Xinjiang Archivi - OGzero https://ogzero.org/tag/xinjiang/ geopolitica etc Sun, 15 Aug 2021 17:06:36 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.4.6 Afghanistan: l’instabile cortile di Pechino in Asia Centrale https://ogzero.org/afghanistan-linstabile-cortile-di-pechino-in-asia-centrale/ Thu, 22 Jul 2021 10:14:17 +0000 https://ogzero.org/?p=4326 Il ritiro americano dei Boots on the afghan Ground somiglia un po’ in chiave geopolitica alla Teoria delle Catastrofi di René Thom che vedeva come si creassero laddove si veniva a creare un vuoto che andava in qualche modo riempito e di conseguenza avvenivano sconvolgimenti per il vortice di riempimento che si andava a creare […]

L'articolo Afghanistan: l’instabile cortile di Pechino in Asia Centrale proviene da OGzero.

]]>
Il ritiro americano dei Boots on the afghan Ground somiglia un po’ in chiave geopolitica alla Teoria delle Catastrofi di René Thom che vedeva come si creassero laddove si veniva a creare un vuoto che andava in qualche modo riempito e di conseguenza avvenivano sconvolgimenti per il vortice di riempimento che si andava a creare e lo spostamento a cascata. Per gli interessi americani probabilmente le tecnologie di controllo e intervento rapido sono ormai in grado di ritirare le truppe tradizionali da un territorio diversamente colonizzato; per gli interessi cinesi l’Afghanistan ha invece ancora un duplice “tradizionale” interesse, che richiede non truppe, ma accordi con chi deterrà il potere sulle infrastrutture – per le merci del Bri – e sul confine di 75 chilometri condiviso con lo Xinjiang – per poter contenere internamente il nazionalismo uiguro e assicurarsi il controllo del Corridoio del Wakhan. 

Questo articolo di Sabrina Moles incentrato sull’analisi degli interessi cinesi per l’Afghanistan si affianca ad altri due interventi contemporanei ospitati sul sito, uno di Emanuele Giordana, che documenta la situazione interna e i rapporti di forza attuali nei distretti afgani, e l’altro di Yurii Colombo sugli interessi russi a Kabul, completando la panoramica sulla situazione geopolitica afgana in seguito al ritiro delle truppe americane dal paese che abbiamo intrapreso cominciando da una tavola rotonda che li ha visti partecipi e trasmessa in diretta nella serata del 13 luglio da Radio Blackout, un’analisi che poi abbiamo cercato di approfondire nello studium “La solita musica afgana?”, chiedendoci se sarà un altro Afghanistan quello imbandito in questi due mesi di approcci internazionali..


Colmare gli svuotamenti irresponsabili con il basso profilo strategico

La Cina è apparsa come marginale nelle dinamiche afghane dall’inizio della guerra al terrorismo annunciata dagli Stati Uniti dopo i fatti del 2001, ma ha sempre agito con il basso profilo che ha caratterizzato la diplomazia cinese degli ultimi quarant’anni. Oggi più che mai, però, Kabul torna a risvegliare l’attenzione del vicinato e la dipartita delle forze armate americane contribuisce a lasciare un vuoto nel risiko dei nomi più influenti sull’area. Ecco che allora Pechino ritorna a far parlare di sé e del suo ruolo in Asia Centrale con uno sguardo particolare verso l’Afghanistan.

Guardando la cartina del continente asiatico, la distanza tra la capitale cinese e Kabul è quasi tre volte la distanza che separa l’Italia da Mosca. Eppure, alla Cina importa moltissimo dell’Afghanistan e di quei 76 chilometri di confine che dividono i due paesi. In questa breve striscia di territorio, che per la Cina è spesso sovradimensionata a 90 chilometri, corre la periferia dello Xinjiang. Già epicentro delle accuse della comunità internazionale contro Cina e snodo chiave dei progetti di connettività cinesi in Asia, con il ritorno dell’instabilità questo territorio è diventato un grattacapo per Pechino. Sebbene da un lato quello che la Repubblica Popolare indica come “abbandono irresponsabile” degli Stati Uniti sia un conveniente strumento per posizionarsi come partner regionale intenzionato a mantenere gli equilibri.

Ghani o Talebani, purché sian libere le mani

Gli interessi della Cina, come Pechino dichiara e tiene a ribadire nelle sue esternazioni pubbliche, sono la stabilità declinata attraverso la prosperità economica, il dialogo equo tra attori e il rispetto della sovranità. Non per niente questa posizione ha giovato nel rapporto storico che Pechino intrattiene con i Talebani e che recentemente è stato descritto dal portavoce Suhail Shaheen (anche parte attiva nei negoziati) come un saldo rapporto di amicizia. I rappresentanti dei Talebani sono anche stati ospitati in Cina, ancora non si conoscono i dettagli di questi incontri. L’intesa tra Talebani e Cina risale al dicembre 2000, quando Mullah Mohammed Omarera era capo del gruppo e governatore ufficiale dell’Emirato Islamico dell’Afghanistan. Nell’ultimo decennio la Cina ha continuato a tenersi tutte le porte aperte, palleggiando tra il governo riconosciuto di Ashraf Ghani e gli altri attori non statali diffusi sul territorio. Le diverse narrazioni, insomma, hanno una cosa in comune: il contatto dichiarato più o meno apertamente tra la Cina e un ampio ventaglio di attori, compresi quelli non statali.

Risorse succulente per la Bri e concorrenza agguerrita

I due grandi temi che sembrano emergere dal discorso cinese sullo sviluppo e stabilizzazione dell’Afghanistan sono quindi economia e sicurezza, un mix che non è nuovo nella proiezione estera di Pechino, ancora di più se questa coinvolge il vicinato. L’Afghanistan è di fatto una delle gemme incastonate negli ambiziosi piani della nuova Via della Seta (o Belt and Road Inititiative, Bri), la cui instabilità attuale non può essere ignorata da Pechino quando ragiona sull’avanzamento dei suoi progetti lungo il corridoio sino-pakistano. Investimenti che secondo le proiezioni accoglieranno almeno 62 miliardi di dollari da parte cinese. Per non parlare delle attività pensate dentro i confini afghani, dove esistono ancora grandi bacini di risorse sottosfruttate – secondo alcune stime si parla di un triliardo di dollari. Non solo corridoio per far passare scambi commerciali e infrastrutture, quindi: l’Afghanistan è il più grande bacino di rame della regione, oltre a essere ricco di carbone, ferro, gas, cobalto, mercurio, oro, litio e torio. Ci sono inoltre anche altri beni che iniziano a interessare agli investitori cinesi, come i jalghoza, un tipo di pinoli il cui commercio è esploso in Cina negli ultimi anni. Rimane da evidenziare, però, che la Cina è ancora lontana dall’essere il primo partner commerciale di Kabul, settore dove prevalgono Emirati Arabi (le cui importazioni dall’Afghanistan sono cresciute addirittura del 730 per cento tra 2018 e 2019), Pakistan e India.

Reti tribali e infiltrazioni cinesi in rete

A partire dal 2011 si registra una maggiore presenza di investimenti diretti esteri nel settore energetico, con l’ottenimento da parte della China National Petroleum Corporation (Cnpc) dei diritti di perforazione di tre giacimenti petroliferi per 25 anni, per un totale previsto di circa 87 milioni di barili di petrolio. Tra i giacimenti minerari assicurati, invece, figurano i diritti di estrazione del rame a Mes Aynak, nella provincia di Logar.

Il sito archeologico di Mes Aynak, la cui conservazione è in pericolo a causa degli interessi minerari cinesi.

Infine, il Badakhshan, la provincia afghana che confina con la provincia cinese dello Xinjiang, è una zona di forti traffici illeciti e non – in particolare di pietre preziose. Il caso delle infiltrazioni cinesi nella rete Haqqani dello scorso dicembre 2020 aveva, per esempio, fatto riemergere il tema delle attività “dietro le quinte” dei cinesi in Afghanistan. Tra i principali protagonisti degli attacchi terroristici a Kabul e sulla lista dei gruppi terroristi statunitensi, pare che il gruppo fosse coinvolto in attività di contrabbando di droga e armi, ma anche nella creazione di una finta cellula separatista uigura per incastrare i combattenti in arrivo dallo Xinjiang. È stata l’agenzia di spionaggio indiana Research and Analysis Wing (R&AW) a riferire all’intelligence afghana della presenza di cittadini cinesi sospetti a Kabul, e ora non è chiaro se alcuni sospettati siano rimasti in detenzione nel paese o se siano stati tutti trasferiti nella madrepatria. I progetti cinesi sono spesso soggetti a rallentamenti e non è una novità che possano cadere in un nulla di fatto. Oggi il Pil dell’Afghanistan dipende al 40 per cento dagli aiuti esteri [dati Banca Mondiale], ma si prevede almeno un dimezzamento entro il 2030: si pone quindi l’imperativo di affidarsi a progetti concreti, che permettano al paese di rendersi sempre più indipendente e autonomo sul piano economico.

Delirio securitario in attesa di liste di proscrizione comuni

La protezione dell’infiltrazione economica cinese in Afghanistan non può non prescindere dalla stabilità lungo il confine, ecco quindi che anche la tutela del territorio e l’incolumità dei cittadini cinesi diventano prioritari. Il ritorno a una situazione di relativa instabilità non giova alla Repubblica Popolare, che durante il mese di luglio 2021 ha evacuato 210 connazionali con voli charter. La Cina può ancora offrire aiuti nel processo di sviluppo e ricostruzione afghano, ma lo farà alle sue condizioni, in primis la sicurezza degli asset finanziati di banche e imprese cinesi. Sul piano della sicurezza, quindi, non spaventa tanto il cosiddetto “vuoto di potere” lasciato dagli Stati Uniti, quanto un generale senso di instabilità lungo il confine sino-afghano.

Wakhan Corridor

Moto donate dai cinesi a soldati afgani dislocati in un checkpoint sino-afgano nel corridoio Wakhan

In questo senso la ripresa dei Talebani diventa sia motivo di apprensione, che di sollievo. Tutto dipenderà dalla relativa stabilità che riusciranno a creare nel paese: anche per questo la Cina non chiude le possibilità di dialogo con nessuno. Gli accordi con i Talebani sono incentrati sulla promessa che le milizie controllino e impediscano gli ingressi degli uiguri dal confine con lo Xinjiang, e viceversa: la provincia occidentale cinese che condivide il breve tratto di confine con l’Afghanistan deve essere protetta dall’ingresso delle milizie di tutti i gruppi terroristici, da al-Qaeda allo Etim.

Il Badakhshan è stato infatti rifugio storico del Movimento indipendentista del Turkestan orientale (Etim), gruppo separatista di matrice islamica nato nel 1993 con l’obbiettivo di rendere lo Xinjiang uno stato indipendente da Pechino. Secondo le ultime stime il movimento raccoglierebbe poche centinaia di individui, che nell’ultimo periodo si sarebbero stabilizzati in Siria e che oggi starebbero invece ritornando in Asia Centrale. A complicare la situazione, però, è arrivata la bagarre diplomatica tra Cina e Stati Uniti sul tema Xinjiang. Mentre ai Talebani viene riconosciuto questo ruolo di “poliziotti oltreconfine” e l’Etim rappresenta per la Cina uno scomodo impiccio, gli Stati Uniti hanno deciso di rimuovere il movimento dalla Us Terrorism Exclusion List nel novembre 2020. L’Etim era stato schedato da Washington nel 2002, ma oggi gli Usa affermano che non esistono prove concrete dell’esistenza del gruppo oggi. Inoltre, la mossa arriva anche per lanciare un segnale a Pechino, finita nell’ultimo anno sotto lo scrutinio internazionale con l’accusa di internare gli uiguri in campi di lavoro forzato – accuse che si sono trasformate in sanzioni da parte di Unione Europea e Usa, a cui la Cina ha risposto con altrettante sanzioni a individui e società. La scelta statunitense non è piaciuta alla Repubblica Popolare, che ha accusato gli americani di portare avanti una logica di doppio standard sui diritti umani in Asia e «utilizzare [la lotta al terrorismo] fin quando fa comodo e poi scartarla quando non serve più». Anzi: secondo alcuni osservatori cinesi gli Usa hanno deliberatamente preso questa decisione per incoraggiare i miliziani dell’Etim a destabilizzare le attività cinesi nella regione.

Scommesse sul cambiamento dei Talebani

Altri analisti cinesi invece cercano di contrastare quella che chiamano una «strategia occidentale di esporre le presunte paure della Cina», ovvero: sarebbe tutto un tentativo mediatico per ridurre gli interventi della Repubblica Popolare a piani di difesa contro un pugno di terroristi uiguri. La situazione è molto più complessa. Cao Wei, un esperto di studi sulla sicurezza internazionale presso l’Università di Lanzhou, ha dichiarato al “Global Times” (megafono mediatico di Pechino in lingua inglese) che è altamente improbabile che estremisti e gruppi terroristici entrino in Cina dal corridoio del Wakhan.  Per il dottor Wei i talebani sono molto cambiati e dovranno prima o poi fare i conti con un paese da gestire oltre lo stato di guerra civile: il Badakhshan è già sotto il loro controllo, e per questo motivo la Cina dovrà fare più attenzione alle infiltrazioni dello Etim da altri paesi dell’Asia centrale.

Wakhan, ancora tomba degli imperi?

L’attenzione sul corridoio del Wakhan non è una prerogativa esclusivamente cinese: nella “tomba degli imperi” si alternano tanti attori diversi, ognuno con interessi differenti e che spesso cerca nella Cina una spalla su cui contare. Talvolta, è la Cina stessa che prende l’iniziativa, soprattutto ora che l’addio degli Stati Uniti rischia di far precipitare la situazione in tutta la regione.

Il Pakistan, alleato ad ammansire gruppi ribelli diversamente minacciosi

Ecco, quindi, che tra i primi nomi in lista compare quello del Pakistan, storico partner economico di Pechino con cui porta avanti un dialogo trilaterale insieme all’Afghanistan dal 2015. Il Pakistan lavora su tutti i fronti per porre in sicurezza il confine con l’Afghanistan e la Cina è stata di aiuto nel gestire, per esempio, quella che sembra la ristrutturazione del gruppo Tehreek-e-Taliban Pakistan (Ttp) nella provincia afghana Paktika. E qui ritorna la Cina, perché proprio i talebani e la rete Haqqani con cui dialoga Pechino sono strumentali anche per Islamabad a tenere sotto controllo la minaccia terroristica. Il Ttp è inoltre dichiaratamente antagonista della Cina, che condanna per la persecuzione degli uiguri. A sua volta, il premier pakistano Imran Khan ha ripreso il dialogo con i gruppi ribelli del Belucistan che si oppongono alla Belt and Road Initiative cinese: una mossa non scontata che potrebbe facilitare le cose a Pechino. In questo senso, per la Cina è importante il rapporto con il Pakistan (che viene definito tie gan “ferreo, solido come una roccia” – una nozione ancora dibattuta ma che tende a evidenziare la solidità che Pechino vede nella relazione) nel contesto mutevole dell’Afghanistan postritiro statunitense.

Mosca e gli “stan”: partner fondamentali nella questione afgana

Sempre parlando di politiche di vicinato, la Cina ha avviato da tempo il dialogo con i cinque stati centrasiatici sulla situazione afghana per combattere quelli che chiama i “tre grandi mali”: terrorismo, estremismo e separatismo. Gli stessi elementi che ricorrono nel discorso cinese sul terrorismo internazionale e i rischi a esso associati nella regione dello Xinjiang. In questo 2021 di cambiamenti per Kabul e, di conseguenza, per chi con l’Afghanistan condivide confini instabili e porosi, sono diventate centrali le visite del ministro agli affari esteri Wang Yi e il dialogo congiunto multilaterale. Talvolta questi incontri sono inseriti nel più ampio meccanismo di sicurezza regionale fondato dalla Cina e che vede partecipe anche la Russia: la Shanghai Cooperation Organization. La Russia rimane un importante alleato da mantenere nella regione, in quanto a sua volta promette di non cedere all’interventismo di stampo neoliberale promosso dagli Usa. Importanti per entrambi i giganti le partnership strategiche su tutto il territorio, dove contano sicurezza e interessi economici, ancor meglio se corredato di una buona relazione con gli stati centrasiatici. A essere favorita da entrambi rimane la soluzione politica del conflitto afghano, attraverso negoziati tra le parti. Rimane però un vuoto nella sostanza di queste operazioni, dove per ora sembra che Mosca e Pechino vadano ad agire individualmente.

La Cina appare cauta nei confronti dei gruppi di potere di matrice islamica, ma i fatti dimostrano una disposizione a scendere a patti mediata da negoziati in grado di soddisfare le parti. Lo scacchiere afghano dei mesi a venire rimane un ambiente molto complesso da interpretare, dove non si esclude che possano ancora avvenire dei cambiamenti decisivi. Per ora, quindi, niente rapporti di ferro definiti per Pechino, ma flessibili palleggiamenti tra gruppi di potere.

L'articolo Afghanistan: l’instabile cortile di Pechino in Asia Centrale proviene da OGzero.

]]>
La Siberia tra il Dragone e il Sultano https://ogzero.org/la-luna-di-miele-turco-russa-e-finita/ Sat, 14 Nov 2020 19:09:43 +0000 http://ogzero.org/?p=1765 La luna di miele turco-russa è finita La linea di faglia apertasi nel Nagorno-Karabakh ha dimostrato, se ce ne era ancora bisogno, che la luna di miele tra Turchia e Russia è ormai archiviata malgrado proprio sull’enclave a etnia armena Putin sia stato costretto – con gli accordi del 9 novembre – a un nuovo […]

L'articolo La Siberia tra il Dragone e il Sultano proviene da OGzero.

]]>
La luna di miele turco-russa è finita

La linea di faglia apertasi nel Nagorno-Karabakh ha dimostrato, se ce ne era ancora bisogno, che la luna di miele tra Turchia e Russia è ormai archiviata malgrado proprio sull’enclave a etnia armena Putin sia stato costretto – con gli accordi del 9 novembre – a un nuovo compromesso tattico per impedire il completo collasso del fronte. L’intraprendenza di quello che alcuni osservatori già chiamano “imperialismo ottomano” è sotto gli occhi di tutti e a Oriente i danni maggiori di tale intraprendenza li potrebbe subire proprio la Federazione. Non a caso sulla Moscova hanno da tempo iniziato a ricalibrare la politica nei confronti di Ankara: Sergej Lavrov, il ministro degli esteri russo, ha recentemente sostenuto di non aver mai considerato la Turchia “un alleato” ma solo un “partner”.  Il massiccio bombardamento russo a Idlib contro la guerriglia filoturca in Siria della fine di ottobre 2020, da questo punto di vista, è probabilmente stato un parlare a moglie perché suocera intenda. Ma la Transcaucasia è solo la punta dell’iceberg di uno scontro ben più ampio che parte dalla Crimea e si estende fino all’estremo Oriente russo ai confini con la Cina.

L’intelligence turca a caccia di spie

Il 16 ottobre scorso nell’incontro tra Volodomyr  Zelenskij e Recep Erdoğan non solo quest’ultimo ha dato il suo via libera alla cosiddetta “piattaforma di Crimea” promossa dal governo di Kiev (un’offensiva diplomatica volta al recupero della penisola annessa dalla Russia nel 2014, a cui guarda caso aderisce anche l’Azerbaijan) ma ha anche siglato degli accordi di collaborazione commerciali con l’Ucraina nel settore degli armamenti. La settimana successiva poi esplodeva una vera e propria spy-story tra Turchia e Russia. L’intelligence turca annunciava di aver arrestato il vicedirettore delegato di Bosphorus Gaz Emel Oztürk e altri quattro suoi collaboratori, che da tempo, secondo l’accusa, passavano informazioni riservate a un agente di Gazprom. Il gigante russo dell’energia avrebbe ottenute notizie sui volumi di acquisti di gas non russo della Turchia e dati sui giacimenti scoperti dalla Turchia nel Mar Nero quest’estate.

La guerra del gas

Al momento Putin fornisce a Erdoğan – via Turkish Stream – 7,75 miliardi di metri cubi all’anno di gas ma è chiaro che “l’indipendenza energetica” anelata da Erdoğan – se divenisse realtà – potrebbe rappresentare un duro colpo ai volumi di esportazioni russe, già in forse in Europa dopo che il progetto di North Stream 2 è entrato in stand-by in seguito al “caso Navalny”. Per tutta risposta la Duma russa ha fatto baluginare il blocco del turismo russo verso la Turchia, un business da qualche miliardo di dollari annuo. Più che punzecchiature tra i due eterni rivali con possibili conseguenze geopolitiche più vaste. La leva di un nuovo fondamentalismo islamico, di un califfato sui generis in cui la Turchia diventi la “protettrice di tutti i sunniti nel mondo”, potrebbe produrre una divisione insanabile tra i due stati. Si tratta di suggestioni – quelle dell’“imperialismo ottomano” – che vengono confermate negli ambienti diplomatici dei paesi balcanici anch’essi preoccupati dell’incipiente aggressività turca: «Indubbiamente, se analizziamo ciò che leggiamo e vediamo oggi, diventa chiaro che in alcuni circoli islamici radicali e organizzazioni religiose vaga l’idea che l’Europa dovrebbe essere un califfato islamico. Ciò che sta accadendo oggi in Francia, in Svezia, in altri stati dell’Europa occidentale, mi sembra che dovrebbe destare grande preoccupazione tra questi stati. Non mi occupo di attività di spionaggio in particolare, ma di tanto in tanto leggo in note analitiche che i servizi speciali turchi sono molto attivi», ha sostenuto l’ex ambasciatore serbo a Mosca, Slavenko Terzič.

Il Caucaso e il “laicismo irresponsabile dell’Occidente”

Il riflesso dello scontro con la Francia sulla questione dei limiti del laicismo si è subito sentito a Mosca dove la preservazione degli equilibri, faticosamente costruiti dal regime di Putin, in una federazione multiconfessionale, sono considerati intangibili. Le manifestazioni antifrancesi guidate prima di tutto dai migranti azeri nella capitale russa sono state sì stroncate con durezza dalla polizia sul nascere, ma Putin ha voluto al contempo anche denunciare il “laicismo irresponsabile dell’Occidente”. Il terrorista che ha ucciso a Parigi l’insegnante francese faceva parte della diaspora cecena, e quindi formalmente antirussa, ma la reazione del presidente della Repubblica cecena Rusman Kadyrov, scagliatosi con forza contro Macron nei giorni successivi all’attentato, dimostra quanto gli umori dei musulmani del Caucaso restino antioccidentali: non è un caso che nel Caucaso russo furono migliaia i reclutati dall’Isis per la guerra in Siria. Del resto, non si soffia sulla “guerra di civiltà” solo da una parte: anche il primo ministro armeno Nikol Pashinyan aveva invitato gli stati europei a sostenere l’Armenia cristiana nel Nagorno-Karabakh in funzione antiturca, anche se sia Macron sia Trump hanno preferito fare orecchie da mercante.

Lo sguardo russo verso lo Xinjiang

Dmitry Ruschin, Professore Associato del Dipartimento di Teoria e Storia delle Relazioni Internazionali all’Università di San Pietroburgo sostiene che “l’internazionalismo sunnita” di Ankara è veramente su scala globale: «Erdoğan sta perfino interessandosi della regione autonoma uigura dello Xinjiang dove Xi ha più di un problema. È del tutto possibile che in questo modo voglia diventare un unificatore dei popoli turchi e un leader islamico su scala globale. Curiosamente, lo scontro della Turchia con la Cina significa supporto automatico per Ankara da Washington perlomeno in quel contesto». E a medio termine ciò potrebbe condurre a un confronto diretto tra Russia e Turchia.

Siberia: la protesta anticentralista

In questo quadro la Siberia può diventare uno dei teatri più importanti. Dallo scorso luglio Khabarovsk, la più grande città dell’Estremo oriente russo, a un paio di centinaia di chilometri da Vladivostok, “porta bianca” ai mercati orientali, sono in corso delle manifestazioni di massa dopo che Sergej Furgal il governatore della provincia, outsider e antiPutin, è stato arrestato con l’accusa di essere il mandante di alcuni omicidi risalenti a un’epoca in cui non aveva ancora in carico l’amministrazione. Il protrarsi e le dimensioni del movimento di protesta segnala però in maniera evidente che le sventure del governatore sono state solo la miccia dietro cui covano a livello di massa spinte anticentraliste (oblastničestvo) nei confronti di Mosca se non apertamente secessioniste. “The Diplomat” ha riassunto così la situazione: «Sin dai tempi della Russia imperiale, i suoi paesi e città sono stati visti come una semplice estensione della nazione europea, una frontiera asiatica da colonizzare e domare. Come parte dell’Unione Sovietica, le deportazioni di massa verso est e il suo status di destinazione per i prigionieri dei GULag hanno rafforzato questa nozione. Ma ora, come dimostrano i manifestanti a Khabarovsk, l’estremo Oriente russo potrebbe formare la propria identità».

proteste pro-Furgal in Siberia

Un punto importante della contesa è che, mentre la Russia orientale detiene gran parte delle risorse naturali del paese – inclusi petrolio, gas e metalli preziosi – i proventi della loro estrazione sono ampiamente usati per rimpolpare i forzieri di Mosca piuttosto che arricchire le comunità locali.

E la terra va ai cinesi

Che la Cina sicuramente sia interessata a sfruttare a suo vantaggio la situazione che sta montando nell’estremo Oriente russo non è un segreto. In questa zona della Siberia gli investimenti del Dragone sono massicci e alla fine del 2018, proprio a Khabarovsk, un’azienda russa ha annunciato l’intenzione di affittare ben 100.000 ettari di terreno paludoso coltivabile a soia e affittarlo a imprese cinesi. Alexander Bortnikov, il presidente del Fsb, ha più volte segnalato l’attivismo di servizi di molti paesi in tutta la Siberia. E se il nome della Cina non è stato fatto ufficialmente, la presenza discreta di informatori cinesi nelle zona è stata più volte confermata da più parti.

Dietro la provocazione, la mano dei turchi

Chi invece sicuramente opera in quell’area è l’intelligence turca. Questa può fare affidamento su un vasto retroterra di gruppi fondamentalisti islamici nel Centro Asia allo sbando dopo il crollo dell’Isis. L’Fsb (Federal’naja služba bezopasnosti – Agenzia federale per la sicurezza interna) nell’ultimo anno ha contato ben 22 tentativi di organizzare azioni terroristiche e diversive in Siberia. Si tratta per lo più di incidenti provocati da foreign-fighters di ritorno ai confini del Tagikistan e del Kazakhstan collegati a contingenti più folti del fondamentalismo islamico afgano. Ma alcune di queste avrebbero segni e obiettivi diversi e rimanderebbero a un inedito protagonismo turco. In particolare parliamo di una fallita provocazione organizzata proprio a Khabarovsk questa estate nel momento più caldo delle dimostrazioni di strada, il cui mandante sarebbe da ricercarsi proprio ad Ankara. Secondo quanto riportato da Semyon Pegov – un reporter russo di guerra che da molti anni gravita tra il Medio Oriente e la Siberia – quest’estate l’organizzazione terroristica siriana Hayat Tahrir Al-Sham, supervisionata dai servizi speciali turchi, aveva reclutato due residenti di Khabarovsk, guarda caso di origine uzbeka e di fede musulmana, per organizzare il lancio di bottiglie molotov contro la manifestazione a sostegno di Furgal, al fine di far ricadere poi la responsabilità sul governo russo e rendere ancora più incandescente di quanto non sia la situazione nella provincia. Un’azione diversiva fallita in seguito all’arresto dei due provocatori prezzolati da parte della polizia russa, ma che dimostrerebbe quanto la Turchia intenda sfruttare le contraddizioni interne russe.

L'articolo La Siberia tra il Dragone e il Sultano proviene da OGzero.

]]>