Massacri Archivi - OGzero https://ogzero.org/temi/governance/massacri/ geopolitica etc Fri, 03 Jan 2025 00:23:29 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.4.6 Le missioni di Peacekeeping. 1: profili giuridici e la Monusco in Congo https://ogzero.org/le-missioni-di-peacekeeping-1-profili-giuridici-e-la-monusco-in-congo/ Thu, 02 Jan 2025 23:32:12 +0000 https://ogzero.org/?p=13594 Una ulteriore questione posta dalla necessità di riequilibrare regioni sottoposte a tensioni, guerre civili e, più spesso, percorse dai residui venefici del colonialismo è tipicamente quella inerente agli aspetti giuridici regolatori le missioni cosiddette portatrici di pace, presunta e foriera di nuovi interessi lesivi della autodeterminazione dei popoli forzati a riceverla perché le nazioni si […]

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Una ulteriore questione posta dalla necessità di riequilibrare regioni sottoposte a tensioni, guerre civili e, più spesso, percorse dai residui venefici del colonialismo è tipicamente quella inerente agli aspetti giuridici regolatori le missioni cosiddette portatrici di pace, presunta e foriera di nuovi interessi lesivi della autodeterminazione dei popoli forzati a riceverla perché le nazioni si possano spartire i miliardi stanziati. Fabiana Triburgo affronta questa montagna di interessi intrecciati in due puntate, in questa prima esemplificando sulla missione Monusco. 


Regole d’ingaggio di Guerra e norme di Peacekeeping

I molteplici scenari di guerra che attualmente si stanno diramando a livello globale e le evidenti crepe dell’impianto Onu createsi dall’immobilismo del Consiglio di Sicurezza – per il sistema dei veti incrociati –, nonché dall’inefficacia in concreto delle recenti pronunce degli organi di giustizia internazionale, fanno emergere quella crisi del sistema di sicurezza internazionale che già si era manifestata durante il periodo della guerra fredda. Oggi, come allora, una delle principali ragioni di questa crisi è da ricercarsi in una sezione della Carta delle Nazioni Unite che non ha mai trovato attuazione ossia il capitolo VII – più in particolare gli articoli 42 e seguenti – nel quale, all’indomani della seconda guerra mondiale, si stabilì che l’uso della forza armata per la risoluzione dei conflitti non si sarebbe mai più dovuto rimettere all’iniziativa del singolo stato – tranne nei casi di legittima difesa ex art. 51 della Carta – ma a un contingente internazionale facente capo esclusivamente al Consiglio, quale garante della pace e della sicurezza internazionale.

Secondo tali norme – poste al fine di garantire obiettività e imparzialità per ogni azione di carattere militare – il Consiglio, non solo avrebbe avuto il potere decisionale in merito all’uso della forza armata, ma avrebbe dovuto anche assumere la direzione delle operazioni militari. Rispetto a tale contingente – così come previsto dalla Carta delle Nazioni Unite (artt. 42, 43, 44, 45) – sarebbe poi dovuto sussistere l’obbligo per ciascuno degli stati membri dell’Onu, di stipulare con il Consiglio di Sicurezza dei veri e propri accordi per decidere il numero, il grado di preparazione nonché la dislocazione delle forze armate di volta in volta utilizzabili parzialmente o totalmente da parte del Consiglio. L’azione militare del Consiglio prevista dalla Carta delle Nazioni Unite nel Capitolo VII sarebbe stata quindi un’azione di polizia internazionale che si sarebbe dovuta esplicare previe risoluzioni del Consiglio di Sicurezza aventi il carattere di delibere operative. Tale azione di polizia sarebbe stata strettamente vincolata nella sua attuazione a sole due ipotesi: quella contro uno stato responsabile di aggressione, di minaccia o di violazione della pace o quella dispiegata in un singolo stato se al suo interno, in ragione di un conflitto civile, si fossero ravvisati gli estremi della minaccia alla pace.

Riscontrata dunque la mancata attuazione dell’impianto giuridico della forza militare internazionale – originariamente prevista dalla Carta delle Nazioni Unite per sottrarre al singolo Stato l’iniziativa dell’uso della forza armata – si può più agevolmente comprendere la nascita delle operazioni di “peacekeeping” comunemente definite “Missioni di Pace” o “Caschi blu dell’Onu”.

L’istituto del peacekeeping non è previsto in alcun articolo della Carta delle Nazioni Unite ma è strutturato su una norma consuetudinaria particolare nell’ambito del capitolo VII che si è formata a integrazione della Carta e a titolo della quale il Consiglio di Sicurezza ha sempre agito ogni volta che ha istituito una singola missione di pace. Inoltre il Consiglio di Sicurezza non ha solo il potere di creare le forze per il mantenimento della pace ma anche di regolarne l’attività. Allo stesso tempo, uno degli aspetti altrettanto importanti del peacekeeping è la delega che il Consiglio di Sicurezza emana nei confronti del Segretario generale dell’Onu per compiere – mediante accordi con gli stati membri – le attività necessarie di reperimento e di comando delle forze internazionali in ordine a tali operazioni di pace. I principi fondanti dell’iniziale costituzione del peacekeeping furono infatti: la necessità del consenso alla sua azione da parte delle autorità territoriali di uno Stato; la neutralità del suo operato rispetto alle parti in conflitto; l’uso della forza limitato alla protezione dei propri militari o più in generale della missione (sempre mediante il reperimento dei militari con accordi stipulati con i singoli stati). Tuttavia, come è facile immaginare il peacekeeping ebbe un timido inizio durante il periodo della guerra fredda ma con la caduta delle ultime repubbliche socialiste negli anni Novanta – in particolare durante il conflitto nell’ex Jugoslavia – raggiunse l’apice del proprio interventismo arrivando ad ampliare i propri settori di competenza e spesso a derogare, almeno in parte, a uno o più di quei tre principi fondanti del peacekeeping di cui sopra.

L’allargamento delle finalità inceppa l’ingranaggio

Già dopo il 1989 infatti si passa dall’iniziale attività di peacekeeping – attuata in scenari locali nei quali Usa e Urss non potevano affrontarsi direttamente – a missioni con finalità più ampie come il controllo del rispetto dei diritti umani, l’attività di monitoraggio di libere elezioni, il rimpatrio dei rifugiati e le attività di soccorso in catastrofi naturali. Ad ogni modo, negli anni successivi il peacekeeping arriva a voler soddisfare, con il proprio intervento, obiettivi sempre più ambiziosi che rientrano nelle cosiddette attività di “peace enforcement” ossia alla vera e propria imposizione della pace raggiunta con l’uso della forza militare, derogando quindi a uno dei tre principi fondanti che avrebbero dovuto caratterizzare la sua attività ossia a quello del non uso della forza. se non per autodifesa o difesa del mandato della missione. È quanto avvenuto nel 2013 (Risoluzione n. 2098) con il tentativo di Peace enforcement della “Brigata di Intervento”, cioè: una forza offensiva di combattimento del contingente Onu, destinata a venire impiegata per vere e proprie operazioni militari contro i gruppi armati presenti nella Repubblica Democratica del Congo, prorogata fino al 2017 con una risoluzione del Consiglio di Sicurezza. In particolare, tale Brigata era autorizzata a condurre operazioni offensive mirate a neutralizzare i gruppi armati al fine di determinare una stabilità politica nel paese ma, considerata la vastità del territorio, si è coordinata con l’esercito congolese nello svolgimento delle proprie attività che potevano prevedere attacchi militari su propria iniziativa fino al bombardamento aereo.

Il disastroso impegno in Kivu: Monusco

Tale attività in ogni caso sembra non aver conseguito alcun risultato duraturo nel tempo, considerato che già nel 1999 era stata istituita, con la Risoluzione del Consiglio di Sicurezza n. 1279, la missione di osservazione Monuc (United Nation Organization in the Democratic Republic of Congo) operante nel territorio fino al 2010, a sua volta sostituita nello stesso anno da una nuova operazione di peacekeeping ossia la Monusco (United Nations Organization Stabilization Mission in the Democratic Republic of the Congo) con la Risoluzione del Consiglio di Sicurezza n. 1925 del 29 maggio 2010. Si ricorda che la Monusco, prorogata in un primo momento fino al 31 dicembre 2018, è tuttora operante. Più nello specifico, se la Missione di osservazione Monuc aveva il compito di monitorare l’implementazione dell’“accordo di Lusaka” che ha posto fine alla Seconda guerra del Congo (1997-2003) – detta anche Prima guerra mondiale africana, nata dalla rottura dell’alleanza del Congo con Ruanda e Uganda – il mandato principale della Missione di pace Monusco invece «è quello di proteggere i civili e supportare il governo congolese nel consolidamento del processo di pace». La regione interessata da decenni di violenze e saccheggi è in particolar modo quella del Kivu – a Est del paese, al confine con Burundi, Ruanda e Uganda – ricca di Coltan ossia un prezioso materiale utilizzato per la fabbricazione degli schermi dei cellulari e di altri minerali preziosi quali diamanti, oro e rame nonché di legnami di altissima qualità.

Il personale delle Nazioni Unite è malvisto dai gruppi armati in tale regione anche perché è testimone dei traffici di questi materiali a livello internazionale pur non avendo – come appare evidente – alcun potere, capacità o la reale volontà di limitare il contrabbando e lo sfruttamento illegale delle risorse del territorio congolese.

Il contrabbando delle ricchezze della regione del Kivu viene favorito dalle multinazionali europee e americane nei paesi confinanti, primo fra tutti il Ruanda che si configura tra i primi produttori mondiali di Coltan, nonostante il proprio territorio sia del tutto privo di tale minerale. È proprio il criminale riciclaggio delle risorse minerarie della Repubblica Democratica del Congo – mediante lo sfruttamento della popolazione civile – a determinare il rafforzamento dei gruppi armati che combattono contro le forze militari del governo congolese – in particolare i miliziani dell’M23 (Movimento 23 marzo)accusati da Kinshasa e dalle Nazioni Unite di essere sovvenzionati dal Ruanda, con la conseguente impossibilità a ripristinare la pace e la sicurezza nel territorio. Ad ogni modo, il rappresentante speciale del Segretario dell’Onu, responsabile della Missione Minurso, Bintou Keita ha dichiarato recentemente che anche neutralizzare la milizia Adf (Allied Democratic Force) nel nord del Kivu – responsabile nel giugno del 2024 dell’uccisione di 274 civili – rimane una delle priorità della Missione di pace. La fine della missione – per l’aggravarsi delle relazioni tra le forze di pace e la popolazione civile nel Nord Kivu in conseguenza di alcuni eventi accaduti nel biennio precedente – era stata prevista in un primo momento il 30 giugno del 2024.

Tuttavia in prossimità della scadenza l’ambasciatore della Repubblica Democratica del Congo presso le Nazioni Unite, in un discorso dinanzi al Consiglio di Sicurezza, ha dichiarato che «in conseguenza della continua aggressione del Ruanda nel Nord Kivu la seconda fase di ritiro delle truppe della Monusco, in seguito a una comune valutazione, sarà posta in essere quando le condizioni lo consentiranno».

Anche il capo della Missione Bintou Keita ha affermato che non esiste una tempistica per il ritiro dalle province del Nord del Kivu e dell’Ituri per cui le forze di pace nell’Est del paese hanno sospeso il loro ritiro, iniziato a febbraio 2024, senza che attualmente vi sia una nuova tempistica fissata per la fase conclusiva delle operazioni di pace.

Il Governo dei territori

Un’altra forma di intervento delle Forze dell’Onu, ancora più ingerente, che ha finito per riguardare di nuovo l’ex Jugoslavia si è verificata quando il Consiglio – invocando il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale – ha organizzato per prassi un governo dei territori. La differenza ontologica più rilevante del peacekeeping rispetto al cosiddetto governo dei territori è che il primo prevede un potere pubblico limitato delle forze delle Nazioni Unite che si deve affiancare – almeno in linea di principio – necessariamente a quello delle autorità locali mentre nelle ipotesi di “governo dei territori” vi è una sostituzione integrale dell’Onu a tali autorità anche solo temporaneamente. Il governo dei territorisul piano ideologico pur se rientrante nel peacekeeping – ha avuto origine nel principio di autodeterminazione dei popoli e nel processo di decolonizzazione sviluppatosi a partire dagli anni Sessanta, per cui nei territori interessati dalla fine di un conflitto civile o nei quali era messa in discussione la sovranità statale l’Onu ha cercato di ergersi quale garante in concreto degli interessi delle popolazioni locali. Questo processo di deviazione del peacekeeping tuttavia si è intensificato alla fine della Guerra Fredda quando sono scoppiati numerosi conflitti civili in stati ex colonie ma in un’ottica sempre più orientata di fatto verso il Peacebuilding postbellico – ossia verso quel processo di consolidamento della pace e della sicurezza internazionale – garantito dalle Forze dell’Onu nei territori interessati.

Le missioni di peacekeeping si sono quindi moltiplicate e ampliate fino al punto che alcune di esse hanno previsto di fatto lo svolgimento di alcune funzioni di governo nei territori nei quali hanno operato. La competenza del Consiglio, in questo modo, non solo è passata inevitabilmente dalle guerre internazionali a quelle civili, ma più volte alla vera e propria ricostruzione degli stati al termine dei conflitti armati. Infatti, muovendosi nella dimensione del peacebuilding, è stato più agevole per il Consiglio di Sicurezza – nelle situazioni postconflitto – sconfinare verso il governo dei territori, come è avvenuto tra il 1995 e il 1999 nell’ex Jugoslavia ovverosia quando le forze internazionali di pace finirono con il sostituirsi del tutto ai governi nazionali. Si può lecitamente affermare quindi che la prassi del Consiglio di Sicurezza ha ampiamente deviato dalle norme del Capitolo VII fino a interpretare come minaccia alla pace e alla sicurezza internazionale – delle quali il Consiglio di Sicurezza ha la principale responsabilità – qualsiasi “situazione di pericolo” all’interno di uno stato. In questo modo non solo si è finito con il legittimare l’applicazione di qualsiasi misura che apparisse al Consiglio sufficientemente adeguata. ma si è provocata la trasformazione delle originarie missioni di peacekeeping in missioni di fatto di governo dei territori, se non addirittura come vedremo in vere e proprie missioni di state building.

continua nei Balcani: Peacekeeping 2

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Le missioni di Peacekeeping. 2: le missioni Onu nei Balcani https://ogzero.org/le-missioni-di-peacekeeping-2-le-missioni-onu-nei-balcani/ Thu, 02 Jan 2025 22:06:42 +0000 https://ogzero.org/?p=13589 Prosegue lo studio di Fabiana Triburgo sugli aspetti giuridici a monte delle missioni cosiddette portatrici di pace e tombe per l’autodeterminazione dei popoli forzati a riceverla perché le nazioni si possano spartire i miliardi stanziati. Questa seconda puntata sposta l’attenzione dalla Monusco congolese alla missione Unmik in Kosovo, lo snodo che trent’anni fa portò i […]

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Prosegue lo studio di Fabiana Triburgo sugli aspetti giuridici a monte delle missioni cosiddette portatrici di pace e tombe per l’autodeterminazione dei popoli forzati a riceverla perché le nazioni si possano spartire i miliardi stanziati. Questa seconda puntata sposta l’attenzione dalla Monusco congolese alla missione Unmik in Kosovo, lo snodo che trent’anni fa portò i governi progressisti a guida Clinton-Blair ad aprire la strada allo sfrenato strame delel regole di pacifica convivenza nate con la fine del nazi-fascismo storico, ricreando l’humus per la riedificazione dell’autoritarismo sovranista.


Il disastroso impegno nei Balcani: Unprofor

Altra missione rispetto alla quale si è fatto ricorso al Peace Enforcement, con deroga non solo del principio fondante del non impiego della forza armata da parte dei peacekeepers ma anche di quello dell’imparzialità e del consenso dello stato di dislocamento, avvenne nell’ex Jugoslavia con la missione Unprofor (United Nations Protection Force) istituita in Bosnia Erzegovina e in Croazia, Risoluzione del Consiglio n. 743 del 21 febbraio del 1992, e dichiarata conclusa, Risoluzione del Consiglio n. 1031 del 15 dicembre 1995, con gli accordi di Dayton nello stesso anno.

Con tale risoluzione il Consiglio decise per l’impiego della forza sotto la propria autorità al fine di creare «Le condizioni di pace e di sicurezza necessarie per la negoziazione di una situazione globale della crisi in Jugoslavia» invitando il Segretario Generale a prendere le «misure necessarie».

A tale risoluzione, infatti, successivamente ne seguirono altre sulla stessa linea dell’impiego della forza, come quella con la quale (Risoluzione del 6 ottobre 1992 n. 779), il Consiglio ordinò alle forze di peacekeeping di «sorvegliare il ritiro completo dell’armata jugoslava dalla Croazia e la smilitarizzazione della penisola di Prevlaka» o quella (Risoluzione del 4 giugno 1995 n. 836) mediante la quale affidò alla Forza Onu di difendere alcune città bosniache e relativi dintorni, dichiarati aree protette già in precedenti risoluzioni. La missione Unprofor quindi non ha intrapreso azioni belliche ma non è stata una missione istituita dal Consiglio di Sicurezza esclusivamente o prevalentemente orientata verso il mantenimento della pace. Comunque il ricorso al Peace Enforcement si è dimostrato non efficace – se non addirittura controproducente sul piano politico, legislativo e su quello militare – rispetto agli scenari internazionali nei quali il Consiglio lo ha disposto.

La prima deroga: il Kosovo… ascesa e declino

La deviazione dall’originale intento delle missioni di peacekeeping è avvenuta con la Missione Unmik (United Nation Interim Administration Mission in Kosovo). La missione – tuttora operativa – è stata istituita in Kosovo con la Risoluzione n. 1244 del 10 giugno 1999, al termine dell’intervento aereo della Nato nel 1998 durato tre mesi che ha costretto il governo di Belgrado al ritiro. In un primo momento, infatti, la Missione ha visto il Consiglio di Sicurezza determinare il governo dei territori delegando al Segretario Generale ogni potere legislativo, giudiziario ed esecutivo anche se l’autorità amministrante faceva comunque capo al Consiglio di Sicurezza che – come già detto – ha sempre ritenuto di agire “conformemente” al Capitolo VII della Carta, qualificando la situazione in loco come minaccia alla pace. In seguito alla dichiarazione di indipendenza del Kosovo nel giugno del 2008 la Missione – assumendo i caratteri di una missione di state building più che di peacekeeping – ha prefigurato come obiettivi fondamentali quelli di organizzare istituzioni temporanee di autogoverno alle quali poi, una volta divenute definitive, ha trasferito ogni potere sotto la guida di un Rappresentante speciale del Segretario Generale Onu, avvalendosi di altri attori internazionali ossia l’Osce (Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa) per la democratizzazione del territorio, l’UE in materia di sviluppo economico (Eulex- European Union Rule of Law) e la Nato (Kpfor – Kosovo Force) per la difesa esterna del territorio.

Si ricorda infatti che nel Capitolo VIII della Carta è prevista la possibilità per il Consiglio di avvalersi su propria “autorizzazione” di organi regionali (come la Nato) per l’adempimento delle proprie funzioni. Successivamente infatti in Kosovo a livello costituzionale sono state istituite l’Assemblea parlamentare e altri organi rappresentativi del paese e si è proceduto alla nomina di un presidente del Kosovo, per cui oggi il paese può essere definito come una repubblica parlamentare monocamerale. Vi è da precisare però che l’indipendenza dichiarata dal paese nel 2008 – riconosciuta da circa cento stati membri tra cui gli Stati Uniti e molti stati dell’Ue ma fortemente contestata dalla Serbia e dalla Federazione Russa – è alla base ancora oggi di fortissime tensioni che dividono la comunità internazionale tra i serbi del Nord del Kosovo circa 100.000 e la comunità albanese rappresentante la maggior parte della popolazione kosovara. Né il parere consultivo della Corte di Giustizia – richiesto dall’Assemblea Generale su iniziativa serba – espresso in modo favorevole circa la conformità della dichiarazione di indipendenza del Kosovo rispetto al diritto internazionale, ha sedato gli scontri politici tra le due anime del paese. Ciò è avvenuto per la mancata definizione nel testo della pronuncia della Corte sullo Status del Kosovo per cui il Rappresentante speciale, già nel 2010, dichiarava al Consiglio di Sicurezza la prosecuzione della missione Unmik – ancora coadiuvata dagli attori internazionali di cui sopra – al fine di garantire una condizione pacifica estesa a tutti i kosovari, nonché di promuovere la tanto agognata stabilità regionale dei Balcani occidentali che alcune vicende, come la cosiddetta “disputa delle targhe”, dimostrano quanto tale obiettivo sia ancora lontano.

“La manipolazione nazionalista controlla ancora la Serbia”.
Infatti, nel 2021 Pristina ha imposto alle automobili serbe di esporre targhe provvisorie recanti la dicitura “Repubblica del Kosovo” per entrare nel Paese. Tale decisione delle autorità kosovare è dettata dal fatto che la Serbia non ha consentito ai veicoli in entrata nel paese dal Kosovo di esporre targhe kosovare. Nel 2011 si è raggiunto un accordo, mediato dall’Ue, di riconoscere vicendevolmente le targhe. A questo accordo però non è stata data piena attuazione e le automobili in entrata in entrambi i paesi dovevano avere apposti specifici bolli che coprissero i loro simboli nazionali. L’accordo del 2011, rinnovato nel 2016, è però nel 2021 scaduto senza arrivare a un compromesso. Solo nel 2024 la disputa è stata risolta, infatti – dopo che il governo serbo nel 2023 ha comunicato che dal primo gennaio 2024 tutte le automobili kosovare avrebbero potuto liberamente attraversare il confine con la Serbia – anche il governo kosovaro ha adottato la stessa misura a favore della Serbia.

Come noto, la disputa delle targhe è soltanto il simbolo di una rottura ben più profonda tra il governo kosovaro di Kurti e quello serbo di Vuçic che ha visto emergere forti tensioni con scontri e violenze nel Nord del Kosovo, richiedendo anche l’intervento del personale Nato (Kpfor) rimasto ferito durante le guerriglie. La Serbia considera la regione come il cuore del proprio stato e della propria religione anche per i numerosi monasteri cristiani ortodossi che si trovano in Kosovo. Dall’altra parte la maggioranza albanese considera il Kosovo il proprio paese dopo la dichiarazione di indipendenza e la minoranza serba come una forza di occupazione e di repressione. Sul fronte della politica interna invece il paese resta bloccato in istituzioni solo formalmente democratiche poiché in preda a una classe politica fortemente nazionalista incapace di assumere decisioni progressiste. La coercizione e l’assertività delle Forze esterne, inoltre, ha portato non solo alla creazione di istituzioni poco efficienti con scarsa legittimità locale ma anche alla tolleranza di un sistema clientelare di corruzione legato a esse. Per tale ragione gli ultimi anni sono caratterizzati da un proliferare di movimenti di protesta sia contro la classe politica corrotta e nazionalista che contro quella internazionale considerata distante, indifferente e compiacente. Per il fallimento degli organismi esterni operanti nel paese – compresi quelli dell’Unione Europea – la popolazione kosovara guarda con maggior disincanto verso l’Occidente e con maggior interesse verso Russia e Cina in particolare i serbi del Nord del Kosovo. Si ricorda che la Serbia è stato l’unico Paese a non aver introdotto sanzioni nei confronti della Russia, all’indomani dell’invasione dell’Ucraina, mentre la Russia è consapevole che investendo in Serbia soprattutto attraverso i suoi programmi di “informazione” può influenzare politicamente, per via della comunanza linguistica, quasi tutta l’area dei Balcani come Bosnia Erzegovina, Croazia e Montenegro.

Da ultimo va ricordato che rientra nella prassi del governo dei territori da parte dell’Onu l’istituzione dei tribunali internazionali per la punizione dei crimini compiuti dagli individui come il Tribunale penale internazionale per i crimini commessi nell’ex Jugoslavia e il Tribunale penale internazionale per i crimini commessi nel Ruanda.

Oltre a questi, sempre mediante il governo dei territori, il Consiglio di Sicurezza ha istituito anche tribunali misti o ibridi perché composti sia da giudici nazionali dello stato in cui sono insediati che da giudici stranieri. Ciò è avvenuto con i Panels in Kosovo istituiti nel 2000 dall’Unmik con Regolamento n. 64: le camere specialistiche del Kosovo sono state poi istituite con legge, all’interno del sistema giudiziario kosovaro, il 3 agosto 2015 dall’assemblea del Kosovo per processare i crimini internazionali commessi durante e dopo il conflitto.

continua nel Sudovest asiatico: Peacekeeping 3

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Le missioni di Peacekeeping. 3: la guardia al bidone di Unifil in Sudovest asiatico https://ogzero.org/le-missioni-di-peacekeeping-3-la-guardia-al-bidone-di-unifil-in-sudovest-asiatico/ Thu, 02 Jan 2025 21:47:02 +0000 https://ogzero.org/?p=13568 Con questa terza puntata si conclude per ora lo studio di Fabiana Triburgo sulla giurisprudenza internazionale che regola le missioni dell’Onu e che esemplarmente sono state analizzate nelle due puntate precedenti in Congo (Monusco) e nei Balcani (Unmik). La missione oggetto di studio è una delle più citate negli ultimi tempi, ma l’intera  sua storia […]

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Con questa terza puntata si conclude per ora lo studio di Fabiana Triburgo sulla giurisprudenza internazionale che regola le missioni dell’Onu e che esemplarmente sono state analizzate nelle due puntate precedenti in Congo (Monusco) e nei Balcani (Unmik). La missione oggetto di studio è una delle più citate negli ultimi tempi, ma l’intera  sua storia è stata travagliata, perché finché la diplomazia internazionale era regolata dai principi scaturiti dall’equilibrio scaturito con la fine della Seconda guerra mondiale Unifil aveva posto un apparente argine al neocolonialismo ebraico.


Risoluzione 1701: La ventennale Blue Line dell’Unifil libanese

Mediante il medesimo meccanismo è stato istituito il Tribunale speciale per il Libano creato nel 2007 dalle Nazioni Unite con il governo libanese. L’accordo tuttavia non è stato ratificato dal parlamento libanese per cui l’attività del tribunale è stata imposta dal Consiglio di Sicurezza ex Capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite con Risoluzione n. 1757 del 30 maggio 2007. Anche in Libano, terreno nel quale ancora oggi si scontrano Israele ed Hezbollah, è schierata dal 2006 una forza di pace delle Nazioni Unite: l’Unifil (United Nation Interim Force in Lebanon) per quasi vent’anni era riuscita a evitare che tra i due opposti schieramenti si verificassero più gravi eventi che avrebbero potuto far degenerare la situazione. Tuttavia i recenti scontri tra Hezbollah (o “Partito di Dio”) e Israele hanno portato a far riflettere più stati – a livello internazionale – sulla necessità di ritirare i propri soldati dalla Missione. La missione Unifil in realtà è stata originariamente istituita nel 1978 (Risoluzione n. 425/426) per confermare il ritiro delle forze israeliane, ripristinare la pace internazionale e assicurare che il governo del Libano riprendesse l’effettivo esercizio della sua autorità territoriale nell’area. Successivamente, nel 1982, con la Risoluzione n. 501 la missione è stata implementata e potenziata al fine di garantire la protezione e l’assistenza umanitaria alla popolazione. Il 1982 infatti è l’anno della prima guerra israelo-libanese, iniziata mediante l’operazione “Pace in Galilea” condotta da Israele per sradicare dal Sud del Libano la presenza di palestinesi armati che ipotizzava si nascondessero tra i profughi proseguendo poi fino a Beirut, città nella quale aveva sede l’Olp (Organizzazione per la liberazione della Palestina). Con l’intervento sotto il patrocinio delle Nazioni Unite si è cercato quindi di evitare un’ulteriore escalation della guerra per cui si è agevolata la partenza da Beirut per Tunisi del presidente dell’Olp Arafat e dei suoi uomini, costringendo gli altri appartenenti alle forze armate palestinesi a riversarsi nelle città limitrofe. Nel 2000 con il ritiro delle forze israeliane, la missione Unifil – mantenendosi nuovamente sul ripristino della pace e della sicurezza internazionale – è divenuta una missione di monitoraggio e di osservazione. Così nello stesso anno è stata istituita dalle forze dell’Onu la Blue Line ossia la demarcazione del confine tra i due stati lunga circa 51 chilometri come limite del ritiro delle forze militari israeliane dal Sud del Libano. Nel 2004 con la Risoluzione n. 1559 il Consiglio di Sicurezza ha richiesto il rigoroso rispetto dell’integrità territoriale e dell’indipendenza del Libano chiedendo ufficialmente il completo ritiro delle forze militari israeliane dal paese nonché il disarmo di tutte le forze militari sul campo, libanesi e non. Il 2006 invece è l’anno del secondo conflitto israelo-libanese iniziato con l’offensiva di Hezbollah contro una pattuglia dell’esercito israeliano e proseguito con la violenta reazione di Israele che aveva lo scopo di neutralizzare l’intero apparato di Hezbollah. È in questo contesto che l’11 agosto del 2006 il Consiglio di Sicurezza dell’Onu è intervenuto con la Risoluzione n. 1701 che ha imposto l’immediata cessazione delle ostilità, il ritiro di Israele dal Sud del Libano, il supporto allo spiegamento delle forze libanesi in tutto il Libano meridionale, la garanzia dell’accesso umanitario alla popolazione civile, l’assicurazione del ritorno volontario e sicuro degli sfollati, nonché l’assistenza al governo libanese per impedire l’accesso irregolare di armi e per  proteggere i suoi confini. Infatti ancora oggi lo scopo della missione Unifil è quello di presidiare la cosiddetta “Blue Line”, ossia quella zona cuscinetto nella quale è consentito solo all’esercito libanese e ai peacekeepers dell’Onu di possedere armi ed equipaggiamento militare.

La Risoluzione n. 1701 è stata rinnovata ad agosto del 2024 con la quale il Consiglio di Sicurezza ha mantenuto per Unifil lo stesso mandato della Risoluzione del 2006 ma prolungandolo fino ad agosto 2025. Alla fine di settembre del 2024 tuttavia le Forze di difesa Israeliane (Idf) hanno ucciso un numero di persone equivalente a un mese di combattimenti nell’estate del 2006: tra la notte di domenica 22 settembre e martedì 24 settembre le vittime libanesi sono state oltre 550. L’obiettivo di Netanyahu è indebolire Hezbollah e il suo alleato iraniano per eliminare la minaccia dei razzi sul nord di Israele e quello di offrire a decine di migliaia di civili israeliani, sfollati da oltre un anno, di tornare alle proprie case. Non solo, Israele vuole costringere Hezbollah a ritirarsi dal fiume Litani a circa 40 chilometri dalla Blue Line che separa gli schieramenti militari in quanto non esiste ancora un confine internazionale riconosciuto tra il Libano e Israele. Il “Partito di Dio” dalla fine di ottobre del 2023, in seguito all’inizio della guerra israelo-palestinese, ha affermato di voler aderire al fronte anti-israeliano per accelerare la fine del progetto coloniale sionista aprendo il valico del Sud del Libano e dando sostegno a Hamas e ai palestinesi. Tuttavia, a partire dall’estate del 2024 lo stato israeliano perpetra l’assassinio di diversi capi di Hezbollah. In primo luogo, viene ucciso da Israele Fuad Situkr, alto comandante di Hezbollah e successivamente Hassan Nasrallah, storico leader alla guida di Hezbollah che ha visto il gruppo trasformarsi da una fazione di guerriglia alla forza politica più potente del Libano.
Netanyahu ha anche eliminato altri miliziani del partito facendo esplodere migliaia di “cerca persone” e “walkie talkie”, in loro dotazione, dando l’ordine di esecuzione mentre si trovava a New York presso il palazzo delle Nazioni Unite. Infine, il 30 settembre 2024 l’esercito israeliano è entrato direttamente in Libano con carri militari oltrepassando la Blue Line.

La forza Onu di mantenimento della pace ha ribadito che «qualsiasi attraversamento della linea blu viola la sovranità e l’integrità territoriale del Libano nonché la Risoluzione n. 1701 del 11 agosto 2006 dopo la guerra tra il Libano e Israele».

Da qui l’attacco israeliano contro le basi dell’Onu nel Sud del Libano, il 13 ottobre 2024. L’attacco è avvenuto dopo che nei giorni precedenti Israele ha chiesto alle truppe Unifil di spostarsi 5 km più a nord ma i soldati della missione hanno deciso di non muoversi. Con un comunicato ufficiale l’Unifil – rispetto all’attacco subito – ha dichiarato che un carro armato israeliano ha sparato contro una torretta di osservazione di una delle basi della missione più precisamente a Naqura, facendo cadere due operatori di pace di nazionalità indonesiana che sono stati ricoverati in ospedale. È stata inoltre ripetutamente colpita dalle forze militari israeliane la base principale della missione di pace sempre a Naqura.

Si ricorda che attualmente la missione Unifil – impiegata nel sud del Libano – conta oltre diecimila soldati provenienti da cinquanta paesi di cui sedici dell’Unione europea. Netanyahu ha affermato che l’Unifil deve evacuare il Sud del Libano poiché ritiene che i militari stiano fornendo «uno scudo umano ad Hezbollah». Nel novembre del 2024 c’è stato un secondo attacco alla missione con tre distinte operazioni militari mediante razzi (la prima verso il quartier generale dell’Unifil a Shama, la seconda colpendo una base della missione a Ramyet e l’ultima verso una pattuglia Unifil nei pressi del villaggio Kharbat Silim). Dopo il terzo attacco contro l’Unifil mediante il lancio di due razzi contro la “base UNP2-3” di Shama, nelle prime ore del 22 novembre 2024, l’Unifil ha dichiarato che gli ultimi due attacchi alla missione «sono avvenuti per opera di attori non statali presenti sul territorio libanese». Tuttavia si ricorda che la Missione non ha capacità sovrana, Hezbollah non ha interesse a collaborare con le Forze Onu e Israele non ha fiducia che questa possa assicurare la liberazione dal Libano meridionale dalla presenza di Hezbollah. In tale ottica solo il Consiglio di Sicurezza – che tuttavia, come noto, ha posizioni contrastanti al suo interno rispetto a tale conflitto – può dissuadere lo Stato ebraico dall’intensificare i suoi attacchi contro Unifil.

Per ora la comunità internazionale si accontenta dell’accordo del cessate il fuoco raggiunto alla fine di novembre 2024 tra i miliziani di Hamas e il governo israeliano ma emerge tutta l’impotenza dell’impianto Onu a fronteggiare effettivamente le guerre internazionali per cui quella Carta redatta all’indomani della Seconda guerra mondiale, più che un coercitivo impedimento affinché la pace e la sicurezza internazionale non vengano mai violate, sembra essere un nostalgico ricordo scritto di intenti e di speranze spesso smentito dalla realtà dei fatti.

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n. 3 – Due Corti internazionali a confronto: il conflitto israelo-palestinese https://ogzero.org/corti-internazionali-a-confronto-il-conflitto-israelo-palestinese/ Sun, 23 Jun 2024 12:42:06 +0000 https://ogzero.org/?p=12735 Prosegue l’analisi di Fabiana Triburgo con approccio giuridico gli organismi sovrastatali come l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Questo saggio in particolare si concentra sulla Corte internazionali di giustizia e sulla Corte penale internazionale, due entità autonome e che seguono tipi diversi di istruttorie e possono emanare provvedimenti differenti. Vediamo il caso del conflitto israelo-palestinese. L’immobilismo […]

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Prosegue l’analisi di Fabiana Triburgo con approccio giuridico gli organismi sovrastatali come l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Questo saggio in particolare si concentra sulla Corte internazionali di giustizia e sulla Corte penale internazionale, due entità autonome e che seguono tipi diversi di istruttorie e possono emanare provvedimenti differenti. Vediamo il caso del conflitto israelo-palestinese.


L’immobilismo del processo decisionale determinatosi per diversi mesi all’interno del Consiglio di Sicurezza, in ragione del diritto di veto, relativamente all’ipotesi di una tregua o del passaggio degli aiuti umanitari nel conflitto israelo-palestinese è stato scosso dalla forza propulsiva delle risultanze giurisdizionali legate a due corti internazionali in particolare la Corte internazionale di giustizia e la Corte penale internazionale, più nello specifico l’ufficio del procuratore generale (Office of the Prosecutor, cosiddetto OTP), entrambe aventi sede all’Aja nei Paesi Bassi.

Ruoli e funzioni

Questo attivismo così precipuo nei provvedimenti emanati da entrambi nel 2024 – a seguito di due diversi tipi di istruttoria – consentono di delineare meglio le funzioni e i ruoli dell’una e dell’altra Corte nell’alveo delle dinamiche internazionali, pur essendo doveroso anticipare fin da subito che – in considerazione della base volontaristica che caratterizza l’adesione degli stati al diritto internazionale – spesso i provvedimenti delle medesime, pur essendo vincolanti secondo le norme del diritto internazionale, non producono conseguenze giuridiche effettive nei confronti dei soggetti verso i quali vengono emanate ma assumono piuttosto una valenza di natura politica. Ad ogni modo nel corso degli anni – si rammenta che la data di costituzione della Corte di giustizia internazionale è il 1945 mentre la Corte penale internazionale è stata istituita nel 1998 oltre 50 anni dopo – si sono potenziati meccanismi legati alle consuetudini internazionali e alla cooperazione degli stati aderenti ai trattati, per ovviare, sia pure parzialmente, alla mancanza di efficacia sul piano della realtà delle decisioni di tali Corti così diverse tra loro da poter operare contemporaneamente rispetto alla medesima situazione internazionale come sta avvenendo nel conflitto scoppiato da oltre otto mesi nella striscia di Gaza.

Rispetto al confitto israelo-palestinese, più precisamente per gli eventi avvenuti in seguito all’attacco di Hamas il 7 ottobre 2023, la Corte di giustizia internazionale è stata adita mediante ricorso d’urgenza presentato dal Sudafrica nel quale si dichiarava che la guerra condotta dall’esercito israeliano nella striscia di Gaza fosse qualificabile come un atto di genocidio contro il popolo palestinese e che quindi Israele avesse violato la Convenzione sul genocidio del 1948. A tal proposito, come vedremo più avanti nel dettaglio, la Corte di giustizia internazionale si è pronunciata con l’applicazione di misure cautelari nei confronti dello Stato di Israele. Rispetto ai medesimi avvenimenti, l’azione di impulso della Corte penale internazionale è invece avvenuta motu proprio da parte del procuratore generale presso la corte Karimi Khan, secondo una delle ipotesi previste dallo Statuto di Roma del 1998 ed entrato in vigore il primo luglio 2002. Il procuratore, svolgendo attività di indagine nello Stato di Israele e in Cisgiordania, ha concluso emettendo un mandato di arresto per crimini di guerra e contro l’umanità nei confronti di tre esponenti di Hamas ossia Yahya Sinwar, capo del movimento di resistenza islamica Hamas nella Striscia di Gaza, Mohammed Diab Ibrahim al-Masri, comandante in capo all’ala militare di Hamas, ossia delle cosiddette Brigate Al-Qassam e Ismail Haniyeh, capo dell’ufficio politico di Hamas, ma nello stesso tempo nei confronti del premier israeliano Benjamin Netanyahu e del ministro israeliano della Difesa attualmente in carica, Yoav Gallant.

Due Corti, due teste

La diversità della tipologia e delle conseguenze dei provvedimenti adottati dalla Corte di giustizia internazionale e dal procuratore generale presso la Corte penale è dovuta alle differenze ontologiche dei due organismi internazionali e delle loro diverse funzioni. La Corte internazionale di giustizia infatti è il principale organo giurisdizionale delle Nazioni Unite e il suo statuto è parte integrante della Carta delle Nazioni Unite. Essa ha come scopo principale – oltre alla funzione consultiva esercitata a favore dell’Assemblea Generale, del Consiglio di Sicurezza e delle Agenzie delle Nazioni Unite – quello di risolvere le controversie tra gli stati applicando il diritto internazionale o “secondo equità”, qualora le parti ossia gli stati lo richiedano espressamente. Si rammenta che i 17 giudici che la compongono, ognuno di diversa nazionalità in carica per 9 anni e rieleggibili nominati dall’Assemblea Generale e dal Consiglio di Sicurezza, non sono rappresentanti delle posizioni politiche dei diversi stati dei quali sono cittadini e le decisioni vengono assunte con la maggioranza dei voti dei giudici presenti. Premesso ciò, rispetto al ricorso d’urgenza presentato dal Sudafrica contro Israele, la Corte di giustizia con Ordinanza 192 del 26 gennaio 2024 non ha chiaramente deciso nel merito degli accadimenti verificatisi dal 7 ottobre 2023 – decisione che potrebbe richiedere anni per la sua emanazione – ma ha emesso misure cautelari nei confronti dello Stato di Israele chiedendogli al contempo di fare tutto il possibile per prevenire atti genocidari nella striscia di Gaza e di consentire l’accesso agli aiuti umanitari.

L’ipotesi di genocidio: la Corte di giustizia definisce le vittime

Se con tale decisione la Corte di giustizia internazionale non ha dato seguito alla richiesta del Sudafrica di interrompere i combattimenti, imponendo il cessate il fuoco, ha tuttavia implicitamente riconosciuto, decidendo per l’applicazione delle misure cautelari, il cosiddetto fumus boni iuris – ovverossia l’ipotesi di genocidio – rispetto alle azioni compiute da Israele, avendo oltretutto sostenuto che i palestinesi sembrano costituire «gruppo nazionale etnico razziale o religioso» richiamando in tal modo proprio l’esatta dizione mediante la quale, nell’art. 2 della Convenzione sul genocidio del 1948, vengono individuati i destinatari di tale delitto. La Corte di giustizia infatti può adottare in base all’art. 41 del suo statuto nei confronti di uno stato provvedimenti cautelari qualora ritenga che vi sia: il rischio di un pregiudizio irreparabile rispetto ai diritti oggetto del procedimento giurisdizionale, nell’ipotesi in cui la violazione di questi diritti potrebbe comportare conseguenze irreparabili o ancora nei casi di urgenza, ossia qualora ricorra un rischio reale e imminente che sia arrecato un pregiudizio irreparabile a tali diritti prima della decisione definitiva della Corte.

Nello specifico la Corte internazionale di giustizia ha emesso alcune misure cautelari nei confronti di Israele. In primo luogo, la Corte ha ordinato a Israele che il suo esercito non violi la Convenzione sul genocidio – ratificata sia dal Sudafrica che da Israele – evitando l’uccisione dei civili palestinesi nonché di causare loro danni fisici e morali; la Corte ha poi statuito che Israele dovrà punire i cittadini israeliani che pongono in essere atti vietati ai sensi della Convenzione sul genocidio, consentire l’ingresso degli aiuti umanitari sulla striscia di Gaza senza alcuna limitazione, impedire la distruzione di prove utilizzabili nel corso del giudizio di merito sul genocidio e dovrà anche presentarsi davanti alla medesima dopo un mese per dimostrare che tutte le succitate misure cautelari siano state effettivamente adottate.

Vale la pena dunque soffermarsi sul delitto che secondo il Sudafrica sarebbe stato compiuto da Israele nei confronti del popolo palestinese ossia il genocidio che può essere realizzato sia in tempo di guerra che in tempo di pace.

Come già detto la commissione di condotte riconducibili al succitato crimine sono vietate da una specifica Convenzione del 1948 non solo ai fini della repressione ma anche della prevenzione di atti di natura genocidaria. Inoltre, il genocidio come ogni reato è composto sia dall’elemento cosiddetto oggettivo, ossia gli atti compiuti materialmente dagli autori del reato, che dall’elemento soggettivo – in questo caso dolo specifico – ossia la condizione mentale dei medesimi autori del reato atta a sorreggere quei comportamenti vietati dall’ordinamento internazionale. Integrano a tal fine atti di genocidio nei confronti delle vittime di tale delitto le seguenti condotte: le uccisioni, le gravi lesioni dell’integrità fisica e di quella mentale, la sottoposizione a condizioni di vita insostenibili, l’impedimento alle nascite e il trasferimento forzato dei minori. Va altresì precisato che anche i comportamenti definibili quali complicità, concorso, istigazione o incitamento pubblico alla commissione di condotte genocidarie sono punibili ai sensi della Convenzione. Per quanto riguarda invece l’elemento soggettivo del reato è necessario (ai sensi della Convenzione) che l’autore / gli autori – in questo caso lo stato o gli stati – abbiano posto in essere gli atti genocidari «al fine di distruggere in tutto o in parte un gruppo nazionale etnico, razziale o religioso», gruppo che, come già anticipato in precedenza, può essere agevolmente considerato quello del popolo palestinese presente sulla Striscia di Gaza con circa oltre 2 milioni di abitanti.

Corti internazionali

Il riconoscimento di un singolo stato può minare i provvedimenti

Tuttavia, se da una parte è vero che tutti gli stati facenti parte dell’Organizzazione delle Nazioni Unite sono obbligati a conformarsi al contenuto dei provvedimenti emessi dalla Corte di giustizia, dall’altra ciò che è fondamentale sottolineare è che tale assunto è comunque subordinato al fatto che il singolo stato, facente parte della controversia dinanzi alla Corte, abbia accettato la giurisdizione della medesima mentre Israele non l’ha fatto, così come d’altronde gli Stati Uniti, la Russia e la Cina. Questa posizione mina evidentemente la reale efficacia giuridica di un provvedimento della Corte di giustizia verso Israele o verso qualsiasi altro stato che non abbia accettato la sua giurisdizione tenuto conto che – come vedremo anche per la Corte penale internazionale – non vi è un organo in seno alle Nazioni Unite che sia in grado di far applicare i provvedimenti delle Corti internazionali in modo coercitivo. Ciò si ricollega indirettamente anche alla consuetudine internazionale delle missioni di peacekeeping ed è strettamente collegato al fatto che le disposizioni di cui agli artt. 43 e seguenti della Carta delle Nazioni Unite che prevedono un organo di “polizia internazionale” non hanno mai trovato applicazione. Secondo gli artt. 43, 44, 45, gli stati membri avrebbero dovuto stipulare con il Consiglio di Sicurezza il numero, il grado di preparazione e la dislocazione delle forze armate da impiegare nell’alveo di tale organo di polizia internazionale mediante vari contingenti nazionali facenti capo a un Comitato di Stato Maggiore, sottoposto all’autorità del Consiglio di Sicurezza.

Quali differenze tra le Corti internazionali?

Prima di soffermarci sul contenuto del mandato di arresto emesso dal procuratore generale presso la Corte penale internazionale il 20 maggio 2024 occorre specificare le differenze di tale Corte – oltre a quelle temporali relative all’anno della sua istituzione mediante lo Statuto di Roma del 1998 – rispetto alla Corte di giustizia internazionale.

“Sterminio di Gaza: violazione di norme di consuetudine internazionale”.

La Corte penale internazionale non è infatti un organo giurisdizionale delle Nazioni Unite e non persegue gli stati per le violazioni delle norme di diritto internazionale bensì i singoli individui per alcune fattispecie di reati rilevanti ai sensi del diritto penale internazionale, più nello specifico il genocidio, i crimini di guerra, i crimini contro l’umanità e i crimini contro la pace e di aggressione.

Tale distinzione comporta delle conseguenze non trascurabili in quanto come visto

la Corte di giustizia internazionale ha invece come destinatari gli stati che, in quanto enti collettivi qualificabili come persone giuridiche, non possono – qualora vengano condannati per violazione delle norme internazionali – commettere crimini penalmente sanzionabili e quindi le pene a essi comminate, mediante i provvedimenti giurisdizionali, non potranno mai essere quelle previste comunemente negli ordinamenti penali ma avranno tutt’altro tipo di contenuto

come per esempio l’embargo o la rottura dei rapporti diplomatici con gli altri stati delle Nazioni Unite. D’altro canto, va altresì precisato che la competenza giurisdizionale della Corte penale internazionale – così come definita dagli artt. 17 e 18 dello Statuto di Roma – è sussidiaria o meglio complementare rispetto a quella degli stati.

Essa quindi sussiste solo nell’ipotesi in cui gli stati non vogliano o non possano punire le quattro fattispecie dei crimini internazionali di cui sopra e può essere attivata solo mediante le tre modalità previste dallo Statuto di Roma, ossia su iniziativa spontanea del procuratore generale presso la Corte penale, come nel conflitto israelo-palestinese, o mediante richiesta di uno degli stati membri della Corte (a oggi sono 123) oppure ancora su richiesta del Consiglio di sicurezza ma solo riguardo questioni che attengano alla violazione o alla minaccia della pace o ipotesi di aggressione che il Consiglio di sicurezza ritenga non siano di propria competenza. Inoltre, è necessario precisare che l’art. 12 dello Statuto di Roma stabilisce che la Corte penale internazionale – come si è visto per la Corte internazionale di giustizia – è competente soltanto nell’ipotesi in cui la sua giurisdizione sia riconosciuta dallo stato interessato dai suoi provvedimenti.

Tale disposizione di legge nel caso del conflitto israelo-palestinese è particolarmente rilevante perché, se da un lato Israele – così come gli Stati Uniti e la Russia – è tra gli stati firmatari, ma non ha ratificato lo Statuto di Roma per cui formalmente non ha riconosciuto la giurisdizione della Corte, nel caso della Palestina non si può giungere alla stessa conclusione. Infatti, già nel 2015 la Palestina ha richiesto di essere riconosciuta stato parte della Corte penale internazionale in conseguenza degli accadimenti avvenuti a opera di Israele nel giugno del 2014. Non è insolito infatti che gli stati che non percepiscano alcuna tutela da un organo giurisdizionale interno per condotte penalmente rilevanti – come diversi stati africani – sperino di ottenerla mediante l’adesione alla Corte penale internazionale.

Nel 2021 dunque a fronte di tale richiesta la Camera preliminare ha deciso che la Palestina debba essere riconosciuta a tutti gli effetti uno stato ai fini della giurisdizione della Corte penale internazionale e che essa è pienamente esercitabile rispetto ai territori occupati da Israele nel 1967 ossia la Striscia di Gaza, la Cisgiordania e Gerusalemme Est.

corti internazionali

146 stati (e lo Stato Città del Vaticano) appartenenti all’Onu su 193 riconoscono lo Stato di Palestina.

Nel mandato di arresto del 20 maggio del 2024 il procuratore generale presso la Corte penale internazionale – in seguito alle attività di indagine svolte – ha ritenuto che sia i tre esponenti di Hamas sopraccitati che il primo ministro israeliano Netanyahu e il ministro della Difesa dello Stato di Israele sono responsabili della commissione di crimini di guerra e di crimini contro l’umanità, ragione per la quale, ancor prima di analizzare il contenuto del provvedimento del procuratore occorre chiarire quali siano le fattispecie che vanno a integrare i suddetti crimini, perseguibili penalmente a livello internazionale.

Cosa sono i crimini di guerra?

Con crimini di guerra si fa riferimento alla violazione di quell’insieme di norme che disciplinano le condotte di quanti combattono nel corso delle ostilità. Tuttavia se è vero che non ogni violazione del cosiddetto Diritto bellico integri necessariamente un crimine internazionale, d’altro canto è vero che anche durante i conflitti armati debbano essere rispettate delle regole minime di civiltà non solo nei confronti della popolazione civile dello stato contro il quale si combatte ma anche rispetto ai prigionieri “dell’esercito nemico” che, non essendo più nella condizione di combattere, devono essere comunque rispettati nella loro condizione di esseri umani da cui discende come corollario il divieto assoluto di essere destinatari di qualsiasi forma ulteriore di violenza bellica, in esito alla loro cattura. Chiarito dunque quali sono i destinatari dei crimini di guerra occorre aggiungere che – così come per il genocidio – anche per i crimini di guerra è presente un complesso di norme internazionali scritte – più specificamente le quattro Convenzioni internazionali di Ginevra del 1949 – che indicano le fattispecie qualificabili come crimini di guerra. Come stabilito da tutte le quattro le Convenzioni di Ginevra del 1949 – trattandosi anche in questo caso di un reato – costituiscono l’elemento oggettivo del suddetto crimine le condotte di omicidio, di stupro, di tortura, la presa di ostaggi, la violazione della dignità personale e i trattamenti inumani e degradanti, ma solo se compiuti nel corso di un conflitto armato o comunque compiuti in ragione dello stesso ovverossia essi devono essere qualificabili come una forma di partecipazione al conflitto. Per quanto attiene all’elemento soggettivo del reato invece in questo caso non è richiesto il dolo specifico come nel caso del genocidio ma l’intenzione di reggere la condotta così come sopra delineata dal punto di vista fattuale.

Si ricorda inoltre che i crimini di guerra sanzionabili secondo le quattro Convenzioni di Ginevra del 1949 erano soltanto quelli internazionali, ossia tra due o più stati, mentre con lo Statuto di Roma del 1998 si sono fatti rientrare nel novero di tali crimini anche quelli compiuti nei conflitti civili ossia tra fazioni diverse ma appartenenti al medesimo stato.

Non un’unica definizione

Più nello specifico con riferimento alla competenza della Corte penale internazionale i crimini di guerra vengono definiti dall’art. 8 dello Statuto di Roma. Diversa analisi è quella che deve essere dedicata alla nozione dei crimini contro l’umanità disciplinati invece dall’art 7 dello statuto della Corte penale internazionale – ma rispetto ai quali non c’è una Convenzione internazionale di riferimento. I crimini contro l’umanità sono una tipologia di crimini che vennero delineati, dal punto di vista storico, mediante l’attività del Tribunale di Norimberga nel corso dell’accertamento dei crimini del regime nazista nel periodo antecedente la Seconda guerra mondiale nei confronti dei cittadini tedeschi come destinatari di condotte criminose, i quali – non essendoci un conflitto in corso – non potevano rientrare chiaramente nel novero dei prigionieri o dei civili dello stato nemico come nel caso dei crimini di guerra.

Ci troviamo sempre, ad ogni modo, dinanzi a reati di rilievo internazionale per cui come è stato individuato per altri crimini penalmente sanzionabili, occorre comprendere l’elemento oggettivo del reato ossia la condotta del “reo” e il suo elemento soggettivo.

Quando il contesto conta

Per quanto attiene al primo aspetto va preliminarmente chiarito – anche in funzione della comprensione del contenuto del mandato di arresto internazionale del procuratore Karimi Khan – che le condotte riconducibili a crimini contro l’umanità possono essere compiute tanto in tempo di guerra quanto in tempo di pace. Esse sono l’omicidio, la tortura, lo stupro, la violenza, la riduzione in schiavitù, e altri atti penalmente rilevanti ma considerati leciti dall’esecutivo al potere in un dato momento storico. Tuttavia, tali condotte vengono qualificate come crimini contro l’umanità solo se compiute nel corso di un attacco sistemico e massiccio, ragione per la quale non possono essere configurati crimini contro l’umanità atti isolati bensì soltanto gli atti che rispondono a una puntuale politica di governo, tollerata dalle autorità nazionali. Inoltre, per quanto riguarda l’elemento soggettivo del reato, anche nel caso dei crimini contro l’umanità ricorre la necessità di un dolo specifico – come si è visto per il genocidio – ossia non solo l’intenzione di porre in essere le condotte di cui sopra ma anche la consapevolezza che quanto si sta compiendo costituisca una violazione generalizzata dei diritti umani. Nel mandato di arresto del procuratore generale più nello specifico si ritengono responsabili – mediante diversi capi di accusa – gli esponenti di Hamas Yahya Sinwar, Mohammed Ibrahim al- Masri, e Ismail Haniyeh, tanto della commissione di crimini di guerra che di crimini contro l’umanità.

Corti internazionali

Quali crimini?

Con riferimento ai soli crimini di guerra (in conformità al succitato art. 8 dello Statuto di Roma) vengono annoverati nel mandato di arresto la presa in ostaggio, i trattamenti crudeli e gli oltraggi alla dignità personale perpetrati nel corso della prigionia mentre come crimini contro l’umanità – in base all’art. 7 – vengono indicati lo sterminio, l’omicidio, e altri atti disumani e degradanti anche se nel contesto della prigionia. Ricondotti ad entrambi i crimini invece sono la tortura, lo stupro e gli altri atti di violenza sessuale. Nel mandato di arresto, rispetto a tali fattispecie rilevanti penalmente a livello internazionale, viene specificato che i crimini di guerra sono stati compiuti nel corso di un conflitto armato qualificato al contempo come internazionale e non internazionale tra Israele e Hamas mentre i crimini contro l’umanità nel corso di un attacco diffuso e sistematico contro la popolazione civile di Israele, compiuto da parte di Hamas e di altri gruppi armati in conformità all’organizzazione del Movimento.

Tale contesto è il medesimo all’interno del quale il procuratore generale Karimi Khan ha ritenuto destinatari del mandato di arresto internazionale anche il Primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e il ministro della difesa Yoav Gallant in quanto responsabili penalmente, come i tre esponenti di Hamas, di crimini di guerra e contro l’umanità.

Più nello specifico vengono ascritti quali crimini di guerra dei due ministri israeliani: la fame dei civili e l’aver arrecato intenzionalmente grandi sofferenze, gravi lesioni al corpo o alla salute o trattamenti crudeli, nonché gli omicidi e di dirigere intenzionalmente gli attacchi contro la popolazione civile. Il primo ministro e il ministro della Difesa israeliano vengono inoltre ritenuti responsabili di aver provocato sterminio e omicidio anche nel contesto di morti per fame, la persecuzione e altri atti disumani e degradanti ossia crimini contro l’umanità. Tuttavia, poiché diverse delle condotte delle quali sono ritenuti responsabili Netanyahu e Gallant come crimini contro l’umanità sono le medesime idonee a integrare dal punto di vista oggettivo il crimine di genocidio non può passare inosservata in tale ricostruzione dei fatti l’affermazione del procuratore generale Khan mediante la quale si specifica che

«Israele ha intenzionalmente privato la popolazione civile in tutte le parti del territorio di Gaza di oggetti indispensabili alla sopravvivenza umana», ossia con dolo quale elemento soggettivo del reato.

L’integrale perfezionamento del crimine di genocidio – già sollevato dinanzi alla Corte di giustizia che ancora, ricordiamo non si è espressa con un provvedimento definitivo in esito a un giudizio nel merito, nel caso del mandato di arresto del procuratore generale presso la Corte penale internazionale difetta nell’accertamento unicamente della specificità del dolo ossia di quella «volontà di distruggere in tutto o in parte» i palestinesi che tuttavia si ricorda sono già stati considerati riconducibili alla nozione di «gruppo nazionale, etnico, razziale e religioso», unici destinatari di tale crimine secondo la Convenzione di Ginevra. Sulla valutazione dell’esistenza del dolo specifico potrebbero certamente pesare le dichiarazioni del ministro della difesa rilasciate il 9 ottobre del 2023.

Si vedrà solo con il passare degli anni se le due Corti addiverranno nel giudizio di merito a un’univoca ricostruzione dei fatti corroborata o meno dall’individuazione dell’integrazione del o dei medesimi crimini internazionali, sperando che l’attesa non sia ancora inondata di sangue versato da innocenti e che se giustizia non vi può essere perché l’efficacia del sistema di giustizia internazionale non è effettiva che quanto meno si dia una risposta politica così inequivocabile da tracciare non più confini ma filamenti di una maglia di integrazione così estesa e fitta da coprire – seppur con vivida memoria – gli orrori del passato e del presente.


In quanto a risposta inequivocabile a un mese circa dalla pubblicazione di questo articolo la Corte  internazionale di Giustizia dell’Aja ha dato un responso su cui le persone di buonsenso e qualsiasi approccio onesto in punta di Diritto internazionale non possono che concordare da 57 anni a questa parte: Israele ha saccheggiato territori non suoi, imposto un regime di apartheid su popolazioni che non dovrebbero dipendere dallo Stato ebraico, ha vessato, torturato, incarcerato, commesso crimini di guerra e perpetrato massacri, anche favorendo epidemie ed esecuzioni sommarie. Deve smantellare ogni colonia e ritirare le truppe di occupazione da Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme, rientrando nei suoi confini riconosciuti: quelli del 1967 antecedenti la Guerra dei sei giorni. Il fatto che 50.000 palestinesi siano stati uccisi nell’indifferenza generale, i feriti siano nell’ordine di centinaia di migliaia, Gaza distrutta, si continui a impedire la consegna di aiuti umanitari, medicinali salvavita, si diffonda scientemente la poliomielite è solo la dimostrazione che il Diritto internazionale è solo quello del più forte. Anche se – e proprio perché – le indicazioni della Corte comportano un obbligo preciso di boicottaggio, disinvestimento e sanzioni contro il paese incriminato, questo assunto – che dovrebbe portare alla soluzione definitiva della questione israelo-palestinese e alla fine dell’arroganza di Tel Aviv – è dimostrato come mera utopia dall’ultima sentenza della Corte internazionale di Giustizia che nel 2003 aveva condannato Israele per l’illegalità del Muro di separazione eretto unilateralmente, derubando tra l’altro i bantustan palestinesi dell’accesso all’acqua.

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L’epilogo comune del conflitto armato filippino? https://ogzero.org/conflitto-armato-filippino-l-epilogo-comune-del/ Sat, 02 Dec 2023 01:57:49 +0000 https://ogzero.org/?p=11994 Molto interessante la segnalazione di Gianni Sartori a proposito di un processo misconosciuto dai media mainstream – e anche i portali europei più attenti alle lotte di emancipazione non registrano gli “annientamenti” mirati contro i militanti più storici di una lotta che dura da 50 anni nell’arcipelago filippino. Ci sembra particolarmente significativo descrivere il processo […]

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Molto interessante la segnalazione di Gianni Sartori a proposito di un processo misconosciuto dai media mainstream – e anche i portali europei più attenti alle lotte di emancipazione non registrano gli “annientamenti” mirati contro i militanti più storici di una lotta che dura da 50 anni nell’arcipelago filippino. Ci sembra particolarmente significativo descrivere il processo di “pacificazione” del conflitto armato filippino con la guerriglia maoista intrapreso dal potere a Manila assimilabile alle modalità in cui si stanno consumando le soluzioni dei conflitti “epocali” in tutto il mondo: il caso più macroscopico anche per quantità riguarda i palestinesi, ma l’esempio più avvicinabile è il lento stillicidio colombiano delle Farc e probabilmente un futuro curdo che si prospetta per le importanti esperienze del confederalismo democratico, così tristemente simile a un passato Tamil; parzialmente diverso è il caso birmano, dove le comunità temporaneamente alleate contro Tatmadaw sono unite da ragioni meno nobili degli altri “eserciti” di liberazione citati.
Una notazione che ci viene dalla proposta grafica che abbiamo trovato come illustrazione dell’intervento: il tratto o l’inquadratura esibiscono tutti una retorica che sembra provenire da un lontano passato che non è riuscito ad aggiornarsi e anche per questo ha perso il suo appeal sui giovani e perciò l’apparato iconografico dei trattati di pace si compiace di ritrarre vecchi esausti che riconoscono che la contrapposizione armata al potere non è una prassi in grado di portare a risultati in questa fase storica.


L’arcipelago in fiamme da mezzo secolo

Distrazione, correlazioni saltate, oppure… repressione globale?

Tra le tante guerre a (relativamente) “bassa intensità” quella che si svolge nelle Filippine non è certo tra le più conosciute o documentate. Fermo restando che sia le lotte per l’autodeterminazione (indipendentiste o meno) che le eventuali “soluzioni politiche” (dal Sudafrica all’Irlanda, dalla Colombia ai Paesi Baschi…), per quanto frutto di ragioni intrinseche (almeno quelle autentiche, non create ad hoc) dipendono anche – o soprattutto – da ben altro. In particolare dal contesto geopolitico. Per chi preferisce: il “campo” in cui schierarsi, volenti o nolenti.
Dalle Filippine, anche nell’anno in corso, sono arrivate notizie soprattutto di scontri tra militari e guerriglieri (in genere comunisti). Scontri che solitamente – stando almeno a quanto si conosce – si concludono a sfavore dei secondi.
Da segnalare poi come sempre più spesso vengano uccisi elementi di spicco (comandanti…). Un segnale di perfezionamento delle operazioni di intelligence?

Intensificazione di esecuzioni mirate

Tra gli episodi più recenti (inizio novembre 2023), la cattura a Barangay Buhisan (San Agustin) di Cristitoto Tejero, comandante in capo del Fronte di guerriglia 19 della New People’s Army – Comitato regionale del Nordest di Mindanao. Il militante maoista (57 anni) era da tempo ricercato per la sua attività guerrigliera e in particolare per l’uccisione di un militare.
Pochi giorni prima, il 26 di ottobre, un altro esponente della Bagong Hukbong Bayan (Npa) da tempo ricercato, Michael Cabayag (Ka Teddy, comandante del Fronte di guerriglia Sendong) era stato ucciso dai soldati del 10° battaglione di fanteria nel villaggio di Carmen (Misamis Occidentale). Nella stessa circostanza veniva catturato un altro militante, Armida Nabicis (Ka Yumi). Tra le armi trovate in loro possesso: un fucile M-16 Armalite, un CZ (AK-47), una carabina M653 e un lanciagranate M-203.

La mattanza di combattenti irriducibili… e “storici”
Un altro esponente di spicco della guerriglia maoista, Ray Masot Zambrano, era stato precedentemente abbattuto a Barangay Obial (Kalamansig) il 10 ottobre.
L’operazione veniva condotta dai militari della 603° brigata di fanteria. Quasi contemporaneamente un altro membro della Npa (di cui al momento non si era potuto accertare l’identità) soccombeva sulle montagne di Buneg (Lacub, Abra).

Ancora più tragico il bilancio del 29 settembre quando almeno cinque esponenti della Npa perdevano la vita nella città di Leon, provincia di Lloilo.
Tra loro la comandante Azucena Churesca Rivera (Rebecca Alifaro, conosciuta anche come Jing).
Nella guerriglia dal 1980, svolgeva funzioni di Segretaria del Fronte sud della Npa -Komiteng Rehiyon-Panay.
Altri due guerriglieri venivano uccisi da una pattuglia di polizia nei pressi dell’aeroporto di Bicol (tra i villaggi di Bascaran e Alobo).
L’ennesimo guerrigliero era deceduto qualche giorno prima a Esperanza (Agusan del Sur) e almeno sei il 21 settembre nel villaggio di Taburgon (Negros occidentale)
Rispettivamente dal 26° battaglione di fanteria e dal 47° battaglione.
I sei maoisti facevano parte del Fronte sud-ovest della NPA. Tra di loro, Alejo “Peter/Bravo” de los Reyes; Mélissa “Diana” de la Peña ; Marjon “Kenneth” Alvio ; Bobby “Recoy” Pedro e il medico Mario “Reco/Goring” Fajardo Mullon.
Quanto al sesto guerrigliero, all’epoca non era stato ancora identificato.
Oltre ad alcune armi i militari avevano recuperato molto materiale propagandistico e politico.

Ancora sei maoisti (altri sei) erano caduti in combattimento il 7 settembre nel corso di una serie di scontri a fuoco con i militari nella zona di Sitio Ilaya (provincia di Bohol) mentre, intercettati a un posto di blocco, tentavano di sganciarsi.

Invece il 20 marzo era stato un sottufficiale dell’esercito filippino a venir ucciso in un conflitto con una decina di guerriglieri della Npa nell’isola di Masbate.

Comunque un doloroso stillicidio, oltretutto senza apparente via d’uscita e che – stando ai dati ufficiali – avrebbe causato oltre 40.000 morti (in maggioranza civili) in circa mezzo secolo.
Ma recentemente, dopo che precedenti trattative si erano insabbiate, è apparso qualche segnale di possibile soluzione del conflitto. Innanzitutto l’amnistia per i ribelli in carcere e poi una dichiarazione congiunta tra il governo filippino e il National Democratic Front of the Philippines (Pambansang Demokratikong Hanay ng Pilipinas), con cui entrambi intendevano ricucire il dialogo bruscamente interrotto sei anni fa dall’allora presidente Rodrigo Duterte (ex guerrigliero maoista).
Buona parte del merito dell’iniziativa andrebbe al presidente Ferdinand Romuáldez Marcos Jr (eletto nel 2022 e che presumibilmente vuole riscattarsi dalle colpe del padre) il cui Assistente speciale Antonio Ernesto Lagdameo è stato nominato Negoziatore governativo.

Il Fronte, coalizione di una ventina di organizzazioni (tra cui, oltre alla Npa, il Communist Party of the Philippines), ne costituisce la “vetrina politica” e attualmente è guidato da Luis Jalandoni, un ex sacerdote (tra i membri anche la Christians for National Liberation da lui fondata).

Altre organizzazioni che ne fanno parte:
Moro Resistance and Liberation Organization (Mrlo), Katipunan ng Gurong Makabayan (Kaguma), Liga ng Agham para sa Bayan (Lab), Lupon ng Manananggol para sa Bayan (Lumaban), Malayang Kilusan ng Bagong Kababaihan (femministe), Revolutionary Council of Trade Unions (Rctu),Pambansang Katipunan ng Mambubukid (Pkm), Katipunan ng mga Samahang Manggagawa (Kasama), Cordillera People’s Democratic Front (Cpdf)
Un eterogeneo raggruppamento tattico di partiti, associazioni della società civile, sindacati e gruppi armati di sinistra, milizie etniche, tribali e altro che per certi aspetti può ricordare l’attuale coalizione antigovernativa del Myanmar.Se non addirittura –almeno in prospettiva, potenzialmente – la situazione del Rojava.

Le pacifiche soluzioni di Oslo

Il 23 novembre 2023 Jalandoni, rappresentante del Partito comunista, e Lagdameo, assistente di Marcos jr., hanno firmato a Oslo una dichiarazione con cui si impegnano «per una soluzione pacifica ed equa del conflitto armato» e per una “pace giusta e duratura”.

Sottolineando «la necessità di unità come nazione per fare fronte alle minacce esterne alla sicurezza», auspicando indispensabili riforme socio-economiche atte a superare l’attuale situazione alquanto disastrata (anche sotto il profilo ambientale).

Scomparse significative: residuali baluardi dissolti nel nuovo ordine globale

Forse ha indirettamente contribuito all’accelerazione del nuovo corso la recente scomparsa in esilio (nel dicembre 2022) del dirigente comunista maoista Jose Maria Sison.
E proprio per il Communist Party of the Philippines e per il suo “braccio armato” (Npa) è prevista una trasformazione in organizzazione politica (analogamente al processo che ha interessato le Farc colombiane).

 

 

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L’invincibile intreccio tra industria bellica, finanza, politica e istituzioni americane https://ogzero.org/industria-bellica-e-finanza/ Thu, 02 Nov 2023 19:09:10 +0000 https://ogzero.org/?p=11798 Industria bellica e finanza, protagoniste dell’escalation in un’economia di sostegno alla guerra. Nella giornata di Halloween i principali leader militari e diplomatici degli Usa hanno esortato un Congresso sempre più diviso a inviare importanti aiuti immediati a Israele e all’Ucraina, sostenendo in un’audizione al Senato che un ampio sostegno all’assistenza darebbe un segnale di forza […]

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Industria bellica e finanza, protagoniste dell’escalation in un’economia di sostegno alla guerra. Nella giornata di Halloween i principali leader militari e diplomatici degli Usa hanno esortato un Congresso sempre più diviso a inviare importanti aiuti immediati a Israele e all’Ucraina, sostenendo in un’audizione al Senato che un ampio sostegno all’assistenza darebbe un segnale di forza degli Stati Uniti agli avversari in tutto il mondo.
La testimonianza del Segretario alla Difesa Lloyd Austin e del Segretario di Stato Antony Blinken è arrivata mentre la massiccia richiesta di aiuti d’emergenza dell’amministrazione per i conflitti nei due paesi, pari a 105 miliardi di dollari, incontrava ostacoli.

Eccitatissima la finanza: balzano nuovamente i titoli del comparto dell’industria pesante, dopo i dividendi a 9 cifre dopo la guerra in Ucraina;  si tratta di investimenti sicuri che provengono da contratti governativi a lungo termine e sicuri, finché prevale l’economia e la politica di guerra dell’amministrazione democratica. Altri miliardi di dollari gettati in guerre destinate a non trovare soluzione, perché non devono risolversi fino allo scoppio provocato di un nuovo orizzonte di guerra; foraggiare le grosse industrie belliche (strettamente correlate con l’amministrazione Biden e con il Pentagono) e… causare massacri di civili. In Usa vengono arrestati i manifestanti israeliti (300) contro questo dispendio di denaro; in Italia si estendono le servitù militari e le vendite di armi, le relazioni tra Idf, politecnici, industria delle armi.

Non può non stravincere la manovra guerrafondaia della amministrazione di Washington, perché l’economia di guerra è l’unica strategia rimasta a Biden per mantenere agli Usa il predominio sul mondo; dunque per chi avversa l’economia di guerra aprire una breccia in quel muro di miliardi bruciati nei missili è l’unica salvezza per evitare l’escalation che consentirebbe al sistema armi-potere-istituzioni di sopravvivere alla propria implosione.

Perciò abbiamo ritenuto utile riprendere un articolo di Eric Salerno uscito su “il manifesto” del 22 ottobre 2023 (i link esterni e interni sono stati aggiunti da ogzero), perché sta tornando nei palinsesti il confronto sul bilancio federale, che si scontra con lo stanziamento di 100 miliardi in supporti bellici per i 3 teatri di guerra (60 a Kyiv, 10 a Tel Aviv, il resto a Taipei): i 3 sostegni dell’economia di guerra; poi ci sono gli altri conflitti che assorbono altre armi, altre strategie, altre economie di guerra speculari e dipendenti da quello che è lo sgocciolamento sui conflitti periferici della economia di guerra di riferimento, proxy della nazione predominante


Non può non vincere l’import-export delle armi statunitensi

Chi sta vincendo? Chi vincerà?

Israele, certamente una grande potenza, ricca di un arsenale di armi nucleari di ultima generazione che non può utilizzare? Hamas, un movimento integralista, dotato, come si è visto, di armi a sufficienza per andare avanti almeno due settimane? Prima di cercare di rispondere credo che valga la pena raccontare un mio incontro, di molti anni fa, con il premier israeliano Benjamin Netanyahu. Non era ancora stato eletto premier ma aveva già scritto e pubblicato un libro – edito anche in Italia da Mondadori – sul terrorismo.
Per lui erano terroristi anche i combattenti, donne e uomini, del Fronte di liberazione algerino – Fln – che erano riusciti a costringere i francesi a lasciare il loro “territorio d’oltremare” e cercare, senza molto successo, di aprire un capitolo nuovo nella loro a dir poco devastante relazione con il popolo magrebino.
La nostra conversazione fu interrotta da una telefonata. C’era stato un attacco di militanti di Hezbollah contro una pattuglia israeliana. Se ricordo bene alcuni militari furono uccisi o feriti. Per lei sono terroristi?, chiesi. «Per me quelli di Hezbollah sono terroristi anche se, questa volta, attaccando una pattuglia di militari in divisa, hanno compiuto un’azione militare». I militanti di Hamas che hanno ucciso donne, bambini, uomini azioni, sono terroristi; quelli che hanno ucciso o catturato militari israeliani in divisa, dunque, hanno compiuto un’azione militare.

Non hanno vinto la loro guerra e anche se è presto per tirare le somme, dubito che usciranno vincitori da questo conflitto. E nemmeno, se parliamo di azioni armate, il popolo palestinese riuscirà a vincere. Israele allora? Sta vincendo? Ci vorranno molti anni, forse più di una generazione perché il popolo ebraico di quel giovane paese mediorientale possa considerarsi vincente.
E allora, chi vincerà? Quello che il generale americano Eisenhower, eroe della guerra in Europa e presidente degli Stati Uniti disse lasciando la Casa bianca: mise in guardia il popolo americano sul grande potere del “complesso politico-militare”. Mentre ora Biden chiede più di 100 miliardi di dollari al Congresso per le guerre in corso, per Israele, l’Ucraina e in vista per Taiwan, la grande industria americana degli armamenti ha già incassato miliardi, negli ultimi due anni, con la guerra in Ucraina e ora si prepara a guadagnare ancora di più con il conflitto Hamas-Israele.

Pacchetti di armi americane e proteste di americani

Il presidente Biden, interessato da sempre al benessere di Israele ma, comprensibilmente, oggi ancora più interessato a far vincere al suo partito (Democratico) le presidenziali dell’anno prossimo. Vorrebbe, dice, restare alla Casa bianca o quanto meno mantenere l’ambita poltrona per un suo collega di partito. Non tutti i democratici sono d’accordo con la politica di Biden e non solo quella che riguarda la sua politica e le sue alleanze incerte spesso contraddittorie. E proprio ora che ha promesso un nuovo pacchetto di armi per Israele arrivano una marea di proteste da sostenitori americani, molti dei quali ebrei.

Fedeli funzionari

Un funzionario del Dipartimento di stato americano con un ruolo chiave negli accordi sulle armi ha annunciato mercoledì le proprie dimissioni, citando le decisioni «miopi, distruttive, ingiuste e contraddittorie» dell’amministrazione Biden che lo hanno costretto a innumerevoli «compromessi morali». Josh Paul – così si chiama – per undici anni ha lavorato all’Ufficio per gli affari politico-militari del dipartimento che supervisiona proprio il commercio di armi con altri paesi e ha definito la risposta della Casa bianca all’attacco di Hamas

«una reazione impulsiva costruita su pregiudizi, convenienza politica, bancarotta intellettuale e inerzia burocratica».

Analisti finanziari

Gli analisti dei mercati finanziari, però, sono super-eccitati. Come leggiamo sul sito di uno dei grandi gestori di fondi e investimenti:

«Il National Defense Authorization Act per l’anno fiscale 2024 prevede 886,3 miliardi di dollari di spesa per la difesa statunitense, in aumento del 3,3% rispetto ai livelli del 2023. La guerra in Ucraina ha già incrementato la spesa degli Stati Uniti e dei suoi alleati, ma le dinamiche nel settore della difesa sono cambiate radicalmente dopo che Hamas ha attaccato Israele il 7 ottobre, portando alla successiva dichiarazione di guerra di Israele».

L’analista della Bank of America, Ronald Epstein afferma che

«la guerra in Medio Oriente potrebbe costringere il governo degli Stati Uniti ad aumentare gli investimenti nell’industria della difesa, e alcuni titoli del settore della difesa hanno registrato un balzo dall’inizio del conflitto. I titoli della difesa sono investimenti interessanti – spiega – perché spesso hanno contratti governativi prevedibili e a lungo termine».

Le cifre del Sipri

Dal Sipri, un po’ di cifre. Tre dei primi 10 importatori nel 2018-22 sono in Medio Oriente: Arabia Saudita, Qatar ed Egitto. L’Arabia Saudita è stata il secondo più grande importatore di armi al mondo nel 2018-22 e ha ricevuto il 9,6% di tutte le importazioni di armi in quel periodo. Le importazioni di armi del Qatar sono aumentate del 311% tra il 2013-17 e il 2018-22, rendendolo il terzo importatore di armi al mondo nel 2018-2022.

La grande maggioranza delle importazioni di armi in Medio Oriente proveniva dagli Stati Uniti (54%), seguita dalla Francia (12%), dalla Russia (8,6%) e dall’Italia (8,4%). Includevano più di 260 aerei da combattimento avanzati, 516 nuovi carri armati e 13 fregate. Gli Stati arabi della sola regione del Golfo hanno effettuato ordini per altri 180 aerei da combattimento, mentre 24 sono stati ordinati dalla Russia e dall’Iran (che non ha ricevuto praticamente armi importanti durante il 2018-2022).

L’escalation innescata da fanatici innominabili

Un dato molto interessante, quest’ultimo, quando si ascoltano voci che vorrebbero Teheran il maggiore sostenitore di Hamas mentre nessun, per ora, incolpa alcuni grandi acquirenti arabi notoriamente vicini all’organizzazione che ha sferrato l’attacco a Israele. Attacco che rischia di trascinare una parte del mondo in un conflitto di più vaste proporzioni.

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Sri Lanka 2006-2009 https://ogzero.org/sri-lanka-2006-2009/ Tue, 31 Oct 2023 00:39:11 +0000 https://ogzero.org/?p=11784 Se pensate di riconoscere “fasi” di annientamento di popoli in corso nella stretta attualità, avete colto esattamente il motivo per cui pubblichiamo ora questo saggio inviatoci da Gianni Sartori, un teleobiettivo su una “questione” indipendentista attraverso le cui lenti ripulite dalla distanza del tempo è più facile ricostruire i molti diversi canali che hanno condotto […]

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Se pensate di riconoscere “fasi” di annientamento di popoli in corso nella stretta attualità, avete colto esattamente il motivo per cui pubblichiamo ora questo saggio inviatoci da Gianni Sartori, un teleobiettivo su una “questione” indipendentista attraverso le cui lenti ripulite dalla distanza del tempo è più facile ricostruire i molti diversi canali che hanno condotto a quell’epilogo di annientamento, ghettizzazione… pulizia etnica.. 


“Questione tamil”: dalla ribellione alla pulizia etnica governativa

Risaliva alla fine del settembre 2006 un ripristino di interesse, di attualità per la spesso trascurata “questione Tamil” in Sri Lanka.

Tra il 24 e il 25 settembre in una “battaglia navale” che sarebbe eufemistico definire impari, la marina militare governativa uccideva oltre una settantina di tamil che stavano trasportando armi con una decina di imbarcazioni. Armi molto probabilmente destinate ai guerriglieri delle Ltte (Liberation Tigers of Tamil) assediati da oltre un mese nella penisola settentrionale di Jaffna.
All’epoca si calcolava che in venti anni di conflitto fossero già morte circa 65.000 persone e gli sfollati superassero ormai il milione. In seguito tali numeri erano destinati ad aumentare sensibilmente.

In una “guerra tra poveri” da manuale con entrambi i contendenti vittime di vecchie e nuove colonizzazioni mentre il solco delle reciproche incomprensioni andava a ulteriormente approfondirsi. Proprio nei giorni successivi anche in Italia venivano organizzate da Castis (Campaign agaist separatist terrorism in Sri Lanka) numerose manifestazioni di sostegno al governo di Sri Lanka e contro le “Tigri”. Con il senno di poi, forse una mossa propagandistica propedeutica all’attacco finale contro la ribellione tamil. Un’operazione militare che per certi aspetti era destinata ad assumere il carattere e lo stile di una vera e propria pulizia etnica.

Oltre che a Napoli, Palermo, Brescia, Firenze…una manifestazione venne organizzata anche a Vicenza (24 settembre 2006). E qui avevo potuto incontrare e intervistare alcune dei partecipanti. Tra questi un ex insegnante “singalese e cristiano” che mi chiese di riportare solo le iniziali del suo nome «perché i miei familiari vivono ancora in Sri Lanka».

J.P. raccontava: «Per anni ho trascorso il mattino a scuola con i miei allievi e il resto della giornata nascosto nella foresta per paura degli assalti delle Ltte che rapiscono i bambini per poi addestrarli alla guerriglia». Alla fine J.P. aveva lasciato il suo lavoro, la sua terra ed era fuggito in Europa. Aveva preso tale decisione dopo un episodio drammatico:«Io scrivevo su alcuni giornali, soprattutto poesie contro la guerra. Una notte sono stato aggredito e picchiato». Gli assalitori gli avevano chiesto:“Quale braccio usi per scrivere?”. Mentendo disse di essere mancino e gli spezzarono il braccio sinistro. A questo punto aveva sorriso confessando che «Ho ancora qualche difficoltà a usarlo, ma posso sempre scrivere».

Uccise per il colore dei pantaloni

Nell’agosto del 2006 si era anche parlato del massacro di una cinquantina di studenti, soprattutto ragazze, in una scuola chiamata “Sencholei” nel Nord dello Sri Lanka. Inizialmente l’atto barbarico era stato attribuito alle Ltte, ma in seguito erano emerse le responsabilità dell’esercito governativo.

Mostrando scarsa sensibilità, il nostro interlocutore aveva giustificato l’eccidio in quanto «stando alle nostre informazioni “Sencholei” in realtà era un campo di addestramento delle Ltte, non una scuola». 
A suo avviso quindi “le vittime non erano studentesse, ma miliziane tamil”.

Una prova che di trattava di “Tigri” – per quanto giovanissime – e non di scolare verrebbe dal fatto che «indossavano abiti come quelli usati dai guerriglieri (in particolare pantaloni neri N.d.A.e non le divise bianche che usano normalmente tutti gli studenti».

Sempre secondo il nostro interlocutore all’epoca esisteva anche un’altra base militare tamil chiamata “Ruben” dove venivano addestrati i giovanissimi. Frequentata regolarmente da Velupillei Prabakaran, il capo delle Ltte.

Aggiungeva poi che assolutamente «non si trattava di una questione religiosa; la maggioranza dei singalesi è buddista, ma ci sono anche cristiani (come tra i tamil, in maggioranza induisti N.d.A.)». Diversa è la lingua, ma anche questo «non rappresenta un problema». Per concludere che tra i suoi amici c’erano «sia singalesi che tamil, sia buddisti che induisti e musulmani… Io sono un uomo e basta».

Avevo poi chiesto a Roshan Fernando, presumibilmente legato all’organizzazione di sinistra Jvp (il giorno prima era intervenuto a Radio Blackout di Brescia accusando le Ltte di essere “fasciste”) perché lo Stato dello Sri Lanka si ostinasse a negare ai tamil una loro patria indipendente.

Rispondeva che «le Ltte conducono questa guerra da almeno ventitre anni, ma non hanno ancora convinto la maggioranza dei tamilPer raggiungere il loro obiettivo devono puntare sulla propaganda e sugli aiuti esterni». Si diceva convinto che «dall’interno del paese non avrebbero alcuna possibilità di vincere perché l’attuale livello democratico raggiunto dallo Sri Lanka non lo permetterebbe». Con il senno di poi, visto il massacro compiuto dai governativi ai danni anche dei civili tamil, un’affermazione quanto meno affrettata.

Roshan Fernando ricordava comunque che le “Tigri” non permettevano agli altri partiti, anche quelli Tamil, di fare politica nei territori da loro controllati. Mi spiegava inoltre che tra i partiti presenti nell’isola i più consistenti erano Sri Lanka freedom (Srf), il Partito di unità nazionale (Unp che aveva appena perso le elezioni) e Jvp (Janatha Vimukthi Peramuna – Fronte di liberazione del popolo), partito che si definiva “rivoluzionario e anticolonialista” anche se partecipava alle elezioni e, al momento almeno, sosteneva il governo.

E continuava sostenendo che «le Tigri sopravvivono tenendo in ostaggio la popolazione tamil, arruolando a forza i bambini, obbligando la popolazione a versare mensilmente quote di denaro».

Polemiche con l’Europa

Questo, stando alle sue dichiarazioni, avveniva anche in Europa con gli immigrati. E si chiedeva come potessero «disporre di basi militari, uffici politici (anche all’estero), collegamenti satellitari, canali televisivi, radio». Ribadendo che le loro risorse economiche «provenivano da fuori», ossia dall’estero (con un’accusa sottintesa all’India, presumo). Per questo «noi chiediamo all’Europa di verificare e controllare».

Proprio in quel periodo era esploso un contenzioso tra Sri Lanka e Norvegia che nel giugno 2006 aveva proposto di riprendere a Oslo i colloqui di pace dopo la sospensione decretata dall’Unione europea. Ma quando il rappresentante del governo di Sri Lanka si era presentato, le “Tigri” avevano nuovamente rifiutato le trattative.

Per Roshan Fernando si sarebbe trattato di un espediente per «approfittare dell’occasione per riunire tutti i loro rappresentanti» (“come non riuscivano più a fare da molto tempo”). Inoltre la Norvegia sarebbe stata «a conoscenza delle loro intenzioni e si sarebbe prestata a tale operazione». Qualcosa del genere era già accaduto in Svizzera in quanto «le Ltte usano il pretesto delle trattative per riunirsi tra loro».

Ricordava come nell’aprile del 2006 le Ltte si fossero già ritirate unilateralmente dai colloqui di pace e in seguito, a luglio, fosse ricominciata la lotta armata. Del resto episodi di violenza si erano registrati anche nel 2005 (in dicembre) provocando decine di vittime tra ribelli, soldati e soprattutto civili inermi. Proprio nel 2006, in maggio, le Ltte erano state inserite nella “lista nera” dell’Ue come “gruppo terroristico”. Come avevano fatto da tempo Stati Uniti, Gran Bretagna e Canada.

Ne aveva immediatamente approfittato il presidente dello Sri Lanka reclamando contro Svizzera, Germaniae, Francia in quanto questi stati avrebbero dato ospitalità a esponenti delle Ltte che svolgevano attività politica «nonostante la stessa Ue avesse richiesto esplicitamente di sospendere tale attività». E non mancava qualche osservazione critica anche per l’Italia dove le Ltte avrebbero raccolto fondi sotto la copertura della sigla Tra (Tamils rehabilitation organisation).

Un interesse titanico

Perché tanto interesse, se non addirittura una certa benevolenza, per la causa tamil da parte dei paesi europei? Dipendeva forse, oltre che dalla posizione strategica dell’isola, dal ritrovamento di giacimenti petroliferi (e dalla presenza di un minerale strategico, il titanio)?
Con gli accordi del 2002 per una soluzione politica del conflitto, la Norvegia era stata scelta per monitorare il processo di pace, ma – sosteneva sempre il mio polemico interlocutore «questo paese si era mostrato favorevole ad accordi vantaggiosi per le Ltte». Con tali accordi lo Sri Lanka sarebbe stato “diviso in due”.
Formalmente si parlava di autonomia, ma «alla fine ci sarebbe stato un’altra nazione indipendente». Era infatti prevista la creazione di un parlamento, una polizia autonoma e anche una moneta.

Per Roshan Fernando «una situazione simile a quella che si è creata a Cipro, ma questo modello non è valido per lo Sri Lanka». Inoltre da qualche anno [eravamo nel 2006] «anche tra i tamil va crescendo l’ostilità nei confronti delle Ltte. Perfino un loro ex comandante, il colonnello Karuna Amman, aveva lasciato le Tigri e si stava organizzando nell’Est del paese per contrastarle».

Ricordo che questa sorta di Comandante Zero (quello che si allontanò dai sandinisti negli anni Ottanta) era ritenuto responsabile proprio di alcuni dei più gravi reati che il nostro interlocutore attribuiva alle Ltte come il sequestro di bambini per arruolarli. Il suo contributo all’annientamento dei suoi ex compagni di lotta risulterà comunque decisivo già nel 2007.

Tra i problemi interni delle Ltte uno dei più seri sarebbe stato legato alla questione delle caste. Infatti la maggior parte dei guerriglieri caduti in combattimento appartenevano alle caste inferiori. Il maggior potere sarebbe stato nelle mani degli appartenenti alla casta Vellavar, depositaria dell’ortodossia tamil fondata su un sistema gerarchico. Gli “intoccabili” tra i tamil sarebbero circa il 23%.

La posizione della Lega per i diritti e la lberazione dei popoli

Molto diversa la posizione espressa da Verena Graf, all’epoca segretario generale della Lega per i diritti e la liberazione dei popoli e rappresentante permanente di tale ong presso la sede Onu di Ginevra.

Per questa allieva di Lelio Basso «il conflitto era iniziato con l’indipendenza del 1948 a causa di una serie di politiche governative che, progressivamente e sistematicamente, privarono la popolazione tamil dei diritti fondamentali». Nel 1983 la resistenza, fino a quel momento non violenta, si trasformò in una lotta armata condotta dalle Tigri della liberazione di Tamil Eelam.

Per Verena Graf tre erano gli obiettivi principali dei tamil:

“Uguaglianza di diritti e di opportunità, diritto all’autodeterminazione e allontanamento delle forze governative dalla regione del Nord-est”. 

Di fronte al rifiuto dei governi di prendere in considerazione le loro richieste, una parte dei tamil si era convinta “di poter raggiungere questi obiettivi soltanto con la lotta armata per la creazione di un proprio Stato indipendente”.

Per la Graf l’indipendenza del popolo, della nazione tamil sarebbe stata giustificata in quanto forma di autodeterminazione «per diverse valide ragioni. In primo luogo perché il governo dello Sri Lanka ha privato un’intera collettività dei suoi fondamentali diritti. Basti pensare che si era stabilito per decreto che la sola lingua ammessa era il singalese. Inoltre ai tamil erano stati negati l’accesso all’educazione e l’effettiva partecipazione politica».
In sintesi “«a politica poliziesca del governo, nel suo insieme, poteva essere definita una forma di genocidio economico, sociale e culturale per distruggere la società tamil, minando le basi della sua identità».

Invece di operare per una società multietnica nel quadro dello stato dello Sri Lanka, i governi avrebbero «attuato una politica di esclusione nei confronti dei tamil», relegandoli nella condizione di “indesiderabili”. 

Come ci ricordava Verena Graf, l’anno determinante per il passaggio alle armi dei tamil era stato il 1983. Dopo che ancora nel 1977 al partito Tulf (Tamil United Liberation Front), moderato e autonomista, era stata praticamente interdetta ogni attività politica e quando scoppiarono diversi pogrom antitamil. Tuttavia anche in tempi successivi non erano mancati tentativi di sotterrare l’ascia di guerra e riprendere la lotta in maniera non violenta.

Per esempio nel settembre del 1987, nonostante avesse rifiutato di sottoscrivere un recente accordo di pace (in quanto co-firmato da Sri Lanka e India senza consultare i tamil) il loro leader, Thiruvenkadam Velupillai Prabhakaran, rilanciò la protesta in maniera pacifica. Un altro noto esponente delle Ltte, Amirthalingam Theelepan, iniziò allora uno sciopero della fame fino alla morte per richiamare l’attenzione del primo ministro indiano Rajiv Gandhi (il figlio di Indira, poi assassinato dalle Tigri nel 1991), firmatario del discusso accordo indo-singalese.
La sua fine risultò alquanto spettacolare, per certi aspetti inquietante. Deposto su un giaciglio all’aperto, nel cortile di un santuario indù a Jaffna, durante l’agonia venne visitato e onorato da centinaia di seguaci e la sua morte suscitò rabbia e risentimento. Venne così meno anche la fragile tregua e la parola tornò ai combattenti. Invece alcuni gruppi minori della resistenza tamil si arresero alle Ipkf (Indian Peace Keeping Force) incaricate di far rispettare il cessate il fuoco.

Ricolonizzazione e reinsurrezione

Oltre alle discriminazioni, i tamil subirono – dal 1948 in poi, almeno fino al 1987 – anche la dura questione dei resettlements. Con arbitrari stanziamenti di coloni singalesi nel Nord e nell’Est dell’isola (le aree a maggioranza tamil).
A complicare ulteriormente il quadro in quel lontano, ma determinante, 1987 interveniva un’altra formazione politica, il Jvp (Janatha Vimukthi Peramuna – Fronte di liberazione del popolo “rivoluzionario e anticolonialista”, già citato in quanto nel 2006 di fatto sosteneva il governo). Ugualmente contrario all’accordo indo-singalese (lo consideravano un’ingerenza indiana), ma per ragioni diametralmente opposte a quelle dei “separatisti” tamil.
Il Jvp si rese responsabile, oltre che di un tentativo insurrezionale nel sud del Paese, dell’uccisione di alcuni esponenti filogovernativi. In particolare con un attentato a Colombo rivolto contro lo stesso presidente Jayewardene. Nell’attacco al palazzo del parlamento perse la vita un ministro e rimase gravemente ferito Lalith Athulatmudali, ministro della difesa. negli anni Ottanta – oltre a un migliaio di militanti in prigione – il Jvp disponeva di circa 2000 militanti in servizio attivo e di circa 10.000 fiancheggiatori. Inutile dire che pur protestando vigorosamente per le condizioni di vita delle classi subalterne e per le violazioni dei diritti umani, nei confronti della situazione in cui versavano i tamil mostrava una sostanziale indifferenza.

Soluzione definitiva

Come è noto la “questione tamil” venne bruscamente risolta (eufemismo) tra il 2007 e il 2009 quando l’esercito riuscì ad annichilire le Tigri approfittando della circostanza per massacrare, deportare e internare centinaia di migliaia di civili tamil. I quali si ritrovarono sottoposti a una ulteriore colonizzazione da parte della maggioranza singalese buddista (circa 74% della popolazione).

Difficile anche quantificare il numero delle persone uccise e la portata della repressione. Si ipotizzava un numero tra le diecimila e le ventimila vittime oltre a circa 300.000 civili tamil internati nei campi sotto controllo militare.
Nel maggio 2009, mentre fuggiva, era stato ucciso anche Velupillai Prabhakaran insieme al figlioletto di dodici anni.

Nel giugno 2010 il governo sri-lankese (guidato allora da Mahinda Rajapakse) arrivò a bloccare una delegazione di esperti dell’Onu incaricati di svolgere indagini sulle violazioni dei diritti umani commessi l’anno precedente.

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Il crogiolo caucasico tra i confini fittizi dei vincitori https://ogzero.org/il-crogiolo-caucasico-tra-i-confini-fittizi-dei-vincitori/ Mon, 09 Oct 2023 23:43:29 +0000 https://ogzero.org/?p=11677 Dopo il corridoio di Lachin, ora c’è quello di Meghri nel mirino e l’Iran non potrà limitarsi a non gradire l’aggressione turco-azera. L’Artsakh avrebbe dovuto essere un caso di indipendente convivenza di comunità cristiane e musulmane, altaici azeri turcofoni e indoeuropei armeni di ceppo greco-germanico; non è mai stata una esperienza realmente paritaria, perché – […]

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Dopo il corridoio di Lachin, ora c’è quello di Meghri nel mirino e l’Iran non potrà limitarsi a non gradire l’aggressione turco-azera. L’Artsakh avrebbe dovuto essere un caso di indipendente convivenza di comunità cristiane e musulmane, altaici azeri turcofoni e indoeuropei armeni di ceppo greco-germanico; non è mai stata una esperienza realmente paritaria, perché – soprattutto dall’esterno – si sono fatti prevalere contrasti etnici a condivisione di territorio tradizionalmente abitato da famiglie eterogenee, condizionate da invasioni e dominazioni variabili e costanti. E quando soffiano i venti nazionalisti si scompaginano le comunità per creare stati usati per soffocarle, ognuno secondo la propria tradizione verso il vicino; in questo caso è sintomatico come i paesi islamici più lontani come l’Algeria definiscano gli armeni cristiani colonizzatori, mentre l’Iran sciita come il popolo azero appoggi Erevan per mere questioni di metri di confine da salvaguardare, mentre il miglior alleato dei “fratelli altaici” azeri è il vicino sunnita Erdoğan, interessato alla creazione di un unico territorio ottomano senza interruzioni di confini.
Ciò che rende ancora più impellente l’abbandono della terra avita da parte della ex maggioranza armena fuggita dall’Artsakh è la ferocia autoritaria del regime dinastico ex sovietico… mentre perdurano i bombardamenti turchi sui curdi e i sionisti passano per vittime, pur essendo Nethanyauh dalla parte dei carnefici, come gli Aliyev o il despota Erdoğan; tutti in qualche modo collegati e con interessi intrecciati, tra le vittime dei contenziosi decennali mancano solo i saharawi. 


La secolare replica del genocidio armeno

L’attuale violenza (massacri, deportazioni…) subita dagli armeni rievoca fatalmente il genocidio del 1915.
C’ è ancora spazio per una qualsivoglia “soluzione politica” che garantisca minimamente i diritti della popolazione armena del Nagorno-Karabach?
Meglio non raccontarsi balle. Ormai – a meno di imprevedibili eventi di portata planetaria – la questione è chiusa definitivamente. Anzi, potrebbe anche andare peggio.
Non si può infatti escludere che dopo l’Artsakh venga invasa anche la stessa Armenia, in particolare il corridoio per congiungere l’esclave azera di Karki al confine con l’Iran (e la Turchia).

Vediamo intanto di riepilogare la tragica catena degli ultimi tre anni.
I bombardamenti azeri del 19 settembre avevano riportato nella cronaca un conflitto forzatamente dimenticato, tuttavia l’attacco di Baku contro il Nagorno-Karabach e quanto poi avvenuto ai danni del popolo armeno non calava inspiegabilmente dal cielo. Come già si era ipotizzato in agosto.
Era perlomeno probabile.
Il Nagorno Karabakh era una repubblica autoproclamata (ribattezzata con l’antico nome di Artsaj) abitata in prevalenza da armeni, ma posta forzatamente all’interno dei confini dell’Azerbaijan. E che già prima del 1991 si batteva per la propria indipendenza.

Pulizia etnica alternata

Nel conflitto del 1988-1994 la vittoria era andata agli armeni con la conseguente espulsione di migliaia di azeri.

Nella Seconda guerra del Nagorno-Karabach (autunno 2020) le parti si invertirono e per oltre 40 giorni l’esercito azero si scatenò sulla popolazione civile compiendo ogni genere di efferatezze. Qualificabili come una brutale pulizia etnica.
Al punto che molti armeni in fuga riesumarono i loro cari dalle tombe e fuggirono con le bare fissate al portapacchi delle auto dopo aver incendiato la propria casa.

L’evanescente interposizione russa

In realtà solo un terzo della provincia indipendentista era passato sotto il controllo di Baku, ma erano chiare le intenzioni di completare l’opera quanto prima. Nonostante la poco convinta opera di interposizione dei soldati di Mosca, soprattutto dopo che l’Armenia aveva accettato di partecipare a esercitazioni congiunte con truppe Nato (direi un autogol di Erevan).
Ovviamente anche all’odierna (definitiva?) sconfitta degli Armeni (anche per essere stati isolati e privati di mezzi di sussistenza da circa nove mesi) di fronte alle preponderanti forze azere, date le premesse, era fatalmente scontata.

Neottomanesimo via Baku

Smantellata l’amministrazione armena della enclave ribelle, Baku ha dichiarato di volere «integrarla totalmente nella società e nello Stato azeri».

Quanto alle voci di una possibile concessione di “autonomia”, la cosa appare piuttosto fantasiosa. Se nell’Azerbaigian non gode di alcun riconoscimento la consistente “minoranza” Talish (una popolazione di lingua iraniana che supera il milione di persone) cosa potrebbe toccare ai circa 120.000 armeni del Nagorno-Karabach? Peraltro ormai fuggiti nella quasi totalità e poco propensi a rientrare nonostante le rassicurazioni del governo di Baku.

La coltre di gas

Dal canto suo l’Unione Europea si guarda bene dall’intervenire pensando ai consistenti accordi con l’Azerbaijan in materia di gas.

Solidarietà al popolo armeno è stata espressa vigorosamente dal Consiglio esecutivo del Congresso nazionale del Kurdistan (Knk).

Nel comunicato ha denunciato «la tragedia umana che avviene sotto gli occhi del mondo nell’Artsakh (Alto Karabach) dove un centinaio di migliaia di Armeni sono costretti all’esilio». E il Knk ricordava anche le immagini terribili del 2020 con «i soldati azeri che tagliavano nasi e orecchie ai civili e vandalizzavano i monasteri».

Ovvio il parallelismo con quanto avviene “nelle zone curde occupate dalla Turchia” (il principale alleato dell’Azerbaigian).
Ma esiste anche un altro timore, ossia che “se cade l’Artsaj, cade anche l’Armenia”.

Una lingua di terra turca a unire Caspio e Mediterraneo

Già nel 2020 l’Azerbaijan aveva occupato territori ufficialmente dell’Armenia nella regione di Syunik. Una lingua di terra che si frappone alla dichiarata intenzione di Turchia e Azerbaijan di unire il Mediterraneo con il Caspio via terra. Ricordo che Turchia e Azerbaigian sono già confinanti grazie all’enclave azera di Najicheván che – toh, coincidenza! – Erdogan ha appena visitato per la prima volta.

Forse paradossalmente (visto che gli azeri sono in maggioranza sciiti come gli iraniani) l’unico paese con cui l’Armenia mantiene stabili e diretti rapporti commerciali (nel 2020 forse s’aspettava anche sostegno militare, ma invano) è l’Iran. La perdita della regione di Syunik le sarebbe quindi fatale.

L’analogo trattamento turco destinato ai curdi

Per il Knk comunque non ci sono dubbi «Si tratta di pulizia etnica orchestrata dall’Azerbaigian e dalla Turchia., motivata dall’ambizione geopolitica pan-turca che intende riunire queste due nazioni (…). Dopo 108 anni il popolo armeno si ritrova di nuovo vittima di massacri e deportazioni orchestrati dalle forze statali animate da odio razzista verso la cultura e il popolo armeno. Di conseguenza la pulizia etnica attualmente in corso nell’Artsakh deve essere considerata come la continuazione del genocidio armeno del 1915 perpetrato dai Giovani Turchi».
E conclude paragonando le attuali sofferenze degli armeni a quelle analogamente patite dai curdi a Shengal, Afrin e Serêkaniyê: «Nomi e vittime di questi massacri possono cambiare, ma le motivazioni rimangono identiche».

Diretto interventismo turco nell’area curdo-armena

Risalendo all’ottobre 2020 già allora appariva evidente come il conflitto tra Armenia e Azerbaijan fosse propedeutico all’intervento diretto della Turchia contro l’Armenia.
Nella guerra intrapresa dall’Azerbaijan, il ruolo di Ankara si andava sempre più definendo. In particolare con la fornitura di migliaia di mercenari e jihadisti (sunniti) provenienti dalla Siria (e forse anche dalla Libia) per combattere a fianco degli azeri (sciiti) contro gli armeni cristiani.
Un destino, quello della cittadina al confine turco-armeno di Kars, analogo a quello delle città frontaliere di Ceylanpinar e di Reyhanli nel conflitto siriano. Ugualmente utilizzate per smistare le milizie islamo-fasciste.

Per il giornalista curdo Mustafa Mamay non ci sarebbe stato quindi di che stupirsi se «da ora in poi vedremo i salafiti passeggiare per le vie di Kars».

D’altra parte era quasi scontato che Erdogan intervenisse a gamba tesa nella questione del Nagorno-Karabakh ai primi segnali di ripresa del conflitto, mettendo a disposizione di Baku, oltre ai già citati mercenari e terroristi, aerei F-16, droni Bayraktar TB-2, veicoli e consiglieri militari.

Niente di nuovo

2009

Ancora nel 2009 (10 ottobre) a Zurigo la firma – già concordata – dell’accordo di “normalizzazione diplomatica” e per la riapertura delle frontiere tra la Turchia e l’Armenia era rimasta per molte ore in sospeso. Il motivo? La legittima contrarietà della delegazione armena per il previsto discorso del ministro degli Esteri turco, Ahmet Davutoglu. Addirittura, la berlina di Hillary Clinton – già in viaggio verso l’Università di Zurigo per raggiungere le delegazioni svizzere, francesi, russe ed europee – aveva fatto repentinamente dietrofront per ritornare all’hotel da dove – secondo alcune versioni direttamente dal parcheggio – avrebbe tempestato di telefonate i ministri turco e armeno per sbloccare la situazione.
Poi la cosa era rientrata e il discorso rimasto nel cassetto. Ma il giornale “Hurriyet” ne era ugualmente entrato in possesso appurando che il contenzioso verteva proprio sulla questione del Nagorno-Karabakh. In sostanza Davutoglu esigeva il ritiro di Erevan dalla provincia, formalmente sottoposta all’Azerbaijan, ma controllata dall’Armenia dal 1993. Posizione ribadita – anche per rassicurare il governo di Baku – nei giorni successivi dal primo ministro turco Recep Tayyp Erdoğan. Storicamente amico e alleato di Ankara, l’Azerbaijan vedeva tale accordo come fumo negli occhi.
Ostilità che trovava precise assonanze nel Parlamento turco che avrebbe dovuto poi ratificare l’accordo. Anche per il parlamentare kemalista Onur Oymen (esponente dell’opposizione nazionalista, quasi un progressista, comunque non un seguace di Erdoğan) si trattava nientemeno che di una «abdicazione, di un cedimento alle pressioni esterne» esprimendo «inquietudine per l’avvenire del paese» (senza però specificare se si preoccupasse più della Turchia o dell’Azerbaijan).

Contestazioni, se pur in tono minore, provenivano anche dall’Armenia, in particolare dal partito nazionalista Dachnak. Migliaia di persone avevano partecipato a una manifestazione indetta a Erevan, chiedendo che prima di ogni accordo la Turchia riconoscesse le proprie responsabilità in merito al genocidio del 1915.

1988

Risalivano al febbraio 1988 le manifestazioni degli armeni nella città di Stepanakert per la riunificazione con l’allora sovietica Repubblica d’Armenia.
E il 20 febbraio 1988 – dopo essere echeggiata anche per le vie di Erevan – la richiesta dei manifestanti veniva approvata dal parlamento regionale del Karabakh con 110 voti contro 17. Rigettata da Mosca, forniva comunque l’innesco per le prime avvisaglie del lungo, aspro conflitto armeno/azero. Il 22 febbraio una marcia – non certo spontanea – di migliaia di azeri si muoveva da Agdam in direzione di Askeran (nel cuore dell’entità autonoma: oblast, provincia) prendendo di mira sia la popolazione, sia le proprietà armeni. Nei disordini di Askeran si conteranno decine di feriti (sia armeni che azeri) e almeno due azeri uccisi. È il segnale per una miriade di scontri “settari” tra le due comunità, sia nel Nagorno-Karabakh che nell’Azerbaijan, ai danni soprattutto delle rispettive minoranze.

Mosca intanto permaneva nella sostanziale incomprensione del problema ponendo, nel novembre 1989, la provincia autonoma sotto il diretto controllo dell’amministrazione azera.
Quanto alla richiesta ufficiale di riunificazione, proclamata con una sessione straordinaria del Soviet supremo armeno e del Consiglio nazionale del Nagorno-Karabakh, resterà lettera morta. Nel novembre 1991 lo statuto di autonomia veniva definitivamente abolito e il Nagorno-Karabah si ritrova interamente sottoposto al totale controllo di Baku.

1991

In un referendum organizzato per il 10 dicembre 1991 – boicottato dalla minoranza azera – la proposta di uno stato indipendente sarà approvata con il 99% dei voti.
A questo punto anche la proposta di ripristino di un’ampia autonomia – tardivamente avanzata da Mosca – veniva rispedita al mittente (sia dagli armeni che dagli azeri, anche se per ragioni opposte). La parola passava definitivamente alle armi al momento dell’indipendenza dell’Armenia (23 settembre 1991) e dell’Azerbaijan (18 ottobre 1991).
Mentre la situazione andava precipitando e il conflitto si alimentava con la partecipazione di migliaia di combattenti, per la provincia – erroneamente definita “separatista” – il sostegno militare dell’Armenia indipendente risulterà nevralgico.
A fianco degli azeri, oltre ai Lupi Grigi turchi, anche combattenti afgani e ceceni.
Con gli armeni miliziani provenienti dall’Ossezia e – discretamente e solo a livello logistico – la Grecia.
Entrambi i belligeranti inoltre avrebbero fatto ricorso a mercenari provenienti dai territori dell’ex Urss (russi e ucraini).

Quanto alla Russia, sembrava volersi mantenere equidistante vendendo armi a entrambi i belligeranti.
Le vittime, combattenti e civili, alla fine del 1993 si contavano a migliaia. Centinaia di migliaia, come previsto, gli sfollati e rifugiati interni su entrambi i fronti. Ai primi di maggio del 1994 gli armeni ormai controllavano circa il 14% del territorio dell’Azerbaijan e i primi negoziati (cessate il fuoco del 12 maggio) prendevano il via sotto la supervisione di Mosca.

Il fallimento del Gruppo di Minsk

1994

Con la creazione nel maggio 1994 del Gruppo di Minsk per la Conferenza sulla sicurezza e la cooperazione in Europa (attualmente denominato Osce) Francia, Russia e Stati Uniti (a cui successivamente si uniranno Italia, Turchia, Germania…) avevano inteso promuovere una soluzione pacifica del conflitto.
Tuttavia – almeno col senno di poi – con scarsi risultati, vista l’attuale deriva.

Qualche considerazione in merito alle efficaci operazioni propagandistiche (soprattutto da parte di Baku e Ankara) rivolte principalmente ai media europei. Con qualche discreto risultato. Forse perché – tutto sommato – già allora conveniva schierarsi con l’Azerbaijan (e con la Turchia) piuttosto che con la piccola, quasi insignificante sullo scacchiere internazionale, Armenia.
Per esempio, spesso gli armeni del Nagorno-Karabakh vengono impropriamente definiti “separatisti”. Una definizione mai utilizzata per il Nord di Cipro occupata dalla Turchia fin dal 1974. Per non parlare della continua evocazione di una – non documentata – partecipazione di militanti del Pkk ai combattimenti (a fianco degli armeni ovviamente).

Nel frattempo (gli affari sono affari) la Francia non smetteva di vendere armi e tecnologia militare all’alleato della Turchia, l’Azerbaijan. Non era e non è l’unico paese a farlo naturalmente (vedi l’Italia che dovrebbe fornire anche minisommergibili). Ma la cosa appariva stridente pensando al ruolo di antagonista storico di Ankara assunto periodicamente da Parigi. Per esempio, all’epoca, nella querelle sulla questione dell’espansionismo turco nelle acque del mar Mediterraneo.
Armi sofisticate, comunque. Forse le stesse con cui le forze militari di Baku colpivano direttamente la popolazione di Stepanakert.

E già allora in qualche modo il conflitto tra Armenia e Azerbaijan appariva propedeutico all’intervento diretto della Turchia contro l’Armenia (o ne era addirittura la “vetrina”). Intravedendo una prosecuzione (magari “con altri mezzi”, ma poi neanche tanto) di quella politica e di quella strategia che nel 1915 avevano determinato lo sterminio della popolazione armena.

Due parole poi sul ruolo assunto da Teheran

Anche se poteva apparire incongrua, da più parti si formulava l’ipotesi di un Iran deciso a schierarsi con l’Armenia nel conflitto con l’Azerbaijan.
Incongrua soprattutto pensando che in entrambi i paesi, Iran e Azerbaijan, è prevalente la fede sciita.

Ma poi (come forse era lecito aspettarsi) alcuni autorevoli esponenti politici iraniani erano intervenuti dichiarando che «l’Iran non sceglie l’Armenia a sfavore dell’Azerbaijan».

Il giornalista Raman Ghavami si diceva convinto che «sia probabile che dovremo assistere a una significativa collaborazione tra l’Iran, la Turchia, l’Azerbaijan (e presumibilmente anche la Russia a questo punto, N.d.A.) sia sull’Armenia, sia su altre questioni che interessano la regione».

Si sarebbe andato infatti configurando un nuovo livello di sostanziale collaborazione nelle relazioni tra Azerbaijan e Iran. Addirittura Teheran avrebbe (notizia non confermata) richiesto all’Armenia di “restituire” (nientemeno ?!?) il Nagorno-Karabakh a Baku.

Per Raman Ghavami in realtà l’Iran «da sempre preferisce rapportarsi con gli azeri sciiti piuttosto che con gli Armeni». Come avveniva già molto prima dell’insediarsi del regime degli ayatollah.

Nuovo intreccio dei destini armeni e curdi

A tale riguardo riporta l’esempio della provincia dell’Azerbaijan occidentale (posta entro i confini iraniani) che in passato era abitata prevalentemente da curdi e armeni.
Ma tale demografia venne scientificamente modificata, nel corso del Ventesimo secolo, dai vari governi persiani che vi trasferirono popolazioni azere. Sia per allontanarvi i curdi, sia per arginare gli effetti collaterali del contenzioso turco-armeno entro i confini persiani.
Molti armeni e curdi vennero – di fatto – costretti a lasciare le loro case.
Inoltre, in tale maniera, si creava una artificiosa separazione tra le popolazioni curde di Iraq, Turchia e Siria e quelle in Iran. Cambiando anche la denominazione geografica. Da Aturpatakan a quella di Azerbaijan occidentale.

Altro elemento di tensione tra Erevan e Teheran – sempre secondo Raman Ghavami – deriverebbe dal ruolo della chiesa armena nell’incremento di conversioni al cristianesimo da parte di una fetta di popolazione iraniana.

Legami finanziari Teheran-Baku

Da sottolineare poi l’importanza vitale, per un paese come l’Iran sottoposto a sanzioni, dei legami finanziari con l’Azerbaijan. Ricordava sempre Raman Ghavami come, non a caso, la succursale della Melli Bank a Baku è seconda per dimensioni soltanto a quella della sede centrale di Teheran.
Un altro elemento rivelatore sarebbe il modo in cui, rispettivamente, Baku ed Erevan hanno reagito alla cosiddetta “Campagna di massima pressione” sull’Iran in materia di sanzioni: mentre gli scambi commerciali tra Armenia e Iran si riducevano del 30%, quelli con l’Azerbaijan si intensificavano.
Ad alimentare la tensione poi, il riconoscimento da parte dell’Armenia di Gerusalemme come capitale di Israele. Una avventata presa di posizione di cui Erevan potrebbe in seguito essersi pentita. Vedi il successivo contenzioso (e ritiro dell’ambasciatore) a causa della vendita da parte di Israele di droni kamikaze IAI HAROP all’Azerbaijan.

Ulteriore complicazione (ma anche questa era forse prevedibile) la notizia che erano già in atto scontri armati tra i mercenari di Ankara inviati in Azerbaijan (presumibilmente jihadisti, sicuramente sunniti) e gli azeri sciiti.

Insomma, il solito groviglio mediorientale.

La spartizione di Astana: Russia e Turchia e gli oleodotti dell’Artzakh

Nel novembre 2020 si concretizzava poi un vero capolavoro di cinico realismo: gli accordi con cui Russia e Turchia si spartivano il Nagorno-Karabakh garantendosi il controllo della vasta rete di oleodotti che attraversano (o attraverseranno) il territorio storicamente conteso tra Armenia e Azerbaijan. Paese, quest’ultimo che fornisce alla Turchia un quinto delle sue importazioni di gas naturale (oltre a ingenti quantità di barili di petrolio dal Mar Caspio) direttamente all’hub di Ceyhan.
E qualche briciola non di poco conto andava anche al Belpaese (se abbiamo interpretato correttamente le dichiarazioni di Di Maio).
Ricapitoliamo. Il 10 novembre 2020 l’Armenia (il paese sconfitto) e l’Azerbaijan (il vincitore) firmavano un “accordo di pace” sotto la tutela ufficiale di Mosca e ufficiosa di Ankara.

Mentre le colonne dei profughi dal Nagorno-Karabakh) si allungavano per abbandonare il paese invaso dagli “alleati” (ascari?) di Ankara (l’esercito azero e le milizie mercenarie jihadiste qui inviate dai territori già invasi della Siria), iniziava il dispiegamento lungo la linea di contatto dei duemila – inizialmente – soldati russi (presumibilmente integrati con truppe turche, sul modello delle “pattuglie-miste” nel Nord della Siria). Durata prevista della loro presenza, cinque anni rinnovabili.

Un risultato niente male per Erdogan che vedeva ratificata la sua alleanza strategica con Baku. Così come venivano confermate le conquiste azere (almeno trecento insediamenti tra cui Susi, strategicamente rilevante). Non meno rilevante, l’acquisizione da parte dell’Azerbaijan di un collegamento diretto con Nachichevan (la sua enclave) e quindi con la Turchia.

Ovviamente gli armeni non l’avevano presa bene. A farne le spese il primo ministro Nikol Pashinyan (un leader “di plastica” secondo alcuni commentatori, messo su dall’Occidente un paio di anni prima per allontanare l’Armenia dal suo alleato tradizionale russo) di cui la piazza ha richiesto le immediate dimissioni.
Gli eventi sono noti: il palazzo del governo letteralmente preso d’assalto, il parlamento occupato e il presidente Ararat Mirzanyan che quasi rischiava di essere linciato dalla folla inferocita. I manifestanti erano anche andati a cercare direttamente a casa sua il primo ministro (presumibilmente non per una pacata conversazione), ma senza trovarlo (buon per lui, naturalmente).

L’interesse italico

a sei zampe…

Si diceva delle vaghe (o svagate?) dichiarazioni di Di Maio («Monitoreremo con attenzione gli sviluppi nelle aree dove si registra un particolare attivismo turco, vigilando affinché siano tutelati il rispetto del diritto internazionale, gli interessi italiani anche economici e con l’obiettivo di scongiurare qualsiasi escalation»). E chi vuol intendere...intenda.

Del resto, con buona pace della piccola Armenia, la cooperazione con l’Azerbaijan è da tempo consolidata. L’Italia – oltre che il maggior destinatario delle esportazioni petrolifere – risulta essere uno dei principali partner commerciali di Baku con un interscambio annuale – si calcola – di sei miliardi di euro. Sarebbero almeno tremila le imprese italiane che hanno investito nella repubblica caucasica. Risaltano in particolare Eni e Unicredit con interessi stimati in seicento milioni di dollari.

… e Leonardo-Finmeccanica

Cooperazione quindi ben consolidata, si diceva. Ma non solo in campo energetico. Magari indirettamente, anche militare. Risale, per dirne una, al 2012 la vendita di una decina di elicotteri Augusta Westland (società controllata da Leonardo-Finmeccanica), ufficialmente per uso civile (ma vengono in mente gli elicotteri venduti alla Turchia negli anni Novanta, su cui poi venivano applicate le mitragliere vendute separatamente). Nel 2017 l’amministratore delegato di Leonardo firmava a Baku – sotto lo sguardo del ministro Calenda – un accordo con la Socar (società statale petrolifera azera) per incrementare la sicurezza e l’efficienza delle infrastrutture energetiche grazie appunto alle tecnologie italiche.

Con un diretto riferimento al gasdotto di 4000 chilometri che la Socar stava realizzando per far giungere in Puglia e quindi in Europa (vedi la questione del Tap), dopo aver attraversato la Georgia, la Turchia, la Grecia e l’Albania, i previsti 20 miliardi di metri cubi (annuali) di gas di provenienza dall’Azerbaijan. Particolarmente rilevante e significativo il ruolo assunto da alcune aziende italiane (Snam S.p.A. di San Donato Milanese, Saipem, Eni, Maire Tecnimont…). Appare evidente come in tale contesto l’Armenia sia ormai fuori gioco, estromessa, marginalizzata (nonostante – a titolo di parziale consolazione – qualche ipocrita piagnisteo sul genocidio subito da parte della Turchia).

L’onnipresente invasività israeliana

Tornando alla breve, ma comunque devastante, guerra intercorsa nel 2020 tra Erevan e Baku, andrebbe poi approfondito il ruolo assuntovi da Israele.
Se la Turchia sembra aver fornito a Baku – oltre ai mercenari jihadisti – aerei e droni, cosa avrà fornito Israele? In qualche modo deve aver comunque contribuito visto che durante i festeggiamenti per la schiacciante vittoria, i manifestanti azeri inalberavano e sventolavano, oltre al vessillo nazionale e alle bandiere turche, numerosi drappi con la Stella di David.

Risalgono invece ai primi di ottobre (2023) le rivelazioni dell’intelligence francese sul fatto che i comandi militari azeri avrebbero ringraziato sentitamente Israele per il sostegno nel recente attacco al Nagorno-Karabach. Sia a livello espressamente militare (armamenti vari, soprattutto droni della Israel Aerospace Industries, della Rafael Advanced Defense Systems e della Israel Militari Industries), sia di intelligence (Mossad e Aman’s Unit 8200).
Sempre da fonti dell’Esagono risulta che nel corso del conflitto di settembre una quindicina di aerei cargo azeri sono atterrati nell’area militare di Ouda (Negev). Circa un centinaio di altri aerei cargo azeri erano ugualmente qui atterrati nel corso degli ultimi sei-sette anni. Presumibilmente non per rifornirsi di pompelmi. Inoltre Israele avrebbe fornito anche sostegno nel campo della Cyber Warfare (tramite l’Nso Group).
A ulteriore conferma dello stretto rapporto con Baku, il ministro israeliano della difesa si è recato recentemente nella capitale azera per verificare di persona l’efficacia del sostegno israeliano all’Azerbaijan.

Un bel caos geopolitico comunque

Proxy war disequilibrata

E arriviamo al febbraio di quest’anno, quando mentre a Erevan si ricordavano le vittime del pogrom del 1988, in Iran gli armeni manifestavano a sostegno della repubblica dell’Artsakh. Niente di strano.
Anche all’epoca dell’attacco dell’Azerbaijan ai territori armeni della Repubblica dell’Artsakh (con il sostegno di Ankara) nel 2020, c’era chi si aspettava un maggiore sostegno all’Armenia da parte dell’Iran, in linea con una certa tradizione. Dal canto suo Israele non mancava di mostrare sostegno (fornendo droni presumibilmente) alle richieste azere, ovviamente in chiave antiraniana. Misteri della geopolitica. Anche se poi sappiamo che le cose andarono diversamente, resta il fatto che comunque in Iran gli armeni costituiscono una minoranza tutto sommato tutelata, garantita (sicuramente più di altre, vedi curdi obeluci) e anche la causa dell’Artsakh gode ancora di qualche simpatia.

Commemorazioni dei massacri passati, in preparazione di quelli presenti

O almeno così sembrava leggendo la notizia del raduno di solidarietà con la popolazione armena della Repubblica dell’Artsakh (Nagorno Karabakh) che si era tenuto presso il monastero di Sourp Amenaprguitch (Santo Salvatore) di Ispahan nella mattinata del 24 febbraio 2023 (nonostante, ci dicono, le condizioni atmosferiche inclementi). Oltre alle comunità armene di Nor Jugha (Nuova Djulfa, un quartiere di Ispahan fondato dagli armeni di Djulfa nel Diciassettesimo secolo) e di Shahinshahr, erano presenti molti armeni provenienti da ogni parte dell’Iran.
Numerosi gli interventi e i messaggi arrivati a sostegno alla causa della popolazione armena della Repubblica (de facto, anche se non riconosciuta in ambito onusiano) dell’Artsakh.

Quasi contemporaneamente, due giorni dopo, in Armenia venivano commemorate le vittime del massacro di Sumgaït (quartiere industriale a nord di Baku). Il presidente armeno Vahagn Khatchatourian con il primo ministro Nikol Pašinyan, il presidente del parlamento Alen Simonyan e altre figure istituzionali si sono recati al memoriale di Tsitsernakaberd a Erevan deponendo una corona e mazzi di fiori.
Il memoriale ricorda le persone uccise nei pogrom avvenuti (con la probabile complicità delle autorità azere) nel febbraio 1988 a Sumgaït, Kirovabad e Baku. Il massacro (in qualche modo un preludio alla guerra del 1992 in quanto legato alla questione del Nagorno Karabakh) sarebbe stato innescato da rifugiati azeri provenienti dalle città armene. Almeno ufficialmente. In realtà i responsabili andrebbero identificati tra i circa duemila limitčiki (operai immigrati delle fabbriche chimiche) a cui le autorità avevano distribuito alcolici in sovrabbondanza.
Se le fonti ufficiali azere parlarono soltanto di trentadue vittime, per gli armeni queste furono centinaia. Addirittura millecinquecento secondo il partito armeno Dashnak (oltre a centinaia di stupri).
Inoltre i militari inviati per fermare i disordini impiegarono ben due giorni per percorrere i circa trenta chilometri che separano Baku da Sumgaït. Vennero arrestate centinaia di persone, ma i processi si conclusero senza sostanziali condanne.

Guerra annunciata, forza di pace distratta

Tutti defilati… tranne i curdi

Nel marzo 2023, pressata da più parti affinché intervenisse, finalmente Mosca aveva parlato tramite il ministero della Difesa, accusando Baku di aver violato gli accordi sul Nagorno-Karabakh del 2020. Meglio tardi che mai, anche se la Federazione Russa appariva sempre più incerta (o disinteressata?) al destino dell’Armenia, praticamente abbandonata a se stessa (quasi da tutti sia chiaro, non solo dalla Russia; con la nobile eccezione dei curdi).
Eppure i segnali della possibilità di un ennesimo conflitto (guerra a relativamente “bassa intensità”) non erano mancati. Il 5 marzo si era registrato un altro scontro armato nel corridoio di Lachin (per gli azeri, di Zangezur) tra Stepanakert e Goris, bloccato ormai da tre mesi da presunti “manifestanti ecologisti” azeri. La sparatoria era avvenuta tra la polizia armena e i militari azeri che avevano arbitrariamente fermato un veicolo e – nonostante fosse costata la vita di cinque persone – era passata quasi inosservata.
Invano Nikol Pašinyan, primo ministro di Erevan, aveva richiesto, rivolto anche al tribunale internazionale dell’Onu, l’istituzione di una missione internazionale di indagine sulla situazione in cui veniva a trovarsi l’unica via di collegamento tra l’Armenia e la repubblica del Nagorno-Karabakh, ormai ridotta alla condizione di enclave sotto assedio, con oltre 120.000 persone di etnia armena sprovviste di cibo e medicinali. In base all’accordo trilaterale del 9 novembre 2020 (e riconfermato per ben due volte nel 2021 e ancora nell’ottobre 2022), alla Russia spettava il compito di controllare e assicurare i trasporti nel “corridoio” con una sua forza di pace.

Estrattivismo abusivo e pretestuoso ecologismo

Il pretesto avanzato dai sedicenti “ecologisti” azeri che da mesi bloccavano il passaggio sarebbe quello di poter controllare le miniere (private, non statali) di Gyzylbulag (oro) e di Demirl (rame e molibdeno) dove gli armeni avrebbero compiuto “estrazioni illegali”.
Dopo le ripetute accuse di “mancata osservanza dell’impegno di controllo”, fino a quel momento da parte di Mosca erano giunte soltanto rassicurazioni verbali (dicembre 2022). Ma anche la dichiarazione che «le forze di pace possono agire soltanto quando entrambe le parti sono d’accordo».

«Gli azeri continuano ad avanzare pretese massimaliste, senza concedere alcuna forma di compromesso», aveva denunciato Vagram Balayan, presidente della commissione affari esteri dell’assemblea nazionale del Nagorno-Karabakh. Sostanzialmente in quanto Baku “non intende riconoscere l’esistenza del Nagorno-Karabakh e del popolo dell’Artsakh”. Ossia, detta fuori dai denti, “vogliono soltanto farci scomparire dalla storia” (come sembra confermato dagli ultimi eventi). Costringendo gli armeni a scegliere tra un’evacuazione “volontaria” e la deportazione.

Fine annunciata

E intanto con il mese di agosto il tragico epilogo si profilava all’orizzonte.
Con gli Armeni del Nagorno-Karabakh ormai presi per fame, in un articolo di quei giorni mi ero chiesto se «si può già parlare di genocidio o dobbiamo aspettare qualche migliaio di morti per inedia?».
Domanda retorica ovviamente.

A un certo punto l’evidente, colpevole, latitanza della Russia (storicamente “protettrice “ della piccola Armenia) sulla questione del Nagorno-Karabakh sembrava aver lasciato campo aperto all’intervento pacificatore – o perlomeno a un tentativo di mediazione – di Unione Europea e Stati Uniti.
Ma l’irrisolta questione del Corridoio di Lachin (unico corridoio tra Armenia e Nagorno-Karabakh) conduceva fatalmente al nulla di fatto. E intanto per gli armeni del Nagorno-Karabakh la situazione continuava a peggiorare.
Chi in quei giorni aveva avuto la possibilità di percorrere le strade di Stepanakert parlava di lunghe file di persone che – dopo ore di attesa – ottenevano letteralmente un tozzo di pane. Per non parlare di quanti crollavano – sempre letteralmente – a terra a causa della fame. Almeno 120.000 persone colpite dall’isolamento totale e dalla conseguente crisi umanitaria (sia a livello sanitario che alimentare).
Senza dimenticare che – ovviamente – l’Azerbaigian da tempo aveva provveduto a interrompere il rifornimento di gas. Difficoltoso, in netto calo, anche quelli di energia elettrica e di acqua. A rischio le riserve idriche con tutte le prevedibili conseguenze.
Quanto all’alimentazione ormai si era ridotti alle ultime scorte di pane e angurie. Il peggioramento si era andato accentuando da quando veniva impedito (con posti di blocco installati illegalmente dall’Azerbaigian) l’accesso anche alla Croce Rossa e alle truppe russe di interposizione che comunque finora avevano rifornito di cibo – oltre che di medicinali – la popolazione armena.

Silenzio tombale e pennivendoli distratti

Bloccato da mesi alla frontiera anche un convoglio di aiuti umanitari (oltre una ventina di camion) inviato da Erevan.
In pratica, un grande campo di concentramento.
Al punto che un cittadino armeno gravemente ammalato, mentre veniva trasportato dalla Croce Rossa in un ospedale dell’Armenia (e quindi sotto protezione umanitaria internazionale), veniva sequestrato, privato del passaporto, sottoposto a interrogatorio e spedito a Baku dove – pare – sarebbe stato anche processato per eventi risalenti al primo conflitto scoppiato in Nagorno-Karabakh negli anni Novanta.

E ogni appello rivolto alle autorità e organizzazioni internazionali (Unione Europea, Consiglio di Sicurezza dell’Onu, Russia, Gruppo di Minsk…) era destinato a restare inascoltato.
Con un preciso riferimento al blocco del Corridoio di Lachin operato dall’Azerbaijan, un ex esponente della Corte Penale Internazionale, l’avvocato argentino Luis Moreno Ocampo, aveva espressamente evocato un possibile genocidio.
Ma la sua appariva la classica “voce che grida nel deserto”. Quello dell’informazione almeno.

Poi la conferma dei peggiori timori con il tragico epilogo avviato il 19 di settembre.


Il giorno dopo la Guerra lampo dei fratelli turcofoni avevamo sentito Simone Zoppellaro, la cui analisi consentiva di comprendere nei dettagli cause e conseguenze delal dissoluzione dell’indipendenza dell’Artzakh

“Cala un sipario plumbeo sull’Artsakh”.

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Sudan: cinque mesi di inutile sofferenza https://ogzero.org/sudan-cinque-mesi-di-inutile-sofferenza/ Sat, 16 Sep 2023 16:47:40 +0000 https://ogzero.org/?p=11593 Quando il Fmi diventa “modello di solidarietà” significa che la situazione è ormai oltre ogni accettabilità e a nessuno importa di una condizione infernale. Distratti da altre guerre, da altre bombe su mercati, i 46 morti del mercato di May a Khartoum non meritano un trafiletto, laddove invece Angelo Ferrari va oltre l’orrore per uno […]

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Quando il Fmi diventa “modello di solidarietà” significa che la situazione è ormai oltre ogni accettabilità e a nessuno importa di una condizione infernale. Distratti da altre guerre, da altre bombe su mercati, i 46 morti del mercato di May a Khartoum non meritano un trafiletto, laddove invece Angelo Ferrari va oltre l’orrore per uno scontro tra Signori della Guerra che produce cadaveri civili ancora una volta trasportati dal Nilo a valle con il poco limo residuo dalle barriere a monte della Gerd il cui riempimento dell’invaso è stato terminato in questi giorni: infatti metà dell’intervento dell’africanista è dedicato al vicino Ciad, già in “cattive acque”, che si sobbarca la fuga dei profughi di guerra.


La tradizionale arroganza di entrambi i militari…

La guerra in Sudan non si ferma. Le sofferenze, numero di morti e sfollati, si moltiplicano in un insensato scontro tra due generali che hanno solo a cuore la conquista del potere. Ma non si vedono, nemmeno, spiragli per una soluzione negoziata. Il generale Abdelfattah al-Burhan, a capo dell’esercito regolare, e le Forze di supporto rapido di Mohamed Hamdan Dagalo, detto Hemedti, non hanno nessuna intenzione di sedersi a un tavolo negoziale per risolvere la crisi. Anzi, negli ultimi giorni i combattimenti si sono intensificati, si sono fatti, se è possibile, ancora più cruenti estendendosi a molte regioni del paese. Entrambi vogliono arrivare alla vittoria “assoluta” in Sudan. Per che cosa? Difendere interessi economici da sempre nelle mani dei militari. Ogni attività, infatti, è governata dall’esercito e dalle milizie armate: dalle banche alle materie prime, in una suddivisione, tra i due uomini forti che, evidentemente, non bastava più a entrambi. I due generali vogliono mettere mano su tutto e non importa se la gente soffre.

… diventa massacro

Il 13 settembre sono trascorsi cinque mesi di guerra e di inutile sofferenza, morte, perdita e distruzione.

L’Alto commissario delle Nazioni Unite, Volker Turk, ha spiegato che non c’è alcuna tregua in vista: «Il mio staff si è recato in Ciad e Etiopia tra giugno e luglio per raccogliere informazioni di prima mano dalle persone fuggite dalle violenze in Sudan. Le loro testimonianze evidenziano le informazioni che il mio ufficio ha ottenuto sulla portata e sulla brutalità di questo conflitto. Abbiamo ascoltato storie di familiari uccisi o violentati. Storie di parenti arrestati senza motivo. Di pile di corpi abbandonati nelle strade. Di una fame disperata e persistente».

Il conflitto, come prevedibile, ha paralizzato l’economia, spingendo milioni di persone sull’orlo della povertà, i servizi essenziali sono sull’orlo del collasso, quasi bloccati, come istruzione e assistenza sanitaria. Più di 7,4 milioni di bambini sono privi di acqua potabile e almeno in 700.000 sono a rischio malnutrizione grave.

Il Ciad nella morsa

Sul fronte dei profughi a subire pesanti conseguenze è soprattutto il Ciad, un paese che è preso a tenaglia a suoi confini, oltre alla crisi sudanese, il colpo di stato in Niger è la chiusura dei corridoi commerciali, sta provocando notevoli problemi di approvvigionamento di materie prime. E la situazione dei profughi che arrivano dal Sudan sta aggravando ulteriormente la situazione. Stando ai dati riportati delle Nazioni Unite, in Ciad sono arrivate 418.000 persone tra rifugiati e ciadiani che hanno deciso di ritornare a case. Circa l’85% dei profughi sudanesi e il 93% delle persone ritornate in patria sono donne e bambine. In questo contesto, la Banca mondiale ha annunciato una tranche di aiuti da 340 milioni di dollari per sostenere N’Djamena nella gestione dell’accoglienza, nonostante le Ong denuncino che solo il 34% degli aiuti richiesti è arrivato per sostenere gli aiuti umanitari.
Anna Bjerde, direttrice generale per le operazioni della Banca mondiale, ha annunciato il pacchetto di sostegni economici da un campo profughi nel Ciad orientale durante una due giorni di visita congiunta con l’Alto commissario per i rifugiati delle Nazioni Unite, Filippo Grandi.

Secondo Bjerde, «la crisi dei rifugiati nell’Est del paese sta aggiungendo ulteriore pressione alla fornitura di servizi sociali e alle risorse naturali. Collaborando con l’Unhcr e altri partner, restiamo impegnati ad aiutare le persone più bisognose e a sostenere la ripresa economica a lungo termine e la resilienza della regione».

Grandi, che a N’Djamena è stato ricevuto da diversi ministri del governo di transizione militare retto dal presidente Mahamat Idriss Déby Itno, si è augurato che «l’esempio della Banca Mondiale ispiri altri attori dello sviluppo a intensificare i loro interventi, poiché il Ciad non può essere lasciato solo ad affrontare questa grave crisi».

Aiutare il Ciad, per la comunità internazionale, dovrebbe essere prioritario. In una regione martoriata da guerre, colpi di stato e cambio di regimi. L’opinione pubblica ciadiana sta già soffrendo ed è in subbuglio. Difficoltà a reperire le materie prime, crisi dei profughi sudanesi, inoltre, potrebbe avere ripercussioni sull’inflazione del paese, già elevata. L’ultimo dato disponibile – riferito ad aprile 2023 – parla di un +12,5%, e di quella alimentare che è arrivata al 18,8% in aumento rispetto al dato precedente, +16%. Le difficolta di approvvigionamento delle merci, dunque, potrebbe pesare ulteriormente sulle entrate dello Stato, ma soprattutto già provata per via di un potere di acquisto che sta progressivamente diminuendo e, quindi, esacerbare ulteriormente gli animi di una società civile che non vede di buon occhio l’attuale regime “ereditato” dopo la morte di Deby padre, dal figlio.

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Il Sahelistan dall’Atlantico al Mar Rosso https://ogzero.org/il-sahelistan-dallatlantico-al-mar-rosso/ Mon, 21 Aug 2023 20:51:37 +0000 https://ogzero.org/?p=11453 La rapida fuga dei francesi cacciati dalla Françafrique, con i doverosi distinguo, richiama alla mente – soprattutto per la rapidità del dissolvimento di un potere coloniale – la precipitosa fuga americana da Kabul. La regione immediatamente subsahariana – che molto è intrecciata con i movimenti irredentisti del Maghreb, esplosi con la crisi libica (scatenata da […]

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La rapida fuga dei francesi cacciati dalla Françafrique, con i doverosi distinguo, richiama alla mente – soprattutto per la rapidità del dissolvimento di un potere coloniale – la precipitosa fuga americana da Kabul. La regione immediatamente subsahariana – che molto è intrecciata con i movimenti irredentisti del Maghreb, esplosi con la crisi libica (scatenata da Sarkozy) che furono alleati del jihad che imperversa nel territorio su cui sono segnati i confini tra Mali, Burkina e Niger – ha assistito alla penetrazione di nuove potenze (in particolare Russia con la presenza di Wagner e Cina che ha aperto una sede per manutenzione di veicoli della Norinco a Dakar – pronta a difendere i vasti interessi di Pechino nei tre paesi dei golpe, ma operativa anche in Senegal, Costa d’Avorio –, ma anche Turchia e paesi della penisola araba), che hanno sfruttato dispute interne, sentimenti antifrancesi, insorgere del jihad per piegare a loro favore lo sfruttamento delle risorse del territorio e la collocazione strategica di cerniera tra Africa centrale (e Corno d’Africa) e Mediterraneo da sud a nord; tra l’Oceano e l’importantissimo corridoio del Mar Rosso sul classico asse ovest/est. L’incendio si va estendendo ormai da quel Triangolo di paesi attualmente retti da giunte militari golpiste fino a legarsi al sanguinoso conflitto sudanese ormai impossibile da comporre (che sta causando nuovi esodi di massa, coinvolgendo in questo modo altri paesi in sofferenza, perché non più in grado di accogliere profughi, creando così nuovi motivi di tensione nell’area dopo quelli che hanno scosso l’Etiopia negli ultimi due anni).
A chi serve creare un’area a forte instabilità sul modello afgano di dimensioni così enormi? è tutto parte di un disegno globale di ridimensionamento del predominio dell’Occidente, oppure è un percorso senza alternative di decolonizzazione, che fa della Realpolitik l’accettazione di potenze alternative, pur di disfarsi del giogo classicamente coloniale? le reazioni interventiste dei paesi limitrofi sono ispirate dalla paura dell’epidemia; oppure dagli sponsor europei, come il solito Eliseo (Adamu Garba, esponente dell’Apc ha accusato Usa e Francia di aver voluto mandare avanti l’Ecowas per innescare una guerra regionale e recuperare posizioni “coloniali”, sfruttando l’instabilità e l’ennesima guerra per procura che finirebbe con il distruggere l’Africa occidentale)
?  Oppure nascono dalla consapevolezza che la regione è stata integralmente posta in un caos per cui nulla sarà più come prima? Sicuramente si sta spostando in campo africano lo scontro anche militare che contrappone gli interessi dei Brics allargati all’egemonia occidentale.
Angelo Ferrari ha cercato di fare il punto mettendo in relazione tutti gli elementi in campo per dipanare l’ingarbugliata matassa.


Il golpe nigerino sblocca definitivamente il modello afgano per l’intero Sahel?

A ovest del lago Ciad

Rulli di tamburi…

Tutti i riflettori della diplomazia internazionale sono puntati sul Niger, dopo il colpo di stato del 26 luglio. Mentre ciò accade il Sahel rischia di piombare in un caos senza precedenti che potrebbe coinvolgere tutta l’Africa occidentale e non solo: l’intera  striscia saheliana è attraversata da tensioni che vanno dal sentimento antifrancese e antioccidentale, che sta montando un po’ ovunque, a una crisi politica, umanitaria e di sicurezza senza precedenti. La decisione della Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale (Ecowas) di intervenire militarmente in Niger sta esacerbando ulteriormente le opinioni pubbliche di diversi stati della regione; non più, dunque, una minaccia, ma un piano militare messo a punto dopo due giorni di vertice ad Accra, capitale del Ghana. Non si conoscono i dettagli dell’operazione, si sa solo che dovrebbe essere “lampo” perché nel Sahel c’è stato “un colpo di stato militare di troppo”, a detta dei generali riuniti ad Accra. Intervento armato, tuttavia, che non avrebbe alcuna legittimità internazionale: l’Unione africana infatti ha già detto il suo no e le Nazioni Unite non hanno nessuna intenzione di autorizzarlo.

… timide mosse diplomatiche…

Mentre si parla di piani militari, la diplomazia è ancora al lavoro. Una delegazione dell’Ecowas è arrivata a Niamey dove ha potuto incontrare il presidente destituito, Mohamed Bazoum; non solo, a Niamey è arrivata anche la nuova ambasciatrice degli Stati Uniti, Kathleen FitzGibbon, anche se non presenterà le credenziali alla giunta militare – perché Washington non la riconosce – esprimendo tuttavia l’intenzione americana di perseguire la via diplomatica e «per sostenere gli sforzi che aiutino a risolvere la crisi politica in questo momento». Un segno, dunque, che la giunta militare non respinge del tutto il dialogo.
tanto che in un discorso alla televisione pubblica nigerina, Télé Sahel, il generale Abdourahamane Tchiani, a capo della giunta militare, ha annunciato l’istituzione di un «dialogo nazionale inclusivo» entro 30 giorni e ha annunciato una transizione che «non può durare oltre i tre anni». L’obiettivo è formulare «proposte concrete per porre le basi di una nuova vita costituzionale».
Un mantra, quest’ultimo, che ha precedenti in Mali, Burkina Faso e Guinea, paesi che sono stati teatro di colpi di stato negli ultimi due anni e dove le transizioni si prolungano senza che vengano convocate elezioni per un ritorno dei civili al governo di questi paesi. Il generale Tchiani, tuttavia, non accetta la minaccia dell’Ecowas di un intervento militare e rilancia: «L’Ecowas si prepara ad attaccare il Niger allestendo un esercito di occupazione in collaborazione con un esercito straniero», ha detto Tchiani senza citare il paese “straniero”, ma in molti pensano alla Francia.

… esibizione di muscoli

«Né il Consiglio Nazionale per la Salvaguardia della Patria né il popolo del Niger vogliono la guerra, ma se dovesse essere intrapresa un’aggressione, non sarà la svolta in cui alcuni credono» e ha ammonito: «Le forze di difesa del Niger non si tireranno indietro», sostenute da Burkina Faso, Mali e Guinea, ha detto. «La nostra ambizione non è quella di confiscare il potere», ha anche promesso.

A est del lago Ciad

Il conflitto tra al-Burhan e Hemedti si estende a tutti i Signori della guerra

Mentre ciò accade nell’estremo ovest della striscia saheliana, il Sudan è entrato nel quinto mese di guerra senza che si intraveda all’orizzonte una soluzione. Anzi, sembra proprio che i contendenti vogliano arrivare alle estreme conseguenze. Intanto il conflitto si è esteso, impantanato, aggravato provocando un dramma umanitario che nemmeno l’Onu è in grado di affrontare. La guerra contrappone l’esercito regolare del generale al-Burhan alle Forze di supporto rapido (Fsr) dei paramilitari guidati dal generale Hemedti. Il conflitto ha causato più di quattromila morti, anche se la cifra delle vittime è sottostimata, e milioni tra profughi e sfollati interni. Quando la guerra è scoppiata, il 15 aprile 2023, il generale al-Burhan ha detto che sarebbe finita in due settimane, mentre Hemedti prometteva la vittoria. Oggi nessuna delle due parti sembra prendere un vantaggio decisivo. I militari dominano ancora lo spazio aereo, mentre soffrono la debolezza della loro fanteria, un compito, ironia della sorte, che avevano affidato proprio alle Fsr. L’esercito ha subito battute d’arresto nel Sud Kordofan, nel Nilo Azzurro e nel Darfur, le Forze di supporto rapido sembrano avere nelle mani la maggior parte del territorio di Khartoum, la capitale.
Il conflitto dunque, anziché attenuarsi, si intensifica è sta coinvolgendo altri movimenti armati che partecipano ai combattimenti. Insomma, questo conflitto, iniziato tra due generali, rischia di trasformarsi in una vera e propria guerra civile, secondo l’Onu, volgendo verso una situazione di anarchia totale. I negoziati, inoltre, non sono mai decollati e sono in una fase di stallo e i cessate il fuoco non sono mai durati.

S’intrecciano le crisi umanitarie regionali

Profughi e sfollati, di nuovo sulle sponde del Nilo

Sul versante umanitario le cifre sono da capogiro con oltre 3 milioni di sfollati e quasi 1 milione di rifugiati. Inoltre, entro settembre si prevede che il 40% della popolazione soffrirà di insicurezza alimentare. Le organizzazioni umanitarie stanno affrontando una situazione a dir poco scoraggiante con una mancanza allarmante di fondi, all’appello mancano due miliardi di dollari per far fronte alla crisi. Le donne sono particolarmente colpite, sono vittime di violenze e stupri perpetrati dai combattenti e private di un’adeguata assistenza psicologica e medica, hanno spiegato i portavoce delle agenzie umanitarie durante una riunione a Ginevra. Le agenzie possono aiutare circa 19 milioni di persone in Sudan e nei paesi limitrofi, tuttavia gli interventi sono finanziati solo al 27%. Le Nazioni Unite hanno lanciato due appelli, uno per finanziare gli aiuti all’interno del paese per un totale di 2,57 miliardi di dollari e l’altro per i rifugiati fuggiti dal Sudan per un importo di 566,4 milioni di dollari. Ma dopo la crisi innescata dal colpo di stato in Niger, del Sudan sembra si siano dimenticati tutti e ciò rischia di aggiungere catastrofe a catastrofe.

Profughi e sfollati, di nuovo sulle sponde del Niger

Le conseguenze di un intervento militare dell’Ecowas a Niamey sarebbero devastanti sia sul piano umanitario sia sul piano della sicurezza dell’intera regione. Già si vedono spostamenti di persone sul fiume Niger nella parte che confina con il Benin, considerato, ancora, uno stato sicuro. Nel paese la crisi umanitaria si sta già manifestando. Le frontiere chiuse impediscono il passaggio di merci necessarie alla sopravvivenza della popolazione, così come l’elettricità scarseggia in più parti del paese per via delle interruzioni delle forniture che arrivano dall’estero. Una guerra, per quanto lampo sia, aggraverebbe ulteriormente la situazione umanitaria.

A Ovest (speriamo) niente di nuovo

Una guerra, che potrebbe estendersi a buona parte del Sahel – Mali e Burkina Faso hanno già assicurato il loro appoggio al Niger – avrebbe ripercussioni preoccupanti sul fronte della lotta al terrorismo e ai gruppi jihadisti che imperversano nell’area, in particolare nella regione dei tre confini – Niger (Tilaberi), Mali (Tessit) e Burkina Faso (Tamba), dove storicamente la pastorizia nomade si scontra con coltivatori stanziali – ma anche sulla capacità dei paesi del Golfo di Guinea, già colpiti dal terrorismo a nord dei loro confini – Costa d’Avorio, Benin e Togo – di farvi fronte. Una situazione, dunque, esplosiva.

Recrudescenza jihadista dopo Barkhane

Dal colpo di stato in Niger di fine luglio, infatti, sono stati registrati nove attacchi jihadisti. Una tendenza che preoccupa gli osservatori. Con la recrudescenza degli attacchi islamisti, il timore è di “un rapido deterioramento della situazione”, in primo luogo perché Parigi ha sospeso la sua cooperazione militare con il Niger. L’esercito nazionale quindi non beneficia più dell’appoggio dell’esercito francese. Non ci sono più operazioni congiunte, aerei e droni non danno più supporto e i terroristi approfittano del vuoto. Poi, le minacce di intervento armato dell’Ecowas hanno portato a una riduzione del sistema militare occidentale, che hanno sospeso le loro attività ai confini. Ciò potrebbe portare un calo della reattività dell’esercito nigerino e i gruppi jihadisti potrebbero approfittarne riconquistando la loro libertà di manovra con un radicamento dello Stato Islamico proprio nell’area dei tre confini. Le preoccupazioni vanno ancora oltre, con la possibile creazione di zone grigie, in parte controllate da gruppi armati, in Mali, Burkina, Niger, persino Sudan, che potrebbero destabilizzare il vicino Ciad. Il Ciad, pur non essendo membro dell’Ecowas, condivide con il Niger 1200 chilometri di confine e dispone, oltre ad avere solidi rapporti con la Francia, di un esercito tra i più potenti dell’area. Quindi il Niger ha necessità di assicurarsi rapporti di buon vicinato – il primo ministro nigerino, nominato dalla giunta militare, ha fatto visita al presidente ciadiano Mahamat Idriss Deby – anche se N’Djamena è alle prese con una crisi interna di legittimità del potere e con l’emergenza profughi che arrivano a decine di migliaia dal Sudan.

A rischio sconfinamenti i paesi del Golfo

Si teme, inoltre, che i gruppi jihadisti possano contagiare anche i paesi del Golfo di Guinea. Questa è la maggior preoccupazione della Costa d’Avorio che è già alle prese con sconfinamenti dal Burkina Faso e con centinaia di profughi burkinabé che cercano rifugio nel nord del Paese. Ciò, inoltre, potrebbe spiegare la ferma posizione del presidente ivoriano, Alassane Ouattara, che si è schierato con decisione per un intervento militare in Niger, dicendosi disponibile a fornire un battaglione del suo esercito al contingente dell’Ecowas. Occorre ricordare che Ouattara è uno dei pochi “fedeli” alla Francia rimasti nella regione. E il presidente ivoriano è preoccupato che anche nel suo paese possa montare un sentimento antifrancese alimentato, soprattutto, dal suo rivale di sempre l’ex presidente Laurent Gbagbo, 78 anni, che non nasconde le sue velleità di tornare alla presidenza della Costa d’Avorio, nel 2025, con il suo nuovo Partito dei popoli africani-Costa d’Avorio (Ppa-Ci), di ispirazione e orientamento socialista e panafricanista, nemmeno troppo velatamente antifrancese.

Scosso anche il gigante Senegal da sommovimenti interni

Non meno turbolenta appare la situazione nell’estremo ovest della striscia saheliana, in un Senegal che vive un periodo di forte crisi politica e di legittimità democratica, soprattutto dopo l’arresto dell’oppositore Ousmane Sonko, uno dei leader politici più amati dai giovani senegalesi. Arresto che ha provocato manifestazioni di piazza violente, che hanno lasciato sulle strade numerosi feriti ma anche morti. In conseguenza di queste proteste il ministro dell’interno senegalese, Antoine Diome, ha annunciato lo scioglimento proprio del partito di Sonko, il Pastef – Les patriotes. Il leader dei “giovani senegalesi” è stato condannato per diffamazione e per corruzione giovanile. Secondo le opposizioni queste condanne non hanno altro significato che escludere Sonko, che gode di un buon seguito, dalle elezioni presidenziali del 2024. Il Senegal è un altro paese in forte ebollizione e non è bastata la decisone di Macky Sall, attuale presidente, di non candidarsi per un terzo mandato alle presidenziali a inizio luglio per stemperare la tensione nel paese. In punta di diritto potrebbe farlo, anche se la Costituzione prevede solo due mandati, ma è stata riformata, con una rimodulazione della lunghezza del mandato, proprio sotto la presidenza Sall. Le opposizioni, infatti, si rammaricano del fatto che il presidente Sall e il suo governo rimangano sordi alle richieste di allentamento, pacificazione e fine delle restrizioni agli spazi di libertà. I mesi, dunque, che separano il Senegal alle presidenziali del febbraio 2024 saranno particolarmente difficili. Non è un caso, inoltre, che le opposizioni senegalesi si siano schierate contro l’intervento militare dell’Ecowas in Niger.
Sono molte le ragioni che dovrebbero dissuadere dal mettere in atto lo scenario peggiore per il Sahel e per l’intera Africa occidentale. Un conflitto armato su vasta scala potrebbe scatenare reazioni non proprio prevedibili e trasformare il Sahel in un “Sahelistan” di afgana memoria.

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L’ancora irrisolto colpo di stato in Niger https://ogzero.org/lancora-irrisolto-colpo-di-stato-in-niger/ Sun, 30 Jul 2023 22:51:19 +0000 https://ogzero.org/?p=11387 Intanto i differenti militari hanno sollevato il presidente, il potere però sembra sia gestito da svariati uomini forti a cominciare dal capo della Guardia presidenziale Tchiani e ora sembrano essere in attesa di capire in che modo schierarsi nelle relazioni internazionali; come se fossero sulla piazza, al miglior offerente… ma probabilmente divisi tra diverse forze […]

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Intanto i differenti militari hanno sollevato il presidente, il potere però sembra sia gestito da svariati uomini forti a cominciare dal capo della Guardia presidenziale Tchiani e ora sembrano essere in attesa di capire in che modo schierarsi nelle relazioni internazionali; come se fossero sulla piazza, al miglior offerente… ma probabilmente divisi tra diverse forze armate e le differenti “scuole d’armi” frequentate. Forse Bazoum aveva dato l’impressione di non voler mettere in discussione minimamente lo schieramento con la parte dell’Occidente e quindi il rischio per chi intendeva omogeneizzare le scelte antiatlantiste del resto del Sahel era quello di essere esautorati dagli incarichi autorevoli che ricoprivano. Forse ha prevalso l’idea che nel gran rivolgimento dell’intero continente risultasse perdente per la nazione non operare alcun cambiamento. Forse il timore che si mancasse anche stavolta la partecipazione all’ondata di rigetto antifrancese (molto popolare presso i giovani potrebbe aver spinto alla rimozione dell’ostacolo presidenziale… di certo l’incertezza sulla affidabilità e collocazione di uno stato chiave, l’ultimo nel Sahel ancora sotto l’egida di una Francia affamata di uranio, produce fibrillazioni in seno all’intera comunità internazionale, motivo per cui – al contrario del solito – abbiamo pensato fosse il caso di occuparsene quando ancora non si è depositato il polverone di ipotesi suscitate dal golpe. … Intanto Parigi ha dichiarato che – rispetto agli altri paesi sahelini (che non sono cassaforte di uranio) – da Niamey sarà più difficile cacciarli, però il governo golpista ha sospeso le forniture di oro e uranio alla Francia. E comunque sul territorio c’è il più grosso contingente americano in Africa e gli addestratori italiani (più di 300 giovani e forti, 13 mezzi terrestri e 5 aerei, inquadrati nella Misin che opera agli ordini del Comando operativo di vertice interforze (Covi), guidato dal generale di Corpo d’armata Francesco Paolo Figliuolo, sempre lui). Il blocco dell’Africa occidentale riunito a Abuja (Cedeao), ha dichiarato la sospensione delle relazioni con il Niger autorizzando l’uso della forza se il presidente non verrà reintegrato entro una settimana: l’emissario del messaggio è il non-allineato Déby (in carica dinasticamente per volontà dell’Eliseo), un pessimo segnale in una fase di rivolgimento totale, che la paura dell’epidemia si diffonda in tutta l’Africa occidentale, mettendo le premesse perché divampi una guerra estesa, concede pericolosi spazi per una nuova guerra per procura in terra africana.
Angelo Ferrari affronta l’evento cercando di districarsi tra le notizie ancora contraddittorie, analizzandole per capire almeno le intenzioni di ciascun protagonista, in primis i generali nigerini, ma poi anche le diplomazie mondiali e la manipolazione mediatica delle piazze locali, lasciando solo trapelare il malcontento giovanile
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Sbalorditivi risultati dopo il vertice di San Pietroburgo?

Una vicenda ancora dai contorni pochi chiari – non potevano mancare le affermazioni del capo dei mercenari della Wagner che ha applaudito alla presa di potere dei militari. Parole piene di retorica anticoloniale:

«Quello che è successo in Niger non è altro che la lotta del popolo nigerino contro i colonizzatori che stanno cercando di imporre loro le loro regole di vita”, ha detto Evgenij Prigožin in un messaggio a lui attribuito.

Parole che fanno intendere che la Wagner, qualora i golpisti lo volessero, è pronta a entrare nello scenario nigerino con un ruolo di primo piano. Non ci sono, per ora, segnali che dietro il golpe ci siano gli uomini della Wagner. Se fosse così sarebbe un doppio schiaffo per l’occidente che, è bene dirlo, si è fatto sorprendere proprio nell’ultima roccaforte della lotta antijihadista dopo l’uscita di scena dal Mali e dal Burkina Faso. Le domande sono molte.

 

La prima: come è stato possibile che nessuna cancelleria occidentale avesse avuto un sentore di ciò che sarebbe potuto accadere?

Non c’è una risposta e se c’è nessuno la vuole dare, forse perché sarebbe troppo imbarazzante. Sta di fatto che in Niger sono presenti migliaia di militari stranieri: 1500 francesi, più di mille americani e oltre trecento italiani, oltre ai mezzi militari, molti di questi di stanza a Niamey, la capitale. Di certo, nei prossimi giorni si chiariranno molte cose. Secondo i francesi il colpo di stato “non è definitivo”. Il presidente Emmanuel Macron ha parlato in più occasioni con il suo omologo destituito, Mohamed Bazoum. Forse da queste telefonate deduce che ci sia ancora uno spiraglio di trattativa tra il capo di stato democraticamente eletto e i golpisti che, intanto, hanno messo a guida del paese il capo della guardia presidenziale, il generale Abdourahamane Tchiani, in qualità di “presidente del Consiglio nazionale per la salvaguardia della patria”, la giunta che ha rovesciato il presidente eletto. Il capo della guardia presidenziale, il generale Tchiani, nuovo uomo forte del Niger, ha giustificato il golpe con “il deterioramento della situazione della sicurezza” nel paese minato dalla violenza dei gruppi jihadisti. Il presidente Bazoum, a detta sua, voleva far credere che “va tutto bene”, mentre c’è

«la dura realtà con la sua quota di morti, sfollati, umiliazioni e frustrazioni». Secondo Tchiani «l’attuale approccio di sicurezza non ha permesso di mettere in sicurezza il paese nonostante i pesanti sacrifici compiuti dai nigerini e l’apprezzabile e apprezzato supporto dei nostri partner esterni».

Rassicurazioni da militare

A ogni insorgenza si sentono sempre queste parole. Sono una consuetudine vissuta anche in altri scenari del Sahel: il Mali e il Burkina Faso, paesi governati da giunte militari frutto di 4 colpi di stato. Tutte le giunte militari, inoltre, si affrettano a sostenere che gli impegni presi dal paese non cambieranno e verranno rispettati. Un tentativo di rassicurare gli alleati, ed è capitato anche in Niger, per poi fare retromarce clamorose. In Mali – la nuova Costituzione stabilisce che il francese non è più la lingua ufficiale – come in Burkina Faso, hanno “cacciato” la Francia per mettersi totalmente nelle mani della Russia, affidandosi alla Compagnia Wagner per la lotta ai gruppi jihadisti che imperversano nel Sahel. Hanno preoccupato le manifestazioni, a Niamey, a sostegno dei golpisti, con la gente che sventolava le bandiere russe, per altro subito disperse dalla giunta miliare. I timori, dunque, delle cancellerie occidentali sono più che fondati. E la “guerra economica e diplomatica” tra Ovest ed Est del mondo sembra proprio essersi trasferita in Africa. I segnali ci sono tutti.

Il Sahel ha sancito la fine di un’epoca?

Dopo il Mali e il Burkina Faso, dunque, anche il Niger è caduto sotto il controllo di un regime militare che potrebbe sconvolgere la lotta contro i gruppi armati jihadisti nel Sahel. Di fronte all’avanzata dei terroristi, le giunte militari hanno preso il sopravvento su democrazie ritenute inefficienti e corrotte da parte delle popolazioni saheliane. I militari che hanno, infatti, preso il potere in Niger hanno già annunciato un nuovo orientamento strategico.

«L’attuale approccio non ha permesso di mettere in sicurezza il Paese nonostante i pesanti sacrifici compiuti dai nigerini», ha detto il generale Tchiani.

Il Niger e il suo presidente, eletto democraticamente, erano i principali alleati dei paesi occidentali nel Sahel travolto dalla violenza jihadista e da un’ondata di autoritarismo venato di sovranità russofila. Bamako si è rivolto ai mercenari della Wagner per far fronte ai gruppi jihadisti, provocando la partenza delle truppe francesi nel 2022. Le autorità di Ouagadougou, capitale del Burkina Faso, hanno optato per la mobilitazione di cittadini armati e hanno chiesto il ritiro delle forze speciali francesi nel paese, non senza l’appoggio della Wagner. Il presidente nigerino, invece, aveva scelto di mantenere sul suo territorio la presenza di soldati francesi, americani e italiani, temendo di essere coinvolto nel divorzio tra l’occidente e le giunte saheliane.
Queste giunte «tendono naturalmente ad addossare la responsabilità del deterioramento della sicurezza agli alleati dei regimi che hanno rovesciato. Questi colpi di stato sono sostenuti da una parte della popolazione che ha già mostrato un atteggiamento ostile nei confronti dei francesi o degli occidentali presenti nel Sahel», spiega Ibrahim Yahaya Ibrahim, ricercatore dell’International Crisis Group.
Fin dal suo primo intervento, il generale Tchiani ha preferito rivolgersi ai suoi omologhi saheliani, interrogandosi «sul senso e sulla portata di un approccio securitario alla lotta al terrorismo che escluda ogni reale collaborazione con Burkina Faso e Mali» nell’area nota come i tre confini.

L’auspicata cooperazione tra sahelini… ma antifrancese

A causa delle tensioni diplomatiche, i militari nigerini e francesi non hanno potuto operare liberamente contro le basi dello Stato Islamico dall’altra parte del confine con il Mali, dove l’organizzazione compie attacchi sul territorio nigerino. Questa crisi non potrebbe essere risolta senza la cooperazione con il Mali, secondo il generale Tchiani. Insomma, è facile prevedere che vi sia un “miglioramento” delle relazioni e una maggiore cooperazione tra i paesi vicini.
Dal lato dei partner occidentali le prospettive sono più fosche: l’Unione europea ha annunciato la sospensione di tutti gli aiuti di bilancio e le azioni di cooperazione nel campo della sicurezza. Le sanzioni internazionali potrebbero colpire il regime come nel vicino Mali. Una possibile partenza delle forze francesi, americane e italiane lascerebbe un vuoto in una regione particolarmente travagliata, secondo gli analisti.
Il Niger confina con il caos libico, la Nigeria con Boko Haram e Iswap, il nord del Benin molto colpito dal jihadismo e ovviamente Mali e Burkina Faso.

Niamey era un polo di stabilità nonostante i problemi di sicurezza sul territorio.

Il Niger sta vivendo un afflusso di rifugiati dal Mali e dalla Nigeria in preda alla violenza, stimato in 255.000 nel 2022 dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Unchr). Bazoum incarnava un modello di cooperazione in materia di sicurezza per le democrazie occidentali e i loro donatori. Il mantra del presidente nigerino era la “stabilizzazione” delle comunità prese di mira dal reclutamento jihadista e la reintegrazione dei loro combattenti, soprattutto i giovani. Il governo di Niamey stava attuando programmi in gran parte finanziati da partner internazionali, il cui futuro è ora sospeso. Contrariamente al potere civile che ha accettato di dialogare con alcuni leader di gruppi armati, il generale Tchiani ha denunciato nel suo discorso di “insediamento” la “liberazione extragiudiziale” di “capi terroristi” da parte del regime di Mohamed Bazoum. In Mali e Burkina Faso i militari al potere hanno optato per una strategia ultraoffensiva contro i gruppi jihadisti, viziata da accuse di abusi ricorrenti contro la popolazione. E a pagarne il maggior peso sono i civili.

Recrudescenza jihadista

Una strategia che contribuisce alla destabilizzazione e può alimentare tensioni intercomunitarie e intracomunitarie. Un approccio, inoltre, che non ha avuto l’esito sperato. Gli attacchi jihadisti in questa regione, ma anche nell’Africa occidentale, si sono moltiplicati. Solo nei primi sei mesi del 2023 si sono registrati più di 1800 attacchi di matrice terroristica, nei quali hanno perso la vita quasi 4600 persone e che hanno avuto conseguenze umanitarie disastrose. A riferirlo è Omar Touray, presidente della Commissione della Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale (Ecowas) intervenendo al Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite. Delle circa 4600 persone uccise in questi attacchi terroristici tra gennaio e la fine di giugno, 2725 morti sono avvenute in Burkina Faso, 844 in Mali, 77 in Niger e 70 in Nigeria. Touray ha citato anche il Benin e il Togo, due paesi della subregione storicamente risparmiati dagli attacchi terroristici ma che oggi vivono, invece, grandi preoccupazioni per la sicurezza. Questi paesi sono stati presi di mira, di recente, da una serie di attacchi, che Touray ha descritto come

«un’indicazione lampante della diffusione del terrorismo negli stati» del Golfo di Guinea, «una situazione che rappresenta un’ulteriore minaccia per la regione».

Touray ha detto anche che l’insicurezza continua a infliggere dolore e sofferenza a milioni di persone, con conseguenze di vasta portata: questi attacchi terroristici hanno provocato lo sfollamento di mezzo milione di rifugiati e quasi 6,2 milioni di sfollati interni. La Costa d’Avorio, solo per fare un esempio, ha già predisposto campi per l’accoglienza dei profughi provenienti dal Burkina Faso. Il numero di persone con necessità di sicurezza e assistenza, poi, salirà a 42 milioni «se non ci sarà un’adeguata risposta internazionale ai 30 milioni di persone attualmente bisognose di cibo».


I francesi e l’Occidente non si possono permettere di perdere il Niger: passa dalla soluzione di questa crisi il definitivo declino dell’Occidente, oppure la contrapposizione allo scacco del blocco antiatlantico… l’incrocio tra Sahel e l’area centrafricana è uno snodo essenziale, ben più critico del corridoio polacco verso Kaliningrad. E forse per evitare il contagio può essere un’interpretazione valida quella avanzata da Angelo Ferrari e Marco Trovato in un visdeo di “AfricaRivista”riguardo al successivo “golpe” con caratteristiche del tutto differenti che ha colpito il Gabon, stato quasi monarchico che la repubblica francese ha dato in affido alla famiglia Bongo da 57 anni e che avrebbe rischiato maggiormente se le sommosse per il malcontento nei confronti della cleptocrazia non fossero venute dalla guardia presidenziale, ma dai cittadini ridotti in miseria dal sistema neocoloniale – e c’erano tutti i prodromi di una reazione violenta ai brogli delle elezioni tenutesi senza internet funzionante e in stato di emergenza, senza osservatori. Invece Brice Clotaire Oligui Nguema, nuovo uomo forte – senza bandiere russe o stemmi con il teschio della fantasmatica Wagner – ha assegnato ad Ali Bongo Ondimba quella retraite per la difesa della quale i cittadini francesi sono scesi nelle piazze per mesi. Ma qui non siamo in Sahel, non si è ancora affacciato il pericolo jihadista, la Francia non si può permettere di perdere un alleato così fedele.

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n. 2 – L’Assemblea Generale tra diritto di veto, immobilismo e sessioni speciali https://ogzero.org/assemblea-generale-onu-tra-diritto-di-veto-e-immobilismo/ Thu, 13 Jul 2023 11:07:30 +0000 https://ogzero.org/?p=11288 Prosegue la serie di contributi di Fabiana Triburgo che analizzano con approccio giuridico gli organismi sovrastatali come l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Questo saggio in particolare si concentra sulle risoluzioni adottate in sessioni speciali dall’Assemblea Generale in occasione del conflitto russo-ucraino e sulle contraddizioni insite nel potere di veto della Russia quale membro permanente nel […]

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Prosegue la serie di contributi di Fabiana Triburgo che analizzano con approccio giuridico gli organismi sovrastatali come l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite.

Questo saggio in particolare si concentra sulle risoluzioni adottate in sessioni speciali dall’Assemblea Generale in occasione del conflitto russo-ucraino e sulle contraddizioni insite nel potere di veto della Russia quale membro permanente nel Consiglio di Sicurezza. Probabilmente le stesse discussioni assembleari porteranno a una riconsiderazione del diritto di veto per superare l’immobilismo del Consiglio di Sicurezza.


La questione che viene lecito porsi – analizzati i limiti che determina l’apposizione del diritto di veto – è se questo possa essere in qualche modo superato o meglio “aggirato” da un altro organo fondamentale delle Nazioni Unite ovverosia l’Assemblea Generale. Se infatti rispetto al conflitto russo-ucraino è emerso l’immobilismo totale del Consiglio di Sicurezza – proprio a causa del diritto di veto esercitato dalla Russia quale membro permanente – l’Assemblea Generale si è riunita molteplici volte in sessione straordinaria per deliberare in merito a tale “Operazione speciale” così come definita dal leader del Cremlino. D’altra parte, se il Consiglio di Sicurezza – secondo l’art. 24 – è il principale organo delle Nazioni Unite al quale vengono demandati il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale, la Carta delle Nazioni Unite, in particolare all’art. 11 par. 2 e più in generale all’art. 14, conferisce in tale ambito anche all’Assemblea Generale un ruolo rilevante pur non essendo essa titolare di quei poteri coercitivi implicanti o meno l’uso della forza, propri del Consiglio di Sicurezza.

L’Assemblea Generale infatti, nel caso del mantenimento della pace e della sicurezza internazionale, può soltanto emettere atti privi di forza vincolante aventi il carattere delle raccomandazioni ma può esercitare quelle funzioni conciliative di cui al capo VI della Carta – così come d’altronde il Consiglio di Sicurezza – che si esplicitano attraverso l’istituzione di buoni uffici, di attività di mediazione o di negoziato nei confronti dei paesi membri. D’altro canto, anche l’Assemblea Generale come il Consiglio può disporre le cosiddette “misure temporanee” di cui all’art. 40 della Carta come per esempio le richieste di “cessate il fuoco”, di liberazione pacifica dei prigionieri e d’invito agli stati a non introdurre le armi nei conflitti tra loro. Infine, spetta all’Assemblea Generale in siffatte situazioni quel potere di inchiesta di cui all’art. 34 della Carta pur se, diversamente da quanto avviene nel caso del Consiglio di Sicurezza, esso non può essere finalizzato all’applicazione delle misure coercitive di cui sopra nei confronti degli stati come definite dagli artt. 41 e 42.

Uniting for Peace: come superare l’immobilismo del Consiglio di Sicurezza Onu

Inoltre, benché le risoluzioni dell’Assemblea non abbiano carattere cogente è bene ricordare che lo stato che non adempie le prescrizioni contenute in esse è sottoposto a specifiche responsabilità non solo dinanzi all’Assemblea ma anche dinanzi alla Corte di Giustizia delle Nazioni Unite, in particolare nell’ipotesi in cui uno stato membro si ritenga leso,  come nel caso dell’Ucraina, dallo stato destinatario delle prescrizioni. In tale quadro di funzioni e poteri dei due organi delle Nazioni Unite occorre richiamare la già citata risoluzione dell’Assemblea Generale n. 377 meglio conosciuta come “Uniting for Peace emessa nel 1950 ma quanto mai attuale in considerazione dell’intervento armato russo in Ucraina. La risoluzione allora venne emanata infatti proprio in considerazione dell’immobilismo del Consiglio di Sicurezza nella guerra di Corea del 1950 ed essa, al di là delle conseguenze che abbia poi effettivamente determinato in relazione a tale conflitto – considerata la forte opposizione che ha ricevuto dagli stati socialisti che ha portato anche gli altri stati membri a desistere – ha comunque introdotto un principio innovativo rispetto ai tradizionali poteri che sono conferiti dalla Carta all’Assemblea Generale. La risoluzione n. 377, al momento ancora in essere, stabilisce infatti che se il Consiglio di Sicurezza non può contare sull’unanimità dei suoi membri permanenti – tale da non poter esercitare le sue funzioni per il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale – l’Assemblea Generale nei casi in cui possa esservi una minaccia o un atto di aggressione deve considerare immediatamente la questione al fine di adottare raccomandazioni approfondite ai membri delle Nazioni Unite incluso, in caso di rottura della pace o di un atto di aggressione, l’uso delle forze armate proprio per mantenere o ripristinare la pace e la sicurezza internazionale.

La sessione che diede vita alla risoluzione 377 denominata “Uniting for Peace”.

Più verosimilmente rispetto a quest’ultimo potere di disporre misure coercitive come quelle implicanti l’uso della forza si ritiene che la risoluzione ad oggi – anche rispetto al conflitto russo ucraino – sia più agevolmente invocabile affinché l’Assemblea eserciti pienamente (in caso di immobilismo del Consiglio di Sicurezza) quei poteri conciliativi di cui al capitolo VI della Carta che le sono propri. Tale risoluzione inoltre appare particolarmente rilevante perché ha depotenziato il principio della litispendenza tra i due organi sancito con riferimento già alla sola funzione conciliativa dell’Assemblea dall’art. 12 della Carta.

Secondo tale articolo infatti l’Assemblea non può svolgere le funzioni conciliative rispetto a una determinata questione qualora essa sia già pendente dinanzi al Consiglio di Sicurezza o in esame in seno a questo, proprio in ragione della primaria responsabilità in materia secondo il già citato art. 24.

Tale precetto non riguarda la semplice iscrizione a ruolo di una questione dinanzi al Consiglio ma piuttosto le ipotesi nelle quali il Consiglio stia già discutendo in merito a una specifica questione o se ne stia occupando o ancora se vi sia anche la sola probabilità che se ne occupi. Per tale principio le sessioni straordinarie d’urgenza dell’Assemblea, che come vedremo più nel dettaglio rispetto al conflitto russo-ucraino sono state molteplici dopo un’assenza lunga oltre quarant’anni, devono comunque essere richieste dal Consiglio di Sicurezza e dovrebbero avere il carattere dell’eccezionalità.

La condanna all’aggressione: prima risoluzione speciale, non per tutti

La prima risoluzione dell’Assemblea Generale in sessione speciale a essere stata adottata è quella del 2 marzo del 2022 di condanna dell’aggressione russa dell’Ucraina con la contestuale richiesta di cessazione immediata delle ostilità (A/ES-11/L.1). La richiesta che l’Assemblea Generale si riunisse in sessione speciale è stata avanzata dal Consiglio proprio in conseguenza dell’apposizione del veto russo in seno ad esso, veto che la Federazione Russa non può apporre invece nelle delibere assembleari che vengono adottate a maggioranza semplice o dei due terzi degli stati membri come nel caso – secondo quanto stabilito dal paragrafo 2 dell’art. 18 della Carta delle Nazioni Unite – delle raccomandazioni che riguardano il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale. La risoluzione è stata adottata con 141 voti a favore, 38 astenuti e 5 contrari ossia, oltre alla Russia, la Bielorussia, la Corea del Nord, la Siria e l’Eritrea.

Tra gli astenuti vi sono diversi paesi asiatici tra cui la Cina, coerente alla propria linea di non interferenza negli affari interni delle singole nazioni e alleato ideologico della Federazione Russa secondo il cosiddetto patto implicito del conferimento primario della prosperità che promette il benessere sociale collettivo in cambio del controllo politico e sociale della società. Così come la Cina anche l’India si è astenuta dal voto: come vedremo in seguito entrambe le nazioni nella quasi totalità delle successive delibere assembleari manterranno questo “non schieramento”.

La risoluzione del 2 marzo 2022 sull’aggressione russa all’Ucraina (fonte Dipartimento della Difesa)

Si ricorda che India e Russia hanno una partnership consolidata nel tempo che si fonda principalmente nella concessione di petrolio e di armi da parte della Federazione Russa anche se quest’ultima è ben consapevole che l’India mantiene dei margini di manovra anche con i paesi occidentali suoi oppositori. Tali relazioni economiche tra i due paesi si sono intensificate dallo scoppio della guerra in Ucraina, poiché per la Russia l’India rappresenta sia un’importante soluzione alternativa alle sanzioni occidentali che l’hanno portata a un pressoché totale isolamento economico che un limite all’espansionismo nell’area da parte della Cina. D’altra parte, l’India oltre a giovare del prezzo a ribasso del petrolio offerto dalla Russia – dalla quale dal 2% delle importazioni dallo scoppio del conflitto ha raggiunto oggi la soglia del 23% delle importazioni dell’oro nero – ambisce anche a un sostegno della Federazione Russa nell’ottenimento di un seggio permanente all’interno del Consiglio di Sicurezza. Non solo, l’importazione delle armi dalla Federazione Russa da parte dell’India risale all’inizio del regime sovietico ed è continuato anche dopo il suo crollo. Basti pensare che le stesse forze armate indiane sono di formazione sovietica e molti ufficiali del paese si sono formati nelle accademie dell’Impero comunista. Particolarmente rilevante è anche l’astensione di ben diciassette paesi africani emblema dell’impegno delle milizie di Wagner – nate nel 2013 con il nome di “Corpi Slavi” formalmente indipendenti ma finanziate e gestite dal Cremlino – che hanno operato oltre che in Siria e in Ucraina anche in molteplici paesi del continente africano da quasi un decennio, beneficiando come contropartita delle risorse del sottosuolo di tali paesi in particolare delle miniere di oro, di diamanti e di uranio, come nel caso del Sudan nel quale i mercenari di Wagner ancora presenti nel paese inizialmente offrirono sostegno al presidente Omar al-Bashir presidiando il confine con il Sud Sudan.

Lo schieramento dell’Asia in particolare (fonte Ispi).

Lo schieramento nel continente africano (fonte Ispi).

La seconda risoluzione e le conseguenze umanitarie

La seconda risoluzione dell’Assemblea Generale in sessione speciale è quella relativa alle conseguenze umanitarie causate dall’aggressione russadel 21 marzo 2022 (A/ES-11/L.2) avanzata dalla stessa Ucraina e appoggiata da altri novanta paesi membri sostenitori e adottata anche in questo caso con un un’ampia maggioranza ossia con 140 voti a favore mentre 38 sono stati i paesi membri che si sono astenuti e 5 ad aver votato contro. Con il termine conseguenze umanitarie l’Assemblea Generale fa riferimento più specificatamente all’assedio perpetrato dalla Federazione Russa in diverse città dell’Ucraina nonché ai bombardamenti che non solo hanno colpito civili ma anche strutture pubbliche come scuole e ospedali nonché infrastrutture idriche e igienico-sanitarie. Inoltre, nella risoluzione la Federazione Russa – considerate le conseguenze umanitarie già causate – viene richiamata al rispetto di puntuali prescrizioni per il futuro, come la tutela dei civili e la protezione di quelli in fuga, compresi gli stranieri, dei beni essenziali per la loro sopravvivenza e infine di porre fine agli assedi nelle città ucraine. Alla Russia viene chiesto inoltre il rispetto del diritto internazionale umanitario compresa la Convenzione di Ginevra e il suo protocollo addizionale. Allo stesso tempo gli altri stati membri vengono invitati a finanziare gli aiuti umanitari delle Nazioni Unite in Ucraina e a incoraggiare i negoziati attraverso la mediazione e il dialogo politico.

Il rappresentante russo presso l’Assemblea delle Nazioni Unite ha definito tale risoluzione “una manipolazione umanitaria” e ha richiamato in modo provocatorio l’intervento armato della Nato nella Repubblica federale di Jugoslavia con l’inizio – il 24 marzo del 1999 – dell’Operazione Allied Force rispetto alla quale il Consiglio di Sicurezza aveva espresso il proprio voto contrario.

Fuori dal Consiglio dei Diritti umani e le conseguenze effettive

La successiva risoluzione dell’Assemblea Generale in sessione speciale è quella che ha disposto la sospensione della Russia dal Consiglio dei Diritti umani. Questa, adottata con la maggioranza dei due terzi dei votanti, è intervenuta in seguito all’emersione di foto che ritraevano nella città di Bucha innumerevoli corpi di civili morti abbandonati lungo le strade e la presenza di fosse comuni. La Russia, a parte la Libia – in conseguenza della repressione delle proteste nel 2011 da parte di Gheddafi poi “destituito” – è l’unico paese nella storia a essere stato sospeso dal Consiglio dei Diritti umani delle Nazioni Unite, dopo essere stata eletta soltanto l’anno precedente proprio dall’Assemblea Generale con un mandato di tre anni. Ciò che tuttavia non può essere ignorato è che tale risoluzione ha registrato un numero di voti a favore nettamente inferiore rispetto alle due precedenti risoluzioni assembleari. I voti a favore in tale circostanza sono stati infatti 93 a fronte dei circa 140 voti delle altre risoluzioni e non è un caso poiché questa è di fatto la prima delibera dell’Assemblea Generale a implicare con la sua adozione conseguenze effettive nei confronti della Federazione Russa.

Il 16 settembre 2022 la Russia viene sospesa dalla Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo.

Il dibattito formale dopo l’esercizio del diritto di veto

L’ulteriore risoluzione dell’Assemblea Generale mandato permanente per un dibattito dell’Assemblea Generale in caso di veto del Consiglio di Sicurezza” del 26 aprile 2022 (A/ 77/L.52) – adottata senza votazione – è stata definita invece storica in quanto ha affrontato nuovamente la questione del diritto di veto ma in modo del tutto innovativo.  L’Assemblea Generale infatti con tale risoluzione ha stabilito che il proprio personale convochi una riunione formale dell’organo assembleare, composto da tutti i paesi membri delle Nazioni Unite, entro 10 giorni dalla data dell’apposizione del diritto di veto da parte di uno o più membri del Consiglio di Sicurezza, nella quale si discuta sulla situazione per la quale è stato posto il veto sempre purché essa non si riunisca in seduta straordinaria d’urgenza sulla medesima questione. L’Assemblea Generale ha proseguito con l’invito rivolto al Consiglio di Sicurezza a presentare un rapporto speciale dell’uso del veto – qualora venga apposto in seno a esso – almeno 72 ore prima che la discussione abbia inizio. Il testo della risoluzione è stato proposto dal Lichtestein e sponsorizzato da 83 paesi membri tra cui tre membri permanenti più specificatamente Francia, Regno Unito e Stati Uniti.

La proposta francese di sospensione del diritto di veto

La Federazione Russa ha espresso contrarietà rispetto a tale delibera assembleare adottata senza votazione in quando secondo la sua opinione l’apposizione in seno al Consiglio di Sicurezza del veto è ancora utilizzata come extrema ratio. Interessante la posizione di un altro membro permanente rispetto a tale risoluzione, la Francia che, dopo aver sottolineato di aver utilizzato il veto “soltanto” 18 volte dal 1945 e di non averlo apposto per più di tre anni, ha precisato tuttavia che  l’Assemblea in questo modo diverrebbe il giudice del Consiglio di Sicurezza e dei suoi membri richiamando ancora una volta invece l’opportunità dell’adozione della propria proposta di riforma rispetto all’uso del veto secondo la quale esso dovrebbe essere sospeso da parte di ogni membro permanente del Consiglio di Sicurezza nelle ipotesi di atrocità di massa, genocidio, crimini di guerra e crimini contro l’umanità. Di estrema importanza è poi la risoluzione assembleare del 12 ottobre 2022 (A/ES-11-4) di condanna della Russia per i referendum nel Donbass rubricata come risoluzione “sull’integrità territoriale dell’Ucraina in difesa dei principi della Carta delle Nazioni Unite” adottata con il voto favorevole di 143 paesi membri.

Nel testo della risoluzione vengono richiamate le prime due risoluzioni dell’Assemblea Generale sul conflitto in Ucraina – già analizzate in precedenza – sottolineando la salvaguardia dell’integrità territoriale di ogni stato secondo il diritto internazionale per cui deve considerarsi illegale qualsiasi acquisizione territoriale di uno stato nei confronti di un altro che si sia determinata mediante la minaccia o l’uso della forza armata. Il riferimento in concreto è ovviamente quanto avvenuto con i referendum indetti dalla Federazione Russa di annessione degli oblast‘ di Donetsk, Luhansk, Kherson e Zaporizhzhia aventi esito positivo come dichiarato dalla Russia il 29 settembre 2022 e in conseguenza dei quali – con atti esecutivi della Federazione Russa – sono stati dichiarati indipendenti i territori ucraini di Zaporizhzhia e Kherson. Tali referendum si sarebbero tuttavia svolti non solo con l’intimidazione nei confronti dei civili da parte delle autorità nominate in modo illegittimo dalla Russia nei territori occupati, ma anche in condizioni non idonee a garantire una partecipazione democratica al voto tali da integrare la piena violazione del diritto internazionale in materia. La risoluzione adottata richiama inoltre le vicende storiche antecedenti che hanno interessato la Russia e l’Ucraina ossia gli scontri nel Donbass tra il 2014 e il 2015 tra l’esercito ucraino e i cittadini ucraini insorti per il rifiuto nel 2013 da parte dell’allora presidente ucraino di dar seguito ai patti di libero scambio con l’Unione Europea. Scontri nei quali si era inserita la Federazione Russa con il tentativo di ripristinare il controllo su alcune porzioni del territorio ucraino e ai quali era seguita la proclamazione unilaterale delle Repubbliche popolari di Donetsk e di Lugansk nel Donbass. Con l’accordo di Minsk del 2015 – mai attuato in concreto – sottoscritto da Russia, Ucraina e Germania veniva tuttavia sancito il cessate il fuoco, la liberazione di prigionieri e l’impegno dell’Ucraina a riformare la propria costituzione garantendo piena autonomia alle Repubbliche separatiste, che però continuavano a essere parte del territorio dell’Ucraina e sottoposte alla sua autorità, nonché il ritiro di forze armate e di veicoli militari stranieri.

Con tale risoluzione dunque vengono dichiarati illegali e invalidi i suddetti referendum per cui si invitano tutti gli stati della comunità internazionale, le agenzie delle Nazioni Unite e tutte le organizzazioni internazionali a disconoscere quanto proclamato dal Cremlino il 29 settembre 2022 in quanto tali referendum non hanno determinato alcuna variazione del territorio ucraino.

Vale la pena ricordare che il 16 settembre 2022, prima della dichiarazione del Capo del Cremlino sull’esito dei referendum, la Russia cessava di essere parte della Convenzione europea per i Diritti dell’Uomo così come stabilito dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa.

Il meccanismo di risarcimento

In una successiva sessione speciale più specificatamente il 14 novembre 2022 l’Assemblea Generale ha invece adottato una risoluzione con la quale ha raccomandato l’istituzione di un meccanismo di riparazione dei danni causati dalla Federazione Russa con la guerra in Ucraina e l’istituzione di un registro internazionale dei medesimi finalizzato ad archiviare prove e documenti a supporto delle richieste di risarcimento da parte ucraina. L’obbligo di riparazione avrebbe a oggetto oltre gli ingenti danni anche le perdite e le lesioni causate a persone fisiche e giuridiche nonché allo stato ucraino più in generale. Con la risoluzione inoltre viene chiesto alla Russia non solo di provvedere al pagamento dei danni ma anche di interrompere le operazioni militari e ritirare le proprie truppe in Ucraina. La risoluzione è stata adottata anche in questo caso con un numero di voti più ristretto delle iniziali delibere assembleari specificatamente con 94 voti a favore e circa 73 astenuti.

Il mancato schieramento di un numero così elevato di paesi membri è l’emblema della difficoltà della comunità internazionale a essere maggiormente schierata e coesa quando la votazione sulle risoluzioni dell’Assemblea Generale implichi delle conseguenze di fatto o di diritto rispetto alla Russia.

In tale ipotesi infatti è chiaro che la votazione a favore della suddetta risoluzione significhi indirettamente ammettere la responsabilità della Federazione Russa per le violazioni del diritto internazionale e umanitario integrate con l’invasione del territorio ucraino dalle quali appunto discenderebbe l’obbligo di riparazione dei danni.

Tuttavia il giorno precedente la ricorrenza di un anno dall’invasione russa dell’Ucraina l’Assemblea Generale è intervenuta con la risoluzione del 23 febbraio 2023 sul ritiro immediato della Russia dal territorio dell’Ucraina. Essa, più nel dettaglio, contiene nel testo la richiesta di una pace corretta, giusta e duratura in Ucraina, della cessazione delle ostilità, il ritiro immediato delle forze militari russe dal territorio ucraino oltre al riconoscimento della sovranità, dell’unità e dell’integrità dell’Ucraina. La risoluzione è stata adottata con 141 voti a favore 32 astenuti tra cui India e Cina – per cui valgono le precedenti considerazioni in merito agli interessi geopolitici ed economici dei due paesi con la Russia – e 7 voti contrari, ossia oltre la Russia, la Bielorussia, la Corea del Nord, l’Eritrea e il Mali. Rispetto a quest’ultimo paese si rileva che qui sono fortemente presenti i mercenari appartenenti al gruppo di Wagner mediante un accordo con la giunta golpista di Bamako.

La cooperazione rafforzata

Infine, ad aprile di quest’anno vanno menzionate due attività particolarmente rilevanti dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. In primo luogo, si registra a un anno di distanza dalla storica risoluzione precedentemente analizzata sul diritto di veto, adottata senza votazione da parte dell’Assemblea Generale, che i paesi membri delle Nazioni Unite si sono nuovamente incontrati in seduta assembleare per discutere sull’uso del diritto di veto all’interno del Consiglio di Sicurezza e su come intervenire affinché l’Organizzazione delle Nazioni Unite sia più efficiente.

In secondo luogo, l’Assemblea Generale ha adottato una rilevante risoluzione rubricata come “Cooperazione tra le Nazioni Unite e le organizzazioni regionali e altre organizzazioni: la cooperazione tra le Nazioni Unite e il Consiglio d’Europa” proposta da 48 stati membri tra cui la stessa Ucraina. Significativo quanto enunciato nel testo della risoluzione nel quale viene fatto riferimento alle sfide che l’Europa si trova oggi ad «affrontare dopo l’aggressione della Federazione Russa contro l’Ucraina e prima ancora contro la Georgia» in considerazione anche della cessazione dell’appartenenza della Federazione Russa al Consiglio d’Europa che «richiedono una cooperazione rafforzata tra le Nazioni Unite e il Consiglio d’Europa in particolare al fine di ripristinare e mantenere tempestivamente la pace […]». La risoluzione è di straordinaria importanza non tanto per il numero dei voti a favore con la quale è stata adottata ossia 122 paesi su 145 paesi votanti, ma perché

per la prima volta tra questi si annoverano Cina e India che approvando il testo della risoluzione hanno ammesso ufficialmente l’aggressione della Russia nei confronti dell’Ucraina che implica la violazione dell’integrità territoriale e dell’indipendenza politica di quest’ultima.

In conclusione tutte le dinamiche dell’Assemblea Generale finora analizzate si sono inserite in modo poliedrico nella stasi del Consiglio di Sicurezza accrescendo inevitabilmente l’importanza del ruolo di tale organo nel mantenimento della pace e della sicurezza internazionale non solo poiché le votazioni delle risoluzioni in seno a esso sono divenute l’unica cartina al tornasole delle mutevoli posizioni dei paesi membri delle Nazioni Unite nello scacchiere internazionale rispetto alla guerra russo-ucraina ma anche poiché probabilmente le stesse discussioni assembleari porteranno a una riconsiderazione del diritto di veto come è avvenuto con la succitata storica risoluzione dell’Assemblea Generale del 26 Aprile del 2022 che ha perfezionato quella prima breccia nella Carta delle Nazioni Unite operata oltre settant’anni fa (!) dalla risoluzione “Uniting for Peace” nell’immobilismo del Consiglio di Sicurezza durante la Guerra Fredda.

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Africa Day: le sfide anticoloniali sono sempre attuali https://ogzero.org/africa-day-le-sfide-anticoloniali-sono-sempre-attuali/ Thu, 25 May 2023 21:40:42 +0000 https://ogzero.org/?p=11124 Se il buongiorno dell’Africa Day si vede dal mattino, lo schianto del Freetown Cotton Tree, albero simbolo della libertà dallo schiavismo, proprio quando sta per sorgere l’alba del sessantesimo anno dell’Unione Africana non è di buon auspicio… e si va ad aggiungere ai molti conflitti sparsi un po’ in ogni area continentale. Eppure l’Africa è […]

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Se il buongiorno dell’Africa Day si vede dal mattino, lo schianto del Freetown Cotton Tree, albero simbolo della libertà dallo schiavismo, proprio quando sta per sorgere l’alba del sessantesimo anno dell’Unione Africana non è di buon auspicio… e si va ad aggiungere ai molti conflitti sparsi un po’ in ogni area continentale.
Eppure l’Africa è al centro di ogni affare (Descalzi incontra Nguesso per inaugurare il “Congo Lng”), interesse (Kuleba incontra i leader dell’UA in vista di mediazione sulla guerra), ricchezza (Tshisekedi – nato nel 1963, come l’UA – si accorda sul cobalto con Xi)… queste solo alcune delle notizie odierne. In Ghana Gold Fields e AngloGold Ashanti si uniscono per creare la più grande miniera d’oro africana e contemporaneamente un tornado sradica l’albero della libertà… ci sarà una qualche correlazione?


Dopo il colonialismo… 60 anni di neocolonialismo

Le celebrazioni, in Africa, hanno sempre un valore simbolico. Ricche di retorica ma anche di auspici. Appartengono alla vita delle comunità e degli stati. Anche in questo giorno, in cui si celebra l’Africa Day, il continente si è mobilitato.
Oggi si ricordava la fondazione dell’Organizzazione dell’Unità africana (Oua), che avvenne il 25 maggio del 1963, sessant’anni fa. In alcuni paesi prende il sopravvento la retorica condita di anticolonialismo. In altri, invece, si guarda al futuro e alle sfide, che retoriche non sono, che attendono un continente provato dalla pandemia di Covid, dall’inflazione dei prezzi dei generi energetici e, soprattutto, alimentari dovuto alla situazione economica globale aggravata dalla guerra in Ucraina.

Le sfide del continente

Ma sono anche altre le sfide. Il terrorismo, per esempio, e tutt’altro che sconfitto anzi, dilaga in molti paesi come il Mali, Il Burkina Faso, che sembrano essere incapaci di farvi fronte nonostante i paesi siano stati squassati da colpi di stato. Dall’arrivo dei militari al potere la situazione, se possibile, si è ancora aggravata e nulla ha potuto la retorica anticoloniale, in particolare il sentimento antifrancese che pervade le popolazioni di questi due paesi, ma anche la simpatia, che è diventata rapporto strutturale con la Russia, che fornisce armi e mercenari della Compagnia Wagner. Tutto il Sahel è pervaso da una ondata jihadista senza precedenti, con le cancellerie internazionali preoccupate per la possibile saldatura con le organizzazioni criminali internazionali.  Cancellerie che, tuttavia, non sono state in grado di risolvere il problema perché hanno privilegiato l’intervento securitario – necessario – alla cooperazione allo sviluppo. Il terrorismo nel Sahel, così come in Somalia, si alimenta della povertà dilagante, dell’incapacità degli stati di far fronte ai bisogni della popolazione. Verrebbe da dire che l’arma più efficace per combattere i terroristi sarebbe mettere in campo riforme economiche e un welfare state degno di questo nome, così da togliere da sotto i piedi dei terroristi il loro terreno privilegiato, cioè la povertà. Lavoro non da poco.
Ma sono molte altre le sfide che attendono il continente, soprattutto economiche. L’intera Africa deve avere come faro la diversificazione economica, non può affidarsi, solo, alle materie prime, pur preziose per avere le risorse per creare un tessuto industriale manifatturiero. Significativo da questo punto di vista lo sbilanciamento delle relazioni con la Cina, il primo partner commerciale del continente. Nei primi quattro mesi del 2023 le esportazioni cinesi verso i paesi africani sono cresciute del 26,9%, mentre quelle dell’Africa verso la Cina sono diminuite dell’11,8%. Uno squilibrio evidente, aggravato dal fatto che Pechino esporta in Africa prodotti finiti – tessile, abbigliamento, macchinari, elettronica – mentre le esportazioni africane verso la Cina sono dominate da materie prime come petrolio greggio, rame, cobalto e minerale di ferro, di cui il Dragone ha estremamente bisogno. Proprio per queste ragioni il continente deve lavorare con più determinazione per la costruzione di un tessuto produttivo manifatturiero.
Questa, inoltre, è la grande sfida che attende l’Area di libero scambio continentale africana (Afcta) – entrata in vigore nel gennaio del 2021 – un mercato di 1,2 miliardi di persone e di un Pil combinato di circa 3,4 trilioni di dollari. Un’area commerciale che stenta a decollare per la mancanza di infrastrutture sicure, capaci di collegare gli stati ma soprattutto per la risibilità della manifattura africana. Tra i paesi del continente non possono circolare, solo, le materie prime, queste se le accaparrano le multinazionali e portano beneficio a pochi. L’Africa vive un paradosso: è ricca di risorse, ma, per fare un esempio, i due colossi nella produzione di petrolio in Africa subsahariana – Angola e Nigeria – importano circa l’80% del loro fabbisogno in carburante. Da non trascurare che le materie prime sono soggette alle oscillazioni dei mercati internazionali.
Altra sfida è quella dell’energia elettrica. Ancora nel 2023 milioni di africani rimangono al buio, e anche questo è un paradosso viste le potenzialità del continente: solare, idroelettrico, geotermico, eolico, energie pulite come l’idrogeno verde. Mettere a sistema tutto ciò darebbe un impulso al mercato unico e quindi a uno sviluppo sostenibile ma, soprattutto durabile.  Questione che solo un’organizzazione sovranazionale, come l’Unione Africana, può affrontare.

Oligarchie dinastiche senza fine…

Poi ci sono questioni puramente politiche. Lasciamo da parte i presidenti africani che durano in eterno senza produrre benefici per le popolazioni ma solo animati da bulimia di potere e, spesso, sostenuti dallo stesso occidente così attento allo stato di diritto. Il punto, per rimanere alle celebrazioni di oggi, sarebbe l’attribuzione di un ruolo da pari nei consessi internazionali all’Unione africana.

vs un seggio permanente all’Onu

Un’ipotesi che si sta materializzando e potrebbe diventare concreta: un seggio, per così dire, permanente, non solo da osservatore, come spesso è capitato nei vari G20 o G7 che siano, dove di volta in volta, veniva invitato qualche presidente africano o gli stessi esponenti dell’Unione africana. Così come soddisfare la richiesta dell’Unione africana di occupare un seggio permanente al Consiglio di sicurezza dell’Onu. Formalizzare e concretizzare una presenza “permanente” avrebbe il significato di trasformare il continente africano in potenza che decide, non più, dunque, con un ruolo subalterno che ogni volta negozia con questo o quello stato occidentale, ma protagonista del proprio futuro di fronte alle potenze internazionali. Tutto ciò sarebbe un cambio di paradigma perché porterebbe l’Africa a discutere, da pari, del proprio sviluppo sia economico sia politico e sociale, con l’occidente sviluppato.

Non è una cosa qualunque, sarebbe epocale.


Come epocale è l’espianto del Freetown Cotton Tree in questa data simbolica

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Cronache dalla terra del Quetzal https://ogzero.org/cronache-dalla-terra-del-quetzal/ Tue, 09 May 2023 23:18:54 +0000 https://ogzero.org/?p=11000 Si tratta di oblio – ed è possibile una rimozione collettiva così pesante, vista la quantità di lutti e soprattutto cenotafi che il regime di Rios Montt fece neanche tanti anni fa – oppure, come anche si evince dalla costituente cilena infarciti di arnesi della peggiore estrema destra, la politica non solo latinoamericana si costruisce […]

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Si tratta di oblio – ed è possibile una rimozione collettiva così pesante, vista la quantità di lutti e soprattutto cenotafi che il regime di Rios Montt fece neanche tanti anni fa – oppure, come anche si evince dalla costituente cilena infarciti di arnesi della peggiore estrema destra, la politica non solo latinoamericana si costruisce senza memoria storica e si fonda sull’immediato presente e le sue esigenze; un dibattito solo racchiuso nel recinto dei bisogni fissati dalla propaganda e dall’agenda imposta dal neoliberismo, che si basa sul costante e repentino ribaltamento degli orientamenti di una cittadinanza disorientata e resa sempre più omologata dal retrocedere delle grandi narrazioni, sostituite da populismi nazionalisti e corrotti, soprattutto laddove il degrado della democrazia è più palpabile e la libertà di espressione soffocata.
Diego Battistessa al termine di questo intervento su Radio Blackout (@rbo10525),
che inquadra l’oscillazione ondulatoria del consenso politico latinoamericano, segnala quel processo come travolgente per ogni paese chiamato alle urne in questo periodo e il flusso migratorio con il venir meno del Tituolo42 (e il Tren Maya) raggiungerà i confini del Guatemala, pronto a una tornata elettorale che non può essere persa dagli Usa in termini di contrasto alla immigrazione.

Ascolta “¿Desgaste de la izquierda en América Latina?” su Spreaker.


Temi e deliri securitari in mesoamerica

In questo periodo si parla molto nella stampa internazionale di America Centrale. Sulle prime pagine delle più note testate mondiali spicca l’immagine di un impavido Nayib Bukele che con pugno fermo (e sospendendo le libertà costituzionali) ferisce a morte le sanguinarie Maras diventando, come sancito dal sondaggio di Gallup a gennaio 2023, il politico più popolare dell’America Latina con un consenso del 92%. Segue la saga in Nicaragua di Daniel Ortega e della sua compagna Rosario Murillo, rispettivamente presidente e sua vice, che hanno oramai sequestrato il paese e che sono stati accusati il 6 marzo scorso (da un consiglio di esperti nominati dall’Onu) di crimini contro l’umanità; oltre che di una spietata e sistemica repressione del dissenso. Non mancano le prime pagine dei giornali neanche per Xiomara Castro, presidentessa dell’Honduras che da un lato prova a seguire le orme di Bukele nel delirio di securitarizzazione del paese e dall’altro prova a aprire degli spiragli per i diritti delle donne: l’8 marzo scorso Castro ha firmato il decreto legge 75-2023, che garantisce e promuove la libera diffusione, accesso, acquisto e vendita della Pillola anticoncezionale d’emergenza (Pae) in Honduras. Del Belize nemmanco si parla, ma questa non è una stranezza in quanto si tratta di un paese con una popolazione che non supera i 400.000 abitanti e che ha un passato coloniale diverso dal resto della regione: era infatti conosciuto come l’Honduras britannico ed è diventato indipendente solo nel 1981 – anche se continua a fare parte del Commonwealth e il suo capo di stato è il sovrano del Regno Unito, re Carlo III. Ma in questo “gran parlare” di America Centrale, che include anche Costa Rica e Panama soprattutto per i flussi migratori provenienti dal corridoio del Darién, “brilla” un grande assente: il Guatemala.

Si scrive Guatemala, si legge desaparición y migracion

Il Guatemala è un paese dal basso profilo eppure strategico per gli equilibri regionali, un paese che condivide una lunga frontiera con il Messico (quasi 1000 chilometri) e che possiede un oscuro passato e un futuro sempre più incerto. Tra poche settimane, il 25 giugno, infatti, nella terra nella quale nacque (triste primato) la parola desaparecido, si celebreranno le elezioni presidenziali, un appuntamento cruciale che riporta sulla scena i fantasmi della dittatura e del genocidio indigeno del Ventesimo secolo. Con tutti i desaparecidos che il periodo ha prodotto.

Questa pratica efferata nasce negli anni Sessanta in America Centrale, per mano delle forze militari. Un metodo repressivo, usato già nel 1932 nel Salvador dal regime di Hernández Martínez ma che trova la sua vera e propria genesi in Guatemala tra il 1963 e il 1966. Ana Lucrecia Molina Theissen, nel suo libro La desaparición forzada en America Latina (La sparizione forzata in America Latina) ci racconta che dopo il suo primo utilizzo massivo, la pratica si estese a macchia d’olio negli stati di El Salvador, Cile, Uruguay, Argentina, Brasile, Colombia, Perù, Honduras, Bolivia, Haiti e Messico.
Amnesty Internacional e Fedefam (Federación Latinoamericana de Asociaciones de Familiares de Detenidos-Desaparecidos) hanno denunciato che in poco più di 20 anni, dal 1966 al 1986, circa novantamila persone siano state vittima di questa orribile pratica in America Latina (che continua ancora oggi). Per i perpetratori è il delitto perfetto: se non si trova la vittima non c’è colpevole e quindi non c’è delitto. Una logica folle e inumana che ha seminato di morte, e continua a farlo, la regione latinoamericana.

Quei fantasmi tornano: tra i 23 candidati alla presidenza ammessi dal Tribunale supremo elettorale (Tse) del Guatemala si trova Zury Mayté Ríos Sosa.

Un nome che in Italia potrebbe non dire molto ma che ai chapines (soprannome colloquiale, oggi non dispregiativo, con il quale si identifica la gente del Guatemala) ricorda invece un periodo ben preciso della loro storia recente. La 55enne guatemalteca infatti (quattro volte consecutive eletta come deputata nel Congresso del Guatemala, dal 1996 al 2012)  non è una candidata qualunque, visto che è la figlia del militare e dittatore guatemalteco Efraín Ríos Montt, morto nel 2018. E nonostante esista una legge in Guatemala che esclude l’elezione a presidente per i consanguinei dei dittatori (articolo 186, comma C della Costituzione), il suo tramite burocratico è stata una pura formalità per il Tribunale supremo elettorale (Tse). In realtà Zury ci aveva già provato in precedenza, nel 2011 (anche se dopo aver avviato la campagna elettorale, non partecipò alle elezioni), nel 2015 e poi nel 2019, quando però una risoluzione della Corte Costituzionale (CC) la estromise dal processo elettorale proprio in base all’articolo 186.

Una campagna elettorale già partita con indizi di frode

Il Guatemala si avvicina a un processo elettorale dove non sono garantite le libertà costituzionali e dove la giustizia ha operato  come filtro per escludere possibili candidature alla presidenza che risultano scomode all’attuale dirigenza del paese centroamericano. Le elezioni sono previste per il prossimo 25 giugno e tra le candidature bocciate c’è quella di Thelma Cabrera, leader indigena maya Mam, attivista per la difesa dei diritti umani (già candidata alla presidenza nel 2019 dove ottenne il 4° posto con il 10,37 % dei voti), che si presentava in coppia con l’ex procuratore nazionale per i diritti umani, Jordán Rodas. Entrambi sono membri del partito politico di sinistra Movimento per la liberazione dei popoli (Mlp) e hanno già incontrato la Commissione interamericana per i diritti umani (Cidh) a Washington per denunciare questa situazione. Proprio la Cidh ha diffuso un comunicato in merito, nel quale invita lo Stato guatemalteco «a garantire i diritti politici, il pluralismo e la pari partecipazione al processo elettorale», sottolineando come le autorità giudiziarie competenti debbano agire in conformità con il quadro normativo e gli standard interamericani. Anche Human Rights Watch, congiuntamente al Washington Office on Latin America, ha lanciato un allarme, avvertendo che la decisione del Tse del Guatemala di impedire la partecipazione di alcuni candidati alle elezioni presidenziali di giugno 2023 si basa su motivi dubbi, mette a rischio i diritti politici e mina la credibilità del processo elettorale nella sua totalità. Il caso del binomio Thelma Cabrera – Jordán Rodas è arrivato anche al parlamento europeo, dove la coppia il 21 marzo ha potuto esporre le proprie ragioni e denunciare l’abuso del Tse, che ha determinato la loro esclusione, ottenendo l’appoggio di vari eurodeputati. Cabrera e Rodas non sono però i soli. A fare scalpore è anche l’esclusione dall’arena elettorale di Roberto Arzú, imprenditore e uno dei candidati della destra, colpevole, secondo il Tse, di aver violato le regole che vietano di iniziare la campagna elettorale prima della data ufficiale prevista, in questo caso il 27 marzo scorso.

Il retrocesso democratico del Guatemala

«Il presidente Alejandro Giammattei e i suoi alleati hanno velocizzato e reso ancora più profondo il deterioramento della democrazia in Guatemala, in un evidente sforzo congiunto per mantenere l’impunità rispetto alla diffusa corruzione ad alti livelli dello stato. Le autorità, agendo spesso in coordinamento con alcuni uomini d’affari, hanno minato lo stato di diritto e indebolito le garanzie sui diritti umani. L’ufficio del procuratore generale ha bloccato le indagini sulla corruzione e le violazioni dei diritti umani e ha avviato procedimenti arbitrari contro giornalisti, pubblici ministeri e giudici indipendenti. Giornalisti e difensori dei diritti umani continuano a subire vessazioni e violenze. Gli abusi contro i migranti, la scarsa protezione delle persone lgbtqi e gli alti livelli di povertà, soprattutto nelle comunità indigene, continuano a destare seria preoccupazione».

Quanto avete appena letto è il paragrafo d’inizio della scheda paese di Human Rights Watch, un quadro disarmante rispetto alle libertà civili e allo stato di salute della democrazia nel paese centroamericano. Un paese dove 3 degli ultimi 7 presidenti hanno avuto gravi problemi con la giustizia: Alfonso Portillo (2000-2004), detenuto negli Stati Uniti, Álvaro Colom (2008-2012) arrestato e imprigionato nel 2018 per la sua presunta relazione con un caso di frode e appropriazione indebita (morto il 23 gennaio di quest’anno) e Otto Pérez Molina (2012-2015), condannato a 16 anni di carcere nel 2022 per associazione illecita e frode doganale. Un degrado, quello della democrazia in Guatemala, che  è dimostrato anche da diversi indicatori che danno conto di una situazione al collasso. Oltre alle ingerenze nel processo elettorale del Tse, i dati di Trasparency International sulla percezione della  situazione della corruzione nel paese sono in peggioramento (il Guatemala si trova al 150esimo posto su 180 paesi). Anche il dossier sulla libertà di stampa a livello mondiale del 2022 di Reporter senza Frontiere aiuta a delineare il quadro di una situazione molto precaria. Infatti anche in questa classifica il Guatemala si trova in una pessima posizione (124esimo posto). Nel documento si sottolinea che, nonostante la libertà di espressione sia garantita dalla Costituzione, questo diritto è costantemente violato dalle autorità e dagli attori politici. I giornalisti e gli organi di stampa che indagano o criticano atti di corruzione e violazioni dei diritti umani spesso subiscono rappresaglie, come campagne di discredito e procedimenti penali.

Il pericolo di essere periodista

Questo però non ha frenato la stampa indipendente che in Guatemala come in tutta l’America centrale, vede grandi professionisti e professioniste rischiare la propria integrità fisica per mantenere viva la libertà di stampa. E uno degli esponenti di questo giornalismo coraggioso e implacabile è sicuramente Marvin Del Cid (che ho avuto il privilegio di conoscere ad aprile di quest’anno nel mio ultimo viaggio in Guatemala) che insieme a Sonny Figueroa ha pubblicato nel 2021 un libro che è già “cult”. Si tratta di ¡Yo no quiero ser reconocido como un hijueputa más! (Io non voglio essere riconosciuto come un altro figlio di puttana) un titolo che è tutta una provocazione e che cita testualmente quanto pronunciato da Alejandro Giammattei, in un discorso elettorale nel 2019. Un documento letterario che racchiude 15 reportage di giornalismo d’inchiesta pubblicati sui giornali digitali “Artículo 35” e “Vox Populi” e che passano ai raggi X quelli che furono i primi 12 mesi della gestione Giammattei. Due giornali che sono il riferimento di quanti vogliono vedere chiaro nei meandri di un paese storicamente in mano a poche famiglie (oscenamente ricche come le famiglie Gutiérrez Bosch, Castillo, Herrera, Paiz, Novella e López Estrada), che hanno il potere di muovere i fili della politica e dell’economia nazionale.

Come siamo arrivati a questo punto: un viaggio nella memoria

Per raccontare come in una terra così ricca di storia e cultura come il Guatemala, siamo arrivati a una deriva (senza ritorno?) come quella di oggi prendo in prestito le parole, quasi poetiche e premonitorie, che il professore cubano di storia, René Villaboy Zaldivar, scrisse nel dicembre 2019 e che potete trovare qui o a pagina 172 del libro Historia e Cultura de la Madre América:

«Il Guatemala, noto come la terra del Quetzal, mostra attualmente tassi allarmanti di povertà, disuguaglianza sociale, malnutrizione infantile e un’impressionante convivenza con la violenza e la criminalità organizzata. Le tante risorse naturali del paese vengono divorate dai proprietari terrieri locali, dalle compagnie straniere che costruiscono centrali idroelettriche, lasciando le comunità senz’acqua e uccidendo la ricca biodiversità, e il tutto con la complicità o l’ammissibilità di uno Stato corroso dalla corruzione in tutti i suoi poteri. e livelli.
Paese che ha ospitato la grande civiltà maya, patria di Miguel Ángel Asturias, Premio Nobel per la Letteratura, e Rigoberta Menchú, Premio Nobel per la Pace, la sua triste realtà attuale, contrasta con gli ideali che hanno spinto una parte dei suoi figli a imbracciare le armi per costruire un paese diverso . Dal 1979, sotto l’impatto diretto della vittoria del Fronte Sandinista in Nicaragua, la guerriglia è stata riorganizzata in Guatemala e fino al 1996 questo è stato il cammino di un gruppo di organizzazioni progressiste per cercare di trasformare l’ingiustizia sociale che prevaleva allora e continua a prevalere in questa nazione dolente. Durante tutti questi anni, le forze repressive dell’Esercito e dei suoi gruppi paramilitari hanno commesso ogni tipo di violazione dei diritti umani e massacri contro la popolazione civile, che consideravano il principale sostegno della guerriglia».

Ma Villaboy ci porta ancora più indietro perché il Guatemala è stato uno dei primi esperimenti delle politiche intervenzioniste degli Usa in America Latina.  La cosiddetta Dichiarazione di Caracas” (Decima Conferenza interamericana, Caracas del 1954) che avvenne in Venezuela nel contesto della dittatura di Marcos Pérez Jiménez (1953-1958), inventata a contenimento della presunta minaccia comunista sull’integrità politica degli stati americani, è infatti un chiaro esempio di come il postulato della lotta contro il comunismo locale e internazionale nel contesto della “guerra fredda” portò a un avvicinamento degli Stati Uniti ai populismi militari dell’epoca con una politica di intervenzionismo feroce e sanguinario a protezioni di precisi interessi, come quello della United Fruit Company.

Stralci della dichiarazione

Considerando che le repubbliche americane, alla IX Conferenza internazionale americana, dichiararono che il comunismo internazionale,
per la sua natura antidemocratica e per la sua tendenza interventista, è incompatibile con la concezione della libertà americana,
e decisero di adottare, nei rispettivi territori, le misure necessarie per sradicare e prevenire le attività sovversive;

Condanna le attività del movimento comunista internazionale, in quanto costituenti un intervento negli affari americani;
Esprimere la determinazione degli Stati d’America a prendere le misure necessarie per proteggere la loro indipendenza politica
contro l’intervento del comunismo internazionale, che agisce nell’interesse di un dispotismo straniero
.

Continua Villaboy spiegando che «dalla cosiddetta Rivoluzione d’Ottobre del 1944, interrotta dall’intervento diretto degli Stati Uniti nel 1954, dopo il rovesciamento del presidente Jacobo Arbenz, il Guatemala cadde nelle mani di persone prive della volontà di attuare veri cambiamenti per risolvere la grave crisi economica che il paese centroamericano viveva. In un contesto di stimolo alle lotte rivoluzionarie con mezzi armati, alla fine degli anni Settanta le principali organizzazioni di guerriglia che si erano formate ispirandosi prima dalla Rivoluzione cubana, e poi dalla vittoria sandinista, raggiunsero una maggiore organizzazione militare e politica».

Gli anni di repressione violenta

Cominciarono così gli anni di violenza che scatenarono una guerra all’ultimo sangue dell’Esercito contro il movimento rivoluzionario locale. I numerosi omicidi di leader sociali e il brutale assalto all’ambasciata spagnola (31 gennaio 1980), dove si rifugiarono contadini e indigeni quiches, la maggior parte dei quali furono bruciati vivi, furono segni della decisione del governo e delle sue forze armate di mantenere l’ordine stabilito dalle classi dirigenti.
Le Forze Armate Ribelli (Far), l’Esercito Guerriglia dei Poveri (Egp), l’Organizzazione del Popolo in Armi (Orpa) e una parte del Partito Laburista Guatemalteco (Pgt) diedero vita all’Urng nel febbraio 1982. Allo stesso tempo, venne strutturato il Comitato guatemalteco di unità patriottica (Cgup), che riunì personalità politiche e sociali di spicco che erano sostenitori della lotta armata. Poche settimane dopo un colpo di stato insediò il generale Efraín Ríos Montt, che riorientò l’esercito verso un profilo più repressivo e controinsurrezionale, integrato da mostruosità paramilitari come pattuglie civili e i cosiddetti “villaggi strategici”. I massacri contro le popolazioni indigene divennero una pratica frequente dei militari e del suo corpo d’élite, i kaibiles. Il ripristino della democrazia nel gennaio 1986, con l’elezione di Vinicio Cerezo, cercò di limitare gli eccessi dell’Esercito, in un impegno assecondato anche dai suoi successori, Jorge Serrano Elías e Ramiro León Carpio, mentre però il conflitto armato continuava.
Ecco dunque che nel racconto di René Villaboy Zaldivar appare uno dei protagonisti indiretti del processo elettorale del prossimo 25 giugno, quell’ Efraín Ríos Montt che oggi vede sua figlia tra le favorite (la quarta negli ultimi sondaggi) alla guida del Guatemala.

Il viaggio nella memoria del Guatemala, del professore di Storia cubano, termina con «l’ascesa al potere del magnate Álvaro Arzú, che nel 1996, mise sul tavolo il negoziato di pace con le principali forze della guerriglia, in un contesto in cui il vero socialismo era scomparso e Cuba resisteva alle devastazioni del cosiddetto “Periodo Speciale”. In questo modo, con il sostegno dell’Onu e di paesi come la Norvegia e il Messico, si arrivò alla firma della pace. Il 29 dicembre 1996 si conclusero lunghi anni di conflitto armato con un bilancio stimato di oltre 150.000 morti e 50.000 dispersi».

Importanza strategica del Guatemala in vista delle elezioni

Il solo fatto che Zury Rios sia stata ammessa come candidata per le elezioni presidenziali che si decideranno a giugno è un chiaro segnale dei gravi problemi che attraversa la democrazia guatemalteca. Una donna espressione di un sistema elitista che continua a discriminare e disprezzare la radice indigena di questa terra millenaria ricca di conoscenza e saperi ancestrali. La violenza continua a essere presente, così come l’impunità e la corruzione: le estorsioni alle imprese sono all’ordine del giorno così come denunciato da “Deutsche Welle” in questo articolo. I traffici di influenza sono all’ordine del giorno, come denunciato per esempio da “Vox Populi” che segnala una triangolazione sospetta proprio tra Rios, il suo partito Valor e membri del Tse. Il Guatemala ha già dimostrato di essere un paese strategico per gli Stati Uniti che devono provare a fermare il prossimo (e già preannunciato) enorme flusso migratorio in arrivo alla frontiera Sud (lungo il Rio Grande). L’11 maggio è infatti prevista la sospensione definitiva del titolo 42 da parte dell’amministrazione Biden (norma eredità della presidenza Trump che permetteva per motivi sanitari l’espulsione immediata dei migranti dagli Usa) e ci sarà bisogno per lo ZIO SAM, oltre alla “collaborazione” del Messico anche di quella del Guatemala per far diventare quei 1000 chilometri di frontiera un primo grande muro per fermare chi cerca l’American Dream. Da parte nostra è fondamentale rimanere informati e non lasciare sole quelle persone, tante, che credono ancora in una Guatemala migliore. Dall’Italia, una delle figure più preparate e rigorose che apre delle finestre su questa complessa e affascinante terra è sicuramente la giornalista Simona Carnino. (proprio ora in Guatemala), che vi invito a seguire. Nel frattempo, mentre aspettiamo il verdetto delle urne non possiamo non essere d’accordo con la considerazione di Villaboy che constata come

«i proiettili non si sono fermati nella terra del Quetzal, perché i proiettili dell’insicurezza, della mancanza di opportunità e della disuguaglianza continuano a privare centinaia di guatemaltechi della vita».

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La guerra birmana esplode al Casinò e uccide a Sagaing https://ogzero.org/la-guerra-birmana-esplode-al-casino-e-uccide-a-sagaing/ Wed, 03 May 2023 21:01:19 +0000 https://ogzero.org/?p=10898 Con il Myanmar OGzero ha un legame particolare fin dallo Studium collegato a Burma Blue, il libro dedicato da Max Morello al paese. Claudio Canal ha scritto un articolo interessante pubblicato su “Volere la Luna“, da dove lo recuperiamo corredato di un’integrazione: un podcast registrato da Radio Blackout con Emanuele Giordana, appena tornato dal confine […]

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Con il Myanmar OGzero ha un legame particolare fin dallo Studium collegato a Burma Blue, il libro dedicato da Max Morello al paese. Claudio Canal ha scritto un articolo interessante pubblicato su “Volere la Luna“, da dove lo recuperiamo corredato di un’integrazione: un podcast registrato da Radio Blackout con Emanuele Giordana, appena tornato dal confine birmano-thailandese. Le due testimonianze si compenetrano perfettamente nella descrizione informata degli eventi e nella analisi socio-culturale delle comunità coinvolte e degli interessi stranieri sul territorio, le esigenze del riciclaggio e dei traffici, che si combinano con la militarizzazione della società a cominciare dal controllo economico da parte degli eserciti.
Il ministro degli esteri cinese Qin Gang è giunto il 3 maggio in Myanmar, avvicinandosi alla riunione dei ministri della Shanghai cooperation organization, chiedendo anche lì di «mantenere confini chiari e stabili», le stesse parole usate da Xi entrando in medias res belliche; in questo caso mettendo in guardia da una “ricaduta” dell’escalation di violenza nel paese del Sudest asiatico e «reprimere la criminalità transfrontaliera» (Scmp, 3 maggio 2023). Il fatto che abbia
 sottolineato l’importanza di mantenere la stabilità nella regione e di promuovere una “cooperazione amichevole” tra i paesi confinanti risulta comprensibile dalla lettura e dall’ascolto di questi due contributi che vi proponiamo.


I can(n)oni di guerra sembrano lontani se tuonano in Myanmar

C’è una guerra in Europa, ci fa paura e ci divide in opposte tifoserie. Ci sono altre guerre nel mondo, non incutono timore perché ci sono ignote o perché ci abbiamo fatto il callo. Siccome l’arte della guerra gode di uno straordinario successo tra gli esseri umani, pensiamo di riconoscerla ovunque. C’è un paese in Asia, tra i più ricchi di risorse e dotato di una crudele bellezza, la Birmania-Myanmar, in cui è in corso una guerra che interpreta fedelmente i canoni dei manuali novecenteschi: eserciti schierati, bombardamenti aerei, artiglieria, guerriglia.

«Ma è così da più di settant’anni!» afferma chi conosce un po’ la storia di questo paese. Infatti, dal momento dell’indipendenza dal colonialismo britannico nel 1947, quando ci si prepara a inventare la nazione, una parte consistente degli abitanti delle Aree di Frontiera, escogitate e così marchiate dagli inglesi, si oppone senza tentennamenti. Le Aree sono refrattarie al progetto politico che la cultura maggioritaria – i Bamar/Bramar/Birmani, principalmente buddhisti  intende realizzare costituendosi come centro egemone di una nazione mai esistita prima, birmanizzando e, in qualche modo, buddhizzando tutto il resto.

Tradizionali guerre per i soliti traffici “etnici” vs. l’“esercito” del potere

Prendono così avvio le interminabili guerre e subguerre che hanno straziato fino a oggi la Birmania e reso l’esercito birmano, il Tatmadaw, un apparato estremamente distruttivo e la più importante potenza economica del paese, senza che sia mai riuscito a vincere una delle guerre che le forze armate locali gli hanno mosso e che mai si sia confrontato con un nemico esterno. Una forma molto originale di esercizio del potere: la guerra come istituzione costituente, la guerra per la guerra, la “guerra civile permanente”, diremmo noi in Europa. Alcune delle formazioni politiche e militari che combattono il potere centrale lo fanno per salvaguardare la loro diversità culturale, linguistica, religiosa; altre per non perdere gli incassi dalla produzione e coltivazione di metanfetamine, oppio, giada, legno pregiato; altre ancora per entrambe le ragioni. Forse perché non riescono più a immaginarsi a fare altro. Un paese dunque predisposto come poligono di tiro diffuso e residence per dittature militari da cui, nei recenti e limitati anni di democrazia approssimativa, sperava di disintossicarsi.

Le efferatezze di Tatmadaw, coacervo di sangue, narcos e crypto-crony capitalism

Un esercito che si identifica con lo stato, sacralizzato da una storia mitica di eroi guerrieri, «impregnato di crony capitalism cronico», una delle tante “apparizioni” del capitalismo, quello della solida rete di compari e amici degli amici attestati nei gangli economici e finanziari. È un impianto sociale di corruzione generalizzata, costruito sul rapporto servo-padrone, sulla impunità garantita, incapace e non particolarmente interessato a costruire l’unificazione dall’alto del paese mediando tra le molteplicità. Nonostante la sua smisurata forza, gli appoggi e gli armamenti ricevuti da Russia e Cina, a tutt’oggi controlla, a esser larghi, la metà del paese. Un esercito così conformato non impiega solo la mascolina brutalità, ma amministra leve materiali e simboliche che gli consentono di non intimorirsi troppo e perfino di esercitare ancora una egemonia culturale debilitata ma non moribonda.

Tradizionali appoggi monastici in periodi di magre elemosine

La manforte la riceve dal sangha, la numerosissima e autorevole comunità monacale buddhista, di scuola Theravada come altri buddhismi del Sudest asiatico, che si compiace del ruolo di avanguardia politica svolto dai monaci durante la lotta anticoloniale contro gli inglesi nella prima metà del Novecento e della loro a tutt’oggi capillare presenza tra la popolazioneMezza comunità è dedita allo studio e alla meditazione, in attesa di tempi migliori; un quarto è dichiaratamente antiregime; il resto è un segmento militante molto eccitato che ha assunto da diversi anni una posizione ultranazionalista, xenofoba, razzista e di conseguenza entusiasta sostenitrice e istigatrice della giunta militare. Nessuna novità, verrebbe da dire, tutto già visto in Birmania. E non solo lì.

Uno dei territori in cui lo scontro è più rabbioso è la zona centrale del paese, in particolare la regione Sagaing, grande quanto l’Italia Settentrionale. Cioè il cuore culturale e storico della Birmania. Abitato da una popolazione in stragrande maggioranza buddhista, partecipe di un ordine simbolico che fino a non molto tempo fa guidava la birmanizzazione forzata del paese. È la prima volta dal dopoguerra e questa innovazione trasforma in modo radicale la geometria politica nazionale che diventa centro contro centro e non solo centro contro periferia. Una parte dell’insurrezione è condotta dal People’s Defence Force (Pdf), braccio armato del National Unity Government (Nug), il governo in esilio o governo ombra che cerca il riconoscimento internazionale e, soprattutto, l’alleanza con le forze politiche e gli eserciti delle Aree di frontieraNon è detto che ci riesca in tempi brevi, ma il progetto è partito.

La strage dal cielo sulle coste dell’Irrawaddy nel centro del Mandalay

Intanto la guerra in sé e per sé va avanti, bombardamenti a tappeto, villaggi in fiamme, droni funesti, imboscate letali [l’esercito birmano perde in media 100 uomini alla settimana], attacchi alle infrastrutture [giovedì 6 aprile l’aeroporto internazionale di Yangon è stato chiuso nella notte perché colpito da artiglieria], incendio e distruzione delle stazioni di polizia, fuga delle popolazioni coinvolte e fioritura di campi profughi… L’Expo dell’arsenale non chiude mai. Il caos e l’emergenza come regola della vita sociale, in un paese tra i più colpiti al mondo dai cambiamenti climatici. La sofferenza dei viventi non incontra ostacoli. Intanto l’Irrawaddy continua bonario a scorrere lungo i suoi 2500 chilometri, i delfini meditano forse sulla loro estinzione e pure gli operosi esseri umani che condividono la vita del fiume.

E il doppio “gioco” cinese in periferia

Quanto durerà la guerra? Movimenti di riforma interni all’esercito? Torneranno nelle caserme i soldati? Un golpe? Un’implosione generale? Impossibili per ora risposte creative a queste domande. Nuove leadership si manifestano nelle Aree di frontiera. Aspirano, come minimo, a uno Stato molto, molto federale. Nel frattempo, il gigante di confine, la Cina, gioca come al solito su due tavoli. Sostiene e foraggia la giunta militare, e nello stesso tempo sussidia generosamente di armamenti e merci il Kokang e lo “Stato” Wa, regioni della Birmania in lotta armata contro la giunta militare.

Cronaca

Aung San Suu Kyi è in isolamento in carcere nella capitale surreale Naypyidaw a scontare i 33 anni a cui è stata condannata. Gli sgherri sono specialisti in vendetta. La resistenza è anche radicata nei mille gruppi e reti che continuano a far funzionare le scuole, a procurare medicine e a fare quanto è possibile in un welfare dal basso ricco di sorrisi e di delicatezze. Il regime ha appena tagliato 200 alberi di Poinciana reale o albero di fuoco nella 38ª strada di Mandalay, nei pressi dell’incantevole mercato della giada. I suoi fiori rosso fiamma rimandavano al colore della Lnd [Lega Nazionale per la Democrazia], il partito di Aung San Suu Kyi, a cui la via era stata intitolata. Terrorismo vegetale

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Non essere indeciso,
il detonatore della rivoluzione
sei solo tu, o io.
(K Za Win [1982-2021] poeta,
ucciso dalla polizia durante una manifestazione da lui organizzata contro la giunta, 3 marzo 2021)


 

La malavita cinese naviga sulle coste del Moei tra Thailandia e Myanmar

Emanuele Giordana a sua volta descrive i legami tra tutti i protagonisti in tragedia, senza indulgenza per una fazione o l’altra: la fotografia che si ricava è quella del malaffare generalizzato che non lascia spazio a interpretazioni desumibili da una qualunque etica: gli affari contrapposti animano le rive del Moei e si vedono sorgere città poi abbandonate, dove tutto è consentito, anzi è il malaffare la legge di una terra senza alcuna regola se non quella della truffa e dell’inganno, ora sempre più finanziario, che ha surclassato persino in parte la destinazione d’uso dei paradisi sessuali e del gioco d’azzardo. Manovre ad altissimo livello internazionale sovrintendono all’occupazione del territorio e alla cooptazione degli addetti nella zona del Karen State.

«Con le false credenziali della Belt and Road Initiative – messe in discussione dal precedente governo del Myanmar guidato da Aung San Suu Kyi e pubblicamente sconfessate dall’ambasciata cinese in Myanmar nel 2020 – la città si trova appena a nord di Mae Sot, in Thailandia. Secondo il materiale promozionale, la città avrà “parchi industriali scientifici e tecnologici, aree per il tempo libero e il turismo, aree per la cultura etnica, aree commerciali e logistiche e aree per l’agricoltura ecologica”. Ci sarà anche una struttura per “l’addestramento alle armi da fuoco”. Shwe Kokko è stato anche definito “la Silicon Valley del Myanmar” e una stazione chiave lungo la “Via della Seta marittima”» (NikkeiAsia), parte di un ponte terrestre tra l’Oceano Indiano che permette di aggirare i pericoli e i dazi della navigazione tra gli stretti del Mar Cinese Meridionale, avvalendosi di una ferrovia che unirà lo Yunnan al mar delle Andamane.  

 

“Shwe Kokko e i suoi modelli”.

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Sudan: scontro totale, si allontana la transizione democratica https://ogzero.org/sudan-scontro-totale-si-allontana-la-transizione-democratica/ Sun, 23 Apr 2023 17:35:07 +0000 https://ogzero.org/?p=10788 Lo scontro totale tra i due generali al comando in Sudan, alleati nel colpo di stato del 2021, è ormai guerra aperta. Oltre 100 civili hanno perso la vita. Le cancellerie occidentali, l’Onu e l’Unione africana lanciano continui appelli al cessate il fuoco che, allo stato attuale, sembra lontano dall’essere applicato. Anche la tregua per […]

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Lo scontro totale tra i due generali al comando in Sudan, alleati nel colpo di stato del 2021, è ormai guerra aperta. Oltre 100 civili hanno perso la vita. Le cancellerie occidentali, l’Onu e l’Unione africana lanciano continui appelli al cessate il fuoco che, allo stato attuale, sembra lontano dall’essere applicato. Anche la tregua per consentire l’evacuazione dei feriti, annunciata giorni fa, è durata pochissimo. Pubblichiamo qui un resoconto di Angelo Ferrari pubblicato in parte in Africa Rivista.


Come si è arrivati a questo punto?

Il divario tra il comandante dell’esercito, Abdel Fattah Barhan – a capo del Consiglio sovrano – e il suo numero due, Mohamed Hamdane Daglo, detto Hemedti – capo delle Forze di supporto rapido (Rsf) – si sta allargando sempre di più e una ricomposizione sembra essere difficile. Quello che appare abbastanza chiaro e che difficilmente potranno ripartire le trattative prima che uno dei due possa prevalere sull’altro o che entrambi subiscano perdite pesanti, tanto da indurli a trattare. Molti analisti convergono nel sostenere che anche in caso di vittoria di una delle due parti, in particolare nella capitale Khartoum, la guerra potrebbe continuare in altre parti del paese.

Il Sudan, a pochi giorni dall’inizio della contesa tra i due generali, sembra già essere piombato nello scenario peggiore e le prospettive non sono migliori. I due contendenti si accusano a vicenda dello scoppio delle ostilità e continuano ad annunciare nuove vittorie senza che nessuna fonte possa confermalo o smentirlo.

Come mai si è arrivati a questo punto? Nell’ottobre 2021 i due generali hanno unito le loro forze per cacciare i civili con cui avevano condiviso il potere dalla caduta del dittatore Omar al-Bashir nel 2019. Una alleanza di convenienza, legata più agli interessi economici che a una prospettiva politica di governo del paese. L’esercito di Burhan, ma anche le milizie paramilitari di Hemdti, hanno enormi interessi economici. L’esercito controlla molta parte dell’attività economiche del paese, le Forze di supporto rapido hanno nelle mani diverse miniere d’oro, una la condividerebbero anche con i mercenari russi della Compagnia Wagner. Hemedti, infatti, a stretti legami con Mosca, mentre il maggior partner commerciale del Sudan rimane la Cina. I due non hanno mai avuto una sincera collaborazione, ma solo l’interesse contingente di estromettere i civili dal potere, e se ne capiscono anche le ragioni visti gli interessi economici.

Dissapori e dissenso

I dissapori, infatti, sono presto venuti a galla. Hemedti ha più volte denunciato il “fallimento” di un golpe che secondo lui, avrebbe restaurato il vecchio regime di al-Bashir. Il dissenso vero, tuttavia, è nato quando si è trattato di firmare l’accordo per l’avvio del processo politico che avrebbe riportato nelle mani dei civili il potere in Sudan. Il nodo è stato il capitolo sull’integrazione delle milizie paramilitari nei ranghi dell’esercito. In gioco c’era il futuro dei paramilitari. L’esercito non ha rifiutato questo compromesso, ma ha voluto comunque imporre le sue condizioni di ammissione e limitarne l’integrazione. Hemedti, invece, rivendicava un’ampia inclusione e, soprattutto un ruolo centrale nello stato maggiore. Non solo, Hemedti ha denunciato il fatto che le raccomandazioni finali avrebbero ignorato le loro proposte relative alla tempistica dell’integrazione nell’arco di due anni. Hemedti si è sentito più autonomo e, proprio in virtù delle trattative, alla pari con Burhan e in grado così di realizzare le sue enormi ambizioni politiche. La trattativa si è interrotta e le conseguenze si vedono nello scontro fratricida che sta mettendo in ginocchio, ulteriormente, il Sudan, uno dei paesi più poveri al mondo.

Sudan:scontro totale

Hemedti e le Fsr

Le Forze di supporto rapido, create nel 2013 e guidate da Hemedti, riuniscono migliaia – si parla di 100.000 – ex janjawid, miliziani arabi reclutati da Omar al-Bashir per portare avanti la politica di terra bruciata nei confronti delle popolazioni di origine africana del Darfur. Questo conflitto, scoppiato nel 2003 tra Khartoum e membri delle minoranze etniche non arabe, ha causato 300.000 morti e 2,5 milioni di sfollati, secondo le stime delle Nazioni Unite, e fatto “guadagnare” all’ex dittatore sudanese due mandati di arresto della Corte penale internazionale per “crimini di guerra”, “crimini contro l’umanità” e “genocidio”. E al fianco di al-Bashir c’era proprio Hemedti. Nel 2004, Hemedti ha comandato direttamente uno dei massacri più feroci del conflitto del Darfur, quando ha ordinato l’assassinio a sangue freddo di circa 130 abitanti del villaggio di Adwa, che i janjawid hanno bruciato prima di stuprare centinaia di donne e seppellire gli uomini in fosse comuni.

Nel corso della sua vita, Hemedti si è dimostrato un soldato senza scrupoli, ma anche senza lealtà. Nel 2019 ha partecipato al rovesciamento del suo “padrino”, Omar al-Bashir, durante la cosiddetta rivoluzione sudanese, una mobilitazione popolare che finirà per reprimere brutalmente. Hemedti viene accusato del massacrato di più cento manifestanti in un solo giorno durante un sit-in nel giugno di quell’anno.

La rivoluzione tradita

La rivoluzione ha avviato un processo di transizione in Sudan e ha istituito un governo civile al quale Hemedti ha giurato fedeltà. Tuttavia, due anni dopo, nel 2021, i paramilitari al suo comando hanno ordito un colpo di stato insieme al capo dell’esercito, Abdelfatah al Burhan, diventando così vicepresidente del Consiglio sovrano, l’organo esecutivo del paese.

Sotto la pressione internazionale il Sudan ha avviato un processo politico per il ripristino delle istituzioni democratiche con la firma di un accordo quadro il 5 dicembre 2022 teso, anche, a rimuovere i militari dal potere. Il nodo non sciolto, che ha portato agli scontri di queste ore, è proprio l’integrazione delle Forze di supporto rapido nell’esercito. Hemedti non ci sta perché si ridurrebbe di molto il suo potere e lo spazio di manovra per i suoi affari. E a farne le spese è ancora la popolazione sudanese.

Le Forze di supporto rapido si sono unite nel 2015 alla coalizione saudita in Yemen – come mercenari – e alcuni di loro stanno combattendo anche in Libia. Una delle attività economiche di Hemedti è proprio quella di inviare mercenari in vari scenari di guerra. Nel 2019, poi, le Rsf sono state accusate di aver ucciso 100 manifestanti pro-democrazia a Khartoum durante un sit-in pacifico.

Resta dunque difficile che ci possa essere un riavvicinamento tra i due uomini forti del Sudan e quindi la riapertura del tavolo per l’accordo politico che porti il paese verso un governo formato da civili e che “allontani” i militari dal potere. Ad oggi, questa ipotesi sembra essere irrealizzabile.

E in tutto ciò ad andarci di mezzo è la popolazione civile. Più di un terzo dei 45 milioni di abitanti sudanesi già necessitavano di aiuti umanitari prima dello scoppio di questa insensata guerra fratricida. Il Programma alimentare mondiale, infatti, ha sospeso gli aiuti dopo la morte di tre membri del suo personale in Darfur, nell’Ovest del paese. Mentre accade tutto ciò le cancellerie internazionali vanno ripetendo i loro appelli al cessate il fuco che, però, sembrano cadere nel vuoto. Gli aiuti internazionali, poi, sono stati interrotti dopo il colpo di stato del 2021, e la condizione per la loro ripresa era proprio l’avvio della transizione democratica che è stata seppellita sotto le bombe.

Sudan:scontro totale

Gli unici attori internazionali in grado di far ragionare i due generali potrebbero essere la Cina, per i suoi legami commerciali con il paese, e la Russia per la sua amicizia con i paramilitari.

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La rincorsa delle armi al mercato della guerra https://ogzero.org/la-rincorsa-delle-armi-al-mercato-della-guerra/ Tue, 21 Mar 2023 00:31:00 +0000 https://ogzero.org/?p=10526 “Dual”: non solo il metodo di produzione di oggetti a scopo bellico (e pure civile) lo è, ma risulta duale anche l’anello logistico delle armi, come si evince dal rapporto Sipri, descritto da Emanuele Giordana per l’Atlante dei conflitti e delle guerre del mondo: da un lato, in linea con l’intuizione del nostro Studium per […]

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“Dual”: non solo il metodo di produzione di oggetti a scopo bellico (e pure civile) lo è, ma risulta duale anche l’anello logistico delle armi, come si evince dal rapporto Sipri, descritto da Emanuele Giordana per l’Atlante dei conflitti e delle guerre del mondo: da un lato, in linea con l’intuizione del nostro Studium per cui la guerra capiterà presto laddove si stanno accumulando armi (in questo caso in prospettiva il quadrante indo-pacifico?); dall’altro in un climax classico della corsa al riarmo, addensandosi e accumulandosi dove già si erano concentrate armi per far esplodere un conflitto. Emanuele è tra gli autori del volume “2023: Orizzonti di guerra” curato da OGzero per  approfondire in questo momento particolare quel traffico d’armi che possono regolare il riequilibrio strategico delle forze in campo per una nuova disposizione dell’ordine mondiale, messo in discussione da superpotenze palestrate che mostrano i muscoli e si attrezzano ad assorbire e consumare la produzione bellica mondiale. Proprio il commercio di armi è al centro dei periodici rapporti del Sipri, citati e analizzati anche nel monitoraggio che sta a monte del volume appena pubblicato da OGzero con l’apporto del parterre di autori che l’hanno reso possibile.


La guerra si avvicina all’Asia preceduta dalle armi

L’Asia orientale è in testa alla classifica del commercio mondiale delle armi dominata dagli Stati Uniti e da una corsa al riarmo europeo.

Asia e Oceania hanno ricevuto il 41 per cento dei principali trasferimenti di armi nel 2018-22. È una quota leggermente inferiore rispetto al 2013-17 che rientra in una generale diminuzione del livello globale dei trasferimenti internazionali di armi, un decremento di oltre il 5%. Ma il calo complessivo non deve trarre in inganno, come lo Stockholm International Peace Research Institute (Sipri) ha spiegato alcuni giorni fa in una dettagliata analisi sul mercato mondiale degli armamenti dove hanno inciso pandemia, problemi di logistica e cambio di priorità per la guerra ucraina.

Una dimensione di quanto delicato sia diventato il quadrante orientale

Sono dati che illuminano una scena – quella indo-pacifica – dove i numeri evidenziano come sei stati sono tra i dieci maggiori importatori a livello globale nel 2018-22: India, Australia, Cina, Corea del Sud, Pakistan e Giappone. Quadrante con una guerra in corso in Myanmar, mercato che è difficile sondare perché rigorosamente occultato nonostante le parate con carri, aerei e blindati di marca russa o cinese.

“Il mattatoio birmano dopo 2 anni: dati, analisi, prospettive allargate all’Asean”.
Un buco nero che rientra a fatica nei dati Sipri anche perché è un conflitto oscurato da quello in Europa. Un’Europa che ha comunque aumentato la sua quota di acquisti del 47 per cento negli otto anni che vanno dal 2013 al 2018.

Il boom del traffico si è spostato in Occidente con la guerra

Stoccolma spiega che le importazioni di armi dei soli membri europei della Nato sono aumentate del 65 per cento mentre il livello globale dei trasferimenti internazionali di armi è diminuito del 5,1 per cento. Le importazioni di armi sono diminuite complessivamente ovunque ma, come abbiamo visto, i maggiori attori in questa fetta di mondo (Cina, India, Australia e Giappone) continuano ad armarsi. Sono in buona compagnia: la quota degli Stati Uniti nelle esportazioni globali di armi è aumentata dal 33 al 40 per cento.

L’aumento del budget cinese allineato

Quanto ai cinesi, Pechino ha da poco annunciato un aumento del 7,2 percento del suo budget per la difesa, un dato i cui effetti troveremo nei dati Sipri del 2024: per l’ottavo anno consecutivo aumenta la percentuale di spesa militare del secondo budget militare del pianeta (OGzero ne ha parlato con Lorenzo Lamperti).

“Quanti fili si annodano attorno a Taiwan all’alba del terzo mandato di Xi?”.

Autarchia armiera russa…

L’export russo segna invece una diminuzione del 31 per cento tra il 2013-17 e il 2018-22 mentre la sua quota di esportazioni globali di armi si è ridotta di 6 punti percentuali.

«Anche se i trasferimenti di armi sono diminuiti a livello globale, quelli verso l’Europa sono aumentati notevolmente a causa delle tensioni tra la Russia e la maggior parte degli altri Stati europei», ha detto a Stoccolma Pieter Wezeman, ricercatore del Sipri Arms Transfers Programme: «Dopo l’invasione russa, gli Stati europei vogliono importare più armi e più velocemente. La competizione strategica continua anche altrove: le importazioni di armi verso l’Asia orientale – ha ribadito – sono aumentate e quelle verso il Medio Oriente rimangono a un livello elevato».

Secondo il Sipri è probabile che la guerra ucraina limiterà ulteriormente le esportazioni di armi di Mosca che «darà la priorità alla fornitura delle proprie forze armate» mentre «la domanda da parte di altri stati rimarrà bassa a causa delle sanzioni commerciali e per la crescente pressione da parte di Usa e alleati affinché non si acquistino armi russe».

… addiction ucraina dall’import armiero 

Quanto all’Ucraina, in seguito agli aiuti militari di Stati Uniti ed Europa dopo l’invasione, Kiev è diventata la terza maggior importatrice di armi importanti nell’anno passato (dietro a Qatar e India). E l’Italia? Tra i primi sette esportatori di armi dopo Usa, Russia e Francia, cinque Paesi hanno registrato un calo dell’export mentre due portano a casa forti incrementi: Italia (+45 per cento) e Corea del Sud (+74 per cento).

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Western, merchandising e resistenza indiana https://ogzero.org/western-merchandising-e-resistenza-indiana/ Tue, 07 Mar 2023 15:23:50 +0000 https://ogzero.org/?p=10442 Da vecchi cinefili, un’attenzione quella per la pellicola imprescindibile per la nostra generazione, ci siamo appassionati innanzitutto alla ribellione inoculata dai film del regista indoamericano per eccellenza: Sam Peckimpah. Perciò non abbiamo saputo resistere alla proposta di Gianni Sartori. Fu efficace il contributo del cinema per liberare l’immaginario degli spettatori, soprattutto i boomer allora giovani, […]

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Da vecchi cinefili, un’attenzione quella per la pellicola imprescindibile per la nostra generazione, ci siamo appassionati innanzitutto alla ribellione inoculata dai film del regista indoamericano per eccellenza: Sam Peckimpah. Perciò non abbiamo saputo resistere alla proposta di Gianni Sartori. Fu efficace il contributo del cinema per liberare l’immaginario degli spettatori, soprattutto i boomer allora giovani, che cominciarono a occuparsi di emancipazioni di comunità represse, violate, estinte dall’Uomo bianco proprio con Leonard Peltier in carcere dal 6 febbraio 1976, accusato in modo palesemente falso di delitti attribuitigli dalla Fbi per il suo impegno nella liberazione del mondo dei nativi americani.


Preambolo cine-autobiografico

Risalenti a fine dei Sessanta e ai primi Settanta si sostanziano succulenti ricordi cinematografici, specchio della liberazione irripetuta di quegli anni. Oltre a qualche pellicola precedente, degli anni Cinquanta, vista da bambino nel cinema parrocchiale di Debba (tra cui Il massacro di Fort Apache – per Domenico Buffarini forse il primo esempio di una pellicola non apertamente razzista con i “pellerossa”). Successivamente, sempre in cinema parrocchiali – ma di Vicenza (Santa Chiara soprattutto) –, ci sono state altre visioni; al momento ne ricordo uno in particolare: E venne il giorno della vendetta che molti anni dopo avrei saputo ispirato dalla vicenda del “Chico” Sabaté. A cui fece seguito il corredo di cinema impegnato di tempi gravidi di speranze destinate a rimanere tali.
Insomma tutta quella roba lì con cui almeno un paio di generazioni si son fatte intortare pregustando improbabili “domani che cantano”. Di passaggio, quasi “de sforo”, le scarsamente filologiche rivoluzioni messicane evocate in ¡Vamos a matar, compañeros!, Tepepa, Faccia a faccia e il pretenzioso Giù la testa (In origine C’era una volta la rivoluzione) che ispirò – forse a sproposito – i giovani proletari milanesi della Banda Bellini.
Perfino, confesso, robaccia come Easy Rider o Woodstock. Con il senno di poi “armi di distrazione di massa”. Fine del preambolo.

PRIMO TEMPO:
SAND CREEK (Soldato blu)

Ma se c’è qualche film dell’epoca che merita di essere ricordato e conservato ritengo siano fondamentalmente due: Soldato blu e Piccolo grande uomo (anche se all’epoca apprezzai il primo, molto meno il secondo), entrambi del 1970.
Per altri aspetti (culturali, etnici..) aggiungerei Un uomo chiamato cavallo… forse.


L’idea di ritornarci su mi è venuta scoprendo che spesso vengono sottovalutati. Ritengo a sproposito in quanto all’epoca rappresentarono un rovesciamento non da poco delle ideologie dominanti, direi quasi un “cambio di paradigma”. O quantomeno risentirono pesantemente, subirono il contagio, dello spirito di rivolta che agitava le masse planetarie.
Anche se le vicende storiche si confondevano (forse troppo ?) rischiando di sfumare, con quelle personali, con gli amori e le scontate vicissitudini – tragiche o comiche – dei protagonisti. Per quanto impegnata, rimaneva pur sempre “Società dello spettacolo”, della merce, dell’intrattenimento, del consumo… Con un malcelato filo di ammirazione-invidia per un sistema tanto esperto (e privo di scrupoli) da saper trarre profitti anche condannando i massacri del passato, comunque imputabili a quel sistema (da ragionarci sopra effettivamente). D’altra parte – soprattutto se li confrontiamo con l’andazzo attuale – rimangono testimonianza preziosa di come anche “un altro cinema era possibile”. Detto questo, ho potuto verificare che tra chi conosceva Soldato blu, la maggior parte era convinta che il massacro, orrendo ma veritiero, descritto nel film corrispondesse a quello che ha goduto di maggior notorietà, ossia al Wounded Knee.
In realtà in Soldato blu si narra – con dettagli truculenti, ma corrispondenti a quanto era realmente accaduto (anche la scena terribile della fucilazione di donne e bambini rifugiati in una grotta) – della strage di stato subita dai Cheyenne (e da alcuni Arapaho qui accampati) il 29 novembre 1864 al Sand Creek).

Dove Pentola Nera aveva effettivamente innalzato la bandiera a stelle e strisce (nel film la sorregge andando incontro ai soldati per poi scagliarla a terra quando questi sparano e verrà simbolicamente calpestata dai cavalli al galoppo) insieme a quella bianca sul suo tepee. E qui si erano radunati donne e bambini pensando di sfuggire alle fucilate delle Giacche Blu. In realtà una sorta di milizia (seicento uomini del reggimento del Colorado) guidata dal colonnello Chivington, un predicatore fallito che intendeva riciclarsi in politica («Maledetto sia chiunque simpatizza con gli indiani! Io sono venuto a uccidere gli indiani e credo sia giusto e onorevole usare qualsiasi mezzo Dio ci abbia messo a disposizione per uccidere gli indiani» – così si era espresso Chivington contro il capitano Silas Soule, che durante il massacro aveva proibito ai suoi uomini di aprire il fuoco, e i tenenti Joseph Cramer e James Connor che protestavano contro l’ordine del colonnello di attaccare il villaggio di Pentola Nera. Ritenendolo un “assassinio nel senso pieno della parola”). Tra l’altro, la maggior parte dei “volontari” si erano arruolati per combattere gli indiani solo per sfuggire alla leva obbligatoria che li avrebbe inviati contro i sudisti (il che era molto più pericoloso ovviamente). Per cui inventarsi “battaglie sanguinose” con gli Indiani “ostili” garantiva di restarsene sostanzialmente al sicuro dai terribili combattimenti della Guerra Civile.
Gli indiani uccisi, in maggioranza donne e bambini, vennero scalpati e mutilati, per essere poi abbandonati in pasto gli animali della prateria.
Emblematico il caso di una donna – Kohiss – fuggita con tre bambini, uno per mano, uno sul petto (l’unico che si salvò) e un altro sul dorso. Purtroppo nella fuga due vennero colpiti e uccisi dagli spari dei bianchi. La donna conservò per tutta la vita il ricordo e le cicatrici di quel giorno, una testimonianza vivente delle ingiustizie subite dai nativi.

A titolo personale, di Soldato blu ricordo soprattutto un momento esemplare, indicativo di quale sia stato lo “spirito del tempo”: il film era terminato e nella sala le persone si stavano alzando per uscire quando apparve la didascalia, il commento finale con la voce fuori campo:

«Il 29 novembre del 1864, un reparto di 700 cavalleggeri del Colorado Cavalleria, attaccò un pacifico villaggio Cheyenne a Sand Creek, nel Colorado. Gli indiani sventolarono la bandiera americana e la bandiera bianca in segno di resa. Nonostante questo il reparto attaccò, massacrando 500 indiani; più della metà erano donne e bambini. Oltre 100 furono scotennati, molti corpi furono squartati, molte donne vennero violentate. Il generale Nelson Miles, capo di stato maggiore dell’esercito, così definì questo tremendo episodio: “È forse l’atto più vile ed ingiusto di tutta la storia americana”».

Tutti rimasero semplicemente bloccati, immobili, annichiliti. In un silenzio assoluto che però pareva un urlo. Nessuno fiatava, nessuno faceva il minimo movimento – letteralmente. Ricordo davanti a me due persone già in procinto di alzarsi rimanere quasi ripiegate. Chissà, forse pensavamo tutti al Vietnam, al relativamente recente massacro di Mỹ Lai (16 marzo 1968)…  Certo, per chi fino a poco tempo prima (riguardatevi i western, orrendi per quanto riguarda gli indiani, degli anni cinquanta e sessanta) era abituato a film dove i valorosi pionieri si dedicavano al tiro a segno sui nativi, lo scarto era notevole. E soprattutto era chiaro che si parlava anche del presente.

SECONDO TEMPO:
WASHITA E LITTLE BIGHORN (Piccolo grande uomo)

Nella realtà il capo Pentola Nera (sostanzialmente un pacifista, disposto non solo al dialogo, ma anche a compromessi con l’invasore) sfuggì al massacro (insieme a Piccolo Mantello, poi “ascaro” di Custer). Così come alcuni Arapaho (Mano Sinistra, No-ta-neee…). Era però scritto nel suo destino di dover soccombere insieme ad altri superstiti nel massacro del Washita di quattro anni dopo (27 novembre 1868). Operazione questa condotta dal “generale” Custer. Questa seconda strage subita dai Cheyenne (e nuovamente anche dagli Arapaho, intervenuti per salvare un gruppo di bambini Cheyenne inseguiti dai cavalleggeri statunitensi) ) viene raccontata in “Piccolo grande uomo”. Nel film il “mulattiere” Dustin Hoffman lo rinfaccerà a Custer a Little Bighorn prima della battaglia finale. Ma come quella del Sand Creek in Soldato blu, anche la strage del Washita in Piccolo, grande uomo viene talvolta confusa con Wounded Knee.


L’apoteosi nel film viene raggiunta con la grande vittoria dei nativi (Lakota,Cheyenne, Araphao…) guidati da Cavallo Pazzo (Oglala), Fiele e Toro Seduto (Hunkpapa) e Due Lune (Cheyenne) contro il militarismo colonialista delle giacche blu a Little Bighorn (25 giugno 1876). Dove il criminale di guerra colonnello George A. Custer, comandante del 7° Cavalleria, pagò infine per i suoi peccati.
Se vogliamo, la rivincita dei guerrieri usciti direttamente dal neolitico sui cadetti di West Point. Per una volta almeno.
Niente riferimenti a Wounded Knee quindi in questi due classici. Verrà invece citato (con una evidente forzatura, strumentalmente), oltre che in qualche serie televisiva, in Hidalgo. Un film discutibile, ma che si in parte si salva per l’epica scena finale quando i mustang destinati a essere ammazzati vengono liberati (soprattutto perché a un certo punto essi stessi abbattono gli steccati). Mi piace pensare che avrebbe commosso anche Bill Rodgers.

Come è noto dopo la vittoria del Little Bighorn le cose per gli Indiani precipitarono. Costretto, per non veder morire di fame e di freddo il suo popolo braccato, Tashunka Witko (Cavallo Pazzo) si consegnò ai soldati e venne assassinato (5 settembre 1877). Colpito con una baionetta dal soldato William Gentles, mentre era trattenuto dall’indiano collaborazionista Piccolo Grande Uomo (quello storico naturalmente, non quello del film che si ispira – forse – a un Piccolo Uomo Bianco vissuto a lungo tra gli indiani). Il suo cadavere, prelevato dai familiari, venne portato in un luogo nascosto nella valle del Wounded Knee.

Tatanka Yotanka (Toro Seduto), dopo essersi rifugiato nel 1877 in Canada, nel 1881 fu costretto a rientrare negli Stati Uniti dove venne arrestato. In seguito per un breve periodo si prestò a lavorare, interpretando se stesso, nello spettacolo viaggiante dello sterminatore di bisonti Buffalo Bill, ma ogni dollaro guadagnato lo donava ai poveri e ai senzatetto della sua tribù. Coincidenza? Uno dei maggiori esponenti dell’American Indian Movement, Russel Means (1939-2012, le sue ceneri vennero sparse nelle Black Hills), già tra gli organizzatori dell’occupazione dell’isola di Alcatraz e di Wounded Knee, divenne un attore tra i più richiesti nei film sugli indiani. Basti pensare al ruolo di Chingachgook nel film L’ultimo dei Mohicani di Michael Mann.
Toro Seduto, nel dicembre 1890, forse perché ritenuto troppo vicino al culto della “Danza degli Spiriti” del profeta Wovoka (un Paiute), venne assassinato nel corso di un arbitrario arresto. La banda dei Lakota Minneconjou di Heȟáka Glešká (Alce Chiazzato, più conosciuto come Piede Grosso, fratellastro di Tatanka Yotanka e cugino di Tashunka Witko), temendo le rappresaglie dei militari e dei collaborazionisti indiani, tentò di fuggire a Pine Ridge (da Nuvola Rossa), ma venne appunto massacrata a Wounded Knee.

Nel frattempo (settembre 1886) anche Goyaałé (Geronimo), l’irriducibile apache Bedonkohe (ma in genere assimilato ai Chiricahua) aveva consegnato le armi. Così come Hinmaton Yalaktit (Capo Giuseppe) intercettato e bloccato con i suoi Nasi Forati al confine canadese dopo un’incredibile marcia di 2740 chilometri (settembre 1877).

Fine della storia quindi. Anche se nella seconda metà del Novecento l’American Indian Movement (Aim) rilancerà la questione indiana dissotterrando l’ascia di guerra.

Epilogo

La canzone Soldier Blue (Soldato blu) del film omonimo era scritta e interpretata dall’indiana Piapot Buffy Saint-Marie che in anni successivi scrisse anche Bury My Heart at Wounded Knee (in riferimento al noto libro di Dee Brown). Frase che venne tracciata sui muri nel 1973, durante l’occupazione. Nella canzone viene ricordata anche la militante Anna Mae Aquash, violentata e assassinata, le mani mozzate. Una vicenda impregnata di ombre e sospetti di “guerra sporca” (nei confronti sia del Fbi che delle milizie native filogovernative e anche dell’Aim), presumibilmente legata a quella di Leonard Peltier. Dopo gli oltre settanta giorni di occupazione, negli anni successivi, numerosi partecipanti e membri o simpatizzanti dell’Aim morirono in maniera non chiara, “accidentale” (si parla di circa 300 vittime). Si ritiene che le milizie native filogovernative abbiano così voluto “regolare i loro conti” nelle riserve.

E così il discorso si chiude, ma non il Cerchio irreparabilmente spezzato, frantumato della Nazione indiana. Purtroppo.

 

RECENSIONE DI LEONARD PELTIER (6 febbraio 2023)

Il mio saluto ai miei amici, sostenitori, alle persone che mi sono vicine. So di aver già detto queste parole mille volte, o cose simili. E ogni volta che le dico, è come se fosse la prima volta. Dal profondo della mia anima, vi ringrazio per il vostro sostegno.
Vivere qua dentro, anno dopo anno, giorno dopo giorno, settimana dopo settimana, cambia la tua concezione del tempo e persino il modo di pensare, più di quanto possiate immaginare.
Ogni giorno, al mattino, devo dire una preghiera per tenere alto il mio spirito e quello del nostro popolo.
Le lotte dell’American Indian Movement sono le lotte di tutti noi, e per me non sono mai finite. Continuano, settimana dopo settimana, mese dopo mese, anno dopo anno.
A volte penso di poter sembrare un po’ troppo sensibile quando parlo, ma l’amore per il mio popolo e l’amore che voi sostenitori mi avete dimostrato nel corso degli anni è ciò che mi mantiene in vita.
Non leggo le vostre lettere con la testa. Le leggo con il cuore.
La mia detenzione è solo un altro esempio del trattamento e delle politiche che il nostro popolo ha dovuto subire fin dall’arrivo dei primi europei.

Sono un uomo comune e vengo da una società che vive e lascia vivere, come tutta la nostra gente. Ma dall’arrivo di Cristoforo Colombo, ci siamo trovati costretti a vivere in uno stato di sopravvivenza.
Non c’è nulla nel mio caso, nulla in quel trattato tra il popolo americano e il governo che è la Costituzione, che possa giustificare la mia prolungata incarcerazione.
La storia ci insegna che hanno imprigionato o annientato il nostro popolo, si sono appropriati della nostra terra e delle nostre risorse. Ogni volta che la legge era a nostro favore, hanno ignorato la legge. O l’hanno cambiata secondo i loro piani. Dopo aver ottenuto ciò che volevano, magari una generazione dopo, qualche politico si è scusato.
Non hanno mai sinceramente negoziato con noi, a meno che non avessimo qualcosa che volevano a tutti i costi e non potevano ottenere altrimenti; o nel caso che potessimo creare imbarazzo per il mondo; o che fossimo una sorta di opposizione. L’opposizione è sempre stata la ragione principale che li ha spinti a trattare con noi.

Potrei continuare a parlare dei maltrattamenti subiti dal nostro popolo, come del mio caso, ma l’hanno già detto le Nazioni Unite: il motivo per cui gli Stati Uniti mi hanno tenuto rinchiuso, è perché sono un Indiano d’America. [come nel film di Montaldo, Vanzetti dice alla corte: «E mì son anarchìc»]
L’unica cosa che mi rende fondamentalmente diverso dagli altri Indiani d’America che sono stati maltrattati, che sono stati derubati delle loro terre, o che sono stati imprigionati dal nostro governo, è che il mio caso è stato almeno messo agli atti del tribunale. La violazione dei miei diritti costituzionali è stata dimostrata in tribunale. La falsificazione di ogni prova usata per condannarmi è stata dimostrata in tribunale. Lo stesso Consiglio delle Nazioni Unite, composto da 193 nazioni, ha chiesto la mia liberazione, constatando che sono un prigioniero politico.

Nel mio caso di prigioniero politico non è necessario uno scambio di prigionieri. Lo scambio che devono fare è passare dalla loro politica di ingiustizia a una politica di giustizia.
Non importa quale sia il vostro colore e la vostra etnia. Nero, rosso, bianco, giallo, marrone: se possono farlo a me, possono farlo a te.
La Costituzione degli Stati Uniti è appesa a un filo.
Di nuovo voglio dire, dal mio cuore al vostro cuore, in tutta sincerità: fate del vostro meglio per educare i vostri figli. Insegnate loro a difendersi: fisicamente, mentalmente, spiritualmente. Rendeteli consapevoli della nostra storia.
Insegnate loro a piantare una foresta che possa dare frutti, o qualsiasi altra pianta che possa provvedere a loro, in futuro.

Ancora una volta, dal mio cuore al vostro cuore, piantate un albero per me.

Nello spirito di Cavallo Pazzo.

Doksha («ci vediamo», nella lingua Navajo)

Leonard Peltier

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Le nubi etiopi si sono spostate in Oromia https://ogzero.org/le-nubi-etiopi-si-sono-spostate-in-oromia/ Sun, 08 Jan 2023 21:23:35 +0000 https://ogzero.org/?p=10048 Abbiamo ritenuto opportuno riprendere un articolo pubblicato dai complici di “Atlante delle Guerre” che richiama l’interesse sulla area di guerra più micidiale del mondo, dove i conflitti tra comunità diverse non sono mai sopite e quando – dopo centinaia di migliaia di morti – si raggiunge una tregua in un’area come il Tigray nel Nord […]

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Abbiamo ritenuto opportuno riprendere un articolo pubblicato dai complici di “Atlante delle Guerre” che richiama l’interesse sulla area di guerra più micidiale del mondo, dove i conflitti tra comunità diverse non sono mai sopite e quando – dopo centinaia di migliaia di morti – si raggiunge una tregua in un’area come il Tigray nel Nord della Federazione etiope, si riaccende un conflitto nella centrale regione dell’Oromia, dove si scatenano rivalità e contenziosi tra ahmara e oromo, spostando schieramenti (Ola e Tplf) già contrapposti nel distretto tigrino, come potete sentire nel podcast in cui Matteo Palamidesse (@PalaMatteo) spiega con la consueta prudente cognizione di causa cosa muove le istanze dei singoli attori.


Le truppe eritree stanno lentamente abbandonando le principali città del Tigray centrale e occidentale. Una presenza, quella di Asmara, che, nonostante non sia mai stata ufficializzata ha creato non poche complicazioni nel conflitto. Il ritiro arriva in seguito all’accordo di pace mediato dall’Unione Africana e firmato il 2 novembre 2022 a Pretoria dal governo federale dell’Etiopia e dal Fronte popolare di liberazione del Tigray (Tplf).

Nei due anni di guerra in Tigray, l’esercito eritreo è stato accusato di aver commesso atrocità su larga scala, tra cui aggressioni sessuali, uccisioni sommarie, stupri, saccheggi di città e distruzione di infrastrutture. L’Eritrea è infatti entrata a più riprese in Etiopia per reprimere i tigrini ed è stata in prima linea nelle stragi e nelle pulizie etniche. Gli eritrei hanno preso di mira anche i campi profughi presenti nel Tigrai che ospitano esuli del regime eritreo. Nonostante questo, mancando un coinvolgimento ufficiale, l’Eritrea non ha preso parte al processo di pacificazione in atto.

Il ritiro delle truppe di Asmara era però una delle principali condizioni definite dall’incontro di Nairobi (Kenya) del 12 novembre. Dopo l’accordo di pace di Pretoria, le autorità del Tigray avevano infatti accusato il governo eritreo di ostacolare il processo di pace e hanno esortato il governo etiope a rispettare i termini dell’accordo del 2 novembre ritirando le forze straniere e non federali. Un altro punto dell’accordo prevedeva il dispiegamento della polizia federale, che dovrà sostituire quella regionale. Le forze di polizia dovranno infatti garantire la sicurezza nella Regione e lavorare insieme all’Unione africana per garantire il rispetto dei termini stabiliti nell’accordo. Intanto altri obiettivi sono quelli di ripristinare i servizi di base nella regione e consentire l’accesso umanitario incondizionato a tutta la regione, il disarmo delle milizie e il ritiro completo delle truppe eritree e delle milizie ahmara ancora presenti nel Tigray. Il conflitto nel Tigray, scoppiato nel novembre 2020, tra le forze del governo federale etiope e il Tplf ha causato la morte di oltre mezzo milione di persone e migliaia di sfollati.

Ma la strada è tutt’altro che in discesa. Kibrom G/Selassie, amministratore delegato dell’ospedale comprensivo di Ayde, il più grande nella regione del Tigray, ha infatti denunciato, come riportato da “Africa Rivista”, di stare ancora aspettando i medicinali per le cure mediche salvavita.

«Nulla è cambiato anche dopo l’accordo di pace; il governo federale non sta fornendo all’ospedale le medicine tanto necessarie, inclusi i reagenti di laboratorio», ha segnalato Kibrom.

Già nel mese di ottobre, Kibrom aveva dichiarato ad Addis Standard che l’ospedale era sull’orlo del collasso a causa dell’esaurimento dei farmaci essenziali, della mancanza di reagenti di laboratorio e di macchinari difettosi. Dall’altro lato il ministero federale della Salute ha affermato, in una relazione resa nota a dicembre, che i medicinali e le forniture mediche essenziali sono stati distribuiti nella regione del Tigray attraverso l’Organizzazione mondiale della sanità e il Comitato internazionale della Croce Rossa.

Oltre ai delicati passi per la risoluzione del conflitto in Tigray, un’altra ondata di violenza preoccupa l’Etiopia. Le due comunità più numerose del paese, infatti, Oromo e Amhara, denunciano da settimane omicidi e si incolpano l’un l’altro. Le forze di sicurezza etiopi, gli insorti oromo e la milizia amhara si stanno infatti combattendo nella Regione di Oromia, la più grande dell’Etiopia. Le forze di sicurezza federali etiopi combattono contro l’Esercito di liberazione dell’Oromo (Ola), che il governo ritiene un gruppo terroristico e pare che anche i residenti di Oromo e Amhara e i loro alleati armati si stiano scontrando.


A questo proposito Matteo Palamidesse a fine dicembre era intervenuto su Radio Blackout nella trasmissione Bastioni di Orione per approfondire come si è venuta sviluppando la situazione in Oromia:
“In Oromia la tensione non si vede, si colgono narrazioni di guerra”.

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Caro fratello Assad, ti va un panino insieme?! https://ogzero.org/caro-fratello-assad-ti-va-un-panino-insieme/ Mon, 02 Jan 2023 00:29:02 +0000 https://ogzero.org/?p=9934 Il 28 dicembre si è svolto a Mosca un vertice a tre con la partecipazione del ministro della Difesa turco Hulusi Akar e il generale Ali Mahmoud Abbas, alla presenza del ministro della Difesa russo Sergey Shoigu nell’ottica della svolta turca per cambiamenti politici e trasformazioni globali – in riavvicinamento e riconciliazione con Damasco per […]

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Il 28 dicembre si è svolto a Mosca un vertice a tre con la partecipazione del ministro della Difesa turco Hulusi Akar e il generale Ali Mahmoud Abbas, alla presenza del ministro della Difesa russo Sergey Shoigu nell’ottica della svolta turca per cambiamenti politici e trasformazioni globali – in riavvicinamento e riconciliazione con Damasco per «la necessità di porre fine alle differenze e raggiungere soluzioni che servano gli interessi della regione». Secondo al-Watan si tratta del risultato finale di diversi incontri avvenuti in precedenza tra i servizi di intelligence e la Turchia avrebbe contestualmente accettato un completo ritiro dal conflitto siriano; oltre al riconoscimento da parte di Ankara del rispetto per la sovranità e l’integrità territoriale della Siria; sarebbe stata discussa anche l’attuazione dell’accordo concluso nel 2020 per l’apertura della strada M4.
È stato pianificato dal Cremlino a breve un incontro tra i ministri degli esteri e infine, sempre nella capitale russa, il vertice Erdoğan-Assad. Evidente che per l’ennesima volta il presidente turco intende sfruttare a proprio favore la situazione siriana, sabotando l’autonomia curda e nello stesso tempo rimandando in patria i profughi siriani residenti attualmente in Turchia. Due carte da giocare nelle prossime elezioni presidenziali. Intanto si continua a vellicare l’istinto militarista, vera continuità tra potere ottomano, kemalista e neo-ottomano di Erdoğan, con un costante riarmo e investimenti in produzioni belliche

In questo processo, che è evidentemente il proseguimento dello spirito di Astana nell’ambito più precipuamente della Guerra siriana per cui si è manifestato inizialmente, le parti riunite hanno confermato che il Pkk, con le sue emanazioni siriane Ypg-Ypj, è una milizia per procura di America e Israele e rappresenta il pericolo maggiore per la Siria e la Turchia. L’articolo che proponiamo è stato completato da Murat Cinar il giorno prima di questo incontro, ma già da quasi un mese ci stava lavorando,  avendo avuto sentore della direzione in cui si stavano evolvendo gli eventi geopolitici in Mesopotamia.

Fin qui l’introduzione di OGzero, la parola a Murat…


Retaggio ottomano

Tra Turchia e Siria c’è un confine di 911 chilometri. I due paesi hanno iniziato a avere un rapporto complicato sin dal crollo dell’Impero Ottomano; confini, acqua, formazioni armate, rapporti commerciali, energia, rifugiati, traffico di droghe e persone e infine spese militari. Oggi sembra che sia giunto il momento di aprire l’ennesimo “nuovo capitolo”.

Un passato importante lungo l’Eufrate

L’Eufrate è uno dei due fiumi che danno il nome alla Mesopotamia. Nasce nel territorio della Repubblica di Turchia ma cresce e prosegue il suo percorso verso lo Shatt-al Arab attraversando la Siria. Innegabile l’importanza di questa fonte d’acqua, ma anche che ne scaturiscano conflitti e manovre politiche. Sia Ankara che Damasco, tranne alcuni momenti nella storia, hanno sempre voluto sfruttare questa risorsa comune come elemento di ricatto e non di cooperazione. In Turchia, sia il governo di Süleyman Demirel sia quello di Turgut Özal sono stati sempre sostenitori, negli anni Settanta e Ottanta, dell’idea che Ankara avesse il diritto di controllare totalmente il regime delle acque. Infatti la costruzione del megaprogetto delle dighe (Progetto del Sudest Anatolia) aveva l’obiettivo di risultare una opportunità di ricatto ai danni del regime di Damasco.
Ovviamente il fatto che la Turchia fosse sempre stata un fedele membro della famiglia Nato e la Siria fosse l’alleato numero uno dell’Unione Sovietica in zona ha fatto sì che la rivalità tra questi due vicini risultasse come una sorta di “guerra fredda” di riflesso per procura.

Il ruolo in commedia del Pkk

Senz’altro la nascita e la crescita negli anni Settanta e Ottanta dell’organizzazione armata Pkk (Partito dei Lavoratori del Kurdistan) ha un po’ scombussolato la situazione. Soprattutto dopo la decisione da parte dell’organizzazione di lasciare, quasi totalmente, il territorio della Repubblica di Turchia e creare le proprie “basi” e “accademie” in Siria, le relazioni tra questi due vicini sono diventate molto complicate. Dalle lezioni di “sicurezza nazionale” presso le scuole pubbliche alle dichiarazioni dei governatori, dal linguaggio dei media fino alle scelte politiche dei governi che risiedevano ad Ankara ormai la presenza del Pkk per la maggior parte della società turca risultava essere un enorme problema e una notevole minaccia. Ormai la vicina Siria ufficialmente “sosteneva i terroristi”.

La svolta di Adana

Infatti proprio su questo tema nel 1998 fu firmato l’Accordo di Adana tra questi due vicini. Un accordo che impegnava Damasco a collaborare con Ankara nella sua “lotta contro il terrorismo”, perché ormai per la Turchia la presenza del Pkk sul territorio del vicino era un “casus belli”. Proprio in quel periodo, ottobre 1998, mentre si consolidava per la prima volta una collaborazione del genere, Abdullah Öcalan (“Apo”), il leader storico del Pkk che viveva da anni in Siria, dovette lasciare il paese e nel giro di pochi mesi a Nairobi in Kenya fu arrestato dai servizi segreti turchi. Öcalan, condannato all’ergastolo, vive tuttora in isolamento in un carcere speciale sull’isola di Imrali in Turchia.

Il progetto del Grande Medioriente

Pochi anni dopo l’arrivo al potere dell’Akp (Partito dello Sviluppo e della Giustizia) i rapporti tra Ankara e Damasco si consolidano ancora di più. La Turchia lavorava come intermediario nei tentativi di dialogo tra Israele e Siria che si svolgevano a Istanbul e il presidente siriano, Bashar al-Assad, insieme a sua moglie decideva di fare le vacanze a Bodrum in Turchia, incontrando l’attuale presidente della repubblica, Recep Tayyip Erdoğan che all’epoca era il primo ministro. Proprio in quel periodo Erdoğan si intestava, in diretta tv, la copresidenza del Greater Middle East Project, ideato e promosso dall’allora presidente statunitense George W. Bush con l’obiettivo di creare una zona di collaborazione e alleanza tra i paesi di maggioranza musulmana, dai Balcani fino all’Asia orientale.

Una nuova fase

In alcuni incontri del 2004 tra i paesi della Nato e del G8 erano persino state organizzate delle presentazioni per annunciare alcuni dettagli di questo progetto, che secondo alcuni analisti rappresentava un tentativo di allargamento non ufficiale della Nato con l’intento di limitare lo spazio di manovra dei paesi ancora comunisti e socialisti. A dirigere questo progetto c’era anche Erdoğan, quindi il rapporto intercorrente tra Ankara e Damasco diventava fondamentale.
A quest’ondata di cambiamenti in positivo per una collaborazione amichevole tra i due paesi si può aggiungere l’abolizione del visto tra i due paesi nel 2009 e una serie di accordi commerciali straordinari firmati tra Erdoğan e Assad soprattutto nell’ottica delle privatizzazioni che il governo di Damasco aveva avviato.

La guerra per procura

Senz’altro la guerra per procura ancora in corso in Siria ha cambiato radicalmente le carte in tavola. L’instabilità generalizzata che domina tuttora in Siria è partita nel 2011 con le prime rivolte popolari. In poco tempo l’infiltrazione dei servizi segreti delle terze parti, la nascita e la crescita delle formazioni armate terroristiche sostenute da numerosi paesi vicini e la presenza dei soldati di vari paesi hanno fatto sì che ormai la guerra in Siria potesse essere definita come una proxy war.

Le prime reazioni e scelte

«Assad è come Mussolini, lasci il suo potere. Prima che scorra ulteriore sangue lasci la sua poltrona».

Subito dopo le prime manifestazioni che hanno ricevuto la risposta dura di Damasco, erano queste le parole pronunciate da Recep Tayyip Erdoğan. Una posizione netta e chiara, assunta nel lontano 2011, dichiarata durante il suo intervento nel gruppo parlamentare dell’Akp.
All’inizio della guerra in Siria il piano di Ankara era quello di fare il possibile perché Assad lasciasse il suo potere. In quest’ottica nel 2014 aveva anche partecipato agli incontri di Ginevra con l’intento di creare un nuovo percorso per la ricostruzione politica e amministrativa della Siria. Nel mentre non mancavano le dichiarazioni forti e convinte di Erdogan:

«Il Presidente siriano ha ucciso circa un milione di cittadini suoi. In realtà stiamo parlando di un terrorista che sparge il terrorismo di stato. Non possiamo dialogare con una persona del genere, non sarebbe corretto nei confronti di un milione di siriani assassinati».

Le prime milizie antisiriane e il ruolo dell’Isis

Sempre nello stesso periodo, in collaborazione con l’amministrazione statunitense dell’epoca, Ankara aveva avviato i lavori per l’addestramento delle prime brigate dell’Esercito libero siriano (Fsa) con l’intento di creare un corpo militare che potesse lottare contro il regime di Damasco. Successivamente questa forza in parte è scomparsa, in parte ha aderito alle formazioni terroristiche e in parte ha collaborato con Ankara.


Quel periodo fu molto importante per la Turchia e per il resto del Medioriente. La nascita e crescita dell’Isis ha rimescolato i piani: soprattutto i lavori di reclutamento dei nuovi adepti, l’utilizzo di territori senza rispetto del confine e la creazione di nuove fonti di guadagno in Turchia, da parte dell’organizzazione terroristica, hanno fatto sì che Ankara ormai fosse direttamente coinvolta nella guerra in Siria. Alcune intercettazioni relative alle riunioni dei servizi segreti turchi, varie dichiarazioni rilasciate da parte di numerosi esponenti del governo e la posizione dei mezzi di propaganda rivelarono quanto poco Ankara fosse dispiaciuta della presenza dell’Isis in Siria. Alla fine della partita avrebbe potuto anche rendere più “facile” la caduta di Assad.

Tuttavia sono successe tre cose che hanno ribaltato ancora un’altra volta i piani.

L’alba degli Accordi di Astana

Mosca in Siria

Innanzitutto la Russia, insieme all’Iran, decise d’intervenire militarmente in Siria per salvare Damasco che stava subendo dei gravi colpi in questa guerra. Ormai chiunque avesse avuto l’intenzione d’immischiarsi con gli affari interni della Siria era obbligato a dialogare con Mosca e Teheran.

Confederalismo democratico in Rojava

Poi la nascita del Confederalismo democratico con il protagonismo delle sue forze armate nella lotta contro l’Isis fece sì che a livello mondiale la nuova esperienza politica ed economica guadagnasse credibilità e rispetto. Questo punto ovviamente era un problema per Ankara dato che dietro il progetto del Confederalismo democratico che sorgeva, come zona autonoma nel Nord della Siria (il Rojava), c’erano una serie di attori molto “problematici” come Öcalan e Pkk. Nel 2012 il Partito dell’unione democratica (Pyd) dichiarava la nascita delle unità di difesa popolari (Ypg-Ypj) impegnate nella lotta contro il terrorismo fondamentalista nella regione.

Isis in Turchia

Infine gli attentati dell’Isis sul territorio della Repubblica di Turchia che causarono la morte di centinaia di persone in meno di due anni coinvolgevano ancora di più Ankara in questa guerra che era in corso ormai da quasi cinque anni. Alla lista di priorità nuove si aggiungeva la lotta contro l’Isis che ormai era una netta minaccia contro la sicurezza nazionale per la Turchia.

Forzata alleanza

Per risolvere i suoi problemi Ankara si trovava ormai obbligata a consolidare i rapporti con la Russia per poter agire in Siria. Oltre a ciò le Ypg-Ypj non potevano essere degli interlocutori dato che erano i cugini degli storici “terroristi” per Ankara. Anche se per poco un tentativo di dialogo con Salih Muslim era stato fatto. Muslim è il leader politico del partito politico siriano Pyd – la forza non armata dominante in Rojava. Tuttavia in poco tempo questo tentativo si è concluso senza successo. Secondo alcuni analisti perché Ankara aveva proposto al Pyd di lottare contro Assad in collaborazione con l’Esercito libero siriano, invece il Pyd ha rifiutato la proposta decidendo di non prendere parte nella guerra in Siria e proseguire per la sua strada. Questa “terza scelta” non prevedeva né di collaborare con la Turchia né di sostenere Damasco.
Relativamente a quest’ultimo punto non si può ovviamente tralasciare il fatto che il tentativo di dialogo tra lo stato e il Pkk, in Turchia, sia fallito proprio nel periodo in cui le Ypg-Ypj acquisivano più credibilità a livello internazionale nella loro lotta contro l’Isis.


Dunque si tratta di un momento che ha creato una notevole preoccupazione strategica per Ankara.

Le “operazioni speciali” turche in Siria

Dunque nel 2016, poche settimane dopo il fallito golpe in Turchia e in pieno stato d’emergenza, Ankara decise di avviare la sua prima operazione militare. Gli obiettivi erano 3: lottare contro l’Isis, contro le Ypg-Ypj e contro il governo centrale. Da quel momento a oggi sono passati circa 7 anni e la Turchia, ufficialmente, ha lanciato 4 altre operazioni aumentando nel Nord della Siria la sua presenza militare, politica e economica. Ankara è stata accusata in questo periodo di avviare anche una campagna di cambiamento culturale e demografico della zona provando a cancellare l’identità curda e distruggendo i segni del Confederalismo democratico.

Equilibrismi tra Nato e Russia

In questo gioco molto delicato e pericoloso Ankara ha dovuto gestire i rapporti con la Russia e con i suoi alleati della Nato presenti sul territorio. Non è stata una partita facile perché quanto più il tempo passava, tanto Ankara diventava sempre più dipendente dalla Russia anche al di fuori dalla guerra in Siria: turismo, accordi energetici, agricoltura, investimenti militari, presenza dei servizi segreti, centrali nucleari…

Quest’avvicinamento ovviamente presupponeva una sorta di allontanamento parziale e graduale dalla famiglia della Nato anche se la Turchia restava sempre un membro del patto transatlantico e l’unico membro fortemente presente sul territorio siriano.

Freddezza tra Turchia e UE

Il rapporto consolidato, delicato ma anche fragile tra Ankara e Mosca con la nascita del conflitto armato in Ucraina è entrato in una nuova fase. Il rapporto con la Nato e con l’UE invece è diventato sempre più debole e oggi lo possiamo considerare come una “collaborazione strategica” più che alleanza. Tra Ankara e Nato in tutto questo tempo ci sono state delle divergenze: dai processi per evasione fiscale e frode, all’embargo non rispettato contro l’Iran, fino ad arrivare agli accordi militari con Mosca e l’acquisto degli S-400. Oggi l’Isis sembra essere morto oppure in coma e l’esperienza del Confederalismo Democratico molto indebolito, accerchiato e in parte anche distrutto.
Invece a Damasco è ancora al potere Assad.

Nuova fase dopo l’“operazione speciale” in Ucraina

Oggi Ankara ha deciso di riprendere, gradualmente, il dialogo con il presidente siriano. Il 27 novembre 2022 l’attuale presidente della Repubblica di Turchia ha rilasciato queste dichiarazioni dopo aver inaugurato il ripristino delle relazioni con l’Egitto:

«Ci sono diversi paesi che vogliono approfittare delle relazioni precarie del nostro paese con i paesi del Golfo. Non glielo possiamo permettere. Come abbiamo ripristinato le relazioni con l’Egitto in futuro possiamo fare la stessa cosa anche con la Siria».

Proprio in quei giorni l’agenzia di notizia internazionale Associated Press pubblicava un articolo in cui sosteneva che Erdogan avesse mandato una lettera ad Assad invitando l’esercito siriano di riprendere in mano le zone liberate delle Ypg-Ypj e chiedeva a Damasco di collaborare per il rimpatrio dei siriani presenti in Turchia, ormai circa 4 milioni.
Pochi giorni dopo, il 15 dicembre, sempre lo stesso Erdoğan, sull’aereo, al rientro dal Turkmenistan ha deciso di concretizzare la sua proposta, parlando con i giornalisti a bordo:

«Vorremmo fare un incontro a tre con la Russia e la Siria. Prima si impegneranno i servizi segreti e poi i Ministri di Sicurezza Nazionale. Dopo questi potrebbero incontrare anche i leader. Ne ho parlato con il Presidente Putin anche lui è d’accordo. Così possiamo iniziare a una serie di incontri».

Mentre Mosca accoglieva con piacere questa proposta, dalla Siria arrivavano le prime dichiarazioni scettiche: Pierre Marjane, parlamentare siriano responsabile delle Relazioni esteri del parlamento, il 29 novembre rilasciava queste dichiarazioni a un giornale in Turchia, “Kisa Dalga”:

«Potremmo dialogare con la Turchia tuttavia deve ammettere che ha finanziato e addestrato le forze armate terroriste e le ha fatte entrare in Siria. Poi deve dichiarare che è pronta a ritirarsi dalla Siria».

Ovvero: lo stato dell’arte

Infatti – secondo una serie di osservatori internazionali, alcuni governi stranieri e una serie di giornalisti che lavorano in Turchia – l’attuale governo ha sostenuto direttamente oppure indirettamente alcune organizzazioni terroristiche fondamentaliste che hanno agito in questi anni in Siria. Questo punto ovviamente ha causato sempre le reazioni dure di Damasco: a oggi la Turchia risulta presente militarmente sul territorio siriano in modo massiccio, tanto che solo nel 2021 il numero di truppe impegnate contava più di 10.000 soldati.

Tra le parole pronunciate da Marjane si vede anche un riferimento all’Accordo di Adana firmato nel 1998. Secondo il parlamentare siriano sarebbe necessario prenderlo in mano e applicarlo. In realtà si tratta di una premessa ch’era stata fatta negli incontri di Astana nel 2019 tra Mosca e Ankara. Dunque oggi la situazione in cui ci troviamo ci fa capire che, a grandi linee, l’intenzione sia di tornare alle condizioni del 2010: prima delle rivolte arabe.

“Erdoğan esagerato: un dittatore rilancia sempre nuove pretese”.

Come mai?

Le risposte sono tante. Potremmo studiare questa sezione concentrandoci sulle motivazioni legate alla politica interna ma anche estera.

Elezioni del 2023

Se guardiamo la politica interna senz’altro la profonda crisi economica che strozza la Turchia rappresenta un problema per Ankara soprattutto alla luce delle elezioni del 2023. L’inflazione alle stelle, la fuga dei giovani, le opposizioni sempre più compatte e il caro vita ogni giorno fa perdere punti a Erdogan nei sondaggi.
Le spese militari in Siria forse per Ankara risultano ormai difficilmente sostenibili e un rapporto commerciale (soprattutto petrolio) regolare con il vicino confinante per più di 900 km potrebbero essere una soluzione.

I rifugiati in ostaggio

Ovviamente la presenza di circa 4 milioni di siriani in Turchia rappresenta un problema per Ankara. Una popolazione in parte proveniente dalle zone, come Afrin, colpite dalla Turchia in questi ultimi anni e “ripulite” delle sue popolazioni curdofone. Un esercito privo di diritti, di persone ricattabili e sfruttate rappresenta il nuovo proletariato a basso salario messo in concorrenza con la mano d’opera locale. Mentre questa contrapposizione può far piacere agli industriali, ma non è gradita ai cittadini che devono fare i conti con la profonda crisi economica. Quindi l’eventuale rimpatrio graduale di queste persone è necessario per Ankara in particolare per riprendere quell’emorragia di voti che defluisce verso quei partiti che da tempo sostengono che “i siriani se ne devono andare”.


Si tratta di un progetto che in prima persona Erdoğan promuove ormai da circa 4 anni:

«Una zona cuscinetto nel nord della Siria, lunga 480 chilometri e profonda 30,  dove sarebbero collocati circa 2 milioni di siriani».

In diversi interventi pubblici e televisivi Erdoğan raccontava il suo progetto di costruire nuove cittadelle in questa zona e collocarci principalmente le persone arabofone. Per fare tutto questo è ormai necessario accettare che a Damasco c’è un interlocutore e parlare con questo anche perché il progetto di Erdogan in questi anni non ha ricevuto riconoscimento né dalla Russia né dalla Nato.

Al posto di Ypg-Ypj: dialogo tra autocrati

Invece nella politica estera molto conta la presenza della Russia in Siria che potrebbe diventare debole, se la guerra in Ucraina non si concludesse a breve. Dunque per Ankara iniziare a costruire ponti con Damasco attraverso un canale di dialogo diretto senza l’ausilio di Mosca potrebbe essere un investimento per quel giorno in futuro quanto Putin deciderà di lasciare definitivamente la Siria. Nel fare questo ovviamente Ankara avrebbe un piatto pronto per Damasco ossia le zone che controlla in Rojava, “bonificate” dalle Ypg-Ypj, che potrebbero essere consegnate a Damasco [come sancirebbero le indiscrezioni di “al-Watan”]. Inoltre ovviamente Ankara vuole mettere le mani avanti per evitare ciò che è successo in Iraq quando si è “conclusa” l’invasione statunitense ossia la nascita di un Kurdistan. Il regime al potere in Turchia senz’altro non ha voglia di avere una zona federale curda che si comporti in modo diverso rispetto a quella irachena che collabora senza problemi con Ankara. Quindi per Ankara ovviamente è meglio avere il governo centrale siriano al di là del confine al posto dei “terroristi”. In quest’ottica spolverare l’Accordo di Adana, che promette una reciproca collaborazione nella lotta contro il “terrorismo” ha molto senso.

Dalla parte della Nato

Sempre bazzicando affari geopolitici il ripristino dei rapporti con Damasco potrebbe fornire ad Ankara come una mossa apprezzata da parte della famiglia della Nato, dato che sarebbe l’unico paese del “club” a dialogare direttamente con Assad. Dunque Erdoğan risulterebbe ancora un importante e irrinunciabile interlocutore. Alla luce delle elezioni generali del 2023 per Erdoğan questo potrebbe dire portare a casa una vittoria importante in termini di credibilità internazionale.

Ma contemporaneamente sarebbe anche una mossa che renderebbe “indipendente” e “privilegiata” la Turchia. Erdoğan potrebbe usare questa novità come un elemento di forza o un ricatto contro i suoi alleati (come ha fatto per contrastare le reazioni ogni volta che ha invaso il Rojava), visto che il suo rapporto con gli alleati è sempre più precario. Le relazioni tra Ankara e Nato sono diventate deboli in questi anni anche perché la scelta di sostenere politicamente e militarmente le Ypg-Ypj è stata definita come un “tradimento” per Ankara dato che queste sigle per il regime in Turchia sarebbero le cugine dei “terroristi”.
Inoltre anche la nascita dell’Esercito Democratico Siriano (Sdf) con il sostegno degli Usa ha creato preoccupazione ad Ankara che temeva la nascita di un esercito curdo in zona. Dunque le scelte radicalmente diverse per quel che concerne la Siria si fondano tuttora sulla grande amarezza derivante dalla tensione che esiste tra Ankara e il resto della Nato. Quindi la manovra di Ankara (per consolidare i rapporti con Damasco) potrebbe fare sì che Erdoğan continui ad agire in Siria con l’intento di creare nuove strategie indipendentemente dalla Nato.

Stuccare vicendevolmente le crepe, perpetuando i relativi poteri

Il 28 dicembre Hulusi Akar, il ministro della Difesa Nazionale, e il capo dei Servizi segreti Hakan Fidan, sono partiti da Ankara per Mosca per incontrare i loro colleghi siriani. L’incontro avvenuto dopo 11 anni di gelo nelle relazioni è stato produttivo secondo Akar: avrebbero parlato della questione dei rifugiati, della lotta contro il “terrorismo”, della difesa dell’integrità territoriale della Siria e dell’espulsione delle forze straniere dal territorio.

Ripristinare i rapporti con la Siria per Ankara ha questi valori. Invece per Damasco ha qualche importanza in più. Nel caso in cui si potesse avviare il progetto congiunto di eliminare il Confederalismo democratico in Rojava e le sue forze (Sdf, Ypg-Ypj) per Damasco significherebbe riprendersi quel quarto del suo territorio occupato e controllare una grande fonte di petrolio e gas che attualmente si trova sotto il controllo di queste forze armate e degli Usa.

Inoltre, per Assad, ripristinare i rapporti con Ankara vuol dire far accettare la sua presenza al potere e archiviare le possibili proposte legate all’abbandono del potere. In quest’ottica per Damasco accettare la proposta di Erdoğan potrebbe sembrare il conferimento di una sorta di vittoria che potrebbe usare nella campagna elettorale del 2023; ma contemporaneamente Assad avrebbe immediatamente un interlocutore già al potere con il quale interloquire senza discutere di tutti i crimini contro il suo popolo da lui commessi durante questa guerra lunga 11 anni. In realtà la situazione rientrerebbe all’interno delle scelte che sta facendo Ankara ultimamente, ossia: il consolidamento dei rapporti direttamente con i leader dei paesi controllati dai regimi o dalle famiglie come l’Arabia Saudita, il Qatar, l’Egitto e gli Emirati Arabi.

Sostanzialmente: due regimi potrebbero trovare un accordo su una serie di temi senza avere “il peso” della giustizia e della democrazia.

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Il ruolino di marcia di un sistema basato sull’escalation bellica https://ogzero.org/il-ruolino-di-marcia-di-un-sistema-basato-sullescalation-bellica/ Fri, 23 Dec 2022 15:58:01 +0000 https://ogzero.org/?p=9888 La messinscena delle prime mosse per un negoziato Consumati un po’ di arsenali, uccise 250.000 persone tra civili e militari nella pianura sarmata, misurate alleanze e potenzialità di imporre la propria supremazia, sembra che 3 incontri contemporanei lancino segnali precisi alle cancellerie internazionali: Zelensky con il cappello in mano a Washington, Putin a organizzare le […]

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La messinscena delle prime mosse per un negoziato

Consumati un po’ di arsenali, uccise 250.000 persone tra civili e militari nella pianura sarmata, misurate alleanze e potenzialità di imporre la propria supremazia, sembra che 3 incontri contemporanei lancino segnali precisi alle cancellerie internazionali: Zelensky con il cappello in mano a Washington, Putin a organizzare le truppe a Minsk, Medvedev a ricevere ordini a Pechino. Bisogna trovare una nuova area dove proseguire la guerra ibrida mondiale con lo scopo di misurarsi in preparazione del redde rationem.

Come si è arrivati qui

Si sono definitivamente composti in un unico giorno (il primo del gelido inverno nella steppa di famose ritirate della Storia) gli schieramenti e i ruoli dei singoli in questa che, come si era capito dal 24 febbraio, era la prima fase di una lunghissima guerra ibrida tra potenze – intrecciate dalla medesima ideologia neoliberista che impone complicati legami – da combattere sulla estesa scacchiera globale, con interessi ed economie dipendenti l’una dall’altra, ma a un punto di rottura dato dall’impressione di essere equiparabili e dunque entrambe le fazioni ritengono di potersi candidare al controllo globale come potenza di riferimento: gli Usa a difendere la propria supremazia, le potenze non democratiche a proporre il loro modello di sviluppo – comunque all’interno della visione capitalista del mondo.

La disposizione sul palcoscenico

E allora si usano media e incontri per marcare il territorio in vista della lenta composizione della disputa. Localmente: Biden prepara il terreno a un nuovo piano Marshall da aggiungere agli 85 miliardi già erogati per ricostruire e “mangiarsi” l’Ucraina come gli Usa hanno iniziato a fare dal 2014 di Maidan, quando Kiev era un satellite di Mosca (ha cominciato a parlarne “Fortune” già il 7 dicembre).
Intanto i russi attivano anche Lukašenka per annettersi quanto più territorio possibile e fare da cuscinetto al confine con la Nato, arrivando alle trattative con il massimo risultato possibile («La Russia fornisce alla Belarus’ petrolio e gas a condizioni molto favorevoli e preferenziali», ha commentato Interfax a proposito della visita a Minsk, ma come fa notare “ValigiaBlu“, Putin ha dichiarato che avevano concordato di «dare priorità all’addestramento delle nostre truppe… ci forniremo reciprocamente le armi necessarie e produrremo insieme nuovo materiale militare… per l’eventuale uso di munizioni aviotrasportate con una testata speciale») e arrivando gradualmente all’annessione della Bielorussia. Ognuno potrà investire in piani di ricostruzione che faranno girare denaro utile per una nuova spirale virtuosa economico-finanziaria.
Globalmente la Cina si schiera, schermendosi – probabilmente anche per partecipare agli appalti – e senza impegnarsi direttamente in questa Prima guerra del confronto del mondo contro la Nato (che Trump aveva azzerato e Biden resuscitato, investendo una quantità di miliardi inimmaginabile), detentrice di una primazia in parte erosa dal multilateralismo di forze intermedie pronte a schierarsi in modo autonomo volta per volta, come la Turchia – appartenente alla Nato! – o l’India (due specchiati esempi di democratura), o anche i paesi del Golfo sempre più impegnati in attività di maquillage, ma anche di autonomizzazione dallo schieramento filoamericano.

«Servitor vostro»

Medvedev non è omologo di Xi, ma può ricevere indicazioni che tutte le diplomazie interpretano come invito a ritornare a una situazione in cui si possano scambiare merci con minori sanzioni o dazi; la guerra si deve spostare su altri piani, in modo che la Cina possa acquisire ulteriori avanzamenti; per uscire dalla sindrome del Giappone targata 1990 – incapace di progredire con lo stesso ritmo e quindi imploso nella sua scalata al cielo. Esistono altre potenze indopacifiche che stanno crescendo d’importanza e infatti si rinnovano i periodici scontri alla frontiera himalayana con l’India.

Lukashenka non è omologo di Putin, ma si adatta bene al ruolo di subordinato nella alleanza militare – utile per mostrare quel che resta dei muscoli di Mosca per arrivare a un primo negoziato che chiuda il contenzioso in quell’area, in attesa che si sposti altrove (e si stanno ammassando armi attorno all’Iran). Intanto è utile mostrare che almeno sulla Bielorussia il Cremlino può ancora contare ed è l’area che in questo momento è geograficamente fondamentale controllare e dove accumulare minacciosi missili logistici e strumenti ipersonici.

Zelensky non è omologo di Biden, ma è il terzo fantoccio (dagli occhi umani, non come quelli da killer come Putin nei folkloristici ritratti di Biden, fintamente gaffeur) che serve ai tre potenti della terra per lanciare messaggi agli altri due. Zelenski va a prendere gli spiccioli, oltre ai Patriot da schierare contro le dotazioni nucleari collocate contemporaneamente alla frontiera bielorussa dall’esercito russo, sapendo che poi arriveranno i soldi per la ricostruzione. E rilancia le richieste nel monologo al parlamento, mancava solo un elenco alla Leporello (ma questa volta come lista della spesa); dei tre incontri quello davvero mediatico e diffuso su ogni media è il kolossal americano, dove anche i dettagli come gli abiti indossati dai due protagonisti sono funzionali a lanciare messaggi precisi e assegnare ruoli. Zelensky è il buffone di corte in ogni senso, comprendendo pure la facoltà di asserire verità scomode, ovviamente a maggior lustro del monarca e Biden non è re Lear infatti Zelensky non ha mai la medesima statura, non solo fisicamente.

Uno schema bellico inesorabile

La concomitanza dei tre eventi non si configura come complotto globale di un’oligarchia che interpreta in modi diversi il neoliberismo e che quindi trova contrapposti gli interessi delle potenze che si misurano per spartire aree di influenza e ruoli in concorrenza e individuano volta per volta territori che si prestino al confronto perché si tratta di aree di crisi incancrenite (da anni si assisteva alle provocazioni sulle pipeline ucraine; il conflitto in Nagorno Karabakh da decenni volutamente irrisolto e costantemente rinfocolato dai vincitori; come quello del Kosovo, dove sta montando da un paio di mesi la tensione che cova dalla “fine” della guerra di Clinton tra opposti nazionalismi, coccolati apposta dai rispettivi riferimenti…); oppure nuovi protagonisti molto potenti e militarmente approvvigionati e minacciosi come le petropotenze emergenti che usano vetrine diverse – per ora strategicamente collegate con una facciata culturale (il marchio Louvre nel deserto in cambio dell’acquisto di Rafele e altre connessioni vantaggiose per Parigi), velata da megaeventi sportivi (il mondiale di football invernale, imposto a suon di corruzione e interpretando in modo ancora diverso il verbo unico capitalista) e che hanno una concezione del sistema socio-politico ancora più oligarchico e fondato sull’oppressione e la cancellazione della maggior parte dei diritti civili, usando la tradizione come collante per i poteri forti interni.

Automatismi di un ruolino di marcia bellico

Piuttosto che un accordo per svolgere ciascuno un ruolo in commedia distribuito da una regia collettiva (una pièce complottista), si può concepire questo snodo epocale come il processo innescato che non può non passare attraverso tappe inevitabili costituite da molteplici guerre. Quei conflitti che, finché non hanno coinvolto equilibri europei, erano rimasti nella percezione occidentale a bassa intensità, mentre ora si manifestano con distruzioni di arsenali e migliaia di vittime civili anche in Europa, non più solo nel Sud del mondo, dove si sparge il sale sulle ferite non rimarginate mai, per suppurare periodicamente e far esplodere furiosi combattimenti utili per sostituire localmente il predatore di turno: infatti Biden è stato spinto a finanziare potentemente il continente africano per tentare di contrastare la penetrazione di Cina, Turchia e Russia, proprio mentre non è ancora del tutto sopita la guerra in Tigray ed esplode un nuovo focolaio nel Sud dell’Etiopia per l’insorgenza dell’Oromia.

Un’ipotesi che si può avanzare sulla base delle prime mosse di incontri diplomatici ad alto livello tra non omologhi, che usano gli incontri per dettare la politica delle macrofazioni e assistere alla conseguente disposizione delle alleanze, è che si cerchi ora di comporre molto lentamente la questione ucraina, lasciandola però accuratamente non del tutto risolta; contemporaneamente preparando nuovi conflitti in aree significative per il confronto tra le maxipotenze, che possano montare ben più che per una proxy war, a impattare su una nuova emergenza (energetica, lievitando prezzi per fibrillazioni borsiste? religiosa, per induzione jihadista?…) e poi confrontarsi in un nuovo scacchiere (Taiwan?) più vicino al confronto diretto e risolutivo.

Il senso del capitalismo per la guerra

Dunque fa tutto parte della vera Guerra tra Usa e Cina, che non finirà se non trovando un’uscita dal sistema capitalistico, motore mobile che necessita e si alimenta di quel costante conflitto, perché il capitalismo ha bisogno sempre di incrementare il profitto, triturandovi tutto: industria del divertimento, alimentare, consumo di beni… industria bellica.

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Mosaico etiope: a Nord guerra, a Sud referendum autonomista https://ogzero.org/mosaico-etiope-a-nord-guerra-a-sud-referendum-autonomista/ Mon, 19 Dec 2022 00:48:32 +0000 https://ogzero.org/?p=9822 Decenni di lotte postcoloniali hanno portato il Corno d’Africa e in particolare l’Etiopia alla condizione attuale di frammentazione di etnie, divergenze di interessi, rivendicazioni di territori e… autonomia. Appunto: a questo snodo si finisce con l’arrivare laddove si innescano guerre sanguinosissime, cambi al vertice di Addis Abeba con il ridimensionamento tigrino all’avvento di Abiy Ahmed […]

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Decenni di lotte postcoloniali hanno portato il Corno d’Africa e in particolare l’Etiopia alla condizione attuale di frammentazione di etnie, divergenze di interessi, rivendicazioni di territori e… autonomia. Appunto: a questo snodo si finisce con l’arrivare laddove si innescano guerre sanguinosissime, cambi al vertice di Addis Abeba con il ridimensionamento tigrino all’avvento di Abiy Ahmed che ha condotto alla guerra scatenata dal premio Nobel per la Pace appoggiato dal despota eritreo Afewerki, da sempre avversario del confinante Tigray; il risultato è stato un conflitto feroce di tutti contro tutti. Le alleanze e le divisioni tra comunità di ceppi diversi od omologhi hanno esacerbato ulteriormente una condizione che era negativamente fluida già quando cercammo di farne il punto all’inizio del conflitto. Per arrivare ai preoccupati interventi su Radio Blackout di Palamidessa.
Ora Gianni Sartori allarga un po’ il grandangolo e dunque vengono comprese anche le comunità del Sud dell’Etiopia, scoperchiando il vaso delle rivendicazioni di autonomia che cominceranno a sfociare in referendum nei primi mesi del 2023, quando il governo centrale vedrà di rafforzare il federalismo; peccato che le spinte centrifughe si moltiplicano anche a Ovest del paese…


A quanto pare in Etiopia va rinforzandosi il federalismo e si opera per il superamento di antichi conflitti etnici attraverso una maggiore autonomia di ciascun gruppo. Soluzione forse inevitabile in un paese costituito da un mosaico di etnie conviventi con quelle dei tre gruppi principali (amhara, oromo e sidama).

Abyi Ahmed

Un primo segnale era giunto nel 2018 con la nomina a primo ministro di Abiy Ahmed di origini miste oromo-amhara e per questo inizialmente ben accetto da entrambi i gruppi etnici (anche se poi gli Oromo lo hanno accusato di “tradimento”).
Abiy Ahmed aveva intrapreso alcune riforme a favore delle storiche rivendicazioni identitarie e territoriali della frammentazione di etnie (in parte conseguenza di non opportune precedenti divisioni amministrative) rimaste irrisolte.

Eterna stagione referendaria

Gli ultimi referendum di questo genere erano stati quelli del 20 novembre 2019 e del 23 novembre 2021 (“Nigrizia”). Avevano rispettivamente sancito la nascita di due nuovi stati federali, Sidama (dove il 99,7% per cento degli aventi diritto si era recato alle urne e il 98,5% aveva votato per l’autonomia) e South West. Separandosi entrambi dal Snnrr (Stato regionale delle nazioni, nazionalità e popoli del sud) già teatro di scontri e conflitti etnici.

Ultima tappa della frammentazione di etnie

Previsto per il 6 febbraio 2023, il nuovo referendum si terrà nella prospettiva della creazione di un dodicesimo stato regionale. Dovrebbe svolgersi in sei zone amministrative (Wolayita, Gamo, Gofa, South Omo, Gedeo e Konso) e cinque distretti speciali (Amaro, Burji, Basketo, Derashe e Alle). Attualmente integrati nel Snnpr.

Federalismo etnico

Risale al 1995 la Costituzione basata sul “federalismo etnico” che formalmente garantiva una relativa autonomia agli oltre 80 ceppi della frammentazione di etnie che comporrebbe il  paese (uno dei più popolati dell’Africa con quasi 120 milioni di abitanti). Possibilità non sempre adeguatamente accolta dagli interessati o rispettata dai governi.
Si consideri a titolo di esempio il conflitto armato nel Nord del paese tra il governo centrale e l’Eprdf, la coalizione guidata dal Fronte di liberazione popolare del Tigray (Tplf).
Anche recentemente, in settembre, si era nuovamente interrotta la tregua durata alcuni mesi nella prospettiva di una adeguata soluzione politica.

“Il genocidio atroce e diffuso nel Corno d’Africa” è un’intervento di Matteo Palamidessa trasmesso su Radio Blackout il 1° ottobre 2022.

Altri conflitti ricorrenti sono quello con l’Esercito di liberazione Oromo e la ribellione del Benishangul (Ovest dell’Etiopia).

Ribellismo e milizie

Ma i problemi dell’Etiopia non riguardano soltanto le questioni etniche. Altre emergenze coinvolgono trasversalmente ogni regione del paese, in particolare le ultime generazioni. Con il 70 per cento della popolazione sotto ai 35 anni (in buona parte disoccupata, emarginata nonostante il notevole incremento della scolarizzazione), manifestazioni, scioperi, rivolte e disordini sono fenomeni ricorrenti (e in genere repressi duramente).

Ma contemporaneamente al contenimento del ribellismo, i governi hanno sviluppato un altro modo per controllare, incanalare le istanze della gioventù etiope: quello di integrarli in formazioni giovanili strutturate su base regionale. Come i Fano per gli Amhara (una delle più consistenti numericamente e ben armata, talora qualificati come “vigilantes”) e i Qerro (sinonimo di “scapoli”, molti legati al sistema tradizionale di autogoverno, democratico e inclusivo) per gli Oromo. In passato alleati dei Fano, erano poi sorti contrasti a causa dell’ideologia panetiopica, egemonica e antifederale, caratteristica degli Amhara.
Consistenti numericamente anche altre organizzazioni giovanili come gli Yelega in Wolayta, gli Ejeetto Sidamo…a cui si sono aggiunti Nebro, Zarma, Aeigo, Dhhaaldiim.

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Da qui il coltan… https://ogzero.org/da-qui-il-coltan/ Fri, 09 Dec 2022 23:45:12 +0000 https://ogzero.org/?p=9746 Bagatelle contrastanti per un massacro Soltanto venti giorni fa, in occasione del 18° vertice della francofonia (Oif, in rappresentanza di una novantina di stati) nell’isola tunisina di Djerba, Louise Mushikiwabo (ministro degli Esteri ruandese dal 2009 al 2018 e segretaria generale dell’Oif, appena rieletta per i prossimi quattro anni) lanciava accuse – se non proprio […]

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Bagatelle contrastanti per un massacro

Soltanto venti giorni fa, in occasione del 18° vertice della francofonia (Oif, in rappresentanza di una novantina di stati) nell’isola tunisina di Djerba, Louise Mushikiwabo (ministro degli Esteri ruandese dal 2009 al 2018 e segretaria generale dell’Oif, appena rieletta per i prossimi quattro anni) lanciava accuse – se non proprio del tutto infondate, perlomeno non documentate – secondo cui ci sarebbero «elementi nella Repubblica democratica del Congo, proprio alla frontiera con il Ruanda, che sono una minaccia per la sicurezza del mio paese».
Quando in realtà – stando ai rapporti onusiani – quello che sta avvenendo sarebbe esattamente il contrario. Basti pensare al sostegno anche di natura militare dato dal governo di Kigali (e dal presidente Kagame di etnia tutsi, quella che subì il genocidio del 1994) al movimento M23 che imperversa nel Nord Kivu, una regione nell’Est della Repubblica democratica del Congo da dove sono fuggiti centinaia di migliaia di sfollati (e dove, ricordo, sono stati assassinati l’ambasciatore Luca Attanasio, l’autista Mustapha Milambo e il carabiniere Vito Iacovacci).

Erano passati soltanto alcuni giorni quando, il 29 novembre, veniva attaccata la città di Kishishe (circa 70 chilometri da Goma, la capitale del Nord Kivu). Se inizialmente si parlava di una cinquantina di vittime, via via che le indagini proseguivano si arrivava alla cifra terribile di oltre 270 civili uccisi (tra cui diversi bambini).
Stando alle fonti ufficiali, il governo e le forze armate congolesi, la responsabilità dell’attacco cruento sarebbe del Movimento 23 marzo (l’M23 però, da parte sua, smentisce). Nella generale costernazione del paese, il presidente della Rdc, Félix Tshisekedi, aveva indetto tre giorni di lutto nazionale.
Significativo che tale strage sia avvenuta (come una provocazione per sabotare gli accordi se non di pace, almeno di non belligeranza attiva) a soli cinque giorni dall’ultima dichiarazione di cessate il fuoco. Anche se, forse inopportunamente, M23 (inattivo dal 2013 al 2021) era rimasto escluso dalle trattative del vertice dei Grandi Laghi (fine di novembre) che si erano svolte a Luanda.
Invitato invece Paul Kagame, pur facendosi sostituire da Biruta, suo ministro degli Esteri.

Milioni al Ruanda… per pagare cosa?

Lotta al terrorismo?

Intanto, dando prova di scarso tempismo, l’Unione Europea approvava il 1° dicembre un ulteriore stanziamento (circa 20 milioni di dollari) per l’esercito ruandese. Ufficialmente per rafforzare la lotta al terrorismo in Mozambico (regione di Cabo Delgado), ma alcuni osservatori non escludono che in parte tali finanziamenti vengano dirottati ad alimentare il conflitto nel Nord Kivu.
Recentemente la politica di Kagame nei confronti del Congo Kinshasa è stata messa in discussione proprio da uno dei principali sostenitori del governo di Kigali. Il segretario di stato statunitense Antony Blinken ha chiesto infatti a Kagame di non sostenere più M23 e di promuovere concretamente “pace e stabilità”.
Critiche che non sarebbero state ben accolte dal presidente del Ruanda.

Soldo per milizie predatrici?

Quanto a M23, sarebbe costituito soprattutto da miliziani ed ex insorti di etnia tutsi (ma spesso di nazionalità congolese) che in parte erano stati integrati nell’esercito congolese. Il tentativo di smantellare le unità formate appunto da tali ex ribelli (o di trasferirli in altre regioni della Rdc) aveva provocato la loro ribellione.
Attualmente chiedono l’amnistia e la possibilità di rientrare dai campi profughi del Ruanda e dell’Uganda per i rifugiati tutsi di nazionalità congolese. Senza escludere la possibilità di essere reintegrati nell’esercito congolese in modo da poter esercitare un maggiore controllo su traffici e commerci nel Nord Kivu. Per esempio quello del cobalto, nella cui estrazione, su un totale di 300.000 minatori, sono coinvolti almeno 35.000 bambini ridotti in schiavitù. Oppure dell’altrettanto famigerato coltan che ugualmente si estrae a mani nude con danni irreparabili per la salute dei giovanissimi minatori. Per non parlare degli abusi sessuali di cui sono vittime.

Subappalti?

Da qui il coltan, attraverso una catena commerciale gestita da bande, milizie e mercenari di varia etnia ed estrazione (a cui le compagnie subappaltano il lavoro sporco), arriva in Ruanda e Uganda. Per essere acquistato dalle compagnie che si occuperanno dell’export, eventualmente della raffinazione. Destinazione finale: le multinazionali in Germania, Usa, Cina…

Di questa crisi avevamo parlato con Massimo Zaurrini a metà novembre, immaginando già scenari apocalittici verso cui ci stiamo avviando, visti gli interessi di tutte le comparse coinvolte: il gigante congolese incapace di controllo, gli esportatori di terre rare ruandesi e ugandesi (senza estrarne, ma controllando), militari di frapposizione (kenioti); le potenze occidentali, interessate a calmierare i prezzi con la schiavitù giovanile…:

“Rischio di Terza guerra mondiale africana dei Grandi Laghi?”.

to be continued

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n. 22 – Il nuovo patto europeo sulla migrazione e l’asilo (I). Respingimenti, Sar, esternalizzazioni https://ogzero.org/il-nuovo-patto-europeo-sulla-migrazione-e-lasilo/ Mon, 14 Nov 2022 10:05:54 +0000 https://ogzero.org/?p=9459 L’ipocrisia europea evita di dare indicazioni precise e umanitarie, lasciando ai singoli stati la manipolazione dell’opinione pubblica più retriva e identitaria; e così i politici fanno, usando a scopo interno episodi singoli per dimostrazioni muscolari con l’ossessione per la presenza delle ong (il 12 per cento dei salvati provengono dalle loro imbarcazioni, ma sono soprattuto […]

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L’ipocrisia europea evita di dare indicazioni precise e umanitarie, lasciando ai singoli stati la manipolazione dell’opinione pubblica più retriva e identitaria; e così i politici fanno, usando a scopo interno episodi singoli per dimostrazioni muscolari con l’ossessione per la presenza delle ong (il 12 per cento dei salvati provengono dalle loro imbarcazioni, ma sono soprattuto un occhio su quello che avviene nel Mediterraneo), sia facendo leva sulla ferocia innata nella propria fazione di radice fascistoide, sia intervenendo internazionalmente per isolare la nazione rivale, restituendo però un modello che non si discosta molto per grado di accoglienza, per non esporre il fianco ai razzisti interni. I paesi già distintisi per la propensione ad adottare norme draconiane per rastrellare voti esasperati – quelli  esposti agli sbarchi (Cipro, Grecia, Malta e sovranisti italiani) – aggirano il diritto e spingono per creare hotspot (Lager); in Libia Minniti fu il primo, ora Piantedosi in Tunisia, con l’idea di creare un fortilizio contro i disperati resi tali dal neoliberismo, dalle politiche predatorie europee ed estrattiviste, da carestie nate dal cambiamento climatico provocato dall’Occidentalismo. Il governo di estrema destra italiano storna fondi della cooperazione per potenziare il controllo delle frontiere (tanto Shengen è sospeso da 9 anni). Addirittura in questi giorni l’abitudine allo squallore ha permesso l’impunità per un ministro che ha parlato di carico residuo, depositato sul fondo del setaccio per umani, schiuma ottenuta dalla valutazione del grado di vulnerabilità, che non considera come il concetto comprende non solo donne incinte, bambini e mutilati, ma anche le vittime di tortura, quelli resi deboli psichicamente dagli anni di umiliazioni, lavori in condizioni estreme, violenze, stenti, stupri, visioni apocalittiche per deserti e mari.

Il doppio articolo di Fabiana sembra fatto apposta sulle ultime idee di esternalizzazione, ma in realtà era in gestazione da un paio di mesi, perché approfondisce enormemente le dirimenti questioni giuridiche di Diritto internazionale, individuando nell’intento di questa pantomima una moltiplicazione degli accordi simili a quelli stipulati con Istanbul, fino a che il contorno delle frontiere saranno divenuti muri, cortine, filo spinato…


Premesse storiche e fallimenti

Consuetudini di confinamento e respingimenti

Il 23 settembre del 2020 la Commissione europea presentò la proposta per un nuovo Patto sulla migrazione e l’asilo insieme a un pacchetto di nuove proposte di regolamenti europei alquanto preoccupanti come:

  • la Proposta di regolamento che introduce il procedimento di accertamento di preingresso ossia il cosiddetto “Regolamento screening”;
  • la Proposta che modifica la procedura in materia di riconoscimento e di revoca della protezione internazionale;
  • la Proposta di regolamento sulla gestione dell’asilo e della migrazione;
  • la Proposta che istituisce procedure per affrontare situazioni di crisi e di forza maggiore in ambito migratorio;
  • la Proposta di regolamento che modifica il regolamento Eurodac.

Si precisa che tutte le proposte, essendo appunto “proposte di regolamento”, qualora venissero approvate dal parlamento Ue e dal Consiglio sarebbero immediatamente applicabili in ogni stato dell’Unione, non avendo il regolamento – come invece avviene per le direttive – necessità di alcuna legge di recepimento da parte degli stati membri per la propria vigenza. Ursula von der Leyen, nel corso della presidenza tedesca della Commissione UE, ha sottolineato come tale Patto mettesse d’accordo i vari stati membri e si ponesse in chiave di rottura rispetto al passato. Nulla di più falso. Non solo il nuovo Patto non introduce nulla di particolarmente innovativo ma viene meno – nella quasi totalità dei casi di richiesta di protezione internazionale – l’esame individuale della domanda; è invece affermata inequivocabilmente la logica dei campi di confinamento dei migranti; e soprattutto – ancora una volta – l’Unione fallisce nella modifica del regolamento di Dublino per l’individuazione dello stato Ue competente a trattare le richieste d’asilo.

Come primo criterio di individuazione della competenza continua infatti a essere applicato quello del paese di primo ingresso con il consueto ed evidente svantaggio per quei paesi che geograficamente sono maggiormente esposti agli arrivi dei cittadini dei paesi terzi.

Ricollocamento inesistente, rimpatri ed esternalizzazione delle frontiere

Nel nuovo Patto inoltre non vi è poi ancora alcuna previsione sul ricollocamento obbligatorio e automatico dei migranti nei paesi membri ma come vedremo solo su base volontaria e in casi eccezionali. Si persiste nell’ignorare la portata effettiva e incondizionata che dovrebbe avere il principio di solidarietà tra i paesi membri, indicata nell’art. 80 del trattato sul funzionamento dell’UE, anzi si potrebbe affermare che tale principio è stato quasi del tutto svuotato essendo prevista, come strumento di solidarietà, la cosiddetta Sponsorizzazione dei rimpatri dei cittadini dei paesi terzi ossia il finanziamento o il supporto di uno stato membro all’altro affinché i migranti possano essere espulsi più rapidamente dal territorio dell’Unione. Come noto già con l’Agenda europea del 2015, a fronte della crisi migratoria derivante dal conflitto siriano, e con il Summit della Valletta dello stesso anno, la Commissione europea aveva manifestato come la propria politica in materia di migrazione e asilo fosse volta – con la complicità di buona parte degli stati membri – al rafforzamento della dimensione esterna dell’Unione mediante il meccanismo comunemente definito “esternalizzazione delle frontiere”, ossia quelle azioni politiche, militari, diplomatiche e “giuridiche” che mirano a impedire che i cittadini dei paesi terzi arrivino nel territorio dell’Unione.

  (Elaborazione openpolis su dati Edjnet. ultimo aggiornamento: mercoledì 13 aprile 2022)

Il sotterfugio delle intese tecniche

La Commissione ben consapevole che non avrebbe potuto attuare tale sistema senza la collaborazione dei paesi terzi – perlopiù in via di sviluppo – ritenne necessario offrire loro “un incentivo” per la delega di tali attività illegittime stornando parte sostanziale dei fondi per lo sviluppo dalla lotta alla povertà alla gestione delle frontiere. È quanto avvenuto con il cosiddetto Fondo fiduciario per l’Africa – un insieme di vari piccoli fondi per lo sviluppo – istituito ad hoc con il Summit della Valletta nel corso del quale veniva rimarcato il ruolo centrale affidato ai paesi terzi nell’ambito delle politiche migratorie dell’Unione. Secondo le più consuete logiche coloniali tuttavia i paesi terzi non hanno assunto di fatto alcun ruolo nel processo decisionale di tali meccanismi ma sono stati semplicemente finanziati – facendo leva sulla loro condizione di indigenza – perché svolgessero tali attività in modo che l’Unione, i suoi organi, le sue Agenzie e gli stati dell’UE apparissero immacolati. La parvenza di legittimità giuridica di tale macchinoso impianto è stata affidata alle cosiddette intese tecniche dell’Unione o dei singoli stati membri con i paesi terzi e non invece con la sottoscrizione di accordi internazionali che non solo sarebbero dovuti passare per il parlamento per l’approvazione ma anche resi pubblici e accessibili alla società civile.

(Fonte Unione Europea 2022)

 

Criminalizzazione globalizzata dei processi migratori

Allora come oggi occorreva alla Commissione un sistema finanziario flessibile e immediato per raggiungere tali intenti. Secondo questi presupposti ideologici quindi si inserivano l’accordo Ue-Turchia del 2016 e il Memorandum Italia-Libia del 2017 già ampiamente analizzati negli articoli relativi alla rotta dell’Egeo e a quella del Mediterraneo centrale. Tale approccio non si è limitato al controllo dei confini ma si è audacemente spinto addirittura al controllo della mobilità umana come è avvenuto con il Niger e con il Gambia. In particolare, è nota la pressione che l’Unione ha esercitato nei confronti del Niger per l’emanazione di una legge – la n. 36 del 2015 – che criminalizzasse “il traffico dei migrantiper evitare lo snodo della mobilità migratoria da Agadez verso la Libia e soprattutto gli arrivi verso l’Unione mediante la rotta del Mediterraneo centrale.

Il ricatto dell’aiuto vincolato

Interessante è poi l’intesa tecnica che l’Unione nel 2018 ha sottoscritto con il governo gambiano perché si consentisse e si agevolasse la riammissione dei gambiani espulsi dal territorio europeo: più nello specifico a partire dal 2019 sulla base di tale intesa tecnica il governo gambiano si impegnava a rimpatriare i propri cittadini presenti nel territorio dell’Ue.
Da alcuni paesi dell’UE cominciavano così a partire voli charter con a bordo cittadini gambiani che nel corso del 2020 venivano sospesi in ragione della diffusione del virus da Covid-19. Il governo gambiano nel 2021 decideva però di interrompere tali flussi migratori di espulsione dall’Europa dei propri cittadini dichiarando di non avere più le capacità di sostenere un ingresso così numeroso di soggetti espulsi anche perché tale prassi stava creando disordini sociali nel paese.

A questo punto l’Unione decideva di sospendere il Codice visti nei confronti del Gambia: veniva messa in atto in tale modo una sorta di ricatto sulla base del quale

se un paese terzo contravviene all’impegno di riammissione dei propri concittadini o di altri migranti presenti nel territorio dell’Ue, non solo, non riceve l’incentivo ossia il denaro proveniente dai fondi per lo sviluppo – che si precisa sarebbe uno strumento di cooperazione e non di ritorsione – ma viene anche drasticamente ridotta la possibilità per tutti i cittadini di quel paese terzo di ottenere visti di ingresso nel territorio dell’Unione.

Proposta di regolamento sulla gestione dell’asilo e della migrazione

La vicenda anticipa nella prassi quanto è attualmente disposto a livello normativo in una delle cinque proposte di regolamento che accompagnano il nuovo patto. In particolare, con la Proposta di regolamento sulla gestione dell’asilo e della migrazione che verrà in seguito analizzata in modo più approfondito – si afferma il cosiddetto Principio di condizionalità nei rapporti tra paesi terzi e Unione europea. Infatti oltre all’art. 3 (“Approccio globale alla gestione dell’asilo e della migrazione”) e all’art. 4 (“Principio dell’elaborazione integrata delle politiche”) mediante i quali si regolamentano le politiche esterne dell’Unione per farle coincidere maggiormente con i suoi obiettivi interni,

all’art. 7 (“Cooperazione con i paesi terzi volta a facilitare il rimpatrio e la riammissione”) si richiama la modifica del Codice Visti del 2019 in particolare l’introduzione dell’art. 25 bis con il quale si prevede – nell’ipotesi in cui un paese terzo non sia particolarmente incisivo in termini di riammissione dei migranti irregolari – che la Commissione possa deliberatamente decidere di limitare i visti verso il territorio dell’Unione per tutti i cittadini di quel paese terzo.

Esternalizzazione a “paesi terzi sicuri” dell’iter per la concessione della protezione

La rotta libica

Comunque qualora le proposte di regolamento che accompagnano il patto venissero approvate ci si spingerebbe ben oltre. Più nello specifico la delega ai paesi terzi potrebbe non essere più circoscritta alle ipotesi già gravi del controllo delle frontiere o della mobilità umana – come nel caso del Niger – ma anche all’esternalizzazione della trattazione delle domande d’asilo. Al riguardo è interessante notare preliminarmente come le procedure di esternalizzazione si possono legare alle procedure di screening, previste da una delle proposte che accompagnano il patto e ad alcune nozioni contenute nella Proposta di modifica del regolamento sulle procedure in materia di riconoscimento e revoca della protezione internazionale che introduce – come vedremo – il concetto di protezione sufficiente con riferimento al cosiddetto “paese terzo sicuro”.

nuovo patto europeo

Al confine Tunisia-Libia

La rotta tunisina

Peraltro negli ultimi anni l’Unione europea nella prassi ha già reso moltissimi paesi di transito sufficientemente sicuri: per esempio la Tunisia che sebbene abbia sottoscritto la Convenzione di Ginevra non ha una legge interna sull’asilo. Infatti, nonostante sia presente nel suo territorio l’Unhcr che si occupa della registrazione della domanda e di tutta la procedura di protezione internazionale, di fatto il rifugiato riconosciuto tale in Tunisia non ha accesso poi ad alcun diritto, proprio per l’assenza di una normativa interna in materia (e la contingenza attuale vede una progressiva autocratizzazione del potere tunisino sotto la pressione della presidenza Saied e una delegittimazione delle istituzioni e quindi si vanno creando i potenziali prodromi – perciò proponiamo la considerazioni raccolte da Tunisi con Arianna Poletti – per accogliere un’“economia” e una filiera di strutture d’ispirazione “libica”: hotspot al di là del Canale di Sicilia).

“La periodica collera non è un rito di piazza in Tunisia”.

L’evidenza della rotta atlantica

Per comprendere meglio il rischio dell’esternalizzazione del diritto d‘asilo occorre analizzare alcune dinamiche che hanno interessato un’altra rotta ossia quella atlantica. Come noto questa rotta è stata caratterizzata negli ultimi anni da patti dell’Ue in particolare della Spagna con il Senegal, il Marocco e la Mauritania per l’intercettazione dei migranti nelle loro acque territoriali affinché venissero riammessi in tali paesi con il supporto di Frontex. L’ipotesi in cui però il migrante si trovasse già di fatto in acque internazionali rendeva illegittima tale prassi. Per tale ragione è stato previsto uno status Agreement con il Senegal che permetterà di superare la questione in merito al luogo in cui riportare i cittadini stranieri intercettati in acque extraterritoriali: più specificamente i migranti intercettati in esse si potranno riportare in Senegal in quanto definito di fatto nello status Agreement paese sicuro per i propri cittadini e soprattutto un paese sicuro per tutti i richiedenti asilo e rifugiati. Tale meccanismo è proprio quello che consente l’esternalizzazione del diritto d’asilo in paesi come il Senegal semplicemente per il fatto che è prevista una normativa interna sull’asilo, perché è presente l’Unhcr – anche se non all’interno delle Commissioni che si occupano dell’esame della domanda – e perché alla fine viene rispettato il principio di non refoulement!! Quindi l’individuo intercettato in acque internazionali dovrà fare tutta la procedura di riconoscimento della protezione internazionale in Senegal, in luogo della Spagna.

Search and Rescue

Le contestuali raccomandazioni sulle operazioni Sar e l’accresciuto ruolo delle Agenzie europee Frontex e Euaa

Ipocrita equidistanza tra ong e aguzzini libici

Rispetto alle operazioni Sar – Search and Rescue – la Commissione invece non ha ritenuto di avanzare una proposta di regolamento bensì di emanare semplicemente delle raccomandazioni che se da un lato possono essere valutate prima facie positivamente, in quanto in esse si dichiara espressamente che l’assistenza umanitaria anche svolta da ong – ossia da privati – nel corso di tali operazioni non può essere criminalizzata, in quanto conforme al diritto internazionale e al diritto di soccorso in mare, dall’altro però in esse si ribadisce che i flussi migratori in mare non si sono mai fermati e che occorre contrastare il traffico dei migranti. La Commissione deliberatamente ignora però la collaborazione con la cosiddetta “Guardia Costiera Libica” (la collaborazione con la quale è stata tacitamente rinnovata a inizio novembre 2022 per altri tre anni) che in cambio dell’addestramento e dei finanziamenti dell’Europa e dell’Italia continua a intercettare i migranti in mare per poi riportarli nei lager libici.

Tacito consenso a disattendere le regole umanitarie

Insidiosa diventa così l’altra affermazione della Commissione con la quale si ribadisce che le operazioni Sar devono essere gestite a livello normativo dagli stati come tema di politica pubblica, che finisce con consentire a un governo razzista di immaginare impunemente lo sbarco selettivo; riflettendo su tali affermazioni, da parte italiana non si può non pensare a quanto sia già stata molto grave invece la legislazione interna sul tema emanata con il cosiddettoDecreto Sicurezza bis”, ora persino peggiorato dai decreti di inizio legislatura.

Infine, appare chiaro come dalla lettura delle proposte di regolamento che accompagnano il Patto, il ruolo delle Agenzie Ue in particolare di Frontex– ossia l’Agenzia della guardia di Frontiera e costiera europea – e dell’Euaa (ex EASO) ossia l’Agenzia dell’Unione europea per l’asilo – venga notevolmente accresciuto. Si precisa al riguardo che le due agenzie sono già state interessate dalle modifiche dei regolamenti che disciplinano l’ambito delle loro competenze rispettivamente nel 2019 con il Regolamento (UE) 2019/1896 del 13 novembre 2019 e nel 2021 con Regolamento (UE) 2021/2303 del 15 dicembre 2021.

Frontex manu militari nelle attività antimigratorie, congiuntamente

In particolare, ciò si evidenzia nella procedura di preingresso o screening – rispetto alla quale sarebbe stata più opportuna la previsione della presenza dell’“Agenzia Europea per i diritti fondamentali” – e nel corso dell’attivazione dei meccanismi di solidarietà visto che entrambe le agenzie sono disgregate per individuare le persone da ricollocare o da sottoporre a misure di sponsorship. Più nel dettaglio la dimensione operativa delle agenzie che prima si identificava in un’implementazione indiretta delle misure e dei provvedimenti messi in atto dagli stati in ambito migratorio ora può essere definita a tutti gli effetti un’implementazione congiunta e condivisa: ovverossia le autorità esecutive dei paesi membri implementano le azioni in ambito migratorio a fianco degli uomini delle due agenzie europee di cui sopra. Da qui addirittura anche il reclutamento da parte di Frontex di agenti di pubblica sicurezza dei singoli paesi membri per inserirli tra le proprie fila.

Euaa istruisce domande d’asilo, congiuntamente

Per quanto riguarda l’Euaa invece si può affermare che essa guadagna sempre maggiori margini per entrare nel merito delle decisioni delle domande d’asilo per cui diversamente dal passato l’istruzione della domanda d’asilo viene svolta dalle autorità nazionali degli stati membri congiuntamente a essa anche se poi la responsabilità delle decisioni rimane comunque in capo ai soli stati membri. Infatti si stabilisce con la modifica del regolamento interno dell’Agenzia Easo del 15 dicembre 2021 che essa debba assistere i paesi membri nel registrare le domande d’asilo, facilitare l’esame da parte delle competenti autorità nazionali all’esame della domanda e fornire a quelle autorità la necessaria assistenza alle domande di protezione internazionale. Viene poi accresciuta anche la dimensione di monitoraggio delle agenzie: entrambe oggi infatti hanno ampie prerogative sulla raccolta delle informazioni dei flussi migratori e sulla valutazione dello stato di “vulnerabilità” delle frontiere di ciascun paese membro nonché del suo sistema d’asilo e d’accoglienza fino al punto che – nell’ipotesi in cui si ravvisino rischi nei rispettivi settori di competenza – le due agenzie adottano raccomandazioni che gli stati membri sono chiamati a rispettare. Infine, aumenta anche la dimensione politica delle agenzie: esse sono divenute infatti importanti centri di raccolta informazioni in ambito migratorio sulla base delle quali vengono elaborate poi le decisioni politiche dell’Unione e dei singoli stati membri. Basti pensare che l’Euaa non solo può adottare indicatori per misurare l’efficacia del sistema d’asilo ai quali i paesi membri devono adeguarsi ma elabora anche le Country of Origin Information influendo non poco sulle decisioni delle singole Commissioni Territoriali.

nuovo patto europeo

(Fonte Osservatorio Diritti)

Fronte(x) disumanitario

Questo comporta la necessità, considerate le accresciute competenze anche con riferimento alla proposta del Nuovo Patto sulla migrazione e l’asilo di aumentare anche la loro responsabilità (ossia la cosiddetta “accountability”), non semplicemente a livello giudiziario – per le violazioni dei diritti umani commesse dallo Staff delle agenzie nel loro operato (vedi Frontex) sulle quali ha già una funzione di monitoraggio il Parlamento UE – ma anche a livello politico, tenuto conto delle informazioni rilevanti che le due agenzie forniscono ai singoli stati sulla base delle quali spesso questi determinano il loro indirizzo politico in ambito migratorio (tanto che messo alle strette per i respingimenti operati direttamente da uomini in quel momento assunti da Frontex, Leggeri ha dovuto dimettersi dalla dirigenza dell’agenzia di stanza in Polonia).

Si aggiunge infine che, anche se è previsto un meccanismo di reclamo che ogni individuo può avanzare per la violazione dei propri diritti da parte delle due agenzie indirizzato al direttore esecutivo delle stesse, questo nei fatti continua a essere poco efficace soprattutto nei confronti degli agenti di Frontex che non fanno pienamente parte dello Staff ma che sono distaccati ossia reclutati dall’agenzia temporaneamente tra le forze di sicurezza dei singoli stati membri. Fin qui dunque il substrato sul quale sono state gettate le fondamenta per il così scarsamente coraggioso ma allarmante Patto del 2020 nonché le sue conseguenze altrettanto poco audaci rispetto alle raccomandazioni sulle operazioni di soccorso e salvataggio ma fin troppo temerarie nel già accresciuto ruolo delle Agenzie Frontex e Euaa rafforzato nelle già citate proposte di regolamento complementari a esso della cui analisi giuridica si rimanda al successivo approfondimento.

L'articolo n. 22 – Il nuovo patto europeo sulla migrazione e l’asilo (I). Respingimenti, Sar, esternalizzazioni proviene da OGzero.

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n. 22 – Regolamento sullo screening: il nuovo patto europeo sulla migrazione e l’asilo (II) https://ogzero.org/n-22-regolamento-sullo-screening-il-patto-europeo-sulla-migrazione-e-lasilo-ii/ Mon, 14 Nov 2022 10:05:34 +0000 https://ogzero.org/?p=9491 Lo studio e l’esposizione delle proposte di regolamento europeo che fanno da corollario al nuovo patto sulla migrazione, se possibile, ancora più restrittivo e rappresentante di chiusure all’accoglienza, completa e integra le speculazioni dell’articolo precedente. Qui si leggono disposizioni “disumanitarie”, che inaspriscono con fantasie al limite della tortura psicologica, che rispondono evidentemente a criteri puramente […]

L'articolo n. 22 – Regolamento sullo screening: il nuovo patto europeo sulla migrazione e l’asilo (II) proviene da OGzero.

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Lo studio e l’esposizione delle proposte di regolamento europeo che fanno da corollario al nuovo patto sulla migrazione, se possibile, ancora più restrittivo e rappresentante di chiusure all’accoglienza, completa e integra le speculazioni dell’articolo precedente. Qui si leggono disposizioni “disumanitarie”, che inaspriscono con fantasie al limite della tortura psicologica, che rispondono evidentemente a criteri puramente disincentivanti. Nelle pieghe delle modifiche, delle proposte, dei regolamenti che l’UE targata Von Der Layen si rintracciano tentativi di blindare le frontiere, ma anche di demandare ai paesi di prima accoglienza la solidarietà a cui persino Fortress Europe non può sottrarsi, né esternalizzare. Quindi è impossibile riformare come vorrebbero i paesi del blocco Sud, ed è per questo che si creano casi come quelli della Ocean Viking, o si minacciano altre infamità per giungere a una trattativa giocata sui destini delle persone in movimento (Pom). Allora si riprendono slogan come “taxi del mare” (riprendendo un’improvvida uscita di Di Maio) per definire l’azione di vascelli solidali, denunciando ideologicamente l’operato delle ong; o si invita a portare i salvati in Tunisia, guarda caso proprio dove si vuole implementare il sistema di hotspot esternalizzati per impedire l’arrivo in Europa, o retrivi scontri fondati su cifre – anche malamente – taroccate. 

Con questa documentata appendice, fondata sulla lettura dei documenti giuridici e su dati reali, Fabiana intendeva conferire un sostegno all’articolo dedicato alle conseguenze delle proposte di modifica al Regolamento europeo per il riconoscimento dell’asilo e protezione, ne ha ottenuto un contributo autonomo che travalica il tecnicismo analizzato e disinnescato, andando a scoperchiare motivi e strategie sottesi a rendere impossibile il Diritto internazionale che a buon senso darebbe scampo in Europa a chi fugge dai danni che l’Europa produce nei paesi di provenienza. Ma la strategia prevede che il Diritto sia affossato, anzi sommerso…


Procediamo con lo screening a casa loro

Due delle cinque proposte che accompagnano il patto sulla migrazione e l’asilo – presentato dalla Commissione europea il 23 settembre del 2020 – sono la Proposta di regolamento sullo screening e appunto quella relativa alla modifica della procedura di riconoscimento e di revoca della protezione internazionale. In particolare, con la Proposta di regolamento sullo screening dei migranti si prevede una procedura “preingresso di accertamento” lo screening appunto – in merito all’identità, alla nazionalità, allo stato di salute, alla vulnerabilità e alla pericolosità sociale del migrante finalizzata – come candidamente dichiarato nella sua presentazione dalla Commissione europea – a individuare «il prima possibile i cittadini dei paesi terzi che abbiano scarsa possibilità di ottenere protezione internazionale all’interno dell’UE». Alla registrazione dell’identità quindi si accompagna in questa fase l’inserimento dei dati biometrici dei migranti mediante le banche dati pertinenti.

 

regolamento sullo screening

Truccare le regole fingendo una terra di nessuno

La procedura però viene svolta non solo interamente in frontiera ma anche in una condizione di trattenimento del migrante e in modo rapido (la procedura di accertamento può durare fino a un massimo di 5 giorni).

L’intento della proposta è dunque quello di creare uno strumento idoneo a decidere già in frontiera a chi possa essere “consentito” di presentare domanda di protezione internazionale e chi invece “debba” essere rimpatriato immediatamente dalla “frontiera”.

Rispetto al luogo nel quale dovrebbero avvenire tali operazioni di accertamento, si precisa che quanto orchestrato dalla Commissione altro non è che una fictio iuris.
Il migrante sottoposto a tali procedure in realtà già si trova sul territorio dell’Unione e come tale sarebbe titolare di tutta una serie di diritti, sanciti dal diritto europeo oltre che dal diritto internazionale, ma affinché tale titolarità non venga attivata si opera appunto “una finzione giuridica”: si finge ovverosia che il migrante si trovi a una frontiera esterna dell’Unione altrimenti tale meccanismo sarebbe evidentemente illegittimo. Sicuramente infatti alcune persone soggette alla procedura di screening sono già alle frontiere interne. Si pensi che alcuni dei destinatari dell’ambito di applicazione di tale normativa sono persone entrate nel territorio europeo a tutti gli effetti perché attraverso operazioni di Search and Rescue (Sar)! Altri destinatari sono invece coloro che sono presenti alla frontiera esterna ma non soddisfano le condizioni di ingresso – come nel caso della mancanza del visto – e che presentano domanda di protezione internazionale.

Si precisa però che anche con riferimento a tali soggetti gli stati membri, in base al regolamento Eurodac, sarebbero chiamati a registrare le impronte e quindi si attiverebbe il regolamento “Dublino” per l’individuazione dello stato membro competente: una situazione tutt’altro che esterna all’Unione!

L’intero impianto rientra nel consueto meccanismo di rafforzare le frontiere esterne per proteggere quelle interne dell’area Schengen dai movimenti secondari dei migranti ossia quelli compiuti mediante il transito da uno stato all’altro dell’Unione.

La detenzione negli hotspot è illegittima, per ora

È previsto in questa fase un sistema di monitoraggio indipendente di dubbia efficacia visto che non prevede neanche l’accesso dell’Agenzia europea sulla tutela dei diritti umani oltre a quella dei membri e degli operatori delle ong o dei rappresentanti della società civile.

È prevista inoltre l’impugnazione del provvedimento di accertamento che abbia un esito negativo per l’accesso alla procedura d’asilo ma in questo caso è stabilito il rimpatrio immediato e il ricorso non ha effetto sospensivo.

Tale impianto giuridico richiama immediatamente l’approccio degli hotspot in Italia come quello di Lampedusa. Anche negli hotspot infatti, per prassi, vi è una fase di preidentificazione che si caratterizza dalla compilazione del cosiddetto foglio notizie – non previsto da alcuna normativa italiana – davanti alle autorità di pubblica sicurezza. Il modulo prescreening previsto nel Patto ricalcherebbe proprio il foglio notizie italiano (!) che contiene sì le generalità del migrante ma che non possiede alcun contenuto informativo sulla procedura di protezione internazionale. Inoltre, come nella procedura prescreening anche negli hotspot vi è una condizione di detenzione dei migranti. Al riguardo si precisa che qualora il regolamento in questione venisse approvato tali prassi degli hotspot diventerebbero legittime e quindi non solo lo stesso foglio notizie diverrebbe obbligatorio – proprio mediante il suo omologo ossia il “modulo preescreening” – ma il trattenimento del migrante sarebbe previsto per legge nonostante l’Italia sia già stata condannata per detenzione illegittima dei migranti negli hotspot dalla Corte di Strasburgo – sentenza Khlaifia – per aver agito in violazione dell’art. 5 della Cedu.

Proposta di modifica del regolamento procedure 2016

Dopo le procedure di preingresso – procedura di screening è prevista nella modifica anche una procedura di frontiera per il riconoscimento della protezione internazionale sempre in una condizione di trattenimento del migrante. Infatti, secondo l’art. 41 paragrafo 6, i richiedenti sottoposti alla procedura di asilo alla frontiera non sono autorizzati a entrare nel territorio dello stato membro.

Si precisa, più in generale,

che la procedura di esame alla frontiera deve essere attuata ogni qualvolta la persona è entrata irregolarmente – e chi richiede la protezione lo è nella quasi totalità dei casi perché in fuga dal proprio paese d’origine – o se ha fatto ingresso con sbarco dopo operazioni di ricerca e soccorso (Sar – Search and Rescue) o ancora nell’ipotesi in cui il migrante non sia irregolare ma comunque sia destinatario di un provvedimento di ricollocamento (art. 41).

Persecuzione preventiva di innocenti incarcerati. Disincentivazione

Ciò che risulta particolarmente assurdo è che dal momento dell’approvazione di tale norma ogni richiedente asilo dovrebbe subire 12 settimane di detenzione e di isolamento per completare non solo la procedura di riconoscimento della protezione internazionale ma – nell’ipotesi di rigetto della domanda – anche per presentare il ricorso che nella quasi totalità dei casi non ha effetto sospensivo automatico (art. 54) – e per essere sottoposto a rimpatrio forzato (art. 41 bis).

Si ricorda che ai sensi dell’art. 35 bis della proposta la decisione di rimpatrio è emanata

nell’ambito della decisione di rigetto della protezione internazionale o, nel caso sia contenuta in un atto distinto dal provvedimento di rigetto, è comunque contestuale a esso.

Se lo stato tuttavia non riesce a organizzare il rimpatrio alla frontiera nell’arco delle 12 settimane, il migrante potrà entrare finalmente nel territorio dell’Unione ma sempre con il trattamento previsto per legge per le persone in condizione di irregolarità. Inoltre, la cosiddetta “procedura accelerata”, con la proposta di regolamento in oggetto, non rappresenta più un’eccezione ma diviene «obbligatoria e sistemica» (art. 40) e al suo termine si può già decidere in frontiera per l’ammissibilità o meno della domanda.

Infatti, alle ipotesi già previste per l’applicazione della procedura accelerata – come quella in cui il richiedente tenta di eludere o elude i controlli alle frontiere o quella secondo la quale rappresenta un pericolo per la sicurezza pubblica interna – si aggiunge quella in cui

il richiedente appartenga a una nazionalità che registri un tasso di riconoscimento della protezione internazionale inferiore al 20 %

come per esempio potrebbe essere nell’ipotesi di un richiedente asilo proveniente dalla Nigeria o addirittura dall’Egitto! Si sottolinea la standardizzazione di tale valutazione che oltretutto si applica anche ai minori stranieri non accompagnati!!

La provenienza da un “paese di primo asilo” inficia la protezione

Il giudizio preliminare sull’ammissibilità o meno della domanda di protezione internazionale in frontiera è inoltre previsto anche nei casi in cui

il richiedente provenga da un «paese di primo asilo» (art. 44): ossia un paese in cui il richiedente ha già goduto e può continuare ad avvalersi non solo di una protezione ai sensi della condizione di Ginevra ma anche semplicemente di «una protezione sufficiente».

Motivo per il quale, se durante l’esame, le autorità ritengono che

il richiedente provenga da un paese in cui anche se non si applica la Convenzione di Ginevra non sussistono minacce per i motivi di cui alla Convenzione stessa, il richiedente non rischi di subire un danno grave e ancora venga rispettato il principio di non-refoulement e garantito il godimento di alcuni diritti – quali la possibilità di soggiornare o di lavorare – allora la sua domanda di protezione internazionale verrà dichiarata inammissibile.

Il potere discrezionale del funzionario. La sindrome Eichmann

Si osservi al riguardo l’enorme discrezionalità da parte delle autorità competenti nella valutazione della sussistenza di tali elementi, anche perché la qualifica di paese di primo asilo è decisa ogni anno proprio da ciascuno degli stessi paesi dell’UE con la predisposizione di specifiche liste. Il giudizio preliminare di ammissibilità si applica infine anche nell’ipotesi in cui

il richiedente provenga da un paese terzo sicuro (art. 45)

ossia un paese nel quale il richiedente può anche essere soltanto transitato ma che venga considerato sicuro non solo in quanto firmatario della Convenzione di Ginevra. E pure nell’ipotesi in cui sia semplicemente idoneo a garantire – come abbiamo visto nel caso del paese di primo asilo – una protezione sufficiente.

L’impianto supportato dagli accordi bilaterali…

In questo caso però la qualifica del paese terzo sicuro non è da rinvenirsi nelle liste predisposte dal paese membro annualmente ma viene considerato tale con una decisione della stessa Unione Europea ossia presumibilmente in base anche agli accordi informali tra questa e i paesi terzi. Tale decisione unilaterale dell’Unione viene operata anche con riferimento alla

qualifica di «paese di origine sicuro» (art. 47), nozione in cui oggi – è bene ricordarlo – si fregia la Turchia e in conseguenza della quale è sempre prevista l’applicazione della procedura accelerata.

Qualora quindi ricorresse una delle succitate condizioni le autorità competenti in frontiera dovrebbero concludere sempre per una dichiarazione preliminare di inammissibilità della domanda di protezione internazionale, in caso contrario invece si potrebbe finalmente accedere alla procedura per il riconoscimento della medesima.

L’intero impianto riporta alle prassi già consolidate nella rotta dell’Egeo: la Turchia infatti per i siriani è già stata considerata di fatto “paese terzo sicuro” perché rispettava (a fronte dei 6 miliardi di euro donati dall’Unione) il principio di non refoulment e perché dava la possibilità a questi di soggiornare legalmente sul territorio a disprezzo e in completo svuotamento di ogni norma del diritto europeo e internazionale che consentirebbe loro di beneficiare di una “forma di protezione” che si ricorda – e non ci dovrebbe essere neanche il bisogno di dirlo – è un diritto ben diverso da quello di consentire semplicemente a un individuo di lavorare nel proprio territorio!

… e da nuovi enormi Lager

Si ricorda che la Turchia – pur essendo firmataria della Convenzione di Ginevra – ha mantenuto la riserva territoriale per il riconoscimento dello status di rifugiato: ciò vuol dire che esso può essere riconosciuto in Turchia solo ai cittadini provenienti dai paesi dell’Unione europea. Sempre con riferimento alla rotta dell’Egeo è chiaro che una previsione della procedura d’asilo strutturata totalmente in frontiera implicherebbe la creazione di enormi campi di detenzione nei paesi di primo arrivo – compreso il nostro – come già avvenuto in Grecia a Leros, Lesbos, SamosKos Chios. Ci si chiede quindi se gli stati membri di primo ingresso e l’Unione stessa siano in grado di sostenere le spese finanziarie derivanti dalla creazione di tali centri considerato il numero dei migranti che dovrebbero essere “contenuti” in regime di detenzione.

Il contrasto degli “irregolari” eccita la Destra nostrana

È facile notare come i nazionalismi di destra al potere attualmente in diversi stati membri dell’Ue compreso il nostro – così contrari alle politiche delle istituzioni europee in particolare a quelle della Commissione – si ritrovino invece perfettamente allineati alle sue decisioni in ambito migratorio quando si tratta di ostacolare l’accesso dei migranti con l’inevitabile compressione dei loro diritti come nel caso dei due regolamenti “procedure” e “screening”.

Sarà pertanto interessante vedere se quegli stessi nazionalismi di destra che rappresentano il nuovo trend politico europeo saranno così d’accordo tra di loro, come negli alti lai per ottenere il riconoscimento della pressione migratoria insopportabile a cui sono sottosti, quando si tratterà di approvare le ulteriori proposte di regolamento che accompagnano il nuovo patto sulla migrazione e l’asilo in primo luogo la già citata Proposta di regolamento sulla gestione dell’asilo e della migrazione, dove si prevede una «solidarietà obbligatoria».

 

(fonte voxeurope / Tjeerd Royaards)

Solidarietà obbligatoria, ma ordinaria

La proposta di regolamento in esame prevede meccanismi di “solidarietà” volontaria ma obbligatoria da parte di tutti i paesi membri nei casi di sbarchi Sar o pressione migratoria messi in atto quindi soprattutto nei confronti di paesi di primo arrivo come l’Italia. I meccanismi di solidarietà si distinguono tra ordinari e meccanismi di solidarietà speciali/straordinari. I primi rappresentano la solidarietà post sbarchi – operazioni SAR – mentre i secondi sono quelli che si applicano nelle ipotesi di pressione migratoria (art. 50 e seguenti) (oltre che nelle condizioni di crisi e di forza maggiore che vedremo in seguito nello specifico regolamento). I meccanismi ordinari di solidarietà (art. 45, 1) più nello specifico sono:

il ricollocamento delle persone non soggette e trattenute nel corso di procedure di frontiera; la “sponsorizzazione” di cittadini di paesi terzi in condizioni di soggiorno irregolare; il ricollocamento di beneficiari di protezione internazionale entro 3 anni dall’ottenimento della stessa; l’aiuto in termini di “Capacity bulding measures”- ossia il supporto di uno stato membro ad un altro – con riferimento alle misure di sviluppo delle capacità in materia di asilo, accoglienza, rimpatrio.

Con «misure straordinarie di solidarietà» (art. 45,2) che come detto si applicano alla pressione migratoria si intendono invece due sole misure:

il ricollocamento di richiedenti asilo soggetti questa volta alla procedura di frontiera e il ricollocamento di cittadini di paesi terzi in ipotesi di soggiorno irregolare.

Procedimentalizzare la solidarietà ordinaria

Per quanto attiene alla procedura nell’ipotesi di pressione migratoria lo stato membro richiede il riconoscimento alla Commissione di tale situazione. La Commissione in questo caso deve adottare un report finalizzato a condurre una conseguente attivazione degli altri stati membri. Come visto nel caso di pressione migratoria si allarga lo spettro dei destinatari dei ricollocamenti e sono previsti tempi ridotti per la loro attuazione.

Esclusione di Sar e ingressi non autorizzati per procedura

Tutto ciò premesso è chiaro come si escludano dai candidati ai ricollocamenti – previsti nelle procedure ordinarie – i soggetti arrivati a seguito di operazioni di ricerca e soccorso perché sottoposti alla procedura di frontiera (e i soggetti arrivati tramite ingressi non autorizzati). Più in generale il tentativo di questo regolamento è quello di procedimentalizzare la solidarietà ordinaria (artt.47-49). La procedura in primo luogo prevede che la Commissione emani un report annuale nel quale dichiari se uno stato membro dell’Unione sia soggetto ad arrivi ricorrenti e determina ciò che serve a tale stato.
Tale report viene notificato poi agli altri stati con l’invito a contribuire. Gli stati a loro volta notificano alla Commissione i contributi con un piano di risposta indicando, o i ricollocamenti o le misure di sviluppo e capacità o i ricollocamenti di vulnerabili. Una di queste tre misure è necessariamente obbligatoria ma ogni stato liberamente può scegliere.

Solidarietà corretta in salsa ricollocamenti e rimpatri

In seguito la Commissione, con una valutazione discrezionale, se ritiene che le offerte degli altri stati sono sufficienti per la creazione di una “riserva di solidarietà” con un atto di esecuzione ratifica le offerte degli stati (art. 48). Tuttavia, se le offerte non sono sufficienti o meglio sono significativamente inferiori rispetto alle necessità dello stato, la Commissione convoca il “Forum di solidarietà”: gli stati a questo punto possono adottare i piani di aiuto rivisti dalla Commissione che in questo caso vengono messi in un atto di esecuzione.
Invece, se gli stati si rifiutano di rivedere i propri piani di aiuto, la Commissione stessa adotterà un atto di esecuzione nel quale deciderà cosa devono fare gli stati che si sono mostrati “poco generosi”; in particolare, se la discrepanza totale tra quanto offerto e quanto necessario allo stato è maggiore del 30 per cento, ogni altro stato membro sarà obbligato a versare il 50 per cento di una quota minima di solidarietà da intendersi in termini di numero di ricollocamenti, di sponsorizzazione dei rimpatri o di entrambe le misure (meccanismo correttivo della solidarietà).

In particolare, con sponsorizzazione di rimpatri si intende il meccanismo mediante il quale uno stato che non ha nel proprio territorio migranti in condizione di irregolarità da rimpatriare sostenga il rimpatrio di cittadini di paesi terzi irregolari che si trovano in un altro stato membro. Il sistema non appare invero immediatamente efficace considerando che per i primi 8 mesi comunque lo stato membro beneficiario della sponsorizzazione mantiene la responsabilità giuridico-amministrativa del cittadino del paese terzo da rimpatriare mentre lo stato cosiddetto sponsor si impegna piuttosto a un’assistenza da remoto di tipo materiale, logistico e finanziario, mentre nell’ipotesi di rimpatri volontari si occupa della policy dialogue con il paese terzo e offre assistenza durante il viaggio o sull’esecuzione. Se trascorso tale periodo lo stato sponsor non assicura le misure di rimpatrio di cui sopra il rimpatrio diventa ricollocamento: si procede non più al rimpatrio del cittadino del paese terzo ma al ricollocamento del migrante dello stato terzo nel territorio dello stato sponsor. Anche qui tuttavia potrebbe essere sufficiente la mera segnalazione dello stato sponsor che il cittadino del paese terzo potrebbe rappresentare un pericolo per la sicurezza interna per potersi rifiutare di eseguire il ricollocamento. È opportuno dunque analizzare ora più nello specifico la Proposta di regolamento concernente le situazioni di crisi e di forza maggiore.

 

regolamento sullo screening

Ma cos’è questa “crisi”?

Con la nozione di crisi si intende l’esistenza di una situazione eccezionale di afflusso massiccio di cittadini di paesi terzi arrivati in uno stato membro oppure un numero elevato di sbarchi che interessa uno stato UE in esito ad operazioni SAR – Search and Rescue – la cui entità in proporzione all’indice demografico e al prodotto interno lordo di quello stato rende inefficace il suo sistema di asilo e di accoglienza e potrebbe implicare gravi conseguenze sul funzionamento del sistema comune d’asilo in ambito europeo.

Va preliminarmente sottolineato che non vi è nel testo del regolamento alcun riferimento circa le misure che lo stato membro abbia messo effettivamente in campo per gestire i flussi migratori e per prevenire la situazione di crisi. Tale omissione come è facile intuire lascerebbe un ampio margine alla possibilità degli stati membri di strumentalizzare l’attivazione dei meccanismi che discendono dalla situazione di crisi con il chiaro intento di impedire l’ingresso dei migranti nel proprio territorio.
Nel caso di crisi la procedura si struttura in tal modo: lo stato membro presenta una richiesta motivata alla Commissione che – in base alle informazioni che essa stessa provvede a raccogliere, alle informazioni raccolte dall’Eauu e ovviamente a quelle di Frontex – valuta se la richiesta dello stato di crisi sia fondata. Qualora venga ritenuta tale la Commissione emana un atto di esecuzione dello stato di crisi senza che però alcun soggetto esterno e indipendente possa compiere attività di monitoraggio o contestazione in riferimento a tale decisione.

In concreto con l’atto di esecuzione la Commissione autorizza lo stato membro all’applicazione di particolari misure relative alle procedure d’asilo e di rimpatrio per un periodo di 6 mesi estendibile a 1 anno. Infatti il termine per la sola registrazione delle domande d’asilo in caso di crisi potrà essere esteso fino a 4 settimane e prorogato fino a 12 settimane! Il sistema è alquanto pericoloso poiché inevitabilmente vi sarebbero garanzie più limitate in merito ai diritti dei richiedenti asilo considerato che tutta la procedura della richiesta d’asilo in situazione di crisi verrebbe comunque svolta in frontiera e in una condizione di privazione della libertà per tutti i cittadini la cui nazionalità in questo caso vede un tasso di riconoscimento della protezione pari o inferiore al 75 per cento.

Inoltre, anche il rimpatrio sarebbe previsto in frontiera: in questo caso i tempi dell’intera procedura che prevede sempre una condizione di trattenimento dell’individuo – data anche la novità dell’introduzione della presunzione del rischio di fuga del migrante – potrebbero ulteriormente estendersi a livello temporale. Se a fronte di tale svuotamento dei diritti fondamentali dei richiedenti asilo tuttavia ci si vuole davvero impegnare a trovare degli aspetti positivi di tale procedura – che comunque non bilanciano tale compressione delle tutele giuridiche dell’individuo – questi possono ravvisarsi nella previsione della concessione di una nuova forma di protezione: ossia la cosiddetta “protezione immediata” e nel «rafforzamento dei meccanismi di solidarietà» (art. 2) ma solo se la crisi è in atto e non se vi è un rischio imminente di crisi, nonostante anche il rischio sia compreso nell’art. 1 che definisce l’ambito di applicazione del regolamento. Rispetto al rafforzamento dei meccanismi di solidarietà: i ricollocamenti in questo caso verrebbero previsti

«anche se i richiedenti asilo sono sottoposti alla procedura di frontiera; ai migranti irregolari; a coloro ai quali è concessa la protezione immediata e infine alle persone sottoposte a misure di rimpatrio sponsorizzate da un altro stato membro».

La protezione immediata invece è concessa agli sfollati esposti a un rischio eccezionalmente alto di subire violenza indiscriminata nel proprio paese e se non possono farvi ritorno. Dopo che la Commissione infatti – per mezzo di una decisione di esecuzione – dichiara l’esistenza di una situazione di crisi sulla base degli elementi di cui all’art. 3 stabilisce la necessità di sospendere le domande di protezione internazionale – definendo il periodo di tale sospensione – e di concedere la protezione immediata.

Rispetto alla condizione di forza maggiore, al Considerando 7 del regolamento, si fa riferimento all’«esistenza di circostanze “anormali ed imprevedibiliin ambito migratorio che sfuggono al controllo degli stati membri e le cui conseguenze non avrebbero potuto essere evitate neanche con l’impiego di tutta la dovuta diligenza». (La Commissione come esempi cita l’ipotesi dell’emergenza epidemiologica da Covid 19 e la crisi al confine tra Grecia e Turchia nel 2020).

Nel caso di “forza maggiore” tuttavia diversamente dallo stato di crisi la procedura non si attiva con una richiesta dello stato membro che deve passare al vaglio della Commissione bensì con una semplice «dichiarazione unilaterale dello stato» per cui appaiono ancora più evidenti i margini di discrezionalità che possono insinuarsi in tale procedura. Con la dichiarazione di una situazione di “forza maggiore” infatti lo stato dichiara che

«non sarà in grado di rispettare i termini per la procedura di richiesta asilo per cui potranno essere estesi fino a quattro settimane».

Non solo, rispetto al diritto del richiedente a una risposta in merito alla propria domanda d’asilo, lo stato

«dichiara che non sarà possibile rispettare i termini della procedura in termini di “presa (e ripresa) in carico” del richiedente e i limiti previsti per il trasferimento del medesimo verso lo stato competente in base al regolamento Dublino. Infine, lo stato dichiara che non sarà possibile rispettare neanche l’obbligo dell’attuazione delle misure di solidarietà che quindi potranno essere sospese fino a 6 mesi».

Anche in questo caso l’unico aspetto positivo è la previsione della concessione al migrante della protezione immediata – già menzionata con riferimento alla situazione di crisi – che deve essere concessa

«nell’evenienza della sospensione della domanda di protezione internazionale e sulla base della quale il cittadino del paese terzo possederà gli stessi diritti sociali ed economici del titolare di protezione sussidiaria».

In ogni caso al termine del periodo di sospensione gli stati dovranno valutare nel merito la domanda di protezione internazionale.

In conclusione, dall’analisi di tali proposte di regolamento sorprende non solo la mancanza, ancora una volta, di qualsiasi previsione di vie legali per l’accesso al territorio dell’Unione che non siano legate alla domanda di protezione internazionale – visto che in molti casi si presuppone la sua inammissibilità – ma quanti sforzi, e quali elucubrazioni ed acrobazie giuridiche si riescano a ideare pur di non rispettare principi fondamentali sui diritti degli individui che – prima ancora che nelle Convenzioni internazionali e nel diritto europeo – sono sanciti all’interno di ordinamenti nazionali come il nostro in particolare nella Costituzione all’art. 10 co. 3 e che i partiti nazionalisti qualificandosi come tali dovrebbero per coerenza rispettare e fare rispettare senza alcuna condizione di sorta in quanto principio immodificabile come deciso dai nostri padri costituenti.

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Guerre di religione: continuazione del colonialismo con altri mezzi https://ogzero.org/guerre-di-religione-continuazione-del-colonialismo-con-altri-mezzi/ Sat, 12 Nov 2022 08:48:30 +0000 https://ogzero.org/?p=9436 Gianni Sartori si propone come autodidatta che propone analisi “a naso”: avercene di nasi così raffinati! E soprattutto con una memoria storica e uno sguardo libertario come il suo. Peraltro l’analisi dei guasti del neocolonialismo è uno dei motivi per cui OGzero è nato e questo scritto ci sembra perfetto per avviare la discussione che […]

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Gianni Sartori si propone come autodidatta che propone analisi “a naso”: avercene di nasi così raffinati! E soprattutto con una memoria storica e uno sguardo libertario come il suo. Peraltro l’analisi dei guasti del neocolonialismo è uno dei motivi per cui OGzero è nato e questo scritto ci sembra perfetto per avviare la discussione che si fonde e intreccia con le altre che muovono masse di disperati, distruggono il clima, depredano territori, spacciano armi, innescano conflitti per controllare risorse. Si può interpretare questo uso della divisione religiosa come un nodo delle diverse emergenze del Finanzkapitalismus nella sua fase iperliberista, un nodo a cui arrivare dagli altri orrori geopolitici, o da cui partire per inserirlo nella rete che mette insieme l’uso politico-aggressivo della religione, il pastone mediatico, la scorciatoia militarista, l’espansionismo imperialista… ma partiamo dallo storico conflitto irlandese tra cattolici separatisti e unionisti protestanti e poi ci espandiamo nelle più complesse – ma riconducibili agli stessi modelli di potere – contrapposizioni mediorientali.


Solo un’ipotesi, la mia. Da “proletario autoalfabetizzato” senza pretese accademiche. A naso diciamo.
Se in passato le “guerre di religione” potevano, forse, esprimere (“fotografare”) in qualche modo i conflitti etnici e/o sociali del tempo (vedi alcune “eresie” e certe “riforme” diretta conseguenza dei conflitti di classe), direi che in seguito, perlomeno dal secolo scorso, il più delle volte sono state la copertura, la “vetrina” di interessate strumentalizzazioni.

Partiamo dall’Irlanda…

A titolo di esempio, il conflitto irlandese, soprattutto dopo la divisione dell’Isola di smeraldo. Se già nel Settecento cattolici e protestanti (discendenti i primi dagli indigeni irlandesi colonizzati, gli altri dai coloni scozzesi presbiteriani) avevano fatto fronte comune per l’indipendenza dell’Irlanda, anche in seguito (vedi gli scioperi di lavoratori salariati cattolici e protestanti a Belfast) non mancarono lotte comuni. A porvi fine intervennero le ricche borghesie filobritanniche (si veda La Casa d’Orange) elargendo piccoli privilegi e organizzando milizie settarie “lealiste” (v. Uvf). Non potendo utilizzare – che so – un diverso colore della pelle o diversità etniche rilevanti (in quanto entrambe le comunità erano di origine celtica, diversamente dagli inglesi anglosassoni – di origine germanica – e anglicani) si accontentarono di ampliare il modesto solco di natura religiosa.


Poi è andata come sappiamo. Esperimento sostanzialmente riuscito, un modello per future strumentalizzazioni a “geometria variabile”.

… e giungiamo tra le comunità beluci, curde e hazara

Quindi ritengo che anche le sanguinose faide mediorientali tra sunniti e sciiti (con ricadute particolarmente gravi per le minoranze qui presenti: yazidi, alaviti, assiro-cristiani, zoroastriani…) siano state perlomeno “pompate”, gonfiate, esasperate ad arte.
Quanto è avvenuto nelle aree curde, occupate militarmente dalla Turchia, di Afrin e di Sere Kaniyê (Nord della Siria) appare emblematico. Non essendo in grado di controllare adeguatamente le proprie milizie mercenarie (vedi l’Esercito Nazionale Siriano, Sna), Ankara si starebbe affidando direttamente al gruppo terrorista Hayat Tahrir al-Sham (Hts, successore di al-Nusra), con tutta probabilità l’emanazione locale di al-Qaeda.

Il ruolo della Turchia

Anche perché tra le fila di alcune formazioni sul libro paga di Ankara ultimamente serpeggiava, oltre al malcontento, anche una certa preoccupazione.

Le voci su un possibile riavvicinamento tra Ankara e Damasco (patrocinato da Mosca) lasciava intravedere la possibilità di venir scaricati, se non addirittura consegnati, per diversi membri delle milizie mercenarie. In quanto ricercati da Damasco potrebbero venire estradati e questo suggerisce una possibile spiegazione su alcuni episodi di insubordinazione. Come per gli scontri a mano armata intercorsi tra membri di Jabhat al-Shamiya e di Jaish al-Islam.
Tali dispute ricorrenti (oltre al rischio concreto di insubordinazione e defezione) tra le diverse fazioni di Sna (forse non adeguatamente attrezzate, oltre che sul piano politico, anche in quello religioso?) avrebbero suggerito a Erdoğan di far leva sul maggiore entusiasmo, fervore religioso (eufemismo per fanatismo) di Hts. Un fanatismo indispensabile per annichilire le minoranze “eretiche” e non omologate (tutti apostati, dissidenti, “pagani”… addirittura comunisti o anarchici talvolta) del nord della Siria. Nella prospettiva di ulteriori invasioni.
Già all’epoca delle prime manifestazioni contro il regime siriano si assisteva a una proliferazione di gruppi armati, in genere appoggiati, oltre che dalla Turchia, da alcuni stati del Golfo come il Qatar.

Negli Usa è ancora in corso il processo contro “Qatar Charity” e contro Qatar Bank per aver finanziato con 800.000 dollari il leader dell’Esercito Islamico Fadhel al-Salim.

Pulizie etnico-religiose nella Mezzaluna sciita

Per inciso, è probabile che questo stia oggi avvenendo in Iran, nel tentativo di strumentalizzare, “dirottare” altrove, le legittime proteste popolari. Con un occhio di riguardo per i beluci, già manovrati in passato anche da qualche potenza imperialista di Oltreoceano. Come da manuale, ça va sans dire, anche i beluci ci mettono “del loro”: per esempio in Pakistan alcuni gruppi indipendentisti beluci sono ritenuti responsabili di vere e proprie stragi ai danni degli hazara, un’altra minoranza, ma di fede sciita.
Va anche detto che da parte sua la Repubblica islamica sembra far di tutto per fornire pretesti in tal senso. In una recente manifestazione (4 novembre 2022) a Khach, provincia di Zahedan, le forze di sicurezza hanno ucciso una ventina di civili beluci (16 le vittime identificate, tra cui alcuni bambini) ferendone oltre sessanta. Da segnalare – stando a quanto dichiarato da alcuni attivisti – che altri feriti erano poi deceduti non essendo stati traspostati all’ospedale dove rischiavano seriamente di essere arrestati.


Un’altra strage di 90 civili beluci era già avvenuta, sempre nella provincia di Zahedana, il 30 settembre.

Appare evidente che – analogamente a quella curda – anche la popolazione minorizzata dei beluci (“minorizzata” e non minoritaria, in quanto divisa da frontiere statali) in Sistan e Baluchistan subisce quotidiane discriminazioni ed è sottoposta a una dura repressione (come del resto altre comunità delle aree periferiche del paese) da parte di Teheran.
Sia per la loro appartenenza etnica, sia per ragioni religiose in quanto sunniti.
Il comandante di al-Nusra, Al-Hana (Abu Mansour al-Maghrebi) arrestato nel 2020 in Iraq aveva rivelato che lo sceicco Khalid Sueliman (della potente famiglia al-Thani), a capo del Jabhat al-Nusra (e pare anche delle organizzazioni derivate), veniva finanziato con qualcosa come un milione di dollari al mese. Turchia e Qatar sosterrebbero, sia finanziariamente, sia con la fornitura di armamenti, i vari gruppi combattenti emanazione dei Fratelli musulmani salafiti in quanto utile strumento per la loro politica estera. Anche in chiave panislamica.

Guerra turca ai curdi in Siria

Alcune organizzazioni hanno stabilito un’analogia, per vastità e inasprimento, tra l’attuale repressione in Iran e i massacri subiti dai beluci a Deraa (in Siria) nel 2011, denunciati dall’Onu come crimini di guerra.
Storicamente accertato che potenze regionali ostili a Damasco avevano favorito la militarizzazione (vedi appunto la formazione di Sna) e l’escalation del conflitto.
Oltre che a Sna, la Turchia non avrebbe lesinato nel fornire sostegno al fronte al-Nusra (dal 2012 nella lista del terrorismo internazionale in quanto ritenuto emanazione di al-Qaeda) e addirittura a Daesh. Formazioni entrambe notoriamente jihadiste.

Quanto al fronte al-Nusra, va ricordato che nell’ottobre 2012 attaccava i distretti autonomi di Şêxmeqsûd e Eşrefiye (regione di Aleppo) uccidendo decine di curdi. Subito dopo gli ascari jihadisti si scagliavano contro Afrin, incontrando però la ferrea resistenza delle Ypg/Ypj. Nel voler annichilire in primis le zone curde del Rojava (dove si sperimentava la rivoluzione del Confederalismo democratico) il Jabhat al -Nusra si smascherava da solo, mostrando apertamente di agire su indicazione della Turchia.

Sempre nel 2012, in novembre, veniva attaccata, partendo direttamente dalla Turchia, anche Serêkaniyê. Un’operazione congiunta tra al-Nusra e alcune milizie curde collaborazioniste legate al Pdk. Entrando in alcuni dei quartieri a maggioranza araba di Serêkaniyê, queste milizie si spacciavano per ribelli antiAssad cercando di stabilire alleanze. Solo successivamente (il 19 novembre) partiva il brutale attacco contro i quartieri a maggioranza curda. Veniva assassinato il sindaco della città e la chiesa diventava un bivacco per il loro quartiere generale.

Nel frattempo la loro già consistente presenza veniva rinforzata dall’apporto della cosiddetta Coalizione nazionale (Etilaf), che – secondo i curdi – sarebbe al Etilaf di Sna o comunque della sua derivazione, il “governo di transizione siriano”. Oltre al seggio di Istanbul, Etilaf ne controlla uno anche a Berlino (oltretutto finanziato dal governo tedesco).
Avrebbe anche una certa influenza in alcuni progetti (ugualmente finanziati dal governo tedesco) che sembrano funzionare come “specchietti per allodole”, allo scopo di creare cortine fumogene sulla realtà della situazione curda. Tra questi, il Centro europeo di studi curdi (Ezks) e il sito Kurdwatch, divulgatore di notizie farlocche intese a giustificare le operazioni militari di Erdoğan nel Nord della Siria e nel Nord dell’Iraq. Ma nonostante questo ulteriore apporto di milizie, successivamente venivano scacciati dalla popolazione insorta dei quartieri curdi, grazie anche all’intervento dei combattenti di Ypg e Ypj.

Gli scontri ripresero, durissimi, nel gennaio 2013. Praticamente una vera e propria ammucchiata di gruppi mercenari guidata da al-Nusra quella che contese per circa due settimane il controllo dei quartieri alle milizie curde. Sconfitte nuovamente, le truppe jihadiste si misero in salvo direttamente oltre il confine turco (immediatamente blindato dai soldati turchi per maggior sicurezza), ma lasciando in mano ai curdi un’ampia documentazione della loro intensa collaborazione con Ankara.
Purtroppo durante la ritirata sia al-Nusra che Daesh non mancarono di vendicarsi sulla popolazione curda con una vile rappresaglia.

Come a Til Eran (luglio 2013) e a Tal Hasil. Dichiarando pubblicamente, attraverso le moschee, che sia il bagno di sangue nei confronti della popolazione curda (circa un’ottantina le vittime accertate) che il sequestro-rapimento delle donne curde (prelevate a centinaia) era giustificato dal punto di vista religioso. Rastrellando poi casa per casa le due località sopracitate alla ricerca di “Apoisti”, ossia di seguaci di Apo Öcalan. Oltre a quelli crudelmente assassinati (alcuni bruciati vivi, con le immagini poi diffuse nei social), vanno considerati anche i desaparecidos (qualche decina) e i cadaveri (una ventina) di cui non è stata possibile l’identificazione.

Til Hasil

Da sottolineare che – per quanto entrambe aspirassero alla supremazia – Al-Nusra e Daesh (o Stato Islamico che dir si voglia) non smisero mai di collaborare proficuamente. Sia garantendo una certa “osmosi” di combattenti –praticamente intercambiabili – da una formazione all’altra (in base alle necessità del momento), sia dandosi il cambio, alternandosi nel controllo delle aree occupate. E soprattutto instaurando congiuntamente durante l’occupazione delle città, dei villaggi e dei quartieri curdi un aspro regime di ispirazione salafita. Anche a livello di tribunali islamici dove operavano in coppia.

Sempre sotto la supervisione di Ankara ovviamente. L’assalto al carcere di Sina à Hesekê (gennaio 2022) era stato pianificato dai territori occupati dalla Turchia.

Come già detto negli ultimi tempi al-Nusra aveva cercato di “riciclarsi” prendendo (almeno ufficialmente) le distanze da al-Qaeda e cambiando pelle e nome. Diventando prima, nel 2016, Liwa Fatah al-Sham e successivamente, nel 2017, appunto Hayat Tahrir al-Sham (Hts, in realtà una finta coalizione di vari gruppi, sostanzialmente sotto il controllo della vecchia al-Nusra, comunque denominata). Attualmente la casa madre sarebbe localizzata in quel di Idlib, in felice coabitazione con l’alleato turco. Allo scopo dichiarato di soffocare il risorgere e la diffusione del Confederalismo democratico in questa parte del Rojava. Esperienza pericolosa perché esemplare e contagiosa, soprattutto così in prossimità del confine turco.

Dal maggio di quest’anno (a seguito dell’incontro di Idlib-Sarmada con esponenti del regime turco) le milizie di Hts hanno ripreso a riposizionarsi e raggrupparsi su Idlib puntando quindi su Afrin. Inoltre si sarebbero acquartierati anche nelle zone di Girê Spî, Azaz, al-Bab, Cerablus e intorno alla città di Minbić (ancora gestita dall’amministrazione autonoma).
Sempre in vista di ulteriori attacchi in Rojava.

Per concludere, pur essendo presto rientrato nella lista nera dei gruppi terroristi, Hts continua a godere dei finanziamenti di Turchia, Qatar, Arabia Saudita…
Pare anche di qualche non meglio identificato “paese occidentale”…

Vai a sapere.

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Armi a regimi feroci: storia della diplomazia israeliana in Myanmar https://ogzero.org/armi-a-regimi-feroci-storia-della-diplomazia-israeliana-in-myanmar/ Thu, 27 Oct 2022 16:11:17 +0000 https://ogzero.org/?p=9267 Il 24 ottobre Israele ha bombardato i siti iraniani che riforniscono di armi la Russia: una scelta di campo precisa e non scontata, visti i rapporti tra le due potenze militari di reciproca tolleranza e spesso di collaborazione a prescindere da qualunque considerazione morale, che arriva a otto mesi dall’inizio della invasione dell’Ucraina. Infatti è […]

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Il 24 ottobre Israele ha bombardato i siti iraniani che riforniscono di armi la Russia: una scelta di campo precisa e non scontata, visti i rapporti tra le due potenze militari di reciproca tolleranza e spesso di collaborazione a prescindere da qualunque considerazione morale, che arriva a otto mesi dall’inizio della invasione dell’Ucraina.
Infatti è prassi per i governi di Tel Aviv intrattenere traffici con le peggiori dittature e i regimi più brutali, rifornendoli – spesso in gran segreto – di sofisticati sistemi di morte. Attingendo anche a un recente dossier pubblicato su “Haaretz” a firma dell’attivista Eitay Mack e ai dossier dell’attivismo di Justice for Myanmar, Eric Salerno ricostruisce la storia emblematica dei rapporti tra Israele dalla sua nascita con  Burma-Myanmar. Sul filo di eventi di sessant’anni fa si vede in tralice come il sistema della condivisione di armi e sistemi bellici con i regimi più autocratici sia rimasta invariata per Israele fin dalla sua fondazione; e un nuovo rapporto sull’uso di armi biologiche nel 1948 da parte dell’Haganà per avvelenare interi villaggi arabi in Palestina confermerebbe questa predisposizione. «Le cose da allora non sono cambiate», chiosa Eric, ed è interessante andare a scoprire i meccanismi ripetuti fino a oggi, che forse non a caso ora sono oggetto di studi accademici seri e circostanziati come quello di Benny Morris della Ben Gurion University e Benjamin Z. Kedar della Hebrew University di Gerusalemme sulla Guerra biologica dei sionisti.


«Sapevano, o avrebbero dovuto sapere, di essere coinvolti nella corruzione e nella cospirazione in Myanmar»

Così scrive Eitay Mack a proposito di una società in Myanmar implicata in crimini e corruzione – i cui responsabili ai massimi livelli sono stati arrestati in Thailandia con l’accusa di riciclaggio di droga e denaro. Avrebbe svolto un ruolo da intermediario tra gli esportatori di armi israeliani e la brutale giunta militare che governa il paese secondo i documenti svelati da Justice for Myanmar. Gli alti dirigenti della società mantengono legami d’affari e familiari con esponenti di spicco della giunta e dell’esercito del Myanmar. La Gran Bretagna ha imposto sanzioni alla società, Star Sapphire Trading, per i suoi legami con l’esercito di Naypyidaw durante la pulizia etnica dei Rohingya.

I documenti trapelati, e di cui l’organizzazione è entrata in possesso, sono oggetto di una lettera inviata dall’avvocato israeliano Eitay Mack al procuratore generale Gali Baharav-Miara, chiedendo l’avvio di un’indagine contro l’industria aerospaziale israeliana, Elbit e Cantieri navali israeliani per aver procurato sistemi d’arma usati per crimini contro l’umanità e genocidio , e contro figure di spicco dei ministeri della Difesa e degli Affari Esteri, incaricate di supervisionare, regolamentare e approvare commercializzazione ed esportazione di quei sistemi d’arma in Myanmar. Risulta che siano stati trasferiti a Tatmadaw anche droni, venduti da Elbit Systems e usati per commettere crimini di guerra, e i pattugliatori veloci Super Dvora MK III venduti da IAI (entrambe compagnie pubbliche controllate dal governo israeliano).

La tradizionale (e criminale) cooperazione militare

La denuncia è sempre la stessa. E l’alleanza Israele-Myanmar è soltanto un tassello di un quadro molto più vasto e inquietante. Tutti i governi israeliani, da quando è stato fondato lo stato nel 1948, hanno visto la corruzione di alcuni eserciti, certe guerre civili, la violenza di taluni regimi dittatoriali come una importante opportunità diplomatica per Israele e affaristica per l’esercito di quel paese mediorientale nonché per le industrie militari israeliane. Uno dei casi più eclatanti è stato recentemente raccontato sul quotidiano di Tel Aviv, “Haaretz”, da Eitay Mack, avvocato e attivista per i diritti umani, che ha analizzato 25.000 pagine degli archivi del ministero degli Esteri di Gerusalemme recentemente resi pubblici. Quello che deriva è un comportamento, o meglio una politica, che va avanti da sempre. Da pochi anni dopo la sua nascita, Israele infatti ha mantenuto relazioni militari con il paese asiatico che si chiamava Burma all’epoca e soltanto dal 1989 è noto come Myanmar.

«Una guerra civile assassina? Tortura? Massacro? Per Israele è terreno fertile per la cooperazione»

Riproponiamo qui con lo stesso ruolo uno dei sottotitoli del lungo e circostanziato articolo pubblicato dal quotidiano di Tel Aviv nel quale Mack, citando documenti ufficiali, dimostra come Israele ha armato, addestrato e per decenni rafforzato i regimi militari del Myanmar.

«Israele ha aiutato l’esercito a riorganizzarsi come una forza moderna, lo ha armato e addestrato e ha contribuito in modo drammatico a costruire la sua potenza e consolidare la sua presa come l’elemento più potente del paese. Quel potere inizialmente permise all’esercito di gestire il paese da dietro le quinte, e in seguito di rimuovere la leadership civile e forgiare una varietà di diversi regimi militari».

Mack è preciso, le carte che cita ufficiali e circostanziate. Non interessava ai successivi governi israeliani, scrive, che l’aiuto militare non fosse inteso a scopo di difesa contro nemici esterni, ma fosse usato per fare la guerra contro gli abitanti di quei paesi: «In tutte le migliaia di pagine, che coprono 30 anni di relazioni, non c’è nemmeno un rappresentante israeliano che esprima un’obiezione alla vendita di armi al Myanmar». Vale la pena riprendere alcune delle affermazioni di Mack tratte dalla documentazione ufficiale.

«Un cablogramma inviato dall’ambasciatore israeliano in Birmania nel dicembre 1981 riassume bene l’essenza delle relazioni tra i paesi dal 1949. L’ambasciatore, Kalman Anner, ha riferito al direttore dell’Asia Desk del ministero degli Esteri di aver incontrato il ministro degli Esteri birmano nel tentativo di persuaderlo a sostenere Israele nelle votazioni delle Nazioni Unite. “Israele è uno dei paesi più amichevoli con la Birmania, e la Birmania è un paese estremamente amichevole con Israele”, scrisse nel 1955 Mordechai Gazit, membro dello staff dell’ambasciata israeliana a Rangoon (ora Yangon), mentre riferiva di un incontro con il capo segretario del primo ministro birmano U Nu. “[Il segretario capo] ha osservato che i due paesi stanno cooperando strettamente nell’arena delle Nazioni Unite. Spiegando da dove deriva questa amicizia, ha notato che Israele e la Birmania sono gli unici paesi socialisti in Asia”».

La parola “socialismo” fu ampiamente usata, direi abusata, per giustificare la vicinanza politica dei due paesi: «Un cablogramma – scrive Mack – fu inviato al primo ministro David Ben-Gurion dal ministero degli Esteri nel settembre 1952 in cui affermava che la guerra civile in Birmania aveva causato fino ad allora 30.000 vittime e che “il 55% del bilancio statale è stanziato fino a oggi per scopi di difesa”».

Parlamento birmano negli anni Cinquanta

Gli accordi del 1955

Nel 1955, i due paesi arrivarono a un accordo: armamento massiccio e addestramento militare, in cambio di spedizioni annuali di migliaia di tonnellate di riso dalla Birmania. La corrispondenza vista da Mack e resa pubblica in Israele offre un quadro preciso e dettagliato dell’accordo. Da Tel Aviv, in cambio delle spedizioni di riso, sono arrivati nell’ex Birmania 30 aerei da combattimento, munizioni, 1500 bombe al napalm, 30.000 canne di fucile, migliaia di ordigni di mortaio e equipaggiamento militare, dalle tende all’attrezzatura per il paracadutismo. Inoltre, dozzine di esperti israeliani venivano inviati in Birmania per addestrare i soldati mentre ufficiali dell’esercito birmano furono condotti in Israele per un’istruzione completa sulle basi dell’Idf. Dai documenti risultano l’addestramento dei paracadutisti e quello per i piloti di caccia dell’aviazione birmana. In collaborazione con l’esercito birmano, Israele ha anche fondato in Myanmar società di navigazione, agricoltura, turismo e costruzioni.

«I birmani menzionavano spesso il grande aiuto che ricevevano da noi», risulta questo scritto da un delle carte del ministero degli Esteri, Shalom Levin, un diplomatico israeliano a Rangoon, inviata al direttore generale del ministero della Difesa Shimon Peres nel dicembre 1957. «L’equipaggiamento arrivava proprio quando ne avevano bisogno, per le operazioni contro i ribelli».

La società militarizzata, un modello targato Idf

Risulta che Israele abbia istituito una scuola per il combattimento aereo e terrestre in Birmania e la Birmania attinto all’assistenza di Israele per organizzare il suo esercito sulla base del modello dell’IDF di una divisione in corpi e in forze regolari e riserviste. Una serie di cablogrammi inviati alle legazioni israeliane nell’Asia orientale e citate da “Haaretz” ha fornito dettagli su una delegazione birmana di alto rango che era venuta in Israele per «imparare i metodi dell’Idf». La delegazione ha visitato una base di assorbimento e addestramento, il produttore di armi Israel Military Industries, basi di addestramento per l’amministrazione militare e per le nuove reclute, il comando centrale, una brigata di fanteria e il corpo di artiglieria. Inoltre, secondo un documento, «ufficiali di stato maggiore sono stati inviati per studiare la questione della mobilitazione della manodopera in Israele, i metodi di mobilitazione, la legge sul servizio di difesa [coscrizione obbligatoria] e simili».

Nel 1958 all’ombra di una profonda crisi politica ed economica e sullo sfondo della guerra civile in corso – infuriava da un decennio – il governo birmano crollò e subentrò un regime guidato dal gen. Ne Win. «L’esercito sta prendendo il controllo di molte aree della vita», ha scritto Zvi Kedar, il secondo segretario dell’ambasciata israeliana a Rangoon, in un cablogramma del dicembre dello stesso anno. «La stessa stampa è stata anche colpita dalla promulgazione di leggi di emergenza che limitano la libertà di scrittura… Sono stati effettuati ampi arresti tra i leader di gruppi di sinistra che hanno legami con i ribelli».

Ben Gurion passa in rassegna le truppe con Ne Win nel 1959

Israele, tuttavia, ha visto dei benefici nell’arrivo di un generale a capo del governo:

«Nonostante le numerose crisi interne che hanno afflitto la Birmania negli ultimi anni, l’amicizia Israele-Birmania rimane salda ed è stata in realtà notevolmente rafforzata nell’ultimo anno, da quando il governo è effettivamente passato nelle mani dell’esercito», ha scritto un ministero degli Esteri del giugno 1959. «Gli amici più fedeli di Israele sono principalmente nei circoli dell’esercito».

Ne Win visitò Israele quel mese. Incontro il primo ministro Ben-Gurion e il capo di stato maggiore, il capo della polizia, alcuni ufficiali dell’Idf, ha visitato le basi dell’esercito e, rilevano i documenti ufficiali dell’epoca, ha ricevuto in regalo un centinaio di fucili mitragliatori Uzi. Armi moderne considerate le più efficienti dell’epoca. Mark cita un episodio che definisce particolarmente strano nel coinvolgimento di Israele in Birmania. «I birmani, a quanto pare, consideravano Israele un’ispirazione per i programmi di insediamento di terre e tentavano di insediare personale militare in regioni abitate da minoranze etniche ribelli, nello stile degli avamposti della Brigata Nahal dell’Idf». Un’indagine del giugno 1959 redatta dall’Asia Desk del ministero degli Esteri citava un piano in Birmania per stabilire «locali di insediamento costruiti secondo il piano del distretto di Lachish, nel formato di un moshav dei lavoratori cooperativi israeliani, con i gruppi principali [di coloni] composto da ex militari». Agli esperti agricoli israeliani inviati nel cuore della patria della minoranza etnica shan, che si era ribellata al governo centrale era subito chiaro che la popolazione locale era ferocemente contraria al piano, vedendolo come un tentativo di invasione. «Lo stato Shan non ha assolutamente alcun desiderio per un piano di insediamento birmano o israeliano, e certamente non il nostro piano congiunto», scrisse Daniel Levin, ambasciatore di Israele in Birmania, nel 1958.

Col tempo cambiano i leader, non le prassi

Cambiarono i leader politici ma non la politica e la collaborazione tra il paese asiatico e Israele. «Questa sera l’esercito ha preso il potere», riferì a Gerusalemme in un cablogramma nel marzo 1962 l’ambasciata israeliana in Birmania. «Secondo notizie non confermate, tutti i ministri tranne il primo ministro e i ministri dell’istruzione e delle finanze sono agli arresti domiciliari. Tutto il traffico aereo è stato interrotto. Pattuglie dell’esercito in tutti gli angoli della capitale. Prevale la quiete assoluta». Tre mesi dopo quel colpo di stato, il viceministro della Difesa, Shimon Peres giunse in Birmania per incontrare i vertici del governo militare. «Il signor Peres ha dichiarato a nome del primo ministro che Israele è interessato, come sempre, ad aiutare su ogni argomento e in qualsiasi modo deciderà il generale», si legge in un memorandum.

Poche settimane dopo l’incontro con Peres, Ne Win, a quel punto capo del Consiglio Rivoluzionario, ordinò il massacro degli studenti che stavano tenendo manifestazioni a Rangoon: «I soldati hanno sparato sulla folla», scrisse Michael Elitzur, un consigliere dell’ambasciata israeliana, nel luglio 1962. Raccontò come l’esercito avesse demolito un edificio universitario dove gli studenti si erano barricati. Le autorità hanno fatto in modo che non si tenessero funerali pubblici per le vittime. È stato uno spettacolo scioccante vedere centinaia di persone – molte delle quali genitori e parenti di coloro che sono stati uccisi e feriti – riunirsi nel silenzio più totale intorno al Policlinico… Due giorni dopo, è stata ordinata la chiusura di tutti gli istituti di istruzione in tutto il paese. Elitzur riferì inoltre che i servizi di sicurezza avevano fatto sparire dozzine di altri studenti. I massacri da parte di Tatmadaw non sono mai stati sospesi fino all’ultimo raid –per ora – del 24 ottobre 2022: 4 bombe su un concerto per celebrazione dell’organizzazione per l’indipendenza kachin sganciate da un aereo militare che hanno ucciso 80 persone, ferendone almeno 70.

Kansi, una cittadina del distretto di Hkpant nello Stato nordorientale del Kachin, bombardata dall’aviazione birmana durante un concerto in corso per celebrare la resistenza Kachin il 23 ottobre 2022

Molti altri i documenti citati da Mack che ha rilevato come «La rottura, per periodo breve, del rapporto economico non ha portato Israele a smettere di sostenere la Birmania all’Onu, né ha comportato la cessazione degli aiuti militari al regime. Una parte considerevole delle esportazioni israeliane verso la Birmania è destinata all’esercito birmano (equipaggiamento militare, provviste, prodotti chimici delle industrie militari israeliane e così via)», scrisse Daniel Levin, allora direttore dell’Asia Desk, nel gennaio 1966.

Consiglieri militari, addestratori all’antiguerriglia… e al pogrom

In un cablogramma dell’aprile 1966, l’addetto militare israeliano in Birmania, il colonnello Asher Gonen, chiese l’approvazione al colonnello Rehavam Ze’evi, all’epoca assistente capo della divisione operativa dell’Idf, per un nuovo programma per addestrare i comandanti del battaglione birmano in Israele, con l’obiettivo di combattere i ribelli. Il programma includeva un corso da quattro a sei mesi in Israele con addestramento per una brigata di fanteria e una brigata aviotrasportata, integrazione della difesa territoriale, operazioni con il paracadute, problemi di manutenzione, artiglieria, comunicazioni, combattimento e partecipazione alle manovre. Nel marzo 1966, l’allora capo di stato maggiore Yitzhak Rabin visitò la Birmania. Un anno più tardi – giugno 1967 –, il diplomatico Zeev Shatil, rilevò che «a partire dalle 11:00 [AM], iniziò un pogrom organizzato e sistematico contro i residenti cinesi di Rangoon, che è davvero difficile da descrivere. Gruppi organizzati andavano di casa in casa e di negozio in negozio, buttavano via tutti i loro averi, li ammucchiavano e vi appiccavano il fuoco per le strade. Dalle finestre dei piani superiori sono stati lanciati oggetti in strada e nelle strade sono state date alle fiamme le auto… Fonti, non confermate, parlano di circa 30 morti e più di 100 feriti, alcuni gravemente».

La situazione non migliorò e pochi anni dopo, nel gennaio 1982, un funzionario dell’ambasciata, Avraham Naot, scrisse di aver parlato con un alto funzionario del ministero degli Esteri birmano di un’altra “crisi”: «Era chiaro … che il paese deve fare tutto il possibile per impedire alla popolazione musulmana in Birmania di crescere attraverso l’immigrazione dai paesi vicini». Nel mirino c’erano e ci sono ancora i Rohingya. Israele e Birmania hanno creato un collegamento tra servizi segreti e ambasciata israeliana in Birmania che ha ricevuto una busta dal Mossad contenente materiale di intelligence da trasmettere alla sua controparte birmana in merito alla attività «sotterranea musulmana nel Sudest asiatico [che opera sotto l’ispirazione] dell’Iran e della Libia». Le cose da allora non sono cambiate e nel novembre 2019, Ronen Gilor, ambasciatore di Israele in Myanmar, ha twittato un messaggio di sostegno e auguri di successo ai capi dell’esercito del Myanmar in merito alle deliberazioni in corso contro di loro presso la Corte internazionale di giustizia a L’Aia con l’accusa di genocidio contro il popolo Rohingya. «Incoraggiamento per un buon verdetto e buona fortuna!» Gilor ha scritto.

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La carne da cannone imparerà mai a sfuggire al macello? https://ogzero.org/la-carne-da-cannone-imparera-mai-a-sfuggire-al-macello/ Sun, 23 Oct 2022 12:11:03 +0000 https://ogzero.org/?p=9239 Khinstein, un consigliere di Putin, ha dichiarato che la Rosgvardiya metterà sotto maggiore sorveglianza gli uffici di reclutamento di carne da cannone dopo i molti attacchi subiti: evidentemente la propaganda delle operazioni speciali produce invece una consapevolezza sempre più estesa della necessità di boicottare la coscrizione, un recupero da parte dei civili di quella resistenza […]

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Khinstein, un consigliere di Putin, ha dichiarato che la Rosgvardiya metterà sotto maggiore sorveglianza gli uffici di reclutamento di carne da cannone dopo i molti attacchi subiti: evidentemente la propaganda delle operazioni speciali produce invece una consapevolezza sempre più estesa della necessità di boicottare la coscrizione, un recupero da parte dei civili di quella resistenza di stampo novecentesco contro qualunque aspetto abbia attinenza con il mondo militare. A un istintivo moto di sottrazione al reclutamento in una guerra zarista cominciano a moltiplicarsi gli episodi di sabotaggio. Questo si spiega anche con l’analisi della provenienza di classe e dalla periferia dell’impero degli arruolati; e proprio da questo prende spunto Yurii per illustrare in una cavalcata attraverso il territorio della Federazione e i luoghi della diaspora, inseguendo resistenza, controinformazione antimilitarista contrapposta alla propaganda del Cremlino… mobilitazioni di madri, mogli, figlie. Ma Yurii non tralascia nemmeno l’arruolamento ucraino, altrettanto subdolo perché si affida a una censura preventiva di chi si fa passare per la parte buona del conflitto; tuttavia l’impegno internazionalista di Assembly scoperchia la bugia dell’unità nazionale che si regge solo come contrasto all’aggressore. 


La mobilitazione “parziale” dell’esercito della Federazione russa imposta da Putin il 21 settembre ha fatto entrare il conflitto russo/ucraino in un una nuova fase che pone non poche domande sia sulla consistenza e reale tenuta dell’esercito della Federazione che sui particolari caratteri di classe e sulle ricadute sociali della guerra stessa.

La propaganda e la guerra ai poveri

I contorni stessi della mobilitazione di carne da cannone sono rimasti vaghi. Formalmente il ministro della difesa russa Sergej Shojgu ha parlato di 300.000 uomini ma resta aperta l’incognita dell’ormai famosi punto 7 del decreto di Putin che si sussurra dovrebbe prevedere il suo ampliamento fino a un milione di uomini in caso di necessità (era già stato previsto l’aumento di 137.000 membri combattenti dell’esercito entro il 1° gennaio 2023).
Il maggiore successo di reclutamento è avvenuto, senza sorpresa alcuna, nelle regioni più povere e degradate del paese. Già ci s’avvicina al 100% dei riservisti programmati presenti nei campi di addestramento o addirittura ormai al fronte, carne da cannone proveniente da regioni come la Cecenia (reddito pro capite annuo 2170 dollari), dal Kabardino- Blakaria (2670 dollari), dalla Buritia (3650 dollari), dall’Altaj (3730). Si tratta di popolazioni anche con tassi di scolarità tra i più bassi della Federazione e quindi più indifesi di fronte alla propaganda sciovinista dei mass-media e dei social network.

Una recente indagine ha portato alla luce che il 69% dei russi non è mai stata all’estero, mentre oltre il 50% non ha neppure il passaporto. Nelle regioni più povere la mancanza di passaporto supera l’80%. Non si è mai viaggiato all’estero per mancanza di mezzi materiali ma anche per mancanza di curiosità culturale. Sono loro la vera “carne da cannone” che hanno alimentato lo sforzo bellico putiniano negli ultimi 8 mesi.

Le cose cambiano radicalmente quando si arriva nelle capitali storiche della Russia, San Pietroburgo e Mosca. Nella città sulla Neva hanno risposto alla lettera di mobilitazione solo il 18% dei riservisti, a Mosca peraltro sono state chiamate a servire la nazione in Ucraina solo 14.000 persone ma buona parte di queste al momento della chiamata avevano già preso la strada dell’esilio. Non è certo un segreto che chi ha seguito la via della fuga appartiene socialmente – in buona parte – a quegli strati della società che potremmo definire “ceto medio” e che condividono “valori occidentali”. Le lunghe teorie di uomini che si sono visti nei primi giorni della mobilitazione attraversare le frontiere con ogni mezzo disponibile però non sono solo giovani; spesso si tratta di intere famiglie che abbandonano il paese definitivamente.

Renitenti a Volgograd

Esposizione infame a Volgograd delle foto dei renitenti

«Non voglio e non posso attendere – ci dice Igor 32 anni di Samara – quando cambierà qualcosa in Russia. Proverò a ricostruirmi una vita in Germania se riuscirò a raggiungerla».

Per ora è andato in Kazakistan e da lì spera di avere un visto europeo, con lui la moglie e il figlio di tre anni. Anche l’emigrazione verso Israele per chi ha sangue ebraico è molto gettonata:

Valerij è ora in Tajikistan: “Si tratta del paese in cui la vita costa di meno, ma sto preparando i documenti per volare a Tel Aviv e ottenere il passaporto israeliano».

Ma quasi nessuno degli oltre 30.000 che hanno fatto per ora richiesta del passaporto d’Israele intende fermarsi lì: «Troppo difficile inserirsi lavorativamente», dice ancora Valerij che sogna i paesi scandinavi.

Il dissenso al minimo sindacale

La decisione della dirigenza di tenere le frontiere aperte (ma nel Donbass con la dichiarazione della Legge marziale sono state prontamente chiuse) si basa su un calcolo cinico: più oppositori e refrattari alla leva se ne andranno, meno potenziali movimenti interni no-war potranno svilupparsi nel futuro. Si tratta tuttavia di calcoli che potrebbero rivelarsi superficiali, se la guerra dovesse continuare a lungo e la lista dei morti e degli invalidi diventasse insostenibile. Del resto le manifestazioni delle donne in Daghestan contro l’invio dei mariti e dei figli al fronte come carne da cannone la dice lunga su come si stia incrinando la narrazione putiniana sulla guerra. Non era mai avvenuta una mobilitazione spontanea di donne musulmane all’interno dei confini della Federazione russa e segnala quanto potrebbe essere inedita la crescita del femminismo in Russia.

I residenti del villaggio di Endirey in Daghestan hanno bloccato l’autostrada federale La polizia spara in aria a Khasavyurt-Makhachkala, dove le donne avevano inscenato una protesta contro la “mobilitazione parziale” dei loro uomini

Allo stesso tempo è evidente che i caratteri del rifiuto della guerra, per certi versi, assumono caratteristiche diverse da quelli della Prima guerra mondiale e pongono in modo nuovo la questione della lotta contro la guerra. Il’ja Budraytskis uno dei più importanti attivisti e intellettuali russi di sinistra, che ha deciso malgrado tutto di restare nel paese, ritiene che «ci sono importanti cose che chi ha deciso di emigrare può comunque fare». Come per esempio creare dei collegamenti stabili sia con gli altri fuoriusciti nei diversi paesi, naturalmente con chi sta in Russia al fine di giungere a una piattaforma comune di chi è contro la guerra. E allo stesso tempo produrre dei materiali di propaganda per chi è andato al fronte, lo sviluppo sistematico di una controinformazione sull’andamento reale del conflitto (anche se ricordiamo che ai reclutati russi a differenza di quelli ucraini sono stati tolti gli smartphone).

Straccioni mercenari, la carne da cannone

Come già nel caso dei contractors e dei “volontari” reclutati nei mesi precedenti, la parziale mobilitazione è stata selettiva in termini di classe anche sotto altri profili: non è casuale che la maggior parte dei mobilitati (secondo i dati ufficiali 230.000) sono attratti dalla possibilità di ricevere paghe da 200.000 rubli al mese (media nazionale 50.000) e moltissimi benefit quali la possibilità di formazione professionale e la possibilità di acquistare una casa a tassi agevolati nel dopoguerra.

Per esempio il governatore della Yugra, Natalija Komarova, ha deciso di fissare la paga del mobilitato a ben 250.000 rubli e altrettanti al momento della smobilitazione. Alle Sakhalin, in Chukotka e Yamal, si va anche oltre: pagano subito 300.000 rubli a testa. In Jakutia, il presidente Aisen Nikolajev ha addirittura emanato un decreto speciale in cui si afferma che, oltre a vari benefici, le famiglie dei residenti mobilitati riceveranno anche una somma forfettaria di 200.000 rubli. È stata diffusa un’altra promessa del presidente della Crimea Sergej Aksenov: ogni coscritto riceverà anche 200.000 rubli dalle autorità dell’unità militare in cui è stato arruolato. Il denaro dovrà arrivare sulla carta entro cinque giorni. Sembra che siano stati promessi 100.000 rubli ciascuno nelle regioni di Belgorod, Irkutsk, Kursk, Omsk, Tula, Adjgea e in diverse altre regioni.

La mobilitazione ha anche il suo lato industriale: andare a combattere spesso significa abbandonare posti di lavoro che sono comunque utili allo sforzo bellico neozarista nelle retrovie.

Gli operai della fabbrica non hanno voglia di combattere. A poco a poco dal fronte vengono a conoscenza della mancanza di tutto ciò di cui hanno bisogno e che devono comprare tutto a proprie spese, che vengono portati al fronte senza preparazione. Non ci sono nemmeno persone che hanno lasciato [il paese].

Dicono: «Dove potremmo andare? Siamo operai. Nessuno vuole gente come noi, cazzo» (l’intervistato si definisce operaio, ma si tratta di un ingegnere della difesa); e aggiunge: «L’atteggiamento dei soldati all’ufficio di arruolamento militare è brutale, ci chiamano “usa e getta”, prendono tutti indistintamente. Come se ci stessero preparando per il macello… Le persone sono diventate nervosissime, ci sono molti casi di depressione. Di fronte alla morte la loro paura della repressione svanisce», afferma un tecnico di una fabbrica di San Pietroburgo.

Molti, tuttavia, accettano il loro destino con fatalismo (tipicamente russo) e non sembrano essere pienamente consapevoli del grado di pericolo. Un fatalismo che molti pagano con la vita: secondo i servizi segreti britannici (che forniscono gli unici dati “equilibrati”) a settembre le perdite russe sarebbero state di oltre 16.500 uomini a cui aggiungere almeno 35.000 feriti).

La propaganda nazionalista di Kyiv basata sulla censura

“Dall’altra parte della barricata” le informazioni sono assai più ridotte. Da una parte sembra funzionare bene una certa censura “preventiva” messa in atto dal ministero della difesa ucraino, dall’altro, i fenomeni di diserzione e anche di malcontento tra le truppe sembrano essere più limitati temporaneamente. In questo senso l’arma della mobilitazione nazionalista sembra aver funzionato molto più per Zelenskij che per Putin e un certo grado di motivazione a combattere è presente sia nell’esercito regolare che tra le Unità Territoriali volontarie. Come ha ricordato da questo punto di vista Assembly, un gruppo libertario di Kharkhiv impegnato nella solidarietà internazionalista ma piuttosto tiepido verso la partecipazione alla “resistenza armata”:

«Dovremmo capire che l’unità nazionale degli ucraini intorno al potere di Zelenskij si basa solo sulla paura della minaccia esterna. Pertanto, gli atti sovversivi contro la guerra in Russia sono indirettamente una minaccia anche per la classe dirigente ucraina, ed è per questo che consideriamo il loro sostegno informativo un atto internazionalista».

Il malcontento sotto le braci dell’occupazione

Allo stesso tempo gli attivisti di Assembly ricordano come «nonostante l’assenza di una differenza qualitativa tra gli stati in guerra, essi differiscono quantitativamente: se tutti i soldati russi smettono di combattere, la guerra finirà, se lo fanno i soldati ucraini, finirà l’Ucraina. La zona di occupazione inizia a 20 km dalla circonvallazione della nostra città, e sappiamo cosa significa: la “scomparsa” di tutti gli abitanti almeno un po’ attivi e l’età della pietra per il resto della popolazione. Allo stesso tempo, dopo che le truppe russe hanno perso per lo più il loro potenziale offensivo, un’ondata di malcontento sociale ha iniziato a manifestarsi anche in Ucraina – ne abbiamo già parlato».

Il diritto a uscire dal paese e non partecipare al conflitto è anche rivendicato da Assembly, tuttavia la formale mobilitazione generale e la chiusura delle frontiere per i maschi in età adulta grazie alla diffusa corruzione nella società ucraina è stato spesso risolto praticamente da chi non intende fare da carne da cannone: secondo alcune fonti bastano poco più 100 dollari per “oliare” le guardie alla frontiera.
La diserzione vera e propria si è quindi concentrata nei periodi di maggiore difficoltà per l’esercito ucraino, durante la lunga offensiva russa nel Donbass di primavera scorsa. In quel periodo lo stesso presidente ucraino sosteneva che il suo esercito perdeva 200-300 uomini al giorno. Come riportava l’agenzia di stampa russa “Tass” all’epoca:

«I casi di diserzione delle truppe ucraine sono sempre più diffusi», ha dichiarato il servizio stampa del Ministero della Difesa. «Così, nei pressi del villaggio di Aleksandropil nella Repubblica Popolare di Donetsk, più di 30 militari ucraini di uno dei battaglioni della XXV Brigata aviotrasportata, dopo aver abbandonato le armi personali, hanno lasciato volontariamente le loro posizioni», si leggerà sull’agenzia russa.

Altri si erano avuti a inizio estate: il 22 giugno il Ministero russo ha dichiarato che i militari della 57a brigata di fanteria motorizzata ucraina che difendevano gli insediamenti di Gorske, Podleske e Vrubovka nella Repubblica Popolare di Luhansk, dopo aver perso oltre il 60% degli uomini, si sono rifiutati di eseguire gli ordini e hanno abbandonato volontariamente le loro posizioni.

Scarsi o nulli invece i fenomeni di fraternizzazione tra soldati dei due paesi slavi anche se alcune decine di soldati russi, dopo l’inizio della mobilitazione si sono volontariamente consegnati prigionieri alle Forze armate di Kyiv, pur di non combattere.

Il ministero della Difesa ha dichiarato che il comando ucraino è stato costretto a formare battaglioni separati di armi leggere con cittadini mobilitati non addestrati per compensare le perdite.


Questo articolo ha avuto un prequel embrionale in un intervento di Yurii su Radio Blackout  l’11 ottobre 2022. Ecco il podcast che espone ulteriormente l’analisi relativa ai tentativi di resistenza antimilitarista durante l’“Operazione speciale”:
“Quale narrazione della guerra in Ucraina esula dalla propaganda militare?”.

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Vecchie corone e turbanti consunti, curdi e beluci sudditi dell’impero persiano https://ogzero.org/vecchie-corone-e-turbanti-consunti-curdi-e-beluci-sudditi-dellimpero-persiano/ Tue, 18 Oct 2022 20:20:44 +0000 https://ogzero.org/?p=9151 Ospitando queste considerazioni di Gianni Sartori comparse su “Osservatorio repressione” proseguiamo l’interesse per un movimento che non accenna ad arrendersi al brutale massacro di forze di una brutale polizia che fin dai tempi della Savak della famiglia Pahlevi è famigerata per le sue efferatezze; ma la storia fa ben sperare, perché quando il popolo iraniano […]

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Ospitando queste considerazioni di Gianni Sartori comparse su “Osservatorio repressione” proseguiamo l’interesse per un movimento che non accenna ad arrendersi al brutale massacro di forze di una brutale polizia che fin dai tempi della Savak della famiglia Pahlevi è famigerata per le sue efferatezze; ma la storia fa ben sperare, perché quando il popolo iraniano è esausto non recede fino al rovesciamento del potere. Non sappiamo quale sarà l’epilogo ma la determinazione meriterebbe migliori analisi da parte dell’Occidente. Sartori ha il merito di usare occhiali che pescano nell’immaginario ipocrita che attraverso gli organi di stampa mainstream evidenziano episodi, a tratti beatificano, ma poi non considerano il patriarcato e si focalizzano esclusivamente sulla questione del velo senza considerare le istanze sociali e politiche che alimentano il movimento e senza accorgersi del tentativo di organizzazioni nostalgiche dello sha’ intente a scippare le lotte, cercando di replicare la manovra degli ayatollah che sterminarono i rivoltosi progressisti che avevano cacciato i Pahlevi. 


L’antifascismo nelle piazze iraniane

Affrontando i nostalgici del passato e gli oscurantisti del presente

Qualche considerazione, mi auguro non “allineata”, su quanto sta avvenendo in Iran. Già in precedenza avevo sottolineato come l’autodeterminazione dei popoli in generale e l’indipendentismo in particolare, siano divenuti una variabile “USA e getta” a seconda degli interessi geostrategici in gioco. Quella che uno studioso catalano aveva definito “indipendenza a geometria variabile”, di cui si è esaustivamente parlato in un articolo precedente. Gli esempi dei “due pesi e due misure” si sprecano, come avevo segnalato qualche anno fa (in epoca non sospetta) nella “postfazione” a un mio libro sui curdi.
E i curdi, da questo punto di vista, non fanno certo eccezione, se pur loro malgrado.
Beatificati qualche anno fa quando si facevano massacrare per sconfiggere l’Isis, erano stati poi – di fatto – dimenticati. Abbandonati in balia delle milizie islamiste filoturche in Rojava, sotto i bombardamenti turchi (anche con armi proibite dalla convenzione di Ginevra) in Bashur e sepolti vivi nelle carceri di sterminio in Turchia.
Quanto al Rojhilat (il Kurdistan sotto amministrazione iraniana), se si esclude in passato qualche tentativo di strumentalizzazione da parte del Mossad, parevano completamente scomparsi dal radar. Nuovamente alla ribalta in quanto tra i principali protagonisti della rivolta in corso (innescata dall’assassinio di una donna curda, Jina Amini) tornano a godere di qualche attenzione – interessata – da parte dei media occidentali.
Women Life Freedom
Talvolta in maniera paradossale. In un recente articolo apparso su un noto quotidiano italico si celebra “l’arte di resistere” di questo popolo indomito, ma – a mio avviso – in modo alquanto parziale. Ben due paginoni per ricordare, oltre alla lotta contro l’Isis e Daesh, perfino il “rapporto turbolento” dei curdi dell’Iraq con Bagdad e dilungarsi – addirittura – sulle antiche battaglie dei Carduchi (probabili progenitori dei curdi) celebrate da Senofonte in Anabasi.
Ma nessun accenno al Bakur (il Kurdistan sotto occupazione turca) o al “Mandela curdo” Ocalan.

L’analisi deve considerare molti aspetti

Riproponendo comunque una visione riduttiva – sempre a mio modesto avviso – dell’attuale crisi iraniana interpretata come legata essenzialmente alla questione dell’hejjab. In realtà ritengo che il problema, in particolare per le donne curde, sia leggermente più complesso. Andarsi a rivedere le percentuali di donne impiccate per essersi ribellate al patriarcato (con le minorenni – in genere vittime di matrimoni combinati – che se accusate di aver ammazzato il marito o un cognato, rimangono in cella in attesa della maggiore età e dell’esecuzione).

La rivolta in carcere dei fomentatori curdi

Del resto anche la rivolta nel famigerato carcere di Evin (a Teheran) sembrerebbe essere stata innescata (nella serata del 15 ottobre) dai prigionieri politici curdi.
Non i soli qui rinchiusi, ovviamente (ci sarebbero anche personaggi noti, in quanto stranieri, come la franco-iraniana Fariba Adelkhah e almeno fino alla fine di settembre lo statunitense di origine iraniana Siamak Namazi).
Per completezza va riportata anche un’altra inquietante ipotesi. Ossia che potrebbero essere state le stesse autorità carcerarie ad appiccare l’incendio come pretesto per eliminare dei pericolosi dissidenti.
Evin Prison

L’egemonia imperiale persiana

I seguaci dello sha’ cercano di scippare le lotte

In ogni caso, oltre a strumentalizzare le lotte dei curdi, stavolta si è fatto avanti anche chi vorrebbe ora emarginarli, ridimensionare il ruolo fondamentale che questa “minoranza” ha avuto, insieme ai beluci, nella rivolta in atto ormai da oltre un mese.
Il 15 ottobre a Londra, a una manifestazione di sostegno ai manifestanti e rivoltosi iraniani, i nostalgici dell’artificiosa monarchia decaduta nel 1979 hanno cercato di allontanare coloro che inalberavano bandiere del Kurdistan e del Belucistan, in quanto, secondo i seguaci della buonanima di Mohammad Reza Pahlavī, “non graditi”.
E rivendicando il fatto che nel 1936 Reżā Shāh Pahlavī (il padre di Mohammad Reza) aveva proibito per decreto l’uso di hijab e chador. Ma sorvolando, al solito, sulle concessioni fatte tre anni prima alla Anglo-Persian Oil Company, operazione a cui tenterà di porre termine nel 1951 Mossadeq (poi destituito con un colpo di stato imbastito da Usa e G.B.) riuscendo anche per un breve periodo ad allontanare lo sha’ dal Paese.
E così i tardi epigoni di quel regime crudele (ricordate le brutalità, le torture commesse tra il 1957 e il 1979 dalla polizia segreta, la Savak?), mentre con grande faccia tosta pubblicamente invocano l’unità del popolo iraniano contro l’attuale regime, negano a priori i diritti dei popoli minoritari (ma sarebbe più corretto definirli “minorizzati” in quanto sia i curdi che i beluci vivono separati in vari stati, divisi dalle artificiose frontiere).
Popoli sottoposti all’egemonia persiana e a cui viene tuttora negato il diritto alla propria lingua e cultura. Per non parlare di quello all’autodeterminazione.
Oggi con gli ayatollah così come ieri con lo sha’.
Fatti del genere, oltre che a Londra, erano già avvenuti a Parigi davanti all’Hôtel de Ville il 6 ottobre.
Durante – si badi bene – l’omaggio reso dalla sindaca di Parigi Anne Hidalgo a Jina Amini, la giovane curda uccisa dalla polizia.
Appare evidente come questi reazionari monarchici (potremmo, credo, definirli tranquillamente dei “fascisti”) vorrebbero impadronirsi della rivolta popolare, strumentalizzarla ai loro fini. Quanto al fatto che possano riuscirci è tutto un altro paio di maniche. Anche se …

La Realpolitik del diritto all’autodeterminazione

… coltivo qualche perplessità sugli sbocchi assunti da alcune lotte di liberazione in tempi recenti (talvolta strumentalizzate dal sistema industriale-militare – l’imperialismo – o da qualche potenza regionale), ma non per questo rinuncio a schierarmi a fianco degli oppressi e contro l’oppressione.

Per conto di chi agivano i miliziani sciiti di Amal (“Speranza”) che nel 1986 assediavano i campi palestinesi, ormai indifesi e ridotti alla fame dopo l’allontanamento dell’Olp dal Libano? E in base a quali calcoli gli Stati Uniti hanno integrato nell’esercito e nella polizia irachena formazioni come il gruppo Sciri e al-Da’wa, notoriamente filoiraniani e responsabili di violazioni dei diritti umani? Contraddizione nella contraddizione: contemporaneamente Washington starebbe utilizzando in funzione anti-Teheran gruppi di indipendentisti beluci (sunniti) legati ad al-Qaeda. Chi, se non i servizi segreti turchi, può aver organizzato nel 2007 gli assalti – ufficialmente opera di rom – contro le baracche dei profughi curdi a Istanbul?

Indipendenze a geometria variabile

Ormai la strumentalizzazione dei movimenti di liberazione nazionale, come di quelli autonomistici o identitari, non è più appannaggio esclusivo dei servizi segreti. Le varie potenze planetarie operano alla luce del sole decretando la legittimità o meno delle rivendicazioni. Manuel Castells ha parlato di “indipendenze a geometria variabile”, denunciando come la comunità internazionale si dichiari favorevole all’autodeterminazione di un popolo o difenda l’integrità di un paese «a seconda di chi, del come e del quando».

«Le posizioni sul diritto all’autodeterminazione –, sostiene il sociologo catalano, – sono frutto di un cinismo tattico e l’indipendentismo sarebbe divenuto uno strumento geopolitico fondamentale in un mondo globalizzato e interdipendente»

Pensiamo al trattamento riservato ai curdi in Iraq, praticamente autonomi e quasi alleati degli Usa, mentre quelli in territorio turco continuavano a essere bombardati, imprigionati e torturati da Ankara, storicamente alleato strategico degli Stati Uniti. Cui prodest? Non certo alla nazione curda nel suo insieme. E intanto i curdi dell’Iran (“Partito per una vita libera in Kurdistan”, Pjak, considerato il ramo iraniano del Pkk attivo in Turchia), dopo una serie di impiccagioni che l’opinione pubblica mondiale ha ignorato, nel 2010 si sarebbero rassegnati a collaborare anche con il Mossad (lo aveva documentato “Le Monde”, ma poi le cose sarebbero cambiate).

 

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«Kurdistan, Kurdistan: occhi e luce dell’Iran!» https://ogzero.org/kurdistan-kurdistan-occhi-e-luce-delliran/ Sat, 24 Sep 2022 11:58:16 +0000 https://ogzero.org/?p=9006 Un punto di vista attento alle origini curde di Jîna Mahsa Amini per raccontare ulteriori aspetti (rispetto a quelli rilevati da Marina Forti) della vicenda che ha scatenato un movimento determinato a ottenere almeno un allentamento dell’oppressione religiosa… e che forse può avviare un più ampio processo di emancipazione dal sistema oscurantista legato ai turbanti […]

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Un punto di vista attento alle origini curde di Jîna Mahsa Amini per raccontare ulteriori aspetti (rispetto a quelli rilevati da Marina Forti) della vicenda che ha scatenato un movimento determinato a ottenere almeno un allentamento dell’oppressione religiosa… e che forse può avviare un più ampio processo di emancipazione dal sistema oscurantista legato ai turbanti di Tehran, estendendo le proteste al desiderio di liberazione dal manto plumbeo degli ayatollah, con un gesto come i tanti dal hejjab. Gianni Sartori in questo pezzo comparso su “Osservatorio repressione” ricostruisce gli eventi di questi giorni con lo sguardo dei curdi del Khorasan, in particolare del Rojhilat (le province del Nordovest), esteso al resto delle speranze soprattutto dei giovani in piazza in questi giorni, rischiando anche di venire giustiziati, come da richieste degli oscurantisti chiamati in una contromanifestazione dal governo conservatore di Raisi, che si rende conto del pericolo di insurrezione.  


In Iran non si placano le proteste per l’assassinio di Jîna Mahsa Amini

Sappiamo che la popolazione curda del Rojhilat (il Kurdistan orientale, sotto amministrazione iraniana) detiene il record non invidiabile del maggior numero (in percentuale) di giustiziati e giustiziate del pianeta. Altri – e altre – invece sono vittime della tortura.
L’ultimo caso, quello della ventiduenne curda Jîna Mahsa Amini, ha scatenato la rivolta prima nella regione, poi nell’intero paese.
Nei primi cinque giorni (e cinque notti, come a Parma nel 1922) manifestazioni e scontri erano avvenuti a Sine, Dehgulan, Diwandara, Mahabad, Urmia, Piranshahr, Saqqez…
Mentre ancora il 22 settembre i telegiornali parlavano “soltanto” di una decina di manifestanti uccisi dalla polizia iraniana nel Rojhilat, alcune agenzie ne calcolavano già una trentina.

È probabile che ormai le vittime siano più di cinquanta e destinate, purtroppo, ad aumentare. Per non parlare della sorte di centinaia di feriti e di migliaia di persone arrestate.

Immediatamente veniva indetto dal Pjak (Partito per una vita libera nel Kurdistan) e da Kodar (Società democratica e libera del Kurdistan orientale) lo sciopero generale. Sciopero a cui avevano aderito i partiti affiliati al Centro di cooperazione dei partiti del Kurdistan iraniano, il Partito comunista iraniano-Kurdistan, altri partiti del Kurdistan orientale, numerose organizzazioni della società civile e vari esponenti politici. E così il 19 settembre scuole e negozi sono rimasti chiusi in gran parte della regione.
Il giorno dopo, 20 settembre, nel corso di una manifestazione, a Kermanshah moriva un’altra donna curda, Minoo Majidi, madre di tre bambini. Colpita dalle pallottole (dal “fuego real”) delle unità speciali antisommossa, prontamente mobilitate dal regime.

Nel frattempo le proteste per l’uccisione di Jîna Mahsa Amini (22 anni, deceduta per emorragia cerebrale a seguito delle torture subite) si estendevano all’intero paese.

In almeno una quindicina di città uomini e donne (la gran parte delle quali aveva gettato via il velo) sono scesi in strada. Non solo aTeheran, ma anche a Mashhad (nel nord-est), Tabriz (nord-ovest), Rasht (nord), Ispahan (centro) e Kish (sud). Bloccando la circolazione, incendiando i veicoli della polizia, lanciando pietre sulle forze di sicurezza e distruggendo i ritratti degli ayatollah (così come era accaduto a Saqqez, città natale della giovane curda). Oltre naturalmente a scandire slogan contro il regime. Sia quello diffuso tra le donne curde del Bakur e del Rojava: “Jin jiyan azadi“ (La Donna, la Vita, la Libertà), sia uno di nuovo conio:

“Kurdistan, Kurdistan: occhi e luce dell’Iran”.

Identificata dai media come Mahsa Amini, in realtà si chiamava Jîna (o anche Zhina) che significa “donna” (Jin) in curdo. Ma al momento di registrarla all’anagrafe, il funzionario del regime, come in tanti altri casi, si era rifiutato e aveva imposto la sostituzione del nome curdo con quello di Masha. Un evidente caso di colonialismo culturale che costringe milioni di curdi, espropriati del loro stesso nome, a portarne altri turchizzati (in Bakur), arabizzati o persianizzati (in Rojhilat).

Arrestata dalla polizia per un velo portato in maniera “scorretta”, o qualcosa del genere, mentre si trovava nell’auto del fratello da cui si era recata in visita, è morta all’ospedale di Kasra a Teheran, dove era giunta già in stato di morte cerebrale.

Mentre le autorità iraniane si giustificavano evocando improbabili “preesistenti problemi di salute” –  parlando prima di una presunta epilessia, poi di problemi cardiovascolari – dalle lastre e altri esami al cranio della giovane curda emergeva la conferma di quanto già si sospettava: Jina è morta a causa delle torture, delle percosse subite appena dopo l’arresto. In particolare quella che sembra una tomografia assiale computerizzata, ha evidenziato fratture ossee, un’emorragia e un edema cerebrale.
Una fonte ospedaliera ha parlato di “tessuto cerebrale schiacciato, danneggiato da numerosi colpi”. Inoltre i polmoni erano “pieni di sangue e non poteva più essere rianimata”. In alcune delle foto di lei sul letto dell’ospedale si vede chiaramente che le orecchie sanguinano, e ciò sarebbe un segno inequivocabile che il coma era la conseguenza di un trauma cranico.

Indignate manifestazioni di protesta si sono immediatamente svolte soprattutto nel Rojhilat dove scuole e negozi sono rimasti chiusi per lo sciopero generale.

Secondo il giornalista Ammar Goli (Erdelan) le forze di sicurezza del regime iraniano utilizzerebbero anche le ambulanze per reprimere i manifestanti, in violazione del diritto internazionale. Infatti «molte delle persone arrestate vengono portate nei centri di detenzione a bordo delle ambulanze in quanto le forze di sicurezza sanno che non verranno assalite dai manifestanti. E ovviamente molti manifestanti feriti si rifiutano di recarsi negli ospedali per paura di essere arrestati».

Dalla giornalista Behrouz Boochani un appello alla comunità internazionale per intendere la voce delle donne iraniane insorte contro la dittatura islamista: «Le donne dell’Iran sono fonte di ispirazione: stanno costruendo la Storia nelle strade ribellandosi alla dittatura. Non ignoratele; se siete femministe, siate la loro voce, amplificate il loro appello! Questa è una rivoluzione femminista storica».

 

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Sollevato il velo di Mahsa. La società iraniana sfida la “morale” repressiva https://ogzero.org/mahsa-amini-la-societa-iraniana-sfida-la-morale-repressiva/ Fri, 23 Sep 2022 23:57:45 +0000 https://ogzero.org/?p=8988 La sensibilità della vivace società iraniana è avvezza alla protesta di piazza senza paura della feroce repressione del sistema ispirato da una dottrina morale ormai scollata dal comune sentire. Abbiamo dato conto in altre occasioni al malcontento sfociato in rivolta: individualmente, quando donne ai semafori platealmente liberavano le chiome, sfidando le basi del paternalismo; oppure […]

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La sensibilità della vivace società iraniana è avvezza alla protesta di piazza senza paura della feroce repressione del sistema ispirato da una dottrina morale ormai scollata dal comune sentire. Abbiamo dato conto in altre occasioni al malcontento sfociato in rivolta: individualmente, quando donne ai semafori platealmente liberavano le chiome, sfidando le basi del paternalismo; oppure nei momenti in cui la siccità minava i precari equilibri della sopravvivenza nelle aree rurali; oppure quando l’autarchia imposta dalle sanzioni erodeva l’economia popolare. Questa volta però in piazza, in occasione della morte di Mahsa Amini, scendono uomini e donne per un’enormità intollerabile, che però mina le fondamenta del sistema… e questo sentire comune si va espandendo incontenibile in tutto il paese a difesa dei diritti delle donne. Dopo il rientro di Raisi dall’intervento all’Onu la repressione si è moltiplicata con il conteggio dei morti, ma sembra non riuscire ancora a soffocare le proteste che in una settimana sempre più hanno posto nel mirino i vertici di un sistema che si sta esprimendo con esagerati giri di vite conservatori che hanno esacerbato il rapporto con la società civile. E stavolta la rivolta è fuori controllo. Ne abbiamo parlato con Marina Forti – e potete trovare nel podcast inserito nel suo articolo la sua voce che approfondisce alcuni aspetti accennati nell’articolo, dove vengono illustrati tutti i singoli elementi che compongono questo snodo epocale – per collocare nella storia dell’Iran e nella comunità che attualmente abita il paese questa incontenibile indignazione che può fare paura al sistema che da 43 anni governa e impone la morale con una polizia anacronistica.
Si è poi aggiunto un nuovo contributo propostoci da Gianni Sartori sulle lotte che in questi giorni fanno scricchiolare il consenso degli ayatollah nelle strade iraniane.


La spontanea protesta contro morali anacronistiche

Una folla di giovani circonda un falò, in una piazza: gridano “azadi”, libertà. Una ragazza si avvicina volteggiando, si toglie dalla testa il foulard e lo agita prima di gettarlo tra le fiamme, poi si si riunisce alla folla danzando. Altre la seguono, altre sciarpe finiscono bruciate tra gli applausi. È una delle numerose scene di protesta venute dall’Iran negli ultimi giorni, catturate da miriadi di telefonini e circolate sui social media in tutto il mondo.

Sono proteste spontanee, proseguono da una settimana nonostante la repressione. E se è già avvenuto in anni recenti che proteste spontanee infiammino il paese, è la prima volta che questo avviene in nome della libertà delle donne.
Ad accendere le proteste infatti è la morte di una giovane donna, Mahsa Amini, 22 anni. Era stata fermata il 13 settembre a Tehran dalla “polizia morale”, quella incaricata di far rispettare le norme di abbigliamento islamico: a quanto pare portava pantaloni attillati e il foulard lasciava scoperti i capelli. Qualche ora dopo il fermo Mahsa era in coma; trasferita all’ospedale Kasra di Tehran, è morta il 16 settembre.

La sorte di questa giovane donna di Saqqez, nella provincia del Kurdistan iraniano, in visita a Tehran insieme al fratello, ha suscitato grande emozione: fin da quando è circolata la foto di lei incosciente sul lettino, con flebo e respiratore e segni di ematomi sul volto. Davanti all’ospedale si sono riunite molte persone in attesa di notizie, e l’annuncio della morte ha suscitato profonda indignazione. Al funerale, avvenuto il giorno dopo nella cittadina del Kurdistan dove vive la famiglia Amini, la tensione era palpabile; le foto circolate mostrano una famiglia distrutta dal dolore.

Le proteste sono cominciate all’indomani: le prime e più intense proprio in Kurdistan, poi a Tehran e altrove. Al 23 settembre c’era notizia di dimostrazioni in almeno 18 città, da Rasht sul mar Caspio a Isfahan e Shiraz; da Kermanshah a ovest a Mashhad a est, fino a Kerman nel sud.

Le sfide

Migliaia di brevi video caricati sui social media mostrano folle di donne e uomini, per lo più giovani ma non solo, che esprimono grande rabbia. Molti video mostrano ragazze che bruciano il foulard; una si taglia pubblicamente i capelli in segno di lutto e protesta (a Kerman, 20 settembre). A Mashhad, sede di un famoso mausoleo shiita e luogo di pellegrinaggio, una ragazza senza foulard arringa la folla dal tetto di un’automobile: le nipoti della rivoluzione si rivoltano contro i nonni, commenta chi ha messo in rete il video.

 


A morte il dittatore

Le forze di sicurezza reagiscono. Altre immagini mostrano agenti in motocicletta che salgono sul marciapiede per intimidire i cittadini mentre un agente in borghese manganella alcune donne. La polizia che spara lacrimogeni contro i manifestanti in una nota piazza di Tehran. Agenti con manganelli che inseguono dimostranti; un agente circondato da giovani infuriati che lo gettano a terra e prendono a calci (a Rasht, 20 settembre). Si sentono ragazze urlare “vergogna, vergogna” agli agenti dei Basij (la milizia civile inquadrata nelle Guardie della Rivoluzione spesso usata per reprimere le proteste).

Manifestazioni particolarmente numerose sono avvenute nelle università di Tehran, sia nel campus centrale che al Politecnico. All’Università Azad è stato udito lo slogan “Uccideremo chi ha ucciso nostra sorella”. Anche negli atenei di altre città si segnalano proteste. Ovunque si sente gridare “la nostra pazienza è finita”, “libertà”, e spesso anche “a morte il dittatore”: lo slogan urlato a suo tempo contro lo shah Reza Pahlavi. A Tehran si sentiva “giustizia, libertà, hejjab facoltativo”, e “Mahsa è il nostro simbolo”.

La vicenda di Mahsa Amini: riformare la polizia morale?

La sorte di Mahsa Amini ha suscitato reazioni anche oltre le proteste di piazza. Il giorno del suo funerale, la foto della giovane sorridente e gli interrogativi sulla sua morte erano sulle prime pagine di numerosi quotidiani in Iran, di ispirazione riformista e non solo. Dure critiche alla “polizia morale” sono venute da esponenti riformisti e perfino vicine alla maggioranza conservatrice al governo. La morte di una donna in custodia di polizia non è giustificabile con nessun codice, e ha messo in imbarazzo il governo, a pochi giorni dall’intervento del presidente Ebrahim Raisì all’Assemblea generale dell’Onu.

Così il presidente Raisi in persona ha telefonato al signor Amini, per esprimere il suo cordoglio: «Come fosse mia figlia», gli ha detto, promettendo una indagine per chiarire fatti e responsabilità.

In effetti il ministero dell’interno ha ordinato un’inchiesta; così la magistratura e pure il Majles (il parlamento). Il capo della polizia morale, colonnello Mirzai, è stato sospeso in attesa di accertare i fatti, si leggeva il 19 settembre sul quotidiano “Hamshari (“Il cittadino”, di proprietà della municipalità di Tehran e considerato vicino a correnti riformiste). Perfino l’ayatollah Ali Khamenei, Leader supremo della Repubblica islamica, ha mandato un suo stretto collaboratore dalla famiglia Amini per esprimere “il suo grande dolore”: secondo l’agenzia stampa Tasnim (affiliata alle Guardie della Rivoluzione), l’inviato del leader ha detto che «tutte le istituzioni prenderanno misure per difendere i diritti che sono stati violati».

Per il momento però la polizia si attiene alla sua prima versione: Mahsa Amini avrebbe avuto un infarto mentre si trovava nella sala del commissariato, una morte dovuta a condizioni pregresse. Ha anche distribuito un video in cui si vede la ragazza che discute con una poliziotta, nella sala del commissariato, poi si accascia su sé stessa. Ma il video è chiaramente manipolato.

 

Sentito al telefono giovedì 22 settembre dalla Bbc, il signor Amini ha smentito che sua figlia avesse problemi di cuore. «Sono tutte bugie», ha detto, i referti medici sono pieni di menzogne, non ha potuto vedere il corpo della figlia né i filmati integrali di quelle ore; si è sentito rispondere che le body-cam degli agenti erano fuori uso perché scariche.

Le giovani donne fermate con Mahsa Amini – o Jina, il nome curdo noto agli amici – hanno raccontato invece che la giovane è stata colpita da violente manganellate nel cellulare che le trasferiva nello speciale commissariato dove alle donne fermate per “abbigliamento improprio” viene di solito impartita una lezione sulla moralità dei costumi islamici. Chi è passato attraverso quell’esperienza parla di umiliazioni verbali e spesso fisiche. Questa volta è andata molto peggio.

Prima di ripartire da New York, a margine del suo intervento ufficiale (in cui non ha fatto parola delle proteste in corso), il presidente iraniano Raisì ha tenuto una conferenza stampa per esprimere cordoglio e confermare di aver ordinato una indagine sulla morte della giovane Mahsa Amini.

Le promesse di indagini, le telefonate e le visite altolocate alla famiglia Amini non hanno certo calmato le proteste. Né hanno impedito che fossero represse con violenza.

Il bilancio è pesante. In diverse occasioni la polizia ha usato proiettili di metallo ad altezza d’uomo, secondo notizie raccolte da Amnesty International. Al 24 settembre la polizia ammette 35 morti ma circolano stime molto più alte, forse più di cinquanta, tra cui alcuni poliziotti. Dirigenti di polizia e magistrati ora parlano di “provocatori esterni”, nemici infiltrati. Martedì il capo della polizia del Kurdistan, brigadiere-generale Ali Azadi, ha attribuito la morte di tre dimostranti a imprecisati “gruppi ostili” perché, ha detto all’agenzia di stampa Tasnim, le armi usate non sono quelle di ordinanza delle forze di sicurezza. A Kermanshah, il procuratore capo ha dichiarato che due manifestanti morti il 21 settembre sono stati uccisi da “controrivoluzionari”.

Il governatore della provincia di Tehran, Mohsen Mansouri, ha detto che secondo notizie di intelligence, circa 1800 tra i dimostranti visti nella capitale «hanno preso parte a disordini in passato» e molti hanno «pesanti precedenti giudiziari». In un post su Twitter se la prende con l’attivo intervento di «servizi di intelligence e ambasciate stranieri».

Elementi ostili, infiltrati, facinorosi: ogni volta che l’Iran ha visto proteste di massa, la narrativa ufficiale ha additato “nemici esterni”. Al sesto giorno di proteste, i media ufficiali hanno cominciato a usare il termine “disordini”. Da mercoledì 21 settembre il servizio internet è soggetto a interruzioni; i social media sono stati bloccati “per motivi di sicurezza”. Da giovedì 22 è bloccato Instagram, ultimo social media ancora disponibile, e così anche WhatsApp. Nelle strade ormai si respira tensione: provocazioni da un lato, rabbia dall’altro.

Tutto questo sembra preludere a un intervento d’ordine più violento per mettere fine davvero alla protesta, ora che il presidente Raisi non è più sotto i riflettori a New York.

Mahsa Amini: una insofferenza collettiva

“La protesta avvolta nel velo di morte di Mahsa Amini”.

Restano però i veli bruciati nelle strade: come un gesto di insofferenza collettiva verso una delle prescrizioni simboliche fondamentali della Repubblica Islamica.

L’insofferenza in effetti è profonda. Nei cortei si vedevano giovani donne in chador e altre con i semplici soprabiti e foulard ormai più comuni, accomunate dalla protesta. Molti ormai in Iran considerano assurde e datate le prescrizioni sull’abbigliamento femminile, e ancor di più la “polizia morale”. Assurde le proibizioni sulla musica, sui colori, sui comportamenti personali. Solo pochi oltranzisti considerano normale che lo stato si permetta di dire alle famiglie come devono coprire le proprie figlie. Alcuni autorevoli ayatollah ripetono da tempo che l’obbligo del velo è insostenibile e datato.

Hassan Rohani, pragmatico e fautore di aperture politiche ma pur sempre un clerico ed esponente della nomenklatura rivoluzionaria, quando era presidente ironizzava sulla polizia morale che «vuole mandare tutti per forza in paradiso».

Il fatto è che l’abbigliamento femminile, come del resto ogni ambito della vita pubblica e della cultura, sono un terreno di battaglia politica in Iran. E l’avvento dell’ultraconservatore Raisi ha segnato un giro di vite. È stato il suo governo a proclamare il 12 luglio “giorno del hejjab e della castità”. Il presidente si è detto addolorato dalla morte di Mahsa Amini: ma è stato proprio lui a firmare, il 15 agosto, un decreto per ripristinare le corrette norme di abbigliamento islamico e prescrivere punizioni severe per chi viola il codice, sia in pubblico che online (è diventato comune mettere sui social media proprie foto a testa scoperta, video di persone che ballano, in aperta sfida alle prescrizioni ufficiali).

Sarà costretto a fare qualche marcia indietro? Ora diverse voci tornano a chiedere di abolire la cosiddetta “polizia morale”, che dipende dal ministero della “cultura e della guida islamica”, noto come Ershad.

Tanto che il ministro della cultura Mohammad Mehdi Esmaili, sulla difensiva, ha dichiarato che stava considerando di riformare la polizia morale già prima della morte di Amini: «Siamo consapevoli di molte critiche e problemi», ha detto.

Il vertice della repubblica islamica però dovrebbe ormai sapere che nella società iraniana la rabbia e la frustrazione sono profonde. Ed è già successo che proteste nate da un preciso episodio poi si allargano. L’Iran sta attraversando una crisi economica che ha impoverito anche le classi medie. Ogni rincaro dei generi alimentari o della benzina colpisce gli strati più modesti della società, e quindi il sistema di consenso che regge da quattro decenni le basi della Repubblica islamica. Soprattutto, i giovani iraniani non vedono un futuro. Si sentono soffocare. La rabbia è pronta a esplodere a ogni occasione. Non che sia una minaccia immediata, per il vertice politico: sono proteste spontanee, non ci sono forze organizzate che possano abbattere il sistema. Ma lo scollamento sociale cresce. Un sistema che tiene alla sua sopravvivenza dovrà tenerne conto.

 

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Brecce nei modelli dello status quo https://ogzero.org/brecce-nei-modelli-dello-status-quo/ Fri, 12 Aug 2022 08:53:28 +0000 https://ogzero.org/?p=8520 Si stanno indubbiamente aprendo brecce nell’equilibrio mondiale a cui s’ispira il modello che ha consentito finora all’Occidente di imporre la propria impronta sul mondo. Il multilateralismo faceva perno su una potenza globale come quella americana che assicurava la possibilità di intessere relazioni multilaterali, ora quel sistema vede erodere la propria incontrastata egemonia in particolare dalla […]

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Si stanno indubbiamente aprendo brecce nell’equilibrio mondiale a cui s’ispira il modello che ha consentito finora all’Occidente di imporre la propria impronta sul mondo. Il multilateralismo faceva perno su una potenza globale come quella americana che assicurava la possibilità di intessere relazioni multilaterali, ora quel sistema vede erodere la propria incontrastata egemonia in particolare dalla Cina e dal corredo di potenze locali in grado di portare sfide in aree specifiche. Nell’ultimo anno, dopo la caduta di Kabul il 15 agosto 2021, si è assistito a un’accelerazione inarrestabile della messa in discussione della globalizzazione e alla proposta di modelli socio-politici autocratici che si contrappongono alla “rassicurante” liberal-democrazia.
Era un sogno della sinistra libertaria aprire brecce nel capitalismo liberal-democratico per scardinarne il sistema, e ora chi metterebbe al centro l’emancipazione antitotalitaria dei popoli non riesce a interpretare l’attacco allo strapotere americano come una rivoluzione imposta dall’alto e realizzata dal nazionalismo autoritario, militarista e tecno-finanziario come quello statunitense. Infatti non sortisce di meglio che accettare la narrazione che vede ancora due blocchi contrapposti, da cui non si riesce a prescindere… né a evitare di schierarsi, non riconoscendo che si tratta della riproposta di schieramenti ottocenteschi: il superamento del “secolo breve” sta avvenendo, sì… ma in senso contrario, nel passato di oligarchie imperiali ottocentesche che controllano i propri territori, rinverdendo tradizioni culturali che si appropriano della critica alla globalizzazione.

Dopo un anno il regime talebano consegue il riconoscimento da parte di Cina e Russia. Quella capitolazione di Kabul alla più vieta e arcaica concezione religiosa e culturale locale del Waziristan ha dato la stura alla spartizione del mondo in aree di riferimento. OGzero ha pensato che ci fosse la necessità di ipotizzare e far dialogare processi in corso e possibili strategie adottate dai protagonisti del rivolgimento epocale, sperando così di avviare un dibattito che descriva la situazione prescindendo dalla versione parziale che scaturisce da un sistema in mutazione e quindi non in grado di fotografare il cambiamento che sta subendo.


Sostituzioni di modelli

Nelle infinite analisi del ribaltamento in corso di quell’equilibrato sistema di relazioni internazionali sancito da Yalta – e mantenuto invariato perché a nessuna delle potenze andava stretto o non avevano l’opportunità di imporre finora alcun rilievo – esistono un paio di elementi che sembrano non venir evidenziati a sufficienza nelle disamine della situazione geopolitica attuale: la rivoluzione è imposta dall’alto, è un pranzo di gala esclusivo dove gli invitati giocano a Risiko – e infatti si punta su una comunicazione che fondi la legittimità delle mosse sul confronto nazionalista; e al contrario di quel che avviene di solito in caso di conflitti, il contenzioso non coinvolge il Sud del mondo, sconvolgendolo. Le popolazioni alle quali ci si riferiva come Terzo mondo, ai tempi in cui lo spunto per molte speculazioni proveniva dall’internazionalismo non solo ora non si schierano a favore della “democrazia”, ma cominciano a considerare l’occasione ghiotta per ridimensionare la presenza e il condizionamento di un sistema, forgiato su un modello culturale ed economico sviluppato da una cultura estranea come quella europea, esportato in forma coloniale.

«Noi giovani abbiamo organizzato questa manifestazione per il ritiro delle forze armate francesi dal territorio nazionale del Mali. Vogliamo dare un contributo alla soluzione definitiva della crisi e ripristinare i valori della sovranità della nostra nazione. Non nascondiamo e riaffermiamo la nostra comune disponibilità con le nuove autorità di transizione a dare priorità alla cooperazione militare con la Russia per il rapido ripristino della Repubblica, in modo da poter lottare per la stabilità a lungo termine, che porterà alla nostra sovranità assoluta» (appello ad Assimi Goita pubblicato dalla piattaforma Debout sur les remparts, Yerewolo: giovani maliani, settembre 2021)

Ecco: un primo errore nella narrazione e nell’approccio al rivolgimento epocale sta nel vizio occidentale di voler imporre il proprio sguardo etico-politico anche sull’interpretazione dei conflitti globali, senza considerare le narrazioni sviluppate da altre tradizioni politico-culturali. Geopolitica chiederebbe di attenersi all’analisi di strategie messe in atto a seguito di bisogni e presunta potenza; invece la propaganda sia dal punto di vista liberal-capitalista, sia nell’ambito autocratico-capitalista sfrutta le spinte nazionaliste identitarie, inanellando tutti i più vieti luoghi comuni per salvaguardare la propria sussistenza entro i confini di riferimento di stati consorziati militarmente a fare da scudo al proprio ordine socio-culturale. Persino l’internazionalismo era caduto nella stessa trappola di avanzare una filosofia di emancipazione comunque sviluppata all’interno della cultura occidentale, nonostante l’intento meritevole di liberazione dell’Altro.

Vecchi sogni antimperialisti offuscati da modelli di imperialismi contrapposti

Infatti la sfida in corso al predominio americano e al suo sistema di sfruttamento mondiale era il sogno di ogni rivoluzionario degli anni Sessanta-Ottanta. Al contrario vediamo i regimi autocratici intenti a scalfire il potere americano, avendo ipotizzato, dopo la disfatta di Kabul, che si sia avviato allo stesso declino subito dall’Urss dopo il pantano afgano. Ma forse si tratta soltanto di una speculare reazione al pressing statunitense sui russi, volto a togliere alla potenza locale il terreno sotto i piedi; e questo cominciò con l’amministrazione Obama. In particolare l’esecuzione di Gheddafi ha suggestionato il capo del Cremlino: infatti dal 2011 Putin ha cambiato strategia geopolitica, convinto nel suo sospetto dalla costante cooptazione nel campo filoamericano di molte nazioni ex sovietiche, sottratte alla influenza russa; questo ha giocato un ruolo rilevante di intenzionale provocazione per la potenza militare moscovita.

Un po’ tutti hanno impugnato quelle forbici, che hanno innescato il cambiamento, tagliando i fili del multilateralismo che erano in tensione già da tempo.
Putin è stato forse indotto a credere nella possibilità di costituire un fronte antiamericano sufficientemente ampio e militarmente sostenibile: potrebbe essere credibile una sorta di accordo tacito di non belligeranza se non di reciproco sostegno con altre grandi potenze, come la Cina che invece – a cominciare dall’amministrazione Trump – è stata messa sotto pressione dal punto di vista economico. Si potrebbe adottare uno sguardo capace di spiegare le indubbie provocazioni americane (l’ultimo episodio è quello che ha visto protagonista Pelosi a Taiwan, imbarazzante per gli alleati coreano e giapponese, come si è visto nelle tappe successive del viaggio) per arrivare a un confronto di intensità variabile che consenta a Washington di ridimensionare gli sfidanti quando ancora gli Usa detengono la preminenza nei mezzi sia militari che economici (il “momento tucidideo” di cui parla Streeck su “New Left Review”, ripreso da “Internazionale”). I rivali non hanno potuto evitare di rispondere alle provocazioni e mettersi in gioco quando ancora gli Usa sono in grado di fronteggiarli.

«Gli Stati Uniti si stanno comportando da stupidi, ed effettivamente lo sono. Fingendo di esserlo significa che sanno quali sono gli interessi della Cina sulla questione di Taiwan e la sua linea rossa. Ma, nonostante questo, la calpestano ripetutamente» (Wang Wen dell’Università Renmin)

Si è arrivati alla guerra aperta perché a quel risultato erano improntati i piani strategici di tutti i protagonisti per rispondere all’esigenza da parte di potenze nucleari energivore di espandere il controllo di risorse e mercati e in nome di quelle dinamiche dominanti si sta tentando la scalata all’egemonia, la stessa che gli Usa intendono mantenere ancora per alcuni decenni, com’è avvenuto 30 anni fa quando a crescere al punto da sfidare la preminenza tecnologico-finanziaria fu il Giappone simboleggiato da Goldrake, allora detentore delle maggiori conoscenze sui semiconduttori e ora investito da Blinken del ruolo di gendarme del Pacifico; la sfida di Tokyo fu ridimensionata proprio con l’avvento della globalizzazione e agevolando la crescita della Cina ispirata a Deng in grado di eclissare prima e surclassare nel 2010 l’ascesa del Giappone – isolato e costituzionalmente privo di deterrenza militare; ora il conflitto appena scatenato rappresenta la fine della globalizzazione e l’industria nipponica torna a fare da testa di ponte per conservare al campo “occidentale” il controllo dei microchip, collaborando con le maggiori fabbriche di Taiwan. Premendo così in ambito tecnologico sulla possibilità di sviluppo dell’economia cinese, costretta a mostrare i muscoli a Nancy Pelosi (per uso interno, ma anche più pragmaticamente per salvaguardare le forniture tecnologiche di Formosa), come il pressing e la cooptazione degli stati satelliti dell’ex Urss lasciava poche chance alla sicurezza russa.

«Putin ha lanciato un’invasione per eliminare la minaccia che vedeva, perché la questione non è cosa dicono i leader occidentali sui propositi o le intenzioni della Nato: è come Mosca vede le azioni della Nato. la politica occidentale sta esacerbando i rischi di un conflitto allargato. Per i russi, l’Ucraina non è tanto importante perché ostacola le loro ambizioni imperiali, ma perché un suo distacco dalla sfera d’influenza di Mosca è “una minaccia diretta al futuro della Russia”» (John Mearsheimer da “The Economist”).
«Molti tendono a equiparare egemonia e imperialismo. In realtà imperialismo è una nazione che ne forza altre a entrare nella sua sfera, mentre egemonia è più una condizione che un proposito. Il problema di Putin e di coloro che sostengono l’esistenza di sfere d’influenza russa e cinese è che “tali sfere non sono ereditate, né sono create dalla geografia, dalla storia o dalla ‘tradizione’. Sono acquisite dal potere economico, politico e militare” che gli Stati Uniti possiedono più della Cina e che la Russia non ha» (Robert Kagan, “Foreign Affairs”).
(Ugo Tramballi, Ispi).

Conflitti collaterali e proxy wars

Ormai appare evidente che l’escalation di tensione costringe il mondo a uno stretto passaggio tramite il quale ogni area dello scacchiere internazionale è costretta a transitare, ovvero locali confronti tra protagonisti per definire gli schieramenti attraverso innumerevoli conflitti ristretti che ambiscono al controllo di territorio, risorse, commodities e mercati a cui attingere quando lo sforzo bellico sarà globale e a tutti i livelli.

Di tutti il confronto che maggiormente ha costituito la consapevolezza che si stava andando verso un rivolgimento globale è la crisi sarmatico-pontica, usata come grimaldello per coinvolgere anche l’Occidente europeo nel processo di trasformazione degli equilibri e delle supremazie su zone di influenza che si è innescato con l’attacco di Sarkozy a Gheddafi. Di lì discende la nuova strategia russa da un lato (innescata come già spiegò Bagnoli dalla paura di Putin di fare la stessa fine) e dall’altro la pulsione all’affrancamento nel Mediterraneo dei satrapi che nel 2011 erano ancora al guinzaglio di potenze globali e da allora invece sempre più autonomi e spregiudicati, come la Turchia, l’Arabia Saudita, gli Emirati… che hanno cominciato a sgomitare perseguendo strategie, alleanze, riarmo, penetrazioni in territori colonizzati proprio da quell’Occidente europeo da cui gli Usa si allontanavano, non avendo più interesse energetico derivante dal Mena, essendo divenuto autosufficiente durante l’amministrazione Obama con lo shale oil, e che ha optato in quel quadrante per la delega alle autocrazie locali. Si è venuta così a creare una pulsione all’autodeterminazione, all’affrancamento e all’autoaffermazione che passa attraverso un forte impulso al nazionalismo e al militarismo. Altra benzina sul fuoco.

Modelli sovranisti stanziano ad Astana

In questo quadro van rivisti a livello di potenze locali, tendenzialmente non più tali, la guerra siriana e i conseguenti accordi di Astana… Si sono svolti nelle ultime due settimane due atti di questo canovaccio, uno a Tehran e uno a Soci, di quest’ultimo Yurii Colombo ha parlato nel suo canale telegram Matrioska.info, sottolineando i due aspetti richiamati dal viceprimoministro Alexander Novak che rinsaldano i legami tra i due autocrati: le forniture di 26 miliardi di metri cubi annui di gas alla Turchia – il cui Turkish Stream diviene un hub del gas russo ad aggirare gli embarghi – e gli scambi in valuta nazionale: lira e rubli, entrambe in sofferenza. L’incontro in Iran è stato affiancato dall’Ispi agli sviluppi dell’attività diplomatica di Lavrov:

«A pochi giorni dall’incontro del terzetto di Astana dove oltre a Ebrahim Reisi Putin ha incontrato anche l’omologo turco Recep Tayyip Erdoğan, la visita di Lavrov sembra anche voler ribadire che la Russia non è isolata sulla scena internazionale. Al termine dell’incontro con il presidente egiziano Abdelfattah al Sisi e con il segretario generale della Lega araba, Ahmed Aboul Gheit, il ministro ha esortato il mondo arabo a sostenere la Russia “contro i tentativi palesi degli Stati Uniti e dei loro satelliti europei di prendere il sopravvento e di imporre un ordine mondiale unipolare”. Non è detto che in paesi in cui il sentimento antiamericano è forte (corroborato dall’invasione in Afghanistan e Iraq e dal sostegno storico a Israele) i suoi argomenti non facciano presa» (Alessia De Luca, Ispi).

Mosca è tutt’altro che isolata, se si ripensa al voto di marzo all’Onu sulla risoluzione di condanna dell’invasione ucraina.

Tutti contro tutti appassionatamente insieme

Ankara contemporaneamente è un nodo della gestione per procura americana del Medio Oriente insieme a Tel Aviv (il giorno dopo l’incontro con Herzog, Hamas è stato cacciato da Ankara, come avvenne ad Arafat a Beirut) – però Israele è schierato con Egitto, Cipro e Grecia per controllare il Mediterraneo orientale in contrasto con Ankara – e Riad, gradualmente disciogliendo il contenzioso yemenita come il corpo di Kasshoggi nell’abbraccio tra Erdoğan e Mbs (con sullo sfondo gli Accordi di Abramo voluti da Kushner e proseguiti da Blinken).  A maggio persino sauditi e iraniani hanno ripreso relazioni diplomatiche. Evoluzioni tutte previste da Antonella De Biasi in Astana e i 7 mari.

“Astana prepara crepe nell’asse mondiale sparigliando le polarità”.

Risulta sempre più importante districarsi tra alleanze interstatali, che in ogni caso – siano regimi liberal-democratici o democrature rette da autocrati e oligarchi, dinastie, latifondi o gruppi economico-industriali – soffocano le libertà civili e il controllo dei media impedisce ai sudditi di riconoscersi come tali e proporre una coalizione dei sottomessi che si sottraggano e levino il consenso alle istituzioni militari assassine.

Questa ricostruzione permane all’interno di un quadro a blocchi, ma lo fa diversamente dal rimpianto che si affaccia presso alcuni vecchi rivoluzionari per quella condizione semplice da leggere costituita da due imperi anche geograficamente divisi per blocchi contigui. Invece in realtà lo sconquasso operato con l’invasione ucraina ha sconvolto ogni possibile lettura di strategie e mosse sullo scacchiere internazionale, che va componendosi all’interno di quel quadro in una serie di alleanze militari (Quad, Aukus), cooptazioni (gli stati africani controllati da Wagner e quelli inseriti negli accordi di Abramo), scelte di campo fondate sui nemici dei nemici (Etiopia), attendismo neutralista (eclatante in questo senso la posizione dell’India), ambigue mediazioni (il ruolo che si è conferito Erdoğan).

Il rivolgimento globale registra soprattutto in Mena e in Europa (e nelle sue colonie africane) il rimescolamento di alleanze, controllo di risorse e sfere di influenza, mentre nell’Indopacifico si assiste a viaggi diplomatici che si inseguono per creare coalizioni in vista del confronto.

Orizzonti senza gloria

Però quei vecchi rivoluzionari ormai incanutiti dovrebbero leggere il presente con occhiali diversi da quelli adottati negli anni Settanta e proporre un pensiero estraneo all’ottica meramente mercantile di un capitalismo ancora più feroce di allora che permea tutte le innumerevoli parti in causa, le quali infatti si confrontano con i mezzi previsti dal Finanzcapitalismo (non a caso Gallino lo scrisse nel 2011, l’anno del tracollo libico, durante le Primavere arabe).

Un modello che sconfigga il sovranismo neototalitario non può certo affidarsi al nazionalismo dell’imperialismo di stampo americano in contrapposizione a quelli irricevibili di stampo cinese o russo o neo-ottomano o saudita, o viceversa: rispondono tutti ai medesimi criteri ed è come rivelare l’acqua calda la denuncia che la barbarie dell’esercito russo è identica a quella delle invasioni americane di Vietnam, Somalia, Iraq… Afghanistan. Quest’ultima, emblematicamente comune a quella sovietica, dovrebbe anche simbolicamente chiudere il cerchio e l’epoca.

Allora bisognerebbe riuscire a fabbricare una chiave per attribuire il fulcro delle strategie che regolano i rapporti nel mondo a valori diversi, esterni al capitalismo – o alla identità nazionale o religiosa. Per farlo andrebbe forse messa al centro della proposta di ricostruzione dei modelli mondiali l’emancipazione dei popoli e la loro difesa dagli imperi sovranisti che non solo ripropongono l’idea degli imperi ma anche la loro considerazione della carne da cannone, contrapponendogli quel ripudio delle guerre, militari o economiche che siano, sicuramente diffuso come all’inizio della Prima guerra mondiale su cui potrebbe costruirsi un modello che si sottrae agli interessi imperialistici.

Quindi innanzitutto vanno smontati i meccanismi e gli interessi militari che stanno informando le cancellerie del mondo. E per farlo vanno individuati e descritti nei particolari quegli stessi meccanismi per disinnescarli, come la bomba che gli imperialismi, cambiando gli equilibri di sistema dall’interno e ponendosi fuori dai blocchi, stanno preparando, intessendo l’ordito di trame e temporanei accordi che sfoceranno in nuovi focolai di guerra funzionali a uno di quei modello di mondo.

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Inclusività o assimilazione nell’India tribale in rivolta? https://ogzero.org/inclusivita-o-assimilazione-nellindia-tribale-in-rivolta/ Tue, 26 Jul 2022 06:54:22 +0000 https://ogzero.org/?p=8278 Lo schiaffo del partito induista nazionalista al potere a tutto ciò che è alieno, diverso, “intollerabile” diventa scherno con l’elezione di una donna di origine tribale a presidente dell’India. Sicuramente non risolve i problemi di discriminazione e le pulizie etniche su cui Narendra Modi ha costruito il suo potere, ma con altrettanta certezza gli conferisce […]

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Lo schiaffo del partito induista nazionalista al potere a tutto ciò che è alieno, diverso, “intollerabile” diventa scherno con l’elezione di una donna di origine tribale a presidente dell’India. Sicuramente non risolve i problemi di discriminazione e le pulizie etniche su cui Narendra Modi ha costruito il suo potere, ma con altrettanta certezza gli conferisce una patente di tolleranza. Laddove invece registriamo solo militarizzazione e repressione dell’India tribale in rivolta, sia nel Centronord indiano sia nel profondo Sud del Tamil Nadu.
Qui con Gianni Sartori intendiamo dare voce, o almeno testimonianza, del saccheggio e delle modalità di soffocazione di istanze di emancipazione delle comunità tribali a Kallakurichi come a Sukma.
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Diritti e oppressione dei popoli indigeni

Non si può certo affermare che quanto avviene in India ai danni delle popolazioni tribali sia sotto la lente e l’interesse dei media internazionali. Difficilmente si viene adeguatamente informati riguardo a massacri, deportazioni (per consentire alle multinazionali, in particolare quelle dedite all’estrazione mineraria, di appropriarsi dei territori ancestrali delle popolazioni indigene), esecuzioni extragiudiziali, stupri di donne tribali e arresti arbitrari operati dal regime di Narendra Modi.
Si è invece parlato della elezione a presidente dell’India (una carica più che altro formale, cerimoniale…) di Droupadi Murmu, donna di origine tribale (i santhal), in precedenza governatrice del Jharkhand. Originaria dell’Odisha, milita da anni nel Bharatiya Janata Party, il partito dei fondamentalisti indù.
Per carità. Tutto può tornare utile e se questo evento dovesse portare qualche beneficio alle popolazioni tribali (gli adivasi) e alle caste diseredate (i dalit) ben venga.
Anche se l’augurio è che non avvenga nella logica sviluppista (e di devastazione umana e ambientale) che auspica Modi.

Addomesticamento e rivolta delle comunità tribali

È lecito infatti avere qualche riserva su questo coinvolgimento, più che altro spettacolare ed elettorale, dei tribali nel progetto del Bjp. Allargare la propria base di sostenitori farà sicuramente gli interessi del Bjp. Ma è lecito chiedersi quali vantaggi porterà alla conservazione delle lingue e della cultura tradizionale (oltre che alla loro sopravvivenza fisica) degli adivasi. Più che di “inclusività” si dovrebbe forse parlare di assimilazione.
Nel frattempo – ovvio – si mantiene la stretta repressiva, l’addomesticamento forzato delle popolazioni indocili e refrattarie al “progresso” neoliberista.

Landgrabbing e resistenza nel Chhattisgarh

Di questi giorni è la notizia (ignorata dai media internazionali in quanto scoperchiava le passate malefatte governative) dell’avvenuta liberazione (il 15 luglio 2022) nel Chhattisgarh di 121 tribali (tra cui alcuni minorenni) arrestati nel 2017 con una serie di rastrellamenti nei villaggi della zona. Nel frattempo uno degli arrestati (o almeno quello finora accertato) era deceduto dietro le sbarre.
Tutte queste persone, come del resto era evidente fin dall’inizio, sono risultate del tutto estranee all’imboscata, opera di almeno trecento guerriglieri naxaliti (maoisti del People’s Liberation Guerrilla Army), di Sukma (Burkapal, 24 aprile 2017)) in cui avevano perso la vita 26 paramilitari della Crpf.
Sono completamente cadute sia le accuse di possesso di armi, sia di appartenenza al Pci (maoista). Per cui la loro lunga, ingiusta detenzione acquista il senso di una rappresaglia a scopo “educativo” per tutta l’India tribale in rivolta.
A Sukma militari e paramilitari sorvegliavano in armi i lavori per la costruzione di una strada che doveva attraversare i territori tribali per conto di un gruppo industriale. Il gruppo maoista Dkszc (Dand Karanya Special Zone Committee) aveva rivendicato l’attacco.

Villaggio di Silger resistente, dove sono ormai trascorsi 400 giorni dall’inizio della resistenza del movimento del villaggio di Silger al confine tra Bijapur e Sukma nel Bastar meridionale del Chhattisgarh

L’attacco di Sukma

Nel comunicato si sottolineava come l’attacco fosse una risposta di autodifesa non solo nei confronti delle politiche antipopolari del governo, ma soprattutto per le «atrocità sessuali commesse dalle forze di sicurezza contro le donne e le ragazze tribali». Ossia gli innumerevoli stupri opera soprattutto dalle milizie paramilitari filogovernative. In sostanza «per la dignità e il rispetto delle donne tribali».

Il comunicato inoltre smentisce decisamente (come poi è stato riconosciuto anche ministero dell’Interno) che sui corpi dei soldati uccisi si fosse infierito con mutilazioni e castrazioni: «Noi – aveva dichiarato Vikalp, portavoce della guerriglia – non manchiamo di rispetto ai corpi dei soldati uccisi. Sono i media borghesi che diffondono tali false notizie e invece spesso sono i militari che operano brutali trattamenti sui corpi dei guerriglieri maoisti». Così come, aveva continuato «vengono riprese e diffuse nei social immagini riprovevoli delle guerrigliere uccise» (un inciso estraneo all’India tribale in rivolta: questa è una pratica abituale anche da parte dei soldati turchi nei confronti delle combattenti curde).
Per concludere: «I soldati non sono nostri nemici. Tantomeno nemici di classe. Tuttavia si pongono al servizio dell’apparato antipopolare e dello sfruttamento operato dal governo. Rivolgiamo a loro un appello affinché cessino di combattere schierati al fianco dei politici sfruttatori, dei grandi imprenditori, delle compagnie nazionali e internazionali, delle mafie, dei fascisti indù… che sono, per loro stessa natura, nemici dei dalit, dei tribali, delle minoranze religiose e delle donne. Soldati, non sprecate la vostra vita per difendere tali personaggi e le loro ricchezze. Lasciate l’esercito e prendete parte alla lotta popolare».

E adesso la resistenza ricomincia nel Tamil Nadu

Tornando ai nostri giorni, va ricordato che il 17 luglio 2022 nel Sud dell’India si sono verificati duri scontro tra giovani e polizia (con decine di feriti) dopo il suicidio di una studentessa.
I manifestanti penetrarono nel campus (distretto di Kallakurichi nello stato di Tamil Nadu), incendiando veicoli della polizia e bus scolastici.
La ragazza prima di togliersi la vita aveva scritto una lettera in cui denunciava alcuni insegnanti per averla sottoposta a sistematici maltrattamenti (aveva usato il termine “torture”). La stessa cosa sarebbe toccata ad altre studentesse.
All’inizio del mese invece le proteste – con scontri, numerosi feriti e una dozzina di arresti – erano scoppiate a Nepali Nagar. Il 3 luglio una quindicina di bulldozer arrivarono per distruggere un centinaio di abitazioni costruite su terreni pubblici: le autorità locali le avevano definite “abusive” (nonostante da anni fossero stati realizzati gli allacciamenti e venissero raccolte le tasse municipali).
E solo uno stretto braccio di mare divide il Tamil Nadu da quello Sri Lanka in subbuglio.
Una nota di Francesco Valacchi per contestualizzare le rivolte e la figura presidenziale di Droupadi Murmu si trova in “China Files”. Abbiamo registrato un suo breve intervento su Radio Blackout:

“Lavacro tribale del nazionalismo Bjp”.

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Nord Kivu: la tregua tra Ruanda e Congo resuscita l’M23 https://ogzero.org/nord-kivu-la-tregua-tra-ruanda-e-congo-resuscita-lm23/ Thu, 14 Jul 2022 10:52:21 +0000 https://ogzero.org/?p=8201 La distrazione globale derivata dalla guerra in Europa nasconde ancora di più tensioni, conflitti esplosi o quasi, guerre prolungate e seriali. Lo scontro in Nord Kivu è tra i più annosi e coinvolge diversi interessi, in particolare quelli tra comunità che si contendono interessi e sfruttamento delle risorse della regione. I due protagonisti di questa […]

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La distrazione globale derivata dalla guerra in Europa nasconde ancora di più tensioni, conflitti esplosi o quasi, guerre prolungate e seriali. Lo scontro in Nord Kivu è tra i più annosi e coinvolge diversi interessi, in particolare quelli tra comunità che si contendono interessi e sfruttamento delle risorse della regione. I due protagonisti di questa disputa abitano a Kigali e Kinshasa; si sono scatenate guerre, massacri, sfruttamenti e il controllo di miniere maledette di metalli preziosi legittima il perdurare delle tensioni, che richiedono la presenza di antagonisti, conosciuti e riconoscibili. Il movimento M23 nelle province nordorientali della Repubblica democratica del Congo serve per evitare che sui Grandi Laghi scenda il livello di scontro; un Movimento che si muove sempre più come un esercito regolare con la stessa potenza di fuoco, come sottolinea “Nigrizia”. Angelo Ferrari, contestualizzando gli eventi e segnalando il ruolo autonomo di M23 come attore in commedia, ha scritto per l’agenzia Agi questa breve nota che riprendiamo, lasciando immaginare l’incertezza come sistema per perpetuare lo scontro… e gli affari. 


Cosa sta succedendo nel Nordest della Repubblica democratica del Congo?

Ma, soprattutto, a cosa è servito l’incontro del 6 luglio a Luanda tra il presidente congolese, Felix Tshisekedi e quello ruandese, Paul Kagame, mediato dal loro omologo angolano, João Lourenço? Probabilmente a nulla.
I tre dovevano trovare una soluzione alle crescenti tensioni tra Congo e Ruanda che si sono acuite con l’intensificarsi delle attività nel Nord Kivu del gruppo ribelle M23, che si riteneva sconfitto dal 2013, ma che ha ripreso le sue attività provocando decine di vittime e migliaia di sfollati. Kinshasa sostiene che i ribelli siano sostenuti dal Ruanda, quasi una longa manus di Kigali che, invece, nega in maniera decisa.
Smentite che non hanno fatto calare la tensione che, anzi, si è riaccesa dopo l’annuncio del 13 giugno scorso da parte delle Forze armate della Repubblica del Congo (Fardc) che hanno parlato di «un’occupazione della città di confine di Bunagana» da parte delle Forze di difesa del Ruanda (Rdf). A dimostrazione che non si tratta solo di una disputa tra diplomazie ci sono le manifestazioni della popolazione a Goma: una vera e propria rivolta, una marcia verso il confine con il Ruanda al grido “dateci le armi che sconfiggeremo il nemico”, cioè Kigali. Manifestazioni che sono state sedate dalle forze di polizia del Congo.

Nord Kivu

Cessate il fuoco in Nord Kivu: fare la tregua senza l’oste

I tre presidenti, il 6 luglio, si erano accordati per un “cessate il fuoco”, annunciato in pompa magna dal capo di stato angolano e mediatore tra le parti.

«Sono felice di annunciare che abbiamo compiuto progressi, dal momento che abbiamo concordato un cessate il fuoco», ha detto pomposamente Lourenço.

Il presidente del Congo e quello del Ruanda, dal canto loro, avrebbero anche deciso di «creare un meccanismo di monitoraggio ad hoc», che sarà guidato da un ufficiale dell’esercito angolano. La tensione tra i due paesi è “inutile”, ha spiegato Tshisekedi, perché «costituisce un fattore destabilizzante e non contribuisce allo sviluppo e al benessere dei rispettivi popoli». Kagame, dal canto suo ha ritenuto “soddisfacenti” i risultati del vertice di Luanda che prevede, tra l’altro, l’immediata cessazione delle ostilità e il ritiro immediato e incondizionato dell’M23 dalle sue posizioni.

Il giorno dopo il vertice arrivano le dichiarazioni dell’M23, una doccia fredda sugli accordi. Il portavoce del movimento ribelle, Willy Ngoma, spiega che «l’accordo non coinvolge l’M23. Siamo congolesi, non ruandesi. Se c’è un cessate il fuoco, può essere solo tra noi e il governo congolese, non abbiamo niente a che fare con il Ruanda. Ci viene chiesto di partire da qui, ma per andare dove? È impossibile».

Probabilmente a Luanda si sono dimenticati di invitare il terzo attore delle tensioni in Nord Kivu, oppure credono davvero che i ribelli in questione siano realmente sostenuti da Kagame. Non è una questione da poco. L’M23 è un gruppo ribelle a maggioranza tutsi – la stessa etnia che ha le redini del potere a Kigali – che ha ripreso le ostilità alla fine dell’anno scorso, accusando Kinshasa di non aver rispettato gli accordi sulla smobilitazione e il reinserimento dei suoi combattenti.

Ascolta “Nord Kivu: la consuetudine alla guerra” su Spreaker.

Ma la trama si infittisce

Nessun accordo, nessun cessate il fuoco ma solo una tabella di marcia comune “con obiettivi e attività chiari”, in vista del prossimo vertice a Luanda. Così il 12 luglio il governo di Kigali ha ufficialmente smentito la firma o un qualsiasi accordo di cessate il fuoco nell’Est della Repubblica democratica del Congo, come invece annunciato il 6 luglio. La smentita è stata diffusa dal ministro ruandese degli Esteri e della Cooperazione, Vincent Biruta, che ha poi aggiunto che la «disinformazione e il populismo stanno minando l’obiettivo generale di raggiungere la pace» nella Repubblica democratica del Congo.

Nord Kivu: tutto da rifare?

Pare proprio di sì.
Le schermaglie diplomatiche si aggiungono a quelle sul campo e non fanno altro che surriscaldare gli animi. La contesa armata tra Fardc e M23 continua e a farne le spese, come sempre, la popolazione che si trova tra due fuochi, senza comprenderne bene la ragione, sa solo che deve fuggire dalle proprie case; e sono già 170.000 i profughi di questo ritorno di fiamma del conflitto. Il Nord Kivu continua a essere teatro di scontri e delle scorribande di gruppi armati, ribelli o no che siano, da ormai 25 anni e il governo congolese non riesce a governare il territorio dove ha decretato, l’anno scorso, lo stato di emergenza che consente all’esercito pieni poteri e libertà di azione, con risultati, tuttavia, molto scarsi ed è comprensibile visto che neanche i tre presidenti, quello congolese, quello ruandese e quello angolano, riescono a concordare una dichiarazione comune.

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«Non posso accettare che dei miei concittadini sostengano la guerra» https://ogzero.org/l-esodo-dalla-russia/ Sun, 19 Jun 2022 16:14:18 +0000 https://ogzero.org/?p=7943 Le interviste qui di seguito sono state originariamente registrate in video alla metà del mese di giugno 2022 per la Tv Svizzera Italiana nella capitale dell’Armenia, Erevan, una delle mete dell’esodo dalla Russia. Qui viene proposta la versione integrale tradotta dal russo di cinque di queste interviste. Come è normale la televisione le ha utilizzate […]

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Le interviste qui di seguito sono state originariamente registrate in video alla metà del mese di giugno 2022 per la Tv Svizzera Italiana nella capitale dell’Armenia, Erevan, una delle mete dell’esodo dalla Russia. Qui viene proposta la versione integrale tradotta dal russo di cinque di queste interviste. Come è normale la televisione le ha utilizzate solo in misura assai ridotta per un reportage sui fuorusciti dalla Russia di molti suoi cittadini, iniziata sin dall’inizio dell’“operazione speciale” ma che a chi scrive sembra che possano rappresentare un interessante spaccato delle opinioni, degli umori ma anche delle fratture psichiche che si sono prodotte nella Federazione con il conflitto.

La proposta di questo articolo è bilingue: in italiano lo sbobinamento delle interviste inserite in russo nella loro integrità ad alcuni fuorusciti dalla Russia verso l’Armenia in seguito all’esodo dalla Russia prodotto dalla “Operazione speciale” in Ucraina. Sono voci e volti che erano già critici verso l’apparato di potere che fa capo a Vladimir Putin pur non essendo per nulla famosi; ognuno di loro è di età, professione, provenienza diverse. Speriamo in questo modo di poter informare gli italiani che non si può categorizzare l’intera comunità russa come filoputiniana e guerrafondaia e i russofoni che non sono pochi i transfughi che hanno deciso di non tornare in Russia se non a seguito di un cambio di regime.

È molto difficile quantificare oggi quanti russi si sono rifugiati o hanno preso la strada dell’esilio dal 24 febbraio fino a oggi. Sicuramente sono centinaia di migliaia le persone che sono giunte in questi mesi in Armenia, in primo luogo giovani che temono la mobilitazione generale ma anche coppie e intere famiglie. Spesso sono persone a medio-alta qualifica professionale che possono sperare di trovare lavoro nel paese caucasico o in Europa occidentale.

Si giunge in Armenia perché è relativamente facile. Si tratta di un paese ex sovietico dove tutti sanno il russo, non occorre il visto e la popolazione è nota per la sua ospitalità. Molti pensano che sia solo un ponte per raggiungere altri paesi europei, altri pensano di restarci, altri ancora – passata la buriana – potrebbero tornare in Russia. Tuttavia il costo della vita con l’arrivo dei russi ha iniziato a crescere soprattutto nel settore degli affitti. Ormai non si trova più un monolocale per meno di 350 dollari al mese nella capitale (dove il reddito medio è di 5000 dollari l’anno) e molti russi stanno iniziando a scegliere altre destinazioni per tenersi lontani dal conflitto. La Georgia ma anche i paesi centroasiatici. In primo luogo, tra questi il Kirghizistan dove si trovano appartamenti a 50 dollari, frutta e verdura fresche abbondano ed è noto come il paese più democratico di tutta l’area.

Представленные ниже интервью были записаны на видео для итальянского телевидения Швейцарии в столице Армении Ереване в середине июня 2022 года. Здесь предлагается полная версия пяти из этих интервью, переведенная с русского языка. Как обычно, телевидение использовало их лишь в очень ограниченной степени для репортажа об отъезде из России многих ее граждан, который начался с самого начала “спецоперации”, но который, как кажется писателю, представляет собой интересный срез мнений, настроений, но также и психических переломов, произошедших в Федерации в связи с конфликтом.

Предложение этой статьи – двуязычное, на итальянском языке не опубликованные интервью, включенные полностью на русском языке, свидетелям, бежавшим из России в Армению после начала “спецоперации” на Украине. Это голоса и лица, которые уже критиковали аппарат власти при Владимире Путине, хотя они отнюдь не знамениты; каждый из них разного возраста, профессии и происхождения. Мы надеемся таким образом донести до итальянцев, что нельзя считать всю российскую общину пропутинской и воинствующей, а до русскоязычных – что есть не мало перебежчиков, которые решили не возвращаться в Россию, пока не произойдет смена режима.

Сегодня очень трудно подсчитать, сколько россиян укрылось или уехало в изгнание после 24 февраля. Безусловно, за последние месяцы в Армению прибыли сотни тысяч человек, в первую очередь молодые люди, опасающиеся всеобщей мобилизации, а также семейные пары и целые семьи. Часто это люди со средне-высокой профессиональной квалификацией, которые могут надеяться найти работу в кавказской стране или в Западной Европе.
Люди приезжают в Армению, потому что здесь относительно легко. Это бывшая советская страна, где все знают русский язык, виза не требуется, а население известно своим гостеприимством. Многие считают, что это просто мост в другие европейские страны, другие планируют остаться там, а третьи – когда буря пройдет – могут вернуться в Россию. Однако стоимость жизни с приездом русских начала расти, особенно в секторе аренды жилья. В столице (где средний доход составляет $5000 в год) больше нельзя найти однокомнатную квартиру дешевле $350 в месяц, и многие россияне начинают выбирать другие направления, чтобы быть подальше от конфликта. Грузия, но и страны Центральной Азии. Первым среди них является Кыргызстан, где квартиры можно найти за 50 долларов, свежие фрукты и овощи в изобилии, и он известен как самая демократическая страна во всем регионе.


Yurii ci aveva preannunciato in un intervento radiofonico su Radio Blackout questa serie di interviste raccolte a Erevan il 6 giugno:

“Diaspora russa in armenia”.

Queste interviste forniscono un quadro di chi emigra che toglie dalla “zona comfort” molti lettori che culturalmente provengono “da sinistra”. Il regime putiniano viene colto – possa ciò piacere o meno – come una continuità dell’Urss e perlomeno come un suo ritorno di fiamma. Balugina qua là anche dell’anticomunismo viscerale. Permangono illusioni inoltre sui regimi occidentali. Ma se quelle economiche sono destinate a sciogliersi presto a contatto con la dura realtà del mercato del lavoro europeo, le illusioni politiche sono destinate a permanere a lungo, inevitabilmente. La fame di democrazia politica – seppur nella forma sempre più vuota che osserviamo in Occidente – rappresenta una chimera per chi ha vissuto in un regime che qualcuno degli intervistati non fa fatica a chiamare fascismo.
Allo stesso tempo – in controluce – ritorna in alcuni degli intervistati che hanno lasciato il paese un anelito a una società non solo più “stabile” ma più giusta, più equa, meno autoritaria. Un’aspirazione in buona parte evaporata da decenni nelle metropoli capitalistiche occidentali.

Tutti gli intervistati hanno rifiutato di coprirsi il viso, distorcere la voce, cambiare nome per l’occasione. Non si tratta solo o eventualmente di coraggio ma di affermare la propria dignità e identità, soprattutto in un momento difficile come quello in cui si lascia il proprio paese.


Yurii Alexeev 48 anni. In Russia prima di emigrare a maggio 2022 viveva nella provincia di Vladimir. Laureato in giurisprudenza, esperto di IT, blogger, attivista dei diritti umani.

Che giudizio esprime dell’operazione speciale in corso in Ucraina da parte dell’esercito russo?

Innanzi tutto voglio dire che mi batto ormai da 5 anni contro il regime di Putin. Penso che Putin sia un problema per la Russia ma anche per il resto del mondo. Mi batto perché le istituzioni democratiche in Russia possano conoscere un nuovo inizio.
Per quanto riguarda la guerra che Putin sta conducendo in Ucraina, e i russi insieme a Lui (Putin da solo non avrebbe potuto condurre una tale guerra senza il sostegno di parte della popolazione) la situazione è diventata così difficile che condurre una difesa dei diritti umani e politica in Russia è diventato pericoloso. Io, il giorno in cui iniziò la guerra misi sul balcone una bandiera con scritto “No alla guerra” e mi dichiarai pubblicamente contro di essa sul mio canale YouTube. Per questo venni arrestato amministrativamente per 15 giorni. Allora capii che se fossi restato in Russia sarei stato perseguito anche penalmente. La nuova legge contro il “discredito delle Forze Armate Russe” (tale legge è stata approvata appena dopo l’inizio delle operazioni e prevede condanne penali dai 3 ai 15 anni di reclusione N.d.R.) mi avrebbe colpito sicuramente perché io non riesco a stare zitto.

Pensa quindi che la maggioranza dei russi sostenga qui l’azione in corso?

Non è proprio così. Putin e la sua banda mettono in risalto tutte quelle voci e quelle posizioni a lui favorevoli ma in realtà le cose stanno diversamente. Se la domanda sul sostegno alla guerra fosse posta dai sociologi e chi svolge i sondaggi in modo corretto la percentuale di chi è contro sarebbe due o tre volte superiore a quella di chi è favorevole.

L’impressione da fuori è che ci sia una consistente maggioranza di russi favorevole, anche se poi bisognerebbe capire dove è concentrata questa maggioranza per classi sociali e di età e per posizionamento geografico…

Ritengo che alla maggioranza assoluta, parliamo forse del 60% della popolazione, il tema “guerra” non interessi. La vedono in Tv ma ne sono distanti. Poi c’è un 20% di persone contrarie ma silenti e qualcosa di meno del 20% di favorevoli.

In Occidente dopo che si è assistito inizialmente a una grande copertura dei mass-media alle proteste ora è calato il silenzio. Cosa è successo nel frattempo?

Tutta questa gente che protestava ha lasciato la Russia. Sono qui in Armenia, in Georgia, in Lituania, in Europa. Credo che degli attivi oppositori alla guerra siano rimasti circa la metà.
Io personalmente aiuto chi arriva a Erevan a trovare una sistemazione. Spesso arriva gente traumatizzata da tutti questi mesi di pressione. Gi faccio capire che già qui in Armenia hanno dei diritti.  E il flusso continua. Gli altri, coloro che sono rimasti in Russia, sono costantemente sotto la pressione delle multe, dei fermi e degli arresti.

Lei ha deciso di andarsene dalla Russia per sempre o solo temporaneamente?

Tornerò solo se non ci sarà più “Putin”. Putin come persona e il putinismo come regime. Ma quando questo avverrà non lo posso immaginare. Nessuno lo sa. Quando i bolscevichi presero il potere chi emigrò o divenne esule pensava che sarebbe presto tornato ma poi il potere sovietico restò in piedi 70 anni. Può darsi che tutto ciò si ripeta.

Se potesse sintetizzare la sua visione politica cosa direbbe?

Mi sento un democratico e un liberale allo stesso tempo, insomma sono per la libertà. La democrazia è lo strumento “tecnologico” della libertà, prendere insieme le decisioni.

Pensa di restare qui in Armenia o di trasferirsi in Europa Occidentale?

Per me esiste il pianeta terra, non mi pongo limiti. Per questo posso dire che non mi manca neppure la Russia. Se nel futuro riterrò che dovrò spostarmi in un luogo, cercherò di farlo. Per adesso posso dire a chi ha intenzione di andarsene dalla Russia: «Venite qui! C’è molto da fare!»; se molti se ne vanno ciò comunque produrrà un indebolimento del regime.

Lei pensa che questo conflitto durerà ancora a lungo?

Non lo so, nessuno lo può dire. Spero solo che l’Ucraina vinca in modo tale che i russi capiscano che ciò che hanno fatto non si può fare. Io spero che per la Russia sia una lezione. La Russia, per usare le parole di Fëdor Dostoevskij ha realizzato un “delitto” e ora dovrà subire il “castigo”.

Per come l’ha inteso qual è l’atteggiamento degli armeni di fronte al conflitto russo/ucraino?

Lo osservano da lontano. Tendono a vedere questo scontro attraverso le lenti della crisi con l’Azerbaijan e la questione del Nagorno-Karabakh. Potremmo dire che la maggioranza non si schiera e solo una piccola parte “realisticamente” sostiene che vista la situazione geopolitica non si può non essere alleati con Putin. Ma una parte significativa ha ancora il dente avvelenato perché il Csto (Collective Security Treaty Organization, l’alleanza militare a guida russa N. d. R.) non intervenne a fianco dell’Armenia nel 2020 quando ci fu l’esplicita richiesta da parte del governo di Nikol Pashinyan


 

Ivan, 26 anni di Mosca. Specialista IT.

 

Perché ha deciso di venire a vivere a Erevan?

In Russia c’era una situazione molto difficile e poco intellegibile. I nostri politici erano assai ambigui sulla questione della mobilitazione generale. E non era neppure chiaro se le frontiere sarebbero rimaste aperte o no. Anche i cosiddetti “volontari a contratto” non si capisce se siano tali o meno. E perciò ho deciso di andarmene.
Ho partecipato a qualche manifestazione a partire dal 2017. Soprattutto quando ci furono le elezioni comunali di Mosca nel 2019. Ma ne sono rimasto deluso. Molta gente ha partecipato a delle proteste dal 2012, ma purtroppo è cambiato ben poco. Per cui ho capito che si rischiava troppo senza alcuna prospettiva e ho pensato che sarebbe stato meglio preoccuparmi del mio futuro. Ora ci sono molti programmatori e specialisti IT single come me che hanno lasciato la Russia e sono venuti in Armenia. Altri sono dubbiosi poiché dovrebbero trasferire tutta la famiglia in tal caso.

Lei ha fatto il servizio militare?

No sono stato riformato. Come si fa a essere riformati penso che tutti lo sappiano. Potrei essere mobilitato solo se fosse dichiarata formalmente la guerra. Cosa che per ora non è stata fatta.

Pensa di tornare in Russia?

Difficilmente tornerò se non cambierà il regime. Potrei tornare qualche volta per incontrare amici e parenti, ma non di più. Tornerò solo se si imporrà un sistema democratico.  Ora sto valutando diverse proposte di lavoro a distanza. Con qualche azienda armena o europea. Mi piacerebbe vivere in qualche paese europeo per un certo periodo.

Pensa che questa situazione durerà a lungo?

Vedo che molti paesi stanno cercando di isolare la Russia e c’è il rischio che il paese diventi una Nuova Corea del Nord. Vedo anche che l’Occidente ha i suoi progetti per ricostruire l’Ucraina ma non ho idea di come si ricostituirà la Russia. Non vedo nessuno a cui interessi –oltre che a noi russi – che la Russia diventi democratica. Per molti in Occidente se la Russia si trasformerà in una Nuova Corea del Nord non è poi così importante. Dipenderà quindi molto da noi russi. Si fa un grande errore se si confondono i russi con il loro attuale regime politico.

 


La fuga degli esperti di informatica.


Albert 28 anni, insegnante di Novosibirsk. Ha partecipato al movimento politico di Navalny.

Perché ha deciso di venire in Armenia?

Per me con la guerra è iniziato un periodo assai difficile. Era davvero difficile per me vivere in un’atmosfera da stato fascista e di odio. Non posso accettare che dei miei concittadini sostengano la guerra e pensino sia normale combattere contro gli ucraini, non posso accettare che si possa tentare di risolvere le controversie con la forza.

È una scelta che ha fatto da solo?

Ne ho parlato con chi faceva parte del movimento di Navalny prima della sua liquidazione, ma la mia scelta è stata individuale. Per me questa vicenda è anche una tragedia personale, qualcosa di devastante dal punto di vista umano.

Lei ha fatto parte del movimento di Navalny in quale periodo?

Non sono mai stato affiliato ma ho partecipato a tutte le fasi del suo sviluppo a Novosibirsk e certamente ancora oggi mi batto per la liberazione di Navalny e perché possa tornare alla vita politica russa. Tra il 2017 e il 2020 sono stato molto attivo sia nelle manifestazioni sia nelle campagne elettorali. È stato il più bel periodo della mia vita.

Ritiene che oggi sia insensato lottare in Russia per un cambiamento?

Io penso che per ognuno di noi sia possibile fare le sue scelte. Io credo che per me in questo momento restare in Russia e tentare di cambiare le cose non abbia senso. Tutti i mass media di opposizione come “Novaya Gazeta” e il canale televisivo Dozhd sono stati messi fuori gioco. Cercare di ridurre il tasso di fascismo è stato vano. Io sono preoccupato e temo per chi la pensa come me ed è restato in Russia. E sono felice di ogni persona che incontro qui in Armenia per il solo fatto che sia libero e vivo.

Pensa quindi che ora vivrà in Armenia a lungo?

Fino a quando Putin resterà al potere io non tornerò in Russia. Solo se si imporrà la democrazia potrò valutare la possibilità di tornare. Non credo però che resterò tutta la vita in Armenia. È un bel paese e molto ospitale ma non amo molto i suoi valori patriarcali e “tradizionali”. Per esempio l’atteggiamento verso i gay e le lesbiche. Li rispetto ma non li condivido. Pensa che ci debba essere un pluralismo su come la gente intende vivere. Per cui adesso intendo qui riprendermi moralmente ma poi vorrei cercare di trovare lavoro in Europa.

Pensa che le sanzioni che colpiscono direttamente lo stile di vita dei russi come quelle sul cinema, lo sport e la cultura siano utili o aiutino Putin a presentarsi come una vittima della russofobia per unire intorno a sé parte dell’opinione pubblica?

Ci sono delle sanzioni che conducono in Russia a un deficit di medicinali e ciò ha delle ricadute tragiche per chi non ha possibilità di recarsi all’estero per curarsi. Questo non è accettabile. Io sono contro le sanzioni settoriali che colpiscono buona parte della popolazione russa e favoriscono la propaganda del regime. Bisognerebbe puntare ancora di più sulle sanzioni individuali. In questo momento però sarebbe importante soprattutto fermare il bagno di sangue e quindi non dare la possibilità alla Russia di produrre armi. Tutto il resto è secondario.

Pensa che ci potrà essere a medio termine un cambiamento progressivo in Russia?

Che dire, ci abbiamo provato in questi anni. Invece siamo arrivato al fascismo.

Quindi nessuna speranza?

La speranza c’è sempre. Per esempio io ho un’ottima opinione di una nazione europea che è riuscita a superare il fascismo come la Spagna. Per me sarebbe molto interessante conoscere questa realtà, capire come ha superato l’eredità del fascismo e come quindi potrebbero prodursi tali tipi di mutamento anche in Russia. Però penso che dovranno passare alcune generazioni perché la Russia si metta sulla strada della democrazia definitivamente.

Credo che i mutamenti in Russia potranno avvenire più rapidamente di quanto si creda perché si tratta di un sistema molto personalistico anche se poi per consolidare i cambiamenti ovviamente ci vorrà del tempo. Il fascismo si basi sull’odio, sulla divisione dall’altro. Il fascismo è come una droga, finisce per dare dipendenza. Quando hanno iniziato a dire il Tv che gli ucraini erano i cattivi, erano da odiare, molti hanno iniziato a farlo. Purtroppo troppi si sono abituati a odiare.


Jaroslav, 25 anni, di Samara. Ha lavorato nel settore del commercio all’ingrosso, ora nell’IT.

Qui si vede l’intervista / видеоинтервью можно скачать здесь

Perché è venuto in Armenia?

Per le stesse ragioni di molti, perché la guerra, e non una “operazione speciale” come dicono, sta continuando e temo la mobilitazione. Ma già dal 2014 con l’annessione della Crimea e l’inizio delle sanzioni, sono iniziate a peggiorare le condizioni di vita. Ma non è solo questo: ho iniziato a percepire che nel paese non si assimilavano più le nuove tecnologie americane, non c’erano più start-up, insomma che stavamo arretrando. Non recepivamo più le novità dei paesi democratici avanzati.

L’idea che ci fossimo presi un pezzo di terra come la Crimea – nel mondo contemporaneo dove per le nuove tecnologie permettono di lavorare e vivere in ogni dove – mi sembrava arcaica. Nel Ventunesimo secolo avere ancora tali ambizioni imperiali mi sembrava non solo sbagliato ma fuori tempo. Già allora iniziai a riflettere dove avrei potuto trasferirmi, pensavo alla Germania soprattutto.

E poi…

Quello che è avvenuto il 24 febbraio nessuno se lo aspettava, nessuno ne sapeva nulla. In un attimo capisci che tutti i tuoi piani per il futuro saltano in aria e sei costretto a fare un bilancio finale di tutto ciò. Ecco perché ora sono in Armenia.

A Samara, la gente come ha visto il conflitto?

Mia madre e la mia fidanzata sono nettamente contrarie, mentre mio padre lo sostiene. Lui ritiene che andandomene mi sono dimostrato un traditore della patria. Ma non ritengo di esserlo. Questa non è la Seconda guerra mondiale, non ci stanno invadendo, non c’è nessun pericolo per le nostre persone care o i nostri amici.

Chi è favorevole alla guerra guarda all’America come a un mondo che degenera e allora capisci immediatamente da dove vengono queste idee, si originano dalla televisione. Forse il 60% delle persone che frequento provano a dare una giustificazione in qualche modo a questa guerra. Si tratta di persone martellate dalla propaganda che continua a ripetere all’unisono: «State tranquilli, tutto questo passerà, presto tutto finirà!». Come dicono i nostri dirigenti, “tutto sta andando secondo i piani”. Molti credono che passeranno ancora 3-4 mesi e tutto tornerà come prima.

Mi ha detto che la sua ragazza è rimasta lì. Vuole venire via anche lei?

Sì attende solo che ci siano le condizioni per farlo. Io voglio definire prima che fare nel futuro. Stabilizzare la mia situazione qui o in un altro paese. Aver da vivere insomma.

Non le sembra che così la Russia piano piano perderà tutta la forza-lavoro più specializzata, le persone più attive e intelligenti? Che il paese si impoverirà ed emergeranno solo gli “yes-man”?

Ai tempi dell’Urss non tutti volevano andare via ed era difficile andarsene. Anche ora non è facile, è qualcosa che provoca una grande tensione morale e quindi ci sarà ancora chi pazienterà. La situazione resterà probabilmente instabile anche quando Putin morirà…. Può darsi che ci sarà una continuità di regime con Patrushev (il più accreditato ora a prendere il posto di Putin nel futuro. È stato a capo del Fsb N. d. R.). Non è detto che si formerà una massa critica per il cambiamento. Nessuno può saperlo. Del resto nessuno si aspettava ai tempi che l’Urss crollasse.

Dunque la situazione resta aperta?

Sì c’è gente che ancora sostiene il regime ma con cui va tenuto aperto il dialogo, potranno cambiare idea. Prima o poi la pace, in ogni caso, arriverà, anche se non sappiamo quando sarà. E sono ottimista, non ci sarà la guerra nucleare. Ogni regime basato su un grande leader quando muore produce una grande instabilità. Successe perfino con Mao in Cina. Bisognerà muoversi verso una pace mondiale. Lentamente e sarà difficile ma è una strada che deve essere percorsa. Il processo di democratizzazione sarà lungo, deve essere basato su nuove persone e su nuove garanzie. E come russo spero che si arrivi a una stabilità come da voi in Europa. Insomma un mondo senza fame, guerre e grandi migrazioni e dove si pensi al progresso per tutti, è possibile.


Dmitry Andreyanov, 55 anni. Rostov sul Don. Giornalista prima della Tv di stato poi del canale di opposizione Dozhd (ora chiuso).


Lei viene da Rostov sul Don, una regione un po’ di confine tra il Donbass, dove ora si combatte, e il resto della Russia…

Sì è così. Già prima del 24 febbraio tutto quando succedeva ci passava sotto gli occhi. Dove vivevo io si vedevano passare le truppe e si sentivano ogni tanto anche delle esplosioni. Abbiamo visto passare i profughi già a partire dal 2014 e anche adesso prima di andarcene (sono emigrato in Armenia con tutta la famiglia, io, mia, moglie e i nostri due figli).

Lei come giornalista che viveva in quelle zone ha avuto la sensazione che si sia trattata di una guerra che è continuata senza soluzione di continuità per 8 anni?

La guerra è proseguita tra il 2014 e il 2015. Poi c’è stato un periodo di congelamento e di cessate il fuoco. E poi è ripresa già all’inizio del febbraio 2022. Quando si verificavano degli eventi importanti su scala internazionale, allora c’era una qualche ripresa del conflitto, ma complessivamente la situazione era tranquilla. Nelle due Repubbliche autoproclamate erano state aperte delle banche, c’era una qualche attività commerciale e comparvero anche attività produttive anche se non erano riconosciute, neppure dalla Russia. Provavano anche a esportare il carbone in Russia…

Dalla parte del confine ucraino c’era il blocco completo?

Non proprio. Le due repubbliche cercavano di commerciare anche in Ucraina, usando sulla “linea di contatto” dei metodi di corruttela. Insomma il contrabbando esisteva. Inoltre gli anziani e invalidi di Lugansk e di Donetsk ricevevano le pensioni ucraine. Ma per riceverle bisognava recarsi in Ucraina. Ricevevano 3 pensioni: quella russa, quella ucraina e quella della Repubblica. Cifre misere tutt’e tre, naturalmente.

Dopo il 2014 furono molti quelli che emigrarono dalle Repubbliche verso la regione di Rostov?

Sì tanti. Va capito che queste due Repubbliche autoproclamate sono una “zona grigia” dove non ci sono leggi certe, dove non c’è attività lavorativa legale. Chi ha in mano un mitra decide quali sono le leggi. E così molti nel tempo sono arrivati a Rostov ma poi si sono sparpagliati in tutta la Russia, perfino in Kamchatka. Arrivarono complessivamente 1.230.000 profughi che poi si dispersero in giro.

Lei faceva attività giornalistica nel Donbass occupato?

Fino al 2018. Ci si doveva prendere dei rischi in quanto la legge era qualcosa che andava interpretata e da ciò ne discendeva l’approccio di quelle cosiddette autorità. Poi venne introdotto un sistema di accreditamento per i giornalisti. Il primo canale russo cercò di accreditarmi ma non se ne venne a capo: neppure dopo l’interessamento del ministero degli Esteri Io non venni accreditato, mentre altri sì.

Aveva la sensazione che tutti coloro i quali erano contrari alle Repubbliche se ne fossero andati in precedenza o una parte era rimasta?

Difficile dirlo, non ci sono statistiche al riguardo. La gran parte della gente che si accorse allora che si stava imponendo il cosiddetto “Mondo russo” si rifugiarono in Ucraina. Gli altri dal 2016 furono raggruppati in campi di concentramento temporanei e poi molti tornarono a casa. Pensavano che il Donbass sarebbe diventata la nuova Crimea con tanti investimenti russi e un certo tenore di vita. Cosa che ovviamente non divenne mai realtà.  Anche perché al tempo Putin, a essere onesti, non aveva fatto alcuna promessa. Per la Russia questa regione è sempre stata solo una piattaforma da cui condurre una guerra di aggressione.

In Italia esiste una minoranza dell’opinione pubblica che ritiene che nel 2014 sia stata condotta una guerra tra battaglioni ipernazionalisti o nazisti come l’Azov e dei battaglioni antifascisti delle Repubbliche cosiddette popolari. Cosa può dire a tale proposito?

In Ucraina non c’è stata a mio avviso alcuna guerra civile. C’è stata un intervento diretto della Federazione Russa nel territorio ucraino con l’occupazione di tre provincie. Il ruolo fondamentale che venne giocato dall’esercito russo nel 2014, ormai non è un segreto per nessuno. L’uso di armi sofisticate e di missili lo dimostra con evidenza come del resto l’uso dell’aviazione. Anche alcuni reparti del Donbass ovviamente combatterono ma furono ben equipaggiati dalla Russia. E una buona fetta di costoro erano avventuristi e mercenari. L’esercito ucraino ben poco organizzata poté fare ben poco in quella situazione. Anche perché del resto era ben poco motivato a combattere.

Da quante tempo fa il giornalista?

Dal 1996 sono giornalista televisivo soprattutto su questioni politico-sociali. Ma quel tipo di giornalismo che facevo prima, in Russia già non è più possibile. Ormai negli ultimi due anni, ogni cosa che filmavi non andava bene per la polizia. Molte volte siamo stati fermati mentre riprendevamo qualcosa. Prima si poteva mettere in discussione le loro decisioni amministrative, ora hanno ragione “per principio”. I giudici ogni volta ripetono come un mantra «non abbiamo motivo di non credere a quanto sostengono le forze dell’ordine». E non importa quali prove tu possa portare a tuo sostegno, magari portando la testimonianza che qualcuno è stato picchiato senza motivo, la canzone è sempre quella: “non abbiamo motivo di non credere a quanto sostengono le forze dell’ordine”.

Lei con la sua famiglia ha deciso di andarsene per sempre?

Ce ne siamo andati subito dopo il 24 febbraio, appena è stato possibile. Appena abbiamo raccolto i mezzi economici (per ora a Erevan si possono spostare i soldi) fatto il passaporto, e quindi abbiamo fatto le valigie e siamo andati in aeroporto. Del resto non avevamo nessuna voglia di finire in galera come disertori!

Non so se torneremo. Deve cambiare qualcosa neppure tanto a livello di regime quanto qui, nell’animo. Oggi come oggi direi, per il mio stato morale, che non voglio ritornare in Russia mai più. Non voglio più essere associato con il paese in cui ho vissuto tutta la mia vita. Oggi come oggi non riesco a vedere nulla di positivo in quel paese. Se torno indietro torno all’epoca del Komsomol (la gioventù comunista dell’epoca sovietica N. d. R.), al passato sovietico, al mio lavoro all’aviazione, alla perestrojka, e via via non riesco a vedere niente di soddisfacente.

Qualcuno mi dice: “Ma lei a chi servirà in Occidente?”, io rispondo: “Cosa servo io alla Russia?” In Russia non sono né cittadino, né elettore, ma devo comunque pagare le tasse. Io da solo pago lo stipendio di due poliziotti. Sono stato scrutatore a quasi ogni elezione e ogni volta è finita che è arrivata la polizia e mi cacciavano via. Se fossi gay potrei essere ammazzato solo per essere tale. Ecco perché io non voglio tornare in quel paese.

Potrà secondo lei avvenire nel futuro un cambiamento in Russia?

Come dicevano i classici del marxismo ci vogliono le “condizioni oggettive”. Oggi in Russia ci sono le “precondizioni” solo per una dittatura ancora più dura e sanguinosa. I sondaggi che appaiono sulla guerra attuale dimostrano che esiste una maggioranza favorevole a questa guerra e potenzialmente a una dittatura ancora più dura. In realtà la maggioranza dei russi sarebbe contro la guerra: ma da una parte c’è una minoranza che abbandonato il paese e ora si trova da qualche altra parte e dall’altra una maggioranza che però in qualche modo la giustifica. “Il Capo ha deciso in questo modo, avrà avuto le sue ragioni”, si dice. Oppure: “Noi eravamo contro la guerra ma non c’erano altre possibilità!” Insomma c’è chi è categoricamente contrario e chi è contrario ma la giustifica o prova a farlo.

Ma non crede che se le cose non andranno così bene in Ucraina e all’interno si creeranno delle possibilità di cambiamento?

Credo che molti russi non siano diversi dai cubani che vivono poveramente e sotto la dittatura ma ritengono che sia sempre e solo colpa degli americani. La colpa anche in Russia sarà degli Occidentali che non ci hanno capito, che ci hanno emarginato e così via. Purtroppo abbiamo avuto tutto il mondo contro, si dirà.

Pensa che lei è la sua famiglia resterete qui o vi trasferirete altrove?

Noi sfruttiamo l’occasione che ci ha dato Putin, per girare il mondo per quanto avremo le possibilità economiche. Può darsi che quando saremo molto anziani io e mia moglie, silenziosamente torneremo a casa. Avevo sempre promesso a mia moglie che l’avrei portata a Kiev, dove sono stato studente in gioventù; le ho detto: «Per ora Kiev non si può fare. Ti basterà Parigi?».

L'articolo «Non posso accettare che dei miei concittadini sostengano la guerra» proviene da OGzero.

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La strategia del grano https://ogzero.org/la-strategia-del-grano/ Fri, 10 Jun 2022 16:01:50 +0000 https://ogzero.org/?p=7867 Sulla scorta della proverbiale definizione di “granaio del mondo” l’Occidente sta attribuendo integralmente alla guerra in Ucraina la responsabilità della fame che si sta annunciando per carenza di grano (ma non si parla del fatto che la Russia è il maggior esportatore di fertilizzanti), senza considerare che il prezzo dei cereali era già in aumento […]

L'articolo La strategia del grano proviene da OGzero.

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Sulla scorta della proverbiale definizione di “granaio del mondo” l’Occidente sta attribuendo integralmente alla guerra in Ucraina la responsabilità della fame che si sta annunciando per carenza di grano (ma non si parla del fatto che la Russia è il maggior esportatore di fertilizzanti), senza considerare che il prezzo dei cereali era già in aumento prima del 24 febbraio e che sono periodiche le rivolte del pane (anche dopo il 2011 delle Primavere arabe).
La guerra è stata solo il la ciliegina su una torta immangiabile per i 20 milioni di potenziali morti per fame che la contingenza può creare e i due autocrati di Astana si stanno mettendo d’accordo anche in questo caso per spartirsi guadagni e prestigio nei paesi africani sbloccando la situazione del Mar Nero con il blocco delle tonnellate di grano ammassato nei silos ucraini che rappresentano comunque soltanto l’8 per cento del prodotto annuale mondiale. Un’arma ibrida come le bombe di migranti gettate ai confini, che si produrranno anche attraverso questa nuova fame indotta dalla guerra sarmatica. Ma non solo: esistono infinite esponenziali conseguenze al conflitto (e allo scellerato agribusiness, all’intollerabile landgrabbing, allo sfruttamento coloniale, che hanno preparato il terreno alla fame globale) che portano alle scelte strategiche dei singoli stati vincolati in qualche modo ai prodotti russi (per esempio il Brasile) e il ritorno d’immagine per i popoli affamati d’Africa che si troveranno a ringraziare i garanti russo-turchi delle forniture alimentari di cui sono responsabili per l’improvvisa carenza; senza contare la stagflazione ormai globale e l’indebitamento generalizzato.
Per questo riprendiamo, con l’accordo dell’autore – che ringraziamo –, un pezzo di Angelo Ferrari scritto per l’Agi sul ritorno delle mosse russo-turche nei paesi africani a rischio di carestia per la carenza di approvvigionamenti di cereali, a cui alleghiamo il podcast di un intervento di Alfredo Somoza su Radio Blackout a proposito delle cause globali della carestia.


La guerra del grano deve essere risolta nel più breve tempo possibile e vincerla non è solo una questione di “buon cuore”, ma anche strategica. I numeri dimostrano che la carestia potrebbe colpire oltre 400 milioni di persone. A questi si debbono aggiungere tutti coloro che vivono con gli aiuti alimentari delle Nazioni Unite. Il Corno d’Africa e gran parte del Sahel si apprestano ad affrontare una carestia senza precedenti (Human rights watch) che, indubbiamente, sarà aggravata dalla guerra in Ucraina. Sbloccare centinaia di milioni di tonnellate di grano nei silos nei porti ucraini è dunque una priorità per scongiurare una catastrofe umanitaria che avrà ripercussioni globali che potrebbero durare anni. Molto attivi su questo fronte sono i turchi e i russi, anche se un accordo chiaro che garantisca tutti, in primo luogo gli ucraini, sembra lontano dall’essere siglato.

La penetrazione russa

La Russia, come stiamo vedendo in questi giorni, ha tutto l’interesse a scaricare sull’Occidente la responsabilità di una possibile crisi alimentare globale. Un interesse che non deve stupire. Di sicuro, come è già avvenuto, farà partire le sue navi cariche di grano dai porti ucraini conquistati sul mar d’Azov. Grano rubato, secondo gli ucraini. Grano di loro proprietà secondo Mosca. Al di là di chi abbia ragione questa è la realtà. Le navi hanno fatto rotta verso l’Africa dove la presenza russa si fa sempre più penetrante.
Il caso del Mali, nel Sahel, è l’aspetto più eclatante. È riuscita a “cacciare” la Francia da un’ex colonia. Poi c’è la Repubblica Centrafricana, anch’essa ex colonia francese. Qui la presenza russa è ancora più evidente. Senza dimenticare il Burkina Faso e ancora i recenti accordi militari e di sicurezza tra il Camerun e Mosca. Nel mirino di Putin c’è anche il Ciad, dove nella capitale N’Djamena ci sono state manifestazioni antifrancesi molto violente. Il sentimento antifrancese e antioccidentale sta dilagando in gran parte del Sahel e Mosca lo cavalca e incoraggia abilmente.

L’attivismo turco

Dall’altra parte del tavolo negoziale c’è la Turchia, il sultano Recep Erdoğan, che non fa nulla senza che ne abbia un tornaconto significativo. Anche Ankara ha interessi diffusi in Africa. Oramai è un po’ ovunque, ha stretto accordi commerciali, di fornitura di armi, ma anche si sta impegnando molto sul fronte dell’aiuto alimentare, come in Somalia. La forza della Turchia in Africa è assai maggiore di quella russa. Dal 2004 Erdoğan ha fatto più di 50 viaggi nel continente africano e visitato oltre 30 nazioni. Solo nell’ottobre del 2021 il capo di stato turco ha visitato Angola, Nigeria e Togo e nello stesso mese, Istanbul ha ospitato leader aziendali e dozzine di ministri degli stati africani per un vertice volto specificatamente ad aumentare il commercio. Nei primi mesi del 2021 il commercio bilaterale Turchia-Africa ha raggiunto i 30 miliardi di dollari e l’obiettivo della Turchia è di aumentarlo ad almeno 50-75 miliardi di dollari nei prossimi anni. Inoltre circa 25.000 lavoratori africani sono attualmente impiegati nel continente da aziende turche in progetti del valore di 78 miliardi di dollari e più di 14.000 studenti africani hanno studiato in Turchia. Il numero degli ambasciatori turchi distaccati nel continente è passato dai 12 del 2005 ai 43 nel 2021, mentre il numero degli ambasciatori africani ad Ankara è passato da 10 a 37. «Miriamo ad aumentare il numero dei nostri ambasciatori fino a 49», ha detto Erdoğan, affermando che il vertice di Istanbul ha dato luogo a sessioni congiunte a livello ministeriale nei settori della sanità, dell’istruzione, dell’agricoltura e della difesa. Turkish Airlines vola verso 61 destinazioni in Africa, l’Agenzia turca di cooperazione e coordinamento (Tika) ha 22 uffici locali, la Fondazione Maarif gestisce 175 scuole in 16 paesi e la presidenza dei turchi all’estero e delle comunità correlate offre borse di studio a oltre 5000 studenti africani. Una potenza di fuoco enorme che ha anche lo scopo di ottenere il sostegno africano per un seggio permanente al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite.Per Ankara, dunque, arrivare a una soluzione negoziata sul grano ucraino sarebbe un grande successo e rafforzerebbe i legami già molto stretti con l’intero continente. Obiettivo che ha anche lo zar di Mosca. Putin e Erdoğan, su questa partita si intendono benissimo. Tutto ciò avrebbe, inoltre, anche lo scopo di allontanare sempre di più il continente africano dall’influenza occidentale, sostituendola con quella turca e russa. La Cina, vera padrona del continente, sta a guardare anche perché non ha competitor. Vincere la guerra del grano non è solo una questione di buon cuore, ma ha una valenza strategica tale da spostare gli equilibri anche in Africa, dove quasi la metà degli stati non ha votato o si è astenuta per la risoluzione delle Nazioni Unite di condanna all’invasione russa dell’Ucraina. Di sicuro, se Erdoğan avrà ragione in questa partita, sarebbe la sconfitta dell’occidente – oltre che quella dell’Onu – la cui diplomazia non fa altro che accusare Mosca della catastrofe alimentare. Non basta. Agli africani di certo non basta.

Ascolta “Dormi sepolto in un campo di grano” su Spreaker.

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La guerra non ha il congiuntivo, ma l’economia sì https://ogzero.org/la-guerra-non-ha-il-congiuntivo-ma-leconomia-si/ Wed, 06 Apr 2022 20:39:01 +0000 https://ogzero.org/?p=7001 Dichiarata la guerra il suo banale corredo è intriso di propaganda, retorica, ostentazioni scontate e risapute ipocrisie; strategie e dichiarazioni, video reali e manipolati su cui dibattere vanamente costellano la cronaca… Tutto questo orrore è consueto e si riassume nella parola “guerra”. Ormai è in corso e dovrà arrivare al fondo, che sia un Blitzkrieg, […]

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Dichiarata la guerra il suo banale corredo è intriso di propaganda, retorica, ostentazioni scontate e risapute ipocrisie; strategie e dichiarazioni, video reali e manipolati su cui dibattere vanamente costellano la cronaca… Tutto questo orrore è consueto e si riassume nella parola “guerra”. Ormai è in corso e dovrà arrivare al fondo, che sia un Blitzkrieg, una “operazione speciale”, o un impantanamento di un poderoso esercito; una resistenza determinata, motivata o preparata… seguirà il suo corso e avrà sul campo una delle due o tre potenziali soluzioni. Quella cronaca diventerà storia, come le stragi di civili, i massacri di comunità, le distruzioni di case e mezzi bellici; la frustrazione, le defezioni e gli arruolamenti di mercenari e l’esaltazione della truppa: sentimenti da gestire per evitare spiacevoli “effetti collaterali”.
I morti ne sono ovvio corollario.
La precognizione di quale potrà essere il coinvolgimento del mondo si avvicina maggiormente all’approfondimento a un livello più elevato di uno squallido salotto televisivo. Cinicamente la geopolitica considera nella sua contabilità questi dati comuni a tutte le guerre e li fa interagire: ciò che interessa all’analista geopolitico è la trasformazione socio-economica dopo una guerra che coinvolge potenze di questo livello. Come si svilupperà l’esistenza in tempo di guerra e quale sarà la ricaduta sull’economia mondiale? tariffe del grano e bollette energetiche, approvvigionamento e reti di distribuzione… fame e freddo. Le svolte imposte da una guerra di queste proporzioni all’economia neoliberista imperante da 30 anni potrebbero far deragliare il libero mercato e dunque lo scenario che si comincia ad aprire è quello dello statalismo: non incentrato sul welfare ma quello bellico, fatto di riarmo e interventismo monetarista, di autarchia e di stretto controllo da parte del potere di ogni aspetto macroeconomico: centralizzazione del controllo dell’energia e sua nazionalizzazione.

Fin qui la sintesi di OGzero dopo le sollecitazioni di questo nuovo articolo di Yurii Colombo che state per leggere


Sindromi propagandistiche e stalli reali

I sondaggi d’opinione in Russia (per quanto possano valere quelli in tempi di “operazioni speciali”) sostengono che la popolarità di Putin sia aumentata dall’inizio del conflitto. Non deve stupire. Il rublo si è in parte ripreso, le sanzioni inizieranno a farsi sentire tra qualche mese e il nazionalismo russo nelle “ore supreme” è storia nota. L’annuncio di Putin poi di voler chiedere in cambio del gas e del petrolio ai paesi “non amici” il pagamento in rubli ha inorgoglito i russi anche se poi continueranno a ricevere i soliti euro e dollari anche nel futuro. La dedollarizzazione di parte delle transazioni internazionali era già stata fatta baluginare dal presidente russo ai tempi dei Brics, ma continuerà ad avere un difficile decollo se non diventerà un’arma di Pechino.

Del resto le truculente interferenze di Joe Biden hanno aiutato il Cremlino a fornire un’immagine alla propria opinione pubblica da “cittadella assediata”, in cui l’aggressore tenta di dimostrare contro ogni evidenza di essere l’aggredito. Le stesse campagne di russofobia che qua e la sono emerse in tutto l’Occidente hanno dato la possibilità a Dmitry Peskov, il portavoce ufficiale di Putin, di sostenere di «essere di fronte a campagne simili a quelle dei nazisti quando bruciavano i libri negli anni Trenta». Anche misure come quelle assunte dalla società farmaceutica tedesca Miltenyi Biotec, un produttore di attrezzature e materiali per la terapia cellulare, che ha smesso di fornirle alla Russia a causa del conflitto, producendo un (giusto) sdegno tra la popolazione visto che non si tratta di sanzioni che colpiscono oligarchi, funzionari, personale militare o aziende, ma invece negano il diritto alla salute dei malati anche se si tratta, secondo gli esperti, di terapie a cui sono sottoposti pochissimi pazienti. Tuttavia, ci sono altre forme di assistenza medica in cui la Russia è criticamente dipendente dalle attrezzature importate. In Russia circa 50.000 persone sono sottoposte a emodialisi su base permanente e in totale circa 1 milione di persone hanno bisogno di una terapia sostitutiva in un modo o nell’altro. Sanzioni in questo o altri settori sanitari alla Russia potrebbe portare al collasso della catena di assistenza medica per coloro che hanno bisogno di tali cure e mettere decine di migliaia di persone a rischio della vita.

Risultati dell’insoddisfacente riuscita della “spezial operazy”

La sconfitta politica di Putin è però ormai nelle cose. A 40 giorni dall’inizio dell’ostilità l’esercito russo non ha conquistato alcuna grande città e i segnali di demoralizzazione e di frustrazione da parte delle truppe (che probabilmente sono all’origine del massacro di Bucha) che a parti invertite si erano colte nel conflitto nel Donbass del 2014. In queste ore si stanno moltiplicando tra le truppe russe i casi di diserzione individuale e di massa. Il più clamoroso è quello portato alla luce (e poi confermato il 5 aprile ufficialmente) dal blogger osseto Alik Pukhaev secondo il quale trecento militari dell’Ossetia del Sud hanno rifiutato volontariamente di combattere in Ucraina e sono tornati a casa:

«Circa 300 militari (per lo più di etnia osseta) della base militare russa sono tornati nell’Ossetia del Sud di loro spontanea volontà», ha scritto sulla sua pagina Twitter il giornalista perché erano stati chiamati ad un’azione kamikaze contro le truppe nemiche.

Il rifiuto di fare da carne da cannone è stato segnalato anche tra settori dell’esercito occupante a Melitopol’ e a Sumy.
Che ormai la voglia di combattere dei russi sia scarsa è confermato anche da altre segnalazioni. Già da giorni circolano video e foto in internet in cui si viene a sapere che nella zona di Irkutsk vengono richiamati i riservisti mentre a Norilsk per i maschi di 18-35 anni che decidono di arruolarsi nella “Campagna Z” l’esercito promette ai volontari oltre a uno stipendio di 60.000 rubli, un’abitazione, vacanze pagate, il pensionamento dopo 10 anni.

Escalation in Vietnam, эскалация se declinato in Ucraina

Il bluff dei “rublocarburi” (mossa per evitare la fuga di capitali non solo degli oligarchi) potrebbe aprire però la strada a uno scenario “Blitzkrieg2”: ovvero a un nuovo tentativo di dare l’assalto a Kiev e tentare lo sbarco a Odessa.

Secondo Boris Kagarlitsky (@B_Kagarlitsky) «il Cremlino ha bisogno di ottenere qualcosa in campo di battaglia prima che l’economia crolli per tornare a trattare da una posizione di forza».

Ma anche questa sarebbe poco più di un’illusione Nella vita è impossibile rigiocare all’infinito una partita ormai persa. Sarebbe la soluzione peggiore, perché l’Orso ferito potrebbe perfino tentare nuove avventure militare nei paesi limitrofi.
Il conflitto di per sé sembra giunto a un punto di stallo o perlomeno di reload. Le estenuanti trattative tra le due delegazioni proseguono stancamente e per ora hanno prodotto un solo anche se significativo risultato. L’Ucraina avrebbe accettato nel futuro di diventare uno “stato neutrale” (se in versione austriaca o finlandese è ancora tutto da vedere) e di rinunciare definitivamente all’ingresso nella Nato. Il gruppo dirigente di Zelensky, del resto, si è scottato con le troppe promesse degli alleati occidentali che hanno trasformato il paese slavo solo in una piazza d’armi rivolta contro la Russia e immagina un futuro di Kiev a cavallo tra Bruxelles, Ankara e chissà magari Mosca, se nel futuro ci saranno dei cambiamenti significativi – per ora non immaginabili – al Cremlino.

“спецоперация” suona più minacciosa di “война”

Per il resto le posizioni restano distantissime. Mosca non ha ottenuto la “demilitarizzazione e denazificazione” (ovvero il cambio di regime) e difficilmente può immaginare l’occupazione dell’intera Ucraina e punta probabilmente al pieno controllo del Donbass ed eventualmente ad alcune aree del sud. In altissimo mare resta invece la questione del riconoscimento della Crimea e del Donbass da parte dell’Ucraina dove Zelensky avrebbe enormi difficoltà a far digerire un’amputazione così importante del territorio a un popolo in armi e che appare ancora fortemente motivato a battersi sul campo.
La “pace armata” e un eventuale cessate il fuoco con l’invio di forze di interposizione potrebbero apparire all’orizzonte delle trattative nel prossimo futuro ma anche l’ipotesi di una guerra a bassa intensità di lunga durata potrebbe anch’esso diventare lo scenario del futuro dell’area. La Russia non può bloccare una parte del proprio esercito professionale a lungo nell’area o permettersi un’occupazione e l’Ucraina prima o poi dovrà far ripartire la propria economia: sono questi gli elementi che potrebbero imporre a entrambi i contendenti un ammorbidimento delle rispettive posizioni.

Sullo sfondo si colloca la “guerra fredda 2.0” tra Russia e Occidente che rischia di far impallidire quella del Novecento.

La Federazione dovrà ripensare per forza non solo il proprio orizzonte strategico che ne aveva fatto un paese “semi-periferico” votato all’esportazione di materie prime con massicce importazioni di prodotti finiti. Il ritorno a un’economia che ricordi vagamente l’autarchia sovietica è simbolicamente già iniziato con la sostituzione a Mosca dei McDonalds con la nuovissima (ma assai simile) catena russa “Дядя Ваня” [Zio Vania] e sta alimentando un dibattito a più ampio raggio.

Yurii Colombo sta girando la penisola per incontrare chi è curioso di sentire un punto di vista diverso da quello dei salotti televisivi sulla crisi ucraina; questa chiacchierata con alcuni redattori di Radio Blackout è stata registrata il 7 aprile dopo un incontro organizzato dal Centro di Documentazione Porfido di Torino presso l’Edera Squat.

Ascolta “Crisi ucraina tra etno-nazionalismi e ridimensionamento dell’eredità imperiale” su Spreaker.

 

Svolte antiliberiste: il volano statalista dell’economia bellica

«La crisi al vertice…»

Su “Kommersant” – il quotidiano della Confindustria russa – è apparso un lungo saggio di Dmitry Skrypnik studioso di economia e matematica dell’Accademia russa delle scienze di Mosca. Secondo Skrypnik la cosiddetta politica di stabilizzazione macroeconomica che ha segnato tutta l’era putiniana, che consisteva nell’accumulare riserve auree ingenti «avrebbe potuto essere giustificata solo in un caso: se il suo scopo fosse stato quello di sottovalutare il rublo come elemento di una politica industriale mirata alla sostituzione delle importazioni e alla conseguente crescita orientata alle esportazioni».

Invece «l’economia ha continuato a rimanere indietro in tutti questi decenni e a deteriorarsi in molte aree, e la crescita economica è stata inaccettabilmente bassa. La storia, come sapete, non ha il congiuntivo, ma l’economia sì. La scienza economica ha ricette per lo sviluppo in un ambiente di alta corruzione, clientelismo e un sistema giudiziario debole, quindi i tentativi da parte delle autorità economiche e di alcuni esperti di assolvere se stessi dalla responsabilità attribuendo tutti i problemi ai servizi di sicurezza e al sistema giudiziario non dovrebbero essere presi in considerazione. E il fatto che le sanzioni sembrano ora in grado di privare la Russia di questi beni e tecnologie è una conseguenza delle politiche economiche sbagliate degli ultimi 30 anni».

… a Est…

Una disamina impietosa dello stato della Russia in cui non ci sarebbero soluzioni semplicistiche e neppure grandi possibilità per un arroccamento ormai impossibile nel quadro delle dimensioni della globalizzazione. Per lo studioso ci si dovrebbe invece muovere «contemporaneamente lungo l’intera catena del valore, e non solo modificarne il singolo elemento dove lo stato dovrebbe mirare a coordinare i produttori nella fase di creazione della produzione, seguita dalla creazione della concorrenza e dall’entrata delle imprese nel libero mercato. Se questi obiettivi non vengono raggiunti entro un certo periodo di tempo limitato, i relativi progetti dovrebbero essere gradualmente abbandonati».

… e a Ovest

Si tratta di un dibattito che sta attraversando – per altri versi – anche l’occidente dove già a partire dalla crisi del Covid-19 ha rilanciato il ruolo dello stato e dei governi in chiave non solo regolatrice ma interventista anche con la ripresa in grande stile del deficit-spending militarista che mette in discussione sin dalle radici il modello neoliberale. Una svolta non per forza di sinistra, anzi, che si alimenterebbe di russofobia e di un ulteriore rafforzamento della Nato (la Georgia ha già annunciato di non voler deflettere dal suo intento di voler entrare a far parte dell’Alleanza Atlantica nei prossimi anni).
Sono volani che potrebbero produrre dei giganteschi profitti per tutte le aziende legate alla Difesa e al loro indotto che però lasciano dietro di sé le solite vittime predestinate.

Fame e stagflazione alimenteranno proteste?

La guerra, stima la Banca Mondiale, produrrà una riduzione del Prodotto interno lordo ucraino quest’anno di oltre il 20% riportando il paese ben sotto i livelli di vita sovietici. Fame, morte, migrazioni di massa sono già diventate la quotidianità di milioni di ucraini. In Russia le sanzioni comminate dall’Occidente hanno fatto esplodere l’inflazione che si attesterà sicuramente alle due cifre mentre milioni di russi inizieranno a conoscere l’indigesto cocktail della stagflazione (il Pil russo dovrebbe calare del 10%).
In questo quadro, tra qualche mese, con l’arrivo dell’autunno i “fronti interni” potrebbero riaprirsi improvvisamente. Non bisogna dimenticare che l’Ucraina è uno dei paesi più sindacalizzati tra quelli dell’ex Urss e anche recentemente – prima dell’inizio del conflitto – ha conosciuto forti movimenti di sciopero e di protesta. Lo stesso discorso, seppur con altre caratteristiche, potrebbe valere anche per la Federazione.

Come ha sostenuto ancora Kagarlitsky recentemente su “Forum.msk.ru”: «Il Cremlino non capisce non solo gli europei, che sono veramente immaginati come codardi coccolati, il che è totalmente falso. I nostri governanti non capiscono nemmeno il loro popolo, che immaginano come una massa di contadini analfabeti del Diciannovesimo secolo, credenti nello zar e in Dio, pronti a soffrire le privazioni senza domande, a combattere e a morire senza compiacenza sotto l’ordine. Lo stile di vita della popolazione della Russia moderna differisce poco da quello occidentale. La differenza non è che il nostro popolo è più fedele alle autorità, ma che è più diviso e più intimidito. Ma la crisi li costringerà a unirsi. E in nessun modo intorno allo zar».

мусор

Gettalo nella spazzatura. Guerra al fascismo e all’imperialismo

 

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Il “nuovo” ordine mondiale e il gioco delle parti da Astana a Kyiv https://ogzero.org/il-gioco-delle-parti-e-il-nuovo-ordine-mondiale/ Sun, 27 Mar 2022 21:52:07 +0000 https://ogzero.org/?p=6901 Confrontandoci tra complici di “OGzero” sulla complessa situazione ucraina, che è (sì!) una delle decine di guerre in corso nel mondo, ma è anche la parte per il tutto del confronto globale ereditato dalla transizione attraverso il multilateralismo verso un Nuovo ordine mondiale, destinato a venire spostato verso l’Indo-pacifico, abbiamo tratto dall’ultima puntata di Transatlantica24 […]

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Confrontandoci tra complici di “OGzero” sulla complessa situazione ucraina, che è (sì!) una delle decine di guerre in corso nel mondo, ma è anche la parte per il tutto del confronto globale ereditato dalla transizione attraverso il multilateralismo verso un Nuovo ordine mondiale, destinato a venire spostato verso l’Indo-pacifico, abbiamo tratto dall’ultima puntata di Transatlantica24 spunti offerti da Eric Salerno e Sabrina Moles, che ci hanno rievocato le intuizioni messe in gioco in Astana e i 7 mari di Antonella De Biasi. Così “OGzero” nel momento dell’annuncio di un tavolo di pace imbandito a Istanbul comincia a credere che lo spirito di Astana non è sfumato del tutto e su questo dubbio ha cercato di ricostruire i cocci prodotti dall’esplosione del multilateralismo nei rapporti tra stati, dallo scardinamento di alleanze esili, dalla individuazione del momento in cui il Cremlino ha pensato che fosse più opportuno far saltare gli equilibri. Un istante che Antonella nel suo scritto, steso a ottobre, preconizzava individuando nella ignominiosa ritirata americana dall’Afghanistan il segnale della debolezza per cui era possibile azzardare il morso del serpente.

Salvo poi accorgerci che ciascuno ha tratto vantaggio o imponendo spese militari, o annettendosi nuovi territori rivieraschi, o soffiando su un nazionalismo sovranista, cancellando piani ecologisti e ridistribuendo energia con un maggior profitto per i produttori. Distribuito sciovinismo e testosterone in tutti i paesi del primo mondo.

Perciò a partire dalla chiosa del libro, proviamo con questo editoriale a mettere in fila gli eventi di queste ultime 5 settimane sulla scorta di quello che il volume di Antonella De Biasi aveva già individuati come potenziali snodi critici; andremo a trovare nel libro verifiche delle analisi prodotte a posteriori dagli equilibri scaturiti dalla “spezial operazy” di Putin, così da inserirla nell’annoso flusso geopolitico senza gli isterismi cavalcati dal profitto guerrafondaio. Infatti il volume si chiude con una frase emblematica: «Il gioco di Astana, seppur precario, in fondo è anche un gioco delle parti» e le dichiarazioni e le mosse diplomatiche di fine marzo seguono il canovaccio.


Il conflitto in corso è figlio della interpretazione data da una nazione come la Russia al periodo governato da una sorta di multilateralismo: se ne riconoscono i metodi inseguendo i gangli della dottrina Gerasimov (mai realmente scritta o teorizzata, ma resa evidente dalla prassi bellica russa), il cui scopo principale era quello di spezzare l’unilateralismo derivato dalla fine della Prima guerra fredda, in particolare: la soluzione cecena, da cui deriva la carriera del generale; Georgia e Crimea, rimaste senza risposta da parte delle altre potenze… ancora più palese l’uso strumentale del Donbass oggi, come 8 anni fa a suffragio della considerazione dei territori a est del Dnepr come giardino di casa.

Nel caso del conflitto in Nagorno-Karabakh gli armeni hanno pensato erroneamente che Mosca li avrebbe difesi “contro una minaccia turca e musulmana”, come sostiene il professore francese esperto di islam Olivier Roy. Così non è stato perché in fondo l’immagine di una Russia cristiana, ultimo argine all’islam di cui l’Armenia si sente avamposto, serve solo a intermittenza e sempre più raramente come topic/pedina intercambiabile per la personale partita a scacchi di Putin, per ristabilire la grandezza della Russia agli occhi degli occidentali e dei paesi rappresentati dalle economie emergenti. Alcune reazioni caute e sottotono lasciano pensare che Putin non solo fosse al corrente dell’offensiva azera ma che ne abbia addirittura discusso i limiti con il regime di Aliyev così da riprendere solo i territori che, secondo il diritto internazionale, sono azeri. L’estrema destra occidentale ha sempre visto la Russia di Putin, costruita a sua immagine e somiglianza negli ultimi vent’anni, come il baluardo dei valori cristiani minacciati dall’islam. Il Cremlino sfrutta quando servono queste simpatie da sempliciotti. L’obiettivo di Putin è riprendersi e controllare his back-yard.

(Antonella De Biasi, Astana e i 7 mari, OGzero, Torino 2021, p. 49)

Ma anche e soprattutto andava preso nella giusta considerazione l’interventismo in Siria. E in Libia: non si dimentichi il voto del 3 marzo all’Onu che ha visto la metà di paesi africani compromessi per armi, sicurezza e traffici con la Russia compattamente astenuti, in particolare allarmanti le astensioni dei paesi maghrebini fornitori di gas e con interessi – anche militari – intrecciati con il Sud dell’Europa; tutto questo dinamismo del Volga sullo scacchiere internazionale è un prodotto degli accordi di Astana, che è l’altro snodo diplomatico-pragmatico attraverso cui passa la strategia russa di questo periodo e che ha finora imposto i dossier al mondo.

Ma la preparazione alla guerra classica, dotandosi di armi sofisticate, da parte dell’Ucraina attraverso gli stessi meccanismi di alleanze e accordi ibridi con ciascuna potenza locale (e talvolta globale, ma cambiando ogni volta campo contrapposto) ha scombinato il disegno di Shoigu, Gerasimov e Putin. Questa si può considerare una conseguenza del fatto che la Nato si è risvegliata dal coma (indotto da Trump, sodale della deriva reazionaria putiniana mondiale) di cui parlava Macron, ma lo ha fatto predisponendosi a rispondere alla guerra che Bruxelles (e soprattutto Arlington e Langley) sapeva sarebbe stata scatenata: in che modo si preparava? armando gli ucraini con ogni ordigno convenzionale o meno, sia attraverso le armi in dotazione agli alleati europei (baltici in primis), sia con i droni turchi, che con alcune armi di fabbricazione israeliana – ma non tutte, come vedremo – e producendo una propaganda nazionalista identitaria per sollevare lo spirito bellico dell’Europa. Addirittura gli S-400 che furono motivo di sanzioni americane contro la Turchia potrebbero diventare paradossalmente strumenti di difesa per gli ucraini se Ankara si farà convincere a passarle a Zelensky, o le porrà sulla bilancia della trattativa: la tecnologia di cui sono dotate sicuramente è efficace contro le macchine belliche del cui impianto sono parte.

L’amministrazione Biden è ben consapevole che deve tenere la Turchia dentro l’asse Nato per impedire che passi nell’orbita russo-cinese. Così Erdoğan userà questo punto per ottenere vantaggi almeno nelle relazioni bilaterali. La questione critica più importante per gli Usa è il sistema missilistico S-400 che Erdoğan ha acquistato da Putin, non compatibile con quello Nato

(Antonella De Biasi, Astana e i 7 mari, OGzero, Torino 2021, p. 84).

Si può dunque parlare di una proxy war combattuta in territorio europeo e con obiettivi gli interessi europei, che vede gli Usa defilati e non interventisti, ma guerrafondai e impegnati a far esporre l’UE, tagliando così tutti i ponti (e gli oleodotti) euro-russi che in particolare la Germania merkeliana (e di Schroeder) avevano costruito: doppio risultato per gli americani che vendono all’altra sponda atlantica il loro gas poco ambientalista, piazzando (o affittando a caro prezzo) anche le navi che trasportano i rigasificatori.

Ora che gli altri protagonisti in commedia hanno appreso come prendere le misure al sistema bellico ordito da Mosca dalla Cecenia in avanti, accettando una vera e propria guerra con migliaia di morti e smaltimento di magazzini di armi novecentesche; ora che si è dimostrata la marginalità della UE e la sua riduzione a mera potenza locale succube della Nato, mentre la Russia – pur non sfondando e rimettendoci in immagine guerresca e di efficienza militare, piangendo molti più morti e dissanguandosi in spese  – si prende tutte le coste del Mar Nero settentrionale e del mar d’Azov; ora rimane in piedi il modello di rapporti e accordi spartitori; scambi e traffici multilaterali che han funzionato per spartirsi territori di confine, operazioni militari e aree di riferimento tra potenze locali: quel sistema di accordi, che Antonella De Biasi ha correttamente descritto nel suo testo dedicato agli Accordi di Astana, e dove si possono rintracciare in nuce le dinamiche e gli equilibri che ora dopo la guerra spiccano nella narrazione della resistenza ucraina, trova una riproposizione nella fornitura di armi e nelle candidature alla composizione del conflitto da parte di potenze “locali”. Insomma: gli Accordi di Astana vedono trasformati gradualmente i ruoli dei singoli attori e la chiave che ne promana vede protagonisti Turchia (che ospita sia gli yacht degli oligarchi – magari sfuggiti al Novichok dell’Fsb –, sia le denunce dei dissidenti) e Israele (che accoglie ebrei russi e ebrei ucraini), nella totale assenza di strategia Usa/EU.

In fondo la prospettiva di incontri bilaterali russo-ucraini riferita da David Arakhamia, leader parlamentare ucraino e partecipante ai negoziati, previsti per il 28-30 marzo a Istanbul (e/o successivamente a Gerusalemme, probabilmente) con padrini gli equidistanti Turchia e Israele che stanno facendo avance l’un l’altro per ritessere reciproci rapporti diplomatici dopo l’incidente della Mavi Marmara evocato da Murat Cinar nel suo articolo, appare come i memoranda d’intesa stipulati durante il vuoto trumpiano riempito ad Astana, evocati da Antonella De Biasi:

Erdoğan e Putin per primi, e a seguire l’appena eletto Raisi, cercheranno di mantenere l’influenza guadagnata negli ultimi quattro anni della presidenza Trump facendo buon viso a cattivo gioco. Si sa che le alleanze non sono per sempre – anche e soprattutto tra leader autoritari e populisti –, ma ogni volta che ci sarà una crisi, e quindi anche un’occasione per aumentare l’influenza nello scacchiere internazionale, si farà sempre in tempo a scrivere inediti memorandum d’intesa e scegliere una nuova suggestiva località per sottoscriverli.

(Antonella De Biasi, Astana e i 7 mari, OGzero, Torino 2021, p. 85)

 

E il terzo protagonista degli Accordi di Astana, l’Iran, che vi ha partecipato da potenza locale impegnata a mantenere la preminenza sulla mezzaluna sciita e con l’intento di contribuire alla marginalizzazione delle potenze europee, non ha avuto reazioni dopo la crisi afgana e non prende posizione in quella attuale: è apparso chiaro che la repubblica islamica viene tenuta in sospeso per il fatto proprio che a Putin serve l’appoggio di Bennett e quindi potrebbe far pesare un veto alla ripresa degli accordi Jcpoa, nel momento in cui pare che l’amministrazione Biden sarebbe invece disponibile a riprendere i negoziati sul nucleare iraniano, per focalizzarsi sull’indo-pacifico. Come per gli altri teatri delle guerre scatenate e composte ad Astana, il ruolo iraniano è stato in genere di supporto non attivo agli accordi: una sorta di notaio che assicura il proprio assenso in cambio della non intromissione nei propri affari.

Gilles Kepel su “Le Grand Continent” anticipando stralci del suo ultimo libro: «L’amministrazione Biden, il cui primo impulso diplomatico è consistito nel relativizzare il peso del Medio Oriente nella sua agenda politica estera a favore delle questioni cinesi e russe, e nel far prevalere nella regione la riattivazione del Jcpoa sull’antagonismo israelo-palestinese, le cui asperità si pensava fossero state cancellate dagli Accordi di Abramo, si trova così costretta a giocare dietro le quinte durante la guerra del maggio 2021», chiamata dal professore francese “la guerra degli undici giorni”. In questo nuovo caos con gli smottamenti nei paesi dell’area mediorientale, caucasica e mediterranea la Libia e quel che accadrà a cavallo del nuovo anno, determineranno i confini geopolitici degli attori di Astana, nello specifico la Turchia e la Russia.

 (Antonella De Biasi, Astana e i 7 mari, OGzero, Torino 2021, p. 85).

Applicazione di un modello

Qui infatti ritroviamo attivo come sempre il compare di Putin di tanti incontri ad Astana: Erdoğan ha mantenuto lo stesso atteggiamento ambiguo che lo ha contraddistinto in Siria, in Libia, in Nagorno-Karabakh – non a caso di nuovo gli azeri stanno sfruttando l’occasione che impedisce a Mosca di difendere l’alleato armeno – quando ha sostenuto in genere la parte avversa al fantoccio locale di Putin, salvo poi comporre ogni questione attraverso una spartizione de facto di territori, interessi, occupazioni. Anche in questo caso Erdoğan ha fornito a Zelensky armi e sostegno da appartenente alla Nato, ha mantenuto un ruolo ambiguo sui Dardanelli e sull’accesso al Mar Nero in relazione alla Convenzione di Montreux – e anche in questo caso la sottolineatura di Antonella De Biasi di p. 48 di Astana e i 7 mari, relativa all’appoggio russo ad abkhazi e agiari che solleva questioni ataviche in contrapposizione russi e turchi, sostenitori dell’etnia tatara, poneva già il problema di schieramenti – ma poi non aderisce a sanzioni ed embarghi… e questo consente ad Ankara di proseguire la diplomazia di Astana verso Mosca e di proporsi come mediatore, forse per la sua esperienza di occupazione del Rojava e strage di curdi. Ruolo che è in grado di svolgere l’altro campione di democrazia: Israele che da 55 anni occupa territorio palestinese e applica l’apartheid. Anche Israele compare 49 volte nel libro di Antonella De Biasi, pur non essendo tra gli ospiti di Astana, se non in veste di Convitato di Pietra: infatti Tel Aviv ha mantenuto un profilo basso, senza contrariare il Cremlino, sia per i milioni di russi e ucraini immigrati in Israele, sia per gli innumerevoli interessi che legano i due paesi; peraltro ha fornito qualche ordigno a Kyiv, senza consentire l’uso di Pegasus o di Blue Wolf, e tantomeno Iron Dome, sistema di difesa antiaerea richiesto dall’Ucraina fin dal 2019 (per dire da quanto si stavano preparando alla “sorprendente” aggressione russa). E soprattutto, come dice Eric Salerno: «Israele ha bisogno di alleati» e questo è reso ancora più evidente dall’accoglienza per gli Accordi di Abramo che ha stipulato prontamente con alcuni paesi arabi.

Israele e Turchia evidenziano il proseguimento sotto altre forme del multilateralismo sotto il cappello della crisi russo-ucraina: come ci ha detto Eric Salerno nella puntata di Transatlantica24 per quanto riguarda Tel Aviv – ma vale anche per Ankara, nonostante il disastro economico: se va in porto l’occupazione coloniale di tutte le zone in cui la Turchia è impegnata, il colonialismo predatorio può rimpinguare le casse. A entrambe il ruolo di potenze locali va stretto e sia nell’area interessata dalle operazioni belliche, sia nel resto dei 7 mari presi in considerazione nel volume dedicato da OGzero ad Astana, si propongono come interlocutori privilegiati, spesso in sostituzione degli interessi delle potenze coloniali europee classiche, assurgendo a un ruolo di potenze più ampia di quella locale mediterranea.

Il ridimensionamento del ruolo dell’Occidente nel panorama internazionale è determinato soprattutto dalla radicale contestazione del suo modello politico, economico e culturale attuata dalla Cina e in secondo luogo dalla Russia. Non è un caso che Cina e Russia siano tra i principali sostenitori di due organizzazioni multilaterali come i Brics e la Shangai Cooperation Organization (Sco). Di recente i due paesi hanno iniziato a collaborare per ridurre la loro dipendenza dal dollaro.

(Antonella De Biasi, Astana e i 7 mari, OGzero, Torino 2021, p. 73).

Dunque di nuovo le potenze asiatiche evidenziano la inadeguatezza della prosopopea dell’UE, che preferisce riarmarsi, dissanguandosi e riducendo a nulla il sistema welfare liberal-democratico, pur di rincorrere sul piano militare le altre potenze guerrafondaie e venditrici di tecnologie militari per sostenere le industrie belliche anche europee, ringalluzzite dalla guerra per procura al confine eurasiatico, evocativo di altre invasioni, ma che sembra preludere a un ridimensionamento tanto dell’Europa, quanto della Russia stessa, ridotti a belligeranti locali di una guerra a cui stanno alla finestra le due vere potenze globali, che preparano il confronto in ambito indo-pacifico. Gli Usa ottengono – dopo che da due amministrazioni lo richiedono – che tutti gli europei destinino il 2% del pil alla “sicurezza”, sgravando gli americani di parte della spesa militare; la Cina – come ci spiegava Sabrina Moles nell’incontro di Transatlantica24 – senza schierarsi, ma lanciando segnali di propensione per l’invasore, pur facendo attenzione a non confondersi con una potenza sull’orlo del fallimento come la Russia che ha il pil di una provincia cinese (il Guandong), può trarre vantaggi, se non si prolunga troppo la crisi e se non si propone come mediatrice, perché rischierebbe di venire degradata al rango di potenza intermedia come appunto Turchia e Israele. I mediatori nel gioco delle parti.

Dopo la normalizzazione delle relazioni sino-russe alla fine della Guerra Fredda, la Russia è emersa come un importante fornitore di armi e tecnologia per la Cina. Quella relazione era un’ancora di salvezza finanziaria per l’industria della difesa russa in un momento in cui gli ordini di approvvigionamento nazionali si erano prosciugati. Ma da allora le vendite russe alla Cina sono diminuite man mano che l’industria della difesa cinese è maturata «in misura significativa grazie al trasferimento di tecnologia e al furto dalla Russia», commentano Eugene Rumer e Richard Sokolski sul sito di Carnegie Endowment for international peace. La Cina ora compete con la Russia nei mercati delle armi. Attualmente le vendite di armi dalla Russia alla Cina rappresentano solo il 3% del commercio totale annuo dei due paesi, che supera i 100 miliardi di dollari. Con l’accesso alla tecnologia occidentale tagliato a causa delle sanzioni, l’industria della difesa russa ha guardato alla Cina come una fonte alternativa di innovazione che non ha la capacità di sviluppare a livello locale.

 (Antonella De Biasi, Astana e i 7 mari, OGzero, Torino 2021, p. 73).

Può essere che il prossimo teatro di questo “Risiko per procura” torni in zona balcanico-caucasica (Nagorno Karabakh ed enclave etniche della Repubblika Srpska, oppure le tensioni panslavistein Bosnia); può darsi si inaspriscano le dispute che in Africa vedono impegnati militari turchi e miliziani della Wagner in contrasto – soprattutto in Françafrique – con gli eserciti coloniali classici; sicuramente Russia e Cina stanno collaborando assiduamente per spartirsi il Sudamerica, grazie alla distrazione di Biden che prosegue il disimpegno del suo predecessore.

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Ma in Russia… a che punto è la notte? https://ogzero.org/la-crisi-economica-in-russia-a-che-punto-e-la-notte/ Fri, 11 Mar 2022 17:07:54 +0000 https://ogzero.org/?p=6723 La crisi economica in Russia abbraccia nella stretta mortifera delle sanzioni la popolazione e le aziende che finora hanno investito nel paese. Mosca studia mosse difensive che non sono contro-sanzioni e il rublo si svaluta sempre più. Il cauto alleato cinese pensa agli affari e molti attori economici di tutto il mondo si ritirano dalla […]

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La crisi economica in Russia abbraccia nella stretta mortifera delle sanzioni la popolazione e le aziende che finora hanno investito nel paese. Mosca studia mosse difensive che non sono contro-sanzioni e il rublo si svaluta sempre più. Il cauto alleato cinese pensa agli affari e molti attori economici di tutto il mondo si ritirano dalla piazza russa. Migliaia di posti di lavoro in fumo, esportazioni bloccate verso i paesi non amici, soldati di leva spediti al fronte e fatti prigionieri non ammansiscono certo l’opinione pubblica che – vedendo lo spettro di un ritorno all’era sovietica – non segue il suo presidente, nonostante il bombardamento propagandistico dei media. Ma esiste un piano B?

[fin qui OGzero…  Ora Yurii Colombo prosegue fornendo una analisi della situazione economica russa in questo tempo] 


Import-export: le contro-sanzioni?

Non è ancora panico ma ora i russi sono davvero preoccupati. La messe delle sanzioni occidentali, come ha dovuto riconoscere lo stesso portavoce di Putin Dmitry Peskov, sono veramente pesanti e rischiano di essere un colpo di maglio insostenibile per l’economia del paese. «Ora bisogna agire e in fretta», ha detto Peskov anche se per ora le decisioni assunte dalla presidenza e dal gabinetto russo appaiono poco chiare e incerte. Il governo ha definito una lista di beni temporaneamente vietati per l’esportazione dalla Russia per tutto il 2022. Un totale di 200 articoli tra cui attrezzature tecnologiche, apparecchiature per telecomunicazione, attrezzature mediche, veicoli di qualsiasi tipo, attrezzature agricole, attrezzature elettriche. A ben vedere si tratta di una mossa difensiva e non di contro-sanzioni. Di queste si è parlato dei primi giorni della spez operazy (in Russia il termine più prosaico per definire ciò che succede in Ucraina è vietato e può costare fino a 15 anni di reclusione a chi lo usa) ma poi è stato deciso di derubricare visto che perlopiù avrebbero un effetto boomerang. Del resto, è vero, si potrebbe vietare l’importazione di vino italiano o gin, ma questi beni a breve avranno dei prezzi tali che i russi stessi li toglieranno dalle loro tavole senza dover essere soggetti a imposizioni dall’alto. In realtà resta poco chiaro in quale direzione voglia spingere Putin dopo aver limitato a 5000 dollari i versamenti all’estero di valuta pregiata.

Cambio, insolvenza e titoli di stato: lo spettro del default

Da quando dai bancomat sono spariti dollari ed euro (il loro cambio è tassato al 30% per tentare di frenarne l’ascesa) si fanno ora lunghe file – prima e dopo il lavoro – per ritirare anche rubli. Non certo per tesaurizzarli ma per acquistare immediatamente soprattutto beni durevoli. Giovedì l’agenzia di statistica ufficiale Rosstat ha confermato un tasso d’inflazione settimanale del 2,2%, che in linea di tendenza sarebbe intorno al 100% annuo, ma nessuno sa quali saranno gli effetti delle sanzioni tra 3 o 6 mesi.

Le pagine di internet e dei blog in lingua russa sono piene di titoli sulla possibile insolvenza russa, il che rende nervosi i possessori di titoli di stato e spaventa la gente comune sopravvissuta al crack del 1998 che non vorrebbe ripetere l’esperienza di vedere andare in fumo i propri risparmi da un giorno dall’altro.

Secondo Morgan Stanley si può prevedere il default già il 15 aprile, data in cui terminerà il periodo di grazia di 30 giorni dalla scadenza degli eurobond russi per un valore di 117 milioni di dollari. Certo non pagare più i paesi ormai considerati “non amici” attira il Cremlino. Tecnicamente come spiega il canale Telegram moscovita “L’ufficio dell’investitore”, «il ministero delle Finanze onorerà gli obblighi di pagamento, ma a causa delle restrizioni imposte, la Banca Centrale russa non trasferirà le cedole dovute ai detentori stranieri dei titoli». Ma anche questa variabile appare poco potabile. I creditori della Russia e dei paesi che non hanno aderito alle sanzioni non sono interessati da questo “regolamento di conti” politico. Tanto è vero che i produttori cinesi di tecnologia di consumo come Huawei e Xiaomi si sono autoridotti le esportazioni di telefonini e Pc del 60% in Russia temendo di non essere più pagati dagli importatori o rischiare di ricevere sui conti rubli in rapida svalutazione.

Gli amici cinesi: business as usual

Insomma “l’alleato cinese” pensa più al business as usual che alle romanticherie “antimperialiste” di Sergey Lavrov che ha tuonato dalla Turchia: «Non saremo più in ginocchio di fronte allo Zio Sam». Laconicamente una agenzia Tass ha dovuto però registrare che «La Cina ha rifiutato di fornire alle compagnie aeree russe pezzi di aerei, ma la Russia cercherà opportunità di fornitura in altri paesi, tra cui Turchia e India, ha sostenuto il portavoce di Rosaviatsiya». Se però non si parlerà di biglietti verdi difficile che anche questi due paesi possano commuoversi più di tanto.

Le aziende straniere abbandonano il mercato

In questi giorni è fuga dal mercato russo anche per gli attori economici che non avrebbero voluto lasciare una piazza di 145 milioni di consumatori ma che le prospettive dell’insolvenza e delle ridotte capacità di pagamento è considerato “poco attraente”. Ha iniziato Ikea svendendo i mobili stoccati nei depositi di Mosca e San Pietroburgo e chiudendo in fretta e furia. Seguiti dai giganti dell’automobile come Ford, Volkswagen e Porsche. “Pausa di riflessione” anche per Nissan e Toyota.

Secondo quanto riporta “Japan News”, la Panasonic ha smesso di fornire prodotti da fuori della Russia al suo distributore russo a Mosca: «Abbiamo preso in considerazione le difficoltà economiche e logistiche», ha detto un portavoce della compagnia.
Out anche la Komatsu, produttore leader di macchinari per l’edilizia, come anche la Hitachi Construction Machinery che smetterà di esportare escavatori idraulici in Russia. L’azienda prevede anche di cessare la produzione locale a metà aprile. Sempre nello stesso settore, il produttore di gru mobili Tadano ha sospeso le spedizioni in Russia e Bielorussia venerdì per la preoccupazione che le sanzioni finanziarie ostacolino i pagamenti.
Yamaha Motor, che vende motociclette e motori fuoribordo in Russia, ha anche sospeso le esportazioni dal Giappone e da altri paesi verso la Russia.

Disoccupazione, antimperialismo e autarchia: una soluzione?

Migliaia e migliaia di posti lavoro che stanno andando in fumo in un mondo dove il mercato del lavoro – per usare un eufemismo – è sempre stato “volatile”. I comunisti di Zjuganov hanno chiesto a gran voce la «nazionalizzazione delle imprese capitaliste», ma non si capisce bene cosa si potrebbe mai produrre alle condizioni attuali.

Una postura “antimperialista” che piace anche al sindaco di Mosca Sergey Sobjanin che ha promesso di sostituire a breve tutti i McDonald’s con dei fast food russi. L’investimento per ora è limitato (500 milioni di  rubli, al cambio attuale poco più di 3 milioni di euro) ma è il segnale di una chiusura a riccio semiautarchica che ricorda l’Unione Sovietica e che non può piacere soprattutto alle nuove generazioni della capitale.

Il fronte più specificatamente militare lascia più che fredda l’opinione pubblica russa, bombardata da un lato sulle Tv che insistono con messaggi rassicuranti secondo cui «tutto sta andando secondo i piani» e dall’altro dalla macchina delle fake news occidentali che vedono bombardamenti di centrali nucleari dell’esercito russo a ogni piè sospinto.

I “volontari” siriani e le perdite russe (ammesse)

L’impressione – dalla Russia – è che Putin abbia ordinato ai suoi generali di non calcare la mano e di usare il “guanto di velluto” (nella misura in cui si possa fare in una operazione del genere). I russi – anche quelli più convinti delle tesi del Cremlino – difficilmente accetterebbe bombardamenti a tappeto sulla popolazione civile. Ma le difficoltà dell’esercito ad avanzare, malgrado la superiorità tecnica e numerica – appare evidente ai più. Tanto è vero che Putin ha autorizzato perfino la mobilitazione di 16000 “volontari” provenienti dal Medio Oriente, in particolare dalla Siria.

Se si eccettua il Donbass il livello motivazionale a combattere appare scarso mentre lo stato maggiore di Mosca sembra voler evitare lo scontro nelle grandi città e affrontare il pericolo della guerriglia. Secondo Sergey Kirchuk, un attivista comunista ucraino emigrato in Russia e non certo simpatizzante per il regime di Volodymir Zelensky, «l’esercito russo non è riuscito a prendere nessuna grande città ucraina in quindici giorni di combattimenti, a eccezione di Kherson, dove l’insubordinazione locale e la guerriglia sono però già iniziate. I territori degli oblast di Luhansk e Donetsk non sono stati completamente posti sotto controllo. Ci sono battaglie a Kharkiv, Mykolaiv, Sumy, Marjupol e Kyiv. E l’esercito russo sta subendo pesanti perdite. I soldati di leva russi sono coinvolti nell’invasione russa, e molti di loro sono stati fatti prigionieri dall’esercito ucraino. Il ministero della Difesa russo ha confermato questi fatti. L’esercito ucraino sta respingendo con forza l’attacco. Non ci sono stati casi di abbandono di massa delle posizioni o di resa, né di comandanti di formazioni che si sono consegnati al nemico (come successe in Crimea nel 2014). La Russia continua a ridispiegare truppe dall’Estremo Oriente, poiché le attuali forze sono insufficienti per prendere l’Ucraina».

Il piano B è il governo “non ostile”: un film già visto

Si tratta di una interpretazione – quella secondo cui Mosca vorrebbe occupare tutta l’Ucraina – respinta dai vertici del Cremlino e che resterebbe assai onerosa da ogni punto di vista ma che potrebbe diventare un “piano B” se non si riuscisse a trovare la quadra con Kiev. A questo punto il problema sarebbe comunque la formazione di un governo “non ostile” alla Russia.

La vecchia leadership del “Partito delle regioni” di Viktor Janukovich (ora ridenominatasi “Ucraina, casa nostra”) non sembra per ora disponibile all’operazione. L’unico uomo di quell’area che sembra spendibile sarebbe Oleg Zariov, classe 1970, già deputato alla Rada, piccolo businessman tra Mosca e il Donbass. Tuttavia più di un osservatore ritiene che non abbia lo spessore e l’esperienza per prendersi simili responsabilità.

Le trattative di Antalya tra il ministro della Difesa ucraino Dmytro Kuleba e il capo della diplomazia russa Sergey Lavrov sono, come era prevedibile, fallite. Per ora l’argine ucraino non è crollato e la Russia non può tornare a casa senza aver realizzato alcun obiettivo tra quelli apertamente dichiarati, per cui la situazione appare bloccata. Alla fine il Cremlino potrebbe puntare perlomeno a sottomettere Marjupol e aggiungere lo sbocco al mar d’Azov al bottino.

«La Nato non è pronta a garantire la sicurezza dell’Ucraina», ha protestato Kuleba dalla Turchia, senza però citare proprio Erdoǧan che tra i paesi dell’Alleanza è quello che più sta facendo il doppio gioco. Una pressione sull’opinione pubblica occidentale che può far comodo, ma che non sposterà di un millimetro la posizione della UE e degli Usa. Si tratta di un refrain agitato ormai spesso da Zelensky nei suoi quotidiani interventi. Il quale entrato nella crisi con rating bassissimi di consenso e a rischio di essere travolto dalla corruzione che impera nel suo entourage ora si trova a essere “eroe per caso” di un paese che necessita di una qualsiasi leadership per continuare a resistere.

Ascolta “Tutto secondo i piani” su Spreaker.

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Appunti per una tragedia yemenita: i droni di Sana′a https://ogzero.org/appunti-per-una-tragedia-yemenita/ Thu, 10 Mar 2022 17:24:49 +0000 https://ogzero.org/?p=6643 Lo scacchiere internazionale vede molteplici guerre sanguinose in corso da anni fuori dall’Europa; lo Yemen viene usato come scenario dove affondano le dispute tribali storiche e locali, che risalgono al tempo in cui il territorio era suddiviso in entità statali del Nord e del Sud; rinfocolate da guerre per procura che contrappongono potenze locali, a […]

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Lo scacchiere internazionale vede molteplici guerre sanguinose in corso da anni fuori dall’Europa; lo Yemen viene usato come scenario dove affondano le dispute tribali storiche e locali, che risalgono al tempo in cui il territorio era suddiviso in entità statali del Nord e del Sud; rinfocolate da guerre per procura che contrappongono potenze locali, a loro volta sostenute militarmente e propagandisticamente da potenze globali. Scatole cinesi belliche aperte in questo studio di Lorenzo Forlani che dischiude un percorso storico a dipanare il filo dei contrasti dal punto di vista del confronto armato e degli addentellati geopolitici insiti negli intrecci soffocati da un abbraccio mortale di quei riferimenti culturali in contrasto per ragioni storiche e costretti a convivere nelle pieghe di dissidi tribali documentati nella parallela analisi di Carlotta Caldonazzo, che non rinuncia a collocarli nello schema geopolitico dell’area compresa tra lo Stretto di Hormuz e Bab el-Mandeb.

Fu la mattina seguente, a venti chilometri da Taïz, nella dolcezza di una luce che il verde dei campi e dei boschetti privava della sua crudezza, in un palazzo che sembrava uscito da una miniatura persiana, che la mia ricerca delle fonti dell’Islam finì negli occhi di un bambino…
Il guardiano del luogo, un bin Maaruf, proveniente dalla regione più selvaggia dell’antico Hedjaz, ha dei lineamenti affilati e canini la cui espressione astuta è, mi dicono, comune a tutti gli uomini della sua tribù, che fu per molto tempo la più odiata in Arabia. Disprezza qualcuno per generazioni e hai buone possibilità di renderlo spregevole, fino al giorno in cui, con le armi in mano, riacquisterà la sua dignità…

Roman Gary, Les Trésors de la mer Rouge, Gallimard, 1971

 

Il Castello di Taïz com'era (e com'è)

Il Castello di Taïz com’era (e com’è)

fin qui il sommario di OGzero…
La penna ora passa a Lorenzo Forlani


Nuovi scenari scaturiscono dai droni houthi

La crisi umanitaria in Yemen, generata da un grave conflitto militare che non accenna a estinguersi, viene raccontata a fasi e intensità alterne dai media internazionali. Letto unicamente attraverso il prisma della rivalità regionale tra Arabia saudita e Iran, ciò che accade nel paese raccontato da Pasolini tende a guadagnare i titoli delle prime pagine quando i suoi spillover – cioè gli “sconfinamenti” di un conflitto in un contesto diverso da quello in cui ha luogo – sono particolarmente visibili, cioè quando coinvolgono paesi più presenti nel (selettivo) immaginario collettivo occidentale.

È successo alla fine del mese di gennaio, quando i ribelli yemeniti di Ansarullah – anche conosciuti come Houthi – nel giro di due settimane hanno sferrato tre distinti attacchi con droni e missili balistici negli Emirati Arabi Uniti (uno dei quali durante la prima visita ufficiale negli Emirati del presidente israeliano Isaac Herzog) con l’obiettivo di colpire la base militare di Al Dhafra – che ospita truppe britanniche e americane –, un aeroporto e un deposito di carburante. Dopo aver intercettato i missili sui cieli di Abu Dhabi, le forze della coalizione filosaudita, di cui gli emiratini sono parte, hanno bombardato alcune aree sotto il controllo degli Houthi, tra cui la capitale Sana′a e la provincia di Saada, cioè l’area dove il movimento si è strutturato negli anni Novanta.

Attacco di uno stormo di droni Houthi sulla base di al-Dhafra

Lo “Yemen utile”, dimezzato e marginalizzato

Dal punto di vista formale, la situazione in Yemen appare quasi speculare a quella determinatasi in Siria: se nel paese levantino l’esercito di Bashar al Assad, coadiuvato da milizie regionali alleate e soprattutto dall’aviazione russa, dopo quasi dieci anni di conflitto ha ripreso il controllo della gran parte del territorio, e anzitutto di quella che gli osservatori definiscono “Siria utile” (cioè l’area del paese più densamente abitata, lungo la direttrice Damasco-Aleppo), in Yemen sono oggi i ribelli – quelli emersi nel tempo come i più organizzati, cioè gli Houthi – a controllare le regioni più abitate, nonché la capitale Sana′a.

 

La guerra in Yemen ha finora prodotto quasi mezzo milione di morti, dei quali il 70 per cento erano bambini. Secondo la Banca mondiale, su una popolazione iniziale di 30 milioni, oggi in Yemen sono non meno di 20 milioni le persone che hanno bisogno di assistenza umanitaria permanente, e almeno 14 milioni a soffrire la fame. Quattro milioni sono gli sfollati, e un bambino su due soffre di malnutrizione. Lo Yemen era già lo stato arabo più povero – il quartultimo per Indice di sviluppo umano, dopo Sudan, Mauritania e Gibuti – prima dell’inizio delle primavere arabe del 2011, e oggi sembra affogare nella più grave crisi umanitaria del pianeta, trovandosi ai margini della narrazione tanto quanto, geograficamente, si trova ai margini della regione.

Lo scenario precedente: le “primavere” del 2011

Come si è arrivati sin qui? Sette anni di feroce conflitto hanno forse contribuito a rendere sfocato il ricordo del 2011: anche a Sana′a, la capitale del paese, nel mese di gennaio esplodono proteste popolari estremamente partecipate, proprio nei giorni successivi alla “cacciata” di Ben Ali in Tunisia. Le proteste – che prendono di mira anzitutto il presidente Ali Abdullah Saleh – si espandono a macchia d’olio in brevissimo tempo, e in diverse aree si trasformano in piccole rivolte, represse duramente. Già ad aprile, un terzo dei diciotto governatorati dello Yemen sfuggono al controllo del governo.

 

Come in tutte le rivolte che aspirano a diventare rivoluzioni, partecipate in modo più o meno orizzontale dalla società civile, c’è sempre un gruppo più organizzato, più radicato, più predisposto a prevalere sugli altri nella conquista e nella successiva gestione del potere, nel sovvertimento delle istituzioni esistenti. Gli Houthi – perlopiù riconducibili al ramo zaydita dell’Islam sciita, cioè quello che prende il nome dal pronipote di Ali Ibn Abi Talib, figura fondante dello sciismo – iniziano a avanzare le loro rivendicazioni e la loro soggettività politica nella prima metà degli anni Novanta, insistendo sulla lotta alla corruzione sul piano interno e sull’ostilità verso gli Stati Uniti, avversando Israele come posizionamento geopolitico. Sin dal principio si oppongono al presidente dello Yemen, Ali Abdullah Saleh (al potere dal 1990), riconducendolo all’interno di una narrazione che lo descrive come vassallo dell’Arabia Saudita, e di riflesso degli Stati Uniti.

Appunti per una tragedia yemenita

Yemen in piazza.

Il punto di svolta, cioè il momento in cui l’opposizione degli Houthi si trasforma in sistematica insorgenza anche armata – a intensità diverse, nel corso del tempo – arriva nel 2004: dopo aver rigettato un mandato d’arresto, il leader del movimento sciita Hussein Badreddine al Houthi viene ucciso dall’esercito durante un’offensiva a Saada. Da quel momento, sarà il fratello Abdelmalik al Houthi a guidare il movimento, ed è proprio lui che nel febbraio 2011 dichiara il suo appoggio alle proteste antigovernative, invitando i suoi a parteciparvi, soprattutto nella “roccaforte” di Saada.

Intrecci settari: regionalismo imposto al radicamento territoriale

 

Non è quindi un caso che il primo dei sei governatorati a scivolare via dalla giurisdizione del governo yemenita sarà proprio quello di Saada, che a fine marzo viene dichiarato indipendente dagli stessi membri di Ansarullah. In questo periodo inizia anche una fase di polarizzazione settaria con altre formazioni antigovernative di orientamento sunnita come Al Islah (vaga espressione della Fratellanza musulmana), accusati dagli Houthi di avere legami con al-Qaeda, laddove invece gli Houthi, anche alla luce di una effettiva identità di posizionamenti internazionali, nonché della affiliazione religiosa, vengono sempre più ricondotti a movimento organico alle strategie internazionali dell’Iran, rivale regionale dell’Arabia saudita.

Un importante sviluppo si ha nel novembre 2011, quando gli Houthi, già detenendo il controllo di una porzione rilevante di territorio, rifiutano un piano mediato dai paesi del Consiglio di Cooperazione del Golfo, che intendeva dividere lo Yemen in sei regioni federali: secondo i ribelli zayditi, il piano non avrebbe cambiato nulla nella distribuzione del potere e nella governance, e anzi avrebbe rafforzato la netta divisione dello Yemen tra regioni ricche e povere. In più avrebbe frazionato aree già sotto il controllo degli Houthi, che in questo vedevano un tentativo di indebolirne la posizione negoziale. È la prima vera rottura di portata regionale, il momento in cui il piano inizia a inclinarsi verso una feroce guerra civile, alimentata anche da istanze esterne, figlie della proxy war tra Iran e Arabia Saudita.

Milizie. Coperture, forniture, alleanze

È in questo periodo che Ansarullah entra stabilmente in contatto con l’Iran e la sua orbita di milizie regionali, che forniscono addestratori e in seguito armi di vario genere. Dopo aver catturato Sana′a nel 2014, gli Houthi resistono ad alcune offensive saudite nella capitale e si scontrano a Est con formazioni qaediste sotto l’ombrello di Aqap (al Qaeda in the Arabic peninsula). L’offensiva saudita viene declinata soprattutto dal cielo: secondo lo Yemen Data Project, sono circa 25.000 i raid aerei sauditi dal 2015 a oggi, con i picchi più severi nel 2015, 2016 e 2020.

Appunti per una tragedia yemenita

Soldati emiratini rientrano dopo un anno di battaglie in Yemen.

D’altro canto dal 2016 gli Houthi smettono in qualche modo di essere solo una formazione dedita alla guerriglia interna – dal 2018 le battaglie più feroci sono quelle contro gli Amaliqah [i Giganti], un esercito di circa 20.000 uomini, sostenuto da Dubai – e portano a termine diversi attacchi oltre confine, prendendo di mira aeroporti, giacimenti petroliferi e di gas, sia in Arabia Saudita che negli Emirati arabi uniti. Lo fanno servendosi di armamenti via via più sofisticati – e sempre più diffusi in movimenti armati che non possono contare su una copertura aerea – come droni e missili a corto raggio. A partire dai dati del Center for Strategic and International studies, Riad avrebbe intercettato circa 4000 tra missili e droni provenienti dalle zone controllate dagli Houthi negli ultimi 5 anni.

Ed è interessante notare come Ansarullah sia entrato in possesso o abbia direttamente assemblato questo tipo di armamenti, se ancora lo scorso gennaio un report delle Nazioni Unite rilevava la violazione dell’embargo sulle armi, continuando «ad ottenere componenti fondamentali per i loro sistemi d’arma da società europee (soprattutto tedesche, i cui componenti arrivano a Sana′a dopo esser transitate per Atene e Teheran, N.d.R.) e asiatiche, utilizzando una complessa rete di intermediari per occultare la catena di custodia».

Droni in dotazione

In modo simile a quanto fatto da altre milizie sciite, più o meno organiche all’impalcatura di politica di sicurezza regionale dell’Iran, anche gli Houthi dal 2019 hanno persino presentato in via semiufficiale una piccola flotta di droni presumibilmente assemblati in Yemen: si tratta dei velivoli da ricognizione Hudhed 1, Raqib, Rased, Sammad 1 e di quelli da combattimento, Sammad 2, Sammad 3, Qasef 1 e Qasef 2k, questi ultimi praticamente identici ai droni Ababil di fabbricazione iraniana. Se fino al 2019 i droni utilizzati erano soprattutto quelli non armati, che però venivano fatti schiantare contro i radar dei sistemi di difesa della coalizione, da almeno due anni i droni utilizzati sono caricati con esplosivo e hanno un raggio più lungo. In sostanza: da qualche anno gli Houthi hanno accresciuto di molto le loro capacità militari, e questo costituisce uno dei motivi della loro resilienza a fronte della campagna di bombardamenti sauditi ed emiratini.

Qasef 2k, il drone in dotazione ai ribelli Houthi utilizzato per colpire obiettivi sauditi ed emiratini

Dopo sette anni dall’inizio dell’offensiva filosaudita, gli Houthi controllano ancora buona parte dell’area occidentale del paese, che a nord incontra un confine di 1300 km con l’Arabia saudita, mentre a ovest termina sulla costa di fronte allo stretto di Bab el Mandeb, una cruciale zona di transito commerciale. L’unica zona occidentale del paese non controllata dai ribelli di Ansarullah è il lembo di terra costiero a sud, dove sorge la città portuale di Aden, che dal 2019 è sotto il controllo del Southern Transitional Council a guida saudita-emiratina, cioè il governo temporaneo dello Yemen, alternativo a quello guidato dagli Houthi e riconosciuto dalla comunità internazionale.

La guerra finisce con lo Yemen

La guerra in Yemen racconta anzitutto di una incomunicabilità strategico-militare: da una parte una coalizione che, a fronte della quota più alta di import di armi in tutta la regione e di un dispiegamento di forze senza precedenti, non riesce a riportare sotto al proprio controllo gran parte di un paese considerato importante per la propria sicurezza regionale; dall’altra un movimento di resistenza yemenita, endogeno, ma la cui crescente integrazione con gli obiettivi regionali iraniani (a loro volta connessi alla propria idea di sicurezza regionale) ne ha aumentato l’isolamento sia interno – a causa di una gestione draconiana del potere e delle amministrazioni locali – che internazionale (il cui ultimo capitolo è l’inserimento nella lista delle organizzazioni terroristiche).

Il dramma dello Yemen sta soprattutto in questa incomunicabilità, in grado di protrarre un conflitto che non sembra poter avere vincitori, né soluzioni politiche che non passino da un accordo tra Iran e Arabia Saudita, a oggi molto lontano. Gli Houthi controllano una parte di paese sofferente e isolato, senza poter disporre dei suoi confini, e dovendo fare i conti con le campagne di bombardamenti che mirano ad annientarli: un movimento di guerriglia che sembra sempre più propenso a difendere le proprie posizioni e sempre meno destinato ad aver un ruolo politico concreto, in un eventuale futuro Yemen pacificato. I sauditi e gli emiratini, dal canto loro, accanto a una impossibilità di trovare una soluzione politica, mostrano alla regione una rischiosa inefficacia militare: non sufficiente a farli desistere, anzi in grado di suggerire pericolosamente che la guerra in Yemen possa finire soltanto quando sarà finito lo stesso Yemen.

 

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La distribuzione delle armi ai patrioti https://ogzero.org/la-distribuzione-delle-armi-ai-patrioti/ Mon, 28 Feb 2022 02:36:46 +0000 https://ogzero.org/?p=6548 Non è compito, né obiettivo di OGzero riportare notizie, anche se stravolgono il mondo e condizionano ogni aspetto della geopolitica, finché non si decanta il polverone che sollevano, consentendo un’analisi distaccata di ciò che provocano. Questa la natura analitica del sito; poi OGzero ha una sua componente parziale, schierata – per quanto cinica – e […]

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Non è compito, né obiettivo di OGzero riportare notizie, anche se stravolgono il mondo e condizionano ogni aspetto della geopolitica, finché non si decanta il polverone che sollevano, consentendo un’analisi distaccata di ciò che provocano. Questa la natura analitica del sito; poi OGzero ha una sua componente parziale, schierata – per quanto cinica – e contraria a ogni autoritarismo e militarismo che rivendichiamo come tratto distintivo. E che ci spinge a intervenire quando un’enormità inaccettabile viene assorbita come se non si trattasse di una barbarie: un’“involuzione copernicana”, che non è tanto l’invasione di un paese ex satellite da parte di un autocrate riconosciuto (Biden ha definito Putin un “killer” a inizio mandato), ma che l’Unione Europea con la sua prosopopea sull’approccio burocraticamente democratico si riduca al rango di trafficante per delegare un suo contenzioso. Questo passo è la vera svolta della vicenda ucraina, che per il resto dal punto di vista geopolitico è una delle innumerevoli situazioni di conflitto che ammorbano il pianeta.


Le infinite declinazioni degli aggettivi bellici

La guerra boot on the ground e il Glovo dei missili anticarro

Abbiamo anche avviato uno studium – non perché subodoravamo risvolti guerrafondai, ma perché l’escalation delle guerre di droni e nuovi sistemi di difesa e offesa è in atto da alcuni anni, producendo sempre nuove guerre – che ci impegna per l’intero 2022 (e forse anche oltre) a monitorare le movimentazioni, le consegne, i traffici di armi nel mondo, perché laddove c’è una transazione di questo tipo, prima o poi quell’arma viene usata. Non siamo anime belle che pensano che l’Europa non venda armi a chi è impegnato in un conflitto (chi se non i combattenti adoperano, consumano e ricomprano altre armi, se non chi le sta usando?) e quindi non ci stupiamo che si stanzino alcune centinaia di milioni per comprare armi da girare a un combattente, preoccupa che venga fatto senza infingimenti: hanno trovato il pretesto per poter moltiplicare gli affari per l’industria bellica senza dover pagare dazio. Senza contare che avevano già iniziato il giorno prima degli annunci ufficiali di Von der Leyen, a consegnare – come da consuetudine – armi ai belligeranti:

Guido Limpio, Missili e lanciarazzi. Italia, i primi soldati, “Corriere della Sera”, 27 febbraio 2022, p. 11. Pubblicato la sera precedente l’annuncio di Ursula Von der Leyen sugli stanziamenti UE per acquisto di armi da consegnare all’Ucraina

Il rilievo che ci viene spontaneo è il fatto che la tipologia degli articoli del delivery europeo via Polonia (ma anche le repubbliche baltiche sono tra i protagonisti più attivi già da alcune settimane nella distribuzione) denuncia la classificazione di quella che sarà la proxy war nel cortile di casa per alcuni anni: armi per un contrasto sul terreno, invischiando l’armata russa nella trappola scavata al suo confine a cominciare da Maidan.

Equipaggiamenti per guerre non lineari e guerriglia urbana

E infatti come sito attento ai rivolgimenti geopolitici siamo mitridatizzati alle guerre: uguali a quella carpatica ce ne sono state e se ne stanno combattendo molte altre nel mondo, certo non con una delle 3 potenze mondiali come protagonista diretta, ma sempre sullo sfondo si trovano impegnate tutte le potenze globali e locali. Perciò del gran polverone suscitato in questi giorni ciò che maggiormente indigna OGzero è il fatto che per la prima volta l’UE sovvenziona ufficialmente l’acquisto di armi per consegnarle a un paese terzo in guerra. Non siamo anime belle illuse che immaginano che con le manifestazioni di un weekend si possa fermare una determinazione alla imposizione delle proprie visioni deliranti da parte di un potere che usa spietati mercenari dovunque, uccide oppositori con il polonio, ammazza giornalisti come regalo di compleanno, sostituisce il colonialismo della Françafrique; ci indigniamo piuttosto a scoprire che un cancelliere socialdemocratico, appena valuta le centinaia di migliaia di migranti ucraini che premono ai confini, fa strame di scelte decennali e decide il riarmo tedesco – che non si può sentire dopo la Seconda guerra mondiale e le macerazioni degli anni Settanta a elaborare il senso di colpa di una nazione (cosa che l’ipocrisia cattolica italiana non ha mai consentito) – trovando 100 miliardi (!!!) per rinnovare la Bundeswehr… nemmeno Merkel sarebbe arrivata a una tale faccia di bronzo. Ma sicuramente il rinnegamento dei “valori europei” maggiore è quello che vede l’intera Unione allineata a rinunciare a ogni retorica – bastano 300.000 migranti – e vendere armi letali per costituire una guerriglia antirussa, affidandole probabilmente a Pravi Sektor e al Battaglione di Azov: più nazisti del modello collaborazionista di Bandera. Piuttosto che trovarsi 7 milioni di migranti (bianchi e caucasici) all’uscio, si impedisce che possano emigrare se hanno meno di 60 anni e più di 18 (coscrizione obbligatoria!), li si approvvigionano di armi e si organizza una guerriglia per procura; gli stessi razzisti polacchi che fino a un mese fa hanno fatto morire di freddo e fame nella foresta, riempiendoli di botte, quei migranti che arrivano dalle guerre scatenate dall’Occidente (afgani, africani, di “speci” evidentemente non abbastanza “famigliari”), accolgono fraternamente – e giustamente – i fuggitivi dai massacri della guerra perpetrata da Putin in Ucraina (ma non le sue vittime siriane).

Manifesto anarchico russo: “ No alla guerra degli oligarchi! Vogliono il carbone del Donbass? Combattano e muoiano loro”

Guerra ibrida e guerra nucleare ipermediatizzata: armi tattiche e molotov

La soluzione sarebbe dunque una proxy war in più (in Yemen siamo già oltre i 300.000 morti civili, ma sono distanti e arabi), fa solo più effetto perché europea e perché il bullo del Cremlino sventola la minaccia delle armi tattiche nucleari cercando di mantenere un ruolo da cattivo credibile dopo lo smacco per il fatto che la Blitzkrieg non è riuscita nemmeno questa volta (ricordate dall’altro lato la Mission accomplished?). Inquieta anche perché gli ucraini vengono trattati da europei di serie B – un nuovo apartheid all’interno del continente –  rimandati indietro al confine e “invitati” a imbracciare i fucili e fabbricare le molotov – se solo avessimo preparato in Valsusa gli stessi “pintoni attivi” in favore di telecamera saremmo pericolosi insurrezionalisti – per assaltare carri armati russi; addirittura si agevolano arruolamenti di volontari targati Europa, mentre i compagni che sono andati a condividere la lotta curda in Rojava (quella davvero una lotta antinazista) sono in sorveglianza speciale. Infingimenti geopolitici: guerra mediatica.

Istruzioni per la preparazione di una bottiglia molotov sui social ucraini

Istruzioni per la preparazione di una bottiglia molotov sui social ucraini

La guerra geopolitica

Si evidenzia allora una stortura che ci fa sospettare che la guerra non sia poi così ideologica come vorrebbe spacciare il Cremlino con il suo improbabile antinazismo, ma smaccatamente geopolitica, come non possono ammettere né Biden (che costringe il mondo a schierarsi, per occuparsi del quadrante indopacifico – ottenendo la neutralità dell’India da un lato, ma anche del Kazakhstan dall’altro… e la preponderanza degli affari nelle scelte degli “alleati” arabi; e che dire dell’imbarazzo turco sul trattato di Montreux e il diritto di chiusura dei Dardanelli che non si capisce come e se viene applicato o meno alle navi da guerra russe?). Tantomeno può definirlo “conflitto geopolitico” l’attendismo cinese – che cerca di capire come sfruttare l’occasione con Taiwan, e gli conviene che si ammanti il tutto di nobili principi degni di una guerra santa, o di liberazione; né gli europei spacciatori di armi letali, un altro aspetto tipico della geopolitica, ammantato come sempre di idealismo di liberazione. Come geopolitiche sono le conseguenze delle sanzioni: tutte avvantaggiano le risorse americane. Il gas – molto più caro, perché va trattato – verrebbe erogato da un ponte navale transatlantico, che legherebbe ancora di più gli europei arruolati dallo Zio Sam; le chiusure di rotte aeree richiederanno maggiore consumo di idrocarburi, forniti da Usa e mondo arabo… NordStream2, capitolo chiuso e nuova umiliazione tedesca (che non è mai una bella cosa, se ricordiamo le cause dell’ascesa di Hitler).

Ascolta “Paralisi e delirio a Mosca. Europa anno zero?” su Spreaker.

 

Quindi ci saremmo aspettati anche da Bruxelles reazioni tipicamente geopolitiche, tattiche come le sulfuree mosse del Cremlino, test di alleanze come quelle intessute da Washington, persino i traccheggiamenti in punta di diritto internazionale di Ankara (che evidentemente non considera concluso il rapporto privilegiato con Putin all’interno degli Accordi di Astana e non intrappola le navi russe nel Mar Nero, pur vendendo droni all’Ucraina), o il sornione attendismo di Pechino… invece si spaccia per raffinato pensiero il nuovo ruolo di mediatori di ordigni per guerriglia che l’impaurita Europa si è ritagliata, facendo strame del raffinato pensiero contro la guerra e interpretando la strategia politica come tattica da trafficante. L’Europa come comparsa in commedia nel ruolo del trafficante: una nuova accezione della esigenza di “aiutarli a casa loro”, fornendogli le armi e alimentando altro fiero nazionalismo. Ma schierandosi così in modo esplicito contro Mosca, rimanendo facili bersagli dei missili tattici per impaurire meglio l’opinione pubblica, quella sì non geopolitica ma ideologizzata dai media mainstream.

Comunque dove ci sono molotov che volano addosso al potere costituito o a un esercito di occupazione, qualunque esse siano, ci trovano solidali

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Sipario sull’ouverture tattica in Donbass. Ora la strategia si impronta al dissidio https://ogzero.org/sipario-sullouverture-tattica-in-donbass-ora-la-strategia-si-impronta-al-dissidio/ Wed, 23 Feb 2022 23:13:01 +0000 https://ogzero.org/?p=6479 Il sipario, sceso sulle ultime note della rabbiosa ricostruzione storica di Putin eseguita a canali unificati, ora si rialza su una trama  molto meno definita dell’ouverture in Donbass, che ha seguito un canovaccio previsto e definito nei suoi passaggi: sancito il controllo russo sul Donbass, acquisite le conseguenti – ancora blande – sanzioni americane, accolte […]

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Il sipario, sceso sulle ultime note della rabbiosa ricostruzione storica di Putin eseguita a canali unificati, ora si rialza su una trama  molto meno definita dell’ouverture in Donbass, che ha seguito un canovaccio previsto e definito nei suoi passaggi: sancito il controllo russo sul Donbass, acquisite le conseguenti – ancora blande – sanzioni americane, accolte obtorto collo dagli europei; quest’ultimi vittime sacrificali delle trame dell’uno, mosso dal livore della nemesi storica dell’implosione dell’impero sovietico (ereditato dal bolscevismo, peraltro ripudiato da Putin il 21 febbraio come creatore dell’Ucraina), e anche dell’altro, poco interessato al quadrante europeo e proiettato verso l’Indo-pacifico, non rimane che la guerra scatenata dal presidente russo nelle prime ore del 24 febbraio, simbolicamente festa russa del “Difensore della patria”: l’interpretazione degli ultimi 10-12 anni nella mente scacchistica di Putin lo ha portato a intendere la costante erosione dell’impero ex sovietico (ma il 21 si è riferito direttamente alla Russia zarista) come una morsa volta a strozzare la Russia.

Fin qui era in buona sostanza prevedibile come si sarebbe dipanata la trama, sfociata nella sorprendente messa in scena (un decadente barocchismo novecentesco) del Consiglio di sicurezza russo con gli “yesman” a sancire la scontata annessione che concludeva  l’incipit del monumentale Guerra e Pace riscritto da Putin. La scena finale è stata rivelatrice di quanto i criteri che sottostanno all’approccio storico moscovita provengano da interpretazioni divergenti in partenza rispetto alla cultura storica occidentale… da qui sorge il dissidio che, come insegna Jean-François Lyotard, non trovando un punto di partenza comune è quindi di difficile composizione. Da qui menti poco lungimiranti fanno la scelta della Guerra e i 27 minuti trasmessi in Tv nella notte del 24 febbraio – ma registrati il 21 – con minacce di ritorsioni (non sanzioni) contro chiunque si frapponga ai piani militari dell’invincibile esercito russo sono il primo esemplare momento di propaganda bellica nella sfida mondiale.

[fin qui OGzero…]

Per farci un’idea di come la società russa ha reagito a questa fuga in avanti di Putin, che forse ha perso il collegamento con la realtà russa, Yurii Colombo ha fotografato prima dei bombardamenti alcuni momenti di questi giorni convulsi…


La decisione russa di riconoscere le due repubbliche autoproclamate del Donbass porta la crisi delle relazioni tra Russia e Occidente in territorio sconosciuto, di cui è per adesso difficile prevedere gli esiti. Soprattutto quelli a medio e lungo termine.

In modo abbastanza inconsueto Putin ha assunto la storica decisione usando due lunghe differite trasmesse pubblicamente in Tv sui canali a reti unificate.

Riconoscimento o annessione? Vada al punto, Sergey “Fracchia” Naryshkin

La prima è stata quello del Consiglio di Sicurezza dove tutti gli uomini del “cerchio magico”, i più stretti collaboratori di una vita, sono passati in passerella per dire il loro sì all’«annessione». L’effetto è stato straniante: le facce rese terre dal timore reverente, le parole ripetute spesso con retorica stentorea, il capo dei Servizi segreti per l’estero Sergey Naryshkin balbettando ha persino tentato di proporre il rilancio del dialogo diplomatico subito rintuzzato con durezza dallo stesso Putin.

Bignami di uso geopolitico della storia

L’annuncio della decisione è stato ufficializzato in un discorso del presidente russo di 70 minuti infarcito di richiami storici – in primo luogo in chiave anticomunista, dove non veniva tanto preso di mira Josip Vissarionovich Stalin, quanto lo stesso fondatore dell’Urss, Vladimir Ilic Lenin. Un discorso in cui si rinverdiva la tradizione imperiale del paese rivolto essenzialmente all’opinione pubblica di lingua russa e più in generale alla “diaspora sovietica”.

La trasmissione del discorso era stata sapientemente anticipata in Tv dalle immagini in diretta dove nel grande palasport di Mosca si festeggiava il ritorno degli atleti russi vincitori delle 32 medaglie in diverse discipline alle Olimpiadi invernali di Pechino. Grande entusiasmo: i pianti e l’inno russo intonato ben due volte in coro prima di dare la parola al presidente per “le comunicazioni straordinarie al popolo russo”.

La decisione era stata anche anticipata dalla mossa di procedere alla rapida evacuazione delle donne e dei bambini in buona parte fallita: fino a ora meno di 100.000 abitanti della regione (su oltre 4 milioni), secondo i dati ufficiali, hanno abbandonato le loro case. Lo scorso sabato i blogger di Donetsk hanno fatto fare il giro del mondo ad alcuni video registrati nelle discoteche della città stracolme di giovani ad alto tasso adrenalinico, dove tutto sembrava consumarsi – soprattutto libagioni – meno che una tragedia. Abitudine alla guerra forse ma anche poca voglia di imbarcarsi in un trasferimento incerto e forse senza ritorno.


Così la “crisi dei profughi” che ormai in tutto il mondo dalla Libia fino alla Polonia è diventata un’arma “ibrida” nella definizione dei rapporti di forza a livello internazionale, è risultata un’arma spuntata rapidamente accantonata dall’arsenale propagandistico.

Oro alla Patria sbeffeggiato: Russia distaccata e disillusa

Di sicuro l’“effetto Crimea” non c’è. Le grandi manifestazioni di giubilo e di orgoglio nazionalistico seguite all’annessione che si videro nel 2014, non si sono registrate 8 anni dopo. Se è vero che una maggioranza passiva ha sostenuto il riconoscimento, oggi è la paura e la preoccupazione a prevalere. Nel 2014, malgrado le grandi proteste seguite alle presidenziali del 2012, si attendeva una ripartenza dell’economia del paese, un “nuovo balzo in avanti”, dopo le grandi performances economiche del periodo 2000-2008.

Oggi il clima è completamente diverso: l’economia è formalmente ripartita grazie agli alti prezzi degli idrocarburi degli ultimi mesi, ma il rublo resta debolissimo e i redditi dei lavoratori dipendenti e dei piccoli commercianti in calo. I grandi progetti di modernizzazione delle infrastrutture restano ai blocchi di partenza e la popolarità di Putin ridotta ai minimi termini. L’annuncio che la ricostruzione del Donbass potrebbe costare 20 miliardi di rubli e la conseguente proposta della Duma di destinare a questo scopo le tredicesime dei russi hanno scatenato il sarcasmo e l’ironia negli uffici e sui social network.

Riconoscimenti “bizzarri”, fino a dove e da chi?

A 24 ore dal “riconoscimento” la confusione regnava comunque sovrana persino al Cremlino. I novelli stati indipendenti sostengono di voler controllare le intere aree delle provincie in buona parte controllate ancora dal governo ucraino. Ma se in un primo momento il portavoce di Putin aveva contraddetto questa postura sostenendo che «la giurisdizione sarà nelle aree già controllate dalle Repubbliche» dopo poche ore il Ministero degli Esteri è intervenuto per chiarire che «tale aspetto deve essere ancora definito»; il che fa la differenza tra Guerra aperta in Donbass o un’eventuale Guerra guerreggiata e dimostra il grado di autonomia politica e amministrativa dei due nuovi soggetti internazionali per ora riconosciuti solo da una modestissima pattuglia di paesi: Cuba, Nicaragua e Venezuela. Fa specie che né il Kazakhstan (a cui recentemente l’esercito russo ha portato la sua determinante “solidarietà internazionalista” per bloccare la rivolta operaia e popolare scoppiata nel paese), né tutti gli altri paesi aderenti alla Organizzazione del trattato di sicurezza collettiva (Csto) – in primis la Bielorussia che in questi giorni ha l’esercito russo di stanza sul proprio territorio – si siano allineati nel riconoscimento per evitare le sanzioni occidentali.

Svolte belliche autoimposte

Nella decisione di rompere gli indugi c’è evidentemente anche la crisi definitiva della mancata realizzazione seppur parziale degli accordi di pace di Minsk. Zelensky infatti non appariva disposto a concedere uno status speciale di autonomia alle due provincie (che gli sarebbe costata la rielezione), mentre Putin avrebbe dovuto fare un complicato dietrofront a una annessione, de facto, già realizzata con la concessione del passaporto ai cittadini del Donbass (lo avrebbero preso già in 2 milioni) e l’integrazione della sua economia in quella russa già dallo scorso novembre. Tuttavia così Putin si è posto da solo in un tunnel di cui non si vede l’uscita, togliendo dal mazzo l’unica carta che aveva per una trattativa globale sull’area e spingendo le relazioni con l’Ucraina alla rottura formale che il governo di Kiev ha subito deciso con la richiesta formale di adesione alla Nato (e il richiamo in servizio dei riservisti).

L’esercito russo ora potrebbe dare facilmente una “sculacciata” a quello ucraino sullo stile dell’azione in Georgia del 2008 per poi ritirarsi ma è impensabile che possa realizzare un’occupazione dell’Ucraina per cui non ha la forza prima di tutto economica e che provocherebbe la reazione inevitabile della Turchia. Le conseguenze sarebbero comunque gigantesche e condurrebbero al completo allineamento di Emmanuel Macron e Olaf Scholz dietro Joe Biden, un’eventualità che annullerebbe i già scarsi spazi di manovra a Putin, sul quale si possono dire tante cose meno che fino a oggi non sia stato un abile tattico capace di lavorare sulle contraddizioni del campo avversario come si è visto in Siria.

A tutto gas con le sanzioni

Olaf Scholz, seppur a malincuore, ha dovuto procedere al blocco della ratificazione di North Stream2. Se ne riparlerà ad eventuali acque calme ma questo arrivederci potrebbe diventare presto un addio. La reazione di Mosca è stata furibonda:

Il vicepresidente del Consiglio di sicurezza russo Dmitriy Medvedev ha dichiarato su Twitter: «Il cancelliere tedesco Olaf Scholz ha ordinato di fermare la certificazione del gasdotto North Stream2. Bene, benvenuti nel nuovo mondo dove gli europei pagheranno presto 2000 euro per mille metri cubi di gas!»

Una minaccia che se messa in pratica avrebbe ulteriori conseguenze politiche ed economiche in tutto il continente ma che dimostra quanto Mosca sia pronta ad alzare l’asticella dello scontro.

Le mosse europee occidentali appaiono per ora limitate a un pacchetto di sanzioni a dire il vero però già abbastanza corposo. Blocco totale su due grandi istituzioni finanziarie russe, VEB e Promsvyazbank, così come 42 delle loro filiali; contro il debito sovrano russo:

lo stato russo non potrà più accedere ai finanziamenti e commerciare il suo nuovo debito sovrano sui nostri mercati o su quelli europei.

Particolare scalpore ha fatto l’allargamento delle sanzioni anche ai figli e ai parenti dei grandi imprenditori e funzionari di stato abituati a viaggiare e studiare all’estero invisi alla gran parte della popolazione per i loro stili di vita e per i loro privilegi stentoreamente mostrati. Dopo la riunione dei ministri degli esteri dell’Unione europea, il capo della diplomazia europea ha fatto scattare anche il blocco finanziario e la possibilità di viaggiare in Occidente anche per i 351 deputati della Duma che hanno votato l’unificazione. L’asso di cuori, cioè l’ipotesi di sganciare la Russia dal sistema Swift sembra messa per ora in naftalina perché rischierebbe di essere un boomerang capace di destabilizzare l’insieme della finanza internazionale.

Appeasement europeo / containment americano

Fino a qualche giorno fa si era ironizzato da parte russa riguardo alla Conferenza di Monaco sulla sicurezza dei paesi occidentali, facendo un’analogia con il fallimento della politica di appeasement di quella del 1938: incertezza atlantica contro decisionismo putiniano. Ma presto si è smorzata. La dipendenza dagli idrocarburi russi gioca certo un ruolo in questa circospezione occidentale, tuttavia ora che il gioco si fa duro anche gli europei sembrano voler aderire alla versione riveduta e corretta del “containment” portata avanti dalla Casa bianca già nella Prima guerra fredda.

La teoria era stata formulata per la prima volta da George F. Kennan nel 1947, l’ambasciatore Usa a Mosca di quel periodo. Il risultato fu il cosiddetto “Long Telegram” che conteneva una valutazione della situazione politica nell’Unione Sovietica in cui Kennan spiegava non solo le premesse alla base della politica estera di Mosca, cercando di immaginare su quali direttrici avrebbe potuto dispiegarsi l’azione di Stalin ma suggeriva anche a Washington come si sarebbero potute efficacemente fronteggiare le iniziative sovietiche.

Kennan, in una maniera apparentemente molto precisa e “scientifica”, rilevava come l’Unione Sovietica desiderava evitare una guerra, ma il ritratto che ne faceva era comunque quello di un nemico implacabile e inevitabile. Come gli Stati Uniti avrebbero dovuto agire contro la potenza sovietica fu spiegato da Kennan in una conferenza del 17 settembre 1946, tenuta davanti a funzionari e personale del Dipartimento di stato.

In questa occasione egli affermò che gli Usa avevano un decisivo margine di vantaggio sugli avversari sovietici che avrebbe permesso loro «di contenerli sia militarmente che politicamente per un lungo periodo a venire». Una tesi poi affinata sul “Foreign Affairs” nel luglio del 1947: «In queste circostanze è chiaro che l’elemento principale di qualsiasi politica degli Stati Uniti nei confronti dell’Unione Sovietica deve essere quella di un contenimento a lungo termine, paziente ma saldo e vigile, delle tendenze espansioniste russe. È importante notare, tuttavia, che una tale politica non ha nulla a che fare con l’isteria esteriore: con minacce o gesti sfuocati o superflui di ‘durezza esteriore’ […]. Per l’autore l’unico modo per contenere la pressione sovietica contro le libere istituzioni dell’Occidente era «l’applicazione abile e attenta di una forza contraria in una serie di punti geografici e politici che si spostano in continuazione, in corrispondenza degli spostamenti e delle manovre della politica sovietica».

La comune valutazione occidentale sarebbe quella di limitare il raggio d’azione dell’amministrazione putiniana sulla base dell’esperienza storica che la Russia non si batte mai in campo aperto militare come dimostrano le sfortunate avventure di Hitler e Napoleone ma risucchiandola in un lungo confronto soprattutto finanziario-economico in cui ha tutto da perdere.

Ma oggi non appare così certo che la Russia voglia evitare a tutti i costi la guerra. In questo quadro la richiesta di Putin al Consiglio della Federazione di avere la possibilità in quanto capo dell’esercito di poter usare le forze armate in zone extraterritoriali, per ora limitate al Donbass, potrebbe essere il cattivo presagio di un’invasione in grande stile dell’Ucraina. Questa ipotesi che solo fino a poche settimane sembrava fantapolitica ora è diventata oggetto di studio su scala mondiale. Se il leader russo decidesse di intraprendere una tale avventura vorrebbe dire che si è deciso a giocarsi il tutto per tutto, persino la sua futura permanenza al Cremlino.

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L’assalto al carcere di Sina “forse” orchestrato da Ankara e Damasco https://ogzero.org/assalto-al-carcere-forse-orchestrato-da-ankara-e-damasco/ Thu, 03 Feb 2022 17:10:52 +0000 https://ogzero.org/?p=6122 Quattro giorni di ininterrotti scontri tra i combattenti dello Stato Islamico (Isis) e le forze curdo-siriane (Fds), che presidiavano il carcere assalito da miliziani ben equipaggiati. Il bilancio finale è stato di più di 330 morti, molti jihadisti fuggiti (un migliaio i catturati dalla pronta reazione curda); un preoccupante segnale di quanto la rete jihadista […]

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Quattro giorni di ininterrotti scontri tra i combattenti dello Stato Islamico (Isis) e le forze curdo-siriane (Fds), che presidiavano il carcere assalito da miliziani ben equipaggiati. Il bilancio finale è stato di più di 330 morti, molti jihadisti fuggiti (un migliaio i catturati dalla pronta reazione curda); un preoccupante segnale di quanto la rete jihadista si sia ricostruita, ancora più allarmante se si riconduce a una precisa orchestrazione occulta da cercare ad Ankara – e non solo – questo improvviso assalto dei tagliagole del Daesh al carcere curdo in cui erano reclusi i foreign fighters che gli occidentali non rivogliono indietro. Un ritorno dell’interesse occidentale per la questione dei jihadisti stranieri detenuti deve aver sollecitato il presidente turco a intervenire; e il risultato è stato l’annientamento di Abu Ibrahim al Hashimi Al Qurayshi, leader dell’Isis, dopo l’insuccesso del piano ordito dai satrapi turco-siriani.

A questo proposito abbiamo ricevuto alcune rilevanti osservazioni di Gianni Sartori, confermate dai bombardamenti avvenuti una settimana dopo per mano dell’aviazione di Erdoğan, come racconta l’articolo di Chiara Cruciati per “il manifesto” del 3 febbraio 2022, che proponiamo qui sotto. Riprendiamo dunque il pezzo di Sartori comparso sulla rivista “Etnie”, corredandolo tra le altre con un’immagine di Matthias Canapini, con il quale inauguriamo una collaborazione che immaginiamo proficua.


Lo davamo per scontato. Intravedere dietro l’attacco di Daesh al carcere di Sina (nel quartiere di Xiwêran/Gweiran della città di Hesîçe/Hassaké) la complicità di Ankara era tutto meno che un esercizio di fantasia. Ma a quanto sembra la manina inopportuna non era l’unica. In base ai primi accertamenti, le fonti curde hanno denunciato un ruolo, oltre che dell’intelligence turca, anche di quella siriana.

Bombardamenti turchi sui curdi siriani dopo l'assalto jihadista

3 febbraio 2022. Bombardamenti turchi sul Confederalismo democratico dei curdi siriani dopo l’assalto jihadista del 20 gennaio: evidente l’impronta di Ankara.

Premesse dell’assalto e mandanti

Iniziato il 20 gennaio, l’assalto operato dallo Stato islamico dell’Iraq e del Levante (Daesh) veniva se non stroncato sul nascere, perlomeno ridotto ai minimi termini. Purtroppo aveva avuto il tempo di provocare “danni collaterali” non irrilevanti. Sono almeno una cinquantina (ma il bilancio potrebbe accrescersi) i caduti tra membri di Fds, Asayish e civili curdi accorsi volontariamente per contrastare l’operazione jihadista. Dopo mesi di sostanziale menefreghismo per la sorte delle popolazioni (curde, ma non solo) del Nord e dell’Est della Siria sottoposte all’occupazione o comunque agli attacchi dell’esercito e dell’aviazione turca, l’Occidente è parso ridestarsi e prendere coscienza che la minaccia dell’Isis/Daesh non era stata definitivamente cancellata.
Per cui, non detto ma pensato, anche la presenza curda recuperava spessore e spazio sui media. Perlomeno come argine al fanatismo degli estremisti islamici.
Se pur lentamente, emergono le prime connessioni – interne ed estere – che hanno reso operativo il progetto per liberare i circa 5000 detenuti (membri o sostenitori di Daesh) rinchiusi a Sina. E tutte invariabilmente conducono ad Ankara o a Damasco. O magari a entrambe. Si tratta di elementi, indizi riguardanti le riunioni preliminari, le varie fasi di pianificazione, gli obiettivi individuati dalla banda degli assalitori. Non si sarebbe trattato quindi di un’azione pianificata esclusivamente dall’Isis, ma di una complessa operazione con il sostegno – come dire: bilaterale – proveniente dall’esterno del gruppo jihadista (per quanto questo sia presumibilmente infiltrato come un colabrodo da servizi vari).
A quanto sembra, condizionale sempre d’obbligo, l’operazione potrebbe essere stata decisa e pianificata in Turchia. I membri di Daesh catturati dalle Fds avrebbero confessato che era stata preceduta da una lunga preparazione (almeno 7-8 mesi) e che le riunioni di pianificazione si sarebbero tenute a Serêkaniyê (Ras al-Ain) ossia in un’area attualmente sotto occupazione turca. Vi avrebbero partecipato membri di varie “cellule dormienti” sia locali che provenienti dalla Turchia. E tutte indistintamente sarebbero state rifornite di adeguati armamenti.
Dato che tra i prigionieri si trovavano diversi esponenti di alto livello dell’organizzazione terrorista, è evidente che l’operazione rivestiva una certa importanza.
Per prima cosa, con qualche mese di anticipo, vari esponenti dell’organizzazione terrorista, sia individualmente che in piccoli gruppi, erano venuti ad abitare nel quartiere di Gweiran/Xiwêran, dove sorge la prigione (una ex scuola provvisoriamente adibita a carcere) e in quello di Heyî Zihur.
Nel comunicato delle Fds del 25 gennaio si legge che «almeno 200 esponenti dello stato islamico si erano installati a Serêkaniyê, Girê Spî e Ramadî, in particolare nel quartiere di Gweiran e nei dintorni del carcere».
Contemporaneamente anche i detenuti si organizzavano per la rivolta.
Va ribadito che in maggioranza si tratta di persone addestrate alla guerra e di origine straniera (muhajir ossia “migranti”, termine utilizzato per indicare i miliziani stranieri che combattono per Daesh). Persone che – in genere – i rispettivi paesi di provenienza si rifiutano di riportare in patria.

Dinamica dell’assalto e indizi sui mandanti

Orchestrazione Isis
Il primo veicolo imbottito di esplosivo era stato posto in prossimità dello svincolo di una condotta petrolifera (moltiplicando quindi la potenza dell’attentato) mentre venivano bloccate le strade d’accesso al carcere. Altri veicoli, ugualmente riempiti con materiale esplodente, colpivano la porta della prigione e l’edificio delle Forze di autodifesa (Erka Xweparastinê). Entravano allora in azione anche le “cellule dormienti” precedentemente installate nel quartiere. Catturando alcuni civili (da usare come ostaggi o scudi umani) e abbattendo un muro della prigione con una ruspa.
Assalto al carcere di Sina

Famiglia yazida a Dohuk (© Matthias Canapini)

Una volta entrati, distribuivano le armi ai detenuti islamisti e prendevano altri ostaggi tra il personale del carcere.

Risposta Fds

La priorità per le Fds e per le forze della sicurezza interna (Asayish) è stata quella di proteggere i civili. Nel contempo circondavano (bloccandone a loro volta le vie d’accesso) e mettevano in sicurezza (procedendo all’evacuazione degli abitanti) i quartieri di Gweiran e di Heyî Zihur. Al momento sarebbero circa 200 (per almeno tre quarti facenti parte delle “cellule dormienti” esterne al carcere) gli esponenti di Daesh uccisi in cinque giorni di combattimenti. Alcune centinaia degli evasi poi sono già stati ripresi.

Quello che sta emergendo, sia dalle prove raccolte che dalle testimonianze e dagli interrogatori, è un probabile ruolo di Ankara e Damasco nell’orchestrare il grave episodio.
Equipaggiamento turco, attività siriana

Tra gli “indizi” (ma messi tutti in fila acquistano le sembianze di prove) a sostegno della tesi di un diretto coinvolgimento di Turchia e Siria: le armi – della Nato – con numeri di serie turchi trovate in mano ai terroristi dell’Isis; la registrazione di telefonate dei membri di Daesh in prigione con la Turchia; le confessioni di quelli catturati mentre cercavano di rientrare a Serêkaniyê (sotto l’ombrello turco); le carte d’identità siriane di recente emissione in mano ai miliziani jihadisti; l’incremento di attività del regime siriano nella regione…

Assalto al carcere di Sina

Jihadisti evasi dalla prigione secondo l’agenzia russa “Sputnik”.

Altri elementi, altre prove, assicurano le Fds saranno presto messi a disposizione dell’opinione pubblica. Nel giro di qualche giorno.

Pianificazione a lunga scadenza:

contrattempi…
Stando ai piani preliminari, l’attacco avrebbe dovuto svolgersi ancora in ottobre o novembre, in coincidenza con un ennesimo attacco turco nel nord e nell’est della Siria e con il previsto rafforzamento dei suoi presidi e avamposti militari nelle zone già occupate. Proprio in ottobre Erdoğan si era consultato sia con Biden che con Putin ed è plausibile pensare che non ne abbia ottenuto il tacito assenso per l’ulteriore invasione.
Un contrattempo (per Ankara e Daesh beninteso) a cui se ne aggiunse presto un altro. Quando le Fds avevano individuato e arrestato alcune “cellule dormienti” a Hesekê e Raqqa ricevendo da uno dei caporioni arrestati la confessione che il loro obiettivo era il carcere di Hesekê. Un progetto quindi apparentemente disinnescato dall’operazione delle Fds, ma in realtà solo rinviato.
… e coincidenze d’intelligence
Altra coincidenza. Con un tempismo perfetto, al momento dell’attacco jihadista al carcere, l’esercito e l’aviazione turchi attaccavano simultaneamente Zirgan, Tel Tamer (da dove avrebbero potuto intervenire agevolmente in sostegno a Daesh) e Ain Issa causando vittime tra i civili.
Questo per quanto riguarda Ankara. E Damasco?
Rimane sempre a guardare mentre il territorio della Siria viene occupato da forze straniere? In realtà prima dell’attacco jihadista si era registrata un’intensa attività militare dell’esercito siriano proprio a Hesekê. Ma soprattutto era andata intensificandosi una violenta campagna diffamatoria nel confronti dell’amministrazione autonoma (Aanes) delle Fds sui media siriani filogovernativi. Inevitabile collegare tutto ciò ai recenti incontri tra il Mit (intelligence turca) e il Mukhabarat (intelligence siriana).
Un riavvicinamento tra i rispettivi servizi (ostili e su fronti opposti per molte questioni, ma sostanzialmente concordi nei confronti del “pericolo curdo”) che li aveva visti confrontarsi alla fine di dicembre (stando almeno a quanto riportava la stampa turca) in Giordania, ad Aqaba.
Sempre basandoci su quanto scrivevano i giornali turchi, nel corso della riunione si sarebbe discusso anche di «operazioni congiunte nel Nordest della Siria» e in particolare di «un’operazione militare turca per la profondità di 35 chilometri in revisione agli accordi di Adana; la sollevazione delle tribù (in chiave anticurda, ça va sans dire, come ci aggiornano regolarmente alcuni siti rosso-bruni italici N.d.A) a Deir ez-Zor, Hesekê  e Raqqa; la liberazione dei detenuti nelle prigioni e la ricostruzione di Aleppo».
Sempre sulla stampa turca – e quindi la cosa va presa con beneficio d’inventario – si suggeriva che Mosca e Damasco apparivano interessati, favorevolmente, alle richieste turche.

Un complotto annunciato contro l’amministrazione autonoma

Minacce velate

Qualche giorno prima, il 22 dicembre 2021, c’era stata la dichiarazione congiunta dell’ultima (per ora, siamo già alla diciassettesima) riunione di Astana tra Russia, Turchia e Iran, dove si stabiliva che le parti interessate erano concordi nell’«opporsi alle attività separatiste che minacciano la sicurezza nazionale dei paesi vicini all’est dell’Eufrate». Inoltre venivano definite “illegali” (anzi, un vero e proprio “sequestro”) i redditi provenienti dal petrolio siriano. Con un evidente riferimento al fatto che i curdi, dovendo comunque sopravvivere e tenere in piedi l’amministrazione autonoma, le milizie di autodifesa e soprattutto garantire prezzi calmierati (sia del pane che del combustibile) alla popolazione, si rivendono il petrolio. Del resto perché non dovrebbero farne uso visto che sgorga su quei territori dove convivono con arabi, turcomanni, armeni e altre popolazioni? Territori, ricordo, liberati dalla presenza di Daesh soprattutto grazie al sacrificio di migliaia di curdi delle Ypg.
Per chi vuole intendere, se pur dietro un linguaggio formalmente corretto, il messaggio era chiaro.

Il complotto dei Servizi

Ora, secondo i curdi, in questa dichiarazione si intravedono i presupposti per un autentico complotto contro l’amministrazione autonoma (Aanes) e il Rojava. In caso di vittoria dell’operazione al carcere di Hesekê è probabile che la Turchia sarebbe intervenuta da Tell Tamer (da nord) mentre Damasco avrebbe attaccato da Tabqa, Raqqa e Deir ez- Zor (da sud). Così come si era probabilmente stabilito nell’incontro tra il Mit e il Mukhabarat.
Magari con la scusa di porre fine al massacro (facilmente prevedibile se Daesh non fosse stata fermata in tempo) da loro stessi promosso, previsto e forse pianificato.
Se la pronta, coraggiosa risposta delle Fds ha impedito comunque un disastro ben peggiore, rimane il dubbio che a conti fatti quanto è accaduto possa ugualmente portare acqua al mulino dei due regimi. Potrebbe infatti fornire il pretesto (non solo a Damasco e Ankara, ma anche a Mosca e Teheran) per accusare l’amministrazione autonoma di incapacità e inadeguatezza. Di essere esposta ai rigurgiti di Daesh. Prima alimentati e innescati, poi strumentalizzati come alibi per “riportare l’ordine” in Rojava.
A consolazione, va ricordato che i curdi hanno dimostrato ancora una volta di essere un osso duro. Oltre che per i cani rabbiosi di Daesh, anche per i mastini di Ankara e Damasco.
Assalto al carcere di Sina

A completamento della ingarbugliata serie di eventi intrecciati nella zona denominata Mena giunge notizia (la riporta “Mediapart”) dell’eliminazione del capo dello Stato Islamico in seguito a un raid dell’esercito americano: un’esplosione ha raso al suolo la casa di tre piani che ospitava il turkmeno Abu Ibrahim al-Hashimi al-Qurayshi (alias Abdullah Kardaş, ufficiale di Saddam Hussein, ovvero Amir Mohammed Abdul Rahman al Mawli al Salbi) e parte della sua famiglia che si è fatto saltare in aria al momento dell’attacco ordinato da Biden. Abitava ad Atamah, un villaggio nei pressi di un campo profughi al confine tra Siria e Turchia, in quella provincia di Idlib, che fa da zona cuscinetto pretesa da Erdoğan al momento della sconfitta dell’Isis di al-Baghdadi e da lui controllata… un’altra coincidenza?

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La terra, il petrolio e il conflitto https://ogzero.org/la-terra-il-petrolio-e-il-conflitto/ Wed, 26 Jan 2022 00:45:01 +0000 https://ogzero.org/?p=5928 Luz Marina Arteaga Il corpo di Luz Marina Arteaga è stato ritrovato lungo il Río Meta lo scorso 17 gennaio, a 5 giorni dalla scomparsa della donna dalla sua residenza nel paesino di Orocué, nella pianura orientale colombiana non lontana dalla frontiera con il Venezuela. È il drammatico esito di una storia già scritta che […]

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Luz Marina Arteaga

Il corpo di Luz Marina Arteaga è stato ritrovato lungo il Río Meta lo scorso 17 gennaio, a 5 giorni dalla scomparsa della donna dalla sua residenza nel paesino di Orocué, nella pianura orientale colombiana non lontana dalla frontiera con il Venezuela. È il drammatico esito di una storia già scritta che non lascia speranza, tanto che fra dolore e tristezza, molti sospettano che non poteva esserci finale diverso.

Luz Marina Arteaga, medica, attivista, leader sociale e comunitaria, aveva alle spalle una vita intera di lotte per i diritti delle comunità indigene e contadine: una traiettoria politica che l’aveva portata a collaborare nei processi di base delle fasce sociali che più di tutte hanno sofferto il conflitto interno colombiano e che sono sempre rimaste ai margini della storia e della giustizia. Oggi come ieri.

Nei territori di Orocué, Porvenir e Matarratón, zone che si estendono lungo la frontiera fra i dipartimenti del Meta e di Casanare, Luz Marina Arteaga è stata attiva in prima linea e fino alla fine dei suoi giorni nella lotta per la restituzione delle terre alle comunità indigene e contadine che a causa del conflitto armato, del paramilitarismo e della privatizzazione, sono rimaste senza nulla. La sua è stata e continua a essere una lotta che esemplifica chiaramente la conflittualità sociale presente in buona parte della Colombia, del Sudamerica e non solo: una lotta che svela interessi e alleanze, dinamiche di corruzione, di guerra e di violenza. Al centro, il cuore e il motore del conflitto: la tierra, risorsa e condanna per centinaia di migliaia di persone.

Brian Cardenas, avvocato della Corporación Claretiana Norman Pérez Bello, spiega il ruolo di questa organizzazione attiva nell’accompagnamento sociale e giuridico alle comunità contadine e indigene, e poi nel ricordare il ruolo assunto da Luz Marina Arteaga riassume il processo di lotta per il recupero della terra che le è costata la vita.

La lotta per la terra

Impossibile e ovviamente troppo pericoloso indicare mandanti e mercenari responsabili dell’assassinio dell’attivista, ma le dinamiche sono chiare: quelle che passano attraverso azioni di rioccupazione dei territori di proprietà storica.

“Lucha Tierra”.

Tutto ciò si accompagna a un caso giuridico durato anni, le comunità di Matarratón e Porvenir ottengono due sentenze a loro favore da parte degli organi più alti della giustizia colombiana, la Corte Suprema (STP 16298 del 2015) e la Corte Constitucional (SU-426 del 2016), le quali determinano che lo stato deve restituire loro le terre e assicurare diritti con prospettiva etnica e collettiva, servizi pubblici e garanzie di sicurezza. Ma proprio qui, nella pianura infinita che separa il dire e il fare, l’assetto giuridico e la sua realizzazione pratica, si perde la giustizia e si crea un vuoto colmato da gruppi armati che rappresentano gli interessi di chi sta al di sopra della legge.

Il risultato è che lo stato e i grandi latifondisti si organizzano in vari modi: i territori in questione vengono dichiarati zone di interesse per lo sviluppo economico, sostituiscono la popolazione mostrando che la restituzione si sta effettuando secondo le regole salvo poi espellerla per mantenere i titoli di proprietà, vittime e carnefici del conflitto armato si confondono con tutte le conseguenze del caso, e non da ultimo contrattano e organizzano gruppi paramilitari perché prevalga la loro volontà. Così, alla fine, non rimane che l’esito scontato per quelle persone che si ostinano a reclamare diritti e giustizia.

Nel caso di Luz Marina Arteaga come in quello di molte altre attiviste e attivisti, lo stato e le istituzioni hanno una responsabilità diretta anche rispetto all’assenza di protezione e misure di sicurezza che dovrebbero garantire, soprattutto nei casi in cui l’omicidio è preceduto da svariate minacce e ricatti.

Quanto alle modalità, Brian Cardenas della Corporación Claretiana Norman Pérez Bello non ne è per nulla sorpreso: in questo tipo di casi si va ben oltre un semplice proiettile o un “omicidio convenzionale”. L’idea è quella di colpire la figura più emblematica della lotta sociale per mandare un messaggio all’intera comunità, e per questa ragione l’agguato avviene in modo estremamente violento ed è quasi sempre preceduto dalla scomparsa – desaparición – della persona.

 

Centroriente: petrolio e conflitto

Così come l’Occidente colombiano che si apre sull’Oceano Pacifico e che vede nel porto di Buenaventura il principale sbocco per il commercio di ogni tipo di merce e sostanza, anche la pianura Centrorientale assume un ruolo strategico e attrae vari tipi di attori. La vicinanza con la frontiera venezuelana crea commerci di ogni genere, ma il Centroriente colombiano è conosciuto soprattutto per essere zona di estrazione di petrolio (circa un quarto della produzione a livello nazionale trova radici nei dipartimenti di Arauca, Meta e Casanare), per cui non sorprende la presenza di grandi imprese straniere che si dedicano a questa attività.

Già negli anni Trenta venne scoperta la ricchezza presente nel sottosuolo della regione, ma fu solo a partire dai primi anni Cinquanta che l’impresa Texas Petroleum Company (Texaco) cominciò le attività di estrazione di petrolio. Queste ultime si intensificarono esponenzialmente durante gli anni Ottanta, con la scoperta dei pozzi di Caño Limón (dipartimento di Arauca), Cupiagua e Cusiana (dipartimento di Casanare). Si trattava di riserve di petrolio con una capacità stimata in 100 miliardi di barili. In epoca più recente, dal 2010 a questa parte, nei municipi di Trinidad, San Luis de Palenque e Orocué (esattamente dove viveva Luz Marina Arteaga) sono stati destinati vari pozzi all’estrazione da parte di imprese come Alange, Canacol Energy, Pacific Rubiales e Lewis Energy Colombia INC. Altre multinazionali presenti nel territorio sono Parex Resources ed EcoPetrol.

Le implicazioni per le comunità presenti nel territorio sono molte e ancora una volta trovano nella terra il punto di partenza e di arrivo: vanno dall’inquinamento delle acque alla sottrazione di spazi per il pascolo e l’agricoltura, mentre a livello giuridico si traducono nel mancato rispetto del diritto alla consulta previa secondo la quale le comunità presenti nel territorio possono decidere se accettare o meno i “mega-progetti” che le vedono implicate. Infine le più gravi implicazioni in termini di vite e diritti umani consistono negli omicidi selettivi da parte dei gruppi armati e nello sfollamento forzato di intere comunità: la logica denunciata da queste ultime vede nella creazione di “zone di conflitto” e nella militarizzazione del territorio la giustificazione per espellere la popolazione civile e permettere in tal modo l’entrata delle multinazionali, con tutti i giochi di potere e di corruzione del caso.

Pressioni sulle comunità: violenze antisindacali e conflitti tra guerriglie

Squadrismo paramilitare petroliero

In questo scenario il paramilitarismo gioca un ruolo centrale; e del resto in questa zona del paese già durante la violenza degli anni Cinquanta i conservatori crearono i pajaros, gruppo armato impegnato nella repressione della resistenza liberale guidata da Guadalupe Salcedo. Fu poi a partire dagli anni Novanta che si incrementò il fenomeno del paramilitarismo, quando l’impresa British Petroleum (BP) favorì la creazione di “gruppi di sicurezza privata”. Si moltiplicarono così gli esempi: il gruppo Martín Llanos, le Autodefensas Unidas del Casanare e le Autodefensas Campesinas de Casanare (Acc o Los Buitragueños), i quali non entrarono nel processo Jusiticia y Paz di smobilitazione delle più famose Autodefensas Unidas de Colombia (Auc) nel 2005.

Il loro operato si tradusse sempre – e continua a farlo oggi – in attacchi verso le organizzazioni sindacali che si oppongono agli interessi delle imprese, verso le comunità in resistenza per la difesa del territorio, verso i leader sociali e gli attivisti di base.

Quanto accaduto a Luz Marina Arteaga non è che un altro esempio del tipo di repressione che spetta a chi osa toccare gli interessi dei potenti, mentre l’altra certezza è che insieme alla terra, il petrolio ha alimentato il conflitto e la violenza da oltre mezzo secolo a questa parte.

Guerriglie e giochi di potere

Il Centroriente colombiano, soprattutto nei dipartimenti di Arauca e Casanare, è pure territorio storico di controllo della guerriglia: l’Eln principalmente e in minor misura le Farc. Imprese multinazionali, esercito e gruppi paramilitari hanno da sempre dovuto fare i conti con loro e molte zone sono rimaste inaccessibili all’estrazione di petrolio proprio grazie alla presenza della guerriglia.

La situazione fino a qualche mese fa non mostrava grandi differenze rispetto al passato, con una forte presenza politica dell’Eln nel substrato politico e popolare e con l’espansione militare del Frente 10 e 28 delle dissidenze delle Farc agli ordini di alias Gentil Duarte, mai entrati nelle trattative degli Accordi di Pace del 2016. Fra Eln e Farc reggeva un patto di alleanza politica, militare e ideologica stretto nel 2013 e mantenuto anche dopo il 2016, a seguito di una lunga guerra fra il 2004 e il 2010 che costò la vita a 500 civili e 600 combattenti.

Frente e Eln

Nel corso del 2021 qualcosa è tuttavia cambiato: nel mese di marzo è stato dato l’allarme per l’espansione del paramilitarismo nelle zone di controllo storico della guerriglia, e quasi al contempo Maduro ha dichiarato guerra alla dissidenza delle Farc (Frente 10) attiva lungo la frontiera fra Colombia e Venezuela. A inizio 2022 le dissidenze delle Farc hanno dichiarato guerra all’Eln e in un comunicato hanno affermato la costituzione del Comando Conjunto del Oriente, composto dal Frente 10, 28, 45 e 56, con l’idea di riattivare i blocchi di guerra delle antiche Farc. Tutto ciò malgrado un’altra fazione delle Farc pure presente nel territorio, la Segunda Marquetalia agli ordini di Ivan Márquez – entrato nelle negoziazioni degli Accordi di Pace e poi sottrattosi – sarebbe invece alleata con l’Eln.

Sono scenari che possono sembrare irreali ma che rispondono a interessi politici ed economici oltre che a strategie militari; quel che è certo è che in questo inizio di 2022, tali avvicendamenti hanno lasciato una lunga scia di sangue: a farne le spese è stata soprattutto la base civile e il movimento sociale, come dimostrano gli attacchi del Frente 28 delle Farc all’acquedotto autogestito di Saravena e l’autobomba fatta esplodere lo scorso 19 gennaio di fronte alla sede del Congreso de los Pueblos, movimento politico legato ideologicamente alla linea dell’Eln. Oltre a ciò, in questo mese di gennaio si contano 20 omicidi selettivi e 3 stragi nella regione.

Diverse organizzazioni sociali concordano nel dire che lo stato e le dissidenze delle Farc presenti nel territorio si sarebbero alleati per combattere contro l’Eln, e non a caso i principali scontri militari starebbero avvenendo in zone di interesse per l’estrazione di petrolio fino a oggi inaccessibili perché sotto controllo dell’Eln stesso, come è il caso della regione de La Esmeralda. A ciò si aggiunge la forte repressione da parte dello stato, che considera eleno – appartenente alla guerriglia dell’Eln – ogni attivista delle comunità contadine e indigene, mentre al contempo denuncia la complicità del governo venezuelano nell’appoggiare tale guerriglia.

Uno scenario complesso

La scomparsa e il successivo assassinio di Luz Marina Arteaga risponde a una logica piuttosto chiara in quanto rappresenta una punizione per il suo impegno nelle lotte per la restituzione della terra; al contempo si inserisce in un contesto socio-politico specifico e relativamente nuovo, in cui si presentano scontri fra guerriglie e possibili alleanze fra stato, dissidenze e paramilitari, tanto più in una zona di frontiera (chiusa ufficialmente) con il Venezuela e in un clima di relazioni bilaterali pressoché inesistenti specialmente da quando Duque ha smesso di riconoscere Maduro come legittimo presidente.

 

Uno scenario che dimostra la profondità e la complessità del conflitto interno colombiano, tutto fuorché terminato con gli Accordi di Pace del 2016.

Al contempo, dall’altro lato del paese, a Cali, a inizio gennaio l’Eln ha rivendicato un attacco esplosivo che ha ferito 14 agenti dell’Esmad (il corpo antisommossa della polizia) in risposta alla violenta repressione messa in atto durante le proteste del Paro Nacional e all’uccisione del comandante alias Fabián lo scorso mese di settembre. Nella capitale Bogotá, invece, pochi giorni fa è stata trovata una bomba pronta per essere fatta esplodere nella sede del partito di ex combattenti delle Farc, Comunes.

Tutti segnali piuttosto univoci nel suggerire che la campagna elettorale è in pieno corso e che il 2022 promette di essere un altro anno molto intenso.

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Un Sahel di spine per Macron. Mali e Françafrique https://ogzero.org/un-sahel-di-spine-per-macron-mali-e-francafrique/ Fri, 21 Jan 2022 01:11:24 +0000 https://ogzero.org/?p=5902 Il Sahel in generale e il Mali in particolare è un’espressione della Françafrique da cui trarre indizi utili sulla reale influenza neocoloniale francese. L’impegno di Macron, all’inizio come alla fine del suo settennato, ha usato ogni arma nell’area pur di mantenere il proprio suggello: contingenti di occupazione militare con un tributo di sangue e denaro […]

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Il Sahel in generale e il Mali in particolare è un’espressione della Françafrique da cui trarre indizi utili sulla reale influenza neocoloniale francese. L’impegno di Macron, all’inizio come alla fine del suo settennato, ha usato ogni arma nell’area pur di mantenere il proprio suggello: contingenti di occupazione militare con un tributo di sangue e denaro non indifferente; elargizioni per blandire le oligarchie locali, sistematicamente eliminate fisicamente o esautorate; investimenti attraverso multinazionali, sostituite da potenze emergenti come Turchia – sulla cui penetrazione del mercato africano riprendiamo un articolo di Emanuele Giordana per “Atlante delle Guerre” e Cina, oppure scalzate dalla presenza politico-militare dei filoputiniani…

Uno degli spunti a cui teniamo dall’inizio della avventura di OGzero è quello relativo al neocolonialismo e stiamo cercando di accumulare materiali per avviare uno Studium relativo che possa sfociare in una produzione dedicata. L’articolo pubblicato il 16 gennaio dagli amici di “AfricaRivista”, che ringraziamo per averci consentito di riprenderlo, fa parte  di questo novero di analisi, interpretazioni, testi… che ritroverete assemblati in un dossier ora in embrione.


Lenta dissoluzione degli asset francesi in Mali

Con le elezioni presidenziali alle porte in Francia, il Mali rimane una spina nel fianco per il presidente Macron. L’operazione militare Barkhane non ha sortito gli effetti sperati. Se si vuole fare un bilancio, questo è del tutto negativo. Sulla Francia incombe lo spettro Afghanistan. Che fare? è la domanda già di Černyševskij attorno alla quale Angelo Ferrari gira per inserire alcuni degli elementi in gioco.

L’occupazione militare: il Mali apre alla Russia

Il Mali è una spina nel fianco del presidente francese, Emmanuel Macron, e lo sarà anche per chi verrà dopo di lui all’Eliseo, ammesso che perda le elezioni. Rimane, tuttavia, una patata bollente da gestire, anche in prospettiva delle presidenziali francesi. Se il Mali, e in pratica in tutti i paesi francofoni del Sahel, è uno degli stati più “ostili” alla Francia, l’opinione transalpina non è certo morbida nel giudicare la presenza francese in quell’area. Il ritiro di parte degli effettivi francesi impegnati nell’operazione Barkhane è dovuto all’impasse in cui si è ficcata Parigi proprio con quell’operazione. Il bilancio di 9 anni di presenza nell’area – prima con l’operazione Serval voluta dall’ex presidente François Hollande all’inizio del 2013, diventata Barkhane l’anno successivo, con l’estensione al G5 Sahel (Ciad, Niger Burkina Faso e Mauritania) – sembra essere fallimentare o, quantomeno, poco convincente. Intervento militare, per altro, lasciato in eredità a Macron. Risultati reali e concreti sono poco visibili, soprattutto per la popolazione locale che negli anni ha visto un peggioramento della sicurezza interna ma anche di quella economica e sociale.

L’obiettivo dell’operazione militare francese in Mali – richiesta dall’allora governo di Ibrahim Boubacar Keita – era quello di impedire ai gruppi jihadisti di prendere il potere ed evitare il crollo dello stato. I gruppi terroristici non hanno preso il potere, ma hanno allargato le loro aree di influenza rendendo lo stato – così come altri nell’area del Sahel – oltre che instabile, ostaggio delle loro scorribande. Se si vuole fare un bilancio, questo è del tutto negativo.

Il presidente francese, dovendo gestire un’opinione pubblica interna ostile, è riuscito a ridimensionare l’operazione militare, coinvolgendo gli stati della regione ma, soprattutto, ha convinto l’Europa della necessità di un intervento diretto perché la questione terrorismo, e quella dei flussi migratori, riguarda tutti. Nasce così la task force Takuba. Ma rimane l’imbarazzo e l’impasse. A maggior ragione oggi visto che il potere in Mali è nelle mani dei militari che hanno sovvertito il governo civile con ben due colpi di stato. Il paese è ancora più debole e il presidente francese non può prendere decisioni nette, vista la campagna elettorale in corso per le presidenziali. A Macron è stato facile annullare la visita ufficiale a Bamako del 20 e 21 dicembre scorso. La scusa, la nuova ondata di Covid. Sarebbe stato particolarmente imbarazzante per l’inquilino dell’Eliseo dover giustificare un viaggio nella capitale maliana dove avrebbe dovuto incontrare un capo di stato golpista e non eletto, il colonnello Assimi Goita. Non solo. La transizione voluta dai golpisti è ancora lontana dal terminare e la promessa di elezioni per un ritorno dei civili alla guida del paese, a oggi, pare un miraggio. Non ci sono date precise, si sa solo che la transizione, e quindi il potere di Goita, durerà ancora a lungo.

L’impasse rimane mentre gli affari parlano ormai russo

I francesi, tuttavia, sono ancora presenti nel centro del paese, nonostante le basi di Kidal, Tessalit e Timbuctu siano state riconsegnate all’esercito maliano. L’impasse rimane e potrebbe durare a lungo. Sulla Francia incombe lo spettro Afghanistan. Cosa fare? Seguire l’esempio americano, cioè un ritiro rapido e completo delle truppe? Gli scenari che si potrebbero verificare sono identici, se non peggiori, di quelli che si sono avuti in Afghanistan, con l’aggravante che il contraccolpo si sentirebbe in tutto il Sahel. Le “postazioni” non rimarrebbero sguarnite, ma verrebbero riempite da forze ostili a Parigi. Una su tutte: la Russia. Il Cremlino, a differenza dell’Eliseo, non sta a guardare. Interviene, non certo direttamente, ma attraverso la milizia di mercenari Wagner che, nonostante quello che possa affermare il governo di Bamako, sono già presenti nel paese. I maliani passerebbero dalla padella alla brace? Forse. Di sicuro hanno più “stima” dei russi che dei francesi. Il passato coloniale di Parigi è un macigno non rimosso. I russi, invece, hanno gioco facile visto che si presentano come un paese che non è stato una potenza coloniale e non ha nessuna intenzione di interferire nelle questioni politiche interne della nazione e vuole solo fare affari. I russi, poi, usano ad arte la propaganda sui social, estremamente efficace per manipolare le opinioni pubbliche a loro favore e non mettono gli scarponi direttamente sul terreno, ma facendo fare il lavoro sporco, appunto, ai mercenari della Wagner. L’espansione della propria presenza in Africa è uno degli intenti evidenti, usando l’arma che gli è più congeniale: armi, addestramento militare, lasciando l’intervento diretto ai mercenari; l’altro obiettivo è rappresentato dalla crescita della presenza russa nelle aziende minerarie, così da garantirsi l’approvvigionamento di materie prime strategiche. Quest’ultima è la vera moneta di scambio. Quindi, poco importa se devono trattare con governi legittimi o meno, purché si facciano affari.

Macron, dunque, sembra essere sotto scacco. Non può fare nulla, nuocerebbe alla sua campagna elettorale per le presidenziali, ma non può nemmeno permettersi di lasciare le cose così come stanno, il danno economico sarebbe maggiore rispetto ai benefici che potrebbe avere sulla sua opinione pubblica. Dunque, il Mali rimane una spina nel fianco e lo rimarrà anche dopo le presidenziali francesi, chiunque vinca. Poi c’è il Mali, inteso come golpisti, non certo la popolazione. Quest’ultima vorrebbe arrivare, e molto presto, a elezioni libere che restituiscano il potere ai civili. La giunta militare alla guida del paese no, nonostante le parole di circostanza. Anzi. Il governo fa affidamento sulla presenza dei paramilitari russi della Wagner per mantenersi al potere a qualunque costo, qualsiasi cosa accada, e alimentando la retorica antifrancese.

Ma tutta questa vicenda dimostra anche un’altra cosa: l’opzione militare non è l’unica via, anzi non è la strada da percorrere per la costruzione di uno stato solido capace di rispondere ai bisogni reali della popolazione: salute, educazione, lavoro. Un minimo di benessere oltre che di sicurezza.

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L’ordine regna in Kazakhstan e grande è la confusione sotto il cielo russo https://ogzero.org/lordine-regna-in-kazakhstan-e-grande-e-la-confusione-sotto-il-cielo-russo/ Sat, 15 Jan 2022 00:49:02 +0000 https://ogzero.org/?p=5851 Il bilancio dopo il ritorno all’ordine non è così scontato nei molti temi toccati dall’intervento di Yurii Colombo a completamento delle intuizioni incentrate sulla lotta di classe che ha inaugurato il 2022 kazako. Hanno fatto attenzione a reprimere senza umiliare i lavoratori kazaki, che ora attendono mobilitati che le promesse siano mantenute: infatti si è […]

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Il bilancio dopo il ritorno all’ordine non è così scontato nei molti temi toccati dall’intervento di Yurii Colombo a completamento delle intuizioni incentrate sulla lotta di classe che ha inaugurato il 2022 kazako.

Hanno fatto attenzione a reprimere senza umiliare i lavoratori kazaki, che ora attendono mobilitati che le promesse siano mantenute: infatti si è trattato di una reazione da un lato militare e spietata (con morti, arrestati, violenze…), condotta da reparti speciali, soprattutto contro i riot. E dall’altro traspare il sapore populista volto a blandire la piazza che impaurisce l’oligarchia – nella tradizione della satrapia  centrasiatica, che ha visto le stesse manovre precipitose nelle altre nazioni limitrofe che sono terra di conquista della Nato e che vedono gli oligarchi tentati di sfuggire al potere di Mosca. Salvo poi rivolgersi al Cremlino per soffocare rivolte e contese. Mentre Putin mira soltanto a mantenere una cintura di sicurezza, chiedendo attraverso i colloqui con la controparte di stilare un regolamento politico strategico che assicuri che non ci sia possibilità alcuna di confluenza nella Nato di un paese che condivida i confini occidentali della Federazione russa. Ma questo riguarda l’Ucraina, il mantenimento invariato del Kazakhstan non è in discussione.

A fronte di questa situazione internazionale ogni paese di quel cuscinetto di sicurezza ha una sua situazione particolare che rientra comunque negli standard delle risposte prevedibili: ciascuno diverso, ma ognuno uguale nel mantenimento degli equilibri. Il Kazakhstan in particolare è importante per le relazioni internazionali, tanto che non si è vista una reazione fatta di sanzioni o muscolare da parte di europei, che sfruttano le risorse; o di americani, che approfittano per provocare Mosca; o di cinesi , che ci devono far passare la Via della Seta. E allora è importante per tutti mantenere lo status quo, ma anche che i lavoratori producano quelle ricchezze che le potenze straniere e le multinazionali del petrolio intendono sottrarre.

Yurii, dopo gli aspetti sociali (assolutamente centrali) affronta subito, eliminandole, le letture complottiste dietro a cui Toqaev ha tentato di nascondersi. Ma la preoccupazione per i milioni di russofoni abitanti fuori dai confini russi, e anche i tanti provenienti dalle ex repubbliche e vivono in Russia, hanno richiesto uno studio della paura del jihad che dalla guerra in Cecenia in avanti ossessiona Putin.


«L’ordine regna in Kazakhstan» potremmo dire parafrasando Rosa Luxemburg. Dopo agitazioni e rivolte durate quasi una settimana – soprattutto grazie all’intervento delle truppe dell’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva (Csto) – il presidente Qasym-Jomart Toqaev è riuscito a riprendere il controllo della situazione e ha promesso anzi che entro la fine del mese di gennaio quest’ultime verranno ritirate completamente dal paese. Restano però aperte non solo molte questioni interne, ma anche riguardanti la sistemazione dell’ordine regionale e inevitabilmente di quello mondiale visto la dimensione strategica per il mondo occidentale del problema del contenimento del radicalismo islamico e del controllo delle rotte energetiche (il Kazakhstan ha riserve di petrolio per 30 miliardi di barili e di gas per 3 trilioni di metri cubi).

L’intervento del Csto è servito a stabilizzare la situazione che rischiava di sfuggire di mano dopo i vistosi fenomeni di “fraternizzazione” e “timidezza” della polizia (e persino dei reparti speciali) nei confronti dimostranti in varie zone del Kazakhstan. Per avere un quadro delle dimensioni degli avvenimenti kazaki basterà ricordare il bilancio finale degli incidenti in tutto il paese: 164 morti tra i dimostranti e 18 tra forze dell’ordine, oltre 8000 arresti, oltre tre miliardi di danni economici dovuti agli scioperi, al blocco delle comunicazioni e dei trasporti e per i danneggiamenti.

Come si evince dall’infografica è stata coinvolta dai disordini solo una delle tre città più popolate, ma tutti i grandi centri urbani industriali (a parte Alma Aty ovviamente) hanno visto manifestazioni egemonizzate da gruppi di lavoratori e dai sindacati. L’eterogeneità delle rivendicazioni e delle proteste non deve far dimenticare il tratto unificante di una richiesta generalizzata di maggior equità sociale.

Nei giorni successivi, il presidente kazako, soprattutto per giustificare l’intervento esterno, ha enfatizzato i caratteri “arancioni” delle dinamiche nel paese, ma ben presto ha dovuto drasticamente ridurre il numero di mercenari a suo dire attivi nelle manifestazioni da 20000 a 300. Lo stesso tasto, ma con meno vigore è stato premuto da Putin, il quale ha però immediatamente distinto «l’azione terroristica dalle proteste contro il carovita». Secondo i servizi speciali del Tagikistan, il numero di campi e centri di addestramento dei terroristi attivi ai confini meridionali del Csto nelle province nordorientali dell’Afghanistan sarebbero oltre 40, e complessivamente sarebbe composti da 6000 combattenti. Il 12 gennaio Toqaev per la prima volta ha indicato quali sarebbero i “mandanti” dell’“azione terroristica”: «Un atto di aggressione… che ha coinvolto combattenti stranieri provenienti principalmente dai paesi dell’Asia centrale, compreso l’Afghanistan. C’erano anche combattenti del Medio Oriente» ha precisato il leader kazako escludendo così l’ipotesi frettolosamente sostenuta dai vari raggruppamenti del cospirazionalismo internazionale sul ruolo dei paesi occidentali.

Secondo il direttore dell’Institute for Geopolitical Research e capo ricercatore presso l’Istituto di Storia ed Etnologia Asylbek Izbairov, i gruppi dell’estremismo islamico fin dalla loro comparsa nel paese intorno al 2011 sono sempre rimasti “ridotti” e “limitati” a gruppi giovanili capaci solo di realizzare attentati terroristici. Tali gruppi hanno assunto nomi spesso roboanti come “Soldati del Califfato” (Junud al-Califfato), “Difensori della religione” (Ansar-ud-din), Battaglione di Baybars ma il loro radicamento sociale è sempre rimasto incerto e il loro programma politico vago.

Questi gruppi avrebbero sviluppato «concetti quasi coloniali di tendenze sufi sincretiche, che a lungo termine portano a una pericolosa “sintesi” di misticismo pseudo-religioso e nazionalismo etnico di “sangue e suolo”».

Un quadro simile si coniugherebbe assai bene ad altre ipotesi circolate sui mass-media kazaki secondo cui soprattutto ad Alma Aty alcune “cellule dormienti” di questi gruppi siano stati il propulsore dei riot popolari dandogli quell’efficienza lamentata dal Toqaev, giunta fino alla prova di forza dell’occupazione dell’aeroporto internazionale a cui avrebbero partecipati circa 800 rivoltosi.

Questa dimensione sarebbe una delle ragioni che avrebbe spinto Putin a ritirare rapidamente le proprie truppe dal paese per evitare (anche in Kirgizistan e in Tagikistan) l’emergere di forti sentimenti antirussi che potrebbero avere ricadute poco piacevoli nelle metropoli russe dove lavorano milioni di migranti centroasiatici.

D’altro canto ciò spiega anche il sostanziale beneplacito al ristabilimento dell’ordine da parte del Dipartimento di stato Usa: non solo perché così vengono garantiti gli investimenti stranieri (161 miliardi di dollari dall’indipendenza del 1991 al 2020 principalmente nel settore energetico) ma anche soprattutto perché la Russia ha tolto le castagne dal fuoco a tutto il capitalismo internazionale in una fase delicata come quella attuale in cui si sta ancora elaborando il lutto della fuga dall’Afghanistan. In questo trentennio tutti i paesi della fascia centroasiatica dell’ex Urss hanno svolto un ruolo di contenimento della crescita dell’islam radicale e anche se molti foreign fighters si sono per un periodo trasferiti a combattere nell’Isis in Siria e in Iraq il ritorno in patria non ha prodotto fenomeni terroristici in tutta l’area e particolarmente in Russia dove l’ultimo attentato significativo resta quello dell’aprile 2017 a San Pietroburgo.

Malgrado ciò il primo intervento dalla sua fondazione nel 1992 del Ctso segna uno spartiacque dal punto di vista politico e tattico-militare.

«Comprendiamo che gli eventi in Kazakistan non sono il primo e tutt’altro che ultimo tentativo di interferire dall’esterno negli affari interni dei nostri stati. Le misure che abbiamo preso hanno dimostrato chiaramente che non permetteremo che la situazione in patria sia scossa e non permetteremo che si materializzino gli scenari delle “rivoluzioni colorate”», ha sostenuto Putin, durante la riunione con gli stati membri.

Il Csto si configurerebbe per certi versi come una sorta di “Santa Alleanza” come quella delle autocrazie europee dopo il 1815, per frenare ai confini dell’Urss l’insorgenza di rivoluzioni democratiche. Una forza non di occupazione però ma di pronto intervento, per frenare l’ulteriore disgregazione di quelli che furono i “confini naturali” dell’Urss e, per altri versi, della Russia zarista. Operazione complessa perché per ironia della storia era stato proprio il Kazakhstan qualche anno fa a proporre lo scioglimento dell’alleanza, per avere le mani libere nella trattativa con le potenze occidentali. Un raggruppamento comunque spurio, il cui asse fondamentale è basato tra Mosca e Minsk. Del resto il settimanale moscovita “Expert” ha dovuto riconoscere a denti stretti che il presidente tagiko Emomali Rakhmon insiste per la «creazione di una lista unificata delle organizzazioni riconosciute come terroristiche nel formato Csto che non è ancora stata redatta».

Secondo il settimanale moscovita «questa è davvero una questione difficile, perché alcuni paesi membri della Csto (specialmente il Tagikistan) amano classificare varie forze di opposizione che chiedono il diritto alla protesta pacifica come terroristi e islamisti», un approccio non condiviso da Mosca soprattutto dopo che è diventata una necessità tenere aperto un confronto con il governo di Kabul.

Mosca non sembra aver tratto un gran giovamento dalla crisi ha cercato in un primo tempo di far passare come “Vzglyad”, un portale russo di geopolitica filoputiniano, in chiave di egemonia sull’intera area. A differenza della Bielorussia, paese povero di risorse, il governo di Nursultan non è interessato – visti gli enormi interessi economici occidentali nel paese – a legarsi mani e piedi a Mosca anche perché ha i mezzi per sviluppare una politica riformista e relativamente redistributiva.

Putin appare costretto a giocare un ruolo interventista visto anche quanto bolle in pentola con l’Ucraina, a cui rinuncerebbe volentieri.

Secondo il politogo Georg Mirzjan: «Se Mosca si rivela non essere pronta a garantire la sicurezza nello spazio postsovietico, la Turchia e la Gran Bretagna possono assumere questo ruolo. Ci potrebbe essere una cintura di instabilità lungo tutti i confini meridionali della Russia, dal mar Nero alla Mongolia, infettando il Caucaso del Nord, la regione del Volga e altre parti della Russia con l’islamismo e il radicalismo».

Il ruolo di sceriffo del Centroasia in via del tutto teorica potrebbe essere assunto dalla Cina, che, a differenza di Gran Bretagna e Turchia, è interessata a stabilizzare la regione a tutela del progetto della “Via della Seta”, ma il problema è che i “pacificatori” cinesi non porteranno certo la pace perché la Repubblica popolare stenta a trovare una lingua comune con la popolazione musulmana della regione. Le attività aggressive (e talvolta predatorie) del business cinese in Kazakhstan e Tagikistan hanno ripetutamente portato a potenti manifestazioni anticinesi (che prima o poi potremmo vedere anche nella Russia siberiana). È proprio per questo che la presenza militare cinese potrebbe causare solo una nuova ondata di radicalismo, inguaiando ancora di più il Cremlino.

“Kazakhstan di lotta e di geopolitica”.
Il governo kazako sta ora correndo ai ripari. La scossa tellurica delle proteste ha smosso fin dalle fondamenta il paese e il regime intende introdurre un vasto pacchetto di riforme in primo luogo di carattere economico-sociale. Durante la riunione di gabinetto dell’11 gennaio, Toqaev ha soprattutto sottolineato quelle dai tratti più nettamente populistici come la riforma della Banca di sviluppo del Kazakhstan (Dbk).

«Dbk si è essenzialmente trasformata in una banca personale per una stretta cerchia di individui che rappresentano gruppi finanziari-industriali e di costruzione. Conosciamo tutti per nome», ha dichiarato il presidente kazako.

Ha proposto anche una moratoria di cinque anni sull’aumento degli stipendi dei deputati e dei funzionari di alto livello. Ha inoltre promesso che i lavoratori del settore pubblico avranno i loro stipendi aumentati assieme a una moratoria sull’aumento dei prezzi dei beni di prima necessità di tre anni. Sarà quindi istituito un fondo sociale pubblico per risolvere i problemi sociali.

«Dobbiamo dire grazie al primo presidente, Yelbasa (Nursultan Nazarbaev), se si è imposto nel paese un gruppo di aziende molto redditizie e una fascia di persone ricche, anche per gli standard internazionali. Credo che sia il momento di dare credito al popolo del Kazakhstan e di aiutarlo in modo sistematico e regolare», ha commentato sarcastico Toqaev, come se egli durante tutte le amministrazioni precedenti avesse vissuto su un altro pianeta.

Il giorno successivo Il ministro dell’economia del Kazakhstan Alibek Kuantyrov ha annunciato l’introduzione di una tassa supplementare sull’estrazione di minerali solidi. Non ha specificato però quale sarebbe la tassa aggiuntiva o quando entrerebbe in vigore (il Kazakhstan è il più grande produttore di uranio al mondo e ha grandi depositi di rame, di ferro e zinco). Si è ventilato anche un intervento sulla fuga dei capitali verso i paradisi fiscali di cui la famiglia Nazarbaev è sempre stata una gran specialista. Nulla invece sugli idrocarburi, in buona parte controllate da corporation americane, britanniche, olandesi – oltre all’Eni – così come sulla tassazione dei prodotti sui capitali stranieri che controllano il 70% dell’economia del paese. Si prospetta quindi una sorta di gestione “alla Pëtr Stolypin”, l’ultimo ministro delle finanze del potere zarista prima delle rivoluzioni russe: riforme dall’alto accompagnate dal pugno di ferro contro le opposizioni e il movimento operaio. Toqaev ha nominato come nuovo premier il cinquantenne di Alma Aty, Alichan Smailov, una scelta non certo di gran rinnovamento visto che nel passato Smailov è stato vicepremier e ministro delle finanze del paese. Il governo russo ha perfino accusato il nuovo ministro dell’Informazione del Kazakhstan, Askar Umarov, di avere «punti di vista nazisti e sciovinisti sui russi». Il sociologo di Kiev Volodymyr Ishchenko, esperto di dinamiche postsovietiche, è convinto che gli affari per la classe dirigente kazaka non si rimetteranno sui consueti binari dell’accumulazione predatoria tanto facilmente:

«Le tesi sulla “modernizzazione autoritaria”, sulla “rivoluzione passiva” e sull’“imperialismo” mal si adattano alla realtà del capitalismo patronale. Si tratta solo di una conservazione temporanea e intrinsecamente instabile della crisi politica postsovietica che non riesce ancora a trovare una vera soluzione al problema ricorrente della successione».

In questo quadro si deve valutare, il ruolo dell’attore principale di questo passaggio storico, cioè il movimento dei lavoratori. Come abbiamo già scritto su “OGzero” i lavoratori kazaki non da ieri sono entrati in movimento. Si tratta di una classe operaia giovane (soprattutto quella impiegata nei settori più propriamente industriali nella fascia di età giovanile rappresenta più del 30% del totale), concentrata in alcune zone del paese, sperimentata in oltre un ventennio di lotte. Una classe lavoratrice composta in buona misura da donne (il 60,2% delle donne kazake sono occupate) un fattore che rappresenta un baluardo contro la penetrazione del radicalismo islamico più reazionario. Una classe lavoratrice che ha ottenuto alcune vittorie parziali (compresa la riduzione del prezzo del gas) e ha saputo realizzare, seppur in un contesto difficilissimo, in pochi giorni, un ripiegamento ordinato in attesa di vedere se le promesse del governo diverranno realtà. Del resto le rivoluzioni si fanno strada non solo “come nel 1917”, ma anche “come nel 1905”, quando il potere magari regge ma non sa davvero riformarsi: quest’ultimo facendo concessioni significative alla piazza apre nuove contraddizioni nei diversi settori della società e condiziona le mosse delle potenze internazionali.

La classe operaia nell’ex Urss è tornata a essere uno dei fattori della contesa politica dopo una lunga eclisse. Dopo la timida ma in controcorrente apparizione dei nell’ascesa bielorussa, un altro contingente dell’ex Urss si è mobilitato: catapultato sulla scena della storia è divenuto sorprendentemente uno dei fattori del mutamento politico in Kazakhstan. Va sottolineato: non succedeva dai tempi dell’Iran e della Polonia a cavallo tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta del secolo scorso.

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La Colombia della “pace” https://ogzero.org/la-colombia-della-pace/ Sun, 12 Dec 2021 21:25:45 +0000 https://ogzero.org/?p=5547 A 5 anni dagli Accordi di Pace fra il Governo Santos e la guerriglia storica delle Farc, il cammino per lasciarsi il conflitto alle spalle sembra ancora lungo e tortuoso, come il corso degli innumerevoli  corsi d’acqua del Delta del Rio Danubio; il dipartimento del Cauca si affaccia sulla costa pacifica della Colombia, ma di […]

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A 5 anni dagli Accordi di Pace fra il Governo Santos e la guerriglia storica delle Farc, il cammino per lasciarsi il conflitto alle spalle sembra ancora lungo e tortuoso, come il corso degli innumerevoli  corsi d’acqua del Delta del Rio Danubio; il dipartimento del Cauca si affaccia sulla costa pacifica della Colombia, ma di pacifico c’è solo la certezza del conflitto tra narcos. Tullio Togni ci ha inviato questi scatti che illustrano nel suo racconto un paesaggio di difficile composizione del cinquantennale conflitto ufficialmente concluso 5 anni fa dal premio Nobel, il presidente Juan Manuel Santos.


Jefferson commenta lo sparo isolato appena sentito poco lontano, dice che sicuramente non si tratta di un’esecuzione: se il colpo fosse stato diretto al cranio, lo avremmo sentito più soffice e diffuso; attutito. Usa le mani per spiegare qualcosa che va oltre il senso dell’udito, ma per chi non ci è abituato questo rimane un concetto astratto; aleggia nell’aria.

Costa colombiana sul Pacifico

 

Buenaventura, città portuale sulla costa pacifica colombiana, è un inferno a ritmo di salsa che a partire dalle sette di sera tace quasi del tutto: un coprifuoco informale proibisce ogni danza per le strade, nessuno osa togliere la scena alle bande locali che si spartiscono il controllo e il microtraffico; “los chotas” e “los espartanos” da un anno a questa parte si sono dichiarate guerra, ma rimangono parte della stessa struttura illegale detta “La Local”. Le principali occupazioni di quest’ultima sono il narcotraffico e l’estorsione, oltre a quella pratica terribile a cui la Colombia si è abituata nel corso degli anni di conflitto e che si definisce come “pulizia sociale”. La relazione storica è con le “Autodefensas Gaitanistas de Colombia – Agc”, anche dette “Clan del Golfo”, gruppo paramilitare presente a livello nazionale il cui massimo esponente, Dairo Antonio Úsuga David (alias Otoniel), è stato recentemente arrestato. Anche se molti pensano che si sia consegnato nel quadro di un accordo ben più ampio con il governo attuale; del resto, alle elezioni di maggio 2022 non manca molto tempo.

La riconfigurazione del conflitto

Se potesse scegliere, Jefferson non andrebbe mai a Buenaventura, rimarrebbe tutta la vita in uno dei numerosi villaggi di palafitte sparse che si estendono lungo i cosiddetti “Fiumi di Buenaventura”, rami d’acqua che dalla cordigliera occidentale attraversano la foresta del Chocó e del Valle del Cauca per poi sciogliersi nell’Oceano pacifico. Ma c’è una relazione stretta fra gli spari e la casa di legno lasciata vuota davanti alla quale è seduto: in tutta questa zona, la popolazione locale – principalmente afrocolombiana – vive sotto il fuoco incrociato dei gruppi armati presenti, in particolare le dissidenze delle Farc che non sono entrate nel Processo di Pace o vi si sono sottratte, l’Eln – Esercito di Liberazione Nazionale, i paramilitari delle Agc e lo stesso Esercito colombiano. È errato gettare tutto nello stesso calderone, ma nella confusione generale della riconfigurazione del conflitto nel post-Accordo, la stessa guerriglia ha perso la sua identità storica e varia molto a seconda della regione e del contesto in cui opera; nell’Occidente colombiano, punto d’incontro fra l’entroterra e il porto di Buenaventura da cui passa oltre il 60 per cento della merce del paese, quasi tutti i gruppi armati sembrano avere vocazione economica – la cocaina – più che ideologica, per cui anche se nella maggior parte dei casi l’esercito e le Agc si alleano informalmente per combattere la guerriglia, non è raro assistere a scontri armati fra le Farc e l’Eln.

Valle Cauca

Innumerevoli rivoli d’acqua sulla costa colombiana del Pacifico e qualche drappo di rivendicazione territoriale (© – Red de Hermandad y Solidaridad con Colombia)

La riconfigurazione del territorio

Nel conglomerato di villaggi in cui vive Jefferson detta legge la Colonna Mobile Jaime Martinez, dissidenza delle Farc-Ep riunita nel “Comando Coordinador de Occidente”; lo dimostrano i cartelloni che si affacciano sul fiume o la stessa delegazione armata che si presenta: ragazzi sui vent’anni vestiti in civile se non fosse per il giubbotto verde militare, le armi e le munizioni al collo. Ma il controllo territoriale va oltre i fucili e gli spari: è fatto di ordini e restrizioni con mine antiuomo ai margini dei villaggi per limitare la mobilità della popolazione civile e le incursioni dei gruppi armati rivali, è il reclutamento forzato e le isolate esecuzioni extragiudiziali. È quanto successo alla fine di ottobre nel villaggio accanto, quando un membro del consiglio comunitario è stato assassinato perché sospettato di essere un informatore dell’esercito colombiano, dopo che i media avevano strumentalizzato alcune sue dichiarazioni rispetto al conflitto armato nella regione e lo avevano di fatto esposto a un alto rischio. È lo sparo attutito a cui si riferisce Jefferson, è la complessità del vivere in un contesto intricato e precario, in cui chi oggi è costretto a offrire un pranzo a un gruppo armato, domani viene ucciso dall’altro per aver collaborato con il nemico, oppure è perseguito dalla magistratura per aver dialogato con attori illegali presenti nel territorio. Lo stato in tutto questo si limita alla presenza militare, con incursioni frequenti, scontri armati ad alto impatto simbolico e ulteriori danni per le popolazioni locali. Queste ultime, organizzate nei consigli comunitari, denunciano la stessa convivenza fra stato e gruppi armati, chiedono che si rispetti la Legge 70 del 1993 che riconosce le comunità afrocolombiane come gruppo etnico con diritti sul territorio e autonomia di governo, rivendicano garanzie di sicurezza, educazione e sanità in tutta la zona della “Buenaventura rurale”: a proposito, nessun piano di vaccinazione per il Covid è stato ancora previsto qui. Alla guerriglia e in particolare alle dissidenze delle Farc, invece, chiedono semplicemente coerenza. In generale, per come si vive oggi, dicono che si stava meglio prima.

Villaggi su palafitte nella Valle del Cauca (© – Red de Hermandad y Solidaridad con Colombia)

Gli accordi di pace

A 5 anni dalla convulsa firma degli Accordi di Pace del 2016 fra il governo Santos (2010-2018) e le Farc, la Colombia vive una situazione paradossale a cui i numeri fanno da cornice: 299 ex guerriglieri e 1270 leader sociali assassinati, 500 organizzazioni della società civile vittime di minacce, 250.000 persone costrette all’esodo forzato. Numeri importanti che evidenziano una tragica realtà.

La terra rimane a tutti gli effetti il motore del conflitto, lo stato non si è impegnato a restituirla né a redistribuirla, ha abbandonato molti territori precedentemente controllati dalle Farc dando il via libera all’entrata di nuovi gruppi armati. Quando ha investito, lo ha fatto per generare monocolture per l’esportazione o piani di esplorazione per soddisfare gli interessi di multinazionali straniere anziché quelli delle comunità indigene e contadine che più di tutti hanno sofferto. E quanto alla difesa dell’ambiente, benché nella recente Cop26 il presidente Duque abbia dichiarato di essere disposto a difendere gli ecosistemi del paese, solo nel 2020 sono stati registrati oltre 65 omicidi contro attivisti ambientalisti. Per non parlare del processo di sostituzione delle coltivazioni illegali a suon di glifosato e di assenza di alternative valide alla coca.

Cauca indigena, ottobre 2020

Le poche prospettive per la popolazione smobilitata e gli omicidi di ex guerriglieri e attivisti sociali, sono l’altro grande cruccio del bilancio a 5 anni dagli Accordi di Pace, poiché dimostrano che lo spazio per le nuove lotte sociali e l’esercizio delle attività politiche e pubbliche, continuano a costare vite umane. A ciò si aggiunge l’altissimo livello di impunità per chi commette questi crimini e chi li ordina, un fenomeno messo in relazione con la corruzione della classe politica e gli attacchi della destra uribista al sistema di giustizia transizionale (Jep) nato nel 2016.

La Colombia oggi

Oltre a Cali, epicentro del “Paro Nacional”, Buenaventura è destinazione obbligata e recipiente delle popolazioni sfollate di tutta la regione del Pacifico colombiano. Lo scorso agosto è occorso a 1600 persone della zona del “Litoral San Juan”, vittime dei bombardamenti dell’esercito colombiano contro l’Eln, mentre negli ultimi giorni è toccato ad altre centinaia di persone appartenenti alle comunità indigene e afrocolombiane dei “Fiumi di Buenaventura”. Una volta in città, la loro prospettiva è quella di cercare di sopravvivere in un modo o nell’altro nei quartieri popolari, alla mercé delle bande locali e di quel ciclo di violenza che sembra non finire mai.

Da qualche parte a Buenaventura si nasconde anche Santiago, giovanissimo coordinatore delle brigate mediche a Cali che durante i mesi del “Paro Nacional” offrivano i primi ausili ai manifestanti vittime della violenza della polizia. Come successo a molti altri, una volta ristabilitosi l’“ordine sociale” gli sono cominciate a piovere addosso minacce di morte da parte di gruppi non identificati; la pressione su di lui è cresciuta al punto tale che, credendosi perduto, ha voluto farla finita. Ma oggi è ancora vivo, nascosto e protetto da una piccola cerchia di persone di fiducia. Lo stesso, purtroppo, non si può dire di suo fratello: vittima della vendetta trasversale, 10 giorni fa è stato fatto sparire.

Vecchia copia della rivista “Semana” uscita prima che venisse cooptata nella galassia uribista, asservendosi al potere da posizioni di denuncia come queste.

La Colombia del post-Accordo fra Governo e Farc non ha raggiunto una reale fase postbellica; quest’ultima si è semplicemente adattata e rimodellata al presente, forse a causa di alcune debolezze strutturali come la non messa in questione del sistema economico e di “sicurezza nazionale”, oppure il fatto che a vederlo ora, l’accordo appare come un’intesa esclusiva fra le alte sfere di due mondi opposti che hanno commesso lo stesso errore: dimenticarsi delle loro basi.

A circa sei mesi dalle elezioni presidenziali di maggio 2022, è difficile immaginare quale sarà il destino della pace in Colombia.

Un cielo pieno di nubi (© – Red de Hermandad y Solidaridad con Colombia)

 

 

 

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I contorni geopolitici della crisi polacco-bielorussa https://ogzero.org/nuova-fase-di-squilibrio-in-europa/ Sun, 05 Dec 2021 15:40:59 +0000 https://ogzero.org/?p=5526 Mentre i media mainstream hanno già distolto lo sguardo dal confine polacco-bielorusso, i problemi aperti (che in buona parte sono ancora lì!) dall’ammassamento di migliaia di migranti provenienti da diverse regioni dell’Asia in cerca di approdo in Germania restano squadernati e rimandano alla nuova fase di squilibrio in Europa apertasi ai confini della Russia, prima […]

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Mentre i media mainstream hanno già distolto lo sguardo dal confine polacco-bielorusso, i problemi aperti (che in buona parte sono ancora lì!) dall’ammassamento di migliaia di migranti provenienti da diverse regioni dell’Asia in cerca di approdo in Germania restano squadernati e rimandano alla nuova fase di squilibrio in Europa apertasi ai confini della Russia, prima con la guerra nel Donbass nel 2014 e poi con le manifestazioni antiregime in Bielorussia nell’estate del 2020.


Il menu dei telegiornali russi di queste ultime settimane rappresentano, da questo punto di vista, l’altra faccia della propaganda polacca della “guerra ibrida” che sarebbe stata scatenata da Alexander Lukashenko (con il pieno sostegno di Putin) ai confini occidentali della Bielorussia.

I programmi d’informazione della Federazione, va da sé, continuano a battere quasi su un solo tasto: esiste un tentativo di aggressione e di isolamento della Russia che usa tutti gli strumenti di intimidazione. La portavoce del ministero degli Esteri russo Marya Zacharova, per sottolineare questo aspetto ha persino fatto un po’ di pubblicità a la Repubblica definendo una “deliziosa sciocchezza” un articolo di Maurizio Molinari intitolato senza troppe metafore Carri armati e migranti: la morsa di Putin sull’Europa. Secondo Zacharova, nel valutare la situazione al confine tra Russia e Ucraina, Molinari si concentra solo sulle “fobie americane” senza impegnarsi nel fact-checking. Non ci vuole un gran impegno per mettere in luce le rozzezze geopolitiche del direttore de la Repubblica e così la diplomatica russa ha spiegato che «non c’è nessuna base», non ci sono «basi militari in Russia», ma «c’è solo un dispiegamento di unità delle forze armate russe sul suo territorio nazionale», che «è strettamente il nostro diritto sovrano, non viola i requisiti degli obblighi internazionali e si riferisce, come piace dire alla Nato tra gli altri, alle “attività di routine”». D’altro canto, il governo russo, vestiti i panni improbabili dei difensori dei diritti dei  migranti e tolta dalla naftalina dell’era sovietica la retorica antimperialista ha “consigliato” la UE «di cercare le vere cause della crisi migratoria […] vecchie dichiarazioni dei leader della coalizione anti-irachena e anti-Libia, i capi di stato e di governo di quei paesi hanno stimolato la Primavera Araba e si sono impegnati  a destabilizzare per 20 anni l’Afghanistan».

Bruxelles e Varsavia: benzina sul fuoco

La Bielorussia, ormai legatasi mani e piedi alla Russia, ha forse cinicamente cercato – facendo atterrare a Minsk grazie a compagnie aeree bielorusse compiacenti migliaia di improbabili turisti afgani e iracheni come ha voluto sottolineare Igor Stankevich sul portale di “Open Democracy” – di buttare altra benzina sul fuoco dei già difficili rapporti tra Bruxelles e Varsavia ma l’operazione, alla fine dei conti, non sembra riuscita. Se la Bielorussia ha deliberatamente deciso di portare i rifugiati dal Medio Oriente in Europa per imporre di riaprire i cieli del Vecchio Continente alla Belavia (la compagnia aerea di stato bielorussa che sta subendo gigantesche perdite per le sanzioni), l’operazione è fallita.

Su questo terreno non c’era possibilità di trattativa o di scambio ed è strano che Lukashenko abbia potuto illudersi.

E come sempre… il North Stream 2 è centrale

Angela Merkel – ancora per ora cancelliera in attesa che si formi il nuovo gabinetto tedesco – ha tentato in tutti i modi di disinnescare la crisi dichiarandosi perfino disponibile ad assorbire, in diversi municipi tedeschi che si erano detti disponibili all’accoglienza, i migranti al confine bielorusso-polacco, ma è stata frenata non solo dal fronte dei paesi di Visegrad e baltici ma soprattutto dagli Usa. Le ragioni tedesche erano evidenti: si vuole ancora tentare di condurre in porto la messa in opera del gasdotto North Stream 2 aggiungendo qualche migliaio di rifugiati alle decine di migliaia che raggiungono il paese durante l’anno seguendo le più diverse rotte. Che la partita energetica possa essere motivo di scambio politico tra Mosca e Berlino lo ha da sempre chiaro il primo ministro polacco Mateusz Morawiecki. Non è un caso che quest’ultimo, bypassando Merkel, abbia fatto appello al possibile cancelliere della Germania, il leader dei socialdemocratici, Olaf Scholz. «Nord Stream 2 deve essere fermato», ha chiesto il premier polacco a Spd. I migranti puzzano sì, ma di gas: basterà rammentare che il regolatore tedesco ha sospeso la certificazione della Nord Stream in un quadro in cui i futures sul gas in Europa stanno continuando ad aumentare e hanno superato  più di una volta in novembre la soglia critica di 1200 dollari per 1000 metri cubi.

Una dinamica in cui la Bielorussia dopo la crisi politica interna del 2020 non può più giocare il ruolo che le piaceva di più: acquistare dalla Russia idrocarburi a prezzi sussidiati e rivenderli in Europa, Polonia e Ucraina tra le altre.

Fonte Agi

Il ruolo dell’Ucraina

Già l’Ucraina. Nella crisi polacco-bielorussa il suo ruolo sembra marginale (anche se forse parte dei migranti sembra essere giunto in Bielorussia via terra anche da lì) ma così non è.

Ben pochi osservatori internazionali hanno mostrato di voler intendere cosa sta succedendo di strategicamente importante nelle Repubbliche Popolari di Donetsk e Lugansk, ormai da 7 anni fuori dal controllo giurisdizionale di Kiev. Il presidente russo, lo scorso 17 novembre, ha firmato il decreto che gli abitanti delle due repubbliche autoproclamate dell’Ucraina orientale  aspettavano da diversi anni. La Russia ha aperto completamente i suoi mercati ai beni prodotti nel Donbass, il che la aiuterà a invertire il suo degrado economico e la fuga della popolazione verso la vicina Rostov sul Don. Si tratta di un evento storico perché si tratta del passo definitivo de facto di incorporazione delle Repubbliche “ribelli” alla Russia. Un de facto che viene discussa apertamente nei think-thank internazionali. Nikolaus von Twickel, per esempio, uno degli autori del libro Beyond the Frozen Conflicts. Scenarios of Separatist Conflicts in Eastern Europe, crede che il Donbass sia stato annesso dalla Russia nello stesso modo in cui sette anni fa fu annessa la Crimea. Von Twickel è anche l’autore di un rapporto che analizza gli eventi relativi al conflitto nell’Ucraina orientale nel 2020 e nel 2021 intitolato per l’appunto Verso l’annessione di fatto.

Donetsk e Lugansk: l’economia dei documenti

Nel 2017, la Russia aveva riconosciuto molti documenti emessi nelle repubbliche di Donetsk e di Lugansk, dalle carte d’identità ai diplomi scolastici dal 2019; è stato reso facilissimo ai residenti del Donbass acquisire la cittadinanza russa e quindi il passaporto, mantenendo formalmente quello ucraino. Ora, nel 2021, le imprese locali saranno uguali a quelle russe dal punto di vista giuridico. In primo luogo, saranno riconosciuti i certificati per i prodotti fabbricati nelle Repubbliche. In precedenza, questi certificati, presentati alla dogana e ad altre autorità della Federazione Russa, dovevano essere ucraini – ovvero del “paese d’origine” ufficiale. In secondo luogo, con poche eccezioni, le quote sulle esportazioni verso la Federazione Russa saranno abolite per le imprese di Donetsk e Lugansk. In terzo luogo, i produttori del Donbass saranno collegati al sistema di approvvigionamento statale, cioè uno dei clienti per loro sarà lo stesso stato russo. Difficilmente, come alcuni sognano, ci sarà uno sviluppo significativo dell’economia di quelle regioni (che continuano a essere legate alla produzione di carbone e di altri settori economici “decotti” per il mercato mondiale).

Tuttavia il significato politico è chiaro: si tratta di un addio alle trattative basate sui protocolli di Minsk e del Formato Normandia, nella cui adozione, guarda caso, proprio Lukashenko aveva giocato il ruolo di pacere tra “fratelli slavi” nel 2014.

Tamburi di guerra sulla frontiera ucraina

Lo stesso giorno il ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov con una mossa senza precedenti e violando il protocollo diplomatico ha pubblicato parte della corrispondenza recente tra diplomazie russe, tedesche e francesi a proposito delle trattative per giungere a un nuovo incontro per ottenere la pace in Ucraina orientale. Da cui emerge – in particolare dalle missive franco-tedesche ai russi – la volontà di non voler coinvolgere direttamente le repubbliche autoproclamate nella trattativa. Difficile dire cosa succederà a breve ma lo Stato maggiore ucraino sostenuto in particolare dalla Gran Bretagna e dagli Stati Uniti sta battendo da mesi i tamburi di guerra e innervosendo sempre di più la Russia. Il 22 novembre scorso il ministro della Difesa russo Sergey Shoigu ha denunciato che recentemente c’è stato un marcato aumento dell’attività dei bombardieri strategici dell’aeronautica statunitense vicino ai confini della Russia. Secondo il capo della Difesa russa, circa 30 sortite di aerei della Nato ai confini della Russia sono state registrate nell’ultimo mese, ovvero 2,5 volte di più rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso. Sarebbe questo aumento dell’attivismo della Nato ad aver spinto ad ammassare 90-100.000 soldati russi non lontano dalla frontiera ucraina: ormai un confronto armato nel Sudest Europa che coinvolga la Russia non è più fantascienza e in tale disgraziata ipotesi, è certo che la Bielorussia giocheerebbe un ruolo non marginale.

Immagini scattate il 9 novembre e pubblicate dal Center for Strategic and International Studies: mezzi e truppe russe in continuo aumento fuori dalla città russa di Yelnya.

La posta in gioco

In un editoriale in occasione di uno dei tanti anniversari della nascita della Russia imperiale (2 novembre 1721: incoronazione di Pietro I dopo la vittoria delle “Guerra del Nord”) su “Rossijskaja Gazeta”, Fyodr Lukyanov uno dei politologi oggi più vicini al presidente russo, ha sostenuto che

«la particolarità della Russia è quella di aver ricevuto uno shock molto recente per gli standard storici. In effetti, l’anniversario coincide quasi con un altro – il trentesimo anniversario della scomparsa dell’Urss – considerata da alcuni come l’ultima incarnazione veramente imperiale nella storia russa [si potrebbe discutere]. La freschezza del trauma della disintegrazione aggiunge amarezza e impulsività alla politica da un lato, ma dall’altro rende il paese e il popolo più resiliente di fronte ai nuovi shock inevitabili su scala globale, dato che l’intero quadro internazionale sta cambiando. E in questo senso, l’ultimo sopravvissuto ha più “anticorpi” per la prossima ondata di cataclismi».

La Russia sicuramente è uno dei paesi più coscienti della posta in gioco (la sua sopravvivenza in primis) e sta cercando disperatamente di prepararsi al futuro. Ma è una corsa contro il tempo in cui la forza di volontà putiniana ha solo un peso relativo.

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«Le origini del debito risalgono alle origini del colonialismo». E il colonialismo lo uccise https://ogzero.org/le-origini-del-debito-risalgono-alle-origini-del-colonialismo-e-il-colonialismo-lo-uccise/ Mon, 18 Oct 2021 23:32:42 +0000 https://ogzero.org/?p=5223 Un pallino di OGzero è pensare che le radici della geopolitica moderna affondino nel colonialismo e uno dei crimini più efferati del neocolonialismo fu l’uccisione di Thomas Sankara, una speranza per l’emancipazione dei diseredati e per l’Africa in generale. A distanza di 34 anni dalla strage del presidente burkinabé e dei suoi 12 collaboratori si […]

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Un pallino di OGzero è pensare che le radici della geopolitica moderna affondino nel colonialismo e uno dei crimini più efferati del neocolonialismo fu l’uccisione di Thomas Sankara, una speranza per l’emancipazione dei diseredati e per l’Africa in generale. A distanza di 34 anni dalla strage del presidente burkinabé e dei suoi 12 collaboratori si apre la prima udienza del processo contro gli esecutori, nemmeno tutti alla sbarra – visto che Compaoré, cittadino ormai ivoriano, è sfuggito al giudizio. Ma il giudizio in questo caso è quello della Storia e coinvolge anche i mandanti: le potenze occidentali che continuano a saccheggiare il Sahel. Riproponiamo in questo articolo un bell’intervento di Valeria Cagnazzo, pubblicato l’11 ottobre 2021 da “PagineEsteri“, assemblandovi anche un’intervista a Yakouba, militante sankarista, realizzata da Radio Blackout il 14 ottobre.  


Si inaugura l’11 ottobre il processo per l’omicidio del presidente Sankara, ucciso esattamente trentaquattro anni fa, il 15 ottobre del 1987. Tre anni prima, le parole scagliate con il suo storico discorso contro i membri delle Nazioni Unite avevano infuocato l’aula e segnato per sempre un prima e un dopo nella storia della rivoluzione del Burkina Faso e nella sua breve vita. Ed è forse analizzando quel suo intervento pronunciato il 4 ottobre del 1984 nella 39° sessione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite a New York che si possono rintracciare molte delle motivazioni che procurarono al giovane leader tante antipatie, e vi si possono al tempo stesso cogliere molti dei semi della sua fugace ma straordinaria rivoluzione.

Una rivoluzione di un paese poverissimo e sconosciuto dell’Africa sub-occidentale che per la prima volta, e davanti alle superpotenze mondiali, si scontrava apertamente con il concetto di terzomondismo e di assistenza umanitaria, caposaldi, allora come adesso, di un Occidente dalla coscienza smacchiata.

«È al di là di ogni immaginazione la quantità di “derrate dei poveri” che sono andate a nutrire il bestiame dei nostri ricchi! Naturalmente incoraggiamo l’aiuto che ci aiuta a superare la necessità di aiuti. Ma in generale, la politica dell’aiuto e dell’assistenza internazionale non ha prodotto altro che disorganizzazione e schiavitù permanente, e ci ha derubati del senso di responsabilità per il nostro territorio economico, politico e culturale».

Sankara alzava la sua voce in quell’aula di New York per dichiarare al resto del mondo che quel paese dell’Africa subsahariana non aveva più al potere un presidente fantoccio dell’Europa e degli Stati Uniti, come tanti altri Stati del suo continente, e che il suo popolo era pronto a prendere in mano il proprio destino, ad affrontare la lotta per l’autodeterminazione.

«Promettiamo solennemente che d’ora in avanti nulla in Burkina Faso sarà portato avanti senza la partecipazione dei burkinabé. D’ora in avanti, saremo tutti noi a ideare e decidere tutto. Non permetteremo altri attentati al nostro pudore e alla nostra dignità».

Così quell’incauto presidente nero definiva gli interventi occidentali mascherati da aiuti umanitari: degli attentati al pudore e alla dignità del suo popolo.

Il discorso di Sankara fu anche un attacco spietato all’Occidente dell’opulenza, della ricchezza fine a se stessa, dell’ingordigia senza limiti: «Parlo in nome delle madri dei nostri paesi impoveriti che vedono i loro bambini morire di malaria o di diarrea e che ignorano che esistono per salvarli dei mezzi semplici che la scienza delle multinazionali non offre loro, preferendo piuttosto investire nei laboratori cosmetici, nella chirurgia estetica a beneficio dei capricci di pochi uomini e donne il cui fascino è minacciato dagli eccessi di calorie nei pasti, così abbondanti e regolari da dare le vertigini a noi del Sahel. Parlo, anche, in nome dei bambini. Di quel figlio di poveri che ha fame e guarda furtivo l’abbondanza accumulata in una bottega dei ricchi».

La formula del “parlare in nome di” qualcuno si ripete per tutta l’orazione di Sankara: colpisce, e divertì probabilmente il suo uditorio, che un minuscolo Stato dimenticato volesse farsi carico delle voci di tutti i diseredati e degli oppressi del pianeta. Ma in questo consisteva il sogno di Sankara: che i più piccoli del mondo unissero le loro voci e finalmente dimostrassero che il loro coro era molto più potente di quello dei pochi nelle cui mani fino a quel momento si erano tenute le loro sorti. La rivoluzione di Sankara era umana oltre che politica, o meglio era politica proprio perché profondamente umana. «Parlo non solo in nome del mio Burkina Faso, tanto amato, ma anche di tutti coloro che soffrono in ogni angolo del mondo». E citò tutti i diversi, i reietti, i neri discriminati nei paesi dei bianchi, gli Indiani d’America condannati all’estinzione, il popolo del Sahel a cui era negata l’indipendenza dal Marocco, il popolo palestinese «che un’umanità disumana ha scelto di sostituire con un altro popolo». Condannò l’invasione militare dell’Afghanistan, così come l’apartheid in Sudafrica. Le sue parole percorrevano tutto il planisfero con accuratezza, come un dito che lento si muovesse sui confini di tutti gli Stati a interrogarne le storie e i dolori, per soffermarsi su ogni ingiustizia e denunciarla con fervore, come se si svolgesse in Burkina Faso. Fu un discorso drammatico, capace di muovere alle lacrime: «Vorrei parlare in nome di tutti gli abbandonati del mondo, perché sono un uomo e niente di quello che è umano mi è estraneo». Ma in nessun momento si trasformò in un discorso “lacrimoso”: quel giovane presidente non voleva più che gli oppressi suscitassero compassione. Proponeva delle soluzioni, drammatiche, rivoluzionarie, naturalmente destinate a scatenare reazioni di gelo e di paura in chi lo stava ascoltando, come la proposta di espellere Israele e il Sudafrica dalle Nazioni Unite.

Il suo programma antiterzomondista e socialista era anche profondamente femminista e antimilitarista, e anche su questi due punti il suo discorso all’Onu fu troppo cristallino e pragmatico per non risultare quasi indecente. «Parlo in nome delle donne del mondo intero, che soffrono sotto un sistema maschilista che le sfrutta», disse, sottolineando la violenza globale di condannare la donna a un ruolo di sudditanza all’uomo, sia segregandola al focolare e all’ignoranza che vincolandola agli ideali di bellezza delle ragazze immagine immortalate mezze nude nelle pubblicità. Il suo programma non prevedeva solo un coinvolgimento egualitario di uomini e donne nella ricostruzione del paese, ma anche un nuovo apparato statale che passava anche per la riorganizzazione dell’esercito, fornendo a ogni soldato un’educazione politica e culturale, consapevole che un militare ignorante e ciecamente obbediente ai suoi comandanti «non è nient’altro che un potenziale criminale». Militari visti come individui, dunque, non più come pedine, e la proposta della “lotta per il disarmo” come “obiettivo permanente”.

E, ancora, il suo discorso annunciava una rivoluzione che avrebbe privilegiato anche l’arte e la libertà di espressione:

«Parlo in nome degli artisti – poeti, pittori, scultori, musicisti, attori – che vedono la propria arte prostituita per le alchimie dei businessmen dello spettacolo. Grido in nome dei giornalisti ridotti sia al silenzio che alla menzogna per sfuggire alla dura legge della disoccupazione».

Una rivoluzione, tra l’altro, che passava necessariamente anche attraverso le parole per realizzarsi, una trasformazione linguistica suggerita dal presidente che al suo insediamento cambiò il nome del suo paese: non più Alto Volta, come i colonialisti, tratteggiandone i confini con un righello, avevano imposto, ma Burkina Faso: “il paese degli uomini integri”. Non solo, neanche la definizione di Terzo Mondo poteva continuare ad esistere: “Terzo mondo, una parola inventata dal resto del mondo al momento dell’indipendenza formale per assicurarsi meglio l’alienazione sulla nostra vita intellettuale, culturale, economica e politica”. Una rivoluzione delle parole: quelle del “grande popolo dei diseredati” non potevano che essere “parole semplici, con il linguaggio dei fatti e della chiarezza”. Questo fu il linguaggio del discorso di Thomas Sankara, e altrettanto stravolgente fu la sua declinazione nei fatti.

“Quando il popolo si solleva l’imperialismo trema”.

Un sogno di felicità – Nato in quel paese che egli stesso definì “la quintessenza di tutte le disgrazie dei popoli” nel 1949, fallito il tentativo di studiare medicina ricevette una formazione militare in Madagascar, dove ebbe modo di assistere alle rivolte popolari contro il Presidente Tsiranana e di avvicinarsi alle teorie leniniste e marxiste del Partito africano dell’Indipendenza. Al ritorno nel suo paese, entrò in politica e fu tra i fondatori del Gruppo degli Ufficiali Comunisti. Segretario di stato, poi primo ministro, la sua figura affascinava e conquistava seguaci per il suo stile di vita morigerato o meglio stoico, per il suo interesse costante per gli ultimi, che andava a trovare a bordo della sua sgangherata bicicletta, e per il coraggio con cui sferzava attacchi violenti all’Occidente e alla Francia di Mitterand. Con un colpo di Stato sostenuto dalla Libia e capeggiato da quello che all’epoca era un suo amico, Blaise Compaoré, nell’agosto del 1983 Thomas Sankara divenne Presidente dell’Alto Volta all’età di trentacinque anni. Poteva finalmente prendere forma la rivoluzione che aveva sognato per il suo paese: «Abbiamo scelto di rischiare nuove vie per giungere ad una maggiore felicità». Questo fu il suo obiettivo: non era il mito del “progresso” che trascinava già i Paesi occidentali in una deriva di sfruttamento e ineguaglianza sociale a guidarlo, ma il sogno di regalare per la prima volta ai suoi connazionali e ai loro eredi un bene più raro e audace, la felicità.

Non si trattava di un sogno semplice da realizzare: «Eravamo l’incredibile concentrato, l’essenza di tutte le tragedie che da sempre colpiscono i cosiddetti paesi in via di Sviluppo», come ammise lo stesso Sankara. I numeri lo confermavano: una mortalità infantile del 180 per mille e un’aspettativa di vita che non superava i 40 anni, in un paese di 7 milioni di abitanti, quasi per la totalità contadini. Un tasso di analfabetismo del 98% e un medico ogni 50.000 abitanti. Un prodotto interno lordo di circa 100 dollari pro capite.

Dal suo insediamento, Sankara si decurtò lo stipendio e lo stesso fece per i suoi ministri, tra i quali si contavano molte donne. Le Mercedes dei funzionari pubblici furono sostituite con delle economiche Renault 5 e i voli per motivi politici potevano da quel momento in poi essere fatti solo in classe turistica. L’obiettivo di assicurare almeno 2 pasti e 5 litri d’acqua a ogni Burkinabé fu raggiunto grazie a una massiva rivoluzione economica che non riguardò soltanto politici e funzionari amministrativi, ma tutto l’apparato produttivo e militare del paese. L’operazione di demilitarizzazione del paese e di riorganizzazione dell’esercito fu funzionale a combattere la piaga della fame dei Burkinabé: l’addestramento militare prevedeva adesso in gran parte l’allevamento di pollame e la coltivazione di ortaggi e di patate, con delle soglie minime di produzione, come almeno un quarto di pollo per soldato prodotto a settimana. Il ricavato era destinato interamente alla popolazione.

Le importazioni di beni inutili dall’estero furono disincentivate. Il mercato di cosmetici, di bibite e alimenti prodotti dalle multinazionali occidentali, dei capi di abbigliamento dei grandi marchi europei, non faceva, infatti, che ingrossare in maniera sempre più drammatica il debito pubblico di un paese già spremuto dalla fame. Incoraggiò pertanto le imprese locali, la produzione autoctona di abiti tradizionali che lui stesso amava sfoggiare nelle occasioni pubbliche, l’acquisto nelle botteghe locali e dai piccoli artigiani burkinabé. Chiuse i locali notturni dove insieme alla dipendenza dalle abitudini occidentali ai Burkinabé venivano vendute lattine di Coca-Cola a prezzi esorbitanti e li convertì in balere diurne alle quali chiunque poteva accedere con una minima offerta e dove si sorseggiavano solo economiche bibite artigianali.

Furono scavati circa 1000 pozzi e realizzati oltre 250 bacini d’acqua. Fu costruita la ferrovia del Sahel per collegare il paese al Niger e nel Sahel furono piantati oltre 10.000 alberi per frenare l’avanzata del deserto. Oltre 330 scuole furono costruite, insieme a un numero simile di dispensari per la salute materno-infantile. In quasi tutti i villaggi del paese fu aperto un centro per la Salute primaria – e anche un campo sportivo. Con il ricavato dei tagli agli stipendi e agli sprechi, Sankara lanciò, inoltre, una campagna di vaccinazione, grazie alla quale oltre 2 milioni e mezzo di bambini furono vaccinati contro il tifo, il morbillo, la rosolia e la febbre gialla. Nel paese si iniziò a promuovere in quegli anni l’utilizzo di contraccettivi per contrastare la diffusione dell’HIV, e furono vietate la poligamia e l’infibulazione. Tra le priorità dell’agenda di governo, anche il lavoro alle donne e il reinserimento in società delle ex prostitute alle quali furono offerti nuovi impieghi. Nel sogno di felicità di Sankara, infine, nelle radio del paese veniva quotidianamente mandata in onda la voce dei Burkinabé, che potevano tutte le mattine intervenire nei programmi radiofonici per esprimere le loro critiche al governo e argomentare le loro proposte. Sempre attraverso un circuito radio, si cercava di diffondere l’alfabetizzazione anche nelle capanne delle più remote comunità rurali.

Riguardo al debito maturato dagli Stati africani nei confronti dei creditori stranieri, inoltre, Sankara era convinto che dovesse essere cancellato, e che i paesi africani dovessero coalizzarsi per questo scopo: come spiegò due mesi e mezzo prima di essere ucciso, il 29 luglio 1987durante la riunione ad Addisa Abeba dell’Organizzazione per l’Unità Africana,

«Le origini del debito risalgono alle origini del colonialismo. Quelli che ci hanno prestato denaro, sono gli stessi che ci avevano colonizzato. Sono gli stessi che gestivano i nostri Stati e le nostre economie. Sono i colonizzatori che indebitavano l’Africa con i finanziatori internazionali che erano i loro fratelli e cugini. Noi non c’entravamo niente con questo debito. Quindi non possiamo pagarlo».

Un atto di insubordinazione troppo grande nei confronti della Francia di Mitterand e dei suoi alleati occidentali.

Il 15 ottobre un commando armato irruppe nel palazzo in cui si stava svolgendo una riunione di gabinetto del Consiglio Nazionale della Rivoluzione e aprì il fuoco su Sankara e sui suoi uomini, finché i loro tredici corpi esangui non rimasero accatastati gli uni sugli altri.

Un processo e un anniversario – Annunciato ufficialmente il 12 aprile scorso, inizierà lunedì 11 ottobre, soli quattro giorni prima del trentaquattresimo anniversario della sua uccisione, il processo per l’omicidio di Sankara.  A confermarlo un comunicato emanato dalla procura di Ouagadougou, la capitale del Burkina Faso, dove si svolgerà l’udienza a porte aperte. Molti degli indiziati per l’attentato sono venuti a mancare nel corso degli anni, ma insieme ad altri 12 accusati è ancora in vita l’imputato più illustre, Blaise Compaoré. Salito al potere dopo la morte di Sankara, del quale sotto il suo governo fu portata avanti un’intransigente operazione di damnatio memoriae, l’ex Presidente del Burkina Faso è stato da sempre considerato il principale mandante dell’omicidio. Potrà, però, sedere al banco degli imputati soltanto in senso metaforico: Compaoré vive in Costa d’Avorio da quando un colpo di stato nel 2014 ha rovesciato il suo governo quasi trentennale, e lì resterà, a meno che non decida volontariamente di ritornare nel suo paese per presenziare in aula all’udienza. È difficile immaginare che in caso di condanna uscirà dal paese che lo ha accolto per andare a scontare la sua pena nel paese burkinabé. Oltre a Compaoré, tra gli accusati c’è anche il generale Diendéré, all’epoca capo dell’esercito e suo ex braccio destro, attualmente già in carcere a scontare una condanna a 20 anni per un tentativo di colpo di stato del 2015: la sentenza gli sarà probabilmente indifferente.

Certamente le assenze più pesanti al banco degli imputati saranno quelle dei mandanti internazionali di quest’omicidio, che da oltre trent’anni vengono chiamati in causa nella narrazione della morte di Sankara. La Francia di cui il Burkina Faso era ex colonia e con la quale il paese di Sankara voleva interrompere ogni rapporto economico, ad esempio: solo nel 2017 Macron ha desecretato i documenti ufficiali sulla morte di Sankara, fino a quel momento inaccessibili agli investigatori. Gli Stati Uniti, che in quel piccolo leader vicino alla Russia e a Fidel Castro in piena Guerra Fredda vedevano un nemico comunista pericoloso per il favore panafricano che stava catalizzando. E poi le ombre, documentate anche dal reportage di Silvestro Montanaro “E quel giorno uccisero la felicità”, su personaggi come Charles Taylor, fuggito, come da lui stesso successivamente ammesso con il favore degli Stati Uniti, da un carcere di massima sicurezza in Massachussetts per tornare in Liberia e organizzare una guerriglia con armi illegali e uomini addestrati in Libia dalla Cia: tra gli obiettivi del politico liberiano ci sarebbe stata anche la realizzazione dell’assassinio di Sankara. Una trama fitta di intrecci internazionali per soffocare il sogno di felicità burkinabé.


Viste le condizioni degli ormai anzianissimi indiziati e l’assenza per il momento di imputati internazionali agli atti dell’accusa, è improbabile che con questo processo giustizia venga fatta. Ma fare giustizia, e il giornalista Silvestro Montanaro, scomparso un anno fa, ce lo ha insegnato, spendendosi fino all’ultimo per portare in giro per l’Italia la storia di Sankara, è anche questo: continuare a raccontarci la sua lezione. Continuare a raccontare di Thomas Sankara, di come grazie al suo coraggio un paese poverissimo e sconosciuto dell’Africa nera fermò il tempo e provò a riscrivere da capo la sua storia, e di come le rivoluzioni di felicità qualche volta, incredibilmente, si possono realizzare. E si potrebbero replicare.

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Syngué sabour: appunti per un’Orestiade afgana https://ogzero.org/l-occidente-non-ha-mai-compreso-larea-centrasiatica/ Sat, 04 Sep 2021 13:40:21 +0000 https://ogzero.org/?p=4811 L’Occidente non ha mai compreso l’area centrasiatica, perché l’ha assimilata nell’immaginario alla propria mentalità e alla propria filosofia, senza sforzarsi di collocare i sistemi delle comunità nella loro tradizione di riferimento. A decolonizzazione avvenuta si può forse tentare di inquadrare alcuni aspetti per intessere poi una tragedia pasoliniana che possa raccontare il Great Game come […]

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L’Occidente non ha mai compreso l’area centrasiatica, perché l’ha assimilata nell’immaginario alla propria mentalità e alla propria filosofia, senza sforzarsi di collocare i sistemi delle comunità nella loro tradizione di riferimento. A decolonizzazione avvenuta si può forse tentare di inquadrare alcuni aspetti per intessere poi una tragedia pasoliniana che possa raccontare il Great Game come è avvenuto e perché si è arrivati a questo epilogo. E di lì imparare a trovare la corretta e rispettosa forma relazionale con il mondo compreso tra l’Hindu-Kush e il deserto iranico.

Syngué sabour: la pietra paziente, la pietra ascolta, finché non si frantuma.


La clanicità esibita dal processo di talebanizzazione

Rassicuranti non lo sono mai stati e le loro biffe senza sorriso non lo saranno mai. Ma ora sono cambiati: i Talebani hanno imparato soprattutto il modo di promuoversi sugli schermi occidentali e quanto sia importante la comunicazione in un mondo mediatico, dove persino l’impressione levantina dei capi e quella orrifica dei tagliagole, nei loro stracci e barboni vecchi di due millenni nell’iconografia stantia e un po’ razzista, diventano folklore; se fanno la parte a loro assegnata da Trump, risultando credibili a Doha, perché svolgono il ruolo di negoziatori (attribuitogli dal circo mediatico per assicurare il business degli accordi geopolitici), consentono al mondo di sfilare gli scarponi costosi dal terreno e consegnare al Pakistan, loro mentore, di controllare il territorio su mandato americano.

Un ruolo quello di negoziatori che la loro cultura riconosce ai capiclan maschi e che è quella ricercata dalla controparte fatta di maschi americani. Ciò che li ha accomunati è l’appartenenza al più vieto conservatorismo di entrambe le società.
Certo l’evoluzione degli squadristi diventa la requisizione delle auto degli anziani hazara nella provincia di Ghazni, come ci racconta un afgano delal diaspora di ciò che è avvenuto a suo padre al villaggio durante un rastrellamento (a cui il fratello si è sottratto scappando in montagna), quando 30 anni fa avrebbero perpetrato l’abigeato di tutti gli armenti; ma in fondo anche i fascisti nostrani usano con spregiudicatezza i social, pur rimanendo buzzurri celoduristi.

Colonizzatori si nasce

La solita eccezione culturale francese si chiede se sia possibile confrontarsi, e quindi conferirgli un riconoscimento, con le posizioni talebane senza venir meno ai propri principi. Una posizione palesemente ancora fondamentalmente colonialista perché connota il gruppo in senso razzista e prevede una superiorità di principi da esportare: in realtà quei principi dovrebbero riuscire a comprendere come ragiona la controparte per poter individuare i punti su cui avviare la trattativa (ed eventualmente insinuare un elemento che possa fare da base a un sincretismo che permetta un’evoluzione di entrambi), perché senza il confronto non c’è che la soluzione di forza, visto che non si è potuta creare una alternativa nazionale credibile riconosciuta dagli afgani ai quali si sono volute imporre figure – corrotte e inconsistenti – ritagliate sul modello occidentale, alieno a chi rimaneva povero e sfruttato dagli occidentali come dai Signori della Guerra – tutti ugualmente fondamentalisti (uzbeki di Dostum, tajik di Massoud, hazara di Mazari, pashtun di Hekmatyar). E questo è il risultato.

L’anima feroce

Vero che il movimento politicamente retrivo dei Talebani ha due facce: una pashtun, quindi interna alla nazione – anche se proveniente dall’unica cultura dei monti del Waziristan divisi dalla Durand Line tra Pakistan e Afghanistan – le cui tribù si possono scoprire nel capitolo (collocato nel 1960!) dedicato al Pakistan da Eric Salerno nel suo volume Orizzonti perduti, orizzonti ritrovati – e guida politica di questo tradizionalismo che ambisce a dare vita a un governo che imponga tutte le convinzioni tribali, legittimate da un sunnismo invariato anche perché utilizzato per fungere da collante contro le molte aggressioni coloniali a cui ha fatto fronte proprio grazie alla sua chiusura; l’altra, in parte uzbeka e in buona parte araba – saudita, qatariota e tutta la compagnia di giro del jihadismo – che costituisce il nerbo dell’ala militare, feroce e pervasa di volontà di vendetta fanatica, che impone il giro di vite sui diritti all’interno della nazione… e questo potrebbe risvegliare le coscienze della società civile che mal tollerava la presenza straniera e ora guarda con altrettanto dispetto ai jihadisti di varia provenienza – con aggiunta di orrore nelle notti riempite da musiche inneggianti alla guerra santa sparate a tutto volume nei pressi dei quartieri hazara, minacciosa e incombente presenza che prelude a rastrellamenti e abusi come nelle notti kabuline subito dopo la fuga statunitense. Un disimpegno che ha permesso già molti abusi e atti di violenza: l’uccisione in diretta Fb di un hazara cittadino australiano che riprendeva violenze, apostrofato dagli squadristi e ucciso sotto gli occhi di moglie e figli; l’umiliazione di dover seguire un percorso attraverso le fogne per arrivare all’aeroporto e venire sollevati di peso e rigettati dai marines sul gregge vociante, ma incapace di ribellione (perché non è nelle modalità previste da nessun clan); essere sottomessi al trattamento dei militari addestrati dallo US Army, che nell’aeroporto ti fanno abbassare la mascherina per riconoscere i connotati hazara e a quel punto avvicinano l’arma al tuo orecchio, esplodendo colpi che sfiorano tua moglie… questi sono episodi narrati con indignato terrore da un hazara che usava le ferie per ottenere documenti per il ricongiungimento e che il Console buono ha sedotto e abbandonato.

Clan e tribù: la coazione a ripetere

Per capire come funziona un accordo che si va a stringere con una realtà simile a quella talebana ci si deve ancora una volta immergere nell’idea clanica, opposta a quella di comunità di individui postilluminista: ciò che accomuna gli afgani – a qualunque appartenenza culturale facciano riferimento (pashtun, tajik, uzbek, hazara, turkmeni, kirghizi, nuri, aimak, wakhi…) – è la consapevolezza che tutto si regge sulla tradizionale competizione tra tribù fondata sulla coazione a ripetere invariata di ogni singola consuetudine della struttura, e quindi dei riti, delle cerimonie, dei matrimoni combinati, ma soprattutto dei ruoli; ciò che l’Occidente non è in grado di capire, perché ha scardinato quel sistema secoli fa e non ne ha più memoria, è che nessuno dei fondamenti custoditi dai potenti del clan può venir meno, a rischio di implosione di tutto. E quindi, come ribadiscono testimoni abbandonati dai ponti aerei, le donne non devono poter accedere alla istruzione per più di 7 anni (perché la cultura è l’antidoto contro ogni forma di repressione), le barbe non vanno tagliate (perché si è sempre fatto così), le donne non possono indossare pantaloni bianchi (mamnu, perché il loro culo contaminerebbe il colore della bandiera talebana)… sciocchezze per altre tradizioni, ma metodi già ripristinati con il corredo di taglio di mani ai ladri e lapidazione alle adultere, per rassicurare chi ha introiettato un ordine prescrittivo forte che non tralascia alcun dettaglio per perpetuare invariato un mondo, preservandolo da incrinature che potrebbero rovesciare i rapporti di controllo sulla società.

L’articolo di Giuliano Battiston è stato pubblicato da “il manifesto” il 29 agosto 2021 e si trova tra gli articoli di analisi prodotti da “Lettera 22

La ribellione non è contemplata

Ma non è un caso che non ci siano state resistenze all’avvento delle orde talebane: erano già collaterali a una società che tra occupanti portatori di affari e tradizionalisti aveva già deciso come regolarsi. Sarebbe bastata quella incrinatura a minare il “cimitero degli Imperi” ben più di un’oliata macchina da guerra tecnologica. In realtà la ribellione, anzi anche solo la protesta, non è contemplata. Per esempio le donne (poche significative decine inizialmente e poi sempre di più, ma ancora minoranza, nonostante il supporto di molti uomini estranei alla tradizione patriarcale) che il 2 settembre hanno inscenato manifestazioni in particolare a Herat sono il risultato dei vent’anni di apparente vacanza dal controllo della tradizione: il fatto che abbiano potuto farlo senza una reazione significativa iniziale da parte dei fondamentalisti dimostra come non le considerino realmente pericolose e che i vent’anni di affari e traffici senza immaginare di poter consentire la creazione di un sistema alternativo non hanno emancipato che pochi individui… e che i Talebani hanno imparato anche come in certe situazioni conviene fingersi tolleranti: finisce che fa gioco mostrare che non si reprimono manifestazioni pubbliche. E non ci si può scandalizzare per un po’ di lacrimogeni il giorno successivo a Kabul, perché altrimenti gli stessi giornalisti inorriditi dai manganelli a Kabul, dovrebbero farlo anche in Val di Susa; piuttosto è da valutare l’imbarazzo e la reazione legata alla sorpresa di scoprire un mondo femminile sconosciuto, e così diventano le situazioni quotidiane, che vengono represse dal patriarcato, a fare la differenza rispetto alla predisposizione a un confronto dialettico impossibile, non avendo una lingua comune. Sparare nervosamente in aria, perché non si può (ancora) sparare addosso a questi che sono alieni per l’universo di riferimento talebano, è la più esplicita esibizione di lontananza dal mondo cresciuto in questi vent’anni a Kabul e nelle grandi città, spazi fuori controllo rispetto ai giochetti rassicuranti dei vilayet dei monti. Lo stesso distacco, che non può tollerare la ricetta oscurantista, produce un mondo separato di repressi, brutalmente – e quindi per la legge islamica giustamente terrorizzati dai poco lucidi e ancor meno rassicuranti filopakistani. E quelle donne a loro volta vengono sottoposte a minacce da parte dei confusi (dall’impatto con la metropoli) Talebani e sgomente al punto di indossare il burqa –anche manifestando – pur se nessuno lo ha prescritto.

Herat, manifestazione di donne 3 settembre 2021

Dal fronte femminile si registrano alcune ribellioni, contestazioni – impossibile sognare che si svolgano provocatoriamente senza veli: sarebbe davvero suicidio –, o prese di posizione che possano infastidire, ma non è vero che non agiscano “autonomamente”: sono sempre più numerosi i casi di mogli selezionate dal clan che – dopo un tempo più o meno lungo di permanenza nei paesi in cui i giovani afgani protagonisti della migrazione di 15 anni fa le hanno ricongiunte – abbandonano il tetto coniugale per raggiungere i paesi del Nordeuropa attraverso una rete che organizza il trasferimento. Fin dal primo momento insistono per ricollocarsi in paesi in cui le possibilità sono migliori di quelle del Sudeuropa – evidente la missione assegnata dal clan anche a loro, un incarico che non prevede il coinvolgimento del coniuge, ridotto a semplice passeur legale che spesso non è nemmeno a conoscenza dell’intenzione iniziale della famiglia, benché la blanda opposizione lasci intendere che l’epilogo era messo in conto, conoscendo i calcoli clanici. Anche in questo caso in cui apparentemente sembra che le donne prendano in mano il loro futuro, sono ancora una volta strumenti della volontà della famiglia patriarcale.

Una storia, tante storie

Figurarsi quanto possono radicarsi e durare i diritti mai realmente compenetrati nella società afgana, perché non è una società di individui: persino quando scrivono i libri che raccontano la loro storia, commuovendo l’Occidente, ciascuno dei giovani afgani, stimolati a far conoscere la loro storia dagli amici europei ammaliati dall’esotismo e colpiti dalle vicissitudini, non riesce a fare una biografia ma la figura dell’io narrante comprende tante storie di tanti esuli: tutti insieme costituiscono la comunità afgana della diaspora e la sua narrazione che è unica e collettiva e quindi è anche eticamente corretto per loro attribuirsi episodi non vissuti in prima persona, ma comuni ai “conoscenti” afgani che hanno incrociato nel viaggio e nell’inserimento nella società europea e contemporaneamente i nuovi rituali degli expat e le telefonate quotidiane con il clan.

Scatto di Seyf Karimi, Kabul – Chindawol, 4 settembre 2021

Una realtà che non si fonda sull’individuo riconosce solo il ruolo collettivo in cui il singolo è un numero la cui attività è regolata dalla tradizione: infatti ora i Talebani si trovano di fronte a un incrocio: i giovani che in questi 20 anni sono stati contaminati dalla frequentazione di mentalità e comportamenti estranei alla tradizione, o i ragazzi della diaspora costretti all’emigrazione – che tutti, nessuno escluso, hanno mantenuto i contatti con il clan e ne sono stati in qualche modo condizionati e manipolati, soprattutto per legami matrimoniali o per mantenere il ruolo che era loro prescritto già alla partenza – ora trentenni con metà della vita trascorsa in Europa, pur sempre avvolti o protetti o comunque coinvolti dalla comunità expat, sono portatori di modi di pensare e vivere che sarebbero letali per il meccanismo clanico, quindi vanno trattenuti per il loro know how tecnologico utile all’emirato di “trogloditi in turbante” come vengono concepiti da quelli intrappolati a Kabul dalla loro repentina avanzata, oppure è meglio consentirgli di abbandonare il territorio per continuare a mandare rimesse senza contaminare la restaurazione? Forse che vengano riconosciuti come elementi ormai irrecuperabili all’islam e quindi nocivi può consentire il successo dei corridoi umanitari; dopo probabilmente i restanti verranno eliminati, pena mantenere attivi e inglobati nella realtà congelata locale potenziali tarli capaci di minare il processo di conservazione.
Poi gli affari si fanno con chiunque anche da confini nei quali la cultura estranea non può insinuarsi, ma pecunia non olet.

Emanuele Giordana è attento da tempo alle potenziali esportazioni di califfati fuori dalla Mesopotamia, fin dal volume collettaneo pubblicato da Rosenberg & Sellier nel 2017: A oriente del califfo.

L'articolo Syngué sabour: appunti per un’Orestiade afgana proviene da OGzero.

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Asean tra decimazione pandemica e decrescita tradizionalista https://ogzero.org/covid-golpe-birmano-e-repressione-thai-l-oriente-a-pezzi/ Wed, 01 Sep 2021 20:09:40 +0000 https://ogzero.org/?p=4769 Covid, golpe birmano, repressione thailandese: elementi di stravolgimento innescati per un cambio di rotta di difficile elaborazione per i criteri occidentali. Il Sudest asiatico va decifrato immergendosi in quel mondo altro e sfuggente ai parametri europei, però in grado di elaborare svolte che risultano incomprensibili per i farang, se non dopo che i processi si […]

L'articolo Asean tra decimazione pandemica e decrescita tradizionalista proviene da OGzero.

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Covid, golpe birmano, repressione thailandese: elementi di stravolgimento innescati per un cambio di rotta di difficile elaborazione per i criteri occidentali. Il Sudest asiatico va decifrato immergendosi in quel mondo altro e sfuggente ai parametri europei, però in grado di elaborare svolte che risultano incomprensibili per i farang, se non dopo che i processi si sono ormai proiettati in una direzione inattesa per quanto linearmente coerente a quell’universo di riferimenti, ma di difficile interpretazione al di fuori di quelli, producendo svolte che estromettono gli elementi alieni alla comunità, che si ritrae nei valori tradizionali, forse per trovarvi nuova linfa in prospettiva futura, benché al momento appaia semplicemente reclinata in uno spirito conservatore e retrivo.

Solo una frequentazione ventennale dell’area come quella di Max Morello può cogliere gli elementi di affanno in cui si sta dibattendo innanzitutto la cultura del Sudest asiatico. E questo produce in lui un moto di delusione per l’implosione della sua fascinazione verso l’approccio filosofico delle società asiatiche che aveva imparato a frequentare, l’illusione di potersi lentamente avvicinare a interpretare quel mondo attraverso la conoscenza della filosofia che lo permea; ora sono quasi irriconoscibili nel loro travaglio… e l’inaudito è che questo forse consente di tornare a riconsiderare l’approccio della cultura occidentale, vista l’assenza di spunti progressivi per uscire da una crisi non solo economica e sanitaria da parte di una filosofia che invece risultava affascinante perché appariva capace di proposte globali e non identitarie.


Il grotesque della danse macabre

«Questa mattina è morto il padre di Cho. Soffocato. Non si trova più l’ossigeno… I militari se lo prendono per loro e i loro protetti. Negli ospedali pubblici c’è l’esercito che decide chi ha diritto al respiratore…».

Così mi ha scritto un amico che per fuggire dal caos e dal virus dilagante in Birmania ha abbandonato la casa che si era costruito a Yangon e si è trasferito in un condominio a Bangkok con il figlio e la moglie Cho.

«Non voglio fare il cinico ma mi sembra inutile fare il conto dei morti in Birmania. Qui si moriva comunque per qualsiasi altra malattia. La differenza è che adesso si muore soffocati»,

mi dice un altro amico rimasto in quel paese. Lui ha cercato di evitare il contagio, le manifestazioni e i combattimenti continuando a spostarsi tra i villaggi più isolati.

La Birmania, Yangon in particolare, è divenuta la scena di una tremenda rappresentazione pulp, splatter, horror, da teatro dell’assurdo e della crudeltà. I paragoni con generi o forme di spettacolo, di patologie psichiche reali o diaboliche, di miti e superstizioni non sono un espediente letterario. Servono a rappresentare una realtà che diviene sempre più difficile da credere, immaginare e descrivere se non si ricorre alla dimensione fantastica, a un vero e proprio lessico dell’orrore che si ritrova nei titoli, negli articoli, nei post, nei tweet.

A fine agosto le vittime della repressione militare sono oltre 1000. Circa 15.000 i morti per Covid. Entrambe le cifre, probabilmente, errate per difetto e sicuramente destinate ad aumentare. Soprattutto la seconda. In alcune zone metà della popolazione potrebbe essere già infetta. A Yangon i morti superano i 2000 al giorno.

Catastrofe umanitaria multidimensionale

«Stiamo morendo tutti. Il Myanmar è sull’orlo della decimazione»,

mi dice un altro amico ancora stremato dal contagio. I cadaveri vengono bruciati anche negli inceneritori, sepolti in fosse comuni o addirittura in discariche. Il Covid si diffonde ulteriormente tra i volontari che li trasportano. Molti muoiono in casa, soffocati, aspettando l’ossigeno che non arriva. L’esercito si riserva il controllo dell’ossigeno le cui scorte vanno esaurendosi.

La perfetta rappresentazione, anche semantica, di questa situazione sta tutta nella dichiarazione di Michelle Bachelet, alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani. Riferendosi alla situazione in Myanmar ha definito una crisi che sta precipitando in una “catastrofe umanitaria multidimensionale”. Espressione che ingloba l’angoscia, l’orrore, la miseria, la violenza del covid e del golpe.

Solo il 40% del già ridotto sistema sanitario birmano è operativo, secondo le stime più ottimistiche solo il 6% di una popolazione di 54 milioni è vaccinato. Molti medici vengono arrestati per aver violato il coprifuoco per visitare qualcuno o portargli ossigeno. Altri medici e infermiere finiscono in prigione per essersi rifiutati di lavorare negli ospedali dei militari. Migliaia di persone si ammalano e muoiono di Covid in carcere. I dirigenti anziani della National League for Democracy sono letteralmente decimati. Si estingue così una generazione sopravvissuta a decenni di lotte e persecuzioni. Insomma, il Covid diviene il miglior mezzo di controllo e repressione: sta stremando l’opposizione, è perfetta scusa alle morti per tortura. Ma soprattutto il Covid riduce la popolazione in uno stato di attonita impotenza, esacerbando diseguaglianze già abissali, condannando i più poveri, il cui numero è destinato a raddoppiare, a soffrire senza possibilità di reazione. Intanto è più che triplicato il numero dei rifugiati interni, uomini donne e bambini che hanno abbandonato i loro villaggi per sfuggire ai conflitti tra esercito e milizie etniche che si sono riaccesi in tutta la Birmania.

È una tempesta perfetta…

in cui non sembra aprirsi alcuno spiraglio. Le milizie sono vittime del “dilemma del prigioniero”: pur sapendo che l’unica possibilità di reale opposizione sta in un’alleanza, non riescono a unirsi per reciproca diffidenza e per l’incapacità di valutare rischi e benefici. Il People’s Defence Force (Pdf), braccio armato del National Unity Government (Nug), a sua volta, sembra paralizzato dal mancato appoggio delle milizie e dalla difficoltà di convertirsi alla lotta armata da parte di un’opposizione che, sotto la guida di Aung San Suu Kyi aveva fatto della non-violenza la sua forza. In molti casi, quindi, i gruppi di resistenza sembrano mossi dalla disperazione, pronti a un sacrificio rituale. Com’è accaduto ai giovani che si sono gettati da una finestra per evitare la cattura e la tortura.

A poco a poco, tuttavia, sembra che alcuni gruppi stiano evolvendo verso forme più organizzate e sofisticate di guerriglia, come l’agguato in cui sono stati uccisi cinque poliziotti proprio come rappresaglia per il suicidio degli studenti.

Sul fronte opposto la giunta militare non sembra in grado di vincere una guerra civile che non aveva previsto. Le forze armate, Tatmadaw, sono decimate anch’esse dal Covid, forse perché ai militari è stato somministrato a loro insaputa il Covaxin, un vaccino indiano ancora non approvato. Secondo fonti dell’opposizione, inoltre, sarebbero già più di 2000 i disertori – soprattutto soldati semplici, sottufficiali e poliziotti – che si sono uniti al Civil Disobedience Movement (Cdm).

In questo scenario da incubo, il programma politico presentato dal generale Min Aung Hlaing, artefice del golpe e autoproclamato primo ministro, appare come un “manifesto di pazzia”, paragonabile a quello dell’Angkar, l’organizzazione dei khmer rossi di Pol Pot, secondo cui chiunque si opponga all’organizzazione stessa è un nemico da sterminare. Anche se ciò significa far strage del proprio popolo. In questo delirio il nemico diviene l’incarnazione del male: Aung San Suu Kyi e la sua Nld sono addirittura accusati di aver violato il dharma, la legge buddhista di cui i militari si ergono a protettori e difensori. Una missione sacra che, secondo i monaci più fanatici, è stata premiata dalla divinità che ha fatto guarire dal Covid l’ultraottantenne generale Than Shwe, dittatore della Birmania dal 1992 al 2011, autore di una sanguinosa repressione con migliaia di dissidenti torturati e imprigionati. Il fatto che Than Shwe e sua moglie abbiano potuto godere di cure precluse al resto della popolazione è anch’esso da considerare come il segno di un karma miracoloso. Al contrario la Signora sarebbe stata punita per la sua incapacità nell’affrontare la crisi sanitaria, nel trovare un accordo con i diversi gruppi etnici e nel mantenere il sostegno dell’Occidente in seguito alla crisi determinata dalle violenze sui rohingya.

Accusa, quest’ultima, che appare grottesca pensando alle responsabilità di buona parte dell’intelligenza occidentale che ha abbandonato Aung San Suu Kyi – e con lei i rohingya – al proprio destino, accusandola di crimini contro l’umanità e genocidio per non essersi opposta con sufficiente forza alla persecuzione compiuta dai militari. È stato proprio l’Occidente, dunque, accecato da una hybris, a creare le condizioni per il golpe.

… per un’epidemia golpista

La situazione in Myanmar sta generando un effetto contagio in tutta l’area. Oltre a ridefinirsi come stato paria, è condannato a essere anche untore. E non solo per le decine di migliaia di persone in fuga. È come se tutti gli orrori della ex Birmania si replicassero o venissero alla luce nelle altre nazioni dell’Asean: la scarsità di ossigeno e di vaccini, il mistero sul numero di morti o contagiati, i cadaveri bruciati nei crematori dei monasteri o sepolti in fosse comuni, la miseria che rende un tampone un lusso (nelle Filippine, per esempio, costa otto volte il minimo salario giornaliero), la rinascita di pratiche magiche in sostituzione di cure mediche inesistenti, l’acuirsi di tensioni etniche, religiose e razziali in cui ognuno cerca nell’altro un capro espiatorio.

Inizialmente sembrava che la resistenza al virus dei popoli del Sudest asiatico fosse l’ennesima prova di una cultura che aveva gli anticorpi per contrastarlo. Per alcuni ricercatori, come l’italiano Antonio Bertoletti dell’Università di Singapore, poteva essere così, ma solo perché si era creata una sorta d’immunità dovuta all’esposizione a virus come la Sars.

Poi, nell’aprile scorso, è arrivata la variante Delta. I contagi e i decessi sono aumentati in modo esponenziale con una crescita superiore a ogni altra parte del mondo. Il Sudest asiatico e i suoi 655 milioni di abitanti sono divenuti l’ultimo hotspot della pandemia, rivelando i malfunzionamenti strutturali della regione: l’autoritarismo o la democrazia limitata, la corruzione e la burocrazia che l’alimenta, le diseguaglianze, il potere delle élite e delle oligarchie, l’assenza di un adeguato sistema di assistenza sociale e sanitaria.

La società disfunzionale e la trasmissione sessuale del virus

La Thailandia è un esempio perfetto di questa società disfunzionale: è stata modello per il golpe birmano e quindi vittima della stessa contaminazione tra Covid e politica, sia pure in forma meno virulenta. Dall’inizio della pandemia sino ad aprile 2021, i casi di Covid erano stati circa 28.000, con 98 morti. Da aprile a fine agosto i contagiati sono circa 400.000, i morti oltre 11.000.

L’epicentro di questa nuova ondata sono stati quei locali, come il Krystal Exclusive Club o l’Emerald, frequentati dai cosiddetti Vvip. Non semplicemente vip, bensì very very important person, che in quei locali incontrano ragazze che non sono semplici escort bensì aspiranti mia noi, moglie minore, amanti ufficiali, cui pagare l’affitto in un residence di lusso (o intestare un appartamento) e assicurare un tenore di vita adeguato allo status del Vvip.

La trasmissione del virus per via sessuale (in senso del tutto traslato), del resto, sembra comune ai paesi del Sudest asiatico. È accaduto anche in Cambogia dove i primi casi della nuova ondata si sono verificati tra i Vvip frequentatori del N8, esclusivo locale di Phnom Penh. A infettarli sarebbero state due delle quattro ragazze arrivate pochi giorni prima da Dubai a bordo di un jet privato.

In pochi giorni il Covid si è diffuso in modo tanto rapido e violento quanto inaspettato. In Thailandia il contagio e la morte, sempre più rapidamente, si sono spostati dai quartieri delle élite come Thonglor e Suan Luang, alle prigioni, ai dormitori dei lavoratori edili, agli slum come Khlong Toey, dove è impossibile qualunque distanziamento sociale, le condizioni igieniche sono precarie, l’assistenza medica limitata. E dove la malattia è vissuta come un ulteriore stigma sociale, il segno di un karma malefico.

Interessi regali in campagne vaccinali thailandesi

La crisi è aggravata dai ritardi nella campagna vaccinale. Il governo thailandese, infatti, l’aveva pianificata con l’uso quasi esclusivo del vaccino AstraZeneca, prodotto dalla compagnia nazionale Siam BioScience, su cui, a quanto sembra, facevano conto anche altri paesi del Sudest asiatico. A fine agosto, solo l’11% della popolazione era completamente vaccinato. Secondo alcuni siti dell’opposizione molte dosi sono state vendute all’estero. Ma sarà impossibile determinare responsabilità o cause: la società farmaceutica, infatti, fa parte del patrimonio della corona, controllato direttamente da re Vajiralongkorn. E qualsiasi critica o semplice dubbio rientra ineluttabilmente sotto la legge di lesa maestà.

Altro responsabile dei ritardi vaccinali è l’ineffabile ministro della Sanità Anutin Charnvirakul, già noto per aver dichiarato che i farang, gli occidentali, erano potenziali untori in quanto “sporchi”. Secondo molte indiscrezioni Anutin avrebbe dichiarato che il vaccino Pfizer non aveva dimostrato la sua efficacia sulle popolazioni asiatiche. Quindi avrebbe dato più fiducia al cinese Sinovac (che secondo le stesse indiscrezioni è in parte controllato da una delle più ricche famiglie thai).

Nonostante gli sforzi compiuti negli ultimi mesi abbiano contenuto il dilagare della crisi sanitaria, il virus ha innescato la peggior crisi economica che abbia colpito la Thailandia negli ultimi vent’anni e 21 milioni di persone rischiano di non avere più mezzi di sostentamento. La Thailandia, che secondo un rapporto del 2018 era al primo posto nella graduatoria delle diseguaglianze sociali, rischia di incrementare in modo esponenziale il suo primato.

Ritorno al futuro della decrescita nella felice vita tradizionale 

La pretestuosità dei valori khwampenthai, la rivolta in salsa prik…

In una situazione del genere appare allucinante una delle soluzioni proposte dall’establishment, ispirata ai valori della khwampenthai, la thailandesità, più che a teorie macroeconomiche: un programma di decrescita felice secondo cui il popolo thai dovrebbe tornare a uno stile di vita tradizionale, che sembra finalizzato soprattutto a un maggior controllo. Sempre più detenuto dalle cinquanta famiglie più potenti del regno, il cui patrimonio combinato ha raggiunto la cifra record di 160 miliardi di dollari. A ogni buon conto, per evitare possibili conseguenze personali per qualsiasi eventuale errore, il ministro Anutin si è fatto latore di una legge che scarichi di qualsiasi responsabilità nella gestione del covid operatori sanitari e funzionari di ogni livello.

In questo clima era inevitabile che riprendessero le manifestazioni di piazza. Ma se prima si trattava soprattutto di una protesta d’élite che metteva in discussione la cultura gerarchica della tradizione thai, compreso il totem e tabù della monarchia, e si svolgevano secondo forme e modi da “indiani metropolitani” in salsa prik, piccante, oggi sono rivolte antigovernative, rabbiose, spesso violente, innescate dalla paura del virus e dal risentimento verso un sistema corrotto che non è riuscito a contenerlo. Altrettanto violenta la reazione della polizia che sempre più spesso fa uso della forza e sembra voler contendere all’esercito il ruolo di gendarme del governo, riappropriandosi del controllo delle strade (con tutti i benefici che ne conseguono).

… e i bachi nei principi della sapienza tradizionale

«La Thailandia sta precipitando in un nuovo caos», ha dichiarato un attivista di Human Rights Watch.

«C’è un certo conforto nella decadenza. È come confrontarsi con la prima nobile verità del Buddha, il dukka, l’inevitabile sofferenza che segna l’esistenza»,

mi aveva detto lo scrittore thailandese Tew Bunnag. Figlio lui stesso dell’ammart, l’élite, che ha ripudiato la sua classe sociale per dedicarsi alla meditazione e all’assistenza ai malati terminali, Bunnag commentava così il suo libro Il viaggio del Naga in cui il serpente gigante della mitologia hindu-buddista simboleggiava la natura che governa i destini umani.

«Vivi nella sensazione di questo sottile equilibrio tra il dukka e il tentativo di cogliere ogni attimo di piacere che ti offre la vita».

Il naga, oggi, sembra incarnarsi nel Coronavirus, ma sembra che la massa della popolazione thai abbia perduto la disperata capacità di cogliere il sanuk, quel piacere che allevia la sofferenza.

La pandemia di Covid-19, insomma, sta facendo crollare quella House of Cards, il castello di carte, che si reggeva sul principio del pii-nong, maggiore-minore, che riguarda l’età, il ruolo familiare, lo status professionale, economico, sociale, culturale, l’esperienza. Un complesso rapporto che era uno degli elementi della khwampenthai, divenuta espressione di un crescente orgoglio nazionale. Per la maggior parte dei locali, che fossero phrai o ammart, membri del popolo o delle élite, uniti in questo come nella passione per il som tam, l’insalata di papaya verde, la salvezza era insita nella loro capacità di rispettare le regole, nei loro rituali, come il wai, il modo di salutarsi giungendo le mani di fronte al volto, che evita ogni contatto.

Gli asiatici, infatti, giustificano ineguaglianze, colpi di stato, restrizioni e violazioni dei diritti umani affermando che per loro non si possono applicare i valori dell’Occidente. Al tempo stesso quegli stessi valori vengono contestati in funzione di una pretesa superiorità morale che deriverebbe dal mantenere immutati i propri valori. È qualcosa che va contro uno dei cardini della logica aristotelica: il principio di non-contraddizione. Ma, ancora una volta, parliamo di una logica occidentale, lineare, ben diversa da quella orientale. Qui vige un principio circolare in cui tutto è o può essere il contrario di tutto.

Il fallimento del minilateralismo

Quello che alcuni osservatori locali hanno definito “minilateralismo” dell’Asean a indicare un modello virtuoso di sviluppo in cui si confrontano gruppi di paesi, si sta rivelando come l’ulteriore limite di un’organizzazione sovrannazionale priva di visione strategica, di quella “centralità” che definisce la capacità di affrontare le sfide esterne al gruppo di nazioni. E come l’Asean si è rivelata del tutto incapace di gestire la crisi politica in Myanmar, ancor meno sembra capace di prendere posizione tra i grandi giocatori che si confrontano nello scacchiere dell’Asia orientale, in particolare nel Mar della Cina meridionale. Quella dell’Asean appare una vera e propria manifestazione di ignavia: i problemi non vengono risolti non tanto per divisioni interne, quanto perché non sono posti o sono rimossi. Ancora una volta si manifesta quel principio che in Thailandia è sintetizzato nell’espressione “mai pen rai”: non pensarci, non preoccuparti. Potrebbe accadere così anche per la ripresa dell’estremismo islamico nell’area – che non ha rinunciato al progetto di un califfato in Sudest asiatico.

Ripiegamento dall’arrembaggio asiatico…

In effetti sta accadendo il contrario di ciò che molti preconizzavano: il “Tramonto dell’Occidente” cui doveva succedere l’alba del “Nuovo secolo asiatico” sembra essersi arrestato al crepuscolo, cui sta seguendo un’improvvisa aurora che illumina l’ovest. Il “Post-Western World” sembra trascorso o comunque si è ristretto entro i confini dell’Impero di Mezzo. Sembra invertito un ordine che aveva assunto le caratteristiche di un processo naturale, quasi genetico, come se l’evoluzione della Repubblica Popolare Cinese si diffondesse in tutta l’Asia per partenogenesi. Un processo di cui facevano vanto soprattutto le nuove tigri asiatiche, le nazioni dell’Asean, del Sudest asiatico. Oggi invece la Cina diventa sempre più inaccessibile: le autorità della provincia dello Yunnan che segna il confine con il Sudest asiatico stanno progettando un muro che li protegga da ondate di profughi.

… e il ripiegamento dall’esotico

Agli occhi di un farang, quell’altrove dove anche le zone d’ombra facevano parte di uno scenario esotico in cui si compiaceva di vivere senza subirne le conseguenze, diviene un teatro della crudeltà dove non può più sottrarsi alla realtà, dove anche lui può divenire una vittima. La prima, più forte reazione a questa presa di coscienza è un desiderio di fuga, di ritorno in patria, con la pretesa di essere accolti come un figliol prodigo. È il preludio alla riconversione, al mea culpa, alla dichiarazione d’appartenenza a un mondo che, pur con tutti i suoi limiti, garantisce i fondamentali diritti umani, si basa su quei valori universali che si era stati tentati di rinnegare per la fatale attrazione degli “Asian Values” che apparivano più efficienti e adatti ad affrontare le sfide del nuovo millennio.

Ancora una volta la dicotomia è il velo alla semplificazione perché l’Asia stessa, i suoi valori cambiano profondamente in funzione geografica, culturale, religiosa, storica: Asia del Sud, centrale, orientale, Sudest asiatico, confucianesimo, buddismo (con le profonde differenze tra il Mahayana e il Theravada), islam, eredità coloniali, ideologia comunista o postmarxista, autocrazia e democrazia entrambe in più varianti del Covid.

Fallimento del policentrismo multipolare

«L’Asia è policentrica, multipolare… In Asia non c’è uniformità in termini di geopolitica e cultura e ognuna di quelle nazioni è un mondo a sé stante».

Lo ha scritto Francis Fukuyama in epoca prepandemica, quando il policentrismo appariva un antidoto alla globalizzazione, una nuova forma evolutiva. Oggi, però, si sta rivelando disfunzionale: la gestione della pandemia si è rivelata tra le peggiori al mondo (almeno secondo il Nikkei Covid-19 Recovery Index), circa 90 milioni di persone sono regredite alla condizione di povertà, la middle class è stata uccisa in culla, l’illiberalismo, l’autocrazia, l’etnonazionalismo e l’integralismo religioso si diffondono col virus. Le nazioni del Sudest asiatico si dimostrano non le nuove tigri bensì anatre zoppe che si dibattono in una palude distopica.

Resistenza confuciana?

In questo scenario apocalittico sembrano “salvarsi” solo Vietnam e Singapore, entrambi accomunati dalla comune radice confuciana. In Vietnam, che pure sta subendo una nuova e grave ondata del Covid, il controllo esercitato dal Partito, una classe dirigente più preparata e una lunghissima esperienza delle emergenze hanno contenuto il contagio e la crisi economica. Singapore, sempre più lanciata nella sua corsa verso la realizzazione di un’utopica Elysium, sta procedendo dalla pandemia all’endemia, ossia alla coesistenza col virus tenuto sotto controllo dai vaccini, dalle nuove terapie e da forme di rilevazione rapida del virus come l’analizzatore del respiro. Sono soprattutto questi modelli che hanno creato in molti occidentali l’illusione che tutto il Sudest asiatico potesse rappresentare un’alternativa politica ed esistenziale. Un equivoco, dunque, all’interno di un inganno.

Resilienza occidentalista?

In questa prospettiva culturale bisognerebbe ripensare a tutte le criticità europee rivalutando un sistema che si sta rivelando davvero resiliente. Tanto per usare in modo adeguato un termine abusato. Nel confronto con le nazioni dell’Asean si può comprendere e apprezzare il vero senso della libertà di cui godiamo. Proprio nei beni immateriali – quali la governance, l’innovazione, lo stato di diritto, il welfare, la cultura della libertà di pensiero e d’espressione – l’Europa può riaffermare il suo ruolo, definire un modello culturale. A condizione che ne abbia coscienza e capacità di affermarlo.

«Senza memoria, non vi è identità. E senza identità, siamo solo polvere sulla superficie dell’infinito», ha detto Jonathan Sacks, leader ecumenico, filosofo. Che avvertiva: «Le civiltà cominciano a morire quando perdono la passione morale che li ha portati a esistere».

  


Il pezzo che abbiamo proposto qui è un aggiornamento e un approfondimento operati dall’autore dopo la pubblicazione di un articolo che Massimo Morello stesso aveva scritto per “Il Foglio” uscito il 29 luglio 2021. Come già nella raffinata operazione iconografica operata da Roland Barthes – le due fotografie che corredavano L’Impero dei segni e riproducevano il ritratto di un medesimo giapponese con lievi, ma sostanziali differenze tra il volto nel primo frontespizio della prima illustrazione e la sua versione modificata al fondo del libro – qui si possono confrontare le due versioni e si noterà un’accresciuta amarezza orrifica proveniente sia dalle testimonianze aggiunte, sia dai nuovi dati sulla pandemia e il montaggio diverso nei due pezzi di argomenti simili e dati aggiornati restituisce moltiplicata la delusione dell’orientalista, il travaglio di una società che sembra fornire solo formule contraddittorie e regressive…

L’Oriente a pezzi

 

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E il fiume mormorava in tigrino e amarico https://ogzero.org/tigray-2021-e-il-fiume-mormorava-in-tigrino-e-amarico/ Sun, 29 Aug 2021 07:47:14 +0000 https://ogzero.org/?p=4672 1985, la siccità strema il Corno d’Africa, il fotografo dipinge con quello che ha, i fasci di luce inquadrano un sottobosco di umanità disperata in fuga da fame e guerra. La regione era il Tigray, il fotografo Sebastião Salgado. Allora il celeberrimo scatto del fotografo brasiliano squarciò il velo che nascondeva il quadro dove all’aridità […]

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1985, la siccità strema il Corno d’Africa, il fotografo dipinge con quello che ha, i fasci di luce inquadrano un sottobosco di umanità disperata in fuga da fame e guerra. La regione era il Tigray, il fotografo Sebastião Salgado. Allora il celeberrimo scatto del fotografo brasiliano squarciò il velo che nascondeva il quadro dove all’aridità dei campi tigrini si sommava la guerra portata dagli eritrei filoamericani contro il regime filosovietico di Menghistu, impedendo il transito di aiuti. Si contò un milione di morti alla fine della carestia.

Sebastião Salgado, Kalema Camp – West Tigray, 1985 – mostra di Nice, agosto 2021. Un servizio della Bbc lo definì “la cosa più vicina all’inferno sulla terra”

2021, di nuovo guerra. Anzi, non è mai finita. Di nuovo truppe eritree protagoniste di atrocità in Tigray; ancora deportazioni e campi di concentramento per profughi eritrei fuggiti dal regime di Isaias Afewerki e per tigrini nel mirino della pulizia etnica oromo e ahmara, che vuole vendicare 30 anni di potere tigrino in Etiopia. La differenza sta nell’alleanza inaudita tra Addis Abeba e Asmara, che ha prodotto il consueto corollario di massacri, saccheggi, stupri, torture, esecuzioni e sparatorie; e nell’alleanza stipulata tra Fronti di liberazione tigrino e oromo, che promettono di allargare il conflitto, facendolo diventare Guerra civile di tutta la nazione.

E corpi portati dal Tekezé a valle, in Sudan, dove si chiama Setit.

Tigray 2021

Sponde del Tekezé a Wad el-Hiliou – Kassala, 4 agosto 2021

In questo agosto distratto da conflitti in altre aree strategiche truppe eritree attraversano nuovamente il fiume Tekezé che fa da confine e che ha visto migliaia di morti e 2 milioni di sfollati dall’inizio dell’operazione militare scatenata a novembre da Abiy Ahmed, il presidente etiope. A giugno il Fronte di liberazione del popolo tigrino (Tplf) aveva riconquistato l’intera regione, entrando a Mekallé e costringendo gli etiopi al cessate il fuoco.

Claudio Canal si sofferma brevemente ma efficacemente sugli aspetti che coinvolgono l’umanità oppressa dalla guerra e in particolare le violenze di genere correlate.


Il fiume scorre serafico come sempre.  Il Tekezé è un fiume geopolitico, segna il confine tra l’Etiopia e l’Eritrea e tra Etiopia e Sudan dove cambia nome e diventa Setit. Separa anche l’area delle lingue amarica e tigrina.  Come tutti i torrenti e i fiumi del pianeta trasporta ciò che cade in acqua o vi è gettato. In questi giorni scorrono corpi umani martoriati che dal Tigray [più noto come Tigré nella versione italiana], vasta regione settentrionale dell’Etiopia, galleggiano senza una meta verso il Sudan.

Una guerra la si può vincere o perdere, ma, essendo una macchina di produzione, lascia dietro di sé deiezioni in forma di corpi esanimi. Qualche volta raccolti e sepolti, altre volte lasciati lì a tornare polvere. Salvo che un fiume o un mare li accolga e li smuova secondo le proprie leggi. Fino a questo momento una cinquantina o più. Il fiume racconta che nel suo medio-alto corso è in atto una tragica inimicizia tra esseri umani.

Tigray 2021

Una geopolitica bizzarra ci dice che ex nemici accaniti, che si scontravano da decenni non badando ai morti, Etiopia ed Eritrea, adesso si sono scoperti alleati. Una, con un primo ministro, Abiy Ahmed Ali, laureato Nobel per la pace 2019 e dottorando in guerra; l’altra, con un presidente che si può classicamente definire tiranno. Un ossimoro istituzionale che la realtà però sopporta bene. Un pizzico di accortezza in più ai giurati del Nobel ne consoliderebbe la fama. Ci dice anche, questa geopolitica stravagante, che l’Etiopia è entrata in guerra con se stessa tramite una meno eccentrica e più consolidata forma di guerra civile, iniziata nel novembre scorso. L’obiettivo era ridurre a più miti consigli la leadership del Tigray, che nei decenni passati aveva governato l’Etiopia. Uno scontro di poteri abbastanza tradizionale in cui si è inserita bellicosamente l’Eritrea, in attesa che altri attori dell’area dicano la loro con i propri eserciti. Accendere i motori di una guerra è facilissimo. Difficilissimo anche solo metterla in folle.

Non riassumo i nove mesi di guerra ora in accelerata ripresa. Una aggiornata cronaca si può trovare nella sempre documentata “Nigrizia  e telegraficamente tramite la sintesi della penna di Dave Lawler.

“Tigray nascosto: silenzioso annientamento di una comunità”.

 

Due temi vorrei sottolineare:

  1. se ti arriva la guerra sotto casa o direttamente dentro cosa fai? Cerchi di scappare. È quello che sta massivamente succedendo. Non bastasse, c’era chi già era fuggito dalla confinante Eritrea e stazionava in campi profughi abbastanza improvvisati. Fuggiva dalla, chiamiamola così, antidemocrazia dell’Eritrea, dai suoi soprusi e dalla povertà, e nella tappa in Tigray ritrovava anche una lingua comune, il tigrino [lingua del ceppo semitico come l’amarico, lingua ufficiale dell’Etiopia, preceduta in quanto a numero di parlanti dall’oromonico della nazionalità oromo]. La partecipazione diretta dell’Eritrea alla guerra a fianco dell’Etiopia ha significato per i rifugiati eritrei dover fare i conti, di nuovo, con l’esercito eritreo che non è noto per il rispetto di alcunché. Non è difficile immaginare il disastro della guerra sui loro volti. I superstiti stanno forse sognando un barcone che attraversi il Mediterraneo e li porti in salvo chissà dove.

È il cinismo della geopolitica, che descrive, ma non può render conto dei moti sotterranei delle vite singole e collettive.

        2. «Non so se si sono accorti che ero una persona»

È la dichiarazione di una donna stuprata dai soldati nel Tigray. È anche il titolo del rapporto di Amnesty International e il contenuto di numerose altre inchieste curate dalla Reuters e del Georgetown Institute for Women, Peace and Security e del Kujenga Amani e nuovamente “Nigrizia” e…

Siamo in tempi di turismo, d’arte e d’altro. Passeggiando per Firenze in piazza san Lorenzo è possibile ammirare il monumento che Baccio Bandinelli scolpì nel 1540 per celebrare il condottiero Giovanni della Bande Nere che oggi verrebbe definito contractor e in tempi meno eleganti mercenario.

Le guide descrivono il bassorilievo del basamento come scene di guerra.  Effettivamente. Si vede la cattura di una donna, preludio al suo uso sessuale, come da sempre le regole belliche hanno decretato e che il Novecento ha visto intensificarsi e proliferare fino a oggi. Una terribile ed efficace forma di deterrenza e di intimidazione che si rivolge alle altre donne e ai loro uomini.

Le donne del Tigray gridano che questa storia non è per niente finita, ma dicono anche che da certe orecchie non ci sentiamo. La loro solitudine continua.

Postilla: Eritrea ed Etiopia sono state due colonie italiane. Una, la primigenia, l’altra, l’ultima a essere aggredita dalle truppe del Regio Esercito. Silenzio desertico dalle nostre parti, orfane anche della memoria storica di Angelo Del Boca.


Il Sudan ha convocato l’ambasciatore etiope a Khartoum per informarlo che i 29 cadaveri trovati sulle rive del fiume Setit, al confine con l’Etiopia, tra il 26 luglio e l’8 agosto, erano cittadini di etnia Tigray; i cadaveri sono stati identificati da cittadini etiopi residenti nella zona di Wad al Hulaywah, nel Sudan orientale. Il 5 settembre un reportage della Cnn ha riacceso i riflettori sul Tekezé e sui corpi mutilati che sussurrano nel suo alveo.

Questo scontro diplomatico avviene dopo il ritrovamento e il sequestro, da parte delle autorità sudanesi, di 72 scatole, contenenti armi e binocoli per la visione notturna, arrivate via aereo dall’Etiopia il 4 settembre. Nella serata del 6 settembre, il Ministero degli Interni sudanese ha affermato che la spedizione, che includeva 290 fucili, apparteneva ad un commerciante autorizzato, Wael Shams Eldin, ed era stata controllata e ritenuta in regola. Anche la compagnia aerea etiope ha confermato che le armi erano pistole da caccia che facevano parte di una spedizione verificata. Le armi erano giunte dalla Russia all’Etiopia nel maggio 2019. Le autorità etiopi le avevano tenute ad Addis Abeba negli ultimi due anni, ma, senza preavviso, il 4 settembre, avevano autorizzato il loro trasporto a Khartoum su un aereo civile. I primi sospetti delle autorità sudanesi si erano indirizzati contro i lealisti del governo dell’ex presidente Omar al-Bashir, accusati dai funzionari del Consiglio di transizione di voler minare la svolta democratica del Paese. Le tensioni tra il Sudan e l’Etiopia sono aumentate da quando il conflitto nella regione settentrionale etiope del Tigray si è intensificato e la disputa sulla costruzione della diga Grand Ethiopian Renaissance Dam (Gerd) non si è ancora risolta.

La guerra si estende e comprende nuovi motivi di astio…

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Afghanistan: il quadro interno e le forze in campo https://ogzero.org/afghanistan-il-quadro-interno/ Thu, 22 Jul 2021 10:14:39 +0000 https://ogzero.org/?p=4356 L’arduo compito di valutare la situazione attuale tra le varie fazioni in Afghanistan non poteva che venire conferito a Emanuele Giordana, tra i più competenti analisti di quell’area. Ne risulta una lucida fotografia che fa ruotare sul palcoscenico tutti i protagonisti che possono esprimere una pressione dall’interno sugli eventi che si produrranno nel momento in […]

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L’arduo compito di valutare la situazione attuale tra le varie fazioni in Afghanistan non poteva che venire conferito a Emanuele Giordana, tra i più competenti analisti di quell’area. Ne risulta una lucida fotografia che fa ruotare sul palcoscenico tutti i protagonisti che possono esprimere una pressione dall’interno sugli eventi che si produrranno nel momento in cui ai Talebani verrà sottratto l’unico argomento forte che hanno – la presenza militare straniera nel territorio afgano. L’affresco raccoglie le biffe di personaggi poco raccomandabili, le cui armi consentono loro di spadroneggiare ormai dall’inizio della guerra, 40 anni fa; ma questo non toglie che attraverso i loro alleati, o citando mire economiche, si sviluppino prassi securitarie e predatorie strategie.

Questo contributo più interno all’anima del paese si affianca ad altri due interventi contemporanei ospitati sul sito, uno di Sabrina Moles, mosso dalla curiosità di capire gli interessi cinesi sui corridoi commerciali, e l’altro di Yurii Colombo, volto a ritessere la tela russa a 30 anni dal ripiegamento sovietico, completando la panoramica sulla situazione geopolitica afgana in seguito al ritiro delle truppe americane dal paese che abbiamo intrapreso cominciando da una tavola rotonda che li ha visti partecipi e trasmessa in diretta nella serata del 13 luglio da Radio Blackout, un’analisi che poi abbiamo cercato di approfondire nello studium “La solita musica afgana?”, chiedendoci se sarà un altro Afghanistan quello imbandito in questi due mesi di approcci internazionali.


Minacciosi fuochi sacrificali sulla festa

Martedì 20 luglio, mentre nel palazzo presidenziale di Arg si pregava per la festa del sacrificio Eid al-Adha, una salva di razzi ha colpito i distretti uno e due della capitale. Benché il presidente Ghani abbia continuato a pregare, gli scoppi degli ordigni si udivano forti ad Arg e davano il segnale preciso che, negoziati o meno, la guerra va avanti su più fronti. I Talebani hanno negato ogni responsabilità (e in seguito l’Isis ha rivendicato il lancio di sei Katyusha) ma Ghani li ha comunque tirati in ballo, accusandoli di non volere la pace. A due giorni dall’ultima tornata negoziale a Doha, in Qatar, tra governo di Kabul e guerriglia – conclusasi con un nulla di fatto – la guerra delle parole si somma alla guerra guerreggiata, la propaganda alle armi. Anche se era abbastanza evidente sin dal mattino che i razzi non fossero di marca talebana, colpire a pochi metri dal simbolo del potere che fino a ieri era difeso anche dai soldati che per oltre vent’anni hanno occupato l’Afghanistan, non è un bel segnale.

Rivela, se ancora ve ne fosse bisogno, che gli attori della guerra sono assai più numerosi che non i due contendenti – Talebani e Governo – che si fronteggiano a Doha o nei 421 distretti che compongono la galassia territoriale del paese.

Sindrome di Saigon

Di questi 421 distretti, la metà (229 secondo gli analisti dell’Afghanistan Anlysts Network) sono in mano ai Talebani. Si tratta di centri spesso minori o periferici ma alcuni di essi sono attorno ai capoluoghi provinciali dove l’esercito afgano ha schierato le sue difese lasciando in molti casi al nemico i centri più complicati da difendere. La lezione militare è comunque importante e al contempo politica: anche se difficilmente i Talebani potrebbero prendere le grandi città (e gli stessi hanno escluso di volerlo fare) l’effetto valanga delle conquiste (come rivela la mappa) ha un ovvio impatto psicologico ancor prima che bellico.

Distretti afgani contesi tra Talebani e governo di Kabul - luglio 2021

Distretti afgani contesi tra Talebani e governo di Kabul – luglio 2021

Aiuta a diffondere la “sindrome di Saigon” – la paura che cada la capitale – che certo non aiuta l’esecutivo di Kabul. E aver preso gran parte dei posti di frontiera, oltreché un colpo di teatro, priva il Governo dei cespiti derivati del commercio che vengono intascati dalla guerriglia. La lettura più ovvia è che la guerriglia voglia far pesare la pressione psicologico-militare sul negoziato per ottenere di più. E cedere finalmente su un cessate il fuoco che resta una chimera anche se la giornata di martedì, primo giorno della festa di Eid, ha segnalato una tregua di fatto tra Talebani e Governo. Vediamo dunque le forze in campo nella situazione attuale.

Andarsene ma restare: la scelta di Washington

L’abbandono della base di Bagram in gran fretta, ha dato l’idea che gli americani non solo siano determinati ad andarsene ma che vogliano farlo – e lo stanno facendo – nel minor tempo possibile. È proprio così?

Afghanistan: il quadro interno

L’amministrazione Trump aveva previsto una riduzione iniziale della presenza militare Usa da 13.000 a 8600 uomini entro luglio 2020, seguita da un ritiro completo entro il 1° maggio 2021. L’Amministrazione Biden ha poi annunciato in aprile che avrebbe continuato il ritiro, ma oltre maggio e con una data finale che coincide con l’11 settembre. Decisione poi ancora anticipata e che, secondo gli osservatori, avrebbe solo rafforzato la decisione dei Talebani di diventare più aggressivi onde arrivare a un negoziato da posizioni di forza. Intanto è diventata esecutiva anche la decisione dei paesi aderenti alla coalizione Nato che, sempre in aprile, hanno deciso di iniziare il ritiro delle forze della missione Resolute Support il 1° maggio 2021, per completarlo entro la prima metà di luglio (nel febbraio 2021, il personale Nato ammontava a 9592 uomini – di cui 2500 americani – da 36 Paesi. La mappa si può vedere qui). La Nato comunque si impegnerebbe a proseguire l’addestramento in Europa di soldati afgani e i governi della coalizione dovrebbero continuare a sostenere finanziariamente le forze armate afgane. All’inizio della settimana, il 19 luglio, 15 paesi e il rappresentante Nato a Kabul hanno lanciato un appello ai Talebani perché fermino la loro avanzata. Una mossa forse dovuta ma che lascia il tempo che trova.

Modalità di permanenza militare statunitense

Oltre al sostegno finanziario, gli americani però non intendono esattamente uscire del tutto dalla scena afgana. Dovrebbero dunque rimanere attenti su due fronti: quello dei servizi (la Cia sta preparando nei paesi confinanti basi da cui operare anche se non è impresa facile) e quello di un aumento dell’impegno della marina statunitense nel Golfo, da cui monitorare quanto avviene in Afghanistan. Sia per eventuali attività terroristiche non per forza talebane (Isis, qaedisti) ma anche nel caso in cui le cose dovessero precipitare e i Talebani dovessero tentare di far cadere Kabul. Si tratterebbe di utilizzare soprattutto l’aviazione: droni, aerei spia e caccia da impiegare nel teatro afgano in modalità che non sono ancora chiare ma con opzioni interventiste non escluse dal segretario alla Difesa Lloyd J. Austin, secondo il quale le operazioni di sorveglianza aerea sono già iniziate assai prima del ritiro completo e ancora in luglio sono tornate a essere veri e propri bombardamenti aerei partiti da basi esterne al territorio afgano in supporto dell’azione delle forze d’elite di Kabul impegnate nel tentativo di riconquistare territori occupati dai Talebani; le azioni sarebbero concentrate nei distretti di Kunduz e Kandahar e gli ufficiali preposti lamentano sotto anonimato una minore efficacia, dovuta alla diminuita capacità di concentrazione sul bersaglio della missione da parte dell’intelligence dislocata a terra.

I protagonisti autoctoni

La forza dei Talebani

Alle aperture che Hibatullah Akhundzada, il leader dei Talebani, ha fatto il 18 luglio in una nota apparsa sul sito ufficiale dell’Emirato islamico d’Afghanistan sostenendo che la guerriglia vuole la pace e il dialogo, si alterna la durezza nella tattica politica negoziale rafforzata dalla pressione sul terreno in una ventina delle 34 province afgane. Il passato sembra però raccontare di una spallata difficile se i Talebani volessero tentare una scalata militare che arrivi sin nella capitale. Non ci riuscirono i mujahedin quando i sovietici abbandonarono il paese nel 1989, anche se contavano molti più uomini di quanti non ne abbia oggi la guerriglia in turbante. I mujahedin infatti dovettero aspettare il taglio dei fondi che Mosca smise di versare a Kabul. Fu solo a quel punto, nel 1992 – ben tre anni dopo! – che, senza più stipendio, l’esercito che faceva capo al governo amico di Mosca del dottor Najibullah si dissolse aprendo la strada alla conquista della capitale. Difficile comunque valutare attualmente la forza effettiva dei guerriglieri: secondo l’ultima stima disponibile delle Nazioni Unite, i Talebani potrebbero contare su una forza militare che va da 55.000 a 85.000 uomini. Un “esercito” che arriverebbe a 100.000 unità contando anche i non combattenti, gli informatori e i fiancheggiatori. Si tratterebbe di circa la metà dei soldati dell’esercito nazionale afgano (Ansf) che a sua volta può contare su 150.000 poliziotti e personale di intelligence. Se è davvero questo il rapporto di forza, prendere le città è un’impresa pressoché impossibile.

Afghanistan: il quadro interno

Il ritorno dei Signori della guerra

I vecchi e ormai ottuagenari Signori della guerra uniti alla congerie di capi tribali dell’epoca della resistenza contro i sovietici – che appare come una riedizione della vecchia Alleanza del Nord – ritornano sulla scena per gestire quella che hanno già chiamato “seconda resistenza” (moqawamat-e do): eventualità cui si preparano da tempo. Nelle settimane successive all’annuncio del ritiro degli occupanti, diversi gruppi di potere periferico si sono impegnati in manovre armate per posizionarsi come attori “negli sforzi di guerra o di pace” e per controllare il teatro politico e militare. Questi vecchi islamisti, non molto meno radicali dei Talebani e che hanno in media un’ottantina d’anni (c’è anche qualche figlio: è il caso di Batur Dostum o di Ahmad Massud, figlio del famoso comandante del Jamiat, Ahmad Shah Massud) costituiscono uno dei rischi principali di una nuova sanguinosa guerra civile di cui già sono stati buoni attori nel passato. I nomi sono noti: Abdul Rasul Sayyaf, Abdul Rashid Dostum, Muhammad Ismail Khan, il ras di Herat che ha già schierato i suoi uomini a difesa della città occidentale che controlla da sempre (sostiene di poter contare addirittura su 500.000 uomini!). Ovviamente quello dei Signori della guerra non sarebbe un esercito unico e unito ma semmai uno spurio battaglione formato da milizie etniche con lo scopo di difendere le identità delle diverse province; ma soprattutto con la finalità di controllare le rendite di posizione personali dei vari leader nei territori e nel Governo di Kabul. Ghani sembra voler puntare su di loro come sostegno all’esercito della repubblica. La Storia si ripete (su di loro avevano puntato anche gli americani).

Afghanistan: il quadro interno

Un fragile esecutivo

Al di là dell’aspetto militare (che sembra scontare un addestramento perseguito con i canoni degli occupanti che, avendo perso la guerra coi Talebani, non sembrano essere o esser stati i consiglieri migliori), un problema è rappresentato proprio dall’esecutivo afgano o meglio dal presidente Ashraf Ghani, che non vuole mollare la poltrona e rifiuta sia un governo di transizione sia l’idea di farsi da parte. Ashraf Ghani, che non ha brillato nei tentativi negoziali coi Talebani e che all’ultimo incontro a Doha non ha neppure partecipato, è in rotta di collisione con diverse province dove la nomina dei governatori (a lui fedeli) ha sollevato malumori che si sono tramutati anche in incidenti. Né ha trovato consenso la sua ultima trovata di un Supremo Consiglio di Stato, superorganismo (ovviamente solo consultivo) per coinvolgere anche chi è fuori dal governo o si senta politicamente escluso. Ci dovevano essere l’ex presidente Hamid Karzai e il leader di Hizb-e-Islami Gulbiddin Hekmatyar così come Salahuddin Rabbani, il capo di una fazione del Jamiat-e-Islami, assieme ad altri 15 influenti personalità politiche. Ma proprio Karzai, Rabbani ed Hekmatyar hanno rifiutato l’invito, individuando nella decisione del presidente l’ennesima manovra di Ghani per far finta di condividere decisioni che in realtà vuol prendere da solo. Ghani è a capo dell’apparato militare e può contare sulle persone che ha nominato ai vertici dello stato, nell’esercito e nelle province in questi anni.

Ma questa forza apparente del presidente è di fatto una debolezza che rischia di riflettersi anche sul piano militare – dove appunto si vanno aggiungendo i vecchi mujahedin – ed è scomparso l’alleato che dava le indicazioni: Washington.

Quel che resta di Isis e al-Qaeda

Le bombe Eid al-Adha o l’attacco in maggio alla scuola nel quartiere sciita Dasht-i-Barchi di Kabul, ci ricorda la presenza attiva di quel che rimane dell’Isis o meglio della Provincia del Khorasan affiliata all’autoproclamato ed ex Stato Islamico di Raqqa. Schegge apparentemente senza padrone (circa un paio di migliaia) che continuano a colpire e ad attrarre quando possono ex talebani irriducibili o in rotta coi vertici o ex miliziani stranieri (Iraq, Siria) in cerca di un nuovo lavoro. Fenomeno in parte residuale, come la presenza di al-Qaeda, ma che crea caos ulteriore confondendo acque già torbide. Si teme che tutte queste variabili possano essere comprate dal miglior offerente, discorso che vale anche per Talebani e mujahedin.

Come in passato, la presenza di più forze in campo, che necessitano di finanziamenti esterni (i Talebani meno di altri), può alimentare nuovamente le ceneri del conflitto interno per servire l’agenda di chi vuole condizionare da fuori il futuro dell’Afghanistan.

Una lista lunga: dai russi ai pachistani, dagli indiani ai cinesi, dall’Iran alle potenze piccole e grandi del Golfo.

La popolazione civile

C’è un ultimo elemento poco considerato dagli osservatori, molto concentrati sugli aspetti e gli apparati militari (esercito, talebani, milizie): la popolazione civile. Prima di tutto rappresenta una resistenza forte nelle città a un nuovo avvento di un governo oscurantista. Meno vera nelle campagne, questa avversione verso i Talebani si salda comunque probabilmente con una stanchezza diffusa della guerra come dimostrarono le “marce della pace” che attraversarono in lungo e in largo il paese tra il 2018 e il 2019. Ma la gente delle città può anche diventare una forza militare qualora i Talebani tentassero la spallata. Se Governo e Talebani (e forze d’occupazione) avessero ascoltato questo attore solo apparentemente secondario in passato, le cose forse non sarebbero arrivate a questo punto. Resta, comunque la si voglia vedere, una risorsa nel buio tunnel del conflitto.

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Popoli indigeni e sciopero nazionale https://ogzero.org/popoli-indigeni-e-sciopero-nazionale/ Wed, 30 Jun 2021 23:18:36 +0000 https://ogzero.org/?p=4077 L’insurrezione in corso in una Colombia stremata da anni di neoliberismo imposto da Uribe, dal latifondo, dalle divise, scatenato dalla riforma fiscale e che vede in piazza da due mesi migliaia di persone determinate e per nulla spaventate dalle centinaia di morti, scomparsi, seppelliti in fosse comuni, vede protagoniste le comunità indigene, oggetto del desiderio […]

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L’insurrezione in corso in una Colombia stremata da anni di neoliberismo imposto da Uribe, dal latifondo, dalle divise, scatenato dalla riforma fiscale e che vede in piazza da due mesi migliaia di persone determinate e per nulla spaventate dalle centinaia di morti, scomparsi, seppelliti in fosse comuni, vede protagoniste le comunità indigene, oggetto del desiderio degli interessi minerari e agrari; del narcotraffico e dei paramilitari. La minga della Cauca fa tremare i monumenti secolari del colonialismo per colpire il neocolonialismo del neoliberismo. 

Tullio Togni continua a ribadirci che «el paro no para» anche attraverso la testimonianza di Edwin Guetio, di cui ci ha fornito alcune interessanti analisi, introiettate in questo articolo, aggiornate poi in questa corrispondenza da Bogotà, trasmessa in diretta il 1° luglio 2021 dalla trasmissione Bastioni di Orione di Radio Blackout.

Ascolta “Differenti protagonisti della rivolta colombiana. La necropolitica uribista” su Spreaker.


Il 7 maggio 2021, a poco più di una settimana dall’inizio delle sollevazioni popolari del Paro Nacional, un gruppo di giovani del popolo indigeno Misak abbattevano a Bogotá la statua dello spagnolo Gonzálo Jimenez de Quesada, a cui si attribuisce la fondazione della capitale della Colombia. In un comunicato a poche ore dai fatti, i manifestanti rivendicavano l’atto in nome del «recupero di uno spazio fisico e simbolico, sottraendolo alle violazioni che da secoli sono state perpetrate da parte dei sicari della conquista».

Gonzálo Jimenez de Quesada

L’abbattimento delle statue è la sineddoche del superamento di quel colonialismo… mentre si avversa il neocolonialismo

Oltre un mese più tardi, il 9 giugno, mentre le mobilitazioni si protraevano a oltranza nel nome di el paro no para, manifestanti indigeni dello stesso gruppo etnico abbattevano la statua di Cristobal Colón e danneggiavano quella della regina Isabella di Castiglia, detta “La cattolica”.

Claudia Lopez, sindaca di Bogotá, non tardava a condannare pubblicamente e con estrema risolutezza tali violenze rivolte al passato e alla memoria; quasi al contempo, in un’intervista rilasciata nelle strade, un manifestante appartenente al popolo Misak specificava che «questa terra non è quella degli spagnoli, bensì quella dei popoli indigeni».

La questione indigena. I numeri…

Nella molteplicità delle forme di lotta e delle rivendicazioni, nell’eterogeneità della piazza e delle mobilitazioni, la questione indigena è di primaria importanza, e dato il contesto attuale oltre che storico sarebbe impossibile negarlo. Per quanto percentualmente limitata rispetto ad altri paesi sudamericani (4,4% della popolazione – 1.905.617 persone), la popolazione indigena in Colombia è ben presente, come dimostra il censimento nazionale del 2018 che ha registrato 115 popoli indigeni presenti in tutto il paese. I dipartimenti in cui si concentrano maggiormente le popolazioni indigene sono Guajira (394.683 abitanti), Cauca (308.455), Nariño (206.455), Córdoba (202.621) e Sucre (104.890). Al contempo, i principali popoli indigeni presenti su suolo colombiano per numero di abitanti, sono i Wayuu (380.460 persone), gli Zenú, (307.091), i Nasa, (243.176) e i Pastos (163.873).

… e la Minga
popoli indigeni e sciopero nazionale

La minga nella Cauca convoca il paro nacional indigeno. La minga è un gruppo di persone piuttosto ampio che si occupa della “sicurezza”, che poi si conforma come minga interpretando il risultato dell’unione di diversi gruppi etnici indigeni. In particolare durante i cortei la marcia indigena è detta “minga”, che in sé racchiude anche il significato di protesta

Il Cric – Consejo Regional Indígena del Cauca conta 10 popoli indigeni e 127 autorità ancestrali, è figlio della resistenza indigena di fronte all’etnocidio che ha caratterizzato gli ultimi 500 anni e, più recentemente, delle lotte per la terra e l’identità portate avanti lungo il secolo XX, in particolare quelle di Martin Quintín Lame e poi dalla Asociación nacional de Usuarios Campesinos (Anuc). Edwin Guetio, coordinatore del settore per la difesa e la promozione dei Diritti Umani, ci spiega in quale situazione si trovano attualmente i popoli indigeni del Cauca colombiano e quale è stato finora il loro coinvolgimento nel Paro Nacional:

“La criminalizzazione della protesta sociale”.

Terra e territorio nella storia e nei simboli

Ha ragione Claudia Lopez, sindaca di Bogotá: le statue sono il passato e la memoria. Attaccarle, però, è un atto simbolico che riporta indietro l’attenzione, aiuta a non dimenticare. Non sorprende dunque che le mobilitazioni dello sciopero nazionale iniziato lo scorso 28 aprile 2021 abbiano voluto andare a toccare anche quella che è indubbiamente una delle radici dei tanti problemi strutturali di questo paese. Non sorprendono nemmeno le parole dei manifestanti indigeni rispetto ai soprusi perpetrati dai colonizzatori spagnoli e al diritto a terra e territori.

Latifondo, monocultura e controllo militare

È forse proprio quest’ultimo punto il centro e l’origine della discriminazione storica contro i popoli indigeni e gli altri considerati “marginali”: la proprietà privata della terra, l’accumulazione e la sottrazione delle proprietà collettive ancestrali. In questo processo storico, si individuano tre momenti fondamentali: il primo coincide con l’espropriazione della terra durante i secoli XVI e XVII – subito dopo la fine della resistenza armata delle comunità indigene del Cauca – e la costituzione delle grandi haciendas; il secondo momento corrisponde con l’espansione del latifondismo durante il secolo XIX e XX, quando alcune grandi famiglie ottennero titoli di proprietà privata a scapito della proprietà collettiva tradizionale dei popoli indigeni; il terzo e più recente momento coincide con l’epoca della “Violenza” degli anni Cinquanta del Novecento, che aumentò considerevolmente l’accumulazione delle terre nelle mani di pochi. Il lungo conflitto interno, la privatizzazione ulteriore e la militarizzazione dei territori con il fenomeno del paramilitarismo, contribuirono poi a fare il resto durante i decenni successivi. La situazione attuale non si distanzia di molto da quella degli anni scorsi, basti pensare che il 60% della terra della regione del Cauca risiede nelle mani del 7,8% della popolazione, mentre l’85% dei piccoli proprietari possiede solo il 26% della terra, che viene inoltre classificata con livello di fertilità basso o molto basso. Rimangono poi le altre problematiche di sempre, come il controllo militare dei territori, le coltivazioni illegali destinate al narcotraffico e le monocolture, prima fra tutte quella della canna da zucchero.

Los resguardos indígenas si definiscono come proprietà collettive di una comunità indigena, come dagli articoli 63 e 329 della Costituzione politica, che le dichiara non trasferibili né alienabili: indispensabili per rispettare il territorio e la cultura in cui ciascun colombiano si riconosce

Los resguardos indígenas si definiscono come proprietà collettive di una comunità indigena, come dagli articoli 63 e 329 della Costituzione politica, che le dichiara non trasferibili né alienabili: indispensabili per rispettare il territorio e la cultura in cui ciascun colombiano si riconosce

Per quanto riguarda i cosiddetti resguardos indígenas – territori appartenenti alle popolazioni indigene – va segnalato che la loro autonomia viene spesso violata sia da gruppi armati di vario tipo sia dalle forze statali, mentre il settore imprenditoriale non perde occasione per chiederne la riduzione in termini di estensione.

Autonomia e partecipazione: le Costituzioni

Vi è un altro asse parallelo nel processo di discriminazione ed esclusione storica delle popolazioni indigene: la loro considerazione e rappresentanza all’interno dello spazio pubblico e politico, i diritti concessi e riconosciuti dalla legge, la loro efficacia. A tal proposito, la Costituzione del 1991, cosiddetta Costituzione dei Diritti Umani arrivata dopo 105 anni dalla precedente, ha segnato una svolta storica, almeno sulla carta. Prima di allora le popolazioni indigene non godevano di alcun tipo di riconoscimento di fronte alla legge, tanto che la Costituzione del 1886 non ne menzionava nemmeno l’esistenza. In generale, l’impostazione portata dagli spagnoli e il modus operandi di fronte agli indigeni si mantenne anche dopo l’Indipendenza nazionale e si tradusse nell’uniformità etnica, religiosa e linguistica. Ne è un chiaro esempio la legge 89 del 1890, che elevò ulteriormente il livello di violenza e assimilazione nei confronti delle popolazioni indigene: l’idea era quella di portare i “selvaggi” alla “civiltà”, l’imposizione della religione cattolica era una condizione sine qua non.

Multiculturalità sulla Carta e diritti da conquistare

popoli indigeni e sciopero nazionale

Trent’anni fa, al momento della creazione dell’Assemblea Costituente, si registra la prima rappresentanza indigena nella storia colombiana costituita da Lorenzo Muelas, Francisco Rojas Birry e l’ex guerrigliero Alfonso Peña Chepe. I risultati furono importanti: divieto costituzionale del razzismo, garanzie per la rappresentanza e la partecipazione politica indigena, riconoscimento dell’autonomia nei resguardos e delle specificità culturali in termini di organizzazione sociale e della proprietà, usi e costumi, educazione, medicina tradizionale. In generale, il principale obiettivo raggiunto fu il riconoscimento della diversità etnica e della multiculturalità, confermato dalla ratifica della Convenzione 169 dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro. Una vittoria su più livelli nonostante varie lacune, prima fra tutte l’assenza di un capitolo esplicito dedicato ai diritti etnici e indigeni; al tempo stesso, però, una minaccia per l’oligarchia al potere e le sue mire di controllo sull’intero territorio nazionale.

Proprio da lì sembra derivare buona parte della violenza che oggi continua a perpetrarsi:

“Il controllo indigeno sul territorio: contro narcos, estrattivismo e gruppi armati”.

Paramilitarismo urbano

Lo sciopero nazionale ha sicuramente esacerbato il grado di violenza con cui si deve confrontare l’opposizione sociale in Colombia, e in tale contesto le popolazioni indigene sono state attaccate da più parti. Emblematico è quanto avvenuto lo scorso 9 maggio a Cali, quando un gruppo di civili armati ha aperto il fuoco contro la minga indígena. Un fatto allarmante in quanto rappresenta l’uscita alla luce pubblica di un fenomeno definibile come paramilitarismo urbano, finora rimasto più o meno nascosto nell’immensa zona grigia della continuità fra simili atti e gli altissimi livelli di impunità.

La solita condotta calunniosa di Uribe

Ma per capire meglio alcuni meccanismi dell’apparato repressivo dello stato, ancora una volta occorre fare un salto nel passato, quando il 30 maggio 1999 l’Esercito di Liberazione Nazionale (Eln) organizzò uno degli attentati più eclatanti della sua storia, conosciuto come il “Secuestro en la Iglesia La Maria”, avvenuto nel quartiere Ciudad Jardín della città di Cali. Decine di guerriglieri dell’Eln proruppero all’interno della chiesa nel momento della celebrazione religiosa e sequestrarono circa 200 persone, obbligandole a salire su dei camion che li portarono nelle montagne circostanti. Tutti furono poi liberati ma il bilancio fu comunque pesante: 3 morti e 1 ferito.

Ebbene, nel momento in cui, 22 anni più tardi, gli indigeni del Valle del Cauca si mobilitavano per raggiungere le manifestazioni del Paro Nacional a Cali, il solito Álvaro Uribe Veléz, in un tweet poi rettificato, “confondeva” la bandiera rossoverde del Cric con quella rossonera dell’Eln, e allarmava la popolazione civile sull’imminente arrivo in città dei guerriglieri:

Grupo terrorista ELN en Jamundí, Valle. El camino es apoyar la acción de las Fuerzas Armadas con estricta observancia de la Constitución; evitar el avance de la defensa privada armada. No repetir preferencia del terrorismo sobre las Fuerzas Armadas, se sufren consecuencias.

 

In altre parole, si trattava di un gravissimo atto di diffamazione nei confronti del Cric e di un forte incitamento alla violenza: il risultato non poteva di certo essere una sorpresa, e non a caso avvenne nello stesso quartiere di 22 anni prima, Ciudad Jardín di Cali:

“Resistenza e repressione: 9 maggio a Cali”.

I prossimi passi

Nella sua visita in Colombia avvenuta in giugno 2021 fra le mille polemiche, la Commissione Interamericana dei Diritti Umani (Cidh) ha espresso serie preoccupazioni per quanto mostrato da parte dello stato in termini di gestione della protesta sociale, di fatto tradottasi in repressione violenta sia a livello fisico che giudiziario. La piattaforma Indepaz ha denunciato che dall’inizio del Paro Nacional e fino al 24 giugno 75 persone sono state uccise. In un rapporto dell’anno scorso, giugno 2020, la stessa organizzazione sottolineava che dal 2016, anno della firma degli Accordi di Pace, 269 attivisti indigeni erano stati assassinati. Nel solo 2021, dei 79 attivisti sociali uccisi in tutto il paese, 26 risultano essere indigeni.

Sono cifre impressionanti e che dipingono in maniera esaustiva lo scenario di “pace fragile” che vive il paese, in cui ampi settori al potere non hanno alcuna intenzione di invertire la rotta e sono pronti a rispondere come hanno sempre fatto: con la forza e la violenza.

Allo stesso tempo, lento ma irreversibile, nell’intersezionalità della lotta procede il cammino verso l’autodeterminazione dei popoli indigeni e di tutti i gruppi etnici considerati “altri”. È un cammino per la vita, per la terra e per la pace, che ha trovato nel Paro Nacional del 2021 un momento di svolta:

“Una Colombia giusta e sociale. Insorgente, ma evitando la Guerra civile”.

La Dichiarazione di Quito

Uno degli slogan che più è risuonato in questi mesi di sciopero, è stato il seguente: A PARAR PARA AVANZAR, come fosse un intreccio fra cosmogonie e concezioni diverse del tempo, più o meno lineari. Allo stesso modo, è opportuno, un’ultima volta, volgere lo sguardo al passato, tornare all’attualità di oltre trent’anni fa, prima ancora dell’Assemblea Costituente del 1991.

È il 1990, è la Dichiarazione di Quito in occasione del Primo Incontro Continentale dei Popoli Indigeni, si parla di autodeterminazione:

“(…) La autodeterminación es un derecho inalienable e imprescriptible de los pueblos indígenas. Los pueblos indígenas luchamos por el logro de nuestra plena autonomía de los marcos nacionales. La autonomía implica el derecho que tenemos los pueblos indios al control de nuestros respectivos territorios, incluyendo el control y manejo de todos los recursos naturales del suelo y subsuelo y espacio aéreo. Asimismo, la autonomía (o soberanía para el caso de los pueblos indios de Norteamérica) implica la defensa y la conservación de la naturaleza, la Pachamama, de la Abya Yala, del equilibrio del ecosistema y la conservación de la vida.

Por otra parte, autonomía significa que los pueblos indios manejaremos nuestros propios asuntos para lo cual constituiremos democráticamente nuestros propios gobiernos (autogobiernos). Exigimos en forma urgente y lucharemos por conquistar las modificaciones de las constituciones de los distintos países de América, a fin de que se establezca en ellas el derecho de los pueblos indios, especificando muy claramente las facultades del autogobierno en materia jurídica, política, económica, cultural y social.

Los pueblos indígenas estamos convencidos de que la autodeterminación y el régimen de autonomía plena sólo podremos lograrlo previa destrucción del actual sistema capitalista y la anulación de toda forma de opresión sociocultural y explotación económica. Nuestra lucha está orientada a lograr ese objetivo que es la construcción de una nueva sociedad plural, democrática, basada en el poder popular”.

[D.R., Bernal Camargo, Autonomía y libre determinación de los pueblos indígenas en el marco del Estado social de derecho de la Constitución política colombiana de 1991, in “Revista Republicana”, ISSN: 1909-4450, nn. 4-5, Corporación Universitaria Republicana].

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Colombia: parlano i muri https://ogzero.org/la-lotta-prosegue-in-colombia-e-i-muri-parlano/ Sun, 13 Jun 2021 10:43:01 +0000 https://ogzero.org/?p=3828 Colombia: a oltre un mese dall’inizio dello sciopero nazionale, il bilancio di un paese con clima da guerra civile. Tullio Togni ci racconta – anche con una serie di sue immagini – che, nonostante la dura repressione dell’Esmad, la lotta prosegue e sopra ogni altra voce, anche attraverso i muri, anche se coperti da teli […]

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Colombia: a oltre un mese dall’inizio dello sciopero nazionale, il bilancio di un paese con clima da guerra civile. Tullio Togni ci racconta – anche con una serie di sue immagini – che, nonostante la dura repressione dell’Esmad, la lotta prosegue e sopra ogni altra voce, anche attraverso i muri, anche se coperti da teli neri che li censurano, lo sciopero continua, inaugurando così una serie di articoli inviati dalla Colombia in lotta: potete già anche leggere (e ascoltare la testimonianza di Edwin Guetio) il secondo contributo dedicato all’apporto al “paro nacional” da parte della comunità indigena


Hanno oscurato le pareti di piazza Bolívar, Bogotá, per paura che parlassero. Un immenso telone nero è stato calato sulle facciate principali del Palazzo di Giustizia e del Campidoglio nazionale, così come lungo le arterie principali che portano al cuore della città: sipari bianchi di plastica a protezione degli edifici più significativi, dei centri commerciali e delle statue di conquistatori spagnoli e politici di spicco di uno o due secoli fa. L’idea era che un colpo di spugna sarebbe bastato per lavare tutto il sangue, ma questa volta non è andata così, perché i muri – tutti – durante il lungo maggio di rivolta hanno continuato a parlare. Hanno detto che “il popolo vuole educazione e salute anziché guerra”, che “con la fame ci controllano”, che il “narcostato è corrotto” e che “la polizia tortura”. Ma soprattutto, ovunque e più forte di ogni altra voce, da 40 giorni continuano a gridare che “lo sciopero continua”.

La lotta prosegue

El paro no para

La prima scossa era stata data il 21 novembre 2019 con uno sciopero nazionale che sembrava essere logica conseguenza delle mobilitazioni in Cile ed Ecuador: anche in Colombia si protestava contro l’ennesima offensiva neoliberale e le sue agevolazioni fiscali alle grandi imprese in cambio di tagli ai salari della classe media e dei meno abbienti. A ciò si aggiungeva la prostrazione di fronte alla corruzione endemica della classe politica, la rivendicazione di una reale implementazione degli Accordi di Pace del 2016 fra Governo e Farc e infine il rispetto, da parte dello stato e la sua forza pubblica, del diritto alla protesta sociale. Poi venne la pandemia a placare gli animi o meglio a rinchiuderli in casa, almeno per chi ne aveva una: un rigido e lungo lockdown di quasi 6 mesi diede il colpo di grazia a quella grande fetta di popolazione che sopravviveva grazie all’economia informale. Tre milioni di persone finirono in povertà mentre 2,4 milioni di posti di lavoro si persero per strada: a pagarne le spese, come sempre, i giovani e le donne, oltre alle categorie storicamente e strutturalmente svantaggiate.

El covid es mentira

El covid es mentira – “Il covid è una menzogna”, sussurra un altro muro vicino al Museo nazionale, pieno centro Bogotá. Nessun negazionismo bensì un graffio alla gestione del governo e alle parole del presidente Ivan Duque, che di fronte alle dimissioni del ministro delle Finanze Alberto Carrasquilla, fautore della Riforma Tributaria che ha incendiato il paese intero, lo ha ringraziato per aver realizzato un sistema sociale che ha saputo far fronte alla pandemia. Così, nel picco della terza ondata di Covid-19 e a fronte degli oltre 90.000 morti che si contano in tutto il paese, la stessa Riforma tributaria arrivata senza previa consultazione di alcun tipo si è trasformata in una scintilla: imposizione dell’Iva al 19 per cento su beni e servizi, tagli alle pensioni, ai salari e al sistema sanitario, fra le altre cose. Il 28 aprile il Comitato di Sciopero Nazionale – formato dalle principali organizzazioni sindacali e di studenti, insegnanti, pensionati, contadini, camionisti, indigeni e afrocolombiani, oltre alla comunità lgbtqi – ha indetto il primo giorno di sciopero nazionale e ha espresso le sue rivendicazioni, simili a quelle del 2019 con l’aggiunta di una campagna di vaccinazione di massa, un salario minimo legale mensile, facilitazione di accesso agli studi per gli studenti, rispetto della diversità di genere.

La lotta prosegue

La risposta della popolazione è stata immediata e imponente in tutto il paese, tanto che quasi subito, il 2 maggio, il governo ha ritirato la Riforma Tributaria e annunciato le dimissioni del suo artefice, il ministro delle finanze Alberto Carrasquilla. Ma questo non ha calmato la protesta, che prosegue da oltre un mese e che lo scorso 19 maggio ha ottenuto anche il ritiro della Riforma alla Salute.

Ma non è andato tutto liscio, anzi. Lo dicono i muri, lo urlano più forte che possono.

La lotta prosegue

Nos están matando

Il 29 aprile 2021 appare un tweet – poi eliminato dalla piattaforma per incitamento alla violenza – in cui Alvaro Uribe, uomo forte del partito di estrema destra Centro Democratico al governo, nonché ex presidente in carica fra il 2002 e il 2010, chiede la militarizzazione delle città e sostiene il diritto di soldati e poliziotti di usare le armi. Detto fatto, il suo scagnozzo Ivan Duque dà immediatamente l’ordine, scatenando la violenza indiscriminata e impunita della forza pubblica, che guarda caso nella democrazia colombiana risponde al ministero della Difesa anziché a quello degli Interni. Bastano pochi giorni per far calare un clima di terrore su tutto il paese, contrastato solo dalle manifestazioni rumorose e colorate che imperterrite continuano a sfilare. Si crea ben presto una nuova normalità, termine abusato e dettato ora dall’Esmad, l’unità antisommossa nata nel 1999 sotto la presidenza di Pastrana e poi formalizzata dallo stesso Alvaro Uribe, conosciuta per la ferocia e le brutalità commesse tanto contro gli oppositori politici come ai fini di una “pulizia sociale”. La nuova normalità, molto simile a un ennesimo “stato di eccezione”: mattino tranquillo, pomeriggio di mobilitazioni e notte di scontri e repressione. L’Esmad presidia i centri di potere e quando riceve l’ordine dalle alte gerarchie attacca i cortei sparando lacrimogeni ad altezza umana e usando armi da fuoco, mentre l’esercito schiera soldati, blindati ed elicotteri. A ciò si aggiungono gruppi di civili armati che attaccano i manifestanti.

La lotta prosegue

Poi succede di tutto, dalle irruzioni in casa alla caccia all’uomo, dalle esecuzioni extragiudiziali alle sparizioni forzate: l’atmosfera è surreale. Il caso più emblematico e triste è quello di Alison Salazar, una ragazza di 17 anni morta suicida dopo che il giorno prima, il 12 maggio, era stata catturata e abusata sessualmente da quattro agenti dell’Esmad a Popayan, dipartimento del Cauca. È proprio in questa zona che si è spostato l’epicentro della violenza, insieme alla regione della Valle del Cauca e alla città di Cali: aree con alte percentuali di povertà che coincidono con la maggior presenza di popolazione indigena e afrocolombiana, ma anche con l’insediamento di gruppi armati illegali nei territori smilitarizzati dopo gli Accordi di Pace fra Governo e Farc. I manifestanti e le loro prime linee eterogenee composte da giovani provenienti dai vari settori sociali rispondono con pietre e scudi improvvisati, danno alle fiamme numerosi centri di polizia e di tortura, colpiscono alcuni supermercati e lo scorso 25 maggio hanno incendiato il Palazzo di Giustizia della città di Tuluá in risposta all’uccisione di quattro giovani di cui uno minorenne; ma le azioni più efficienti per la destabilizzazione del settore impresariale al potere sono i blocchi delle strade a cui partecipano anche i camionisti, lasciando transitare solo beni di prima necessità nei cosiddetti corridoi umanitari.

I numeri della violenza

Aggiornati lo scorso 31 maggio, i numeri di quanto sta succedendo – resi noti dalla piattaforma di diritti umani Temblores – confermano che nel paese regna un clima da guerra civile: 3789 casi di violenza poliziesca; 74 persone uccise, 45 dalla forza pubblica e 29 in processo di verifica, casi legati probabilmente ad attacchi da parte di civili armati contro i manifestanti; 1248 persone ferite da polizia ed Esmad, di cui 65 con lesioni oculari; 187 casi di uso di armi da fuoco da parte della forza pubblica; 1649 persone detenute arbitrariamente per aver preso parte alle mobilitazioni; 25 vittime di violenza sessuale perpetrata da agenti della forza pubblica; 91 desaparecidos dall’inizio delle proteste secondo il pubblico ministero – ma il numero reale potrebbe essere molto più alto: persone fatte sparire senza lasciare alcuna traccia, probabilmente rinchiuse in centri di tortura informali. Ironia della sorte, la cosa più tragica è che per il loro bene occorre quasi sperare che siano già morte. Del resto, negli ultimi giorni hanno cominciato a circolare voci e denunce sempre più fondate secondo cui la forza pubblica starebbe sotterrando cadaveri in fosse comuni.

Sappiamo chi ha dato l’ordine

Potrebbe sembrare, ma non è così: la Colombia non ha nulla a che vedere con le dittature militari latinoamericane del secondo Novecento. Lo sostiene l’oligarchia al potere, la stessa che secondo denunce informali sta attualmente reclutando mercenari e pianificando stragi di massa all’interno dei cortei; lo conferma la storia recente e il suo apparato statale che si è sempre mantenuto democratico. Solo qualche macchia: i massacri, l’epoca della “violenza” negli anni Cinquanta, le dottrine di Sicurezza nazionale e poi Sicurezza democratica, la corruzione e le elezioni rubate, il genocidio politico del partito di sinistra Unione Patriotica, il narcotraffico e il paramilitarismo, i 6402 “falsi positivi” e i milioni di dollari americani spesi per combattere il cosiddetto “nemico interno”. E poi la situazione attuale: peggio di così sembra saper fare solo un’altra democrazia, in Medio Oriente.

La lotta prosegue

In tale contesto, è oggi difficile porre le basi per una negoziazione fra il governo e il Comitato di Sciopero Nazionale: nelle tavole rotonde dei giorni scorsi il primo ha dimostrato di non essere disposto a considerare la radice del problema e si ostina a paventare il fantasma del “terrorismo vandalico e le sue infiltrazioni guerrigliere”, mentre il secondo chiede ora a gran voce la riforma della forza pubblica e lo smantellamento dell’Esmad, un punto che era rimasto tabù anche negli accordi di pace del 2016. A proposito, da allora sono stati assassinati quasi 1200 leader sociali, senza contare questo mese di maggio.

Intanto, nell’effervescenza attuale la verità rimane scritta sui muri, che da un mese o forse un secolo lo ripetono all’infinito: Nos estan matando – “ci stanno uccidendo”.

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n. 8 – Siria (III): il clan al-Assad e la Guerra civile https://ogzero.org/il-clan-al-assad-e-la-guerra-civile-siriana/ Wed, 26 May 2021 11:33:21 +0000 https://ogzero.org/?p=3559 Nella serie di articoli dedicati alle rotte mediorientali della raccolta di analisi stilate da Fabiana Triburgo sulla questione migratoria la sezione siriana si compone doverosamente di alcuni interventi ciascuno dedicato a uno dei molteplici aspetti che presenta questa diaspora, biblica per proporzioni, e vicissitudini toccate ai più di 12 milioni di individui siriani coinvolti nella […]

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Nella serie di articoli dedicati alle rotte mediorientali della raccolta di analisi stilate da Fabiana Triburgo sulla questione migratoria la sezione siriana si compone doverosamente di alcuni interventi ciascuno dedicato a uno dei molteplici aspetti che presenta questa diaspora, biblica per proporzioni, e vicissitudini toccate ai più di 12 milioni di individui siriani coinvolti nella catastrofe umanitaria che ha fatto seguito allo scatenarsi del conflitto siriano dell’ultimo decennio.

L’autrice ha dapprima analizzato le attuali condizioni di siriani ormai integrati in realtà esterne al paese ai quali ora viene chiesto di rimpatriare, rischiando la vita e rinunciando alla nuova esistenza costruita faticosamente in esilio. L’analisi è proseguita valutando le condizioni economiche e umanitarie in cui si tengono le elezioni il 26 maggio, senza dimenticare la specificità della Primavera araba nelle diverse regioni siriane; prosegue qui collegando le modalità di protesta alla particolare peculiarità del regime alauita del clan al-Assad; le fasi della politica di Bashir – fino alla Primavera araba e il conflitto esploso nel 2011, che ha fatto del territorio siriano uno scenario usato dalle potenze globali e locali per imporre la propria supremazia.


n. 8, parte III

I principali conflitti che attualmente interessano le migrazioni forzate e le prassi di esternalizzazione poste in essere dall’Unione Europea e dai singoli stati membri portano a una predeterminazione delle rotte dei migranti.

Quello che oggi è inevitabile chiedersi è se il nuovo Patto europeo sulla migrazione e l’asilo, proposto dalla Commissione UE, possa essere realmente considerato una soluzione della gestione del fenomeno migratorio o se invece vi siano soluzioni legali alternative maggiormente lungimiranti e coraggiose.  

Il conflitto siriano: il clan al-Assad e la Guerra civile

I regimi degli al-Assad

Nonostante in Siria si riscontri l’esistenza di istituzioni statali come il parlamento, il consiglio dei ministri, il potere decisionale è sempre nelle mani di un solo clan ossia quello di Assad e dei suoi familiari e dai capi dei servizi di intelligence.

il clan al Assad

Come noto Bashar al-Assad è succeduto al padre Hafiz, a capo della nazione per trent’anni, in seguito alla sua morte nel 2000. Il figlio Basil che avrebbe dovuto succedergli, al momento della sua morte, è deceduto in un incidente stradale nel 1994; in sua vece quindi nel 2000 subentrò al potere il secondogenito Bashar. Tra le immediate nomine “familiari” del neoeletto presidente, all’interno del regime, citiamo quella del fratello minore Mahir al-Assad e della sorella Bushra al-Assad al comando della Quarta divisione corazzata dell’Esercito Siriano e quella del cognato Assef Shawkat designato vicecapo di stato maggiore e all’epoca già a capo del Mis – Il Dipartimento di intelligence militare siriana – in particolare nella sezione Perquisizioni (sezione 235).

La legge d’emergenza controlla la libera espressione

Il presidente della Siria, già durante il regime instaurato da Hafiz a partire dal 1970, riunì nella sua persona la carica di capo dello stato, quella di comandante delle forze armate, quella di segretario generale del Partito ba’at al potere e quella di presidente del Fronte nazionale progressista, sotto il quale vi furono tutte le forze politiche di opposizione autorizzate dal regime. In quest’ottica va citata la “legge d’emergenza” in vigore dal 1963 che garantisce il ferreo controllo di ogni manifestazione di dissenso di libera espressione politica, il divieto di assembramenti pubblici, il fermo di sospetti dissidenti e infine indica per quali accuse il fermo può trasformarsi in arresto. La legge inoltre definisce il ruolo dei tribunali speciali per i dissidenti, impone rigidi controlli sui mezzi d’informazione ma soprattutto concede ampi poteri alle quattro agenzie di sicurezza operative in tutto il paese. Rispetto al regime da lui guidato va detto però che Bashar è un primus inter pares ossia a capo di un’oligarchia composta dai membri della famiglia al-Assad, da alleati e da alcuni ufficiali legati al clan familiare, e non un capo indiscusso come lo era il padre Hafiz. La Siria, infatti ha acquisito l’indipendenza dai francesi nel 1946, tuttavia con l’indipendenza non si è raggiunta una stabilità politica ma si sono succeduti nel tempo una serie di colpi di stato e di guerre come quella dei 6 giorni nel 1967 con Israele, paese ancora oggi considerato nemico dai siriani.

A ogni modo già tra la fine degli anni Quaranta e l’inizio degli anni Cinquanta si registrò l’ascesa della comunità alauita – minoranza sciita originaria delle montagne a est di Latakia e delle sue pianure costiere a sud – la quale si unì al Partito ba’at (Partito della resurrezione, movimento panarabo nazionalista, socialista e laico) nel quale Hafiz al-Assad entrò a far parte a soli 16 anni perseguendo al contempo la carriera militare. Nel 1963 il Partito ba’at, per effetto di un colpo di stato, conquistò il potere e da lì cominciò l’ascesa di Hafiz che nel 1964 venne nominato generale, quindi nel 1965 capo dell’Aereonautica.

Un nuovo colpo di stato

Tuttavia, la succitata guerra dei 6 giorni con Israele nella quale la Siria venne sconfitta, fece vacillare il potere di al-Assad ma, nel 1970, Hafiz portò avanti un ennesimo colpo di stato – non sanguinario come i precedenti – definito come “Rivoluzione Correttiva” mediante il quale ottenne in modo indiscusso il governo del paese che ebbe sempre un maggiore controllo del territorio siriano.

Nel 1976, inoltre, è importante ricordare che il regime di Damasco decise di fare del Libano un proprio protettorato, condizione che resterà salda fino al 2005 quando venne assassinato il premier libanese Rafiq al-Hariri, intervenendo militarmente e politicamente nella guerra civile libanese che ebbe luogo dal 1975 fino al 1990.

Ciò che risulta interessante è che la composizione alauita del regime non seguì fin da subito una logica confessionale per la sua affermazione, ma mirò piuttosto all’appoggio della borghesia urbana e delle periferie:

A sostenere il regime infatti fu non solo la destra alauita della quale faceva parte Hafiz ma anche i drusi e i cristiani che temevano la presenza della maggioranza sunnita nel paese.

Allo stesso tempo i sunniti si allearono in quegli anni con il clero islamico ortodosso, ossia la frangia estremista rappresentata quasi totalmente dalla Fratellanza Musulmana. Iniziarono cruenti attentati da parte dei sunniti e violentissime repressioni da parte del regime fino a quando nel 1982 Hafiz decise di bombardare la città di Hamah – definita da Hafiz “la testa del serpente” in quanto patria dei maggiori conservatori tra i sunniti in Siria – per reprimere la rivolta della comunità musulmana sunnita dando inizio a uno dei più cruenti conflitti civili. In quella circostanza si parlò di almeno 10.000 siriani uccisi nel conflitto. Hafiz volle affermare con tale efferata e sanguinaria repressione, fatta di esecuzioni di massa, di fosse comuni, di feriti, di donne e di bambini sepolti vivi tra le macerie, che la religione veniva dopo lo stato ba’atista e che l’uso politico di questa non sarebbe mai stato tollerato dal regime.

il clan al Assad

La distruzione della città di Hamah perpetrata da Assad nel 1982.

Le atrocità commesse nei confronti dei sunniti non furono finalizzate solo a prevalere sulla Fratellanza Musulmana ma anche come ammonizione, per i sopravvissuti e per i membri di tutte le altre organizzazioni che si opponevano al regime, di quello che sarebbe potuto accadere nell’ipotesi di ulteriori atti di disobbedienza in futuro.

La repressione sanguinaria e le promesse tradite

Dopo circa trent’anni dal massacro di Hamah nel 2011 il figlio di Hafiz, Bashar al-Assad si trovò quindi ad affrontare una nuova escalation di proteste, contro le quali decise, come il padre, di scatenare una sanguinaria repressione, nonostante queste avessero poco a che fare con l’elemento religioso – caratteristico delle rivolte della popolazione sunnita del 1982 – quanto piuttosto con un senso di tradimento avvertito dalla popolazione siriana legato al mancato riconoscimento delle libertà e dello sviluppo economico. Questi ultimi erano stati promessi infatti dal governo ba’atista di Bashar che tuttavia avrebbe accumulato nel tempo tutte le ricchezze per sé stesso. Da quanto si sta verificando fino a oggi, dopo dieci anni dall’inizio del conflitto civile, Bashar al-Assad non sembra aver riproposto la forza armata “risolutiva” del conflitto che aveva dimostrato il padre nel 1982.

il clan al Assad

Manifestazione a Homs.

Non si può tacere tuttavia che, se le proteste del 2011 sono state sicuramente meno accanite di quelle del 1982, allo stesso tempo – per il fatto di non essere strettamente legate alla questione confessionale sunnita – hanno saputo raccogliere importanti consensi in ambito nazionale e internazionale molto più ampi rispetto al passato.

Tuttavia, per capire come si sia arrivati a tali proteste e per apprendere meglio la ragioni dell’intervento di più forze internazionali nel conflitto siriano occorre fare una breve sintesi degli eventi concernenti gli anni del governo di Bashar al-Assad prima del 2011.

La politica di Bashar al Assad dal 2000 al 2011

Nel 2000 Bashar al-Assad riprese il dialogo con gli “ulama” (il clero islamico), tra cui il leader del movimento islamico Zayd – in quegli anni considerato forza religiosa prevalente a Damasco. Il regime invece non si riavvicinò ai Fratelli Musulmani ormai di base a Londra.

Quindi nel 2005, poiché come detto il regime fu sospettato dell’assassinio dell’ex premier libanese Rafiq al-Hariri, Damasco dovette ritirare, su pressione popolare libanese e internazionale dell’Onu, degli Usa e della Francia, le sue truppe dal Libano. In quell’anno i Fratelli Musulmani crearono, in opposizione al regime, il Fronte di salvezza nazionale costretto poi a dissolversi nel 2009, a causa del rinnovato vigore politico e militare di Damasco, grazie all’appoggio dato a Hamas durante in conflitto israelo-palestinese nella Striscia di Gaza.

Allo stesso modo nel 2006 una nuova generazione di islamisti in esilio creò a Londra il Movimento di giustizia e sviluppo (ispirato all’Apk turco di Erdoǧan), movimento musulmano più democratico che islamista. Tuttavia, la questione dell’opposizione islamista in esilio manifestò subito i suoi problemi strutturali, quali la sua estrema frammentarietà e la sua mancata rappresentatività all’interno della Siria, dato che i loro interessi erano divergenti rispetto a quegli degli ulama – interessati più all’indebolimento dell’apparato statale di sicurezza che al multipartitismo nella repubblica – e dato che questi non potevano svolgere alcun ruolo di rappresentanza politica di forte opposizione al regime per il timore costante della repressione.

Il legame col Libano

Dal 2008 il regime ristabilì un’influenza politica sul Libano, data la sua importanza strategica dal punto di vista geopolitico, rafforzando l’armamento di Hezbollah e, godendo di una quasi completa riabilitazione da parte dell’Occidente, rinunciò completamente alla causa di riappacificazione con gli ulama. Dal 2008 Damasco infatti iniziò una politica di affermazione di superiorità del proprio potere politico su quello religioso, cercando di escludere l’influenza del movimento islamico in diversi settori della società come nelle scuole e nelle associazioni benefiche presenti nel paese.

Quando nel marzo 2011 esplosero le proteste contro il regime, Bashar al-Assad strategicamente accolse come in passato le istanze del clero musulmano per paura che anche esso si unisse alle rivendicazioni democratiche del resto della popolazione: venne chiuso il casinò di Damasco, vennero reinserite “le insegnanti con il velo”, vennero creati un istituto islamico pubblico e un’emittente nazionale musulmana.

Tale strategia ebbe successo poiché assicurò il silenzio del clero musulmano rispetto ai movimenti di protesta che in quell’anno dominarono la scena politica del paese.

Inoltre, per le politiche messe in atto dal regime di Damasco nel Libano, Hezbollah fornì pieno appoggio a Bashar al-Assad già durante le rivolte del 2011, mentre Ankara – pur essendo passata da un autoritarismo militare laico a una democrazia conservatrice dei valori musulmani, unita a una politica iperliberista sul piano economico – nel 2011 prese inizialmente le distanze sia dai movimenti di protesta che dalle dure repressioni esercitate da Damasco.

Le tappe del conflitto dal 2011 a oggi

Nei dieci anni precedenti al conflitto la Siria era quindi già un avamposto nel quale si dispiegarono numerose questioni politiche, sociali ed economiche non solo in ragione del desiderio di acquisizione del potere centrale nella repubblica, ma anche per le trattative intessute in questi anni tra il potere centrale, le comunità locali e le forze internazionali; inoltre nel conflitto hanno avuto e continuano ad avere peso diversi fattori etnici, confessionali, politici, individuali e culturali.

Occorre sottolineare che ciascuna potenza internazionale intervenuta nel conflitto ha visto nella guerra siriana la possibilità di consolidarsi nella regione del Medioriente rispetto ad altre potenze rivali nell’area.

Il 18 marzo 2011 le milizie governative di Assad spararono contro i manifestanti a Dara’a uccidendo quattro persone: le manifestazioni e, di conseguenza anche la loro repressione, ebbero un’eco sempre maggiore, mentre ad aprile dello stesso anno nella città di Homs, una delle città più grandi del paese, migliaia di cittadini siriani organizzarono un importante “sit in” che rievocò le manifestazioni in piazza Tahrir contro il regime di Mubarak. Gli scontri continuarono per tutto il 2011 e portarono come detto alla formazione dell’Esercito siriano libero – oggi forza militare marginale sostituita da jihadistimotivo per cui il regime mise in campo forze militari di artiglieria e di aviazione. Il 18 luglio 2012 dalla rivolta si raggiunse l’apice della guerra civile: i manifestanti bombardarono il Palazzo di sicurezza nazionale, durante una riunione di crisi, provocando l’uccisione di quattro funzionari del regime tra cui il succitato cognato di Assad e l’allora ministro della Difesa. Le forze militari del governo di Assad assediarono il quartiere di Baba Amir sempre a Homs. In quella circostanza all’Esercito siriano libero si affiancarono i combattenti di al-Nusra, gruppo jihadista nato da al-Qaeda e composto da fondamentalisti sunniti che miravano alla destituzione del regime per poter instaurare uno Stato Islamico nel paese.

Arrivano le forze internazionali

Il 2013 invece segnò l’inizio della presenza di forze internazionali nel conflitto siriano: la condizione nasce dal fatto che gli Stati Uniti, nella persona dell’allora presidente Barack Obama, dichiararono che l’utilizzo di armi chimiche avrebbe condizionato il coinvolgimento degli Usa nel conflitto. Nel 2013 iniziò l’indagine delle Nazioni Unite relativamente alla morte di 26 persone civili e soldati nella città di Khan Shaykhun e, rispetto al quale, tanto il regime quanto le forze di opposizione rinnegarono ogni responsabilità. L’Onu, anche se non riuscirà mai a conoscere la verità sulla responsabilità dell’attacco, dichiarerà in seguito che si trattò di un attentato compiuto mediante l’utilizzo di gas nervino. Inoltre, sempre nel 2013, un attacco chimico nella periferia della capitale Damasco uccise centinaia di persone. Gli Stati Uniti a quel punto attribuirono la responsabilità della strage al regime decidendo in un primo momento di intervenire nel conflitto, ma successivamente ritirarono le loro dichiarazioni. Tuttavia il Consiglio di Sicurezza dell’Onu impose al regime la distruzione di tutte le proprie armi chimiche come conseguenza di un surreale accordo tra Stati Uniti e Russia, per cui Bashar al-Assad fu costretto a firmare il 14 ottobre 2013 la Convenzione sulle armi chimiche che ne vieta la produzione, lo stoccaggio e l’utilizzo.

Le ultime armi chimiche a disposizione del regime siriano verranno dichiarate rimosse l’anno successivo dall’Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche, nonostante l’opposizione sostenesse che l’esecutivo continuava a disporne di ulteriori.

L’osservazione internazionale sull’elemento chimico della guerra nel 2013 determinò così il decisivo intervento diplomatico della Russia nel conflitto siriano che conferì a Bashar al-Assad un possibile ruolo di “attore-interlocutore” per il processo di pace nel paese.

Nel maggio del 2013, inoltre, anche il gruppo militante libanese Hezbollah si inserisce nel conflitto siriano accanto ad Assad, in questo caso a livello militare, attaccando e riconquistando la città di Qusair al confine tra i due paesi. Anche il sostegno fornito dal gruppo sciita libanese, quindi, ha finito per internazionalizzare il conflitto siriano in quanto – in conseguenza della presenza di Hezbollah in Siria – decisero di intervenire da un lato l’Arabia Saudita, il Qatar e gli Emirati Arabi e la Turchia a favore delle forze di opposizione e dall’altro l’Iran e l’Iraq, i quali appoggiarono il regime di Assad. Intanto gli insorti appartenenti all’opposizione si frammentarono nel corso degli anni in gruppi militari laici e islamisti per cui la coalizione tra l’Esercito siriano libero e al-Nusra si ruppe definitivamente nel 2014.

La fuga della popolazione dallo Stato Islamico

Il 2014 rappresentò tuttavia uno degli anni più rilevanti del conflitto siriano anche per altre ragioni: nel giugno dello stesso anno si tennero nel paese le elezioni presidenziali, il cui verdetto vide riconfermato capo di stato, con l’88 per cento dei voti a favore, Bashar al-Assad  ma il 30 giugno 2014 il sedicente Stato Islamico dichiarò il Califfato nelle aree che ormai erano poste sotto il suo controllo, non solo in Iraq, ma anche in Siria, provocando la fuga di migliaia di cittadini siriani dal paese. Nel settembre del 2014 gli Usa cominciarono a sferrare attacchi aerei contro gli avamposti del sedicente Stato Islamico in Siria.

Nel 2015 il regime siriano raccolse una serie di sconfitte militari in conseguenza dei continui attacchi sia dei ribelli che dell’IS e inoltre il 28 marzo del 2015 la città nordoccidentale di Idlib cadde nelle mani dei militanti islamici guidati da al-Nusra. Proprio in quest’anno si ricorda il ritrovamento del corpo del bambino siriano Alan Kurdi di tre anni su una spiaggia turca: quest’immagine che forse sarà ancora presente negli occhi di molti lettori portò l’opinione pubblica internazionale a non voltare più lo sguardo rispetto alla condizione dei profughi fuggiti in conseguenza del conflitto siriano e speriamo che non occorrano ancora immagini come quella per scegliere l’opzione dei canali umanitari e non quella assurda della prassi delle esternalizzazioni delle frontiere.

Le potenze regionali intervengono

Nell’autunno del 2015, quindi, poiché il regime siriano rischiava ormai di collassare, la Russia decise di intervenire militarmente nella Siria occidentale lanciando i primi raid aerei e attrezzando di nuovo militarmente le basi militari di Tartus e Latakia e successivamente il Consiglio di Sicurezza approvò all’unanimità la Risoluzione Onu n. 2254 finalizzata alla costituzione di un processo di pace nel paese.

Nel 2016 si registrò la vittoria del Partito ba’at di Assad nelle consultazioni parlamentari ma il conflitto proseguì duramente, in particolare nella città di Aleppo, portato avanti però più che dalle forze militari del regime da parte di quelle internazionali, nello specifico da quelle russe.

Il 2016 tuttavia segnò per la prima volta l’intervento della Turchia, proprio a nord di Aleppo, mentre i quartieri a est della città rientrarono, dopo mesi di assedio, sotto il controllo delle milizie lealiste in particolare di quelle iraniane e russe. Allo stesso tempo la coalizione curdo-araba – ossia le Forze democratiche siriane anti-Isis, guidata dagli Stati Uniti nel Nordest del paese – riconquistarono la città di Raqqa, storica roccaforte dello Stato Islamico, con una campagna che si concluse nell’anno seguente.

Gli attacchi chimici

Nell’aprile del 2017 vi fu un attacco di gas nervino nuovamente nella città settentrionale di Kahna Sheikhoun, in quel periodo in mano ai ribelli, la responsabilità del quale venne negata da Mosca e Damasco. Tuttavia, gli Usa, in risposta a tale attacco chimico, spararono missili crociera direttamente contro il territorio dominato dal regime di Damasco, mentre i ribelli si ritirarono a Homs. Anche Israele in conseguenza del presunto attacco chimico per opera del regime è intervenuto nel 2017 con bombardamenti contro una base aerea militare siriana. Sempre nel 2017 venne ripreso il controllo anche di altre città in tale area del paese e Putin a dicembre dello stesso anno dichiarò la definitiva sconfitta dello Stato Islamico in Siria.

il clan al Assad

Le rovine della città di Homs (foto gsafarek).

Nel 2018 la novità fu quella di sostenere che al-Assad ormai avesse vinto la guerra.

Ma, nonostante le forze governative riconquistassero in quest’anno anche il Sudovest del paese e la regione agricola orientale di Ghouta a ridosso della città Damasco – regione dal 2012 sottratta al controllo del regime – le milizie turche consolidarono la loro posizione nel Nordovest della Siria in particolare nella città di Idlib. Quest’ultima prende il nome dalla stressa provincia, intorno alla quale, la Russia e la Turchia volevano creare una zona “cuscinetto” di circa venti chilometri, mediante la stipula dell’Accordo di Sochi siglato nell’autunno del 2018 dalle due potenze e aggiornato con la recente intesa del marzo del 2020 principalmente per evitare che i futuri sfollati siriani si dirigessero nuovamente verso la Turchia come in passato. L’area a Nordovest infatti nel 2018 era considerata l’ultima roccaforte delle forze di opposizione jihadiste. Rispetto a Israele, paese sempre maggiormente preoccupato della continua espansione iraniana nel conflitto siriano, la Russia è corsa ai ripari negoziando proprio con l’Iran l’allontanamento dalle frontiere di Israele per circa 80 chilometri dalle alture del Golan, garantendo il monitoraggio dell’area attraverso le proprie truppe militari.

Truppe israeliane al confine con la Siria (foto Alexeys).

Le diverse violazioni dell’Accordo di Sochi

Ciò non fu sufficiente a evitare più volte la violazione dell’Accordo di Sochi, soprattutto nel 2019, quando le truppe russe cercarono di invadere la provincia di Idlib al confine con la Turchia – stante la permanenza delle forze di opposizione in particolare di quelle jihadiste dell’Hts (Hay’et Tahrir al-Sham) – sostenute proprio dalla Turchia che a sua volta cercò di contrastare le milizie curde dell’Ypg/Ypj (ramo siriano del Pkk turco) che combattono per uno stato indipendente nel Nord del paese.

Le violazioni degli accordi di Sochi: i russi intervengono in Siria invadendo la provincia di Idlib.

Inoltre, la promessa Usa del 2018 del ritiro definitivo delle proprie truppe americane dall’area a Nordest del paese – che si ponevano a guida della coalizione arabo-curda delle Forze democratiche siriane – venne mantenuta verso la fine del 2019, motivo per cui le Forze democratiche siriane dopo l’abbandono Usa dal Nordest si spostarono principalmente sul versante Nordovest del paese per resistere all’avanzata turca.

L’offensiva anticurda della Turchia

Dopo il ritiro degli Usa, infatti, il 10 ottobre del 2019 la Turchia portò avanti un’offensiva contro i combattenti curdi. Il succitato accordo del marzo del 2020 tra Putin ed Erdoğan per un cessate il fuoco nel Nordovest della Siria è riuscito a scongiurare un confronto diretto delle forze armate filogovernative russe contro quelle turche e ha bloccato un’importante offensiva del regime verso la città di Idlib. Tali condizioni sono state accettate da Damasco perché certa non era la possibilità di riuscita contro le forze di opposizione a Idlib, senza l’aiuto di Ankara.

Come si evince dalla sintesi del conflitto siriano dopo 10 anni si può giungere alla conclusione che le scelte politiche, e di conseguenza quelle militari, che caratterizzano le dinamiche e le interazioni nella repubblica siriana vengono assunte prevalentemente dalle potenze straniere, mentre un ruolo del tutto marginale rivestono ormai le scelte e le azioni poste in essere dalle rappresentanze politiche interne al paese compreso lo stesso regime. È solo partendo da questo presupposto che potremo cercare di comprendere successivamente i recenti accadimenti che stanno interessando il paese, consapevoli che interazioni, interessi, negoziazioni oggi sono prevalentemente tra le potenze esterne: sono tali azioni che possono essere oggetto di una valutazione prognostica autentica rispetto alla concreta realizzabilità del tanto auspicato processo di pace nel paese ormai devastato dal conflitto civile. Analizzeremo dunque ogni attore estero e il ruolo che attualmente possiede nella determinazione della condizione della Siria, rivelando ciò che oggi è già chiaro:

la Siria e il “suo” conflitto stanno divenendo la cartina al tornasole di tutte le questioni di conflittualità esistenti tra i paesi dell’area mediorientale, i movimenti jihadisti in esso presenti, e tra le grandi potenze straniere, fuori dall’area, che avvertono “la responsabilità” di intervenire nel conflitto.

Analizzando le azioni di queste forze sembra che poco si stia compiendo nell’interesse della popolazione civile siriana: infatti le decisioni di ciascuna potenza estera appaiono maggiormente volte all’affermazione di sé legata o a un’idea di espansionismo geopolitico, o agli interessi economici, o alla volontà di riscatto personale contro un paese rivale nella medesima area. “Ai posteri l’ardua sentenza”, se questo si può definire un passaggio necessario per la definizione del conflitto o se possa essere a questo punto gestito in modo alternativo, valutando il bilancio delle vittime, la distruzione dei territori e l’immutabilità dell’impianto politico esistente dopo un decennio di guerra.

L'articolo n. 8 – Siria (III): il clan al-Assad e la Guerra civile proviene da OGzero.

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n. 8 – Siria (II): la Primavera e le “tre Sirie” https://ogzero.org/le-tre-sirie-non-tutte-voteranno-siria-8ii-specificita-della-primavera-siriana-e-attuale-situazione/ Wed, 26 May 2021 11:32:05 +0000 https://ogzero.org/?p=3552 Nella serie di articoli dedicati alle rotte mediorientali della raccolta di analisi stilate da Fabiana Triburgo sulla questione migratoria la sezione siriana si compone doverosamente di alcuni interventi ciascuno dedicato a uno dei molteplici aspetti che presenta questa diaspora, biblica per proporzioni, e vicissitudini toccate ai più di 12 milioni di individui siriani coinvolti nella […]

L'articolo n. 8 – Siria (II): la Primavera e le “tre Sirie” proviene da OGzero.

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Nella serie di articoli dedicati alle rotte mediorientali della raccolta di analisi stilate da Fabiana Triburgo sulla questione migratoria la sezione siriana si compone doverosamente di alcuni interventi ciascuno dedicato a uno dei molteplici aspetti che presenta questa diaspora, biblica per proporzioni, e vicissitudini toccate ai più di 12 milioni di individui siriani coinvolti nella catastrofe umanitaria che ha fatto seguito allo scatenarsi del conflitto siriano dell’ultimo decennio, in un paese che oggi è diviso nelle tre Sirie che costituiscono una situazione geopolitica nuova.

L’autrice ha dapprima analizzato le attuali condizioni di siriani ormai integrati in realtà esterne al paese ai quali ora viene chiesto di rimpatriare, rischiando la vita e rinunciando alla nuova esistenza costruita faticosamente in esilio. L’analisi prosegue ora seguendo un percorso parzialmente a ritroso: le elezioni indette il prossimo 26 maggio, con una disamina della condizione economica e umanitaria in cui si svolgeranno e la specificità della Primavera araba nelle diverse regioni siriane; proseguirà poi collegando le modalità di protesta alla particolare peculiarità del regime alauita del clan al-Assad; le fasi della politica di Bashir – fino alla Primavera araba e dal 2011 in avanti.


n. 8, parte II

I principali conflitti che attualmente interessano le migrazioni forzate e le prassi di esternalizzazione poste in essere dall’Unione Europea e dai singoli stati membri portano a una predeterminazione delle rotte dei migranti.

Quello che oggi è inevitabile chiedersi è se il nuovo Patto europeo sulla migrazione e l’asilo, proposto dalla Commissione UE, possa essere realmente considerato una soluzione della gestione del fenomeno migratorio o se invece vi siano soluzioni legali alternative maggiormente lungimiranti e coraggiose.  

Il conflitto siriano

Specificità della Primavera siriana e attuale situazione

26 maggio 2021: elezioni siriane

Il conflitto armato siriano giunge in questo periodo a un processo importante che avverrà con le elezioni del prossimo 26 maggio. Invero molti non ravvisano, per varie ragioni in tale tornata elettorale, quella svolta tanto auspicata per il paese ormai dilaniato da una crisi umanitaria. Già nel 2014, sempre nel corso del conflitto, si sono tenute nel paese elezioni che hanno registrato la vittoria di Bashar al-Assad con circa l’80 per cento dei voti a favore. Tuttavia i presupposti che si pensava dovessero realizzarsi in occasione di tale ricorrenza istituzionale attuale, non si sono compiuti.

Ripartizione geopolitica del territorio

Queste elezioni diversamente da quelle tenutesi nel 2014 si svolgeranno in una condizione geopolitica completamente diversa: al momento le forze governative di Bashar al-Assad hanno il controllo di due terzi del territorio siriano, tanto che oggi più che di Siria si parla di “Sirie” essendo attualmente la Repubblica suddivisa in tre parti: la regione del Nord Ovest che vede come città principali Idlib e la parte a ovest della città di Aleppo, la regione a Est sotto l’amministrazione autonoma a maggioranza curda e l’area sottoposta al controllo del Regime che nel corso del conflitto ha recuperato diverse importanti e storiche roccaforti come la città di Damasco e la parte orientale della città di Aleppo, grazie soprattutto all’intervento delle milizie russe e filoiraniane.

Proprio per questa ripartizione geopolitica, oggi presente in Siria, le elezioni presidenziali non si svolgeranno in tutto il paese ma soltanto nelle aree poste sotto il controllo di Bashar al-Assad, nelle aree invece controllate dall’Amministrazione autonoma curda con buona probabilità saranno aperti i seggi solo nelle zone poste sotto il controllo di Damasco tra cui la città di Hasakah e Qamashil. Infine, nelle regioni ancora oggetto di conflitti armati da parte degli oppositori, in particolare nella parte Nord Ovest del paese, non vi sarà alcun nuovo round elettorale. Al momento Assad, tuttavia, sembra essere l’unico vero candidato e se vincesse le elezioni resterà al governo per altri sette anni. La lista dei 51 candidati dovrà infatti essere sottoposta alla Commissione elettorale secondo la Costituzione approvata in Siria nel 2012: i candidati devono ottenere il consenso di almeno 35 dei 250 membri dell’Assemblea popolare. Il raggiungimento di tale quota però sembra essere davvero irrealistico dato che il parlamento è dominato dal Partito ba’at al quale da anni appartiene la famiglia Assad e che ogni membro dell’Assemblea popolare può concedere il suo sostegno a un candidato soltanto.

Candidature e legittimazione della consultazione elettorale

Quindi è ragionevole pensare che l’Assemblea darà la possibilità soltanto ad altri tre individui, tra cui una donna, di potersi candidare al fianco di Assad per il ruolo di presidente: operazione questa che sembra essere di facciata, volta a lasciare intendere all’opinione pubblica internazionale che le elezioni si svolgeranno secondo un processo democratico.

Rispetto a questo va precisato che, come già accennato, alcuni membri permanenti del Consiglio di Sicurezza, in particolare Francia, Usa e Regno Unito, hanno delegittimato anticipatamente il risultato elettorale che emergerà in esito alle elezioni del 26 maggio 2021 qualunque esso sia. Tale delegittimazione in primo luogo è intervenuta in ragione del fatto che le elezioni si svolgeranno in contrapposizione a quanto è stato stabilito con la risoluzione Onu n. 2254 adottata all’unanimità nel 2015, secondo la quale le elezioni si sarebbero dovute tenere con una supervisione internazionale e soltanto in esito all’adozione di una nuova Costituzione – ancora oggi in una fase d’impasse – che avrebbe dovuto garantire la loro trasparenza e la partecipazione da parte di tutti i cittadini siriani al voto.

La situazione economica e umanitaria nel paese

Il 15 marzo 2021 è ricorso il decennale dall’inizio del conflitto armato anche se questo si dovrebbe far coincidere con il mese di luglio del 2011, quando nacque la prima formazione ufficiale militare dei ribelli ossia l’Esercito siriano libero. Il 15 marzo 2011 iniziarono le proteste della popolazione civile nei confronti del regime guidato dal presidente Bashar al-Assad allora da undici anni al potere in Siria.

Della “primavera araba sirianagià citata insieme a quella in Tunisia, in Egitto, in Yemen e in Libia – analizzeremo in questo articolo in modo più approfondito dinamiche e caratteri peculiari. Tuttavia occorre far riferimento alla condizione generale in cui il paese si trova oggi.

Sanzioni e legame con il tracollo della banche libanesi: regime indebolito

L’attuale contesto siriano è caratterizzato da un aggravamento della situazione economica, in conseguenza anche delle sanzioni “Caesar” imposte dagli Stati Uniti il 17  giugno del 2020, alle quali  si aggiungono quelle del Regno Unito imposte proprio il 15 marzo del 2021, applicate prevalentemente ad aziende che investono nel paese – non molto comprensibili, considerata tale condizione economica soprattutto con riferimento agli effetti che queste comportano prevalentemente sulla condizione della popolazione civile – nonché da una forte svalutazione della lira siriana come abbiamo già avuto modo di rilevare con riferimento alla lira libanese.

Inoltre proprio il collasso del sistema bancario libanese dichiarato nel marzo del 2020 ha aggravato la situazione economica siriana in quanto il paese in passato aveva chiesto sostegno economico alle banche di Beirut proprio per evitare le conseguenze delle sanzioni “Caesar”.

Su una popolazione attuale di 17,5 milioni di abitanti sono circa 12 milioni le persone aventi bisogno di assistenza, essendo salito il tasso di povertà nell’ultimo periodo a circa il 90% della popolazione e viene stimato al 60% il crollo delle attività economiche. A ciò si deve aggiungere anche la complicata situazione determinatasi a seguito della diffusione del virus del Covid-19 in una situazione sanitaria già al collasso per il perdurante conflitto civile nel paese.

A causa della scarsità di risorse a disposizione del governo, vi è stato poi un indebolimento dell’esecutivo di Assad che ha prodotto come conseguenza la sospensione per qualche mese dell’avanzata delle forze lealiste verso il Nordovest del paese, nel quale sono ancora presenti le forze di opposizione e la sempre maggiore dipendenza dalle milizie russe e da quelle iraniane.

Tuttavia, Russia e Iran come vedremo devono oggi porre attenzione a non creare ancora più forti tensioni con la Turchia vista la sua ferrea volontà di mantenere una zona cuscinetto di 20-30 chilometri al confine con la Siria.

Bisogni primari e catastrofe umanitaria

Ne consegue che dieci anni dopo si può constatare che i bisogni umanitari della popolazione civile sono aumentati: dal cibo, alla casa, alle cure mediche e alle infrastrutture. Inoltre, come abbiamo accennato, non si può ignorare la condizione di circa 7 milioni di sfollati interni, numero impressionante se si aggiunge a quello di circa 6 milioni e mezzo di profughi che per il conflitto hanno lasciato il paese. Le famiglie in Siria non hanno la possibilità di comprare né cibo, né medicinali e “sopravvivono” attraverso il lavoro minorile, la riduzione dei pasti nei nuclei familiari e mediante attività illegali.

I minori sono quelli che preoccupano di più: spesso costretti ad abbandonare la scuola proprio per aiutare i genitori e i fratelli più piccoli lavorando. Ed è proprio tra i minori che si registra il drammatico aumento del numero di suicidi, soprattutto nel Nordovest del paese, dato che secondo Save the Children, nel Rapporto pubblicato il 29 aprile del 2021; il numero è salito di circa l’86 per cento in più rispetto all’anno precedente per cui in tale zona si è passati da 132 casi di suicidi all’inizio del 2020 fino a 246 a fine anno: quasi un tentativo di suicidio su cinque è di un bambino di età pari o inferiore a 15 anni.

 

Questa situazione è di una gravità senza precedenti e difficile da accettare penso per qualsiasi individuo. Occorre quindi soffermarsi un istante a pensare: se si arriva al compimento di tale atto possiamo solo immaginare quanto sia percepito ostile da parte dei bambini siriani l’ambiente in cui si trovano. Questi bambini sono minori che non hanno da diversi anni quasi alcuna possibilità di istruzione, cresciuti anno dopo anno nella guerra e ora anche nell’indigenza familiare e nella condizione della diffusione di un virus senza mezzi per contenerlo o curarlo. Per loro è assente ogni speranza per il futuro. Se più bambini arrivano a pensare questo vuol dire che si sta consumando una catastrofe. Quindi data l’analisi della situazione dei minori, con particolare riferimento al Nord Ovest del paese, appare più appropriato – considerata anche la suddivisione territoriale politica che attualmente si registra in Siria – cercare di dare uno sguardo in seguito partendo dalla situazione che emerge in ciascuna delle macroaree nelle quali oggi è suddivisa la repubblica, vivendo queste – pur se inserite nella generale crisi umanitaria ed economica che coinvolge l’intera nazione – una distinta situazione geopolitica che inevitabilmente si riflette sulla condizione delle collettività in esse presenti.  

La specificità della Primavera araba siriana

Come già accennato nel marzo del 2011 si innestava quell’onda di proteste popolari che diede origine alla cosiddetta “Primavera araba siriana”. Le proteste che cominciarono a sconvolgere anche il Medioriente, oltre al Nordafrica, iniziarono in Siria nella città di Dara’a, dopo che alcuni ragazzi avevano imbrattato i muri di una scuola con graffiti contro il presidente Bashar al-Assad (“Ora tocca a te, Dottore”) – riferendosi alla caduta del regime egiziano di Mubarak – ragione per la quale i ragazzi vennero immediatamente arrestati, picchiati e torturati. In realtà, nonostante la dura e sanguinaria repressione a esse inflitta, le proteste portate avanti da migliaia di siriani per lo più giovani, pur contestando fortemente il regime, non furono inizialmente espressione di un’istanza di destituzione del regime di Assad, quanto piuttosto di quella concernente il riconoscimento delle libertà civili come quella di stampa e quella legata alla manifestazione di pensiero nonché del riconoscimento dei diritti fondamentali in favore dei cittadini siriani.

Le tre Sirie

Già in questo carattere più moderato delle proteste si riscontra la prima differenza della “primavera siriana” rispetto ad altre “primavere” nate in opposizione a regimi dittatoriali come quello di Mubarak in Egitto. Non solo, i caratteri di tali moti portati avanti dieci anni fa in Siria sono da riscontrarsi peculiari anche rispetto ad altri fenomeni. In primo luogo, in Siria diversamente da quanto è avvenuto in Egitto, il potere militare era già da anni tenuto sotto controllo dalla famiglia Assad in quanto i suoi vertici sono profondamente legati al clan familiare del regime al potere in Siria: in particolare questo aspetto ha indirettamente implicato che il presidente della repubblica non fosse destituito ma anzi sostenuto, in conseguenza dalle proteste popolari, da parte delle milizie governative. Anche se, infatti per la prima volta l’esecutivo siriano, guidato da Muhammad al-Utri, zio della moglie di Assad, il 29 marzo è stato costretto alle dimissioni, a causa delle pressioni popolari, gli equilibri del regime di Damasco non sono crollati affatto.

In secondo luogo, la cosiddetta “primavera araba siriana” non solo non ha condotto alla nomina di un nuovo capo dello stato e all’instaurazione di un nuovo sistema di governo ma è sconfinata, come vedremo meglio, in un sanguinoso quanto lungo conflitto civile nel quale il potere centrale però è rimasto sempre presente e attivo militarmente.

Vedremo che, come nel caso della Libia, nel conflitto in cui sono sconfinate le proteste, nel tempo si sono inserite altre potenze internazionali, interessate sia al mantenimento della stabilità dell’area che al mantenimento dei propri interessi nel paese.

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Hamas, il principe di Gaza https://ogzero.org/hamas-il-principe-di-gaza/ Mon, 17 May 2021 00:41:29 +0000 https://ogzero.org/?p=3496 La tempesta perfetta per israeliani e palestinesi. Un’analisi dell’organizzazione al comando nella Striscia e del vantaggio che ne trae la destra israeliana Due forze di destra ultraconservatrice, entrambe sostenute dalle rispettive superstizioni confessionali nelle frange più estremiste, si confrontano legittimandosi a vicenda. Abbiamo chiesto ai sodali di “Atlante delle guerre” di riprendere l’articolo di Eric […]

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La tempesta perfetta per israeliani e palestinesi.

Un’analisi dell’organizzazione al comando nella Striscia

e del vantaggio che ne trae la destra israeliana

Due forze di destra ultraconservatrice, entrambe sostenute dalle rispettive superstizioni confessionali nelle frange più estremiste, si confrontano legittimandosi a vicenda.

Abbiamo chiesto ai sodali di “Atlante delle guerre” di riprendere l’articolo di Eric Salerno publicato il 15 maggio per arricchire il nostro Studium sulle Terre resistenti e la comunanza tra le realtà oppresse intorno al Mediterraneo risulta sempre più valido. Quello che ci è sembrata una sorta di cancrena, che continua a riproporsi da più di trent’anni di impunità sancita dal blocco di ogni organismo di controllo, è dimostrata dagli articoli scritti da Eric a suo tempo – e qui riprodotti – che fotografano esattamente il momento in cui è scattata la trappola.

Trentaquattro anni fa la popolazione della Striscia era un quinto dell’attuale e l’estensore dell’articolo era già stupito della densità e della precarietà della condizione delle esistenze in quell’inferno, che già nel 1987 era chiaramente inquadrato come un sistema di apartheid («Qui siamo come a Soweto»), ma “la bomba a orologeria” è stata fatta brillare più volte senza fare danni, se non riducendo diritti, producendo vittime palestinesi e mettendo le radici di quella società bi-etnica che ora anima la guerra civile in corso nelle città israeliane abitate da arabi ed ebrei.

Eric Salerno, “Il Messaggero”, 1° giugno 1987

Non è peregrino che il titolo alluda a Belfast, come vedremo nel prosieguo del dossier sulle Terre resistenti

Oltre alla società bi-etnica i Servizi israeliani hanno scientemente messo le radici per costruire il nemico adatto, quell’avversario strategicamente perfetto che consente di rimanere impuniti anche a fronte di qualsiasi nefandezza. Il Golem però potrebbe rivelarsi esiziale, come nel mito ebraico?


Machiavelli, quel nostro principe che amava raccontare e suggerire gli intrighi più complessi, si sarebbe divertito a guardare il conflitto israelo-palestinese e le palesi contorsioni di alcuni suoi protagonisti che gli osservatori non solo italiani, spettatori sempre più relegati al ruolo di commentatori inutili, non sembrano capaci – o non vogliono? – denunciare. Eppure quello che si svolge davanti ai nostri occhi ricalca un nostro – antico romano e non italico – progetto: Dīvĭdĕ et ĭmpĕrā. Il modo migliore per controllare un popolo è dividerlo, provocando rivalità e fomentando discordie.

Hamas, che in queste ore, è nell’obiettivo dei bombardieri israeliani, deve molto a Israele. Per almeno dieci anni, tra il 1978 e il 1987, il movimento fondamentalista, costola dei Fratelli musulmani egiziani, è riuscito a sviluppare nella striscia di Gaza una base formidabile di consensi, grazie anche ai servizi segreti di Tel Aviv. Gaza, allora, era territorio occupato come la Cisgiordania. Nella striscia si erano istallati undicimila coloni israeliani tra i più radicali. Protetti da un apparato militare imponente la cui amministrazione vedeva di buon occhio l’avvento di un movimento islamico religioso come contraltare ai laici dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp) guidata da Yasser Arafat e tendente a sinistra. Un funzionario israeliano, intervistato nel 2009 dal “Wall Street Journal”, raccontò molto di quell’operazione che, spiegò, appariva convincente ma che si sarebbe dimostrato, «per molti di noi», un errore. O no?

Tel Aviv vedeva nel leader del movimento, il paraplegico Sceik Yassin, un uomo di fede da contrapporre all’Olp. La sua “Mujama”, una organizzazione caritatevole con scuole, cliniche, una biblioteca e una università, poteva alleggerire la pressione sugli occupanti e ridurre la tensione che rischiava di esplodere. «Se fossi nato e cresciuto qui – mi disse allora Giulio Andreotti durante una visita nella Striscia – diventerei un terrorista». Tornai a Gaza appena scoppiata la prima Intifada e vi incontrai i leader di Hamas che erano usciti allo scoperto aggiungendo alla loro attività di assistenza sociale una Carta intrisa di antisemitismo e votata alla distruzione di Israele.

Eric Salerno, “Il Messaggero”, 9 gennaio 1988

Dopo Oslo

Poi vennero gli accordi di Oslo (agosto 1993), la bozza di pace firmata da Rabin, Peres e Arafat sotto gli occhi di Clinton sul prato della Casa bianca. Il mondo esultò. O quasi. I ricordi sono sempre utili: ne ho uno di quel pomeriggio, dopo la firma, particolarmente significativo. Ero presente al ricevimento offerto dall’ambasciata israeliana per i suoi leader e i giornalisti accreditati in Israele. Un giornalista ebreo americano, molto noto per le sue posizioni, affrontò Rabin con un’accusa: «Come hai potuto fare questo a noi!». Pace sì, voleva, ma senza i palestinesi. Anche Hamas voleva la pace, ma senza gli israeliani. E lo fece capire diventando sul piano militare la più grossa minaccia all’occupazione israeliana. E alla credibilità di Arafat, in quegli anni chiuso nella sua fortezza di Ramallah circondato dalle forze israeliane e che lasciò per farsi curare in Francia e dove tornò per essere sepolto. E con lui gli accordi che aveva firmato a Washington e che non piacevano al centro-destra israeliano o, direi, alla maggioranza degli israeliani.

Rabin (paragonato a un traditore anche da Netanyahu) venne assassinato e le sue ceneri riportarono al potere i discepoli di Jabotinsky, sionista di estrema destra, discepolo-protetto di Mussolini. 

Vladimir “Ze’ev” Jabotinski

E torniamo a Gaza. A Hamas. Ariel Sharon, ex generale diventato politico, responsabile (quanto meno indirettamente) dei massacri nei capi palestinesi di Sabra e Shatila (Beirut) da premier si lanciò in ciò che poteva apparire come un passo avanti verso la fine dell’occupazione israeliana dei Territori. «Lasciamo Gaza, – annunciò al mondo, – via le nostre truppe e via gli undicimila coloni con i loro insediamenti».

Abu Mazen, il successore di Arafat, si congratulò ma, quasi in ginocchio, esortò Sharon a concordare con lui il ritiro per consentire all’Autorità nazionale palestinese e alla nuova politica del dialogo di guadagnare punti invece di far apparire il ritiro come una vittoria della lotta armata, o terrorismo, portata avanti con fervore dai militanti di Hamas. La risposta fu un netto rifiuto. E alla elezioni successive in Palestina, le ultime [14 anni fa], Hamas vinse non soltanto a Gaza ma anche in molti centri abitati della Cisgiordania compresa la capitale, Ramallah.

Israele non ha mai voluto distruggere Hamas. Probabilmente dopo aver ridotto per l’ennesima volta il suo potenziale militare, la lascerà ancora viva.

E con i palestinesi sempre più disperati e divisi, i vari Netanyahu continueranno a imperare.

Der Golem

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Terre rare e guerre abbondanti https://ogzero.org/terre-rare-e-guerre-abbondanti/ Thu, 13 May 2021 16:45:36 +0000 https://ogzero.org/?p=3477 Lo stato kachin è una regione settentrionale di Myanmar/Birmania. Due volte la Svizzera, meno di 2 milioni di abitanti. Montagne himalaiane, fiumi solenni, distese vallate. Risorse naturali in eccesso: legname pregiato (teak), giada, oppio, oro. Una storia non placida: già retrovia dei nazionalisti cinesi di Chiang Kai-shek e del suo Kuomingtang, fin dall’indipendenza della Birmania […]

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Lo stato kachin è una regione settentrionale di Myanmar/Birmania. Due volte la Svizzera, meno di 2 milioni di abitanti. Montagne himalaiane, fiumi solenni, distese vallate. Risorse naturali in eccesso: legname pregiato (teak), giada, oppio, oro. Una storia non placida: già retrovia dei nazionalisti cinesi di Chiang Kai-shek e del suo Kuomingtang, fin dall’indipendenza della Birmania (1948) conflitti armati delle forze locali indipendentiste contro il governo centrale, popolazioni con culture, lingue e religioni diverse, profughi interni, andirivieni continuo sul lungo confine con la Cina.

terre rare e guerre

Gli stati che compongono il Myanmar e le etnie principali che vi abitano (fonte “Burma Blue”, di Massimo Morello, Rosenberg & Sellier, 2021, elaborazione OGzero).

Un boccone prelibato

Un concentrato genuino di geopolitica.

Le terre rare sono appetitose sostanze che fanno gola ai dispositivi che deliziano la nostra vita tecnologica, microchip, laser, energia solare, industria aerospaziale, militare …Un boccone prelibato. Hanno però un difetto, si trovano solo confuse e avvinghiate ad altri metalli tanto da richiedere enormi sbancamenti e lavorazioni molto elaborate, come si è accennato in un precedente articolo intitolato Materia della rete – rete della materia.

Dopo il colpo di stato del primo febbraio il traffico di autocarri e tir al confine cinese del Kachin si è molto intensificato. La Cina, tra i massimi produttori di terre rare, ne sta riducendo l’esportazione, per porre un limite alle devastazioni ambientali delle sue miniere e, soprattutto, per mettere in crisi l’impiego che ne fanno gli Usa principalmente in campo militare [un F-35 ha bisogno di 417 chilogrammi di terre rare]. Ne deriva che la supply chain – catena di approvvigionamento mondiale di terre rare entra in affanno.

Per le sue necessità la Cina da diversi anni si rivolge a Myanmar che ne è un ottimo produttore.

Da dove la Cina importa terre rare: percentuali per paese.

Gli eserciti etnici contro Tatmadaw

Ma Myanmar è in turbolenza. La feroce repressione della giunta militare non ha messo a tacere le proteste, ha, in qualche modo, addirittura ravvicinato le posizioni tra la maggior parte delle formazioni militari e politiche indipendentiste. Il più importante esercito dello stato kachin [Kia] ha abbattuto il 4 maggio un elicottero del Tatmadaw, l’esercito birmano.

Uno dei risultati del caos militare e politico è che nello stato kachin aumentano le già fiorenti miniere illegali di terre  rare, in una regione sfigurata da giganteschi scavi di altre materie e dalla deforestazione per il legname prezioso.

Miniere illegali a Pangwa, nel Kachin (fonte “Myitkyna Journal” e “The Irrawaddy”).

Il “capitalismo del cessate il fuoco”

Per concludere: nello stato kachin si ha una inequivocabile realizzazione dell’accumulazione per spoliazione attraverso la manipolazione della crisi permanente di una regione di frontiera dotata di risorse, schiacciata da appetiti di potenti apparati di potere (Cina, Myanmar, Signori della guerra locali) e dalla storica disarticolazione sociale prodotta dal colonialismo inglese. La globalizzazione del mercato ha aggravato una condizione già segnata da quello che Kevin Woods definiva dieci anni fa come capitalismo del cessate il fuoco: accordi saltuari di tregua tra militari e leader ribelli per spartirsi risorse e aree di influenza garantendosi reciproca impunità. Le citate miniere illegali sono gestite o direttamente da emissari che fanno riferimento alle aziende di stato cinesi o da milizie di frontiera collaborazioniste con l’esercito birmano. La ripartizione dei profitti ne è l’instabile architrave. Tutti i boss ci guadagnano.

terre rare e guerre

La rete di infrastrutture e le risorse (fonte “Burma Blue”, di Massimo Morello, Rosenberg & Sellier, 2021, elaborazione OGzero).

Non ci guadagnano le popolazioni che qualche volta al momento giusto riescono a reagire. È dal 2011 che la grande diga Myitsone, voluta dalla Cina famelica di energia elettrica, è stata bloccata dalle proteste popolari contro le evacuazioni di moltissimi villaggi, contro la distruzione radicale di un ampio sistema ecologico e, perché no?, contro la profanazione dell’anima idrica del paese, il fiume Irrawaddy.

La ricomposizione degli interessi e dei diritti è di là da venire.

terre rare e guerre

Fonti:

The Irrawaddy”, “S&P Global-Market Intelligence”, “Tea Circle”, “The Rare Earth Observer”, “Asia Times Financial”, “Roskill”.

 

Approfondimenti:

D. Harvey, The ‘new’ imperialism: Accumulation by dispossession, Socialist Register, n. 40, 2004.

K. Woods, Ceasefire Capitalism: Military–Private Partnerships, Resource Concessions and Military – State Building in the Burma – China Borderlands, “The Journal of Peasant Studies”, vol. 38, n. 4.

K. Dean e M. Viirand, Multiple borders and bordering processes in Kachin State, in A. Horstmann, M. Saxer, A. Rippa, Routledge Handbook of Asian Borderlands, Routledge, 2018.

R. Einzenberger, Frontier capitalism and politics of dispossession in Myanmar: The case of the Mwetaung (Gullu Mual) nickel mine in Chin State, “Austrian Journal of South-East Asian Studies”, vol. 11, n. 1.

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La guerra cambia https://ogzero.org/la-guerra-cambia-o-no/ Wed, 14 Apr 2021 07:14:44 +0000 https://ogzero.org/?p=3072 Blinken annuncia per il September/Eleven 2021 la fine del conflitto più lungo nella storia degli Usa. Con il ritiro degli ultimi 2000 boots on the ground dall’Afghanistan si concludono vent’anni di guerra che sono costati più di 100.000 morti civili e qualche migliaio di combattenti solo nel conflitto afgano. Dove sono stati utilizzati massicciamente quei […]

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Blinken annuncia per il September/Eleven 2021 la fine del conflitto più lungo nella storia degli Usa. Con il ritiro degli ultimi 2000 boots on the ground dall’Afghanistan si concludono vent’anni di guerra che sono costati più di 100.000 morti civili e qualche migliaio di combattenti solo nel conflitto afgano. Dove sono stati utilizzati massicciamente quei militari professionali appartenenti ad agenzie che forniscono servizi, anche e soprattutto bellici (ma pure logistici) in ogni situazione di conflitto: i “contractor”, quei prezzolati che seguono regole di ingaggio specificate nei contratti – spiegati con precisione da Stefano Ruzza nel video inserito nell’articolo – stipulati anche con governi, che non si possono permettere le “spese” di una guerra o di apparire come invasori. “La guerra cambia” è il titolo di questo splendido contributo di Eric Salerno, che descrive il mondo di questi militari di professione a partire da una sua intervista di sessant’anni fa a un soldato di ventura tedesco, impegnato nell’operazione coloniale contro il Congo di Lumumba… e così si insuffla il dubbio che la trasformazione della forma in cui si presenta la “Guerra” sia reale. Il discorso poi si dipana in giro per tutto il mondo e in ogni guerra più o meno dichiarata, mentre in parallelo scorrono racconti e figure inquietanti del passato, come il racconto dell’incontro vecchio di 50 anni di Roman Gary con un ex agente dell’Oas impazzito nella sua tana a Gibuti. E allora il dubbio su quanto sia cambiata la guerra diventa certezza in questa carrellata degna di Ermanno Olmi e del suo Il mestiere delle armi… che non cambia mai a dispetto di quanto sia cangiante l’idea di guerra.


Mercenari, legionari, contractors e… droni

La verità sulla morte di Lumumba

«I am a mercenary coming from the Congo. I want to tell you how Lumumba was killed». Così Gerd Arnim Katz – il suo nome dichiarato – si presentò alla redazione di “Paese Sera” una mattina del febbraio 1961. Ascoltai la sua storia (in parte vera in parte fantasia) e il quotidiano romano di sinistra uscì con un titolo a piena prima pagina sulla morte del leader africano, trucidato per ordine della Cia. Katz era una pedina minore in un campo di battaglia vasto come sta tornando a essere l’Africa di oggi.

"Paese Sera" - 23 e 24 febbraio 1961

Intervista a Gerd Arnim Katz, testimone dell’assassinio di Patrice Lumumba nella sede di “Paese Sera”

Non era certo un Mike Hoare, il più celebre dei mercenari del Novecento, che nel 1964 ebbe da Moise Ciombe, presidente dell’autoproclamato stato di Katanga, una provincia del Congo, l’incarico di reprimere la rivolta dei Simba, un esercito popolare di liberazione di ispirazione maoista che era riuscito a conquistare l’importante città di Stanleyville, prendendo in ostaggio oltre 1500 cittadini europei. E tanto meno poteva, quel mercenario approdato al quotidiano romano, essere paragonato a Rolf Steiner, ex legionario, ex capo dei mercenari in Biafra, ingaggiato come consulente militare dai ribelli cristiani Anya Nya impegnati con l’aiuto del Mossad israeliano nella guerra secessionista nel Sudan meridionale e finito in carcere dopo un lungo processo a Khartoum.

Legionari resi folli dall’inaccettabile fine dell’impero coloniale…

Katz fu, però, il primo di non pochi soldati di ventura che incontrai nei miei giri per l’Africa e altrove dove oggi, nel continente nero come nel resto del mondo, la guerra sta assumendo nuove forme e impiega nuovi-vecchi attori. I mercenari si chiamano contractors (suona meglio) ma spesso sono quelli di sempre; i drone operators si chiamano piloti anche se stanno seduti per ore davanti a uno schermo ben distante dal campo di battaglia. I fanti del prossimo futuro sono robot sofisticati come quelli di cui leggevo da bambino nei racconti di fantascienza di Isaac Asimov o Ray Bradbury. La guerra cambia. «In meglio!», asserisce chi ha investito nella nuova faccia del military-industrial complex, come lindustria degli armamenti o, diciamo, della guerra fu definita dal generale poi presidente degli Usa Eisenhower. «In peggio!», sostengono coloro che trovano difficile pensare a un robot o a un pilota della nuova generazione e tanto meno all’amministratore delegato di una società, che offre manodopera armata come se fossero colf, badanti o operatori del sesso, trascinato sul banco degli imputati per crimini di guerra.

Il mercato del lavoro a disposizione del quale si era messo quel Katz con cui parlai sessanta anni fa era ben diverso da ciò che offre il mondo d’oggi. All’epoca molti sbandati o pregiudicati come lui trovavano spazio nella vecchia Legione straniera francese, una specie di esercito parallelo a quello ufficiale di Parigi, formalmente sottoposto alle medesime regole di comportamento ma, come si vide nelle sue avventure in Vietnam o in Algeria, molto più elastico, per usare un eufemismo, nel trattamento del nemico.

Imaginez le drapeau tricolore sortant de ce nulle part. Un autre traîne sans vie au-dessus dune tour de guet que je reconnais immédiatement: cest celle des postes isolés en territoire viet. Une cabane de pierres entassées et autour Eh bien, oui: des sacs de sable contre les balles et une mitrailleuse qui pointe

Vous ne me croyez pas. Tant mieux. Je garderai mieux pour moi cette pierre qui brille de tous les éclats dune belle et pure folie Un homme vit là-dedans depuis six ans: lex capitaine Machonnard. Je dix ex: privé de son grade pour son action dans lOas. Devenu fou: cest ainsi quon appelle ceux qui ne peuvent se faire à la réalité. Un an dinternement. Un Homme pur qui le temps sest arrêté et ne se remettra plus jamais en marche : vous comprendrez dans un istant

Le capitaine sort une bouteille de champagne de sa serviette.

– Pour célébrer la victoire de Dien Bien Phu

[…]

Car, vous lignorez peut-être, mais Machonnard vous le dira : lIndochine et lAlgerie sont toujours françaises, le général Salan est président de la République, dans tout lAfrique  française les enfants noirs continuent à apprendre en chœur les premières lignes dIsaac et Malet : «Nos ancêtres les Gaulois avaient de longues moustaches blondes…»

(Roman Gary, Les Trésors de la mer Rouge, Gallimard-Folio, Paris, 1971)

… e i crimini incarnati in una figura di mercenario

Rolf Steiner

Ritratto di un mercenario realizzato da Eric Salerno il 21 agosto 1971 per “Il Messaggero”

Le nuove compagnie di ventura

Oggi la legislazione a livello internazionale distingue tra i mercenaries – tutti fuorilegge – e i contractors, ossia dipendenti delle numerose società private o semigovernative che operano saltellando da un conflitto a un altro. Certamente l’esempio più clamoroso risale ai momenti più caldi delle guerre in Iraq e in Afghanistan quando gli Usa impiegarono oltre 260.000 di questi contractors, in gran parte ex militari o ex agenti di polizia. Spesso erano più dei militari stelle e strisce schierati nei due fronti. I loro compiti andavano dalla costruzione delle basi e dei campi rifugiati al servizio mensa e al mantenimento delle armi; dalla sicurezza degli impianti a quella dei diplomatici. E anche all’interrogatorio dei detenuti non sempre condotto con il rispetto delle convenzioni internazionali sul trattamento riservato ai prigionieri di guerra.

I due fronti, afgano e iracheno, sono ancora vitali per l’industria militare (anche come testing ground per armi e sistemi) e ai contractors Usa si sono aggiunti molti altri. La famosa – o infame – Blackwater fondata nel 1997 da Erik Prince, un ex Navy Seal con un grande patrimonio di famiglia fu costretta a cambiare nome nel 2011 dopo numerosi scandali che coinvolgevano loro operativi e almeno un processo. L’incidente più clamoroso risale al 16 settembre 2007 quando a Baghdad 17 iracheni, di cui almeno 14 civili, rimasero uccisi dal fuoco dai contractors della compagnia militare privata: la Blackwater ora si chiama Academi. Ed è sempre la prima per importanza di un lungo elenco.

Erik Prince

Forze militari in affitto: Erik Prince, fondatore della Blackwater-Academi

Dall’altro lato di quella che era la cortina di ferro negli anni della contrapposizione Usa-Urss, gli fa concorrenza la misteriosa Wagner Group, una organizzazione paramilitare che secondo alcuni farebbe capo al ministero della difesa di Mosca. Formalmente, per quanto si riesce a capire, è di proprietà di un uomo d’affari (Yevgeny Prigozhin) con legami con il presidente russo Putin. Seppure a distanza (relativa) quelli di Academi e di Wagner si scontrano-sfiorano nel vasto, complicato, scacchiere della guerra in Siria la cui popolazione, peraltro, è diventata un grande serbatoio di reclutamento di mercenari. Il gruppo privato russo li usa sia nei conflitti indiretti non solo in Siria ma anche nella guerra in Donbass in Ucraina e in Libia. E secondo molte fonti anche in Sudan, Repubblica centroafricana, Zimbabwe, Angola, Madagascar, Guinea, Guinea Bissau, Mozambique e forse nella Repubblica democratica del Congo.

Sudan 1971

Mercenari già allora russi nel conflitto sudanese 1971 in un articolo di Eric Salerno per “il Messaggero” del 21 giugno 1971

Un altro esercito di mercenari (soprattutto ma non solo siriani) è quello creato dalla Turchia nel quadro dei suoi progetti egemonici. Almeno quattromila sono in Libia e altri furono utilizzati da Ankara a sostegno dell’Azerbaijan nel conflitto con gli armeni sul Nagorno-Karabakh. Questi i grandi attori ma non gli unici. Gli Emirati si sono serviti di mercenari provenienti dalla Colombia (addestrati dagli Usa) e da alcuni stati africani per la loro guerra a fianco dell’Arabia saudita in Yemen. Rifugiati afghani furono utilizzati dall’Iran in Siria a fianco di Assad. Lo stesso Gheddafi reclutava mercenari nei paesi africani a sud della Libia.

Mercenari subsahariani di Gheddafi

Gheddafi reclutava mercenari nelle zone dell’Africa subsahariana.

Milizie private, dunque, milizie al servizio di stati che cercano di nascondere il loro coinvolgimento ufficiale nei conflitti oppure ridurre-nascondere l’impatto economico o in termini di costo umano delle imprese volute dai rispettivi governi. Ma a parte queste considerazioni che riguardano la legalità dei contractors rispetto alle convenzioni internazionali viene da chiedersi cosa faranno questi mercenari quando non serviranno più ai loro committenti. Dove andranno a lavorare? Per chi?

Nuovi prodotti bellici e nuova carne da cannone

Quando l’industria della guerra riuscirà a sfornare i suoi nuovi prodotti quei mercenari sfruttati e mandati al macello non serviranno più. Nei campi di battaglia attuali si sperimentano gli eserciti del futuro. Stati Uniti, Russia e Israele sono all’avanguardia nello sviluppo di Sistemi d’Arma Autonomi Letali (Laws) che consentiranno di togliere gli esseri umani dai campi di battaglia. Recentemente uno dei responsabili del ministero della difesa di Londra si è detto convinto che nel giro di pochi anni il grosso delle forze armate del suo paese sarà rappresentato da robot-fanti in grado di uccidere in base all’input della loro intelligenza artificiale. Si parla di un’autonomia – con tutto quello che implica anche dal punto di vista legale – superiore a quella dei droni-suicida già operativi come l’Harop israeliano usato dall’Azerbaijan ripreso mentre distruggeva una batteria anti-missile russo in Armenia.

Harop Drone

Il drone suicida di fabbricazione israeliana Harop è utilizzato in ogni scenario di guerra

E qui vale la pena tornare ai contractors, a quanto possono essere considerati responsabili delle loro azioni e del controllo sui mezzi autonomi. Oggi mantenere in azione per 24 ore una pattuglia di droni armati Predator e Reaper delle forze armate americane richiede la “presenza” di 350 esseri umani molti dei quali dipendenti delle società militari private. La legislazione introdotta per
regolamentare il comportamento dei contractors Usa viene considerata da molti esperti di diritto internazionale insufficiente.

Negli altri stati che si servono di personale civile (non necessariamente cittadini di quei paesi) per operazioni militari la questione è ancora più complessa e controversa. E ci mette di fronte al futuro, quello in cui si vorrebbe affidare a un algoritmo il compito di cercare, identificare e uccidere il bersaglio giusto (umano o non) in un campo di battaglia complesso alla presenza di civili non combattenti. «Non bisogna dare retta a coloro che garantiscono che queste armi saranno intelligenti», il commento preoccupato di Noel Sharkey, presidente del Comitato internazionale per il controllo delle armi robotiche. Altri come lui sottolineano come queste nuove tecnologie sono tutte soggette a hacking e dunque possono sfuggire al controllo del committente. Un tentativo di studiare il fenomeno e creare una serie di regole d’uso è stato compiuto dal Sipri (2020). «Vi sono imperativi legali, etici e operazioni per il controllo umano dell’uso della forza e, dunque, sui sistemi di armamenti autonomi», si legge nelle conclusioni di Limits on Autonomy in Weapon Systems. Identifying Practical Elements of Human Control.

Tutto questo per quanto riguarda il mondo, diciamo, delle Nazioni disposte ad assumersi le proprie responsabilità in tempo di guerra. Pochi, finora, hanno voluto addentrarsi nel reame sempre più fluido dei conflitti per procura e degli eserciti di mercenari. Per non parlare del mondo parallelo della criminalità organizzata che oggi ancora più di ieri attinge al vasto mercato libero delle armi siano convenzionali che del futuro. Droni di fabbricazione israeliana sono stati segnalati sia nelle mani della polizia messicana che a disposizione dei grandi cartelli dei narcotrafficanti (trasporto di cocaina e altro). E le stesse organizzazioni si fronteggiano spesso grazie ai servizi di società private (molte di quelle israeliane formati da ex delle forze armate e dei servizi segreti sono sotto inchiesta a Tel Aviv) capeggiate da esperti nel mondo della cibernetica e dell’Intelligenza artificiale.

Paramilitari in Mexico

 

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n. 1 – Corno d’Africa: Migranti e secolari conflitti etnici e coloniali https://ogzero.org/una-visione-di-insieme-degli-scenari-che-provocano-migrazioni/ Sun, 11 Apr 2021 08:22:39 +0000 https://ogzero.org/?p=2976 Questo saggio fa parte di una raccolta di articoli che fornisce una panoramica sulla questione migratoria: analizzeremo insieme a Fabiana Triburgo le varie rotte che si sono delineate nel tempo a causa di conflitti o e instabilità che provocano questo fenomeno per giungere infine a un’analisi della normativa europea e delle alternative che potrebbero emergere […]

L'articolo n. 1 – Corno d’Africa: Migranti e secolari conflitti etnici e coloniali proviene da OGzero.

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Questo saggio fa parte di una raccolta di articoli che fornisce una panoramica sulla questione migratoria: analizzeremo insieme a Fabiana Triburgo le varie rotte che si sono delineate nel tempo a causa di conflitti o e instabilità che provocano questo fenomeno per giungere infine a un’analisi della normativa europea e delle alternative che potrebbero emergere da politiche più coraggiose e lungimiranti. Qui il primo contributo, focalizzato sul Corno d’Africa.


n. 1

I principali conflitti che attualmente interessano le migrazioni forzate e le prassi di esternalizzazione poste in essere dall’Unione Europea e dai singoli stati membri portano a una predeterminazione delle rotte dei migranti.

Quello che oggi è inevitabile chiedersi è se il nuovo Patto europeo sulla migrazione e l’asilo, proposto dalla Commissione UE, possa essere realmente considerato una soluzione della gestione del fenomeno migratorio o se invece vi siano soluzioni legali alternative maggiormente lungimiranti e coraggiose.  


Le diverse culle dell’emigrazione dal continente africano e l’accoglienza in Europa

Occorre da principio analizzare alcuni dei conflitti e situazioni di instabilità politica che continuano a interessare diverse aree del Mondo per poter capire meglio quali siano le nazionalità coinvolte nelle attuali correnti umane quantomeno di quelle forzate. Gli accadimenti bellici determinatisi in Etiopia dal mese di novembre 2020 per esempio, con particolare riferimento alla regione del Tigray, hanno proiettato nuovamente il rischio di un’instabilità politica dell’area che si pensava superata con l’elezione del nuovo presidente Abiy Ahmed Ali e dagli accordi di non belligeranza del 2018. Tali accadimenti hanno di fatto riportato l’attenzione della Comunità internazionale in questa area del Corno D’Africa.

Il campo di Dadaab che il Kenya intende chiudere. Il Corno d’Africa è l’area del mondo che produce e accoglie il maggior numero di sfollati, circa 11 milioni.

Le dinamiche di tale conflitto che il Governo Federale Etiope cerca di tenere sotto controllo, nonostante le attuali guerriglie, anche in vista delle prossime elezioni, coinvolgono non solo L’Etiopia ma anche L’Eritrea, la Somalia, il Sudan, paesi già interessati tra l’altro da conflitti interni, nonché l’Egitto che, caratterizzato da un sistema autoritario, mantiene comunque forti interessi economici nella zona. Non solo, la Libia da diversi anni, in una situazione di assenza di un governo unitario del paese, è concretamente divisa in due aree d’influenza politica la Cirenaica e la Tripolitania nelle quali i rispettivi esponenti Khalifa Haftar da un lato e Fayez al-Sarraj dall’altro si contendono l’egemonia e le risorse del paese nel quale vi sono anche altre presenze internazionali ossia Russia, Egitto e Francia da un lato, Turchia e Italia dall’altro; l’idea al momento è quella di creare un governo transitorio che guidi il paese fino alle elezioni di dicembre del 2021.

La Tunisia, invece, dove ebbero inizio dieci anni fa le cosiddette primavere arabe, dal 2010 ha formalmente adottato un sistema democratico ma al contempo ha visto susseguirsi, negli ultimi anni, diversi governi ed è attualmente interessata da numerose e continue proteste popolari che denunciano il mancato rispetto da parte dell’attuale governo di alcuni diritti civili fondamentali. A tali scenari si aggiungono le situazioni geopolitiche non ancora risolte riguardanti più in generale l’Africa subsahariana ossia non solo paesi come la Nigeria ma anche l’area del Sahel in particolare il Mali e il Niger mentre sul fronte del Medio Oriente a destare maggiori preoccupazioni sono l’Afghanistan, l’Iraq e la Siria.

In tale contesto internazionale si inserisce la politica europea e dei singoli stati membri dell’UE in materia di immigrazione che, vista la perdurante applicabilità dal Regolamento di Dublino e dei criteri da esso stabiliti, ha determinato di fatto un condizionamento o meglio un vero impedimento per i migranti ad attraversare determinate frontiere. Ciò è avvenuto mediante la definizione da parte dell’UE o di singoli paesi dell’UE di accordi bilaterali, contraddistinti dai continui respingimenti dei migranti (dei quali i numeri per il solo anno 2020 sono impressionanti anche con riferimento alle vittime), con i paesi che geograficamente sono collocati alle porte dell’UE: l’accordo con la Turchia nel 2016 per fermare i flussi migratori verso la Grecia (rotta dell’Egeo), con la guardia costiera Libica, con il Niger e la Tunisia, per bloccare i flussi migratori verso l’Italia e Malta (rotta del Mediterraneo centrale), con il Marocco per fermare l’emigrazione verso la Spagna (rotta Atlantica). Il supporto finanziario per il contrasto al fenomeno migratorio di flussi misti si è spinto oltre: l’agenzia europea Frontex ha coadiuvato tali controlli e respingimenti delle frontiere insieme alla polizia croata, per i migranti provenienti dalla Bosnia, e anche a quella Italiana rispetto ai migranti provenienti dalla Slovenia (Rotta Balcanica) che hanno quindi così garantito la riuscita del cosiddetto “Game”.

Per quanto riguarda le “frontiere liquide”, ossia quelle marittime, occorre prestare attenzione alla definizione delle zone Sar (“Search and Rescue”) e alla criminalizzazione del diritto al soccorso in mare in evidente violazione delle Convenzioni internazionali in materia, nelle quali il soccorso in mare prima ancora di un diritto è un obbligo.

Divisione Sar mediterranee

In conclusione ci si chiede se sia corretta l’approvazione del parlamento europeo e del consiglio europeo di una proposta di una normativa della commissione che mira alla creazione di campi di confinamento, ossia grandi “hotspot” in prossimità delle frontiere UE, non solo per l’identificazione (attività di “screening”) ma anche per una valutazione accelerata della domanda d’asilo, che continua a mantenere il criterio gerarchico del primo paese d’arrivo e che infine considera l’obbligo del diritto al soccorso in mare come un diritto il cui monopolio spetta alle singole autorità statali dell’Unione Europea. Le minori garanzie per i diritti dei migranti e i rischi per la loro vita si potrebbero superare con una vera inversione di rotta: un sistema giuridico fondato principalmente, e non in via residuale, su “canali legali” quali i corridoi umanitari, su una maggiore concessione di visti di ingresso da parte dei paesi UE e da ultimo un sistema obbligatorio di ripartizione per quote delle domande d’asilo, pratiche sicuramente meno negazioniste del fenomeno dell’emigrazione.

Flussi della mobilità umana indotti da teatri di guerra

I conflitti e le situazioni di instabilità politica che attualmente interessano diversi paesi del Nordafrica, cosi come quelli riguardanti la zona del Sahel e dell’Africa subsahariana più in generale, e i paesi dell’Area Mediorientale, hanno ripercussioni inevitabili sulle correnti umane – definibili come flussi delle migrazioni forzate – alcune già in essere, altre invece che manifestano già ora il loro carattere di potenzialità di determinazione in un prossimo futuro. Tali situazioni geopolitiche non possono pertanto lasciarci indifferenti traducendosi in correnti che hanno come punto di arrivo la stessa Europa se non, come in molti casi, proprio l’Italia.  Prenderne atto o averne una conoscenza anche minima ci offre la possibilità di uscire dal nostro ristretto punto di vista ed entrare in contatto, in modo maggiormente consapevole, con un fenomeno che è quello della mobilità umana, in questi casi, chiaramente non volontaria, ma imposta da accadimenti esterni, da sempre presente nella storia.

Porre uno sguardo attento e senza pregiudizi verso i paesi per noi lontani o diversi può essere il modo di prendere atto dell’inarrestabilità del fenomeno migratorio e di come esso, anche nel tentativo di essere contenuto, non smetterà di esistere. Perché dunque non concederci una possibilità di riflessione e capire come a volte cambiare la nostra ottica voglia dire entrare maggiormente in contatto con la realtà senza doverla a tutti i costi rinnegare o soffocare?

Quello che si propone questa serie di articoli è dare una visione di insieme che cercherà di essere il più possibile inclusiva degli scenari internazionali che riguardano le aree maggiormente a rischio di implosione nel momento attuale e le ragioni di tali  rischi, per poi meglio comprendere le tappe delle migrazioni forzate fino a formulare una proposta di gestione alternativa del fenomeno migratorio che non può essere avulsa dall’analisi delle prassi, attualmente messe in campo dall’Unione Europea e da alcuni dei paesi membri, nonché  dalle proposte normative di contenimento delle correnti umane verso l’occidente ponendo attenzione a quanto è accaduto negli ultimi anni e chiedendosi non solo se tali prassi e proposte legislative siano eticamente orientate ma se prima di tutte siano logiche.

Il conflitto in Etiopia e nel Corno d’Africa

I massacri

Uno dei conflitti più recenti, al momento apparentemente sedato, ma interessato da una costante guerriglia, è quello riguardante l’area del Corno d’Africa e, più specificamente, l’Etiopia e la regione del Tigray posta al suo interno. Il 4 novembre del 2020 ha visto l’inizio delle operazioni militari ad opera del primo ministro etiope Abiy Ahmed Ali, a fronte di supposti attacchi da parte delle milizie della forza politica prevalente della regione del Tigray – il Fronte popolare di liberazione del Tigray (Tplf) – contro il governo centrale federale. Quello che doveva essere un intervento lampo, secondo il primo ministro etiope, non è stato così.

In particolare, Amnesty International riporta che il 9 novembre e il 10 novembre 2020 nella città di Mai- Kadra nello stato del Tigray, c’è stato uno spaventoso massacro di civili, circa 500, ufficialmente non identificato per quanto riguarda l’attribuzione di una responsabilità. Tuttavia, vi sono testimoni oculari che hanno chiamato in causa forze leali al Tlpf, tra cui la polizia speciale del Tigray, riportando che queste si sarebbero accanite contro la popolazione della città di Mai-Kadra (di etnia amhara) in risposta all’ attacco subito, il medesimo giorno, da parte delle Forze armate federali e della Forza speciale amhara nella regione del Tigray.

Mai-Kadra, Tigray

Il massacro di Mai-Kadra il 9 e 10 novembre ha contato 600 morti di etnia amhara

Inoltre, tra il 28 e il 29 novembre 2020, questa volta, le truppe eritree, presenti anch’esse nella regione del Tigray, già a partire dal 16 novembre 2020, hanno ucciso centinaia di civili nella città di Axum per il controllo della regione mettendo in essere esecuzioni sommarie, bombardamenti e saccheggi a danno dei civili tali da poter essere lecitamente qualificati, il 4 marzo 2021, come “crimini contro l’umanità”, da parte delle Nazioni Unite.

Gli eventi sono stati riportati da parte di alcuni etiopi sopravvissuti e da altri presenti nei campi rifugiati in Sudan. Nuove fosse comuni sono state identificate in prossimità delle due chiese di Axum, attraverso le immagini satellitari di Amnesty International, riportando che il massacro sarebbe avvenuto poco prima della celebrazione della Festa cristiana ortodossa etiope di Santa Maria di Sion. La festa ricorre il 30 novembre e vede partecipare ogni anno, oltre ai cittadini della città santa di Axum, diversi turisti e fedeli provenienti anche da altre zone dell’Etiopia. La documentazione di quanto avvenuto è resa quasi impossibile dalla reticenza del governo etiope a qualsiasi ingerenza, anche mediatica, a livello internazionale sulla questione locale.

Il superamento della coalizione di fazioni etniche

Dopo tali avvenimenti l’attenzione generale sulla “questione etiope” è quasi scomparsa – tanto che il conflitto è stato dichiarato ufficialmente cessato il 28 novembre 2020 – nonostante al momento sia ancora presente una situazione di guerriglia armata. Per capire quanto è avvenuto dunque occorre analizzare le cause storiche e politiche che hanno esacerbato il conflitto nella regione etiope del Tigray. Tale scenario attuale è maturato gradualmente a partire dal 2018, anno che può essere considerato rivoluzionario per gli equilibri politici del Corno d’Africa. Infatti, da più di due anni era presente in Etiopia lo scontro tra due gruppi dirigenti all’interno della medesima forza politica che ha guidato l’Etiopia negli ultimi trent’anni, ossia il Fronte democratico rivoluzionario del popolo etiope, una coalizione di partiti creata su base etnica all’inizio degli anni Novanta dal Fronte Popolare di Liberazione del Tigray e da questo controllata fino al 2018 quando è salito al potere il primo ministro Abiy Ahmed.

Il cambio di governo ha sancito l’ascesa di una nuova alleanza nella coalizione tra i partiti corrispondenti ad altrettanti gruppi etnici ossia amhara e oromo dal quale proviene lo stesso primo ministro, e che, fino ad allora, avevano giocato un ruolo secondario nel governo dell’Etiopia e che però dal 2018 divengono forze egemoniche. Da quel momento si determina un aspro processo di rinegoziazione delle sfere di influenza all’interno delle istituzioni federali del paese. Infatti il primo ministro Abiy Ahmed ha subito individuato il Fronte popolare di liberazione del Tigray come primo e unico responsabile delle malversazioni del passato, cercando sia di creare un terreno di sintesi delle forze di opposizione e determinandosi come uomo del cambiamento, celando quelle che invece erano le sue continuità con il passato regime, sia di legittimare un ricambio dei vertici tigrini delle istituzioni federali e delle Forze Armate con figure a lui fedeli.

Questo processo di ricambio ha raggiunto il suo apice alla fine del 2019 quando Abiy Ahmed ha sciolto la coalizione del Fronte democratico rivoluzionario del popolo etiope e, in sua vece, ha creato un partito autenticamente nazionale a guida fortemente centralizzata ossia il Partito della prosperità a cui però il Fronte popolare del Tigray si è rifiutato di aderire venendo così escluso da ogni incarico nel governo federale. Il Fronte popolare del Tigray ha risposto sottolineando che si stava determinando ideologicamente la costituzione di uno stato etiopico unitario e il superamento del principio di autodeterminazione dei gruppi etnici e dell’effettiva autonomia delle regioni etiopi rispetto al potere centrale. In questo modo il Fronte di Liberazione Popolare del Tigray, da un lato ha rotto l’autoisolamento in cui il Tigray versava dal 2018, dall’altro ha legittimato quello che gradualmente è divenuto il suo ruolo ossia uno stato nello stato, in nome del principio di autonomia regionale, al quale Abiy Ahmed ha risposto con ordini di cattura da parte della procura federale verso gli ufficiali politici tigrini e con il rinvio delle elezioni presidenziali del 2020 a causa della pandemia, elezioni che al momento sono previste per il 5 giugno 2021. Quindi è seguita la decisione del Tigray di indire elezioni in maniera autonoma nel solo stato regionale settentrionale che ha sancito il culmine di questo scontro istituzionale. L’amministrazione federale si è rifiutata di riconoscere il risultato delle elezioni regionali in Tigray che riconfermavano quasi all’unanimità il Fronte popolare di liberazione tigrino e da quel momento non ha riconosciuto più l’amministrazione regionale come interlocutore istituzionale. Il Fronte popolare a sua volta ha annunciato di non riconoscere più la legittimità dell’amministrazione federale in quanto decorso il termine di 5 anni dall’inizio del mandato di governo senza che vi fossero nuove elezioni. Quindi, come detto, la guerra civile è scoppiata il 4 novembre 2020 quando vi è stato un attacco delle forze militari tigrine contro una base dell’esercito federale etiope nel nord del paese. Il conflitto del Tigray dunque può essere letto come il tentativo del Fronte popolare di liberazione nazionale di resistere a una marginalizzazione dalla scena politica etiope.

Inoltre, va considerata anche la maggiore influenza nell’amministrazione federale etiope di forze militari nazionaliste, come quelle del partito legato all’etnia “amhara”, che già dal 3 novembre sono state posizionate tra lo stato dell’Amhara e quello del Tigray e che oggi sono ancora presenti nell’Ovest della regione. Ciò ha un rilievo storico non indifferente: tali territori dal 1991 fanno parte del Tigray, ma sono storicamente reclamati dallo stato regionale dell’Amhara, che, proprio in conseguenza del conflitto scoppiato nell’area del Tigray, oggi ha acquisito l’amministrazione, seppure temporanea di essi.

Internazionalizzazione del conflitto

Il Sudan

 

una visione di insieme

4000 rifugiati etiopi dopo aver attraversato la frontiera con il Sudan

Il conflitto della regione del Tigray è poi strettamente connesso con il conflitto tra Etiopia e Sudan (che si appresta a divenire uno stato federale) che da settimane ha provocato decine di morti e centinaia di sfollati. In evidenza il tentativo sudanese di sostenere l’intervento bellico condotto dal Fronte popolare di liberazione nazionale del Tigray che, quando negli anni precedenti al 2018 era al governo, aveva costituito un’asse privilegiato con il governo di Khartum. Inoltre, questo asse aveva implicato un accordo di confine tra Etiopia e Sudan, secondo il quale, proprio su alcuni territori reclamati dall’etnia amhara, era stata riconosciuta una sovranità sudanese ed erano stati militarizzati.

Infatti l’Etiopia e il Sudan condividono un confine di circa 1600 chilometri e questa contiguità ha provocato una tensione legata alla rivendicazione di taluni territori “comuni” da diversi anni. Nel 1902 fu stipulato tra la Gran Bretagna, allora potenza coloniale del Sudan, e l’Etiopia un accordo per individuare una frontiera ma non venne specificata una demarcazione territoriale ben definita tra i due paesi. Regolari riunioni tra Etiopia e Sudan, su tale questione, si sono svolte tra il 2002 e il 2006 mentre gli ultimi colloqui riguardanti i confini territoriali sono di maggio del 2020. È chiaro che oggi, quindi, ponendo il governo federale etiope le milizie dello stato regionale dell’Amhara come forza di controllo di alcuni territori al confine tra i due paesi, il conflitto civile etiope potrebbe trasformarsi in una guerra di più vasto rilievo.

La Diga della Rinascita e al-Fashqa

Lo scorso marzo lo scontro etiope con Il Sudan si è intensificato sulla piana di al-Fashqa, contesa da decenni dai due paesi, e almeno 50 soldati etiopi sarebbero stati uccisi proprio in ragione dello scontro in quest’area. Gli scontri sono iniziati il 4 febbraio 2021 quando l’Etiopia ha lanciato una serie di attacchi contro le forze sudanesi nell’area di Umm Karura. A metà gennaio il Sudan aveva denunciato lo sconfinamento di caccia etiopi nello spazio aereo sudanese aggravando le tensioni già alte per la diga sul Nilo e i problemi causati dai 56.000 profughi etiopi fuggiti dal Tigray, in seguito all’offensiva dell’esercito etiope lo scorso 4 novembre. Alla base rimane sempre la tensione che coinvolge Etiopia, Sudan ed Egitto per la “grande diga” sul Nilo che Addis Abeba sta terminando e sulla quale non si registrano progressi negli accordi.  Nell’area di al-Fashqa, inoltre, circa 2000 militari eritrei avrebbero attraversato il confine tra Etiopia e Sudan nei pressi di Wadi-al-Charab per supportare l’esercito etiope nella difesa dell’area contesa di al-Fashqa. Tuttavia, a fine marzo, il Governo di transizione del Sudan ha appoggiato la proposta degli Emirati Arabi Uniti di mediare nella disputa con Il governo etiope. Tale atteggiamento, assertivo di un tentativo di riconciliazione con l’Etiopia da parte del Sudan, è avvenuto solo in esito alle dichiarazioni del presidente Abiy Ahmed che ha affermato, martedì 23 marzo 2021, di non voler iniziare una guerra con Il Sudan ma di voler risolvere pacificamente le tensioni su al-Fashqa e sulla questione della grande diga (Grand Ethiopian Renaissance Dam).

Il Tigray. Tra Eritrea, Etiopia e Somalia

Va in seguito sottolineata chiaramente, soprattutto alla luce di questi eventi sovraesposti, il tipo di relazione che vi è tra Tigray, Governo Federale Etiope da un lato, ed Eritrea dall’altro. Nel 2019 è stata firmata dal governo federale etiope e l’Eritrea una pace storica che ha determinato il riconoscimento del Premio Nobel per la pace ad Abiy Ahmed Ali.

Tuttavia, la relazione tra i due paesi è ancora molto complessa e va ricercata in alcuni accadimenti avvenuti diversi anni prima dell’inizio del conflitto del 2020. I tigrini del Fronte popolare di liberazione del Tigray in passato erano di fatto il fronte armato gemello del Fronte di liberazione popolare dell’Eritrea e si erano alleati negli anni Ottanta tra di loro per condurre i rispettivi paesi verso la ribellione contro un governo di tipo sovietico. Dal 1991 al 1998, infatti, i due fronti avevano delle relazioni così pacifiche che gli etiopi utilizzavano su consenso eritreo gli sbocchi sul mare dei porti di Assab e Massaua per i propri interessi economici. Nel 1998 questa relazione pacifica è stata invece interrotta da una guerra tra il Fronte popolare di liberazione eritreo e quello etiope: questo creerà delle basi per la sedimentazione di una conflittualità e dei sentimenti di odio tra i due paesi oltre che un gran numero di morti e di persone deportate fino all’elezione dell’attuale presidente etiope.

Interessi eritrei in Tigray e spartizione degli aiuti e di aree di influenza

una visione di insieme

Interessi e presenze internazionali nel Corno d’Africa

Tutto ciò premesso, deve essere analizzata la partecipazione dell’Eritrea nell’attuale conflitto etiope, a sostegno di Abiy Ahmed Ali e, in opposizione al Fronte popolare di liberazione del Tigray, che possiede i caratteri di quello che si potrebbe definire un “regolamento di conti” nei confronti del popolo tigrino.

Sulla base di quanto avvenuto lo scorso novembre si può legittimamente affermare che la pace tra i due paesi – siglata nel 2019 – deve essere considerata soltanto l’inizio di un completo processo di pace tra i medesimi e che quindi, con riferimento all’intervento eritreo nell’attuale conflitto civile etiope, occorre tenere ben a mente il rapporto tra il Fronte popolare di liberazione nazionale Etiope e l’Eritrea a partire proprio dal 1998. In secondo luogo, devono essere analizzate le annose questioni degli aiuti internazionali, già in passato elargiti ai due paesi, da parte della Comunità internazionale e, infine, la questione dei rifugiati eritrei.

Per quanto concerne l’aspetto degli aiuti internazionali va detto che l’Eritrea e l’Etiopia ricevono circa 3,5 milioni di dollari annui, che implicano anche la stipula di accordi commerciali con altri paesi non presenti nel Corno d’Africa, e dei quali entrambi i paesi vogliono continuare a beneficiare. Questo rinfocola il sospetto che la guerra contro il Tigray sarebbe l’ultimo passo per una stabilizzazione degli accordi commerciali tra Addis Abeba e Asmara. Infatti, pur essendo l’Eritrea riconosciuta come un sanguinario regime militare, nel quale la leva è obbligatoria per tutti i cittadini, dai 18 ai 50 anni gli uomini, dai 18 ai 40 anni le donne, il suo attuale presidente gode di una legittimazione internazionale essendo stato coinvolto nella stipula di accordi commerciali con diversi paesi occidentali tra cui l’Italia. D’altra parte, anche l’Etiopia è beneficiaria di un fondo rilasciato dalla Banca Mondiale in cambio di un programma di privatizzazioni. Tuttavia, i partner di maggior rilievo a livello commerciale sono quelli mediorientali, in particolare l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti che hanno sponsorizzato l’accordo tra Etiopia ed Eritrea firmato simbolicamente a Gedda. In conseguenza del conflitto tra la regione del Tigray e lo Stato federale etiope, infatti, sono emerse accuse nei confronti degli Emirati Arabi Uniti per aver messo a disposizione dei droni, stanziati nella base militare ad Assab in Eritrea, a favore della repressione della rivolta da parte del Fronte popolare di liberazione nazionale.

Alla luce di tutto ciò deve essere riletto anche quindi il processo di pace tra Eritrea ed Etiopia con il dubbio, che si aveva già da principio, che sia prevalentemente un accordo di regolamentazione dei rapporti economico-commerciali tra i due paesi. Sul conflitto in Tigray, d’altra parte, oggi continua intanto la pressione internazionale per fare entrare in modo libero e accessibile gli aiuti umanitari internazionali in conseguenza del conflitto per tutta la popolazione tigrina a rischio denutrizione, come ribadito da molti allarmi delle agenzie umanitarie. Denutrizione causata anche dagli ostacoli provocati dal governo etiope all’ingresso di cibo e farmaci nella regione settentrionale. In un comunicato stampa pubblicato il 15 marzo “Medici senza Frontiere” ha condannato una serie di attacchi alle cliniche nella regione del Tigray che sono state saccheggiate, vandalizzate e distrutte.

Altra questione particolarmente rilevante, data l’ingerenza militare da parte dell’Eritrea nel conflitto tra la Regione del Tigray e l’Etiopia, è quella della condizione dei rifugiati: sono migliaia gli eritrei che si sono rifugiati nella regione del Tigray, dal 2001 – anno del golpe di Isaias Afewerki – fuggendo dalla dittatura di Asmara. Tale situazione ha oggi subito una drammatica deriva proprio in conseguenza dell’attuale conflitto e sembra rappresentare la tragica contropartita dell’Eritrea per il suo intervento militare di sostegno all’azione armata del governo federale etiope. Infatti, la guerra civile etiope non soltanto avrebbe provocato la presenza in Sudan di 56.000 rifugiati etiopi conseguenti al conflitto, così come di rifugiati eritrei, ma anche la deportazione in Eritrea da parte delle milizie di circa 6000/7000 eritrei rifugiati in Etiopia, che sarebbero stati prelevati dai campi rifugiati del nord dell’Etiopia, proprio in conseguenza del conflitto. A febbraio 2021, infatti, l’Alto Commissario Onu per i rifugiati, Filippo Grandi, ha denunciato la presenza di 20.000 rifugiati eritrei che, secondo testimoni da lui incontrati, sarebbero stati uccisi e deportati in Eritrea dai militari del regime di Afewerki.

Massacro di Debre Abbay

La Somalia

Va considerato, inoltre, non solo il coinvolgimento del Sudan e dell’Eritrea nel conflitto civile etiope ma anche quello della Somalia. L’Eritrea infatti, come riportato a gennaio del 2021, avrebbe inviato armi pesanti all’esercito somalo e una delle partite di scambio risulterebbe essere l’intervento dei militari somali nel Tigray. Secondo la rivista “Somali Guardian” in Eritrea sono stati addestrati almeno 10.000 militari somali, originariamente preposti per difendere il governo della Somalia dagli attacchi degli al Shabab, e una parte di queste reclute sarebbe stata inviata già a novembre del 2020 nella regione del Tigray. In corrispondenza di ciò le truppe etiopi sono state ritirate dalla missione Amisom in Somalia proprio per andare a combattere nella guerriglia contro il Fronte popolare di liberazione del Tigray a discapito della missione che sostiene il fragile governo somalo. L’ indebolimento di Amisom, così rischia di dare un seguito maggiormente rilevante alla destabilizzazione del governo federale somalo messa in atto dagli al Shabab.

Inoltre, nel mese di marzo 2021, in seguito alla pubblicazione il 26 febbraio scorso di un documento redatto  da Amnesty International sul conflitto etiope, in particolare sull’intervento delle truppe eritree nella città di Axum,  il capo dell’Alto Commissariato Onu per i diritti umani, Michelle Bachelet ha accettato la richiesta del governo etiope di avviare un’indagine congiunta nella regione a Nord del paese,  dove si presume siano stati commessi crimini di guerra e contro l’umanità. Infatti, in un lungo discorso al parlamento etiope il primo ministro ha recentemente dichiarato che “il popolo e il governo eritreo hanno fatto un favore ai nostri soldati durante il conflitto” e ha continuato dicendo “nonostante ciò, dopo che l’esercito eritreo ha attraversato il confine, qualsiasi danno abbia fatto al nostro popolo è inaccettabile. Non lo accettiamo perché è l’esercito eritreo, e non lo accetteremmo se fossero i nostri soldati. La campagna militare era contro i nostri nemici chiaramente mirati, non contro il popolo. Ne abbiamo discusso quattro-cinque volte con il governo eritreo”.

Sempre il 23 marzo di quest’anno, Abiy Ahmed ha ammesso che le truppe eritree sono state presenti durante il conflitto nella regione settentrionale del Tigray suggerendo che potrebbero essere state coinvolte in abusi contro i civili. L’ammissione è intervenuta dopo mesi di smentite, sia da parte dell’Etiopia che da parte dell’Eritrea, del coinvolgimento di uomini appartenenti alle rispettive forze armate nella violazione dei diritti umani, nei massacri e nei crimini di guerra compiuti i mesi scorsi.

Il 25 marzo, intanto, le Nazioni Unite hanno reso noto che almeno 516 casi di stupri sono stati segnalati da alcune cliniche presenti nella regione del Tigray e il presidente etiope – che ha preso molto seriamente tale comunicato –  il 26 marzo, secondo l’agenzia di stampa internazionale “Reuters”, ha annunciato su “Twitter” che l’Eritrea ha accettato il ritiro delle proprie milizie dal confine etiope. Tale dichiarazione è stata resa pubblicamente dal presidente etiope in seguito all’incontro in Eritrea con il presidente Afewerki ad Asmara.

una visione di insieme

L’amministrazione Biden

Inoltre, sempre nella guerra civile, che continua a dispiegare i suoi effetti, nel quasi totale silenzio – data anche la difficoltà ad ottenere informazioni in merito, per le restrizioni imposte dall’attuale presidente ai Media – sono recentemente intervenuti gli Stati Uniti con una reazione che può qualificarsi il più veemente interessamento della Comunità internazionale in merito a quanto avvenuto nei mesi scorsi nell’area. 

Gli Usa hanno dichiarato la loro presenza mediante l’intervento dell’agenzia umanitaria statunitense “Usaid”, notoriamente intrecciata con operazioni gestite dalla Cia, annunciando di aver schierato un “Disaster Assisance Response Team” nella regione del Tigray. Infatti il 27 febbraio il segretario di stato americano Blinken, ha imposto al presidente etiope di aprire il Tigray all’accesso degli aiuti umanitari e di essere preoccupato per i crimini di guerra che molto probabilmente sono stati compiuti in conseguenza del conflitto nell’area. Questo interessamento degli Stati Uniti per la regione del Tigray si è manifestato, in seguito, con la pubblica condanna, da parte del segretario di Stato Antony Blinken, degli atti di pulizia etnica avvenuti nella regione e per i quali ha chiesto la piena responsabilità del governo etiope e il ritiro delle truppe eritree.

Il 10 marzo scorso Blinken ha, altresì, espresso chiaramente di non accettare forze di sicurezza nella regione che si rendano responsabili della violazione dei diritti umani del popolo del Tigray o che commettano atti di pulizia etnica. Il giorno seguente Gizhachew Muluneh, docente alla Sharda University e portavoce amhara, ha condannato le dichiarazioni di Blinken considerandole fuorvianti, ritenendo che il territorio del Tigray, occupato dalle sue forze regionali, debba effettivamente essere considerato, da ora in poi, parte della regione dell’Amhara. Le dichiarazioni di Blinken sono state rilasciate in seguito sia alla pubblicazione del Rapporto di Amnesty International, sia alle dimissioni di Berhane Kidane Mariam, vicecapo della missione presso l’ambasciata etiope a Washington DC che ha sottolineato che il presidente Abiy Ahmed sta conducendo il suo paese verso un “sentiero oscuro verso la distruzione e la disintegrazione” e di essersi dimessa per “protestare contro la guerra genocida nel Tigray”.

Infine, l’attuale presidente degli Stati Uniti Biden, a fine marzo, ha deciso di inviare il senatore americano Chris Coons ad incontrare il primo ministro etiope per discutere delle accuse di pulizia etnica nella regione del Tigray. L’intervento americano, tuttavia, deve essere considerato in un’ottica più complessa: le operazioni del presidente etiope a partire dal conflitto dovrebbero essere analizzate valutando l’ambizione geopolitica degli Usa di controllare la regione del Corno D’Africa attraverso la manipolazione del presidente etiope, con la volontà di escludere la Cina e la Russia da quest’area di influenza.

In conclusione, anche in passato era già avvenuto in Etiopia che a una transizione politica facesse seguito un periodo di instabilità del paese, ma oggi l’Etiopia non si appresta a divenire uno “stato fallito” ed è invece in grado di chiamare altri poteri Internazionali in suo aiuto che probabilmente eviteranno un processo di “balcanizzazione” dell’attuale stato federale etiope.

Proponiamo infine un intervento di Angelo Ferrari, registrato il 15 novembre 2020 durante la trasmissione dedicata alla crisi etiope da I Bastioni di Orione, rubrica di affari internazionali di Radio Blackout

“Resa dei conti tra tribù etiopi”.

Fonti:

L'articolo n. 1 – Corno d’Africa: Migranti e secolari conflitti etnici e coloniali proviene da OGzero.

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Nazione di poeti, navigatori e… trafficanti d’armi https://ogzero.org/italia-nazione-di-trafficanti-darmi/ Sun, 21 Mar 2021 11:25:30 +0000 https://ogzero.org/?p=2638 L’attenzione per la repressione sanguinosa in Myanmar e gli addentellati con i traffici d’armi dell’industria italiana hanno smosso nei nostri ricordi alcuni collegamenti che si dipanano dal Sudest asiatico al Sahara occidentale, attraversando la storia dell’industria bellica italiana dal 1973, anno della Guerra del Kippur (e della sua conseguenza sull’approvvigionamento energetico mondiale), fino alle armi […]

L'articolo Nazione di poeti, navigatori e… trafficanti d’armi proviene da OGzero.

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L’attenzione per la repressione sanguinosa in Myanmar e gli addentellati con i traffici d’armi dell’industria italiana hanno smosso nei nostri ricordi alcuni collegamenti che si dipanano dal Sudest asiatico al Sahara occidentale, attraversando la storia dell’industria bellica italiana dal 1973, anno della Guerra del Kippur (e della sua conseguenza sull’approvvigionamento energetico mondiale), fino alle armi che fanno strage dei resistenti di Mandalay e un’inchiesta di Atlante delle Guerre e Opal ha dimostrato come abbiano aggirato l’embargo più che decennale nei confronti del Myanmar

La tradizionale presenza della industria bellica italiana nei teatri di guerra

Riprendiamo a proporre gli articoli che Eric Salerno scrisse per “Il Messaggero” seguendo le prime azioni del Polisario, quelle che prendevano di mira le truppe mauritane illuse di poter partecipare della spartizione delle spoglie del Sahara ex spagnolo. Bastò l’incipit del catenaccio, le raffiche sul palazzo presidenziale di Nouakchott e i mauritani lasciarono perdere: i colonizzatori avevano puntato sui marocchini per perpetuare lo sfruttamento delle risorse.

La lettura dell’ingerenza delle potenze coloniali è massicciamente presente nell’articolo di Eric, dove si respirano le tensioni positive che parlavano di panafricanismo – chiamato proprio a difesa delle sacrosante rivendicazioni saharawi, e gli stati africani rispondevano a tono, mentre ora sono in coda per accedere agli Abraham Accords – e di altre illusioni di un periodo esaltante, dove non era una bestemmia parlare del ruolo svolto dall’Italia nell’“aggressione condotta dall’imperialismo” contro la lotta di liberazione: era il 5 luglio 1977.

Polisario contro Mauritania

Primi attacchi del Polisario e scoperta dell’approvvigionamento di armi italiane all’esercito mauritano

 

Ma perché ci siamo affrettati ora a passare a un nuovo appuntamento con gli articoli di Eric Salerno pubblicati nel 1977 proprio in questo periodo concitato che cerca di capire come il mondo trascorre dall’epoca di Trump a quella di Biden? Semplice: perché in questi giorni alcune realtà complici della nostra testata hanno scoperchiato la vergogna di armi di fabbricazione italiana usate da Tatmadaw contro i manifestanti birmani che si ribellano al golpe in Myanmar. E in questo articolo in enjambement trovate un lungo pezzo, incastonato in centro al reportage che rilascia una scia di disgusto non ancora consumata: «La presenza dell’industria italiana sul mercato mondiale della armi ci vede oggi impegnati in un dibattito che tocca i punti fondamentali dello scontro di classe in Italia» [e oggi era il 1977, non è cambiato nulla se non in peggio].

Ma è soprattutto la combinazione dei due elementi compresenti nell’articolo (l’Flm, coinvolta a sostegno della lotta saharawi; e le armi costruite dalle maestranze italiane, probabilmente aderenti alla Federazione lavoratori metalmeccanici) che vanno a unirsi in un altro testo che ricordava quegli anni e va nel ricordo a comporli insieme: il redattore era un amico di Eric, uno di quelli che avevano fortemente voluto la nascita di un sindacato forte e internazionalista come poteva essere negli anni Settanta la Federazione di tutti i lavoratori metalmeccanici: Alberto Tridente si impegnò infatti anche a lungo per sostenere la lotta saharawi.

In particolare a corredo dell’articolo di Eric Salerno ci piace riproporre stralci da questo racconto autobiografico di Alberto Tridente, raccolto nel volume da lui redatto nel 2011, poco prima di arrendersi al cancro dopo 10 anni di resistenza alla malattia senza smettere di denunciare i trafficanti di morte e l’ipocrisia che li ha sempre coperti nella vulgata italiana: Dalla parte dei diritti (Torino, Rosenberg & Sellier, 2011, pp. 178 e sgg.).

Scommettere sulla guerra?

Nel dicembre del 1973 dalla Oto Melara di La Spezia, nota fabbrica di sistemi d’arma esportati in tutto il mondo, era partita una nave carica di cannoni Oto-Mat diretta al Cile di Pinochet. All’inizio del 1974 andai a La Spezia e mi confermarono il cinico invio di armi al governo assassino. Non potevo crederci. Ne parlai a lungo con i sindacalisti e seppi che il Pci stava organizzando una “Conferenza di produzione”.

Era l’iniziativa attraverso la quale il Pci (in quella critica fase di ripensamento della sua strategia del compromesso storico in seguito ai fatti cileni) andava da tempo realizzando nelle grandi fabbriche, cercando di accreditare la sua idoneità a governare il paese, presentandosi alle imprese come interlocutore fondamentale per lo sviluppo delle attività produttive. L’incremento occupazionale era lo scopo dichiarato della “Conferenza di produzione”.

Un passo indietro a questo punto. necessario. Negli anni torinesi avevo conosciuto Achille Croce, giovane animatore del Movimento non violento valsusino. Nel 1972 Croce era impegnato a convincere i lavoratori delle Officine di Moncenisio, fabbrica che riparava carri ferroviari, a non accettare la trasformazione dell’azienda in fabbrica di sistemi d’arma. L’incontro con Achille Croce era stato un altro di quelli che lasciavano il segno. Testimoniava la resistenza allo scandalo del cinico scambio: quello di produrre più armi in cambio di maggiori occupati. Nel sindacato avevamo affrontato da tempo i temi del “cosa e come produrre”, ma quello delle armi era ancora un argomento scabroso del quale non si parlava perché non facile da trattare. Non mi ero mai direttamente occupato, come tutto il sindacato del resto, dell’industria bellica, delle implicazioni che quelle produzioni comportavano dal punto di vista morale, né delle prospettive che maggiori commesse belliche significavano per l’occupazione. Achille aveva invece le idee chiare. Era membro del direttivo della Fim provinciale e nelle riunioni dell’organismo aveva qualche volta posto il problema della produzione bellica che il sindacato non poteva trascurare di affrontare. Allora non aveva trovato molto ascolto, sembrava che parlasse nel deserto, ma quelle sue appassionate parole non erano state dimenticate. All’assemblea della Oto Melara, all’inizio del 1974, mi trovavo di fronte a una straordinaria e lacerante sfida: come accettare, dopo tante manifestazioni e proteste contro il colpo di stato di Pinochet in Cile e la morte di Allende, che un’importante fabbrica italiana, a capitale pubblico e altamente sindacalizzata, provvedesse a rifornire di cannoni i golpisti?

Cannoni navali in lavorazione nella fabbrica dell’Oto Melara di La Spezia nel 1980

La situazione aveva del paradossale. L’invio di un carico di cannoni a Pinochet avveniva senza proteste o un minimo di obiezioni da parte del Consiglio di fabbrica e del sindacato provinciale della Flm di La Spezia. Al contrario si organizzava una “Conferenza di produzione”, il cui fine era maggiore produzione bellica per ulteriore occupazione, ovvero si scommetteva sulla guerra. Erano annunciate significative presenze: il Consiglio di fabbrica, la sezione interna del Pci alla Oto Melara, il sindaco di La Spezia, il presidente della provincia, insieme all’amministratore delegato, ingegner Stefanini. La scommessa sulla guerra era non solo implicita, ma andava oltre: ne auspicava cinicamente altre, magari più estese, al fine di ottenere incrementi produttivi e occupazionali. Non ricordo se il film Finché c’è guerra c’è speranza con Alberto Sordi nella parte del mercante di armi fosse apparso sugli schermi italiani prima o dopo la Conferenza della Oto Melara, fatto sta che decisi di parteciparvi a nome della Flm nazionale, per parlare ai lavoratori contro le ragioni che l’avevano proposta, rovesciando lo slogan che dà titolo al film di Sordi.

 

Nella segreteria nazionale Flm proposi che se ne discutesse a fondo, non senza contrasti da parte di coloro che, specie nella Fiom e nella Uilm, non percepivano ancora con chiarezza la contraddizione del produrre armi in cambio di occupazione, come se queste fossero prodotti come gli altri. Ottenni comunque il consenso a sostenere la tesi che non era nella linea della Flm affidare la garanzia della maggiore occupazione alla speranza di maggiori conflitti nel mondo. Con questa convinta posizione andai a La Spezia. Una foto del mio intervento testimonia questa mia prima personale e diretta esperienza in un’assemblea di lavoratori che auspicava maggiori produzioni belliche. La mia “conversione sulla via delle Officine Moncenisio di Condove”, in bassa Valle di Susa, e la memoria dell’incontro con Achille Croce mi aiutarono ad affrontare un cammino che si annunciava tutto in salita.

Il refettorio della Oto Melara dove si teneva l’assemblea era strapieno di operai e impiegati. Parlarono i provinciali della Flm, il Consiglio di fabbrica, l’amministratore della Oto Melara, ingegner Stefanini, e poi toccò a me concludere.

Sparai – . proprio il caso di dirlo, data la fabbrica – tutte le mie cartucce contro l’illusione della “scommessa sulle guerre”. Dissi che era inaccettabile: «Manifestare il sabato contro i colpi di stato fascisti e, poi, dal lunedì al venerdì, lavorare e rifornire di armi coloro che le avrebbero usate per reprimere nel sangue la democrazia! Le guerre sarebbero, prima o poi, finite e la crisi del settore bellico avrebbe sgonfiato tutte le illusioni delle conferenze produttive di quel tipo… Sarebbe stato più saggio, oltre che morale, pensare per tempo a produzioni alternative, per non trovarsi sprovvisti di altre opportunità di produzione e lavoro, strangolati dalla mancanza di alternative a quella bellica, e che appariva rischioso affidare ai conflitti nel mondo le speranze produttive e occupazionali».

Era stata una provocatoria, temeraria e frontale accusa a tutti i presenti che avevano organizzato e creduto in quella iniziativa, che privilegiava apertamente una scelta cinica, contraddittoria e immorale che inavvertitamente corrompeva le coscienze dei lavoratori e tradiva coerenti scelte politiche. E aggiungevo: «Seppure l’intento di avere più occupati in futuro potrà apparire un obiettivo nobile, questo non dovrà avvenire auspicando il passaggio dalla guerra fredda a quella calda, in ogni parte del pianeta!» Silenzio e sconcerto accompagnarono le mie conclusioni. Le tesi da me esposte rovesciavano la “torta appena confezionata”. Gelido il commento dell’ingegner Stefanini, così come dei dirigenti sindacali e di partito presenti. Al termine della Conferenza,

il solo ad avvicinarsi e a parlarmi fu un delegato della Fiom, Claudio Rissicini, che mi disse: «Belìn, cosa volevi, che ti applaudissero? Lo avrebbero fatto volentieri, ma con le mani sulla tua faccia! Lo sai che parlare in questa fabbrica di conversione al civile ha significato nel dopoguerra solo disoccupazione?». Claudio, negli anni che seguirono, divenne un caro, fraterno amico e compagno di importanti iniziative nel settore della cooperazione. Fu uno dei primi a partire per anni di missione in Mozambico, nel quadro dei programmi di cooperazione che per conto della Flm firmai con quel paese, quando si liberò dal colonialismo portoghese.

Cresce il fatturato bellico italiano.

Nella mia attività mi stavo dedicando anima e corpo a queste idee centrali, complicate e difficili, che avevano saturato anche il mio poco tempo libero: convincere i lavoratori del settore sulla validità della distinzione storica fra interessi dei lavoratori e quelli delle lobby dell’industria bellica, persuaderli a non produrre armi e in ogni caso a non venderle ai regimi dittatoriali e razzisti; elaborare un coerente intervento del sindacato sui temi della pace e della solidarietà e, nello stesso tempo, proteggere l’occupazione in quelle stesse fabbriche. In quel momento la produzione bellica e il suo commercio crescevano a ritmi impressionanti in Italia e all’estero. Erano perciò un ostacolo in più, ai numerosi che già si ergevano sul cammino del disarmo e della pace.

Questo lavoro si raccordava inoltre con l’attività del Tribunale Russell, che affrontava spesso la vergogna delle esportazioni di armi in quei paesi considerati criminali dall’attività del Tribunale. Il volume produttivo e commerciale collocava il nostro paese al primo posto nel gruppo dei minori esportatori di sistemi d’arma. Il fatturato totale esportato dal nostro paese aveva ormai raggiunto e oltrepassato i 5000 miliardi di lire a metà degli anni Settanta: un record mai raggiunto dall’industria bellica italiana. L’aumento della produzione e l’affermazione dei prodotti sui mercati internazionali avevano fatto dire al ministro del commercio estero di allora, il socialista Enrico Manca, che la vendita di undici navi militari (quattro fregate e sei corvette, più una nave appoggio) all’Iraq di Saddam Hussein era un fatto inedito e veramente straordinario. Per quantità e qualità del naviglio venduto lo si poteva definire “l’affare del secolo”. Prima dell’attacco al Kuwait, oltre all’Italia, vendevano armi a Saddam soprattutto i francesi. Fornivano cacciabombardieri Mirage e Super Standard e i relativi missili che li equipaggiavano. Da parte loro i sovietici vendevano carri armati e blindati, i brasiliani blindati e autocarri. Generoso l’aiuto finanziario statunitense all’Iraq, affinché potesse comprarne di più e su tutti i mercati. Saddam era un “buon cliente e amico”, si preparava ad attaccare il “cattivo dell’area”, l’Iran di Khomeyni, e fin lì tutto andava bene, per gli americani, per l’Occidente e per “madama la marchesa”!

Italia nazione di trafficanti

Elicottero AW109M costruito da AgustaWestland partecipata di Leonardo, azienda controllata dallo stato italiano

A Firenze nacque un gruppo che si proponeva di studiare a fondo il tema e che tuttora [2012, N.d.R.] continua a pubblicare ricerche sull’argomento. Era cresciuto nel frattempo il numero dei lavoratori e dei Consigli di fabbrica che collaboravano. Il lavoro sull’industria bellica aveva già prodotto i primi obiettori di coscienza nelle fabbriche dove lavoravano: tra questi, Elio Pagani, operaio dell’Aermacchi, e Marco Tamburini dell’Agusta elicotteri. Ero fermamente convinto che il difficile lavoro per la riconversione richiedeva anche momenti fortemente emozionali per farsi ascoltare da assemblee talvolta scettiche, se non ostili o nettamente contrarie alla sola idea di rischiare il posto di lavoro per quelle che erano ritenute utopie. La produzione e la vendita di sistemi d’arma creava infatti occupazione e apparivano stolti coloro che opponevano scrupoli morali allo sviluppo di un settore che migliorava la bilancia commerciale. All’assemblea della Aermacchi, la prima in una fabbrica italiana di aerei da guerra e addestratori che commerciavano con il Sudafrica razzista, mi aveva accompagnato Antonio Mongalo, l’africano di etnia Zulu, rappresentante in Italia dell’Africa National Congress del carismatico leader Nelson Mandela, allora ancora in carcere. L’impatto fu emotivamente fortissimo. Alle obiezioni di alcuni operai e capetti, che giustificavano in nome del lavoro la liceità del commercio con quel regime, Antonio parlò con passione della sua gente: «Segregata, sfruttata come schiavi nelle miniere, relegata nei tuguri malsani delle disperate periferie delle città da un regime spietato, lì, nella loro stessa terra, usurpata con la forza da coloni bianchi. Non cittadini, senza i più elementari diritti in quella che era stata da sempre la loro patria».

Imposto un embargo si trova l’inghippo

L’aggiramento dei divieti era da tempo collaudato; nel caso del Sudafrica l’embargo veniva aggirato attraverso il cosiddetto commercio triangolare: le imprese vendevano a un paese autorizzato a riceverle e questo le girava al paese sotto embargo e il gioco era fatto. Pajetta era furibondo. Mi accusava di aver attaccato l’iniziativa della conferenza e mi sfidava a provare quanto affermavo. L’irritazione era fondata: a Livorno il Pci era forte, specie fra i portuali. Anche Granelli mi domandò, più educatamente, se quanto denunciavo nell’intervista al “Corriere della Sera” era accaduto per davvero.

L’intervento dei mozambicani nel dibattito mi aiutò, confermando quanto detto da me nell’intervista. Essi affermarono: «In effetti questo accadeva ed era accaduto spesso nel passato», aggiungendo che erano talvolta sconcertati perché non capivano come l’Italia, da sempre impegnata nella solidarietà, vendesse armi a paesi che le usavano contro di loro. La soddisfazione per me fu enorme. Granelli in seguito si scusò: aveva accertato che la mia denuncia era fondata.

Il prodotto venduto che più ci copriva di vergogna nel mondo erano le mine antiuomo della Valsella e della Valmara. Erano armi povere per vittime povere. Infinito il numero di bimbi e di contadini mutilati alla fine di ogni conflitto: vittime di esplosioni subdole, perché “ritardate” nella loro criminale efficacia. Finalizzate per uccidere, come tutte le altre armi, erano state progettate (e lasciate nel terreno) per terrorizzare e mutilare le potenziali vittime, soprattutto quelle innocenti di tutti i dopoguerra. Il divieto alla loro esportazione era stato, finalmente, un modesto successo, che confermava e incoraggiava a proseguire nel lavoro. Molte produzioni erano e sono tuttora “dualistiche”, basate su tecnologie che permettono di realizzare prodotti sia civili che militari, offrendo così merci alternative. Consorzi di imprese inter-armi erano e sono stati promossi per integrarne le produzioni e facilitarne la penetrazione nei mercati. Il modello del Consorzio Melara, prodotto “chiavi in mano”. ormai diffuso con successo.

 

E con le mine antiuomo torniamo al Saharawi, che fa da perno a questa triangolazione virtuosa tra inchiesta di Opal, Atlante delle guerre, Rete Pace Disarmo sfociata in una serie di articoli di Emanuele Giordana e Alessandro De Pascale sulla presenza di armi di fabbricazione italiana nel Myanmar dei golpisti; lavoro di una vita antimilitarista di Alberto Tridente, narrata nel suo libro-testamento, infarcito di figure mitiche dell’indignazione del profitto derivante dalle guerre; la testimonianza di Eric Salerno collocata nel Sahara occidentale e risalente al 1977 delle prime imprese del Frente Polisario, che vide tra gli ambasciatori di giustizia proprio Alberto Tridente, attivo nel denunciare la presenza delle micidiali mine nel deserto abitato dagli esuli Saharawi. Non con sole armi l’Italia esporta guerre, ma anche con scuole di polizia per l’addestramento di  apparati speciali, assimilabile alla famigerata Escuela de Las Americas, per questo aspetto è interessante seguire il lavoro di Antonio Mazzeo

 

 

 

 

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Kivu, un non-luogo: l’habitat autosostenibile di traffici e milizie https://ogzero.org/il-kivu-un-non-luogo-habitat-autosostenibile-di-traffici-e-milizie/ Sun, 14 Mar 2021 15:48:23 +0000 https://ogzero.org/?p=2599 «In un viaggio del 2003, ho incontrato un vecchio amico, Lino, nella capitale Kinshasa. Era appena arrivato dalla città di Kikiwit. La strada che porta da Kinshasa a Kikiwit, circa 600 chilometri, l’avevamo percorsa insieme nel 1993 e ci avevamo impiegato circa 8 ore. Dieci anni dopo Lino ha impiegato 15 giorni per lo stesso […]

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«In un viaggio del 2003, ho incontrato un vecchio amico, Lino, nella capitale Kinshasa. Era appena arrivato dalla città di Kikiwit. La strada che porta da Kinshasa a Kikiwit, circa 600 chilometri, l’avevamo percorsa insieme nel 1993 e ci avevamo impiegato circa 8 ore. Dieci anni dopo Lino ha impiegato 15 giorni per lo stesso percorso. La rete viaria completamente distrutta. E oggi non è cambiato nulla. Ma alle aziende minerarie non servono le strade, si muovono con aerei ed elicotteri». Riprendiamo da qui il viaggio nella zona dei Grandi Laghi africani, nel Kivu, un non-luogo le cui risorse arricchiscono un mondo già ricco e predatorio, e dove milizie e rivalità si spartiscono il territorio ai danni di una popolazione sempre più povera la cui identità è smarrita e spesso dimenticata.

Il quadro storico e quello dei traffici: guerre mondiali e per procura

La Repubblica democratica del Congo (RdC) è un non-lieux. Un non-luogo che non trova pace, attraversato da conflitti aspri o a bassa intensità, snaturato dalle pressioni da oltreconfine di una nazione devastata e irriconoscibile per gli smarriti autoctoni; nella definizione di Marc Augé “non-luogo” è quello che non riesce a essere identitario (non contrassegna univocamente l’identità di chi lo abita), relazionale (non c’è comune appartenenza nei rapporti tra tutti i soggetti della regione), storico (le singole comunità non si riconducono a comuni radici). Nessuno, fino a ora, è riuscito a dare in sessant’anni una speranza a oltre 84 milioni di abitanti di un paese ridotto a supermercato di risorse da taccheggiare. Anche se le elezioni del 2019, con la vittoria di Felix Tshisekedi, figlio dell’oppositore storico di Mobutu Sese Seko e di Kabila padre, hanno portato il Congo Kinshasa verso una parvenza di stabilità, l’oggetto del contendere rimane, ovvero il paese stesso. Ciò che il suo sottosuolo contiene: tutto quello che il mondo libero desidera.

Non a caso quelle aree sono ricche di risorse minerarie, cambiano nome, affiliazione, ma l’obiettivo è sempre quello: coltan, diamanti, oro, legname, petrolio… e per impossessarsene si è combattuta una guerra che l’ex segretario di stato americano Madeleine Albright definì la “Guerra mondiale africana” (1996-2004). Sul terreno si sono dispiegati gli eserciti di Angola, Burundi, Namibia, Ruanda, Uganda e Zimbabwe; si sono contesi pezzi di territorio e le aeree di più intenso conflitto corrispondevano a quelle più ricche di risorse naturali.

Da quella guerra che vide combattersi 8 eserciti nazionali e 21 milizie sono nate decine di formazioni di guerriglieri al soldo di quelle stesse nazioni o di altre più lontane; nell’area ora si confrontano oltre venti gruppi etnici con propri miliziani che operano tuttora in tutto il paese e in particolare nel Kivu e nel Nordest del paese, continuando a contendersi quella spartizione bellica. Guerre di mercenari per procura, che proseguono (ciascuno cambiando nazioni di riferimento in base al prezzo) quel conflitto panafricano che ha provocato più di 4 milioni di morti, la maggior parte per fame e non per armi da fuoco. Il paese è arretrato di 100 anni: alla fine della guerra la popolazione non aveva nulla e così le ong hanno cominciato a ripristinare, innanzitutto, dispensari e ospedali, ma nessuno vi accedeva: la gente si vergognava ad andare in ospedale perché non aveva di che coprirsi, i vestiti erano un lusso.

Invece paesi come l’Uganda sono diventati improvvisamente esportatori di oro. Il Ruanda del preziosissimo coltan, che si trova solo in Congo nella regione del Kivu dove si muovono milizie e faccendieri spregiudicati che lo trasportano oltre confine e il Pil di Kigali cresce a dismisura.

Per riportare la “pace” è stata istituita una missione dell’Onu composta da oltre 17.000 uomini, Monusco è il tentativo di stabilizzazione di una regione più grande e impegnativo mai messo in campo dalle Nazioni Unite. Oggi la missione è ancora al suo posto (i suoi budget stratosferici di più di un miliardo all’anno fanno parte del sistema economico del Kivu), la guerra non è finita e la pace lontana: spariti gli eserciti stranieri, sono rimasti i guerriglieri che infestano il territorio, lo rendono insicuro e si battono per lobby economiche e politiche, persino di potenze regionali interessate alle risorse.

Contrabbando e saccheggio

Questo paese è un non-lieux. Come per la corsa all’oro, le aree dei ritrovamenti diventano la meta di disperati in cerca di fortuna. Ma non solo. Sono la meta delle multinazionali, degli stati di mezzo mondo che vogliono approfittare delle risorse del Congo.

«Il requisito principale di un non-luogo non è attribuibile a un generico elenco di luoghi progettati, ma dipende dalla percezione collettiva, che gli utenti hanno di quel determinato contesto spaziale» (Paolo Campanella, 2006), perciò riconduciamo quella definizione se non a tutta la repubblica congolese, almeno alla regione del Kivu, una zona di razzia; il luogo delle guerre fratricide, vendute come tribali, ma combattute proprio per le risorse minerarie.

In Rdc si trova di tutto: legno, rame, cobalto, coltan, diamanti, oro, zinco, uranio, stagno, argento, carbone, manganese, tungsteno, cadmio e petrolio. Materie prime che fanno gola a mezzo mondo.

La Repubblica democratica del Congo è lo stato più ricco di risorse naturali dell’Africa, gli oltre 84 milioni di abitanti potrebbero vivere nel benessere, solo se i suoi governanti investissero le royalties ricavate dalle estrazioni minerarie nel paese. Invece no: l’economia del paese è tradizionalmente orientata alle esportazioni, fortemente dipendente dalle commodities primarie. I diamanti hanno sostituito rame e cobalto come principale voce delle esportazioni (un terzo del contrabbando della zona dei Grandi Laghi): il cobalto finisce tutto nelle mani dei cinesi; i diamanti, oltre 22 milioni di carati, sono nelle mani delle multinazionali; il coltan – estratto praticamente solo in Congo – prezioso per l’industria della telefonia mobile e per quella aerospaziale, è gestito dal Ruanda. Il Congo possiede la seconda foresta pluviale al mondo, da cui si ricava legname pregiato. L’autosufficienza alimentare in molte aree del paese è un miraggio. Le terre coltivate rappresentano solo il 4 per cento del totale, nonostante il 75 per cento della popolazione attiva si occupi di agricoltura, per lo più di sussistenza; il Pil pro-capite è di circa 450 dollari, uno tra i più bassi al mondo, e l’indice di sviluppo umano è 0,433 che colloca la Repubblica democratica del Congo al 176° posto al mondo.  E la stragrande maggioranza della popolazione vive con meno di 2 dollari al giorno.

La “fluidità” delle milizie abita territori porosi

Secondo il Gec (Gruppo di studio sul Congo), almeno 125 gruppi armati sono censiti nelle regioni orientali del Nord Kivu e del Sud Kivu, teatro da oltre 20 anni di quello che è stato definito da più fonti un “lento genocidio”, la metà dei quali è tutt’ora in attività.

Nella regione orientale della Repubblica democratica del Congo si muovono decine di milizie. Difficile tracciarne una mappa. La loro ragion d’essere è la fluidità, cambiare “padrone”, seguire gli affari economici e, dunque, concentrarsi sulle risorse minerarie e lì mettere in atto la loro azione di controllo e gestione del territorio. Storicamente nell’area agiscono i miliziani Mayi Mayi – storica formazione nata tra la fine degli anni Novanta e l’inizio dei Duemila come sorta di autodifesa dalle truppe ruandesi che per alcuni anni hanno occupato quell’area – sono tornati a essere molto attivi nella regione.

La distribuzione delle milizie nella Regione dei Grandi Laghi (fonte dati Agi rimaneggiata da OGzero)

I Mayi Mayi, tuttavia, sono semplicemente un nome, infatti comprendono milizie guidate dai signori della guerra, dagli anziani delle tribù, dai capi villaggio, da faccendieri economici. I gruppi hanno perso anche la loro aura mistica: un tempo combattevano solo con il machete forti del potere che gli derivava dall’acqua che li proteggeva dalle pallottole. Quell’epoca è finita. E agli inizi degli anni Duemila dalla loro lotta di “autodifesa” dei villaggi sono passati alla difesa del territorio contro l’occupazione ruandese. Occupazione che Kigali ha sempre negato, evidente nei primi anni Duemila proprio nell’area di Goma. L’esempio più eclatante della presenza ruandese e del controllo del territorio era che il prefisso telefonico internazionale per chiamare quelle zone era quello del Ruanda. Un abitante di Kinshasa, la capitale della Repubblica democratica del Congo, per parlare con un parente di Goma doveva comporre il prefisso internazionale del confinante Ruanda e viceversa. Quell’occupazione, giustificata da Kigali con il pretesto della lotta contro le milizie hutu responsabili del genocidio fuggite nel Kivu, si è presto trasformata in un’azione predatoria nei confronti delle risorse della regione, in particolare il coltan di cui Kigali è diventato esportatore. La milizia dei Mayi Mayi si è presto trasformata, data la sua fluidità, in una lobby d’affari armata, partecipando alla cosiddetta “guerra del coltan”. Da mesi il gruppo ha ripreso vigore nella regione. Ai Mayi Mayi è stata attribuita la responsabilità di 82 attacchi, che hanno provocato 81 morti.

Nel Nordest della Repubblica democratica del Congo è stato attivo anche il famigerato movimento, il Lord’s Resistence Army (Lra), esercito di resistenza del Signore, guidato dal famigerato Joseph Koni, che ha fatto della religione la motivazione della sua lotta. Il movimento nato in Uganda si è presto trasformato in gruppo terroristico e ha allargato il suo raggio di azione sconfinando, tra gli altri paesi, nel vicino Congo e le motivazioni religiose sono scomparse. L’Lra ha rapito e costretto più di 60.000 bambini a combattere nelle sue fila. La ferocia di Koni ha trasceso ogni ragione politica e religiosa della sua lotta. Questo movimento, tuttavia, ha ridotto le sue attività, ma non è scomparso. L’Lra è rimasto acefalo per l’incriminazione all’Aia del suo capo e si è diviso in cellule al soldo del miglior offerente.

Gli eredi del genocidio: l’influenza ruandese

In tutto questo disordine e povertà non poteva mancare la penetrazione del terrorismo islamista. I jihadisti vivono di disordine e povertà (forse meno di religione): il loro brodo di coltura. È nato, infatti, l’Islam State Central Africa Province, una sorta di emanazione del Califfato del defunto al-Baghdadi. Ed è proprio nel Nordest della Repubblica democratica del Congo che avvengono la maggior parte degli attentati; svariati gruppi volta per volta li rivendicano, ma la maggior parte di queste azioni criminali sono attribuite al gruppo nato in Uganda e di ispirazione salafita, Allied democratic Forces (Afd). Guidata da Jamil Mukulu, un ex cattolico convertito all’islam, è considerata vicina al movimento sunnita Tablighi Jamat e secondo molte fonti ufficiali è legata all’Isis e alle reti del terrorismo internazionale. Gli attacchi messi in atto da questo gruppo dall’ottobre scorso sono più di una decina e hanno provocato 10 morti, evidenziando l’espansione del terrorismo islamico nella regione dei Grandi Laghi. Azioni che hanno come obiettivo le ricchezze minerarie. Queste milizie, che hanno ripreso vigore proprio grazie alla sua affiliazione all’Isis, sono diventate una sorta di attore “parastatale” creando scuole, ospedali e riscuotendo le tasse. Ma gli introiti maggiori arrivano dal commercio illegale dell’oro e del legno. L’Adf, tuttavia, è molto attento a non entrare in conflitto con i Mayi Mayi e con il Fronte democratico di liberazione del Ruanda.

Ma da dove nasce l’Adf?

Prima guerra africana

Il Fronte democratico di liberazione del Ruanda è nato nel 2000, dopo aver assorbito l’Esercito di liberazione del Ruanda (ALiR), gruppo armato costituito per lo più da ex militari delle Forze armate ruandesi (Far), che difendevano l’ideologia dell’Hutu Power, sconfitte durante il genocidio del 1994 contro i tutsi e gli hutu moderati, che portò al potere il tutsi Kagame. A luglio 1994, dopo l’ascesa al potere di Kagame, l’Esercito patriottico del Ruanda ha sostituito le Far, un gran numero di esponenti del quale ha attraversato il confine, scappando in Congo dove si erano rifugiati decine di migliaia di cittadini hutu. Dal 1995 al 1996 le ex Far si sono riorganizzate per formare l’Esercito di liberazione del Ruanda, il cui obiettivo era quello di riprendere il potere a Kigali, lanciando incursioni in territorio ruandese dalle sue basi congolesi. Per arginare questi ribelli hutu, il presidente Kagame ha fornito armi e fatto addestrare delle milizie tutsi banyamulenge che gravitano nella provincia del Sud Kivu.

In modo concertato con l’Uganda queste milizie si sono amalgamate con militari dell’esercito ruandese e ugandese, formando un movimento ribelle al soldo di Kagame, l’Alleanza delle forze democratiche per la liberazione del Congo (Afdl), diretta da un gruppo di oppositori all’allora presidente congolese, il dittatore Mobutu.

In un gioco complesso di alleanze incrociate, i due movimenti ribelli ruandesi – quello hutu e quello tutsi – seminarono terrore nel confinante Congo a partire dal 1997, con l’Afdl impegnato in una guerra di invasione delle province orientali dell’ex Zaire, scatenando la Prima guerra del Congo e portando al potere nel mese di luglio 1997 il suo portavoce Laurent Désiré Kabila, autoproclamatosi presidente e ribattezzando il paese in Repubblica democratica del Congo.

Seconda guerra africana

I tutsi ruandesi, alleati con il nuovo presidente, si trovarono in una posizione di forza, spingendo 300.000 rifugiati ruandesi a fuggire in altre regioni del Congo e altre migliaia a fare ritorno in Ruanda. Fu allora che l’Esercito di liberazione del Ruanda (hutu) si rese responsabile del massacro di altre migliaia di civili in una controffensiva nell’Est della Rdc, anche nel Parco nazionale del Virunga, e nel Nord del Ruanda.

Nel 1998 in Rdc scoppiò la Seconda guerra africana, dopo che il presidente Kabila aveva chiesto ai soldati ruandesi e ugandesi, suoi alleati, di uscire dal territorio nazionale, ma questi ultimi crearono un nuovo movimento ribelle, il Raggruppamento congolese per la Democrazia (Rcd) per ribaltare il potere di Kinshasa. Per difendersi Kabila strinse un accordo militare con gli hutu ruandesi dell’ALiR, rifornendoli di armi e munizioni, che alla stregua di altri gruppi armati rivali si resero protagonisti di gravi crimini contro l’umanità sia nell’Est della Rdc che in Ruanda e persino in Uganda.

Dopo l’assassinio del presidente Kabila, il 18 gennaio 2001, e la successione del figlio Joseph, l’ALiR ha consolidato la sua alleanza con l’organizzazione hutu ruandese delle Forze democratiche per la liberazione del Ruanda – basata a Kinshasa, la capitale –, che lo ha progressivamente assorbito. Le Fdlr sono l’emanazione del Comitato di coordinamento della resistenza, un gruppo di esiliati ruandesi hutu, dissidenti dell’Esercito di liberazione del Ruanda, che hanno dato vita al nuovo gruppo nel maggio 2000.

Le guerre, anche a bassa intensità, che si combattono nella regione del Kivu, servono alle varie milizie presenti sul territorio proprio per impadronirsi dei giacimenti di coltan e quindi poter esercitare il monopolio dell’estrazione, (utilizzando manodopera minorile, veri e propri schiavi che muoiono di fatica e malattie portate dal contatto con questo minerale) contrabbandare il minerale nei paesi vicini – come il Ruanda che è diventato uno dei maggiori esportatori, pur non avendone dei giacimenti, per poi venderlo alle industrie produttrici di componenti elettronici. Lo sfruttamento incontrollato di questa risorsa congolese ha costretto l’Onu ad accusare, in un rapporto del 2002, le compagnie impegnate nello sfruttamento delle risorse naturali del Congo – quindi anche il coltan – di favorire indirettamente i conflitti civili nell’area.

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Non spegnete subito i riflettori sul Congo https://ogzero.org/riflettori-sul-congo/ Sat, 06 Mar 2021 09:14:03 +0000 https://ogzero.org/?p=2564 Il 22 febbraio 2021 si accendono i riflettori sul Congo: nel parco del Virunga, in un agguato sulla via che porta a Rutshuru, vengono uccisi l’ambasciatore italiano a Kinshasa Luca Attanasio, il carabiniere Vittorio Iacovacci e l’autista del Pam Mustapha Milambo. Angelo Ferrari ricorda il percorso compiuto nella regione nota per la presenza (e la […]

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Il 22 febbraio 2021 si accendono i riflettori sul Congo: nel parco del Virunga, in un agguato sulla via che porta a Rutshuru, vengono uccisi l’ambasciatore italiano a Kinshasa Luca Attanasio, il carabiniere Vittorio Iacovacci e l’autista del Pam Mustapha Milambo. Angelo Ferrari ricorda il percorso compiuto nella regione nota per la presenza (e la tutela) dei gorilla quando ancora era in corso la Seconda guerra africana. Ve lo proponiamo prima che i riflettori si spengano nuovamente sulla zona dei Grandi Laghi su cui torneremo presto con una analisi approfondita su milizie, saccheggi di risorse e spartizioni di territori…


Mobutu se ne è andato

In un viaggio del 2003, ho incontrato un vecchio amico, Lino, nella capitale Kinshasa. Era appena arrivato dalla città di Kikiwit. La strada che porta da Kinshasa a Kikiwit, circa 600 chilometri, l’avevamo percorsa insieme nel 1993 e ci avevamo impiegato circa 8 ore. Dieci anni dopo Lino ha impiegato 15 giorni per lo stesso percorso. La rete viaria completamente distrutta. E oggi non è cambiato nulla. Ma alle aziende minerarie non servono le strade, si muovono con aerei ed elicotteri.

Una normalità che si accompagna alla rassegnazione. Mobutu se ne è andato, ha terminato la sua marcia alla faccia del nome che si era dato dopo il suo editto di eliminazione dei nomi occidentali per sostituirli con quelli tribali. Lui prese il nome di Mobutu Sese Seko Kuku Ngbendu Wa Za Banga, che significa “il guerriero onnipotente che, grazie alla sua resistenza e all’inflessibile volontà di vittoria, passerà di conquista in conquista lasciando una scia di fuoco dietro di sé”. Lui ha lasciato un paese distrutto e depredato.

Una brutta piega: invasioni e fazioni ribelli

Mobutu non c’è più, ma la storia non ha preso la piega che avrebbe dovuto. Quella che il popolo congolese si aspettava, che i padri si auguravano, in cui i figli hanno creduto. Invece nulla di tutto ciò. Nel 1996 il Ruanda ha invaso la Repubblica democratica del Congo e organizzato l’estromissione di Mobutu l’anno seguente, con l’entrata trionfale a Kinshasa di Laurent-Désiré Kabila. Il 1998 gli stessi ruandesi se la prendono con il loro uomo, innescando una guerra che ha causato oltre 4 milioni di morti. Kabila se ne va ucciso dalla sua stessa guardia del corpo. Gli succede il figlio Joseph Kabila, 29 anni, in tutta fretta, nel gennaio del 2001 e i maligni vedono in lui la mente che ha ordito il complotto di cui è rimasto vittima il padre. Dopo intensi negoziati Kabila riesce ad arrivare agli accordi di pace nel 2003 e il nuovo governo riesce a mettere fine alla “grande guerra” che porta al ritiro degli eserciti stranieri alleati con il governo, Angola, Namibia e Zimbabwe, e di quelli che sostenevano i ribelli, Ruanda e Uganda. Finita la grande guerra gli scontri tra le fazioni ribelli, che crescono come funghi, non si placano. Proseguono incessantemente anche oggi, senza sosta per il Congo e la sua gente che vive, ormai, nella rassegnazione, avendo perduto la capacità di progettare un futuro compatibile con la dignità umana. I sogni e le speranze, che maturano oggi, si infrangono, domani, contro la ripresa di azioni violente da parte di un neonato gruppo ribelle. Sembra che gli unici capaci di progettare un futuro siano gli uomini in armi. I congolesi, invece, rassegnati a una comunità internazionale che considera il Congo una causa persa.

2003: un paese distrutto e depredato

E nel 2003, dieci anni dopo il primo viaggio in Zaire, mi si presenta un paese distrutto fino nell’intimo. Una lingua nera attraversa Goma. Il Nyiragongo, colui che vomita, ha riversato migliaia di tonnellate di lava sulla città, spaccandola in due. È passato più di un anno ma i segni della distruzione sono ancora evidenti.

Il cratere del Nyiragongo nel parco del Virunga (foto Marian Galovic)

Destino amaro per questa città del Nord Kivu in Congo. Nel 1994 “l’invasione” dei profughi ruandesi, più di due milioni, nel 1996 l’inizio della guerra di Desiré Kabila, nel 1998 una nuova guerra ha trovato il suo risvolto più cruento proprio in questa città e lungo la dorsale del parco del Virunga al confine con il Ruanda. La lava ha trascinato con sé case, abitanti, una parte dell’aeroporto – dopo sette anni la ferita è ancora aperta e l’ho potuto constatare di persona durante un viaggio a Goma nel 2010 – la cattedrale, la casa dei saveriani, fino a spegnersi nel lago Kivu che ha ribollito per giorni. Ironia della sorte non ha colpito la casa del vecchio e defunto dittatore, Mobutu. Ironia della sorte per una città che non si rassegna al suo destino, che in meno di cinque anni ha visto triplicata la sua popolazione. Una città segnata, fin nel profondo, dai profughi ruandesi, che poi ha visto l’invasione delle truppe del confinante Ruanda.

A Goma l’inizio del viaggio

Goma non si rassegna. Sulla lava i suoi abitanti hanno già ricominciato a costruire case di legno, hanno ridisegnato le strade, le rotonde, un lento ritorno alla normalità di una vita di un paese, il Congo, diviso dalla guerra e dall’odio. Ed è proprio a Goma che inizia il mio viaggio in questo paese ricchissimo e dimenticato dal mondo. Un viaggio per ricordare al mondo che quei 54 milioni di abitanti (nel 2021 hanno superato gli 84 milioni) vivono nella miseria e nel terrore. Un viaggio per rendere memoria a quasi quattro milioni di morti in cinque anni di guerra. Un viaggio per cercare nelle pieghe della disperazione, quei pochi rivoli di speranza e di pace che fanno dire a Bisidi Yalolo, responsabile del Wwf di Goma: «vedete quei fiori che piantiamo… Belli no?». Sì, quei fiori, quelle donne curve sulla lava a piantarli, sono uno dei segni più evidenti di una rinascita di una città che ha deciso di tornare a vivere e di dare un senso anche alla lava che ha bruciato tutto. Bisidi Yalolo la ricorda bene la guerra, ne ha subito le conseguenze, è dovuto scappare nella foresta, è tornato per proseguire un lavoro iniziato nel 1987. Una bomba ha centrato il suo ufficio e allora la fuga disperata. Lo hanno dato per morto finché non l’hanno visto ricomparire a Goma.

«L’epoca era quella della prima guerra di Kabila», mi racconta Bisidi. «Da Goma chiediamo a Nairobi il da farsi. È scoppiata la guerra, dicevo, loro mi hanno risposto, aspettate. Ma una bomba è piovuta diritta sulla nostra sede. Allora sono scappato e ho camminato per giorni percorrendo più di mille chilometri e sono arrivato a Kisangani. A Goma mi davano per morto. Poi sono tornato quando la bufera si è conclusa». È tornato e ha ripreso il suo lavoro di conservazione ambientale, di salvaguardia dei gorilla di montagna. Ma a che serve, quando c’è un intero popolo che muore? «Il problema – continua Bisidi – non è certo quello di interessarsi solo della natura o dei gorilla. Il problema è capire che la natura deve essere protetta ed è una risposta per la gente». I progetti, infatti, del Wwf, sono rivolti alla riduzione dell’impatto dell’uomo sul parco del Virunga. Come? Mettendo in campo progetti di sviluppo sostenibile per la gente del parco.

Rubare: i bambini che cantano

Nel villaggio di Rubare, sulla pista che porta a Rushuru – la stessa maledetta strada dove ha trovato la morte l’ambasciatore italiano Luca Attanasio il 22 febbraio del 2021 – è una festa quando ci vedono arrivare. Per la prima volta negli ultimi cinque anni, dei bianchi si avventurano nella zona. Soldataglia, banditi, retroguardie degli eserciti occupati, quello del Ruanda, imperversano ancora nella zona. Non è più una guerra sistematica, ma saccheggio. Ciò che è accaduto pochi giorni prima del mio arrivo, una ventina di morti, rende ragione di una situazione ancora di tensione. Così come la nutrita scorta armata di militari che mi accompagna e che aumenta di numero man mano che ci addentriamo nella foresta. Io ne ho contati più di una trentina, ma potrebbero essere di più. Ogni tanto vedo facce mai viste che spuntano da dietro le colline. Tutti militari adolescenti. Ma a Rubare, il nostro arrivo, sembra una festa, quasi di liberazione. I bambini ci accolgono con una canzone che, pressappoco, dice così: «Siete venuti in pace, vi accogliamo in pace, tornate a casa e dite a tutti che siamo gente pacifica». Qui a Rubare è in atto un progetto sostenibile a vasto raggio. L’obiettivo è quello di creare una demarcazione tra il parco e la zona agricola, attraverso una serie di attività: produzione di legno per uso energetico alternativo al prelievo del parco, sviluppo di attività agricole per l’arricchimento del suolo e approvvigionamento di generi alimentari, l’allevamento. Ma non solo. Sono stati creati laboratori di sartoria e una scuola di alfabetizzazione frequentata soprattutto da donne. Un modello sperimentale che si sta applicando in molti villaggi.

Sopravvivenza negli insediamenti intorno a Goma (foto Ispencer)

«Abbiamo prodotto e piantato sei milioni di piante», racconta orgoglioso Bisidi. Percorrendo la strada, sinonimo di disperazione e morte, si trovano villaggi che tornano a vivere. Ed è questo che ti capita di vedere mentre ti avvicini al limitare del parco. Vedi le donne, nei campi, chine a zappare una terra fertile che potrebbe dare tanti frutti. Girano appena il capo, non raddrizzano la schiena perché devono continuare a zappare, ma gli occhi raccontano tutto. Tutto il dolore vissuto, tutta la speranza che può dare quel semplice incontro. Mi hanno raccontato che veder dei bianchi, dopo lunghi anni di guerra, gli ha portato un po’ di speranza, anche se è solo un passaggio, un saluto con la mano e un sorriso.

Se hai visto l’Africa, | questo continente gigantesco | che un tempo partorì la stirpe umana, | hai visto anche le donne | con la schiena curva | e le zappe alzate | che cadono e si sollevano | cadono e si sollevano. | La terra turbina | attorno a queste zappe. | Il canto della terra è il canto della zappa. | Il canto della donna. | Il canto della zappa è il canto della vita.      (Henning Mankell, Racconto dalla spiaggia del tempo)

 

“Incontrare” i gorilla nel parco del Virunga:

L’obiettivo del viaggio è, anche, vedere i gorilla di montagna. Farlo da questa parte del parco, nel Congo, ha solo il senso di dimostrare che qualcosa sta cambiando. Che qualche segnale di speranza c’è anche qui, come quei bambini di Rubare che cantano. Ma la stessa speranza rappresentata dalla maestosità della natura, della foresta. Più che “vedere”, la parola giusta è “incontrare” i gorilla di montagna. Entriamo nella foresta vergine, facendoci largo con il machete, aspettiamo un segnale, un richiamo. I militari che ci “accompagnano” restano al limitare della foresta vergine, anche questo per dimostrare che quello spazio deve essere libero e in pace. I gorilla li devi cercare. Ti trovano loro. L’incontro fa tremare le gambe. Una famiglia intera di 14 componenti e i guardiani del parco hanno dato a tutte un nome, quella che incontriamo si chiama Kwitonda. Loro davanti a te, a pochi metri, ti guardano, i piccoli vorrebbero giocare, il dominante, il silverback, invece, non si cura nemmeno di te. Lui è quello che comanda. Ti tremano le gambe quando un gorilla si appoggia al tronco di un albero, incrocia le braccia, e ti guarda, come se volesse entrare in relazione con te, per chiederti «che ci fai tu qui». La paura monta quando uno dei piccoli di tocca un braccio e, come ci hanno spiegato i ranger, abbassi lo sguardo, mai guardarli diritto negli occhi, sarebbe un segno di sfida. La paura passa quando ti prende il berretto e lo porta via.

Gorilla silverback nel parco del Virunga in Congo (foto Photocech)

Sono istanti indimenticabili. Il fremito del corpo, questa volta, non è il sintomo della paura, è piuttosto meraviglia e stupore per essere entrato in relazione con un altro essere vivente e a casa sua. Ecco, la natura ha deciso di renderti partecipe della sua bellezza, come insegna il Wwf di Bisidi nelle scuole di Goma.

In volo: solo un taccuino e la macchina fotografica

Ed è durante una rappresentazione tenutati in onore degli ospiti bianchi, che arriva la telefonata. Dall’altro capo del telefono il generale Roberto Martinelli vicecomandante della Monuc, che ci invita ad andare all’aeroporto di Goma per registrarci su un aereo delle Nazioni Unite diretto a Bunia. I voli commerciali per quella località sono tutti sospesi, troppo pericolo, e allora per poter vedere e documentare ciò che accade in quell’angolo d’Africa non rimaneva altro che chiedere all’Onu. Le probabilità erano poche, ma ora pare che si stia per partire. Di corsa all’aeroporto, ci registriamo su un volo che parte da lì a 15 minuti. Con me non ho nulla, se non la macchina fotografica e il taccuino, ma l’occasione potrebbe non ripetersi e allora si sale sul volo che sta trasportando mezzi blindati e alcuni uomini del contingente uruguaiano dei caschi blu, non c’è tempo per prendere nemmeno lo spazzolino da denti. Dopo uno scalo tecnico per riempire i serbatoi del C-130 a Kigali, si arriva a Bunia.

Bunia: “era una città bellissima”

Disperazione ovunque. Le strade di Bunia, capoluogo dell’Ituri, regione del Nordest del Congo, sono deserte. Si sente solo il rumore sordo delle armi. I colpi dei mortai fanno capire che qui la guerra non è finita. La popolazione si è rassegnata a piangere i morti, a cercare di che sfamarsi. La vita è paralizzata. E nulla possono fare le organizzazioni non governative presenti in città. Riesco a incontrare i volontari di Coopi, Cooperazione Internazionale, che da giorni sono asserragliati in casa. «Nei periodi di calma – dice Silvia Giardino – la gente viene nei nostri centri dove aiutiamo i malnutriti e distribuiamo cibo. Poi cresce la tensione e tutti scappano. Così il nostro lavoro viene vanificato». Coopi si occupa di due centri terapeutici e di otto punti sanitari per combattere la malnutrizione. La popolazione percorre, per raggiungere i centri, anche 60 chilometri a piedi, arriva sfinita. Sono tutti sfollati che non hanno respiro, sono costretti a fuggire di villaggio in villaggio, inseguendo la vita, lasciandosi alle spalle la morte. «La guerra non si è mai interrotta – continua Silvia – si sposta continuamente. Il 70 per cento delle persone vengono nei centri sono sfollati e per questo lavoriamo anche nella distribuzione dei kit cucina. Soffriamo nel vedere la popolazione ridotta in queste condizioni». Dai centri, in momenti di relativa calma, passano tra le 100 e le 150 persone al giorno. Gianni di Mauro, un altro volontario, però ricorda un’altra Bunia, quella di vent’anni fa. «Era una città bellissima – dice – l’ospedale era forse il migliore del Congo. Le strade asfaltate, fiori ovunque. L’economia era fiorente, c’erano addirittura negozi di Armani. In certi alberghi si poteva entrare solo con la cravatta.

Tornare indietro di sessant’anni

La strada Mambasa-Kisangani, lunga 700 chilometri, si percorreva in una giornata, oggi ci vogliono settimane». Bunia è tornata indietro di sessant’anni. Tanta tristezza negli occhi di Gianni. Ma è così, la guerra schiaccia tutto, distrugge. Fuga, disperazione e morte. La città si svuota. Come in ogni guerra. Materassi di gommapiuma sulla testa. Il sole a picco. E rigorosamente in fila indiana lungo la strada che porta all’aeroporto. Bambini per mano con il volto rigato dalla paura. Una processione verso una speranza improbabile. Alle spalle le armi che crepitano. Migliaia cercano rifugio all’aeroporto, chiuso da giorni e diventati ora base militare ugandese, in cerca di una via di fuga dai massacri. La gente di Bunia scappa dai colpi di mortaio che li rincorrono. Sono tutti hema, l’etnia minoritaria della regione, gente orgogliosa, allevatori, nipoti o cugini dei tutsi ruandesi. Dietro di loro i lendu, bantu, figli o cugini degli hutu ruandesi. Sembra un film già visto: quello del genocidio ruandese. Ma questa è realtà. Dura e cruda realtà fatta di morti, massacri, fughe, stupri, rifugiati, contrasti etnici usati ad arte dai ribelli, appoggiati da questo o quest’altro paese in una guerra infinita, quella del Congo, che dura da cinque anni. Gli appetiti dei paesi confinanti, dei ribelli con sigle altisonanti, non si sono arrestati di fronte alle tregue, agli accordi politici che tentano di mettere la parola fine al massacro sistematico.

Ricordare questo viaggio, a distanza di quasi vent’anni, è utile per capire quello che accade oggi. Se allora era guerra piena, ora è a bassa intensità, ma altrettanto feroce. La gente non ha il tempo di riorganizzarsi in un luogo, se deve, nuovamente, più volte all’anno, fare fagotto e scappare altrove. Chi ce la fa. E le milizie, con altri nomi, sono sempre lì a dettare legge. Lo stato lontano e impercettibile.

La speranza (vana) si chiama Uganda

In aeroporto i fuggiaschi si mettono in fila. Dall’altra parte della pista gli ugandesi stanno caricando un aereo: carri armati, blindati e soldati dai volti gentili. Ma anche bambini soldato arruolati per combattere una guerra non loro. Gli hema, in fila, attendono il loro turno. Sperano di salire su quell’aereo che ha come meta Entebbe. Uganda: la salvezza e la certezza di vivere da rifugiati in un paese non loro, in campi fatiscenti, ma lontano dalla sicura morte. I “soldatini” adolescenti scattano all’ordine dei loro comandanti. I rifugiati attendono da giorni di partire. Ecco, vengono chiamati, avanzano. No, tutti indietro. Dietrofront, non è ancora arrivato il momento. E la speranza di sgretola, affonda nell’asfalto bollente della pista.

Gli ugandesi devono lasciare l’aeroporto. La tensione è alta. La Monuc, la missione di osservatori dell’Onu, non ha la forza militare per mantenere il controllo della città, figuriamoci dunque della regione dell’Ituri. Eppure, i compound dell’Onu si riempiono di persone che, qui, si sentono più protette.

È una mattina qualsiasi. La vigilia della partenza delle truppe dell’Uganda, paese occupante, e la tensione si alza. Le strade di Bunia sono deserte, I magazzini chiusi. E non è notte. Tutti aspettano l’offensiva dei lendu. Intanto un plotone di militari congolesi, travestiti da poliziotti, fanno la loro parata, cantando e correndo, mostrando i muscoli per le vie centrali della città. Fanno sapere che ci sono. Sembrerebbero voler rassicurare la popolazione. Ma la gente non sorride. Da lì a poco il plotone cerca rifugio negli uffici della Monuc dove ha trovato riparo anche il capo della polizia locale e dove sono asserragliati i caschi blu uruguaiani. Il plotone si squaglia al primo colpo di mortaio.

Nei palazzi si parla, per strada si muore

Il giorno è arrivato: 6 maggio. Riprendono i combattimenti. È un massacro. Lo scontro è feroce. Si fronteggiano le due fazioni: hema e lendu. È una storia infinita di potere. Tutto questo mentre a Kinshasa sono in corso le trattative per formare il governo di transizione, per definire quanti e quali vicepresidenti affiancheranno il capo dello stato. Nei palazzi del potere, compresi quelli della missione Onu, si discute e intanto per le strade di Bunia si muore. Il gioco politico è chiaro. Il Consiglio di sicurezza ha imposto agli ugandesi di lasciare la regione. L’Uganda ha risposto deciso: lasciamo il Congo in tempo zero. Panico e sconcerto. La Monuc non ha la forza per rimpiazzare militarmente gli ugandesi. E allora si tratta. Il gioco è chiaro. L’Uganda vorrebbe rimanere. La regione è ricca di risorse, il petrolio vorrebbe trovare la luce, e gli ugandesi lo sanno. Per questo lavorano dietro le quinte, sostenendo questa o quest’altra fazione ribelle. All’inizio è l’Unione dei patrioti congolesi (Upc), guidata da Thomas Lubanga di etnia hema, a prendere il potere, ma subito fa l’occhiolino ai ruandesi. Scontenta gli ugandesi e, allora, si va nuovamente alle armi. L’aiuto di Kampala si rivolge ai lendu, nemici giurati dell’Uganda. Insomma, il giochino delle tre carte. In mezzo un contingente di caschi blu uruguaiani che non possono nulla, se non fare da deterrente. Però il mandato è debole. E poi a Bunia non esiste nessuna logistica militare dell’Onu. I primi militari arrivano con due bottiglie d’acqua e due razioni da combattimento. Troppo poco. L’Uganda lo sa. Nei palazzi della Monuc di Kinshasa le trattative di affiancano alla preparazione del contingente militare che dovrebbe sostituire l’esercito di Kampala. Settecento uomini che dovrebbero diventare 2300 entro l’estate. Lo sforzo è enorme. Ma gli ugandesi se ne vanno. È guerra. Sei giorni di battaglia feroce e l’ex amico dell’Uganda, tornato all’ovile, Lubanga torna a controllare Bunia. Viene firmata la tregua. Ma le preoccupazioni rimangono. Gli osservatori sono scettici, se non pessimisti. La parola fine non è stata ancora scritta. All’Uganda, a questo punto, conviene di più il giochino delle tre carte che un intervento diretto.

E l’inferno si scatena

Un giorno carico di tensione. L’obiettivo, tra gli altri, è ancora capire, facendocelo raccontare dai funzionari Onu, cosa sta davvero succedendo nella regione. Ma le riunioni si moltiplicano. L’appuntamento con la funzionaria italiana viene spostato in continuazione, mentre nella stanza, sbattendo porte, si succedono ufficiali di diversi paesi occidentali. Nel compound delle Nazioni Unite gli sfollati crescono, ne arrivano in continuazione, lo pensano un luogo protetto, ma sono anche il segnale che la guerra è alle porte. Decido, insieme a un collega, di mangiare qualcosa. C’è un ristorante, l’unico aperto, proprio lì, ed è lì che attendiamo udienza e la nostra funzionaria. Di cibo poco, qualche spiedino di carne di capra e dell’insalata. Ai tavoli altri bianchi, tutti funzionari di qualche agenzia dell’Onu. Chiediamo la birra, la capra è dura da mandare giù. Non c’è. Solo una bottiglia. Un segno inequivocabile che la guerra è alle porte. Poi cade l’occhio, che esprime tutta la voglia di birra, sotto le sedie dei tavoli occupati: casse di birra portate dagli stessi avventori. Merce preziosa, in tempi di guerra. Chiedo ancora la birra, la stessa risposta: non ce n’è. Suggerisco alla gestrice del ristorante di andare a comprarne almeno una cassa. Gli occhi diventano grandi per la paura: tutti i magazzini sono chiusi. Insisto, con anche un po’ di superbia: impossibile che non si trovi della birra, e alla fine spuntano le bottiglie della preziosa Primus. Con la birra arriva anche la funzionaria che aspettavamo, sono le 23. Ci racconta delle riunioni che devono rimanere segrete, poi ci racconta la realtà. Io e il collega ci guardiamo stupefatti: ma queste cose le sappiamo anche noi. Non c’è bisogno di essere nelle stanze segrete dell’Onu. Lei, la giovane funzionaria, sorride ed è evidente che di segreto non c’è nulla. Ci capiscono poco anche loro. Dal sorriso al saluto e ci lascia il suo pomposo biglietto da visita e sotto il nome – lo tralascio per la privacy e nella speranza, soprattutto, che ora sia un po’ più avveduta e competente di allora – c’è tutta la sua vita: “Master of International Affairs Human Rights and Conflict Resolution”. Un master conseguito alla Columbia University di New York. Ma prima di congedarci le diciamo dei rumors che circolano tra i poveracci assiepati nella sede dell’Onu e cioè, per farla breve, che l’indomani ci sarebbero stati scontri violenti. Lei sorride e liquida le voci così: «Non abbiamo segnali in questo senso». Il giorno dopo si è scatenato l’inferno.

Il ritorno a Goma

Il nostro tempo a Bunia è finito. Le condizioni di sicurezza sono pessime e dunque bisogna partire. All’aeroporto dovrebbe esserci l’areo dell’Onu che ci riporterà a Goma, dopo un passaggio a Kisangani. Arriviamo all’aerostazione e un uomo della sicurezza dell’Onu ci dice che l’areo non c’è. Un guasto o non so che. Dunque, chiediamo all’uomo che dobbiamo fare. «State qui e ammirate il panorama». Sarcasmo, stupidità. Il panorama: la gente che scappa dagli scontri cercando rifugio in Uganda. Una bella prospettiva. Ma, detto questo, l’uomo sale sulla sua jeep e tanti saluti. Da lì a poco scopriamo che sta arrivando un aereo dell’Unione europea, EcoFly, che dà lì tornerà direttamente a Goa, e che fa servizio umanitario nelle zone di guerra trasportando i cooperanti. I giornalisti, però, non sono ammessi. Beh, provarci non guasta. Appena arriva, mostro al funzionario un tesserino che mi identifica come cooperante. Avevo dimenticato di averlo, ma potrebbe essere la mia salvezza. Lui, forse la fretta, controlla appena e mi indica il portellone del velivolo.

Torna il silenzio sulla guerra dimenticata dal mondo

Riesco a salire sull’aereo – sono più fortunato dei congolesi – che mi porta lontano dall’inferno. Un abbraccio frettoloso con le persone conosciute, non c’è tempo per soffermarsi, ma l’abbraccio è caloroso e avvolgente. Indimenticabile. Corre il bimotore sulla pista. Decolla, i rumori della guerra svaniscono. E torna il silenzio su una guerra dimenticata dal mondo. Solo per onore di cronaca: dopo la nostra partenza da Bunia l’areo dell’Onu è arrivato e ripartito per Kisangani. Il generale Martinelli, non avendo nostre notizie, stava lanciando l’allarme: due giornalisti dispersi in Congo. Solo una nostra telefonata al quartier generale delle Nazioni Unite a Kinshasa fa rientrare l’allarme.

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Un muro di sabbia che divide gli uomini https://ogzero.org/normalizzazione-del-conflitto-muro-di-sabbia-che-divide-gli-uomini/ Tue, 23 Feb 2021 15:08:05 +0000 https://ogzero.org/?p=2449 In occasione della ricorrenza della nascita – il 27 febbraio 1976 – della Repubblica Democratica Araba dei Saharawi proclamata formalmente dal Fronte del Polisario, riconosciuta da 76 stati, principalmente africani e sudamericani, dall’Unione Africana ma non dall’Onu, pubblichiamo un contributo di Alice Pistolesi sulla situazione dentro e fuori dai campi profughi dell’area. Lo stesso Fronte […]

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In occasione della ricorrenza della nascita – il 27 febbraio 1976 – della Repubblica Democratica Araba dei Saharawi proclamata formalmente dal Fronte del Polisario, riconosciuta da 76 stati, principalmente africani e sudamericani, dall’Unione Africana ma non dall’Onu, pubblichiamo un contributo di Alice Pistolesi sulla situazione dentro e fuori dai campi profughi dell’area. Lo stesso Fronte è riconosciuto solo da alcuni paesi come rappresentante dei separatisti e nessuno stato ha riconosciuto finora formalmente l’annessione del Sahara Occidentale da parte del Marocco. Il muro di sabbia divide la popolazione profuga nel deserto da quella che abita nel Sahara Occidentale, dove tra la normalizzazione del conflitto, repressione ed emergenza sanitaria con aiuti umanitari in ritardo le condizioni di vita sono inconciliabili con il concetto di vita stesso. La rivendicazione saharawi evidenzia una religiosità non riconducibile ad alcuna ortodossia: questa è una caratteristica che accomuna un po’ tutte le comunità che rivendicano una sorta di autodeterminazione e hanno provato a costruirsela.

In attesa della decolonizzazione che non arriverà mai

La linea tratteggiata su una mappa geografica assume più significati: il territorio è conteso, il riconoscimento dello stato non è avvenuto e, altamente probabile, chi lo abita vive quotidiane violazioni di diritti. Uno su tutti, quello all’autodeterminazione.

È questo il caso del Sahara Occidentale, occupato dall’esercito marocchino nel 1975 e considerato dalle stesse Nazioni Unite come l’ultima colonia africana esistente, inserita nella lista dei 17 territori non autonomi in attesa di decolonizzazione.

Nel territorio è attiva dal 1991, anno del cessate il fuoco tra l’esercito marocchino e il Fronte Polisario (la forza armata saharawi), la missione Onu Minurso con il compito di vigilare sulla tregua e di organizzare il referendum che avrebbe dovuto portare il popolo saharawi a decidere del proprio destino, ma che non si è mai svolto.

La popolazione saharawi è quindi tuttora divisa tra chi in quel 1975 lasciò le proprie case cercando rifugio nel deserto algerino e da lì non si è più mosso, è cresciuto, ha composto famiglia, è invecchiato, è morto. E chi invece non ha mai lasciato il Sahara Occidentale e vive sotto occupazione.

Riprendere a combattere

La vita in entrambe le aree è peggiorata con la ripresa delle armi, scaturita il 13 novembre 2020 in seguito alla violazione del cessate il fuoco da parte dell’esercito marocchino. Violazione arrivata dopo che, per 21 giorni, i saharawi avevano occupato il valico di Guerguerat, all’interno dell’area cuscinetto che insiste sul muro di 2700 chilometri fatto costruire a partire dal 1980 dal Marocco e che divide la popolazione profuga nel deserto da quella che abita nel Sahara Occidentale.

Con la ripresa del conflitto è cresciuta di giorno in giorno la repressione esercitata dalle forze marocchine contro la popolazione civile saharawi e nelle carceri. Chi vive nel Sahara Occidentale fa ogni giorno i conti con le costanti violazioni dei diritti umani, testimoniate da numerose organizzazioni internazionali. La stampa estera non può entrare e ogni forma di giornalismo “di strada” è perseguito, così come la stessa cultura saharawi. Nel Sahara Occidentale non ci sono università e ospedali specializzati e il tasso di disoccupazione è altissimo.

Proteste in sostegno dell’attivista Sultana Khaya, dopo l’aggressione a Bojdour

Alcuni casi di repressione

Il giornalista Mohamed Lamin Haddi si trova in carcere in Marocco da 10 anni, con ancora 15 da scontare. Si trova in isolamento, non riceve visite da un anno, può parlare a telefono con la sua famiglia solo pochi minuti a settimana. Ha un’ulcera ma non riceve cure mediche. Dal 13 gennaio 2021 Haddi è in sciopero della fame per protestare contro le condizioni di detenzione. La protesta è iniziata, riferisce “Équipe Média”, agenzia di stampa saharawi che opera in clandestinità, dopo essere stato più volte attaccato nella sua cella da alcuni funzionari.

La Corte di Cassazione marocchina ha confermato il 25 novembre 2020 le pene contro Haddi e altri 22 attivisti saharawi per i fatti avvenuti nel campo di Gdeim Iziz, nella periferia di El Aaiún (la capitale del Sahara Occidentale) nel 2010, quando vennero uccisi 2 manifestanti e 11 agenti marocchini. Nel campo di Gdeim Izik, si erano stabiliti circa 25.000 saharawi per rivendicare diritti sociali. Le condanne confermate dall’ultimo grado di giudizio vanno dai 20 anni di carcere all’ergastolo e sono state imposte, secondo una dichiarazione congiunta di Human Right Watch e Amnesty International «in processi viziati da accuse di tortura» e basati sulle loro confessioni alla polizia, senza altre prove.

L’attivista saharawi Sultana Khaya è stata gravemente ferita il 15 febbraio sotto la sua casa a Bojdour, dove stava scontando da 87 giorni gli arresti domiciliari. Secondo quanto riferiscono fonti vicine alla famiglia, è stata aggredita da agenti di polizia che hanno lanciato pietre contro di lei e sua sorella, ferendole la bocca e rompendole alcuni denti. Nel 2007, durante una manifestazione, un’aggressione della polizia marocchina le era costata un occhio. Dopo l’ultimo atto di violenza decine di persone sono scese in strada in difesa della loro connazionale e per chiedere il rispetto dei diritti umani.

Proteste in sostegno dell’attivista Sultana Khaya, dopo l’aggressione a Bojdour

Costanti anche i rapimenti. A El Aaiún il giovane attivista Ghali Bouhala è stato rapito il 12 febbraio dalle forze di polizia: non se n’è avuta notizia fino a quando non è comparso davanti al Tribunale di primo grado di El Aaiún, accusato di traffico di droga.

Modalità simili anche nei confronti dell’attivista Mohamed Nafaa Boutasoufra. Rapiti il 15 febbraio anche due minori saharawi nella città di Laayoune dalla polizia in borghese.

Da sempre, ma ancor più con la ripresa della guerra, popolano le strade del Sahara Occidentale decine di poliziotti in borghese che controllano i gruppi che si formano nelle strade. Dal 13 novembre sono state molte le manifestazioni di sostegno al Polisario nelle varie città: la polizia si infiltra tra la gente, filmandola, per poi intervenire nei giorni successivi. Le manifestazioni, nei territori, si organizzano prima con il passaparola, poi tramite messaggi.

Vivere da attivisti

Le vite degli attivisti sono simili tra loro. Per essere considerato tale basta davvero poco: cantare canzoni della cultura saharawi, esporre bandiere, vestire il darrâa, l’abito tradizionale.

La paura è una costante. Tutti coloro che si impegnano per la causa sanno che presto o tardi il rapimento, la reclusione, l’aggressione potrebbe capitare a loro e a qualcuno della propria famiglia. Difficile dire quanti siano adesso i prigionieri saharawi nelle carceri marocchine. Prima della guerra le associazioni vicine ai saharawi ne contavano 39. Il 20 novembre 2021 “Équipe Média” individuava 25 nuovi arresti a El Aaiún e diversi casi di maltrattamenti. Nella primavera 2020 era stata lanciata una campagna per la liberazione dei detenuti saharawi avvalorata dal rischio contagio da Covid-19 e sostenuta anche da numerosi parlamentari europei, da diverse ong e da Michelle Bachelet, Alto Commissario Onu per i diritti umani. L’appello è però rimasto inascoltato.

Il Fronte Polisario ha sottolineato che l’attuale ritorno delle azioni militari nel Sahara Occidentale sta provocando «un drammatico aumento della repressione e delle violazioni dei diritti fondamentali dei civili saharawi nel Sahara Occidentale». A dirlo anche organizzazioni internazionali come Human Rights Watch e Amnesty International, che hanno ripetutamente denunciato l’escalation di repressione nei territori saharawi occupati.

Covid-19 e aiuti internazionali in ritardo

Nei campi profughi nel deserto algerino la vita è stata complicata dal combinato disposto tra Covid-19 e guerra. La pandemia ha fatto sì che gli aiuti internazionali, fondamentali per la popolazione che abita in un deserto in cui le condizioni climatiche non permettono in nessun caso l’autosostentamento, sono stati a lungo bloccati. Solo a titolo di esempio, l”associazione spagnola Hurria ha denunciato che i 15.000 chili di aiuti raccolti nel comune spagnolo di Andoain all’inizio del 2020 sono arrivati nei campi nel gennaio 2021.

Campo profughi nel deserto algerino (foto di Camilla Caparrini)

Il terremoto Trump e i suoi lasciti

A complicare la vita dei civili saharawi c’è poi l’accordo che l’ex presidente Usa Donald Trump ha concluso con il Marocco sul riconoscimento della presunta sovranità sul Sahara Occidentale, in cambio di una normalizzazione delle relazioni con Israele.

A questo si somma poi l’apertura di un consolato americano a Dakhla, il grande porto del Sahara Occidentale. Al momento Biden non si è espresso sulla questione ma osservatori rilevano che il percorso del neopresidente non si discosterà troppo da quello del predecessore, come richiesto da buona parte della comunità internazionale e, il 24 gennaio, dal presidente dell’Unione Africana (e del Sud Africa) Cyril Ramaphosa.

Normalizzare la guerra, il vero rischio

A latere di tutto questo c’è la guerra con scontri più o meno quotidiani che da due mesi si susseguono lungo il muro, area altamente militarizzata e costellata da milioni di mine antiuomo. Se nei primi giorni della ripresa del conflitto l’attenzione si era levata su una zona del mondo spesso dimenticata, adesso c’è il rischio che alla normalità del vivere da esuli nei campi profughi in uno dei territori più inospitali del mondo, dell’insicurezza e della repressione dell’abitare sotto un’occupazione, si vada ad aggiungere una nuova normalità: quella di un’ennesima guerra inutile, dannosa e che si poteva decisamente evitare.

Campo profughi nel deserto algerino (foto di Camilla Caparrini)

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Le molte violenze della pace in Colombia https://ogzero.org/le-diverse-violenze-della-pace-in-colombia/ Sun, 14 Feb 2021 12:33:36 +0000 http://ogzero.org/?p=2422 Le recenti dichiarazioni del leader delle Farc Rodrigo Londoño hanno portato al centro dell’attenzione, ancora una volta, le criticità che sta incontrando il processo di pace in Colombia. Comparso davanti alla Jurisdicción Especial para la Paz (Jep), Londoño, più noto come Timochenko, ha ammesso la responsabilità delle Farc nell’uccisione di Alvaro Gómez Hurtado, già direttore […]

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Le recenti dichiarazioni del leader delle Farc Rodrigo Londoño hanno portato al centro dell’attenzione, ancora una volta, le criticità che sta incontrando il processo di pace in Colombia. Comparso davanti alla Jurisdicción Especial para la Paz (Jep), Londoño, più noto come Timochenko, ha ammesso la responsabilità delle Farc nell’uccisione di Alvaro Gómez Hurtado, già direttore del Partito Conservatore, e ha menzionato che i vertici delle Farc avevano contemplato la possibilità di attentare contro la vita dell’ex presidente Juan Manuel Santos, ma non hanno mai avuto informazioni sufficienti su di lui e dunque l’attentato non è mai stato realizzato. Questa parte della dichiarazione di Timochenko, che ha avuto una certa risonanza in Europa, in Colombia ha avuto un impatto piuttosto limitato. Lo stesso Santos ha risposto che anch’egli aveva firmato l’autorizzazione per compiere operazioni militari contro le Farc e ha ricordato che le regole del gioco, imposte dalla componente governative, erano chiare: «I negoziati sono stati portati avanti nel corso delle guerra, come se le guerra non ci fosse stata, e la guerra, nel frattempo, è andata avanti come se i negoziati non ci fossero stati». Entrambi, Santos e Londoño, hanno ribadito l’importanza del riconoscimento pubblico della verità, che rappresenta un bisogno e un diritto delle vittime e hanno espresso preoccupazione per le uccisioni degli ex combattenti delle Farc e dei leader sociali.

Pace: un percorso accidentato

Se, sulla carta, la guerra con le Farc è conclusa, di fronte alle numerose violenze che continuano a colpire la società colombiana è infatti doveroso fare un bilancio critico del processo di pace e mettere in luce le profonde falle che possiamo constatare nel percorso, più che mai necessario, di ricostruire il patto sociale su basi più democratiche ed eque.

Conseguenze bio-sociali della pandemia

Come altrove, il 2020 in Colombia è stato fortemente segnato dalla pandemia Covid-19, che ha fatto emergere in modo lampante le numerose contraddizioni che caratterizzano il nostro contesto sociale, economico e politico. Una delle prime e più interessanti asserzioni del volume Epidemie e società di Frank Snowden è che le malattie epidemiche non sono affatto eventi biologici episodici che si abbattono in modo casuale sulle collettività, ma sono fenomeni che potremmo definire bio-sociali, che colpiscono i punti più vulnerabili di una collettività, mettendo in luce in modo drammatico le fragilità del sistema. Nel caso colombiano queste affermazioni sono particolarmente vere. Gli effetti a livello epidemiologico del Covid-19 sono stati radicalmente diversi rispetto a quelli che si sono osservati in Europa. Mentre in paesi come l’Italia il principale fattore di rischio è l’età, in Colombia è la classe sociale a determinare chi corre il rischio più grave. Vi è, poi, un lato ancor più sinistro della pandemia e delle misure per contenerla: mentre in altri paesi il fatto di essere confinati in casa ha diminuito gli indici di violenza, in Colombia, al contrario, c’è stato un aumento complessivo del numero di leader sociali assassinati, dei fenomeni di violenza contro le donne e dell’insicurezza urbana. “Restare a casa”, dunque, ha amplificato la “vulnerabilità strutturale” di categorie che già prima erano di per sé vulnerabili.

I ceti più poveri sono i più colpiti dalla pandemia (foto di Jkraft5, Soacha)

Violenza strutturale e violenza politica

Nella pandemia, in sintesi, si è manifestato un intreccio persistente e irrisolto fra disuguaglianza sociale, violenza strutturale e violenza politica. Non va dimenticato che il conflitto armato si è sviluppato in una società caratterizzata da marcate disuguaglianze sociali che vede contrapposte, da un lato, una élite economica che esercita un controllo pressoché totale sulle terre, sulle materie prime e sulla produzione e, dall’altro, la grande maggioranza della popolazione che oscilla fra la “fatica ad arrivare a fine mese” e, nei casi peggiori, l’impossibilità di accedere alle risorse minime per garantire la propria sussistenza.

Bogotà, 2019: attivisti di Puro Veneno attaccano un manifesto contro la brutalità della polizia (foto di Sebastian Barros)

L’accordo di pace: criticità tuttora irrisolte

Sono passati poco più di quattro anni dal 30 novembre del 2016, il giorno in cui il Congresso colombiano, dopo molte vicissitudini, diede il via all’attuazione dell’accordo di pace sottoscritto tra le Forze Armate Rivoluzionarie Colombiane e il Governo colombiano. La prima versione dell’accordo era stata siglata il 26 settembre di quello stesso anno. Alcuni punti di questa prima versione, tuttavia, erano stati ridiscussi in seguito alla sconfitta del “SÍ” nel plebiscito che avrebbe dovuto ratificare l’accordo, ed erano state apportate delle modifiche in ragione della necessità di allargare la platea politica dei sostenitori di una soluzione pacifica e negoziata del conflitto.

Nella sua versione finale, l’accordo affrontava alcune questioni nodali capaci di alimentare il conflitto sociale armato. Erano incluse nei punti, per esempio, la cosiddetta “questione agraria”, ovvero le profonde asimmetrie nella distribuzione della terra, che dovevano essere affrontate a partire da un programma di riforma integrale della proprietà terriera, a vantaggio delle comunità contadine e delle minoranze indigene e nere che nel corso del conflitto erano state espropriate dai loro territori tradizionali.

Particolare importanza era stata data alla questione della partecipazione politica delle Farc (che ha recentemente annunciato la rinuncia alla storica sigla e la nascita del partito Comunes) e, più in generale, delle componenti sociali non sufficientemente rappresentate nello scenario nazionale. Il nodo della giustizia, la verità e la riparazione delle vittime erano stati trattati in modo ampio ed era stata costituita la già menzionata Jep, con il compito di amministrare la giustizia transizionale. Erano stati inoltre concordati dei meccanismi per affrontare il problema della coltivazione della coca e del narcotraffico.

Molte di queste criticità rimangono tuttora irrisolte e, per quanto riguarda il narcotraffico, i problemi si sono intensificati.

Gli ostacoli politici

L’implementazione degli accordi ha incontrato ostacoli politici e sociali a molti livelli. Sebbene la versione finale fosse stata approvata senza voti contrari, i parlamentari del Centro Democrático (un partito di destra fortemente contrario al processo di pace, diretto dal senatore ed ex presidente Álvaro Uribe Vélez) si erano ritirati dalle aule durante la votazione e avevano reso esplicita la loro volontà di ostacolare l’implementazione delle misure contenute negli accordi. Una linea politica, questa, che è risultata evidente durante l’attuale mandato presidenziale: il governo Duque ha infatti accumulato notevoli ritardi – e conseguenti malcontenti – nell’iter legislativo che avrebbe consentito l’attuazione di quanto pattuito e, sulla scia di Uribe Vélez (2002-2006 e 2006-2010), ha ostacolato la giustizia transizionale e i suoi meccanismi di verità e riparazione; ha promosso narrazioni ufficiali che negano (o quantomeno minimizzano) le responsabilità, presenti e passate, della componente governativa e ha “normalizzato” misure repressive da parte della polizia e delle forze dell’ordine che violano i diritti fondamentali, giustificandole come azioni necessarie per il mantenimento dell’ordine pubblico.

Fra i fatti di cronaca più emblematici del 2020 si possono infatti ricordare l’uccisone di Javier Ordoñez, a cui seguì una violenta repressione messa in atto per sedare le proteste nella capitale, e la morte di Mario Paciolla, membro della Misión de Verificación de los Acuerdos de Paz dell’Onu e autore di un rapporto su un bombardamento dell’esercito che aveva l’obiettivo di colpire un leader dissidente delle Farc e fu presentato come un impeccabile successo militare da parte di Duque, ma nel quale in realtà erano stati uccisi a sangue freddo, e da terra, otto ragazzi fra i 12 e i 17 anni.

“La Jep riformula una storia del conflitto armato”.

L’obiettivo è eliminare i leader sociali

Per capire quanto sia critica l’attuale situazione del paese, e quanti ostacoli si stiano cercando di frapporre alla “costruzione di una pace stabile e duratura”, alcune cifre offrono un efficace punto di riferimento.

Indepaz, un’associazione che monitora lo stato della situazione dei diritti umani in Colombia, ha raccolto documentazione relativa a più di 90 massacri avventi nel 2020, a questi si aggiunge l’uccisione di 310 leader di lotte sociali e 12 loro familiari o amici. Questa stessa organizzazione aveva segnalato oltre 750 uccisioni di leader sociali fra il 2016 e il 2019. Sebbene le cifre ufficiali siano più contenute rispetto alla documentazione raccolta da Indepaz, la portata della violenza che si sta abbattendo contro questi attivisti è stata riconosciuta anche da istanze governative: il Difensore del Popolo, un ente che ha il ruolo di sorvegliare e promuovere la tutela dei diritti umani, ha riconosciuto ben 555 uccisioni fino al 2019 e altre 139 vittime nel 2020. Alle cifre agghiaccianti dei leader sociali assassinati, si aggiungono i nomi di 64 ex combattenti, firmatari dell’accordo, uccisi nel corso dell’anno.

I massacri e le uccisioni dei leader sociali, sindacalisti, attivisti nel campo dei diritti umani, ambientalisti, rappresentanti dei movimenti lgbti, oppositori e, in generale, tutte le persone che possono rappresentare una minaccia allo status quo dei settori dominanti sono fenomeni ricorrenti nella storia colombiana.

I “leader sociali” sono uomini e donne che si contrappongono con enorme coraggio al “potere totale” che gli attori armati tentavano, e tentano ancora oggi, di conquistare attraverso l’estrema violenza. Si tratta, in quasi tutti i casi, di figure di riferimento all’interno delle proprie comunità, che hanno assunto ruoli di massima importanza nella denuncia dei crimini degli armati, nella rivendicazione del diritto alla terra, nella difesa dei diritti delle comunità locali e nei processi di autoorganizzazione collettiva. Si tratta, quindi, di persone decisamente scomode per chi ha l’obiettivo strategico di stabilire un dominio sul territorio e sulle sue risorse.

Narcocapitale e desplazamiento

Chi c’è dietro le uccisioni di questi leader sociali? Ancora non ci sono risposte a questa domanda, anche perché oltre il 90 per cento dei crimini resta impunito. In parte l’uccisione dei leader sociali può essere imputata ai cartelli nazionali e internazionali del narcotraffico che sono operativi in Colombia. Va però sottolineato che il traffico di droga non è solo l’opera di organizzazioni criminali che agiscono nell’illegalità, ma va inteso come un fenomeno complesso, che si infiltra nelle strutture dello stato e ha un elevato livello di ingerenza sulla sfera economica, sulla politica e sulla cultura del contesto in cui si radica.

In Colombia, per esempio, uno degli ambiti privilegiati di investimento dei “narcocapitali” è stato quello fondiario. La violenza ha costretto intere popolazioni ad abbandonare le proprie terre e a spostarsi verso le città, spesso in condizioni di grave precarietà economica e senza adeguati tutele statali: è il noto fenomeno del desplazamiento, che non è cessato e che ha colpito fino a oggi circa 8 milioni di colombiani. Queste terre, in seguito, vengono occupate, o a volte acquistate a prezzi irrisori, da paramilitari e narcos, di fronte all’impotenza degli abitanti ancestrali, le comunità contadine, indigene e afrocolombiane.

Graffiti nelle strade di Medellin “Siamo tutti migranti” (foto StreetFlash)

Affrontare la questione del narcotraffico, quindi, non può limitarsi – come invece è accaduto – all’uso di misure repressive o al ricorso alla fumigazione con glifosato, una tecnica di sradicamento delle coltivazioni di coca che ha un impatto devastante a livello ambientale e umano. Per risolvere uno dei più gravi e annosi problemi della Colombia, sarebbe invece necessaria un’attenzione globale ai bisogni sociali ed economici delle popolazioni delle zone coinvolte nella coltivazione, nonché l’implementazione di politiche mirate capaci di limitare la dilagante corruzione nelle istituzioni locali e nazionali.

La strategia del terrore non è finita

Nella storia del conflitto colombiano è possibile rilevare una marcata tendenza a ricorrere ai massacri, all’eliminazione fisica dell’oppositore, alla mutilazione e alla violenza sui corpi vivi e morti come strumento per garantire un potere assoluto sulla popolazione e sul territorio. Queste modalità di uso strategico del terrore non sono purtroppo scomparse.

Se a livello ufficiale non ci sono “nomi” per gli autori di questi crimini, nei luoghi in cui vengono commessi, invece, i sospetti e le “voci” non mancano. Sovente non è difficile identificare le persone contro le quali si rivolgevano le rivendicazioni dei leader: sono narcotrafficanti, certo, ma anche latifondisti, capi dell’industria estrattivista mineraria e agraria, proprietari di bestiame, occupanti abusivi di terre espropriate ai contadini nel corso del conflitto, qualche volta politici o figure importanti a livello che traggono benefici dalla corruzione.

A livello statale il carattere sistematico e programmato delle uccisioni viene negato e gli assassinati vengono sempre presentati come “episodi isolati”. Tuttavia vi è un’innegabile responsabilità dello stato nella mancanza di tutela di persone che sono sotto esplicita minaccia, nell’elevata impunità e nella scarsa trasparenza con cui vengono gestite le indagini, nella mancanza di volontà di applicare quanto stabilito negli accordi in materia di riforma agraria, traffico di droga, giustizia e sicurezza. Poiché in passato abbiamo assistito a sistematici processi di sterminio di interi gruppi in virtù delle loro convinzioni ideologiche e dei loro progetti politici (si pensi al genocidio dell’UP), è più che mai necessario alzare il livello di allerta e monitorare con attenzione la situazione dei diritti umani in Colombia per arginare quest’onda di violenza che sta travolgendo chi è impegnato attivamente nella trasformazione sociale del paese ed evitare un nuovo “genocidio politico”.

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La mezzaluna sciita si dissemina per raccogliere la svolta di Biden https://ogzero.org/il-proliferare-di-milizie-nella-mezzaluna-sciita/ Thu, 28 Jan 2021 11:55:02 +0000 http://ogzero.org/?p=2320 Il nastro si riavvolge riproponendo attentati Venerdì 22 gennaio, nel centro di Baghdad, 32 persone sono morte in un attentato suicida rivendicato dall’Isis. Suona come una notizia tristemente familiare, eppure erano quasi tre anni – 2018 sempre a gennaio, 27 vittime – che in Iraq non si verificava un attacco suicida di queste proporzioni. Attribuirlo […]

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Il nastro si riavvolge riproponendo attentati

Venerdì 22 gennaio, nel centro di Baghdad, 32 persone sono morte in un attentato suicida rivendicato dall’Isis. Suona come una notizia tristemente familiare, eppure erano quasi tre anni – 2018 sempre a gennaio, 27 vittime – che in Iraq non si verificava un attacco suicida di queste proporzioni. Attribuirlo in modo esclusivo alla graduale compromissione delle condizioni e dei dispositivi di sicurezza in Iraq nel corso dell’ultimo anno è forse un’operazione prematura e parziale ma è significativo che l’attentato sia avvenuto in questo momento storico, in una città i cui quartieri e ingressi sono presidiati dall’Esercito iracheno e da una miriade di milizie governative e non, molte delle quali protagoniste della stessa sconfitta dell’Isis nel 2014, e finanziate dall’Iran.

Nelle settimane precedenti all’attentato le sensazioni di un cittadino iracheno potevano risultare contrastanti: da un lato l’idea che attorno al 2 gennaio, primo anniversario dell’assassinio del generale iraniano Qassem Soleimani e del suo luogotenente iracheno, il comandante Abu Mahdi Al Muhandis, molte delle citate milizie potessero organizzare una qualche forma di rappresaglia su obiettivi americani, insieme ai rischi di sicurezza storicamente connessi ai grandi assembramenti, proprio come quello organizzato per l’anniversario; dall’altro la consapevolezza, diffusa forse più sui media internazionali che nella società civile ma comunque fondata, che fino al 20 gennaio – giorno dell’insediamento di Joe Biden alla presidenza degli Stati Uniti – Teheran avesse diffidato le milizie dal compiere qualunque azione in grado di fornire all’uscente presidente Trump un pretesto per un’operazione militare last-minute contro l’Iran. Ha prevalso la seconda, se si escludono dei lanci dimostrativi di alcuni razzi da parte di formazioni sempre più fuori controllo.

L’eredità di Soleimani

Quel che però è successo lo scorso 22 gennaio può stimolare alcune riflessioni sulle conseguenze di lungo termine dell’assassinio di Soleimani: all’apparenza, e nella percezione americana, un duro colpo alla capacità di mobilitazione paramilitare in Iraq contro gli interessi statunitensi, per via della paternità e dell’ascendente di quest’ultimo su gran parte di quelle milizie. In realtà, e al di là degli aspetti di illegalità – Soleimani era in visita con passaporto diplomatico in un paese, l’Iraq, che lo aveva invitato –, l’assassinio di Soleimani e Al Muhandis ha contribuito a rendere ancor più imprevedibile una situazione già instabile. E che potrebbe sfuggire di mano anche all’Iran stesso.

Perché i due militari avevano sì il potere di coordinare gran parte delle milizie e le loro azioni contro le truppe americane ma di riflesso anche quello, sostanzialmente esclusivo, di contenerle o farle cessare. Di “razionalizzare”, e non solo “alimentare”, la diffusa ostilità alla presenza militare americana. Una capacità perlomeno utile, nella prospettiva di una possibile riapertura del negoziato sul nucleare da cui Donald Trump era uscito unilateralmente, inaugurando una nuova e per certi versi improvvisa stagione di crociera in nuove tensioni, a ridosso dell’escalation.

Le milizie, formazioni di difesa locale o di offesa globale?

L'eredità di Soleimani

Sebbene l’abbandono del Joint Comprehensive Plan of Action (Jcpoa) sul nucleare iraniano abbia costituito un fatto senza precedenti nella storia delle relazioni tra Stati Uniti e Repubblica islamica dell’Iran, anche per via della sua natura ufficiale e multilaterale, non è la prima volta che gli Stati Uniti fanno un passo indietro o recedono da una qualche forma di intesa formale con Teheran. La motivazione addotta è più o meno sempre la stessa: le attività di “destabilizzazione regionale” degli iraniani, la cui cessazione per gli Stati Uniti costituisce sin dagli anni Ottanta una sorta di presupposto implicito – quindi non formalizzato – di qualunque compromesso con Teheran. E quando le diverse amministrazioni americane – a cominciare da quella di Trump, soprattutto per bocca del suo segretario di Stato, Mike Pompeo – parlano di “espansionismo” e “attività terroristiche e destabilizzanti” dell’Iran in Asia occidentale, fanno riferimento proprio a quelle milizie che la Repubblica islamica ha finanziato, addestrato e mobilitato negli anni in diversi paesi della regione: dal Libano, passando per la Siria, fino allo Iraq, cioè l’arena in cui l’influenza di Teheran è forse più rilevante e visibile.

Esiste, a monte, una fondamentale questione di percezioni. Gli Stati Uniti considerano nella forma e nella sostanza le milizie filoiraniane e gli stessi Guardiani della Rivoluzione (Irgc) delle entità equiparabili all’Isis e ad Al Qaeda: soggetti con un’agenda prettamente offensiva, operatività potenzialmente globale e utilizzo sistematico del terrorismo, in una visione che non distingue nemmeno formalmente le vittime civili da quelle militari. Tutte caratteristiche che non appartengono alle milizie, che sono invece formazioni locali, nate per combattere l’invasione americana dell’Iraq nel 2003, alla stregua della nascita di Hezbollah in Libano agli inizi degli anni Ottanta contro l’invasione israeliana.

Il potere dal territorio, frammentato in sfere d’influenza…

Non si tratta solo di errate valutazioni circa la loro natura: il sostegno iraniano a queste milizie viene letto dagli Usa in ottica offensiva, come espressione di un cieco fanatismo espansionista e antioccidentale. L’Iran – esercitando un soft e hard power composito, e che in parte ha inglobato l’eredità reputazionale dello stato antagonista, di principale recipiente dell’“antiamericanismo” (prima riconducibile all’Urss) – ha invece usato le milizie come strumento difensivo avanzato. Lo ha fatto e lo fa in una regione frammentata dal punto di vista amministrativo e altamente militarizzata, nella quale Teheran coltiva alleati locali – o, nel caso del conflitto siriano, il regime contro le formazioni a esso ostili – per erodere il suo storico isolamento e costruire una sua sfera d’influenza, che rafforzi la sua “cintura” di sicurezza e le riconosca un ruolo di potenza regionale.

Quella delle milizie è un’arma asimmetrica e imprevedibile, funzionale a forme di deterrenza rispetto a paesi rivali – Arabia Saudita e Israele in particolare – che hanno spese militari molto più ingenti e armamenti più avanzati, rispetto alla presenza militare americana in diversi paesi confinanti con l’Iran e rispetto alle diverse formazioni dell’internazionale jihadista di matrice soprattutto wahhabita, notoriamente animate da radicale avversione per gli sciiti.

Centralità dell’Iraq nella strategia iraniana

È abbastanza facile capire perché sia l’Iraq il paese col più alto numero di milizie filoiraniane e non, tutte accomunate da gradi diversi di ostilità alla presenza militare americana: un confine di 1500 km con un paese che dal 2003 è in frantumi, privo di un vero stato, e nove basi militari americane al suo interno, alcune molto vicine al confine iraniano. Implicito è l’aspetto demografico, visto che l’Iraq del post-Saddam è tornato a essere un paese a maggioranza sciita come l’Iran, e che le milizie in gran parte – ma non tutte – sono animate da immaginario e simbolismo sciita.

Composizione delle milizie filoiraniane nella mezzaluna sciita

Le Forze di Mobilitazione popolare (Pmf, in arabo Hashd al Sha’abi) si presentano ufficialmente, in forma embrionale, tra il 2012 e il 2014, quando l’allora primo ministro Nuri Al Maliki inizia a reclutare piccoli gruppi di volontari nelle Brigate di Difesa Popolare (Saraya al Dif’a al sha’abi). Il “bollo di autenticità” arriva il 13 giugno 2014 – l’Isis quasi alle porte di Baghdad –, quando la principale autorità religiosa irachena, l’Ayatollah Ali Al Sistani, emette una fatwa che invita i cittadini iracheni (non solo sciiti) a combattere contro l’Isis: le Pmf assumono una forma ufficiale, che in seguito alle fondamentali vittorie militari nei confronti dell’Isis le porterà a essere inquadrate nell’Esercito iracheno. Come ricorda Michael Knights, se in un sondaggio del 2011 solo il 15% degli iracheni nutriva fiducia nelle Pmf per la gestione della sicurezza in Iraq, nel 2017 questa percentuale è schizzata al 91% per gli iracheni sciiti e al 65% per i sunniti.

Lo zoccolo duro delle milizie irachene direttamente collegate all’Irgc iraniana è composto dalla Kata’ib Hezbollah, “cugina” di Hezbollah in Libano e guidata fino a un anno fa proprio da Al Muhandis, che può contare almeno su 10.000 uomini, e la Kata’ib al Imam Ali, con circa 8000 effettivi. Entrambe molto attive contro l’Isis ma anche accusate di violazioni dei diritti umani ai danni della popolazione sunnita evacuata nelle aree controllate dall’Isis. Le altre milizie con rapporti di diverso grado con Teheran sono la Brigata Badr di Hadi Al Amiri – rilevante anche per i rapporti con le milizie sunnite nelle aree tribali – e Asa’ib Hal al-Haq (Aah, che è anche un partito con 15 seggi in Parlamento), con 10.000 effettivi e guidata da Qais Al Khazali, sul quale si tornerà più avanti. Alla fine del 2014 il numero stimato di miliziani delle Pmf era di circa 60.000, a cui sommare almeno 20.000 uomini non inquadrati ufficialmente nelle Pmf.

Ghaani, grigio funzionario e il sotterraneo lavoro di intelligence

Anche all’indomani dell’uccisione di Al Muhandis e Soleimani, i diffusi timori che innescasse una escalation erano stati in parte sopiti dalla reazione contenuta e in qualche modo “calcolata” di Teheran, che l’8 gennaio seguente aveva colpito con alcuni missili a lunga gittata la base americana in Iraq di Al Asad, ferendo un centinaio di soldati. Nel frattempo, il Parlamento iracheno aveva votato il ritiro delle truppe americane dall’Iraq, che chiaramente non è avvenuto. In tempi relativamente brevi, quindi, l’Iran ha nominato come successore di Soleimani a capo dei reparti Al Quds dell’Irgc. Ghaani però, a differenza di Soleimani, non parla arabo, conosce poco l’Iraq e non ha nessuna relazione personale con i capi delle milizie. Come ricorda Suadad Al Salhy, viene considerato un semplice messaggero, senza particolari prerogative o qualità diplomatiche e strategico-militari.

La sua nomina, che alla luce di queste informazioni è stata letta da alcuni come il segnale di un indebolimento delle milizie e soprattutto dell’influenza iraniana, è stata in effetti accolta dai comandanti delle principali milizie con sorpresa. Ma in realtà segnala qualcosa di più profondo, cioè il ritorno del ruolo dell’intelligence iraniana in Iraq. Durante gli anni Ottanta, quelli del conflitto tra Iran e Iraq, i servizi iraniani erano molto attivi a Baghdad e dintorni. Dal 2005, dopo la caduta di Saddam Hussein, il loro ruolo inizia invece a declinare. Vengono gradualmente sostituite dalle Forze Al Quds, guidate da Soleimani dal 1998, che organizzano alcune delle nascenti milizie popolari per combattere gli americani e scongiurare la possibilità che un paese in preda all’anarchia non si trasformasse né in una “base” statunitense per eventuali regime change a Teheran né in avamposto per gruppi jihadisti antisciiti. L’apice del potere delle Forze Al Quds dell’Irgc è nel 2014, quando Teheran per prima assiste militarmente Baghdad e il governo autonomo del Kurdistan, alle prese con l’invasione di Mosul e di larghe parti del paese da parte dell’Isis, e contestualmente attiva le sue milizie.

La barriera di giovani corpi del Movimento sulla strada delle milizie

L'eredità di Soleimani

In seguito alla sconfitta dell’Isis le milizie rafforzano progressivamente sia i loro rapporti con l’Iran che la loro preminenza politico-militare in Iraq: figlia dei loro successi bellici ma madre di diversi malumori generati negli iracheni, culminati con le proteste di fine 2019. Proprio le proteste, insieme all’assassinio di Soleimani e Al Muhandis, secondo una fonte irachena vicina all’Iran e citata da Al Salhy, avrebbero avuto l’effetto collaterale di arrestare un processo di ristrutturazione delle milizie innescato nel 2017, dopo che lo stesso Al Sistani aveva chiesto un ridimensionamento dell’influenza iraniana.

In particolare, Teheran stava avviando lo smantellamento di alcune formazioni (come la Brigata Khorasani) e una strategia basata sulla fiducia al premier iracheno Mustafa Al Khadimi, sulla diversificazione delle fonti di finanziamento dei suoi alleati politici iracheni e sul loro leverage nella politica economica locale; sul ricollocamento di migliaia di miliziani, non inquadrati nelle Pmf, in ruoli civili, sul rafforzamento delle fondazioni e imprese legate alla ricostruzione, sul modello della Jihad-e-Sazandegi dopo la guerra contro l’Iraq o Jihad al Bina in Libano dopo i bombardamenti israeliani. In generale, una maggiore enfasi sulla politica e la diplomazia (anche quella parallela delle Hawza, le scuole religiose sciite irachene e iraniane) rispetto al militarismo

La diversa “fedeltà” a Tehran delle milizie

Senza Qassem Soleimani, hanno preso forma due opposte tendenze centrifughe: una serie di milizie – come Liwa Ali Al Akbar, Firqat al Imam Ali Al Qitaliyah, Liwa Ansar al Marjaiya – si sono progressivamente sfilate dall’ombrello iraniano, alcune in aperta protesta contro la corruzione diffusa in alcune formazioni delle Pmf. Le cosiddette “fazioni del Mausoleo”, cioè particolarmente vicine all’Ayatollah Al Sistani, in una conferenza dello scorso 2 dicembre a Najaf hanno ribadito la propria richiesta di separarsi dalle Pmf, e di poter riportare esclusivamente al ministero della Difesa e al primo ministro.

Altre sono invece andate fuori controllo in senso opposto: è il caso della Aah di Qais al Khazali. Forte del suo peso politico – l’obiettivo è andare oltre gli attuali 15 seggi e guidare l’intera coalizione di Al Fatah – e militare, Aah negli ultimi tempi è stata protagonista di crescenti scaramucce sul controllo di alcuni checkpoint intorno a Baghdad con Kata’ib Hezbollah e con Harakat Hezbollah al Nujaba, anche per via della rivalità tra Al Khazali e Akram Al Kaabi, il capo della seconda, che peraltro è nata da una scissione da Aah nel 2013. In modo ancor più significativo, poi, ha più d’una volta contravvenuto all’ordine di non lanciare razzi verso obiettivi americani nelle ultime settimane del mandato di Trump: l’ultima volta lo scorso dicembre, dopo l’assassinio dello scienziato iraniano Mohsen Fakhrizadeh, spingendo lo stesso Ghaani a incontrare Al Khadimi proprio per recapitare agli Stati Uniti un messaggio sulla propria estraneità ai fatti. Nello stesso giorno a Baghdad sono stati arrestati Hossam Al Zerjawi di Aah (ritenuto responsabile dei lanci) e Hamed Al Jezairy e Ali Al Yasiri, comandanti della dismessa Brigata Khorasani (di cui una settimana prima erano stati arrestati altri 30 membri).

Sembra che Al Khazali fosse contrariato dalla nomina di Abu Fadak Al Muhammadawi (Kata’ib Hezbollah) a capo delle Pmf, e che pensi tuttora di meritare la leadership della muqawama (“resistenza”). Teheran, invece, lo considera poco gestibile militarmente e lo vedrebbe più come uno di quei politici da coltivare e con cui sviluppare la strategia accennata, puntando su un blocco parlamentare solido, specie se si considera il parziale raffreddamento delle relazioni politiche con il blocco di Muqtada Al Sadr, anch’egli orientato al contenimento del ruolo iraniano, oltre che di quello americano.

Il vento nucleare sospeso in attesa di Biden

Questa strategia, però, è vincolata all’idea che Joe Biden rientri quanto prima nell’accordo sul nucleare, e che lo faccia alle stesse condizioni del precedente, senza tentare di inserire il programma di missili balistici – che sono una linea rossa per Teheran – e le stesse milizie in un nuovo negoziato. È infatti assai possibile che alle elezioni presidenziali iraniane del prossimo giugno vinca un candidato principalista, più vicino alle prerogative dell’Irgc e meno incline a fidarsi nuovamente della diplomazia statunitense, motivo per cui il tempo per quest’ultima potrebbe essere più favorevole nei primissimi mesi della presidenza Biden.

Una presidenza che potrebbe ricalibrare all’insegna del realismo le sue percezioni sulle Pmf, abbandonando l’idea che esse costituiscano delle organizzazioni terroristiche globali e funzionali a supposti progetti di dominio dell’Iran. Provando magari a negoziare separatamente un loro ridimensionamento, in cambio del ritiro americano o perlomeno di uno speculare contenimento delle proprie attività in Iraq. Sarebbe in ogni caso opportuno operare nella consapevolezza che una politica non esplicitamente volta a sconfessare quella di Trump, o che decida di trattare egualmente le milizie come formazioni terroristiche, sortirebbe effetti prevedibili: perché si può anche “potare” qualunque legame con l’Iran, eliminare Soleimani o dichiarare guerra senza quartiere alle milizie irachene sue “orfane”, ma è molto difficile che l’hard power e le risorse belliche americane siano in grado di estinguere le ragioni della nascita e dell’esistenza di quelle stesse milizie, cioè proprio la presenza militare americana. Decisamente più probabile è che questa ragione ne esca rinvigorita. E che sullo sfondo, in un Iraq da troppo tempo non in condizione di controllare il proprio destino, attentati come quello di venerdì 22 gennaio tornino a essere routine.

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Spirali destabilizzanti avvolgono Cabo Delgado https://ogzero.org/cabo-delgado-periferie-insorgenti-creano-zone-franche-per-ogni-traffico/ Sun, 06 Dec 2020 09:16:27 +0000 http://ogzero.org/?p=1979 L’opportunismo jihadista sfrutta la pandemia Il terrorismo ha da sempre trovato nei periodi di crisi nuove opportunità per promuovere i propri obiettivi, e il coronavirus, per molti gruppi jihadisti è diventato un alleato fondamentale, quasi essenziale. La crisi economica innescata dalla pandemia, l’immobilismo di molti stati davanti al virus, hanno creato l’ambiente “ideale” nel quale i […]

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L’opportunismo jihadista sfrutta la pandemia

Il terrorismo ha da sempre trovato nei periodi di crisi nuove opportunità per promuovere i propri obiettivi, e il coronavirus, per molti gruppi jihadisti è diventato un alleato fondamentale, quasi essenziale. La crisi economica innescata dalla pandemia, l’immobilismo di molti stati davanti al virus, hanno creato l’ambiente “ideale” nel quale i miliziani di Allah hanno trovato nuovi spazi di movimento. L’Africa non è esente da tutto ciò. Anche se i numeri della pandemia non sono nemmeno paragonabili – per numero di morti e contagi – con quelli occidentali, il virus ha aggravato crisi economiche e sociali già di per sé precarie sulle quali, spesso, il jihadismo costruisce la sua fortuna. Se alcuni analisti si aspettavano un rallentamento della violenza terroristica, sono stati smentiti dai fatti. Anzi c’è stata un’accelerazione e i dati sono lì a dimostrarlo. Ma non solo.

Gli esperti, infatti, sottolineano che questi gruppi legati al terrorismo islamico sanno bene di non essere immuni al pericolo sanitario. Infatti, nell’incitare i propri membri a mettere in atto nuovi attacchi, il leader non mancano di diffondere documenti su come prevenire la diffusione del virus, in alcuni casi utilizzano anche le linee guida ufficiali dell’Organizzazione mondiale della sanità. Insomma, si ergono a difensori delle popolazioni più diseredate e dimenticate dai governi del continente africano. Il coronavirus, dunque, come arma per creare consenso.

Si allarga la spirale del Califfato nero sulle regioni subsahariane

In tutta l’Africa i gruppi che si ispirano all’Isis e ad al-Qaeda sono attivi più che mai, e non solo nella regione del Sahel piombata nel caos con il ripetersi di attentati terroristici per mano di gruppi jihadisti che stanno mettendo fuori controllo paesi come il Mali e il Burkina Faso. Con il rischio concreto che a sud della Libia nasca un Califfato nero. L’attenzione è dunque massima in Sahel, soprattutto da parte delle potenze mondiali che seguono quanto sta succedendo. Il contesto è andato deteriorandosi di mese in mese. Le operazioni militari, in particolare quelle della Francia, sembrano non avere il successo sperato. Di certo, oggi possiamo chiamare questa fascia di territorio che va dalla Somalia alla Mauritania fino al Senegal… Il Sahelistan, per paragonarlo ai grandi spazi dell’Afghanistan e del Pakistan e per il ruolo che gioca il terrorismo internazionale. Un nome non casuale: in questa regione regna il caos.

Il Sahelistan

I jihadisti hanno alzato il livello dello scontro un po’ ovunque, seminano terrore, anche se non controllano concretamente territori – per ora – come hanno fatto in Medio Oriente. Ma molta parte del continente è teatro di scontri e attentati feroci. Nell’Africa Occidentale, nelle regioni a maggioranza musulmana. In Somalia dove al Shabaab terrorizza la popolazione da anni, nell’Est della Repubblica democratica del Congo dove la guerra fa parte della quotidianità e dove le risorse naturali sono enormi. In Nigeria dove Boko Haram ha moltiplicato i suoi attacchi. Nel Nord del Mozambico dove l’islam è radicato da secoli e dove da tre anni imperversa un gruppo affiliato all’Isis. I terroristi sanno approfittare delle debolezze dei governi, che si tratti di stati “falliti” come la Somalia o impotenti come la Nigeria. La pericolosità di questi gruppi, e le conseguenti difficoltà da parte dei governi nazionali e delle coalizioni internazionali nel combatterli, sta proprio nel fatto che non vi è una struttura gerarchica e, dunque, un centro di controllo unico. Piuttosto operano in “franchising” come capita in molti paesi dove, per altro, cambiano persino nome o si appropriano di altre sigle, pur non avendo la stessa matrice di affiliazione. E il caso del jihadismo in Mozambico è emblematico, relativamente giovane, e che già sta varcando i confini lanciando i propri attacchi in Tanzania. Il “caso” Mozambico merita un approfondimento.

Di qua e di là del fiume Ruvuma

La spirale esplosiva della povertà intrecciata a quella jihadista

L’orrore non ha limiti in un Mozambico squassato dal terrorismo jihadista, in particolare nella regione del Nord di Cabo Delgado. Una regione dimenticata dallo stato, dove si fatica a vivere e ad arrivare a fine giornata. La povertà è dilagante. Ma Cabo Delgado è anche una regione ricca di risorse. Qui agisce e opera un gruppo jihadista che inizialmente si faceva chiamare al-Shabaab “i giovani”, come il gruppo jihadista somalo. Non è chiaro, tuttavia, se e quali legami esistano tra i due gruppi. Di certo la versione mozambicana fa riferimento all’Isis, mentre quella somala ad al-Qaeda. Tanto che nel rendere note le sue azioni fa sfoggio di passamontagna e drappi neri tipici dello Stato Islamico. La ferocia, poi, è tipica di questi gruppi. L’affiliazione all’Isis, tuttavia, non è verificabile, potrebbe essere semplicemente emulazione e una sorta di “libero franchising”. L’inizio, anche un po’ sgangherato, delle azioni terroristiche di questo gruppo viene fatto risalire al 5 ottobre del 2017 quando vengono attaccate tre stazioni di polizia nella città di Mocimboa da Praia. Da lì inizia una spirale di violenza in un’area periferica, tradizionalmente tranquilla ed economicamente depressa, tra le più povere del paese.

Cabo Delgado

Zona di attività insurgentes, Nord del Mozambico

La spirale implosiva dell’impotenza mercenaria di fronte al caos assoluto

Il governo, in più riprese, ha sferrato dure offensive contro i gruppi terroristici, ma con successi alterni, riprendendosi territori occupati dai jihadisti, per poi riperderli.  In molte occasioni ha fatto affidamento su mercenari provenienti dall’estero: i Wagner, russi, e mercenari provenienti dal Sudafrica. Operazioni che non hanno avuto grande successo. I mercenari russi, già attivi in Siria, Libano e Repubblica Centrafricana non sono riusciti a venire a capo della ribellione. Non si sa molto, per ovvie ragioni, delle loro attività nel paese, ma di certo hanno subito diverse perdite tra le loro fila. Così come i mercenari sudafricani che avrebbero perso, oltre che uomini anche mezzi. Questi gruppi, ben addestrati e armati, sembrano essere impotenti di fronte al dilagare dell’offensiva jihadista. Questi fatti, inoltre, definiscono un salto di qualità del gruppo terroristico che nel Nord del paese si fa chiamare Ahlus Sunna wal Jamaa, puntando a sconfinare in Tanzania, attraversando e seguendo il corso del fiume Ruvuma.

La spirale di violenza attinge forza da periferie insorgenti e… dal mare

Se i primi attacchi sono stati infatti portati con mezzi di fortuna (coltelli, machete…), quelli organizzati di recente hanno fatto registrare un balzo di qualità. I miliziani sono dotati di armi automatiche nuove ed efficienti. Non solo. Anche il livello di addestramento è cresciuto. Questi gruppi sanno impiegare in modo professionale ed efficace gli armamenti di cui dispongono. Il vescovo cattolico di Pemba, Luiz Fernando Lisboa ha spiegato, recentemente, che questi uomini, che inizialmente si spostavano con vecchie motociclette, «ora hanno armi e veicoli e possono eseguire attacchi su vaste aree».

Gli attacchi non si placano. Dopo aver occupato numerose cittadine e aver terrorizzato migliaia di persone, i miliziani che si rifanno all’Isis, hanno lanciato raid contro alcune isole al largo di Palma e sono rientrati in alcuni centri abitati nel distretto di Muidumbe dove di recente le forze governative erano riuscite a stabilire propri presidi. Non solo i ribelli sono riusciti ad annullare i progressi parziali che erano stati compiuti dalle forze governative ma, ed è un particolare nuovo, hanno dimostrato la capacità di condurre attacchi di un certo rilievo anche via mare. Un fatto che ha messo a rischio collegamenti, fino a poco tempo fa sicuri, e che hanno convinto il governo a sospendere almeno per ora i rifornimenti via mare per la città di Palma.

La spirale speculativa: una zona franca di traffici di persone ed eroina, gas ed estrazionismo, fauna e legname

Lo scopo dichiarato di questi gruppi è voler imporre l’islam radicale. Formalmente, appunto, perché dietro questa dichiarazione di intenti si nasconde il traffico di stupefacenti e lo sfruttamento illegale delle miniere, di cui il Nord del Mozambico è ricco. E si fanno forti della povertà che regna in quel territorio mozambicano. Come se ci fosse una sorta di “islamizzazione della rivolta”. Una reazione alla marginalità e alla povertà profonda in un’area ricca di risorse minerarie e di giacimenti di petrolio.

spirale speculativa

Piattaforme nell’Oceano Indiano

Il fatto che i gruppi islamisti del Mozambico ricevano probabilmente armi, munizioni e attrezzature dall’esterno non è l’unico segnale che li avvicina ad altri gruppi che operano nel continente africano. Eric Morier-Genoud, un accademico di Belfast esperto di Mozambico, sottolinea che esistono forti somiglianze tra l’evoluzione dell’insurrezione in Mozambico e l’emergere di Boko Haram nel Nord della Nigeria.

La spirale di terrore degli sfollati

A farne le spese è, come sempre, la popolazione inerme, che fugge dai villaggi, si nasconde nella boscaglia per non essere sgozzata. Secondo la Displacement Tracking Matrix dell’Oim, almeno 424.000 persone sono sfollate alla fine di settembre, un aumento del 17 per cento rispetto al mese precedente. Sul totale degli sfollati, oltre 144.000 si trovano in aree difficili da raggiungere a causa di problemi di sicurezza. «Abbiamo dovuto lasciare la nostra zona a causa di molteplici attacchi e trasferirci nella città di Pemba – ha detto Nlabite Chafim, una delle otto persone della stessa famiglia che sono fuggite a piedi attraverso le foreste a luglio prima di trovare un mezzo di trasporto per la capitale provinciale –. Mia nipote ha assistito all’uccisione dei suoi genitori, e lei non è più la stessa».

«Sembra stiano cercando di rimuovere l’intera popolazione della parte settentrionale della provincia di Cabo Delgado, cacciando la gente comune senza alcuna pietà», spiega suor Blanca Nubia Zapata, religiosa delle Carmelitane Teresiane di San Giuseppe, in un colloquio con la fondazione pontificia Aiuto alla Chiesa che Soffre (ACS). La religiosa risiede a Pemba, il capoluogo della provincia nel mirino dei terroristi. «Nelle ultime settimane sono arrivate qui oltre 12.000 persone. Alcuni sono morti lungo la strada. Sono 180 chilometri, ma non potete immaginare cosa siano le nostre “strade”, tre o quattro giorni di seguito senza cibo, senza acqua, con bambini sulle spalle. Ci sono donne che hanno partorito per strada. Sono semplicemente terrorizzati. Molte famiglie – prosegue Sister Blanca – ci hanno chiesto aiuto e le abbiamo messe in salvo nella scuola».

Il vescovo di Pemba, Luiz Fernando Lisboa, in un video di Caritas Mozambico inviato ad ACS, descrive la situazione di Paquitequete, un sobborgo della capitale che si affaccia sulla costa: «Sono arrivati già 10000 rifugiati e altri sono in arrivo. Non hanno un luogo in cui dormire, solo coperte e rifugi improvvisati. Alcune persone sono morte durante il tragitto. Si tratta di una situazione umanitaria disperata – prosegue il prelato – per la quale stiamo chiedendo, anzi implorando l’aiuto e la solidarietà della comunità internazionale».

Le testimonianze si moltiplicano e descrivono l’orrore che le popolazioni stanno vivendo. Testimonianze che, in particolare, arrivano da svariate realtà missionarie che operano nell’area e che hanno la possibilità di poterle raccontare perché in contatto costante con le case madri in occidente.

Sfollati Mozambicani

La spirale di un conflitto asimmetrico su base continentale

Il villaggio di Muambula è diventato quasi un luogo fantasma: gli abitanti sono fuggiti tutti, tranne qualche persona molto anziana. Il distretto di Muidumbe, nella provincia di Cabo Delgado, conta circa 80000 abitanti ed è composto da 26 comunità, per la maggior parte di etnia maconde. Si tratta perlopiù di gente dedita all’agricoltura. Qui vive e lavora padre padre Edegard da Silva, missionario brasiliano della congregazione Nostra Signora de La Salette. La sua testimonianza è stata raccolta dalla rivista “Nigrizia”: «Molti ci chiedono il perché di questa guerra che dura ormai da tre anni. Per noi missionari che viviamo con la gente di questi villaggi, l’unica risposta è che questa guerra ha ucciso molte persone innocenti. Sono i poveri che muoiono. E non hanno nulla a che fare con le motivazioni che portano i jihadisti per prendere il controllo della regione. Più di 500000 persone sono state costrette ad abbandonare le loro terre e comunità. Una parte di questi profughi, spesso intere famiglie, sono accolti da amici e parenti nelle altre cittadine della regione; altri vivono, in condizioni precarie, nei campi profughi costruiti dal governo. È una guerra crudele, folle, diabolica, che separa le persone». Il missionario, tuttavia, tiene a specificare che i jihadisti non compiono attacchi mirati contro le missioni cattoliche. Le incursioni hanno lo scopo di destabilizzare l’intera comunità, colpendo i servizi essenziali come gli ospedali, le scuole o le banche. E conclude «Al momento non possiamo contare sulle forze di sicurezza. Non si vede, da parte loro la capacità o la volontà di proteggere questo territorio».

Per affermarsi, questi gruppi sfruttano i risentimenti locali, la miseria, l’abbandono delle popolazioni locali da parte del governo centrale e l’arretratezza economica osservata nello sviluppo della regione. Una volta affermata la loro presenza, i gruppi terrorizzano le comunità per creare un clima di paura ma offrono anche un’alternativa ai giovani disoccupati che accettano di essere arruolati.  Il Nord del Mozambico, infatti, è una regione complessa. Ha sofferto molto durante la guerra di indipendenza (1964-1974) e durante quella civile (1977-1992) ed è una delle aree più trascurate del paese. A livello nazionale, ha i più elevati tassi di analfabetismo, disuguaglianza e malnutrizione infantile. È una delle poche province a maggioranza musulmana – mentre il resto del paese è cristiano – ma è un islam moderato che, da sempre, segue una tradizione sufi moderata. Il Mozambico, dopo aver cercato di minimizzare la minaccia, ha iniziato a schierare un numero maggiore di poliziotti e militari per controllare meglio la regione.  Un’operazione per rassicurare anche gli investitori stranieri che hanno investito milioni di dollari per lo sfruttamento dei giacimenti petroliferi nel Nord.

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Non di soli contrasti tribali vive lo scontro etiope… https://ogzero.org/dispute-etniche-e-svolte-liberiste-dietro-la-guerra-in-corno-dafrica/ Wed, 18 Nov 2020 01:55:38 +0000 http://ogzero.org/?p=1775 … anzi, il sottile velo delle dispute etniche non riesce a nascondere gli interessi internazionali, il neocolonialismo che muove i protagonisti locali, la spartizione di risorse, territori, infrastrutture. I ribaltamenti dei sistemi politico-economici non possono che passare attraverso crisi apertamente belliche e quindi dal 4 novembre è scoppiata una guerra civile che può estendersi all’intera […]

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… anzi, il sottile velo delle dispute etniche non riesce a nascondere gli interessi internazionali, il neocolonialismo che muove i protagonisti locali, la spartizione di risorse, territori, infrastrutture. I ribaltamenti dei sistemi politico-economici non possono che passare attraverso crisi apertamente belliche e quindi dal 4 novembre è scoppiata una guerra civile che può estendersi all’intera area della Rift Valley.

Redde rationem trentennale nel superamento dell’etnofederalismo

Abiy Ahmed, oromo giunto rocambolescamente al potere etiope in sostituzione del “controllo” trentennale tigrino e al nobel in premio per un accordo storico con l’Eritrea, utile al primo ministro etiope per contare su naturali alleati storicamente interessati a contenere i vicini tigrini di Macallè (fin dai tempi coloniali, agevolando il compito di quelle potenze occidentali), ma indispensabile anche ad Isaias Afewerki, dittatore eritreo, per mantenere il potere concentrato nelle sue mani – ma forse la guerra può aver creato un’alleanza tra tigrini e oppositori eritrei, tanto che pare che alcuni guerriglieri siano penetrati nel territorio eritreo e dal Tigray è stato bombardato l’aeroporto di Asmara. Già due anni fa, al momento dell’accordo fortemente ricercato dai sauditi di Bin Salman, si scaricarono transfughi eritrei al confine tigrino (minato e costellato da campi profughi), folle corrispondenti a quelle che ora premono sulla frontiera che divide Etiopia e Sudan (forse 100.000).

A completare il quadro del rinnovato sciovinismo del Corno d’Africa (una scena che ha come sfondo il controllo del Mar Rosso) c’è il rischio che venga coinvolta la variegata galassia delle Somalie e il Sudan, ancora in procinto di uscire dalla transizione dopo la cacciata di al-Bashir, teatro nella provincia orientale di Cassala al confine con Eritrea ed Etiopia di scontri proprio per rivendicazioni di maggiore rappresentanza tra tribù Juba.

L’economia detta l’agenda nazional-federale

L’etnia oromo è maggioritaria nel paese ma è rimasta marginalizzata per lo strapotere del Nord, che possedendo la maggioranza delle risorse e infrastrutture del paese ed essendo al centro di vie di comunicazione, controllando l’esercito fino all’epurazione del 2018 effettuata da Abiy Ahmed, aveva potuto mantenere un sistema etnofederalista che salvaguardava non solo le componenti minoritarie, ma impediva svolte neoliberiste che invece si sono imposte nel momento in cui Abiy Ahmed ha preso il potere, cominciando a configurarsi come un regime e il timore ha preso a serpeggiare tra i cittadini etiopi.

Il premio Nobel ha ammantato l’archiviazione del sistema economico con la spinta alla riconciliazione nazionale, che vede solo la resistenza del Tigray, un’etnia con una forte percezione di sé (e della sua storia di contrapposizione al saccheggio delle proprie risorse e all’occupazione militare del proprio territorio, fin dai tempi coloniali) che individua nel cambiamento il conseguente ridimensionamento dell’autonomia regionale. Ovviamente le altre etnie, che rappresentano il 94 per cento della popolazione, mal tollerano la resistenza tigrina, perciò le milizie ahmara hanno appoggiato l’esercito di Addis Abeba intervenuto in risposta a una reazione alla provocazione dello stato centrale che ha inviato ingenti truppe in Tigray.

La percezione del momento nella società etiope

Perciò il 10 novembre 2020 durante la trasmissione “I Bastioni di Orione” sulle frequenze di Radio Blackout si è potuta sentire questa ricostruzione degli eventi fatta da un giovane emigrato etiope, evidentemente non tigrino, che sostanzialmente attribuisce alla minoranza la responsabilità della deriva violenta di queste settimane:

Ascolta “Rivolta tigrina contro il superamento dell’etno-nazionalismo di Ahmed” su Spreaker.

La testimonianza, per quanto pacata, palesa la posizione fortemente critica della maggioranza degli etiopi, probabilmente non tanto per lo strappo attuale, ma per i 30 anni di oppressione tigrina, una reazione che ha fatto parlare di rwandizzazione per descrivere la reazione antitigrina. Difficile valutare se si tratta di esagerazioni, perché Abiy Ahmed ha fatto tesoro della esperienza da ministro delle comunicazioni, quando ha imparato a gestire e controllare i flussi di informazioni telematici: infatti trapelano pochissime notizie.

Il primo tassello da cui partire per descrivere la situazione è dunque l’ancora forte determinazione della minoranza tigrina a contrastare il nazionalismo identitario di Abiy – che dapprima ha dovuto fronteggiare per lo stesso motivo le rimostranze della sua stessa etnia oromo, portato a interpretare la propensione a diluire le differenze tribali nella comune “identità” etiope come un tradimento della propria gente; in realtà la scelta è essenzialmente un cambio di orientamento del modello di sviluppo su istanza cinese, che vede nel Corno d’Africa e nel presidio dello stretto di Bab al Mandab (ovvero di Gibuti) uno snodo essenziale per la Belt Road Inititive. Per fare ciò Abiy ha bisogno di poter gestire centralmente le ingenti risorse del Tigray, di abbracciare il neoliberismo e di indicare simboli che possano rappresentare la nazione etiope, stretta attorno a lui e al suo nuovo corso: a questo scopo si presta perfettamente la Diga della Rinascita sul Nilo azzurro.

Neocolonialismo Corno d'Africa 2020

Infrastrutture, basi militari, territori contesi, vie di comunicazione nella Rift Valley

Qualche snodo storico, ma i fattori divisivi sono infiniti

La crisi del Tigray nasce dallo scontro politico con il Tpfl, che è stato a lungo il partito egemone in seno all’Ersdf: i tigrini avevano sconfitto trent’anni fa il regime comunista e deposto Menghistu (l’ultimo a lanciare un escalation militare in Tigray), gestendo il potere da allora in avanti, senza abbracciare pienamente il neoliberismo. Il Fronte tigrino si è sentito più volte preso di mira dalle riforme del nuovo premier, che intanto ha creato una propria formazione politica, il Partito della prosperità.  Nel Tigray le autorità locali hanno deciso di tenere elezioni indipendenti a settembre, quelle che erano state rinviate ad agosto con la scusa della epidemia di SarsCov2 e il Tpfl è stato riconfermato al governo regionale. Ora lo scontro è diventato militare, con il rischio che la rivalità politica si trasformi in conflitto interetnico. Mulu Nega è stato nominato da Ahmed nuovo governatore ad interim per la regione settentrionale del Tigray. Poco prima il parlamento aveva preso la risoluzione di stabilire un’amministrazione provvisoria.

Per dipanare questo groviglio ne abbiamo discusso con Angelo Ferrari all’interno della stessa trasmissione diffusa da Radio Blackout in cui avevamo proposto la ricostruzione del giovane etiope.

Ascolta “Chi sta sabotando la convivenza e l’integrazione etnica?” su Spreaker.

L’apertura liberista al capitale privato crea attriti nell’intera società; nel Tigray ancora di più; la penetrazione di militari nazionali nella regione settentrionale è quindi vista come intrusione e ha fatto esplodere gli attacchi di Macallè. Si rischia l’esatto opposto del tentativo di unificare: la frammentazione perché ciascuno non si sente rappresentato a sufficienza e la repressione di Addis Abeba può incendiare l’intera area. Intanto sono già 25.000 gli sfollati e innumerevoli i morti (si parla di 500 solo nel massacro del 10 novembre a Mai-Kadra, in Tigray).

Ancora uno scambio di opinioni tra i redattori dei “Bastioni di Orione” di Radio Blackout e l’analista di eventi africani Angelo Ferrari

Ascolta “Nazionalismo e svolta liberista di Ahmed” su Spreaker.

Traffici d’armi e colonialismo

Nel 2019 il governo giallo-verde aveva stipulato attraverso la ministra Trenta accordi militari con il presidente-nobel_per_la_pace_Ahmed: «Difesa e sicurezza, formazione e addestramento, assistenza tecnica, operazioni di supporto alla pace… trasferimento di struttura d’arma e apparecchiatura bellica… è auspicata la promozione di iniziative finalizzate a razionalizzare il controllo sui prodotti a uso militare»; lo smercio di armamenti è comune ai precedenti governi italiani, soprattutto di centrosinistra, che avevano appoggiato la parte eritrea, ora già coinvolta con esplosioni all’Asmara perché Macallè accusa il regime di Afewerki di appoggiare Ahmed, inoltre le milizie ahmara si sono schierate subito con Addis Abeba. Duecento ufficiali tigrini inquadrati nell’African Union Mission in Somalia sono stati disarmati; l’isolamento è totale, probabilmente perché tutte le forze che agiscono in quello scacchiere temono si estenda l’incendio e scommettono sul ridimensionamento del peso del Tigray sull’area.

Colonialismo novecentesco in Corno d'Africa

Etnie e date fondamentali nella corsa novecentesca al Posto al sole

Il mai realmente sopito colonialismo italiano sta cercando di tornare a essere protagonista nel Corno d’Africa, perché gli interessi energetici e di appalti per infrastrutture (la Diga della Rinascita vede allignare ditte italiane nella costruzione progetta a Pechino) fanno gola come il Posto al sole di memoria mussoliniana… e quindi soffierà sul fuoco della guerra in un’area popolata dagli apparati militari di tutte le potenze mondiali (a Gibuti sono presenti compound militari di tutte le potenze globali), che si stanno accaparrando fette di un territorio che controlla traffici, merci, risorse. Una vera operazione neocoloniale nascosta sotto la cooperazione allo sviluppo.

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Le nazioni sono al soldo di potenze straniere per ridisegnare la geopolitica internazionale come avvenne nel periodo coloniale classico: tutte le potenze sono intente a controllare il passaggio del Mar Rosso da Aden a Suez (infatti a Gibuti, snodo essenziale del Belt Road Initiative, sono presenti tutti i contingenti militari) e ogni mossa è un riposizionamento strategico

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Ayotzinapa, sei anni fa se li sono presi vivi https://ogzero.org/la-realta-distopica-della-necropolitica-e-il-potere-di-decidere-chi-deve-vivere-o-morire/ Sun, 27 Sep 2020 17:06:05 +0000 http://ogzero.org/?p=1280 Sei anni dopo la strage dei normalistas di Ayotzinapa il governo messicano riconosce gli insabbiamenti e arresta 70 militari, considerandoli responsabili per i fatti avvenuti a Iguala il 26 settembre 2020. Miguel A. Cabañas ha incastonato in un suo lungo saggio quella collusione di apparati militari, magistratura, politici corrotti e cartelli della droga, riconducendola alla necropolitica che affonda le sue radici nel neoliberismo e nel saccheggio del territorio, delle risorse e della manodopera da parte delle multinazionali, ottenendo una società dispotica animata dall'horrorismo

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War on drugs e repressione di classe

Il potere di decidere chi deve vivere o morire: «La guerra alle droghe rappresenta un importante dispositivo di controllo sociale per i governi nazionali. Il massacro di Apatzingán o il caso di Ayotzinapa in Messico e il Plan Colombia sono tra i più chiari esempi della commistione fra guerra alle droghe e repressione sociale… è ben più di una lotta contro i signori della droga: essa rappresenta oggi uno strumento cardine nelle politiche interne, nonché la più importante strategia per garantire la presenza economico-militare degli Stati Uniti in America Latina». Così Ana Cristina Vargas nel 2017 riassumeva il brodo di coltura geopolitico in cui  si è potuta consumare la notte da incubo di Iguala, facendo risalire alla Necropolitica la causa di questo massacro tra i più famosi per efferatezza nella travagliata storia contemporanea della federazione messicana, soltanto perché il caso Ayotzinapa ha ottenuto la dovuta attenzione da parte della stampa internazionale mettendo radici nella coscienza messicana perché ha scoperchiato i meccanismi del controllo mediatico e ufficiale prodotti in Messico.

Il ricordo degli studenti di Ayotzinapa è ancora tenuto vivo dai genitori dei 43 normalistas torturati, uccisi e ridotti in cenere nella collusione tra potere politico, cartelli del Guerrero e longa manus militare. Una strage avvenuta il 26 settembre 2014 a Iguala, per la quale il 27 settembre 2020 si sono viste migliaia di persone riversarsi nello Zocalo del DF per chiedere una verità accettabile. Questo ha smosso il procuratore Omar Gómez Trejo a dichiarare che sono stati spiccati 70 ordini di cattura ai danni di militari e magistrati dell’epoca (e 34 eseguiti), mentre Andrés Manuel López Obrador ha alluso a una falsa verità sostenuta dal governo precedente di Enrique Peña Neto

Amlo, presidente del Messico

Ma qual è lo sfondo su cui scorrono le immagini di Iguala e in che contesto deve affondarsi l’analisi di quella Necropolitica che continua a ispirare i rapporti coloniali tra le due sponde del Rio Bravo / Rio Grande? Proponiamo qui alcuni brani tratti dal volume Narcos del Norte, pubblicato nel 2017 per la collana di Orizzonti geopolitici di Rosenberg & Sellier. [OGzero]


Neoliberismo e Necropolitica

di Miguel A. Cabañas

La Guerra alle droghe fin dal suo concepimento nel xx secolo non ha ottenuto di eliminare l’insaziabile brama del consumo di stupefacenti. Si può anzi sostenere facilmente come la politica della droga abbia paradossalmente stimolato la produzione, il consumo e l’intervento di contrasto. Sappiamo che già molti hanno prestato la propria voce a criticare le sue conseguenze, la sua inefficacia, l’interminabile repressione che ne deriva. Però la politica non è cambiata, al contrario si è intensificata. Anche la Guerra alle droghe si è modificata entrando in contatto con un altro tipo di conflitti: la Guerra Fredda o quella al terrorismo. È cominciata come una metafora politica e adesso si è trasformata in una “guerra reale” in cui l’esercito e la sua tecnica nell’uccidere son stati resi accessibili e comuni, anche per le strade delle città. Nel XXI secolo il Messico sta patendo le conseguenze di questa “guerra aperta” tra lo stato e il narcotraffico. Questo, tuttavia, è più complesso di quanto i mezzi di comunicazione cerchino di farci credere. Non è una guerra tra buoni e cattivi, e neppure uno stato di belligeranza “legale”; i protagonisti che rimangono esterni al quadro sono le multinazionali che stanno approfittando delle riforme neoliberiste messicane. Come si vedrà in seguito la guerra si concretizza contro la popolazione messicana più debole, contro gli indifesi che non detengono alcun accesso al “monopolio dalla violenza”.

La violenza, secondo Antonio Gramsci, è uno strumento di dominio di una classe sopra le altre ed è anche usata per ottenere il consenso dei governati, al fine di istituire la propria egemonia. Perciò non ci si può esimere dall’intendere il fenomeno della violenza se non contestualizzandolo nei mutamenti neoliberisti avvenuti in Messico e nell’ascesa di un nuovo genere di capitali di provenienza illecita che prendono parte alla lotta per il potere. Come ci ricorda Pierre Bourdieu: «Ogni esercizio della forza è accompagnato da un discorso che mira a legittimare la forza di colui che lo esercita; si può addirittura affermare che la particolarità di ogni rapporto di forza consiste nel dissimularsi come rapporto di forza e di esprimere tutta la sua forza soltanto nella misura in cui riesce a dissimularsi come tale». L’attuale Guerra alle droghe viene pensata come tentativo di legittimare la violenza che nasce dalla svolta neoliberale e nel contesto storico della crisi di legittimazione patita da Felipe Calderón. Non possiamo tralasciare il fatto che il tessuto legato all’accordo strategico Iniziativa Mérida alimentato dal governo di George W. Bush si presenta nell’ambito della convergenza di interessi di entrambi i paesi e dei risultati del Plan Colombia, il cui scopo era rendere questo paese stabile secondo i parametri neoliberisti e il Trattato di libero commercio ratificato nel 2007 tra Stati Uniti e Colombia e approvato dal Congresso statunitense nel 2011. Il Plan Colombia fu approvato negli Stati Uniti con il pretesto della Guerra alle droghe e, comunque, il suo principale obiettivo era di rintuzzare il potere dei gruppi rivoluzionari. Molti assicurano che il Plan Colombia è stato il motivo per cui le Farc (Fuerzas Armadas Revolucionarias de Colombia) decisero di partecipare ai piani di pace, essendo state decisamente indebolite dalla guerra. Secondo le cifre ufficiali, con il rafforzamento delle forze di sicurezza colombiane attraverso una sovvenzione di 10 miliardi di dollari a partire dal 1999, il piano ha fatto in modo che i membri delle Farc perdessero la metà dei combattenti (erano 20 000 e nel 2009 erano ridotti a 10 000), perdendo di conseguenza le zone da loro controllate, sia in ambito urbano che nelle campagne. La Iniziativa Mérida include due miliardi di dollari a partire dal 2008 destinati a rinsaldare ordine e giustizia e a sostenere i diritti umani in Messico. Purtroppo in realtà quello che ha prodotto è una violenza indiscriminata contro i cittadini da parte delle forze armate, dello stato, dei paramilitari e delle organizzazioni criminali. Il congresso degli Stati Uniti ha stanziato 139 milioni di dollari per il 2016 e il 2017 a dispetto del fatto che il governo messicano fosse stato molto criticato per gli abusi in materia di diritti umani (in particolare il caso di Ayotzinapa ha conquistato una grande solidarietà internazionale) e per i casi di tortura, di esecuzioni sommarie e le sparizioni forzate nelle quali si vedono coinvolti membri dei corpi di sicurezza e più specificamente dell’esercito. Era dai tempi della Guerra Fredda che gli Stati Uniti non adottavano un approccio tanto interventista come adesso: stanno cercando di “vincere” guerre volte ad aprire nuovi mercati. La Guerra alle droghe si prospetta come la leva dell’implementazione di un nuovo contratto sociale: il neoliberalismo. Durante la Guerra Fredda gli Stati Uniti avevano appoggiato e promosso le dittature che tralignavano in dittature della borghesia. Adesso siamo passati a un altro modello: la dittatura del capitale. In questo caso ci riferiamo ai due tipi di capitale, quello legale e quello illegale che circola grazie al neoliberismo. Il capitale che si appropria dei minerali e di altre risorse attraverso la spoliazione delle popolazioni latinoamericane; e allo stesso modo il capitale del narcotraffico che sottomette le popolazioni per riprodursi e duplicarsi, mentre le forze di sicurezza fanno la guardia agli interessi dei padroni del capitale.

Neoliberismo: dal Nafta alla svendita di Pemex e Cfe

Il potere del capitale (legale e illegale) collabora per ottenere più benefici. Può essere in concorrenza, ma stipulare anche taciti accordi. Il neoliberismo si consolidò in Messico con il Trattato di libero commercio del Nordamerica (Nafta) nel 1993, che ebbe come conseguenza la ristrutturazione dell’agricoltura e dell’industria messicane: per esempio Donna Chollett analizza i suoi effetti sull’industria saccarifera del Michoacán, quando il presidente Salinas de Gortari privatizzò i mulini dello zucchero statali. L’antropologa del Minnesota spiega come il vuoto economico causato dal trattato fu riempito dall’attività del narcotraffico che portò alla violenza tuttora esercitata nella zona del Puruarán, nel Michoacán. In altri casi i narcos si sono infiltrati nelle industrie, come nel caso della raffineria di resina Ario sempre nel Michoacán. La compagnia Eastman Chemical del Tennessee continuava comunque a fare affari con la raffineria di proprietà de Los Templarios che intimidiva i lavoratori, uccideva, stuprava e taglieggiava, nonostante le informazioni che aveva ricevuto.

Successivamente in Messico si sono privatizzate le telecomunicazioni e il comparto minerario e energetico. Queste riforme neoliberiste hanno portato all’ingresso di compagnie multinazionali che non avevano alcun interesse a rafforzare la società civile, anzi al contrario entravano nelle comunità per sfruttare il territorio e la manodopera. Nel 2009 Calderón “ristrutturò” l’industria dell’energia elettrica e 44 000 lavoratori si trovarono senza lavoro quando si chiuse la compagnia Luz y Fuerza del Centro. Nel 2012 Pemex, l’ente petrolifero statale del Messico, era stato valutato secondo la rivista “Forbes” 416 miliardi di dollari ed era l’ottava azienda petrolifera più grande del mondo, e tuttavia nel 2013 il governo di Enrique Peña Nieto dichiarò che l’impresa registrava perdite e dunque il settore energetico aveva bisogno di una riforma. Si può ipotizzare che i narcos abbiano cominciato a rubare a Pemex migliaia e migliaia di dollari nell’ambito petrolifero nel 2014, per quanto queste circostanze non siano state corroborate da altro che “informazioni ufficiose”. Dall’altro lato del muro gli avvoltoi osservavano la Pemex come un cadavere che si sarebbe potuto spolpare in qualsiasi momento. George Baker, direttore e redattore di “Mexico Energy Intelligence”, una newsletter di orientamento industriale e politico per consiglieri e analisti dell’industria petrolifera texana ma con lo sguardo rivolto al Messico, spiegò nel 2015 alla Cbc News che il 15 per cento era controllato dai narcos e il costo era di 114 miliardi di perdite e «questa è una grande ammissione di vulnerabilità». Malgrado la presenza dell’esercito a Tamaulipas, secondo le informazioni ufficiali, i furti sono aumentati di numero in questi anni. Non funziona secondo la logica che vorrebbe che così come Pemex era a rischio di saccheggio da parte dei narcos prima, allo stesso modo lo sarebbero state anche le compagnie straniere, una volta subentrate nel controllo dell’ente petrolifero. Tuttavia si usò ideologicamente questo argomento per giustificare la necessità di privatizzare la Pemex. Tra il 2013 e il 2015 il governo di Enrique Peña Nieto decapitalizzò Pemex e Cfe (la Comisión Federal de la Electricidad), stornando in segreto 240 miliardi e 518 milioni di pesos (circa 14 miliardi di dollari) del patrimonio nazionale investito in queste imprese e lo ridiresse su altre spese di bilancio. I disinvestimenti nelle due imprese più produttive dello stato messicano aprivano anche la strada alle multinazionali per competere in modo iniquo nel sistema delle aste relative ai contratti, nelle quali si stabiliva la nuova agenda di progetti energetici. Le multinazionali lavoravano con il beneplacito e l’aiuto dei signori della guerra o dei narcos che controllavano certe zone.

I cartelli messicani del narcotraffico

Violenza di stato e terrore narcos per imporre riforme del neoliberismo

la vita e la morte sono regolamentate dal mercato e dalla logica neoliberista tramite la creazione di uno “stato di emergenza” nel quale le forze di sicurezza dello stato possono intervenire con totale carta bianca. Il narcotraffico cresce, si riproduce e si moltiplica nel sistema neoliberale. Inoltre questo partecipa in toto e attivamente a questa neoliberalizzazione e privatizzazione con la preoccupazione di ripulire il denaro sporco.

Necropolitica ed esistenze cestinabili

Achille Mbembe definisce “necropolitica” come la costruzione della sovranità o il potere di decidere chi deve vivere o morire. Contiene pure l’idea del “biopotere” intesa come il dominio della vita in merito al quale il potere prende il controllo in uno “stato di emergenza”. La necropolitica in Messico assembla il neoliberismo con i suoi accompagnatori, i narcos. Entrambi si appoggiano l’un l’altro per sopraffare una popolazione che si trova in un sistema economico che investe in morte. Il problema delle comunità messicane è che non abbassano la guardia rispettando i dettami di questa necropolitica e continuano a lottare per i loro diritti: un esempio è costituito dai padri dei massacrati di Ayotzinapa.

Ayotzinapa - massacro di Igual

Le vite dei poveri e di quelli che si oppongono al sistema vengono trasformate in esistenze cestinabili. Il ribelle, il migrante, il rifugiato sono rifiuti. La popolazione si trasforma in scudo del potere, in qualcos’altro che lo stato non deve difendere, anzi in qualcosa che può essere scomodo e di cui sbarazzarsi. Come afferma Howard Campbell: «I flussi del narcotraffico sono evidenti e fortemente creati dalla globalizzazione neoliberista […] il narcotraffico frontaliero e il fenomeno culturale che chiamo Dwz [Drug War Zone: zona di Guerra alla droga] non possono essere totalmente compresi senza metterli in relazione ai gruppi del crimine internazionale e alle strutture del potere sociale ed economico globale».

Horrorismo, cannibalismo e narcomantas

L’horrorismo è esattamente la violenza nei confronti del corpo vulnerabile e esercitata contro gli indifesi. Questo tipo di violenza estrema è passato alla “legalità” in questo mondo globalizzato e politicizzato dalla guerra al terrorismo e alle droghe. Gli Stati Uniti mantengono prigioni clandestine dove vengono praticate torture e perpetrati orrori contro persone indifese che non saranno giudicate dalla giustizia ordinaria, ma piuttosto secondo le leggi dello stato di eccezione promulgate a cominciare dagli attentati dell’Undici Settembre. Parallelamente i narcos e le forze di sicurezza usano la tortura e altre tecniche orrificanti per diffondere la paura che trattiene la popolazione nella sfera di potere del capitale.

Le decapitazioni si sono trasformate in modo da esprimere questo orrore e poi trasmetterlo attraverso i media con messaggi infarciti di errori ortografici nelle ben note narcomantas che sfidano gli altri gruppi o lo stato stesso. Si tratta di una forma di propaganda primitiva che consegna il messaggio di paura a tutti quelli che non vogliono arrendersi. Le esecuzioni sommarie perpetrate dalle forze di sicurezza con il “colpo di grazia” in fronte mandano lo stesso messaggio territoriale. È l’avviso che non ci sarà pietà contro il nemico, chiunque egli sia. La tortura è la tecnologia più disumanizzante che maneggia l’essere umano come un taglio di carne e trova la forma più orripilante di disumanizzare l’“altro”. Le autorità la usano e i narcos la perfezionano.

L’abuso violento è una maniera per demoralizzare il nemico, per provare che la violenza è una forma di piacere per il barbaro. Il cannibalismo è stato adoperato da Los Zetas e adesso anche dal Cjng (Cártel Jalisco Nueva Generación). Mangiarsi il corpo del proprio nemico acquisendo così misticamente la sua forza era una pratica adottata in precedenza dal gruppo militare Los Kaibiles nella lotta contro i rivoluzionari nel Guatemala del dittatore Efraín Ríos Montt. Los Kaibiles collaborarono con Los Zetas e Los Zetas cominciarono a fare del cannibalismo una forma di intimidazione del nemico e come “patto di fratellanza” si mangiavano le cosce dei nemici avvolte nei tacos condividendole con tutti i presenti. Entrambi, Los Kaibiles e Los Zetas, furono addestrati dalle Forze speciali della School of the Americas (Escuela de Las Américas) a Fort Benning, in Georgia.

Le tante menzogne sulla notte di Iguala

Uno studente di Ayotzinapa superstite della strage di Iguala

Fin dall’inizio sorse il sospetto che l’esercito fosse stato informato di quello che capitava e che non avesse fatto nulla per evitare le sparizioni e la violenza di quella notte. Già nel dicembre 2014 un reportage della rivista d’inchiesta messicana “Proceso” di Anabel Hernández e Steve Fisher, usando testimoni, video, rapporti inediti e dichiarazioni di magistrati, concludeva che la polizia federale aveva partecipato direttamente e attivamente all’aggressione ai normalistas. Ottennero anche un documento governativo del Guerrero in cui si provava come gli studenti della Escuela Normal de Ayotzinapa erano stati seguiti fin dalla loro uscita da agenti della amministrazione federale e statale. Secondo questo documento «alle 17,59 il Centro de Control, Comando, Comunicaciones y Cómputo (C4) di Chilpancingo ha informato che i normalistas erano partiti da Ayotzinapa diretti a Iguala. Alle 20 la PF [polizia federale] e la polizia statale hanno raggiunto l’autostrada federale Chilpancingo-Iguala, dove gli studenti stavano cominciando a raccogliere denaro per una colletta. Alle 21,22 il comandante della base della PF, Luis Antonio Dorantes, è stato informato dell’ingresso dei giovani al terminal degli autobus e alle 21,40 il C4 di Iguala ha segnalato la prima sparatoria». Ma questo rapporto affermava: «anche l’esercito ha operato». Le modalità del C4, che opera con video e fotografie, fa sì che tutti i differenti livelli della polizia siano simultaneamente informati. Questo sistema è stato istituito per coordinare gli sforzi dei distinti organi di polizia contro il crimine organizzato. In questa caso Hernández e Fisher inquadravano la dinamica all’interno della guerra sporca contro «gruppi di attivisti politici in formazione».

Nel settembre 2015 i membri della commissione di esperti comparirono davanti alla Commissione per i diritti umani del DF (Comisión de Derechos Humanos del Distrito Federal) e presentarono la Relazione Ayotzinapa (El Informe Ayotzinapa). Il documento di 560 pagine contiene i risultati dell’inchiesta indipendente seguita dalla commissione che include documentazione della procura stessa (Pgr e Pgj) del Guerrero. Giunsero alla conclusione che per opere o omissioni furono coinvolti almeno cinque corpi di sicurezza: l’esercito messicano, la polizia federale, quella statale del Guerrero, la polizia municipale di Iguala e quella di Cocula. Lo smarrimento di alcune prove e video del C4 evidenziavano l’insabbiamento della verità e l’impunità dei colpevoli. Ma questo caso evidenziava anche la grave crisi umanitaria che viveva il Messico, con l’esercito nel mirino delle accuse. Il 5 ottobre il segretario alla Difesa nazionale comparve nel notiziario di Televisa a ripetere che il 27° battaglione di Iguala non avrebbe conferito con la commissione o con nessun altro al riguardo, perché – assicurava – non era colpevole di nulla, dopodiché minacciò di dimettersi dalla carica se i suoi soldati fossero stati interrogati da un gruppo di investigatori stranieri.

Dopo vari anni di inchieste Hernández pubblicò il suo libro La verdadera noche de Iguala. Una delle domande di Hernández senza risposta era come mai gli scomparsi provenissero da un autobus specifico mentre gli altri non erano stati aggrediti allo stesso modo. Nella documentazione della Pgr veniva menzionato anche un quinto mezzo che all’inizio compare nei documenti dell’inchiesta e di cui a poco a poco ci si è “dimenticati”. “Il quinto autobus” è l’unico che non sia stato assalito a fucilate dalla polizia municipale, ma è stato intercettato dalla polizia federale e gli studenti trasferiti sotto la minaccia delle armi. I due autobus Estrella de Oro requisiti dagli studenti di Ayotzinapa sono quelli intercettati dalle forze statali. Però Anabel Hernández è andata oltre: ha assodato che il 27° fanteria era il corpo operativo agli ordini di un boss locale impiegato a recuperare i pacchi di eroina che erano stati nascosti su questo quinto autobus e che, essendosi accorti gli studenti di quello che stava capitando, furono fatti sparire perché non rimanesse alcun testimone oculare. Il libro evidenzia che la Pgr chiese di aprire un’inchiesta sul 27° fanteria, ma fu ostacolata da ordini presidenziali. Il seguente documento segreto sancisce tutto ciò: «Si provveda… a che si allarghi l’inchiesta riguardo al capitano José Martínez Crespo con l’intento di fare piena luce sugli addebiti che sono scaturiti in relazione a possibili connivenze del suddetto con la delinquenza organizzata e i risultati della quale siano rimessi alla Subprocuraduría Especializada en Investigación de Delincuencia Organizada (Seido)». Secondo Hernández esistono anche prove balistiche della presenza e del coinvolgimento nell’attacco dell’esercito sul luogo del crimine. Negli ultimi due anni e mezzo l’esercito ha respinto la richiesta di ispezionare le sue strutture e si è rifiutato categoricamente di rilasciare dichiarazioni riguardo alla torbida vicenda della sparizione dei 43. Peña Nieto ha promosso il militare, Alejandro Saavedra Hernández, che era al comando del 27° fanteria quella notte. Due anni dopo e durante l’ondata di maggior violenza scatenata nello stato, secondo il quotidiano “El País” «due mesi dopo la sparizione, Saavedra Hernández acquisì poteri ancora maggiori e fu nominato comandante della IX regione militare del Guerrero», e due anni dopo arrivò addirittura a ricoprire l’incarico di nuovo ispettore e supervisore generale dell’esercito messicano. I padri dei 43 continuano a ripetere che Saavedra Hernández fu una delle menti che orchestrarono quanto accadde quella notte del 2014 a Iguala.

Secondo l’inchiesta di Hernández nel suo libro La Verdadera Noche de Iguala: La historia que el gobierno trató de ocultar, nel Guerrero «opera una rete di complicità tra autisti di autobus, passeggeri e diversi gruppi criminali per trasferire la droga; normalmente lo scambio funzionava senza contrattempi grazie alla corruzione che lo proteggeva». Questa connivenza tra il legale e l’illegale nel Guerrero è quello che ha fatto sì che gli studenti di Ayotzinapa costituissero un inconveniente nella logica di mercato. Questo incidente pone concretamente in evidenza la collusione di tutti i livelli dello stato e delle forze dell’ordine per coprire la verità e far sì che la gente non abbia la chiave per comprendere la violenza perpetrata in Messico.

 

La necropolitica proviene dal cuore di tenebra del neoliberismo e dilaga nella geopolitica caratterizzata dall’espansionismo. Gli Stati Uniti sono molto interessati a che questo continui a incrementare i loro redditi e i miliardi di dollari che lubrificano la macchina di morte in Messico. Se non si comincia a capire, a denunciare e a estirpare l’espansione neoliberista con le sue strategie dell’orrore, in un futuro molto vicino vivremo in una realtà distopica. In Messico sta già accadendo.

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