Colonialismo Archivi - OGzero https://ogzero.org/temi/governance/colonialismo/ geopolitica etc Fri, 03 Jan 2025 00:21:31 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.4.6 Le missioni di Peacekeeping. 1: profili giuridici e la Monusco in Congo https://ogzero.org/le-missioni-di-peacekeeping-1-profili-giuridici-e-la-monusco-in-congo/ Thu, 02 Jan 2025 23:32:12 +0000 https://ogzero.org/?p=13594 Una ulteriore questione posta dalla necessità di riequilibrare regioni sottoposte a tensioni, guerre civili e, più spesso, percorse dai residui venefici del colonialismo è tipicamente quella inerente agli aspetti giuridici regolatori le missioni cosiddette portatrici di pace, presunta e foriera di nuovi interessi lesivi della autodeterminazione dei popoli forzati a riceverla perché le nazioni si […]

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Una ulteriore questione posta dalla necessità di riequilibrare regioni sottoposte a tensioni, guerre civili e, più spesso, percorse dai residui venefici del colonialismo è tipicamente quella inerente agli aspetti giuridici regolatori le missioni cosiddette portatrici di pace, presunta e foriera di nuovi interessi lesivi della autodeterminazione dei popoli forzati a riceverla perché le nazioni si possano spartire i miliardi stanziati. Fabiana Triburgo affronta questa montagna di interessi intrecciati in due puntate, in questa prima esemplificando sulla missione Monusco. 


Regole d’ingaggio di Guerra e norme di Peacekeeping

I molteplici scenari di guerra che attualmente si stanno diramando a livello globale e le evidenti crepe dell’impianto Onu createsi dall’immobilismo del Consiglio di Sicurezza – per il sistema dei veti incrociati –, nonché dall’inefficacia in concreto delle recenti pronunce degli organi di giustizia internazionale, fanno emergere quella crisi del sistema di sicurezza internazionale che già si era manifestata durante il periodo della guerra fredda. Oggi, come allora, una delle principali ragioni di questa crisi è da ricercarsi in una sezione della Carta delle Nazioni Unite che non ha mai trovato attuazione ossia il capitolo VII – più in particolare gli articoli 42 e seguenti – nel quale, all’indomani della seconda guerra mondiale, si stabilì che l’uso della forza armata per la risoluzione dei conflitti non si sarebbe mai più dovuto rimettere all’iniziativa del singolo stato – tranne nei casi di legittima difesa ex art. 51 della Carta – ma a un contingente internazionale facente capo esclusivamente al Consiglio, quale garante della pace e della sicurezza internazionale.

Secondo tali norme – poste al fine di garantire obiettività e imparzialità per ogni azione di carattere militare – il Consiglio, non solo avrebbe avuto il potere decisionale in merito all’uso della forza armata, ma avrebbe dovuto anche assumere la direzione delle operazioni militari. Rispetto a tale contingente – così come previsto dalla Carta delle Nazioni Unite (artt. 42, 43, 44, 45) – sarebbe poi dovuto sussistere l’obbligo per ciascuno degli stati membri dell’Onu, di stipulare con il Consiglio di Sicurezza dei veri e propri accordi per decidere il numero, il grado di preparazione nonché la dislocazione delle forze armate di volta in volta utilizzabili parzialmente o totalmente da parte del Consiglio. L’azione militare del Consiglio prevista dalla Carta delle Nazioni Unite nel Capitolo VII sarebbe stata quindi un’azione di polizia internazionale che si sarebbe dovuta esplicare previe risoluzioni del Consiglio di Sicurezza aventi il carattere di delibere operative. Tale azione di polizia sarebbe stata strettamente vincolata nella sua attuazione a sole due ipotesi: quella contro uno stato responsabile di aggressione, di minaccia o di violazione della pace o quella dispiegata in un singolo stato se al suo interno, in ragione di un conflitto civile, si fossero ravvisati gli estremi della minaccia alla pace.

Riscontrata dunque la mancata attuazione dell’impianto giuridico della forza militare internazionale – originariamente prevista dalla Carta delle Nazioni Unite per sottrarre al singolo Stato l’iniziativa dell’uso della forza armata – si può più agevolmente comprendere la nascita delle operazioni di “peacekeeping” comunemente definite “Missioni di Pace” o “Caschi blu dell’Onu”.

L’istituto del peacekeeping non è previsto in alcun articolo della Carta delle Nazioni Unite ma è strutturato su una norma consuetudinaria particolare nell’ambito del capitolo VII che si è formata a integrazione della Carta e a titolo della quale il Consiglio di Sicurezza ha sempre agito ogni volta che ha istituito una singola missione di pace. Inoltre il Consiglio di Sicurezza non ha solo il potere di creare le forze per il mantenimento della pace ma anche di regolarne l’attività. Allo stesso tempo, uno degli aspetti altrettanto importanti del peacekeeping è la delega che il Consiglio di Sicurezza emana nei confronti del Segretario generale dell’Onu per compiere – mediante accordi con gli stati membri – le attività necessarie di reperimento e di comando delle forze internazionali in ordine a tali operazioni di pace. I principi fondanti dell’iniziale costituzione del peacekeeping furono infatti: la necessità del consenso alla sua azione da parte delle autorità territoriali di uno Stato; la neutralità del suo operato rispetto alle parti in conflitto; l’uso della forza limitato alla protezione dei propri militari o più in generale della missione (sempre mediante il reperimento dei militari con accordi stipulati con i singoli stati). Tuttavia, come è facile immaginare il peacekeeping ebbe un timido inizio durante il periodo della guerra fredda ma con la caduta delle ultime repubbliche socialiste negli anni Novanta – in particolare durante il conflitto nell’ex Jugoslavia – raggiunse l’apice del proprio interventismo arrivando ad ampliare i propri settori di competenza e spesso a derogare, almeno in parte, a uno o più di quei tre principi fondanti del peacekeeping di cui sopra.

L’allargamento delle finalità inceppa l’ingranaggio

Già dopo il 1989 infatti si passa dall’iniziale attività di peacekeeping – attuata in scenari locali nei quali Usa e Urss non potevano affrontarsi direttamente – a missioni con finalità più ampie come il controllo del rispetto dei diritti umani, l’attività di monitoraggio di libere elezioni, il rimpatrio dei rifugiati e le attività di soccorso in catastrofi naturali. Ad ogni modo, negli anni successivi il peacekeeping arriva a voler soddisfare, con il proprio intervento, obiettivi sempre più ambiziosi che rientrano nelle cosiddette attività di “peace enforcement” ossia alla vera e propria imposizione della pace raggiunta con l’uso della forza militare, derogando quindi a uno dei tre principi fondanti che avrebbero dovuto caratterizzare la sua attività ossia a quello del non uso della forza. se non per autodifesa o difesa del mandato della missione. È quanto avvenuto nel 2013 (Risoluzione n. 2098) con il tentativo di Peace enforcement della “Brigata di Intervento”, cioè: una forza offensiva di combattimento del contingente Onu, destinata a venire impiegata per vere e proprie operazioni militari contro i gruppi armati presenti nella Repubblica Democratica del Congo, prorogata fino al 2017 con una risoluzione del Consiglio di Sicurezza. In particolare, tale Brigata era autorizzata a condurre operazioni offensive mirate a neutralizzare i gruppi armati al fine di determinare una stabilità politica nel paese ma, considerata la vastità del territorio, si è coordinata con l’esercito congolese nello svolgimento delle proprie attività che potevano prevedere attacchi militari su propria iniziativa fino al bombardamento aereo.

Il disastroso impegno in Kivu: Monusco

Tale attività in ogni caso sembra non aver conseguito alcun risultato duraturo nel tempo, considerato che già nel 1999 era stata istituita, con la Risoluzione del Consiglio di Sicurezza n. 1279, la missione di osservazione Monuc (United Nation Organization in the Democratic Republic of Congo) operante nel territorio fino al 2010, a sua volta sostituita nello stesso anno da una nuova operazione di peacekeeping ossia la Monusco (United Nations Organization Stabilization Mission in the Democratic Republic of the Congo) con la Risoluzione del Consiglio di Sicurezza n. 1925 del 29 maggio 2010. Si ricorda che la Monusco, prorogata in un primo momento fino al 31 dicembre 2018, è tuttora operante. Più nello specifico, se la Missione di osservazione Monuc aveva il compito di monitorare l’implementazione dell’“accordo di Lusaka” che ha posto fine alla Seconda guerra del Congo (1997-2003) – detta anche Prima guerra mondiale africana, nata dalla rottura dell’alleanza del Congo con Ruanda e Uganda – il mandato principale della Missione di pace Monusco invece «è quello di proteggere i civili e supportare il governo congolese nel consolidamento del processo di pace». La regione interessata da decenni di violenze e saccheggi è in particolar modo quella del Kivu – a Est del paese, al confine con Burundi, Ruanda e Uganda – ricca di Coltan ossia un prezioso materiale utilizzato per la fabbricazione degli schermi dei cellulari e di altri minerali preziosi quali diamanti, oro e rame nonché di legnami di altissima qualità.

Il personale delle Nazioni Unite è malvisto dai gruppi armati in tale regione anche perché è testimone dei traffici di questi materiali a livello internazionale pur non avendo – come appare evidente – alcun potere, capacità o la reale volontà di limitare il contrabbando e lo sfruttamento illegale delle risorse del territorio congolese.

Il contrabbando delle ricchezze della regione del Kivu viene favorito dalle multinazionali europee e americane nei paesi confinanti, primo fra tutti il Ruanda che si configura tra i primi produttori mondiali di Coltan, nonostante il proprio territorio sia del tutto privo di tale minerale. È proprio il criminale riciclaggio delle risorse minerarie della Repubblica Democratica del Congo – mediante lo sfruttamento della popolazione civile – a determinare il rafforzamento dei gruppi armati che combattono contro le forze militari del governo congolese – in particolare i miliziani dell’M23 (Movimento 23 marzo)accusati da Kinshasa e dalle Nazioni Unite di essere sovvenzionati dal Ruanda, con la conseguente impossibilità a ripristinare la pace e la sicurezza nel territorio. Ad ogni modo, il rappresentante speciale del Segretario dell’Onu, responsabile della Missione Minurso, Bintou Keita ha dichiarato recentemente che anche neutralizzare la milizia Adf (Allied Democratic Force) nel nord del Kivu – responsabile nel giugno del 2024 dell’uccisione di 274 civili – rimane una delle priorità della Missione di pace. La fine della missione – per l’aggravarsi delle relazioni tra le forze di pace e la popolazione civile nel Nord Kivu in conseguenza di alcuni eventi accaduti nel biennio precedente – era stata prevista in un primo momento il 30 giugno del 2024.

Tuttavia in prossimità della scadenza l’ambasciatore della Repubblica Democratica del Congo presso le Nazioni Unite, in un discorso dinanzi al Consiglio di Sicurezza, ha dichiarato che «in conseguenza della continua aggressione del Ruanda nel Nord Kivu la seconda fase di ritiro delle truppe della Monusco, in seguito a una comune valutazione, sarà posta in essere quando le condizioni lo consentiranno».

Anche il capo della Missione Bintou Keita ha affermato che non esiste una tempistica per il ritiro dalle province del Nord del Kivu e dell’Ituri per cui le forze di pace nell’Est del paese hanno sospeso il loro ritiro, iniziato a febbraio 2024, senza che attualmente vi sia una nuova tempistica fissata per la fase conclusiva delle operazioni di pace.

Il Governo dei territori

Un’altra forma di intervento delle Forze dell’Onu, ancora più ingerente, che ha finito per riguardare di nuovo l’ex Jugoslavia si è verificata quando il Consiglio – invocando il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale – ha organizzato per prassi un governo dei territori. La differenza ontologica più rilevante del peacekeeping rispetto al cosiddetto governo dei territori è che il primo prevede un potere pubblico limitato delle forze delle Nazioni Unite che si deve affiancare – almeno in linea di principio – necessariamente a quello delle autorità locali mentre nelle ipotesi di “governo dei territori” vi è una sostituzione integrale dell’Onu a tali autorità anche solo temporaneamente. Il governo dei territorisul piano ideologico pur se rientrante nel peacekeeping – ha avuto origine nel principio di autodeterminazione dei popoli e nel processo di decolonizzazione sviluppatosi a partire dagli anni Sessanta, per cui nei territori interessati dalla fine di un conflitto civile o nei quali era messa in discussione la sovranità statale l’Onu ha cercato di ergersi quale garante in concreto degli interessi delle popolazioni locali. Questo processo di deviazione del peacekeeping tuttavia si è intensificato alla fine della Guerra Fredda quando sono scoppiati numerosi conflitti civili in stati ex colonie ma in un’ottica sempre più orientata di fatto verso il Peacebuilding postbellico – ossia verso quel processo di consolidamento della pace e della sicurezza internazionale – garantito dalle Forze dell’Onu nei territori interessati.

Le missioni di peacekeeping si sono quindi moltiplicate e ampliate fino al punto che alcune di esse hanno previsto di fatto lo svolgimento di alcune funzioni di governo nei territori nei quali hanno operato. La competenza del Consiglio, in questo modo, non solo è passata inevitabilmente dalle guerre internazionali a quelle civili, ma più volte alla vera e propria ricostruzione degli stati al termine dei conflitti armati. Infatti, muovendosi nella dimensione del peacebuilding, è stato più agevole per il Consiglio di Sicurezza – nelle situazioni postconflitto – sconfinare verso il governo dei territori, come è avvenuto tra il 1995 e il 1999 nell’ex Jugoslavia ovverosia quando le forze internazionali di pace finirono con il sostituirsi del tutto ai governi nazionali. Si può lecitamente affermare quindi che la prassi del Consiglio di Sicurezza ha ampiamente deviato dalle norme del Capitolo VII fino a interpretare come minaccia alla pace e alla sicurezza internazionale – delle quali il Consiglio di Sicurezza ha la principale responsabilità – qualsiasi “situazione di pericolo” all’interno di uno stato. In questo modo non solo si è finito con il legittimare l’applicazione di qualsiasi misura che apparisse al Consiglio sufficientemente adeguata. ma si è provocata la trasformazione delle originarie missioni di peacekeeping in missioni di fatto di governo dei territori, se non addirittura come vedremo in vere e proprie missioni di state building.

continua nei Balcani: Peacekeeping 2

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Le missioni di Peacekeeping. 3: la guardia al bidone di Unifil in Sudovest asiatico https://ogzero.org/le-missioni-di-peacekeeping-3-la-guardia-al-bidone-di-unifil-in-sudovest-asiatico/ Thu, 02 Jan 2025 21:47:02 +0000 https://ogzero.org/?p=13568 Con questa terza puntata si conclude per ora lo studio di Fabiana Triburgo sulla giurisprudenza internazionale che regola le missioni dell’Onu e che esemplarmente sono state analizzate nelle due puntate precedenti in Congo (Monusco) e nei Balcani (Unmik). La missione oggetto di studio è una delle più citate negli ultimi tempi, ma l’intera  sua storia […]

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Con questa terza puntata si conclude per ora lo studio di Fabiana Triburgo sulla giurisprudenza internazionale che regola le missioni dell’Onu e che esemplarmente sono state analizzate nelle due puntate precedenti in Congo (Monusco) e nei Balcani (Unmik). La missione oggetto di studio è una delle più citate negli ultimi tempi, ma l’intera  sua storia è stata travagliata, perché finché la diplomazia internazionale era regolata dai principi scaturiti dall’equilibrio scaturito con la fine della Seconda guerra mondiale Unifil aveva posto un apparente argine al neocolonialismo ebraico.


Risoluzione 1701: La ventennale Blue Line dell’Unifil libanese

Mediante il medesimo meccanismo è stato istituito il Tribunale speciale per il Libano creato nel 2007 dalle Nazioni Unite con il governo libanese. L’accordo tuttavia non è stato ratificato dal parlamento libanese per cui l’attività del tribunale è stata imposta dal Consiglio di Sicurezza ex Capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite con Risoluzione n. 1757 del 30 maggio 2007. Anche in Libano, terreno nel quale ancora oggi si scontrano Israele ed Hezbollah, è schierata dal 2006 una forza di pace delle Nazioni Unite: l’Unifil (United Nation Interim Force in Lebanon) per quasi vent’anni era riuscita a evitare che tra i due opposti schieramenti si verificassero più gravi eventi che avrebbero potuto far degenerare la situazione. Tuttavia i recenti scontri tra Hezbollah (o “Partito di Dio”) e Israele hanno portato a far riflettere più stati – a livello internazionale – sulla necessità di ritirare i propri soldati dalla Missione. La missione Unifil in realtà è stata originariamente istituita nel 1978 (Risoluzione n. 425/426) per confermare il ritiro delle forze israeliane, ripristinare la pace internazionale e assicurare che il governo del Libano riprendesse l’effettivo esercizio della sua autorità territoriale nell’area. Successivamente, nel 1982, con la Risoluzione n. 501 la missione è stata implementata e potenziata al fine di garantire la protezione e l’assistenza umanitaria alla popolazione. Il 1982 infatti è l’anno della prima guerra israelo-libanese, iniziata mediante l’operazione “Pace in Galilea” condotta da Israele per sradicare dal Sud del Libano la presenza di palestinesi armati che ipotizzava si nascondessero tra i profughi proseguendo poi fino a Beirut, città nella quale aveva sede l’Olp (Organizzazione per la liberazione della Palestina). Con l’intervento sotto il patrocinio delle Nazioni Unite si è cercato quindi di evitare un’ulteriore escalation della guerra per cui si è agevolata la partenza da Beirut per Tunisi del presidente dell’Olp Arafat e dei suoi uomini, costringendo gli altri appartenenti alle forze armate palestinesi a riversarsi nelle città limitrofe. Nel 2000 con il ritiro delle forze israeliane, la missione Unifil – mantenendosi nuovamente sul ripristino della pace e della sicurezza internazionale – è divenuta una missione di monitoraggio e di osservazione. Così nello stesso anno è stata istituita dalle forze dell’Onu la Blue Line ossia la demarcazione del confine tra i due stati lunga circa 51 chilometri come limite del ritiro delle forze militari israeliane dal Sud del Libano. Nel 2004 con la Risoluzione n. 1559 il Consiglio di Sicurezza ha richiesto il rigoroso rispetto dell’integrità territoriale e dell’indipendenza del Libano chiedendo ufficialmente il completo ritiro delle forze militari israeliane dal paese nonché il disarmo di tutte le forze militari sul campo, libanesi e non. Il 2006 invece è l’anno del secondo conflitto israelo-libanese iniziato con l’offensiva di Hezbollah contro una pattuglia dell’esercito israeliano e proseguito con la violenta reazione di Israele che aveva lo scopo di neutralizzare l’intero apparato di Hezbollah. È in questo contesto che l’11 agosto del 2006 il Consiglio di Sicurezza dell’Onu è intervenuto con la Risoluzione n. 1701 che ha imposto l’immediata cessazione delle ostilità, il ritiro di Israele dal Sud del Libano, il supporto allo spiegamento delle forze libanesi in tutto il Libano meridionale, la garanzia dell’accesso umanitario alla popolazione civile, l’assicurazione del ritorno volontario e sicuro degli sfollati, nonché l’assistenza al governo libanese per impedire l’accesso irregolare di armi e per  proteggere i suoi confini. Infatti ancora oggi lo scopo della missione Unifil è quello di presidiare la cosiddetta “Blue Line”, ossia quella zona cuscinetto nella quale è consentito solo all’esercito libanese e ai peacekeepers dell’Onu di possedere armi ed equipaggiamento militare.

La Risoluzione n. 1701 è stata rinnovata ad agosto del 2024 con la quale il Consiglio di Sicurezza ha mantenuto per Unifil lo stesso mandato della Risoluzione del 2006 ma prolungandolo fino ad agosto 2025. Alla fine di settembre del 2024 tuttavia le Forze di difesa Israeliane (Idf) hanno ucciso un numero di persone equivalente a un mese di combattimenti nell’estate del 2006: tra la notte di domenica 22 settembre e martedì 24 settembre le vittime libanesi sono state oltre 550. L’obiettivo di Netanyahu è indebolire Hezbollah e il suo alleato iraniano per eliminare la minaccia dei razzi sul nord di Israele e quello di offrire a decine di migliaia di civili israeliani, sfollati da oltre un anno, di tornare alle proprie case. Non solo, Israele vuole costringere Hezbollah a ritirarsi dal fiume Litani a circa 40 chilometri dalla Blue Line che separa gli schieramenti militari in quanto non esiste ancora un confine internazionale riconosciuto tra il Libano e Israele. Il “Partito di Dio” dalla fine di ottobre del 2023, in seguito all’inizio della guerra israelo-palestinese, ha affermato di voler aderire al fronte anti-israeliano per accelerare la fine del progetto coloniale sionista aprendo il valico del Sud del Libano e dando sostegno a Hamas e ai palestinesi. Tuttavia, a partire dall’estate del 2024 lo stato israeliano perpetra l’assassinio di diversi capi di Hezbollah. In primo luogo, viene ucciso da Israele Fuad Situkr, alto comandante di Hezbollah e successivamente Hassan Nasrallah, storico leader alla guida di Hezbollah che ha visto il gruppo trasformarsi da una fazione di guerriglia alla forza politica più potente del Libano.
Netanyahu ha anche eliminato altri miliziani del partito facendo esplodere migliaia di “cerca persone” e “walkie talkie”, in loro dotazione, dando l’ordine di esecuzione mentre si trovava a New York presso il palazzo delle Nazioni Unite. Infine, il 30 settembre 2024 l’esercito israeliano è entrato direttamente in Libano con carri militari oltrepassando la Blue Line.

La forza Onu di mantenimento della pace ha ribadito che «qualsiasi attraversamento della linea blu viola la sovranità e l’integrità territoriale del Libano nonché la Risoluzione n. 1701 del 11 agosto 2006 dopo la guerra tra il Libano e Israele».

Da qui l’attacco israeliano contro le basi dell’Onu nel Sud del Libano, il 13 ottobre 2024. L’attacco è avvenuto dopo che nei giorni precedenti Israele ha chiesto alle truppe Unifil di spostarsi 5 km più a nord ma i soldati della missione hanno deciso di non muoversi. Con un comunicato ufficiale l’Unifil – rispetto all’attacco subito – ha dichiarato che un carro armato israeliano ha sparato contro una torretta di osservazione di una delle basi della missione più precisamente a Naqura, facendo cadere due operatori di pace di nazionalità indonesiana che sono stati ricoverati in ospedale. È stata inoltre ripetutamente colpita dalle forze militari israeliane la base principale della missione di pace sempre a Naqura.

Si ricorda che attualmente la missione Unifil – impiegata nel sud del Libano – conta oltre diecimila soldati provenienti da cinquanta paesi di cui sedici dell’Unione europea. Netanyahu ha affermato che l’Unifil deve evacuare il Sud del Libano poiché ritiene che i militari stiano fornendo «uno scudo umano ad Hezbollah». Nel novembre del 2024 c’è stato un secondo attacco alla missione con tre distinte operazioni militari mediante razzi (la prima verso il quartier generale dell’Unifil a Shama, la seconda colpendo una base della missione a Ramyet e l’ultima verso una pattuglia Unifil nei pressi del villaggio Kharbat Silim). Dopo il terzo attacco contro l’Unifil mediante il lancio di due razzi contro la “base UNP2-3” di Shama, nelle prime ore del 22 novembre 2024, l’Unifil ha dichiarato che gli ultimi due attacchi alla missione «sono avvenuti per opera di attori non statali presenti sul territorio libanese». Tuttavia si ricorda che la Missione non ha capacità sovrana, Hezbollah non ha interesse a collaborare con le Forze Onu e Israele non ha fiducia che questa possa assicurare la liberazione dal Libano meridionale dalla presenza di Hezbollah. In tale ottica solo il Consiglio di Sicurezza – che tuttavia, come noto, ha posizioni contrastanti al suo interno rispetto a tale conflitto – può dissuadere lo Stato ebraico dall’intensificare i suoi attacchi contro Unifil.

Per ora la comunità internazionale si accontenta dell’accordo del cessate il fuoco raggiunto alla fine di novembre 2024 tra i miliziani di Hamas e il governo israeliano ma emerge tutta l’impotenza dell’impianto Onu a fronteggiare effettivamente le guerre internazionali per cui quella Carta redatta all’indomani della Seconda guerra mondiale, più che un coercitivo impedimento affinché la pace e la sicurezza internazionale non vengano mai violate, sembra essere un nostalgico ricordo scritto di intenti e di speranze spesso smentito dalla realtà dei fatti.

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Bhopal, la tragedia tra crimini ambientali e industriali https://ogzero.org/bhopal-la-tragedia-tra-crimini-ambientali-e-industriali/ Fri, 15 Dec 2023 17:28:30 +0000 https://ogzero.org/?p=12139 Bhopal: fu il primo e più clamoroso disastro industriale con copertura mediatica a diffusione internazionale, utile solo a scatenare l’indignazione del mondo ignaro delle condizioni in cui si lavora(va) nelle fabbriche del mondo, in particolare in quelle prive anche delle minime tutele non sempre rispettate nei paesi “occidentali” (solo in Italia basterebbe citare la diossina […]

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Bhopal: fu il primo e più clamoroso disastro industriale con copertura mediatica a diffusione internazionale, utile solo a scatenare l’indignazione del mondo ignaro delle condizioni in cui si lavora(va) nelle fabbriche del mondo, in particolare in quelle prive anche delle minime tutele non sempre rispettate nei paesi “occidentali” (solo in Italia basterebbe citare la diossina di Seveso… fino all’Ilva a Taranto, o il disastro della Thyssen-Krupp a Torino). Può tornare utile rinfrescare la memoria di questo 39° anniversario in un periodo in cui gli apprendisti stregoni soffiano su pozioni magiche e addirittura torna forte il “vento nucleare” come soluzione energetica “pulita”, anche proposta a cuor leggero come alternativa al fossile all’ultima Cop28 di Dubai.

Grazie alla Raghu Rai Foundation per la concessione delle immagini.


Nota come la Hiroshima dei disastri industriali, la tragedia del gas di Bhopal compie quest’anno 39 anni. La notte del 2 dicembre 1984, 45 tonnellate di isocianato di metile (MIC), altamente pericoloso, fuoriuscirono dall’impianto di insetticidi della Union Carbide Corporation, un importante produttore americano di prodotti chimici e protochimici nella città di Bhopal, nel Madhya Pradesh. I sistemi di sicurezza che avrebbero dovuto contenere il gas ed evitarne la fuoriuscita non funzionarono, facendo sì che il gas si diffondesse in ogni parte di Bhopal, esponendo ad esso mezzo milione di persone: circa 25.000 morirono e altre 120.000 stanno ancora soffrendo le conseguenze dei crimini industriali della Union Carbide.

La Union Carbide India Corporation (UCIC) e la Green Revolution

La Union Carbide India Corporation si era costruita una reputazione prima della tragedia. Con un fatturato annuo di 9 miliardi di dollari, l’impegno dell’azienda nelle guerre mondiali ne ha trasformato la crescita: all’inizio della Seconda guerra mondiale l’azienda produceva uranio e concentrati di quel materiale così centrale nelle produzioni radioattive e, poco dopo, divenne la 37a più grande al mondo, costruendosi una solida reputazione. A metà degli anni Venti la UCC mise piede in India, inizialmente producendo batterie a Calcutta, dando vita alla Ever Ready Company Ltd nel 1934. La crescita continua portò alla costruzione della fabbrica di pesticidi di Bhopal nel 1969. L’impulso a produrre pesticidi era strettamente collegato all’ambizione dell’India di essere autosufficiente dal punto di vista alimentare, nota come “Green Revolution” e le carestie dell’India britannica con i loro effetti di lunga durata incrementavano un bisogno urgente di raccolti più abbondanti. Per UCC questo significava un mercato vergine per la produzione di pesticidi.

Bhopal

L’impianto della Union Carbide, 1984 (© Raghu Rai Foundation)

Tuttavia, gli agricoltori indiani che già dovevano affrontare condizioni climatiche estreme come siccità e inondazioni stavano subendo danni alle colture e perdite finanziarie, per cui questi costosi pesticidi divennero inaccessibili. A causa della mancanza di acquirenti, l’azienda subì una perdita di 4 milioni di dollari nel 1984 ma la Union Carbide India Corporation celebrò quell’anno il suo 50° anniversario, con un fatturato annuo di 200 milioni di dollari e 14 impianti già installati in tutta il paese. Tuttavia le previsioni di fatturato furono disattese e la UCIC progettò di liquidare l’impianto, smantellandolo e trasferendolo in Messico o in Indonesia.

L’azienda iniziò a tagliare i costi durante i mesi che portarono al disastro e questo ebbe importanti ripercussioni sulle misure di sicurezza (ricordiamo che già 15 anni prima del disastro l’azienda scaricava spesso rifiuti chimici letali all’interno e nei dintorni della fabbrica).

Elusione delle responsabilità mediche e legali

Mentre inizialmente l’isocianato di metile (MIC) e altre sostanze chimiche venivano importate dagli Stati Uniti in piccole quantità per la produzione di questi pesticidi, l’azienda presto iniziò a produrre strategicamente il MIC in India. Sebbene l’impianto non fosse in grado di funzionare a pieno regime, l’azienda – che stava perdendo il proprio valore – continuò a stoccare grandi quantità di sostanze chimiche pericolose (è stata segnalata la presenza di tre serbatoi contenenti oltre 60 tonnellate di isocianato di metile).

Secondo il rapporto del 2010 del Council for Medical Research indiano (ICMR), «il MIC è un forte veleno, anche se ingerito; la lesione che colpisce le mucose è dovuta alla reazione esotermica quando questo entra in contatto con l’umidità dei tessuti». Il rapporto spiega inoltre che: «Il MIC è considerato così pericoloso che qualsiasi azienda britannica che lo utilizzi o lo conservi dovrebbe presentare piani di emergenza per affrontare le conseguenze in caso di fuoriuscita». Incolore, inodore e altamente volatile, il suo aspetto più letale in caso di fuoriuscita nell’atmosfera è l’impossibilità di contenerlo all’interno di un impianto o di un serbatoio in fabbrica».

Nell’apocalittica notte del 2 dicembre un dipendente dell’UCIC stava cercando di spurgare una tubatura corrosa, e a causa del malfunzionamento di diversi rubinetti l’acqua fluì liberamente nel serbatoio più grande del MIC. Il contatto con l’acqua provocò un’esplosione incontrollabile, il serbatoio iniziò a sprigionare nubi tossiche di cianuro di idrogeno, amina monometilica e MIC, oltre ad altre sostanze chimiche che si diffusero nell’aria di Bhopal e le persone cominciarono a morire.

La Union Carbide chiuse il sito e l’impianto fu abbandonato nell’incuria; la necessaria pulizia dell’impianto non ebbe mai luogo perciò le sostanze chimiche tossiche permangono nel sito ancora a livelli elevati. Nel 1989 la Union Carbide stessa condusse in segreto dei test, i cui risultati mostrarono come le acque sotterranee stessero rapidamente uccidendo i pesci. La raccolta dei campioni avveniva all’interno delle mura della fabbrica – la popolazione locale spesso attingeva l’acqua dalle condutture e dai pozzi che si trovavano al di là di queste mura. Nel 1999 si effettuarono test sull’acqua di pozzo e sulle falde acquifere che rivelarono alti livelli di mercurio, 6 milioni di volte superiori a quelli considerati sicuri dalla Environmental Protection Agency degli Stati Uniti (EPA).

Dopo continue smentite e ritardi legali da parte dell’UCC, nel 1989 si raggiunse un parziale accordo extragiudiziale tra il governo indiano e la Union Carbide, e quest’ultima pur accettando di pagare 470 milioni di dollari a titolo di risarcimento, rifiutò di assumersi qualsiasi responsabilità legale. Le vittime non furono mai consultate durante le trattative; 470 milioni di dollari potrebbero sembrare una somma elevata in termini di valore nominale, ma non sono stati sufficienti a pagare i danni, le vittime e i processi di riabilitazione: a nove vittime su dieci sono stati risarciti 500 dollari a testa o una somma sufficiente a coprire le spese mediche per un massimo di cinque anni. Inoltre, molti di coloro che sono stati esposti al gas hanno perso la capacità di guadagnarsi da vivere: coloro che lavoravano come operai occasionali, non erano più in grado di sostenere attività fisiche impegnative.

Bhopal

Sede del Centro vittime del gas istituito nel 2002 dal Governo (© Raghu Rai Foundation)

Nel 1991, il presidente e amministratore delegato della Union Carbide all’epoca del disastro, Warren Anderson, fu accusato dal sistema di giustizia penale indiano di «omicidio colposo non colposo». Anderson fu arrestato non appena mise piede in India, ma non affrontò mai un processo, poiché gli fu concessa rapidamente la libertà su cauzione dopo aver trascorso alcune ore agli arresti domiciliari e fuggì immediatamente dopo, salendo sul primo volo disponibile. Se fosse stato condannato, Anderson avrebbe rischiato 10 anni di carcere.

Il governo indiano ha chiesto l’estradizione, ma la richiesta è rimasta inascoltata per oltre tre anni e mezzo, fino a quando è stata dimenticata.

Stop Dow Chemical Company!

Nel 2001, la Dow Chemical Company, con sede in Michigan, ha acquisito la Union Carbide con tutte le attività e le passività connesse. Tuttavia, dopo questa fusione, il sito di Bhopal non è mai stato bonificato come avrebbe dovuto, l’impatto tossico del MIC non è mai stato comunicato alla comunità medica indiana e i rapporti sono stati tenuti nascosti agli studiosi che li richiedevano.

Bhopal

Proteste, 2001 (© Raghu Rai Foundation)

I rapporti dei test di follow-up pubblicati nel 2002 hanno rivelato la presenza di tricloroetano, sostanza chimica che causa danni allo sviluppo fetale, e negli anni successivi, gli studi condotti nel 2016-17 hanno rivelato le sostanze chimiche che continuano a essere presenti nelle acque, causando danni cerebrali, cancro e malformazioni congenite. Il 3 ottobre 2023, il tribunale di Bhopal ha emesso un settimo avviso di garanzia alla Dow Chemical Company, dopo che tutti e sei i precedenti erano stati ignorati. Sul sito web della società si continua a negare qualsiasi legame con la Union Carbide.

L’insieme dei crimini ecologici e aziendali

Oggi circa 50.000 bhopali non possono lavorare a causa di quel disastro. L’UCC è ancora responsabile dei danni ambientali che ha causato, argomento che non è mai stato affrontato durante le trattative del 1989. Nel frattempo la contaminazione continua a diffondersi nella città. La tragedia del gas di Bhopal ha segnato la coscienza collettiva degli abitanti.

Il disastro evidenzia i fallimenti della politica urbana, degli standard di sicurezza e di come il progresso industriale non tenga conto dei quadri normativi.

Questo ci ricorda la sconsideratezza delle imprese transnazionali come la Union Carbide, che agiscono non in base a ciò che è giusto, ma a ciò che è redditizio ed efficiente. La tragedia ha avuto luogo negli anni iniziali della globalizzazione economica e quando i diritti umani fondamentali delle persone vengono calpestati in nome dello sviluppo economico si configura un vero e proprio crimine. La tragedia del gas di Bhopal è una testimonianza eloquente della giustizia rinviata e della giustizia negata per le persone decedute e per quelle che continuano a sopravvivere in quelle condizioni ambientali. Come ha giustamente sottolineato il professor Reece Walters:

«Bhopal fornisce lezioni e sfide per la giustizia ambientale, il commercio globalizzato e il potere e la criminalità delle imprese e la giustizia delle vittime, la regolamentazione delle imprese transnazionali e i pericoli derivanti dall’autoregolamentazione orientata al commercio delle compagnie transnazionali».

Bhopal

Vittima della fuga di gas (© Raghu Rai Foundation)

 

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Lettera22: luoghi e tempi per immaginare il sequel https://ogzero.org/lettera22-luoghi-e-tempi-per-immaginare-il-sequel/ Thu, 09 Nov 2023 16:17:25 +0000 https://ogzero.org/?p=11838 Nell’estate 2023 è uscito dopo una accorta e lunga gestazione, il numero zero di “Lettera22”, manifestazione in forma di rivista del consorzio omonimo di giornalisti indipendenti in occasione del trentennale della creazione del gruppo di professionisti che testimoniano la realtà dove si svolge, essendone esperti di lunga data. La produzione è descritta nell’editoriale come “lento […]

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Nell’estate 2023 è uscito dopo una accorta e lunga gestazione, il numero zero di “Lettera22”, manifestazione in forma di rivista del consorzio omonimo di giornalisti indipendenti in occasione del trentennale della creazione del gruppo di professionisti che testimoniano la realtà dove si svolge, essendone esperti di lunga data.
La produzione è descritta nell’editoriale come “lento ruminare” che racconta l’addensarsi dell’esplorazione dello spazio scritto a specchio di quella dei luoghi dove gli eventi, liberati dalle colonne della cronaca geopolitica, fuoriescono per costituire i capitoli di un libro in forma di magazine; l’oggetto dell’esplorazione diventa così una “terra di mezzo”, come esplicitano gli autori che rivendicano l’ibridazione delle forme narrative: dalla graphic novel al saggio sociologico, dal reportage di viaggio al racconto storico immerso in un orto o in un aeroporto al momento dello scoppio di una “operazione militare speciale”… rigoroso, circostanziato, preciso, eppure godibile per la creatività spontanea.
Rilegate in una confezione raffinata le storie graficamente impreziosite dei complici dell’Associazione di giornalisti indipendenti ci portano a spasso per il mondo con storie che si dipanano tra Corno d’Africa e Sudest asiatico, dal preludio al ritorno dei Talebani in Afghanistan all’Italia del fascismo – quello precedente e parallelo alla contemporanea invasione nazista della Serbia descritta nei disegni inediti di Zograf

Alla fine della lettura abbiamo pensato che valesse la pena tornare su alcuni dei luoghi evocati nel libro-fascicolo: ciascuno degli interventi è corredato da un Secondo Tempo, ci sembra che un buon approccio per OGzero per interpretare l’utilità di questa formula editoriale – e proporne un processo di lettura in sintonia con gli obiettivi di entrambe le testate – sia quello di partire dalla realtà in cui si stanno evolvendo ora i processi che troviamo in nuge tra le righe di questo volume e rintracciarvi le tracce o i prodromi; una sorta di Terzo tempo che ritorna sulla meditazione dei testi proposti per rilanciarne la attualità che li ribadisce.


In the mook del giornalismo indipendente

Gli afgani collaterali

Il fascicolo si apre sul quartiere del Politecnico di Kabul dopo il ripristino della shari’a, ma la storia rievocata da Giuliano Battiston insieme al padre della vittima, a cui le illustrazioni pointilliste di Giacomo Nanni conferiscono cromatismi psichedelici, percorre il 3 maggio 2009 una strada vicino a Gozarah…

Illustrazione di Giacomo Nanni

Ora si è richiuso il sipario sul paese abbandonato dalla Nato definitivamente due anni fa, ma quell’episodio di sprezzo per la vita delle popolazioni civili autoctone da parte del contingente italiano ai tempi in cui Ignazio Benito era ministro della Difesa rimane irrisolto e il generale Rosario Castellano ha potuto andare in pensione come generale di corpo d’armata il 28 giugno 2023 senza macchia e con tutti gli onori; solo un ulteriore episodio del corollario di collateral damage, perla lessicale eufemistica coniata da Bush per le stragi perpetrate dagli eserciti alleati. Nei vent’anni di occupazione euro-americana l’Afghanistan è stato oggetto di aiuti che servivano di più alle organizzazioni e istituzioni occidentali, che hanno gestito il paese in maniera diversamente coloniale, spesso con disprezzo per una cultura che nessuno ha voluto conoscere e che le truppe non incrociavano nell’apartheid armato che vigeva e che causò l’omicidio al centro della ricostruzione di Battiston. Il risultato è la diffidenza restituita dagli afgani che si sono sentiti presi in giro e non hanno trovato motivi per resistere al ritorno dei Talebani a seguito di una nuova fuga dopo quelle dei britannici del Great Game e del generale Gromov, mentre attraversava il ponte della Fratellanza, prima crepa sul muro dell’imperialismo sovietico. Le condizioni del paese fanno da sfondo alla precisa restituzione della testimonianza del padre della vittima effettuata da Battiston e si ripresentano invariate: la situazione delle carceri, le spie, l’economia dell’oppio dell’Hellmand sostituita dalla produzione di metanfetamine, la prevenzione inesistente per i disastri dei terremoti (con il corredo di migliaia di morti nell’autunno delle province dell’Ovest), proprio dove operava quel contingente italiano.

OGzero ha frequentato spesso la tragedia afgana e raccolto i racconti dei ragazzi, le cui radici affondano in quella cerniera tra mondo persiano, continente indiano e corridoi per le merci dal mondo cinese al di là dell’Himalaya, da dove sono espatriati quasi vent’anni fa, mantenendo forti contatti con le famiglie, tornando tutti a sposare donne scelte dal clan, a volte ancora nelle case avite di Ghazni, in altri casi già trapiantati a Quetta fin dalla disfatta sovietica. La novità di questo periodo è quella che la diaspora di un popolo espulso dalle sue terre non ha fine e il governo pakistano ha decretato la cacciata degli afgani dal proprio territorio, adducendo il pretesto che molti degli attentati jihadisti sono attribuibili a profughi afgani.

 

 

Ma proprio quei ragazzi hazara ci invitano ad approfondire chi sarebbero quel paio di milioni di afgani che devono lasciare il Pakistan e la loro destinazione, per comprendere meglio il disegno che potrebbe nascondersi dietro il loro rimpatrio. Innanzitutto i senza documenti afgani non stanno a Quetta, ma a Nord e i Talebani afgani saprebbero già dove collocarli: sarebbero destinati al territorio confinante con il Tagikistan e l’Uzbekistan, perché nella regione a maggioranza tagika e uzbeca scarsi sono gli islamisti e la deportazione dei pashtun molto probabilmente affini ai talebani servirebbero a diventare maggioranza in un territorio in cui si è completato un canale, il Qosh Tepa, che dirotta le acque del Amu Darya, in grado di irrigare i terreni desertici e poco abitati, dando opportunità di lavoro a comunità poco rappresentate in zona. Ma soprattutto possono esportare nei paesi limitrofi il radicalismo islamista caro ai talebani, e in particolare l’Uzbekistan potrebbe essere a rischio di infiltrazione, ovvero la nazione a ridosso della quale si trova l’area più arretrata dell’Afghanistan, quella con minori risorse.

Mappa tratta dal volume La grande illusione (Rosenberg &Sellier, 2019)

A proposito di deportazioni e diaspore capitano a fagiolo due dei racconti del “Secondo tempo” di “Lettera22”, quello che vede protagonista Ahmad Naser Sarmast, fondatore dell’Istituto nazionale di musica, chiuso dai talebani provocando la fuga all’estero delle allieve musiciste e il breve racconto da Kandahar, la capitale delle melograne, dove il conflitto si fece aspro quando gli americani precipitosamente restituirono il paese all’oscurantismo e gli agricoltori dovettero abbandonare case e terreni. Ora «la guerra è finita e siamo tornati a lavorare i campi».

Questo avviene più al Sud del paese; al Nord si stanno preparando penetrazioni del jihad verso le repubbliche centrasiatiche, attraverso una possibile “sostituzione etnica”; proprio le due repubbliche che Francia e Unione europea hanno preso in considerazione per imbastire una rete di relazioni commerciali, in alternativa alle risorse minerarie di cui non riescono più ad approvvigionarsi in Africa. E il viaggio di un paio di giorni di Mattarella a Samarcanda non può non avere risvolti strategici in questo senso.

Una serie di dubbi di una serie con troppi spunti e ipotesi, che proprio il cofondatore di “Lettera22” ci aiuta a ricomporre in questo podcast:

“L’ingombrante presenza afgana in Pakistan risolta con l’espulsione?”.

 

Il giornalista a una dimensione: quella in viaggio

Uno dei fili rossi del numero zero di “Lettera22” si può individuare nel reportage, talvolta seguendo itinerari di camminanti alla scoperta di territori; più spesso i paesaggi sono di conflitti e talvolta di intrichi delittuosi; in altri casi si tratta di semplici brevi spostamenti nello spazio, ma sprofondati nell’utopia delle performance voguing inseguita in Germania o dislocamenti lontani nel tempo a disvelare delitti irrisolti nella Lucania insurrezionale postborbonica. Appassionanti comunque, non ci soffermiamo su questi apporti contenuti nel fascicolo solo perché il nostro ambito è già fin troppo ampio delimitandolo alle questioni geopolitiche.

La tassonomia coloniale come classificazione della specie

Illustrazione di Adriana Marineo

Un approccio neanche tanto nascosto tra le pieghe dell’intelligente apporto di Paola Caridi che mette al centro la Sicilia, quella dell’annuncio mussoliniano dell’impero dell’agosto 1937– sembra di assistere ancora una volta alle immagini dell’Istituto Luce – quello dalla vicina Libia e del remoto Corno d’Africa. Entrambe aree non a caso in fibrillazione: 120 anni di storia di un colonialismo (e protettorato dell’Agip/Eni) straccione hanno prodotto scollamento e odio intercomunitario come eredità delle nefandezze. La Sicilia al centro geografico dell’impero che rende colonialismo l’emigrazione, e ora diventa testimonianza di ciò che di quella Palermo hanno lasciato i bombardamenti: Villa Giulia e l’Orto botanico – “colonizzati” ora per contrappasso dall’immigrazione bengalese per praticare il cricket. Quella Sicilia al centro dello schieramento strategico Nato nel Mediterraneo: Sigonella, il Muos… come racconta un altro complice di “OGzero” e “Lettera22”, Antonio Mazzeo.

Come si vede s’intrecciano in poche pagine serie di argomenti che regolano i rapporti mondiali tuttora, affondando le radici in quel precedente regime fascista – e in quell’altra Guerra mondiale –, retaggi della storia che tornano, evocati da quei luoghi che nella storia hanno rappresentato le stazioni di molte tappe. Anche se ora il Giardino coloniale non esiste più fisicamente, però le piante dell’Altro ci hanno conquistato, dimostrando come si ripeta la seduzione eclettica della cultura aliena che aveva ellenizzato la vittoria militare della Roma antica. Ma soprattutto l’aggettivo del Giardino è importante nell’evoluzione dell’articolo di Paola Caridi che si può gustare da pagina 68 di “Lettera22” numero zero: l’approccio coloniale dell’Italia fascista rispunta nella sua brutalità come la gramigna sulla falsariga di britannici e soprattutto degli olandesi descritti da Amitav Gosh a proposito della noce moscata. Scrive l’estensore del saggio:

«L’agricoltura coloniale doveva imporre alle comunità native un modo di coltivare secondo la nostra impostazione agricola. Allo stesso tempo doveva formare tecnici italiani capaci di coltivare le specie locali», a cui nel trasporto in “patria” gli scienziati italiani avevano persino cambiato nome a piante che loro ritenevano di aver “scoperto” e riconducendole alla sistematica classificazione linneana, ma che stavano lì da sempre, con quell’atteggiamento che Gerima, il regista etiope, stigmatizza da sempre: l’imposizione di un punto di vista culturale esogeno che fa della “integrazione” delle Species plantarum un paradigma per quella delle “razze”, per dirla alla Almirante. E infatti nell’articolo di Caridi lo spostamento dall’Orto botanico palermitano a quello romano trova protagonista una donna di origine somala, lingua letteraria italiana e «cosmogonia botanica complessa», che mette in relazione lo stato «sofferente, striminzito, piccolo» di una pianta d’incenso, che erano le stesse condizioni in cui si sentiva l’animo della donna; per poi tornare all’Orto siciliano e lì ritrovare gli insegnamenti paterni e l’originario nome della coltura. Le jacaranda palermitane però sono solo una “citazione lontana” delle strade di Gaza… quando esisteva ancora: forse per non offuscare la bellezza della copia si è operato in modo da cancellare l’originale.

In questa tassonomia non poteva mancare la supponenza bonapartista della reinterpretazione in chiave orientalista della cultura dei popoli attraversati dalle armate francesi:

«Dare un nome alle piante significa non soltanto appropriarsene, ma cancellare completamente una storia. È la storia all’interno di un preciso ecosistema che viene resa invisibile, anche attraverso il “nominare”. E assieme a questo battesimo non richiesto ci son le ramificazioni scientifiche, mediche, culturali».

Le stesse usate da Bonaparte: è la cancellazione degli eventi precedenti all’arrivo del colonizzatore, in modo da restituire una verginità culturale su cui imbastire una narrazione occidentale che faccia sue le risorse altrui. Il pessimo ultimo colonialismo italiano si insediò con le scuole di agraria. Sempre meglio che esternalizzare lager in Albania.

Quel treno per Yunnan

E questo “orientalismo” ci consente di salire insieme a Emanuele Giordana sul Cina-Laos Express, senza provare l’ebbrezza del viaggio verso le terre evocate dall’Orient Express.

Mappa di Andrea Bruno

L’estensore aveva accennato a questo percorso già in un intervento radiofonico (dal minuto 45 di questo podcast) in cui illustrava con evidente ammirazione il percorso ferroviario che porta da Kunming nello Yunnan cinese a Singapore, attraverso Vientiane. Un ramo di quella rete di trasporti che i cinesi hanno inserito nella Belt Road Initiative per omogeneizzare e far crescere l’Asean, aggirando il chockpoint potenziale dello Stretto di Malacca:

“Il mattatoio birmano dopo 2 anni: dati, analisi, prospettive allargate all’Asean”.

Subito il pezzo di Emanuele Giordana si dipana dalla capitale del Laos, ma anche sollevando il velo del tempo sulla prima esperienza degli anni Settanta: facile il confronto… anche perché allora persino la Thailandia era coinvolta dagli Yankee nella guerra al Vietnam. Gli spostamenti e l’attraversamento come sempre relativi alla situazione epocale si alternano nel racconto che è sempre avventura: in questo caso si trascorre da ricordi “stupefacenti” di rivoluzioni e sostanze, monaci e Ak-47, bombe e principi rossi, a taxi carissimi e le difficoltà a muoversi autonomamente; cimeli museali di chemins de fer e “scommesse” (arriveremo a Boten in una delle tappe del treno: «centro del gioco d’azzardo con annessi e connessi») cinesi sul futuro avamposto laotiano, trascorrendo dal periodo coloniale classico al neocolonialismo, attraversando nuvole di oppio che escono dal treno su cui risaliamo a Vang Vieng, dopo una pausa narrativa tutta da godere nel Triangolo d’oro, di cui ancora vagheggiamo in certi articoli. Adesso i divertimenti sono equiparabili a divertifici economici a basso contenuto culturale e infima attenzione ecologica… ma si può proseguire alla tappa successiva Luang Prabang; ma soprattutto il viaggio racconta tante verità sul paese e sulla condizione dei laotiani (e forse di un po’ tutto il Sudest asiatico), che il testimone rileva da par suo: infrastrutture cinesi e platea di consumatori laotiani; appaltatori e tecnologie… ovvero il Bignami della Bri fatto tratta ferroviaria… con tutto il contorno di affari e presenza cinesi.

Illustrazione di Andrea Bruno

E allora si coglie la politica della rieducazione dell’intera area effettuata da Pechino alla propria cultura, alla propria lingua; e il treno – lo insegna il vecchio West e Sam Peckimpah – è fattore unificante e ficcante, utile per diffondere idee e modi di vita ad “alta velocità”.

E così arriviamo a Boten: come Oudom Xai è l’ombelico del mondo ferroviario, così Boten è la fenice locale che risorge sempre dalle sue ceneri… però solo il ricordo del viaggiatore, che negli ultimi decenni è transitato di qui periodicamente, può restituire l’evoluzione del territorio. E Boten è di nuovo un fulgido modello di molte città sul confine di stati, dove è concesso ciò che altrove non si può fare. E intanto il Laos muta la sua natura: ambiziosi progetti cinesi visti dal finestrino tolgono spazio al Laos agricolo e rurale… ma queste lampisterie non sono che alcuni passaggi di un racconto preciso e a tutto tondo dell’evoluzione del paese ai lati della ferrovia… che i cinesi vorrebbero portare fino a Bangkok, e infatti i tailandesi temono il progetto, perché con il treno si estende l’influenza di Pechino.

Ma questa è un’altra storia e vedremo di raccontarla sia con “Lettera22” che nei libri di “OGzero”

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Niger: la diplomazia al lavoro, mentre Niamey tace https://ogzero.org/niger-la-diplomazia-al-lavoro-mentre-niamey-tace/ Sat, 02 Sep 2023 22:17:57 +0000 https://ogzero.org/?p=11535 Niger, un aggiornamento: la diplomazia al lavoro, mentre Niamey tace. Nelle ultime ore si sono accavallate numerose proposte di transizione rivolte al regime di Tchiani,. Un’azione diplomatica che, inoltre, ha il significato di scongiurare un intervento armato nel paese che infiammerebbe tutta l’Africa Occidentale. Di questo ne sono consapevoli sia i leader africani sia i […]

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Niger, un aggiornamento: la diplomazia al lavoro, mentre Niamey tace. Nelle ultime ore si sono accavallate numerose proposte di transizione rivolte al regime di Tchiani,. Un’azione diplomatica che, inoltre, ha il significato di scongiurare un intervento armato nel paese che infiammerebbe tutta l’Africa Occidentale. Di questo ne sono consapevoli sia i leader africani sia i ministri degli Esteri dell’Unione europea che, infatti, invocano prudenza. Ma le proposte di transizione, formulate da Algeria e Nigeria, per ora rimangono lettera morta e quella nigeriana viene bollata dalla Comunità economica degli Stati dell’Africa Occidentale (Ecowas) come una fake news. Ecowas, infatti, ribadisce, che la soluzione è il ripristino dell’ordine costituzionale e la reintegrazione del deposto presidente Mohamed Bazoum, che diventa una figura simbolica, insieme all’ambasciatore francese: due paradigmi del sistema coloniale utili per aizzare contro la percezione di ogni grandeur (e saccheggio) francese. Poi è facile su questa ondata antifrancese trovare le corde giuste per rovesciare  gli amici dei francesi, ma una volta giunti al potere – a parte resistere alla stigmatizzazione internazionale – non ci sono piani per gestirlo al meglio. Si direbbe non sia chiaro in che direzione andare una volta rimossi i fantocci di poteri altri e le mosse per fare gli interessi della popolazione civile non siano state insegnate nelle scuole militari frequentate dai golpisti.


La proposta nigeriana

Il presidente nigeriano Bola Tinubu, che è anche l’attuale presidente dell’Ecowas, giovedì ha citato come esempio la transizione di nove mesi avvenuta nel suo paese nel 1999. «Il presidente non vede alcun motivo per cui ciò non possa accadere di nuovo in Niger, se le autorità militari sono sincere», si legge in un comunicato della presidenza nigeriana. Più che una proposta è un suggerimento e Tinubu l’avrebbe espresso ricevendo presso la State House di Abuja (capitale della Nigeria) una delegazione guidata dal sultano di Sokoto, Muhammad Sa’ad Abubakar III, personalità molto influente anche in Niger. «Il presidente Tinubu ha osservato che la Nigeria, sotto il generale Abdulsalami Abubakar, ha istituito un programma di transizione di nove mesi nel 1998, che si è rivelato un grande successo, portando il paese in una nuova era di governo democratico», si legge nella nota emessa dalla presidenza nigeriana al termine dell’incontro. Un suggerimento, quindi, non una proposta ufficiale da parte dell’Ecowas che comunque ha tenuto a chiarire la sua posizione, definendola una fake news e comunque non una posizione dell’organizzazione sovranazionale africana anche se Tinubu ne è il presidente di turno.

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La proposta algerina

All’inizio della settimana, l’Algeria, un altro influente vicino del Niger, è stata ancora più specifica nell’offrire al regime militare un “piano di transizione di sei mesi” sotto la supervisione di una “autorità civile”. Per il momento, i generali al potere a Niamey non hanno reagito a queste proposte e il loro unico intervento sull’argomento risale al 19 agosto, quando il nuovo uomo forte del paese, il generale Abdourahamane Tchiani, aveva indicato di volere una transizione da tre anni al massimo. Molti giudicano poco credibile, o troppo lungo, questo periodo di transizione e, dopo i colpi di stato in Mali e Burkina Faso, ma anche in Guinea, le transizioni annunciate, per arrivare a nuove elezioni e il ripristino di un governo democraticamente eletto si sono allungate nel tempo, allontanando il ritorno dell’ordine democratico.

Ultimatum e tensioni diplomatiche

Resta, poi, alta la tensione anche tra il regime di Nimaey e la Francia, ex potenza coloniale e partner del Niger soprattutto nella lotta antijihadista e con numerosi interessi economici nel paese. Le autorità hanno revocato l’immunità e il visto diplomatico all’ambasciatore francese e hanno annunciato l’intenzione di espellerlo in una lettera inviata martedì a Parigi. Venerdì scorso avevano inizialmente concesso 48 ore a Sylvain Itté per lasciare il territorio, ultimatum respinto da Parigi che ritiene questo governo illegittimo e quindi non ha l’autorità per fondare una simile richiesta. E la giunta militare sta facendo molta pressione sull’ambasciata, tanto che, secondo testimonianze raccolte sul luogo, le auto in uscita dall’ambasciata francese sono state perquisite sistematicamente dalla polizia. Un altro ultimatum potrebbe scadere nel finesettimana. Le autorità militari hanno minacciato di accompagnare l’ambasciatore in maniera coatta fuori dal paese.

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La piazza si muove

La tensione cresce anche nelle piazze. L’M62, una coalizione della società civile contraria alla presenza militare francese, ha lanciato un appello per un “sit-in popolare” nel centro di Niamey, già a partire da ieri e per tutto il finesettimana, per chiedere la “partenza delle forze francesi”. Un’altra organizzazione della società civile, il Fronte patriottico per la Sovranità del Niger (Fpsn), dal canto suo ha chiesto un “sit in permanente” da oggi “fino alla partenza di tutti i soldati francesi”. La presenza militare francese in Niger, infatti, è massiccia: 1500 militari, oltre a mezzi e intelligence. Senza contare la presenza americana e italiana, che vanno ad aggiungersi al contingente militare che ha come missione il contrasto al jihadismo e alla tratta di essere umani, per fermare le migrazioni verso il Mediterraneo. Da diversi anni il Niger si trova ad affrontare una violenza jihadista mortale che colpisce la parte sudoccidentale del paese, ai confini del Burkina Faso e del Mali – la cosiddetta area dei Tre Confini – e la sua parte sudorientale vicino al bacino del Lago Ciad e al confine con la Nigeria.

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Attività sospese e diplomazia al lavoro

Infine, le autorità hanno annunciato la sospensione delle attività delle Ong, delle organizzazioni internazionali e delle agenzie delle Nazioni Unite nelle aree delle operazioni militari «a causa dell’attuale situazione di sicurezza». Le zone interessate non sono state specificate, ma secondo l’ufficio locale dell’agenzia umanitaria dell’Onu (Ocha), sarebbero prese di mira le località attorno a Banibangou, Sanam, Anzourou e Bankilaré, tutte situate nella regione di Tillabéri (Sud-ovest), a causa la «recrudescenza della presenza e delle attività» dei gruppi jihadisti. Le Nazioni Unite hanno annunciato di voler contattare i militari dopo questa decisione per «comprendere meglio cosa significa e quali sono le conseguenze per l’attività umanitaria».

Insomma permane una situazione di stallo. Ma le diplomazie sono continuamente al lavoro per scongiurare ogni possibile innalzamento della tensione che potrebbe portare a un intervento armato che infiammerebbe tutta l’Africa occidentale, e non solo, e in prima linea su questo fronte diplomatico c’è la nuova ambasciatrice americana a Niamey che, pur non presentando le sue credenziali alla giunta perché Washington non la riconosce, ha presso possesso della rappresentanza diplomatica.

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L’ancora irrisolto colpo di stato in Niger https://ogzero.org/lancora-irrisolto-colpo-di-stato-in-niger/ Sun, 30 Jul 2023 22:51:19 +0000 https://ogzero.org/?p=11387 Intanto i differenti militari hanno sollevato il presidente, il potere però sembra sia gestito da svariati uomini forti a cominciare dal capo della Guardia presidenziale Tchiani e ora sembrano essere in attesa di capire in che modo schierarsi nelle relazioni internazionali; come se fossero sulla piazza, al miglior offerente… ma probabilmente divisi tra diverse forze […]

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Intanto i differenti militari hanno sollevato il presidente, il potere però sembra sia gestito da svariati uomini forti a cominciare dal capo della Guardia presidenziale Tchiani e ora sembrano essere in attesa di capire in che modo schierarsi nelle relazioni internazionali; come se fossero sulla piazza, al miglior offerente… ma probabilmente divisi tra diverse forze armate e le differenti “scuole d’armi” frequentate. Forse Bazoum aveva dato l’impressione di non voler mettere in discussione minimamente lo schieramento con la parte dell’Occidente e quindi il rischio per chi intendeva omogeneizzare le scelte antiatlantiste del resto del Sahel era quello di essere esautorati dagli incarichi autorevoli che ricoprivano. Forse ha prevalso l’idea che nel gran rivolgimento dell’intero continente risultasse perdente per la nazione non operare alcun cambiamento. Forse il timore che si mancasse anche stavolta la partecipazione all’ondata di rigetto antifrancese (molto popolare presso i giovani potrebbe aver spinto alla rimozione dell’ostacolo presidenziale… di certo l’incertezza sulla affidabilità e collocazione di uno stato chiave, l’ultimo nel Sahel ancora sotto l’egida di una Francia affamata di uranio, produce fibrillazioni in seno all’intera comunità internazionale, motivo per cui – al contrario del solito – abbiamo pensato fosse il caso di occuparsene quando ancora non si è depositato il polverone di ipotesi suscitate dal golpe. … Intanto Parigi ha dichiarato che – rispetto agli altri paesi sahelini (che non sono cassaforte di uranio) – da Niamey sarà più difficile cacciarli, però il governo golpista ha sospeso le forniture di oro e uranio alla Francia. E comunque sul territorio c’è il più grosso contingente americano in Africa e gli addestratori italiani (più di 300 giovani e forti, 13 mezzi terrestri e 5 aerei, inquadrati nella Misin che opera agli ordini del Comando operativo di vertice interforze (Covi), guidato dal generale di Corpo d’armata Francesco Paolo Figliuolo, sempre lui). Il blocco dell’Africa occidentale riunito a Abuja (Cedeao), ha dichiarato la sospensione delle relazioni con il Niger autorizzando l’uso della forza se il presidente non verrà reintegrato entro una settimana: l’emissario del messaggio è il non-allineato Déby (in carica dinasticamente per volontà dell’Eliseo), un pessimo segnale in una fase di rivolgimento totale, che la paura dell’epidemia si diffonda in tutta l’Africa occidentale, mettendo le premesse perché divampi una guerra estesa, concede pericolosi spazi per una nuova guerra per procura in terra africana.
Angelo Ferrari affronta l’evento cercando di districarsi tra le notizie ancora contraddittorie, analizzandole per capire almeno le intenzioni di ciascun protagonista, in primis i generali nigerini, ma poi anche le diplomazie mondiali e la manipolazione mediatica delle piazze locali, lasciando solo trapelare il malcontento giovanile
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Sbalorditivi risultati dopo il vertice di San Pietroburgo?

Una vicenda ancora dai contorni pochi chiari – non potevano mancare le affermazioni del capo dei mercenari della Wagner che ha applaudito alla presa di potere dei militari. Parole piene di retorica anticoloniale:

«Quello che è successo in Niger non è altro che la lotta del popolo nigerino contro i colonizzatori che stanno cercando di imporre loro le loro regole di vita”, ha detto Evgenij Prigožin in un messaggio a lui attribuito.

Parole che fanno intendere che la Wagner, qualora i golpisti lo volessero, è pronta a entrare nello scenario nigerino con un ruolo di primo piano. Non ci sono, per ora, segnali che dietro il golpe ci siano gli uomini della Wagner. Se fosse così sarebbe un doppio schiaffo per l’occidente che, è bene dirlo, si è fatto sorprendere proprio nell’ultima roccaforte della lotta antijihadista dopo l’uscita di scena dal Mali e dal Burkina Faso. Le domande sono molte.

 

La prima: come è stato possibile che nessuna cancelleria occidentale avesse avuto un sentore di ciò che sarebbe potuto accadere?

Non c’è una risposta e se c’è nessuno la vuole dare, forse perché sarebbe troppo imbarazzante. Sta di fatto che in Niger sono presenti migliaia di militari stranieri: 1500 francesi, più di mille americani e oltre trecento italiani, oltre ai mezzi militari, molti di questi di stanza a Niamey, la capitale. Di certo, nei prossimi giorni si chiariranno molte cose. Secondo i francesi il colpo di stato “non è definitivo”. Il presidente Emmanuel Macron ha parlato in più occasioni con il suo omologo destituito, Mohamed Bazoum. Forse da queste telefonate deduce che ci sia ancora uno spiraglio di trattativa tra il capo di stato democraticamente eletto e i golpisti che, intanto, hanno messo a guida del paese il capo della guardia presidenziale, il generale Abdourahamane Tchiani, in qualità di “presidente del Consiglio nazionale per la salvaguardia della patria”, la giunta che ha rovesciato il presidente eletto. Il capo della guardia presidenziale, il generale Tchiani, nuovo uomo forte del Niger, ha giustificato il golpe con “il deterioramento della situazione della sicurezza” nel paese minato dalla violenza dei gruppi jihadisti. Il presidente Bazoum, a detta sua, voleva far credere che “va tutto bene”, mentre c’è

«la dura realtà con la sua quota di morti, sfollati, umiliazioni e frustrazioni». Secondo Tchiani «l’attuale approccio di sicurezza non ha permesso di mettere in sicurezza il paese nonostante i pesanti sacrifici compiuti dai nigerini e l’apprezzabile e apprezzato supporto dei nostri partner esterni».

Rassicurazioni da militare

A ogni insorgenza si sentono sempre queste parole. Sono una consuetudine vissuta anche in altri scenari del Sahel: il Mali e il Burkina Faso, paesi governati da giunte militari frutto di 4 colpi di stato. Tutte le giunte militari, inoltre, si affrettano a sostenere che gli impegni presi dal paese non cambieranno e verranno rispettati. Un tentativo di rassicurare gli alleati, ed è capitato anche in Niger, per poi fare retromarce clamorose. In Mali – la nuova Costituzione stabilisce che il francese non è più la lingua ufficiale – come in Burkina Faso, hanno “cacciato” la Francia per mettersi totalmente nelle mani della Russia, affidandosi alla Compagnia Wagner per la lotta ai gruppi jihadisti che imperversano nel Sahel. Hanno preoccupato le manifestazioni, a Niamey, a sostegno dei golpisti, con la gente che sventolava le bandiere russe, per altro subito disperse dalla giunta miliare. I timori, dunque, delle cancellerie occidentali sono più che fondati. E la “guerra economica e diplomatica” tra Ovest ed Est del mondo sembra proprio essersi trasferita in Africa. I segnali ci sono tutti.

Il Sahel ha sancito la fine di un’epoca?

Dopo il Mali e il Burkina Faso, dunque, anche il Niger è caduto sotto il controllo di un regime militare che potrebbe sconvolgere la lotta contro i gruppi armati jihadisti nel Sahel. Di fronte all’avanzata dei terroristi, le giunte militari hanno preso il sopravvento su democrazie ritenute inefficienti e corrotte da parte delle popolazioni saheliane. I militari che hanno, infatti, preso il potere in Niger hanno già annunciato un nuovo orientamento strategico.

«L’attuale approccio non ha permesso di mettere in sicurezza il Paese nonostante i pesanti sacrifici compiuti dai nigerini», ha detto il generale Tchiani.

Il Niger e il suo presidente, eletto democraticamente, erano i principali alleati dei paesi occidentali nel Sahel travolto dalla violenza jihadista e da un’ondata di autoritarismo venato di sovranità russofila. Bamako si è rivolto ai mercenari della Wagner per far fronte ai gruppi jihadisti, provocando la partenza delle truppe francesi nel 2022. Le autorità di Ouagadougou, capitale del Burkina Faso, hanno optato per la mobilitazione di cittadini armati e hanno chiesto il ritiro delle forze speciali francesi nel paese, non senza l’appoggio della Wagner. Il presidente nigerino, invece, aveva scelto di mantenere sul suo territorio la presenza di soldati francesi, americani e italiani, temendo di essere coinvolto nel divorzio tra l’occidente e le giunte saheliane.
Queste giunte «tendono naturalmente ad addossare la responsabilità del deterioramento della sicurezza agli alleati dei regimi che hanno rovesciato. Questi colpi di stato sono sostenuti da una parte della popolazione che ha già mostrato un atteggiamento ostile nei confronti dei francesi o degli occidentali presenti nel Sahel», spiega Ibrahim Yahaya Ibrahim, ricercatore dell’International Crisis Group.
Fin dal suo primo intervento, il generale Tchiani ha preferito rivolgersi ai suoi omologhi saheliani, interrogandosi «sul senso e sulla portata di un approccio securitario alla lotta al terrorismo che escluda ogni reale collaborazione con Burkina Faso e Mali» nell’area nota come i tre confini.

L’auspicata cooperazione tra sahelini… ma antifrancese

A causa delle tensioni diplomatiche, i militari nigerini e francesi non hanno potuto operare liberamente contro le basi dello Stato Islamico dall’altra parte del confine con il Mali, dove l’organizzazione compie attacchi sul territorio nigerino. Questa crisi non potrebbe essere risolta senza la cooperazione con il Mali, secondo il generale Tchiani. Insomma, è facile prevedere che vi sia un “miglioramento” delle relazioni e una maggiore cooperazione tra i paesi vicini.
Dal lato dei partner occidentali le prospettive sono più fosche: l’Unione europea ha annunciato la sospensione di tutti gli aiuti di bilancio e le azioni di cooperazione nel campo della sicurezza. Le sanzioni internazionali potrebbero colpire il regime come nel vicino Mali. Una possibile partenza delle forze francesi, americane e italiane lascerebbe un vuoto in una regione particolarmente travagliata, secondo gli analisti.
Il Niger confina con il caos libico, la Nigeria con Boko Haram e Iswap, il nord del Benin molto colpito dal jihadismo e ovviamente Mali e Burkina Faso.

Niamey era un polo di stabilità nonostante i problemi di sicurezza sul territorio.

Il Niger sta vivendo un afflusso di rifugiati dal Mali e dalla Nigeria in preda alla violenza, stimato in 255.000 nel 2022 dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Unchr). Bazoum incarnava un modello di cooperazione in materia di sicurezza per le democrazie occidentali e i loro donatori. Il mantra del presidente nigerino era la “stabilizzazione” delle comunità prese di mira dal reclutamento jihadista e la reintegrazione dei loro combattenti, soprattutto i giovani. Il governo di Niamey stava attuando programmi in gran parte finanziati da partner internazionali, il cui futuro è ora sospeso. Contrariamente al potere civile che ha accettato di dialogare con alcuni leader di gruppi armati, il generale Tchiani ha denunciato nel suo discorso di “insediamento” la “liberazione extragiudiziale” di “capi terroristi” da parte del regime di Mohamed Bazoum. In Mali e Burkina Faso i militari al potere hanno optato per una strategia ultraoffensiva contro i gruppi jihadisti, viziata da accuse di abusi ricorrenti contro la popolazione. E a pagarne il maggior peso sono i civili.

Recrudescenza jihadista

Una strategia che contribuisce alla destabilizzazione e può alimentare tensioni intercomunitarie e intracomunitarie. Un approccio, inoltre, che non ha avuto l’esito sperato. Gli attacchi jihadisti in questa regione, ma anche nell’Africa occidentale, si sono moltiplicati. Solo nei primi sei mesi del 2023 si sono registrati più di 1800 attacchi di matrice terroristica, nei quali hanno perso la vita quasi 4600 persone e che hanno avuto conseguenze umanitarie disastrose. A riferirlo è Omar Touray, presidente della Commissione della Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale (Ecowas) intervenendo al Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite. Delle circa 4600 persone uccise in questi attacchi terroristici tra gennaio e la fine di giugno, 2725 morti sono avvenute in Burkina Faso, 844 in Mali, 77 in Niger e 70 in Nigeria. Touray ha citato anche il Benin e il Togo, due paesi della subregione storicamente risparmiati dagli attacchi terroristici ma che oggi vivono, invece, grandi preoccupazioni per la sicurezza. Questi paesi sono stati presi di mira, di recente, da una serie di attacchi, che Touray ha descritto come

«un’indicazione lampante della diffusione del terrorismo negli stati» del Golfo di Guinea, «una situazione che rappresenta un’ulteriore minaccia per la regione».

Touray ha detto anche che l’insicurezza continua a infliggere dolore e sofferenza a milioni di persone, con conseguenze di vasta portata: questi attacchi terroristici hanno provocato lo sfollamento di mezzo milione di rifugiati e quasi 6,2 milioni di sfollati interni. La Costa d’Avorio, solo per fare un esempio, ha già predisposto campi per l’accoglienza dei profughi provenienti dal Burkina Faso. Il numero di persone con necessità di sicurezza e assistenza, poi, salirà a 42 milioni «se non ci sarà un’adeguata risposta internazionale ai 30 milioni di persone attualmente bisognose di cibo».


I francesi e l’Occidente non si possono permettere di perdere il Niger: passa dalla soluzione di questa crisi il definitivo declino dell’Occidente, oppure la contrapposizione allo scacco del blocco antiatlantico… l’incrocio tra Sahel e l’area centrafricana è uno snodo essenziale, ben più critico del corridoio polacco verso Kaliningrad. E forse per evitare il contagio può essere un’interpretazione valida quella avanzata da Angelo Ferrari e Marco Trovato in un visdeo di “AfricaRivista”riguardo al successivo “golpe” con caratteristiche del tutto differenti che ha colpito il Gabon, stato quasi monarchico che la repubblica francese ha dato in affido alla famiglia Bongo da 57 anni e che avrebbe rischiato maggiormente se le sommosse per il malcontento nei confronti della cleptocrazia non fossero venute dalla guardia presidenziale, ma dai cittadini ridotti in miseria dal sistema neocoloniale – e c’erano tutti i prodromi di una reazione violenta ai brogli delle elezioni tenutesi senza internet funzionante e in stato di emergenza, senza osservatori. Invece Brice Clotaire Oligui Nguema, nuovo uomo forte – senza bandiere russe o stemmi con il teschio della fantasmatica Wagner – ha assegnato ad Ali Bongo Ondimba quella retraite per la difesa della quale i cittadini francesi sono scesi nelle piazze per mesi. Ma qui non siamo in Sahel, non si è ancora affacciato il pericolo jihadista, la Francia non si può permettere di perdere un alleato così fedele.

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Africa Day: le sfide anticoloniali sono sempre attuali https://ogzero.org/africa-day-le-sfide-anticoloniali-sono-sempre-attuali/ Thu, 25 May 2023 21:40:42 +0000 https://ogzero.org/?p=11124 Se il buongiorno dell’Africa Day si vede dal mattino, lo schianto del Freetown Cotton Tree, albero simbolo della libertà dallo schiavismo, proprio quando sta per sorgere l’alba del sessantesimo anno dell’Unione Africana non è di buon auspicio… e si va ad aggiungere ai molti conflitti sparsi un po’ in ogni area continentale. Eppure l’Africa è […]

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Se il buongiorno dell’Africa Day si vede dal mattino, lo schianto del Freetown Cotton Tree, albero simbolo della libertà dallo schiavismo, proprio quando sta per sorgere l’alba del sessantesimo anno dell’Unione Africana non è di buon auspicio… e si va ad aggiungere ai molti conflitti sparsi un po’ in ogni area continentale.
Eppure l’Africa è al centro di ogni affare (Descalzi incontra Nguesso per inaugurare il “Congo Lng”), interesse (Kuleba incontra i leader dell’UA in vista di mediazione sulla guerra), ricchezza (Tshisekedi – nato nel 1963, come l’UA – si accorda sul cobalto con Xi)… queste solo alcune delle notizie odierne. In Ghana Gold Fields e AngloGold Ashanti si uniscono per creare la più grande miniera d’oro africana e contemporaneamente un tornado sradica l’albero della libertà… ci sarà una qualche correlazione?


Dopo il colonialismo… 60 anni di neocolonialismo

Le celebrazioni, in Africa, hanno sempre un valore simbolico. Ricche di retorica ma anche di auspici. Appartengono alla vita delle comunità e degli stati. Anche in questo giorno, in cui si celebra l’Africa Day, il continente si è mobilitato.
Oggi si ricordava la fondazione dell’Organizzazione dell’Unità africana (Oua), che avvenne il 25 maggio del 1963, sessant’anni fa. In alcuni paesi prende il sopravvento la retorica condita di anticolonialismo. In altri, invece, si guarda al futuro e alle sfide, che retoriche non sono, che attendono un continente provato dalla pandemia di Covid, dall’inflazione dei prezzi dei generi energetici e, soprattutto, alimentari dovuto alla situazione economica globale aggravata dalla guerra in Ucraina.

Le sfide del continente

Ma sono anche altre le sfide. Il terrorismo, per esempio, e tutt’altro che sconfitto anzi, dilaga in molti paesi come il Mali, Il Burkina Faso, che sembrano essere incapaci di farvi fronte nonostante i paesi siano stati squassati da colpi di stato. Dall’arrivo dei militari al potere la situazione, se possibile, si è ancora aggravata e nulla ha potuto la retorica anticoloniale, in particolare il sentimento antifrancese che pervade le popolazioni di questi due paesi, ma anche la simpatia, che è diventata rapporto strutturale con la Russia, che fornisce armi e mercenari della Compagnia Wagner. Tutto il Sahel è pervaso da una ondata jihadista senza precedenti, con le cancellerie internazionali preoccupate per la possibile saldatura con le organizzazioni criminali internazionali.  Cancellerie che, tuttavia, non sono state in grado di risolvere il problema perché hanno privilegiato l’intervento securitario – necessario – alla cooperazione allo sviluppo. Il terrorismo nel Sahel, così come in Somalia, si alimenta della povertà dilagante, dell’incapacità degli stati di far fronte ai bisogni della popolazione. Verrebbe da dire che l’arma più efficace per combattere i terroristi sarebbe mettere in campo riforme economiche e un welfare state degno di questo nome, così da togliere da sotto i piedi dei terroristi il loro terreno privilegiato, cioè la povertà. Lavoro non da poco.
Ma sono molte altre le sfide che attendono il continente, soprattutto economiche. L’intera Africa deve avere come faro la diversificazione economica, non può affidarsi, solo, alle materie prime, pur preziose per avere le risorse per creare un tessuto industriale manifatturiero. Significativo da questo punto di vista lo sbilanciamento delle relazioni con la Cina, il primo partner commerciale del continente. Nei primi quattro mesi del 2023 le esportazioni cinesi verso i paesi africani sono cresciute del 26,9%, mentre quelle dell’Africa verso la Cina sono diminuite dell’11,8%. Uno squilibrio evidente, aggravato dal fatto che Pechino esporta in Africa prodotti finiti – tessile, abbigliamento, macchinari, elettronica – mentre le esportazioni africane verso la Cina sono dominate da materie prime come petrolio greggio, rame, cobalto e minerale di ferro, di cui il Dragone ha estremamente bisogno. Proprio per queste ragioni il continente deve lavorare con più determinazione per la costruzione di un tessuto produttivo manifatturiero.
Questa, inoltre, è la grande sfida che attende l’Area di libero scambio continentale africana (Afcta) – entrata in vigore nel gennaio del 2021 – un mercato di 1,2 miliardi di persone e di un Pil combinato di circa 3,4 trilioni di dollari. Un’area commerciale che stenta a decollare per la mancanza di infrastrutture sicure, capaci di collegare gli stati ma soprattutto per la risibilità della manifattura africana. Tra i paesi del continente non possono circolare, solo, le materie prime, queste se le accaparrano le multinazionali e portano beneficio a pochi. L’Africa vive un paradosso: è ricca di risorse, ma, per fare un esempio, i due colossi nella produzione di petrolio in Africa subsahariana – Angola e Nigeria – importano circa l’80% del loro fabbisogno in carburante. Da non trascurare che le materie prime sono soggette alle oscillazioni dei mercati internazionali.
Altra sfida è quella dell’energia elettrica. Ancora nel 2023 milioni di africani rimangono al buio, e anche questo è un paradosso viste le potenzialità del continente: solare, idroelettrico, geotermico, eolico, energie pulite come l’idrogeno verde. Mettere a sistema tutto ciò darebbe un impulso al mercato unico e quindi a uno sviluppo sostenibile ma, soprattutto durabile.  Questione che solo un’organizzazione sovranazionale, come l’Unione Africana, può affrontare.

Oligarchie dinastiche senza fine…

Poi ci sono questioni puramente politiche. Lasciamo da parte i presidenti africani che durano in eterno senza produrre benefici per le popolazioni ma solo animati da bulimia di potere e, spesso, sostenuti dallo stesso occidente così attento allo stato di diritto. Il punto, per rimanere alle celebrazioni di oggi, sarebbe l’attribuzione di un ruolo da pari nei consessi internazionali all’Unione africana.

vs un seggio permanente all’Onu

Un’ipotesi che si sta materializzando e potrebbe diventare concreta: un seggio, per così dire, permanente, non solo da osservatore, come spesso è capitato nei vari G20 o G7 che siano, dove di volta in volta, veniva invitato qualche presidente africano o gli stessi esponenti dell’Unione africana. Così come soddisfare la richiesta dell’Unione africana di occupare un seggio permanente al Consiglio di sicurezza dell’Onu. Formalizzare e concretizzare una presenza “permanente” avrebbe il significato di trasformare il continente africano in potenza che decide, non più, dunque, con un ruolo subalterno che ogni volta negozia con questo o quello stato occidentale, ma protagonista del proprio futuro di fronte alle potenze internazionali. Tutto ciò sarebbe un cambio di paradigma perché porterebbe l’Africa a discutere, da pari, del proprio sviluppo sia economico sia politico e sociale, con l’occidente sviluppato.

Non è una cosa qualunque, sarebbe epocale.


Come epocale è l’espianto del Freetown Cotton Tree in questa data simbolica

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Dopo le strade “gli” vogliamo fare anche le dighe https://ogzero.org/dopo-le-strade-gli-vogliamo-fare-anche-le-dighe/ Fri, 17 Mar 2023 23:47:46 +0000 https://ogzero.org/?p=10496 Il secondo habitat più grande per i coccodrilli in Africa si è quasi completamente prosciugato in seguito al fallimento, negli ultimi anni, delle stagioni delle piogge. Si tratta del lago Kamnarok, nella Rift Valley del Kenya, che un tempo ospitava 10.000 coccodrilli, secondo per capacità di contenimento al lago Ciad. Un residente della zona ha […]

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Il secondo habitat più grande per i coccodrilli in Africa si è quasi completamente prosciugato in seguito al fallimento, negli ultimi anni, delle stagioni delle piogge. Si tratta del lago Kamnarok, nella Rift Valley del Kenya, che un tempo ospitava 10.000 coccodrilli, secondo per capacità di contenimento al lago Ciad. Un residente della zona ha dichiarato alla stazione televisiva Ntv che numerose sono le carcasse di coccodrillo visibili nel bacino del lago. Il lago si è ridotto nel corso degli anni a causa dei cambiamenti climatici. Inoltre, secondo i rapporti locali, ha scaricato le sue acque in un fiume vicino attraverso una fessura naturale (“AfricaRivista”).
Poco prima delle elezioni di agosto l’allora candidato William Ruto lamentava che le dighe di Kimwarer e di Arror fossero state cancellate per «punire i miei sostenitori». Il blocco della costruzione era stato adottato per reati di frode, violazioni delle procedure amministrative sugli appalti, corruzione dalla procura generale del Kenya; Ruto era stato coinvolto in diversi scandali keniani per corruzione, furto di terra e persino un omicidio. A commettere i reati sarebbero stati pubblici ufficiali del Kenya e il consorzio di aziende italiane a cui sono stati assegnati i lavori di costruzione: una joint venture tra la Cooperativa Muratori e Cementisti (CMC) di Ravenna e Itinera, società del Gruppo Gavio. Colonialmente gli stessi protagonisti della costruzione della linea ferroviaria per il Tav in Val di Susa.

«A cinque anni dall’inizio dei lavori di Kimwarer e Arror, i misteri intorno a quanto sia davvero successo ai circa 500 milioni di euro destinati alle dighe invece che diradarsi si sono sempre più infittiti». (Irpimedia)

Ora Ruto è presidente e quindi le dighe possono tornare a ergersi sulla valle del Kerio (lungo la faglia della Rift Valley anche questa), percorsa da bande armate che hanno provocato 150 morti solo nel 2022 per il controllo della zona molto ricca di acqua pascoli e terreni fertili. Ma priva di infrastrutture. Ruto, da delfino di Kenyatta, era caduto in disgrazia proprio in seguito all’inchiesta sulle dighe.

Sergio Mattarella è arrivato a Nairobi il 13 marzo in pompa magna con staff quirinalizio, consiglieri e il viceministro degli Esteri con delega all’Africa, Sua Eccellenza il vicerè Edmondo Cirielli (fratello d’Italia), rimanendo in Kenya per 3 giorni (Africarivista). Tra le altre cose è stato firmato un nuovo accordo di cooperazione da 100 milioni di euro, tra crediti e doni, in un piano di programmazione triennale… ecco: con Gianni Sartori vediamo qualche “dono” di questi Re Magi.


Estinguiamoli a casa loro, ma in nome dello Sviluppo

Sinceramente non ho compreso l’entusiasmo con cui alcune riviste e associazioni che si occupano dell’Africa con – diciamo così – “benevolenza” (se poi sia “carità pelosa” o neocolonialismo ricoperto da buonismo non spetta a me stabilirlo) hanno celebrato la recente visita di Mattarella in Kenya. Dove ha confermato e sottoscritto la ripresa dei lavori per la costruzione di alcune grandi dighe nella Kerio Valley (provincia del Rift): Arror, Itare e Kimwarer. La realizzazione di quest’ultima era stata interrotta da un’indagine che l’aveva ritenuta «tecnicamente e finanziariamente irrealizzabile».

Almeno ufficialmente, ma si era parlato anche di mancanza di trasparenza e altre irregolarità. Tanto che erano stati avviati alcuni procedimenti giudiziari per «frode, violazioni delle procedure amministrative sugli appalti, corruzione» nei confronti di pubblici ufficiali del Kenya. Coinvolgendo più o meno indirettamente il consorzio di aziende italiane interessate alla costruzione, una joint venture tra la Cooperativa Muratori e Cementisti di Ravenna (ops! Sarà mica quella del Dal Molin?) e Itinera, società del Gruppo Gavio (sempre quelli del Tav in Valsusa).
E in seguito anche la Sace (prendo nota: società assicurativo-finanziaria italiana specializzata nel sostegno alle imprese e al tessuto economico nazionale a sostegno supporto della competitività in Italia e nel mondo) e Banca Intesa Sanpaolo (intervenute per la copertura finanziaria).

La visita di Mattarella è stata l’occasione per il presidente del Kenya William Ruto di annunciare il superamento del contenzioso con Roma, lo sblocco e la ripresa della costruzione delle tre dighe sopracitate. Riconfermando (o forse rinegoziando) la partecipazione di aziende italiane con l’impegno finanziario della Sace e di banche italiane.


Nel comunicato di Ruto e Mattarella si afferma che «il governo keniano e italiano hanno concordato un nuovo processo per appianare le problematiche (…). Sospenderemo la questione giuridica e il governo italiano da parte sua ritirerà i casi di arbitrato, siamo d’accordo che ci sarà un nuovo inizio di questo progetto, urgente e prioritario, necessario, che darà acqua a molti paesi oltre al Kenya, oltre a Baringo e zone circostanti». Aggiungendo che «andremo poi avanti con l’avvio della costruzione nel giro di una manciata di mesi».

Eppure sui danni sociali e ambientali provocati dalle dighe in Africa in generale (e in Kenya e in Etiopia in particolare) non mancavano certo denunce ben documentate.
Anche recentemente (febbraio 2023) un rapporto (Dam and sugar plantations yield starvation and death in Ethiopia’s Lower Amo Valley) diffuso dall’Oakland Institute (attivo nella difesa delle popolazioni indigene), affrontava l’annosa questione dell’impatto negativo delle grandi opere (dighe in primis) sulle popolazioni indigene. Interventi come quello nella valle del fiume Omo in Etiopia. Con la diga Gilgel Gibe III (alta quasi 250 metri, costruita dalla Salini Impregilo – di nuovo protagonista nella impresa trentennale del Tav in Valsusa – e inaugurata nel 2016) ci si riprometteva di aumentare in maniera significativa sia la produzione di energia elettrica che di canna da zucchero. A spese soprattutto di Kwegu, Modi, Mursi e altre minoranze (o meglio: popolazioni minorizzate).
Ancora nel 2015 Survival International denunciava una possibile scomparsa dei Kwegu (ridotti alla fame e nella condizione di profughi interni), vuoi per il disastro socio-ambientale, vuoi per il prevedibile accaparramento di terre (“land grabbing”) nel bacino del fiume Omo. L’anno successivo era stata la sezione locale di SI (“Kenya Survival International) a rivolgersi direttamente all’Ocse per denunciare la Salini Impregilo S.p.a.

Tornando al Kenya, risale al 2017 l’allarme lanciato da Human Rights Watch (Hrw) per l’evidente abbassamento riscontrato nelle acque del lago Turkana. Con gli altrettanto evidenti pericoli sia per l’ecosistema che per la sopravvivenza della popolazione locale.
Una conseguenza (effetto collaterale?) appunto del contestato sistema di dighe Gilgel Gibe (Gibe I, Gibe II, Gibe III, già previste una Gibe IV e Gibe V).
Sgorgando a circa 2500 metri sull’altopiano etiopico, il fiume Omo percorre ben 760 chilometri (con un dislivello di 2000 metri) per poi sfociare nel lago Turkana in Kenya.
È notorio che il bacino dell’Omo con il Turkana rappresentano la principale fonte di vita per almeno 17 gruppi indigeni (oltre 260.000 persone) qui insediati da sempre. Ora con il faraonico sistema di dighe gran parte dell’acqua viene deviata altrove, sia per la produzione di energia elettrica che per irrigare le estese piantagioni a monocoltura (circa 450.000 ettari per ora).

Appare quantomeno contraddittorio, paradossale che le dighe di Arror, Itare e Kimwarer vengano realizzate da imprese italiane quando la carenza d’acqua in Kenya è anche una conseguenza della realizzazione di altre dighe, sempre per mano italica, in Etiopia.

Come sottolineava il compianto André Gorz (alias Gerhart Hirsch, alias Gerhart Horst…): «Il capitalismo cerca il rimedio ai problemi che ha creato, creandone di nuovi e peggiori» (cito a memoria).


A dimostrazione di questa chiosa di Gianni Sartori capita l’articolo con cui “Pagine esteri dà notizia di un rapporto (Northern Kenya Grassland Carbon Project) che di nuovo denuncia l’approccio coloniale di un progetto improntato al greenwashing a detrimento della popolazione del Nord del Kenya. Infatti il progetto gestito dall’organizzazione Northern Rangelands Trust (NRT) insiste su un territorio abitato da oltre 100.000 indigeni tra cui i Samburu, i Borana e i Rendille e prevede un riscontro di 300-500 milioni di dollari. Si tratta di un programma di crediti di carbonio, ottenuti anche da Meta e Netflix, basato sullo smantellamento dei sistemi di pascolo dei popoli indigeni, sostituiti da una sorta di allevamento su larga scala che, eliminando la pratica della migrazione durante la siccità, rischia di estinguere la pastorizia locale tradizionale.

Inoltre «la vendita di crediti di carbonio dalle Aree Protette potrebbe aumentare enormemente il finanziamento delle violazioni dei diritti umani dei popoli indigeni, senza per altro fare nulla per combattere i cambiamenti climatici»: già si hanno notizie di pastori uccisi dai guardaparco mentre portavano al pascolo i loro armenti.

 

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Western, merchandising e resistenza indiana https://ogzero.org/western-merchandising-e-resistenza-indiana/ Tue, 07 Mar 2023 15:23:50 +0000 https://ogzero.org/?p=10442 Da vecchi cinefili, un’attenzione quella per la pellicola imprescindibile per la nostra generazione, ci siamo appassionati innanzitutto alla ribellione inoculata dai film del regista indoamericano per eccellenza: Sam Peckimpah. Perciò non abbiamo saputo resistere alla proposta di Gianni Sartori. Fu efficace il contributo del cinema per liberare l’immaginario degli spettatori, soprattutto i boomer allora giovani, […]

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Da vecchi cinefili, un’attenzione quella per la pellicola imprescindibile per la nostra generazione, ci siamo appassionati innanzitutto alla ribellione inoculata dai film del regista indoamericano per eccellenza: Sam Peckimpah. Perciò non abbiamo saputo resistere alla proposta di Gianni Sartori. Fu efficace il contributo del cinema per liberare l’immaginario degli spettatori, soprattutto i boomer allora giovani, che cominciarono a occuparsi di emancipazioni di comunità represse, violate, estinte dall’Uomo bianco proprio con Leonard Peltier in carcere dal 6 febbraio 1976, accusato in modo palesemente falso di delitti attribuitigli dalla Fbi per il suo impegno nella liberazione del mondo dei nativi americani.


Preambolo cine-autobiografico

Risalenti a fine dei Sessanta e ai primi Settanta si sostanziano succulenti ricordi cinematografici, specchio della liberazione irripetuta di quegli anni. Oltre a qualche pellicola precedente, degli anni Cinquanta, vista da bambino nel cinema parrocchiale di Debba (tra cui Il massacro di Fort Apache – per Domenico Buffarini forse il primo esempio di una pellicola non apertamente razzista con i “pellerossa”). Successivamente, sempre in cinema parrocchiali – ma di Vicenza (Santa Chiara soprattutto) –, ci sono state altre visioni; al momento ne ricordo uno in particolare: E venne il giorno della vendetta che molti anni dopo avrei saputo ispirato dalla vicenda del “Chico” Sabaté. A cui fece seguito il corredo di cinema impegnato di tempi gravidi di speranze destinate a rimanere tali.
Insomma tutta quella roba lì con cui almeno un paio di generazioni si son fatte intortare pregustando improbabili “domani che cantano”. Di passaggio, quasi “de sforo”, le scarsamente filologiche rivoluzioni messicane evocate in ¡Vamos a matar, compañeros!, Tepepa, Faccia a faccia e il pretenzioso Giù la testa (In origine C’era una volta la rivoluzione) che ispirò – forse a sproposito – i giovani proletari milanesi della Banda Bellini.
Perfino, confesso, robaccia come Easy Rider o Woodstock. Con il senno di poi “armi di distrazione di massa”. Fine del preambolo.

PRIMO TEMPO:
SAND CREEK (Soldato blu)

Ma se c’è qualche film dell’epoca che merita di essere ricordato e conservato ritengo siano fondamentalmente due: Soldato blu e Piccolo grande uomo (anche se all’epoca apprezzai il primo, molto meno il secondo), entrambi del 1970.
Per altri aspetti (culturali, etnici..) aggiungerei Un uomo chiamato cavallo… forse.


L’idea di ritornarci su mi è venuta scoprendo che spesso vengono sottovalutati. Ritengo a sproposito in quanto all’epoca rappresentarono un rovesciamento non da poco delle ideologie dominanti, direi quasi un “cambio di paradigma”. O quantomeno risentirono pesantemente, subirono il contagio, dello spirito di rivolta che agitava le masse planetarie.
Anche se le vicende storiche si confondevano (forse troppo ?) rischiando di sfumare, con quelle personali, con gli amori e le scontate vicissitudini – tragiche o comiche – dei protagonisti. Per quanto impegnata, rimaneva pur sempre “Società dello spettacolo”, della merce, dell’intrattenimento, del consumo… Con un malcelato filo di ammirazione-invidia per un sistema tanto esperto (e privo di scrupoli) da saper trarre profitti anche condannando i massacri del passato, comunque imputabili a quel sistema (da ragionarci sopra effettivamente). D’altra parte – soprattutto se li confrontiamo con l’andazzo attuale – rimangono testimonianza preziosa di come anche “un altro cinema era possibile”. Detto questo, ho potuto verificare che tra chi conosceva Soldato blu, la maggior parte era convinta che il massacro, orrendo ma veritiero, descritto nel film corrispondesse a quello che ha goduto di maggior notorietà, ossia al Wounded Knee.
In realtà in Soldato blu si narra – con dettagli truculenti, ma corrispondenti a quanto era realmente accaduto (anche la scena terribile della fucilazione di donne e bambini rifugiati in una grotta) – della strage di stato subita dai Cheyenne (e da alcuni Arapaho qui accampati) il 29 novembre 1864 al Sand Creek).

Dove Pentola Nera aveva effettivamente innalzato la bandiera a stelle e strisce (nel film la sorregge andando incontro ai soldati per poi scagliarla a terra quando questi sparano e verrà simbolicamente calpestata dai cavalli al galoppo) insieme a quella bianca sul suo tepee. E qui si erano radunati donne e bambini pensando di sfuggire alle fucilate delle Giacche Blu. In realtà una sorta di milizia (seicento uomini del reggimento del Colorado) guidata dal colonnello Chivington, un predicatore fallito che intendeva riciclarsi in politica («Maledetto sia chiunque simpatizza con gli indiani! Io sono venuto a uccidere gli indiani e credo sia giusto e onorevole usare qualsiasi mezzo Dio ci abbia messo a disposizione per uccidere gli indiani» – così si era espresso Chivington contro il capitano Silas Soule, che durante il massacro aveva proibito ai suoi uomini di aprire il fuoco, e i tenenti Joseph Cramer e James Connor che protestavano contro l’ordine del colonnello di attaccare il villaggio di Pentola Nera. Ritenendolo un “assassinio nel senso pieno della parola”). Tra l’altro, la maggior parte dei “volontari” si erano arruolati per combattere gli indiani solo per sfuggire alla leva obbligatoria che li avrebbe inviati contro i sudisti (il che era molto più pericoloso ovviamente). Per cui inventarsi “battaglie sanguinose” con gli Indiani “ostili” garantiva di restarsene sostanzialmente al sicuro dai terribili combattimenti della Guerra Civile.
Gli indiani uccisi, in maggioranza donne e bambini, vennero scalpati e mutilati, per essere poi abbandonati in pasto gli animali della prateria.
Emblematico il caso di una donna – Kohiss – fuggita con tre bambini, uno per mano, uno sul petto (l’unico che si salvò) e un altro sul dorso. Purtroppo nella fuga due vennero colpiti e uccisi dagli spari dei bianchi. La donna conservò per tutta la vita il ricordo e le cicatrici di quel giorno, una testimonianza vivente delle ingiustizie subite dai nativi.

A titolo personale, di Soldato blu ricordo soprattutto un momento esemplare, indicativo di quale sia stato lo “spirito del tempo”: il film era terminato e nella sala le persone si stavano alzando per uscire quando apparve la didascalia, il commento finale con la voce fuori campo:

«Il 29 novembre del 1864, un reparto di 700 cavalleggeri del Colorado Cavalleria, attaccò un pacifico villaggio Cheyenne a Sand Creek, nel Colorado. Gli indiani sventolarono la bandiera americana e la bandiera bianca in segno di resa. Nonostante questo il reparto attaccò, massacrando 500 indiani; più della metà erano donne e bambini. Oltre 100 furono scotennati, molti corpi furono squartati, molte donne vennero violentate. Il generale Nelson Miles, capo di stato maggiore dell’esercito, così definì questo tremendo episodio: “È forse l’atto più vile ed ingiusto di tutta la storia americana”».

Tutti rimasero semplicemente bloccati, immobili, annichiliti. In un silenzio assoluto che però pareva un urlo. Nessuno fiatava, nessuno faceva il minimo movimento – letteralmente. Ricordo davanti a me due persone già in procinto di alzarsi rimanere quasi ripiegate. Chissà, forse pensavamo tutti al Vietnam, al relativamente recente massacro di Mỹ Lai (16 marzo 1968)…  Certo, per chi fino a poco tempo prima (riguardatevi i western, orrendi per quanto riguarda gli indiani, degli anni cinquanta e sessanta) era abituato a film dove i valorosi pionieri si dedicavano al tiro a segno sui nativi, lo scarto era notevole. E soprattutto era chiaro che si parlava anche del presente.

SECONDO TEMPO:
WASHITA E LITTLE BIGHORN (Piccolo grande uomo)

Nella realtà il capo Pentola Nera (sostanzialmente un pacifista, disposto non solo al dialogo, ma anche a compromessi con l’invasore) sfuggì al massacro (insieme a Piccolo Mantello, poi “ascaro” di Custer). Così come alcuni Arapaho (Mano Sinistra, No-ta-neee…). Era però scritto nel suo destino di dover soccombere insieme ad altri superstiti nel massacro del Washita di quattro anni dopo (27 novembre 1868). Operazione questa condotta dal “generale” Custer. Questa seconda strage subita dai Cheyenne (e nuovamente anche dagli Arapaho, intervenuti per salvare un gruppo di bambini Cheyenne inseguiti dai cavalleggeri statunitensi) ) viene raccontata in “Piccolo grande uomo”. Nel film il “mulattiere” Dustin Hoffman lo rinfaccerà a Custer a Little Bighorn prima della battaglia finale. Ma come quella del Sand Creek in Soldato blu, anche la strage del Washita in Piccolo, grande uomo viene talvolta confusa con Wounded Knee.


L’apoteosi nel film viene raggiunta con la grande vittoria dei nativi (Lakota,Cheyenne, Araphao…) guidati da Cavallo Pazzo (Oglala), Fiele e Toro Seduto (Hunkpapa) e Due Lune (Cheyenne) contro il militarismo colonialista delle giacche blu a Little Bighorn (25 giugno 1876). Dove il criminale di guerra colonnello George A. Custer, comandante del 7° Cavalleria, pagò infine per i suoi peccati.
Se vogliamo, la rivincita dei guerrieri usciti direttamente dal neolitico sui cadetti di West Point. Per una volta almeno.
Niente riferimenti a Wounded Knee quindi in questi due classici. Verrà invece citato (con una evidente forzatura, strumentalmente), oltre che in qualche serie televisiva, in Hidalgo. Un film discutibile, ma che si in parte si salva per l’epica scena finale quando i mustang destinati a essere ammazzati vengono liberati (soprattutto perché a un certo punto essi stessi abbattono gli steccati). Mi piace pensare che avrebbe commosso anche Bill Rodgers.

Come è noto dopo la vittoria del Little Bighorn le cose per gli Indiani precipitarono. Costretto, per non veder morire di fame e di freddo il suo popolo braccato, Tashunka Witko (Cavallo Pazzo) si consegnò ai soldati e venne assassinato (5 settembre 1877). Colpito con una baionetta dal soldato William Gentles, mentre era trattenuto dall’indiano collaborazionista Piccolo Grande Uomo (quello storico naturalmente, non quello del film che si ispira – forse – a un Piccolo Uomo Bianco vissuto a lungo tra gli indiani). Il suo cadavere, prelevato dai familiari, venne portato in un luogo nascosto nella valle del Wounded Knee.

Tatanka Yotanka (Toro Seduto), dopo essersi rifugiato nel 1877 in Canada, nel 1881 fu costretto a rientrare negli Stati Uniti dove venne arrestato. In seguito per un breve periodo si prestò a lavorare, interpretando se stesso, nello spettacolo viaggiante dello sterminatore di bisonti Buffalo Bill, ma ogni dollaro guadagnato lo donava ai poveri e ai senzatetto della sua tribù. Coincidenza? Uno dei maggiori esponenti dell’American Indian Movement, Russel Means (1939-2012, le sue ceneri vennero sparse nelle Black Hills), già tra gli organizzatori dell’occupazione dell’isola di Alcatraz e di Wounded Knee, divenne un attore tra i più richiesti nei film sugli indiani. Basti pensare al ruolo di Chingachgook nel film L’ultimo dei Mohicani di Michael Mann.
Toro Seduto, nel dicembre 1890, forse perché ritenuto troppo vicino al culto della “Danza degli Spiriti” del profeta Wovoka (un Paiute), venne assassinato nel corso di un arbitrario arresto. La banda dei Lakota Minneconjou di Heȟáka Glešká (Alce Chiazzato, più conosciuto come Piede Grosso, fratellastro di Tatanka Yotanka e cugino di Tashunka Witko), temendo le rappresaglie dei militari e dei collaborazionisti indiani, tentò di fuggire a Pine Ridge (da Nuvola Rossa), ma venne appunto massacrata a Wounded Knee.

Nel frattempo (settembre 1886) anche Goyaałé (Geronimo), l’irriducibile apache Bedonkohe (ma in genere assimilato ai Chiricahua) aveva consegnato le armi. Così come Hinmaton Yalaktit (Capo Giuseppe) intercettato e bloccato con i suoi Nasi Forati al confine canadese dopo un’incredibile marcia di 2740 chilometri (settembre 1877).

Fine della storia quindi. Anche se nella seconda metà del Novecento l’American Indian Movement (Aim) rilancerà la questione indiana dissotterrando l’ascia di guerra.

Epilogo

La canzone Soldier Blue (Soldato blu) del film omonimo era scritta e interpretata dall’indiana Piapot Buffy Saint-Marie che in anni successivi scrisse anche Bury My Heart at Wounded Knee (in riferimento al noto libro di Dee Brown). Frase che venne tracciata sui muri nel 1973, durante l’occupazione. Nella canzone viene ricordata anche la militante Anna Mae Aquash, violentata e assassinata, le mani mozzate. Una vicenda impregnata di ombre e sospetti di “guerra sporca” (nei confronti sia del Fbi che delle milizie native filogovernative e anche dell’Aim), presumibilmente legata a quella di Leonard Peltier. Dopo gli oltre settanta giorni di occupazione, negli anni successivi, numerosi partecipanti e membri o simpatizzanti dell’Aim morirono in maniera non chiara, “accidentale” (si parla di circa 300 vittime). Si ritiene che le milizie native filogovernative abbiano così voluto “regolare i loro conti” nelle riserve.

E così il discorso si chiude, ma non il Cerchio irreparabilmente spezzato, frantumato della Nazione indiana. Purtroppo.

 

RECENSIONE DI LEONARD PELTIER (6 febbraio 2023)

Il mio saluto ai miei amici, sostenitori, alle persone che mi sono vicine. So di aver già detto queste parole mille volte, o cose simili. E ogni volta che le dico, è come se fosse la prima volta. Dal profondo della mia anima, vi ringrazio per il vostro sostegno.
Vivere qua dentro, anno dopo anno, giorno dopo giorno, settimana dopo settimana, cambia la tua concezione del tempo e persino il modo di pensare, più di quanto possiate immaginare.
Ogni giorno, al mattino, devo dire una preghiera per tenere alto il mio spirito e quello del nostro popolo.
Le lotte dell’American Indian Movement sono le lotte di tutti noi, e per me non sono mai finite. Continuano, settimana dopo settimana, mese dopo mese, anno dopo anno.
A volte penso di poter sembrare un po’ troppo sensibile quando parlo, ma l’amore per il mio popolo e l’amore che voi sostenitori mi avete dimostrato nel corso degli anni è ciò che mi mantiene in vita.
Non leggo le vostre lettere con la testa. Le leggo con il cuore.
La mia detenzione è solo un altro esempio del trattamento e delle politiche che il nostro popolo ha dovuto subire fin dall’arrivo dei primi europei.

Sono un uomo comune e vengo da una società che vive e lascia vivere, come tutta la nostra gente. Ma dall’arrivo di Cristoforo Colombo, ci siamo trovati costretti a vivere in uno stato di sopravvivenza.
Non c’è nulla nel mio caso, nulla in quel trattato tra il popolo americano e il governo che è la Costituzione, che possa giustificare la mia prolungata incarcerazione.
La storia ci insegna che hanno imprigionato o annientato il nostro popolo, si sono appropriati della nostra terra e delle nostre risorse. Ogni volta che la legge era a nostro favore, hanno ignorato la legge. O l’hanno cambiata secondo i loro piani. Dopo aver ottenuto ciò che volevano, magari una generazione dopo, qualche politico si è scusato.
Non hanno mai sinceramente negoziato con noi, a meno che non avessimo qualcosa che volevano a tutti i costi e non potevano ottenere altrimenti; o nel caso che potessimo creare imbarazzo per il mondo; o che fossimo una sorta di opposizione. L’opposizione è sempre stata la ragione principale che li ha spinti a trattare con noi.

Potrei continuare a parlare dei maltrattamenti subiti dal nostro popolo, come del mio caso, ma l’hanno già detto le Nazioni Unite: il motivo per cui gli Stati Uniti mi hanno tenuto rinchiuso, è perché sono un Indiano d’America. [come nel film di Montaldo, Vanzetti dice alla corte: «E mì son anarchìc»]
L’unica cosa che mi rende fondamentalmente diverso dagli altri Indiani d’America che sono stati maltrattati, che sono stati derubati delle loro terre, o che sono stati imprigionati dal nostro governo, è che il mio caso è stato almeno messo agli atti del tribunale. La violazione dei miei diritti costituzionali è stata dimostrata in tribunale. La falsificazione di ogni prova usata per condannarmi è stata dimostrata in tribunale. Lo stesso Consiglio delle Nazioni Unite, composto da 193 nazioni, ha chiesto la mia liberazione, constatando che sono un prigioniero politico.

Nel mio caso di prigioniero politico non è necessario uno scambio di prigionieri. Lo scambio che devono fare è passare dalla loro politica di ingiustizia a una politica di giustizia.
Non importa quale sia il vostro colore e la vostra etnia. Nero, rosso, bianco, giallo, marrone: se possono farlo a me, possono farlo a te.
La Costituzione degli Stati Uniti è appesa a un filo.
Di nuovo voglio dire, dal mio cuore al vostro cuore, in tutta sincerità: fate del vostro meglio per educare i vostri figli. Insegnate loro a difendersi: fisicamente, mentalmente, spiritualmente. Rendeteli consapevoli della nostra storia.
Insegnate loro a piantare una foresta che possa dare frutti, o qualsiasi altra pianta che possa provvedere a loro, in futuro.

Ancora una volta, dal mio cuore al vostro cuore, piantate un albero per me.

Nello spirito di Cavallo Pazzo.

Doksha («ci vediamo», nella lingua Navajo)

Leonard Peltier

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Come uscire dalla Françafrique e rimanere buoni amici, però? https://ogzero.org/come-uscire-dalla-francafrique-e-rimanere-buoni-amici-pero/ Fri, 03 Mar 2023 13:57:56 +0000 https://ogzero.org/?p=10429 Una scommessa impossibile, dopo l’arroganza plurisecolare della potenza coloniale francese. Macron, presidente dimezzato in patria, si sottrae all’ira sulla riforma delle pensioni proseguendo il tentativo di recuperare un rapporto postcoloniale con il continente africano. Dall’inizio del suo primo mandato – va riconosciuto – ha tentato di mutare l’atteggiamento gaullista, ma non ha un paradigma scevro […]

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Una scommessa impossibile, dopo l’arroganza plurisecolare della potenza coloniale francese. Macron, presidente dimezzato in patria, si sottrae all’ira sulla riforma delle pensioni proseguendo il tentativo di recuperare un rapporto postcoloniale con il continente africano. Dall’inizio del suo primo mandato – va riconosciuto – ha tentato di mutare l’atteggiamento gaullista, ma non ha un paradigma scevro da ogni possibile idea coloniale: non è nei cromosomi francesi, tanto che non sono riusciti a cogliere il momento giusto per tagliare i cordoni con le colonie, riuscendo a renderle autonome e un embrione di politica macroniana per il continente vede gli africani francesi fare da ponte. Il presidente francese ha dovuto registrare la sostituzione da parte dei russi sul piano militare (rimangono truppe francesi in Gabon, Niger, Senegal, Ciad… ma è proprio la loro figura a restituire quel feedback che procura un rigurgito antifrancese) e dei cinesi in economia, che hanno acquisito larghe fette del mercato della Françafrique (ma il ritorno per l’economia francese è ormai ridotto all’osso), prima di avventurarsi nel viaggio tra le foreste gabonesi, i Congo e l’Angola.

Un passato che sembra non passare mai. Infatti il tour di Macron comincia dal vicino Gabon della dinastia Bongo (emblematico del sistema “francese” di rapportarsi all’Africa attraverso famiglie fedeli che gestiscono il paese con corruzione e centri di potere), e poi si concentrerà su quelli più a rischio di sfuggire al controllo (Congo Kinshasa – dove sventola già la bandiera russa come “bienvenue” e l’ex luso-cinese Angola). Angelo Ferrari si lascia ispirare dal viaggio disperato dell’inquilino dell’Eliseo, cacciato dal Sahel occidentale e contestato per la mancata difesa del Congo dall’aggressione ruandese, per augurarsi che gli africani trovino la forza di liberarsi dei coloni di qualsiasi colore (ma con scarse speranze che cambi qualcosa); Macron si trova vituperato in patria dai nostalgici della grandeur d’outre-mer e destinato a risultare il presidente che “perderà” il controllo delle colonie, forse proprio in virtù dell’approccio iniziale di riconoscimento della brutalità dell’occupazione coloniale; ed è svillaneggiato in Françafrique, dove prova il grimaldello spuntato dell’approccio green per organizzare il tour elettorale a sostegno di regimi autocratici… e degli interessi petroliferi di Total (il green-paradox).


Macron l’Africano… ingombrante

Proteste a Kinshasa

La missione africana del presidente francese Emmanuel Macron non è iniziata nel migliore dei modi. Mentre il suo aereo arrivava in Gabon, prima tappa della sua visita in Africa, nella capitale della Repubblica democratica del Congo, Kinshasa – ultima fermata del suo viaggio – decine di giovani congolesi manifestavano contro di lui davanti all’Ambasciata di Francia. Brandendo bandiere russe, questi giovani lo accusavano di sostenere il Ruanda a spese del loro paese. “Macron assassino, Putin in soccorso”, questi gli slogan scanditi in piazza e su alcuni cartelli e striscioni si leggevano accuse ancore peggiori: “Macron padrino della balcanizzazione della Rdc”, “I congolesi dicono no alla politica della Francia” o anche “Macron indesiderabile in Rdc”. La Repubblica Democratica del Congo (Rdc), dove nel fine settimana è atteso il presidente francese, accusa il vicino Ruanda di sostenere una ribellione attiva nell’est – confermata dagli esperti Onu nonostante le smentite di Kigali – e si aspetta una chiara condanna di questa “aggressione” da parte della comunità internazionale.

«Siamo qui per dire no all’arrivo di Emmanuel Macron perché la Francia è complice della nostra disgrazia», ha dichiarato davanti ai giornalisti Josue Bung, del movimento cittadino Sang-Lumumba, sfoggiando la tipica acconciatura dell’eroe dell’indipendenza congolese Patrice Lumumba (1925-1961).

Lunedì scorso Emmanuel Macron ha presentato a Parigi la sua strategia africana per i prossimi anni e, rispondendo a una domanda sulla Rdc, ha sostenuto che la sovranità e l’integrità territoriale del paese «non possono essere discusse». Ma “non ha menzionato il Ruanda, che è il nostro aggressore”, gli hanno rimproverato i manifestanti.

Le bandiere russe significano «che non abbiamo più bisogno della Francia, vogliamo collaborare con partner affidabili, come la Russia o la Cina», ha sostenuto Bruno Mimbenga, altro organizzatore delle proteste davanti all’ambasciata francese, in un momento in cui la Russia è sempre più in competizione con la Francia nella sua storica sfera di influenza in Africa.

I giovani congolesi hanno ribadito quello che è un sentimento diffuso sia in Africa centrale sia nel Sahel e cioè che “la comunità internazionale non ci serve”. La Rdc sarà questa settimana l’ultima tappa di un viaggio di Emmanuel Macron in Centrafrica, che lo porterà anche in Gabon per un vertice sulle foreste, in Angola e in Congo-Brazzaville.

La dinastia Bongo e la foglia di fico delle foreste

Il diciottesimo viaggio nel continente è iniziato, quindi, a Libreville, dove Emmanuel Macron vuole dare nuovo impulso al rapporto tra i due paesi. Sono passati 13 anni da quando un presidente francese ha fatto un viaggio in Gabon. L’ultimo è stato Nicolas Sarkozy, nel febbraio 2010. Nel frattempo, la contestata rielezione del presidente Ali Bongo e la crisi elettorale del 2016 sono passate attraverso aspre tensioni tra i due paesi. Poi c’è stata la crisi sanitaria, e la lite è continuata fino a un inizio di riavvicinamento dal 2021. Questo viaggio per Macron era, secondo una fonte vicina all’Eliseo, diventato essenziale. Era già in lavorazione da diversi mesi, ed è stato nell’estate del 2022 che è stata presa in considerazione l’idea di usare il One Forest Summit e di focalizzare il viaggio sulla protezione delle foreste, per fugare ogni dubbio sulla natura della visita che arriva nell’anno elettorale del Gabon, con le elezioni presidenziali previste per la prossima estate. Una tempistica che ha fato sobbalzare la società civile e l’opposizione gabonese:

«È venuto per lanciare la campagna elettorale del suo amico», ha detto l’ambientalista Marc Ona.

Perplessità espresse anche dall’opposizione a Macron a Parigi. Un gruppo di parlamentari del gruppo Lfi-Nupes della Commissione Affari Esteri ha infatti scritto alla ministra degli Esteri, Catherine Colonna, facendo notare che due dei paesi visitati terranno fra pochi mesi le elezioni presidenziali, il Gabon e la Repubblica democratica del Congo. «In un tale contesto, questa visita potrebbe essere interpretata come un sostegno politico da parte dell’esecutivo francese a governi o regimi le cui derive autoritarie, persino autocratiche» sono evidenti, si legge nella nota.

La lettera ricorda che in Gabon, dove nessun presidente francese si recava da 13 anni, le elezioni si terranno fra cinque mesi. La visita, secondo i deputati d’opposizione, “offre una legittimità internazionale” a un regime, quello della famiglia Bongo, al potere dal 1967. Sottolinea inoltre che è stato negato un visto a una giornalista di “Liberation” per seguire il One Forest Summit – co-organizzato dalla Francia – lasciando intendere che si vuole coprire l’evento in un’ottica solo positiva per il regime, mentre molti osservatori temono che si tratterà di un’operazione di greenwashing.

I deputati di La France insoumise et Nouvelle union populaire écologique et sociale evidenziano anche dubbi sulla sincerità che circonda le prossime elezioni in Congo-Kinshasa, nonché la repressione di manifestazioni dell’opposizione in Angola nei mesi scorsi.

«Il carattere a volte selettivo e contraddittorio delle posizioni del governo francese sulla natura e le pratiche dei regimi e dei governi, in particolare in Africa, lascia spazio alle critiche, sincere o pilotate da altre potenze, che indeboliscono le nostre relazioni strategiche con i paesi del continente» africano, stigmatizzano gli autori della lettera.

Arginare il legittimo sentimento antifrancese: safari impossibile

Un viaggio, inoltre, che arriva a pochi giorni da una lunghissima conferenza stampa nella quale Macron ha voluto ridisegnare la politica francese nei confronti del continente africano. Un tentativo legittimo, visto il dilagare del sentimento antifrancese in buona parte dell’Africa centrale e del Sahel. Per Macron è necessario un nuovo rapporto “equilibrato, reciproco e responsabile”. Questo il mantra presidenziale. Ma ancora:

«L’Africa non è terra di competizione», ha detto Macron durante la conferenza stampa all’Eliseo, invitando a «passare da una logica degli aiuti a quella degli investimenti».

Ha, inoltre, affermato di aver mostrato «profonda umiltà di fronte a quanto si sta svolgendo nel continente africano, una situazione senza precedenti nella storia», con «una somma di sfide vertiginose. Dalla sfida della sicurezza climatica alla sfida demografica con i giovani ai quali dobbiamo offrire un futuro in ognuno degli stati africani», invitando a «consolidare stati e amministrazioni, investendo in modo massiccio in istruzione, salute, lavoro, formazione, transizione energetica».

L’inquilino dell’Eliseo ha voluto anche sottolineare che la Francia «sta chiudendo un ciclo segnato dalla centralità della questione militare e della sicurezza», annunciando una “riduzione visibile” del personale militare francese in Africa e un “nuovo modello di partenariato” che prevede un “aumento del potere degli africani”. Tutto ciò segna un cambio di paradigma nella politica dell’Eliseo? Per ora sono solo parole a cui devono seguire dei fatti concreti, anche perché la riduzione del personale militare più che una scelta è stata una via obbligata visto il ritiro dal Mali, dal Burkina Faso e dalla Repubblica Centrafricana, tre roccaforti dell’influenza parigina in Africa. Paesi che, dopo la “cacciata” dei francesi si sono affidati in maniera decisa proprio alla Russia, dimostrando che l’Africa è, ancora, una terra dove la competizione tra potenze internazionali è viva più che mai, a differenza di ciò che sostiene Macron e lui stesso ne è complice.

Da ultimo occorre ricordare che nei paesi visitati dal presidente francese – Gabon, Angola, Repubblica del Congo e Repubblica democratica del Congo – la Francia ha enormi interessi economici soprattutto nel settore petrolifero.

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Chi specula sulla questione Saharawi? https://ogzero.org/progressiva-annessione-del-sahara-occidentale/ Sat, 17 Dec 2022 22:08:28 +0000 https://ogzero.org/?p=9799 La diplomazia di Rabat nell’ultimo anno ha ottenuto risultati importanti in vista della progressiva annessione del Sahara Occidentale, anche grazie ai ritorni derivanti dalla guerra in Ukraina: il ricatto nei confronti della Spagna sulla concessione riguardo al passaggio di oleodotti ha drasticamente azzerato la simpatia tra la Spagna e il Saharawi, vista la fame di […]

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La diplomazia di Rabat nell’ultimo anno ha ottenuto risultati importanti in vista della progressiva annessione del Sahara Occidentale, anche grazie ai ritorni derivanti dalla guerra in Ukraina: il ricatto nei confronti della Spagna sulla concessione riguardo al passaggio di oleodotti ha drasticamente azzerato la simpatia tra la Spagna e il Saharawi, vista la fame di gas di Madrid; ma aveva cominciato a ottenere risultati già con la presidenza Trump che ne aveva riconosciuto le pretese di controllo sull’ex Sahara spagnolo, in cambio degli Accordi di Abraham con Israele, che sancivano solamente una collaborazione ormai annosa soprattutto sul piano militare (infatti si sono viste sventolare bandiere palestinesi e algerine dopo la sconfitta dei “Leoni” in semifinale dei mondiali di football a Doha – nonostante l’eliminazione provenisse per mano dell’odiata potenza francese).

Il risultato ai mondiali qatarini è comunque spendibile dal regime per una nuova autorevolezza nel mondo arabo, spostando a ovest gli equilibri disputati con i sauditi; il fatto che sia stato relegato nei giochi della Fifa al quarto posto allargando a orologeria anche al Marocco lo scandalo della corruzione riuscita con il lobbismo dei commissari socialisti europei non può che giocare a favore di Rabat, perché colloca il Marocco tra le nazioni che si accreditano per un lavoro di “convincimento” credibile (e può anche richiamarsi a una sorta di discriminazione dell’ultimo paese africano in lizza).
Per questo ci sembra opportuno rendere pubblico l’articolo di Gianni Sartori che vi proponiamo a poche ore dalla sconfitta della nazionale marocchina nella disputa per il terzo posto con una Croazia, che contemporaneamente rifiuta l’accoglienza a soldati ucraini da addestrare in ambito Nato (“Le Parisien”), temendo di farsi coinvolgere nel conflitto.

OGzero


Corruttori ed eurocorrotti

Stando alle notizie riportate da“Le Soir”, da “Knack” e da “il manifesto”, l’ex deputato europeo Panzeri a Strasburgo si sarebbe occupato soprattutto di “diritti umani e del Maghreb”. Oltre ad aver fondato nel 2019 una ong (Fight Impunity), avrebbe intrattenuto rapporti amichevoli con l’esponente marocchino Abderrahim Atmoun (dal 2019 ambasciatore in Polonia).

Sempre nel 2019, Panzeri figurava tra gli oltre 400 deputati europei che avevano votato a favore di un accordo di pesca che interessava anche le coste del Sahara Occidentale. A tutto vantaggio di Rabat, ma naturalmente senza il consenso del popolo saharawi e del Fronte Polisario. Va sottolineato che questo mare molto pescoso è una delle due principali risorse (l’altra è rappresentata dai fosfati) in grado di garantire la futura sopravvivenza della popolazione saharawi e della Rasd.
Fortunatamente tale accordo iniquo venne poi annullato (ma solo nel 2021) dalla Corte di Giustizia europea in quanto

«sancirebbe il diritto di sfruttamento di uno stato occupante in un territorio riconosciuto internazionalmente come “non autonomo”».

Congiurati socialisti in combutta con Mohammed VI contro il Polisario

Annessione del Sahara Occidentale camuffata

Pressanti le ricorrenti richieste di Rabat all’Unione europea di allinearsi con le posizioni di Washington (nel 2020 con Trump) che di fatto sottoscrivevano quelle marocchine in merito a una non meglio definita (ma comunque limitata) “autonomia del Sahara Occidentale all’interno dei confini del regno del Marocco” – in pratica l’ufficializzazione dell’annessione del Sahara Occidentale.
La proposta risaliva all’aprile 2007: presentata dal Marocco come una

«risposta alle richieste del Consiglio di Sicurezza alle parti per porre fine alla situazione di stallo politico» e rivolta direttamente al Segretario Generale, venne descritta come «l’iniziativa marocchina di negoziazione di uno status d’autonomia per la regione del Sahara».

Scontato che ai saharawi apparisse come una mossa propedeutica alla completa assimilazione.

Recentemente tale prospettiva sembra aver raccolto il favore sia del governo madrileno, sia di alcuni ex esponenti del Polisario, dissidenti nei confronti del Fronte (ma non per questo collaborazionisti del Marocco).

Il dovere della memoria come garanzia della non ripetizione

Sul ruolo sempre più “conciliante” (eufemismo) assunto da Madrid nei confronti di Rabat, era intervenuto Luis Portillo Pasqual del Riquelme (“Etnie”).

Per il docente di scienze economiche alla madrilena Università Complutense, il leader socialista Pedro Sánchez avrebbe «ceduto vergognosamente alle richieste di Mohamed VI perpetrando un secondo tradimento del popolo saharawi». Anzi, aggiungeva, «stando ai miei calcoli addirittura il terzo» (il secondo sarebbe quello operato da Felipe Gonzalez, precedente leader socialista, che già nel 2008 Luis Portillo stigmatizzava su “Rebellion”, sottolineando il lobbismo spinto di Rabat).
L’illustre accademico ricordava come Félix Bolaños, ministro della Presidenza, Relazioni con le Cortes e Memoria Democratica, aveva affermato nel suo intervento che

«la memoria è un diritto, un diritto della cittadinanza e soprattutto un diritto delle vittime».

In sintesi: “Il dovere della memoria come garanzia della non ripetizione”. In riferimento soprattutto alle violazioni dei diritti umani e del diritto dei popoli perpetrate dal franchismo, una questione con cui la Spagna non aveva fatto i conti a momento debito.

Ma questa legge, continuava Bolaños, per quanto riguardava la questione del Sahara Occidentale e del popolo saharawi risultava quantomeno “insoddisfacente”. Nonostante costituisse l’estrema colpa dell’ultimo governo della dittatura fascista.

 

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n. 22 – Regolamento sullo screening: il nuovo patto europeo sulla migrazione e l’asilo (II) https://ogzero.org/n-22-regolamento-sullo-screening-il-patto-europeo-sulla-migrazione-e-lasilo-ii/ Mon, 14 Nov 2022 10:05:34 +0000 https://ogzero.org/?p=9491 Lo studio e l’esposizione delle proposte di regolamento europeo che fanno da corollario al nuovo patto sulla migrazione, se possibile, ancora più restrittivo e rappresentante di chiusure all’accoglienza, completa e integra le speculazioni dell’articolo precedente. Qui si leggono disposizioni “disumanitarie”, che inaspriscono con fantasie al limite della tortura psicologica, che rispondono evidentemente a criteri puramente […]

L'articolo n. 22 – Regolamento sullo screening: il nuovo patto europeo sulla migrazione e l’asilo (II) proviene da OGzero.

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Lo studio e l’esposizione delle proposte di regolamento europeo che fanno da corollario al nuovo patto sulla migrazione, se possibile, ancora più restrittivo e rappresentante di chiusure all’accoglienza, completa e integra le speculazioni dell’articolo precedente. Qui si leggono disposizioni “disumanitarie”, che inaspriscono con fantasie al limite della tortura psicologica, che rispondono evidentemente a criteri puramente disincentivanti. Nelle pieghe delle modifiche, delle proposte, dei regolamenti che l’UE targata Von Der Layen si rintracciano tentativi di blindare le frontiere, ma anche di demandare ai paesi di prima accoglienza la solidarietà a cui persino Fortress Europe non può sottrarsi, né esternalizzare. Quindi è impossibile riformare come vorrebbero i paesi del blocco Sud, ed è per questo che si creano casi come quelli della Ocean Viking, o si minacciano altre infamità per giungere a una trattativa giocata sui destini delle persone in movimento (Pom). Allora si riprendono slogan come “taxi del mare” (riprendendo un’improvvida uscita di Di Maio) per definire l’azione di vascelli solidali, denunciando ideologicamente l’operato delle ong; o si invita a portare i salvati in Tunisia, guarda caso proprio dove si vuole implementare il sistema di hotspot esternalizzati per impedire l’arrivo in Europa, o retrivi scontri fondati su cifre – anche malamente – taroccate. 

Con questa documentata appendice, fondata sulla lettura dei documenti giuridici e su dati reali, Fabiana intendeva conferire un sostegno all’articolo dedicato alle conseguenze delle proposte di modifica al Regolamento europeo per il riconoscimento dell’asilo e protezione, ne ha ottenuto un contributo autonomo che travalica il tecnicismo analizzato e disinnescato, andando a scoperchiare motivi e strategie sottesi a rendere impossibile il Diritto internazionale che a buon senso darebbe scampo in Europa a chi fugge dai danni che l’Europa produce nei paesi di provenienza. Ma la strategia prevede che il Diritto sia affossato, anzi sommerso…


Procediamo con lo screening a casa loro

Due delle cinque proposte che accompagnano il patto sulla migrazione e l’asilo – presentato dalla Commissione europea il 23 settembre del 2020 – sono la Proposta di regolamento sullo screening e appunto quella relativa alla modifica della procedura di riconoscimento e di revoca della protezione internazionale. In particolare, con la Proposta di regolamento sullo screening dei migranti si prevede una procedura “preingresso di accertamento” lo screening appunto – in merito all’identità, alla nazionalità, allo stato di salute, alla vulnerabilità e alla pericolosità sociale del migrante finalizzata – come candidamente dichiarato nella sua presentazione dalla Commissione europea – a individuare «il prima possibile i cittadini dei paesi terzi che abbiano scarsa possibilità di ottenere protezione internazionale all’interno dell’UE». Alla registrazione dell’identità quindi si accompagna in questa fase l’inserimento dei dati biometrici dei migranti mediante le banche dati pertinenti.

 

regolamento sullo screening

Truccare le regole fingendo una terra di nessuno

La procedura però viene svolta non solo interamente in frontiera ma anche in una condizione di trattenimento del migrante e in modo rapido (la procedura di accertamento può durare fino a un massimo di 5 giorni).

L’intento della proposta è dunque quello di creare uno strumento idoneo a decidere già in frontiera a chi possa essere “consentito” di presentare domanda di protezione internazionale e chi invece “debba” essere rimpatriato immediatamente dalla “frontiera”.

Rispetto al luogo nel quale dovrebbero avvenire tali operazioni di accertamento, si precisa che quanto orchestrato dalla Commissione altro non è che una fictio iuris.
Il migrante sottoposto a tali procedure in realtà già si trova sul territorio dell’Unione e come tale sarebbe titolare di tutta una serie di diritti, sanciti dal diritto europeo oltre che dal diritto internazionale, ma affinché tale titolarità non venga attivata si opera appunto “una finzione giuridica”: si finge ovverosia che il migrante si trovi a una frontiera esterna dell’Unione altrimenti tale meccanismo sarebbe evidentemente illegittimo. Sicuramente infatti alcune persone soggette alla procedura di screening sono già alle frontiere interne. Si pensi che alcuni dei destinatari dell’ambito di applicazione di tale normativa sono persone entrate nel territorio europeo a tutti gli effetti perché attraverso operazioni di Search and Rescue (Sar)! Altri destinatari sono invece coloro che sono presenti alla frontiera esterna ma non soddisfano le condizioni di ingresso – come nel caso della mancanza del visto – e che presentano domanda di protezione internazionale.

Si precisa però che anche con riferimento a tali soggetti gli stati membri, in base al regolamento Eurodac, sarebbero chiamati a registrare le impronte e quindi si attiverebbe il regolamento “Dublino” per l’individuazione dello stato membro competente: una situazione tutt’altro che esterna all’Unione!

L’intero impianto rientra nel consueto meccanismo di rafforzare le frontiere esterne per proteggere quelle interne dell’area Schengen dai movimenti secondari dei migranti ossia quelli compiuti mediante il transito da uno stato all’altro dell’Unione.

La detenzione negli hotspot è illegittima, per ora

È previsto in questa fase un sistema di monitoraggio indipendente di dubbia efficacia visto che non prevede neanche l’accesso dell’Agenzia europea sulla tutela dei diritti umani oltre a quella dei membri e degli operatori delle ong o dei rappresentanti della società civile.

È prevista inoltre l’impugnazione del provvedimento di accertamento che abbia un esito negativo per l’accesso alla procedura d’asilo ma in questo caso è stabilito il rimpatrio immediato e il ricorso non ha effetto sospensivo.

Tale impianto giuridico richiama immediatamente l’approccio degli hotspot in Italia come quello di Lampedusa. Anche negli hotspot infatti, per prassi, vi è una fase di preidentificazione che si caratterizza dalla compilazione del cosiddetto foglio notizie – non previsto da alcuna normativa italiana – davanti alle autorità di pubblica sicurezza. Il modulo prescreening previsto nel Patto ricalcherebbe proprio il foglio notizie italiano (!) che contiene sì le generalità del migrante ma che non possiede alcun contenuto informativo sulla procedura di protezione internazionale. Inoltre, come nella procedura prescreening anche negli hotspot vi è una condizione di detenzione dei migranti. Al riguardo si precisa che qualora il regolamento in questione venisse approvato tali prassi degli hotspot diventerebbero legittime e quindi non solo lo stesso foglio notizie diverrebbe obbligatorio – proprio mediante il suo omologo ossia il “modulo preescreening” – ma il trattenimento del migrante sarebbe previsto per legge nonostante l’Italia sia già stata condannata per detenzione illegittima dei migranti negli hotspot dalla Corte di Strasburgo – sentenza Khlaifia – per aver agito in violazione dell’art. 5 della Cedu.

Proposta di modifica del regolamento procedure 2016

Dopo le procedure di preingresso – procedura di screening è prevista nella modifica anche una procedura di frontiera per il riconoscimento della protezione internazionale sempre in una condizione di trattenimento del migrante. Infatti, secondo l’art. 41 paragrafo 6, i richiedenti sottoposti alla procedura di asilo alla frontiera non sono autorizzati a entrare nel territorio dello stato membro.

Si precisa, più in generale,

che la procedura di esame alla frontiera deve essere attuata ogni qualvolta la persona è entrata irregolarmente – e chi richiede la protezione lo è nella quasi totalità dei casi perché in fuga dal proprio paese d’origine – o se ha fatto ingresso con sbarco dopo operazioni di ricerca e soccorso (Sar – Search and Rescue) o ancora nell’ipotesi in cui il migrante non sia irregolare ma comunque sia destinatario di un provvedimento di ricollocamento (art. 41).

Persecuzione preventiva di innocenti incarcerati. Disincentivazione

Ciò che risulta particolarmente assurdo è che dal momento dell’approvazione di tale norma ogni richiedente asilo dovrebbe subire 12 settimane di detenzione e di isolamento per completare non solo la procedura di riconoscimento della protezione internazionale ma – nell’ipotesi di rigetto della domanda – anche per presentare il ricorso che nella quasi totalità dei casi non ha effetto sospensivo automatico (art. 54) – e per essere sottoposto a rimpatrio forzato (art. 41 bis).

Si ricorda che ai sensi dell’art. 35 bis della proposta la decisione di rimpatrio è emanata

nell’ambito della decisione di rigetto della protezione internazionale o, nel caso sia contenuta in un atto distinto dal provvedimento di rigetto, è comunque contestuale a esso.

Se lo stato tuttavia non riesce a organizzare il rimpatrio alla frontiera nell’arco delle 12 settimane, il migrante potrà entrare finalmente nel territorio dell’Unione ma sempre con il trattamento previsto per legge per le persone in condizione di irregolarità. Inoltre, la cosiddetta “procedura accelerata”, con la proposta di regolamento in oggetto, non rappresenta più un’eccezione ma diviene «obbligatoria e sistemica» (art. 40) e al suo termine si può già decidere in frontiera per l’ammissibilità o meno della domanda.

Infatti, alle ipotesi già previste per l’applicazione della procedura accelerata – come quella in cui il richiedente tenta di eludere o elude i controlli alle frontiere o quella secondo la quale rappresenta un pericolo per la sicurezza pubblica interna – si aggiunge quella in cui

il richiedente appartenga a una nazionalità che registri un tasso di riconoscimento della protezione internazionale inferiore al 20 %

come per esempio potrebbe essere nell’ipotesi di un richiedente asilo proveniente dalla Nigeria o addirittura dall’Egitto! Si sottolinea la standardizzazione di tale valutazione che oltretutto si applica anche ai minori stranieri non accompagnati!!

La provenienza da un “paese di primo asilo” inficia la protezione

Il giudizio preliminare sull’ammissibilità o meno della domanda di protezione internazionale in frontiera è inoltre previsto anche nei casi in cui

il richiedente provenga da un «paese di primo asilo» (art. 44): ossia un paese in cui il richiedente ha già goduto e può continuare ad avvalersi non solo di una protezione ai sensi della condizione di Ginevra ma anche semplicemente di «una protezione sufficiente».

Motivo per il quale, se durante l’esame, le autorità ritengono che

il richiedente provenga da un paese in cui anche se non si applica la Convenzione di Ginevra non sussistono minacce per i motivi di cui alla Convenzione stessa, il richiedente non rischi di subire un danno grave e ancora venga rispettato il principio di non-refoulement e garantito il godimento di alcuni diritti – quali la possibilità di soggiornare o di lavorare – allora la sua domanda di protezione internazionale verrà dichiarata inammissibile.

Il potere discrezionale del funzionario. La sindrome Eichmann

Si osservi al riguardo l’enorme discrezionalità da parte delle autorità competenti nella valutazione della sussistenza di tali elementi, anche perché la qualifica di paese di primo asilo è decisa ogni anno proprio da ciascuno degli stessi paesi dell’UE con la predisposizione di specifiche liste. Il giudizio preliminare di ammissibilità si applica infine anche nell’ipotesi in cui

il richiedente provenga da un paese terzo sicuro (art. 45)

ossia un paese nel quale il richiedente può anche essere soltanto transitato ma che venga considerato sicuro non solo in quanto firmatario della Convenzione di Ginevra. E pure nell’ipotesi in cui sia semplicemente idoneo a garantire – come abbiamo visto nel caso del paese di primo asilo – una protezione sufficiente.

L’impianto supportato dagli accordi bilaterali…

In questo caso però la qualifica del paese terzo sicuro non è da rinvenirsi nelle liste predisposte dal paese membro annualmente ma viene considerato tale con una decisione della stessa Unione Europea ossia presumibilmente in base anche agli accordi informali tra questa e i paesi terzi. Tale decisione unilaterale dell’Unione viene operata anche con riferimento alla

qualifica di «paese di origine sicuro» (art. 47), nozione in cui oggi – è bene ricordarlo – si fregia la Turchia e in conseguenza della quale è sempre prevista l’applicazione della procedura accelerata.

Qualora quindi ricorresse una delle succitate condizioni le autorità competenti in frontiera dovrebbero concludere sempre per una dichiarazione preliminare di inammissibilità della domanda di protezione internazionale, in caso contrario invece si potrebbe finalmente accedere alla procedura per il riconoscimento della medesima.

L’intero impianto riporta alle prassi già consolidate nella rotta dell’Egeo: la Turchia infatti per i siriani è già stata considerata di fatto “paese terzo sicuro” perché rispettava (a fronte dei 6 miliardi di euro donati dall’Unione) il principio di non refoulment e perché dava la possibilità a questi di soggiornare legalmente sul territorio a disprezzo e in completo svuotamento di ogni norma del diritto europeo e internazionale che consentirebbe loro di beneficiare di una “forma di protezione” che si ricorda – e non ci dovrebbe essere neanche il bisogno di dirlo – è un diritto ben diverso da quello di consentire semplicemente a un individuo di lavorare nel proprio territorio!

… e da nuovi enormi Lager

Si ricorda che la Turchia – pur essendo firmataria della Convenzione di Ginevra – ha mantenuto la riserva territoriale per il riconoscimento dello status di rifugiato: ciò vuol dire che esso può essere riconosciuto in Turchia solo ai cittadini provenienti dai paesi dell’Unione europea. Sempre con riferimento alla rotta dell’Egeo è chiaro che una previsione della procedura d’asilo strutturata totalmente in frontiera implicherebbe la creazione di enormi campi di detenzione nei paesi di primo arrivo – compreso il nostro – come già avvenuto in Grecia a Leros, Lesbos, SamosKos Chios. Ci si chiede quindi se gli stati membri di primo ingresso e l’Unione stessa siano in grado di sostenere le spese finanziarie derivanti dalla creazione di tali centri considerato il numero dei migranti che dovrebbero essere “contenuti” in regime di detenzione.

Il contrasto degli “irregolari” eccita la Destra nostrana

È facile notare come i nazionalismi di destra al potere attualmente in diversi stati membri dell’Ue compreso il nostro – così contrari alle politiche delle istituzioni europee in particolare a quelle della Commissione – si ritrovino invece perfettamente allineati alle sue decisioni in ambito migratorio quando si tratta di ostacolare l’accesso dei migranti con l’inevitabile compressione dei loro diritti come nel caso dei due regolamenti “procedure” e “screening”.

Sarà pertanto interessante vedere se quegli stessi nazionalismi di destra che rappresentano il nuovo trend politico europeo saranno così d’accordo tra di loro, come negli alti lai per ottenere il riconoscimento della pressione migratoria insopportabile a cui sono sottosti, quando si tratterà di approvare le ulteriori proposte di regolamento che accompagnano il nuovo patto sulla migrazione e l’asilo in primo luogo la già citata Proposta di regolamento sulla gestione dell’asilo e della migrazione, dove si prevede una «solidarietà obbligatoria».

 

(fonte voxeurope / Tjeerd Royaards)

Solidarietà obbligatoria, ma ordinaria

La proposta di regolamento in esame prevede meccanismi di “solidarietà” volontaria ma obbligatoria da parte di tutti i paesi membri nei casi di sbarchi Sar o pressione migratoria messi in atto quindi soprattutto nei confronti di paesi di primo arrivo come l’Italia. I meccanismi di solidarietà si distinguono tra ordinari e meccanismi di solidarietà speciali/straordinari. I primi rappresentano la solidarietà post sbarchi – operazioni SAR – mentre i secondi sono quelli che si applicano nelle ipotesi di pressione migratoria (art. 50 e seguenti) (oltre che nelle condizioni di crisi e di forza maggiore che vedremo in seguito nello specifico regolamento). I meccanismi ordinari di solidarietà (art. 45, 1) più nello specifico sono:

il ricollocamento delle persone non soggette e trattenute nel corso di procedure di frontiera; la “sponsorizzazione” di cittadini di paesi terzi in condizioni di soggiorno irregolare; il ricollocamento di beneficiari di protezione internazionale entro 3 anni dall’ottenimento della stessa; l’aiuto in termini di “Capacity bulding measures”- ossia il supporto di uno stato membro ad un altro – con riferimento alle misure di sviluppo delle capacità in materia di asilo, accoglienza, rimpatrio.

Con «misure straordinarie di solidarietà» (art. 45,2) che come detto si applicano alla pressione migratoria si intendono invece due sole misure:

il ricollocamento di richiedenti asilo soggetti questa volta alla procedura di frontiera e il ricollocamento di cittadini di paesi terzi in ipotesi di soggiorno irregolare.

Procedimentalizzare la solidarietà ordinaria

Per quanto attiene alla procedura nell’ipotesi di pressione migratoria lo stato membro richiede il riconoscimento alla Commissione di tale situazione. La Commissione in questo caso deve adottare un report finalizzato a condurre una conseguente attivazione degli altri stati membri. Come visto nel caso di pressione migratoria si allarga lo spettro dei destinatari dei ricollocamenti e sono previsti tempi ridotti per la loro attuazione.

Esclusione di Sar e ingressi non autorizzati per procedura

Tutto ciò premesso è chiaro come si escludano dai candidati ai ricollocamenti – previsti nelle procedure ordinarie – i soggetti arrivati a seguito di operazioni di ricerca e soccorso perché sottoposti alla procedura di frontiera (e i soggetti arrivati tramite ingressi non autorizzati). Più in generale il tentativo di questo regolamento è quello di procedimentalizzare la solidarietà ordinaria (artt.47-49). La procedura in primo luogo prevede che la Commissione emani un report annuale nel quale dichiari se uno stato membro dell’Unione sia soggetto ad arrivi ricorrenti e determina ciò che serve a tale stato.
Tale report viene notificato poi agli altri stati con l’invito a contribuire. Gli stati a loro volta notificano alla Commissione i contributi con un piano di risposta indicando, o i ricollocamenti o le misure di sviluppo e capacità o i ricollocamenti di vulnerabili. Una di queste tre misure è necessariamente obbligatoria ma ogni stato liberamente può scegliere.

Solidarietà corretta in salsa ricollocamenti e rimpatri

In seguito la Commissione, con una valutazione discrezionale, se ritiene che le offerte degli altri stati sono sufficienti per la creazione di una “riserva di solidarietà” con un atto di esecuzione ratifica le offerte degli stati (art. 48). Tuttavia, se le offerte non sono sufficienti o meglio sono significativamente inferiori rispetto alle necessità dello stato, la Commissione convoca il “Forum di solidarietà”: gli stati a questo punto possono adottare i piani di aiuto rivisti dalla Commissione che in questo caso vengono messi in un atto di esecuzione.
Invece, se gli stati si rifiutano di rivedere i propri piani di aiuto, la Commissione stessa adotterà un atto di esecuzione nel quale deciderà cosa devono fare gli stati che si sono mostrati “poco generosi”; in particolare, se la discrepanza totale tra quanto offerto e quanto necessario allo stato è maggiore del 30 per cento, ogni altro stato membro sarà obbligato a versare il 50 per cento di una quota minima di solidarietà da intendersi in termini di numero di ricollocamenti, di sponsorizzazione dei rimpatri o di entrambe le misure (meccanismo correttivo della solidarietà).

In particolare, con sponsorizzazione di rimpatri si intende il meccanismo mediante il quale uno stato che non ha nel proprio territorio migranti in condizione di irregolarità da rimpatriare sostenga il rimpatrio di cittadini di paesi terzi irregolari che si trovano in un altro stato membro. Il sistema non appare invero immediatamente efficace considerando che per i primi 8 mesi comunque lo stato membro beneficiario della sponsorizzazione mantiene la responsabilità giuridico-amministrativa del cittadino del paese terzo da rimpatriare mentre lo stato cosiddetto sponsor si impegna piuttosto a un’assistenza da remoto di tipo materiale, logistico e finanziario, mentre nell’ipotesi di rimpatri volontari si occupa della policy dialogue con il paese terzo e offre assistenza durante il viaggio o sull’esecuzione. Se trascorso tale periodo lo stato sponsor non assicura le misure di rimpatrio di cui sopra il rimpatrio diventa ricollocamento: si procede non più al rimpatrio del cittadino del paese terzo ma al ricollocamento del migrante dello stato terzo nel territorio dello stato sponsor. Anche qui tuttavia potrebbe essere sufficiente la mera segnalazione dello stato sponsor che il cittadino del paese terzo potrebbe rappresentare un pericolo per la sicurezza interna per potersi rifiutare di eseguire il ricollocamento. È opportuno dunque analizzare ora più nello specifico la Proposta di regolamento concernente le situazioni di crisi e di forza maggiore.

 

regolamento sullo screening

Ma cos’è questa “crisi”?

Con la nozione di crisi si intende l’esistenza di una situazione eccezionale di afflusso massiccio di cittadini di paesi terzi arrivati in uno stato membro oppure un numero elevato di sbarchi che interessa uno stato UE in esito ad operazioni SAR – Search and Rescue – la cui entità in proporzione all’indice demografico e al prodotto interno lordo di quello stato rende inefficace il suo sistema di asilo e di accoglienza e potrebbe implicare gravi conseguenze sul funzionamento del sistema comune d’asilo in ambito europeo.

Va preliminarmente sottolineato che non vi è nel testo del regolamento alcun riferimento circa le misure che lo stato membro abbia messo effettivamente in campo per gestire i flussi migratori e per prevenire la situazione di crisi. Tale omissione come è facile intuire lascerebbe un ampio margine alla possibilità degli stati membri di strumentalizzare l’attivazione dei meccanismi che discendono dalla situazione di crisi con il chiaro intento di impedire l’ingresso dei migranti nel proprio territorio.
Nel caso di crisi la procedura si struttura in tal modo: lo stato membro presenta una richiesta motivata alla Commissione che – in base alle informazioni che essa stessa provvede a raccogliere, alle informazioni raccolte dall’Eauu e ovviamente a quelle di Frontex – valuta se la richiesta dello stato di crisi sia fondata. Qualora venga ritenuta tale la Commissione emana un atto di esecuzione dello stato di crisi senza che però alcun soggetto esterno e indipendente possa compiere attività di monitoraggio o contestazione in riferimento a tale decisione.

In concreto con l’atto di esecuzione la Commissione autorizza lo stato membro all’applicazione di particolari misure relative alle procedure d’asilo e di rimpatrio per un periodo di 6 mesi estendibile a 1 anno. Infatti il termine per la sola registrazione delle domande d’asilo in caso di crisi potrà essere esteso fino a 4 settimane e prorogato fino a 12 settimane! Il sistema è alquanto pericoloso poiché inevitabilmente vi sarebbero garanzie più limitate in merito ai diritti dei richiedenti asilo considerato che tutta la procedura della richiesta d’asilo in situazione di crisi verrebbe comunque svolta in frontiera e in una condizione di privazione della libertà per tutti i cittadini la cui nazionalità in questo caso vede un tasso di riconoscimento della protezione pari o inferiore al 75 per cento.

Inoltre, anche il rimpatrio sarebbe previsto in frontiera: in questo caso i tempi dell’intera procedura che prevede sempre una condizione di trattenimento dell’individuo – data anche la novità dell’introduzione della presunzione del rischio di fuga del migrante – potrebbero ulteriormente estendersi a livello temporale. Se a fronte di tale svuotamento dei diritti fondamentali dei richiedenti asilo tuttavia ci si vuole davvero impegnare a trovare degli aspetti positivi di tale procedura – che comunque non bilanciano tale compressione delle tutele giuridiche dell’individuo – questi possono ravvisarsi nella previsione della concessione di una nuova forma di protezione: ossia la cosiddetta “protezione immediata” e nel «rafforzamento dei meccanismi di solidarietà» (art. 2) ma solo se la crisi è in atto e non se vi è un rischio imminente di crisi, nonostante anche il rischio sia compreso nell’art. 1 che definisce l’ambito di applicazione del regolamento. Rispetto al rafforzamento dei meccanismi di solidarietà: i ricollocamenti in questo caso verrebbero previsti

«anche se i richiedenti asilo sono sottoposti alla procedura di frontiera; ai migranti irregolari; a coloro ai quali è concessa la protezione immediata e infine alle persone sottoposte a misure di rimpatrio sponsorizzate da un altro stato membro».

La protezione immediata invece è concessa agli sfollati esposti a un rischio eccezionalmente alto di subire violenza indiscriminata nel proprio paese e se non possono farvi ritorno. Dopo che la Commissione infatti – per mezzo di una decisione di esecuzione – dichiara l’esistenza di una situazione di crisi sulla base degli elementi di cui all’art. 3 stabilisce la necessità di sospendere le domande di protezione internazionale – definendo il periodo di tale sospensione – e di concedere la protezione immediata.

Rispetto alla condizione di forza maggiore, al Considerando 7 del regolamento, si fa riferimento all’«esistenza di circostanze “anormali ed imprevedibiliin ambito migratorio che sfuggono al controllo degli stati membri e le cui conseguenze non avrebbero potuto essere evitate neanche con l’impiego di tutta la dovuta diligenza». (La Commissione come esempi cita l’ipotesi dell’emergenza epidemiologica da Covid 19 e la crisi al confine tra Grecia e Turchia nel 2020).

Nel caso di “forza maggiore” tuttavia diversamente dallo stato di crisi la procedura non si attiva con una richiesta dello stato membro che deve passare al vaglio della Commissione bensì con una semplice «dichiarazione unilaterale dello stato» per cui appaiono ancora più evidenti i margini di discrezionalità che possono insinuarsi in tale procedura. Con la dichiarazione di una situazione di “forza maggiore” infatti lo stato dichiara che

«non sarà in grado di rispettare i termini per la procedura di richiesta asilo per cui potranno essere estesi fino a quattro settimane».

Non solo, rispetto al diritto del richiedente a una risposta in merito alla propria domanda d’asilo, lo stato

«dichiara che non sarà possibile rispettare i termini della procedura in termini di “presa (e ripresa) in carico” del richiedente e i limiti previsti per il trasferimento del medesimo verso lo stato competente in base al regolamento Dublino. Infine, lo stato dichiara che non sarà possibile rispettare neanche l’obbligo dell’attuazione delle misure di solidarietà che quindi potranno essere sospese fino a 6 mesi».

Anche in questo caso l’unico aspetto positivo è la previsione della concessione al migrante della protezione immediata – già menzionata con riferimento alla situazione di crisi – che deve essere concessa

«nell’evenienza della sospensione della domanda di protezione internazionale e sulla base della quale il cittadino del paese terzo possederà gli stessi diritti sociali ed economici del titolare di protezione sussidiaria».

In ogni caso al termine del periodo di sospensione gli stati dovranno valutare nel merito la domanda di protezione internazionale.

In conclusione, dall’analisi di tali proposte di regolamento sorprende non solo la mancanza, ancora una volta, di qualsiasi previsione di vie legali per l’accesso al territorio dell’Unione che non siano legate alla domanda di protezione internazionale – visto che in molti casi si presuppone la sua inammissibilità – ma quanti sforzi, e quali elucubrazioni ed acrobazie giuridiche si riescano a ideare pur di non rispettare principi fondamentali sui diritti degli individui che – prima ancora che nelle Convenzioni internazionali e nel diritto europeo – sono sanciti all’interno di ordinamenti nazionali come il nostro in particolare nella Costituzione all’art. 10 co. 3 e che i partiti nazionalisti qualificandosi come tali dovrebbero per coerenza rispettare e fare rispettare senza alcuna condizione di sorta in quanto principio immodificabile come deciso dai nostri padri costituenti.

L'articolo n. 22 – Regolamento sullo screening: il nuovo patto europeo sulla migrazione e l’asilo (II) proviene da OGzero.

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Guerre di religione: continuazione del colonialismo con altri mezzi https://ogzero.org/guerre-di-religione-continuazione-del-colonialismo-con-altri-mezzi/ Sat, 12 Nov 2022 08:48:30 +0000 https://ogzero.org/?p=9436 Gianni Sartori si propone come autodidatta che propone analisi “a naso”: avercene di nasi così raffinati! E soprattutto con una memoria storica e uno sguardo libertario come il suo. Peraltro l’analisi dei guasti del neocolonialismo è uno dei motivi per cui OGzero è nato e questo scritto ci sembra perfetto per avviare la discussione che […]

L'articolo Guerre di religione: continuazione del colonialismo con altri mezzi proviene da OGzero.

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Gianni Sartori si propone come autodidatta che propone analisi “a naso”: avercene di nasi così raffinati! E soprattutto con una memoria storica e uno sguardo libertario come il suo. Peraltro l’analisi dei guasti del neocolonialismo è uno dei motivi per cui OGzero è nato e questo scritto ci sembra perfetto per avviare la discussione che si fonde e intreccia con le altre che muovono masse di disperati, distruggono il clima, depredano territori, spacciano armi, innescano conflitti per controllare risorse. Si può interpretare questo uso della divisione religiosa come un nodo delle diverse emergenze del Finanzkapitalismus nella sua fase iperliberista, un nodo a cui arrivare dagli altri orrori geopolitici, o da cui partire per inserirlo nella rete che mette insieme l’uso politico-aggressivo della religione, il pastone mediatico, la scorciatoia militarista, l’espansionismo imperialista… ma partiamo dallo storico conflitto irlandese tra cattolici separatisti e unionisti protestanti e poi ci espandiamo nelle più complesse – ma riconducibili agli stessi modelli di potere – contrapposizioni mediorientali.


Solo un’ipotesi, la mia. Da “proletario autoalfabetizzato” senza pretese accademiche. A naso diciamo.
Se in passato le “guerre di religione” potevano, forse, esprimere (“fotografare”) in qualche modo i conflitti etnici e/o sociali del tempo (vedi alcune “eresie” e certe “riforme” diretta conseguenza dei conflitti di classe), direi che in seguito, perlomeno dal secolo scorso, il più delle volte sono state la copertura, la “vetrina” di interessate strumentalizzazioni.

Partiamo dall’Irlanda…

A titolo di esempio, il conflitto irlandese, soprattutto dopo la divisione dell’Isola di smeraldo. Se già nel Settecento cattolici e protestanti (discendenti i primi dagli indigeni irlandesi colonizzati, gli altri dai coloni scozzesi presbiteriani) avevano fatto fronte comune per l’indipendenza dell’Irlanda, anche in seguito (vedi gli scioperi di lavoratori salariati cattolici e protestanti a Belfast) non mancarono lotte comuni. A porvi fine intervennero le ricche borghesie filobritanniche (si veda La Casa d’Orange) elargendo piccoli privilegi e organizzando milizie settarie “lealiste” (v. Uvf). Non potendo utilizzare – che so – un diverso colore della pelle o diversità etniche rilevanti (in quanto entrambe le comunità erano di origine celtica, diversamente dagli inglesi anglosassoni – di origine germanica – e anglicani) si accontentarono di ampliare il modesto solco di natura religiosa.


Poi è andata come sappiamo. Esperimento sostanzialmente riuscito, un modello per future strumentalizzazioni a “geometria variabile”.

… e giungiamo tra le comunità beluci, curde e hazara

Quindi ritengo che anche le sanguinose faide mediorientali tra sunniti e sciiti (con ricadute particolarmente gravi per le minoranze qui presenti: yazidi, alaviti, assiro-cristiani, zoroastriani…) siano state perlomeno “pompate”, gonfiate, esasperate ad arte.
Quanto è avvenuto nelle aree curde, occupate militarmente dalla Turchia, di Afrin e di Sere Kaniyê (Nord della Siria) appare emblematico. Non essendo in grado di controllare adeguatamente le proprie milizie mercenarie (vedi l’Esercito Nazionale Siriano, Sna), Ankara si starebbe affidando direttamente al gruppo terrorista Hayat Tahrir al-Sham (Hts, successore di al-Nusra), con tutta probabilità l’emanazione locale di al-Qaeda.

Il ruolo della Turchia

Anche perché tra le fila di alcune formazioni sul libro paga di Ankara ultimamente serpeggiava, oltre al malcontento, anche una certa preoccupazione.

Le voci su un possibile riavvicinamento tra Ankara e Damasco (patrocinato da Mosca) lasciava intravedere la possibilità di venir scaricati, se non addirittura consegnati, per diversi membri delle milizie mercenarie. In quanto ricercati da Damasco potrebbero venire estradati e questo suggerisce una possibile spiegazione su alcuni episodi di insubordinazione. Come per gli scontri a mano armata intercorsi tra membri di Jabhat al-Shamiya e di Jaish al-Islam.
Tali dispute ricorrenti (oltre al rischio concreto di insubordinazione e defezione) tra le diverse fazioni di Sna (forse non adeguatamente attrezzate, oltre che sul piano politico, anche in quello religioso?) avrebbero suggerito a Erdoğan di far leva sul maggiore entusiasmo, fervore religioso (eufemismo per fanatismo) di Hts. Un fanatismo indispensabile per annichilire le minoranze “eretiche” e non omologate (tutti apostati, dissidenti, “pagani”… addirittura comunisti o anarchici talvolta) del nord della Siria. Nella prospettiva di ulteriori invasioni.
Già all’epoca delle prime manifestazioni contro il regime siriano si assisteva a una proliferazione di gruppi armati, in genere appoggiati, oltre che dalla Turchia, da alcuni stati del Golfo come il Qatar.

Negli Usa è ancora in corso il processo contro “Qatar Charity” e contro Qatar Bank per aver finanziato con 800.000 dollari il leader dell’Esercito Islamico Fadhel al-Salim.

Pulizie etnico-religiose nella Mezzaluna sciita

Per inciso, è probabile che questo stia oggi avvenendo in Iran, nel tentativo di strumentalizzare, “dirottare” altrove, le legittime proteste popolari. Con un occhio di riguardo per i beluci, già manovrati in passato anche da qualche potenza imperialista di Oltreoceano. Come da manuale, ça va sans dire, anche i beluci ci mettono “del loro”: per esempio in Pakistan alcuni gruppi indipendentisti beluci sono ritenuti responsabili di vere e proprie stragi ai danni degli hazara, un’altra minoranza, ma di fede sciita.
Va anche detto che da parte sua la Repubblica islamica sembra far di tutto per fornire pretesti in tal senso. In una recente manifestazione (4 novembre 2022) a Khach, provincia di Zahedan, le forze di sicurezza hanno ucciso una ventina di civili beluci (16 le vittime identificate, tra cui alcuni bambini) ferendone oltre sessanta. Da segnalare – stando a quanto dichiarato da alcuni attivisti – che altri feriti erano poi deceduti non essendo stati traspostati all’ospedale dove rischiavano seriamente di essere arrestati.


Un’altra strage di 90 civili beluci era già avvenuta, sempre nella provincia di Zahedana, il 30 settembre.

Appare evidente che – analogamente a quella curda – anche la popolazione minorizzata dei beluci (“minorizzata” e non minoritaria, in quanto divisa da frontiere statali) in Sistan e Baluchistan subisce quotidiane discriminazioni ed è sottoposta a una dura repressione (come del resto altre comunità delle aree periferiche del paese) da parte di Teheran.
Sia per la loro appartenenza etnica, sia per ragioni religiose in quanto sunniti.
Il comandante di al-Nusra, Al-Hana (Abu Mansour al-Maghrebi) arrestato nel 2020 in Iraq aveva rivelato che lo sceicco Khalid Sueliman (della potente famiglia al-Thani), a capo del Jabhat al-Nusra (e pare anche delle organizzazioni derivate), veniva finanziato con qualcosa come un milione di dollari al mese. Turchia e Qatar sosterrebbero, sia finanziariamente, sia con la fornitura di armamenti, i vari gruppi combattenti emanazione dei Fratelli musulmani salafiti in quanto utile strumento per la loro politica estera. Anche in chiave panislamica.

Guerra turca ai curdi in Siria

Alcune organizzazioni hanno stabilito un’analogia, per vastità e inasprimento, tra l’attuale repressione in Iran e i massacri subiti dai beluci a Deraa (in Siria) nel 2011, denunciati dall’Onu come crimini di guerra.
Storicamente accertato che potenze regionali ostili a Damasco avevano favorito la militarizzazione (vedi appunto la formazione di Sna) e l’escalation del conflitto.
Oltre che a Sna, la Turchia non avrebbe lesinato nel fornire sostegno al fronte al-Nusra (dal 2012 nella lista del terrorismo internazionale in quanto ritenuto emanazione di al-Qaeda) e addirittura a Daesh. Formazioni entrambe notoriamente jihadiste.

Quanto al fronte al-Nusra, va ricordato che nell’ottobre 2012 attaccava i distretti autonomi di Şêxmeqsûd e Eşrefiye (regione di Aleppo) uccidendo decine di curdi. Subito dopo gli ascari jihadisti si scagliavano contro Afrin, incontrando però la ferrea resistenza delle Ypg/Ypj. Nel voler annichilire in primis le zone curde del Rojava (dove si sperimentava la rivoluzione del Confederalismo democratico) il Jabhat al -Nusra si smascherava da solo, mostrando apertamente di agire su indicazione della Turchia.

Sempre nel 2012, in novembre, veniva attaccata, partendo direttamente dalla Turchia, anche Serêkaniyê. Un’operazione congiunta tra al-Nusra e alcune milizie curde collaborazioniste legate al Pdk. Entrando in alcuni dei quartieri a maggioranza araba di Serêkaniyê, queste milizie si spacciavano per ribelli antiAssad cercando di stabilire alleanze. Solo successivamente (il 19 novembre) partiva il brutale attacco contro i quartieri a maggioranza curda. Veniva assassinato il sindaco della città e la chiesa diventava un bivacco per il loro quartiere generale.

Nel frattempo la loro già consistente presenza veniva rinforzata dall’apporto della cosiddetta Coalizione nazionale (Etilaf), che – secondo i curdi – sarebbe al Etilaf di Sna o comunque della sua derivazione, il “governo di transizione siriano”. Oltre al seggio di Istanbul, Etilaf ne controlla uno anche a Berlino (oltretutto finanziato dal governo tedesco).
Avrebbe anche una certa influenza in alcuni progetti (ugualmente finanziati dal governo tedesco) che sembrano funzionare come “specchietti per allodole”, allo scopo di creare cortine fumogene sulla realtà della situazione curda. Tra questi, il Centro europeo di studi curdi (Ezks) e il sito Kurdwatch, divulgatore di notizie farlocche intese a giustificare le operazioni militari di Erdoğan nel Nord della Siria e nel Nord dell’Iraq. Ma nonostante questo ulteriore apporto di milizie, successivamente venivano scacciati dalla popolazione insorta dei quartieri curdi, grazie anche all’intervento dei combattenti di Ypg e Ypj.

Gli scontri ripresero, durissimi, nel gennaio 2013. Praticamente una vera e propria ammucchiata di gruppi mercenari guidata da al-Nusra quella che contese per circa due settimane il controllo dei quartieri alle milizie curde. Sconfitte nuovamente, le truppe jihadiste si misero in salvo direttamente oltre il confine turco (immediatamente blindato dai soldati turchi per maggior sicurezza), ma lasciando in mano ai curdi un’ampia documentazione della loro intensa collaborazione con Ankara.
Purtroppo durante la ritirata sia al-Nusra che Daesh non mancarono di vendicarsi sulla popolazione curda con una vile rappresaglia.

Come a Til Eran (luglio 2013) e a Tal Hasil. Dichiarando pubblicamente, attraverso le moschee, che sia il bagno di sangue nei confronti della popolazione curda (circa un’ottantina le vittime accertate) che il sequestro-rapimento delle donne curde (prelevate a centinaia) era giustificato dal punto di vista religioso. Rastrellando poi casa per casa le due località sopracitate alla ricerca di “Apoisti”, ossia di seguaci di Apo Öcalan. Oltre a quelli crudelmente assassinati (alcuni bruciati vivi, con le immagini poi diffuse nei social), vanno considerati anche i desaparecidos (qualche decina) e i cadaveri (una ventina) di cui non è stata possibile l’identificazione.

Til Hasil

Da sottolineare che – per quanto entrambe aspirassero alla supremazia – Al-Nusra e Daesh (o Stato Islamico che dir si voglia) non smisero mai di collaborare proficuamente. Sia garantendo una certa “osmosi” di combattenti –praticamente intercambiabili – da una formazione all’altra (in base alle necessità del momento), sia dandosi il cambio, alternandosi nel controllo delle aree occupate. E soprattutto instaurando congiuntamente durante l’occupazione delle città, dei villaggi e dei quartieri curdi un aspro regime di ispirazione salafita. Anche a livello di tribunali islamici dove operavano in coppia.

Sempre sotto la supervisione di Ankara ovviamente. L’assalto al carcere di Sina à Hesekê (gennaio 2022) era stato pianificato dai territori occupati dalla Turchia.

Come già detto negli ultimi tempi al-Nusra aveva cercato di “riciclarsi” prendendo (almeno ufficialmente) le distanze da al-Qaeda e cambiando pelle e nome. Diventando prima, nel 2016, Liwa Fatah al-Sham e successivamente, nel 2017, appunto Hayat Tahrir al-Sham (Hts, in realtà una finta coalizione di vari gruppi, sostanzialmente sotto il controllo della vecchia al-Nusra, comunque denominata). Attualmente la casa madre sarebbe localizzata in quel di Idlib, in felice coabitazione con l’alleato turco. Allo scopo dichiarato di soffocare il risorgere e la diffusione del Confederalismo democratico in questa parte del Rojava. Esperienza pericolosa perché esemplare e contagiosa, soprattutto così in prossimità del confine turco.

Dal maggio di quest’anno (a seguito dell’incontro di Idlib-Sarmada con esponenti del regime turco) le milizie di Hts hanno ripreso a riposizionarsi e raggrupparsi su Idlib puntando quindi su Afrin. Inoltre si sarebbero acquartierati anche nelle zone di Girê Spî, Azaz, al-Bab, Cerablus e intorno alla città di Minbić (ancora gestita dall’amministrazione autonoma).
Sempre in vista di ulteriori attacchi in Rojava.

Per concludere, pur essendo presto rientrato nella lista nera dei gruppi terroristi, Hts continua a godere dei finanziamenti di Turchia, Qatar, Arabia Saudita…
Pare anche di qualche non meglio identificato “paese occidentale”…

Vai a sapere.

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“Alta Marea” in America Latina https://ogzero.org/alta-marea-in-america-latina/ Tue, 08 Nov 2022 20:30:20 +0000 https://ogzero.org/?p=9403 Il Brasile svolta con fatica. I governanti sovranisti usano ogni trucco pur di non lasciare il potere: fake news, calunnie, alleanze con il peggio della società retriva e delle sette religiose; Bolsonaro ne è un modello, come Trump. Ma il Brasile ha indubbiamente svoltato non rieleggendo per la prima volta il proprio presidente al secondo […]

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Il Brasile svolta con fatica. I governanti sovranisti usano ogni trucco pur di non lasciare il potere: fake news, calunnie, alleanze con il peggio della società retriva e delle sette religiose; Bolsonaro ne è un modello, come Trump. Ma il Brasile ha indubbiamente svoltato non rieleggendo per la prima volta il proprio presidente al secondo mandato. Questo però apre a uno scenario apparentemente positivo per un Latinoamerica che vede la stragrande maggioranza dei paesi governati da esponenti di variegate sinistre, ciascuna con peculiarità diverse ed elementi che gettano ombre da un lato sull’effettiva attenzione ai diritti civili (la dinastia nicaraguense, il partito unico cubano), dall’altro sulla reale volontà di eliminare diseguaglianze, sganciarsi dal giogo neoliberista (in particolare in Cile) o dal paternalismo (il Perù di Castillo). Tutto questo produce incertezza: sarà possibile per questi governi progressisti contenere il consueto ritorno del populismo fascistoide? quale unità della nuova “Marea Rosa” si potrà ottenere con queste radici tra loro diversissime e senza un collante che vent’anni fa proveniva dal carisma di alcuni leader e dal laboratorio sociale in fermento?
Da questa situazione prende spunto Diego Battistessa, che già in altri snodi si era peritato di cogliere possibili sviluppi per le comunità latinoamericane, per riassumere le puntate immediatamente precedenti – schieramenti, accordi, patti, strategie degli ultimi 30 anni, dal crollo del muro… – e tentare di immaginare i temi che rappresentano la sfida per i progressisti sudamericani: o riusciranno a cambiare le condizioni di vita, le strutture economiche, le disparità imposte dal neoliberismo, le storture puramente mediatiche; oppure tornerà la ferocia bolsonarista, che sopravvive al fantoccio Bolsonaro.

Fin qui OGzero…   


Il Giro di Giostra

Con la vittoria di Luiz Inácio Lula da Silva in Brasile il 30 ottobre scorso, sono quasi 570 milioni le persone che a oggi in America Latina sono governate dalla sinistra: quasi il 90% di un subcontinente la cui popolazione si aggira intorno ai 640 milioni di abitanti. Tra questi paesi figurano le 5 più grandi economie della regione: Brasile, Messico, Argentina, Colombia e Cile.
Uno scenario storico che ci riporta a una nuova manifestazione espansiva della cosiddetta “Marea Rosa”, apparsa all’inizio del terzo millennio con un giro, una svolta a sinistra di molti paesi della regione latinoamericana. Oggi questa marea è ancora più estesa (da capire se anche più forte) visto che include Messico e Colombia (anche se ha perso Uruguay ed Ecuador).
Vediamo però da dove viene questa ondata di “governi di sinistra”, in quale contesto storico si è generata e soprattutto di che sinistra (sinistre) stiamo parlando quando osserviamo con maggiore dettaglio cosa succede nel contesto latinoamericano.

Doveroso a questo punto premettere la definizione di “gringo”, perché la diffidenza nei suoi confronti è uno dei collanti, forse il più viscerale per gli abitanti del Cono Sur, e allora eccolo:

Esistono varie versioni sull’origine della parola “gringo”, qui vediamo le due più diffuse. La prima versione, accreditata dalla Reale Accademia Spagnola dice che “Gringo” equivale a «straniero, soprattutto di lingua inglese o persona che generalmente parla una lingua diversa dallo spagnolo». Gringo è un’antica parola spagnola che si è evoluta dalla parola “greco”, perché quando si ascoltava parlare qualcuno una lingua sconosciuta, si diceva che ti stavano “parlando in greco”, spiega il linguista messicano Luis Fernando Lara alla BBC Mundo. La seconda versione ci riporta alla guerra tra Messico e Stati Uniti d’America nella quale i soldati messicani solevano gridare “Green go home!” riferendosi al colore dell’uniforme degli statunitensi. Sulla stessa linea un’altra versione dice che i battaglioni statunitensi erano identificati con dei colori e che quando il battaglione verde si lanciava all’attacco, nell’aria risuonava il grido: “Green go!” Ad ogni modo il termine oggi è usato in America Latina per definire in modo specifico gli statunitensi e in modo generico uno straniero: il primo uso in un testo scritto in inglese rimonta al 1849.

Il Foro de São Paulo come risposta al criminale imperialismo “Gringo”

Tutto nasce nel Foro de São Paulo, che è stato senza ombra di dubbio l’embrione di quanto oggi vediamo nella regione. Dal sito della stessa organizzazione possiamo leggere l’incipit della presentazione:

«Il Forum trae origine nel luglio 1990 dall’appello rivolto a partiti, movimenti e organizzazioni di sinistra da parte di Lula e Fidel Castro, affinché si riflettesse al di là delle risposte tradizionali sugli eventi successivi alla caduta del muro di Berlino (9 novembre 1989) e sui possibili percorsi alternativi e autonomi per la sinistra dell’America Latina e dei Caraibi».

In quel primo storico incontro parteciparono in 48, tra partiti e organizzazioni, plurali e diverse ma tutte appartenenti all’arco politico della sinistra, che firmarono la Dichiarazione di San Paolo, manifestando obiettivi precisi e una comunione d’intenti in chiave antineoliberista. In quel documento possiamo sottolineare l’intenzione di continuare a elaborare proposte di unità consensuale di azione nella lotta antimperialista e popolare, di produrre sforzi mirati alla promozione di scambi specializzati su problemi economici, politici, sociali e culturali e di definire, in contrasto con la proposta di integrazione sotto il dominio imperialista, le basi di un nuovo concetto di unità e integrazione continentale.

Un manifesto per una nuova visione latinoamericana, lontana dalla “Dottrina Monroe” (Monroe Doctrine, 1823), dall’“Operazione Condor” (Operación Cóndor, 1975-1989) e dal “Accordo di Washington” (Washington Consensus, le riforme neoliberali raccomandate nel 1989). Il preludio di quanto sarebbe successo solo 10 anni dopo…

Monroe Doctrine

Il concetto di Dottrina Monroe fa riferimento al principio della politica estera degli Stati Uniti d’America di non consentire l’intervento delle potenze europee negli affari interni dei paesi dell’emisfero americano. Questa dottrina deriva da un messaggio al Congresso del presidente James Monroe  inviato il 2 dicembre 1823 (paragrafi 7, 48 e 49). Si riassume nella famosa frase «America agli americani» dove per americani si fa ovviamente riferimento agli uomini bianchi del Nordamerica, ma soprattutto “non alle potenze coloniali”.

Operación Cóndor

«L’Operazione Condor invade il mio nido: io perdono, però non dimenticherò mai», canta il famoso gruppo portoricano Calle 13 in uno degli inni moderni della regione: la canzone lanciata nel 2011:

Quando parliamo di questa operazione, anche conosciuta come Plan Condor facciamo riferimento a una strategia di ingerenza criminale degli Usa, messa in atto per frenare l’espansione dei governi di sinistra nella regione latinoamericana. Dopo il trionfo della rivoluzione cubana (1° gennaio 1959) e i successivi falliti tentativi statunitensi di diroccare Fidel Castro, la Casa Bianca dette il via libera a una nuova strategia che “raffinava” quanto già la Cia (Agenzia Centrale di Intelligence) stava realizzando nella regione. Per contrastare l’insediamento di governi di sinistra in America Latina nei primi anni della Guerra Fredda gli Usa promossero e finanziarono diversi colpi di stato (golpe) come parte del loro interesse geostrategico nella regione. Tra questi ricordiamo il colpo di stato guatemalteco del 1954, il colpo di stato brasiliano del 1964, il colpo di stato cileno del 1973 e il colpo di stato argentino del 1976. Paesi nei quali vennero poi installate feroci dittature militari di destra, che commisero massive violazioni dei diritti umani, tra le quali detenzioni illegali di sospetti oppositori politici e/o dei loro parenti, torture, stupri, sparizioni forzate e traffico di bambini. Tutto questo sotto lo sguardo compiacente e complice degli Stati Uniti d’America che appoggiarono questi regimi fino a quando la pressione internazionale e la pressione dell’opinione pubblica interna non obbligò Washington a fare marcia indietro. Le dittature nelle quali l’intervenzionismo “gringo” ha lasciato il segno (e una lunga scia di sangue) prima e durante il “Plan Condor” sono quelle di Fulgencio Batista a Cuba, Rafael Trujillo nella Repubblica Dominicana, la famiglia Somoza in Nicaragua, Tiburcio Carias Andino in Honduras, Carlos Castillo Armas in Guatemala, Hugo Banzer in Bolivia, Juan María Bordaberry in Uruguay, Jorge Rafael Videla in Argentina, Augusto Pinochet in Cile, Alfredo Stroessner in Paraguay, François Duvalier in Haiti, Artur da Costa e Silva e il suo successore Emílio Garrastazu Medici in Brasile e Marcos Pérez Jiménez in Venezuela. I nuovi processi democratici nella regione iniziarono solo tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli Ottanta, mentre si estendeva e rafforzava tra i popoli dell’America Latina un forte sentimento antistatunitense e antimperialista.

Washington Consensus

Per Accordo di Washington si intende un insieme di “ricette” economiche neoliberiste promosse da varie organizzazioni finanziarie internazionali negli anni Ottanta e Novanta. Proposte che formavano un nuovo decalogo del neoliberismo volto ad affrontare la crisi economica del 1989 in America Latina, regione che stava vivendo una lunga e drammatica recessione, passata alla storia come il decennio perduto. Fu l’economista britannico John Williamson a coniare il termine in un suo articolo del 1989 che esaminava le dieci misure economiche professate dal Fondo Monetario Internazionale (Fmi), dalla Banca Mondiale, dalla Banca Interamericana di Sviluppo e dal Dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti d’America: tutte istituzioni con sede a Washington DC.


Anche per introdurre gli eventi del nuovo millennio con le fughe in avanti progressiste e i bruschi ritorni all’ordine reazionari va spiegato il concetto di “Socialismo del XXI secolo”:

l’espressione fa riferimento al concetto originariamente formulato nel 1996 dal sociologo tedesco Heinz Dieterich Steffan e si riferisce alla combinazione di socialismo con democrazia partecipativa e diretta. È una tendenza che cerca di dare risposte al grave problema del sottosviluppo in cui l’America Latina vive sommersa a causa delle devastazioni del capitalismo. Il socialismo del XXI secolo è una manifestazione attuale del socialismo; cioè del periodo di transizione relativamente lungo dal capitalismo al comunismo. Pertanto, questo “nuovo socialismo” prende spunto dalle precomprensioni socialiste che si trovano nei fondatori del marxismo. Il socialismo del XXI secolo presuppone uno sfondo democratico: è necessario costruire una democrazia partecipativa o diretta nella regione e in ciascuno dei suoi paesi che lasci alle spalle la tradizionale democrazia rappresentativa. Il punto di partenza deve essere la dignità inviolabile di ogni essere umano, che richiede la considerazione dell’uomo come un essere eminentemente sociale, di tendere al pieno sviluppo umano, di istituire una democrazia partecipativa, di creare un nuovo modello economico e di raggiungere un alto grado di decentramento

La prima apparizione ufficiale del termine in America Latina si deve a un discorso dell’allora presidente del Venezuela, Hugo Chávez, il 30 gennaio 2005 dal V World Social Forum.

La “Marea Rosa”: il socialismo del XXI secolo

Come detto, nel Foro de São Paulo si comincia a dare vita a un nuovo sogno latinoamericano che verrà poi plasmato da eventi storici come il primo forum sociale mondiale di Porto Alegre (Brasile) nel 2001 nel quale si forgia la consegna “Un altro mondo è possibile”. In quegli anni la regione è attraversata da enormi livelli di disuguaglianza e da una frustrazione nell’accessibilità di grandi fasce della popolazione ai diritti fondamentali: basti pensare che nel 2002 vivevano in povertà 221 milioni di latinoamericani, ovvero all’epoca il 44% della popolazione della regione. Per rispondere a questa situazione e frenare le politiche neoliberali proposte (imposte) da Washington, sorgono nuovi leader che, anche grazie alla legalizzazione della concorrenza elettorale (con la transizione alla democrazia in America Latina i partiti di sinistra hanno potuto competere per il potere), guidano i popoli oppressi della regione a una rivincita storica.

L’inizio di quella che verrà chiamata in seguito “Marea Rosa” (termine di Larry Rohter, inviato del “NY times” per seguire le elezioni in Uruguay) si ha con l’elezione di Hugo Rafael Chávez Frías in Venezuela, che assume il potere il 2 febbraio 1999. Un momento cruciale nel quale si consolida il primo governo di un partito membro del Foro de São Paulo e che segna l’inizio di un’onda socialista e progressista seguita dalle vittoriose elezioni di Luiz Inácio Lula da Silva in Brasile (2003), Néstor Kirchner in Argentina (2003), Tabaré Vázquez in Uruguay (2005), Evo Morales in Bolivia (2006), Michelle Bachelet in Cile (2006), Rafael Correa in Ecuador (2007), Daniel Ortega in Nicaragua (2007) e José “Pepe” Alberto Mujica in Uruguay (2010). Si configura quindi un nuovo assetto latinoamericano che ruota intorno a innovativi progetti di integrazione economica e politica come l’Alba e l’Unasur e che riporta Cuba e la sua rivoluzione al centro del panorama politico.

Questa prima ondata della “Pink Tide”, il termine inglese per “Mare Rosa”, subisce però una brusca frenata dopo la fine del primo decennio del 2000, situazione aggravata poi dalla forte recessione del 2012. La morte di Chavéz prima (2013) e di Fidel Castro poi (2016), gli scandali di corruzione (soprattutto Argentina e Brasile) e uno spinto “caudillismo” presidenziale che in molti casi ha spinto i leader a mettere in dubbio le basi del sistema democratico (così per come si concepisce in Europa), ha portato un risorgimento delle forze conservatrici. Partiti di destra che hanno ripreso il controllo delle principali economie della regione partendo dall’Argentina nel 2015, passando poi per il Brasile nel 2016 e per il Cile nel 2017.

Il gruppo di Lima

Nel 2017, in quel contesto e sospinto dal crollo economico Venezuelano che ha provocato un esodo di milioni di persone dal paese sudamericano (a oggi più di 7 milioni secondo l’Onu), prende forma un nuovo gruppo di lavoro con un baricentro palesemente spostato verso destra. Questo consorzio di Stati latinoamericani (e non) , prende il nome di Gruppo di Lima e si configura come un organismo multilaterale basato sulla Dichiarazione di Lima dell’8 agosto 2017. Quel giorno rappresentanti di dodici paesi ufficializzano il loro appoggio all’opposizione venezuelana contro il chavismo-madurismo, per accompagnare un processo negoziato e pacifico che possa portare al superamento della crisi multilivello del Venezuela. Vengono stabilite delle condizioni di base per la negoziazione come la liberazione dei prigionieri politici, lo svolgimento di libere elezioni con supervisione esterna, la possibilità di far entrare aiuti umanitari e la necessità di riportare una separazione di poteri nel Paese. I paesi firmatari della dichiarazione furono: Argentina, Brasile, Canada, Cile, Colombia, Costa Rica, Guatemala, Honduras, Messico, Panama, Paraguay e Perù. A questi si sono aggiunti in seconda battuta Guyana, Haiti e Santa Lucia, mentre la Bolivia si è unita con la gestione di Jeanine Áñez (oggi in carcere) dopo la crisi politica del 2019 che ha portato all’uscita di Evo Morales dal paese. Il documento ha ricevuto l’appoggio anche dell’Unione Europea, dell’Oea (Organizzazione degli Stati Americani) oltre che degli Stati Uniti d’America, Barbados, Granada e Giamaica. Con il Lima Group si configura dunque una antitesi del Foro de São Paulo che rende chiara la lotta ideologica e politica che attraversa l’America Latina. Il Gruppo di Lima ha lavorato per ottenere l’isolamento politico venezuelano, con sorti alterne e varie vicissitudini. Nicolás Maduro ha sempre potuto contare, oltre che sull’appoggio dell’alleato storico Cuba, anche sula vicinanza del Nicaragua e fuori dalla regione sul sostegno di Russia e Iran. Inoltre i circa due anni di attività del Gruppo, che formalmente non è ancora sciolto, hanno dovuto fare i conti con l’inizio di una nuova ondata socialista che ci porta alla situazione odierna e che ha visto l’Argentina (da paese fondatore e firmatario) lasciare l’organismo nel 2019, Messico e Bolivia ritirare l’appoggio all’opposizione venezuelana e disconoscere la dichiarazione, oltre allo stesso Perù che ha riallacciato relazioni diplomatiche con il Venezuela di Maduro. A questo si aggiunge la visita del 1° novembre 2022 del presidente colombiano Gustavo Petro al palazzo di Miraflores a Caracas, in un incontro storico con Nicolás Maduro che segna un nuovo riavvicinamento diplomatico tra le sue nazioni sorelle. È da immaginare che anche Lula in Brasile, da gennaio 2023 farà lo stesso.

Una nuova “Alta Marea”

La nuova ondata socialista che ha visto il suo apogeo con il voto del 30 ottobre in Brasile inizia nel 2018 con la storica vittoria di Andrés Manuel Lopez Obrador “Amlo” in Messico, continuando nel 2019 in Argentina con l’elezione di Alberto Fernández, passando poi nel 2020 in Bolivia con l’elezione di Arce, nel 2021 in Perù con Pedro Castillo, in Honduras con Xiomara Castro e in Cile con Gabriel Boric, per arrivare a questo 2022 in Colombia con Gustavo Petro e ora in Brasile con il terzo mandato di Lula.

L’analisi di questo nuovo zenit dei partiti di sinistra può estendersi a molti ambiti ma sicuramente va riconosciuto che la prima “Marea Rosa” aveva raggiunto importanti traguardi legati all’inclusione, all’equità, ai diritti e alla dignità dei popoli indigeni e alla democratizzazione delle risorse. Le donne hanno avuto accesso a posizioni di potere effettivo in politica e nell’esercito e l’agenda dei diritti umani aveva compiuto un notevole salto in avanti soprattutto riguardo a minoranze storicamente perseguitate ed escluse come il collettivo Lgbtqi+.

Ora si apre uno scenario nuovo nel quale la sinistra (le sinistre) latinoamericane si trovano a dover convivere con un contesto globale più che mai volatile e frammentato. Da un lato la guerra in Ucraina, dall’altro gli interessi economici e geostrategici di Stati Uniti d’America, Russia e Cina che per motivi diversi continuano a guardare all’America Latina come un bacino di risorse, commerciale e di influenza, per arrivare agli effetti della pandemia da Covid-19, che ha riportato le lancette dell’orologio indietro di 10-15 anni rispetto ai livelli di povertà e disuguaglianze.

Che sinistra(e) e che democrazia?

El pueblo unido, jamás será vencido” cantava la banda cilena Quilapayún in un manifesto di protesta politica e di futuro possibile che per decenni ha scaldato i cuori “rossi” dell’America Latina e non solo. Un passaggio di questa storica canzone scritta da Sergio Ortega Alvarado e lanciata nel 1973 intona: «De pie, cantar que vamos a triunfar. Avanzan ya banderas de unidad…».

Repressione del dissenso / Condivisione di linee guida socialiste

Cantiamo, in piedi, andiamo a trionfare. Stanno già avanzando le bandiere dell’unità, uno degli attacchi più famosi del mondo nei cori imponenti dei concerti degli Inti Illimani. Ma è proprio sulle bandiere dell’unità che si gioca oggi la partita nella regione. Si perché se un da un lato e in modo generico, vengono definite tutte sinistre quelle che governano oggi in America Latina, tra le stesse esistono fratture e differenze che riguardano la percezione dello stato di diritto, il rispetto dei diritti umani e il contenuto della parola democrazia. È possibile definire Cuba, Nicaragua e Venezuela degli Stati di Diritto? Secondo la definizione canonica, che ci parla degli elementi di base dello stesso (impero della legge, separazione dei poteri, rispetto dei diritti fondamentali) si direbbe proprio di no. Non solo non esiste separazione dei poteri (partito unico a Cuba, controllo totale dello stato da parte del partito di governo in Venezuela, vera e propria istituzionalizzazione della dinastia Ortega-Murillo in Nicaragua) ma assistiamo a una persecuzione totale del dissenso, una privazione del diritto di libertà di espressione e una massiva e strutturale violazione di una lunga lista di diritti umani. Attenzione perché queste critiche non vengono da governi conservatori della regione quali, per esempio quello di Guillermo Lasso in Ecuador, ma bensì da governi di una nuova (e a volte giovane) sinistra come quella di Gabriel Boric in Cile o quella di Petro in Colombia.

Le dichiarazioni del presidente cileno a inizio 2022 in un suo viaggio negli Stati Uniti d’America dove ha parlato alla Columbia University hanno marcato un chiaro punto di inflessione: «Mi dà davvero fastidio quando sei di sinistra e condanni la violazione dei diritti umani in Yemen o El Salvador, ma non puoi parlare delle violazioni degli stessi in Venezuela, Nicaragua o Cile». Aggiungendo poi che non è possibile avere un doppio standard di valutazione perché si tratta di temi di civiltà e non di ideologia. Sempre Boric nel giugno 2022, nel contesto della sua partecipazione al Summit delle Americhe a Los Angeles ha fortemente criticato la repressione del governo cubano contro i manifestanti: «Oggi ci sono delle persone incarcerate a Cuba solo per pensare diversamente (rispetto al partito di governo) e questo per noi è inaccettabile».

Insomma una prima frattura cavalcata poi anche da Gustavo Petro, che già con la fascia presidenziale non ha risparmiato critiche contro Chávez e Ortega (Venezuela e Nicaragua): «Per noi i diritti umani sono fondamentali. La prima discussione che ho avuto con Hugo Chávez mentre era in vita, e forse l’ultima prima della sua morte, riguardava proprio il rispetto del sistema interamericano dei diritti umani. Molti di noi devono la vita, incluso io, a questo sistema dal quale Chávez ha deciso di far uscire il Venezuela», ha affermato Petro in una intervista internazionale a fine giugno 2022. Parlando di Nicaragua ha poi aggiunto: «Coloro che sono imprigionati oggi in Nicaragua sono quelli che hanno fatto la rivoluzione contro la dittatura di Anastasio Somoza», sottolineando che «erano nostri amici e ora sono in prigione. E perché? Ebbene, perché ci sono delle derive che non sono più propriamente democratiche e che vanno evitate».

Le difficoltà e il rischio di risacca

Insomma una chiara e netta frattura sul rispetto dei diritti umani e sul concetto di democrazia, che non può essere sminuito solo all’esercizio del voto (soprattutto quando questo si esercita nella più totale repressione e vulnerabilità). A questo si aggiunge una instabilità interna ai vari paesi del “blocco” di sinistra che potrebbe cambiare la scacchiera con nuovi possibili ritorni di fiamma dei governi conservatori. Pedro Castillo in Perù è in crisi di governo fin dal primo giorno di presidenza e ha già affrontato due mozioni di censura e ora un processo costituzionale. Alberto e Cristina (Fernández e Kirchner) Presidente e Vicepresidente in Argentina sono in rotta da tempo e le prossime elezioni presidenziali saranno tutte in salita per la sinistra argentina. Boric è in caduta libera di consensi e la sconfitta nel referendum per la nuova costituzione cilena a settembre 2022 ha fatto capire che il suo governo cammina “sulle uova”. In Bolivia il presidente Arce ha sostituito tutta la cupola militare a inizio novembre di fronte a quella che lui stesso ha qualificato come «una minaccia di un nuovo colpo di stato». In Messico, Andrés Manuel Lopéz Obrador deve provare a spegnere un incendio dopo l’altro (a livello interno) e la sua leadership regionale è molto debole. Cuba e Venezuela affrontano due crisi migratorie (ed economiche) senza precedenti e il Nicaragua è immerso in una guerra interna contro la Chiesa cattolica, tacciata come terrorista e dissidente da Daniel Ortega. Xiomara Castro non è ancora riuscita a dare un impulso forte al cambiamento in Honduras, sommerso da narcotraffico, impunità e violenza generalizzata. Petro ha dato il primo passo diplomatico con il Venezuela ma ora dovrà concentrarsi su questioni interne come le riforme promesse in campagna elettorale, il processo di Pace con l’Eln (Esercito di Liberazione Nazionale) e la questione del narcotraffico nel paese. Rimane da vedere che impronta darà Lula a questa nuova “Alta Marea”, giacché è l’unico grande leader carismatico sopravvissuto alla prima onda della “Marea Rosa” e veterano della prima riunione del Foro di San Paolo.

Anche su questo si sono confrontati Diego Battistessa e Alfredo Somoza

“Lula riprenderà per mano il Latinoamerica?”: un dialogo a caldo sulla vittoria di Lula tra Diego Battistessa e Alfredo Somoza su Radio Blackout.

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Dalla Perestrojka al Commonwealth in Africa https://ogzero.org/dalla-perestrojka-al-commonwealth-in-africa/ Sat, 17 Sep 2022 23:23:21 +0000 https://ogzero.org/?p=8921 Archiviando epoche: gli imperialismi seppelliscano gli imperi Parlando con Angelo Ferrari dei due suoi articoli scritti ultimamente per Agi che qui riproponiamo ci siamo convinti che seguendo queste tracce si possono avanzare ipotesi: se non tutte saranno verificabili, aiutano comunque nell’individuazione e valutazione di possibili strategie globali in ambito africano. Senz’altro queste comparazioni tra caratteristiche […]

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Archiviando epoche: gli imperialismi seppelliscano gli imperi

Parlando con Angelo Ferrari dei due suoi articoli scritti ultimamente per Agi che qui riproponiamo ci siamo convinti che seguendo queste tracce si possono avanzare ipotesi: se non tutte saranno verificabili, aiutano comunque nell’individuazione e valutazione di possibili strategie globali in ambito africano. Senz’altro queste comparazioni tra caratteristiche di periodi storici rendono conto di un passaggio epocale, scandito simbolicamente dalla morte di due ultranovantenni protagonisti della politica degli anni Ottanta: Michail Sergeevič Gorbačëv ha incarnato la fine della Guerra Fredda – con tutto ciò che la sua archiviazione ha significato per la spartizione di tasselli sullo scacchiere internazionale che facevano rigidamente riferimento all’una o all’altra grande potenza. La contrapposizione per blocchi è apparentemente un modello di rapporti tra grandi potenze che torna a riconfigurarsi, e di cui dovremmo analizzare cosa può riproporsi e in quali modalità, considerando anche il progresso delle comunità da depredare a trent’anni dalla caduta del muro e dalla trasformazione dei regimi marxisti-leninisti sostenuti dall’Urss in Africa.
Elisabeth Windsor-Mountbatten è stata la più rigida conservatrice dell’impero britannico così come le era stato consegnato, opprimendo con brutalità (fin dall’inizio soffocando le richieste di emancipazione dei Mau-Mau in Kenya); la spasmodica attenzione dei media francesi per le sue esequie è una buona cartina al tornasole, perché evidenzia la sensazione dei regicidi francesi che i destini delle due ex potenze coloniali siano strettamente correlati, angosciando gli ancora tanti nostalgici della grandeur, ma anche galvanizzando gli anticolonialisti come “Mediapart”, che preconizzano che, dopo il bagno di folla ebete dei funerali «Con la morte della regina Elisabetta II, il velo di oblio o di cecità intenzionale che ha coperto la mente pubblica britannica sul suo passato imperiale e coloniale scomparirà. I dannati della memoria si alzeranno in piedi e parleranno». E dopo il processo indipendentista a cavallo tra anni Cinquanta e Sessanta – che ha richiesto la trasformazione dell’approccio e dei processi di occupazione di territori, il loro saccheggio e il condizionamento economico –, ora non è l’emancipazione delle comunità autoctone ma la ripresa dell’espansione di quel colonialismo russo nel Continente nero (che i processi di apertura di Nikita Sergeevič Chruščëv prima e poi di Gorbačëv avevano trasformato, ridimensionandolo) a premere sulle acciaccate potenze coloniali europee.
E di nuovo l’impegno di Mosca sorge nel momento in cui la tensione ha il sopravvento sul multilateralismo. Queste pulsioni, assimilabili alle esigenze che spingono la Realpolitik turca a espandere la propria sfera di influenza su alcuni angoli africani, aggiungono un elemento che configura il neoimperialismo, echeggiando altri momenti epocali in cui si è assistito a conflitti di blocchi contrapposti: neo-ottomanesimo e neozarismo possono sperare che la divisione europea ridimensioni l’egemonia occidentale, approfittando di una nuova Guerra Fredda da cui trae linfa l’espansionismo autocratico nella realtà africana.
Fin qui OGzero, ma questo sproloquio attinge alle suggestioni e ai dati esibiti da Angelo Ferrari nei suoi due originali obituary. E non a caso iniziamo dallo studio sul rilancio del Commonwealth (l’espressione imperiale britannica rivale di quella zarista e dei sultani) che paradossalmente ottiene nuovo slancio dalla morte della simbolica depositaria per 70 anni della potenza inglese, dacché era già sovrana – ingombrante figura difficile da adeguare alle istanze indipendentiste dell’impero senza modificarne l’icona (interessante come nell’articolo di Angelo non venga citata, ma aleggi il venir meno di una prassi pluridecennale caratteristica del suo lungo regno) – quando gli stati decolonizzati entrarono nell’organizzazione grazie alla Dichiarazione di Londra che riformava il vecchio Commonwealth con un compromesso costituzionale, proprio in quegli stessi primi anni Sessanta che costrinsero alla apertura con la prima parziale sospensione della Guerra Fredda.

Ora il Commonwealth rappresenta una valida alternativa per la cooperazione economica tendente a 2 trilioni di scambi. Per gli altri c’è l’“amicizia” predona della Wagner, che non chiede conto alle leadership cresciute militarmente a Rostov (o disposte a scommettere di restituire i prestiti ai cravattari cinesi), di certo non è l’epilogo immaginato dalla perestrojka africana.


Il Commonwealth sempre più africano

Londra sta intensificando la sua presenza nel continente africano attraverso rapporti bilaterali, vuole – è stata la promessa fatta da BoJo nell’ultimo vertice afro-britannico a Londra il 20 gennaio 2020 – incrementare i suoi investimenti ed espandere il suo mercato. Vuole diventare il maggior investitore sul continente africano e superare gli altri membri del G7 e stiamo parlando di Stati Uniti, Canada, Francia, Germania, Giappone e mettiamoci anche l’Italia.

Carta d’identità dell’organizzazione

Il Commonwealth è il più grande gruppo di nazioni che non coinvolge la Russia o la Cina e gli conferisce, sono parole della Truss, «un peso crescente sulla scena mondiale». Quanto può valere entrare nell’ormai grande famiglia? Secondo Patricia Scotland, segretario generale dell’organizzazione nata sulle ceneri dell’impero britannico e andata ormai oltre le ex colonie di Londra, già oggi il commercio tra i paesi membri vale 700 miliardi di dollari. Ma l’obiettivo, anche guardando gli ultimi ingressi, Togo e Gabon, è di superare i 2 trilioni di dollari entro il 2030.
Il Commonwealth è un’organizzazione che conta 56 nazioni per un totale di 2,5 miliardi di abitanti, con un Prodotto interno lordo che si prevede salirà a 19,5 trilioni di dollari nei prossimi cinque anni.


Il Gabon, che si affaccia sul Golfo di Guinea, ultimo arrivato nell’organizzazione è un paese con una superficie boscosa molto rilevante ed è destinato a svolgere un ruolo importante nel commercio dei crediti di carbonio per combattere il cambiamento climatico. E questo, per Londra, è un vantaggio non da poco.

Strategia in chiave anticinese

Londra vuole aprire le sue porte all’Africa e il Commonwealth (oggi conta 21 paesi africani: Sudafrica, Ghana, Nigeria, Sierra Leone, Uganda, Kenya, Malawi, Tanzania, Zambia, Gambia, Botswana, Lesotho, eSwatini, Seychelles, Namibia, Camerun, Mozambico, Nauru, Ruanda, Gabon, Togo) potrebbe diventare la chiave di volta. Ma non solo. Nelle strategie di Londra rientra anche il contrasto alla Cina e in Africa la sfida sembra quasi improba. Ciò era negli intenti dell’ex premier Boris Johnson, ma ribaditi dall’attuale prima ministra, Liz Truss, che è stata molto chiara.

Il Regno Unito deve aumentare l’interscambio commerciale con i paesi del Commonwealth per contrastare la «grave minaccia della Cina ai nostri valori e al nostro modo di vivere, e firmare accordi commerciali con procedure accelerate con gli stati così da aiutare il Regno Unito e altre democrazie a vincere la lotta contro gli stati autoritari».

Truss ritiene che legami economici più stretti aiuteranno ad annullare lo schema della Belt Road Initiative della Cina in base alla quale Pechino ha finanziato progetti in dozzine di paesi in via di sviluppo che si sono rivelati come una “coercizione economica”.

Per allargare il mercato cade la pregiudiziale democratica

Tutti vogliono entrare nel Commonwealth e Londra apre le porte a chiunque, rinunciando anche ai principi fondativi dell’organizzazione delle ex colonie britanniche. Non guarda se è un paese è democratico, se rispetta i diritti fondamentali delle persone. Tutto questo, dopo la Brexit, non conta. Londra sembra avere mani libere, tanto da accettare nell’organizzazione membri che non hanno legami storici con il Regno Unito. Contano gli investimenti e le potenzialità di mercato che offre chi entra nell’organizzazione.

«In passato alcuni paesi africani non avevano relazioni con i paesi del Pacifico o con i paesi anglofoni», ha spiegato il ministro degli Esteri del Gabon – ex colonia francese – Michael Moussa-Adamo, ma ora «ci stiamo allargando e stiamo ottenendo nuovi partner internazionali, rafforzando la nostra economia».

Dinastie africane nell’organizzazione della dinastia britannica

Dati gli obiettivi che si prefigge è evidente che qualsiasi stato è ben accetto. «Il Commonwealth – ha spiegato Scotland – ha iniziato con otto nazioni nel 1949, è cresciuta fino a raggiungere 56 nazioni. La nostra continua crescita, al di là della nostra storia, riflette i vantaggi dell’appartenenza al Commonwealth e la forza della nostra nazione. Sono entusiasta di vedere questi vivaci paesi unirsi alla famiglia e dedicarsi ai valori e alle aspirazioni della nostra Carta» (“360Mozambique”).

È del tutto evidente che la “Carta”, oggi, conta ben poco. Se l’organizzazione dovesse tenere fede ai suoi principi non potrebbe accettare nelle sue file paesi come il Gabon e il Togo che non hanno nulla a che fare con una democrazia moderna.
Il Gabon più che uno stato è una monarchia governata da sempre dalla dinastia dei Bongo Ondimba, padre e figlio, stiamo parlando di oltre cinquant’anni di regno (però i Windsor sono avvezzi a questo tipo di regime, ma proprio il Gabon può rappresentare un ponte tra gli imperi, visto che era in quota sovietica fino al crollo del Pcus). E anche il Togo non è da meno: l’attuale presidente, Faure Gnassingbé detiene il potere dal 2005, ma lo ha ereditato dal padre che lo gestiva in maniera dittatoriale dal colpo di stato del 1967.
Ma anche il Ruanda, che ha ospitato l’ultimo vertice del Commonwealth a fine giugno 2022, non sarebbe un paese “idoneo”, perché nelle sue carceri sono ancora detenuti oppositori, giornalisti indipendenti e youtuber critici con le autorità ruandesi.

Centro congressi di Kigali, sede della convention del Commonwealth 2022

Paul Kagame è presidente del Ruanda dal 1994 quando entrò a Kigali da trionfatore e liberatore, ha modificato la Costituzione così da permettergli di governare il paese fino al 2034. Per non parlare di un altro membro del Commonwealth, il Camerun. Il paese è “guidato” dal 1982 da Paul Biya, ma se aggiungiamo i sette anni da primo ministro, 1975-1982, è al potere da 47 anni.


Le aree di interesse evidenziate dalle citazioni di paesi aderenti alla sfera britannica, poste a confronto con quelle evocate dal mondo sovietico africano, mostrano una vera e propria spartizione tra i due imperialismi che non sovrapponevano i domini. Le incursioni russe e turche in Sahel, Centrafrica e Corno d’Africa entrano in diretta concorrenza soprattutto con l’imperialismo francese, quello più debole e impreparato, perché ancora troppo fondato sull’occupazione militare, ambito in cui i contractor russi e i miliziani turchi sono più efficaci su quel terreno.


Con la fine dell’Urss cambiarono i giochi di potere in Africa… erano solo sospesi?

Cosa ha comportato la scomparsa dell’Urss e quali le conseguenze per chi deteneva il potere? I regimi alleati del blocco orientale, per esempio, furono costretti a riformarsi o cadere.
L’opera intrapresa da Michail Gorbačëv di riforma del sistema sovietico negli anni Ottanta e di disgelo delle relazioni internazionali, cambiando radicalmente la situazione internazionale, ha avuto ripercussioni ed effetti importanti anche per il continente africano. La scomparsa dell’Urss dallo scacchiere africano ha costretto i regimi alleati del blocco orientale a riformarsi o cadere. Nella prima categoria, Angola e Mozambico sono stati costretti a entrare in processi di democratizzazione che hanno posto fine alle guerre civili, prima Maputo e poi Luanda.

Superamento del colonialismo lusitano

Frelimo/Renamo

In Mozambico il sostegno dell’Unione Sovietica si è rivelato fondamentale per la sopravvivenza del paese negli anni Ottanta del secolo scorso. Le spinte anticoloniali portarono i movimenti indipendentisti a coalizzarsi nel movimento armato Frelimo (Fronte di Liberazione del Mozambico) e dopo dieci anni di guerriglia contro i coloni portoghesi, il paese ottiene l’indipendenza nel 1975. Iniziò una campagna di nazionalizzazione delle piantagioni e furono costruite scuole e ospedali per i contadini. Una rivoluzione di stampo sovietico. Il Frelimo sostenne le forze rivoluzionarie in Rhodesia e Sudafrica. I governi di questi paesi, appartenenti al blocco occidentale, risposero sostenendo i ribelli mozambicani della Renamo. Ne scaturì un’atroce guerra civile che terminò con gli accordi di pace di Roma del 1992 da cui nacque una nuova costituzione di stampo multipartitico. Il Frelimo, nelle elezioni libere tenute negli anni successivi si confermò sempre il primo partito del Mozambico.

Mpla/Unita

In Angola la situazione era abbastanza simile. Il Movimento per la liberazione dell’Angola, che lottò con determinazione contro i colonizzatori portoghesi, ottenendo l’indipendenza nel 1975, portò il paese nell’orbita sovietica e instaurò un regime totalitario. Di contro il blocco occidentale, per far valere i suoi interessi, sosteneva un gruppo di ribelli sotto il nome di Unione nazionale per l’indipendenza totale dell’Angola.
Da questo scontro iniziò una guerra civile durata oltre un ventennio al termine della quale vennero firmati gli accordi di pace che portarono alle prime elezioni nel 1992. Le ostilità, tuttavia, continuarono e terminarono solo dopo l’uccisione del leader dell’Unita, Jonas Savimbi, nel 2002. Il paese, dall’indipendenza è sempre stato governato dall’Mpla e l’Unita ha sempre svolto un ruolo di opposizione. Ma il padre della patria, Eduardo dos Santos, si è trasformato presto in un cleptocrate, governando il paese con pugno di ferro fino al 2017.

Il passaggio dalla geopolitica alla geoeconomia

In Mozambico e Angola i regimi, riformati, sono sopravvissuti, mentre in Etiopia, nel 1991, Menghistu, soprannominato il “Negus rosso”, viene estromesso dal potere.

Mandela/Mobutu

Proprio in quegli anni anche il Sudafrica è costretto a riformarsi ed è nel contesto della fine della Guerra Fredda che cade l’apartheid, che porta alle prime elezioni multirazziali del 1994 e la Namibia trova l’indipendenza. Anche gli interessi degli Stati Uniti per l’Africa cambiano di conseguenza, meno legati alla geopolitica e più all’economia. Il loro grande alleato nell’Africa centrale, Mobuto Sese Seko, dittatore dello Zaire, è costretto ad aprire il sistema politico e cedere, su pressione degli Stati Uniti, al multipartitismo. Soluzione che non porta alcun beneficio al paese, perché è sempre il dittatore che muove i fili, ma il paese crolla nel giro di pochi anni e si apre una fase di guerra permanente.

La perestroika africana

Benin, Congo, Mali, Niger…

Nel mondo francofono, sempre in quegli anni, soffia un vento di libertà. Era l’epoca delle Conferenze nazionali che avevano lo scopo di creare un clima democratico con la partecipazione di tutti. Il Benin fu il precursore nel 1990, il marxista Mathieu Keredoku fu sconfitto alle elezioni e si ritirò. Ma non andò così nella Repubblica del Congo, dove il presidente di allora, Denis Sassou Nguesso, continua a governare il paese. Fasi alterne vivono i paesi come il Mali, il Niger. Ma hanno una caratteristica comune: sono regimi poco democratici e accentratori del potere. La “perestrojka africana” che si poteva leggere tra le righe delle Conferenze nazionali non ha mai attecchito, anche se aveva suscitato molte speranze nelle popolazioni di questi paesi.

Rimane, tuttavia, il fatto che Gorbačëv si era adoperato per porre fine al mondo bipolare in cui l’Africa era alla mercè del gioco strategico di Washington e Mosca.

Secondo lo scrittore Vladimir Fedorovski, molto vicino all’ultimo leader sovietico, ai paesi africani mancherà il suo messaggio a favore di un mondo equilibrato: «Aveva un grande rispetto per il continente africano, che considerava il continente del futuro. Gorbačëv diceva che bisognava tener conto degli interessi delle diverse nazioni e trovare equilibri, e anche e forse essere prima di tutto africani. Sprecheremo somme da capogiro per la guerra, dimenticando che l’Africa è minacciata dalla carestia».

I primi a dimenticarsi delle parole di Gorbačëv sono stati proprio quei presidenti africani che si ispiravano all’Unione Sovietica. La Guerra Fredda non c’era più, ma le contrapposizioni rimangono e diventano sempre più complesse. Da una parte il mondo occidentale che cerca di frenare le aspirazioni di Mosca che, piano piano, sta rosicchiando pezzi di influenza occidentale. Il messaggio di Gorbačëv vale ancora oggi.

Dal 24 al 27 luglio, il ministro degli Esteri della Federazione russa, Sergej Lavrov, ha visitato quattro stati africani: Egitto, Repubblica del Congo, Uganda ed Etiopia. Non ha parlato di progetti o interventi. La sua missione era chiedere agli africani di schierarsi con la Russia contro l’Occidente, con un unico argomento: l’Occidente ha un passato coloniale e ha tuttora delle mire coloniali e imperiali.

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Man made disasters: Floods in Pakistan https://ogzero.org/man-made-disasters-floods-in-pakistan/ Fri, 16 Sep 2022 00:52:07 +0000 https://ogzero.org/?p=8884 Abbiamo ricevuto da Masha Hassan un interessante punto di vista sul Pakistan nel momento in cui l’economia di Islamabad è sull’orlo della bancarotta e il Balochistan è stato devastato da alluvioni. Preferiamo proporlo nella sua lingua originale (trovate comunque la traduzione in calce), premettendo un abstract riassuntivo senz’altro riduttivo rispetto alla rotonda prosa che ci […]

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Abbiamo ricevuto da Masha Hassan un interessante punto di vista sul Pakistan nel momento in cui l’economia di Islamabad è sull’orlo della bancarotta e il Balochistan è stato devastato da alluvioni. Preferiamo proporlo nella sua lingua originale (trovate comunque la traduzione in calce), premettendo un abstract riassuntivo senz’altro riduttivo rispetto alla rotonda prosa che ci riconduce in spazi ridotti dalla gentrificazione e che prende spunto dalla vulnerabilità della nazione pakistana ai cambiamenti climatici; un aspetto che ha agevolato il disastro originato da monsoni e scioglimento di ghiacciai. Cotone e riso sono stati spazzati via con conseguenze globali, ma l’insostenibilità ambientale dei marchi pakistani di prodotti tessili andrebbe perseguita già solo perché sposta le emissioni occidentali in territorio pakistano e i danni irreparabili di questo disastro ambientale ricadono sulle case dei lavoratori schiavizzati del Balochistan, spazzate via, mentre le aziende – per nulla “sostenibili” – non vengono scalfite dalla furia delle acque. Nell’articolo si accenna alla rivendicazione diffusa nei paesi dell’area che non hanno partecipato al benessere derivante dalla debacle ambientale, ma ne subiscono pesantemente gli effetti: il nome per identificare questo stato è “apartheid climatica”, visto il paragone con le emissioni dell’esercito statunitense.
Ma le cause del disastro sono anche interne, visto il crollo di 12 dighe in Balochistan per l’uso di materie prime scadenti per la corruzione endemica negata dal governo provinciale, mentre l’approccio dovrebbe rifiutare l’idea di naturalezza dei disastri perché in realtà sono causati da processi sociali antropici che evidenziano la sproporzione nella spartizione delle risorse (di tradizione coloniale britannica) e l’assenza di infrastrutture pubbliche (causata dal collaborazionismo dei potentati locali, comprati con assegnazioni di terre irrigue), con il corollario di proprietari terrieri in solidi complessi abitativi e contadini che vivono in case di fango spazzate dalle inondazioni. Così si esprime Shozab Raza, ricercatore che ricorda come fin dai primi anni dello stato pakistano le dighe abbiano rappresentato la deportazione e la miseria di migliaia di persone; e già nel 2010 questo ha provocato le alluvioni. Il prossimo disastro è annunciato dal Corridoio economico sino-pachistano, una trappola del debito sul modello di quello che ha strozzato lo Sri-Lanka nell’esposizione con la Cina.
Un aspetto che non si considera mai a sufficienza dei disastri ambientali è quello di genere, perché le strutture sanitarie fuori uso per il cataclisma rendono ancora più complesso portare a termine una gravidanza e il disinteresse per i servizi sanitari ginecologici sono un’ulteriore prova di quanto l’atteggiamento patriarcale finisca con il rendere più vulnerabili minoranze sessuali, di genere, o le puerpere.

La dichiarazione d’intenti nell’epilogo dell’articolo è totalmente condivisibile: «Ciò che serve ora è una radicale decolonizzazione delle scienze della sostenibilità, una decrescita per i paesi occidentali, un piano d’azione per un sistema energetico decarbonizzato e, soprattutto, una decostruzione della femminilizzazione negativa della terra antropomorfizzata».


  • Pakistan’s climate change vulnerability: colonialism to blame

 

  • In the midst of celebrating rivalries between India and Pakistan’s cricket match, where both the countries were busy trolling each other on social media or bursting fireworks in their backyards, in other news, a third of Pakistan was under water.

Often referred to as the Third Pole, containing around 7200 glaciers, that is more glacial ice than anywhere else in the world outside of the polar-region, the Global Climate Index in its annual report of 2020 placed Pakistan on the fifth spot on the list of countries being most vulnerable to climate change. As this vulnerability increases with a considerably high rate of warming, Pakistan faced an extreme heat wave this summer. While climate analysts are unsure if torrential monsoon rains or accelerating of the melting of glaciers is the cause of these disastrous flooding but they are certain of the fact that climate crisis is a global responsibility.

 

Compared to the floods of 2010, this year’s damage is 4 times more. With 50 million people being affected and more than 1100 killed, around 90% of farmland has been flushed away hitting Pakistan’s major agricultural productions i.e. cotton and rice. The country being the fifth largest producer of cotton and fourth largest producer of rice, the impact of this loss will definitely be global. In 2021 Pakistan exported cotton worth $3.4 billion i.e. 6% of the global supply meaning that they fed the so called ‘sustainable’ cotton requirements of brands such as H&M, Zara and Gap.

Pakistan

September 13, 2012 Over 250 workers perished in the fire at a garment factory in Baldia

Climate change and slavery

Acknowledging the fact that there is nothing sustainable about these brands as their industry not only outsources western emissions (causing politicians such as Donald Trump and Peter Mackey playing the blame game by pointing fingers towards the population divide in the global south) it is also tightly linked to modern slavery, continuing to profit through labor exploitation with the deception of corporate greenwashing. The manufacturing industries remain intact whereas the irreparable damages of homes and livelihoods of the workers in Pakistan that have been washed away will fall only on to its shoulders.
In an article published by “the thirdpole”, Pakistan’s climate minister Sherry Rehman stated that the country “would press hard for big polluters to pay up at the annual UN climate summit in Egypt this November”. The country that is suffering from  ‘climate apartheid’, has less than 1% of carbon emissions but is disproportionately bearing the brunt of what wealthy nations have caused. We shouldn’t shy away from mentioning the less spoken role of the U.S military’s carbon boot print that is said to be as big as 140 countries. Remember two decades ago how the Bush administration unhesitatingly denied climate change that is caused due to human activity! The Biden presidency is no better. Although the U.S has rejoined the Paris agreement with a claim for a decarbonization push, it still avoids imposing limits in order to cut emissions produced by their department of defence.
The loss and damage is a contentious debate for the developed countries who have a historical responsibility since the time of the industrial revolution such as the UK and they remain worried regarding climate litigations and negotiations in terms of compensation and liability, for example the historic climate litigation between Luciano Lliuya v. RWE AG. Saúl Luciano Lliuya who is a farmer from Peru has sued the German energy company called RWE AG to pay for the damages for the floods that took place in his hometown in Huaraz. This lawsuit could be a landmark and a game changer, opening doors for many to sue against world’s largest polluters.

Lake Palcacocha in 2014. Siphons were installed in the glacial lake to lower the water level. Photo: Cooperación Suiza COSUDE/ via Flickr CC

Climate change and corruption

Sherry Rehman rightly called out the wealthy nations asking for reparations, however, international assistance is not the only solution for avoiding a climate catastrophe of this magnitude.

A ground level interview with The New Humanitarian reveals how in the southwestern province of Balochistan 12 dams broke. The provincial government’s response was a denial of corruption in sub standard construction of these Dams whereas local narratives explain otherwise that often water is released through irrigation canals that are not well constructed. The Pakistani elite as well as the provincial ministers are hiding behind the monsoon rains and the water overflow by calling it ‘natural disasters’, indirectly implying its inevitability and brushing off their responsibility by leaving us at the usual mercy of God. Many Risk mitigation scholars for decades have asked to give up the very phrase “natural disaster”,

Ilan Kelman from the Institute for Risk and Disaster Reduction at University of College London says “natural disasters do not exist”: «Disasters are caused by society and societal processes, forming and perpetuating vulnerabilities through activities, attitudes, behaviour, decisions, paradigms, and values».

These societal processes are undeniably anthropic posing questions such as; why there is a disproportionate division of resource? Why are people compelled to live on areas prone to climate disasters? Who is responsible for the approval or rejection of building codes and most importantly how much money is allotted and how much is actually used up to build public infrastructures?

The fault of British imperialism…

In Pakistan, this disproportionality has a close relationship to  Britain’s imperialist extractive legacy, resulting in economic and social invisibilisation of regions such as Balochistan that lies on the periphery. The alliances built during the 19th century between the British aristocrats and local elites collaborated together, mutually profiting through feudalism, pillaging and exploitation of these regions leaving the future generation with its after effects.

… responsibility of Pakistani notables…

Shozab Raza, writer and researcher, explains that the loyalty of tribal chiefs was bought by the British through allotting them huge amounts of land estates in irrigated areas. He further explains how the disparities grew between the peasant and the landlords resulting in unequal housing ownership. Peasants were forced to live in mud houses becoming vulnerable to the disasters of flooding whereas the landlords ended up constructing strong luxurious housing compounds for themselves on these land estates. In this neoliberal era, feudal societies and mutually benefitting extraction practices and extortion exists till date.
Raza further points out how after the 1950s the local elite politicians teaming up with international firms organized several hydropower and irrigation infrastructures such as the construction of the Taunsa Barrage leading to the displacement of thousands. Its faulty construction is said to play a significant role in the 2010 floods.

Pakistan

… and chinese Trap

Another such project that will dry up Pakistan is the China-Pakistan Economic Corridor (CPEC), the country that is already drowning in a debt crises with the IMF prior to these floods, with the CPEC that lacks transparency, they might end up(or probably already have) falling into a similar ‘debt trap’ that of Sri Lanka with the upcoming imperial power of China.

Man made disasters and Patriarchy

Around 8.2 million women are affected in this year’s floods where 650,000 are pregnant women and 73,000 are expected to deliver next month. Estimated 1,000 health care infrastructures are damaged. In the flood affected areas of Balochistan 198 health care structures are destroyed, and damaged bridges and roads is a logistical hindrance to gain access to health facilities. In Pakistan where there is a great stigma and taboo attached to menstruation, in many affected areas of Balochistan, Sindh and Southern Punjab menstruation materials were left out from donation lists of many foundations on the claim that it is a ‘luxury item’.  Inadequate supply of menstruation materials will create a high risk of urogenital infections like vaginosis and UTIs (urinary tract infections).  This disregard of health care infrastructures, toilets, feminine hygiene, menstruation relief and maternal health care services is a proof of how patriarchy and climate change are intrinsically intertwined. Perils of climate catastrophe are gendered which means that it amplifies social instability by disproportionately impacting the already marginalized and vulnerable people in the social ladder. Sexual and gendered minorities who lived inside a certain gendered space are now forced to move from a private to public domain, making them vulnerable to violence, harassment and sexual abuse inside flood relief camps.

As says Tithi Battacharya  “Against this explicitly anti-solidaristic policies of state and capital, feminists, now more than ever, need to rescue a solidarity that is as anti-capitalist as it is openly confrontational with capital. In the current moment of escalating social inequalities and the climate emergency we should realize how deeply imbricated are our fates with that of others.  And as wars and pandemics rip through the world, we need to re-animate a politics of recuperative hospitality, where the fate of our most vulnerable is only the vision of our own future”

As international funds very slowly pour in, there has been a call to cancel Pakistan’s international debt with the International Monetary Fund (IMF) and can prove to be an important step to avoid the further worsening of the economic crisis. Simultaneously asking for accountability from the disaster management and their lack of preparation in anticipatory action and prioritizing grassroots narratives by making them equal stakeholders in policy-making and resource management can be effective measures. What is required now is a radical decolonization of sustainability sciences, degrowth for Western countries, an action plan for a decarbonized energy system and most importantly a deconstruction of the negative feminization of the very anthropomorphized earth.

La vulnerabilità pakistana al cambiamento climatico: colonialismo alla sbarra

  • Pakistan

    2022 Pakistan Floods – August 27, 2021 vs. August 27, 2022 in Sindh Source: https://worldview.earthdata.nasa.gov/ Corrected Reflectance (Bands 7-2-1) Aqua / MODIS

  • Nel bel mezzo dei festeggiamenti per la partita di cricket tra India e Pakistan, in cui entrambi i paesi erano impegnati a trollarsi a vicenda sui social media o a far scoppiare fuochi d’artificio nei loro cortili, in altri servizi giornalistici, un terzo del Pakistan si trovava sott’acqua.

Spesso indicato come il Terzo Polo, che contiene circa 7200 ghiacciai, cioè più area glaciale di qualsiasi altra parte del mondo al di fuori della regione polare, il Global Climate Index nel suo rapporto annuale del 2020 ha collocato il Pakistan al quinto posto nella lista dei paesi più vulnerabili ai cambiamenti climatici. Poiché questa predisposizione aumenta con un tasso di riscaldamento considerevolmente elevato, quest’estate il Pakistan ha dovuto affrontare un’ondata di caldo estremo. Gli analisti climatici non sanno se le piogge torrenziali dei monsoni o l’accelerazione dello scioglimento dei ghiacciai siano la causa di queste disastrose inondazioni, ma sono certi che la crisi climatica sia una responsabilità globale.

Rispetto alle alluvioni del 2010, i danni di quest’anno sono 4 volte superiori. Con 50 milioni di persone colpite e più di 1100 uccise, circa il 90% dei terreni agricoli è stato spazzato via, colpendo le principali produzioni agricole del Pakistan: cotone e riso. Essendo il paese il quinto produttore di cotone e il quarto di riso, l’impatto di questa perdita sarà sicuramente globale. Nel 2021 il Pakistan ha esportato cotone per un valore di 3,4 miliardi di dollari, pari al 6% dell’offerta globale, il che significa che ha alimentato il cosiddetto fabbisogno di cotone “sostenibile” di marchi come H&M, Zara e Gap.

Cambiamento climatico e schiavitù

Riconoscendo il fatto che non c’è nulla di sostenibile in questi marchi, poiché la loro industria non solo esternalizza le emissioni occidentali (facendo sì che politici come Donald Trump e Peter Mackey colpevolizzino il Sud del mondo per il divario demografico), ma è anche strettamente legata alla schiavitù moderna, continuando a trarre profitto attraverso lo sfruttamento del lavoro con l’inganno del greenwashing aziendale. Le industrie manifatturiere rimangono intatte, mentre i danni irreparabili alle case e ai mezzi di sussistenza dei lavoratori pakistani che sono stati spazzati via ricadranno solo sulle loro spalle

In un articolo pubblicato dal Terzo Polo, il ministro pakistano per il clima Sherry Rehman ha dichiarato che il paese «eserciterà forti pressioni affinché i grandi inquinatori paghino al vertice annuale delle Nazioni Unite sul clima che si terrà in Egitto a novembre». Il paese che soffre di “apartheid climatica”, ha meno dell’1% delle emissioni di carbonio ma sta sopportando in modo sproporzionato il peso di ciò che le nazioni ricche hanno causato. Non ci si può esimere a questo proposito dal menzionare il ruolo meno esposto dell’impatto di emissioni di carbonio dell’esercito statunitense, che si dice sia pari a quella di 140 Paesi. Ricordiamo che due decenni fa l’amministrazione Bush negava senza esitazione il cambiamento climatico dovuto all’attività umana! La presidenza Biden non è migliore. Sebbene gli Stati Uniti abbiano aderito all’accordo di Parigi con la richiesta di una spinta alla decarbonizzazione, continuano a evitare di imporre limiti per ridurre le emissioni prodotte dal loro dipartimento della difesa

Le perdite e i danni sono un dibattito controverso per i paesi sviluppati che hanno una responsabilità storica fin dai tempi della rivoluzione industriale, come il Regno Unito, e che continuano a essere preoccupati per le controversie e i negoziati sul clima in termini di risarcimento e responsabilità, come per esempio la storica controversia sul clima tra Luciano Lliuya e RWE AG. Saúl Luciano Lliuya, un agricoltore peruviano, ha citato in giudizio la società energetica tedesca RWE AG per il risarcimento dei danni causati dalle inondazioni che hanno colpito la sua città natale, Huaraz. Questa causa potrebbe essere un punto di riferimento e cambiare le carte in tavola, aprendo a molti la possibilità di fare causa ai maggiori inquinatori del mondo.

Cambiamento climatico e corruzione

Sherry Rehman ha giustamente richiamato le nazioni ricche che chiedono risarcimenti, ma l’assistenza internazionale non è l’unica soluzione per evitare una catastrofe climatica di questa portata.

Un’intervista sul campo con “The New Humanitarian” rivela che nella provincia sudoccidentale del Balochistan sono crollate 12 dighe. La risposta del governo provinciale è stata la negazione della corruzione nella costruzione di queste dighe al di sotto degli standard, mentre le narrazioni locali spiegano invece come spesso l’acqua viene rilasciata attraverso canali di irrigazione non ben costruiti. L’élite pakistana e i ministri provinciali si nascondono dietro le piogge monsoniche e gli straripamenti d’acqua chiamandoli “disastri naturali”, sottintendendo indirettamente la loro inevitabilità e scansando le loro responsabilità affidandosi alla solita misericordia di Dio. Molti studiosi del contenimento del rischio da decenni chiedono di abbandonare l’espressione stessa di “disastro naturale”.

Ilan Kelman dell’Istituto per la riduzione dei rischi e dei disastri dell’Università del College di Londra afferma che «i disastri naturali non esistono: I disastri sono causati dalla società e dai processi sociali, che formano e perpetuano le vulnerabilità attraverso attività, atteggiamenti, comportamenti, decisioni, paradigmi e valori».

Questi processi sociali sono innegabilmente antropici e pongono alcune domande come per esempio: perché c’è una divisione sproporzionata delle risorse? Perché le persone sono costrette a vivere in aree soggette a disastri climatici? Chi è responsabile dell’approvazione o del rifiuto delle norme edilizie e, soprattutto, quanto denaro viene stanziato e quanto viene effettivamente utilizzato per costruire infrastrutture pubbliche?

La colpa dell’imperialismo britannico…

In Pakistan questa sproporzione ha una stretta relazione con l’eredità estrattiva imperialista della Gran Bretagna, che ha portato all’invisibilizzazione economica e sociale di regioni come il Balochistan, che si trova alla periferia. Le alleanze costruite durante il Diciannovesimo secolo tra gli aristocratici britannici e le élite locali hanno collaborato strettamente, traendo reciproco profitto attraverso il feudalesimo, il saccheggio e lo sfruttamento di queste regioni, lasciando alle prossime generazioni tutti gli effetti collaterali.

… responsabilità dei notabili pakistani…

Shozab Raza, scrittore e ricercatore, spiega che la lealtà dei capi tribali fu comprata dagli inglesi attraverso l’assegnazione di enormi quantità di proprietà terriere in aree irrigue. Spiega inoltre come siano cresciute le disparità tra i contadini e i proprietari terrieri, con conseguenti disuguaglianze nella proprietà degli alloggi. I contadini furono costretti a vivere in case di fango, diventando così vulnerabili ai disastri delle inondazioni, mentre i proprietari terrieri finirono per costruire per loro stessi forti e lussuosi complessi abitativi in queste proprietà terriere. In quest’epoca neoliberale, le società feudali e le pratiche di estrazione ed estorsione a reciproco vantaggio permangono invariate ancora oggi. Raza sottolinea inoltre come, dopo gli anni Cinquanta, l’élite politica locale, in collaborazione con imprese internazionali, abbia organizzato diverse infrastrutture idroelettriche e di irrigazione, come la costruzione dello sbarramento di Taunsa, che ha portato alla deportazione di migliaia di persone. Si dice che la sua costruzione difettosa abbia giocato un ruolo significativo nelle alluvioni del 2010.

… e trappola cinese

Un altro progetto di questo tipo che prosciugherà il Pakistan è il Corridoio economico Cina-Pakistan (Cpec), il paese – che stava già affogando in una crisi del debito con il Fmi prima di queste inondazioni – con il Cpec, che manca di trasparenza, potrebbe finire (o probabilmente è già caduto) in una “trappola del debito” simile a quella dello Sri Lanka con l’immanente potenza imperiale della Cina.

Disastri ascrivibili all’uomo in generale e al patriarcato in particolare

Circa 8,2 milioni di donne sono state colpite dalle inondazioni di quest’anno, di cui 650.000 sono incinta e 73.000 dovrebbero partorire il mese prossimo. Si stima che 1000 infrastrutture sanitarie siano state danneggiate. Nelle aree colpite dalle inondazioni del Balochistan 198 strutture sanitarie sono state distrutte e i ponti e le strade danneggiati rappresentano un ostacolo logistico per accedere alle strutture sanitarie. In Pakistan, dove c’è un grande stigma e tabù legato alle mestruazioni, in molte aree colpite del Balochistan, del Sindh e del Punjab meridionale il materiale mestruale è stato escluso dalle liste di donazione di molte fondazioni, sostenendo che si tratta di un “bene di lusso”.  L’inadeguata fornitura di supporti ginecologici comporta un alto rischio di infezioni urogenitali, come vaginosi e UTI (infezioni del tratto urinario).  Questo disinteresse per le infrastrutture sanitarie, per i servizi igienici, per l’igiene femminile, per le mestruazioni e per i servizi di assistenza sanitaria materna è una prova di come il patriarcato e il cambiamento climatico siano intrinsecamente intrecciati. I pericoli delle catastrofi climatiche sono “di genere”, il che significa che amplificano l’instabilità sociale colpendo in modo sproporzionato le persone già emarginate e vulnerabili nella scala sociale. Le minoranze sessuali e di genere che vivevano all’interno di un certo spazio di genere sono ora costrette a spostarsi da un ambito privato a uno pubblico, rendendole vulnerabili alla violenza, alle molestie e agli abusi sessuali all’interno dei campi di soccorso per le alluvioni.

Come afferma Tithi Battacharya: «Contro queste politiche esplicitamente antisolidaristiche dello stato e del capitale, le femministe, ora più che mai, devono salvare una solidarietà che sia tanto anticapitalista quanto apertamente conflittuale con il capitale. Nell’attuale momento di escalation delle disuguaglianze sociali e di emergenza climatica, dobbiamo renderci conto di quanto i nostri destini siano profondamente intrecciati con quelli degli altri.  E mentre guerre e pandemie dilaniano il mondo, dobbiamo rianimare una politica di ospitalità recuperativa, in cui il destino dei più vulnerabili sia solo la visione del nostro futuro» (“Transnational Strike”).

Mentre i fondi internazionali arrivano molto lentamente, è stato chiesto di cancellare il debito internazionale del Pakistan con il Fondo Monetario Internazionale (Fmi) e può rivelarsi un passo importante per evitare un ulteriore peggioramento della crisi economica. Chiedere contemporaneamente la responsabilità della gestione delle catastrofi e la loro mancanza di preparazione nell’azione preventiva e dare priorità alle narrazioni della base, rendendole parti interessate a pieno titolo nella definizione delle politiche e nella gestione delle risorse, possono essere misure efficaci. Ciò che serve ora è una radicale decolonizzazione delle scienze della sostenibilità, una decrescita per i paesi occidentali, un piano d’azione per un sistema energetico decarbonizzato e, soprattutto, una decostruzione della femminilizzazione negativa della terra antropomorfizzata.

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Brecce nei modelli dello status quo https://ogzero.org/brecce-nei-modelli-dello-status-quo/ Fri, 12 Aug 2022 08:53:28 +0000 https://ogzero.org/?p=8520 Si stanno indubbiamente aprendo brecce nell’equilibrio mondiale a cui s’ispira il modello che ha consentito finora all’Occidente di imporre la propria impronta sul mondo. Il multilateralismo faceva perno su una potenza globale come quella americana che assicurava la possibilità di intessere relazioni multilaterali, ora quel sistema vede erodere la propria incontrastata egemonia in particolare dalla […]

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Si stanno indubbiamente aprendo brecce nell’equilibrio mondiale a cui s’ispira il modello che ha consentito finora all’Occidente di imporre la propria impronta sul mondo. Il multilateralismo faceva perno su una potenza globale come quella americana che assicurava la possibilità di intessere relazioni multilaterali, ora quel sistema vede erodere la propria incontrastata egemonia in particolare dalla Cina e dal corredo di potenze locali in grado di portare sfide in aree specifiche. Nell’ultimo anno, dopo la caduta di Kabul il 15 agosto 2021, si è assistito a un’accelerazione inarrestabile della messa in discussione della globalizzazione e alla proposta di modelli socio-politici autocratici che si contrappongono alla “rassicurante” liberal-democrazia.
Era un sogno della sinistra libertaria aprire brecce nel capitalismo liberal-democratico per scardinarne il sistema, e ora chi metterebbe al centro l’emancipazione antitotalitaria dei popoli non riesce a interpretare l’attacco allo strapotere americano come una rivoluzione imposta dall’alto e realizzata dal nazionalismo autoritario, militarista e tecno-finanziario come quello statunitense. Infatti non sortisce di meglio che accettare la narrazione che vede ancora due blocchi contrapposti, da cui non si riesce a prescindere… né a evitare di schierarsi, non riconoscendo che si tratta della riproposta di schieramenti ottocenteschi: il superamento del “secolo breve” sta avvenendo, sì… ma in senso contrario, nel passato di oligarchie imperiali ottocentesche che controllano i propri territori, rinverdendo tradizioni culturali che si appropriano della critica alla globalizzazione.

Dopo un anno il regime talebano consegue il riconoscimento da parte di Cina e Russia. Quella capitolazione di Kabul alla più vieta e arcaica concezione religiosa e culturale locale del Waziristan ha dato la stura alla spartizione del mondo in aree di riferimento. OGzero ha pensato che ci fosse la necessità di ipotizzare e far dialogare processi in corso e possibili strategie adottate dai protagonisti del rivolgimento epocale, sperando così di avviare un dibattito che descriva la situazione prescindendo dalla versione parziale che scaturisce da un sistema in mutazione e quindi non in grado di fotografare il cambiamento che sta subendo.


Sostituzioni di modelli

Nelle infinite analisi del ribaltamento in corso di quell’equilibrato sistema di relazioni internazionali sancito da Yalta – e mantenuto invariato perché a nessuna delle potenze andava stretto o non avevano l’opportunità di imporre finora alcun rilievo – esistono un paio di elementi che sembrano non venir evidenziati a sufficienza nelle disamine della situazione geopolitica attuale: la rivoluzione è imposta dall’alto, è un pranzo di gala esclusivo dove gli invitati giocano a Risiko – e infatti si punta su una comunicazione che fondi la legittimità delle mosse sul confronto nazionalista; e al contrario di quel che avviene di solito in caso di conflitti, il contenzioso non coinvolge il Sud del mondo, sconvolgendolo. Le popolazioni alle quali ci si riferiva come Terzo mondo, ai tempi in cui lo spunto per molte speculazioni proveniva dall’internazionalismo non solo ora non si schierano a favore della “democrazia”, ma cominciano a considerare l’occasione ghiotta per ridimensionare la presenza e il condizionamento di un sistema, forgiato su un modello culturale ed economico sviluppato da una cultura estranea come quella europea, esportato in forma coloniale.

«Noi giovani abbiamo organizzato questa manifestazione per il ritiro delle forze armate francesi dal territorio nazionale del Mali. Vogliamo dare un contributo alla soluzione definitiva della crisi e ripristinare i valori della sovranità della nostra nazione. Non nascondiamo e riaffermiamo la nostra comune disponibilità con le nuove autorità di transizione a dare priorità alla cooperazione militare con la Russia per il rapido ripristino della Repubblica, in modo da poter lottare per la stabilità a lungo termine, che porterà alla nostra sovranità assoluta» (appello ad Assimi Goita pubblicato dalla piattaforma Debout sur les remparts, Yerewolo: giovani maliani, settembre 2021)

Ecco: un primo errore nella narrazione e nell’approccio al rivolgimento epocale sta nel vizio occidentale di voler imporre il proprio sguardo etico-politico anche sull’interpretazione dei conflitti globali, senza considerare le narrazioni sviluppate da altre tradizioni politico-culturali. Geopolitica chiederebbe di attenersi all’analisi di strategie messe in atto a seguito di bisogni e presunta potenza; invece la propaganda sia dal punto di vista liberal-capitalista, sia nell’ambito autocratico-capitalista sfrutta le spinte nazionaliste identitarie, inanellando tutti i più vieti luoghi comuni per salvaguardare la propria sussistenza entro i confini di riferimento di stati consorziati militarmente a fare da scudo al proprio ordine socio-culturale. Persino l’internazionalismo era caduto nella stessa trappola di avanzare una filosofia di emancipazione comunque sviluppata all’interno della cultura occidentale, nonostante l’intento meritevole di liberazione dell’Altro.

Vecchi sogni antimperialisti offuscati da modelli di imperialismi contrapposti

Infatti la sfida in corso al predominio americano e al suo sistema di sfruttamento mondiale era il sogno di ogni rivoluzionario degli anni Sessanta-Ottanta. Al contrario vediamo i regimi autocratici intenti a scalfire il potere americano, avendo ipotizzato, dopo la disfatta di Kabul, che si sia avviato allo stesso declino subito dall’Urss dopo il pantano afgano. Ma forse si tratta soltanto di una speculare reazione al pressing statunitense sui russi, volto a togliere alla potenza locale il terreno sotto i piedi; e questo cominciò con l’amministrazione Obama. In particolare l’esecuzione di Gheddafi ha suggestionato il capo del Cremlino: infatti dal 2011 Putin ha cambiato strategia geopolitica, convinto nel suo sospetto dalla costante cooptazione nel campo filoamericano di molte nazioni ex sovietiche, sottratte alla influenza russa; questo ha giocato un ruolo rilevante di intenzionale provocazione per la potenza militare moscovita.

Un po’ tutti hanno impugnato quelle forbici, che hanno innescato il cambiamento, tagliando i fili del multilateralismo che erano in tensione già da tempo.
Putin è stato forse indotto a credere nella possibilità di costituire un fronte antiamericano sufficientemente ampio e militarmente sostenibile: potrebbe essere credibile una sorta di accordo tacito di non belligeranza se non di reciproco sostegno con altre grandi potenze, come la Cina che invece – a cominciare dall’amministrazione Trump – è stata messa sotto pressione dal punto di vista economico. Si potrebbe adottare uno sguardo capace di spiegare le indubbie provocazioni americane (l’ultimo episodio è quello che ha visto protagonista Pelosi a Taiwan, imbarazzante per gli alleati coreano e giapponese, come si è visto nelle tappe successive del viaggio) per arrivare a un confronto di intensità variabile che consenta a Washington di ridimensionare gli sfidanti quando ancora gli Usa detengono la preminenza nei mezzi sia militari che economici (il “momento tucidideo” di cui parla Streeck su “New Left Review”, ripreso da “Internazionale”). I rivali non hanno potuto evitare di rispondere alle provocazioni e mettersi in gioco quando ancora gli Usa sono in grado di fronteggiarli.

«Gli Stati Uniti si stanno comportando da stupidi, ed effettivamente lo sono. Fingendo di esserlo significa che sanno quali sono gli interessi della Cina sulla questione di Taiwan e la sua linea rossa. Ma, nonostante questo, la calpestano ripetutamente» (Wang Wen dell’Università Renmin)

Si è arrivati alla guerra aperta perché a quel risultato erano improntati i piani strategici di tutti i protagonisti per rispondere all’esigenza da parte di potenze nucleari energivore di espandere il controllo di risorse e mercati e in nome di quelle dinamiche dominanti si sta tentando la scalata all’egemonia, la stessa che gli Usa intendono mantenere ancora per alcuni decenni, com’è avvenuto 30 anni fa quando a crescere al punto da sfidare la preminenza tecnologico-finanziaria fu il Giappone simboleggiato da Goldrake, allora detentore delle maggiori conoscenze sui semiconduttori e ora investito da Blinken del ruolo di gendarme del Pacifico; la sfida di Tokyo fu ridimensionata proprio con l’avvento della globalizzazione e agevolando la crescita della Cina ispirata a Deng in grado di eclissare prima e surclassare nel 2010 l’ascesa del Giappone – isolato e costituzionalmente privo di deterrenza militare; ora il conflitto appena scatenato rappresenta la fine della globalizzazione e l’industria nipponica torna a fare da testa di ponte per conservare al campo “occidentale” il controllo dei microchip, collaborando con le maggiori fabbriche di Taiwan. Premendo così in ambito tecnologico sulla possibilità di sviluppo dell’economia cinese, costretta a mostrare i muscoli a Nancy Pelosi (per uso interno, ma anche più pragmaticamente per salvaguardare le forniture tecnologiche di Formosa), come il pressing e la cooptazione degli stati satelliti dell’ex Urss lasciava poche chance alla sicurezza russa.

«Putin ha lanciato un’invasione per eliminare la minaccia che vedeva, perché la questione non è cosa dicono i leader occidentali sui propositi o le intenzioni della Nato: è come Mosca vede le azioni della Nato. la politica occidentale sta esacerbando i rischi di un conflitto allargato. Per i russi, l’Ucraina non è tanto importante perché ostacola le loro ambizioni imperiali, ma perché un suo distacco dalla sfera d’influenza di Mosca è “una minaccia diretta al futuro della Russia”» (John Mearsheimer da “The Economist”).
«Molti tendono a equiparare egemonia e imperialismo. In realtà imperialismo è una nazione che ne forza altre a entrare nella sua sfera, mentre egemonia è più una condizione che un proposito. Il problema di Putin e di coloro che sostengono l’esistenza di sfere d’influenza russa e cinese è che “tali sfere non sono ereditate, né sono create dalla geografia, dalla storia o dalla ‘tradizione’. Sono acquisite dal potere economico, politico e militare” che gli Stati Uniti possiedono più della Cina e che la Russia non ha» (Robert Kagan, “Foreign Affairs”).
(Ugo Tramballi, Ispi).

Conflitti collaterali e proxy wars

Ormai appare evidente che l’escalation di tensione costringe il mondo a uno stretto passaggio tramite il quale ogni area dello scacchiere internazionale è costretta a transitare, ovvero locali confronti tra protagonisti per definire gli schieramenti attraverso innumerevoli conflitti ristretti che ambiscono al controllo di territorio, risorse, commodities e mercati a cui attingere quando lo sforzo bellico sarà globale e a tutti i livelli.

Di tutti il confronto che maggiormente ha costituito la consapevolezza che si stava andando verso un rivolgimento globale è la crisi sarmatico-pontica, usata come grimaldello per coinvolgere anche l’Occidente europeo nel processo di trasformazione degli equilibri e delle supremazie su zone di influenza che si è innescato con l’attacco di Sarkozy a Gheddafi. Di lì discende la nuova strategia russa da un lato (innescata come già spiegò Bagnoli dalla paura di Putin di fare la stessa fine) e dall’altro la pulsione all’affrancamento nel Mediterraneo dei satrapi che nel 2011 erano ancora al guinzaglio di potenze globali e da allora invece sempre più autonomi e spregiudicati, come la Turchia, l’Arabia Saudita, gli Emirati… che hanno cominciato a sgomitare perseguendo strategie, alleanze, riarmo, penetrazioni in territori colonizzati proprio da quell’Occidente europeo da cui gli Usa si allontanavano, non avendo più interesse energetico derivante dal Mena, essendo divenuto autosufficiente durante l’amministrazione Obama con lo shale oil, e che ha optato in quel quadrante per la delega alle autocrazie locali. Si è venuta così a creare una pulsione all’autodeterminazione, all’affrancamento e all’autoaffermazione che passa attraverso un forte impulso al nazionalismo e al militarismo. Altra benzina sul fuoco.

Modelli sovranisti stanziano ad Astana

In questo quadro van rivisti a livello di potenze locali, tendenzialmente non più tali, la guerra siriana e i conseguenti accordi di Astana… Si sono svolti nelle ultime due settimane due atti di questo canovaccio, uno a Tehran e uno a Soci, di quest’ultimo Yurii Colombo ha parlato nel suo canale telegram Matrioska.info, sottolineando i due aspetti richiamati dal viceprimoministro Alexander Novak che rinsaldano i legami tra i due autocrati: le forniture di 26 miliardi di metri cubi annui di gas alla Turchia – il cui Turkish Stream diviene un hub del gas russo ad aggirare gli embarghi – e gli scambi in valuta nazionale: lira e rubli, entrambe in sofferenza. L’incontro in Iran è stato affiancato dall’Ispi agli sviluppi dell’attività diplomatica di Lavrov:

«A pochi giorni dall’incontro del terzetto di Astana dove oltre a Ebrahim Reisi Putin ha incontrato anche l’omologo turco Recep Tayyip Erdoğan, la visita di Lavrov sembra anche voler ribadire che la Russia non è isolata sulla scena internazionale. Al termine dell’incontro con il presidente egiziano Abdelfattah al Sisi e con il segretario generale della Lega araba, Ahmed Aboul Gheit, il ministro ha esortato il mondo arabo a sostenere la Russia “contro i tentativi palesi degli Stati Uniti e dei loro satelliti europei di prendere il sopravvento e di imporre un ordine mondiale unipolare”. Non è detto che in paesi in cui il sentimento antiamericano è forte (corroborato dall’invasione in Afghanistan e Iraq e dal sostegno storico a Israele) i suoi argomenti non facciano presa» (Alessia De Luca, Ispi).

Mosca è tutt’altro che isolata, se si ripensa al voto di marzo all’Onu sulla risoluzione di condanna dell’invasione ucraina.

Tutti contro tutti appassionatamente insieme

Ankara contemporaneamente è un nodo della gestione per procura americana del Medio Oriente insieme a Tel Aviv (il giorno dopo l’incontro con Herzog, Hamas è stato cacciato da Ankara, come avvenne ad Arafat a Beirut) – però Israele è schierato con Egitto, Cipro e Grecia per controllare il Mediterraneo orientale in contrasto con Ankara – e Riad, gradualmente disciogliendo il contenzioso yemenita come il corpo di Kasshoggi nell’abbraccio tra Erdoğan e Mbs (con sullo sfondo gli Accordi di Abramo voluti da Kushner e proseguiti da Blinken).  A maggio persino sauditi e iraniani hanno ripreso relazioni diplomatiche. Evoluzioni tutte previste da Antonella De Biasi in Astana e i 7 mari.

“Astana prepara crepe nell’asse mondiale sparigliando le polarità”.

Risulta sempre più importante districarsi tra alleanze interstatali, che in ogni caso – siano regimi liberal-democratici o democrature rette da autocrati e oligarchi, dinastie, latifondi o gruppi economico-industriali – soffocano le libertà civili e il controllo dei media impedisce ai sudditi di riconoscersi come tali e proporre una coalizione dei sottomessi che si sottraggano e levino il consenso alle istituzioni militari assassine.

Questa ricostruzione permane all’interno di un quadro a blocchi, ma lo fa diversamente dal rimpianto che si affaccia presso alcuni vecchi rivoluzionari per quella condizione semplice da leggere costituita da due imperi anche geograficamente divisi per blocchi contigui. Invece in realtà lo sconquasso operato con l’invasione ucraina ha sconvolto ogni possibile lettura di strategie e mosse sullo scacchiere internazionale, che va componendosi all’interno di quel quadro in una serie di alleanze militari (Quad, Aukus), cooptazioni (gli stati africani controllati da Wagner e quelli inseriti negli accordi di Abramo), scelte di campo fondate sui nemici dei nemici (Etiopia), attendismo neutralista (eclatante in questo senso la posizione dell’India), ambigue mediazioni (il ruolo che si è conferito Erdoğan).

Il rivolgimento globale registra soprattutto in Mena e in Europa (e nelle sue colonie africane) il rimescolamento di alleanze, controllo di risorse e sfere di influenza, mentre nell’Indopacifico si assiste a viaggi diplomatici che si inseguono per creare coalizioni in vista del confronto.

Orizzonti senza gloria

Però quei vecchi rivoluzionari ormai incanutiti dovrebbero leggere il presente con occhiali diversi da quelli adottati negli anni Settanta e proporre un pensiero estraneo all’ottica meramente mercantile di un capitalismo ancora più feroce di allora che permea tutte le innumerevoli parti in causa, le quali infatti si confrontano con i mezzi previsti dal Finanzcapitalismo (non a caso Gallino lo scrisse nel 2011, l’anno del tracollo libico, durante le Primavere arabe).

Un modello che sconfigga il sovranismo neototalitario non può certo affidarsi al nazionalismo dell’imperialismo di stampo americano in contrapposizione a quelli irricevibili di stampo cinese o russo o neo-ottomano o saudita, o viceversa: rispondono tutti ai medesimi criteri ed è come rivelare l’acqua calda la denuncia che la barbarie dell’esercito russo è identica a quella delle invasioni americane di Vietnam, Somalia, Iraq… Afghanistan. Quest’ultima, emblematicamente comune a quella sovietica, dovrebbe anche simbolicamente chiudere il cerchio e l’epoca.

Allora bisognerebbe riuscire a fabbricare una chiave per attribuire il fulcro delle strategie che regolano i rapporti nel mondo a valori diversi, esterni al capitalismo – o alla identità nazionale o religiosa. Per farlo andrebbe forse messa al centro della proposta di ricostruzione dei modelli mondiali l’emancipazione dei popoli e la loro difesa dagli imperi sovranisti che non solo ripropongono l’idea degli imperi ma anche la loro considerazione della carne da cannone, contrapponendogli quel ripudio delle guerre, militari o economiche che siano, sicuramente diffuso come all’inizio della Prima guerra mondiale su cui potrebbe costruirsi un modello che si sottrae agli interessi imperialistici.

Quindi innanzitutto vanno smontati i meccanismi e gli interessi militari che stanno informando le cancellerie del mondo. E per farlo vanno individuati e descritti nei particolari quegli stessi meccanismi per disinnescarli, come la bomba che gli imperialismi, cambiando gli equilibri di sistema dall’interno e ponendosi fuori dai blocchi, stanno preparando, intessendo l’ordito di trame e temporanei accordi che sfoceranno in nuovi focolai di guerra funzionali a uno di quei modello di mondo.

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I fiori avvelenati di Atacama https://ogzero.org/i-fiori-avvelenati-di-atacama/ Tue, 14 Jun 2022 15:05:41 +0000 https://ogzero.org/?p=7915 Riprendiamo il fotoreportage realizzato da Alice Pistolesi per l’“Atlante dei conflitti e delle guerre”, in cui viene mostrato lo sfruttamento delle risorse minerarie in Cile a scapito delle popolazioni native e con ripercussioni sull’ambiente in un paese già provato dal cambiamento climatico. Quanto è davvero “green” la produzione di ciò che è utile al mondo […]

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Riprendiamo il fotoreportage realizzato da Alice Pistolesi per l’“Atlante dei conflitti e delle guerre”, in cui viene mostrato lo sfruttamento delle risorse minerarie in Cile a scapito delle popolazioni native e con ripercussioni sull’ambiente in un paese già provato dal cambiamento climatico. Quanto è davvero “green” la produzione di ciò che è utile al mondo per la sua svolta verde? Le foto sono state scattate in Cile nel dicembre 2018 e la mostra è stata presentata a Villa Lascaris a Pianezza il 12 giugno 2022.


L’antica lotta tra lavoro e ambiente, tra interessi economici e tutela del territorio ha in Cile e nelle sue miniere uno dei più significativi campi di battaglia. Il Cile è un paese minerario, ricco di risorse dal deserto di Atacama alla Patagonia. Il Nord è pieno di giacimenti di rame, ferro, molibdeno, piombo, zinco, oro, argento e litio. Moltissimo carbone si trova poi nella macro regione Meridionale. Il Cile è il primo produttore mondiale di rame e di litio, il terzo di molibdeno, il quinto di argento, il diciottesimo di oro. L’attività legata all’estrazione di minerali e alla loro esportazione rappresenta circa un terzo del Pil.

Dietro l’imponente attività estrattiva del paese non può che nascondersi il pericolo ambientale: su un totale di 205 conflitti ambientali mappati dall’Osservatorio dei conflitti minerari in America Latina, almeno 35 interessano il Cile.

Lo stato è uno più vulnerabili al climate change: possiede, nonostante produca solo lo 0,25% delle emissioni globali di gas serra, sette dei nove fattori di rischio stabiliti dalla Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici. Nel paese il settore industriale e minerario è responsabile del 77,4% delle emissioni di gas serra.

Questa mostra ci porta al Nord del Cile, nei suoi paesaggi e nelle sue contraddizioni. Si parte dalla celebre Chuquiquamata, la più grande miniera a cielo aperto del mondo e, attraverso il villaggio costruito all’interno del comparto minerario e abbandonato nel 2009, si approda nel deserto di Atacama, dove si trova tra il 27% e il 30% delle riserve mondiali di litio. Un elemento essenziale per le batterie di laptop, telefoni cellulari e auto elettriche, considerato uno dei simboli dell’economia verde. Difficile però stabilire se sia davvero green o se le sue conseguenze siano semplicemente ignorate.

Scenari che ci parlano, oltre che di ambiente e lavoro, anche di progresso e transizione ecologica, di quanto si continui a pretendere dalla Terra per inseguire uno sviluppo sempre meno sostenibile.

Chuquiquamata è la più grande miniera a cielo aperto del mondo e opera dal 1910. Gli scarti della miniera hanno prodotto un conflitto ambientale a Quillagua, un’oasi nel bacino del fiume Loa, nel Comune di María Elena a nordovest di Calama. Lì vivevano tra le 2000 e le 3000 persone, sfollate verso la città di Calama a causa della contaminazione delle acque del fiume con sostanze chimiche come xantate e isopropanolo, detergenti e metalli pesanti, tutti elementi utilizzati nei processi di estrazione del rame. L’inquinamento delle acque del Loa ha causato la graduale morte di colture e bovini. Dal 2020 si è iniziato a lavorare in sotterranea. Questo ha comportato molti cambiamenti, tra cui la notevole diminuzione dei lavoratori.

Nel complesso della miniera di Chuquiquamata fino al 2009 hanno abitato oltre 15.000 lavoratori con le rispettive famiglie. Oggi è un villaggio fantasma visitato ogni anno da migliaia di turisti grazie alle visite guidate effettuate dalla stessa azienda che gestisce la miniera, la Codelco.
I minatori che abitavano il villaggio vivono ora a Calama, a 9 chilometri da Chuquiquamata. La città ha un alto livello di contaminazione ed è una delle più inquinate del paese. La principale causa di morte è il cancro e si contano più di 2.000 casi di malattie respiratorie ogni inverno.

Il territorio che circonda il vecchio villaggio minerario e la strada che collega la città di Calama a Chuquiquamata è cosparso da “torte”, montagnole di terreno scavato e di scarto minerario. Quantificare chi si ammalerà a causa dell’arsenico respirato in anni di lavoro, ma anche di vita dentro il villaggio, non è a oggi possibile.

Il Salar de Atacama è uno dei più grandi del continente dopo il Salar de Uyuni (Bolivia). Si trova nel comune di San Pedro de Atacama, la più grande destinazione turistica del Cile. Qui si trova tra il 27% e il 30% delle riserve mondiali di litio; l’80% si trova in America Latina, nel cosiddetto ‘triangolo del litio’, ovvero la regione al confine tra Cile, Argentina e Bolivia. In questi tre Stati il minerale si trova nei deserti salati: qui il litio è presente nell’acqua dei laghi salati sotterranei che viene portata in superficie e fatta evaporare in grandi vasche. Ad estrarre litio ad Atacama sono principalmente le società Sociedad Química y Minera (SQM) e ALBEMARLE, che costituiscono due dei principali gruppi economici mondiali nell’estrazione della risorsa. In previsione dell’aumento della domanda di litio, la SQM, società privatizzata sotto la dittatura di Pinochet e i cui familiari possiedono ancora oggi parte rilevante delle azioni, promette di triplicare la produzione entro il 2030.

L’estrazione del litio, che risale alla metà degli anni Ottanta, ha nel tempo causato gravi danni agli ecosistemi e alle comunità. Questo secondo l’Osservatorio Plurinazionale di Salares Andinos, un gruppo nato a San Pedro de Atacama e che riunisce rappresentanti di comunità, organizzazioni e ricercatori provenienti da Cile, Argentina e Bolivia, preoccupati per le conseguenze, l’intensificazione e l’espansione dell’estrazione del litio nel triangolo delle saline andine e le altre associazioni ambientaliste. L’osservatorio ha rilevato che con il tempo si è danneggiata la distesa di sale, prosciugando gradualmente le sue zone umide. Queste aree e le oasi del bacino di Atacama hanno anche il compito di regolare la temperatura del deserto e catturare la CO2: sono armi vive contro il cambiamento climatico. Secondo gli studi dell’Università di Antofagasta in Cile, per ogni tonnellata di minerale estratto sono necessari due milioni di litri di acqua.

Nella comunità di San Pedro de Atacama convivono quattro fattori di rischio: presenta aree aride o semi-aride, è incline a disastri naturali, ha aree soggette a siccità e desertificazione e ecosistemi montuosi. Nel territorio le alte temperature e l’estrema aridità (il deserto di Atacama è considerato l’area più arida della terra) si combinano con le violente piogge estive che causano morti, inondazioni, erosione ed enormi perdite economiche. Secondo i ricercatori, per soddisfare il crescente mercato delle auto elettriche, il già sovrasfruttato Salar de Atacama non sarà sufficiente, e sarà necessario sfruttare più falde acquifere e saline in territori indigeni Atacameños o Lickanantay, Colla, Quechua e Aymara, andando ad impattare su altre aree protette.

Nell’area di San Pedro de Atacama vivono 11mila abitanti, di cui la metà sono indigeni, per la maggior parte Atacameños. Il costante intervento di tutte le società minerarie della zona ha generato forti divisioni, conflitti, inganni e resistenze nella convivenza comunitaria. L’estrazione mineraria indiscriminata colpisce direttamente le comunità, che devono affrontare gravi problemi di approvvigionamento idrico per l’agricoltura, la pastorizia (allevamenti di lama in primis) e per il turismo locale. Secondo gli osservatori, gli accordi e le compensazioni che le società minerarie hanno concluso nel territorio hanno causato divisioni e tensioni tra la popolazione. Le aziende hanno sfruttato l’assenza dello Stato per soddisfare numerosi bisogni primari della popolazione locale e sottoscrivere accordi di assistenza in cambio dell’accettazione delle aziende e delle gravi conseguenze socio-ambientali dell’estrazione mineraria nei loro territori.

Fenicotteri nella Laguna Chaxa. Lo squilibrio idrico collegato all’estrazione sta provocando il prosciugamento di fiumi e falde acquifere e sta interessando i laghi e le zone umide ai margini della distesa di sale e nelle montagne, ovvero ecosistemi che ospitano specie endemiche altamente vulnerabili, molte delle quali protette. Nel territorio, secondo gli osservatori, a causa degli effetti dell’estrazione e del riscaldamento globale, stanno scomparendo i fenicotteri e altre specie autoctone del salare.

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La strategia del grano https://ogzero.org/la-strategia-del-grano/ Fri, 10 Jun 2022 16:01:50 +0000 https://ogzero.org/?p=7867 Sulla scorta della proverbiale definizione di “granaio del mondo” l’Occidente sta attribuendo integralmente alla guerra in Ucraina la responsabilità della fame che si sta annunciando per carenza di grano (ma non si parla del fatto che la Russia è il maggior esportatore di fertilizzanti), senza considerare che il prezzo dei cereali era già in aumento […]

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Sulla scorta della proverbiale definizione di “granaio del mondo” l’Occidente sta attribuendo integralmente alla guerra in Ucraina la responsabilità della fame che si sta annunciando per carenza di grano (ma non si parla del fatto che la Russia è il maggior esportatore di fertilizzanti), senza considerare che il prezzo dei cereali era già in aumento prima del 24 febbraio e che sono periodiche le rivolte del pane (anche dopo il 2011 delle Primavere arabe).
La guerra è stata solo il la ciliegina su una torta immangiabile per i 20 milioni di potenziali morti per fame che la contingenza può creare e i due autocrati di Astana si stanno mettendo d’accordo anche in questo caso per spartirsi guadagni e prestigio nei paesi africani sbloccando la situazione del Mar Nero con il blocco delle tonnellate di grano ammassato nei silos ucraini che rappresentano comunque soltanto l’8 per cento del prodotto annuale mondiale. Un’arma ibrida come le bombe di migranti gettate ai confini, che si produrranno anche attraverso questa nuova fame indotta dalla guerra sarmatica. Ma non solo: esistono infinite esponenziali conseguenze al conflitto (e allo scellerato agribusiness, all’intollerabile landgrabbing, allo sfruttamento coloniale, che hanno preparato il terreno alla fame globale) che portano alle scelte strategiche dei singoli stati vincolati in qualche modo ai prodotti russi (per esempio il Brasile) e il ritorno d’immagine per i popoli affamati d’Africa che si troveranno a ringraziare i garanti russo-turchi delle forniture alimentari di cui sono responsabili per l’improvvisa carenza; senza contare la stagflazione ormai globale e l’indebitamento generalizzato.
Per questo riprendiamo, con l’accordo dell’autore – che ringraziamo –, un pezzo di Angelo Ferrari scritto per l’Agi sul ritorno delle mosse russo-turche nei paesi africani a rischio di carestia per la carenza di approvvigionamenti di cereali, a cui alleghiamo il podcast di un intervento di Alfredo Somoza su Radio Blackout a proposito delle cause globali della carestia.


La guerra del grano deve essere risolta nel più breve tempo possibile e vincerla non è solo una questione di “buon cuore”, ma anche strategica. I numeri dimostrano che la carestia potrebbe colpire oltre 400 milioni di persone. A questi si debbono aggiungere tutti coloro che vivono con gli aiuti alimentari delle Nazioni Unite. Il Corno d’Africa e gran parte del Sahel si apprestano ad affrontare una carestia senza precedenti (Human rights watch) che, indubbiamente, sarà aggravata dalla guerra in Ucraina. Sbloccare centinaia di milioni di tonnellate di grano nei silos nei porti ucraini è dunque una priorità per scongiurare una catastrofe umanitaria che avrà ripercussioni globali che potrebbero durare anni. Molto attivi su questo fronte sono i turchi e i russi, anche se un accordo chiaro che garantisca tutti, in primo luogo gli ucraini, sembra lontano dall’essere siglato.

La penetrazione russa

La Russia, come stiamo vedendo in questi giorni, ha tutto l’interesse a scaricare sull’Occidente la responsabilità di una possibile crisi alimentare globale. Un interesse che non deve stupire. Di sicuro, come è già avvenuto, farà partire le sue navi cariche di grano dai porti ucraini conquistati sul mar d’Azov. Grano rubato, secondo gli ucraini. Grano di loro proprietà secondo Mosca. Al di là di chi abbia ragione questa è la realtà. Le navi hanno fatto rotta verso l’Africa dove la presenza russa si fa sempre più penetrante.
Il caso del Mali, nel Sahel, è l’aspetto più eclatante. È riuscita a “cacciare” la Francia da un’ex colonia. Poi c’è la Repubblica Centrafricana, anch’essa ex colonia francese. Qui la presenza russa è ancora più evidente. Senza dimenticare il Burkina Faso e ancora i recenti accordi militari e di sicurezza tra il Camerun e Mosca. Nel mirino di Putin c’è anche il Ciad, dove nella capitale N’Djamena ci sono state manifestazioni antifrancesi molto violente. Il sentimento antifrancese e antioccidentale sta dilagando in gran parte del Sahel e Mosca lo cavalca e incoraggia abilmente.

L’attivismo turco

Dall’altra parte del tavolo negoziale c’è la Turchia, il sultano Recep Erdoğan, che non fa nulla senza che ne abbia un tornaconto significativo. Anche Ankara ha interessi diffusi in Africa. Oramai è un po’ ovunque, ha stretto accordi commerciali, di fornitura di armi, ma anche si sta impegnando molto sul fronte dell’aiuto alimentare, come in Somalia. La forza della Turchia in Africa è assai maggiore di quella russa. Dal 2004 Erdoğan ha fatto più di 50 viaggi nel continente africano e visitato oltre 30 nazioni. Solo nell’ottobre del 2021 il capo di stato turco ha visitato Angola, Nigeria e Togo e nello stesso mese, Istanbul ha ospitato leader aziendali e dozzine di ministri degli stati africani per un vertice volto specificatamente ad aumentare il commercio. Nei primi mesi del 2021 il commercio bilaterale Turchia-Africa ha raggiunto i 30 miliardi di dollari e l’obiettivo della Turchia è di aumentarlo ad almeno 50-75 miliardi di dollari nei prossimi anni. Inoltre circa 25.000 lavoratori africani sono attualmente impiegati nel continente da aziende turche in progetti del valore di 78 miliardi di dollari e più di 14.000 studenti africani hanno studiato in Turchia. Il numero degli ambasciatori turchi distaccati nel continente è passato dai 12 del 2005 ai 43 nel 2021, mentre il numero degli ambasciatori africani ad Ankara è passato da 10 a 37. «Miriamo ad aumentare il numero dei nostri ambasciatori fino a 49», ha detto Erdoğan, affermando che il vertice di Istanbul ha dato luogo a sessioni congiunte a livello ministeriale nei settori della sanità, dell’istruzione, dell’agricoltura e della difesa. Turkish Airlines vola verso 61 destinazioni in Africa, l’Agenzia turca di cooperazione e coordinamento (Tika) ha 22 uffici locali, la Fondazione Maarif gestisce 175 scuole in 16 paesi e la presidenza dei turchi all’estero e delle comunità correlate offre borse di studio a oltre 5000 studenti africani. Una potenza di fuoco enorme che ha anche lo scopo di ottenere il sostegno africano per un seggio permanente al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite.Per Ankara, dunque, arrivare a una soluzione negoziata sul grano ucraino sarebbe un grande successo e rafforzerebbe i legami già molto stretti con l’intero continente. Obiettivo che ha anche lo zar di Mosca. Putin e Erdoğan, su questa partita si intendono benissimo. Tutto ciò avrebbe, inoltre, anche lo scopo di allontanare sempre di più il continente africano dall’influenza occidentale, sostituendola con quella turca e russa. La Cina, vera padrona del continente, sta a guardare anche perché non ha competitor. Vincere la guerra del grano non è solo una questione di buon cuore, ma ha una valenza strategica tale da spostare gli equilibri anche in Africa, dove quasi la metà degli stati non ha votato o si è astenuta per la risoluzione delle Nazioni Unite di condanna all’invasione russa dell’Ucraina. Di sicuro, se Erdoğan avrà ragione in questa partita, sarebbe la sconfitta dell’occidente – oltre che quella dell’Onu – la cui diplomazia non fa altro che accusare Mosca della catastrofe alimentare. Non basta. Agli africani di certo non basta.

Ascolta “Dormi sepolto in un campo di grano” su Spreaker.

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All’Ovest Sahara qualcosa di nuovo… ma poco rassicurante https://ogzero.org/allovest-sahara-qualcosa-di-nuovo-ma-poco-rassicurante/ Tue, 26 Apr 2022 14:15:51 +0000 https://ogzero.org/?p=7141 Nello scacchiere internazionale si stanno delineando le aree delle future crisi e i vari protagonisti stanno disponendosi nelle alleanze contrapposte, spinti anche da necessità energetiche e da iniziative di grandi potenze che influenzano le scelte di schieramento. Uno dei focolai del prossimo confronto tra potenze mondiali è il Maghreb, in particolare la questione del Sahara […]

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Nello scacchiere internazionale si stanno delineando le aree delle future crisi e i vari protagonisti stanno disponendosi nelle alleanze contrapposte, spinti anche da necessità energetiche e da iniziative di grandi potenze che influenzano le scelte di schieramento. Uno dei focolai del prossimo confronto tra potenze mondiali è il Maghreb, in particolare la questione del Sahara occidentale, e le forze in campo si rimescolano: la mossa spagnola di distensione con il Marocco, dopo forti tensioni tra le due coste limitrofe e contrapposte. Questa scelta ha prodotto forti cambiamenti nei rapporti tra soggetti che insistono sul Mediterraneo occidentale: se l’Italia, interessata al gas, si avvicina all’Algeria, abbandonata nella difesa del popolo saharawi dalla Spagna, quest’ultima abbraccia il Marocco, potenza africana di riferimento in ascesa, con investimenti in infrastrutture, ottimi rapporti con Israele da cui riceve anche armi sofisticate inserite nell’enorme sforzo di riarmo in una competizione strenua con la vicina Algeria, che si approvvigiona con armi russe.
In questo panorama è prevedibile che riesploda un conflitto sulla condizione saharawi, di cui si riconoscono i primi inneschi nei mesi scorsi, perciò abbiamo chiesto a Lorenzo Forlani di fare il punto per evitare di essere colti di sorpresa da una prevedibile evoluzione critica della situazione.


«Serio, credibile, realistico». Con queste inattese parole il governo spagnolo di Pedro Sanchez meno di un mese fa ha definito il piano marocchino di concessione dell’autonomia amministrativa al Sahara occidentale. Un riconoscimento de facto, quindi, della sovranità di Rabat sulla regione al confine con l’Algeria e la Mauritania, che nel giro di un mese ha generato la reazione del Fronte Polisario (FP): lo scorso 10 aprile, infatti, il movimento che dal 1976 – cioè dopo il ritiro delle truppe coloniali spagnole dall’area – persegue l’autodeterminazione del Western Sahara (WS), ha annunciato l’interruzione dei contatti ufficiali con il governo iberico, suo storico “garante” europeo (pur nel quadro di una neutralità strategica). Solo un anno fa Madrid  ne aveva accolto e curato il leader, Brahim Ghali, malato di Covid-19, innescando con la stessa Rabat una crisi diplomatica che può dirsi estinta proprio in queste settimane, col ritorno a Madrid dell’ambasciatrice marocchina, richiamata all’indomani dell’affare Ghali.

Popolo saharawi: vittima sacrificale di nuove proxy war

Una mossa, quella del FP, che secondo molti osservatori è stata in realtà decisa da Algeri, “sponsor” dei Sahrawi, che all’indomani dell’inversione di rotta da parte di Madrid, aveva richiamato a sua volta il proprio ambasciatore dalla Spagna, aprendo contestualmente il varco a migliaia di migranti verso Ceuta e Melilla. Mentre il pianeta rivolge la sua attenzione al conflitto in Ucraina, il riposizionamento quasi improvviso di questi attori regionali racconta essenzialmente di una tensione latente tra due potenze come Marocco e Algeria, e di riflesso fa luce sulla scarsa coesione dell’Unione Europea, la cui mancanza di un approccio integrato in politica estera produce posture massimaliste, proprio come quella che sembra aver improvvisamente assunto la Spagna.

Quella nel Western Sahara è la linea del fronte più lunga al mondo: un terrapieno che si estende per 2700 km nei pressi del quale si sono susseguiti scontri armati nel corso degli ultimi 50 anni, cioè da quando Rabat ha annesso la regione contesa dopo il ritiro degli spagnoli. Nel 1991 si raggiunge un cessate il fuoco tra il Fronte Polisario e Rabat, dopo il quale le Nazioni Unite avviano un processo di pace che finirà per arenarsi: il voto per l’indipendenza che era stato previsto non ha mai avuto luogo e oggi il WS è controllato all’80% dallo stesso Marocco, mentre nella città algerina di Tindouf si sono rifugiati più di 150.000 profughi Sahrawi, coinvolgendo ancor più direttamente Algeri nella disputa, specie se si considera il rischio di radicalizzazione di alcuni segmenti dello stesso popolo Saharawi, nel quale le nuove generazioni spingono per una ripresa del conflitto.

Secondo l’Onu il WS è un “territorio non autonomo”, una definizione che riassume una situazione di grande ambiguità se associata all’annunciato piano marocchino e all’autoproclamazione d’indipendenza da parte dello stesso Fronte Polisario, che invoca stabilmente il referendum per l’indipendenza programmato più di 30 anni fa. Lo scorso dicembre il Consiglio di Sicurezza dell’Onu ha prolungato la missione MINURSO, chiedendo la ripresa dei negoziati e inviando nuovamente il diplomatico Staffan de Mistura, il cui lavoro negli ultimi due anni era stato sostanzialmente impedito dai veti incrociati di Marocco e Algeria.

La posizione massimalista che ha improvvisamente assunto Madrid ha generato spaccature nella maggioranza di governo – con la sinistra molto critica rispetto all’”abbandono” dei sahrawi – ma rispecchia inevitabilmente la mancanza di una strategia occidentale ed europea: già nel 2020 l’ex presidente americano Donald Trump – in cambio della “normalizzazione tra Marocco e Israele – aveva riconosciuto la sovranità marocchina sul WS, contraddicendo la posizione dell’Onu, e nelle ultime settimane l’amministrazione Biden ha aggiunto confusione al quadro, dichiarando di essere favorevoli alla “autodeterminazione del popolo del Western Sahara”, pur non modificando il proprio posizionamento generale, che ribadisce la sovranità marocchina.

Potenze energivore e l’indipendentismo strabico algerino

In questo contesto è interessante seguire le mosse del governo italiano. La recente visita di Mario Draghi ad Algeri è avvenuta appena dopo la svolta spagnola sul WS ed è stata “salutata” dai media algerini come la formalizzazione di un “rimpiazzo” – anche dal punto di vista della collaborazione militare –: «Algeri ha preferito consolidare la partnership con l’Italia a danno della Spagna, che non godrà più della stessa considerazione di prima da parte dell’Algeria», si legge su Dernieres Info d’Algerie (DiaTEbb).

Il gasdotto Enrico Mattei attraversa il Mediterraneo tra Mellilah (in Libia) e Gela (in Sicilia), portando il gas algerino in Europa.

Le tensioni tra Marocco e Algeria sono anche più antiche, profonde; riflesso di assetto e orizzonti diversi, che rendono la situazione in questo quadrante regionale altamente esplosiva, soprattutto dall’ultima rottura dei rapporti diplomatici nell’agosto del 2021, con conseguente stop all’export di gas algerino verso Rabat (e poi verso Madrid), che copriva circa un decimo del suo fabbisogno. La disputa sul confine va avanti dal 1962 e storicamente, laddove Rabat – investito del ruolo di “gendarme” regionale da parte dell’UE, specie sui flussi migratori e sui fenomeni di radicalizzazione jihadista – ha volentieri sostenuto movimenti islamisti che minacciavano il potere dei militari algerini, oltre a offrire incentivi ai cittadini marocchini che vogliano trasferirsi in WS, Algeri da par suo è da decenni un esplicito sostenitore dei movimenti separatisti e rivoluzionari (ha sostenuto Che Guevara, Arafat, Mandela), pur vivendo con apprensione le ambizioni autonomiste di una sua regione, la Cabilia.

Il confine tra Algeria e Marocco è chiuso, e nei mesi scorsi la tensione si è ulteriormente alzata dopo i rumor secondo cui Rabat, servendosi di un software di spionaggio fornitole da Tel Aviv, avrebbe a lungo spiato decine di funzionari algerini. Algeri sostiene i saharawi anche per ragioni squisitamente strategiche: il WS è una regione ricca di petrolio, fosfati e diritti di pesca, un aspetto, quest’ultimo, che rende appetibile l’idea di avere un accesso all’Oceano Atlantico.

Ascesa marocchina, difficoltà algerine

Nel 2017 il Marocco è rientrato nell’Unione Africana (UA), boicottata per 32 anni proprio a causa del diffuso riconoscimento del WS. Oggi meno della metà dei membri dell’UA riconosce l’autonomia del Western Sahara: un aspetto che evidenzia anzitutto l’aumento dell’influenza marocchina, accanto alla diminuzione di quella algerina. Rabat sembra proiettata al futuro: ha le più grandi fabbriche d’auto del continente nonché i treni più veloci; ha vaccinato con due dosi oltre il 60% della popolazione e, nell’ambito della corsa al riarmo con l’Algeria, sta cercando di completare un profondo upgrading delle proprie Forze Armate, all’interno del quale ricade il recente accordo – dello scorso febbraio – con la Israel Aerospace Industries (IAI) per la fornitura dei sistemi di difesa missilistica Barak MX, per un valore di 500 milioni di dollari. Tel Aviv e Rabat a novembre 2021 avevano firmato un accordo nel campo della difesa, che impegna i due paesi a a cooperare nella condivisione di intelligence, nella realizzazione di progetti e nella vendita di armamenti.

L’Algeria, al contrario, è in una fase molto delicata: il piano per rendere l’economia meno vincolata alle entrate petrolifere è miseramente fallito; le proteste antiestablishment (Hirak, in arabo “movimento”) sono state represse; il presidente Abdelmajid  Tebboune è considerato un fantoccio nelle mani degli alti quadri militari. Di riflesso, Algeri è un gigante bellico: secondo i dati del SIPRI, nel 2020 il suo budget militare è stato il più corposo del continente, quasi 10 miliardi di dollari, il doppio di quello marocchino (che è comunque aumentato del 54% dal 2011 al 2020, e che dovrebbe arrivare a 5,5 miliardi di dollari nel 2022), e il suo esercito è numericamente secondo solo a quello egiziano; il 70% degli armamenti algerini provengono dalla Russia, e proprio quest’anno sono state calendarizzate delle forniture di armamenti da Mosca, che includono 14 jet Su-34 e gli stealth Su-57.

Ambiguità del ruolo dei governi maghrebini nel Mediterraneo occidentale

Qualunque confronto militare diretto tra i due eserciti nordafricani rischierebbe di aprire un fronte esplosivo nella regione, mettendo l’uno di fronte all’altro due paesi fondamentali nel mediterraneo, in assenza di adeguati contrappesi garantiti da un’Unione europea sempre più vittima delle strategie particolari dei suoi membri più importanti. Sarebbe forse opportuno elaborare una strategia di lungo termine che da una parte tenga conto del contributo marocchino alla sicurezza del mediterraneo ma che allo stesso tempo non consideri questo contributo come un lasciapassare per l’assertività di Rabat in WS e nei confronti di Algeri, e tantomeno come la merce di scambio per un endorsement europeo (e non più solo spagnolo) al piano marocchino sulla regione.

Il mantenimento di una posizione equilibrata nei confronti dell’Algeria è forse più complicato: questo perché i rapporti – culturali, commerciali, politici – con Algeri sono molto meno profondi che con Rabat, ma la contingenza del conflitto in Ucraina, e le conseguenti sanzioni alla Russia, hanno reso le forniture di gas algerine ancor più importanti in vista di una possibile transizione energetica. Secondo Anthony Dworkin dell’Ecfr, è nell’interesse europeo sviluppare rapporti con l’Algeria tali da allontanarla da Mosca, e ciò può essere realizzato soltanto non allineandosi con Rabat sul WS. E la delicatezza della posizione algerina si può evincere dal suo cambio di postura nel giro dell’ultimo mese: il 2 marzo si era astenuta all’Assemblea generale dell’Onu, sulla mozione di condanna dell’invasione russa in Ucraina; il 7 aprile, invece, ha votato contro l’estromissione di Mosca dal Consiglio dei diritti umani. Al tempo stesso, l’UE dovrebbe dissuadere Algeri dal rafforzare l’assistenza militare al Fronte Polisario, spingendola verso una partecipazione a un nuovo negoziato. Il 20 aprile il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha tenuto una sessione dedicata al dossier Western Sahara, nella quale Staffan De Mistura ha presentato un report sull’evoluzione della crisi.

 

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Cambi della guardia in Africa, e la Russia suona Wagner https://ogzero.org/cambi-della-guardia-in-africa-e-la-russia-suona-wagner/ Thu, 24 Feb 2022 08:45:35 +0000 https://ogzero.org/?p=6471 In un quadro che vede il ritiro dell’“Impero francese” dall’Africa, il continente diventa una tavola imbandita per chi intravede possibilità di sfruttamento, per chi cerca di farne una piazza del mercato delle armi, per chi porta avanti traffici illeciti con la connivenza di dittatori fantocci. La lotta al terrorismo nasconde l’esigenza di poter condurre affari […]

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In un quadro che vede il ritiro dell’“Impero francese” dall’Africa, il continente diventa una tavola imbandita per chi intravede possibilità di sfruttamento, per chi cerca di farne una piazza del mercato delle armi, per chi porta avanti traffici illeciti con la connivenza di dittatori fantocci. La lotta al terrorismo nasconde l’esigenza di poter condurre affari in un paese stabile, l’indigenza delle popolazioni è funzionale all’assoggettamento del tessuto sociale, basta frenare le partenze per oltremare… con le buone (accordi capestro e che calpestano i diritti umani) o con le cattive (presenza militare mercenaria ben pagata).

[fin qui… OGzero]

Qui una rielaborazione di due articoli di Angelo Ferrari pubblicati su Africa Rivista e Agi, ampliati per OGzero. Aggiungiamo un podcast realizzato con Edoardo Baldaro (ricercatore alla Scuola Sant’Anna di Pisa, esperto di Sahel) e Stefano Ruzza (professore associato in Scienze politiche all’Università di Torino, responsabile di T.wai – Torino, esperto di agenzie di sicurezza).


Spostare il confine del Mediterraneo

Il Niger è e diventerà sempre di più il bastione italiano nel Sahel. L’Italia, nel suo piccolo – sia geografico sia diplomatico – ha deciso di rilanciare la sua presenza nel continente africano proprio privilegiando il rafforzamento di quella militare in parte a scapito della cooperazione allo sviluppo, soprattutto in chiave anti-immigrazione. L’obiettivo è fermare i flussi proprio alle porte della Libia, cioè in Niger, con la presunzione e l’illusione che blindando i confini i problemi possano restare dall’altra parte. Spostare, dunque, più a Sud il confine del Mediterraneo. Ci riuscirà? Non è del tutto scontato.

In Niger la presenza militare è rilevante. Si tratta di 290 militari, 160 mezzi terrestri e 5 aerei. Mentre il rapporto tra spese militari e cooperazione allo sviluppo è di 10 a 1. Un po’ quello che è successo in Afghanistan, con le conseguenze, dopo il ritiro occidentale, che sono sotto gli occhi di tutti dal punto di vista umanitario. Tutto ciò, evidentemente, confligge con un principio che dovrebbe accompagnare le missioni militari all’estero in generale, e in particolare in Africa, è cioè quello per cui creare le condizioni di sicurezza nelle aree di crisi è indispensabile per poter realizzare anche le missioni civili e di sostegno socio-economico che aiutino i paesi interessati a costruire o ricostruire i loro apparati pubblici e a sviluppare le loro economie, a loro volta premessa indispensabile per migliorare le condizioni di vita della popolazione e stabilizzare il contesto locale e regionale.

Il Mali lasciato dagli occidentali

Il sentimento antifrancese che è montato in buona parte del Sahel deriva proprio da questo. Cioè le popolazioni hanno visto un gran numero di militari occidentali, ma nessun cambiamento sostanziale, non solo nella sicurezza, ma soprattutto nelle condizioni di vita reale. La precarietà “umanitaria” si è aggravata. La lezione del Mali dovrebbe insegnare qualcosa anche a noi italiani. Non a caso il presidente del Niger, Mohamed Bazoum, si è detto molto “preoccupato” per il ritiro dei francesi e degli occidentali in generale dal Mali.

A questo punto può risultare utile ascoltare le considerazioni sulla situazione dopo la chiusura di Barkhane e il subentro conseguente dei contractor russi, oltre al confronto tra le diverse reazioni nei paesi subsahariani, con Stefano Ruzza ed @EdoardoBaldaro

 “Il senso di Wagner per le crepe: le interconnessioni con le giunte del Sahel?”.

La “fortuna” del Niger, il paese più povero al mondo

Il Niger, tuttavia, interessa moltissimo all’Italia e non si tira indietro, lo ha dimostrato nel recente passato aprendo un’ambasciata nel 2017 e dal 2018 con la “Missione bilaterale di supporto” – militare. Il Niger, dunque, è un partner strategico e, nelle intenzioni del governo italiano, può rappresentare un’opportunità di business per l’Italia. L’Italia è tra quei paesi che guardano con interesse al crescere di questo mercato e in generale a quello di tutta l’area saheliana e la presenza dell’ambasciata italiana a Niamey ha anche il significato di voler accompagnare quanto più possibile le imprese italiane che vorranno avviare affari in questo contesto relativamente ancora incontaminato. Queste le intenzioni del governo italiano. Ma, diciamo noi, occorre arrivare per tempo. Per l’Italia, dunque, il Niger è un paese stabile – e questo aiuta – ma non si può dimenticare il passato recente. Il paese è sempre stato il crocevia di traffici illeciti, dalla droga alle armi, dal riciclaggio dei soldi sporchi alla tratta degli esseri umani.

Le fortune del Niger – se così si può dire – e dei suoi governanti, sono derivate proprio da questo. Un paese che ha fatto dell’illecito la ragione dei propri guadagni.

È il paese più povero al mondo, ma, Mohammad Issoufou, ex presidente nigerino – ha governato il paese per dieci anni fino al 2021 – ha speso milioni e milioni di dollari per acquistare armi, elicotteri e aerei da combattimento russi e francesi, tradendo la sua piattaforma elettorale di stampo socialista-progressista, che lo ha portato al vertice dello stato, impoverendo ancora di più la sua gente. Il suo successore, Bazoum, va nella stessa direzione, non a caso sul finire del 2021 ha acquistato dalla Turchia nuovi droni. L’impegno e le spese militari prevalgono su tutte, pur di mantenere i privilegi ereditati dal suo predecessore. Le cancellerie di tutto il mondo conoscono a perfezione i due burattinai nigerini, sanno perfettamente con chi hanno a che fare, ma hanno deciso che del Niger si possono fidare. Ma alcune domande, tra le tante, vengono spontanee: per quale ragione le varie milizie e fazioni che controllano il territorio dovrebbero abbandonare i lauti profitti che arrivano dai traffici illeciti che siano di esseri umani, droga, armi o denaro? Quali garanzie sono state fornite? Quali accordi stipulati?

Il governo italiano dovrebbe rispondere a queste domande con il linguaggio schietto della politica e non con quello della diplomazia. Occorre, dunque, fare attenzione. Ma le parole chiave sono “arrivare in tempo”. Non possiamo dimenticare che il paese saheliano è strategico anche per la Francia che è ormai una presenza organica, ma sul quale Parigi rivolge lo sguardo, soprattutto ora che si è ritirata dal Mali. L’intenzione francese è proprio quella di rafforzare la sua presenza in Niger e sul fronte Sud del Sahel, paesi come Costa d’Avorio, Togo e Benin. Gli interessi strategici di Parigi sono noti: l’estrazione dell’uranio è fondamentale per un paese che vive di centrali nucleari. Il Niger è il quarto produttore di uranio al mondo e il sesto per riserve.

L’Italia, dunque, deve adottare una via pragmatica e diplomatica per non andare a cozzare con gli interessi di altri paesi che hanno radici solide in quel pezzetto di deserto.

Wagner: gli strumenti “non convenzionali ” della Russia

In Africa, per esempio, la Russia suona la musica di Wagner. La presenza dei mercenari di Mosca rappresenta per Vladimir Putin la guarnigione di “sfondamento” nella sua politica di espansione in Africa. Non è un mistero che la Russia stia cercando di tornare agli antichi fasti dell’Unione Sovietica e non lo fa impegnandosi direttamente sul campo militare, quello dove si combatte, ma inviando la Wagner che per Mosca fa il lavoro sporco. Lo si vede in maniera evidente, per esempio, nella Repubblica Centrafricana, che è diventata la base operativa russa in Africa centrale. Lì i mercenari combattono a fianco delle truppe regolari e sostengono il regime. La guardia presidenziale è tutta nelle mani del Cremlino, così come i consiglieri del ministero della Difesa. Il Centrafrica è diventata una sorta di portaerei nel mezzo dell’Africa che funziona come trampolino di lancio per l’espansionismo russo. Già nel passato questo paese ha avuto questa funzione, con la presenza di numerose basi della Francia, ex potenza coloniale, almeno fino alla metà degli anni Novanta del secolo scorso. Ora la storia è molto diversa e, come è normale che sia, Putin nega tutto. Si limita a spiegare che l’intervento russo in Africa riguarda la fornitura di armi e l’addestramento militare. Ma ogni evidenza porta da un’altra parte. Lo si sta vedendo in maniera plastica in Mali, dove il sentimento prevalente è quello filorusso. Così come in Burkina Faso dove si sono viste manifestazioni a sostegno dei golpisti, con la gente in piazza che sventolava le bandiere di Mosca.

L’Africa, per Putin, è diventato uno degli scenari privilegiati della sua competizione con il mondo occidentale.

Lo fa, appunto, attraverso la fornitura di armi e con il sostegno dell’industria bellica, come in Sudan terzo produttore di armi nel continente africano dopo Egitto e Sudafrica. Per raggiungere i suoi obiettivi, il Cremlino utilizza non solo i normali canali diplomatici ma anche strumenti non “convenzionali”: i famigerati mercenari della Wagner e la propaganda attraverso i social network, come accade in altre parti del mondo. E funziona.

L’impegno italiano: ridurre le partenze

Il governo italiano sta mettendo in atto un cambio di paradigma nel guardare a questo paese e alla regione del Sahel nel suo insieme, cercando di colmare la sua lacuna di presenza, intercettando in maniera tempestiva il crescere dell’attenzione internazionale. Il Niger guarda ormai all’Italia come un “partner di riferimento”, soprattutto nella gestione delle migrazioni, nella lotta all’avanzamento del terrorismo jihadista, nel contenimento delle sfide ambientali e nello sviluppo. Se sul piano militare l’Italia è ben posizionata e il rinnovo delle missioni all’estero voluto dal governo Draghi va proprio in questa direzione. L’Africa si conferma il continente in cui l’Italia è maggiormente coinvolta, con 17 missioni in corso. Tra quelle più rilevanti in termini di unità impiegate e risorse economiche c’è la Task Force Takouba, per il contrasto della minaccia terroristica nel Sahel, e l’impiego di un dispositivo aeronavale nazionale nel Golfo di Guinea in funzione antipirateria.

Le forze della missione Takouba si preparano a lasciare il paese (fonte Africa Rivista).

Sul piano, invece, della cooperazione allo sviluppo fa segnare il passo. Non si può dimenticare che oltre il 40 per cento della popolazione nigerina vive sotto la soglia di povertà e il paese si colloca in fondo alla ben poco onorevole classifica dell’indice di sviluppo umano. C’è da augurarsi, dunque, che il rinnovato impegno in Niger e in tutta la regione sia teso, anche, al rafforzamento di un impegno umanitario. L’impegno italiano è concentrato – almeno così sembra – alla riduzione delle partenze dei migranti (come racconta qui Fabiana Triburgo). Rimane, tuttavia, la domanda: “È sufficiente la cooperazione militare per impedire le partenze?”. È lecito chiedersi se controllo del territorio di questi paesi e lotta al terrorismo non passino anche e soprattutto attraverso politiche di sviluppo: cioè alla creazione di un welfare state che manca totalmente in questi paesi. Non si considera infatti che la maggior parte delle persone che fuggono da quelle situazioni lo fanno perché manca totalmente la percezione della possibilità di costruirsi un futuro solido per sé e la propria famiglia. Non è solo mancanza di cibo, spesso è la mancanza di welfare state, cioè di una rete sanitaria adeguata e di una rete scolastica capace di formare.

In quei paesi dove la cooperazione militare è importante, gli apparati di governo sacrificano, già di loro, gli investimenti per il welfare a scapito di una crescente spesa militare. Tutto ciò dovrebbe far riflettere.

L’impegno russo: fornire armi e sfruttare le risorse

L’arrivo in Centrafrica, tuttavia, rappresenta, uno spartiacque per Mosca. Le armi russe fanno gola un po’ a tutti: Mali, Niger, Ciad, Burkina Faso e Mauritania hanno lanciato appelli a Mosca perché aiuti le loro forze di sicurezza a combattere il terrorismo, appelli che hanno avuto risposte positive. Tutto ciò piace molto al Cremlino e preoccupa enormemente l’occidente che sta perdendo posizioni strategiche. L’opzione di Mosca è quella di rafforzare la presenza militare per poi passare all’incasso, anche in termini di risorse naturali. L’interesse militare si giustifica, inoltre, con il fatto che il Cremlino è consapevole della sua marginalità nei mercati africani e di non poter competere con l’espansionismo cinese. Le armi, quelle vere, per Mosca, tuttavia, funzionano ancora. Ma è del tutto evidente che l’aiuto militare è subordinato, nel futuro, ad avere un ruolo anche nello sfruttamento delle materie prime.

Non a caso il paradigma di collaborazione con l’Unione africana – emerso nel forum Russia-Africa – che Putin vuole, mira a migliorare i rapporti esistenti, rafforzare i legami diplomatici e aumentare la sua presenza economica nel continente, per avvicinarsi agli elevati livelli di scambi commerciali che già caratterizzano Cina, India, Giappone, Corea del Sud, Turchia, Europa e Stati Uniti.

La presenza russa in Africa (fonte Ispi).

La retorica di Putin definisce la sua agenda per l’Africa “positiva” e si contrappone, a detta sua, ai “giochi geopolitici” degli altri, spiegando che la Russia non è interessata a depredare la ricchezza dell’Africa, ma a lavorare a favore di una cooperazione “civilizzata”. Parola, questa, già usata da coloro che hanno colonizzato il continente.

Dal punto di vista economico, non è da trascurare la presenza in Namibia dove la Russia è impegnata nell’estrazione dell’uranio e in Angola nel settore diamantifero. Da qui, dall’Africa, Putin vuole ripartire per lanciare la sua sfida e tornare a vantare il ruolo di potenza mondiale. Ma la “prudenza” sta caratterizzando la presenza russa. Putin non arriverà a schierare l’esercito regolare e per questo si avvale di mercenari della Wagner, che fa il bello e cattivo tempo un po’ ovunque, in particolare nella Repubblica Centrafricana che, di fatto, è governata proprio dai russi. Il Mali, dopo il ritiro delle truppe occidentali, rappresenta una vittoria significativa per Putin che è riuscito a ridimensionare l’impero francese.

Attività russe in Africa nel 2019 (Fonte ISW).


Gruppo Wagner: un po’ di storia

Sul Gruppo Wagner, ovviamente, sono più le supposizioni che le certezze. Ciò che si sa è che nasce intorno al 2013 con il nome di Corpi Slavi. Il loro fondatore è l’ex colonnello dei servizi segreti militari Dmitry Utkin. Insieme a un piccolo contingente di ex appartenenti alle forze speciali russe, Utkin si schiera in Siria a protezione delle infrastrutture strategiche per la Russia e per il governo siriano di Bashar al-Assad. I mercenari non ottengono grandi risultati e ben presto rientrano in patria. Qui Utkin rifonda l’organizzazione ribattezzandola Gruppo Wagner in onore del compositore tedesco (Utkin ha forti simpatie naziste). È l’incontro con Yevgeny Prigozhin, oligarca con interessi nei comparti dell’alimentazione, dell’estrazione mineraria e nel mondo della gestione dei dati informatici, che fa compiere al Gruppo Wagner il salto di qualità. Prigozhin è legato a doppio filo a Putin che lo utilizza per portare a termine “operazioni delicate”. I mercenari di Utkin vengono quindi impiegati in Ucraina e a sostegno dei separatisti della Repubblica separatista di Lugansk. Poi di nuovo in Siria, dove si affiancano alle forze di Bashar al-Assad. Il momento più tragico avviene nel febbraio 2018 a Deir ez-Zor, quando un centinaio di uomini viene ucciso in un raid americano nei pressi del villaggio di al-Isba durante gli scontri con le forze curde dell’Sdf. Le imprese compiute in tre anni di guerra, permettono a Prigozhin di passare all’incasso. Un incasso chiamato Africa, dove, nel frattempo, la Russia sta conducendo una delicata partita per recuperare spazi di influenza. Mosca cerca di stringere rapporti con numerosi paesi offrendo assistenza militare in cambio di risorse minerarie. Ma in modo informale. Un gruppo di uomini viene quindi inviato in Sudan. Vengono schierati a protezione del presidente Omar al-Bashir e come presidio sul confine con il Sud Sudan. In cambio, i mercenari russi ricevono la gestione di alcuni impianti minerari. Un’operazione molto simile avviene anche nella Repubblica Centrafricana, dove nel luglio 2018 vengono uccisi tre giornalisti russi che indagavano proprio sulle operazioni di Prigozhin. Il magnate russo farebbe affari con almeno dieci paesi, tra i quali Repubblica democratica del Congo, Madagascar, Angola, Guinea, Guinea-Bissau, Mozambico e Zimbabwe. Uomini del Gruppo Wagner sono stati incorporati nelle milizie di Khalifa Haftar in Libia. Il resto è storia recente.


Per rinfrescarvi la memoria su come operano i contractors o le milizie mercenarie e su come funzionano le regole di ingaggio e quali sono i rapporti di forza con gli stati che li “assumono” guardate questa intervista di OGzero a Stefano Ruzza, regia di Murat Cinar.


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Убирайся est le mot pour: “dégage!“ https://ogzero.org/%d1%83%d0%b1%d0%b8%d1%80%d0%b0%d0%b9%d1%81%d1%8f-est-le-mot-pour-degage/ Fri, 18 Feb 2022 09:20:30 +0000 https://ogzero.org/?p=6378 Rimuginando in quell’angolo estremo del lungo tavolo moscovita dove lo ha relegato Putin, Macron è forse riuscito a cogliere le sfumature della traduzione dalla lingua che il leader maliano Goïta ha indicato come insegnamento scolastico a Bamako: in russo ubirájsja suona persino meno apodittica e definitiva, ma è l’espressione che i golpisti filorussi maliani hanno […]

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Rimuginando in quell’angolo estremo del lungo tavolo moscovita dove lo ha relegato Putin, Macron è forse riuscito a cogliere le sfumature della traduzione dalla lingua che il leader maliano Goïta ha indicato come insegnamento scolastico a Bamako: in russo ubirájsja suona persino meno apodittica e definitiva, ma è l’espressione che i golpisti filorussi maliani hanno rivolto all’ambasciatore francese senza mezze misure: “Vattene, indesiderato!”.

Il capitolo neocoloniale iniziato da Hollande si chiude repentinamente alle porte delle elezioni francesi ritirando la presenza europea dal Sahel il più repentinamente possibile, mantenendo degli avamposti in Ciad (dove il golpista Déby risulta buono, perché non ha abbracciato Mosca o Pechino) e in Niger con truppe internazionali troppo interessate a bloccare i flussi migratori, sovranisti italiani in testa. L’avventura coloniale di Parigi ha subito un vero tracollo (peraltro annunciato, benché repentino), solo parzialmente schermato dall’intento di evitare che il moto antifrancese si estenda all’area atlantica; nel momento in cui il jihad comincia a infiltrare Benin e Togo. Non a caso si parla di Afghanistan francese. E non solo, perché il fallimento di Barkhane con l’insurrezione dei saheliani coinvolge ogni aspetto: dalla missione Onu Minusma che viene almeno ridimensionata, agli interessi economici dell’intero fronte occidentale, che come ben documentato da Alessandra Colarizi trovano nell’offerta russo-cinese le risposte alle richieste del territorio, sostituendo una forma di colonizzazione, vetusta perché interessata a predare in modo classico e secondo prassi novecentesche, con un’altra, più innovativa (si pensi a Wagner), ma altrettanto rapace.

Mentre “Libération” esplicita bene la pretestuosità ipocrita della scelta elettorale di Macron di pretendere dalla giunta golpista maliana elezioni mai richieste ai fantocci installati al potere proprio dalla grandeur parigina, proponiamo un’istantanea scattata da un conoscitore della realtà continentale come Angelo Ferrari


Il ritiro, minacciato, è diventato realtà. La Francia e l’occidente hanno deciso di lasciare il Mali. Dopo nove anni di intervento militare contro il terrorismo jihadista, Parigi ha deciso di “abbandonare” il paese. Una resa inevitabile per il progressivo esacerbarsi dei rapporti con la giunta golpista di Bamako, il cui culmine è stata la cacciata dell’ambasciatore francese dalla capitale maliana.

Effetto domino

La decisione arriva, inoltre, in un momento delicato per il presidente francese Emmanuel Macron, che dovrebbe annunciare la sua candidatura per un secondo mandato. Arriva in un momento di crescenti tensioni antifrancesi in tutta l’area del Sahel che sono state la spinta – anche se non quella decisiva – per un cambio di regime in Mali e anche nel vicino Burkina Faso. Bamako, da tempo, ha chiamato i mercenari russi della Wagner, che già operano sul terreno, per proseguire la lotta al terrorismo. Una decisione che ha irritato i francesi e tutto l’occidente impegnato nel paese anche se sempre negata dal Cremlino. Sono circa 25.000 gli uomini dispiegati nel Sahel, di cui circa 4300 francesi – 2400 in Mali nell’ambito dell’operazione antijihadista Barkhane. Un ritiro, si sono affrettati a sottolineare l’Eliseo e i partner europei, che non significa abbandonare il Sahel, ma sicuramente Parigi e l’Unione Europea dovranno reinventare il partenariato con i paesi saheliani. Ciò non significherà spostare altrove ciò che fino ad ora è stato fatto in Mali, ma rafforzare la presenza in Niger e sul versante meridionale. E tutto ciò dovrà essere coordinato con la missione delle Nazioni Unite. Un ritiro, inoltre, che solleva molti dubbi sul futuro proprio della missione Onu che conta 15.000 uomini, creata nel 2013 per sostenere il processo politico maliano. La fine dell’operazione Berkhane (francese) e Takuba (forze speciali dell’Unione europea) potrebbe portare al ritiro anche dei contingenti di Germania e Inghilterra impegnati nella forza Onu.

Barkhane, Takuba, Minusma... effetto domino che crea il vuoto

Meglio che una struttura fallimentare in piedi per perpetuare se stessa mantenendo vivo il jihadismo contro cui è nata si sciolga; la piazza sceglie il cavallo dello zar

Il disastroso bilancio di un’occupazione old fashioned

Il Sahel, tuttavia, rimane una priorità e una regione strategica per l’intera Unione europea, proprio per gli enormi investimenti sul piano militare e su quelli della cooperazione – anche se meno – più squisitamente economica. Intervento militare che, in nove anni, non ha portato a significativi successi nella lotta al terrorismo, per certi versi è stata disastrosa.

La realtà dei fatti: la debolezza dei governi, l’insicurezza e il disastro umanitario sono peggiorati nell’ultimo anno e le prospettive di pace duratura rimangono deboli. La regione ha subito colpi di stato militari – Mali e Burkina Faso – e “costituzionali” – Ciad – oltre all’avanzare, sempre più insidioso, del terrorismo jihadista. Se si guarda alle morti violente, queste sono cresciute del 20% nel 2021 rispetto all’anno precedente, nonostante le imponenti missioni militari, francese e europea – che operano sul campo. Le Nazioni Unite, inoltre, hanno stimato che almeno 36 milioni di saheliani sono sull’orlo dell’insicurezza alimentare.

Il teatro saheliano è estremamente complesso anche sul piano geopolitico internazionale. Il ritiro della missione francese Barkhane e la “sindrome Afghanistan”, stanno lasciando spazio, dal punto di vista militare, ad altre potenze internazionali. La Francia, in un primo momento ha ridimensionato il suo contingente, e ora lo ha ritirato dal Mali, facendo affidamento sulla forza europea tentando, in questo modo, di rassicurare che ciò non corrisponde alla fine dell’impegno francese nel Sahel. Nella regione, tuttavia, sta montando un forte sentimento antifrancese e, pure, antioccidentale. Parigi ha faticato, negli ultimi mesi, a giustificare il mantenimento della missione di fronte alla sua opinione pubblica.

Il dito nella piaga: Wagner è più professionale

Hervé Morin, l’ex ministro della Difesa del governo dell’ex presidente Nicolas Sarkozy, non ha usato mezze parole, anzi è stato netto: «Abbiamo uno scenario che si avvicina ogni giorno di più a quello che abbiamo visto in Afghanistan. Siamo arrivati per combattere il terrorismo e ricostruire uno stato (si riferisce al Mali, N.d.R.) su un accordo politico e sembriamo sempre più una forza di occupazione».

Truppe d’occupazione più o meno legittimate; Macron ammette al G5 Sahel che è venuta a mancare la giustificazione per la presenza di un esercito inadeguato al compito

E l’ex ministro ha aggiunto che la Francia non è riuscita nel suo obiettivo bellico e quindi «non può rimanere in Mali contro il parere delle autorità locali». Stessa sorte è capitata all’operazione Takuba. Con il ritiro dal Mali l’attenzione si concentrerà sul Niger, dove l’Italia ha una presenza significativa.

Le autorità di Bamako subito dopo il colpo di stato, non sapendo bene cosa fare e per scongiurare l’effetto Afghanistan, sono “volate” a Mosca, invitandola, quasi supplicandola, ad aiutare il paese a garantire sicurezza e a difenderne l’unità, l’integrità e la sovranità.

La risposta del Cremlino non si è fatta attendere ed è arrivata per bocca del ministro degli Esteri, Sergey Lavrov: «Il mio paese farà tutto il possibile per evitare che la minaccia terroristica gravi sulla struttura dello Stato del Mali».

E sul terreno maliano sono già arrivati i mercenari della famigerata Wagner, che per conto della Russia fanno il lavoro sporco sul campo, anche se tutti negano.

Anche il Ciad, che possiede l’esercito più armato ed efficiente dell’area, ha deciso di dimezzare il suo contingente nell’ambito dell’operazione G5 Sahel, in particolare nella zona delle tre frontiere – Mali, Niger, Burkina Faso – passando da 1200 a 600 effettivi.

Il portavoce del governo ciadiano ha spiegato così la decisione: «La scelta di alleggerire il dispositivo è stata concertata con il comando del G5. In rapporto alla situazione che c’è sul campo è necessario avere una forza mobile più capace di adattarsi alle modalità di azione attuate dai terroristi. Rimane intatta la nostra volontà di far fronte ai jihadisti».

Strategia vincente di Putin in Mali…

Un incubo per molti paesi, in particolare per il Burkina Faso e il Mali che non riescono a far fronte e nemmeno ad arginare la minaccia terroristica che ha paralizzato la vita di intere comunità minacciate e tenute in ostaggio dai jihadisti. Un fattore degno di nota, inoltre, è il fatto che i golpisti dei due paesi saheliani, appena preso il potere hanno subito rivolto il loro sguardo al Cremlino, innescando una crisi diplomatica proprio con il principale interlocutore occidentale dell’area, Parigi.

Insomma l’occidente lascia il Mali e apre, anzi “spalanca” le porte alla Russia. È innegabile che la decisione di Macron e dei leader occidentali di “abbandonare” Bamako, è una vittoria per Putin. In poco meno di un anno si è preso – o la Francia ha perso – mezzo impero francofono: Mali, Burkina Faso e Repubblica Centrafricana.

… e in Burkina di Xi Jinping

E poi c’è la Cina che è stata invocata a gran voce dal Burkina Faso, chiedendo il sostegno di Pechino nella lotta contro il terrorismo, accogliendo l’impegno e le assicurazioni della sua controparte cinese per accelerare la spedizione di attrezzature militari promesse al Paese. Richiesta rafforzata anche dal capo della diplomazia senegalese, la ministra Aissata Tall Sall, durante l’ultimo vertice Africa-Cina – che si è svolto a Dakar nel novembre dello scorso anno. Nel documento finale del summit si è messa nero su bianco la Cooperazione nell’ambito della sicurezza, vista come un “punto focale” delle relazioni sino-africane. Sono state annunciate, e questa è una novità, esercitazioni congiunte per operazioni di mantenimento della pace, nella lotta al terrorismo, al traffico di stupefacenti e alla pirateria. Pechino mette gli scarponi sul terreno.

E il 16 febbraio 2022 il direttore generale della polizia del Mali, Soulimane Traoré, ha ricevuto l’ambasciatore cinese, Chen Zhihong. Il diplomatico ha ribadito che la Cina si impegnerà «nel rafforzare gli equipaggiamenti delle forze di sicurezza del Mali nel quadro di una cooperazione dinamica e reciprocamente vantaggiosa».

Souleyman traoré_Bamako

L’asse che si è creato tra Cina e Russia sul fronte della crisi ucraina, si potrebbe ripresentare anche in Africa, in particolare in quella parte di Sahel abbandonato dall’Occidente. Entrambi i paesi potrebbero avere vantaggi da questo legame. La Russia ha poco da offrire sul piano economico, ma molto su quello militare, la Cina è una presenza consolidata, ma sempre attenta a non interferire negli affari interni dei paesi dove fa affari. La sinergia Pechino-Mosca potrebbe avere vantaggi per entrambi. Di sicuro, nonostante il ritiro occidentale, l’incubo Afghanistan è stato spazzato via e nel Sahel si parla sempre di più russo e mandarino.

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Un Sahel di spine per Macron. Mali e Françafrique https://ogzero.org/un-sahel-di-spine-per-macron-mali-e-francafrique/ Fri, 21 Jan 2022 01:11:24 +0000 https://ogzero.org/?p=5902 Il Sahel in generale e il Mali in particolare è un’espressione della Françafrique da cui trarre indizi utili sulla reale influenza neocoloniale francese. L’impegno di Macron, all’inizio come alla fine del suo settennato, ha usato ogni arma nell’area pur di mantenere il proprio suggello: contingenti di occupazione militare con un tributo di sangue e denaro […]

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Il Sahel in generale e il Mali in particolare è un’espressione della Françafrique da cui trarre indizi utili sulla reale influenza neocoloniale francese. L’impegno di Macron, all’inizio come alla fine del suo settennato, ha usato ogni arma nell’area pur di mantenere il proprio suggello: contingenti di occupazione militare con un tributo di sangue e denaro non indifferente; elargizioni per blandire le oligarchie locali, sistematicamente eliminate fisicamente o esautorate; investimenti attraverso multinazionali, sostituite da potenze emergenti come Turchia – sulla cui penetrazione del mercato africano riprendiamo un articolo di Emanuele Giordana per “Atlante delle Guerre” e Cina, oppure scalzate dalla presenza politico-militare dei filoputiniani…

Uno degli spunti a cui teniamo dall’inizio della avventura di OGzero è quello relativo al neocolonialismo e stiamo cercando di accumulare materiali per avviare uno Studium relativo che possa sfociare in una produzione dedicata. L’articolo pubblicato il 16 gennaio dagli amici di “AfricaRivista”, che ringraziamo per averci consentito di riprenderlo, fa parte  di questo novero di analisi, interpretazioni, testi… che ritroverete assemblati in un dossier ora in embrione.


Lenta dissoluzione degli asset francesi in Mali

Con le elezioni presidenziali alle porte in Francia, il Mali rimane una spina nel fianco per il presidente Macron. L’operazione militare Barkhane non ha sortito gli effetti sperati. Se si vuole fare un bilancio, questo è del tutto negativo. Sulla Francia incombe lo spettro Afghanistan. Che fare? è la domanda già di Černyševskij attorno alla quale Angelo Ferrari gira per inserire alcuni degli elementi in gioco.

L’occupazione militare: il Mali apre alla Russia

Il Mali è una spina nel fianco del presidente francese, Emmanuel Macron, e lo sarà anche per chi verrà dopo di lui all’Eliseo, ammesso che perda le elezioni. Rimane, tuttavia, una patata bollente da gestire, anche in prospettiva delle presidenziali francesi. Se il Mali, e in pratica in tutti i paesi francofoni del Sahel, è uno degli stati più “ostili” alla Francia, l’opinione transalpina non è certo morbida nel giudicare la presenza francese in quell’area. Il ritiro di parte degli effettivi francesi impegnati nell’operazione Barkhane è dovuto all’impasse in cui si è ficcata Parigi proprio con quell’operazione. Il bilancio di 9 anni di presenza nell’area – prima con l’operazione Serval voluta dall’ex presidente François Hollande all’inizio del 2013, diventata Barkhane l’anno successivo, con l’estensione al G5 Sahel (Ciad, Niger Burkina Faso e Mauritania) – sembra essere fallimentare o, quantomeno, poco convincente. Intervento militare, per altro, lasciato in eredità a Macron. Risultati reali e concreti sono poco visibili, soprattutto per la popolazione locale che negli anni ha visto un peggioramento della sicurezza interna ma anche di quella economica e sociale.

L’obiettivo dell’operazione militare francese in Mali – richiesta dall’allora governo di Ibrahim Boubacar Keita – era quello di impedire ai gruppi jihadisti di prendere il potere ed evitare il crollo dello stato. I gruppi terroristici non hanno preso il potere, ma hanno allargato le loro aree di influenza rendendo lo stato – così come altri nell’area del Sahel – oltre che instabile, ostaggio delle loro scorribande. Se si vuole fare un bilancio, questo è del tutto negativo.

Il presidente francese, dovendo gestire un’opinione pubblica interna ostile, è riuscito a ridimensionare l’operazione militare, coinvolgendo gli stati della regione ma, soprattutto, ha convinto l’Europa della necessità di un intervento diretto perché la questione terrorismo, e quella dei flussi migratori, riguarda tutti. Nasce così la task force Takuba. Ma rimane l’imbarazzo e l’impasse. A maggior ragione oggi visto che il potere in Mali è nelle mani dei militari che hanno sovvertito il governo civile con ben due colpi di stato. Il paese è ancora più debole e il presidente francese non può prendere decisioni nette, vista la campagna elettorale in corso per le presidenziali. A Macron è stato facile annullare la visita ufficiale a Bamako del 20 e 21 dicembre scorso. La scusa, la nuova ondata di Covid. Sarebbe stato particolarmente imbarazzante per l’inquilino dell’Eliseo dover giustificare un viaggio nella capitale maliana dove avrebbe dovuto incontrare un capo di stato golpista e non eletto, il colonnello Assimi Goita. Non solo. La transizione voluta dai golpisti è ancora lontana dal terminare e la promessa di elezioni per un ritorno dei civili alla guida del paese, a oggi, pare un miraggio. Non ci sono date precise, si sa solo che la transizione, e quindi il potere di Goita, durerà ancora a lungo.

L’impasse rimane mentre gli affari parlano ormai russo

I francesi, tuttavia, sono ancora presenti nel centro del paese, nonostante le basi di Kidal, Tessalit e Timbuctu siano state riconsegnate all’esercito maliano. L’impasse rimane e potrebbe durare a lungo. Sulla Francia incombe lo spettro Afghanistan. Cosa fare? Seguire l’esempio americano, cioè un ritiro rapido e completo delle truppe? Gli scenari che si potrebbero verificare sono identici, se non peggiori, di quelli che si sono avuti in Afghanistan, con l’aggravante che il contraccolpo si sentirebbe in tutto il Sahel. Le “postazioni” non rimarrebbero sguarnite, ma verrebbero riempite da forze ostili a Parigi. Una su tutte: la Russia. Il Cremlino, a differenza dell’Eliseo, non sta a guardare. Interviene, non certo direttamente, ma attraverso la milizia di mercenari Wagner che, nonostante quello che possa affermare il governo di Bamako, sono già presenti nel paese. I maliani passerebbero dalla padella alla brace? Forse. Di sicuro hanno più “stima” dei russi che dei francesi. Il passato coloniale di Parigi è un macigno non rimosso. I russi, invece, hanno gioco facile visto che si presentano come un paese che non è stato una potenza coloniale e non ha nessuna intenzione di interferire nelle questioni politiche interne della nazione e vuole solo fare affari. I russi, poi, usano ad arte la propaganda sui social, estremamente efficace per manipolare le opinioni pubbliche a loro favore e non mettono gli scarponi direttamente sul terreno, ma facendo fare il lavoro sporco, appunto, ai mercenari della Wagner. L’espansione della propria presenza in Africa è uno degli intenti evidenti, usando l’arma che gli è più congeniale: armi, addestramento militare, lasciando l’intervento diretto ai mercenari; l’altro obiettivo è rappresentato dalla crescita della presenza russa nelle aziende minerarie, così da garantirsi l’approvvigionamento di materie prime strategiche. Quest’ultima è la vera moneta di scambio. Quindi, poco importa se devono trattare con governi legittimi o meno, purché si facciano affari.

Macron, dunque, sembra essere sotto scacco. Non può fare nulla, nuocerebbe alla sua campagna elettorale per le presidenziali, ma non può nemmeno permettersi di lasciare le cose così come stanno, il danno economico sarebbe maggiore rispetto ai benefici che potrebbe avere sulla sua opinione pubblica. Dunque, il Mali rimane una spina nel fianco e lo rimarrà anche dopo le presidenziali francesi, chiunque vinca. Poi c’è il Mali, inteso come golpisti, non certo la popolazione. Quest’ultima vorrebbe arrivare, e molto presto, a elezioni libere che restituiscano il potere ai civili. La giunta militare alla guida del paese no, nonostante le parole di circostanza. Anzi. Il governo fa affidamento sulla presenza dei paramilitari russi della Wagner per mantenersi al potere a qualunque costo, qualsiasi cosa accada, e alimentando la retorica antifrancese.

Ma tutta questa vicenda dimostra anche un’altra cosa: l’opzione militare non è l’unica via, anzi non è la strada da percorrere per la costruzione di uno stato solido capace di rispondere ai bisogni reali della popolazione: salute, educazione, lavoro. Un minimo di benessere oltre che di sicurezza.

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Rimangono pronipoti di schiavi deportati nel Nuovo Mondo? https://ogzero.org/rimangono-pronipoti-di-schiavi-deportati-in-latinamerica/ Fri, 03 Dec 2021 18:42:18 +0000 https://ogzero.org/?p=5497 Se per le popolazioni indigene parliamo di lotta per la sopravvivenza, nel caso delle comunità afrodiscendenti si aggiunge l’elemento di insorgenza e ribellione che ha caratterizzato il lungo cammino per la conquista del riconoscimento come esseri umani prima e come attori sociali e politici poi. La subordinazione e marginalizzazione dei discendenti delle masse di persone […]

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Se per le popolazioni indigene parliamo di lotta per la sopravvivenza, nel caso delle comunità afrodiscendenti si aggiunge l’elemento di insorgenza e ribellione che ha caratterizzato il lungo cammino per la conquista del riconoscimento come esseri umani prima e come attori sociali e politici poi.

La subordinazione e marginalizzazione dei discendenti delle masse di persone africane deportate durante lo schiavismo è rimasto sistema in tutti gli stati in America latina e Caraibi. In questo articolo il quadro di riferimento storico, geografico e culturale quando si parla di America latina e Caraibi comprende il gruppo di paesi considerato dalla Comunidad de Estados Latinoamericanos y Caribeños – Celac. I paesi membri della Celac sono 33: Antigua e Barbuda, Argentina, Bahamas, Barbados, Belize, Bolivia, Brasile, Colombia, Costa Rica, Cuba, Cile, Dominica, Ecuador, El Salvador, Grenada, Guatemala, Guyana, Haiti, Honduras, Giamaica, Messico, Nicaragua, Panama, Paraguay, Perù, Repubblica Dominicana, Saint Kitts e Nevis, Saint Vincent e Grenadine, Santa Lucia, Suriname, Trinidad e Tobago, Uruguay e Venezuela


«La popolazione afrodiscendente dell’America latina e dei Caraibi è composta principalmente da discendenti di popoli africani ridotti in schiavitù durante la tratta degli schiavi operata nella regione per quasi 400 anni. Sebbene si tratti di gruppi umani diversi, risultanti dal processo di schiavitù e dalla riproduzione delle disuguaglianze consolidate a partire dalla creazione dei nuovi stati della regione, le popolazioni afrodiscendenti latinoamericane soffrono senza distinzione il razzismo e la discriminazione strutturale. Nonostante il contesto avverso, gli afrodiscendenti hanno resistito e combattuto in modo permanente, riuscendo a posizionare le loro rivendicazioni storiche nelle agende internazionali, regionali e nazionali, principalmente nel secolo attuale. Uno dei corollari di questo processo è il Decennio Internazionale per gli afrodiscendenti istituito dalle Nazioni Unite per il periodo 2015-2024, basato su tre pilastri: riconoscimento, giustizia e sviluppo».

Cepal, 2017

Una persona su quattro in America Latina e nei Caraibi si riconosce come afrodiscendente ma, nonostante ciò, questo gruppo etnico è sicuramente la minoranza più invisibile della regione. Lo certifica tra gli altri, la Banca Mondiale, che in un report del 2018 contabilizza in 133 milioni gli appartenenti alla comunità afrodiscendente presenti nella regione latinoamericana. Sono il Brasile, il Venezuela, la Colombia, Cuba, il Messico e l’Ecuador a concentrare la maggior parte della popolazione afrodiscendente ma, anche in tutto il resto della regione, la presenza dei discendenti di coloro che furono portati in catene nel Nuovo Mondo, è parte dell’eredità storica e culturale nazionale.

Ascolta “People on the Move from Mesoamerica”.

 

Resistere per esistere

Anacaona è stata l’ultima Principessa dei Caraibi e resistente del popolo Taino. Morì nel 1503 a soli 29 anni, dopo una lunga lotta contro il dominio delle flotte spagnole che avevano saccheggiato e messo in schiavitù l’intera popolazione Taino. Condannata a morte, le fu proposto di aver salva la vita se si fosse offerta come concubina in un galeone spagnolo, Anacaona rifiutò e pertanto fu impiccata senza pietà.

Quella delle persone afrodiscendenti con l’America latina è una relazione carnale, costruita sui loro corpi – e con i loro corpi, templi di resistenza immolati alla causa della libertà. Se per le popolazioni indigene parliamo di lotta per la sopravvivenza, nel caso delle comunità afrodiscendenti si aggiunge l’elemento di insorgenza e ribellione che ha caratterizzato il lungo cammino per la conquista del riconoscimento come esseri umani prima e come attori sociali e politici poi.

La tratta degli schiavi in America Latina e nei Caraibi ebbe inizio per sopperire a un massacro perpetrato dai conquistadores nei confronti delle popolazioni indigene. I primi a soccombere di fronte al massivo sfruttamento dei nativi da parte dei nuovi arrivati furono i due popoli indigeni taino e caribe – da cui deriva il nome di Caraibi – e il loro destino si trova ben descritto nel volume di Sebastián Robiou Lamarche Taínos y caribes: Las culturas aborígenes antillanas (Editorial Punto y Coma, 2003). Le Antille spagnole, nome attribuito alle isole dell’arcipelago delle Antille facenti parte dell’impero spagnolo (dal 1492 al 1898) si trasformano fin da subito in una fonte di grande ricchezza per la Spagna e più tardi anche per altre potenze europee.

Durante tutto il periodo della colonia l’espansione capitalista guidata dalle politiche e dagli interessi delle metropoli del vecchio continente si è basata su una crescente e pressante richiesta di mano d’opera da sfruttare per le attività agricole, l’allevamento, i lavori di costruzione, di estrazione di risorse naturali e anche per le guerre. Come già riportato per il caso dei Taino e dei Caribe, la popolazione indigena fu falcidiata in pochi anni dagli incontri/scontri con i colonizzatori a causa della riduzione in schiavitù, dalle malattie importate dal Vecchio Continente e dalle guerre. Il collasso demografico conseguente a questa situazione portò le potenze europee a concentrare la loro attenzione sull’Africa, nello specifico sul Golfo di Guinea, conosciuto tra il XVII e XIX secolo come la Costa degli Schiavi.

Ile de Goré

Una simbolica porta sull’isola di Goré, da dove le imbarcazioni schiaviste salpavano verso il continente americano, trasportando nelle stive un carico di schiavi catturati come manodopera per i campi oltreatlantico (foto scattata nel 1998).

La struttura gerarchica, classista e razzista dell’epoca coloniale determinò fin da subito una posizione di estrema subordinazione della popolazione africana in America Latina e nei Caraibi, posizione assimilabile a quelle delle popolazioni indigene in termini di povertà materiale ed esclusione sociale e politica. Bisogna sottolineare che questa subordinazione non ha avuto termine con la liberazione delle persone afrodiscendenti dalla condizione di schiavi, ma estende la sua ombra fino ai giorni nostri e si manifesta attraverso il razzismo strutturale che relega queste comunità in una situazione di maggiore tasso di povertà, minor accesso all’educazione, minor accesso ai centri di salute, minore accesso al lavoro degno ed esclusione dagli spazi di decisione politica. A questo si aggiunge un elemento di negazione storica della presenza di persone afrodiscendenti nella regione e della loro partecipazione tanto nei processi di liberazione dal potere coloniale così come nello sviluppo sociale e culturale delle nazioni latinoamericane (Cepal, 2017).

Cosa identifica il termine afrodiscendente ?

«Lo studio della popolazione afrodiscendente presenta numerose sfide, a cominciare dalla mancanza di consenso su chi è e chi non è afrodiscendente, anche all’interno dei contesti nazionali. Il termine è stato adottato per la prima volta da organizzazioni regionali di discendenza afro all’inizio degli anni 2000. La parola descrive persone unite da un’ascendenza comune (ma che vivono in condizioni abbastanza dissimili), che vanno dalle comunità afroindigene, come i garífuna del Centro America, fino a enormi segmenti della società maggioritaria, come i pardos del Brasile. Negro, moreno, pardo, preto, zambo e creole, tra i tanti altri, sono termini molto più vicini alle nozioni di razza e relazioni razziali dei latinoamericani. Comunemente, queste categorie hanno stigmi e pregiudizi associati, come risultato di una lunga storia di discriminazione e razzismo. Nella maggior parte dei paesi, l’adozione del termine afrodiscendente è ancora parziale. In Venezuela, la maggioranza della popolazione morena (di razza mista) spesso rifiuta il termine e le sue implicazioni, mentre nella Repubblica Dominicana la maggioranza degli afrodiscendenti di razza mista preferisce identificarsi come indigeni».

(Banca Mondiale, 2018)

Le difficoltà per identificare, mappare e censire le persone di ascendenza africana nei paesi latinoamericani sono legate a doppio filo con la negazione della discriminazione razziale da parte degli stessi, oltre allo storico tentativo di rendere invisibile la pluralità etnica nella regione. Questa volontaria cecità sociale è figlia dell’opera di conseguimento dell’immagine europea di sviluppo e modernità, chimera vissuta dai governi liberali dell’Ottocento e dell’inizio del Novecento in America latina. In questo schema di emulazione politica e sociale, le popolazioni indigene e gli afrodiscendenti erano visti e interpretati come elementi di disturbo, di arretratezza e di un passato da “pulire” con un’opera di blanqueamiento – lo “sbiancamento razziale”, ovvero quella pratica sociale, politica ed economica utilizzata in molti paesi postcoloniali per raggiungere un supposto ideale di bianchezza. Il termine si origina in America latina e può essere considerato sia in senso simbolico che biologico. Simbolicamente, lo sbiancamento rappresenta un’ideologia nata dalle eredità del colonialismo europeo, descritto dalla teoria della colonialità del potere di Aníbal Quijano, che si rivolge al dominio bianco nelle gerarchie sociali. Biologicamente, lo sbiancamento è il processo realizzato sposando un individuo dalla pelle chiara per produrre una prole dalla pelle non più scura.

Per raggiungere questo scopo venne favorita, da numerosi paesi latinoamericani (basti citare il Venezuela come esempio esplicativo), una massiccia immigrazione di persone dall’Europa: regione vista come culla della civiltà, Mater culturae e fornitrice di intellettualità, creatività, professionalità e soprattutto di pelle bianca. Successivamente, durante il XX secolo e con l’affermazione di identità nazionali fluide e plurali, si diffuse in America Latina la falsa percezione di aver raggiunto una sorta di giustizia sociale multietnica. In quel contesto, l’identificazione di una parte della popolazione come afrodiscendente venne interpretata come un elemento di fomento al razzismo e di conseguenza nessun dato su questa popolazione appariva nelle statistiche latinoamericane. A testimonianza, la Banca Mondiale ci ricorda nel suo report che negli anni Sessanta del XX secolo, solo il Brasile e Cuba includevano delle variabili etniche nei loro censimenti.

È dunque con questa completa mancanza di conoscenza, un vero e proprio abisso statistico a livello demografico e socioeconomico, che i paesi della regione latinoamericana hanno iniziato il terzo millennio. La domanda di chi è o non è afrodiscendente è quindi relativamente nuova e ha acquisito notevole importanza con l’introduzione delle varianti “razziali” nei censimenti nazionali a partire dagli anni 2000. L’autodeterminazione come afrodiscendenti in America latina ha poi ricoperto un ruolo strategico a livello politico, economico e sociale con l’introduzione di un quadro normativo di protezione dei diritti di questa popolazione. In questo scenario, però, si è vista in alcuni casi una perversione legale che ha comportato una nuova forma di discriminazione:

«Con la creazione di quote per gli afrodiscendenti nel mercato del lavoro o nel sistema educativo, per esempio, le persone che sono state escluse nel passato per non essere sufficientemente bianche ora corrono il rischio di essere escluse per non essere sufficientemente nere» (Banca Mondiale, 2018)

Dove vivono le persone afrodiscendenti in America Latina e nei Caraibi

I dati raccolti dalla Banca Mondiale su un totale di 16 paesi della regione latinoamericana parlano di 133 milioni di persone afrodiscendenti, circa il 24% del totale della popolazione. Il Brasile è sicuramente il paese che da solo pesa in modo determinante sulla bilancia demografica, con una popolazione afrodiscendente nel 2015, stimata in 105 milioni di persone. Il Brasile insieme al Venezuela, concentrava all’epoca il 91% della popolazione afrodiscendente della regione e un altro 7% era distribuito tra Colombia, Cuba, Ecuador e Messico. Si evince dunque che le tre aree di concentrazione della popolazione oggetto di studio sono rappresentate dal Brasile, dai Caraibi e dalla costa dell’Oceano Pacifico. Si tratta di una forte eterogeneità determinata dai contesti paese, dalle zone geografiche di residenza e dalla presenza o meno all’interno delle statistiche e dei censimenti nazionali. Ciononostante, la maggior parte delle persone afrodiscendenti della regione condividono non solo le radici africane ma anche una lunga storia di migrazione forzata, oppressione, sfruttamento ed esclusione.

Sono donne, sono afrodiscendenti e stanno facendo la Storia

Ascolta “The importance of being afro”.

 

Il caso più emblematico di questa fine 2021 è sicuramente quello della Repubblica della Barbados, divenuta tale il 30 novembre 2021 con la definitiva separazione dalla corona britannica e l’ingresso nel Commonwealth come repubblica indipendente. A sancire questa transizione storica la nomina del primo presidente dell’isola caraibica, una donna afrodiscendente: Sandra Mason. Un avvenimento dalla enorme simbologia storica, politica, etnica e di rivalsa identitaria. Basti pensare che proprio in un altro territorio inglese caraibico (le Bermudas), vide la luce nel febbraio del 1831, un’opera letteraria unica e che fu determinante per l’abolizione della schiavitù. Si tratta di The history of Mary Prince, a west indian slave written by herselfes, la prima autobiografia scritta da una donna nera schiava originaria delle Bermudas e di nome Mary Prince. Il libro ebbe un impatto enorme non solo in Inghilterra e fu un elemento fondamentale per la promozione dell’abolizione della schiavitù nelle colonie britanniche avvenuta nel 1833 con lo Slavery Abolition Act.

Un documento considerato come un referente della letteratura nera africana delle colonie e che valse a Mary Prince il riconoscimento come una vera e propria eroina delle Bermudas. Il 26 ottobre 2007, per la ricorrenza del 200° anniversario dell’abolizione della tratta degli schiavi (Slave Trade Act del l807) , nella casa in cui Mary Prince visse a Londra nel 1829, venne scoperta una targa in suo onore. La targa recita: “Mary Prince, 1788-1833, la prima donna africana a pubblicare le sue memorie di schiavitù visse in questa casa nel 1829”.

Passato e presente che si intrecciano dunque, in un cammino dove la geografia della resistenza chiude circoli a distanza di generazioni, traccia linee leggibili solo se osserviamo da una certa distanza, a volte di secoli, il quadro originale.

Sandra Mason è però solo l’ultimo tassello di un movimento eterogeneo e trasversale, che vede le donne afrodiscendenti della regione giocare un ruolo centrale nella riscoperta, rivendicazione e posizionamento nelle agende nazionali e internazionali del peso identitario della loro comunità. Da diversi campi d’azione donne come Gessica Geneus,

La regista haitiana di Port-au-Prince ha fatto sentire a Cannes il valore della lingua creola con il suo film Freda, sul coraggio delle donne del suo paese. Film inserito anche nella sezione lungometraggi di finzione del Fespaco di Ouagadougou in Burkina Faso.

la cantante Rihanna; Robyn Rihanna Fenty, nata a Bridgetown, è stata dichiarata “eroina nazionale” di Barbados proprio il 30 novembre giorno della proclamazione della Repubblica delle Barbados per aver, secondo le parole della primo ministro Mia Mottley: “l’immaginazione nel mondo attraverso la ricerca dell’eccellenza con la sua creatività, la sua disciplina e, soprattutto, il suo straordinario impegno per la sua terra”.

 

 

 

la compianta Marielle Franco, Politica e attivista afrobrasiliana assassinata il 14 marzo 2018 da sgherri coperti da organismi della polizia.

 

Shirley Campbell Barr, la poetessa afrodiscente del Costa Rica, autrice della poesía “rotundamente negra”.

 

l’attivista per la difesa della natura e politica afrocolombiana Francia Elena Márquez Mina

gli ori olimpici di Tokyo 2020 Neisi Dajomes (Ecuador), Jasmine Camacho-Quinn (Porto Rico), Elaine Thompson-Herah (Giamaica), Yulimar Rojas (Venezuela), l’attivista e ballerina afrobrasiliana Tuany Nascimento tra le altre centinaia, continuano a costruire una narrazione alternativa che passa per un epistemologia nuova, inclusiva e sgombra della colonialità del potere.

La colonialità del potere è un concetto che mette in relazione le pratiche e le eredità del colonialismo europeo negli ordini sociali e nelle forme di conoscenza, avanzate negli studi postcoloniali, sulla decolonialità e negli studi subalterni latinoamericani, in particolare da Anibal Quijano. Identifica e descrive l’eredità vivente del colonialismo nelle società contemporanee sotto forma di discriminazione sociale che è sopravvissuta al colonialismo formale e si è integrata negli ordini sociali successivi. Il concetto identifica gli ordini gerarchici razziali, politici e sociali imposti dal colonialismo europeo in America Latina che prescriveva valore a determinati popoli/società mentre ne sminuiva o invisilibizzava altri.

 

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n. 15 – Rotta atlantica: patti scellerati e muri invalicabili https://ogzero.org/rotta-atlantica-patti-scellerati-e-muri-invalicabili/ Thu, 18 Nov 2021 16:28:22 +0000 https://ogzero.org/?p=5362 Il Mediterraneo occidentale è il teatro naturale della rotta atlantica, via percorsa dai migranti obbligati a sfidare l’Oceano Atlantico invece del Mediterraneo per approdare alle sponde europee da accordi economico-politici tra l’Europa e i loro paesi. Dal Plan de Canarias agli Accordi di Abramo, sulla pelle dei migranti si consuma il crimine dei potenti che […]

L'articolo n. 15 – Rotta atlantica: patti scellerati e muri invalicabili proviene da OGzero.

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Il Mediterraneo occidentale è il teatro naturale della rotta atlantica, via percorsa dai migranti obbligati a sfidare l’Oceano Atlantico invece del Mediterraneo per approdare alle sponde europee da accordi economico-politici tra l’Europa e i loro paesi. Dal Plan de Canarias agli Accordi di Abramo, sulla pelle dei migranti si consuma il crimine dei potenti che erigono muri invalicabili e respingono, confinano e segregano, calpestando i diritti umani, approfittando della povertà e dell’instabilità politica dei paesi africani con cui stipulano scellerati trattati bilaterali.

Fabiana Triburgo analizza i meccanismi geopolitici alla base di questa rotta riaperta negli ultimi due anni prima di spostare lo sguardo, prossimamente, sull’ultimo percorso che riguarda le sponde europee, il Mediterraneo centrale.


I principali conflitti che attualmente interessano le migrazioni forzate e le prassi di esternalizzazione poste in essere dall’Unione Europea e dai singoli stati membri portano a una predeterminazione delle rotte dei migranti.

Quello che oggi è inevitabile chiedersi è se il nuovo Patto europeo sulla Migrazione e l’Asilo, proposto dalla Commissione UE, possa essere realmente considerato una soluzione della gestione del fenomeno migratorio o se invece vi siano soluzioni legali alternative maggiormente lungimiranti e coraggiose.  

Vecchi e nuovi approdi del Mediterraneo occidentale

L’espressione ripetuta più volte nel 2020 e nel 2021 “riapertura della rotta atlantica” nasconde fenomeni molto complessi sul piano geopolitico rispetto ai quali la questione migratoria è soltanto la loro inevitabile propagazione. Invero la riapertura di tale rotta non è semplicemente legata alle dinamiche politiche che hanno interessato negli ultimi anni le altre rotte, come quella dell’Egeo, del Mediterraneo centrale o ancor di più, come vedremo, quella del Mediterraneo occidentale, ma il gioco forza di rilievo internazionale, nel quale sono protagonisti Spagna, Marocco, Unione Europea, Algeria, Stati Uniti e diversi paesi dell’Africa subsahariana tra cui Senegal, Mauritania e Gambia, per citarne alcuni. La rotta venne attraversata per la prima volta nel 1994 da due migranti provenienti dal Sahara occidentale ma viene ricordata ancora oggi, negli ambienti competenti in materia di migrazione, per la grande crisi umanitaria dei “cayucos” –  le piccole imbarcazioni dei pescatori simili a canoe – a bordo delle quali, tra il 2005 e il 2006, circa 36.000 migranti provenienti dall’Africa, nello specifico dal Senegal e dalla Mauritania, cercarono di raggiungere le isole Canarie.

Le ragioni di ieri rispetto a tale flusso migratorio sono quelle di oggi, almeno in parte.

In quella circostanza le politiche nazionali, fortemente repressive rispetto al fenomeno migratorio – portate avanti all’inizio del 2000 tramite il Sive – ossia il Servizio Integrale di Vigilanza Esterna dell’esecutivo spagnolo dotato di radar e di strumenti tecnologici avanzati per l’identificazione dei migranti – vennero dispiegate soprattutto sulla rotta del Mediterraneo occidentale che ha ancora oggi come tappe di transizione/destinazione le enclavi spagnole di Ceuta e Melilla distanti rispettivamente 182 e 270 chilometri da Malaga, al confine con il Marocco. Esse sono le uniche frontiere terrestri dell’UE in Africa. Tra il 1995 e il 2005 di fatti si iniziò la progettazione delle prime due barriere terrestri, alte circa tre metri ciascuna a protezione delle due enclavi, finalizzate all’impedimento di ogni spinta migratoria indirizzata verso le medesime.

I primi muri

Tali barriere vennero successivamente innalzate fino a 7 metri grazie ai finanziamenti dell’Europa, sostituendo le lame alla sommità, con un’ulteriore barriera di cemento. Vale la pena sottolineare che i due muri furono i primi a essere eretti dopo la caduta del muro di Berlino, dimostrando come la storia spesso conceda spazi di regressione più avanzati di quelli di evoluzione che tra l’altro sembrano non avere argine, dato che nel 2020 si è giunti al terzo innalzamento dei muri fino a 10 metri ossia alla creazione della recinzione più alta al mondo che circonda Ceuta per 8 km e Melilla per 12 km ipocritamente annunciata come un mezzo per eliminare l’odioso filo spinato.

Peccato che al suo posto è stato previsto un cilindro di acciaio che rende impossibile la presa da parte dei migranti, il tutto costato soltanto 17 milioni di euro!

Proprio in tale ultimo dato è da rinvenirsi, come si accennava, una delle cause della cosiddetta riapertura della rotta atlantica: la decisione dei migranti di attraversare un’area marittima molto più pericolosa ossia quella dell’Oceano Atlantico – sottoposta a numerose quanto imponenti correnti – in luogo del Mar Mediterraneo, non è certo spontanea. Questa infatti è stata imposta dalla chiusura pericolosa talvolta mortifera, ostinata e triplicemente rinnovata, con l’innalzamento dei muri da gli anni Novanta del Novecento al 2020, in prossimità del percorso più sicuro al confine con il Marocco nel quale le enclavi di Ceuta e Melilla sarebbero più che luoghi di destinazione dei migranti – pur essendo territorio spagnolo a tutti gli effetti – meri punti di transito per accedere alla penisola iberica, mediante l’attraversamento dello stretto di Gibilterra.

Va registrato poi il fenomeno delle “porteadoras de Melilla” (le donne-mulo), che camminano per giorni e aspettano in fila con grosse merci caricate sulle spalle senza potersi sedere ne accedere ai servizi igienici e vengono fatte passare a Ceuta e Melilla in ragione delle merci che interessano alla Spagna

Patti scellerati

Da menzionare inoltre è anche la repressione attuata nella rotta denominata “El Corredor”, corridoio del Mar Mediterraneo tra l’Algeria occidentale e la penisola iberica, percorso prevalentemente da algerini nel quale si registra una attività di criminalizzazione del fenomeno migratorio e di intercettazione da parte delle autorità algerine. Non è solo questo tuttavia ad aver lasciato ai migranti come ultima sponda tra le rotte marittime quella più ad ovest per il raggiungimento dei confini europei ma anche la chiusura sancita nel 2016 della rotta dell’Egeo e soprattutto quella del Mediterraneo centrale bloccata dall’accordo Italia-Libia del 2017.

Anche la rotta del Mediterraneo occidentale tuttavia, in una logica di pericolosa emulazione, registra un’importante recente chiusura, come se già non fosse stata sufficientemente blindata – determinata da un ulteriore accordo, uno dei tanti presumibilmente siglato a dicembre del 2020 tra Marocco e Spagna, in base al quale la monarchia magrebina di Mohamed VI si sarebbe impegnata a riammettere dalla Spagna circa 80 persone a settimana tramite l’Air Maroc Royal. A tale accordo vanno aggiunti quelli siglati con la Mauritania disposta ad accogliere i migranti rimpatriati dalla Spagna non solo mauritani ma cittadini di qualsiasi altro paese dell’Africa subsahariana e occidentale. Infine, si registrano accordi bilaterali tra Spagna e Senegal. Come è facilmente intuibile anche in questo caso le riammissioni vengono implicitamente legittimate sulla base della nozione di paese terzo sicuro assegnata ai paesi africani come lo stesso Marocco.

Tale importante e “prestigioso” titolo di riconoscimento assegnato alla Libia per il Mediterraneo centrale e alla Turchia per l’Egeo è solo uno stratagemma politico per non entrare in contrasto con la propria coscienza almeno davanti all’opinione pubblica.

Un po’ di numeri

Si arriva così all’impressionante numero di 23.000 persone che tentano di raggiungere le isole Canarie nel 2020 rispetto ai 2557 arrivi registrati nel 2019. Per il 2021 i dati sono in ulteriore peggioramento: nei primi 6 mesi sono circa 7000 le persone che hanno già tentato di raggiungere le Canarie e 50 i morti ufficiali, con un gran numero di dispersi senza nome ottenibile soltanto grazie alle testimonianze dei familiari dei naufraghi. Occorre inoltre tener presente che, secondo i dati relativi al 2020 e al 2021, la rotta presenta specifiche caratteristiche: è percorsa da uomini, adulti o minori stranieri non accompagnati principalmente provenienti da Marocco, Mauritania, Senegal, Gambia.

Dai molteplici punti di partenza si riesce dunque a intuire come il viaggio lungo l’oceano Atlantico possa durare 24 ore come 10 giorni.

Oltre tuttavia alla blindatura delle rotte del Mediterraneo occidentale e del Mediterraneo centrale, in ragione della quale i migranti pur di non soffocare nelle sabbie del deserto del Sahara in Niger o per non finire nei lager libici, sono stati costretti a deviare verso le coste del Senegal o della Mauritania, nelle quali è comunque quasi sempre presente Frontex accanto alla Guardia Civil, vi è un’ulteriore concausa della riapertura della rotta atlantica ossia quella della pandemia. Con la diffusione del virus da Covid-19 è stata adottata da quasi ogni paese la chiusura delle frontiere terrestri, marittime e aeroportuali per cui i migranti si sono diretti dove minori erano i controlli ossia verso le coste dei paesi dell’Africa occidentale dai quali con delle imbarcazioni di fortuna hanno cercato di raggiungere le isole Canarie. A ciò deve essere aggiunto l’effetto collaterale della crisi economica determinata dalla pandemia – in ragione delle misure di lockdown e di distanziamento sociale – che ha messo ulteriormente in ginocchio paesi africani già a basso reddito e caratterizzati da una forte instabilità politica che hanno subito anche il forte crollo delle rimesse provenienti dall’estero. Infine, non si può ignorare l’accordo sulla pesca tra Senegal e Unione europea in vigore dal 1979 e costantemente rinnovato che ha tolto ancor di più lo scorso anno un mezzo di sussistenza essenziale, quale quello del mercato ittico, al paese già in una drammatica situazione di indigenza economica. Alla depredazione delle risorse derivanti dalla pesca nelle acque e dei fondali senegalesi si ricorda anche la partecipazione della Cina.

Punto d’arrivo: il molo di Arguineguìn

A partire da agosto fino a novembre del 2020, la situazione degli sbarchi nelle isole Canarie diventa esponenziale: nello specifico nel molo di Arguineguìn, nell’Isola di Gran Canaria, nell’estate del 2020 sono giunti in un campo allestito dalla Croce Rossa, destinato ad accogliere 400 persone, 2600 migranti senza l’applicazione di alcuna forma di distanziamento sociale o di controllo dell’eventuale trasmissibilità del virus mediante tamponi.

Successivamente i migranti sono stati trasferiti in strutture alberghiere preesistenti e ivi trattenuti per oltre 72 ore contrariamente a qualsiasi normativa nazionale, europea e internazionale, in merito alla libera circolazione delle persone.

La risposta dell’esecutivo spagnolo in conseguenza di tale scenario è stata, oltre come detto alla sigla di un accordo a fine dicembre dello scorso anno con il Marocco, il dispiegamento del Plan Canarias il terzo piano di accoglienza applicato nel contesto della migrazione attraverso l’Atlantico da parte della Spagna. Ecco che in tale sistema organizzato, ritroviamo il medesimo approccio riscontrato nella rotta dell’Egeo con un confinamento illegittimo dei migranti nelle isole e con la conseguente impossibilità di giungere alla piattaforma continentale, in quel caso quella ellenica in questo quella iberica.

Hotspot = centri detentivi

Come se ciò non bastasse si sono messe in atto vere e proprie politiche discriminatorie nella zona di transito aeroportuale dell’isola di Gran Canaria con impedimento a raggiungere la Spagna continentale per coloro che non fossero turisti o comunque dotati di un passaporto comunitario. Ciò sarebbe avvenuto in conseguenza di un’istruzione da parte del ministero degli Interni spagnolo che ha stabilito che nessuna persona migrante, anche dotata di passaporto, presente nell’isola potesse proseguire il proprio viaggio liberamente verso altre città spagnole. Con il Plan Canarias del 2020 dunque si conferma la politica sistemica dell’Unione e dei paesi che ne fanno parte della creazione di grandi hotspot nelle isole europee che, per modalità assomigliano a veri e propri centri detentivi, schermati dietro la dizione di “Centri temporanei di accoglienza” e strategicamente accompagnati all’intenzione, semplicemente dichiarata e mai attuata, di trasformarli in “Centri di integrazione”. Tali centri – in spagnolo detti Cate – previsti dal Plan Canarias, sono come al solito sottoposti a un costante controllo poliziesco, situati in luoghi di difficile accesso, con limitazione della libertà di movimento e dei diritti di assistenza legale e sanitaria, in ambienti gravemente insalubri come ha testimoniato Human Rights Watch in un recente rapporto. I centri a Gran Canaria quasi tutti ricavati da ex strutture carcerarie o da basi militari e riconvertiti in centri di accoglienza sono: il “Canaria 50”, il “Collegio Leon”, il Cate di “Barranco Seco” e quello di “Bankia” ricavato da un ex poligono. Per quanto riguarda Tenerife invece i Cate sono quello di “Las Raíces” e “Las Canteras” mentre a Fuerteventura si registra la presenza di un solo Cate quello di “El Matorral”.

Al proposito una testimonianza di Mirca Leccese, attivista di Un ponte per Moria, in questo novembre 2021 complice proprio a Tenerife delle persone “custodite” nei campi delle Canarie:

“Lo snodo di Tenerife sulla rotta atlantica”.

Soccorso in mare militarizzato

A peggiorare ulteriormente la situazione in tale rotta è il mutamento del sistema di salvataggio in mare nel 2018, anno in cui con l’istituzione del comando unico in Spagna sì è passati a una militarizzazione del soccorso in mare. Infatti, prima del 2018 l’attività di soccorso marino veniva ordinata da un pubblico impiegato o da un vice delegato del governo ossia da un civile, mentre con l’istituzione del comando unico al vertice delle attività di salvataggio vi è un organismo che dipende dalla Guardia Civil che è un corpo militarizzato dipendente a sua volta dal ministero degli Interni che coordina tutte le operazioni di soccorso in mare. Tale comando unico pur includendo al di sotto, come con il comando civile – secondo un ordine gerarchico il capitano di marina, una torre di controllo e l’imbarcazione di salvataggio – non prevede più la localizzazione fisica del barcone sul quale transitano i migranti e quindi, l’attività di salvataggio non parte secondo gli stessi tempi di allora.

Attualmente infatti, occorrono circa quattro ore per raggiungere i migranti in mare quando prima invece si riusciva a raggiungere i naufraghi in 30/40 minuti: è agevole intuire come il tempo abbia un ruolo determinante in tale attività rappresentando la maggiore rapidità dei soccorsi una maggiore probabilità che delle vite vengano salvate.

Occorre dunque ora analizzare alcuni aspetti geopolitici alla base della dura repressione della rotta del Mediterraneo occidentale che, come detto, impone ai migranti di optare per la mortifera rotta atlantica. il Marocco infatti viene comunemente definito il gendarme di Europa per l’impedimento imposto ai migranti dell’Africa occidentale e subsahariana ad accedere al territorio delle enclavi di Ceuta e Melilla ma non possiamo ignorare l’evento eccezionale avvenuto a Ceuta nel maggio scorso, quando circa 8000 migranti sono stati fatti passare nel territorio spagnolo dell’enclave senza alcuna forma di controllo da parte delle forze di polizia marocchina.

Il dossier del Sahara occidentale

Per capire le ragioni di tale insolito approccio della monarchia è necessario far riferimento al dossier del Sahara occidentale: su tale territorio dopo il cessate il fuoco del 1991 il Marocco ha sempre rivendicato la propria autorità nazionale, mentre il Fronte Polisario che invece rivendica con la Rasd l’indipendenza della Repubblica araba democratica dei Sahrawi, appoggiata dall’Algeria e sostenuta dalle risoluzioni delle Nazioni Unite si oppone a tale posizione di forza da parte del Marocco.

Le terre del Sahara occidentale interessano al Marocco perché il territorio è ricco di fosfati allo stesso tempo per l’Algeria l’alleanza con il Fronte Polisario garantisce quell’eventuale sbocco sull’oceano Atlantico che geograficamente, diversamente dal Marocco, non detiene.

Quando dunque la monarchia di Mohamed VI è venuta a conoscenza che la Spagna ad aprile del 2021, su pressione dell’Algeria, suo principale fornitore di gas, ha accolto il leader del Fronte Polisario Ghali “per ragioni umanitarie”, in quanto malato di cancro e contagiato dal Covid-19 in una forma grave, il Marocco per ritorsione ha deciso di aprire il “rubinetto dei migranti”.  Va specificato in ogni caso che la pretesa di un riconoscimento da parte della Spagna e dell’Europa tutta della propria sovranità da parte del Marocco sui territori del Sahara occidentale, giunge all’indomani del riconoscimento concesso in tal senso da parte dell’amministrazione Trump, in esito alla firma degli Accordi di Abramo nel 2020, con i quali Rabat ha sancito il proprio sostegno allo Stato di Israele. La questione migratoria è stata rapidamente risolta come al solito con un accordo tra Marocco e Spagna nel 2021 con il quale si è stabilito il rimpatrio di circa 40 migranti stranieri ogni due ore al giorno, per cui nei giorni successivi allo sbarco degli 8.000 migranti, 5.000 già erano stati rimpatri in Marocco.

Madrid. Manifestazioni in favore del popolo saharawi (foto Valentin Sama-Rojo / Shutterstock)

Marocco: il ricatto sulla pelle dei migranti

Tuttavia, anche nel 2018 il Marocco – che in realtà vorrebbe la sovranità sulle due enclavi o comunque una cogestione delle stesse con la Spagna – ha fatto pressione strumentalizzando i migranti facendo salire il numero degli sbarchi nella penisola iberica a circa 56.000 mediante proprio il passaggio nelle due enclavi. In quel caso infatti la Monarchia marocchina consapevole dell’accordo UE-Turchia e del pagamento a favore di quest’ultima di 3 miliardi di euro per la gestione dei flussi migratori del levante e dei circa 130 milioni elargiti alla Libia nell’anno successivo da parte dell’UE (per la gestione di quelli del Mediterraneo centrale) ha preteso, alla stregua di un ricatto, un ingente finanziamento dall’Europa che non ha tardato ad arrivare:

il Marocco si è aggiudicato così la cifra di 140 milioni di euro nel 2018 per il confinamento e la segregazione dei migranti perfino di quelli con cittadinanza marocchina.

È facile dunque intuire come il Marocco in Africa rispetto alla questione migratoria si stia atteggiando come la Turchia in Medio Oriente, facendo leva però sull’appoggio degli Stati Uniti e sugli ottimi rapporti di partenariato con quasi tutti i paesi dell’Africa subsahriana, nonché del ruolo fondamentale che detiene, data la propria posizione geopolitica come potenziale freno degli intenti terroristici provenienti dalla parte sud del continente africano. Tutto ciò fa emergere come l’area del Maghreb sia tutt’altro che unita, se si fa riferimento al rapporto di forte opposizione che intercorre tra Marocco e Algeria, dovuto non solo al dossier del Sahara occidentale ma anche al ruolo delle due potenze rispetto al Mediterraneo. Si ricorda in tal senso che, con la recente rivendicazione unilaterale della propria Zee nel Mediterraneo, l’Algeria è arrivata a sfiorare anche le coste marocchine. Vale la pena inoltre ricordare che lo scorso 3 novembre vi è stato un presunto assalto delle autorità marocchine a mezzi di trasporto algerini che transitavano in Mauritania dopo che, qualche mese prima, l’Algeria aveva dichiarato ufficialmente e unilateralmente chiusi i rapporti diplomatici con il Marocco.

Il rapporto Algeria-Libia

Ciò è particolarmente rilevante rispetto al conflitto libico – momentaneamente sospeso – e dagli effetti che esso propaga sulla questione migratoria, con i lager e le morti nel Mediterraneo centrale. Vale la pena ricordare come l’Algeria infatti si sia sempre posta, rispetto al conflitto libico, come paese non allineato astenendosi innanzitutto dall’appoggio all’intervento Nato che ha portato alla caduta del regime di Gheddafi. D’altra parte l’Algeria che confina con la Libia rappresenta la prima potenza militare africana, armata dalla Russia che invece in Libia ha un ruolo rilevante nella regione della Cirenaica in cui da anni – come già analizzato in precedenza – foraggia la presa di potere sull’intero territorio libico da parte di Haftar. Analizzeremo come tutto ciò abbia un effetto sull’(in)stabilità del governo ad interim libico e sulla questione migratoria addentrandoci nell’ultima delle rotte marittime che coinvolgono il territorio dell’Unione.

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Potenze coloniali, mandarini e conseguenze di lungo periodo https://ogzero.org/volpicelli/ Wed, 03 Nov 2021 21:55:31 +0000 https://ogzero.org/?p=5267 All’inizio della fine dell’Impero ottomano  scoviamo in un’intuizione di Luigi Barzini senior le radici del risveglio della potenza cinese nel momento in cui le scelte propulsive di Xi Jinping sono poste sotto pressione a livello globale: la produzione cinese rallenta ormai per il secondo trimestre di seguito; problemi di approvvigionamento, tensioni muscolari nel Pacifico, diminuzione […]

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All’inizio della fine dell’Impero ottomano  scoviamo in un’intuizione di Luigi Barzini senior le radici del risveglio della potenza cinese nel momento in cui le scelte propulsive di Xi Jinping sono poste sotto pressione a livello globale: la produzione cinese rallenta ormai per il secondo trimestre di seguito; problemi di approvvigionamento, tensioni muscolari nel Pacifico, diminuzione dei consumi ancora in seguito alla pandemia, che ha prodotto costi cospicui, hanno colpito l’economia che s’incentra sulla Belt Road Initiative. Dimostrando così che ormai Pechino è centrale negli interscambi e regola il mercato, essendosi inserita in ogni ganglio dell’interscambio e della produzione di beni, come mettevano sull’avviso con lungimiranza Barzini e il mandarino di 4° grado Volpicelli.


Un secolo di “Made in China”

«Noi non abbiamo idea delle grandi forze latenti della Cina, dell’intelligenza acuta, della perspicacia e dell’abilità del cinese. Ma lasciamolo dormire in pace questo immenso popolo sonnacchioso e divertente; sarà tanto meglio per noi. Guardate i giapponesi che cosa hanno saputo fare in poco tempo! I cinesi sarebbero capaci di ammazzare in cinquant’anni tutte le nostre industrie e quelle americane. Quattrocento milioni di uomini instancabili, intelligenti, sobri: ma che vi pare! Troveremo il “made in China” persino in fondo alle nostre mutande» [Luigi Barzini].

Il grande inviato del “Corriere della Sera” Luigi Barzini, 120 anni fa più o meno, aveva capito tutto. Gli era bastato poco tempo in giro per l’Asia per scrivere queste righe di ammonimento che ho ritrovato mentre anni fa andavo alla scoperta di quel mondo per raccontare la storia di un interprete-diplomatico italiano che vi visse buona parte della sua vita adulta. Noi italiani e le grandi potenze occidentali eravamo i conquistatori, i colonizzatori. E Barzini oltre a raccontare le violenze perpetrate contro la popolazione cinese dalle armate civilizzatrici, le stesse che si erano impegnate nel grande continente africano e in America Latina, aveva compreso ciò che molti analisti di oggi non vogliono ancora accettare. Forse perché, come per altre realtà, evitano di leggere la storia.

Scavando per ricostruire le vicende di Eugenio Felice Maria Zanoni Hind Volpicelli mi erano capitate anche altre valutazioni su ciò che stava accadendo e poteva succedere in quel mondo così lontano  e che raccontai nel mio Dante in Cina (il Saggiatore, 2018). Queste le parole di Lord Wolseley, uno dei più grandi generali britannici dell’epoca vittoriana, in un’intervista pubblicata il 6 luglio 1900:

«La Cina ha tutti i requisiti per conquistare il mondo. Ha una popolazione di 400 milioni che parlano tutti la stessa lingua o dialetti comprensibili da un lato all’altro dell’Impero. Ha un’enorme ricchezza in attesa di essere sviluppata. Oltretutto non hanno paura della morte. Comincia con una base di milioni e milioni di possibili soldati come questi e ditemi se ci riuscite quale sarà la fine».

Il protagonista della mia ricerca si era formato in ciò che era, per molti versi, la grande scuola dei colonialisti. L’Orientale di Napoli ha le sue radici nel colonialismo religioso, precursore di quello nazional-economico. Là si preparavano giovani cinesi per estendere la presenza della chiesa e del pensiero cattolico a casa loro. Là, all’ombra del Vesuvio, all’epoca di Volpicelli, ossia nell’Ottocento, vi si istruivano, tra gli altri, gli interpreti indispensabili per la penetrazione della Cina, del Giappone e delle terre contese del Sud asiatico. E per la gestione del bottino. Diplomatici e tecnici, al servizio delle grandi potenze occidentali:

«Quando il governo britannico cercava di stabilire relazioni diplomatiche con la Cina, l’unico posto in Europa dove riuscì a trovare un interprete fu nel Collegio dei cinesi a Napoli», avrebbe scritto il protagonista del mio libro.

Per meglio comprendere le cronache degli scontri, delle tensioni montanti tra la Cina comunista-capitalista proiettata verso il mondo e le grandi potenze che sono le stesse di allora, come l’Europa e la Russia e persino gli Usa, che a cento anni erano ancora relativamente giovani e appaiono oggi, dopo altri cento anni, consumati e sulla difensiva, potrebbe aiutare questo capitolo tratto da Dante in Cina.

Volpicelli presenzia alla cerimonia per il secentenario dantesco a Hong Kong con la fascia rossa al braccio

Console, console generale, Hong Kong e i pirati

Un “raccoglitore di notizie”, come si autodefinisce Volpicelli in un dispaccio diretto ai suoi superiori, non è necessariamente una spia. L’interprete italiano, nel 1898, non era più alle dipendenze delle Dogane imperiali. Dopo quattro mesi tra Siberia e Russia europea era tornato a Roma per essere formalmente reclutato dal servizio consolare del Regno e ricevette le sue istruzioni per una carica amministrativa. La sua giurisdizione – Hong Kong, Canton e tutta la Cina meridionale – aveva un’importanza che andava molto al di là della presenza fisica degli italiani nella regione. Con l’approfondimento delle lingue Volpicelli si era preparato a compiti più vasti di quelli svolti per l’amministrazione delle Dogane. Con i suoi viaggi in Cina, Russia e Giappone si era fatto una conoscenza diretta dei tre paesi; dei costumi e delle usanze della gente comune. Aveva studiato a fondo i loro apparati militari. I suoi contatti si erano estesi anche al di fuori della cerchia stretta dei leader e degli amministratori che aveva frequentato fino ad allora. Nei primi anni dell’ultima decade del secolo, il nostro interprete aveva stupito la vasta comunità straniera di Shanghai con le sue pubblicazioni e conferenze. C’è chi tra gli storici moderni cita ancora i suoi studi e ricerche sugli antichi rapporti commerciali, politici e militari della Cina con il resto del mondo. Molti applausi ebbe dai soci della Royal Asiatic Society parlando del commercio degli arabi con la Cina e dei primi insediamenti coloniali portoghesi: giochi diplomatici e strategie globali come le complesse partite di Wei Yi che da tempo aveva spiegato agli occidentali.

Con il suo corpo alto e atletico, una folta barba che ricordava quella del rivoluzionario russo Bakunin che tanto gli piaceva e anche dell’intellettuale italiano un po’ anarchico De Gubernatiis, imparentato con lo stesso Bakunin, Zanoni entrò con il piede giusto nella colonia inglese in un momento cruciale per la Cina e per chi la voleva dominare. Si fece subito notare per la sua cultura e intraprendenza. Compiva tutte le mosse e i riti che spettavano al nuovo arrivato e anche quelle che non rientravano nel protocollo diplomatico. Gli avvenimenti importanti si susseguivano con una velocità insolita e lui si sarebbe ritrovato al centro non soltanto delle questioni diplomatiche ma anche dell’attività del Corpo di spedizione italiano che si sarebbe unito alle marine delle altre potenze e ai progetti di espansione territoriale europee e del Giappone.

La Germania, arrabbiata per l’uccisione di due missionari tedeschi a Shantung chiese, o meglio impose con la minaccia delle armi, di essere ricompensata con la consegna di Kiano Chow e la sua baia. La Russia occupò Port Arthur, una base navale situata in Manciuria ora chiamata Lüshunkou. La Francia si piazzò a Guangzhouwan, ossia “Baia di Guangzhou”, una piccola enclave sulla costa meridionale della Cina collegata all’Indochina. A giugno, l’Inghilterra ottenne l’estensione della sua concessione di Hong Kong allargando i possedimenti fino a Kowloon e un mese dopo fino a Weihaiwei. A settembre il giovane imperatore Kuang Hsu, fu messo agli arresti nel proprio palazzo, il premier Li Hung Chang fu spedito a casa e l’imperatrice Dowager – un termine in inglese che significa vedova o ereditiera – salì al trono del Dragone. Da lì a poco Londra avrebbe preteso i cosiddetti Nuovi territori per allargare ulteriormente Hong Hong.

Vi è compresa Lantao con la sua cima imponente, radicata nelle tradizioni e nella mitologia locali. Oggi l’isola ospita il modernissimo aeroporto internazionale. I Nuovi territori, tra vasti parchi naturali, una splendida università e zone residenziali edificate nel rispetto dello spazio e anche dell’uomo, costituiscono una magnifica lezione di urbanistica. Centoquindici anni fa, Hong Kong era già una colonia importante alla quale l’Inghilterra aveva dedicato enormi investimenti visibili ancora oggi che l’intero territorio (con uno status di autonomia amministrativa) è stato restituito alla Repubblica popolare cinese.

Volpicelli, prima di approdare a Hong Kong aveva girato per lungo e per largo la Cina, muovendosi tra Canton e Shanghai, tra Macao e Pechino. Conosceva tutti. Era rispettato. Il suo nome era ben noto: circolava anche fuori dal cerchio degli addetti ai lavoro, grazie al giornale inglese di Shanghai. Il North China Herald pubblicava di tutto, dalle notizie più importanti giunte dall’Europa e dagli Stati Uniti, alla cronaca quotidiana dell’Impero. Una rubrica annottava arrivi e partenze, conferenze, nozze e battesimi. Al ballo annuale della comunità straniera di Shanghai dedicarono una pagina intera con i nomi di tutti gli invitati, compresi “i signori Volpicelli”. Sotto il titolo “Funzione interessante”, nel dicembre 1899, i cronisti raccontarono la consegna a un caporale inglese di una medaglia al valore conferitogli dal Re d’Italia per aver salvato un marinaio italiano a Candia, sull’isola di Creta. «Il generale Cascogne pronunciò un discorso e strinse la mano all’eroe e il signor Volpicelli appuntò la decorazione sul petto del caporale. Nel suo discorso il Console espresse la sua alta ammirazione per le qualità splendide dei soldati britannici».

Erano gli anni della nuova colonizzazione e l’Italia voleva la sua fetta. A Roma il parlamentare Angelo Valle aprì una discussione vivace che, diceva, «deve elevarsi ai più alti concetti e ai maggiori interessi dello stato». Era il primo maggio 1899, pochi anni dopo che quel giorno era stato fissato per legge la festa dei lavoratori.

«La Camera decida se vuol seguire una politica, quale spetta all’Italia per le sue tradizioni, per la sua posizione geografica, per lo spirito nazionale, per il suo genio, per la sua intraprendenza e attività — prendendo parte a tutte le questioni mondiali;— oppure — se rinnegando il passato — voglia restringersi nel suo guscio, seguitando una politica che la ridurrebbe all’anemia, alla miseria, all’isolamento…». Angelo Valle guardava nella direzione in cui ci avrebbe portato Mussolini con la sua via dei Fori Imperiali, lastricata di conquiste, crimini e false speranze per il futuro di Roma.

«Vorrà l’Italia, un tempo la prima e più potente nazione colonizzatrice del mondo, rimanere ultima in questo movimento generale? La trasformazione del Mondo è inevitabile; può l’Italia disinteressarsene? L’Italia deve domandare il suo risorgimento economico non alla sola agricoltura, ma altresì all’attività degli scambi, alla sua produzione industriale, quindi la necessità delle colonie allo sviluppo economico di un popolo. Senza colonie non può esservi commercio esterno. Senza una politica coloniale non è possibile a una grande potenza ma ben presto quello immigrante, che perde lingua e nazionalità, A me piacciono colonie che abbiano costumi, leggi, Governo italiano, a seconda del classico concetto Romano, adottato oggi dagli inglesi.

Il mondo comincia a divenir piccolo e quindi è necessario affrettarsi a prenderne la nostra parte. Non dobbiamo spaventarci degli insuccessi in Africa, né prendersi paura dell’ignoto. Né dobbiamo fare della politica coloniale una questione di partito, ma seguire il nobile esempio dei Parlamenti inglese, franasse e tedesco, ove, quando sorgono questioni di politica estera, le opposizioni, meno i socialisti, si affrettano a dichiarare ai rispettivi Governi, che nella politica estera avranno il loro appoggio incondizionato».

E ancora: «La Cina è la grande carcassa dell’Asia, e sei aquile europee e americane vi girano attorno premendosi e spingendosi l’una sull’altra. Essa è destinata ad essere assorbita alle potenze europee, e perché noi non dovremmo averne la nostra parte?…»

Lelio Bonin Longare, sottosegretario agli Esteri, nel corso del dibattito parlamentare offrì una sua interessante intuizione: «…a parer mio, il maggior pericolo che può attendere un giorno gli stati che mettono piede nell’Estremo Oriente per procurarvisi possedimenti territoriali può venire dai cinesi medesimi. Noi troppo spesso, parlando della Cina, dimentichiamo i cinesi, ed è un errore che si spiega facilmente perché succede di frequente a tutti di confondere la Cina ufficiale con la nazione, cinese, o piuttosto con quel conglomerato di popoli è di razze differenti, uniti insieme dai vincoli di antichissime tradizioni, che per comodità di linguaggio si può chiamare nazione cinese».

Mandarino di 4° grado

Volpicelli, console rispettato in quanto rispettoso della cultura cinese

E andò avanti per ricordare un episodio della storia coloniale nel quale Volpicelli, ancora non console e nemmeno al servizio dell’Italia, era stato coinvolto come interprete. «Non dimentichiamo quello che è successo alla Francia nel Tonchino dove i francesi, più che con l’esercito regolare, ebbero a fare con irregolari e con la popolazione. Quella campagna segnò alcune delle date più tristi della storia militare della vicina Repubblica. Ed oggi pure non mancano i segni ammonitori: nel settembre scorso il Kwang-sì era in mano di un esercito di 20.000 ribelli che saccheggiarono ed incendiarono intere città, e nel mese di ottobre il settlement francese di Shanghai era attaccato dalla popolazione e dovette essere difeso dai marinai delle navi ancorate nella rada.

Abbiamo di questi giorni veduti i Tedeschi a Kiao-Tchiao e gli Inglesi a Hong Kong intraprendere spedizioni all’interno per domare alcune ribellioni. Si vede già all’opera l’azione agitatrice di sette politiche, che il Brandt paragona agli Armeni dell’Anatolia, uomini dal più ardente patriottismo e poco scrupolosi nella scelta dei lezzi coi quali possono nuocere ai loro nemici».

Hong Kong nell’estate del 1993, vista dal Peak Victoria. All’incirca dallo stesso punto di vista della copertina.

Volpicelli, per quanto ancora figura dai tratti incerti e misteriosi, era decisamente un anticolonialista (e anche un antifascista al punto da rinunciare alla vecchiaia in Italia e alla compagnia di sua moglie e finire la sua vita in Giappone). Odiava talmente tanto l’espansionismo britannico da apparire agli occhi di Londra come un alleato, quasi un agente della Germania avviata a essere nazista. Purtroppo i giochi ambigui di quel mondo sono ampiamente specchiati in quelli delle diplomazie occidentali di oggi incapaci di affrontare con coerenza e una strategia comune il risveglio di quell’immenso popolo sonnacchioso visto e analizzato poco più di un secolo fa dall’inviato del “Corriere della Sera”.

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«Le origini del debito risalgono alle origini del colonialismo». E il colonialismo lo uccise https://ogzero.org/le-origini-del-debito-risalgono-alle-origini-del-colonialismo-e-il-colonialismo-lo-uccise/ Mon, 18 Oct 2021 23:32:42 +0000 https://ogzero.org/?p=5223 Un pallino di OGzero è pensare che le radici della geopolitica moderna affondino nel colonialismo e uno dei crimini più efferati del neocolonialismo fu l’uccisione di Thomas Sankara, una speranza per l’emancipazione dei diseredati e per l’Africa in generale. A distanza di 34 anni dalla strage del presidente burkinabé e dei suoi 12 collaboratori si […]

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Un pallino di OGzero è pensare che le radici della geopolitica moderna affondino nel colonialismo e uno dei crimini più efferati del neocolonialismo fu l’uccisione di Thomas Sankara, una speranza per l’emancipazione dei diseredati e per l’Africa in generale. A distanza di 34 anni dalla strage del presidente burkinabé e dei suoi 12 collaboratori si apre la prima udienza del processo contro gli esecutori, nemmeno tutti alla sbarra – visto che Compaoré, cittadino ormai ivoriano, è sfuggito al giudizio. Ma il giudizio in questo caso è quello della Storia e coinvolge anche i mandanti: le potenze occidentali che continuano a saccheggiare il Sahel. Riproponiamo in questo articolo un bell’intervento di Valeria Cagnazzo, pubblicato l’11 ottobre 2021 da “PagineEsteri“, assemblandovi anche un’intervista a Yakouba, militante sankarista, realizzata da Radio Blackout il 14 ottobre.  


Si inaugura l’11 ottobre il processo per l’omicidio del presidente Sankara, ucciso esattamente trentaquattro anni fa, il 15 ottobre del 1987. Tre anni prima, le parole scagliate con il suo storico discorso contro i membri delle Nazioni Unite avevano infuocato l’aula e segnato per sempre un prima e un dopo nella storia della rivoluzione del Burkina Faso e nella sua breve vita. Ed è forse analizzando quel suo intervento pronunciato il 4 ottobre del 1984 nella 39° sessione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite a New York che si possono rintracciare molte delle motivazioni che procurarono al giovane leader tante antipatie, e vi si possono al tempo stesso cogliere molti dei semi della sua fugace ma straordinaria rivoluzione.

Una rivoluzione di un paese poverissimo e sconosciuto dell’Africa sub-occidentale che per la prima volta, e davanti alle superpotenze mondiali, si scontrava apertamente con il concetto di terzomondismo e di assistenza umanitaria, caposaldi, allora come adesso, di un Occidente dalla coscienza smacchiata.

«È al di là di ogni immaginazione la quantità di “derrate dei poveri” che sono andate a nutrire il bestiame dei nostri ricchi! Naturalmente incoraggiamo l’aiuto che ci aiuta a superare la necessità di aiuti. Ma in generale, la politica dell’aiuto e dell’assistenza internazionale non ha prodotto altro che disorganizzazione e schiavitù permanente, e ci ha derubati del senso di responsabilità per il nostro territorio economico, politico e culturale».

Sankara alzava la sua voce in quell’aula di New York per dichiarare al resto del mondo che quel paese dell’Africa subsahariana non aveva più al potere un presidente fantoccio dell’Europa e degli Stati Uniti, come tanti altri Stati del suo continente, e che il suo popolo era pronto a prendere in mano il proprio destino, ad affrontare la lotta per l’autodeterminazione.

«Promettiamo solennemente che d’ora in avanti nulla in Burkina Faso sarà portato avanti senza la partecipazione dei burkinabé. D’ora in avanti, saremo tutti noi a ideare e decidere tutto. Non permetteremo altri attentati al nostro pudore e alla nostra dignità».

Così quell’incauto presidente nero definiva gli interventi occidentali mascherati da aiuti umanitari: degli attentati al pudore e alla dignità del suo popolo.

Il discorso di Sankara fu anche un attacco spietato all’Occidente dell’opulenza, della ricchezza fine a se stessa, dell’ingordigia senza limiti: «Parlo in nome delle madri dei nostri paesi impoveriti che vedono i loro bambini morire di malaria o di diarrea e che ignorano che esistono per salvarli dei mezzi semplici che la scienza delle multinazionali non offre loro, preferendo piuttosto investire nei laboratori cosmetici, nella chirurgia estetica a beneficio dei capricci di pochi uomini e donne il cui fascino è minacciato dagli eccessi di calorie nei pasti, così abbondanti e regolari da dare le vertigini a noi del Sahel. Parlo, anche, in nome dei bambini. Di quel figlio di poveri che ha fame e guarda furtivo l’abbondanza accumulata in una bottega dei ricchi».

La formula del “parlare in nome di” qualcuno si ripete per tutta l’orazione di Sankara: colpisce, e divertì probabilmente il suo uditorio, che un minuscolo Stato dimenticato volesse farsi carico delle voci di tutti i diseredati e degli oppressi del pianeta. Ma in questo consisteva il sogno di Sankara: che i più piccoli del mondo unissero le loro voci e finalmente dimostrassero che il loro coro era molto più potente di quello dei pochi nelle cui mani fino a quel momento si erano tenute le loro sorti. La rivoluzione di Sankara era umana oltre che politica, o meglio era politica proprio perché profondamente umana. «Parlo non solo in nome del mio Burkina Faso, tanto amato, ma anche di tutti coloro che soffrono in ogni angolo del mondo». E citò tutti i diversi, i reietti, i neri discriminati nei paesi dei bianchi, gli Indiani d’America condannati all’estinzione, il popolo del Sahel a cui era negata l’indipendenza dal Marocco, il popolo palestinese «che un’umanità disumana ha scelto di sostituire con un altro popolo». Condannò l’invasione militare dell’Afghanistan, così come l’apartheid in Sudafrica. Le sue parole percorrevano tutto il planisfero con accuratezza, come un dito che lento si muovesse sui confini di tutti gli Stati a interrogarne le storie e i dolori, per soffermarsi su ogni ingiustizia e denunciarla con fervore, come se si svolgesse in Burkina Faso. Fu un discorso drammatico, capace di muovere alle lacrime: «Vorrei parlare in nome di tutti gli abbandonati del mondo, perché sono un uomo e niente di quello che è umano mi è estraneo». Ma in nessun momento si trasformò in un discorso “lacrimoso”: quel giovane presidente non voleva più che gli oppressi suscitassero compassione. Proponeva delle soluzioni, drammatiche, rivoluzionarie, naturalmente destinate a scatenare reazioni di gelo e di paura in chi lo stava ascoltando, come la proposta di espellere Israele e il Sudafrica dalle Nazioni Unite.

Il suo programma antiterzomondista e socialista era anche profondamente femminista e antimilitarista, e anche su questi due punti il suo discorso all’Onu fu troppo cristallino e pragmatico per non risultare quasi indecente. «Parlo in nome delle donne del mondo intero, che soffrono sotto un sistema maschilista che le sfrutta», disse, sottolineando la violenza globale di condannare la donna a un ruolo di sudditanza all’uomo, sia segregandola al focolare e all’ignoranza che vincolandola agli ideali di bellezza delle ragazze immagine immortalate mezze nude nelle pubblicità. Il suo programma non prevedeva solo un coinvolgimento egualitario di uomini e donne nella ricostruzione del paese, ma anche un nuovo apparato statale che passava anche per la riorganizzazione dell’esercito, fornendo a ogni soldato un’educazione politica e culturale, consapevole che un militare ignorante e ciecamente obbediente ai suoi comandanti «non è nient’altro che un potenziale criminale». Militari visti come individui, dunque, non più come pedine, e la proposta della “lotta per il disarmo” come “obiettivo permanente”.

E, ancora, il suo discorso annunciava una rivoluzione che avrebbe privilegiato anche l’arte e la libertà di espressione:

«Parlo in nome degli artisti – poeti, pittori, scultori, musicisti, attori – che vedono la propria arte prostituita per le alchimie dei businessmen dello spettacolo. Grido in nome dei giornalisti ridotti sia al silenzio che alla menzogna per sfuggire alla dura legge della disoccupazione».

Una rivoluzione, tra l’altro, che passava necessariamente anche attraverso le parole per realizzarsi, una trasformazione linguistica suggerita dal presidente che al suo insediamento cambiò il nome del suo paese: non più Alto Volta, come i colonialisti, tratteggiandone i confini con un righello, avevano imposto, ma Burkina Faso: “il paese degli uomini integri”. Non solo, neanche la definizione di Terzo Mondo poteva continuare ad esistere: “Terzo mondo, una parola inventata dal resto del mondo al momento dell’indipendenza formale per assicurarsi meglio l’alienazione sulla nostra vita intellettuale, culturale, economica e politica”. Una rivoluzione delle parole: quelle del “grande popolo dei diseredati” non potevano che essere “parole semplici, con il linguaggio dei fatti e della chiarezza”. Questo fu il linguaggio del discorso di Thomas Sankara, e altrettanto stravolgente fu la sua declinazione nei fatti.

“Quando il popolo si solleva l’imperialismo trema”.

Un sogno di felicità – Nato in quel paese che egli stesso definì “la quintessenza di tutte le disgrazie dei popoli” nel 1949, fallito il tentativo di studiare medicina ricevette una formazione militare in Madagascar, dove ebbe modo di assistere alle rivolte popolari contro il Presidente Tsiranana e di avvicinarsi alle teorie leniniste e marxiste del Partito africano dell’Indipendenza. Al ritorno nel suo paese, entrò in politica e fu tra i fondatori del Gruppo degli Ufficiali Comunisti. Segretario di stato, poi primo ministro, la sua figura affascinava e conquistava seguaci per il suo stile di vita morigerato o meglio stoico, per il suo interesse costante per gli ultimi, che andava a trovare a bordo della sua sgangherata bicicletta, e per il coraggio con cui sferzava attacchi violenti all’Occidente e alla Francia di Mitterand. Con un colpo di Stato sostenuto dalla Libia e capeggiato da quello che all’epoca era un suo amico, Blaise Compaoré, nell’agosto del 1983 Thomas Sankara divenne Presidente dell’Alto Volta all’età di trentacinque anni. Poteva finalmente prendere forma la rivoluzione che aveva sognato per il suo paese: «Abbiamo scelto di rischiare nuove vie per giungere ad una maggiore felicità». Questo fu il suo obiettivo: non era il mito del “progresso” che trascinava già i Paesi occidentali in una deriva di sfruttamento e ineguaglianza sociale a guidarlo, ma il sogno di regalare per la prima volta ai suoi connazionali e ai loro eredi un bene più raro e audace, la felicità.

Non si trattava di un sogno semplice da realizzare: «Eravamo l’incredibile concentrato, l’essenza di tutte le tragedie che da sempre colpiscono i cosiddetti paesi in via di Sviluppo», come ammise lo stesso Sankara. I numeri lo confermavano: una mortalità infantile del 180 per mille e un’aspettativa di vita che non superava i 40 anni, in un paese di 7 milioni di abitanti, quasi per la totalità contadini. Un tasso di analfabetismo del 98% e un medico ogni 50.000 abitanti. Un prodotto interno lordo di circa 100 dollari pro capite.

Dal suo insediamento, Sankara si decurtò lo stipendio e lo stesso fece per i suoi ministri, tra i quali si contavano molte donne. Le Mercedes dei funzionari pubblici furono sostituite con delle economiche Renault 5 e i voli per motivi politici potevano da quel momento in poi essere fatti solo in classe turistica. L’obiettivo di assicurare almeno 2 pasti e 5 litri d’acqua a ogni Burkinabé fu raggiunto grazie a una massiva rivoluzione economica che non riguardò soltanto politici e funzionari amministrativi, ma tutto l’apparato produttivo e militare del paese. L’operazione di demilitarizzazione del paese e di riorganizzazione dell’esercito fu funzionale a combattere la piaga della fame dei Burkinabé: l’addestramento militare prevedeva adesso in gran parte l’allevamento di pollame e la coltivazione di ortaggi e di patate, con delle soglie minime di produzione, come almeno un quarto di pollo per soldato prodotto a settimana. Il ricavato era destinato interamente alla popolazione.

Le importazioni di beni inutili dall’estero furono disincentivate. Il mercato di cosmetici, di bibite e alimenti prodotti dalle multinazionali occidentali, dei capi di abbigliamento dei grandi marchi europei, non faceva, infatti, che ingrossare in maniera sempre più drammatica il debito pubblico di un paese già spremuto dalla fame. Incoraggiò pertanto le imprese locali, la produzione autoctona di abiti tradizionali che lui stesso amava sfoggiare nelle occasioni pubbliche, l’acquisto nelle botteghe locali e dai piccoli artigiani burkinabé. Chiuse i locali notturni dove insieme alla dipendenza dalle abitudini occidentali ai Burkinabé venivano vendute lattine di Coca-Cola a prezzi esorbitanti e li convertì in balere diurne alle quali chiunque poteva accedere con una minima offerta e dove si sorseggiavano solo economiche bibite artigianali.

Furono scavati circa 1000 pozzi e realizzati oltre 250 bacini d’acqua. Fu costruita la ferrovia del Sahel per collegare il paese al Niger e nel Sahel furono piantati oltre 10.000 alberi per frenare l’avanzata del deserto. Oltre 330 scuole furono costruite, insieme a un numero simile di dispensari per la salute materno-infantile. In quasi tutti i villaggi del paese fu aperto un centro per la Salute primaria – e anche un campo sportivo. Con il ricavato dei tagli agli stipendi e agli sprechi, Sankara lanciò, inoltre, una campagna di vaccinazione, grazie alla quale oltre 2 milioni e mezzo di bambini furono vaccinati contro il tifo, il morbillo, la rosolia e la febbre gialla. Nel paese si iniziò a promuovere in quegli anni l’utilizzo di contraccettivi per contrastare la diffusione dell’HIV, e furono vietate la poligamia e l’infibulazione. Tra le priorità dell’agenda di governo, anche il lavoro alle donne e il reinserimento in società delle ex prostitute alle quali furono offerti nuovi impieghi. Nel sogno di felicità di Sankara, infine, nelle radio del paese veniva quotidianamente mandata in onda la voce dei Burkinabé, che potevano tutte le mattine intervenire nei programmi radiofonici per esprimere le loro critiche al governo e argomentare le loro proposte. Sempre attraverso un circuito radio, si cercava di diffondere l’alfabetizzazione anche nelle capanne delle più remote comunità rurali.

Riguardo al debito maturato dagli Stati africani nei confronti dei creditori stranieri, inoltre, Sankara era convinto che dovesse essere cancellato, e che i paesi africani dovessero coalizzarsi per questo scopo: come spiegò due mesi e mezzo prima di essere ucciso, il 29 luglio 1987durante la riunione ad Addisa Abeba dell’Organizzazione per l’Unità Africana,

«Le origini del debito risalgono alle origini del colonialismo. Quelli che ci hanno prestato denaro, sono gli stessi che ci avevano colonizzato. Sono gli stessi che gestivano i nostri Stati e le nostre economie. Sono i colonizzatori che indebitavano l’Africa con i finanziatori internazionali che erano i loro fratelli e cugini. Noi non c’entravamo niente con questo debito. Quindi non possiamo pagarlo».

Un atto di insubordinazione troppo grande nei confronti della Francia di Mitterand e dei suoi alleati occidentali.

Il 15 ottobre un commando armato irruppe nel palazzo in cui si stava svolgendo una riunione di gabinetto del Consiglio Nazionale della Rivoluzione e aprì il fuoco su Sankara e sui suoi uomini, finché i loro tredici corpi esangui non rimasero accatastati gli uni sugli altri.

Un processo e un anniversario – Annunciato ufficialmente il 12 aprile scorso, inizierà lunedì 11 ottobre, soli quattro giorni prima del trentaquattresimo anniversario della sua uccisione, il processo per l’omicidio di Sankara.  A confermarlo un comunicato emanato dalla procura di Ouagadougou, la capitale del Burkina Faso, dove si svolgerà l’udienza a porte aperte. Molti degli indiziati per l’attentato sono venuti a mancare nel corso degli anni, ma insieme ad altri 12 accusati è ancora in vita l’imputato più illustre, Blaise Compaoré. Salito al potere dopo la morte di Sankara, del quale sotto il suo governo fu portata avanti un’intransigente operazione di damnatio memoriae, l’ex Presidente del Burkina Faso è stato da sempre considerato il principale mandante dell’omicidio. Potrà, però, sedere al banco degli imputati soltanto in senso metaforico: Compaoré vive in Costa d’Avorio da quando un colpo di stato nel 2014 ha rovesciato il suo governo quasi trentennale, e lì resterà, a meno che non decida volontariamente di ritornare nel suo paese per presenziare in aula all’udienza. È difficile immaginare che in caso di condanna uscirà dal paese che lo ha accolto per andare a scontare la sua pena nel paese burkinabé. Oltre a Compaoré, tra gli accusati c’è anche il generale Diendéré, all’epoca capo dell’esercito e suo ex braccio destro, attualmente già in carcere a scontare una condanna a 20 anni per un tentativo di colpo di stato del 2015: la sentenza gli sarà probabilmente indifferente.

Certamente le assenze più pesanti al banco degli imputati saranno quelle dei mandanti internazionali di quest’omicidio, che da oltre trent’anni vengono chiamati in causa nella narrazione della morte di Sankara. La Francia di cui il Burkina Faso era ex colonia e con la quale il paese di Sankara voleva interrompere ogni rapporto economico, ad esempio: solo nel 2017 Macron ha desecretato i documenti ufficiali sulla morte di Sankara, fino a quel momento inaccessibili agli investigatori. Gli Stati Uniti, che in quel piccolo leader vicino alla Russia e a Fidel Castro in piena Guerra Fredda vedevano un nemico comunista pericoloso per il favore panafricano che stava catalizzando. E poi le ombre, documentate anche dal reportage di Silvestro Montanaro “E quel giorno uccisero la felicità”, su personaggi come Charles Taylor, fuggito, come da lui stesso successivamente ammesso con il favore degli Stati Uniti, da un carcere di massima sicurezza in Massachussetts per tornare in Liberia e organizzare una guerriglia con armi illegali e uomini addestrati in Libia dalla Cia: tra gli obiettivi del politico liberiano ci sarebbe stata anche la realizzazione dell’assassinio di Sankara. Una trama fitta di intrecci internazionali per soffocare il sogno di felicità burkinabé.


Viste le condizioni degli ormai anzianissimi indiziati e l’assenza per il momento di imputati internazionali agli atti dell’accusa, è improbabile che con questo processo giustizia venga fatta. Ma fare giustizia, e il giornalista Silvestro Montanaro, scomparso un anno fa, ce lo ha insegnato, spendendosi fino all’ultimo per portare in giro per l’Italia la storia di Sankara, è anche questo: continuare a raccontarci la sua lezione. Continuare a raccontare di Thomas Sankara, di come grazie al suo coraggio un paese poverissimo e sconosciuto dell’Africa nera fermò il tempo e provò a riscrivere da capo la sua storia, e di come le rivoluzioni di felicità qualche volta, incredibilmente, si possono realizzare. E si potrebbero replicare.

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Khyber Pass: orizzonti perduti, orizzonti ritrovati https://ogzero.org/khyber-pass-mitico-luogo-nel-racconto-di-eric-salerno/ Sun, 05 Sep 2021 17:10:24 +0000 https://ogzero.org/?p=4834 Per concessione dell’autore e dell’Atlante delle Guerre pubblichiamo un estratto da “Orizzonti perduti, orizzonti ritrovati”, appena pubblicato da il Saggiatore. Si racconta del mitico Khyber Pass e di com’era un giovane Pakistan che cercava il suo posto nel mondo. Non com’è oggi dove, sulla frontiera tra i due paesi, si accalcano gli afgani che vogliono […]

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Per concessione dell’autore e dell’Atlante delle Guerre pubblichiamo un estratto da “Orizzonti perduti, orizzonti ritrovati”, appena pubblicato da il Saggiatore. Si racconta del mitico Khyber Pass e di com’era un giovane Pakistan che cercava il suo posto nel mondo. Non com’è oggi dove, sulla frontiera tra i due paesi, si accalcano gli afgani che vogliono sfuggire al regime talebano e alla miseria del loro paese dopo oltre 40 anni di guerra. Abbiamo pensato di accostare a questo racconto, quello – anch’esso di Eric Salerno – scritto nel dicembre 1960, che descrive le tribù che abitavano il Passo Khyber. Spunti di riflessione per capire la composizione tribale odierna e gli scontri tra comunità in quelle terre illustrati da immagini scattate dall’autore.


Passo Khyber. Abito scuro, camicia bianca e cravatta: io, invitato sulla rotta che sarebbe stata resa famosa dagli hippy europei e americani e che la Pakistan International Airlines, all’epoca una delle più importanti compagnie aeree dell’Oriente, forse del mondo, apriva al turismo d’élite. Siamo nel 1960, tredici anni dopo la Partizione, quella terribile divisione della vecchia India in due stati che costò la vita a un milione di persone, stravolse quella di centinaia di milioni e lasciò una ferita che oggi sembra più aperta di allora. Fu una delle mie prime esperienze all’estero da viaggiatore e giornalista insieme.

Sono nato nel 1939. La data di nascita del Pakistan è il 14 agosto 1947. Negli anni Sessanta il paese, giovane e antico allo stesso tempo, vide uno dei suoi momenti migliori. Io ero giornalista da poco, ma avevo un patrimonio invidiabile da sfruttare: oltre a me, solo un altro redattore di “Paese Sera” parlava l’inglese, ma era molto più grande e i suoi impegni mi regalarono ampio spazio di manovra. La lingua dell’Impero britannico in fase decadente e dei vincitori della Seconda guerra mondiale era ancora relegata in secondo ordine dagli italiani, dopo quella dei cugini odiati d’oltralpe. Eppure stava diventando sempre più essenziale nel mondo che iniziava ad aprirsi anche grazie allo sviluppo dell’aviazione civile, di cui avevo cominciato a occuparmi sulle pagine del battagliero quotidiano romano di sinistra, vera scuola di giornalismo.

Da Roma, il gruppo di reporter italiani, di cui ero il più giovane, volò fino a Londra per imbarcarsi sul volo inaugurale del primo 707 con i colori della Pia, un quadrigetto della Boeing, sulla rotta di Karachi, allora – ma ancora per poco – la capitale del Pakistan. Una prima classe come non ne vidi più. Un servizio impeccabile: la mia prima aragosta, champagne e tutto il resto. Tappa sotto la neve a Francoforte, un’altra a Zurigo. Poi la traversata del Mediterraneo e il mio primo approdo a Beirut, la Svizzera del Medio Oriente si diceva allora, dove ci aspettava una splendida cena levantina con tanto di danza del ventre in un ristorante dell’aeroporto prima di riprendere il volo per Teheran e, tempo di fare rifornimento, di assistere a un altro spettacolo di danza in un locale non distante dallo scalo. Arrivammo a Karachi all’alba, accolti da dirigenti della Pia, da una delegazione dell’ambasciata italiana e, scesi dal pulmino davanti allo storico hotel Metropole, da stormi di corvi neri.

Il verde, quello dell’islam, era il colore ufficiale della Pia e dello stato nato apposta per i musulmani, ma allora Karachi era una metropoli multiculturale, multietnica e multireligiosa aperta al mondo – più all’Occidente che all’Oriente – che usciva dalla Grande guerra numero due e dalla fine ufficiale degli imperi coloniali. Le divise delle hostess erano state disegnate da Pierre Cardin, icona della moda parigina, l’unico a fare testo. Turisti americani e britannici in costume prendevano il sole sulla spiaggia di fronte al mar Arabico. I locali notturni abbondavano. Le orchestre jazz imperversavano. L’alcol era tabù solo per chi non voleva bere. L’hashish, con discrezione, era accessibile a hippy e finti figli dei fiori di passaggio. Droghe più pesanti non mancavano. I camerieri in livrea del Metropole, luogo di ritrovo dei giornalisti stranieri, di una certa borghesia locale, dei turisti – avanguardia del boom degli anni a venire –, erano impeccabili nel loro servizio. E nel prendersi gioco dei clienti, ai quali propinavano prelibatezze della cucina locale che nemmeno un fachiro mangiatore di fuoco avrebbe mandato giù senza una smorfia di dolore. «Con un sorso di scotch si smorza tutto» e lo offrivano sorridendo….
….
Non ci sono turisti oggi a Peshawar e le botteghe della città di confine vendono soprattutto fucili, mitragliatrici, pistole, cartucce di ogni genere, cartucciere. Roba nuova di zecca e armi avanzate da quando, non molti anni fa, Usa e Urss si fronteggiavano indirettamente per il controllo dell’Afghanistan, uno dei paesi strategicamente più importanti della regione. Sarebbe riduttivo parlare solo di armi sui banchi dei negozi. Da quando le truppe di Mosca lasciarono il posto a quelle di Washington, il Pakistan (potenza nucleare come l’India) è direttamente o indirettamente coinvolto nei grandi traffici di stupefacenti, soprattutto oppio e i suoi derivati, partiti dalle ricche coltivazioni afgane. Ci vorrebbero livelli di turismo oggi nemmeno pensabili per sostituire e distribuire l’elevato reddito pro capite prodotto dalla droga.

E oggi – mi riferisco sempre ai gloriosi tempi pre Covid – non ci sono turisti nemmeno a Lahore, se non pochi gruppi isolati attirati da un paio di intraprendenti e molto sospetti travel blogger americani e inglesi. Una di loro è stata accusata di lavorare non soltanto per gli addetti al turismo locali ma addirittura per i servizi segreti, considerati molto vicini alle numerose organizzazioni terroristiche che operano nella zona. «Nessun pericolo» sostiene il regime (uno dei meno democratici di quella regione), la blogger «non fa che difendere gli interessi del popolo». Affermazioni che hanno provocato la dura reazione di organizzazioni antigovernative che denunciano come i diritti umani in Pakistan siano un’opzione, il terrorismo e il traffico di stupefacenti marcino mano nella mano, le donne vengano trattate come nel Medioevo e i dissidenti finiscano quasi sempre in galera se non sottoterra. Nonostante le campagne dei blogger entusiasti che riempiono il web di parole e filmati, girati anche in alcune delle zone più pericolose del paese, turisti e viaggiatori stranieri restano pochi. Passeggiare, come ebbi la possibilità di fare nei viali degli straordinari giardini Shalimar di Lahore, eredità del Gran Moghul Shah Jahan che li fece costruire nel 1641, è raro e spesso pericoloso. I giardini furono inclusi dall’Unesco tra i patrimoni dell’umanità nel 1981.

Hanno la forma di un parallelogramma oblungo, circondato da un alto muro a mattoni. Il giardino misura 658 metri sulla direttrice nord‐sud e 258 sulla est‐ovest. Ai giornalisti italiani invitati nel 1960 per raccontare le bellezze del paese e stimolare il turismo non fu difficile descrivere, nei loro articoli, la meravigliosa simmetria del vasto parco che si sviluppa su tre terrazze, sopraelevate di 4‐5 metri una dall’altra. Appuntai il loro nome in lingua urdu: Farah Baksh (“apportatrice di piacere”), Faiz Baksh (“apportatrice di bontà”), Hayat Baksh (“apportatrice di vita”).
Mi dicono che le guide turistiche più anziane non trovano difficile spiegare per quale motivo e come si è potuti passare dal boom degli anni Sessanta alla tragica situazione di oggi – gelosie tribali e intricati giochi politici –, ma preferiscono parlare dei tesori di questa città. La moschea imperiale, che coniuga passione, bellezza e gloria dei moghul, come altri luoghi di culto in giro per il mondo, fu sconsacrata più volte nel corso dei secoli e usata come presidio militare dagli invasori sikh e dai gentiluomini di Londra in divisa. I turisti che, come me, la visitarono negli anni Sessanta potevano apprezzarne l’architettura ma poco le sue opere d’arte, che soltanto di recente sono state restaurate e rimesse al loro posto, o sostituite.

La Pia era considerata una delle compagnie aeree principali del mondo e l’aeroporto di Karachi, la “porta all’Asia”. Titolo e funzione che avrebbe mantenuto durante tutto il boom economico e la rapida industrializzazione che accompagnarono la prima metà del regime militare di Ayub Khan, feldmaresciallo arrivato al potere con un golpe e votato a schiacciare corruzione e crimine nella vecchia capitale mentre preparava le basi per costruire quella nuova, Islamabad. Le spiagge di Karachi, scrisse all’epoca il “Washington Post” che raccontava la vita dei turisti stranieri, «sono le più pulite dell’Asia». E non soltanto le spiagge. Le vie del boom, con una nuova borsa, banche, società di assicurazioni, giornali, venivano «lavate con l’acqua tutti i giorni». Il sogno e il turismo sarebbero durati poco. Già nel 1965, pochi anni dopo la mia visita, le contraddizioni e i contrasti dovuti all’industrializzazione cominciarono a provocare i primi scontri tra la maggioranza muhajir di Karachi e i migranti pashtun, arrivati dall’Afghanistan in cerca di lavoro. La capitale era in difficoltà, ma lo era anche il resto del paese, che non riusciva a trovare pace nella sua faticosa ricerca di un’identità, sempre più islamica, sempre meno tollerante.

Ormai è chiaro, e quasi tutti gli storici e chi osserva le realtà del mondo di oggi concordano: i vecchi imperi avevano una tenuta che gli stati usciti dalla loro frammentazione non hanno ereditato. Negli anni Settanta i movimenti islamisti divennero più forti. Le attrazioni per i viaggiatori stranieri, meno appetibili. La minoranza cristiana, fulcro di una parte importante della vita notturna di Karachi, cominciò ad abbandonare il paese. Il declino lento ma inesorabile toccò anche alla Pia e l’aeroporto dell’ex capitale fu costretto a cedere l’etichetta di «porta dell’Asia» a Dubai. Nel 2002, agli scontri tribali e ai contrasti etnici si aggiunse una nuova forma di terrorismo. Decine di passanti furono uccisi da alcuni kamikaze che si fecero saltare in aria accanto all’albergo Marriott e all’ambasciata Usa.

Articolo di Eric Salerno su “Paese Sera” del 12-13 dicembre 1960.

Qualche mese prima, il giornalista del “Wall Street Journal” Daniel Pearl era stato rapito dopo essere uscito dal Village restaurant di fronte a quel famoso ma ormai decaduto albergo Metropole, sarebbe stato decapitato nel giro di pochi giorni. Nel 2007 gli dedicarono un film, Un cuore grande, e per girare la scena del rapimento fu richiesto un imponente cordone di sicurezza della polizia di Karachi. Erano stati i fondamentalisti islamici a uccidere il mio collega, non si voleva rischiare un’altra tragedia. Da allora pochi osano parlare di turismo occidentale da quelle parti.

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Syngué sabour: appunti per un’Orestiade afgana https://ogzero.org/l-occidente-non-ha-mai-compreso-larea-centrasiatica/ Sat, 04 Sep 2021 13:40:21 +0000 https://ogzero.org/?p=4811 L’Occidente non ha mai compreso l’area centrasiatica, perché l’ha assimilata nell’immaginario alla propria mentalità e alla propria filosofia, senza sforzarsi di collocare i sistemi delle comunità nella loro tradizione di riferimento. A decolonizzazione avvenuta si può forse tentare di inquadrare alcuni aspetti per intessere poi una tragedia pasoliniana che possa raccontare il Great Game come […]

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L’Occidente non ha mai compreso l’area centrasiatica, perché l’ha assimilata nell’immaginario alla propria mentalità e alla propria filosofia, senza sforzarsi di collocare i sistemi delle comunità nella loro tradizione di riferimento. A decolonizzazione avvenuta si può forse tentare di inquadrare alcuni aspetti per intessere poi una tragedia pasoliniana che possa raccontare il Great Game come è avvenuto e perché si è arrivati a questo epilogo. E di lì imparare a trovare la corretta e rispettosa forma relazionale con il mondo compreso tra l’Hindu-Kush e il deserto iranico.

Syngué sabour: la pietra paziente, la pietra ascolta, finché non si frantuma.


La clanicità esibita dal processo di talebanizzazione

Rassicuranti non lo sono mai stati e le loro biffe senza sorriso non lo saranno mai. Ma ora sono cambiati: i Talebani hanno imparato soprattutto il modo di promuoversi sugli schermi occidentali e quanto sia importante la comunicazione in un mondo mediatico, dove persino l’impressione levantina dei capi e quella orrifica dei tagliagole, nei loro stracci e barboni vecchi di due millenni nell’iconografia stantia e un po’ razzista, diventano folklore; se fanno la parte a loro assegnata da Trump, risultando credibili a Doha, perché svolgono il ruolo di negoziatori (attribuitogli dal circo mediatico per assicurare il business degli accordi geopolitici), consentono al mondo di sfilare gli scarponi costosi dal terreno e consegnare al Pakistan, loro mentore, di controllare il territorio su mandato americano.

Un ruolo quello di negoziatori che la loro cultura riconosce ai capiclan maschi e che è quella ricercata dalla controparte fatta di maschi americani. Ciò che li ha accomunati è l’appartenenza al più vieto conservatorismo di entrambe le società.
Certo l’evoluzione degli squadristi diventa la requisizione delle auto degli anziani hazara nella provincia di Ghazni, come ci racconta un afgano delal diaspora di ciò che è avvenuto a suo padre al villaggio durante un rastrellamento (a cui il fratello si è sottratto scappando in montagna), quando 30 anni fa avrebbero perpetrato l’abigeato di tutti gli armenti; ma in fondo anche i fascisti nostrani usano con spregiudicatezza i social, pur rimanendo buzzurri celoduristi.

Colonizzatori si nasce

La solita eccezione culturale francese si chiede se sia possibile confrontarsi, e quindi conferirgli un riconoscimento, con le posizioni talebane senza venir meno ai propri principi. Una posizione palesemente ancora fondamentalmente colonialista perché connota il gruppo in senso razzista e prevede una superiorità di principi da esportare: in realtà quei principi dovrebbero riuscire a comprendere come ragiona la controparte per poter individuare i punti su cui avviare la trattativa (ed eventualmente insinuare un elemento che possa fare da base a un sincretismo che permetta un’evoluzione di entrambi), perché senza il confronto non c’è che la soluzione di forza, visto che non si è potuta creare una alternativa nazionale credibile riconosciuta dagli afgani ai quali si sono volute imporre figure – corrotte e inconsistenti – ritagliate sul modello occidentale, alieno a chi rimaneva povero e sfruttato dagli occidentali come dai Signori della Guerra – tutti ugualmente fondamentalisti (uzbeki di Dostum, tajik di Massoud, hazara di Mazari, pashtun di Hekmatyar). E questo è il risultato.

L’anima feroce

Vero che il movimento politicamente retrivo dei Talebani ha due facce: una pashtun, quindi interna alla nazione – anche se proveniente dall’unica cultura dei monti del Waziristan divisi dalla Durand Line tra Pakistan e Afghanistan – le cui tribù si possono scoprire nel capitolo (collocato nel 1960!) dedicato al Pakistan da Eric Salerno nel suo volume Orizzonti perduti, orizzonti ritrovati – e guida politica di questo tradizionalismo che ambisce a dare vita a un governo che imponga tutte le convinzioni tribali, legittimate da un sunnismo invariato anche perché utilizzato per fungere da collante contro le molte aggressioni coloniali a cui ha fatto fronte proprio grazie alla sua chiusura; l’altra, in parte uzbeka e in buona parte araba – saudita, qatariota e tutta la compagnia di giro del jihadismo – che costituisce il nerbo dell’ala militare, feroce e pervasa di volontà di vendetta fanatica, che impone il giro di vite sui diritti all’interno della nazione… e questo potrebbe risvegliare le coscienze della società civile che mal tollerava la presenza straniera e ora guarda con altrettanto dispetto ai jihadisti di varia provenienza – con aggiunta di orrore nelle notti riempite da musiche inneggianti alla guerra santa sparate a tutto volume nei pressi dei quartieri hazara, minacciosa e incombente presenza che prelude a rastrellamenti e abusi come nelle notti kabuline subito dopo la fuga statunitense. Un disimpegno che ha permesso già molti abusi e atti di violenza: l’uccisione in diretta Fb di un hazara cittadino australiano che riprendeva violenze, apostrofato dagli squadristi e ucciso sotto gli occhi di moglie e figli; l’umiliazione di dover seguire un percorso attraverso le fogne per arrivare all’aeroporto e venire sollevati di peso e rigettati dai marines sul gregge vociante, ma incapace di ribellione (perché non è nelle modalità previste da nessun clan); essere sottomessi al trattamento dei militari addestrati dallo US Army, che nell’aeroporto ti fanno abbassare la mascherina per riconoscere i connotati hazara e a quel punto avvicinano l’arma al tuo orecchio, esplodendo colpi che sfiorano tua moglie… questi sono episodi narrati con indignato terrore da un hazara che usava le ferie per ottenere documenti per il ricongiungimento e che il Console buono ha sedotto e abbandonato.

Clan e tribù: la coazione a ripetere

Per capire come funziona un accordo che si va a stringere con una realtà simile a quella talebana ci si deve ancora una volta immergere nell’idea clanica, opposta a quella di comunità di individui postilluminista: ciò che accomuna gli afgani – a qualunque appartenenza culturale facciano riferimento (pashtun, tajik, uzbek, hazara, turkmeni, kirghizi, nuri, aimak, wakhi…) – è la consapevolezza che tutto si regge sulla tradizionale competizione tra tribù fondata sulla coazione a ripetere invariata di ogni singola consuetudine della struttura, e quindi dei riti, delle cerimonie, dei matrimoni combinati, ma soprattutto dei ruoli; ciò che l’Occidente non è in grado di capire, perché ha scardinato quel sistema secoli fa e non ne ha più memoria, è che nessuno dei fondamenti custoditi dai potenti del clan può venir meno, a rischio di implosione di tutto. E quindi, come ribadiscono testimoni abbandonati dai ponti aerei, le donne non devono poter accedere alla istruzione per più di 7 anni (perché la cultura è l’antidoto contro ogni forma di repressione), le barbe non vanno tagliate (perché si è sempre fatto così), le donne non possono indossare pantaloni bianchi (mamnu, perché il loro culo contaminerebbe il colore della bandiera talebana)… sciocchezze per altre tradizioni, ma metodi già ripristinati con il corredo di taglio di mani ai ladri e lapidazione alle adultere, per rassicurare chi ha introiettato un ordine prescrittivo forte che non tralascia alcun dettaglio per perpetuare invariato un mondo, preservandolo da incrinature che potrebbero rovesciare i rapporti di controllo sulla società.

L’articolo di Giuliano Battiston è stato pubblicato da “il manifesto” il 29 agosto 2021 e si trova tra gli articoli di analisi prodotti da “Lettera 22

La ribellione non è contemplata

Ma non è un caso che non ci siano state resistenze all’avvento delle orde talebane: erano già collaterali a una società che tra occupanti portatori di affari e tradizionalisti aveva già deciso come regolarsi. Sarebbe bastata quella incrinatura a minare il “cimitero degli Imperi” ben più di un’oliata macchina da guerra tecnologica. In realtà la ribellione, anzi anche solo la protesta, non è contemplata. Per esempio le donne (poche significative decine inizialmente e poi sempre di più, ma ancora minoranza, nonostante il supporto di molti uomini estranei alla tradizione patriarcale) che il 2 settembre hanno inscenato manifestazioni in particolare a Herat sono il risultato dei vent’anni di apparente vacanza dal controllo della tradizione: il fatto che abbiano potuto farlo senza una reazione significativa iniziale da parte dei fondamentalisti dimostra come non le considerino realmente pericolose e che i vent’anni di affari e traffici senza immaginare di poter consentire la creazione di un sistema alternativo non hanno emancipato che pochi individui… e che i Talebani hanno imparato anche come in certe situazioni conviene fingersi tolleranti: finisce che fa gioco mostrare che non si reprimono manifestazioni pubbliche. E non ci si può scandalizzare per un po’ di lacrimogeni il giorno successivo a Kabul, perché altrimenti gli stessi giornalisti inorriditi dai manganelli a Kabul, dovrebbero farlo anche in Val di Susa; piuttosto è da valutare l’imbarazzo e la reazione legata alla sorpresa di scoprire un mondo femminile sconosciuto, e così diventano le situazioni quotidiane, che vengono represse dal patriarcato, a fare la differenza rispetto alla predisposizione a un confronto dialettico impossibile, non avendo una lingua comune. Sparare nervosamente in aria, perché non si può (ancora) sparare addosso a questi che sono alieni per l’universo di riferimento talebano, è la più esplicita esibizione di lontananza dal mondo cresciuto in questi vent’anni a Kabul e nelle grandi città, spazi fuori controllo rispetto ai giochetti rassicuranti dei vilayet dei monti. Lo stesso distacco, che non può tollerare la ricetta oscurantista, produce un mondo separato di repressi, brutalmente – e quindi per la legge islamica giustamente terrorizzati dai poco lucidi e ancor meno rassicuranti filopakistani. E quelle donne a loro volta vengono sottoposte a minacce da parte dei confusi (dall’impatto con la metropoli) Talebani e sgomente al punto di indossare il burqa –anche manifestando – pur se nessuno lo ha prescritto.

Herat, manifestazione di donne 3 settembre 2021

Dal fronte femminile si registrano alcune ribellioni, contestazioni – impossibile sognare che si svolgano provocatoriamente senza veli: sarebbe davvero suicidio –, o prese di posizione che possano infastidire, ma non è vero che non agiscano “autonomamente”: sono sempre più numerosi i casi di mogli selezionate dal clan che – dopo un tempo più o meno lungo di permanenza nei paesi in cui i giovani afgani protagonisti della migrazione di 15 anni fa le hanno ricongiunte – abbandonano il tetto coniugale per raggiungere i paesi del Nordeuropa attraverso una rete che organizza il trasferimento. Fin dal primo momento insistono per ricollocarsi in paesi in cui le possibilità sono migliori di quelle del Sudeuropa – evidente la missione assegnata dal clan anche a loro, un incarico che non prevede il coinvolgimento del coniuge, ridotto a semplice passeur legale che spesso non è nemmeno a conoscenza dell’intenzione iniziale della famiglia, benché la blanda opposizione lasci intendere che l’epilogo era messo in conto, conoscendo i calcoli clanici. Anche in questo caso in cui apparentemente sembra che le donne prendano in mano il loro futuro, sono ancora una volta strumenti della volontà della famiglia patriarcale.

Una storia, tante storie

Figurarsi quanto possono radicarsi e durare i diritti mai realmente compenetrati nella società afgana, perché non è una società di individui: persino quando scrivono i libri che raccontano la loro storia, commuovendo l’Occidente, ciascuno dei giovani afgani, stimolati a far conoscere la loro storia dagli amici europei ammaliati dall’esotismo e colpiti dalle vicissitudini, non riesce a fare una biografia ma la figura dell’io narrante comprende tante storie di tanti esuli: tutti insieme costituiscono la comunità afgana della diaspora e la sua narrazione che è unica e collettiva e quindi è anche eticamente corretto per loro attribuirsi episodi non vissuti in prima persona, ma comuni ai “conoscenti” afgani che hanno incrociato nel viaggio e nell’inserimento nella società europea e contemporaneamente i nuovi rituali degli expat e le telefonate quotidiane con il clan.

Scatto di Seyf Karimi, Kabul – Chindawol, 4 settembre 2021

Una realtà che non si fonda sull’individuo riconosce solo il ruolo collettivo in cui il singolo è un numero la cui attività è regolata dalla tradizione: infatti ora i Talebani si trovano di fronte a un incrocio: i giovani che in questi 20 anni sono stati contaminati dalla frequentazione di mentalità e comportamenti estranei alla tradizione, o i ragazzi della diaspora costretti all’emigrazione – che tutti, nessuno escluso, hanno mantenuto i contatti con il clan e ne sono stati in qualche modo condizionati e manipolati, soprattutto per legami matrimoniali o per mantenere il ruolo che era loro prescritto già alla partenza – ora trentenni con metà della vita trascorsa in Europa, pur sempre avvolti o protetti o comunque coinvolti dalla comunità expat, sono portatori di modi di pensare e vivere che sarebbero letali per il meccanismo clanico, quindi vanno trattenuti per il loro know how tecnologico utile all’emirato di “trogloditi in turbante” come vengono concepiti da quelli intrappolati a Kabul dalla loro repentina avanzata, oppure è meglio consentirgli di abbandonare il territorio per continuare a mandare rimesse senza contaminare la restaurazione? Forse che vengano riconosciuti come elementi ormai irrecuperabili all’islam e quindi nocivi può consentire il successo dei corridoi umanitari; dopo probabilmente i restanti verranno eliminati, pena mantenere attivi e inglobati nella realtà congelata locale potenziali tarli capaci di minare il processo di conservazione.
Poi gli affari si fanno con chiunque anche da confini nei quali la cultura estranea non può insinuarsi, ma pecunia non olet.

Emanuele Giordana è attento da tempo alle potenziali esportazioni di califfati fuori dalla Mesopotamia, fin dal volume collettaneo pubblicato da Rosenberg & Sellier nel 2017: A oriente del califfo.

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n. 11 – Cosa può fermare il caos libico? https://ogzero.org/la-soluzione-del-caos-libico-e-ancora-lontana/ Mon, 26 Jul 2021 15:26:28 +0000 https://ogzero.org/?p=4430 Questo saggio dedicato alle rotte nordafricane appartiene alla serie di contributi in cui Fabiana Triburgo approfondisce la questione migratoria: proseguiamo con la Libia, giungendo – attraverso l’analisi della situazione politica ed etnica interna e degli interessi internazionali che non aiutano l’unificazione e la pacificazione del paese. Campi di detenzione, respingimenti e schiavitù rendono difficile la […]

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Questo saggio dedicato alle rotte nordafricane appartiene alla serie di contributi in cui Fabiana Triburgo approfondisce la questione migratoria: proseguiamo con la Libia, giungendo – attraverso l’analisi della situazione politica ed etnica interna e degli interessi internazionali che non aiutano l’unificazione e la pacificazione del paese. Campi di detenzione, respingimenti e schiavitù rendono difficile la soluzione del caos libico: a quando i corridoi umanitari?


I principali conflitti che attualmente interessano le migrazioni forzate e le prassi di esternalizzazione poste in essere dall’Unione Europea e dai singoli stati membri portano a una predeterminazione delle rotte dei migranti.

Quello che oggi è inevitabile chiedersi è se il nuovo Patto europeo sulla Migrazione e l’Asilo, proposto dalla Commissione UE, possa essere realmente considerato una soluzione della gestione del fenomeno migratorio o se invece vi siano soluzioni legali alternative maggiormente lungimiranti e coraggiose.  


Etnie, tribù e clan nel puzzle libico

La Libia o piuttosto le “Libie” – Cirenaica, Fezzan e Tripolitania – da sempre si è distinta per la pluralità, all’interno del suo territorio, di differenti identità etniche e tribali, tra cui arabi, arabo-berberi, tuareg e berberi-amazigh, appartenenti ai clan o alle realtà cittadine e rispetto alle quali la popolazione libica avverte ancora oggi un forte senso di appartenenza superiore a un sentimento unitario di identità nazionale.

Ciò era valido tanto con Gheddafi quanto ancora oggi e rappresenta una delle prime questioni da prendere in considerazione se si vuole portare a compimento un effettivo processo di pacificazione del paese al di là delle dimensioni istituzionali create ad hoc per dare una parvenza di democratizzazione della Libia, come è avvenuto mediante  la formazione di un governo ad interim – istituito a Ginevra nel febbraio 2021 – approvato nel mese successivo dal parlamento di Tobruk riunitosi a Sirte e finalizzato a condurre il paese verso un trasparente e sicuro processo elettorale previsto il  prossimo 24 dicembre.

Mappa elaborata da OGzero e Chiara Alessio, dal volume di Alfredo Venturi, Il casco di sughero (Rosenberg & Sellier, 2020)

Dopo la caduta di Gheddafi, nessuna unità nazionale

Tali diverse realtà etniche rette all’epoca di Gheddafi da un sistema clientelare consolidato da quarant’anni che prometteva vantaggi all’una o all’altra tribù, in concorrenza tra loro, volto ad assicurare un consenso politico a favore dell’allora dittatura, emersero in tutta la loro irruenza con la caduta del regime – sull’onda delle rivolte tunisine ed egiziane – nel 2011. Da allora il conflitto civile ha provocato un sistema di anarchia caratterizzato dalle violenze e dagli scontri tra le diverse milizie legate all’una o all’altra realtà etnica – con sporadici tentativi di istituzionalizzazione del paese – quando i diversi clan hanno avuto accesso agli armamenti del regime ai quali si sono aggiunti quelli delle forze regionali e di quelle internazionali che sono oggi le vere protagoniste dello scenario libico. I precedenti round elettorali nel 2012 e nel 2014 infatti non hanno portato mai alla creazione di uno stato libico unitario sia per la presenza nell’esecutivo legittimamente eletto, con riferimento al 2012, della componente islamista dei Fratelli Musulmani – ricordiamo che nel 2013 il Parlamento dichiarò la volontà dell’applicazione della legge islamica nei confronti della popolazione libica – sia nel 2014, quando il governo eletto, con un’esigua partecipazione alle urne, è stato fortemente contestato dalle milizie islamiche che hanno acquisito il potere sulla città di Tripoli.

I due governi: Giano bifronte

Più specificatamente nel 2014 il precedente Congresso all’esecutivo si trasformò, senza cedere il potere, in un nuovo Congresso di Unità Nazionale e si contrappose alla Camera dei Rappresentanti e al nuovo governo legittimamente eletti che furono costretti a rifugiarsi nell’est del paese nella città di Tobruk mentre Tripoli finì nelle mani delle milizie musulmane. Venne creandosi così quel “Giano bifronte” del potere libico che vide contrapporsi la parte Est a quella Ovest: in questo contesto si impose il generale Haftar – ritornato nel 2011 dall’esilio negli Stati Uniti dopo l’estromissione dal regime a opera di Gheddafi – mostrandosi come unico uomo forte in grado di scacciare la componente estremista islamica dell’Isis e delle milizie islamiche, cominciando ad acquisire il controllo di un numero sempre maggiore di aree del territorio libico, in particolare in Cirenaica e nel Fezzan, a sud del paese, ponendosi a capo dell’Esercito di Liberazione nazionale.

L’appoggio internazionale diviso e divisivo

Successivamente in Tripolitania nacque – su sostegno della comunità internazionale oltre a quello dell’Italia e della Turchia – un Governo di Accordo nazionale guidato da Fayiz al-Serraj. Tuttavia, la situazione così determinatasi si rivelò da subito fallimentare: Haftar appoggiato da Francia, Russia, Emirati Arabi, Egitto non volle mai riconoscere il nuovo governo, per cui la comunità internazionale avviò senza successo un’opera di riconciliazione, fino a che nell’aprile del 2019 Haftar tentò il secondo colpo di stato, dopo quello del 2014 con “ l’operazione dignità”,  assediando la città di Tripoli – sostenuto dalle potenze di cui sopra – che venne scongiurato, non a caso, soltanto mediante l’intervento della Turchia.

Gli interessi geopolitici

Queste fasi del conflitto libico, essenziali per capire la situazione attuale nel paese, già fanno emergere quel ruolo fondamentale delle potenze internazionali che fin dall’inizio proiettarono nello scenario libico i propri interessi geopolitici ed economici: basti pensare all’intervento Nato con la Francia, gli Usa e la Gran Bretagna nel 2011 e  l’influenza politica delle potenze regionali dispiegata fin da subito in Libia da un lato dalla Turchia e dal Qatar, paesi vicini a un islam politico, ed Emirati arabi ed Egitto dall’altro a sostegno di una stabilizzazione del paese attraverso un processo di militarizzazione. Con il passare del tempo questo ruolo delle potenze internazionali e regionali si è talmente acuito che nei punti all’ordine del giorno della Conferenza di Berlino sulla Libia – in particolare della seconda tenutasi il 23 giugno 2021 – vi è tra i principali obiettivi posti al governo ad interim l’eliminazione delle presenze internazionali nel conflitto. Non sono stati sufficienti infatti né la prima conferenza di Berlino a gennaio del 2020, né la tregua dell’agosto dello stesso anno, né il cessate il fuoco permanente dell’ottobre del 2020 e da ultimo il Governo di Unità Nazionale di Ginevra – istituito grazie al Forum internazionale di dialogo sulla Libia – a concretizzare tale obiettivo. Si ricorda in particolare che al secondo appuntamento del giugno scorso alla Conferenza di Berlino nel quale hanno partecipato 17 stati tra cui Russia, Usa, Francia, Italia ed Egitto, la Turchia ha posto la riserva proprio sul punto riguardante il ritiro dei propri militari dalla Libia.

La Turchia non leva i “boots on the ground”

La Turchia nel paese nordafricano ha mosso le proprie fila non solo per interessi economici-commerciali legati ai giacimenti petroliferi e alla ricostruzione del paese, ma soprattutto per il perseguimento del proprio espansionismo nel Mediterraneo.

Infatti, con il precedente governo di accordo nazionale libico la Turchia ha stretto un patto che legittima la Zee turca da sempre osteggiata dalla comunità internazionale schierata a favore delle rivendicazioni marittime della Grecia e di Cipro. La Turchia inoltre – che ricordiamo aver avuto il “merito” di aver provocato l’ingresso in Libia di migliaia di mercenari siriani che si sono aggiunti a quelli ciadiani e sudanesi – ritiene che la permanenza del proprio potere militare nel paese sia in qualche modo autorizzata dal precedente patto sottoscritto con il governo di accordo nazionale di al-Serraj. Si ricorda che l’attuale primo ministro Dbeibah dall’inizio del suo mandato ha ricevuto in Libia diverse diplomazie internazionali ma il primo paese nel quale si è recato personalmente con 14 membri del nuovo governo è la Turchia.

Inoltre, sia l’attuale primo ministro – ex imprenditore ed ex capo del fondo “Lybian Local Investment and Development Company” varato da Gheddafi nel 2007 – sia il presidente del Consiglio presidenziale Mohammed Yunus al Manfi – ex ambasciatore libico in Grecia– sono figure vicine ideologicamente alla Turchia. Intanto gli altri stati, in particolare i paesi dell’UE e gli Stati Uniti, pur opponendosi alla reticenza turca sul ritiro delle proprie forze militari spesso sono troppo intimoriti da una possibile stabile quanto strategica presenza nel Mediterraneo della Russia. Russia e Turchia schierate rispettivamente a sostegno della parte est e della parte ovest del paese sono rivali nello scenario libico ma questo è solo uno dei contesti internazionali in cui i due paesi, pur essendo in contrapposizione tra loro, non arrivano mai allo scontro diretto condividendo troppi interessi comuni come quelli sul turismo, sul piano energetico, sul nucleare e sugli armamenti militari.

Milizie e contractors russi: il ritiro è lontano (nonostante l’accordo)

Non si dimentichi il ruolo delle due potenze nel conflitto riguardante il Nagorno Karabakh, la Siria e la Georgia. Quindi anche nel corso della seconda Conferenza di Berlino, Russia e Turchia hanno trovato un accordo convenendo sul ritiro di 300 tra mercenari siriani e contractors delle milizie Wagner, la Società russa di sicurezza paramilitare privata vicina al presidente Putin. Si ricorda tuttavia che l’ultimatum per il ritiro delle forze internazionali era previsto per il 23 gennaio del 2021 e che secondo le Nazioni Unite al momento vi sono ancora circa 20.000 mercenari sul territorio libico.

E la nuova Costituzione?

Non solo, oltre al progressivo allontanamento delle potenze estere dal conflitto libico, il Governo di Unità Nazionale deve portare a compimento alcuni altri importanti obiettivi in vista dell’appuntamento di dicembre per il ritorno della popolazione civile alle urne: l’approvazione di una nuova Costituzione, di una legge elettorale e la riforma del sistema di sicurezza nel paese con la creazione di un esercito nazionale libico unito che rappresenta il presupposto fondamentale per un corretto svolgimento delle elezioni e l’unico strumento che possa scongiurare che esse non vengano inficiate da una spirale di violenza determinata dalle milizie appartenenti alle diverse fazioni. Proprio per tale ragione è necessario che l’approvazione della nuova Costituzione prima delle votazioni sia il più possibile inclusiva delle minoranze etniche – alle quali spesso corrispondono altrettante milizie – attraverso il loro riconoscimento all’interno della costituente ma ciò non è un processo di facile attuazione, basti pensare che la componente amazigh-berbera ha già rifiutato un referendum di ratifica di un trattato costituzionale.

 

Se tali questioni non vengono risolte prime delle elezioni il rischio è che un nuovo governo eletto, pur se legittimo, si ritrovi dinanzi le stesse tare dei precedenti governi. Si rammenta a tal fine che l’approvazione del governo tecnico ad interim, di cui il primo ministro è Dbeibah, accolta con un plauso internazionale condiviso si deve leggere attraverso la lente di un alleggerimento delle tensioni tra Turchia ed Emirati, Egitto e Francia e soprattutto in ragione del fatto che tale governo è provvisorio per definizione in quanto gli attuali membri che ne fanno parte non potranno candidarsi alle prossime elezioni. Qualche dubbio che ciò non sarà così emerge sia dal comportamento del primo ministro rispetto alle cancellerie internazionali, sia dai processi di riforma finora attuati, essendo alquanto improbabile che nell’arco di sei mesi possano realizzarsi i succitati obiettivi, anche perché attualmente il governo ad interim sembra aver altri intenti soprattutto di carattere economico, stringendo accordi commerciali con ogni paese con cui può incontrarsi a livello diplomatico.

Europa e Stati Uniti: è davvero pacificazione e ricostruzione?

Cosa può dirsi quindi cambiato in esito a queste tappe politiche e militari così importanti che hanno interessato il paese nel 2020 e nel 2021?

Poco, come detto, sotto il profilo sostanziale per il rafforzamento delle istituzioni rispetto al passato, in un’ottica di una Libia unita pur essendo chiaramente da non sottovalutare la condizione attuale di distensione e di unicità della rappresentanza governativa. Si può però affermare che oggi l’Unione Europea abbia una politica comune in Libia, dato il momentaneo superamento delle contrapposizioni dell’Italia e della Francia nel paese e che gli Stati Uniti, governati dall’amministrazione Biden, anche se mantengono comunque in Libia una posizione non interventista – la stessa che ha caratterizzato le precedenti amministrazioni – con il loro sostegno verbale al processo di democratizzazione del paese hanno indirettamente accelerato la spinta internazionale comune alla ricostruzione dello scenario libico, anche se non sappiamo ancora quanto questo sarà effettivamente determinante per la pacificazione della Libia.

Ciò che sicuramente non è cambiato è l’attenzione al tema delle migrazioni soltanto sfiorato nella recente conferenza di Berlino e delle gravissime violazioni dei diritti umani che continuano a compiersi in Libia. Quello che preoccupa fortemente e che ogni potenza internazionale, impegnata in questa svolta del processo di pacificazione, sembra far finta di non vedere, sono i centri detentivi libici dei quali ventiquattro sono ufficiali mentre trentuno risulterebbero quelli non ufficiali. Alcuni dati possono sicuramente aiutare a comprendere meglio la situazione anche se non danno la reale e drammatica portata umana del fenomeno: più di 700.000 sono i potenziali richiedenti asilo presenti nel paese, 200.000 gli sfollati interni, 5.000 i potenziali richiedenti asilo presenti nei centri detentivi ufficiali, due dei quali Medici Senza Frontiere è stata costretta recentemente ad abbandonare e circa 10.000 quelli stimati presenti nei centri non ufficiali.

Detenzioni e schiavitù

Nei centri i migranti vengono torturati e sono vittime di violenti abusi e gravi sfruttamenti sia sessuali che lavorativi fino spesso alla riduzione in una condizione di schiavitù. Quello che è importante avere in mente è che le persone detenute in questi centri non sono protagonisti di attuali ondate migratorie provenienti dall’Africa Subsahariana transitanti per Agadez come un tempo – essendo stato bloccato il transito dei migranti negli ultimi anni dal Niger alla Libia con la Legge nigerina 36-2015 che criminalizza il traffico umano in accordo con le politiche di esternalizzazione europee – ma persone che sono presenti in Libia in uno stato di detenzione da almeno cinque anni.

Oggi i migranti che passano per il Niger vengono fermati e abbandonati in quel “mare di sabbia” del deserto del Sahara contiguo al Fezzan libico, pericoloso nel suo attraversamento quanto il Mediterraneo centrale.

Rifugiati attraversano il deserto da Agadez in Niger alla Libia, per arrivare in Europa (foto Catay / Shutterstock)

Attualmente inoltre occorre segnalare che l’Unhcr sta cercando di compiere un’attività di evacuazione dei migranti dai centri detentivi libici al Niger, attraverso delle domande di reinsediamento di questi soprattutto in Canada negli Stati Uniti e in alcuni paesi dell’UE. Si rammenta tuttavia che questa procedura non consente garanzie ferme e ufficiali in ordine alla tutela dei richiedenti asilo non essendo né il Niger né la Libia firmatari della Convenzione di Ginevra.

La situazione assume i caratteri della catastrofe umanitaria se analizziamo le attività di respingimento soprattutto a opera della cosiddetta “guardia costiera libica” per cui i migranti detenuti, dopo aver pagato attraverso i propri familiari il prezzo della propria libertà, vengono intercettati e riportati nelle coste libiche e successivamente reinseriti nei centri, in questo caso quasi esclusivamente in quelli detentivi non ufficiali, chiamati più notoriamente Safe House o Connection House.

A quando i corridoi umanitari?

Da quanto sinora esposto sotto profili diversi è chiaro dunque che la Libia non possa ritenersi un paese sicuro, per il quale sarebbe opportuno implementare sistematicamente le pratiche dei corridoi umanitari tenendo conto delle continue notizie delle morti in mare, consentendo lo svuotamento completo dei lager libici, e bloccando subito le pratiche dei respingimenti collettivi delegati e dei finanziamenti europei a esse finalizzati che interessano le attuali  rotte migratorie tra cui quella del Mediterraneo centrale di cui si tratterà immediatamente di seguito.

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n. 8 – Siria (IV): dopo la Guerra cosa può cambiare? https://ogzero.org/una-nuova-primavera-araba-siria-le-dinamiche-attuali-del-conflitto-2020-2021/ Wed, 26 May 2021 11:33:41 +0000 https://ogzero.org/?p=3634 Nella serie di articoli dedicati alle rotte mediorientali della raccolta di analisi stilate da Fabiana Triburgo sulla questione migratoria la sezione siriana si compone di quattro interventi, ognuno dedicato a uno dei molteplici aspetti che presenta questa diaspora, biblica per proporzioni, e vicissitudini toccate ai più di 12 milioni di individui siriani coinvolti nella catastrofe […]

L'articolo n. 8 – Siria (IV): dopo la Guerra cosa può cambiare? proviene da OGzero.

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Nella serie di articoli dedicati alle rotte mediorientali della raccolta di analisi stilate da Fabiana Triburgo sulla questione migratoria la sezione siriana si compone di quattro interventi, ognuno dedicato a uno dei molteplici aspetti che presenta questa diaspora, biblica per proporzioni, e vicissitudini toccate ai più di 12 milioni di individui siriani coinvolti nella catastrofe umanitaria che ha fatto seguito allo scatenarsi del conflitto siriano dell’ultimo decennio. Dove porteranno questi anni di Guerra civile? Potrà riemergere una nuova Primavera araba?

L’autrice ha dapprima analizzato le attuali condizioni di siriani ormai integrati in realtà esterne al paese ai quali ora viene chiesto di rimpatriare, rischiando la vita e rinunciando alla nuova esistenza costruita faticosamente in esilio. L’analisi è proseguita valutando le condizioni economiche e umanitarie in cui si tengono le elezioni il 26 maggio, senza dimenticare la specificità della Primavera araba nelle diverse regioni siriane; ha proseguito poi collegando le modalità di protesta alla particolare peculiarità del regime alauita del clan al-Assad; le fasi della politica di Bashir – fino alla Primavera araba e il conflitto esploso nel 2011, che ha fatto del territorio siriano uno scenario usato dalle potenze globali e locali per imporre la propria supremazia. Da ultimo in questo articolo ancora più dedicato alla geopolitica si cerca di fare il punto dei conflitti nelle 4 partizioni di territorio tra i vari protagonisti scontratisi in particolare nell’ultimo biennio.


n. 8, parte IV

I principali conflitti che attualmente interessano le migrazioni forzate e le prassi di esternalizzazione poste in essere dall’Unione Europea e dai singoli stati membri portano a una predeterminazione delle rotte dei migranti.

Quello che oggi è inevitabile chiedersi è se il nuovo Patto europeo sulla migrazione e l’asilo, proposto dalla Commissione UE, possa essere realmente considerato una soluzione della gestione del fenomeno migratorio o se invece vi siano soluzioni legali alternative maggiormente lungimiranti e coraggiose.  

Il conflitto siriano: gli ultimi due anni di Guerra

Come già notato nel precedente articolo sulla situazione in Siria, in particolare con riferimento alle pregresse tappe del conflitto – ormai perdurante da oltre dieci anni –, appare evidente l’interazione in esso tra le milizie appartenenti alle forze governative, le potenze della regione mediorientale e quelle internazionali.

La ripartizione ottomana e le relazioni locali del territorio

Più specificatamente la presenza di attori regionali nel territorio siriano deve rinvenirsi in ragione di alcune dinamiche dal punto di vista storico. Prima della dissoluzione dell’Impero Ottomano le province mediorientali erano determinate non solo da suddivisioni meramente amministrative quanto anche da alcune realtà informali. Attigue alle regioni dominate da Istanbul infatti vi erano delle subregioni che venivano gestite dalle élites locali e che possedevano una certa autonomia rispetto al governo centrale dell’impero perseguendo abitualmente i propri interessi politici ed economici e interagendo tra di loro. Citiamo come caso esemplificativo del fenomeno in questione le relazioni tra le città di Damasco e Aleppo con Nablus, oggi città della Cisgiordania. Allo stesso tempo nelle zone rurali i gruppi comunitari stanziati in prossimità del monte druso-maronita, nell’attuale stato libanese, intrattenevano i loro rapporti con i gruppi residenti nelle montagne alauite a est di Latakia, nell’attuale territorio siriano. Tuttavia la creazione degli stati nazionali non prese in considerazione né le suddivisioni amministrative né quelle informali, sia cittadine che rurali, preesistenti nell’area.

A ogni modo molte delle relazioni di cui sopra sono rimaste intatte anche a fronte delle suddivisioni coloniali dei territori dell’impero ottomano: basti pensare agli scambi commerciali che vi sono oggi tra la pianura di Hims in Siria e Hermel in Libano, o tra la città siriana di Dara’a e quella giordana di Mafraq.

Le comunità locali sono in ogni caso ancora oggi consapevoli della sovrapposizione tra la realtà nazionale e quella locale caratterizzata dalla reciprocità con altre realtà dell’area mediorientale.

Tali comunità locali sono solite riferirsi all’una o all’altra a seconda degli interessi in gioco.

Con riferimento al conflitto in corso in Siria queste duplici dimensioni spiegano le ragioni per le quali molti miliziani sciiti, provenienti dall’Iraq, siano andati a combattere in Siria tra le milizie leali al governo di Assad sulla base di una presunta necessità di proteggere i luoghi santi sciiti dagli attacchi violenti della comunità sunnita. Stesso fenomeno si può considerare rispetto alle forze di opposizione sunnite al regime di Damasco nelle quali, dopo pochi mesi dall’inizio del conflitto, sono confluiti i militanti estremisti islamici provenienti da altri paesi del Medioriente per compiere il jihad che tuttavia non aveva alcun apparente legame con le proteste del 2011 da parte delle forze di opposizione contro Assad.

Protagonisti, accordi internazionali e…

Le potenze internazionali nel conflitto siriano riconducibili a strategie statali attualmente sono in particolare: l’Iran e la Russia a sostegno delle forze governative di Assad, la Turchia che combatte a favore di alcune delle forze ribelli che operano nel Nord del paese e gli Usa a supporto delle milizie curde. Quello che appare chiaro è che il governo del regime di al-Assad, così come d’altro canto le forze di opposizione, difficilmente possono attualmente determinare vittorie decisive nel conflitto in corso a loro favore senza l’appoggio delle potenze estere regionali del Medioriente e internazionali.

Tuttavia, a intervenire in Siria non vi sono solo attori regionali o internazionali – militari e politici statali – ma anche attori umanitari e militari internazionali non statali, nonché numerose ong straniere.

A tal proposito va menzionato il ruolo delle Nazioni Unite e specificatamente quello del Consiglio di Sicurezza – nel quale tra i membri permanenti vi è la Russia ma non la Turchia – nonché quello della Nato, nel quale invece tra i membri vi è la Turchia (dal 1952) e ovviamente non la Russia. Ricordiamo che Russia e Turchia sono al momento le due principali potenze straniere presenti nel paese. Inoltre la missione Onu di supervisione delle Nazioni Unite in Siria istituita dalla Risoluzione n. 2043 del Consiglio di Sicurezza del 21 aprile 2012 venne sospesa nel giro di pochi mesi. In tale conflitto l’Onu più volte è uscita sconfitta dal suo ruolo di risolutore pacifico. Al riguardo, occorre invece soffermarsi sul Processo di Astana nel quale le Nazioni Unite svolgono un ruolo di osservatore permanente.

Il processo di Astana è un processo finalizzato all’instaurazione di un sistema di pace in Siria siglato da Turchia, Russia e Iran – complementare a quello ufficiale dell’Onu a Ginevra – iniziato a dicembre del 2016 con i negoziati nella capitale del Kazakhistan, grazie all’iniziativa diplomatica dei suddetti paesi, dopo l’intervento armato della Russia e al fine di realizzare gli obiettivi della risoluzione n. 2254 delle Nazioni Unite con la quale sono state tracciate le linee guida verso una transizione politica del conflitto guidata dagli stessi siriani. Tale accordo nel 2017 ha portato alla definizione di quattro zone di “de-escalation” del conflitto. L’accordo avrebbe dovuto coinvolgere a partire dal 2018 (Accordo di Sochi) insieme ai diplomatici delle tre nazioni, anche i rappresentanti del regime di al-Assad e una parte delle forze di opposizione, ma, come detto in precedenza, l’accordo è stato più volte violato nel 2019 dalle potenze contraenti.

… ripartizione in 4 zone di controllo

Il 5 marzo del 2020 Mosca e Ankara – sempre all’interno del processo di Astana – hanno raggiunto un’altra importante intesa che prevede una zona di sicurezza lungo l’autostrada M4 che congiunge Aleppo alla costa e rispetto alla quale viene garantito il pattugliamento da parte di militari russi e turchi. Il 16 febbraio del 2021 si è siglato un ulteriore accordo tra le parti sempre in linea con lo spirito del Processo di Astana avente come oggetto l’elaborazione di una costituzione per il dopoguerra, la transizione politica nel paese nonché il ritorno in sicurezza dei rifugiati.

Tutto ciò premesso, si può affermare che nell’ultimo anno il conflitto siriano non si è caratterizzato per interventi militari dispiegati su larga scala da parte di tutti gli attori presenti nelle aree sotto il controllo del regime, ma il paese rimane comunque intrappolato nel conflitto armato per i continui scontri nell’area a Nordovest e di quella a Nordest, ossia due delle tre zone che costituiscono oggi la ripartizione del paese nelle cosiddette “Sirie”. Come accennato dunque occorre far riferimento per un’analisi degli accadimenti bellici più recenti – ossia quelli dal 2020 a oggi – a questa ripartizione geografica, analizzando contestualmente le azioni militari più rilevanti di ogni singolo attore regionale e internazionale presente in Siria che, come detto, sono i principali fautori delle dinamiche del conflitto iniziato nel 2011.

1) I recenti sviluppi nella zona sotto il controllo governativo e il Sud del paese:

Russia e Israele in Siria

Con lo Stato d’Israele il 18 febbraio 2021 il presidente Bashar al-Assad ha raggiunto un’intesa relativa allo scambio di prigionieri, un israeliano e due siriani, in conseguenza di negoziati condotti dalla Russia. Secondo alcune fonti israeliane, inoltre, sempre nel mese di febbraio del 2021 il premier Benjamin Netanyahu e il presidente Vladimir Putin hanno tenuto colloqui telefonici nel corso dei quali Tel Aviv avrebbe chiesto a Mosca l’assistenza per le questioni “umanitarie” riguardanti la Siria. Poco dopo la notizia della liberazione degli ostaggi da entrambe le parti è stato anche comunicato che il consigliere per la sicurezza israeliano si era recato a Mosca per una visita diplomatica. Non si comprende bene se questo possa essere considerato un primo passo verso un tentativo di ristabilire un rapporto di fiducia con la Russia:

in realtà passare da intese a livello umanitario a possibili intese tra le due nazioni sul piano militare risulta a oggi molto difficile, considerata la presenza regionale iraniana nel conflitto alla base dei continui attacchi israeliani, prevalentemente raid missilistici, nei territori siriani come avvenuto di recente.

Il 22 aprile 2021 nel Sud di Israele è esploso un missile terra-aria al quale Tel Aviv ha risposto con il lancio di raid aerei contro obiettivi in prossimità della capitale Damasco come aveva già fatto in passato: l’attacco siriano poiché realizzato in un’area vicino al reattore nucleare di Dimona aveva suscitato preoccupazione nello stato israeliano.

Successivamente però è stato accertato che il missile proveniente dalla Siria non era frutto di un intervento militare deliberato contro il territorio israeliano ma si trattava – secondo “The Time of Israel” – di un missile antiaereo vagante lanciato come reazione contro un caccia israeliano, durante uno scontro aereo tra i due paesi avente a oggetto alcuni obiettivi nelle Alture del Golan. Inoltre è stato successivamente precisato che il missile non ha colpito il reattore, avendo interessato un’area a 30 chilometri di distanza dallo stesso.

Iran e Israele in Siria

Le tensioni tra Israele e Iran si sono intensificate recentemente sia a causa della decisione iraniana di proseguire le ricerche del processo di arricchimento dell’uranio al 60 per cento – il livello più elevato finora raggiunto – sia per l’incidente presso l’impianto nucleare iraniano a Natanz del quale Israele ritiene responsabile l’Iran. In precedenza, Israele nel conflitto siriano si è più che altro resa responsabile di attacchi missilistici contro il gruppo libanese Hezbollah – alleato dell’Iran – cercando in ogni modo di evitare l’inserimento iraniano nelle fazioni militari presenti nel territorio siriano.

Israele percepisce l’Iran come una minaccia alla propria esistenza nell’area mediorientale. Le dichiarazioni del capo di stato maggiore dell’esercito israeliano Aviv Kochavi rilasciate nel 2021 e riprese da Reuters, sono state chiare: «Gli attacchi missilistici israeliani nel 2020 sono riusciti a evitare il trinceramento dell’Iran in Siria, ma abbiamo ancora molta strada da fare».

Il ministro degli Esteri iraniano ha replicato che Teheran continuerà la sua politica di resistenza contro il potere statunitense e israeliano nella regione mediorientale.

Dal 2020 a oggi gli attacchi israeliani, tuttavia, non si sono più limitati alle Alture del Golan o nella parte della Siria meridionale – al confine con lo Stato d’Israele – o vicino Damasco ma, come vedremo, anche verso Nordovest contro la città di Aleppo, quella di Hama, al confine con l’Iraq, e a Homs. Un esempio di questo espansionismo militare israeliano è l’attacco missilistico dello scorso 5 maggio verso Latakia.

Va invece qui menzionato l’attacco avvenuto 24 ore dopo, ossia il 6 maggio 2021, da parte di Israele contro il governatorato di Quneitra a Sudovest della Siria: gli obiettivi del raid israeliano, secondo gli attivisti umani presenti nella zona, sarebbero state le postazioni e le truppe a sostegno del governo di Assad.

L’Isis invece è riuscito a stabilire nel 2021 una sua roccaforte nella regione di Badia collocata in una zona desertica che va dal Sudest al Nordest del Paese difficilmente raggiungibile da carri armati o aerei da guerra da parte delle forze lealiste che proprio da qui subiscono gli improvvisi attacchi del gruppo terrorista.

2) I recenti conflitti nella Zona a Nord e Nordovest del paese:

Accordi e interessi contrastanti nel Gruppo di Astana

Il 5 maggio del 2021 le forze di difesa siriane hanno intercettato un attacco missilistico di Israele contro diverse aree a nordovest della Siria, e uno dei missili, ha causato un morto e sei feriti. L’esercito siriano ha dichiarato di essere riuscito ad intercettare più missili israeliani. Più precisamente alcuni di questi hanno colpito la città di Latakia, Hifa e quella di Maysaf. Secondo alcune fonti delle intelligence occidentali l’intento di Israele sarebbe quello di colpire obiettivi legati all’Iran e presenti in Siria. L’Iran infatti sostiene le milizie di Hezbollah che in Siria controllano non solo le aree meridionali e orientali, le zone di frontiera tra Siria e Libano e alcune aree intorno a Damasco, ma anche zone a Nordovest. A loro volta i militanti di Hezbollah sostengono le forze militari del regime di Assad.

La Russia già nel 2020 si è assicurata una presenza importante nel porto siriano di Tartus e ha mantenuto il suo quartier generale presso l’aeroporto tra Jabla e Latakia, ma deve prestare attenzione continuamente al suo alleato (vedi processo di Astana) e, allo stesso tempo, rivale turco in quanto milizie filoturche in Siria sono di fatto fortemente contrastate dalle forze siro-iraniane e da quelle russe.

Nell’area, a causa della scarsità di risorse finanziare, determinata dalla crisi economica sono diminuite le risorse a disposizione anche del governo di Damasco che si è fortemente indebolito. Tale indigenza ha prodotto delle conseguenze anche sul piano militare determinando una temporanea interruzione dell’intervento delle forze lealiste verso le altre zone (Nordovest e Nordest) che ancora sfuggono al controllo di Assad. Non solo, ma la zona è stata interessata dall’accordo del 5 marzo del 2020 tra Turchia e Russia che ha stabilito il “cessate il fuoco” nella provincia di Idlib e una zona “cuscinetto” – pattugliata dalle forze militari di entrambi i paesi – lungo l’autostrada M4 che congiunge Aleppo a Latakia. Tuttavia nel febbraio del 2021 ancora non era stata riaperta la strada internazionale M4 e i pattugliamenti russi e turchi sono stati spesso ostacolati da gruppi militanti locali costituiti anche da alcuni gruppi jihadisti legati ad al-Qaeda.

Il nodo jihadista

In conseguenza di tale accordo infatti si è sollevata una parte della popolazione locale che teme un’ulteriore avanzata delle forze lealiste nell’area; invece la coalizione filoturca del Fronte Nazionale per la Liberazione componente dell’Esercito nazionale siriano ha sostenuto l’accordo. Tuttavia, non sono mancati anche gli scontri diretti tra Russia e Turchia come quello compiuto nella giornata del 26 ottobre del 2020 dal governo siriano di Damasco e dalla Russia in una zona al confine tra Siria e Turchia, più precisamente nell’area di Jabal al Dweila nella quale moltissimi siriani sfollati si erano rifugiati.

Alla base della decisione dell’attacco vi sarebbe la volontà di Mosca di colpire uno dei principali gruppi armati sostenuto da Erdoǧan con un intento chiaramente ammonitivo nei confronti della Turchia.

Médecins sans frontières ha dichiarato tale evento fortemente preoccupante per i 78 morti e i numerosi feriti e per il fatto che l’attacco sia stato compiuto in una zona relativamente sicura che tuttavia già il 21 ottobre 2020, era stata oggetto dei bombardamenti in particolare nei villaggi di al-Magarah e di al-Rami occupati dal gruppo islamista militante Hts ossia Hayat Tahir al-Sham – un tempo legato ad al-Qaeda e, come detto sopra, dal Fronte nazionale di liberazione.

Quello del 26 ottobre è stato l’attacco più violento dall’entrata in vigore del cessate il fuoco nel marzo dello stesso anno. Anche nel marzo del 2021 sono aumentati in modo esponenziale gli attacchi da parte delle forze militari che sostengono il regime: in particolare è stato colpito un ospedale presso al-Atarib nei pressi di Aleppo, sono stati sferrati attacchi missilistici da parte dei russi, nella zona al confine con la Turchia, più precisamente in prossimità di Bab al-Hawa. Nel Nord della Siria al momento vi sono circa 60 postazioni militari turche stanziatesi sul territorio proprio in conseguenza dell’intesa tra Mosca e Ankara, in particolare a Idlib, ad Aleppo, a Hama e anche a Latakia.

Va precisato che nell’area l’Hts ha un ruolo prevalente e, dopo alcune tensioni con le forze militari turche, ha adottato un atteggiamento maggiormente distensivo nei confronti della Turchia non manifestato da parte di altri gruppi ancora affiliati ad al-Qaeda in particolare dal gruppo Tanzim Hurras al-Din che invece ha abbandonato l’Hts. Tali gruppi jihadisti estranei a Hts sono divenuti autori di diversi attacchi nell’area Nordovest del paese sia contro le truppe turche che contro quelle russe. In risposta il gruppo Hts nel 2020 ha sferrato una violenta offensiva contro il gruppo Tanzim Hurras al-Din e gli altri gruppi affiliati ad al-Qaeda.

Anche nel 2021 il gruppo HTS ha continuato a colpire le cellule di al-Qaeda presenti nel paese cercando di consolidare maggiormente la propria posizione nella provincia di Idlib, sia per assicurarsi il riconoscimento del ruolo di valido interlocutore locale da parte della Turchia, sia per dimostrare chiaramente di prendere le distanze dagli atti violenti compiuti dai militanti jihadisti d’ispirazione qaedista anch’essi nell’area.

Tuttavia il 12 aprile 2021 le forze militari siriane insieme a quelle russe hanno lanciato decine di raid dalla mattina contro le postazioni del sedicente Stato Islamico: in particolare a Nordovest nelle regioni di Hama e Aleppo. È dall’inizio del 2021, infatti, che l’organizzazione terroristica IS ha continuato ad attaccare l’esercito governativo causando vittime tra le milizie locali e, nonostante le attività di reazione militare poste in essere da Damasco e Mosca, le cellule del sedicente Stato Islamico continuano a permanere nel territorio siriano a Nordovest in particolare nei governatorati di Hama e Homs ma anche, come vedremo in seguito, a nordest a Raqqa e Dayr az Zawr.

Va precisato che l’offensiva delle forze governative e russe nel Nordovest si è verificata in conseguenza di un rapimento di 19 siriani, 11 civili e 8 agenti di polizia, in seguito a un attacco dell’IS, il 16 aprile del 2021 nella regione di Hama, mentre altre 40 persone risultano al momento disperse.

Gli scontri caratterizzati da lancio di missili e attacchi aerei dei gruppi armati locali quali Russia, Turchia, Hts (IS) e gruppi legati ad al-Qaeda continuano quindi a mettere a dura prova la popolazione civile.

3) I recenti conflitti nella Zona a Nordest del paese:

Zona controllata dai curdi: Pyd, Ypg/Ypj, Fds

L’area del Nordest è governata dall’Amministrazione autonoma del Partito dell’Unione democratica curda (Pyd) la cui ala militare è rappresentata dall’Ypg/Ypj, ossia dall’Unità di protezione popolare. Come accennato, in quest’area, più specificatamente nella parte compresa nella regione desertica della Badia, sono fortemente presenti le forze del sedicente Stato Islamico autrici di continui attacchi contro le Forze democratiche siriane (Fds), coalizione a guida statunitense comprendente le milizie governative ma soprattutto le forze curde dell’Ypj/Ypg.

L’IS in questo periodo sta portando avanti una guerriglia sia con le Sdf che contro le milizie filogovernative cercando in ogni modo di destabilizzare l’area e dimostrare che il regime non ha il controllo del territorio. Tuttavia, a marzo del 2021 alcuni jet russi hanno bombardato delle postazioni del sedicente Stato Islamico nella campagna di Hama, e nelle aree desertiche nelle quali il gruppo estremista è stanziato da diverso tempo, mentre lo scorso aprile un raid areo russo ha causato la morte di 200 terroristi nella regione.

Altra formazione estremista jihadista dell’area è il succitato gruppo legato ad al-Qaeda Tanzim Hurras al-Din responsabile nel 2021 di un’offensiva militare ai danni delle milizie russe nella campagna di Raqqa. Infine, sempre nel Nord-Est è divenuta preponderante la presenza della Turchia che ha stretto sotto il proprio controllo alcune importanti città precedentemente sotto l’amministrazione autonoma, come quella di Afrin, e che ostacola militarmente le forze dell’Ypj/Ypg per la loro attiguità con l’ideologia del Pkk – Partito dei lavoratori del Kurdistan – qualificato dalla Turchia ma anche da Stati Uniti e Unione Europea come organizzazione terroristica.

United States are back

Rispetto agli Usa va ricordato che la prima operazione militare del neoeletto presidente Biden nel 2021 è stata quella in Siria del 25 febbraio contro le postazioni delle milizie filoiraniane al confine con l’Iran; il Pentagono ha dichiarato che l’azione militare è stata compiuta come reazione al raid missilistico del 15 febbraio che ha ucciso un contractor e ha ferito militari statunitensi negli avamposti americani del Kurdistan iracheno, azione che sarebbe stata rivendicata da una milizia irachena legata all’Iran. Il Pentagono ha poi riferito che il presidente agirà nell’area per proteggere il personale della coalizione americana.

Il ritiro delle truppe statunitensi dalla Siria, fortemente promosso dall’amministrazione Trump è in fase di arresto con Biden.

Come nel caso dell’amministrazione Trump, Biden però non intende prendere parte alla destituzione del regime che garantisce la stabilità nell’area mediorientale, quindi da un lato gli Stati Uniti continuano a bloccarlo economicamente per indebolirlo, attraverso l’applicazione delle sanzioni Caesar, dall’altro danno la possibilità ad Assad attraverso la Russia di uscire dal conflitto, sempre tenendo sotto controllo Teheran e il programma sul nucleare.

Rojava e Kurdistan iracheno

Gravi tensioni si sono registrate nella zona del Nordest nello scorso anno, con l’accerchiamento delle città di al-Qamshli e di al-Hasaka, da parte delle Forze Democratiche, già sotto il controllo dell’Amministrazione autonoma curda, disconosciuta da Damasco e guidata dal Democratic union party (Dup). Nell’area persistono anche nel 2021 violenti scontri tra le milizie filogovernative ossia le Forze nazionali di difesa (Ndf) con le Forze democratiche siriane (Fds) a maggioranza curda.

Occorre altresì tener conto degli attacchi tra le Fds e le milizie filoturche: le Fds temono che la Russia e il regime possano giungere a un accordo che implichi la loro espulsione dalla zona. In particolare, il 20 aprile 2021 un veicolo delle Ndf è stato attaccato dalle forze di sicurezza curde Asayish (forze di sicurezza della coalizione delle Fds) e gli scontri si sono protratti in modo così violento da richiedere l’intervento della Russia come mediatore.

Il 26 aprile è stato quindi raggiunto un accordo secondo il quale le forze curde Asayish sono riuscite a ottenere l’allontanamento delle Ndf filogovernative da alcuni quartieri delle città di al-Qamshli e al-Hasaka nelle quali comunque il potere è ancora ripartito tra il regime di Assad e le Fds.

Il 5 marzo 2021 il Ministero della Difesa americano ha dichiarato che la presenza militare russa in Siria viola «il meccanismo di distensione del conflitto» non attenendosi agli accordi stretti con la colazione delle Fds per il contenimento degli scontri nell’area. Ciò risulta particolarmente pericoloso in quanto già nel 2020 si era giunti a uno scontro diretto tra militari russi e statunitensi. Alle accuse portate avanti dal Ministero della Difesa Usa tuttavia la Russia ha risposto affermando che la presenza militare statunitense nel Nordest del paese è illegale e ha dichiarato che «Washington non ha il diritto di criticare l’attività militare legale delle forze armate russe in Siria» in quanto operano «in accordo con il governo del paese».

Ultima questione da analizzare nell’area è quella del campo di al-Hawl nel Nord della Siria al confine con l’Iraq nel quale vivono circa 70.000 persone tra cui circa 11.000 familiari di presunti membri dell’IS: al momento 50.000 membri delle Forze curde sono impegnate in un’operazione di sicurezza volta ad arrestare sostenitori dell’IS nel campo profughi di al-Hawl.

Russia vs. Turchia / Iran vs. Israele

In conclusione le nuove situazioni che oggi preoccupano maggiormente sono: il possibile definitivo deterioramento dei rapporti tra Russia e Turchia rivali tra di loro ma finora sempre scesi a patti; tuttavia, dallo scorso anno i rapporti tra le due potenze si sono resi sempre più logori anche perché la Turchia ha deciso di assumere un ruolo strategico anche in Ucraina contro le milizie filorusse. Se nell’ultimo periodo Mosca aveva annunciato la riapertura dei valichi di frontiera tra le zone sotto il controllo dell’opposizione e quelle sotto il controllo del regime, per alleviare anche la crisi economica in cui si trova il paese, la Turchia ha smentito seccamente tali dichiarazioni.

Altro problema è il possibile affronto militare diretto tra Iran e Israele.

lo scontro tra i due paesi si è ulteriormente esacerbato come abbiamo visto dopo il ritrovamento del missile a Dimona nel quale si trova l’impianto nucleare israeliano. Infine, il governo è ormai arrivato a un tal punto di dipendenza sia dalla Russia che dall’Iran che sarà difficile continuare a sostenere le spese derivanti da tale sostegno in ambito militare, finora mantenuto grazie alla presenza di posti di blocco che estorcono denaro alla popolazione locale senza prospettare un sistema di erogazione di risorse pubbliche a beneficio dei principali alleati nel conflitto.

Un’altra Primavera?

Rispetto a quanto finora riportato si può affermare dunque non solo che il conflitto è tutt’altro che concluso ma che tra circa un decennio si potranno presentare nuovamente i moti del 2011, data la condizione nella quale si trova attualmente il paese: a protestare saranno individui nati e cresciuti durante il conflitto armato, vissuti in condizioni di indigenza, e che non hanno avuto acceso ad alcun tipo d’istruzione.

 

una nuova Primavera araba?

Una generazione abituata a combattere e sopravvivere (foto Mohammad Bash).

Appare così inevitabile prima o poi lo sgretolamento effettivo del regime oggi fortemente depotenziato e tenuto in vita da altre forze internazionali e regionali.

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Hamas, il principe di Gaza https://ogzero.org/hamas-il-principe-di-gaza/ Mon, 17 May 2021 00:41:29 +0000 https://ogzero.org/?p=3496 La tempesta perfetta per israeliani e palestinesi. Un’analisi dell’organizzazione al comando nella Striscia e del vantaggio che ne trae la destra israeliana Due forze di destra ultraconservatrice, entrambe sostenute dalle rispettive superstizioni confessionali nelle frange più estremiste, si confrontano legittimandosi a vicenda. Abbiamo chiesto ai sodali di “Atlante delle guerre” di riprendere l’articolo di Eric […]

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La tempesta perfetta per israeliani e palestinesi.

Un’analisi dell’organizzazione al comando nella Striscia

e del vantaggio che ne trae la destra israeliana

Due forze di destra ultraconservatrice, entrambe sostenute dalle rispettive superstizioni confessionali nelle frange più estremiste, si confrontano legittimandosi a vicenda.

Abbiamo chiesto ai sodali di “Atlante delle guerre” di riprendere l’articolo di Eric Salerno publicato il 15 maggio per arricchire il nostro Studium sulle Terre resistenti e la comunanza tra le realtà oppresse intorno al Mediterraneo risulta sempre più valido. Quello che ci è sembrata una sorta di cancrena, che continua a riproporsi da più di trent’anni di impunità sancita dal blocco di ogni organismo di controllo, è dimostrata dagli articoli scritti da Eric a suo tempo – e qui riprodotti – che fotografano esattamente il momento in cui è scattata la trappola.

Trentaquattro anni fa la popolazione della Striscia era un quinto dell’attuale e l’estensore dell’articolo era già stupito della densità e della precarietà della condizione delle esistenze in quell’inferno, che già nel 1987 era chiaramente inquadrato come un sistema di apartheid («Qui siamo come a Soweto»), ma “la bomba a orologeria” è stata fatta brillare più volte senza fare danni, se non riducendo diritti, producendo vittime palestinesi e mettendo le radici di quella società bi-etnica che ora anima la guerra civile in corso nelle città israeliane abitate da arabi ed ebrei.

Eric Salerno, “Il Messaggero”, 1° giugno 1987

Non è peregrino che il titolo alluda a Belfast, come vedremo nel prosieguo del dossier sulle Terre resistenti

Oltre alla società bi-etnica i Servizi israeliani hanno scientemente messo le radici per costruire il nemico adatto, quell’avversario strategicamente perfetto che consente di rimanere impuniti anche a fronte di qualsiasi nefandezza. Il Golem però potrebbe rivelarsi esiziale, come nel mito ebraico?


Machiavelli, quel nostro principe che amava raccontare e suggerire gli intrighi più complessi, si sarebbe divertito a guardare il conflitto israelo-palestinese e le palesi contorsioni di alcuni suoi protagonisti che gli osservatori non solo italiani, spettatori sempre più relegati al ruolo di commentatori inutili, non sembrano capaci – o non vogliono? – denunciare. Eppure quello che si svolge davanti ai nostri occhi ricalca un nostro – antico romano e non italico – progetto: Dīvĭdĕ et ĭmpĕrā. Il modo migliore per controllare un popolo è dividerlo, provocando rivalità e fomentando discordie.

Hamas, che in queste ore, è nell’obiettivo dei bombardieri israeliani, deve molto a Israele. Per almeno dieci anni, tra il 1978 e il 1987, il movimento fondamentalista, costola dei Fratelli musulmani egiziani, è riuscito a sviluppare nella striscia di Gaza una base formidabile di consensi, grazie anche ai servizi segreti di Tel Aviv. Gaza, allora, era territorio occupato come la Cisgiordania. Nella striscia si erano istallati undicimila coloni israeliani tra i più radicali. Protetti da un apparato militare imponente la cui amministrazione vedeva di buon occhio l’avvento di un movimento islamico religioso come contraltare ai laici dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp) guidata da Yasser Arafat e tendente a sinistra. Un funzionario israeliano, intervistato nel 2009 dal “Wall Street Journal”, raccontò molto di quell’operazione che, spiegò, appariva convincente ma che si sarebbe dimostrato, «per molti di noi», un errore. O no?

Tel Aviv vedeva nel leader del movimento, il paraplegico Sceik Yassin, un uomo di fede da contrapporre all’Olp. La sua “Mujama”, una organizzazione caritatevole con scuole, cliniche, una biblioteca e una università, poteva alleggerire la pressione sugli occupanti e ridurre la tensione che rischiava di esplodere. «Se fossi nato e cresciuto qui – mi disse allora Giulio Andreotti durante una visita nella Striscia – diventerei un terrorista». Tornai a Gaza appena scoppiata la prima Intifada e vi incontrai i leader di Hamas che erano usciti allo scoperto aggiungendo alla loro attività di assistenza sociale una Carta intrisa di antisemitismo e votata alla distruzione di Israele.

Eric Salerno, “Il Messaggero”, 9 gennaio 1988

Dopo Oslo

Poi vennero gli accordi di Oslo (agosto 1993), la bozza di pace firmata da Rabin, Peres e Arafat sotto gli occhi di Clinton sul prato della Casa bianca. Il mondo esultò. O quasi. I ricordi sono sempre utili: ne ho uno di quel pomeriggio, dopo la firma, particolarmente significativo. Ero presente al ricevimento offerto dall’ambasciata israeliana per i suoi leader e i giornalisti accreditati in Israele. Un giornalista ebreo americano, molto noto per le sue posizioni, affrontò Rabin con un’accusa: «Come hai potuto fare questo a noi!». Pace sì, voleva, ma senza i palestinesi. Anche Hamas voleva la pace, ma senza gli israeliani. E lo fece capire diventando sul piano militare la più grossa minaccia all’occupazione israeliana. E alla credibilità di Arafat, in quegli anni chiuso nella sua fortezza di Ramallah circondato dalle forze israeliane e che lasciò per farsi curare in Francia e dove tornò per essere sepolto. E con lui gli accordi che aveva firmato a Washington e che non piacevano al centro-destra israeliano o, direi, alla maggioranza degli israeliani.

Rabin (paragonato a un traditore anche da Netanyahu) venne assassinato e le sue ceneri riportarono al potere i discepoli di Jabotinsky, sionista di estrema destra, discepolo-protetto di Mussolini. 

Vladimir “Ze’ev” Jabotinski

E torniamo a Gaza. A Hamas. Ariel Sharon, ex generale diventato politico, responsabile (quanto meno indirettamente) dei massacri nei capi palestinesi di Sabra e Shatila (Beirut) da premier si lanciò in ciò che poteva apparire come un passo avanti verso la fine dell’occupazione israeliana dei Territori. «Lasciamo Gaza, – annunciò al mondo, – via le nostre truppe e via gli undicimila coloni con i loro insediamenti».

Abu Mazen, il successore di Arafat, si congratulò ma, quasi in ginocchio, esortò Sharon a concordare con lui il ritiro per consentire all’Autorità nazionale palestinese e alla nuova politica del dialogo di guadagnare punti invece di far apparire il ritiro come una vittoria della lotta armata, o terrorismo, portata avanti con fervore dai militanti di Hamas. La risposta fu un netto rifiuto. E alla elezioni successive in Palestina, le ultime [14 anni fa], Hamas vinse non soltanto a Gaza ma anche in molti centri abitati della Cisgiordania compresa la capitale, Ramallah.

Israele non ha mai voluto distruggere Hamas. Probabilmente dopo aver ridotto per l’ennesima volta il suo potenziale militare, la lascerà ancora viva.

E con i palestinesi sempre più disperati e divisi, i vari Netanyahu continueranno a imperare.

Der Golem

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I francesi non se ne sono mai andati dal Sahel. Parte 1 – Il Ciad prima di Déby https://ogzero.org/il-sahel-e-in-ebollizione-i-francesi-non-se-ne-sono-mai-andati-dal-sahel-parte-1-il-ciad-prima-di-deby/ Mon, 03 May 2021 08:56:24 +0000 https://ogzero.org/?p=3299 Inauguriamo con questo intervento di Eric Salerno, e con il successivo di Angelo Ferrari, cui si aggiunge un podcast finale che raccoglie un’analisi di Luca Raineri, una serie di articoli imperniati sul Ciad e la sua importanza per la regione del Sahel.  Le strategie neocoloniali si sono adeguate subito all’emancipazione africana che nel 1960 portò […]

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Inauguriamo con questo intervento di Eric Salerno, e con il successivo di Angelo Ferrari, cui si aggiunge un podcast finale che raccoglie un’analisi di Luca Raineri, una serie di articoli imperniati sul Ciad e la sua importanza per la regione del Sahel. 

Le strategie neocoloniali si sono adeguate subito all’emancipazione africana che nel 1960 portò all’indipendenza di 17 nazioni, dopo il processo di decolonizzazione seguito alla Seconda guerra mondiale. A sessant’anni di distanza la reazione alle richieste di autodeterminazione rimangono invariate: repressione attraverso governi-fantoccio di leader militari addestrati in accademie, installati al potere con lo scopo di depredare le risorse del territorio; appoggio dei conflitti etnici, che spesso nascondono strutture economiche in competizione per le stesse risorse della terra. Il Sahel è in ebollizione e la morte improvvisa di Idriss Déby, il gendarme di Francia usato negli ultimi 30 anni da tutti gli inquilini dell’Eliseo per interventi militari in tutta l’area, crea ulteriori tensioni, ribellioni e istanze anticoloniali. 


Il cuore della Françafrique

Tessalit è adagiato su un pendio che dal Sahara algerino scivola dolcemente verso il cuore del Mali. Nel 1969 le poche casupole di fango impastato circondate dalle acacie in fiore (mimose che si difendono con spine capaci di forare pneumatici) ruotavano attorno alla vecchia caserma della Legione straniera francese. Il suo comandante, un giovane ufficiale, ci accolse con tè e biscotti, un giradischi impolverato, tanti 33 giri di musica classica e la realtà di un mondo in transizione. Mezzo secolo dopo, quel mondo è ancora alla ricerca della sua vera identità. È Storia o soltanto cronaca quella degli ultimi cinquanta anni che si ripete mentre la maggioranza degli osservatori si concentra sul presente e guarda nell’attesa del nuovo il futuro sempre incerto? La scienza ha fatto balzi incredibili. Il mondo si è aperto come mai nella storia dell’umanità era accaduto. E, purtroppo, sbagliamo se crediamo che vecchie abitudini possano sparire con la stessa velocità.

Tissalit 1969

Dall’emancipazione panafricanista dei padri dell’indipendentismo (1960)…

Quellufficiale era arrivato a bordo di un fuoristrada di fabbricazione sovietica ad accogliere i quattro viaggiatori italiani che attendevano davanti al suo ufficio che era anche il suo domicilio. Era tirato a lucido. Indossava una divisa appena stirata. Lui, il capitano, era responsabile del “governatorato” nel quale ci trovavamo. Il suo francese era perfetto. Aveva studiato a Bamako, la capitale. Poi il servizio militare e l’accademia militare di St. Cyr in Francia, il luogo in cui i colonialisti, un po’ snob, avevano forgiato gli uomini in divisa che avrebbero dovuto guidare l’Impero. Il Mali, però, aveva scelto una strada autonoma. Il suo leader, Modibo Keïta, come molti altri padri della nuova Africa indipendente, si era appoggiato a sinistra, prima all’Urss, infine alla Cina. Lui, il capitano, era appena tornato da Mosca, l’ultima tappa nel suo percorso ma, ci confidò, preferiva St.Cyr. Si parlò più dell’Europa che del Mali e l’indomani ci chiedemmo per quale motivo l’ufficiale era sembrato restio a discutere le vicende del proprio paese. Qualche settimana dopo il nostro rientro in Italia, viaggio di piacere non di lavoro, lo ritrovai fotografato su un’altra jeep mentre sfilava a Bamako, la capitale del Mali. Un colpo di stato militare, caldeggiato da Parigi, aveva cambiato le carte in tavola.

… alle controrivoluzioni fomentate nelle accademie militari neocoloniali (fine anni Sessanta)

Sono oltre trenta le nazioni africane che hanno avuto, o hanno ancora, leader usciti dai ranghi delle forze armate. St. Cyr, era l’accademia dei francofoni; Sandhurst quella per la formazione iniziale degli ufficiali dell’esercito britannico. Felix Malloum, presidente e primo ministro del Ciad dal 1975 al 1978, era un prodotto dell’accademia militare francese, il suo “vicino” a nord, Muammar el Gheddafi di quello britannico. Jean-Bedel Bokassa, uno dei peggiori dittatori nella storia del continente, imperatore della Repubblica centrafricana, a sud del Ciad, aveva alle spalle una lunga carriera militare con le forze armate francesi. E merita di essere ricordato il sottufficiale Idi Amin Dada, che grazie a Gran Bretagna e Israele rovesciò con un golpe il progressista Milton Obote. Amin e Bokassa, re e imperatore, vengono spacciati per espressioni di unAfrica senza cultura. Invece sonoFigli della vecchia Europa: il titolo su un mio articolo del dicembre 1976 che cito solo per sottolineare come il mondo allora era consapevole dei giochi delle vecchie potenze. Tanto che a Parigi due anni dopo, Germania, Belgio e Gran Bretagna – ex potenze coloniali –- e Stati Uniti fecero capire senza mezzi termini che non si fidavano della politica di Valéry Giscard d’Estaing, come se loro fossero espressione di un mondo migliore.

Il conflitto etnico: l’altra faccia del neocolonialismo

Il Sahel è in ebollizione

Goukouni Ouaddei, presidente del Ciad dal marzo all’aprile 1979 e dal settembre 1979 al giugno 1982 non ha mai indossato la divisa. Rappresentava, però, un’altra realtà fondamentale del continente africano: il conflitto etnico, risultato in gran parte della politica coloniale e dai confini decisi a tavolino in Europa.

La prima volta che lo incontrai fu in una camera buia di un albergo di Tripoli dove godeva della protezione del leader libico e si preparava a tornare in patria. Aveva appeso alla parete una cartina del suo paese e mi spiegò la complessità della situazione geopolitica.

Il Sahel è in ebollizione

Goukouni Ouaddei illustra mappe rappresentanti le spartizioni del Sahel nel 1981. Non cambia molto

La geografia di ieri è la stessa di oggi. La politica, in qualche modo, pure. L’avrei rivisto, quel “protetto” del leader libico, a N’djamena dove nel 1981, ero arrivato dalla capitale libica a bordo di un aereo su cui avevano preso posto una manciata di giornalisti e una delegazione del governo di Tripoli che andava a festeggiare, diciamo così, il ritiro delle forze armate libiche dalla capitale ciadiana devastata dalla guerra.

“Il Messaggero”, 12 aprile 1981

Resistenza del Tibesti contro le appropriazioni coloniali: dai Senoussi (1935) ai Toubou (1973)

Per cercare di comprendere il passato, il presente e probabilmente il futuro, è fondamentale quella cartina appesa da Ouaddei alla parete della sua camera d’albergo. Lui, come mi raccontò allora, era figlio di Ouaddei Kichidemi, derde, ossia la maggiore autorità religiosa e politica dei Toubou del Tibesti, la vasta, impervia catena montagnosa che cavalca il confine tra Ciad e Libia. Là nacque l’ordine religioso dei Senoussi, la stessa che guidò la rivolta della Cirenaica contro il colonialismo italiano e che soffrì maggiormente per la violenza della repressione – genocidio – ordinata da Mussolini e perpetrata dal generale Graziani, criminale di guerra italiano.


Lo sceicco sulla forca

Si calcola che all’incirca ottantamila libici siano costretti a lasciare i loro villaggi per arrivare dopo una lunga peregrinazione, scortati dall’esercito, nei baraccamenti costruiti in pieno deserto, cinti di filo spinato e vigilati da postazioni armate. Le condizioni igieniche nei campi sono terribili, inoltre scarseggiano l’acqua e il cibo, tutto questo determina fra i deportati un altissimo tasso di mortalità. Alcune altre decine di migliaia di libici riescono a sottrarsi alla deportazione e si rifugiano in Egitto. La crudele strategia di Graziani funziona a meraviglia, alla fine della campagna “pacificatrice” la popolazione della Cirenaica si sarà ridotta di oltre un quarto.

Troncato con le reclusioni nei campi il nesso vitale fra i guerriglieri e la loro gente, Graziani può condurre la sua feroce offensiva. I reparti italiani e coloniali possono finalmente scorrazzare lungo le piste del deserto, sorvolate e sorvegliate, mitragliate e bombardate dall’aeronautica. Le oasi della resistenza vengono occupate l’una dopo l’altra. Eppure la resistenza rimane agguerrita e determinata. Di fronte allo spietato generale italiano si erge una figura destinata a entrare nella leggenda, quella di Omar al-Mukhtar, uno sceicco aderente alla confraternita senussita che comanda l’insurrezione armata in Cirenaica e si ritaglierà nella storia libica il ruolo di eroe nazionale.

Ma la sua determinazione non basta, le bande di al-Mukhtar possono ben poco contro un nemico che alla moderna organizzazione militare associa una brutalità medievale, un nemico che incendia i villaggi, avvelena i pozzi, sequestra i beni dei capi senussiti, bombarda l’oasi di Cufra, nido dei ribelli, ricorrendo addirittura a quegli stessi aggressivi chimici che pochi anni prima, sottoscrivendo un solenne patto internazionale, l’Italia si è impegnata a mettere al bando. Per impedire i contatti della guerriglia con il santuario egiziano, dove si rifugiano i ribelli e da dove arrivano aiuti e rifornimenti, viene costruita lungo la frontiera, nel deserto fra il mare e l’oasi di Giarabub, una barriera di filo spinato lunga 270 chilometri.

[Alfredo Venturi, Il casco di sughero, p. 80, Torino, Rosenberg & Sellier, 2020]

 

Nel 1935, come al solito, i padroni di allora – Italia e Francia – giocarono una piccola partita a Monopoli con la terra degli altri. Con un trattato che prese nome dai suoi firmatari, Mussolini e Laval, la Francia cedette all’Italia un pezzo della terra dei Toubou come premio per la partecipazione di Roma alla Prima guerra mondiale e, ancora più importante, alla rinuncia italiana a rivendicare come propria la colonia francese della Tunisia abitata da molti italiani. Nel 1955 re Idriss I “restituì” il territorio (114.000 kmq) alla Francia. Nel 1973, la Libia di Gheddafi pensando ai giacimenti di uranio e altri minerali rari nella striscia invase quel territorio e citando laccordo Mussolini-Laval, lo annesse nel 1976. Curiosamente tutte le fazioni ciadiane, per contestare le pretese libico, citarono il più vecchio accordo (1899) tra Francia e Regno Unito.

Il Sahel è in ebollizione

Fazioni ciadiane in Guerra per l’uranio delle potenze occidentali (1975)

E qui dobbiamo ritornare, appunto, alle fazioni ciadiane, alla decolonizzazione, alle rivendicazioni tribali e regionali, alle alleanze interne ed esterne. E al bottino. Goukouni Ouaddei entrò nel mondo politico come militante del Fronte nazionale di liberazione del Ciad (Frolinat) che rappresentava le istanze delle popolazioni delle zone centrali e nordiche contro la dominazione dei sudisti rappresentati dal presidente Francois Tombalbaye, considerato uno strumento dellegemonia politica di Parigi nel paese. Il suo assassinio nel corso di un golpe militare nel 1975 aprì ufficialmente, si potrebbe dire, la guerra per le risorse – ingenti depositi di petrolio e uranio – che avrebbero dovuto trasformare radicalmente l’economia del paese e le condizioni della sua popolazione.

Il Sahel è in ebollizione

Eric Salerno, L’intervento libico in Ciad, “Il Messaggero”, 16 gennaio 1981

Da allora gli attori esterni hanno dominato la scena in una competizione che ha visto anni di guerra civile e gli interventi diretti della Libia di Gheddafi e della Francia spesso a sostegno alternato dei medesimi attori interni.

Teatrino di fantocci incrociati (primi anni Ottanta)

Così nell’aprile 1981 ritrovai Goukouni Ouaddei in una N’Djamena devastata dalla guerra civile dove era tornato a riprendere il potere grazie all’apparato militare libico che aveva invaso il paese. L’altalena delle alleanze incrociate e degli interventi armati per “stabilizzare il Ciad”, come spiegarono Parigi e i suoi alleati occidentali e non solo, non si è mai fermata da allora.

Il Sahel è in ebollizione

“Il Messaggero”, 16 aprile 1981

 

Nel giugno 1982 senza le truppe libiche a sostegno, Ouaddei fu costretto (da vecchi alleati come Hissene Habrè, l’uomo su cui per un certo periodo la Francia aveva puntato) a tornare al suo albergo tripolino e ripresero i giochi. Nel 1984, per 48 ore, ci fu una nuova sceneggiata nella capitale libica. Gheddafi e un inviato speciale di Mitterand si misero alla ricerca di un “terzo uomo” da sostituire ai due vecchi attori. La cronaca di quegli anni è solo storia di scontri armati, follie politiche e diplomatiche e di una popolazione divisa dalle radici tribali, religiose ed economiche (pastori contro agricoltori) a cui non viene consentito di trovare una via pacifica verso il futuro.

Il Sahel è in ebollizione

Un paese poverissimo, gendarme francese: la caserma Ciad

Il Ciad oggi è ancora uno dei paesi più poveri del mondo. Il 42 percento della popolazione vive con meno di due dollari al giorno e secondo l’International Crisis Group, tra il 30 e il 40 per cento del bilancio annuale del paese viene destinato, guarda caso, alle spese militari. In questi giorni, dopo la morte di Idriss Déby Into, il cui ruolo di presidente è stato, per proclama dei militari, ereditato dal figlio, c’è un tentativo di mediazione da parte degli altri quattro paesi del Sahel (Mauritania, Burkina Faso, Mali e Niger) per trovare un punto d’incontro tra le tre correnti politico-militari su un possibile governo di unità nazionale. Un compito oggi probabilmente più difficile e complesso di ieri. Quella fascia del continente africano, come altre più a sud, è presa tra vari conflitti incrociati dove mai come prima l’Islam viene usato come arma di conquista e distruzione e nuovi attori, come la Cina e soprattutto la Turchia, guadagnano nuovi spazi e alleanze economiche e politiche.

 

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I francesi non se ne sono mai andati dal Sahel. Parte 2 – Il Ciad dopo Déby https://ogzero.org/l-immediato-futuro-del-ciad-i-francesi-non-se-ne-sono-mai-andati-dal-sahel-parte-2-il-ciad-dopo-deby/ Mon, 03 May 2021 08:55:10 +0000 https://ogzero.org/?p=3334 Proseguiamo dopo l’articolo di Eric Salerno con cui abbiamo inaugurato questa particolare attenzione sul passato, il presente e l’immediato futuro del Ciad, con questo punto sui dilemmi legati alla regione del Sahel redatto da Angelo Ferrari, con un podcast finale che raccoglie un’analisi di Luca Raineri.  Il Primo Maggio a Sarah, a 550 km dalla […]

L'articolo I francesi non se ne sono mai andati dal Sahel. Parte 2 – Il Ciad dopo Déby proviene da OGzero.

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Proseguiamo dopo l’articolo di Eric Salerno con cui abbiamo inaugurato questa particolare attenzione sul passato, il presente e l’immediato futuro del Ciad, con questo punto sui dilemmi legati alla regione del Sahel redatto da Angelo Ferrari, con un podcast finale che raccoglie un’analisi di Luca Raineri. 

Il Primo Maggio a Sarah, a 550 km dalla capitale, le forze di sicurezza hanno sparato contro una folla di manifestanti che stava protestando contro il Consiglio militare di transizione (Cmt) al potere in Ciad dalla morte del presidente Idriss Deby, uccidendo almeno 4 persone. La repressione violenta delle manifestazioni è stata criticata da alcuni tra i maggiori sostenitori del Ciad: la Francia, gli Stati Uniti e l’Unione africana (AU). Come già era successo in Sudan dopo la fine di al-Bashir, i ciadiani, stufi dell’arroganza dinastica dei militari filofrancesi, si sono ribellati  e le loro parole sono state raccolte da “AfricaNews”: «Non vogliamo che il nostro Paese diventi una monarchia», ha dichiarato un manifestante di 34 anni, Mbaidiguim Marabel. «I militari devono tornare in caserma per far posto a una transizione civile», ha aggiunto. «La polizia è arrivata, ha sparato gas lacrimogeni, ma noi non abbiamo paura», ha affermato Timothy Betouge, 70 anni. Ma il ruolo dell’unica nazione stabilizzata dall’autocrazia di Déby, fondata sull’esercito, è quello di gendarme per conto della Francia; mentre il suo destino è da sempre legato a quello della Libia e un accordo nel paese maghrebino può provocare squilibrio in Ciad, travasando ribelli e milizie.


Le Carte costituzionali della Françafrique

La democrazia in Africa balbetta. Non è certo una novità e molte repubbliche assomigliano sempre di più a delle monarchie dove il potere lo si assume per successione dinastica. L’ultimo caso è quello del Ciad. Nel giorno della proclamazione dell’ennesima vittoria – la sesta – alle presidenziali del padre padrone del paese, Idriss Déby, segue immediatamente l’annuncio della sua morte sul campo di battaglia. Il presidente-guerriero era al fronte per combattere i ribelli provenienti dalla Libia, il Front pour l’alternance et la concorde au Tchad (Fact). Una versione poco credibile, ma è quella ufficiale. Immediatamente viene formato il Consiglio militare di transizione (Cmt) al cui vertice sale, guarda caso, il figlio di Déby, Mahamat Idriss Déby. Già militare di carriera a capo della guardia presidenziale con esperienza di guerra in Mali, dove ha svolto l’incarico di secondo in comando delle forze speciali impegnate nel conflitto in Azawad. La presa di potere del figlio di Déby – perché di questo si tratta – viene giustificata per «assicurare la difesa del paese in situazioni di guerra contro il terrorismo e le forze del male, e garantire la continuità dello stato». La Costituzione del Ciad, così, diventa carta straccia. La Carta fondamentale prevede, infatti, che sia il presidente dell’Assemblea nazionale a dover subentrare al capo dello stato defunto e non il figlio. Le costituzioni in Africa hanno un valore relativo: si cambiano, si modificano o si stracciano a seconda delle esigenze del momento di chi governa. L’alternanza al potere, come si vede in maniera plastica in Ciad, risponde più al mantenimento di delicati equilibri politici e, a volte, etnici, ma anche internazionali. Il Ciad è considerato un alleato fondamentale della Francia – e dell’intero occidente – nella lotta al terrorismo che sta infestando l’intero Sahel. Quello ciadiano è l’unico esercito dell’area degno di questo nome. Déby padre – dopo la scoperta del petrolio – ha investito tutto sulla sicurezza costruendo un esercito efficiente con lui comandante in capo. Per la Francia perdere un alleato così prezioso nell’ambito dei paesi del G5 Sahel, sarebbe una catastrofe.

L’esercito più addestrato del Sahel sotto scacco di un gruppo ribelle del Tibesti

La morte di Déby, tuttavia, avrà delle conseguenze concrete su tutta l’area. Un Ciad instabile non giova a nessuno. E quindi si spiega un’alternanza al potere così forzata da scatenare le proteste della popolazione, che vive in condizioni molto precarie, e il silenzio della Francia. Non a caso il Ciad è da sempre considerato il braccio armato dell’occidente in un contesto tremendamente instabile come quello saheliano. Secondo Giovanni Carbone, responsabile del Programma Africa dell’Istituto per gli studi di politica internazionale (Ispi), ancora una volta, «così come era avvenuto per lo stesso Déby quando arrivò al potere nel 1990, è stato un movimento ribelle proveniente dal nord a cambiare le carte del potere a N’Djamena. Il Ciad è attorniato da contesti di instabilità e benché non fosse il fulcro della regione era un partner ricercato in virtù di una tradizione di impegno militare e di efficienza del proprio esercito. Il paradosso è che mentre N’Djamena è stata chiamata come elemento capace di contrastare Boko Haram e di sostenere il G5 Sahel, non è stata in grado di fermare questo gruppo ribelle», il Fact.

L'immediato futuro del Ciad

L’11 aprile, infatti – giorno delle elezioni presidenziali – il gruppo armato Fact ha attraversato il confine libico, entrando nel Nord del paese con un obiettivo chiaro: liberare il paese dalla dittatura di Déby. Il governo di N’Djamena ha riferito di «un’incursione di diverse colonne di veicoli pesantemente armati», respinta dall’aviazione ciadiana. Governo che ha condannato l’ennesimo tentativo «di destabilizzare il Ciad dalla Libia». Cosa analoga era accaduta all’inizio del 2019, quando i ribelli dell’Unione delle forze della resistenza (Ufr) lasciarono il Fezzan e, avanzando da nord, hanno cercato di arrivare alle porte della capitale del Ciad. A circa mille chilometri di distanza da N’Djamena, vennero fermati dai caccia dell’aviazione francese nell’ambito dell’operazione Barkhane. Oggi, tuttavia, occorre constatare che la Francia non ha intenzione di intervenire direttamente, almeno per ora.

Dirette conseguenze della smobilitazione annunciata delle milizie libiche?

Rimane l’incognita libica. La tregua raggiunta in Libia e il previsto ritiro dal paese di tutti i combattenti stranieri, solleva interrogativi sul futuro dei mercenari africani impegnati da anni nel conflitto libico. Secondo Claudia Gazzini, analista dell’International Crisis Group, sentita da “InfoAfrica”, sono «quattro i gruppi armati dell’opposizione ciadiana in Libia», complessivamente duemila uomini, «di cui più della metà ha combattuto per il generale Khalifa Haftar». Il Fact è in Libia da tanti anni, spiega Gazzini, e «tra fine 2018 e inizio 2019, quando Haftar è entrato nel sud della Libia, è passato dalla sua parte. La sua base era nella zona di Jufra, nel Sudovest libico». L’analista del Crisis Group, spiega che il Fact «ha attraversato il confine libico, è entrato nel Nord del Ciad, è arrivato a Zouarké e li si è fermato. I miliziani non sono entrati nelle cittadine dove ci sono le basi militari, non sono entrati a Wour, e quindi la forza militare ciadiana non è intervenuta».

L'immediato futuro del Ciad

Haftar, Emirates, Wagner: la smobilitazione spinge il Fact in Ciad

Ci sono stati due raid aerei e i ribelli hanno detto di non aver subito perdite, ma qui è difficile distinguere tra realtà e propaganda. Di sicuro, secondo Gazzini, «nessuno sembra particolarmente allarmato da questa avanzata, a differenza del 2019, quando ci fu l’incursione francese». Quale sia lo scopo del Fact, non è ancora chiaro. Rimane un’incognita. Di certo i combattenti di questo gruppo sono ben armati e con molta probabilità le armi sono di provenienza russa ed emiratina, non è un mistero, infatti, che a fianco di Haftar si sono schierati gli Emirati e il gruppo di mercenari russi della Wagner.

Il tema del rimpatrio dei mercenari africani, che hanno combattuto in Libia, nei paesi di origine non è da trascurare. L’incursione del Fact potrebbe avere il significato di contare, in futuro, nel riassetto del Ciad così da poter comprendere anche le milizie ribelli. Ma è solo un’ipotesi. Il non intervento occidentale, poi, potrebbe far pensare che si voglia aprire un negoziato, appunto, per includere i gruppi armati nel futuro Ciad, favorendo la smobilitazione degli stessi dalla Libia. Quindi un’incursione, in un qualche modo, se non incoraggiata, ma tollerata dall’occidente. La morte di Déby apre scenari, per ora, ancora sconosciuti. In questo quadro la smobilitazione dei mercenari sudanesi, presenti in Libia, sembra essere più concreto, e già sta avvenendo, ma in Sudan è stato avviato un processo “democratico” che il Ciad non sta vivendo e, soprattutto, Déby ha sempre considerato i gruppi ciadiani in Libia e gli oppositori come dei veri e propri terroristi. Infatti, il Consiglio militare si è rifiutato di negoziare con il Fact. Insomma, un bel rompicapo.

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In questa fase transitoria non potevano mancare le proteste per quello che in molti definiscono un colpo di stato, nonostante il figlio di Déby si affanni a parlare al paese e a nominare un primo ministro “laico”. Le proteste si sono concentrate, soprattutto, sul fatto che la Costituzione del paese sia stata completamente aggirata e poi, ovviamente, contro l’ingerenza della Francia negli affari del Ciad e contro la transizione. Mahamat Idriss Déby, intanto, ha nominato un primo ministro “civile”, Albert Pahimi Padacké, che è stato l’ultimo primo ministro del maresciallo Déby tra il 2016 e il 2018, poi si è dissociato dalla maggioranza e si è candidato come rivale, indipendente, del capo dello stato alle presidenziali dell’11 aprile. A Radio France International ha spiegato così questo cambio di rotta e l’accettazione dell’incarico: «Ci ho pensato – ha detto – ho esaminato le questioni che il nostro paese deve affrontare oggi. E mi sono detto che ci sono momenti della vita in cui devi accettare le sfide per il bene della tua gente». Di sicuro la nomina di Padacké, da parte del Cmt, dovrebbe servire a placare le proteste. Ma non è così. C’è da chiedersi se le manifestazioni – che hanno già provocato diversi morti, feriti e arresti arbitrari – si estenderanno anche in zone remote del paese e non solo nelle aree urbane.

A gettare scompiglio, poi, è arrivata la nomina, sempre da parte del Cmt, di un segretario personale di Mahamat. Si tratta di Idriss Youssouf Boy, un membro della stretta cerchia familiare. Militare, vicedirettore dell’Agenzia nazionale per la sicurezza e da poco nominato console in Camerun. Insomma, gli affari del Ciad si giocano tutti in famiglia.

Il giovane Déby, durante un messaggio rivolto alla nazione, ha giustificato la creazione dello stesso Cmt adducendo come principale motivazione le dimissioni del presidente dell’Assemblea nazionale che in base alla Costituzione avrebbe dovuto assumere le funzioni di capo dello stato.

Al di là della retorica contro i ribelli, definiti “forze del male”, Déby ha sostenuto che la preoccupazione principale del Cmt sarà quella di garantire la sicurezza e la coesione nazionale nella fase di transizione perché «la guerra non è finita e permane la minaccia di attacchi da parte di altri gruppi armati all’estero». Secondo Déby, il Consiglio militare di transizione non ha altro obiettivo «che garantire la continuità dello Stato, la sopravvivenza della nazione e impedire che sprofondi nel nulla, nella violenza e nell’anarchia». I membri della Cmt sono soldati «che non hanno altra ambizione che servire la loro patria lealmente e con onore».

Mahamat Deby ha poi ricordato la scelta di affidare il governo a una personalità civile, che guiderà un esecutivo di transizione che porterà avanti un’agenda imperniata su riconciliazione nazionale, pace, unità e solidarietà. «Questi valori così cari al nostro defunto presidente saranno testati e sanciti in un dialogo nazionale inclusivo che sarà organizzato durante questo periodo di transizione». Deby ha poi detto di aver assunto il ruolo di “garante” di questo dialogo, secondo «un preciso calendario che il governo sarà chiamato a elaborare». Nel suo discorso il nuovo leader del paese ha annunciato la creazione di un Consiglio nazionale di transizione, rappresentativo di tutte le province e di tutte le forze vive della nazione «per consentire il supporto legislativo dell’azione governativa e dare al paese le basi per una nuova Costituzione». L’obiettivo del processo «è consentire di organizzare quanto prima elezioni democratiche, libere e trasparenti. La democrazia e la libertà introdotte in Ciad nel 1990 sono e rimarranno valori irreversibili». Insomma, tutta retorica, per ora, e di certo la Costituzione non è più un riferimento per il rampollo di Déby padre.

Poi c’è il paese vero

L'immediato futuro del Ciad

Tessalit, 1969. Scatto di Eric Salerno

Poi c’è il paese vero. Quello che dagli equilibrismi internazionali non guadagna nulla, anzi. Il popolo, come spesso accade, è solo sullo sfondo. I dati non sono certo confortanti: l’indice di sviluppo umano è pari a 0,328, molto basso, e colloca il paese al 183esimo posto al mondo, il Pil pro capite è 709 dollari, il tasso di analfabetismo è del 65 per cento. La maggioranza di quasi 16 milioni di abitanti vive in condizione di povertà. Tutto ciò nonostante il paese viva, di fatto, sull’estrazione petrolifera. Un consorzio guidato dalla statunitense ExxonMobil ha investito 3,7 miliardi di dollari per sviluppare le riserve di petrolio a 1 miliardo di barili. Ma poi c’è Idjélé, una donna “robot”, con lo sguardo perso nel vuoto che per dodici ore al giorno, per miseri guadagni, colpisce con un pesante martello un pezzo di cemento per sminuzzarlo e poi rivenderlo. Questo avviene sotto il solo cocente con temperature che superano i 40 gradi.

Nel cuore di N’Djamena, lungo una strada senza ombra ai piedi dei moderni edifici della Cité internationale des affaires, decine di donne spaccano per 12 ore al giorno blocchi di cemento. Idjélé, 38 anni, ma ne dimostra 20-30 in più, ha il viso ricoperto da una polvere biancastra che arrossisce gli occhi, le labbra gonfie e screpolate per l’estrema stanchezza, le dita deformate e graffiate dalla sabbia che raschiano e setacciano per recuperare ogni sassolino ricavato dal blocco di cemento. Queste donne sono al centro di un circolo vizioso, se non tragico, dell’economia sommersa di questo Ciad classificato dall’Onu come il terzo paese meno sviluppato al mondo. Gli uomini comprano macerie nei cantieri demoliti e le rivendono a queste donne che si preoccupano di sbriciolarli per poi rivendere i sassolini ricavati a chi non può permettersi cemento puro o cemento armato, costoro li trasformano in mattoni e con un po’ di fango o cemento vi costruiscono i muri di una nuova casa. Idjélé, guadagna pochi centesimi di euro per ogni sacco di sassolini. Dare dignità a queste donne, tuttavia, non sembra essere nei piani del giovane Déby. Alla comunità internazionale interessa di più che il Ciad continui a svolgere il suo ruolo di stato forte nella regione del Sahel, il resto sono affari interni, compresa Idjélé.

L'immediato futuro del Ciad

N’Djamena, 2015

Proponiamo infine un intervento di Luca Raineri a Bastioni di Orione, trasmissione di Radio Blackout , del 24 aprile 2021, che analizza a sua volta la situazione geopolitica del Sahel, sottolineando le derivazioni economiche dei conflitti etnici e l’incremento della presenza militare europea nella regione – e italiana con il coinvolgimento in forze nella missione Takuba.

“Idriss Déby, un fils de pute, mais notre fils de pute”.

 

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n. 7 – Libano: dove tutto cambia perché nulla cambi https://ogzero.org/libano-dove-tutto-cambia-perche-nulla-cambi/ Sun, 02 May 2021 09:51:01 +0000 https://ogzero.org/?p=3278 Questo contributo di Fabiana Triburgo sulla questione migratoria analizza le condizioni alla base delle nuove rotte dal Medio Oriente e dal Nord Africa, tra instabilità politica, conflitti civili e l’eredità delle Primavere arabe e giungeremo al termine di questa sezione a un’analisi della normativa europea e delle alternative che potrebbero emergere da politiche più coraggiose […]

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Questo contributo di Fabiana Triburgo sulla questione migratoria analizza le condizioni alla base delle nuove rotte dal Medio Oriente e dal Nord Africa, tra instabilità politica, conflitti civili e l’eredità delle Primavere arabe e giungeremo al termine di questa sezione a un’analisi della normativa europea e delle alternative che potrebbero emergere da politiche più coraggiose e lungimiranti. Qui l’attenzione è focalizzata sul Libano: dove tutto cambia perché nulla cambi.


n. 7

I principali conflitti che attualmente interessano le migrazioni forzate e le prassi di esternalizzazione poste in essere dall’Unione Europea e dai singoli stati membri portano a una predeterminazione delle rotte dei migranti.

Quello che oggi è inevitabile chiedersi è se il nuovo Patto europeo sulla migrazione e l’asilo, proposto dalla Commissione UE, possa essere realmente considerato una soluzione della gestione del fenomeno migratorio o se invece vi siano soluzioni legali alternative maggiormente lungimiranti e coraggiose.  

«Non vogliamo finire come il Libano»

A un passo dalla guerra civile

Tra i richiedenti la protezione internazionale che negli ultimi dieci anni ho avuto la possibilità di ascoltare, collaborando con colleghi esperti in materia e lavorando per delle associazioni – alcune delle quali presenti al “Tavolo Nazionale Asilo” – sia per la ricostruzione della loro storia personale – finalizzata all’audizione dinanzi alla Commissione Territoriale competente – sia per la redazione dei ricorsi, in opposizione alle decisioni assunte dalle Commissioni, non ho mai incontrato un cittadino libanese. Non intendo con questo dire che in altre realtà lavorative sia necessariamente avvenuta la medesima circostanza, ma si può affermare che la nazionalità libanese non è di certo tra quelle maggiormente rappresentative del fenomeno migratorio verso l’Europa o quantomeno verso l’Italia. Tuttavia, si può dichiarare con sicurezza che tale situazione sia destinata a rimanere immutata nel tempo?

Da alcune stime infatti risulta che nel 2020 siano stati circa 45.000 i libanesi fuggiti dal paese prevalentemente in direzione di Cipro per poi ripartire, per via aerea, verso la Grecia o il Nord Europa.

Lo stallo politico e la crisi economica e sanitaria

Dall’analisi del contesto geopolitico in cui si inserisce il Libano e per alcune sue peculiarità come l’aumento, negli anni più recenti, di un già elevato numero di profughi di altre nazionalità che lo stesso paese accoglie e, soprattutto, data la condizione di forte instabilità – a un passo dal conflitto civile – nella quale oggi esso si trova, lo scenario potrebbe evolversi in altro modo. Infatti, a mio avviso, tra i paesi del Medio Oriente che nel lungo periodo potrebbero essere maggiormente interessati dal fenomeno dell’emigrazione verso l’Europa vi è anche il Libano, trovandosi attualmente in una situazione politica di stallo ma con questioni altamente difficili da superare quali quella di un’importante crisi economica finanziaria – la peggiore dalla guerra civile che ha interessato il paese dal 1975 al 1990 – con una conseguente svalutazione della lira libanese e la mancanza di possibilità di accesso ai beni di prima necessità nonché al carburante, risorsa  essenziale ai fini dell’erogazione dell’energia elettrica.

Non solo, il paese deve anche affrontare la diffusione esponenziale del virus pandemico del Covid-19 tra la popolazione, in una situazione sanitaria che può definirsi drammatica e precaria, peggiorata dall’esplosione del 4 agosto 2020 e che ha comportato un ingente numero di morti e di feriti, la carenza di strutture sanitarie preposte per il contenimento e la cura del virus – così come quelle di  altre patologie – nonché la distruzione  di edifici scolastici e di formazione, di esercizi commerciali e soprattutto di abitazioni, provocando un numero elevato di libanesi senza fissa dimora nonché il peggioramento della condizione di vita dei numerosi rifugiati che, come detto precedentemente, da anni il paese accoglie.

Il valore politico della demografia e le influenze esterne

Tra questi vi sono non solo i rifugiati palestinesi ma anche un milione e mezzo di siriani, numeri assai rilevanti a livello demografico considerato che la popolazione libanese si compone di circa 4.000.000 di abitanti. Rispetto ad altri paesi, il Libano però non ha vissuto nel 2011 una “vera Primavera araba”. Le mobilitazioni di allora, come detto, essenzialmente legate alla situazione economica disastrata – sofferta principalmente dalla popolazione – così come alla richiesta dell’applicazione di criteri democratici, nell’esercizio del potere da parte dei governi centrali, non aveva dieci anni fa ragion di esservi in Libano che, rispetto ai paesi coinvolti nei tumulti del 2011, godeva di un sistema economico e politico migliore dal punto di vista democratico, anche se comunque bisognoso di riforme urgenti e necessarie sulla ripartizione del potere politico-confessionale. Il Libano è infatti un paese eterogeneo che ha subito per molti anni e ancora oggi subisce le tensioni tra le varie comunità in esso presenti e possiede una posizione geopolitica rilevante nell’area del Medio Oriente. Questo spiega in gran parte perché alle rivendicazioni di ciascuna comunità, nel corso della storia, si siano sempre inserite le agende politiche di attori esteri come l’Iran, l’Arabia Saudita e chiaramente Israele che hanno spesso contribuito ad alimentare le tensioni già preesistenti nelle comunità libanesi.

Inoltre, tra gli attori esteri va menzionata la Francia, potenza coloniale del Libano con la quale buona parte della popolazione ha legami storici e culturali e che oggi il presidente Macron vorrebbe avesse un ruolo più importante nel paese. Negli ultimi anni il Libano ha avvertito il contraccolpo di quanto stava avvenendo in Siria e soprattutto in Iraq, anche se in modo minore. Nel 2011 il paese infatti sembrava avesse un’economia fiorente ma in realtà il suo debito pubblico equivaleva al 40 per cento del proprio Pil (esattamente il Libano oggi detiene circa 53 miliardi di debito pubblico).

Le banche libanesi, a distanza di un decennio, sono crollate e sono stati bloccati da parte del governo tutti i conti corrente con il risultato che la popolazione civile, in tale grave situazione economica, non ha la possibilità di prelevare i propri risparmi.

La situazione in Libano ha cominciato a esacerbarsi nel marzo del 2019 quando il primo ministro libanese Hassan Diab ha dichiarato che non avrebbe pagato il debito derivante da un eurobond da 1,2 miliardi di dollari in scadenza nello stesso mese di marzo a causa della disastrata condizione-economico finanziaria che ha portato il paese al default.

Le proteste per le riforme e il potere delle banche

Dal 17 ottobre del 2019 di conseguenza la popolazione civile dinanzi a una situazione di instabilità politica ed economica senza precedenti ha cominciato a manifestare nelle strade delle città libanesi contro il sistema politico settario al governo nonché contro i banchieri ritenuti responsabili, a fronte di un sistema fortemente corrotto, di aver dominato malamente il paese per decenni. Durante le proteste i manifestanti hanno chiesto l’elaborazione di riforme economico-sociali e del sistema politico poiché la classe politica al potere è rimasta pressoché invariata, per cui oggi a governare vi sono i figli o nipoti di coloro i quali hanno governato il paese nei primi decenni dalla dichiarazione di indipendenza nel 1943.

Beirut 26 febbraio 2021: i manifestanti gettano pietre contro la Banca centrale del Libano (foto di Karim Naamani).

Da metà novembre del 2019 le banche inoltre hanno imposto un controllo dei capitali limitando l’accesso alle valute straniere, prime tra tutte il dollaro e l’euro, con una conseguente svalutazione della lira libanese che ha causato anche il graduale impoverimento dei ceti medio-bassi. Quando però, all’inizio del 2020, il paese – grazie ai moti di contestazione portati avanti dalla popolazione civile – stava operando un iniziale processo di cambiamento, è intervenuto il virus, concedendo un’inaspettata “salvezza” per l’oligarchia che fino allora era stata al potere e che stava rischiando una disfatta definitiva.

Il governo tecnico di unità nazionale

Infatti, proprio a causa di tale situazione, a gennaio del 2020 in Libano è stato formato un governo tecnico di unità nazionale guidato da Hassan Diab, una rottura rispetto al modello di governo di rappresentanza di tutte le forze politiche settarie presenti nel paese che lo aveva caratterizzato per 15 anni.

L’intento della formazione di un governo tecnico sebbene la sua creazione sia stata sostenuta da Hezbollah, non è stato altro che un banale escamotage da parte della precedente classe dirigente per evitare di assumersi la responsabilità di un sistema che ormai stava correndo senza sosta verso il baratro, ma che la popolazione civile stava denunciando ad alta voce durante i tumulti già nel 2019.

Il governo tecnico è nato quindi proprio con questa logica: assumersi la responsabilità e gli oneri di decisioni economiche altamente impopolari, data la situazione economica, lasciando immuni da tale difficile governance le rappresentanze settarie precedentemente al governo che ne erano state la causa, in modo che nel mentre avrebbero potuto meglio riorganizzarsi al fine di avere una chance di riscatto della propria posizione politica dinanzi all’opinione pubblica, concretizzata paradossalmente attraverso proprio la diffusione della pandemia.

La diffusione del virus infatti ha concesso ai poteri settari la possibilità di riscattarsi, mediante un aiuto diretto alle comunità delle quali sono espressione e che il governo tecnico, così impegnato a risolvere la questione economica generalizzata, non avrebbe certamente potuto compiere mediante un intervento capillare sanitario e di sostegno a favore delle singole realtà locali. In tale situazione il primo ministro del governo tecnico Diab si è trovato così in una posizione molto difficile che implicava, da una parte la gestione di una pandemia con tutte le misure restrittive che questa comporta e, dall’altra le forti ondate di proteste popolari.

Le proteste hanno coinvolto soprattutto le zone abitate da sunniti come le città di Tripoli e Sidone ma si sono registrati anche tumulti a nord della città di Beirut dove vi è un’alta percentuale di maroniti ossia membri della comunità civile cattolica presente nel paese. Proteste sporadiche invece vi sono state a sud, nelle quali Hezbollah ha un ruolo rilevante e nel centro-sud caratterizzato da frange organizzate rappresentanti del partito comunista libanese.

Il governo ombra di Diab

Va precisato, tuttavia che il governo di Diab è pur sempre un governo ombra manovrato in un modo non molto celato da parte della precedente élite politica. L’esecutivo è comunque controllato dai partiti della coalizione ossia dalla compresenza di Hezbollah e “Corrente patriottica libera” partito formato dall’attuale capo di stato Michel Aoun e da suo genero Gibran Bassil, dal “Partito delle Forze libanesi” e quello delle Falangi che si contendono insieme al partito di Aoun il consenso dei cristiani in prevalenza maroniti.

Il leader dell’allora opposizione Saad Hariri, oggi premier, è sostenuto dall’Arabia Saudita e dai francesi a guida delle comunità sunnite. Nella gestione dell’epidemia questo rinnovato potere settario appare come detto consolidarsi: basti pensare quanto sia stata difficile la cancellazione dei voli verso l’Iran e l’Italia proprio perché fortemente osteggiata da Hezbollah, sostenuto a sua volta da Amal movimento sciita vicino a Damasco – dopo aver dichiarato il 15 marzo 2020 lo stato di “mobilitazione generale” con le conseguenti chiusure e restrizioni necessarie al contenimento del virus.

Mobilitazione e non emergenza: il freno di Hezbollah

Si deve fare attenzione proprio a tale dichiarazione:  in Libano nel 2020 è stato dichiarato lo stato di “mobilitazione nazionale” ma non quello di “emergenza”  proprio a causa delle pressioni esercitate sul primo ministro da Hezbollah ostile a una concessione di maggiori poteri alle forze armate del governo libanese (LAF) in quanto rappresentano l’unica organizzazione istituzionale che mantiene un gradimento da parte della popolazione civile soprattutto di quella cristiana e a capo delle quali vi è un cristiano maronita, secondo il sistema di ripartizione delle quote al governo.

Tra le varie rappresentanze politiche va rilevato infatti che Hezbollah, probabilmente confidando sugli aiuti da parte dell’Iran, ha dichiarato sin da subito che si sarebbe occupato di gestire in prima linea l’emergenza Covid. Effettivamente il cosiddetto “Partito di Dio”, mettendo in campo decine di migliaia di medici e di paramedici per far fronte alla pandemia ha subito offerto la propria capacità di organizzazione e i propri avamposti logistici. Ciò non è estraneo alla sua natura: Hezbollah da anni fonda il suo potere su una vicinanza molto forte alle comunità locali e ha svolto la funzione di uno stato parallelo alle istituzioni spesso non presenti nelle aree rurali o in quelle più periferiche, dotando le comunità anche in passato, di scuole, ospedali, o organizzazioni a sostegno dell’edilizia e delle microimprese locali. Chiaramente il movimento sciita è anche una formazione totalitaria dotata di un proprio apparato di sicurezza e considerato dai tedeschi come un gruppo terrorista, non distinguendo più l’ala armata da quella politica del movimento. Se quindi il governo tecnico è stato costretto ad adottare, per la questione economica e per quella pandemica, decisioni totalmente impopolari, le vecchie élite al potere suddivise su base comunitaria, in modo spesso opportunistico, si sono avvicinate alle necessità concrete della popolazione civile, per esempio distribuendo cibo e test anti-Covid gratuiti e sanificando i quartieri appartenenti alla propria comunità di riferimento.

«Tutti ma proprio tutti!»

Tuttavia, i movimenti di protesta non guardano a nessuna appartenenza politica e si oppongono con il proprio slogan contro la corruzione nel paese al grido di «tutti e quando diciamo tutti intendiamo tutti!», mostrando in tale modo il malessere generalizzato sofferto per anni e ora quasi impossibile da reprimere, data la situazione di forte indigenza in cui si trova il Libano.

Alcuni tra i politici hanno ascoltato la voce dei manifestanti per cui il governo nel 2019 ha approvato all’unanimità un piano di riforme economiche. L’approvazione del piano è stata particolarmente rilevante in quanto ha consentito l’intervento del Fondo monetario internazionale. Tuttavia, nel 2020 il governo e il fondo monetario internazionale hanno sospeso i negoziati per la concessione dei finanziamenti al Libano: i negoziati sono in una fase di stallo in ragione del fatto che il governo, l’Associazione delle Banche e la Banca centrale non convergono in una posizione comune riguardo il calcolo delle perdite economiche registrate negli ultimi anni. Prima di erogare qualsiasi somma l’FMI pretende che vengano forniti dati certi e trasparenti dal punto di vista finanziario e che il governo libanese attui le riforme che sono già state approvate.

Dall’inizio della crisi economica nel 2019 sono decine i libanesi e gli stranieri presenti nel paese che si sono tolti la vita a causa della situazione economica. La sede dell’associazione delle banche è divenuta una sorta di base militare attaccata dai manifestanti che ne hanno chiesto la caduta. La società elettrica, come previsto all’inizio degli scontri, non avendo più carburante, ha cominciato a ridurre l’erogazione dell’energia elettrica in tutto il paese.

Le stime della Banca mondiale a fronte del Covid, in particolare quelle riferite allo stato di disoccupazione in Libano, sono destinate a peggiorare con il tempo. Il Libano, infatti, all’inizio della diffusione della pandemia ha cominciato a rallentare le attività fino alla decisione della totale chiusura il 15 marzo 2020 – anche se possiamo dire che questa non è stata mai rispettata dai libanesi in modo ferreo – insieme all’invito da parte del primo ministro rivolto alla popolazione di non uscire dalle proprie abitazioni salvo casi eccezionali e imponendo il coprifuoco notturno.

Le disparità sociali e l’assenza dello stato

La pandemia ha messo in risalto le disparità sociali già presenti nel paese dal punto di vista socio-economico e l’assenza dello stato centrale nelle aree periferiche lontane dalla capitale. Tale mancanza del potere istituzionale nelle zone rurali e periferiche hanno condotto all’acquisizione di un ruolo di maggiore importanza appunto da parte delle municipalità legate alle diverse comunità locali con l’effetto che queste spesso, ritenendosi una sorta di entità a sé stanti, hanno finito per discostarsi parzialmente o totalmente – mediante una diversa applicazione o non attuazione – dalle leggi o dalle direttive emanate del governo centrale.

Inoltre, deve essere anche valutata la condizione dei profughi in Libano che si si stimano circa in due milioni. Tuttavia, va precisato che il paese non è firmatario della Convenzione di Ginevra, motivo per il quale tali profughi non godono dello status di rifugiato imposto dalla stessa Convenzione. A partire dal 2014 il governo libanese ha ordinato all’Unhcr di interrompere la registrazione dei profughi siriani dei quali solo 900.000 sono stati registrati dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite. Su una popolazione di circa 4 milioni di abitanti i profughi presenti in Libano costituiscono un terzo della popolazione civile. In questa fase in cui gli stessi libanesi si trovano in una condizione di povertà e di vulnerabilità l’ingente accoglienza dei profughi nel paese ha costituito la causa di ulteriori scontri e tensioni.

Distruzione di un campo palestinese nel Nord del Libano (foto trentinness@hotmail.com)

Le infiltrazioni dei terroristi islamici

Per capire meglio il perché di tali condizioni di alta tensione tra la popolazione e i profughi occorre riflettere sul fatto che, a partire dal 2013, tra di loro spesso si sono infiltrati miliziani del sedicente Stato Islamico e del gruppo terrorista Jabhat al-Nusra, rendendosi responsabili di un numero rilevante di attentati di stampo terroristico sia nella capitale che in altre aree del Libano, operando attivamente fino al 2017. A titolo esemplificativo occorre citare la situazione della cittadina libanese di Arsal, a venti chilometri dal confine con la Siria, ossia una delle destinazioni principali dei profughi siriani (la cittadina è arrivata nel 2013 ad avere da 30.000 a 100.000 abitanti) e nell’agosto del 2014 ha subito un forte attacco da parte di un gruppo di miliziani siriani mossi dal duplice fine di aumentare la propria capacità di azione, approdando nel territorio libanese, e di contrastare Hezbollah sostenitore del regime di Bashar al-Assad. Tale attacco ha determinato l’inizio di un conflitto durato circa tre anni che ha finito con il consolidare, aumentare o diminuire il rilievo nello scenario geopolitico di alcuni attori internazionali coinvolti in esso anche solo indirettamente. Va precisato però che il successo iniziale dell’attacco armato con un numero elevato di ostaggi è stato conseguito grazie alla segreta alleanza tra l’allora sindaco di Arsal, Ali Hojairi e le milizie islamiste che, in questo modo, hanno avuto una maggiore conoscenza degli avamposti delle forze militari libanesi. Nonostante Hezbollah sia stato ampiamente criticato in quanto ritenuto responsabile dell’ingresso dei miliziani, dato il suo sostegno al regime siriano, sono state proprio le sue truppe a sferrare l’offensiva finale contro i miliziani nel 2017 nella stessa periferia della cittadina di Arsal con la conseguente decretazione della vittoria da parte di Hassan Nasrallah, leader del gruppo sciita che indubbiamente, dopo il conflitto, ha visto aumentare la propria capacità politica nel paese.

I negoziati con Israele

Questo ruolo di difensore dei confini territoriali libanesi era già stato svolto da Hezbollah in passato nelle operazioni militari nel 2000 e nel 2006 contro Israele ritenuto nemico storico del paese e che di recente è tornato alla ribalta nello scenario libanese proprio in relazione alla questione della delimitazione di confini. Il ministro uscente dei Lavori pubblici libanese di recente ha chiesto con l’emendamento al decreto n. 6433 proposto il 12 aprile 2021 di estendere l’area, ricca di idrocarburi, contesa da anni con Israele da 860 a 1432 chilometri quadrati. L’emendamento si pone all’interno delle dinamiche dei negoziati inaugurati il 14 ottobre del 2020 tra Libano e Israele – mediati dagli Sati Uniti e sotto l’egida delle Nazioni Unite – per la delimitazione dei propri territori in particolare della fascia a sud del paese definita blue line che ha visto in passato concentrarsi gli scontri più violenti tra i due stati in quanto entrambi sostengono che tale area rientri nella propria zona economica esclusiva (Zee) e dove da anni è presente il contingente italiano dell’Onu con la missione UNIFIL.

Pattugliamenti della Missione Unifil nella “blue line”

Tuttavia, il presidente Aoun ad aprile si è rifiutato di approvare tale emendamento. Alcuni hanno precisato che non vi è stato un rifiuto ma solo la richiesta di rinviare la questione alla trattazione nel corso di una riunione a livello governativo, viste le delicate conseguenze che potrebbero derivare dall’approvazione dell’emendamento in questo momento. Inoltre, anche se i negoziati riguardano solo i confini marittimi, c’è da dire che il Libano da anni rivendica anche le cosiddette fattorie di Sheeba, circa un chilometro quadrato da dove gli israeliani non si sono ritirati dal 2000 dopo l’occupazione del Sud del paese iniziata nel 1978 e dove Israele attualmente sta costruendo un muro.

La discriminazione nei confronti dei profughi siriani

Come dicevamo le misure restrittive anti-Covid-19 adottate come necessarie per il contrasto della diffusione della pandemia hanno finito per essere strumentalizzate dal governo centrale, così come dalle singole comunità locali presenti in Libano, con fini discriminatori contro i profughi. Basti pensare che all’inizio del 2020, quando ancora non erano state attivate per la popolazione civile le misure per il contrasto del virus, per il 40 per cento dei siriani veniva già imposto il regime di coprifuoco, per loro i test sono stati eseguiti solamente nel maggio dello scorso anno grazie all’intervento delle Nazioni Unite così come dalle ong già presenti da diversi anni come figure di riferimento nei campi dove questi risiedono. I profughi nel contesto pandemico non sono stati destinatari, diversamente dal resto della popolazione civile, di misure di informazione e di prevenzione necessarie per evitare i contagi. Non solo, in Libano si può essere curati gratuitamente solo in un ospedale a Beirut che difficilmente viene raggiunto dai profughi tanta è la contestazione generalizzata della loro presenza nel paese e dati gli atteggiamenti discriminatori spesso rivolti nei loro confronti. Vi è da dire che anche per molti libanesi provenienti dalle aree rurali è molto complesso raggiungere tale presidio ospedaliero gratuito nella capitale, stante la quasi totale assenza di mezzi di trasporto pubblico, determinata dalla crisi economica.

È chiaro che tutta questa situazione è diventata ancora più drammatica in seguito all’esplosione del 4 agosto 2020, della quale tratteremo in seguito in modo più approfondito, e in esito alla quale oltre a essere andate distrutte scuole e abitazioni sono stati gravemente danneggiati proprio gli stessi ospedali per cui i pazienti ricoverati a Beirut sono stati fatti evacuare in altri ospedali sul territorio nazionale.

Le violazioni della Convenzione di Ginevra

Sia le Nazioni Unite che le ong operano in Libano all’interno del contesto di un piano approvato dal governo insieme all’Onu nel 2015 per il miglioramento delle condizioni di vita tanto dei profughi siriani quanto della popolazione libanese in condizione di vulnerabilità. Il piano esplica i suoi effetti essenzialmente su due fronti: quello umanitario, attraverso l’applicazione di strumenti che possano fronteggiare l’emergenza e quello dello sviluppo, finalizzato all’integrazione dei profughi con la popolazione civile libanese che viene attuato mediante una progressiva inclusione dei profughi siriani nel mercato del lavoro in Libano potenziando anche a loro favore i servizi presenti a livello locale come scuole, ospedali e alloggi. Se però le misure sul fronte umanitario vengono effettivamente poste in essere, quelle volte all’integrazione dei profughi nel paese incontrano maggiori ostacoli nella loro attuazione, vista anche la posizione del presidente siriano Bashar al-Assad che negli ultimi anni sta premendo per il rimpatrio dei propri cittadini fuggiti all’estero in particolare proprio verso i territori libanesi. Al riguardo va sicuramente segnalato il Rapporto di Amnesty International del 23 marzo del 2021 I wish I would die che ha documentato presunte violazioni perpetrate dai servizi segreti militari libanesi contro i rifugiati siriani detenuti preventivamente con l’accusa di terrorismo e che hanno subito non solo la violazione del loro diritto a un equo processo ma anche atti qualificabili come torture, violenze sessuali e trattamenti disumani e degradanti.

Le ricerche sulle quali si basa il report sono state portate avanti dalla nota organizzazione internazionale tra giugno del 2020 e febbraio del 2021 e riguardano fatti avvenuti tra il 2014 e la fine del 2019: sono state intervistate 26 persone aventi una fascia di età compresa tra i 22 e i 55 anni e tra i quali vi sono anche due ragazzi che al momento dell’arresto avevano 15 e 16 anni e alcuni degli intervistati sono ancora in carcere.

Amnesty in esito alle indagini ha scritto due volte al ministero dell’Interno, della Difesa e della Giustizia chiedendo chiarezza. Occorre sottolineare che il Libano oltre a non aver ratificato la Convenzione di Ginevra ha approvato la legge contro la tortura solo nel 2017 ma anche durante la sua vigenza è stata più volte segnalata la sua mancata attuazione.

Fonte: Amnesty International

L’opportunismo dei partiti

È necessario tuttavia precisare che molte ong presenti in Libano possono operare oggi soltanto grazie all’appoggio di alcuni partiti politici e di confessioni religiose, presenti nelle comunità locali, riproponendo così quell’atteggiamento opportunistico che chiede come contropartita degli aiuti offerti ai profughi quella della realizzazione dei propri fini ed interessi personali in un’ottica di rafforzamento del proprio potere all’interno della vita politica in Libano.

Inoltre, c’è da dire che da ormai dieci anni la posizione comune delle fazioni politiche libanesi si è del tutto uniformata sulla posizione di un ritorno dei profughi siriani, nonostante l’intervento esemplare di alcune municipalità come quella di Bsharre, nel Nord del Libano. Tale elemento è fortemente allarmante, data la presenza al potere in Siria del regime contestato ma ancora guidato da Bashar al-Assad.

L’esplosione al porto: e Beirut diventa periferica

A ogni modo, come accennato sopra, la situazione nel paese è peggiorata in modo catastrofico per tutti i residenti in Libano a causa della duplice esplosione del 4 agosto del 2020 considerata la più potente deflagrazione non nucleare della storia e che ha avuto come epicentro proprio il porto di Beirut che, con la seconda esplosione, ha visto la distruzione di tutti i quartieri posizionati sul versante settentrionale della capitale e sulla costa. Fortunatamente una parte dell’esplosione si è riversata in mare ma circa 200 sono state le vittime e migliaia di persone, più di 6000, quelle gravemente ferite e al momento non è chiaro ancora se si tratti di un incidente o di un attentato.

Dopo l’esplosione del 4 agosto 2020 al porto di Beirut (foto Anna_Om).

L’esplosione per intenderci è stata pari a un decimo di quella di Hiroshima. Dalle immagini trasmesse dai media quest’estate a livello internazionale si nota che l’esplosione sia avvenuta in due tempi distinti: la prima con un impatto minore e di un colore tendente al grigiastro, l’altra, immediatamente dopo, di immensa portata e di colore prevalentemente rossastro con un’onda d’urto che ha provocato danni a sette chilometri di distanza dall’epicentro. Come dicevamo, con la deflagrazione, è stato colpito in primo luogo il porto della capitale storico luogo strategico economico commerciale del Medio Oriente e simbolo dell’economia imprenditoriale della città di Beirut che in una situazione già al limite dal punto di vista economico-finanziario, in esito a tale accadimento, ha subito un durissimo contraccolpo. Sono state invece colpite meno le zone centrali e a sud della città e sono stati del tutto risparmiati i quartieri occidentali e sud-occidentali.

Beirut in questo modo ha smesso, almeno per il momento di essere il centro di buona parte degli affari nell’area mediorientale. Inoltre, nonostante le dichiarazioni all’indomani dell’evento, dell’attuale leader di Hezbollah Hassan Nasrallah, questa volta, il movimento politico religioso non ha messo in atto, come in seguito allo scoppio della pandemia, la mobilitazione di aiuti e di sostegno nei propri quartieri di riferimento.

In ogni caso dal 4 agosto 2020 Beirut non è più il centro ma una area periferica del Libano. Tuttavia, il fatto che non sia ancora chiaro se la deflagrazione sia la conseguenza di un incidente o invece di un atto volontario non implica l’impossibilità di formulare delle ipotesi in merito all’accaduto.

Le indagini e i dubbi

La prima ipotesi è sicuramente quella di un “errore umano” o meglio quella di una deflagrazione spontanea in conseguenza del degrado del materiale, costituito da circa 2750 tonnellate di nitrato di ammonio, ossia di un fertilizzante ma con proprietà esplosive, contenuto nell’hangar n. 12 al porto. La comunicazione dell’esistenza di tale materiale era stata più volte notificata alle autorità istituzionali, ossia al presidente Aoun, ai vari premier e ai ministri che si sono succeduti nel tempo.

La seconda ipotesi invece si basa sull’idea di un presunto attacco israeliano (Israele nega qualsiasi coinvolgimento) che avrebbe avuto come mira la mole di missili di Hezbollah presenti in quell’area ma che non ha tenuto conto della presenza di altro materiale suscettibile alla deflagrazione.

La terza ipotesi è riconducibile al fatto che l’evento tragico si è concretizzato in due momenti. Questo può voler dire che la prima esplosione sia derivata da un fatto volontario internazionale, connesso con il processo penale che in quella parte della capitale si stava svolgendo in conseguenza della morte per attentato nel 2005  del premier Rafiq al-Hariri, padre dell’attuale primo ministro, sostenuto dall’Arabia Saudita e non gradito per questo né da parte sciita ossia da Hezbollah – movimento a favore dell’ingerenza iraniana nel Paese – né dai siriani che rivendicano un’influenza estera prevalente nel paese. Secondo sempre tale teoria la seconda esplosione invece sarebbe stata del tutto involontaria.

Infine, la quarta ipotesi, è quella di un attentato premeditato di cui al momento l’autore è sconosciuto finalizzato proprio a far precipitare nel baratro il paese.

Inoltre il giudice Sawan – che inizialmente aveva intrapreso le prime indagini sull’accaduto e in particolare sui ministri che erano stati informati in passato della presenza del materiale esplosivo in prossimità del luogo della  deflagrazione – è stato destituito dalla Corte di Cassazione libanese e al suo posto è stato nominato un nuovo giudice che, sebbene sia considerato uomo valido a capo della Corte del Tribunale di Beirut, ha dato adito a dubbi circa l’imparzialità del potere giurisdizionale in merito alla vicenda.

Gli aiuti non proprio disinteressati

Le prime necessità dopo l’esplosione sono state quelle del rifornimento di medicinali, di alimenti e di materassi per dormire in strada, mentre dal punto di vista delle infrastrutture, è stata data priorità alla ricostruzione delle abitazioni, alcune delle quali patrimonio dell’Unesco. La popolazione, questa volta però, ha chiesto che i fondi derivanti dagli aiuti internazionali siano gestiti direttamente dalle ong e non dai governi locali e il presidente Macron ha dichiarato la necessità della tracciabilità dei medesimi. Infatti, il presidente francese ha visitato tempestivamente il paese esattamente due giorni dopo l’esplosione mentre a seguire immediatamente vi sono stati Russia, Iran, Qatar, Emirati Arabi Uniti, Turchia e Stati Uniti che hanno inviato prevalentemente aiuti medici per la popolazione libanese. Tuttavia, tali aiuti non possono definirsi in tutti i casi “disinteressati” ma rivelano spesso piuttosto la volontà di taluni attori internazionali a sostituirsi al governo del paese in un momento in cui il rapporto di fiducia tra esecutivo e popolazione è totalmente logorato. Simile processo in Libano già si era determinato al momento della diffusione del virus del Covid-19 per cui il Libano è di nuovo oggi il campo su cui si muovono le tattiche geopolitiche di alcuni stati esteri. In questa logica Turchia e Qatar sono alleate tra loro e al loro intervento si oppongono Emirati Arabi Uniti e Russia. La Francia per i motivi succitati ha un ruolo prima facie prevalente mentre Israele ha dimostrato difficoltà a inserirsi in tali dinamiche.

Il divisivo intervento francese in rapporto allo scacchiere internazionale

Secondo l’analisi di questa spinta internazionale alla solidarietà prevale, per taluni, l’ipotesi che l’esplosione del 4 agosto non sia stata uno scoppio accidentale ma organizzato da chi avrebbe un interesse a detenere il potere in Libano; ardua risulta l’individuazione dei possibili mandanti, dati i molteplici attori della politica libanese e, al contempo, le numerose potenze estere che si fronteggiano in quest’area del Medio Oriente. L’immediata partecipazione francese dall’altra parte ha fermato almeno in una prima fase qualsiasi intervento di aiuto da parte dell’Unione Europea. L’Italia nelle vesti dell’allora premier al governo si è recata simbolicamente in Libano l’8 settembre dello scorso anno per dare il suo contributo in questa corsa agli aiuti portata avanti dalle grandi potenze internazionali e mantenendo come spesso avviene un ruolo più marginale. Dall’altra parte infatti il presidente francese in esito all’esplosione ha promesso di organizzare una raccolta fondi per gli aiuti umanitari e ha fissato l’agenda per la formazione di un nuovo esecutivo vantando in questo luogo una posizione maggiormente strategica rispetto a quella che detiene in Libia in cui, negli ultimi anni, hanno dominato Russia e Turchia nell’affermazione di un potere politico straniero da affiancare alle forze politiche locali. La presenza francese in Libano tuttavia divide fortemente e ciò si evince dalle dichiarazioni, in chiave polemica, della parte filosiriana, presente nel paese, la quale nell’agosto del 2020 – dopo le numerose proteste della popolazione civile che hanno portato alle dimissioni del primo ministro Diab – ha affermato che il nuovo premier incaricato dal Parlamento libanese di formare un governo, ossia Mustapha Adib, fosse particolarmente sostenuto da Macron.

Inoltre, la Francia ha affermato in più occasioni che l’ala militare di Hezbollah non debba essere considerata una diversa espressione di un gruppo politico al potere oggi in Libano, quanto piuttosto un gruppo terroristico come sostenuto in modo più drastico già dalla Germania ma completamente in disaccordo con l’opinione del Cremlino che considera il gruppo un rilevante partner politico e non un gruppo terrorista. D’altronde i rapporti tra Russia e Libano hanno radici profonde: Mosca ha aiutato fortemente Hezbollah nella guerra del 2006 in Libano al fine di rafforzare la propria posizione rispetto a Teheran. Infine, il presidente francese, fortemente contestato in Francia per la volontà di applicare misure di austerità economica, in Libano è stato destinatario di molteplici istanze di cambiamento da parte della popolazione civile libanese che ha chiesto di essere aiutata direttamente aggirando la classe politica libanese, ritenuta fortemente corrotta.

Il turnover ai vertici libanesi

Tuttavia, il 27 settembre 2020 il premier incaricato dal parlamento libanese Mustapha Adib si è dimesso e ha deciso di ritornare a svolgere il ruolo di ambasciatore in Germania.  A quel punto il presidente Emmanuel Macron ha contestato tutti i leader politici libanesi incluso il capo di stato Michel Aoun e ha attaccato duramente Hezbollah e Amal sostenendo che il suo principale interesse fosse quello di volere il superamento di un sistema politico confessionale, ma ciò che sembra emergere è piuttosto la volontà di mantenere protetti a ogni costo i propri interessi nell’area.

Nell’ottobre del 2020, il Parlamento ha deciso così di assegnare un nuovo mandato a Saad Hariri, leader del partito politico a carattere sunnita Movimento per il Futuro, già primo ministro del Libano dal 18 dicembre del 2016 al 19 dicembre del 2019, e precedentemente dal 14 febbraio 2005 dopo l’assassinio del padre Rafiq Hariri e, in seguito, da giugno 2009 a gennaio del 2011.

Attualmente il paese si trova comunque ancora in una situazione di stallo politico. Dal 22 ottobre del 2020 Saad Hariri si è impegnato a risanare la situazione politica del paese dopo aver ottenuto 65 voti su 120 da parte del Parlamento. Uscito di scena proprio dall’ottobre del 2019 per via delle proteste popolari, è stato chiamato nuovamente a guidare il Libano in conseguenza della tragica deflagrazione e delle dimissioni conseguenti a questa da parte dei suoi predecessori nell’arco di pochi mesi. A creare questa condizione di stallo sono le divergenze tra il capo di stato Aoun e lo stesso presidente Hariri per cui non si riesce a convergere in una posizione comune rispetto a una riforma della Costituzione.

«Il popolo non perdonerà»

Nel 2021 le proteste della popolazione civile contro la classe politica al potere sono di nuovo scoppiate la sera del 25 gennaio, nonostante le restrizioni e il coprifuoco imposti per via del Covid, a Beirut, a Tripoli nel Nord del Libano e nella città meridionale di Sidone.

Ciò in conseguenza del fatto che il governo, il 21 gennaio 2021, ha annunciato un’estensione delle suddette misure Covid fino all’8 febbraio del 2021 che hanno implicato la chiusura di numerose attività commerciali e uffici istituzionali in un paese al momento nel baratro per la crisi economico-finanziaria, resa nota nel marzo del 2019. Ciò è avvenuto a causa del sensibile aumento della curva dei contagi dopo che il governo libanese, prima delle festività natalizie, aveva concesso un allentamento delle misure per favorire la ripresa della disastrata economia libanese. Inoltre in Libano il 27, il 28 e il 31 gennaio 2021 gli scontri tra la popolazione e i militari hanno causato un secondo morto e si registrano circa 400 feriti dall’inizio delle manifestazioni popolari. A gennaio 2021 vi è stato anche l’attacco da parte dei manifestanti degli uffici del Comune a Beirut ma diversi violenti tumulti si sono verificati anche a Tripoli , definiti dal presidente Hariri crimini organizzati e premeditati. I principali rappresentanti delle comunità cristiane e musulmane libanesi hanno contestato nuovamente l’élite al potere, questa volta al grido “Il popolo non perdonerà. La storia non dimenticherà” chiedendo un governo di “salvezza nazionale”.

Proteste antigovernative in Libano (foto Anna_Om).

Niente aiuti senza un nuovo governo

Per tale ragione a febbraio del 2021 il premier Hariri e il presidente Macron si sono confrontati sulla situazione in un incontro privato all’Eliseo in particolare sugli ostacoli che si stanno determinando tra il leader e il presidente Aoun in merito alla formazione di un nuovo governo libanese, fondamentale per la concessione e l’elargizione delle donazioni delle varie potenze internazionali incluso il Fondo monetario internazionale, vista la perdurante situazione di corruzione. A tale situazione si aggiunge che nel marzo del 2021 la lira libanese ha raggiunto il suo minimo storico toccando quota 10.000 rispetto al dollaro Usa e la crescente svalutazione della moneta nazionale ha comportato un aumento del livello dei prezzi al 144 per cento per i beni di prima necessità. Dal mese di ottobre 2020 la valuta libanese ha infatti subito un calo pari al 70 per cento.

In un discorso in diretta televisiva il 17 marzo 2021 il presidente Aoun ha esortato il premier Hariri a formare un governo o a dimettersi, ma in realtà il premier ha già proposto al capo di stato una squadra il 9 dicembre 2020, composta da 18 ministri apartitici, che non ha ottenuto l’approvazione di Michel Aoun.

Il ministro dell’Interno libanese a fine marzo ha dichiarato che nell’ultimo periodo «c’è maggiore possibilità di violazioni di attentati e omicidi vari nel paese».

Il 22 marzo 2021 quindi si è tenuto un incontro tra il presidente del Libano Aoun e il premier designato Saad Hariri che, tuttavia, anche in questa circostanza non si è concluso con l’approvazione di un governo di salvezza nazionale. Hariri sostiene che l’incontro non ha avuto successo in quanto il capo di stato mette in atto comportamenti ostruzionistici derivanti dalla pretesa che nella squadra di governo vi sia a tutti i costi la maggioranza dei suoi alleati politici. Non solo, Aoun ha consegnato al premier una lista completa con già 18, 20, o 22 ministri con ancora solo alcuni posti vacanti. Hariri – che recentemente ha invitato pubblicamente anche Papa Francesco a far visita al paese come è avvenuto in Iraq – ha considerato tale gesto inaccettabile in quanto il comportamento è qualificabile come anticostituzionale, non essendo di competenza del capo dello stato formare il governo libanese.

Il fallimento delle politiche di sviluppo nel Mediterraneo orientale

La situazione che oggi si coglie in Libano, simile a quanto avvenuto recentemente in Iraq, in  Algeria e Tunisia negli ultimi anni, ha quindi qualcosa in comune con le primavere arabe del 2011; in questo caso specifico però non si tratta solo di destituire la testa di un regime quanto costruire qualcosa di soddisfacente per la popolazione civile che soffre della presenza degli stessi attori regionali del passato ma che mostra oggi, in modo evidente, la forte volontà di trovare soluzioni interne nonostante la vecchia élite politica che, come visto, non è ancora disposta a farsi da parte.

In conclusione, questa crisi può avere un impatto su una nuova ondata migratoria determinando un incremento esponenziale dei movimenti in fuga dal Libano in particolare dalla città di Tripoli: l’Italia ben presto si accorgerà del fallimento delle politiche di sviluppo nell’area del Mediterraneo orientale. A dimostrazione di ciò ci sono già i primi avvertimenti provenienti dalla Bosnia che, con riferimento a quanto sta avvenendo lungo la rotta balcanica, ha dichiarato: «Non vogliamo finire come il Libano».

L'articolo n. 7 – Libano: dove tutto cambia perché nulla cambi proviene da OGzero.

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n. 6 – Primavere, rivolte e rivoluzioni: dieci anni di utili contaminazioni https://ogzero.org/l-eredita-delle-primavere-arabe-e-le-rivoluzioni-di-oggi/ Sun, 02 May 2021 09:50:35 +0000 https://ogzero.org/?p=3244 Questo articolo introduce una sezione nuova della raccolta di articoli di Fabiana Triburgo sulla questione migratoria: analizzeremo le condizioni alla base delle nuove rotte dal Medioriente e dal Nord Africa, tra instabilità politica, conflitti civili e l’eredità delle Primavere arabe, e giungeremo al termine di questa sezione a un’analisi della normativa europea e delle alternative […]

L'articolo n. 6 – Primavere, rivolte e rivoluzioni: dieci anni di utili contaminazioni proviene da OGzero.

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Questo articolo introduce una sezione nuova della raccolta di articoli di Fabiana Triburgo sulla questione migratoria: analizzeremo le condizioni alla base delle nuove rotte dal Medioriente e dal Nord Africa, tra instabilità politica, conflitti civili e l’eredità delle Primavere arabe, e giungeremo al termine di questa sezione a un’analisi della normativa europea e delle alternative che potrebbero emergere da politiche più coraggiose e lungimiranti.


n. 6

I principali conflitti che attualmente interessano le migrazioni forzate e le prassi di esternalizzazione poste in essere dall’Unione Europea e dai singoli stati membri portano a una predeterminazione delle rotte dei migranti.

Quello che oggi è inevitabile chiedersi è se il nuovo Patto europeo sulla migrazione e l’asilo, proposto dalla Commissione UE, possa essere realmente considerato una soluzione della gestione del fenomeno migratorio o se invece vi siano soluzioni legali alternative maggiormente lungimiranti e coraggiose.  

Correnti umane da un Medio Oriente interconnesso

L’area del Medio Oriente è particolarmente rilevante per l’analisi delle situazioni di instabilità politica o di perdurante conflitto dei paesi d’origine dei migranti che sfociano o che potrebbero presto sfociare, come nel caso del Libano, in correnti umane lungo la rotta dell’Egeo e lungo quella balcanica, per approdare in prossimità dei confini europei.

Dalla Rivoluzione dei Gelsomini alla fuga di Saleh

Al riguardo occorre sottolineare che difficilmente la precarietà istituzionale o gli episodi di violenza presenti in uno dei paesi mediorientali non va a dispiegare i propri effetti su un altro paese appartenente alla medesima area, anche se in modalità diverse e con diversa intensità. Se è vero, tuttavia, che l’onda propulsiva degli eventi che interessano i paesi del Medio Oriente è caratterizzata dalla contaminazione di un paese con l’altro, va altresì riconosciuto che l’area nell’ultimo decennio ha subito il contraccolpo degli effetti politici e sociali che dieci anni fa si sono generati mediante le cosiddette Primavere arabe – termine coniato dai media occidentali – a loro volta conseguenza delle proteste popolari contro le autorità dittatoriali allora detentrici del potere. Infatti, nel dicembre 2010 un venditore ambulante in Tunisia, Mohamed Bouazizi, si diede fuoco davanti al municipio della città di Sidi Bouzid come tragico simbolo di protesta contro il perdurante eccesso dell’impiego della violenza e della repressione delle forze di polizia fedeli al regime di Zine El-Abidine Ben Ali, a quel tempo da 23 anni al potere, nei confronti della popolazione civile. Nel caso specifico di Mohamed Bouazizi la polizia tunisina aveva sequestrato arbitrariamente il suo banco di vendita del pesce dinanzi all’assoluta indifferenza delle autorità. Da quel momento la Tunisia s’incendiò in tumulti popolari definiti come la “Rivoluzione dei Gelsomini” che portarono il presidente-dittatore all’esilio e al primo innesto di un processo democratico nel paese. Invece il presidente yemenita Ali Abdullah Saleh fuggì in esilio in Arabia Saudita rassegnando le dimissioni e lasciando il paese in una situazione di completa instabilità. Le immagini di tale gesto di immolazione in Tunisia arrivarono negli altri paesi del Medio Oriente grazie all’emittente Al-Jazeera. Nel corso di qualche mese l’ondata di proteste si dispiegò in altri paesi dell’area del Nord Africa e in alcuni del Medio Oriente che progressivamente videro i vari regimi crollare uno a uno come le tessere di un domino: ciò avvenne in primo luogo in Egitto con le celebri proteste del 25 gennaio 2011 in piazza Tahrir. Non solo, se monarchie quali Giordania, Marocco resistettero a tali tumulti attraverso concessioni alle richieste del popolo grazie a esigue modifiche delle rispettive costituzioni, in altri paesi le proteste mutarono rapidamente in sanguinosi conflitti civili non ancora del tutto risolti, come avvenne in Siria contro il regime di Bashar al-Assad, in Libia durante la dittatura di Gheddafi e infine nello Yemen contro Ali Abdullah Saleh che nel 2012 lasciò il potere.

L'eredità delle Primavere arabe

Campo di ribelli della coalizione anti-Gaddafi, Ajdabiya in Libia, aprile 2011 (foto Rosen Ivanov Iliev).

In tutti i paesi interessati da tali reazioni popolari sono rintracciabili tre elementi comuni qualificabili quali: il disagio economico, la concentrazione della ricchezza nelle mani di pochi individui, quasi in una sorta di oligarchia economica ravvisabile in particolar modo nella cerchia di soggetti affiliati al regime di Ben Ali in Tunisia o quello di Bashar al-Assad in Siria e, infine, il controllo fortemente repressivo e autoritario della vita pubblica.

Le Primavere arabe sono davvero fallite?

Ad ogni modo, guardando alla situazione attuale degli stessi stati, tra cui l’Egitto retto oggi dal presidente dittatore Abdel Fattah al-Sisi, paese nel quale dieci anni fa i poteri autoritari erano stati sovvertiti dal popolo, si parla spesso di un fallimento di tali “primavere” e dell’incompiutezza del sistema democratico al quale esse stesse miravano attraverso l’affermazione di principi di libertà e di uguaglianza e la rivendicazione dei diritti civili, ma è realmente così?

Il dubbio tuttavia che un fenomeno importante – seppur incompiuto – si determinò a partire dalla fine del 2010 attraverso le cosiddette Primavere arabe, proviene proprio dall’analisi dei movimenti  di protesta che si sono dispiegati nel decennio successivo allo scoppio delle rivolte e che da ultimo, nel 2019,  hanno condotto alle dimissioni il presidente dell’Algeria Abdelaziz Bouteflika, e alla destituzione di Omar Hasan Ahmad al-Bashir in Sudan, nonché l’ondata di disperate proteste iniziate negli scorsi anni da parte della popolazione irachena e di quella libanese.

Ascolta “Lo stallo ad Algeri e la resistenza del movimento Hirak: un sistema da sovvertire” su Spreaker.

In particolare, in Libano gli scontri nell’ottobre del 2019 si sono verificati contro l’élite politica da sempre contraddistinta per la sua corruzione ed emersa con evidenza con la dichiarazione da parte del governo del default finanziario nel marzo del 2019 del quale ci occuperemo più specificamente in seguito. Con riferimento a tali paesi oggi si parla più che di “primavere” di vere e proprie “rivolte arabe” o di “rivoluzioni arabe”. Le proteste in Iraq e in Libano si muovono oltretutto in modo più maturo e consapevole dimostrando capacità di resistenza popolare alle provocazioni istituzionali durante gli scontri, nonché capacità dei manifestanti di riorganizzarsi e di essere costantemente presenti nonostante le misure anti-Covid-19 imposte dal governo, e purtroppo spesso da questo strumentalizzate con un fine chiaramente repressivo volto al mantenimento del proprio status quo.

Cosa quindi possiamo dire si sia generato con quelle controreazioni del popolo rispetto agli abusi dei poteri istituzionali, cosa è andato rompendosi in modo definitivo allora, nonostante dalle macerie ancora oggi non risorga in quei paesi la fenice di uno stato democratico?  Occorre fare una riflessione preliminare: i moti di protesta detti Primavere arabe, non sono altro che un fenomeno che rappresenta solamente la punta dell’icerberg di un malessere profondo e generalizzato per anni covato negli animi della popolazione civile di diversi paesi impossibilitata a vivere in stati non rispettosi dei propri diritti e delle proprie libertà non riconosciute a causa dei regimi totalitari presenti in essi.

Prestiti in cambio di una politica liberista

I primi accenni del malcontento popolare in realtà si devono ricercare nel fallimento economico degli anni Ottanta e Novanta che ha interessato molti paesi arabi. I sistemi di questi paesi negli anni Settanta si contraddistinguevano per essere delle economie socialiste mentre nei decenni successivi sono passati a un sistema di libero mercato che non ha avvantaggiato la popolazione ma esclusivamente l’élite al potere. Negli anni Ottanta in particolare si determinò la crisi del sistema economico e iniziarono le proteste da parte del popolo che non beneficiava del medesimo benessere e che invece veniva ostentato dalla classe politica. I paesi arabi negli anni accumularono infatti ingenti debiti pubblici che li portarono a negoziare nuovamente con la Banca mondiale i fondi internazionali ricevuti, promettendo in cambio un approccio neoliberista delle proprie economie che come detto determinò una disparità sociale con un peggioramento della condizione popolare. Ciò avvenne in primo luogo in Algeria nel 1988 con il crollo dei prezzi del petrolio. Ci si rese ben presto conto tuttavia che le egemonie allora al potere in molti paesi arabi non avevano alcun interesse alla promozione di un sistema democratico che resta ancora oggi un’utopia in quest’area. La società invece era retta sempre da un sistema di forte repressione e di controllo della popolazione civile. L’errore in quel caso fu anche da parte dell’Occidente, illuso di poter negoziare con gli autoritarismi arabi, dandone per scontata la stabilità politica e la loro condizione di immobilismo, preoccupati dell’instaurazione di un sistema di privatizzazione economica da parte dei regimi islamici.

Il popolo anestetizzato e oggetto passivo della politica

Nel 2011 la natura dei poteri contestati dalla popolazione furono monarchie come Marocco, Giordania e Arabia Saudita che legittimano il loro potere nell’appartenenza a clan familiari o le repubbliche nazionaliste dittatoriali come l’Egitto che dichiaravano di assicurare una sorta di welfare generalizzato dei servizi pubblici per la popolazione, tuttavia senza mai dotarsi di un apparato per la loro erogazione. La narrazione infatti da parte delle autorità politiche delle repubbliche nazionaliste in questo caso si concentrò sulla costante minaccia di qualche potere esterno finalizzata al rafforzamento politico interno della loro condizione e anestetizzando il popolo con tale retorica per diversi anni rispetto a quanto stava realmente accadendo. Infine, il Libano invece costituiva in quegli anni un unicum rispetto al sistema statale, essendo contraddistinto da un sistema confessionale del potere al quale passò anche l’Iraq dopo il 2003.  A crollare, come detto sopra, nel 2011 furono soprattutto le egemonie nazionaliste venendo messo in discussione per la prima volta in modo propulsivo il patto sociale tra la popolazione civile e le autorità al potere. Infatti, a parte le specificità di ogni singolo paese, ciò che emerse già negli anni Ottanta e Novanta così come nei primi anni del Duemila fu la volontà del popolo arabo di affermare la propria cittadinanza attiva che si manifestò proprio in quei paesi nei quali il potere non investiva sul protagonismo e sulla volontà popolare come in Algeria o in Egitto. In questi paesi, già allora e successivamente mediante le primavere arabe, e ancora oggi, il popolo richiede il riconoscimento da parte delle istituzioni della società da esso costituita e contraddistinta e di tutte le sue articolazioni, stanco ormai di essere mero oggetto passivo della politica. A distanza di anni, proprio alla luce di valutazioni che affermano il fallimento di tali moti rispetto al processo di democratizzazione, si deve dunque riflettere se semplicemente nel 2011 non sia stata maturata la capacità di operare una precisa e corretta individuazione, da parte del popolo, della causa della mancanza di riconoscimento delle libertà civili e dei diritti politici. Infatti, come si comprende meglio dopo dieci anni, tale mancanza di riconoscimento non è tanto da rinvenirsi nelle figure autoritarie, allora al potere, come per esempio Hosni Mubarak e Abdelaziz Bouteflika, quanto piuttosto nel sistema a esse sottostante, ossia quello di regimi che come vediamo non sono mutati ma piuttosto peggiorati.

Non a caso, nonostante il colpo di stato, ancora oggi, con la salita al potere del presidente al-Sisi, l’Egitto rimane oggetto di numerose contestazioni popolari alle quali il governo risponde con l’applicazione di una forza militare altamente repressiva. Di fatti i manifestanti egiziani oggi dirigono le loro proteste non più verso lo stato civile quanto piuttosto contro il regime militare.

I malcontenti sono gli stessi…

Tornando poi al malcontento popolare, manifestato più specificamente dal 2018 al 2020 in Algeria, Iraq e Libano, vi è da sottolineare che le primavere arabe dispiegarono i loro effetti in parte, senza essere sovversive del sistema politico allora al potere, o per nulla in questi paesi, diversamente da quanto avvenne in altri, sia del Nord Africa che del Medio Oriente, come già evidenziato sopra. In Libano, in Iraq o in Algeria sono emersi comunque oggi gli stessi malcontenti di allora: in Algeria ancora una volta contro il presidente Abdelaziz Bouteflika, costretto a dimettersi il 2 aprile del 2019.

L'eredità delle Primavere arabe

Algeri, 5 aprile 2019: Rachid Nekkaz, attivista fondatore del Mouvement de Jeune et Changement (MJC), dopo la cacciata di Bouteflika (foto Soheib Mehdaoui). Si trova in isolamento in carcere dal dicembre 2019.

Migliaia di manifestanti tunisini, algerini, come in passato e iracheni e libanesi per la prima volta, sono scesi negli ultimi anni in strada accusando le forze di sicurezza e l’élite al potere di corruzione e di gravi violazioni dei diritti umani. Questo aiuta a comprendere oggi come alcuni fenomeni rimandino più all’idea che le Primavere arabe furono la manifestazione di una “malattia cronica” e non “semplicemente acuta”. I ragazzi che oggi manifestano hanno vissuto la dittatura durante la loro infanzia e vivono la condizione di una democrazia sospesa, a questo va aggiunto il ruolo delle forze del sedicente Stato Islamico che hanno portato un aggravio di situazioni sociali e politiche già logorate.

L'eredità delle Primavere arabe

Proteste a Beirut (foto alichehade).

… ma è aumentata la povertà

Si può dunque ipotizzare che le primavere del 2011 abbiano cambiato solo la facciata dei sistemi politici allora al potere, ma ne sono rimaste per decenni intatte le loro dinamiche. Inoltre, con riferimento ai recenti tumulti che hanno interessato Algeria, Iraq e Libano va detto che la pandemia diffusasi nello scorso anno non ha fatto altro che accelerare ed esacerbare tali dinamiche legate ai poteri di sempre e che portano tuttora i giovani a manifestare per l’acquisizione degli stessi diritti, ma in una condizione di povertà senza precedenti.

In conclusione, quindi si può affermare che anche se le richieste politiche economiche e sociali sono ancora disattese – nonostante le Primavere arabe e le rivoluzioni arabe verificatesi negli ultimi anni – occorre forse che trascorra ancora del tempo affinché tali istanze civili possano effettivamente determinarsi con un conseguente cambiamento del sistema politico e del ruolo della società civile. Sarà tuttavia il popolo capace di resistere ancora una volta?

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Taipei, ossessione cinese in un mare conteso https://ogzero.org/taiwan-e-snodo-essenziale-tra-loccidente-e-il-sogno-cinese/ Wed, 14 Apr 2021 20:33:17 +0000 https://ogzero.org/?p=3084 Taiwan è snodo essenziale nella geopolitica dell’era Biden, che intende recuperare un po’ del prestigio perduto tra i flutti del Mar Cinese meridionale dalla passata amministrazione Trump, soprattutto dopo l’epilogo della disputa hongkonghese, che vede l’isola definitivamente inglobata nella Cina popolare; ora tocca a Taipei. L’isola rappresenta anche il maggior produttore di microchip quasi in […]

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Taiwan è snodo essenziale nella geopolitica dell’era Biden, che intende recuperare un po’ del prestigio perduto tra i flutti del Mar Cinese meridionale dalla passata amministrazione Trump, soprattutto dopo l’epilogo della disputa hongkonghese, che vede l’isola definitivamente inglobata nella Cina popolare; ora tocca a Taipei. L’isola rappresenta anche il maggior produttore di microchip quasi in regime di monopolio per quelli sotto i 10 nanometri – dunque motivo di preoccupazione per l’Occidente, se dovesse finire sotto il controllo di Pechino, che proprio per questo motivo potrebbe trovare ulteriore incentivo alla riunificazione. Di contro l’attuale amministrazione americana sta rivedendo l’approccio, promuovendo assistenza economica, relazioni diplomatiche e traffico di armi con il governo di Tsai Ing-wen. Per questa serie di ingarbugliate risoluzioni strategiche proponiamo l’indispensabile approfondimento storico di Alessandra Colarizi per collocare la nuova guerra che nel prossimo futuro vedrà al centro l’autonomia di Taipei dalla Cina continentale, le cui navi continuano a solcare un mare conteso e i cui piloti volano nei cieli di Formosa.


La guerra tra il Partito comunista cinese e i nazionalisti del Kuomintang (Kmt) è iniziata negli anni Venti, si è fermata durante la Seconda guerra sino-giapponese (1937-1945), per poi culminare, quattro anni più tardi, nella fuga del Kmt sull’isola di Taiwan. Ma la guerra civile cinese, in realtà, non è mai finita. Seppur con modalità e dinamiche diverse, è una guerra psicologica che – senza spargimenti di sangue – continua ancora oggi.

Per gli esperti, il 2020 è stato l’anno più turbolento dalla terza crisi dello Stretto di Formosa, quando tra il 1995 e il 1996 la Cina rispose alla visita negli States dell’allora presidente taiwanese Lee Teng-hui con esercitazioni missilistiche.. Negli ultimi mesi Pechino ha aumentato le sue incursioni nella zona di identificazione aerea di Taiwan (Aidz) con voli quasi giornalieri di aerei spia e jet militari arrivando persino ad attraversare la linea mediana, la frontiera simbolica tra le due Cine rimasta inviolata per settant’anni. Secondo Philip Davidson, comandante delle Forze Usa nell’Indopacifico, un tentativo di riunificazione manu militari – mai escluso dalla leadership comunista – potrebbe concretizzarsi nel giro di sei anni. Verosimilmente, molto dipenderà dalla postura di Washington, tenuto a sostenere l’autosufficienza bellica di Taipei, ma sollevato da obblighi difensivi fin dall’interruzione del Sino-American Mutual Defense Treaty nel 1980, un anno dopo l’istituzione di rapporti ufficiali con la Repubblica popolare.

Negli ambienti militari cinesi circola la convinzione che la pandemia abbia accelerato l’inesorabile declino della potenza statunitense nel quadrante asiatico. Ormai sceriffo senza stella, una volta persa Taiwan, Washington rischia una crisi di credibilità tra gli alleati regionali, che il gigante asiatico punta a cavalcare. «Il timore di un danno frena. L’azione logora. La prospettiva di un vantaggio incita», scriveva lo stratega cinese Sun Tzu. Ma leggere l’escalation tra Pechino e Taipei attraverso il prisma dell’intervento a stelle e strisce è un esercizio tanto intrigante quanto ingannevole. Come ripetono i media statali, quella taiwanese è una “questione interna”. Propaganda a parte, la retorica muscolare della leadership comunista risponde realmente a dinamiche intestine.

Taiwan, questa sconosciuta

Quella di Taiwan è una storia antica ma non troppo. Come spiega sul blog della Yale University Press Bill Hayton, autore di The Invention of China, dall’occupazione giapponese (1895) all’arrivo dei nazionalisti, la mainland non si è data particolare pensiero della sorte dell’isola, considerata all’epoca inospitale e abitata da popolazioni primitive. Nel 1895, un editto imperiale vietò ogni supporto al governatorato locale istituito dalla dinastia Qing una decina di anni prima quando, in virtù del posizionamento strategico per i commerci con le potenze coloniali, Taiwan fu scorporata dal Fokien e resa provincia. Ben 200 anni dopo essere stata annessa al Celeste Impero. Non godette di maggiori attenzioni nemmeno durante il breve esperimento repubblicano di Sun Yat-sen. Nei piani del fondatore del Kuomintang, l’ex Formosa doveva servire come base d’appoggio per sovvertire la decrepita dinastia mancese, ma non venne mai ufficialmente inclusa tra le nuove 22 province, nonostante la Repubblica di Cina rivendicasse confini in larga parte sovrapponibili ai territori Qing. Questa ambiguità di fondo non cessò nemmeno dopo la vittoria comunista. Anziché ambire a una riunificazione, Mao e compagni auspicavano piuttosto che l’isola riuscisse a ottenere l’indipendenza dal Giappone, tanto che durante il sesto Congresso del Pcc il popolo taiwanese venne espressamente definito una minzu (nazionalità) a sé. Posizione mantenuta fino ai primi anni Quaranta. Più precisamente fino all’attacco nipponico di Pearl Harbour e al conseguente ingresso americano nella Seconda guerra mondiale. Solo allora, fiutando l’imminente sconfitta del Sol Levante, i nazionalisti del generalissimo Chiang Kai-shek scorsero nell’isola selvaggia un riparo temporaneo da cui programmare una riconquista della Cina continentale. Sappiamo che questo non avvenne mai. Ma le rivendicazioni del governo “illegittimo” oltre lo Stretto continuano tutt’oggi ad agitare i sonni dell’establishment comunista. «Sacro territorio inalienabile», così la costituzione cinese definisce dal 1982 l’ex Formosa.

Il senso di Pechino per Taiwan

Per capire l’ossessione cinese per l’isola bisogna scavare tra le pieghe della storia recente. Negli ultimi trent’anni, le due Cine hanno preso strade divergenti: una ha rinnegato il dispotismo militarista di Chiang Kai-shek, diventando un raro esempio asiatico di democrazia illuminata. L’altra ha cambiato diversi “Timonieri”, appeso al chiodo la divisa rivoluzionaria, ma ha giurato amore eterno al sistema monopartitico. Generazione dopo generazione l’involucro è rimasto tale e quale.

Ma gli ideali che un tempo ispirarono i fondatori della patria nella lotta contro i nazionalisti hanno ceduto il posto al “socialismo con caratteristiche cinesi”, quel “capitalismo di stato” che, mixando piani quinquennali e imprenditoria privata, ha sì reso la Cina seconda economia mondiale, ma anche provocato effetti collaterali, come corruzione dilagante e diseguaglianze sociali. Il tutto mentre sull’altra sponda dello Stretto molteplici forze politiche si contendono il voto dei cittadini nella cornice di vivaci campagne elettorali. Taiwan rischia di diventare motivo di imbarazzo per Pechino. Non è facile difendere la superiorità del “modello cinese” con una Cina democratica determinata a ottenere un maggior riconoscimento sullo scacchiere mondiale. Soprattutto da quando l’ottima gestione del coronavirus le è valso il plauso internazionale.

Assicurare stabilità sociale e prosperità economica è quanto, fino a oggi, ha permesso alla leadership comunista di mantenere il consenso popolare anche in tempi di crisi ideologica. Ma le incertezze del contesto globale espongono il binomio sicurezza e benessere a rischiose variabili esterne. Lo dimostrano la pandemia e i chiari di luna con Washington. Ecco perché, nella “Nuova Era” di Xi Jinping, il partito/stato si è rivolto al nazionalismo per consolidare la propria legittimità. Complice la fase decadentista vissuta dall’Occidente democratico. Bu wang chuxin (“Non dimenticare l’intenzione originaria”): il monito riecheggia costantemente nei discorsi del presidente, rievocando una concezione paternalistica del potere che, come al tempo della rivoluzione comunista, si serve di una minaccia esterna – reale o presunta – per unire la popolazione e legittimare la propria sopravvivenza.

Il patriottismo “strabico” di Pechino

Per quanto piuttosto efficace, la strategia del fanatismo patriottico come collante sociale non è priva di ambiguità. Cominciata alla fine dell’Ottocento su ispirazione giapponese, la formazione di un sentimento nazionalista oltre la Grande Muraglia non solo precede la fondazione del Partito comunista, ma è anche strettamente associata alle origini del Kmt e ai “tre principi del popolo” di Sun Yat-sen: minquan (democrazia), minsheng (benessere del popolo) e minzu (nazionalismo) inteso come l’unione di tutte le etnie cinesi in chiave antimperialista. Al contempo il processo di costruzione nazionale, avviato nella Cina continentale intorno agli anni Trenta, non riguardò l’isola oltre lo Stretto, all’epoca ancora nell’orbita nipponica. E, sebbene l’arrivo a Taiwan del governo nazionalista in fuga segnò l’importazione del nation building cinese, all’inizio del nuovo millennio l’ascesa del filoindipendentista Democratic Progressive Party ha sancito la formazione di una vera e propria identità taiwanese, arrivando persino a rinnegare le antiche radici cinesi. Da allora il percorso delle due Cine si è biforcato nuovamente, mettendo a rischio la narrazione delle origini condivise promossa da Pechino. Questo strabismo storico si riflette nella rilettura della controversa figura di Chiang Kai-shek. Considerato un tempo “nemico del popolo”, negli ultimi anni l’industria culturale cinese ha cercato di riabilitare la figura del generalissimo nel nome di un comune patriottismo antigiapponese, laddove a Taiwan, negli ambienti più progressisti, si sta cercando di cancellarne ogni traccia. Per molti taiwanesi Chiang è il ricordo di quarant’anni di arresti e stragi indiscriminate. Per il governo comunista, invece, Chiang è la prova che c’è sempre stata “una sola Cina”.

Taiwan e il “Chinese Dream”

Il ritorno alla madrepatria «non può aspettare di generazione in generazione», aveva sentenziato Xi Jinping nel 2013, appena assunto l’incarico di presidente. In quello stesso anno prendeva forma il “sogno cinese”, concetto evocativo che sintetizza l’impegno del partito/stato non solo ad assicurare benessere economico per la popolazione, ma anche a ripristinare lo standing internazionale dell’ex “malata d’Asia” dopo l’umiliazione subita nell’Ottocento per mano delle potenze imperialiste. Concludere definitivamente la guerra civile è strumentale al raggiungimento dell’agognata “rinascita nazionale”. Un obiettivo che passa per la difesa della sovranità territoriale e l’assoggettamento delle aree periferiche del paese ancora refrattarie all’autorità del governo centrale. Ma le proteste di Hong Kong e la sinizzazione forzata del Tibet e della regione islamica dello Xinjiang hanno reso la prospettiva di un’assimilazione politica anche più invisa alla popolazione taiwanese. Diversi segnali suggeriscono un parziale ripensamento di Pechino davanti alla scarsa persuasività della vecchia strategia dell’annessione pacifica a base di isolamento internazionale e corteggiamento economico. La perdita di sette alleati e l’offerta di una semiautonomia in stile hongkonghese non hanno ammorbidito la posizione di Taipei. E il tempo stringe. La Cina ambisce a diventare una “potenza socialista moderna” entro il 1° ottobre 2049, centenario della Repubblica popolare. Ma tappe e obiettivi anche più ravvicinati incombono minacciosi. Andando a ritroso, il 2027 potrebbe già riservare preoccupanti colpi di scena. Nei piani di Pechino, il centesimo compleanno dell’Esercito popolare di liberazione dovrà coincidere con la fine dell’ambiziosa riforma militare avviata nel 2015 per supportare il “sogno cinese”. C’è chi teme che, una volta ottenuti i mezzi necessari, la leadership cinese possa decidere di assumersi il rischio di una guerra con gli Stati Uniti. Chi invece, anche tra le fila dell’esercito cinese, considera un intervento armato uno spreco di risorse utilizzabili per “migliorare il tenore di vita della popolazione cinese”. Vero obiettivo del “Chinese Dream”.

 

Il sogno di Xi

I prossimi due anni potrebbero rivelarsi determinanti per le relazioni con Taipei. Il biennio 2021-2022 vedrà succedersi a stretto giro il centenario e il 20° Congresso del Partito comunista, che sancirà un parziale ricambio ai vertici della nomenklatura cinese. Un momento delicato che, con ogni probabilità, vedrà Xi sfondare il limite dei due mandati con l’intento di continuare a presiedere la roadmap dei due centenari, potenzialmente sine die. Consolidare l’eredità politica del lider maximo cinese pare conti almeno quanto raggiungere l’obiettivo del “ringiovanimento nazionale”. In questo processo Taiwan ricopre un ruolo centrale. Lo dimostra lo storico incontro tra Xi e l’ex presidente nazionalista Ma Ying-jeou, pochi mesi prima che nel gennaio 2016 la vittoria elettorale della leader del Dpp Tsai Ing-wen facesse naufragare ogni speranza di una riconciliazione pacifica.

Per Xi, la riunificazione è una questione personale. Una questione di famiglia, diciamo. Una storia dimenticata racconta di come la guerra civile intersecò le vicende famigliari del presidente. Perché se i media ufficiali amano ricordare le gesta del padre di Xi, il rivoluzionario Xi Zhongxun rimasto fedele al partito nonostante le purghe maoiste, il nonno materno del presidente, Qi Houzhi, militò nel braccio armato del Kmt durante la spedizione del Nord contro i signori della guerra. Un ruolo che gli permise di intercedere per la liberazione della figlia Qi Yun, zia di Xi Jinping, arrestata dai nazionalisti nel 1937 a causa delle sue note simpatie comuniste. Dopo la vittoria delle truppe maoiste, quel gesto paterno protesse Qi Houzhi dalla campagna contro gli elementi di destra. Non è andata altrettanto bene alla famiglia della first lady Peng Liyuan: il padre fu perseguitato per anni dopo che uno zio fuggì con i nazionalisti a Taiwan. Ancora governatore del Fujian – la provincia davanti allo Stretto – nel 2000 Xi riconobbe l’importanza dei trascorsi famigliari nella sua formazione personale. Probabilmente, lo stesso vale per molti altri cinesi. Senza dubbio, ricucire lo strappo con l’altra Cina darebbe a Xi un posto di primo piano nella storia. La riunificazione «è inevitabile», ha sentenziato il leader. La vera domanda continua a essere “come e quando?”.

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La guerra cambia https://ogzero.org/la-guerra-cambia-o-no/ Wed, 14 Apr 2021 07:14:44 +0000 https://ogzero.org/?p=3072 Blinken annuncia per il September/Eleven 2021 la fine del conflitto più lungo nella storia degli Usa. Con il ritiro degli ultimi 2000 boots on the ground dall’Afghanistan si concludono vent’anni di guerra che sono costati più di 100.000 morti civili e qualche migliaio di combattenti solo nel conflitto afgano. Dove sono stati utilizzati massicciamente quei […]

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Blinken annuncia per il September/Eleven 2021 la fine del conflitto più lungo nella storia degli Usa. Con il ritiro degli ultimi 2000 boots on the ground dall’Afghanistan si concludono vent’anni di guerra che sono costati più di 100.000 morti civili e qualche migliaio di combattenti solo nel conflitto afgano. Dove sono stati utilizzati massicciamente quei militari professionali appartenenti ad agenzie che forniscono servizi, anche e soprattutto bellici (ma pure logistici) in ogni situazione di conflitto: i “contractor”, quei prezzolati che seguono regole di ingaggio specificate nei contratti – spiegati con precisione da Stefano Ruzza nel video inserito nell’articolo – stipulati anche con governi, che non si possono permettere le “spese” di una guerra o di apparire come invasori. “La guerra cambia” è il titolo di questo splendido contributo di Eric Salerno, che descrive il mondo di questi militari di professione a partire da una sua intervista di sessant’anni fa a un soldato di ventura tedesco, impegnato nell’operazione coloniale contro il Congo di Lumumba… e così si insuffla il dubbio che la trasformazione della forma in cui si presenta la “Guerra” sia reale. Il discorso poi si dipana in giro per tutto il mondo e in ogni guerra più o meno dichiarata, mentre in parallelo scorrono racconti e figure inquietanti del passato, come il racconto dell’incontro vecchio di 50 anni di Roman Gary con un ex agente dell’Oas impazzito nella sua tana a Gibuti. E allora il dubbio su quanto sia cambiata la guerra diventa certezza in questa carrellata degna di Ermanno Olmi e del suo Il mestiere delle armi… che non cambia mai a dispetto di quanto sia cangiante l’idea di guerra.


Mercenari, legionari, contractors e… droni

La verità sulla morte di Lumumba

«I am a mercenary coming from the Congo. I want to tell you how Lumumba was killed». Così Gerd Arnim Katz – il suo nome dichiarato – si presentò alla redazione di “Paese Sera” una mattina del febbraio 1961. Ascoltai la sua storia (in parte vera in parte fantasia) e il quotidiano romano di sinistra uscì con un titolo a piena prima pagina sulla morte del leader africano, trucidato per ordine della Cia. Katz era una pedina minore in un campo di battaglia vasto come sta tornando a essere l’Africa di oggi.

"Paese Sera" - 23 e 24 febbraio 1961

Intervista a Gerd Arnim Katz, testimone dell’assassinio di Patrice Lumumba nella sede di “Paese Sera”

Non era certo un Mike Hoare, il più celebre dei mercenari del Novecento, che nel 1964 ebbe da Moise Ciombe, presidente dell’autoproclamato stato di Katanga, una provincia del Congo, l’incarico di reprimere la rivolta dei Simba, un esercito popolare di liberazione di ispirazione maoista che era riuscito a conquistare l’importante città di Stanleyville, prendendo in ostaggio oltre 1500 cittadini europei. E tanto meno poteva, quel mercenario approdato al quotidiano romano, essere paragonato a Rolf Steiner, ex legionario, ex capo dei mercenari in Biafra, ingaggiato come consulente militare dai ribelli cristiani Anya Nya impegnati con l’aiuto del Mossad israeliano nella guerra secessionista nel Sudan meridionale e finito in carcere dopo un lungo processo a Khartoum.

Legionari resi folli dall’inaccettabile fine dell’impero coloniale…

Katz fu, però, il primo di non pochi soldati di ventura che incontrai nei miei giri per l’Africa e altrove dove oggi, nel continente nero come nel resto del mondo, la guerra sta assumendo nuove forme e impiega nuovi-vecchi attori. I mercenari si chiamano contractors (suona meglio) ma spesso sono quelli di sempre; i drone operators si chiamano piloti anche se stanno seduti per ore davanti a uno schermo ben distante dal campo di battaglia. I fanti del prossimo futuro sono robot sofisticati come quelli di cui leggevo da bambino nei racconti di fantascienza di Isaac Asimov o Ray Bradbury. La guerra cambia. «In meglio!», asserisce chi ha investito nella nuova faccia del military-industrial complex, come lindustria degli armamenti o, diciamo, della guerra fu definita dal generale poi presidente degli Usa Eisenhower. «In peggio!», sostengono coloro che trovano difficile pensare a un robot o a un pilota della nuova generazione e tanto meno all’amministratore delegato di una società, che offre manodopera armata come se fossero colf, badanti o operatori del sesso, trascinato sul banco degli imputati per crimini di guerra.

Il mercato del lavoro a disposizione del quale si era messo quel Katz con cui parlai sessanta anni fa era ben diverso da ciò che offre il mondo d’oggi. All’epoca molti sbandati o pregiudicati come lui trovavano spazio nella vecchia Legione straniera francese, una specie di esercito parallelo a quello ufficiale di Parigi, formalmente sottoposto alle medesime regole di comportamento ma, come si vide nelle sue avventure in Vietnam o in Algeria, molto più elastico, per usare un eufemismo, nel trattamento del nemico.

Imaginez le drapeau tricolore sortant de ce nulle part. Un autre traîne sans vie au-dessus dune tour de guet que je reconnais immédiatement: cest celle des postes isolés en territoire viet. Une cabane de pierres entassées et autour Eh bien, oui: des sacs de sable contre les balles et une mitrailleuse qui pointe

Vous ne me croyez pas. Tant mieux. Je garderai mieux pour moi cette pierre qui brille de tous les éclats dune belle et pure folie Un homme vit là-dedans depuis six ans: lex capitaine Machonnard. Je dix ex: privé de son grade pour son action dans lOas. Devenu fou: cest ainsi quon appelle ceux qui ne peuvent se faire à la réalité. Un an dinternement. Un Homme pur qui le temps sest arrêté et ne se remettra plus jamais en marche : vous comprendrez dans un istant

Le capitaine sort une bouteille de champagne de sa serviette.

– Pour célébrer la victoire de Dien Bien Phu

[…]

Car, vous lignorez peut-être, mais Machonnard vous le dira : lIndochine et lAlgerie sont toujours françaises, le général Salan est président de la République, dans tout lAfrique  française les enfants noirs continuent à apprendre en chœur les premières lignes dIsaac et Malet : «Nos ancêtres les Gaulois avaient de longues moustaches blondes…»

(Roman Gary, Les Trésors de la mer Rouge, Gallimard-Folio, Paris, 1971)

… e i crimini incarnati in una figura di mercenario

Rolf Steiner

Ritratto di un mercenario realizzato da Eric Salerno il 21 agosto 1971 per “Il Messaggero”

Le nuove compagnie di ventura

Oggi la legislazione a livello internazionale distingue tra i mercenaries – tutti fuorilegge – e i contractors, ossia dipendenti delle numerose società private o semigovernative che operano saltellando da un conflitto a un altro. Certamente l’esempio più clamoroso risale ai momenti più caldi delle guerre in Iraq e in Afghanistan quando gli Usa impiegarono oltre 260.000 di questi contractors, in gran parte ex militari o ex agenti di polizia. Spesso erano più dei militari stelle e strisce schierati nei due fronti. I loro compiti andavano dalla costruzione delle basi e dei campi rifugiati al servizio mensa e al mantenimento delle armi; dalla sicurezza degli impianti a quella dei diplomatici. E anche all’interrogatorio dei detenuti non sempre condotto con il rispetto delle convenzioni internazionali sul trattamento riservato ai prigionieri di guerra.

I due fronti, afgano e iracheno, sono ancora vitali per l’industria militare (anche come testing ground per armi e sistemi) e ai contractors Usa si sono aggiunti molti altri. La famosa – o infame – Blackwater fondata nel 1997 da Erik Prince, un ex Navy Seal con un grande patrimonio di famiglia fu costretta a cambiare nome nel 2011 dopo numerosi scandali che coinvolgevano loro operativi e almeno un processo. L’incidente più clamoroso risale al 16 settembre 2007 quando a Baghdad 17 iracheni, di cui almeno 14 civili, rimasero uccisi dal fuoco dai contractors della compagnia militare privata: la Blackwater ora si chiama Academi. Ed è sempre la prima per importanza di un lungo elenco.

Erik Prince

Forze militari in affitto: Erik Prince, fondatore della Blackwater-Academi

Dall’altro lato di quella che era la cortina di ferro negli anni della contrapposizione Usa-Urss, gli fa concorrenza la misteriosa Wagner Group, una organizzazione paramilitare che secondo alcuni farebbe capo al ministero della difesa di Mosca. Formalmente, per quanto si riesce a capire, è di proprietà di un uomo d’affari (Yevgeny Prigozhin) con legami con il presidente russo Putin. Seppure a distanza (relativa) quelli di Academi e di Wagner si scontrano-sfiorano nel vasto, complicato, scacchiere della guerra in Siria la cui popolazione, peraltro, è diventata un grande serbatoio di reclutamento di mercenari. Il gruppo privato russo li usa sia nei conflitti indiretti non solo in Siria ma anche nella guerra in Donbass in Ucraina e in Libia. E secondo molte fonti anche in Sudan, Repubblica centroafricana, Zimbabwe, Angola, Madagascar, Guinea, Guinea Bissau, Mozambique e forse nella Repubblica democratica del Congo.

Sudan 1971

Mercenari già allora russi nel conflitto sudanese 1971 in un articolo di Eric Salerno per “il Messaggero” del 21 giugno 1971

Un altro esercito di mercenari (soprattutto ma non solo siriani) è quello creato dalla Turchia nel quadro dei suoi progetti egemonici. Almeno quattromila sono in Libia e altri furono utilizzati da Ankara a sostegno dell’Azerbaijan nel conflitto con gli armeni sul Nagorno-Karabakh. Questi i grandi attori ma non gli unici. Gli Emirati si sono serviti di mercenari provenienti dalla Colombia (addestrati dagli Usa) e da alcuni stati africani per la loro guerra a fianco dell’Arabia saudita in Yemen. Rifugiati afghani furono utilizzati dall’Iran in Siria a fianco di Assad. Lo stesso Gheddafi reclutava mercenari nei paesi africani a sud della Libia.

Mercenari subsahariani di Gheddafi

Gheddafi reclutava mercenari nelle zone dell’Africa subsahariana.

Milizie private, dunque, milizie al servizio di stati che cercano di nascondere il loro coinvolgimento ufficiale nei conflitti oppure ridurre-nascondere l’impatto economico o in termini di costo umano delle imprese volute dai rispettivi governi. Ma a parte queste considerazioni che riguardano la legalità dei contractors rispetto alle convenzioni internazionali viene da chiedersi cosa faranno questi mercenari quando non serviranno più ai loro committenti. Dove andranno a lavorare? Per chi?

Nuovi prodotti bellici e nuova carne da cannone

Quando l’industria della guerra riuscirà a sfornare i suoi nuovi prodotti quei mercenari sfruttati e mandati al macello non serviranno più. Nei campi di battaglia attuali si sperimentano gli eserciti del futuro. Stati Uniti, Russia e Israele sono all’avanguardia nello sviluppo di Sistemi d’Arma Autonomi Letali (Laws) che consentiranno di togliere gli esseri umani dai campi di battaglia. Recentemente uno dei responsabili del ministero della difesa di Londra si è detto convinto che nel giro di pochi anni il grosso delle forze armate del suo paese sarà rappresentato da robot-fanti in grado di uccidere in base all’input della loro intelligenza artificiale. Si parla di un’autonomia – con tutto quello che implica anche dal punto di vista legale – superiore a quella dei droni-suicida già operativi come l’Harop israeliano usato dall’Azerbaijan ripreso mentre distruggeva una batteria anti-missile russo in Armenia.

Harop Drone

Il drone suicida di fabbricazione israeliana Harop è utilizzato in ogni scenario di guerra

E qui vale la pena tornare ai contractors, a quanto possono essere considerati responsabili delle loro azioni e del controllo sui mezzi autonomi. Oggi mantenere in azione per 24 ore una pattuglia di droni armati Predator e Reaper delle forze armate americane richiede la “presenza” di 350 esseri umani molti dei quali dipendenti delle società militari private. La legislazione introdotta per
regolamentare il comportamento dei contractors Usa viene considerata da molti esperti di diritto internazionale insufficiente.

Negli altri stati che si servono di personale civile (non necessariamente cittadini di quei paesi) per operazioni militari la questione è ancora più complessa e controversa. E ci mette di fronte al futuro, quello in cui si vorrebbe affidare a un algoritmo il compito di cercare, identificare e uccidere il bersaglio giusto (umano o non) in un campo di battaglia complesso alla presenza di civili non combattenti. «Non bisogna dare retta a coloro che garantiscono che queste armi saranno intelligenti», il commento preoccupato di Noel Sharkey, presidente del Comitato internazionale per il controllo delle armi robotiche. Altri come lui sottolineano come queste nuove tecnologie sono tutte soggette a hacking e dunque possono sfuggire al controllo del committente. Un tentativo di studiare il fenomeno e creare una serie di regole d’uso è stato compiuto dal Sipri (2020). «Vi sono imperativi legali, etici e operazioni per il controllo umano dell’uso della forza e, dunque, sui sistemi di armamenti autonomi», si legge nelle conclusioni di Limits on Autonomy in Weapon Systems. Identifying Practical Elements of Human Control.

Tutto questo per quanto riguarda il mondo, diciamo, delle Nazioni disposte ad assumersi le proprie responsabilità in tempo di guerra. Pochi, finora, hanno voluto addentrarsi nel reame sempre più fluido dei conflitti per procura e degli eserciti di mercenari. Per non parlare del mondo parallelo della criminalità organizzata che oggi ancora più di ieri attinge al vasto mercato libero delle armi siano convenzionali che del futuro. Droni di fabbricazione israeliana sono stati segnalati sia nelle mani della polizia messicana che a disposizione dei grandi cartelli dei narcotrafficanti (trasporto di cocaina e altro). E le stesse organizzazioni si fronteggiano spesso grazie ai servizi di società private (molte di quelle israeliane formati da ex delle forze armate e dei servizi segreti sono sotto inchiesta a Tel Aviv) capeggiate da esperti nel mondo della cibernetica e dell’Intelligenza artificiale.

Paramilitari in Mexico

 

L'articolo La guerra cambia proviene da OGzero.

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n. 1 – Corno d’Africa: Migranti e secolari conflitti etnici e coloniali https://ogzero.org/una-visione-di-insieme-degli-scenari-che-provocano-migrazioni/ Sun, 11 Apr 2021 08:22:39 +0000 https://ogzero.org/?p=2976 Questo saggio fa parte di una raccolta di articoli che fornisce una panoramica sulla questione migratoria: analizzeremo insieme a Fabiana Triburgo le varie rotte che si sono delineate nel tempo a causa di conflitti o e instabilità che provocano questo fenomeno per giungere infine a un’analisi della normativa europea e delle alternative che potrebbero emergere […]

L'articolo n. 1 – Corno d’Africa: Migranti e secolari conflitti etnici e coloniali proviene da OGzero.

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Questo saggio fa parte di una raccolta di articoli che fornisce una panoramica sulla questione migratoria: analizzeremo insieme a Fabiana Triburgo le varie rotte che si sono delineate nel tempo a causa di conflitti o e instabilità che provocano questo fenomeno per giungere infine a un’analisi della normativa europea e delle alternative che potrebbero emergere da politiche più coraggiose e lungimiranti. Qui il primo contributo, focalizzato sul Corno d’Africa.


n. 1

I principali conflitti che attualmente interessano le migrazioni forzate e le prassi di esternalizzazione poste in essere dall’Unione Europea e dai singoli stati membri portano a una predeterminazione delle rotte dei migranti.

Quello che oggi è inevitabile chiedersi è se il nuovo Patto europeo sulla migrazione e l’asilo, proposto dalla Commissione UE, possa essere realmente considerato una soluzione della gestione del fenomeno migratorio o se invece vi siano soluzioni legali alternative maggiormente lungimiranti e coraggiose.  


Le diverse culle dell’emigrazione dal continente africano e l’accoglienza in Europa

Occorre da principio analizzare alcuni dei conflitti e situazioni di instabilità politica che continuano a interessare diverse aree del Mondo per poter capire meglio quali siano le nazionalità coinvolte nelle attuali correnti umane quantomeno di quelle forzate. Gli accadimenti bellici determinatisi in Etiopia dal mese di novembre 2020 per esempio, con particolare riferimento alla regione del Tigray, hanno proiettato nuovamente il rischio di un’instabilità politica dell’area che si pensava superata con l’elezione del nuovo presidente Abiy Ahmed Ali e dagli accordi di non belligeranza del 2018. Tali accadimenti hanno di fatto riportato l’attenzione della Comunità internazionale in questa area del Corno D’Africa.

Il campo di Dadaab che il Kenya intende chiudere. Il Corno d’Africa è l’area del mondo che produce e accoglie il maggior numero di sfollati, circa 11 milioni.

Le dinamiche di tale conflitto che il Governo Federale Etiope cerca di tenere sotto controllo, nonostante le attuali guerriglie, anche in vista delle prossime elezioni, coinvolgono non solo L’Etiopia ma anche L’Eritrea, la Somalia, il Sudan, paesi già interessati tra l’altro da conflitti interni, nonché l’Egitto che, caratterizzato da un sistema autoritario, mantiene comunque forti interessi economici nella zona. Non solo, la Libia da diversi anni, in una situazione di assenza di un governo unitario del paese, è concretamente divisa in due aree d’influenza politica la Cirenaica e la Tripolitania nelle quali i rispettivi esponenti Khalifa Haftar da un lato e Fayez al-Sarraj dall’altro si contendono l’egemonia e le risorse del paese nel quale vi sono anche altre presenze internazionali ossia Russia, Egitto e Francia da un lato, Turchia e Italia dall’altro; l’idea al momento è quella di creare un governo transitorio che guidi il paese fino alle elezioni di dicembre del 2021.

La Tunisia, invece, dove ebbero inizio dieci anni fa le cosiddette primavere arabe, dal 2010 ha formalmente adottato un sistema democratico ma al contempo ha visto susseguirsi, negli ultimi anni, diversi governi ed è attualmente interessata da numerose e continue proteste popolari che denunciano il mancato rispetto da parte dell’attuale governo di alcuni diritti civili fondamentali. A tali scenari si aggiungono le situazioni geopolitiche non ancora risolte riguardanti più in generale l’Africa subsahariana ossia non solo paesi come la Nigeria ma anche l’area del Sahel in particolare il Mali e il Niger mentre sul fronte del Medio Oriente a destare maggiori preoccupazioni sono l’Afghanistan, l’Iraq e la Siria.

In tale contesto internazionale si inserisce la politica europea e dei singoli stati membri dell’UE in materia di immigrazione che, vista la perdurante applicabilità dal Regolamento di Dublino e dei criteri da esso stabiliti, ha determinato di fatto un condizionamento o meglio un vero impedimento per i migranti ad attraversare determinate frontiere. Ciò è avvenuto mediante la definizione da parte dell’UE o di singoli paesi dell’UE di accordi bilaterali, contraddistinti dai continui respingimenti dei migranti (dei quali i numeri per il solo anno 2020 sono impressionanti anche con riferimento alle vittime), con i paesi che geograficamente sono collocati alle porte dell’UE: l’accordo con la Turchia nel 2016 per fermare i flussi migratori verso la Grecia (rotta dell’Egeo), con la guardia costiera Libica, con il Niger e la Tunisia, per bloccare i flussi migratori verso l’Italia e Malta (rotta del Mediterraneo centrale), con il Marocco per fermare l’emigrazione verso la Spagna (rotta Atlantica). Il supporto finanziario per il contrasto al fenomeno migratorio di flussi misti si è spinto oltre: l’agenzia europea Frontex ha coadiuvato tali controlli e respingimenti delle frontiere insieme alla polizia croata, per i migranti provenienti dalla Bosnia, e anche a quella Italiana rispetto ai migranti provenienti dalla Slovenia (Rotta Balcanica) che hanno quindi così garantito la riuscita del cosiddetto “Game”.

Per quanto riguarda le “frontiere liquide”, ossia quelle marittime, occorre prestare attenzione alla definizione delle zone Sar (“Search and Rescue”) e alla criminalizzazione del diritto al soccorso in mare in evidente violazione delle Convenzioni internazionali in materia, nelle quali il soccorso in mare prima ancora di un diritto è un obbligo.

Divisione Sar mediterranee

In conclusione ci si chiede se sia corretta l’approvazione del parlamento europeo e del consiglio europeo di una proposta di una normativa della commissione che mira alla creazione di campi di confinamento, ossia grandi “hotspot” in prossimità delle frontiere UE, non solo per l’identificazione (attività di “screening”) ma anche per una valutazione accelerata della domanda d’asilo, che continua a mantenere il criterio gerarchico del primo paese d’arrivo e che infine considera l’obbligo del diritto al soccorso in mare come un diritto il cui monopolio spetta alle singole autorità statali dell’Unione Europea. Le minori garanzie per i diritti dei migranti e i rischi per la loro vita si potrebbero superare con una vera inversione di rotta: un sistema giuridico fondato principalmente, e non in via residuale, su “canali legali” quali i corridoi umanitari, su una maggiore concessione di visti di ingresso da parte dei paesi UE e da ultimo un sistema obbligatorio di ripartizione per quote delle domande d’asilo, pratiche sicuramente meno negazioniste del fenomeno dell’emigrazione.

Flussi della mobilità umana indotti da teatri di guerra

I conflitti e le situazioni di instabilità politica che attualmente interessano diversi paesi del Nordafrica, cosi come quelli riguardanti la zona del Sahel e dell’Africa subsahariana più in generale, e i paesi dell’Area Mediorientale, hanno ripercussioni inevitabili sulle correnti umane – definibili come flussi delle migrazioni forzate – alcune già in essere, altre invece che manifestano già ora il loro carattere di potenzialità di determinazione in un prossimo futuro. Tali situazioni geopolitiche non possono pertanto lasciarci indifferenti traducendosi in correnti che hanno come punto di arrivo la stessa Europa se non, come in molti casi, proprio l’Italia.  Prenderne atto o averne una conoscenza anche minima ci offre la possibilità di uscire dal nostro ristretto punto di vista ed entrare in contatto, in modo maggiormente consapevole, con un fenomeno che è quello della mobilità umana, in questi casi, chiaramente non volontaria, ma imposta da accadimenti esterni, da sempre presente nella storia.

Porre uno sguardo attento e senza pregiudizi verso i paesi per noi lontani o diversi può essere il modo di prendere atto dell’inarrestabilità del fenomeno migratorio e di come esso, anche nel tentativo di essere contenuto, non smetterà di esistere. Perché dunque non concederci una possibilità di riflessione e capire come a volte cambiare la nostra ottica voglia dire entrare maggiormente in contatto con la realtà senza doverla a tutti i costi rinnegare o soffocare?

Quello che si propone questa serie di articoli è dare una visione di insieme che cercherà di essere il più possibile inclusiva degli scenari internazionali che riguardano le aree maggiormente a rischio di implosione nel momento attuale e le ragioni di tali  rischi, per poi meglio comprendere le tappe delle migrazioni forzate fino a formulare una proposta di gestione alternativa del fenomeno migratorio che non può essere avulsa dall’analisi delle prassi, attualmente messe in campo dall’Unione Europea e da alcuni dei paesi membri, nonché  dalle proposte normative di contenimento delle correnti umane verso l’occidente ponendo attenzione a quanto è accaduto negli ultimi anni e chiedendosi non solo se tali prassi e proposte legislative siano eticamente orientate ma se prima di tutte siano logiche.

Il conflitto in Etiopia e nel Corno d’Africa

I massacri

Uno dei conflitti più recenti, al momento apparentemente sedato, ma interessato da una costante guerriglia, è quello riguardante l’area del Corno d’Africa e, più specificamente, l’Etiopia e la regione del Tigray posta al suo interno. Il 4 novembre del 2020 ha visto l’inizio delle operazioni militari ad opera del primo ministro etiope Abiy Ahmed Ali, a fronte di supposti attacchi da parte delle milizie della forza politica prevalente della regione del Tigray – il Fronte popolare di liberazione del Tigray (Tplf) – contro il governo centrale federale. Quello che doveva essere un intervento lampo, secondo il primo ministro etiope, non è stato così.

In particolare, Amnesty International riporta che il 9 novembre e il 10 novembre 2020 nella città di Mai- Kadra nello stato del Tigray, c’è stato uno spaventoso massacro di civili, circa 500, ufficialmente non identificato per quanto riguarda l’attribuzione di una responsabilità. Tuttavia, vi sono testimoni oculari che hanno chiamato in causa forze leali al Tlpf, tra cui la polizia speciale del Tigray, riportando che queste si sarebbero accanite contro la popolazione della città di Mai-Kadra (di etnia amhara) in risposta all’ attacco subito, il medesimo giorno, da parte delle Forze armate federali e della Forza speciale amhara nella regione del Tigray.

Mai-Kadra, Tigray

Il massacro di Mai-Kadra il 9 e 10 novembre ha contato 600 morti di etnia amhara

Inoltre, tra il 28 e il 29 novembre 2020, questa volta, le truppe eritree, presenti anch’esse nella regione del Tigray, già a partire dal 16 novembre 2020, hanno ucciso centinaia di civili nella città di Axum per il controllo della regione mettendo in essere esecuzioni sommarie, bombardamenti e saccheggi a danno dei civili tali da poter essere lecitamente qualificati, il 4 marzo 2021, come “crimini contro l’umanità”, da parte delle Nazioni Unite.

Gli eventi sono stati riportati da parte di alcuni etiopi sopravvissuti e da altri presenti nei campi rifugiati in Sudan. Nuove fosse comuni sono state identificate in prossimità delle due chiese di Axum, attraverso le immagini satellitari di Amnesty International, riportando che il massacro sarebbe avvenuto poco prima della celebrazione della Festa cristiana ortodossa etiope di Santa Maria di Sion. La festa ricorre il 30 novembre e vede partecipare ogni anno, oltre ai cittadini della città santa di Axum, diversi turisti e fedeli provenienti anche da altre zone dell’Etiopia. La documentazione di quanto avvenuto è resa quasi impossibile dalla reticenza del governo etiope a qualsiasi ingerenza, anche mediatica, a livello internazionale sulla questione locale.

Il superamento della coalizione di fazioni etniche

Dopo tali avvenimenti l’attenzione generale sulla “questione etiope” è quasi scomparsa – tanto che il conflitto è stato dichiarato ufficialmente cessato il 28 novembre 2020 – nonostante al momento sia ancora presente una situazione di guerriglia armata. Per capire quanto è avvenuto dunque occorre analizzare le cause storiche e politiche che hanno esacerbato il conflitto nella regione etiope del Tigray. Tale scenario attuale è maturato gradualmente a partire dal 2018, anno che può essere considerato rivoluzionario per gli equilibri politici del Corno d’Africa. Infatti, da più di due anni era presente in Etiopia lo scontro tra due gruppi dirigenti all’interno della medesima forza politica che ha guidato l’Etiopia negli ultimi trent’anni, ossia il Fronte democratico rivoluzionario del popolo etiope, una coalizione di partiti creata su base etnica all’inizio degli anni Novanta dal Fronte Popolare di Liberazione del Tigray e da questo controllata fino al 2018 quando è salito al potere il primo ministro Abiy Ahmed.

Il cambio di governo ha sancito l’ascesa di una nuova alleanza nella coalizione tra i partiti corrispondenti ad altrettanti gruppi etnici ossia amhara e oromo dal quale proviene lo stesso primo ministro, e che, fino ad allora, avevano giocato un ruolo secondario nel governo dell’Etiopia e che però dal 2018 divengono forze egemoniche. Da quel momento si determina un aspro processo di rinegoziazione delle sfere di influenza all’interno delle istituzioni federali del paese. Infatti il primo ministro Abiy Ahmed ha subito individuato il Fronte popolare di liberazione del Tigray come primo e unico responsabile delle malversazioni del passato, cercando sia di creare un terreno di sintesi delle forze di opposizione e determinandosi come uomo del cambiamento, celando quelle che invece erano le sue continuità con il passato regime, sia di legittimare un ricambio dei vertici tigrini delle istituzioni federali e delle Forze Armate con figure a lui fedeli.

Questo processo di ricambio ha raggiunto il suo apice alla fine del 2019 quando Abiy Ahmed ha sciolto la coalizione del Fronte democratico rivoluzionario del popolo etiope e, in sua vece, ha creato un partito autenticamente nazionale a guida fortemente centralizzata ossia il Partito della prosperità a cui però il Fronte popolare del Tigray si è rifiutato di aderire venendo così escluso da ogni incarico nel governo federale. Il Fronte popolare del Tigray ha risposto sottolineando che si stava determinando ideologicamente la costituzione di uno stato etiopico unitario e il superamento del principio di autodeterminazione dei gruppi etnici e dell’effettiva autonomia delle regioni etiopi rispetto al potere centrale. In questo modo il Fronte di Liberazione Popolare del Tigray, da un lato ha rotto l’autoisolamento in cui il Tigray versava dal 2018, dall’altro ha legittimato quello che gradualmente è divenuto il suo ruolo ossia uno stato nello stato, in nome del principio di autonomia regionale, al quale Abiy Ahmed ha risposto con ordini di cattura da parte della procura federale verso gli ufficiali politici tigrini e con il rinvio delle elezioni presidenziali del 2020 a causa della pandemia, elezioni che al momento sono previste per il 5 giugno 2021. Quindi è seguita la decisione del Tigray di indire elezioni in maniera autonoma nel solo stato regionale settentrionale che ha sancito il culmine di questo scontro istituzionale. L’amministrazione federale si è rifiutata di riconoscere il risultato delle elezioni regionali in Tigray che riconfermavano quasi all’unanimità il Fronte popolare di liberazione tigrino e da quel momento non ha riconosciuto più l’amministrazione regionale come interlocutore istituzionale. Il Fronte popolare a sua volta ha annunciato di non riconoscere più la legittimità dell’amministrazione federale in quanto decorso il termine di 5 anni dall’inizio del mandato di governo senza che vi fossero nuove elezioni. Quindi, come detto, la guerra civile è scoppiata il 4 novembre 2020 quando vi è stato un attacco delle forze militari tigrine contro una base dell’esercito federale etiope nel nord del paese. Il conflitto del Tigray dunque può essere letto come il tentativo del Fronte popolare di liberazione nazionale di resistere a una marginalizzazione dalla scena politica etiope.

Inoltre, va considerata anche la maggiore influenza nell’amministrazione federale etiope di forze militari nazionaliste, come quelle del partito legato all’etnia “amhara”, che già dal 3 novembre sono state posizionate tra lo stato dell’Amhara e quello del Tigray e che oggi sono ancora presenti nell’Ovest della regione. Ciò ha un rilievo storico non indifferente: tali territori dal 1991 fanno parte del Tigray, ma sono storicamente reclamati dallo stato regionale dell’Amhara, che, proprio in conseguenza del conflitto scoppiato nell’area del Tigray, oggi ha acquisito l’amministrazione, seppure temporanea di essi.

Internazionalizzazione del conflitto

Il Sudan

 

una visione di insieme

4000 rifugiati etiopi dopo aver attraversato la frontiera con il Sudan

Il conflitto della regione del Tigray è poi strettamente connesso con il conflitto tra Etiopia e Sudan (che si appresta a divenire uno stato federale) che da settimane ha provocato decine di morti e centinaia di sfollati. In evidenza il tentativo sudanese di sostenere l’intervento bellico condotto dal Fronte popolare di liberazione nazionale del Tigray che, quando negli anni precedenti al 2018 era al governo, aveva costituito un’asse privilegiato con il governo di Khartum. Inoltre, questo asse aveva implicato un accordo di confine tra Etiopia e Sudan, secondo il quale, proprio su alcuni territori reclamati dall’etnia amhara, era stata riconosciuta una sovranità sudanese ed erano stati militarizzati.

Infatti l’Etiopia e il Sudan condividono un confine di circa 1600 chilometri e questa contiguità ha provocato una tensione legata alla rivendicazione di taluni territori “comuni” da diversi anni. Nel 1902 fu stipulato tra la Gran Bretagna, allora potenza coloniale del Sudan, e l’Etiopia un accordo per individuare una frontiera ma non venne specificata una demarcazione territoriale ben definita tra i due paesi. Regolari riunioni tra Etiopia e Sudan, su tale questione, si sono svolte tra il 2002 e il 2006 mentre gli ultimi colloqui riguardanti i confini territoriali sono di maggio del 2020. È chiaro che oggi, quindi, ponendo il governo federale etiope le milizie dello stato regionale dell’Amhara come forza di controllo di alcuni territori al confine tra i due paesi, il conflitto civile etiope potrebbe trasformarsi in una guerra di più vasto rilievo.

La Diga della Rinascita e al-Fashqa

Lo scorso marzo lo scontro etiope con Il Sudan si è intensificato sulla piana di al-Fashqa, contesa da decenni dai due paesi, e almeno 50 soldati etiopi sarebbero stati uccisi proprio in ragione dello scontro in quest’area. Gli scontri sono iniziati il 4 febbraio 2021 quando l’Etiopia ha lanciato una serie di attacchi contro le forze sudanesi nell’area di Umm Karura. A metà gennaio il Sudan aveva denunciato lo sconfinamento di caccia etiopi nello spazio aereo sudanese aggravando le tensioni già alte per la diga sul Nilo e i problemi causati dai 56.000 profughi etiopi fuggiti dal Tigray, in seguito all’offensiva dell’esercito etiope lo scorso 4 novembre. Alla base rimane sempre la tensione che coinvolge Etiopia, Sudan ed Egitto per la “grande diga” sul Nilo che Addis Abeba sta terminando e sulla quale non si registrano progressi negli accordi.  Nell’area di al-Fashqa, inoltre, circa 2000 militari eritrei avrebbero attraversato il confine tra Etiopia e Sudan nei pressi di Wadi-al-Charab per supportare l’esercito etiope nella difesa dell’area contesa di al-Fashqa. Tuttavia, a fine marzo, il Governo di transizione del Sudan ha appoggiato la proposta degli Emirati Arabi Uniti di mediare nella disputa con Il governo etiope. Tale atteggiamento, assertivo di un tentativo di riconciliazione con l’Etiopia da parte del Sudan, è avvenuto solo in esito alle dichiarazioni del presidente Abiy Ahmed che ha affermato, martedì 23 marzo 2021, di non voler iniziare una guerra con Il Sudan ma di voler risolvere pacificamente le tensioni su al-Fashqa e sulla questione della grande diga (Grand Ethiopian Renaissance Dam).

Il Tigray. Tra Eritrea, Etiopia e Somalia

Va in seguito sottolineata chiaramente, soprattutto alla luce di questi eventi sovraesposti, il tipo di relazione che vi è tra Tigray, Governo Federale Etiope da un lato, ed Eritrea dall’altro. Nel 2019 è stata firmata dal governo federale etiope e l’Eritrea una pace storica che ha determinato il riconoscimento del Premio Nobel per la pace ad Abiy Ahmed Ali.

Tuttavia, la relazione tra i due paesi è ancora molto complessa e va ricercata in alcuni accadimenti avvenuti diversi anni prima dell’inizio del conflitto del 2020. I tigrini del Fronte popolare di liberazione del Tigray in passato erano di fatto il fronte armato gemello del Fronte di liberazione popolare dell’Eritrea e si erano alleati negli anni Ottanta tra di loro per condurre i rispettivi paesi verso la ribellione contro un governo di tipo sovietico. Dal 1991 al 1998, infatti, i due fronti avevano delle relazioni così pacifiche che gli etiopi utilizzavano su consenso eritreo gli sbocchi sul mare dei porti di Assab e Massaua per i propri interessi economici. Nel 1998 questa relazione pacifica è stata invece interrotta da una guerra tra il Fronte popolare di liberazione eritreo e quello etiope: questo creerà delle basi per la sedimentazione di una conflittualità e dei sentimenti di odio tra i due paesi oltre che un gran numero di morti e di persone deportate fino all’elezione dell’attuale presidente etiope.

Interessi eritrei in Tigray e spartizione degli aiuti e di aree di influenza

una visione di insieme

Interessi e presenze internazionali nel Corno d’Africa

Tutto ciò premesso, deve essere analizzata la partecipazione dell’Eritrea nell’attuale conflitto etiope, a sostegno di Abiy Ahmed Ali e, in opposizione al Fronte popolare di liberazione del Tigray, che possiede i caratteri di quello che si potrebbe definire un “regolamento di conti” nei confronti del popolo tigrino.

Sulla base di quanto avvenuto lo scorso novembre si può legittimamente affermare che la pace tra i due paesi – siglata nel 2019 – deve essere considerata soltanto l’inizio di un completo processo di pace tra i medesimi e che quindi, con riferimento all’intervento eritreo nell’attuale conflitto civile etiope, occorre tenere ben a mente il rapporto tra il Fronte popolare di liberazione nazionale Etiope e l’Eritrea a partire proprio dal 1998. In secondo luogo, devono essere analizzate le annose questioni degli aiuti internazionali, già in passato elargiti ai due paesi, da parte della Comunità internazionale e, infine, la questione dei rifugiati eritrei.

Per quanto concerne l’aspetto degli aiuti internazionali va detto che l’Eritrea e l’Etiopia ricevono circa 3,5 milioni di dollari annui, che implicano anche la stipula di accordi commerciali con altri paesi non presenti nel Corno d’Africa, e dei quali entrambi i paesi vogliono continuare a beneficiare. Questo rinfocola il sospetto che la guerra contro il Tigray sarebbe l’ultimo passo per una stabilizzazione degli accordi commerciali tra Addis Abeba e Asmara. Infatti, pur essendo l’Eritrea riconosciuta come un sanguinario regime militare, nel quale la leva è obbligatoria per tutti i cittadini, dai 18 ai 50 anni gli uomini, dai 18 ai 40 anni le donne, il suo attuale presidente gode di una legittimazione internazionale essendo stato coinvolto nella stipula di accordi commerciali con diversi paesi occidentali tra cui l’Italia. D’altra parte, anche l’Etiopia è beneficiaria di un fondo rilasciato dalla Banca Mondiale in cambio di un programma di privatizzazioni. Tuttavia, i partner di maggior rilievo a livello commerciale sono quelli mediorientali, in particolare l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti che hanno sponsorizzato l’accordo tra Etiopia ed Eritrea firmato simbolicamente a Gedda. In conseguenza del conflitto tra la regione del Tigray e lo Stato federale etiope, infatti, sono emerse accuse nei confronti degli Emirati Arabi Uniti per aver messo a disposizione dei droni, stanziati nella base militare ad Assab in Eritrea, a favore della repressione della rivolta da parte del Fronte popolare di liberazione nazionale.

Alla luce di tutto ciò deve essere riletto anche quindi il processo di pace tra Eritrea ed Etiopia con il dubbio, che si aveva già da principio, che sia prevalentemente un accordo di regolamentazione dei rapporti economico-commerciali tra i due paesi. Sul conflitto in Tigray, d’altra parte, oggi continua intanto la pressione internazionale per fare entrare in modo libero e accessibile gli aiuti umanitari internazionali in conseguenza del conflitto per tutta la popolazione tigrina a rischio denutrizione, come ribadito da molti allarmi delle agenzie umanitarie. Denutrizione causata anche dagli ostacoli provocati dal governo etiope all’ingresso di cibo e farmaci nella regione settentrionale. In un comunicato stampa pubblicato il 15 marzo “Medici senza Frontiere” ha condannato una serie di attacchi alle cliniche nella regione del Tigray che sono state saccheggiate, vandalizzate e distrutte.

Altra questione particolarmente rilevante, data l’ingerenza militare da parte dell’Eritrea nel conflitto tra la Regione del Tigray e l’Etiopia, è quella della condizione dei rifugiati: sono migliaia gli eritrei che si sono rifugiati nella regione del Tigray, dal 2001 – anno del golpe di Isaias Afewerki – fuggendo dalla dittatura di Asmara. Tale situazione ha oggi subito una drammatica deriva proprio in conseguenza dell’attuale conflitto e sembra rappresentare la tragica contropartita dell’Eritrea per il suo intervento militare di sostegno all’azione armata del governo federale etiope. Infatti, la guerra civile etiope non soltanto avrebbe provocato la presenza in Sudan di 56.000 rifugiati etiopi conseguenti al conflitto, così come di rifugiati eritrei, ma anche la deportazione in Eritrea da parte delle milizie di circa 6000/7000 eritrei rifugiati in Etiopia, che sarebbero stati prelevati dai campi rifugiati del nord dell’Etiopia, proprio in conseguenza del conflitto. A febbraio 2021, infatti, l’Alto Commissario Onu per i rifugiati, Filippo Grandi, ha denunciato la presenza di 20.000 rifugiati eritrei che, secondo testimoni da lui incontrati, sarebbero stati uccisi e deportati in Eritrea dai militari del regime di Afewerki.

Massacro di Debre Abbay

La Somalia

Va considerato, inoltre, non solo il coinvolgimento del Sudan e dell’Eritrea nel conflitto civile etiope ma anche quello della Somalia. L’Eritrea infatti, come riportato a gennaio del 2021, avrebbe inviato armi pesanti all’esercito somalo e una delle partite di scambio risulterebbe essere l’intervento dei militari somali nel Tigray. Secondo la rivista “Somali Guardian” in Eritrea sono stati addestrati almeno 10.000 militari somali, originariamente preposti per difendere il governo della Somalia dagli attacchi degli al Shabab, e una parte di queste reclute sarebbe stata inviata già a novembre del 2020 nella regione del Tigray. In corrispondenza di ciò le truppe etiopi sono state ritirate dalla missione Amisom in Somalia proprio per andare a combattere nella guerriglia contro il Fronte popolare di liberazione del Tigray a discapito della missione che sostiene il fragile governo somalo. L’ indebolimento di Amisom, così rischia di dare un seguito maggiormente rilevante alla destabilizzazione del governo federale somalo messa in atto dagli al Shabab.

Inoltre, nel mese di marzo 2021, in seguito alla pubblicazione il 26 febbraio scorso di un documento redatto  da Amnesty International sul conflitto etiope, in particolare sull’intervento delle truppe eritree nella città di Axum,  il capo dell’Alto Commissariato Onu per i diritti umani, Michelle Bachelet ha accettato la richiesta del governo etiope di avviare un’indagine congiunta nella regione a Nord del paese,  dove si presume siano stati commessi crimini di guerra e contro l’umanità. Infatti, in un lungo discorso al parlamento etiope il primo ministro ha recentemente dichiarato che “il popolo e il governo eritreo hanno fatto un favore ai nostri soldati durante il conflitto” e ha continuato dicendo “nonostante ciò, dopo che l’esercito eritreo ha attraversato il confine, qualsiasi danno abbia fatto al nostro popolo è inaccettabile. Non lo accettiamo perché è l’esercito eritreo, e non lo accetteremmo se fossero i nostri soldati. La campagna militare era contro i nostri nemici chiaramente mirati, non contro il popolo. Ne abbiamo discusso quattro-cinque volte con il governo eritreo”.

Sempre il 23 marzo di quest’anno, Abiy Ahmed ha ammesso che le truppe eritree sono state presenti durante il conflitto nella regione settentrionale del Tigray suggerendo che potrebbero essere state coinvolte in abusi contro i civili. L’ammissione è intervenuta dopo mesi di smentite, sia da parte dell’Etiopia che da parte dell’Eritrea, del coinvolgimento di uomini appartenenti alle rispettive forze armate nella violazione dei diritti umani, nei massacri e nei crimini di guerra compiuti i mesi scorsi.

Il 25 marzo, intanto, le Nazioni Unite hanno reso noto che almeno 516 casi di stupri sono stati segnalati da alcune cliniche presenti nella regione del Tigray e il presidente etiope – che ha preso molto seriamente tale comunicato –  il 26 marzo, secondo l’agenzia di stampa internazionale “Reuters”, ha annunciato su “Twitter” che l’Eritrea ha accettato il ritiro delle proprie milizie dal confine etiope. Tale dichiarazione è stata resa pubblicamente dal presidente etiope in seguito all’incontro in Eritrea con il presidente Afewerki ad Asmara.

una visione di insieme

L’amministrazione Biden

Inoltre, sempre nella guerra civile, che continua a dispiegare i suoi effetti, nel quasi totale silenzio – data anche la difficoltà ad ottenere informazioni in merito, per le restrizioni imposte dall’attuale presidente ai Media – sono recentemente intervenuti gli Stati Uniti con una reazione che può qualificarsi il più veemente interessamento della Comunità internazionale in merito a quanto avvenuto nei mesi scorsi nell’area. 

Gli Usa hanno dichiarato la loro presenza mediante l’intervento dell’agenzia umanitaria statunitense “Usaid”, notoriamente intrecciata con operazioni gestite dalla Cia, annunciando di aver schierato un “Disaster Assisance Response Team” nella regione del Tigray. Infatti il 27 febbraio il segretario di stato americano Blinken, ha imposto al presidente etiope di aprire il Tigray all’accesso degli aiuti umanitari e di essere preoccupato per i crimini di guerra che molto probabilmente sono stati compiuti in conseguenza del conflitto nell’area. Questo interessamento degli Stati Uniti per la regione del Tigray si è manifestato, in seguito, con la pubblica condanna, da parte del segretario di Stato Antony Blinken, degli atti di pulizia etnica avvenuti nella regione e per i quali ha chiesto la piena responsabilità del governo etiope e il ritiro delle truppe eritree.

Il 10 marzo scorso Blinken ha, altresì, espresso chiaramente di non accettare forze di sicurezza nella regione che si rendano responsabili della violazione dei diritti umani del popolo del Tigray o che commettano atti di pulizia etnica. Il giorno seguente Gizhachew Muluneh, docente alla Sharda University e portavoce amhara, ha condannato le dichiarazioni di Blinken considerandole fuorvianti, ritenendo che il territorio del Tigray, occupato dalle sue forze regionali, debba effettivamente essere considerato, da ora in poi, parte della regione dell’Amhara. Le dichiarazioni di Blinken sono state rilasciate in seguito sia alla pubblicazione del Rapporto di Amnesty International, sia alle dimissioni di Berhane Kidane Mariam, vicecapo della missione presso l’ambasciata etiope a Washington DC che ha sottolineato che il presidente Abiy Ahmed sta conducendo il suo paese verso un “sentiero oscuro verso la distruzione e la disintegrazione” e di essersi dimessa per “protestare contro la guerra genocida nel Tigray”.

Infine, l’attuale presidente degli Stati Uniti Biden, a fine marzo, ha deciso di inviare il senatore americano Chris Coons ad incontrare il primo ministro etiope per discutere delle accuse di pulizia etnica nella regione del Tigray. L’intervento americano, tuttavia, deve essere considerato in un’ottica più complessa: le operazioni del presidente etiope a partire dal conflitto dovrebbero essere analizzate valutando l’ambizione geopolitica degli Usa di controllare la regione del Corno D’Africa attraverso la manipolazione del presidente etiope, con la volontà di escludere la Cina e la Russia da quest’area di influenza.

In conclusione, anche in passato era già avvenuto in Etiopia che a una transizione politica facesse seguito un periodo di instabilità del paese, ma oggi l’Etiopia non si appresta a divenire uno “stato fallito” ed è invece in grado di chiamare altri poteri Internazionali in suo aiuto che probabilmente eviteranno un processo di “balcanizzazione” dell’attuale stato federale etiope.

Proponiamo infine un intervento di Angelo Ferrari, registrato il 15 novembre 2020 durante la trasmissione dedicata alla crisi etiope da I Bastioni di Orione, rubrica di affari internazionali di Radio Blackout

“Resa dei conti tra tribù etiopi”.

Fonti:

L'articolo n. 1 – Corno d’Africa: Migranti e secolari conflitti etnici e coloniali proviene da OGzero.

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n. 4 – Senegal: Ousmane Sonko vs. Macky Sall. Esplode la rabbia https://ogzero.org/conflitti-e-instabilita-in-senegal-causa-di-migrazione-forzata/ Sun, 11 Apr 2021 08:21:19 +0000 https://ogzero.org/?p=3011 Questo saggio fa parte di una raccolta di articoli che fornisce una panoramica sulla questione migratoria: analizzeremo insieme a Fabiana Triburgo le varie rotte che si sono delineate nel tempo a causa di conflitti o e instabilità che provocano questo fenomeno per giungere infine a un’analisi della normativa europea e delle alternative che potrebbero emergere […]

L'articolo n. 4 – Senegal: Ousmane Sonko vs. Macky Sall. Esplode la rabbia proviene da OGzero.

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Questo saggio fa parte di una raccolta di articoli che fornisce una panoramica sulla questione migratoria: analizzeremo insieme a Fabiana Triburgo le varie rotte che si sono delineate nel tempo a causa di conflitti o e instabilità che provocano questo fenomeno per giungere infine a un’analisi della normativa europea e delle alternative che potrebbero emergere da politiche più coraggiose e lungimiranti. Qui il quarto contributo, focalizzato sul Senegal.


n. 4

I principali conflitti che attualmente interessano le migrazioni forzate e le prassi di esternalizzazione poste in essere dall’Unione Europea e dai singoli stati membri portano a una predeterminazione delle rotte dei migranti.

Quello che oggi è inevitabile chiedersi è se il nuovo Patto europeo sulla migrazione e l’asilo, proposto dalla Commissione UE, possa essere realmente considerato una soluzione della gestione del fenomeno migratorio o se invece vi siano soluzioni legali alternative maggiormente lungimiranti e coraggiose.  


L’instabilità politica e i recenti scontri in Senegal

Il Marzo senegalese

Il 4 marzo 2021, in Senegal, si è verificata un’ondata di proteste sollevate dalla popolazione civile, in particolare da parte dei giovani senegalesi, in conseguenza dell’arresto di mercoledì 3 marzo 2021 di Ousmane Sonko, leader del partito di opposizione Patriotes du Sénégal pour le travail, l’èthique et la fraternité (Pastef), e principale politico oppositore del governo del paese guidato dal presidente Macky Sall.

Il 3 marzo il deputato Sonko, dopo aver perso l’immunità parlamentare già il 26 febbraio, si stava recando in Tribunale, accompagnato da una folla di suoi sostenitori, poiché convocato per rispondere all’accusa di stupro e di minacce di morte nei confronti di una ragazza di vent’anni. Le accuse sono state avanzate contro di lui da parte di una dipendente di un salon de beautè, Salon che Sonko frequentava abitualmente per sottoporsi a dei massaggi per il mal di schiena. Sonko, arrivato terzo alle elezioni presidenziali del 2019, aveva precedentemente respinto ogni accusa professandosi innocente rispetto all’imputazione per stupro, e dichiarando che le «accuse infondate sono ormai lo strumento consolidato dall’attuale governo per rimuovere i candidati alle prossime elezioni». Le accuse a lui rivolte per stupro risultano, effettivamente, del tutto infondate e anche esponenti del partito Pastef dichiarano che i certificati medici smentiscono la violenza sulla donna e i suoi sostenitori parlano di un complotto finalizzato alla eliminazione di Sonko dalla scena politica.

In conseguenza delle manifestazioni popolari che lo hanno accompagnato mentre si recava in Tribunale, Sonko è stato poi arrestato immediatamente per i reati di “disturbo dell’ordine pubblico” e organizzazione di “manifestazione non autorizzata”. Da quel momento in poi per tre giorni a Dakar e nel sud del Senegal si sono accese forti proteste da parte della popolazione a sostegno di Sonko, soprattutto giovani, che hanno colto l’occasione anche per rivendicare diritti come quello della libertà di espressione, del rispetto della separazione dei poteri, in particolare quello giudiziario da quello esecutivo, e il divieto delle Forze di Polizia a compiere atti violenti contro manifestanti pacifici in opposizione al governo.

Più specificatamente gli attivisti hanno criticato: il licenziamento di Sonko dalla pubblica amministrazione senza possibilità di difesa solamente per aver parlato di un fascicolo contro il presidente Macky Sall – relativo al reato di appropriazione indebita (il cosiddetto 7 miliardi di Taiwan); la violenza usata dalle forze armate del governo contro una sostenitrice di Sonko e la sua uccisione; un seggio saccheggiato in esito alle votazioni del 2019 e la violazione del domicilio della madre di Sonko per recuperare fascicoli del Pastef che avevano causato l’arresto di un gendarme. Ancora, i manifestanti hanno sottolineato: la corruzione dilagante nell’affare milionario in mano al fratello dell’attuale presidente denunciato nel 2019; le accuse false su un presunto contributo della Tullow Oil rivolte a Sonko e la volontà espressa, tramite comunicato stampa del presidente, di sciogliere il partito Pastef con il fine di innovare le modalità di finanziamento delle sue attività.

Gli scontri e l’insurrezione antifrancese

Manifestazioni a Dakar per l’allontanamento di Macky Sall

Il Movimento per la difesa e per la democrazia M2D, considerata la forza di opposizione alla guida delle manifestazioni in seguito all’arresto di Sonko, aveva annunciato nella giornata di venerdì 5 marzo altri giorni di protesta. Tali proteste, tuttavia, sono sfociate in una vera e propria guerriglia urbana. I giovani urlando Liberate Sonko! hanno attaccato con lanci di pietre i poliziotti che hanno risposto con deflagrazioni e lanci di granate. Secondo la Croce Rossa senegalese 235 persone sono rimaste ferite nel corso delle proteste del 5 marzo a Dakar in centro durante le quali, secondo i media, sono state arrestate in modo arbitrario circa 100 persone. Otto invece sarebbero i morti secondo Amnesty International e in diversi quartieri a Dakar e in altre città del paese, nel quartiere di Medina così come nella regione di Casamance, ci sono stati altri scontri violentissimi.

Nella capitale si sono chiusi i negozi e si sono svuotate le strade lasciando spazio alla guerriglia urbana e il governo ha ordinato la chiusura delle scuole con “l’invito” contestuale ai genitori di tenere sotto controllo i propri figli manifestanti giovanissimi. Allo stesso tempo, il governo ha oscurato alcuni canali televisivi nazionali e ha limitato l’accesso alla rete internet durante i giorni degli scontri e ha controllato ossessivamente lo scambio di foto, messaggi e video su quanto stava accadendo.

OGzero aveva raccolto il 5 marzo la testimonianza di un intellettuale senegalese simpatizzante per l’opposizione a Macky Sall, che aveva potuto descrivere in diretta da Dakar gli eventi; questo il podcast:

“La rabbia di Dakar e la repressione di Sall”.

Inoltre, anche i senegalesi in Europa hanno organizzato delle manifestazioni e dei presidi, come è avvenuto con il presidio del 5 marzo di Milano al motto No alla dittatura. No alla violenza! e con un comunicato del Pastef a Napoli che ha dichiarato che in Senegal «sono riusciti a liquidare già due importanti leader di opposizione, di cui uno in esilio in Qatar e l’altro, appena uscito dal carcere, non ha più diritti civili. Ora stanno cercando di liquidare l’oppositore più forte Ousmane Sonko».

Le proteste in Senegal non hanno portato all’ascolto delle istanze sollevate dai manifestanti e il Ministero dell’interno senegalese le ha qualificate come atti di saccheggio e di vandalismo, nonché «atti di banditismo e di terrorismo» e ha promesso di utilizzare «tutti i mezzi necessari per un ritorno all’ordine», mentre il presidente Macky Sall, al potere da quasi dieci anni, si è trincerato inizialmente dietro un muro di silenzio.

Amnesty International ha invitato il governo senegalese a chiarire le circostanze che circondano la morte di un manifestante ed a spiegare le violazioni dei diritti umani dall’arresto di Sonko, il 3 marzo del 2021. I manifestanti sono stati infatti attaccati e arrestati dalle forze di sicurezza senegalesi, accompagnati da uomini in abiti civili e armati di mazze e, secondo la nota organizzazione umanitaria, la forza che hanno usato eccessivamente contro i manifestanti è una «chiara violazione del diritto internazionale e dei diritti umani» e ha invitato le autorità ad indagare sull’incidente e perseguire i responsabili delle violazioni.

In questa situazione è intervenuto il Mediatore della Repubblica, una carica istituzionale specifica del Senegal, Alioune Badara Cissè dicendo: «Abbiamo bisogno di compassione per la nostra gente. Finché restiamo al piano di sopra e pensiamo di non dover rendere conto a nessuno, gonfiamo il petto perché siamo stati criticati ma non faremo mai un lavoro utile». A tale intervento si è aggiunto quello dell’ex presidente Abdoulaye Wade che si è rivolto direttamente al presidente Macky Sall dicendo «alcuni magistrati cercano di indovinare cosa può piacere al presidente e lo fanno con zelo», riferendosi anche al caso del figlio che è stato liquidato giudizialmente alle ultime elezioni presidenziali. Il 7 marzo è stata anche diffusa una comunicazione congiunta dei paesi dell’Unione Europea e del Canada, della Corea del Sud, del Giappone, del Regno Unito, degli Stati uniti e della Svizzera che esprime preoccupazione per la vicenda politica in corso e che auspica una sua risoluzione pacifica. Del medesimo contenuto è stato anche il comunicato del 6 marzo del presidente dell’Unione Africana Moussa Faki Mahamat.

Liberazione di Sonko e seconda fase delle proteste

 L’ 8 marzo e per i tre giorni successivi è stata indetta, quindi, una mobilitazione pacifica per la liberazione del leader dell’opposizione Sonko proposta dalla piattaforma Aar Sunu democratie (Movimento per la difesa della democrazia) e organizzata da parte di un collettivo di oppositori anche sulla base dell’invito, del medesimo Sonko, che ha chiamato a partecipare alla manifestazione tutti i senegalesi “desiderosi di giustizia”.  Mobilitazione pacifica presentata come un’esortazione a comparire «in massa per le strade di Dakar e nelle regioni, dipartimenti, comuni e villaggi per 3 giorni da lunedì 8 marzo, giorno di lotta e affermazione dei diritti delle donne» che sono state invitate a uscire a fianco di figli e nipoti «per aiutarli nella loro ricerca di un futuro migliore».

 

Tuttavia, nella serata del 7 marzo, è intervenuta la revoca da parte del pubblico ministero del provvedimento di custodia cautelare a carico di Ousmane Sonko e delle sue guardie del corpo, con l’invito a Sonko di comparire il giorno seguente, ossia proprio l’8 marzo alle 11 di mattina davanti al decano dei giudici. A quel punto la manifestazione dell’8 marzo 2021 non c’è stata perché la popolazione civile, quando ha appreso la notizia della sua liberazione, è andata in massa verso Sonko e lo ha accompagnato per sostenerlo nel ritorno verso casa. Rimaneva un appuntamento alle ore 15 per un grande raduno pacifico dei manifestanti per celebrare tale liberazione, durante il quale, avrebbero parlato i leader dell’opposizione ma alcuni gruppi autonomi hanno ripreso gli scontri con la polizia ed è stato annullato.

L’8 marzo, le autorità hanno comunque rafforzato le misure di sicurezza e i controlli, hanno prolungato il divieto di circolazione di moto e motorini, e hanno comunicato la chiusura delle scuole. Dakar è stata blindata per diversi giorni durante i quali hanno sfilato i carri armati militari verso il quartiere nel quale sono ubicate la maggior parte delle istituzioni senegalesi.

Nonostante la revoca dell’arresto e la presentazione davanti al decano dei giudici, Sonko, leader del Pastef, è stato rilasciato su cauzione ma rimane sottoposto alle indagini giudiziarie, persistendo a suo carico ancora l’incriminazione per stupro e l’obbligo a presentarsi ogni quindici giorni dinanzi ai giudici. In seguito, il presidente Sall, una volta ascoltate soprattutto le autorità religiose senegalesi, che hanno sottolineato la gravità della situazione e la necessità di agire, lo stesso 8 marzo finalmente si è rivolto alla nazione, affermando di aver compreso le preoccupazioni dei giovani e ha strategicamente chiesto di far tacere il rancore ed evitare gli scontri come quelli verificatisi nei giorni precedenti, chiamando la popolazione civile al dialogo e alla collaborazione con il governo. Sall ha poi fissato per l’11 marzo la data di lutto nazionale per celebrare le vittime delle manifestazioni.

Sonko, pur libero per il momento, non ha risparmiato tuttavia accuse al presidente, in carica dal 2012, considerato «il responsabile degli accadimenti di questi giorni», ossia  di aver tradito il popolo senegalese e di perseguitare gli oppositori e ha reclamato la liberazione immediata di tutti i prigionieri politici chiedendogli altresì di dichiarare pubblicamente la propria volontà di non volersi più candidare, nel 2024, per un terzo mandato, mediante la modifica della costituzione vigente nel paese, consuetudine questa appartenente oramai a quasi tutti i leader degli Stati africani.

Mambaye, videomaker senegalese ha seguito la mobilitazione e il 9 marzo ha riassunto la situazione per Radio Blackout e OGzero, analizzando sia la composizione della piazza, sia l’evoluzione del Movimento di protesta, raccontando con passione e ironia ciò cui aveva potuto assistere e i possibili sviluppi dopo le dichiarazioni televisive dei due leader. Ecco il suo intervento in italiano da Dakar:

“Le Sénégal dit à la France: Dégage!”.

Brodo sociale in cui si cala il movimento senegalese

Gli accadimenti che si sono verificati, in Senegal, dopo l’arresto di Sonko, il 3 marzo, infatti, celano una gravissima situazione di instabilità politica nel paese – nonostante esso sia considerato erroneamente uno dei più solidi stati in Africa anche in ragione di essere l’unico a non aver mai subito un colpo di stato. Si può, quindi, onestamente affermare che tali eventi hanno costituito solo la scintilla che ha fatto esplodere una situazione sociale molto turbolenta, già presente e acuita dalla crisi pandemica per il Covid , in conseguenza della  quale nel paese si è registrato un notevole abbassamento del prodotto interno lordo. Le misure, infatti, che sono state adottate dal presidente Macky Sall per il contenimento della pandemia hanno ulteriormente mortificato un’economia informale che si fondava proprio sul principio della possibilità di muoversi liberamente per quanto riguarda soprattutto i giovani senegalesi. La maggior parte di loro sono scolarizzati ma non hanno nessuno sbocco occupazionale e, quindi, l’unica soluzione che rimane loro per condurre una vita dignitosa è rischiare la vita in mare per dirigersi verso le coste dei paesi dell’Unione Europea come è avvenuto durante la scorsa estate con l’attraversamento della rotta atlantica. La gioventù senegalese vede in Sonko un punto di riferimento, essendo a capo di un partito di patrioti che lotta per il lavoro, l’etica e la fraternità e che si rivolge in modo particolare alle classi urbane scolarizzate comprese quelle della diaspora.

Ousmane Sonko, ovvero i giovani scolarizzati disperati

I giovani senegalesi scolarizzati avevano accolto Ousmane Sonko all’Università di Dakar il 18 febbraio, prima degli scontri

Non sarebbe la prima volta che il presidente Macky Sall cerca, e riesce con successo, a liberarsi dei suoi oppositori politici attraverso il sistema giudiziario: è quanto è accaduto come abbiamo detto al figlio dell’ex presidente e anche al precedente sindaco di Dakar, entrambi al momento detenuti in prigione. Anche nel caso di Sonko l’incriminazione per stupro sembra essere totalmente montata: le prove, tra cui quelle mediche, come già accennato, non reggono assolutamente le accuse a lui rivolte e per di più sono state raccolte da forze di polizia che, come noto, non sono nient’altro che forze affiliate al presidente Macky Sall e definibili come milizie “al soldo” del presidente, una sorta di agenzia di contractor.

L’accanimento del governo senegalese, in particolare, da parte del presidente Sall nei confronti di Sonko è da ricercarsi nel fatto che egli rappresenta l’oppositore maggiormente credibile per sfidare l’attuale presidente in vista delle elezioni del 2024.  Sonko, arrivato già terzo alle elezioni del 2019, conquistando il 15% dei voti, oggi viene percepito come l’uomo del cambiamento e questo per diverse ragioni. La più rilevante è quella che Sonko si distingue per il fatto di non far parte dell’élite politica da anni presente in Senegal che tra le sue caratteristiche ha quella di non condividere le ricchezze del paese con la popolazione. Sonko, infatti, nasce non come politico ma come funzionario dell’erario e poiché durante il suo incarico ha denunciato attività economiche poco chiare, poste in essere dal governo in passato, è stato destituito dal suo incarico.

Macky Sall, ovvero il neocolonialismo francese e le sue multinazionali

Dietro le attività di Macky Sall, invece, si nasconde come per tanti altri leader africani il potere esercitato da Parigi. I giovani d’altra parte lo hanno ben compreso: non sono casuali, infatti, gli attacchi sferrati conto i simboli dell’ingombrante presenza politica ed economica della Francia in Senegal, come la distruzione o gli incendi che i manifestanti hanno commesso, nel corso delle proteste, a danno dei punti di rifornimento della compagnia petrolifera Total, della catena dei supermercati Auchan, contro i punti vendita della compagnia telefonica Orange e contro le autostrade a pedaggio Eiffage.

conflitti e instabilità

Servitude et soif de liberté

Il malcontento per l’ingerenza della politica francese nel paese in ogni caso non riguarda solo i giovani o i sostenitori di Sonko ma è comune a gran parte della popolazione senegalese : è ormai nota l’esistenza di accordi segreti – ma anche pubblici, di tipo economico – stipulati tra Macky Sall ed Emmanuel Macron, nonché la percezione di quanti benefici ottenga la Francia dallo sfruttamento delle risorse naturali senegalesi, come avvenuto con il recente ritrovamento di giacimenti petroliferi in mare a circa 100 km da Dakar.

Il petrolio

In particolare, anche in conseguenza di tale ritrovamento petrolifero, l’attuale presidente ha creduto, prima del propagarsi della pandemia, di poter dar vita a un progetto faraonico di rinascita del Senegal da attuarsi in un lungo periodo di sua reggenza politica, ossia potenzialmente fino al 2035. Come noto, invece, la crisi pandemica ha causato l’abbassamento del prezzo del petrolio e le corse delle compagnie verso i rifornimenti si sono ridotte notevolmente. È noto anche il fenomeno di corruzione nel quale è stato coinvolto il cognato del presidente Sall a cui è stata versata una tangente di 250.000 dollari da parte di una compagnia petrolifera interessata al recente ritrovamento di giacimenti nel paese.

Franc Cfa: il grimaldello francese

Non solo, la moneta senegalese il franco Cfa consente notevoli vantaggi monetari per la Francia nei rapporti commerciali con il Senegal. Nel potere della Francia di Emmanuel Macron, quindi, si trova la chiave di lettura del potere di Macky Sall, così come quello di tutti gli altri politici al potere, tranne Sonko il quale ha scritto un libro che denuncia proprio l’utilizzo sbagliato di alcuni fondi da parte dell’attuale presidente. Il deputato Sonko, infatti, in merito alla “questione francese” ha espresso un’opinione ben chiara: se nel 2024 riceverà il consenso da parte della popolazione senegalese rinegozierà tutti gli accordi economici con la Francia e svelerà quelli nascosti al fine di conseguire un maggior vantaggio per l’economia del Senegal. Sonko è l’espressione di una volontà politica di un partito, partigiano, anticolonialista, che si basa sul panafricanismo e che da anni mette in luce gli atti di chi controlla le risorse del paese e dei fenomeni di corruzione interna a essi collegati. Ciò nonostante, Sonko non ha chiesto, anche in conseguenza di tali accadimenti, le dimissioni immediate dell’attuale presidente che invece vuole gran parte della popolazione locale, ma che piuttosto non si candidi per un terzo mandato e che indica elezioni regionali nel paese che non si tengono da circa due anni. D’altra parte i manifestanti stessi, tra l’altro non tutti sostenitori del partito Pastef, sono giunti il giorno dell’arresto di Sonko da diverse zone del paese: non solo da Dakar ma anche da Casamance, da Saint-Louis e da Louga.

Ad aggravare una situazione già così tesa tra il presidente Sall e i partiti di opposizione sulla vicenda del presunto stupro è stata la pubblica apparizione in televisione, alla presenza del suo legale, della ragazza Adji Sarr durante la quale ha dichiarato l’inesistenza di un complotto a carico di Sonko e lo ha invitato pubblicamente a giurare sul Corano di non aver avuto rapporti sessuali con lei. Chiaramente il contenuto di tale comparizione ha riacceso i riflettori su una vicenda ancora in sospeso e sulla quale esistono tuttora indagini segretate. Al di là delle valutazioni etiche, religiose, psicologiche delle dichiarazioni, tale ulteriore sviluppo fa intendere che la ragazza abbia delle prove, non tanto in grado di dimostrare lo stupro, ma di attestare una relazione adulterina con Sonko e, non esprimersi in modo cristallino rispetto a una gravidanza riconducibile a Sonko, aumenta tali sospetti.

Adji Sarr è la massaggiatrice del Salon de Beautè che accusa Ousmane Sonko di stupro

Dopo questa frattura profonda tra dirigenti politici e i partiti di opposizione, primo tra tutti il Pastef, e Sonko in particolare, sostenuto in modo impressionante dalla popolazione civile, ma non dalle confraternite religiose – che rappresentano il livello più influente di potere nel paese – il cambiamento può dirsi ormai in atto, ma sarà in grado il presidente Sall di intercettare e soddisfare, a prescindere da Sonko, le istanze della popolazione e soprattutto dei giovani  o avrà la meglio su di lui la paura del cambiamento?

Per ora, all’inizio di aprile 2021, si direbbe che il presidente si giochi le classiche carte neocolonialiste della demonizzazione per opera dei religiosi marabutti che gettano acqua sul fuoco della rivolta e, anodina per il Senegal, l’invenzione di un’antagonismo tribale tra poular e wolof, mai esistito nella nazione, ma insinuato dal potere per dividere e poter ancora imperare al servizio del neocolonialismo francese. Questo il contributo di Mambaye registrato l’8 aprile su Radio Blackout

Ascolta “Marabutti e divisioni etniche: il repertorio neocoloniale di Macky Sall” su Spreaker.

Fonti:

L'articolo n. 4 – Senegal: Ousmane Sonko vs. Macky Sall. Esplode la rabbia proviene da OGzero.

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Materia della rete – rete della Materia https://ogzero.org/la-perenne-trasformazione-della-terra/ Tue, 30 Mar 2021 22:48:19 +0000 https://ogzero.org/?p=2764 Geopolitica materialistica Preludio Intelligenza artificiale, Commercio Elettronico, Smart City, Deep Learning, Clouds… sono tra le più diffuse metafore impiegate nel sistema tecnologico. Impalpabili, eteree, quasi spirituali. Come tutte le metafore un po’ illuminano, un po’ nascondono. Come nella lingua del marketing, sottolineano aspettative e oscurano realtà. È più la nebbia che la trasparenza. Se si […]

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Geopolitica materialistica

Preludio

Intelligenza artificiale, Commercio Elettronico, Smart City, Deep Learning, Clouds… sono tra le più diffuse metafore impiegate nel sistema tecnologico. Impalpabili, eteree, quasi spirituali. Come tutte le metafore un po’ illuminano, un po’ nascondono. Come nella lingua del marketing, sottolineano aspettative e oscurano realtà. È più la nebbia che la trasparenza. Se si scende dalla metafora per approssimare una definizione attendibile di ciascuna si precipita in un marasma semantico. Se dico tecnologie digitali, mi viene un’immagine che si smaterializza seduta stante. Un mondo virtuale mi appare alla mente, non il potenziale, il possibile, da secoli suggerito dal greco Aristotele, ma l’incorporeo, l’immateriale, ciò che è sconnesso dalla materia (bruta).

Contribuiscono alla dematerializzazione almeno due processi:

1] la miniaturizzazione incalzante dei dispositivi ha cambiato la nostra percezione in modo tale che la materialità o, se vogliamo, la fisicità, è diventa spettrale e i suoi rapporti col potere si sono eclissati. Questo lo sosteneva già trent’anni fa Donna Haraway [pag. 153].

2] mentre noi siamo sempre più tracciati, osservati, analizzati, resi visibili, visitabili e mercanteggiabili, si va esponenzialmente oscurando la tangibile durezza della nascita, vita e morte dei congegni digitali, degli apparati e delle reti.

È un’operazione quasi magica, meraviglia numinosa, che avvicina la tecnica alla religione o, almeno, al vangelo del nostro tempo.

 

Si può rendere riconoscibile il complesso industrial-digitale in cui siamo immersi?

Materie prime e seconde, forza lavoro (corpi, esistenze), produzione, conflitti, politica, economia.

Nelle righe che seguono, qualche spiraglio.

Dalla Terra

Una cosa buona | è che la roccia | può accucciarsi nel palmo | della mano, e sentire | i segni precari | dell’incisione nettissima, |
taglio, abisso, o quel che | costò anche alla roccia la sua | esistenza, come massa, anelante | concentrazione
Douglas Messerli, 1998 [trad. Federica Santini]

È un ciclo dalle molte ramificazioni.

La tecnologia in genere e quella digitale in modo speciale – Internet e web – praticano una dieta onnivora. Si nutrono di molti tipi di minerali, faticano a farsi bastare la tavola periodica degli elementi.

Qui le metafore scarseggiano. La lingua si fa meno evanescente e allusiva:

3TG [Tin/stagno, Tantalio, Tungsteno, Gold/oro], Conflict resources / Strategic minerals,
CRW [Critical Raw Minerals / Materials-Materie Prime critiche], Terre Rare / REE.

Queste ultime non sono per niente rare, soprattutto in Cina, che ne detiene i due terzi mondiali. Si chiamano così perché in passato si pensava fossero presenti solo in pochissimi minerali. Non ci sono però giacimenti di terre r. perché sono “incastonate” in altri minerali a bassissime concentrazioni. A leggere sulla tavola periodica le canoniche 17 terre r. le diresti battezzate dal principe De Curtis alias Totò: Europio, Gadolinio, Promezio, Tulio, Lutezio, Disprosio, Neodimio, Praseodimio

La perenne trasformazione della Terra

La geopolitica degli elementi: Terre rare

I minerali catalogati come conflict/ strategic/ critical vengono affannosamente ricercati per mezzo dell’esplorazione dei territori, che è il primo passo del ciclo. Spesso si traduce nell’esproprio/acquisto di terre e nell’allontanamento di popolazioni. Non semplice perlustrazione. Scavi, sbancamenti, perforazioni, prospezioni, trivellazioni, deforestazioni. Geologia e imperialismo sono sempre andati a braccetto.

Il secondo passo è l’estrazione, impresa molto più complessa di quanto dica la parola. Si tratta di separare gli elementi tra di loro, che mai si presentano allo stadio puro, ma solo come sottoprodotti. E poi raffinarli. Per farlo si richiedono macchinari ad alta tecnologia o il palmo della mano, oltre a solventi di grande potenza che si trasformano in grandi inquinatori dei suoli e delle falde acquifere. I minerali in questione non sono rinnovabili.

Tutta la Terra è una silicon valley, essendo il silicio l’elemento più diffuso, dopo l’ossigeno, ma in sregolata e inquietante riduzione. Prima di diventare il centro operativo di un computer in forma di chip o di cella solare di un pannello fotovoltaico deve tuttavia subire trattamenti molto diversi fra di loro, impegnativi industrialmente ed economicamente.

Dietro al silicio, alla columbite/tantalite nota come coltan, dietro allo stagno, al litio e alle altre sono incastrate:

  • aziende piccole e multinazionali, che raffinano, producono, assemblano, forniscono, distribuiscono;
  • mercati legali, illegali e così così;
  • persone vive, cioè forza lavoro formale, informale, manageriale, a lavoro coatto, indentured dicono gli anglosassoni, a servitù e paraschiavistica;
  • sfruttamenti estremi e ricchezze smisurate;
  • listini di borsa, banche, criptomonete e fondi finanziari;
  • organizzazioni paramilitari di controllo e organismi di tutela;
  • geopolitica spicciola e altolocata, alleanze insospettabili e venti di guerra, supremazia e sudditanza.

Trump voleva comprarsela la Groenlandia.

Tutte le fasi storiche del capitalismo pressate come un sandwich in mala convivenza.

Materia prima indispensabile

1] Materialità a vista del complesso industrial digitale

 

Cava di silicio

Cava di silicio in Australia

 

La perenne trasformazione della Terra

Minatori indiani esposti alla polvere di silicio a Jamshedpur

 

La perenne trasformazione della Terra

Miniera di terre rare a Bayan Obo, nella Mongolia interna

 

La perenne trasformazione della Terra

Evaporazione litio a Salar de Uyuni, Bolivia

 

Con la Terra

Ho ingoiato una luna fatta d’acciaio | ne parlano come se fosse un’unghia
Ho ingoiato queste acque di scolo industriali, | queste carte di disoccupazione
La gioventù chinata sulle macchine muore prima del suo tempo
Ho ingoiato il trambusto e l’indigenza | ingoiato ponti pedonali, vita coperta di ruggine
Non posso ingoiare altro | E tutto ciò che ho ingoiato | ora rigurgita | dalla mia gola
spandendosi sulla terra dei miei avi | in un ignominioso poema
Xu Lizhi, operaio Foxconn, 2013

Il silicio diventa principe dei semiconduttori (e signore della silicosi), il litio re delle batterie, il tantalio il califfo dei condensatori…

È la perenne trasformazione della Terra. Una alchimia materialistica detta anche hardware- dura materia, alla cui realizzazione partecipa una moltitudine di esseri umani, corpi e vite variamente inquadrate in strutture inventate qualche secolo fa durante la rivoluzione industriale: fabbriche e macchine, che via via si sono adeguate ai tempi.

 

Mercato spasmodico. Ragguardevole conflittualità, presente e soprattutto futura, tra Grandi Potenze e Potenze Intermedie. Servitù delle Potenze Nonpotenze.

Dopo il trattamento, dopo l’assemblaggio dei componenti i dispositivi digitali entrano nella supply chaine – la catena distributiva che impiega tutti i mezzi di trasporto immaginabili, terrestri, aerei, marittimi, che si muovono lungo una rete worldwide/mondiale che arriva puntualmente ovunque, addirittura anche a me. Tutto il trasportato e tutti i trasportanti sono composti da peso, massa, spessore, densità, volume, inclusi i numerosi umani che vi si affaccendano allegri o malinconici.

Materia seconda indispensabile.

2] Materialità a vista del complesso industrial-digitale

 

La perenne trasformazione della Terra

Stabilimenti Foxconn in Cina: assemblaggio apparecchi Apple

 

Intel in Hillsboro (Oregon)

Lavoratori impegnati presso Intel di Hillsboro alla produzione del chip D1D/D1X

 

Cargo Charter Transport

 

Il corriere Arvato, Bertelsmann, Duren

Informazione satellitare della disposizione delle imbarcazioni tra il Mediterraneo orientale, il Mar Rosso, il golfo di Oman e il Golfo Persico il 25 marzo 2021, quando la portacontainer Ever Given bloccava il Canale di Suez

Sulla Terra

Soft è soft perché è malleabile. Un programma, un codice, si può correggere e riscrivere. Come qualsiasi cosa nel nostro universo, è limitato dalle condizioni materiali, cioè dall’hard.

In questa fase del ciclo la materia si esprime soprattutto come materia cerebrale. Nugoli di uomini e donne informaticƏ, ingegnerƏ elettronicƏ, programmatorƏ, hackers … costruiscono, inventano, elaborano, aggiornano i programmi che permettono ai dispositivi digitali di funzionare. Procedimento di scrittura logica, l’algoritmo, fatto di istruzioni e comandi che nel gioco input/output consente a me, che sono un mortivo digitale, di scrivere qui sopra, di cercare un’immagine e tutte le altre cose complicate che non so fare. Grazie alle notti in bianco che programmatorƏ hanno passato per montare il codice. Spesso appartenenti al proletariato cognitivo.

Anche in questa fase, apparentemente del tutto virtuale, c’è invece una miriade di esseri umani, qualche milione, che addestrano gli algoritmi per migliorarne la “intelligenza”. Una manovalanza globale di lavoratrici e lavoratori parcellizzati che svezzano le macchine, cioè i programmi di machine learning, di “intelligenza artificiale” e sue applicazioni. A nutrirli ci pensiamo noi attraverso le nostre quotidiane interazioni con le “piattaforme sociali” oppure le vere e proprie fabbriche di click.

Megaziende, come Amazon Mechanical Turk, materialisticamente ci sguazzano.

Viene chiamato digital labor questo lavoro invisibile in cui la manodopera dispiega la sua energia fisica e mentale. È inutile che intraprenda una lunga variazione quasi una fantasia sul tema, dal momento che sta in libreria il testo imprescindibile per chi abbia interesse a questa articolazione del capitalismo contemporaneo: Schiavi del clic. Perché lavoriamo tutti per il nuovo capitalismo? di Antonio Casilli, Feltrinelli, 2020 [ho presentato, si fa per dire, l’edizione originale in francese qui. Qualche osservazione sparsa qui]

Materia evanescente indispensabile.

3] Materialità a vista del complesso industrial-digitale

 

Click Farms. Centinaia di mobile che scaricano applicazioni per migliorare i loro rankings

 

Click Farms. Virtual Stacks System

Microworkers

 

Microlavori

 

Sopra e sotto la Terra

Siete tutti così intelligenti, così attivi. | Qui è scena muta, è scena | da poco. Si depongono |
le attitudini come chi preferisce | mancare lo scopo e ama solo | i tempi morti.
Nicoletta Bidoia, Scena muta, Dueville, Ronzani, 2020

Internet e il web sono una rete di reti con punti nodali di incrocio, di scambio e di immagazzinamento. Reti locali e transcontinentali. Non esistono solo – ontologicamente, si direbbe in filosofia – nella loro architettura logica e informatica. Esistono materialisticamente come ambienti fisici e fasci di cavi. Per la connettività sono fondamentali gli Internet Exchange Point (IXP), o punti di interscambio, che sono ospitati in una struttura edilizia, con personale, hardware, manutenzione, sono sottoposti a logiche di mercato e strategiche, finanziarie e politiche. Così empiricamente esistenti che si possono individuare su una mappa.

Idem per il Content Delivery Network-CND, rete per la distribuzione dei contenuti, ancora più sottoposta al mercato. Qui la mappa della Akamai Technologies, potente società globale tra le tante.

Eccetera eccetera eccetera…

Per fare un cavo ci vuole la fibra di vetro, tra l’altro, per fare la fibra di vetro ci vuole la silice, per la silice il silicio, ognuno lavorato come si deve, così posso connettermi con ogni luogo del pianeta e godermi film e conoscenze. Se esistono è perché qualcuno li costruisce, i cavi. Un comparto industriale di grandissimo rilievo. Cavocrazia è stata definita: 750.000 chilometri di cavi sottomarini, vulnerabili, sabotabili, spiabili, manipolabili, appetibili, guerreggiabili. Cosa ne pensano i pesci non si sa. Cavo rotto, ciao Internet, come dimostra la solita densa mappa.

Il content che trasmettono sono i dati, che poi toccano terra nei Data Centers depositandosi, megacapannoni industriali che consumano più energia di molte città e più acqua di diverse piscine olimpiche, emissioni di C02 che non so dire. Si conosce invece la smisurata produzione che ne fa la blockchain per gestire le criptovalute.

Attraversando terre e oceani i dati riferiscono che cosa ho scritto su questa pagina, con quali caratteri, i siti consultati, le immagini e i video, da quale luogo scrivo, con che aggeggio, a che ora – si scopre che sono un tiratardi, se leggo l’inglese, quanto tempo impiego ad approfondire un sito, con quale sistema operativo, se ho cliccato o respinto qualche pubblicità, se scrivendo ascolto Brahms o Willie Peyote (l’uno e l’altro)…

Miliardi di dati ogni minuto secondo. Sistema di magazzini sempre sull’orlo della saturazione. Occorre costruirne altri. Ma tutto si surriscalda, non basta l’acqua, mettiamoli al fresco sott’acqua, dice Microsoft, facciamoli al Circolo Polare Artico, dice un altro. Detto fatto.

Nuove Frontiere da raggiungere di corsa e valicare con impeto, come ai bei tempi. La Terra è al servizio dello sviluppo a briglia sciolta del genere umano.

Ed ecco tornare imperativa e bugiarda la metafora con M maiuscola. I dati vivono tra le nuvole, clouds, là dove svolazzano cherubini e serafini, non sulla Terra, sporca e materiale, tanto meno sott’acqua, buia e misteriosa.

In base alla millenaria e ferrea accoppiata Cielo e Terra, Spirito e Materia.

 

Immancabile Mappa dei Data Centers.

Materia cablata indispensabile.

4] Materialità a vista del complesso industrial-digitale

 

Milan internet eXchange – Centro elaborazione dati interno al campus di via Caldera (zona Nordovest – Milano)

 

Prysmian’s HD Power Cable plough (built by Soil Machine Dynamics) on Normandy Beach

 

La perenne trasformazione della Terra

Project Natick (7 luglio 2020), Microsoft riporta in superficie il proprio datacenter subacqueo posato a 35 metri nei fondali di Stromness, Orkney nel 2018.

 

Luleå. Data Center di Facebook in Lapponia

Alla Terra

La discarica gli mostrava senza mezzi termini come finiva il torrente dei rifiuti,
dove sfociavano tutti gli appetiti e le brame, i grevi ripensamenti,
le cose che si desideravano ardentemente e poi non si volevano più
Don DeLillo, Underworld, Torino, Einaudi, 1997 [trad. Delfina Vezzoli]

Come ogni sistema industriale anche quello digitale genera scarti e rifiuti, non c’è da stupirsi, sono parte integrante del ciclo produttivo: dalla Terra alla Terra. Molti autorevoli reports dichiarano che all’anno produciamo globalmente quasi 50 milioni di tonnellate di rifiuti “elettronici”, e-waste. Non so come ricavino questa spaventosa cifra. La prendo provvisoriamente per buona. Da questa più che materialistica realtà si sviluppa un consistente e complesso subsistema industriale molto gerarchico: in cima, tecnologiche aziende del riciclo tirate a lucido, da basso, tecnologie corporee fatte di occhi, mani, braccia, respiro. Come già i minerali all’origine, entrambe in lotta con una materia sempre più amalgamata, difficile da disassemblare e scomporre.

Si progetta un prodotto e lo si pensa già come rifiuto. Non succede solo nel comparto industrial-digitale. I dispositivi appena fanno capolino sul mercato risultano ormai “vecchi”, incalzati dal nuovo prototipo che riscalda i muscoli negli stessi ambienti che hanno partorito il precedente. In gergo si dice obsolescenza programmata che, tradotto, significa che devono guastarsi il più presto possibile, che la riparazione sia antieconomica, che vengano sottoposti all’implacabile ciclo della moda / fashion circle, che subiscano un precoce invecchiamento a causa di una incombente “novità” tecnologica, spesso marginale e superflua. La sostituzione è garantita, lo scarto/scoria anche e il mercato sempre su di giri. Ne parlava già Vance Packard ne I persuasori occulti più di sessant’anni fa.

Come ci insegna la storia della medicina, l’analisi delle feci e delle urine è uno strumento diagnostico autorevole per conoscere lo stato di salute di un organismo. L’analisi dei rifiuti, scorie deriva dal greco skṓr/escrementi, non è tanto benevola e rassicurante verso il nostro sistema produttivo e di vita, presente e futuro.

Materia riciclata fatalmente indispensabile.

5] Materialità a vista del complesso industrial-digitale

Il ricondizionamento di apparecchi elettronici anima il mercato del riciclaggio

 

La perenne trasformazione della Terra

Il piano Dell per il recupero di 900 mila tonnellate di scarti tecnologici

 

A Terra

E non soltanto si pretendeva che la terra, nella sua ricchezza, desse messi e alimenti,
ma si discese nelle sue viscere, e ci si mise a scavare i tesori, stimoli al male

 

Ovidio, Metamorfosi, I, 136/38, [trad. Piero Bernardini Mazzolla]

Estrazione non è un simbolo e capitalismo estrattivo non è una metafora. Estrazione dalla Terra, estrazione dai Dati, estrazione dai Corpi. Materia, Conoscenza, Valore. Il Capitalismo è animista, estrae valore da qualsiasi entità, viva o morta.

Riuscire a pensare assieme risorse, dati, lavoro, soft e hard, non è una perdita di tempo, è una conquista. Si guadagna in profondità e in lungimiranza, in senso del limite e della vulnerabilità. Digitale e Media come estensione della Terra e non del soggetto umano (McLuhan).

Questo è il materialismo che mi ha proposto Jussi Parikka [A Geology of Media, Minneapolis, University of Minnesota Press, 2015].

Pacchetto di documentazione:

Per approfondire, qualche suggerimento bibliografico minimale:

in generale

-L. Parks, N. Starosielski [ed.], Signal Traffic. Critical Studies of Media Infrastructures, Illinois Un. Press, 2015

sull’uso delle metafore:

M. Lindh,and J.M.Nolin, GAFA speaks: metaphors in the promotion of cloud technology, “Journal of Documentation”, 2017

geologia e imperialismo:

A (Partial) Reading List of Papers & Perspectives Relevant to Geology & Colonialism, 2020

S. Popperl, Terra Infirma – Dead Sea Sinkholes – A Photo Essay, “Middle East Research and Information Project”, n. 26 (autunno 2020)

minerali critici, Terre Rare…:

Terre rare. Il “nuovo oro” onnipresente e insostituibile;

– G. Pitron, La guerra dei metalli rari. Il lato oscuro della transizione energetica e digitale, Luiss Un. Press, 2019

– D. S. Abraham, The Elements of Power. Gadgets, Guns, and the Struggle for a Sustainable Future in the Rare Metal Age, Yale Un. Press, 2015

– S. Kalantzakos, The Race for Critical Minerals in an Era of Geopolitical Realignments, 2020;
– J. M. Klinger, Rare Earth Frontiers. From Terrestrial Subsoils to Lunar Landscapes,  Ithaca, Cornell Un.Press, 2017

– M. Hall, A new Cold War: mining geopolitics in the Arctic Circle, “Mine”, November 2020
The Geopolitics of Semiconductors, Eurasia Group, September 2020

digital labor:

Oltre al fondamentale testo di A. Casilli citato nel testo:

– U. Huws, Labor in the Global Digital Economy. The Cybertariat Comes of Age, New York Un., 2014;

L’enigma del valore. Il digital Labour e la nuova rivoluzione tecnologica, Effimera, 2019

– M. Gregg and R. Andrijasevic, Virtually Absent: the gendered histories and economies of digital labour, “Feminist Review”, 2019

– A. Gillwald, O. Mothobi, A. Schoentgen, What is the state of microwork in Africa? A view from seven countries, 2017

IXP, cavi, clouds:

– Joerg Bonarius, Internet Exchange Point (IXP) Traffic Continues to Grow, “Extreme”, 2020

Best Content Delivery Network (CDN) Software, 2021

– Nicole Starosielski, The Undersea Network, Duke Un. Press, 2015

– Adam Satariano, How the Internet Travels Across Oceans, “New York Times“, 2019

Doug Brake, Submarine Cables: Critical Infrastructure for Global Communications, 11 marzo, 2019

I cavi sottomarini: infrastruttura chiave per internet e la sicurezza dei dati, “BizDigital”, gennaio 2021

– Jianyin Roachell, Cloud Colonialism: How the U.S. and China are “dual-using” the Cloud for Geopolitical Competition, “China&US Focus”, 20 novembre 2020

rifiuti, e-waste:

The Global E-Waste Monitor, 2020,

Electronic Waste and the Circular Economy Contents, Parliament UK, 2020

L'articolo Materia della rete – rete della Materia proviene da OGzero.

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Nazione di poeti, navigatori e… trafficanti d’armi https://ogzero.org/italia-nazione-di-trafficanti-darmi/ Sun, 21 Mar 2021 11:25:30 +0000 https://ogzero.org/?p=2638 L’attenzione per la repressione sanguinosa in Myanmar e gli addentellati con i traffici d’armi dell’industria italiana hanno smosso nei nostri ricordi alcuni collegamenti che si dipanano dal Sudest asiatico al Sahara occidentale, attraversando la storia dell’industria bellica italiana dal 1973, anno della Guerra del Kippur (e della sua conseguenza sull’approvvigionamento energetico mondiale), fino alle armi […]

L'articolo Nazione di poeti, navigatori e… trafficanti d’armi proviene da OGzero.

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L’attenzione per la repressione sanguinosa in Myanmar e gli addentellati con i traffici d’armi dell’industria italiana hanno smosso nei nostri ricordi alcuni collegamenti che si dipanano dal Sudest asiatico al Sahara occidentale, attraversando la storia dell’industria bellica italiana dal 1973, anno della Guerra del Kippur (e della sua conseguenza sull’approvvigionamento energetico mondiale), fino alle armi che fanno strage dei resistenti di Mandalay e un’inchiesta di Atlante delle Guerre e Opal ha dimostrato come abbiano aggirato l’embargo più che decennale nei confronti del Myanmar

La tradizionale presenza della industria bellica italiana nei teatri di guerra

Riprendiamo a proporre gli articoli che Eric Salerno scrisse per “Il Messaggero” seguendo le prime azioni del Polisario, quelle che prendevano di mira le truppe mauritane illuse di poter partecipare della spartizione delle spoglie del Sahara ex spagnolo. Bastò l’incipit del catenaccio, le raffiche sul palazzo presidenziale di Nouakchott e i mauritani lasciarono perdere: i colonizzatori avevano puntato sui marocchini per perpetuare lo sfruttamento delle risorse.

La lettura dell’ingerenza delle potenze coloniali è massicciamente presente nell’articolo di Eric, dove si respirano le tensioni positive che parlavano di panafricanismo – chiamato proprio a difesa delle sacrosante rivendicazioni saharawi, e gli stati africani rispondevano a tono, mentre ora sono in coda per accedere agli Abraham Accords – e di altre illusioni di un periodo esaltante, dove non era una bestemmia parlare del ruolo svolto dall’Italia nell’“aggressione condotta dall’imperialismo” contro la lotta di liberazione: era il 5 luglio 1977.

Polisario contro Mauritania

Primi attacchi del Polisario e scoperta dell’approvvigionamento di armi italiane all’esercito mauritano

 

Ma perché ci siamo affrettati ora a passare a un nuovo appuntamento con gli articoli di Eric Salerno pubblicati nel 1977 proprio in questo periodo concitato che cerca di capire come il mondo trascorre dall’epoca di Trump a quella di Biden? Semplice: perché in questi giorni alcune realtà complici della nostra testata hanno scoperchiato la vergogna di armi di fabbricazione italiana usate da Tatmadaw contro i manifestanti birmani che si ribellano al golpe in Myanmar. E in questo articolo in enjambement trovate un lungo pezzo, incastonato in centro al reportage che rilascia una scia di disgusto non ancora consumata: «La presenza dell’industria italiana sul mercato mondiale della armi ci vede oggi impegnati in un dibattito che tocca i punti fondamentali dello scontro di classe in Italia» [e oggi era il 1977, non è cambiato nulla se non in peggio].

Ma è soprattutto la combinazione dei due elementi compresenti nell’articolo (l’Flm, coinvolta a sostegno della lotta saharawi; e le armi costruite dalle maestranze italiane, probabilmente aderenti alla Federazione lavoratori metalmeccanici) che vanno a unirsi in un altro testo che ricordava quegli anni e va nel ricordo a comporli insieme: il redattore era un amico di Eric, uno di quelli che avevano fortemente voluto la nascita di un sindacato forte e internazionalista come poteva essere negli anni Settanta la Federazione di tutti i lavoratori metalmeccanici: Alberto Tridente si impegnò infatti anche a lungo per sostenere la lotta saharawi.

In particolare a corredo dell’articolo di Eric Salerno ci piace riproporre stralci da questo racconto autobiografico di Alberto Tridente, raccolto nel volume da lui redatto nel 2011, poco prima di arrendersi al cancro dopo 10 anni di resistenza alla malattia senza smettere di denunciare i trafficanti di morte e l’ipocrisia che li ha sempre coperti nella vulgata italiana: Dalla parte dei diritti (Torino, Rosenberg & Sellier, 2011, pp. 178 e sgg.).

Scommettere sulla guerra?

Nel dicembre del 1973 dalla Oto Melara di La Spezia, nota fabbrica di sistemi d’arma esportati in tutto il mondo, era partita una nave carica di cannoni Oto-Mat diretta al Cile di Pinochet. All’inizio del 1974 andai a La Spezia e mi confermarono il cinico invio di armi al governo assassino. Non potevo crederci. Ne parlai a lungo con i sindacalisti e seppi che il Pci stava organizzando una “Conferenza di produzione”.

Era l’iniziativa attraverso la quale il Pci (in quella critica fase di ripensamento della sua strategia del compromesso storico in seguito ai fatti cileni) andava da tempo realizzando nelle grandi fabbriche, cercando di accreditare la sua idoneità a governare il paese, presentandosi alle imprese come interlocutore fondamentale per lo sviluppo delle attività produttive. L’incremento occupazionale era lo scopo dichiarato della “Conferenza di produzione”.

Un passo indietro a questo punto. necessario. Negli anni torinesi avevo conosciuto Achille Croce, giovane animatore del Movimento non violento valsusino. Nel 1972 Croce era impegnato a convincere i lavoratori delle Officine di Moncenisio, fabbrica che riparava carri ferroviari, a non accettare la trasformazione dell’azienda in fabbrica di sistemi d’arma. L’incontro con Achille Croce era stato un altro di quelli che lasciavano il segno. Testimoniava la resistenza allo scandalo del cinico scambio: quello di produrre più armi in cambio di maggiori occupati. Nel sindacato avevamo affrontato da tempo i temi del “cosa e come produrre”, ma quello delle armi era ancora un argomento scabroso del quale non si parlava perché non facile da trattare. Non mi ero mai direttamente occupato, come tutto il sindacato del resto, dell’industria bellica, delle implicazioni che quelle produzioni comportavano dal punto di vista morale, né delle prospettive che maggiori commesse belliche significavano per l’occupazione. Achille aveva invece le idee chiare. Era membro del direttivo della Fim provinciale e nelle riunioni dell’organismo aveva qualche volta posto il problema della produzione bellica che il sindacato non poteva trascurare di affrontare. Allora non aveva trovato molto ascolto, sembrava che parlasse nel deserto, ma quelle sue appassionate parole non erano state dimenticate. All’assemblea della Oto Melara, all’inizio del 1974, mi trovavo di fronte a una straordinaria e lacerante sfida: come accettare, dopo tante manifestazioni e proteste contro il colpo di stato di Pinochet in Cile e la morte di Allende, che un’importante fabbrica italiana, a capitale pubblico e altamente sindacalizzata, provvedesse a rifornire di cannoni i golpisti?

Cannoni navali in lavorazione nella fabbrica dell’Oto Melara di La Spezia nel 1980

La situazione aveva del paradossale. L’invio di un carico di cannoni a Pinochet avveniva senza proteste o un minimo di obiezioni da parte del Consiglio di fabbrica e del sindacato provinciale della Flm di La Spezia. Al contrario si organizzava una “Conferenza di produzione”, il cui fine era maggiore produzione bellica per ulteriore occupazione, ovvero si scommetteva sulla guerra. Erano annunciate significative presenze: il Consiglio di fabbrica, la sezione interna del Pci alla Oto Melara, il sindaco di La Spezia, il presidente della provincia, insieme all’amministratore delegato, ingegner Stefanini. La scommessa sulla guerra era non solo implicita, ma andava oltre: ne auspicava cinicamente altre, magari più estese, al fine di ottenere incrementi produttivi e occupazionali. Non ricordo se il film Finché c’è guerra c’è speranza con Alberto Sordi nella parte del mercante di armi fosse apparso sugli schermi italiani prima o dopo la Conferenza della Oto Melara, fatto sta che decisi di parteciparvi a nome della Flm nazionale, per parlare ai lavoratori contro le ragioni che l’avevano proposta, rovesciando lo slogan che dà titolo al film di Sordi.

 

Nella segreteria nazionale Flm proposi che se ne discutesse a fondo, non senza contrasti da parte di coloro che, specie nella Fiom e nella Uilm, non percepivano ancora con chiarezza la contraddizione del produrre armi in cambio di occupazione, come se queste fossero prodotti come gli altri. Ottenni comunque il consenso a sostenere la tesi che non era nella linea della Flm affidare la garanzia della maggiore occupazione alla speranza di maggiori conflitti nel mondo. Con questa convinta posizione andai a La Spezia. Una foto del mio intervento testimonia questa mia prima personale e diretta esperienza in un’assemblea di lavoratori che auspicava maggiori produzioni belliche. La mia “conversione sulla via delle Officine Moncenisio di Condove”, in bassa Valle di Susa, e la memoria dell’incontro con Achille Croce mi aiutarono ad affrontare un cammino che si annunciava tutto in salita.

Il refettorio della Oto Melara dove si teneva l’assemblea era strapieno di operai e impiegati. Parlarono i provinciali della Flm, il Consiglio di fabbrica, l’amministratore della Oto Melara, ingegner Stefanini, e poi toccò a me concludere.

Sparai – . proprio il caso di dirlo, data la fabbrica – tutte le mie cartucce contro l’illusione della “scommessa sulle guerre”. Dissi che era inaccettabile: «Manifestare il sabato contro i colpi di stato fascisti e, poi, dal lunedì al venerdì, lavorare e rifornire di armi coloro che le avrebbero usate per reprimere nel sangue la democrazia! Le guerre sarebbero, prima o poi, finite e la crisi del settore bellico avrebbe sgonfiato tutte le illusioni delle conferenze produttive di quel tipo… Sarebbe stato più saggio, oltre che morale, pensare per tempo a produzioni alternative, per non trovarsi sprovvisti di altre opportunità di produzione e lavoro, strangolati dalla mancanza di alternative a quella bellica, e che appariva rischioso affidare ai conflitti nel mondo le speranze produttive e occupazionali».

Era stata una provocatoria, temeraria e frontale accusa a tutti i presenti che avevano organizzato e creduto in quella iniziativa, che privilegiava apertamente una scelta cinica, contraddittoria e immorale che inavvertitamente corrompeva le coscienze dei lavoratori e tradiva coerenti scelte politiche. E aggiungevo: «Seppure l’intento di avere più occupati in futuro potrà apparire un obiettivo nobile, questo non dovrà avvenire auspicando il passaggio dalla guerra fredda a quella calda, in ogni parte del pianeta!» Silenzio e sconcerto accompagnarono le mie conclusioni. Le tesi da me esposte rovesciavano la “torta appena confezionata”. Gelido il commento dell’ingegner Stefanini, così come dei dirigenti sindacali e di partito presenti. Al termine della Conferenza,

il solo ad avvicinarsi e a parlarmi fu un delegato della Fiom, Claudio Rissicini, che mi disse: «Belìn, cosa volevi, che ti applaudissero? Lo avrebbero fatto volentieri, ma con le mani sulla tua faccia! Lo sai che parlare in questa fabbrica di conversione al civile ha significato nel dopoguerra solo disoccupazione?». Claudio, negli anni che seguirono, divenne un caro, fraterno amico e compagno di importanti iniziative nel settore della cooperazione. Fu uno dei primi a partire per anni di missione in Mozambico, nel quadro dei programmi di cooperazione che per conto della Flm firmai con quel paese, quando si liberò dal colonialismo portoghese.

Cresce il fatturato bellico italiano.

Nella mia attività mi stavo dedicando anima e corpo a queste idee centrali, complicate e difficili, che avevano saturato anche il mio poco tempo libero: convincere i lavoratori del settore sulla validità della distinzione storica fra interessi dei lavoratori e quelli delle lobby dell’industria bellica, persuaderli a non produrre armi e in ogni caso a non venderle ai regimi dittatoriali e razzisti; elaborare un coerente intervento del sindacato sui temi della pace e della solidarietà e, nello stesso tempo, proteggere l’occupazione in quelle stesse fabbriche. In quel momento la produzione bellica e il suo commercio crescevano a ritmi impressionanti in Italia e all’estero. Erano perciò un ostacolo in più, ai numerosi che già si ergevano sul cammino del disarmo e della pace.

Questo lavoro si raccordava inoltre con l’attività del Tribunale Russell, che affrontava spesso la vergogna delle esportazioni di armi in quei paesi considerati criminali dall’attività del Tribunale. Il volume produttivo e commerciale collocava il nostro paese al primo posto nel gruppo dei minori esportatori di sistemi d’arma. Il fatturato totale esportato dal nostro paese aveva ormai raggiunto e oltrepassato i 5000 miliardi di lire a metà degli anni Settanta: un record mai raggiunto dall’industria bellica italiana. L’aumento della produzione e l’affermazione dei prodotti sui mercati internazionali avevano fatto dire al ministro del commercio estero di allora, il socialista Enrico Manca, che la vendita di undici navi militari (quattro fregate e sei corvette, più una nave appoggio) all’Iraq di Saddam Hussein era un fatto inedito e veramente straordinario. Per quantità e qualità del naviglio venduto lo si poteva definire “l’affare del secolo”. Prima dell’attacco al Kuwait, oltre all’Italia, vendevano armi a Saddam soprattutto i francesi. Fornivano cacciabombardieri Mirage e Super Standard e i relativi missili che li equipaggiavano. Da parte loro i sovietici vendevano carri armati e blindati, i brasiliani blindati e autocarri. Generoso l’aiuto finanziario statunitense all’Iraq, affinché potesse comprarne di più e su tutti i mercati. Saddam era un “buon cliente e amico”, si preparava ad attaccare il “cattivo dell’area”, l’Iran di Khomeyni, e fin lì tutto andava bene, per gli americani, per l’Occidente e per “madama la marchesa”!

Italia nazione di trafficanti

Elicottero AW109M costruito da AgustaWestland partecipata di Leonardo, azienda controllata dallo stato italiano

A Firenze nacque un gruppo che si proponeva di studiare a fondo il tema e che tuttora [2012, N.d.R.] continua a pubblicare ricerche sull’argomento. Era cresciuto nel frattempo il numero dei lavoratori e dei Consigli di fabbrica che collaboravano. Il lavoro sull’industria bellica aveva già prodotto i primi obiettori di coscienza nelle fabbriche dove lavoravano: tra questi, Elio Pagani, operaio dell’Aermacchi, e Marco Tamburini dell’Agusta elicotteri. Ero fermamente convinto che il difficile lavoro per la riconversione richiedeva anche momenti fortemente emozionali per farsi ascoltare da assemblee talvolta scettiche, se non ostili o nettamente contrarie alla sola idea di rischiare il posto di lavoro per quelle che erano ritenute utopie. La produzione e la vendita di sistemi d’arma creava infatti occupazione e apparivano stolti coloro che opponevano scrupoli morali allo sviluppo di un settore che migliorava la bilancia commerciale. All’assemblea della Aermacchi, la prima in una fabbrica italiana di aerei da guerra e addestratori che commerciavano con il Sudafrica razzista, mi aveva accompagnato Antonio Mongalo, l’africano di etnia Zulu, rappresentante in Italia dell’Africa National Congress del carismatico leader Nelson Mandela, allora ancora in carcere. L’impatto fu emotivamente fortissimo. Alle obiezioni di alcuni operai e capetti, che giustificavano in nome del lavoro la liceità del commercio con quel regime, Antonio parlò con passione della sua gente: «Segregata, sfruttata come schiavi nelle miniere, relegata nei tuguri malsani delle disperate periferie delle città da un regime spietato, lì, nella loro stessa terra, usurpata con la forza da coloni bianchi. Non cittadini, senza i più elementari diritti in quella che era stata da sempre la loro patria».

Imposto un embargo si trova l’inghippo

L’aggiramento dei divieti era da tempo collaudato; nel caso del Sudafrica l’embargo veniva aggirato attraverso il cosiddetto commercio triangolare: le imprese vendevano a un paese autorizzato a riceverle e questo le girava al paese sotto embargo e il gioco era fatto. Pajetta era furibondo. Mi accusava di aver attaccato l’iniziativa della conferenza e mi sfidava a provare quanto affermavo. L’irritazione era fondata: a Livorno il Pci era forte, specie fra i portuali. Anche Granelli mi domandò, più educatamente, se quanto denunciavo nell’intervista al “Corriere della Sera” era accaduto per davvero.

L’intervento dei mozambicani nel dibattito mi aiutò, confermando quanto detto da me nell’intervista. Essi affermarono: «In effetti questo accadeva ed era accaduto spesso nel passato», aggiungendo che erano talvolta sconcertati perché non capivano come l’Italia, da sempre impegnata nella solidarietà, vendesse armi a paesi che le usavano contro di loro. La soddisfazione per me fu enorme. Granelli in seguito si scusò: aveva accertato che la mia denuncia era fondata.

Il prodotto venduto che più ci copriva di vergogna nel mondo erano le mine antiuomo della Valsella e della Valmara. Erano armi povere per vittime povere. Infinito il numero di bimbi e di contadini mutilati alla fine di ogni conflitto: vittime di esplosioni subdole, perché “ritardate” nella loro criminale efficacia. Finalizzate per uccidere, come tutte le altre armi, erano state progettate (e lasciate nel terreno) per terrorizzare e mutilare le potenziali vittime, soprattutto quelle innocenti di tutti i dopoguerra. Il divieto alla loro esportazione era stato, finalmente, un modesto successo, che confermava e incoraggiava a proseguire nel lavoro. Molte produzioni erano e sono tuttora “dualistiche”, basate su tecnologie che permettono di realizzare prodotti sia civili che militari, offrendo così merci alternative. Consorzi di imprese inter-armi erano e sono stati promossi per integrarne le produzioni e facilitarne la penetrazione nei mercati. Il modello del Consorzio Melara, prodotto “chiavi in mano”. ormai diffuso con successo.

 

E con le mine antiuomo torniamo al Saharawi, che fa da perno a questa triangolazione virtuosa tra inchiesta di Opal, Atlante delle guerre, Rete Pace Disarmo sfociata in una serie di articoli di Emanuele Giordana e Alessandro De Pascale sulla presenza di armi di fabbricazione italiana nel Myanmar dei golpisti; lavoro di una vita antimilitarista di Alberto Tridente, narrata nel suo libro-testamento, infarcito di figure mitiche dell’indignazione del profitto derivante dalle guerre; la testimonianza di Eric Salerno collocata nel Sahara occidentale e risalente al 1977 delle prime imprese del Frente Polisario, che vide tra gli ambasciatori di giustizia proprio Alberto Tridente, attivo nel denunciare la presenza delle micidiali mine nel deserto abitato dagli esuli Saharawi. Non con sole armi l’Italia esporta guerre, ma anche con scuole di polizia per l’addestramento di  apparati speciali, assimilabile alla famigerata Escuela de Las Americas, per questo aspetto è interessante seguire il lavoro di Antonio Mazzeo

 

 

 

 

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Tracce della distanza https://ogzero.org/africa-teatro-della-storia/ Sat, 16 Jan 2021 09:11:31 +0000 http://ogzero.org/?p=2221 Una primavera africana d’autunno   The sky carries a boil of anguish | Let burst Let the sky’s boil of anguish burst today | The pain of earth be soothed di Niyi Osundare [Il cielo porta con sé una bolla d’angoscia | Fa’ che scoppi Fa che la bolla d’angoscia nel cielo scoppi oggi | Si plachi […]

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Una primavera africana d’autunno

 

The sky carries a boil of anguish | Let burst

Let the sky’s boil of anguish burst today | The pain of earth be soothed

di Niyi Osundare

[Il cielo porta con sé una bolla d’angoscia | Fa’ che scoppi

Fa che la bolla d’angoscia nel cielo scoppi oggi | Si plachi il dolore della terra]

Due mesi di manifestazioni di massa, scontri con la polizia, feriti, morti, arresti, sparizioni. Donne, uomini, giovani, cristiani, musulmani, altri. Un’unica parola d’ordine: End Sars! Che non è un virus, ma un corpo di polizia [SARS Special Anti-Robbery Squad], istituito nel 1992] brutale, assassino, stupratore, torturatore. Parola d’ordine che poi diventa: Vogliamo un cambiamento! Maree di popolo, ora alte ora basse.

Nigeria: tre volte l’Italia, 200 milioni di abitanti, 250 gruppi nazionali/etnici, lingue e pratiche culturali e religiose diverse. È divisa in 36 Stati. La complessità non è a scelta.

Mappa dei 36 stati della Nigeria

I 36 stati della Nigeria con gli aspetti orogeografici

#EndSARS è l’hashtag di twitter che convoca in strada, elabora spostamenti e incontri, informa internazionalmente sugli eventi e le finalità, la Feminist Coalition organizza la campagna di raccolta fondi, l’assistenza medica e la tutela legale.

Il generale in pensione, Muhammadu Buhari (1942), attuale presidente della Nigeria, eletto nel 2015 e nel 2019, già capo di stato col golpe militare del 1983, sostituisce il SARS con uno Special Weapons and Tactics (SWAT) nuovo di zecca.

Negli stati del Nordest e ora anche del Nordovest, Boko Haram con affiliati e concorrenti intensifica la politica del caos con un’orgia di uccisioni, rapimenti, incursioni armate.

In questa occasione non lo si esamina.

Africa vero teatro della storia mondiale

Manifestazioni #EndSARS

Qua

Bisogna essere rabdomanti esperti per trovare nei media nostrani qualche goccia, qualche zampillo informativo. I nostri recettori sono molto selettivi. Black lives matter! Ma qui come fai che le nere vite stanno da entrambe le parti della barricata? Come possiamo sfoggiare il nostro impeccabile antirazzismo prêt-à-porter? Siamo in Africa, dove sono i bambini macilenti dal ventre gonfio? Un “Autunno nigeriano”, dici? Perché sono così complicate le società africane?

Aisha Yesufu

#BringBackOurGirls e #EndSARS sono la stessa faccia della medaglia, quella di Aisha Yesufu

Questa signora dal sorriso soffice e dal pugno energico si chiama Aisha Yesufu, è stata una delle promotrici di Bring Back Our Girls, il gruppo che ha fatto di tutto per riportare a casa le 276 liceali di Chibok rapite il 15 aprile 2014 dai miliziani di Boko Haram, riuscendoci solo parzialmente. Continua a essere molto attiva sia in #EndSARS sia sul piano dei diritti delle donne battibeccando con governo e dintorni.

Il suo dinamismo può scombinare il nostro sguardo cieco cementato duecento anni fa da G.W.F. Hegel, il mago fantasma che ancora ci incanta: «Come abbiamo già detto, il negro incarna l’uomo allo stato di natura in tutta la sua selvatichezza e sfrenatezza … Non è un continente storico, un continente che abbia da esibire un movimento e uno sviluppo … Per Africa in senso vero e proprio intendiamo quel mondo privo di storia, chiuso, che è ancora del tutto prigioniero nello spirito naturale … dopo aver sgombrato il campo dal continente africano, ci troviamo nel vero teatro della storia mondiale».

 

Sokoto Caliphate

Estensione del Califfato sovrapposta alla geografia politica attuale

A metà dicembre il sultano di Sokoto, Nigeria Nordovest, Sa’ad Abubakar ha detto quasi disperato: «Abbiamo perso così tante vite in passato che non siamo neppure in grado di contarle. È diventata una cosa normale, quotidiana. Così normale che è una notizia da raccontare quando non c’è nessun ucciso in qualche parte del nostro Paese».

Il sultano di Sokoto non ha più potere politico, è leader della confraternita (tariqa) sufi Qadiriyya, che risale all’XI secolo, ma resta una guida spirituale dei musulmani della Nigeria.

Mi pare di ricordare che nel XIX secolo anche in Europa diversi stati e staterelli abbiano avviato ingarbugliati processi di unificazione tramite guerre e diplomazia.È discendente di Uthman dan Fodio, filosofo, riformatore islamico, capo sufi, che nel 1804 dà il via a un jihad che rimpiazza i molti piccoli regni e le città-stato che caratterizzavano l’area, portando alla formazione di un Califfato con molti Emirati che, in qualche modo, governa venti milioni di persone. Già nel 1811 dan Fodio si ritira per tornare a studiare e predicare, muore nel 1817, 14 anni prima di Hegel.

A inizio Novecento la presenza inglese in Africa Occidentale si fa conclusiva: nel 1903 il potere politico passa di mano anche nel Sokoto, che diventa “protettorato britannico”.

 

La mia officina storica propone un esperimento minuscolo: si prenda un importante testo di storia della Nigeria (Toyin Falola, Matthew M. Heaton, A History of Nigeria, Cambridge University Press, 2008) e nelle numerose pagine dedicate, come si deve, a dan Fodio e al Califfato di Sokoto si riconosca l’invisibile, un’assenza, un vuoto. Nonostante il nigeriano Toyin Falola, docente negli Usa, sia oggi uno degli africanisti più accreditati con bibliografia da paura, non una riga, neppure in nota, concede in questa pregevole storia della Nigeria a Nana Asma’u.

Nana Asma’u (1793–1864) è figlia di dan Fodio, non è un’ombra molesta. Scrive 9 poemi in arabo, 42 in fulfulde (Fula dicono i linguisti), parlata oggi da 65 milioni persone, 26 in hausa, altra lingua dell’area, oggi usata da 47 milioni di parlanti. Organizza circoli educativi e letterari di donne che chiama Yan Taru [quelle che si riuniscono assieme, in hausa). Ritiene l’educazione delle donne fondamentale: «Donne, un avvertimento: non lasciate la casa senza buone ragioni. Si può uscire per cercare cibo o educazione. Nell’Islam è un dovere religioso cercare la conoscenza. Le donne possono liberamente lasciare la casa con questo scopo».

Le donne del gruppo poi si sparpagliano per formarne altre come educatrici itineranti (jajiis) e come seguaci del sufismo. Anche le sue cinque sorelle saranno molto attive sul piano culturale. Nina Asma’u esercita dunque un ruolo pubblico e avrà per questo una profonda influenza su altre donne, pensatrici e predicatrici, dell’Africa musulmana.

 

Annotava nel 1828 il governatore francese del Senegal, baron Roger, che nel paese «c’erano più neri in grado di scrivere e leggere in arabo, che per loro è una lingua morta e di istruzione, di quanti contadini francesi fossero in grado di leggere e scrivere in francese».

Appendice all’esperimento. G.W.F. Hegel dall’alto dell’Absolute Geist [“Spirito Assoluto”] annuncia urbi et orbi che der Neger ist Geschichtslos [senza storia], dunque Non-Umano. Figuriamoci la “negra”!

A far saltare i nervi al governo coloniale britannico nella seconda metà degli anni Venti del Novecento si erano impegnate molte donne, soprattutto nel Sud/Est della Nigeria. Iniziative di protesta collettive contro una tassazione mirata a loro stesse, che sfociano in un vero e proprio conflitto a fine 1929. Non un riot, un tumulto, ma un movimento sociale e politico con tracce di matriarcato precoloniale, di consolidate pratiche, mikiri, di aggregazione tra donne, di rituali danzanti di sberleffo del maschio – sitting on a man, di forte determinazione a migliorare la propria condizione. Vi partecipano sei diverse nazionalità/etnie, non solo Igbo, come recitano manuali ed enciclopedie. È una mascherata di donne con canti, danze rituali e improvvisate. Inizia al mercato e poi si dirige ai palazzi del potere. Quando non bastano le voci e le gambe, mani e braccia afferrano, spaccano, colpiscono, come storia insegna. Trascrivono in gesti la loro potenza.

Nonostante la feroce repressione e le cinquantatre donne uccise, l’apparato coloniale di governo deve riformarsi in profondità.

Foucault scrive da qualche parte che non ricordo: «ovunque vado, segretamente mi segue sempre Hegel».

Se Hegel fosse più o meno razzista lo decidano gli storici della filosofia, a noi tocca avviare la nostra svestizione dai comodi panni hegeliani.

 

Sud Nigeria, donne di una generazione successiva ricantano e ridanzano ancora contro una arbitraria tassazione imposta dal reuccio locale, Alake, indirect rule, warrant Chief, governatore al servizio degli inglesi: è dalla vagina che vuoi uomini siete nati, usi il tuo pene per sostenere che sei nostro marito | noi oggi usiamo la vagina per agire come tuo marito. Questa lingua sciolta dei loro canti è stata parlata e pensata da una mobilitazione di donne durata anni e culminata nella rivolta di Abeokuta nel 1949. Animatrice e organizzatrice Funmilayo Ransome-Kuti, esemplare modello di femminista del Novecento e madre di Fela Kuti, genio musicale, afrobeat, rivoluzionario, misogino.

[il 18 febbraio 1977, quando mille soldati irrompono nella residenza dell’eversivo Fela, la Kalakuta Republic a Lagos, la madre viene gettata dalla finestra del secondo piano. Muore l’anno dopo per le ferite riportate].

Africa vero teatro della storia mondiale

Educatrice nigeriana, militante politica, suffragista, attivista dei diritti delle donne.

Durante le manifestazioni #EndSARS è di nuovo riecheggiata Beasts of No Nation di Fela Kuti.

Ascolti

e scopri che i commenti ne riconoscono la visionaria attualità.

Nuovissime leve espandono il suono: Fikky

o Jeriq,

altre songs vengono assimilate prima ancora che gli autori prendano posizione,

come Fem di Davido


o Killin Dem di Zlatan X Burna Boy.

Il più direttamente politico This is Nigeria di Falz;

anche la spirituale Asa.


Un vero Sound System che si intreccia con la protesta e la nutre.

È l’audiopolitica che si snoda con le socialità collettive, non sta ai bordi, rinsalda voci, suoni, rumori e silenzio.

L’acustica di uno sbarco di emigranti a Lampedusa, degli slogan di una manifestazione ad Hong Kong, di un ospedale da campo in Libia, degli elicotteri pasciuti che scendono a Davos per resettare il mondo, dei blindati israeliani a Betlemme, dei passi sulla neve sopra Bardonecchia direzione Francia, delle piazze silenziose di certe metropoli in coprifuoco, del canto delle donne argentine dopo la nuova legge sull’aborto, delle voci dei bambini rohingya che scorrazzano sull’isola nell’oceano dove sono stati deportati, del mercato di Kabul, senza esplosioni. La ritmica di un call center, lo scioglimento sincopato dei ghiacciai, il rumore bianco di movida precovid, la polifonia fiamminga di un reparto maternità…

Non l’ho inventata io l’audiopolitica, l’ha concepita un giovinotto di Recanati (ehm!) duecento anni fa: le morte stagioni, la presente e viva e il suon di lei, con cui rivolge un invito a indagare anche il passato. Che suono aveva Auschwitz? Hiroshima? il socialismo reale, il comando coloniale…

Che swing hanno i droni delle neoguerre? Le fibre ottiche del web? Il contrappunto degli high frequency tradings? Qual è il canzoniere del neoliberismo…?

Ragazze liberate a Chibok

Liberate dalla prigionia le studentesse di Chibok, rapite da Boko Haram

[Qui, nel nostro canale linkedin trovate un ragionato apparato bibliografico elaborato da Claudio Canal, che approfondisce le tracce sparse in questo sguardo sulla Nigeria, con il chiaro intento di non essere condizionato dall’etnocentrismo occidentale: https://www.linkedin.com/pulse/tracce-della-distanza-adriano-boano/?trackingId=AvSXQ0pYSAC9eE2DLqIJDQ%3D%3D]

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Racconto di Natale: linee cancellate e riemerse dal suolo d’Africa https://ogzero.org/africa-un-continente-non-un-paese-racconto-di-natale-di-eric-salerno/ Thu, 24 Dec 2020 08:21:58 +0000 http://ogzero.org/?p=2114 In questo anno difficile che si chiude con uno “strano” Natale abbiamo pensato di condividere con voi lettori un racconto che racchiude un mondo perduto: quello che un tempo scaturiva dai reportage di viaggio. Ecco, ci piacerebbe che un po’ di quello spirito passasse attraverso questo scritto di un giornalista-autore che ha accettato di accompagnarci […]

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In questo anno difficile che si chiude con uno “strano” Natale abbiamo pensato di condividere con voi lettori un racconto che racchiude un mondo perduto: quello che un tempo scaturiva dai reportage di viaggio. Ecco, ci piacerebbe che un po’ di quello spirito passasse attraverso questo scritto di un giornalista-autore che ha accettato di accompagnarci nell’impresa in cui ci siamo gettati pochi mesi fa, per festeggiare il primo Natale insieme. In attesa di poter nuovamente viaggiare davvero, leggetelo, gustatevelo, immaginate di percorrere strade ferrate in un continente in perenne fermento, e di conoscere il mondo!


Un continente, non un paese

«I problemi dellAfrica». «Quegli africani tutti uguali…». «Andiamo in vacanza in Africa». Quante volte ci si riferisce a quel luogo a sud del Mediterraneo – hic sunt leones – come un solo paese, non il terzo continente per grandezza della Terra. Gli studiosi più cauti al massimo guardano a quel pezzo di mondo come se fossero due: in alto Marocco, Algeria, Tunisia, Libia ed Egitto che considerano estensione del Medio Oriente; a sud del Sahara altre quarantotto nazioni o territori dove vivono – o sopravvivono – ben oltre un miliardo di persone. Uniti, più o meno, dal colore della pelle. Divisi da duemila lingue, da una moltitudine di credenze e religioni, dalle rivalità tipiche del genere umano. Popoli con radici antiche e storie ancora in parte sconosciute, sicuramente sottovalutate. Popoli che gli insegnamenti ereditati dal passato ci fanno chiamare tribù (termine poi usato dagli stessi africani) per indurci a non capire che molti dei conflitti armati che tormentano il continente hanno radici nei confini tracciati con noncuranza dalle potenze coloniali europee in una conferenza a Berlino (1894-95) e alla fine della Prima guerra mondiale.

I confini: un tracciato incerto

Tra la fine degli anni Sessanta e nel decade successivo, con la decolonizzazione ancora in corso, sono stato tre volte nel Camerun: 475.442 chilometri quadrati, oltre 100 più dell’Italia. A guardarli sulla carta, i suoi confini sembrano opera di un bambino di due anni a cui i genitori hanno chiesto di disegnare un animale preistorico. Dal Golfo di Guinea si allungano come un serpente in movimento nel cuore del continente, a ridosso del lago Ciad: un tracciato sempre incerto. Come oggi è incerto il futuro del paese, bacino apparentemente interminabile di un flusso migratorio versa la speranza. E come per motivi simili è incerto il futuro di altre realtà del continente dove si combatte e si muore e dove forze estranee, vecchie e nuove, sono sempre più protagoniste di un grande gioco. O, meglio, di più giochi. Nel maggio 1963, gli stati africani indipendenti, in una conferenza ad Addis Abeba, fondarono l’Organizzazione per l’Unità africana. Il panafricanista Kwame Nkrumah (rivoluzionario e primo presidente del Ghana) voleva veder nascere nel suo continente quello che sognava Altiero Spinelli per l’Europa ma si dovette accontentare di uno statuto meno ambizioso e che, comunque, metteva in primo piano la necessità di non mettere in dubbio le frontiere uscite dal colonialismo. La parola d’ordine per tutti: evitiamo la balcanizzazione del continente.

Camerun

Dal “Messaggero” del 3 agosto 1969 il racconto di Eric Salerno della costruzione della Transcamerunense, le prospettive (tradite?) di ricchezza e di progresso in Africa Equatoriale

Diversi Camerun in un solo paese

Quei tre viaggi in Camerun offrivano all’osservatore dosi calcolate di ottimismo dove oggi – e anche allora – è guerra. Cominciamo questo percorso da Douala, un grande porto dove in un ristorante francese, retaggio positivo del colonialismo, assaggiai per la prima volta le cosce di rana e dove uno chef parigino di nascita preparò un incredibile soufflé di cioccolato per coronare un pasto di gran livello. Mangiai dei crostacei raffinatissimi quasi d’obbligo perché è da loro che il paese prese il suo nome. Gli esploratori portoghesi che nel XV secolo approdarono da quelle parti non avevano dubbi: il delta del Wouri, ricco di quegli animali acquatici, divenne Rio dos Camarãos (“Fiume dei gamberi”); il paese, con il passare del tempo, Camerun.

Insegne nel Camerun francofono… (foto di Eric Salerno)

Erano alcuni giorni che ero costretto a rispolverare il mio francese, lingua comune per le molte etnie di quella parte del paese, ed ebbi quasi un sussulto quando, usciti da Douala e arrivati dopo non molto quasi alla base del Monte Camerun mi accorsi che le insegne delle botteghe erano improvvisamente tutte in inglese. Avevamo attraversato una frontiera che era stata cancellata e che oggi, mezzo secolo dopo quel viaggio, segna la linea di confronto tra due mondi in contrapposizione. In un posto di ristoro a Buea, il capoluogo della regione del Sudovest, 870 metri di altitudine sulle pendici meridionali del monte più alto (4040 m) di tutta l’Africa centrale (è un vulcano attivo), mi offrirono un muffin, retaggio non proprio sofisticato della breve presenza degli inglesi.

insegna inglese

Foto di Eric Salerno

La Repubblica federale che (non)unisce del tutto

Trovai, in quella e nelle altre visite, poco o nulla degli anni in cui questo lembo d’Africa si chiamava Kamerun, i suoi padroni parlavano il tedesco, ed era ancora più grande grazie a uno scambio territorio-favori (il trattato Marocco-Congo del 1911) tra Berlino e Francia. Una mossa sulla plancia della Monopoli africana simile ad altre tra le potenze colonialiste. Londra e Parigi, dopo la sconfitta della Germania, si divisero il bottino africano della Grande Guerra. Passarono di mano anche il Tanganika, oggi Tanzania dopo una non sempre tranquilla unione con Zanzibar; il Togo dove lotta un movimento separatista nel West Togoland, quella parte dell’ex colonia tedesca che dopo la decolonizzazione divenne una provincia del Ghana. Il Kamerun fu diviso in due: Camerun inglese, accanto alla vasta colonia britannica della Nigeria, Camerun francese, appoggiato agli ex possedimenti di Parigi a nord e a est. Poi dopo varie fasi incerte nacque la Repubblica federale che avrebbe dovuto rispettare l’autonomia della popolazione anglofona rispetto alla preponderanza di quella francofona. Non fu così e la spaccatura avvenne proprio sulla questione linguistica, eredità coloniale e fattore unificante di gruppi etnici e popoli non soltanto in questo paese. Tre anni fa, la proclamazione della Repubblica federale di Ambazonia da parte degli anglofoni e la nascita di movimenti separatisti armati ha portato a un conflitto ancora in atto. E che ricorda quello che infuriava nella stessa regione cinquanta anni fa che, come scrissi allora, riguarda la competizione tra i bamiléké (nelle regioni anglofone) e gli altri, e aveva radici profonde ma anche motivazioni, diciamo, aggiornate.

Un reportage di Eric Salerno dal Camerun, apparso su “Il Messaggero”, l’8 agosto 1969: rivalità tribali vs. unità nazionale

“I bamiléké sono progrediti in questi ultimi anni a grandi sbalzi, superando quasi sempre lo sviluppo economico e sociale degli altri gruppi etnici. I sistemi feudali delle loro tribù sono stati aboliti e la società bamiléké ha sostituito le strutture dei villaggi con cooperative, associazioni comunitarie per il commercio. Oggi possiedono piantagioni, ricche e altamente produttive, stabilimenti per il trattamento del caffè, garage e magazzini, e gestiscono la quasi totalità dei servizi di trasporto terrestre del paese”

L’allora presidente Ahidjo, un foulbé (etnia minoritaria, musulmano, del Nord) sosteneva la necessità di raggiungere la non facile unità nazionale prima di impegnarsi nello sviluppo economico del paese. Oggi il paese è tra i più solidi grazie alle risorse naturali, compresi petrolio e gas, legnami pregiati e prodotti agricoli ma la ricchezza è concentrata nelle regioni meridionali. La scena politica è da anni dominata da un partito (Movimento democratico del Popolo camerunese) e dal suo presidente Paul Biya, 85 anni, al potere dal 1982 e al suo settimo mandato dopo le contestate elezioni del 2018.

L’eredità coloniale delle religioni

Credo che sia importante, qui, sottolineare un altro elemento di coesione e in molti casi di tragica lotta fratricida in questo paese come in tutto il continente: le religioni come eredità coloniale. L’islam, arrivato soprattutto nel Sahel, lungo la costa Mediterranea e quella dell’Oceano Indiano ancora prima della conquista europea del continente, è un fattore unificante ma anche di scontro spesso all’interno della sua complessa galassia. Nel suo nome vengono portate avanti crociate che sfruttano contrasti più tradizionali come quelli tra coltivatori e pastori quando, come ora, il clima ha reso più difficile la sopravvivenza delle popolazioni. Gruppi islamisti, finanziati e sostenuti da attori esterni al continente, sono attivi nelle regioni settentrionali del Camerun e in quasi tutta la fascia del Sahel dove i musulmani sono preponderanti. La realtà del Camerun – dal Golfo di Guinea al lago Ciad – deve la sua complessità anche a chi disegnò le sue frontiere. Circa il 70 per cento della sua popolazione è cristiana: la maggioranza cattolica nella parte francofona, i protestanti in quella che fu dominata dalla Gran Bretagna. La gravità della situazione è stata sottolineata a febbraio di quest’anno nella lettera di un gruppo di vescovi che sollecitavano il governo di Yaoundé a rinunciare al centralismo che impone l’identità francofona sugli anglofoni.

La violenza e le atrocità commesse da tutte le parti in conflitto hanno costretto 656.000 camerunesi di lingua inglese a lasciare le loro case, 800.000 bambini a non andare più a scuola (inclusi i 400.000 alunni delle scuole cattoliche), 50.000 persone a fuggire in Nigeria, distrutto centinaia di villaggi e ucciso almeno 2000 persone

Le risorse naturali, vera causa delle guerre civili

Purtroppo l’esempio del Camerun è soltanto uno dei meno noti dei conflitti africani. Del Sudan e del Sud Sudan, paesi indipendenti dopo guerre civili spesso manovrate dall’esterno, ma sempre con “problemi tribali” al loro interno, si parla spesso. Come si è parlato nell’ultimo mese della guerra che rischia di smembrare l’Etiopia, uno dei più antichi paesi del mondo. L’Unione africana, alcuni anni fa, aveva designato il 2020 l’anno della pace nel continente. L’obiettivo, mettere fine a tutti i conflitti. Da quelli di cui si parla sovente – Libia, Sudan, Mali – a quelli poco trattati dai media nella Repubblica democratica del Congo, nella Repubblica Centrafricana, in Somalia, Kenia e, da poco tempo, nel Nord del Mozambico ricco di idrocarburi. Le risorse naturali sono, come sempre, l’interesse principale degli attori esterni. E la causa di molte guerre civili africane. Una per tutte: la guerra del Biafra (una regione della Repubblica federale della Nigeria super-ricca di petrolio) scoppiata pochi anni dopo l’indipendenza (1967-1970). Si preferì parlare, allora, di “rivalità etniche”, che sicuramente esistevano ed esistono ancora oggi in quel vasto paese.

Il fascino del potere

E qui, seppure con cautela per non sottovalutare il passato, è d’obbligo sottolineare che oltre mezzo secolo dopo la decolonizzazione anche l’attuale dirigenza africana deve assumersi le proprie responsabilità. Tra queste, l’incapacità o la mancanza di volontà di modificare le strutture economiche e politiche di sfruttamento dei cittadini e l’attaccamento al potere di molti leader,  uomini politici inizialmente innovatori ormai dittatori attaccati al potere e a tutto ciò che rappresenta. L’impegno di mettere fine a tutte le guerre entro quest’anno era sicuramente irrealistico. Anche perché le rivalità e divergenze tra i leader dei 27 stati dell’Unione europea sono nulla rispetto a quelle che dividono i governi dei 55 paesi africani, alcuni dei quali colpevoli anche di favorire i conflitti civili e i movimenti separatisti nei loro vicini di casa.

La foto utilizzata in copertina è stata esposta alla mostra “A sud del Sahara. Fotoreporters italiani nell’Africa nera 1969/1979”, tenutasi a Palazzo Isimbardi a Milano nel maggio 1980, con opere di Paola Agosti, Romano Cagnoni, Carlo Cisventi, Augusta Conchiglia, Mario Dondero, Fausto Giaccone, Uliano Lucas… Eric Salerno. L’immagine illustra un gruppo di viaggiatori in attesa del treno alla stazione di Nanga-Boko, fine luglio 1969.

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Saharawi. E da dove arriva questo conflitto? https://ogzero.org/il-conflitto-in-stallo-da-50-anni-i-muri-nellultima-colonia-africana/ Sun, 22 Nov 2020 17:43:38 +0000 http://ogzero.org/?p=1808 Venerdì 13 novembre 2020 le agenzie di stampa mondiali hanno riportato notizie su un conflitto tra il Regno del Marocco e una organizzazione chiamata Polisario. Scontri a fuoco, in un’area chiamata Ghergarat. Come al solito i lanci di agenzia riportano un fatto d’attualità che sembra uscito dal nulla. Invece la storia del conflitto del Sahara […]

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Venerdì 13 novembre 2020 le agenzie di stampa mondiali hanno riportato notizie su un conflitto tra il Regno del Marocco e una organizzazione chiamata Polisario. Scontri a fuoco, in un’area chiamata Ghergarat. Come al solito i lanci di agenzia riportano un fatto d’attualità che sembra uscito dal nulla. Invece la storia del conflitto del Sahara Occidentale è vecchia di 50 anni e riguarda l’ultima colonia africana.

Karim Matref ha ripercorso tutte le tappe che hanno condotto a questa situazione in un articolo comparso in “La Bottega del Barbieri“. Ne abbiamo ripreso i brani che analizzano gli aspetti più collegati alla contingenza attuale con il progetto di approfondire ulteriormente gli sviluppi [ringraziamo Karim e Daniele per la disponibilità]. Intanto alcuni podcast ottenuti registrando l’intervento di Karim su Radio Blackout giovedì 26 novembre 2020 approfondiscono taluni aspetti accennati nell’articolo, allargando l’analisi geopolitica dell’influenza sulla regione dell’incancrenito dissidio sul Sahara occidentale.

Ascolta “50 anni di muri di sabbia: gli antefatti della resistenza” su Spreaker.

L’ultima colonia africana

Ghergarat è una piccola località di frontiera, che si trova sul confine tra i territori sotto controllo del Fronte Polisario e la Mauritania. La divisione del territorio del Sahara Occidentale dopo il cessate il fuoco del 1991, ha lasciato i territori sotto controllo del Marocco e quindi anche il Marocco, senza nessun collegamento terrestre con la Mauritania. Per riaprire le rotte commerciali verso la Mauritania, e da lì verso altri paesi subsahariani, il Marocco ha tenuto aperto un corridoio di circa 11 chilometri e ha stabilito un posto di frontiera. Facendo del paesino di Ghergarat, di fatto, una specie di enclave marocchina in territorio controllato dal Polisario.

Nonostante questa anomalia, non contemplata negli accordi di pace, la situazione è rimasta stabile in tutti gli anni in cui si sperava in una risoluzione pacifica della controversia. Anche perché quella apertura era una boccata d’ossigeno per tutti.
Poi negli ultimi anni, l’Onu e la comunità internazionale si sono quasi del tutto dimenticati della questione Saharawi. I profughi scappati dai territori occupati verso il Sud dell’Algeria sono rimasti a marcire per 40 anni in campi profughi piantati in mezzo a una delle zone più aride e più calde del deserto del Sahara. Mentre quelli rimasti sotto il controllo del Marocco vivono in una situazione ultra-militarizzata, dove vengono repressi violentemente a ogni segno di dissenso verso la monarchia.

Muro marocchino nel Sahara Occidentale

Recinzioni successive per annessione di territorio

Ascolta “Il mondo oltre il varco di Ghergarat” su Spreaker.

Verso la fine dell’estate scorsa, dei manifestanti civili, sostenuti dall’Organizzazione del Fronte Polisario, hanno cominciato a organizzare delle proteste davanti al valico di Ghergarat, proteste sporadiche che a partire dal 20 ottobre si è trasformato in un blocco permanente, impedendo il traffico da e verso Marocco e Mauritania, con centinaia di Tir bloccati da una parte e dall’altra del confine. In seguito si è scatenata una guerra diplomatica a livello dell’Onu, dell’Unione africana e della Lega araba. Accompagnata da una guerra mediatica. Il Marocco accusando il Polisario (e l’Algeria) di terrorismo, il Polisario accusando il Marocco di violazione degli accordi di cessate il fuoco con l’apertura del passaggio abusivo.

Nella notte del 12 novembre, l’esercito marocchino ha aperto varie brecce nel muro di separazione e ha effettuato operazioni militari in territorio Polisario, riaprendo così con la forza militare la strada e il valico per la Mauritania. A queste operazioni il Fronte Polisario ha dichiarato di aver risposto “in modo adeguato”, annunciando varie operazioni con armi pesanti su postazioni occupate. Non si hanno per ora notizie affidabili sui numeri di feriti e eventuali morti.

Perché adesso e perché Ghergarat?

Perché adesso…?

I fattori che hanno portato agli scontri di questi giorni sono molti. Da alcuni mesi, si era notata una attività intensa della diplomazia marocchina, che approfittando della debolezza del governo algerino, principale sponsor del Polisario a livello internazionale, messo a dura prova dalle proteste popolari per la democrazia, ha cercato di far crescere il consenso internazionale intorno al suo progetto di annessione. Il Fronte Polisario invece è rimasto vigile. In risposta all’attivismo della diplomazia della monarchia, ha attivato delle proteste di civili nei territori occupati. Una di queste è il blocco del valico di Ghergarat.

Il fatto è che la situazione. sia per i Saharawi profughi in territorio algerino che per quelli costretti a vivere sotto occupazione marocchina, è diventata insopportabile. Sono passati 39 anni dagli accordi di cessate il fuoco e non si riesce a fare un passo avanti. I bambini nati in esilio all’inizio del conflitto, ormai hanno più di 40 anni e sia loro che i loro figli non hanno conosciuto altro che i campi di tende e prefabbricati, costruiti in mezzo al deserto. La misura è colma. E anche per evitare il pericolo di rivolte interne, il Polisario è costretto a dare segni di attività.

… perché Ghergarat?

Il piccolo villaggio di Ghergarat è una località minuscola che si trova a 5 chilometri dall’Oceano Atlantico, a 11 chilometri dal muro di sicurezza marocchino e in prossimità della frontiera con la Mauritania. Ed è questa sua posizione che lo rende importantissimo. Per il Marocco, il valico di Ghergarat è l’unica porta stradale verso la Mauritania e l’Africa Subsahariana. La sua apertura ha permesso la riapertura delle rotte commerciali tra il Regno e il resto del Continente. Per il Fronte Polisario che ha vari accessi sia verso l’Algeria sia verso la Mauritania, il valico del Ghergarat è importante solo perché è l’unico punto debole sul quale può agire per fare pressione sul Marocco.

Blocco del valico di Gergharat

Saharawi bloccano il valico di Ghergarat dal 30 ottobre 2020

Il contesto regionale

Questa riaccensione di un conflitto che sembrava da tempo assopito, arriva in un momento di profonda crisi per tutta la Subregione del Nord Africa. Il caos in Libia e in Mali creano tensioni che in ogni momento possono portare la zona, in modo particolare la Tunisia e l’Algeria, a entrare a pieno piede nel conflitto armato.

Una Algeria debole…

L’Algeria, che è un attore importante in questo conflitto, anche lei vive difficoltà economiche dovute al crollo dei prezzi del petrolio e del gas, e attraversa un lungo periodo di turbolenza politica.

Le dimissioni del vecchio presidente Bouteflika e l’elezione contestata del nuovo presidente, Abdelmadjid Tebboune, dovevano calmare la piazza algerina. Invece il popolo non è soddisfatto e chiede un cambiamento radicale del sistema politico e continua a protestare. È solo grazie alla crisi del Covid 19, se il governo ha avuto una tregua. Ma la protesta continua sui mezzi di comunicazione e la popolazione è decisa a tornare in piazza appena la situazione sanitaria lo permetterà.

Ascolta “Lo stallo ad Algeri e la resistenza del movimento Hirak: un sistema da sovvertire” su Spreaker.
Questa debolezza si nota con la poca convinzione con cui il regime ha organizzato l’ultimo referendum per le riforme costituzionali. La consultazione doveva essere una specie di plebiscito per il governo del neoeletto presidente Tebboune.
Ma la sua organizzazione è stata un fiasco totale. Nemmeno la macchina della falsificazione, di solito molto efficace, ha funzionato molto bene questa volta. Il regime ha dovuto dichiarare una partecipazione di circa 30% (nell’arte della decriptazione dei codici del regime, questo si traduce in meno del 10%). Questo vuol dire che nemmeno il regime stesso è compatto.

La caduta del clan di Abdelaziz Bouteflika ha creato degli sconvolgimenti importanti, tutti i dignitari del sistema prima del 2019 sono in carcere per corruzione. Ma questo non è segno di lotta alla corruzione stessa. Ma segno di guerra interna senza esclusione di colpi. Il presidente Tebboune è malato. Ricoverato in Germania. Voci di corridoio parlano di Covid 19. Altre lasciano capire che potrebbe essere un avvelenamento. Comunicati ufficiali chiari sulla questione non ce ne sono. L’unica istituzione stabile nel paese rimane l’Esercito Nazionale Popolare (Anp). Anche se il nuovo Capo di Stato Maggiore, il Generale Said Changriha non ha la smania del protagonismo come il suo predecessore, Gaid Salah, rimane comunque l’unica autorità incontestata nel paese. E il coinvolgimento del paese in uno scontro (anche se non diretto) porterebbe a rafforzare il posto dell’esercito e a annullare lo sforzo della protesta popolare che chiama da anni a uno Stato Civile, non controllato dai militari.

… e un Marocco malato

Anche la Monarchia Marocchina sta passando momenti difficili. Il Re Mohammed VI anche lui è malato. Probabilmente molto gravemente, viste le tensioni che questa situazione ha creato. È da tempo assente dalla gestione del paese. Sua moglie, Salma, è scomparsa dalla scena pubblica dopo aver chiesto il divorzio. Non si sa se si è nascosta per paura per la propria vita o se è stata “nascosta” per evitare scandali.

Il figlio, Hassan III, è ancora troppo giovane per regnare in caso di dipartita precoce dell’attuale monarca, e quindi ci sono tensioni interne al palazzo. Il fratello del Re, Rachid, è d’accordo con le sorelle a ereditare il trono. Alcuni organi di stampa hanno dato eco persino a una voce che parla di complotto sventato che aveva per obiettivo quello di eliminare il giovane principe. Fake news totale? verità parziale? difficile stabilire la linea tra il vero e il falso in un contesto in cui è tutto segreto di stato. Ma non c’è mai fumo senza almeno un fuocherello. E le tensioni interne al Palazzo quando sono forti si sentono.

Mentre la famiglia reale litiga per il potere, il paese è in gravi difficoltà economiche, il carovita strangola le famiglie e un’orda di affaristi affamati sta saccheggiando il paese. La crisi del Covid ha messo alla luce del giorno la grave situazione della sanità pubblica, e le restrizioni alla circolazione mettono in difficoltà ampie fette della società, soprattutto quelle più fragili.

Se non scoppiano disordini ovunque è, anche qui, merito della crisi sanitaria e dello stato di emergenza imposto ovunque.

Niente di meglio di una crisi con la già odiata popolazione Saharawi e con l’Algeria, il nemico di sempre, per far dimenticare i guai interni.

Ma questa crisi potrebbe anche essere una porta d’uscita

Adesso che la Costituzione è stata cambiata, niente impedisce all’esercito algerino di entrare nelle terre sotto controllo della Rasd per «difendere i limiti designati negli accordi di cessate il fuoco del 1991». Un ingresso dell’esercito algerino in territorio saharawi darebbe finalmente alla monarchia marocchina ragione sul fatto che il nemico algerino (e non i predatori interni) è la causa di tutta l’infelicità del popolo.

Tamburi di guerra vogliono dire limitazione delle libertà, chiusura della poca libertà di espressione presente nei due paesi, più soldi e mezzi per l’esercito, le forze dell’ordine… Militarizzazione dello spazio pubblico. Una manna in tempi di vacche magre.

Ma questa piccola escalation degli ultimi giorni, da un’altra parte,  potrebbe non essere poi così negativa. Anzi, potrebbe essere una opportunità.

Rifugiati Saharawi Unhcr

45 anni di esilio in tenda in mezzo al deserto

La situazione è bloccata in questo stato di non guerra e non pace da ormai 50 anni. La vita dei Saharawi è un inferno ovunque. Ma il conflitto del Sahara Occidentale avvelena la vita di tutto il Nord Africa e anche buona parte del continente. Le rotte tradizionali di scambio tra popoli sono interrotte da decenni. Il confine tra Algeria e Marocco è chiuso da quasi 60 anni, la circolazione tra Marocco e Mauritania è molto difficile.

In epoca coloniale, era possibile viaggiare in treno da Marrakech fino al Mar Rosso. Oggi è impensabile.

Ascolta “Un conflitto che avvelena l’intera regione, un deserto dotato di risorse alternative” su Spreaker.
Le relazioni diplomatiche, già non facili, sono complicate da questo scontro.  Spesso gli stati sono costretti a scegliere una posizione per o contro, in una questione che non tutti riescono a capire. Questa costrizione porta per esempio i lavori delle organizzazioni dell’Unione Africana e della Lega Araba a essere profondamente disturbate dalla tensione che genera il conflitto Marocco/Algeria. E questo impedisce qualsiasi piano di sviluppo integrato tra i paesi del Maghreb e tra questi e i loro vicini del Sahel. Anche gli incontri delle società civili africane, come è stato il caso nei Forum Sociali di Dakar e Tunisi, sono disturbate dagli scontri delle organizzazioni inviate dai Servizi segreti del Fronte Polisario e del Marocco, per creare zizzania e impedire un dibattito sereno sulla questione.

Nonostante i pericoli di escalation, questa mossa da qualsiasi parte venga potrebbe anche essere un passo verso un ulteriore sviluppo e la possibilità, se c’è volontà e buon senso da tutte le parti, di uscire da un fastidioso stato di muro contro muro che dura da più di mezzo secolo e che ha veramente logorato tutti.

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Considerazioni sul Libano che vanno oltre il Libano https://ogzero.org/considerazioni-sul-libano-che-vanno-oltre-il-libano/ Thu, 03 Sep 2020 09:08:42 +0000 http://ogzero.org/?p=1121 Archiviare i rapporti di forza coloniali in questo periodo di nazionalismi esasperati può ricondurre a modelli vecchi di secoli, anziché soddisfare le richieste di emancipazione dei popoli repressi: l'impero ottomano e quello russo tentano di ricreare le antiche sfere di influenza.

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«Noi, popoli della Padania, solennemente proclamiamo: “la Padania è una repubblica federale indipendente e sovrana. Noi offriamo, gli uni agli altri, a scambievole pegno, le nostre vite, le nostre fortune e il nostro sacro onore”». Parole di Umberto Bossi nella sua dichiarazione d’indipendenza della Padania, 15 settembre 1996. Una sfida, una provocazione politica. Ma anche la realtà di un mondo in cui le Nazioni, come sono state disegnate negli ultimi secoli, non necessariamente corrispondono agli elementi coesivi che finora hanno consentito loro di sopravvivere in pace.

Anni fa sentivo un giovane militare israeliano stanco della guerra contro l’indipendentismo palestinese affermare: «A cosa serve tutto questo. Presto il mondo sarà globalizzato e le nazioni, come le conosciamo oggi, non esisteranno più. Ognuno vivrà dove meglio si trova». Quel futuro (non solo per il Covid) c’è e non c’è. E invece assistiamo a una lenta e spesso cruenta trasformazione del mondo come fu tracciato nella sabbia o sulle cime dei monti dai nostri nonni e bisnonni. Divisioni e non consolidamento.

Confini tracciati altrove

Da Bossi e la Padania, tra razzismo e settarismo religioso, non è difficile approdare sulle sponde meridionali del Mediterraneo. Non soltanto perché sono poche ore d’aereo ma perché il Vicino Oriente come lo vediamo sulle cartine geografiche e nelle cronache dei telegiornali, fu creato o disegnato nel Castello Devachan a Sanremo tra il 19 e il 26 aprile 1920 e consolidato – si fa per dire – pochi mesi dopo a Sèvres, in una antica fabbrica di porcellane a sud di Parigi. Il tutto sulle rovine di uno dei più longevi, affascinanti, poco studiati e spesso incompresi imperi della storia. Di cui anche il minuscolo territorio che conosciamo come Libano faceva parte.

Segno di cambiamento degli equilibri

L’esplosione del 4 agosto 2020 a Beirut, che ha ucciso oltre 200 persone e ferito altre 7000 devastando vaste zone della capitale libanese, ha riportato il paese dei cedri sulle prime pagine dei giornali. Accanto a dubbi, incertezze, ipotesi (attentato o incidente?) sono riprese le considerazioni sulla stabilità, direi quasi la sopravvivenza, del piccolo paese creato dalla Francia e di cui Parigi sembra rivendicare un diritto di tutela se non di più. I legami tra Francia e Libano risalgono al XVI secolo quando la monarchia parigina si rivolse al sultano ottomano per proteggere i cristiani di una regione che, dalla nascita di Gesù in poi, il mondo religioso cresciuto attorno alla sua memoria definisce “Terra santa” ma che per 623 anni, dal 1299 al 1922, faceva parte di uno degli imperi più longevi e potenti e spesso più illuminati della storia controllando, in nome dell’islam sunnita, fette importanti dell’Europa e dell’Asia.

Dove le feroci Crociate dei cristiani d’Europa non riuscirono nel loro intento di dominare la terra d’altri, la forza militare e la diplomazia degli imperi più recenti del vecchio continente ebbero maggiore successo. Con la sconfitta tedesca nella Prima guerra mondiale e la conseguente distruzione del suo alleato di comodo – l’impero Ottomano appunto – francesi, inglesi e italiani (con il consenso dello zar di tutte le Russie) si divisero le spoglie. Non fu un processo indolore. Il trattato di Sèvres provocò la reazione immediata dei nazionalisti turchi sopravvissuti alla sconfitta del vecchio impero. Mustafa Kemal Atatürk, il padre della Turchia moderna, guidò una serie di guerre per cacciare francesi, italiani, greci dall’Anatolia e dopo appena tre anni, con il Trattato di Losanna, gli europei furono costretti a fare un piccolo passo indietro riconoscendo i confini della Turchia di oggi. Un prezzo relativamente modesto visto come Gran Bretagna e Francia erano riusciti a consolidare la loro presenza nel Vicino Oriente e determinare la realtà di nuove entità come Siria, Iraq, e a gettare le basi, con il patto semiclandestino di Sykes-Picot (16 maggio 1916), per la creazione di Israele. Nelle loro menti probabilmente più che un regalo ai sionisti ebrei (peraltro quasi tutti europei) doveva essere un elemento di disturbo nel mondo arabo dominato dalle due anime principali dell’islam.

Mandato coloniale permanente?

Torniamo al Libano. La Società delle Nazioni, ratificando l’accordo Sykes-Picot, affidò la Grande Siria (la Siria attuale e cinque province che costituiscono l’attuale Libano) al controllo diretto della Francia. E Parigi agendo da padrone colonialista, nel settembre 1920 istituì la Repubblica libanese con Beirut come capitale sul territorio allora in gran parte cristiana ma con una forte minoranza musulmana (oggi maggioranza) e drusa. Il paese divenne indipendente alla fine della Seconda guerra mondiale. Fu adottata una Costituzione che voleva garantire i diritti delle varie comunità con un sistema di divisione del potere. Per molti anni ha funzionato trasformando il piccolo stato sulle rive del Mediterraneo in una specie di Svizzera del Medio Oriente: nel bene e nel male.

Gli sviluppi politici nella regione dopo la creazione dello stato d’Israele e, più di recente, con la rivoluzione khomeinista in Iran, assommato ai grandi cambiamenti demografici in Libano, hanno portato alla situazione che vediamo oggi. Con una provocatoria petizione online firmata da 60000 tra residenti e membri della grande e influente diaspora libanese, è stato chiesto alla Francia di tornare a prendersi cura del Libano con un nuovo Mandato. «La Francia non lascerà mai il Libano», parole del leader francese Macron in visita a Beirut devastata dall’esplosione al porto. «Il cuore del popolo francese batte ancora al polso di Beirut». Solo retorica o il neocolonialismo francese fatica a morire? Per sottolineare il legame storico, Macron ha fatto il bis tornando a Beirut il 1° settembre, cento anni dopo quel famoso “Mandato”. Ancora parole, ma forse la consapevolezza che troppi fattori, locali e regionali, giocano contro un ruolo di Parigi che vada oltre eventuali piogge di euro per sostenere un sistema corrotto e fallimentare. Di sicuro, con la divisione del potere costituzionale che non rispecchia più la realtà demografica del Libano, il futuro della piccola nazione è sempre più in bilico in un mondo in cui montano le tendenze autonomiste, si inasprisce lo scontro tra Iran e Arabia saudita, gestori delle due verità contrapposte dell’islam, e prendono impeto le aspirazioni di vecchie potenze imperiali, tra cui la Turchia. Una nota: gli stati nazionali radicati nella storia della regione di cui parliamo sono appena quattro: Egitto, Iran, Yemen e Turchia.

Il passato, un incubo rinnovabile

La disgregazione dell’Unione sovietica e della Jugoslavia hanno aggiunto nuove nazioni all’Onu e si è parlato molto negli ultimi anni di ridisegnare i confini del Medio Oriente per soddisfare le istanze, per esempio, dei curdi, traditi dalle spartizioni postimpero Ottomano. Stesse ipotesi aleggiano per risolvere il conflitto interno della Libia, altra realtà complessa disegnata dall’Italia coloniale dopo la cacciata dei turchi da Cirenaica e Tripolitania. In essenza, è in corso nel bacino del Mediterraneo un grande gioco i cui protagonisti rispecchiano più il passato che un’idea rivoluzionaria per il futuro. Mentre la Francia rincorre la sua gloria appassita e la Russia agisce pensando non tanto all’Urss, di relativamente breve memoria storica, quanto al grande impero degli zar che molti osservatori tendono a dimenticare, la Turchia (membro della Nato, formalmente alleato dell’Occidente e, purtroppo, più volte respinta come possibile membro dell’Unione europea) sembra voler ripristinare la gloria dell’impero d’Oriente e dell’islam sunnita che dominarono per sei secoli sulle rovine dell’impero cristiano di Costantinopoli. La nuova classe dirigente turca e buona parte degli ufficiali superiori rivendicano quanto meno un ruolo di potenza regionale soprattutto sul Vicino Oriente islamico.

Per i servizi segreti israeliani, che guardano con simpatia alle mosse di Macron, e per la Cia, in uno stato di confusione anche per la politica attuale della Casa Bianca, la Turchia di Erdoğan (in corso di collisione con la Grecia per lo sfruttamento dei giacimenti petroliferi nel Mediterraneo) «è più pericolosa dell’Iran» degli ayatollah. Di sicuro l’estensione della presenza militare di Ankara – dalla Libia a Siria, Libano settentrionale, Iraq, Qatar, Afghanistan, Somalia e i Balcani – non è mai stata tanto vasta dai giorni dell’Impero Ottomano. L’accordo tra gli Emirati arabi uniti (che hanno paura dell’Iran) e Israele (nemico principale di Tehran) fa parte del Grande gioco regionale che mette in difficoltà soprattutto le pedine più piccole e deboli. Quelle create a tavolino.

Assisteremo a nuove guerre e alla creazione di nuovi confini? Una piccola scintilla potrebbe far esplodere le istanze autonomiste di cui conflitti religiosi e tribali sono i sintomi sempre più evidenti. Se la nostra Padania non è veramente a rischio perché non vi esistono le condizioni fondamentali per rivendicare l’autodeterminazione, non è così per molte delle realtà nel Vicino Oriente (e non soltanto) dove vi sono popoli riconosciuti come tali sottomessi da governi non rappresentativi che li discrimina come razza, credo o colore.

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Tribalismi e nazionalismi a confronto nel Kurdistan iracheno https://ogzero.org/tribalismi-curdo-iracheni-a-confronto-excerpta/ Fri, 19 Jun 2020 16:50:20 +0000 http://ogzero.org/?p=272 La frammentazione in varie etnie, clan tribali e gruppi linguistici curdi in Iraq ha portato alla nascita di una miriade di partiti politici; le tribù erano per lo più suddivise tra Kdp e Puk che si erano aggiudicati le posizioni di potere e ad alto livello all’interno del partito e del governo; l’organizzazione in forma […]

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La frammentazione in varie etnie, clan tribali e gruppi linguistici curdi in Iraq ha portato alla nascita di una miriade di partiti politici; le tribù erano per lo più suddivise tra Kdp e Puk che si erano aggiudicati le posizioni di potere e ad alto livello all’interno del partito e del governo; l’organizzazione in forma di partito era funzionale alla gestione delle questioni sociali e tribali e proprio per questo i due partiti sono sempre stati più forti degli organi giurisdizionali del paese. Talvolta i capitribù che avevano rifiutato il completo appoggio a un partito politico ne hanno pagato le estreme conseguenze: i partiti hanno sempre usato la retorica nazionalista per accusare qualche rivale di tradimento e giustificarne così l’esecuzione.

I partiti curdi hanno impugnato le armi nella lotta politica in diverse fasi della loro storia, ma i governi iracheni hanno sempre operato con pugno di ferro e repressione. Tra genocidi, collaborazionismo con i vari governi e rivolte si è dipanata la storia della società curda irachena – quest’ultima divisa, controllata e strumentalizzata – che ha forgiato il nazionalismo e le politiche fino ai giorni nostri nel paese.

L’immagine è di Kamal Chomani. L’argomento è approfondito nella sua versione estesa e completa di mappa relativa ai gruppi linguistici e confederazioni tribali in Rivalità e sangue tra etnie curde nella politica irachena in questo sito.

 

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Oltre il califfato https://ogzero.org/oltre-il-califfato/ Mon, 15 Jun 2020 14:40:27 +0000 http://ogzero.org/?p=241 «Gli arabi, i nostri vicini, ci hanno pugnalato alle spalle», mi aveva detto sul fronte di Makmur il generale dei pīs mergah Abdul-Wahab al-Saadi per giustificare in parte la débâcle dei suoi soldati. La realtà è che in molti erano rimasti inerti o pericolosamente attivi in questi anni a scrutare l’orizzonte di un Medio Oriente […]

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«Gli arabi, i nostri vicini, ci hanno pugnalato alle spalle», mi aveva detto sul fronte di Makmur il generale dei pīs mergah Abdul-Wahab al-Saadi per giustificare in parte la débâcle dei suoi soldati. La realtà è che in molti erano rimasti inerti o pericolosamente attivi in questi anni a scrutare l’orizzonte di un Medio Oriente che si sta inabissando. E anche un breve sguardo al passato ci può aiutare a comprendere: magari non può suggerire al presente soluzioni politiche ma racconta una storia da conoscere.

Quella dell’Iraq e della Siria appartiene a un intreccio complesso tra strategie coloniali britanniche e francesi, contesti geopolitici legati al petrolio e ai movimenti nazionalisti che hanno contribuito a disegnare la mappa del Medio Oriente conosciuto fino a oggi. Già allora comparvero sulla scena movimenti fondamentalisti islamici e rivolte di massa di cui l’ultima con effetti dirompenti si è avuta nel 2011.

Ci fu un tempo in cui l’idea del califfato diventò una soluzione politica anche per l’Occidente. Ricordarlo oggi di fronte alle atrocità dell’Isis può apparire una bestemmia. Ma fu esattamente quanto fece il ministro delle Colonie Winston Churchill: con l’espediente politico dei califfati e degli sceicchi mise a capo degli stati sotto mandato britannico i monarchi arabi del clan hashemita degli Ḥusayn, sovrani della Mecca. Fu così che nacquero l’Iraq, la Siria e la Giordania.

Emiri e sceicchi allora erano al servizio del piano coloniale per far nascere nuovi stati che adesso si stanno sgretolando. La guerriglia e il terrorismo praticato dallo Stato islamico di Abū Bakr al-Baghdādī sono adesso funzionali a un progetto completamente diverso: abbattere le frontiere tracciate un secolo fa e riunire i sunniti sotto la bandiera nera di un nuovo califfato.

È evidente che niente può giustificare i massacri e le esecuzioni dell’Isis ma bisogna riconoscere il problema: i sunniti sono una maggioranza in una Siria dominata per quarant’anni dal clan degli alauiti di al-Asad, mentre in Iraq, rispetto agli sciiti, rappresentano una minoranza che con Saddām Ḥusayn è stata fino a un decennio fa al potere nelle forze armate e nell’amministrazione. Sia la Siria che l’Iraq oggi sono degli ex stati, presenti in maniera virtuale sulla mappa geografica e nessuno né in Occidente né in Medio Oriente ha un piano politico alternativo al mantra dell’unità nazionale ripetuto in maniera stucchevole dalla diplomazia internazionale.

Siamo quindi a un bivio: o si ricostituisce questa unità nazionale, evocata a ogni pleonastica conferenza mediorientale, oppure si deve affrontare la balcanizzazione del Medio Oriente. Gli europei, che hanno assistito senza fare nulla di positivo alla disintegrazione della Jugoslavia e ora appaiono impotenti di fronte all’Ucraina, sono in materia degli esperti.

Ecco che cosa ha significato dell’intervento russo del 2015: Mosca non avrebbe permesso che la Siria, una sorta di Jugoslavia araba, facesse la fine di quella di Milošević che cominciò a disgregarsi nel fatale 1989 con il discorso di Slobodan a Kosovo Polije, la Piana dei Merli dove si era combattuta 600 anni prima la famosa battaglia con gli ottomani. Conoscevo bene quella piana perché per 10 anni ho coperto come inviato anche le guerra balcaniche e nel 1999 mi trovavo a Priština quando cominciarono i bombardamenti della Nato. Allora i russi non fecero nulla se non mandare un battaglione di parà che fu accolto con fiori e canti di vittoria dalla minoranza serba ma che finì per acquartierarsi all’aereoporto nel momento in cui entrarono le truppe dell’Alleanza Atlantica al comando del generale Jackson.

Il bilancio umanitario dell’intervento russo in Siria è terrificante ma quello militare dà ragione a Mosca: Putin ha salvato il regime di Damasco alleato storico sia della Russia che dell’Iran. Dal punto di vista strategico Putin ha ridato un lustro da grande potenza alla Russia tornata protagonista in Medio Oriente ma lo ha fatto anche a suo rischio e pericolo: la Siria può trasformarsi in una sorta di nuovo Afghanistan se non troverà un accordo politico che garantisca a Mosca i vantaggi militari raggiunti.

In Siria per mantenere in vita lo stato si deve trattare con il regime alauita: continuare a ripetere che Baššār al-Asad deve andarsene come fanno americani, europei, arabi e turchi, non serve e finora non è servito a nulla. Il crollo secco di un regime, come in Iraq e in Libia, non poteva che trascinare il paese in un’anarchia ancora più profonda.

In Iraq l’unica via è quella di riportare i sunniti al governo e dentro le stanze del potere. Rifare l’esercito con ufficiali sunniti nei posti di comando per evitare che intere divisioni si sciolgano come gelati al sole senza combattere davanti all’avanzata di alcune centinaia di miliziani. La soluzione di armare i pīs mergah è stata utile soltanto a tamponare la situazione: i curdi possono difendere il loro territorio ma non imporre l’ordine nel resto dell’Iraq sunnita. Sono una minoranza non troppo popolare e per di più non araba.

La soluzione politica, necessaria per rendere efficace anche quella militare richiede l’impegno delle potenze straniere che stanno combattendo da diversi anni una guerra per procura in Siria e in Iraq. Gli arabi hanno visto nello Stato islamico una buona carta da giocare per contrastare, con il beneplacito occidentale e della Turchia, l’influenza iraniana in Iraq, Siria, Libano. Le monarchie del Golfo e la Turchia sostengono i sunniti che combattono in Siria; l’Iran e gli Hezbollah libanesi, insieme alla Russia, sono a fianco degli alauiti siriani e del governo sciita di Bagdad. L’Iran, che ha negoziato l’accordo sul nucleare, ha già compiuto un passo significativo in Iraq scaricando il fallimentare primo ministro Nūrī al-Mālikī. La Turchia deve bloccare il passaggio degli jihādisti alle sue frontiere, dove sono schierati i curdi siriani di Kobânê a combattere contro il califfato, e le monarchie del Golfo prosciugare i fondi elargiti ai movimenti radicali: mentre il califfato oggi si autofinanzia, Qatar e Arabia Saudita si fanno concorrenza per foraggiare i loro protetti.

La nascita del califfato tra Iraq e Siria non è stata esattamente una buona notizia per queste monarchie assolute sostanzialmente antidemocratiche, che l’Occidente si ostina ad appoggiare rifornendole di armi in cambio di petrolio, commesse e investimenti. Come non era per loro una buona notizia l’ascesa dei Fratelli musulmani in Egitto: e non a caso Riad sostiene a mani piene (di dollari) il generale egiziano al-Sīsī. Se si fa un colpo di stato popolare in Egitto per far fuori Muḥammad Mursī, eletto dalle urne, si può anche combattere un califfo che non ha votato nessuno.

Ma c’è anche l’altra soluzione. Lasciare che il califfato faccia il suo corso, annientando le minoranze religiose, sfidando l’Occidente e i regimi avversari per frantumare la regione. Adesso ci appare una soluzione orribile ma siamo sicuri che questa alternativa qualche tempo fa non sia stata accarezzata in più di qualche cancelleria? 

Un articolo e una mappa pubblicati dal “New York Times” il 29 settembre 2013 – il Califfato era già in azione – prendevano in considerazione la possibilità che i conflitti e le rivolte in corso potessero provocare la frammentazione di alcuni stati arabi in unità più piccole. L’articolo di Robin Wright, ex corrispondente a Beirut ed esperta di relazioni internazionali, scatenò allora accesi dibattiti negli Stati Uniti mentre in Medio Oriente nascevano congetture su un nuovo piano dell’Occidente, di Israele e di altri soggetti malintenzionati per dividere gli stati arabi in entità più piccole e più deboli. Congetture? A pensare male si fa peccato ma spesso ci si azzecca, diceva qualcuno.

Il sospetto è che questa guerra allo Stato islamico di al-Baghdādī sia soltanto il primo tempo della vicenda: nel secondo si deciderà chi dovrà governare la nuova entità. E allora si comincerà a combattere la vera guerra.

Due anni dopo il destino traccia scenari assai curiosi per uno Stato islamico in forte arretramento territoriale che ha il suo cuore pulsante nel Siraq, alcune roccaforti in Libia ma che si estende con i gruppi affiliati dall’Afghanistan all’Africa occidentale. Ricordiamo che la guerra in Afghanistan nel 2001 non fu la fine di al-Quaeda di bin Lāden, che si ricostituì in Yemen con colonne agguerrite dal Medio Oriente all’Africa.

L’incrocio tra l’Isis e al-Quaeda, da cui in Iraq tutto è nato, propone nuovi sviluppi in una regione dove gli jihādisti sono il simbolo ma anche l’espressione del fanatismo religioso e del declino culturale di stati in disgregazione. Il Fronte al-Nuṣra, impegnato nella battaglia di Aleppo, ha appena cambiato nome staccandosi proprio da al-Quaeda e forse verrà cancellato dalla lista nera dei gruppi terroristi per entrare a far parte dell’opposizione “rispettabile” contro Assad: nelle sue file torneranno i transfughi che avevano giurato fedeltà al califfato. Ecco che cosa può accadere a una parte dell’Isis dopo un’eventuale sconfitta: i miliziani più “ragionevoli” verranno riciclati tra gli jihādisti “buoni”, quelli sostenuti dalla Turchia e finanziati da sauditi e qatarini. Può apparire scandaloso ma questa è una mossa tattica, ispirata dagli americani, per usare gli jihādisti anti-Asad anche in chiave antiraniana e tenere sotto pressione la Russia.

In Medio Oriente i mostri generano altri mostri: noi la chiamiamo realpolitik.

Ma questa è solo una parte della storia. L’Isis continuerà a operare magari in maniera diversa con il piano B del suo portavoce Abū Muḥammad al-‘Adnānī, ucciso qualche tempo fa in un raid americano. Al-‘Adnānī era una sorta di “ministro” degli attentati, supervisore del fronte esterno coordinava i combattenti in Occidente ma non si era mai preoccupato della segretezza. Anzi, all’opposto. Più era trasparente e più era facile per chi ascoltava mettere in pratica le sue direttive. Dagli attacchi in Germania, a un camion-ariete come a Nizza. Ma bisogna guardare oltre. Secondo alcune ricostruzioni al-‘Adnānī aveva iniziato a pensare a quando l’Isis sarebbe stato sconfitto, ovvero studiava come creare una quinta colonna in Europa. E gli jihādisti potrebbero usare il Nordest della Siria come area di addestramento e come ponte sul confine turco. Del resto da cinque anni è la meta agognata dei foreign fighters: è il “nostro” Afghanistan da monitorare. Per questo è importante la conquista della roccaforte di Manbij da parte della coalizione curdo-araba appoggiata dagli Stati Uniti: taglia la strada verso Raqqa, capitale del califfato, ma anche la via di fuga degli jihādisti in direzione della Turchia. è scattato così il Gran Premio per Raqqa: una corsa a due tra la coalizione capeggiata dagli Stati Uniti e quella a guida russa con al-Asad, iraniani ed Hezbollah: ma la sua caduta non sarà la fine della storia.

Nella battaglia contro l’Isis la chiave politica della vicenda è importante quanto quella militare. Anzi senza la prima non si riesce a comprendere neppure la seconda. Il califfato di al-Baghdādī potrà essere anche effimero ma la barbarie, l’ingiustizia, la violazione continua dei diritti umani, sono da queste parti moneta corrente e tollerata nel grande gioco delle alleanze e degli interessi mondiali. Anche questa è stata una delle cause che hanno portato in Medio Oriente all’ascesa del jihādismo e al successo della sua propaganda.

La storia cominciata nel 2003 con la caduta di Saddām non termina adesso. Lo Stato islamico non ha fatto tutto da solo ma si è alleato con le tribù sunnite e i gruppi baathisti di Saddām che avevano con gli jihādisti un obiettivo in comune: rimuovere dal potere gli sciiti. al-Baghdādī, militante di al-Quaeda e seguace di Abū Muṣ‘ab al-Zarqāwī, ha sfruttato il caos saldando guerra siriana e irachena. Ma le vere e profonde cause della rivolta sono state la corruzione e le politiche discriminatorie di Bagdad, una formidabile propaganda per l’Isis nelle province sunnite così come è avvenuto in Siria, paese a maggioranza sunnita dominato brutalmente dalla minoranza alauita degli al-Asad. L’irredentismo sunnita, sostenuto da potenze esterne come Arabia saudita e Turchia, non finirà con la sconfitta del califfato e forse neppure con una nuova mappa del Medio Oriente. 

Proviamo a immaginare, dopo l’uccisione ad Aleppo del portavoce del califfato al-‘Adnānī, che venga aperto un Ufficio propaganda anti-Isis. Perché sarebbe pericolosamente illusorio pensare che la morte di uno dei leader dell’organizzazione ma anche il suo arretramento territoriale e un’eventuale sconfitta possano costituire la fine di un’ideologia jihādista che si è diffusa negli ultimi decenni dall’Afghanistan all’Iraq, dal Medio Oriente all’Asia centrale, all’Africa, fino a entrare mortalmente dentro l’Europa.

Gli esempi del contrario sono diversi, a partire da al-Quaeda, casa madre in Iraq dell’Isis: l’uccisione di Osāma bin Lāden ad Ābṭābād in Pakistan nel 2011 non fu la fine del gruppo terroristico come non lo era stata la perdita dei santuari afghani dopo le Torri Gemelle e la guerra del 2001.

Al-Quaeda non solo si è ricostituita in Yemen, ha continuato a operare in Iraq, nel Maghreb e nella fascia subsaheliana e in Siria ha dato vita al fronte Jabhat al-Nuṣra, serbatoio di combattenti per lo stesso califfato, sostenuto da turchi e sauditi, che adesso si sta riciclando per uscire dalla lista nera dei gruppi terroristi ed essere utilizzato dagli Stati Uniti in chiave antiraniana e antirussa. Quando si parla di propaganda antijihādista bisogna sempre ricordare che una delle origini di questa storia è stata proprio la strumentalizzazione dei militanti islamici iniziata nel 1979 quanto l’ex Urss invase l’Afghanistan.

Gli eroi di ieri, i mujāhidīn afghani che sconfissero l’allora “Impero del male”, sono diventati i “barbari” di oggi, pronti adesso, almeno in parte, a entrare in un nuovo programma di candeggio nella lavatrice della geopolitica come qāidisti “buoni”, quelli che servono e sono alleati dei nostri partner economici e finanziari. Anche questo significa la battaglia di Aleppo, la “dottrina Erdoğan” per far fuori l’Isis ma soprattutto i curdi, le ambigue posture americane e della Russia di Putin. Non meravigliamoci troppo se il jihādismo potrà sopravvivere alla disfatta dell’Isis. Tutto dovrebbe essere materia di comunicazione per un onesto Ufficio propaganda anti-Isis.

L’Isis si è autoproclamato Stato islamico perché afferma di imitare la prima comunità musulmana che propagò la nuova religione fondata dal profeta Maometto con una serie di straordinari successi militari. I seguaci dell’Isis  dicono di volere ricostituire quella comunità originaria così come essi la immaginano: unita nella rigorosa obbedienza a un califfo, intollerante della diversità delle altre religioni, oppressiva nella repressione di cristiani ed ebrei, spietata nello sterminio di quelli che vengono ritenuti degli idolatri come gli yazīdi, nemica irriducibile delle correnti musulmane non rigorosamente sunnite, dagli sciiti a quelle eterodosse come gli alauiti siriani.

In realtà l’Isis è ignoranza. Se si risale alle origini si comprende subito che la versione di un islam unitario contraddice gli eventi. I suoi seguaci si ingannano sulla storia dell’islam che faceva molti più compromessi con le altre religioni e stili di vita differenti di quanto non si voglia ammettere. I militanti dell’Isis sottolineano che i primi musulmani diffusero l’islam con la forza della armi ma si dimenticano che questa espansione fu fondata su ben altro che la violenza. Nell’epoca d’oro i sovrani musulmani fecero largo uso del sapere e delle competenze delle varie comunità religiose sottoposte al loro dominio. I periodi di maggiore intolleranza dell’islam sono coincisi con quelli di povertà e arretratezza.

La storia si è ripetuta ai nostri giorni. Con la crisi negli ultimi tre decenni degli stati nazione usciti dalla decolonizzazione – Iraq, Siria, Egitto, Libia, scivolati verso fallimentari autocrazie – si sono fatti strada il fanatismo religioso, il declino culturale e la barbarie. Gli interventi occidentali hanno reso questo processo di disgregazione ancora più disastroso come è avvenuto in Iraq dopo il 2003: nel 1987, in era presanzioni, qui i cristiani erano l’8 per cento della popolazione ora sono meno dell’uno per cento.

L’Isis è l’apice di questa involuzione. Il califfato di al-Baghdādī ha voluto cancellare la memoria anche dei califfi più tolleranti, oltre che del passato preislamico di questi popoli, si è accanito su Palmira, sulle mura di Ninive, su qualunque monumento potesse sembrare non ortodosso, comprese le moschee sciite che quasi quotidianamente sono bersaglio di attentati kamikaze.

Allo stesso tempo si è scatenato in Europa, addestrando direttamente alcuni degli attentatori, in altri casi ispirando i lupi solitari o dei veri idioti dell’orrore che nel “format” dell’Isis inventato da al-‘Adnānī – basta agire, senza neppure rivendicare o essere militanti – ha dato un senso a vite fallimentari. Più che una versione “pura” dell’Islam gli jihādisti forniscono un franchising, che in Europa dà un’etichetta al malessere individuale e di gruppo e riempie il vuoto lasciato dalle ideologie del Novecento. Il jihādismo galleggia anche sui nostri vuoti di senso.

Il messaggio principale dell’Ufficio propaganda anti-Isis è questo: che minoranze militanti e violente non possono prevalere sulla maggioranza dei musulmani (1,5 miliardi), le vittime principali del terrore e dell’estremismo. Questa non è una sfumatura. Molti pensano che gli estremisti rappresentino la totalità dell’islam oppure che le loro tesi sono tollerate, non condannate e quindi accettate da gran parte dei musulmani. Sappiamo bene che non è così, l’Ufficio propaganda avrà molto da fare per correggere i luoghi comuni, per dare un’interpretazione corretta della storia e non strumentale dell’islam oggi percepito, inutile nasconderlo, come una minaccia globale.

 con una prefazione di Alberto Negri, una introduzione all’edizione italiana di Franco Cardini e una postfazione aggiornata di Pierre-Jean Luizard. Torino, Rosenberg & Sellier, 2016, disponibile in libreria e su tutte le maggiori piattaforme online.

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La presenza militare cinese in Africa orientale https://ogzero.org/la-tanzania-tra-risorse-naturali-e-interessi-cinesi/ Sun, 12 Apr 2020 12:21:28 +0000 http://ogzero.org/?p=130 Boots on the ground La guerra fredda è un lontano ricordo. Eppure Russia e Usa hanno ripreso le ostilità, e dove? In Africa. Mosca sta cercando di riprendersi una qualche centralità nel continente africano, favorita, anche, dalle mutate condizioni politiche. Crollato il muro di Berlino, infatti, su tutto il continente si sono scatenate numerose guerre […]

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Boots on the ground

La guerra fredda è un lontano ricordo. Eppure Russia e Usa hanno ripreso le ostilità, e dove? In Africa. Mosca sta cercando di riprendersi una qualche centralità nel continente africano, favorita, anche, dalle mutate condizioni politiche. Crollato il muro di Berlino, infatti, su tutto il continente si sono scatenate numerose guerre che non avevano più nessun legame con gli amici di un tempo – America e Unione Sovietica – ma, semplicemente, rappresentavano il tentativo di riposizionarsi e trovare nuovi amici attraverso l’accaparramento delle risorse naturali. Finito, non del tutto per la verità, quel periodo, ora è “guerra” commerciale, ma anche militare, di tutti contro tutti. L’Occidente ha deciso che è giunto il momento di arginare l’influenza cinese che, ormai, ha le mani su tutto il continente, nessun paese escluso. La Russia non ci sta e non vuole, certo, rimanere ai margini. Mosca sta in maniera sistematica espandendo la sua incidenza militare e strategica nel continente. E tutto ciò allarma, e non poco, le cancellerie occidentali. Gli Stati Uniti, dal canto loro, hanno ben marcato il territorio attraverso il comando Africom. Oltre ai 4000 militari di stanza a Gibuti, la missione americana, dispone di 34 siti militari, 14 basi principali e 20 postazioni secondarie a supporto della lotta al terrorismo. In tutto oltre 7000 militari. Le presenze più significative sono in Somalia, Niger, Kenya, Mali e Camerun. 

Tornare a essere protagonisti in Africa, significa anche rafforzare la presenza militare. Un obbligo dettato dal fatto che la Cina ha già messo gli “scarponi” sul terreno attraverso le missioni di peacekeeping. I caschi blu cinesi, tuttavia, dispiegati in Africa – circa 2500 – sono concentrati nelle aeree di particolare interesse per Pechino. Non è un caso che mille di questi siano in Sud Sudan dove la Cina ha investito molto nel petrolio e altri 400 in Mali.

Frag tratto da Mal d’Africa, di Raffaele Masto e Angelo Ferrari, postfazione di Marco Trovato, Torino, Rosenberg & Sellier, 2020, disponibile in libreria e su tutte le maggiori piattaforme online.

 

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Nazionalismo petrolifero e dubaizzazione https://ogzero.org/nazionalismo-petrolifero-e-dubaizzazione/ Sun, 29 Mar 2020 20:49:06 +0000 http://ogzero.org/?p=58 Fino al 2005 il nazionalismo curdo traeva fonte d’ispirazione dall’obiettivo di ottenere i propri diritti democratici e l’autodeterminazione in Iraq, ma – dalla scoperta di petrolio e gas, stipulando contratti con le maggiori compagnie petrolifere del mondo ed esportando sui mercati internazionali di idrocarburi – il nazionalismo curdo si colorò di nazionalismo petrolifero e i due partiti al potere […]

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Fino al 2005 il nazionalismo curdo traeva fonte d’ispirazione dall’obiettivo di ottenere i propri diritti democratici e l’autodeterminazione in Iraq, ma – dalla scoperta di petrolio e gas, stipulando contratti con le maggiori compagnie petrolifere del mondo ed esportando sui mercati internazionali di idrocarburi – il nazionalismo curdo si colorò di nazionalismo petrolifero e i due partiti al potere cercarono di trarne vantaggio in due modi. Innanzitutto usarono le risorse, in particolare il petrolio, per rafforzare la presa sul potere monopolizzando l’intera filiera, dai sondaggi all’esportazione: per dividersi i proventi le famiglie Talabani e Barzani cercarono di comprare il silenzio della nazione in cambio della conversione della Kri in una nuova Dubai e introdussero un sistema di rendite e un capitalismo clientelare, resuscitando quegli elementi di tribalismo che stavano declinando già dal 2003; in secondo luogo la Krg si avvalse del petrolio per attirare compagnie internazionali, in particolare da Europa e Usa con la speranza di proteggere se stessa: Barzani a seguito di un contratto firmato con la Exxon Mobil disse in un discorso tenuto agli studiosi islamici che il «Ceo della Exxon Mobil è più potente del presidente degli Stati Uniti». La Krg cominciò una campagna internazionale all’insegna dell’“Altro Iraq”, esibendo la Kri come una sorta di paradiso nel mezzo della crisi irachena e dipingendolo come un modello di democrazia e di economia in espansione tra i regimi autoritari mediorientali. È proprio lì che i due partiti al potere, e in particolare il Kdp, hanno abbandonato la propaganda nazionalista volta a conseguire i diritti dei curdi per concentrarsi maggiormente sulla ricchezza delle risorse naturali della Federazione, che devono essere sfruttate dai curdi stessi e non dal governo centrale di Baghdad. Le promesse del nazionalismo curdo di democrazia e di libertà si tramutarono in promesse di dubaizzazione della Federazione. Il modello a cui guardava il Kdp non era un modello democratico, ma accarezzava l’idea di una monarchia in cui è in corso un boom economico senza democrazia.

Il governo regionale ha elevato il Pil e il livello di vita, stando ai dati del Dipartimento per la pianificazione; lo sviluppo economico in corso sarebbe indicato dall’incremento diversificato dei prodotti locali nella maggioranza dei settori. Dal quinquennio 2003-2008 le entrate nazionali si accrebbero da 4373 miliardi di dinari iracheni (circa 3 miliardi di euro) a 30 224 miliardi di dinari (22 miliardi di euro), un tasso medio di crescita del 38,3 per cento. Nello stesso periodo il Pil aumentò da 2419 miliardi di dinari (17 miliardi di euro) a 20 954 (150 miliardi), con una performance del 61 per cento tra il 2004 e il 2008. Il Pil pro capite salì da 0,524 milioni di dinari (380 euro) a 4,740 (3400 euro).

La vantaggiosa legge su petrolio e gas 

Contro ogni previsione, le maggiori compagnie petrolifere siglarono contratti con la Krg dopo che il Governo regionale varò la legge 28 del 2007 su petrolio e gas, molto più vantaggiosa per la Krg al confronto di quella nazionale: trasferiva infatti i contratti di fornitura dell’Iraq in base ad accordi per appalti che prevedevano la condivisione della produzione, il che significa che non solo si sarebbero pagati i diritti di prospezione ed estrazione, ma si sarebbero spartiti i guadagni, diversamente dai soliti modelli contrattuali iracheni. La legge divenne uno dei maggiori motivi di disputa tra il Governo regionale e quello federale quando la Exxon Mobil firmò nell’ottobre del 2011 contratti per sei blocchi che coprivano 3 miliardi e mezzo di metri quadri (848 000 acri) della Federazione regionale.

La legge 28 e gli affari del Kdp con la Turchia di Erdoğan 

Non avendo sbocco al mare, la Krg cercò di corteggiare la Turchia per raggiungere i mercati internazionali. E il vicino affamato di petrolio e gas che lamentava da anni la perdita del distretto di Mosul – sotto la direzione di Erdoğan e dell’Akp – accolse con favore l’offerta proveniente nello specifico dal Kdp e i rapporti tra le due entità regionali raggiunsero l’apice; gli esponenti della famiglia Barzani visitarono regolarmente la Turchia, e a Erbil i leader turchi nel marzo 2011 assistettero all’inaugurazione dell’aeroporto internazionale realizzato dalle compagnie turche. Era presente Erdoğan stesso, il primo premier turco a visitare la Kri.

All’inizio dell’invasione dell’Iraq nel 2003 il governo turco aveva definito Barzani un capo tribale e persino minacciato di occupare la Kri. Ad ogni modo gli accordi energetici normalizzarono la situazione, soprattutto dopo quello cinquantennale del 2009 tra i due governi, i cui dettagli non sono mai stati resi pubblici. Il sogno dell’Akp turco di far rinascere il controllo ottomano sulla regione richiedeva un’economia più forte e una strada sicura verso il Golfo Persico. Ma la Krg poteva essere il suo affiliato: circa mille compagnie turche e 30 000 cittadini turchi stavano lavorando all’interno della Kri nel 2011 e gli investimenti e il commercio turco nella Federazione regionale avevano raggiunto i 10 miliardi di dollari. In seguito alla crisi finanziaria e alla guerra al Califfato gli investimenti e gli scambi diminuirono in larga misura; a quel tempo la realtà era che la Turchia non possedeva (non ancora) abbastanza gas e petrolio per soddisfare le proprie esigenze, nonostante Russia e Iran l’avessero approvvigionata, la crisi siriana aveva deteriorato i rapporti tra i turchi e le due potenze regionali e l’Iran era sottoposta a sanzioni, creando difficoltà ad Ankara. Ma la Turchia sembrava essersi guadagnata l’accesso a una maggior quantità di gas a un costo molto minore – dalla Krg. Come è stato successivamente rivelato da alcune fonti, la Turchia aveva ottenuto dalla Krg il gas a metà del prezzo imposto da Russia e Iran.

L’evoluzione nella cooperazione energetica tra Kri e Turchia era interpretata da molti come una via per l’indipendenza della Kri, un sogno curdo lungamente procrastinato; comunque, mettendo tutte le uova nel solo paniere turco alla fine si è creata una dipendenza della Krg dalla Turchia o, come ritenuto da molti, una colonia turca nascente che ha reso la Krg precariamente esposta a ogni slittamento della posizione turca riguardo al Kurdistan: se ne ebbe un esempio nel settembre 2017, quando la Turchia si oppose fermamente al referendum nella Kri sull’indipendenza. Quanto più la Krg faceva prospezioni ed esportava petrolio, tanto più dilagava la corruzione e, invece di diversificare la propria economia, sopprimeva tutti gli altri settori, soprattutto quello agricolo, di cui nelle loro fattorie per secoli i curdi avevano vissuto, provocando così dal 2003 in poi un esodo dai villaggi facilitato da Kdp e Puk che per comprare il consenso elargivano assunzioni nell’esercito o nel governo.

L’abbraccio mortale del nuovo Sultano e la Dinasty curda 

Le politiche petrolifere della Krg non sono state solo una disgrazia per gli abitanti della Regione del Kurdistan iracheno, ma anche per le genti turche, e in particolare per i curdi che vivono in Turchia, dato che Erdoğan ha rafforzato il suo dominio mantenendo il Partito della giustizia e dello sviluppo (Akp) al potere grazie ai soldi facili confluiti nelle sue tasche, in quelle della sua famiglia e del partito provenienti dagli accordi petroliferi altamente lucrativi promossi dalla Krg. 

Da quando le relazioni tra Kdp e Akp registrarono un’accelerazione negli accordi petroliferi, in particolare dopo le concessioni del 2011 e poi con il contratto per la fornitura cinquantennale di petrolio e gas del 2013, il Kdp, i suoi media e il greggio del Governo regionale sono stati del tutto asserviti all’agenda di Erdoğan e alle sue politiche.

Erdoğan e l’Akp hanno agevolmente approfittato della fragilità interna del Kdp e di Barzani, dell’opposizione regionale e nazionale irachena al Kdp e alle sue politiche, e della rivalità del Kdp con il Puk, i partiti di opposizione, in particolare con il Pkk, e infine con il Rojava, di cui si è detto nel capitolo sulla Siria. Il Kdp non sarebbe stato in grado di mantenere il proprio potere se Erdoğan non l’avesse sostenuto. 

Senza sbocco al mare, e con Iran e Iraq contrari all’esportazione indipendente di greggio della regione curdo-irachena, il sistema Kdp/Krg non aveva altre strade per esportare il suo petrolio sui mercati internazionali. Erdoğan ha colto l’opportunità di ottenere enormi profitti dai punti deboli politici e geografici della Krg. Uno dei motivi alla base della nomina a ministro dell’Energia turca da parte di Erdoğan di suo genero Berat Albayrak, è che le sue società gestivano l’esportazione del greggio della Krg, comprandolo a tariffe molto più basse dei prezzi del mercato internazionale. Intanto la famiglia Barzani beneficiò anche dell’esportazione del petrolio attraverso la Turchia, visto che il primo ministro Nechirvan Barzani (nipote di Masoud), era l’ideatore del contratto e il Kdp e la famiglia Barzani consideravano il petrolio una loro proprietà esclusiva. 

Questi accordi avvicinarono sempre più Kdp e Akp: entrambi in un certo modo contrariati dai successi del Rojava nel Nord della Siria. Su preciso ordine del governo di Erdoğan nel 2015 a Erbil il Kdp chiuse immediatamente tutte le scuole di Fethullah Gülen (l’imam di cui si è parlato nel capitolo sulla Turchia) e un affarista curdo vicino al Kdp ne acquisì la proprietà. E quando l’esercito turco penetrò la Regione curda irachena per 30 chilometri con l’intenzione di attaccare il Pkk, il premier Barzani disse: «Perché la Turchia ha violato i confini? Qual è la ragione? Ci deve essere per forza un motivo. Prima va rimossa quella causa, finché questa non sarà risolta, non si può parlare delle ripercussioni». I documenti di Wikileaks hanno rivelato che Masoud Barzani considerava il Pkk ostile quando incontrò Erdoğan, visto che diceva che «il Pkk è allo stesso modo nemico anche del Kdp, non solo dei turchi». La Krg e il Kdp sono stati utili per Erdoğan e l’Akp: economicamente per guadagnare miliardi di dollari attraverso lucrosi affari e accordi petroliferi nella Krg, e politicamente per imbrigliare il Pkk sui monti Qandil, nel Kurdistan iracheno e in qualche modo in Rojava. Dal canto suo il Kdp ha ricevuto importanti aiuti militari dalla Turchia, trovato una via per aggirare l’Iraq ed esportare il petrolio con cui procurarsi denaro e finalmente fiaccare il Pkk – il suo maggiore antagonista politico, ideologico e militare nei suoi calcoli geopolitici, viste le roccaforti del partito di Öcalan nel Kurdistan al confine tra Turchia e Siria.

La forte presenza turca nella Krg ha schiacciato il Puk nell’orbita iraniana a un punto tale che non può prendere decisioni strategiche senza renderne conto all’Iran. 

Perché la città siriana di Idlib è importante nella “proxy war”

La “congelata” guerra di Idlib cambierà enormemente il corso degli eventi in Siria, sebbene non si capisca bene nell’interesse di chi lo farà. Comunque, dati i recenti sviluppi, la caduta di Idlib sotto il regime siriano avrebbe serie ripercussioni sugli interessi turchi in Siria e sulla cosiddetta opposizione siriana e dell’Esercito siriano libero (Esl). La perdita di influenza turca e l’opposizione del regime siriano faranno buon gioco agli interessi dei curdi in Siria dato che l’opposizione siriana ora opera per procura della Turchia. La caduta di Idlib e l’eventuale ritorno in mano ad al-Assad certificherebbero il fallimento dei turchi, dell’opposizione e dei gruppi estremisti che hanno portato all’attacco contro la città di Afrin.

Allo stesso modo, il successo dei curdi di Siria influenzerebbe sicuramente gli interessi curdi in Iraq, in Turchia e persino in Iran. Nei confronti dell’Iraq, i curdi di Siria, vicini al Pkk, si troverebbero nella condizione di poter ostacolare gli interessi turchi legati al Kdp in Siria attraverso un riavvicinamento agli altri partiti curdi in Iraq. Un governo curdo-siriano forte aiuterebbe i curdi in Iraq, con l’eccezione del Kdp, a riunirsi con il Pkk, il ramo iraniano del Pkk (il Pjak) e i curdi siriani, in una sorta di alleanza abbastanza forte da frenare il tentativo del Kdp di estendere la sua egemonia. 

Idlib, d’altro canto, sarebbe stata importante anche per l’alleanza curdo-americana in Siria poiché se gli Stati Uniti avessero lasciato soli i curdi, la caduta di Idlib avrebbe implicato una alleanza più forte tra Siria, Iran e Russia. Quindi, gli Stati Uniti sarebbero stati una garanzia per i curdi in Siria e cercheranno di fermare la ricerca da parte della Russia di un appoggio politico in Iraq tramite le sue compagnie petrolifere, soprattutto la Rosneft, nella Regione del Kurdistan. Il conflitto Stati Uniti / Russia nella regione assicurerà una posizione di forza ai curdi sia in Iraq sia in Siria per poter proteggere i propri interessi a Damasco e Baghdad. Nel medio termine, gli Usa potrebbero avvicinarsi al Puk e il Pkk potrebbe essere espunto dall’elenco delle organizzazioni terroristiche stilato da Stati Uniti ed Europa. 

La legge 28 e gli affari del Puk con l’Iran

Anche l’Iran beneficiò del petrolio della Kri, dal momento che il regime degli ayatollah aprì le frontiere per il Puk e il Kdp al contrabbando di petrolio in Iran, che tramite la Repubblica Islamica raggiungeva i mercati internazionali attraverso Bandar-e Emam, oppure veniva consumato nel mercato interno iraniano. Teheran raggiunse un accordo con Baghdad per costruire un nuovo oleodotto per l’esportazione del petrolio di Kirkuk nei porti iraniani e di lì sui mercati mondiali: un’offerta volta a rafforzare il Puk nelle aree sotto il suo controllo, dato che il partito di Talabani era stato in qualche modo marginalizzato dal Kdp nell’affare petrolifero, in quanto le esportazioni avvenivano attraverso oleodotti diretti in Turchia controllati dal Kdp e appunto da Ankara, suo alleato regionale. 

È prioritario per la Krg trovare altre vie per i prodotti petroliferi, altrimenti rimarrà sempre alla mercé delle potenze regionali se mira all’esportazione indipendente del greggio aggirando l’Iraq; finora, infatti, ha instaurato patti energetici regionali soltanto con la Turchia, una nazione che ha da fare i conti con una propria “questione curda” e che ha massacrato migliaia di curdi.

Le rotte del petrolio dopo la rivoluzione del Rojava 

Dopo la crisi siriana del 2011 e la rivoluzione curda in Siria emersa di conseguenza, là si era data una speranza che i curdi raggiungessero finalmente il mare, ma la strada è ancora lunga. Il Pkk è protagonista sulla scena delle rotte dei prodotti energetici della regione, come disse in un’intervista a “Der Spiegel” il massimo dirigente del Pkk Cemîl Bayik: la sicurezza energetica europea passa attraverso il cuore della terra curda in Siria e il Pkk può sempre svolgere il ruolo di chi decide della stabilità del Medio Oriente poiché è diventato la maggior forza per combattere il terrorismo. Bayik mi ha detto una volta nel 2015 che «Il ruolo della Turchia si è indebolito e i curdi sono assurti al rango di forza strategica. I cambiamenti nel Medio Oriente cominciano da lì, da questo momento il comparto energetico non è più l’unica cosa che conta. D’ora in avanti il petrolio e il gas del Medio Oriente o addirittura del Caucaso possono viaggiare via Rojava nel Kurdistan siriano. È la fine dei piani turchi». Bayik è pienamente consapevole del fatto che una delle più gravi cause di debolezza della Turchia è la mancanza di risorse petrolifere, mentre una delle sue più forti risorse risiede nella sua posizione su ogni rotta del greggio verso l’Europa e questo può cambiare una volta che il Kurdistan siriano sia liberato. In ogni caso la Krg non è stata capace di impiegare il suo petrolio come uno strumento al servizio della politica internazionale perché ha ricercato solo l’interesse di parte e non quello nazionale e prematuramente puntando sulla sola carta turca. 

Il Rojava ha assunto un ruolo di primo piano nella politica siriana e contribuirà a dare forma alla mappa del paese dopo che è diventato un alleato degli Stati Uniti nella regione. Nel dopoguerra ci sarà estremo bisogno di relazioni economiche tra nazioni limitrofe. Il Rojava può avvicinare Damasco ed Erbil – sempreché ovviamente quest’ultima smetta di complottare contro questa entità. Esistono profonde divergenze tra Rojava e Kdp, ma i rapporti del Rojava con tutti gli altri partiti curdi in Iraq si trovano ora al loro massimo livello. Da quando il passaggio di Semalka al confine tra Rojava e Kri è controllato dal Kdp che ha chiuso la frontiera dopo che è stata stabilita l’amministrazione dei curdi di Siria, i contrasti tra Rojava e Kdp sono aumentati. Il Rojava è un modello dietro al quale c’è il Pkk che considera il Kdp e i suoi rappresentanti in Rojava – l’Enks (Consiglio nazionale curdo) – alla stregua di servi degli interessi turchi. Il Kdp e il Pkk sono stati in conflitto per mantenere l’egemonia sulle quattro parti del Kurdistan e il Pkk si è rivelato il vincitore, avendo una ideologia e dei leader più forti, in particolare Öcalan, considerato da molti curdi un capo politico e un filosofo, come raccontato nella sezione del volume dedicata ai curdi di Turchia, a differenza di Barzani che non vanta alcun intellettualismo.

La Krg ha altre opzioni da considerare, soprattutto dopo il fallimento del quesito referendario sull’indipendenza; innanzitutto aprendo una nuova strada attraverso l’Iran, incoraggiando Baghdad a collegare l’oleodotto del Nord con quello meridionale e poi normalizzando le relazioni con il Rojava per arrivare al porto internazionale di Haifa: Israele ha già acquistato il petrolio della Krg, anche questo è stato discusso da alcuni esperti per quanto la Krg dovrebbe superare la pubblica diffidenza irachena verso qualunque accordo con lo stato ebraico. 

Rosneft e BP: russi e inglesi per la rotta del gas

Fin dal 1991 gli Stati Uniti erano stati alle spalle della Krg, fornendo protezione, fondi, assistenza e formazione, nonché sostegno politico a Baghdad. Ma prima del referendum la dirigenza curda aveva già avviato approcci con la Russia suscitando la preoccupazione statunitense per il voto. Se gli Stati Uniti non fossero riusciti a riunire Erbil e Baghdad, i leader curdi avrebbero continuato a cercare aiuto nella Russia, convinti che potesse essere il miglior deterrente contro Turchia e Iran, che si erano riavvicinati in occasione del referendum; inoltre miravano agli investimenti russi sul comparto energetico per finanziare il loro budget futuro. La Rosneft, potente compagnia petrolifera russa, infatti sta attualmente costruendo un gasdotto per portare il gas della regione sui mercati internazionali e in periodo referendario pagò un affitto di due miliardi di dollari alla Krg. Questo irritò i britannici perché la loro compagnia petrolifera (BP) aveva firmato un accordo con il governo di Baghdad nel 2013 per lo sfruttamento di giacimenti petroliferi a Kirkuk.

Kirkuk, la Gerusalemme curda e il controllo dei pozzi

I confinanti turchi e iraniani temevano che i partiti curdi locali volessero ispirarsi ai loro confratelli iracheni; l’Iran non voleva che uno stato indipendente curdo si alleasse con Israele e Arabia Saudita perché troppo debole per difendere i confini ed evitare che sauditi, americani e israeliani installassero le loro basi antiraniane nella Regione autonoma del Kurdistan. La continua opposizione di Turchia e Iran ingigantì i problemi per il Kurdistan iracheno, che importa infatti l’85 per cento di cibo e altre merci attraverso Iran e Turchia, il 95 per cento della sua bilancia commerciale inoltre dipende dall’esportazione di greggio tramite i porti turchi. Le sanzioni turche possono facilmente soffocare lo stato curdo, quindi una simile evenienza avrebbe conseguenze drammatiche sotto il profilo economico per una regione già duramente provata da crisi finanziarie e strozzata da miliardi di dollari di indebitamento a livello locale e internazionale. La leadership curda avrebbe dovuto essere più attenta nel periodo precedente al referendum, in modo che gli errori futuri non solo non ostacolassero gli sforzi per uno stato indipendente, ma non mettessero a rischio la relativa stabilità, migliorando il tenore di vita esperito in passato da molti curdi.

Una fonte politica di alto profilo mi ha raccontato che Masoud Barzani ha promosso un referendum irredentista in modo da ottenere «una forte leva da usare contro il governo iracheno per mantenere i pozzi petroliferi a ovest di Kirkuk nel caso di negoziati sul futuro delle relazioni tra Krg e Baghdad». Molti, infatti, dubitavano dei proclami d’indipendentismo di Masoud Barzani; tra questi Hoshyar Abdullah, membro del Gorran, fazione del parlamento iracheno, convinto che il referendum fosse una carta politica giocata per mantenere i giacimenti petroliferi a ovest di Kirkuk e «stornare l’attenzione delle masse curde dai fallimenti della Krg, consentendo al Kdp di recuperare le posizioni perse a Baghdad». 

Masoud Barzani, Nechirvan Barzani e Masrour Barzani, padre, genero e nipote, erano i sostenitori più accaniti dell’indipendenza curda e le loro principali argomentazioni erano, come per gli altri leader curdi, le seguenti: il governo di Baghdad ha deluso nella spartizione del potere, ignorando le richieste della popolazione curda e tagliando i finanziamenti alla Krg; l’Iraq è uno stato fallito e i curdi non vogliono più essere parte di questo fallimento: l’Accordo Sykes-Picot ha privato i curdi della sovranità e ora essi hanno il diritto di opporsi all’ordine tradizionale, visto che sono stati loro a farne le spese; il governo iracheno ha violato 55 articoli costituzionali e non è mai stato implementato l’articolo 140 che determina la sorte di Kirkuk e di altre aree soggette a contenziosi.

Nel 2014 Nechirvan Barzani, il primo ministro del governo regionale curdo, annunciò «l’indipendenza economica del governo locale come strategia per finanziare la Krg attraverso le esportazioni di petrolio», tuttavia questa fallì per il crollo dei prezzi del greggio, la guerra a Daesh e le azioni del governo centrale contro la Krg per tagliare il budget. Di fronte all’avanzata di Daesh su Kirkuk in quello stesso anno il Kdp schierò due brigate a protezione dei campi di petrolio occidentali. Quando il Puk cominciò a sospettare delle intenzioni del Kdp dispiegò a sua volta truppe in quelli a nord della città per bloccare ulteriori pretese del Kdp. Queste mosse mettevano a rischio il destino di Kirkuk dato che non si trovava l’accordo definitivo riguardo il futuro della città (per questo è considerata la Gerusalemme curda, come spiegato nelle mappe all’inizio del volume). Le prospettive per i campi a ovest furono all’origine del conflitto tra il governo regionale e quello iracheno da un lato e tra il Kdp e il Puk dall’altro. Inoltre il Kdp non intendeva concedere a Baghdad il controllo del petrolio dato che il suo piano strategico di controllo energetico era volto a perseguire efficacemente la sua brama di egemonia tramite giochi politici in Iraq e nella regione curda. 

Nel marzo 2017 una forza conosciuta come Hêze Reşeke (Forza nera), vicina al Puk, fece irruzione nella stazione di pompaggio della North Oil Company per mettere sotto pressione Erbil e Baghdad con lo scopo di costruire una raffineria di petrolio a Kirkuk; la mossa del Puk portò Barzani a inviare altri peshmerga per mettere in sicurezza i campi a ovest di Kirkuk controllati dalle forze del Governo regionale leali al Kdp. I leader del Kdp e del Puk non sono davvero riusciti a venire a capo della politica locale e comprendere l’ordine internazionale. 

 

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Il confederalismo democratico e l’ossessione anticurda della Turchia https://ogzero.org/confederalismo-democratico/ Sun, 29 Mar 2020 15:18:02 +0000 http://ogzero.org/?p=44 Forze in campo e alleanze geopolitiche: combattenti o terroristi? Daesh ha impressionato per ampiezza dei mezzi bellici a disposizione, dai blindati ai lanciagranate: armi che ha soprattutto strappato all’esercito iracheno, allorché si è impadronito di vaste porzioni di territorio in Iraq; vi si trovavano anche raffinerie, e con i proventi della vendita del petrolio il […]

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Forze in campo e alleanze geopolitiche: combattenti o terroristi?

Daesh ha impressionato per ampiezza dei mezzi bellici a disposizione, dai blindati ai lanciagranate: armi che ha soprattutto strappato all’esercito iracheno, allorché si è impadronito di vaste porzioni di territorio in Iraq; vi si trovavano anche raffinerie, e con i proventi della vendita del petrolio il Califfato è stato in grado di foraggiare i suoi militanti, la cui entità numerica rimane incerta. Dato certo è invece il controllo esercitato da Daesh su alcune città conquistate – la siriana Raqqa e l’irachena Mosul – da quando ha avviato la sua azione militare, nel giugno 2014. 

A metà ottobre 2015, combattenti delle tribù arabe del Nord della Siria e assiro-cristiani confluiscono in un corpo combattente di nuova formazione, le Forze democratiche siriane (Sdf), in cui il ruolo prevalente fu esercitato da combattenti curdi dello Ypg. Essa riceveva, soprattutto per volontà di Francia e Stati Uniti, l’appoggio della coalizione internazionale che combatteva Daesh. Da allora a più riprese la Turchia avanzò la pretesa di colpire Sdf e Ypg, asserendo la loro contiguità con il “gruppo terroristico Pkk” e pertanto la loro rilevanza come minaccia terroristica. 

I combattenti curdi, sostenuti dalla coalizione internazionale e dimostratisi non pregiudizialmente ostili verso Russia e Iran, trassero vantaggio dall’offensiva del regime siriano per guadagnare terreno nell’area settentrionale a nord di Aleppo, a spese di fazioni ribelli spalleggiate da Arabia Saudita e Turchia. Ciò spinse la Turchia, a metà febbraio 2016, a bombardare postazioni curde oltreconfine, nonostante gli appelli di Washington e altre capitali occidentali affinché Ankara fermasse gli attacchi.

Obiettivo: il Confederalismo democratico in Rojava

Il 12 agosto 2016, Sdf liberò da Daesh la città di Manbij, a ovest dell’Eufrate. Il 24 agosto, artiglieri e aviatori delle forze armate turche, spalleggiati dall’Esl (Esercito siriano libero), avviarono in Siria l’Operazione Scudo dell’Eufrate, il cui scopo era duplice: respingere i jihadisti dalla zona di confine siro-turca (avvenne a Dabiq, poi a Jarabulus) e bloccare l’espansione dei curdi; il 28 agosto, per esempio, attacchi aerei colpiscono, mietendo 35 vittime, i villaggi Jeb el-Kussa e al-Amarneh, controllati da forze curde. Contemporaneamente il ministro degli Esteri francese Ayrault, intervistato da “Le Monde”, esortava in generale i russi a cessare i bombardamenti e a tornare a percorrere la “via politica”, al fine di risolvere il conflitto siriano. Auspicava una Siria pacificata, stabile e unitaria, che rispettasse i diritti delle proprie minoranze (menzionava espressamente cristiani e curdi). Definiva inoltre positivo un robusto inserimento della Turchia nella lotta contro Daesh e legittimava l’aspirazione turca alla sicurezza delle proprie frontiere; tuttavia metteva in guardia Ankara dall’innescare un violento ingranaggio, cedendo alla tentazione di affrontare in Siria la propria questione curda, vale a dire la lotta contro il Pkk. Ayrault rammentava che i curdi siriani combattevano efficacemente contro Daesh e che non occorreva aggiungere una dimensione anticurda ai nodi di conflittualità già esistenti in Siria.

A metà ottobre 2016 era palese la volontà degli alti gradi statunitensi di lanciare rapidamente un’offensiva su Raqqa, per impedire l’afflusso verso la città di ulteriori combattenti di Daesh reduci da Mosul. Ma la Turchia si oppose alla proposta di utilizzare in tale offensiva una forza a guida curda; taluni ufficiali occidentali sostenevano che avrebbe potuto accrescere la conflittualità interetnica in una città come Raqqa, abitata in prevalenza da genti d’origine araba, però gli Stati Uniti dubitavano che la Turchia fosse in grado di addestrare rapidamente combattenti arabi capaci di sostituire nell’offensiva i curdi, dimostratisi peraltro molto efficienti. Dal 17 ottobre era in corso l’offensiva su Mosul: la coalizione a guida statunitense garantiva alle truppe irachene sostegno con attacchi aerei, artiglieria e truppe d’élite; forze arabe sunnite erano incaricate di combattere nel centro cittadino, i curdi iracheni agivano per garantire sicurezza nell’area perimetrale attorno alla città, soprattutto a sudest. Simile fu l’approccio offensivo proposto dagli Stati Uniti per Raqqa, che richiedeva a tal fine circa 10 000 uomini. Gli ufficiali turchi preferirono attendere piuttosto che veder coinvolti nell’offensiva gli appartenenti allo Ypg. Dal canto loro, i curdi, nel negoziare la loro partecipazione all’offensiva, richiedevano sostegno politico in cambio del loro sforzo volto a creare una regione autonoma nel Nord della Siria. 

Come e chi ha liberato Raqqa

Sdf comunicò a inizio novembre 2016 l’avvio dell’Operazione Ira dell’Eufrate con la partecipazione di 30 000 combattenti e l’appoggio di 300 militari delle forze speciali statunitensi: l’obiettivo era sottrarre Raqqa al controllo di Daesh. A tal fine s’intendeva utilizzare la componente araba di Sdf, invece di quella curda, per evitare tensioni di natura etnica con la popolazione locale d’origine araba. Il capo di stato maggiore statunitense, Dunford, preferì puntare sull’Sdf invece che sull’esercito turco, visto che fino a quel momento la Turchia non aveva esitato ad attaccare Sdf per impedire il consolidamento del controllo curdo sulla zona di confine siro-turca, per quanto sapesse che godeva dell’appoggio statunitense.

Prima della guerra Raqqa annoverava circa 300 000 abitanti. Vi fu un’evacuazione negoziata della città spostando i jihadisti rimasti verso il deserto orientale siriano e la vittoria fu proclamata il 17 ottobre 2017. Nei giorni successivi Sdf provvide a ripulire il territorio dalle ultime sacche di resistenza di Daesh. Raqqa era però ridotta in larga parte in macerie ed erano seriamente danneggiate le reti idrica ed elettrica; a quanto sembra, oltre 1000 civili avevano perso la vita negli ultimi quattro mesi e 270 000 persone erano fuggite dalla città e dai villaggi circostanti, incrementando soprattutto il numero degli sfollati interni siriani. Talal Sello, portavoce di Sdf, invitava pertanto la comunità internazionale a stanziare fondi per sostenere il nascente consiglio civile chiamato a governare la città, aiutandolo nello sforzo di ricostruzione. La coalizione internazionale elogiava i combattenti, principalmente curdi, di Sdf, per tenacia e coraggio dimostrati in combattimento contro un nemico privo di principi, nonché per il loro costante sforzo per ridurre al minimo le perdite fra i civili, facendo spostare con grande cura le popolazioni, anticipatamente, da aree poi interessate da scontri armati dovuti all’avanzata. Sdf fu definita una “forza etnicamente diversificata”. In essa era effettivamente presente un consistente numero di combattenti arabi, ma nella struttura operativa prevalevano i curdi, collegati al Pkk; nei festeggiamenti del 20 ottobre, in una piazza di Raqqa in precedenza utilizzata da Daesh per decapitazioni pubbliche, i combattenti si radunarono dietro un enorme drappo raffigurante Öcalan; ciò contribuì ad alimentare timori fra gli ex abitanti di Raqqa di essere dominati al ritorno da una forza che percepivano ostile. Comunque 655 combattenti persero la vita nel corso della battaglia di Raqqa.

La trama turca

Il posizionamento internazionale di Ankara, con la preoccupazione per l’evoluzione favorevole ai curdi in Siria, si sviluppò su più fronti all’inizio del 2017, dopo l’insediamento a Washington dell’amministrazione Trump. Il 13 febbraio combattenti dell’Esl penetrarono in al-Bab, sottraendo vari quartieri al controllo di Daesh. Erdoğan annunciò personalmente tale successo parziale del gruppo ribelle siriano alleato, indicando i prossimi obiettivi di Scudo dell’Eufrate: Manbij, controllata da forze curdo-arabe, e poi Raqqa, capoluogo siriano del Daesh. Si trattava di propositi alquanto roboanti, considerando che per penetrare nella più piccola al-Bab soldati turchi e Esl avevano impiegato alcuni mesi. Poi Erdoğan si recò in Arabia Saudita. 

Ossessione anticurda: accordi con l’Arabia Saudita

Dall’inizio della Primavera araba non sono mancate divergenze di vedute con i sauditi: in Siria Ankara e Riad hanno talvolta appoggiato gruppi ribelli differenti, e le accomunava solo l’opposizione ad al-Assad e la percezione, condivisa con fastidio, d’un disimpegno statunitense dall’area mediorientale. Ankara decise di giocare più carte. Da un lato s’impegnava per una soluzione diplomatica al conflitto siriano nei colloqui di Astana patrocinati assieme a Mosca e Teheran; dall’altro faceva leva sull’ostilità saudita verso la sempre più influente presenza iraniana – in Libano, Yemen, Siria e Iraq – per avvicinare Riad e altri Paesi del Golfo che sostengono economicamente gli oppositori siriani. In tal modo riuscì a propagandare l’intenzione di creare una No-fly Zone, di circa 5000 chilometri quadrati, nei territori che con i ribelli siriani alleati aveva sottratto a Daesh; si guadagnò così il gradimento saudita: per Riad la presenza turca era un valido contrappeso a quella iraniana; per la Turchia ovviamente la No-fly Zone era da intendersi anche in chiave anticurda.

Ossessione anticurda: accordi con la Russia

Erdoğan auspicò che s’instaurasse una cooperazione militare turco-russa per compiere operazioni in Siria e pervenire alla formazione di una “zona di sicurezza” libera dalla presenza tanto di Daesh quanto dello Ypg. Putin ed Erdoğan tennero a Mosca una conferenza stampa congiunta (marzo 2017), dove Erdoğan dichiarò: «il vero obiettivo ora è Raqqa». La Turchia riteneva che lo Ypg fosse un’emanazione del Pkk e voleva escluderlo dall’operazione di Raqqa, alla quale auspicava invece di partecipare. Comunque, il 26 marzo, Sdf, fruendo ancora del sostegno statunitense, conquistò l’aeroporto militare di Tabqa, a 50 chilometri da Raqqa, controllato da Daesh dall’agosto 2014.

Il 13 novembre 2017 Putin ed Erdoğan s’incontrarono nuovamente a Soči. Si parlò dell’acquisizione del sistema di difesa antiaerea russo S-400 e del contributo di Mosca alla costruzione di una centrale nucleare ad Akkuyu, nel Sud della Turchia. Le divergenze riguardavano la Siria: Erdoğan lamentava l’intenzione del ministero degli Esteri russo di invitare esponenti del Pyd a prender parte al Congresso dei popoli della Siria, finalizzato a regolare la fase postbellica dell’ormai annoso conflitto. Il presidente turco aveva già criticato la dichiarazione russo-statunitense che riconduceva nell’ambito dei colloqui di Ginevra sotto l’egida dell’Onu la ricerca di soluzioni pacificatrici per la Siria: avrebbe preferito un prolungamento della sola conferenza di Astana per poter conservare maggiore influenza sugli sviluppi futuri nel paese; d’altro canto, non voleva polemizzare eccessivamente con Putin, al quale faticosamente era riuscito a riavvicinarsi, dopo l’aspra divergenza dovuta all’abbattimento d’un velivolo militare russo da parte turca nel novembre 2015 citato nel capitolo sui curdi in Turchia.

Ossessione anticurda: il sabotaggio turco della pace

Il 20 novembre 2017 Putin riceve a Soči al-Assad per definire la regolamentazione postbellica; una settimana dopo è prevista la ripresa dei colloqui di Ginevra. Ad Astana la Russia è riuscita a conseguire lo scopo di ridurre gli scontri armati tramite la creazione di quattro “zone di de-escalation” in territorio siriano; al-Assad intende dimostrare buona volontà, come richiesto da Putin, ma a sua volta esige qualche garanzia sulla “non ingerenza di attori esterni”.

Un paio di giorni dopo in una dichiarazione congiunta Putin, Erdoğan e Rohani invitano governo e opposizione a prendere parte a un Congresso dei Popoli impegnandosi a redigere una lista di partecipanti chiamati a elaborare una nuova Costituzione siriana e organizzare elezioni supervisionate dall’Onu. Fissata a fine gennaio, la riunione del Congresso risulterà inconcludente: nel frattempo, infatti, da un lato Turchia e Esl nel Nord, dall’altro truppe siriane con l’appoggio russo nell’area di Ghuta, a est di Damasco, ripresero l’iniziativa militare, svuotando di fatto il progetto.

Ossessione anticurda: i contrasti con gli Usa

A metà gennaio 2018 gli Stati Uniti, nell’ambito della coalizione internazionale impegnata contro Daesh, manifestarono la volontà di costituire in Siria una forza adibita alla protezione delle frontiere, che comprendesse 30 000 uomini. Con motivazioni differenti i più reagirono ostilmente. La Siria parlò d’attacco alla sovranità e all’integrità territoriale, la Russia accusò gli Stati Uniti di puntare a una suddivisione del paese e di adoperarsi per un cambio di governo; Erdoğan si irritò per il fatto che fosse prevista la confluenza in essa di membri dello Ypg: gli Stati Uniti, paese alleato di Ankara in ambito Nato, intendevano in sostanza proseguire la collaborazione con Ypg e continuare a fornirgli armi pur dopo che Daesh era stato sconfitto. Intollerabile per Ankara. 

Il Comando militare statunitense di Baghdad provò invano a sminuire la portata della nuova forza, indicando che essa avrebbe riflettuto la composizione etnica delle popolazioni dell’area in cui avrebbe operato, che l’apporto numerico di Sdf sarebbe stato solo della metà – necessario per garantire esperienza e disciplina –, che l’area da sorvegliare avrebbe incluso porzioni della valle dell’Eufrate, nonché aree di confine internazionale della Siria. La Turchia in riferimento alla costituzione della cosiddetta Forza per la Sicurezza delle Frontiere siriane negò di essere stata consultata da Washington e non poté tollerare che ciò implicasse il posizionamento pressoché costante di combattenti curdi al suo confine meridionale. Infatti erano già iniziati i colpi d’artiglieria contro le postazioni curde nell’enclave di Afrin.

Sconfinamento del conflitto: il ramoscello d’ulivo avvelenato

Sabato 20 gennaio 2018, nel pomeriggio l’attacco annunciato: aerei da combattimento turchi bombardarono postazioni nel Nord della Siria. Il bersaglio era costituito da postazioni d’osservazione dello Ypg nell’area di Afrin, come riferì l’agenzia di stampa turca “Anadolu”. Sull’attacco riferì anche l’Osservatorio siriano per i Diritti umani, che parlava di almeno dieci velivoli militari turchi implicati. La Francia richiedeva una riunione d’urgenza del Consiglio di Sicurezza dell’Onu. I prodromi risalivano a una settimana prima, quando le postazioni in territorio siriano controllate dai curdi erano state prese di mira da colpi d’artiglieria; a un raduno di suoi sostenitori, Erdoğan aveva annunciato come imminente un’operazione delle forze di sicurezza turche contro le milizie curde presenti nel Nord della Siria e lo scopo sarebbe stato di ripulire l’area di Afrin dalla presenza di forze terroristiche. 

In seguito all’offensiva, l’esercito turco sembrava intenzionato a far sloggiare lo Ypg non solo da Afrin ma anche dall’intera regione di confine siro-turca. Il 9 marzo, Erdoğan dichiarava che l’obiettivo di quel momento era Afrin, ma in seguito si sarebbe giunti a Manbij e dopo ancora si sarebbe garantito che l’intera area a est dell’Eufrate, fino al confine con l’Iraq, venisse “ripulita dai terroristi”. Il confine siro-turco a est dell’Eufrate si estendeva per circa 400 chilometri; in quel momento le truppe turche erano giunte a circa sei chilometri da Afrin e si preparavano ad assediarla. Vi penetreranno il 18 marzo.

A fine marzo 2018 Erdoğan criticò la proposta di mediazione, a suo dire “ingannevole”, proveniente dal presidente francese: la Turchia non intendeva negoziare con i “terroristi” curdi che stavano combattendo in Siria. Erdoğan accusò Macron d’intromissione nelle operazioni militari turche solo per aver ricevuto a Parigi degli esponenti di Sdf, mossa considerara da Ankara un atto ostile. Sdf era, per Erdoğan, alla stessa stregua del Pkk; d’altronde Unione europea e Stati Uniti non consideravano lo Ypg un gruppo terroristico. Agli esponenti di Sdf, Macron aveva assicurato sostegno per stabilire il dialogo con la Turchia e contribuire a stabilizzare l’area, tuttavia il proposito di dispiegare nell’area truppe francesi, asserito da esponenti della delegazione curda e riferito da giornali francesi, venne smentito dalla Francia; essa tuttavia non se la sentiva di abbandonare completamente i curdi, dopo esserne stata alleata nello sforzo bellico contro Daesh.

A metà giugno 2018, Turchia e Stati Uniti si accordarono; Ankara ottenne che le forze dello Ypg venissero allontanate da Manbij; truppe turche e statunitensi provvederanno d’ora in poi congiuntamente a pattugliamenti e ricognizioni dell’area. Lo Ypg attesta di aver concluso l’addestramento delle forze locali e d’aver pertanto avviato il ritiro da Manbij; tuttavia è ovvio che tale ritiro avviene dopo che lo Ypg ha ricevuto comunicazione da Washington dell’accordo turco-statunitense.

La Turchia continua a muoversi a tutto campo, al fine di non perdere la posizione finora acquisita sul fronte siriano allorché si tratterà di agire per instaurare sforzi multilaterali finalizzati a porre fine al conflitto in Siria. Punta a salvaguardare i gruppi ribelli moderati, che ha finora sostenuto e che sono ormai concentrati a Idlib e dintorni. A metà settembre, per evitare che fossero attaccati da truppe di al-Assad , si è accordata con la Russia a Soči per l’istituzione nella provincia di Idlib di una zona demilitarizzata, in vista della restituzione della zona stessa al controllo di Damasco. Ankara ha istituito molteplici postazioni d’osservazione nell’area, per supervisionare l’allontanamento degli armamenti pesanti dalla zona. Tuttavia permane l’obiettivo di arginare il consolidamento curdo nel Nord. A tal fine, a Soči la Turchia ha proposto che parte dei ribelli siano reinseriti nelle forze di sicurezza siriane e parte siano adoperati per contrastare un eventuale ritorno di forze curde nell’area di Afrin, a nord di Idlib. Nell’altra zona da cui i curdi sono stati allontanati, Manbij, la Turchia porta avanti l’impegno preso con gli Stati Uniti: sta infatti provvedendo ad addestrare truppe da adibire al pattugliamento congiunto turco-statunitense. Ciò potrebbe parzialmente consentire di lenire i dissapori recenti di Erdoğan con l’amministrazione Trump. Quest’ultima mantiene a sua volta un po’ di ambivalenza: continua ad avvalersi – nell’ambito della coalizione internazionale volta a estromettere il gruppo Stato Islamico dal territorio siriano – delle forze curde e arabe di Sdf: in particolare nell’assalto in corso all’ultimo baluardo di Daesh, Hajin, nelle vicinanze del confine siro-iracheno. Lo sforzo turco consta anche di una continua proposizione, e procrastinazione, di incontri ad alto livello fra Russia, Turchia, Francia e Germania: lo scopo è coinvolgere i governi di Parigi e Berlino, sul piano economico, nella ricostruzione postbellica siriana. Del resto né la Turchia di Erdoğan né la Russia di Putin sono in grado di provvedervi da sé in assenza di aiuti finanziari. 

Frags tratti da Curdi, a cura di Antonella De Biasi, con i contributi di Giovanni Caputo, Kamal Chomani e Nicola Pedde, Torino, Rosenberg & Sellier, 2018, disponibile in libreria e su tutte le maggiori piattaforme online.

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Rivalità e sangue tra etnie curde nella politica irachena https://ogzero.org/etnie-curde-in-iraq/ Sun, 29 Mar 2020 15:13:26 +0000 http://ogzero.org/?p=42 Totalitarismo, democrazia e federalismo  In seguito alla Prima guerra mondiale, il colonialismo britannico istituì lo stato dell’Iraq, riunendo – anche con la forza – tutte le componenti della regione. Da allora il popolo curdo iracheno, stanziato principalmente nella parte settentrionale del paese, nei governatorati di Dahuk, Erbil, Kirkuk e Sulaymaniyya, e tra Mosul, Salah-al-Din, Diyala e Baghdad, lotta per salvaguardare […]

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Totalitarismo, democrazia e federalismo 

In seguito alla Prima guerra mondiale, il colonialismo britannico istituì lo stato dell’Iraq, riunendo – anche con la forza – tutte le componenti della regione. Da allora il popolo curdo iracheno, stanziato principalmente nella parte settentrionale del paese, nei governatorati di Dahuk, Erbil, Kirkuk e Sulaymaniyya, e tra Mosul, Salah-al-Din, Diyala e Baghdad, lotta per salvaguardare i propri diritti politici e culturali. Negli anni Venti fu stroncato il primo tentativo guidato dallo sceicco Mahmoud Hafid di istituire uno stato curdo a Sulaymaniyya e da allora il movimento di liberazione curdo continua a opporre una strenua resistenza contro i governi iracheni susseguitisi nel tempo.

I partiti curdi in Iraq hanno impugnato le armi nella lotta politica in diverse fasi della loro storia, ma i governi iracheni hanno sempre operato con pugno di ferro e repressione. Le atrocità da loro perpetrate raggiunsero un picco nel 1988 quando il dittatore Saddam Hussein utilizzò le armi chimiche e promosse la campagna Anfal (cioè un genocidio che approfondiremo più avanti) dalla metà alla fine degli anni Ottanta. I giorni migliori per i curdi iracheni furono quelli annoverati dal resto della popolazione irachena come i peggiori, quando cioè la coalizione guidata dagli Stati Uniti invase il paese nel 2003.

Sebbene negli anni successivi la violenza dilagasse a più livelli, per la prima volta l’Iraq sceglieva la strada della democrazia con l’elezione nel 2005 di un nuovo parlamento seguito dalla stesura della prima Costituzione democratica della storia del paese che riguardava tutte le genti irachene, compresa la nazione curda.

Oltre alla nascita della democrazia, un altro passo importante fu il riconoscimento della regione curda come regione federale irachena anche se la leadership curda non riuscì a praticare politiche utili al popolo iracheno e al Kurdistan. Questo processo portò anche alla costituzione di una élite politica totalitaria e corrotta non così dissimile dagli oppressori curdi del passato. Nel settembre 2017, in seguito alla sconfitta dello Stato Islamico in Iraq e Siria, il presidente curdo Barzani impose prematuramente un referendum ai curdi che portò a un ulteriore deterioramento dei rapporti con Baghdad, distruggendo il sogno indipendentista. 

Tribalismi e nazionalismi a confronto 

Con l’Accordo Sykes-Picot il 16 maggio 1916 l’Iraq finì sotto il mandato britannico; fino all’indipendenza dell’Iraq nell’ottobre 1932, il popolo guidato dal re del Kurdistan – lo sceicco Mahmud Hafid – ingaggiò una guerra sanguinosa contro il governo inglese lottando per la propria indipendenza, ma senza successo, nonostante una strenua resistenza politica e armata. Nel marzo 1931, il leader curdo Mahmud Hafid inviò una dura lettera al capo della Lega delle Nazioni a Parigi, in cui denunciava chiaramente l’annessione del Kurdistan meridionale allo stato iracheno come Regione curda dell’Iraq del Nord.

Quando nel 1932 l’Iraq divenne una nazione indipendente i curdi non ebbero altra scelta – dato il fallimento delle ulteriori rivolte – che accettare la nuova situazione. Mullah Mustafa Barzani, fondò il Partito democratico del Kurdistan (Kdp) nel 1946 ispirandosi al Partito democratico del Kurdistan iraniano (Kdpi). Il Movimento di liberazione curdo si rafforzò durante la monarchia, ampiamente influenzato dal Partito comunista (1934) e dallo stesso Kdp, che aveva controllato la politica curda fino ad allora, e i suoi attivisti riuscirono a mobilitare i contadini per ottenere maggiori diritti democratici. La monarchia fu rovesciata dal colpo di stato di Abd al-Karim Qasim nel 1958 e il popolo curdo lo sostenne; allora Mustafa Barzani tornò dalla Russia, paese che ospitava numerosi profughi dopo il collasso nel 1946 di quella Repubblica di Mahabad in Iran, di cui si è fatto cenno nell’Introduzione di questo libro. Sebbene in un primo tempo i rapporti tra i curdi e Qasim fossero buoni, dopo tre anni scoppiò la rivoluzione. Molti storici attribuiscono a entrambe le parti la colpa del deterioramento dei rapporti a scapito di una collaborazione per il bene dell’Iraq. 

Con il dipanarsi della storia che ha forgiato il nazionalismo e le politiche fino ai giorni nostri la società curda è stata divisa in vari clan e tribù, controllati e strumentalizzati con facilità dai nemici dei curdi chiamati a difenderli dalle tribù rivali, aiuto spesso offerto dai regimi iracheni stessi.

Una delle ragioni principali della fine della luna di miele tra Mullah Mustafa Barzani e Abd al-Karim Qasim fu una questione tribale: quest’ultimo aveva rapporti distesi con le tribù Hark e Zibâri che si opponevano al clan Barzani, così Mullah Mustafa Barzani pensò che Qasim volesse usare i suoi rivali per ridurre il suo potere nel Nord. L’ex presidente iracheno e segretario generale del Puk Jalal Talabani, coprotagonista in quei giorni, scrive nelle sue memorie pubblicate nel 2017 che «il crollo delle relazioni tra Barzani e Qasim cominciò quando Ahmed Agha Zibâri (leader di quella tribù) che era un violento, aveva ucciso molti dei Barzani iniquamente» e aggiunge: «Mullah Mustafa Barzani aveva mandato alcuni della sua cerchia per ucciderlo». In seguito Qasim cercò di trascinare in giudizio gli assassini e Barzani respinse quella soluzione; in risposta Qasim armò la tribù Zibâri. Questa mossa fu considerata da Barzani ostile alla sua tribù e al suo potere in Iraq, in particolare nel Nord. 

Da allora le rivalità e il sangue versato tra tribù e clan curdi hanno certo agevolato i regimi iracheni nell’intento di rintuzzare le rivoluzioni curde. E allo stesso tempo alcune tribù e clan, insieme ai loro leader, sono stati la colonna vertebrale delle rivoluzioni contro i regimi iracheni.

Prima di stabilire un nuovo stato-nazione in Iraq, i curdi accumularono potere attraverso gli emiri locali affiliati all’Impero Ottomano, mantenendo il controllo delle amministrazioni locali, battendo moneta e predicando in qualità di emiri curdi e non come sultani ottomani. Il nuovo stato iracheno insomma non riuscì a portare i curdi totalmente sotto il suo controllo, così come non riuscì a creare un’identità nazionale in grado di raccogliere tutte le componenti regionali oltre al comune sciovinismo nazionalista arabo. Infatti nel Congresso fondativo del Partito baathista del 1947, lo statuto chiaramente affermava: «Il partito nazionalista crede che il nazionalismo sia una inconfutabile verità». E fu così che in Iraq nacque il nazionalismo curdo, in opposizione a quello arabo.

La spartizione del potere 

Dal 1932 al 1946 proliferarono svariati partiti nonché figure-chiave politiche che guidarono la rinascita nazionalista e intellettuale, come Ibrahim Ahmed, Rafiq Hilmi e Ala al-Din Sajadi. 

Tutto ciò lasciò un segno politico e intellettuale sulla popolazione, nonostante la nascita del Kdp di Mustafa Barzani avesse messo tutti gli altri partiti un po’ in ombra. Sebbene l’attuale leader, Masoud Barzani, figlio di Mullah Mustafa, abbia portato i curdi al referendum sull’indipendenza del Kurdistan iracheno tenutosi il 25 settembre 2017, il Kdp richiedeva in realtà l’autonomia all’interno dei confini nazionali iracheni fin dall’inizio del 1992, quando il parlamento curdo si batteva per la costituzione di una Federazione della regione curda dell’Iraq (Kri). Allo stesso tempo, il Kdp non si è mai pronunciato sul diritto all’autodeterminazione fino al 2010, al contrario dell’Unione patriottica del Kurdistan iracheno (Puk) guidata da Jalal Talabani che insisteva su questo punto fin dal 1975.

Si noti come il Kdp sia diventato un movimento popolare che riuniva le più importanti tribù e capitribù, così come gli intellettuali curdi e gli studiosi islamici e, a differenza di altri partiti, riuscì nell’intento di costruire relazioni paradiplomatiche con più di una nazione. Oltre al forte legame con lo scià iraniano, ebbe rapporti con gli Stati Uniti, Israele e la Russia. Quando il legame con la Repubblica irachena si deteriorò il Kdp guidò l’Aylul (la Rivoluzione di Settembre). Nonostante la guerra la rivolta curda si espandeva sempre più: il leader del Kdp Mustafa Barzani era in contrasto con l’Ufficio politico guidato da Ibrahim Ahmed e da Jalal Talabani, e questo portò a una scissione nel 1964, quando Talabani fece ritorno a Baghdad. L’ala fedele all’Ufficio politico accusò Mullah Mustafa Barzani di essere “tribale e conservatore”, mentre i politici curdi dell’epoca erano impregnati di marxismo. Il Kdp fallì, persino la retorica nazionalista curda non era così efficace perché il suo leader non capiva la reale portata intellettuale e ideologica dell’opposizione al regime iracheno. Mentre la rivoluzione curda si rafforzava, lo stato iracheno si indeboliva a causa di due consecutivi colpi di stato dei baathisti nel 1963 e 1968, che li portarono al potere.

Voltafaccia baathisti e iraniani

I baathisti al potere avevano bisogno di rafforzare la loro presa; annunciarono così in prima battuta riforme economiche radicali in Iraq, nazionalizzarono il settore petrolifero e abbracciarono la causa dei diritti del popolo curdo. Tale apertura portò a un’intesa storica l’11 marzo 1970 tra il governo iracheno e il movimento rivoluzionario curdo di Aylul in cui per la prima volta l’identità curda veniva riconosciuta come partner politico in Iraq. I curdi guadagnarono il diritto all’autonomia e si istituirono delle amministrazioni locali curde nei governatorati di Erbil, Sulaymaniyya e Dahuk, mentre Kirkuk rimase una questione in sospeso. 

Una volta che i baathisti si stabilirono al potere, però, iniziarono a fare un passo indietro rispetto agli accordi presi, avvicinandosi al regime dello scià di Persia per trovare un compromesso su alcune zone dello Shat al-Arab in cambio della sospensione del sostegno iraniano alla rivoluzione curda. Nel frattempo, anche gli Stati Uniti non avevano mantenuto la promessa di sostenere il popolo curdo e la più grande rivoluzione curda era fallita per un complotto a livello regionale. Anche se Mullah Mustafa aveva un cospicuo esercito di peshmerga e godeva del sostegno di gran parte della società, era preoccupato delle mosse dello scià di Persia: fermò quindi la rivoluzione e non permise che altri la rinfocolassero e vietò agli altri leader curdi di proseguirla. 

Il governo iracheno di allora, agli inizi degli anni Settanta, complottò contro la rivoluzione curda dopo pochi anni di pace e prosperità nella regione del Kurdistan e in Iraq. Nel 1973 i rapporti curdo-iracheni stavano prendendo un’altra strada quando il regime baathista annunciò un fronte comune con il Partito comunista, più che altro per avversione nei confronti del Kdp. Quindi nel 1974 riprese la guerra tra il governo iracheno e i rivoluzionari curdi e questi ultimi capitolarono nel momento in cui l’Iraq strinse un’intesa con lo scià di Persia, il 6 marzo 1975, nota come gli Accordi di Algeri, con il supporto dell’Occidente, dell’Oriente e degli Stati Uniti. A Baghdad erano ormai rimasti pochi partiti minori senza una base forte all’interno della società curda; erano piuttosto considerati utili al regime iracheno per distruggere il movimento rivoluzionario curdo. 

In seguito alla fine della Rivoluzione di Mullah Mustafa, apparvero sulla scena molti partiti politici e movimenti armati curdi in opposizione al governo. Fino al 1975, il Kdp e Mullah Mustafa Barzani avevano controllato il panorama politico curdo, eppure in quel periodo riuscirono a emergere alcuni importanti partiti e leader che lui riuscì però sempre a marginalizzare rendendo il partito praticamente privo di opposizione. 

Quando Barzani intraprese una campagna militare contro Qasim la maggioranza delle tribù lo sostenne, così raccolse l’appoggio dei clan Balakayati e Pizhdar (utili perché più vicini all’Iran), ma all’interno della Rivoluzione, i capi delle tribù e dei clan erano in disaccordo sul potere e capitò che venissero eliminati attraverso veri e propri eccidi, come nel caso di Hamad Aghay Mergasori e dei suoi figli: i peshmerga più coraggiosi della Rivoluzione Aylul degli anni Sessanta furono uccisi da Barzani, timoroso che volessero prendere il controllo del partito.

I vari regimi iracheni cominciarono ad arruolare tribù e clan in funzione controrivoluzionaria, iniziando da quelli che avevano buone relazioni con Baghdad, in particolare nella zona di Dahuk. All’interno delle tribù e dei clan c’erano sempre state divisioni tra chi aveva sostenuto la rivoluzione e chi l’aveva avversata.

Tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta il regime di Saddam Hussein reclutò molte fragili tribù e clan curdi che controllava fomentando controversie tra di loro in modo che ricorressero all’appoggio del governo. Uno dei motivi per cui così tanti clan e tribù curdi si univano facilmente alle truppe irachene derivava dal fatto che il regime aveva drenato tutte le loro risorse per vivere. Il regime di Saddam aveva distrutto i villaggi e deportato i capitribù in riserve dove migliaia di persone non avevano lavoro. Saddam adottò questa raffinata strategia con l’intento innanzitutto di diminuire la forza dell’opposizione curda e in secondo luogo per fare sì che queste genti rimanessero leali al suo governo evitando di unirsi agli insorti.

Fine dello spirito di Aylul: la fenice curda risorge divisa

L’era successiva al Mullah Mustafa Barzani aprì le porte alla società curda e ai politici di diverse provenienze e ideologie. Nonostante la divisione dei partiti armati abbia portato a una lotta interna fratricida detta birakuji (“guerra civile”), tale diversità portò varie correnti nella politica e nel Movimento di liberazione curdo, dal maoismo all’islamismo.

Il più potente partito fondato da un gruppo di rivoluzionari curdi dentro e fuori dal paese dopo la Rivoluzione Aylul, avversario di Barzani, fu l’Unione patriottica del Kurdistan (Puk), guidato a Damasco dal futuro presidente iracheno Jalal Talabani. Una coalizione di marxisti-leninisti, maoisti e nazionalisti si riunirono con l’impegno preciso di combattere il regime baathista in Iraq e di sfidare l’arretratezza del tribalismo curdo, creando una società curda, socialista e democratica. Il nome specificava l’obiettivo “del diritto all’autodeterminazione del Kurdistan”, un’eredità del Movimento di liberazione curdo, che non intendeva chiedere solo l’autonomia per quella regione. Il Puk modificò anche la retorica del partito poiché si rivolse alla classe lavoratrice ispirandosi allo slogan marxista che invitava i lavoratori e gli oppressi a unirsi. La leadership di partito era giovane e proveniva da vari strati della società, anche con un alto grado di istruzione. Talabani era un leader pragmatico capace di tenere insieme i rivoluzionari più conservatori e i progressisti. Il Puk aveva principalmente tre anime: il Partito dei lavoratori del Kurdistan (Kzp), un gruppo marxista-leninista attivo fin dagli inizi degli anni Settanta; la Linea generale, l’ala che riuniva alcuni capitribù e i conservatori; e il Movimento socialista del Kurdistan. 

Ispirato al maoismo, il Puk era il partito ideologico per tutti, nonché una forza armata notevole, ma adeguò la sua ideologia nel tempo, assecondando le varie potenze internazionali, e da antimperialista e antisionista alla fine degli anni Ottanta si avvicinò alle forze statunitensi.

In seguito alla nascita del Puk (anti-Kdp e anti-Barzani, considerati entrambi “traditori e conservatori”), il Kdp – i cui seguaci erano stati espulsi in Iran e i cui leader, come Barzani, erano rifugiati negli Stati Uniti o in Europa – si riorganizzò nella speranza di costituire un’opposizione. Alcuni membri annunciarono in un incontro tenutosi a Berlino una leadership pro tempore di Serkrdayeti Kati o Qiyada Muwaqata durante la diaspora. 

Presto iniziarono i contrasti tra la leadership pro tempore e il Puk, come proseguimento della rivalità tra il fronte di Talabani/Ahmed e quello di Mullah Mustafa Barzani, un conflitto noto in curdo come Jalali-Mullahi, e presente ancora oggi. Fino al fallimento della Rivoluzione Aylul, la politica interna curda e le rivalità non furono mai violente e con il partito più forte, il Kdp, che deteneva il controllo della politica curda e del Movimento di liberazione curdo, sarebbe stato facile spegnere ogni dissenso. Comunque sia Kdp che Puk, come anche altri partiti, istituirono una propria forza armata e la politica interna curda si trasformò in una cruenta guerra civile costellata persino da massacri. Molti partiti curdi si frammentarono a causa delle interferenze da parte dei governi regionali e di quello centrale iracheno. Il primo scontro armato tra il Puk e il Kdp accadde nel 1978 a Hakkâridove alcuni leader del Puk persero la vita. Molti membri di questo partito furono uccisi durante gli scontri e nonostante il Kdp godesse del sostegno iraniano e il Puk di quello del regime di Hafiz al-Assad, il Puk non fu capace di trarne profitto a causa di questioni di confine. La forza del Puk infatti era concentrata sulle aree di confine con l’Iran a Sulaymaniyya e a nordest di Erbil, cosa che aveva reso difficile far giungere le armi dalla Siria. In quel periodo il Puk subì una spaccatura che si rivelò un vero disastro per il partito, anche se questo non bastò a indebolirlo. All’inizio degli anni Ottanta il Puk considerava impossibile una negoziazione con il regime per risolvere la questione curda in Iraq, ma in seguito ammorbidì la propria posizione e accettò di trattare un accordo in cambio dell’autonomia nella Kri. Il regime di Saddam si era indebolito a causa della guerra Iran-Iraq e, auspicando una tregua, invocò la pace con i curdi. I negoziati partirono ma furono di poco conto. La guerra tra il Puk e il regime iracheno questa volta risultò più sanguinaria: dopo un anno dall’interruzione dei negoziati, l’Iran era sempre più addentro alla questione curda ed era riuscito a portare tutti i partiti sotto l’ombrello del Fronte del Kurdistan (7 maggio 1988). Il Puk era il partito più potente tra gli otto del Fronte. 

Le tribù curde si erano suddivise tra Kdp e Puk ed erano state distribuite posizioni di potere e ad alto livello all’interno del partito e del governo; l’organizzazione in forma di partito era funzionale alla gestione delle questioni sociali e tribali e proprio per questo i due partiti sono sempre stati più forti degli organi giurisdizionali.

Talvolta i capitribù che avevano rifiutato il completo appoggio a un partito politico ne hanno pagato le estreme conseguenze: i partiti hanno sempre usato la retorica nazionalista per accusare qualche rivale di tradimento e giustificarne così l’esecuzione. Durante la guerra civile nel 1996 Masoud Barzani (del Kdp) accusò Hussein Agha Surchi, leader della tribù Surchi, di collaborare con Saddam e con il Puk; questa accusa emerse quando Barzani temette il rafforzamento del rivale. Alla fine, nel 1996, un manipolo del Kdp attaccò la sua casa uccidendo lui e parecchi suoi uomini. Questo spinse gli altri superstiti leader tribali e centinaia di Surchi a sostenere il Puk nella lotta contro il Kdp.

Il bottino del ladro di Baghdad: l’operazione Anfal di Saddam

Alla fine degli anni Settanta, i gruppi rivoluzionari curdi si erano riorganizzati. Il Puk, il Partito socialdemocratico, il Partito comunista, e diversi gruppi minori si unirono nella resistenza contro il regime iracheno che in risposta deportò popolazioni dalle montagne, distruggendo quasi 4000 villaggi che fornivano appoggio logistico, cibo, intelligence e braccia per la rivoluzione. Interruppe i collegamenti e bombardò le strade che portavano ai villaggi nella speranza di ostacolare la lotta armata. Durante la guerra Iran-Iraq il Kdp si avvicinò al regime iraniano, mossa che portò al coinvolgimento curdo nel conflitto. Nel 1983, il Kdp aiutò l’esercito iraniano a guadagnare terreno nella parte settentrionale dell’Iraq a Haji Omaran, dove l’Iraq aveva contrattaccato in modo disumano massacrando oltre 4000 persone della tribù Barzani, gente innocente che viveva nei campi di concentramento (fonti ufficiali curde parlano di 8000 vittime), deportata lì dai villaggi al tempo della resistenza e della rivolta, nella speranza di sterminarli. Questo massacro segnò l’inizio di una serie di stermini noto come Anfal (il bottino). Sebbene il Partito baath iracheno non fosse di matrice islamica, egli utilizzò il nome di un versetto del Corano noto come Anfal per giustificare i suoi crimini e il clima di terrore e per ingannare il mondo arabo e musulmano facendo credere che i curdi sostenessero gli sciiti iraniani. 

Nello sforzo sistematico di annientare la resistenza curda alla metà e alla fine degli anni Ottanta, il regime iracheno sotto la guida diretta di Ali Hassan al-Majid, noto come Ali il ‘Chimico’ in Kurdistan, dal 1987 al 1989 utilizzò tutti i mezzi possibili per terrorizzare e distruggere la resistenza curda e massacrò oltre 50 000 (fonti curde ufficiali dicono addirittura 182 000) uomini, donne e bambini innocenti, a Garmiyan. Vale la pena ricordare che i partiti curdi avrebbero dovuto evitare ogni coinvolgimento diretto con le forze iraniane perché sapevano per esperienza cosa Saddam sarebbe stato capace di fare, cioè massacrare anche i civili. Saddam Hussein avrebbe giustificato l’ostilità curda come un atto di lesa maestà. I partiti curdi avevano già sperimentato l’ostilità del regime, almeno avrebbero dovuto imparare la lezione o quantomeno tenere segreta la collaborazione. 

I crimini iracheni raggiunsero l’apice quando il 16 marzo 1988 fu attaccata la città di Halabja sul confine Iran-Iraq nella provincia di Sulaymaniyya. L’Iran avanzava sulla città con l’aiuto dei peshmerga curdi, per tutta risposta il regime iracheno commise il crimine più barbaro e orrido della storia dell’Iraq quando Ali Hassan al-Majid, d’accordo con Saddam Hussein, ordinò l’utilizzo di armi chimiche per avvelenare la gente di Halabja. In una sola ora 5000 uomini, donne e bambini innocenti morirono soffocati, lasciati soli nella città rasa al suolo; la maggior parte della popolazione dovette fuggire altrove nel paese o trovare rifugio in Iran, dove si dispersero molti bambini, alcuni dei quali, dopo essere stati adottati da famiglie iraniane, tornarono nella regione del Kurdistan. L’impatto dei gas velenosi sull’ambiente di Halabja è ancora presente oggi. 

Dopo la campagna Anfal, i rivoluzionari curdi vissero tempi bui perché la maggior parte dei villaggi fu distrutta e gran parte dei peshmerga furono uccisi o feriti; la guerra Iran-Iraq era finita dando al regime iracheno l’opportunità di affrontare i curdi in modo molto più efficace che se si fosse trattato di uno scontro esclusivamente tra i curdi e il raìs di Baghdad. 

Bagatelle per un genocidio: collaborazionismo Jash

I colpevoli dei bombardamenti chimici della campagna Anfal e di Halabja furono condotti davanti alle corti internazionali quando nel 2003 cadde il regime iracheno: alcuni criminali vennero protetti dal Kdp e dal Puk, altri scapparono all’estero. Gli eventi di Halabja e l’operazione Anfal sono stati riconosciuti come atti di genocidio dal Parlamento iracheno e dall’Alta Corte Penale irachena nel 2007. Il governo non aveva risarcito le vittime, né aveva porto le sue scuse ufficialmente. Nel frattempo i curdi avviarono una campagna internazionale per vedere riconosciuti i crimini del regime precedente come atti di genocidio che potenzialmente potevano incontrare la condanna di paesi come la Svezia, il Regno Unito, la Norvegia, la Corea del Sud e il Canada. Nel 2007 l’Alta Corte Penale ordinò indagini su 423 curdi e arabi iracheni ex baathisti sospettati di coinvolgimento nel genocidio dell’Anfal

Uno degli aspetti più tristi di questa campagna furono i baathisti curdi noti come la milizia Jash, traditori e mustashar (consulenti) collaborazionisti dell’esercito iracheno durante il genocidio. I capitribù curdi che collaboravano con le truppe irachene erano considerati traditori agli occhi dei rivoluzionari. Nonostante tutto, quando alla fine degli anni Ottanta si costituì il Fronte del Kurdistan, venne emanata un’amnistia per i leader e i membri della Jash nella speranza che appoggiassero l’insurrezione pianificata. Quando nel 1991 partì la rivolta, molti dei capi della Jash – cui era già stata concessa un’amnistia – voltarono le spalle al regime di Saddam Hussein, combattendo l’esercito iracheno e sostenendo i peshmerga, rivelandosi uno dei motivi del suo successo. Per quanto questa fosse una mossa vincente per i rivoltosi, presto i capi Jash ottennero nuove cariche e privilegi nei partiti curdi, soprattutto nel Kdp.

L’Alta Corte Penale processò i principali imputati dell’Anfal, Ali Hassan al-Majid fu impiccato nel gennaio 2010. L’ex comandante iracheno Sultan Hashim, uno dei principali comandanti della campagna che aveva persino dato il nome Anfal a sua figlia, fu condannato ma non giustiziato perché difeso dai sunniti: è in prigione, ma l’ex portavoce parlamentare iracheno Salim al-Juburi, che è un sunnita, ha provato a farlo rilasciare per anni, senza per ora riuscirci. 

Nel 2010, l’Alta Corte Penale emise dei mandati di cattura per 258 curdi membri del Partito baath per il loro coinvolgimento nell’infame campagna negli anni Ottanta, ma nessuno è stato ancora arrestato, a causa del sostegno tribale di cui Kdp e Puk possono beneficiare.

Alcuni dei capitribù collaborazionisti durante il genocidio erano rimasti a Baghdad fino al 2003. Alla caduta del regime si sono uniti al Kdp o al Puk. La lotta per il potere spinse i due partiti ad accogliere chiunque.

Per quanto i capitribù stessero perdendo poco per volta il loro potere dato che la nuova generazione e i nuovi movimenti civili e democratici cercavano di superare le politiche tribali, alle elezioni il Kdp e il Puk decisero di presentare figure tribali, in modo che le tribù si sarebbero schierate a sostegno dei loro candidati. Il Kdp ha ottenuto un largo successo nella tornata elettorale del 2013 a Dahuk, dove il partito elesse molte figure tribali perché i clan locali li sostennero.

Guerra e pace dopo Anfal…

Alcuni rivoluzionari curdi però non si scoraggiarono e proseguirono la loro attività: in quei giorni il Puk appariva come il partito più potente. Talabani era all’estero a fare proseliti per la causa curda in seguito al genocidio di Halabja e Nawshirwan Mustafa, all’epoca segretario dell’ala marxista e numero due del partito, riuscì a riorganizzare le forze peshmerga. Talabani fu molto efficace durante la sua permanenza negli Stati Uniti, soprattutto nell’incontro con gli ufficiali americani a Washington, fautori del peggioramento dei rapporti tra Usa e Iraq, durante il quale si stabilì un collegamento iniziale tra Puk e Stati Uniti. Kosrat Rasul, segretario generale del Puk giocò un ruolo fondamentale nella riorganizzazione dei peshmerga nella zona di Erbil. Inoltre il Kdp era meno presente nelle zone di confine e cercava anch’esso di riorganizzarsi attraverso il suo decimo Congresso in Iran in cui erano presenti oltre 300 membri del partito. 

… e di nuovo guerra: la rivolta che unisce. Kurdayetî

Il fallimento del Partito baath iracheno nella guerra Iran-Iraq spinse il regime a dichiarare una nuova guerra contro un vicino solo due anni più tardi: il Kuwait. Il paese fu invaso durante un’operazione di due giorni nell’agosto 1990 che portò a cambiamenti radicali nelle dinamiche della politica irachena: molte furono le sommosse nelle città del Sud a maggioranza sciita. E anche nella Kri, nel Nord dell’Iraq la popolazione iniziò a sollevarsi. Dapprima le sommosse erano architettate dal fronte curdo, in particolare dal Puk, sotto la guida di Nawshirwan Mustafa.

La rivolta scoppiò nel marzo 1991 nella città di Ranya per poi espandersi a Sulaymaniyya, Erbil, Dahuk e Kirkuk, fu uno dei maggiori successi del movimento Kurdayetî, e mostrò aspetti nascosti nel nazionalismo curdo quando il suo successo decretò l’inizio della sua fine: si trattava infatti di un movimento di liberazione e non di libertà, liberazione della terra e non libertà dell’uomo. Inoltre, il Kurdayetî era un movimento di lotta e resistenza, non prevedeva modalità alternative e fallì nel tentativo di portare un modello di vita e di governo diversi rispetto a quelli esistenti. Il Puk aveva promesso di «ricostruire e guidare la società curda secondo linee moderne e democratiche», ma aveva fallito. Inoltre, il Kdp non era mai andato oltre la sua struttura tribale. 

I curdi riuscirono a liberare quasi tutti i loro territori, ma presto furono cacciati da Kirkuk e si verificarono scontri feroci tra i pershmerga e l’esercito iracheno. Il 31 marzo 1991, l’esodo curdo verso i confini iraniani e turchi portò nelle zone limitrofe centinaia di migliaia di curdi terrorizzati dalla possibilità che il regime utilizzasse armi chimiche. Le vite di centinaia di migliaia di curdi erano in pericolo mortale, le strade bloccate, intere famiglie alla fame non avevano più acqua potabile e medicine e i neonati morivano di stenti, il freddo e la pioggia mettevano in pericolo la vita degli anziani nelle zone di montagna, molti perdevano la vita tornando verso i villaggi sui terreni minati e ci si poteva imbattere in cadaveri lungo le strade ai confini iraniani o turchi o in bambini sperduti di cui nessuno poteva prendersi cura. 

La rivolta curda del 5 marzo e l’esodo di massa, noto come Korraw, riunì il popolo e i partiti già furiosi per il sanguinoso antagonismo seguito al fallimento della Rivoluzione Aylul. 

Risoluzione Onu 688. La No-fly Zone

Per la prima volta, le Nazioni Unite presero una decisione importante in favore dei curdi iracheni: la Risoluzione 688 del Consiglio di Sicurezza dell’Onu. Grazie alla comunità internazionale che reagì all’esodo di massa fornendo una No-fly Zone per proteggere i profughi dall’ostilità del regime iracheno istigata dagli Stati Uniti, l’Inghilterra e la Francia (quest’ultima si ritirò nel 1998) assicurarono il controllo curdo su tre province: Dahuk, Erbil e Sulaymaniyya. La Risoluzione 688 fu adottata su richiesta di Francia, Iran e Turchia per mettere fine alla repressione nel Kurdistan iracheno e la No-fly Zone diventò operativa perché Saddam Hussein non si attenne mai alle indicazioni dell’Onu. 

La Risoluzione fu una delle più importanti a influenzare il futuro dei curdi in Iraq e portò alla No-fly Zone, anche se nel programma non se ne faceva menzione esplicita: «Si condanna la repressione della popolazione civile curda in molte zone dell’Iraq, comprese molte aree popolate recentemente dai curdi, con conseguente minaccia della pace e della sicurezza internazionale nella regione» e «si richiede al Segretario generale di perseguire sforzi umanitari in Iraq per agire prontamente – in caso si ritenga appropriato, con una ulteriore missione nella regione – sulla questione che riguarda la popolazione civile irachena, in particolare quella curda, che subisce repressione in tutte le sue forme da parte delle autorità irachene»; e inoltre: «Si richiede all’Iraq, come contributo per rimuovere la minaccia alla pace internazionale e alla sicurezza della regione, di porre fine immediatamente alla repressione, e allo stesso tempo si auspica una ripresa del dialogo per assicurare che i diritti umani e politici dei cittadini iracheni siano rispettati».

Nuove speranze per il nuovo Kurdistan 

Dopo la Risoluzione dell’Onu e l’istituzione della No-fly Zone, il nazionalismo e la politica curda entrarono in una fase in cui le speranze per un nuovo Kurdistan e una nuova società arrivarono al culmine. Dato che i curdi per la prima volta godevano di una parentesi di pace gli intellettuali iniziarono a tenere seminari e convegni in cui si discuteva di democrazia e la società civile si organizzò. Celebrazioni e festeggiamenti si tenevano ovunque così come discussioni e dibattiti sul futuro della Regione del Kurdistan. I media curdi iniziarono a spuntare come funghi; si tenevano marce e dimostrazioni a sostegno dei partiti politici, e si organizzavano scioperi e proteste. Gruppi di lavoratori, contadini, studenti e intellettuali iniziarono a strutturare la società civile, dando vita a comuni in cui si risolvevano questioni sociali, politiche ed economiche, comprese quelle relative alla sicurezza. Fondi della comunità internazionale giungevano nella regione, migliaia di persone deportate alla fine degli anni Settanta e a metà degli Ottanta ritornarono nelle proprie terre d’origine. Migliaia di villaggi furono ricostruiti e la gente tornò a coltivare nelle zone in cui era proibito da anni. Molta gente che si era rifugiata in Iran dopo il fallimento della Rivoluzione Aylul tornò nella Kri. Insegnanti volontari aprirono scuole e per la prima volta quasi tutti gli istituti tornarono a insegnare ai bambini in lingua curda. Riaprì l’università di Salahaddin. Grazie a un movimento senza precedenti furono fondate le università di Sulaymaniyya e Dahuk. Poco dopo il successo della Rivolta, nella Regione del Kurdistan per la prima volta si tennero delle elezioni e – anche se con qualche limite – queste portarono alla fondazione del primo parlamento e governo del Kurdistan. Questi momenti pieni di speranza vennero presto scippati dal Kdp e dal Puk quando iniziarono a fare razzia dei progetti del vecchio regime, come accadde per la diga di Bekhme, il grande progetto per l’energia idrica, in costruzione quando l’amministrazione irachena si ritirò dalla Regione. Purtroppo molta gente comune si unì al saccheggio. Il Kdp e il Puk fermarono la ricostruzione, l’attrezzatura elettrica e industriale fu inviata in Iran e Turchia, svenduta a prezzi scontati, e questo permise loro di mantenere il controllo dell’energia. 

1992, le prime elezioni libere per il parlamento curdo 

Nonostante i suoi limiti e gli oppositori dei valori della rivoluzione da parte dei due principali partiti all’inizio degli anni Novanta, alcune storiche conquiste diedero inizio a un nuovo corso storico. Per la prima volta dopo decenni di guerra, il popolo curdo stabilì il primo governo autonomo e un parlamento. Dopo aver superato alcune sfide, i partiti confluiti nel Fronte del Kurdistan iracheno (Ikf) raggiunsero un accordo sulla data delle elezioni del parlamento che si tennero il 19 maggio 1992, giorno in cui le coalizioni e le varie liste elettorali gareggiarono per superare la soglia del 7 per cento ed entrare nel parlamento curdo. Si trattava comunque della prima esperienza democratica dopo anni di oppressione e repressione: era prevedibile che si verificassero dei brogli. Le elezioni erano comunque una novità, non solo per l’Iraq, ma per molti paesi della regione. La prima esperienza di democrazia in una società postbellica tra conflitti e rivolte costituiva una vittoria in sé.

Il Puk era il favorito perché era il partito più forte con una milizia efficiente e una base sociale organizzata, ma fu il Kdp a vincere le elezioni. Le frodi elettorali riguardavano entrambi i partiti. A parte il Kdp (45,3% e 51 seggi) e il Puk (43,8% e 49 seggi), nessuno degli altri partiti politici riuscì a superare lo sbarramento, anche se si era previsto che fosse alla portata del Movimento islamico curdo (Kim, noto come Bizutnewe, 5,1%) e del Partito socialista curdo (2,6%); il Partito comunista del Kurdistan (2,2%) e il Partito popolare democratico del Kurdistan (1,0%) completarono la débâcle democratica.

Il Puk contestò i risultati accusando il Kdp di aver manipolato i voti, reato che ovviamente avevano commesso entrambi. Alla fine i due partiti si misero d’accordo per dividersi i seggi e le cariche parlamentari equamente. Stranamente il primo parlamento e il primo governo curdi erano composti solo da dirigenti del Kdp e del Puk e soprattutto da coloro che non avevano esperienza di governo perché avevano passato la loro esistenza a combattere contro il regime sulle montagne. Il portavoce parlamentare fu assegnato al Kdp e il primo ministro al Puk. 

Jawhar Namiq Salim, il Segretario dell’Ufficio politico del Kdp, fu eletto il 4 giugno 1992 portavoce del Parlamento curdo e Fuad Masum, membro del Consiglio direttivo del Puk, divenne primo ministro del Kurdistan. Dopo un anno, il Puk rimpiazzò Fuad Masum con Kosrat Rasul Ali; Fuad Masum è stato presidente dell’Iraq fino all’ottobre 2018 e Kosrat Rasul Ali è l’ex vicepresidente della Regione del Kurdistan facente funzione di segretario generale del Puk. Il Puk si attivò per rinsaldare ulteriormente la sua forza militare mentre Rasul era un capo peshmerga senza esperienza di governo.

Guerra civile sanguinosa: tutti contro tutti e una mano lava l’altra 

La prima decisione del Parlamento curdo che improntò al peggio la politica curda fu quella che incoraggiò la Turchia a combattere il Partito curdo dei lavoratori (Pkk) nell’ottobre 1993. Il Pkk aveva incominciato ad aprire sedi in molte città curde, soprattutto a Erbil. Possedeva mezzi di comunicazione molto efficaci e una classe dirigente cresciuta nell’ideologia di Öcalan, a differenza di quelle del Kdp e del Puk che non seguivano un’ideologia specifica. I giovani curdi seguaci del Pkk avevano fatto sì che Kdp e Puk temessero un aumento di consenso per il movimento di Öcalan. D’altro canto, la guerra tra Pkk e Turchia era al culmine e quest’ultima era a caccia dei membri del Pkk in tutto il mondo. Il neonato governo regionale del Kurdistan (Krg) era molto vulnerabile ed economicamente, militarmente e politicamente debole; la Turchia e l’Iran trassero ulteriore vantaggio dai due partiti principali perché temevano che la fondazione della Kri potesse fungere da ispirazione per i fratelli curdi in cerca di autonomia che abitavano nei loro territori. La fondazione della Kri e il ritiro dell’amministrazione curda da Erbil, Dahuk e Sulaymaniyya aprì le porte all’interferenza turca e iraniana nella politica curda e spostò l’attenzione dai campi di battaglia alla lotta contro i gruppi dell’opposizione in Iran e Turchia, al contrario di quanto accadeva durante il regime di Saddam Hussein, il quale stava sostenendo i partiti di opposizione curdo-iraniani, non il Pkk, perché tra quest’ultimo e il regime di Hafiz al-Assad correva buon sangue finché, come visto, il leader del Pkk non fu messo alla porta dal regime di Damasco. 

Vale la pena menzionare che con l’istituzione della Federazione per la regione curda dell’Iraq si sperava di attirare il consenso dei curdi presenti in altre regioni, e così i curdi iraniani furono obbligati a deporre le armi e stabilirsi in campi residenziali all’interno della Kri. A partire dal 1991 fino a oggi, centinaia di membri e dirigenti dell’opposizione curdo-iraniana sono stati assassinati all’interno della Kri dal regime iraniano, come ricordato nell’Introduzione. 

I partiti curdi iraniani furono estremamente influenzati dai cambiamenti nelle dinamiche e nella politica della regione. Durante la guerra Iran-Iraq (1982-1988), i partiti curdi beneficiarono dell’ostilità tra i due paesi, avvantaggiandosi della guerra per costruire solidi legami con l’ex regime baathista in Iraq. Non solo, ma operarono liberamente sulle zone di confine stabilendo lì le proprie basi. Partiti e leadership avevano anche sedi e campi militari all’interno delle città irachene. Quando la guerra finì la situazione si aggravò per i partiti curdo-iraniani a causa dell’allentarsi del sostegno iracheno. Nel frattempo, l’avvicinamento promosso dalla Kri dei curdi iracheni divenne una minaccia incombente sui curdi d’Iran. 

Il Kdpi e altre forze politiche curde si ritirarono, forse è più preciso dire che furono forzate a farlo, dalle montagne sul confine Iran-Iraq (principalmente nelle zone ora sotto il controllo del Pkk) per poi essere ricollocate in vari campi di residenza a Erbil e Sulaymaniyya. Accettarono di deporre le armi perché l’Iran minacciò il Governo regionale del Kurdistan iracheno di prendere provvedimenti contro i due partiti nella Kri. Per fare pressione sia sui curdi iracheni sia sui partiti curdi iraniani, l’Iran condusse una campagna repressiva per eliminare gli attivisti politici e i quadri di partito. I partiti curdi iraniani non ebbero scelta e deposero le armi. Sebbene non tutti fossero d’accordo i membri di questi partiti lo fecero e si rifugiarono nei campi di residenza nel Kurdistan iracheno, e chiamarono questa ritirata kempnišîniî, che letteralmente significa “residenza nei campi”.

Era l’inizio della fine della lotta armata che portò al distacco dalla lotta organizzata in Iran e allo sviluppo ideologico. Da allora, i partiti curdi iraniani furono spazzati via dalla lotta armata, da quella diplomatica, organizzata e ideologica contro la repubblica islamica dell’Iran. Il periodo dei kempnišîniî iniziò nel 1993 e continua ancora oggi, ed è considerato dai curdi di quell’area il peggiore nella storia della zona iraniana del Kurdistan, come vedremo nell’ultima parte del volume. Inoltre, il Puk stava tentando di guadagnarsi l’aiuto di Teheran che lo portò a sostenere l’attacco iraniano agli insediamenti del Kdpi a Koya il 29 luglio 1996. Si trattava dell’inizio del cambiamento delle alleanze regionali per il Kdp e il Puk, che si stava sempre più avvicinando all’Iran, mentre il Kdp propendeva per Iraq e Turchia. Le strategie geopolitiche di Sulaymaniyya portarono il Puk all’interno del blocco iraniano e quelle di Erbil e Dahuk avvicinarono il Kdp alla Turchia. Come allora l’Iran è tornato a colpire il 7 settembre 2018 il Kdpi a Koya, uccidendo 15 esponenti, così perseguendo lo stesso scopo di eliminazione fisica, ma stavolta Turchia e Iran non sono contrapposti. 

Man mano che il legame si indeboliva, progressivamente i partiti curdi iraniani dipendevano sempre più dai curdi iracheni, fino a seguire gli interessi di questi ultimi: il Partito per la libertà del Kurdistan (Pak), fondato nel 1991 e guidato da Hussein Yazdanpana, pareva più un’unità affiliata a Masoud Barzani piuttosto che un partito che combatteva per i diritti dei curdi in Iran. 

Il Kdp e il Puk subivano la pressione dell’Iran per forzare i partiti di opposizione curdo-iraniani a deporre le armi, e in seguito furono incoraggiati dalla Turchia a combattere il Pkk. Data la sua forza e l’esistenza di alcune sedi nella Kri, e i dirigenti che lavoravano all’interno della Federazione (essendo quindi cittadini della Regione del Kurdistan iracheno), il Pkk rifiutò di cedere alle richieste delle due fazioni irachene. All’inizio Talabani aveva giocato un ruolo fondamentale per avviare i primi contatti tra il Pkk e il primo ministro turco Turgut Özal che fu il primo a riconoscere pubblicamente l’esistenza dei curdi dopo la fondazione della repubblica turca – come detto nella parte del volume dedicata ai curdi di Turchia. 

Talabani era in buoni rapporti con Öcalan, che allora viveva a Damasco, e aveva convinto Özal a intavolare negoziati di pace con i curdi. Per la prima volta nella storia della guerra tra Turchia e Pkk, quest’ultimo annunciò un cessate il fuoco alcuni giorni prima della morte di Özal. Talabani aveva detto a Öcalan che il primo ministro turco era davvero intenzionato a risolvere la questione curda, anche se non era riuscito a convincere lo stato, l’esercito e persino il partito di proseguire nel processo di pace. 

La Turchia sostenne la coalizione guidata dagli Stati Uniti per utilizzare la base di İncirlik per colpire l’Iraq, nella speranza che i curdi iracheni non stabilissero un governo proprio, temendo una divisione dell’Iraq o il desiderio di autonomia dei curdi turchi. Intanto Ankara teneva d’occhio Mosul, visto che la considerava parte dell’Impero Ottomano. Allo stesso modo l’Iran era interessato all’Iraq e a qualsiasi forza in grado di indebolire il potere del suo storico nemico, inoltre Teheran riteneva che i curdi iracheni non dovevano spingersi oltre il governo locale, ai fini del mantenimento dell’integrità dello stato iracheno e dei suoi confini, aspetto così importante per un paese sciita che ha a sua volta una minoranza curda. 

Il neonato Governo regionale del Kurdistan iracheno non riuscì ad aprire a tutti e la sua vulnerabilità diede una mano ai partiti a consolidare ancora di più il loro potere. La lotta per il potere tra i partiti curdi stava portando la Regione del Kurdistan verso un futuro oscuro. Ogni partito aveva la sua forza militare, e tentava di consolidare il potere attraverso il finanziamento della propria milizia con mezzi illegali, o ricevendo fondi regionali, cioè dalla Turchia, dall’Iran e dai paesi sunniti del Golfo. Il tentativo non riuscito della Krg di formare un esercito peshmerga unico, rafforzò le milizie che divennero più forti della polizia regionale.

Sebbene il segretario del Puk, il generale Jalal Talabani, avesse annunciato molte volte che i conflitti interni curdi sarebbero finiti e non ci sarebbero più state lotte fratricide, il 20 dicembre 1993, iniziò un’altra fase della guerra civile curda tra il Puk e il Movimento islamico curdo (Kim). Il Puk si considerava il partito legittimo per governare la Kri grazie alla sua potente forza militare e al fatto che aveva organizzato la rivolta che portò alla liberazione della Kri. Comunque, la lotta interna tra Puk e Kim indebolì il primo mentre il secondo fu obbligato ad allearsi con il Kdp in previsione di conflitti futuri. Poiché il Kim era molto più piccolo del Puk questa volta la guerra civile non si estese a tutta la Kri. 

Il Primo Maggio 1994 scoppiò la prima ondata di guerra civile curda con uno scontro tra Kdp e Puk; questi due partiti storicamente si erano sempre combattuti e avevano lottato anche prima del 1991 per il controllo del Movimento di liberazione curdo: ideologicamente lontani, il più profondo motivo di disaccordo successivo al 1991 fu il controllo delle risorse, in special modo le entrate del passaggio di frontiera di Ibrahim Khalil con la Turchia. Il Kdp aveva scelto Dahuk come roccaforte per molte ragioni, e dato che la famiglia di Barzani era di dialetto bahdinai, essi trovarono supporto proprio qui; il presidio del Puk era invece, per altrettante buone ragioni, Sulaymaniyya, dove si parlava il dialetto sorani, la lingua di Talabani. Nella storia moderna questa divisione appartiene ai giorni del conflitto tra l’ala di Talabani e Ibrahim Ahmad nell’Ufficio politico del Kdp e quella di Mullah Mustafa Barzani nella Rivoluzione Aylul. 

Questa lotta interna fu sanguinosa, morirono molte persone e molti furono i feriti, migliaia gli sfollati. La prima fase si compì il 29 agosto 1994 ma la faccenda non finì lì perché la questione non era ideologica ma piuttosto un tentativo di egemonizzare la società curda, il suo popolo e la sua economia. 

Delirio egemonico, divisione amministrativa e controllo straniero

La scissione del 1996: scontro tra clan

Nel dicembre 1994 riprese lo scontro Puk/Kdp e raggiunse il suo picco il 31 agosto 1996 quando il Kdp ricorse a Saddam per riprendersi Erbil dopo che il Puk l’aveva cacciato dalla città; il Puk era ormai vicino alla vittoria ed era subentrato al Kdp pochi giorni prima e allora Barzani stipulò un accordo segreto con il regime iracheno. Fu l’inizio di una nuova epoca storica nella politica curda e fino a oggi la Kri non è riuscita ancora a guarire dalle ferite di quei giorni. Da allora il Kdp si considera l’unico potere presente nella Kri.

Il 31 agosto 1996 si verificò infatti la prima vera scissione nella storia dei curdi, secondo una suddivisione che seguiva quella dei paesi della regione, e dopo quella data qualsiasi evento della politica curda che in passato si sarebbe cercato di evitare divenne la normalità; formare un’alleanza con il regime baathista che aveva commesso le atrocità del genocidio solo otto anni prima può essere considerato l’atto più vergognoso della storia curda. 

L’agosto 1996 cambiò le dinamiche politiche e gli equilibri della Kri; il Kdp spinse il Puk in Iran e questi dopo 40 giorni ritornò, ma senza riuscire a riprendersi Erbil a causa di pressioni esterne. La capitale della Kri, Erbil, passò sotto il controllo del Kdp e Sulaymaniyya cadde sotto l’ala del Puk. La Kri era così divisa amministrativamente in due: il governo Krg-Sulaymaniyya e quello Krg – Erbil e Dahuk. 

Gli scontri tra Kdp e Puk si fermarono, e ripresero quelli tra Puk e Kim a Halabja nell’aprile 1997 finché l’Iran trovò un accordo tra le parti, il Kim si unì al Puk nel governo di Sulaymaniyya e venne cacciato da quello di Erbil. 

Nonostante l’interruzione delle ostilità, non era stato raggiunto un vero accordo. Il Puk e il Pkk si organizzarono insieme per attaccare il Kdp nell’ottobre 1997 e questa volta, insieme, erano abbastanza forti da sconfiggerlo, mentre il Kdp sfruttò l’alleanza dei suoi nemici per invitare la Turchia ad attaccarli: il Kdp, aiutato dall’esercito, dall’aviazione e dai carri armati turchi riuscì a sconfiggere il Puk. 

Arrivano gli yankee 

Nel settembre 1998 il Congresso degli Stati Uniti varò l’Atto di liberazione dell’Iraq che dichiara «dovrebbe essere compito degli Stati Uniti cercare di rimuovere il regime di Saddam Hussein dal potere in Iraq e rimpiazzarlo con un governo democratico» e «autorizza il presidente, dopo la ratifica dei comitati preposti, a fornire alle organizzazioni dell’opposizione democratica irachena: 1) assistenza radiofonica e televisiva; 2) il dipartimento della Difesa (Dod) volto a garantire attrezzature e servizi e un’educazione e un addestramento militare (Imet); e 3) assistenza sanitaria, con particolare attenzione ai bisogni delle persone che siano confluite nei territori sotto il controllo del regime di Saddam Hussein. Inoltre proibisce il sostegno a qualsiasi gruppo o organizzazione che sia impegnata in una collaborazione militare con il regime e autorizza stanziamenti». 

L’Atto di liberazione dell’Iraq spinse gli Stati Uniti a cercare gli attori della politica locale, e i più importanti erano i curdi (per via delle zone da loro liberate dalle milizie) e all’interno dei curdi, il Kdp e il Puk, che stavano perdendo energie in lotte intestine e scontri per il potere. Gli Stati Uniti tentarono una mediazione tra i due partiti e invitarono Barzani e Talabani a firmare gli Accordi di Washington. Vedendo la segretaria di stato Madeleine Albright presentare i due leader mentre si stringevano la mano sorridenti le speranze dei curdi rinacquero. Inoltre, nel 1996 era stato varato l’Oil-for-Food Program delle Nazioni Unite e i primi invii di derrate erano giunti nel marzo 1997, l’anno seguente il livello della qualità della vita era quindi ormai quasi normale. Il Kdp e il Puk ricevettero finanziamenti dagli Stati Uniti, perciò abbandonarono la rivalità per combattere non più solo per i propri interessi e gli Accordi di Washington permettevano di condividere potere e entrate economiche. Con il fine di destituire il regime iracheno, gli Stati Uniti entrarono sempre più nella politica curda in modo tale da spostare l’attenzione sull’Iraq e meno sulle lotte interne curde, quelle che invece stavano fornendo opportunità alla Turchia, all’Iraq e all’Iran di sfruttare i partiti curdi e indebolire le strategie statunitensi in Iraq.

La “discrezione” turca nella regione

La Peace monitoring force (Pmf), un contingente guidato dalla Turchia, promuoveva una tregua tra Kdp e Puk fin dal 1997, guadagnandosi nel tempo un’opportunità di rinforzare la sua influenza nella regione curda. Per la Turchia il controllo di quell’area era strategico al fine di indebolire il Pkk. Sebbene il Pmf fosse solo una forza di osservazione fungeva anche da agente turco nella Kri e lasciò l’area subito dopo la caduta del regime iracheno mentre l’esercito turco vi si insediava, in particolare nella zona controllata dal Kdp; da Zakho a Soran, l’intera catena montuosa al confine con Iran e Turchia era sotto il controllo del Pkk. Il dispiegamento di forze turche non si fermò e attualmente sono presenti una ventina di basi militari nei territori del Kurdistan controllati dal Kdp. Mentre mandiamo in stampa il volume gli scontri nell’area montagnosa di Bradost continuano in particolare sul monte Chyadel a ridosso del confine tra Iraq, Iran e Turchia.

Le lotte intestine tra Kdp e Puk terminarono e il Puk attraversò un momento di cambiamento. Il Kim si divise in due fazioni, un gruppo islamico radicale noto come Ansar al-Islam stabilì la sua base nella zona di Hawraman e il 5 dicembre 2001 gli scontri raggiunsero il culmine; nel 2003 gli Stati Uniti eliminarono questo gruppo durante il processo di liberazione/invasione dell’Iraq. 

Nel 2002 il Puk iniziò a normalizzare i rapporti con la Turchia permettendole di manipolarlo incoraggiando lo scontro con il Pkk. Le ostilità tra Pkk e Puk durarono settimane fino a che il Pkk si ritirò dopo una importante sconfitta ma a quel punto la Turchia non aveva più motivo di fornire il suo sostegno al Puk perché la zona sotto il suo controllo non era strategica per lei, mentre il Kdp costituiva un alleato più affidabile. 

Secondo fonti non ufficiali, durante la Guerra civile degli anni Novanta scomparvero 400 persone, molti prigionieri di guerra furono giustiziati e le perdite furono circa 12 000 su ambo i fronti, e migliaia i profughi, alcuni dei quali sono riusciti a rientrare nelle loro terre d’origine solo ultimamente. 

L’intervento della coalizione in Iraq e lo sviluppo della regione curda

Nel 2002, gli Stati Uniti avevano deciso che il regime iracheno doveva cadere e avevano bisogno dei partiti curdi, che giocavano un ruolo essenziale nell’opposizione al regime in Iraq, possedendo forti milizie e controllando i territori. La rivalità tra i due partiti non si era ancora spenta e il parlamento curdo non si era ancora reinsediato come prescrivevano gli Accordi di Washington. È interessante notare come gli Stati Uniti spingessero entrambe le parti verso una negoziazione che iniziò ai primi di settembre 2002 proprio con la mediazione americana. Un mese dopo, il 4 ottobre 2002, il parlamento curdo tenne la sua prima seduta dopo diversi anni di inattività. 

I curdi diedero il loro contributo nella ricostruzione dell’Iraq e i partiti curdi evitarono ogni divisione settaria mantenendo l’equilibrio tra sunniti e sciiti, aspetto che fornì un ruolo chiave alla leadership curda, in particolare a Talabani, che si rese mediatore dei vari conflitti interni iracheni. Il negoziato tra i gruppi dell’opposizione si concluse positivamente e guadagnò il consenso del sistema federale iracheno. Gli Stati Uniti installarono la Coalition Provisional Authority nel 2003 in seguito alla Fondazione del Consiglio di governo iracheno che avvenne nello stesso anno. I capi di governo si alternavano tra i vari leader iracheni, due dei quali curdi: Jalal Talabani e Masoud Barzani. Il Governo regionale del Kurdistan iracheno (Krg) fu riconosciuto come entità federale. 

In occasione delle elezioni del 2005, i partiti curdi si presentarono per entrare in parlamento con una lista congiunta che si guadagnò 75 seggi su 275. Si tennero anche le elezioni nella Kri e la coalizione Puk-Kdp prese il 90 per cento dei voti, con 104 seggi su 111.

La Regione del Kurdistan iniziò a svilupparsi nel 2003, grazie ai miliardi del petrolio iracheno e agli stanziamenti internazionali, acquistò stabilità mentre le città irachene tendevano all’instabilità. 

Gli Stati Uniti tenevano in gran conto la Kri per diversi motivi; la Regione del Kurdistan era l’unica zona stabile in Iraq in cui i soldati americani venivano accolti calorosamente e non a suon di pallottole, i media internazionali mostravano che la caduta del regime era importante: i curdi del Nord dell’Iraq dopo anni di oppressione stavano sviluppando la loro democrazia che avrebbe potuto fare da modello per l’intera regione. Gli Stati Uniti avevano bisogno dei partiti curdi per controbilanciare l’influenza iraniana a Baghdad, la Kri divenne un luogo sicuro per le missioni americane e i curdi erano abili a mediare le rivalità irachene tanto che i primi ministri iracheni avevano bisogno dell’avallo curdo, e dopo tutto, si supponeva che la Kri possedesse una riserva di barili di petrolio per 45 miliardi e 8000-10 000 miliardi di metri cubi di gas naturale: questi numeri ponevano la Kri all’ottavo posto nella classifica delle riserve mondiali di petrolio e gas naturale. Gli Stati Uniti dovettero confrontarsi con la resistenza di diversi gruppi iracheni, tra cui le forze sciite, ma la Kri sosteneva in ogni modo gli americani per rafforzare il legame che li univa. 

Nel 2006, le amministrazioni di Sulaymaniyya ed Erbil si unirono dando luogo a un nuovo Krg, e oltre al governo esistente la regione curda diede vita alla Presidenza della Regione del Kurdistan. Il Kdp e il Puk si spartirono equamente Erbil e Baghdad, e mentre Jalal Talabani divenne il presidente iracheno, Masoud Barzani governò l’entità politica regionale curda; i primi ministri si sarebbero alternati ogni due anni tra di loro secondo il cosiddetto Accordo Strategico firmato nel 2005, un’estensione degli Accordi di Washington. La condivisione del potere tra Kdp e Puk rese i due partiti più forti agli occhi del popolo, ora che avevano deciso di guidare l’Iraq insieme e di partecipare alle elezioni nella Kri con liste congiunte che, in assenza di un vero partito di opposizione, avrebbero vinto con la maggioranza dei voti. 

Dal 1993 al 2003, la Kri attraversò un periodo di blocco internazionale, un blocco dell’Iraq, una guerra civile, una divisione dei territori, e il 2003 segnò l’inizio di un nuovo periodo storico per la società curda, per i movimenti civili, i media, l’istruzione, la crescita economica e dopotutto anche per le trivellazioni, la produzione e l’esportazione del petrolio e del gas che cambiò il corso della storia curda. 

Dopo il 2003: Proteste, riforme mancate e repressione

Tra il 2003 e il 2009 i media liberi curdi erano diventati potenti, la società civile in questo periodo fu molto incisiva. I tre mezzi di comunicazione indipendenti nella Kri – i quotidiani “Hawlati”, “Awene” e “Lvin” – insieme a pochi altri, mettevano alla prova la politica, la storia e il governo curdi. Le proteste studentesche durante questo periodo si susseguirono ad altre in cui i dimostranti chiedevano democrazia, servizi pubblici, giustizia e l’eliminazione della corruzione. Sfortunatamente, il Kdp e il Puk sedarono ogni protesta, facendo vittime. E l’influenza dei media liberi era così forte da arrivare all’omicidio dei giornalisti Soran Mama Hama, nel 2007 a Kirkuk, Sardasht Othman nel 2010 a Erbil, Kawa Garmyani nel 2013 a Kalar, e Wedat Hussein a Dahuk nel 2016. 

Nel 2006 il deputato della Segreteria generale del Puk Nawshirwan Mustafa diede le dimissioni quando il Puk non rese effettive le riforme politiche, economiche, militari, della comunicazione e delle relazioni internazionali per cui Mustafa lottava. Fondò così la Wusha (World Publishing Corporation), un giornale, e la Tv satellitare Knn. Il 25 luglio 2009, Nawshirwan Mustafa annunciò la fondazione del suo Movimento del cambiamento (Gorran) come lista elettorale in corsa per le elezioni e vinse 25 seggi su 111 nel Parlamento curdo, conferendo maggiori speranze di democratizzazione. 

Le aspettative della gente erano molto alte, e mentre la Krg stava guidando il paese verso un modello di stato autoritario petrolifero simile agli Emirati, i due partiti di governo controllavano ogni cosa: dalle moschee ai pozzi di petrolio, c’era chi si chiedeva se mantenere l’opposizione interna al sistema o scendere in piazza. Il 2011 vide la nascita della Primavera araba e la società curda aveva già assistito a diverse proteste. Il 17 febbraio 2011, i dimostranti curdi si riunirono a Sulaymanyya in sostegno alla rivoluzione egiziana. Ben presto tutto questo si trasformò in una protesta contro l’élite al potere e chiedeva un rinnovamento del sistema politico. Nel giro di 64 giorni, ci furono 10 morti e 500 feriti, centinaia di persone furono rapite e torturare nelle prigioni di Kdp e Puk. 

I due partiti governativi sconfissero ogni opposizione e i media internazionali, i paesi europei e gli Stati Uniti chiusero un occhio perché la Kri costituiva ancora un avamposto stabile in Iraq quando non erano ancora chiari gli sviluppi della Primavera araba. Turchia e Iran avevano anche sviluppato il proprio legame economico e politico con il Kdp e il Puk e un cambiamento di governo non avrebbe giovato ai loro interessi; il governo iracheno si era disfatto dei dimostranti curdi che non ebbero altra alternativa che sospendere le proteste. 

Frags tratti da Curdi, a cura di Antonella Di Biasi, con i contributi di Giovanni Caputo, Kamal Chomani e Nicola Pedde, Torino, Rosenberg & Sellier, 2018, disponibile in libreria e su tutte le principali piattaforme online.

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Sykes-Picot, la madre di tutti i confini. Il tratto di penna che inventò il Medio Oriente https://ogzero.org/unita-minima-1/ Wed, 25 Mar 2020 14:47:19 +0000 http://ogzero.org/?p=14 riassunto

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Thomas Edward Lawrence, meglio noto come Lawrence d’Arabia e il generale Allenby che guidava la conquista del mondo arabo, erano di casa nel vecchio palazzo di Rabbah Effendi al-Husseini, a Gerusalemme. Il funzionario dell’Impero Ottomano l’aveva edificato per ospitare le sue quattro mogli ed era già passato in mano a una famiglia di pellegrini cristiani imparentati, tra l’altro, con Gertrude Bell, archeologa, agente segreto e, diciamo, “consigliere diplomatico” nota per aver aiutato Londra a fondare lo stato moderno dell’Iraq, una delle tante fette della torta-impero da spartire. Oggi, l’American Colony Hotel, albergo di lusso e insieme museo, è nella parte militarmente occupata da Israele e che i palestinesi vorrebbero come capitale del loro stato indipendente. Nei suoi saloni, tra un tè o un bicchiere di vino continuano a riunirsi diplomatici e giornalisti di mezzo mondo alla ricerca di una pace sempre più distante. L’enigmatico Lawrence vi si troverebbe a casa oggi come allora quando a guerra finita si era rinchiuso in se stesso, frustrato per essere stato ingannato dai suoi superiori. Lui, tra un caffè e un tè sotto le tende di sceriffi e altri capi beduini, aveva promesso l’Arabia agli arabi. E impiegò molto per rendersi conto che Londra e le altre potenze coloniali avevano progetti molto meno nobili come ci raccontò, poi, nel suo I sette pilastri della saggezza, che David Lean e Peter O’Toole portarono sul grande schermo con il loro straordinario colossal.

Metafora e parabola e interpretazioni contrastanti dei fatti sono di casa nei luoghi della Bibbia, del Nuovo testamento e del Corano. Da ciò che siamo abituati a chiamare Terra Santa alle sabbie mobili dell’Arabia; dalla Mecca a Gerusalemme. Le antiche mura di Saladino racchiudono una “città vecchia” intrisa di miti, storia contestata e sogni. Meno di un chilometro quadrato diviso in quattro quartieri: ebraico, armeno, musulmano, cristiano. Là come altrove, sinagoghe, chiese e moschee nate e cresciute attorno al medesimo concetto di dio vengono usate, oggi come in passato, per segnare il territorio, ma sono le penne, vere o metaforiche, le armi dei conquistatori. La carta del Vicino Oriente, come l’abbiamo conosciuto negli ultimi cento anni, è il risultato delle spoglie di molte guerre e della fine del grande Impero Ottomano, che fu tagliato a pezzi ineguali per contenuto e dimensione. Regalati o dati in gestione non furono mai veramente digeriti.

Le spoglie dell’Impero Ottomano

«L’accordo dei ladri coloniali», come fu definito da Lenin, fu rivelato al mondo da Lev Trockij con un articolo sull’“Izvestija pubblicato il 24 novembre 1917. I bolscevichi avevano trovato il documento negli archivi dello zar Nicola II subito dopo la rivoluzione e volevano che tutti sapessero quali erano i piani di spartizione dell’Impero Ottomano decisi dalle grandi potenze, o meglio da Gran Bretagna e Francia con il consenso interessato della Russia. Due anni prima, nel 1915, nel corso di una riunione del Gabinetto di guerra a Londra il diplomatico Mark Sykes aveva pronunciato una frase divenuta storica: «Tirare una linea diritta dalla seconda K di Akko alla seconda K di Kirkuk». Ossia da San Giovanni d’Acri a nord di Haifa, oggi Israele, al cuore dell’Iraq. 

Qualcuno, a proposito di scarabocchi sulla sabbia e altrove, forse ricorda il più recente ultimatum del presidente americano Bush dopo l’invasione del Kuwait da parte di Saddam Hussein: «L’America e il mondo tracciarono una linea nella sabbia. Abbiamo dichiarato che l’aggressione contro il Kuwait non sarà tollerata». Eppure anche quel conflitto nel Golfo, voluto da Washington e che ha avviato la disgregazione del Medio Oriente, aveva le sue origini nelle linee mal disegnate, ambigue o incomplete, uscite dalle penne dei colonialisti mentre discutevano del futuro dell’Impero Ottomano. Il moribondo impero islamico, che aveva sostituito quello cristiano di Bisanzio (durato 623 anni, dal 1299 al 1922), si era schierato al fianco della Germania e dei poteri austro-ungarici dell’Europa centrale. E mentre interi popoli nel vecchio continente si massacravano, e altri popoli (o i loro leader) sognavano, Londra, Parigi e Mosca giocarono la loro partita di Monopoli.

La mappa, o se vogliamo lo scacchiere, era immensa. C’è chi dice che la macedonia di frutta derivi il suo nome dalla popolazione estremamente variegata dell’area che nell’antichità fu dominio di Alessandro Magno. La regione geografica del Medio Oriente o, come si diceva, del Vicino Oriente comprende una parte di quelle terre variopinte non soltanto per le naturali divisioni geografiche ma anche e soprattutto per la diversità delle sue popolazioni. Prima del crollo dell’Impero d’Oriente come era chiamato quella islamico di Costantinopoli, arabi, persiani e turchi convivevano, talvolta pacificamente spesso in conflitto, con curdi, azeri, copti, ebrei, aramei, maroniti, circassi, somali, armeni, drusi.

Le prime idee o pretese sulla divisione del bottino subirono numerosi cambiamenti e alla fine fu sottoscritta la proposta di Sykes che spingeva per rafforzare l’influenza di Londra nella regione e del suo collega francese Picot determinato a ottenere il controllo della Siria (che comprendeva l’attuale Libano) per la Francia. Su un punto i due e i loro mandanti non avevano avuto problemi a trovare un’intesa: limitare ogni possibile crescita del rinascente nazionalismo arabo. Lawrence si era innamorato del mare di sabbia, dei colori di Wadi Rum, quasi di fronte a Petra sulla rotta delle spezie, dei beduini in qualche modo eredi dei Nabatei. Li ammirava per il senso di libertà che emanava dal loro vagabondare tra pozzi distanti, rare oasi e ruderi di passate civiltà. Per “Orens”, come lo chiamava Awda Abu Tayi, indomabile guerriero e condottiero degli howeytat, quella terra apparteneva solo ai suoi abitanti. Non riusciva a entrare nella logica imperialista e colonialista dei suoi tempi e nemmeno a riflettere sul peso politico-economico dell’oro nero che al posto dell’altrettanta preziosa acqua, sgorgava da sotto le dune. L’atmosfera magica che Lawrence respirava interessava poco a Parigi e Londra che si divisero i territori dell’ex Impero Ottomano in cinque zone d’influenza, arrogandosi il diritto di adottare su di esse controllo diretto o indiretto in base a eventuali intese con i Paesi arabi o con la loro confederazione.

la suddivisione Sykes-Picot

La spartizione

La costa siriana fin dentro l’Anatolia e buona parte del Libano fu consegnata alla Francia. A Londra toccarono le province di Bagdad e Bassora: in pratica la Mesopotamia centrale e meridionale che includeva anche il Kuwait, motivo per il quale Saddam Hussein nel 1990 pensò di riprendersi ciò che riteneva di diritto parte del suo Paese. Riconoscendo gli interessi di Mosca nella Palestina per il suo carattere religioso, fu deciso di affidare la terra più contesa dell’eredità dell’Impero Ottomano a un’amministrazione internazionale aggirando, almeno sulla carta, le richieste del movimento sionista. Ma non tutta la Palestina: alla Gran Bretagna toccarono la gestione di Haifa e Akko. Il resto della torta, dalla Giordania alla Siria a Mosul nell’Iraq settentrionale, finì sotto l’egida dei capi arabi regionali ma sempre con la supervisione della Francia a nord e della Gran Bretagna a sud.

Questo per quanto riguardava il mondo arabo. Per soddisfare lo zar fu deciso di consentire alla Russia di mantenere un certo controllo su Istanbul, sui territori adiacenti allo stretto del Bosforo e sulle quattro province confinanti con la Russia nell’Anatolia orientale (ai giorni nostri il russo Putin, erede di quel trono e dell’impero sovietico, insiste per essere un attore nel Mediterraneo e in Medio Oriente). Alla Grecia fu assegnato il controllo delle coste occidentali della Turchia e all’Italia il Sud-ovest della Turchia.

Per la Storia, ma non necessariamente per gli studiosi, l’accordo Sykes-Picot è responsabile per i disastri che la regione sta vivendo. Quelle righe disegnate con disdegno per i diritti delle varie popolazioni, percepite più per dividere che unire, ebbero pochi anni di vita pratica. Il mondo che stava emergendo dopo la guerra mondiale era molto più complessa e lo sarebbe stato ancora di più dopo il secondo conflitto, continuazione del primo e, per alcuni, in attesa di un terzo confronto globale. Il colonialismo nei primi decenni del “secolo breve” andava sempre bene, ma era necessario consolidare, modificandole, le scelte abbozzate dai diplomatici francese e inglese. Per l’impero britannico prese in mano una matita rossa Sir Percy Cox. Nel 1921, l’alto commissario di Londra, tracciò poche linee sullo spazio bianco chiamato Arabia. Ecco, disse ai suoi interlocutori, i capi feudali, queste sono le vostre frontiere. Oggi sono i confini dell’Iraq, del Kuwait e dell’Arabia Saudita.

La dichiarazione Balfour

Quattro anni prima, il 2 novembre 1917, con la solita ambiguità che caratterizzava la politica imperiale, l’allora ministro degli Esteri britannico Arthur Balfour aveva scritto una lettera ufficiale a Lord Rothschild, principale rappresentante della comunità ebraica inglese, e referente del movimento sionista, con la quale il governo britannico affermava di guardare con favore alla creazione di un «focolare ebraico» in Palestina. Fu ciò che il polemico giornalista israeliano Gideon Levy, nel recente centenario di quella dichiarazione definisce il “il peccato originale”. «Un impero – scrive – prometteva una terra che non aveva ancora conquistato a un popolo che non vi abitava senza chiedere agli abitanti della terra se erano d’accordo». La Dichiarazione Balfour fu inserita all’interno del Trattato di Sèvres alla fine delle ostilità con l’Impero Ottomano e assegnava la Palestina alla Gran Bretagna. Anche se volutamente vaga in quanto non arrivava a garantire sovranità o indipendenza agli ebrei in Palestina o agli arabi abitanti su quel territorio, fu e resta ancora oggi uno dei maggiori elementi di tensione in tutta la regione.

«Guardi là, in basso verso il mare, quello è Ashdod e poi Aschelon. Erano città migliaia di anni fa. La terra del nostro antico regno come la terra su cui lei in questo momento poggia i suoi piedi», spiegava con aria messianica ai giornalisti, una quindicina d’anni dopo la guerra del 1967, il portavoce di un insediamento ebraico nella Cisgiordania occupata. «È la nostra terra per sempre. Un dono di dio». Indicava, come fosse sua, anche la strada romana che scorre sul dorso della montagna dal quale oltre al Mediterraneo si vedono il deserto, lo specchio tetro del mar Morto, il monte Nebo da dove Mosé guardò la terra promessa, e l’odierna Giordania. O meglio, Regno di Giordania. Londra nel 1921 per premiare l’alleato Hussein sceriffo della Mecca creò per i suoi figli l’Emirato di Transgiordania e il Regno di Iraq, e affidarono al capo beduino Ibn Saud l’immenso territorio che, con il suo nome, sarebbe diventata l’Arabia Saudita.

Divenne subito chiaro che i Paesi europei “illuminati” erano peggio dell’Impero Ottomano appena demolito che alle popolazioni suddite aveva sempre riconosciuto una notevole autonomia. Il matrimonio di convenienza annegò in un bagno di sangue. A Damasco l’esercito francese schiacciò i rivoltosi arabi; contro i curdi in Iraq l’aviazione britannica effettuò il lancio di gas tossici caldeggiato dal ministro della difesa Churchill. E così inventarono il Medio Oriente, oggi più devastato di ieri, che vediamo sulle cartine geografiche.

Gli abitanti della regione erano visti come pedine. A Londra o Parigi o Mosca si prestava poca attenzione ai movimenti politici laici e islamici con i quali le popolazioni locali cercavano di affrancarsi dal dominio straniero. Se alla vigilia della Prima guerra mondiale le richieste dei nazionalisti arabi puntavano a maggiore autonomia, con la fine dell’Impero Ottomano, i movimenti assunsero toni e aspirazioni chiaramente anticoloniali. Islamismo, nazionalismo, panarabismo, socialismo sperimentarono e si scontrarono tra di loro. In qualche caso favorendo l’unità dei diversi gruppi etnici e religiosi in altri e fino a oggi esasperando contrasti dovuti alle spinte estremiste legate, soprattutto, alle diverse fedi.

Progetto panarabo

Nasser, il leader dell’Egitto dopo la deposizione della monarchia nel 1952, sposò il panarabismo che trascinava le folle non soltanto nel più grande e importante Paese della regione. E lo inserì nelle spinte terzomondiste che accentuarono i contrasti tra le potenze imperiali e i Paesi che lottavano ancora contro il colonialismo. Causa le rivalità tra le nazioni e i leader arabi (come quelli di Siria e Iraq che sperimentavano il socialismo ba’th), gli sforzi di unificare il mondo arabo attorno a progetti di sviluppo e di governo laici (e in gran parte estranei al mondo arabo) fallirono.

Ebbe breve vita la Repubblica araba unita (Rau) tra Egitto e Siria alla quale Iraq e Yemen declinarono l’invito a prendervi parte. E fallì il tentativo del giovane Gheddafi, nel 1972, di unificare Libia, Egitto e Siria in una Federazione delle Repubbliche arabe. Contro questi leader, dittatori o no, si muoveva ed è attivo ancora oggi il movimento dei Fratelli musulmani creato dall’Imam al-Ḥasan al-Bannā nel 1928 in Egitto appena dieci anni dopo il collasso dell’Impero Ottomano. Secondo il manifesto del movimento «la comunità musulmana deve essere riportata alla sua forma originaria […] oggi è sepolta tra i detriti delle tradizioni artificiali di diverse generazioni ed è schiacciata sotto il peso di quelle false leggi e usanze che non hanno […] niente a che fare con gli insegnamenti islamici».

Il quadro, allora come ancora oggi, era pronto per lo sfruttamento economico della regione e nella partita entrarono anche gli Stati Uniti. Erano corsi a salvare l’Europa nella Grande guerra e chiedevano di essere compensati. Con il petrolio, soprattutto. Che venne diviso in cinque: Gran Bretagna, Francia, Paesi Bassi e Stati Uniti. Per ognuno il 23,75 per cento. Il restante 5 per cento venne assegnato al barone del petrolio Calouste Gulbenkian, per aver favorito i negoziati. All’Iraq zero fino alla rivoluzione del 1958 che fu uno dei tanti, fondamentali, cambiamenti regionali avvenuti dopo la fine della Seconda guerra mondiale. Il più importante dei quali e sicuramente il più destabilizzante fu la creazione di Israele, avvenuta nel momento in cui le potenze europee uscite vincitrici dal conflitto contro il nazifascismo si erano indebolite e le colonie ormai anacronistiche, con il peso delle rivendicazioni dei loro popoli, erano diventate di difficile gestione. Urss e Stati Uniti, per motivi diversi ma simili, spingevano per la fine degli imperi. L’India sarebbe stata la prima nazione a diventare indipendente ma paradossalmente negli stessi anni, la comunità internazionale – sicuramente spronata dall’Olocausto – decise di accogliere la richiesta del movimento sionista e sposare la dichiarazione Balfour portandola anche oltre le stesse parole relativamente caute con cui fu stilata.

Israeliani a palestinesi

Israele è, dunque, una colonia ebraica in una Palestina araba approvata dall’Onu proprio nel momento in cui il mondo respingeva la colonizzazione? La maggioranza dei sostenitori del nuovo stato respinge la definizione. Molti di loro, però, ammettono che di colonizzazione si deve parlare in riferimento alla situazione creata dopo la guerra del 1967. Il conflitto israelo-palestinese non trova soluzione e i governi israeliani hanno finora respinto le richieste di definire ciò che vorrebbero considerare i confini del loro stato. Il muro – cemento e filo spinato – messo come barriera in mezzo alle case dei palestinesi, ha già modificato per l’ennesima volta i confini approvati dalle Nazioni Unite nel piano di partizione della Palestina. Questo mentre la maggioranza dei confini usciti dalle penne di Sykes e Picot e dai loro contemporanei, appaiono sufficientemente consolidati per non cedere agli scombussolamenti successivi alle Guerre del Golfo, alle primavere arabe e alle storiche istanze nazionaliste di gruppi etnici come i curdi che dagli sviluppi da quelle intese imposte da Londra e Parigi, da Mosca e Washington, furono divisi in stati diversi, per essere sfruttati e talvolta premiati negli scontri tra stati rivali ma sempre privati del loro diritto a uno stato indipendente.

Lo scrittore e giornalista Joseph Roth cantava spesso l’elogio dell’Impero austro-ungarico che, come nei periodi più floridi di quello ottomano, lasciava ampia autonomia ai popoli, non soffocava le istanze e i costumi delle minoranze, garantiva una certa sicurezza e – ed è questo forse l’aspetto che più affascina – consentiva al viaggiatore, pellegrino o mercante o cronista, di vagare quasi indisturbato. Chi volesse visitare oggi la cosiddetta Terrasanta (un pezzo relativamente piccolo ma storicamente importante della regione) si troverebbe a dover attraversare con difficoltà confini riconosciuti e non, spesso chiusi e pericolosi. Eppure, se i popoli fossero in pace, ci si potrebbe svegliare a Gerusalemme con un caffè, espresso o arabo, nel patio dell’American Colony, fare una colazione abbondante meno di due ore dopo ad Amman, cenare a Damasco per proseguire l’indomani, con calma, per il lungomare splendido di Beirut. Volendo, il viaggiatore con poco tempo a disposizione, potrebbe poi scendere la costa, passare davanti alla cittadella di Akko – quella da cui Sykes volle tracciare una delle sue linee nella sabbia – ammirare le rovine di Cesarea e sostare a Tel Aviv, oggi cuore pulsante di modernità e contrasti tra la sua anima occidentale importata e quella orientale della maggioranza d’Israele, per essere a cena al Cairo, all’ombra delle piramidi.

La Terrasanta dei cristiani, con tutte le sue rovine e memorie e favole si specchia nella Terrasanta dei musulmani, frammentati anche loro come i cristiani in numerose schegge. Tutti questi luoghi meno di cento anni fa vedevano convivere popoli e religioni diverse, seppure con animosità teologica. Oggi vecchi e nuovi imperi, pescando nelle diversità religiose, vanno alla ricerca di un nuovo assetto del Medio Oriente. L’Iran degli ayatollah, erede della grande Persia e capitale del mondo sciita, sta consolidando il suo potere sul Levante sfidando l’Arabia Saudita, feudo di una famiglia “custode della Mecca” che governa in nome del mondo sunnita. La Turchia, musulmana come l’Iran ma non araba, sogna un ritorno all’Impero Ottomano e nel 2017, grazie a un accordo con il Sudan, si è installata nell’isola di Suakin, antico avamposto della Sublime Porta nel mar Rosso. Con il crollo della stabilità “europea” voluta dalle penne di Sykes e Picot la partita per la dominazione della regione si è riaperta. Lasciando spazio a un’idea vecchia e nuova assieme, per ora sconfitta ma non necessariamente sepolta. Un unico stato islamico arabo-sunnita in tutta la regione, senza le frontiere imposte cento anni fa.

In un suo discorso del 2012, il leader del movimento terrorista salafita Abu Bakr al-Baghdadi, lanciò la sua sfida-promessa: «Avrete uno stato e un califfato dove arabi e non arabi, bianchi e neri, genti dell’Est e dell’Ovest saranno tutti fratelli». E con un chiaro riferimento a Sykes-Picot proclamò: «Lo Stato Islamico non riconosce né confini fittizi né altre cittadinanze all’infuori dell’islam». I finanziatori iniziali dello Stato Islamico erano, in parte, gli stessi sostenitori economici di al-Qaeda ma sono stati sconfitti da una coalizione internazionale quando era chiaro a tutti che il gioco di destabilizzazione era diventato pericoloso. E così la partita è stata ripresa in mano da alcuni dei giocatori di cento anni fa. A Da Nang, in Vietnam, lontano dalle capitali del Medio Oriente, Stati Uniti e Russia, si sono pronunciati per l’integrità territoriale della Siria e la spartizione della regione in zone d’influenza. Con Iran e Arabia Saudita (e, naturalmente, Israele) come agenti locali a garanzia dei loro interessi geostrategici ed economici. E, forse per poco, energetici.

L'articolo Sykes-Picot, la madre di tutti i confini. Il tratto di penna che inventò il Medio Oriente proviene da OGzero.

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