse nelle Black Hills), già tra gli organizzatori dell’occupazione dell’isola di Alcatraz e di Wounded Knee, divenne un attore tra i più richiesti nei film sugli indiani. Basti pensare al ruolo di Chingachgook nel film L’ultimo dei Mohicani di Michael Mann.
Toro Seduto, nel dicembre 1890, forse perché ritenuto troppo vicino al culto della “Danza degli Spiriti” del profeta Wovoka (un Paiute), venne assassinato nel corso di un arbitrario arresto. La banda dei Lakota Minneconjou di Heȟáka Glešká (Alce Chiazzato, più conosciuto come Piede Grosso, fratellastro di Tatanka Yotanka e cugino di Tashunka Witko), temendo le rappresaglie dei militari e dei collaborazionisti indiani, tentò di fuggire a Pine Ridge (da Nuvola Rossa), ma venne appunto massacrata a Wounded Knee.

Nel frattempo (settembre 1886) anche Goyaałé (Geronimo), l’irriducibile apache Bedonkohe (ma in genere assimilato ai Chiricahua) aveva consegnato le armi. Così come Hinmaton Yalaktit (Capo Giuseppe) intercettato e bloccato con i suoi Nasi Forati al confine canadese dopo un’incredibile marcia di 2740 chilometri (settembre 1877).

Fine della storia quindi. Anche se nella seconda metà del Novecento l’American Indian Movement (Aim) rilancerà la questione indiana dissotterrando l’ascia di guerra.

Epilogo

La canzone Soldier Blue (Soldato blu) del film omonimo era scritta e interpretata dall’indiana Piapot Buffy Saint-Marie che in anni successivi scrisse anche Bury My Heart at Wounded Knee (in riferimento al noto libro di Dee Brown). Frase che venne tracciata sui muri nel 1973, durante l’occupazione. Nella canzone viene ricordata anche la militante Anna Mae Aquash, violentata e assassinata, le mani mozzate. Una vicenda impregnata di ombre e sospetti di “guerra sporca” (nei confronti sia del Fbi che delle milizie native filogovernative e anche dell’Aim), presumibilmente legata a quella di Leonard Peltier. Dopo gli oltre settanta giorni di occupazione, negli anni successivi, numerosi partecipanti e membri o simpatizzanti dell’Aim morirono in maniera non chiara, “accidentale” (si parla di circa 300 vittime). Si ritiene che le milizie native filogovernative abbiano così voluto “regolare i loro conti” nelle riserve.

E così il discorso si chiude, ma non il Cerchio irreparabilmente spezzato, frantumato della Nazione indiana. Purtroppo.

 

RECENSIONE DI LEONARD PELTIER (6 febbraio 2023)

Il mio saluto ai miei amici, sostenitori, alle persone che mi sono vicine. So di aver già detto queste parole mille volte, o cose simili. E ogni volta che le dico, è come se fosse la prima volta. Dal profondo della mia anima, vi ringrazio per il vostro sostegno.
Vivere qua dentro, anno dopo anno, giorno dopo giorno, settimana dopo settimana, cambia la tua concezione del tempo e persino il modo di pensare, più di quanto possiate immaginare.
Ogni giorno, al mattino, devo dire una preghiera per tenere alto il mio spirito e quello del nostro popolo.
Le lotte dell’American Indian Movement sono le lotte di tutti noi, e per me non sono mai finite. Continuano, settimana dopo settimana, mese dopo mese, anno dopo anno.
A volte penso di poter sembrare un po’ troppo sensibile quando parlo, ma l’amore per il mio popolo e l’amore che voi sostenitori mi avete dimostrato nel corso degli anni è ciò che mi mantiene in vita.
Non leggo le vostre lettere con la testa. Le leggo con il cuore.
La mia detenzione è solo un altro esempio del trattamento e delle politiche che il nostro popolo ha dovuto subire fin dall’arrivo dei primi europei.

Sono un uomo comune e vengo da una società che vive e lascia vivere, come tutta la nostra gente. Ma dall’arrivo di Cristoforo Colombo, ci siamo trovati costretti a vivere in uno stato di sopravvivenza.
Non c’è nulla nel mio caso, nulla in quel trattato tra il popolo americano e il governo che è la Costituzione, che possa giustificare la mia prolungata incarcerazione.
La storia ci insegna che hanno imprigionato o annientato il nostro popolo, si sono appropriati della nostra terra e delle nostre risorse. Ogni volta che la legge era a nostro favore, hanno ignorato la legge. O l’hanno cambiata secondo i loro piani. Dopo aver ottenuto ciò che volevano, magari una generazione dopo, qualche politico si è scusato.
Non hanno mai sinceramente negoziato con noi, a meno che non avessimo qualcosa che volevano a tutti i costi e non potevano ottenere altrimenti; o nel caso che potessimo creare imbarazzo per il mondo; o che fossimo una sorta di opposizione. L’opposizione è sempre stata la ragione principale che li ha spinti a trattare con noi.

Potrei continuare a parlare dei maltrattamenti subiti dal nostro popolo, come del mio caso, ma l’hanno già detto le Nazioni Unite: il motivo per cui gli Stati Uniti mi hanno tenuto rinchiuso, è perché sono un Indiano d’America. [come nel film di Montaldo, Vanzetti dice alla corte: «E mì son anarchìc»]
L’unica cosa che mi rende fondamentalmente diverso dagli altri Indiani d’America che sono stati maltrattati, che sono stati derubati delle loro terre, o che sono stati imprigionati dal nostro governo, è che il mio caso è stato almeno messo agli atti del tribunale. La violazione dei miei diritti costituzionali è stata dimostrata in tribunale. La falsificazione di ogni prova usata per condannarmi è stata dimostrata in tribunale. Lo stesso Consiglio delle Nazioni Unite, composto da 193 nazioni, ha chiesto la mia liberazione, constatando che sono un prigioniero politico.

Nel mio caso di prigioniero politico non è necessario uno scambio di prigionieri. Lo scambio che devono fare è passare dalla loro politica di ingiustizia a una politica di giustizia.
Non importa quale sia il vostro colore e la vostra etnia. Nero, rosso, bianco, giallo, marrone: se possono farlo a me, possono farlo a te.
La Costituzione degli Stati Uniti è appesa a un filo.
Di nuovo voglio dire, dal mio cuore al vostro cuore, in tutta sincerità: fate del vostro meglio per educare i vostri figli. Insegnate loro a difendersi: fisicamente, mentalmente, spiritualmente. Rendeteli consapevoli della nostra storia.
Insegnate loro a piantare una foresta che possa dare frutti, o qualsiasi altra pianta che possa provvedere a loro, in futuro.

Ancora una volta, dal mio cuore al vostro cuore, piantate un albero per me.

Nello spirito di Cavallo Pazzo.

Doksha («ci vediamo», nella lingua Navajo)

Leonard Peltier

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Come uscire dalla Françafrique e rimanere buoni amici, però? https://ogzero.org/come-uscire-dalla-francafrique-e-rimanere-buoni-amici-pero/ Fri, 03 Mar 2023 13:57:56 +0000 https://ogzero.org/?p=10429 Una scommessa impossibile, dopo l’arroganza plurisecolare della potenza coloniale francese. Macron, presidente dimezzato in patria, si sottrae all’ira sulla riforma delle pensioni proseguendo il tentativo di recuperare un rapporto postcoloniale con il continente africano. Dall’inizio del suo primo mandato – va riconosciuto – ha tentato di mutare l’atteggiamento gaullista, ma non ha un paradigma scevro […]

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Una scommessa impossibile, dopo l’arroganza plurisecolare della potenza coloniale francese. Macron, presidente dimezzato in patria, si sottrae all’ira sulla riforma delle pensioni proseguendo il tentativo di recuperare un rapporto postcoloniale con il continente africano. Dall’inizio del suo primo mandato – va riconosciuto – ha tentato di mutare l’atteggiamento gaullista, ma non ha un paradigma scevro da ogni possibile idea coloniale: non è nei cromosomi francesi, tanto che non sono riusciti a cogliere il momento giusto per tagliare i cordoni con le colonie, riuscendo a renderle autonome e un embrione di politica macroniana per il continente vede gli africani francesi fare da ponte. Il presidente francese ha dovuto registrare la sostituzione da parte dei russi sul piano militare (rimangono truppe francesi in Gabon, Niger, Senegal, Ciad… ma è proprio la loro figura a restituire quel feedback che procura un rigurgito antifrancese) e dei cinesi in economia, che hanno acquisito larghe fette del mercato della Françafrique (ma il ritorno per l’economia francese è ormai ridotto all’osso), prima di avventurarsi nel viaggio tra le foreste gabonesi, i Congo e l’Angola.

Un passato che sembra non passare mai. Infatti il tour di Macron comincia dal vicino Gabon della dinastia Bongo (emblematico del sistema “francese” di rapportarsi all’Africa attraverso famiglie fedeli che gestiscono il paese con corruzione e centri di potere), e poi si concentrerà su quelli più a rischio di sfuggire al controllo (Congo Kinshasa – dove sventola già la bandiera russa come “bienvenue” e l’ex luso-cinese Angola). Angelo Ferrari si lascia ispirare dal viaggio disperato dell’inquilino dell’Eliseo, cacciato dal Sahel occidentale e contestato per la mancata difesa del Congo dall’aggressione ruandese, per augurarsi che gli africani trovino la forza di liberarsi dei coloni di qualsiasi colore (ma con scarse speranze che cambi qualcosa); Macron si trova vituperato in patria dai nostalgici della grandeur d’outre-mer e destinato a risultare il presidente che “perderà” il controllo delle colonie, forse proprio in virtù dell’approccio iniziale di riconoscimento della brutalità dell’occupazione coloniale; ed è svillaneggiato in Françafrique, dove prova il grimaldello spuntato dell’approccio green per organizzare il tour elettorale a sostegno di regimi autocratici… e degli interessi petroliferi di Total (il green-paradox).


Macron l’Africano… ingombrante

Proteste a Kinshasa

La missione africana del presidente francese Emmanuel Macron non è iniziata nel migliore dei modi. Mentre il suo aereo arrivava in Gabon, prima tappa della sua visita in Africa, nella capitale della Repubblica democratica del Congo, Kinshasa – ultima fermata del suo viaggio – decine di giovani congolesi manifestavano contro di lui davanti all’Ambasciata di Francia. Brandendo bandiere russe, questi giovani lo accusavano di sostenere il Ruanda a spese del loro paese. “Macron assassino, Putin in soccorso”, questi gli slogan scanditi in piazza e su alcuni cartelli e striscioni si leggevano accuse ancore peggiori: “Macron padrino della balcanizzazione della Rdc”, “I congolesi dicono no alla politica della Francia” o anche “Macron indesiderabile in Rdc”. La Repubblica Democratica del Congo (Rdc), dove nel fine settimana è atteso il presidente francese, accusa il vicino Ruanda di sostenere una ribellione attiva nell’est – confermata dagli esperti Onu nonostante le smentite di Kigali – e si aspetta una chiara condanna di questa “aggressione” da parte della comunità internazionale.

«Siamo qui per dire no all’arrivo di Emmanuel Macron perché la Francia è complice della nostra disgrazia», ha dichiarato davanti ai giornalisti Josue Bung, del movimento cittadino Sang-Lumumba, sfoggiando la tipica acconciatura dell’eroe dell’indipendenza congolese Patrice Lumumba (1925-1961).

Lunedì scorso Emmanuel Macron ha presentato a Parigi la sua strategia africana per i prossimi anni e, rispondendo a una domanda sulla Rdc, ha sostenuto che la sovranità e l’integrità territoriale del paese «non possono essere discusse». Ma “non ha menzionato il Ruanda, che è il nostro aggressore”, gli hanno rimproverato i manifestanti.

Le bandiere russe significano «che non abbiamo più bisogno della Francia, vogliamo collaborare con partner affidabili, come la Russia o la Cina», ha sostenuto Bruno Mimbenga, altro organizzatore delle proteste davanti all’ambasciata francese, in un momento in cui la Russia è sempre più in competizione con la Francia nella sua storica sfera di influenza in Africa.

I giovani congolesi hanno ribadito quello che è un sentimento diffuso sia in Africa centrale sia nel Sahel e cioè che “la comunità internazionale non ci serve”. La Rdc sarà questa settimana l’ultima tappa di un viaggio di Emmanuel Macron in Centrafrica, che lo porterà anche in Gabon per un vertice sulle foreste, in Angola e in Congo-Brazzaville.

La dinastia Bongo e la foglia di fico delle foreste

Il diciottesimo viaggio nel continente è iniziato, quindi, a Libreville, dove Emmanuel Macron vuole dare nuovo impulso al rapporto tra i due paesi. Sono passati 13 anni da quando un presidente francese ha fatto un viaggio in Gabon. L’ultimo è stato Nicolas Sarkozy, nel febbraio 2010. Nel frattempo, la contestata rielezione del presidente Ali Bongo e la crisi elettorale del 2016 sono passate attraverso aspre tensioni tra i due paesi. Poi c’è stata la crisi sanitaria, e la lite è continuata fino a un inizio di riavvicinamento dal 2021. Questo viaggio per Macron era, secondo una fonte vicina all’Eliseo, diventato essenziale. Era già in lavorazione da diversi mesi, ed è stato nell’estate del 2022 che è stata presa in considerazione l’idea di usare il One Forest Summit e di focalizzare il viaggio sulla protezione delle foreste, per fugare ogni dubbio sulla natura della visita che arriva nell’anno elettorale del Gabon, con le elezioni presidenziali previste per la prossima estate. Una tempistica che ha fato sobbalzare la società civile e l’opposizione gabonese:

«È venuto per lanciare la campagna elettorale del suo amico», ha detto l’ambientalista Marc Ona.

Perplessità espresse anche dall’opposizione a Macron a Parigi. Un gruppo di parlamentari del gruppo Lfi-Nupes della Commissione Affari Esteri ha infatti scritto alla ministra degli Esteri, Catherine Colonna, facendo notare che due dei paesi visitati terranno fra pochi mesi le elezioni presidenziali, il Gabon e la Repubblica democratica del Congo. «In un tale contesto, questa visita potrebbe essere interpretata come un sostegno politico da parte dell’esecutivo francese a governi o regimi le cui derive autoritarie, persino autocratiche» sono evidenti, si legge nella nota.

La lettera ricorda che in Gabon, dove nessun presidente francese si recava da 13 anni, le elezioni si terranno fra cinque mesi. La visita, secondo i deputati d’opposizione, “offre una legittimità internazionale” a un regime, quello della famiglia Bongo, al potere dal 1967. Sottolinea inoltre che è stato negato un visto a una giornalista di “Liberation” per seguire il One Forest Summit – co-organizzato dalla Francia – lasciando intendere che si vuole coprire l’evento in un’ottica solo positiva per il regime, mentre molti osservatori temono che si tratterà di un’operazione di greenwashing.

I deputati di La France insoumise et Nouvelle union populaire écologique et sociale evidenziano anche dubbi sulla sincerità che circonda le prossime elezioni in Congo-Kinshasa, nonché la repressione di manifestazioni dell’opposizione in Angola nei mesi scorsi.

«Il carattere a volte selettivo e contraddittorio delle posizioni del governo francese sulla natura e le pratiche dei regimi e dei governi, in particolare in Africa, lascia spazio alle critiche, sincere o pilotate da altre potenze, che indeboliscono le nostre relazioni strategiche con i paesi del continente» africano, stigmatizzano gli autori della lettera.

Arginare il legittimo sentimento antifrancese: safari impossibile

Un viaggio, inoltre, che arriva a pochi giorni da una lunghissima conferenza stampa nella quale Macron ha voluto ridisegnare la politica francese nei confronti del continente africano. Un tentativo legittimo, visto il dilagare del sentimento antifrancese in buona parte dell’Africa centrale e del Sahel. Per Macron è necessario un nuovo rapporto “equilibrato, reciproco e responsabile”. Questo il mantra presidenziale. Ma ancora:

«L’Africa non è terra di competizione», ha detto Macron durante la conferenza stampa all’Eliseo, invitando a «passare da una logica degli aiuti a quella degli investimenti».

Ha, inoltre, affermato di aver mostrato «profonda umiltà di fronte a quanto si sta svolgendo nel continente africano, una situazione senza precedenti nella storia», con «una somma di sfide vertiginose. Dalla sfida della sicurezza climatica alla sfida demografica con i giovani ai quali dobbiamo offrire un futuro in ognuno degli stati africani», invitando a «consolidare stati e amministrazioni, investendo in modo massiccio in istruzione, salute, lavoro, formazione, transizione energetica».

L’inquilino dell’Eliseo ha voluto anche sottolineare che la Francia «sta chiudendo un ciclo segnato dalla centralità della questione militare e della sicurezza», annunciando una “riduzione visibile” del personale militare francese in Africa e un “nuovo modello di partenariato” che prevede un “aumento del potere degli africani”. Tutto ciò segna un cambio di paradigma nella politica dell’Eliseo? Per ora sono solo parole a cui devono seguire dei fatti concreti, anche perché la riduzione del personale militare più che una scelta è stata una via obbligata visto il ritiro dal Mali, dal Burkina Faso e dalla Repubblica Centrafricana, tre roccaforti dell’influenza parigina in Africa. Paesi che, dopo la “cacciata” dei francesi si sono affidati in maniera decisa proprio alla Russia, dimostrando che l’Africa è, ancora, una terra dove la competizione tra potenze internazionali è viva più che mai, a differenza di ciò che sostiene Macron e lui stesso ne è complice.

Da ultimo occorre ricordare che nei paesi visitati dal presidente francese – Gabon, Angola, Repubblica del Congo e Repubblica democratica del Congo – la Francia ha enormi interessi economici soprattutto nel settore petrolifero.

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La “Grande sostituzione” si estende al Maghreb https://ogzero.org/saied-la-grande-sostituzione-si-estende-al-maghreb/ Mon, 27 Feb 2023 11:43:33 +0000 https://ogzero.org/?p=10397 Il contagio del razzismo a supporto della governance di despoti e democrature è l’unico pensiero che può attraversare frontiere. L’Unione africana, dopo la conferma delle sanzioni ai danni del Mali, Burkina e Guinea equatoriale per i golpe filorussi, si è trovata a dover difendere le genti provenienti proprio dal Sahel e dal resto del continente […]

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Il contagio del razzismo a supporto della governance di despoti e democrature è l’unico pensiero che può attraversare frontiere. L’Unione africana, dopo la conferma delle sanzioni ai danni del Mali, Burkina e Guinea equatoriale per i golpe filorussi, si è trovata a dover difendere le genti provenienti proprio dal Sahel e dal resto del continente subsahariano da attacchi che provengono dall’interno dello stesso continente ai massimi livelli delle istituzioni di un paese africano. Lo ha fatto condannando le parole “scioccanti” del “pallido” presidente della Tunisia sui migranti più “scuri” provenienti dall’Africa subsahariana e ha richiamato i suoi stati membri ad «astenersi da qualsiasi discorso di odio e di natura razzista, che danneggiano le persone». In trasparenza si possono riconoscere i contorni delle richieste italiane, sicuramente avanzate – perseguendo l’intento di esternalizzare le frontiere – proprio con gli stessi argomenti razzisti, che facilmente non si sbaglia ad attribuire al viaggio di Meloni in Maghreb, andata a procurarsi gas e soprattutto a perorare il blocco della rotta dei migranti; peraltro un perfetto argomento – in tutto uguale al disgustoso tentativo di Erdogan di scaricare sui migranti la colpa della corruzione del suo sistema di potere in buona parte responsabile del disastro del terremoto per le sue dimensioni – che offre il destro a Saïed per trovare un capro espiatorio su cui far convergere l’odio per il disastro economico e sociale tunisino.

Una grande manifestazione contro il razzismo e la xenofobia si è svolta a Tunisi il 26 febbraio 2023, per dire no alle parole di Saïed e per cambiare rotta al governo sul trattamento riservato ai migranti dai paesi africani subsahariani. Le organizzazioni della società civile hanno assunto una posizione di principio netta e determinata contro l’idea nazista del complotto per la sostituzione etnica mediata dal presidente autocrate prendendo a prestito gli slogan delle destre europee. Il corteo è partito dalla sede del sindacato dei giornalisti, uno dei promotori, per raggiungere il centro città coinvolgendo nel percorso l’aggregazione di migliaia di altri cittadini. Il portavoce del “Forum per i Diritti Sociali ed Economici” ha affermato che il discorso dell’odio non sarà mai accettato in una società come quella tunisina, perché è contro natura: «Quando quel discorso proviene dal capo dello Stato, rischia di sdoganare atti violenti contro i nostri fratelli migranti, che vivono condizioni di emarginazione economica tra di noi». Angelo Ferrari aveva già rilevato l’enormità di un leader africano che esplicitamente prende a prestito il razzismo europeo, adattando “Le Grand Remplacement” di Renaud Camus alle fobie arabe verso le culture subsahariane, in un intervento che proponiamo qui.


Saïed sdogana il razzismo serpeggiante concordato con Roma

Montano le polemiche in Tunisia dopo le parole del presidente Kaïs Saïed che ha invocato “misure urgenti” contro l’immigrazione clandestina di africani subsahariani nel suo paese, sostenendo che la loro presenza è fonte di «violenze, crimini e atti inaccettabili». Ma Saïed si è spinto anche oltre, sostenendo che l’immigrazione dall’Africa subsahariana fa parte di una «impresa criminale ordita all’alba di questo secolo per modificare la composizione demografica della Tunisia», in modo che potesse essere considerata un paese “solo africano” e offuscarne il suo carattere “arabo-musulmano”. Date queste premesse, per Saïed è necessario «porre fine in fretta» a questa immigrazione invocando misure urgenti.

Reazioni dell’Unione africana

Con una nota, il presidente della Commissione dell’Unione Africana, Moussa Faki Mahamat, ha condannato «fermamente le dichiarazioni scioccanti fatte dalle autorità tunisine contro i connazionali africani, che vanno contro la lettera e lo spirito della nostra organizzazione e i nostri principi fondatori». Faki Mahamat ha ricordato a «tutti i paesi, in particolare agli stati membri dell’Unione Africana, che devono onorare gli obblighi ai sensi del diritto internazionale, vale a dire trattare tutti i migranti con dignità, da qualsiasi parte provengano, astenersi da qualsiasi discorso di odio con natura razzista, che probabilmente danneggerà le persone e dà la priorità alla loro sicurezza e ai loro diritti fondamentali».

Moussa Faki Mahamat ribadisce «l’impegno del comitato a sostenere le autorità tunisine al fine di risolvere i problemi di migrazione e rendere la migrazione sicura, degna e regolare».

Proprio il Mali – paese che al suo interno vive da anni profondi travagli sfociati nell’apertura ai “servizi” dei contractors della Wagner – in una nota dell’ambasciata tunisina ha dichiarato di aver seguito «con la massima preoccupazione la situazione dei maliani» nel paese. Riferendosi a “momenti molto inquietanti”, e ha invitato i suoi cittadini “a essere vigili” e ha chiesto a «coloro che desiderano di registrarsi per un ritorno volontario».

La crisi tunisina e il facile capro espiatorio “nero”

Il discorso di Saïed, che ha concentrato su di sé tutti i poteri dopo aver sospeso nel luglio 2021 il parlamento e licenziato il governo, si è verificato mentre il paese sta attraversando una grave crisi economica contrassegnata da carenze ricorrenti di prodotti di base, in un contesto di forti tensioni politiche.
Secondo i dati ufficiali citati dal Forum tunisino per i diritti economici e sociali (Ftdes) la Tunisia, un paese di circa 12 milioni di abitanti, conta più di 21.000 africani subsahariani, la maggior parte dei quali è irregolarmente nel paese. Molti di loro, la maggioranza, arriva in Tunisia per poi tentare di immigrare illegalmente in Europa via mare. Alcuni tratti della costa tunisina sono a meno di 150 chilometri dall’isola italiana di Lampedusa. Secondo i dati ufficiali italiani, nel 2022 sono arrivati in Italia clandestinamente dalla Tunisia oltre 32.000 migranti, di cui 18.000 tunisini.
La Tunisia sta attraversando una grave crisi economica caratterizzata da ricorrenti carenze di beni di prima necessità, in un contesto di tensioni politiche, e molti analisti e attivisti ritengono che il presidente stia strumentalizzando la crisi dei migranti per distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica dalle questioni economiche e sociali “inventando un nuovo pericolo”. Altri ritengono che Saïed stia cedendo alle pressioni dell’Italia per ottenere lo stop dei flussi migratori.

Reazioni della società civile tunisina

Le sue parole dunque hanno gettato benzina sul fuoco delle incarcerazioni degli oppositori, dei giornalisti e delle proteste di piazza per il referendum andato deserto nelle urne, indignando buona parte delle organizzazioni non governative, parte della classe politica ma anche gli intellettuali. Su Twitter, hanno reagito alcuni analisti politici. Amine Snoussi (@amin_snoussi), autore di libri sulla politica tunisina e giornalista, scrive:

«Il presidente della Repubblica tunisina ha appena convalidato la tesi del grande ricambio. Abbiamo un dittatore razzista che arresta i suoi oppositori e incolpa gli immigrati subsahariani per i nostri problemi. È il peggior regime nella storia di questo paese».

Mohamed Dhia Hammam (@MedDhiaH), ricercatore in scienze politiche alla Maxwell School, definisce le parole di Saïed disgustose, e parla di una “campagna fascista contro i neri”:

«L’oltraggiosa dichiarazione della presidenza sulla riunione del Consiglio di sicurezza nazionale, durante la quale Saïed ha deciso di usare tutte le forze, compresi i militari, per prendere di mira gli immigrati neri, arriva nel bel mezzo di una odiosa campagna mediatica. La logica del complotto messa in atto dal governo fa eco alle teorie del complotto diffuse sia nei media mainstream che nei social media pro- Saïed», twitta l’analista.

«Questo discorso non ha alcuna somiglianza con la Tunisia. La posizione internazionale della Tunisia e la sua storia umanitaria sono molto più grandi di questo discorso», ha reagito su Facebook il presidente dell’Osservatorio tunisino per i diritti umani, Mostafa Abdelkebir. Anche Mnemty, associazione che si batte contro la discriminazione, ha condannato il comunicato stampa della presidenza tunisina, definendolo un «discorso di razzismo e odio e incitamento alla violenza contro i migranti subsahariani».

Le dichiarazioni di Saïed sull’esistenza di una “impresa criminale” volta a cambiare la composizione demografica della Tunisia assomigliano alla teoria del complotto della “grande sostituzione” sostenuta in Francia dal polemista di estrema destra Eric Zemmour che, infatti, reagisce immediatamente alle parole di Saïed: «Gli stessi paesi del Maghreb iniziano a lanciare l’allarme di fronte all’impennata migratoria. Qui, è la Tunisia che vuole adottare misure urgenti per proteggere la sua gente. Cosa aspettiamo a lottare contro la Grande Sostituzione?», ha commentato Zemmour su Twitter condividendo un articolo di stampa sulle osservazioni fatte da Saïed.


A completamento proponiamo questa bella discussione tra Arianna Poletti da Tunisi e Karim Metref, algerino-torinese di origine berbera, entrambi raffinati analisti della situazione e società nordafricana; troverete preoccupazioni inusitate e interpretazioni  di situazioni che danno il quadro di una trasformazione repressiva epocale:


“Tutto il Maghreb sta filando cattivo cotone”.
 

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Incertezza e violenza al centro delle elezioni presidenziali nigeriane https://ogzero.org/incertezza-e-violenza-al-centro-delle-elezioni-presidenziali-nigeriane/ Fri, 24 Feb 2023 15:06:17 +0000 https://ogzero.org/?p=10346 Una delle elezioni più combattute, dove il risultato è in forse e potrebbe anche venire meno la tradizionale alternanza tra presidenti provenienti dal Nord musulmano con quelli cristiani del Sud a causa della forte candidatura di Peter Obi, laico laburista che trova il suo consenso tra i giovani; e in Nigeria, il paese più popoloso […]

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Una delle elezioni più combattute, dove il risultato è in forse e potrebbe anche venire meno la tradizionale alternanza tra presidenti provenienti dal Nord musulmano con quelli cristiani del Sud a causa della forte candidatura di Peter Obi, laico laburista che trova il suo consenso tra i giovani; e in Nigeria, il paese più popoloso dell’Africa, il 40 per cento dei votanti ha meno di 35 anni. Obi potrebbe essere percepito come il più accreditato a raccogliere quello che rimane della protesta #EndSars contro le violenze della polizia; un movimento che si è ridimensionato, ma che potrebbe essere paradigma e focolaio di un pacifico rivolgimento del sistema. Angelo Ferrari ha scritto un articolo per inquadrare la situazione e ci ha segnalato anche un contributo comparso su “AfricaRivista” dedicato all’inaspettata “astensione” delle star dell’afrobeats, la musica onnipresente e in grado di trascinare nugoli di fan; i candidati attingono alla loro musica senza pagarne i diritti, proprio perché i cantanti hanno preferito non schierarsi, dando così un segnale di timore rispetto al mondo politico: ci si può schierare contro la potente e feroce polizia delel Sars, ma è meglio non sbilanciarsi sulle elezioni


Ballot or Bullet

Eleggere un presidente capace di arginare la violenza in Nigeria, durante un’elezione minacciata dalla stessa violenza è la difficile sfida che deve affrontare il paese più popoloso dell’Africa, che andrà alle urne il 25 febbraio per scegliere il suo prossimo capo dello stato. Non passa settimana – non passa giorno! – senza che vi siano attacchi, azioni da parte di gruppi criminali, jihadisti o separatisti che siano e che tentano di piegare e gettare nel caos il gigante dell’Africa occidentale, uno dei paesi più dinamici del continente. L’ex generale golpista Muhammadu Buhari, eletto democraticamente nel 2015 e nel 2019 per porre fine all’insicurezza, non si ripresenta alle presidenziali dopo due mandati segnati da un aumento della violenza, in particolare nella sua regione natale, il Nordovest.

«I politici ci hanno abbandonato al nostro destino», accusa Dahiru Yusuf, che vive a Birnin Gwari, un distretto dello Stato di Kaduna, dove gruppi criminali, chiamati “banditi”, stanno aumentando gli attacchi ai villaggi e praticando rapimenti di massa a scopo di riscatto. «Non sono riusciti a proteggerci dai criminali che ci terrorizzano, quindi non hanno motivo di venire a chiederci voti», lamenta Yusuf.

Nel Nord del paese la situazione è terribile: se il presidente Muhammadu Buhari e il suo esercito sono riusciti a riconquistare alcuni territori in mano ai jihadisti di Boko Haram e dello Stato islamico (Iswap), questo conflitto – dura da 13 anni e ha provocato più di 40.000 morti e 2 milioni di sfollati – è tutt’altro che finito. La situazione si è ulteriormente aggravata e negli ultimi anni si è aperto un nuovo fronte: nel Nordovest e nel Centro bande criminali, che usano ad arte un conflitto mai sopito tra pastori e contadini, operano impunemente nelle zone rurali, attaccando villaggi, ma anche cittadini che transitano sulle strade di queste regioni. Gruppi “criminali”, inoltre, pesantemente armati, hanno effettuato attacchi su larga scala contro le scuole nel 2021, sequestrando più di mille studenti. Molti dei rapiti sono stati rilasciati dietro pagamento di un riscatto – ma alcuni di loro rimangono ancora nelle mani dei criminali nelle foreste, i luoghi dove si nascondono i banditi.

La sicurezza è uno dei temi principali della campagna elettorale di queste elezioni, che si preannunciano molto serrate tra i tre candidati: Bola Tinubu del partito al governo (Apc), Atiku Abubakar del principale partito di opposizione (Pdp) e Peter Obi, l’outsider visto come il candidato dei giovani, laburista (Lp), accreditato dagli ultimi sondaggi di un 40%. I tre promettono di farla finita con la violenza e il terrorismo, lo stesso mantra del presidente uscente Buhari, obiettivo, però, che non è riuscito a raggiungere. Ma la minaccia di violenze diffuse pesa anche sullo svolgimento dello scrutinio del 25 febbraio, durante il quale sono chiamati alle urne circa 94 milioni di elettori, per eleggere il presidente, i deputati e i senatori. Gli analisti, inoltre, pongono molta attenzione sul dopo voto:

«i gruppi criminali fanno crescere il rischio di proteste postelettorali che potrebbero anche intensificarsi», secondo il think tank International Crisis Group (Icg).

Dimensioni della scheda elettorale

Alcuni seggi sono inagibili

Il presidente della Commissione elettorale nazionale indipendente (Ceni), Mahmood Yakubu, ha recentemente rassicurato che le elezioni si svolgeranno senza problemi. Le autorità affermano di avere in programma lo schieramento di più di 400.000 uomini delle forze di sicurezza sul territorio. Nonostante ciò, secondo il gruppo di osservazione elettorale Yiaga Africa, lo svolgimento delle urne è compromesso in sei stati e 14 distretti locali, a causa dell’insicurezza o della presenza di gruppi armati. Nel Sudest, afflitto dai disordini separatisti ereditati dalla guerra del Biafra, negli ultimi anni sono stati presi di mira più di 50 uffici delle commissioni elettorali e centinaia di agenti di polizia. Questa violenza è spesso attribuita al Movimento per l’indipendenza dei popoli indigeni del Biafra (Ipob). Ma Ipob, che chiede la rinascita di uno stato separato per l’etnia Igbo, ha più volte negato ogni responsabilità.

Da quando il paese è tornato alla democrazia nel 1999, dopo anni di dittature militari, le elezioni sono state spesso segnate da violenze politiche, scontri etnici, voti “comprati”, frodi elettorali e problemi logistici.

Incontro degli ex presidenti della Nigeria

La maggior parte degli analisti ritiene che la commissione elettorale sia meglio preparata di prima, in particolare grazie all’introduzione di software biometrici destinati a prevenire le frodi e al trasferimento elettronico dei risultati. Ma i suoi funzionari hanno avvertito che le recenti gravi carenze di carburante e banconote in tutto il paese potrebbero avere un impatto sulla logistica e sul trasporto del materiale elettorale. I nigeriani – la maggior parte dei quali vive in condizioni di povertà – a queste carenze strutturali di uno stato che non riesce a far fronte ai bisogni della popolazione, non sono indifferenti. Anzi, da due settimane sono scoppiate sporadiche rivolte in diverse città del Nord e del Sud, con manifestanti che hanno bloccato strade o attaccato banche. Molti analisti temono una deflagrazione alla vigilia delle elezioni presidenziali.

Per il think tank Icg, «le prospettive postelettorali sono ancora più fosche».

In Nigeria i risultati sono quasi sempre stati contestati, e il rischio di violenze, in questa occasione, è ancora più grande perché il paese potrebbe essere chiamato, per la prima volta nella sua storia, a un secondo turno per il ballottaggio se nessuno dei candidati dovesse essere eletto al primo turno, allungando, così, il periodo elettorale e con esso il rischio di violenze e disordini.

“Qual è l’affare migliore per gli africani?”.


Come accennato nel podcast dell’intervento di Angelo Ferrari su Radio Blackout, sono mancate nella campagna elettorale le intenzioni di voto, gli endorsement… i concerti a sostegno di un qualunque candidato da parte dei divi dell’Afrobeat, che invece si erano mobilitati nel movimento EndSars, che è sopito o rimane sotto traccia, probabilmente perché quel mondo è avulso dalle beghe politiche lontane dai problemi di lavoro, sicurezza, di interessi giovanili e di persecuzione poliziesca. Perciò riprendiamo l’articolo comparso su “Africa Rivista” a completamento delle considerazioni sull’elezione più controversa, ma anche forse considerata distante dal sentimento dei giovani elettori; magari invece scopriremo che – a prescindere dal passaggio elettorale – questa congiunzione astrale avrà permesso a chi rappresenterà la Nigeria di incarnare la trasformazione del paese in una comunità enorme affrancata dalla protezione straniera… a sessant’anni dall spinta indipendentista di liberazione dal controllo coloniale.


Nigeria: la patria dell’afrobeats va alle presidenziali senza le star della musica

La Nigeria è la patria dell’afrobeats e i suoi ritmi risuonano ovunque in Africa e ora anche in Occidente, dove i giovani ondeggiano al ritmo orecchiabile di Burna Boy, Wizkid e Tems.

 

Ma con l’avvicinarsi delle elezioni presidenziali nigeriane, le pop star sono “tranquille”, non “cantano”, stanno defilate, quasi a dire che è meglio non inimicarsi il potere. La nazione più popolosa dell’Africa, che il 25 febbraio eleggerà un nuovo presidente, è spesso teatro delle rappresaglie dei terroristi di Boko Haram e dei gruppi jihadisti che imperversano nel Nordest, ma la Nigeria è anche la più grande economia del continente e la culla di un genere musicale che, senza esagerare, ha incendiando il pianeta intero. Le star dell’afrobeats vincono Grammy (Burna Boy, Tems), riempiono le più grandi sale da concerto del mondo (Wizkid, Davido), fanno milioni di visualizzazioni su Tik Tok (Rema, CKay) e collaborano con celebrità nordamericane, come Chris Brown, Justin Bieber o Drake. Queste celebrità sono adorate tanto quanto l’anziana élite politica nigeriana è odiata. I politici, la cui corruzione è quasi endemica, sono visti come responsabili delle disfunzioni del paese: mancanza di scuole, elettricità, medici, adesso anche carta moneta. Per queste elezioni presidenziali, dove il 40% degli elettori registrati ha meno di 35 anni, i candidati dei due principali partiti sono espressione della vecchia guardia: Bola Tinubu, del partito al governo (Apc) ha 70 anni, e Atiku Abubakar, del principale partito di opposizione (Pdp), ne ha 76 anni.

«I cantanti hanno un potere enorme sui giovani, che i candidati non hanno», sottolinea Oris Aigbokhaevbolo, giornalista musicale. Ma «fanno di tutto per evitare ogni legame con la politica, soprattutto durante le elezioni presidenziali».

L’afrobeats nasce negli anni 2000, da una commistione, tra gli altri stili, dell’afrobeat (senza s) del leggendario Fela Kuti, musicista che ha lottato per tutta la vita contro la corruzione, e l’influenza hip-hop proveniente dagli Stati Uniti. I primi artisti producevano anche testi politici, ma quando il genere ha iniziato ad avere successo, a dare i suoi frutti anche in termine di denaro, i testi sono diventati più “fluidi”, meno impegnati. Fino a poco tempo fa le canzoni erano per lo più odi al capitalismo in versione Naija, celebravano successi, macchine di lusso e conquiste femminili, o dichiarazioni d’amore un po’ mielose. Ma uno storico movimento di protesta giovanile, scoppiato nell’ottobre 2020, ha dato una nuova dimensione al genere, come se ci fosse stato un risveglio politico.

Mentre migliaia di giovani scendevano in piazza per protestare contro la brutalità della polizia e il malgoverno, le star dell’afrobeats sono improvvisamente uscite dal loro silenzio, mostrando il loro sostegno sui social media. Burna Boy aveva acquistato giganteschi spazi pubblicitari per mostrare gli slogan di questo movimento (“EndSARS”). Davido ha guidato una protesta nella capitale Abuja, dove si è inginocchiato davanti alla polizia, e Wizkid ha arringato una folla di nigeriani della diaspora a Londra. Dopo la sanguinosa repressione del movimento, molti artisti avevano reso omaggio alle vittime, come Burna Boy con la sua canzone 20.10.2020, data in cui l’esercito ha sparato sui manifestanti a Lagos. Ma da allora il silenzio è tornato ad essere la regola.

«Non li sentiamo», aggiunge Osikhena Dirisu, direttore della radio The Beat. Né quando si tratta di sostenere le campagne di registrazione degli elettori o di sostenere un particolare candidato.

«Mi delude, ci hanno mobilitato durante EndSARS e oggi nessuno chiede ai giovani di votare o di sostenere Peter Obi, il candidato dei giovani», dice Ifiy, 30 anni, che sostiene l’outsider di queste elezioni presidenziali.

A 61 anni, questo ex governatore, sostenuto da parte dei giovani e dal movimento EndSARS, si è affermato come uno sfidante credibile contro Tinubu e Atiku. Ma a parte P-Square, gli autori gemelli di successi del 2020 come Alingo, le superstar che mostrano il loro sostegno a Obi sono rari, secondo Dirisu. Le celebrità investono poco in politica, «perché in Nigeria è meglio non essere nemici del potere».

Al contrario, i politici hanno bisogno dell’afrobeats: una campagna elettorale senza musica è semplicemente inimmaginabile.

Così, nelle adunate elettorali, gli altoparlanti rimbombano dei successi del momento, il più delle volte usati senza pagare alcun diritto. I cori orecchiabili possono scaldare i militanti di questo o quel partito o le folle di poveri pagati per riempire gli stadi prima dell’arrivo dei candidati. La musica permette anche di umanizzare, persino ringiovanire, i candidati, come Tinubu che ha fatto scalpore durante la sua campagna elettorale abbozzando passi di danza del successo Buga di Kizz Daniel.


Infine, artisti sconosciuti a livello internazionale e che faticano a monetizzare la propria musica vengono spesso pagati dai partiti per cantare durante questi incontri, come Portable per il partito al governo o Timi Dakolo per l’opposizione. Cantanti, tuttavia, criticati sui social media, ma i due artisti si giustificano sostenendo che il denaro non ha alcun odore, insomma si vendono al miglior offerente.

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L’equilibrismo di tre pesi diversi in Nordamerica https://ogzero.org/lequilibrismo-di-tre-pesi-diversi-in-nordamerica/ Sat, 14 Jan 2023 00:52:49 +0000 https://ogzero.org/?p=10062 Dietro alla relativa eco ottenuta dall’ennesimo incontro tra i tre paesi del Nordamerica si nascondono invece tematiche annose difficilmente risolvibili: i cartelli dei narcos che sull’altra riva del Rio Bravo chiamano War on drugs e che sviluppano  business sempre diversi con l’obiettivo dei mercati anglosassoni del continente; mentre visti dalla frontiera settentrionale i flussi migratori […]

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Dietro alla relativa eco ottenuta dall’ennesimo incontro tra i tre paesi del Nordamerica si nascondono invece tematiche annose difficilmente risolvibili: i cartelli dei narcos che sull’altra riva del Rio Bravo chiamano War on drugs e che sviluppano  business sempre diversi con l’obiettivo dei mercati anglosassoni del continente; mentre visti dalla frontiera settentrionale i flussi migratori si ammassano sulla riva opposta del Rio Grande, come in un grande hub, dove comunque si riescono a spuntare salari maggiori, dove in qualche modo si può “aspettare”. Però sia gli uni – i flussi di droga – che gli altri – i flussi migratori – risalgono lungo tutto il territorio messicano a partire dalla frontiera meridionale. Infatti non manca nemmeno nell’incontro del Distrito Federal di Ciudad de México il confronto tra comunità native e afrodiscendenti – vessate e umiliate dai colonialisti e dai loro discendenti – e bianchi che diventano ancora più feroci nella difesa di privilegi anacronistici. Ma non sono rappresentate da nessuno dei partecipanti, sono pura merce di scambio: per creare difficoltà ai paesi antagonisti (non ammessi alla Cumbre di L.A.) si accettano migranti da quelle frontiere… e si sbattono le porte in faccia agli altri.
Amlo è riuscito nell’intento di apparire all’altezza dei due “amici” anglosassoni? Diego Battistessa ha analizzato la tre giorni de los tres amigos anche mantenendo accesa la luce proveniente dal continente che si apre a Sud di quel confine meridionale messicano che non trova spazio nell’economia autosufficiente del vertice.

fin qui OGzero


Dal 9 all’11 gennaio si sono riuniti a Città del Messico “I tre amici”, in spagnolo Los tres amigos. Non stiamo parlando di Alfonso Cuarón, Alejandro González Iñárritu e Guillermo del Toro, direttori di cinema messicani, conosciuti appunto come “Los tres amigos” – e nemmeno Steve Martin, Chevy Chase e Martin Short (protagonisti della omonima pellicola di John Landis del 1986 all’origine dell’espressione) –, ma bensì dei capi di stato di Canada (nella veste del primo ministro), Usa e Messico (presidenti delle reciproche Federazioni di stati). Trudeau, Biden e Lopez Obrador hanno dato vita al vertice dei leader nordamericani per stabilire delle politiche comuni su temi chiave per “i tre paesi”: in special modo migrazione, sicurezza (leggi narcotraffico) e commercio. Questo incontro trilaterale è il decimo della sua storia, iniziata il 23 marzo 2005 sotto il nome di Alliance for North American Security and Prosperity, con la riunione a Waco (Texas) di George W. Bush (USA) , Paul Martin (Canada) e Vicente Fox (Messico).

Un evento che segna questo inizio 2023 ma che affonda le radici nel 2022. Prima di addentrarci infatti dentro l’analisi di quanto discusso dai tre leader nordamericani nell’evento di Città del Messico è necessario volgere lo sguardo all’anno appena trascorso per capire con quale stato d’animo Trudeau, Biden e Lopez Obrador, si sono seduti al tavolo delle trattative.

 

Mexico – United States of America

Tensione diplomatica

In primo luogo non si può non sottolineare che questo vertice risana una frattura che si era palesata durante un altro importante summit, quello delle Americhe, celebratosi a Los Angeles dal 6 al 10 giugno 2022. Un incontro del quale vi abbiamo parlato in queste pagine  (dove ho potuto partecipare di persona) e dove, tra le altre, pesava proprio l’assenza di Andrés Manuel Lopez Obrador (Amlo). La presa di posizione del presidente messicano rispetto alla sua non partecipazione a questo importante incontro, che si celebra ogni 4 anni, riguardava l’esclusione a priori di Cuba, Nicaragua e Venezuela, paesi ritenuti antidemocratici dagli Usa. Tra il 9 e l’11 gennaio dunque, Lopez Obrador e Biden hanno potuto tornare a negoziare “face to face” in un contesto internazionale, dove strette di mano e foto di rito hanno allentato (almeno a favore di telecamera) una tensione che ancora era nell’aria.

War on drugs di Nixon: mezzo secolo fa

Non è da sottovalutare neanche quanto sono riusciti a realizzare Messico e Usa – nello specifico le autorità messicane –, lavorando insieme alla Drug Enforcement Agency (Dea) degli Stati Uniti rispetto alla lotta ai cartelli che controllano le rotte del narcotraffico. La cattura a luglio 2022 in Messico del narcotrafficante Rafael Caro Quintero (uno dei fondatori del Cartello di Guadalajara insieme a Miguel Ángel Félix Gallardo ed Ernesto Fonseca Carrillo) considerato uno dei latitanti più ricercati del mondo e reso famoso al grande pubblico per la serie Narcos, è stato un gran risultato.

Amlo antidroga

Operazione che ha fatto vedere in modo chiaro la volontà dell’amministrazione di Amlo di lottare contro questa piaga (il Messico ha dichiarato guerra al narcotraffico nel 2007) e di appoggiare le autorità Usa nella persecuzione di questi criminali. Persecuzione, cattura ed estradizione, quest’ultima proprio la più temuta dai leader dei cartelli che sanno di poter vivere una vita “alla grande” nelle carceri messicane ma di tutt’altra storia si tratta se invece la pena è da scontare in una prigione “gringa”.

La catena delle estradizioni

In questo senso il Messico nel 2022 ha estradato più di 50 criminali legati al narcotraffico, principalmente verso gli Stati Uniti, assestando duri colpi ai cartelli di Sinaloa, del Golfo, di Arellano Félix e del gruppo criminale Guerreros Unidos (quest’ultimo collegato al caso dei 43 studenti di Ayotzinapa nel 2014, episodio della politica avversa alle realtà indigene del Mexico). Oltre a Rafael Caro Quintero, altri “narcos” di spicco catturati o estradati nel 2022 sono Mario Cárdenas Guillén, uno dei capi del Cartello del Golfo (conosciuto come “M-1” o “El Gordo), Adán Casarrubias Salgado, conosciuto come El tomate, che si suppone essere il leader del gruppo Guerreros Unidos e Carlos Arturo Quintana, alias “El 80”, uno dei capi del gruppo criminale La Línea, nell’ orbita del Cartello di Juárez. E ancora Juan Francisco Sillas Rocha, uomo di fiducia degli Arellano Felix e Jaime González Durán, alias El Hummer, parte del gruppo di comando degli Zetas.

Welcome, Mr President

Insomma una collaborazione che ha portato buoni frutti e che proprio pochi giorni prima dell’inizio di questo nuovo vertice dei leader nordamericani ha avuto la sua ciliegina sulla torta. Si perché non è certo passato inosservato il tempismo con il quale, proprio 4 giorni prima dell’inizio dell’incontro trilaterale, le autorità messicane hanno realizzato un imponente operazione che ha portato alla cattura di Ovidio Guzmán, uno dei figli (“los chapitos”) dello storico capo del Cartello di Sinaloa, Joaquín El Chapo” Guzmán.

Alle 5 del mattino di giovedì 5 gennaio, diversi elicotteri, uno dei quali armato di mitragliatrice, hanno aperto il fuoco contro bersagli a terra nella città di Culiacán, stato di Sinaloa. Così è iniziato il blitz delle forze federali messicane che hanno catturato Ovidio, conosciuto anche come El Ratón” o “El Gato Negro, sul quale pendeva una taglia di 5 milioni di dollari. Il Cartello ha però reagito in modo rapido e violento, Culiacán è rimasta ostaggio di più di 50 blocchi stradali realizzati da uomini armati appartenenti all’esercito di Guzmán, criminali che hanno anche assaltato l’aeroporto per evitare che Ovidio venisse portato via dalla città.

Il governo messicano ha notificato all’amministrazione di Joe Biden l’azione portata a termine con successo, una sorta di gesto di buona volontà che Amlo ha presentato al presidente degli Stati Uniti d’America prima del suo arrivo a Città del Messico.

Lunga vita all’infame Titolo 42

Sul tema migratorio bisognerebbe scrivere un articolo a parte. È comunque chiaro che questo aspetto è stato centrale nella strategia dell’amministrazione Biden fin dall’inizio della presidenza nel 2021: basti considerare che il primo viaggio fatto dalla vicepresidente Kamala Harris (giugno 2021) riguardava proprio la questione migratoria, ed è stato realizzato tra Messico e Guatemala. Amlo è stato un buon alleato per le politiche migratorie dei democratici statunitensi che durante questi ultimi due anni hanno dovuti fare i conti con l’aumento dei flussi e della pressione verso la frontiera nord, nella misura in cui si minimizzavano (o eliminavano) le barriere per prevenire la diffusione del Covid-19.

L’esternalizzazione delle frontiere in salsa guacamole

Frontera norte

Biden nel 2022 ha cercato per ben due volte di far eliminare il famoso Titolo 42 (a maggio e a dicembre) ma in entrambe le occasioni la maggioranza repubblicana dei giudici ha fermato l’azione della Casa Bianca. Nel frattempo nell’ottobre del 2022 il governo del Messico dava per concluso il programma chiamato Quédate en Mexico (rimani in Messico): programma creato nella legislatura dell’ex presidente Donald Trump (2017-2021) che stabiliva che i migranti che volevano entrare negli Stati Uniti d’America legalmente, dovevano attendere la risoluzione delle procedure burocratiche in territorio messicano. Una misura che il Messico ha subito suo malgrado e che oltre a creare un enorme caos alla frontiera, ha generato multiple violazione dei diritti fondamentali delle persone migranti.

Nonostante ciò, il 2022 si è concluso con dei record storici di transiti migratori irregolari verso gli Usa, situazione che ha esposto il fianco di Joe Biden agli attacchi dei repubblicani che parlano di vera e propria “invasione”, minacciando di processare il segretario alla sicurezza nazionale, Alejandro Mayorkas. Da qui l’ultimo “asso nella manica” giocato dall’attuale presidente a stelle e strisce proprio pochi giorni prima del vertice dei Tre amigos: ancora una volta un piano di bastone e carota.

«Do not come!»

Proprio mentre a Culiacán l’esercito messicano battagliava con il Cartello di Sinaloa per arrestare Ovidio Guzmán, Joe Biden annunciava nuove misure per rafforzare il controllo del confine con il Messico e in cambio prometteva l’apertura di nuovi canali di immigrazione legale, soprattutto alle persone provenienti da Venezuela e Cuba (che vivono la più grande crisi migratoria della loro storia) oltre a Nicaragua e Haiti. Gli Usa, ha detto Biden, accetteranno 30.000 migranti al mese provenienti dai sopracitati paesi, a patto che queste persone in movimento possano dimostrare legami familiari con emigrati già presenti nel territorio statunitense. Allo stesso modo verrà rafforzato il controllo nella frontiera sud e non ci sarà “nessuna pietà” per chi cerca di passare il confine in modo illegale. «Do not come!» (Non venite), continua a recitare Biden, il mantra gringo che sentiamo ripetere ai democratici da giugno 2021, quando proprio in Messico lo disse Kamala Harris per la prima volta in questa amministrazione – e ribadito durante la Cumbre di Los Angeles.

Dossier top secret

Per concludere, a Biden in questi giorni non sono mancati neanche problemi interni. Infatti proprio lunedì 9 gennaio, mentre stavano iniziando i lavori del vertice si è saputo di una importante indagine che lo vede implicato direttamente. Sarebbero infatti stati trovati circa una dozzina di documenti riservati su Iran, Ucraina e Gran Bretagna nell’armadio di un ufficio che l’attuale presidente ha utilizzato mentre collaborava con l’Università della Pennsylvania (2017- 2021), periodo nel quale non ricopriva nessun incarico politico. Una volta trovati i documenti è stato informato il Dipartimento di Giustizia, che ha nominato un pubblico ministero, John Lausch (uomo scelto a suo tempo da Donald Trump), per portare avanti le indagini. Il problema (un altro) è che mentre erano in corso le indagini preliminari per determinare se sussistono gli indizi di reato, sono venuti alla luce nuovi documenti “top secret”, stipati nel garage della residenza di Biden nel Delaware, suo feudo elettorale. Ora bisogna capire se ci sono gli estremi per istruire un processo e in quel caso si staglierebbero nubi molto oscure nell’orizzonte dei democratici, visto che tra poco l’ottantenne presidente Usa dovrà far sapere se correrà per un secondo mandato nel 2024 o se lascerà il testimone del partito a qualcun altro.

Canada

Sappiamo che il Canada è un paese dal basso profilo, nel senso che non riempie di scandali i “rotocalchi” internazionali. Nonostante ciò, questa vetrina internazionale offerta da Amlo è però servita al primo ministro Justin Trudeau per sottolineare il rispetto dovuto alle comunità indigene e alla protezione dell’ambiente.

Pellegrinaggi penitenziali

Parole che riportano subito all’immagine simbolo del 24 luglio 2022, quando Jorge Bergoglio atterrava dopo un volo di 10 ore all’aeroporto canadese di Edmonton per iniziare un viaggio di 6 giorni nel quale avrebbe chiesto perdono ai rappresentanti di vari popoli indigeni (Inuit e Métis tra gli altri) per la complicità della Chiesa cattolica negli abusi perpetrati nei collegi dove venivano internati i bambini indigeni.

Più di 150.000 di loro vennero allontanati dalle loro case dal 1800 fino agli anni Settanta del secolo scorso e internati con la forza nelle scuole nel tentativo di isolarli dall’influenza delle loro famiglie e della loro cultura. Queste scuole/collegi erano finanziati dalla Chiesa cattolica e dal governo e il loro compito era quello di integrare alla forza le nuove generazioni di indigeni alla società canadese di religione cristiana. Dopo la visita di papa Francesco, il governo canadese ha effettuato una dichiarazione nella quale riteneva insufficienti le scuse del Pontefice, che non aveva fatto menzione nei suoi discorsi agli abusi fisici e sessuali perpetrati contro i bambini indigeni. Lo stesso Justin Trudeau aveva chiesto perdono alle popolazioni indigene native il 25 giugno 2021 dopo che la Federation of Sovereign Indigenous Nations (FSIN, che rappresenta nazioni indigene native a Saskatchewan) aveva riferito del ritrovamento di circa 750 tombe anonime in una fossa comune in un collegio in Canada: nel luogo dove prima si ergeva la  Marieval Indian Residential School nella provincia di Saskatchewan. Un tema ancora scottante in Canada e che ha segnato il governo di Trudeau.

I temi del vertice

«Condividiamo una visione comune per il futuro, basata su valori comuni», le parole di Biden a corollario di un incontro che si è centrato principalmente su sicurezza, economia, clima e migrazione.

Autosufficienza economica

Una delle azioni concrete è stata la creazione di un comitato di 12 membri (4 per ogni paese) per la pianificazione e la sostituzione delle importazioni in Nordamerica. L’idea è che i tre paesi possano raggiungere insieme l’autosufficienza, creando un‘unione economica forte ed efficace.

In questo senso Trudeau ha sottolineato che insieme i tre amici superano il pil dell’Unione Europea e che possono essere il volano di una «economia continentale, solida e resiliente».

Respingimenti limitati

Il tema migratorio è stato centrale e se da un lato Amlo ha chiesto a Biden di promuovere riforme per agevolare la legalizzazione di milioni di messicani che vivono e lavorano in Usa, dall’altro lo ha ringraziato per non aver costruito nemmeno “un metro” di muro (il famoso muro promesso da Trump). Il Canada, che riceve una minore migrazione di cittadini messicani, dal canto suo ha posto in marcia il programma di concessione di visti di lavoro a giornalieri messicani, un piano di mobilità regolare che già include 25.000 persone. Il focus però è stata la frontiera del Rio Bravo o Rio Grande, a seconda della riva da cui si guarda, e della pressione migratoria che viene esercitata in questo punto. Come detto in precedenza il nuovo piano di Biden è stato annunciato pochi giorni prima del vertice, spazio nel quale è stato reiterato e confermato da Amlo.

Il mercato di Fentanyl

Lopez Obrador ha poi posto sul tavolo un’altra questione, quella che riguarda il fentanyl, e la sua sempre maggiore diffusione in Usa e Canada. Si tratta di una droga molto potente, che viene confezionata in modo illegale in Messico e che viene poi esportata nel Nord del continente. Dal sito del Centers for Disease Control and Prevention:

«Il fentanyl è un oppioide sintetico che è fino a 50 volte più forte dell’eroina e 100 volte più forte della morfina. È un importante fattore che contribuisce alle overdose fatali e non fatali negli Stati Uniti. Esistono due tipi di fentanyl: fentanyl farmaceutico e fentanyl prodotto illegalmente. Entrambi sono considerati oppioidi sintetici. Il fentanyl farmaceutico è prescritto dai medici per trattare il dolore intenso, specialmente dopo un intervento chirurgico e negli stadi avanzati del cancro.
Tuttavia, i casi più recenti di overdose correlate al fentanyl sono collegati a quello prodotto illegalmente, che viene distribuito nei mercati di stupefacenti per il suo effetto simile all’eroina. Viene spesso aggiunto ad altri farmaci a causa della sua estrema potenza, rendendo i farmaci più economici, più potenti, più stimolanti e più pericolosi».

In questo senso, il presidente del Messico si è impegnato con Stati Uniti e Canada a lottare contro il traffico di fentanyl, confermando che questa attività è stata messa tra le priorità delle Forze Armate del paese latinoamericano.
Il vertice si è chiuso in un clima di cordialità e mutuo intendimento, un gioco politico di do ut des , nel quale ognuno dei tre attori ha “giocato” pensando al cortile di casa sua.

Lo scenario latinoamericano visto dal vertice dei tre amici

Durante il vertice Amlo ha chiesto a Biden e Trudeau di «porre fine a questo oblio, abbandono e disprezzo verso l’America Latina». Parole lapidarie che però rendono bene l’idea di come le forti economie nordamericane facciano “orecchie da mercante” rispetto alla situazione attuale del resto del continente, in preda a forti convulsioni sociali e attacchi profondi alle fondamenta democratiche, così faticosamente costruite negli anni passati.

Tre casi su tutti ci portano a una riflessione sullo stato della regione: Brasile, Perù e Bolivia.

In Brasile abbiamo visto l’8 gennaio migliaia di sostenitori di Bolsonaro assaltare la piazza dei tre poteri a Brasilia. Un atto di superbia morale, terrorismo interno e sdegno verso le istituzioni che ha connotato uno dei giorni più tristi per il Brasile.

In Perù, dove i fatti di dicembre che hanno portato all’arresto dell’ex presidente Pedro Castillo e la nomina della sua vice, Dina Boluarte come prima donna a dirigere il paese sudamericano, le repressioni delle proteste hanno causato decine di morti e centinaia di feriti. Il popolo che si rispecchia in Castillo, contadini e indigeni delle zone rurali, grida que se vayan todos (che se ne vadano tutti) chiedendo elezioni anticipate e la cacciata della corruzione dalle istituzioni: le forze dell’ordine rispondono con proiettili ad altezza d’uomo. Per capire il livello dello scontro basti pensare che a Lima la procura ha chiesto di indagare Boluarte per «presuntos delitos de genocidio, homicidio calificado y lesiones graves».

In Bolivia nel periodo natalizio è stato arrestato il governatore del dipartimento di Santa Cruz, (zona che fa parte della chiamata mezzaluna bianca) dove la destra conservatrice si oppone da anni a Evo Morales prima e ad Arce ora. Luis Fernando Camacho (il governatore) è stato detenuto per i fatti legati alla crisi politica che ha seguito le elezioni del 2019, la cacciata di Evo dal paese e l’insediamento di Jeanine Áñez come presidente del paese (oggi anche lei in carcere): dopo la sua cattura sono iniziate manifestazioni per chiederne la liberazione.


Proprio di questi eventi distribuiti tra Brasilia, Cuzco, Ayacucho, Arequipa, Puno e di considerazioni sui fatti boliviani di questi giorni si è parlato su Radio Blackout il 12 gennaio 2023 con Diego, concludendo ad anello il discorso, ritornando all’inizio di questo articolo:
“Sacudidas en la marea rosa”.


Insomma, uno scenario di instabilità che vede proprio nell’occhio del ciclone tre dei paesi della nuova “ondata” della Marea Rosa fare i conti con la polarizzazione sociale e politica. Se a questo aggiungiamo gli appuntamenti elettorali importanti di questo 2023, specialmente in Argentina, dove il kirchnerismo sembra partire in svantaggio per l’elezione del prossimo presidente e l’attentato sventato contro Francia Marquéz (vicepresidente) in Colombia, possiamo capire quanto il bandolo della matassa sia difficile da districare.

Un aiuto può venire da Moleskine Sur, un ottimo compagno di viaggio nei meandri delle realtà latinoamericane proiettate verso un 2023 dai risvolti molto incerti.

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Le nubi etiopi si sono spostate in Oromia https://ogzero.org/le-nubi-etiopi-si-sono-spostate-in-oromia/ Sun, 08 Jan 2023 21:23:35 +0000 https://ogzero.org/?p=10048 Abbiamo ritenuto opportuno riprendere un articolo pubblicato dai complici di “Atlante delle Guerre” che richiama l’interesse sulla area di guerra più micidiale del mondo, dove i conflitti tra comunità diverse non sono mai sopite e quando – dopo centinaia di migliaia di morti – si raggiunge una tregua in un’area come il Tigray nel Nord […]

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Abbiamo ritenuto opportuno riprendere un articolo pubblicato dai complici di “Atlante delle Guerre” che richiama l’interesse sulla area di guerra più micidiale del mondo, dove i conflitti tra comunità diverse non sono mai sopite e quando – dopo centinaia di migliaia di morti – si raggiunge una tregua in un’area come il Tigray nel Nord della Federazione etiope, si riaccende un conflitto nella centrale regione dell’Oromia, dove si scatenano rivalità e contenziosi tra ahmara e oromo, spostando schieramenti (Ola e Tplf) già contrapposti nel distretto tigrino, come potete sentire nel podcast in cui Matteo Palamidesse (@PalaMatteo) spiega con la consueta prudente cognizione di causa cosa muove le istanze dei singoli attori.


Le truppe eritree stanno lentamente abbandonando le principali città del Tigray centrale e occidentale. Una presenza, quella di Asmara, che, nonostante non sia mai stata ufficializzata ha creato non poche complicazioni nel conflitto. Il ritiro arriva in seguito all’accordo di pace mediato dall’Unione Africana e firmato il 2 novembre 2022 a Pretoria dal governo federale dell’Etiopia e dal Fronte popolare di liberazione del Tigray (Tplf).

Nei due anni di guerra in Tigray, l’esercito eritreo è stato accusato di aver commesso atrocità su larga scala, tra cui aggressioni sessuali, uccisioni sommarie, stupri, saccheggi di città e distruzione di infrastrutture. L’Eritrea è infatti entrata a più riprese in Etiopia per reprimere i tigrini ed è stata in prima linea nelle stragi e nelle pulizie etniche. Gli eritrei hanno preso di mira anche i campi profughi presenti nel Tigrai che ospitano esuli del regime eritreo. Nonostante questo, mancando un coinvolgimento ufficiale, l’Eritrea non ha preso parte al processo di pacificazione in atto.

Il ritiro delle truppe di Asmara era però una delle principali condizioni definite dall’incontro di Nairobi (Kenya) del 12 novembre. Dopo l’accordo di pace di Pretoria, le autorità del Tigray avevano infatti accusato il governo eritreo di ostacolare il processo di pace e hanno esortato il governo etiope a rispettare i termini dell’accordo del 2 novembre ritirando le forze straniere e non federali. Un altro punto dell’accordo prevedeva il dispiegamento della polizia federale, che dovrà sostituire quella regionale. Le forze di polizia dovranno infatti garantire la sicurezza nella Regione e lavorare insieme all’Unione africana per garantire il rispetto dei termini stabiliti nell’accordo. Intanto altri obiettivi sono quelli di ripristinare i servizi di base nella regione e consentire l’accesso umanitario incondizionato a tutta la regione, il disarmo delle milizie e il ritiro completo delle truppe eritree e delle milizie ahmara ancora presenti nel Tigray. Il conflitto nel Tigray, scoppiato nel novembre 2020, tra le forze del governo federale etiope e il Tplf ha causato la morte di oltre mezzo milione di persone e migliaia di sfollati.

Ma la strada è tutt’altro che in discesa. Kibrom G/Selassie, amministratore delegato dell’ospedale comprensivo di Ayde, il più grande nella regione del Tigray, ha infatti denunciato, come riportato da “Africa Rivista”, di stare ancora aspettando i medicinali per le cure mediche salvavita.

«Nulla è cambiato anche dopo l’accordo di pace; il governo federale non sta fornendo all’ospedale le medicine tanto necessarie, inclusi i reagenti di laboratorio», ha segnalato Kibrom.

Già nel mese di ottobre, Kibrom aveva dichiarato ad Addis Standard che l’ospedale era sull’orlo del collasso a causa dell’esaurimento dei farmaci essenziali, della mancanza di reagenti di laboratorio e di macchinari difettosi. Dall’altro lato il ministero federale della Salute ha affermato, in una relazione resa nota a dicembre, che i medicinali e le forniture mediche essenziali sono stati distribuiti nella regione del Tigray attraverso l’Organizzazione mondiale della sanità e il Comitato internazionale della Croce Rossa.

Oltre ai delicati passi per la risoluzione del conflitto in Tigray, un’altra ondata di violenza preoccupa l’Etiopia. Le due comunità più numerose del paese, infatti, Oromo e Amhara, denunciano da settimane omicidi e si incolpano l’un l’altro. Le forze di sicurezza etiopi, gli insorti oromo e la milizia amhara si stanno infatti combattendo nella Regione di Oromia, la più grande dell’Etiopia. Le forze di sicurezza federali etiopi combattono contro l’Esercito di liberazione dell’Oromo (Ola), che il governo ritiene un gruppo terroristico e pare che anche i residenti di Oromo e Amhara e i loro alleati armati si stiano scontrando.


A questo proposito Matteo Palamidesse a fine dicembre era intervenuto su Radio Blackout nella trasmissione Bastioni di Orione per approfondire come si è venuta sviluppando la situazione in Oromia:
“In Oromia la tensione non si vede, si colgono narrazioni di guerra”.

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Caro fratello Assad, ti va un panino insieme?! https://ogzero.org/caro-fratello-assad-ti-va-un-panino-insieme/ Mon, 02 Jan 2023 00:29:02 +0000 https://ogzero.org/?p=9934 Il 28 dicembre si è svolto a Mosca un vertice a tre con la partecipazione del ministro della Difesa turco Hulusi Akar e il generale Ali Mahmoud Abbas, alla presenza del ministro della Difesa russo Sergey Shoigu nell’ottica della svolta turca per cambiamenti politici e trasformazioni globali – in riavvicinamento e riconciliazione con Damasco per […]

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Il 28 dicembre si è svolto a Mosca un vertice a tre con la partecipazione del ministro della Difesa turco Hulusi Akar e il generale Ali Mahmoud Abbas, alla presenza del ministro della Difesa russo Sergey Shoigu nell’ottica della svolta turca per cambiamenti politici e trasformazioni globali – in riavvicinamento e riconciliazione con Damasco per «la necessità di porre fine alle differenze e raggiungere soluzioni che servano gli interessi della regione». Secondo al-Watan si tratta del risultato finale di diversi incontri avvenuti in precedenza tra i servizi di intelligence e la Turchia avrebbe contestualmente accettato un completo ritiro dal conflitto siriano; oltre al riconoscimento da parte di Ankara del rispetto per la sovranità e l’integrità territoriale della Siria; sarebbe stata discussa anche l’attuazione dell’accordo concluso nel 2020 per l’apertura della strada M4.
È stato pianificato dal Cremlino a breve un incontro tra i ministri degli esteri e infine, sempre nella capitale russa, il vertice Erdoğan-Assad. Evidente che per l’ennesima volta il presidente turco intende sfruttare a proprio favore la situazione siriana, sabotando l’autonomia curda e nello stesso tempo rimandando in patria i profughi siriani residenti attualmente in Turchia. Due carte da giocare nelle prossime elezioni presidenziali. Intanto si continua a vellicare l’istinto militarista, vera continuità tra potere ottomano, kemalista e neo-ottomano di Erdoğan, con un costante riarmo e investimenti in produzioni belliche

In questo processo, che è evidentemente il proseguimento dello spirito di Astana nell’ambito più precipuamente della Guerra siriana per cui si è manifestato inizialmente, le parti riunite hanno confermato che il Pkk, con le sue emanazioni siriane Ypg-Ypj, è una milizia per procura di America e Israele e rappresenta il pericolo maggiore per la Siria e la Turchia. L’articolo che proponiamo è stato completato da Murat Cinar il giorno prima di questo incontro, ma già da quasi un mese ci stava lavorando,  avendo avuto sentore della direzione in cui si stavano evolvendo gli eventi geopolitici in Mesopotamia.

Fin qui l’introduzione di OGzero, la parola a Murat…


Retaggio ottomano

Tra Turchia e Siria c’è un confine di 911 chilometri. I due paesi hanno iniziato a avere un rapporto complicato sin dal crollo dell’Impero Ottomano; confini, acqua, formazioni armate, rapporti commerciali, energia, rifugiati, traffico di droghe e persone e infine spese militari. Oggi sembra che sia giunto il momento di aprire l’ennesimo “nuovo capitolo”.

Un passato importante lungo l’Eufrate

L’Eufrate è uno dei due fiumi che danno il nome alla Mesopotamia. Nasce nel territorio della Repubblica di Turchia ma cresce e prosegue il suo percorso verso lo Shatt-al Arab attraversando la Siria. Innegabile l’importanza di questa fonte d’acqua, ma anche che ne scaturiscano conflitti e manovre politiche. Sia Ankara che Damasco, tranne alcuni momenti nella storia, hanno sempre voluto sfruttare questa risorsa comune come elemento di ricatto e non di cooperazione. In Turchia, sia il governo di Süleyman Demirel sia quello di Turgut Özal sono stati sempre sostenitori, negli anni Settanta e Ottanta, dell’idea che Ankara avesse il diritto di controllare totalmente il regime delle acque. Infatti la costruzione del megaprogetto delle dighe (Progetto del Sudest Anatolia) aveva l’obiettivo di risultare una opportunità di ricatto ai danni del regime di Damasco.
Ovviamente il fatto che la Turchia fosse sempre stata un fedele membro della famiglia Nato e la Siria fosse l’alleato numero uno dell’Unione Sovietica in zona ha fatto sì che la rivalità tra questi due vicini risultasse come una sorta di “guerra fredda” di riflesso per procura.

Il ruolo in commedia del Pkk

Senz’altro la nascita e la crescita negli anni Settanta e Ottanta dell’organizzazione armata Pkk (Partito dei Lavoratori del Kurdistan) ha un po’ scombussolato la situazione. Soprattutto dopo la decisione da parte dell’organizzazione di lasciare, quasi totalmente, il territorio della Repubblica di Turchia e creare le proprie “basi” e “accademie” in Siria, le relazioni tra questi due vicini sono diventate molto complicate. Dalle lezioni di “sicurezza nazionale” presso le scuole pubbliche alle dichiarazioni dei governatori, dal linguaggio dei media fino alle scelte politiche dei governi che risiedevano ad Ankara ormai la presenza del Pkk per la maggior parte della società turca risultava essere un enorme problema e una notevole minaccia. Ormai la vicina Siria ufficialmente “sosteneva i terroristi”.

La svolta di Adana

Infatti proprio su questo tema nel 1998 fu firmato l’Accordo di Adana tra questi due vicini. Un accordo che impegnava Damasco a collaborare con Ankara nella sua “lotta contro il terrorismo”, perché ormai per la Turchia la presenza del Pkk sul territorio del vicino era un “casus belli”. Proprio in quel periodo, ottobre 1998, mentre si consolidava per la prima volta una collaborazione del genere, Abdullah Öcalan (“Apo”), il leader storico del Pkk che viveva da anni in Siria, dovette lasciare il paese e nel giro di pochi mesi a Nairobi in Kenya fu arrestato dai servizi segreti turchi. Öcalan, condannato all’ergastolo, vive tuttora in isolamento in un carcere speciale sull’isola di Imrali in Turchia.

Il progetto del Grande Medioriente

Pochi anni dopo l’arrivo al potere dell’Akp (Partito dello Sviluppo e della Giustizia) i rapporti tra Ankara e Damasco si consolidano ancora di più. La Turchia lavorava come intermediario nei tentativi di dialogo tra Israele e Siria che si svolgevano a Istanbul e il presidente siriano, Bashar al-Assad, insieme a sua moglie decideva di fare le vacanze a Bodrum in Turchia, incontrando l’attuale presidente della repubblica, Recep Tayyip Erdoğan che all’epoca era il primo ministro. Proprio in quel periodo Erdoğan si intestava, in diretta tv, la copresidenza del Greater Middle East Project, ideato e promosso dall’allora presidente statunitense George W. Bush con l’obiettivo di creare una zona di collaborazione e alleanza tra i paesi di maggioranza musulmana, dai Balcani fino all’Asia orientale.

Una nuova fase

In alcuni incontri del 2004 tra i paesi della Nato e del G8 erano persino state organizzate delle presentazioni per annunciare alcuni dettagli di questo progetto, che secondo alcuni analisti rappresentava un tentativo di allargamento non ufficiale della Nato con l’intento di limitare lo spazio di manovra dei paesi ancora comunisti e socialisti. A dirigere questo progetto c’era anche Erdoğan, quindi il rapporto intercorrente tra Ankara e Damasco diventava fondamentale.
A quest’ondata di cambiamenti in positivo per una collaborazione amichevole tra i due paesi si può aggiungere l’abolizione del visto tra i due paesi nel 2009 e una serie di accordi commerciali straordinari firmati tra Erdoğan e Assad soprattutto nell’ottica delle privatizzazioni che il governo di Damasco aveva avviato.

La guerra per procura

Senz’altro la guerra per procura ancora in corso in Siria ha cambiato radicalmente le carte in tavola. L’instabilità generalizzata che domina tuttora in Siria è partita nel 2011 con le prime rivolte popolari. In poco tempo l’infiltrazione dei servizi segreti delle terze parti, la nascita e la crescita delle formazioni armate terroristiche sostenute da numerosi paesi vicini e la presenza dei soldati di vari paesi hanno fatto sì che ormai la guerra in Siria potesse essere definita come una proxy war.

Le prime reazioni e scelte

«Assad è come Mussolini, lasci il suo potere. Prima che scorra ulteriore sangue lasci la sua poltrona».

Subito dopo le prime manifestazioni che hanno ricevuto la risposta dura di Damasco, erano queste le parole pronunciate da Recep Tayyip Erdoğan. Una posizione netta e chiara, assunta nel lontano 2011, dichiarata durante il suo intervento nel gruppo parlamentare dell’Akp.
All’inizio della guerra in Siria il piano di Ankara era quello di fare il possibile perché Assad lasciasse il suo potere. In quest’ottica nel 2014 aveva anche partecipato agli incontri di Ginevra con l’intento di creare un nuovo percorso per la ricostruzione politica e amministrativa della Siria. Nel mentre non mancavano le dichiarazioni forti e convinte di Erdogan:

«Il Presidente siriano ha ucciso circa un milione di cittadini suoi. In realtà stiamo parlando di un terrorista che sparge il terrorismo di stato. Non possiamo dialogare con una persona del genere, non sarebbe corretto nei confronti di un milione di siriani assassinati».

Le prime milizie antisiriane e il ruolo dell’Isis

Sempre nello stesso periodo, in collaborazione con l’amministrazione statunitense dell’epoca, Ankara aveva avviato i lavori per l’addestramento delle prime brigate dell’Esercito libero siriano (Fsa) con l’intento di creare un corpo militare che potesse lottare contro il regime di Damasco. Successivamente questa forza in parte è scomparsa, in parte ha aderito alle formazioni terroristiche e in parte ha collaborato con Ankara.


Quel periodo fu molto importante per la Turchia e per il resto del Medioriente. La nascita e crescita dell’Isis ha rimescolato i piani: soprattutto i lavori di reclutamento dei nuovi adepti, l’utilizzo di territori senza rispetto del confine e la creazione di nuove fonti di guadagno in Turchia, da parte dell’organizzazione terroristica, hanno fatto sì che Ankara ormai fosse direttamente coinvolta nella guerra in Siria. Alcune intercettazioni relative alle riunioni dei servizi segreti turchi, varie dichiarazioni rilasciate da parte di numerosi esponenti del governo e la posizione dei mezzi di propaganda rivelarono quanto poco Ankara fosse dispiaciuta della presenza dell’Isis in Siria. Alla fine della partita avrebbe potuto anche rendere più “facile” la caduta di Assad.

Tuttavia sono successe tre cose che hanno ribaltato ancora un’altra volta i piani.

L’alba degli Accordi di Astana

Mosca in Siria

Innanzitutto la Russia, insieme all’Iran, decise d’intervenire militarmente in Siria per salvare Damasco che stava subendo dei gravi colpi in questa guerra. Ormai chiunque avesse avuto l’intenzione d’immischiarsi con gli affari interni della Siria era obbligato a dialogare con Mosca e Teheran.

Confederalismo democratico in Rojava

Poi la nascita del Confederalismo democratico con il protagonismo delle sue forze armate nella lotta contro l’Isis fece sì che a livello mondiale la nuova esperienza politica ed economica guadagnasse credibilità e rispetto. Questo punto ovviamente era un problema per Ankara dato che dietro il progetto del Confederalismo democratico che sorgeva, come zona autonoma nel Nord della Siria (il Rojava), c’erano una serie di attori molto “problematici” come Öcalan e Pkk. Nel 2012 il Partito dell’unione democratica (Pyd) dichiarava la nascita delle unità di difesa popolari (Ypg-Ypj) impegnate nella lotta contro il terrorismo fondamentalista nella regione.

Isis in Turchia

Infine gli attentati dell’Isis sul territorio della Repubblica di Turchia che causarono la morte di centinaia di persone in meno di due anni coinvolgevano ancora di più Ankara in questa guerra che era in corso ormai da quasi cinque anni. Alla lista di priorità nuove si aggiungeva la lotta contro l’Isis che ormai era una netta minaccia contro la sicurezza nazionale per la Turchia.

Forzata alleanza

Per risolvere i suoi problemi Ankara si trovava ormai obbligata a consolidare i rapporti con la Russia per poter agire in Siria. Oltre a ciò le Ypg-Ypj non potevano essere degli interlocutori dato che erano i cugini degli storici “terroristi” per Ankara. Anche se per poco un tentativo di dialogo con Salih Muslim era stato fatto. Muslim è il leader politico del partito politico siriano Pyd – la forza non armata dominante in Rojava. Tuttavia in poco tempo questo tentativo si è concluso senza successo. Secondo alcuni analisti perché Ankara aveva proposto al Pyd di lottare contro Assad in collaborazione con l’Esercito libero siriano, invece il Pyd ha rifiutato la proposta decidendo di non prendere parte nella guerra in Siria e proseguire per la sua strada. Questa “terza scelta” non prevedeva né di collaborare con la Turchia né di sostenere Damasco.
Relativamente a quest’ultimo punto non si può ovviamente tralasciare il fatto che il tentativo di dialogo tra lo stato e il Pkk, in Turchia, sia fallito proprio nel periodo in cui le Ypg-Ypj acquisivano più credibilità a livello internazionale nella loro lotta contro l’Isis.


Dunque si tratta di un momento che ha creato una notevole preoccupazione strategica per Ankara.

Le “operazioni speciali” turche in Siria

Dunque nel 2016, poche settimane dopo il fallito golpe in Turchia e in pieno stato d’emergenza, Ankara decise di avviare la sua prima operazione militare. Gli obiettivi erano 3: lottare contro l’Isis, contro le Ypg-Ypj e contro il governo centrale. Da quel momento a oggi sono passati circa 7 anni e la Turchia, ufficialmente, ha lanciato 4 altre operazioni aumentando nel Nord della Siria la sua presenza militare, politica e economica. Ankara è stata accusata in questo periodo di avviare anche una campagna di cambiamento culturale e demografico della zona provando a cancellare l’identità curda e distruggendo i segni del Confederalismo democratico.

Equilibrismi tra Nato e Russia

In questo gioco molto delicato e pericoloso Ankara ha dovuto gestire i rapporti con la Russia e con i suoi alleati della Nato presenti sul territorio. Non è stata una partita facile perché quanto più il tempo passava, tanto Ankara diventava sempre più dipendente dalla Russia anche al di fuori dalla guerra in Siria: turismo, accordi energetici, agricoltura, investimenti militari, presenza dei servizi segreti, centrali nucleari…

Quest’avvicinamento ovviamente presupponeva una sorta di allontanamento parziale e graduale dalla famiglia della Nato anche se la Turchia restava sempre un membro del patto transatlantico e l’unico membro fortemente presente sul territorio siriano.

Freddezza tra Turchia e UE

Il rapporto consolidato, delicato ma anche fragile tra Ankara e Mosca con la nascita del conflitto armato in Ucraina è entrato in una nuova fase. Il rapporto con la Nato e con l’UE invece è diventato sempre più debole e oggi lo possiamo considerare come una “collaborazione strategica” più che alleanza. Tra Ankara e Nato in tutto questo tempo ci sono state delle divergenze: dai processi per evasione fiscale e frode, all’embargo non rispettato contro l’Iran, fino ad arrivare agli accordi militari con Mosca e l’acquisto degli S-400. Oggi l’Isis sembra essere morto oppure in coma e l’esperienza del Confederalismo Democratico molto indebolito, accerchiato e in parte anche distrutto.
Invece a Damasco è ancora al potere Assad.

Nuova fase dopo l’“operazione speciale” in Ucraina

Oggi Ankara ha deciso di riprendere, gradualmente, il dialogo con il presidente siriano. Il 27 novembre 2022 l’attuale presidente della Repubblica di Turchia ha rilasciato queste dichiarazioni dopo aver inaugurato il ripristino delle relazioni con l’Egitto:

«Ci sono diversi paesi che vogliono approfittare delle relazioni precarie del nostro paese con i paesi del Golfo. Non glielo possiamo permettere. Come abbiamo ripristinato le relazioni con l’Egitto in futuro possiamo fare la stessa cosa anche con la Siria».

Proprio in quei giorni l’agenzia di notizia internazionale Associated Press pubblicava un articolo in cui sosteneva che Erdogan avesse mandato una lettera ad Assad invitando l’esercito siriano di riprendere in mano le zone liberate delle Ypg-Ypj e chiedeva a Damasco di collaborare per il rimpatrio dei siriani presenti in Turchia, ormai circa 4 milioni.
Pochi giorni dopo, il 15 dicembre, sempre lo stesso Erdoğan, sull’aereo, al rientro dal Turkmenistan ha deciso di concretizzare la sua proposta, parlando con i giornalisti a bordo:

«Vorremmo fare un incontro a tre con la Russia e la Siria. Prima si impegneranno i servizi segreti e poi i Ministri di Sicurezza Nazionale. Dopo questi potrebbero incontrare anche i leader. Ne ho parlato con il Presidente Putin anche lui è d’accordo. Così possiamo iniziare a una serie di incontri».

Mentre Mosca accoglieva con piacere questa proposta, dalla Siria arrivavano le prime dichiarazioni scettiche: Pierre Marjane, parlamentare siriano responsabile delle Relazioni esteri del parlamento, il 29 novembre rilasciava queste dichiarazioni a un giornale in Turchia, “Kisa Dalga”:

«Potremmo dialogare con la Turchia tuttavia deve ammettere che ha finanziato e addestrato le forze armate terroriste e le ha fatte entrare in Siria. Poi deve dichiarare che è pronta a ritirarsi dalla Siria».

Ovvero: lo stato dell’arte

Infatti – secondo una serie di osservatori internazionali, alcuni governi stranieri e una serie di giornalisti che lavorano in Turchia – l’attuale governo ha sostenuto direttamente oppure indirettamente alcune organizzazioni terroristiche fondamentaliste che hanno agito in questi anni in Siria. Questo punto ovviamente ha causato sempre le reazioni dure di Damasco: a oggi la Turchia risulta presente militarmente sul territorio siriano in modo massiccio, tanto che solo nel 2021 il numero di truppe impegnate contava più di 10.000 soldati.

Tra le parole pronunciate da Marjane si vede anche un riferimento all’Accordo di Adana firmato nel 1998. Secondo il parlamentare siriano sarebbe necessario prenderlo in mano e applicarlo. In realtà si tratta di una premessa ch’era stata fatta negli incontri di Astana nel 2019 tra Mosca e Ankara. Dunque oggi la situazione in cui ci troviamo ci fa capire che, a grandi linee, l’intenzione sia di tornare alle condizioni del 2010: prima delle rivolte arabe.

“Erdoğan esagerato: un dittatore rilancia sempre nuove pretese”.

Come mai?

Le risposte sono tante. Potremmo studiare questa sezione concentrandoci sulle motivazioni legate alla politica interna ma anche estera.

Elezioni del 2023

Se guardiamo la politica interna senz’altro la profonda crisi economica che strozza la Turchia rappresenta un problema per Ankara soprattutto alla luce delle elezioni del 2023. L’inflazione alle stelle, la fuga dei giovani, le opposizioni sempre più compatte e il caro vita ogni giorno fa perdere punti a Erdogan nei sondaggi.
Le spese militari in Siria forse per Ankara risultano ormai difficilmente sostenibili e un rapporto commerciale (soprattutto petrolio) regolare con il vicino confinante per più di 900 km potrebbero essere una soluzione.

I rifugiati in ostaggio

Ovviamente la presenza di circa 4 milioni di siriani in Turchia rappresenta un problema per Ankara. Una popolazione in parte proveniente dalle zone, come Afrin, colpite dalla Turchia in questi ultimi anni e “ripulite” delle sue popolazioni curdofone. Un esercito privo di diritti, di persone ricattabili e sfruttate rappresenta il nuovo proletariato a basso salario messo in concorrenza con la mano d’opera locale. Mentre questa contrapposizione può far piacere agli industriali, ma non è gradita ai cittadini che devono fare i conti con la profonda crisi economica. Quindi l’eventuale rimpatrio graduale di queste persone è necessario per Ankara in particolare per riprendere quell’emorragia di voti che defluisce verso quei partiti che da tempo sostengono che “i siriani se ne devono andare”.


Si tratta di un progetto che in prima persona Erdoğan promuove ormai da circa 4 anni:

«Una zona cuscinetto nel nord della Siria, lunga 480 chilometri e profonda 30,  dove sarebbero collocati circa 2 milioni di siriani».

In diversi interventi pubblici e televisivi Erdoğan raccontava il suo progetto di costruire nuove cittadelle in questa zona e collocarci principalmente le persone arabofone. Per fare tutto questo è ormai necessario accettare che a Damasco c’è un interlocutore e parlare con questo anche perché il progetto di Erdogan in questi anni non ha ricevuto riconoscimento né dalla Russia né dalla Nato.

Al posto di Ypg-Ypj: dialogo tra autocrati

Invece nella politica estera molto conta la presenza della Russia in Siria che potrebbe diventare debole, se la guerra in Ucraina non si concludesse a breve. Dunque per Ankara iniziare a costruire ponti con Damasco attraverso un canale di dialogo diretto senza l’ausilio di Mosca potrebbe essere un investimento per quel giorno in futuro quanto Putin deciderà di lasciare definitivamente la Siria. Nel fare questo ovviamente Ankara avrebbe un piatto pronto per Damasco ossia le zone che controlla in Rojava, “bonificate” dalle Ypg-Ypj, che potrebbero essere consegnate a Damasco [come sancirebbero le indiscrezioni di “al-Watan”]. Inoltre ovviamente Ankara vuole mettere le mani avanti per evitare ciò che è successo in Iraq quando si è “conclusa” l’invasione statunitense ossia la nascita di un Kurdistan. Il regime al potere in Turchia senz’altro non ha voglia di avere una zona federale curda che si comporti in modo diverso rispetto a quella irachena che collabora senza problemi con Ankara. Quindi per Ankara ovviamente è meglio avere il governo centrale siriano al di là del confine al posto dei “terroristi”. In quest’ottica spolverare l’Accordo di Adana, che promette una reciproca collaborazione nella lotta contro il “terrorismo” ha molto senso.

Dalla parte della Nato

Sempre bazzicando affari geopolitici il ripristino dei rapporti con Damasco potrebbe fornire ad Ankara come una mossa apprezzata da parte della famiglia della Nato, dato che sarebbe l’unico paese del “club” a dialogare direttamente con Assad. Dunque Erdoğan risulterebbe ancora un importante e irrinunciabile interlocutore. Alla luce delle elezioni generali del 2023 per Erdoğan questo potrebbe dire portare a casa una vittoria importante in termini di credibilità internazionale.

Ma contemporaneamente sarebbe anche una mossa che renderebbe “indipendente” e “privilegiata” la Turchia. Erdoğan potrebbe usare questa novità come un elemento di forza o un ricatto contro i suoi alleati (come ha fatto per contrastare le reazioni ogni volta che ha invaso il Rojava), visto che il suo rapporto con gli alleati è sempre più precario. Le relazioni tra Ankara e Nato sono diventate deboli in questi anni anche perché la scelta di sostenere politicamente e militarmente le Ypg-Ypj è stata definita come un “tradimento” per Ankara dato che queste sigle per il regime in Turchia sarebbero le cugine dei “terroristi”.
Inoltre anche la nascita dell’Esercito Democratico Siriano (Sdf) con il sostegno degli Usa ha creato preoccupazione ad Ankara che temeva la nascita di un esercito curdo in zona. Dunque le scelte radicalmente diverse per quel che concerne la Siria si fondano tuttora sulla grande amarezza derivante dalla tensione che esiste tra Ankara e il resto della Nato. Quindi la manovra di Ankara (per consolidare i rapporti con Damasco) potrebbe fare sì che Erdoğan continui ad agire in Siria con l’intento di creare nuove strategie indipendentemente dalla Nato.

Stuccare vicendevolmente le crepe, perpetuando i relativi poteri

Il 28 dicembre Hulusi Akar, il ministro della Difesa Nazionale, e il capo dei Servizi segreti Hakan Fidan, sono partiti da Ankara per Mosca per incontrare i loro colleghi siriani. L’incontro avvenuto dopo 11 anni di gelo nelle relazioni è stato produttivo secondo Akar: avrebbero parlato della questione dei rifugiati, della lotta contro il “terrorismo”, della difesa dell’integrità territoriale della Siria e dell’espulsione delle forze straniere dal territorio.

Ripristinare i rapporti con la Siria per Ankara ha questi valori. Invece per Damasco ha qualche importanza in più. Nel caso in cui si potesse avviare il progetto congiunto di eliminare il Confederalismo democratico in Rojava e le sue forze (Sdf, Ypg-Ypj) per Damasco significherebbe riprendersi quel quarto del suo territorio occupato e controllare una grande fonte di petrolio e gas che attualmente si trova sotto il controllo di queste forze armate e degli Usa.

Inoltre, per Assad, ripristinare i rapporti con Ankara vuol dire far accettare la sua presenza al potere e archiviare le possibili proposte legate all’abbandono del potere. In quest’ottica per Damasco accettare la proposta di Erdoğan potrebbe sembrare il conferimento di una sorta di vittoria che potrebbe usare nella campagna elettorale del 2023; ma contemporaneamente Assad avrebbe immediatamente un interlocutore già al potere con il quale interloquire senza discutere di tutti i crimini contro il suo popolo da lui commessi durante questa guerra lunga 11 anni. In realtà la situazione rientrerebbe all’interno delle scelte che sta facendo Ankara ultimamente, ossia: il consolidamento dei rapporti direttamente con i leader dei paesi controllati dai regimi o dalle famiglie come l’Arabia Saudita, il Qatar, l’Egitto e gli Emirati Arabi.

Sostanzialmente: due regimi potrebbero trovare un accordo su una serie di temi senza avere “il peso” della giustizia e della democrazia.

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Il ruolino di marcia di un sistema basato sull’escalation bellica https://ogzero.org/il-ruolino-di-marcia-di-un-sistema-basato-sullescalation-bellica/ Fri, 23 Dec 2022 15:58:01 +0000 https://ogzero.org/?p=9888 La messinscena delle prime mosse per un negoziato Consumati un po’ di arsenali, uccise 250.000 persone tra civili e militari nella pianura sarmata, misurate alleanze e potenzialità di imporre la propria supremazia, sembra che 3 incontri contemporanei lancino segnali precisi alle cancellerie internazionali: Zelensky con il cappello in mano a Washington, Putin a organizzare le […]

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La messinscena delle prime mosse per un negoziato

Consumati un po’ di arsenali, uccise 250.000 persone tra civili e militari nella pianura sarmata, misurate alleanze e potenzialità di imporre la propria supremazia, sembra che 3 incontri contemporanei lancino segnali precisi alle cancellerie internazionali: Zelensky con il cappello in mano a Washington, Putin a organizzare le truppe a Minsk, Medvedev a ricevere ordini a Pechino. Bisogna trovare una nuova area dove proseguire la guerra ibrida mondiale con lo scopo di misurarsi in preparazione del redde rationem.

Come si è arrivati qui

Si sono definitivamente composti in un unico giorno (il primo del gelido inverno nella steppa di famose ritirate della Storia) gli schieramenti e i ruoli dei singoli in questa che, come si era capito dal 24 febbraio, era la prima fase di una lunghissima guerra ibrida tra potenze – intrecciate dalla medesima ideologia neoliberista che impone complicati legami – da combattere sulla estesa scacchiera globale, con interessi ed economie dipendenti l’una dall’altra, ma a un punto di rottura dato dall’impressione di essere equiparabili e dunque entrambe le fazioni ritengono di potersi candidare al controllo globale come potenza di riferimento: gli Usa a difendere la propria supremazia, le potenze non democratiche a proporre il loro modello di sviluppo – comunque all’interno della visione capitalista del mondo.

La disposizione sul palcoscenico

E allora si usano media e incontri per marcare il territorio in vista della lenta composizione della disputa. Localmente: Biden prepara il terreno a un nuovo piano Marshall da aggiungere agli 85 miliardi già erogati per ricostruire e “mangiarsi” l’Ucraina come gli Usa hanno iniziato a fare dal 2014 di Maidan, quando Kiev era un satellite di Mosca (ha cominciato a parlarne “Fortune” già il 7 dicembre).
Intanto i russi attivano anche Lukašenka per annettersi quanto più territorio possibile e fare da cuscinetto al confine con la Nato, arrivando alle trattative con il massimo risultato possibile («La Russia fornisce alla Belarus’ petrolio e gas a condizioni molto favorevoli e preferenziali», ha commentato Interfax a proposito della visita a Minsk, ma come fa notare “ValigiaBlu“, Putin ha dichiarato che avevano concordato di «dare priorità all’addestramento delle nostre truppe… ci forniremo reciprocamente le armi necessarie e produrremo insieme nuovo materiale militare… per l’eventuale uso di munizioni aviotrasportate con una testata speciale») e arrivando gradualmente all’annessione della Bielorussia. Ognuno potrà investire in piani di ricostruzione che faranno girare denaro utile per una nuova spirale virtuosa economico-finanziaria.
Globalmente la Cina si schiera, schermendosi – probabilmente anche per partecipare agli appalti – e senza impegnarsi direttamente in questa Prima guerra del confronto del mondo contro la Nato (che Trump aveva azzerato e Biden resuscitato, investendo una quantità di miliardi inimmaginabile), detentrice di una primazia in parte erosa dal multilateralismo di forze intermedie pronte a schierarsi in modo autonomo volta per volta, come la Turchia – appartenente alla Nato! – o l’India (due specchiati esempi di democratura), o anche i paesi del Golfo sempre più impegnati in attività di maquillage, ma anche di autonomizzazione dallo schieramento filoamericano.

«Servitor vostro»

Medvedev non è omologo di Xi, ma può ricevere indicazioni che tutte le diplomazie interpretano come invito a ritornare a una situazione in cui si possano scambiare merci con minori sanzioni o dazi; la guerra si deve spostare su altri piani, in modo che la Cina possa acquisire ulteriori avanzamenti; per uscire dalla sindrome del Giappone targata 1990 – incapace di progredire con lo stesso ritmo e quindi imploso nella sua scalata al cielo. Esistono altre potenze indopacifiche che stanno crescendo d’importanza e infatti si rinnovano i periodici scontri alla frontiera himalayana con l’India.

Lukashenka non è omologo di Putin, ma si adatta bene al ruolo di subordinato nella alleanza militare – utile per mostrare quel che resta dei muscoli di Mosca per arrivare a un primo negoziato che chiuda il contenzioso in quell’area, in attesa che si sposti altrove (e si stanno ammassando armi attorno all’Iran). Intanto è utile mostrare che almeno sulla Bielorussia il Cremlino può ancora contare ed è l’area che in questo momento è geograficamente fondamentale controllare e dove accumulare minacciosi missili logistici e strumenti ipersonici.

Zelensky non è omologo di Biden, ma è il terzo fantoccio (dagli occhi umani, non come quelli da killer come Putin nei folkloristici ritratti di Biden, fintamente gaffeur) che serve ai tre potenti della terra per lanciare messaggi agli altri due. Zelenski va a prendere gli spiccioli, oltre ai Patriot da schierare contro le dotazioni nucleari collocate contemporaneamente alla frontiera bielorussa dall’esercito russo, sapendo che poi arriveranno i soldi per la ricostruzione. E rilancia le richieste nel monologo al parlamento, mancava solo un elenco alla Leporello (ma questa volta come lista della spesa); dei tre incontri quello davvero mediatico e diffuso su ogni media è il kolossal americano, dove anche i dettagli come gli abiti indossati dai due protagonisti sono funzionali a lanciare messaggi precisi e assegnare ruoli. Zelensky è il buffone di corte in ogni senso, comprendendo pure la facoltà di asserire verità scomode, ovviamente a maggior lustro del monarca e Biden non è re Lear infatti Zelensky non ha mai la medesima statura, non solo fisicamente.

Uno schema bellico inesorabile

La concomitanza dei tre eventi non si configura come complotto globale di un’oligarchia che interpreta in modi diversi il neoliberismo e che quindi trova contrapposti gli interessi delle potenze che si misurano per spartire aree di influenza e ruoli in concorrenza e individuano volta per volta territori che si prestino al confronto perché si tratta di aree di crisi incancrenite (da anni si assisteva alle provocazioni sulle pipeline ucraine; il conflitto in Nagorno Karabakh da decenni volutamente irrisolto e costantemente rinfocolato dai vincitori; come quello del Kosovo, dove sta montando da un paio di mesi la tensione che cova dalla “fine” della guerra di Clinton tra opposti nazionalismi, coccolati apposta dai rispettivi riferimenti…); oppure nuovi protagonisti molto potenti e militarmente approvvigionati e minacciosi come le petropotenze emergenti che usano vetrine diverse – per ora strategicamente collegate con una facciata culturale (il marchio Louvre nel deserto in cambio dell’acquisto di Rafele e altre connessioni vantaggiose per Parigi), velata da megaeventi sportivi (il mondiale di football invernale, imposto a suon di corruzione e interpretando in modo ancora diverso il verbo unico capitalista) e che hanno una concezione del sistema socio-politico ancora più oligarchico e fondato sull’oppressione e la cancellazione della maggior parte dei diritti civili, usando la tradizione come collante per i poteri forti interni.

Automatismi di un ruolino di marcia bellico

Piuttosto che un accordo per svolgere ciascuno un ruolo in commedia distribuito da una regia collettiva (una pièce complottista), si può concepire questo snodo epocale come il processo innescato che non può non passare attraverso tappe inevitabili costituite da molteplici guerre. Quei conflitti che, finché non hanno coinvolto equilibri europei, erano rimasti nella percezione occidentale a bassa intensità, mentre ora si manifestano con distruzioni di arsenali e migliaia di vittime civili anche in Europa, non più solo nel Sud del mondo, dove si sparge il sale sulle ferite non rimarginate mai, per suppurare periodicamente e far esplodere furiosi combattimenti utili per sostituire localmente il predatore di turno: infatti Biden è stato spinto a finanziare potentemente il continente africano per tentare di contrastare la penetrazione di Cina, Turchia e Russia, proprio mentre non è ancora del tutto sopita la guerra in Tigray ed esplode un nuovo focolaio nel Sud dell’Etiopia per l’insorgenza dell’Oromia.

Un’ipotesi che si può avanzare sulla base delle prime mosse di incontri diplomatici ad alto livello tra non omologhi, che usano gli incontri per dettare la politica delle macrofazioni e assistere alla conseguente disposizione delle alleanze, è che si cerchi ora di comporre molto lentamente la questione ucraina, lasciandola però accuratamente non del tutto risolta; contemporaneamente preparando nuovi conflitti in aree significative per il confronto tra le maxipotenze, che possano montare ben più che per una proxy war, a impattare su una nuova emergenza (energetica, lievitando prezzi per fibrillazioni borsiste? religiosa, per induzione jihadista?…) e poi confrontarsi in un nuovo scacchiere (Taiwan?) più vicino al confronto diretto e risolutivo.

Il senso del capitalismo per la guerra

Dunque fa tutto parte della vera Guerra tra Usa e Cina, che non finirà se non trovando un’uscita dal sistema capitalistico, motore mobile che necessita e si alimenta di quel costante conflitto, perché il capitalismo ha bisogno sempre di incrementare il profitto, triturandovi tutto: industria del divertimento, alimentare, consumo di beni… industria bellica.

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Mosaico etiope: a Nord guerra, a Sud referendum autonomista https://ogzero.org/mosaico-etiope-a-nord-guerra-a-sud-referendum-autonomista/ Mon, 19 Dec 2022 00:48:32 +0000 https://ogzero.org/?p=9822 Decenni di lotte postcoloniali hanno portato il Corno d’Africa e in particolare l’Etiopia alla condizione attuale di frammentazione di etnie, divergenze di interessi, rivendicazioni di territori e… autonomia. Appunto: a questo snodo si finisce con l’arrivare laddove si innescano guerre sanguinosissime, cambi al vertice di Addis Abeba con il ridimensionamento tigrino all’avvento di Abiy Ahmed […]

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Decenni di lotte postcoloniali hanno portato il Corno d’Africa e in particolare l’Etiopia alla condizione attuale di frammentazione di etnie, divergenze di interessi, rivendicazioni di territori e… autonomia. Appunto: a questo snodo si finisce con l’arrivare laddove si innescano guerre sanguinosissime, cambi al vertice di Addis Abeba con il ridimensionamento tigrino all’avvento di Abiy Ahmed che ha condotto alla guerra scatenata dal premio Nobel per la Pace appoggiato dal despota eritreo Afewerki, da sempre avversario del confinante Tigray; il risultato è stato un conflitto feroce di tutti contro tutti. Le alleanze e le divisioni tra comunità di ceppi diversi od omologhi hanno esacerbato ulteriormente una condizione che era negativamente fluida già quando cercammo di farne il punto all’inizio del conflitto. Per arrivare ai preoccupati interventi su Radio Blackout di Palamidessa.
Ora Gianni Sartori allarga un po’ il grandangolo e dunque vengono comprese anche le comunità del Sud dell’Etiopia, scoperchiando il vaso delle rivendicazioni di autonomia che cominceranno a sfociare in referendum nei primi mesi del 2023, quando il governo centrale vedrà di rafforzare il federalismo; peccato che le spinte centrifughe si moltiplicano anche a Ovest del paese…


A quanto pare in Etiopia va rinforzandosi il federalismo e si opera per il superamento di antichi conflitti etnici attraverso una maggiore autonomia di ciascun gruppo. Soluzione forse inevitabile in un paese costituito da un mosaico di etnie conviventi con quelle dei tre gruppi principali (amhara, oromo e sidama).

Abyi Ahmed

Un primo segnale era giunto nel 2018 con la nomina a primo ministro di Abiy Ahmed di origini miste oromo-amhara e per questo inizialmente ben accetto da entrambi i gruppi etnici (anche se poi gli Oromo lo hanno accusato di “tradimento”).
Abiy Ahmed aveva intrapreso alcune riforme a favore delle storiche rivendicazioni identitarie e territoriali della frammentazione di etnie (in parte conseguenza di non opportune precedenti divisioni amministrative) rimaste irrisolte.

Eterna stagione referendaria

Gli ultimi referendum di questo genere erano stati quelli del 20 novembre 2019 e del 23 novembre 2021 (“Nigrizia”). Avevano rispettivamente sancito la nascita di due nuovi stati federali, Sidama (dove il 99,7% per cento degli aventi diritto si era recato alle urne e il 98,5% aveva votato per l’autonomia) e South West. Separandosi entrambi dal Snnrr (Stato regionale delle nazioni, nazionalità e popoli del sud) già teatro di scontri e conflitti etnici.

Ultima tappa della frammentazione di etnie

Previsto per il 6 febbraio 2023, il nuovo referendum si terrà nella prospettiva della creazione di un dodicesimo stato regionale. Dovrebbe svolgersi in sei zone amministrative (Wolayita, Gamo, Gofa, South Omo, Gedeo e Konso) e cinque distretti speciali (Amaro, Burji, Basketo, Derashe e Alle). Attualmente integrati nel Snnpr.

Federalismo etnico

Risale al 1995 la Costituzione basata sul “federalismo etnico” che formalmente garantiva una relativa autonomia agli oltre 80 ceppi della frammentazione di etnie che comporrebbe il  paese (uno dei più popolati dell’Africa con quasi 120 milioni di abitanti). Possibilità non sempre adeguatamente accolta dagli interessati o rispettata dai governi.
Si consideri a titolo di esempio il conflitto armato nel Nord del paese tra il governo centrale e l’Eprdf, la coalizione guidata dal Fronte di liberazione popolare del Tigray (Tplf).
Anche recentemente, in settembre, si era nuovamente interrotta la tregua durata alcuni mesi nella prospettiva di una adeguata soluzione politica.

“Il genocidio atroce e diffuso nel Corno d’Africa” è un’intervento di Matteo Palamidessa trasmesso su Radio Blackout il 1° ottobre 2022.

Altri conflitti ricorrenti sono quello con l’Esercito di liberazione Oromo e la ribellione del Benishangul (Ovest dell’Etiopia).

Ribellismo e milizie

Ma i problemi dell’Etiopia non riguardano soltanto le questioni etniche. Altre emergenze coinvolgono trasversalmente ogni regione del paese, in particolare le ultime generazioni. Con il 70 per cento della popolazione sotto ai 35 anni (in buona parte disoccupata, emarginata nonostante il notevole incremento della scolarizzazione), manifestazioni, scioperi, rivolte e disordini sono fenomeni ricorrenti (e in genere repressi duramente).

Ma contemporaneamente al contenimento del ribellismo, i governi hanno sviluppato un altro modo per controllare, incanalare le istanze della gioventù etiope: quello di integrarli in formazioni giovanili strutturate su base regionale. Come i Fano per gli Amhara (una delle più consistenti numericamente e ben armata, talora qualificati come “vigilantes”) e i Qerro (sinonimo di “scapoli”, molti legati al sistema tradizionale di autogoverno, democratico e inclusivo) per gli Oromo. In passato alleati dei Fano, erano poi sorti contrasti a causa dell’ideologia panetiopica, egemonica e antifederale, caratteristica degli Amhara.
Consistenti numericamente anche altre organizzazioni giovanili come gli Yelega in Wolayta, gli Ejeetto Sidamo…a cui si sono aggiunti Nebro, Zarma, Aeigo, Dhhaaldiim.

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Chi specula sulla questione Saharawi? https://ogzero.org/progressiva-annessione-del-sahara-occidentale/ Sat, 17 Dec 2022 22:08:28 +0000 https://ogzero.org/?p=9799 La diplomazia di Rabat nell’ultimo anno ha ottenuto risultati importanti in vista della progressiva annessione del Sahara Occidentale, anche grazie ai ritorni derivanti dalla guerra in Ukraina: il ricatto nei confronti della Spagna sulla concessione riguardo al passaggio di oleodotti ha drasticamente azzerato la simpatia tra la Spagna e il Saharawi, vista la fame di […]

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La diplomazia di Rabat nell’ultimo anno ha ottenuto risultati importanti in vista della progressiva annessione del Sahara Occidentale, anche grazie ai ritorni derivanti dalla guerra in Ukraina: il ricatto nei confronti della Spagna sulla concessione riguardo al passaggio di oleodotti ha drasticamente azzerato la simpatia tra la Spagna e il Saharawi, vista la fame di gas di Madrid; ma aveva cominciato a ottenere risultati già con la presidenza Trump che ne aveva riconosciuto le pretese di controllo sull’ex Sahara spagnolo, in cambio degli Accordi di Abraham con Israele, che sancivano solamente una collaborazione ormai annosa soprattutto sul piano militare (infatti si sono viste sventolare bandiere palestinesi e algerine dopo la sconfitta dei “Leoni” in semifinale dei mondiali di football a Doha – nonostante l’eliminazione provenisse per mano dell’odiata potenza francese).

Il risultato ai mondiali qatarini è comunque spendibile dal regime per una nuova autorevolezza nel mondo arabo, spostando a ovest gli equilibri disputati con i sauditi; il fatto che sia stato relegato nei giochi della Fifa al quarto posto allargando a orologeria anche al Marocco lo scandalo della corruzione riuscita con il lobbismo dei commissari socialisti europei non può che giocare a favore di Rabat, perché colloca il Marocco tra le nazioni che si accreditano per un lavoro di “convincimento” credibile (e può anche richiamarsi a una sorta di discriminazione dell’ultimo paese africano in lizza).
Per questo ci sembra opportuno rendere pubblico l’articolo di Gianni Sartori che vi proponiamo a poche ore dalla sconfitta della nazionale marocchina nella disputa per il terzo posto con una Croazia, che contemporaneamente rifiuta l’accoglienza a soldati ucraini da addestrare in ambito Nato (“Le Parisien”), temendo di farsi coinvolgere nel conflitto.

OGzero


Corruttori ed eurocorrotti

Stando alle notizie riportate da“Le Soir”, da “Knack” e da “il manifesto”, l’ex deputato europeo Panzeri a Strasburgo si sarebbe occupato soprattutto di “diritti umani e del Maghreb”. Oltre ad aver fondato nel 2019 una ong (Fight Impunity), avrebbe intrattenuto rapporti amichevoli con l’esponente marocchino Abderrahim Atmoun (dal 2019 ambasciatore in Polonia).

Sempre nel 2019, Panzeri figurava tra gli oltre 400 deputati europei che avevano votato a favore di un accordo di pesca che interessava anche le coste del Sahara Occidentale. A tutto vantaggio di Rabat, ma naturalmente senza il consenso del popolo saharawi e del Fronte Polisario. Va sottolineato che questo mare molto pescoso è una delle due principali risorse (l’altra è rappresentata dai fosfati) in grado di garantire la futura sopravvivenza della popolazione saharawi e della Rasd.
Fortunatamente tale accordo iniquo venne poi annullato (ma solo nel 2021) dalla Corte di Giustizia europea in quanto

«sancirebbe il diritto di sfruttamento di uno stato occupante in un territorio riconosciuto internazionalmente come “non autonomo”».

Congiurati socialisti in combutta con Mohammed VI contro il Polisario

Annessione del Sahara Occidentale camuffata

Pressanti le ricorrenti richieste di Rabat all’Unione europea di allinearsi con le posizioni di Washington (nel 2020 con Trump) che di fatto sottoscrivevano quelle marocchine in merito a una non meglio definita (ma comunque limitata) “autonomia del Sahara Occidentale all’interno dei confini del regno del Marocco” – in pratica l’ufficializzazione dell’annessione del Sahara Occidentale.
La proposta risaliva all’aprile 2007: presentata dal Marocco come una

«risposta alle richieste del Consiglio di Sicurezza alle parti per porre fine alla situazione di stallo politico» e rivolta direttamente al Segretario Generale, venne descritta come «l’iniziativa marocchina di negoziazione di uno status d’autonomia per la regione del Sahara».

Scontato che ai saharawi apparisse come una mossa propedeutica alla completa assimilazione.

Recentemente tale prospettiva sembra aver raccolto il favore sia del governo madrileno, sia di alcuni ex esponenti del Polisario, dissidenti nei confronti del Fronte (ma non per questo collaborazionisti del Marocco).

Il dovere della memoria come garanzia della non ripetizione

Sul ruolo sempre più “conciliante” (eufemismo) assunto da Madrid nei confronti di Rabat, era intervenuto Luis Portillo Pasqual del Riquelme (“Etnie”).

Per il docente di scienze economiche alla madrilena Università Complutense, il leader socialista Pedro Sánchez avrebbe «ceduto vergognosamente alle richieste di Mohamed VI perpetrando un secondo tradimento del popolo saharawi». Anzi, aggiungeva, «stando ai miei calcoli addirittura il terzo» (il secondo sarebbe quello operato da Felipe Gonzalez, precedente leader socialista, che già nel 2008 Luis Portillo stigmatizzava su “Rebellion”, sottolineando il lobbismo spinto di Rabat).
L’illustre accademico ricordava come Félix Bolaños, ministro della Presidenza, Relazioni con le Cortes e Memoria Democratica, aveva affermato nel suo intervento che

«la memoria è un diritto, un diritto della cittadinanza e soprattutto un diritto delle vittime».

In sintesi: “Il dovere della memoria come garanzia della non ripetizione”. In riferimento soprattutto alle violazioni dei diritti umani e del diritto dei popoli perpetrate dal franchismo, una questione con cui la Spagna non aveva fatto i conti a momento debito.

Ma questa legge, continuava Bolaños, per quanto riguardava la questione del Sahara Occidentale e del popolo saharawi risultava quantomeno “insoddisfacente”. Nonostante costituisse l’estrema colpa dell’ultimo governo della dittatura fascista.

 

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Da qui il coltan… https://ogzero.org/da-qui-il-coltan/ Fri, 09 Dec 2022 23:45:12 +0000 https://ogzero.org/?p=9746 Bagatelle contrastanti per un massacro Soltanto venti giorni fa, in occasione del 18° vertice della francofonia (Oif, in rappresentanza di una novantina di stati) nell’isola tunisina di Djerba, Louise Mushikiwabo (ministro degli Esteri ruandese dal 2009 al 2018 e segretaria generale dell’Oif, appena rieletta per i prossimi quattro anni) lanciava accuse – se non proprio […]

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Bagatelle contrastanti per un massacro

Soltanto venti giorni fa, in occasione del 18° vertice della francofonia (Oif, in rappresentanza di una novantina di stati) nell’isola tunisina di Djerba, Louise Mushikiwabo (ministro degli Esteri ruandese dal 2009 al 2018 e segretaria generale dell’Oif, appena rieletta per i prossimi quattro anni) lanciava accuse – se non proprio del tutto infondate, perlomeno non documentate – secondo cui ci sarebbero «elementi nella Repubblica democratica del Congo, proprio alla frontiera con il Ruanda, che sono una minaccia per la sicurezza del mio paese».
Quando in realtà – stando ai rapporti onusiani – quello che sta avvenendo sarebbe esattamente il contrario. Basti pensare al sostegno anche di natura militare dato dal governo di Kigali (e dal presidente Kagame di etnia tutsi, quella che subì il genocidio del 1994) al movimento M23 che imperversa nel Nord Kivu, una regione nell’Est della Repubblica democratica del Congo da dove sono fuggiti centinaia di migliaia di sfollati (e dove, ricordo, sono stati assassinati l’ambasciatore Luca Attanasio, l’autista Mustapha Milambo e il carabiniere Vito Iacovacci).

Erano passati soltanto alcuni giorni quando, il 29 novembre, veniva attaccata la città di Kishishe (circa 70 chilometri da Goma, la capitale del Nord Kivu). Se inizialmente si parlava di una cinquantina di vittime, via via che le indagini proseguivano si arrivava alla cifra terribile di oltre 270 civili uccisi (tra cui diversi bambini).
Stando alle fonti ufficiali, il governo e le forze armate congolesi, la responsabilità dell’attacco cruento sarebbe del Movimento 23 marzo (l’M23 però, da parte sua, smentisce). Nella generale costernazione del paese, il presidente della Rdc, Félix Tshisekedi, aveva indetto tre giorni di lutto nazionale.
Significativo che tale strage sia avvenuta (come una provocazione per sabotare gli accordi se non di pace, almeno di non belligeranza attiva) a soli cinque giorni dall’ultima dichiarazione di cessate il fuoco. Anche se, forse inopportunamente, M23 (inattivo dal 2013 al 2021) era rimasto escluso dalle trattative del vertice dei Grandi Laghi (fine di novembre) che si erano svolte a Luanda.
Invitato invece Paul Kagame, pur facendosi sostituire da Biruta, suo ministro degli Esteri.

Milioni al Ruanda… per pagare cosa?

Lotta al terrorismo?

Intanto, dando prova di scarso tempismo, l’Unione Europea approvava il 1° dicembre un ulteriore stanziamento (circa 20 milioni di dollari) per l’esercito ruandese. Ufficialmente per rafforzare la lotta al terrorismo in Mozambico (regione di Cabo Delgado), ma alcuni osservatori non escludono che in parte tali finanziamenti vengano dirottati ad alimentare il conflitto nel Nord Kivu.
Recentemente la politica di Kagame nei confronti del Congo Kinshasa è stata messa in discussione proprio da uno dei principali sostenitori del governo di Kigali. Il segretario di stato statunitense Antony Blinken ha chiesto infatti a Kagame di non sostenere più M23 e di promuovere concretamente “pace e stabilità”.
Critiche che non sarebbero state ben accolte dal presidente del Ruanda.

Soldo per milizie predatrici?

Quanto a M23, sarebbe costituito soprattutto da miliziani ed ex insorti di etnia tutsi (ma spesso di nazionalità congolese) che in parte erano stati integrati nell’esercito congolese. Il tentativo di smantellare le unità formate appunto da tali ex ribelli (o di trasferirli in altre regioni della Rdc) aveva provocato la loro ribellione.
Attualmente chiedono l’amnistia e la possibilità di rientrare dai campi profughi del Ruanda e dell’Uganda per i rifugiati tutsi di nazionalità congolese. Senza escludere la possibilità di essere reintegrati nell’esercito congolese in modo da poter esercitare un maggiore controllo su traffici e commerci nel Nord Kivu. Per esempio quello del cobalto, nella cui estrazione, su un totale di 300.000 minatori, sono coinvolti almeno 35.000 bambini ridotti in schiavitù. Oppure dell’altrettanto famigerato coltan che ugualmente si estrae a mani nude con danni irreparabili per la salute dei giovanissimi minatori. Per non parlare degli abusi sessuali di cui sono vittime.

Subappalti?

Da qui il coltan, attraverso una catena commerciale gestita da bande, milizie e mercenari di varia etnia ed estrazione (a cui le compagnie subappaltano il lavoro sporco), arriva in Ruanda e Uganda. Per essere acquistato dalle compagnie che si occuperanno dell’export, eventualmente della raffinazione. Destinazione finale: le multinazionali in Germania, Usa, Cina…

Di questa crisi avevamo parlato con Massimo Zaurrini a metà novembre, immaginando già scenari apocalittici verso cui ci stiamo avviando, visti gli interessi di tutte le comparse coinvolte: il gigante congolese incapace di controllo, gli esportatori di terre rare ruandesi e ugandesi (senza estrarne, ma controllando), militari di frapposizione (kenioti); le potenze occidentali, interessate a calmierare i prezzi con la schiavitù giovanile…:

“Rischio di Terza guerra mondiale africana dei Grandi Laghi?”.

to be continued

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n. 22 – Il nuovo patto europeo sulla migrazione e l’asilo (I). Respingimenti, Sar, esternalizzazioni https://ogzero.org/il-nuovo-patto-europeo-sulla-migrazione-e-lasilo/ Mon, 14 Nov 2022 10:05:54 +0000 https://ogzero.org/?p=9459 L’ipocrisia europea evita di dare indicazioni precise e umanitarie, lasciando ai singoli stati la manipolazione dell’opinione pubblica più retriva e identitaria; e così i politici fanno, usando a scopo interno episodi singoli per dimostrazioni muscolari con l’ossessione per la presenza delle ong (il 12 per cento dei salvati provengono dalle loro imbarcazioni, ma sono soprattuto […]

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L’ipocrisia europea evita di dare indicazioni precise e umanitarie, lasciando ai singoli stati la manipolazione dell’opinione pubblica più retriva e identitaria; e così i politici fanno, usando a scopo interno episodi singoli per dimostrazioni muscolari con l’ossessione per la presenza delle ong (il 12 per cento dei salvati provengono dalle loro imbarcazioni, ma sono soprattuto un occhio su quello che avviene nel Mediterraneo), sia facendo leva sulla ferocia innata nella propria fazione di radice fascistoide, sia intervenendo internazionalmente per isolare la nazione rivale, restituendo però un modello che non si discosta molto per grado di accoglienza, per non esporre il fianco ai razzisti interni. I paesi già distintisi per la propensione ad adottare norme draconiane per rastrellare voti esasperati – quelli  esposti agli sbarchi (Cipro, Grecia, Malta e sovranisti italiani) – aggirano il diritto e spingono per creare hotspot (Lager); in Libia Minniti fu il primo, ora Piantedosi in Tunisia, con l’idea di creare un fortilizio contro i disperati resi tali dal neoliberismo, dalle politiche predatorie europee ed estrattiviste, da carestie nate dal cambiamento climatico provocato dall’Occidentalismo. Il governo di estrema destra italiano storna fondi della cooperazione per potenziare il controllo delle frontiere (tanto Shengen è sospeso da 9 anni). Addirittura in questi giorni l’abitudine allo squallore ha permesso l’impunità per un ministro che ha parlato di carico residuo, depositato sul fondo del setaccio per umani, schiuma ottenuta dalla valutazione del grado di vulnerabilità, che non considera come il concetto comprende non solo donne incinte, bambini e mutilati, ma anche le vittime di tortura, quelli resi deboli psichicamente dagli anni di umiliazioni, lavori in condizioni estreme, violenze, stenti, stupri, visioni apocalittiche per deserti e mari.

Il doppio articolo di Fabiana sembra fatto apposta sulle ultime idee di esternalizzazione, ma in realtà era in gestazione da un paio di mesi, perché approfondisce enormemente le dirimenti questioni giuridiche di Diritto internazionale, individuando nell’intento di questa pantomima una moltiplicazione degli accordi simili a quelli stipulati con Istanbul, fino a che il contorno delle frontiere saranno divenuti muri, cortine, filo spinato…


Premesse storiche e fallimenti

Consuetudini di confinamento e respingimenti

Il 23 settembre del 2020 la Commissione europea presentò la proposta per un nuovo Patto sulla migrazione e l’asilo insieme a un pacchetto di nuove proposte di regolamenti europei alquanto preoccupanti come:

  • la Proposta di regolamento che introduce il procedimento di accertamento di preingresso ossia il cosiddetto “Regolamento screening”;
  • la Proposta che modifica la procedura in materia di riconoscimento e di revoca della protezione internazionale;
  • la Proposta di regolamento sulla gestione dell’asilo e della migrazione;
  • la Proposta che istituisce procedure per affrontare situazioni di crisi e di forza maggiore in ambito migratorio;
  • la Proposta di regolamento che modifica il regolamento Eurodac.

Si precisa che tutte le proposte, essendo appunto “proposte di regolamento”, qualora venissero approvate dal parlamento Ue e dal Consiglio sarebbero immediatamente applicabili in ogni stato dell’Unione, non avendo il regolamento – come invece avviene per le direttive – necessità di alcuna legge di recepimento da parte degli stati membri per la propria vigenza. Ursula von der Leyen, nel corso della presidenza tedesca della Commissione UE, ha sottolineato come tale Patto mettesse d’accordo i vari stati membri e si ponesse in chiave di rottura rispetto al passato. Nulla di più falso. Non solo il nuovo Patto non introduce nulla di particolarmente innovativo ma viene meno – nella quasi totalità dei casi di richiesta di protezione internazionale – l’esame individuale della domanda; è invece affermata inequivocabilmente la logica dei campi di confinamento dei migranti; e soprattutto – ancora una volta – l’Unione fallisce nella modifica del regolamento di Dublino per l’individuazione dello stato Ue competente a trattare le richieste d’asilo.

Come primo criterio di individuazione della competenza continua infatti a essere applicato quello del paese di primo ingresso con il consueto ed evidente svantaggio per quei paesi che geograficamente sono maggiormente esposti agli arrivi dei cittadini dei paesi terzi.

Ricollocamento inesistente, rimpatri ed esternalizzazione delle frontiere

Nel nuovo Patto inoltre non vi è poi ancora alcuna previsione sul ricollocamento obbligatorio e automatico dei migranti nei paesi membri ma come vedremo solo su base volontaria e in casi eccezionali. Si persiste nell’ignorare la portata effettiva e incondizionata che dovrebbe avere il principio di solidarietà tra i paesi membri, indicata nell’art. 80 del trattato sul funzionamento dell’UE, anzi si potrebbe affermare che tale principio è stato quasi del tutto svuotato essendo prevista, come strumento di solidarietà, la cosiddetta Sponsorizzazione dei rimpatri dei cittadini dei paesi terzi ossia il finanziamento o il supporto di uno stato membro all’altro affinché i migranti possano essere espulsi più rapidamente dal territorio dell’Unione. Come noto già con l’Agenda europea del 2015, a fronte della crisi migratoria derivante dal conflitto siriano, e con il Summit della Valletta dello stesso anno, la Commissione europea aveva manifestato come la propria politica in materia di migrazione e asilo fosse volta – con la complicità di buona parte degli stati membri – al rafforzamento della dimensione esterna dell’Unione mediante il meccanismo comunemente definito “esternalizzazione delle frontiere”, ossia quelle azioni politiche, militari, diplomatiche e “giuridiche” che mirano a impedire che i cittadini dei paesi terzi arrivino nel territorio dell’Unione.

  (Elaborazione openpolis su dati Edjnet. ultimo aggiornamento: mercoledì 13 aprile 2022)

Il sotterfugio delle intese tecniche

La Commissione ben consapevole che non avrebbe potuto attuare tale sistema senza la collaborazione dei paesi terzi – perlopiù in via di sviluppo – ritenne necessario offrire loro “un incentivo” per la delega di tali attività illegittime stornando parte sostanziale dei fondi per lo sviluppo dalla lotta alla povertà alla gestione delle frontiere. È quanto avvenuto con il cosiddetto Fondo fiduciario per l’Africa – un insieme di vari piccoli fondi per lo sviluppo – istituito ad hoc con il Summit della Valletta nel corso del quale veniva rimarcato il ruolo centrale affidato ai paesi terzi nell’ambito delle politiche migratorie dell’Unione. Secondo le più consuete logiche coloniali tuttavia i paesi terzi non hanno assunto di fatto alcun ruolo nel processo decisionale di tali meccanismi ma sono stati semplicemente finanziati – facendo leva sulla loro condizione di indigenza – perché svolgessero tali attività in modo che l’Unione, i suoi organi, le sue Agenzie e gli stati dell’UE apparissero immacolati. La parvenza di legittimità giuridica di tale macchinoso impianto è stata affidata alle cosiddette intese tecniche dell’Unione o dei singoli stati membri con i paesi terzi e non invece con la sottoscrizione di accordi internazionali che non solo sarebbero dovuti passare per il parlamento per l’approvazione ma anche resi pubblici e accessibili alla società civile.

(Fonte Unione Europea 2022)

 

Criminalizzazione globalizzata dei processi migratori

Allora come oggi occorreva alla Commissione un sistema finanziario flessibile e immediato per raggiungere tali intenti. Secondo questi presupposti ideologici quindi si inserivano l’accordo Ue-Turchia del 2016 e il Memorandum Italia-Libia del 2017 già ampiamente analizzati negli articoli relativi alla rotta dell’Egeo e a quella del Mediterraneo centrale. Tale approccio non si è limitato al controllo dei confini ma si è audacemente spinto addirittura al controllo della mobilità umana come è avvenuto con il Niger e con il Gambia. In particolare, è nota la pressione che l’Unione ha esercitato nei confronti del Niger per l’emanazione di una legge – la n. 36 del 2015 – che criminalizzasse “il traffico dei migrantiper evitare lo snodo della mobilità migratoria da Agadez verso la Libia e soprattutto gli arrivi verso l’Unione mediante la rotta del Mediterraneo centrale.

Il ricatto dell’aiuto vincolato

Interessante è poi l’intesa tecnica che l’Unione nel 2018 ha sottoscritto con il governo gambiano perché si consentisse e si agevolasse la riammissione dei gambiani espulsi dal territorio europeo: più nello specifico a partire dal 2019 sulla base di tale intesa tecnica il governo gambiano si impegnava a rimpatriare i propri cittadini presenti nel territorio dell’Ue.
Da alcuni paesi dell’UE cominciavano così a partire voli charter con a bordo cittadini gambiani che nel corso del 2020 venivano sospesi in ragione della diffusione del virus da Covid-19. Il governo gambiano nel 2021 decideva però di interrompere tali flussi migratori di espulsione dall’Europa dei propri cittadini dichiarando di non avere più le capacità di sostenere un ingresso così numeroso di soggetti espulsi anche perché tale prassi stava creando disordini sociali nel paese.

A questo punto l’Unione decideva di sospendere il Codice visti nei confronti del Gambia: veniva messa in atto in tale modo una sorta di ricatto sulla base del quale

se un paese terzo contravviene all’impegno di riammissione dei propri concittadini o di altri migranti presenti nel territorio dell’Ue, non solo, non riceve l’incentivo ossia il denaro proveniente dai fondi per lo sviluppo – che si precisa sarebbe uno strumento di cooperazione e non di ritorsione – ma viene anche drasticamente ridotta la possibilità per tutti i cittadini di quel paese terzo di ottenere visti di ingresso nel territorio dell’Unione.

Proposta di regolamento sulla gestione dell’asilo e della migrazione

La vicenda anticipa nella prassi quanto è attualmente disposto a livello normativo in una delle cinque proposte di regolamento che accompagnano il nuovo patto. In particolare, con la Proposta di regolamento sulla gestione dell’asilo e della migrazione che verrà in seguito analizzata in modo più approfondito – si afferma il cosiddetto Principio di condizionalità nei rapporti tra paesi terzi e Unione europea. Infatti oltre all’art. 3 (“Approccio globale alla gestione dell’asilo e della migrazione”) e all’art. 4 (“Principio dell’elaborazione integrata delle politiche”) mediante i quali si regolamentano le politiche esterne dell’Unione per farle coincidere maggiormente con i suoi obiettivi interni,

all’art. 7 (“Cooperazione con i paesi terzi volta a facilitare il rimpatrio e la riammissione”) si richiama la modifica del Codice Visti del 2019 in particolare l’introduzione dell’art. 25 bis con il quale si prevede – nell’ipotesi in cui un paese terzo non sia particolarmente incisivo in termini di riammissione dei migranti irregolari – che la Commissione possa deliberatamente decidere di limitare i visti verso il territorio dell’Unione per tutti i cittadini di quel paese terzo.

Esternalizzazione a “paesi terzi sicuri” dell’iter per la concessione della protezione

La rotta libica

Comunque qualora le proposte di regolamento che accompagnano il patto venissero approvate ci si spingerebbe ben oltre. Più nello specifico la delega ai paesi terzi potrebbe non essere più circoscritta alle ipotesi già gravi del controllo delle frontiere o della mobilità umana – come nel caso del Niger – ma anche all’esternalizzazione della trattazione delle domande d’asilo. Al riguardo è interessante notare preliminarmente come le procedure di esternalizzazione si possono legare alle procedure di screening, previste da una delle proposte che accompagnano il patto e ad alcune nozioni contenute nella Proposta di modifica del regolamento sulle procedure in materia di riconoscimento e revoca della protezione internazionale che introduce – come vedremo – il concetto di protezione sufficiente con riferimento al cosiddetto “paese terzo sicuro”.

nuovo patto europeo

Al confine Tunisia-Libia

La rotta tunisina

Peraltro negli ultimi anni l’Unione europea nella prassi ha già reso moltissimi paesi di transito sufficientemente sicuri: per esempio la Tunisia che sebbene abbia sottoscritto la Convenzione di Ginevra non ha una legge interna sull’asilo. Infatti, nonostante sia presente nel suo territorio l’Unhcr che si occupa della registrazione della domanda e di tutta la procedura di protezione internazionale, di fatto il rifugiato riconosciuto tale in Tunisia non ha accesso poi ad alcun diritto, proprio per l’assenza di una normativa interna in materia (e la contingenza attuale vede una progressiva autocratizzazione del potere tunisino sotto la pressione della presidenza Saied e una delegittimazione delle istituzioni e quindi si vanno creando i potenziali prodromi – perciò proponiamo la considerazioni raccolte da Tunisi con Arianna Poletti – per accogliere un’“economia” e una filiera di strutture d’ispirazione “libica”: hotspot al di là del Canale di Sicilia).

“La periodica collera non è un rito di piazza in Tunisia”.

L’evidenza della rotta atlantica

Per comprendere meglio il rischio dell’esternalizzazione del diritto d‘asilo occorre analizzare alcune dinamiche che hanno interessato un’altra rotta ossia quella atlantica. Come noto questa rotta è stata caratterizzata negli ultimi anni da patti dell’Ue in particolare della Spagna con il Senegal, il Marocco e la Mauritania per l’intercettazione dei migranti nelle loro acque territoriali affinché venissero riammessi in tali paesi con il supporto di Frontex. L’ipotesi in cui però il migrante si trovasse già di fatto in acque internazionali rendeva illegittima tale prassi. Per tale ragione è stato previsto uno status Agreement con il Senegal che permetterà di superare la questione in merito al luogo in cui riportare i cittadini stranieri intercettati in acque extraterritoriali: più specificamente i migranti intercettati in esse si potranno riportare in Senegal in quanto definito di fatto nello status Agreement paese sicuro per i propri cittadini e soprattutto un paese sicuro per tutti i richiedenti asilo e rifugiati. Tale meccanismo è proprio quello che consente l’esternalizzazione del diritto d’asilo in paesi come il Senegal semplicemente per il fatto che è prevista una normativa interna sull’asilo, perché è presente l’Unhcr – anche se non all’interno delle Commissioni che si occupano dell’esame della domanda – e perché alla fine viene rispettato il principio di non refoulement!! Quindi l’individuo intercettato in acque internazionali dovrà fare tutta la procedura di riconoscimento della protezione internazionale in Senegal, in luogo della Spagna.

Search and Rescue

Le contestuali raccomandazioni sulle operazioni Sar e l’accresciuto ruolo delle Agenzie europee Frontex e Euaa

Ipocrita equidistanza tra ong e aguzzini libici

Rispetto alle operazioni Sar – Search and Rescue – la Commissione invece non ha ritenuto di avanzare una proposta di regolamento bensì di emanare semplicemente delle raccomandazioni che se da un lato possono essere valutate prima facie positivamente, in quanto in esse si dichiara espressamente che l’assistenza umanitaria anche svolta da ong – ossia da privati – nel corso di tali operazioni non può essere criminalizzata, in quanto conforme al diritto internazionale e al diritto di soccorso in mare, dall’altro però in esse si ribadisce che i flussi migratori in mare non si sono mai fermati e che occorre contrastare il traffico dei migranti. La Commissione deliberatamente ignora però la collaborazione con la cosiddetta “Guardia Costiera Libica” (la collaborazione con la quale è stata tacitamente rinnovata a inizio novembre 2022 per altri tre anni) che in cambio dell’addestramento e dei finanziamenti dell’Europa e dell’Italia continua a intercettare i migranti in mare per poi riportarli nei lager libici.

Tacito consenso a disattendere le regole umanitarie

Insidiosa diventa così l’altra affermazione della Commissione con la quale si ribadisce che le operazioni Sar devono essere gestite a livello normativo dagli stati come tema di politica pubblica, che finisce con consentire a un governo razzista di immaginare impunemente lo sbarco selettivo; riflettendo su tali affermazioni, da parte italiana non si può non pensare a quanto sia già stata molto grave invece la legislazione interna sul tema emanata con il cosiddettoDecreto Sicurezza bis”, ora persino peggiorato dai decreti di inizio legislatura.

Infine, appare chiaro come dalla lettura delle proposte di regolamento che accompagnano il Patto, il ruolo delle Agenzie Ue in particolare di Frontex– ossia l’Agenzia della guardia di Frontiera e costiera europea – e dell’Euaa (ex EASO) ossia l’Agenzia dell’Unione europea per l’asilo – venga notevolmente accresciuto. Si precisa al riguardo che le due agenzie sono già state interessate dalle modifiche dei regolamenti che disciplinano l’ambito delle loro competenze rispettivamente nel 2019 con il Regolamento (UE) 2019/1896 del 13 novembre 2019 e nel 2021 con Regolamento (UE) 2021/2303 del 15 dicembre 2021.

Frontex manu militari nelle attività antimigratorie, congiuntamente

In particolare, ciò si evidenzia nella procedura di preingresso o screening – rispetto alla quale sarebbe stata più opportuna la previsione della presenza dell’“Agenzia Europea per i diritti fondamentali” – e nel corso dell’attivazione dei meccanismi di solidarietà visto che entrambe le agenzie sono disgregate per individuare le persone da ricollocare o da sottoporre a misure di sponsorship. Più nel dettaglio la dimensione operativa delle agenzie che prima si identificava in un’implementazione indiretta delle misure e dei provvedimenti messi in atto dagli stati in ambito migratorio ora può essere definita a tutti gli effetti un’implementazione congiunta e condivisa: ovverossia le autorità esecutive dei paesi membri implementano le azioni in ambito migratorio a fianco degli uomini delle due agenzie europee di cui sopra. Da qui addirittura anche il reclutamento da parte di Frontex di agenti di pubblica sicurezza dei singoli paesi membri per inserirli tra le proprie fila.

Euaa istruisce domande d’asilo, congiuntamente

Per quanto riguarda l’Euaa invece si può affermare che essa guadagna sempre maggiori margini per entrare nel merito delle decisioni delle domande d’asilo per cui diversamente dal passato l’istruzione della domanda d’asilo viene svolta dalle autorità nazionali degli stati membri congiuntamente a essa anche se poi la responsabilità delle decisioni rimane comunque in capo ai soli stati membri. Infatti si stabilisce con la modifica del regolamento interno dell’Agenzia Easo del 15 dicembre 2021 che essa debba assistere i paesi membri nel registrare le domande d’asilo, facilitare l’esame da parte delle competenti autorità nazionali all’esame della domanda e fornire a quelle autorità la necessaria assistenza alle domande di protezione internazionale. Viene poi accresciuta anche la dimensione di monitoraggio delle agenzie: entrambe oggi infatti hanno ampie prerogative sulla raccolta delle informazioni dei flussi migratori e sulla valutazione dello stato di “vulnerabilità” delle frontiere di ciascun paese membro nonché del suo sistema d’asilo e d’accoglienza fino al punto che – nell’ipotesi in cui si ravvisino rischi nei rispettivi settori di competenza – le due agenzie adottano raccomandazioni che gli stati membri sono chiamati a rispettare. Infine, aumenta anche la dimensione politica delle agenzie: esse sono divenute infatti importanti centri di raccolta informazioni in ambito migratorio sulla base delle quali vengono elaborate poi le decisioni politiche dell’Unione e dei singoli stati membri. Basti pensare che l’Euaa non solo può adottare indicatori per misurare l’efficacia del sistema d’asilo ai quali i paesi membri devono adeguarsi ma elabora anche le Country of Origin Information influendo non poco sulle decisioni delle singole Commissioni Territoriali.

nuovo patto europeo

(Fonte Osservatorio Diritti)

Fronte(x) disumanitario

Questo comporta la necessità, considerate le accresciute competenze anche con riferimento alla proposta del Nuovo Patto sulla migrazione e l’asilo di aumentare anche la loro responsabilità (ossia la cosiddetta “accountability”), non semplicemente a livello giudiziario – per le violazioni dei diritti umani commesse dallo Staff delle agenzie nel loro operato (vedi Frontex) sulle quali ha già una funzione di monitoraggio il Parlamento UE – ma anche a livello politico, tenuto conto delle informazioni rilevanti che le due agenzie forniscono ai singoli stati sulla base delle quali spesso questi determinano il loro indirizzo politico in ambito migratorio (tanto che messo alle strette per i respingimenti operati direttamente da uomini in quel momento assunti da Frontex, Leggeri ha dovuto dimettersi dalla dirigenza dell’agenzia di stanza in Polonia).

Si aggiunge infine che, anche se è previsto un meccanismo di reclamo che ogni individuo può avanzare per la violazione dei propri diritti da parte delle due agenzie indirizzato al direttore esecutivo delle stesse, questo nei fatti continua a essere poco efficace soprattutto nei confronti degli agenti di Frontex che non fanno pienamente parte dello Staff ma che sono distaccati ossia reclutati dall’agenzia temporaneamente tra le forze di sicurezza dei singoli stati membri. Fin qui dunque il substrato sul quale sono state gettate le fondamenta per il così scarsamente coraggioso ma allarmante Patto del 2020 nonché le sue conseguenze altrettanto poco audaci rispetto alle raccomandazioni sulle operazioni di soccorso e salvataggio ma fin troppo temerarie nel già accresciuto ruolo delle Agenzie Frontex e Euaa rafforzato nelle già citate proposte di regolamento complementari a esso della cui analisi giuridica si rimanda al successivo approfondimento.

L'articolo n. 22 – Il nuovo patto europeo sulla migrazione e l’asilo (I). Respingimenti, Sar, esternalizzazioni proviene da OGzero.

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n. 22 – Regolamento sullo screening: il nuovo patto europeo sulla migrazione e l’asilo (II) https://ogzero.org/n-22-regolamento-sullo-screening-il-patto-europeo-sulla-migrazione-e-lasilo-ii/ Mon, 14 Nov 2022 10:05:34 +0000 https://ogzero.org/?p=9491 Lo studio e l’esposizione delle proposte di regolamento europeo che fanno da corollario al nuovo patto sulla migrazione, se possibile, ancora più restrittivo e rappresentante di chiusure all’accoglienza, completa e integra le speculazioni dell’articolo precedente. Qui si leggono disposizioni “disumanitarie”, che inaspriscono con fantasie al limite della tortura psicologica, che rispondono evidentemente a criteri puramente […]

L'articolo n. 22 – Regolamento sullo screening: il nuovo patto europeo sulla migrazione e l’asilo (II) proviene da OGzero.

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Lo studio e l’esposizione delle proposte di regolamento europeo che fanno da corollario al nuovo patto sulla migrazione, se possibile, ancora più restrittivo e rappresentante di chiusure all’accoglienza, completa e integra le speculazioni dell’articolo precedente. Qui si leggono disposizioni “disumanitarie”, che inaspriscono con fantasie al limite della tortura psicologica, che rispondono evidentemente a criteri puramente disincentivanti. Nelle pieghe delle modifiche, delle proposte, dei regolamenti che l’UE targata Von Der Layen si rintracciano tentativi di blindare le frontiere, ma anche di demandare ai paesi di prima accoglienza la solidarietà a cui persino Fortress Europe non può sottrarsi, né esternalizzare. Quindi è impossibile riformare come vorrebbero i paesi del blocco Sud, ed è per questo che si creano casi come quelli della Ocean Viking, o si minacciano altre infamità per giungere a una trattativa giocata sui destini delle persone in movimento (Pom). Allora si riprendono slogan come “taxi del mare” (riprendendo un’improvvida uscita di Di Maio) per definire l’azione di vascelli solidali, denunciando ideologicamente l’operato delle ong; o si invita a portare i salvati in Tunisia, guarda caso proprio dove si vuole implementare il sistema di hotspot esternalizzati per impedire l’arrivo in Europa, o retrivi scontri fondati su cifre – anche malamente – taroccate. 

Con questa documentata appendice, fondata sulla lettura dei documenti giuridici e su dati reali, Fabiana intendeva conferire un sostegno all’articolo dedicato alle conseguenze delle proposte di modifica al Regolamento europeo per il riconoscimento dell’asilo e protezione, ne ha ottenuto un contributo autonomo che travalica il tecnicismo analizzato e disinnescato, andando a scoperchiare motivi e strategie sottesi a rendere impossibile il Diritto internazionale che a buon senso darebbe scampo in Europa a chi fugge dai danni che l’Europa produce nei paesi di provenienza. Ma la strategia prevede che il Diritto sia affossato, anzi sommerso…


Procediamo con lo screening a casa loro

Due delle cinque proposte che accompagnano il patto sulla migrazione e l’asilo – presentato dalla Commissione europea il 23 settembre del 2020 – sono la Proposta di regolamento sullo screening e appunto quella relativa alla modifica della procedura di riconoscimento e di revoca della protezione internazionale. In particolare, con la Proposta di regolamento sullo screening dei migranti si prevede una procedura “preingresso di accertamento” lo screening appunto – in merito all’identità, alla nazionalità, allo stato di salute, alla vulnerabilità e alla pericolosità sociale del migrante finalizzata – come candidamente dichiarato nella sua presentazione dalla Commissione europea – a individuare «il prima possibile i cittadini dei paesi terzi che abbiano scarsa possibilità di ottenere protezione internazionale all’interno dell’UE». Alla registrazione dell’identità quindi si accompagna in questa fase l’inserimento dei dati biometrici dei migranti mediante le banche dati pertinenti.

 

regolamento sullo screening

Truccare le regole fingendo una terra di nessuno

La procedura però viene svolta non solo interamente in frontiera ma anche in una condizione di trattenimento del migrante e in modo rapido (la procedura di accertamento può durare fino a un massimo di 5 giorni).

L’intento della proposta è dunque quello di creare uno strumento idoneo a decidere già in frontiera a chi possa essere “consentito” di presentare domanda di protezione internazionale e chi invece “debba” essere rimpatriato immediatamente dalla “frontiera”.

Rispetto al luogo nel quale dovrebbero avvenire tali operazioni di accertamento, si precisa che quanto orchestrato dalla Commissione altro non è che una fictio iuris.
Il migrante sottoposto a tali procedure in realtà già si trova sul territorio dell’Unione e come tale sarebbe titolare di tutta una serie di diritti, sanciti dal diritto europeo oltre che dal diritto internazionale, ma affinché tale titolarità non venga attivata si opera appunto “una finzione giuridica”: si finge ovverosia che il migrante si trovi a una frontiera esterna dell’Unione altrimenti tale meccanismo sarebbe evidentemente illegittimo. Sicuramente infatti alcune persone soggette alla procedura di screening sono già alle frontiere interne. Si pensi che alcuni dei destinatari dell’ambito di applicazione di tale normativa sono persone entrate nel territorio europeo a tutti gli effetti perché attraverso operazioni di Search and Rescue (Sar)! Altri destinatari sono invece coloro che sono presenti alla frontiera esterna ma non soddisfano le condizioni di ingresso – come nel caso della mancanza del visto – e che presentano domanda di protezione internazionale.

Si precisa però che anche con riferimento a tali soggetti gli stati membri, in base al regolamento Eurodac, sarebbero chiamati a registrare le impronte e quindi si attiverebbe il regolamento “Dublino” per l’individuazione dello stato membro competente: una situazione tutt’altro che esterna all’Unione!

L’intero impianto rientra nel consueto meccanismo di rafforzare le frontiere esterne per proteggere quelle interne dell’area Schengen dai movimenti secondari dei migranti ossia quelli compiuti mediante il transito da uno stato all’altro dell’Unione.

La detenzione negli hotspot è illegittima, per ora

È previsto in questa fase un sistema di monitoraggio indipendente di dubbia efficacia visto che non prevede neanche l’accesso dell’Agenzia europea sulla tutela dei diritti umani oltre a quella dei membri e degli operatori delle ong o dei rappresentanti della società civile.

È prevista inoltre l’impugnazione del provvedimento di accertamento che abbia un esito negativo per l’accesso alla procedura d’asilo ma in questo caso è stabilito il rimpatrio immediato e il ricorso non ha effetto sospensivo.

Tale impianto giuridico richiama immediatamente l’approccio degli hotspot in Italia come quello di Lampedusa. Anche negli hotspot infatti, per prassi, vi è una fase di preidentificazione che si caratterizza dalla compilazione del cosiddetto foglio notizie – non previsto da alcuna normativa italiana – davanti alle autorità di pubblica sicurezza. Il modulo prescreening previsto nel Patto ricalcherebbe proprio il foglio notizie italiano (!) che contiene sì le generalità del migrante ma che non possiede alcun contenuto informativo sulla procedura di protezione internazionale. Inoltre, come nella procedura prescreening anche negli hotspot vi è una condizione di detenzione dei migranti. Al riguardo si precisa che qualora il regolamento in questione venisse approvato tali prassi degli hotspot diventerebbero legittime e quindi non solo lo stesso foglio notizie diverrebbe obbligatorio – proprio mediante il suo omologo ossia il “modulo preescreening” – ma il trattenimento del migrante sarebbe previsto per legge nonostante l’Italia sia già stata condannata per detenzione illegittima dei migranti negli hotspot dalla Corte di Strasburgo – sentenza Khlaifia – per aver agito in violazione dell’art. 5 della Cedu.

Proposta di modifica del regolamento procedure 2016

Dopo le procedure di preingresso – procedura di screening è prevista nella modifica anche una procedura di frontiera per il riconoscimento della protezione internazionale sempre in una condizione di trattenimento del migrante. Infatti, secondo l’art. 41 paragrafo 6, i richiedenti sottoposti alla procedura di asilo alla frontiera non sono autorizzati a entrare nel territorio dello stato membro.

Si precisa, più in generale,

che la procedura di esame alla frontiera deve essere attuata ogni qualvolta la persona è entrata irregolarmente – e chi richiede la protezione lo è nella quasi totalità dei casi perché in fuga dal proprio paese d’origine – o se ha fatto ingresso con sbarco dopo operazioni di ricerca e soccorso (Sar – Search and Rescue) o ancora nell’ipotesi in cui il migrante non sia irregolare ma comunque sia destinatario di un provvedimento di ricollocamento (art. 41).

Persecuzione preventiva di innocenti incarcerati. Disincentivazione

Ciò che risulta particolarmente assurdo è che dal momento dell’approvazione di tale norma ogni richiedente asilo dovrebbe subire 12 settimane di detenzione e di isolamento per completare non solo la procedura di riconoscimento della protezione internazionale ma – nell’ipotesi di rigetto della domanda – anche per presentare il ricorso che nella quasi totalità dei casi non ha effetto sospensivo automatico (art. 54) – e per essere sottoposto a rimpatrio forzato (art. 41 bis).

Si ricorda che ai sensi dell’art. 35 bis della proposta la decisione di rimpatrio è emanata

nell’ambito della decisione di rigetto della protezione internazionale o, nel caso sia contenuta in un atto distinto dal provvedimento di rigetto, è comunque contestuale a esso.

Se lo stato tuttavia non riesce a organizzare il rimpatrio alla frontiera nell’arco delle 12 settimane, il migrante potrà entrare finalmente nel territorio dell’Unione ma sempre con il trattamento previsto per legge per le persone in condizione di irregolarità. Inoltre, la cosiddetta “procedura accelerata”, con la proposta di regolamento in oggetto, non rappresenta più un’eccezione ma diviene «obbligatoria e sistemica» (art. 40) e al suo termine si può già decidere in frontiera per l’ammissibilità o meno della domanda.

Infatti, alle ipotesi già previste per l’applicazione della procedura accelerata – come quella in cui il richiedente tenta di eludere o elude i controlli alle frontiere o quella secondo la quale rappresenta un pericolo per la sicurezza pubblica interna – si aggiunge quella in cui

il richiedente appartenga a una nazionalità che registri un tasso di riconoscimento della protezione internazionale inferiore al 20 %

come per esempio potrebbe essere nell’ipotesi di un richiedente asilo proveniente dalla Nigeria o addirittura dall’Egitto! Si sottolinea la standardizzazione di tale valutazione che oltretutto si applica anche ai minori stranieri non accompagnati!!

La provenienza da un “paese di primo asilo” inficia la protezione

Il giudizio preliminare sull’ammissibilità o meno della domanda di protezione internazionale in frontiera è inoltre previsto anche nei casi in cui

il richiedente provenga da un «paese di primo asilo» (art. 44): ossia un paese in cui il richiedente ha già goduto e può continuare ad avvalersi non solo di una protezione ai sensi della condizione di Ginevra ma anche semplicemente di «una protezione sufficiente».

Motivo per il quale, se durante l’esame, le autorità ritengono che

il richiedente provenga da un paese in cui anche se non si applica la Convenzione di Ginevra non sussistono minacce per i motivi di cui alla Convenzione stessa, il richiedente non rischi di subire un danno grave e ancora venga rispettato il principio di non-refoulement e garantito il godimento di alcuni diritti – quali la possibilità di soggiornare o di lavorare – allora la sua domanda di protezione internazionale verrà dichiarata inammissibile.

Il potere discrezionale del funzionario. La sindrome Eichmann

Si osservi al riguardo l’enorme discrezionalità da parte delle autorità competenti nella valutazione della sussistenza di tali elementi, anche perché la qualifica di paese di primo asilo è decisa ogni anno proprio da ciascuno degli stessi paesi dell’UE con la predisposizione di specifiche liste. Il giudizio preliminare di ammissibilità si applica infine anche nell’ipotesi in cui

il richiedente provenga da un paese terzo sicuro (art. 45)

ossia un paese nel quale il richiedente può anche essere soltanto transitato ma che venga considerato sicuro non solo in quanto firmatario della Convenzione di Ginevra. E pure nell’ipotesi in cui sia semplicemente idoneo a garantire – come abbiamo visto nel caso del paese di primo asilo – una protezione sufficiente.

L’impianto supportato dagli accordi bilaterali…

In questo caso però la qualifica del paese terzo sicuro non è da rinvenirsi nelle liste predisposte dal paese membro annualmente ma viene considerato tale con una decisione della stessa Unione Europea ossia presumibilmente in base anche agli accordi informali tra questa e i paesi terzi. Tale decisione unilaterale dell’Unione viene operata anche con riferimento alla

qualifica di «paese di origine sicuro» (art. 47), nozione in cui oggi – è bene ricordarlo – si fregia la Turchia e in conseguenza della quale è sempre prevista l’applicazione della procedura accelerata.

Qualora quindi ricorresse una delle succitate condizioni le autorità competenti in frontiera dovrebbero concludere sempre per una dichiarazione preliminare di inammissibilità della domanda di protezione internazionale, in caso contrario invece si potrebbe finalmente accedere alla procedura per il riconoscimento della medesima.

L’intero impianto riporta alle prassi già consolidate nella rotta dell’Egeo: la Turchia infatti per i siriani è già stata considerata di fatto “paese terzo sicuro” perché rispettava (a fronte dei 6 miliardi di euro donati dall’Unione) il principio di non refoulment e perché dava la possibilità a questi di soggiornare legalmente sul territorio a disprezzo e in completo svuotamento di ogni norma del diritto europeo e internazionale che consentirebbe loro di beneficiare di una “forma di protezione” che si ricorda – e non ci dovrebbe essere neanche il bisogno di dirlo – è un diritto ben diverso da quello di consentire semplicemente a un individuo di lavorare nel proprio territorio!

… e da nuovi enormi Lager

Si ricorda che la Turchia – pur essendo firmataria della Convenzione di Ginevra – ha mantenuto la riserva territoriale per il riconoscimento dello status di rifugiato: ciò vuol dire che esso può essere riconosciuto in Turchia solo ai cittadini provenienti dai paesi dell’Unione europea. Sempre con riferimento alla rotta dell’Egeo è chiaro che una previsione della procedura d’asilo strutturata totalmente in frontiera implicherebbe la creazione di enormi campi di detenzione nei paesi di primo arrivo – compreso il nostro – come già avvenuto in Grecia a Leros, Lesbos, SamosKos Chios. Ci si chiede quindi se gli stati membri di primo ingresso e l’Unione stessa siano in grado di sostenere le spese finanziarie derivanti dalla creazione di tali centri considerato il numero dei migranti che dovrebbero essere “contenuti” in regime di detenzione.

Il contrasto degli “irregolari” eccita la Destra nostrana

È facile notare come i nazionalismi di destra al potere attualmente in diversi stati membri dell’Ue compreso il nostro – così contrari alle politiche delle istituzioni europee in particolare a quelle della Commissione – si ritrovino invece perfettamente allineati alle sue decisioni in ambito migratorio quando si tratta di ostacolare l’accesso dei migranti con l’inevitabile compressione dei loro diritti come nel caso dei due regolamenti “procedure” e “screening”.

Sarà pertanto interessante vedere se quegli stessi nazionalismi di destra che rappresentano il nuovo trend politico europeo saranno così d’accordo tra di loro, come negli alti lai per ottenere il riconoscimento della pressione migratoria insopportabile a cui sono sottosti, quando si tratterà di approvare le ulteriori proposte di regolamento che accompagnano il nuovo patto sulla migrazione e l’asilo in primo luogo la già citata Proposta di regolamento sulla gestione dell’asilo e della migrazione, dove si prevede una «solidarietà obbligatoria».

 

(fonte voxeurope / Tjeerd Royaards)

Solidarietà obbligatoria, ma ordinaria

La proposta di regolamento in esame prevede meccanismi di “solidarietà” volontaria ma obbligatoria da parte di tutti i paesi membri nei casi di sbarchi Sar o pressione migratoria messi in atto quindi soprattutto nei confronti di paesi di primo arrivo come l’Italia. I meccanismi di solidarietà si distinguono tra ordinari e meccanismi di solidarietà speciali/straordinari. I primi rappresentano la solidarietà post sbarchi – operazioni SAR – mentre i secondi sono quelli che si applicano nelle ipotesi di pressione migratoria (art. 50 e seguenti) (oltre che nelle condizioni di crisi e di forza maggiore che vedremo in seguito nello specifico regolamento). I meccanismi ordinari di solidarietà (art. 45, 1) più nello specifico sono:

il ricollocamento delle persone non soggette e trattenute nel corso di procedure di frontiera; la “sponsorizzazione” di cittadini di paesi terzi in condizioni di soggiorno irregolare; il ricollocamento di beneficiari di protezione internazionale entro 3 anni dall’ottenimento della stessa; l’aiuto in termini di “Capacity bulding measures”- ossia il supporto di uno stato membro ad un altro – con riferimento alle misure di sviluppo delle capacità in materia di asilo, accoglienza, rimpatrio.

Con «misure straordinarie di solidarietà» (art. 45,2) che come detto si applicano alla pressione migratoria si intendono invece due sole misure:

il ricollocamento di richiedenti asilo soggetti questa volta alla procedura di frontiera e il ricollocamento di cittadini di paesi terzi in ipotesi di soggiorno irregolare.

Procedimentalizzare la solidarietà ordinaria

Per quanto attiene alla procedura nell’ipotesi di pressione migratoria lo stato membro richiede il riconoscimento alla Commissione di tale situazione. La Commissione in questo caso deve adottare un report finalizzato a condurre una conseguente attivazione degli altri stati membri. Come visto nel caso di pressione migratoria si allarga lo spettro dei destinatari dei ricollocamenti e sono previsti tempi ridotti per la loro attuazione.

Esclusione di Sar e ingressi non autorizzati per procedura

Tutto ciò premesso è chiaro come si escludano dai candidati ai ricollocamenti – previsti nelle procedure ordinarie – i soggetti arrivati a seguito di operazioni di ricerca e soccorso perché sottoposti alla procedura di frontiera (e i soggetti arrivati tramite ingressi non autorizzati). Più in generale il tentativo di questo regolamento è quello di procedimentalizzare la solidarietà ordinaria (artt.47-49). La procedura in primo luogo prevede che la Commissione emani un report annuale nel quale dichiari se uno stato membro dell’Unione sia soggetto ad arrivi ricorrenti e determina ciò che serve a tale stato.
Tale report viene notificato poi agli altri stati con l’invito a contribuire. Gli stati a loro volta notificano alla Commissione i contributi con un piano di risposta indicando, o i ricollocamenti o le misure di sviluppo e capacità o i ricollocamenti di vulnerabili. Una di queste tre misure è necessariamente obbligatoria ma ogni stato liberamente può scegliere.

Solidarietà corretta in salsa ricollocamenti e rimpatri

In seguito la Commissione, con una valutazione discrezionale, se ritiene che le offerte degli altri stati sono sufficienti per la creazione di una “riserva di solidarietà” con un atto di esecuzione ratifica le offerte degli stati (art. 48). Tuttavia, se le offerte non sono sufficienti o meglio sono significativamente inferiori rispetto alle necessità dello stato, la Commissione convoca il “Forum di solidarietà”: gli stati a questo punto possono adottare i piani di aiuto rivisti dalla Commissione che in questo caso vengono messi in un atto di esecuzione.
Invece, se gli stati si rifiutano di rivedere i propri piani di aiuto, la Commissione stessa adotterà un atto di esecuzione nel quale deciderà cosa devono fare gli stati che si sono mostrati “poco generosi”; in particolare, se la discrepanza totale tra quanto offerto e quanto necessario allo stato è maggiore del 30 per cento, ogni altro stato membro sarà obbligato a versare il 50 per cento di una quota minima di solidarietà da intendersi in termini di numero di ricollocamenti, di sponsorizzazione dei rimpatri o di entrambe le misure (meccanismo correttivo della solidarietà).

In particolare, con sponsorizzazione di rimpatri si intende il meccanismo mediante il quale uno stato che non ha nel proprio territorio migranti in condizione di irregolarità da rimpatriare sostenga il rimpatrio di cittadini di paesi terzi irregolari che si trovano in un altro stato membro. Il sistema non appare invero immediatamente efficace considerando che per i primi 8 mesi comunque lo stato membro beneficiario della sponsorizzazione mantiene la responsabilità giuridico-amministrativa del cittadino del paese terzo da rimpatriare mentre lo stato cosiddetto sponsor si impegna piuttosto a un’assistenza da remoto di tipo materiale, logistico e finanziario, mentre nell’ipotesi di rimpatri volontari si occupa della policy dialogue con il paese terzo e offre assistenza durante il viaggio o sull’esecuzione. Se trascorso tale periodo lo stato sponsor non assicura le misure di rimpatrio di cui sopra il rimpatrio diventa ricollocamento: si procede non più al rimpatrio del cittadino del paese terzo ma al ricollocamento del migrante dello stato terzo nel territorio dello stato sponsor. Anche qui tuttavia potrebbe essere sufficiente la mera segnalazione dello stato sponsor che il cittadino del paese terzo potrebbe rappresentare un pericolo per la sicurezza interna per potersi rifiutare di eseguire il ricollocamento. È opportuno dunque analizzare ora più nello specifico la Proposta di regolamento concernente le situazioni di crisi e di forza maggiore.

 

regolamento sullo screening

Ma cos’è questa “crisi”?

Con la nozione di crisi si intende l’esistenza di una situazione eccezionale di afflusso massiccio di cittadini di paesi terzi arrivati in uno stato membro oppure un numero elevato di sbarchi che interessa uno stato UE in esito ad operazioni SAR – Search and Rescue – la cui entità in proporzione all’indice demografico e al prodotto interno lordo di quello stato rende inefficace il suo sistema di asilo e di accoglienza e potrebbe implicare gravi conseguenze sul funzionamento del sistema comune d’asilo in ambito europeo.

Va preliminarmente sottolineato che non vi è nel testo del regolamento alcun riferimento circa le misure che lo stato membro abbia messo effettivamente in campo per gestire i flussi migratori e per prevenire la situazione di crisi. Tale omissione come è facile intuire lascerebbe un ampio margine alla possibilità degli stati membri di strumentalizzare l’attivazione dei meccanismi che discendono dalla situazione di crisi con il chiaro intento di impedire l’ingresso dei migranti nel proprio territorio.
Nel caso di crisi la procedura si struttura in tal modo: lo stato membro presenta una richiesta motivata alla Commissione che – in base alle informazioni che essa stessa provvede a raccogliere, alle informazioni raccolte dall’Eauu e ovviamente a quelle di Frontex – valuta se la richiesta dello stato di crisi sia fondata. Qualora venga ritenuta tale la Commissione emana un atto di esecuzione dello stato di crisi senza che però alcun soggetto esterno e indipendente possa compiere attività di monitoraggio o contestazione in riferimento a tale decisione.

In concreto con l’atto di esecuzione la Commissione autorizza lo stato membro all’applicazione di particolari misure relative alle procedure d’asilo e di rimpatrio per un periodo di 6 mesi estendibile a 1 anno. Infatti il termine per la sola registrazione delle domande d’asilo in caso di crisi potrà essere esteso fino a 4 settimane e prorogato fino a 12 settimane! Il sistema è alquanto pericoloso poiché inevitabilmente vi sarebbero garanzie più limitate in merito ai diritti dei richiedenti asilo considerato che tutta la procedura della richiesta d’asilo in situazione di crisi verrebbe comunque svolta in frontiera e in una condizione di privazione della libertà per tutti i cittadini la cui nazionalità in questo caso vede un tasso di riconoscimento della protezione pari o inferiore al 75 per cento.

Inoltre, anche il rimpatrio sarebbe previsto in frontiera: in questo caso i tempi dell’intera procedura che prevede sempre una condizione di trattenimento dell’individuo – data anche la novità dell’introduzione della presunzione del rischio di fuga del migrante – potrebbero ulteriormente estendersi a livello temporale. Se a fronte di tale svuotamento dei diritti fondamentali dei richiedenti asilo tuttavia ci si vuole davvero impegnare a trovare degli aspetti positivi di tale procedura – che comunque non bilanciano tale compressione delle tutele giuridiche dell’individuo – questi possono ravvisarsi nella previsione della concessione di una nuova forma di protezione: ossia la cosiddetta “protezione immediata” e nel «rafforzamento dei meccanismi di solidarietà» (art. 2) ma solo se la crisi è in atto e non se vi è un rischio imminente di crisi, nonostante anche il rischio sia compreso nell’art. 1 che definisce l’ambito di applicazione del regolamento. Rispetto al rafforzamento dei meccanismi di solidarietà: i ricollocamenti in questo caso verrebbero previsti

«anche se i richiedenti asilo sono sottoposti alla procedura di frontiera; ai migranti irregolari; a coloro ai quali è concessa la protezione immediata e infine alle persone sottoposte a misure di rimpatrio sponsorizzate da un altro stato membro».

La protezione immediata invece è concessa agli sfollati esposti a un rischio eccezionalmente alto di subire violenza indiscriminata nel proprio paese e se non possono farvi ritorno. Dopo che la Commissione infatti – per mezzo di una decisione di esecuzione – dichiara l’esistenza di una situazione di crisi sulla base degli elementi di cui all’art. 3 stabilisce la necessità di sospendere le domande di protezione internazionale – definendo il periodo di tale sospensione – e di concedere la protezione immediata.

Rispetto alla condizione di forza maggiore, al Considerando 7 del regolamento, si fa riferimento all’«esistenza di circostanze “anormali ed imprevedibiliin ambito migratorio che sfuggono al controllo degli stati membri e le cui conseguenze non avrebbero potuto essere evitate neanche con l’impiego di tutta la dovuta diligenza». (La Commissione come esempi cita l’ipotesi dell’emergenza epidemiologica da Covid 19 e la crisi al confine tra Grecia e Turchia nel 2020).

Nel caso di “forza maggiore” tuttavia diversamente dallo stato di crisi la procedura non si attiva con una richiesta dello stato membro che deve passare al vaglio della Commissione bensì con una semplice «dichiarazione unilaterale dello stato» per cui appaiono ancora più evidenti i margini di discrezionalità che possono insinuarsi in tale procedura. Con la dichiarazione di una situazione di “forza maggiore” infatti lo stato dichiara che

«non sarà in grado di rispettare i termini per la procedura di richiesta asilo per cui potranno essere estesi fino a quattro settimane».

Non solo, rispetto al diritto del richiedente a una risposta in merito alla propria domanda d’asilo, lo stato

«dichiara che non sarà possibile rispettare i termini della procedura in termini di “presa (e ripresa) in carico” del richiedente e i limiti previsti per il trasferimento del medesimo verso lo stato competente in base al regolamento Dublino. Infine, lo stato dichiara che non sarà possibile rispettare neanche l’obbligo dell’attuazione delle misure di solidarietà che quindi potranno essere sospese fino a 6 mesi».

Anche in questo caso l’unico aspetto positivo è la previsione della concessione al migrante della protezione immediata – già menzionata con riferimento alla situazione di crisi – che deve essere concessa

«nell’evenienza della sospensione della domanda di protezione internazionale e sulla base della quale il cittadino del paese terzo possederà gli stessi diritti sociali ed economici del titolare di protezione sussidiaria».

In ogni caso al termine del periodo di sospensione gli stati dovranno valutare nel merito la domanda di protezione internazionale.

In conclusione, dall’analisi di tali proposte di regolamento sorprende non solo la mancanza, ancora una volta, di qualsiasi previsione di vie legali per l’accesso al territorio dell’Unione che non siano legate alla domanda di protezione internazionale – visto che in molti casi si presuppone la sua inammissibilità – ma quanti sforzi, e quali elucubrazioni ed acrobazie giuridiche si riescano a ideare pur di non rispettare principi fondamentali sui diritti degli individui che – prima ancora che nelle Convenzioni internazionali e nel diritto europeo – sono sanciti all’interno di ordinamenti nazionali come il nostro in particolare nella Costituzione all’art. 10 co. 3 e che i partiti nazionalisti qualificandosi come tali dovrebbero per coerenza rispettare e fare rispettare senza alcuna condizione di sorta in quanto principio immodificabile come deciso dai nostri padri costituenti.

L'articolo n. 22 – Regolamento sullo screening: il nuovo patto europeo sulla migrazione e l’asilo (II) proviene da OGzero.

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Guerre di religione: continuazione del colonialismo con altri mezzi https://ogzero.org/guerre-di-religione-continuazione-del-colonialismo-con-altri-mezzi/ Sat, 12 Nov 2022 08:48:30 +0000 https://ogzero.org/?p=9436 Gianni Sartori si propone come autodidatta che propone analisi “a naso”: avercene di nasi così raffinati! E soprattutto con una memoria storica e uno sguardo libertario come il suo. Peraltro l’analisi dei guasti del neocolonialismo è uno dei motivi per cui OGzero è nato e questo scritto ci sembra perfetto per avviare la discussione che […]

L'articolo Guerre di religione: continuazione del colonialismo con altri mezzi proviene da OGzero.

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Gianni Sartori si propone come autodidatta che propone analisi “a naso”: avercene di nasi così raffinati! E soprattutto con una memoria storica e uno sguardo libertario come il suo. Peraltro l’analisi dei guasti del neocolonialismo è uno dei motivi per cui OGzero è nato e questo scritto ci sembra perfetto per avviare la discussione che si fonde e intreccia con le altre che muovono masse di disperati, distruggono il clima, depredano territori, spacciano armi, innescano conflitti per controllare risorse. Si può interpretare questo uso della divisione religiosa come un nodo delle diverse emergenze del Finanzkapitalismus nella sua fase iperliberista, un nodo a cui arrivare dagli altri orrori geopolitici, o da cui partire per inserirlo nella rete che mette insieme l’uso politico-aggressivo della religione, il pastone mediatico, la scorciatoia militarista, l’espansionismo imperialista… ma partiamo dallo storico conflitto irlandese tra cattolici separatisti e unionisti protestanti e poi ci espandiamo nelle più complesse – ma riconducibili agli stessi modelli di potere – contrapposizioni mediorientali.


Solo un’ipotesi, la mia. Da “proletario autoalfabetizzato” senza pretese accademiche. A naso diciamo.
Se in passato le “guerre di religione” potevano, forse, esprimere (“fotografare”) in qualche modo i conflitti etnici e/o sociali del tempo (vedi alcune “eresie” e certe “riforme” diretta conseguenza dei conflitti di classe), direi che in seguito, perlomeno dal secolo scorso, il più delle volte sono state la copertura, la “vetrina” di interessate strumentalizzazioni.

Partiamo dall’Irlanda…

A titolo di esempio, il conflitto irlandese, soprattutto dopo la divisione dell’Isola di smeraldo. Se già nel Settecento cattolici e protestanti (discendenti i primi dagli indigeni irlandesi colonizzati, gli altri dai coloni scozzesi presbiteriani) avevano fatto fronte comune per l’indipendenza dell’Irlanda, anche in seguito (vedi gli scioperi di lavoratori salariati cattolici e protestanti a Belfast) non mancarono lotte comuni. A porvi fine intervennero le ricche borghesie filobritanniche (si veda La Casa d’Orange) elargendo piccoli privilegi e organizzando milizie settarie “lealiste” (v. Uvf). Non potendo utilizzare – che so – un diverso colore della pelle o diversità etniche rilevanti (in quanto entrambe le comunità erano di origine celtica, diversamente dagli inglesi anglosassoni – di origine germanica – e anglicani) si accontentarono di ampliare il modesto solco di natura religiosa.


Poi è andata come sappiamo. Esperimento sostanzialmente riuscito, un modello per future strumentalizzazioni a “geometria variabile”.

… e giungiamo tra le comunità beluci, curde e hazara

Quindi ritengo che anche le sanguinose faide mediorientali tra sunniti e sciiti (con ricadute particolarmente gravi per le minoranze qui presenti: yazidi, alaviti, assiro-cristiani, zoroastriani…) siano state perlomeno “pompate”, gonfiate, esasperate ad arte.
Quanto è avvenuto nelle aree curde, occupate militarmente dalla Turchia, di Afrin e di Sere Kaniyê (Nord della Siria) appare emblematico. Non essendo in grado di controllare adeguatamente le proprie milizie mercenarie (vedi l’Esercito Nazionale Siriano, Sna), Ankara si starebbe affidando direttamente al gruppo terrorista Hayat Tahrir al-Sham (Hts, successore di al-Nusra), con tutta probabilità l’emanazione locale di al-Qaeda.

Il ruolo della Turchia

Anche perché tra le fila di alcune formazioni sul libro paga di Ankara ultimamente serpeggiava, oltre al malcontento, anche una certa preoccupazione.

Le voci su un possibile riavvicinamento tra Ankara e Damasco (patrocinato da Mosca) lasciava intravedere la possibilità di venir scaricati, se non addirittura consegnati, per diversi membri delle milizie mercenarie. In quanto ricercati da Damasco potrebbero venire estradati e questo suggerisce una possibile spiegazione su alcuni episodi di insubordinazione. Come per gli scontri a mano armata intercorsi tra membri di Jabhat al-Shamiya e di Jaish al-Islam.
Tali dispute ricorrenti (oltre al rischio concreto di insubordinazione e defezione) tra le diverse fazioni di Sna (forse non adeguatamente attrezzate, oltre che sul piano politico, anche in quello religioso?) avrebbero suggerito a Erdoğan di far leva sul maggiore entusiasmo, fervore religioso (eufemismo per fanatismo) di Hts. Un fanatismo indispensabile per annichilire le minoranze “eretiche” e non omologate (tutti apostati, dissidenti, “pagani”… addirittura comunisti o anarchici talvolta) del nord della Siria. Nella prospettiva di ulteriori invasioni.
Già all’epoca delle prime manifestazioni contro il regime siriano si assisteva a una proliferazione di gruppi armati, in genere appoggiati, oltre che dalla Turchia, da alcuni stati del Golfo come il Qatar.

Negli Usa è ancora in corso il processo contro “Qatar Charity” e contro Qatar Bank per aver finanziato con 800.000 dollari il leader dell’Esercito Islamico Fadhel al-Salim.

Pulizie etnico-religiose nella Mezzaluna sciita

Per inciso, è probabile che questo stia oggi avvenendo in Iran, nel tentativo di strumentalizzare, “dirottare” altrove, le legittime proteste popolari. Con un occhio di riguardo per i beluci, già manovrati in passato anche da qualche potenza imperialista di Oltreoceano. Come da manuale, ça va sans dire, anche i beluci ci mettono “del loro”: per esempio in Pakistan alcuni gruppi indipendentisti beluci sono ritenuti responsabili di vere e proprie stragi ai danni degli hazara, un’altra minoranza, ma di fede sciita.
Va anche detto che da parte sua la Repubblica islamica sembra far di tutto per fornire pretesti in tal senso. In una recente manifestazione (4 novembre 2022) a Khach, provincia di Zahedan, le forze di sicurezza hanno ucciso una ventina di civili beluci (16 le vittime identificate, tra cui alcuni bambini) ferendone oltre sessanta. Da segnalare – stando a quanto dichiarato da alcuni attivisti – che altri feriti erano poi deceduti non essendo stati traspostati all’ospedale dove rischiavano seriamente di essere arrestati.


Un’altra strage di 90 civili beluci era già avvenuta, sempre nella provincia di Zahedana, il 30 settembre.

Appare evidente che – analogamente a quella curda – anche la popolazione minorizzata dei beluci (“minorizzata” e non minoritaria, in quanto divisa da frontiere statali) in Sistan e Baluchistan subisce quotidiane discriminazioni ed è sottoposta a una dura repressione (come del resto altre comunità delle aree periferiche del paese) da parte di Teheran.
Sia per la loro appartenenza etnica, sia per ragioni religiose in quanto sunniti.
Il comandante di al-Nusra, Al-Hana (Abu Mansour al-Maghrebi) arrestato nel 2020 in Iraq aveva rivelato che lo sceicco Khalid Sueliman (della potente famiglia al-Thani), a capo del Jabhat al-Nusra (e pare anche delle organizzazioni derivate), veniva finanziato con qualcosa come un milione di dollari al mese. Turchia e Qatar sosterrebbero, sia finanziariamente, sia con la fornitura di armamenti, i vari gruppi combattenti emanazione dei Fratelli musulmani salafiti in quanto utile strumento per la loro politica estera. Anche in chiave panislamica.

Guerra turca ai curdi in Siria

Alcune organizzazioni hanno stabilito un’analogia, per vastità e inasprimento, tra l’attuale repressione in Iran e i massacri subiti dai beluci a Deraa (in Siria) nel 2011, denunciati dall’Onu come crimini di guerra.
Storicamente accertato che potenze regionali ostili a Damasco avevano favorito la militarizzazione (vedi appunto la formazione di Sna) e l’escalation del conflitto.
Oltre che a Sna, la Turchia non avrebbe lesinato nel fornire sostegno al fronte al-Nusra (dal 2012 nella lista del terrorismo internazionale in quanto ritenuto emanazione di al-Qaeda) e addirittura a Daesh. Formazioni entrambe notoriamente jihadiste.

Quanto al fronte al-Nusra, va ricordato che nell’ottobre 2012 attaccava i distretti autonomi di Şêxmeqsûd e Eşrefiye (regione di Aleppo) uccidendo decine di curdi. Subito dopo gli ascari jihadisti si scagliavano contro Afrin, incontrando però la ferrea resistenza delle Ypg/Ypj. Nel voler annichilire in primis le zone curde del Rojava (dove si sperimentava la rivoluzione del Confederalismo democratico) il Jabhat al -Nusra si smascherava da solo, mostrando apertamente di agire su indicazione della Turchia.

Sempre nel 2012, in novembre, veniva attaccata, partendo direttamente dalla Turchia, anche Serêkaniyê. Un’operazione congiunta tra al-Nusra e alcune milizie curde collaborazioniste legate al Pdk. Entrando in alcuni dei quartieri a maggioranza araba di Serêkaniyê, queste milizie si spacciavano per ribelli antiAssad cercando di stabilire alleanze. Solo successivamente (il 19 novembre) partiva il brutale attacco contro i quartieri a maggioranza curda. Veniva assassinato il sindaco della città e la chiesa diventava un bivacco per il loro quartiere generale.

Nel frattempo la loro già consistente presenza veniva rinforzata dall’apporto della cosiddetta Coalizione nazionale (Etilaf), che – secondo i curdi – sarebbe al Etilaf di Sna o comunque della sua derivazione, il “governo di transizione siriano”. Oltre al seggio di Istanbul, Etilaf ne controlla uno anche a Berlino (oltretutto finanziato dal governo tedesco).
Avrebbe anche una certa influenza in alcuni progetti (ugualmente finanziati dal governo tedesco) che sembrano funzionare come “specchietti per allodole”, allo scopo di creare cortine fumogene sulla realtà della situazione curda. Tra questi, il Centro europeo di studi curdi (Ezks) e il sito Kurdwatch, divulgatore di notizie farlocche intese a giustificare le operazioni militari di Erdoğan nel Nord della Siria e nel Nord dell’Iraq. Ma nonostante questo ulteriore apporto di milizie, successivamente venivano scacciati dalla popolazione insorta dei quartieri curdi, grazie anche all’intervento dei combattenti di Ypg e Ypj.

Gli scontri ripresero, durissimi, nel gennaio 2013. Praticamente una vera e propria ammucchiata di gruppi mercenari guidata da al-Nusra quella che contese per circa due settimane il controllo dei quartieri alle milizie curde. Sconfitte nuovamente, le truppe jihadiste si misero in salvo direttamente oltre il confine turco (immediatamente blindato dai soldati turchi per maggior sicurezza), ma lasciando in mano ai curdi un’ampia documentazione della loro intensa collaborazione con Ankara.
Purtroppo durante la ritirata sia al-Nusra che Daesh non mancarono di vendicarsi sulla popolazione curda con una vile rappresaglia.

Come a Til Eran (luglio 2013) e a Tal Hasil. Dichiarando pubblicamente, attraverso le moschee, che sia il bagno di sangue nei confronti della popolazione curda (circa un’ottantina le vittime accertate) che il sequestro-rapimento delle donne curde (prelevate a centinaia) era giustificato dal punto di vista religioso. Rastrellando poi casa per casa le due località sopracitate alla ricerca di “Apoisti”, ossia di seguaci di Apo Öcalan. Oltre a quelli crudelmente assassinati (alcuni bruciati vivi, con le immagini poi diffuse nei social), vanno considerati anche i desaparecidos (qualche decina) e i cadaveri (una ventina) di cui non è stata possibile l’identificazione.

Til Hasil

Da sottolineare che – per quanto entrambe aspirassero alla supremazia – Al-Nusra e Daesh (o Stato Islamico che dir si voglia) non smisero mai di collaborare proficuamente. Sia garantendo una certa “osmosi” di combattenti –praticamente intercambiabili – da una formazione all’altra (in base alle necessità del momento), sia dandosi il cambio, alternandosi nel controllo delle aree occupate. E soprattutto instaurando congiuntamente durante l’occupazione delle città, dei villaggi e dei quartieri curdi un aspro regime di ispirazione salafita. Anche a livello di tribunali islamici dove operavano in coppia.

Sempre sotto la supervisione di Ankara ovviamente. L’assalto al carcere di Sina à Hesekê (gennaio 2022) era stato pianificato dai territori occupati dalla Turchia.

Come già detto negli ultimi tempi al-Nusra aveva cercato di “riciclarsi” prendendo (almeno ufficialmente) le distanze da al-Qaeda e cambiando pelle e nome. Diventando prima, nel 2016, Liwa Fatah al-Sham e successivamente, nel 2017, appunto Hayat Tahrir al-Sham (Hts, in realtà una finta coalizione di vari gruppi, sostanzialmente sotto il controllo della vecchia al-Nusra, comunque denominata). Attualmente la casa madre sarebbe localizzata in quel di Idlib, in felice coabitazione con l’alleato turco. Allo scopo dichiarato di soffocare il risorgere e la diffusione del Confederalismo democratico in questa parte del Rojava. Esperienza pericolosa perché esemplare e contagiosa, soprattutto così in prossimità del confine turco.

Dal maggio di quest’anno (a seguito dell’incontro di Idlib-Sarmada con esponenti del regime turco) le milizie di Hts hanno ripreso a riposizionarsi e raggrupparsi su Idlib puntando quindi su Afrin. Inoltre si sarebbero acquartierati anche nelle zone di Girê Spî, Azaz, al-Bab, Cerablus e intorno alla città di Minbić (ancora gestita dall’amministrazione autonoma).
Sempre in vista di ulteriori attacchi in Rojava.

Per concludere, pur essendo presto rientrato nella lista nera dei gruppi terroristi, Hts continua a godere dei finanziamenti di Turchia, Qatar, Arabia Saudita…
Pare anche di qualche non meglio identificato “paese occidentale”…

Vai a sapere.

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“Alta Marea” in America Latina https://ogzero.org/alta-marea-in-america-latina/ Tue, 08 Nov 2022 20:30:20 +0000 https://ogzero.org/?p=9403 Il Brasile svolta con fatica. I governanti sovranisti usano ogni trucco pur di non lasciare il potere: fake news, calunnie, alleanze con il peggio della società retriva e delle sette religiose; Bolsonaro ne è un modello, come Trump. Ma il Brasile ha indubbiamente svoltato non rieleggendo per la prima volta il proprio presidente al secondo […]

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Il Brasile svolta con fatica. I governanti sovranisti usano ogni trucco pur di non lasciare il potere: fake news, calunnie, alleanze con il peggio della società retriva e delle sette religiose; Bolsonaro ne è un modello, come Trump. Ma il Brasile ha indubbiamente svoltato non rieleggendo per la prima volta il proprio presidente al secondo mandato. Questo però apre a uno scenario apparentemente positivo per un Latinoamerica che vede la stragrande maggioranza dei paesi governati da esponenti di variegate sinistre, ciascuna con peculiarità diverse ed elementi che gettano ombre da un lato sull’effettiva attenzione ai diritti civili (la dinastia nicaraguense, il partito unico cubano), dall’altro sulla reale volontà di eliminare diseguaglianze, sganciarsi dal giogo neoliberista (in particolare in Cile) o dal paternalismo (il Perù di Castillo). Tutto questo produce incertezza: sarà possibile per questi governi progressisti contenere il consueto ritorno del populismo fascistoide? quale unità della nuova “Marea Rosa” si potrà ottenere con queste radici tra loro diversissime e senza un collante che vent’anni fa proveniva dal carisma di alcuni leader e dal laboratorio sociale in fermento?
Da questa situazione prende spunto Diego Battistessa, che già in altri snodi si era peritato di cogliere possibili sviluppi per le comunità latinoamericane, per riassumere le puntate immediatamente precedenti – schieramenti, accordi, patti, strategie degli ultimi 30 anni, dal crollo del muro… – e tentare di immaginare i temi che rappresentano la sfida per i progressisti sudamericani: o riusciranno a cambiare le condizioni di vita, le strutture economiche, le disparità imposte dal neoliberismo, le storture puramente mediatiche; oppure tornerà la ferocia bolsonarista, che sopravvive al fantoccio Bolsonaro.

Fin qui OGzero…   


Il Giro di Giostra

Con la vittoria di Luiz Inácio Lula da Silva in Brasile il 30 ottobre scorso, sono quasi 570 milioni le persone che a oggi in America Latina sono governate dalla sinistra: quasi il 90% di un subcontinente la cui popolazione si aggira intorno ai 640 milioni di abitanti. Tra questi paesi figurano le 5 più grandi economie della regione: Brasile, Messico, Argentina, Colombia e Cile.
Uno scenario storico che ci riporta a una nuova manifestazione espansiva della cosiddetta “Marea Rosa”, apparsa all’inizio del terzo millennio con un giro, una svolta a sinistra di molti paesi della regione latinoamericana. Oggi questa marea è ancora più estesa (da capire se anche più forte) visto che include Messico e Colombia (anche se ha perso Uruguay ed Ecuador).
Vediamo però da dove viene questa ondata di “governi di sinistra”, in quale contesto storico si è generata e soprattutto di che sinistra (sinistre) stiamo parlando quando osserviamo con maggiore dettaglio cosa succede nel contesto latinoamericano.

Doveroso a questo punto premettere la definizione di “gringo”, perché la diffidenza nei suoi confronti è uno dei collanti, forse il più viscerale per gli abitanti del Cono Sur, e allora eccolo:

Esistono varie versioni sull’origine della parola “gringo”, qui vediamo le due più diffuse. La prima versione, accreditata dalla Reale Accademia Spagnola dice che “Gringo” equivale a «straniero, soprattutto di lingua inglese o persona che generalmente parla una lingua diversa dallo spagnolo». Gringo è un’antica parola spagnola che si è evoluta dalla parola “greco”, perché quando si ascoltava parlare qualcuno una lingua sconosciuta, si diceva che ti stavano “parlando in greco”, spiega il linguista messicano Luis Fernando Lara alla BBC Mundo. La seconda versione ci riporta alla guerra tra Messico e Stati Uniti d’America nella quale i soldati messicani solevano gridare “Green go home!” riferendosi al colore dell’uniforme degli statunitensi. Sulla stessa linea un’altra versione dice che i battaglioni statunitensi erano identificati con dei colori e che quando il battaglione verde si lanciava all’attacco, nell’aria risuonava il grido: “Green go!” Ad ogni modo il termine oggi è usato in America Latina per definire in modo specifico gli statunitensi e in modo generico uno straniero: il primo uso in un testo scritto in inglese rimonta al 1849.

Il Foro de São Paulo come risposta al criminale imperialismo “Gringo”

Tutto nasce nel Foro de São Paulo, che è stato senza ombra di dubbio l’embrione di quanto oggi vediamo nella regione. Dal sito della stessa organizzazione possiamo leggere l’incipit della presentazione:

«Il Forum trae origine nel luglio 1990 dall’appello rivolto a partiti, movimenti e organizzazioni di sinistra da parte di Lula e Fidel Castro, affinché si riflettesse al di là delle risposte tradizionali sugli eventi successivi alla caduta del muro di Berlino (9 novembre 1989) e sui possibili percorsi alternativi e autonomi per la sinistra dell’America Latina e dei Caraibi».

In quel primo storico incontro parteciparono in 48, tra partiti e organizzazioni, plurali e diverse ma tutte appartenenti all’arco politico della sinistra, che firmarono la Dichiarazione di San Paolo, manifestando obiettivi precisi e una comunione d’intenti in chiave antineoliberista. In quel documento possiamo sottolineare l’intenzione di continuare a elaborare proposte di unità consensuale di azione nella lotta antimperialista e popolare, di produrre sforzi mirati alla promozione di scambi specializzati su problemi economici, politici, sociali e culturali e di definire, in contrasto con la proposta di integrazione sotto il dominio imperialista, le basi di un nuovo concetto di unità e integrazione continentale.

Un manifesto per una nuova visione latinoamericana, lontana dalla “Dottrina Monroe” (Monroe Doctrine, 1823), dall’“Operazione Condor” (Operación Cóndor, 1975-1989) e dal “Accordo di Washington” (Washington Consensus, le riforme neoliberali raccomandate nel 1989). Il preludio di quanto sarebbe successo solo 10 anni dopo…

Monroe Doctrine

Il concetto di Dottrina Monroe fa riferimento al principio della politica estera degli Stati Uniti d’America di non consentire l’intervento delle potenze europee negli affari interni dei paesi dell’emisfero americano. Questa dottrina deriva da un messaggio al Congresso del presidente James Monroe  inviato il 2 dicembre 1823 (paragrafi 7, 48 e 49). Si riassume nella famosa frase «America agli americani» dove per americani si fa ovviamente riferimento agli uomini bianchi del Nordamerica, ma soprattutto “non alle potenze coloniali”.

Operación Cóndor

«L’Operazione Condor invade il mio nido: io perdono, però non dimenticherò mai», canta il famoso gruppo portoricano Calle 13 in uno degli inni moderni della regione: la canzone lanciata nel 2011:

Quando parliamo di questa operazione, anche conosciuta come Plan Condor facciamo riferimento a una strategia di ingerenza criminale degli Usa, messa in atto per frenare l’espansione dei governi di sinistra nella regione latinoamericana. Dopo il trionfo della rivoluzione cubana (1° gennaio 1959) e i successivi falliti tentativi statunitensi di diroccare Fidel Castro, la Casa Bianca dette il via libera a una nuova strategia che “raffinava” quanto già la Cia (Agenzia Centrale di Intelligence) stava realizzando nella regione. Per contrastare l’insediamento di governi di sinistra in America Latina nei primi anni della Guerra Fredda gli Usa promossero e finanziarono diversi colpi di stato (golpe) come parte del loro interesse geostrategico nella regione. Tra questi ricordiamo il colpo di stato guatemalteco del 1954, il colpo di stato brasiliano del 1964, il colpo di stato cileno del 1973 e il colpo di stato argentino del 1976. Paesi nei quali vennero poi installate feroci dittature militari di destra, che commisero massive violazioni dei diritti umani, tra le quali detenzioni illegali di sospetti oppositori politici e/o dei loro parenti, torture, stupri, sparizioni forzate e traffico di bambini. Tutto questo sotto lo sguardo compiacente e complice degli Stati Uniti d’America che appoggiarono questi regimi fino a quando la pressione internazionale e la pressione dell’opinione pubblica interna non obbligò Washington a fare marcia indietro. Le dittature nelle quali l’intervenzionismo “gringo” ha lasciato il segno (e una lunga scia di sangue) prima e durante il “Plan Condor” sono quelle di Fulgencio Batista a Cuba, Rafael Trujillo nella Repubblica Dominicana, la famiglia Somoza in Nicaragua, Tiburcio Carias Andino in Honduras, Carlos Castillo Armas in Guatemala, Hugo Banzer in Bolivia, Juan María Bordaberry in Uruguay, Jorge Rafael Videla in Argentina, Augusto Pinochet in Cile, Alfredo Stroessner in Paraguay, François Duvalier in Haiti, Artur da Costa e Silva e il suo successore Emílio Garrastazu Medici in Brasile e Marcos Pérez Jiménez in Venezuela. I nuovi processi democratici nella regione iniziarono solo tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli Ottanta, mentre si estendeva e rafforzava tra i popoli dell’America Latina un forte sentimento antistatunitense e antimperialista.

Washington Consensus

Per Accordo di Washington si intende un insieme di “ricette” economiche neoliberiste promosse da varie organizzazioni finanziarie internazionali negli anni Ottanta e Novanta. Proposte che formavano un nuovo decalogo del neoliberismo volto ad affrontare la crisi economica del 1989 in America Latina, regione che stava vivendo una lunga e drammatica recessione, passata alla storia come il decennio perduto. Fu l’economista britannico John Williamson a coniare il termine in un suo articolo del 1989 che esaminava le dieci misure economiche professate dal Fondo Monetario Internazionale (Fmi), dalla Banca Mondiale, dalla Banca Interamericana di Sviluppo e dal Dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti d’America: tutte istituzioni con sede a Washington DC.


Anche per introdurre gli eventi del nuovo millennio con le fughe in avanti progressiste e i bruschi ritorni all’ordine reazionari va spiegato il concetto di “Socialismo del XXI secolo”:

l’espressione fa riferimento al concetto originariamente formulato nel 1996 dal sociologo tedesco Heinz Dieterich Steffan e si riferisce alla combinazione di socialismo con democrazia partecipativa e diretta. È una tendenza che cerca di dare risposte al grave problema del sottosviluppo in cui l’America Latina vive sommersa a causa delle devastazioni del capitalismo. Il socialismo del XXI secolo è una manifestazione attuale del socialismo; cioè del periodo di transizione relativamente lungo dal capitalismo al comunismo. Pertanto, questo “nuovo socialismo” prende spunto dalle precomprensioni socialiste che si trovano nei fondatori del marxismo. Il socialismo del XXI secolo presuppone uno sfondo democratico: è necessario costruire una democrazia partecipativa o diretta nella regione e in ciascuno dei suoi paesi che lasci alle spalle la tradizionale democrazia rappresentativa. Il punto di partenza deve essere la dignità inviolabile di ogni essere umano, che richiede la considerazione dell’uomo come un essere eminentemente sociale, di tendere al pieno sviluppo umano, di istituire una democrazia partecipativa, di creare un nuovo modello economico e di raggiungere un alto grado di decentramento

La prima apparizione ufficiale del termine in America Latina si deve a un discorso dell’allora presidente del Venezuela, Hugo Chávez, il 30 gennaio 2005 dal V World Social Forum.

La “Marea Rosa”: il socialismo del XXI secolo

Come detto, nel Foro de São Paulo si comincia a dare vita a un nuovo sogno latinoamericano che verrà poi plasmato da eventi storici come il primo forum sociale mondiale di Porto Alegre (Brasile) nel 2001 nel quale si forgia la consegna “Un altro mondo è possibile”. In quegli anni la regione è attraversata da enormi livelli di disuguaglianza e da una frustrazione nell’accessibilità di grandi fasce della popolazione ai diritti fondamentali: basti pensare che nel 2002 vivevano in povertà 221 milioni di latinoamericani, ovvero all’epoca il 44% della popolazione della regione. Per rispondere a questa situazione e frenare le politiche neoliberali proposte (imposte) da Washington, sorgono nuovi leader che, anche grazie alla legalizzazione della concorrenza elettorale (con la transizione alla democrazia in America Latina i partiti di sinistra hanno potuto competere per il potere), guidano i popoli oppressi della regione a una rivincita storica.

L’inizio di quella che verrà chiamata in seguito “Marea Rosa” (termine di Larry Rohter, inviato del “NY times” per seguire le elezioni in Uruguay) si ha con l’elezione di Hugo Rafael Chávez Frías in Venezuela, che assume il potere il 2 febbraio 1999. Un momento cruciale nel quale si consolida il primo governo di un partito membro del Foro de São Paulo e che segna l’inizio di un’onda socialista e progressista seguita dalle vittoriose elezioni di Luiz Inácio Lula da Silva in Brasile (2003), Néstor Kirchner in Argentina (2003), Tabaré Vázquez in Uruguay (2005), Evo Morales in Bolivia (2006), Michelle Bachelet in Cile (2006), Rafael Correa in Ecuador (2007), Daniel Ortega in Nicaragua (2007) e José “Pepe” Alberto Mujica in Uruguay (2010). Si configura quindi un nuovo assetto latinoamericano che ruota intorno a innovativi progetti di integrazione economica e politica come l’Alba e l’Unasur e che riporta Cuba e la sua rivoluzione al centro del panorama politico.

Questa prima ondata della “Pink Tide”, il termine inglese per “Mare Rosa”, subisce però una brusca frenata dopo la fine del primo decennio del 2000, situazione aggravata poi dalla forte recessione del 2012. La morte di Chavéz prima (2013) e di Fidel Castro poi (2016), gli scandali di corruzione (soprattutto Argentina e Brasile) e uno spinto “caudillismo” presidenziale che in molti casi ha spinto i leader a mettere in dubbio le basi del sistema democratico (così per come si concepisce in Europa), ha portato un risorgimento delle forze conservatrici. Partiti di destra che hanno ripreso il controllo delle principali economie della regione partendo dall’Argentina nel 2015, passando poi per il Brasile nel 2016 e per il Cile nel 2017.

Il gruppo di Lima

Nel 2017, in quel contesto e sospinto dal crollo economico Venezuelano che ha provocato un esodo di milioni di persone dal paese sudamericano (a oggi più di 7 milioni secondo l’Onu), prende forma un nuovo gruppo di lavoro con un baricentro palesemente spostato verso destra. Questo consorzio di Stati latinoamericani (e non) , prende il nome di Gruppo di Lima e si configura come un organismo multilaterale basato sulla Dichiarazione di Lima dell’8 agosto 2017. Quel giorno rappresentanti di dodici paesi ufficializzano il loro appoggio all’opposizione venezuelana contro il chavismo-madurismo, per accompagnare un processo negoziato e pacifico che possa portare al superamento della crisi multilivello del Venezuela. Vengono stabilite delle condizioni di base per la negoziazione come la liberazione dei prigionieri politici, lo svolgimento di libere elezioni con supervisione esterna, la possibilità di far entrare aiuti umanitari e la necessità di riportare una separazione di poteri nel Paese. I paesi firmatari della dichiarazione furono: Argentina, Brasile, Canada, Cile, Colombia, Costa Rica, Guatemala, Honduras, Messico, Panama, Paraguay e Perù. A questi si sono aggiunti in seconda battuta Guyana, Haiti e Santa Lucia, mentre la Bolivia si è unita con la gestione di Jeanine Áñez (oggi in carcere) dopo la crisi politica del 2019 che ha portato all’uscita di Evo Morales dal paese. Il documento ha ricevuto l’appoggio anche dell’Unione Europea, dell’Oea (Organizzazione degli Stati Americani) oltre che degli Stati Uniti d’America, Barbados, Granada e Giamaica. Con il Lima Group si configura dunque una antitesi del Foro de São Paulo che rende chiara la lotta ideologica e politica che attraversa l’America Latina. Il Gruppo di Lima ha lavorato per ottenere l’isolamento politico venezuelano, con sorti alterne e varie vicissitudini. Nicolás Maduro ha sempre potuto contare, oltre che sull’appoggio dell’alleato storico Cuba, anche sula vicinanza del Nicaragua e fuori dalla regione sul sostegno di Russia e Iran. Inoltre i circa due anni di attività del Gruppo, che formalmente non è ancora sciolto, hanno dovuto fare i conti con l’inizio di una nuova ondata socialista che ci porta alla situazione odierna e che ha visto l’Argentina (da paese fondatore e firmatario) lasciare l’organismo nel 2019, Messico e Bolivia ritirare l’appoggio all’opposizione venezuelana e disconoscere la dichiarazione, oltre allo stesso Perù che ha riallacciato relazioni diplomatiche con il Venezuela di Maduro. A questo si aggiunge la visita del 1° novembre 2022 del presidente colombiano Gustavo Petro al palazzo di Miraflores a Caracas, in un incontro storico con Nicolás Maduro che segna un nuovo riavvicinamento diplomatico tra le sue nazioni sorelle. È da immaginare che anche Lula in Brasile, da gennaio 2023 farà lo stesso.

Una nuova “Alta Marea”

La nuova ondata socialista che ha visto il suo apogeo con il voto del 30 ottobre in Brasile inizia nel 2018 con la storica vittoria di Andrés Manuel Lopez Obrador “Amlo” in Messico, continuando nel 2019 in Argentina con l’elezione di Alberto Fernández, passando poi nel 2020 in Bolivia con l’elezione di Arce, nel 2021 in Perù con Pedro Castillo, in Honduras con Xiomara Castro e in Cile con Gabriel Boric, per arrivare a questo 2022 in Colombia con Gustavo Petro e ora in Brasile con il terzo mandato di Lula.

L’analisi di questo nuovo zenit dei partiti di sinistra può estendersi a molti ambiti ma sicuramente va riconosciuto che la prima “Marea Rosa” aveva raggiunto importanti traguardi legati all’inclusione, all’equità, ai diritti e alla dignità dei popoli indigeni e alla democratizzazione delle risorse. Le donne hanno avuto accesso a posizioni di potere effettivo in politica e nell’esercito e l’agenda dei diritti umani aveva compiuto un notevole salto in avanti soprattutto riguardo a minoranze storicamente perseguitate ed escluse come il collettivo Lgbtqi+.

Ora si apre uno scenario nuovo nel quale la sinistra (le sinistre) latinoamericane si trovano a dover convivere con un contesto globale più che mai volatile e frammentato. Da un lato la guerra in Ucraina, dall’altro gli interessi economici e geostrategici di Stati Uniti d’America, Russia e Cina che per motivi diversi continuano a guardare all’America Latina come un bacino di risorse, commerciale e di influenza, per arrivare agli effetti della pandemia da Covid-19, che ha riportato le lancette dell’orologio indietro di 10-15 anni rispetto ai livelli di povertà e disuguaglianze.

Che sinistra(e) e che democrazia?

El pueblo unido, jamás será vencido” cantava la banda cilena Quilapayún in un manifesto di protesta politica e di futuro possibile che per decenni ha scaldato i cuori “rossi” dell’America Latina e non solo. Un passaggio di questa storica canzone scritta da Sergio Ortega Alvarado e lanciata nel 1973 intona: «De pie, cantar que vamos a triunfar. Avanzan ya banderas de unidad…».

Repressione del dissenso / Condivisione di linee guida socialiste

Cantiamo, in piedi, andiamo a trionfare. Stanno già avanzando le bandiere dell’unità, uno degli attacchi più famosi del mondo nei cori imponenti dei concerti degli Inti Illimani. Ma è proprio sulle bandiere dell’unità che si gioca oggi la partita nella regione. Si perché se un da un lato e in modo generico, vengono definite tutte sinistre quelle che governano oggi in America Latina, tra le stesse esistono fratture e differenze che riguardano la percezione dello stato di diritto, il rispetto dei diritti umani e il contenuto della parola democrazia. È possibile definire Cuba, Nicaragua e Venezuela degli Stati di Diritto? Secondo la definizione canonica, che ci parla degli elementi di base dello stesso (impero della legge, separazione dei poteri, rispetto dei diritti fondamentali) si direbbe proprio di no. Non solo non esiste separazione dei poteri (partito unico a Cuba, controllo totale dello stato da parte del partito di governo in Venezuela, vera e propria istituzionalizzazione della dinastia Ortega-Murillo in Nicaragua) ma assistiamo a una persecuzione totale del dissenso, una privazione del diritto di libertà di espressione e una massiva e strutturale violazione di una lunga lista di diritti umani. Attenzione perché queste critiche non vengono da governi conservatori della regione quali, per esempio quello di Guillermo Lasso in Ecuador, ma bensì da governi di una nuova (e a volte giovane) sinistra come quella di Gabriel Boric in Cile o quella di Petro in Colombia.

Le dichiarazioni del presidente cileno a inizio 2022 in un suo viaggio negli Stati Uniti d’America dove ha parlato alla Columbia University hanno marcato un chiaro punto di inflessione: «Mi dà davvero fastidio quando sei di sinistra e condanni la violazione dei diritti umani in Yemen o El Salvador, ma non puoi parlare delle violazioni degli stessi in Venezuela, Nicaragua o Cile». Aggiungendo poi che non è possibile avere un doppio standard di valutazione perché si tratta di temi di civiltà e non di ideologia. Sempre Boric nel giugno 2022, nel contesto della sua partecipazione al Summit delle Americhe a Los Angeles ha fortemente criticato la repressione del governo cubano contro i manifestanti: «Oggi ci sono delle persone incarcerate a Cuba solo per pensare diversamente (rispetto al partito di governo) e questo per noi è inaccettabile».

Insomma una prima frattura cavalcata poi anche da Gustavo Petro, che già con la fascia presidenziale non ha risparmiato critiche contro Chávez e Ortega (Venezuela e Nicaragua): «Per noi i diritti umani sono fondamentali. La prima discussione che ho avuto con Hugo Chávez mentre era in vita, e forse l’ultima prima della sua morte, riguardava proprio il rispetto del sistema interamericano dei diritti umani. Molti di noi devono la vita, incluso io, a questo sistema dal quale Chávez ha deciso di far uscire il Venezuela», ha affermato Petro in una intervista internazionale a fine giugno 2022. Parlando di Nicaragua ha poi aggiunto: «Coloro che sono imprigionati oggi in Nicaragua sono quelli che hanno fatto la rivoluzione contro la dittatura di Anastasio Somoza», sottolineando che «erano nostri amici e ora sono in prigione. E perché? Ebbene, perché ci sono delle derive che non sono più propriamente democratiche e che vanno evitate».

Le difficoltà e il rischio di risacca

Insomma una chiara e netta frattura sul rispetto dei diritti umani e sul concetto di democrazia, che non può essere sminuito solo all’esercizio del voto (soprattutto quando questo si esercita nella più totale repressione e vulnerabilità). A questo si aggiunge una instabilità interna ai vari paesi del “blocco” di sinistra che potrebbe cambiare la scacchiera con nuovi possibili ritorni di fiamma dei governi conservatori. Pedro Castillo in Perù è in crisi di governo fin dal primo giorno di presidenza e ha già affrontato due mozioni di censura e ora un processo costituzionale. Alberto e Cristina (Fernández e Kirchner) Presidente e Vicepresidente in Argentina sono in rotta da tempo e le prossime elezioni presidenziali saranno tutte in salita per la sinistra argentina. Boric è in caduta libera di consensi e la sconfitta nel referendum per la nuova costituzione cilena a settembre 2022 ha fatto capire che il suo governo cammina “sulle uova”. In Bolivia il presidente Arce ha sostituito tutta la cupola militare a inizio novembre di fronte a quella che lui stesso ha qualificato come «una minaccia di un nuovo colpo di stato». In Messico, Andrés Manuel Lopéz Obrador deve provare a spegnere un incendio dopo l’altro (a livello interno) e la sua leadership regionale è molto debole. Cuba e Venezuela affrontano due crisi migratorie (ed economiche) senza precedenti e il Nicaragua è immerso in una guerra interna contro la Chiesa cattolica, tacciata come terrorista e dissidente da Daniel Ortega. Xiomara Castro non è ancora riuscita a dare un impulso forte al cambiamento in Honduras, sommerso da narcotraffico, impunità e violenza generalizzata. Petro ha dato il primo passo diplomatico con il Venezuela ma ora dovrà concentrarsi su questioni interne come le riforme promesse in campagna elettorale, il processo di Pace con l’Eln (Esercito di Liberazione Nazionale) e la questione del narcotraffico nel paese. Rimane da vedere che impronta darà Lula a questa nuova “Alta Marea”, giacché è l’unico grande leader carismatico sopravvissuto alla prima onda della “Marea Rosa” e veterano della prima riunione del Foro di San Paolo.

Anche su questo si sono confrontati Diego Battistessa e Alfredo Somoza

“Lula riprenderà per mano il Latinoamerica?”: un dialogo a caldo sulla vittoria di Lula tra Diego Battistessa e Alfredo Somoza su Radio Blackout.

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Armi a regimi feroci: storia della diplomazia israeliana in Myanmar https://ogzero.org/armi-a-regimi-feroci-storia-della-diplomazia-israeliana-in-myanmar/ Thu, 27 Oct 2022 16:11:17 +0000 https://ogzero.org/?p=9267 Il 24 ottobre Israele ha bombardato i siti iraniani che riforniscono di armi la Russia: una scelta di campo precisa e non scontata, visti i rapporti tra le due potenze militari di reciproca tolleranza e spesso di collaborazione a prescindere da qualunque considerazione morale, che arriva a otto mesi dall’inizio della invasione dell’Ucraina. Infatti è […]

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Il 24 ottobre Israele ha bombardato i siti iraniani che riforniscono di armi la Russia: una scelta di campo precisa e non scontata, visti i rapporti tra le due potenze militari di reciproca tolleranza e spesso di collaborazione a prescindere da qualunque considerazione morale, che arriva a otto mesi dall’inizio della invasione dell’Ucraina.
Infatti è prassi per i governi di Tel Aviv intrattenere traffici con le peggiori dittature e i regimi più brutali, rifornendoli – spesso in gran segreto – di sofisticati sistemi di morte. Attingendo anche a un recente dossier pubblicato su “Haaretz” a firma dell’attivista Eitay Mack e ai dossier dell’attivismo di Justice for Myanmar, Eric Salerno ricostruisce la storia emblematica dei rapporti tra Israele dalla sua nascita con  Burma-Myanmar. Sul filo di eventi di sessant’anni fa si vede in tralice come il sistema della condivisione di armi e sistemi bellici con i regimi più autocratici sia rimasta invariata per Israele fin dalla sua fondazione; e un nuovo rapporto sull’uso di armi biologiche nel 1948 da parte dell’Haganà per avvelenare interi villaggi arabi in Palestina confermerebbe questa predisposizione. «Le cose da allora non sono cambiate», chiosa Eric, ed è interessante andare a scoprire i meccanismi ripetuti fino a oggi, che forse non a caso ora sono oggetto di studi accademici seri e circostanziati come quello di Benny Morris della Ben Gurion University e Benjamin Z. Kedar della Hebrew University di Gerusalemme sulla Guerra biologica dei sionisti.


«Sapevano, o avrebbero dovuto sapere, di essere coinvolti nella corruzione e nella cospirazione in Myanmar»

Così scrive Eitay Mack a proposito di una società in Myanmar implicata in crimini e corruzione – i cui responsabili ai massimi livelli sono stati arrestati in Thailandia con l’accusa di riciclaggio di droga e denaro. Avrebbe svolto un ruolo da intermediario tra gli esportatori di armi israeliani e la brutale giunta militare che governa il paese secondo i documenti svelati da Justice for Myanmar. Gli alti dirigenti della società mantengono legami d’affari e familiari con esponenti di spicco della giunta e dell’esercito del Myanmar. La Gran Bretagna ha imposto sanzioni alla società, Star Sapphire Trading, per i suoi legami con l’esercito di Naypyidaw durante la pulizia etnica dei Rohingya.

I documenti trapelati, e di cui l’organizzazione è entrata in possesso, sono oggetto di una lettera inviata dall’avvocato israeliano Eitay Mack al procuratore generale Gali Baharav-Miara, chiedendo l’avvio di un’indagine contro l’industria aerospaziale israeliana, Elbit e Cantieri navali israeliani per aver procurato sistemi d’arma usati per crimini contro l’umanità e genocidio , e contro figure di spicco dei ministeri della Difesa e degli Affari Esteri, incaricate di supervisionare, regolamentare e approvare commercializzazione ed esportazione di quei sistemi d’arma in Myanmar. Risulta che siano stati trasferiti a Tatmadaw anche droni, venduti da Elbit Systems e usati per commettere crimini di guerra, e i pattugliatori veloci Super Dvora MK III venduti da IAI (entrambe compagnie pubbliche controllate dal governo israeliano).

La tradizionale (e criminale) cooperazione militare

La denuncia è sempre la stessa. E l’alleanza Israele-Myanmar è soltanto un tassello di un quadro molto più vasto e inquietante. Tutti i governi israeliani, da quando è stato fondato lo stato nel 1948, hanno visto la corruzione di alcuni eserciti, certe guerre civili, la violenza di taluni regimi dittatoriali come una importante opportunità diplomatica per Israele e affaristica per l’esercito di quel paese mediorientale nonché per le industrie militari israeliane. Uno dei casi più eclatanti è stato recentemente raccontato sul quotidiano di Tel Aviv, “Haaretz”, da Eitay Mack, avvocato e attivista per i diritti umani, che ha analizzato 25.000 pagine degli archivi del ministero degli Esteri di Gerusalemme recentemente resi pubblici. Quello che deriva è un comportamento, o meglio una politica, che va avanti da sempre. Da pochi anni dopo la sua nascita, Israele infatti ha mantenuto relazioni militari con il paese asiatico che si chiamava Burma all’epoca e soltanto dal 1989 è noto come Myanmar.

«Una guerra civile assassina? Tortura? Massacro? Per Israele è terreno fertile per la cooperazione»

Riproponiamo qui con lo stesso ruolo uno dei sottotitoli del lungo e circostanziato articolo pubblicato dal quotidiano di Tel Aviv nel quale Mack, citando documenti ufficiali, dimostra come Israele ha armato, addestrato e per decenni rafforzato i regimi militari del Myanmar.

«Israele ha aiutato l’esercito a riorganizzarsi come una forza moderna, lo ha armato e addestrato e ha contribuito in modo drammatico a costruire la sua potenza e consolidare la sua presa come l’elemento più potente del paese. Quel potere inizialmente permise all’esercito di gestire il paese da dietro le quinte, e in seguito di rimuovere la leadership civile e forgiare una varietà di diversi regimi militari».

Mack è preciso, le carte che cita ufficiali e circostanziate. Non interessava ai successivi governi israeliani, scrive, che l’aiuto militare non fosse inteso a scopo di difesa contro nemici esterni, ma fosse usato per fare la guerra contro gli abitanti di quei paesi: «In tutte le migliaia di pagine, che coprono 30 anni di relazioni, non c’è nemmeno un rappresentante israeliano che esprima un’obiezione alla vendita di armi al Myanmar». Vale la pena riprendere alcune delle affermazioni di Mack tratte dalla documentazione ufficiale.

«Un cablogramma inviato dall’ambasciatore israeliano in Birmania nel dicembre 1981 riassume bene l’essenza delle relazioni tra i paesi dal 1949. L’ambasciatore, Kalman Anner, ha riferito al direttore dell’Asia Desk del ministero degli Esteri di aver incontrato il ministro degli Esteri birmano nel tentativo di persuaderlo a sostenere Israele nelle votazioni delle Nazioni Unite. “Israele è uno dei paesi più amichevoli con la Birmania, e la Birmania è un paese estremamente amichevole con Israele”, scrisse nel 1955 Mordechai Gazit, membro dello staff dell’ambasciata israeliana a Rangoon (ora Yangon), mentre riferiva di un incontro con il capo segretario del primo ministro birmano U Nu. “[Il segretario capo] ha osservato che i due paesi stanno cooperando strettamente nell’arena delle Nazioni Unite. Spiegando da dove deriva questa amicizia, ha notato che Israele e la Birmania sono gli unici paesi socialisti in Asia”».

La parola “socialismo” fu ampiamente usata, direi abusata, per giustificare la vicinanza politica dei due paesi: «Un cablogramma – scrive Mack – fu inviato al primo ministro David Ben-Gurion dal ministero degli Esteri nel settembre 1952 in cui affermava che la guerra civile in Birmania aveva causato fino ad allora 30.000 vittime e che “il 55% del bilancio statale è stanziato fino a oggi per scopi di difesa”».

Parlamento birmano negli anni Cinquanta

Gli accordi del 1955

Nel 1955, i due paesi arrivarono a un accordo: armamento massiccio e addestramento militare, in cambio di spedizioni annuali di migliaia di tonnellate di riso dalla Birmania. La corrispondenza vista da Mack e resa pubblica in Israele offre un quadro preciso e dettagliato dell’accordo. Da Tel Aviv, in cambio delle spedizioni di riso, sono arrivati nell’ex Birmania 30 aerei da combattimento, munizioni, 1500 bombe al napalm, 30.000 canne di fucile, migliaia di ordigni di mortaio e equipaggiamento militare, dalle tende all’attrezzatura per il paracadutismo. Inoltre, dozzine di esperti israeliani venivano inviati in Birmania per addestrare i soldati mentre ufficiali dell’esercito birmano furono condotti in Israele per un’istruzione completa sulle basi dell’Idf. Dai documenti risultano l’addestramento dei paracadutisti e quello per i piloti di caccia dell’aviazione birmana. In collaborazione con l’esercito birmano, Israele ha anche fondato in Myanmar società di navigazione, agricoltura, turismo e costruzioni.

«I birmani menzionavano spesso il grande aiuto che ricevevano da noi», risulta questo scritto da un delle carte del ministero degli Esteri, Shalom Levin, un diplomatico israeliano a Rangoon, inviata al direttore generale del ministero della Difesa Shimon Peres nel dicembre 1957. «L’equipaggiamento arrivava proprio quando ne avevano bisogno, per le operazioni contro i ribelli».

La società militarizzata, un modello targato Idf

Risulta che Israele abbia istituito una scuola per il combattimento aereo e terrestre in Birmania e la Birmania attinto all’assistenza di Israele per organizzare il suo esercito sulla base del modello dell’IDF di una divisione in corpi e in forze regolari e riserviste. Una serie di cablogrammi inviati alle legazioni israeliane nell’Asia orientale e citate da “Haaretz” ha fornito dettagli su una delegazione birmana di alto rango che era venuta in Israele per «imparare i metodi dell’Idf». La delegazione ha visitato una base di assorbimento e addestramento, il produttore di armi Israel Military Industries, basi di addestramento per l’amministrazione militare e per le nuove reclute, il comando centrale, una brigata di fanteria e il corpo di artiglieria. Inoltre, secondo un documento, «ufficiali di stato maggiore sono stati inviati per studiare la questione della mobilitazione della manodopera in Israele, i metodi di mobilitazione, la legge sul servizio di difesa [coscrizione obbligatoria] e simili».

Nel 1958 all’ombra di una profonda crisi politica ed economica e sullo sfondo della guerra civile in corso – infuriava da un decennio – il governo birmano crollò e subentrò un regime guidato dal gen. Ne Win. «L’esercito sta prendendo il controllo di molte aree della vita», ha scritto Zvi Kedar, il secondo segretario dell’ambasciata israeliana a Rangoon, in un cablogramma del dicembre dello stesso anno. «La stessa stampa è stata anche colpita dalla promulgazione di leggi di emergenza che limitano la libertà di scrittura… Sono stati effettuati ampi arresti tra i leader di gruppi di sinistra che hanno legami con i ribelli».

Ben Gurion passa in rassegna le truppe con Ne Win nel 1959

Israele, tuttavia, ha visto dei benefici nell’arrivo di un generale a capo del governo:

«Nonostante le numerose crisi interne che hanno afflitto la Birmania negli ultimi anni, l’amicizia Israele-Birmania rimane salda ed è stata in realtà notevolmente rafforzata nell’ultimo anno, da quando il governo è effettivamente passato nelle mani dell’esercito», ha scritto un ministero degli Esteri del giugno 1959. «Gli amici più fedeli di Israele sono principalmente nei circoli dell’esercito».

Ne Win visitò Israele quel mese. Incontro il primo ministro Ben-Gurion e il capo di stato maggiore, il capo della polizia, alcuni ufficiali dell’Idf, ha visitato le basi dell’esercito e, rilevano i documenti ufficiali dell’epoca, ha ricevuto in regalo un centinaio di fucili mitragliatori Uzi. Armi moderne considerate le più efficienti dell’epoca. Mark cita un episodio che definisce particolarmente strano nel coinvolgimento di Israele in Birmania. «I birmani, a quanto pare, consideravano Israele un’ispirazione per i programmi di insediamento di terre e tentavano di insediare personale militare in regioni abitate da minoranze etniche ribelli, nello stile degli avamposti della Brigata Nahal dell’Idf». Un’indagine del giugno 1959 redatta dall’Asia Desk del ministero degli Esteri citava un piano in Birmania per stabilire «locali di insediamento costruiti secondo il piano del distretto di Lachish, nel formato di un moshav dei lavoratori cooperativi israeliani, con i gruppi principali [di coloni] composto da ex militari». Agli esperti agricoli israeliani inviati nel cuore della patria della minoranza etnica shan, che si era ribellata al governo centrale era subito chiaro che la popolazione locale era ferocemente contraria al piano, vedendolo come un tentativo di invasione. «Lo stato Shan non ha assolutamente alcun desiderio per un piano di insediamento birmano o israeliano, e certamente non il nostro piano congiunto», scrisse Daniel Levin, ambasciatore di Israele in Birmania, nel 1958.

Col tempo cambiano i leader, non le prassi

Cambiarono i leader politici ma non la politica e la collaborazione tra il paese asiatico e Israele. «Questa sera l’esercito ha preso il potere», riferì a Gerusalemme in un cablogramma nel marzo 1962 l’ambasciata israeliana in Birmania. «Secondo notizie non confermate, tutti i ministri tranne il primo ministro e i ministri dell’istruzione e delle finanze sono agli arresti domiciliari. Tutto il traffico aereo è stato interrotto. Pattuglie dell’esercito in tutti gli angoli della capitale. Prevale la quiete assoluta». Tre mesi dopo quel colpo di stato, il viceministro della Difesa, Shimon Peres giunse in Birmania per incontrare i vertici del governo militare. «Il signor Peres ha dichiarato a nome del primo ministro che Israele è interessato, come sempre, ad aiutare su ogni argomento e in qualsiasi modo deciderà il generale», si legge in un memorandum.

Poche settimane dopo l’incontro con Peres, Ne Win, a quel punto capo del Consiglio Rivoluzionario, ordinò il massacro degli studenti che stavano tenendo manifestazioni a Rangoon: «I soldati hanno sparato sulla folla», scrisse Michael Elitzur, un consigliere dell’ambasciata israeliana, nel luglio 1962. Raccontò come l’esercito avesse demolito un edificio universitario dove gli studenti si erano barricati. Le autorità hanno fatto in modo che non si tenessero funerali pubblici per le vittime. È stato uno spettacolo scioccante vedere centinaia di persone – molte delle quali genitori e parenti di coloro che sono stati uccisi e feriti – riunirsi nel silenzio più totale intorno al Policlinico… Due giorni dopo, è stata ordinata la chiusura di tutti gli istituti di istruzione in tutto il paese. Elitzur riferì inoltre che i servizi di sicurezza avevano fatto sparire dozzine di altri studenti. I massacri da parte di Tatmadaw non sono mai stati sospesi fino all’ultimo raid –per ora – del 24 ottobre 2022: 4 bombe su un concerto per celebrazione dell’organizzazione per l’indipendenza kachin sganciate da un aereo militare che hanno ucciso 80 persone, ferendone almeno 70.

Kansi, una cittadina del distretto di Hkpant nello Stato nordorientale del Kachin, bombardata dall’aviazione birmana durante un concerto in corso per celebrare la resistenza Kachin il 23 ottobre 2022

Molti altri i documenti citati da Mack che ha rilevato come «La rottura, per periodo breve, del rapporto economico non ha portato Israele a smettere di sostenere la Birmania all’Onu, né ha comportato la cessazione degli aiuti militari al regime. Una parte considerevole delle esportazioni israeliane verso la Birmania è destinata all’esercito birmano (equipaggiamento militare, provviste, prodotti chimici delle industrie militari israeliane e così via)», scrisse Daniel Levin, allora direttore dell’Asia Desk, nel gennaio 1966.

Consiglieri militari, addestratori all’antiguerriglia… e al pogrom

In un cablogramma dell’aprile 1966, l’addetto militare israeliano in Birmania, il colonnello Asher Gonen, chiese l’approvazione al colonnello Rehavam Ze’evi, all’epoca assistente capo della divisione operativa dell’Idf, per un nuovo programma per addestrare i comandanti del battaglione birmano in Israele, con l’obiettivo di combattere i ribelli. Il programma includeva un corso da quattro a sei mesi in Israele con addestramento per una brigata di fanteria e una brigata aviotrasportata, integrazione della difesa territoriale, operazioni con il paracadute, problemi di manutenzione, artiglieria, comunicazioni, combattimento e partecipazione alle manovre. Nel marzo 1966, l’allora capo di stato maggiore Yitzhak Rabin visitò la Birmania. Un anno più tardi – giugno 1967 –, il diplomatico Zeev Shatil, rilevò che «a partire dalle 11:00 [AM], iniziò un pogrom organizzato e sistematico contro i residenti cinesi di Rangoon, che è davvero difficile da descrivere. Gruppi organizzati andavano di casa in casa e di negozio in negozio, buttavano via tutti i loro averi, li ammucchiavano e vi appiccavano il fuoco per le strade. Dalle finestre dei piani superiori sono stati lanciati oggetti in strada e nelle strade sono state date alle fiamme le auto… Fonti, non confermate, parlano di circa 30 morti e più di 100 feriti, alcuni gravemente».

La situazione non migliorò e pochi anni dopo, nel gennaio 1982, un funzionario dell’ambasciata, Avraham Naot, scrisse di aver parlato con un alto funzionario del ministero degli Esteri birmano di un’altra “crisi”: «Era chiaro … che il paese deve fare tutto il possibile per impedire alla popolazione musulmana in Birmania di crescere attraverso l’immigrazione dai paesi vicini». Nel mirino c’erano e ci sono ancora i Rohingya. Israele e Birmania hanno creato un collegamento tra servizi segreti e ambasciata israeliana in Birmania che ha ricevuto una busta dal Mossad contenente materiale di intelligence da trasmettere alla sua controparte birmana in merito alla attività «sotterranea musulmana nel Sudest asiatico [che opera sotto l’ispirazione] dell’Iran e della Libia». Le cose da allora non sono cambiate e nel novembre 2019, Ronen Gilor, ambasciatore di Israele in Myanmar, ha twittato un messaggio di sostegno e auguri di successo ai capi dell’esercito del Myanmar in merito alle deliberazioni in corso contro di loro presso la Corte internazionale di giustizia a L’Aia con l’accusa di genocidio contro il popolo Rohingya. «Incoraggiamento per un buon verdetto e buona fortuna!» Gilor ha scritto.

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La carne da cannone imparerà mai a sfuggire al macello? https://ogzero.org/la-carne-da-cannone-imparera-mai-a-sfuggire-al-macello/ Sun, 23 Oct 2022 12:11:03 +0000 https://ogzero.org/?p=9239 Khinstein, un consigliere di Putin, ha dichiarato che la Rosgvardiya metterà sotto maggiore sorveglianza gli uffici di reclutamento di carne da cannone dopo i molti attacchi subiti: evidentemente la propaganda delle operazioni speciali produce invece una consapevolezza sempre più estesa della necessità di boicottare la coscrizione, un recupero da parte dei civili di quella resistenza […]

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Khinstein, un consigliere di Putin, ha dichiarato che la Rosgvardiya metterà sotto maggiore sorveglianza gli uffici di reclutamento di carne da cannone dopo i molti attacchi subiti: evidentemente la propaganda delle operazioni speciali produce invece una consapevolezza sempre più estesa della necessità di boicottare la coscrizione, un recupero da parte dei civili di quella resistenza di stampo novecentesco contro qualunque aspetto abbia attinenza con il mondo militare. A un istintivo moto di sottrazione al reclutamento in una guerra zarista cominciano a moltiplicarsi gli episodi di sabotaggio. Questo si spiega anche con l’analisi della provenienza di classe e dalla periferia dell’impero degli arruolati; e proprio da questo prende spunto Yurii per illustrare in una cavalcata attraverso il territorio della Federazione e i luoghi della diaspora, inseguendo resistenza, controinformazione antimilitarista contrapposta alla propaganda del Cremlino… mobilitazioni di madri, mogli, figlie. Ma Yurii non tralascia nemmeno l’arruolamento ucraino, altrettanto subdolo perché si affida a una censura preventiva di chi si fa passare per la parte buona del conflitto; tuttavia l’impegno internazionalista di Assembly scoperchia la bugia dell’unità nazionale che si regge solo come contrasto all’aggressore. 


La mobilitazione “parziale” dell’esercito della Federazione russa imposta da Putin il 21 settembre ha fatto entrare il conflitto russo/ucraino in un una nuova fase che pone non poche domande sia sulla consistenza e reale tenuta dell’esercito della Federazione che sui particolari caratteri di classe e sulle ricadute sociali della guerra stessa.

La propaganda e la guerra ai poveri

I contorni stessi della mobilitazione di carne da cannone sono rimasti vaghi. Formalmente il ministro della difesa russa Sergej Shojgu ha parlato di 300.000 uomini ma resta aperta l’incognita dell’ormai famosi punto 7 del decreto di Putin che si sussurra dovrebbe prevedere il suo ampliamento fino a un milione di uomini in caso di necessità (era già stato previsto l’aumento di 137.000 membri combattenti dell’esercito entro il 1° gennaio 2023).
Il maggiore successo di reclutamento è avvenuto, senza sorpresa alcuna, nelle regioni più povere e degradate del paese. Già ci s’avvicina al 100% dei riservisti programmati presenti nei campi di addestramento o addirittura ormai al fronte, carne da cannone proveniente da regioni come la Cecenia (reddito pro capite annuo 2170 dollari), dal Kabardino- Blakaria (2670 dollari), dalla Buritia (3650 dollari), dall’Altaj (3730). Si tratta di popolazioni anche con tassi di scolarità tra i più bassi della Federazione e quindi più indifesi di fronte alla propaganda sciovinista dei mass-media e dei social network.

Una recente indagine ha portato alla luce che il 69% dei russi non è mai stata all’estero, mentre oltre il 50% non ha neppure il passaporto. Nelle regioni più povere la mancanza di passaporto supera l’80%. Non si è mai viaggiato all’estero per mancanza di mezzi materiali ma anche per mancanza di curiosità culturale. Sono loro la vera “carne da cannone” che hanno alimentato lo sforzo bellico putiniano negli ultimi 8 mesi.

Le cose cambiano radicalmente quando si arriva nelle capitali storiche della Russia, San Pietroburgo e Mosca. Nella città sulla Neva hanno risposto alla lettera di mobilitazione solo il 18% dei riservisti, a Mosca peraltro sono state chiamate a servire la nazione in Ucraina solo 14.000 persone ma buona parte di queste al momento della chiamata avevano già preso la strada dell’esilio. Non è certo un segreto che chi ha seguito la via della fuga appartiene socialmente – in buona parte – a quegli strati della società che potremmo definire “ceto medio” e che condividono “valori occidentali”. Le lunghe teorie di uomini che si sono visti nei primi giorni della mobilitazione attraversare le frontiere con ogni mezzo disponibile però non sono solo giovani; spesso si tratta di intere famiglie che abbandonano il paese definitivamente.

Renitenti a Volgograd

Esposizione infame a Volgograd delle foto dei renitenti

«Non voglio e non posso attendere – ci dice Igor 32 anni di Samara – quando cambierà qualcosa in Russia. Proverò a ricostruirmi una vita in Germania se riuscirò a raggiungerla».

Per ora è andato in Kazakistan e da lì spera di avere un visto europeo, con lui la moglie e il figlio di tre anni. Anche l’emigrazione verso Israele per chi ha sangue ebraico è molto gettonata:

Valerij è ora in Tajikistan: “Si tratta del paese in cui la vita costa di meno, ma sto preparando i documenti per volare a Tel Aviv e ottenere il passaporto israeliano».

Ma quasi nessuno degli oltre 30.000 che hanno fatto per ora richiesta del passaporto d’Israele intende fermarsi lì: «Troppo difficile inserirsi lavorativamente», dice ancora Valerij che sogna i paesi scandinavi.

Il dissenso al minimo sindacale

La decisione della dirigenza di tenere le frontiere aperte (ma nel Donbass con la dichiarazione della Legge marziale sono state prontamente chiuse) si basa su un calcolo cinico: più oppositori e refrattari alla leva se ne andranno, meno potenziali movimenti interni no-war potranno svilupparsi nel futuro. Si tratta tuttavia di calcoli che potrebbero rivelarsi superficiali, se la guerra dovesse continuare a lungo e la lista dei morti e degli invalidi diventasse insostenibile. Del resto le manifestazioni delle donne in Daghestan contro l’invio dei mariti e dei figli al fronte come carne da cannone la dice lunga su come si stia incrinando la narrazione putiniana sulla guerra. Non era mai avvenuta una mobilitazione spontanea di donne musulmane all’interno dei confini della Federazione russa e segnala quanto potrebbe essere inedita la crescita del femminismo in Russia.

I residenti del villaggio di Endirey in Daghestan hanno bloccato l’autostrada federale La polizia spara in aria a Khasavyurt-Makhachkala, dove le donne avevano inscenato una protesta contro la “mobilitazione parziale” dei loro uomini

Allo stesso tempo è evidente che i caratteri del rifiuto della guerra, per certi versi, assumono caratteristiche diverse da quelli della Prima guerra mondiale e pongono in modo nuovo la questione della lotta contro la guerra. Il’ja Budraytskis uno dei più importanti attivisti e intellettuali russi di sinistra, che ha deciso malgrado tutto di restare nel paese, ritiene che «ci sono importanti cose che chi ha deciso di emigrare può comunque fare». Come per esempio creare dei collegamenti stabili sia con gli altri fuoriusciti nei diversi paesi, naturalmente con chi sta in Russia al fine di giungere a una piattaforma comune di chi è contro la guerra. E allo stesso tempo produrre dei materiali di propaganda per chi è andato al fronte, lo sviluppo sistematico di una controinformazione sull’andamento reale del conflitto (anche se ricordiamo che ai reclutati russi a differenza di quelli ucraini sono stati tolti gli smartphone).

Straccioni mercenari, la carne da cannone

Come già nel caso dei contractors e dei “volontari” reclutati nei mesi precedenti, la parziale mobilitazione è stata selettiva in termini di classe anche sotto altri profili: non è casuale che la maggior parte dei mobilitati (secondo i dati ufficiali 230.000) sono attratti dalla possibilità di ricevere paghe da 200.000 rubli al mese (media nazionale 50.000) e moltissimi benefit quali la possibilità di formazione professionale e la possibilità di acquistare una casa a tassi agevolati nel dopoguerra.

Per esempio il governatore della Yugra, Natalija Komarova, ha deciso di fissare la paga del mobilitato a ben 250.000 rubli e altrettanti al momento della smobilitazione. Alle Sakhalin, in Chukotka e Yamal, si va anche oltre: pagano subito 300.000 rubli a testa. In Jakutia, il presidente Aisen Nikolajev ha addirittura emanato un decreto speciale in cui si afferma che, oltre a vari benefici, le famiglie dei residenti mobilitati riceveranno anche una somma forfettaria di 200.000 rubli. È stata diffusa un’altra promessa del presidente della Crimea Sergej Aksenov: ogni coscritto riceverà anche 200.000 rubli dalle autorità dell’unità militare in cui è stato arruolato. Il denaro dovrà arrivare sulla carta entro cinque giorni. Sembra che siano stati promessi 100.000 rubli ciascuno nelle regioni di Belgorod, Irkutsk, Kursk, Omsk, Tula, Adjgea e in diverse altre regioni.

La mobilitazione ha anche il suo lato industriale: andare a combattere spesso significa abbandonare posti di lavoro che sono comunque utili allo sforzo bellico neozarista nelle retrovie.

Gli operai della fabbrica non hanno voglia di combattere. A poco a poco dal fronte vengono a conoscenza della mancanza di tutto ciò di cui hanno bisogno e che devono comprare tutto a proprie spese, che vengono portati al fronte senza preparazione. Non ci sono nemmeno persone che hanno lasciato [il paese].

Dicono: «Dove potremmo andare? Siamo operai. Nessuno vuole gente come noi, cazzo» (l’intervistato si definisce operaio, ma si tratta di un ingegnere della difesa); e aggiunge: «L’atteggiamento dei soldati all’ufficio di arruolamento militare è brutale, ci chiamano “usa e getta”, prendono tutti indistintamente. Come se ci stessero preparando per il macello… Le persone sono diventate nervosissime, ci sono molti casi di depressione. Di fronte alla morte la loro paura della repressione svanisce», afferma un tecnico di una fabbrica di San Pietroburgo.

Molti, tuttavia, accettano il loro destino con fatalismo (tipicamente russo) e non sembrano essere pienamente consapevoli del grado di pericolo. Un fatalismo che molti pagano con la vita: secondo i servizi segreti britannici (che forniscono gli unici dati “equilibrati”) a settembre le perdite russe sarebbero state di oltre 16.500 uomini a cui aggiungere almeno 35.000 feriti).

La propaganda nazionalista di Kyiv basata sulla censura

“Dall’altra parte della barricata” le informazioni sono assai più ridotte. Da una parte sembra funzionare bene una certa censura “preventiva” messa in atto dal ministero della difesa ucraino, dall’altro, i fenomeni di diserzione e anche di malcontento tra le truppe sembrano essere più limitati temporaneamente. In questo senso l’arma della mobilitazione nazionalista sembra aver funzionato molto più per Zelenskij che per Putin e un certo grado di motivazione a combattere è presente sia nell’esercito regolare che tra le Unità Territoriali volontarie. Come ha ricordato da questo punto di vista Assembly, un gruppo libertario di Kharkhiv impegnato nella solidarietà internazionalista ma piuttosto tiepido verso la partecipazione alla “resistenza armata”:

«Dovremmo capire che l’unità nazionale degli ucraini intorno al potere di Zelenskij si basa solo sulla paura della minaccia esterna. Pertanto, gli atti sovversivi contro la guerra in Russia sono indirettamente una minaccia anche per la classe dirigente ucraina, ed è per questo che consideriamo il loro sostegno informativo un atto internazionalista».

Il malcontento sotto le braci dell’occupazione

Allo stesso tempo gli attivisti di Assembly ricordano come «nonostante l’assenza di una differenza qualitativa tra gli stati in guerra, essi differiscono quantitativamente: se tutti i soldati russi smettono di combattere, la guerra finirà, se lo fanno i soldati ucraini, finirà l’Ucraina. La zona di occupazione inizia a 20 km dalla circonvallazione della nostra città, e sappiamo cosa significa: la “scomparsa” di tutti gli abitanti almeno un po’ attivi e l’età della pietra per il resto della popolazione. Allo stesso tempo, dopo che le truppe russe hanno perso per lo più il loro potenziale offensivo, un’ondata di malcontento sociale ha iniziato a manifestarsi anche in Ucraina – ne abbiamo già parlato».

Il diritto a uscire dal paese e non partecipare al conflitto è anche rivendicato da Assembly, tuttavia la formale mobilitazione generale e la chiusura delle frontiere per i maschi in età adulta grazie alla diffusa corruzione nella società ucraina è stato spesso risolto praticamente da chi non intende fare da carne da cannone: secondo alcune fonti bastano poco più 100 dollari per “oliare” le guardie alla frontiera.
La diserzione vera e propria si è quindi concentrata nei periodi di maggiore difficoltà per l’esercito ucraino, durante la lunga offensiva russa nel Donbass di primavera scorsa. In quel periodo lo stesso presidente ucraino sosteneva che il suo esercito perdeva 200-300 uomini al giorno. Come riportava l’agenzia di stampa russa “Tass” all’epoca:

«I casi di diserzione delle truppe ucraine sono sempre più diffusi», ha dichiarato il servizio stampa del Ministero della Difesa. «Così, nei pressi del villaggio di Aleksandropil nella Repubblica Popolare di Donetsk, più di 30 militari ucraini di uno dei battaglioni della XXV Brigata aviotrasportata, dopo aver abbandonato le armi personali, hanno lasciato volontariamente le loro posizioni», si leggerà sull’agenzia russa.

Altri si erano avuti a inizio estate: il 22 giugno il Ministero russo ha dichiarato che i militari della 57a brigata di fanteria motorizzata ucraina che difendevano gli insediamenti di Gorske, Podleske e Vrubovka nella Repubblica Popolare di Luhansk, dopo aver perso oltre il 60% degli uomini, si sono rifiutati di eseguire gli ordini e hanno abbandonato volontariamente le loro posizioni.

Scarsi o nulli invece i fenomeni di fraternizzazione tra soldati dei due paesi slavi anche se alcune decine di soldati russi, dopo l’inizio della mobilitazione si sono volontariamente consegnati prigionieri alle Forze armate di Kyiv, pur di non combattere.

Il ministero della Difesa ha dichiarato che il comando ucraino è stato costretto a formare battaglioni separati di armi leggere con cittadini mobilitati non addestrati per compensare le perdite.


Questo articolo ha avuto un prequel embrionale in un intervento di Yurii su Radio Blackout  l’11 ottobre 2022. Ecco il podcast che espone ulteriormente l’analisi relativa ai tentativi di resistenza antimilitarista durante l’“Operazione speciale”:
“Quale narrazione della guerra in Ucraina esula dalla propaganda militare?”.

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Vecchie corone e turbanti consunti, curdi e beluci sudditi dell’impero persiano https://ogzero.org/vecchie-corone-e-turbanti-consunti-curdi-e-beluci-sudditi-dellimpero-persiano/ Tue, 18 Oct 2022 20:20:44 +0000 https://ogzero.org/?p=9151 Ospitando queste considerazioni di Gianni Sartori comparse su “Osservatorio repressione” proseguiamo l’interesse per un movimento che non accenna ad arrendersi al brutale massacro di forze di una brutale polizia che fin dai tempi della Savak della famiglia Pahlevi è famigerata per le sue efferatezze; ma la storia fa ben sperare, perché quando il popolo iraniano […]

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Ospitando queste considerazioni di Gianni Sartori comparse su “Osservatorio repressione” proseguiamo l’interesse per un movimento che non accenna ad arrendersi al brutale massacro di forze di una brutale polizia che fin dai tempi della Savak della famiglia Pahlevi è famigerata per le sue efferatezze; ma la storia fa ben sperare, perché quando il popolo iraniano è esausto non recede fino al rovesciamento del potere. Non sappiamo quale sarà l’epilogo ma la determinazione meriterebbe migliori analisi da parte dell’Occidente. Sartori ha il merito di usare occhiali che pescano nell’immaginario ipocrita che attraverso gli organi di stampa mainstream evidenziano episodi, a tratti beatificano, ma poi non considerano il patriarcato e si focalizzano esclusivamente sulla questione del velo senza considerare le istanze sociali e politiche che alimentano il movimento e senza accorgersi del tentativo di organizzazioni nostalgiche dello sha’ intente a scippare le lotte, cercando di replicare la manovra degli ayatollah che sterminarono i rivoltosi progressisti che avevano cacciato i Pahlevi. 


L’antifascismo nelle piazze iraniane

Affrontando i nostalgici del passato e gli oscurantisti del presente

Qualche considerazione, mi auguro non “allineata”, su quanto sta avvenendo in Iran. Già in precedenza avevo sottolineato come l’autodeterminazione dei popoli in generale e l’indipendentismo in particolare, siano divenuti una variabile “USA e getta” a seconda degli interessi geostrategici in gioco. Quella che uno studioso catalano aveva definito “indipendenza a geometria variabile”, di cui si è esaustivamente parlato in un articolo precedente. Gli esempi dei “due pesi e due misure” si sprecano, come avevo segnalato qualche anno fa (in epoca non sospetta) nella “postfazione” a un mio libro sui curdi.
E i curdi, da questo punto di vista, non fanno certo eccezione, se pur loro malgrado.
Beatificati qualche anno fa quando si facevano massacrare per sconfiggere l’Isis, erano stati poi – di fatto – dimenticati. Abbandonati in balia delle milizie islamiste filoturche in Rojava, sotto i bombardamenti turchi (anche con armi proibite dalla convenzione di Ginevra) in Bashur e sepolti vivi nelle carceri di sterminio in Turchia.
Quanto al Rojhilat (il Kurdistan sotto amministrazione iraniana), se si esclude in passato qualche tentativo di strumentalizzazione da parte del Mossad, parevano completamente scomparsi dal radar. Nuovamente alla ribalta in quanto tra i principali protagonisti della rivolta in corso (innescata dall’assassinio di una donna curda, Jina Amini) tornano a godere di qualche attenzione – interessata – da parte dei media occidentali.
Women Life Freedom
Talvolta in maniera paradossale. In un recente articolo apparso su un noto quotidiano italico si celebra “l’arte di resistere” di questo popolo indomito, ma – a mio avviso – in modo alquanto parziale. Ben due paginoni per ricordare, oltre alla lotta contro l’Isis e Daesh, perfino il “rapporto turbolento” dei curdi dell’Iraq con Bagdad e dilungarsi – addirittura – sulle antiche battaglie dei Carduchi (probabili progenitori dei curdi) celebrate da Senofonte in Anabasi.
Ma nessun accenno al Bakur (il Kurdistan sotto occupazione turca) o al “Mandela curdo” Ocalan.

L’analisi deve considerare molti aspetti

Riproponendo comunque una visione riduttiva – sempre a mio modesto avviso – dell’attuale crisi iraniana interpretata come legata essenzialmente alla questione dell’hejjab. In realtà ritengo che il problema, in particolare per le donne curde, sia leggermente più complesso. Andarsi a rivedere le percentuali di donne impiccate per essersi ribellate al patriarcato (con le minorenni – in genere vittime di matrimoni combinati – che se accusate di aver ammazzato il marito o un cognato, rimangono in cella in attesa della maggiore età e dell’esecuzione).

La rivolta in carcere dei fomentatori curdi

Del resto anche la rivolta nel famigerato carcere di Evin (a Teheran) sembrerebbe essere stata innescata (nella serata del 15 ottobre) dai prigionieri politici curdi.
Non i soli qui rinchiusi, ovviamente (ci sarebbero anche personaggi noti, in quanto stranieri, come la franco-iraniana Fariba Adelkhah e almeno fino alla fine di settembre lo statunitense di origine iraniana Siamak Namazi).
Per completezza va riportata anche un’altra inquietante ipotesi. Ossia che potrebbero essere state le stesse autorità carcerarie ad appiccare l’incendio come pretesto per eliminare dei pericolosi dissidenti.
Evin Prison

L’egemonia imperiale persiana

I seguaci dello sha’ cercano di scippare le lotte

In ogni caso, oltre a strumentalizzare le lotte dei curdi, stavolta si è fatto avanti anche chi vorrebbe ora emarginarli, ridimensionare il ruolo fondamentale che questa “minoranza” ha avuto, insieme ai beluci, nella rivolta in atto ormai da oltre un mese.
Il 15 ottobre a Londra, a una manifestazione di sostegno ai manifestanti e rivoltosi iraniani, i nostalgici dell’artificiosa monarchia decaduta nel 1979 hanno cercato di allontanare coloro che inalberavano bandiere del Kurdistan e del Belucistan, in quanto, secondo i seguaci della buonanima di Mohammad Reza Pahlavī, “non graditi”.
E rivendicando il fatto che nel 1936 Reżā Shāh Pahlavī (il padre di Mohammad Reza) aveva proibito per decreto l’uso di hijab e chador. Ma sorvolando, al solito, sulle concessioni fatte tre anni prima alla Anglo-Persian Oil Company, operazione a cui tenterà di porre termine nel 1951 Mossadeq (poi destituito con un colpo di stato imbastito da Usa e G.B.) riuscendo anche per un breve periodo ad allontanare lo sha’ dal Paese.
E così i tardi epigoni di quel regime crudele (ricordate le brutalità, le torture commesse tra il 1957 e il 1979 dalla polizia segreta, la Savak?), mentre con grande faccia tosta pubblicamente invocano l’unità del popolo iraniano contro l’attuale regime, negano a priori i diritti dei popoli minoritari (ma sarebbe più corretto definirli “minorizzati” in quanto sia i curdi che i beluci vivono separati in vari stati, divisi dalle artificiose frontiere).
Popoli sottoposti all’egemonia persiana e a cui viene tuttora negato il diritto alla propria lingua e cultura. Per non parlare di quello all’autodeterminazione.
Oggi con gli ayatollah così come ieri con lo sha’.
Fatti del genere, oltre che a Londra, erano già avvenuti a Parigi davanti all’Hôtel de Ville il 6 ottobre.
Durante – si badi bene – l’omaggio reso dalla sindaca di Parigi Anne Hidalgo a Jina Amini, la giovane curda uccisa dalla polizia.
Appare evidente come questi reazionari monarchici (potremmo, credo, definirli tranquillamente dei “fascisti”) vorrebbero impadronirsi della rivolta popolare, strumentalizzarla ai loro fini. Quanto al fatto che possano riuscirci è tutto un altro paio di maniche. Anche se …

La Realpolitik del diritto all’autodeterminazione

… coltivo qualche perplessità sugli sbocchi assunti da alcune lotte di liberazione in tempi recenti (talvolta strumentalizzate dal sistema industriale-militare – l’imperialismo – o da qualche potenza regionale), ma non per questo rinuncio a schierarmi a fianco degli oppressi e contro l’oppressione.

Per conto di chi agivano i miliziani sciiti di Amal (“Speranza”) che nel 1986 assediavano i campi palestinesi, ormai indifesi e ridotti alla fame dopo l’allontanamento dell’Olp dal Libano? E in base a quali calcoli gli Stati Uniti hanno integrato nell’esercito e nella polizia irachena formazioni come il gruppo Sciri e al-Da’wa, notoriamente filoiraniani e responsabili di violazioni dei diritti umani? Contraddizione nella contraddizione: contemporaneamente Washington starebbe utilizzando in funzione anti-Teheran gruppi di indipendentisti beluci (sunniti) legati ad al-Qaeda. Chi, se non i servizi segreti turchi, può aver organizzato nel 2007 gli assalti – ufficialmente opera di rom – contro le baracche dei profughi curdi a Istanbul?

Indipendenze a geometria variabile

Ormai la strumentalizzazione dei movimenti di liberazione nazionale, come di quelli autonomistici o identitari, non è più appannaggio esclusivo dei servizi segreti. Le varie potenze planetarie operano alla luce del sole decretando la legittimità o meno delle rivendicazioni. Manuel Castells ha parlato di “indipendenze a geometria variabile”, denunciando come la comunità internazionale si dichiari favorevole all’autodeterminazione di un popolo o difenda l’integrità di un paese «a seconda di chi, del come e del quando».

«Le posizioni sul diritto all’autodeterminazione –, sostiene il sociologo catalano, – sono frutto di un cinismo tattico e l’indipendentismo sarebbe divenuto uno strumento geopolitico fondamentale in un mondo globalizzato e interdipendente»

Pensiamo al trattamento riservato ai curdi in Iraq, praticamente autonomi e quasi alleati degli Usa, mentre quelli in territorio turco continuavano a essere bombardati, imprigionati e torturati da Ankara, storicamente alleato strategico degli Stati Uniti. Cui prodest? Non certo alla nazione curda nel suo insieme. E intanto i curdi dell’Iran (“Partito per una vita libera in Kurdistan”, Pjak, considerato il ramo iraniano del Pkk attivo in Turchia), dopo una serie di impiccagioni che l’opinione pubblica mondiale ha ignorato, nel 2010 si sarebbero rassegnati a collaborare anche con il Mossad (lo aveva documentato “Le Monde”, ma poi le cose sarebbero cambiate).

 

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«Kurdistan, Kurdistan: occhi e luce dell’Iran!» https://ogzero.org/kurdistan-kurdistan-occhi-e-luce-delliran/ Sat, 24 Sep 2022 11:58:16 +0000 https://ogzero.org/?p=9006 Un punto di vista attento alle origini curde di Jîna Mahsa Amini per raccontare ulteriori aspetti (rispetto a quelli rilevati da Marina Forti) della vicenda che ha scatenato un movimento determinato a ottenere almeno un allentamento dell’oppressione religiosa… e che forse può avviare un più ampio processo di emancipazione dal sistema oscurantista legato ai turbanti […]

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Un punto di vista attento alle origini curde di Jîna Mahsa Amini per raccontare ulteriori aspetti (rispetto a quelli rilevati da Marina Forti) della vicenda che ha scatenato un movimento determinato a ottenere almeno un allentamento dell’oppressione religiosa… e che forse può avviare un più ampio processo di emancipazione dal sistema oscurantista legato ai turbanti di Tehran, estendendo le proteste al desiderio di liberazione dal manto plumbeo degli ayatollah, con un gesto come i tanti dal hejjab. Gianni Sartori in questo pezzo comparso su “Osservatorio repressione” ricostruisce gli eventi di questi giorni con lo sguardo dei curdi del Khorasan, in particolare del Rojhilat (le province del Nordovest), esteso al resto delle speranze soprattutto dei giovani in piazza in questi giorni, rischiando anche di venire giustiziati, come da richieste degli oscurantisti chiamati in una contromanifestazione dal governo conservatore di Raisi, che si rende conto del pericolo di insurrezione.  


In Iran non si placano le proteste per l’assassinio di Jîna Mahsa Amini

Sappiamo che la popolazione curda del Rojhilat (il Kurdistan orientale, sotto amministrazione iraniana) detiene il record non invidiabile del maggior numero (in percentuale) di giustiziati e giustiziate del pianeta. Altri – e altre – invece sono vittime della tortura.
L’ultimo caso, quello della ventiduenne curda Jîna Mahsa Amini, ha scatenato la rivolta prima nella regione, poi nell’intero paese.
Nei primi cinque giorni (e cinque notti, come a Parma nel 1922) manifestazioni e scontri erano avvenuti a Sine, Dehgulan, Diwandara, Mahabad, Urmia, Piranshahr, Saqqez…
Mentre ancora il 22 settembre i telegiornali parlavano “soltanto” di una decina di manifestanti uccisi dalla polizia iraniana nel Rojhilat, alcune agenzie ne calcolavano già una trentina.

È probabile che ormai le vittime siano più di cinquanta e destinate, purtroppo, ad aumentare. Per non parlare della sorte di centinaia di feriti e di migliaia di persone arrestate.

Immediatamente veniva indetto dal Pjak (Partito per una vita libera nel Kurdistan) e da Kodar (Società democratica e libera del Kurdistan orientale) lo sciopero generale. Sciopero a cui avevano aderito i partiti affiliati al Centro di cooperazione dei partiti del Kurdistan iraniano, il Partito comunista iraniano-Kurdistan, altri partiti del Kurdistan orientale, numerose organizzazioni della società civile e vari esponenti politici. E così il 19 settembre scuole e negozi sono rimasti chiusi in gran parte della regione.
Il giorno dopo, 20 settembre, nel corso di una manifestazione, a Kermanshah moriva un’altra donna curda, Minoo Majidi, madre di tre bambini. Colpita dalle pallottole (dal “fuego real”) delle unità speciali antisommossa, prontamente mobilitate dal regime.

Nel frattempo le proteste per l’uccisione di Jîna Mahsa Amini (22 anni, deceduta per emorragia cerebrale a seguito delle torture subite) si estendevano all’intero paese.

In almeno una quindicina di città uomini e donne (la gran parte delle quali aveva gettato via il velo) sono scesi in strada. Non solo aTeheran, ma anche a Mashhad (nel nord-est), Tabriz (nord-ovest), Rasht (nord), Ispahan (centro) e Kish (sud). Bloccando la circolazione, incendiando i veicoli della polizia, lanciando pietre sulle forze di sicurezza e distruggendo i ritratti degli ayatollah (così come era accaduto a Saqqez, città natale della giovane curda). Oltre naturalmente a scandire slogan contro il regime. Sia quello diffuso tra le donne curde del Bakur e del Rojava: “Jin jiyan azadi“ (La Donna, la Vita, la Libertà), sia uno di nuovo conio:

“Kurdistan, Kurdistan: occhi e luce dell’Iran”.

Identificata dai media come Mahsa Amini, in realtà si chiamava Jîna (o anche Zhina) che significa “donna” (Jin) in curdo. Ma al momento di registrarla all’anagrafe, il funzionario del regime, come in tanti altri casi, si era rifiutato e aveva imposto la sostituzione del nome curdo con quello di Masha. Un evidente caso di colonialismo culturale che costringe milioni di curdi, espropriati del loro stesso nome, a portarne altri turchizzati (in Bakur), arabizzati o persianizzati (in Rojhilat).

Arrestata dalla polizia per un velo portato in maniera “scorretta”, o qualcosa del genere, mentre si trovava nell’auto del fratello da cui si era recata in visita, è morta all’ospedale di Kasra a Teheran, dove era giunta già in stato di morte cerebrale.

Mentre le autorità iraniane si giustificavano evocando improbabili “preesistenti problemi di salute” –  parlando prima di una presunta epilessia, poi di problemi cardiovascolari – dalle lastre e altri esami al cranio della giovane curda emergeva la conferma di quanto già si sospettava: Jina è morta a causa delle torture, delle percosse subite appena dopo l’arresto. In particolare quella che sembra una tomografia assiale computerizzata, ha evidenziato fratture ossee, un’emorragia e un edema cerebrale.
Una fonte ospedaliera ha parlato di “tessuto cerebrale schiacciato, danneggiato da numerosi colpi”. Inoltre i polmoni erano “pieni di sangue e non poteva più essere rianimata”. In alcune delle foto di lei sul letto dell’ospedale si vede chiaramente che le orecchie sanguinano, e ciò sarebbe un segno inequivocabile che il coma era la conseguenza di un trauma cranico.

Indignate manifestazioni di protesta si sono immediatamente svolte soprattutto nel Rojhilat dove scuole e negozi sono rimasti chiusi per lo sciopero generale.

Secondo il giornalista Ammar Goli (Erdelan) le forze di sicurezza del regime iraniano utilizzerebbero anche le ambulanze per reprimere i manifestanti, in violazione del diritto internazionale. Infatti «molte delle persone arrestate vengono portate nei centri di detenzione a bordo delle ambulanze in quanto le forze di sicurezza sanno che non verranno assalite dai manifestanti. E ovviamente molti manifestanti feriti si rifiutano di recarsi negli ospedali per paura di essere arrestati».

Dalla giornalista Behrouz Boochani un appello alla comunità internazionale per intendere la voce delle donne iraniane insorte contro la dittatura islamista: «Le donne dell’Iran sono fonte di ispirazione: stanno costruendo la Storia nelle strade ribellandosi alla dittatura. Non ignoratele; se siete femministe, siate la loro voce, amplificate il loro appello! Questa è una rivoluzione femminista storica».

 

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Sollevato il velo di Mahsa. La società iraniana sfida la “morale” repressiva https://ogzero.org/mahsa-amini-la-societa-iraniana-sfida-la-morale-repressiva/ Fri, 23 Sep 2022 23:57:45 +0000 https://ogzero.org/?p=8988 La sensibilità della vivace società iraniana è avvezza alla protesta di piazza senza paura della feroce repressione del sistema ispirato da una dottrina morale ormai scollata dal comune sentire. Abbiamo dato conto in altre occasioni al malcontento sfociato in rivolta: individualmente, quando donne ai semafori platealmente liberavano le chiome, sfidando le basi del paternalismo; oppure […]

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La sensibilità della vivace società iraniana è avvezza alla protesta di piazza senza paura della feroce repressione del sistema ispirato da una dottrina morale ormai scollata dal comune sentire. Abbiamo dato conto in altre occasioni al malcontento sfociato in rivolta: individualmente, quando donne ai semafori platealmente liberavano le chiome, sfidando le basi del paternalismo; oppure nei momenti in cui la siccità minava i precari equilibri della sopravvivenza nelle aree rurali; oppure quando l’autarchia imposta dalle sanzioni erodeva l’economia popolare. Questa volta però in piazza, in occasione della morte di Mahsa Amini, scendono uomini e donne per un’enormità intollerabile, che però mina le fondamenta del sistema… e questo sentire comune si va espandendo incontenibile in tutto il paese a difesa dei diritti delle donne. Dopo il rientro di Raisi dall’intervento all’Onu la repressione si è moltiplicata con il conteggio dei morti, ma sembra non riuscire ancora a soffocare le proteste che in una settimana sempre più hanno posto nel mirino i vertici di un sistema che si sta esprimendo con esagerati giri di vite conservatori che hanno esacerbato il rapporto con la società civile. E stavolta la rivolta è fuori controllo. Ne abbiamo parlato con Marina Forti – e potete trovare nel podcast inserito nel suo articolo la sua voce che approfondisce alcuni aspetti accennati nell’articolo, dove vengono illustrati tutti i singoli elementi che compongono questo snodo epocale – per collocare nella storia dell’Iran e nella comunità che attualmente abita il paese questa incontenibile indignazione che può fare paura al sistema che da 43 anni governa e impone la morale con una polizia anacronistica.
Si è poi aggiunto un nuovo contributo propostoci da Gianni Sartori sulle lotte che in questi giorni fanno scricchiolare il consenso degli ayatollah nelle strade iraniane.


La spontanea protesta contro morali anacronistiche

Una folla di giovani circonda un falò, in una piazza: gridano “azadi”, libertà. Una ragazza si avvicina volteggiando, si toglie dalla testa il foulard e lo agita prima di gettarlo tra le fiamme, poi si si riunisce alla folla danzando. Altre la seguono, altre sciarpe finiscono bruciate tra gli applausi. È una delle numerose scene di protesta venute dall’Iran negli ultimi giorni, catturate da miriadi di telefonini e circolate sui social media in tutto il mondo.

Sono proteste spontanee, proseguono da una settimana nonostante la repressione. E se è già avvenuto in anni recenti che proteste spontanee infiammino il paese, è la prima volta che questo avviene in nome della libertà delle donne.
Ad accendere le proteste infatti è la morte di una giovane donna, Mahsa Amini, 22 anni. Era stata fermata il 13 settembre a Tehran dalla “polizia morale”, quella incaricata di far rispettare le norme di abbigliamento islamico: a quanto pare portava pantaloni attillati e il foulard lasciava scoperti i capelli. Qualche ora dopo il fermo Mahsa era in coma; trasferita all’ospedale Kasra di Tehran, è morta il 16 settembre.

La sorte di questa giovane donna di Saqqez, nella provincia del Kurdistan iraniano, in visita a Tehran insieme al fratello, ha suscitato grande emozione: fin da quando è circolata la foto di lei incosciente sul lettino, con flebo e respiratore e segni di ematomi sul volto. Davanti all’ospedale si sono riunite molte persone in attesa di notizie, e l’annuncio della morte ha suscitato profonda indignazione. Al funerale, avvenuto il giorno dopo nella cittadina del Kurdistan dove vive la famiglia Amini, la tensione era palpabile; le foto circolate mostrano una famiglia distrutta dal dolore.

Le proteste sono cominciate all’indomani: le prime e più intense proprio in Kurdistan, poi a Tehran e altrove. Al 23 settembre c’era notizia di dimostrazioni in almeno 18 città, da Rasht sul mar Caspio a Isfahan e Shiraz; da Kermanshah a ovest a Mashhad a est, fino a Kerman nel sud.

Le sfide

Migliaia di brevi video caricati sui social media mostrano folle di donne e uomini, per lo più giovani ma non solo, che esprimono grande rabbia. Molti video mostrano ragazze che bruciano il foulard; una si taglia pubblicamente i capelli in segno di lutto e protesta (a Kerman, 20 settembre). A Mashhad, sede di un famoso mausoleo shiita e luogo di pellegrinaggio, una ragazza senza foulard arringa la folla dal tetto di un’automobile: le nipoti della rivoluzione si rivoltano contro i nonni, commenta chi ha messo in rete il video.

 


A morte il dittatore

Le forze di sicurezza reagiscono. Altre immagini mostrano agenti in motocicletta che salgono sul marciapiede per intimidire i cittadini mentre un agente in borghese manganella alcune donne. La polizia che spara lacrimogeni contro i manifestanti in una nota piazza di Tehran. Agenti con manganelli che inseguono dimostranti; un agente circondato da giovani infuriati che lo gettano a terra e prendono a calci (a Rasht, 20 settembre). Si sentono ragazze urlare “vergogna, vergogna” agli agenti dei Basij (la milizia civile inquadrata nelle Guardie della Rivoluzione spesso usata per reprimere le proteste).

Manifestazioni particolarmente numerose sono avvenute nelle università di Tehran, sia nel campus centrale che al Politecnico. All’Università Azad è stato udito lo slogan “Uccideremo chi ha ucciso nostra sorella”. Anche negli atenei di altre città si segnalano proteste. Ovunque si sente gridare “la nostra pazienza è finita”, “libertà”, e spesso anche “a morte il dittatore”: lo slogan urlato a suo tempo contro lo shah Reza Pahlavi. A Tehran si sentiva “giustizia, libertà, hejjab facoltativo”, e “Mahsa è il nostro simbolo”.

La vicenda di Mahsa Amini: riformare la polizia morale?

La sorte di Mahsa Amini ha suscitato reazioni anche oltre le proteste di piazza. Il giorno del suo funerale, la foto della giovane sorridente e gli interrogativi sulla sua morte erano sulle prime pagine di numerosi quotidiani in Iran, di ispirazione riformista e non solo. Dure critiche alla “polizia morale” sono venute da esponenti riformisti e perfino vicine alla maggioranza conservatrice al governo. La morte di una donna in custodia di polizia non è giustificabile con nessun codice, e ha messo in imbarazzo il governo, a pochi giorni dall’intervento del presidente Ebrahim Raisì all’Assemblea generale dell’Onu.

Così il presidente Raisi in persona ha telefonato al signor Amini, per esprimere il suo cordoglio: «Come fosse mia figlia», gli ha detto, promettendo una indagine per chiarire fatti e responsabilità.

In effetti il ministero dell’interno ha ordinato un’inchiesta; così la magistratura e pure il Majles (il parlamento). Il capo della polizia morale, colonnello Mirzai, è stato sospeso in attesa di accertare i fatti, si leggeva il 19 settembre sul quotidiano “Hamshari (“Il cittadino”, di proprietà della municipalità di Tehran e considerato vicino a correnti riformiste). Perfino l’ayatollah Ali Khamenei, Leader supremo della Repubblica islamica, ha mandato un suo stretto collaboratore dalla famiglia Amini per esprimere “il suo grande dolore”: secondo l’agenzia stampa Tasnim (affiliata alle Guardie della Rivoluzione), l’inviato del leader ha detto che «tutte le istituzioni prenderanno misure per difendere i diritti che sono stati violati».

Per il momento però la polizia si attiene alla sua prima versione: Mahsa Amini avrebbe avuto un infarto mentre si trovava nella sala del commissariato, una morte dovuta a condizioni pregresse. Ha anche distribuito un video in cui si vede la ragazza che discute con una poliziotta, nella sala del commissariato, poi si accascia su sé stessa. Ma il video è chiaramente manipolato.

 

Sentito al telefono giovedì 22 settembre dalla Bbc, il signor Amini ha smentito che sua figlia avesse problemi di cuore. «Sono tutte bugie», ha detto, i referti medici sono pieni di menzogne, non ha potuto vedere il corpo della figlia né i filmati integrali di quelle ore; si è sentito rispondere che le body-cam degli agenti erano fuori uso perché scariche.

Le giovani donne fermate con Mahsa Amini – o Jina, il nome curdo noto agli amici – hanno raccontato invece che la giovane è stata colpita da violente manganellate nel cellulare che le trasferiva nello speciale commissariato dove alle donne fermate per “abbigliamento improprio” viene di solito impartita una lezione sulla moralità dei costumi islamici. Chi è passato attraverso quell’esperienza parla di umiliazioni verbali e spesso fisiche. Questa volta è andata molto peggio.

Prima di ripartire da New York, a margine del suo intervento ufficiale (in cui non ha fatto parola delle proteste in corso), il presidente iraniano Raisì ha tenuto una conferenza stampa per esprimere cordoglio e confermare di aver ordinato una indagine sulla morte della giovane Mahsa Amini.

Le promesse di indagini, le telefonate e le visite altolocate alla famiglia Amini non hanno certo calmato le proteste. Né hanno impedito che fossero represse con violenza.

Il bilancio è pesante. In diverse occasioni la polizia ha usato proiettili di metallo ad altezza d’uomo, secondo notizie raccolte da Amnesty International. Al 24 settembre la polizia ammette 35 morti ma circolano stime molto più alte, forse più di cinquanta, tra cui alcuni poliziotti. Dirigenti di polizia e magistrati ora parlano di “provocatori esterni”, nemici infiltrati. Martedì il capo della polizia del Kurdistan, brigadiere-generale Ali Azadi, ha attribuito la morte di tre dimostranti a imprecisati “gruppi ostili” perché, ha detto all’agenzia di stampa Tasnim, le armi usate non sono quelle di ordinanza delle forze di sicurezza. A Kermanshah, il procuratore capo ha dichiarato che due manifestanti morti il 21 settembre sono stati uccisi da “controrivoluzionari”.

Il governatore della provincia di Tehran, Mohsen Mansouri, ha detto che secondo notizie di intelligence, circa 1800 tra i dimostranti visti nella capitale «hanno preso parte a disordini in passato» e molti hanno «pesanti precedenti giudiziari». In un post su Twitter se la prende con l’attivo intervento di «servizi di intelligence e ambasciate stranieri».

Elementi ostili, infiltrati, facinorosi: ogni volta che l’Iran ha visto proteste di massa, la narrativa ufficiale ha additato “nemici esterni”. Al sesto giorno di proteste, i media ufficiali hanno cominciato a usare il termine “disordini”. Da mercoledì 21 settembre il servizio internet è soggetto a interruzioni; i social media sono stati bloccati “per motivi di sicurezza”. Da giovedì 22 è bloccato Instagram, ultimo social media ancora disponibile, e così anche WhatsApp. Nelle strade ormai si respira tensione: provocazioni da un lato, rabbia dall’altro.

Tutto questo sembra preludere a un intervento d’ordine più violento per mettere fine davvero alla protesta, ora che il presidente Raisi non è più sotto i riflettori a New York.

Mahsa Amini: una insofferenza collettiva

“La protesta avvolta nel velo di morte di Mahsa Amini”.

Restano però i veli bruciati nelle strade: come un gesto di insofferenza collettiva verso una delle prescrizioni simboliche fondamentali della Repubblica Islamica.

L’insofferenza in effetti è profonda. Nei cortei si vedevano giovani donne in chador e altre con i semplici soprabiti e foulard ormai più comuni, accomunate dalla protesta. Molti ormai in Iran considerano assurde e datate le prescrizioni sull’abbigliamento femminile, e ancor di più la “polizia morale”. Assurde le proibizioni sulla musica, sui colori, sui comportamenti personali. Solo pochi oltranzisti considerano normale che lo stato si permetta di dire alle famiglie come devono coprire le proprie figlie. Alcuni autorevoli ayatollah ripetono da tempo che l’obbligo del velo è insostenibile e datato.

Hassan Rohani, pragmatico e fautore di aperture politiche ma pur sempre un clerico ed esponente della nomenklatura rivoluzionaria, quando era presidente ironizzava sulla polizia morale che «vuole mandare tutti per forza in paradiso».

Il fatto è che l’abbigliamento femminile, come del resto ogni ambito della vita pubblica e della cultura, sono un terreno di battaglia politica in Iran. E l’avvento dell’ultraconservatore Raisi ha segnato un giro di vite. È stato il suo governo a proclamare il 12 luglio “giorno del hejjab e della castità”. Il presidente si è detto addolorato dalla morte di Mahsa Amini: ma è stato proprio lui a firmare, il 15 agosto, un decreto per ripristinare le corrette norme di abbigliamento islamico e prescrivere punizioni severe per chi viola il codice, sia in pubblico che online (è diventato comune mettere sui social media proprie foto a testa scoperta, video di persone che ballano, in aperta sfida alle prescrizioni ufficiali).

Sarà costretto a fare qualche marcia indietro? Ora diverse voci tornano a chiedere di abolire la cosiddetta “polizia morale”, che dipende dal ministero della “cultura e della guida islamica”, noto come Ershad.

Tanto che il ministro della cultura Mohammad Mehdi Esmaili, sulla difensiva, ha dichiarato che stava considerando di riformare la polizia morale già prima della morte di Amini: «Siamo consapevoli di molte critiche e problemi», ha detto.

Il vertice della repubblica islamica però dovrebbe ormai sapere che nella società iraniana la rabbia e la frustrazione sono profonde. Ed è già successo che proteste nate da un preciso episodio poi si allargano. L’Iran sta attraversando una crisi economica che ha impoverito anche le classi medie. Ogni rincaro dei generi alimentari o della benzina colpisce gli strati più modesti della società, e quindi il sistema di consenso che regge da quattro decenni le basi della Repubblica islamica. Soprattutto, i giovani iraniani non vedono un futuro. Si sentono soffocare. La rabbia è pronta a esplodere a ogni occasione. Non che sia una minaccia immediata, per il vertice politico: sono proteste spontanee, non ci sono forze organizzate che possano abbattere il sistema. Ma lo scollamento sociale cresce. Un sistema che tiene alla sua sopravvivenza dovrà tenerne conto.

 

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Dalla Perestrojka al Commonwealth in Africa https://ogzero.org/dalla-perestrojka-al-commonwealth-in-africa/ Sat, 17 Sep 2022 23:23:21 +0000 https://ogzero.org/?p=8921 Archiviando epoche: gli imperialismi seppelliscano gli imperi Parlando con Angelo Ferrari dei due suoi articoli scritti ultimamente per Agi che qui riproponiamo ci siamo convinti che seguendo queste tracce si possono avanzare ipotesi: se non tutte saranno verificabili, aiutano comunque nell’individuazione e valutazione di possibili strategie globali in ambito africano. Senz’altro queste comparazioni tra caratteristiche […]

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Archiviando epoche: gli imperialismi seppelliscano gli imperi

Parlando con Angelo Ferrari dei due suoi articoli scritti ultimamente per Agi che qui riproponiamo ci siamo convinti che seguendo queste tracce si possono avanzare ipotesi: se non tutte saranno verificabili, aiutano comunque nell’individuazione e valutazione di possibili strategie globali in ambito africano. Senz’altro queste comparazioni tra caratteristiche di periodi storici rendono conto di un passaggio epocale, scandito simbolicamente dalla morte di due ultranovantenni protagonisti della politica degli anni Ottanta: Michail Sergeevič Gorbačëv ha incarnato la fine della Guerra Fredda – con tutto ciò che la sua archiviazione ha significato per la spartizione di tasselli sullo scacchiere internazionale che facevano rigidamente riferimento all’una o all’altra grande potenza. La contrapposizione per blocchi è apparentemente un modello di rapporti tra grandi potenze che torna a riconfigurarsi, e di cui dovremmo analizzare cosa può riproporsi e in quali modalità, considerando anche il progresso delle comunità da depredare a trent’anni dalla caduta del muro e dalla trasformazione dei regimi marxisti-leninisti sostenuti dall’Urss in Africa.
Elisabeth Windsor-Mountbatten è stata la più rigida conservatrice dell’impero britannico così come le era stato consegnato, opprimendo con brutalità (fin dall’inizio soffocando le richieste di emancipazione dei Mau-Mau in Kenya); la spasmodica attenzione dei media francesi per le sue esequie è una buona cartina al tornasole, perché evidenzia la sensazione dei regicidi francesi che i destini delle due ex potenze coloniali siano strettamente correlati, angosciando gli ancora tanti nostalgici della grandeur, ma anche galvanizzando gli anticolonialisti come “Mediapart”, che preconizzano che, dopo il bagno di folla ebete dei funerali «Con la morte della regina Elisabetta II, il velo di oblio o di cecità intenzionale che ha coperto la mente pubblica britannica sul suo passato imperiale e coloniale scomparirà. I dannati della memoria si alzeranno in piedi e parleranno». E dopo il processo indipendentista a cavallo tra anni Cinquanta e Sessanta – che ha richiesto la trasformazione dell’approccio e dei processi di occupazione di territori, il loro saccheggio e il condizionamento economico –, ora non è l’emancipazione delle comunità autoctone ma la ripresa dell’espansione di quel colonialismo russo nel Continente nero (che i processi di apertura di Nikita Sergeevič Chruščëv prima e poi di Gorbačëv avevano trasformato, ridimensionandolo) a premere sulle acciaccate potenze coloniali europee.
E di nuovo l’impegno di Mosca sorge nel momento in cui la tensione ha il sopravvento sul multilateralismo. Queste pulsioni, assimilabili alle esigenze che spingono la Realpolitik turca a espandere la propria sfera di influenza su alcuni angoli africani, aggiungono un elemento che configura il neoimperialismo, echeggiando altri momenti epocali in cui si è assistito a conflitti di blocchi contrapposti: neo-ottomanesimo e neozarismo possono sperare che la divisione europea ridimensioni l’egemonia occidentale, approfittando di una nuova Guerra Fredda da cui trae linfa l’espansionismo autocratico nella realtà africana.
Fin qui OGzero, ma questo sproloquio attinge alle suggestioni e ai dati esibiti da Angelo Ferrari nei suoi due originali obituary. E non a caso iniziamo dallo studio sul rilancio del Commonwealth (l’espressione imperiale britannica rivale di quella zarista e dei sultani) che paradossalmente ottiene nuovo slancio dalla morte della simbolica depositaria per 70 anni della potenza inglese, dacché era già sovrana – ingombrante figura difficile da adeguare alle istanze indipendentiste dell’impero senza modificarne l’icona (interessante come nell’articolo di Angelo non venga citata, ma aleggi il venir meno di una prassi pluridecennale caratteristica del suo lungo regno) – quando gli stati decolonizzati entrarono nell’organizzazione grazie alla Dichiarazione di Londra che riformava il vecchio Commonwealth con un compromesso costituzionale, proprio in quegli stessi primi anni Sessanta che costrinsero alla apertura con la prima parziale sospensione della Guerra Fredda.

Ora il Commonwealth rappresenta una valida alternativa per la cooperazione economica tendente a 2 trilioni di scambi. Per gli altri c’è l’“amicizia” predona della Wagner, che non chiede conto alle leadership cresciute militarmente a Rostov (o disposte a scommettere di restituire i prestiti ai cravattari cinesi), di certo non è l’epilogo immaginato dalla perestrojka africana.


Il Commonwealth sempre più africano

Londra sta intensificando la sua presenza nel continente africano attraverso rapporti bilaterali, vuole – è stata la promessa fatta da BoJo nell’ultimo vertice afro-britannico a Londra il 20 gennaio 2020 – incrementare i suoi investimenti ed espandere il suo mercato. Vuole diventare il maggior investitore sul continente africano e superare gli altri membri del G7 e stiamo parlando di Stati Uniti, Canada, Francia, Germania, Giappone e mettiamoci anche l’Italia.

Carta d’identità dell’organizzazione

Il Commonwealth è il più grande gruppo di nazioni che non coinvolge la Russia o la Cina e gli conferisce, sono parole della Truss, «un peso crescente sulla scena mondiale». Quanto può valere entrare nell’ormai grande famiglia? Secondo Patricia Scotland, segretario generale dell’organizzazione nata sulle ceneri dell’impero britannico e andata ormai oltre le ex colonie di Londra, già oggi il commercio tra i paesi membri vale 700 miliardi di dollari. Ma l’obiettivo, anche guardando gli ultimi ingressi, Togo e Gabon, è di superare i 2 trilioni di dollari entro il 2030.
Il Commonwealth è un’organizzazione che conta 56 nazioni per un totale di 2,5 miliardi di abitanti, con un Prodotto interno lordo che si prevede salirà a 19,5 trilioni di dollari nei prossimi cinque anni.


Il Gabon, che si affaccia sul Golfo di Guinea, ultimo arrivato nell’organizzazione è un paese con una superficie boscosa molto rilevante ed è destinato a svolgere un ruolo importante nel commercio dei crediti di carbonio per combattere il cambiamento climatico. E questo, per Londra, è un vantaggio non da poco.

Strategia in chiave anticinese

Londra vuole aprire le sue porte all’Africa e il Commonwealth (oggi conta 21 paesi africani: Sudafrica, Ghana, Nigeria, Sierra Leone, Uganda, Kenya, Malawi, Tanzania, Zambia, Gambia, Botswana, Lesotho, eSwatini, Seychelles, Namibia, Camerun, Mozambico, Nauru, Ruanda, Gabon, Togo) potrebbe diventare la chiave di volta. Ma non solo. Nelle strategie di Londra rientra anche il contrasto alla Cina e in Africa la sfida sembra quasi improba. Ciò era negli intenti dell’ex premier Boris Johnson, ma ribaditi dall’attuale prima ministra, Liz Truss, che è stata molto chiara.

Il Regno Unito deve aumentare l’interscambio commerciale con i paesi del Commonwealth per contrastare la «grave minaccia della Cina ai nostri valori e al nostro modo di vivere, e firmare accordi commerciali con procedure accelerate con gli stati così da aiutare il Regno Unito e altre democrazie a vincere la lotta contro gli stati autoritari».

Truss ritiene che legami economici più stretti aiuteranno ad annullare lo schema della Belt Road Initiative della Cina in base alla quale Pechino ha finanziato progetti in dozzine di paesi in via di sviluppo che si sono rivelati come una “coercizione economica”.

Per allargare il mercato cade la pregiudiziale democratica

Tutti vogliono entrare nel Commonwealth e Londra apre le porte a chiunque, rinunciando anche ai principi fondativi dell’organizzazione delle ex colonie britanniche. Non guarda se è un paese è democratico, se rispetta i diritti fondamentali delle persone. Tutto questo, dopo la Brexit, non conta. Londra sembra avere mani libere, tanto da accettare nell’organizzazione membri che non hanno legami storici con il Regno Unito. Contano gli investimenti e le potenzialità di mercato che offre chi entra nell’organizzazione.

«In passato alcuni paesi africani non avevano relazioni con i paesi del Pacifico o con i paesi anglofoni», ha spiegato il ministro degli Esteri del Gabon – ex colonia francese – Michael Moussa-Adamo, ma ora «ci stiamo allargando e stiamo ottenendo nuovi partner internazionali, rafforzando la nostra economia».

Dinastie africane nell’organizzazione della dinastia britannica

Dati gli obiettivi che si prefigge è evidente che qualsiasi stato è ben accetto. «Il Commonwealth – ha spiegato Scotland – ha iniziato con otto nazioni nel 1949, è cresciuta fino a raggiungere 56 nazioni. La nostra continua crescita, al di là della nostra storia, riflette i vantaggi dell’appartenenza al Commonwealth e la forza della nostra nazione. Sono entusiasta di vedere questi vivaci paesi unirsi alla famiglia e dedicarsi ai valori e alle aspirazioni della nostra Carta» (“360Mozambique”).

È del tutto evidente che la “Carta”, oggi, conta ben poco. Se l’organizzazione dovesse tenere fede ai suoi principi non potrebbe accettare nelle sue file paesi come il Gabon e il Togo che non hanno nulla a che fare con una democrazia moderna.
Il Gabon più che uno stato è una monarchia governata da sempre dalla dinastia dei Bongo Ondimba, padre e figlio, stiamo parlando di oltre cinquant’anni di regno (però i Windsor sono avvezzi a questo tipo di regime, ma proprio il Gabon può rappresentare un ponte tra gli imperi, visto che era in quota sovietica fino al crollo del Pcus). E anche il Togo non è da meno: l’attuale presidente, Faure Gnassingbé detiene il potere dal 2005, ma lo ha ereditato dal padre che lo gestiva in maniera dittatoriale dal colpo di stato del 1967.
Ma anche il Ruanda, che ha ospitato l’ultimo vertice del Commonwealth a fine giugno 2022, non sarebbe un paese “idoneo”, perché nelle sue carceri sono ancora detenuti oppositori, giornalisti indipendenti e youtuber critici con le autorità ruandesi.

Centro congressi di Kigali, sede della convention del Commonwealth 2022

Paul Kagame è presidente del Ruanda dal 1994 quando entrò a Kigali da trionfatore e liberatore, ha modificato la Costituzione così da permettergli di governare il paese fino al 2034. Per non parlare di un altro membro del Commonwealth, il Camerun. Il paese è “guidato” dal 1982 da Paul Biya, ma se aggiungiamo i sette anni da primo ministro, 1975-1982, è al potere da 47 anni.


Le aree di interesse evidenziate dalle citazioni di paesi aderenti alla sfera britannica, poste a confronto con quelle evocate dal mondo sovietico africano, mostrano una vera e propria spartizione tra i due imperialismi che non sovrapponevano i domini. Le incursioni russe e turche in Sahel, Centrafrica e Corno d’Africa entrano in diretta concorrenza soprattutto con l’imperialismo francese, quello più debole e impreparato, perché ancora troppo fondato sull’occupazione militare, ambito in cui i contractor russi e i miliziani turchi sono più efficaci su quel terreno.


Con la fine dell’Urss cambiarono i giochi di potere in Africa… erano solo sospesi?

Cosa ha comportato la scomparsa dell’Urss e quali le conseguenze per chi deteneva il potere? I regimi alleati del blocco orientale, per esempio, furono costretti a riformarsi o cadere.
L’opera intrapresa da Michail Gorbačëv di riforma del sistema sovietico negli anni Ottanta e di disgelo delle relazioni internazionali, cambiando radicalmente la situazione internazionale, ha avuto ripercussioni ed effetti importanti anche per il continente africano. La scomparsa dell’Urss dallo scacchiere africano ha costretto i regimi alleati del blocco orientale a riformarsi o cadere. Nella prima categoria, Angola e Mozambico sono stati costretti a entrare in processi di democratizzazione che hanno posto fine alle guerre civili, prima Maputo e poi Luanda.

Superamento del colonialismo lusitano

Frelimo/Renamo

In Mozambico il sostegno dell’Unione Sovietica si è rivelato fondamentale per la sopravvivenza del paese negli anni Ottanta del secolo scorso. Le spinte anticoloniali portarono i movimenti indipendentisti a coalizzarsi nel movimento armato Frelimo (Fronte di Liberazione del Mozambico) e dopo dieci anni di guerriglia contro i coloni portoghesi, il paese ottiene l’indipendenza nel 1975. Iniziò una campagna di nazionalizzazione delle piantagioni e furono costruite scuole e ospedali per i contadini. Una rivoluzione di stampo sovietico. Il Frelimo sostenne le forze rivoluzionarie in Rhodesia e Sudafrica. I governi di questi paesi, appartenenti al blocco occidentale, risposero sostenendo i ribelli mozambicani della Renamo. Ne scaturì un’atroce guerra civile che terminò con gli accordi di pace di Roma del 1992 da cui nacque una nuova costituzione di stampo multipartitico. Il Frelimo, nelle elezioni libere tenute negli anni successivi si confermò sempre il primo partito del Mozambico.

Mpla/Unita

In Angola la situazione era abbastanza simile. Il Movimento per la liberazione dell’Angola, che lottò con determinazione contro i colonizzatori portoghesi, ottenendo l’indipendenza nel 1975, portò il paese nell’orbita sovietica e instaurò un regime totalitario. Di contro il blocco occidentale, per far valere i suoi interessi, sosteneva un gruppo di ribelli sotto il nome di Unione nazionale per l’indipendenza totale dell’Angola.
Da questo scontro iniziò una guerra civile durata oltre un ventennio al termine della quale vennero firmati gli accordi di pace che portarono alle prime elezioni nel 1992. Le ostilità, tuttavia, continuarono e terminarono solo dopo l’uccisione del leader dell’Unita, Jonas Savimbi, nel 2002. Il paese, dall’indipendenza è sempre stato governato dall’Mpla e l’Unita ha sempre svolto un ruolo di opposizione. Ma il padre della patria, Eduardo dos Santos, si è trasformato presto in un cleptocrate, governando il paese con pugno di ferro fino al 2017.

Il passaggio dalla geopolitica alla geoeconomia

In Mozambico e Angola i regimi, riformati, sono sopravvissuti, mentre in Etiopia, nel 1991, Menghistu, soprannominato il “Negus rosso”, viene estromesso dal potere.

Mandela/Mobutu

Proprio in quegli anni anche il Sudafrica è costretto a riformarsi ed è nel contesto della fine della Guerra Fredda che cade l’apartheid, che porta alle prime elezioni multirazziali del 1994 e la Namibia trova l’indipendenza. Anche gli interessi degli Stati Uniti per l’Africa cambiano di conseguenza, meno legati alla geopolitica e più all’economia. Il loro grande alleato nell’Africa centrale, Mobuto Sese Seko, dittatore dello Zaire, è costretto ad aprire il sistema politico e cedere, su pressione degli Stati Uniti, al multipartitismo. Soluzione che non porta alcun beneficio al paese, perché è sempre il dittatore che muove i fili, ma il paese crolla nel giro di pochi anni e si apre una fase di guerra permanente.

La perestroika africana

Benin, Congo, Mali, Niger…

Nel mondo francofono, sempre in quegli anni, soffia un vento di libertà. Era l’epoca delle Conferenze nazionali che avevano lo scopo di creare un clima democratico con la partecipazione di tutti. Il Benin fu il precursore nel 1990, il marxista Mathieu Keredoku fu sconfitto alle elezioni e si ritirò. Ma non andò così nella Repubblica del Congo, dove il presidente di allora, Denis Sassou Nguesso, continua a governare il paese. Fasi alterne vivono i paesi come il Mali, il Niger. Ma hanno una caratteristica comune: sono regimi poco democratici e accentratori del potere. La “perestrojka africana” che si poteva leggere tra le righe delle Conferenze nazionali non ha mai attecchito, anche se aveva suscitato molte speranze nelle popolazioni di questi paesi.

Rimane, tuttavia, il fatto che Gorbačëv si era adoperato per porre fine al mondo bipolare in cui l’Africa era alla mercè del gioco strategico di Washington e Mosca.

Secondo lo scrittore Vladimir Fedorovski, molto vicino all’ultimo leader sovietico, ai paesi africani mancherà il suo messaggio a favore di un mondo equilibrato: «Aveva un grande rispetto per il continente africano, che considerava il continente del futuro. Gorbačëv diceva che bisognava tener conto degli interessi delle diverse nazioni e trovare equilibri, e anche e forse essere prima di tutto africani. Sprecheremo somme da capogiro per la guerra, dimenticando che l’Africa è minacciata dalla carestia».

I primi a dimenticarsi delle parole di Gorbačëv sono stati proprio quei presidenti africani che si ispiravano all’Unione Sovietica. La Guerra Fredda non c’era più, ma le contrapposizioni rimangono e diventano sempre più complesse. Da una parte il mondo occidentale che cerca di frenare le aspirazioni di Mosca che, piano piano, sta rosicchiando pezzi di influenza occidentale. Il messaggio di Gorbačëv vale ancora oggi.

Dal 24 al 27 luglio, il ministro degli Esteri della Federazione russa, Sergej Lavrov, ha visitato quattro stati africani: Egitto, Repubblica del Congo, Uganda ed Etiopia. Non ha parlato di progetti o interventi. La sua missione era chiedere agli africani di schierarsi con la Russia contro l’Occidente, con un unico argomento: l’Occidente ha un passato coloniale e ha tuttora delle mire coloniali e imperiali.

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Ucraina. Chiavi di lettura dal Latinoamerica https://ogzero.org/ucraina-chiavi-di-lettura-dal-latinoamerica/ Sun, 04 Sep 2022 00:00:38 +0000 https://ogzero.org/?p=8732 Senza attrarre la doverosa attenzione internazionale i giganti del Latinoamerica sono stati teatro di alcuni episodi e appuntamenti inconsueti tra fine agosto e inizio settembre, inquietanti ma forse il continente stesso ci può dotare di chiavi geopolitiche di lettura per spiegare i rivolgimenti derivanti dalla lenta distribuzione degli schieramenti entro cui vanno configurandosi i due […]

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Senza attrarre la doverosa attenzione internazionale i giganti del Latinoamerica sono stati teatro di alcuni episodi e appuntamenti inconsueti tra fine agosto e inizio settembre, inquietanti ma forse il continente stesso ci può dotare di chiavi geopolitiche di lettura per spiegare i rivolgimenti derivanti dalla lenta distribuzione degli schieramenti entro cui vanno configurandosi i due fronti destinati a contrapporsi in ogni ambito del conflitto globale, che i traffici di armi dimostrano essere realmente tale, visto che il mondo partecipa alla corsa al riarmo… per poi andare a definire le sfere di influenza in punta di baionetta.

Avevamo chiesto a Diego Battistessa questo sguardo dall’altro lato dell’Atlantico sulle conseguenze del conflitto in Ucraina prima che venisse alla luce lo sventato golpe militare in Brasile – preventivo, orchestrato negli ambienti fascisti vicini al presidente in carica – volto a contrastare la probabile vittoria di Lula alle elezioni di ottobre; e non era ancora avvenuto il fallito attentato a Cristina Kirchner in Argentina; e nemmeno si era svolto il referendum sulla Costituzione cilena che doveva scardinare il lascito di Pinochet. Ma forse anche questi avvenimenti, dopo aver letto questa ricostruzione ragionata degli eventi collegabili al mondo latinoamericano, possono venire letti con lo scopo di schierare il Cono Sur – o sue parti –, da un lato o dall’altro.

OGzero


Sei mesi di guerra in Ucraina

Chiavi di lettura dell’approccio sudamericano

A sei mesi dall’invasione russa dell’Ucraina, oltre al tragico costo umano della guerra, molti degli equilibri geopolitici e geoeconomici sono stati scossi, ridisegnando una nuova normalità fatta di impennate dell’inflazione, costi esorbitanti dell’energia, nuove alleanze politiche e movimenti nello scacchiere mondiale. Cosa è successo in America Latina e nei Caraibi in questi sei mesi e come hanno reagito i leader politici del subcontinente latinoamericano di fronte all’attacco di Putin all’integrità dell’Ucraina? Ecco qui una dettagliata cronistoria che ci porta passo dopo passo a creare un mosaico fatto di molte sfumature e paesaggi ancora in definizione.

Febbraio – Marzo

Il movimento tellurico avvenuto dentro la comunità internazionale subito dopo l’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina il 24 febbraio 2022 ha portato decine di paesi e organismi multilaterali a condannare immediatamente e con veemenza quanto stava accadendo.

Prime scelte di campo

Un primo grande passo è stato quello preso dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu che in una risoluzione del 25 febbraio ha provato a fermare sul nascere l’invasione. Dobbiamo qui ricordare che il Consiglio di Sicurezza è uno degli organi principali dell’Organizzazione delle Nazioni Unite ed è composto di 15 membri, di cui 5 permanenti (Cina, Francia, Regno Unito, Russia e Stati Uniti d’America) e 10 eletti ogni due anni dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite. I 5 membri permanenti sono i vincitori della Seconda guerra mondiale e su ogni votazione hanno la possibilità di veto: veto che annulla di fatto le conseguenze della votazione. In questo caso era già previsto che la Russia avrebbe posto il veto alla mozione, impedendo all’Onu di poter prendere in considerazione misure militari di dissuasione contro l’esercito di Putin. Interessante però, per ciò che ci riguarda in questo articolo, è il comportamento degli altri 14 membri, in particolare di Messico e Brasile che siedono come membri “transitori” per questo periodo. Dei 15 aventi diritto al voto, 11 hanno votato a favore della risoluzione che imponeva alla Russia di fermare l’offensiva, ritirare completamente e incondizionatamente le sue truppe dai confini internazionalmente riconosciuti e astenersi da qualsiasi nuova minaccia e uso illegale della forza contro qualsiasi stato che faccia parte delle Nazioni Unite. Tra questi stati firmatari troviamo proprio Messico e Brasile. La Russia come detto ha posto il veto alla risoluzione, di fatto annullandola, mentre si sono astenute Cina, India e gli Emirati Arabi.

In questo caso dunque l’America Latina, rappresentata da Messico e Brasile ha fatto parte del coro di voci che condannavano l’invasione in Ucraina ma la questione era tutt’altro che priva di sfumature, perché solo poche ore dopo l’inizio delle ostilità, è arrivata la notizia ufficiale di un comunicato da parte della Oea (Organizzazione degli Stati Americani), che in una sessione straordinaria esprimeva una dura condanna verso un’invasione definita «illegale, ingiustificata e non provocata», chiedendo «l’immediato ritiro della presenza militare russa» dall’Ucraina. Se però andiamo a leggere i firmatari di tale documento scopriamo che hanno ratificato la “condanna” dell’Oea: Antigua e Barbuda, Bahamas, Barbados, Belize, Canada, Cile, Colombia, Costa Rica, Ecuador, Giamaica, Granada, Guatemala, Guyana, Haiti, Honduras, Messico, Panama, Paraguay, Perù, Repubblica Domenicana, Suriname, Trinidad e Tobago, Usa e Venezuela (quest’ultimo rappresentato da un delegato del leader dell’opposizione Juan Guaidó dopo l’uscita dall’organismo multilaterale del governo di Nicolás Maduro nel 2019). Leggendo questi nomi scopriamo delle assenze di prim’ordine come Argentina, Brasile, Uruguay, Bolivia e Nicaragua. (Da ricordare che Cuba fu espulsa dalla Oea nel 1962).

2 marzo 2022

A sei giorni dall’inizio dell’invasione russa in territorio ucraino, l’Assemblea Generale dell’Onu emette una risoluzione che condanna le azioni dell’esercito di Putin. Si tratta di una risoluzione che non ha carattere vincolante e che viene appoggiata da 141 dei 193 Stati che siedono nell’Assemblea. Dei 52 restanti, ben 12 decidono di non partecipare alla votazione (tra questi il Venezuela di Maduro) e solo 5 votano contro: Bielorussia, Corea del Nord, Eritrea, Russia e Siria. Le astensioni sono 35 e tra queste si trovano Bolivia, Cuba, Nicaragua e il Salvador. Insomma, la settimana dopo l’inizio della guerra, l’America Latina mostra una netta divisione tra il gruppo dell’antimperialismo statunitense sorretto dall’asse La Avana – Caracas ed esteso a Managua e La Paz, con l’aggiunta del Salvador guidato da Nayib Bukele (sempre più solo per le sue politiche quantomeno discutibili in termini di libertà e democrazia) e il resto del subcontinente che condanna ufficialmente l’invasione. Una divisione comprensibile se vista dall’alto delle relazioni diplomatiche, economiche e di supporto militare che la Russia ha fornito negli ultimi anni in particolare a tre paesi latinoamericani sempre più isolati dalla comunità internazionale occidentale, quali sono Cuba, Nicaragua e Venezuela.

Figura 1 – Dettaglio voto del 2 marzo 2022

La risoluzione dell’Assemblea Generale dell’Onu viene in soccorso a una tergiversazione che come abbiamo visto in precedenza aveva caratterizzato buona parte delle cancellerie latinoamericane tra il 24 e il 25 febbraio, a poche ora dalla notizia che le truppe russe erano entrate in territorio ucraino. Nel mio articolo del 25 febbraio comparso su “Il Fatto Quotidiano” davo appunto conto da San Paolo in Brasile, di come la regione latinoamericana stava reagendo alle ferali notizie che arrivavano dall’Est europeo. I portavoce di Bolivia, Messico e Perù non avevano condannato esplicitamente l’invasione, chiedendo piuttosto l’apertura immediata di un dialogo. Cuba, Nicaragua e Venezuela, paesi notoriamente vicini alle politiche di Mosca, si erano preoccupate fin da subito invece di difendere l’azione militare di Putin anche se con un tenore diverso a seconda dei casi.

Il più veemente era stato Nicolás Maduro, che in un messaggio del 24 febbraio aveva dichiarato: «Cosa si aspetta il mondo? Che il presidente Putin se ne stia con le braccia incrociate e non agisca in difesa del suo popolo?».

Nel discorso non sono poi mancate le accuse alla Nato e all’imperialismo statunitense, additati come principali responsabili di quanto sta succedendo. Daniel Ortega dal Nicaragua aveva difeso il riconoscimento della repubbliche separatiste di Donetsk e Lugansk condannando con forza l’applicazione di sanzioni economiche contro la Russia. Toni diversi da Cuba, dove proprio mentre Putin lanciava il suo attacco all’Ucraina (la sera di mercoledì 23 febbraio in America Latina) il presidente cubano Miguel Diaz-Canel era riunito con Viacheslav Volodin, il presidente della Duma russa (il parlamento russo). Diaz-Canel aveva espresso la sua solidarietà alla Federazione Russa di fronte all’imposizione di sanzioni e all’allargamento della Nato verso i suoi confini, evitando però di fare riferimento all’incursione militare russa in Ucraina. Dall’altro lato, forti invece erano giunte le condanne da parte di Cile, Ecuador, Uruguay, Paraguay, Colombia e del Caricom (la comunità caraibica, organizzazione internazionale che riunisce 15 membri con pieno diritto, oltre a 5 associati e 8 membri osservatori).

Camminavano “sulle uova” Argentina e Brasile, presi alla sprovvista da un’azione militare che li poneva in serie difficoltà di fronte alla comunità internazionale. Sì, perché da un lato, proprio all’inizio di febbraio, il presidente argentino Alberto Fernández aveva offerto il suo paese come “porta di accesso” della Russia all’America Latina durante un incontro molto discusso con Vladimir Putin al Cremlino. Solo di fronte a intense critiche e pressioni sia interne che esterne al suo governo, Fernández era stato costretto a rilasciare una dichiarazione in cui lamentava la situazione in Ucraina, rifiutando l’uso della forza e chiedendo alla Russia di «cessare l’azione militare in Ucraina», ribadendo però che «nessuna delle parti doveva usare la forza». Dall’altro lato il Brasile del presidente Jair Bolsonaro che, la settimana prima dell’inizio della guerra, si trovava in visita ufficiale proprio a Mosca. Un viaggio che, viste le ripetute avvisaglie di Washington sull’imminente invasione russa dell’Ucraina, aveva creato non poche polemiche e tensioni. Dopo il 24 febbraio sono arrivate da Brasilia delle dichiarazioni tiepide che esprimevano preoccupazione per le operazioni militari lanciate dalla Russia contro il territorio dell’Ucraina senza però condannare esplicitamente l’operato di Putin.

La lista dei paesi ostili a Mosca

La lista dei paesi ostili a Mosca fu creata per la prima volta nel maggio del 2021 e annoverava solo due nomi: Stati Uniti d’America e Repubblica Ceca. Si tratta di un documento pubblicato dal governo della Federazione Russa nel quale sono ascritti quegli stati, territori, regioni ed entità sovranazionali che sono coinvolti in attività che il Cremlino considera “ostili” o “aggressive” nei confronti della Russia. La lista è stata ampliata a inizio marzo 2022, pochi giorni dopo la risoluzione dell’Assemblea Generale dell’Onu e dopo l’applicazione di forti sanzioni da parte dell’Unione Europea e degli Usa contro la Federazione Russa. Oggi il documento conta al suo interno 56 stati o dipendenze territoriali e l’essere menzionati in questa lista comporta l’applicazione di restrizioni rispetto alle relazioni commerciali, valutarie e diplomatiche con Mosca.

Anche questa lista però ci aiuta a capire che la Russia vuole mantenere aperta la porta all’America Latina visto che nessuno dei paesi di questo subcontinente è menzionato nel documento (fatto salvo per la Guyana francese e le Bahamas, quest’ultima aggiunta alla lista il 24 luglio). Le sanzioni infatti colpiscono la quasi totalità del continente europeo, ad eccezione di Bielorussia, Bosnia ed Erzegovina, Moldova e Serbia; in Asia troviamo Giappone, Corea del Sud, Micronesia, Taiwan, Australia e Nuova Zelanda e nella Americhe (a parte le già menzionate) solo Canada e Stati Uniti d’America. Non viene menzionato nessuno Stato africano o latinoamericano.

Aprile

Il 7 di aprile, sempre all’interno dell’Assemblea Generale dell’Onu, è andato in scena il voto per estromettere la Russia dal consiglio dei diritti umani (decisione straordinaria applicata in passata solo nel marzo 2011 alla Libia). Anche questa volta la comunità internazionale si è trovata divisa, ancora più divisa del voto del 2 marzo, chiaro segnale che la macchina diplomatica del Cremlino è riuscita a ampliare la sua sfera di influenza. Sebbene infatti la votazione abbia ufficialmente comportato la sospensione della Russia dal consiglio dei diritti umani dell’Onu, questa volta i voti a favore sono stati “solo” 93 (contro i 141 di marzo), 24 contrari e 58 astensioni: da notare che ben 18 stati non hanno votato tra cui ancora il Venezuela e in questa occasione anche Bolivia, Cuba, Nicaragua e Suriname, che si erano astenute il 2 marzo, hanno invece votato contro questa risoluzione mentre il Salvador ha confermato la sua astensione. Tra gli astenuti fano però il loro ingresso il Belize, Trinidad e Tobago ma soprattutto il Brasile di Bolsonaro e il Messico di Andrés Manuel Lopéz Obrador. Questione geopolitica non di poco conto se si considera che questi due giganti latinoamericani sono la prima (Brasile) e la seconda (Messico), economia del subcontinente.

Figura 2 – dettaglio del voto del 7 Aprile 2022

Maggio

Brasile di Lula

Il mese di maggio si apre con il clamore provocato dalle parole dell’ex presidente del Brasile, Lula Ignacio da Silva, favorito per le prossime elezioni presidenziali di ottobre nella quali affronterà Jair Bolsonaro (presidente uscente).

Lula, in una lunga intervista realizzata da Time e pubblicata mercoledì 4 maggio ha dichiarato:

«Vedo il presidente dell’Ucraina in televisione come se stesse festeggiando, applaudito in piedi da tutti i parlamenti (del mondo). Lui è responsabile quanto Putin. Perché in una guerra non c’è un solo colpevole», ha detto Lula aggiungendo poi che «Voleva la guerra (Zelenski). Se non avesse voluto la guerra, avrebbe negoziato un po’ di più».

Tra i passaggi salienti dell’intervista troviamo poi anche questo:

«Ho criticato Putin quando ero a Città del Messico, dicendo che è stato un errore invadere, ma penso che nessuno stia cercando di contribuire alla pace. Le persone stanno stimolando l’odio contro Putin. Questo non lo risolverà! Dobbiamo stimolare un accordo. Ma c’è un incoraggiamento (al confronto)!».

Infine, nella sua critica a tutto tondo, Lula non ha risparmiato attacchi agli Stati Uniti d’America e all’Onu, specificando

«gli Stati Uniti hanno un peso molto grande e lui (Biden) potrebbe evitarlo (il conflitto), invece di stimolarlo. Avrebbe potuto dialogare di più, partecipare di più, Biden avrebbe potuto prendere un aereo per Mosca per parlare con Putin. Quello è l’atteggiamento che ci si aspetta da un leader».

Rispetto all’Onu invece il 76enne politico brasiliano ha affermato che «è urgente e necessario creare una nuova governance mondiale. L’Onu di oggi non rappresenta più nulla, non è presa sul serio dai governanti. Ognuno prende decisioni senza rispettare l’Onu. Putin ha invaso l’Ucraina unilateralmente, senza consultare l’Onu».

Giugno

Le alleanze si cercano al Vertice

Il mese di giugno è stato il mese dei vertici internazionali: la Cumbre (in presenza) delle Americhe, celebrato a Los Angeles tra il 6 e il 10 giugno, la riunione dei Brics celebrata in forma virtuale a Beijing il 23 giugno e il vertice (presenziale) del G7 di Schloss Elmau in Germania tra il 26 e il 28 giugno. In tutti e tre i vertici si è parlato della guerra della Russia all’Ucraina ma il peso, la presenza e la visibilità dei paesi latinoamericani sono stati molto eterogenei in questi spazi di dialogo e di decisione. Da un lato, il vertice delle Americhe, ospitato quest’anno dagli Usa, ha mostrato la grande frattura esistente nel continente visto e considerato che su 35 stati possibili partecipanti alla fine sono intervenuti solo 26 paesi: con il Brasile arrivato in extremis per la soluzione all’ultimo minuto di un disaccordo tra Biden e Bolsonaro. Cuba, Nicaragua e Venezuela non sono stati invitati e per solidarietà con questi tre paesi non sono intervenuti neanche i presidenti di Bolivia, Honduras e Messico. Dall’altro lato Salvador e Guatemala sono in rapporti molto aridi con l’amministrazione Biden e hanno declinato l’invito, mentre il presidente dell’Uruguay non ha potuto partecipare perché positivo al Covid-19. Un vertice dunque “azzoppato” che ha mostrato l’isolamento Usa nel subcontinente latinoamericano riaffermando la distanza delle politiche e delle visioni di Washington da molte delle amministrazioni latinoamericane. Questo è sicuramente un elemento ad appannaggio di Mosca che, non ha partecipato “fisicamente” al successivo G7 in Germania ma che è stata il centro del dibattito dei 7 “big” presenti: Canada, Francia, Germania, Giappone, Italia, Regno Unito e Stati Uniti d’America (oltre a una rappresentanza politica della UE).

Da ricordare che quello che oggi è il G7 era in precedenza il G8 e includeva anche la Russia. La Federazione russa fu espulsa dal gruppo a seguito della crisi in Ucraina del 2014 che portò all’annessione della penisola di Crimea da parte del presidente russo Vladimir Putin.

Schloss Elmau, G7 del 26 giugno 2022

Al vertice tedesco ha partecipato come invitato il presidente argentino Alberto Fernández, in veste di rappresentante della Comunità degli Stati dell’America Latina e dei Caraibi (Celac). Fernández in questa occasione ha condannato dalle Alpi bavaresi l’operato della Russia in Ucraina, dando un segnale importante di allineamento con le politiche di Washington e della UE.

Solo alcuni giorni prima del G7 però (il 23 giugno) la Russia era stata protagonista del vertice dei Brics, acronimo coniato per associare cinque grandi economie emergenti: Brasile, Cina, India, Russia e Sud Africa. Questo gruppo, che si riunisce dal giugno del 2009, ha rappresentato per anni il paradigma della cooperazione Sud-Sud ed è visto come un’alternativa alle politiche di influenza statunitensi o anche “occidentalocentriche” a livello globale. Tra questi 5 paesi spicca il Brasile, come detto la più grande economia latinoamericana che, per bocca di Jair Bolsonaro, ha detto di voler rafforzare e ampliare la collaborazione commerciale con Mosca. Anche qui troviamo però ancora una volta l’Argentina, paese candidato a un prossimo ingresso nel gruppo, come ricordato proprio nei giorni del suddetto vertice dal ministro degli esteri russo Sergéi Lavrov, in un annuncio nel quale sembrava dire che l’ingresso di Buenos Aires nei Brics potrebbe essere prossimo.

Luglio

Latenti manovre rendono ondivaga la posizione continentale

A inizio luglio si manifesta un segnale inequivocabile rispetto alle profonde divisioni generate dall’invasione russa in Ucraina in America Latina e alle correnti di pensiero a questo riguardo. Il presidente ucraino Volodímir Zelensky fa richiesta ufficiale al Paraguay di poter essere presente in videoconferenza nel prossimo vertice del Mercosur (Mercato Comune del Sud) che sarebbe stato celebrato appunto ad Asunción, capitale del paese sudamericano giovedì 21 luglio. Zelensky, forte dei precedenti discorsi realizzati in svariati forum e vertici internazionali come quello della Nato, del G7, alle Nazioni Unite e nel Forum Economico Mondiale vuole ripetere l’impresa, magari proponendo uno “speech” cucito ad hoc per l’occasione, così come ha fatto in diversi parlamenti in giro per il mondo. In quei giorni è lo stesso ministro degli esteri del Paraguay, Julio Cesar Arriola, a dare la notizia della richiesta che il presidente ucraino ha presentato direttamente a Mario Adbo Benítez (presidente del Paraguay), spiegando però che la domanda verrà sottoposta al vaglio di tutte le parti interessate. Sembrava un puro rito diplomatico e invece arriva il colpo di scena: dopo una votazione interna e segreta del blocco commerciale composto da Argentina, Brasile, Paraguay e Uruguay arriva il diniego. Zelenski non parlerà al vertice Mercosur, e a dirlo in una conferenza stampa è questa volta il viceministro degli esteri paraguaiano, Raúl Cano Ricciardi, che però non svela quale paese o quali paesi abbiano votato contro la richiesta del presidente ucraino.

L’America Latina ci ha però abituato a continui colpi di scena e solo 4 giorni dopo il mancato appuntamento di Zelenski con il vertice del Mercosur di Asunción succede qualcosa che ancora una volta muove le carte in tavola. Si perché il 25 luglio arriva la prima visita di un presidente Latinoamericano a Kyiv: si tratta di Alejandro Giammattei, presidente del Guatemala dal 14 gennaio 2020. Questa visita è la prima di un presidente dell’America Latina dal 24 febbraio (data dell’inizio dell’invasione russa) ma è anche la prima in generale degli ultimi 12 anni. Giammattei che aveva ricevuto l’invito a recarsi in Ucraina nel giugno scorso proprio da Zelenski, ha visitato le oramai tristemente famose città di Bucha, Irpin e Borodianka, assicurando che il suo paese non lascerà solo il popolo ucraino nel momento della ricostruzione.

Agosto

Ad agosto, a sei mesi dall’inizio dell’invasione ci troviamo di fronte a un altro “coup de théâtre” questa volta organizzato dall’asse Caracas-Mosca. Infatti il Venezuela di Maduro è diventato il 13 agosto il primo paese latinoamericano a ospitare come anfitrione le “Army Games”, anche chiamate “Olimpiadi della Guerra”. Ovvero delle competizioni militari organizzate proprio dal ministero della Difesa della Russia dal 2015. Ai “giochi” hanno partecipato 270 squadre provenienti da 37 paesi e le gare hanno avuto luogo tra il 13 e il 27 agosto, in 36 modalità di competizione (in Venezuela hanno gareggiato i cecchini). Oltre a Venezuela e Russia, anche Algeria, Bielorussia, Cina, India, Iran, Kazakistan e Vietnam sono state le sedi secondarie dell’edizione di quest’anno. L’alto comando militare venezuelano ha mantenuto un certo riserbo sull’evento, che ovviamente ha risvegliato l’interesse e la preoccupazione degli Usa, visto che la competizione ha comportato l’arrivo di centinaia di militari stranieri in Venezuela. Soldati provenienti da Abcasia, Bielorussia, Cina, Iran, Myanmar, Russia e Uzbekistan: paesi che in molti casi sono colpiti dalle sanzioni degli Stati Uniti d’America.

Ad aumentare la tensione anche una “coincidenza”, se tale si vuole considerare. Infatti le “Olimpiadi della guerra” sono iniziate proprio mentre si concludevano le operazioni militari annuali organizzate dal comando sud degli Stati Uniti d’America: operazioni battezzate PanamaX 2022. A questa importante esercitazione, svoltasi tra il 1° e il 12 agosto, hanno partecipato le forze armate di Argentina, Brasile, Cile, Colombia, Costa Rica, Ecuador, Repubblica Domenicana, Giamaica, Guatemala, Honduras, Messico, Panama, Paraguay, Perù Salvador e Spagna.

Proprio mentre si svolgevano le “Olimpiadi della Guerra” in Venezuela con la benedizione del Cremlino, avviene però un altro colpo di scena. Zelenski riguadagna lo spazio che gli era stato negato al vertice del Mercosur e mercoledì 17 agosto, questa volta nelle aule della Pontificia Universidad Católica de Chile (Puc) riesce a parlare in videoconferenza mandando un messaggio ai presidenti della regione e a tutto il popolo latinoamericano, al quale ha chiesto di cessare il commercio con la Russia.

Ha poi aggiunto: «Per credere a quello che sta succedendo, è importante vederlo. Voglio che i vostri leader, i giovani, vengano in Ucraina. Per noi è importante che l’America Latina conosca la verità», apparendo per la prima volta su uno schermo latinoamericano a 175 giorni dall’inizio della guerra.

Un messaggio seminato in Cile, paese dove il giovane presidente Gabriel Boric aveva da subito dato il suo appoggio, in termini umanitari, verso il popolo ucraino.

Di fronte a tutto questo rimante difficile decifrare le vere intenzioni di Putin in America Latina, dove però sicuramente le sue alleanze con Cuba, Venezuela e Nicaragua e i suoi ammiccamenti ad Argentina e Brasile hanno complicato la risposta dell’Occidente alla sua invasione dell’Ucraina. Non sono da sottovalutare però le agende dei singoli paesi latinoamericani che dal canto loro potrebbero “usare” Putin come “spauracchio” da giocare nell’infinita partita a scacchi con Washington e Beijing, i due poli che continuano a oggi a esercitare comunque la maggiore influenza nella regione.

Conseguenza economiche della guerra nell’area Cono Sur

Chiavi di lettura delle alleanze globali

Per dare uno sguardo in chiave economica di come quanto sta succedendo in Ucraina abbia un riflesso diretto sulle società nazionali della regione latinoamericana, possiamo fare riferimento a un’analisi realizzata dal Real Instituto Elcano di Madrid, elaborata da Carlos Malamud e Rogelio Nuñez Castellano dal titolo L’America Latina e l’invasione dell’Ucraina: il suo impatto sull’economia, la geopolitica e la politica interna.

Spiegano Malamud e Nuñez Castellano che i paesi dell’America Latina, seppur in posizione periferica si vedono influenzati in modo importante dalla crisi in Ucraina. Economicamente, l’aumento dei ricavi per i paesi produttori di materie prime, in particolare idrocarburi, ha convissuto con il rimbalzo inflazionistico causato dall’aumento dei prezzi dell’energia e dalla scarsità di importazioni dalla Russia (fertilizzanti) e dall’Ucraina (cereali). Ci sono stati notevoli disaccordi all’interno di ciascun paese sulla posizione di fronte al conflitto, questione che rende ancora più difficile la politica interna in mezzo alla crescente incertezza sul futuro dell’economia mondiale e regionale, con un possibile aumento dei disordini sociali (vedi il caso delle recenti proteste a Panama). Inoltre la lotta geopolitica globale per il controllo e l’accesso alle risorse energetiche, ha rilanciato alcune potenze petrolifere regionali (come il Venezuela) e ha favorito alcuni spazi commerciali in termini di esportazioni (per esempio quelli argentini con l’esportazione di cereali).

Un’altalena di costi e benefici che però se vista nella foto regionale porta delle cifre tutt’altro che ottimistiche. Secondo i dati della Commissione economica per l’America Latina e i Caraibi (Cepal) resi noti a fine aprile scorso, il conflitto in Ucraina ha esacerbato i problemi di inflazione, aumentando la volatilità dei costi finanziari abbassando le stime di crescita regionale da 2,1% (gennaio 2022) a 1,8% (aprile 2022). Le economie del Sud America cresceranno dell’1,5%, quelle del Centro America e del Messico del 2,3%, mentre quelle dei Caraibi cresceranno del 4,7% (esclusa la Guyana).

Sempre la Cepal, nel volume Ripercussioni in America Latina e Caraibi della guerra in Ucraina: come affrontare questa nuova crisi? pubblicato a giugno, parla anche di un lento e incompleto recupero del mercato del lavoro dopo il Covid-19, prevedendo che la povertà e la povertà estrema supereranno i livelli stimati per il 2021.

«L’incidenza della povertà regionale raggiungerà il 33,7% – 1,6 punti percentuali in più rispetto alle proiezioni per il 2021- mentre la povertà estrema raggiungerà il 14,9% – 1,1 punti percentuali in più rispetto a nel 2021».

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Brecce nei modelli dello status quo https://ogzero.org/brecce-nei-modelli-dello-status-quo/ Fri, 12 Aug 2022 08:53:28 +0000 https://ogzero.org/?p=8520 Si stanno indubbiamente aprendo brecce nell’equilibrio mondiale a cui s’ispira il modello che ha consentito finora all’Occidente di imporre la propria impronta sul mondo. Il multilateralismo faceva perno su una potenza globale come quella americana che assicurava la possibilità di intessere relazioni multilaterali, ora quel sistema vede erodere la propria incontrastata egemonia in particolare dalla […]

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Si stanno indubbiamente aprendo brecce nell’equilibrio mondiale a cui s’ispira il modello che ha consentito finora all’Occidente di imporre la propria impronta sul mondo. Il multilateralismo faceva perno su una potenza globale come quella americana che assicurava la possibilità di intessere relazioni multilaterali, ora quel sistema vede erodere la propria incontrastata egemonia in particolare dalla Cina e dal corredo di potenze locali in grado di portare sfide in aree specifiche. Nell’ultimo anno, dopo la caduta di Kabul il 15 agosto 2021, si è assistito a un’accelerazione inarrestabile della messa in discussione della globalizzazione e alla proposta di modelli socio-politici autocratici che si contrappongono alla “rassicurante” liberal-democrazia.
Era un sogno della sinistra libertaria aprire brecce nel capitalismo liberal-democratico per scardinarne il sistema, e ora chi metterebbe al centro l’emancipazione antitotalitaria dei popoli non riesce a interpretare l’attacco allo strapotere americano come una rivoluzione imposta dall’alto e realizzata dal nazionalismo autoritario, militarista e tecno-finanziario come quello statunitense. Infatti non sortisce di meglio che accettare la narrazione che vede ancora due blocchi contrapposti, da cui non si riesce a prescindere… né a evitare di schierarsi, non riconoscendo che si tratta della riproposta di schieramenti ottocenteschi: il superamento del “secolo breve” sta avvenendo, sì… ma in senso contrario, nel passato di oligarchie imperiali ottocentesche che controllano i propri territori, rinverdendo tradizioni culturali che si appropriano della critica alla globalizzazione.

Dopo un anno il regime talebano consegue il riconoscimento da parte di Cina e Russia. Quella capitolazione di Kabul alla più vieta e arcaica concezione religiosa e culturale locale del Waziristan ha dato la stura alla spartizione del mondo in aree di riferimento. OGzero ha pensato che ci fosse la necessità di ipotizzare e far dialogare processi in corso e possibili strategie adottate dai protagonisti del rivolgimento epocale, sperando così di avviare un dibattito che descriva la situazione prescindendo dalla versione parziale che scaturisce da un sistema in mutazione e quindi non in grado di fotografare il cambiamento che sta subendo.


Sostituzioni di modelli

Nelle infinite analisi del ribaltamento in corso di quell’equilibrato sistema di relazioni internazionali sancito da Yalta – e mantenuto invariato perché a nessuna delle potenze andava stretto o non avevano l’opportunità di imporre finora alcun rilievo – esistono un paio di elementi che sembrano non venir evidenziati a sufficienza nelle disamine della situazione geopolitica attuale: la rivoluzione è imposta dall’alto, è un pranzo di gala esclusivo dove gli invitati giocano a Risiko – e infatti si punta su una comunicazione che fondi la legittimità delle mosse sul confronto nazionalista; e al contrario di quel che avviene di solito in caso di conflitti, il contenzioso non coinvolge il Sud del mondo, sconvolgendolo. Le popolazioni alle quali ci si riferiva come Terzo mondo, ai tempi in cui lo spunto per molte speculazioni proveniva dall’internazionalismo non solo ora non si schierano a favore della “democrazia”, ma cominciano a considerare l’occasione ghiotta per ridimensionare la presenza e il condizionamento di un sistema, forgiato su un modello culturale ed economico sviluppato da una cultura estranea come quella europea, esportato in forma coloniale.

«Noi giovani abbiamo organizzato questa manifestazione per il ritiro delle forze armate francesi dal territorio nazionale del Mali. Vogliamo dare un contributo alla soluzione definitiva della crisi e ripristinare i valori della sovranità della nostra nazione. Non nascondiamo e riaffermiamo la nostra comune disponibilità con le nuove autorità di transizione a dare priorità alla cooperazione militare con la Russia per il rapido ripristino della Repubblica, in modo da poter lottare per la stabilità a lungo termine, che porterà alla nostra sovranità assoluta» (appello ad Assimi Goita pubblicato dalla piattaforma Debout sur les remparts, Yerewolo: giovani maliani, settembre 2021)

Ecco: un primo errore nella narrazione e nell’approccio al rivolgimento epocale sta nel vizio occidentale di voler imporre il proprio sguardo etico-politico anche sull’interpretazione dei conflitti globali, senza considerare le narrazioni sviluppate da altre tradizioni politico-culturali. Geopolitica chiederebbe di attenersi all’analisi di strategie messe in atto a seguito di bisogni e presunta potenza; invece la propaganda sia dal punto di vista liberal-capitalista, sia nell’ambito autocratico-capitalista sfrutta le spinte nazionaliste identitarie, inanellando tutti i più vieti luoghi comuni per salvaguardare la propria sussistenza entro i confini di riferimento di stati consorziati militarmente a fare da scudo al proprio ordine socio-culturale. Persino l’internazionalismo era caduto nella stessa trappola di avanzare una filosofia di emancipazione comunque sviluppata all’interno della cultura occidentale, nonostante l’intento meritevole di liberazione dell’Altro.

Vecchi sogni antimperialisti offuscati da modelli di imperialismi contrapposti

Infatti la sfida in corso al predominio americano e al suo sistema di sfruttamento mondiale era il sogno di ogni rivoluzionario degli anni Sessanta-Ottanta. Al contrario vediamo i regimi autocratici intenti a scalfire il potere americano, avendo ipotizzato, dopo la disfatta di Kabul, che si sia avviato allo stesso declino subito dall’Urss dopo il pantano afgano. Ma forse si tratta soltanto di una speculare reazione al pressing statunitense sui russi, volto a togliere alla potenza locale il terreno sotto i piedi; e questo cominciò con l’amministrazione Obama. In particolare l’esecuzione di Gheddafi ha suggestionato il capo del Cremlino: infatti dal 2011 Putin ha cambiato strategia geopolitica, convinto nel suo sospetto dalla costante cooptazione nel campo filoamericano di molte nazioni ex sovietiche, sottratte alla influenza russa; questo ha giocato un ruolo rilevante di intenzionale provocazione per la potenza militare moscovita.

Un po’ tutti hanno impugnato quelle forbici, che hanno innescato il cambiamento, tagliando i fili del multilateralismo che erano in tensione già da tempo.
Putin è stato forse indotto a credere nella possibilità di costituire un fronte antiamericano sufficientemente ampio e militarmente sostenibile: potrebbe essere credibile una sorta di accordo tacito di non belligeranza se non di reciproco sostegno con altre grandi potenze, come la Cina che invece – a cominciare dall’amministrazione Trump – è stata messa sotto pressione dal punto di vista economico. Si potrebbe adottare uno sguardo capace di spiegare le indubbie provocazioni americane (l’ultimo episodio è quello che ha visto protagonista Pelosi a Taiwan, imbarazzante per gli alleati coreano e giapponese, come si è visto nelle tappe successive del viaggio) per arrivare a un confronto di intensità variabile che consenta a Washington di ridimensionare gli sfidanti quando ancora gli Usa detengono la preminenza nei mezzi sia militari che economici (il “momento tucidideo” di cui parla Streeck su “New Left Review”, ripreso da “Internazionale”). I rivali non hanno potuto evitare di rispondere alle provocazioni e mettersi in gioco quando ancora gli Usa sono in grado di fronteggiarli.

«Gli Stati Uniti si stanno comportando da stupidi, ed effettivamente lo sono. Fingendo di esserlo significa che sanno quali sono gli interessi della Cina sulla questione di Taiwan e la sua linea rossa. Ma, nonostante questo, la calpestano ripetutamente» (Wang Wen dell’Università Renmin)

Si è arrivati alla guerra aperta perché a quel risultato erano improntati i piani strategici di tutti i protagonisti per rispondere all’esigenza da parte di potenze nucleari energivore di espandere il controllo di risorse e mercati e in nome di quelle dinamiche dominanti si sta tentando la scalata all’egemonia, la stessa che gli Usa intendono mantenere ancora per alcuni decenni, com’è avvenuto 30 anni fa quando a crescere al punto da sfidare la preminenza tecnologico-finanziaria fu il Giappone simboleggiato da Goldrake, allora detentore delle maggiori conoscenze sui semiconduttori e ora investito da Blinken del ruolo di gendarme del Pacifico; la sfida di Tokyo fu ridimensionata proprio con l’avvento della globalizzazione e agevolando la crescita della Cina ispirata a Deng in grado di eclissare prima e surclassare nel 2010 l’ascesa del Giappone – isolato e costituzionalmente privo di deterrenza militare; ora il conflitto appena scatenato rappresenta la fine della globalizzazione e l’industria nipponica torna a fare da testa di ponte per conservare al campo “occidentale” il controllo dei microchip, collaborando con le maggiori fabbriche di Taiwan. Premendo così in ambito tecnologico sulla possibilità di sviluppo dell’economia cinese, costretta a mostrare i muscoli a Nancy Pelosi (per uso interno, ma anche più pragmaticamente per salvaguardare le forniture tecnologiche di Formosa), come il pressing e la cooptazione degli stati satelliti dell’ex Urss lasciava poche chance alla sicurezza russa.

«Putin ha lanciato un’invasione per eliminare la minaccia che vedeva, perché la questione non è cosa dicono i leader occidentali sui propositi o le intenzioni della Nato: è come Mosca vede le azioni della Nato. la politica occidentale sta esacerbando i rischi di un conflitto allargato. Per i russi, l’Ucraina non è tanto importante perché ostacola le loro ambizioni imperiali, ma perché un suo distacco dalla sfera d’influenza di Mosca è “una minaccia diretta al futuro della Russia”» (John Mearsheimer da “The Economist”).
«Molti tendono a equiparare egemonia e imperialismo. In realtà imperialismo è una nazione che ne forza altre a entrare nella sua sfera, mentre egemonia è più una condizione che un proposito. Il problema di Putin e di coloro che sostengono l’esistenza di sfere d’influenza russa e cinese è che “tali sfere non sono ereditate, né sono create dalla geografia, dalla storia o dalla ‘tradizione’. Sono acquisite dal potere economico, politico e militare” che gli Stati Uniti possiedono più della Cina e che la Russia non ha» (Robert Kagan, “Foreign Affairs”).
(Ugo Tramballi, Ispi).

Conflitti collaterali e proxy wars

Ormai appare evidente che l’escalation di tensione costringe il mondo a uno stretto passaggio tramite il quale ogni area dello scacchiere internazionale è costretta a transitare, ovvero locali confronti tra protagonisti per definire gli schieramenti attraverso innumerevoli conflitti ristretti che ambiscono al controllo di territorio, risorse, commodities e mercati a cui attingere quando lo sforzo bellico sarà globale e a tutti i livelli.

Di tutti il confronto che maggiormente ha costituito la consapevolezza che si stava andando verso un rivolgimento globale è la crisi sarmatico-pontica, usata come grimaldello per coinvolgere anche l’Occidente europeo nel processo di trasformazione degli equilibri e delle supremazie su zone di influenza che si è innescato con l’attacco di Sarkozy a Gheddafi. Di lì discende la nuova strategia russa da un lato (innescata come già spiegò Bagnoli dalla paura di Putin di fare la stessa fine) e dall’altro la pulsione all’affrancamento nel Mediterraneo dei satrapi che nel 2011 erano ancora al guinzaglio di potenze globali e da allora invece sempre più autonomi e spregiudicati, come la Turchia, l’Arabia Saudita, gli Emirati… che hanno cominciato a sgomitare perseguendo strategie, alleanze, riarmo, penetrazioni in territori colonizzati proprio da quell’Occidente europeo da cui gli Usa si allontanavano, non avendo più interesse energetico derivante dal Mena, essendo divenuto autosufficiente durante l’amministrazione Obama con lo shale oil, e che ha optato in quel quadrante per la delega alle autocrazie locali. Si è venuta così a creare una pulsione all’autodeterminazione, all’affrancamento e all’autoaffermazione che passa attraverso un forte impulso al nazionalismo e al militarismo. Altra benzina sul fuoco.

Modelli sovranisti stanziano ad Astana

In questo quadro van rivisti a livello di potenze locali, tendenzialmente non più tali, la guerra siriana e i conseguenti accordi di Astana… Si sono svolti nelle ultime due settimane due atti di questo canovaccio, uno a Tehran e uno a Soci, di quest’ultimo Yurii Colombo ha parlato nel suo canale telegram Matrioska.info, sottolineando i due aspetti richiamati dal viceprimoministro Alexander Novak che rinsaldano i legami tra i due autocrati: le forniture di 26 miliardi di metri cubi annui di gas alla Turchia – il cui Turkish Stream diviene un hub del gas russo ad aggirare gli embarghi – e gli scambi in valuta nazionale: lira e rubli, entrambe in sofferenza. L’incontro in Iran è stato affiancato dall’Ispi agli sviluppi dell’attività diplomatica di Lavrov:

«A pochi giorni dall’incontro del terzetto di Astana dove oltre a Ebrahim Reisi Putin ha incontrato anche l’omologo turco Recep Tayyip Erdoğan, la visita di Lavrov sembra anche voler ribadire che la Russia non è isolata sulla scena internazionale. Al termine dell’incontro con il presidente egiziano Abdelfattah al Sisi e con il segretario generale della Lega araba, Ahmed Aboul Gheit, il ministro ha esortato il mondo arabo a sostenere la Russia “contro i tentativi palesi degli Stati Uniti e dei loro satelliti europei di prendere il sopravvento e di imporre un ordine mondiale unipolare”. Non è detto che in paesi in cui il sentimento antiamericano è forte (corroborato dall’invasione in Afghanistan e Iraq e dal sostegno storico a Israele) i suoi argomenti non facciano presa» (Alessia De Luca, Ispi).

Mosca è tutt’altro che isolata, se si ripensa al voto di marzo all’Onu sulla risoluzione di condanna dell’invasione ucraina.

Tutti contro tutti appassionatamente insieme

Ankara contemporaneamente è un nodo della gestione per procura americana del Medio Oriente insieme a Tel Aviv (il giorno dopo l’incontro con Herzog, Hamas è stato cacciato da Ankara, come avvenne ad Arafat a Beirut) – però Israele è schierato con Egitto, Cipro e Grecia per controllare il Mediterraneo orientale in contrasto con Ankara – e Riad, gradualmente disciogliendo il contenzioso yemenita come il corpo di Kasshoggi nell’abbraccio tra Erdoğan e Mbs (con sullo sfondo gli Accordi di Abramo voluti da Kushner e proseguiti da Blinken).  A maggio persino sauditi e iraniani hanno ripreso relazioni diplomatiche. Evoluzioni tutte previste da Antonella De Biasi in Astana e i 7 mari.

“Astana prepara crepe nell’asse mondiale sparigliando le polarità”.

Risulta sempre più importante districarsi tra alleanze interstatali, che in ogni caso – siano regimi liberal-democratici o democrature rette da autocrati e oligarchi, dinastie, latifondi o gruppi economico-industriali – soffocano le libertà civili e il controllo dei media impedisce ai sudditi di riconoscersi come tali e proporre una coalizione dei sottomessi che si sottraggano e levino il consenso alle istituzioni militari assassine.

Questa ricostruzione permane all’interno di un quadro a blocchi, ma lo fa diversamente dal rimpianto che si affaccia presso alcuni vecchi rivoluzionari per quella condizione semplice da leggere costituita da due imperi anche geograficamente divisi per blocchi contigui. Invece in realtà lo sconquasso operato con l’invasione ucraina ha sconvolto ogni possibile lettura di strategie e mosse sullo scacchiere internazionale, che va componendosi all’interno di quel quadro in una serie di alleanze militari (Quad, Aukus), cooptazioni (gli stati africani controllati da Wagner e quelli inseriti negli accordi di Abramo), scelte di campo fondate sui nemici dei nemici (Etiopia), attendismo neutralista (eclatante in questo senso la posizione dell’India), ambigue mediazioni (il ruolo che si è conferito Erdoğan).

Il rivolgimento globale registra soprattutto in Mena e in Europa (e nelle sue colonie africane) il rimescolamento di alleanze, controllo di risorse e sfere di influenza, mentre nell’Indopacifico si assiste a viaggi diplomatici che si inseguono per creare coalizioni in vista del confronto.

Orizzonti senza gloria

Però quei vecchi rivoluzionari ormai incanutiti dovrebbero leggere il presente con occhiali diversi da quelli adottati negli anni Settanta e proporre un pensiero estraneo all’ottica meramente mercantile di un capitalismo ancora più feroce di allora che permea tutte le innumerevoli parti in causa, le quali infatti si confrontano con i mezzi previsti dal Finanzcapitalismo (non a caso Gallino lo scrisse nel 2011, l’anno del tracollo libico, durante le Primavere arabe).

Un modello che sconfigga il sovranismo neototalitario non può certo affidarsi al nazionalismo dell’imperialismo di stampo americano in contrapposizione a quelli irricevibili di stampo cinese o russo o neo-ottomano o saudita, o viceversa: rispondono tutti ai medesimi criteri ed è come rivelare l’acqua calda la denuncia che la barbarie dell’esercito russo è identica a quella delle invasioni americane di Vietnam, Somalia, Iraq… Afghanistan. Quest’ultima, emblematicamente comune a quella sovietica, dovrebbe anche simbolicamente chiudere il cerchio e l’epoca.

Allora bisognerebbe riuscire a fabbricare una chiave per attribuire il fulcro delle strategie che regolano i rapporti nel mondo a valori diversi, esterni al capitalismo – o alla identità nazionale o religiosa. Per farlo andrebbe forse messa al centro della proposta di ricostruzione dei modelli mondiali l’emancipazione dei popoli e la loro difesa dagli imperi sovranisti che non solo ripropongono l’idea degli imperi ma anche la loro considerazione della carne da cannone, contrapponendogli quel ripudio delle guerre, militari o economiche che siano, sicuramente diffuso come all’inizio della Prima guerra mondiale su cui potrebbe costruirsi un modello che si sottrae agli interessi imperialistici.

Quindi innanzitutto vanno smontati i meccanismi e gli interessi militari che stanno informando le cancellerie del mondo. E per farlo vanno individuati e descritti nei particolari quegli stessi meccanismi per disinnescarli, come la bomba che gli imperialismi, cambiando gli equilibri di sistema dall’interno e ponendosi fuori dai blocchi, stanno preparando, intessendo l’ordito di trame e temporanei accordi che sfoceranno in nuovi focolai di guerra funzionali a uno di quei modello di mondo.

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La crisi dissolve il voto tribale e la stabilità del Kenya? https://ogzero.org/la-crisi-dissolve-il-voto-tribale-e-la-stabilita-del-kenya/ Fri, 05 Aug 2022 14:46:33 +0000 https://ogzero.org/?p=8425 Il passaggio elettorale che il 9 agosto attende il Kenya è ancora un voto tribale che capita in uno snodo epocale manifestatosi come tempesta perfetta. Dopo una pandemia, che in Africa ha moltiplicato i suoi effetti per la carenza dei servizi; seguita da una guerra lontana, che ha ripercussioni peggiori di quelle nel medesimo Corno […]

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Il passaggio elettorale che il 9 agosto attende il Kenya è ancora un voto tribale che capita in uno snodo epocale manifestatosi come tempesta perfetta. Dopo una pandemia, che in Africa ha moltiplicato i suoi effetti per la carenza dei servizi; seguita da una guerra lontana, che ha ripercussioni peggiori di quelle nel medesimo Corno d’Africa per la carestia che provoca – con il corredo di shabab che destabilizzano l’intera area; una siccità devastante che sta prostrando il paese. Forse tutto questo può provocare un cambiamento nel sistema del voto tribale che da sempre regola gli equilibri di potere nel paese africano tra i più sviluppati di quelli che si affacciano sull’Oceano Indiano. Riprendiamo per questo il bell’articolo pubblicato sull’Agi da Angelo Ferrari, che è il responsabile della parte africana della nostra collana sulle città e che ha voluto fortemente che Freddie Del Curatolo scrivesse il volume dedicato a Nairobi.    


Gli schieramenti del voto tribale

Mancano pochi giorni alle elezioni presidenziali del 9 agosto in Kenya. La campagna elettorale, tuttavia, si è svolta in un clima di apatia, di disillusione politica e, soprattutto, è stata segnata dalla crisi economica e dall’elevato costo della vita con un’impennata dei prezzi dei generi di prima necessità; mettendo da parte il fattore etnico da sempre determinante nelle elezioni.
Quattro sono i candidati in corsa per la presidenza – in Kenya si voterà anche per le legislative – tra cui il vicepresidente William Ruto e Raila Odinga, ex leader dell’opposizione e ora sostenuto dal presidente uscente Uhuru Kenyatta. A contendersi la poltrona più alta del paese anche gli avvocati David Mwaure e George Wajackoyah – una eccentrica ex spia che vuole legalizzare la cannabis – con pochissime chance di vittoria. Le elezioni si prospettano come un serrato duello tra Ruto e Odinga. Chi vincerà? È difficile dirlo, sembra quasi demandato a un lancio di monetina: tutto si giocherà all’ultimo voto.

Oligarchie e loro interrelazioni malate alle urne

I due favoriti, i cui ritratti campeggiano su enormi cartelloni pubblicitari in tutto il paese, sono volti noti ai keniani. Odinga, 77 anni, è un veterano della lotta democratica, che ha vissuto il carcere prima di diventare primo ministro (2008-2013); si candida alla presidenza per la quinta volta. Ruto, 55 anni, ha ricoperto la carica di vicepresidente per quasi un decennio come delfino del presidente in carica Kenyatta, che lo aveva designato come suo successore. Ma le cose sono poi andate diversamente: un’alleanza inaspettata tra Kenyatta e Odinga lo ha messo da parte già nel 2018. Con un capovolgimento della politica keniana, del resto molto versatile, Odinga è diventato il candidato del presidente uscente; Ruto, da membro del potere, si è trovato a sfidarlo.

«“Evitate di eleggere un ladro”, ha affermato Kenyatta riferendosi chiaramente, pur senza nominarlo, a Ruto. “Non voglio sentirvi piangere e avere rimorsi di coscienza. Ci sono persone che raccontano storie simpatiche, sono dolci come il miele e sanno essere convincenti, ma sono veleno”» (“AfricaRivista”).

Comunque vadano le elezioni si aprirà una nuova pagina dopo oltre vent’anni di presidenze Kikuyu, la prima e molto influente etnia del paese. Infatti Odinga è un Luo e Ruto un Kalenjin, come sentiamo da Freddie Del Curatolo in questo duetto radiofonico con Angelo Ferrar, avvenuto sulle frequenze di Radio Blackout.

Percentuali di tribalità e affarismo sulla bilancia elettorale keniota

Un sistema corrotto, populista ed elitario

La politica keniana degli ultimi anni è stata segnata da manovre di palazzo che non hanno fatto altro che accrescere la disaffezione della popolazione nei confronti della politica. È aumentata l’apatia soprattutto tra i giovani che hanno risposto con meno entusiasmo all’iscrizione nelle liste elettorali. I 22,1 milioni di elettori iscritti dovranno votare per il presidente, ma anche per i parlamentari, i governatori e per circa 1500 funzionari locali elettivi.
C’è disillusione e sono in molti coloro che pensano che la politica non risolverà i problemi della gente, chiunque verrà eletto farà le stesse scelte del suo predecessore. E poi c’è un paese afflitto dalla corruzione che è diventata endemica. Odinga nella sua campagna elettorale ha proprio dato la priorità alla lotta a questo flagello, nominando come vicepresidente l’ex ministro Martha Karu, ritenuta una donna inflessibile proprio sul tema della corruzione, e denunciando i procedimenti legali contro il compagno di corsa di Ruto, Rigathi Gachagua.
Lo sfidante di Odinga ha impostato tutta la campagna elettorale ergendosi a paladino del popolo, promettendo aiuti e lavoro quando tre keniani su dieci vivono con meno di 2 dollari al giorno, secondo la Banca Mondiale…

… e il Fmi “supporta” la crisi

A tenere banco, però, in questa campagna elettorale, è stato il tema del potere di acquisto e la crescita drammatica dei prezzi dei generi di prima necessità.

Eastleigh, Nairobi

Nairobi, Eastleigh in uno scatto di Leni Frau

Un fattore destabilizzante per il Kenya, locomotiva economica dell’Africa orientale, scossa prima dalle conseguenze della pandemia da Covid, poi dalla guerra in Ucraina e infine da una grave siccità che non si vedeva da 40 anni. E a pagarne le conseguenze sono tutti: la gente che acquista sempre meno e i commercianti frustrati dall’innalzamento dei prezzi dei generi alimentari. In questo contesto la questione economica potrebbe soppiantare il voto tribale, da sempre fattore chiave presente nelle cabine elettorali.

Tè, caffè; parchi, spiagge… golf e slum

Nonostante ciò il Kenya è da sempre una delle economie più dinamiche dell’Africa orientale e si è sempre preso cura della sua immagine di hub regionale. Il suo profilo è atipico in Africa: relativamente poche risorse naturali ma un notevole dinamismo economico, in particolare nel settore dei servizi. L’agricoltura è anche uno dei suoi pilastri (22% del Pil) e la principale fonte di esportazione (tè, caffè, fiori). Dopo un calo dello 0,3% correlato alla pandemia del 2020, l’economia del Kenya ha iniziato a riprendersi nel 2021.
Un altro fattore determinante è il turismo, grazie alla cinquantina tra parchi e riserve naturali e alle coste dalle acque cristalline dell’oceano Indiano, che hanno attratto, nel 2021, circa 1,5 milioni di visitatori e che sta crescendo nell’anno in corso. Ma i prezzi del carburante e del cibo sono aumentati vertiginosamente negli ultimi mesi, in particolare quello della farina di mais – cibo base – alimentando così la frustrazione in un paese afflitto dalla corruzione endemica.

Grafico della corruzione percepita nel periodo 2012-2021 in Kenya

Nel 2021 il Kenya è stato classificato al 128esimo posto su 180 paesi da Trasparency International. Le diseguaglianze, inoltre, sono evidenti in Kenya, dove i campi da golf e gli slum possono essere adiacenti e dove il salario minimo mensile è di 15.120 scellini (124 euro). Secondo la ong Oxfam, il patrimonio dei due keniani più ricchi è maggiore del reddito combinato del 30% della popolazione, ovvero 16,5 milioni di persone.

L’impianto tribale di una nazione giovane

La popolazione di circa 50 milioni di persone è per lo più giovane e cristiana. Degli oltre 40 gruppi etnici, i Kikuyu sono il gruppo più numeroso, davanti ai Luhya, ai Kalenjin e ai Luo. Il fattore etnico da sempre gioca un ruolo fondamentale nello stampo elettorale del voto tribale, ma è anche stato un fattore destabilizzante. Sono trascorsi, infatti, quindici anni dalle violenze postelettorali del 2007-2008 che hanno provocato più di 1100 morti, principalmente negli scontri da Kikuyu e Kalenjin. Una ferita mai rimarginata che pesa ancora oggi.

Fotografia del voto tribale: ogni centimetro è coperto dai cartelloni elettorali nel 2017 nella Contea di Nanok, zona Masai

Nel 2017, la contestazione dei risultati elettorali da parte di Odinga ha provocato una severa repressione delle manifestazioni da parte della polizia che ha provocato decine di morti. I risultati elettorali, negli ultimi vent’anni, sono sempre stati contestati, anche davanti alla Corte Suprema nel 2013 e nel 2017, queste ultime presidenziali sono state annullate per “irregolarità” – una prima volta in Africa – e Kenyatta è stato eletto con un nuovo scrutinio.

Lo spettro di possibili violenze incombe anche su queste elezioni presidenziali. La Commissione nazionale per la coesione e l’integrità, un organismo di promozione della pace creato dopo le violenze del 2007-2008, ha stimato in un recente rapporto che la probabilità di violenze nel periodo elettorale è del 53%. L’augurio è che dentro le urne non prevalga il fattore etnico, ma la volontà di rendere stabile la democrazia in Kenya.

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Inclusività o assimilazione nell’India tribale in rivolta? https://ogzero.org/inclusivita-o-assimilazione-nellindia-tribale-in-rivolta/ Tue, 26 Jul 2022 06:54:22 +0000 https://ogzero.org/?p=8278 Lo schiaffo del partito induista nazionalista al potere a tutto ciò che è alieno, diverso, “intollerabile” diventa scherno con l’elezione di una donna di origine tribale a presidente dell’India. Sicuramente non risolve i problemi di discriminazione e le pulizie etniche su cui Narendra Modi ha costruito il suo potere, ma con altrettanta certezza gli conferisce […]

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Lo schiaffo del partito induista nazionalista al potere a tutto ciò che è alieno, diverso, “intollerabile” diventa scherno con l’elezione di una donna di origine tribale a presidente dell’India. Sicuramente non risolve i problemi di discriminazione e le pulizie etniche su cui Narendra Modi ha costruito il suo potere, ma con altrettanta certezza gli conferisce una patente di tolleranza. Laddove invece registriamo solo militarizzazione e repressione dell’India tribale in rivolta, sia nel Centronord indiano sia nel profondo Sud del Tamil Nadu.
Qui con Gianni Sartori intendiamo dare voce, o almeno testimonianza, del saccheggio e delle modalità di soffocazione di istanze di emancipazione delle comunità tribali a Kallakurichi come a Sukma.
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Diritti e oppressione dei popoli indigeni

Non si può certo affermare che quanto avviene in India ai danni delle popolazioni tribali sia sotto la lente e l’interesse dei media internazionali. Difficilmente si viene adeguatamente informati riguardo a massacri, deportazioni (per consentire alle multinazionali, in particolare quelle dedite all’estrazione mineraria, di appropriarsi dei territori ancestrali delle popolazioni indigene), esecuzioni extragiudiziali, stupri di donne tribali e arresti arbitrari operati dal regime di Narendra Modi.
Si è invece parlato della elezione a presidente dell’India (una carica più che altro formale, cerimoniale…) di Droupadi Murmu, donna di origine tribale (i santhal), in precedenza governatrice del Jharkhand. Originaria dell’Odisha, milita da anni nel Bharatiya Janata Party, il partito dei fondamentalisti indù.
Per carità. Tutto può tornare utile e se questo evento dovesse portare qualche beneficio alle popolazioni tribali (gli adivasi) e alle caste diseredate (i dalit) ben venga.
Anche se l’augurio è che non avvenga nella logica sviluppista (e di devastazione umana e ambientale) che auspica Modi.

Addomesticamento e rivolta delle comunità tribali

È lecito infatti avere qualche riserva su questo coinvolgimento, più che altro spettacolare ed elettorale, dei tribali nel progetto del Bjp. Allargare la propria base di sostenitori farà sicuramente gli interessi del Bjp. Ma è lecito chiedersi quali vantaggi porterà alla conservazione delle lingue e della cultura tradizionale (oltre che alla loro sopravvivenza fisica) degli adivasi. Più che di “inclusività” si dovrebbe forse parlare di assimilazione.
Nel frattempo – ovvio – si mantiene la stretta repressiva, l’addomesticamento forzato delle popolazioni indocili e refrattarie al “progresso” neoliberista.

Landgrabbing e resistenza nel Chhattisgarh

Di questi giorni è la notizia (ignorata dai media internazionali in quanto scoperchiava le passate malefatte governative) dell’avvenuta liberazione (il 15 luglio 2022) nel Chhattisgarh di 121 tribali (tra cui alcuni minorenni) arrestati nel 2017 con una serie di rastrellamenti nei villaggi della zona. Nel frattempo uno degli arrestati (o almeno quello finora accertato) era deceduto dietro le sbarre.
Tutte queste persone, come del resto era evidente fin dall’inizio, sono risultate del tutto estranee all’imboscata, opera di almeno trecento guerriglieri naxaliti (maoisti del People’s Liberation Guerrilla Army), di Sukma (Burkapal, 24 aprile 2017)) in cui avevano perso la vita 26 paramilitari della Crpf.
Sono completamente cadute sia le accuse di possesso di armi, sia di appartenenza al Pci (maoista). Per cui la loro lunga, ingiusta detenzione acquista il senso di una rappresaglia a scopo “educativo” per tutta l’India tribale in rivolta.
A Sukma militari e paramilitari sorvegliavano in armi i lavori per la costruzione di una strada che doveva attraversare i territori tribali per conto di un gruppo industriale. Il gruppo maoista Dkszc (Dand Karanya Special Zone Committee) aveva rivendicato l’attacco.

Villaggio di Silger resistente, dove sono ormai trascorsi 400 giorni dall’inizio della resistenza del movimento del villaggio di Silger al confine tra Bijapur e Sukma nel Bastar meridionale del Chhattisgarh

L’attacco di Sukma

Nel comunicato si sottolineava come l’attacco fosse una risposta di autodifesa non solo nei confronti delle politiche antipopolari del governo, ma soprattutto per le «atrocità sessuali commesse dalle forze di sicurezza contro le donne e le ragazze tribali». Ossia gli innumerevoli stupri opera soprattutto dalle milizie paramilitari filogovernative. In sostanza «per la dignità e il rispetto delle donne tribali».

Il comunicato inoltre smentisce decisamente (come poi è stato riconosciuto anche ministero dell’Interno) che sui corpi dei soldati uccisi si fosse infierito con mutilazioni e castrazioni: «Noi – aveva dichiarato Vikalp, portavoce della guerriglia – non manchiamo di rispetto ai corpi dei soldati uccisi. Sono i media borghesi che diffondono tali false notizie e invece spesso sono i militari che operano brutali trattamenti sui corpi dei guerriglieri maoisti». Così come, aveva continuato «vengono riprese e diffuse nei social immagini riprovevoli delle guerrigliere uccise» (un inciso estraneo all’India tribale in rivolta: questa è una pratica abituale anche da parte dei soldati turchi nei confronti delle combattenti curde).
Per concludere: «I soldati non sono nostri nemici. Tantomeno nemici di classe. Tuttavia si pongono al servizio dell’apparato antipopolare e dello sfruttamento operato dal governo. Rivolgiamo a loro un appello affinché cessino di combattere schierati al fianco dei politici sfruttatori, dei grandi imprenditori, delle compagnie nazionali e internazionali, delle mafie, dei fascisti indù… che sono, per loro stessa natura, nemici dei dalit, dei tribali, delle minoranze religiose e delle donne. Soldati, non sprecate la vostra vita per difendere tali personaggi e le loro ricchezze. Lasciate l’esercito e prendete parte alla lotta popolare».

E adesso la resistenza ricomincia nel Tamil Nadu

Tornando ai nostri giorni, va ricordato che il 17 luglio 2022 nel Sud dell’India si sono verificati duri scontro tra giovani e polizia (con decine di feriti) dopo il suicidio di una studentessa.
I manifestanti penetrarono nel campus (distretto di Kallakurichi nello stato di Tamil Nadu), incendiando veicoli della polizia e bus scolastici.
La ragazza prima di togliersi la vita aveva scritto una lettera in cui denunciava alcuni insegnanti per averla sottoposta a sistematici maltrattamenti (aveva usato il termine “torture”). La stessa cosa sarebbe toccata ad altre studentesse.
All’inizio del mese invece le proteste – con scontri, numerosi feriti e una dozzina di arresti – erano scoppiate a Nepali Nagar. Il 3 luglio una quindicina di bulldozer arrivarono per distruggere un centinaio di abitazioni costruite su terreni pubblici: le autorità locali le avevano definite “abusive” (nonostante da anni fossero stati realizzati gli allacciamenti e venissero raccolte le tasse municipali).
E solo uno stretto braccio di mare divide il Tamil Nadu da quello Sri Lanka in subbuglio.
Una nota di Francesco Valacchi per contestualizzare le rivolte e la figura presidenziale di Droupadi Murmu si trova in “China Files”. Abbiamo registrato un suo breve intervento su Radio Blackout:

“Lavacro tribale del nazionalismo Bjp”.

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Giappone: la tollerabile gravità del nulla https://ogzero.org/abe-shinzo-e-il-giappone-la-tollerabile-gravita-del-nulla/ Sat, 23 Jul 2022 00:04:29 +0000 https://ogzero.org/?p=8252 Già Wim Wenders aveva sottolineato in Tokyo-ga il carattere inciso sulla tomba di Ozu Yazujiro: mu, che vuol dire “nulla” (sequenza a cui fa riferimento l’immagine in copertina); Roland Barthes ragionava sul fatto che al centro dell’impero nipponico ci sia un’immensa oasi di vuoto attorno alla casa dell’imperatore. Il senso di assenza di materia come […]

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Già Wim Wenders aveva sottolineato in Tokyo-ga il carattere inciso sulla tomba di Ozu Yazujiro: mu, che vuol dire “nulla” (sequenza a cui fa riferimento l’immagine in copertina); Roland Barthes ragionava sul fatto che al centro dell’impero nipponico ci sia un’immensa oasi di vuoto attorno alla casa dell’imperatore. Il senso di assenza di materia come motore culturale dell’arcipelago giapponese può essere una delle chiavi adottate in questa analisi di Carlotta Caldonazzo riguardo a strategie geopolitiche e forme di lutto nazionale per la morte di un simbolo come Abe Shinzo.

Tokyo è forse il fulcro della talassocrazia statunitense ed è l’alleato chiave per Washington tanto nella strategia di contenimento dell’intraprendenza geoeconomica (e geopolitica) cinese, quanto su un eventuale fronte russo sul Pacifico. Sul piano interno, intanto, un’apparente «continuità» cela un tessuto sociale devastato dalle diseguaglianze e da fratture storiche, che affondano le radici soprattutto nella tensione tra la necessità di accettare la propria condizione di sovranità mutilata e l’aspirazione allo status di potenza.


Molto rumore per nulla?

Come ha osservato Marco Zappa in un’intervista trasmessa da Radio Blackout, al di là delle riflessioni di buona parte della stampa internazionale sulla sua importanza storica e sulla sua eredità, l’uccisione dell’ex primo ministro giapponese Abe Shinzo ha avuto sulla popolazione un impatto emotivo minimo. Lo si evince dai risultati delle elezioni senatoriali del 10 luglio, vinte in larga misura dal Partito liberaldemocratico (Pld, partito di Abe), e dalla sua coalizione, come preannunciato dai sondaggi, e dal basso tasso di affluenza alle urne, rimasto sostanzialmente invariato rispetto alle precedenti consultazioni del 2019.

Eppure, l’uccisione dell’ex primo ministro ha rivelato le falle di un sistema di sicurezza basato sul controllo capillare del tessuto urbano da parte della polizia, al quale le istituzioni attribuivano una buona parte del merito del basso tasso di criminalità nel paese. In sostanza, sul piano politico-elettorale sembra dunque aver prevalso la linea della continuità, già tracciata a ottobre 2021, al momento della successione tra Abe Shinzo e l’attuale primo ministro Kishida Fumio, ministro degli Esteri dal 2012 al 2017. Scelta oculata, che ha rassicurato Washington sulla fedeltà dell’alleato nipponico, il cui peso geostrategico continua a crescere in ragione dell’inasprimento delle relazioni internazionali, in particolare tra Stati uniti e Russia, per ora impegnati sul fronte europeo orientale, e tra Stati uniti e Cina, il cui terreno di scontro privilegiato è l’Indo-Pacifico.

La teoria degli oceani comunicanti

La stessa espressione Indo-Pacifico, in realtà, suggerendo una continuità tra oceano Pacifico e oceano Indiano, sintetizza la visione strategica di Abe, che ha sempre sostenuto i vantaggi di un coinvolgimento dell’India nel contenimento della proiezione di potenza di Pechino sui mari. Una mossa che, di fronte a un avversario come l’Impero del Centro, che storicamente è una potenza di terra, dovrebbe contribuire a preservare la talassocrazia statunitense, ostacolando l’aspirazione cinese sia al controllo dei traffici marittimi nel Pacifico, sia al potenziamento della propria capacità offensiva per mare.

Abe Shinzo: il nazionalista riluttante

Rapporti indopacifici

In fondo, benché non si siano create, almeno finora, le condizioni per la costituzione di un’alleanza militare sul modello dell’Organizzazione del trattato dell’Atlantico Nord (Nato/Otan), Abe aveva cercato di elaborare un piano efficace per impedire l’ascesa della potenza cinese; tanto sul piano commerciale e finanziario, tentando di sottrarre partner asiatici a Pechino, quanto a livello geopolitico e militare, trovando una possibile chiave nel coinvolgimento di New Delhi. Contestualmente, sempre allo stesso scopo, Abe aveva intensificato la cooperazione economica e di sicurezza, oltre che con gli Usa, anche con Australia, Regno unito (i tre componenti dell’asse denominato Aukus, dalle loro iniziali) e Nuova Zelanda. Quanto all’economia interna, la cosiddetta “Abenomics” e i toni trionfalistici che avevano accompagnato la realizzazione delle riforme neoliberali in essa incluse, nonostante il loro discutibile impatto sociale e i dubbi sulla reale uscita dalla stagnazione decennale che avrebbero comportato, avevano diffuso nel panorama mediatico internazionale l’immagine di un Giappone pronto a cavalcare una straordinaria ripresa economica, pur continuando a rinunciare allo status di potenza regionale e pur restando subordinato agli interessi strategici statunitensi.

Tre frecce
«La strategia economica, fiscale e finanziaria della “Abenomics” consisteva nelle cosiddette “tre frecce”: 1. quantitative easing (QE) della banca centrale (BoJ), 2. Massiccio stimolo fiscale e 3. Riforme strutturali. Come è emerso, tuttavia, due di queste tre politiche – quantitative easing e stimolo fiscale – dopo aver avuto successo nel breve termine appaiono oggi sempre più insostenibili e troppo costose, con possibili danni ben più gravi nel lungo termine. L’unica freccia della ‘Abenomics’ in grado di poter creare ancora maggior valore rimane quella delle riforme strutturali. Molte delle riforme che Abe ha promesso devono però ancora essere implementate mentre ne rimarrebbero altre utili per il paese che però non sono ancora nell’agenda politica di Tokyo» (Axel Berkofsky).

Neoimperialismo tradizionalista

Tuttavia, l’adozione, da parte dell’ex primo ministro giapponese, della tradizionale dialettica imperiale nipponica, contestuale all’ascesa delle correnti più nazionaliste del Pld, per le quali Abe era un riferimento politico importante, da un lato aveva deteriorato le relazioni non solo con la Cina, ma anche con la Corea del Sud, utile alleato degli Usa. Con la Russia, invece, Abe aveva portato avanti i negoziati per giungere a un accordo definitivo sullo status delle isole Curili, ma i colloqui sono stati interrotti a seguito dell’esplosione del conflitto russo-statunitense in Ucraina, in merito al quale Tokyo si è subito schierata al fianco di Washington. Una presa di posizione che, peraltro, ha isolato in un certo senso l’India all’interno del Quad (dialogo quadrilaterale) indo-pacifico. New Delhi, infatti, che nel conflitto sino-statunitense appare disponibile ad assecondare gli interessi di Washington, sul fronte russo finora ha scelto una sostanziale neutralità, preferendo mantenere gli storici rapporti con Mosca, soprattutto in ambito militare. D’altronde, a differenza di Usa, Giappone e Australia, l’India è membro fondatore del Movimento dei paesi non-allineati.

Il giorno dell’auto(in)determinazione

Intanto, coltivando l’aspirazione a fare del Giappone una potenza almeno regionale, durante i suoi vari mandati, Abe aveva riportato in auge il dibattito politico sulla modifica della costituzione pacifista imposta dal generale Douglas McArthur nel 1947, soprattutto dell’articolo 9, che obbliga Tokyo a rinunciare alla guerra e a dotarsi di forze armate proprie, condannandolo di fatto alla dipendenza da Washington. Tra i primi ad affrontare apertamente questo tema, fu, nel 1985, sul finire della guerra fredda, il primo ministro Nakasone Yasuhiro (anch’egli appartenente al Pld), che, in precedenza, aveva adottato la strategia, più prudente, della reinterpretazione, analoga a quella scelta a più riprese da Abe: aumento progressivo delle spese militari, sempre ufficialmente con finalità difensive; ipotesi di dotare il paese di un arsenale atomico proprio o, laddove ciò fosse impossibile, di ospitare testate nucleari gestendone in modo congiunto con gli Usa; istituzione, nel 2013, di un Consiglio di sicurezza nazionale (ufficialmente finalizzato alla difesa da eventuali attacchi cinesi). Da parte sua, l’ex primo ministro Koizumi Junichiro (Pld), nei primi anni Duemila, rafforzando l’alleanza militare con la superpotenza statunitense impegnata nella «guerra al terrorismo», aveva proposto un emendamento costituzionale per consentire al Giappone un maggior coinvolgimento nelle sfide di sicurezza globale. Parole allettanti per Washington, soprattutto perché provengono da un paese che aveva fornito la più cospicua assistenza finanziaria all’invasione dell’Iraq nel 1991 (come riporta il ministero degli Esteri giapponese). Nella prospettiva dei nazionalisti nipponici, infatti, la pesante ingerenza Usa, oltre a essere un impedimento è anche, in certa misura, un alibi per portare avanti gli interessi strategici del paese, considerati sempre più in chiave nazionalista e militarista. Un’evoluzione, che, d’altronde, non riguarda solo il Giappone degli ultimi decenni, stando alle stime dello Stockholm International Peace Research Institute (Sipri). La peculiarità nipponica è stata, invece, l’abilità di trarre sistematicamente vantaggio dalle convergenze strategiche con la potenza occupante, sapendone interpretare anche le virate reali o apparenti. Almeno finora, anzi, fino al periodo della presidenza statunitense di Donald Trump. Quest’ultimo, infatti, aveva lasciato intendere a satelliti e alleati che Washington intendeva diminuire il più possibile la propria presenza diretta in prossimità delle varie faglie geopolitiche, Pacifico in primis. È stato proprio Abe a cogliere l’occasione per aumentare le proprie «capacità difensive», forse inducendo Tokyo a illudersi della possibilità di un percorso verso l’autodeterminazione.

«È naturale per il governo garantire una spesa per la difesa equivalente al 2 per cento del Pil» (Abe Shinzo, 27 maggio 2022)

Illusione che l’attuale presidente Usa Joe Biden non sembra intenzionato a coltivare, se non altro per scongiurare il rischio di trovarsi di fronte una Turchia del Pacifico, tanto più che il Giappone ospita importanti basi militari statunitensi, tra cui quella di Yokosuka, la più grande al di fuori del territorio statunitense, sede del comando della potente Settima flotta. Senza considerare che Tokyo è tra i grandi detentori (recentemente, peraltro, ha conquistato il primo posto) del debito statunitense.

Tra metus hostilis e bellum factionum

In effetti, come ha rilevato Marco Zappa nella medesima intervista, Abe era l’esponente più «carismatico» delle fazioni più militariste e nazionaliste del Pld. Inoltre, in quanto fervente scintoista, era una figura di raccordo e di equilibrio tra il mondo politico e la sfera del culto: un ruolo importante, in un paese dove il potere e l’influenza delle sette religiose sono significativi. Intanto, la frantumazione sociale, aggravata nell’ultimo decennio dalla diffusione esponenziale del lavoro precario e somministrato, promossa dalla Abenomics come misura di modernizzazione neoliberista e produttivista, si riflette nello scontro latente e a bassa intensità tra le fazioni politiche (e religiose), in particolare tra quelle che compongono il Pld. Per esempio, una delle fazioni concorrenti di quella che faceva riferimento ad Abe, si raduna intorno a Kishida, che prima di essere nominato primo ministro, in campagna elettorale, aveva indicato diversi elementi di discontinuità rispetto al suo predecessore. A partire proprio dalla Abenomics, di cui ammetteva la responsabilità nell’acuirsi delle diseguaglianze, lanciando un appello (generico) a concepire e a mettere in atto un nuovo capitalismo in grado di trovare una soluzione efficace alle questioni sociali più cogenti. Anche nelle relazioni internazionali, da ex ministro degli Esteri, Kishida ha sin da subito mostrato un atteggiamento più moderato, lasciando la porta aperta a una visita del presidente cinese Xi Jinping, dopo l’annullamento dell’ultima, fissata nel 2020, ufficialmente a causa delle restrizioni dovute all’emergenza sanitaria.  Nondimeno è probabile che l’attuale primo ministro si trovi, in autunno, ad affrontare, anche nel dibattito parlamentare, il delicato tema della modifica della costituzione.

«Vorrei proseguire gli sforzi per giungere alla proposta di una revisione il prima possibile» (dell’articolo 9 della costituzione pacifista; dichiarazione di Kishida Fumio ripresa da “Kyodo News”, durante una conferenza stampa sui risultati elettorali dell’LDP e riportata da Deutsche Welle”).

Malgrado le critiche riguardo la gestione delle diseguaglianze sociali e della pandemia da Covid-19, infatti Abe aveva reso il Giappone capace, in termini di tecnologia e di competenze, di dotarsi di armi nucleari nel giro di poche settimane, come sottolineato a più riprese dagli autori della rivista “Limes”. Anche per questo è stato definito da molti analisti il personaggio più importante della storia giapponese degli ultimi decenni, tanto a livello di gestione politica interna, quanto sul piano geopolitico. Le sue dimissioni nel 2021, ufficialmente per motivi di salute, avevano già lasciato intendere il declino della sua fazione politica, cui ha probabilmente contribuito una diminuzione del sostegno di Washington: anzitutto durante la presidenza Trump, caratterizzata dal disimpegno, poi dall’insediamento di Biden, che sembra adottare l’equazione, che Pechino definisce «da guerra fredda», tra l’impegno e un controllo che rasenta l’asservimento. Abe e la sua fazione, da parte loro, sembravano invece premere nella direzione di una maggiore autonomia strategica di Tokyo, in ragione del suo peso geostrategico crescente.

Il nazionalismo «moderato» di Kishida Fumio

L’attuale primo ministro, invece, oltre a ostentare toni meno aggressivi e un atteggiamento più pragmatico nei confronti della Cina e, soprattutto, della Corea del Sud, si mostra anche più propenso a fare a meno dell’autonomia strategica, e maggiormente concentrato sulla crescita economica, sulla gestione del malcontento sociale (un tema quasi sconosciuto al dibattito pubblico giapponese) e sul progresso e l’innovazione tecnologici. Inoltre, almeno finora, è parso meno insistente del suo predecessore nel chiedere agli Usa di rompere la storica ambiguità strategica riguardo Taiwan e di prendere una posizione più netta in suo sostegno. Una postura politica, forse, più rassicurante per Washington, la cui considerazione per il Giappone dal punto di vista geostrategico si comprende anche dalla scelta di Tokyo come luogo dell’ultima riunione del Quad, tenutasi alla fine di maggio.

Cinque pilastri per un Indo-Pacifico libero e aperto
«Questo si basa essenzialmente su cinque pilastri che andranno a ispirare l’azione politica giapponese sul piano internazionale: promuovere lo stato di diritto internazionale, rafforzare le capacità di difesa nazionale, impegnarsi per la denuclearizzazione, lavorare a una riforma del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e migliorare la cooperazione internazionale soprattutto in materia economica» (Kishida al meeting di Shangri-La a Singapore).

Un vertice di fondamentale importanza strategica, perché incentrato sul contenimento della potenza cinese dal punto di vista, simultaneamente, militare e finanziario, con l’annuncio da parte di Biden dell’Indo-Pacific Economic Forum (Ipef). Il piano, o meglio, la cornice economica mediante la quale Washington, con una strategia analoga a quella di Abe, intende mettere i bastoni tra le ruote alle nuove vie della seta cinesi, note con l’espressione inglese Belt and Road Initiative (Bri), che sintetizzano la politica di potenza di Xi Jinping. Di conseguenza, sarebbe meglio per gli Usa non correre il rischio che l’Impero del Sol Levante, sia pure nell’impossibilità di modificare il testo costituzionale, introduca il concetto di «attacco preventivo» (analogo a quello sbandierato dall’ex presidente Usa George W. Bush nei primi anni Duemila) nella nuova Strategia per la sicurezza nazionale, che sarà promulgata entro il prossimo autunno. Questo concetto, infatti, rischierebbe di erodere il pacifismo giapponese dall’interno, offrendo il fianco a un’ulteriore, e soprattutto più offensiva, corsa al riarmo. Nondimeno, anche un riarmo sotto l’egida statunitense, soprattutto in una fase di inasprimento delle relazioni internazionali, rischia di spingere l’Impero del Sol Levante verso un nuovo pericoloso imperialismo.

Fratture scomposte

Infine, Marco Zappa ha notato che, in un contesto di declino demografico, dopo tre decenni di stagnazione economica, l’uccisione di Abe da parte del quarantunenne Yamagami Tetsuya ha aperto due piste di riflessione sociologica e socio-politica sul Giappone: anzitutto la commistione tra partiti politici e movimenti religiosi (la madre di Yamagami aveva donato un’ingente somma di denaro alla Chiesa dell’Unificazione, con cui Abe aveva legami indiretti); in secondo luogo, un disagio sociale diffuso, soprattutto tra le fasce di popolazione non coperte neppure dal welfare. Si pensi, per esempio, che la madre di Yamagami, secondo quanto reso noto da Tokyo, ha cresciuto da sola due figli, dei quali il maggiore sarebbe morto suicida, come riporta lo stesso Marco Zappa.

“Mondi e disagi intrecciati nel Pacifico: il caso del Giappone”.

La compresenza di estrema innovazione tecnologica e superstizione arcaica

D’altra parte, il Giappone è caratterizzato dalla costante tensione non solo tra subalternità e autonomia geostrategiche, ma anche tra un forte avanzamento tecnologico accompagnato da uno strenuo impegno nell’innovazione, soprattutto nei settori della robotica e dell’intelligenza artificiale, e consuetudini e credenze arcaiche. Un’altra dicotomia peculiare della cultura giapponese sin da tempi remoti è quella tra tatemae, il volto pubblico, e honne, la vera essenza, ossia la dimensione interiore. Per esempio, nel dibattito pubblico interno, stampa inclusa, non solo non viene affrontato il tema del disagio e del malcontento sociali, ma non si discute neppure del disagio mentale all’interno di una società ossessionata tradizionalmente dalla codificazione e dal controllo, in cui negli ultimi decenni, in particolare con le riforme liberali lanciate all’inizio del millennio, si sono accentuati gli aspetti più disfunzionali, soprattutto quelli legati all’iperproduttivismo. Nel corso dell’intervista a Marco Zappa a Radio Blackout, per esempio, si è fatto riferimento al karoshi, la morte causata da iperlavoro, ma si potrebbe citare anche il fenomeno, emerso con la crisi economica dell’inizio degli anni Novanta, degli hikikomori, individui che trascorrono la propria vita reclusi nelle rispettive abitazioni, contando sui familiari per il sostentamento.

Banzaiii…! ma troppo vecchi per combattere?

In Giappone, dunque, un paese che sin dalla Rivoluzione/Restaurazione Meiji della seconda metà del Diciannovesimo secolo ha saputo conservare intatta la propria essenza, pur in una continua e febbrile metamorfosi materiale, numerose sono le forze contrastanti che covano sotto l’aspetto di un tessuto sociale stabile e controllato. Terreno fertile per le strumentalizzazioni della dialettica imperiale da parte delle forze politiche, anche se quando si parla di disposizione alla guerra non si può prescindere dal cosiddetto fattore umano. In altri termini, anche se Tokyo arrivasse a modificare la costituzione del 1947, non è detto che una popolazione con un alto tasso di senescenza possa favorire l’ascesa di partiti e movimenti che porterebbero il paese a impegnarsi in un conflitto armato.

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Nord Kivu: la tregua tra Ruanda e Congo resuscita l’M23 https://ogzero.org/nord-kivu-la-tregua-tra-ruanda-e-congo-resuscita-lm23/ Thu, 14 Jul 2022 10:52:21 +0000 https://ogzero.org/?p=8201 La distrazione globale derivata dalla guerra in Europa nasconde ancora di più tensioni, conflitti esplosi o quasi, guerre prolungate e seriali. Lo scontro in Nord Kivu è tra i più annosi e coinvolge diversi interessi, in particolare quelli tra comunità che si contendono interessi e sfruttamento delle risorse della regione. I due protagonisti di questa […]

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La distrazione globale derivata dalla guerra in Europa nasconde ancora di più tensioni, conflitti esplosi o quasi, guerre prolungate e seriali. Lo scontro in Nord Kivu è tra i più annosi e coinvolge diversi interessi, in particolare quelli tra comunità che si contendono interessi e sfruttamento delle risorse della regione. I due protagonisti di questa disputa abitano a Kigali e Kinshasa; si sono scatenate guerre, massacri, sfruttamenti e il controllo di miniere maledette di metalli preziosi legittima il perdurare delle tensioni, che richiedono la presenza di antagonisti, conosciuti e riconoscibili. Il movimento M23 nelle province nordorientali della Repubblica democratica del Congo serve per evitare che sui Grandi Laghi scenda il livello di scontro; un Movimento che si muove sempre più come un esercito regolare con la stessa potenza di fuoco, come sottolinea “Nigrizia”. Angelo Ferrari, contestualizzando gli eventi e segnalando il ruolo autonomo di M23 come attore in commedia, ha scritto per l’agenzia Agi questa breve nota che riprendiamo, lasciando immaginare l’incertezza come sistema per perpetuare lo scontro… e gli affari. 


Cosa sta succedendo nel Nordest della Repubblica democratica del Congo?

Ma, soprattutto, a cosa è servito l’incontro del 6 luglio a Luanda tra il presidente congolese, Felix Tshisekedi e quello ruandese, Paul Kagame, mediato dal loro omologo angolano, João Lourenço? Probabilmente a nulla.
I tre dovevano trovare una soluzione alle crescenti tensioni tra Congo e Ruanda che si sono acuite con l’intensificarsi delle attività nel Nord Kivu del gruppo ribelle M23, che si riteneva sconfitto dal 2013, ma che ha ripreso le sue attività provocando decine di vittime e migliaia di sfollati. Kinshasa sostiene che i ribelli siano sostenuti dal Ruanda, quasi una longa manus di Kigali che, invece, nega in maniera decisa.
Smentite che non hanno fatto calare la tensione che, anzi, si è riaccesa dopo l’annuncio del 13 giugno scorso da parte delle Forze armate della Repubblica del Congo (Fardc) che hanno parlato di «un’occupazione della città di confine di Bunagana» da parte delle Forze di difesa del Ruanda (Rdf). A dimostrazione che non si tratta solo di una disputa tra diplomazie ci sono le manifestazioni della popolazione a Goma: una vera e propria rivolta, una marcia verso il confine con il Ruanda al grido “dateci le armi che sconfiggeremo il nemico”, cioè Kigali. Manifestazioni che sono state sedate dalle forze di polizia del Congo.

Nord Kivu

Cessate il fuoco in Nord Kivu: fare la tregua senza l’oste

I tre presidenti, il 6 luglio, si erano accordati per un “cessate il fuoco”, annunciato in pompa magna dal capo di stato angolano e mediatore tra le parti.

«Sono felice di annunciare che abbiamo compiuto progressi, dal momento che abbiamo concordato un cessate il fuoco», ha detto pomposamente Lourenço.

Il presidente del Congo e quello del Ruanda, dal canto loro, avrebbero anche deciso di «creare un meccanismo di monitoraggio ad hoc», che sarà guidato da un ufficiale dell’esercito angolano. La tensione tra i due paesi è “inutile”, ha spiegato Tshisekedi, perché «costituisce un fattore destabilizzante e non contribuisce allo sviluppo e al benessere dei rispettivi popoli». Kagame, dal canto suo ha ritenuto “soddisfacenti” i risultati del vertice di Luanda che prevede, tra l’altro, l’immediata cessazione delle ostilità e il ritiro immediato e incondizionato dell’M23 dalle sue posizioni.

Il giorno dopo il vertice arrivano le dichiarazioni dell’M23, una doccia fredda sugli accordi. Il portavoce del movimento ribelle, Willy Ngoma, spiega che «l’accordo non coinvolge l’M23. Siamo congolesi, non ruandesi. Se c’è un cessate il fuoco, può essere solo tra noi e il governo congolese, non abbiamo niente a che fare con il Ruanda. Ci viene chiesto di partire da qui, ma per andare dove? È impossibile».

Probabilmente a Luanda si sono dimenticati di invitare il terzo attore delle tensioni in Nord Kivu, oppure credono davvero che i ribelli in questione siano realmente sostenuti da Kagame. Non è una questione da poco. L’M23 è un gruppo ribelle a maggioranza tutsi – la stessa etnia che ha le redini del potere a Kigali – che ha ripreso le ostilità alla fine dell’anno scorso, accusando Kinshasa di non aver rispettato gli accordi sulla smobilitazione e il reinserimento dei suoi combattenti.

Ascolta “Nord Kivu: la consuetudine alla guerra” su Spreaker.

Ma la trama si infittisce

Nessun accordo, nessun cessate il fuoco ma solo una tabella di marcia comune “con obiettivi e attività chiari”, in vista del prossimo vertice a Luanda. Così il 12 luglio il governo di Kigali ha ufficialmente smentito la firma o un qualsiasi accordo di cessate il fuoco nell’Est della Repubblica democratica del Congo, come invece annunciato il 6 luglio. La smentita è stata diffusa dal ministro ruandese degli Esteri e della Cooperazione, Vincent Biruta, che ha poi aggiunto che la «disinformazione e il populismo stanno minando l’obiettivo generale di raggiungere la pace» nella Repubblica democratica del Congo.

Nord Kivu: tutto da rifare?

Pare proprio di sì.
Le schermaglie diplomatiche si aggiungono a quelle sul campo e non fanno altro che surriscaldare gli animi. La contesa armata tra Fardc e M23 continua e a farne le spese, come sempre, la popolazione che si trova tra due fuochi, senza comprenderne bene la ragione, sa solo che deve fuggire dalle proprie case; e sono già 170.000 i profughi di questo ritorno di fiamma del conflitto. Il Nord Kivu continua a essere teatro di scontri e delle scorribande di gruppi armati, ribelli o no che siano, da ormai 25 anni e il governo congolese non riesce a governare il territorio dove ha decretato, l’anno scorso, lo stato di emergenza che consente all’esercito pieni poteri e libertà di azione, con risultati, tuttavia, molto scarsi ed è comprensibile visto che neanche i tre presidenti, quello congolese, quello ruandese e quello angolano, riescono a concordare una dichiarazione comune.

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La Cumbre de los pueblos: il non vertice visto dall’interno https://ogzero.org/il-non-vertice-delle-americhe-di-los-angeles/ Sun, 10 Jul 2022 08:44:29 +0000 https://ogzero.org/?p=8170 Diego Battistessa ha partecipato in presenza ai lavori del vertice delle Americhe a Los Angeles, in qualità di Coordinatore regionale per l’America Latina e i Caraibi di Every Woman Treaty. E quindi ci ha potuto dare conto di prima mano dei lavori ufficiali, quelli che hanno dato dimostrazione che il cortile di casa non è […]

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Diego Battistessa ha partecipato in presenza ai lavori del vertice delle Americhe a Los Angeles, in qualità di Coordinatore regionale per l’America Latina e i Caraibi di Every Woman Treaty. E quindi ci ha potuto dare conto di prima mano dei lavori ufficiali, quelli che hanno dato dimostrazione che il cortile di casa non è più considerabile tale a tutti gli effetti, e delle attività parallele del Forum della società civile, rappresentata da quelle ong i cui interessi collidono con le conclusioni antimigratorie formulate dal vertice organizzato malamente da Biden, che come unico intento aveva quello di sancire la chiusura degli Usa (e di conseguenza per imitazione dell’intero Occidente) a qualsiasi forma di immigrazione.


L.A. Cumbre: America non è (solo) Usa

Dal 6 al 10 giugno si è celebrato a Los Angeles (California) il nono Vertice della Americhe. Un incontro regionale che si realizza ogni quattro anni dal 1994 (prima edizione a Miami e unica negli Usa fino a quella del mese scorso) e che riunisce capi di governo, imprese private e delegazioni della società civile del continente americano. L’ultimo vertice di questo genere fu quello di Lima nel 2018 (Trump non aveva partecipato inviando il vicepresidente Mike Pence al suo posto) e questo è stato dunque il primo dell’era Covid-19.

L’amministrazione di Joe Biden non è certamente arrivata all’appuntamento nel migliore dei modi: infatti sia problemi di politica interna (economia, sicurezza e tema migratorio), che l’instabile situazione geopolitica mondiale (guerra in Ucraina) hanno deviato l’attenzione dall’importante vertice continentale abbassandone il “tono”. In quanto anfitrioni, gli Usa hanno dettato le regole e fin da subito hanno fatto sapere che non sarebbero stati invitati i presidenti di Nicaragua, Cuba e Venezuela (Daniel Ortega, Miguel Diaz-Canel e Nicolas Maduro): etichettati dal governo di Biden come regimi antidemocratici dove si violano massivamente e sistematicamente i diritti umani. Una posizione condivisibile o discutibile a seconda dei punti di vista (quella del non invito) che però ha generato un’ondata di protesta regionale che forse  il presidente statunitense non si aspettava. Questa posizione unilaterale e monolitica degli Usa ha infatti portato al rifiuto di partecipare ai lavori del vertice a Los Angeles da parte del presidente del Messico (Andrés Manuel Lopéz Obrador), di quello della Bolivia (Luis Arce) e di quello dell’Honduras (Xiomara Castro). Come se non bastasse neanche Nayib Bukele e Alejandro Giammattei, rispettivamente presidenti del  Salvador e del Guatemala,  sono andati in California perché in aperto conflitto con Biden, mentre il presidente dell’Uruguay, Luis Lacalle Pou, ha dovuto rinunciare al viaggio perché positivo al Covid-19. Insomma, uno scenario tutt’altro che allettante e che ha rischiato di aggravarsi con la minaccia di Jair Bolsonaro (presidente del Brasile) di non partecipare al vertice delle Americhe, se Biden non gli avesse concesso un incontro bilaterale al margine dei lavori dell’evento continentale.

Il presidente Usa ha subito negato questa possibilità e Bolsonaro, in cerca di visibilità per le elezioni presidenziali che si svolgeranno a ottobre  2022 (e che lo vedono in svantaggio nei sondaggi di fronte a Lula) ha quindi palesato il rifiuto al viaggio in California.

Questa situazione di tensione si è manifestata apertamente quando proprio l’8 giugno, con il discorso del presidente Biden al “Microsoft Theater” di Los Angeles si sono aperti ufficialmente i lavori diplomatici del nono vertice delle Americhe Costruire un futuro Sostenibile, Resiliente ed Equo. Il presidente USA ha parlato alla platea di suoi pari accorsi per l’occasione, tra i quali mancava (oltre ai 9 già segnalati in precedenza) proprio il presidente del Brasile. La sera dell’8 giugno però il colpo di scena: Biden viste le numerose assenze (25 presenti su 35 possibili) chiama Bolsonaro, accetta la proposta di riunione bilaterale. E così venerdì 10 giugno, nei discorsi ufficiali di chiusura del nono vertice delle Americhe vediamo apparire un gaudente presidente del Brasile (giunto la sera prima a Los Angeles), che pontifica su futuri accordi e sulle relazioni Usa-Brasile. Un discorso , quello di Bolsonaro, nel quale si fa menzione anche alle ricerche del giornalista britannico Dom Phillips e dell’indigenista Bruno Pereira Araujó, scomparsi il 5 giugno in Amazzonia (verranno poi ritrovati morti il 15 giugno).

Quello con Jair Bolsonaro non è stato però l’unico retroscena di Realpolitik messo in atto da Biden. Non è da meno infatti il gioco di funambolismo che ha legittimato il presidente Usa a inviare una delegazione a parlare con Nicolas Maduro (non riconosciuto ufficialmente dagli Usa come presidente in carica del Venezuela) a pochi giorni dal vertice, per risolvere la questione petrolio viste le sanzioni imposte alla Russia dopo l’invasione dell’Ucraina.
Quindi da un lato il Venezuela non è stato invitato ufficialmente ma dall’altro, proprio in prossimità di questo grande evento continentale, gli Usa negoziavano con il regime di Maduro per esplorare vie di riattivazione di un’industria petrolifera che nel paese sudamericano della rivoluzione bolivariana è ormai ai minimi termini. Ma dov’era Juan Guaidó in tutto questo? Il presidente dell’Assemblea nazionale venezuelana (esautorata da Maduro), riconosciuto da più di 50 stati della comunità internazionale (tra cui gli Usa) come il legittimo presidente del Venezuela, non è stato invitato al nono vertice delle Americhe da Biden. A lui è stata dedicata però una telefonata di circa 8 minuti partita dall’Air Force One proprio mentre Biden stava viaggiando per arrivare a Los Angeles. Il presidente USA ha rinnovato l’appoggio del paese nordamericano a Guaidó, ribadendo la politica di tolleranza zero contro i delitti del regime di Nicolas Maduro e sottolineando che l’Assemblea Nazionale del 2015 è l’ultimo organo eletto democraticamente in Venezuela riconosciuto dagli Stati Uniti d’America.  Guaidó però dunque non ha calcato il red carpet del vertice in quanto ospite “complicato da gestire”, la cui presenza avrebbe potuto appesantire ancora di più la tensione dei lavori a Los Angeles.

Il tema migratorio

Lavori che per l’amministrazione Biden sembra avessero un unico grande scopo. Infatti, al margine delle magniloquenti dichiarazioni dei giorni anteriori al vertice, che parlavano di necessari e urgenti accordi su temi quali stabilità democratica della regione, sicurezza, energie rinnovabili, clima, salute e diritti umani, il tutto si è ridotto al tema migratorio. Si perché se un documento importante è uscito da questo vertice è proprio la “Dichiarazione di Los Angeles” . Un testo che progetta una migrazione coordinata e ordinata, che vuole trovare una soluzione alla crisi migratoria che attraversano gli Usa e che riguarda la maggior parte dei paesi centroamericani: paesi i cui presidenti non erano però presenti al vertice. «Nessun paese dovrebbe assumere da solo il peso dei flussi migratori», ha detto Biden, mentre presentava il testo della dichiarazione di Los Angeles insieme a i suoi pari del continente. «Dobbiamo fermare le dinamiche pericolose e illegali con le quali le persone stanno migrando. La migrazione illegale non è accettabile e metteremo al sicuro i nostri confini», ha poi aggiunto. Mentre risuonavano queste parole nel Centro di Convenzioni nel downtown di Los Angeles arrivava però la notizia di una nuova enorme carovana, circa 7000 persone, composta principalmente da venezuelani, che aveva iniziato la marcia dal Sud del Messico (Chiapas) per arrivare alla sua frontiera settentrionale con gli Usa. Inoltre la dichiarazione di Biden non può non essere letta anche in chiave di politica interna, visto e considerato che proprio la sua amministrazione aveva provato nel maggio scorso a mandare in pensione il Titolo 42. Un articolo che risale al 1944 e che fu reinterpretato da Donald Trump al fine di utilizzare l’emergenza sanitaria causata dal Covid-19 come vero e proprio scudo per respingere i migranti della frontiera meridionale con il Messico, senza considerare i trattati internazionali vigenti in materia. Una norma che ha portato all’espulsione di milioni di persone alla frontiera tra Messico e Usa e la cui eliminazione costituiva per Biden una battaglia di civiltà. Battaglia però momentaneamente persa, visto che dopo l’annuncio della fine del Titolo 42 i governi repubblicani degli stati dell’Arizona, della Louisiana e del Missouri hanno chiesto a un tribunale federale di fermare la decisione e continuare con il divieto di ingresso per motivi sanitari: richiesta accolta dal giudice Robert Summerhays, del distretto occidentale della Louisiana, che con un ordine dell’ultima ora ha sospeso l’eliminazione del Titolo 42 da parte dell’amministrazione Biden.

Insomma un tema quello migratorio che sembra essere tutt’altro che risolto e che continua a essere materia divisiva tra Repubblicani e Democratici negli Usa. Non va però dimenticato che anche la posizione di Biden rispetto alla migrazione “illegale” è stata fin da subito chiara. Infatti, nello stesso giorno in cui veniva trionfalmente annunciato che sarebbe stato sospeso il Titolo 42, la ormai ex portavoce della Casa Blanca, Jen Psaki, aveva chiarito di avere una posizione tutt’altro che “accogliente” verso i migranti.

«Do not come!» (non venite!): un messaggio che richiama quello della vicepresidentessa Kamala Harris (originaria proprio della California), che aveva detto le stesse parole nel suo primo viaggio internazionale a giugno 2019 in Messico e in Guatemala.

“La Cumbre e gli interessi nel cortile di casa”.

Il flop di Biden e lo scenario latinoamericano

Il nono vertice delle Americhe è stato anche un banco di prova per la compattezza di un nuovo blocco socialista-progressista che ricalca in America Latina quanto successo nei primi anni Duemila con la cosiddetta marea rosa. Il vertice si è infatti celebrato mentre in Colombia, storico alleato Usa nella regione, era in corso una serrata campagna elettorale per il ballottaggio presidenziale celebrato il 19 giugno. Un ballottaggio che vedeva la destra uribista (quella del presidente uscente Duque) fuori dai giochi e che per la prima volta apriva la porta a un governo di sinistra nel paese sudamericano: circostanza confermatasi poi con la storica vittoria di Gustavo Petro sull’outsider Rodolfo Hernánez.


Adesso dunque con l’arrivo di Petro alla presidenza della Colombia possiamo dire che la maggioranza della popolazione dell’America Latina (circa 350 milioni di persone su 630) è governata dalla sinistra giacché diventeranno (Petro si insedierà ad agosto) ben 10 i paesi appartenenti alla sfera socialista / progressista. Qui un breve ripasso:

  • Dal 2007 il presidente del Nicaragua è Daniel Ortega, ex comandante della rivoluzione sandinista che affrontò la dittatura di Somoza;
  • Dal 2013 il presidente del Venezuela è il delfino di Hugo Chvez, Nicolas Maduro;
  • Dal 2018 il presidente di Cuba è Miguel Diaz-Canel che ha preso il timone dell’isola dopo i fratelli Castro;
  • Sempre dal 2018, il presidente del Messico è il socialista Andrés Manuel Lopéz Obrador;
  • Dal 2019 il presidente dell’Argentina è Alberto Fernandez che governa in coppia con Cristina Kirchner;
  • Dal 2020 il presidente della Bolivia e Lusi Arce, ex ministro di Evo Morales;
  • Dal 2021 il presidente del Perù è Pedro Castillo, professore contadino che ha sorpreso tutta la comunità internazionale con la sua vittoria contro Keiko Fujimori.
  • Da gennaio scorso la presidentessa dell’Honduras è Xiomara Castro, ex moglie del presidente Manuel Zelaya deposto da un colpo di stato nel 2009;
  • Da marzo scorso, il presidente del Cile è Gabriel Boric, giovane leader studentesco che ha catalizzato l’onda di protesta arrivando al Palacio de la Moneda;

In un’altra epoca questo avrebbe fatto tremare le pareti della Casa Bianca a Washington ma non oggi, perché possiamo osservare come gli interessi geopolitici e geoeconomici abbiamo sparigliato le carte e creato scenari alquanto particolari. Dentro questo gruppo di paesi di “sinistra” (o autodichiaratisi tali, visto che molti considerano Cuba, Nicaragua Venezuela semplici dittature che usano la maschera del socialismo) esistono “amici” del governo Usa o quantomeno soci d’affari, mentre tra i governi di centrodestra o destra arrivano spesso critiche o “spallate” al vicino nordamericano. Questo nuovo blocco al quale si unisce la Colombia non è però così coeso e sono forti le critiche mosse per esempio contro Venezuela, Nicaragua e Cuba da Gabriel Boric in Cile, che rappresenta una sinistra più giovane e progressista, meno incline a giustificare violenza, soprusi e violazioni massive dei diritti umani (infatti Boric ha partecipato al vertice delle Americhe non allineandosi con Messico, Bolivia e Honduras).

La società civile presente al vertice delle Americhe

L’evento di Los Angeles è iniziato in realtà il 6 giugno con la due giorni del forum della società civile promossa dalla segreteria dell’organizzazione degli Stati Americani (Oea in spagnolo), che ha favorito i tavoli di lavoro e discussione tra le decine di Ong arrivate in California, intorno ai pilastri di questo organismo multilaterale regionale (democrazia, diritti umani, sicurezza e sviluppo) e tematiche oggi cruciali come genere, digitalizzazione, energia pulita e cambio climatico. Numerosi anche gli eventi paralleli che hanno toccano i principali temi dell’agenda che è stata poi discussa dai capi di stato arrivati sulla costa ovest degli Usa.

La zona del downtown di Los Angeles da lunedì 6 giugno ha visto quindi l’arrivo di centinaia di attivisti e attiviste, accademici e accademiche, diplomatici, giornalisti e artisti: come il cubano Yotuel, che ha lanciato nel 2021 (insieme a Gente de Zona, Decemer Bueno, Manuel Osorbo e El Funky) la canzone “Patria y vida” che critica apertamente il governo di Cuba.

Trattato globale per sradicare la violenza contro le donne: Every Woman Treaty

La società civile delle Americhe ha giocato dunque un ruolo importante (con delegazioni anche dei paesi esclusi politicamente dal vertice), presentando petizioni coordinate ai rappresentanti diplomatici degli stati del continente americano su temi cruciali quali sono le sfide del cambio climatico e l’uguaglianza di genere tra gli altri. In questo senso una delle grandi petizioni che ha fatto breccia e che ha trovato l’avvallo e l’appoggio del presidente della Colombia Iván Duque e del segretario generale dell’Organizzazione degli Stati Americani, Luis Almagro, riguarda la creazione di un nuovo trattato globale per sradicare la violenza contro donne e bambine. Al vertice infatti ha partecipato anche una delegazione dell’alleanza Every Woman Treaty: una coalizione globale di oltre 1700 attiviste per i diritti delle donne, provenienti da 128 paesi diversi e appoggiate da 840 organizzazioni. Un’alleanza internazionale che lavora dal 2013 per raggiungere uno standard globale vincolante sull’eliminazione della violenza contro donne e bambine e che dopo anni di consultazioni e lavoro di attivismo, nel novembre 2021 ha lanciato una bozza di trattato, che rappresenta un punto di partenza per gli stati per discutere e approvare un nuovo quadro giuridico globale vincolante in materia. L’appello, come detto, è stato raccolto da Iván Duque, che durante il suo discorso di chiusura, venerdì 10, ha dichiarato:

«Oggi voglio fare riferimento alla difesa illimitata dei diritti umani, e in particolare accogliere tutte le voci che chiedono a gran voce che venga adottato questo trattato internazionale per respingere ogni forma di violenza contro le donne e le bambine. Lì si concentra uno dei più grandi drammi della nostra regione…».

Anche Luis Almagro ha sottolineato che

«Abbiamo la responsabilità di promuovere e proteggere i diritti fondamentali delle donne e delle bambine in tutta la loro diversità, il diritto di ogni individuo a essere libero da ogni forma di violenza […] Dobbiamo impegnarci a promuovere urgentemente un nuovo trattato globale autonomo per porre fine alla violenza contro donne e bambine».

Dalle Americhe dunque, in uno scenario di grande simbolismo, queste due importanti voci si uniscono a quelle dei premi Nobel per la Pace Jody WilliamsShirin Ebadi e Tawakkol Karman, a quella della ex relatrice speciale dell’Onu per la violenza contro le donne Rashida Manjoo e dei presidenti della Repubblica democratica del Congo, Félix Tshisekedi, e della Nigeria, Muhammadu Buhari. Un movimento globale e plurale che chiama a una azione urgente per arrestare la violenza contro donne e bambine, una violenza che UN Women chiama “shadow pandemic” (pandemia nell’ombra) e che l’Oms cataloga come “devastantemente generalizzata”. Basti pensare che i dati dell’Onu dicono che una donna su tre nel mondo soffre violenza e che solo nel 2020, ben 81.000 donne e bambine sono state assassinate: una ogni 6 minuti e mezzo.

Proteste e attività parallele in Latinoamerica

Ovviamente non sono però mancate le proteste. Da un lato proprio di fronte al centro di convenzioni di Los Angeles, molte persone hanno manifestato contro la politica migratoria degli Usa e contro le difficoltà per ottenere i permessi di residenza nel paese nordamericano. Dall’altro alcune delegazioni della società civile dei paesi esclusi dal vertice hanno voluto far sentire il loro dissenso denunciando le politiche imperialiste degli Usa al suono di canzoni simbolo come Latinoamerica

e This is not America (il videoclip di quest’ultima canzone ha vinto un premio a Cannes 2022).

Importante inoltre segnalare che mentre si svolgevano i lavori delle delegazioni politiche e delle Ong ufficialmente accreditate per partecipare al nono vertice delle Americhe, sempre a Los Angeles è stato lanciato un vertice parallelo, sotto il nome di Vertice dei popoli per la Democrazia. Un evento critico con il “vertice dell’esclusione” di Joe Biden (così chiamato dai partitari dei governi di Cuba, Venezuela e Nicaragua). Rispetto a questo, Manolo de los Santos, rappresentante dell’Assemblea Internazionale dei Popoli (Aip), ha dichiarato a Telesur che

«in realtà, non vediamo il vertice dei popoli per la democrazia solo come un vertice opposto, ma come il vero vertice a cui parteciperanno gli esclusi, che non sono solo Cuba, Venezuela e Nicaragua, ma che sono anche i milioni di persone che all’interno degli Stati Uniti d’America non hanno il diritto di partecipare ai processi politici in atto».

 

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El paro mueve (a las masas) y gana a Quito https://ogzero.org/acta-de-paz-el-paro-mueve-a-las-masas-y-gana-a-quito/ Sun, 03 Jul 2022 08:35:57 +0000 https://ogzero.org/?p=8040 Alle ore 14 del 30 giugno presso la Basilica di Quito Leonidas Iza (Conaie), Eustaquio Tuala (Feine), Gary Espinoza (Fenocin) e Francisco Jiménez, in qualità di Ministro del Governo per conto del presidente della repubblica dell’Ecuador, hanno firmato l’Acta de Paz e posto fine al conflitto sociale. All’incirca nello stesso momento sulle frequenze di Radio […]

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Alle ore 14 del 30 giugno presso la Basilica di Quito Leonidas Iza (Conaie), Eustaquio Tuala (Feine), Gary Espinoza (Fenocin) e Francisco Jiménez, in qualità di Ministro del Governo per conto del presidente della repubblica dell’Ecuador, hanno firmato l’Acta de Paz e posto fine al conflitto sociale.

All’incirca nello stesso momento sulle frequenze di Radio Blackout stavamo ospitando questa testimonianza di Davide Matrone, docente a Quito e attento analista del mondo latinoamericano:

riproponiamo qui il suo articolo pubblicato su “PagineEsteri subito dopo l’intervento in radio, analizzando immediatamente motivazioni e conseguenze, lotte e rivendicazioni, richieste ottenute e tavoli avviati da una mobilitazione popolare e tragica per lo strascico di morti e fatica prodotta… certo, mantenendo la vigile attenzione dovuta nel momento in cui la piazza smobilita e gli accordi proseguono al tavolo negoziale. Quello che ci sembra essenziale è la ricostruzione di chi ha fatto pressione (il capitalismo messo in difficoltà dall’unanime blocco del paese, che per la mediazione si è rivolto all’istituzione principale: la chiesa) e anche la chiosa sulle possibili suture tra sinistre latinoamericane in questo periodo che vede l’avanzata delle istanze di emancipazione in tutto il Cono Sur.


Dopo 18 giorni di forti proteste popolari contro le politiche neoliberiste del governo Lasso, la Confederazione Episcopale dell’Ecuador ha insistito affinché si trovasse un accordo tra le parti in conflitto. In realtà, le pressioni son giunte da più parti e cioè, dal mondo imprenditoriale e dal commercio che messo alle strette ha pressato a sua volta la Conferenza Episcopale affinché giocasse un ruolo determinante in questo duro scontro. La situazione era giunta all’apice e gli ultimi 3 giorni sono stati incandescenti dopo la sollevazione del quartiere popolare di San Miguel de los Bancos di Calderón in cui ci sono stati scontri durissimi con le forze dell’ordine. Altri espisodi analoghi si erano registrati al Puyo, in Amazzonia e nella località di Sant’Antonio del Pichincha dove erano state incediante le caserme della polizia dopo uno spargimento di sangue. Il bilancio di questo sciopero è pesante: 8 morti, centinaia di feriti e violazioni dei diritti umani come dichiara il rapporto della Commissione di Solidarietà dei Diritti Umani di Argentina in visita nel paese dal 24 al 26 giugno.

Grazie alla lotta popolare del movimento indigeno, dei lavoratori, degli studenti, degli operatori sanitari, dei docenti e finanche del settore dei trasporti, il Governo ha dovuto cedere e negoziare alcuni dei 10 punti rivendicati della Conaie. In definitiva, si può concludere che dopo 18 giorni di lotta il movimento indigeno dell’Ecuador porta a casa quanto segue:

  • Riduzione dei carburanti di 0,15 centesimi per ogni gallone,
  • Derogazione del Decreto 95 che vieta l’ampiamento della frontiera petrolifera per proteggere i territori e i diritti collettivi dei popoli indigeni,
  • Riforma del Decreto 151 con il quale si vieta lo sfruttamento delle risorse naturali nelle aree protette, nelle zone dichiarate intangibili, nelle zone archelogiche. Inoltre, si garantisce la consulta previa e libera nei territori interessati allo sfruttamento delle risorse naturali d’accordo a quanto stabilito dalla Corte Interamericana dei Diritti e dalla Corte Costituzionale dell’Ecuador,
  • Emanazione del Decreto 456 che prevede l’aumento del Bonus sociale da 50 a 55 dollari che beneficierà a 1,4 milioni di ecuadoriani, riduzione dei tassi d’interessi dal 10% al 5% per crediti fino a 3000 dollari e i prestiti scaduti fino a 3000 dollari saranno condonati,
  • Si elabora un progetto di Legge di riforma dell’articolo 66 della Legge Organica della Circoscrizione Territoriale Speciale Amazzonica,
  • Raddoppio delle risorse dello stato per l’Educazione Bilingue e Interculturale.

Inoltre, per 90 giorni si istallerà un tavolo di concertazione per continuare il dialogo tra le due parti per risolvere i temi questionati durante lo sciopero nazionale. Tra i quali l’aumento delle risorse statali per l’Educazione pubblica, l’attuazione di politiche statali che aumentino l’occupazione e intervento dello stato in materia di prevenzione alla delinquenza.

Potremmo trarre alcune conclusioni da questo sciopero popolare e nazionale:

  • Il Governo neoliberista del banchiere Lasso ne esce più indebolito e con pochissima legittimità popolare. Dopo 1 anno di governo (24 maggio) i sondaggi registravano una disapprovazione del 72%, oggi è aumentata al 88%. È di fatti un governo impopolare. Inoltre, si registra una delegittimazione all’interno del parlamento in quanto la mozione di sfiducia, presentata dal partito dell’opposizione Unes, pur non riuscendo nell’intento ha raccolto 82 voti che rappresenta la maggioranza del parlamento. Lasso ha raccolto 44 voti e, se dovesse continuare così, non riuscirebbe a governare.
  • Il costo politico ed elettorale di 2 partiti del parlamento e cioè la Izquierda Democratica e il Partito Social Cristiano: dopo l’appoggio a Lasso vedranno quasi sicuramente ridimensionati i loro voti alle prossime elezioni.
  • Il Movimento Indigeno ne esce rafforzato, dimostrando una grande capacità organizzativa in tutto il territorio nazionale. La strategia di accendere fuochi e rivolte in tutto il paese ha raggiunto un risultato vittorioso. Inoltre, il leader Leonidas Iza aumenta il suo capitale politico e simbolico riposizionandosi molto bene all’interno del Movimento Indigeno e nello schiacchiere politico nazionale.
  • C’è un malcontento generale contro le politiche neoliberiste che negli ultimi 5 anni hanno aumentato la povertà relativa ed assoluta nel paese, hanno incrementato la precarizzazione del lavoro, hanno smantellato il sistema di salute pubblica e svenduto il patrimonio pubblico del paese.
  • Si sono aperte delle interessanti contraddizioni in termini politici, all’interno del campo politico, che possono determinare una serie di alleanze all’interno della compagine di centro / sinistra che potrebbe vincere le destre alle prossime elezioni amministrative del 2023.

Inoltre, questo sciopero si inserisce in un quadro regionale interessante che vede nuovamente la vittoria delle sinistre latinoamericane che criticano il paradigma di sviluppo neoliberista. Le ultime vittorie in Cile e in Colombia danno speranza anche per l’Ecuador, se si riuscisse a unire le forze politiche progressiste contro le destre reazionarie e fasciste.

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N. 20 – Polonia e Unione Europea: il segnale non intercettato dell’imminente conflitto in Ucraina https://ogzero.org/polonia-e-unione-europea-il-segnale-non-intercettato/ Mon, 27 Jun 2022 17:33:53 +0000 https://ogzero.org/?p=7994 I campanelli di allarme che non sono stati ascoltati erano tutti nel vacillare degli assetti politici dell’Europa centrale. Attraverso una lettura attenta anche dal punto di vista giuridico delle normative, Fabiana Triburgo fa emergere i cavilli e le deroghe che rendono possibile una strumentalizzazione del migrante che corrisponde alle strategie politiche e geopolitiche degli stati […]

L'articolo N. 20 – Polonia e Unione Europea: il segnale non intercettato dell’imminente conflitto in Ucraina proviene da OGzero.

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I campanelli di allarme che non sono stati ascoltati erano tutti nel vacillare degli assetti politici dell’Europa centrale. Attraverso una lettura attenta anche dal punto di vista giuridico delle normative, Fabiana Triburgo fa emergere i cavilli e le deroghe che rendono possibile una strumentalizzazione del migrante che corrisponde alle strategie politiche e geopolitiche degli stati membri (e non) dell’Unione Europea in difficoltà attraverso patti e accordi che rendono possibile attuare respingimenti illegali, costruire ancora muri e campi di detenzione con la scusa di false emergenze. In questo saggio si analizza il caso di Polonia e Unione Europea, nel suo sviluppo all’interno di un contesto più ampio di interessi internazionali scatenatisi con la guerra ucraina.


Risulta sempre più evidente come i flussi dei movimenti umani non siano semplicemente fenomeni da valutare nell’ambito dei temi riguardanti le politiche migratorie di uno o più stati o più specificatamente rispetto al sistema normativo in materia ma piuttosto qualificabili quali eventi che nascondono questioni, giochi di forza e interessi geopolitici dei quali sono la diretta conseguenza e, non come si potrebbe superficialmente pensare, la causa. Ciò emerge anche rispetto al conflitto armato in corso in Ucraina: rileggere all’indietro alcuni accadimenti della storia degli ultimi due anni dell’Europa orientale ci consente di comprendere come il fenomeno migratorio, così come era andato strutturandosi già nell’agosto del 2021 e ancor prima – almeno negli intenti di due attori statali dell’area ossia Russia e Bielorussia – fosse uno dei primi e più rilevanti campanelli d’allarme che gli assetti politici – apparentemente calcificati a livello geografico lungo la nuova cortina di ferro – stavano cominciando a vacillare. Gli eventi verificatisi a partire dal 2020 potrebbero dunque essere definiti iniziali scosse di terremoto che, a distanza di oltre trent’anni dalla caduta del muro di Berlino, hanno risvegliato il sottosuolo degli equilibri internazionali creando delle faglie o – visti gli attuali sviluppi del conflitto ucraino – vere e proprie voragini, simbolo di questioni silenti ma non certo più esistenti. Occorre dunque per l’analisi dei flussi migratori nell’Europa orientale – certamente anomali, per come sono andati delineandosi, ma non particolarmente emergenziali quantitativamente come invece si è voluto lasciare intendere – tornare indietro all’estate del 2020 quando il presidente bielorusso Lukashenko, in carica dal 1994, è stato rieletto con circa l’80% dei voti favorevoli ma al contempo accusato di brogli elettorali al punto da essere destinatario di violente proteste da parte della popolazione civile finalizzate a far cadere il regime. A questo punto il primo elemento rilevante è che l’ondata di proteste che interessò gran parte della popolazione bielorussa anche prima delle elezioni venne foraggiata dalla Lituania e dalla Polonia.

Proteste a gennaio 2014 a Kiev (foto Roman Mikhailiuk / Shutterstock).

La strumentalizzazione dei migranti

In particolare, la Polonia costituisce l’ultimo avamposto dell’Alleanza Atlantica o meglio ancora l’ultimo stato satellite degli Stati Uniti a livello militare in quell’area. Con gli Stati Uniti la Polonia vanta solidi patti di cooperazione e intese che non sono esattamente speculari rispetto al tipo di relazioni che la Polonia intrattiene con l’Unione, pur essendone a tutti gli effetti un paese membro.

Il tentativo quindi di Polonia e Lituania in quel momento di voler far entrare la Bielorussia nella sfera di influenza posta dall’altro lato della cosiddetta “nuova cortina di ferro”, cercando di rafforzarla a proprio vantaggio, è stata percepita come una pericolosa provocazione dal regime di Lukashenko che ha quindi prontamente provveduto a chiedere il sostegno militare e politico del capo del Cremlino Vladimir Putin che è riuscito a sedare le proteste popolari nel paese a lui alleato e con il quale ha successivamente sottoscritto 28 programmi per l’unione statale.

Si pensi come negli ultimi anni il presidente russo prima in Siria ma a gennaio del 2021 anche in Kazakistan, sia intervenuto su esplicita richiesta dei leader al potere per mantenere lo status quo a livello politico, spesso con il beneplacito di buona parte della comunità internazionale, sebbene non palesemente espresso. Tutto questo per far riflettere che a livello politico il leader di uno stato acquisisce sempre più potere nella misura in cui altri attori statali gli attribuiscono un ruolo fondamentale nel dirimere talune annose questioni internazionali. Tuttavia, la crisi di governo bielorussa e l’intervento del capo del Cremlino che in un primo momento sembrava fosse una vicenda eccezionale – risolta ristabilendo l’allineamento al preesistente asse della cortina di ferro – nascondeva evidentemente proiezioni geopolitiche molto più ambiziose, emerse un anno dopo, proprio mediante quella che è stata definita “strumentalizzazione della questione migratoria”.

Le proteste in Kazakhstan.

Il piano orchestrato

Iniziata apparentemente come una pressione migratoria che Minsk intendeva porre limitatamente al confine lituano e che, come si scrisse allora, venne attuata per lanciare un messaggio all’Unione Europea in ragione delle sanzioni applicate alla Bielorussia in seguito al dirottamento dell’aereo della Ryanair con a bordo i due dissidenti del regime di Lukashenko, a settembre dello stesso anno raggiungeva invero risvolti ben più allarmanti. Infatti, con la spinta dei migranti attuata da Minsk al confine con la Polonia si delineavano più nettamente i profili di un piano orchestrato ad hoc del quale – anche qualora il presidente russo non si voglia definire il regista – non si può non qualificare quale complice, avendo mostrato di non voler intervenire nella vicenda, nonostante – considerati  i rapporti con la Bielorussia – avrebbe potuto fermarla in qualsiasi momento e tenuto conto degli ignorati appelli di sostegno più volte avanzati telefonicamente dall’allora cancelliera tedesca Angela Merkel.

In realtà si può affermare che l’appoggio della Russia a Minsk nella questione migratoria è stato la conditio sine qua non affinché essa si realizzasse. Al riguardo non si dimentichi che la quasi totalità dei migranti, prima spinti al confine bielorusso verso la Lituania e in seguito verso la Polonia, provenissero dal Medioriente – principalmente iracheni curdi, afghani e siriani – e che beneficiarono di un rilevante numero di rilasci di visti turistici per la Bielorussia nella quale arrivarono attraverso compagnie aeree turche. Non si può sottovalutare infatti che la Russia vanti un rapporto privilegiato con la Turchia: i due paesi – come più volte detto – sono in una condizione di continuo antagonismo nello scacchiere internazionale ma dimostrano di avere un reciproco rispetto nelle decisioni in politica estera. Ciò si traduce nel fatto che quando le circostanze lo richiedono sono in grado di stringere accordi, compromessi, alleanze per fronteggiare le questioni che man mano si presentano, soprattutto in situazioni di conflitti armati come in Nagorno Karabakh o ancor di più in Siria relativamente alla questione dei curdi.

Ascolta “Mosca chiude: autarchia senza prospettive” su Spreaker.

Il ruolo della Turchia

Non si può del tutto escludere dunque il coinvolgimento, almeno in un primo momento, della Turchia in questa specifica strumentalizzazione dei migranti portata avanti da Minsk. D’altra parte la Turchia è già avvezza a tattiche, o meglio strategie, basate sulla questione migratoria per il soddisfacimento dei propri interessi espansionistici ma anche puramente economici. Basti pensare al più volte citato accordo di 6 miliardi di euro elargiti dall’Unione Europea alla Turchia – recentemente rinnovato – per “l’accoglienza/trattenimento” nel proprio territorio dei profughi siriani per scongiurare la solita “invasione” che avrebbe coinvolto il vecchio continente.

E, di nuovo, i diritti violati

Come si può tristemente constatare tuttavia la cosiddetta invasione non sarebbe mai avvenuta e non ci sarebbe alcuna questione geopolitica in merito sulla quale discutere nell’ipotesi di obbligatoria ed equa ripartizione dei flussi migratori nei 28 stati dell’Unione, attraverso piani di ricollocamento, ancorati a indici demografici e del prodotto interno lordo dei paesi di destinazione. In questa sede ciò che interessa è la continua violazione dei diritti fondamentali dei migranti attuata dalla Polonia a partire da settembre 2021 quando le forze armate bielorusse cominciarono a scortarli verso quel tratto di confine tra i due stati. Va preliminarmente sottolineato che la Polonia – trovatasi in tale situazione – ha deciso di agire fin da subito in completa autonomia, senza consultare o dar seguito alle istanze – come vedremo in seguito prevalentemente di facciata – provenienti dalle istituzioni dell’Unione rispetto alla “crisi migratoria (?!)” che si stava verificando sul proprio territorio. A settembre del 2021 quindi il capo di stato polacco con l’approvazione del Parlamento proclama lo stato di emergenza che poi rinnova prontamente nel mese di novembre. Ai migranti dunque – anche richiedenti asilo – non viene data la possibilità di entrare nel territorio polacco e di presentare la domanda di protezione internazionale. Uomini singoli, soggetti vulnerabili tra cui minori, nuclei familiari e donne incinte vengono fatti stazionare al di fuori dei check point polacchi all’addiaccio.

Tuttavia, l’intento di ignorare esseri umani in difficoltà e respingerli prima dell’ingresso, oltre a violazioni formali del diritto internazionale – primo tra tutti il principio di non-refoulement – e del diritto europeo in materia d’asilo, ha causato la morte nel 2021 di ben 21 persone!

Ci si potrebbe fermare su questo dato che per la sua gravità non ammette giustificazioni di sorta e non solo con riferimento all’Unione ma a tutti i paesi membri che non sono intervenuti nella vicenda. La discussione invece in modo sterile si è sviluppata sul fatto che a Spagna, Grecia e Italia non è stato mai offerto alcun sostegno con arrivi numericamente più elevati. Ci si chiede perché in tali situazioni invece di fare confronti non si convoglino le forze politiche dell’Unione per cogliere l’occasione  di un atteggiamento politico diverso e per rivedere gli assiomi europei attuati – diversi da quelli teorizzati – dando un segnale forte, in modo tale che nessuna strumentalizzazione dei migranti produca più effetti sull’Unione o su uno dei paesi membri e non perché venga ignorata o repressa ma perché vengano rispettate le norme sul diritto d’asilo già vigenti e finalmente messo in atto il principio di solidarietà di cui all’art. 78 del trattato sul funzionamento dell’Unione.

Il punto debole dell’Unione

È chiaro infatti che a livello internazionale gli stati che hanno proiezioni egemoniche, spesso in contrasto con gli interessi del vecchio continente, hanno ben compreso – vedi Russia e Turchia – come la questione migratoria sia il vero, grande punto debole dell’Unione con il quale ricattarla, dato che non riesce in alcun modo a gestirla, se non cercando di renderla invisibile e traghettandola al di là dei propri confini. Tuttavia, visto che a quanto pare il fatto che degli esseri umani siano lasciati in tali indegne e mortifere condizioni non desta alcuna indignazione e non comporta mutamenti delle tattiche degli stati membri forse è il caso di cominciare più cinicamente a riflettere sulle conseguenze politiche ed economiche (che forse interessano maggiormente) che il perpetrare di tali comportamenti implicano e che sono ben più gravi rispetto all’adozione di un’accoglienza condivisa dei migranti soprattutto in un  caso come quello della Polonia rispetto al quale, data anche l’estensione del suo territorio e il numero di rifugiati accolti è un’eresia definire crisi o situazione di emergenza migratoria l’arrivo di 10.000 migranti!

Muri e centri di detenzione

Nonostante ciò sono stati apportati emendamenti alla normativa nazionale polacca in materia di migrazione – che a quanto pare però non vengono applicati (fortunatamente, anche se non si capisce la differenza con gli altri profughi) ai profughi ucraini – rendendola più restrittiva così come era avvenuto in Lituania e sempre alla stessa stregua si è realizzata la costruzione di un muro al confine con la Bielorussia lungo circa 186 chilometri e alto 5 metri e mezzo oltre, alla costruzione di ulteriori tre centri di detenzione all’interno dei quali in ogni stanza sono ammassate circa 22 persone in meno di 2 metri quadri ciascuno per potersi muovere.

Istituzioni in difficoltà

Nessuna novità quindi o quasi. Infatti, per quanto riguarda l’analisi dei profili giuridici, rispetto a tale vicenda, va posta attenzione sulla proposta di regolamento avanzata alla fine del 2021 dalla Commissione europea riguardo le misure che gli stati membri possono adottare in caso di strumentalizzazione dei flussi migratori ossia la “Proposta di regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio volta ad affrontare le situazioni di strumentalizzazioni nel settore della migrazione e l’asilo”.

Prima di entrare nel merito del testo va preliminarmente detto che se un’istituzione europea “alla bisogna” compone un testo giuridico ad hoc per fronteggiare una situazione squisitamente politica – quando tra l’altro si è presentata già una proposta di regolamento europeo nei casi di crisi e di forza maggiore nel settore della migrazione e dell’asilo” – dimostra di essere in palese difficoltà.

Tuttavia, anche in questo testo normativo non solo non si evidenzia alcun cambiamento di visione ma si è andati ben oltre ogni limite del rispetto dei diritti fondamentali degli individui migranti per cui si auspica vivamente che il Parlamento europeo non approvi tale proposta, assurda sotto il profilo giuridico.

Nella relazione introduttiva alla proposta di regolamento viene delineato l’ambito di applicazione del medesimo ancorandolo a quelle situazioni nelle quali gli attori statali utilizzino «i flussi migratori come strumento per fini politici, per destabilizzare l’Unione europea e i suoi Stati membri».

Il diavolo sta nei dettagli

A conferma della singolarità del testo normativo in oggetto e del suo contenuto squisitamente politico – dettato da un evidente senso di preoccupazione rispetto alla situazione allora in corso – si noti come in esso vi siano, in modo del tutto inconsueto per un atto giuridico, addirittura specifici riferimenti alla situazione geopolitica in prossimità di quel confine che emergono mediante l’impiego di espressioni quali «in risposta alla strumentalizzazione delle persone da parte del regime bielorusso» o mediante l’utilizzo di termini politici – o ancor meglio propri del gergo militare – per definire la  strumentalizzazione, come per esempio «attacco ibrido in corso lanciato dal regime bielorusso alle frontiere dell’UE».

C’è da dire infatti che nella proposta di regolamento non viene data alcuna puntuale definizione giuridica del termine “strumentalizzazione” – rendendo più estesa e quindi più pericolosa l’applicazione del regolamento a situazioni che potrebbero verificarsi in futuro – tanto che per ricavarla è necessario far riferimento ad un altro testo giuridico (già analizzato nell’articolo relativo ai flussi migratori al confine Ventimiglia-Menton) ossia la proposta di modifica del Regolamento Shenghen del 14 dicembre 2021 che all’art. 2 (con l’introduzione del punto 27) stabilisce che

la «strumentalizzazione dei migranti è la situazione in cui un paese terzo istiga flussi migratori irregolari  verso l’Unione incoraggiando o favorendo attivamente lo spostamento verso le frontiere esterne di cittadini di paesi terzi già presenti sul suo territorio o che transitino sul suo territorio se tali azioni denotano l’intenzione del paese terzo di destabilizzare l’Unione».

Per quanto attiene alle conseguenze della “strumentalizzazione” inoltre è necessario che la natura delle azioni del paese terzo sia potenzialmente tale «da mettere a repentaglio le funzioni essenziali dello stato quali la sua integrità territoriale, il mantenimento dell’ordine pubblico o la salvaguardia della sicurezza nazionale». Sono chiaramente delle conseguenze gravissime ma dato che la proposta di regolamento in esame è stata stilata specificatamente per la situazione al confine polacco-bielorusso, o comunque in conseguenza di questa, ci si chiede:

può realmente l’arrivo di circa 10.000 migranti in Polonia potenzialmente mettere a repentaglio l’integrità del suo territorio, il mantenimento del suo ordine pubblico o mettere a rischio la sicurezza nazionale?!

Anomalie e volute mancanze

Inoltre, si fa riferimento alla solita dizione “migranti irregolari” quando, come noto, il richiedente asilo è irregolare nella quasi totalità dei casi perché in fuga dal proprio paese d’origine – e non è certamente ammissibile che nell’ipotesi della strumentalizzazione attuata da uno stato terzo – non abbia il medesimo diritto di altri richiedenti a presentare la domanda di protezione internazionale! Per di più altre anomalie – o meglio volute mancanze – si rilevano nel testo del regolamento: non vi è alcuna menzione di indicatori, in particolare di tipo quantistico, con i quali delineare la strumentalizzazione, per cui – ragionando per assurdo – anche due soli migranti strumentalizzati potrebbero portare all’applicazione del regolamento. Ancora più pericoloso è che il regolamento, qualora venga applicato, sia idoneo a comportare gravissime deroghe al rispetto dei diritti fondamentali in materia d’asilo.

Deroghe e cavilli

La prima deroga è relativa alla registrazione delle domande d’asilo prevista all’art. 2 (“Procedura di emergenza per la gestione dell’asilo in una situazione di strumentalizzazione”): in caso di domande presentate alla frontiera, tra l’altro in punti specifici, il termine è di ben 4 settimane per la loro registrazione (e non per l’esame!), durante le quali ovviamente i profughi restano al di fuori del territorio dell’Unione. In secondo luogo, lo stato può decidere alle sue frontiere o più genericamente nelle zone di transito, «sull’ammissibilità e il merito di tutte le domande» registrate nell’arco del periodo in cui il regolamento viene applicato. Ciò quindi senza alcun riferimento alla nazionalità di alcuni profughi come i cittadini afgani per i quali sarebbe facilmente ipotizzabile una palese fondatezza della domanda di protezione internazionale.

L’unica priorità legata alla visibile fondatezza delle domande è quella data a quelle presentate dai minori o dai nuclei familiari ma ciò che è fondamentale ricordare è che comunque tutta la procedura anche in questi casi è una procedura squisitamente di frontiera! All’art. 4 (“Procedura di emergenza per la gestione dei rimpatri in una situazione di strumentalizzazione”) si deroga inoltre rispetto al regolamento sulla procedura d’asilo e all’applicazione della direttiva rimpatri: viene meno in questo modo il diritto ad un ricorso effettivo in caso di rigetto della domanda di protezione internazionale.

Più esattamente resta il diritto alla presentazione del ricorso ma senza che questo implichi un diritto di permanenza nel territorio dell’Unione nelle more dell’attesa di una decisione in merito e ciò a meno che non venga accolta un’istanza di sospensiva degli effetti della decisione di rigetto del ricorso.

Si precisa tuttavia che qualora l’istanza di sospensiva non venga comunque accolta è disposto l’allontanamento immediato del richiedente asilo, pur se «nel rispetto del principio di non refoulement».

Inoltre, l’ipocrisia di questa proposta di regolamento si riscontra tanto nell’articolo 3 che nell’articolo 5. Nel primo infatti (“Condizioni materiali di accoglienza”) si fa riferimento a misure di accoglienza «diverse» nel caso di applicazione del regolamento e non inferiori come in realtà sono – cercando di celare i propri intenti – dietro l’espressione «in grado di soddisfare le esigenze essenziali del migrante»: si noti al riguardo quanta discrezionalità possa nascondersi dietro al termine «esigenze essenziali». Nell’articolo 5 invece (“Misure di sostegno e solidarietà”) si raggiunge l’apice dell’assurdo. La solidarietà degli altri paesi membri, qualora venga richiesta, prevista nei confronti dello stato membro vittima di una strumentalizzazione dei migranti – anche se per inciso le vere vittime della strumentalizzazione sono i migranti stessi – non è certamente quella di una ripartizione per quote dei profughi tra gli stati ma l’impiego di «misure di sviluppo delle capacità, misure a supporto dei rimpatri» che vuol dire il semplice invio di funzionari e personale appartenenti agli altri stati membri per fronteggiare la situazione “emergenziale” nonché  provvedimenti operativi a sostegno dei rimpatri.

È chiaro quindi come anche in questa circostanza l’intento reale della Commissione, con tale proposta, non sia quello di offrire a livello europeo un supporto allo stato in una situazione “emergenziale” dal punto di vista migratorio, ma quello di assicurarsi il rinforzo delle misure di frontiera al fine di porre velocemente fine a tale situazione cercando di attuare il rinvio degli individui arrivati alle porte del territorio dell’Unione il più velocemente possibile.

Gli eventi tuttavia sono sempre un passo avanti nell’imprevedibilità del loro verificarsi rispetto a qualsiasi logica o tentativo di controllo sia esso da parte degli esseri umani, degli attori statali o delle istituzioni europee e internazionali.

La solidarietà “mirata”

Alla fine del 2021 si scrisse tale proposta per l’arrivo di circa 10.000 migranti, inconsapevoli che da lì a poco si sarebbe scatenato un conflitto di portata internazionale in Ucraina alle porte dell’Unione in ragione del quale, per l’arrivo di milioni di profughi, sarebbero caduti di fatto come le tessere di un domino gli emendamenti polacchi in materia di migrazione insieme ad ogni velleità europea di contenimento e con la conseguente apertura dei confini degli stati membri. Perché dunque non pensare prima a rendere effettiva la solidarietà europea per esseri umani che avevano e hanno gli stessi diritti dei cittadini ucraini? E ancora, non conviene riflettere come per interessi economici ed energetici si è scesi a patti e sotto ricatto del leader del Cremlino e come forse non si stia facendo lo stesso errore individuando Erdoǧan come mediatore per la risoluzione di tale conflitto, considerato come detto che egli stesso è sospettato di essere stato complice della pressione iniziale dei flussi migratori al confine con la Lituania? Corsi e ricorsi storici a quanto pare spesso nulla insegnano.

barriere e ostacoli

L'articolo N. 20 – Polonia e Unione Europea: il segnale non intercettato dell’imminente conflitto in Ucraina proviene da OGzero.

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«Non posso accettare che dei miei concittadini sostengano la guerra» https://ogzero.org/l-esodo-dalla-russia/ Sun, 19 Jun 2022 16:14:18 +0000 https://ogzero.org/?p=7943 Le interviste qui di seguito sono state originariamente registrate in video alla metà del mese di giugno 2022 per la Tv Svizzera Italiana nella capitale dell’Armenia, Erevan, una delle mete dell’esodo dalla Russia. Qui viene proposta la versione integrale tradotta dal russo di cinque di queste interviste. Come è normale la televisione le ha utilizzate […]

L'articolo «Non posso accettare che dei miei concittadini sostengano la guerra» proviene da OGzero.

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Le interviste qui di seguito sono state originariamente registrate in video alla metà del mese di giugno 2022 per la Tv Svizzera Italiana nella capitale dell’Armenia, Erevan, una delle mete dell’esodo dalla Russia. Qui viene proposta la versione integrale tradotta dal russo di cinque di queste interviste. Come è normale la televisione le ha utilizzate solo in misura assai ridotta per un reportage sui fuorusciti dalla Russia di molti suoi cittadini, iniziata sin dall’inizio dell’“operazione speciale” ma che a chi scrive sembra che possano rappresentare un interessante spaccato delle opinioni, degli umori ma anche delle fratture psichiche che si sono prodotte nella Federazione con il conflitto.

La proposta di questo articolo è bilingue: in italiano lo sbobinamento delle interviste inserite in russo nella loro integrità ad alcuni fuorusciti dalla Russia verso l’Armenia in seguito all’esodo dalla Russia prodotto dalla “Operazione speciale” in Ucraina. Sono voci e volti che erano già critici verso l’apparato di potere che fa capo a Vladimir Putin pur non essendo per nulla famosi; ognuno di loro è di età, professione, provenienza diverse. Speriamo in questo modo di poter informare gli italiani che non si può categorizzare l’intera comunità russa come filoputiniana e guerrafondaia e i russofoni che non sono pochi i transfughi che hanno deciso di non tornare in Russia se non a seguito di un cambio di regime.

È molto difficile quantificare oggi quanti russi si sono rifugiati o hanno preso la strada dell’esilio dal 24 febbraio fino a oggi. Sicuramente sono centinaia di migliaia le persone che sono giunte in questi mesi in Armenia, in primo luogo giovani che temono la mobilitazione generale ma anche coppie e intere famiglie. Spesso sono persone a medio-alta qualifica professionale che possono sperare di trovare lavoro nel paese caucasico o in Europa occidentale.

Si giunge in Armenia perché è relativamente facile. Si tratta di un paese ex sovietico dove tutti sanno il russo, non occorre il visto e la popolazione è nota per la sua ospitalità. Molti pensano che sia solo un ponte per raggiungere altri paesi europei, altri pensano di restarci, altri ancora – passata la buriana – potrebbero tornare in Russia. Tuttavia il costo della vita con l’arrivo dei russi ha iniziato a crescere soprattutto nel settore degli affitti. Ormai non si trova più un monolocale per meno di 350 dollari al mese nella capitale (dove il reddito medio è di 5000 dollari l’anno) e molti russi stanno iniziando a scegliere altre destinazioni per tenersi lontani dal conflitto. La Georgia ma anche i paesi centroasiatici. In primo luogo, tra questi il Kirghizistan dove si trovano appartamenti a 50 dollari, frutta e verdura fresche abbondano ed è noto come il paese più democratico di tutta l’area.

Представленные ниже интервью были записаны на видео для итальянского телевидения Швейцарии в столице Армении Ереване в середине июня 2022 года. Здесь предлагается полная версия пяти из этих интервью, переведенная с русского языка. Как обычно, телевидение использовало их лишь в очень ограниченной степени для репортажа об отъезде из России многих ее граждан, который начался с самого начала “спецоперации”, но который, как кажется писателю, представляет собой интересный срез мнений, настроений, но также и психических переломов, произошедших в Федерации в связи с конфликтом.

Предложение этой статьи – двуязычное, на итальянском языке не опубликованные интервью, включенные полностью на русском языке, свидетелям, бежавшим из России в Армению после начала “спецоперации” на Украине. Это голоса и лица, которые уже критиковали аппарат власти при Владимире Путине, хотя они отнюдь не знамениты; каждый из них разного возраста, профессии и происхождения. Мы надеемся таким образом донести до итальянцев, что нельзя считать всю российскую общину пропутинской и воинствующей, а до русскоязычных – что есть не мало перебежчиков, которые решили не возвращаться в Россию, пока не произойдет смена режима.

Сегодня очень трудно подсчитать, сколько россиян укрылось или уехало в изгнание после 24 февраля. Безусловно, за последние месяцы в Армению прибыли сотни тысяч человек, в первую очередь молодые люди, опасающиеся всеобщей мобилизации, а также семейные пары и целые семьи. Часто это люди со средне-высокой профессиональной квалификацией, которые могут надеяться найти работу в кавказской стране или в Западной Европе.
Люди приезжают в Армению, потому что здесь относительно легко. Это бывшая советская страна, где все знают русский язык, виза не требуется, а население известно своим гостеприимством. Многие считают, что это просто мост в другие европейские страны, другие планируют остаться там, а третьи – когда буря пройдет – могут вернуться в Россию. Однако стоимость жизни с приездом русских начала расти, особенно в секторе аренды жилья. В столице (где средний доход составляет $5000 в год) больше нельзя найти однокомнатную квартиру дешевле $350 в месяц, и многие россияне начинают выбирать другие направления, чтобы быть подальше от конфликта. Грузия, но и страны Центральной Азии. Первым среди них является Кыргызстан, где квартиры можно найти за 50 долларов, свежие фрукты и овощи в изобилии, и он известен как самая демократическая страна во всем регионе.


Yurii ci aveva preannunciato in un intervento radiofonico su Radio Blackout questa serie di interviste raccolte a Erevan il 6 giugno:

“Diaspora russa in armenia”.

Queste interviste forniscono un quadro di chi emigra che toglie dalla “zona comfort” molti lettori che culturalmente provengono “da sinistra”. Il regime putiniano viene colto – possa ciò piacere o meno – come una continuità dell’Urss e perlomeno come un suo ritorno di fiamma. Balugina qua là anche dell’anticomunismo viscerale. Permangono illusioni inoltre sui regimi occidentali. Ma se quelle economiche sono destinate a sciogliersi presto a contatto con la dura realtà del mercato del lavoro europeo, le illusioni politiche sono destinate a permanere a lungo, inevitabilmente. La fame di democrazia politica – seppur nella forma sempre più vuota che osserviamo in Occidente – rappresenta una chimera per chi ha vissuto in un regime che qualcuno degli intervistati non fa fatica a chiamare fascismo.
Allo stesso tempo – in controluce – ritorna in alcuni degli intervistati che hanno lasciato il paese un anelito a una società non solo più “stabile” ma più giusta, più equa, meno autoritaria. Un’aspirazione in buona parte evaporata da decenni nelle metropoli capitalistiche occidentali.

Tutti gli intervistati hanno rifiutato di coprirsi il viso, distorcere la voce, cambiare nome per l’occasione. Non si tratta solo o eventualmente di coraggio ma di affermare la propria dignità e identità, soprattutto in un momento difficile come quello in cui si lascia il proprio paese.


Yurii Alexeev 48 anni. In Russia prima di emigrare a maggio 2022 viveva nella provincia di Vladimir. Laureato in giurisprudenza, esperto di IT, blogger, attivista dei diritti umani.

Che giudizio esprime dell’operazione speciale in corso in Ucraina da parte dell’esercito russo?

Innanzi tutto voglio dire che mi batto ormai da 5 anni contro il regime di Putin. Penso che Putin sia un problema per la Russia ma anche per il resto del mondo. Mi batto perché le istituzioni democratiche in Russia possano conoscere un nuovo inizio.
Per quanto riguarda la guerra che Putin sta conducendo in Ucraina, e i russi insieme a Lui (Putin da solo non avrebbe potuto condurre una tale guerra senza il sostegno di parte della popolazione) la situazione è diventata così difficile che condurre una difesa dei diritti umani e politica in Russia è diventato pericoloso. Io, il giorno in cui iniziò la guerra misi sul balcone una bandiera con scritto “No alla guerra” e mi dichiarai pubblicamente contro di essa sul mio canale YouTube. Per questo venni arrestato amministrativamente per 15 giorni. Allora capii che se fossi restato in Russia sarei stato perseguito anche penalmente. La nuova legge contro il “discredito delle Forze Armate Russe” (tale legge è stata approvata appena dopo l’inizio delle operazioni e prevede condanne penali dai 3 ai 15 anni di reclusione N.d.R.) mi avrebbe colpito sicuramente perché io non riesco a stare zitto.

Pensa quindi che la maggioranza dei russi sostenga qui l’azione in corso?

Non è proprio così. Putin e la sua banda mettono in risalto tutte quelle voci e quelle posizioni a lui favorevoli ma in realtà le cose stanno diversamente. Se la domanda sul sostegno alla guerra fosse posta dai sociologi e chi svolge i sondaggi in modo corretto la percentuale di chi è contro sarebbe due o tre volte superiore a quella di chi è favorevole.

L’impressione da fuori è che ci sia una consistente maggioranza di russi favorevole, anche se poi bisognerebbe capire dove è concentrata questa maggioranza per classi sociali e di età e per posizionamento geografico…

Ritengo che alla maggioranza assoluta, parliamo forse del 60% della popolazione, il tema “guerra” non interessi. La vedono in Tv ma ne sono distanti. Poi c’è un 20% di persone contrarie ma silenti e qualcosa di meno del 20% di favorevoli.

In Occidente dopo che si è assistito inizialmente a una grande copertura dei mass-media alle proteste ora è calato il silenzio. Cosa è successo nel frattempo?

Tutta questa gente che protestava ha lasciato la Russia. Sono qui in Armenia, in Georgia, in Lituania, in Europa. Credo che degli attivi oppositori alla guerra siano rimasti circa la metà.
Io personalmente aiuto chi arriva a Erevan a trovare una sistemazione. Spesso arriva gente traumatizzata da tutti questi mesi di pressione. Gi faccio capire che già qui in Armenia hanno dei diritti.  E il flusso continua. Gli altri, coloro che sono rimasti in Russia, sono costantemente sotto la pressione delle multe, dei fermi e degli arresti.

Lei ha deciso di andarsene dalla Russia per sempre o solo temporaneamente?

Tornerò solo se non ci sarà più “Putin”. Putin come persona e il putinismo come regime. Ma quando questo avverrà non lo posso immaginare. Nessuno lo sa. Quando i bolscevichi presero il potere chi emigrò o divenne esule pensava che sarebbe presto tornato ma poi il potere sovietico restò in piedi 70 anni. Può darsi che tutto ciò si ripeta.

Se potesse sintetizzare la sua visione politica cosa direbbe?

Mi sento un democratico e un liberale allo stesso tempo, insomma sono per la libertà. La democrazia è lo strumento “tecnologico” della libertà, prendere insieme le decisioni.

Pensa di restare qui in Armenia o di trasferirsi in Europa Occidentale?

Per me esiste il pianeta terra, non mi pongo limiti. Per questo posso dire che non mi manca neppure la Russia. Se nel futuro riterrò che dovrò spostarmi in un luogo, cercherò di farlo. Per adesso posso dire a chi ha intenzione di andarsene dalla Russia: «Venite qui! C’è molto da fare!»; se molti se ne vanno ciò comunque produrrà un indebolimento del regime.

Lei pensa che questo conflitto durerà ancora a lungo?

Non lo so, nessuno lo può dire. Spero solo che l’Ucraina vinca in modo tale che i russi capiscano che ciò che hanno fatto non si può fare. Io spero che per la Russia sia una lezione. La Russia, per usare le parole di Fëdor Dostoevskij ha realizzato un “delitto” e ora dovrà subire il “castigo”.

Per come l’ha inteso qual è l’atteggiamento degli armeni di fronte al conflitto russo/ucraino?

Lo osservano da lontano. Tendono a vedere questo scontro attraverso le lenti della crisi con l’Azerbaijan e la questione del Nagorno-Karabakh. Potremmo dire che la maggioranza non si schiera e solo una piccola parte “realisticamente” sostiene che vista la situazione geopolitica non si può non essere alleati con Putin. Ma una parte significativa ha ancora il dente avvelenato perché il Csto (Collective Security Treaty Organization, l’alleanza militare a guida russa N. d. R.) non intervenne a fianco dell’Armenia nel 2020 quando ci fu l’esplicita richiesta da parte del governo di Nikol Pashinyan


 

Ivan, 26 anni di Mosca. Specialista IT.

 

Perché ha deciso di venire a vivere a Erevan?

In Russia c’era una situazione molto difficile e poco intellegibile. I nostri politici erano assai ambigui sulla questione della mobilitazione generale. E non era neppure chiaro se le frontiere sarebbero rimaste aperte o no. Anche i cosiddetti “volontari a contratto” non si capisce se siano tali o meno. E perciò ho deciso di andarmene.
Ho partecipato a qualche manifestazione a partire dal 2017. Soprattutto quando ci furono le elezioni comunali di Mosca nel 2019. Ma ne sono rimasto deluso. Molta gente ha partecipato a delle proteste dal 2012, ma purtroppo è cambiato ben poco. Per cui ho capito che si rischiava troppo senza alcuna prospettiva e ho pensato che sarebbe stato meglio preoccuparmi del mio futuro. Ora ci sono molti programmatori e specialisti IT single come me che hanno lasciato la Russia e sono venuti in Armenia. Altri sono dubbiosi poiché dovrebbero trasferire tutta la famiglia in tal caso.

Lei ha fatto il servizio militare?

No sono stato riformato. Come si fa a essere riformati penso che tutti lo sappiano. Potrei essere mobilitato solo se fosse dichiarata formalmente la guerra. Cosa che per ora non è stata fatta.

Pensa di tornare in Russia?

Difficilmente tornerò se non cambierà il regime. Potrei tornare qualche volta per incontrare amici e parenti, ma non di più. Tornerò solo se si imporrà un sistema democratico.  Ora sto valutando diverse proposte di lavoro a distanza. Con qualche azienda armena o europea. Mi piacerebbe vivere in qualche paese europeo per un certo periodo.

Pensa che questa situazione durerà a lungo?

Vedo che molti paesi stanno cercando di isolare la Russia e c’è il rischio che il paese diventi una Nuova Corea del Nord. Vedo anche che l’Occidente ha i suoi progetti per ricostruire l’Ucraina ma non ho idea di come si ricostituirà la Russia. Non vedo nessuno a cui interessi –oltre che a noi russi – che la Russia diventi democratica. Per molti in Occidente se la Russia si trasformerà in una Nuova Corea del Nord non è poi così importante. Dipenderà quindi molto da noi russi. Si fa un grande errore se si confondono i russi con il loro attuale regime politico.

 


La fuga degli esperti di informatica.


Albert 28 anni, insegnante di Novosibirsk. Ha partecipato al movimento politico di Navalny.

Perché ha deciso di venire in Armenia?

Per me con la guerra è iniziato un periodo assai difficile. Era davvero difficile per me vivere in un’atmosfera da stato fascista e di odio. Non posso accettare che dei miei concittadini sostengano la guerra e pensino sia normale combattere contro gli ucraini, non posso accettare che si possa tentare di risolvere le controversie con la forza.

È una scelta che ha fatto da solo?

Ne ho parlato con chi faceva parte del movimento di Navalny prima della sua liquidazione, ma la mia scelta è stata individuale. Per me questa vicenda è anche una tragedia personale, qualcosa di devastante dal punto di vista umano.

Lei ha fatto parte del movimento di Navalny in quale periodo?

Non sono mai stato affiliato ma ho partecipato a tutte le fasi del suo sviluppo a Novosibirsk e certamente ancora oggi mi batto per la liberazione di Navalny e perché possa tornare alla vita politica russa. Tra il 2017 e il 2020 sono stato molto attivo sia nelle manifestazioni sia nelle campagne elettorali. È stato il più bel periodo della mia vita.

Ritiene che oggi sia insensato lottare in Russia per un cambiamento?

Io penso che per ognuno di noi sia possibile fare le sue scelte. Io credo che per me in questo momento restare in Russia e tentare di cambiare le cose non abbia senso. Tutti i mass media di opposizione come “Novaya Gazeta” e il canale televisivo Dozhd sono stati messi fuori gioco. Cercare di ridurre il tasso di fascismo è stato vano. Io sono preoccupato e temo per chi la pensa come me ed è restato in Russia. E sono felice di ogni persona che incontro qui in Armenia per il solo fatto che sia libero e vivo.

Pensa quindi che ora vivrà in Armenia a lungo?

Fino a quando Putin resterà al potere io non tornerò in Russia. Solo se si imporrà la democrazia potrò valutare la possibilità di tornare. Non credo però che resterò tutta la vita in Armenia. È un bel paese e molto ospitale ma non amo molto i suoi valori patriarcali e “tradizionali”. Per esempio l’atteggiamento verso i gay e le lesbiche. Li rispetto ma non li condivido. Pensa che ci debba essere un pluralismo su come la gente intende vivere. Per cui adesso intendo qui riprendermi moralmente ma poi vorrei cercare di trovare lavoro in Europa.

Pensa che le sanzioni che colpiscono direttamente lo stile di vita dei russi come quelle sul cinema, lo sport e la cultura siano utili o aiutino Putin a presentarsi come una vittima della russofobia per unire intorno a sé parte dell’opinione pubblica?

Ci sono delle sanzioni che conducono in Russia a un deficit di medicinali e ciò ha delle ricadute tragiche per chi non ha possibilità di recarsi all’estero per curarsi. Questo non è accettabile. Io sono contro le sanzioni settoriali che colpiscono buona parte della popolazione russa e favoriscono la propaganda del regime. Bisognerebbe puntare ancora di più sulle sanzioni individuali. In questo momento però sarebbe importante soprattutto fermare il bagno di sangue e quindi non dare la possibilità alla Russia di produrre armi. Tutto il resto è secondario.

Pensa che ci potrà essere a medio termine un cambiamento progressivo in Russia?

Che dire, ci abbiamo provato in questi anni. Invece siamo arrivato al fascismo.

Quindi nessuna speranza?

La speranza c’è sempre. Per esempio io ho un’ottima opinione di una nazione europea che è riuscita a superare il fascismo come la Spagna. Per me sarebbe molto interessante conoscere questa realtà, capire come ha superato l’eredità del fascismo e come quindi potrebbero prodursi tali tipi di mutamento anche in Russia. Però penso che dovranno passare alcune generazioni perché la Russia si metta sulla strada della democrazia definitivamente.

Credo che i mutamenti in Russia potranno avvenire più rapidamente di quanto si creda perché si tratta di un sistema molto personalistico anche se poi per consolidare i cambiamenti ovviamente ci vorrà del tempo. Il fascismo si basi sull’odio, sulla divisione dall’altro. Il fascismo è come una droga, finisce per dare dipendenza. Quando hanno iniziato a dire il Tv che gli ucraini erano i cattivi, erano da odiare, molti hanno iniziato a farlo. Purtroppo troppi si sono abituati a odiare.


Jaroslav, 25 anni, di Samara. Ha lavorato nel settore del commercio all’ingrosso, ora nell’IT.

Qui si vede l’intervista / видеоинтервью можно скачать здесь

Perché è venuto in Armenia?

Per le stesse ragioni di molti, perché la guerra, e non una “operazione speciale” come dicono, sta continuando e temo la mobilitazione. Ma già dal 2014 con l’annessione della Crimea e l’inizio delle sanzioni, sono iniziate a peggiorare le condizioni di vita. Ma non è solo questo: ho iniziato a percepire che nel paese non si assimilavano più le nuove tecnologie americane, non c’erano più start-up, insomma che stavamo arretrando. Non recepivamo più le novità dei paesi democratici avanzati.

L’idea che ci fossimo presi un pezzo di terra come la Crimea – nel mondo contemporaneo dove per le nuove tecnologie permettono di lavorare e vivere in ogni dove – mi sembrava arcaica. Nel Ventunesimo secolo avere ancora tali ambizioni imperiali mi sembrava non solo sbagliato ma fuori tempo. Già allora iniziai a riflettere dove avrei potuto trasferirmi, pensavo alla Germania soprattutto.

E poi…

Quello che è avvenuto il 24 febbraio nessuno se lo aspettava, nessuno ne sapeva nulla. In un attimo capisci che tutti i tuoi piani per il futuro saltano in aria e sei costretto a fare un bilancio finale di tutto ciò. Ecco perché ora sono in Armenia.

A Samara, la gente come ha visto il conflitto?

Mia madre e la mia fidanzata sono nettamente contrarie, mentre mio padre lo sostiene. Lui ritiene che andandomene mi sono dimostrato un traditore della patria. Ma non ritengo di esserlo. Questa non è la Seconda guerra mondiale, non ci stanno invadendo, non c’è nessun pericolo per le nostre persone care o i nostri amici.

Chi è favorevole alla guerra guarda all’America come a un mondo che degenera e allora capisci immediatamente da dove vengono queste idee, si originano dalla televisione. Forse il 60% delle persone che frequento provano a dare una giustificazione in qualche modo a questa guerra. Si tratta di persone martellate dalla propaganda che continua a ripetere all’unisono: «State tranquilli, tutto questo passerà, presto tutto finirà!». Come dicono i nostri dirigenti, “tutto sta andando secondo i piani”. Molti credono che passeranno ancora 3-4 mesi e tutto tornerà come prima.

Mi ha detto che la sua ragazza è rimasta lì. Vuole venire via anche lei?

Sì attende solo che ci siano le condizioni per farlo. Io voglio definire prima che fare nel futuro. Stabilizzare la mia situazione qui o in un altro paese. Aver da vivere insomma.

Non le sembra che così la Russia piano piano perderà tutta la forza-lavoro più specializzata, le persone più attive e intelligenti? Che il paese si impoverirà ed emergeranno solo gli “yes-man”?

Ai tempi dell’Urss non tutti volevano andare via ed era difficile andarsene. Anche ora non è facile, è qualcosa che provoca una grande tensione morale e quindi ci sarà ancora chi pazienterà. La situazione resterà probabilmente instabile anche quando Putin morirà…. Può darsi che ci sarà una continuità di regime con Patrushev (il più accreditato ora a prendere il posto di Putin nel futuro. È stato a capo del Fsb N. d. R.). Non è detto che si formerà una massa critica per il cambiamento. Nessuno può saperlo. Del resto nessuno si aspettava ai tempi che l’Urss crollasse.

Dunque la situazione resta aperta?

Sì c’è gente che ancora sostiene il regime ma con cui va tenuto aperto il dialogo, potranno cambiare idea. Prima o poi la pace, in ogni caso, arriverà, anche se non sappiamo quando sarà. E sono ottimista, non ci sarà la guerra nucleare. Ogni regime basato su un grande leader quando muore produce una grande instabilità. Successe perfino con Mao in Cina. Bisognerà muoversi verso una pace mondiale. Lentamente e sarà difficile ma è una strada che deve essere percorsa. Il processo di democratizzazione sarà lungo, deve essere basato su nuove persone e su nuove garanzie. E come russo spero che si arrivi a una stabilità come da voi in Europa. Insomma un mondo senza fame, guerre e grandi migrazioni e dove si pensi al progresso per tutti, è possibile.


Dmitry Andreyanov, 55 anni. Rostov sul Don. Giornalista prima della Tv di stato poi del canale di opposizione Dozhd (ora chiuso).


Lei viene da Rostov sul Don, una regione un po’ di confine tra il Donbass, dove ora si combatte, e il resto della Russia…

Sì è così. Già prima del 24 febbraio tutto quando succedeva ci passava sotto gli occhi. Dove vivevo io si vedevano passare le truppe e si sentivano ogni tanto anche delle esplosioni. Abbiamo visto passare i profughi già a partire dal 2014 e anche adesso prima di andarcene (sono emigrato in Armenia con tutta la famiglia, io, mia, moglie e i nostri due figli).

Lei come giornalista che viveva in quelle zone ha avuto la sensazione che si sia trattata di una guerra che è continuata senza soluzione di continuità per 8 anni?

La guerra è proseguita tra il 2014 e il 2015. Poi c’è stato un periodo di congelamento e di cessate il fuoco. E poi è ripresa già all’inizio del febbraio 2022. Quando si verificavano degli eventi importanti su scala internazionale, allora c’era una qualche ripresa del conflitto, ma complessivamente la situazione era tranquilla. Nelle due Repubbliche autoproclamate erano state aperte delle banche, c’era una qualche attività commerciale e comparvero anche attività produttive anche se non erano riconosciute, neppure dalla Russia. Provavano anche a esportare il carbone in Russia…

Dalla parte del confine ucraino c’era il blocco completo?

Non proprio. Le due repubbliche cercavano di commerciare anche in Ucraina, usando sulla “linea di contatto” dei metodi di corruttela. Insomma il contrabbando esisteva. Inoltre gli anziani e invalidi di Lugansk e di Donetsk ricevevano le pensioni ucraine. Ma per riceverle bisognava recarsi in Ucraina. Ricevevano 3 pensioni: quella russa, quella ucraina e quella della Repubblica. Cifre misere tutt’e tre, naturalmente.

Dopo il 2014 furono molti quelli che emigrarono dalle Repubbliche verso la regione di Rostov?

Sì tanti. Va capito che queste due Repubbliche autoproclamate sono una “zona grigia” dove non ci sono leggi certe, dove non c’è attività lavorativa legale. Chi ha in mano un mitra decide quali sono le leggi. E così molti nel tempo sono arrivati a Rostov ma poi si sono sparpagliati in tutta la Russia, perfino in Kamchatka. Arrivarono complessivamente 1.230.000 profughi che poi si dispersero in giro.

Lei faceva attività giornalistica nel Donbass occupato?

Fino al 2018. Ci si doveva prendere dei rischi in quanto la legge era qualcosa che andava interpretata e da ciò ne discendeva l’approccio di quelle cosiddette autorità. Poi venne introdotto un sistema di accreditamento per i giornalisti. Il primo canale russo cercò di accreditarmi ma non se ne venne a capo: neppure dopo l’interessamento del ministero degli Esteri Io non venni accreditato, mentre altri sì.

Aveva la sensazione che tutti coloro i quali erano contrari alle Repubbliche se ne fossero andati in precedenza o una parte era rimasta?

Difficile dirlo, non ci sono statistiche al riguardo. La gran parte della gente che si accorse allora che si stava imponendo il cosiddetto “Mondo russo” si rifugiarono in Ucraina. Gli altri dal 2016 furono raggruppati in campi di concentramento temporanei e poi molti tornarono a casa. Pensavano che il Donbass sarebbe diventata la nuova Crimea con tanti investimenti russi e un certo tenore di vita. Cosa che ovviamente non divenne mai realtà.  Anche perché al tempo Putin, a essere onesti, non aveva fatto alcuna promessa. Per la Russia questa regione è sempre stata solo una piattaforma da cui condurre una guerra di aggressione.

In Italia esiste una minoranza dell’opinione pubblica che ritiene che nel 2014 sia stata condotta una guerra tra battaglioni ipernazionalisti o nazisti come l’Azov e dei battaglioni antifascisti delle Repubbliche cosiddette popolari. Cosa può dire a tale proposito?

In Ucraina non c’è stata a mio avviso alcuna guerra civile. C’è stata un intervento diretto della Federazione Russa nel territorio ucraino con l’occupazione di tre provincie. Il ruolo fondamentale che venne giocato dall’esercito russo nel 2014, ormai non è un segreto per nessuno. L’uso di armi sofisticate e di missili lo dimostra con evidenza come del resto l’uso dell’aviazione. Anche alcuni reparti del Donbass ovviamente combatterono ma furono ben equipaggiati dalla Russia. E una buona fetta di costoro erano avventuristi e mercenari. L’esercito ucraino ben poco organizzata poté fare ben poco in quella situazione. Anche perché del resto era ben poco motivato a combattere.

Da quante tempo fa il giornalista?

Dal 1996 sono giornalista televisivo soprattutto su questioni politico-sociali. Ma quel tipo di giornalismo che facevo prima, in Russia già non è più possibile. Ormai negli ultimi due anni, ogni cosa che filmavi non andava bene per la polizia. Molte volte siamo stati fermati mentre riprendevamo qualcosa. Prima si poteva mettere in discussione le loro decisioni amministrative, ora hanno ragione “per principio”. I giudici ogni volta ripetono come un mantra «non abbiamo motivo di non credere a quanto sostengono le forze dell’ordine». E non importa quali prove tu possa portare a tuo sostegno, magari portando la testimonianza che qualcuno è stato picchiato senza motivo, la canzone è sempre quella: “non abbiamo motivo di non credere a quanto sostengono le forze dell’ordine”.

Lei con la sua famiglia ha deciso di andarsene per sempre?

Ce ne siamo andati subito dopo il 24 febbraio, appena è stato possibile. Appena abbiamo raccolto i mezzi economici (per ora a Erevan si possono spostare i soldi) fatto il passaporto, e quindi abbiamo fatto le valigie e siamo andati in aeroporto. Del resto non avevamo nessuna voglia di finire in galera come disertori!

Non so se torneremo. Deve cambiare qualcosa neppure tanto a livello di regime quanto qui, nell’animo. Oggi come oggi direi, per il mio stato morale, che non voglio ritornare in Russia mai più. Non voglio più essere associato con il paese in cui ho vissuto tutta la mia vita. Oggi come oggi non riesco a vedere nulla di positivo in quel paese. Se torno indietro torno all’epoca del Komsomol (la gioventù comunista dell’epoca sovietica N. d. R.), al passato sovietico, al mio lavoro all’aviazione, alla perestrojka, e via via non riesco a vedere niente di soddisfacente.

Qualcuno mi dice: “Ma lei a chi servirà in Occidente?”, io rispondo: “Cosa servo io alla Russia?” In Russia non sono né cittadino, né elettore, ma devo comunque pagare le tasse. Io da solo pago lo stipendio di due poliziotti. Sono stato scrutatore a quasi ogni elezione e ogni volta è finita che è arrivata la polizia e mi cacciavano via. Se fossi gay potrei essere ammazzato solo per essere tale. Ecco perché io non voglio tornare in quel paese.

Potrà secondo lei avvenire nel futuro un cambiamento in Russia?

Come dicevano i classici del marxismo ci vogliono le “condizioni oggettive”. Oggi in Russia ci sono le “precondizioni” solo per una dittatura ancora più dura e sanguinosa. I sondaggi che appaiono sulla guerra attuale dimostrano che esiste una maggioranza favorevole a questa guerra e potenzialmente a una dittatura ancora più dura. In realtà la maggioranza dei russi sarebbe contro la guerra: ma da una parte c’è una minoranza che abbandonato il paese e ora si trova da qualche altra parte e dall’altra una maggioranza che però in qualche modo la giustifica. “Il Capo ha deciso in questo modo, avrà avuto le sue ragioni”, si dice. Oppure: “Noi eravamo contro la guerra ma non c’erano altre possibilità!” Insomma c’è chi è categoricamente contrario e chi è contrario ma la giustifica o prova a farlo.

Ma non crede che se le cose non andranno così bene in Ucraina e all’interno si creeranno delle possibilità di cambiamento?

Credo che molti russi non siano diversi dai cubani che vivono poveramente e sotto la dittatura ma ritengono che sia sempre e solo colpa degli americani. La colpa anche in Russia sarà degli Occidentali che non ci hanno capito, che ci hanno emarginato e così via. Purtroppo abbiamo avuto tutto il mondo contro, si dirà.

Pensa che lei è la sua famiglia resterete qui o vi trasferirete altrove?

Noi sfruttiamo l’occasione che ci ha dato Putin, per girare il mondo per quanto avremo le possibilità economiche. Può darsi che quando saremo molto anziani io e mia moglie, silenziosamente torneremo a casa. Avevo sempre promesso a mia moglie che l’avrei portata a Kiev, dove sono stato studente in gioventù; le ho detto: «Per ora Kiev non si può fare. Ti basterà Parigi?».

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I fiori avvelenati di Atacama https://ogzero.org/i-fiori-avvelenati-di-atacama/ Tue, 14 Jun 2022 15:05:41 +0000 https://ogzero.org/?p=7915 Riprendiamo il fotoreportage realizzato da Alice Pistolesi per l’“Atlante dei conflitti e delle guerre”, in cui viene mostrato lo sfruttamento delle risorse minerarie in Cile a scapito delle popolazioni native e con ripercussioni sull’ambiente in un paese già provato dal cambiamento climatico. Quanto è davvero “green” la produzione di ciò che è utile al mondo […]

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Riprendiamo il fotoreportage realizzato da Alice Pistolesi per l’“Atlante dei conflitti e delle guerre”, in cui viene mostrato lo sfruttamento delle risorse minerarie in Cile a scapito delle popolazioni native e con ripercussioni sull’ambiente in un paese già provato dal cambiamento climatico. Quanto è davvero “green” la produzione di ciò che è utile al mondo per la sua svolta verde? Le foto sono state scattate in Cile nel dicembre 2018 e la mostra è stata presentata a Villa Lascaris a Pianezza il 12 giugno 2022.


L’antica lotta tra lavoro e ambiente, tra interessi economici e tutela del territorio ha in Cile e nelle sue miniere uno dei più significativi campi di battaglia. Il Cile è un paese minerario, ricco di risorse dal deserto di Atacama alla Patagonia. Il Nord è pieno di giacimenti di rame, ferro, molibdeno, piombo, zinco, oro, argento e litio. Moltissimo carbone si trova poi nella macro regione Meridionale. Il Cile è il primo produttore mondiale di rame e di litio, il terzo di molibdeno, il quinto di argento, il diciottesimo di oro. L’attività legata all’estrazione di minerali e alla loro esportazione rappresenta circa un terzo del Pil.

Dietro l’imponente attività estrattiva del paese non può che nascondersi il pericolo ambientale: su un totale di 205 conflitti ambientali mappati dall’Osservatorio dei conflitti minerari in America Latina, almeno 35 interessano il Cile.

Lo stato è uno più vulnerabili al climate change: possiede, nonostante produca solo lo 0,25% delle emissioni globali di gas serra, sette dei nove fattori di rischio stabiliti dalla Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici. Nel paese il settore industriale e minerario è responsabile del 77,4% delle emissioni di gas serra.

Questa mostra ci porta al Nord del Cile, nei suoi paesaggi e nelle sue contraddizioni. Si parte dalla celebre Chuquiquamata, la più grande miniera a cielo aperto del mondo e, attraverso il villaggio costruito all’interno del comparto minerario e abbandonato nel 2009, si approda nel deserto di Atacama, dove si trova tra il 27% e il 30% delle riserve mondiali di litio. Un elemento essenziale per le batterie di laptop, telefoni cellulari e auto elettriche, considerato uno dei simboli dell’economia verde. Difficile però stabilire se sia davvero green o se le sue conseguenze siano semplicemente ignorate.

Scenari che ci parlano, oltre che di ambiente e lavoro, anche di progresso e transizione ecologica, di quanto si continui a pretendere dalla Terra per inseguire uno sviluppo sempre meno sostenibile.

Chuquiquamata è la più grande miniera a cielo aperto del mondo e opera dal 1910. Gli scarti della miniera hanno prodotto un conflitto ambientale a Quillagua, un’oasi nel bacino del fiume Loa, nel Comune di María Elena a nordovest di Calama. Lì vivevano tra le 2000 e le 3000 persone, sfollate verso la città di Calama a causa della contaminazione delle acque del fiume con sostanze chimiche come xantate e isopropanolo, detergenti e metalli pesanti, tutti elementi utilizzati nei processi di estrazione del rame. L’inquinamento delle acque del Loa ha causato la graduale morte di colture e bovini. Dal 2020 si è iniziato a lavorare in sotterranea. Questo ha comportato molti cambiamenti, tra cui la notevole diminuzione dei lavoratori.

Nel complesso della miniera di Chuquiquamata fino al 2009 hanno abitato oltre 15.000 lavoratori con le rispettive famiglie. Oggi è un villaggio fantasma visitato ogni anno da migliaia di turisti grazie alle visite guidate effettuate dalla stessa azienda che gestisce la miniera, la Codelco.
I minatori che abitavano il villaggio vivono ora a Calama, a 9 chilometri da Chuquiquamata. La città ha un alto livello di contaminazione ed è una delle più inquinate del paese. La principale causa di morte è il cancro e si contano più di 2.000 casi di malattie respiratorie ogni inverno.

Il territorio che circonda il vecchio villaggio minerario e la strada che collega la città di Calama a Chuquiquamata è cosparso da “torte”, montagnole di terreno scavato e di scarto minerario. Quantificare chi si ammalerà a causa dell’arsenico respirato in anni di lavoro, ma anche di vita dentro il villaggio, non è a oggi possibile.

Il Salar de Atacama è uno dei più grandi del continente dopo il Salar de Uyuni (Bolivia). Si trova nel comune di San Pedro de Atacama, la più grande destinazione turistica del Cile. Qui si trova tra il 27% e il 30% delle riserve mondiali di litio; l’80% si trova in America Latina, nel cosiddetto ‘triangolo del litio’, ovvero la regione al confine tra Cile, Argentina e Bolivia. In questi tre Stati il minerale si trova nei deserti salati: qui il litio è presente nell’acqua dei laghi salati sotterranei che viene portata in superficie e fatta evaporare in grandi vasche. Ad estrarre litio ad Atacama sono principalmente le società Sociedad Química y Minera (SQM) e ALBEMARLE, che costituiscono due dei principali gruppi economici mondiali nell’estrazione della risorsa. In previsione dell’aumento della domanda di litio, la SQM, società privatizzata sotto la dittatura di Pinochet e i cui familiari possiedono ancora oggi parte rilevante delle azioni, promette di triplicare la produzione entro il 2030.

L’estrazione del litio, che risale alla metà degli anni Ottanta, ha nel tempo causato gravi danni agli ecosistemi e alle comunità. Questo secondo l’Osservatorio Plurinazionale di Salares Andinos, un gruppo nato a San Pedro de Atacama e che riunisce rappresentanti di comunità, organizzazioni e ricercatori provenienti da Cile, Argentina e Bolivia, preoccupati per le conseguenze, l’intensificazione e l’espansione dell’estrazione del litio nel triangolo delle saline andine e le altre associazioni ambientaliste. L’osservatorio ha rilevato che con il tempo si è danneggiata la distesa di sale, prosciugando gradualmente le sue zone umide. Queste aree e le oasi del bacino di Atacama hanno anche il compito di regolare la temperatura del deserto e catturare la CO2: sono armi vive contro il cambiamento climatico. Secondo gli studi dell’Università di Antofagasta in Cile, per ogni tonnellata di minerale estratto sono necessari due milioni di litri di acqua.

Nella comunità di San Pedro de Atacama convivono quattro fattori di rischio: presenta aree aride o semi-aride, è incline a disastri naturali, ha aree soggette a siccità e desertificazione e ecosistemi montuosi. Nel territorio le alte temperature e l’estrema aridità (il deserto di Atacama è considerato l’area più arida della terra) si combinano con le violente piogge estive che causano morti, inondazioni, erosione ed enormi perdite economiche. Secondo i ricercatori, per soddisfare il crescente mercato delle auto elettriche, il già sovrasfruttato Salar de Atacama non sarà sufficiente, e sarà necessario sfruttare più falde acquifere e saline in territori indigeni Atacameños o Lickanantay, Colla, Quechua e Aymara, andando ad impattare su altre aree protette.

Nell’area di San Pedro de Atacama vivono 11mila abitanti, di cui la metà sono indigeni, per la maggior parte Atacameños. Il costante intervento di tutte le società minerarie della zona ha generato forti divisioni, conflitti, inganni e resistenze nella convivenza comunitaria. L’estrazione mineraria indiscriminata colpisce direttamente le comunità, che devono affrontare gravi problemi di approvvigionamento idrico per l’agricoltura, la pastorizia (allevamenti di lama in primis) e per il turismo locale. Secondo gli osservatori, gli accordi e le compensazioni che le società minerarie hanno concluso nel territorio hanno causato divisioni e tensioni tra la popolazione. Le aziende hanno sfruttato l’assenza dello Stato per soddisfare numerosi bisogni primari della popolazione locale e sottoscrivere accordi di assistenza in cambio dell’accettazione delle aziende e delle gravi conseguenze socio-ambientali dell’estrazione mineraria nei loro territori.

Fenicotteri nella Laguna Chaxa. Lo squilibrio idrico collegato all’estrazione sta provocando il prosciugamento di fiumi e falde acquifere e sta interessando i laghi e le zone umide ai margini della distesa di sale e nelle montagne, ovvero ecosistemi che ospitano specie endemiche altamente vulnerabili, molte delle quali protette. Nel territorio, secondo gli osservatori, a causa degli effetti dell’estrazione e del riscaldamento globale, stanno scomparendo i fenicotteri e altre specie autoctone del salare.

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n. 19 – L’Afghanistan e i corridoi umanitari fantasma https://ogzero.org/corridoi-umanitari-dall-afghanistan-abbandono-e-false-promesse/ Sat, 28 May 2022 20:34:17 +0000 https://ogzero.org/?p=7731 Procede il lavoro accurato di Fabiana di ricostruzione dei “percorsi migranti” e delle loro cause in un’ottica giurisprudenziale, che evidenzia sempre più le contraddizioni razziste e colonialiste dell’Occidente persino in quell’ambito che dovrebbe distinguerlo dalla barbarie autocratica, dimostrando quanto tutto sia infingimento e gioco delle parti. Questa volta Fabiana si occupa dei corridoi umanitari per […]

L'articolo n. 19 – L’Afghanistan e i corridoi umanitari fantasma proviene da OGzero.

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Procede il lavoro accurato di Fabiana di ricostruzione dei “percorsi migranti” e delle loro cause in un’ottica giurisprudenziale, che evidenzia sempre più le contraddizioni razziste e colonialiste dell’Occidente persino in quell’ambito che dovrebbe distinguerlo dalla barbarie autocratica, dimostrando quanto tutto sia infingimento e gioco delle parti.

Questa volta Fabiana si occupa dei corridoi umanitari per gli afgani tanto sbandierati quando già in agosto ci occupavamo della terrificante situazione afgana poi scomparsa dai radar geopolitici e creatasi in seguito all’assurdo accordo tra Trump e i Talebani – messo in atto da Biden. Un abbandono repentino che ha causato le attuali condizioni in cui versano le persone rimaste intrappolate nel regime talebano, una responsabilità ormai sancita anche dall’ispettorato per l’Afghanistan istituito dal Congresso. Il capo del Sigar, Sopko ha scritto: «La limitazione dei raid aerei (contro le forze avversarie) dopo la firma dell’accordo Usa-Talebani, ha lasciato l’Andsf senza un vantaggio chiave. Molti afgani – ha aggiunto – pensavano che l’accordo Usa-Talebani fosse un atto di malafede e un segnale che gli Stati Uniti stavano consegnando l’Afghanistan al nemico e che si precipitavano a lasciare il paese».
Anche molti afgani hanno lasciato il paese o vorrebbero farlo, ma si trovano di fronte a un nuovo abbandono con false promesse di corridoi umanitari; Fabiana incrocia nuovamente il loro percorso, già altre volte descritto – per esempio sulla rotta balcanica o al confine bielorusso.


Quando nell’agosto del 2021 i talebani hanno preso possesso della città di Kabul, assicurandosi il controllo della totalità del territorio afghano, l’opinione pubblica internazionale e i governi dei paesi Nato – prima tra tutti l’amministrazione americana guidata da Joe Biden – sono rimasti attoniti dinanzi a una tale rapidità dell’ascesa al potere da parte del gruppo estremista islamico. A ciò è seguito oltretutto un improvviso cambiamento dello scenario politico, militare e sociale: l’esercito afgano è stato costretto ad arrendersi, si è resa necessaria l’evacuazione immediata – oltre che dei cittadini afghani – degli esponenti dei membri del precedente esecutivo guidato da Ashraf Ghani e dei cittadini stranieri presenti in Afghanistan a qualsiasi titolo in quel momento, mentre le forze internazionali militari – stanziate nel territorio da oltre venti anni – convergevano verso una repentina ritirata. Una disfatta totale per l’intero versante occidentale dell’emisfero che tuttavia non si è determinata certamente nell’arco di dieci giorni ma più precisamente nel corso di diciotto mesi, ossia dalla stipula del famigerato accordo di Doha – siglato nel febbraio del 2020 – che ha visto sedere al tavolo dei negoziati, accanto all’amministrazione Trump, i “rappresentanti diplomatici” dei talebani, primo tra tutti Abdul Ghani Baradar che Islamabad per anni si è rifiutata di consegnare agli Stati Uniti.

Nel corso dei negoziati gli Stati Uniti – accecati dalla volontà di riconquistare consensi da parte dell’opinione pubblica interna americana e di occuparsi principalmente di limitare l’espansionismo di Cina e Russia – si sono accontentati di vaghe promesse da parte talebana, acconsentendo anche alla liberazione di molti prigionieri appartenenti al gruppo. Inoltre, accanto a una rinnovata veste diplomatica del movimento dei taliban (c.d. corrente degli studenti pashtun) al tavolo internazionale, si è affiancata – nei mesi immediatamente precedenti la proclamazione del nuovo Emirato islamico – da parte del gruppo estremista un’opera di persuasione e di captazione dei consensi di alcuni dei più rilevanti esponenti delle comunità locali afgane – situate soprattutto nel Nord e nell’Ovest del paese – di alcuni miliziani, nonché di dissidenti dell’esercito nazionale che ha accelerato la conquista del territorio. I paesi Nato che avevano seguito immediatamente gli Usa venti anni prima nella “guerra al terrorismo” – senza che per essa fosse stato previsto alcun exit plan – ad agosto del 2021 hanno scelto non solo dunque di chinare il capo e concludere il proprio impegno militare, ma anche di voltare le spalle ai civili lì intrappolati e che a oggi – a parte un primo piano di evacuazione – sono stati lasciati completamente a loro stessi. C’è da dire che vista l’attuale regressione del paese in meno di un anno dal punto di vista del rispetto dei diritti fondamentali nei confronti della popolazione civile (oltre che da quello economico-finanziario) avvenuta con la proclamazione dell’Emirato islamico, facili appaiono le conclusioni in merito all’effettiva utilità del conflitto, considerate la totale incapacità della creazione, da parte delle forze occidentali, di un effettivo sistema di state building come risultato, il numero ingente dei costi che questo ha comportato, nonché il numero di vite perse. Pertanto l’effettiva accoglienza dei profughi afgani sarebbe oggi l’unico passo di civiltà che potrebbe consentire a tutti gli stati che hanno partecipato al conflitto di acquisire una qualche credibilità rispetto all’opinione pubblica di un popolo che già in passato ha mostrato sconcerto e rabbia a causa dell’abbandono da parte del mondo occidentalenello specifico da parte degli Stati Uniti che misero in atto dinamiche limitate alla sola militarizzazione e all’addestramento della popolazione civile e con la medesima preoccupazione di oggi ossia il contenimento della Russia – l’allora Unione Sovietica – alla quale ora però, come detto, si affianca nell’alveo dei timori egemonici statunitensi, la Cina.

Per quanto riguarda l’Italia l’idea dell’accoglienza immediata dei profughi afgani è stata prontamente sollevata dalle associazioni comprese quelle religiose del terzo settore e dalle organizzazioni internazionali con la richiesta dell’attivazione dei cosiddetti corridoi umanitari.

È un’espressione questa che nell’ultimo periodo con la “crisi afgana” si è quasi svuotata del suo significato: un classico di quando si ripete all’infinito lo stesso insieme di parole senza specificarne però il significato in concreto. I corridoi umanitari vengono infatti menzionati attraverso i consueti canali mediatici ogni qual volta si verificano flussi migratori rilevanti ma spesso senza che vengano approfonditi e analizzati gli aspetti strutturali di tale “rimedio” e senza chiedersi se questi possano costituire soluzioni effettivamente attuabili nel lungo periodo per affrontare in modo sistemico il “problema” della mobilità umana. Si cerca pertanto in questa sede di dare, preliminarmente all’analisi del fallimento del loro impiego rispetto ai profughi afgani almeno fino a oggi, alcune nozioni fondamentali dell’istituto in oggetto.

Va in primo luogo specificato che i corridoi umanitari non sono previsti da alcuna legge, né dal nostro ordinamento giuridico, né da quello dell’Unione europea, né tanto meno dall’insieme di norme che costituiscono il diritto internazionale.

I corridoi umanitari infatti altro non sono che progetti che consentono – mediante l’intervento delle associazioni del terzo settore e delle organizzazioni internazionalia determinate categorie di individui, in condizioni di vulnerabilità e presenti in paesi diversi da quello di origine, di giungere nel territorio dell’Unione – in questo caso l’Italia – attraverso vie legali e sicure come i voli di linea, evitando i cosiddetti “viaggi della morte” per poter poi presentare domanda di protezione internazionale. L’Italia ha fatto da apripista nella conduzione di tali iniziative mediante l’attività di impulso – iniziata nel 2015 – dalla Comunità di Sant’Egidio in collaborazione con la Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia e la Tavola Valdese.

Monaco di Baviera, 2015, rifugiati da Siria, Afghanistan e Balcani.

I primi profughi arrivati nel nostro paese attraverso tale prassi sono stati prevalentemente nuclei familiari di cittadini siriani provenienti dal Libano, nel 2016. Dal 2015 a oggi i progetti sono stati tuttavia rinnovati più volte e sono aumentate anche le associazioni e le organizzazioni che hanno aderito a tali iniziative come Caritas Italiana, e altre non aventi carattere ecumenico come l’Arci. Si è implementato altresì il novero dei paesi di transito che hanno consentito la partenza attraverso tali vie legali e sicure (Etiopia e Grecia – in particolare dall’isola di Lesbo – Giordania, Turchia, Kenya) per cui dal 2016 sono arrivati mediante i corridoi umanitari circa 3000 profughi. Anche se apparentemente questo può sembrare un numero esiguo – considerando i milioni di profughi attualmente presenti nel mondo che fuggono da conflitti armati o da situazioni di violenza generalizzata – se si considerano gli aspetti peculiari di tali progetti, il risultato è sicuramente rilevante e apprezzabile tanto da essere definiti dal parlamento europeo una “best practice” italiana da replicare in tutti gli altri paesi dell’Unione. Oltretutto il fatto che siano stati portati avanti dei progetti di tale tipo, in assenza di un impianto giuridico che li regolamenti, ha del sorprendente e lo ha ancor di più se si pensa che

non solo l’attività di impulso, ma anche la gestione di tutti i costi dei corridoi umanitari sono a carico esclusivamente delle associazioni proponenti e delle realtà ecumeniche senza che per lo stato italiano vi sia alcun costo diretto.

Tuttavia, se l’iniziativa e la gestione dei corridoi umanitari dipende da tali soggetti giuridici è pur vero che questi progetti per poter essere attuati necessitano dell’approvazione da parte del Ministero degli Esteri e degli Interni. Proprio però la concertazione in sede di attuazione con i due ministeri talvolta ha costituito un “intoppo” alla loro effettiva realizzazione, come nel caso dei corridoi umanitari – ancora mai partiti – a favore dei cittadini afgani in seguito alla proclamazione dell’Emirato islamico da parte dei talebani. Altro aspetto che occorre sottolineare è, come annunciato in precedenza, il fatto che tali corridoi siano attivabili soltanto per specifiche categorie di soggetti che fuggono da conflitti armati, da situazioni di violenza generalizzata o di violazione prolungata dei diritti umani e da persecuzioni, in comprovate condizioni di vulnerabilità per le quali si fa riferimento prevalentemente al Capo IV, art. 21 della Direttiva 2013/33/UE che individua tra i soggetti vulnerabili i minori stranieri – accompagnati o meno – i disabili, gli anziani, le donne in stato di gravidanza, le vittime di tratta, di stupri e torture e le persone affette da malattie o da gravi disturbi mentali.

Il meccanismo per l’attivazione dei corridoi umanitari si struttura in tale modo: chiese, associazioni, ong e organizzazioni internazionali, attraverso contatti diretti in loco – ossia nei paesi di transito in cui si trovano i profughi – predispongono liste dei potenziali beneficiari, trasmesse alle autorità consolari italiane dei paesi interessati per consentire i dovuti controlli da parte del Ministero degli Interni. Solo a questo punto i consolati dei paesi europei – come quello italiano – rilasciano visti con validità territoriale limitata a quegli stati membri dell’Unione nelle quali normalmente hanno sede le associazioni che hanno predisposto le liste.

Va infatti sottolineato che l’unico vero appiglio normativo ai quali i corridoi umanitari si ancorano è l’art. 25 al Capo IV del Codice comunitario dei visti (Regolamento CE N. 810/2009) che al punto 1 lett. a) prevede che uno stato membro possa eccezionalmente rilasciare un visto di ingresso a un cittadino di un paese terzo se lo ritiene necessario per motivi umanitari, di interesse nazionale o derivante da obblighi internazionali.

Occorre tuttavia rilevare che – nonostante la legittima applicabilità del riferimento normativo di cui sopra alla prassi dei corridoi umanitari – tutti i progetti attivati dal 2015 a oggi hanno visto l’ingresso dei profughi prevalentemente con visti per turismo! Una volta giunti in Italia i profughi vengono accolti nelle strutture dei soggetti promotori dei corridoi umanitari, prevalentemente secondo il modello dell’accoglienza diffusa e facilitano il processo di integrazione dei profughi nel territorio attraverso l’assistenza legale – per la presentazione delle domande di protezione internazionale – l’apprendimento della lingua italiana e la scolarizzazione per i minorenni. È il caso a questo punto di specificare la differenza tra corridoi umanitari e reinsediamenti – i cosiddetti resettlementmenzionati spesso dai media e più volte citati negli articoli riguardanti le attuali rotte migratorie – in particolare rispetto alla rotta del Mediterraneo centrale – con riferimento a quelli attuati in Niger, con il supporto dell’Unhcr. I due istituti spesso infatti vengono confusi tra loro – nonostante abbiano aspetti differenti – a ragione del carattere di emergenzialità che contraddistingue entrambi, motivo per cui non possono rappresentare strumenti idonei per affrontare la questione migratoria in modo strutturato.

I resettlement consistono in programmi che prevedono il trasferimento di individui fuggiti dal proprio paese d’origine – già riconosciuti rifugiati dall’Unhcr – per i quali nel paese di primo arrivo non vi è possibilità di integrazione e la protezione accordata loro potrebbe essere a rischio (per esempio perché il paese di primo arrivo non ha ratificato la Convenzione di Ginevra del 1951).

Per tale ragione si chiede il reinsediamento del rifugiato in un paese terzo – chiaramente diverso da quello di primo arrivo – nel quale al rifugiato potrà invece essere assicurata una protezione effettiva e permanente. Va precisato che i programmi di reinsediamento – per i quali gli afgani sono ai primi posti tra i soggetti potenzialmente beneficiari – hanno come presupposto fondamentale la volontà del paese terzo – nel quale i rifugiati si dovranno stabilire definitivamente – di aderire al trasferimento dei medesimi nel proprio territorio e di “selezionarli” basandosi o sui dossier dell’Unhcr, o su un’intervista individuale o ancora su entrambi i metodi, al momento l’opzione maggiormente impiegata.

In questa analisi – mediante la quale comunque si coglie l’occasione per ribadire una sentita preoccupazione per i cittadini e le cittadine afgane rimasti intrappolati in Afghanistan e per quanti sono tutt’ora bloccati e respinti lungo la rotta balcanica – già prima dell’agosto del 2021 – occorre soffermarsi sulle ragioni del fallimento dell’impiego dei corridoi umanitari rispetto ai profughi afgani bloccati al momento in Iran e in Pakistan ancora in attesa che vengano attivati i progetti.

Già, perché dopo ripetuti appelli al Ministero degli Esteri da parte delle organizzazioni della società civile, prima fra tutte Asgi, il 4 novembre del 2021 Sant’Egidio, Arci, Caritas Italiana, Fcei, Oim e Unhcr hanno firmato un protocollo di intesa con il Ministero degli Interni e degli Esteri per l’attivazione di corridoi umanitari destinati a 1200 beneficiari afgani, ma a oggi questo non è stato ancora attuato nonostante le associazioni proponenti continuino a ribadire di essere pronte per l’accoglienza e disposte a pagare ogni costo del progetto, compresi quelli aggiuntivi legati ai voli di linea richiesti dai due ministeri nell’addendum al protocollo.

Ciò che a ogni modo risulta ancora più assurdo è la ragione per la quale, a detta dei ministeri, il protocollo non sarebbe partito: ossia la mancanza nei due consolati italiani – rispettivamente in Iran e in Pakistan – della macchinetta rodata per le impronte digitali che serve al ministero degli Interni per fare i controlli sull’identità dei profughi per ragioni di sicurezza.

Tuttavia, la maggior parte dei profughi inseriti nelle liste sono già dotati di passaporto internazionale che dovrebbe essere sufficiente alla loro identificazione in quanto viene rilasciato mediante rilevazione dei dati biometrici. Non solo, le associazioni di cui sopra si sono proposte di acquistare loro stesse le macchinette per le impronte nonostante ciascuna abbia un costo di circa 10.000 euro. Si rifletta quanto sia paradossale che degli individui rischino la propria vita per ragioni di questa natura: buona parte dei profughi in attesa dei visti per fare ingresso in Italia infatti hanno dei visti in scadenza o scaduti in Iran e in Pakistan – nell’attesa delle macchinette per le impronte. Al riguardo va sottolineato che nei suddetti paesi è previsto che se non si è regolari sul territorio – come appunto nell’ipotesi di visto scaduto – non si può beneficiare di un exit permit per recarsi in un altro stato, in questo caso l’Italia, e si deve disporre il rimpatrio immediato dei migranti nel paese d’origine, in questo caso l’Afghanistan!! E va precisato altresì che la questione produrrà dei danni gravi, se non verrà risolta rapidamente, in quanto in questi paesi il secondo rinnovo del visto non è garantito e dopo il terzo non si ha la possibilità di concederne un altro quindi il rimpatrio nel paese d’origine è quasi automatico. Sempre con specifico riferimento ai corridoi umanitari per i cittadini afgani, è opportuno inoltre fare riferimento alla pronuncia del Tribunale di Roma intervenuta il 21 dicembre del 2021 nei confronti di due giornalisti afgani che fuggiti dal paese in mano ai talebani hanno presentato ricorso d’urgenza ex art. 700 del codice di procedura civile, reso necessario a causa della mancata risposta del ministero degli Esteri rispetto a una segnalazione a questo inviata, nella quale era stato evidenziato il pericolo al quale erano esposti i due giornalisti.

Il Tribunale di Roma si è pronunciato affermando che «nel caso di specie ricorrono condizioni idonee al rilascio del visto per motivi umanitari, specificando che se per l’autorità statale questo è una mera facoltà, per il giudice dei diritti fondamentali è un’attività doverosa poiché il nostro ordinamento attribuisce al giudice il compito di adottare i provvedimenti d’urgenza necessari».

Tuttavia, ciò non è stato sufficiente per il ministero degli Esteri che ha presentato reclamo sostenendo che i due giornalisti debbano beneficiare dei corridoi umanitari e non della concessione di un visto ai sensi dell’art 25 del Codice comunitario dei visti: peccato che i corridoi umanitari – almeno in via di principio – si basino, come detto, proprio sull’art. 25!! La contestazione appare dunque evidentemente contraddittoria e pretestuosa.

Mentre si perde tempo prezioso tra macchinette delle impronte e reclami in Tribunale, in Afghanistan la situazione è drammatica: metà della popolazione soffre a causa della siccità e i minori oltre a non avere più accesso all’istruzione – come d’altronde le donne, costrette definitivamente al burqa in pubblico – sono in gran parte in una condizione di malnutrizione mentre le sanzioni internazionali e il congelamento dei fondi della Banca Centrale peggiorano la situazione economica generale nella quale il prezzo dei beni essenziali è salito in maniera vertiginosa.

Prima di addentrarci quindi nel successivo articolo in merito alla vicenda dello scorso novembre riguardo al mancato accesso al diritto d’asilo per migliaia di profughi – tra cui gli stessi afgani – al confine polacco-bielorusso e delle modifiche apportate ad hoc nelle legislazioni nazionali in materia di immigrazione da parte di Polonia, Lituania e Lettonia – in contrasto con il diritto europeo e internazionale – è necessario trarre conclusioni importanti circa i rimedi emergenziali finora analizzati, ossia i corridoi umanitari.

Tuttavia, si segnalano caratteri di precarietà anche rispetto ai reinsediamenti, alle evacuazioni e da ultimo alla protezione temporanea, riconosciuta applicabile dal Consiglio europeo ai cittadini ucraini ma non a quelli afgani e che analizzeremo nell’articolo giuridico dedicato alla crisi migratoria Ucraina.

I corridoi umanitari infatti pur essendo un lodevole e importante rimedio per l’accesso in modo sicuro al territorio dell’Unione, in particolare a quello italiano – replicati con numeri inferiori da altri paesi europei come Germania e Francia – sono pur sempre uno strumento che non può fronteggiare, anche se implementato, la gestione dei flussi migratori che invece richiede decisioni politiche più coraggiose o più semplicemente che non siano volte a ostacolare l’applicazione del diritto europeo e internazionale vigente, come avvenuto negli ultimi anni con la proposta della Commissione del nuovo patto europeo sulla migrazione e l’asilo del settembre del 2020 e con quella di modifica del Codice Frontiere Schengen del dicembre del 2021.

I corridoi umanitari infatti hanno alcuni elementi di criticità che non permettono un pieno rispetto del diritto alla mobilità dei migranti.

In primo luogo, è molto forte il carattere discrezionale dell’istituto in quanto la lista dei migranti potenzialmente beneficiari dei corridoi viene predisposta sulla base di una scelta del tutto imponderabile delle associazioni promotrici; inoltre, poiché il procedimento non è disciplinato da alcuna disposizione di legge, non è totalmente trasparente in tutte le sue fasi per i migranti anche nell’ipotesi in cui venissero riconosciuti beneficiari del progetto; infine, nell’ipotesi di esclusione, non è previsto alcun tipo di rimedio giurisdizionale con il quale il migrante possa impugnare la decisione di esclusione dalla lista predisposta dalle associazioni. Anche se quindi l’impegno negli ultimi anni dell’associazionismo ecumenico e laico in ambito migratorio ha un’importanza straordinaria, esso non può sostituirsi alla politica che è e rimane l’unica vera responsabile sia a livello nazionale che internazionale, non solo per le prassi negative e le leggi poste in essere in spregio ai basilari diritti dei migranti, ma anche per quello che non ha avuto il coraggio di fare o di smettere di fare, come con gli accordi Italia-Libia che non sono stati fermati in cinque anni da nessun partito al governo in Italia. A questo punto quindi finché la politica agirà o non agirà in questo modo è doveroso, non solo per rispetto dei cittadini afgani ma per tutti gli individui che fuggono da conflitti, come quello in Yemen o in Corno d’Africa, che la società civile continui a dare visibilità e a denunciare quello che da anni si vuole nascondere inutilmente.

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Società civile e popoli indigeni: protagonisti dell’accordo di Escazú https://ogzero.org/l-accordo-di-escazu-parla-la-societa-civile-e-i-popoli-indigeni/ Wed, 04 May 2022 15:31:08 +0000 https://ogzero.org/?p=7267 L’America Latina e il Caribe compongono una delle regioni del pianeta con maggiore megadiversità, possiedono cioè un immenso patrimonio di specie animali, vegetali ed ecosistemiche. Inoltre, in questo subcontinente si trova il 28% delle terre coltivabili, un terzo delle riserve di acqua dolce e il 22% delle foreste mondiali. Allo stesso tempo, la regione latinoamericana […]

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L’America Latina e il Caribe compongono una delle regioni del pianeta con maggiore megadiversità, possiedono cioè un immenso patrimonio di specie animali, vegetali ed ecosistemiche. Inoltre, in questo subcontinente si trova il 28% delle terre coltivabili, un terzo delle riserve di acqua dolce e il 22% delle foreste mondiali. Allo stesso tempo, la regione latinoamericana è la seconda al mondo per esposizione e vulnerabilità a disastri naturali, che gli effetti del cambio climatico stanno intensificando rapidamente. Infine, l’elevato numero di conflitti socio ambientali in questa area del mondo è legato principalmente alle attività di deforestazione, all’agro business e allo sfruttamento minerario, oltre all’installazione di grandi idroelettriche e mega impianti di energie rinnovabili.

Difensori della terra e della vita

Secondo l’ultimo rapporto della ong Global Witness, durante il 2020 sono avvenuti nel mondo 227 omicidi di persone che difendono la terra, più di 4 alla settimana. È la cifra più alta registrata dal primo monitoraggio del 2012, questo significa che la pandemia e le misure di isolamento non hanno frenato la violenza. Sette dei dieci paesi più colpiti si trovano in America Latina e più di un terzo degli attacchi sono rivolti contro popolazioni indigene.

È in questa cornice che, tra il 20 e il 22 aprile appena passati, si è svolta a Santiago del Cile la prima Conferenza delle Parti (COP) dell’accordo regionale sull’accesso all’informazione, la partecipazione pubblica e la giustizia in materia ambientale in America Latina e nei Caraibi, conosciuto come Accordo di Escazú, dal nome della località dove è stato approvato, in Costa Rica, nel 2018.

Si tratta del primo trattato regionale latinoamericano in materia ambientale – simile alla Convenzione di Aarhus europea, che l’Italia ha ratificato nel 2001 – ma è l’unico al mondo a contenere disposizioni specifiche per la protezione degli attivisti ambientali.

Stabilire come si traduce questo principio in meccanismi e dispositivi concreti sarà uno dei compiti del Comitato di appoggio all’applicazione e al compimento di Escazú, la cui creazione è stato uno dei maggiori risultati di questa COP e che il prossimo anno eleggerà i suoi 7 rappresentanti tra figure indipendenti dalle istituzioni governative e con traiettoria in democrazia ambientale.

L’idea è che serva ad «assicurare l’applicazione delle norme di Escazú, che l’accordo non resti lettera morta», spiega Natalia Gómez, della Ong EarthRights International, una dei sei rappresentanti della società civile alla COP. Quando il Comitato si sarà installato, qualsiasi persona di un paese aderente a Escazú potrà denunciare una violazione direttamente a questa istituzione che dovrà mettere in atto misure di protezione, «è in questo modo che comincerà realmente l’implementazione dei dispositivi di difesa degli attivisti» conclude.

 

La partecipazione è l’essenza di Escazú

Il traguardo della prima COP di Escazú è in realtà soltanto un inizio: tra gli obiettivi della tre giorni di Conferenza c’erano l’elezione del tavolo direttivo e l’approvazione del regolamento interno, documento già ampiamente discusso dai 12 paesi aderenti. Per questo ha colto tutti di sorpresa la proposta della delegazione boliviana di eliminare la partecipazione del pubblico dalle decisioni in materia ambientale, durante la giornata di giovedì 21 aprile. Si tratta di una condizione che è stata inserita nel trattato fin dal 2014, durante il lungo cammino di negoziazioni che hanno portato all’attuale Conferenza.

«Eliminare la partecipazione del pubblico significa tradire lo spirito dell’Accordo», ha affermato lapidario il leader indigeno Nadino Calapucha di fronte alla riunione plenaria, attorno al tavolo rotondo della sede della CEPAL. Con il volto dipinto e il copricapo di piume della sua comunità, il portavoce del Coordinamento di Organizzazioni Indigene della Regione Amazzonica (COICA) ha chiamato a rispettare uno dei pilastri di Escazú: la possibilità che, al tavolo direttivo, prenda la parola qualsiasi persona proveniente dai territori dei paesi aderenti.

L’intervento di Nadino Calapucha (foto Cepal).

Il momento di tensione è rientrato grazie al rifiuto unanime della proposta presentata dalla Bolivia da parte degli oltre 700 delegati presenti, ed è stata così confermata la presenza di un rappresentante del pubblico, inteso come la società civile in senso ampio, al tavolo direttivo della Conferenza.

Ma i delegati del COICA sono andati oltre, con la richiesta di un posto riservato a un portavoce dei popoli indigeni. «Non c’è Accordo di Escazú senza i popoli indigeni», afferma Lolita Piyahuaje, vicepresidente della Confederazione delle Nazioni Indigene dell’Amazzonia Ecuadoriana (CONFENIAE) presentando la proposta, che prevede anche l’implementazione di un caucus, un’assemblea indigena nella COP.

José Gregorio Díaz Mirabal, coordinatore generale del COICA, ha ricordato il Principio 10 della Dichiarazione di Río sull’ambiente del 1992, «che è stato il primo germoglio da cui nato l’Accordo di Escazú», in cui si afferma che «il miglior modo per trattare le questioni ambientali è con la partecipazione di tutti i cittadini interessati», evidenziando che «ci sono 476 milioni di indigeni nel mondo, in America Latina siamo 58 milioni, 826 popoli, non è un tema secondario la partecipazione indigena a Escazú, perché stiamo parlando delle nostre vite, dei nostri diritti, dei nostri territori».

Difensori del territorio, popoli indigeni e giovani generazioni

Durante la COP si sono formati due gruppi di lavoro coordinati dai sei rappresentanti del pubblico, uno ha raccolto l’urgenza della situazione in cui si trovano i difensori ambientali, mentre l’altro ha preso in carico la richiesta di una specifica rappresentanza indigena. «Abbiamo lavorato sulla proposta, che ora deve ottenere l’appoggio di un paese aderente per entrare in discussione», spiega Andrea Sanhueza, direttrice del centro studi cileno Espacio Público e una delle sei persone che attualmente rappresentano la società civile alla Conferenza. Aggiunge che nel frattempo il seggio messo in discussione dalla Bolivia e infine confermato è aperto perché possa sedersi al tavolo delle trattative chiunque lo richieda. «Nessuno può metterlo in discussione perché come pubblico abbiamo diritto a stare nelle negoziazioni», continua Andrés Napoli, un altro degli attuali rappresentanti, direttore della fondazione ambientalista argentina FARN. «Se la mettiamo al voto, ci sono paesi che potrebbero opporsi a una delegazione indigena, ma se c’è un portavoce indigeno seduto nel seggio del pubblico la riunione comincia, questo lo possiamo dire per esperienza».

Secondo i rappresentanti, che saranno eletti nuovamente il prossimo agosto, un’altra differenza importante rispetto alle COP sul cambio climatico che conosciamo da anni è che la società civile non prende la parola alla fine, quando la maggior parte dei delegati se n’è già andata e nessuno ascolta, ma durante il dibattito, alla pari con i funzionari degli stati, e questo favorisce la capacità di incidere nelle decisioni, nonostante il pubblico abbia solo diritto di parola e non di voto.

La società civile prende la parola durante il dibattito (foto Cepal).

«Stiamo iniziando una campagna per invitare le generazioni più giovani a candidarsi per essere i prossimi rappresentanti del pubblico», conclude Sanhueza, riferendosi alla grande presenza di giovani a seguire le attività della COP e all’importanza che abbiano a loro volta un ruolo di rilievo nelle negoziazioni tra i paesi membri.

L’Accordo di Escazú è uno strumento necessario per l’America Latina e il Caribe, ma la sua reale efficacia dipenderà proprio dalla società civile organizzata e dalla sua capacità di incidere nelle decisioni politiche. Una delle principali sfide è ottenere l’adesione dei paesi che non hanno ancora firmato l’accordo: solo 12 dei 33 che compongono la regione sono attualmente parte del tavolo direttivo, altri 12 hanno firmato ma non ratificato e restano in una posizione di osservatori, come il Cile, che ha dato un passo avanti a marzo, con l’assunzione del nuovo governo di Gabriel Boric.

Delle nazioni che condividono il bacino amazzonico, per esempio, fanno parte dell’accordo solo l’Ecuador, la Guyana e la Bolivia, e quest’ultima ha rivelato la sua polemica posizione. Guyana francese, Suriname e Venezuela sono tra i firmatari, mentre la Colombia, il Brasile e il Perù sono i grandi assenti.

I pericoli per l’Amazzonia

«Noi siamo i difensori della vita, chi ci difende?», si domanda durante gli incontri organizzati dalla COP Elsa Merma Ccahua, presidente dell’Associazione di Donne che difendono il territorio e la cultura K’ana a Espinar, nella regione di Cuzco in Perù. «Io sono portavoce di organizzazioni sociali di 11 regioni peruviane che affrontano malattie per metalli pesanti e tossici, conviviamo da 40 anni con le imprese minerarie», spiega. L’estrazione mineraria ha prodotto contaminazione nella zona e colpisce direttamente le comunità contadine originarie: «i nostri animali stanno morendo di malattie sconosciute, le coltivazioni nella chakra si sono impoverite. Come donne, soprattutto, siamo private della terra che è il nostro sostento per mantenere la famiglia, educare i figli, è la nostra sicurezza alimentare».

Nella provincia di Pangoa in Perù, proprio il giorno prima dell’inizio della COP è stato assassinato Ulises Rumiche, leader di un’organizzazione di popoli originari amazzonici, mentre tornava alla sua comunità dopo una riunione con funzionari ministeriali.

In Brasile e in Perù quasi tre quarti degli omicidi avvengono nella zona amazzonica e solo in Colombia sono state uccise 65 persone durante il 2020, portando questo Paese in cima alla lista mondiale stilata da Global Witness per il secondo anno di fila.

In Brasile, il presidente Jair Bolsonaro è stato denunciato davanti alla Corte Penale Internazionale per le sue responsabilità nella deforestazione dell’Amazzonia, eliminando e ostacolando gli organismi e le leggi che proteggono il polmone verde del pianeta. La denuncia, sostenuta da un’equipe di esperti insieme alla ong AllRise, ha calcolato che si può imputare al governo di Bolsonaro la perdita di circa 4000 km quadrati di selva all’anno, da quando ha assunto la presidenza nel 2019 il tasso di deforestazione è aumentato fino all’88%. Il Brasile andrà alle elezioni il prossimo ottobre e la ricandidatura di Lula da Silva potrebbe indicare un cammino diverso nei confronti della foresta amazzonica. In Colombia invece le presidenziali saranno il prossimo 29 maggio e per la prima volta da decenni esiste una possibilità che la coalizione di centro sinistra del Pacto Histórico possa vincere sulla destra legata alla figura di Alvaro Uribe, mentre il progetto di legge per approvare l’Accordo di Escazú nel paese è tornato in discussione al Congresso la scorsa settimana scorsa.

(Foto Cepal)

I prossimi appuntamenti della COP sono nel 2023 per una riunione straordinaria in Argentina, dove saranno eletti i sette responsabili del Comitato incaricato di verificare l’applicazione e il compimento delle regole del trattato, e nel 2024 nuovamente a Santiago del Cile. Qui, il risultato dei prossimi appuntamenti politici nella regione potrebbe avere una forte influenza per avanzare nella protezione dei beni naturali latinoamericani e di chi li difende.

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All’Ovest Sahara qualcosa di nuovo… ma poco rassicurante https://ogzero.org/allovest-sahara-qualcosa-di-nuovo-ma-poco-rassicurante/ Tue, 26 Apr 2022 14:15:51 +0000 https://ogzero.org/?p=7141 Nello scacchiere internazionale si stanno delineando le aree delle future crisi e i vari protagonisti stanno disponendosi nelle alleanze contrapposte, spinti anche da necessità energetiche e da iniziative di grandi potenze che influenzano le scelte di schieramento. Uno dei focolai del prossimo confronto tra potenze mondiali è il Maghreb, in particolare la questione del Sahara […]

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Nello scacchiere internazionale si stanno delineando le aree delle future crisi e i vari protagonisti stanno disponendosi nelle alleanze contrapposte, spinti anche da necessità energetiche e da iniziative di grandi potenze che influenzano le scelte di schieramento. Uno dei focolai del prossimo confronto tra potenze mondiali è il Maghreb, in particolare la questione del Sahara occidentale, e le forze in campo si rimescolano: la mossa spagnola di distensione con il Marocco, dopo forti tensioni tra le due coste limitrofe e contrapposte. Questa scelta ha prodotto forti cambiamenti nei rapporti tra soggetti che insistono sul Mediterraneo occidentale: se l’Italia, interessata al gas, si avvicina all’Algeria, abbandonata nella difesa del popolo saharawi dalla Spagna, quest’ultima abbraccia il Marocco, potenza africana di riferimento in ascesa, con investimenti in infrastrutture, ottimi rapporti con Israele da cui riceve anche armi sofisticate inserite nell’enorme sforzo di riarmo in una competizione strenua con la vicina Algeria, che si approvvigiona con armi russe.
In questo panorama è prevedibile che riesploda un conflitto sulla condizione saharawi, di cui si riconoscono i primi inneschi nei mesi scorsi, perciò abbiamo chiesto a Lorenzo Forlani di fare il punto per evitare di essere colti di sorpresa da una prevedibile evoluzione critica della situazione.


«Serio, credibile, realistico». Con queste inattese parole il governo spagnolo di Pedro Sanchez meno di un mese fa ha definito il piano marocchino di concessione dell’autonomia amministrativa al Sahara occidentale. Un riconoscimento de facto, quindi, della sovranità di Rabat sulla regione al confine con l’Algeria e la Mauritania, che nel giro di un mese ha generato la reazione del Fronte Polisario (FP): lo scorso 10 aprile, infatti, il movimento che dal 1976 – cioè dopo il ritiro delle truppe coloniali spagnole dall’area – persegue l’autodeterminazione del Western Sahara (WS), ha annunciato l’interruzione dei contatti ufficiali con il governo iberico, suo storico “garante” europeo (pur nel quadro di una neutralità strategica). Solo un anno fa Madrid  ne aveva accolto e curato il leader, Brahim Ghali, malato di Covid-19, innescando con la stessa Rabat una crisi diplomatica che può dirsi estinta proprio in queste settimane, col ritorno a Madrid dell’ambasciatrice marocchina, richiamata all’indomani dell’affare Ghali.

Popolo saharawi: vittima sacrificale di nuove proxy war

Una mossa, quella del FP, che secondo molti osservatori è stata in realtà decisa da Algeri, “sponsor” dei Sahrawi, che all’indomani dell’inversione di rotta da parte di Madrid, aveva richiamato a sua volta il proprio ambasciatore dalla Spagna, aprendo contestualmente il varco a migliaia di migranti verso Ceuta e Melilla. Mentre il pianeta rivolge la sua attenzione al conflitto in Ucraina, il riposizionamento quasi improvviso di questi attori regionali racconta essenzialmente di una tensione latente tra due potenze come Marocco e Algeria, e di riflesso fa luce sulla scarsa coesione dell’Unione Europea, la cui mancanza di un approccio integrato in politica estera produce posture massimaliste, proprio come quella che sembra aver improvvisamente assunto la Spagna.

Quella nel Western Sahara è la linea del fronte più lunga al mondo: un terrapieno che si estende per 2700 km nei pressi del quale si sono susseguiti scontri armati nel corso degli ultimi 50 anni, cioè da quando Rabat ha annesso la regione contesa dopo il ritiro degli spagnoli. Nel 1991 si raggiunge un cessate il fuoco tra il Fronte Polisario e Rabat, dopo il quale le Nazioni Unite avviano un processo di pace che finirà per arenarsi: il voto per l’indipendenza che era stato previsto non ha mai avuto luogo e oggi il WS è controllato all’80% dallo stesso Marocco, mentre nella città algerina di Tindouf si sono rifugiati più di 150.000 profughi Sahrawi, coinvolgendo ancor più direttamente Algeri nella disputa, specie se si considera il rischio di radicalizzazione di alcuni segmenti dello stesso popolo Saharawi, nel quale le nuove generazioni spingono per una ripresa del conflitto.

Secondo l’Onu il WS è un “territorio non autonomo”, una definizione che riassume una situazione di grande ambiguità se associata all’annunciato piano marocchino e all’autoproclamazione d’indipendenza da parte dello stesso Fronte Polisario, che invoca stabilmente il referendum per l’indipendenza programmato più di 30 anni fa. Lo scorso dicembre il Consiglio di Sicurezza dell’Onu ha prolungato la missione MINURSO, chiedendo la ripresa dei negoziati e inviando nuovamente il diplomatico Staffan de Mistura, il cui lavoro negli ultimi due anni era stato sostanzialmente impedito dai veti incrociati di Marocco e Algeria.

La posizione massimalista che ha improvvisamente assunto Madrid ha generato spaccature nella maggioranza di governo – con la sinistra molto critica rispetto all’”abbandono” dei sahrawi – ma rispecchia inevitabilmente la mancanza di una strategia occidentale ed europea: già nel 2020 l’ex presidente americano Donald Trump – in cambio della “normalizzazione tra Marocco e Israele – aveva riconosciuto la sovranità marocchina sul WS, contraddicendo la posizione dell’Onu, e nelle ultime settimane l’amministrazione Biden ha aggiunto confusione al quadro, dichiarando di essere favorevoli alla “autodeterminazione del popolo del Western Sahara”, pur non modificando il proprio posizionamento generale, che ribadisce la sovranità marocchina.

Potenze energivore e l’indipendentismo strabico algerino

In questo contesto è interessante seguire le mosse del governo italiano. La recente visita di Mario Draghi ad Algeri è avvenuta appena dopo la svolta spagnola sul WS ed è stata “salutata” dai media algerini come la formalizzazione di un “rimpiazzo” – anche dal punto di vista della collaborazione militare –: «Algeri ha preferito consolidare la partnership con l’Italia a danno della Spagna, che non godrà più della stessa considerazione di prima da parte dell’Algeria», si legge su Dernieres Info d’Algerie (DiaTEbb).

Il gasdotto Enrico Mattei attraversa il Mediterraneo tra Mellilah (in Libia) e Gela (in Sicilia), portando il gas algerino in Europa.

Le tensioni tra Marocco e Algeria sono anche più antiche, profonde; riflesso di assetto e orizzonti diversi, che rendono la situazione in questo quadrante regionale altamente esplosiva, soprattutto dall’ultima rottura dei rapporti diplomatici nell’agosto del 2021, con conseguente stop all’export di gas algerino verso Rabat (e poi verso Madrid), che copriva circa un decimo del suo fabbisogno. La disputa sul confine va avanti dal 1962 e storicamente, laddove Rabat – investito del ruolo di “gendarme” regionale da parte dell’UE, specie sui flussi migratori e sui fenomeni di radicalizzazione jihadista – ha volentieri sostenuto movimenti islamisti che minacciavano il potere dei militari algerini, oltre a offrire incentivi ai cittadini marocchini che vogliano trasferirsi in WS, Algeri da par suo è da decenni un esplicito sostenitore dei movimenti separatisti e rivoluzionari (ha sostenuto Che Guevara, Arafat, Mandela), pur vivendo con apprensione le ambizioni autonomiste di una sua regione, la Cabilia.

Il confine tra Algeria e Marocco è chiuso, e nei mesi scorsi la tensione si è ulteriormente alzata dopo i rumor secondo cui Rabat, servendosi di un software di spionaggio fornitole da Tel Aviv, avrebbe a lungo spiato decine di funzionari algerini. Algeri sostiene i saharawi anche per ragioni squisitamente strategiche: il WS è una regione ricca di petrolio, fosfati e diritti di pesca, un aspetto, quest’ultimo, che rende appetibile l’idea di avere un accesso all’Oceano Atlantico.

Ascesa marocchina, difficoltà algerine

Nel 2017 il Marocco è rientrato nell’Unione Africana (UA), boicottata per 32 anni proprio a causa del diffuso riconoscimento del WS. Oggi meno della metà dei membri dell’UA riconosce l’autonomia del Western Sahara: un aspetto che evidenzia anzitutto l’aumento dell’influenza marocchina, accanto alla diminuzione di quella algerina. Rabat sembra proiettata al futuro: ha le più grandi fabbriche d’auto del continente nonché i treni più veloci; ha vaccinato con due dosi oltre il 60% della popolazione e, nell’ambito della corsa al riarmo con l’Algeria, sta cercando di completare un profondo upgrading delle proprie Forze Armate, all’interno del quale ricade il recente accordo – dello scorso febbraio – con la Israel Aerospace Industries (IAI) per la fornitura dei sistemi di difesa missilistica Barak MX, per un valore di 500 milioni di dollari. Tel Aviv e Rabat a novembre 2021 avevano firmato un accordo nel campo della difesa, che impegna i due paesi a a cooperare nella condivisione di intelligence, nella realizzazione di progetti e nella vendita di armamenti.

L’Algeria, al contrario, è in una fase molto delicata: il piano per rendere l’economia meno vincolata alle entrate petrolifere è miseramente fallito; le proteste antiestablishment (Hirak, in arabo “movimento”) sono state represse; il presidente Abdelmajid  Tebboune è considerato un fantoccio nelle mani degli alti quadri militari. Di riflesso, Algeri è un gigante bellico: secondo i dati del SIPRI, nel 2020 il suo budget militare è stato il più corposo del continente, quasi 10 miliardi di dollari, il doppio di quello marocchino (che è comunque aumentato del 54% dal 2011 al 2020, e che dovrebbe arrivare a 5,5 miliardi di dollari nel 2022), e il suo esercito è numericamente secondo solo a quello egiziano; il 70% degli armamenti algerini provengono dalla Russia, e proprio quest’anno sono state calendarizzate delle forniture di armamenti da Mosca, che includono 14 jet Su-34 e gli stealth Su-57.

Ambiguità del ruolo dei governi maghrebini nel Mediterraneo occidentale

Qualunque confronto militare diretto tra i due eserciti nordafricani rischierebbe di aprire un fronte esplosivo nella regione, mettendo l’uno di fronte all’altro due paesi fondamentali nel mediterraneo, in assenza di adeguati contrappesi garantiti da un’Unione europea sempre più vittima delle strategie particolari dei suoi membri più importanti. Sarebbe forse opportuno elaborare una strategia di lungo termine che da una parte tenga conto del contributo marocchino alla sicurezza del mediterraneo ma che allo stesso tempo non consideri questo contributo come un lasciapassare per l’assertività di Rabat in WS e nei confronti di Algeri, e tantomeno come la merce di scambio per un endorsement europeo (e non più solo spagnolo) al piano marocchino sulla regione.

Il mantenimento di una posizione equilibrata nei confronti dell’Algeria è forse più complicato: questo perché i rapporti – culturali, commerciali, politici – con Algeri sono molto meno profondi che con Rabat, ma la contingenza del conflitto in Ucraina, e le conseguenti sanzioni alla Russia, hanno reso le forniture di gas algerine ancor più importanti in vista di una possibile transizione energetica. Secondo Anthony Dworkin dell’Ecfr, è nell’interesse europeo sviluppare rapporti con l’Algeria tali da allontanarla da Mosca, e ciò può essere realizzato soltanto non allineandosi con Rabat sul WS. E la delicatezza della posizione algerina si può evincere dal suo cambio di postura nel giro dell’ultimo mese: il 2 marzo si era astenuta all’Assemblea generale dell’Onu, sulla mozione di condanna dell’invasione russa in Ucraina; il 7 aprile, invece, ha votato contro l’estromissione di Mosca dal Consiglio dei diritti umani. Al tempo stesso, l’UE dovrebbe dissuadere Algeri dal rafforzare l’assistenza militare al Fronte Polisario, spingendola verso una partecipazione a un nuovo negoziato. Il 20 aprile il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha tenuto una sessione dedicata al dossier Western Sahara, nella quale Staffan De Mistura ha presentato un report sull’evoluzione della crisi.

 

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La guerra non ha il congiuntivo, ma l’economia sì https://ogzero.org/la-guerra-non-ha-il-congiuntivo-ma-leconomia-si/ Wed, 06 Apr 2022 20:39:01 +0000 https://ogzero.org/?p=7001 Dichiarata la guerra il suo banale corredo è intriso di propaganda, retorica, ostentazioni scontate e risapute ipocrisie; strategie e dichiarazioni, video reali e manipolati su cui dibattere vanamente costellano la cronaca… Tutto questo orrore è consueto e si riassume nella parola “guerra”. Ormai è in corso e dovrà arrivare al fondo, che sia un Blitzkrieg, […]

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Dichiarata la guerra il suo banale corredo è intriso di propaganda, retorica, ostentazioni scontate e risapute ipocrisie; strategie e dichiarazioni, video reali e manipolati su cui dibattere vanamente costellano la cronaca… Tutto questo orrore è consueto e si riassume nella parola “guerra”. Ormai è in corso e dovrà arrivare al fondo, che sia un Blitzkrieg, una “operazione speciale”, o un impantanamento di un poderoso esercito; una resistenza determinata, motivata o preparata… seguirà il suo corso e avrà sul campo una delle due o tre potenziali soluzioni. Quella cronaca diventerà storia, come le stragi di civili, i massacri di comunità, le distruzioni di case e mezzi bellici; la frustrazione, le defezioni e gli arruolamenti di mercenari e l’esaltazione della truppa: sentimenti da gestire per evitare spiacevoli “effetti collaterali”.
I morti ne sono ovvio corollario.
La precognizione di quale potrà essere il coinvolgimento del mondo si avvicina maggiormente all’approfondimento a un livello più elevato di uno squallido salotto televisivo. Cinicamente la geopolitica considera nella sua contabilità questi dati comuni a tutte le guerre e li fa interagire: ciò che interessa all’analista geopolitico è la trasformazione socio-economica dopo una guerra che coinvolge potenze di questo livello. Come si svilupperà l’esistenza in tempo di guerra e quale sarà la ricaduta sull’economia mondiale? tariffe del grano e bollette energetiche, approvvigionamento e reti di distribuzione… fame e freddo. Le svolte imposte da una guerra di queste proporzioni all’economia neoliberista imperante da 30 anni potrebbero far deragliare il libero mercato e dunque lo scenario che si comincia ad aprire è quello dello statalismo: non incentrato sul welfare ma quello bellico, fatto di riarmo e interventismo monetarista, di autarchia e di stretto controllo da parte del potere di ogni aspetto macroeconomico: centralizzazione del controllo dell’energia e sua nazionalizzazione.

Fin qui la sintesi di OGzero dopo le sollecitazioni di questo nuovo articolo di Yurii Colombo che state per leggere


Sindromi propagandistiche e stalli reali

I sondaggi d’opinione in Russia (per quanto possano valere quelli in tempi di “operazioni speciali”) sostengono che la popolarità di Putin sia aumentata dall’inizio del conflitto. Non deve stupire. Il rublo si è in parte ripreso, le sanzioni inizieranno a farsi sentire tra qualche mese e il nazionalismo russo nelle “ore supreme” è storia nota. L’annuncio di Putin poi di voler chiedere in cambio del gas e del petrolio ai paesi “non amici” il pagamento in rubli ha inorgoglito i russi anche se poi continueranno a ricevere i soliti euro e dollari anche nel futuro. La dedollarizzazione di parte delle transazioni internazionali era già stata fatta baluginare dal presidente russo ai tempi dei Brics, ma continuerà ad avere un difficile decollo se non diventerà un’arma di Pechino.

Del resto le truculente interferenze di Joe Biden hanno aiutato il Cremlino a fornire un’immagine alla propria opinione pubblica da “cittadella assediata”, in cui l’aggressore tenta di dimostrare contro ogni evidenza di essere l’aggredito. Le stesse campagne di russofobia che qua e la sono emerse in tutto l’Occidente hanno dato la possibilità a Dmitry Peskov, il portavoce ufficiale di Putin, di sostenere di «essere di fronte a campagne simili a quelle dei nazisti quando bruciavano i libri negli anni Trenta». Anche misure come quelle assunte dalla società farmaceutica tedesca Miltenyi Biotec, un produttore di attrezzature e materiali per la terapia cellulare, che ha smesso di fornirle alla Russia a causa del conflitto, producendo un (giusto) sdegno tra la popolazione visto che non si tratta di sanzioni che colpiscono oligarchi, funzionari, personale militare o aziende, ma invece negano il diritto alla salute dei malati anche se si tratta, secondo gli esperti, di terapie a cui sono sottoposti pochissimi pazienti. Tuttavia, ci sono altre forme di assistenza medica in cui la Russia è criticamente dipendente dalle attrezzature importate. In Russia circa 50.000 persone sono sottoposte a emodialisi su base permanente e in totale circa 1 milione di persone hanno bisogno di una terapia sostitutiva in un modo o nell’altro. Sanzioni in questo o altri settori sanitari alla Russia potrebbe portare al collasso della catena di assistenza medica per coloro che hanno bisogno di tali cure e mettere decine di migliaia di persone a rischio della vita.

Risultati dell’insoddisfacente riuscita della “spezial operazy”

La sconfitta politica di Putin è però ormai nelle cose. A 40 giorni dall’inizio dell’ostilità l’esercito russo non ha conquistato alcuna grande città e i segnali di demoralizzazione e di frustrazione da parte delle truppe (che probabilmente sono all’origine del massacro di Bucha) che a parti invertite si erano colte nel conflitto nel Donbass del 2014. In queste ore si stanno moltiplicando tra le truppe russe i casi di diserzione individuale e di massa. Il più clamoroso è quello portato alla luce (e poi confermato il 5 aprile ufficialmente) dal blogger osseto Alik Pukhaev secondo il quale trecento militari dell’Ossetia del Sud hanno rifiutato volontariamente di combattere in Ucraina e sono tornati a casa:

«Circa 300 militari (per lo più di etnia osseta) della base militare russa sono tornati nell’Ossetia del Sud di loro spontanea volontà», ha scritto sulla sua pagina Twitter il giornalista perché erano stati chiamati ad un’azione kamikaze contro le truppe nemiche.

Il rifiuto di fare da carne da cannone è stato segnalato anche tra settori dell’esercito occupante a Melitopol’ e a Sumy.
Che ormai la voglia di combattere dei russi sia scarsa è confermato anche da altre segnalazioni. Già da giorni circolano video e foto in internet in cui si viene a sapere che nella zona di Irkutsk vengono richiamati i riservisti mentre a Norilsk per i maschi di 18-35 anni che decidono di arruolarsi nella “Campagna Z” l’esercito promette ai volontari oltre a uno stipendio di 60.000 rubli, un’abitazione, vacanze pagate, il pensionamento dopo 10 anni.

Escalation in Vietnam, эскалация se declinato in Ucraina

Il bluff dei “rublocarburi” (mossa per evitare la fuga di capitali non solo degli oligarchi) potrebbe aprire però la strada a uno scenario “Blitzkrieg2”: ovvero a un nuovo tentativo di dare l’assalto a Kiev e tentare lo sbarco a Odessa.

Secondo Boris Kagarlitsky (@B_Kagarlitsky) «il Cremlino ha bisogno di ottenere qualcosa in campo di battaglia prima che l’economia crolli per tornare a trattare da una posizione di forza».

Ma anche questa sarebbe poco più di un’illusione Nella vita è impossibile rigiocare all’infinito una partita ormai persa. Sarebbe la soluzione peggiore, perché l’Orso ferito potrebbe perfino tentare nuove avventure militare nei paesi limitrofi.
Il conflitto di per sé sembra giunto a un punto di stallo o perlomeno di reload. Le estenuanti trattative tra le due delegazioni proseguono stancamente e per ora hanno prodotto un solo anche se significativo risultato. L’Ucraina avrebbe accettato nel futuro di diventare uno “stato neutrale” (se in versione austriaca o finlandese è ancora tutto da vedere) e di rinunciare definitivamente all’ingresso nella Nato. Il gruppo dirigente di Zelensky, del resto, si è scottato con le troppe promesse degli alleati occidentali che hanno trasformato il paese slavo solo in una piazza d’armi rivolta contro la Russia e immagina un futuro di Kiev a cavallo tra Bruxelles, Ankara e chissà magari Mosca, se nel futuro ci saranno dei cambiamenti significativi – per ora non immaginabili – al Cremlino.

“спецоперация” suona più minacciosa di “война”

Per il resto le posizioni restano distantissime. Mosca non ha ottenuto la “demilitarizzazione e denazificazione” (ovvero il cambio di regime) e difficilmente può immaginare l’occupazione dell’intera Ucraina e punta probabilmente al pieno controllo del Donbass ed eventualmente ad alcune aree del sud. In altissimo mare resta invece la questione del riconoscimento della Crimea e del Donbass da parte dell’Ucraina dove Zelensky avrebbe enormi difficoltà a far digerire un’amputazione così importante del territorio a un popolo in armi e che appare ancora fortemente motivato a battersi sul campo.
La “pace armata” e un eventuale cessate il fuoco con l’invio di forze di interposizione potrebbero apparire all’orizzonte delle trattative nel prossimo futuro ma anche l’ipotesi di una guerra a bassa intensità di lunga durata potrebbe anch’esso diventare lo scenario del futuro dell’area. La Russia non può bloccare una parte del proprio esercito professionale a lungo nell’area o permettersi un’occupazione e l’Ucraina prima o poi dovrà far ripartire la propria economia: sono questi gli elementi che potrebbero imporre a entrambi i contendenti un ammorbidimento delle rispettive posizioni.

Sullo sfondo si colloca la “guerra fredda 2.0” tra Russia e Occidente che rischia di far impallidire quella del Novecento.

La Federazione dovrà ripensare per forza non solo il proprio orizzonte strategico che ne aveva fatto un paese “semi-periferico” votato all’esportazione di materie prime con massicce importazioni di prodotti finiti. Il ritorno a un’economia che ricordi vagamente l’autarchia sovietica è simbolicamente già iniziato con la sostituzione a Mosca dei McDonalds con la nuovissima (ma assai simile) catena russa “Дядя Ваня” [Zio Vania] e sta alimentando un dibattito a più ampio raggio.

Yurii Colombo sta girando la penisola per incontrare chi è curioso di sentire un punto di vista diverso da quello dei salotti televisivi sulla crisi ucraina; questa chiacchierata con alcuni redattori di Radio Blackout è stata registrata il 7 aprile dopo un incontro organizzato dal Centro di Documentazione Porfido di Torino presso l’Edera Squat.

Ascolta “Crisi ucraina tra etno-nazionalismi e ridimensionamento dell’eredità imperiale” su Spreaker.

 

Svolte antiliberiste: il volano statalista dell’economia bellica

«La crisi al vertice…»

Su “Kommersant” – il quotidiano della Confindustria russa – è apparso un lungo saggio di Dmitry Skrypnik studioso di economia e matematica dell’Accademia russa delle scienze di Mosca. Secondo Skrypnik la cosiddetta politica di stabilizzazione macroeconomica che ha segnato tutta l’era putiniana, che consisteva nell’accumulare riserve auree ingenti «avrebbe potuto essere giustificata solo in un caso: se il suo scopo fosse stato quello di sottovalutare il rublo come elemento di una politica industriale mirata alla sostituzione delle importazioni e alla conseguente crescita orientata alle esportazioni».

Invece «l’economia ha continuato a rimanere indietro in tutti questi decenni e a deteriorarsi in molte aree, e la crescita economica è stata inaccettabilmente bassa. La storia, come sapete, non ha il congiuntivo, ma l’economia sì. La scienza economica ha ricette per lo sviluppo in un ambiente di alta corruzione, clientelismo e un sistema giudiziario debole, quindi i tentativi da parte delle autorità economiche e di alcuni esperti di assolvere se stessi dalla responsabilità attribuendo tutti i problemi ai servizi di sicurezza e al sistema giudiziario non dovrebbero essere presi in considerazione. E il fatto che le sanzioni sembrano ora in grado di privare la Russia di questi beni e tecnologie è una conseguenza delle politiche economiche sbagliate degli ultimi 30 anni».

… a Est…

Una disamina impietosa dello stato della Russia in cui non ci sarebbero soluzioni semplicistiche e neppure grandi possibilità per un arroccamento ormai impossibile nel quadro delle dimensioni della globalizzazione. Per lo studioso ci si dovrebbe invece muovere «contemporaneamente lungo l’intera catena del valore, e non solo modificarne il singolo elemento dove lo stato dovrebbe mirare a coordinare i produttori nella fase di creazione della produzione, seguita dalla creazione della concorrenza e dall’entrata delle imprese nel libero mercato. Se questi obiettivi non vengono raggiunti entro un certo periodo di tempo limitato, i relativi progetti dovrebbero essere gradualmente abbandonati».

… e a Ovest

Si tratta di un dibattito che sta attraversando – per altri versi – anche l’occidente dove già a partire dalla crisi del Covid-19 ha rilanciato il ruolo dello stato e dei governi in chiave non solo regolatrice ma interventista anche con la ripresa in grande stile del deficit-spending militarista che mette in discussione sin dalle radici il modello neoliberale. Una svolta non per forza di sinistra, anzi, che si alimenterebbe di russofobia e di un ulteriore rafforzamento della Nato (la Georgia ha già annunciato di non voler deflettere dal suo intento di voler entrare a far parte dell’Alleanza Atlantica nei prossimi anni).
Sono volani che potrebbero produrre dei giganteschi profitti per tutte le aziende legate alla Difesa e al loro indotto che però lasciano dietro di sé le solite vittime predestinate.

Fame e stagflazione alimenteranno proteste?

La guerra, stima la Banca Mondiale, produrrà una riduzione del Prodotto interno lordo ucraino quest’anno di oltre il 20% riportando il paese ben sotto i livelli di vita sovietici. Fame, morte, migrazioni di massa sono già diventate la quotidianità di milioni di ucraini. In Russia le sanzioni comminate dall’Occidente hanno fatto esplodere l’inflazione che si attesterà sicuramente alle due cifre mentre milioni di russi inizieranno a conoscere l’indigesto cocktail della stagflazione (il Pil russo dovrebbe calare del 10%).
In questo quadro, tra qualche mese, con l’arrivo dell’autunno i “fronti interni” potrebbero riaprirsi improvvisamente. Non bisogna dimenticare che l’Ucraina è uno dei paesi più sindacalizzati tra quelli dell’ex Urss e anche recentemente – prima dell’inizio del conflitto – ha conosciuto forti movimenti di sciopero e di protesta. Lo stesso discorso, seppur con altre caratteristiche, potrebbe valere anche per la Federazione.

Come ha sostenuto ancora Kagarlitsky recentemente su “Forum.msk.ru”: «Il Cremlino non capisce non solo gli europei, che sono veramente immaginati come codardi coccolati, il che è totalmente falso. I nostri governanti non capiscono nemmeno il loro popolo, che immaginano come una massa di contadini analfabeti del Diciannovesimo secolo, credenti nello zar e in Dio, pronti a soffrire le privazioni senza domande, a combattere e a morire senza compiacenza sotto l’ordine. Lo stile di vita della popolazione della Russia moderna differisce poco da quello occidentale. La differenza non è che il nostro popolo è più fedele alle autorità, ma che è più diviso e più intimidito. Ma la crisi li costringerà a unirsi. E in nessun modo intorno allo zar».

мусор

Gettalo nella spazzatura. Guerra al fascismo e all’imperialismo

 

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Podcast Rebelde https://ogzero.org/podcast-rebelde-proiettili-fatti-di-parole/ Tue, 29 Mar 2022 20:34:57 +0000 https://ogzero.org/?p=6921 Complesse e uniche frequenze (r)esistenti Il podcast è diventato un nuovo linguaggio per raccontare l’America latina dall’America latina: un mercato comunicativo in costante crescita, che è stato favorito anche dal confinamento prodotto dalla pandemia. Una specie di nuovo adattamento delle radio comunitarie e dei tessuti di (r)esistenza che hanno giocato un ruolo chiave nel seminare […]

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Complesse e uniche frequenze (r)esistenti

Il podcast è diventato un nuovo linguaggio per raccontare l’America latina dall’America latina: un mercato comunicativo in costante crescita, che è stato favorito anche dal confinamento prodotto dalla pandemia. Una specie di nuovo adattamento delle radio comunitarie e dei tessuti di (r)esistenza che hanno giocato un ruolo chiave nel seminare coscienza, “rebeldia” e rivendicazione sociale tra i “nadie” di Eduardo Galeano.

L’originalità e la varietà di questi podcast riflette l’eterogeneità di una regione uguale e diversa, nella quale si vivono drammi comuni e trasversali ma anche lotte particolari e non riproducibili in altre latitudini. Una chiave di lettura per comprendere questa disarmonica e affascinante complessità regionale è stata offerta dallo scrittore e attivista uruguaiano Raúl Zibechi, in Movimientos sociales en América Latina. El “mundo otro” en movimiento (2017):

«… i movimenti sociali in Europa e Nord America si muovono in società relativamente omogenee in cui il controllo e lo sfruttamento del lavoro avviene essenzialmente attraverso il salario, e dove le relazioni sociali sono relativamente omogenee e quindi, la logica che governa l’insieme, governa anche le parti. Nel frattempo, in America Latina abbiamo cinque tipi di relazioni o modalità di controllo del lavoro: schiavitù, servitù personale, reciprocità, piccola produzione commerciale e salario. Siamo di fronte a quella che Anibal Quijano definisce “eterogeneità storico-strutturale” delle nostre società, in cui si mettono in moto relazioni sociali diverse. Quindi è più conveniente chiamare i nostri movimenti collettivi come “società in movimento” o, come essi stessi si autoidentificano: “popoli” o “nazioni” che lottano per la loro sovranità e autodeterminazione».

proiettili fatti di parole

I movimenti collettivi come “società in movimento” o, come essi stessi si autoidentificano: “popoli” o “nazioni” che lottano per la loro sovranità e autodeterminazione.

La controstoria diversamente “trasmessa”

Sono dunque, nella maggior parte dei casi, queste società in movimento, o chi ne rappresenta le lotte o rivendicazioni, a creare o protagonizzare questi podcast che dipingono una geografia della resistenza, della controstoria e della narrazione altra. Visto in questo modo, il podcast diventa un nuovo strumento di lotta che pervade le maglie di una società plurale che prova a resistere, secondo le parole di Zibechi a una «ricolonizzazione dei nostri territori e dei nostri popoli». L’uruguaiano infatti nel dipingere la situazione vissuta dalla regione nel periodo prepandemia scriveva:

«È importante evidenziare la nascita di nuovi movimenti, in quasi tutti i paesi che incarnano le oppressioni più pressanti, derivate dalla crescita esponenziale dell’estrattivismo predatorio, dei femminicidi e della violenza strutturale contro i poveri. L’attuale fase del capitalismo nel mondo (e nella nostra regione) è la più grande sfida affrontata dai settori popolari organizzati, poiché il sistema scommette sulla loro scomparsa come popoli, classi, etnie, razze, generi e generazioni. Non è un’esagerazione affermare che i poveri dell’America Latina stanno subendo un genocidio di tale intensità e portata come non si conosceva dai tempi del colonialismo. In questo senso, sia economicamente che politicamente, stiamo vivendo una sorta di ricolonizzazione dei nostri territori e dei nostri popoli».

Tutti i mondi nuovi compresi nel nuovo mondo web

In questa lotta per la sopravvivenza di quella speranza così ben plasmata dalle parole del sub-comandante Marcos «È necessario costruire un mondo nuovo. Un mondo nel quale possano convivere molti mondi, dove ci sia spazio per tutti i mondi», i podcast si trasformano in proiettili fatti di parole, in pillole di sensibilizzazione e risveglio che attraversano, grazie a internet, tutta la regione.

Il fatto poi che lo spagnolo sia una lingua veicolare per la maggior parte degli abitanti dell’America Latina, aumenta la capacità di diffusione dei contenuti in questa lingua, espandendo l’onda d’urto dei messaggi e delle storie in essi contenute. A questo contesto si aggiunge poi il Brasile, paese-continente nel quale si parla il portoghese e dove i podcast hanno trovato, anche qui, terreno fertile.

Historias que merecen ser escuchadas

In un contesto così dinamico e impermanente risulta estremamente difficile offrire una mappa completa dei podcast (ribelli, divulgativi o informativi) che nascono quotidianamente nella regione. Nonostante ciò, di seguito una breve lista di podcast (sia nazionali che regionali) che toccano tematiche legate ai diritti umani, all’emancipazione della donna, alle discriminazioni razziali, alle disuguaglianze economiche, ai diritti dei popoli indigeni, alle migrazioni, al collettivo lgbtiq+, alle persone con disabilità, al cambio climatico, all’impunità, alla violenza dello stato, alla difesa dell’ambiente e alla vita comune dei latinoamericani e delle latinoamericane.

Las historias de Radio Ambulante

Una delle piattaforme più famose e premiate è sicuramente Radio Ambulante, un progetto comunicativo che da quasi un decennio racconta storie di tutta l’America Latina: storie commoventi, divertenti e sorprendenti, che rivelano la diversità della regione in tutta la sua complessità. Radio Ambulante è distribuito da NPR, la radio pubblica statunitense e a oggi ha prodotto oltre 200 episodi in più di 20 paesi, dimostrandosi il progetto di giornalismo narrativo più ambizioso dell’America Latina. Racconta la vita latinoamericana con storie di amore e migrazioni, giovani e politica, ambiente e famiglie in circostanze straordinarie, offrendo un vero e proprio ritratto sonoro della regione. Nel 2020 Radio Ambulante si è evoluta in una società di produzione di podcast, lanciando El Hilo, un podcast di notizie settimanali presentato da Silvia Viñas e Eliezer Budasoff, con la direzione editoriale di Daniel Alarcón. El hilo approfondisce le notizie più importanti della settimana in America Latina, offrendo contesto e permettendo di andare oltre i titoli dei giornali.

El Collectivo La Brega

Da Portorico arriva invece La Brega, un progetto di WNYC Studios e Futuro Studios che hanno creato una serie di podcast per raccontare la peculiarità della vita portoricana. Disponibile in inglese e spagnolo e presentato da Alana Casanova-Burgess, La Brega è il risultato del lavoro di un collettivo di giornalisti, produttori, musicisti e artisti portoricani.

La Brega

Bregar: trabajar con entrega y luchar contra las dificultades.

Suena así en Mexico

Dal Messico arriva un esperimento molto interessante, che riunisce una dozzina di podcast con contenuti diversi tra loro: si tratta di Así como suena. Questa piattaforma si presenta così al pubblico: «storie di amore e odio, criminalità, politica, corruzione e quotidianità. Parliamo di persone e di personaggi. Il nostro team di giornalisti non rimane in superficie, scava in profondità. “Así Como Suena” offre brani sonori straordinari. Si tratta anche di discutere del paese e delle sue circostanze. Si tratta di ridere e scoprire musica che nemmeno immaginavamo esistesse. Si tratta di sapere cosa offre ogni notte la nostra città preferita. Chi di noi fa “Así Como Suena” scommette sul suono, sull’intimità che solo l’audio è in grado di creare. E ci piace quello che facciamo: lavoriamo per offrirti storie che meritano di essere ascoltate».

proiettili fatti di parole

En Así como suena contamos historias: historias de amor y de odio, de crimen, de política, de corrupción, de vida cotidiana. Nuestro extraordinario equipo de reporteros no se queda en la superficie, en la nota.

La narrativa indomable

In America centrale troviamo Indomables, una creazione delle giornaliste indipendenti Leila Nilipour y Melissa Pinel, che a ottobre 2018 hanno dato vita al primo podcast narrativo di saggistica a Panama. Il progetto è di grande qualità e fin dall’inizio ha avuto un enorme impatto sia a Panama che in America centrale: basti pensare che il primo episodio Si desaparezco, no me busquen ha ricevuto il Premio Nazionale per il Giornalismo Radiofonico.

Intervistate proprio all’inizio del 2022 dal giornale spagnolo “El Pais”, Nilipour e Pinel hanno confermato che stanno lavorando alla stagione 2022 del podcast e che l’idea è anche quella di raccontare almeno una storia da El Salvador e un’altra dal Costa Rica, dal momento che sono paesi centroamericani che non sono stati raccontati nelle stagioni anteriori.

Nessuna vergogna in Nicaragua

Dal Nicaragua, che in generale non sta certo affrontando il suo miglior momento riguardo alle libertà civili, troviamo il podcast Cuerpos sinvergüenzas (Corpi senza vergogna). Uno spazio radiofonico per condividere preoccupazioni, idee ed esperienze di coloro che sfidano coscientemente il bodyshaming e anche di coloro che lo soffrono e cercano aiuto. Uno spazio dove si parla di sessualità, delle identità maschili e femminili, delle lotte per l’uguaglianza, del desiderio di continuare a rendere il Nicaragua un paese migliore. Un obiettivo ambizioso che nasce dentro lo spazio del programma femminista La Corriente e che è gestito dagli stessi membri dell’organizzazione.

Cuerpos sinvergüenzas

Conversamos sobre los problemas que enfrentan niñas, niños y adolescencia en Nicaragua, particularmente en el actual escenario de crisis.

Il bisogno di informazione in Colombia

Passando all’America del Sud e parlando di Colombia, troviamo che uno dei podcast più famosi e ascoltati del paese è A Fondo Con María Jimena Duzán. Si tratta di uno spazio comunicativo giornalistico protagonizzato da María Jimena Duzán, una giornalista e politologa colombiana con una lunghissima traiettoria professionale e che è diventata una dei riferimenti dell’informazione in Colombia.

“Francia Márquez, attivista afrocolombiana epocale”.

Il movimento cileno diffonde la sua maturità in podcast

Spostandoci in Cile, scopriamo Las Raras Podcast. Uno spazio nel quale vengono raccontate storie di persone che infrangono le regole e combattono per il cambiamento sociale: storie di libertà. L’idea è quella di amplificare voci che non si trovano nei media tradizionali, unendo il personale al politico. Nel manifesto del podcat si legge: «Siamo in sintonia con i movimenti sociali. Siamo femministe. Trattiamo argomenti come l’ambiente, l’arte, la scienza, l’istruzione, il genere, l’amore, la famiglia, la maternità, la migrazione, i diritti umani e altro ancora».

… y el feminismo argentino tambien

In Argentina uno dei podcast più ascoltati nel paese è ConchaPodcast (Feminismo esplicito), con le voci di Laura Passalacqua, Dalia F. Walker e Jimena Outeiro che condividono con il pubblico discorsi femministi tra amiche.

Lusofonia

Dal Brasile e spostandoci quindi sul portoghese, possiamo trovare una vasta gamma di podcast. Qui segnalo per esempio il podcast PAMITÊ , una realizzazione dell’Istituto Maria da Penha che porta riflessioni su questioni di genere e diritti umani. Oppure Mulheres na Comunicação un podcast che mira a diffondere e promuovere la comunicazione popolare, fatta dalle donne e basata sui diritti umani e sulle questioni di genere.

Altro podcast di voci (in spagnolo) dall’America Latina è ProComuNicando Ciberfeminismo, un podcast di Marta García Terán che nasce con l’obiettivo di essere un megafono per le voci e le riflessioni di donne che, in America Latina e Caraibi, promuovono azioni, spazi o iniziative cyberfemministe, o che mettono in relazione le tecnologie dell’informazione (Ict) e la comunicazione di genere .

Ma se non parlate spagnolo, portoghese o inglese non disperate. Dall’Italia e in italiano, meritano sicuramente una menzione Macondo, Café Frio e LatinoAmericando.

Il primo è un progetto che Federico Larsenn e Federico Nastasi, due giornalisti latinoamericani (per nascita o per scelta) hanno proposto nel 2021 sulla piattaforma di Treccani. Un percorso in dieci tappe che ha raccontato l’America Latina, smarcandosi da pregiudizi e stereotipi, e avvicinandosi, con serietà e precisione, a questo complessa regione. I due sono già pronti per la stagione 2022 per aiutarci di nuovo a mettere a fuoco un ritratto trasversale di questo subcontinente, alternando voci e protagonisti italiani e latinoamericani.

Il secondo è un progetto portato avanti da Ivanilde Carvalho e Francesco Guerra, nato dalla collaborazione del comitato Italiano Lula Livre e il blog “LatinoAmericando”. Un podcast che vuole offrire uno sguardo sulle principali notizie settimanali dall’America Latina con una speciale lente d’ingrandimento sul Brasile.

Il terzo è un progetto comunicativo all’insegna della cultura, informazione e musica latinoamericana condotto da Gustavo Claros. Uno spazio che nasce nel seno di Radio Cooperativa e che in formato podcast può essere ascoltato sulla principali piattaforme on demand.

proiettili fatti di parole

I podcast stanno cambiando il volto della regione latinoamericana, democratizzando la produzione di contenuti audio e facilitando l’accesso all’informazione anche da parte di chi non gode di una permanente connessione internet. Il fatto poi che possano essere ascoltati in differita e non in un orario specifico li rende più fruibili e la loro diffusione su diverse piattaforme ne aumenta anche l’impatto. Si tratta dunque di un fenomeno che continuerà a crescere, promosso anche da enti statali che sono interessati a intercettare questa nuova frontiera della comunicazione.

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Il “nuovo” ordine mondiale e il gioco delle parti da Astana a Kyiv https://ogzero.org/il-gioco-delle-parti-e-il-nuovo-ordine-mondiale/ Sun, 27 Mar 2022 21:52:07 +0000 https://ogzero.org/?p=6901 Confrontandoci tra complici di “OGzero” sulla complessa situazione ucraina, che è (sì!) una delle decine di guerre in corso nel mondo, ma è anche la parte per il tutto del confronto globale ereditato dalla transizione attraverso il multilateralismo verso un Nuovo ordine mondiale, destinato a venire spostato verso l’Indo-pacifico, abbiamo tratto dall’ultima puntata di Transatlantica24 […]

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Confrontandoci tra complici di “OGzero” sulla complessa situazione ucraina, che è (sì!) una delle decine di guerre in corso nel mondo, ma è anche la parte per il tutto del confronto globale ereditato dalla transizione attraverso il multilateralismo verso un Nuovo ordine mondiale, destinato a venire spostato verso l’Indo-pacifico, abbiamo tratto dall’ultima puntata di Transatlantica24 spunti offerti da Eric Salerno e Sabrina Moles, che ci hanno rievocato le intuizioni messe in gioco in Astana e i 7 mari di Antonella De Biasi. Così “OGzero” nel momento dell’annuncio di un tavolo di pace imbandito a Istanbul comincia a credere che lo spirito di Astana non è sfumato del tutto e su questo dubbio ha cercato di ricostruire i cocci prodotti dall’esplosione del multilateralismo nei rapporti tra stati, dallo scardinamento di alleanze esili, dalla individuazione del momento in cui il Cremlino ha pensato che fosse più opportuno far saltare gli equilibri. Un istante che Antonella nel suo scritto, steso a ottobre, preconizzava individuando nella ignominiosa ritirata americana dall’Afghanistan il segnale della debolezza per cui era possibile azzardare il morso del serpente.

Salvo poi accorgerci che ciascuno ha tratto vantaggio o imponendo spese militari, o annettendosi nuovi territori rivieraschi, o soffiando su un nazionalismo sovranista, cancellando piani ecologisti e ridistribuendo energia con un maggior profitto per i produttori. Distribuito sciovinismo e testosterone in tutti i paesi del primo mondo.

Perciò a partire dalla chiosa del libro, proviamo con questo editoriale a mettere in fila gli eventi di queste ultime 5 settimane sulla scorta di quello che il volume di Antonella De Biasi aveva già individuati come potenziali snodi critici; andremo a trovare nel libro verifiche delle analisi prodotte a posteriori dagli equilibri scaturiti dalla “spezial operazy” di Putin, così da inserirla nell’annoso flusso geopolitico senza gli isterismi cavalcati dal profitto guerrafondaio. Infatti il volume si chiude con una frase emblematica: «Il gioco di Astana, seppur precario, in fondo è anche un gioco delle parti» e le dichiarazioni e le mosse diplomatiche di fine marzo seguono il canovaccio.


Il conflitto in corso è figlio della interpretazione data da una nazione come la Russia al periodo governato da una sorta di multilateralismo: se ne riconoscono i metodi inseguendo i gangli della dottrina Gerasimov (mai realmente scritta o teorizzata, ma resa evidente dalla prassi bellica russa), il cui scopo principale era quello di spezzare l’unilateralismo derivato dalla fine della Prima guerra fredda, in particolare: la soluzione cecena, da cui deriva la carriera del generale; Georgia e Crimea, rimaste senza risposta da parte delle altre potenze… ancora più palese l’uso strumentale del Donbass oggi, come 8 anni fa a suffragio della considerazione dei territori a est del Dnepr come giardino di casa.

Nel caso del conflitto in Nagorno-Karabakh gli armeni hanno pensato erroneamente che Mosca li avrebbe difesi “contro una minaccia turca e musulmana”, come sostiene il professore francese esperto di islam Olivier Roy. Così non è stato perché in fondo l’immagine di una Russia cristiana, ultimo argine all’islam di cui l’Armenia si sente avamposto, serve solo a intermittenza e sempre più raramente come topic/pedina intercambiabile per la personale partita a scacchi di Putin, per ristabilire la grandezza della Russia agli occhi degli occidentali e dei paesi rappresentati dalle economie emergenti. Alcune reazioni caute e sottotono lasciano pensare che Putin non solo fosse al corrente dell’offensiva azera ma che ne abbia addirittura discusso i limiti con il regime di Aliyev così da riprendere solo i territori che, secondo il diritto internazionale, sono azeri. L’estrema destra occidentale ha sempre visto la Russia di Putin, costruita a sua immagine e somiglianza negli ultimi vent’anni, come il baluardo dei valori cristiani minacciati dall’islam. Il Cremlino sfrutta quando servono queste simpatie da sempliciotti. L’obiettivo di Putin è riprendersi e controllare his back-yard.

(Antonella De Biasi, Astana e i 7 mari, OGzero, Torino 2021, p. 49)

Ma anche e soprattutto andava preso nella giusta considerazione l’interventismo in Siria. E in Libia: non si dimentichi il voto del 3 marzo all’Onu che ha visto la metà di paesi africani compromessi per armi, sicurezza e traffici con la Russia compattamente astenuti, in particolare allarmanti le astensioni dei paesi maghrebini fornitori di gas e con interessi – anche militari – intrecciati con il Sud dell’Europa; tutto questo dinamismo del Volga sullo scacchiere internazionale è un prodotto degli accordi di Astana, che è l’altro snodo diplomatico-pragmatico attraverso cui passa la strategia russa di questo periodo e che ha finora imposto i dossier al mondo.

Ma la preparazione alla guerra classica, dotandosi di armi sofisticate, da parte dell’Ucraina attraverso gli stessi meccanismi di alleanze e accordi ibridi con ciascuna potenza locale (e talvolta globale, ma cambiando ogni volta campo contrapposto) ha scombinato il disegno di Shoigu, Gerasimov e Putin. Questa si può considerare una conseguenza del fatto che la Nato si è risvegliata dal coma (indotto da Trump, sodale della deriva reazionaria putiniana mondiale) di cui parlava Macron, ma lo ha fatto predisponendosi a rispondere alla guerra che Bruxelles (e soprattutto Arlington e Langley) sapeva sarebbe stata scatenata: in che modo si preparava? armando gli ucraini con ogni ordigno convenzionale o meno, sia attraverso le armi in dotazione agli alleati europei (baltici in primis), sia con i droni turchi, che con alcune armi di fabbricazione israeliana – ma non tutte, come vedremo – e producendo una propaganda nazionalista identitaria per sollevare lo spirito bellico dell’Europa. Addirittura gli S-400 che furono motivo di sanzioni americane contro la Turchia potrebbero diventare paradossalmente strumenti di difesa per gli ucraini se Ankara si farà convincere a passarle a Zelensky, o le porrà sulla bilancia della trattativa: la tecnologia di cui sono dotate sicuramente è efficace contro le macchine belliche del cui impianto sono parte.

L’amministrazione Biden è ben consapevole che deve tenere la Turchia dentro l’asse Nato per impedire che passi nell’orbita russo-cinese. Così Erdoğan userà questo punto per ottenere vantaggi almeno nelle relazioni bilaterali. La questione critica più importante per gli Usa è il sistema missilistico S-400 che Erdoğan ha acquistato da Putin, non compatibile con quello Nato

(Antonella De Biasi, Astana e i 7 mari, OGzero, Torino 2021, p. 84).

Si può dunque parlare di una proxy war combattuta in territorio europeo e con obiettivi gli interessi europei, che vede gli Usa defilati e non interventisti, ma guerrafondai e impegnati a far esporre l’UE, tagliando così tutti i ponti (e gli oleodotti) euro-russi che in particolare la Germania merkeliana (e di Schroeder) avevano costruito: doppio risultato per gli americani che vendono all’altra sponda atlantica il loro gas poco ambientalista, piazzando (o affittando a caro prezzo) anche le navi che trasportano i rigasificatori.

Ora che gli altri protagonisti in commedia hanno appreso come prendere le misure al sistema bellico ordito da Mosca dalla Cecenia in avanti, accettando una vera e propria guerra con migliaia di morti e smaltimento di magazzini di armi novecentesche; ora che si è dimostrata la marginalità della UE e la sua riduzione a mera potenza locale succube della Nato, mentre la Russia – pur non sfondando e rimettendoci in immagine guerresca e di efficienza militare, piangendo molti più morti e dissanguandosi in spese  – si prende tutte le coste del Mar Nero settentrionale e del mar d’Azov; ora rimane in piedi il modello di rapporti e accordi spartitori; scambi e traffici multilaterali che han funzionato per spartirsi territori di confine, operazioni militari e aree di riferimento tra potenze locali: quel sistema di accordi, che Antonella De Biasi ha correttamente descritto nel suo testo dedicato agli Accordi di Astana, e dove si possono rintracciare in nuce le dinamiche e gli equilibri che ora dopo la guerra spiccano nella narrazione della resistenza ucraina, trova una riproposizione nella fornitura di armi e nelle candidature alla composizione del conflitto da parte di potenze “locali”. Insomma: gli Accordi di Astana vedono trasformati gradualmente i ruoli dei singoli attori e la chiave che ne promana vede protagonisti Turchia (che ospita sia gli yacht degli oligarchi – magari sfuggiti al Novichok dell’Fsb –, sia le denunce dei dissidenti) e Israele (che accoglie ebrei russi e ebrei ucraini), nella totale assenza di strategia Usa/EU.

In fondo la prospettiva di incontri bilaterali russo-ucraini riferita da David Arakhamia, leader parlamentare ucraino e partecipante ai negoziati, previsti per il 28-30 marzo a Istanbul (e/o successivamente a Gerusalemme, probabilmente) con padrini gli equidistanti Turchia e Israele che stanno facendo avance l’un l’altro per ritessere reciproci rapporti diplomatici dopo l’incidente della Mavi Marmara evocato da Murat Cinar nel suo articolo, appare come i memoranda d’intesa stipulati durante il vuoto trumpiano riempito ad Astana, evocati da Antonella De Biasi:

Erdoğan e Putin per primi, e a seguire l’appena eletto Raisi, cercheranno di mantenere l’influenza guadagnata negli ultimi quattro anni della presidenza Trump facendo buon viso a cattivo gioco. Si sa che le alleanze non sono per sempre – anche e soprattutto tra leader autoritari e populisti –, ma ogni volta che ci sarà una crisi, e quindi anche un’occasione per aumentare l’influenza nello scacchiere internazionale, si farà sempre in tempo a scrivere inediti memorandum d’intesa e scegliere una nuova suggestiva località per sottoscriverli.

(Antonella De Biasi, Astana e i 7 mari, OGzero, Torino 2021, p. 85)

 

E il terzo protagonista degli Accordi di Astana, l’Iran, che vi ha partecipato da potenza locale impegnata a mantenere la preminenza sulla mezzaluna sciita e con l’intento di contribuire alla marginalizzazione delle potenze europee, non ha avuto reazioni dopo la crisi afgana e non prende posizione in quella attuale: è apparso chiaro che la repubblica islamica viene tenuta in sospeso per il fatto proprio che a Putin serve l’appoggio di Bennett e quindi potrebbe far pesare un veto alla ripresa degli accordi Jcpoa, nel momento in cui pare che l’amministrazione Biden sarebbe invece disponibile a riprendere i negoziati sul nucleare iraniano, per focalizzarsi sull’indo-pacifico. Come per gli altri teatri delle guerre scatenate e composte ad Astana, il ruolo iraniano è stato in genere di supporto non attivo agli accordi: una sorta di notaio che assicura il proprio assenso in cambio della non intromissione nei propri affari.

Gilles Kepel su “Le Grand Continent” anticipando stralci del suo ultimo libro: «L’amministrazione Biden, il cui primo impulso diplomatico è consistito nel relativizzare il peso del Medio Oriente nella sua agenda politica estera a favore delle questioni cinesi e russe, e nel far prevalere nella regione la riattivazione del Jcpoa sull’antagonismo israelo-palestinese, le cui asperità si pensava fossero state cancellate dagli Accordi di Abramo, si trova così costretta a giocare dietro le quinte durante la guerra del maggio 2021», chiamata dal professore francese “la guerra degli undici giorni”. In questo nuovo caos con gli smottamenti nei paesi dell’area mediorientale, caucasica e mediterranea la Libia e quel che accadrà a cavallo del nuovo anno, determineranno i confini geopolitici degli attori di Astana, nello specifico la Turchia e la Russia.

 (Antonella De Biasi, Astana e i 7 mari, OGzero, Torino 2021, p. 85).

Applicazione di un modello

Qui infatti ritroviamo attivo come sempre il compare di Putin di tanti incontri ad Astana: Erdoğan ha mantenuto lo stesso atteggiamento ambiguo che lo ha contraddistinto in Siria, in Libia, in Nagorno-Karabakh – non a caso di nuovo gli azeri stanno sfruttando l’occasione che impedisce a Mosca di difendere l’alleato armeno – quando ha sostenuto in genere la parte avversa al fantoccio locale di Putin, salvo poi comporre ogni questione attraverso una spartizione de facto di territori, interessi, occupazioni. Anche in questo caso Erdoğan ha fornito a Zelensky armi e sostegno da appartenente alla Nato, ha mantenuto un ruolo ambiguo sui Dardanelli e sull’accesso al Mar Nero in relazione alla Convenzione di Montreux – e anche in questo caso la sottolineatura di Antonella De Biasi di p. 48 di Astana e i 7 mari, relativa all’appoggio russo ad abkhazi e agiari che solleva questioni ataviche in contrapposizione russi e turchi, sostenitori dell’etnia tatara, poneva già il problema di schieramenti – ma poi non aderisce a sanzioni ed embarghi… e questo consente ad Ankara di proseguire la diplomazia di Astana verso Mosca e di proporsi come mediatore, forse per la sua esperienza di occupazione del Rojava e strage di curdi. Ruolo che è in grado di svolgere l’altro campione di democrazia: Israele che da 55 anni occupa territorio palestinese e applica l’apartheid. Anche Israele compare 49 volte nel libro di Antonella De Biasi, pur non essendo tra gli ospiti di Astana, se non in veste di Convitato di Pietra: infatti Tel Aviv ha mantenuto un profilo basso, senza contrariare il Cremlino, sia per i milioni di russi e ucraini immigrati in Israele, sia per gli innumerevoli interessi che legano i due paesi; peraltro ha fornito qualche ordigno a Kyiv, senza consentire l’uso di Pegasus o di Blue Wolf, e tantomeno Iron Dome, sistema di difesa antiaerea richiesto dall’Ucraina fin dal 2019 (per dire da quanto si stavano preparando alla “sorprendente” aggressione russa). E soprattutto, come dice Eric Salerno: «Israele ha bisogno di alleati» e questo è reso ancora più evidente dall’accoglienza per gli Accordi di Abramo che ha stipulato prontamente con alcuni paesi arabi.

Israele e Turchia evidenziano il proseguimento sotto altre forme del multilateralismo sotto il cappello della crisi russo-ucraina: come ci ha detto Eric Salerno nella puntata di Transatlantica24 per quanto riguarda Tel Aviv – ma vale anche per Ankara, nonostante il disastro economico: se va in porto l’occupazione coloniale di tutte le zone in cui la Turchia è impegnata, il colonialismo predatorio può rimpinguare le casse. A entrambe il ruolo di potenze locali va stretto e sia nell’area interessata dalle operazioni belliche, sia nel resto dei 7 mari presi in considerazione nel volume dedicato da OGzero ad Astana, si propongono come interlocutori privilegiati, spesso in sostituzione degli interessi delle potenze coloniali europee classiche, assurgendo a un ruolo di potenze più ampia di quella locale mediterranea.

Il ridimensionamento del ruolo dell’Occidente nel panorama internazionale è determinato soprattutto dalla radicale contestazione del suo modello politico, economico e culturale attuata dalla Cina e in secondo luogo dalla Russia. Non è un caso che Cina e Russia siano tra i principali sostenitori di due organizzazioni multilaterali come i Brics e la Shangai Cooperation Organization (Sco). Di recente i due paesi hanno iniziato a collaborare per ridurre la loro dipendenza dal dollaro.

(Antonella De Biasi, Astana e i 7 mari, OGzero, Torino 2021, p. 73).

Dunque di nuovo le potenze asiatiche evidenziano la inadeguatezza della prosopopea dell’UE, che preferisce riarmarsi, dissanguandosi e riducendo a nulla il sistema welfare liberal-democratico, pur di rincorrere sul piano militare le altre potenze guerrafondaie e venditrici di tecnologie militari per sostenere le industrie belliche anche europee, ringalluzzite dalla guerra per procura al confine eurasiatico, evocativo di altre invasioni, ma che sembra preludere a un ridimensionamento tanto dell’Europa, quanto della Russia stessa, ridotti a belligeranti locali di una guerra a cui stanno alla finestra le due vere potenze globali, che preparano il confronto in ambito indo-pacifico. Gli Usa ottengono – dopo che da due amministrazioni lo richiedono – che tutti gli europei destinino il 2% del pil alla “sicurezza”, sgravando gli americani di parte della spesa militare; la Cina – come ci spiegava Sabrina Moles nell’incontro di Transatlantica24 – senza schierarsi, ma lanciando segnali di propensione per l’invasore, pur facendo attenzione a non confondersi con una potenza sull’orlo del fallimento come la Russia che ha il pil di una provincia cinese (il Guandong), può trarre vantaggi, se non si prolunga troppo la crisi e se non si propone come mediatrice, perché rischierebbe di venire degradata al rango di potenza intermedia come appunto Turchia e Israele. I mediatori nel gioco delle parti.

Dopo la normalizzazione delle relazioni sino-russe alla fine della Guerra Fredda, la Russia è emersa come un importante fornitore di armi e tecnologia per la Cina. Quella relazione era un’ancora di salvezza finanziaria per l’industria della difesa russa in un momento in cui gli ordini di approvvigionamento nazionali si erano prosciugati. Ma da allora le vendite russe alla Cina sono diminuite man mano che l’industria della difesa cinese è maturata «in misura significativa grazie al trasferimento di tecnologia e al furto dalla Russia», commentano Eugene Rumer e Richard Sokolski sul sito di Carnegie Endowment for international peace. La Cina ora compete con la Russia nei mercati delle armi. Attualmente le vendite di armi dalla Russia alla Cina rappresentano solo il 3% del commercio totale annuo dei due paesi, che supera i 100 miliardi di dollari. Con l’accesso alla tecnologia occidentale tagliato a causa delle sanzioni, l’industria della difesa russa ha guardato alla Cina come una fonte alternativa di innovazione che non ha la capacità di sviluppare a livello locale.

 (Antonella De Biasi, Astana e i 7 mari, OGzero, Torino 2021, p. 73).

Può essere che il prossimo teatro di questo “Risiko per procura” torni in zona balcanico-caucasica (Nagorno Karabakh ed enclave etniche della Repubblika Srpska, oppure le tensioni panslavistein Bosnia); può darsi si inaspriscano le dispute che in Africa vedono impegnati militari turchi e miliziani della Wagner in contrasto – soprattutto in Françafrique – con gli eserciti coloniali classici; sicuramente Russia e Cina stanno collaborando assiduamente per spartirsi il Sudamerica, grazie alla distrazione di Biden che prosegue il disimpegno del suo predecessore.

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La guerra in Ucraina cambierà le scelte di Ankara? https://ogzero.org/la-posizione-di-ankara-nel-conflitto-russo-ucraino/ Fri, 18 Mar 2022 14:40:19 +0000 https://ogzero.org/?p=6806 Mar Nero settentrionale con la tatara Crimea; Mar Nero meridionale con gli Stretti strategici per la navigazione. Gli accordi di Astana, che già adombravano un ridimensionamento della Russia al rango delle altre due potenze regionali che li animano, facevano pensare che la Turchia fosse destinata a trarne maggiori vantaggi, mentre Mosca appariva alla ricerca di […]

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Mar Nero settentrionale con la tatara Crimea; Mar Nero meridionale con gli Stretti strategici per la navigazione. Gli accordi di Astana, che già adombravano un ridimensionamento della Russia al rango delle altre due potenze regionali che li animano, facevano pensare che la Turchia fosse destinata a trarne maggiori vantaggi, mentre Mosca appariva alla ricerca di accordi per spartire senza problemi le aree lasciate “libere” dal disimpegno dell’America trumpiana, dimostrando forse un inizio di affanno a svolgere il ruolo di grande potenza. Forse si può inquadrare la “spezial operazy” come una delle tappe delle spartizioni di Astana, che hanno visto diversamente impegnati gli eserciti e le milizie di Ankara e Mosca e quindi l’equidistanza  tra i contendenti da parte di Erdoğan fa il paio con l’interposizione di Putin in finale di conflitto in Nagorno Karabakh concluso a favore dell’Azerbaijan dai droni Bayraktar, protagonisti anche nel confronto bellico in Ucraina. L’equilibrio di Ankara, apparentemente sbilanciato a favore di Kiev (in chiave atlantista), ma attento a lasciare ampi spiragli di apertura a Mosca per proporsi come mediatore – forse per esperienza diretta nell’occupazione imperiale di territori limitrofi al proprio come il Rojava –, può ottenere riconoscimento internazionale, premiando l’ambiguità e la politica dei due forni di Erdoğan? Ed è vera competizione tra Israele e Turchia per ottenere il ruolo di paciere («proprio loro!?!», diranno curdi e palestinesi), o non è il gioco delle parti, per cui ognuno appare come campione valido per ciascuno dei due contendenti, perché tutti legati a filo doppio dallo scambio delle armi?

Vera rivalità tra Israele e Turchia per il ruolo di mediatore?

L’ossessione di OGzero per Astana arriva fin qui, lasciando spazio alle intuizioni di Murat Cinar…


Due paesi importanti per la Turchia sono in piena guerra; Ucraina e Russia. Dai droni ai pomodori, dalla centrale nucleare agli S-400, dal turismo al grano… e dal gas al riciclaggio di denaro. Per il governo centrale della Turchia, Mosca e Kiev sono due partner strategici con i quali ha consolidato dei rapporti economici, politici e militari in questi ultimi anni.
Ora invece questi due vicini stanno attraversando un forte conflitto armato tra loro. Dunque qual è stata, finora, la posizione di Ankara?

Le prime scelte

La politica della Turchia, dal 24 febbraio, quando la Russia ha iniziato a invadere l’Ucraina, mostra che rimarrà in armonia e coordinamento con l’occidente e la Nato, ma senza mettere in pericolo il suo legame con questi due paesi.

Atlantismo

La Turchia, che ha attuato la Convenzione di Montreux e ha impedito a più navi da guerra russe di accedere al Mar Nero, attraverso il mar di Marmara e gli stretti dei Dardanelli e del Bosforo, afferma che non intende imporre sanzioni alla Russia e che farà del suo meglio per mantenere aperti i canali di dialogo con Mosca per la soluzione del problema, accolto con favore anche dall’Occidente.
Con le dichiarazioni rese il giorno dell’inizio dell’operazione, che la Russia definisce “operazione militare speciale”, la Turchia ha chiesto il rispetto dell’integrità territoriale e dell’unità politica dell’Ucraina e ha dichiarato di rifiutare l’attacco russo. La Turchia, che non ha riconosciuto l’invasione e l’annessione della Crimea da parte della Russia nel 2014, ha rivelato che continuerà ad agire insieme all’opinione pubblica internazionale con questa posizione che ha assunto. La Turchia ha anche appoggiato il testo della risoluzione di condanna della Russia all’Assemblea generale delle Nazioni Unite (Onu).

Oltre a condannare la Russia, la Turchia ha anche fornito all’Ucraina il massimo livello di sostegno. Il presidente Recep Tayyip Erdoğan, il presidente dell’Ucraina Volodymyr Zelensky e i ministri degli Esteri e della Difesa turchi si sono incontrati spesso con le loro controparti ucraine e hanno discusso degli sviluppi riguardanti l’occupazione russa esprimendo il sostegno della Turchia alla sovranità dell’Ucraina.
L’uso efficace dei droni armati “made in Turkey”, Bayraktar venduti dalla Turchia, che negli ultimi anni ha approfondito la cooperazione con l’Ucraina nel campo dell’industria della difesa, ha reso ancora più importante il dialogo tra i ministri della Difesa dei due paesi. Le dichiarazioni delle autorità ucraine di voler acquistare più droni dalla Turchia si sono riflesse anche sulla stampa durante questo processo.

Droni autarchici turchi: l'esercito di Ankara si fornisce di ogni dettaglio tecnologico dall'industria nazionale per equipaggiare il proprio gioiello bellico: i sistemi aerei senza pilota

Bayraktar-TB2 Sịha, che fanno strame dei carri armati russi incolonnati.

Sin dall’inizio della guerra, la Turchia ha annunciato di aver iniziato a inviare aiuti umanitari in Ucraina. Con tutti questi passi, la Turchia ha dimostrato di sostenere l’Ucraina.

Caro amico Putin

Il presidente della Repubblica di Turchia, prima e dopo l’inizio dell’operazione, ha dichiarato: «Non rinunceremo alle nostre relazioni speciali né con l’Ucraina né con la Russia» e ha lanciato il messaggio che cercherà di mantenere una politica equilibrata anche se la crisi approfondisse.

Tuttavia, ciò non ha impedito ad Ankara di «invitare Mosca a interrompere l’operazione il prima possibile». Nelle loro dichiarazioni, il presidente Erdoğan e il ministro degli Esteri Mevlüt Çavuşoğlu hanno sottolineato che l’operazione militare ha messo in pericolo la sicurezza sia regionale che mondiale e che la Russia dovrebbe rinunciarvi il prima possibile. Nelle dichiarazioni rilasciate alla stampa è stato anche affermato che Çavuşoğlu ha trasmesso direttamente questo richiamo al ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov, con il quale aveva parlato al telefono.
La Turchia è stata anche tra i paesi che hanno criticato le minacce sventolate da Putin sull’eventuale utilizzo delle armi nucleari. İbrahim Kalın, il consulente per la politica estera del presidente Erdoğan, ha definito “sconcertante” il fatto che Mosca abbia messo sul tavolo la carta nucleare.

Con la Nato ma…

La dedizione della Turchia al patto transatlantico è molto discutibile da parecchi anni. Sia Trump sia Biden, diverse volte hanno criticato Ankara per le sue scelte militari e politiche in Siria e per le sue relazioni con la Russia. Mentre gli Usa sono arrivati anche alle sanzioni economiche e militari, con la Grecia e la Francia ci sono stati dei momenti di grande tensione e reciproche minacce in questi ultimi 2 anni.

La posizione di Ankara nel conflitto russo-ucraino

Settembre 2020, dispute tra appartenenti alla Nato nel Mediterraneo orientale: Grecia e Francia contro Turchia.

Tuttavia dalla guerra in Libia fino al caso degli uiguri, dall’Afghanistan alla produzione militare joint venture con gli alleati, dall’occupazione russa in Crimea e ora con l’appoggio a Kiev, possiamo dire che la Turchia ha seguito molto fedelmente la linea politica, economica e militare della Nato.

… It’s the economy…

La guerra in Ucraina arriva in un momento molto importante per la Turchia; sia per le sue relazioni forti con Mosca sia per la devastante situazione economica e politica che Erdoğan deve affrontare a casa. Un governo ai minimi storici nei sondaggi (meno di 35%) un anno prima delle elezioni presidenziali e parlamentari, sia per il lavoro di grande successo che portano avanti i sindaci delle opposizioni eletti nelle grandi città nel 2019 sia per l’enorme corruzione sempre più conosciuta e evidente che rappresenta il governo e la famiglia del presidente della Repubblica. Ovviamente a questa situazione catastrofica politica bisognerà aggiungere anche la crisi economica senza precedenti. Un’inflazione che supera la soglia del 130%, una Lira che perde il suo valore ogni giorno davanti alle monete straniere, una povertà diffusa e terribile e un vuoto nel fisco che spinge Ankara a svendere qualsiasi cosa al capitale russo, cinese e mediorientale.

… l’intermediario

Insomma: le scelte discutibili, radicali e pericolose di Erdoğan, operate in questi ultimi anni per consolidare un rapporto forte con Putin, fanno paradossalmente sì che la Nato trovi in Ankara un alleato a cui attribuire un ruolo chiave in questo conflitto. Quello del mediatore. Dall’altro lato Erdoğan non vorrebbe assolutamente perdere l’occasione per fare una forte propaganda elettorale nella politica interna portando a casa prestigio, rispetto e forse anche un po’ di soldi, vista la situazione economica e elettorale devastante.

Mediazione

Infatti l’incontro importante ma non fruttifero, avvenuto ad Antalya in Turchia, tra il ministro degli Esteri russo Lavrov e quello ucraino Kubela il 10 marzo è una delle dimostrazioni del fatto che il governo centrale vorrebbe lavorare come mediatore in questo conflitto, molto probabilmente per portare a casa un paio di carte vincenti. L’impegno apprezzato sia da Zelensky sia da Putin ha ricevuto anche gli applausi dal segretario generale della Nato, Stoltenberg che ha espresso la sua gratitudine direttamente al presidente della repubblica di Turchia quando l’ha incontrato durante la sua visita ad Ankara l’11 marzo.
Inoltre, la Turchia si era astenuta, il 26 febbraio, dal votare contro la sospensione della Russia nel Consiglio d’Europa, sulla base del fatto che «una completa interruzione del dialogo e la demolizione dei ponti non sarebbe vantaggiosa». Il ministro Çavuşoğlu ha dichiarato: «Non dovremmo concordare sull’interruzione del dialogo. C’è qualche vantaggio per il Consiglio d’Europa nel rompere i legami con la Russia qui? No. Ecco perché ci siamo astenuti nella votazione. Perché questo comporterebbe la chiusura del dialogo». Tuttavia il 17 marzo, durante una riunione straordinaria: «Il Comitato dei Ministri ha deciso, nel quadro della procedura avviata in virtù dell’articolo 8 dello Statuto del Consiglio d’Europa, che la Federazione russa cessa di essere membro del Consiglio d’Europa a partire da oggi, 26 anni dopo la sua adesione».

La diplomazia di Twitter e le telefonate private

Ankara, sin dall’inizio della guerra, ha mantenuto l’opinione secondo la quale tenere aperti i canali di dialogo con Mosca avrà un impatto positivo sul processo negoziale avviato tra funzionari russi e ucraini. Il consulente per la politica estera del presidente Erdoğan, İbrahim Kalın, in una dichiarazione alla stampa turca, ha affermato che la Turchia segue da vicino il processo negoziale tra le parti in guerra e trasmette i suoi suggerimenti alla Russia, soprattutto grazie al dialogo in corso.
A tutti questi passi e dichiarazioni ovviamente dovremmo aggiungere il continuo traffico di telefonate tra Ankara, Mosca e Kiev e i ringraziamenti di Zelensky direttamente verso Erdoğan comunicati ripetutamente su Twitter, per il suo sostegno

Importanti relazioni sia con Kiev sia con Mosca

In un’intervista rilasciata alla Cnn International, İbrahim Kalın ha dichiarato di non volere che i loro forti legami economici con Mosca, inclusi settori come l’energia, il turismo e l’agricoltura, siano danneggiati, e ha sottolineato che credono nei vantaggio provenienti da una condizione di dialogo alternativa all’imposizione di sanzioni.

La Turchia, che l’anno scorso ha ospitato circa 5 milioni di turisti russi (e 2 milioni di ucraini), ha preferito non assecondare i paesi occidentali che hanno chiuso il loro spazio aereo.

La Russia è il più grande fornitore di gas naturale della Turchia e sta anche costruendo la prima centrale nucleare del paese. I primi reattori dovrebbero essere messi in servizio nel 2023. Il volume degli scambi tra Turchia e Russia supera i 20 miliardi di dollari. I due paesi puntano ad aumentare questa cifra a 100 miliardi di dollari.

Questo rapporto commerciale in crescita vale anche per l’Ucraina. Secondo la Camera di Commercio di Istanbul (Ito) nel 2021 il volume commerciale superava i 7,4 miliardi di dollari Usa e nel 2022 l’obiettivo è raggiungere i 10. Solo nell’ultimo incontro avvenuto il 3 febbraio sono stati firmati ben 8 accordi commerciali tra Erdoğan e Zelensky. La collaborazione tra questi due paesi è in forte crescita anche nel campo militare.

Mediatori sì ma non da soli

La crisi energetica, l’interruzione dei rapporti commerciali, degli investimenti finanziari e del gigantesco riciclaggio di soldi nelle banche europee e in collaborazione con le mafie europee e la minaccia sulla sicurezza cibernetica sono solo alcuni punti che necessitano un piano B nel caso in cui le cose si mettessero molto male a lungo termine con Mosca. Dunque a questo punto insieme ad Ankara subentrano nel gioco due altri attori insospettabili: Grecia e Israele.
La Turchia, ultimamente, sembra che stia ricucendo i suoi rapporti con questi due “alleati”/vicini.

Israele, una volta “razzista” e ”terrorista” per Erdoğan

Infatti non è un caso che il presidente della Repubblica d’Israele, Isaac Herzog, abbia visitato la Turchia, incontrando il suo omologo turco il 9 di marzo. Una visita che era stata già organizzata ma ovviamente ha assunto un’importanza particolare in questo periodo esattamente come il contenuto delle dichiarazioni finali.

«Sia l’inizio di una nuova fase nelle relazioni tra questi due paesi. Dobbiamo rafforzare i nostri obiettivi commerciali soprattutto nel campo dell’energia»: erano alcune parole pronunciate da Erdoğan alla fine dell’incontro. Herzog invece ha voluto parlare anche della convivenza dei popoli, la pace tra le religioni e ha pure citato una poesia di Hikmet.

Secondo il conduttore televisivo israeliano, Mohammad Micedle, questi due paesi hanno obiettivi in comune in Siria e in Ucraina. Quindi devono lavorare insieme. Invece secondo, Jonathan Freeman, uno dei professori dell’Università di Gerusalemme il ruolo di questi due paesi acquisisce un valore aggiunto derivante dalla guerra in Ucraina soprattutto nell’ambito della sicurezza, dell’energia e dal punto di vista economico.

«Grecia e Cipro avranno le risposte che meritano» (Erdoğan, 14 ottobre 2020)

Lo stesso tipo di visita a Istanbul è stato effettuato il 13 di marzo anche dal primo ministro greco Kyriakos Mītsotakīs con Erdoğan.

L’incontro si è concluso con una serie di buoni intenti e progetti legati al «nuovo piano di sicurezza in Europa alla luce della guerra in Ucraina, lotta contro l’immigrazione irregolare e rafforzamento dei rapporti commerciali».

Una nuova fase, una nuova era positiva e felice meno di 2 anni dopo quel famoso momento di crisi registrato nelle acque dell’Egeo che portava quasi alla guerra questi due vicini storici; come l’incontro tra Erdoğan e Herzog mette la parola fine ai dissapori sorti nel maggio 2010 con la vicenda della Freedom Flotilla e l’assalto alla Mavi Marmara, nave turca assaltata dai servizi israeliani che causarono la morte di 9 marinai turchi.

La posizione di Ankara nel conflitto russo-ucraino

Assalto del Mossad alla nave turca Mavi Marmara in rotta verso Gaza nel maggio 2010: causarono 9 morti tra l’equipaggio e il pretesto al presidente turco per ergersi a paladino della causa palestinese.

Oligarchi e oppositori già in Turchia

Approfittare della fuga dei capitali dai paesi in conflitto e isolati è una scelta ormai molto diffusa in diversi angoli del mondo. Esattamente come quello di aprire le porte agli oppositori che a lungo andare potrebbero rappresentare una “carta” politica importante nei confronti dell’alleato di oggi. La Turchia ha fatto queste mosse ospitando quell’enorme quantità di denaro dello stato libico e di quello venezuelano nei momenti di grande crisi economica, politica e militare. Questa scelta fatta da Tripoli e Caracas comporta fedeltà e collaborazione e per Ankara la parziale disponibilità di questi due paesi rappresenta anche un elemento di forza nei confronti dei suoi alleati. In merito alla presenza degli oppositori invece possiamo citare il caso degli uiguri in fuga dallo Xinjiang e dei tatari scappati dalla Crimea in due tempi diversi in questi ultimi anni, rendendo così la Turchia rifugio degli oppositori e degli oppressi per quegli attivisti che rappresentano “minaccia e problema” per gli alleati Cina e Russia.

La storica attrazione per Istanbul

Secondo il professore universitario, Aydin Sezer, la vicinanza geografica della Turchia fa sì che per chi volesse portare via il suo capitale dalla Russia la rende più accessibile e attraente rispetto alla Cina e ai paesi del Golfo. Nel suo intervento fatto in diretta il 7 marzo, organizzato dal portale di notizie “Gazete Duvar, Sezer sostiene che numerose aziende russe stanno già avviando operazioni di acquisto dei beni di lusso, immobili costosi e vari investimenti finanziari a Istanbul. La stessa notizia è stata approfondita il 15 marzo in un articolo di Nuran Erkul Kaya ed Emre Gurkan Abay anche sul sito dell’agenzia di stato “Anadolou Ajansi” e un’esaustiva carrellata di patrimoni investiti in Turchia da parte di oligarchi russi molto vicini a Putin è stata redatta da su “medyascope”.
In una notizia firmata da “Euronews”, il 15 marzo, invece si parlava di quelle migliaia di “benestanti” russi che hanno deciso di lasciare la Russia per via della loro opposizione contro la guerra ma anche perché pensano che una catastrofe economica sia in arrivo. Lo stesso argomento era stato reso pubblico il giorno prima anche da “The New York Times”. In questo articolo, firmato da Anton Troianovski e Patrick Kingsley, si citavano i principali paesi di destinazione come Armenia, Georgia, Uzbekistan, Kirghizistan e Kazakistan ma anche la Turchia. Perché?

Profughi russi a Istanbul

Un turco trasporta nella neve stambulina materassi comprati da organizzazioni umanitarie per aiutare profughi russi contrari alla guerra e timorosi della catastrofe economica russa.

I motivi sono parecchi. Per esempio, nonostante il fatto che i paesi europei abbiano chiuso i loro spazi aerei agli aerei russi, la Turchia non l’ha fatto e questa scelta rende Istanbul una delle alternative per i russi che vogliono lasciare il paese. Solo la Turkish Airlines continua a organizzare 5 voli al giorno per Mosca e, insieme ad altre compagnie, questo numero supera i 30 in alcuni giorni. Kirill Nabutov, un commentatore sportivo di 64 anni fuggito a Istanbul, nell’intervista rilasciata al quotidiano statunitense afferma che la storia si ripete. Anche la cugina della madre di Nabutov fuggì a Istanbul nel 1920 e da lì andò in Tunisia. Anche se non grande come gli ucraini, questa fuga ricorda quelle 100.000 persone in fuga dalla guerra civile negli anni Venti, dopo la rivoluzione bolscevica, rifugiate a Istanbul.

Politica interna appesa ai colpacci internazionali

Il ruolo della Turchia, da diversi punti di vista, possiede un peso importante in questa fase storica che sta attraversando prima di tutti l’Ucraina poi il resto del mondo. Questo ruolo senz’altro è dovuto alle relazioni che Ankara ha costruito in questi ultimi anni, quelle relazioni basate sul reciproco sfruttamento, esattamente come diversi leader mondiali fanno da tempo. A questo fattore sarebbe opportuno aggiungere anche la crisi diplomatica, economica, energetica e politica in cui si trovano alcuni alleati della Turchia. Come abbiamo visto nell’esperienza della “gestione dei migranti” e nei conflitti armati in Libia e Azerbaigian/Armenia, dove l’incapacità oppure l’indifferenza dell’Unione europea e della Nato subalterna, Ankara approfitta dell’occasione. Infine la situazione economica e politica, devastante, in cui si trova il governo di Erdoğan deve fare qualcosa. Un leader che ha sempre fatto alimentare la politica interna con quella estera non può perdere quest’occasione sperando di perdere a casa qualche vittoria. Ce la farà? Questo dipende anche dagli alleati e dai partner della Turchia.

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Ma in Russia… a che punto è la notte? https://ogzero.org/la-crisi-economica-in-russia-a-che-punto-e-la-notte/ Fri, 11 Mar 2022 17:07:54 +0000 https://ogzero.org/?p=6723 La crisi economica in Russia abbraccia nella stretta mortifera delle sanzioni la popolazione e le aziende che finora hanno investito nel paese. Mosca studia mosse difensive che non sono contro-sanzioni e il rublo si svaluta sempre più. Il cauto alleato cinese pensa agli affari e molti attori economici di tutto il mondo si ritirano dalla […]

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La crisi economica in Russia abbraccia nella stretta mortifera delle sanzioni la popolazione e le aziende che finora hanno investito nel paese. Mosca studia mosse difensive che non sono contro-sanzioni e il rublo si svaluta sempre più. Il cauto alleato cinese pensa agli affari e molti attori economici di tutto il mondo si ritirano dalla piazza russa. Migliaia di posti di lavoro in fumo, esportazioni bloccate verso i paesi non amici, soldati di leva spediti al fronte e fatti prigionieri non ammansiscono certo l’opinione pubblica che – vedendo lo spettro di un ritorno all’era sovietica – non segue il suo presidente, nonostante il bombardamento propagandistico dei media. Ma esiste un piano B?

[fin qui OGzero…  Ora Yurii Colombo prosegue fornendo una analisi della situazione economica russa in questo tempo] 


Import-export: le contro-sanzioni?

Non è ancora panico ma ora i russi sono davvero preoccupati. La messe delle sanzioni occidentali, come ha dovuto riconoscere lo stesso portavoce di Putin Dmitry Peskov, sono veramente pesanti e rischiano di essere un colpo di maglio insostenibile per l’economia del paese. «Ora bisogna agire e in fretta», ha detto Peskov anche se per ora le decisioni assunte dalla presidenza e dal gabinetto russo appaiono poco chiare e incerte. Il governo ha definito una lista di beni temporaneamente vietati per l’esportazione dalla Russia per tutto il 2022. Un totale di 200 articoli tra cui attrezzature tecnologiche, apparecchiature per telecomunicazione, attrezzature mediche, veicoli di qualsiasi tipo, attrezzature agricole, attrezzature elettriche. A ben vedere si tratta di una mossa difensiva e non di contro-sanzioni. Di queste si è parlato dei primi giorni della spez operazy (in Russia il termine più prosaico per definire ciò che succede in Ucraina è vietato e può costare fino a 15 anni di reclusione a chi lo usa) ma poi è stato deciso di derubricare visto che perlopiù avrebbero un effetto boomerang. Del resto, è vero, si potrebbe vietare l’importazione di vino italiano o gin, ma questi beni a breve avranno dei prezzi tali che i russi stessi li toglieranno dalle loro tavole senza dover essere soggetti a imposizioni dall’alto. In realtà resta poco chiaro in quale direzione voglia spingere Putin dopo aver limitato a 5000 dollari i versamenti all’estero di valuta pregiata.

Cambio, insolvenza e titoli di stato: lo spettro del default

Da quando dai bancomat sono spariti dollari ed euro (il loro cambio è tassato al 30% per tentare di frenarne l’ascesa) si fanno ora lunghe file – prima e dopo il lavoro – per ritirare anche rubli. Non certo per tesaurizzarli ma per acquistare immediatamente soprattutto beni durevoli. Giovedì l’agenzia di statistica ufficiale Rosstat ha confermato un tasso d’inflazione settimanale del 2,2%, che in linea di tendenza sarebbe intorno al 100% annuo, ma nessuno sa quali saranno gli effetti delle sanzioni tra 3 o 6 mesi.

Le pagine di internet e dei blog in lingua russa sono piene di titoli sulla possibile insolvenza russa, il che rende nervosi i possessori di titoli di stato e spaventa la gente comune sopravvissuta al crack del 1998 che non vorrebbe ripetere l’esperienza di vedere andare in fumo i propri risparmi da un giorno dall’altro.

Secondo Morgan Stanley si può prevedere il default già il 15 aprile, data in cui terminerà il periodo di grazia di 30 giorni dalla scadenza degli eurobond russi per un valore di 117 milioni di dollari. Certo non pagare più i paesi ormai considerati “non amici” attira il Cremlino. Tecnicamente come spiega il canale Telegram moscovita “L’ufficio dell’investitore”, «il ministero delle Finanze onorerà gli obblighi di pagamento, ma a causa delle restrizioni imposte, la Banca Centrale russa non trasferirà le cedole dovute ai detentori stranieri dei titoli». Ma anche questa variabile appare poco potabile. I creditori della Russia e dei paesi che non hanno aderito alle sanzioni non sono interessati da questo “regolamento di conti” politico. Tanto è vero che i produttori cinesi di tecnologia di consumo come Huawei e Xiaomi si sono autoridotti le esportazioni di telefonini e Pc del 60% in Russia temendo di non essere più pagati dagli importatori o rischiare di ricevere sui conti rubli in rapida svalutazione.

Gli amici cinesi: business as usual

Insomma “l’alleato cinese” pensa più al business as usual che alle romanticherie “antimperialiste” di Sergey Lavrov che ha tuonato dalla Turchia: «Non saremo più in ginocchio di fronte allo Zio Sam». Laconicamente una agenzia Tass ha dovuto però registrare che «La Cina ha rifiutato di fornire alle compagnie aeree russe pezzi di aerei, ma la Russia cercherà opportunità di fornitura in altri paesi, tra cui Turchia e India, ha sostenuto il portavoce di Rosaviatsiya». Se però non si parlerà di biglietti verdi difficile che anche questi due paesi possano commuoversi più di tanto.

Le aziende straniere abbandonano il mercato

In questi giorni è fuga dal mercato russo anche per gli attori economici che non avrebbero voluto lasciare una piazza di 145 milioni di consumatori ma che le prospettive dell’insolvenza e delle ridotte capacità di pagamento è considerato “poco attraente”. Ha iniziato Ikea svendendo i mobili stoccati nei depositi di Mosca e San Pietroburgo e chiudendo in fretta e furia. Seguiti dai giganti dell’automobile come Ford, Volkswagen e Porsche. “Pausa di riflessione” anche per Nissan e Toyota.

Secondo quanto riporta “Japan News”, la Panasonic ha smesso di fornire prodotti da fuori della Russia al suo distributore russo a Mosca: «Abbiamo preso in considerazione le difficoltà economiche e logistiche», ha detto un portavoce della compagnia.
Out anche la Komatsu, produttore leader di macchinari per l’edilizia, come anche la Hitachi Construction Machinery che smetterà di esportare escavatori idraulici in Russia. L’azienda prevede anche di cessare la produzione locale a metà aprile. Sempre nello stesso settore, il produttore di gru mobili Tadano ha sospeso le spedizioni in Russia e Bielorussia venerdì per la preoccupazione che le sanzioni finanziarie ostacolino i pagamenti.
Yamaha Motor, che vende motociclette e motori fuoribordo in Russia, ha anche sospeso le esportazioni dal Giappone e da altri paesi verso la Russia.

Disoccupazione, antimperialismo e autarchia: una soluzione?

Migliaia e migliaia di posti lavoro che stanno andando in fumo in un mondo dove il mercato del lavoro – per usare un eufemismo – è sempre stato “volatile”. I comunisti di Zjuganov hanno chiesto a gran voce la «nazionalizzazione delle imprese capitaliste», ma non si capisce bene cosa si potrebbe mai produrre alle condizioni attuali.

Una postura “antimperialista” che piace anche al sindaco di Mosca Sergey Sobjanin che ha promesso di sostituire a breve tutti i McDonald’s con dei fast food russi. L’investimento per ora è limitato (500 milioni di  rubli, al cambio attuale poco più di 3 milioni di euro) ma è il segnale di una chiusura a riccio semiautarchica che ricorda l’Unione Sovietica e che non può piacere soprattutto alle nuove generazioni della capitale.

Il fronte più specificatamente militare lascia più che fredda l’opinione pubblica russa, bombardata da un lato sulle Tv che insistono con messaggi rassicuranti secondo cui «tutto sta andando secondo i piani» e dall’altro dalla macchina delle fake news occidentali che vedono bombardamenti di centrali nucleari dell’esercito russo a ogni piè sospinto.

I “volontari” siriani e le perdite russe (ammesse)

L’impressione – dalla Russia – è che Putin abbia ordinato ai suoi generali di non calcare la mano e di usare il “guanto di velluto” (nella misura in cui si possa fare in una operazione del genere). I russi – anche quelli più convinti delle tesi del Cremlino – difficilmente accetterebbe bombardamenti a tappeto sulla popolazione civile. Ma le difficoltà dell’esercito ad avanzare, malgrado la superiorità tecnica e numerica – appare evidente ai più. Tanto è vero che Putin ha autorizzato perfino la mobilitazione di 16000 “volontari” provenienti dal Medio Oriente, in particolare dalla Siria.

Se si eccettua il Donbass il livello motivazionale a combattere appare scarso mentre lo stato maggiore di Mosca sembra voler evitare lo scontro nelle grandi città e affrontare il pericolo della guerriglia. Secondo Sergey Kirchuk, un attivista comunista ucraino emigrato in Russia e non certo simpatizzante per il regime di Volodymir Zelensky, «l’esercito russo non è riuscito a prendere nessuna grande città ucraina in quindici giorni di combattimenti, a eccezione di Kherson, dove l’insubordinazione locale e la guerriglia sono però già iniziate. I territori degli oblast di Luhansk e Donetsk non sono stati completamente posti sotto controllo. Ci sono battaglie a Kharkiv, Mykolaiv, Sumy, Marjupol e Kyiv. E l’esercito russo sta subendo pesanti perdite. I soldati di leva russi sono coinvolti nell’invasione russa, e molti di loro sono stati fatti prigionieri dall’esercito ucraino. Il ministero della Difesa russo ha confermato questi fatti. L’esercito ucraino sta respingendo con forza l’attacco. Non ci sono stati casi di abbandono di massa delle posizioni o di resa, né di comandanti di formazioni che si sono consegnati al nemico (come successe in Crimea nel 2014). La Russia continua a ridispiegare truppe dall’Estremo Oriente, poiché le attuali forze sono insufficienti per prendere l’Ucraina».

Il piano B è il governo “non ostile”: un film già visto

Si tratta di una interpretazione – quella secondo cui Mosca vorrebbe occupare tutta l’Ucraina – respinta dai vertici del Cremlino e che resterebbe assai onerosa da ogni punto di vista ma che potrebbe diventare un “piano B” se non si riuscisse a trovare la quadra con Kiev. A questo punto il problema sarebbe comunque la formazione di un governo “non ostile” alla Russia.

La vecchia leadership del “Partito delle regioni” di Viktor Janukovich (ora ridenominatasi “Ucraina, casa nostra”) non sembra per ora disponibile all’operazione. L’unico uomo di quell’area che sembra spendibile sarebbe Oleg Zariov, classe 1970, già deputato alla Rada, piccolo businessman tra Mosca e il Donbass. Tuttavia più di un osservatore ritiene che non abbia lo spessore e l’esperienza per prendersi simili responsabilità.

Le trattative di Antalya tra il ministro della Difesa ucraino Dmytro Kuleba e il capo della diplomazia russa Sergey Lavrov sono, come era prevedibile, fallite. Per ora l’argine ucraino non è crollato e la Russia non può tornare a casa senza aver realizzato alcun obiettivo tra quelli apertamente dichiarati, per cui la situazione appare bloccata. Alla fine il Cremlino potrebbe puntare perlomeno a sottomettere Marjupol e aggiungere lo sbocco al mar d’Azov al bottino.

«La Nato non è pronta a garantire la sicurezza dell’Ucraina», ha protestato Kuleba dalla Turchia, senza però citare proprio Erdoǧan che tra i paesi dell’Alleanza è quello che più sta facendo il doppio gioco. Una pressione sull’opinione pubblica occidentale che può far comodo, ma che non sposterà di un millimetro la posizione della UE e degli Usa. Si tratta di un refrain agitato ormai spesso da Zelensky nei suoi quotidiani interventi. Il quale entrato nella crisi con rating bassissimi di consenso e a rischio di essere travolto dalla corruzione che impera nel suo entourage ora si trova a essere “eroe per caso” di un paese che necessita di una qualsiasi leadership per continuare a resistere.

Ascolta “Tutto secondo i piani” su Spreaker.

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Appunti per una tragedia yemenita: i droni di Sana′a https://ogzero.org/appunti-per-una-tragedia-yemenita/ Thu, 10 Mar 2022 17:24:49 +0000 https://ogzero.org/?p=6643 Lo scacchiere internazionale vede molteplici guerre sanguinose in corso da anni fuori dall’Europa; lo Yemen viene usato come scenario dove affondano le dispute tribali storiche e locali, che risalgono al tempo in cui il territorio era suddiviso in entità statali del Nord e del Sud; rinfocolate da guerre per procura che contrappongono potenze locali, a […]

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Lo scacchiere internazionale vede molteplici guerre sanguinose in corso da anni fuori dall’Europa; lo Yemen viene usato come scenario dove affondano le dispute tribali storiche e locali, che risalgono al tempo in cui il territorio era suddiviso in entità statali del Nord e del Sud; rinfocolate da guerre per procura che contrappongono potenze locali, a loro volta sostenute militarmente e propagandisticamente da potenze globali. Scatole cinesi belliche aperte in questo studio di Lorenzo Forlani che dischiude un percorso storico a dipanare il filo dei contrasti dal punto di vista del confronto armato e degli addentellati geopolitici insiti negli intrecci soffocati da un abbraccio mortale di quei riferimenti culturali in contrasto per ragioni storiche e costretti a convivere nelle pieghe di dissidi tribali documentati nella parallela analisi di Carlotta Caldonazzo, che non rinuncia a collocarli nello schema geopolitico dell’area compresa tra lo Stretto di Hormuz e Bab el-Mandeb.

Fu la mattina seguente, a venti chilometri da Taïz, nella dolcezza di una luce che il verde dei campi e dei boschetti privava della sua crudezza, in un palazzo che sembrava uscito da una miniatura persiana, che la mia ricerca delle fonti dell’Islam finì negli occhi di un bambino…
Il guardiano del luogo, un bin Maaruf, proveniente dalla regione più selvaggia dell’antico Hedjaz, ha dei lineamenti affilati e canini la cui espressione astuta è, mi dicono, comune a tutti gli uomini della sua tribù, che fu per molto tempo la più odiata in Arabia. Disprezza qualcuno per generazioni e hai buone possibilità di renderlo spregevole, fino al giorno in cui, con le armi in mano, riacquisterà la sua dignità…

Roman Gary, Les Trésors de la mer Rouge, Gallimard, 1971

 

Il Castello di Taïz com'era (e com'è)

Il Castello di Taïz com’era (e com’è)

fin qui il sommario di OGzero…
La penna ora passa a Lorenzo Forlani


Nuovi scenari scaturiscono dai droni houthi

La crisi umanitaria in Yemen, generata da un grave conflitto militare che non accenna a estinguersi, viene raccontata a fasi e intensità alterne dai media internazionali. Letto unicamente attraverso il prisma della rivalità regionale tra Arabia saudita e Iran, ciò che accade nel paese raccontato da Pasolini tende a guadagnare i titoli delle prime pagine quando i suoi spillover – cioè gli “sconfinamenti” di un conflitto in un contesto diverso da quello in cui ha luogo – sono particolarmente visibili, cioè quando coinvolgono paesi più presenti nel (selettivo) immaginario collettivo occidentale.

È successo alla fine del mese di gennaio, quando i ribelli yemeniti di Ansarullah – anche conosciuti come Houthi – nel giro di due settimane hanno sferrato tre distinti attacchi con droni e missili balistici negli Emirati Arabi Uniti (uno dei quali durante la prima visita ufficiale negli Emirati del presidente israeliano Isaac Herzog) con l’obiettivo di colpire la base militare di Al Dhafra – che ospita truppe britanniche e americane –, un aeroporto e un deposito di carburante. Dopo aver intercettato i missili sui cieli di Abu Dhabi, le forze della coalizione filosaudita, di cui gli emiratini sono parte, hanno bombardato alcune aree sotto il controllo degli Houthi, tra cui la capitale Sana′a e la provincia di Saada, cioè l’area dove il movimento si è strutturato negli anni Novanta.

Attacco di uno stormo di droni Houthi sulla base di al-Dhafra

Lo “Yemen utile”, dimezzato e marginalizzato

Dal punto di vista formale, la situazione in Yemen appare quasi speculare a quella determinatasi in Siria: se nel paese levantino l’esercito di Bashar al Assad, coadiuvato da milizie regionali alleate e soprattutto dall’aviazione russa, dopo quasi dieci anni di conflitto ha ripreso il controllo della gran parte del territorio, e anzitutto di quella che gli osservatori definiscono “Siria utile” (cioè l’area del paese più densamente abitata, lungo la direttrice Damasco-Aleppo), in Yemen sono oggi i ribelli – quelli emersi nel tempo come i più organizzati, cioè gli Houthi – a controllare le regioni più abitate, nonché la capitale Sana′a.

 

La guerra in Yemen ha finora prodotto quasi mezzo milione di morti, dei quali il 70 per cento erano bambini. Secondo la Banca mondiale, su una popolazione iniziale di 30 milioni, oggi in Yemen sono non meno di 20 milioni le persone che hanno bisogno di assistenza umanitaria permanente, e almeno 14 milioni a soffrire la fame. Quattro milioni sono gli sfollati, e un bambino su due soffre di malnutrizione. Lo Yemen era già lo stato arabo più povero – il quartultimo per Indice di sviluppo umano, dopo Sudan, Mauritania e Gibuti – prima dell’inizio delle primavere arabe del 2011, e oggi sembra affogare nella più grave crisi umanitaria del pianeta, trovandosi ai margini della narrazione tanto quanto, geograficamente, si trova ai margini della regione.

Lo scenario precedente: le “primavere” del 2011

Come si è arrivati sin qui? Sette anni di feroce conflitto hanno forse contribuito a rendere sfocato il ricordo del 2011: anche a Sana′a, la capitale del paese, nel mese di gennaio esplodono proteste popolari estremamente partecipate, proprio nei giorni successivi alla “cacciata” di Ben Ali in Tunisia. Le proteste – che prendono di mira anzitutto il presidente Ali Abdullah Saleh – si espandono a macchia d’olio in brevissimo tempo, e in diverse aree si trasformano in piccole rivolte, represse duramente. Già ad aprile, un terzo dei diciotto governatorati dello Yemen sfuggono al controllo del governo.

 

Come in tutte le rivolte che aspirano a diventare rivoluzioni, partecipate in modo più o meno orizzontale dalla società civile, c’è sempre un gruppo più organizzato, più radicato, più predisposto a prevalere sugli altri nella conquista e nella successiva gestione del potere, nel sovvertimento delle istituzioni esistenti. Gli Houthi – perlopiù riconducibili al ramo zaydita dell’Islam sciita, cioè quello che prende il nome dal pronipote di Ali Ibn Abi Talib, figura fondante dello sciismo – iniziano a avanzare le loro rivendicazioni e la loro soggettività politica nella prima metà degli anni Novanta, insistendo sulla lotta alla corruzione sul piano interno e sull’ostilità verso gli Stati Uniti, avversando Israele come posizionamento geopolitico. Sin dal principio si oppongono al presidente dello Yemen, Ali Abdullah Saleh (al potere dal 1990), riconducendolo all’interno di una narrazione che lo descrive come vassallo dell’Arabia Saudita, e di riflesso degli Stati Uniti.

Appunti per una tragedia yemenita

Yemen in piazza.

Il punto di svolta, cioè il momento in cui l’opposizione degli Houthi si trasforma in sistematica insorgenza anche armata – a intensità diverse, nel corso del tempo – arriva nel 2004: dopo aver rigettato un mandato d’arresto, il leader del movimento sciita Hussein Badreddine al Houthi viene ucciso dall’esercito durante un’offensiva a Saada. Da quel momento, sarà il fratello Abdelmalik al Houthi a guidare il movimento, ed è proprio lui che nel febbraio 2011 dichiara il suo appoggio alle proteste antigovernative, invitando i suoi a parteciparvi, soprattutto nella “roccaforte” di Saada.

Intrecci settari: regionalismo imposto al radicamento territoriale

 

Non è quindi un caso che il primo dei sei governatorati a scivolare via dalla giurisdizione del governo yemenita sarà proprio quello di Saada, che a fine marzo viene dichiarato indipendente dagli stessi membri di Ansarullah. In questo periodo inizia anche una fase di polarizzazione settaria con altre formazioni antigovernative di orientamento sunnita come Al Islah (vaga espressione della Fratellanza musulmana), accusati dagli Houthi di avere legami con al-Qaeda, laddove invece gli Houthi, anche alla luce di una effettiva identità di posizionamenti internazionali, nonché della affiliazione religiosa, vengono sempre più ricondotti a movimento organico alle strategie internazionali dell’Iran, rivale regionale dell’Arabia saudita.

Un importante sviluppo si ha nel novembre 2011, quando gli Houthi, già detenendo il controllo di una porzione rilevante di territorio, rifiutano un piano mediato dai paesi del Consiglio di Cooperazione del Golfo, che intendeva dividere lo Yemen in sei regioni federali: secondo i ribelli zayditi, il piano non avrebbe cambiato nulla nella distribuzione del potere e nella governance, e anzi avrebbe rafforzato la netta divisione dello Yemen tra regioni ricche e povere. In più avrebbe frazionato aree già sotto il controllo degli Houthi, che in questo vedevano un tentativo di indebolirne la posizione negoziale. È la prima vera rottura di portata regionale, il momento in cui il piano inizia a inclinarsi verso una feroce guerra civile, alimentata anche da istanze esterne, figlie della proxy war tra Iran e Arabia Saudita.

Milizie. Coperture, forniture, alleanze

È in questo periodo che Ansarullah entra stabilmente in contatto con l’Iran e la sua orbita di milizie regionali, che forniscono addestratori e in seguito armi di vario genere. Dopo aver catturato Sana′a nel 2014, gli Houthi resistono ad alcune offensive saudite nella capitale e si scontrano a Est con formazioni qaediste sotto l’ombrello di Aqap (al Qaeda in the Arabic peninsula). L’offensiva saudita viene declinata soprattutto dal cielo: secondo lo Yemen Data Project, sono circa 25.000 i raid aerei sauditi dal 2015 a oggi, con i picchi più severi nel 2015, 2016 e 2020.

Appunti per una tragedia yemenita

Soldati emiratini rientrano dopo un anno di battaglie in Yemen.

D’altro canto dal 2016 gli Houthi smettono in qualche modo di essere solo una formazione dedita alla guerriglia interna – dal 2018 le battaglie più feroci sono quelle contro gli Amaliqah [i Giganti], un esercito di circa 20.000 uomini, sostenuto da Dubai – e portano a termine diversi attacchi oltre confine, prendendo di mira aeroporti, giacimenti petroliferi e di gas, sia in Arabia Saudita che negli Emirati arabi uniti. Lo fanno servendosi di armamenti via via più sofisticati – e sempre più diffusi in movimenti armati che non possono contare su una copertura aerea – come droni e missili a corto raggio. A partire dai dati del Center for Strategic and International studies, Riad avrebbe intercettato circa 4000 tra missili e droni provenienti dalle zone controllate dagli Houthi negli ultimi 5 anni.

Ed è interessante notare come Ansarullah sia entrato in possesso o abbia direttamente assemblato questo tipo di armamenti, se ancora lo scorso gennaio un report delle Nazioni Unite rilevava la violazione dell’embargo sulle armi, continuando «ad ottenere componenti fondamentali per i loro sistemi d’arma da società europee (soprattutto tedesche, i cui componenti arrivano a Sana′a dopo esser transitate per Atene e Teheran, N.d.R.) e asiatiche, utilizzando una complessa rete di intermediari per occultare la catena di custodia».

Droni in dotazione

In modo simile a quanto fatto da altre milizie sciite, più o meno organiche all’impalcatura di politica di sicurezza regionale dell’Iran, anche gli Houthi dal 2019 hanno persino presentato in via semiufficiale una piccola flotta di droni presumibilmente assemblati in Yemen: si tratta dei velivoli da ricognizione Hudhed 1, Raqib, Rased, Sammad 1 e di quelli da combattimento, Sammad 2, Sammad 3, Qasef 1 e Qasef 2k, questi ultimi praticamente identici ai droni Ababil di fabbricazione iraniana. Se fino al 2019 i droni utilizzati erano soprattutto quelli non armati, che però venivano fatti schiantare contro i radar dei sistemi di difesa della coalizione, da almeno due anni i droni utilizzati sono caricati con esplosivo e hanno un raggio più lungo. In sostanza: da qualche anno gli Houthi hanno accresciuto di molto le loro capacità militari, e questo costituisce uno dei motivi della loro resilienza a fronte della campagna di bombardamenti sauditi ed emiratini.

Qasef 2k, il drone in dotazione ai ribelli Houthi utilizzato per colpire obiettivi sauditi ed emiratini

Dopo sette anni dall’inizio dell’offensiva filosaudita, gli Houthi controllano ancora buona parte dell’area occidentale del paese, che a nord incontra un confine di 1300 km con l’Arabia saudita, mentre a ovest termina sulla costa di fronte allo stretto di Bab el Mandeb, una cruciale zona di transito commerciale. L’unica zona occidentale del paese non controllata dai ribelli di Ansarullah è il lembo di terra costiero a sud, dove sorge la città portuale di Aden, che dal 2019 è sotto il controllo del Southern Transitional Council a guida saudita-emiratina, cioè il governo temporaneo dello Yemen, alternativo a quello guidato dagli Houthi e riconosciuto dalla comunità internazionale.

La guerra finisce con lo Yemen

La guerra in Yemen racconta anzitutto di una incomunicabilità strategico-militare: da una parte una coalizione che, a fronte della quota più alta di import di armi in tutta la regione e di un dispiegamento di forze senza precedenti, non riesce a riportare sotto al proprio controllo gran parte di un paese considerato importante per la propria sicurezza regionale; dall’altra un movimento di resistenza yemenita, endogeno, ma la cui crescente integrazione con gli obiettivi regionali iraniani (a loro volta connessi alla propria idea di sicurezza regionale) ne ha aumentato l’isolamento sia interno – a causa di una gestione draconiana del potere e delle amministrazioni locali – che internazionale (il cui ultimo capitolo è l’inserimento nella lista delle organizzazioni terroristiche).

Il dramma dello Yemen sta soprattutto in questa incomunicabilità, in grado di protrarre un conflitto che non sembra poter avere vincitori, né soluzioni politiche che non passino da un accordo tra Iran e Arabia Saudita, a oggi molto lontano. Gli Houthi controllano una parte di paese sofferente e isolato, senza poter disporre dei suoi confini, e dovendo fare i conti con le campagne di bombardamenti che mirano ad annientarli: un movimento di guerriglia che sembra sempre più propenso a difendere le proprie posizioni e sempre meno destinato ad aver un ruolo politico concreto, in un eventuale futuro Yemen pacificato. I sauditi e gli emiratini, dal canto loro, accanto a una impossibilità di trovare una soluzione politica, mostrano alla regione una rischiosa inefficacia militare: non sufficiente a farli desistere, anzi in grado di suggerire pericolosamente che la guerra in Yemen possa finire soltanto quando sarà finito lo stesso Yemen.

 

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Aden, Arabie: opposte visioni del mondo collidono https://ogzero.org/aden-arabie-opposte-visioni-del-mondo-collidono/ Thu, 10 Mar 2022 17:23:04 +0000 https://ogzero.org/?p=6668 L’annosa crisi yemenita affonda radici in un passato, dove si possono trovare motivi per un conflitto e obiettivi per ciascuno dei contendenti molto divergenti. Sono questi a minare l’equilibrio della regione e contemporaneamente ne sarebbero garanti se l’interesse geopolitico delle potenze globali non si fosse giustapposto sui dissidi locali per farne teatro delle loro dispute: […]

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L’annosa crisi yemenita affonda radici in un passato, dove si possono trovare motivi per un conflitto e obiettivi per ciascuno dei contendenti molto divergenti. Sono questi a minare l’equilibrio della regione e contemporaneamente ne sarebbero garanti se l’interesse geopolitico delle potenze globali non si fosse giustapposto sui dissidi locali per farne teatro delle loro dispute: infatti oltre a essere uno dei campi di battaglia per la supremazia regionale – come ben documenta l’attenzione alle armi usate nel conflitto yemenita nell’articolo parallelo di Lorenzo Forlani –, lo Yemen subisce, a causa della sua posizione strategica, le pressioni generate dalla convergenza delle proiezioni delle potenze mondiali; Gran Bretagna, Unione sovietica, monarchie del Golfo, Iran, Stati uniti: i titani si scontrano tra Hormuz e Aden.

L’ampio conflitto yemenita – una guerra che ha già causato mezzo milione di morti, molti dei quali civili (nel marzo 2019 un ospedale di Save the Children a Saada era stato attaccato dai sauditi con bombe prodotte dalla Rwm italiana) senza riuscire a smuovere coscienze caucasiche –, che trova qui un’esaustiva disamina da parte di Carlotta Caldonazzo, ha una delle sue icone nella Safer, petroliera ormeggiata in decomposizione al largo di Hodeida. Il 5 marzo si è raggiunto un accordo perché l’Onu possa occuparsi di disinnescare una delle bombe a orologeria disseminate da decenni nello Yemen. La sua sorte somiglia a quella di un territorio ormeggiato nel ‘pelago’ pericoloso degli scontri tra concezioni di vita e religione, di interessi locali e geostrategici.

Al Crater, sull’Esplanade, stavano adunati attorno al campo di calcio gli Arabi dell’Hadramut e dello Yemen, gli Indù di ogni casta, i Negri della sponda africana mescolati coi fantaccini di Sua Maestà: talvolta suonava la banda del reggimento punjabi; nei giorni dello Shabbàth i ragazzini ebrei si scaltrivano, non osando ancora radersi i ricciolini, ma solamente portare quelle giacche chiare, che avrebbero indossato definitivamente un giorno sui marciapiedi di piazza Mohammed Alì all’inizio della Muski al Cairo
(Paul, Nizan, Aden Arabie, edizioni Fahrenheit 451, 1994, p. 128; ed. or. 1926)

fin qui il sommario di OGzero…
La penna ora passa a Carlotta Caldonazzo


Attriti arabo-iranici

Il 28 febbraio, il Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite (Onu) ha votato la risoluzione 2624, proposta dagli Emirati arabi uniti (Eau), che estende l’embargo delle armi all’intero gruppo dei ribelli sciiti noti come Houthis o Ansarullah, limitato a singoli individui dalle precedenti risoluzioni, a partire dalla 2140 e dalla 2216. Undici i voti favorevoli, nessuno contrario, mentre Irlanda, Messico, Brasile e Norvegia si sono astenuti. A votare in favore della risoluzione è stata anche Mosca, che secondo alcuni analisti avrebbe sostenuto la proposta emiratina in cambio dell’astensione di Abu Dhabi su due precedenti risoluzioni sull’Ucraina. Sia la Russia, sia gli Eau smentiscono una simile lettura mercantilista, ma intanto in Yemen si manifestano contemporaneamente due tipi di conflitto: il primo livello di scontro è interno e il prodotto dell’intersecarsi degli attriti tra le molteplici e fluide fazioni politico-tribali e tra le due entità storiche che costituiscono il paese; il secondo, invece, e quello esterno ed è la risultante del convergere nello stesso territorio degli interessi strategici di potenze regionali e globali. Da quest’ultimo punto di vista, infatti, lo Yemen è uno dei terreni di scontro privilegiati dall’Iran e dalla coalizione arabo-sunnita. Senonché, il fronte, un tempo compatto, di quest’ultima si è recentemente incrinato, prima a causa della crisi diplomatica tra il Qatar e gli altri membri del Consiglio di cooperazione del Golfo (Ccg), poi per via dell’emergere di una personalità geopolitica emiratina. Gli Eau, infatti, si sono inizialmente allineati con Riyadh, ma soprattutto dall’avvento del principe ereditario Mohammed bin Zayed, hanno tentato di ricavarsi uno spazio geopolitico proprio, autonomo dal tradizionale predominio storico-culturale saudita.

Fratture geopolitiche

Sullo stesso livello regionale degli equilibri geopolitici mediorientali, tra i rivali di Tehran, oltre alle monarchie del Golfo, si deve annoverare Israele, anche se implicata nel conflitto yemenita solo da tempi recenti. Ad attrarre l’attenzione di Tel Aviv, in realtà, è stata la svolta politica operata nei primi anni Duemila dal gruppo di ribelli sciiti Ansarullah, noto per lo più con il nome della tribù in esso dominante, gli Houthi. In realtà, le radici di questo gruppo politico-tribale affondano principalmente nella diffidenza di alcune tribù sciite dello Yemen settentrionale di fronte all’unificazione yemenita del 1990, percepita come una potenziale minaccia per almeno due ordini di motivi. In primo luogo, perché comportava il rafforzamento della Repubblica araba dello Yemen, che non solo era nata nel 1962 dopo la deposizione dell’ultimo imam mutawakkilita (l’imamato era la forma monarchica con cui lo Yemen settentrionale aveva ottenuto l’indipendenza dall’impero ottomano sull’orlo del crollo), ma era anche ispirata sin dall’inizio al modello nazionalista panarabo e laico del presidente egiziano Gamal Abd al-Naser. In secondo luogo, perché nel 1990, dopo l’implosione del sistema sovietico, l’Arabia saudita aveva fondato il partito islamico sunnita yemenita al-Islah, sia in funzione anticomunista (a Riyadh fu assegnato il compito di gestire la globalizzazione dell’ultimo decennio del Ventesimo secolo tra le popolazioni arabe sunnite, un ruolo simile a quello della Turchia tra le popolazioni musulmane non arabe – e non necessariamente sunnite, come nel caso dell’Azerbaijan), sia per evitare che lo Yemen diventasse uno stato sciita, potenziale appiglio per la minoranza sciita che vive all’interno dei suoi confini in condizioni di cittadinanza di serie b.

Graffiti di Murad Subay sui muri di Sana'a

Graffiti di Murad Subay sui muri di Sana’a: opere collettive piene di ironia nella loro denuncia degli attacchi jihadisti e degli scontri settari

Il movimento Houthi

È in questo contesto che il movimento Houthi fu fondato nel 1992, nella provincia di Saada, con il nome di Gioventù credente e, originariamente, con due obiettivi fondamentali: il primo era promuovere il risveglio dell’islam sciita zaydita come modello di islam politico moderato, contrapposto alla rigidità dei Fratelli musulmani sunniti e al wahhabismo e al salafismo sauditi; il secondo, invece, era denunciare la corruzione del sistema messo in piedi dall’allora presidente Ali Abd Allah Saleh e l’accordo da lui siglato con gli Stati Uniti, considerato una sorta di atto di svendita alla superpotenza imperialista del momento. In principio, inoltre, le letture religiose che circolavano nelle associazioni studentesche erano soprattuto di due teologi sciiti libanesi, nonché personalità di spicco nel partito sciita Hizbullah: Mohammad Hussein Fadlallah e Hasan Nasrallah. Vale la pena forse notare, a questo punto, che esiste una differenza tra lo sciismo iraniano e libanese, che in massima parte è di scuola duodecimana (detta così perché riconosce dodici imam storici), e quello yemenita, in maggioranza zaydita (per esempio, questa scuola riconosce solo cinque imam storici). La divergenza non è profonda, ma risiede in dettagli come il mancato riconoscimento da parte degli zayditi dell’infallibilità dell’imam. Di conseguenza la contrapposizione non è così netta come rispetto all’islam sunnita prevalente in Arabia saudita e che Riyadh ha cercato di diffondere anche in Yemen. Peraltro, le differenze confessionali il più delle volte sono un pretesto per i conflitti, non la loro causa remota. Ne sia un esempio la presa di posizione dell’Iran, nel conflitto nel Nagorno-Karabakh, in favore della cristiana Armenia e contro l’Azerbaijan, paese turcofono ma a maggioranza sciita duodecimana.

Guerra per procura contro l’alleanza sciita

Tra la fine degli anni Novanta del secolo scorso e l’inizio degli anni Duemila, gli Houthi hanno iniziato a integrare nel loro programma politico tematiche di geopolitica regionale e globale, in particolare la resistenza a Israele e all’imperialismo statunitense, nonché la teoria di un complotto ordito da Tel Aviv e Washington con la complicità delle monarchie arabe del Golfo. Dal 2003, infine, ossia dopo l’invasione statunitense dell’Iraq, compare tra i loro sloganmorte agli Usa, morte a Israele”. Nel momento in cui gli Usa dichiaravano guerra al terrorismo di matrice islamica, facendo di Israele la punta di diamante della loro proiezione di potenza in Medio Oriente, l’Iran tesseva una serie di relazioni con i movimenti sciiti arabi della regione, in particolare con il partito sciita libanese Hezbollah, con gli alawiti siriani, con gli Houthi yemeniti e con gli sciiti iracheni, con i quali, tuttavia, il rapporto è da sempre piuttosto complesso. D’altronde, l’ayatollah Ruhollah Khomeini aveva dichiarato Israele nemico dell’Iran già prima della rivoluzione islamica del 1979, a seguito della quale elaborò una forma di islam politico rigoroso sciita e non arabo, da contrapporre ai modelli sunniti fioriti in Egitto (i Fratelli musulmani e la loro costola scismatica takfirita) e Arabia saudita (wahhabiti e salafiti) e all’allora modello laico della Repubblica di Turchia. Negli anni Novanta, quindi, Tehran ospitava gli studenti della Gioventù credente, tra i quali Hussein Badreddin al-Houthi, che fu uno degli ispiratori del movimento. Quest’ultimo, dopo il suo assassinio (assieme a diversi uomini della sua scorta) da parte dell’esercito yemenita, a Sa’ada, nel 2004, prese il suo nome, Houthi, e lanciò la rivolta armata contro il governo di Sana’a. La linea di Hussein al-Houthi, infatti, era essenzialmente riformista e improntata al dialogo, tribale e confessionale, come dimostrò nella sua esperienza di deputato del Parlamento yemenita, nel partito al-Haqq (“la verità”), che è anch’esso una sua creazione. A inimicargli il governo di Ali Abdallah Saleh furono le sue prese di posizione in favore dei movimenti separatisti meridionali, anch’essi impegnati nella lotta contro la corruzione del potere centrale, sia pure per ragioni diametralmente opposte. Nacque in tal modo in molti separatisti e socialisti meridionali una certa forma di simpatia e solidarietà nei confronti degli Houthi, al punto che alcuni di essi, per prendere posizione contro l’integralismo sunnita del partito al-Islah, si sono dichiarati sciiti.

Mezzaluna sciita

L’evoluzione della Mezzaluna sciita nell’area Mena fotografata nel 2015 dalla Columbia University

Fratture storiche

Nell’analizzare i rapporti tra le forze politiche yemenite, occorre tener presente che tanto nelle alleanze, quanto nei dissidi, entrano in gioco diversi fattori: oltre alle scelte del capo di partito o di fazione del momento e alle differenti posizioni riguardo l’islam politico, nel Nord hanno un ruolo significativo i legami tribali, mentre nelle regioni meridionali, la nascita del Movimento per il Sud, nel 2007, ha le sue radici nella percezione, diffusa nella ex Repubblica democratica popolare dello Yemen, dell’unificazione come una conquista brutale da parte di un Nord arretrato e corrotto, che ha imposto al Meridione ex socialista, laico e urbanizzato un sistema basato sul nepotismo, sulle dinamiche tribali e sui privilegi di casta. Una posizione che, paradossalmente, accomuna questo movimento a quello degli Houthi, nato per aggregazione attorno all’omonima tribù, ma dal 2004 maggiormente connotato in senso ideologico-religioso. Peraltro, buona parte degli esponenti del Partito socialista yemenita (Psy), al governo durante l’epoca sovietica (lo Yemen meridionale è l’unico paese arabo ad aver partecipato con un suo contingente all’invasione sovietica dell’Afghanistan), nel 1990 aveva accettato a malincuore l’unione con il Nord. Qui, infatti, le istituzioni nate dalla rivoluzione repubblicana del 1962 non facevano che mascherare le tradizionali dinamiche tribali, che il Movimento accusa Sana’a di aver diffuso anche al Sud. Inoltre, vigeva un sistema analogo a quello indiano delle caste, inclusi gli intoccabili, chiamati akhdam, “servi”, spesso di origine somala. In generale, rispetto al Sud, nelle regioni settentrionali le differenze di genere erano nette, l’analfabetismo dilagante e, soprattutto, i tradizionali privilegi tribali si erano sovrapposti a quelli derivati dall’appartenenza al “clan” di Ali Abdallah Saleh. Un regime originariamente laico, nazionalista e militarista, che in seguito ha fatto ricorso alle forze politiche religiose per opportunismo politico e, all’occorrenza, si è prostrato agli Stati Uniti e all’Arabia saudita, in nome, rispettivamente, della lotta al terrorismo di matrice islamica e del contrasto alle forze laiche progressiste. Gli attriti tra i due Yemen emersero nel 1993, appena tre anni dopo l’unificazione, quando il vicepresidente della Repubblica Ali Salem al-Beidh, segretario generale del Psy integrato nelle istituzioni unitarie, abbandonò il governo e si ritirò ad Aden, ex capitale del Sud e porto strategico nell’omonimo golfo.

Saleh assedia Aden e impone il nuovo corso. Il reportage de “l'Unità” il 9 maggio 1994

Saleh assedia Aden e impone il nuovo corso. Il reportage de “l’Unità” il 9 maggio 1994

La guerra infinita

Al-Beidh denunciava l’intenzionale impoverimento del Sud da parte del governo centrale e l’uso da parte di Saleh delle alleanze tribali e delle organizzazioni integraliste sunnite per intimidire, o addirittura eliminare, gli oppositori politici del Sud (accuse simili a quelle mosse dagli Houthi). Dopo un tentativo di accordo siglato ad Amman nel febbraio 1994, scoppiò una breve ma sanguinosa guerra civile e fu proclamata l’indpendenza della Repubblica democratica dello Yemen. Saleh chiamò in soccorso anche le milizie islamiche e riuscì a sconfiggere l’esercito messo in piedi dai capi politici del Psy, che optarono per l’esilio volontario. Le ragioni profonde della guerra civile risiedono nella profonda diffidenza che Saleh nutriva nei confronti di questo partito, preferendo quindi contare, da un lato, sulla fedeltà tribale delle milizie islamiche affiliate ad al-Qaeda nella Penisola araba (Aqpa) e, dall’altro, sull’alleanza istituzionale con al-Islah (che ha anche un considerevole braccio armato), partito vicino alla Fratellanza musulmana, ma sostenuto dall’Arabia saudita, prezioso alleato per l’allora presidente yemenita, almeno finché gli aveva assicurato la permanenza al potere. Infatti, nel 2012, quando Saleh fu costretto alle dimissioni dopo che un ordigno lo aveva quasi ucciso nel palazzo presidenziale, nel giugno 2011, rendendo evidente l’impossibilità di un ritorno alla presidenza, Riyadh iniziò a sostenere il suo successore ed ex vicepresidente Abdorabbou Mansour Hadi. A quel punto, Saleh, tornato in Yemen, si schierò con gli Houthi (d’altronde era di famiglia sciita) quando, nel 2014, si apprestavano a prendere il controllo di Sana′a, costringendo alle dimissioni prima il vicepresidente Mohammed Basindawa, poi Hadi, che riparò temporaneamente ad Aden, per fuggire poi in Arabia saudita. Qui si trova tuttora, data l’impossibilità di tornare in Yemen per via della condanna a morte sentenziatagli nel 2017 da un tribunale di Sana′a controllato dagli Houthi, con l’accusa di alto tradimento. La conquista di Sana′a da parte dei ribelli sciiti diede, dunque, al Consiglio di cooperazione del Golfo (Ccg) l’occasione di arginare l’influenza iraniana in Yemen con un intervento militare condotto da una coalizione di paesi sunniti guidata da Riyadh saudita.

Consiglio di Cooperazione del Golfo che decide di Arginare l'influenza iraniana in Yemen

Consiglio di Cooperazione del Golfo che decide di Arginare l’influenza iraniana in Yemen (luglio 2017)

Riyadh e Abu Dhabi: alleati tattici o rivali strategici?

Nel 2017, intanto, Saleh, consapevole che gli Houthi non avrebbero mai conquistato tutto lo Yemen e che, di conseguenza, non gli avrebbero restituito il potere di un tempo, ruppe anche con loro, probabilmente a seguito di colloqui segreti con funzionari di Emirati arabi uniti (Eau), Russia e Giordania, e aprì al dialogo con la coalizione a guida saudita, ma fu ucciso nel dicembre dello stesso anno in un’imboscata dei ribelli sciiti. In questa vicenda, emerge una trasformazione progressiva del ruolo di Abu Dhabi all’interno della coalizione condotta da Riyadh e, di conseguenza, nel complesso quadro dei conflitti yemeniti. Gli Eau, infatti, non contenti del sostegno saudita a una forza politica, al-Islah, gravitante nell’orbita dei Fratelli musulmani, hanno preferito sostenere, sin dall’inizio delle proteste popolari del 2011 (che si inscrivono nel quadro delle cosiddette primavere arabe), il Movimento per il Sud, ben sapendo che, caduta l’Unione sovietica, non avrebbe mai avuto la capacità di controllare tutto lo Yemen, limitandosi a mettere i bastoni tra le ruote al governo centrale e a contrastare, in minima parte, l’influenza dell’islam nella sfera politica. Inoltre, dal 2017, Abu Dhabi si è progressivamente ritirata dalla partecipazione diretta all’intervento militare, offrendo piuttosto un sostegno militare e finanziario alle Brigate dei Giganti: milizie in gran parte salafite, costituite dai membri delle tribù provenienti dalle città di Lahj, Abyan e Dammaj (quest’ultima nel governatorato di Sa′ada, roccaforte Houthi). Questo graduale distacco degli Emirati dalla strategia saudita, che mira, in ultima analisi, alla neutralizzazione della potenza iraniana, coincide con l’elaborazione di una propria visione strategica, meno monolitica e più aperta al dialogo con Tehran. Per questo, molti analisti si sono interrogati sulle ragioni degli attacchi missilistici sferrati dagli Houthi, il 17 gennaio, contro Abu Dhabi. Nondimeno, essi sono avvenuti in un momento cruciale dei negoziati internazionali sul programma nucleare iraniano e in una fase di cambiamento nelle politiche estere emiratina e saudita: entrambe le monarchie del Golfo, infatti, stavano tessendo rapporti di cooperazione economica e finanziaria con la Cina, dalla quale ultimamente Abu Dhabi ha anche acquistato aerei da guerra. Inoltre, mentre l’acquisto emiratino di tecnologia Huawei per il 5G aveva indotto gli Usa a provocare uno stallo nella trattativa per la vendita del sistema F-35 agli Eau, dopo gli attacchi del 17 gennaio, Washington è tornata sui suoi passi.

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La distribuzione delle armi ai patrioti https://ogzero.org/la-distribuzione-delle-armi-ai-patrioti/ Mon, 28 Feb 2022 02:36:46 +0000 https://ogzero.org/?p=6548 Non è compito, né obiettivo di OGzero riportare notizie, anche se stravolgono il mondo e condizionano ogni aspetto della geopolitica, finché non si decanta il polverone che sollevano, consentendo un’analisi distaccata di ciò che provocano. Questa la natura analitica del sito; poi OGzero ha una sua componente parziale, schierata – per quanto cinica – e […]

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Non è compito, né obiettivo di OGzero riportare notizie, anche se stravolgono il mondo e condizionano ogni aspetto della geopolitica, finché non si decanta il polverone che sollevano, consentendo un’analisi distaccata di ciò che provocano. Questa la natura analitica del sito; poi OGzero ha una sua componente parziale, schierata – per quanto cinica – e contraria a ogni autoritarismo e militarismo che rivendichiamo come tratto distintivo. E che ci spinge a intervenire quando un’enormità inaccettabile viene assorbita come se non si trattasse di una barbarie: un’“involuzione copernicana”, che non è tanto l’invasione di un paese ex satellite da parte di un autocrate riconosciuto (Biden ha definito Putin un “killer” a inizio mandato), ma che l’Unione Europea con la sua prosopopea sull’approccio burocraticamente democratico si riduca al rango di trafficante per delegare un suo contenzioso. Questo passo è la vera svolta della vicenda ucraina, che per il resto dal punto di vista geopolitico è una delle innumerevoli situazioni di conflitto che ammorbano il pianeta.


Le infinite declinazioni degli aggettivi bellici

La guerra boot on the ground e il Glovo dei missili anticarro

Abbiamo anche avviato uno studium – non perché subodoravamo risvolti guerrafondai, ma perché l’escalation delle guerre di droni e nuovi sistemi di difesa e offesa è in atto da alcuni anni, producendo sempre nuove guerre – che ci impegna per l’intero 2022 (e forse anche oltre) a monitorare le movimentazioni, le consegne, i traffici di armi nel mondo, perché laddove c’è una transazione di questo tipo, prima o poi quell’arma viene usata. Non siamo anime belle che pensano che l’Europa non venda armi a chi è impegnato in un conflitto (chi se non i combattenti adoperano, consumano e ricomprano altre armi, se non chi le sta usando?) e quindi non ci stupiamo che si stanzino alcune centinaia di milioni per comprare armi da girare a un combattente, preoccupa che venga fatto senza infingimenti: hanno trovato il pretesto per poter moltiplicare gli affari per l’industria bellica senza dover pagare dazio. Senza contare che avevano già iniziato il giorno prima degli annunci ufficiali di Von der Leyen, a consegnare – come da consuetudine – armi ai belligeranti:

Guido Limpio, Missili e lanciarazzi. Italia, i primi soldati, “Corriere della Sera”, 27 febbraio 2022, p. 11. Pubblicato la sera precedente l’annuncio di Ursula Von der Leyen sugli stanziamenti UE per acquisto di armi da consegnare all’Ucraina

Il rilievo che ci viene spontaneo è il fatto che la tipologia degli articoli del delivery europeo via Polonia (ma anche le repubbliche baltiche sono tra i protagonisti più attivi già da alcune settimane nella distribuzione) denuncia la classificazione di quella che sarà la proxy war nel cortile di casa per alcuni anni: armi per un contrasto sul terreno, invischiando l’armata russa nella trappola scavata al suo confine a cominciare da Maidan.

Equipaggiamenti per guerre non lineari e guerriglia urbana

E infatti come sito attento ai rivolgimenti geopolitici siamo mitridatizzati alle guerre: uguali a quella carpatica ce ne sono state e se ne stanno combattendo molte altre nel mondo, certo non con una delle 3 potenze mondiali come protagonista diretta, ma sempre sullo sfondo si trovano impegnate tutte le potenze globali e locali. Perciò del gran polverone suscitato in questi giorni ciò che maggiormente indigna OGzero è il fatto che per la prima volta l’UE sovvenziona ufficialmente l’acquisto di armi per consegnarle a un paese terzo in guerra. Non siamo anime belle illuse che immaginano che con le manifestazioni di un weekend si possa fermare una determinazione alla imposizione delle proprie visioni deliranti da parte di un potere che usa spietati mercenari dovunque, uccide oppositori con il polonio, ammazza giornalisti come regalo di compleanno, sostituisce il colonialismo della Françafrique; ci indigniamo piuttosto a scoprire che un cancelliere socialdemocratico, appena valuta le centinaia di migliaia di migranti ucraini che premono ai confini, fa strame di scelte decennali e decide il riarmo tedesco – che non si può sentire dopo la Seconda guerra mondiale e le macerazioni degli anni Settanta a elaborare il senso di colpa di una nazione (cosa che l’ipocrisia cattolica italiana non ha mai consentito) – trovando 100 miliardi (!!!) per rinnovare la Bundeswehr… nemmeno Merkel sarebbe arrivata a una tale faccia di bronzo. Ma sicuramente il rinnegamento dei “valori europei” maggiore è quello che vede l’intera Unione allineata a rinunciare a ogni retorica – bastano 300.000 migranti – e vendere armi letali per costituire una guerriglia antirussa, affidandole probabilmente a Pravi Sektor e al Battaglione di Azov: più nazisti del modello collaborazionista di Bandera. Piuttosto che trovarsi 7 milioni di migranti (bianchi e caucasici) all’uscio, si impedisce che possano emigrare se hanno meno di 60 anni e più di 18 (coscrizione obbligatoria!), li si approvvigionano di armi e si organizza una guerriglia per procura; gli stessi razzisti polacchi che fino a un mese fa hanno fatto morire di freddo e fame nella foresta, riempiendoli di botte, quei migranti che arrivano dalle guerre scatenate dall’Occidente (afgani, africani, di “speci” evidentemente non abbastanza “famigliari”), accolgono fraternamente – e giustamente – i fuggitivi dai massacri della guerra perpetrata da Putin in Ucraina (ma non le sue vittime siriane).

Manifesto anarchico russo: “ No alla guerra degli oligarchi! Vogliono il carbone del Donbass? Combattano e muoiano loro”

Guerra ibrida e guerra nucleare ipermediatizzata: armi tattiche e molotov

La soluzione sarebbe dunque una proxy war in più (in Yemen siamo già oltre i 300.000 morti civili, ma sono distanti e arabi), fa solo più effetto perché europea e perché il bullo del Cremlino sventola la minaccia delle armi tattiche nucleari cercando di mantenere un ruolo da cattivo credibile dopo lo smacco per il fatto che la Blitzkrieg non è riuscita nemmeno questa volta (ricordate dall’altro lato la Mission accomplished?). Inquieta anche perché gli ucraini vengono trattati da europei di serie B – un nuovo apartheid all’interno del continente –  rimandati indietro al confine e “invitati” a imbracciare i fucili e fabbricare le molotov – se solo avessimo preparato in Valsusa gli stessi “pintoni attivi” in favore di telecamera saremmo pericolosi insurrezionalisti – per assaltare carri armati russi; addirittura si agevolano arruolamenti di volontari targati Europa, mentre i compagni che sono andati a condividere la lotta curda in Rojava (quella davvero una lotta antinazista) sono in sorveglianza speciale. Infingimenti geopolitici: guerra mediatica.

Istruzioni per la preparazione di una bottiglia molotov sui social ucraini

Istruzioni per la preparazione di una bottiglia molotov sui social ucraini

La guerra geopolitica

Si evidenzia allora una stortura che ci fa sospettare che la guerra non sia poi così ideologica come vorrebbe spacciare il Cremlino con il suo improbabile antinazismo, ma smaccatamente geopolitica, come non possono ammettere né Biden (che costringe il mondo a schierarsi, per occuparsi del quadrante indopacifico – ottenendo la neutralità dell’India da un lato, ma anche del Kazakhstan dall’altro… e la preponderanza degli affari nelle scelte degli “alleati” arabi; e che dire dell’imbarazzo turco sul trattato di Montreux e il diritto di chiusura dei Dardanelli che non si capisce come e se viene applicato o meno alle navi da guerra russe?). Tantomeno può definirlo “conflitto geopolitico” l’attendismo cinese – che cerca di capire come sfruttare l’occasione con Taiwan, e gli conviene che si ammanti il tutto di nobili principi degni di una guerra santa, o di liberazione; né gli europei spacciatori di armi letali, un altro aspetto tipico della geopolitica, ammantato come sempre di idealismo di liberazione. Come geopolitiche sono le conseguenze delle sanzioni: tutte avvantaggiano le risorse americane. Il gas – molto più caro, perché va trattato – verrebbe erogato da un ponte navale transatlantico, che legherebbe ancora di più gli europei arruolati dallo Zio Sam; le chiusure di rotte aeree richiederanno maggiore consumo di idrocarburi, forniti da Usa e mondo arabo… NordStream2, capitolo chiuso e nuova umiliazione tedesca (che non è mai una bella cosa, se ricordiamo le cause dell’ascesa di Hitler).

Ascolta “Paralisi e delirio a Mosca. Europa anno zero?” su Spreaker.

 

Quindi ci saremmo aspettati anche da Bruxelles reazioni tipicamente geopolitiche, tattiche come le sulfuree mosse del Cremlino, test di alleanze come quelle intessute da Washington, persino i traccheggiamenti in punta di diritto internazionale di Ankara (che evidentemente non considera concluso il rapporto privilegiato con Putin all’interno degli Accordi di Astana e non intrappola le navi russe nel Mar Nero, pur vendendo droni all’Ucraina), o il sornione attendismo di Pechino… invece si spaccia per raffinato pensiero il nuovo ruolo di mediatori di ordigni per guerriglia che l’impaurita Europa si è ritagliata, facendo strame del raffinato pensiero contro la guerra e interpretando la strategia politica come tattica da trafficante. L’Europa come comparsa in commedia nel ruolo del trafficante: una nuova accezione della esigenza di “aiutarli a casa loro”, fornendogli le armi e alimentando altro fiero nazionalismo. Ma schierandosi così in modo esplicito contro Mosca, rimanendo facili bersagli dei missili tattici per impaurire meglio l’opinione pubblica, quella sì non geopolitica ma ideologizzata dai media mainstream.

Comunque dove ci sono molotov che volano addosso al potere costituito o a un esercito di occupazione, qualunque esse siano, ci trovano solidali

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Sipario sull’ouverture tattica in Donbass. Ora la strategia si impronta al dissidio https://ogzero.org/sipario-sullouverture-tattica-in-donbass-ora-la-strategia-si-impronta-al-dissidio/ Wed, 23 Feb 2022 23:13:01 +0000 https://ogzero.org/?p=6479 Il sipario, sceso sulle ultime note della rabbiosa ricostruzione storica di Putin eseguita a canali unificati, ora si rialza su una trama  molto meno definita dell’ouverture in Donbass, che ha seguito un canovaccio previsto e definito nei suoi passaggi: sancito il controllo russo sul Donbass, acquisite le conseguenti – ancora blande – sanzioni americane, accolte […]

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Il sipario, sceso sulle ultime note della rabbiosa ricostruzione storica di Putin eseguita a canali unificati, ora si rialza su una trama  molto meno definita dell’ouverture in Donbass, che ha seguito un canovaccio previsto e definito nei suoi passaggi: sancito il controllo russo sul Donbass, acquisite le conseguenti – ancora blande – sanzioni americane, accolte obtorto collo dagli europei; quest’ultimi vittime sacrificali delle trame dell’uno, mosso dal livore della nemesi storica dell’implosione dell’impero sovietico (ereditato dal bolscevismo, peraltro ripudiato da Putin il 21 febbraio come creatore dell’Ucraina), e anche dell’altro, poco interessato al quadrante europeo e proiettato verso l’Indo-pacifico, non rimane che la guerra scatenata dal presidente russo nelle prime ore del 24 febbraio, simbolicamente festa russa del “Difensore della patria”: l’interpretazione degli ultimi 10-12 anni nella mente scacchistica di Putin lo ha portato a intendere la costante erosione dell’impero ex sovietico (ma il 21 si è riferito direttamente alla Russia zarista) come una morsa volta a strozzare la Russia.

Fin qui era in buona sostanza prevedibile come si sarebbe dipanata la trama, sfociata nella sorprendente messa in scena (un decadente barocchismo novecentesco) del Consiglio di sicurezza russo con gli “yesman” a sancire la scontata annessione che concludeva  l’incipit del monumentale Guerra e Pace riscritto da Putin. La scena finale è stata rivelatrice di quanto i criteri che sottostanno all’approccio storico moscovita provengano da interpretazioni divergenti in partenza rispetto alla cultura storica occidentale… da qui sorge il dissidio che, come insegna Jean-François Lyotard, non trovando un punto di partenza comune è quindi di difficile composizione. Da qui menti poco lungimiranti fanno la scelta della Guerra e i 27 minuti trasmessi in Tv nella notte del 24 febbraio – ma registrati il 21 – con minacce di ritorsioni (non sanzioni) contro chiunque si frapponga ai piani militari dell’invincibile esercito russo sono il primo esemplare momento di propaganda bellica nella sfida mondiale.

[fin qui OGzero…]

Per farci un’idea di come la società russa ha reagito a questa fuga in avanti di Putin, che forse ha perso il collegamento con la realtà russa, Yurii Colombo ha fotografato prima dei bombardamenti alcuni momenti di questi giorni convulsi…


La decisione russa di riconoscere le due repubbliche autoproclamate del Donbass porta la crisi delle relazioni tra Russia e Occidente in territorio sconosciuto, di cui è per adesso difficile prevedere gli esiti. Soprattutto quelli a medio e lungo termine.

In modo abbastanza inconsueto Putin ha assunto la storica decisione usando due lunghe differite trasmesse pubblicamente in Tv sui canali a reti unificate.

Riconoscimento o annessione? Vada al punto, Sergey “Fracchia” Naryshkin

La prima è stata quello del Consiglio di Sicurezza dove tutti gli uomini del “cerchio magico”, i più stretti collaboratori di una vita, sono passati in passerella per dire il loro sì all’«annessione». L’effetto è stato straniante: le facce rese terre dal timore reverente, le parole ripetute spesso con retorica stentorea, il capo dei Servizi segreti per l’estero Sergey Naryshkin balbettando ha persino tentato di proporre il rilancio del dialogo diplomatico subito rintuzzato con durezza dallo stesso Putin.

Bignami di uso geopolitico della storia

L’annuncio della decisione è stato ufficializzato in un discorso del presidente russo di 70 minuti infarcito di richiami storici – in primo luogo in chiave anticomunista, dove non veniva tanto preso di mira Josip Vissarionovich Stalin, quanto lo stesso fondatore dell’Urss, Vladimir Ilic Lenin. Un discorso in cui si rinverdiva la tradizione imperiale del paese rivolto essenzialmente all’opinione pubblica di lingua russa e più in generale alla “diaspora sovietica”.

La trasmissione del discorso era stata sapientemente anticipata in Tv dalle immagini in diretta dove nel grande palasport di Mosca si festeggiava il ritorno degli atleti russi vincitori delle 32 medaglie in diverse discipline alle Olimpiadi invernali di Pechino. Grande entusiasmo: i pianti e l’inno russo intonato ben due volte in coro prima di dare la parola al presidente per “le comunicazioni straordinarie al popolo russo”.

La decisione era stata anche anticipata dalla mossa di procedere alla rapida evacuazione delle donne e dei bambini in buona parte fallita: fino a ora meno di 100.000 abitanti della regione (su oltre 4 milioni), secondo i dati ufficiali, hanno abbandonato le loro case. Lo scorso sabato i blogger di Donetsk hanno fatto fare il giro del mondo ad alcuni video registrati nelle discoteche della città stracolme di giovani ad alto tasso adrenalinico, dove tutto sembrava consumarsi – soprattutto libagioni – meno che una tragedia. Abitudine alla guerra forse ma anche poca voglia di imbarcarsi in un trasferimento incerto e forse senza ritorno.


Così la “crisi dei profughi” che ormai in tutto il mondo dalla Libia fino alla Polonia è diventata un’arma “ibrida” nella definizione dei rapporti di forza a livello internazionale, è risultata un’arma spuntata rapidamente accantonata dall’arsenale propagandistico.

Oro alla Patria sbeffeggiato: Russia distaccata e disillusa

Di sicuro l’“effetto Crimea” non c’è. Le grandi manifestazioni di giubilo e di orgoglio nazionalistico seguite all’annessione che si videro nel 2014, non si sono registrate 8 anni dopo. Se è vero che una maggioranza passiva ha sostenuto il riconoscimento, oggi è la paura e la preoccupazione a prevalere. Nel 2014, malgrado le grandi proteste seguite alle presidenziali del 2012, si attendeva una ripartenza dell’economia del paese, un “nuovo balzo in avanti”, dopo le grandi performances economiche del periodo 2000-2008.

Oggi il clima è completamente diverso: l’economia è formalmente ripartita grazie agli alti prezzi degli idrocarburi degli ultimi mesi, ma il rublo resta debolissimo e i redditi dei lavoratori dipendenti e dei piccoli commercianti in calo. I grandi progetti di modernizzazione delle infrastrutture restano ai blocchi di partenza e la popolarità di Putin ridotta ai minimi termini. L’annuncio che la ricostruzione del Donbass potrebbe costare 20 miliardi di rubli e la conseguente proposta della Duma di destinare a questo scopo le tredicesime dei russi hanno scatenato il sarcasmo e l’ironia negli uffici e sui social network.

Riconoscimenti “bizzarri”, fino a dove e da chi?

A 24 ore dal “riconoscimento” la confusione regnava comunque sovrana persino al Cremlino. I novelli stati indipendenti sostengono di voler controllare le intere aree delle provincie in buona parte controllate ancora dal governo ucraino. Ma se in un primo momento il portavoce di Putin aveva contraddetto questa postura sostenendo che «la giurisdizione sarà nelle aree già controllate dalle Repubbliche» dopo poche ore il Ministero degli Esteri è intervenuto per chiarire che «tale aspetto deve essere ancora definito»; il che fa la differenza tra Guerra aperta in Donbass o un’eventuale Guerra guerreggiata e dimostra il grado di autonomia politica e amministrativa dei due nuovi soggetti internazionali per ora riconosciuti solo da una modestissima pattuglia di paesi: Cuba, Nicaragua e Venezuela. Fa specie che né il Kazakhstan (a cui recentemente l’esercito russo ha portato la sua determinante “solidarietà internazionalista” per bloccare la rivolta operaia e popolare scoppiata nel paese), né tutti gli altri paesi aderenti alla Organizzazione del trattato di sicurezza collettiva (Csto) – in primis la Bielorussia che in questi giorni ha l’esercito russo di stanza sul proprio territorio – si siano allineati nel riconoscimento per evitare le sanzioni occidentali.

Svolte belliche autoimposte

Nella decisione di rompere gli indugi c’è evidentemente anche la crisi definitiva della mancata realizzazione seppur parziale degli accordi di pace di Minsk. Zelensky infatti non appariva disposto a concedere uno status speciale di autonomia alle due provincie (che gli sarebbe costata la rielezione), mentre Putin avrebbe dovuto fare un complicato dietrofront a una annessione, de facto, già realizzata con la concessione del passaporto ai cittadini del Donbass (lo avrebbero preso già in 2 milioni) e l’integrazione della sua economia in quella russa già dallo scorso novembre. Tuttavia così Putin si è posto da solo in un tunnel di cui non si vede l’uscita, togliendo dal mazzo l’unica carta che aveva per una trattativa globale sull’area e spingendo le relazioni con l’Ucraina alla rottura formale che il governo di Kiev ha subito deciso con la richiesta formale di adesione alla Nato (e il richiamo in servizio dei riservisti).

L’esercito russo ora potrebbe dare facilmente una “sculacciata” a quello ucraino sullo stile dell’azione in Georgia del 2008 per poi ritirarsi ma è impensabile che possa realizzare un’occupazione dell’Ucraina per cui non ha la forza prima di tutto economica e che provocherebbe la reazione inevitabile della Turchia. Le conseguenze sarebbero comunque gigantesche e condurrebbero al completo allineamento di Emmanuel Macron e Olaf Scholz dietro Joe Biden, un’eventualità che annullerebbe i già scarsi spazi di manovra a Putin, sul quale si possono dire tante cose meno che fino a oggi non sia stato un abile tattico capace di lavorare sulle contraddizioni del campo avversario come si è visto in Siria.

A tutto gas con le sanzioni

Olaf Scholz, seppur a malincuore, ha dovuto procedere al blocco della ratificazione di North Stream2. Se ne riparlerà ad eventuali acque calme ma questo arrivederci potrebbe diventare presto un addio. La reazione di Mosca è stata furibonda:

Il vicepresidente del Consiglio di sicurezza russo Dmitriy Medvedev ha dichiarato su Twitter: «Il cancelliere tedesco Olaf Scholz ha ordinato di fermare la certificazione del gasdotto North Stream2. Bene, benvenuti nel nuovo mondo dove gli europei pagheranno presto 2000 euro per mille metri cubi di gas!»

Una minaccia che se messa in pratica avrebbe ulteriori conseguenze politiche ed economiche in tutto il continente ma che dimostra quanto Mosca sia pronta ad alzare l’asticella dello scontro.

Le mosse europee occidentali appaiono per ora limitate a un pacchetto di sanzioni a dire il vero però già abbastanza corposo. Blocco totale su due grandi istituzioni finanziarie russe, VEB e Promsvyazbank, così come 42 delle loro filiali; contro il debito sovrano russo:

lo stato russo non potrà più accedere ai finanziamenti e commerciare il suo nuovo debito sovrano sui nostri mercati o su quelli europei.

Particolare scalpore ha fatto l’allargamento delle sanzioni anche ai figli e ai parenti dei grandi imprenditori e funzionari di stato abituati a viaggiare e studiare all’estero invisi alla gran parte della popolazione per i loro stili di vita e per i loro privilegi stentoreamente mostrati. Dopo la riunione dei ministri degli esteri dell’Unione europea, il capo della diplomazia europea ha fatto scattare anche il blocco finanziario e la possibilità di viaggiare in Occidente anche per i 351 deputati della Duma che hanno votato l’unificazione. L’asso di cuori, cioè l’ipotesi di sganciare la Russia dal sistema Swift sembra messa per ora in naftalina perché rischierebbe di essere un boomerang capace di destabilizzare l’insieme della finanza internazionale.

Appeasement europeo / containment americano

Fino a qualche giorno fa si era ironizzato da parte russa riguardo alla Conferenza di Monaco sulla sicurezza dei paesi occidentali, facendo un’analogia con il fallimento della politica di appeasement di quella del 1938: incertezza atlantica contro decisionismo putiniano. Ma presto si è smorzata. La dipendenza dagli idrocarburi russi gioca certo un ruolo in questa circospezione occidentale, tuttavia ora che il gioco si fa duro anche gli europei sembrano voler aderire alla versione riveduta e corretta del “containment” portata avanti dalla Casa bianca già nella Prima guerra fredda.

La teoria era stata formulata per la prima volta da George F. Kennan nel 1947, l’ambasciatore Usa a Mosca di quel periodo. Il risultato fu il cosiddetto “Long Telegram” che conteneva una valutazione della situazione politica nell’Unione Sovietica in cui Kennan spiegava non solo le premesse alla base della politica estera di Mosca, cercando di immaginare su quali direttrici avrebbe potuto dispiegarsi l’azione di Stalin ma suggeriva anche a Washington come si sarebbero potute efficacemente fronteggiare le iniziative sovietiche.

Kennan, in una maniera apparentemente molto precisa e “scientifica”, rilevava come l’Unione Sovietica desiderava evitare una guerra, ma il ritratto che ne faceva era comunque quello di un nemico implacabile e inevitabile. Come gli Stati Uniti avrebbero dovuto agire contro la potenza sovietica fu spiegato da Kennan in una conferenza del 17 settembre 1946, tenuta davanti a funzionari e personale del Dipartimento di stato.

In questa occasione egli affermò che gli Usa avevano un decisivo margine di vantaggio sugli avversari sovietici che avrebbe permesso loro «di contenerli sia militarmente che politicamente per un lungo periodo a venire». Una tesi poi affinata sul “Foreign Affairs” nel luglio del 1947: «In queste circostanze è chiaro che l’elemento principale di qualsiasi politica degli Stati Uniti nei confronti dell’Unione Sovietica deve essere quella di un contenimento a lungo termine, paziente ma saldo e vigile, delle tendenze espansioniste russe. È importante notare, tuttavia, che una tale politica non ha nulla a che fare con l’isteria esteriore: con minacce o gesti sfuocati o superflui di ‘durezza esteriore’ […]. Per l’autore l’unico modo per contenere la pressione sovietica contro le libere istituzioni dell’Occidente era «l’applicazione abile e attenta di una forza contraria in una serie di punti geografici e politici che si spostano in continuazione, in corrispondenza degli spostamenti e delle manovre della politica sovietica».

La comune valutazione occidentale sarebbe quella di limitare il raggio d’azione dell’amministrazione putiniana sulla base dell’esperienza storica che la Russia non si batte mai in campo aperto militare come dimostrano le sfortunate avventure di Hitler e Napoleone ma risucchiandola in un lungo confronto soprattutto finanziario-economico in cui ha tutto da perdere.

Ma oggi non appare così certo che la Russia voglia evitare a tutti i costi la guerra. In questo quadro la richiesta di Putin al Consiglio della Federazione di avere la possibilità in quanto capo dell’esercito di poter usare le forze armate in zone extraterritoriali, per ora limitate al Donbass, potrebbe essere il cattivo presagio di un’invasione in grande stile dell’Ucraina. Questa ipotesi che solo fino a poche settimane sembrava fantapolitica ora è diventata oggetto di studio su scala mondiale. Se il leader russo decidesse di intraprendere una tale avventura vorrebbe dire che si è deciso a giocarsi il tutto per tutto, persino la sua futura permanenza al Cremlino.

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Le divergenze parallele nei piani sino/russi per l’Africa https://ogzero.org/le-divergenze-parallele-nei-piani-sino-russi-per-lafrica/ Fri, 18 Feb 2022 09:21:43 +0000 https://ogzero.org/?p=6384 I rapporti tra le potenze globali s’improntano alla “differenziazione” a seconda degli svariati livelli di confronto e a seconda della complementarietà dell’offerta e della richiesta della zona interessata alle manovre sociali, economiche, politiche, culturali… Il continente africano è sempre più complesso e gli attori in commedia sono sempre di più; e le comunità non sono […]

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I rapporti tra le potenze globali s’improntano alla “differenziazione” a seconda degli svariati livelli di confronto e a seconda della complementarietà dell’offerta e della richiesta della zona interessata alle manovre sociali, economiche, politiche, culturali… Il continente africano è sempre più complesso e gli attori in commedia sono sempre di più; e le comunità non sono rappresentabili con la logora narrativa neocoloniale. Gli osservatori più attenti ritengono che in Africa l’intento cinese è quello di cementare il proprio ruolo di partner a lungo termine e di principale protagonista del suo sviluppo. Per esempio a Lusaka si sta completando una delle 4000 infrastrutture costruite dalla Cina dal 2020: un centro per conferenze in tempo per ospitare il summit dei capi di stato africani. Come riferito da Andrea Spinelli Barrile la Cina ha investito più del doppio in infrastrutture africane (23 miliardi di dollari) rispetto al resto del mondo; e anche i prestiti cinesi sono un quinto di tutti quelli erogati al mondo.

Mentre altrove gli interessi sino-russi possono stridere, in Africa, come nell’area eurasiatica la cooperazione in funzione antioccidentale può raggiungere buoni risultati, offrendo servizi diversi: la Russia si propone come fornitrice di armi, mercenari e addestratori e il Sahel appare come l’area più sensibile da accogliere quel tipo di sicurezza che 9 anni di Barkhane e Takuba non hanno saputo o voluto risolvere: infatti la popolazione di Mali e Burkina hanno cominciato a pensare che gli europei avessero interesse a non debellare definitivamente le milizie jihadiste, pur di avere un pretesto per occupare militarmente la zona. Altro impegno russo è quello applicato all’estrattivismo delle molte risorse africane.

Mentre “Deutsche Welle” dà conto di un summit tra Unione europea e Unione africana per proporre il Global Gateway Project su investimenti (300 miliardi in 7 anni), salute, sicurezza e migrazione in alternativa alla Belt and Road cinese nel momento in cui la Russia diventa riferimento principale della sicurezza per gli stati del Sahel, approfittiamo di un saggio scritto da Alessandra Colarizi per l’e-book numero 10 di China Files su questi argomenti per aggiungere suggestioni a integrazione dell’articolo di Angelo Ferrari, scritto a caldo a commento dell’annuncio parigino con il G5 del Sahel del ritiro delle missioni militari.


Semplici amici, avversari, alleati? Come altrove, anche in Africa, le relazioni tra Cina e Russia sfuggono all’imposizione di categorie precostituite. Rivali al tempo della Guerra Fredda, durante la crisi sino-sovietica i due giganti sostennero partiti e movimenti di liberazione nazionale, aiutando le fazioni alleate nelle guerre civili in Zimbabwe, Angola e Mozambico. Poi nel corso dei decenni Pechino e Mosca si sono spartite ruoli e competenze, seguendo un copione già utilizzato in Asia centrale.

Belt and Road cinese: finanziatori

La Cina, fedele al principio cardine della non ingerenza, si è perlopiù dedicata agli affari economici: primo partner commerciale del continente dal 2009, è da oltre dieci anni il principale investitore nella regione subsahariana. Una tendenza rafforzata dal lancio della Belt and Road, la strategia di politica estera con cui Pechino sostiene la penetrazione internazionale delle aziende statali cinesi attraverso la costruzione di grandi vie di comunicazione marittime e terrestri in Eurasia, e presto estesa all’Africa.

Armi e mercenari russi: risolutori

Mosca, invece, dopo la dissoluzione dell’Urss ha riacquistato il terreno perso grazie alla sua industria bellica: ha continuato a supportare le capitali africane con la vendita di armamenti e altre forme di assistenza militare; complice la minaccia del terrorismo islamico. Nel 2018, cinque paesi dell’Africa subsahariana – Mali, Niger, Ciad, Burkina Faso e Mauritania – hanno fatto esplicitamente appello a Mosca per ottenere sostegno nella guerra contro Isis e al-Qaeda. In Libia, l’appoggio fornito dai mercenari russi al generale Khalifa Haftar (affiancato militarmente nell’assedio di Tripoli), anziché al governo riconosciuto dalla comunità internazionale – come spiega il Csis –, ha permesso di rafforzare “la posizione geostrategica e l’influenza diplomatica russa” nel Nordafrica, rendendo Mosca un interlocutore imprescindibile in qualsiasi tentativo di soluzione al conflitto.

Spartizione delle risorse africane

Negli ultimi tempi però, pur partendo da percorsi opposti, gli interessi dei due giganti hanno intrapreso traiettorie convergenti. Gli scambi commerciali tra la Russia e il continente sono raddoppiati nel giro di sei anni. Adocchiando ulteriori potenzialità economiche, nel novembre 2019 la città di Soči ha ospitato il primo forum russo dedicato all’Africa, di cui la seconda edizione è prevista per quest’anno. La nascita delle prime piattaforme istituzionali è stata accompagnata dalla fioritura parallela di canali informali.

Secondo Heidi Berg, direttore dell’intelligence presso il United States Africa Command Africom (Africom), «l’impegno militare russo e l’uso di contractor militari privati in Mozambico sono progettati per aumentare l’influenza [di Mosca] nell’Africa meridionale e per consentire l’accesso russo alle risorse naturali locali, inclusi gas naturale, carbone e petrolio».

Qualcosa di simile sta avvenendo nella Repubblica Centrafricana, dove militari russi sono stati nominati consiglieri per la sicurezza nazionale del presidente Faustin-Archange Touadéra, e il governo sta vendendo diritti minerari per oro e diamanti a una frazione del loro valore in cambio di armi.

Riposizionamento olimpionico: colmare un vuoto con un sodalizio a tutto campo?

Da parte sua, dopo aver privilegiato per tre decenni le sinergie economiche, la Cina sente necessità esattamente opposte. Sente di dover difendere i propri asset strategici nel continente e ricoprire un ruolo più proattivo in materia di sicurezza, come si addice a una superpotenza. Nel 2017 il porto di Gibuti, nel Corno d’Africa, è stato scelto come sede della prima base militare cinese all’estero.  La recente nomina di un inviato speciale per il Corno d’Africa sembra confermare questa nuova vocazione cinese per il mantenimento della stabilità, oltre il tradizionale impegno nelle operazioni internazionali di peacekeeping e lotta alla pirateria. Notizia che certamente non rallegrerà Mosca: secondo lo Stockholm International Peace Research Institute (Sipri), il continente è diventata una delle prime destinazioni dell’export di armi cinesi, pari al 17% delle forniture ottenute dalle capitali africane tra il 2012 e il 2017 e il 55% in più rispetto ai cinque anni precedenti.

È lecito, quindi, chiedersi se questo reciproco riposizionamento avvicinerà ancora di più o finirà invece per dividere Pechino e Mosca. Se anche in Africa, come nei rispettivi cortili di casa, i due vecchi rivali saranno capaci di muoversi in sincrono. Se, insomma, saranno semplici amici, avversari, o alleati. Entrambi i giganti stanno beneficiando della rapida perdita di influenza delle vecchie potenze imperialiste, di cui il ritiro francese dal Sahel è il segno più lampante. Alla vigilia delle Olimpiadi invernali di Pechino, Putin ha rimarcato come gli sforzi di Cina e Russia siano tesi alla promozione di una democratizzazione delle relazioni internazionali basata sui valori di “eguaglianza e inclusività”. Un messaggio che strizza l’occhio al Sud globale, sempre più emarginato dai sodalizi occidentali tra “like-minded country”. Siamo di fronte a un “gran plan”? Difficile a dirsi. Negli Stati uniti però i recenti sviluppi hanno già alzato il livello di allarme.

Secondo il senatore dell’Oklahoma, Jim Inhofe: «Cina e Russia stanno usando l’Africa per espandere la loro influenza [internazionale] e la loro estensione militare».

Il vantaggio di Pechino si misura in decenni di investimenti

“L’unione fa la forza”, dicevano gli antichi. D’altronde, l’arrivo tardivo dei capitali russi difficilmente rappresenterà una minaccia per gli interessi cinesi. Con venti anni di vantaggio, oggi la presenza del gigante asiatico beneficia della messa a sistema di una strategia di soft power che spazia dagli investimenti nei media, all’assistenza sanitaria passando per gli scambi people-to-people. Nei piani africani del Cremlino non sembra esserci nulla di lontanamente paragonabile.

Allo stesso tempo, sebbene le operazioni mercenarie di Mosca rischino di destabilizzare ulteriormente il continente, la preannunciata apertura di basi militari russe nella regione (ben sei) potrebbe persino tornar utile alla Cina. Come ammesso nell’ultimo libro bianco sulla Difesa pubblicato dal Consiglio di stato, l’esercito cinese non è ancora in grado di proteggere pienamente gli interessi nazionali oltremare a causa delle carenze logistiche e dell’insufficienza dei mezzi difensivi navali e aerei. Secondo il documento, alcuni di questi impedimenti sono aggirabili coltivando rapporti sinergici con altri paesi. Dalla crisi di Crimea, Cina e Russia hanno cementato le relazioni bilaterali con un focus militare molto forte. Sebbene dagli anni Ottanta Pechino rifugga le alleanze in senso proprio, il partenariato con Mosca sembra un gradino sopra le usuali consorterie cinesi per uniformità di interessi e visione globale.

La partnership competitiva, ma globale… dunque anche africana

L’instabilità politica in Africa apre uno spiraglio per la definizione di una “strategia” di sicurezza sino-russa nei paesi terzi. Un segno in questa direzione arriva dalla risposta concertata di Mosca e Pechino in sede Onu alla crisi del Tigray, così come ai colpi di stato in Sudan e Mali.

Dopo il ritiro americano in Afghanistan il coordinamento militare con Putin è diventato sempre più centrale per Xi. Lo è anche nel continente oltre l’Oceano indiano, dove Mosca può mettere a frutto l’esperienza militare maturata in Medio Oriente, un’area con profondi legami economici e culturali all’Africa. Le manovre aeree e marittime eseguite congiuntamente dai due giganti nell’Indopacifico, nel Mediterraneo e nel Mar arabico, costituiscono un precedente duplicabile nei teatri africani. Ma fino a che punto? Samuel Ramani, ricercatore della Oxford University, evidenzia diversi ostacoli: la storica diffidenza reciproca, la sovrapposizione tra interessi regionali spesso contrastanti, e la mancanza di un coordinamento sul campo ancora limitato ai tavoli multilaterali. È indicativo che, posizionati su fronti opposti in Libia e Sudan, Pechino e Mosca non abbiano mai tenuto colloqui bilaterali specifici sul continente. Nemmeno il tema del terrorismo è riuscito a ispirare una reazione pianificata in tandem.

Sono tutti aspetti che sommati compongono una sagoma dai contorni sfumati. Quella che Ramani definisce una “partnership competitiva” tra aspiranti grandi potenze. Non semplici amici, né avversari e nemmeno alleati. Almeno per ora.

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Убирайся est le mot pour: “dégage!“ https://ogzero.org/%d1%83%d0%b1%d0%b8%d1%80%d0%b0%d0%b9%d1%81%d1%8f-est-le-mot-pour-degage/ Fri, 18 Feb 2022 09:20:30 +0000 https://ogzero.org/?p=6378 Rimuginando in quell’angolo estremo del lungo tavolo moscovita dove lo ha relegato Putin, Macron è forse riuscito a cogliere le sfumature della traduzione dalla lingua che il leader maliano Goïta ha indicato come insegnamento scolastico a Bamako: in russo ubirájsja suona persino meno apodittica e definitiva, ma è l’espressione che i golpisti filorussi maliani hanno […]

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Rimuginando in quell’angolo estremo del lungo tavolo moscovita dove lo ha relegato Putin, Macron è forse riuscito a cogliere le sfumature della traduzione dalla lingua che il leader maliano Goïta ha indicato come insegnamento scolastico a Bamako: in russo ubirájsja suona persino meno apodittica e definitiva, ma è l’espressione che i golpisti filorussi maliani hanno rivolto all’ambasciatore francese senza mezze misure: “Vattene, indesiderato!”.

Il capitolo neocoloniale iniziato da Hollande si chiude repentinamente alle porte delle elezioni francesi ritirando la presenza europea dal Sahel il più repentinamente possibile, mantenendo degli avamposti in Ciad (dove il golpista Déby risulta buono, perché non ha abbracciato Mosca o Pechino) e in Niger con truppe internazionali troppo interessate a bloccare i flussi migratori, sovranisti italiani in testa. L’avventura coloniale di Parigi ha subito un vero tracollo (peraltro annunciato, benché repentino), solo parzialmente schermato dall’intento di evitare che il moto antifrancese si estenda all’area atlantica; nel momento in cui il jihad comincia a infiltrare Benin e Togo. Non a caso si parla di Afghanistan francese. E non solo, perché il fallimento di Barkhane con l’insurrezione dei saheliani coinvolge ogni aspetto: dalla missione Onu Minusma che viene almeno ridimensionata, agli interessi economici dell’intero fronte occidentale, che come ben documentato da Alessandra Colarizi trovano nell’offerta russo-cinese le risposte alle richieste del territorio, sostituendo una forma di colonizzazione, vetusta perché interessata a predare in modo classico e secondo prassi novecentesche, con un’altra, più innovativa (si pensi a Wagner), ma altrettanto rapace.

Mentre “Libération” esplicita bene la pretestuosità ipocrita della scelta elettorale di Macron di pretendere dalla giunta golpista maliana elezioni mai richieste ai fantocci installati al potere proprio dalla grandeur parigina, proponiamo un’istantanea scattata da un conoscitore della realtà continentale come Angelo Ferrari


Il ritiro, minacciato, è diventato realtà. La Francia e l’occidente hanno deciso di lasciare il Mali. Dopo nove anni di intervento militare contro il terrorismo jihadista, Parigi ha deciso di “abbandonare” il paese. Una resa inevitabile per il progressivo esacerbarsi dei rapporti con la giunta golpista di Bamako, il cui culmine è stata la cacciata dell’ambasciatore francese dalla capitale maliana.

Effetto domino

La decisione arriva, inoltre, in un momento delicato per il presidente francese Emmanuel Macron, che dovrebbe annunciare la sua candidatura per un secondo mandato. Arriva in un momento di crescenti tensioni antifrancesi in tutta l’area del Sahel che sono state la spinta – anche se non quella decisiva – per un cambio di regime in Mali e anche nel vicino Burkina Faso. Bamako, da tempo, ha chiamato i mercenari russi della Wagner, che già operano sul terreno, per proseguire la lotta al terrorismo. Una decisione che ha irritato i francesi e tutto l’occidente impegnato nel paese anche se sempre negata dal Cremlino. Sono circa 25.000 gli uomini dispiegati nel Sahel, di cui circa 4300 francesi – 2400 in Mali nell’ambito dell’operazione antijihadista Barkhane. Un ritiro, si sono affrettati a sottolineare l’Eliseo e i partner europei, che non significa abbandonare il Sahel, ma sicuramente Parigi e l’Unione Europea dovranno reinventare il partenariato con i paesi saheliani. Ciò non significherà spostare altrove ciò che fino ad ora è stato fatto in Mali, ma rafforzare la presenza in Niger e sul versante meridionale. E tutto ciò dovrà essere coordinato con la missione delle Nazioni Unite. Un ritiro, inoltre, che solleva molti dubbi sul futuro proprio della missione Onu che conta 15.000 uomini, creata nel 2013 per sostenere il processo politico maliano. La fine dell’operazione Berkhane (francese) e Takuba (forze speciali dell’Unione europea) potrebbe portare al ritiro anche dei contingenti di Germania e Inghilterra impegnati nella forza Onu.

Barkhane, Takuba, Minusma... effetto domino che crea il vuoto

Meglio che una struttura fallimentare in piedi per perpetuare se stessa mantenendo vivo il jihadismo contro cui è nata si sciolga; la piazza sceglie il cavallo dello zar

Il disastroso bilancio di un’occupazione old fashioned

Il Sahel, tuttavia, rimane una priorità e una regione strategica per l’intera Unione europea, proprio per gli enormi investimenti sul piano militare e su quelli della cooperazione – anche se meno – più squisitamente economica. Intervento militare che, in nove anni, non ha portato a significativi successi nella lotta al terrorismo, per certi versi è stata disastrosa.

La realtà dei fatti: la debolezza dei governi, l’insicurezza e il disastro umanitario sono peggiorati nell’ultimo anno e le prospettive di pace duratura rimangono deboli. La regione ha subito colpi di stato militari – Mali e Burkina Faso – e “costituzionali” – Ciad – oltre all’avanzare, sempre più insidioso, del terrorismo jihadista. Se si guarda alle morti violente, queste sono cresciute del 20% nel 2021 rispetto all’anno precedente, nonostante le imponenti missioni militari, francese e europea – che operano sul campo. Le Nazioni Unite, inoltre, hanno stimato che almeno 36 milioni di saheliani sono sull’orlo dell’insicurezza alimentare.

Il teatro saheliano è estremamente complesso anche sul piano geopolitico internazionale. Il ritiro della missione francese Barkhane e la “sindrome Afghanistan”, stanno lasciando spazio, dal punto di vista militare, ad altre potenze internazionali. La Francia, in un primo momento ha ridimensionato il suo contingente, e ora lo ha ritirato dal Mali, facendo affidamento sulla forza europea tentando, in questo modo, di rassicurare che ciò non corrisponde alla fine dell’impegno francese nel Sahel. Nella regione, tuttavia, sta montando un forte sentimento antifrancese e, pure, antioccidentale. Parigi ha faticato, negli ultimi mesi, a giustificare il mantenimento della missione di fronte alla sua opinione pubblica.

Il dito nella piaga: Wagner è più professionale

Hervé Morin, l’ex ministro della Difesa del governo dell’ex presidente Nicolas Sarkozy, non ha usato mezze parole, anzi è stato netto: «Abbiamo uno scenario che si avvicina ogni giorno di più a quello che abbiamo visto in Afghanistan. Siamo arrivati per combattere il terrorismo e ricostruire uno stato (si riferisce al Mali, N.d.R.) su un accordo politico e sembriamo sempre più una forza di occupazione».

Truppe d’occupazione più o meno legittimate; Macron ammette al G5 Sahel che è venuta a mancare la giustificazione per la presenza di un esercito inadeguato al compito

E l’ex ministro ha aggiunto che la Francia non è riuscita nel suo obiettivo bellico e quindi «non può rimanere in Mali contro il parere delle autorità locali». Stessa sorte è capitata all’operazione Takuba. Con il ritiro dal Mali l’attenzione si concentrerà sul Niger, dove l’Italia ha una presenza significativa.

Le autorità di Bamako subito dopo il colpo di stato, non sapendo bene cosa fare e per scongiurare l’effetto Afghanistan, sono “volate” a Mosca, invitandola, quasi supplicandola, ad aiutare il paese a garantire sicurezza e a difenderne l’unità, l’integrità e la sovranità.

La risposta del Cremlino non si è fatta attendere ed è arrivata per bocca del ministro degli Esteri, Sergey Lavrov: «Il mio paese farà tutto il possibile per evitare che la minaccia terroristica gravi sulla struttura dello Stato del Mali».

E sul terreno maliano sono già arrivati i mercenari della famigerata Wagner, che per conto della Russia fanno il lavoro sporco sul campo, anche se tutti negano.

Anche il Ciad, che possiede l’esercito più armato ed efficiente dell’area, ha deciso di dimezzare il suo contingente nell’ambito dell’operazione G5 Sahel, in particolare nella zona delle tre frontiere – Mali, Niger, Burkina Faso – passando da 1200 a 600 effettivi.

Il portavoce del governo ciadiano ha spiegato così la decisione: «La scelta di alleggerire il dispositivo è stata concertata con il comando del G5. In rapporto alla situazione che c’è sul campo è necessario avere una forza mobile più capace di adattarsi alle modalità di azione attuate dai terroristi. Rimane intatta la nostra volontà di far fronte ai jihadisti».

Strategia vincente di Putin in Mali…

Un incubo per molti paesi, in particolare per il Burkina Faso e il Mali che non riescono a far fronte e nemmeno ad arginare la minaccia terroristica che ha paralizzato la vita di intere comunità minacciate e tenute in ostaggio dai jihadisti. Un fattore degno di nota, inoltre, è il fatto che i golpisti dei due paesi saheliani, appena preso il potere hanno subito rivolto il loro sguardo al Cremlino, innescando una crisi diplomatica proprio con il principale interlocutore occidentale dell’area, Parigi.

Insomma l’occidente lascia il Mali e apre, anzi “spalanca” le porte alla Russia. È innegabile che la decisione di Macron e dei leader occidentali di “abbandonare” Bamako, è una vittoria per Putin. In poco meno di un anno si è preso – o la Francia ha perso – mezzo impero francofono: Mali, Burkina Faso e Repubblica Centrafricana.

… e in Burkina di Xi Jinping

E poi c’è la Cina che è stata invocata a gran voce dal Burkina Faso, chiedendo il sostegno di Pechino nella lotta contro il terrorismo, accogliendo l’impegno e le assicurazioni della sua controparte cinese per accelerare la spedizione di attrezzature militari promesse al Paese. Richiesta rafforzata anche dal capo della diplomazia senegalese, la ministra Aissata Tall Sall, durante l’ultimo vertice Africa-Cina – che si è svolto a Dakar nel novembre dello scorso anno. Nel documento finale del summit si è messa nero su bianco la Cooperazione nell’ambito della sicurezza, vista come un “punto focale” delle relazioni sino-africane. Sono state annunciate, e questa è una novità, esercitazioni congiunte per operazioni di mantenimento della pace, nella lotta al terrorismo, al traffico di stupefacenti e alla pirateria. Pechino mette gli scarponi sul terreno.

E il 16 febbraio 2022 il direttore generale della polizia del Mali, Soulimane Traoré, ha ricevuto l’ambasciatore cinese, Chen Zhihong. Il diplomatico ha ribadito che la Cina si impegnerà «nel rafforzare gli equipaggiamenti delle forze di sicurezza del Mali nel quadro di una cooperazione dinamica e reciprocamente vantaggiosa».

Souleyman traoré_Bamako

L’asse che si è creato tra Cina e Russia sul fronte della crisi ucraina, si potrebbe ripresentare anche in Africa, in particolare in quella parte di Sahel abbandonato dall’Occidente. Entrambi i paesi potrebbero avere vantaggi da questo legame. La Russia ha poco da offrire sul piano economico, ma molto su quello militare, la Cina è una presenza consolidata, ma sempre attenta a non interferire negli affari interni dei paesi dove fa affari. La sinergia Pechino-Mosca potrebbe avere vantaggi per entrambi. Di sicuro, nonostante il ritiro occidentale, l’incubo Afghanistan è stato spazzato via e nel Sahel si parla sempre di più russo e mandarino.

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Che ci fa la Turchia in Ucraina? https://ogzero.org/che-ci-fa-la-turchia-in-ucraina/ Wed, 09 Feb 2022 17:16:54 +0000 https://ogzero.org/?p=6229 Il presidente della repubblica di Turchia, Recep Tayyip Erdoğan, ha incontrato il presidente dell’Ucraina, Volodymyr Zelensky, il 3 febbraio, ufficialmente con l’intento di svolgere il ruolo di mediatore nella crisi in corso tra Kiev, Mosca e Nato. L’apparente confusione frenetica dei movimenti strategici di ogni protagonista – le 5 ore di incontro tra Putin e […]

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Il presidente della repubblica di Turchia, Recep Tayyip Erdoğan, ha incontrato il presidente dell’Ucraina, Volodymyr Zelensky, il 3 febbraio, ufficialmente con l’intento di svolgere il ruolo di mediatore nella crisi in corso tra Kiev, Mosca e Nato.

L’apparente confusione frenetica dei movimenti strategici di ogni protagonista – le 5 ore di incontro tra Putin e Macron, il contemporaneo volo di Scholz da Biden; le agenzie e gli allarmi che fanno gioco alla pressione della Nato sui confini russi, che spingono Putin a partecipare alle cerimonie olimpiche di Xi Jinping; la Nato è la pietra dello scandalo, e un suo membro scandalosamente energivoro, che ormai da alcuni anni gioca da fuori, s’insinua in ogni conflitto per vendere i suoi micidiali ordigni senza pilota, o per appropriarsi di energia – di cui è ghiotto. La Turchia, in crisi economica e con inflazione a due cifre abbondanti, è protagonista a tutto campo e quindi anche nello scacchiere più esplorato dall’inizio del 2022 troviamo l’attivismo di Erdoğan e dei suoi droni. Perché? Murat Cinar s’ingegna a spiegarcelo e per farlo ha bisogno di mantenere l’aspetto economico scevro dalla fuffa di pseudolegami tra Ucraina e Turchia: crisi, bilancia commerciale, traffici di armi, droga e gas… la capacità di trasformare le crisi in opportunità.


Perché Ankara?

Il governo turco ha preso posizione schierandosi dalla parte di quello ucraino quasi sin dall’inizio del conflitto, 2004, soprattutto sostenendo i tentativi di autonomia della popolazione tatara che si trova in Crimea e dopo dieci anni di scontri è passata sotto il controllo di Mosca.

Ankara sostiene la tesi della sistematica discriminazione che la popolazione tatara subisce dagli abitanti russi presenti in zona. Ormai è risaputo come Ankara si propone come “portavoce del mondo musulmano” su molte piattaforme e in differenti zone. Anche se questo ruolo ha registrato svariati problemi di coerenza (e anche di opportunità politica che ha dettato le scelte in momenti diversi) in Egitto, Cina, Siria e Palestina. Considerando che la maggior parte dei tatari sono musulmani, le strategie di Ankara assumono una forma vicina al governo centrale ucraino e rientrano quasi automaticamente nell’ottica “antirussa”.

Non è solo una questione romantica

Ovviamente la posizione, a livello geopolitico, molto interessante dell’Ucraina ha fatto sì che questi due paesi condividessero una serie di punti in comune. Il processo per l’integrazione nell’Unione europea, l’Onu, l’Osce, la Blackseafor e l’Operazione Black Sea Harmony sono alcune realtà molto importanti in cui Kiev e Ankara si trovano alleate.

Senz’altro un’eventuale guerra tra Russia e Ucraina danneggerebbe fortemente la Turchia prima di tutto in termini economici poi a livello politico: il paese è soffocato da una profonda crisi economica in corso dal 2018 e il rapporto commerciale che ha costruito il governo centrale con Mosca in questi ultimi dieci anni è enorme. Come era stato comunicato nell’ultimo incontro pubblico del Consiglio di Lavoro Turchia-Russia, l’obiettivo è raggiungere per il 2022 la soglia dei 100 miliardi di dollari statunitensi come volume commerciale.

Dipendenze asimmetriche

Ankara dipende fortemente dalla Russia prima di tutto nel campo energetico ma anche in altri settori. All’inizio di questa crisi economica la svalutazione della Lira nel 2018 aveva colpito il prezzo della carta dei giornali perché la Turchia paga circa 53 milioni di dollari all’anno per acquistarla dalla Russia, questo volume costituisce circa il 65% del fabbisogno nazionale. Il discorso si espande senz’altro su altri campi come il turismo, il nucleare e le spese militari soprattutto tenendo in considerazione che Ankara in questi ultimi anni si è allontanato sempre di più, a livello politico e commerciale, dai suoi storici partner economici: Unione europea e Washington.

Questo rapporto commerciale in crescita vale anche per l’Ucraina. Secondo la Camera di Commercio di Istanbul (Ito) nel 2021 il volume commerciale superava i 7,4 miliardi di dollari Usa e nel 2022 l’obiettivo è raggiungere i 10. Solo nell’ultimo incontro avvenuto il 3 febbraio sono stati firmati ben 8 accordi commerciali tra Erdoğan e Zelensky. La collaborazione tra questi due paesi è in forte crescita anche nel campo militare.

Droni Bayraktar Siha turchi venduti all'Ukraina

Bayraktar SİHAs, che Ankara ha venduto all’Ucraina lo scorso anno, ha suscitato la reazione della Russia. Mosca aveva avvertito che questi UAV non dovrebbero essere usati contro i filorussi nell’Ucraina orientale.

Come ha specificato qualche giorno fa il primo ministro ucraino, Denys Šmihal’, tra i progetti c’è anche quello di costruire una fabbrica sul territorio ucraino per produrre i droni armati Made in Turkey. Quei famosi droni infami che in diverse parti del mondo stanno cambiando l’andamento dei conflitti armati. In particolare quelli che vende Ankara sono prodotti della famiglia Bayraktar, quella del genero di Erdoğan. Questi droni armati, i Bayraktar SİHA, che Kiev aveva già acquistato e usato contro i separatisti filorussi nell’Est, saranno utilizzati durante l’esercitazione militare del 10 febbraio.

Il tema dei droni è un tema molto caldo. Infatti nel mese di aprile del 2021, Mosca in un video in cui presentava il suo nuovo drone kamikaze simulava un attacco fatto contro un drone armato, prodotto dalla Turchia. Diverse volte i vertici del governo russo si sono espressi per comunicare la loro amarezza in merito alla vendita dei droni turchi a Kiev. La questione è diventata ultimamente molto interessante perché John Kirby, il portavoce del Ministero della Difesa nazionale statunitense, ha sostenuto, il 4 febbraio, durante l’ordinaria conferenza stampa, che Mosca si stava preparando per divulgare un finto video in cui avrebbe sostenuto che i droni turchi comandati da Kiev avrebbero colpito le postazioni russe così la Russia avrebbe legittimato un eventuale intervento militare in Ucraina. Un po’ come le foto taroccate che l’ex segretario di stato statunitense, Colin Powell, mostrò il 5 febbraio del 2003 dinanzi al Consiglio di sicurezza dell’Onu per legittimare l’invasione dell’Iraq da parte degli Usa.

Un conflitto, un problema e un guadagno per Ankara?

Ovviamente un’eventuale guerra in Ucraina metterebbe Ankara in una posizione molto difficile dato che in questi ultimi anni ha provato a fare tutto il possibile per curare rapporti sia con Kiev sia con Mosca. Per via della sua posizione all’interno della Nato, Ankara potrebbe trovarsi con la necessità di attuare un embargo commerciale nei confronti di Mosca e questo sarebbe il colpo di grazia per mandare in bancarotta l’economia turca e molto probabilmente confermerebbe la fine della carriera politica di Erdoğan che è già molto vicina al capolinea, visto il malessere collettivo e gli ultimi sondaggi elettorali (elezioni presidenziali si svolgeranno nel 2023).

In particolare questo scenario per la famiglia Erdoğan sarebbe una disgrazia poiché è fortemente coinvolta nel commercio di droga, lo spaccio di petrolio illegale e la forte corruzione.

L’incontro avvenuto tra Erdoğan e Zelensky è stato il decimo incontro sotto l’ombrello del Consiglio Strategico di Alto Livello. Si tratta di un incontro che era stato anticipato da numerosi inviti inoltrati dal presidente della repubblica di Turchia, rivolti a tutte le parti interessate da questa crisi. A prima vista sembra che Erdoğan abbia una forte intenzione di svolgere quel ruolo di “mediatore”. Tuttavia non va ignorata anche l’esistenza di quella posizione complicata e difficile in cui si trovano le relazioni internazionali di Ankara. Dunque oltre la crisi economica, che è un punto fondamentale da tenere in considerazione, molto probabilmente anche il gioco di “mantenere gli equilibri sensibili” è stato uno degli obiettivi perseguiti da Erdoğan.

Bombardamenti nella regione di Idlib.

Gli azzardi bellici nell’ultimo lustro

Infatti le scelte politiche, militari ed economiche che Ankara ha fatto in questi ultimi 5 anni, prima di tutto in Siria poi in Libia, sono state molto pericolose e fragili. Ankara, pur in conflitto politico ed economico con il regime di Assad, sostenuto da Mosca, è riuscita a ottenere l’autorizzazione da Putin di entrare sul territorio siriano almeno 5 volte con un gruppo di mercenari jihadisti. Una scelta e un’alleanza molto critiche che hanno causato addirittura la morte di 33 soldati turchi nel mese di febbraio del 2020 a causa di un bombardamento russo.

La presenza della Turchia anche in Libia è una scelta molto delicata dato che Ankara ufficialmente, economicamente, politicamente ma soprattutto militarmente ha sempre sostenuto il governo di Tripoli ossia al-Sarraj che è stato in guerra aperta con il generale Haftar sostenuto in tutti i modi da Mosca.

Oltre questo “equilibrio” molto delicato anche in Libia il ruolo dei droni turchi è stato determinante perché al-Sarraj potesse vincere il conflitto armato.

L’ultima mossa pragmatica e molto delicata di Ankara è stata quella di sostenere Baku nel conflitto armato tra Azerbaijan e Armenia. Un’altra guerra in cui, in teoria, Ankara e Mosca si sarebbero trovate in conflitto dato che Erevan riceveva il sostegno politico di Putin. Tuttavia anche in questo conflitto l’appoggio militare ed economico della Turchia è stato determinante, almeno a livello mediatico, e la guerra si è conclusa con una serie di “vittorie” per Baku. L’accordo per la “pace” è stato firmato a Mosca e in  seguito e per il futuro il territorio sarà controllato da Mosca collegando l’Azerbaijan tramite un corridoio con la Turchia.

Il ruolo assunto da Ankara non si è concluso ancora, il rischio per un conflitto armato che potrebbe coinvolgere altri attori anche al di fuori del territorio ucraino esiste tuttora. Ma per Ankara è assolutamente necessario che la situazione si calmi dato che ha bisogno sia di Kiev sia di Mosca per motivi politici, economici e militari. Inoltre Ankara resta ancora un membro importante della Nato e risulta un partner strategico per Washington.

Infatti il primo messaggio di congratulazioni è già arrivato da Jens Stoltenberg, il segretario generale della Nato: «Ho sentito il presidente Erdoğan e l’ho ringraziato per il suo personale e attivo sostegno volto a trovare una soluzione politica e per il suo sostegno pratico all’Ucraina».

Se non funziona?

Ovviamente gli scenari sono tanti ma se la mediazione di Ankara non funzionasse e la crisi diventasse più profonda senz’altro Mosca potrebbe decidere di usare la carta del “gas” contro l’Unione europea. Esattamente come ha fatto in tutti questi anni, Erdoğan, insieme al suo partito e ai suoi imprenditori, potrebbe decidere di attivare nuovi piani per trasformare la crisi in un’opportunità. Si è visto con che velocità, lo scorso autunno, sono stati ripristinati i rapporti politici, economici e militari con gli Emirati, quel paese ch’era stato accusato da Ankara di essere uno dei progettisti del fallito golpe del 2016.

Alternative

Infatti sono giorni che Ankara dedica spazio e tempo alla diplomazia per capire se il gas azero, qatariota o addirittura quello israeliano può essere portato in Turchia e rivenduto ai paesi europei. Nel mese di gennaio, Kadri Simson, Commissaria europea per l’Energia, aveva annunciato che la Commissione stava sondando anche Baku per valutare l’opzione del gas azero. Si tratta del famoso Corridoio meridionale del gas (conosciuto come Tap Tanap) che attraversa tutto il territorio della Turchia per concludere il suo flusso in Salento.

Il progetto del gasdotto Tap Tanap.

Una seconda opzione sarebbe il gas israeliano. Infatti nella sua visita in Albania il presidente della repubblica di Turchia aveva parlato di quest’opzione, rilasciando quest’affermazione apodittica: «Non si può portare il gas israeliano senza coinvolgere la Turchia». Lo stesso tema è stato riproposto dallo stesso presidente anche al rientro in Turchia dopo la visita in Ucraina:

«Nel mese di marzo il presidente israeliano Herzog sarà in Turchia, parleremo dell’idea di portare il gas israeliano in Turchia. Dopo averne usato per la nostra necessità nazionale siamo disposti a rivenderlo all’Europa».

Quindi anche in questo caso il disegno economico e politico che strozza la Turchia da più di 20 anni è un attore importante e potrebbe acquisire maggior ruolo soprattutto grazie a una cultura politica, economica e militare perversa e distruttiva che diventa sempre più dominante nel Medio Oriente e in Europa.

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Russia-Ucraina: la possibile guerra del dottor Stranamore https://ogzero.org/russia-ucraina-la-possibile-guerra-del-dottor-stranamore/ Sat, 05 Feb 2022 18:46:06 +0000 https://ogzero.org/?p=6152 Come promesso, ecco il secondo intervento di Yurii Colombo sulla situazione ucraina. Si ripercorrono qui gli snodi principali dell’evoluzione della crisi, tra risorse energetiche irrinunciabili, la paura delle potenze internazionali di dispiacere all’alleato americano, le disomogeneità tra la Russia e l’Ucraina, nonché i veri motivi della protesta sociale russa che spesso è stata superficialmente collegata […]

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Come promesso, ecco il secondo intervento di Yurii Colombo sulla situazione ucraina. Si ripercorrono qui gli snodi principali dell’evoluzione della crisi, tra risorse energetiche irrinunciabili, la paura delle potenze internazionali di dispiacere all’alleato americano, le disomogeneità tra la Russia e l’Ucraina, nonché i veri motivi della protesta sociale russa che spesso è stata superficialmente collegata al fascino di leader come Navalny o Zyuganov. Tutti dettagli di un quadro che ancora non è definito e che rischia di sfociare in futuro in un conflitto sebbene questo sia esattamente quello che tutte le parti in gioco vogliono evitare.


La scontro tra Usa e Russia sull’Ucraina non avrà immediate ricadute belliche come avevamo già previsto nel precedente articolo su OGzero. Le forze in campo ai confini non sarebbero mai state sufficienti come rivela in articolo pubblicato molto ben documentato su “Novaya Gazeta” da Valery Shiryaev.

Mostrare i muscoli

Malgrado ciò molti media e social russi hanno continuato a dispensare a piene mani immagini nel web dove si vedono attrezzature militari russe che si spostano su treni dalla Siberia e dall’Estremo Oriente verso ovest sostenendo persino che l’esercito russo potrebbe giungere ad ammassare sul confine ucraino circa 500.000 soldati (ma nessuno smentisce e neppure segnala che il complesso delle forze armate della Federazione è a oggi composto complessivamente da circa 280.000 uomini!).

Che un’incursione russa non sia all’ordine del giorno ne è convinto anche LInstitute for the Study of War, uno dei think tank più aggressivi degli Stati Uniti, sostenuto dalle donazioni dei giganti dell’industria militare, che a dicembre ha pubblicato uno studio sui possibili sviluppi del negoziato. Nel rapporto del 27 gennaio intitolato Putin’s Likely Course of Action in Ukraine: Updated Course of Action Assessment si sostiene una linea di ragionamento che è tutta l’opposto di quella della propaganda dell’establishment americano. In particolare si legge che: «Uno sguardo più ravvicinato su cosa comporterebbe una tale invasione […] e ai rischi e ai costi che Putin dovrebbe correre […] ci porta a prevedere che è improbabile che quest’inverno verrà lanciata un’invasione dell’Ucraina. Potrebbe lanciare un’invasione limitata del Sudest non occupato dell’Ucraina che non sarà all’altezza di un’invasione su vasta scala […]. Un’invasione russa su vasta scala dell’Ucraina sarebbe di gran lunga l’operazione militare più importante, più audace e più rischiosa che Mosca abbia lanciato dall’invasione dell’Afghanistan nel 1979. Sarebbe molto più difficile delle guerre statunitensi contro l’Iraq del 1991 o del 2003. E sarebbe un netto allontanamento dagli approcci su cui Putin ha fatto affidamento dal 2015 (come racconto nel mio libro La spada e lo scudo). Ciò costerebbe alla Russia molti soldi e probabilmente molte migliaia di vittime».

Reticenza e cautela

Si tratta di timori fondati che attraversano anche l’opinione pubblica russa in gran parte poco propensa a “morire per Kiev” e comunque comporterebbe il ritorno a stili di vita autarchici dell’epoca sovietica che inevitabilmente si imporrebbero in seguito alle messe di sanzioni finanziarie già promesse dagli Usa in caso di “escalation”.

L’assetto degli schieramenti nella disputa (fonte Ispi / The Washington Post)

Ma anche per Joe Biden, in questo momento, mantenere la tensione alta sull’Europa orientale risulta difficile.

In primo luogo perché i paesi dell’Unione Europea risultano sempre più reticenti a infilarsi in una guerra “calda” in cui hanno ben poco da guadagnare. Il gioco potrebbe eventualmente valere la candela se una pressione anche militare portasse a un crollo del regime putiniano facendo diventare la Russia terreno di caccia per le multinazionali internazionali, ma allo stato dell’arte la cosa è altamente improbabile. La Germania in particolare attraverso il leader della Cdu tedesca Friedrich Merz ha segnalato forte preoccupazione in caso di fuoriuscita della Russia dal sistema Swift: «Se disconnettiamo la Russia da Swift, c’è un grande pericolo che il sistema crolli e potremmo dover passare al sistema di pagamento cinese. Ci faremmo un grande torto», ha sostenuto alla fine di gennaio. Si tratta di preoccupazioni condivise anche al cancellierato.

La Cina da parte sua sta nicchiando come al solito, ma all’Onu non ha fatto mancare il suo sostegno al Cremlino.

Nella notte del 1° febbraio il Consiglio di Sicurezza si è riunito a New York per discutere di Ucraina su proposta degli Stati Uniti. Gli americani avevano bisogno di 9 voti su 15 dei membri permanenti e provvisori del Consiglio di Sicurezza, escluse le astensioni, per mettere il tema in agenda. Ci sono riusciti per il rotto della cuffia ma hanno dovuto incassare il netto no di Pechino e una più cauta astensione di Delhi, un’astensione che però nella circostanza era un sostanziale voto contrario.

L’India insiste per la soluzione negoziata, preoccupata anche per la sua importante comunità di studenti presente oggi a Kiev e dal suo ruolo di bilancia in Asia che l’ha portata ad acquistare ingenti forniture militari russe.

Ancora più netta è l’ultraconservatrice Ungheria di Orban, la quale spacca il fronte di Visegrád per schierarsi «nettamente contro ogni intervento Nato».

Orbán giunto a Mosca all’inizio di febbraio ha lasciato stupefatti quando ha avanzato la sfrontata proposta: datemi più gas a prezzi stracciati che ci penserò io a venderlo… all’Ucraina! Nello stesso giorno l’Ungheria iniziava a fornire gas russo all’Ucraina approfittando del fatto di poterlo ottenere grazie a un contratto stipulato fino al 2036 a prezzi 5 volte inferiori a quelli del mercato attuale.

Non c’è alternativa al gas russo

Tutto ciò mette a nudo una prosaica realtà che quasi nessuno in Europa vuol guardare in faccia pur di non dispiacere all’alleato americano: al netto delle prospettive fumose della green economy planetaria non ci sono a oggi alternative al gas russo neppure per l’Ucraina. Per ora Zelensky ha sostituito le forniture di idrocarburi russi con armi americane (l’ultima fornitura di fine gennaio è per un miliardo di dollari), ma com’è noto queste ultime rappresentano solo una zavorra per il bilancio, se non vengono utilizzate in un conflitto. Anche perché presto il contribuente europeo potrebbe essere messo al corrente di un’amara realtà:

che il riarmo ucraino viene pagato da Bruxelles con la nuova tranche di prestiti all’Ucraina per un miliardo e mezzo di euro appena fornita, proprio mentre gli Usa vendevano armi a Zelensky.

La triangolazione Mosca-Budapest-Kiev non può non avere ricadute politiche su più vasta scala. L’escalation con Putin a questo punto diverrebbe una sola esigenza americana per tenere insieme un’Europa sempre più sfrangiata nell’atteggiamento da tenere con la Russia. Da questo punto di vista c’è da ritenere che la guerra militare e non solo diplomatica e commerciale in Europa – in prospettiva – non sia solo un’ipotesi di scuola.

Come se l’Ucraina fosse un membro della Nato

Per la prima volta nella storia della Nato, lo scorso 11 dicembre un aereo da ricognizione strategica statunitense Boeing RC-135 partito dalla base aerea britannica Mildenhall ha effettuato un profondo raid lungo i confini della Federazione Russa. Ha raccolto informazioni sulla configurazione del sistema di difesa aerea e sulla struttura della difesa russa, volando lungo il confine della Bielorussia: Kharkov, Dnepropetrovsk, regioni di Zaporozhye e finendo in Crimea. In questo caso, l’esercito americano ha agito esattamente come se l’Ucraina fosse un membro a pieno titolo della Nato. Un approccio che coinvolge appieno la Nato visto che i droni da ricognizione RQ-4 Global Hawk, che regolarmente volano sul Donbass partono dalla base aerea di Sigonella. Da parte sua la Csto, il Patto di Varsavia versione XXI secolo, dopo il blitz in Kazakhstan, svolge un’esercitazione operativa congiunta non programmata delle forze armate di Bielorussia e Russia denominata “Allied Resolve-2022”. Le prime unità (non più di 15.000 uomini in totale, 12 caccia e 2 battaglioni S-400) sono già arrivate in zona. War games, si dirà, ma che si collocano in una crisi, quella Ucraina, che non trovando soluzione si è incancrenita sempre di più.

 

Manifestazione contro la guerra a Kiev

La visione russa

La radice dei problemi delle relazioni tra Ucraina e Russia affonda nelle relazioni tra i due paesi slavi sin dalle origini, sin dalla formazione della Rus’ nel X secolo. Il comune ceppo e l’appartenenza a una comune area territoriale è stato segnalato non a caso da Vladimir Putin in un lungo articolo (qui nella sua versione inglese) che giustamente è stato definito “strategico”, in quanto il leader osserva le relazioni tra i due popoli non nella contingenza ma in prospettiva.

Tuttavia il lungo excursus storico che passa attraverso la vicenda della dominazione mongola fino ai giorni nostri, appare rozzo, russocentrico, incapace di relazionarsi con una identità nazionale ormai pienamente formata.

In particolare, pesa nella ricostruzione del presidente russo, soprattutto il mancato riconoscimento del ruolo nefasto giocato dallo stalinismo in epoca sovietica per quanto riguarda il vero e proprio genocidio (Holomodor) nei confronti della popolazione contadina negli anni Trenta durante la collettivizzazione forzata delle terre imposta dal potere sovietico e con le repressioni dei tatari di Crimea. Tuttavia il comune ceppo slavo e la lunga coabitazione per settant’anni aveva reso fortemente integrate le due repubbliche: dal punto di vista economico ma anche sociale con la formazione di un gran numero di famiglie “miste” dentro un paese che conservava forti tratti di disomogeneità. Basti pensare alle differenze culturali e etniche tra gli ex cittadini polacchi o rumeni integrati nell’Urss dopo il “Patto Molotov-Ribbentrop” e gli abitanti delle zone del Donbass, definite da sempre “Piccola, Nuova Russia” (Malaja, Novaja Rossija). L’indipendenza ucraina, giunta alla fine del 1991 ebbe da questo punto di vista conseguenze nefaste: lungo 30 anni l’economia ucraina non si è più ripresa forgiando un’oligarchia parassitaria tanto quella russa ma senza il vantaggio di poter esportare le materie prime.

La visione ucraina

Da questo punto di vista l’Ucraina fino al grande crack del 2014 con l’insurrezione reazionaria della Maidan, la guerra nel Donbass e l’annessione della Crimea hanno sempre oscillato tra attrazione verso la UE e fattivo legame economico e sociale con la Russia (per una ricostruzione dettagliata della storia ucraina dal 1991 a oggi si veda il mio libro su questa tema Svoboda).

La necessità da parte della nuova nomenklatura antirussa emersa dopo il 2014 esigeva che si creasse una narrazione storica lontana dagli stilemi sovietici che per una serie di motivi si è andata ad agglutinare nelle ideologie del nazionalismo indipendentista di Stepan Bandera, collaborazionista del nazismo durante la Seconda guerra mondiale ma spacciato come “terzocampista” equidistante tra Urss e nazismo. Ciò permetteva, tra l’altro, di usare come volontari militari e guardie nazionali, quei militanti neofascisti formatisi con quelle ideologie negli anni Duemila. Come si può cogliere, si tratta di un intricato groviglio storico-economico-politico difficile da districare, una bomba pronta a riesplodere in ogni momento.

Addestramento ucraino nelle foreste di Kharkiv (fonte Euronews).

L’Ucraina colonia delle potenze occidentali

Anche perché la situazione interna dei due paesi resta difficile. Contraddizioni sociali interne nei due paesi, alimentano spinte nazionaliste e belliciste come arma di distrazione di massa. L’Ucraina dal punto di vista socio-economico continua a essere il fanalino di coda europeo. Il suo Prodotto interno lordo è ripartito negli ultimi anni ma sta raggiungendo solo ora la parità in termini assoluti (e tenendo conto delle amputazioni della Crimea e del Donbass). Con 130 miliardi di dollari di debiti soprattutto nei confronti del Fondo monetario internazionale, gli Usa e la UE (che rappresentano circa l’81% del Pil nazionale annuo secondo i dati della Banca Mondiale) l’Ucraina si è trasformata in una vera e propria colonia delle potenze occidentali dimostrandosi solerte nel pagare le rate trimestrali ai suoi creditori ma schiacciando sempre di più i redditi di un’economia che come quella russa resta in buona parte dipendente dallo stato. I salari superano a stento i 150 dollari mensili mentre il reddito medio supera di poco i 4000 collocando il paese al 133° posto della classifica dei paesi più abbienti, ben dietro Iraq, Guatemala o Belize. E, non a caso, il paese resta quello a più ampia conflittualità rivendicativa nel Vecchio continente, benché snobbata dalla stampa internazionale. Dopo le grandi manifestazioni dei minatori nel paese di ottobre che pretendevano il pagamento dei salari arretrati non pagati (come riporta “Apostroph”), alla fine di novembre si sono tenute dimostrazioni a Kiev, sfociate in scontri con la polizia contro gli aumenti delle tariffe elettriche. Il degrado economico è tale che il presidente Zelensky si è potuto permettere di rimbrottare Joe Biden per aver spinto l’acceleratore sui pericoli di guerra con la Russia che alla fine di gennaio stavano affossando il mercato finanziario interno, come immediatamente rilevato il 2 febbraio dal “Financial Times”.

Il peso e il ruolo della Difesa nel bilancio russo

La Russia ha problemi diversi da quello del vicino slavo. Nei primi dieci anni del millennio – negli anni della ripresa economica – Putin fu in grado di pagare per intero il debito estero e di accumulare grandi riserve di oro e di valuta occidentale per far fronte alla volatilità del rublo. Si tratta di un approccio a lungo termine se è vero quanto è scritto nel 46° Rapporto sull’economia russa della Vsemirnyj Bank uscito il 1° dicembre, dove si legge che buona parte degli utili determinati dall’aumento dei profitti dovuti all’aumento dei prezzi delle materie prime energetiche sono stati investiti.

Ora però, malgrado i “fondamentali” (a parte l’inflazione) restino eccellenti, da un decennio l’economia ristagna, i redditi diminuiscono e si coglie soprattutto nelle città europee uno iato sempre più profondo tra le aspettative e le promesse elargite a piene mani dal regime e la realtà corrente.

Questa è stata la base sociale della protesta intercettata in modo diverso da Navalny e dal Partito comunista di Zyuganov.

Al fondo resta il peso improduttivo di quel 25% di bilancio dello stato investito in sicurezza; in primo luogo nella Difesa che alimenta il ruolo dei Dottor Stranamore all’interno del Cremlino e riduce la possibilità di grandi investimenti nelle infrastrutture ancora particolarmente carenti nel Nord europeo del paese e in buona parte della Siberia.

Ecco perché la guerra russo-ucraina, che nessuno è così pazzo da voler scientemente perseguire, resta un’ipotesi possibile nel futuro anche prossimo.

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L’assalto al carcere di Sina “forse” orchestrato da Ankara e Damasco https://ogzero.org/assalto-al-carcere-forse-orchestrato-da-ankara-e-damasco/ Thu, 03 Feb 2022 17:10:52 +0000 https://ogzero.org/?p=6122 Quattro giorni di ininterrotti scontri tra i combattenti dello Stato Islamico (Isis) e le forze curdo-siriane (Fds), che presidiavano il carcere assalito da miliziani ben equipaggiati. Il bilancio finale è stato di più di 330 morti, molti jihadisti fuggiti (un migliaio i catturati dalla pronta reazione curda); un preoccupante segnale di quanto la rete jihadista […]

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Quattro giorni di ininterrotti scontri tra i combattenti dello Stato Islamico (Isis) e le forze curdo-siriane (Fds), che presidiavano il carcere assalito da miliziani ben equipaggiati. Il bilancio finale è stato di più di 330 morti, molti jihadisti fuggiti (un migliaio i catturati dalla pronta reazione curda); un preoccupante segnale di quanto la rete jihadista si sia ricostruita, ancora più allarmante se si riconduce a una precisa orchestrazione occulta da cercare ad Ankara – e non solo – questo improvviso assalto dei tagliagole del Daesh al carcere curdo in cui erano reclusi i foreign fighters che gli occidentali non rivogliono indietro. Un ritorno dell’interesse occidentale per la questione dei jihadisti stranieri detenuti deve aver sollecitato il presidente turco a intervenire; e il risultato è stato l’annientamento di Abu Ibrahim al Hashimi Al Qurayshi, leader dell’Isis, dopo l’insuccesso del piano ordito dai satrapi turco-siriani.

A questo proposito abbiamo ricevuto alcune rilevanti osservazioni di Gianni Sartori, confermate dai bombardamenti avvenuti una settimana dopo per mano dell’aviazione di Erdoğan, come racconta l’articolo di Chiara Cruciati per “il manifesto” del 3 febbraio 2022, che proponiamo qui sotto. Riprendiamo dunque il pezzo di Sartori comparso sulla rivista “Etnie”, corredandolo tra le altre con un’immagine di Matthias Canapini, con il quale inauguriamo una collaborazione che immaginiamo proficua.


Lo davamo per scontato. Intravedere dietro l’attacco di Daesh al carcere di Sina (nel quartiere di Xiwêran/Gweiran della città di Hesîçe/Hassaké) la complicità di Ankara era tutto meno che un esercizio di fantasia. Ma a quanto sembra la manina inopportuna non era l’unica. In base ai primi accertamenti, le fonti curde hanno denunciato un ruolo, oltre che dell’intelligence turca, anche di quella siriana.

Bombardamenti turchi sui curdi siriani dopo l'assalto jihadista

3 febbraio 2022. Bombardamenti turchi sul Confederalismo democratico dei curdi siriani dopo l’assalto jihadista del 20 gennaio: evidente l’impronta di Ankara.

Premesse dell’assalto e mandanti

Iniziato il 20 gennaio, l’assalto operato dallo Stato islamico dell’Iraq e del Levante (Daesh) veniva se non stroncato sul nascere, perlomeno ridotto ai minimi termini. Purtroppo aveva avuto il tempo di provocare “danni collaterali” non irrilevanti. Sono almeno una cinquantina (ma il bilancio potrebbe accrescersi) i caduti tra membri di Fds, Asayish e civili curdi accorsi volontariamente per contrastare l’operazione jihadista. Dopo mesi di sostanziale menefreghismo per la sorte delle popolazioni (curde, ma non solo) del Nord e dell’Est della Siria sottoposte all’occupazione o comunque agli attacchi dell’esercito e dell’aviazione turca, l’Occidente è parso ridestarsi e prendere coscienza che la minaccia dell’Isis/Daesh non era stata definitivamente cancellata.
Per cui, non detto ma pensato, anche la presenza curda recuperava spessore e spazio sui media. Perlomeno come argine al fanatismo degli estremisti islamici.
Se pur lentamente, emergono le prime connessioni – interne ed estere – che hanno reso operativo il progetto per liberare i circa 5000 detenuti (membri o sostenitori di Daesh) rinchiusi a Sina. E tutte invariabilmente conducono ad Ankara o a Damasco. O magari a entrambe. Si tratta di elementi, indizi riguardanti le riunioni preliminari, le varie fasi di pianificazione, gli obiettivi individuati dalla banda degli assalitori. Non si sarebbe trattato quindi di un’azione pianificata esclusivamente dall’Isis, ma di una complessa operazione con il sostegno – come dire: bilaterale – proveniente dall’esterno del gruppo jihadista (per quanto questo sia presumibilmente infiltrato come un colabrodo da servizi vari).
A quanto sembra, condizionale sempre d’obbligo, l’operazione potrebbe essere stata decisa e pianificata in Turchia. I membri di Daesh catturati dalle Fds avrebbero confessato che era stata preceduta da una lunga preparazione (almeno 7-8 mesi) e che le riunioni di pianificazione si sarebbero tenute a Serêkaniyê (Ras al-Ain) ossia in un’area attualmente sotto occupazione turca. Vi avrebbero partecipato membri di varie “cellule dormienti” sia locali che provenienti dalla Turchia. E tutte indistintamente sarebbero state rifornite di adeguati armamenti.
Dato che tra i prigionieri si trovavano diversi esponenti di alto livello dell’organizzazione terrorista, è evidente che l’operazione rivestiva una certa importanza.
Per prima cosa, con qualche mese di anticipo, vari esponenti dell’organizzazione terrorista, sia individualmente che in piccoli gruppi, erano venuti ad abitare nel quartiere di Gweiran/Xiwêran, dove sorge la prigione (una ex scuola provvisoriamente adibita a carcere) e in quello di Heyî Zihur.
Nel comunicato delle Fds del 25 gennaio si legge che «almeno 200 esponenti dello stato islamico si erano installati a Serêkaniyê, Girê Spî e Ramadî, in particolare nel quartiere di Gweiran e nei dintorni del carcere».
Contemporaneamente anche i detenuti si organizzavano per la rivolta.
Va ribadito che in maggioranza si tratta di persone addestrate alla guerra e di origine straniera (muhajir ossia “migranti”, termine utilizzato per indicare i miliziani stranieri che combattono per Daesh). Persone che – in genere – i rispettivi paesi di provenienza si rifiutano di riportare in patria.

Dinamica dell’assalto e indizi sui mandanti

Orchestrazione Isis
Il primo veicolo imbottito di esplosivo era stato posto in prossimità dello svincolo di una condotta petrolifera (moltiplicando quindi la potenza dell’attentato) mentre venivano bloccate le strade d’accesso al carcere. Altri veicoli, ugualmente riempiti con materiale esplodente, colpivano la porta della prigione e l’edificio delle Forze di autodifesa (Erka Xweparastinê). Entravano allora in azione anche le “cellule dormienti” precedentemente installate nel quartiere. Catturando alcuni civili (da usare come ostaggi o scudi umani) e abbattendo un muro della prigione con una ruspa.
Assalto al carcere di Sina

Famiglia yazida a Dohuk (© Matthias Canapini)

Una volta entrati, distribuivano le armi ai detenuti islamisti e prendevano altri ostaggi tra il personale del carcere.

Risposta Fds

La priorità per le Fds e per le forze della sicurezza interna (Asayish) è stata quella di proteggere i civili. Nel contempo circondavano (bloccandone a loro volta le vie d’accesso) e mettevano in sicurezza (procedendo all’evacuazione degli abitanti) i quartieri di Gweiran e di Heyî Zihur. Al momento sarebbero circa 200 (per almeno tre quarti facenti parte delle “cellule dormienti” esterne al carcere) gli esponenti di Daesh uccisi in cinque giorni di combattimenti. Alcune centinaia degli evasi poi sono già stati ripresi.

Quello che sta emergendo, sia dalle prove raccolte che dalle testimonianze e dagli interrogatori, è un probabile ruolo di Ankara e Damasco nell’orchestrare il grave episodio.
Equipaggiamento turco, attività siriana

Tra gli “indizi” (ma messi tutti in fila acquistano le sembianze di prove) a sostegno della tesi di un diretto coinvolgimento di Turchia e Siria: le armi – della Nato – con numeri di serie turchi trovate in mano ai terroristi dell’Isis; la registrazione di telefonate dei membri di Daesh in prigione con la Turchia; le confessioni di quelli catturati mentre cercavano di rientrare a Serêkaniyê (sotto l’ombrello turco); le carte d’identità siriane di recente emissione in mano ai miliziani jihadisti; l’incremento di attività del regime siriano nella regione…

Assalto al carcere di Sina

Jihadisti evasi dalla prigione secondo l’agenzia russa “Sputnik”.

Altri elementi, altre prove, assicurano le Fds saranno presto messi a disposizione dell’opinione pubblica. Nel giro di qualche giorno.

Pianificazione a lunga scadenza:

contrattempi…
Stando ai piani preliminari, l’attacco avrebbe dovuto svolgersi ancora in ottobre o novembre, in coincidenza con un ennesimo attacco turco nel nord e nell’est della Siria e con il previsto rafforzamento dei suoi presidi e avamposti militari nelle zone già occupate. Proprio in ottobre Erdoğan si era consultato sia con Biden che con Putin ed è plausibile pensare che non ne abbia ottenuto il tacito assenso per l’ulteriore invasione.
Un contrattempo (per Ankara e Daesh beninteso) a cui se ne aggiunse presto un altro. Quando le Fds avevano individuato e arrestato alcune “cellule dormienti” a Hesekê e Raqqa ricevendo da uno dei caporioni arrestati la confessione che il loro obiettivo era il carcere di Hesekê. Un progetto quindi apparentemente disinnescato dall’operazione delle Fds, ma in realtà solo rinviato.
… e coincidenze d’intelligence
Altra coincidenza. Con un tempismo perfetto, al momento dell’attacco jihadista al carcere, l’esercito e l’aviazione turchi attaccavano simultaneamente Zirgan, Tel Tamer (da dove avrebbero potuto intervenire agevolmente in sostegno a Daesh) e Ain Issa causando vittime tra i civili.
Questo per quanto riguarda Ankara. E Damasco?
Rimane sempre a guardare mentre il territorio della Siria viene occupato da forze straniere? In realtà prima dell’attacco jihadista si era registrata un’intensa attività militare dell’esercito siriano proprio a Hesekê. Ma soprattutto era andata intensificandosi una violenta campagna diffamatoria nel confronti dell’amministrazione autonoma (Aanes) delle Fds sui media siriani filogovernativi. Inevitabile collegare tutto ciò ai recenti incontri tra il Mit (intelligence turca) e il Mukhabarat (intelligence siriana).
Un riavvicinamento tra i rispettivi servizi (ostili e su fronti opposti per molte questioni, ma sostanzialmente concordi nei confronti del “pericolo curdo”) che li aveva visti confrontarsi alla fine di dicembre (stando almeno a quanto riportava la stampa turca) in Giordania, ad Aqaba.
Sempre basandoci su quanto scrivevano i giornali turchi, nel corso della riunione si sarebbe discusso anche di «operazioni congiunte nel Nordest della Siria» e in particolare di «un’operazione militare turca per la profondità di 35 chilometri in revisione agli accordi di Adana; la sollevazione delle tribù (in chiave anticurda, ça va sans dire, come ci aggiornano regolarmente alcuni siti rosso-bruni italici N.d.A) a Deir ez-Zor, Hesekê  e Raqqa; la liberazione dei detenuti nelle prigioni e la ricostruzione di Aleppo».
Sempre sulla stampa turca – e quindi la cosa va presa con beneficio d’inventario – si suggeriva che Mosca e Damasco apparivano interessati, favorevolmente, alle richieste turche.

Un complotto annunciato contro l’amministrazione autonoma

Minacce velate

Qualche giorno prima, il 22 dicembre 2021, c’era stata la dichiarazione congiunta dell’ultima (per ora, siamo già alla diciassettesima) riunione di Astana tra Russia, Turchia e Iran, dove si stabiliva che le parti interessate erano concordi nell’«opporsi alle attività separatiste che minacciano la sicurezza nazionale dei paesi vicini all’est dell’Eufrate». Inoltre venivano definite “illegali” (anzi, un vero e proprio “sequestro”) i redditi provenienti dal petrolio siriano. Con un evidente riferimento al fatto che i curdi, dovendo comunque sopravvivere e tenere in piedi l’amministrazione autonoma, le milizie di autodifesa e soprattutto garantire prezzi calmierati (sia del pane che del combustibile) alla popolazione, si rivendono il petrolio. Del resto perché non dovrebbero farne uso visto che sgorga su quei territori dove convivono con arabi, turcomanni, armeni e altre popolazioni? Territori, ricordo, liberati dalla presenza di Daesh soprattutto grazie al sacrificio di migliaia di curdi delle Ypg.
Per chi vuole intendere, se pur dietro un linguaggio formalmente corretto, il messaggio era chiaro.

Il complotto dei Servizi

Ora, secondo i curdi, in questa dichiarazione si intravedono i presupposti per un autentico complotto contro l’amministrazione autonoma (Aanes) e il Rojava. In caso di vittoria dell’operazione al carcere di Hesekê è probabile che la Turchia sarebbe intervenuta da Tell Tamer (da nord) mentre Damasco avrebbe attaccato da Tabqa, Raqqa e Deir ez- Zor (da sud). Così come si era probabilmente stabilito nell’incontro tra il Mit e il Mukhabarat.
Magari con la scusa di porre fine al massacro (facilmente prevedibile se Daesh non fosse stata fermata in tempo) da loro stessi promosso, previsto e forse pianificato.
Se la pronta, coraggiosa risposta delle Fds ha impedito comunque un disastro ben peggiore, rimane il dubbio che a conti fatti quanto è accaduto possa ugualmente portare acqua al mulino dei due regimi. Potrebbe infatti fornire il pretesto (non solo a Damasco e Ankara, ma anche a Mosca e Teheran) per accusare l’amministrazione autonoma di incapacità e inadeguatezza. Di essere esposta ai rigurgiti di Daesh. Prima alimentati e innescati, poi strumentalizzati come alibi per “riportare l’ordine” in Rojava.
A consolazione, va ricordato che i curdi hanno dimostrato ancora una volta di essere un osso duro. Oltre che per i cani rabbiosi di Daesh, anche per i mastini di Ankara e Damasco.
Assalto al carcere di Sina

A completamento della ingarbugliata serie di eventi intrecciati nella zona denominata Mena giunge notizia (la riporta “Mediapart”) dell’eliminazione del capo dello Stato Islamico in seguito a un raid dell’esercito americano: un’esplosione ha raso al suolo la casa di tre piani che ospitava il turkmeno Abu Ibrahim al-Hashimi al-Qurayshi (alias Abdullah Kardaş, ufficiale di Saddam Hussein, ovvero Amir Mohammed Abdul Rahman al Mawli al Salbi) e parte della sua famiglia che si è fatto saltare in aria al momento dell’attacco ordinato da Biden. Abitava ad Atamah, un villaggio nei pressi di un campo profughi al confine tra Siria e Turchia, in quella provincia di Idlib, che fa da zona cuscinetto pretesa da Erdoğan al momento della sconfitta dell’Isis di al-Baghdadi e da lui controllata… un’altra coincidenza?

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Ucraina, frenetici dialoghi tra sordi https://ogzero.org/ucraina-frenetici-dialoghi-tra-sordi/ Fri, 28 Jan 2022 22:50:01 +0000 https://ogzero.org/?p=5994 Pubblichiamo il primo di due interventi di Yurii Colombo volti ad analizzare dal punto di vista geopolitico giochi di guerra e trattative in corso tra le varie diplomazie per la situazione in Ucraina: frenetici dialoghi tra sordi, ovvero silenzi prolungati nel secondo articolo. Un vecchio proverbio ucraino (conosciuto anche in Russia) dice che  “C’è un […]

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Pubblichiamo il primo di due interventi di Yurii Colombo volti ad analizzare dal punto di vista geopolitico giochi di guerra e trattative in corso tra le varie diplomazie per la situazione in Ucraina: frenetici dialoghi tra sordi, ovvero silenzi prolungati nel secondo articolo.


Un vecchio proverbio ucraino (conosciuto anche in Russia) dice che  “C’è un sambuco in giardino e uno zio a Kiev” per indicare quando tra due interlocutori non c’è nulla in comune, ognuno dice la sua e non ascolta l’altro. Un dialogo tra sordi, potremmo tradurre in italiano. Sarebbe questo il consuntivo di frenetiche settimane di incontri bilaterali, messaggi diffusi sulla stampa in codice agli avversari, scambi di accuse e naturalmente ammassamenti di truppe e war games tra Russia e Nato con al centro l’Ucraina e per certi versi il destino del vecchio (e malandato) continente.

La vecchia “dottrina Breznev”

Mercoledì 26 gennaio 2022, dopo i round di trattative dei primi giorni dell’anno a Ginevra, gli Usa hanno consegnato la risposta alla proposta di accordo fatta circolare pubblicamente dalla Russia già il 17 dicembre scorso e leggibile qui. Nella “bozza” del ministero degli Esteri russi si sosteneva che «La Russia e gli Usa […] non dovrebbero dispiegare le loro forze armate e armi in aree in cui tale dispiegamento sarebbe percepito dall’altra parte come una minaccia alla loro sicurezza nazionale» ma soprattutto si chiedeva alla Nato di escludere l’ipotesi un’ulteriore espansione verso Est. Si tratterebbe di una versione rivista e corretta della vecchia “dottrina Breznev” che prevedeva il riconoscimento di un’area di “influenza russa” nell’Est-Europa dopo l’invasione della Cecoslovacchia nel fatidico 1968. Ma se negli anni Settanta ciò implicava il riconoscimento del controllo degli stati d’oltre cortina da parte sovietica, ora a Mosca ci si accontenterebbe di impedire a Kiev e Tblisi di allearsi militarmente all’Occidente.

Per Putin l’Ucraina rappresenterebbe quella linea rossa da non superare che l’Alleanza Atlantica non dovrebbe varcare, pena la «rottura verticale delle relazioni».

Visto dalla Moscova il ragionamento non fa una grinza: negli ultimi 24 anni, 14 stati dell’Europa orientale hanno aderito alla Nato in barba alle promesse (a parole) che erano state fatte a Gorbačëv ai tempi dell’unificazione tedesca, e questa non solo bussa ora sul fronte occidentale ma rischia – in prospettiva – di infettare il Centro-Asia in particolare il Turkmenistan e l’Uzbekistan che dopo il disfacimento del Patto di Varsavia non hanno aderito all’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva.

La risposta americana – per ora non pubblicata dal Cremlino – è stata interlocutoria. Il “New York Times” sostiene che gli Stati Uniti hanno proposto di rilanciare il Trattato sulle forze nucleari a medio raggio (Trattato Inf), dal quale si sono ritirati nel 2019. La pubblicazione dell’East Coast riporta la risposta degli Stati Uniti la quale «afferma chiaramente che la Russia non avrà potere di veto sulla presenza di armi nucleari, truppe o armi convenzionali nei paesi della Nato», ma «apre le porte a negoziati sulle restrizioni reciproche per quelle a corto e medio raggio». Il piano sarebbe quello di giungere ad accordi “realistici” compreso quello sui “cieli aperti” che con una certa leggerezza erano stati lasciati scadere dall’amministrazione Trump e che invece Joe Biden considererebbe imprescindibili per evitare crisi impreviste dell’ordine globale.

L’espansione della Nato verso est

Ma la trattativa in realtà è ancora più ampia. Andrey Kortunov, direttore generale del Consiglio per gli affari internazionali della Russia (Inac) ha sottolineato che un’altra componente necessaria degli attuali negoziati tra Russia e Occidente sulle garanzie di sicurezza dovrebbe essere il rinnovo del Trattato sulle forze armate convenzionali in Europa (Cfe). «Dovremo sviluppare una nuova versione del Trattato Cfe, che dovrebbe certamente contenere la tesi di limitare l’espansione verso est della Nato. La nuova versione del Cfe dovrebbe contenere anche clausole relative ai droni e una serie di altri nuovi tipi di armi che non erano nel precedente trattato, firmato nel 1990», sostiene Kortunov.

Che questo sia il canovaccio – e buona sostanza della vera trattativa in corso tra le due potenze – lo si desume anche dalle parole di Sergey Lavrov, ministro degli Esteri russo, il quale ha stigmatizzato Washington sostenendo che sulla “ciccia” (ovvero lo stop all’espansione della Nato) non c’è “nessuna risposta positiva”. Allo stesso tempo però, il diplomatico russo, ha osservato che il contenuto della risposta degli Stati Uniti ci consente di contare su una discussione seria, ma su questioni secondarie. La decisione sugli ulteriori passi della Russia sarà presa da Vladimir Putin, ha precisato il ministro degli Esteri. E anche il Consiglio della Federazione ritiene che la risposta degli Stati Uniti contenga una volontà di compromesso in alcune aree. La replica americana in sostanza si condenserebbe in ciò che aveva affermato Jens Stoltemberg qualche ora prima e che era stato letto negativamente dalla City russa provocando una caduta poco piacevole del mercato azionario e del rublo. Era del resto anche quanto affermato da Biden il 20 gennaio: «L’adesione dell’Ucraina alla Nato è improbabile nel prossimo futuro. Per unirsi all’Alleanza, l’Ucraina deve fare molto lavoro dal punto di vista della democrazia e di una serie di altre cose». In linguaggio corrente significa che l’Ucraina dovrebbe abbandonare ogni richiamo alle ideologie neofasciste di Stepan Bandera sui cui tristemente in parte poggia oggi (invise alla Polonia e alla lobby ebraica a Washington) ma garantire la possibilità di un accesso limpido al suo mercato per gli occidentali, riducendo il tasso di corruzione interna.

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Armi Nato in arrivo in Ucraina.

Le minacce “ibride” di Putin

Come ha segnalato correttamente il politologo ucraino Volodmyr Ishchienko, lo stesso “Center of Defense Strategies”, un think tank ucraino guidato da un ex ministro della Difesa, «aveva affermato in modo persuasivo che qualsiasi invasione russa di massa con l’occupazione di grandi territori e grandi città ucraine è molto improbabile non solo nelle prossime settimane ma anche durante il 2022». Secondo Ishchienko «l’accumulo di truppe russe alle frontiere non è superiore a quello della primavera del 2021 e i preparativi logistici non sono nemmeno lontanamente al livello di sostenere un’operazione militare di questa portata. In tali condizioni tale operazione sarebbe semplicemente suicida per Putin, le minacce più realistiche dalla Russia nel breve termine sono di natura “ibrida”», come per esempio la ripresa in grande stile delle scaramucce nel Donbass.

L’obiettivo primario della campagna mediatica non sarebbe quindi probabilmente nemmeno l’Ucraina, ma la Germania e non solo.

Ci raccontano di questo del resto anche le dimissioni imposte al comandante della Marina tedesca Kay-Achim Schönbach dopo che aveva fatto coming out la settimana precedente sostenendo che «la penisola di Crimea non tornerà ai suoi legittimi proprietari». Aveva anche definito «una sciocchezza» che Mosca possa presumibilmente pianificare di destabilizzare l’Ucraina. Secondo lui, India e Germania hanno bisogno della Russia per contrastare la Cina. Schoenbach aveva chiosato persino affermando che il presidente russo Vladimir Putin vuole «rispetto alla pari» dall’Occidente, ed «è facile dargli il rispetto che chiede – e probabilmente – merita». La stampa tedesca più attenta ha commentato che il generale sarebbe caduto in un “trappolone”. Infatti le dichiarazioni “bomba” erano state rilasciate durante un discorso all’Istituto indiano per gli Studi e l’Analisi della Difesa intitolato a Manohar Parrikar (Idsa) a Nuova Delhi, cioè in uno dei paesi più interessati a mantenere una politica di appeasement tra Mosca e Washington.

Del resto forse basta uscire dall’Europa per percepire la crisi intorno all’Ucraina con tutt’altre lenti più segnate dalla Realpolitik e meno dalle ideologie correnti.

Tuttavia le affermazioni del capo della Marina tedesca – benché pronunciate a migliaia di chilometri da casa e proprio in quei giorni – non potevano non produrre reazioni forti e ciò rimanda alle contraddizioni presenti dentro la cancelleria tedesca e più in generale nei circoli teutonici del business. In primo luogo ovviamente la questione delle rotte energetiche di cui anche cittadini e imprese tedesche quest’inverno hanno potuto constatare l’importanza con il salasso dovuto all’aumento delle bollette del gas (+69% nel giro di un anno). Gazprom controlla una serie di impianti di stoccaggio del gas in Germania e in Europa. Naturalmente, in Europa, soprattutto nella sua parte orientale e centrale, temono che in caso di guerra in Ucraina e con l’imposizione di sanzioni “infernali” contro la Russia, Mosca possa chiudere completamente la valvola del gas come risposta. Come annota il moscovita “Expert” nel numero in edicola, «Berlino ha fatto investimenti molto cospicui nell’energia pulita, ma la transizione dai combustibili fossili alle rinnovabili è lenta e irregolare. Il gas nel bilancio energetico della Germania rappresenta ora circa il 25%. Con la chiusura delle centrali nucleari e delle centrali a carbone, questa quota aumenterà. La quota di gas nella produzione di elettricità lo scorso anno ha già superato la quota del 1990. Al gas russo oggi non c’è alcuna alternativa».

Mosca, l’insegna della Gazprom svetta sui palazzi governativi russi (foto Aleksey H / Shutterstock).

Alleati e rivali europei

Ma non si tratta solo di “North Stream 2” a cui a Berlino in fin dei conti non vorrebbe rinunciare, ma anche del ruolo dell’Europa in una trattativa in cui il pallino sembra finito in mano americana. Qui però la Germania trova un alleato – ma anche rivale – nella Francia, che in questi giorni ha esibito iniziative autonome in incontri bilaterali con Putin. Andrey Kortunov, direttore generale del Consiglio per gli Affari internazionali della Russia è convinto che «la questione ucraina va considerata principalmente nel contesto delle elezioni presidenziali di aprile in Francia. Macron, nell’ambito della campagna elettorale, convincerà tutti che può diventare il leader d’Europa, avendo uno scenario per risolvere i problemi con l’Ucraina. Dirà che Parigi ha il diritto di guidare il dialogo con Mosca e che queste tradizioni sono state stabilite sotto De Gaulle». Non è solo la vecchia idea dell’Europa da Vladivostock a Lisbona che trovò proseliti anche nella destra neonazista europea degli anni Sessanta a tornare in auge, ma anche un rilancio del confronto tra locomotiva franco-tedesca e carro di Visegrad sull’approccio da tenere con Putin. Il Formato Normandia probabilmente ripartirà anche se i russi si sono convinti che senza l’adesione formale anche degli Usa (a cui si sono detti favorevoli) non si faranno dei grandi passi avanti.

La Croazia fuori dal coro

Che non tutta l’Unione europea si pronta a mettersi in fila indiana dietro Biden è saltato all’occhio con la posizione assunta durante la crisi dalla Croazia.Il presidente Zoran Milanović ha sostenuto che se il conflitto tra Russia e Ucraina crescerà, il paese ritirerà i suoi militari dal contingente Nato nella regione. Ha sottolineato anche che la Croazia non ha nulla a che fare con ciò che sta accadendo tra i due paesi slavi, e ha collegato la situazione stessa al rinnovato attivismo dell’amministrazione statunitense in chiave elettorale visto che inesorabilmente si avvicinano le elezioni di mid-term. Ciò che sta succedendo per Zagabria «non ha niente a che fare con l’Ucraina o la Russia, ha a che fare con le dinamiche della politica interna americana… nelle questioni di sicurezza internazionale vedo un comportamento pericoloso. Non solo la Croazia non invierà, ma in caso di escalation richiamerà fino all’ultimo soldato croato. Fino all’ultimo!».

Il presidente croato ha avuto parole di duro rimprovero anche per Bruxelles: «L’Ucraina è ancora uno dei paesi più corrotti, l’UE non ha dato nulla all’Ucraina». Si tratta, in linea di massima, della stessa posizione di tutti i paesi ex jugoslavi e balcanici e probabilmente malgrado il superatlantista Draghi anche dei facitori della politica estera alla Farnesina che devono dare da un lato un colpo al cerchio russofobo ma anche uno alla botte dei pur cospicui interessi commerciali italiani in Russia.

Rulli di tamburi o partite a scacchi?

Insomma tanto rullare di tamburi di guerra delle scorse settimane si sarebbe trasformato in una sorta di partita a scacchi stile Fischer-Spassky. Tutto bene quindi? Per nulla, anche perché la scintilla di un conflitto in piena Europa resta sempre dietro l’angolo, vuoi per caso, vuoi per provocazione, ma soprattutto perché la crisi ucraina resta aperta, come resta aperta la questione della sistemazione complessiva della “frontiera naturale” russa che va dalla Transnistria fino alla Bielorussia, passando per l’Armenia.

Sarà quindi importante fare un passo indietro per farne due avanti ed evitare una lettura appiattita sulle tattiche delle diplomazie. Lo faremo tra qualche giorno proprio qui su Ogzero per meglio inquadrare la crisi ucraina e i potenziali pericoli per la pace e la stabilità internazionale nei prossimi mesi e anni che restano squadernati sotto i nostri occhi.

Qui un approfondimento dell’autore in un intervento ai microfoni di “Bastioni di Orione” sulle frequenze di Radio Blackout:

Ascolta “L’Ukraina rimane un pendolo tra Est e Ovest?” su Spreaker.

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La terra, il petrolio e il conflitto https://ogzero.org/la-terra-il-petrolio-e-il-conflitto/ Wed, 26 Jan 2022 00:45:01 +0000 https://ogzero.org/?p=5928 Luz Marina Arteaga Il corpo di Luz Marina Arteaga è stato ritrovato lungo il Río Meta lo scorso 17 gennaio, a 5 giorni dalla scomparsa della donna dalla sua residenza nel paesino di Orocué, nella pianura orientale colombiana non lontana dalla frontiera con il Venezuela. È il drammatico esito di una storia già scritta che […]

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Luz Marina Arteaga

Il corpo di Luz Marina Arteaga è stato ritrovato lungo il Río Meta lo scorso 17 gennaio, a 5 giorni dalla scomparsa della donna dalla sua residenza nel paesino di Orocué, nella pianura orientale colombiana non lontana dalla frontiera con il Venezuela. È il drammatico esito di una storia già scritta che non lascia speranza, tanto che fra dolore e tristezza, molti sospettano che non poteva esserci finale diverso.

Luz Marina Arteaga, medica, attivista, leader sociale e comunitaria, aveva alle spalle una vita intera di lotte per i diritti delle comunità indigene e contadine: una traiettoria politica che l’aveva portata a collaborare nei processi di base delle fasce sociali che più di tutte hanno sofferto il conflitto interno colombiano e che sono sempre rimaste ai margini della storia e della giustizia. Oggi come ieri.

Nei territori di Orocué, Porvenir e Matarratón, zone che si estendono lungo la frontiera fra i dipartimenti del Meta e di Casanare, Luz Marina Arteaga è stata attiva in prima linea e fino alla fine dei suoi giorni nella lotta per la restituzione delle terre alle comunità indigene e contadine che a causa del conflitto armato, del paramilitarismo e della privatizzazione, sono rimaste senza nulla. La sua è stata e continua a essere una lotta che esemplifica chiaramente la conflittualità sociale presente in buona parte della Colombia, del Sudamerica e non solo: una lotta che svela interessi e alleanze, dinamiche di corruzione, di guerra e di violenza. Al centro, il cuore e il motore del conflitto: la tierra, risorsa e condanna per centinaia di migliaia di persone.

Brian Cardenas, avvocato della Corporación Claretiana Norman Pérez Bello, spiega il ruolo di questa organizzazione attiva nell’accompagnamento sociale e giuridico alle comunità contadine e indigene, e poi nel ricordare il ruolo assunto da Luz Marina Arteaga riassume il processo di lotta per il recupero della terra che le è costata la vita.

La lotta per la terra

Impossibile e ovviamente troppo pericoloso indicare mandanti e mercenari responsabili dell’assassinio dell’attivista, ma le dinamiche sono chiare: quelle che passano attraverso azioni di rioccupazione dei territori di proprietà storica.

“Lucha Tierra”.

Tutto ciò si accompagna a un caso giuridico durato anni, le comunità di Matarratón e Porvenir ottengono due sentenze a loro favore da parte degli organi più alti della giustizia colombiana, la Corte Suprema (STP 16298 del 2015) e la Corte Constitucional (SU-426 del 2016), le quali determinano che lo stato deve restituire loro le terre e assicurare diritti con prospettiva etnica e collettiva, servizi pubblici e garanzie di sicurezza. Ma proprio qui, nella pianura infinita che separa il dire e il fare, l’assetto giuridico e la sua realizzazione pratica, si perde la giustizia e si crea un vuoto colmato da gruppi armati che rappresentano gli interessi di chi sta al di sopra della legge.

Il risultato è che lo stato e i grandi latifondisti si organizzano in vari modi: i territori in questione vengono dichiarati zone di interesse per lo sviluppo economico, sostituiscono la popolazione mostrando che la restituzione si sta effettuando secondo le regole salvo poi espellerla per mantenere i titoli di proprietà, vittime e carnefici del conflitto armato si confondono con tutte le conseguenze del caso, e non da ultimo contrattano e organizzano gruppi paramilitari perché prevalga la loro volontà. Così, alla fine, non rimane che l’esito scontato per quelle persone che si ostinano a reclamare diritti e giustizia.

Nel caso di Luz Marina Arteaga come in quello di molte altre attiviste e attivisti, lo stato e le istituzioni hanno una responsabilità diretta anche rispetto all’assenza di protezione e misure di sicurezza che dovrebbero garantire, soprattutto nei casi in cui l’omicidio è preceduto da svariate minacce e ricatti.

Quanto alle modalità, Brian Cardenas della Corporación Claretiana Norman Pérez Bello non ne è per nulla sorpreso: in questo tipo di casi si va ben oltre un semplice proiettile o un “omicidio convenzionale”. L’idea è quella di colpire la figura più emblematica della lotta sociale per mandare un messaggio all’intera comunità, e per questa ragione l’agguato avviene in modo estremamente violento ed è quasi sempre preceduto dalla scomparsa – desaparición – della persona.

 

Centroriente: petrolio e conflitto

Così come l’Occidente colombiano che si apre sull’Oceano Pacifico e che vede nel porto di Buenaventura il principale sbocco per il commercio di ogni tipo di merce e sostanza, anche la pianura Centrorientale assume un ruolo strategico e attrae vari tipi di attori. La vicinanza con la frontiera venezuelana crea commerci di ogni genere, ma il Centroriente colombiano è conosciuto soprattutto per essere zona di estrazione di petrolio (circa un quarto della produzione a livello nazionale trova radici nei dipartimenti di Arauca, Meta e Casanare), per cui non sorprende la presenza di grandi imprese straniere che si dedicano a questa attività.

Già negli anni Trenta venne scoperta la ricchezza presente nel sottosuolo della regione, ma fu solo a partire dai primi anni Cinquanta che l’impresa Texas Petroleum Company (Texaco) cominciò le attività di estrazione di petrolio. Queste ultime si intensificarono esponenzialmente durante gli anni Ottanta, con la scoperta dei pozzi di Caño Limón (dipartimento di Arauca), Cupiagua e Cusiana (dipartimento di Casanare). Si trattava di riserve di petrolio con una capacità stimata in 100 miliardi di barili. In epoca più recente, dal 2010 a questa parte, nei municipi di Trinidad, San Luis de Palenque e Orocué (esattamente dove viveva Luz Marina Arteaga) sono stati destinati vari pozzi all’estrazione da parte di imprese come Alange, Canacol Energy, Pacific Rubiales e Lewis Energy Colombia INC. Altre multinazionali presenti nel territorio sono Parex Resources ed EcoPetrol.

Le implicazioni per le comunità presenti nel territorio sono molte e ancora una volta trovano nella terra il punto di partenza e di arrivo: vanno dall’inquinamento delle acque alla sottrazione di spazi per il pascolo e l’agricoltura, mentre a livello giuridico si traducono nel mancato rispetto del diritto alla consulta previa secondo la quale le comunità presenti nel territorio possono decidere se accettare o meno i “mega-progetti” che le vedono implicate. Infine le più gravi implicazioni in termini di vite e diritti umani consistono negli omicidi selettivi da parte dei gruppi armati e nello sfollamento forzato di intere comunità: la logica denunciata da queste ultime vede nella creazione di “zone di conflitto” e nella militarizzazione del territorio la giustificazione per espellere la popolazione civile e permettere in tal modo l’entrata delle multinazionali, con tutti i giochi di potere e di corruzione del caso.

Pressioni sulle comunità: violenze antisindacali e conflitti tra guerriglie

Squadrismo paramilitare petroliero

In questo scenario il paramilitarismo gioca un ruolo centrale; e del resto in questa zona del paese già durante la violenza degli anni Cinquanta i conservatori crearono i pajaros, gruppo armato impegnato nella repressione della resistenza liberale guidata da Guadalupe Salcedo. Fu poi a partire dagli anni Novanta che si incrementò il fenomeno del paramilitarismo, quando l’impresa British Petroleum (BP) favorì la creazione di “gruppi di sicurezza privata”. Si moltiplicarono così gli esempi: il gruppo Martín Llanos, le Autodefensas Unidas del Casanare e le Autodefensas Campesinas de Casanare (Acc o Los Buitragueños), i quali non entrarono nel processo Jusiticia y Paz di smobilitazione delle più famose Autodefensas Unidas de Colombia (Auc) nel 2005.

Il loro operato si tradusse sempre – e continua a farlo oggi – in attacchi verso le organizzazioni sindacali che si oppongono agli interessi delle imprese, verso le comunità in resistenza per la difesa del territorio, verso i leader sociali e gli attivisti di base.

Quanto accaduto a Luz Marina Arteaga non è che un altro esempio del tipo di repressione che spetta a chi osa toccare gli interessi dei potenti, mentre l’altra certezza è che insieme alla terra, il petrolio ha alimentato il conflitto e la violenza da oltre mezzo secolo a questa parte.

Guerriglie e giochi di potere

Il Centroriente colombiano, soprattutto nei dipartimenti di Arauca e Casanare, è pure territorio storico di controllo della guerriglia: l’Eln principalmente e in minor misura le Farc. Imprese multinazionali, esercito e gruppi paramilitari hanno da sempre dovuto fare i conti con loro e molte zone sono rimaste inaccessibili all’estrazione di petrolio proprio grazie alla presenza della guerriglia.

La situazione fino a qualche mese fa non mostrava grandi differenze rispetto al passato, con una forte presenza politica dell’Eln nel substrato politico e popolare e con l’espansione militare del Frente 10 e 28 delle dissidenze delle Farc agli ordini di alias Gentil Duarte, mai entrati nelle trattative degli Accordi di Pace del 2016. Fra Eln e Farc reggeva un patto di alleanza politica, militare e ideologica stretto nel 2013 e mantenuto anche dopo il 2016, a seguito di una lunga guerra fra il 2004 e il 2010 che costò la vita a 500 civili e 600 combattenti.

Frente e Eln

Nel corso del 2021 qualcosa è tuttavia cambiato: nel mese di marzo è stato dato l’allarme per l’espansione del paramilitarismo nelle zone di controllo storico della guerriglia, e quasi al contempo Maduro ha dichiarato guerra alla dissidenza delle Farc (Frente 10) attiva lungo la frontiera fra Colombia e Venezuela. A inizio 2022 le dissidenze delle Farc hanno dichiarato guerra all’Eln e in un comunicato hanno affermato la costituzione del Comando Conjunto del Oriente, composto dal Frente 10, 28, 45 e 56, con l’idea di riattivare i blocchi di guerra delle antiche Farc. Tutto ciò malgrado un’altra fazione delle Farc pure presente nel territorio, la Segunda Marquetalia agli ordini di Ivan Márquez – entrato nelle negoziazioni degli Accordi di Pace e poi sottrattosi – sarebbe invece alleata con l’Eln.

Sono scenari che possono sembrare irreali ma che rispondono a interessi politici ed economici oltre che a strategie militari; quel che è certo è che in questo inizio di 2022, tali avvicendamenti hanno lasciato una lunga scia di sangue: a farne le spese è stata soprattutto la base civile e il movimento sociale, come dimostrano gli attacchi del Frente 28 delle Farc all’acquedotto autogestito di Saravena e l’autobomba fatta esplodere lo scorso 19 gennaio di fronte alla sede del Congreso de los Pueblos, movimento politico legato ideologicamente alla linea dell’Eln. Oltre a ciò, in questo mese di gennaio si contano 20 omicidi selettivi e 3 stragi nella regione.

Diverse organizzazioni sociali concordano nel dire che lo stato e le dissidenze delle Farc presenti nel territorio si sarebbero alleati per combattere contro l’Eln, e non a caso i principali scontri militari starebbero avvenendo in zone di interesse per l’estrazione di petrolio fino a oggi inaccessibili perché sotto controllo dell’Eln stesso, come è il caso della regione de La Esmeralda. A ciò si aggiunge la forte repressione da parte dello stato, che considera eleno – appartenente alla guerriglia dell’Eln – ogni attivista delle comunità contadine e indigene, mentre al contempo denuncia la complicità del governo venezuelano nell’appoggiare tale guerriglia.

Uno scenario complesso

La scomparsa e il successivo assassinio di Luz Marina Arteaga risponde a una logica piuttosto chiara in quanto rappresenta una punizione per il suo impegno nelle lotte per la restituzione della terra; al contempo si inserisce in un contesto socio-politico specifico e relativamente nuovo, in cui si presentano scontri fra guerriglie e possibili alleanze fra stato, dissidenze e paramilitari, tanto più in una zona di frontiera (chiusa ufficialmente) con il Venezuela e in un clima di relazioni bilaterali pressoché inesistenti specialmente da quando Duque ha smesso di riconoscere Maduro come legittimo presidente.

 

Uno scenario che dimostra la profondità e la complessità del conflitto interno colombiano, tutto fuorché terminato con gli Accordi di Pace del 2016.

Al contempo, dall’altro lato del paese, a Cali, a inizio gennaio l’Eln ha rivendicato un attacco esplosivo che ha ferito 14 agenti dell’Esmad (il corpo antisommossa della polizia) in risposta alla violenta repressione messa in atto durante le proteste del Paro Nacional e all’uccisione del comandante alias Fabián lo scorso mese di settembre. Nella capitale Bogotá, invece, pochi giorni fa è stata trovata una bomba pronta per essere fatta esplodere nella sede del partito di ex combattenti delle Farc, Comunes.

Tutti segnali piuttosto univoci nel suggerire che la campagna elettorale è in pieno corso e che il 2022 promette di essere un altro anno molto intenso.

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Un Sahel di spine per Macron. Mali e Françafrique https://ogzero.org/un-sahel-di-spine-per-macron-mali-e-francafrique/ Fri, 21 Jan 2022 01:11:24 +0000 https://ogzero.org/?p=5902 Il Sahel in generale e il Mali in particolare è un’espressione della Françafrique da cui trarre indizi utili sulla reale influenza neocoloniale francese. L’impegno di Macron, all’inizio come alla fine del suo settennato, ha usato ogni arma nell’area pur di mantenere il proprio suggello: contingenti di occupazione militare con un tributo di sangue e denaro […]

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Il Sahel in generale e il Mali in particolare è un’espressione della Françafrique da cui trarre indizi utili sulla reale influenza neocoloniale francese. L’impegno di Macron, all’inizio come alla fine del suo settennato, ha usato ogni arma nell’area pur di mantenere il proprio suggello: contingenti di occupazione militare con un tributo di sangue e denaro non indifferente; elargizioni per blandire le oligarchie locali, sistematicamente eliminate fisicamente o esautorate; investimenti attraverso multinazionali, sostituite da potenze emergenti come Turchia – sulla cui penetrazione del mercato africano riprendiamo un articolo di Emanuele Giordana per “Atlante delle Guerre” e Cina, oppure scalzate dalla presenza politico-militare dei filoputiniani…

Uno degli spunti a cui teniamo dall’inizio della avventura di OGzero è quello relativo al neocolonialismo e stiamo cercando di accumulare materiali per avviare uno Studium relativo che possa sfociare in una produzione dedicata. L’articolo pubblicato il 16 gennaio dagli amici di “AfricaRivista”, che ringraziamo per averci consentito di riprenderlo, fa parte  di questo novero di analisi, interpretazioni, testi… che ritroverete assemblati in un dossier ora in embrione.


Lenta dissoluzione degli asset francesi in Mali

Con le elezioni presidenziali alle porte in Francia, il Mali rimane una spina nel fianco per il presidente Macron. L’operazione militare Barkhane non ha sortito gli effetti sperati. Se si vuole fare un bilancio, questo è del tutto negativo. Sulla Francia incombe lo spettro Afghanistan. Che fare? è la domanda già di Černyševskij attorno alla quale Angelo Ferrari gira per inserire alcuni degli elementi in gioco.

L’occupazione militare: il Mali apre alla Russia

Il Mali è una spina nel fianco del presidente francese, Emmanuel Macron, e lo sarà anche per chi verrà dopo di lui all’Eliseo, ammesso che perda le elezioni. Rimane, tuttavia, una patata bollente da gestire, anche in prospettiva delle presidenziali francesi. Se il Mali, e in pratica in tutti i paesi francofoni del Sahel, è uno degli stati più “ostili” alla Francia, l’opinione transalpina non è certo morbida nel giudicare la presenza francese in quell’area. Il ritiro di parte degli effettivi francesi impegnati nell’operazione Barkhane è dovuto all’impasse in cui si è ficcata Parigi proprio con quell’operazione. Il bilancio di 9 anni di presenza nell’area – prima con l’operazione Serval voluta dall’ex presidente François Hollande all’inizio del 2013, diventata Barkhane l’anno successivo, con l’estensione al G5 Sahel (Ciad, Niger Burkina Faso e Mauritania) – sembra essere fallimentare o, quantomeno, poco convincente. Intervento militare, per altro, lasciato in eredità a Macron. Risultati reali e concreti sono poco visibili, soprattutto per la popolazione locale che negli anni ha visto un peggioramento della sicurezza interna ma anche di quella economica e sociale.

L’obiettivo dell’operazione militare francese in Mali – richiesta dall’allora governo di Ibrahim Boubacar Keita – era quello di impedire ai gruppi jihadisti di prendere il potere ed evitare il crollo dello stato. I gruppi terroristici non hanno preso il potere, ma hanno allargato le loro aree di influenza rendendo lo stato – così come altri nell’area del Sahel – oltre che instabile, ostaggio delle loro scorribande. Se si vuole fare un bilancio, questo è del tutto negativo.

Il presidente francese, dovendo gestire un’opinione pubblica interna ostile, è riuscito a ridimensionare l’operazione militare, coinvolgendo gli stati della regione ma, soprattutto, ha convinto l’Europa della necessità di un intervento diretto perché la questione terrorismo, e quella dei flussi migratori, riguarda tutti. Nasce così la task force Takuba. Ma rimane l’imbarazzo e l’impasse. A maggior ragione oggi visto che il potere in Mali è nelle mani dei militari che hanno sovvertito il governo civile con ben due colpi di stato. Il paese è ancora più debole e il presidente francese non può prendere decisioni nette, vista la campagna elettorale in corso per le presidenziali. A Macron è stato facile annullare la visita ufficiale a Bamako del 20 e 21 dicembre scorso. La scusa, la nuova ondata di Covid. Sarebbe stato particolarmente imbarazzante per l’inquilino dell’Eliseo dover giustificare un viaggio nella capitale maliana dove avrebbe dovuto incontrare un capo di stato golpista e non eletto, il colonnello Assimi Goita. Non solo. La transizione voluta dai golpisti è ancora lontana dal terminare e la promessa di elezioni per un ritorno dei civili alla guida del paese, a oggi, pare un miraggio. Non ci sono date precise, si sa solo che la transizione, e quindi il potere di Goita, durerà ancora a lungo.

L’impasse rimane mentre gli affari parlano ormai russo

I francesi, tuttavia, sono ancora presenti nel centro del paese, nonostante le basi di Kidal, Tessalit e Timbuctu siano state riconsegnate all’esercito maliano. L’impasse rimane e potrebbe durare a lungo. Sulla Francia incombe lo spettro Afghanistan. Cosa fare? Seguire l’esempio americano, cioè un ritiro rapido e completo delle truppe? Gli scenari che si potrebbero verificare sono identici, se non peggiori, di quelli che si sono avuti in Afghanistan, con l’aggravante che il contraccolpo si sentirebbe in tutto il Sahel. Le “postazioni” non rimarrebbero sguarnite, ma verrebbero riempite da forze ostili a Parigi. Una su tutte: la Russia. Il Cremlino, a differenza dell’Eliseo, non sta a guardare. Interviene, non certo direttamente, ma attraverso la milizia di mercenari Wagner che, nonostante quello che possa affermare il governo di Bamako, sono già presenti nel paese. I maliani passerebbero dalla padella alla brace? Forse. Di sicuro hanno più “stima” dei russi che dei francesi. Il passato coloniale di Parigi è un macigno non rimosso. I russi, invece, hanno gioco facile visto che si presentano come un paese che non è stato una potenza coloniale e non ha nessuna intenzione di interferire nelle questioni politiche interne della nazione e vuole solo fare affari. I russi, poi, usano ad arte la propaganda sui social, estremamente efficace per manipolare le opinioni pubbliche a loro favore e non mettono gli scarponi direttamente sul terreno, ma facendo fare il lavoro sporco, appunto, ai mercenari della Wagner. L’espansione della propria presenza in Africa è uno degli intenti evidenti, usando l’arma che gli è più congeniale: armi, addestramento militare, lasciando l’intervento diretto ai mercenari; l’altro obiettivo è rappresentato dalla crescita della presenza russa nelle aziende minerarie, così da garantirsi l’approvvigionamento di materie prime strategiche. Quest’ultima è la vera moneta di scambio. Quindi, poco importa se devono trattare con governi legittimi o meno, purché si facciano affari.

Macron, dunque, sembra essere sotto scacco. Non può fare nulla, nuocerebbe alla sua campagna elettorale per le presidenziali, ma non può nemmeno permettersi di lasciare le cose così come stanno, il danno economico sarebbe maggiore rispetto ai benefici che potrebbe avere sulla sua opinione pubblica. Dunque, il Mali rimane una spina nel fianco e lo rimarrà anche dopo le presidenziali francesi, chiunque vinca. Poi c’è il Mali, inteso come golpisti, non certo la popolazione. Quest’ultima vorrebbe arrivare, e molto presto, a elezioni libere che restituiscano il potere ai civili. La giunta militare alla guida del paese no, nonostante le parole di circostanza. Anzi. Il governo fa affidamento sulla presenza dei paramilitari russi della Wagner per mantenersi al potere a qualunque costo, qualsiasi cosa accada, e alimentando la retorica antifrancese.

Ma tutta questa vicenda dimostra anche un’altra cosa: l’opzione militare non è l’unica via, anzi non è la strada da percorrere per la costruzione di uno stato solido capace di rispondere ai bisogni reali della popolazione: salute, educazione, lavoro. Un minimo di benessere oltre che di sicurezza.

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L’ordine regna in Kazakhstan e grande è la confusione sotto il cielo russo https://ogzero.org/lordine-regna-in-kazakhstan-e-grande-e-la-confusione-sotto-il-cielo-russo/ Sat, 15 Jan 2022 00:49:02 +0000 https://ogzero.org/?p=5851 Il bilancio dopo il ritorno all’ordine non è così scontato nei molti temi toccati dall’intervento di Yurii Colombo a completamento delle intuizioni incentrate sulla lotta di classe che ha inaugurato il 2022 kazako. Hanno fatto attenzione a reprimere senza umiliare i lavoratori kazaki, che ora attendono mobilitati che le promesse siano mantenute: infatti si è […]

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Il bilancio dopo il ritorno all’ordine non è così scontato nei molti temi toccati dall’intervento di Yurii Colombo a completamento delle intuizioni incentrate sulla lotta di classe che ha inaugurato il 2022 kazako.

Hanno fatto attenzione a reprimere senza umiliare i lavoratori kazaki, che ora attendono mobilitati che le promesse siano mantenute: infatti si è trattato di una reazione da un lato militare e spietata (con morti, arrestati, violenze…), condotta da reparti speciali, soprattutto contro i riot. E dall’altro traspare il sapore populista volto a blandire la piazza che impaurisce l’oligarchia – nella tradizione della satrapia  centrasiatica, che ha visto le stesse manovre precipitose nelle altre nazioni limitrofe che sono terra di conquista della Nato e che vedono gli oligarchi tentati di sfuggire al potere di Mosca. Salvo poi rivolgersi al Cremlino per soffocare rivolte e contese. Mentre Putin mira soltanto a mantenere una cintura di sicurezza, chiedendo attraverso i colloqui con la controparte di stilare un regolamento politico strategico che assicuri che non ci sia possibilità alcuna di confluenza nella Nato di un paese che condivida i confini occidentali della Federazione russa. Ma questo riguarda l’Ucraina, il mantenimento invariato del Kazakhstan non è in discussione.

A fronte di questa situazione internazionale ogni paese di quel cuscinetto di sicurezza ha una sua situazione particolare che rientra comunque negli standard delle risposte prevedibili: ciascuno diverso, ma ognuno uguale nel mantenimento degli equilibri. Il Kazakhstan in particolare è importante per le relazioni internazionali, tanto che non si è vista una reazione fatta di sanzioni o muscolare da parte di europei, che sfruttano le risorse; o di americani, che approfittano per provocare Mosca; o di cinesi , che ci devono far passare la Via della Seta. E allora è importante per tutti mantenere lo status quo, ma anche che i lavoratori producano quelle ricchezze che le potenze straniere e le multinazionali del petrolio intendono sottrarre.

Yurii, dopo gli aspetti sociali (assolutamente centrali) affronta subito, eliminandole, le letture complottiste dietro a cui Toqaev ha tentato di nascondersi. Ma la preoccupazione per i milioni di russofoni abitanti fuori dai confini russi, e anche i tanti provenienti dalle ex repubbliche e vivono in Russia, hanno richiesto uno studio della paura del jihad che dalla guerra in Cecenia in avanti ossessiona Putin.


«L’ordine regna in Kazakhstan» potremmo dire parafrasando Rosa Luxemburg. Dopo agitazioni e rivolte durate quasi una settimana – soprattutto grazie all’intervento delle truppe dell’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva (Csto) – il presidente Qasym-Jomart Toqaev è riuscito a riprendere il controllo della situazione e ha promesso anzi che entro la fine del mese di gennaio quest’ultime verranno ritirate completamente dal paese. Restano però aperte non solo molte questioni interne, ma anche riguardanti la sistemazione dell’ordine regionale e inevitabilmente di quello mondiale visto la dimensione strategica per il mondo occidentale del problema del contenimento del radicalismo islamico e del controllo delle rotte energetiche (il Kazakhstan ha riserve di petrolio per 30 miliardi di barili e di gas per 3 trilioni di metri cubi).

L’intervento del Csto è servito a stabilizzare la situazione che rischiava di sfuggire di mano dopo i vistosi fenomeni di “fraternizzazione” e “timidezza” della polizia (e persino dei reparti speciali) nei confronti dimostranti in varie zone del Kazakhstan. Per avere un quadro delle dimensioni degli avvenimenti kazaki basterà ricordare il bilancio finale degli incidenti in tutto il paese: 164 morti tra i dimostranti e 18 tra forze dell’ordine, oltre 8000 arresti, oltre tre miliardi di danni economici dovuti agli scioperi, al blocco delle comunicazioni e dei trasporti e per i danneggiamenti.

Come si evince dall’infografica è stata coinvolta dai disordini solo una delle tre città più popolate, ma tutti i grandi centri urbani industriali (a parte Alma Aty ovviamente) hanno visto manifestazioni egemonizzate da gruppi di lavoratori e dai sindacati. L’eterogeneità delle rivendicazioni e delle proteste non deve far dimenticare il tratto unificante di una richiesta generalizzata di maggior equità sociale.

Nei giorni successivi, il presidente kazako, soprattutto per giustificare l’intervento esterno, ha enfatizzato i caratteri “arancioni” delle dinamiche nel paese, ma ben presto ha dovuto drasticamente ridurre il numero di mercenari a suo dire attivi nelle manifestazioni da 20000 a 300. Lo stesso tasto, ma con meno vigore è stato premuto da Putin, il quale ha però immediatamente distinto «l’azione terroristica dalle proteste contro il carovita». Secondo i servizi speciali del Tagikistan, il numero di campi e centri di addestramento dei terroristi attivi ai confini meridionali del Csto nelle province nordorientali dell’Afghanistan sarebbero oltre 40, e complessivamente sarebbe composti da 6000 combattenti. Il 12 gennaio Toqaev per la prima volta ha indicato quali sarebbero i “mandanti” dell’“azione terroristica”: «Un atto di aggressione… che ha coinvolto combattenti stranieri provenienti principalmente dai paesi dell’Asia centrale, compreso l’Afghanistan. C’erano anche combattenti del Medio Oriente» ha precisato il leader kazako escludendo così l’ipotesi frettolosamente sostenuta dai vari raggruppamenti del cospirazionalismo internazionale sul ruolo dei paesi occidentali.

Secondo il direttore dell’Institute for Geopolitical Research e capo ricercatore presso l’Istituto di Storia ed Etnologia Asylbek Izbairov, i gruppi dell’estremismo islamico fin dalla loro comparsa nel paese intorno al 2011 sono sempre rimasti “ridotti” e “limitati” a gruppi giovanili capaci solo di realizzare attentati terroristici. Tali gruppi hanno assunto nomi spesso roboanti come “Soldati del Califfato” (Junud al-Califfato), “Difensori della religione” (Ansar-ud-din), Battaglione di Baybars ma il loro radicamento sociale è sempre rimasto incerto e il loro programma politico vago.

Questi gruppi avrebbero sviluppato «concetti quasi coloniali di tendenze sufi sincretiche, che a lungo termine portano a una pericolosa “sintesi” di misticismo pseudo-religioso e nazionalismo etnico di “sangue e suolo”».

Un quadro simile si coniugherebbe assai bene ad altre ipotesi circolate sui mass-media kazaki secondo cui soprattutto ad Alma Aty alcune “cellule dormienti” di questi gruppi siano stati il propulsore dei riot popolari dandogli quell’efficienza lamentata dal Toqaev, giunta fino alla prova di forza dell’occupazione dell’aeroporto internazionale a cui avrebbero partecipati circa 800 rivoltosi.

Questa dimensione sarebbe una delle ragioni che avrebbe spinto Putin a ritirare rapidamente le proprie truppe dal paese per evitare (anche in Kirgizistan e in Tagikistan) l’emergere di forti sentimenti antirussi che potrebbero avere ricadute poco piacevoli nelle metropoli russe dove lavorano milioni di migranti centroasiatici.

D’altro canto ciò spiega anche il sostanziale beneplacito al ristabilimento dell’ordine da parte del Dipartimento di stato Usa: non solo perché così vengono garantiti gli investimenti stranieri (161 miliardi di dollari dall’indipendenza del 1991 al 2020 principalmente nel settore energetico) ma anche soprattutto perché la Russia ha tolto le castagne dal fuoco a tutto il capitalismo internazionale in una fase delicata come quella attuale in cui si sta ancora elaborando il lutto della fuga dall’Afghanistan. In questo trentennio tutti i paesi della fascia centroasiatica dell’ex Urss hanno svolto un ruolo di contenimento della crescita dell’islam radicale e anche se molti foreign fighters si sono per un periodo trasferiti a combattere nell’Isis in Siria e in Iraq il ritorno in patria non ha prodotto fenomeni terroristici in tutta l’area e particolarmente in Russia dove l’ultimo attentato significativo resta quello dell’aprile 2017 a San Pietroburgo.

Malgrado ciò il primo intervento dalla sua fondazione nel 1992 del Ctso segna uno spartiacque dal punto di vista politico e tattico-militare.

«Comprendiamo che gli eventi in Kazakistan non sono il primo e tutt’altro che ultimo tentativo di interferire dall’esterno negli affari interni dei nostri stati. Le misure che abbiamo preso hanno dimostrato chiaramente che non permetteremo che la situazione in patria sia scossa e non permetteremo che si materializzino gli scenari delle “rivoluzioni colorate”», ha sostenuto Putin, durante la riunione con gli stati membri.

Il Csto si configurerebbe per certi versi come una sorta di “Santa Alleanza” come quella delle autocrazie europee dopo il 1815, per frenare ai confini dell’Urss l’insorgenza di rivoluzioni democratiche. Una forza non di occupazione però ma di pronto intervento, per frenare l’ulteriore disgregazione di quelli che furono i “confini naturali” dell’Urss e, per altri versi, della Russia zarista. Operazione complessa perché per ironia della storia era stato proprio il Kazakhstan qualche anno fa a proporre lo scioglimento dell’alleanza, per avere le mani libere nella trattativa con le potenze occidentali. Un raggruppamento comunque spurio, il cui asse fondamentale è basato tra Mosca e Minsk. Del resto il settimanale moscovita “Expert” ha dovuto riconoscere a denti stretti che il presidente tagiko Emomali Rakhmon insiste per la «creazione di una lista unificata delle organizzazioni riconosciute come terroristiche nel formato Csto che non è ancora stata redatta».

Secondo il settimanale moscovita «questa è davvero una questione difficile, perché alcuni paesi membri della Csto (specialmente il Tagikistan) amano classificare varie forze di opposizione che chiedono il diritto alla protesta pacifica come terroristi e islamisti», un approccio non condiviso da Mosca soprattutto dopo che è diventata una necessità tenere aperto un confronto con il governo di Kabul.

Mosca non sembra aver tratto un gran giovamento dalla crisi ha cercato in un primo tempo di far passare come “Vzglyad”, un portale russo di geopolitica filoputiniano, in chiave di egemonia sull’intera area. A differenza della Bielorussia, paese povero di risorse, il governo di Nursultan non è interessato – visti gli enormi interessi economici occidentali nel paese – a legarsi mani e piedi a Mosca anche perché ha i mezzi per sviluppare una politica riformista e relativamente redistributiva.

Putin appare costretto a giocare un ruolo interventista visto anche quanto bolle in pentola con l’Ucraina, a cui rinuncerebbe volentieri.

Secondo il politogo Georg Mirzjan: «Se Mosca si rivela non essere pronta a garantire la sicurezza nello spazio postsovietico, la Turchia e la Gran Bretagna possono assumere questo ruolo. Ci potrebbe essere una cintura di instabilità lungo tutti i confini meridionali della Russia, dal mar Nero alla Mongolia, infettando il Caucaso del Nord, la regione del Volga e altre parti della Russia con l’islamismo e il radicalismo».

Il ruolo di sceriffo del Centroasia in via del tutto teorica potrebbe essere assunto dalla Cina, che, a differenza di Gran Bretagna e Turchia, è interessata a stabilizzare la regione a tutela del progetto della “Via della Seta”, ma il problema è che i “pacificatori” cinesi non porteranno certo la pace perché la Repubblica popolare stenta a trovare una lingua comune con la popolazione musulmana della regione. Le attività aggressive (e talvolta predatorie) del business cinese in Kazakhstan e Tagikistan hanno ripetutamente portato a potenti manifestazioni anticinesi (che prima o poi potremmo vedere anche nella Russia siberiana). È proprio per questo che la presenza militare cinese potrebbe causare solo una nuova ondata di radicalismo, inguaiando ancora di più il Cremlino.

“Kazakhstan di lotta e di geopolitica”.
Il governo kazako sta ora correndo ai ripari. La scossa tellurica delle proteste ha smosso fin dalle fondamenta il paese e il regime intende introdurre un vasto pacchetto di riforme in primo luogo di carattere economico-sociale. Durante la riunione di gabinetto dell’11 gennaio, Toqaev ha soprattutto sottolineato quelle dai tratti più nettamente populistici come la riforma della Banca di sviluppo del Kazakhstan (Dbk).

«Dbk si è essenzialmente trasformata in una banca personale per una stretta cerchia di individui che rappresentano gruppi finanziari-industriali e di costruzione. Conosciamo tutti per nome», ha dichiarato il presidente kazako.

Ha proposto anche una moratoria di cinque anni sull’aumento degli stipendi dei deputati e dei funzionari di alto livello. Ha inoltre promesso che i lavoratori del settore pubblico avranno i loro stipendi aumentati assieme a una moratoria sull’aumento dei prezzi dei beni di prima necessità di tre anni. Sarà quindi istituito un fondo sociale pubblico per risolvere i problemi sociali.

«Dobbiamo dire grazie al primo presidente, Yelbasa (Nursultan Nazarbaev), se si è imposto nel paese un gruppo di aziende molto redditizie e una fascia di persone ricche, anche per gli standard internazionali. Credo che sia il momento di dare credito al popolo del Kazakhstan e di aiutarlo in modo sistematico e regolare», ha commentato sarcastico Toqaev, come se egli durante tutte le amministrazioni precedenti avesse vissuto su un altro pianeta.

Il giorno successivo Il ministro dell’economia del Kazakhstan Alibek Kuantyrov ha annunciato l’introduzione di una tassa supplementare sull’estrazione di minerali solidi. Non ha specificato però quale sarebbe la tassa aggiuntiva o quando entrerebbe in vigore (il Kazakhstan è il più grande produttore di uranio al mondo e ha grandi depositi di rame, di ferro e zinco). Si è ventilato anche un intervento sulla fuga dei capitali verso i paradisi fiscali di cui la famiglia Nazarbaev è sempre stata una gran specialista. Nulla invece sugli idrocarburi, in buona parte controllate da corporation americane, britanniche, olandesi – oltre all’Eni – così come sulla tassazione dei prodotti sui capitali stranieri che controllano il 70% dell’economia del paese. Si prospetta quindi una sorta di gestione “alla Pëtr Stolypin”, l’ultimo ministro delle finanze del potere zarista prima delle rivoluzioni russe: riforme dall’alto accompagnate dal pugno di ferro contro le opposizioni e il movimento operaio. Toqaev ha nominato come nuovo premier il cinquantenne di Alma Aty, Alichan Smailov, una scelta non certo di gran rinnovamento visto che nel passato Smailov è stato vicepremier e ministro delle finanze del paese. Il governo russo ha perfino accusato il nuovo ministro dell’Informazione del Kazakhstan, Askar Umarov, di avere «punti di vista nazisti e sciovinisti sui russi». Il sociologo di Kiev Volodymyr Ishchenko, esperto di dinamiche postsovietiche, è convinto che gli affari per la classe dirigente kazaka non si rimetteranno sui consueti binari dell’accumulazione predatoria tanto facilmente:

«Le tesi sulla “modernizzazione autoritaria”, sulla “rivoluzione passiva” e sull’“imperialismo” mal si adattano alla realtà del capitalismo patronale. Si tratta solo di una conservazione temporanea e intrinsecamente instabile della crisi politica postsovietica che non riesce ancora a trovare una vera soluzione al problema ricorrente della successione».

In questo quadro si deve valutare, il ruolo dell’attore principale di questo passaggio storico, cioè il movimento dei lavoratori. Come abbiamo già scritto su “OGzero” i lavoratori kazaki non da ieri sono entrati in movimento. Si tratta di una classe operaia giovane (soprattutto quella impiegata nei settori più propriamente industriali nella fascia di età giovanile rappresenta più del 30% del totale), concentrata in alcune zone del paese, sperimentata in oltre un ventennio di lotte. Una classe lavoratrice composta in buona misura da donne (il 60,2% delle donne kazake sono occupate) un fattore che rappresenta un baluardo contro la penetrazione del radicalismo islamico più reazionario. Una classe lavoratrice che ha ottenuto alcune vittorie parziali (compresa la riduzione del prezzo del gas) e ha saputo realizzare, seppur in un contesto difficilissimo, in pochi giorni, un ripiegamento ordinato in attesa di vedere se le promesse del governo diverranno realtà. Del resto le rivoluzioni si fanno strada non solo “come nel 1917”, ma anche “come nel 1905”, quando il potere magari regge ma non sa davvero riformarsi: quest’ultimo facendo concessioni significative alla piazza apre nuove contraddizioni nei diversi settori della società e condiziona le mosse delle potenze internazionali.

La classe operaia nell’ex Urss è tornata a essere uno dei fattori della contesa politica dopo una lunga eclisse. Dopo la timida ma in controcorrente apparizione dei nell’ascesa bielorussa, un altro contingente dell’ex Urss si è mobilitato: catapultato sulla scena della storia è divenuto sorprendentemente uno dei fattori del mutamento politico in Kazakhstan. Va sottolineato: non succedeva dai tempi dell’Iran e della Polonia a cavallo tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta del secolo scorso.

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Kazakhstan. La rivolta che montava da tempo inaugura il 2022 https://ogzero.org/kazakhstan-la-rivolta-che-montava-da-tempo/ Thu, 06 Jan 2022 22:51:02 +0000 https://ogzero.org/?p=5770 Nel Kazakistan dell’ultimo capo del Pcus locale, sopravvissuto al potere per 30 anni alla fine dell’Urss, il raddoppio delle tariffe energetiche è arrivato dopo che si è concluso il percorso in tre fasi di privatizzazione dell’energia. Alcuni analisti internazionali riconducono l’incremento di fabbisogno di energia in un paese che la produce (ed è straricco di […]

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Nel Kazakistan dell’ultimo capo del Pcus locale, sopravvissuto al potere per 30 anni alla fine dell’Urss, il raddoppio delle tariffe energetiche è arrivato dopo che si è concluso il percorso in tre fasi di privatizzazione dell’energia. Alcuni analisti internazionali riconducono l’incremento di fabbisogno di energia in un paese che la produce (ed è straricco di risorse energetiche) al fatto che le criptomonete hanno spostato i loro computer dalle sedi cinesi e i calcoli dell’algoritmo consumano talmente tanta energia ogni secondo che assorbono moltissima energia e hanno automaticamente fatto lievitare i prezzi delle fonti energetiche con l’aumento di richiesta. Ma la goccia di gpl è solo quella che ha fatto traboccare il vaso.

In realtà, qualunque contingenza abbia provocato questa emersione della rabbia del popolo kazako, la mobilitazione del proletariato che sta ribellandosi dura da molto più tempo che le privatizzazioni e la lotta di classe negli ultimi mesi aveva ottenuto importanti risultati e dunque ha solo proseguito la ribellione individuando la possibilità di ribaltare finalmente un sistema totalitario, corrotto, oligarchico e predatorio proprio dei proventi di quelle risorse che pretendeva di far pagare il doppio a un paese ricco dove si vive da poveri: una rivolta senza capi che subito è tacciata di intelligenza con gli Usa, ma questa somiglia troppo alla lotta di classe.

Yurii Colombo ha potuto analizzare la situazione attuale, avendo ben presente la rivolta del 2015-2016, ma anche badando agli interessi esterni – cominciando ovviamente da Mosca, ma anche dai paesi europei, dalla Cina partner commerciale, dai finanzieri svizzeri… – mettendo al centro l’evento quasi mitico di un paese in piazza che prende i palazzi del potere in poche ore, si scontra con le forze dell’ordine, un’insurrezione senza capi (probabilmente non ispirata da forze straniere, ma neanche spontanea perché montante da tempo), si ammanta di Storia per il suo divampare improvviso, ma è dotato della forza che le lotte precedenti le hanno infuso. Potranno soffocarla con l’intervento di Putin, ma il potere di Nazarbaev è stato definitivamente archiviato. Ora il problema è di Putin? 


“Ci sono giorni che valgono anni”, dice un vecchio motto. Ed effettivamente se non fossero eventi anche tragici quelli che in queste ore si stanno verificando in Kazakistan, si potrebbe desiderare che il tempo si fermasse per meglio fissare e analizzare i (rari) processi di accelerazione della storia. In soli quattro giorni le prime rivendicazioni operaie e popolari contro l’aumento dei prezzi del gas iniziate nelle regioni Sudoccidentali del paese si sono trasformate in un processo insurrezionale. Fino al punto che per essere sedate il Presidente in carica Quasym-Jormat Toquaev ha chiesto l’intervento dell’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva (Csto), il patto di Varsavia versione dopo il crollo dell’Urss, esattamente 30 anni fa.

Da più parti per spiegare quanto sta avvenendo stanno parlando di “rivolta spontanea”, ma è davvero così? Non proprio, la mobilitazione non è nata come Minerva dalla testa di Giove e mobilitazioni di tale portata forse possono essere improvvisate ma non create dal nulla.

Il focolaio della rivolta: non è la prima volta di Zhanaozen

La ribellione è iniziata il primo dell’anno nella provincia di Mangistau nel Sudest del Kazakistan che si affaccia sul Caspio nella cittadina di Zhanaozen e infettando poi la capitale regionale di Aktau. Tuttavia il cambio di passo è avvenuto il giorno dopo quando sono entrati in sciopero i minatori della regione di Karaganda e della Kazakhmys Corporation nell’ex regione di Zhezkazgan bloccando la ferrovia e l’autostrada a Taraz, Taldykorgan, Ekibastuz, Kokshetau e Uralsk. La rapidità dello sviluppo delle agitazioni non è stata però casuale.

Il movimento operaio kazako ha una grande tradizione di lotta nell’era postsovietica. Le prime ondate rivendicative soprattutto nel settore petrolifero ed estrattivo (oltre che metalmeccanico) condussero alla formazione nel 2004 dei primi sindacati indipendenti kazaki dell’era postsovietica. Il momento culminante di questa ondata rivendicativa (principalmente salariale) che proseguì in crescendo dal 2008 fu raggiunto nel 2011 con i gravi incidenti nella città di Zhanaozen, quando il 16 dicembre, la polizia sparò sugli operai, uccidendone 16, ferendone e arrestandone centinaia.

Malgrado la durissima repressione che ne seguì, forme di resistenza semiclandestina dei lavoratori non cessarono mai da allora. Nel 2021 il processo di ricomposizione delle lotte ha poi accelerato e il 30 giugno scorso i lavoratori dell’azienda di servizi petroliferi Kezbi Llp di Zhanaozen inscenarono una prima fermata “a gatto selvaggio”; gli scioperanti chiedevano aumenti salariali, cambiamenti nell’organizzazione dell’attività e miglioramenti delle condizioni lavorative. La lotta fu coronata da successo e i lavoratori in lotta ottennero un raddoppio salariale: il 100% di aumento, da 200.000 a 400.000 tenghe (da 400 a 800 euro). Visto il successo gli scioperi si allargarono rapidamente a tutta la zona. Il 13 luglio i lavoratori di Kmg-Security incrociarono le braccia seguiti due giorni dopo dai lavoratori dell’azienda di trasporti MunaiSpetsSnab Company. Anche qui breve mobilitazione e vittoria immediata con aumenti del 100% del salario e altre conquiste. Il 21 luglio fu poi la volta della Kunan Holding. In seguito a Zhanaozen è iniziato il primo sciopero delle donne della Nbc, con le stesse richieste di salari più alti e migliori condizioni di lavoro. Un crescendo rossiano di fermate; scioperi alla Aktau Oil Service Company e alla Oilfield Equipment and Service, alla BatysGeofizService, alla Eurest Support Services Llp (Ess), alla Ozenenergoservis, nel campo petrolifero di Karazhanbas, nella regione di Mangistau. E scioperi anche alla Industrial Service Resources Llp, alla Industrial Service Resources Llp, alla Kmg Ep-Catering, alla Ezbi, alla Emir-Oil Kmg Ep-Catering, alla Abuev Group. Scioperarono poi in piena estate anche i corrieri della Glovo di Alma Ata.

Operai in sciopero il 2 agosto 2021. Gli scioperanti vivevano in baracche e guadagnavano in media 200 euro al mese. Sfruttati da privati e aziende pubbliche.

Il 28 giugno un grosso gruppo di donne di Astana presero d’assalto il ministero dell’industria di Astana, chiedendo posti di lavoro, alloggi e maggiori benefici per i bambini. L’8 luglio i lavoratori delle ferrovie di Shymkent bloccarono la circolazione regionale, mentre sempre ad Alma Ata, il 20 luglio, decine di dipendenti dei servizi di soccorso delle ambulanze protestarono contro il ritardo nel pagamento delle indennità “coronavirus” e per le disastrose condizioni di lavoro (tutte queste informazioni sono tratta dalla pagina anarco-sindacalista russa “Kras”).

Abbiamo fatto un così minuzioso (ma in realtà la nostra lista è solo parziale) riassunto delle lotte dei lavoratori kazaki della scorsa estate per un motivo molto semplice. Perché dimostra che la teoria della “spontaneità assoluta” è fuorviante. Se oggi i lavoratori kazaki si stanno muovendo con tanta decisione ciò è dovuto in primo luogo ai successi parziali che ottennero durante quelle agitazioni e ciò ha sicuramente rafforzato in loro convinzione e fiducia.

Ma la “ribellione” si è trasformata in “rivoluzione” non solo per la discesa in campo della classe operaia industriale. Dal secondo giorno ad Alma Ata hanno iniziato a mobilitarsi i giovani delle periferie in veri e propri riot (spesso armati) che hanno conteso palmo a palmo alle forze dell’ordine e ai reparti speciali il territorio, facendo diventare una metropoli di due milioni di abitanti l’epicentro dello scontro, un subbuglio divenuto eminentemente politico visto che le autorità avevano a quel punto accettato di ridurre i prezzi del gas, sussidiare quelli degli alimentari e il governo si era formalmente dimesso.

Expert”, un autorevole settimanale moscovita non certo di sinistra, sostiene che le dimensioni della rivolta ad Alma Ata sono determinate dal fatto che «ci sono molti giovani sfaccendati e spesso disoccupati. Infatti secondo un censimento dell’autunno scorso il 53,69% della popolazione ha meno di 28 anni. Ed è proprio tra questi strati che la disoccupazione è particolarmente alta».

L’estensione geografica delle proteste segnala inoltre come si siano saldati diversi elementi di carattere anche locale. Non solo il Sud e l’Ovest, ma anche il Nord, solitamente depresso e calmo con popolazione russa dominante, sta ribollendo e questa è una novità assoluta. A Taldykorgan un monumento a Nursultan Nazarbaev è stato abbattuto: un’azione che sarebbe stata impensabile fino a pochi giorni fa.

In alcune zone occidentali del paese gli scontri sembrano addirittura cessati e il potere è stato preso dai manifestanti insieme ai funzionari locali e alle forze di sicurezza, per esempio a Zhanaozen. In questo quadro se entro 24-48 ore il governo centrale con l’aiuto delle truppe dell’Alleanza non dovesse riuscire a prendere il controllo della situazione – finora il numero di morti tra i manifestanti resta imprecisato ma nell’ordine minimo di decine di vittime – si potrebbe assistere a un vero e proprio crollo statale per certi versi simile a quello avvenuto in Afghanistan l’estate scorsa. In questo quadro va tenuto conto però conto che non sono apparsi segni di livore antirusso e neppure la variante del fondamentalismo islamico sembra giocare un ruolo significativo mentre non è chiaro dove si andranno a posizionare i vari clan tribali che negli equilibri del paese hanno sempre svolto un certo ruolo.

I segni di “cedimento strutturale” ci sono tutti.

Secondo il portale russo “Meduza” in queste ore «ci sono notizie di decine di jet privati che lasciano il paese, il Kazakistan dell’élite imprenditoriale sta lasciando il paese in fretta e furia»

E lo stesso Nursultan Nazarbaev dopo essere stato dimesso d’imperio dal presidente in carica si dice si sia rifugiato all’estero. Ma che si stesse ballando su un Titanic nessuno se lo immaginava.

In un articolo per “Foreign Policy” nel dicembre scorso Baurzhan Sartbayev, presidente del Consiglio di amministrazione di Kazakh Invest sosteneva con baldanza che «il Kazakistan è emerso come un attore importante nell’economia globale e una destinazione di investimento attraente. In definitiva, il Kazakistan è sulla strada per migliorare il clima degli investimenti e rafforzare la posizione del paese all’interno della comunità globale».

Del resto non sono solo la classe operaia e il sottoproletariato a essere stanchi di un potere che – forse unico insieme all’Azerbaigian – vanta una filiazione diretta dall’ex Urss, essendo stato Nazarbaev anche l’ultimo segretario del Pcus kazako fino proprio al 1991. In questi anni mentre la forbice delle ricchezze sociali si allargava a dismisura si è formato nelle grandi metropoli (Alma Ata e Astana – ora Nur-Sultan) un piccolo strato di classe media urbana che ha mostrato sempre più stanchezza per la corruzione, il nepotismo, l’autoritarismo e la scarsa mobilità sociale che affascia il paese. Questi strati sociali sono anche quelli più sensibili alle argomentazioni prettamente politiche come il fatto che non se ne poteva più di Nazarbaev, l’insoddisfazione per il governo di Tokayev, per un sistema di partiti rigido e antidemocratico, per l’esistenza di leader locali non eletti e così via. Se elementi di “rivoluzione arancione” ci sono nella vicenda kazaka si annidano in questi strati e in queste città dove da sempre sono state attive le ong occidentali, le associazioni culturali turche e la presunta base di Mukhtar Ablyazov, un ex banchiere bancarottiere che guida il partito della Scelta Democratica del Kazakistan, oggi in esilio a Kiev, la cui influenza è scarsa o nulla. Secondo i cospirazionisti di destra e di sinistra però sarebbe stato lui a orchestrare la rivolta per far giungere Putin alle trattative con la Nato – che iniziano il 10 gennaio – debole e impaurito. Tuttavia tutti gli organi informativi russi più accreditati continuano a ripetere che «non esiste alcuna prova o indizio» che la rivolta sia stata manovrata o perfino programmata dall’estero.

Le reazioni soft del resto del mondo

La tesi del “ruolo di forza straniere” viene rilanciata in queste ore per evidenti motivi anche dal ministero degli Esteri russo con un comunicato ad hoc ma senza troppa convinzione. Putin appare, dietro le quinte, convinto che i margini di manovra dell’attuale regime siano stretti, ma non sembra aver altra scelta oggi che sostenere il presidente in carica, un po’ come avvenne nel 2020 con la Bielorussia di Lukashenka. In Russia e a Mosca in particolare vivono molti migranti centroasiatici con cui il potere russo non vuole avere attriti. Anche per questo l’intervento dei soldati russi è stato presentato come un “intervento pacificatorio”.

«I pacificatori armati non portano pace»: infatti si parla di centinaia di morti, militari decapitati, feriti e migliaia di arresti, dopo l’arrivo delle truppe del Csto

Del resto anche i media occidentali hanno evitato – almeno finora – di suonare la grancassa della propaganda antirussa e i motivi sono evidenti: ci sono grandi investimenti stranieri nel paese che ora rischiano di sfumare o di subire pesanti perdite a causa del clima interno del paese – tra cui quelli dei Paesi Bassi, che rimangono il più grande investitore del paese con 3,3 miliardi di dollari, seguiti da Stati Uniti (2,1 miliardi di dollari), Svizzera (1,3 miliardi di dollari), Russia (704. 9 milioni di dollari), Cina, con i suoi 508,7 milioni di dollari. Quest’ultima come spesso le succede ha mostrato per ora il suo solito volto di softpower rifiutandosi di commentare gli avvenimenti.

La situazione per Putin già complessa ai suoi confini occidentali ora potrebbe diventare non agevole anche a oriente. Anche perché la resistenza della classe operaia che non arretrerà, potrebbe impedire quella “riforma dall’alto” del regime interno che la presidenza Toqaev ora sembra pronta a compiere.

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Gli spartiacque delle comunità latinoamericane – 2 https://ogzero.org/gli-spartiacque-delle-comunita-latinoamericane-2/ Thu, 30 Dec 2021 17:24:55 +0000 https://ogzero.org/?p=5713 L’anno elettorale sudamericano è stato ricco di responsi in grado di fornire materiali per scattare una serie di foto del mondo latinoamericano. Qui Alfredo Somoza sembra accennare a un abbozzo di modello per un nuovo approccio a una politica svincolata da corruzione e commodities, autoritarismo e oligarchie, che già si trovano al centro del suo […]

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L’anno elettorale sudamericano è stato ricco di responsi in grado di fornire materiali per scattare una serie di foto del mondo latinoamericano. Qui Alfredo Somoza sembra accennare a un abbozzo di modello per un nuovo approccio a una politica svincolata da corruzione e commodities, autoritarismo e oligarchie, che già si trovano al centro del suo libro.Vedremo se quello che troviamo in Siamo già oltre? e accennato qui può svilupparsi in una nuova socialità o rimarrà a livello simbolico.

Sollecitato dalle considerazioni di Diego Battistessa, che ha utilizzato la chiave di lettura delle molte tornate elettorali del continente sudamericano per evocare scenari reali e possibili nel prossimo anno 2022 nel primo di questa coppia di articoli, Alfredo ha immaginato innanzitutto una dicotomia forte tra due concezioni di progressismo, forse mondi altrettanto distanti tra loro dell’abisso che li divide da una destra priva di idee e livorosa, ma che continua a rappresentare istanze neoliberiste provenienti per lo più dall’estero, ma anche collaterali ai mondi sovranisti anche legati alle sette religiose. Un mondo che la sconfitta di José Antonio Kast, ammiratore del boia Pinochet, ha collocato definitivamente nei manuali di storia; un sistema imposto dalle strategie dei gringos e un grimaldello in mano all’ultraneoliberismo, che con le svolte provenienti dai responsi del 2021 viene messo in soffitta… Alfredo Somoza si appresta a immaginare cosa potrà nascere da questo fermento che è sorto dai Movimenti popolari scesi in piazza negli ultimi anni per i diritti negati dal neoliberismo e che insieme alle istanze di emancipazione delle comunità indigene stanno mettendo sotto scacco i fantocci del Fmi.

Anche in questa seconda parte abbiamo intervallato la prosa di Alfredo con podcast raccolti durante l’anno e talvolta inseriti a punteggiare l’e-pub del suo Siamo già oltre?


Le due sinistre sudamericane

L’anno elettorale latinoamericano è stato ricco di appuntamenti molto importanti sia per il loro peso specifico sia per quello simbolico. La prima lettura riguarda la legittimità del processo elettorale. Non sempre sono state rispettate le regole, come nel clamoroso caso del Nicaragua dove il regime guidato da Daniel Ortega ha inscenato elezioni presidenziali senza opposizione. Ma anche buone notizie in questo senso, come le elezioni dell’Honduras, paese nel quale negli anni si sono succeduti colpi di stato e manipolazione dei risultati, e dove ha vinto la candidata della sinistra senza che ci siano dubbi sulla trasparenza del voto. Lo stesso si può dire del Venezuela, dove pare siano state rispettate le regole nelle elezioni amministrative che hanno visto la vittoria del partito di Nicolas Maduro. I segnali più interessanti arrivano però da tre paesi andini, Ecuador, Bolivia e Cile. In Ecuador il candidato della nuova sinistra e dei movimenti indigeni Yaku Pérez non riuscì per 30.000 voti a passare al secondo turno, nel quale l’imprenditore Guillermo Lasso riuscì a battere il candidato correista per 400.000 voti.

Di Ecuador durante l’anno avevamo parlato con Davide Matrone, docente a Quito:
Ne avevamo parlato con Davide Matrone: “Flessibili alle riforme Fmi a Quito | a Guayaquil le gang in carcere sono inflessibili”.

Chiaramente buona parte degli elettori di Pérez non votarono per Andrés Aráuz al secondo turno, anche se di “sinistra”, e questo perché ormai esistono due progetti di sinistra che spesso, come in Ecuador, si scontrano. Una sinistra ormai “tradizionale” e che ha governato a lungo, dai forti tratti populisti, poco ambientalista e lontana dalle minoranze. Sono il correismo ecuadoregno, il peronismo argentino, il post chavismo venezuelano, il Mas boliviano. L’altra nata dalla lotta dei movimenti sociali, minoranze etniche e di genere, ambientalisti, contadini. E lo schieramento di forze che ha sostenuto Pérez in Ecuador, Verònica Mendoza in Perù, che sosterrà Petro in Colombia e che ha fatto vincere Boric in Cile; le due sinistre hanno in comune molti riferimenti culturali, ma una diversa concezione della democrazia. Per i primi, Cuba è legittimata anche a reprimere per tutelare la rivoluzione, per gli altri il diritto a protestare e a opporsi è sacro; per i populisti lo stato deve essere gestore ed erogatore di assistenza senza preoccuparsi dell’economia, per gli altri deve guidare una crescita economica in senso inclusivo; per i primi le denunce di corruzione sono solo un complotto ai loro danni, per la nuova sinistra la politica deve anzitutto avere le mani pulite.

Il Sudamerica dei due progressismi sta velocemente virando di nuovo a sinistra a maggioranza e per il 2022 si prevede che altri due grandi paesi cambino guida: Colombia e Brasile. Se questo sarà confermato resteranno piccole isole di centrodestra in Uruguay, Paraguay ed Ecuador. Rispetto allo scenario precedente simile, quello degli anni 2000, le cose sono però radicalmente cambiate: si sono spenti gli slanci continentali, cioè le ipotesi di creazione di aree di libero scambio e di democrazia multilaterali; si è tornati drammaticamente a dipendere dalle commodities, che tra l’altro in questo periodo hanno subito un calo del loro prezzo internazionale; l’alleanza con la Cina ha indebolito la democrazia e rinforzato i circuiti di corruzione. Il Sudamerica in questa fase non interessa a nessuno, nemmeno agli Stati Uniti di Biden che hanno come unica priorità fermare l’immigrazione centroamericana.

Soprattutto mancano leadership. La politica sudamericana si è rimpicciolita per quanto riguarda la capacità dei nuovi leader. Nel 2022 potremo vedere sorgere forse due nuovi punti di riferimento, Gabriel Boric e Lula da Silva se sarà presidente. Il Brasile isolato da Bolsonaro non è stato solo un danno per se stesso, ma anche per tutto il processo politico sudamericano; il ritorno di Lula alla presidenza potrebbe segnare l’avvio di una nuova fase, ma prima ancora si dovrà dirimere cosa si intende per progressismo e come lo si aggiorna di fronte alle sfide del domani. Da questo punto di vista la lezione boliviana è illuminante: quando Evo Morales forzò la sua stessa costituzione per perpetuarsi al potere, disconoscendo il parere del suo popolo che aveva bocciato la proposta con un referendum, la sua caduta era già scritta. Anzi, quella mossa è stata la miccia che aspettavano i settori golpisti e della estrema destra boliviana per spazzare via dal potere l’esperienza del Mas; quello stesso Mas che con un nuovo candidato, Arce, nel rispetto del dettato costituzionale è tornato al potere a grandissima maggioranza. È questa la morale valida per tutto il continente: quella sinistra sopravvissuta agli anni Settanta, uscita dalle lotte popolari e arrivata al potere grazie alla fine della Guerra Fredda e quindi dei vincoli di schieramento dovrebbe essere paladina della democrazia e della trasparenza, seguendo l’esempio di grandi presidenti come Raul Alfonsin o Pepe Mujica. Non sempre è così, è questo resta uno dei grandi spartiacque irrisolti che comunque non impediscono di vincere e governare in assenza di una destra seria e con un progetto che non sia la tutela dei propri interessi. In America Latina la democrazia, malgrado i problemi enumerati, è solida e la gente vota ormai chi gli somiglia. Grande conquista mai scontata che nel 2022 si consoliderà.

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Gli spartiacque delle comunità latinoamericane – 1 https://ogzero.org/gli-spartiacque-delle-comunita-latinoamericane-1/ Thu, 30 Dec 2021 17:22:22 +0000 https://ogzero.org/?p=5695 L’anno elettorale sudamericano è stato ricco di responsi in grado di fornire materiali per scattare una serie di foto del mondo latinoamericano. L’idea di usare i molti appuntamenti elettorali del 2021, in prosecuzione nel 2022, per incardinare in un unico flusso i rivolgimenti elettorali a consuntivo dell’anno che sta finendo e in continuità nella prospettiva […]

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L’anno elettorale sudamericano è stato ricco di responsi in grado di fornire materiali per scattare una serie di foto del mondo latinoamericano.

L’idea di usare i molti appuntamenti elettorali del 2021, in prosecuzione nel 2022, per incardinare in un unico flusso i rivolgimenti elettorali a consuntivo dell’anno che sta finendo e in continuità nella prospettiva dell’anno che verrà, è sorta dalla consueta attenta osservazione di Diego Battistessa sui fenomeni che avvengono nel continente. Abbiamo punteggiato questo rapido excursus individuando le tappe più significative con podcast sugli aspetti che lungo l’anno ci avevano incuriositi e che confermano le scelte di Diego per proporre un’analisi posta anche in dialettica con una parallela esposizione del punto di vista di Alfredo Somoza, focalizzata sull’individuazione delle due sinistre latinoamericane: quella populista-autoritaria e quella trasparente, popolare perché nata dalle pulsioni all’emancipazione dei popoli – anche e soprattutto latinos – e dai Movimenti di rivolta al neoliberismo, che sono al centro della critica all’involuzione del Capitalismo compresa in Siamo già oltre?


Il 2021 elettorale in America Latina e nei Caraibi:
un ritorno della regione a quale sinistra?

Con la vittoria di Gabriel Boric Font le elezioni presidenziali in Cile, la cui seconda tornata elettorale si è svolta il 19 dicembre scorso, chiudono un anno elettorale turbolento nella regione. Cerchiamo di fare il punto di quanto successo e di ciò che ci aspetta per il 2022 prossimo venturo.

L’anno che si sta per concludere è iniziato con un primo importante appuntamento con le elezioni presidenziali in Ecuador, celebratesi il 7 febbraio. L’uscente Lenin Moreno godeva del più basso consenso regionale e i suoi anni di governo si erano caratterizzati per un duro scontro con colui che fu il suo padrino politico: Rafael Correa (ex presidente ecuadoregno 2007-2017). A disputarsi la presidenza del paese andino sono stati il banchiere e imprenditore Guillermo Lasso, il leader indigeno Yaku Pérez e l’economista Andrés Arauz, nuovo delfino di Correa, la cui condanna per corruzione gli ha impedito di candidarsi alla vicepresidenza. La prima tornata elettorale, nella quale si votava anche per il parlamento, ha visto la vittoria schiacciante di Arauz che però non ha superato il 50 per cento dei consensi e ha dovuto quindi affrontare il ballottaggio con Guillermo Lasso: arrivato secondo dopo un polemico testa a testa con Yaku Pérez. L’11 aprile la votazione finale ha ribaltato i pronostici e ha dato la vittoria al banchiere conservatore Lasso, in un voto che si è concentrato principalmente sul correismo o anticorreismo, polarizzando il contesto politico e sociale.

Nel Salvador le elezioni legislative e municipali del 28 febbraio hanno visto la schiacciante vittoria del partito Nuevas Ideas, facente capo al presidente in carica, Nayib Bukele.

Alfredo Somoza ce ne fece un ritratto, mentre i salvadoregni si ribellavano al presidente populista

Ottenendo 56 seggi su 84 in gioco nel Congresso e 152 consigli municipali su 262, Bukele si è assicurato il totale potere politico nel paese centroamericano. Le azioni che hanno seguito a questo nuevo accentramento dei poteri dello stato hanno provocato però duri scontri interni e la critica della comunità internazionale nei confronti del “presidente millenial” del Salvador.

Alfredo Somoza evidenzia le radici comuni di Bukele e Ortega in quell’altra sinistra latinoamericana, riprendendo i fili della insurrezione della popolazione salvadoregna impoverita dal populismo
“Corsi e ricorsi nella storia del Mesoamerica”.

 


La sinistra paternalista delle Ande

Il 7 marzo nella Bolivia del presidente Luis Alberto Arce Catacora, si è votato per le elezioni subnazionali nelle quali la popolazione veniva chiamata a votare per i 9 dipartimenti che compongono lo stato plurinazionale della Bolivia e 336 comuni. Il Mas (Movimiento al Socialismo), partito dell’attuale presidente – e dell’ex presidente Evo Morales –, ha ottenuto la vittoria solo in 3 dipartimenti (Cochabamba, Oruro e Potosí) ma si è affermato in più di due terzi dei comuni: ben 240.

In aprile la scena politica regionale viene accaparrata dal Perù dove, dopo anni di terremoto sociale e politico, si cerca di ritornare a una normalità democratica. Tra i numerosi candidati che si presentano alla sfida presidenziale, sono due persone che rappresentano poli opposti che arrivano al ballottaggio. Si tratta di Keiko Fujimori (figlia dell’ex presidente Alberto Fujimori) del partito di destra Fuerza Popular e del candidato Pedro Castillo, un “signor nessuno” membro del partito di sinistra Perú Libre. Poi il 6 giugno nonostante la dura campagna mediatica contro Castillo, maestro elementare delle zone rurali, portata avanti da Keiko e dai settori conservatori del paese, la sinistra vince. Il Perù rimane con il fiato sospeso perché il risultato ufficiale tarda ad arrivare. Giorni di tensione, ricorsi, frustrazione fino al 19 di luglio, quando finalmente anche Keiko Fujimori si deve arrendere e riconoscere Pedro Castillo come nuovo presidente eletto del Perù.

Del tema dell’estrattivismo peruviano avevamo parlato con Matteo Tortone

 

 

Sempre nel mese di aprile (il 19) il Partito Comunista di Cuba – Pcc conferma il presidente Miguel Díaz-Canel come primo segretario, segnano la fine di un’epoca. Il 16 dello stesso mese infatti, Raúl Castro (89 anni) si era dimesso dalla carica del partito per dare spazio a una nuova generazione di rivoluzionari che potessero portare avanti lo spirito del castrismo. L’isola, ancora sotto embargo, è però oggi scossa dalle proteste di numerosi Artivisti che lottano per ottenere libertà di espressione e contro la repressione politica e sociale del partito unico.


La sinistra costituente spinta dai Movimenti popolari

Aprile avrebbe dovuto essere inoltre il mese storico per le votazioni che in Cile dovevano portare il popolo a scegliere i membri dell’Assemblea costituente ma per l’emergenza Covid-19 il processo elettorale è stato spostato al 15 e 16 maggio. Nella stessa data si sono svolte inoltre le elezioni municipali e quelle dei governatori regionali, previste inizialmente per il 20 ottobre 2020 e rimandate per ben 4 volte. Il risultato è stato un plebiscito per le eterogenee forze politiche della sinistra che hanno ottenuto più di due terzi dei seggi dell’Assemblea e risultati storici come la vittoria della giovane comunista Irací Hassler: eletta sindaco della capitale Santiago.

 Anche in questo caso possiamo affidare al commento di Alfredo Somoza il compiacimento per la svolta cilena:
“Chile despertó y entierra Pinochet”.

Giugno ci porta alle elezioni federali e statali in Messico dove Morena, il partito dell’attuale presidente Andrés Manuel Lopez Obrador (Amlo) ha mantenuto il controllo del Congresso (grazie alle alleanze), perdendo però la maggioranza assoluta. L’obiettivo di Amlo di ottenere una maggioranza qualificata insieme al Pt e al Partito dei Verdi si è vista dunque frustrata chiudendo le porte alle riforme costituzionali che erano l’obiettivo di Morena per i prossimi tre anni di presidenza.

A luglio si è tornato a votare in Cile per le primarie presidenziali e per la prima volta è apparso il nome di Boric, ma soprattutto la regione è stata sconvolta da ciò che succede a Haiti. Nella notte tra 6 e 7 luglio, un commando di 28 persone prende d’assalto la residenza del presidente Jovenel Moïse nel quartiere Pelerin, a Pourt-au-Prince, la capitale del paese. Sette uomini armati entrano nella casa sparando 16 colpi al presidente e ferendo anche sua moglie (che si è finta morta per sopravvivere all’attacco). Il magnicidio fa piombare il paese ancora più nel caos e scopre trame e interessi internazionali che intrecciano Colombia, Ecuador, Usa e il piccolo paese caraibico. Le elezioni presidenziali previste per novembre sono state spostate a data da destinarsi e nel frattempo Ariel Henry, membro del partito Inite (centro sinistra) funge da presidente provvisorio.

Diego Battistessa proprio a luglio commentava così la deriva haitiana:

 


La sinistra populista, dinastica e totalitaria

Il 12 di settembre in Argentina più di 34 milioni di persone sono state chiamate a votare alle primarie aperte simultanee e obbligatorie (Paso) per definire le liste dei candidati che si sarebbero sfidati a novembre per rinnovare metà della Camera dei deputati (127 dei 257 seggi) e più di un terzo del Senato (24 dei 54 seggi). In questo contesto l’opposizione è riuscita ad assestare un duro colpo al partito del presidente Alberto Fernández, vincendo nella provincia di Buenos Aires, principale roccaforte della coalizione di governo, Frente de Todos. La tendenza delle Paso è stata poi confermata nelle elezioni del 14 novembre dove la coalizione dell’opposizione Juntos por el Cambio ha vinto in 13 province, includendo i cinque distretti più popolosi del paese: la provincia di Buenos Aires, la Città Autonoma di Buenos Aires, Córdoba, Santa Fe e Mendoza. In generale, al livello nazionale l’opposizione è riuscita a staccare di ben 9 punti percentuali la colazione di governo, ottenendo quasi il 42% dei voti contro il 33% del Kirchnerismo.

Nel frattempo però, a ottobre si sono tenute le elezioni municipali nei 261 distretti territoriali del Paraguay: elezioni che erano previste per il 2020 ma che causa coronavirus furono rimandate. Il risultato più importante (e anche il più discusso) è stata la rielezione di Óscar Rodríguez, membro del partito di governo (Partido colorado) nella capitale Asunción, nonostante gli scandali di corruzione che lo hanno visto protagonista.

 

Il  7 novembre ci sono state inoltre le elezioni “farsa” in Nicaragua che hanno dato ancora una volta una vittoria “schiacciante” a Daniel Ortega e alla vicepresidente (sua moglie) Rosario Murillo. Dietro questo apparente plebiscito (con dati di astensionismo che si aggirano intorno all’80%) ci sono infatti molteplici violazioni dei diritti umani: una repressione senza precedenti, l’incarcerazione arbitraria (iniziata a maggio 2021) di 39 persone identificate dal regime come opposizione, tra queste sette aspiranti alla presidenza.

Diego Battistessa ci aveva già fatto a luglio un parallelo tra due situazioni di quell’altra sinistra simile a quello descritto da Alfredo Somoza tra Bukele e Ortega, questa volta la incredibile dinastia nicaraguense era posta a confronto con l’eredità castrista

“Las revoluciones desencantadas y socavadas”.

Il 21 dello stesso mese si è tornato a votare in Venezuela, in una votazione dove l’opposizione, anche se ancora frammentata, ha deciso di partecipare (prima volta dal 2018). Il Partito Socialista Unito del Venezuela – Psuv (partito di governo) ha vinto 20 dei 23 governi locali in ballo. All’opposizione invece la vittoria negli stati di Cojedes, Nueva Esparta e Zulia. Ancora una volta queste votazioni hanno suscitato non poche polemiche, anche per le irregolarità registrate dalla delegazione degli osservatori elettorali dell’UE presente sul territorio fin dal 14 ottobre e tornata in Venezuela dopo 15 anni di assenza. I delegati dell’UE sono stati chiamati spie e nemici del popolo venezuelano dallo stesso Maduro, che come se non bastasse, ha invalidato la vittoria del candidato dell’opposizione Freddy Superlano nello stato di Barinas. Qui infatti Superlano, della Mud (Mesa de la Unidad Democrática) ha affrontato sconfiggendolo, il fratello del defunto Hugo Chávez, ovvero Agernis Chávez. Barinas però è anche lo stato che ha dato i natali a Chávez ed è dunque un simbolo trascendentale per la rivoluzione bolivariana. In questo senso, accogliendo il diktat di Maduro, il Tribunal Supremo de Justicia (Tsj) ha informato a fine novembre che le elezioni a Barinas sono state invalidate e che si ripeteranno il 9 gennaio 2022: Superlano non potrà partecipare visto che su di lui esiste un processo amministrativo che gli impedisce di ricoprire cariche pubbliche.


Novembre ha visto poi la prima tornata elettorale delle presidenziali cilene che ha determinato la definizione del ballottaggio tra Boric e Kast, con il quale abbiamo iniziato questo veloce excursus, ma anche le storiche elezioni in Honduras: elezioni che hanno portato alla vittoria della leader di centrosinistra Xiomara Castro. Con una partecipazione del 70% degli aventi diritto, il paese centroamericano ha messo fine a 12 anni di neoliberismo (iniziato dopo il colpo di stato del 2009), dando la presidenza a una donna e sancendo la vittoria dei movimenti sociali e delle organizzazioni che si battono per la difesa dei territori e dei beni comuni.

Su queste due elezioni avevamo fatto il punto con Davide Matrone:

“Cile e Honduras: motivi sociali per confrontare responsi elettorali”.

Il mese si è concluso con un altro avvenimento epocale, ovvero la cerimonia attraverso la quale una giurista, Sandra Mason, è diventata la prima presidente della recente nata Repubblica delle Barbados. La cerimonia attraverso la quale l’isola caraibica ha cambiato il suo status da Monarchia Costituzionale (sotto il Regno di Elisabetta II) a Repubblica è avvenuta il 30 novembre. Un passaggio di consegne che ha coinciso con il 55esimo anniversario dell’indipendenza dell’isola caraibica, avvenuta nel 1966 ma che fino a fine novembre aveva continuato a essere legata alla Corona inglese.

Cosa ci aspetta nel 2022?

Se il 2021 è stato “senza tregua”, anche il 2022 ha davvero molto da offrire in termini di elezioni e processi elettorali.

Come già detto il calendario elettorale vedrà nuovamente a gennaio le elezioni nello stato di Barinas in Venezuela dove, senza troppa immaginazione, verrà dichiarato governatore Agernis Chávez. Il 6 febbraio si sposterà in Costa Rica per le elezioni legislative e presidenziali con una eventuale seconda tornata elettorale prevista per il 3 aprile. Ancora da definire poi le date delle elezioni “comarcali” a Panama ma soprattutto quelle del plebiscito nazionale in Cile per l’approvazione della nuova Costituzione. Inoltre il 2 ottobre si tornerà ancora una volta a votare in Perù per le elezioni regionali e municipali, sempre e quando le azioni di “spodestamento” di Pedro Castillo da parte dell’opposizioni non vadano a buon fine e non aprano la strada a nuovi e incerti scenari politici.

I due appuntamenti salienti però riguardano Colombia e Brasile dove due visioni diverse di società e di mondo si daranno battaglia per la presidenza.

In Colombia quest’anno siamo andati molte volte dapprima, a febbraio, con Ana Cristina Vargas, che poi è intervenuta in voce descrivendo l’insurrezione antiuribista di maggio:

e poi ci ha accompagnato anche Tullio Togni nei suoi vari interventi dal territorio, a giugno e dicembre
“Differenti protagonisti della rivolta colombiana. La necropolitica uribista”.

In Colombia, paese segnato da un processo di Pace che non decolla, da una disuguaglianza sociale in aumento e da interminabili casi di corruzione, violenza e impunità; l’Uribismo (movimento ideologico conservatore che segue la linea del’ex presidente Alvaro Uribe Vélez) dovrà cercare di frenare la sinistra in aumento di consenso. Il presidente uscente, l’uribista Ivan Duque, è stato indicato come il principale colpevole del fallimento degli accordi di Pace siglati da Juan Manuel Santos con le Farc e le proteste iniziate il 28 aprile 2021 hanno sancito la frattura definitiva con il popolo. La credibilità di Duque e la sua popolarità hanno subito dei duri colpi, anche a livello internazionale per i report delle ong e anche dell’Onu, sulle violazioni dei diritti umani perpetrate dagli squadroni antisommossa (Esmad) durante le proteste. In questo senso neanche i successi militari come la cattura del narcotrafficante Otoniel sono serviti a ridare smalto alla figura di Duque che milita nel partito Centro democratico, fondato da Uribe nel 2013.  Dall’altro lato la lista dei precandidati presidenziali continua ad ampliarsi favorendo una frammentazione del voto: a sinistra spicca il senatore Gustavo Petro che proverà per la terza volta a diventare presidente. Le elezioni si svolgeranno il 29 di maggio (prima tornata) con il ballottaggio previsto per il 19 giugno. Prima di quella data ci sarà un altro appuntamento elettorale che servirà per avere il polso della situazione, ovvero le elezioni legislative del 13 marzo.


In Brasile la situazione non solo è complessa ma è anche molto tesa. L’ex presidente Luiz Inácio Lula da Silva, una volta superati i “problemi giudiziari” non ha nascosto la volontà di candidarsi per le presidenziali che si svolgeranno in prima istanza il 2 ottobre, con il ballottaggio previsto per il 30 ottobre. Da un lato la sua popolarità è in crescita e dall’altro Jair Bolsonaro, l’attuale presidente cerca di correre ai ripari dopo anni di politiche aggressive, escludenti e negazioniste nei confronti del Covid-19 e dei relativi vaccini. La popolarità di Bolsonaro non gode di buona salute ma nel frattempo il 30 novembre scorso lo stesso Bolsonaro si è affiliato al Partido liberal (destra), pensando a una ricandidatura per il periodo 2022- 2026.

Altre figure di rilievo nel paese hanno annunciato la loro volontà di candidarsi e tra queste spicca sicuramente il nome di Sergio Moro. Moro infatti a novembre scorso si è affiliato al partito di centro Podemos, in vista della partecipazione alle elezioni del 2022, presentandosi come una terza via per il Brasile. La possibile candidatura a presidente di questo ex giudice di 49 anni ha sollevato però non poche polemiche visto che proprio lui aveva diretto in modo non imparziale la mega operazione anticorruzione conosciuta come “Lava Jato” che aveva portato alla carcerazione di Lula. La non imparzialità di Moro, sostenuta a più riprese da molte voci della sinistra brasiliana, è stata sancita in modo definitivo dalla Seconda sezione della Corte suprema del Brasile, che ha dichiarato martedì 23 marzo 2021 che l’ex giudice non ha agito con “imparzialità” in uno dei processi contro l’ex presidente Luiz Inácio Lula da Silva, le cui sentenze erano già state annullate in precedenza.

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n. 16 – Rotta del Mediterraneo centrale: lo sbocco marino delle piste libiche https://ogzero.org/il-mediterraneo-centrale-la-rotta-delle-piste-libiche/ Wed, 22 Dec 2021 23:02:41 +0000 https://ogzero.org/?p=5605 Il Mediterraneo centrale è il palcoscenico che maggiormente è stato emblematico del fenomeno migratorio per l’Europa. Fabiana Triburgo prende spunto per occuparsi di Libia dalla evanescenza della data delle elezioni fissate un anno fa al 24 dicembre destinata a venire disattesa, poiché non è in agenda delle potenze locali, né per Mosca, né per Ankara […]

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Il Mediterraneo centrale è il palcoscenico che maggiormente è stato emblematico del fenomeno migratorio per l’Europa.

Fabiana Triburgo prende spunto per occuparsi di Libia dalla evanescenza della data delle elezioni fissate un anno fa al 24 dicembre destinata a venire disattesa, poiché non è in agenda delle potenze locali, né per Mosca, né per Ankara che occupano militarmente il territorio. Ma la situazione viene dipanata nel suo articolo cercando di cogliere le pieghe giuridiche che potranno impostare rapporti con la futura entità istituzionale libica, se mai ci potrà essere; e dunque anche dalla sua esperienza personale si analizzano i meccanismi geopolitici alla base di questa rotta aperta con il crollo del regime di Gheddafi.


I principali conflitti che attualmente interessano le migrazioni forzate e le prassi di esternalizzazione poste in essere dall’Unione Europea e dai singoli stati membri portano a una predeterminazione delle rotte dei migranti.

Quello che oggi è inevitabile chiedersi è se il nuovo Patto europeo sulla Migrazione e l’Asilo, proposto dalla Commissione UE, possa essere realmente considerato una soluzione della gestione del fenomeno migratorio o se invece vi siano soluzioni legali alternative maggiormente lungimiranti e coraggiose.  


La costa dell’insieme di regioni composite chiamato Libia

Nell’imminenza del rinvio delle elezioni previste in Libia – se e quando riusciranno a tenersi – sembra inevitabile chiedersi se (quando si formeranno i nuovi assetti istituzionali) saranno in grado di fare emergere figure con le quali l’Unione europea e in particolare l’Italia saranno in grado di improntare rapporti diplomatici diversi rispetto alla questione migratoria, svincolati dai concetti di invasione e di sicurezza di cui ormai sembra intrisa tutta la narrazione della politica estera dei paesi europei, gli stessi che hanno disegnato a forza confini reali solo nell’immaginario occidentale.

L’area libica: risorse, campi, infrastrutture, pozzi, etnie

Protagonisti in campo

Necessario tra tutti un superamento di patti, intese e accordi bilaterali, finora strumenti per mezzo dei quali si è realizzato un sistema aberrante nel quale in un’ottica di contenimento dei flussi migratori gli individui vengono utilizzati come merce di scambio per la soddisfazione degli interessi economici, in Libia principalmente legati all’estrazione del greggio.

Turchia, Russia, Cina

Molteplici sono infatti gli attori regionali e internazionali in gioco in questa porzione di area del mondo chiamata Mediterraneo centrale nella quale tutti i “partecipanti” vogliono ritagliarsi un ruolo: dalla Turchia che cerca di affermare la proiezione del proprio espansionismo geopolitico in queste acque, poiché ostili risultano quelle dell’ Egeo – blindate dagli accordi internazionali – che pongono la Grecia in una posizione di sovranità marittima nella quale difficilmente riesce a dimenarsi; alla Russia che cerca di recuperare in quest’area una contropartita per contrastare l’avanzamento delle forze Nato verso quella “nuova Cortina di ferro” rispetto alla quale gli stati-cuscinetto (Ucraina e Bielorussia) destano maggiori preoccupazioni che l’inserirsi di paesi baltici, Polonia e Romania; alla Cina che tenta di crearsi uno sbocco commerciale rilevante attraverso “le nuove vie della seta”.

Stati Uniti, Unione europea

Ancora: gli Stati Uniti che si sono ben resi conto di essersi disinteressati troppo a lungo di questa porzione di mare, chiamata non semplicemente Mediterraneo centrale, ma Medio Oceano. Infatti è posto nel mezzo tra Pacifico e Atlantico nei quali gli Stati Uniti hanno molto da perdere se continua ad affermarsi la posizione di Cina e Russia – ossia dei loro antagonisti per antonomasia – facendo stridere quell’immagine di baluardo di potenza egemone indiscussa sul piano militare e geopolitico alla quale gli Usa tengono molto.

Sono inoltre da non sottovalutare anche le potenze europee, prime tra tutte Italia e Francia, che a causa degli interessi confliggenti legati alle compagnie petrolifere Eni e Total hanno impedito la determinazione di una politica estera comune dell’Unione nel conflitto libico per molto tempo.

Potenze regionali: Tunisia, Algeria

Occorre infine citare le potenze regionali quali Tunisia e Algeria che al momento sono in una tensione diplomatica senza precedenti e che hanno risentito molto della prossimità geografica rispetto alla Libia.

Già, perché è proprio la Libia a rappresentare la sintesi di questo caleidoscopio marittimo di strategie e di tattiche regionali e non, ma di queste – già analizzate in parte negli approfondimenti precedenti relativi ai paesi del Nordafrica – quello che interessa in questo articolo è la questione giuridica al fine di comprendere con serietà come si sia arrivati a questa tragedia migratoria e soprattutto cosa si possa fare in concreto per cambiare queste dinamiche politiche malate.

Riflettori improvvisati spenti sui morti di Guerre ibridate

La questione non ha necessità di essere trattata perché fa tendenza come sta avvenendo negli ultimi mesi per la crisi migratoria al confine polacco/bielorusso o lungo la rotta balcanica, anche perché in questa logica come abbiamo visto per la situazione in Afghanistan i riflettori si spengono velocemente, ma perché invece questi scenari sono gravemente mortiferi: si parla di individui deceduti ogni giorno in mare e in terra (più specificatamente nel deserto del Sahara, nel caso di questa rotta) a causa di politiche assurde.

 

Si ricorda che nella prima parte del 2021 circa 1146 persone sono morte nel mar Mediterraneo nel tentativo di raggiungere l’Europa, un numero molto più elevato di quello registrato nei due anni precedenti.

Libia 2011

Intorno al 2011 in prossimità della caduta del regime di Gheddafi quello che mi sorprendeva durante gli ascolti legali dei migranti provenienti dall’Africa subsahariana, transitati in Libia prima di arrivare in Italia, era il fatto che si trovassero in questo paese del Nordafrica da molti anni e in conseguenza del conflitto libico avevano dovuto lasciare un impiego stabile in Libia – spesso nell’edilizia – che fino a quel momento gli aveva consentito di condurre una vita dignitosa e di mantenere il proprio nucleo familiare. La Libia per molto tempo aveva rappresentato per i profughi provenienti principalmente dall’Africa subsahariana e dal Corno d’Africa una sorta di vicino Eldorado nel quale avevano trovato “rifugio” rispetto alle situazioni di conflitto o di instabilità nel proprio paese di origine.

Quindi molti di loro erano in realtà migranti forzati anche se apparentemente economici poiché avevano da tempo un lavoro in Libia ma non avevano potuto beneficiare dello status di rifugiato in quanto la Libia non è firmataria della Convenzione di Ginevra.

Protezione per i migranti sostenitori  di Gheddafi

Va precisato che Gheddafi aprì, durante la ribellione, le carceri nelle quali erano stati rinchiusi i passeur e offrì loro denaro per fare arrivare i migranti in Europa, considerata – non a torto – responsabile del capovolgimento della dittatura. Le ragioni di tutto questo vanno ricercate nelle radici storiche della politica panafricana di Gheddafi che dalla fine degli anni Novanta fino ai primi anni 2000 aveva creato un paese di accoglienza, aprendo le frontiere principalmente a chi proveniva dal resto del continente, in quanto l’offerta di mano d’opera straniera era molto elevata nel paese grazie soprattutto alla presenza di giacimenti petroliferi e anche perché i cittadini libici potevano contare su stipendi pubblici. Tra i migranti che arrivavano in Libia solo una parte più esigua proseguiva il proprio viaggio verso l’Italia.

La “formidabile” idea di cambiare questa politica di integrazione arrivò al dittatore libico soprattutto grazie al trattato di amicizia Gheddafi-Berlusconi del 2008 quando si registrò un “picco di arrivi” nel nostro Paese, ossia circa 37.000 migranti. L’Italia berlusconiana ha la colpa di aver fatto da apripista alla logica delle politiche di esternalizzazione: in quel caso la cooperazione, oltre al miraggio di avere un canale privilegiato al petrolio legittimato dalle ancestrali quanto disastrose radici coloniali che legano Tripoli a Roma, ebbe come snodo centrale la necessità che il governo libico respingesse verso le coste i migranti che tentavano di attraversare il Mediterraneo centrale.

Cadaveri sulle coste libiche (fonte Adif, 2018)

Così alla stregua della legge Bossi-Fini ossia la n. 94 del 2009, la Libia nel 2010 approvò una legge che criminalizzava l’immigrazione clandestina prevedendo la detenzione per tale reato.

È importante scrivere ciò perché è proprio sulla base di questi accordi che si cominciarono a creare i centri detentivi libici, quei famigerati Lager che oggi rappresentano il simbolo più crudele di quanto l’essere umano possa macchiarsi di comportamenti atroci. Anche in questo caso vennero trasferiti fondi alla dittatura libica (5 miliardi di dollari in venti anni come risarcimento per gli orrori del colonialismo), insieme a quattro motovedette italiane per il pattugliamento delle coste libiche in collaborazione con la Guardia costiera italiana nei respingimenti collettivi dei migranti vietati, come già detto, secondo l’art. 4 del Protocollo n. 4 della Cedu. Così nel 2010 gli arrivi in Italia calarono del 90 per cento.

I respingimenti sono a priori illegali

Questa attività deplorevole come noto andò avanti per anni fino a che intervenne la cosiddetta sentenza Hirsi Jamaa e altri contro Italia. Con tale sentenza l’Italia venne condannata nel 2012 dalla Corte di Strasburgo per essersi resa responsabile del respingimento collettivo di alcuni migranti nel 2009: in quella circostanza i migranti intercettati dal personale delle imbarcazioni italiane vennero trasferiti su queste per essere riportati in Libia e consegnati alle autorità libiche.

Ecco, forse quello era il momento di fermarsi ma non è stato così vedendo cosa è accaduto qualche anno dopo, a parte la breve parentesi dell’operazione Mare Nostrum, con il Memorandum d’intesa Italia-Libia del febbraio del 2 febbraio 2017 – che richiama nel testo proprio il precedente trattato di amicizia italo-libico firmato a Bengasi nel 2008 – redatto su iniziativa dell’ex ministro dell’Interno Minniti e siglato dall’allora primo ministro Gentiloni e dal presidente libico al-Serraj, all’epoca a capo del governo di Unità nazionale sostenuto dall’Italia e, ironia della sorte, dalle Nazioni Unite.

Il problema era questo: come si potevano respingere i migranti senza essere responsabili legalmente in modo da non essere condannati di nuovo? Semplice, delegando il “lavoro sporco”, ossia i respingimenti collettivi, direttamente ai libici previo pagamento, e ovviamente sempre nel perseguimento di fini umanitari (!?) per contrastare “il traffico di esseri umani” e garantire “la riduzione dei flussi migratori illegali”, addestrando la guardia costiera libica e fornendole armamenti e di nuovo motovedette italiane.

Vacanza governativa: accordi capestro e respingimenti illegali

Non essendoci più un governo unitario in Libia al momento dell’accordo del 2017 la sedicente guardia costiera libica era soltanto espressione di una delle tante milizie armate presenti nel paese e capeggiata oltretutto da un ricercato dal Tribunale penale Internazionale, tale Bija (nome d’arte o meglio di guerra) sulla cui vicenda si richiama il lavoro eccellente svolto dal giornalista di “Avvenire” Nello Scavo autore di un’attività giornalistica di inchiesta che è riuscita a far luce su questioni completamente nascoste all’opinione pubblica italiana.

Secondo Idos nei primi mesi del 2021 la guardia costiera libica ha intercettato in mare 11.891 migranti riportandoli indietro sulle spiagge libiche e sottoponendoli – secondo Amnesty International – a sparizioni, detenzioni arbitrarie indefinite in luoghi ufficiali e non, a torture, a lavoro forzato ed estorsione, nonché a violenza sessuale. Soffermiamoci dunque sull’aspetto legale perché è sempre da lì che si deve partire per non portare avanti discussioni fini a sé stesse: l’accordo del 2017 è un accordo da considerarsi illegittimo.

La Open Arms lascia il porto di Barcellona diretta in Libia (2018, foto Marco Pachiega / Shutterstock)

Gli accordi internazionali, come già sottolineato nell’articolo giuridico sulla rotta balcanica di questa serie con riferimento al discusso accordo posto alla base delle riammissioni della Slovenia dall’Italia, devono essere presentati dal governo al parlamento italiano e approvati da parte di quest’ultimo tramite legge di ratifica ai sensi dell’art. 80 della Costituzione. A chi contesta che il memorandum del 2017 non si debba annoverare tra quelli previsti dall’articolo 80 basta leggerne il contenuto per rendersi conto che esso soddisfa già prima facie tutti i parametri definiti dal medesimo articolo che chiarisce la necessità di ratifica da parte delle Camere dei trattati di natura politica che “importano variazioni del territorio od oneri alle finanze o modificazioni di legge”. È noto infatti che all’accordo del 2017 seguì la definizione di una zona SAR libica rispetto ad acque che prima erano definite internazionali e nelle quali quindi l’Italia era chiamata al soccorso e che sono stati stanziati milioni di euro dall’Italia alla Libia per finalizzare questo accordo influendo sul bilancio dello stato e che con questo sistema sono state violate indirettamente diverse normative. In particolare è opportuno citare l’art.10 della Costituzione italiana, la Convenzione di Ginevra e più specificatamente il principio contenuto all’art. 33 della Convenzione ossia il principio del non refoulement, le norme sul soccorso in mare, nonché quelle stabilite dalla Convenzione Europea dei Diritti dell’uomo. Inutile poi dire che la Libia, paese non sicuro dove stupri e torture sono sistemiche, non è firmataria della maggior parte delle Convenzioni internazionali, tra le quali come detto quella di Ginevra, quindi la garanzia della presenza di Organizzazioni Internazionali in questo accordo è irrilevante e le pone in una posizione di ambiguità. Rispetto ai respingimenti si segnala la recente sentenza emessa dalla VI sezione della Corte di Cassazione n. 12/2021. Qualche mese dopo la firma dell’accordo inoltre l’ex ministro Minniti negoziava un codice di condotta con le ong che prestavano soccorso in mare che provocava il rallentamento delle operazioni di soccorso.

Palesi violazioni

Giunti a questo punto appare necessario richiamare alcuni degli strumenti giuridici impiegati per contrastare tali politiche. In primo luogo, occorre menzionare, oltre alla Missione d’inchiesta delle Nazioni Unite sulla Libia, per la violazione del diritto internazionale e dei diritti umani, il caso della nave Asso 29 che si affianca alla recente condanna del Tribunale di Napoli nei confronti del comandante della nave Asso 28 per aver ricondotto in Libia centinaia di persone soccorse in mare: entrambe le navi sono appartenenti all’Augusta Off-Shore uno spedizioniere marittimo con sede a Napoli.

Il 13 ottobre il Tribunale di Napoli ha condannato il comandante di una nave privata, la Asso 28 della compagnia Augusta Offshore, per aver ricondotto in Libia oltre cento persone soccorse in mare.

Rispetto a tale vicenda risalente al 2018 cinque cittadini eritrei hanno presentato ricorso al Tribunale di Roma – ivi ancora pendente – chiamando in giudizio oltre alla nave Asso 29 – in servizio presso una piattaforma petrolifera di una società partecipata di Eni – anche lo stato italiano più specificatamente il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti. Mediante il ricorso, partendo dal caso specifico, viene ben delineato come si determina in concreto questo sistema dei respingimenti collettivi verso le coste libiche ossia attraverso l’attività di intercettazione dei migranti da parte della cosiddetta guardia costiera libica. Ciò che desta maggiore preoccupazione tuttavia è che la regia di questo sistema provenga dall’Unità centrale di soccorso di Roma, organo dipendente a sua volta dal Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti italiano e che nell’intercettazione dei migranti siano coinvolte delle navi legate a compagnie petrolifere.

Inutile dire quanto sia complicato l’accesso ad atti che potrebbero essere utili per la ricostruzione dei fatti avendo lo stato italiano posto su essi il segreto per motivi di sicurezza perché riguardanti operazioni militari o di politica estera, la cui rivelazione potrebbe essere pregiudizievole per le relazioni interazionali con Malta e con la Libia.

Inoltre, va ricordato tra gli strumenti giuridici l’esposto presentato da diverse associazioni – tra cui Arci – per l’accertamento delle responsabilità del naufragio del 22 aprile del 2021 nel quale sono morte 130 persone nel Mediterraneo centrale.

Come dunque si è arrivati a tutto ciò? È importante preliminarmente sottolineare che l’accordo del 2017 viene rinnovato tacitamente ogni tre anni come stabilito nello stesso testo, come è avvenuto nel 2020, e che il 15 luglio di quest’anno è stato rinnovato il rifinanziamento della guardia costiera libica con 361 voti a favore, 34 contrari e 22 astenuti.

Scarico di responsabilità

Un risultato agghiacciante essendo tutti ormai a conoscenza di quanto avviene nei centri detentivi libici grazie al denaro italiano ed europeo. L’unica modifica che si è riusciti ad approvare a luglio di quest’anno è che dal 2022 la missione in Libia dovrebbe passare sotto la diretta responsabilità dell’Unione Europea. Ciò, anche se appare come un modo per lavarsene le mani – finché ancora si può –, ha un senso dato che tutto è iniziato dagli accordi della Valletta del 2015 e dall’Agenda Europea dello stesso anno in occasione della quale l’Unione si è concentrata sul ruolo strategico dei paesi terzi-con i quali poi ha stretto accordi sul rafforzamento delle frontiere dell’Unione e fuori dall’Unione – vedi Frontex – nonché sulla necessità di aumentare il numero dei rimpatri. In seguito, si è aggiunto l’ormai noto accordo Ue-Turchia del 2016, all’indomani del quale le milizie libiche si sono adoperate per mostrare la capacità di imprigionare i profughi, speranzose di ottenere anche loro un lauto riconoscimento economico per il loro “lavoro” come la creazione del nuovo Centro di detenzione libico di Tarik Al Sikka.

La campagna #notonourborderwatch lanciata dal Consiglio Olandese per i Rifugiati, BKB, Sea-Watch Legal Aid Fund, Jungle Minds e Prakken D’Oliveira Human Rights Lawyers, sostenuta dall’ASGI assieme ad altre ONG di tutta Europa

Detto fatto: è stato stanziato denaro dall’UE attraverso il fondo Africa – circa 140 milioni di euro – che solo in minima parte ha sovvenzionato i progetti di cooperazione allo sviluppo (5 %) poiché destinato prevalentemente al controllo e alla gestione delle frontiere per opera dei paesi terzi (61 %).

Tuttavia, anche relativamente a tale Fondo, la questione è stata riportata puntualmente sul piano giuridico per cui sia Arci che Asgi nel 2020 hanno presentato un esposto alla procura presso la Corte dei Conti europea.

Il ruolo del Niger

Sempre per comprendere come le norme siano in grado di cambiare le rotte migratorie occorre ricordare il ruolo fondamentale del Niger nel mutamento della rotta terrestre per arrivare in Libia al fine di attraversare il Mediterraneo centrale. Il Niger infatti è stato uno dei primi paesi beneficiari di un altro fondo, il Fondo Fiduciario europeo di emergenza per L’Africa, avendo presentato all’Unione già nel 2015 un piano d’azione per attrarre gli investimenti europei. All’epoca il paese, uno dei più poveri al mondo, si trovava in piena campagna elettorale all’esito della quale nel 2016 era stato rieletto Mahamadou Issoufou (presidente del Niger in carica dal 2011 al 2021) importante interlocutore per l’Unione rispetto ai flussi migratori verso le sponde del Mediterraneo centrale, nel momento in cui la Libia non solo non aveva più un unico leader ma oltretutto si trovava in una situazione di conflitto civile con presenze regionali e internazionali a complicare lo scenario. Va precisato che in seguito ai conflitti etnici civili in Niger negli anni Novanta e negli anni Duemila si tentò il reinserimento dei tuareg nella società nigerina e più nello specifico nell’apparato militare. Un’altra parte di loro, tuttavia, cominciò a svolgere – con il bene placido delle autorità nigerine – l’attività di passeur attraverso il deserto del Sahara del quale sono i principali conoscitori.

Nella maggior parte dei colloqui legali i migranti provenienti dall’Africa subsahariana riferivano di essere giunti in Libia passando attraverso il Niger in particolare per Agadez attraversando il deserto a bordo di pick-up nei quali venivano stipate decine di persone con due tre corse al giorno.

Tuttavia in Niger sulla base di tali concertazioni con i paesi dell’Ue, con la legge 2015/36 è stato introdotto per la prima volta nell’ordinamento giuridico nigerino il reato di attraversamento irregolare delle frontiere (Relative au trafic illicite de migrants) che entrò in vigore solo all’inizio del 2016 con la rielezione di Issoufou: da quel momento vennero arrestati gli ex combattenti tuareg che prima agevolavano il transito dei migranti e dei quali vennero confiscati anche i mezzi di trasporto. In seguito alla criminalizzazione di tale attività i dati del flusso dei migranti provenienti dall’Africa subsahariana e diretti dal Niger alla Libia dal 2017 al 2019 si riducevano dunque in modo drastico.

Profughi iniziano il loro viaggio nel Deserto del Sahara dalla città di Agadez in Niger per giungere in Libia fe poi in Europa (2019, Catay / Shutterstock)

In conseguenza di tale norma, solo tra il 2016 e il 2017, l’Oim ha registrato una diminuzione dei flussi in uscita dal Niger equivalente a meno del 70% rispetto al 2015. Quindi il blocco dei migranti in Niger, in prossimità di Agadez e Seguedine, e quello determinato con il memorandum italo-libico del 2017 hanno spinto i migranti subsahariani a optare negli ultimi anni per altre rotte marittime ossia principalmente attraversando l’Atlantico per raggiungere le isole Canarie, rotta della quale si è già ampiamente discusso nella parte precedente di questo saggio. I dati ufficiali del Ministero dell’Interno rivelano che nel 2020, le persone sbarcate dopo aver attraversato il Mediterraneo centrale provenivano principalmente dalla Tunisia, tanto che nello stesso anno l’attuale Ministro degli Esteri ha dichiarato – constatando un aumento dei flussi migratori in tale area – che se la Tunisia non avesse bloccato le partenze avrebbe tagliato i fondi della cooperazione stanziati a favore del paese nordafricano.

La professionalizzazione dei trafficanti in Libia e Niger

La gravità di tali politiche sta nel fatto che anche in Libia, così come in Niger, prima del 2017 vi era un rapporto di reciproca consensualità tra il migrante e i passeurs mentre oggi questi sono divenuti tutti trafficanti di professione. Quindi il paradosso è che gli ufficiali della guardia costiera libica che sulla base del Memorandum avrebbero dovuto combattere il traffico dei migranti sono divenuti loro stessi trafficanti. Inoltre, nelle maglie di un sistema sprovvisto di un governo stabile e unitario da più di dieci anni, quale quello libico, si è inserita la criminalità organizzata di Sudan e Nigeria personalmente riscontrata nei colloqui legali tenuti con le donne vittime di tratta detenute e abusate in Libia nelle Connection Houses simbolo della mafia nigeriana che tra l’altro propaga i suoi effetti fino in Italia attraverso i canali della prostituzione.

Tutto ciò finora esposto lascia intendere quanto sia pericoloso continuare con tali tipi di politiche il cui intento è apparso indiscusso con il nuovo Patto europeo sulla migrazione e l’asilo, sul quale ci soffermeremo in seguito, solo dopo aver analizzato le soluzioni emergenziali e – come tali limitate – che si stanno strutturando nel mentre della sua approvazione, ossia i corridoi umanitari e le molteplici attività di soccorso dei migranti per opera della società civile, spesso sottoposte a procedimenti penali.

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La Colombia della “pace” https://ogzero.org/la-colombia-della-pace/ Sun, 12 Dec 2021 21:25:45 +0000 https://ogzero.org/?p=5547 A 5 anni dagli Accordi di Pace fra il Governo Santos e la guerriglia storica delle Farc, il cammino per lasciarsi il conflitto alle spalle sembra ancora lungo e tortuoso, come il corso degli innumerevoli  corsi d’acqua del Delta del Rio Danubio; il dipartimento del Cauca si affaccia sulla costa pacifica della Colombia, ma di […]

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A 5 anni dagli Accordi di Pace fra il Governo Santos e la guerriglia storica delle Farc, il cammino per lasciarsi il conflitto alle spalle sembra ancora lungo e tortuoso, come il corso degli innumerevoli  corsi d’acqua del Delta del Rio Danubio; il dipartimento del Cauca si affaccia sulla costa pacifica della Colombia, ma di pacifico c’è solo la certezza del conflitto tra narcos. Tullio Togni ci ha inviato questi scatti che illustrano nel suo racconto un paesaggio di difficile composizione del cinquantennale conflitto ufficialmente concluso 5 anni fa dal premio Nobel, il presidente Juan Manuel Santos.


Jefferson commenta lo sparo isolato appena sentito poco lontano, dice che sicuramente non si tratta di un’esecuzione: se il colpo fosse stato diretto al cranio, lo avremmo sentito più soffice e diffuso; attutito. Usa le mani per spiegare qualcosa che va oltre il senso dell’udito, ma per chi non ci è abituato questo rimane un concetto astratto; aleggia nell’aria.

Costa colombiana sul Pacifico

 

Buenaventura, città portuale sulla costa pacifica colombiana, è un inferno a ritmo di salsa che a partire dalle sette di sera tace quasi del tutto: un coprifuoco informale proibisce ogni danza per le strade, nessuno osa togliere la scena alle bande locali che si spartiscono il controllo e il microtraffico; “los chotas” e “los espartanos” da un anno a questa parte si sono dichiarate guerra, ma rimangono parte della stessa struttura illegale detta “La Local”. Le principali occupazioni di quest’ultima sono il narcotraffico e l’estorsione, oltre a quella pratica terribile a cui la Colombia si è abituata nel corso degli anni di conflitto e che si definisce come “pulizia sociale”. La relazione storica è con le “Autodefensas Gaitanistas de Colombia – Agc”, anche dette “Clan del Golfo”, gruppo paramilitare presente a livello nazionale il cui massimo esponente, Dairo Antonio Úsuga David (alias Otoniel), è stato recentemente arrestato. Anche se molti pensano che si sia consegnato nel quadro di un accordo ben più ampio con il governo attuale; del resto, alle elezioni di maggio 2022 non manca molto tempo.

La riconfigurazione del conflitto

Se potesse scegliere, Jefferson non andrebbe mai a Buenaventura, rimarrebbe tutta la vita in uno dei numerosi villaggi di palafitte sparse che si estendono lungo i cosiddetti “Fiumi di Buenaventura”, rami d’acqua che dalla cordigliera occidentale attraversano la foresta del Chocó e del Valle del Cauca per poi sciogliersi nell’Oceano pacifico. Ma c’è una relazione stretta fra gli spari e la casa di legno lasciata vuota davanti alla quale è seduto: in tutta questa zona, la popolazione locale – principalmente afrocolombiana – vive sotto il fuoco incrociato dei gruppi armati presenti, in particolare le dissidenze delle Farc che non sono entrate nel Processo di Pace o vi si sono sottratte, l’Eln – Esercito di Liberazione Nazionale, i paramilitari delle Agc e lo stesso Esercito colombiano. È errato gettare tutto nello stesso calderone, ma nella confusione generale della riconfigurazione del conflitto nel post-Accordo, la stessa guerriglia ha perso la sua identità storica e varia molto a seconda della regione e del contesto in cui opera; nell’Occidente colombiano, punto d’incontro fra l’entroterra e il porto di Buenaventura da cui passa oltre il 60 per cento della merce del paese, quasi tutti i gruppi armati sembrano avere vocazione economica – la cocaina – più che ideologica, per cui anche se nella maggior parte dei casi l’esercito e le Agc si alleano informalmente per combattere la guerriglia, non è raro assistere a scontri armati fra le Farc e l’Eln.

Valle Cauca

Innumerevoli rivoli d’acqua sulla costa colombiana del Pacifico e qualche drappo di rivendicazione territoriale (© – Red de Hermandad y Solidaridad con Colombia)

La riconfigurazione del territorio

Nel conglomerato di villaggi in cui vive Jefferson detta legge la Colonna Mobile Jaime Martinez, dissidenza delle Farc-Ep riunita nel “Comando Coordinador de Occidente”; lo dimostrano i cartelloni che si affacciano sul fiume o la stessa delegazione armata che si presenta: ragazzi sui vent’anni vestiti in civile se non fosse per il giubbotto verde militare, le armi e le munizioni al collo. Ma il controllo territoriale va oltre i fucili e gli spari: è fatto di ordini e restrizioni con mine antiuomo ai margini dei villaggi per limitare la mobilità della popolazione civile e le incursioni dei gruppi armati rivali, è il reclutamento forzato e le isolate esecuzioni extragiudiziali. È quanto successo alla fine di ottobre nel villaggio accanto, quando un membro del consiglio comunitario è stato assassinato perché sospettato di essere un informatore dell’esercito colombiano, dopo che i media avevano strumentalizzato alcune sue dichiarazioni rispetto al conflitto armato nella regione e lo avevano di fatto esposto a un alto rischio. È lo sparo attutito a cui si riferisce Jefferson, è la complessità del vivere in un contesto intricato e precario, in cui chi oggi è costretto a offrire un pranzo a un gruppo armato, domani viene ucciso dall’altro per aver collaborato con il nemico, oppure è perseguito dalla magistratura per aver dialogato con attori illegali presenti nel territorio. Lo stato in tutto questo si limita alla presenza militare, con incursioni frequenti, scontri armati ad alto impatto simbolico e ulteriori danni per le popolazioni locali. Queste ultime, organizzate nei consigli comunitari, denunciano la stessa convivenza fra stato e gruppi armati, chiedono che si rispetti la Legge 70 del 1993 che riconosce le comunità afrocolombiane come gruppo etnico con diritti sul territorio e autonomia di governo, rivendicano garanzie di sicurezza, educazione e sanità in tutta la zona della “Buenaventura rurale”: a proposito, nessun piano di vaccinazione per il Covid è stato ancora previsto qui. Alla guerriglia e in particolare alle dissidenze delle Farc, invece, chiedono semplicemente coerenza. In generale, per come si vive oggi, dicono che si stava meglio prima.

Villaggi su palafitte nella Valle del Cauca (© – Red de Hermandad y Solidaridad con Colombia)

Gli accordi di pace

A 5 anni dalla convulsa firma degli Accordi di Pace del 2016 fra il governo Santos (2010-2018) e le Farc, la Colombia vive una situazione paradossale a cui i numeri fanno da cornice: 299 ex guerriglieri e 1270 leader sociali assassinati, 500 organizzazioni della società civile vittime di minacce, 250.000 persone costrette all’esodo forzato. Numeri importanti che evidenziano una tragica realtà.

La terra rimane a tutti gli effetti il motore del conflitto, lo stato non si è impegnato a restituirla né a redistribuirla, ha abbandonato molti territori precedentemente controllati dalle Farc dando il via libera all’entrata di nuovi gruppi armati. Quando ha investito, lo ha fatto per generare monocolture per l’esportazione o piani di esplorazione per soddisfare gli interessi di multinazionali straniere anziché quelli delle comunità indigene e contadine che più di tutti hanno sofferto. E quanto alla difesa dell’ambiente, benché nella recente Cop26 il presidente Duque abbia dichiarato di essere disposto a difendere gli ecosistemi del paese, solo nel 2020 sono stati registrati oltre 65 omicidi contro attivisti ambientalisti. Per non parlare del processo di sostituzione delle coltivazioni illegali a suon di glifosato e di assenza di alternative valide alla coca.

Cauca indigena, ottobre 2020

Le poche prospettive per la popolazione smobilitata e gli omicidi di ex guerriglieri e attivisti sociali, sono l’altro grande cruccio del bilancio a 5 anni dagli Accordi di Pace, poiché dimostrano che lo spazio per le nuove lotte sociali e l’esercizio delle attività politiche e pubbliche, continuano a costare vite umane. A ciò si aggiunge l’altissimo livello di impunità per chi commette questi crimini e chi li ordina, un fenomeno messo in relazione con la corruzione della classe politica e gli attacchi della destra uribista al sistema di giustizia transizionale (Jep) nato nel 2016.

La Colombia oggi

Oltre a Cali, epicentro del “Paro Nacional”, Buenaventura è destinazione obbligata e recipiente delle popolazioni sfollate di tutta la regione del Pacifico colombiano. Lo scorso agosto è occorso a 1600 persone della zona del “Litoral San Juan”, vittime dei bombardamenti dell’esercito colombiano contro l’Eln, mentre negli ultimi giorni è toccato ad altre centinaia di persone appartenenti alle comunità indigene e afrocolombiane dei “Fiumi di Buenaventura”. Una volta in città, la loro prospettiva è quella di cercare di sopravvivere in un modo o nell’altro nei quartieri popolari, alla mercé delle bande locali e di quel ciclo di violenza che sembra non finire mai.

Da qualche parte a Buenaventura si nasconde anche Santiago, giovanissimo coordinatore delle brigate mediche a Cali che durante i mesi del “Paro Nacional” offrivano i primi ausili ai manifestanti vittime della violenza della polizia. Come successo a molti altri, una volta ristabilitosi l’“ordine sociale” gli sono cominciate a piovere addosso minacce di morte da parte di gruppi non identificati; la pressione su di lui è cresciuta al punto tale che, credendosi perduto, ha voluto farla finita. Ma oggi è ancora vivo, nascosto e protetto da una piccola cerchia di persone di fiducia. Lo stesso, purtroppo, non si può dire di suo fratello: vittima della vendetta trasversale, 10 giorni fa è stato fatto sparire.

Vecchia copia della rivista “Semana” uscita prima che venisse cooptata nella galassia uribista, asservendosi al potere da posizioni di denuncia come queste.

La Colombia del post-Accordo fra Governo e Farc non ha raggiunto una reale fase postbellica; quest’ultima si è semplicemente adattata e rimodellata al presente, forse a causa di alcune debolezze strutturali come la non messa in questione del sistema economico e di “sicurezza nazionale”, oppure il fatto che a vederlo ora, l’accordo appare come un’intesa esclusiva fra le alte sfere di due mondi opposti che hanno commesso lo stesso errore: dimenticarsi delle loro basi.

A circa sei mesi dalle elezioni presidenziali di maggio 2022, è difficile immaginare quale sarà il destino della pace in Colombia.

Un cielo pieno di nubi (© – Red de Hermandad y Solidaridad con Colombia)

 

 

 

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I contorni geopolitici della crisi polacco-bielorussa https://ogzero.org/nuova-fase-di-squilibrio-in-europa/ Sun, 05 Dec 2021 15:40:59 +0000 https://ogzero.org/?p=5526 Mentre i media mainstream hanno già distolto lo sguardo dal confine polacco-bielorusso, i problemi aperti (che in buona parte sono ancora lì!) dall’ammassamento di migliaia di migranti provenienti da diverse regioni dell’Asia in cerca di approdo in Germania restano squadernati e rimandano alla nuova fase di squilibrio in Europa apertasi ai confini della Russia, prima […]

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Mentre i media mainstream hanno già distolto lo sguardo dal confine polacco-bielorusso, i problemi aperti (che in buona parte sono ancora lì!) dall’ammassamento di migliaia di migranti provenienti da diverse regioni dell’Asia in cerca di approdo in Germania restano squadernati e rimandano alla nuova fase di squilibrio in Europa apertasi ai confini della Russia, prima con la guerra nel Donbass nel 2014 e poi con le manifestazioni antiregime in Bielorussia nell’estate del 2020.


Il menu dei telegiornali russi di queste ultime settimane rappresentano, da questo punto di vista, l’altra faccia della propaganda polacca della “guerra ibrida” che sarebbe stata scatenata da Alexander Lukashenko (con il pieno sostegno di Putin) ai confini occidentali della Bielorussia.

I programmi d’informazione della Federazione, va da sé, continuano a battere quasi su un solo tasto: esiste un tentativo di aggressione e di isolamento della Russia che usa tutti gli strumenti di intimidazione. La portavoce del ministero degli Esteri russo Marya Zacharova, per sottolineare questo aspetto ha persino fatto un po’ di pubblicità a la Repubblica definendo una “deliziosa sciocchezza” un articolo di Maurizio Molinari intitolato senza troppe metafore Carri armati e migranti: la morsa di Putin sull’Europa. Secondo Zacharova, nel valutare la situazione al confine tra Russia e Ucraina, Molinari si concentra solo sulle “fobie americane” senza impegnarsi nel fact-checking. Non ci vuole un gran impegno per mettere in luce le rozzezze geopolitiche del direttore de la Repubblica e così la diplomatica russa ha spiegato che «non c’è nessuna base», non ci sono «basi militari in Russia», ma «c’è solo un dispiegamento di unità delle forze armate russe sul suo territorio nazionale», che «è strettamente il nostro diritto sovrano, non viola i requisiti degli obblighi internazionali e si riferisce, come piace dire alla Nato tra gli altri, alle “attività di routine”». D’altro canto, il governo russo, vestiti i panni improbabili dei difensori dei diritti dei  migranti e tolta dalla naftalina dell’era sovietica la retorica antimperialista ha “consigliato” la UE «di cercare le vere cause della crisi migratoria […] vecchie dichiarazioni dei leader della coalizione anti-irachena e anti-Libia, i capi di stato e di governo di quei paesi hanno stimolato la Primavera Araba e si sono impegnati  a destabilizzare per 20 anni l’Afghanistan».

Bruxelles e Varsavia: benzina sul fuoco

La Bielorussia, ormai legatasi mani e piedi alla Russia, ha forse cinicamente cercato – facendo atterrare a Minsk grazie a compagnie aeree bielorusse compiacenti migliaia di improbabili turisti afgani e iracheni come ha voluto sottolineare Igor Stankevich sul portale di “Open Democracy” – di buttare altra benzina sul fuoco dei già difficili rapporti tra Bruxelles e Varsavia ma l’operazione, alla fine dei conti, non sembra riuscita. Se la Bielorussia ha deliberatamente deciso di portare i rifugiati dal Medio Oriente in Europa per imporre di riaprire i cieli del Vecchio Continente alla Belavia (la compagnia aerea di stato bielorussa che sta subendo gigantesche perdite per le sanzioni), l’operazione è fallita.

Su questo terreno non c’era possibilità di trattativa o di scambio ed è strano che Lukashenko abbia potuto illudersi.

E come sempre… il North Stream 2 è centrale

Angela Merkel – ancora per ora cancelliera in attesa che si formi il nuovo gabinetto tedesco – ha tentato in tutti i modi di disinnescare la crisi dichiarandosi perfino disponibile ad assorbire, in diversi municipi tedeschi che si erano detti disponibili all’accoglienza, i migranti al confine bielorusso-polacco, ma è stata frenata non solo dal fronte dei paesi di Visegrad e baltici ma soprattutto dagli Usa. Le ragioni tedesche erano evidenti: si vuole ancora tentare di condurre in porto la messa in opera del gasdotto North Stream 2 aggiungendo qualche migliaio di rifugiati alle decine di migliaia che raggiungono il paese durante l’anno seguendo le più diverse rotte. Che la partita energetica possa essere motivo di scambio politico tra Mosca e Berlino lo ha da sempre chiaro il primo ministro polacco Mateusz Morawiecki. Non è un caso che quest’ultimo, bypassando Merkel, abbia fatto appello al possibile cancelliere della Germania, il leader dei socialdemocratici, Olaf Scholz. «Nord Stream 2 deve essere fermato», ha chiesto il premier polacco a Spd. I migranti puzzano sì, ma di gas: basterà rammentare che il regolatore tedesco ha sospeso la certificazione della Nord Stream in un quadro in cui i futures sul gas in Europa stanno continuando ad aumentare e hanno superato  più di una volta in novembre la soglia critica di 1200 dollari per 1000 metri cubi.

Una dinamica in cui la Bielorussia dopo la crisi politica interna del 2020 non può più giocare il ruolo che le piaceva di più: acquistare dalla Russia idrocarburi a prezzi sussidiati e rivenderli in Europa, Polonia e Ucraina tra le altre.

Fonte Agi

Il ruolo dell’Ucraina

Già l’Ucraina. Nella crisi polacco-bielorussa il suo ruolo sembra marginale (anche se forse parte dei migranti sembra essere giunto in Bielorussia via terra anche da lì) ma così non è.

Ben pochi osservatori internazionali hanno mostrato di voler intendere cosa sta succedendo di strategicamente importante nelle Repubbliche Popolari di Donetsk e Lugansk, ormai da 7 anni fuori dal controllo giurisdizionale di Kiev. Il presidente russo, lo scorso 17 novembre, ha firmato il decreto che gli abitanti delle due repubbliche autoproclamate dell’Ucraina orientale  aspettavano da diversi anni. La Russia ha aperto completamente i suoi mercati ai beni prodotti nel Donbass, il che la aiuterà a invertire il suo degrado economico e la fuga della popolazione verso la vicina Rostov sul Don. Si tratta di un evento storico perché si tratta del passo definitivo de facto di incorporazione delle Repubbliche “ribelli” alla Russia. Un de facto che viene discussa apertamente nei think-thank internazionali. Nikolaus von Twickel, per esempio, uno degli autori del libro Beyond the Frozen Conflicts. Scenarios of Separatist Conflicts in Eastern Europe, crede che il Donbass sia stato annesso dalla Russia nello stesso modo in cui sette anni fa fu annessa la Crimea. Von Twickel è anche l’autore di un rapporto che analizza gli eventi relativi al conflitto nell’Ucraina orientale nel 2020 e nel 2021 intitolato per l’appunto Verso l’annessione di fatto.

Donetsk e Lugansk: l’economia dei documenti

Nel 2017, la Russia aveva riconosciuto molti documenti emessi nelle repubbliche di Donetsk e di Lugansk, dalle carte d’identità ai diplomi scolastici dal 2019; è stato reso facilissimo ai residenti del Donbass acquisire la cittadinanza russa e quindi il passaporto, mantenendo formalmente quello ucraino. Ora, nel 2021, le imprese locali saranno uguali a quelle russe dal punto di vista giuridico. In primo luogo, saranno riconosciuti i certificati per i prodotti fabbricati nelle Repubbliche. In precedenza, questi certificati, presentati alla dogana e ad altre autorità della Federazione Russa, dovevano essere ucraini – ovvero del “paese d’origine” ufficiale. In secondo luogo, con poche eccezioni, le quote sulle esportazioni verso la Federazione Russa saranno abolite per le imprese di Donetsk e Lugansk. In terzo luogo, i produttori del Donbass saranno collegati al sistema di approvvigionamento statale, cioè uno dei clienti per loro sarà lo stesso stato russo. Difficilmente, come alcuni sognano, ci sarà uno sviluppo significativo dell’economia di quelle regioni (che continuano a essere legate alla produzione di carbone e di altri settori economici “decotti” per il mercato mondiale).

Tuttavia il significato politico è chiaro: si tratta di un addio alle trattative basate sui protocolli di Minsk e del Formato Normandia, nella cui adozione, guarda caso, proprio Lukashenko aveva giocato il ruolo di pacere tra “fratelli slavi” nel 2014.

Tamburi di guerra sulla frontiera ucraina

Lo stesso giorno il ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov con una mossa senza precedenti e violando il protocollo diplomatico ha pubblicato parte della corrispondenza recente tra diplomazie russe, tedesche e francesi a proposito delle trattative per giungere a un nuovo incontro per ottenere la pace in Ucraina orientale. Da cui emerge – in particolare dalle missive franco-tedesche ai russi – la volontà di non voler coinvolgere direttamente le repubbliche autoproclamate nella trattativa. Difficile dire cosa succederà a breve ma lo Stato maggiore ucraino sostenuto in particolare dalla Gran Bretagna e dagli Stati Uniti sta battendo da mesi i tamburi di guerra e innervosendo sempre di più la Russia. Il 22 novembre scorso il ministro della Difesa russo Sergey Shoigu ha denunciato che recentemente c’è stato un marcato aumento dell’attività dei bombardieri strategici dell’aeronautica statunitense vicino ai confini della Russia. Secondo il capo della Difesa russa, circa 30 sortite di aerei della Nato ai confini della Russia sono state registrate nell’ultimo mese, ovvero 2,5 volte di più rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso. Sarebbe questo aumento dell’attivismo della Nato ad aver spinto ad ammassare 90-100.000 soldati russi non lontano dalla frontiera ucraina: ormai un confronto armato nel Sudest Europa che coinvolga la Russia non è più fantascienza e in tale disgraziata ipotesi, è certo che la Bielorussia giocheerebbe un ruolo non marginale.

Immagini scattate il 9 novembre e pubblicate dal Center for Strategic and International Studies: mezzi e truppe russe in continuo aumento fuori dalla città russa di Yelnya.

La posta in gioco

In un editoriale in occasione di uno dei tanti anniversari della nascita della Russia imperiale (2 novembre 1721: incoronazione di Pietro I dopo la vittoria delle “Guerra del Nord”) su “Rossijskaja Gazeta”, Fyodr Lukyanov uno dei politologi oggi più vicini al presidente russo, ha sostenuto che

«la particolarità della Russia è quella di aver ricevuto uno shock molto recente per gli standard storici. In effetti, l’anniversario coincide quasi con un altro – il trentesimo anniversario della scomparsa dell’Urss – considerata da alcuni come l’ultima incarnazione veramente imperiale nella storia russa [si potrebbe discutere]. La freschezza del trauma della disintegrazione aggiunge amarezza e impulsività alla politica da un lato, ma dall’altro rende il paese e il popolo più resiliente di fronte ai nuovi shock inevitabili su scala globale, dato che l’intero quadro internazionale sta cambiando. E in questo senso, l’ultimo sopravvissuto ha più “anticorpi” per la prossima ondata di cataclismi».

La Russia sicuramente è uno dei paesi più coscienti della posta in gioco (la sua sopravvivenza in primis) e sta cercando disperatamente di prepararsi al futuro. Ma è una corsa contro il tempo in cui la forza di volontà putiniana ha solo un peso relativo.

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Rimangono pronipoti di schiavi deportati nel Nuovo Mondo? https://ogzero.org/rimangono-pronipoti-di-schiavi-deportati-in-latinamerica/ Fri, 03 Dec 2021 18:42:18 +0000 https://ogzero.org/?p=5497 Se per le popolazioni indigene parliamo di lotta per la sopravvivenza, nel caso delle comunità afrodiscendenti si aggiunge l’elemento di insorgenza e ribellione che ha caratterizzato il lungo cammino per la conquista del riconoscimento come esseri umani prima e come attori sociali e politici poi. La subordinazione e marginalizzazione dei discendenti delle masse di persone […]

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Se per le popolazioni indigene parliamo di lotta per la sopravvivenza, nel caso delle comunità afrodiscendenti si aggiunge l’elemento di insorgenza e ribellione che ha caratterizzato il lungo cammino per la conquista del riconoscimento come esseri umani prima e come attori sociali e politici poi.

La subordinazione e marginalizzazione dei discendenti delle masse di persone africane deportate durante lo schiavismo è rimasto sistema in tutti gli stati in America latina e Caraibi. In questo articolo il quadro di riferimento storico, geografico e culturale quando si parla di America latina e Caraibi comprende il gruppo di paesi considerato dalla Comunidad de Estados Latinoamericanos y Caribeños – Celac. I paesi membri della Celac sono 33: Antigua e Barbuda, Argentina, Bahamas, Barbados, Belize, Bolivia, Brasile, Colombia, Costa Rica, Cuba, Cile, Dominica, Ecuador, El Salvador, Grenada, Guatemala, Guyana, Haiti, Honduras, Giamaica, Messico, Nicaragua, Panama, Paraguay, Perù, Repubblica Dominicana, Saint Kitts e Nevis, Saint Vincent e Grenadine, Santa Lucia, Suriname, Trinidad e Tobago, Uruguay e Venezuela


«La popolazione afrodiscendente dell’America latina e dei Caraibi è composta principalmente da discendenti di popoli africani ridotti in schiavitù durante la tratta degli schiavi operata nella regione per quasi 400 anni. Sebbene si tratti di gruppi umani diversi, risultanti dal processo di schiavitù e dalla riproduzione delle disuguaglianze consolidate a partire dalla creazione dei nuovi stati della regione, le popolazioni afrodiscendenti latinoamericane soffrono senza distinzione il razzismo e la discriminazione strutturale. Nonostante il contesto avverso, gli afrodiscendenti hanno resistito e combattuto in modo permanente, riuscendo a posizionare le loro rivendicazioni storiche nelle agende internazionali, regionali e nazionali, principalmente nel secolo attuale. Uno dei corollari di questo processo è il Decennio Internazionale per gli afrodiscendenti istituito dalle Nazioni Unite per il periodo 2015-2024, basato su tre pilastri: riconoscimento, giustizia e sviluppo».

Cepal, 2017

Una persona su quattro in America Latina e nei Caraibi si riconosce come afrodiscendente ma, nonostante ciò, questo gruppo etnico è sicuramente la minoranza più invisibile della regione. Lo certifica tra gli altri, la Banca Mondiale, che in un report del 2018 contabilizza in 133 milioni gli appartenenti alla comunità afrodiscendente presenti nella regione latinoamericana. Sono il Brasile, il Venezuela, la Colombia, Cuba, il Messico e l’Ecuador a concentrare la maggior parte della popolazione afrodiscendente ma, anche in tutto il resto della regione, la presenza dei discendenti di coloro che furono portati in catene nel Nuovo Mondo, è parte dell’eredità storica e culturale nazionale.

Ascolta “People on the Move from Mesoamerica”.

 

Resistere per esistere

Anacaona è stata l’ultima Principessa dei Caraibi e resistente del popolo Taino. Morì nel 1503 a soli 29 anni, dopo una lunga lotta contro il dominio delle flotte spagnole che avevano saccheggiato e messo in schiavitù l’intera popolazione Taino. Condannata a morte, le fu proposto di aver salva la vita se si fosse offerta come concubina in un galeone spagnolo, Anacaona rifiutò e pertanto fu impiccata senza pietà.

Quella delle persone afrodiscendenti con l’America latina è una relazione carnale, costruita sui loro corpi – e con i loro corpi, templi di resistenza immolati alla causa della libertà. Se per le popolazioni indigene parliamo di lotta per la sopravvivenza, nel caso delle comunità afrodiscendenti si aggiunge l’elemento di insorgenza e ribellione che ha caratterizzato il lungo cammino per la conquista del riconoscimento come esseri umani prima e come attori sociali e politici poi.

La tratta degli schiavi in America Latina e nei Caraibi ebbe inizio per sopperire a un massacro perpetrato dai conquistadores nei confronti delle popolazioni indigene. I primi a soccombere di fronte al massivo sfruttamento dei nativi da parte dei nuovi arrivati furono i due popoli indigeni taino e caribe – da cui deriva il nome di Caraibi – e il loro destino si trova ben descritto nel volume di Sebastián Robiou Lamarche Taínos y caribes: Las culturas aborígenes antillanas (Editorial Punto y Coma, 2003). Le Antille spagnole, nome attribuito alle isole dell’arcipelago delle Antille facenti parte dell’impero spagnolo (dal 1492 al 1898) si trasformano fin da subito in una fonte di grande ricchezza per la Spagna e più tardi anche per altre potenze europee.

Durante tutto il periodo della colonia l’espansione capitalista guidata dalle politiche e dagli interessi delle metropoli del vecchio continente si è basata su una crescente e pressante richiesta di mano d’opera da sfruttare per le attività agricole, l’allevamento, i lavori di costruzione, di estrazione di risorse naturali e anche per le guerre. Come già riportato per il caso dei Taino e dei Caribe, la popolazione indigena fu falcidiata in pochi anni dagli incontri/scontri con i colonizzatori a causa della riduzione in schiavitù, dalle malattie importate dal Vecchio Continente e dalle guerre. Il collasso demografico conseguente a questa situazione portò le potenze europee a concentrare la loro attenzione sull’Africa, nello specifico sul Golfo di Guinea, conosciuto tra il XVII e XIX secolo come la Costa degli Schiavi.

Ile de Goré

Una simbolica porta sull’isola di Goré, da dove le imbarcazioni schiaviste salpavano verso il continente americano, trasportando nelle stive un carico di schiavi catturati come manodopera per i campi oltreatlantico (foto scattata nel 1998).

La struttura gerarchica, classista e razzista dell’epoca coloniale determinò fin da subito una posizione di estrema subordinazione della popolazione africana in America Latina e nei Caraibi, posizione assimilabile a quelle delle popolazioni indigene in termini di povertà materiale ed esclusione sociale e politica. Bisogna sottolineare che questa subordinazione non ha avuto termine con la liberazione delle persone afrodiscendenti dalla condizione di schiavi, ma estende la sua ombra fino ai giorni nostri e si manifesta attraverso il razzismo strutturale che relega queste comunità in una situazione di maggiore tasso di povertà, minor accesso all’educazione, minor accesso ai centri di salute, minore accesso al lavoro degno ed esclusione dagli spazi di decisione politica. A questo si aggiunge un elemento di negazione storica della presenza di persone afrodiscendenti nella regione e della loro partecipazione tanto nei processi di liberazione dal potere coloniale così come nello sviluppo sociale e culturale delle nazioni latinoamericane (Cepal, 2017).

Cosa identifica il termine afrodiscendente ?

«Lo studio della popolazione afrodiscendente presenta numerose sfide, a cominciare dalla mancanza di consenso su chi è e chi non è afrodiscendente, anche all’interno dei contesti nazionali. Il termine è stato adottato per la prima volta da organizzazioni regionali di discendenza afro all’inizio degli anni 2000. La parola descrive persone unite da un’ascendenza comune (ma che vivono in condizioni abbastanza dissimili), che vanno dalle comunità afroindigene, come i garífuna del Centro America, fino a enormi segmenti della società maggioritaria, come i pardos del Brasile. Negro, moreno, pardo, preto, zambo e creole, tra i tanti altri, sono termini molto più vicini alle nozioni di razza e relazioni razziali dei latinoamericani. Comunemente, queste categorie hanno stigmi e pregiudizi associati, come risultato di una lunga storia di discriminazione e razzismo. Nella maggior parte dei paesi, l’adozione del termine afrodiscendente è ancora parziale. In Venezuela, la maggioranza della popolazione morena (di razza mista) spesso rifiuta il termine e le sue implicazioni, mentre nella Repubblica Dominicana la maggioranza degli afrodiscendenti di razza mista preferisce identificarsi come indigeni».

(Banca Mondiale, 2018)

Le difficoltà per identificare, mappare e censire le persone di ascendenza africana nei paesi latinoamericani sono legate a doppio filo con la negazione della discriminazione razziale da parte degli stessi, oltre allo storico tentativo di rendere invisibile la pluralità etnica nella regione. Questa volontaria cecità sociale è figlia dell’opera di conseguimento dell’immagine europea di sviluppo e modernità, chimera vissuta dai governi liberali dell’Ottocento e dell’inizio del Novecento in America latina. In questo schema di emulazione politica e sociale, le popolazioni indigene e gli afrodiscendenti erano visti e interpretati come elementi di disturbo, di arretratezza e di un passato da “pulire” con un’opera di blanqueamiento – lo “sbiancamento razziale”, ovvero quella pratica sociale, politica ed economica utilizzata in molti paesi postcoloniali per raggiungere un supposto ideale di bianchezza. Il termine si origina in America latina e può essere considerato sia in senso simbolico che biologico. Simbolicamente, lo sbiancamento rappresenta un’ideologia nata dalle eredità del colonialismo europeo, descritto dalla teoria della colonialità del potere di Aníbal Quijano, che si rivolge al dominio bianco nelle gerarchie sociali. Biologicamente, lo sbiancamento è il processo realizzato sposando un individuo dalla pelle chiara per produrre una prole dalla pelle non più scura.

Per raggiungere questo scopo venne favorita, da numerosi paesi latinoamericani (basti citare il Venezuela come esempio esplicativo), una massiccia immigrazione di persone dall’Europa: regione vista come culla della civiltà, Mater culturae e fornitrice di intellettualità, creatività, professionalità e soprattutto di pelle bianca. Successivamente, durante il XX secolo e con l’affermazione di identità nazionali fluide e plurali, si diffuse in America Latina la falsa percezione di aver raggiunto una sorta di giustizia sociale multietnica. In quel contesto, l’identificazione di una parte della popolazione come afrodiscendente venne interpretata come un elemento di fomento al razzismo e di conseguenza nessun dato su questa popolazione appariva nelle statistiche latinoamericane. A testimonianza, la Banca Mondiale ci ricorda nel suo report che negli anni Sessanta del XX secolo, solo il Brasile e Cuba includevano delle variabili etniche nei loro censimenti.

È dunque con questa completa mancanza di conoscenza, un vero e proprio abisso statistico a livello demografico e socioeconomico, che i paesi della regione latinoamericana hanno iniziato il terzo millennio. La domanda di chi è o non è afrodiscendente è quindi relativamente nuova e ha acquisito notevole importanza con l’introduzione delle varianti “razziali” nei censimenti nazionali a partire dagli anni 2000. L’autodeterminazione come afrodiscendenti in America latina ha poi ricoperto un ruolo strategico a livello politico, economico e sociale con l’introduzione di un quadro normativo di protezione dei diritti di questa popolazione. In questo scenario, però, si è vista in alcuni casi una perversione legale che ha comportato una nuova forma di discriminazione:

«Con la creazione di quote per gli afrodiscendenti nel mercato del lavoro o nel sistema educativo, per esempio, le persone che sono state escluse nel passato per non essere sufficientemente bianche ora corrono il rischio di essere escluse per non essere sufficientemente nere» (Banca Mondiale, 2018)

Dove vivono le persone afrodiscendenti in America Latina e nei Caraibi

I dati raccolti dalla Banca Mondiale su un totale di 16 paesi della regione latinoamericana parlano di 133 milioni di persone afrodiscendenti, circa il 24% del totale della popolazione. Il Brasile è sicuramente il paese che da solo pesa in modo determinante sulla bilancia demografica, con una popolazione afrodiscendente nel 2015, stimata in 105 milioni di persone. Il Brasile insieme al Venezuela, concentrava all’epoca il 91% della popolazione afrodiscendente della regione e un altro 7% era distribuito tra Colombia, Cuba, Ecuador e Messico. Si evince dunque che le tre aree di concentrazione della popolazione oggetto di studio sono rappresentate dal Brasile, dai Caraibi e dalla costa dell’Oceano Pacifico. Si tratta di una forte eterogeneità determinata dai contesti paese, dalle zone geografiche di residenza e dalla presenza o meno all’interno delle statistiche e dei censimenti nazionali. Ciononostante, la maggior parte delle persone afrodiscendenti della regione condividono non solo le radici africane ma anche una lunga storia di migrazione forzata, oppressione, sfruttamento ed esclusione.

Sono donne, sono afrodiscendenti e stanno facendo la Storia

Ascolta “The importance of being afro”.

 

Il caso più emblematico di questa fine 2021 è sicuramente quello della Repubblica della Barbados, divenuta tale il 30 novembre 2021 con la definitiva separazione dalla corona britannica e l’ingresso nel Commonwealth come repubblica indipendente. A sancire questa transizione storica la nomina del primo presidente dell’isola caraibica, una donna afrodiscendente: Sandra Mason. Un avvenimento dalla enorme simbologia storica, politica, etnica e di rivalsa identitaria. Basti pensare che proprio in un altro territorio inglese caraibico (le Bermudas), vide la luce nel febbraio del 1831, un’opera letteraria unica e che fu determinante per l’abolizione della schiavitù. Si tratta di The history of Mary Prince, a west indian slave written by herselfes, la prima autobiografia scritta da una donna nera schiava originaria delle Bermudas e di nome Mary Prince. Il libro ebbe un impatto enorme non solo in Inghilterra e fu un elemento fondamentale per la promozione dell’abolizione della schiavitù nelle colonie britanniche avvenuta nel 1833 con lo Slavery Abolition Act.

Un documento considerato come un referente della letteratura nera africana delle colonie e che valse a Mary Prince il riconoscimento come una vera e propria eroina delle Bermudas. Il 26 ottobre 2007, per la ricorrenza del 200° anniversario dell’abolizione della tratta degli schiavi (Slave Trade Act del l807) , nella casa in cui Mary Prince visse a Londra nel 1829, venne scoperta una targa in suo onore. La targa recita: “Mary Prince, 1788-1833, la prima donna africana a pubblicare le sue memorie di schiavitù visse in questa casa nel 1829”.

Passato e presente che si intrecciano dunque, in un cammino dove la geografia della resistenza chiude circoli a distanza di generazioni, traccia linee leggibili solo se osserviamo da una certa distanza, a volte di secoli, il quadro originale.

Sandra Mason è però solo l’ultimo tassello di un movimento eterogeneo e trasversale, che vede le donne afrodiscendenti della regione giocare un ruolo centrale nella riscoperta, rivendicazione e posizionamento nelle agende nazionali e internazionali del peso identitario della loro comunità. Da diversi campi d’azione donne come Gessica Geneus,

La regista haitiana di Port-au-Prince ha fatto sentire a Cannes il valore della lingua creola con il suo film Freda, sul coraggio delle donne del suo paese. Film inserito anche nella sezione lungometraggi di finzione del Fespaco di Ouagadougou in Burkina Faso.

la cantante Rihanna; Robyn Rihanna Fenty, nata a Bridgetown, è stata dichiarata “eroina nazionale” di Barbados proprio il 30 novembre giorno della proclamazione della Repubblica delle Barbados per aver, secondo le parole della primo ministro Mia Mottley: “l’immaginazione nel mondo attraverso la ricerca dell’eccellenza con la sua creatività, la sua disciplina e, soprattutto, il suo straordinario impegno per la sua terra”.

 

 

 

la compianta Marielle Franco, Politica e attivista afrobrasiliana assassinata il 14 marzo 2018 da sgherri coperti da organismi della polizia.

 

Shirley Campbell Barr, la poetessa afrodiscente del Costa Rica, autrice della poesía “rotundamente negra”.

 

l’attivista per la difesa della natura e politica afrocolombiana Francia Elena Márquez Mina

gli ori olimpici di Tokyo 2020 Neisi Dajomes (Ecuador), Jasmine Camacho-Quinn (Porto Rico), Elaine Thompson-Herah (Giamaica), Yulimar Rojas (Venezuela), l’attivista e ballerina afrobrasiliana Tuany Nascimento tra le altre centinaia, continuano a costruire una narrazione alternativa che passa per un epistemologia nuova, inclusiva e sgombra della colonialità del potere.

La colonialità del potere è un concetto che mette in relazione le pratiche e le eredità del colonialismo europeo negli ordini sociali e nelle forme di conoscenza, avanzate negli studi postcoloniali, sulla decolonialità e negli studi subalterni latinoamericani, in particolare da Anibal Quijano. Identifica e descrive l’eredità vivente del colonialismo nelle società contemporanee sotto forma di discriminazione sociale che è sopravvissuta al colonialismo formale e si è integrata negli ordini sociali successivi. Il concetto identifica gli ordini gerarchici razziali, politici e sociali imposti dal colonialismo europeo in America Latina che prescriveva valore a determinati popoli/società mentre ne sminuiva o invisilibizzava altri.

 

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Geova: repressione organizzata, discriminazione e pugno di ferro https://ogzero.org/la-situazione-contraddittoria-dei-testimoni-di-geova/ Fri, 19 Nov 2021 10:56:47 +0000 https://ogzero.org/?p=5380 La situazione contraddittoria dei Testimoni di Geova tra persecuzioni, assurde accuse, repressione e resistenza nel mondo, in particolare nell’ex Urss, nella Federazione russa, in Bielorussia e nelle repubbliche separatiste, raccontata da Yurii Colombo qui e in un ampio capitolo del suo nuovo libro pubblicato da OGzero, La spada e lo scudo.  I Testimoni di Geova […]

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La situazione contraddittoria dei Testimoni di Geova tra persecuzioni, assurde accuse, repressione e resistenza nel mondo, in particolare nell’ex Urss, nella Federazione russa, in Bielorussia e nelle repubbliche separatiste, raccontata da Yurii Colombo qui e in un ampio capitolo del suo nuovo libro pubblicato da OGzero, La spada e lo scudo


I Testimoni di Geova sono  stati spesso al centro delle polemiche in tutto mondo. I loro metodi di proselitismo, la forte coesione interna dei credenti, le prescrizioni e i divieti (come per esempio alla trasfusione), il loro rifiuto ostinato di esercitare il servizio militare hanno spinto talvolta alcuni paesi autoritari se non apertamente dittatoriali a reprimere i suoi aderenti. È abbastanza nota la vicenda della repressione dei Testimoni nella Germania nazista. Nell’ormai classico studio di Detlef Garbe del Between Resistance and Martyrdom: Jehovah’s Witnesses in the Third Reich è stato raccontato nel dettaglio come fu che a partire dal 1935 oltre 10.000 Testimoni di Geova, per la maggior parte di nazionalità tedesca, venissero imprigionati nei campi di concentramento hitleriani. Divennero riconoscibili nei lager tedeschi con l’infame segno sulle casacche di un triangolo viola. In seguito a partire dal 1939 una parte di loro furono deportati in altri paesi del Centro Europa e si stima che circa 5000 credenti perirono nelle prigioni e nei campi nazisti.

I Testimoni nel mondo

Durante il conflitto i Testimoni subirono persecuzioni anche negli Stati Uniti d’America. Successivamente vennero attaccati e subirono una significativa riduzione dei propri diritti in paesi autoritari come la Cina e Cuba (fuorilegge dal 1° luglio 1974 ma la misura è stata successivamente annullata), o come il Sud Africa; ma anche da paesi che si professano campioni della democrazia e dei diritti umani come la Francia. Oggi sono decine ancora i paesi del mondo che vietano il culto della religione avventista, mentre in molti altri la loro attività è appena tollerata.

Il caso più tragico resta quello dell’Eritrea. Qui tutti i cittadini tra i 18 e i 50 anni sono tenuti per legge a servire nell’esercito per 18 mesi. A causa del loro rifiuto di servire sulla base del loro credo religioso, i Testimoni di Geova sono stati privati nel paese africano della cittadinanza, è stato negato l’accesso alle opportunità di lavoro e ai benefici governativi, e sono stati arbitrariamente imprigionati in cattive condizioni.

A novembre 2020, c’erano in Eritrea 52 Testimoni di Geova imprigionati per aver partecipato a riunioni o cerimonie religiose, alla predicazione e all’obiezione di coscienza al servizio militare. Alcuni di questi Testimoni sono stati imprigionati per più di 20 anni. Secondo i rapporti forniti dalla congregazione, quattro Testimoni di Geova sono morti in prigione e tre anziani sono morti poco dopo il loro rilascio, a causa delle cattive condizioni di detenzione e dei maltrattamenti da parte delle autorità carcerarie.

 

In Russia la situazione è appena migliore

La tragica epopea sotto lo stalinismo dei credenti in Geova in Urss e la reiterazione di misure repressive nei loro confronti a partire dal 2017 anche nella Federazione russa è già stata descritta in un capitolo del mio libro La spada e lo scudo pubblicato da OGzero.

Negli ultimi mesi la situazione è restata comunque complessa: sono 73 i seguaci di Geova a oggi in prigione, 31 quelli agli arresti domiciliari mentre i casi penali che li riguardano sono oltre mille.

E a fronte della determinazione dei “fratelli” di proseguire le loro attività di culto, sono frequentissimi le perquisizioni in case private.

Come abbiamo già sottolineato il divieto della pratica e dell’attività di proselitismo della “Torre di Guardia” in Russia non può essere ricondotto alla posizione di fatto preferenziale data alla Chiesa ortodossa, visto che la sproporzione tra le due religioni in termini di influenza culturale e disponibilità economiche è abissale e il culto della religione musulmana in repubbliche autonome come il Tatarstan è ampiamente tutelato. Si tratta piuttosto della convergenza di almeno tre fattori e rimandi.

Il primo è il rifiuto dei Testimoni a prestare il servizio militare.

In un paese in cui con l’esplosione della Guerra Fredda 2.0 il confronto con l’Occidente è tornato a essere un elemento fondante della narrazione propagandistica e dove il complesso militar-industriale resta uno dei pilastri dell’economia, l’esistenza di un settore – seppur minuscolo – della popolazione che ostinatamente si dichiara contro qualsiasi collaborazione quando si tratta di imbracciare le armi rappresenta potenzialmente un pericolo per la coesione sociale. Tanto è vero che i credenti vengono perseguitati formalmente non per l’attività di proselitismo quanto per “estremismo”.

Questo aspetto si collega al secondo: il timore o la percezione degli organi dell’intelligence russa che la fede in Geova sia in realtà un cavallo di Troia del governo americano per fomentare dissidenza e opposizione in Russia.

Negli anni Cinquanta del XX secolo la denuncia dei Testimoni negli Stati Uniti delle persecuzioni subite in Urss qua e là assunse i toni – secondo alcuni studiosi – della propaganda anticomunista e anche oggi il governo americano ha fatto da megafono spesso alle denunce dei Testimoni, alimentando fobie e sospetti. I Testimoni però, da parte loro, hanno sempre negato qualsiasi legame con la Casa Bianca o la Cia: «Siamo apolitici e non interferiamo negli affari interni di qualsiasi paese in cui facciamo opera di proselitismo», sostengono i vertici dell’organizzazione religiosa.

Il terzo aspetto è la compattezza solidaristica interna dei nuclei del Testimoni, un elemento in controtendenza in una società russa sempre più atomizzata.

Tuttavia un piccolo  spiraglio ultimamente sembra essersi aperto.

Si apre uno spiraglio contraddittorio

Il 28 ottobre 2021, il plenum della Corte Suprema della Federazione russa ha stabilito che i servizi divini dei Testimoni di Geova, i loro rituali e cerimonie congiunti non costituiscono di per sé un crimine ai sensi dell’art. 282.2 del Codice penale della Federazione Russa, nonostante la liquidazione delle loro persone giuridiche. Durante la riunione della sessione plenaria, il giudice relatore Elena Peisikova ha osservato che erano emersi nuovi chiarimenti in esecuzione delle istruzioni del presidente della Russia (segnali di apertura erano venuti da Putin  già nel 2018). Inoltre, durante la riunione della Plenaria, è stato osservato che i nuovi chiarimenti sono stati ripetutamente discussi nelle riunioni del gruppo di lavoro allargato con la partecipazione dell’Fsb (i servizi segreti russi). «Sembra – ha concluso il giudice relatore – che tale spiegazione consentirà di unificare la prassi esistente di applicazione dell’articolo 282.2 del Codice penale ed evitare casi di irragionevole perseguimento delle persone unicamente in relazione alla manifestazione esterna del loro atteggiamento nei confronti della religione». Un’apertura che va in controtendenza con il rigetto delle domande dei condannati della revisione dei processi e nelle colonie penali. Ultimamente le sentenze di 11 credenti condannati sono già state esaminate nei tribunali di Cassazione, ma la legislazione russa si riserva il diritto di presentare un secondo ricorso per Cassazione – alla Corte suprema della Federazione russa. La settantenne Valentina Baranovskaya inoltre, che, nonostante un ictus subito durante le indagini, si trova in una colonia, sta preparando un ricorso per cassazione alla Corte Suprema della Federazione russa, per poter essere liberata per motivi umanitari.

Valentina Baranovskaya, la Testimone di Geova che si appella alla liberazione per motivi umanitari.

 

Dennis Christensen, cittadino danese e membro dei Testimoni di Geova, colpevole di “organizzare l’attività di un’organizzazione estremista” in Russia che è stato condannato a sei anni di carcere. Christensen, pur detenendo il passaporto danese, risiede in Russia dal 1999. È stato arrestato a Oryol nel maggio 2017, un mese dopo che il gruppo religioso era stato bandito.

Fuorilegge nell’ex Urss…

Contraddittoria appare complessivamente la situazione dei Testimoni in tutta l’ex Urss. Se in Turkmenistan e Tagikistan i seguaci di Geova sono fuorilegge e rischiano sanzioni penali e amministrative, anche in Georgia la situazione resta delicata dopo che la Corte europea dei Diritti dell’Uomo aveva denunciato una decina di anni fa una strisciante discriminazione nei confronti dei Testimoni. Non appare brillante il quadro neppure in Ucraina malgrado questo paese abbia chiesto di entrare nell’Unione Europea e di voler rispettare i diritti umani. A Kryvyj Rih, nell’Ucraina orientale, dopo che le autorità avevano rifiutato di assegnare alla chiesa un terreno per costruire un tempio la Corte europea dei Diritti dell’Uomo ha ordinato a Kiev, nel  2019, di pagare un risarcimento alla chiesa dei Testimoni di Geova.

… e accusati di essere nazisti…

Di totale chiusura verso i Testimoni è invece l’atteggiamento dei separatisti delle Repubbliche popolari di Lugansk e di Donetsk accusata di «fornire assistenza all’Sbu (i servizi segreti ucraini N.d.R.) e ai gruppi neonazisti», come ha affermato Aleksandr Basov, uno dei responsabili della sicurezza di Lugansk. «Durante l’ispezione dei locali appartenenti all’organizzazione religiosa dei Testimoni di Geova nella città di Lugansk e nella città di Alchevsk, sono stati trovati e sequestrati materiali di propaganda contenenti simboli e attributi nazisti, così come volantini che invitano alla cooperazione con i servizi speciali ucraini», ha sottolineato Basov.

… ma liberi a Minsk

Di tutt’altro segno invece, paradossalmente, la situazione in Bielorussia. Malgrado il governo di Alexander Lukashenko resti sotto la lente d’ingrandimento delle istituzioni internazionali e dei diritti dell’uomo dopo la violenta repressione delle manifestazioni antiregime dell’estate del 2020, a Minsk e nelle altre città del piccolo paese slavo i cristiani avventisti svolgono le loro attività regolarmente, compresi i battesimi di massa negli stadi. Anzi, molti Testimoni russi, sono emigrati proprio in Bielorussia e godono della protezione del governo. Nell’aprile del 2020 il tribunale bielorusso ha rifiutato l’estradizione di un Testimone richiesta dalla polizia di San Pietroburgo che lo ricercava da tempo. E non si tratta di un’eccezione. A Brest e in altre città della Bielorussia molti russi credenti in Geova sono stati rilasciati dalla polizia dopo normali controlli e continuano la loro vita di ospiti-esuli del paese senza problemi particolari. Non si può prevedere quale sarà l’atteggiamento di Minsk nei confronti della piccola organizzazione religiosa nel futuro visti i legami politici oltre che economici sempre più stretti tra la Russia e la Bielorussia, ma a oggi l’atteggiamento delle autorità bielorusse resta quello della prudente apertura.

Pavel Yadlovsky, il presidente dell’organizzazione bielorussa dei Testimoni di Geova, attribuisce il rifiuto dell’estradizione al fatto che i Testimoni di Geova operano legalmente in Bielorussia. Sono registrati come un’organizzazione nazionale autogestita con 27 gruppi a livello di comunità in varie città. «È difficile dire [perché le richieste di estradizione sono state negate]. Forse ci sono differenze nella formulazione degli articoli sull’estremismo nella legislazione russa e bielorussa che hanno permesso all’ufficio del procuratore di prendere una tale decisione», suggerisce Yadlovsky.

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Variante turca nella recrudescenza dei bagliori della Guerra Fredda 2.0 https://ogzero.org/variante-turca-in-un-bagliore-di-guerra-fredda-2-0/ Tue, 26 Oct 2021 11:41:13 +0000 https://ogzero.org/?p=5237 Una rinnovata intensa attività dell’intelligence mondiale (con la variante turca) ha allarmato ultimamente gli esperti di spionaggio. In particolare decisioni di pubblico dominio, come il dimezzamento dei rappresentanti russi nell’ufficio di collaborazione tra Nato e Russia – indicati come agenti sotto copertura –, s’intrecciano con manovre più nascoste che preludono a un muscolare confronto militare […]

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Una rinnovata intensa attività dell’intelligence mondiale (con la variante turca) ha allarmato ultimamente gli esperti di spionaggio. In particolare decisioni di pubblico dominio, come il dimezzamento dei rappresentanti russi nell’ufficio di collaborazione tra Nato e Russia – indicati come agenti sotto copertura –, s’intrecciano con manovre più nascoste che preludono a un muscolare confronto militare e dunque a operazioni di spionaggio di cui i più raffinati analisti si stanno occupando per rilevare indiscrezioni e metterle in fila nel tentativo di restituire un quadro più chiaro dell’intricato mosaico che si va disegnando sullo scacchiere internazionale. Tutto ciò capita in occasione dell’uscita del primo volume frutto degli approfondimenti di OGzero, La spada e lo scudo, scritto per noi da Yurii Colombo per tentare di chiarire storia, modalità e tensioni interne ed esterne ai servizi segreti russi.

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Questo articolo va a illustrare il doppio binario su cui si trovano a lavorare i servizi russi: l’offensiva occidentale volta a ridimensionare l’influenza di Mosca sui paesi ai confini europei all’indomani del ritiro dall’Afghanistan sta producendo un piano di contenimento e difesa globale per l’area europea nel caso di attacco russo (il primo dopo la fine della Guerra Fredda). Contemporaneamente i servizi si trovano ad affrontare un rinnovato attivismo del controspionaggio turco che ha a sua volta operato arresti di agenti russi, che tradizionalmente stanziano a Istanbul con l’incarico di individuare ed eliminare i leader ceceni; arresti riconducibili all’epilogo della Guerra siriana con lo sgombero degli alleati turchi da Idlib, ma che collocano i servizi di Ankara in una posizione di battitore semilibero, in opposizione e collegato da accordi sia con l’Occidente (la Nato) sia con la Russia (Astana, non ancora messa in soffitta).


Tensioni tra apparati spionistici, preludio di confronti militari?

Lo scontro tra Russia e i paesi della Nato, con la recentissima sospensione delle reciproche rappresentanze a Mosca e Bruxelles è entrata in una nuova fase. Dal 1° novembre infatti la Federazione ha sospeso ufficialmente la sua rappresentanza presso la Nato e contemporaneamente ha posto sotto sfratto l’ufficio informazioni dell’Alleanza a Mosca. A partire da quella data – come ha ricordato il ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov – per i contatti con Mosca, la Nato dovrà rivolgersi all’ambasciatore russo in Belgio. La decisione del Cremlino è giunta come reazione alla decisione della Alleanza Atlantica di ridurre da 20 a 10 i membri della rappresentanza russa a Bruxelles, rendendo impossibile di fatto l’operatività dell’ufficio. La rappresentanza russa era già stata ridotta da 30 a 20 funzionari ai tempi del caso Skripal [il tema è stato sviluppato dall’estensore dell’articolo nel volume La spada e lo scudo]; otto dei dieci funzionari russi rispediti a casa, sarebbero una ritorsione per il presunto coinvolgimento del Gru (i Servizi russi militari per l’attività all’estero) in un attentato contro un deposito di munizioni nella Repubblica Ceca del 2014 [anche per questo episodio si trovano approfondimenti nel volume La spada e lo scudo] anche se il segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg ha sostenuto che «non esiste un motivo particolare per le espulsioni dei diplomatici russi», rimandandole semplicemente alla perdurante politica aggressiva russa in Europa.

«La politica della Nato nei confronti della Russia rimane coerente. Abbiamo rafforzato la nostra deterrenza e difesa in risposta alle azioni aggressive della Russia, mentre allo stesso tempo rimaniamo aperti per un dialogo significativo» ha dichiarato a Sky News un funzionario della Nato.

La ricostruzione di Bellingcat dell’attentato del 2014.

Il difficile equilibrio caucasico indispensabile per Mosca

Mosca, dal canto suo, si sente sempre più accerchiata e non si può dire che questa percezione possa essere semplicemente derubricata alla voce “vittimismo” (anche se il Cremlino ha dimostrato di soffrirne talvolta). Le vicende del recente passato, l’addio quasi definitivo della Moldavia dall’area d’influenza russa (il governo filoccidentale di Chişinău comunque è tornato dopo l’esplosione dei prezzi degli idrocarburi di quest’autunno a chiedere con il cappello in mano a Putin gas a prezzi calmierati), la faglia bielorussa e l’instabile alleanza con l’Armenia, impongono alla Russia la massima vigilanza.

Il portavoce presidenziale russo Dmitry Peskov ha affermato con nettezza che la decisione della Nato di espellere i diplomatici russi e le accuse di “attività ostili” hanno completamente minato le prospettive di normalizzazione delle relazioni e di ripresa del dialogo.

Il ministro della difesa russo Sergej Šoigu ha aggiunto – a muso duro – come «l’attuazione del piano di “contenimento” della Nato in Afghanistan è finito in un disastro, che tutto il mondo sta ora affrontando» e ha voluto ricordare a Berlino come andò a finire l’ultima volta che la Germania cercò di trovare uno “spazio vitale” a est.

«Sullo sfondo delle richieste di una deterrenza militare della Russia, la Nato sta costantemente sospingendo le proprie forze verso i nostri confini. Il ministro della difesa tedesco dovrebbe sapere molto bene come nel passato ciò si concluse per la Germania e l’Europa», ha sottolineato il ministro della difesa russo.

Quest’ultima dichiarazione è giunta dopo che il ministro della Difesa tedesco Annegret Kramp-Karrenbauer, il 21 ottobre, alla domanda se la Nato stesse contemplando scenari di dissuasione della Russia per le regioni del Baltico e del Mar Nero, anche nello spazio aereo con armi nucleari, ha risposto che dovrebbe essere reso molto chiaro alla Russia che anche i paesi occidentali sono pronti a usare tali mezzi. I media tedeschi hanno anche riferito che la Nato si starebbe preparando per un conflitto con la Russia. Il piano di difesa della alleanza occidentale avrebbe definito perimetri e parametri su come replicare a possibili attacchi dalla Russia e alla minaccia terroristica. Un tale piano – se confermato – rappresenterebbe una vera novità visto che tali ipotesi dopo il crollo del muro di Berlino erano stati messi in soffitta, ha fatto rilevare la “Suddeutsche Zeitung”. Del resto come sottolinea il portale russo “Vzglyad” già un mesetto prima, il 22 settembre 2021, i ministri della difesa della Nato avevano firmato un accordo per un fondo tecnologico militare da 1 miliardo di euro. Secondo la Nato questo piano di difesa rappresenta anche una risposta alla decisione di Mosca di mettere in cantiere la produzione di nuove armi nucleari a medio raggio e sviluppare nuovi sistemi d’arma. Le forze armate russe avrebbero persino recentemente testato i robot da combattimento nelle esercitazioni, lavorando all’uso dell’intelligenza artificiale in campo militare e sull’aggiornamento dei sistemi spaziali.

In questo quadro «I ministri della difesa della Nato a Bruxelles hanno adottato giovedì un nuovo piano di difesa globale per l’area europea e nordatlantica dell’alleanza. In esso l’alleanza occidentale definisce come risponderà a possibili attacchi dalla Russia, così come la minaccia del terrorismo in corso. È il primo piano globale di questo tipo dalla fine della Guerra Fredda: copre scenari che vanno da attacchi militari convenzionali e guerra ibrida ad attacchi informatici e disinformazione, così come combinazioni e attacchi simultanei, per esempio nelle regioni del Baltico e del Mar Nero», ha sostenuto Paul-Anton Krueger in un intervento su “RIA Novosti”.

Nave da ricognizione russa nel mar baltico (foto Adriana_R / Shutterstock).

Segnali di riposizionamenti geopolitici dietro il controspionaggio turco

A complicare lo scenario per la Russia, c’è l’attivismo sul piano del confronto spionistico della Turchia, sempre più battitore libero e sempre meno affidabile alleato della Nato. L’8 ottobre a Istanbul (ma la notizia è stata divulgata solo il 22 ottobre) sono state arrestate sei persone accusate di essere agenti dei servizi di intelligence russa. Si tratta di quattro cittadini russi – Abdulla Abdullayev, Ravshan Akhmedov, Beslan Rasaev e Aslanbek Abdulmuslimov – oltre a un cittadino ucraino, Igor Efrim, e un cittadino uzbeko, Amir Yusupov. Il gruppo è accusato di aver violato l’articolo 328 del codice penale turco (“spionaggio politico o militare”), e ora rischiano da 15 a 20 anni di prigionia. Secondo Giancarlo Elia Valori in un articolo pubblicato sul portale “Le Formiche”. L’offensiva ottomana nei confronti della Russia sarebbe da rimandare a un rinnovato asse tra Erdoğan e il consigliere per la sicurezza nazionale degli Emirati arabi uniti, Tahnun bin Zayed al-Nahyan. Secondo Valori, ci sarebbe «voglia di voltare pagina su otto anni di gelide relazioni, cristallizzate dal rovesciamento nel 2013 dell’egiziano Mohamed Morsi, un membro dei Fratelli Musulmani vicino alla Turchia e fermamente osteggiato dagli Emirati Arabi Uniti». In realtà, come rileva il giornale russo “Gazeta.ru”, oggi forse la voce più vicina al Cremlino, il nucleo di intelligence (che sarebbe stato trovato in possesso anche di armi e passaporti falsi) stava lavorando al fine di eliminare alcuni rappresentanti dell’“opposizione cecena” rifugiatisi in Turchia. Ricordiamo che già negli ultimi anni alcuni dei più noti oppositori al regime di Kadyrov a Grozny erano stati oggetti di misteriosi attentati in Germania e in Austria.

Ciò che sorprende in questa vicenda è che per ora il governo di Ankara non ha confermato la notizia e tutte le informazioni provengono dall’agenzia “Anadolu”, anche se il ministero degli esteri russo ha di fatto confermato gli arresti. Una fonte anonima di “Gazeta.ru” sostiene che al centro dell’operazione del controspionaggio turco ci sarebbe in realtà il tentativo della Russia, dopo le sconfitte micidiali degli armeni nei cieli durante la guerra con gli azeri dello scorso anno, di raccogliere informazioni dettagliate sui droni Bayraktar TB2, così come altri nuovi progetti riguardanti altri tipi di armi avanzate. Va ricordato però che questa crisi tra i due paesi non è un temporale scoppiato a ciel sereno. Come abbiamo già rilevato in altri nostri pezzi scritti per OGzero, dopo Astana i rapporti tra Russia e Turchia hanno continuato a volgere al brutto. All’inizio di ottobre, il capo della diplomazia turca Mevlüt Çavuşoğlu è intervenuto al Forum sulla sicurezza di Varsavia ribadendo necessità di sostenere l’Ucraina nel suo tentativo di entrare nella Nato. Inoltre, si è venuto a sapere in quell’occasione che i militari turchi starebbero addestrando i loro colleghi ucraini in tattiche di guerriglia urbana e secondo l’agenzia di stampa siriana “Sana”, ulteriori unità dell’esercito turco sono state spostate nella provincia siriana di Idlib e si parla insistentemente di una possibile operazione militare contro i paramilitari curdi a Tel Rifat.

I droniBayractar TB2

«A causa di ciò che sta accadendo a Idlib, Turchia e Russia stanno iniziando ad avere ulteriori attriti, ulteriori problemi». Questo è già successo in passato, ha commentato l’analista politico Yashar Niyazbayev: i rapporti dei media turchi «inizialmente suonavano – ha dichiarato – più come una gaffe informativa che come spiegazioni intelligibili in relazione alle spie russe».

La versione che l’arresto dei sei a Istanbul sia da rimandare a possibili omicidi politici contro ex oppositori ceceni è messa in discussione da Ivan Starodubtsev, un esperto di Turchia, autore del libro Russia-Turchia: 500 anni di vicinato tormentato il quale sul suo canale Telegram ha affermato: «deve essere innanzitutto una questione di possesso illegale di armi». Starodubtsev si dice convinto che la mafia cecena e, più in generale quella caucasica, opera attivamente a Istanbul da tempo immemore, e le “rese dei conti” criminali al loro interno sarebbero abbastanza frequenti. Del resto casi di morte di vari boss criminali caucasici per mano dei loro complici e concorrenti non sono rari a Istanbul. Si tratta di una tesi – da non escludere – che però è stata più volte usata dal Fsb ceceno per allontanare da sé accuse e sospetti.

In passato, al contrario, i servizi segreti turchi hanno ripetutamente collegato l’uccisione di ex comandanti di campo e militanti ceceni a Istanbul alle attività dei servizi di sicurezza russi che avrebbero “vendicato” la loro partecipazione a bande e attacchi terroristici dei primi anni Duemila, quando la guerriglia indipendentista raggiunse il suo apice.

Uno dei primi omicidi di più alto profilo ebbe luogo nel dicembre 2008, quando l’ex signore della guerra Islam Dzhanibekov fu ucciso sulla soglia della sua casa nel quartiere Ümraniye di Istanbul. Il killer in quel caso aveva usato una pistola con il silenziatore a doppia canna “Groza”. Nel 2009, l’ex signore della guerra Musa Asayev fu anch’egli ucciso a Istanbul. A quel tempo era noto per essere un rappresentante del terrorista Doku Umarov, coinvolto nella raccolta di denaro per i militanti del radicalismo musulmano.

Infine, nel 2011, tre membri della diaspora cecena, Berg-Khazh Musayev, Rustam Altemirov e Zaurbek Amriyev, erano stati associati al terrorista Doku Umarov e successivamente erano stati uccisi sempre a Istanbul. In Russia, però i tre erano a quell’epoca ricercati in quanto sospettati di aver organizzato un attacco terroristico all’aeroporto internazionale Domodedovo nel gennaio dello stesso anno.

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n. 14 – Oi Barbaroi, gli schiavi della rotta dell’Egeo https://ogzero.org/gli-schiavi-della-rotta-dellegeo/ Mon, 18 Oct 2021 11:29:13 +0000 https://ogzero.org/?p=5174 Il Mediterraneo orientale rappresenta un braccio di mare in cui si sedimentano conflitti, interessi, estrazioni e alleanze variabili che affondano nei secoli. Sulla omerica lotta tra Ellade e Anatolia si innesca il flusso migratorio che vede la Turchia snodo essenziale e uso strumentale del singolo migrante.  Fabiana Triburgo di nuovo qui ha l’occasione di delineare […]

L'articolo n. 14 – Oi Barbaroi, gli schiavi della rotta dell’Egeo proviene da OGzero.

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Il Mediterraneo orientale rappresenta un braccio di mare in cui si sedimentano conflitti, interessi, estrazioni e alleanze variabili che affondano nei secoli. Sulla omerica lotta tra Ellade e Anatolia si innesca il flusso migratorio che vede la Turchia snodo essenziale e uso strumentale del singolo migrante. 

Fabiana Triburgo di nuovo qui ha l’occasione di delineare gli errori strategici sostanziali dell’Unione, che sfociano in una vera e propria violazione dei diritti umani, questa volta s’evidenzia l’intolleranza delle frange razziste interne all’Unione europea, che in Grecia sono radicate ancora di più dopo la grave crisi che l’inflessibilità di alcuni paesi ha impoverito pesantemente, rinfocolando in parte della società una sorta di sovranismo revanchista che sfocia nel razzismo.


I principali conflitti che attualmente interessano le migrazioni forzate e le prassi di esternalizzazione poste in essere dall’Unione Europea e dai singoli stati membri portano a una predeterminazione delle rotte dei migranti.

Quello che oggi è inevitabile chiedersi è se il nuovo Patto europeo sulla Migrazione e l’Asilo, proposto dalla Commissione UE, possa essere realmente considerato una soluzione della gestione del fenomeno migratorio o se invece vi siano soluzioni legali alternative maggiormente lungimiranti e coraggiose.  


I profughi sono l’unica merce di scambio…

«La Grecia non sarà la porta d’Europa». Questa la dichiarazione del governo greco in merito alla crisi umanitaria afgana in seguito alla presa del potere da parte dei talebani ad agosto di quest’anno. La manifestazione di intenti dell’esecutivo greco certamente non sorprende, considerate le gravissime violazioni del diritto d’asilo, perpetrate da oltre cinque anni lungo la rotta dell’Egeo che rendono davvero difficile per i migranti immaginare la Grecia come un paese di destinazione, non a caso definito dalla presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen “scudo d’Europa”.

La Grecia più che un paese di destinazione è un paese di “sospensione” in primo luogo dei diritti

Attualmente nella rotta dell’Egeo sono bloccate oltre 6000 persone da diversi anni, 4000 delle quali nei centri di accoglienza. Ad ogni modo occorre ricordare che al momento la nazionalità afgana è quella maggiormente presente – circa il 63 % – all’interno dei campi stanziati nel territorio greco.

Profughi afgani

L’articolo di Elena Kaniadakis è apparso su “il manifesto” del 14 settembre 2021.

… soggetta a muri: gabbie per contenerli, frontiere naturali rese invalicabili

Le conseguenze di tale posizione politica non si sono fatte attendere: con prontezza il governo greco lo scorso agosto ha completato la costruzione di un muro di 40 chilometri al confine con la Turchia, in prossimità del confine terrestre di 200 chilometri tra i due paesi, lungo le rive del fiume Evros/Meric, ostacolando in tale modo qualunque accesso terrestre alla rotta balcanica.

A ciò si aggiunge il recente quanto allarmante fenomeno della creazione di 5 hotspot “di ultima generazione” in ciascuna delle isole greche posizionate nell’Egeo:

rispettivamente oltre a Samos, anche a Lesbo – il più grande “campo profughi” d’Europa: Moria – nonché a Levos, Chios e Kos, grazie agli ingenti finanziamenti dell’Unione europea – circa 250 milioni di euro – predisposti per il raggiungimento di tale obiettivo.

Restrizione

Tali politiche rimandano immediatamente alla restrizione geografica nelle isole greche che nel 2015 venne imposta ai migranti che volevano recarsi a chiedere asilo nella Grecia continentale. Ciò avvenne, come detto, in conseguenza dell’aumento del flusso migratorio dovuto prevalentemente allo scoppio della guerra in Siria e della perdurante instabilità in Afghanistan, in Iraq e in Pakistan.

gli schiavi della rotta dell'Egeo

Egeo, Turchia, gennaio 2016: migranti siriani cercano di raggiungere la Grecia per poi rifugiarsi in Centro Europa (foto di beforesunset/Shutterstock).

È proprio in tale contesto infatti che cominciò – seguendo i propositi dell’Agenda europea sulla migrazione in quell’anno – la creazione da parte della Commissione europea di centri di identificazione ed espulsione extraterritoriali rispetto al continente europeo, i cosiddetti hotspot appunto, con contestuale impossibilità per i migranti di presentare le domande d’asilo, pratica che sappiamo poi essere degenerata nel fenomeno – oggi sistematico – dell’esternalizzazione delle frontiere dell’Unione europea. Nei documenti identificativi dei migranti arrivati in Grecia comincia quindi ad apparire la dizione “Restrizione nell’isola di…”. La situazione oggi è ulteriormente peggiorata: con l’International Protection Act, adottato dalla Grecia e modificato più volte, dal 2021 non è più prevista la possibilità di revoca del provvedimento sulla restrizione geografica alle isole greche per quanti, secondo l’ordinamento giuridico greco, vengono considerati vulnerabili – in particolare i minori stranieri non accompagnati e le donne incinte – con la conseguente impossibilità a presentare la domanda d’asilo e a risiedere nella Grecia continentale.

La concessione della revoca della restrizione geografica al momento opera infatti soltanto nei confronti di chi non può ricevere cure mediche adeguate in una delle isole dell’Egeo e se tale condizione sia dimostrabile con una comprovata certificazione di un ospedale pubblico greco.

Detenzione

Il primo di questi “moderni” centri di accoglienza dei richiedenti asilo e dei rifugiati è stato inaugurato il 18 settembre scorso nell’isola di Samos, il cosiddetto campo di Zervos, finanziato dall’Ue con 38 milioni di euro: il centro possiede campi da basket, aria condizionata, cucina accessoriata, adeguati servizi igienici ma, al tempo stesso, si contraddistingue per essere dotato di telecamere di sicurezza, scanner a raggi x – utilizzati per identificare i migranti – tornelli in ingresso e in uscita con orari limitati, porte magnetiche. Non solo, il campo è costantemente pattugliato dagli agenti di polizia greca, circondato da un filo spinato disposto intorno a uno spazio di circa 12.000 chilometri quadrati, posizionato in una valle desolata dell’isola lontano dai centri abitati – proprio come il nuovo campo di Lipa in Bosnia – ma possiede al suo interno un centro detentivo – come se lo stesso campo non lo fosse già – nel quale dovranno rimanere i migranti che devono essere rimpatriati in Turchia in esito al rigetto della domanda d’asilo o perché questa è stata dichiarata inammissibile.

Respingimento

Rispetto alle domande d’asilo si precisa che in Grecia al momento esistono tre tipi di procedure: la procedura “regolare” che si svolge nel continente europeo, la faster border procedure ossia la procedura che si svolge sulle isole dell’Egeo, le procedure accelerate o di frontiera e quelle cosiddette “Dublino”. In particolare, la faster border procedure nelle isole dell’Egeo prevede due fasi: una riguardante il giudizio di ammissibilità, valutata sulla base della nozione di paese terzo sicuro e l’altra concernente l’esame nel merito dei motivi che hanno costretto il richiedente a lasciare il proprio paese di origine. Al riguardo occorre precisare che il 7 giugno di quest’anno,

la Grecia con una decisione ministeriale congiunta ha dichiarato che debba essere considerata la Turchia paese sicuro

per cinque nazionalità dei migranti transitanti lungo la rotta dell’Egeo ossia quella siriana, afgana, bengalese, somala e pakistana.

Turchia, paese sicuro

È chiaro dunque che nell’ambito delle politiche europee oggi ci si sta muovendo ancora sulla scia del già citato accordo Ue-Turchia del 2016, anche se a rigor di logica, ci si chiede come possa essere onestamente considerato sicuro – per un richiedente asilo appartenente alle succitate nazionalità – un paese che ha firmato la Convenzione di Ginevra in modo restrittivo, ossia accettando di riconoscere lo status di rifugiato soltanto ai cittadini provenienti dall’Unione europea. Questo tra l’altro è stato già riscontrato rispetto ai migranti siriani accolti dalla Turchia a partire dal 2015 e soprattutto dal 2016, in esito al succitato accordo, per cui oggi il paese d’ispirazione imperialistica neo-ottomana – attualmente il primo paese al mondo per accoglienza dei migranti – non concede neanche più la protezione temporanea a favore dei siriani ma li strumentalizza per soddisfare le proprie finalità securitarie e di accrescimento della propria sfera di influenza sul suo territorio, favorendo il loro insediamento in zone appartenenti al Kurdistan turco al fine di indebolire le rivendicazioni identitarie del popolo curdo.

I migranti inoltre, siriani e non, sono considerati dalla Turchia un mezzo di ricatto per l’ottenimento di ulteriori finanziamenti dell’Unione,

per cui dal 2020 la Turchia ha cominciato a opporsi ai trasferimenti formali dei migranti respinti dalla Grecia, con l’intento – poi soddisfatto – di ottenere un ulteriore finanziamento dall’Ue mentre chiaramente rimangono sul territorio turco i migranti che hanno fatto ingresso in esso, eludendo i controlli della polizia turca, a seguito dei respingimenti operati dalla Grecia.

gli schiavi della rotta dell'Egeo

Scontri tra migranti e polizia nella buffer zone sul cinfine Turchia-Grecia a Pazarkule, nel febbraio 2020 (foto 4.Murat/Shutterstock).

A tal fine dato di particolare rilievo è il crollo del numero degli sbarchi lungo la rotta – in conseguenza dei pushbacks collettivi ellenici – in cooperazione con Frontex, che da 50.000 nel 2019 sono diminuiti a poco più di 1000 nel 2021, dato questo che si aggiunge a quello della dichiarazione di inammissibilità da parte della Grecia di circa 4000 domande d’asilo.

Dublino, ovvero delle deportazioni

Questo proprio in ragione della considerazione della Turchia come paese sicuro – già prima della dichiarazione ministeriale del giugno scorso – nonché sulla base di argomentazioni concernenti l’erronea applicazione del regolamento di Dublino che ancora prevede, come criterio principale nell’individuazione dello stato competente a trattare la domanda d’asilo, quello del primo paese di ingresso nell’Unione europea.

Rispetto a ciò molti sono i rapporti inquietanti in merito alle modalità con le quali tali respingimenti sono effettuati, come le “deportazioni” notturne – documentate da Amnesty International, Human Rights Watch, da Oxfam e dal Greek Council for Refugees – da parte di uomini con i passamontagna che dai campi prelevano i migranti per introdurli in grossi Van neri e da lì su gommoni diretti in Turchia.

Prima di “deportarli” li denudano completamente per assicurarsi che non abbiano indosso alcun dispositivo – primo tra tutti il cellulare – in grado di filmare tali pratiche e in questa condizione disumana li abbandonano sul territorio turco.

A riguardo va segnalato che a settembre la Grecia ha dovuto sospendere – in conseguenza del ricorso di uno dei tanti migranti respinti nelle isole dell’Egeo che tentavano di accedere alla Grecia continentale – i provvedimenti di rimpatrio in ragione della disposizione di misure ad interim da parte della Corte di Strasburgo (Corte Edu) che, alla fine di agosto, ha ordinato alle autorità greche di garantire condizioni di vita e sanitarie adeguate a favore del ricorrente. Nello stesso provvedimento la Corte ha disposto altresì che la Grecia dovesse revocare la restrizione geografica nelle isole, nel caso di specie l’impedimento a lasciare l’isola di Lesbo attuato nei confronti del migrante parte del giudizio. Già nel 2020 tuttavia la Corte di Strasburgo aveva riconosciuto la necessità di misure ad interim in grado di assicurare migliori condizioni di vita e assistenza sanitaria in seguito alla denuncia presentata da tredici migranti in condizione di vulnerabilità, rappresentati in giudizio dal Legal Centre di Lesvos.

Sottrazioni di servizi e mercato delle adozioni

Va ricordato che i numerosi minori presenti nei campi posizionati sul territorio greco non frequentano la scuola nonostante gli ingenti finanziamenti elargiti dall’Ue al paese ellenico per l’istruzione, di cui 7,5 milioni di euro specificatamente destinati ai bambini rifugiati, per loro inoltre era stato previsto nel 2019 un piano di ricollocamento all’interno dei paesi dell’Unione su base volontaria e per quote: triste dire che nel 2020 esigue sono state le domande accolte dagli stati membri che oltretutto con criteri discrezionali hanno deciso, come in un mercato, di porre dei criteri per l’ingresso come per esempio quello della nazionalità (solo bambini siriani) o dell’età (solo bambini al di sotto dei 12 anni).

Strumentalizzazione di giuste rivolte e devastazioni dell’inferno

Del tutto vana, retorica quanto inutile la dichiarazione pronunciata della commissaria Ue per gli affari interni Ylva Johansson, all’indomani dell’incendio sull’isola di Lesbo: «Mai più Moria». E falsa, considerato che sulle macerie di quel campo si è costruita un’altra tendopoli, costituita da circa 200 tende – il cosiddetto campo “New Kara Tepe” o “Moira 2.0”. A ciò si aggiunga che nessuna responsabilità è stata individuata rispetto alle autorità che erano a capo della gestione del campo – strutturato per accogliere 3000 persone – e che, invece, al momento del rogo, ne accoglieva circa 13.000 in condizioni disumane. Come noto, l’incendio è scoppiato dopo l’individuazione dei primi casi di Covid all’interno del campo con la conseguente assurda decisione di chiuderlo per quattordici giorni invece di mettere in isolamento i pochissimi migranti risultati positivi al virus. Diversa e paradossale inoltre la sorte dei sei afgani, quattro dei quali minori all’epoca dei fatti, ritenuti gli autori dell’innesco che, sottoposti al giudizio in conseguenza della testimonianza di un altro migrante – invero dubbia – sono stati condannati alla pena di 10 anni di reclusione senza avere nessuna possibilità di una vera difesa nel processo.

Marginalizzazione

È chiara dunque la volontà anche dell’esecutivo greco di centrodestra, guidato da Kyriakos Mitsotakis, di rendere invisibili i migranti, “deportandoli” all’interno di ghetti fuori dai centri abitati o dai poli turistici, chiudendo numerosi campi nella Grecia continentale e trasferendoli in lande desolate seppur in campi iperinnovativi.

Tuttavia, si può realmente scambiare con aria condizionata e campi da basket il rispetto dei propri diritti, in particolare l’accesso alla procedura d’asilo, o addirittura godere della libertà personale?

Rivalità locale secolare sfruttata da potenze globali con vittime delocalizzate

Rispetto alle dinamiche geopolitiche che, nella rotta interessano particolarmente i rapporti tra Grecia e Turchia, la questione migratoria e la strumentalizzazione dei migranti con l’Unione che l’agevola, nasconde il gioco di forza tra i due paesi da anni in contrapposizione tra loro per la rivendicazione della supremazia proprio rispetto alle acque dell’Egeo e alle isole che insistono su quel territorio marittimo, nelle quali attualmente sono residenti un elevato numero di migranti. Uscita sconfitta la Grecia dalla guerra del 1919-1922, con il Trattato di Losanna del 1923 si stabilì il ritorno forzato di circa un milione di greci, ellenofoni e turcofoni dal territorio turco – in particolare dalle coste dell’Anatolia – in quello greco. La Grecia riuscì comunque a occupare alcune isole posizionate strategicamente nell’Egeo, anche se prossime alla penisola anatolica, poiché nel corso del conflitto (grazie al sostegno britannico) si sancì di fatto l’interdizione turca ai mari. Infatti le Zone economiche esclusive turche sarebbero scandalosamente ridotte, se l’attività muscolare di Ankara e gli accordi strategici non cercassero di uscire da questo cul de sac volto a contenere l’ambizione ad affrontare il mare aperto di Erdoğan.

Elaborazione Ispi.

Mediterraneo orientale, ma anche l’incursione turca nel mare occidentale

La Grecia oggi come ieri rappresenta infatti – soprattutto per Stati Uniti e Francia – una delle principali risorse geografiche per contrastare la proiezione geopolitica espansionistica turca di Erdoğan, non solo nell’Egeo ma anche nel mar Mediterraneo tenuto conto anche delle postazioni turche in Algeria, Tunisia e in Libia. In particolare, rispetto a quest’ultima vale la pena ricordare l’accordo turco-tripolino, stipulato il 27 novembre del 2019 che si basa sull’irrilevanza del concetto della piattaforma continentale delle isole dell’Egeo come Creta e Rodi, sostenuto invece non solo chiaramente dalla Grecia ma dall’intera comunità internazionale, con la sottoscrizione della Convenzione di Montego Bay del 1982 che definì per la prima volta i criteri con cui spartire le acque tra i due paesi. La Turchia non ha mai ratificato tale convenzione che, se venisse applicata, restringerebbe il suo raggio di azione nei mari dalle 12 miglia alle 6 miglia nautiche occludendo il passaggio delle proprie navi militari dai Dardanelli fino al Mediterraneo orientale. L’accordo con Tripoli, invece sebbene non riconosciuto a livello internazionale consente potenzialmente alla Turchia di rivendicare due tratti di mare amplissimi, non solo nell’Egeo ma anche in parte del Mediterraneo. In reazione a tale accordo la Grecia ha recentemente stipulato due successivi accordi: uno con il governo italiano nel giugno del 2020 e l’altro ad agosto dello stesso anno con l’Egitto.

È facile dunque constatare come la Turchia sia giunta ad avere un controllo dei flussi migratori non solo verso la rotta dell’Egeo, ma anche verso quella balcanica e ora anche verso quella del Mediterraneo che verrà di seguito analizzata.

A sostegno di ciò si sottolinea che l’accordo Ue-Turchia, stipulato nel marzo del 2016, era stato concluso nel prevalente interesse della Germania. Questo sia perché i siriani in fuga nel 2015 erano diretti in primo luogo verso l’Europa centrale, sia poiché da sempre vi è un asse turco-tedesco, essendo la Turchia il primo partner commerciale della Germania che a sua volta ospita una rilevante comunità turca titolare spesso ancora del diritto di voto in Turchia. A giugno del 2021 tuttavia, al vertice con il quale si è dichiarata la volontà di rinnovare per la seconda volta tale accordo, l’ex cancelliera tedesca era affiancata dal presidente del consiglio italiano. Ciò dimostra che ormai il succitato accordo, rinsaldato con un ulteriore bonifico di 3 miliardi di euro, presi dai fondi dalla Cooperazione allo sviluppo dell’Unione, è divenuto la base sulla quale proiettare la politica europea nella gestione dei flussi migratori nelle diverse rotte, con un’evidente incoerenza: da una parte vi è l’intenzione dei paesi dell’Ue – come di altre potenze internazionali quali gli Stati Uniti – di bloccare qualsiasi espansionismo turco a livello geopolitico, dall’altra è sufficiente che la Turchia alzi la voce per chiedere altri finanziamenti volti al contenimento dei migranti e con lo scopo di far obbedire prontamente i leader europei, mettendo da parte le preoccupazioni sull’ambiziosa avanzata della Turchia nelle acque che lambiscono le coste di alcuni paesi dell’Unione. Ci si chiede pertanto, se l’ingresso e l’integrazione dei migranti nel territorio dell’Unione, applicando semplicemente la normativa europea già esistente, sia un pericolo così grave da consentire di porre a rischio la vita di migliaia di persone e, se si vuole parlare in termini di Realpolitik, da permettere a chi è stato definito un “dittatore” il margine per continuare il proprio espansionismo internazionale anche in ambito militare.

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Cronaca di una relazione annunciata: il Turkmenistan guarda con interesse ai Taliban https://ogzero.org/turkmenistan-e-taliban-interessi-e-attrazione-fatale/ Mon, 04 Oct 2021 22:59:24 +0000 https://ogzero.org/?p=5084 Continuiamo a tentare di comprendere come potrà evolvere la situazione nell’area centrasiatica, nonostante il lento oblio in cui sta sprofondando l’incubo afgano: da un lato ospitiamo corrispondenze di un giovane rifugiato ancora intrappolato a Kabul, che descrive la condizione vieppiù precaria dell’esistenza kabulina (soprattutto per le donne e gli hazara); dall’altro interpellando esperti, studiosi, analisti […]

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Continuiamo a tentare di comprendere come potrà evolvere la situazione nell’area centrasiatica, nonostante il lento oblio in cui sta sprofondando l’incubo afgano: da un lato ospitiamo corrispondenze di un giovane rifugiato ancora intrappolato a Kabul, che descrive la condizione vieppiù precaria dell’esistenza kabulina (soprattutto per le donne e gli hazara); dall’altro interpellando esperti, studiosi, analisti a cominciare da chi studia e frequenta da molto tempo la politica, cultura, storia e governance dei paesi limitrofi. Dopo il Pakistan di Beniamino Natale e Eric Salerno, il paese confinante con l’Afghanistan di cui si conosce in misura molto limitata la politica e il posizionamento nei confronti dei Taliban è il Turkmenistan. E scopriamo nelle parole di Luca Anceschi una predisposizione del regime di Ashgabat a farsi irretire da interessi cleptoautoritari comuni ai due regimi diversamente islamici.   


Alla geografia non si comanda. Mentre le truppe statunitensi si preparavano a lasciare definitivamente l’Afghanistan, le cancellerie dell’Asia Centrale seguivano l’inesorabile ascesa delle truppe affiliate al movimento dei Taliban con trepidante attesa. Una larghissima porzione di territorio afgano è incuneata nella regione centroasiatica: una linea di poco superiore agli 800 chilometri, spesso combaciante con lunghi tratti fluviali (Tedzhen, Kushk, Murghab, Amu Darya), traccia il confine con il Turkmenistan, il più isolato e autoritario tra gli stati subentrati all’Unione Sovietica. Nonostante le conclamate tendenze isolazioniste del regime turkmeno, ciò che accade a Kabul non può quindi non esser notato da chi governa ad Ashgabat.

Asia Centrale: gli “stan” in ordine sparso

La rapida assuefazione di Ashgabat

Mentre in Occidente si infervora il dibattito sull’opportunità di riconoscere il regime instauratosi alla guida dell’Emirato Islamico d’Afghanistan, il Turkmenistan – al pari degli altri stati centroasiatici – si è dovuto rapidamente adattare al nuovo, impresentabile vicino. D’altronde, il regime di Ashgabat non ha mai rinunciato a mantenere rapporti di buon vicinato con i Taliban: negli anni Novanta, i luogotenenti dell’allora presidente Saparmurat Niyazov sembravano non aver nessun problema nel farsi ritrarre in compagnia di esponenti Taliban della prima ora, tessendo una fittissima rete di relazioni economiche per lo più informali, spesso legate al narcotraffico, che si accompagnavano a patti (più o meno stabili) di non aggressione. La musica non è cambiata neanche nella turbolenta estate appena conclusasi: ancor prima della presa di Kabul e la frettolosa fuga di Ashraf Ghani, emissari del governo turkmeno già si incontravano con i governatori messi dai Taliban a capo delle regioni di Balkh ed Herat. Negli ultimi mesi, l’ambasciata turkmena a Kabul e il consolato a Mazar-i Sharif non hanno praticamente mai smesso di espletare le proprie funzioni, arrivando addirittura a godere della protezione di guerriglieri Taliban appostatisi all’ingresso delle due sedi diplomatiche.

Attrazione fatale

Pur avendo concesso il proprio spazio aereo al transito degli aeromobili impegnati nell’evacuazione di truppe occidentali e profughi afgani, il Turkmenistan ha evitato in ogni modo possibile di accogliere sul proprio territorio i rifugiati provenienti dall’Afghanistan, rinunciando finanche al rimpatrio della comunità etnica turkmena presente in Afghanistan. Alla preoccupazione con cui il presidente Gurbanguly Berdimuhamedov guardava alla questione afgana nella primavera scorsa, quando il governo turkmeno aveva iniziato una massiccia mobilitazione di truppe nelle zone confinanti con l’Afghanistan, si è dunque sostituito un tacito ma evidente opportunismo. Nonostante il Turkmenistan non abbia ancora riconosciuto ufficialmente l’Emirato Islamico di stanza a Kabul, la dissonanza tra l’atteggiamento di apertura di Ashgabat e le politiche occidentali che tassativamente evitano contatti ufficiali con i Taliban rimane evidentissima. Al contempo, i buoni rapporti tra il Turkmenistan e il regime di Kabul devono esser visti come un’importante eccezione alla regola centroasiatica, una regione in cui gli altri stati limitrofi si sono rivolti ai nuovi padroni dell’Afghanistan con una malcelata ambivalenza (Uzbekistan) o sfoggiando un’aperta ostilità (Tagikistan).

Matrimonio di convenienza autoritaria con il vicino Emirato

Consolidamento della cleptocrazia assoluta

È la ricerca di una spesso effimera stabilità autoritaria che, a mio modo di vedere, continua a indirizzare le strategie di lungo raggio tramite cui il Turkmenistan intende correlarsi con i Taliban. Per un regime ossessionato dal potere assoluto come quello guidato da Berdimuhamedov, i rapporti di vicinato sono semplici veicoli di consolidamento autoritario. In quest’ottica l’Afghanistan diventa un interlocutore primario per la costruzione di rapporti economici più o meno leciti che hanno tuttavia un fine meramente cleptocratico: arricchire il regime turkmeno consentendo al presidente e ai suoi alleati più importanti la gestione di ingenti capitali per scopi prettamente personali. L’Afghanistan rimane indispensabile per lo sviluppo del commercio con il subcontinente indiano, un’area a cui il Turkmenistan guarda con un solo, grande obiettivo in mente: la commercializzazione delle proprie riserve di gas naturale.

Tapi: un gasdotto virtuale

Turkmenistan-Afghanistan-Pakistan-India (TAPI) pipeline project proposed map [9].

L’Afghanistan come hub energetico emergente nella regione (2 ottobre 2021).

Il gasdotto Tapi [Turkmenistan-Afghanistan-Pakistan-India] è, nella fattispecie, il progetto che dovrebbe concretizzare le ambizioni turkmene di esportare ingenti quantità di gas naturale nei mercati del subcontinente. Sono quasi 30 anni che si parla, spesso a sproposito, di Tapi: sponsorizzato inizialmente dagli Stati Uniti e, in un secondo momento, da importanti istituzioni finanziarie tra cui l’Asian Development Bank, questo gasdotto è finora rimasto un castello in aria e, a mio modo di vedere, resterà tale nonostante il ritorno dei Taliban al potere. L’interesse per il progetto in questione è sicuramente elevatissimo ma la comunità internazionale continua a guardare alle dinamiche progettuali da una prospettiva essenzialmente distorta. Negli ultimi decenni, i lavori di costruzione sono rimasti bloccati allo stadio iniziale, non per la profonda instabilità afgana, come molti hanno frettolosamente concluso e ripetutamente suggerito, bensì a causa dell’ostinazione turkmena a finanziare internamente il progetto senza ricorrere a fondi erogati da compagnie petrolifere estere. La motivazione per tale ostinazione è legata alla logica di controllo totale su cui il regime di Ashgabat ha finora modellato le proprie politiche energetiche: mentre importanti sinergie con compagnie del Golfo hanno contribuito a sviluppare il settore turkmeno del Caspio, l’accesso di investimenti stranieri alle riserve onshore è a tutt’oggi limitato a una sola joint-venture conclusa con Cnpc verso la fine degli anni Duemila. È impensabile che un progetto i cui profitti sono avvolti da un alone di mistero possa arrivare ad attrarre gli importanti capitali internazionali di cui necessita: anche se i prezzi del gas naturale sono destinati a rimanere alti nel medio periodo, e nonostante l’interesse dei Taliban a garantire la sicurezza del settore afgano del gasdotto, Tapi rimane un progetto di difficilissima realizzazione.

Infrastrutture: mobilità e reti energetiche

Su quali orizzonti potrà dunque espandersi la cooperazione commerciale tra il Turkmenistan e l’Emirato Islamico d’Afghanistan? Considerando che l’economia turkmena è formata da un vastissimo settore energetico e poc’altro, le opzioni a disposizione del regime di Ashgabat sembrano essere piuttosto limitate. Garantendo una certa stabilità interna, l’avvento dei Taliban potrebbe offrire un contesto favorevole alla realizzazione di progetti a partecipazione turkmena la cui vocazione rimane incentrata sulla connettività (autostrade e ferrovie), facilitando anche l’integrazione della rete elettrificata tramite cui il Turkmenistan intende esportare annualmente una media di 500-kilovolt verso l’Afghanistan. Al contempo i rapporti di buon vicinato offrono un ottimo contesto per il contrabbando e il narcotraffico, rendendo il confine turkmeno/afgano terreno fertile per la conduzione di attività essenzialmente illecite.

Utilitarismo diversamente islamico

È dunque un matrimonio di convenienza autoritaria quello che si andrà realizzando tra il regime di Ashgabat e quello di Kabul. I religiosissimi Taliban sono pronti a chiudere un occhio davanti alle politiche antireligiose portate avanti da Berdimuhamedov, che vede l’Islam come una fonte di legittimità interna e continua in tal senso a reprimere fonti indipendenti di attivismo islamico. Il regime turkmeno, dal canto suo, è pronto a mettere da parte ogni riserbo sul ruolo potenzialmente dirompente che l’avvento dei Taliban potrà recitare sulla scena regionale al fine di garantirsi sbocchi commerciali verso nuovi mercati. Quest’alleanza tra improbabili partner conferma una volta per tutte che l’integrazione tra Asia Centrale e Asia Meridionale si costituirà non su infrastrutture e connettività, come auspicato dalle potenze occidentali, ma rimarrà fermamente incentrata sugli interessi prettamente autoritari espressi dai regimi locali.

Monumento nel Parco dell’Indipendenza ad Ashgabat.

 

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n. 13 – Rotta balcanica: il Game, simbolo del fallimento europeo https://ogzero.org/il-fallimento-delle-politiche-migratorie-la-rotta-balcanica/ Thu, 16 Sep 2021 09:45:18 +0000 https://ogzero.org/?p=4908 Se esiste una rotta migratoria che simboleggia il fallimento delle politiche migratorie europee è quella balcanica, un percorso che cambia direttrici adeguando il passo, la resistenza al clima, alla fame e alle malattie, al disastro umanitario del momento. Il Game (non a caso il termine significa in italiano anche “cacciagione”) è ormai un gioco violento, […]

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Se esiste una rotta migratoria che simboleggia il fallimento delle politiche migratorie europee è quella balcanica, un percorso che cambia direttrici adeguando il passo, la resistenza al clima, alla fame e alle malattie, al disastro umanitario del momento. Il Game (non a caso il termine significa in italiano anche “cacciagione”) è ormai un gioco violento, perpetrato dalla fortezza Europa che i migranti tentano di vincere valicando muri, superando respingimenti illeciti, subendo accordi disumani tra paesi non sicuri e tornando e ritornando sui loro passi per anni.

Fabiana Triburgo qui delinea gli errori strategici sostanziali dell’Unione, che sfociano in una vera e propria violazione dei diritti umani.


I principali conflitti che attualmente interessano le migrazioni forzate e le prassi di esternalizzazione poste in essere dall’Unione Europea e dai singoli stati membri portano a una predeterminazione delle rotte dei migranti.

Quello che oggi è inevitabile chiedersi è se il nuovo Patto europeo sulla Migrazione e l’Asilo, proposto dalla Commissione UE, possa essere realmente considerato una soluzione della gestione del fenomeno migratorio o se invece vi siano soluzioni legali alternative maggiormente lungimiranti e coraggiose.  


Il transito dei migranti lungo la cosiddetta rotta balcanica non è certo semplicemente un fenomeno relativo alla mobilità umana che riguarda una specifica area geopolitica ma l’espressione di una politica migratoria che, al di là degli orientamenti, non può essere ignorata poiché gravissima è la violazione dei diritti umani perpetrati sulla stessa. È necessario prendere coscienza di quanto sta avvenendo e di quanto è accaduto perché l’omertà e la volontà di confinare e segregare per non rendere visibili i migranti non potrà mai essere una soluzione autentica e sicuramente non rende giustizia ai tanti individui che migrano da un paese all’altro della rotta –  europeo o non – e che, nelle migliori delle ipotesi una volta respinti, vengono derubati, picchiati, umiliati, derisi.

Ciò avviene contrariamente a qualsiasi disposizione normativa in materia sia essa nazionale, sovranazionale, internazionale. La strategia di rendere i migranti folli attraverso il Game –  così viene denominato questo orrendo e assurdo gioco –  respingendoli sistematicamente da un paese all’altro lungo la rotta, costringendoli a ripartire dopo i respingimenti dal “punto zero”, venti, trenta, cinquanta volte continua tuttavia spesso a non funzionare: grande la soddisfazione e l’ammirazione di chi scrive nel momento in cui alcuni di questi individui comunque riescono ad entrare in Europa, non per l’impiego di reinsediamenti dai paesi terzi a paesi dell’Unione, ma grazie solo alle loro forze.

Nessuna politica illogica, assurda, strategicamente programmata e attuata da chi è in una posizione di potere può contrastare la forza umana di chi lotta perché non ha alternative. E fintanto che vi è qualcuno che lotta il minimo è che ci sia qualcuno che scriva con profondo rispetto.

Vecchia rotta, nuova rotta

Iniziamo pertanto a dare alcuni riferimenti temporali rispetto alla mobilità dei migranti in tale area che non è una recente emergenza umanitaria riguardante i cosiddetti Balcani occidentali a meno che non la si consideri volutamente indotta. Il primo passo per accostarsi alla comprensione del fenomeno richiede “un salto” all’indietro di almeno cinque-sei anni. Con rotta balcanica si intende invero quel percorso che i migranti compiono passando attraverso il Nord della Grecia, Macedonia del Nord, Bulgaria, Serbia, Bosnia Erzegovina, Croazia e Slovenia. Dapprima era “legalizzata”: nel 2015 e nei primi mesi del 2016 circa un milione di persone, per lo più siriani, attraversarono a piedi tale area senza quasi alcun impedimento degli stati al passaggio dei migranti alle frontiere nei paesi UE ed extra UE che sono parte del percorso. Per alcuni anni la migrazione nei Balcani ebbe infatti come tappe Turchia, Grecia, Macedonia del Nord, Serbia e Ungheria nell’evidente tentativo dei migranti di arrivare prevalentemente verso Germania e Francia. Tuttavia, la rotta a oggi continua ad essere percorsa da un rilevante numero di individui nonostante tutti gli strumenti di deterrenza impiegati nei loro confronti nel corso degli anni.

Migranti in Ungheria, vicino al confine con la Serbia (foto Gémes Sándor/SzomSzed).

Chi passa e dove

I migranti sono prevalentemente afghani, siriani, iracheni, pakistani e iraniani rispetto ai quali in parte abbiamo già analizzato le situazioni dei paesi d’origine che danno luogo alle migrazioni forzate. Nel 2015 dunque la Turchia fu interessata dal passaggio di un rilevante numero di profughi che confluirono verso l’Egeo e verso i paesi dei Balcani per raggiungere l’Europa occidentale, ma i mezzi adottati in seguito da questi e dall’UE – finalizzati all’impedimento dell’ingresso alle frontiere – determinarono un mutamento nel 2018 dell’originario percorso che oggi registra nella Bosnia ed Erzegovina il maggior numero di presenze di migranti sul percorso, in particolare nel cantone di Una Sana al confine con la Croazia.

Da campi emergenziali a campi di confinamento

Dopo la chiusura del Campo di Bira nel settembre 2020 nel cantone se ne è costruito un altro nel maggio dello stesso anno, quello di Lipa (a cui si riferisce il video) la cui gestione era stata affidata all’Oim che a dicembre 2020 ha lasciato il campo a causa delle condizioni disumane nelle quali erano trattenuti i migranti, sprovvisti di acqua e di corrente elettrica. All’abbandono del campo dell’organizzazione internazionale ne è seguito l’incendio ma attualmente sopra le macerie della vecchia tendopoli si stanno costruendo dei container: da campo emergenziale Lipa sta divenendo campo temporaneo di confinamento dei migranti che consente l’accoglienza di sole 1.500 persone strategicamente posizionato su un altopiano, lontano 25 chilometri dal primo centro abitato ossia dalla città di Bihać.

La polizia bosniaca trasferisce nel campo di Lipa centinaia di migranti (aprile 2020, foto Ajdin Kamber / Shutterstock).

Muri e liste di ammissione

Appare evidente che stia divenendo prassi consolidata la creazione di hotspot ai confini delle frontiere dell’Unione, come emerge anche dalla lettura del nuovo patto sulla migrazione e l’asilo. Non si può in tale ricostruzione quindi ignorare quali siano stati i più gravi espedienti utilizzati per la compressione dell’applicazione del diritto d’asilo che hanno contribuito al cambiamento delle correnti migratorie. A partire dal luglio 2015 l’Ungheria iniziò a costruire un muro costituito da una barriera metallica al confine con la Serbia lungo 175 chilometri e successivamente un altro al confine con la Croazia; a tali imponenti barriere fisiche si aggiunsero – in una logica di pericolosa emulazione – le recinzioni della Slovenia al confine con la Croazia e della Macedonia del Nord al confine con la Grecia. Belgrado, che era uno degli snodi fondamentali della Rotta confinando con Ungheria, Croazia e Romania cominciò negli anni successivi la gestione dei flussi migratori in collaborazione con il governo ungherese mediante liste di ammissione dei migranti.

Il famigerato accordo UE-Turchia

Si arrivò dunque a quel famigerato quanto costoso accordo – ossequiosamente rinnovato – tra Unione Europea e Turchia del marzo del 2016 per il successivo triennio, con impegno di bonifico di 6 miliardi di euro entro il 2018 da parte della prima a quest’ultima, secondo il quale «tutti i nuovi migranti che hanno compiuto la traversata dalla Turchia alle isole greche a decorrere dal 20 marzo 2016 saranno rimpatriati in Turchia» e chiaramente sottolineando che ciò sarebbe avvenuto «nel rispetto del diritto dell’Unione e internazionale escludendo le espulsioni collettive» e che «una volta fermati o per lo meno drasticamente e sensibilmente  ridotti gli attraversamenti irregolari tra Turchia e UE» sarebbe stato attivato «un programma  volontario di ammissione umanitaria degli stati membri dell’Ue».

Il coivolgimento della Grecia il collegamento alla rotta dell’Egeo

Al di là dei discorsi di facciata – utili quando bisogna nascondere altre intenzioni – sembra che di fatto non sia andata esattamente così. Chiudendo quel flusso migratorio tra Grecia e Turchia se ne generò un altro verso il confine terreste turco-bulgaro che poi è sfociato nuovamente in Grecia. Rispetto alla rotta dell’Egeo, la cui analisi è collegata a quella balcanica, all’accordo del 2016 seguì la creazione di fatto di “hotspot” mediante la restrizione geografica operata, nei confronti dei migranti, nelle cinque isole greche – prima di accedere alla Grecia continentale – nelle quali si istituirono centri di accoglienza e di identificazione volti al contenimento dei flussi migratori e con essi anche delle domande d’asilo.

Se tale politica in un primo periodo ha determinato una sensibile diminuzione degli ingressi dei migranti, non ha evitato che la Grecia dal 2017 al 2019 fosse comunque la prima frontiera tra i paesi UE a essere attraversata.

La registrazione nel Paese di 121.000 persone nel 2020, anno che ha visto l’esasperazione delle condizioni nei centri nelle isole greche, come avvenuto in quello di Moira a Lesbo, non ci consente di soprassedere rispetto al fatto che i migranti appartenenti alle nazionalità succitate non solo non si sono mai fermati in conseguenza dell’accordo, dei muri e delle recinzioni ma molti di loro hanno continuato a optare oltre che per l’altra rotta marittima, ossia verso le principali città dell’Adriatico, nascosti nei tir diretti in Italia, per la percorrenza della via terrestre in prossimità del fiume Evros, al confine greco-turco, andando a confluire nuovamente nella rotta balcanica.

Il campo di Moira devastato dall’incendio.

Torna lo snodo di Idomeni

Oggi l’ex campo di Idomeni, il primo campo della rotta balcanica, costruito sul confine tra Macedonia del Nord e Grecia (sgombrato nel 2016) è nuovamente il simbolo di uno snodo principale per chi tenta di raggiungere attraverso i Balcani l’Europa centrale: la Grecia – così come la Bulgaria, la Croazia, la Slovenia e l’Ungheria, ma di recente anche l’Albania e la Romania – non sono certamente paesi di destinazione dei migranti, ma di transito, sebbene facciano parte dell’Unione, e considerati i trattamenti, ai quali sono sottoposti in essi se ne intuisce anche il motivo.

Immagine da un video di Bledar Hasko, campo di Idomeni.

Divieto di respingimento: riconosciuto e poi violato

Come noto lungo la rotta balcanica si attuarono e si attuano numerosi respingimenti: con tale espressione ci si riferisce a quegli atti coercitivi messi in atto da parte delle autorità di pubblica sicurezza di uno stato mediante l’impedimento all’ingresso nel proprio territorio di cittadini stranieri privi del titolo per l’ingresso o attraverso il rinvio verso un altro stato di individui che già sono presenti nel territorio. Tali atti – legittimi in quanto basati sul principio della sovranità nazionale riconosciuto agli stati secondo il diritto internazionale – trovano tuttavia il proprio limite nel rispetto dei diritti umani e di altri principi internazionali come quello sancito dal divieto di respingimento (non refoulement) considerata norma accettata e riconosciuta dalla Comunità internazionale della cui violazione da parte degli stati dell’UE si è già precedentemente argomentato nell’introduzione di questa sezione del saggio dedicata alle rotte migratorie. Si aggiunge che spesso i respingimenti lungo la rotta balcanica sono collettivi e come tali vietati secondo quanto stabilito dall’art.4 del quarto protocollo addizionale della Cedu.

Il confine croato respinge “a catena”

Ciò che rileva è che una buona parte degli individui che sono attualmente confinati nella rotta riferisce di essere stata respinta “a catena” dall’Italia o dalla Slovenia fino alla Croazia, paese dal quale poi sono stati ulteriormente respinti violentemente in Bosnia ossia fuori dalle frontiere dell’Unione: secondo il Danish Refugee Council da maggio del 2019 a novembre del 2020 circa 22.550 sono stati i respingimenti sommari dalla Croazia alla Bosnia.

In tale ambito dei respingimenti a catena per lo più collettivi, l’elemento sul quale è necessario soffermarsi è quello delle riammissioni “informali” dei migranti, non solo di quelle attuate dalla Croazia relativamente ai migranti respinti dalla Slovenia, ma anche di quelle della Slovenia in conseguenza degli accompagnamenti forzati alla frontiera da parte dell’Italia.

L’Italia e le riammissioni informali

La questione assume una particolare rilevanza se si considera che la Slovenia dal primo luglio ha assunto la presidenza del Consiglio dell’Unione fino al 31 dicembre e che perciò nei prossimi mesi avrà un ruolo strategico per quanto riguarda il nuovo patto europeo sulla migrazione e l’asilo proposto dalla Commissione UE. Si ricorda che il governo italiano ha ammesso nel 2020 di aver collaborato con la Slovenia alle riammissioni informali, in esito ad un’interrogazione urgente dell’onorevole Riccardo Magi del luglio del 2020 che chiedeva di far chiarezza in merito alle operazioni di Polizia al confine italo-sloveno. L’Italia ha collaborato a tali riammissioni con la Slovenia all’incirca da maggio del 2020 fino almeno a gennaio del 2021: con l’ordinanza del Tribunale di Roma del 18 gennaio 2021 è stato accolto il ricorso d’urgenza presentato da un cittadino pakistano che dichiarava di essere stato ricondotto dall’Italia alla Slovenia, quindi in Croazia e infine in Bosnia. All’uomo assistito da Asgi è stata concessa la riammissione in Italia con un visto umanitario.

E l’Europa?

Per quanto attiene gli aspetti giuridici – nelle ipotesi di accompagnamenti forzati da un paese dell’Unione, nei confronti di un altro paese dell’Unione che effettua le riammissioni – occorre argomentare sul diritto d’asilo, inteso come diritto d’accesso alla domanda di protezione internazionale, nonché sul concetto di individuazione del paese UE competente a trattare in merito alla domanda d’asilo.

Il diritto d’asilo nel nostro ordinamento nazionale è disciplinato dall’art. 10 co. 3 della Costituzione ed è un pilastro di questa essendo inserito in quei primi 12 articoli immodificabili: secondo il nostro ordinamento esso non può quindi in alcun modo subire limitazioni o deroghe.

 

D’alta parte anche diritto dell’Unione Europea stabilisce che le autorità dei paesi membri debbano rispettare la manifestazione di volontà del cittadino di un paese terzo che intenda chiedere asilo alla frontiera o sul territorio di un paese dell’Unione. Riguardo a ciò si vedano l’art. 3 del Regolamento Shenghen ossia il n.399 del 2016, la direttiva 32/2013/UE  – cosiddetta Direttiva procedure agli artt. 3 e 9 –, nonché il regolamento n. 604 del 2013, denominato comunemente Dublino III – che all’art. 3 paragrafo 1 stabilisce che gli stati membri esaminano qualsiasi domanda di protezione internazionale presentata da un cittadino di un paese terzo o da un apolide sul territorio o alla frontiera dell’Unione, e nelle zone di transito.

È stabilito inoltre che lo straniero che ha manifestato la volontà di chiedere asilo debba essere sempre trattato come un richiedente protezione internazionale e come tale è fatto obbligo allo stato che ha registrato la domanda, di collocare il richiedente in uno specifico centro secondo quanto stabilito dall’art. 3 della direttiva accoglienza. Inoltre, nel caso in cui si ritenga che lo stato competente non sia quello in cui è stata presentata la domanda di protezione internazionale si deve attivare il procedimento di accertamento del paese competente. Al riguardo si rammenta che in base all’art. 4 del Regolamento di Dublino lo stato nel quale è stata presentata la domanda ha l’obbligo di informare il richiedente che è stata attivata tale procedura e di attivare un colloquio relativamente alla medesima in una lingua da lui comprensibile nonché di fornirgli copia del verbale del colloquio. Solo infatti una volta che il paese dell’Unione accerti che la responsabilità sia di un altro stato, in base ai criteri enunciati al Capo III del Regolamento di Dublino, si potrà procedere al trasferimento in esso. L’art. 27 del Regolamento stabilisce inoltre che il richiedente ha diritto a un ricorso effettivo avverso la decisione di trasferimento o alla revisione della medesima mediante un organo giurisdizionale:

nessun trasferimento di un richiedente asilo da uno stato all’altro dell’Unione quindi può avvenire in violazione di tale regolamento.

Si aggiunge che in base all’art. 3 paragrafo 2 del Regolamento Dublino qualora sussistano carenze sistemiche nella procedura d’asilo e nelle condizioni di accoglienza dello stato membro in cui la persona verrebbe rinviata, il rinvio non è possibile e la competenza a trattare della domanda di protezione internazionale rimane quella dello stato in cui la domanda è stata presentata. Si veda al riguardo la sentenza del 21 gennaio del 2011 della Corte di Strasburgo M.S.S. contro Belgio e Grecia.

Ne discende che ogni trasferimento di un richiedente asilo verso un altro stato dell’Unione non possa essere mai automatico ma debba necessariamente essere valutato individualmente e concretamente rispetto alla persona che ha presentato domanda di protezione internazionale e che non possono esservi degli stati che vengano considerati aprioristicamente sicuri come invece è stato dichiarato con riferimento alla Slovenia e alla Croazia semplicemente perché facenti parte del territorio dell’Unione.

Ogni trasferimento del richiedente infatti deve essere valutato solo in base alla domanda d’asilo registrata e ulteriori accordi bilaterali e multilaterali non possono essere applicati in violazione del regolamento n. 604 del 2013. Ulteriori riflessioni giuridiche si sviluppano poi rispetto dell’accordo intergovernativo tra Italia e Slovenia del 1996 questa volta con riferimento a tutti i migranti siano o meno richiedenti asilo. L’accordo riesumato per legittimare le riammissioni informali di cui sopra è entrato in vigore il primo settembre 1997.

Rispetto all’accordo va detto che non è stato mai ratificato dal Parlamento italiano secondo quanto stabilito dall’art. 80 della Costituzione.

L’accordo essendo dunque di natura politica non può certamente modificare o derogare alle leggi ordinarie vigenti nel nostro ordinamento e tanto meno alla normativa europea. Inoltre, l’art. 2 dell’accordo sancisce che esso non sia applicabile ai rifugiati ma si ritiene che tale espressione attui una discriminazione tra rifugiati e richiedenti asilo che hanno il diritto di far ingresso in un paese UE altrimenti non sarebbe possibile l’esperimento del procedimento amministrativo necessario per dichiarare lo status di rifugiato. Sempre nel testo dell’accordo, più specificatamente all’articolo 6, si fa riferimento al carattere di informalità delle riammissioni dei cittadini di uno dei due paesi Ue o di cittadini terzi. Tuttavia, l’espressione “senza formalità” contenuta nell’accordo non può essere riferita all’atto della riammissione in senso stretto: in quanto sono atti amministrativi che incidono sui diritti soggettivi dello straniero e come tali devono essere disposti dalla Pubblica amministrazione con un provvedimento motivato in fatto e in diritto e notificato alla persona destinataria del provvedimento secondo quanto stabilito dalla Legge 241/1990. Pur potendo assumere una forma semplificata-succinta e immediatamente esecutiva rimane il fatto che per ogni atto di rinvio/ammissione o trasferimento debba essere comunque presente un atto che lo disponga e che sia impugnabile a livello giurisdizionale diversamente da quanto è avvenuto con le riammissioni tra Italia e Slovenia: il rischio è quello della violazione dell’articolo 24 della Costituzione sul diritto di difesa e dell’articolo 13 della CEDU nonché dell’art. 47 della Carta fondamentale dell’Unione Europea.

«La libertà personale è inviolabile»

Poiché inoltre la riammissione comporta l’accompagnamento forzato alla frontiera anche nel caso in cui sia eseguito nell’ambito di frontiere interne dell’Unione è un’attività che incide comunque sulla libertà personale dell’individuo e per questo motivo deve essere sottoposto a convalida dell’autorità giudiziaria secondo l’art. 13 della Costituzione. La stessa Direttiva rimpatri 115/2008/CE all’art. 6 par. 3 – che stabilisce la riammissione di un cittadino terzo irregolare anche senza l’emissione di una decisione sul rimpatrio – non esonera però lo stato che effettua la riammissione ad adottare una decisione sulla riammissione stessa: ossia un provvedimento scritto e notificato alla persona interessata e sottoponibile al controllo di un organo giurisdizionale.

Senza formalità = rapidità

Si può affermare in conclusione che il termine “senza formalità” non si debba interpretare acconsentendo all’attività di riammissione in assenza di un provvedimento, quanto piuttosto nel senso della speditezza e della forma succinta dell’atto amministrativo di riammissione.

Pattugliamenti congiunti vs indagini

Ad ogni modo con una nota stampa del 14 giugno del 2021 è stata resa pubblica la decisione del Ministero degli interni di nuovi pattugliamenti congiunti con forze di Polizia italo-slovene nelle frontiere Trieste/Koper e Gorizia/Nova Gorica in seguito all’incontro dei ministri degli Interni dei due paesi, al fine di sgominare le organizzazioni criminali che gestiscono il traffico dei migranti su tale area della rotta balcanica. I pattugliamenti congiunti sono frutto di un accordo sottoscritto alcuni mesi fa dalle autorità di Polizia di Roma e di Lubiana ma sebbene se ne condividano gli intenti è stato sottolineato che tale accordo non è sicuramente lo strumento migliore per contrastare il traffico di esseri umani riservato piuttosto a un’attività di intelligence o a una di inchiesta con il  coordinamento delle diverse autorità giudiziarie:

sembra piuttosto che l’intento sia nuovamente di contrastare l’ingresso dei migranti al confine italo-sloveno.

Si ricorda che il Tribunale amministrativo di Lubiana ha stabilito che con il respingimento di un cittadino camerunense in Croazia e da qui inviato in Bosnia, da parte della polizia slovena, dopo essere stato trattenuto dalla stessa per due giorni, è stata violata la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea. La sentenza si affianca alle pronunce di Tribunali italiani e austriaci (Tribunale di Stiria, 1 luglio 2021) a favore dei migranti respinti oltre i confini esterni dell’Unione.

Il fallimento delle politiche dell’Unione

S’intuisce quindi il colossale fallimento di tali politiche che se si vuole essere cinici, non hanno raggiunto l’obiettivo sperato, visto che la rotta continua comunque a essere percorsa e – se si considera che la proposta di ricollocamento automatico in tutti i paesi dell’Unione dei migranti che hanno presentato domanda d’asilo, in proporzione al Pil e all’assetto demografico di ciascuno da anni – è pressoché ignorata e allo stesso tempo non viene modificato il regolamento Dublino: tale parziale soluzione avrebbe permesso quanto meno di evitare non solo l’erogazione da parte dell’UE di ingenti finanziamenti a Frontex nonché alla Bosnia per “l’accoglienza” di migranti respinti evitando la catastrofe umanitaria nel cantone verificatasi nel 2019, nel 2020 e ancora oggi nel 2021.

Operazioni di “sicurezza” marittima di Frontex, sovvenzionate da finanziamenti europei.

In tale situazione, dinanzi all’emergenza umanitaria che sta attraversando l’Afghanistan e che inevitabilmente dispiegherà i suoi effetti sulla rotta con un aumento sostanziale del transito dei migranti provenienti da tale area dell’Asia centrale, l’unico timore dell’Europa è che non si riviva “un nuovo 2015”. Un’altra occasione persa per rivedere l’intero impianto di un sistema farraginoso e disumano cui l’unico scopo e alzare i muri – in qualunque modo siano intesi – della fortezza Europa.

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Khyber Pass: orizzonti perduti, orizzonti ritrovati https://ogzero.org/khyber-pass-mitico-luogo-nel-racconto-di-eric-salerno/ Sun, 05 Sep 2021 17:10:24 +0000 https://ogzero.org/?p=4834 Per concessione dell’autore e dell’Atlante delle Guerre pubblichiamo un estratto da “Orizzonti perduti, orizzonti ritrovati”, appena pubblicato da il Saggiatore. Si racconta del mitico Khyber Pass e di com’era un giovane Pakistan che cercava il suo posto nel mondo. Non com’è oggi dove, sulla frontiera tra i due paesi, si accalcano gli afgani che vogliono […]

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Per concessione dell’autore e dell’Atlante delle Guerre pubblichiamo un estratto da “Orizzonti perduti, orizzonti ritrovati”, appena pubblicato da il Saggiatore. Si racconta del mitico Khyber Pass e di com’era un giovane Pakistan che cercava il suo posto nel mondo. Non com’è oggi dove, sulla frontiera tra i due paesi, si accalcano gli afgani che vogliono sfuggire al regime talebano e alla miseria del loro paese dopo oltre 40 anni di guerra. Abbiamo pensato di accostare a questo racconto, quello – anch’esso di Eric Salerno – scritto nel dicembre 1960, che descrive le tribù che abitavano il Passo Khyber. Spunti di riflessione per capire la composizione tribale odierna e gli scontri tra comunità in quelle terre illustrati da immagini scattate dall’autore.


Passo Khyber. Abito scuro, camicia bianca e cravatta: io, invitato sulla rotta che sarebbe stata resa famosa dagli hippy europei e americani e che la Pakistan International Airlines, all’epoca una delle più importanti compagnie aeree dell’Oriente, forse del mondo, apriva al turismo d’élite. Siamo nel 1960, tredici anni dopo la Partizione, quella terribile divisione della vecchia India in due stati che costò la vita a un milione di persone, stravolse quella di centinaia di milioni e lasciò una ferita che oggi sembra più aperta di allora. Fu una delle mie prime esperienze all’estero da viaggiatore e giornalista insieme.

Sono nato nel 1939. La data di nascita del Pakistan è il 14 agosto 1947. Negli anni Sessanta il paese, giovane e antico allo stesso tempo, vide uno dei suoi momenti migliori. Io ero giornalista da poco, ma avevo un patrimonio invidiabile da sfruttare: oltre a me, solo un altro redattore di “Paese Sera” parlava l’inglese, ma era molto più grande e i suoi impegni mi regalarono ampio spazio di manovra. La lingua dell’Impero britannico in fase decadente e dei vincitori della Seconda guerra mondiale era ancora relegata in secondo ordine dagli italiani, dopo quella dei cugini odiati d’oltralpe. Eppure stava diventando sempre più essenziale nel mondo che iniziava ad aprirsi anche grazie allo sviluppo dell’aviazione civile, di cui avevo cominciato a occuparmi sulle pagine del battagliero quotidiano romano di sinistra, vera scuola di giornalismo.

Da Roma, il gruppo di reporter italiani, di cui ero il più giovane, volò fino a Londra per imbarcarsi sul volo inaugurale del primo 707 con i colori della Pia, un quadrigetto della Boeing, sulla rotta di Karachi, allora – ma ancora per poco – la capitale del Pakistan. Una prima classe come non ne vidi più. Un servizio impeccabile: la mia prima aragosta, champagne e tutto il resto. Tappa sotto la neve a Francoforte, un’altra a Zurigo. Poi la traversata del Mediterraneo e il mio primo approdo a Beirut, la Svizzera del Medio Oriente si diceva allora, dove ci aspettava una splendida cena levantina con tanto di danza del ventre in un ristorante dell’aeroporto prima di riprendere il volo per Teheran e, tempo di fare rifornimento, di assistere a un altro spettacolo di danza in un locale non distante dallo scalo. Arrivammo a Karachi all’alba, accolti da dirigenti della Pia, da una delegazione dell’ambasciata italiana e, scesi dal pulmino davanti allo storico hotel Metropole, da stormi di corvi neri.

Il verde, quello dell’islam, era il colore ufficiale della Pia e dello stato nato apposta per i musulmani, ma allora Karachi era una metropoli multiculturale, multietnica e multireligiosa aperta al mondo – più all’Occidente che all’Oriente – che usciva dalla Grande guerra numero due e dalla fine ufficiale degli imperi coloniali. Le divise delle hostess erano state disegnate da Pierre Cardin, icona della moda parigina, l’unico a fare testo. Turisti americani e britannici in costume prendevano il sole sulla spiaggia di fronte al mar Arabico. I locali notturni abbondavano. Le orchestre jazz imperversavano. L’alcol era tabù solo per chi non voleva bere. L’hashish, con discrezione, era accessibile a hippy e finti figli dei fiori di passaggio. Droghe più pesanti non mancavano. I camerieri in livrea del Metropole, luogo di ritrovo dei giornalisti stranieri, di una certa borghesia locale, dei turisti – avanguardia del boom degli anni a venire –, erano impeccabili nel loro servizio. E nel prendersi gioco dei clienti, ai quali propinavano prelibatezze della cucina locale che nemmeno un fachiro mangiatore di fuoco avrebbe mandato giù senza una smorfia di dolore. «Con un sorso di scotch si smorza tutto» e lo offrivano sorridendo….
….
Non ci sono turisti oggi a Peshawar e le botteghe della città di confine vendono soprattutto fucili, mitragliatrici, pistole, cartucce di ogni genere, cartucciere. Roba nuova di zecca e armi avanzate da quando, non molti anni fa, Usa e Urss si fronteggiavano indirettamente per il controllo dell’Afghanistan, uno dei paesi strategicamente più importanti della regione. Sarebbe riduttivo parlare solo di armi sui banchi dei negozi. Da quando le truppe di Mosca lasciarono il posto a quelle di Washington, il Pakistan (potenza nucleare come l’India) è direttamente o indirettamente coinvolto nei grandi traffici di stupefacenti, soprattutto oppio e i suoi derivati, partiti dalle ricche coltivazioni afgane. Ci vorrebbero livelli di turismo oggi nemmeno pensabili per sostituire e distribuire l’elevato reddito pro capite prodotto dalla droga.

E oggi – mi riferisco sempre ai gloriosi tempi pre Covid – non ci sono turisti nemmeno a Lahore, se non pochi gruppi isolati attirati da un paio di intraprendenti e molto sospetti travel blogger americani e inglesi. Una di loro è stata accusata di lavorare non soltanto per gli addetti al turismo locali ma addirittura per i servizi segreti, considerati molto vicini alle numerose organizzazioni terroristiche che operano nella zona. «Nessun pericolo» sostiene il regime (uno dei meno democratici di quella regione), la blogger «non fa che difendere gli interessi del popolo». Affermazioni che hanno provocato la dura reazione di organizzazioni antigovernative che denunciano come i diritti umani in Pakistan siano un’opzione, il terrorismo e il traffico di stupefacenti marcino mano nella mano, le donne vengano trattate come nel Medioevo e i dissidenti finiscano quasi sempre in galera se non sottoterra. Nonostante le campagne dei blogger entusiasti che riempiono il web di parole e filmati, girati anche in alcune delle zone più pericolose del paese, turisti e viaggiatori stranieri restano pochi. Passeggiare, come ebbi la possibilità di fare nei viali degli straordinari giardini Shalimar di Lahore, eredità del Gran Moghul Shah Jahan che li fece costruire nel 1641, è raro e spesso pericoloso. I giardini furono inclusi dall’Unesco tra i patrimoni dell’umanità nel 1981.

Hanno la forma di un parallelogramma oblungo, circondato da un alto muro a mattoni. Il giardino misura 658 metri sulla direttrice nord‐sud e 258 sulla est‐ovest. Ai giornalisti italiani invitati nel 1960 per raccontare le bellezze del paese e stimolare il turismo non fu difficile descrivere, nei loro articoli, la meravigliosa simmetria del vasto parco che si sviluppa su tre terrazze, sopraelevate di 4‐5 metri una dall’altra. Appuntai il loro nome in lingua urdu: Farah Baksh (“apportatrice di piacere”), Faiz Baksh (“apportatrice di bontà”), Hayat Baksh (“apportatrice di vita”).
Mi dicono che le guide turistiche più anziane non trovano difficile spiegare per quale motivo e come si è potuti passare dal boom degli anni Sessanta alla tragica situazione di oggi – gelosie tribali e intricati giochi politici –, ma preferiscono parlare dei tesori di questa città. La moschea imperiale, che coniuga passione, bellezza e gloria dei moghul, come altri luoghi di culto in giro per il mondo, fu sconsacrata più volte nel corso dei secoli e usata come presidio militare dagli invasori sikh e dai gentiluomini di Londra in divisa. I turisti che, come me, la visitarono negli anni Sessanta potevano apprezzarne l’architettura ma poco le sue opere d’arte, che soltanto di recente sono state restaurate e rimesse al loro posto, o sostituite.

La Pia era considerata una delle compagnie aeree principali del mondo e l’aeroporto di Karachi, la “porta all’Asia”. Titolo e funzione che avrebbe mantenuto durante tutto il boom economico e la rapida industrializzazione che accompagnarono la prima metà del regime militare di Ayub Khan, feldmaresciallo arrivato al potere con un golpe e votato a schiacciare corruzione e crimine nella vecchia capitale mentre preparava le basi per costruire quella nuova, Islamabad. Le spiagge di Karachi, scrisse all’epoca il “Washington Post” che raccontava la vita dei turisti stranieri, «sono le più pulite dell’Asia». E non soltanto le spiagge. Le vie del boom, con una nuova borsa, banche, società di assicurazioni, giornali, venivano «lavate con l’acqua tutti i giorni». Il sogno e il turismo sarebbero durati poco. Già nel 1965, pochi anni dopo la mia visita, le contraddizioni e i contrasti dovuti all’industrializzazione cominciarono a provocare i primi scontri tra la maggioranza muhajir di Karachi e i migranti pashtun, arrivati dall’Afghanistan in cerca di lavoro. La capitale era in difficoltà, ma lo era anche il resto del paese, che non riusciva a trovare pace nella sua faticosa ricerca di un’identità, sempre più islamica, sempre meno tollerante.

Ormai è chiaro, e quasi tutti gli storici e chi osserva le realtà del mondo di oggi concordano: i vecchi imperi avevano una tenuta che gli stati usciti dalla loro frammentazione non hanno ereditato. Negli anni Settanta i movimenti islamisti divennero più forti. Le attrazioni per i viaggiatori stranieri, meno appetibili. La minoranza cristiana, fulcro di una parte importante della vita notturna di Karachi, cominciò ad abbandonare il paese. Il declino lento ma inesorabile toccò anche alla Pia e l’aeroporto dell’ex capitale fu costretto a cedere l’etichetta di «porta dell’Asia» a Dubai. Nel 2002, agli scontri tribali e ai contrasti etnici si aggiunse una nuova forma di terrorismo. Decine di passanti furono uccisi da alcuni kamikaze che si fecero saltare in aria accanto all’albergo Marriott e all’ambasciata Usa.

Articolo di Eric Salerno su “Paese Sera” del 12-13 dicembre 1960.

Qualche mese prima, il giornalista del “Wall Street Journal” Daniel Pearl era stato rapito dopo essere uscito dal Village restaurant di fronte a quel famoso ma ormai decaduto albergo Metropole, sarebbe stato decapitato nel giro di pochi giorni. Nel 2007 gli dedicarono un film, Un cuore grande, e per girare la scena del rapimento fu richiesto un imponente cordone di sicurezza della polizia di Karachi. Erano stati i fondamentalisti islamici a uccidere il mio collega, non si voleva rischiare un’altra tragedia. Da allora pochi osano parlare di turismo occidentale da quelle parti.

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Il Pakistan, l’Occidente e la “patata bollente” afgana https://ogzero.org/l-occidente-affida-al-pakistan-le-vicende-afgane/ Sun, 05 Sep 2021 17:09:51 +0000 https://ogzero.org/?p=4829 Il 4 settembre le agenzie battono la notizia dell’arrivo a Kabul di Faiz Hammed, il capo dei servizi di Islamabad, in veste di consulente dei Talebani per stroncare la resistenza del Panjshir; questa apparizione in pieno giorno dovrebbe aver chiarito definitivamente l’apporto pakistano alle vicende afgane: l’Occidente affida al Pakistan il passaggio di consegne nel […]

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Il 4 settembre le agenzie battono la notizia dell’arrivo a Kabul di Faiz Hammed, il capo dei servizi di Islamabad, in veste di consulente dei Talebani per stroncare la resistenza del Panjshir; questa apparizione in pieno giorno dovrebbe aver chiarito definitivamente l’apporto pakistano alle vicende afgane: l’Occidente affida al Pakistan il passaggio di consegne nel controllo militare del paese. Si tratta di uno degli aspetti meno analizzati tra quelli che coinvolgono l’area a seguito del ribaltamento afgano, eppure è l’elemento più significativo e condizionante della vicenda, come si rileva dalla lettura di questo contributo scritto da Beniamino Natale, tra i più assidui frequentatori della storia e cultura pakistana. 


Commentando la disastrosa ritirata delle truppe americane dall’Afghanistan, il primo ministro pakistano Imran Khan non ha nascosto la sua gioia, affermando che «i Taliban hanno spezzato le catene della schiavitù». Gran parte del mondo politico e della popolazione del Pakistan sono d’accordo con lui. Nessuna voce si è fatta sentire per contraddire la “narrazione” che da alcuni decenni l’establishment pakistano diffonde sulla realtà del terrorismo islamico.

L’offensiva contro la stampa

Forse anche perché in Pakistan è in corso un’offensiva che non ha precedenti contro la stampa e più in generale contro le opinioni non ortodosse. Secondo l’organizzazione indipendente Reporters sans frontières, «i media pakistani, che hanno una tradizione di grande vivacità, sono diventati un bersaglio prioritario per il “deep state”, un eufemismo che indica i militari e la loro principale organizzazione segreta, l’Inter Service Intelligence o ISI, e il forte controllo che esercitano sull’esecutivo».

L'Occidente affida al Pakistan

RSF aggiunge che gli attacchi contro media e giornalisti indipendenti si sono intensificati da quando Imran Khan è diventato primo ministro. Un recente, grave caso, è quello del reporter Asad Ali Toor, aggredito e picchiato nella sua abitazione da uomini mascherati che – secondo la testimonianza dello stesso Toor – si sono dichiarati agenti dell’ISI. Un altro giornalista che è stato minacciato di essere sbattuto in carcere, il popolare conduttore televisivo Hamid Mir, ha affermato in un un’intervista alla BBC che Imran Khan – un ex campione di cricket passato alla politica – «non è un primo ministro molto potente, non è in grado di aiutarmi».

Asad Ali Toor e Hamid Mir

La presa dei militari sui governi pakistani non è una novità. L’ esercito ha governato il paese direttamente dal 1958 al 1971, dal 1977 al 1988 e dal 1999 al 2008. Per tutto il resto della sua vita indipendente – il Pakistan è nato nel 1947 dalla dissoluzione dell’Impero Britannico – i militari hanno esercitato un pesante controllo sui governi civili del paese.

Secondo la narrazione ufficiale il Pakistan stesso rappresenta l’islam “buono”, che comprende anche alcuni combattenti, mentre i “cattivi” terroristi sono sostenuti, se non addirittura “creati” dall’“Occidente”,

un termine che viene usato per indicare gli Usa e il loro alleati. I Taliban sono “buoni”: tutti i terroristi che combattono contro le forze di sicurezza indiane nel territorio conteso del Kashmir sono “buoni’. Osama bin Laden – lo “sceicco” saudita responsabile dei massacri dell’11 settembre 2001 negli Usa e di molti altri – potrebbe essere il miglior esempio di terrorista islamico “cattivo”. Però è stato trovato e ucciso dalle forze speciali americane in territorio pakistano, dove si trovava indisturbato probabilmente da anni. La leadership dei Taliban – quando ancora erano “cattivi” – ha sempre operato senza ostacoli dal territorio pakistano.

Una ambiguità ospitalità

Quello di bin Laden è forse l’ esempio più chiaro della profonda ambiguità con la quale il Pakistan gestisce da decenni gli estremisti musulmani, sia quelli nati nel paese che i loro “ospiti” provenienti da altri paesi. Vivono apertamente nel paese, gestiscono organizzazioni caritatevoli – valga per tutti l’esempio di Hafiz Saeed, leader sia della “caritatevole” Jamaat-ud-Dawa che del gruppo terrorista della Lashkar-e-Toiba – e portano avanti sostanzialmente indisturbati le loro attività terroristiche, principalmente contro l’India ma non solo.

L'Occidente affida al Pakistan

Ogni tanto uno di loro viene arrestato e in alcuni casi addirittura consegnato agli americani come nel caso di Khalid Sheik Mohammad, un associato di bin Laden che ha partecipato sia agli attentati dell’Undici Settembre che al rapimento e all’assassinio del giornalista americano Daniel Pearl. Intanto, gli altri continuano a fare il loro comodo.

La storia dei Taliban è una chiara dimostrazione di questa politica basata sulla doppiezza. Secondo uno dei loro mentori, il generale e per alcuni anni ministro della Difesa Nasirullah Babar, essi avrebbero «portato la pace dovunque sono andati».

Il termine taliban vuol dire “studenti” nella lingua pashto, diffusa nel Nordovest del Pakistan (il singolare è talib). Il movimento fu tenuto a battesimo dallo stesso Babar e dal leggendario capo dell’ISI durante il jihad contro gli invasori sovietici, Hamid Gul, nel 1994. Quelli che sarebbero diventati i Taliban erano in gran parte giovani profughi afgani che studiavano nelle madrasas, le scuole islamiche gestite in Pakistan da religiosi della scuola integralista di Deobandh (una località che oggi si trova in India). I giovani si unirono a un gruppo di afgani di etnia pashtun che stavano cercando di mettere fine all’anarchia che regnava in Afghanistan dal 1989. Quel gruppo era guidato da un ex mujaheddin, un combattente contro gli invasori sovietici, il mullah Mohammed Omar. Appoggiati e armati dall’esercito pakistano, i Taliban sbaragliarono le milizie dei signori della guerra che si battevano nel paese, assumendo il controllo di quasi tutto l’Afghanistan nel 1996.

Afghanistan pacificato: progetti visionari

Un Afghanistan pacificato, questa l’idea dei militari e dei politici pakistani, avrebbe reso possibili una serie di visionari ma poco realistici progetti di sviluppo, primo fra tutti quello della costruzione di una serie di oleodotti che avrebbero potuto portare gas e petrolio dalle repubbliche ex sovietiche ai porti sull’Oceano Indiano e da qui nel resto del mondo, evitando i passaggi obbligati dall’Iran o dalla Russia.

Quegli ambiziosi progetti non sono mai stati realizzati e, in vece loro, sono arrivati lo “sceicco” Osama, la “guerra all’America” e tutto quello che ne è seguito.

Il Pakistan, allora governato dal generale Perevz Musharraf, tollerò a malincuore che gli Usa usassero il suo territorio per attaccare gli studenti islamici.

Il Pakistan è nato come patria per i musulmani dell’Impero Britannico per volere dell’avvocato e politico Mohammad Ali Jinnah, il capo della Lega Musulmana, in contrasto con l’India secolare ma a maggioranza hindu del mahatma Gandhi e di Jawaharlal Nehru. A partire dalla prematura scomparsa di Jinnah, nel 1948, il Pakistan è stato dominato dai militari, tanto da far dire ad alcuni commentatori che si trattava non di un paese con un esercito ma di “un esercito con un paese”. Il principale obiettivo dei militari – e dei politici di tutti i partiti pakistani è da allora quello di “liberare”, cioè di conquistare, quella parte del territorio dell’ex regno del Kashmir rimasto sotto il controllo indiano.

La “profondità strategica”

Il secondo è quello di allargare il proprio territorio, un’istanza che nel “politichese” pakistano si chiama “raggiungimento della profondità strategica”. L’Afghanistan era un ovvio candidato per il conseguimento di quest’obiettivo e gli alleati “naturali” del Pakistan erano le pittoresche tribù di etnia pashtun che vivono tuttora a cavallo tra i due paesi dalle due parti della Durand Line. Questa “linea”, che è lunga 2670 chilometri e segna il confine provvisorio tra l’allora Impero Britannico e l’Afghanistan, fu creata nel 1893 con un trattato tra la Corona britannica e l’Emiro Abdur Rahman Khan, che allora governava il paese. Da parte britannica, l’accordo fu firmato dal generale Mortimer Durand.
I pashtun sono circa 25 milioni in Pakistan e circa 11 milioni in Afghanistan, dove sono la maggioranza della popolazione (in tutto 36-38 milioni di persone). Con il ritorno dei Taliban al potere a Kabul dopo il ritiro dell’“Occidente”, i militari pakistani sono più vicini che mai a raggiunge la “profondità strategica”. Però, attenzione: se è vero che i legami tra le tribù pashtun e l’establishment militare pakistano sono antichi e forti – lo stesso Nasirullah Babar era un pashtun, come molti altri ufficiali dell’esercito di Islamabad – è vero anche che esiste da sempre una tendenza analoga e inversa, cioè quella dei governi afghani a espandersi nel Nordovest del Pakistan inglobando le aree tribali abitate dai pashtun. Sempre viva tra le tribù della “frontiera di nordovest” è anche l’idea che punta alla creazione di un Pashtunistan indipendente.

L'Occidente affida al Pakistan

La linea non riconosciuta e le alleanze

Infatti la Durand Line non è mai stata riconosciuta come confine tra Afghanistan e Pakistan da nessun governo di Kabul, nemmeno da quello dei Taliban. Hamid Karzai – il primo presidente dell’Afghanistan dopo la sconfitta dei Taliban – ha affermato che il governo di Kabul «non riconoscerà mai» la Durand Line come confine tra i due paesi. Oggi Karzai è uno dei leader indipendenti candidati a entrare nel governo dei “nuovi” Taliban che si stanno insediando al potere.
Ha scritto il giornalista indiano Rahul Bedi: «Gli analisti della sicurezza anticipano una collaborazione tra i Taliban afghani – una volta che questi avranno preso il controllo completo del paese – e l’alleanza di 13 gruppi che comprende il Tehrik-e-Taliban (Ttp) che opera prevalentemente sulla frontiera tra Pakistan e Afghanistan, che lancerà la rivendicazione del Pashtunistan». Prosegue Bedi: «Essi [gli esperti, probabilmente esponenti dei servizi indiani], sostengono che gli attuali legami simbiotici, logistici e materiali tra l’ISI pakistano e i Taliban sono, nel migliore dei casi, dettati dalla reciproca convenienza; ma, se si considera la complessa storia della regione, fatta di inganni, tradimenti e compromessi è probabile che verranno superati dalle più vaste ambizioni del nazionalismo dell’etnia dei pashtun». O, almeno, questa è la direzione nella quale lavoreranno i servizi segreti indiani.

I Talebani, strumenti pakistani

I Taliban sono dunque considerati dai militari pakistani lo strumento per raggiungere l’agognata “profondità strategica”. Per il Pakistan, i milioni di profughi afghani che si riversarono sul suo territorio negli anni dell’invasione sovietica sono stati una manna: gli aiuti internazionali erano infatti consegnati a Islamabad. Ora sta giocando, con successo, la stessa carta. La cancelliera tedesca Angela Merkel, certamente la principale leader europea, ha sostenuto recentemente che bisogna aiutare economicamente il Pakistan in modo che si tenga in casa i profughi afghani, evitando che si riversino a migliaia in Europa.

L'Occidente affida al Pakistan

Tutto torna come “prima” dunque. Prima di Osama bin Laden e della “guerra al terrorismo”. La gestione della “patata bollente” afgana viene affidata dall’Occidente al Pakistan, nella speranza che non si ripetano i tragici sviluppi dell’inizio del secolo.

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Syngué sabour: appunti per un’Orestiade afgana https://ogzero.org/l-occidente-non-ha-mai-compreso-larea-centrasiatica/ Sat, 04 Sep 2021 13:40:21 +0000 https://ogzero.org/?p=4811 L’Occidente non ha mai compreso l’area centrasiatica, perché l’ha assimilata nell’immaginario alla propria mentalità e alla propria filosofia, senza sforzarsi di collocare i sistemi delle comunità nella loro tradizione di riferimento. A decolonizzazione avvenuta si può forse tentare di inquadrare alcuni aspetti per intessere poi una tragedia pasoliniana che possa raccontare il Great Game come […]

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L’Occidente non ha mai compreso l’area centrasiatica, perché l’ha assimilata nell’immaginario alla propria mentalità e alla propria filosofia, senza sforzarsi di collocare i sistemi delle comunità nella loro tradizione di riferimento. A decolonizzazione avvenuta si può forse tentare di inquadrare alcuni aspetti per intessere poi una tragedia pasoliniana che possa raccontare il Great Game come è avvenuto e perché si è arrivati a questo epilogo. E di lì imparare a trovare la corretta e rispettosa forma relazionale con il mondo compreso tra l’Hindu-Kush e il deserto iranico.

Syngué sabour: la pietra paziente, la pietra ascolta, finché non si frantuma.


La clanicità esibita dal processo di talebanizzazione

Rassicuranti non lo sono mai stati e le loro biffe senza sorriso non lo saranno mai. Ma ora sono cambiati: i Talebani hanno imparato soprattutto il modo di promuoversi sugli schermi occidentali e quanto sia importante la comunicazione in un mondo mediatico, dove persino l’impressione levantina dei capi e quella orrifica dei tagliagole, nei loro stracci e barboni vecchi di due millenni nell’iconografia stantia e un po’ razzista, diventano folklore; se fanno la parte a loro assegnata da Trump, risultando credibili a Doha, perché svolgono il ruolo di negoziatori (attribuitogli dal circo mediatico per assicurare il business degli accordi geopolitici), consentono al mondo di sfilare gli scarponi costosi dal terreno e consegnare al Pakistan, loro mentore, di controllare il territorio su mandato americano.

Un ruolo quello di negoziatori che la loro cultura riconosce ai capiclan maschi e che è quella ricercata dalla controparte fatta di maschi americani. Ciò che li ha accomunati è l’appartenenza al più vieto conservatorismo di entrambe le società.
Certo l’evoluzione degli squadristi diventa la requisizione delle auto degli anziani hazara nella provincia di Ghazni, come ci racconta un afgano delal diaspora di ciò che è avvenuto a suo padre al villaggio durante un rastrellamento (a cui il fratello si è sottratto scappando in montagna), quando 30 anni fa avrebbero perpetrato l’abigeato di tutti gli armenti; ma in fondo anche i fascisti nostrani usano con spregiudicatezza i social, pur rimanendo buzzurri celoduristi.

Colonizzatori si nasce

La solita eccezione culturale francese si chiede se sia possibile confrontarsi, e quindi conferirgli un riconoscimento, con le posizioni talebane senza venir meno ai propri principi. Una posizione palesemente ancora fondamentalmente colonialista perché connota il gruppo in senso razzista e prevede una superiorità di principi da esportare: in realtà quei principi dovrebbero riuscire a comprendere come ragiona la controparte per poter individuare i punti su cui avviare la trattativa (ed eventualmente insinuare un elemento che possa fare da base a un sincretismo che permetta un’evoluzione di entrambi), perché senza il confronto non c’è che la soluzione di forza, visto che non si è potuta creare una alternativa nazionale credibile riconosciuta dagli afgani ai quali si sono volute imporre figure – corrotte e inconsistenti – ritagliate sul modello occidentale, alieno a chi rimaneva povero e sfruttato dagli occidentali come dai Signori della Guerra – tutti ugualmente fondamentalisti (uzbeki di Dostum, tajik di Massoud, hazara di Mazari, pashtun di Hekmatyar). E questo è il risultato.

L’anima feroce

Vero che il movimento politicamente retrivo dei Talebani ha due facce: una pashtun, quindi interna alla nazione – anche se proveniente dall’unica cultura dei monti del Waziristan divisi dalla Durand Line tra Pakistan e Afghanistan – le cui tribù si possono scoprire nel capitolo (collocato nel 1960!) dedicato al Pakistan da Eric Salerno nel suo volume Orizzonti perduti, orizzonti ritrovati – e guida politica di questo tradizionalismo che ambisce a dare vita a un governo che imponga tutte le convinzioni tribali, legittimate da un sunnismo invariato anche perché utilizzato per fungere da collante contro le molte aggressioni coloniali a cui ha fatto fronte proprio grazie alla sua chiusura; l’altra, in parte uzbeka e in buona parte araba – saudita, qatariota e tutta la compagnia di giro del jihadismo – che costituisce il nerbo dell’ala militare, feroce e pervasa di volontà di vendetta fanatica, che impone il giro di vite sui diritti all’interno della nazione… e questo potrebbe risvegliare le coscienze della società civile che mal tollerava la presenza straniera e ora guarda con altrettanto dispetto ai jihadisti di varia provenienza – con aggiunta di orrore nelle notti riempite da musiche inneggianti alla guerra santa sparate a tutto volume nei pressi dei quartieri hazara, minacciosa e incombente presenza che prelude a rastrellamenti e abusi come nelle notti kabuline subito dopo la fuga statunitense. Un disimpegno che ha permesso già molti abusi e atti di violenza: l’uccisione in diretta Fb di un hazara cittadino australiano che riprendeva violenze, apostrofato dagli squadristi e ucciso sotto gli occhi di moglie e figli; l’umiliazione di dover seguire un percorso attraverso le fogne per arrivare all’aeroporto e venire sollevati di peso e rigettati dai marines sul gregge vociante, ma incapace di ribellione (perché non è nelle modalità previste da nessun clan); essere sottomessi al trattamento dei militari addestrati dallo US Army, che nell’aeroporto ti fanno abbassare la mascherina per riconoscere i connotati hazara e a quel punto avvicinano l’arma al tuo orecchio, esplodendo colpi che sfiorano tua moglie… questi sono episodi narrati con indignato terrore da un hazara che usava le ferie per ottenere documenti per il ricongiungimento e che il Console buono ha sedotto e abbandonato.

Clan e tribù: la coazione a ripetere

Per capire come funziona un accordo che si va a stringere con una realtà simile a quella talebana ci si deve ancora una volta immergere nell’idea clanica, opposta a quella di comunità di individui postilluminista: ciò che accomuna gli afgani – a qualunque appartenenza culturale facciano riferimento (pashtun, tajik, uzbek, hazara, turkmeni, kirghizi, nuri, aimak, wakhi…) – è la consapevolezza che tutto si regge sulla tradizionale competizione tra tribù fondata sulla coazione a ripetere invariata di ogni singola consuetudine della struttura, e quindi dei riti, delle cerimonie, dei matrimoni combinati, ma soprattutto dei ruoli; ciò che l’Occidente non è in grado di capire, perché ha scardinato quel sistema secoli fa e non ne ha più memoria, è che nessuno dei fondamenti custoditi dai potenti del clan può venir meno, a rischio di implosione di tutto. E quindi, come ribadiscono testimoni abbandonati dai ponti aerei, le donne non devono poter accedere alla istruzione per più di 7 anni (perché la cultura è l’antidoto contro ogni forma di repressione), le barbe non vanno tagliate (perché si è sempre fatto così), le donne non possono indossare pantaloni bianchi (mamnu, perché il loro culo contaminerebbe il colore della bandiera talebana)… sciocchezze per altre tradizioni, ma metodi già ripristinati con il corredo di taglio di mani ai ladri e lapidazione alle adultere, per rassicurare chi ha introiettato un ordine prescrittivo forte che non tralascia alcun dettaglio per perpetuare invariato un mondo, preservandolo da incrinature che potrebbero rovesciare i rapporti di controllo sulla società.

L’articolo di Giuliano Battiston è stato pubblicato da “il manifesto” il 29 agosto 2021 e si trova tra gli articoli di analisi prodotti da “Lettera 22

La ribellione non è contemplata

Ma non è un caso che non ci siano state resistenze all’avvento delle orde talebane: erano già collaterali a una società che tra occupanti portatori di affari e tradizionalisti aveva già deciso come regolarsi. Sarebbe bastata quella incrinatura a minare il “cimitero degli Imperi” ben più di un’oliata macchina da guerra tecnologica. In realtà la ribellione, anzi anche solo la protesta, non è contemplata. Per esempio le donne (poche significative decine inizialmente e poi sempre di più, ma ancora minoranza, nonostante il supporto di molti uomini estranei alla tradizione patriarcale) che il 2 settembre hanno inscenato manifestazioni in particolare a Herat sono il risultato dei vent’anni di apparente vacanza dal controllo della tradizione: il fatto che abbiano potuto farlo senza una reazione significativa iniziale da parte dei fondamentalisti dimostra come non le considerino realmente pericolose e che i vent’anni di affari e traffici senza immaginare di poter consentire la creazione di un sistema alternativo non hanno emancipato che pochi individui… e che i Talebani hanno imparato anche come in certe situazioni conviene fingersi tolleranti: finisce che fa gioco mostrare che non si reprimono manifestazioni pubbliche. E non ci si può scandalizzare per un po’ di lacrimogeni il giorno successivo a Kabul, perché altrimenti gli stessi giornalisti inorriditi dai manganelli a Kabul, dovrebbero farlo anche in Val di Susa; piuttosto è da valutare l’imbarazzo e la reazione legata alla sorpresa di scoprire un mondo femminile sconosciuto, e così diventano le situazioni quotidiane, che vengono represse dal patriarcato, a fare la differenza rispetto alla predisposizione a un confronto dialettico impossibile, non avendo una lingua comune. Sparare nervosamente in aria, perché non si può (ancora) sparare addosso a questi che sono alieni per l’universo di riferimento talebano, è la più esplicita esibizione di lontananza dal mondo cresciuto in questi vent’anni a Kabul e nelle grandi città, spazi fuori controllo rispetto ai giochetti rassicuranti dei vilayet dei monti. Lo stesso distacco, che non può tollerare la ricetta oscurantista, produce un mondo separato di repressi, brutalmente – e quindi per la legge islamica giustamente terrorizzati dai poco lucidi e ancor meno rassicuranti filopakistani. E quelle donne a loro volta vengono sottoposte a minacce da parte dei confusi (dall’impatto con la metropoli) Talebani e sgomente al punto di indossare il burqa –anche manifestando – pur se nessuno lo ha prescritto.

Herat, manifestazione di donne 3 settembre 2021

Dal fronte femminile si registrano alcune ribellioni, contestazioni – impossibile sognare che si svolgano provocatoriamente senza veli: sarebbe davvero suicidio –, o prese di posizione che possano infastidire, ma non è vero che non agiscano “autonomamente”: sono sempre più numerosi i casi di mogli selezionate dal clan che – dopo un tempo più o meno lungo di permanenza nei paesi in cui i giovani afgani protagonisti della migrazione di 15 anni fa le hanno ricongiunte – abbandonano il tetto coniugale per raggiungere i paesi del Nordeuropa attraverso una rete che organizza il trasferimento. Fin dal primo momento insistono per ricollocarsi in paesi in cui le possibilità sono migliori di quelle del Sudeuropa – evidente la missione assegnata dal clan anche a loro, un incarico che non prevede il coinvolgimento del coniuge, ridotto a semplice passeur legale che spesso non è nemmeno a conoscenza dell’intenzione iniziale della famiglia, benché la blanda opposizione lasci intendere che l’epilogo era messo in conto, conoscendo i calcoli clanici. Anche in questo caso in cui apparentemente sembra che le donne prendano in mano il loro futuro, sono ancora una volta strumenti della volontà della famiglia patriarcale.

Una storia, tante storie

Figurarsi quanto possono radicarsi e durare i diritti mai realmente compenetrati nella società afgana, perché non è una società di individui: persino quando scrivono i libri che raccontano la loro storia, commuovendo l’Occidente, ciascuno dei giovani afgani, stimolati a far conoscere la loro storia dagli amici europei ammaliati dall’esotismo e colpiti dalle vicissitudini, non riesce a fare una biografia ma la figura dell’io narrante comprende tante storie di tanti esuli: tutti insieme costituiscono la comunità afgana della diaspora e la sua narrazione che è unica e collettiva e quindi è anche eticamente corretto per loro attribuirsi episodi non vissuti in prima persona, ma comuni ai “conoscenti” afgani che hanno incrociato nel viaggio e nell’inserimento nella società europea e contemporaneamente i nuovi rituali degli expat e le telefonate quotidiane con il clan.

Scatto di Seyf Karimi, Kabul – Chindawol, 4 settembre 2021

Una realtà che non si fonda sull’individuo riconosce solo il ruolo collettivo in cui il singolo è un numero la cui attività è regolata dalla tradizione: infatti ora i Talebani si trovano di fronte a un incrocio: i giovani che in questi 20 anni sono stati contaminati dalla frequentazione di mentalità e comportamenti estranei alla tradizione, o i ragazzi della diaspora costretti all’emigrazione – che tutti, nessuno escluso, hanno mantenuto i contatti con il clan e ne sono stati in qualche modo condizionati e manipolati, soprattutto per legami matrimoniali o per mantenere il ruolo che era loro prescritto già alla partenza – ora trentenni con metà della vita trascorsa in Europa, pur sempre avvolti o protetti o comunque coinvolti dalla comunità expat, sono portatori di modi di pensare e vivere che sarebbero letali per il meccanismo clanico, quindi vanno trattenuti per il loro know how tecnologico utile all’emirato di “trogloditi in turbante” come vengono concepiti da quelli intrappolati a Kabul dalla loro repentina avanzata, oppure è meglio consentirgli di abbandonare il territorio per continuare a mandare rimesse senza contaminare la restaurazione? Forse che vengano riconosciuti come elementi ormai irrecuperabili all’islam e quindi nocivi può consentire il successo dei corridoi umanitari; dopo probabilmente i restanti verranno eliminati, pena mantenere attivi e inglobati nella realtà congelata locale potenziali tarli capaci di minare il processo di conservazione.
Poi gli affari si fanno con chiunque anche da confini nei quali la cultura estranea non può insinuarsi, ma pecunia non olet.

Emanuele Giordana è attento da tempo alle potenziali esportazioni di califfati fuori dalla Mesopotamia, fin dal volume collettaneo pubblicato da Rosenberg & Sellier nel 2017: A oriente del califfo.

L'articolo Syngué sabour: appunti per un’Orestiade afgana proviene da OGzero.

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Asean tra decimazione pandemica e decrescita tradizionalista https://ogzero.org/covid-golpe-birmano-e-repressione-thai-l-oriente-a-pezzi/ Wed, 01 Sep 2021 20:09:40 +0000 https://ogzero.org/?p=4769 Covid, golpe birmano, repressione thailandese: elementi di stravolgimento innescati per un cambio di rotta di difficile elaborazione per i criteri occidentali. Il Sudest asiatico va decifrato immergendosi in quel mondo altro e sfuggente ai parametri europei, però in grado di elaborare svolte che risultano incomprensibili per i farang, se non dopo che i processi si […]

L'articolo Asean tra decimazione pandemica e decrescita tradizionalista proviene da OGzero.

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Covid, golpe birmano, repressione thailandese: elementi di stravolgimento innescati per un cambio di rotta di difficile elaborazione per i criteri occidentali. Il Sudest asiatico va decifrato immergendosi in quel mondo altro e sfuggente ai parametri europei, però in grado di elaborare svolte che risultano incomprensibili per i farang, se non dopo che i processi si sono ormai proiettati in una direzione inattesa per quanto linearmente coerente a quell’universo di riferimenti, ma di difficile interpretazione al di fuori di quelli, producendo svolte che estromettono gli elementi alieni alla comunità, che si ritrae nei valori tradizionali, forse per trovarvi nuova linfa in prospettiva futura, benché al momento appaia semplicemente reclinata in uno spirito conservatore e retrivo.

Solo una frequentazione ventennale dell’area come quella di Max Morello può cogliere gli elementi di affanno in cui si sta dibattendo innanzitutto la cultura del Sudest asiatico. E questo produce in lui un moto di delusione per l’implosione della sua fascinazione verso l’approccio filosofico delle società asiatiche che aveva imparato a frequentare, l’illusione di potersi lentamente avvicinare a interpretare quel mondo attraverso la conoscenza della filosofia che lo permea; ora sono quasi irriconoscibili nel loro travaglio… e l’inaudito è che questo forse consente di tornare a riconsiderare l’approccio della cultura occidentale, vista l’assenza di spunti progressivi per uscire da una crisi non solo economica e sanitaria da parte di una filosofia che invece risultava affascinante perché appariva capace di proposte globali e non identitarie.


Il grotesque della danse macabre

«Questa mattina è morto il padre di Cho. Soffocato. Non si trova più l’ossigeno… I militari se lo prendono per loro e i loro protetti. Negli ospedali pubblici c’è l’esercito che decide chi ha diritto al respiratore…».

Così mi ha scritto un amico che per fuggire dal caos e dal virus dilagante in Birmania ha abbandonato la casa che si era costruito a Yangon e si è trasferito in un condominio a Bangkok con il figlio e la moglie Cho.

«Non voglio fare il cinico ma mi sembra inutile fare il conto dei morti in Birmania. Qui si moriva comunque per qualsiasi altra malattia. La differenza è che adesso si muore soffocati»,

mi dice un altro amico rimasto in quel paese. Lui ha cercato di evitare il contagio, le manifestazioni e i combattimenti continuando a spostarsi tra i villaggi più isolati.

La Birmania, Yangon in particolare, è divenuta la scena di una tremenda rappresentazione pulp, splatter, horror, da teatro dell’assurdo e della crudeltà. I paragoni con generi o forme di spettacolo, di patologie psichiche reali o diaboliche, di miti e superstizioni non sono un espediente letterario. Servono a rappresentare una realtà che diviene sempre più difficile da credere, immaginare e descrivere se non si ricorre alla dimensione fantastica, a un vero e proprio lessico dell’orrore che si ritrova nei titoli, negli articoli, nei post, nei tweet.

A fine agosto le vittime della repressione militare sono oltre 1000. Circa 15.000 i morti per Covid. Entrambe le cifre, probabilmente, errate per difetto e sicuramente destinate ad aumentare. Soprattutto la seconda. In alcune zone metà della popolazione potrebbe essere già infetta. A Yangon i morti superano i 2000 al giorno.

Catastrofe umanitaria multidimensionale

«Stiamo morendo tutti. Il Myanmar è sull’orlo della decimazione»,

mi dice un altro amico ancora stremato dal contagio. I cadaveri vengono bruciati anche negli inceneritori, sepolti in fosse comuni o addirittura in discariche. Il Covid si diffonde ulteriormente tra i volontari che li trasportano. Molti muoiono in casa, soffocati, aspettando l’ossigeno che non arriva. L’esercito si riserva il controllo dell’ossigeno le cui scorte vanno esaurendosi.

La perfetta rappresentazione, anche semantica, di questa situazione sta tutta nella dichiarazione di Michelle Bachelet, alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani. Riferendosi alla situazione in Myanmar ha definito una crisi che sta precipitando in una “catastrofe umanitaria multidimensionale”. Espressione che ingloba l’angoscia, l’orrore, la miseria, la violenza del covid e del golpe.

Solo il 40% del già ridotto sistema sanitario birmano è operativo, secondo le stime più ottimistiche solo il 6% di una popolazione di 54 milioni è vaccinato. Molti medici vengono arrestati per aver violato il coprifuoco per visitare qualcuno o portargli ossigeno. Altri medici e infermiere finiscono in prigione per essersi rifiutati di lavorare negli ospedali dei militari. Migliaia di persone si ammalano e muoiono di Covid in carcere. I dirigenti anziani della National League for Democracy sono letteralmente decimati. Si estingue così una generazione sopravvissuta a decenni di lotte e persecuzioni. Insomma, il Covid diviene il miglior mezzo di controllo e repressione: sta stremando l’opposizione, è perfetta scusa alle morti per tortura. Ma soprattutto il Covid riduce la popolazione in uno stato di attonita impotenza, esacerbando diseguaglianze già abissali, condannando i più poveri, il cui numero è destinato a raddoppiare, a soffrire senza possibilità di reazione. Intanto è più che triplicato il numero dei rifugiati interni, uomini donne e bambini che hanno abbandonato i loro villaggi per sfuggire ai conflitti tra esercito e milizie etniche che si sono riaccesi in tutta la Birmania.

È una tempesta perfetta…

in cui non sembra aprirsi alcuno spiraglio. Le milizie sono vittime del “dilemma del prigioniero”: pur sapendo che l’unica possibilità di reale opposizione sta in un’alleanza, non riescono a unirsi per reciproca diffidenza e per l’incapacità di valutare rischi e benefici. Il People’s Defence Force (Pdf), braccio armato del National Unity Government (Nug), a sua volta, sembra paralizzato dal mancato appoggio delle milizie e dalla difficoltà di convertirsi alla lotta armata da parte di un’opposizione che, sotto la guida di Aung San Suu Kyi aveva fatto della non-violenza la sua forza. In molti casi, quindi, i gruppi di resistenza sembrano mossi dalla disperazione, pronti a un sacrificio rituale. Com’è accaduto ai giovani che si sono gettati da una finestra per evitare la cattura e la tortura.

A poco a poco, tuttavia, sembra che alcuni gruppi stiano evolvendo verso forme più organizzate e sofisticate di guerriglia, come l’agguato in cui sono stati uccisi cinque poliziotti proprio come rappresaglia per il suicidio degli studenti.

Sul fronte opposto la giunta militare non sembra in grado di vincere una guerra civile che non aveva previsto. Le forze armate, Tatmadaw, sono decimate anch’esse dal Covid, forse perché ai militari è stato somministrato a loro insaputa il Covaxin, un vaccino indiano ancora non approvato. Secondo fonti dell’opposizione, inoltre, sarebbero già più di 2000 i disertori – soprattutto soldati semplici, sottufficiali e poliziotti – che si sono uniti al Civil Disobedience Movement (Cdm).

In questo scenario da incubo, il programma politico presentato dal generale Min Aung Hlaing, artefice del golpe e autoproclamato primo ministro, appare come un “manifesto di pazzia”, paragonabile a quello dell’Angkar, l’organizzazione dei khmer rossi di Pol Pot, secondo cui chiunque si opponga all’organizzazione stessa è un nemico da sterminare. Anche se ciò significa far strage del proprio popolo. In questo delirio il nemico diviene l’incarnazione del male: Aung San Suu Kyi e la sua Nld sono addirittura accusati di aver violato il dharma, la legge buddhista di cui i militari si ergono a protettori e difensori. Una missione sacra che, secondo i monaci più fanatici, è stata premiata dalla divinità che ha fatto guarire dal Covid l’ultraottantenne generale Than Shwe, dittatore della Birmania dal 1992 al 2011, autore di una sanguinosa repressione con migliaia di dissidenti torturati e imprigionati. Il fatto che Than Shwe e sua moglie abbiano potuto godere di cure precluse al resto della popolazione è anch’esso da considerare come il segno di un karma miracoloso. Al contrario la Signora sarebbe stata punita per la sua incapacità nell’affrontare la crisi sanitaria, nel trovare un accordo con i diversi gruppi etnici e nel mantenere il sostegno dell’Occidente in seguito alla crisi determinata dalle violenze sui rohingya.

Accusa, quest’ultima, che appare grottesca pensando alle responsabilità di buona parte dell’intelligenza occidentale che ha abbandonato Aung San Suu Kyi – e con lei i rohingya – al proprio destino, accusandola di crimini contro l’umanità e genocidio per non essersi opposta con sufficiente forza alla persecuzione compiuta dai militari. È stato proprio l’Occidente, dunque, accecato da una hybris, a creare le condizioni per il golpe.

… per un’epidemia golpista

La situazione in Myanmar sta generando un effetto contagio in tutta l’area. Oltre a ridefinirsi come stato paria, è condannato a essere anche untore. E non solo per le decine di migliaia di persone in fuga. È come se tutti gli orrori della ex Birmania si replicassero o venissero alla luce nelle altre nazioni dell’Asean: la scarsità di ossigeno e di vaccini, il mistero sul numero di morti o contagiati, i cadaveri bruciati nei crematori dei monasteri o sepolti in fosse comuni, la miseria che rende un tampone un lusso (nelle Filippine, per esempio, costa otto volte il minimo salario giornaliero), la rinascita di pratiche magiche in sostituzione di cure mediche inesistenti, l’acuirsi di tensioni etniche, religiose e razziali in cui ognuno cerca nell’altro un capro espiatorio.

Inizialmente sembrava che la resistenza al virus dei popoli del Sudest asiatico fosse l’ennesima prova di una cultura che aveva gli anticorpi per contrastarlo. Per alcuni ricercatori, come l’italiano Antonio Bertoletti dell’Università di Singapore, poteva essere così, ma solo perché si era creata una sorta d’immunità dovuta all’esposizione a virus come la Sars.

Poi, nell’aprile scorso, è arrivata la variante Delta. I contagi e i decessi sono aumentati in modo esponenziale con una crescita superiore a ogni altra parte del mondo. Il Sudest asiatico e i suoi 655 milioni di abitanti sono divenuti l’ultimo hotspot della pandemia, rivelando i malfunzionamenti strutturali della regione: l’autoritarismo o la democrazia limitata, la corruzione e la burocrazia che l’alimenta, le diseguaglianze, il potere delle élite e delle oligarchie, l’assenza di un adeguato sistema di assistenza sociale e sanitaria.

La società disfunzionale e la trasmissione sessuale del virus

La Thailandia è un esempio perfetto di questa società disfunzionale: è stata modello per il golpe birmano e quindi vittima della stessa contaminazione tra Covid e politica, sia pure in forma meno virulenta. Dall’inizio della pandemia sino ad aprile 2021, i casi di Covid erano stati circa 28.000, con 98 morti. Da aprile a fine agosto i contagiati sono circa 400.000, i morti oltre 11.000.

L’epicentro di questa nuova ondata sono stati quei locali, come il Krystal Exclusive Club o l’Emerald, frequentati dai cosiddetti Vvip. Non semplicemente vip, bensì very very important person, che in quei locali incontrano ragazze che non sono semplici escort bensì aspiranti mia noi, moglie minore, amanti ufficiali, cui pagare l’affitto in un residence di lusso (o intestare un appartamento) e assicurare un tenore di vita adeguato allo status del Vvip.

La trasmissione del virus per via sessuale (in senso del tutto traslato), del resto, sembra comune ai paesi del Sudest asiatico. È accaduto anche in Cambogia dove i primi casi della nuova ondata si sono verificati tra i Vvip frequentatori del N8, esclusivo locale di Phnom Penh. A infettarli sarebbero state due delle quattro ragazze arrivate pochi giorni prima da Dubai a bordo di un jet privato.

In pochi giorni il Covid si è diffuso in modo tanto rapido e violento quanto inaspettato. In Thailandia il contagio e la morte, sempre più rapidamente, si sono spostati dai quartieri delle élite come Thonglor e Suan Luang, alle prigioni, ai dormitori dei lavoratori edili, agli slum come Khlong Toey, dove è impossibile qualunque distanziamento sociale, le condizioni igieniche sono precarie, l’assistenza medica limitata. E dove la malattia è vissuta come un ulteriore stigma sociale, il segno di un karma malefico.

Interessi regali in campagne vaccinali thailandesi

La crisi è aggravata dai ritardi nella campagna vaccinale. Il governo thailandese, infatti, l’aveva pianificata con l’uso quasi esclusivo del vaccino AstraZeneca, prodotto dalla compagnia nazionale Siam BioScience, su cui, a quanto sembra, facevano conto anche altri paesi del Sudest asiatico. A fine agosto, solo l’11% della popolazione era completamente vaccinato. Secondo alcuni siti dell’opposizione molte dosi sono state vendute all’estero. Ma sarà impossibile determinare responsabilità o cause: la società farmaceutica, infatti, fa parte del patrimonio della corona, controllato direttamente da re Vajiralongkorn. E qualsiasi critica o semplice dubbio rientra ineluttabilmente sotto la legge di lesa maestà.

Altro responsabile dei ritardi vaccinali è l’ineffabile ministro della Sanità Anutin Charnvirakul, già noto per aver dichiarato che i farang, gli occidentali, erano potenziali untori in quanto “sporchi”. Secondo molte indiscrezioni Anutin avrebbe dichiarato che il vaccino Pfizer non aveva dimostrato la sua efficacia sulle popolazioni asiatiche. Quindi avrebbe dato più fiducia al cinese Sinovac (che secondo le stesse indiscrezioni è in parte controllato da una delle più ricche famiglie thai).

Nonostante gli sforzi compiuti negli ultimi mesi abbiano contenuto il dilagare della crisi sanitaria, il virus ha innescato la peggior crisi economica che abbia colpito la Thailandia negli ultimi vent’anni e 21 milioni di persone rischiano di non avere più mezzi di sostentamento. La Thailandia, che secondo un rapporto del 2018 era al primo posto nella graduatoria delle diseguaglianze sociali, rischia di incrementare in modo esponenziale il suo primato.

Ritorno al futuro della decrescita nella felice vita tradizionale 

La pretestuosità dei valori khwampenthai, la rivolta in salsa prik…

In una situazione del genere appare allucinante una delle soluzioni proposte dall’establishment, ispirata ai valori della khwampenthai, la thailandesità, più che a teorie macroeconomiche: un programma di decrescita felice secondo cui il popolo thai dovrebbe tornare a uno stile di vita tradizionale, che sembra finalizzato soprattutto a un maggior controllo. Sempre più detenuto dalle cinquanta famiglie più potenti del regno, il cui patrimonio combinato ha raggiunto la cifra record di 160 miliardi di dollari. A ogni buon conto, per evitare possibili conseguenze personali per qualsiasi eventuale errore, il ministro Anutin si è fatto latore di una legge che scarichi di qualsiasi responsabilità nella gestione del covid operatori sanitari e funzionari di ogni livello.

In questo clima era inevitabile che riprendessero le manifestazioni di piazza. Ma se prima si trattava soprattutto di una protesta d’élite che metteva in discussione la cultura gerarchica della tradizione thai, compreso il totem e tabù della monarchia, e si svolgevano secondo forme e modi da “indiani metropolitani” in salsa prik, piccante, oggi sono rivolte antigovernative, rabbiose, spesso violente, innescate dalla paura del virus e dal risentimento verso un sistema corrotto che non è riuscito a contenerlo. Altrettanto violenta la reazione della polizia che sempre più spesso fa uso della forza e sembra voler contendere all’esercito il ruolo di gendarme del governo, riappropriandosi del controllo delle strade (con tutti i benefici che ne conseguono).

… e i bachi nei principi della sapienza tradizionale

«La Thailandia sta precipitando in un nuovo caos», ha dichiarato un attivista di Human Rights Watch.

«C’è un certo conforto nella decadenza. È come confrontarsi con la prima nobile verità del Buddha, il dukka, l’inevitabile sofferenza che segna l’esistenza»,

mi aveva detto lo scrittore thailandese Tew Bunnag. Figlio lui stesso dell’ammart, l’élite, che ha ripudiato la sua classe sociale per dedicarsi alla meditazione e all’assistenza ai malati terminali, Bunnag commentava così il suo libro Il viaggio del Naga in cui il serpente gigante della mitologia hindu-buddista simboleggiava la natura che governa i destini umani.

«Vivi nella sensazione di questo sottile equilibrio tra il dukka e il tentativo di cogliere ogni attimo di piacere che ti offre la vita».

Il naga, oggi, sembra incarnarsi nel Coronavirus, ma sembra che la massa della popolazione thai abbia perduto la disperata capacità di cogliere il sanuk, quel piacere che allevia la sofferenza.

La pandemia di Covid-19, insomma, sta facendo crollare quella House of Cards, il castello di carte, che si reggeva sul principio del pii-nong, maggiore-minore, che riguarda l’età, il ruolo familiare, lo status professionale, economico, sociale, culturale, l’esperienza. Un complesso rapporto che era uno degli elementi della khwampenthai, divenuta espressione di un crescente orgoglio nazionale. Per la maggior parte dei locali, che fossero phrai o ammart, membri del popolo o delle élite, uniti in questo come nella passione per il som tam, l’insalata di papaya verde, la salvezza era insita nella loro capacità di rispettare le regole, nei loro rituali, come il wai, il modo di salutarsi giungendo le mani di fronte al volto, che evita ogni contatto.

Gli asiatici, infatti, giustificano ineguaglianze, colpi di stato, restrizioni e violazioni dei diritti umani affermando che per loro non si possono applicare i valori dell’Occidente. Al tempo stesso quegli stessi valori vengono contestati in funzione di una pretesa superiorità morale che deriverebbe dal mantenere immutati i propri valori. È qualcosa che va contro uno dei cardini della logica aristotelica: il principio di non-contraddizione. Ma, ancora una volta, parliamo di una logica occidentale, lineare, ben diversa da quella orientale. Qui vige un principio circolare in cui tutto è o può essere il contrario di tutto.

Il fallimento del minilateralismo

Quello che alcuni osservatori locali hanno definito “minilateralismo” dell’Asean a indicare un modello virtuoso di sviluppo in cui si confrontano gruppi di paesi, si sta rivelando come l’ulteriore limite di un’organizzazione sovrannazionale priva di visione strategica, di quella “centralità” che definisce la capacità di affrontare le sfide esterne al gruppo di nazioni. E come l’Asean si è rivelata del tutto incapace di gestire la crisi politica in Myanmar, ancor meno sembra capace di prendere posizione tra i grandi giocatori che si confrontano nello scacchiere dell’Asia orientale, in particolare nel Mar della Cina meridionale. Quella dell’Asean appare una vera e propria manifestazione di ignavia: i problemi non vengono risolti non tanto per divisioni interne, quanto perché non sono posti o sono rimossi. Ancora una volta si manifesta quel principio che in Thailandia è sintetizzato nell’espressione “mai pen rai”: non pensarci, non preoccuparti. Potrebbe accadere così anche per la ripresa dell’estremismo islamico nell’area – che non ha rinunciato al progetto di un califfato in Sudest asiatico.

Ripiegamento dall’arrembaggio asiatico…

In effetti sta accadendo il contrario di ciò che molti preconizzavano: il “Tramonto dell’Occidente” cui doveva succedere l’alba del “Nuovo secolo asiatico” sembra essersi arrestato al crepuscolo, cui sta seguendo un’improvvisa aurora che illumina l’ovest. Il “Post-Western World” sembra trascorso o comunque si è ristretto entro i confini dell’Impero di Mezzo. Sembra invertito un ordine che aveva assunto le caratteristiche di un processo naturale, quasi genetico, come se l’evoluzione della Repubblica Popolare Cinese si diffondesse in tutta l’Asia per partenogenesi. Un processo di cui facevano vanto soprattutto le nuove tigri asiatiche, le nazioni dell’Asean, del Sudest asiatico. Oggi invece la Cina diventa sempre più inaccessibile: le autorità della provincia dello Yunnan che segna il confine con il Sudest asiatico stanno progettando un muro che li protegga da ondate di profughi.

… e il ripiegamento dall’esotico

Agli occhi di un farang, quell’altrove dove anche le zone d’ombra facevano parte di uno scenario esotico in cui si compiaceva di vivere senza subirne le conseguenze, diviene un teatro della crudeltà dove non può più sottrarsi alla realtà, dove anche lui può divenire una vittima. La prima, più forte reazione a questa presa di coscienza è un desiderio di fuga, di ritorno in patria, con la pretesa di essere accolti come un figliol prodigo. È il preludio alla riconversione, al mea culpa, alla dichiarazione d’appartenenza a un mondo che, pur con tutti i suoi limiti, garantisce i fondamentali diritti umani, si basa su quei valori universali che si era stati tentati di rinnegare per la fatale attrazione degli “Asian Values” che apparivano più efficienti e adatti ad affrontare le sfide del nuovo millennio.

Ancora una volta la dicotomia è il velo alla semplificazione perché l’Asia stessa, i suoi valori cambiano profondamente in funzione geografica, culturale, religiosa, storica: Asia del Sud, centrale, orientale, Sudest asiatico, confucianesimo, buddismo (con le profonde differenze tra il Mahayana e il Theravada), islam, eredità coloniali, ideologia comunista o postmarxista, autocrazia e democrazia entrambe in più varianti del Covid.

Fallimento del policentrismo multipolare

«L’Asia è policentrica, multipolare… In Asia non c’è uniformità in termini di geopolitica e cultura e ognuna di quelle nazioni è un mondo a sé stante».

Lo ha scritto Francis Fukuyama in epoca prepandemica, quando il policentrismo appariva un antidoto alla globalizzazione, una nuova forma evolutiva. Oggi, però, si sta rivelando disfunzionale: la gestione della pandemia si è rivelata tra le peggiori al mondo (almeno secondo il Nikkei Covid-19 Recovery Index), circa 90 milioni di persone sono regredite alla condizione di povertà, la middle class è stata uccisa in culla, l’illiberalismo, l’autocrazia, l’etnonazionalismo e l’integralismo religioso si diffondono col virus. Le nazioni del Sudest asiatico si dimostrano non le nuove tigri bensì anatre zoppe che si dibattono in una palude distopica.

Resistenza confuciana?

In questo scenario apocalittico sembrano “salvarsi” solo Vietnam e Singapore, entrambi accomunati dalla comune radice confuciana. In Vietnam, che pure sta subendo una nuova e grave ondata del Covid, il controllo esercitato dal Partito, una classe dirigente più preparata e una lunghissima esperienza delle emergenze hanno contenuto il contagio e la crisi economica. Singapore, sempre più lanciata nella sua corsa verso la realizzazione di un’utopica Elysium, sta procedendo dalla pandemia all’endemia, ossia alla coesistenza col virus tenuto sotto controllo dai vaccini, dalle nuove terapie e da forme di rilevazione rapida del virus come l’analizzatore del respiro. Sono soprattutto questi modelli che hanno creato in molti occidentali l’illusione che tutto il Sudest asiatico potesse rappresentare un’alternativa politica ed esistenziale. Un equivoco, dunque, all’interno di un inganno.

Resilienza occidentalista?

In questa prospettiva culturale bisognerebbe ripensare a tutte le criticità europee rivalutando un sistema che si sta rivelando davvero resiliente. Tanto per usare in modo adeguato un termine abusato. Nel confronto con le nazioni dell’Asean si può comprendere e apprezzare il vero senso della libertà di cui godiamo. Proprio nei beni immateriali – quali la governance, l’innovazione, lo stato di diritto, il welfare, la cultura della libertà di pensiero e d’espressione – l’Europa può riaffermare il suo ruolo, definire un modello culturale. A condizione che ne abbia coscienza e capacità di affermarlo.

«Senza memoria, non vi è identità. E senza identità, siamo solo polvere sulla superficie dell’infinito», ha detto Jonathan Sacks, leader ecumenico, filosofo. Che avvertiva: «Le civiltà cominciano a morire quando perdono la passione morale che li ha portati a esistere».

  


Il pezzo che abbiamo proposto qui è un aggiornamento e un approfondimento operati dall’autore dopo la pubblicazione di un articolo che Massimo Morello stesso aveva scritto per “Il Foglio” uscito il 29 luglio 2021. Come già nella raffinata operazione iconografica operata da Roland Barthes – le due fotografie che corredavano L’Impero dei segni e riproducevano il ritratto di un medesimo giapponese con lievi, ma sostanziali differenze tra il volto nel primo frontespizio della prima illustrazione e la sua versione modificata al fondo del libro – qui si possono confrontare le due versioni e si noterà un’accresciuta amarezza orrifica proveniente sia dalle testimonianze aggiunte, sia dai nuovi dati sulla pandemia e il montaggio diverso nei due pezzi di argomenti simili e dati aggiornati restituisce moltiplicata la delusione dell’orientalista, il travaglio di una società che sembra fornire solo formule contraddittorie e regressive…

L’Oriente a pezzi

 

L'articolo Asean tra decimazione pandemica e decrescita tradizionalista proviene da OGzero.

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n. 12 – Baltico: ordigni umani sparati sul confine bielo-lituano https://ogzero.org/la-rotta-baltica-e-migranti-da-iraq-e-dal-sud-del-mondo/ Tue, 31 Aug 2021 15:20:08 +0000 https://ogzero.org/?p=4576 La rotta baltica è diventata un modello esemplare dei destini di chi è costretto a fuggire dalla sua terra e di come la loro sorte sia strumentalizzata dai governi in funzione geopolitica. Giunti a questo punto del percorso, avendo analizzato i motivi delle popolazioni che hanno dovuto lasciare le loro case, OGzero ha chiesto a […]

L'articolo n. 12 – Baltico: ordigni umani sparati sul confine bielo-lituano proviene da OGzero.

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La rotta baltica è diventata un modello esemplare dei destini di chi è costretto a fuggire dalla sua terra e di come la loro sorte sia strumentalizzata dai governi in funzione geopolitica. Giunti a questo punto del percorso, avendo analizzato i motivi delle popolazioni che hanno dovuto lasciare le loro case, OGzero ha chiesto a Fabiana Triburgo di cominciare la disamina delle caratteristiche delle piste seguite per raggiungere l’Occidente proprio con questa rotta, quella più settentrionale. Si tratta di iniziare la nuova sezione dedicata alle migrazioni del terzo millennio in un modo geograficamente anodino, ma la scelta trova una motivazione squisitamente geopolitica, che rievoca l’approccio turco e ribadisce il fatto che la chiusura europea alimenta le peggiori democrature, che sfruttano timori indotti dai sovranisti di ogni nazionalità.

Infatti Lukashenka, il satrapo bielorusso sopravvissuto all’Unione Sovietica e sostenuto da Putin, attrae migranti – in particolare iracheni – da lanciare poi come  battaglioni di disperati all’assalto del confine lituano come ricatto per ottenere la revisione di sanzioni da parte dell’UE (soprattutto dopo la fuga proprio in Polonia dell’atleta olimpionica Krystina Tsimanovskaya). La reazione scomposta dei paesi baltici (che prevedono un muro di metallo alto 4 metri e lungo 508 chilometri!), e in generale dell’Unione europea, è sintomatica della scelta di chiusura inumana di società terrorizzate dal sovranismo imperante: l’accusa è di “hybrid warfare”. I baltici e gli scandinavi pensavano di essere sufficientemente distanti dalle zone interessate dall’esodo, e ora invece devono rivedere la loro politica di chiusura all’interno dell’Unione: ora sono le loro frontiere a essere direttamente attraversate. Non possono più fare finta che non sia un loro problema il disastro prodotto nel Sud del mondo dal sistema di cui fanno parte; l’unica soluzione che sono riusciti a mettere in atto, come riporta “The Guardian”, è il respingimento in Bielorussia di 700 persone a settimana, dichiarando lo stato di emergenza fino al 10 novembre.

E quindi con questo pezzo inauguriamo lo studio degli itinerari intrapresi, delle vessazioni che costellano le rotte, dell’ipocrisia che i migranti affrontano a ogni chilometro coperto, spesso ricoprendolo ulteriori ennesime volte in seguito a respingimenti, deportazioni, abusi, violenze… divise. 


I principali conflitti che attualmente interessano le migrazioni forzate e le prassi di esternalizzazione poste in essere dall’Unione Europea e dai singoli stati membri portano a una predeterminazione delle rotte dei migranti.

Quello che oggi è inevitabile chiedersi è se il nuovo Patto europeo sulla Migrazione e l’Asilo, proposto dalla Commissione UE, possa essere realmente considerato una soluzione della gestione del fenomeno migratorio o se invece vi siano soluzioni legali alternative maggiormente lungimiranti e coraggiose.  


Rotta baltica e migranti da Iraq e dal Sud del mondo

Da pochi mesi la nazionalità irachena risulta quella maggiormente presente tra i migranti che percorrono una nuova rotta, quella baltica che interessa Bielorussia e Lituania e che sta facendo scattare il solito allarme “sicurezza interna” per l’Unione europea e per alcuni dei paesi membri. Bielorussia e Lituania condividono circa 600 chilometri di territorio di un confine facilmente arginabile essendo costituito per lo più da sterpaglie e torrenti.

Fino a due mesi fa la rotta era battuta esclusivamente da bielorussi oppositori di Lukashenka molti dei quali – come la leader Svetlana Tichanovskaya – hanno trovato rifugio proprio in Lituania. Tuttavia, le sanzioni dell’Unione Europea imposte a Minsk a sostegno delle manifestazioni della popolazione bielorussa – durante le quali il presidente Lukashenka è stato accusato di brogli elettorali – hanno esacerbato la vicenda trasformandola in un fenomeno di tensioni geopolitiche sulla questione migratoria che coinvolgono diversi paesi. Sulla rotta Minsk-Vilnius è stato rilevato il passaggio di circa 4000 migranti solo nell’anno 2021 provenienti dall’Iraq prevalentemente ma anche in porzione più esigua dalla Siria, dall’Afghanistan nonché dalla Repubblica democratica del Congo, dalla Guinea e dal Camerun a fronte delle 74 presenze di migranti registrate nell’intero 2020.

Il presidente Lukashenka infatti, mandante lo scorso maggio del dirottamento del volo Ryanair diretto in Lituania con a bordo l’oppositore Roman Protesevich, in risposta alle sanzioni europee ha invitato i migranti – che battono soprattutto le altre due rotte migratorie, quella dell’Egeo e quella Balcanica – a recarsi in Bielorussia specificando che

Minsk «non fermerà nessuno. Non siamo noi la loro destinazione finale: loro vogliono andare nella calda e illuminata Europa».

Soldati dell’esercito lituano depongono concertina al confine con la Bielorussia

Al riguardo occorre rilevare che sono gli stessi agenti bielorussi spesso in borghese a indicare ai migranti i punti di accesso alla frontiera lituana distante 150 chilometri da Minsk. Atto questo senza dubbio provocatorio che tuttavia ha fin da subito determinato nell’Unione Europea la solita fobia dell’invasione con il conseguente dispiegamento («in aiuto di Vilnius») di forze di pattugliamento capeggiate da Frontex, almeno 60 uomini, dotati di attrezzature militari e tecnologiche e finanziamenti sia per la costruzione di un muro di filo spinato lungo l’intera linea di confine tra Bielorussa e Lituania che per la costruzione di centri di detenzione in Lituania, accusando chiaramente la Bielorussia di aver strumentalizzato i migranti ma dimostrando di essere al contempo caduta nella trappola. L’UE è infatti corsa ai ripari: la Commissaria agli Affari interni dell’Unione Ylva Johansson ha subito dichiarato la necessità di barriere fisiche per gli ingressi irregolari dei migranti specificando poi mediante un portavoce di Bruxelles che la Commissione non finanzia direttamente la costruzione di barriere ma soltanto – con la solita narrativa di circostanza – «soluzioni integrate di gestione delle frontiere».

Corridoi aerei malati

Sembra che non si riesca proprio a comprendere che la gestione delle politiche migratorie così concepita è un punto debole dell’Unione talmente palese internazionalmente da divenire uno strumento di ricatto della potenza locale di turno a seconda degli interessi in gioco, vedi al riguardo la Turchia e da ultima la Bielorussa. I voli verso Minsk non partono infatti soltanto da Baghdad ma anche da Istanbul che recentemente ha ricevuto il secondo ingente pagamento da parte dell’UE per la “gestione dei flussi migratori”. In particolare, la rotta Istanbul-Minsk rispetto alla quale prima di luglio registrava voli tre volte a settimana ora ne prevede uno al giorno. Inoltre, la presidente della Commissione Ursula von der Leyen e l’alto rappresentante dell’UE per gli affari esteri e la politica di sicurezza Josep Borrell – che di recente si è incontrato con il ministro degli Esteri iracheno Fuad Hussein – nonché altri membri della diplomazia dell’Unione stanno cercando di interrompere i voli delle due principali compagnie aeree che gestiscono le tratte verso Minsk ossia la Fly Baghdad e in particolare l’Iraqi Airways che per ora ha sospeso i voli fino al 15 agosto. Nella vicenda però sono coinvolte anche società di leasing che forniscono aeromobili alla compagnia bielorussa Belavia e che hanno sede nell’UE in Irlanda e in Danimarca rispettivamente con la SMBC Aviation Capital e con la Nordic Aviation Capital.

Solita risposta: respingimenti, detenzioni arbitrarie, rimpatri, botte, assassini e abusi

Infine il presidente del Consiglio europeo Charles Michel ha incontrato il primo ministro iracheno al-Kadhimi: insomma, se i migranti restano bloccati, l’Unione europea invece si “muove” molto sulla rotta Baghdad-Minsk-Vilnius pressata da Germania, Austria e Repubblica Ceca [gli stessi che vorrebbero permanessero i rimpatrii di afgani verso il paese dei loro aguzzini talebani]. Tutto ciò in violazione della normativa sul diritto d’asilo dell’Unione e di quella sui diritti umani dato che, secondo le testimonianze, alcuni migranti – recentemente respinti dalla Lituania – non solo non hanno avuto la possibilità di chiedere asilo, pur avendo fatto ingresso nel territorio dell’UE, e non hanno neanche ricevuto alcuna informativa rispetto ai loro diritti in qualità di richiedenti asilo, ma hanno perfino riportato ferite e segni di violenza che in alcuni casi hanno richiesto il ricovero.

Come se ciò non bastasse infatti si denuncia l’approvazione da parte del parlamento lituano, il 13 luglio scorso, di una nuova legge sulla migrazione e l’asilo in base alla quale è consentito il trattenimento dei migranti anche richiedenti asilo fino a sei mesi nei Centri detentivi lituani nonché l’immediata espulsione dei medesimi, senza possibilità di appello, in caso di rigetto della domanda d’asilo, qualora si abbia l’opportunità che venga effettivamente valutata. Ultima speranza quindi resta il Summit europeo del 18 agosto che la preoccupata Bruxelles ha deciso di dedicare interamente alla questione della rotta baltica durante il quale si auspica si accolgano effettivamente soluzioni alternative a respingimenti e detenzioni con il maggior ricorso al ricollocamento dei migranti entrati in Lituania all’interno dei paesi dell’UE.

Bruxelles sarà ancora così miope da farsi sfuggire anche quest’occasione?

Polonia-Bielorussia_Sedia

Giuseppe Sedia, “il manifesto”, 2 ottobre 2021

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Esternalizzare le frontiere: è legittimo o opportunista? https://ogzero.org/lesternalizzazione-delle-frontiere-e-le-politiche-europee/ Tue, 31 Aug 2021 14:54:56 +0000 https://ogzero.org/?p=4758 Riprendiamo con Fabiana Triburgo il focus sulle rotte migratorie introducendo il tema dell’esternalizzazione delle frontiere, ossia quella politica europea e degli stati membri dell’Unione, contraddistinta da un insieme di azioni giuridiche, militari e finanziarie – spesso di dubbia legittimità – che ha come fine ultimo quello di ostacolare l’ingresso dei migranti all’interno del territorio dell’UE. […]

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Riprendiamo con Fabiana Triburgo il focus sulle rotte migratorie introducendo il tema dell’esternalizzazione delle frontiere, ossia quella politica europea e degli stati membri dell’Unione, contraddistinta da un insieme di azioni giuridiche, militari e finanziarie – spesso di dubbia legittimità – che ha come fine ultimo quello di ostacolare l’ingresso dei migranti all’interno del territorio dell’UE. Ecco il contesto giuridico.


Le politiche di esternalizzazione: introduzione alle nuove rotte migratorie

Corridoi umanitari, mediante visti di ingresso, reinsediamenti e ricollocamenti automatici, e non volontari, dei migranti attraverso un’equa distribuzione dei medesimi all’interno dei territori dei paesi UE, sulla base del principio di solidarietà sancito dall’articolo 80 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea, sono di recente gli ultimi disperati appelli che la società civile, in particolare le associazioni del Terzo Settore, rivolgono alla politica europea e a quella degli stati membri improntata sull’esternalizzazione delle frontiere. Tale espressione risuona invero in più contesti giuridici e mediatici.

L’esternalizzazione delle frontiere, ossia quella politica europea e degli stati membri dell’Unione, contraddistinta da un insieme di azioni giuridiche, militari e finanziarie – spesso di dubbia legittimità – che ha come fine ultimo quello di ostacolare l’ingresso dei migranti all’interno del territorio dell’UE, tra i quali i richiedenti asilo, comporta l’impossibilità aprioristicamente, per loro determinata, di esercitare i propri diritti e godere delle tutele giurisdizionali garantite per legge. Già, perché questo godimento ed esercizio non è un’opinione ma si evince da quel “Sistema comune d’Asilo europeo”, stabilito dal paragrafo 1 dell’art. 78 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea,  del quale a partire dagli anni Novanta l’Europa stessa ha voluto dotarsi, ma che dal 2015 l’Unione (anche prima, con riferimento alle legislazioni nazionali di alcuni paesi UE, tra cui l’Italia), dato l’aumento sostanziale dei flussi migratori, ha riadattato, modificato a più riprese ma sul quale non ha trovato ancora oggi una soluzione condivisa.

Potremmo così affermare:

fin quando l’Unione attua le pratiche di esternalizzazione dimostra la sua incapacità a rendere effettiva una politica migratoria comune a tutti i paesi che ne fanno parte,

ma tale politica in realtà è già puntualmente regolamentata da disposizioni normative alle quali hanno aderito volontariamente tutti i paesi dell’UE, in senso opposto alle prassi dei respingimenti ancora oggi messe in atto. Le esternalizzazioni vengono realizzate infatti sia dall’UE sia dai singoli paesi membri in collaborazione con paesi terzi extra-UE – quasi sempre in via di sviluppo e spesso definiti “sicuri” per ragioni di opportunismo – attraverso accordi bilaterali o multilaterali, piani d’azione, il cui testo normativo è difficilmente accessibile da parte della società civile. Tuttavia, tali atti normativi di consueto contraddistinti da una sezione relativa allo sviluppo economico – che l’UE o il paese membro garantisce a favore del paese terzo parte dell’accordo o dell’Azione Comune – sono anche connaturati da una sezione dedicata all’accoglienza e alla gestione dei flussi migratori attraverso il finanziamento di programmi di addestramento e di equipaggiamento militare delle forze armate del paese terzo per il contrasto dell’immigrazione definita irregolare.

Campo di Sanliurfa in Turchia (foto Thomas Koch / Shutterstock)

Le responsabilità

Opinabile la portata del termine “irregolare”, essendo la singola valutazione dei motivi per il quale un individuo ha posto in essere il proprio percorso migratorio, attuabile perlopiù quando la persona ha fatto già ingresso nel territorio dell’UE. È noto infatti che le pratiche di esternalizzazione sono concepite, per definizione, al fine di eludere l’applicazione della normativa europea sulla migrazione e l’asilo mediante la delega a paesi terzi di attività che se venissero compiute dagli stati membri o dall’UE senza “l’aiuto” di questi, sarebbero sottoponibili a procedimenti giurisdizionali anche internazionali per l’accertamento delle loro responsabilità. Con tali prassi vengono a ogni modo violati i principi contenuti nelle norme di diritto internazionale alle quali l’Unione Europea ha deciso di adeguarsi. Non solo infatti tutti gli stati dell’UE, facenti parte anche del Consiglio d’Europa, hanno sottoscritto la Convenzione di Ginevra del 1951, ma secondo le norme del diritto dell’Unione, in particolare conformemente al succitato punto 1 dell’art. 78 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea,

«la politica comune in materia di asilo, protezione sussidiaria e temporanea deve essere volta a garantire il principio di non respingimento in conformità non solo all’art. 33 della Convenzione di Ginevra del 1951 (principio di non refoulement) e del suo Protocollo del 1967 ma anche dei trattati internazionali pertinenti in materia»,

quali in particolare la Convenzione Cedu sui diritti umani del 1950, la Convenzione Onu contro la tortura e i trattamenti inumani o degradanti del 1975, il Patto internazionale sui diritti economici sociali e culturali del 1966, nonché la Convenzione Onu sui diritti dei fanciulli del 1989.

Per quanto riguarda il diritto internazionale infatti il “principio del non respingimento” si applica oltre che secondo l’art. 4 e l’art. 19 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea e in conformità all’art. 33 della Convenzione di Ginevra, anche sulla base dell’art. 3 della Convenzione internazionale contro la tortura, nonché secondo l’orientamento giurisprudenziale della Corte di Strasburgo ossia la Corte europea sui diritti dell’uomo in merito all’art. 3 Cedu

che sancisce il divieto assoluto di allontanare lo straniero qualora lo stesso allontanamento costituisca una forma di trattamento inumano o degradante o nell’ipotesi in cui lo straniero rischi di subire trattamenti inumani e degradanti nello stato di destinazione.

Ne discende pertanto che tale principio debba essere applicato non solo ai migranti potenzialmente dichiarabili rifugiati – in base ai requisiti stabiliti della Convenzione di Ginevra – ma a qualunque individuo che rischia di subire un trattamento inumano e degradante. I respingimenti inoltre vengono attuati non solo direttamente ma anche indirettamente. Questi ultimi in particolare sono caratterizzati – come quelli “a catena” nella Rotta balcanica – dalle riammissioni informali, rispetto alle quali si è pronunciato il Tribunale di Roma con l’ordinanza dell’8 gennaio del 2021 nei confronti dell’Italia per quelle attuate in cooperazione con la Slovenia.

Dicembre 2020: incendio nel campo profughi di Lipa, a una ventina di chilometri da Bihać, nel nordovest della Bosnia-Erzegovina al confine con la Croazia

Violazioni e controllo effettivo su un altro stato

Tuttavia, va detto che in base all’art. 1 della Convenzione Europea sui diritti dell’uomo l’esercizio della giurisdizione da parte di uno stato su un territorio è il principio fondamentale per attribuire a esso responsabilità rispetto ad azioni compiute in violazione della Convenzione.

Come si concilia dunque tale interpretazione con quella di una responsabilità statale o sovrastatale, quale quella dell’UE, per trattamenti inumani e degradanti causati in un contesto “extraterritoriale”, in particolare per atti inumani e degradanti che sono stati agevolati indirettamente ma consapevolmente da stati membri dell’UE e/o dall’UE stessa ma eseguiti da paesi terzi?

È chiaro infatti che i paesi terzi quali per esempio Libia e Sudan, nei quali centri detentivi si attua la tipologia di trattamenti di cui sopra, non hanno aderito alle convenzioni internazionali succitate e dunque non possono essere ritenuti responsabili di tali pratiche. A ogni modo sussistono però secondo la Corte di Strasburgo circostanze secondo le quali è consentito derogare eccezionalmente al principio della sovranità territoriale o sovraterritoriale comportando l’attribuzione di responsabilità a uno stato contraente della Cedu, per la violazione dei principi della Convenzione in particolare dell’art. 3 e 5, nell’ipotesi in cui esso abbia un “controllo effettivo” sul territorio di un altro stato.

Sulla base di ciò si può interpretare che i cosiddetti “aiuti” che gli stati dell’Unione finalizzano con gli accordi e i piani di azione attraverso i  finanziamenti per gli addestramenti e gli equipaggiamenti militari – in particolare droni, elicotteri e visori notturni –, nonché la donazione di proprie imbarcazioni per il controllo dei flussi migratori ai paesi terzi, possano essere qualificabili come strumenti che denotano un’ingerenza talmente rilevante, rispetto al territorio di quel paese, da far superare il vincolo della giurisdizione territoriale strettamente concepita dall’art. 1 della Convenzione Europea sui diritti dell’uomo, fatta salva ovviamente la produzione di prove del nesso di causalità tra il danno subito dal migrante e l’azione compiuta dall’UE o da uno stato membro del Consiglio d’Europa. In conformità a tale interpretazione si pone anche la Commissione del diritto internazionale delle Nazioni Unite che ha approvato norme riguardanti il cosiddetto “illecito internazionale” ossia l’attribuzione di responsabilità a uno stato aderente alla Cedu dinanzi alla Corte di Strasburgo che si sia reso artefice, anche indirettamente, di azioni riconducibili alla violazione degli artt. 2, 3, 4, 5 della Convenzione.

I numeri

Al riguardo è necessario fornire alcuni dati in merito agli effetti che tale fenomeno dell’esternalizzazione delle frontiere sta causando. Il numero dei richiedenti asilo in Europa è crollato sensibilmente, ossia di circa il 34% nel 2020 rispetto all’anno precedente: in proporzione vi sono 931 richiedenti asilo in Europa ogni milione di abitanti, per cui ci si chiede se questa sia “un’invasione” tale da scaturire un “allarme sicurezza”. Occorre piuttosto rilevare che ci sono paesi quali Romania, Irlanda, Danimarca, Finlandia, Lituania, Portogallo, Polonia, Repubblica Ceca e Slovacchia nei quali non si è registrata rispetto al 2020 la presenza di alcun richiedente asilo. Solo cinque paesi su 27 membri dell’UE infatti hanno accolto i richiedenti quali Germania, Francia, Spagna, Grecia e infine l’Italia che tuttavia registra una media dell’accoglienza dei richiedenti asilo, rispetto alla propria popolazione, due terzi più bassa dell’intera media europea: all’interno del nostro territorio con riferimento al 2020 si sono registrati circa 355 richiedenti asilo ogni milione di abitanti.

Tali dati uniti alle riflessioni di cui sopra sulle attività poste in essere dall’UE stessa e dai paesi membri nel tentativo di eludere la propria responsabilità rispetto alla normativa europea in materia d’asilo, delegando a paesi terzi l’onere dei respingimenti, delle riammissioni informali e delle detenzioni arbitrarie, fanno intuire il fallimento del Sistema comune di Asilo (Ceas) di cui l’UE ha deciso di dotarsi in passato a partire dal Consiglio europeo di Tampere nel 1999, ma ancora prima con la firma nel 1990 sia della Convenzione Shengen sulla libera circolazione nel territorio europeo nonché della Convenzione di Dublino riguardante la definizione dei criteri per l’individuazione dello stato competente a trattare di volta in volta le domande di protezione internazionale.

Con il Consiglio di Tampere del 1999 l’inserimento della materia d’asilo dal Terzo al Primo pilastro sui quali si fonda l’UE contribuì a implementare la materia con strumenti propri dell’Unione quali direttive e regolamenti, per cui vale la pena ricordare la direttiva 2001/55/CE sulla protezione temporanea ideata per accogliere profughi provenienti dai conflitti del Ruanda e dell’ex Jugoslavia, il Regolamento Dublino II n. 343 del 2003, la direttiva accoglienza dei richiedenti asilo del 2003, la direttiva qualifiche del 2004, con la quale è stata inserita un’ulteriore forma europea di protezione, ossia quella sussidiaria, da applicare in via residuale nei casi in cui non ricorrano i requisiti relativi allo status di rifugiato, la direttiva Procedure del 2005 sul riconoscimento e la revoca dello status di rifugiato, nonché la contestata direttiva Rimpatri 2008/115/CE.

Dublino III

Nel periodo dal 2010 al 2014 invece con la decisione 281/2012/UE è stato istituito il Programma di reinsediamento europeo; inoltre nello stesso periodo è stata attuata la riforma delle direttive qualifiche, procedura e accoglienza ed è stato approvato il regolamento n. 604/2013 detto Dublino III, tuttora vigente.

L’incapacità del Sistema comune di Asilo a regolamentare i flussi migratori si palesò in modo lampante nel 2015 quando alcuni stati vennero messi a dura prova per un incremento sostanziale del numero dei migranti che fecero ingresso nell’Unione. Tuttavia, come vedremo nell’ambito della sezione dedicata al Mediterraneo centrale, analizzando anche il memorandum Italia-Libia, si può agevolmente affermare che il fenomeno dell’esternalizzazione non sia recente ma già compiuto prima della “crisi migratoria” del 2015. Quali sono dunque le politiche che a partire dal 2015 l’UE e i singoli stati membri hanno deciso di mettere in atto per contrastare i cosiddetti flussi dei “migranti irregolari” che tuttora dispiegano i loro effetti e sono ampiamente contestati dalle Associazione giuridiche e del Terzo Settore che si occupano di migrazioni? Sicuramente, il vertice della Valletta del 2015, l’accordo UE-Turchia nel 2016 e lo stesso memorandum del 2017 Italia-Libia, al quale si è unito il Piano d’Azione europeo sempre nel 2017 per sostenere l’Italia nel fronteggiare la questione migratoria, sono stati i primi importanti passi verso l’implementazione delle prassi di esternalizzazione dei confini, a discapito di quei principi di accoglienza e del rispetto dei diritti dei migranti tanto agognati nel trentennio precedente. Oggi tali politiche si realizzano per lo più con fondi europei (l’European Trust Fund) e nazionali (il cosiddetto Fondo Africa) nei quali sono coinvolte anche organizzazioni internazionali quali Unhcr e Oim strumentalizzate per fornire una parvenza di rispetto dei diritti umani in contesti in cui questi sono totalmente ignorati come nel caso dei centri detentivi libici le cui condizioni disumane già sono state evidenziate in precedenza.

Il male minore

In quest’ottica anche le pratiche di reinsediamento portate avanti prevalentemente dall’Unhcr spesso sono considerate “il male minore” poiché, essendo attuate in paesi non firmatari della Convenzione di Ginevra, come avviene in Niger, finiscono per essere sottoposte a una forte discrezionalità che differisce molto dalla puntualità dei diritti di cui beneficiano i richiedenti che si trovano nel territorio dell’UE. Inoltre, il nuovo Patto sulla migrazione e l’asilo del 23 settembre del 2020 – ossia il documento programmatico della Commissione Europea che tenta di istituzionalizzare tali prassi illegittime, di cui ci occuperemo in seguito – e la reticenza al superamento del criterio del primo paese di arrivo, con riferimento al Regolamento Dublino che resta pressoché immutato, non lasciano presagire un cambiamento nel breve periodo di tali politiche. Non resta dunque che analizzare i mutamenti geografici delle attuali correnti umane – nelle diverse rotte migratorie e nei differenti contesti geopolitici in cui essi si determinano – causati proprio da tali politiche.

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E il fiume mormorava in tigrino e amarico https://ogzero.org/tigray-2021-e-il-fiume-mormorava-in-tigrino-e-amarico/ Sun, 29 Aug 2021 07:47:14 +0000 https://ogzero.org/?p=4672 1985, la siccità strema il Corno d’Africa, il fotografo dipinge con quello che ha, i fasci di luce inquadrano un sottobosco di umanità disperata in fuga da fame e guerra. La regione era il Tigray, il fotografo Sebastião Salgado. Allora il celeberrimo scatto del fotografo brasiliano squarciò il velo che nascondeva il quadro dove all’aridità […]

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1985, la siccità strema il Corno d’Africa, il fotografo dipinge con quello che ha, i fasci di luce inquadrano un sottobosco di umanità disperata in fuga da fame e guerra. La regione era il Tigray, il fotografo Sebastião Salgado. Allora il celeberrimo scatto del fotografo brasiliano squarciò il velo che nascondeva il quadro dove all’aridità dei campi tigrini si sommava la guerra portata dagli eritrei filoamericani contro il regime filosovietico di Menghistu, impedendo il transito di aiuti. Si contò un milione di morti alla fine della carestia.

Sebastião Salgado, Kalema Camp – West Tigray, 1985 – mostra di Nice, agosto 2021. Un servizio della Bbc lo definì “la cosa più vicina all’inferno sulla terra”

2021, di nuovo guerra. Anzi, non è mai finita. Di nuovo truppe eritree protagoniste di atrocità in Tigray; ancora deportazioni e campi di concentramento per profughi eritrei fuggiti dal regime di Isaias Afewerki e per tigrini nel mirino della pulizia etnica oromo e ahmara, che vuole vendicare 30 anni di potere tigrino in Etiopia. La differenza sta nell’alleanza inaudita tra Addis Abeba e Asmara, che ha prodotto il consueto corollario di massacri, saccheggi, stupri, torture, esecuzioni e sparatorie; e nell’alleanza stipulata tra Fronti di liberazione tigrino e oromo, che promettono di allargare il conflitto, facendolo diventare Guerra civile di tutta la nazione.

E corpi portati dal Tekezé a valle, in Sudan, dove si chiama Setit.

Tigray 2021

Sponde del Tekezé a Wad el-Hiliou – Kassala, 4 agosto 2021

In questo agosto distratto da conflitti in altre aree strategiche truppe eritree attraversano nuovamente il fiume Tekezé che fa da confine e che ha visto migliaia di morti e 2 milioni di sfollati dall’inizio dell’operazione militare scatenata a novembre da Abiy Ahmed, il presidente etiope. A giugno il Fronte di liberazione del popolo tigrino (Tplf) aveva riconquistato l’intera regione, entrando a Mekallé e costringendo gli etiopi al cessate il fuoco.

Claudio Canal si sofferma brevemente ma efficacemente sugli aspetti che coinvolgono l’umanità oppressa dalla guerra e in particolare le violenze di genere correlate.


Il fiume scorre serafico come sempre.  Il Tekezé è un fiume geopolitico, segna il confine tra l’Etiopia e l’Eritrea e tra Etiopia e Sudan dove cambia nome e diventa Setit. Separa anche l’area delle lingue amarica e tigrina.  Come tutti i torrenti e i fiumi del pianeta trasporta ciò che cade in acqua o vi è gettato. In questi giorni scorrono corpi umani martoriati che dal Tigray [più noto come Tigré nella versione italiana], vasta regione settentrionale dell’Etiopia, galleggiano senza una meta verso il Sudan.

Una guerra la si può vincere o perdere, ma, essendo una macchina di produzione, lascia dietro di sé deiezioni in forma di corpi esanimi. Qualche volta raccolti e sepolti, altre volte lasciati lì a tornare polvere. Salvo che un fiume o un mare li accolga e li smuova secondo le proprie leggi. Fino a questo momento una cinquantina o più. Il fiume racconta che nel suo medio-alto corso è in atto una tragica inimicizia tra esseri umani.

Tigray 2021

Una geopolitica bizzarra ci dice che ex nemici accaniti, che si scontravano da decenni non badando ai morti, Etiopia ed Eritrea, adesso si sono scoperti alleati. Una, con un primo ministro, Abiy Ahmed Ali, laureato Nobel per la pace 2019 e dottorando in guerra; l’altra, con un presidente che si può classicamente definire tiranno. Un ossimoro istituzionale che la realtà però sopporta bene. Un pizzico di accortezza in più ai giurati del Nobel ne consoliderebbe la fama. Ci dice anche, questa geopolitica stravagante, che l’Etiopia è entrata in guerra con se stessa tramite una meno eccentrica e più consolidata forma di guerra civile, iniziata nel novembre scorso. L’obiettivo era ridurre a più miti consigli la leadership del Tigray, che nei decenni passati aveva governato l’Etiopia. Uno scontro di poteri abbastanza tradizionale in cui si è inserita bellicosamente l’Eritrea, in attesa che altri attori dell’area dicano la loro con i propri eserciti. Accendere i motori di una guerra è facilissimo. Difficilissimo anche solo metterla in folle.

Non riassumo i nove mesi di guerra ora in accelerata ripresa. Una aggiornata cronaca si può trovare nella sempre documentata “Nigrizia  e telegraficamente tramite la sintesi della penna di Dave Lawler.

“Tigray nascosto: silenzioso annientamento di una comunità”.

 

Due temi vorrei sottolineare:

  1. se ti arriva la guerra sotto casa o direttamente dentro cosa fai? Cerchi di scappare. È quello che sta massivamente succedendo. Non bastasse, c’era chi già era fuggito dalla confinante Eritrea e stazionava in campi profughi abbastanza improvvisati. Fuggiva dalla, chiamiamola così, antidemocrazia dell’Eritrea, dai suoi soprusi e dalla povertà, e nella tappa in Tigray ritrovava anche una lingua comune, il tigrino [lingua del ceppo semitico come l’amarico, lingua ufficiale dell’Etiopia, preceduta in quanto a numero di parlanti dall’oromonico della nazionalità oromo]. La partecipazione diretta dell’Eritrea alla guerra a fianco dell’Etiopia ha significato per i rifugiati eritrei dover fare i conti, di nuovo, con l’esercito eritreo che non è noto per il rispetto di alcunché. Non è difficile immaginare il disastro della guerra sui loro volti. I superstiti stanno forse sognando un barcone che attraversi il Mediterraneo e li porti in salvo chissà dove.

È il cinismo della geopolitica, che descrive, ma non può render conto dei moti sotterranei delle vite singole e collettive.

        2. «Non so se si sono accorti che ero una persona»

È la dichiarazione di una donna stuprata dai soldati nel Tigray. È anche il titolo del rapporto di Amnesty International e il contenuto di numerose altre inchieste curate dalla Reuters e del Georgetown Institute for Women, Peace and Security e del Kujenga Amani e nuovamente “Nigrizia” e…

Siamo in tempi di turismo, d’arte e d’altro. Passeggiando per Firenze in piazza san Lorenzo è possibile ammirare il monumento che Baccio Bandinelli scolpì nel 1540 per celebrare il condottiero Giovanni della Bande Nere che oggi verrebbe definito contractor e in tempi meno eleganti mercenario.

Le guide descrivono il bassorilievo del basamento come scene di guerra.  Effettivamente. Si vede la cattura di una donna, preludio al suo uso sessuale, come da sempre le regole belliche hanno decretato e che il Novecento ha visto intensificarsi e proliferare fino a oggi. Una terribile ed efficace forma di deterrenza e di intimidazione che si rivolge alle altre donne e ai loro uomini.

Le donne del Tigray gridano che questa storia non è per niente finita, ma dicono anche che da certe orecchie non ci sentiamo. La loro solitudine continua.

Postilla: Eritrea ed Etiopia sono state due colonie italiane. Una, la primigenia, l’altra, l’ultima a essere aggredita dalle truppe del Regio Esercito. Silenzio desertico dalle nostre parti, orfane anche della memoria storica di Angelo Del Boca.


Il Sudan ha convocato l’ambasciatore etiope a Khartoum per informarlo che i 29 cadaveri trovati sulle rive del fiume Setit, al confine con l’Etiopia, tra il 26 luglio e l’8 agosto, erano cittadini di etnia Tigray; i cadaveri sono stati identificati da cittadini etiopi residenti nella zona di Wad al Hulaywah, nel Sudan orientale. Il 5 settembre un reportage della Cnn ha riacceso i riflettori sul Tekezé e sui corpi mutilati che sussurrano nel suo alveo.

Questo scontro diplomatico avviene dopo il ritrovamento e il sequestro, da parte delle autorità sudanesi, di 72 scatole, contenenti armi e binocoli per la visione notturna, arrivate via aereo dall’Etiopia il 4 settembre. Nella serata del 6 settembre, il Ministero degli Interni sudanese ha affermato che la spedizione, che includeva 290 fucili, apparteneva ad un commerciante autorizzato, Wael Shams Eldin, ed era stata controllata e ritenuta in regola. Anche la compagnia aerea etiope ha confermato che le armi erano pistole da caccia che facevano parte di una spedizione verificata. Le armi erano giunte dalla Russia all’Etiopia nel maggio 2019. Le autorità etiopi le avevano tenute ad Addis Abeba negli ultimi due anni, ma, senza preavviso, il 4 settembre, avevano autorizzato il loro trasporto a Khartoum su un aereo civile. I primi sospetti delle autorità sudanesi si erano indirizzati contro i lealisti del governo dell’ex presidente Omar al-Bashir, accusati dai funzionari del Consiglio di transizione di voler minare la svolta democratica del Paese. Le tensioni tra il Sudan e l’Etiopia sono aumentate da quando il conflitto nella regione settentrionale etiope del Tigray si è intensificato e la disputa sulla costruzione della diga Grand Ethiopian Renaissance Dam (Gerd) non si è ancora risolta.

La guerra si estende e comprende nuovi motivi di astio…

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Raisi, il Giudice senza grazia https://ogzero.org/l-iran-e-in-ebollizione-raisi-le-sanzioni-e-le-sfide-internazionali/ Wed, 25 Aug 2021 11:03:15 +0000 https://ogzero.org/?p=4708 Non c’è luna di miele per Ebrahim Raisi, insediato il 5 agosto nella carica di presidente della repubblica iraniana. Nessun “periodo di grazia”, né all’interno di un paese attraversato da proteste sociali e stremata da una nuova ondata di Covid-19, e neppure sul piano internazionale. Durante il suo discorso inaugurale il presidente Raisi si è […]

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Non c’è luna di miele per Ebrahim Raisi, insediato il 5 agosto nella carica di presidente della repubblica iraniana. Nessun “periodo di grazia”, né all’interno di un paese attraversato da proteste sociali e stremata da una nuova ondata di Covid-19, e neppure sul piano internazionale.

Durante il suo discorso inaugurale il presidente Raisi si è dichiarato un «servitore del popolo», e ha detto che la sua priorità sarà risollevare l’economia e portare il benessere «sul tavolo da pranzo di tutti gli iraniani». Ha anche detto che perseguirà una «diplomazia intelligente» per veder togliere le «crudeli sanzioni che opprimono» l’Iran, riferimento ai negoziati in corso a Vienna per riesumare l’accordo sul nucleare iraniano (il Joint Comprehensive Plan of Action, Jcpoa) firmato nel 2015, e vanificato nel maggio 2018 quando l’allora presidente degli Stati uniti Donald Trump ha deciso di uscirne, decretando nuove sanzioni all’Iran.

Il sessantenne Raisi, un religioso di medio rango, è molto vicino al leader supremo Ali Khamenei, di cui era stato allievo. Ha svolto tutta la sua carriera nella magistratura, roccaforte delle correnti più ortodosse della Repubblica Islamica. Negli anni Ottanta è stato nel comitato di giudici incaricati di epurare le carceri iraniane mettendo a morte migliaia di detenuti politici, una delle pagine più inquietanti dell’Iran rivoluzionario. Negli ultimi due anni, come Procuratore capo della repubblica si è fatto paladino della lotta alla corruzione, suo tema di battaglia elettorale. È stato alla testa di una delle più potenti fondazioni islamiche, la Astan Qods Razavi di Mashhad, che controlla un impero commerciale e una rete di beneficenza e opere sociali: un pilastro del consenso al sistema.

Oggi ripete che la sua sarà un’amministrazione «popolare».

Eppure Ebrahim Raisi è stato eletto con il voto meno partecipato nella storia dell’Iran repubblicano: meno di metà degli aventi diritto è andata alle urne. È stato un voto senza concorrenti, poiché gli avversari di qualche peso erano stati esclusi: quella del 18 giugno scorso è stata l’elezione presidenziale meno libera da sempre perfino per gli standard della Repubblica Islamica dell’Iran, dove un organismo che risponde solo al leader supremo ha potere di veto sulle candidature. Insomma, la legittimità popolare del nuovo presidente è molto debole. Lo stesso Raisi riconosce che bisogna «ripristinare la fiducia» degli elettori.

Sta di fatto che, con Raisi alla presidenza, gli oltranzisti del sistema (quelli che alcuni chiamano il deep state, lo stato profondo) controllano tutti i centri di potere della Repubblica Islamica: eletti (il parlamento, la presidenza) e non. La lista dei suoi ministri, sottoposta al parlamento il 12 agosto è significativa: comprende uomini delle Guardie della rivoluzione, ex militari, ex dirigenti dei servizi di intelligence e della Tv di stato (altra roccaforte del sistema). Ci sono anche i dirigenti di due potenti fondazioni islamiche, la Astan Qods Razavi, già citata, e quella intitolata all’Imam Khomeini (rispettivamente ministri dell’istruzione e del lavoro e welfare).

Dunque legge, ordine, forze armate, e welfare. Eppure il neopresidente non avrà periodo di grazia.

La sfida di Vienna

Sul piano internazionale, la prima sfida è proprio quella che si gioca a Vienna. L’amministrazione di Joe Biden ha dichiarato di voler rientrare nell’accordo sul nucleare stracciato da Trump, ma sei round di colloqui tra i partner residui (Iran, Francia, Germania, Regno Unito, Cina e Russia), e indirettamente con gli Usa, non hanno ancora dato esito positivo.

Fare previsioni è inutile; meglio ricapitolare ciò che sappiamo. Il nuovo presidente iraniano ha dichiarato di volere il negoziato, «nei termini indicati dal Leader Supremo» (in effetti è stato Khamenei sei mesi fa ad avallare i colloqui di Vienna). Ebrahim Raisi non ha competenze specifiche in politica internazionale. Come ministro degli Esteri ha scelto un diplomatico di carriera: Hossein Amir-Abdollahian, già viceministro degli Esteri nel primo governo Rohani, poi consigliere di politica internazionale dell’ex presidente del parlamento Ali Larijani. Un uomo di regime con solidi legami con le Guardie della rivoluzione, ma non uno degli oltranzisti che avevano avversato l’accordo sul nucleare (di cui pure erano circolati i nomi). Amir-Abdollahian conosce il dossier nucleare e ha esperienza di colloqui con le controparti occidentali, inclusi gli Usa. Presenterà un volto più duro dei predecessori. Però si può aspettare che nel futuro negoziato l’amministrazione Raisi avrà meno opposizioni interne del suo predecessore Hassan Rohani, il quale è stato boicottato in tutti i modi (interessante il suo ultimo discorso al governo uscente: l’accordo era quasi fatto e le principali sanzioni statunitensi sarebbero cadute già da tempo, ha detto, non fosse stato per l’attivo boicottaggio del parlamento dominato dagli oltranzisti).

Non sarà un negoziato facile neppure per la nuova amministrazione. Non sono di buon auspicio gli “incidenti” navali di fine luglio, che riaccendono i riflettori sulla guerra-ombra in corso tra Israele e Iran (e forse su un nuovo “consenso” anglo-americano contro l’Iran). Ma ci sono anche segnali positivi per la diplomazia: l’inviato dell’Unione Europea ai negoziati sul nucleare, Enrique Mora, era a Tehran per l’inaugurazione del presidente Raisi, con cui si è intrattenuto (anche se il suo gesto è stato criticato da molti difensori per i diritti umani, tra cui l’avvocata Narges Mohammadi).

Un paese impoverito e disilluso

Ma lasciamo per un istante lo scenario internazionale. L’altra sfida per il neopresidente Raisi è all’interno del paese, ed è perfino più urgente. È la crisi dell’economia, appesantita dalle sanzioni internazionali: l’inflazione supera il 44 per cento, le imprese sono in difficoltà, la disoccupazione galoppa, mentre le grandi ricchezze sono sempre più grandi: pochi miliardari e una classe media impoverita. Tutto aggravato dalla lunga pandemia di Covid-19, dalla siccità, i conflitti per l’acqua, la penuria di energia elettrica. Un paese impoverito, disilluso, e senza fiducia nel futuro.

«La tensione nel paese è molto forte e Raisi deve prendere decisioni molto in fretta», dice l’economista e analista politico Saeed Leylaz (riprendo questo commento dal “Financial Times”). Per esempio il contrasto all’inflazione o la conduzione della campagna di vaccinazioni, spiega il presidente:

«ha bisogno di presentare qualche carta vincente, che gli permetta di prendere tempo fino a quando ci saranno decisioni definitive sull’accordo nucleare e sulle sanzioni».

L’urgenza è evidente. L’insediamento di Ebrahim Raisi è stato preceduto da settimane di proteste per la mancanza d’acqua che attanaglia le province occidentali, e per i blackout di corrente elettrica divenuti frequenti in tutto il paese nella stagione estiva.

La rivolta dell’acqua

La rivolta dell’acqua è scoppiata la sera del 15 luglio ad Ahwaz, capoluogo del Khuzestan, provincia occidentale affacciata sul golfo Persico e confinante con l’Iraq.

 

I quattro fiumi della provincia sono ridotti ai minimi storici, l’acqua è razionata, esce dai rubinetti solo un’ora al giorno. La folla gridava «il fiume ha sete», «noi abbiamo sete».  E poi

«abbiamo dato il sangue e la vita per il Karun»,

il fiume che attraversa Ahwaz. I manifestanti chiedevano forniture urgenti d’acqua. Molti chiedevano le dimissioni delle autorità locali accusate di incompetenza, o di corruzione, o entrambe le cose.

La crisi è tutt’altro che inaspettata. In maggio il ministero dell’Energia aveva avvertito che l’Iran andava verso l’estate più secca da 50 anni, con temperature che potevano sfiorare i 50 gradi, e l’allarme era stato ripreso da tutti i giornali. Poi è successo, e le conseguenze sono devastanti: per chi deve sopportare un’estate torrida e umida senza acqua, ma anche per l’agricoltura e l’intera economia.

Il paradosso è che il Khuzestan è tra le province più povere dell’Iran, in termini di sviluppo sociale: la disoccupazione e il tasso di povertà assoluta sono i più alti del paese (secondo Iran Open Data, che analizza statistiche ufficiali), ma è tra le più ricche in termini di risorse: racchiude circa l’80 percento delle riserve di petrolio e il 60 per cento di quelle di gas naturale per paese, e produce una parte importante del prodotto interno lordo iraniano (il 15 per cento nel 2019). Inoltre il Khuzestan era una terra fertile e ricca d’acqua, anche se oggi pare incredibile: ha quattro fiumi tra cui il Karun; due importanti zone umide (incluse le paludi condivise con l’Iraq), e aveva un’importante economia agro-industriale – ora in crisi.

Il sito storico del sistema idrico di Shushtar, patrimonio Unesco.

Il giorno dopo le prime manifestazioni, il governatore provinciale ha mandato camion cisterna a portare acqua in oltre 700 villaggi e cittadine del Khuzestan, cosa che non ha placato gli animi. La penuria d’acqua è da attribuire in parte al cambiamento globale del clima: dall’inizio del secolo il regime delle piogge è sempre più scarso, le temperature sempre più alte, e la siccità è ormai cronica nell’Iran occidentale insieme a ampie zone dei vicini Iraq e Siria.

Le tempeste di sabbia che avvolgono periodicamente città come Ahvaz ne sono una conseguenza tangibile.

È in causa però anche la gestione dell’acqua disponibile. Negli ultimi decenni sono state costruite numerose dighe sui fiumi dell’Iran occidentale, sia per produrre elettricità, sia per sostenere ambiziosi progetti di espansione agricola, o per trasferire acqua verso la provincia centrale di Isfahan.

Il ponte di Allahverdi Khan sul fiume ormai secco, Isfahan (foto Wanchana Phuangwan).

Negli ultimi anni inoltre le autorità hanno autorizzato lo scavo di migliaia di pozzi. Dunque sempre più acqua è estratta dal sottosuolo, ma le piogge non bastano a “ricaricare” le riserve. Il livello delle falde idriche così è crollato; l’acqua salmastra del Golfo penetra sempre più all’interno. La salinità dei terreni causa ulteriori problemi per l’agricoltura; a nord di Ahwaz le famose palme da datteri cominciano a morire. Nelle zone petrolifere inoltre l’acqua disponibile è spesso inquinata da sversamenti di greggio.

Ad aumentare la rabbia poi ci sono ragioni storiche. Le proteste per l’acqua hanno coinvolto città come Abadan, Khorramshahr, e altre: sono nomi che richiamano la Guerra Iran-Iraq. Su Abadan e le sue raffinerie puntava l’esercito di Saddam Hussein quando invase l’Iran nel settembre 1980; nella “città martire” di Khorramshahr si combatté casa per casa. Tutto l’ovest dell’Iran fu il fronte di quella guerra sanguinosa, durata otto anni. In Khuzestan però la ricostruzione è stata solo parziale, le attività economiche non sono mai tornate al benessere precedente. Perché? I dirigenti iraniani adducono la mancanza di mezzi e risorse da investire, o la cronica instabilità nel vicino Iraq. La provincia è abitata da una forte minoranza arabo-iraniana (c’è anche un movimento indipendentista, minuscolo ma foraggiato dai potenti vicini arabi del Golfo). A precedere le proteste generali, il 6 luglio una delegazione di agricoltori e anziani delle tribù arabe era andata a Ahwaz per fare rimostranze alle autorità locali per la penuria d’acqua.

La rivolta “legittima” e la polizia che spara

Insomma: la provincia si sente negletta. L’agricoltura e le fabbriche che ne dipendono sono sempre più in crisi. I giovani non trovano lavoro. Aumenta l’emigrazione verso le grandi città; a Tehran o Isfahan sorgono nuove borgate di migranti arrivati dalle zone rurali del Sudovest.

Cambiamento climatico, dighe, inquinamento, cattiva gestione delle risorse, disoccupazione, discriminazione delle minoranze: tutto spiega la rabbia esplosa in luglio.

«Per otto anni [durante la guerra con l’Iraq] questa provincia è stata devastata, e ora i nostri soldati sparano contro di noi», diceva un manifestante di 24 anni di Dezful al corrispondente di “Middle East Eye”.

Di fronte alla protesta infatti lo stato ha risposto come al solito: con la forza. Anche perché le proteste si sono estese; c’è notizia di manifestazioni a Kermanshah, capoluogo della provincia omonima nell’Iran occidentale, nel Lorestan, a Isfahan, fino a Tehran. Organizzazioni di avvocati, attivisti sociali, l’associazione degli scrittori, hanno manifestato solidarietà. Sui social media sono circolate foto di blindati e veicoli antisommossa scaricati dagli aerei cargo nell’aeroporto di Ahwaz. Le proteste si sono prolungate per giorni. Le autorità hanno sospeso internet in gran parte del Khuzestan, senza riuscire a bloccare del tutto le informazioni.

È cominciata la guerra di notizie: il 20 luglio, dopo la quinta notte consecutiva di proteste, il governatore del Khuzestan ha parlato di un morto, una persona che accompagnava le forze di polizia e sarebbe stato ucciso dai dimostranti (i media di stato hanno addirittura accusato “terroristi armati”). Pochi giorni dopo Amnesty International ha parlato di almeno otto morti, tutti manifestanti.

Le proteste bloccano la strada tra Ahvaz e Andimeshk.

Eppure perfino il Leader supremo l’ayatollah Ali Khamenei ha ammesso che la protesta è legittima. È intervenuto tardi, ben una settimana dopo l’inizio delle manifestazioni e degli scontri, ma infine lo ha riconosciuto:

«Se i problemi dell’acqua e delle fogne in Khuzestan fossero stati risolti, non vedremmo oggi questi problemi». E poi: «Le persone esprimono il loro malcontento perché sono esasperate. (…) Le autorità devono risolvere al più presto i problemi della leale popolazione di questa provincia».

Il fatto è che mentre il leader parlava così, la polizia sparava sui manifestanti. Risolvere il problema dell’acqua è di sicuro una sfida per la nuova amministrazione, come lo è stato per le precedenti: ma richiede strategie a lungo termine, rivedere le scelte di sviluppo, combattere sprechi e malversazioni, rilanciare il dialogo con le minoranze e con gli enti locali. Nell’immediato, reprimere le proteste è più facile.

Le proteste per l’acqua, o quelle segnalate a Tehran alla fine di luglio per i continui blackout di corrente, non alludono a un’opposizione politica organizzata – anche se in alcuni casi sono stati sentiti slogan come «abbasso la Repubblica islamica», o «a morte il dittatore», «a morte Khamenei». Proprio come era successo nel dicembre del 2019 nelle proteste suscitate dall’aumento del prezzo dei carburanti, e due anni prima per il carovita.

Proteste senza una direzione politica riconoscibile, “solo” manifestazioni spontanee di esasperazione.

Ma questo non dovrebbe preoccupare di meno i dirigenti iraniani: al contrario.

Si aggiungano croniche proteste di lavoratori in tutto il paese, e un’ondata di scioperi tra gli addetti dell’industria petrolifera. Mentre la “variante delta” del virus fa strage, i medici lanciano appelli disperati, e solo il 3 per cento degli iraniani è completamente vaccinato: anche nelle code alle farmacie si sente imprecare contro il leader supremo, che mesi fa ha vietato di importare vaccini prodotti in Usa e Regno Unito.

L’Iran dunque è in ebollizione. Il neopresidente Raisi dovrà mostrare qualcosa di concreto, in fretta, che non siano solo i blindati antisommossa. Ma per questo ha anche bisogno di veder togliere le sanzioni che soffocano l’economia del paese: come al solito, le sfide internazionali e quelle interne sono strettamente legate.

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Timori e prospettive russe ai suoi confini meridionali https://ogzero.org/timori-e-prospettive-russe-su-kabul/ Wed, 25 Aug 2021 09:26:07 +0000 https://ogzero.org/?p=4702 Per la Russia il Centrasia è il cortile di casa. Putin, durante un vertice straordinario dell’Organizzazione del Trattato per la Sicurezza Collettiva (Csto), ha affermato che è importante limitare l’espansione dell’estremismo islamico dall’Afghanistan al resto dell’Asia, dopo la presa di potere dei talebani. Il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov, ha affermato che il Csto ha discusso […]

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Per la Russia il Centrasia è il cortile di casa. Putin, durante un vertice straordinario dell’Organizzazione del Trattato per la Sicurezza Collettiva (Csto), ha affermato che è importante limitare l’espansione dell’estremismo islamico dall’Afghanistan al resto dell’Asia, dopo la presa di potere dei talebani. Il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov, ha affermato che il Csto ha discusso delle implicazioni di “un’altra guerra civile in Afghanistan”, ma ha aggiunto: «Nessuno interverrà in questi eventi». La Russia ha adottato un duplice approccio nei confronti del neoproclamato Emirato Islamico. Da una parte, Mosca ha avviato contatti con i rappresentanti del Talebani; dall’altra ha annunciato, il 17 agosto, esercitazioni su larga scala in Tagikistan, lungo il confine con l’Afghanistan. Annunciando che non avrebbe ancora riconosciuto il nuovo regime di Kabul, non ha però ritirato la sua rappresentanza diplomatica; peraltro da almeno 4 anni circolano notizie di collaborazioni militari tra russi e talebani e i più avvertiti tra gli analisti americani pensano che da vecchio scacchista Putin abbia calcolato una mossa del suo gioco afgano verso il declino del sistema liberale delle democrazie occidentali, di cui questa sembra una tappa importante, anche nella lettura degli osservatori russi.

Per comprendere meglio quali contromisure alla veloce conquista talebana può avere in mente Putin e i temi che si dibattono in Russia a proposito dell’area centrasiatica abbiamo ripreso da “Matrioska”, il blog di Yurii Colombo, la raccolta di opinioni di politologi e giornalisti russi tra i più accreditati su quella parte del mondo gettate a caldo nel web nei giorni immediatamente successivi alla presa di Kabul.


Igor Yakovenko, pubblicista

Per tutti i vent’anni in cui gli Stati Uniti sono stati in Afghanistan, mantenendo il paese più o meno sicuro per i suoi vicini, la Russia ha costantemente cercato di giocare brutti scherzi. Sono riusciti a far perdere agli Stati Uniti le loro basi in Asia centrale, e si sono lamentati senza posa tra di loro sull’occupazione militare americana dell’Afghanistan. Ora è un problema del regime di Putin.

Arkady Dubnov, esperto di Asia centrale

Per la Russia, il problema principale nel trattare con i Talebani sarà la riaffermazione delle garanzie che non opererà fuori dall’Afghanistan e che non si espanderà, militarmente e ideologicamente, nell’Asia centrale. Finora i talebani non possono essere incolpati: non una volta nei loro 27 anni di esistenza hanno mostrato di volerlo.

Se verranno confermate tali garanzie, Mosca promuoverà il riconoscimento politico dei Talebani e li toglierà dalla lista delle organizzazioni terroristiche dell’Onu. Se Mosca li rimuoverà dalla sua lista è difficile da dire. Tuttavia, la richiesta dei talebani agli Stati Uniti e all’Onu – una delle principali richieste di oggi – troverà comprensione soprattutto in Russia.

Difficilmente ci si può aspettare che Mosca fornisca un’assistenza finanziaria significativa a Kabul. Gli americani e l’Occidente se ne faranno carico perché sono in gran parte responsabili di ciò che è successo oggi in Afghanistan. La Russia non è coinvolta in questo. Ma naturalmente, la Russia otterrà dividendi politici da questo.

[16 agosto]

Alexey Makarkin, analista politico

Ci sono diversi rischi. Il primo è la tendenza concreta dei Talebani a spingere verso nord. È improbabile che la leadership talebana voglia iniziare l’espansione ora, ma questo non significa che non intraprenderà tale azione in futuro. Soprattutto quando l’aiuto estero viene tagliato – in situazioni finanziarie difficili le guerre di conquista diventano una priorità. Il secondo è la misura reale in cui i leader talebani hanno l’effettivo controllo sui vari gruppi armati che possono agire autonomamente. Il terzo è l’effetto dimostrativo di una vittoria dei terroristi in un singolo paese sui loro simpatizzanti. In ogni caso, la Russia si preoccuperà di contenere i talebani nella regione e di sostenere i suoi alleati… Una vittoria dei Talebani potrebbe dare impulso ai gruppi radicali all’interno della Russia. I Talebani sono tradizionalisti, non wahhabiti, ai quali la Russia associa di solito il radicalismo islamico… Ma questo potrebbe solo accrescere il rischio, poiché la propaganda potrebbe essere fatta nelle comunità tradizionaliste, essendo più compatibile con le loro opinioni e pratiche. Si può diventare un sostenitore dei Talebani senza rompere con la Mazhab Hanafi. L’opposizione sarà condotta sia ideologicamente che dai servizi speciali, usando la forza, e ciò che ne verrà non è chiaro.

[16 agosto]

Ivan Kurilla, storico

Permettetemi di ricordare che la decisione degli Stati Uniti di andare in Afghanistan nel 2001 fu sostenuta dalla Russia, non solo perché Putin allora voleva essere amico dell’America, o perché la guerra in Cecenia fu poi reinterpretata come parte della “guerra globale al terrorismo”. Ma anche perché una delle principali preoccupazioni della politica estera russa all’inizio del secolo era il destino dei paesi dell’Asia centrale, che sembravano senza protezione contro l’islamismo talebano. Questo è il motivo per cui la Russia ha fornito agli Stati Uniti un corridoio aereo e persino un “posto di sosta” a Ulyanovsk, e ha accettato di aprire basi militari statunitensi in Uzbekistan e Kirghizistan.

Quindi è così. La situazione sembra tornare al 2001. Gli Stati Uniti ammettono il fallimento, la Russia e i suoi alleati dell’Asia centrale affrontano una nuova minaccia.

[14 agosto]

Sergey Medvedev, professore

È la più grande vittoria simbolica sugli Stati Uniti e un grande passo verso un mondo demodernizzato e un nuovo Medioevo. Gli echi di questa vittoria risuoneranno ancora per molto tempo, molto più fortemente a Mosca che a Washington; abbiamo il nostro sguardo rivolto verso questo arco di instabilità, è il nostro fronte, non quello americano. Il XXI secolo, iniziato l’11 settembre 2001, continua a rotolare verso il Caos.

[16 agosto]

Lilia Shevtsova, politologa

Naturalmente, il potere dei Talebani rimette all’ordine del giorno la minaccia del terrorismo globale. La cooperazione occidentale con la Russia e la Cina è inevitabile in tal caso. Forse i Talebani ammorbidiranno il confronto ideologico tra i rivali. I Talebani giocheranno anche un altro ruolo, costringendo l’Occidente a pensare a come promuovere i suoi valori per evitare umilianti fallimenti.

L’Occidente è cambiato dopo il Vietnam. L’Occidente sarà diverso dopo l’Afghanistan. La Russia deve prepararsi a questo. E il fatto che una sconfitta degli Stati Uniti crea una zona di instabilità vicino al confine della Russia, e non è chiaro cosa fare al riguardo, suggerisce che la sconfitta americana non è necessariamente una buona notizia per la Russia.

Piuttosto che gongolare e godere del fallimento dell’America, dovremmo imparare la lezione che non abbiamo mai tratto dalla sconfitta in Afghanistan: mai impegnarsi in un’avventura senza conoscerne le conseguenze e sapere come uscirne; ci sono guerre che non possono essere vinte.

[17 agosto]

Stanislav Kucher, giornalista

Per la Russia, il trionfo dei Talebani è una minaccia diretta e chiara alla sicurezza nazionale. Ora tutti i paesi confinanti con l’Afghanistan nella cosiddetta Csi, cioè il ventre meridionale della Russia, sono nella zona ad alto rischio. La prospettiva di espansione dell’Islam ultraradicale non è mai stata così grande come ora… Se si ha la volontà, l’emergere dei Talebani a Dushanbe è semplicemente una questione di tempo… Sia geopoliticamente che ideologicamente, un trionfo talebano è più pericoloso per la Russia che per gli Stati Uniti.

…Posso facilmente immaginare come in Russia, in certe circostanze, un Talebano ortodosso convenzionale alzerà la testa. Cioè, una certa terza forza che odia allo stesso modo il governo corrotto e i suoi alleati, i liberali, e l’Occidente, il quale secondo loro, non ha portato altro che male alla Russia durante la sua storia.

[16 agosto]

Nikolai Mitrokhin, storico, sociologo

A giudicare dalle reazioni delle ambasciate russa, cinese e iraniana, che non stanno per essere evacuate, la cerchia di amici dei talebani e del nuovo Afghanistan sotto la loro guida, è evidente. E la Russia è abbastanza soddisfatta della vittoria dei Talebani. Così è. Come dice in pubblico M. Shevchenko, esperto di contatti segreti con i radicali barbuti, tutta l’ala militare del paese ha studiato in Unione Sovietica ed era membro del partito.

Ma in ogni caso, dal punto di vista della geopolitica ufficiale russa, il crollo della democrazia di tipo europeo in Afghanistan è una grande vittoria per l’internazionale autoritaria conservatrice in cui la Russia gioca un ruolo significativo. Ma al di là dello spettacolo di un nemico umiliato, ancora più importante, è che i Talebani hanno preso il controllo di un paese chiave dell’Asia centrale. E questo significa che gli interessi americani ed europei si sono ritirati dalla zona dell’“interesse vitale” della Federazione Russa o, per dirla meglio, dai confini dell’ex Unione Sovietica. Cioè, se i paesi postsovietici dell’Asia centrale erano di interesse per gli Stati Uniti e l’UE come transito per il contingente in Afghanistan, questo interesse è ora scomparso.

I paesi dell’Asia centrale sono ora stretti tra gli interessi della Cina, della Turchia, della Federazione Russa e dei loro pericolosi vicini del sud. Allo stesso tempo, la Turchia è lontana e non entrerà in guerra nella regione. Pertanto, la Russia ha un’“opportunità” per stabilire le sue guarnigioni ovunque, come ha fatto lo scorso inverno nel Caucaso meridionale. E in seguito, dovrà applicare delicatamente e sistematicamente la sua pressione. Se il Kirghizistan e il Tagikistan sono satelliti russi, l’Uzbekistan ha agito indipendentemente per 20 anni, e il Turkmenistan ha guardato troppo in direzione dell’Iran. Non credo che ora creeranno problemi ai turkmeni, ma tratteranno seriamente con l’Uzbekistan. Le truppe russe sono già lì (per prima volta in 25 anni) ci hanno già messo un paio di migliaia di uomini). Ritengo che la Russia finirà per aprire proprie basi a Termez, Karshi, Fergana (dove i generali russi hanno passato la loro gioventù in addestramento) e una specie di centro di coordinamento e base aerea a Tashkent.

[17 agosto]

 

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