Urss Archivi - OGzero https://ogzero.org/tag/urss/ geopolitica etc Sat, 04 Dec 2021 17:32:13 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.4.6 Geova: repressione organizzata, discriminazione e pugno di ferro https://ogzero.org/la-situazione-contraddittoria-dei-testimoni-di-geova/ Fri, 19 Nov 2021 10:56:47 +0000 https://ogzero.org/?p=5380 La situazione contraddittoria dei Testimoni di Geova tra persecuzioni, assurde accuse, repressione e resistenza nel mondo, in particolare nell’ex Urss, nella Federazione russa, in Bielorussia e nelle repubbliche separatiste, raccontata da Yurii Colombo qui e in un ampio capitolo del suo nuovo libro pubblicato da OGzero, La spada e lo scudo.  I Testimoni di Geova […]

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La situazione contraddittoria dei Testimoni di Geova tra persecuzioni, assurde accuse, repressione e resistenza nel mondo, in particolare nell’ex Urss, nella Federazione russa, in Bielorussia e nelle repubbliche separatiste, raccontata da Yurii Colombo qui e in un ampio capitolo del suo nuovo libro pubblicato da OGzero, La spada e lo scudo


I Testimoni di Geova sono  stati spesso al centro delle polemiche in tutto mondo. I loro metodi di proselitismo, la forte coesione interna dei credenti, le prescrizioni e i divieti (come per esempio alla trasfusione), il loro rifiuto ostinato di esercitare il servizio militare hanno spinto talvolta alcuni paesi autoritari se non apertamente dittatoriali a reprimere i suoi aderenti. È abbastanza nota la vicenda della repressione dei Testimoni nella Germania nazista. Nell’ormai classico studio di Detlef Garbe del Between Resistance and Martyrdom: Jehovah’s Witnesses in the Third Reich è stato raccontato nel dettaglio come fu che a partire dal 1935 oltre 10.000 Testimoni di Geova, per la maggior parte di nazionalità tedesca, venissero imprigionati nei campi di concentramento hitleriani. Divennero riconoscibili nei lager tedeschi con l’infame segno sulle casacche di un triangolo viola. In seguito a partire dal 1939 una parte di loro furono deportati in altri paesi del Centro Europa e si stima che circa 5000 credenti perirono nelle prigioni e nei campi nazisti.

I Testimoni nel mondo

Durante il conflitto i Testimoni subirono persecuzioni anche negli Stati Uniti d’America. Successivamente vennero attaccati e subirono una significativa riduzione dei propri diritti in paesi autoritari come la Cina e Cuba (fuorilegge dal 1° luglio 1974 ma la misura è stata successivamente annullata), o come il Sud Africa; ma anche da paesi che si professano campioni della democrazia e dei diritti umani come la Francia. Oggi sono decine ancora i paesi del mondo che vietano il culto della religione avventista, mentre in molti altri la loro attività è appena tollerata.

Il caso più tragico resta quello dell’Eritrea. Qui tutti i cittadini tra i 18 e i 50 anni sono tenuti per legge a servire nell’esercito per 18 mesi. A causa del loro rifiuto di servire sulla base del loro credo religioso, i Testimoni di Geova sono stati privati nel paese africano della cittadinanza, è stato negato l’accesso alle opportunità di lavoro e ai benefici governativi, e sono stati arbitrariamente imprigionati in cattive condizioni.

A novembre 2020, c’erano in Eritrea 52 Testimoni di Geova imprigionati per aver partecipato a riunioni o cerimonie religiose, alla predicazione e all’obiezione di coscienza al servizio militare. Alcuni di questi Testimoni sono stati imprigionati per più di 20 anni. Secondo i rapporti forniti dalla congregazione, quattro Testimoni di Geova sono morti in prigione e tre anziani sono morti poco dopo il loro rilascio, a causa delle cattive condizioni di detenzione e dei maltrattamenti da parte delle autorità carcerarie.

 

In Russia la situazione è appena migliore

La tragica epopea sotto lo stalinismo dei credenti in Geova in Urss e la reiterazione di misure repressive nei loro confronti a partire dal 2017 anche nella Federazione russa è già stata descritta in un capitolo del mio libro La spada e lo scudo pubblicato da OGzero.

Negli ultimi mesi la situazione è restata comunque complessa: sono 73 i seguaci di Geova a oggi in prigione, 31 quelli agli arresti domiciliari mentre i casi penali che li riguardano sono oltre mille.

E a fronte della determinazione dei “fratelli” di proseguire le loro attività di culto, sono frequentissimi le perquisizioni in case private.

Come abbiamo già sottolineato il divieto della pratica e dell’attività di proselitismo della “Torre di Guardia” in Russia non può essere ricondotto alla posizione di fatto preferenziale data alla Chiesa ortodossa, visto che la sproporzione tra le due religioni in termini di influenza culturale e disponibilità economiche è abissale e il culto della religione musulmana in repubbliche autonome come il Tatarstan è ampiamente tutelato. Si tratta piuttosto della convergenza di almeno tre fattori e rimandi.

Il primo è il rifiuto dei Testimoni a prestare il servizio militare.

In un paese in cui con l’esplosione della Guerra Fredda 2.0 il confronto con l’Occidente è tornato a essere un elemento fondante della narrazione propagandistica e dove il complesso militar-industriale resta uno dei pilastri dell’economia, l’esistenza di un settore – seppur minuscolo – della popolazione che ostinatamente si dichiara contro qualsiasi collaborazione quando si tratta di imbracciare le armi rappresenta potenzialmente un pericolo per la coesione sociale. Tanto è vero che i credenti vengono perseguitati formalmente non per l’attività di proselitismo quanto per “estremismo”.

Questo aspetto si collega al secondo: il timore o la percezione degli organi dell’intelligence russa che la fede in Geova sia in realtà un cavallo di Troia del governo americano per fomentare dissidenza e opposizione in Russia.

Negli anni Cinquanta del XX secolo la denuncia dei Testimoni negli Stati Uniti delle persecuzioni subite in Urss qua e là assunse i toni – secondo alcuni studiosi – della propaganda anticomunista e anche oggi il governo americano ha fatto da megafono spesso alle denunce dei Testimoni, alimentando fobie e sospetti. I Testimoni però, da parte loro, hanno sempre negato qualsiasi legame con la Casa Bianca o la Cia: «Siamo apolitici e non interferiamo negli affari interni di qualsiasi paese in cui facciamo opera di proselitismo», sostengono i vertici dell’organizzazione religiosa.

Il terzo aspetto è la compattezza solidaristica interna dei nuclei del Testimoni, un elemento in controtendenza in una società russa sempre più atomizzata.

Tuttavia un piccolo  spiraglio ultimamente sembra essersi aperto.

Si apre uno spiraglio contraddittorio

Il 28 ottobre 2021, il plenum della Corte Suprema della Federazione russa ha stabilito che i servizi divini dei Testimoni di Geova, i loro rituali e cerimonie congiunti non costituiscono di per sé un crimine ai sensi dell’art. 282.2 del Codice penale della Federazione Russa, nonostante la liquidazione delle loro persone giuridiche. Durante la riunione della sessione plenaria, il giudice relatore Elena Peisikova ha osservato che erano emersi nuovi chiarimenti in esecuzione delle istruzioni del presidente della Russia (segnali di apertura erano venuti da Putin  già nel 2018). Inoltre, durante la riunione della Plenaria, è stato osservato che i nuovi chiarimenti sono stati ripetutamente discussi nelle riunioni del gruppo di lavoro allargato con la partecipazione dell’Fsb (i servizi segreti russi). «Sembra – ha concluso il giudice relatore – che tale spiegazione consentirà di unificare la prassi esistente di applicazione dell’articolo 282.2 del Codice penale ed evitare casi di irragionevole perseguimento delle persone unicamente in relazione alla manifestazione esterna del loro atteggiamento nei confronti della religione». Un’apertura che va in controtendenza con il rigetto delle domande dei condannati della revisione dei processi e nelle colonie penali. Ultimamente le sentenze di 11 credenti condannati sono già state esaminate nei tribunali di Cassazione, ma la legislazione russa si riserva il diritto di presentare un secondo ricorso per Cassazione – alla Corte suprema della Federazione russa. La settantenne Valentina Baranovskaya inoltre, che, nonostante un ictus subito durante le indagini, si trova in una colonia, sta preparando un ricorso per cassazione alla Corte Suprema della Federazione russa, per poter essere liberata per motivi umanitari.

Valentina Baranovskaya, la Testimone di Geova che si appella alla liberazione per motivi umanitari.

 

Dennis Christensen, cittadino danese e membro dei Testimoni di Geova, colpevole di “organizzare l’attività di un’organizzazione estremista” in Russia che è stato condannato a sei anni di carcere. Christensen, pur detenendo il passaporto danese, risiede in Russia dal 1999. È stato arrestato a Oryol nel maggio 2017, un mese dopo che il gruppo religioso era stato bandito.

Fuorilegge nell’ex Urss…

Contraddittoria appare complessivamente la situazione dei Testimoni in tutta l’ex Urss. Se in Turkmenistan e Tagikistan i seguaci di Geova sono fuorilegge e rischiano sanzioni penali e amministrative, anche in Georgia la situazione resta delicata dopo che la Corte europea dei Diritti dell’Uomo aveva denunciato una decina di anni fa una strisciante discriminazione nei confronti dei Testimoni. Non appare brillante il quadro neppure in Ucraina malgrado questo paese abbia chiesto di entrare nell’Unione Europea e di voler rispettare i diritti umani. A Kryvyj Rih, nell’Ucraina orientale, dopo che le autorità avevano rifiutato di assegnare alla chiesa un terreno per costruire un tempio la Corte europea dei Diritti dell’Uomo ha ordinato a Kiev, nel  2019, di pagare un risarcimento alla chiesa dei Testimoni di Geova.

… e accusati di essere nazisti…

Di totale chiusura verso i Testimoni è invece l’atteggiamento dei separatisti delle Repubbliche popolari di Lugansk e di Donetsk accusata di «fornire assistenza all’Sbu (i servizi segreti ucraini N.d.R.) e ai gruppi neonazisti», come ha affermato Aleksandr Basov, uno dei responsabili della sicurezza di Lugansk. «Durante l’ispezione dei locali appartenenti all’organizzazione religiosa dei Testimoni di Geova nella città di Lugansk e nella città di Alchevsk, sono stati trovati e sequestrati materiali di propaganda contenenti simboli e attributi nazisti, così come volantini che invitano alla cooperazione con i servizi speciali ucraini», ha sottolineato Basov.

… ma liberi a Minsk

Di tutt’altro segno invece, paradossalmente, la situazione in Bielorussia. Malgrado il governo di Alexander Lukashenko resti sotto la lente d’ingrandimento delle istituzioni internazionali e dei diritti dell’uomo dopo la violenta repressione delle manifestazioni antiregime dell’estate del 2020, a Minsk e nelle altre città del piccolo paese slavo i cristiani avventisti svolgono le loro attività regolarmente, compresi i battesimi di massa negli stadi. Anzi, molti Testimoni russi, sono emigrati proprio in Bielorussia e godono della protezione del governo. Nell’aprile del 2020 il tribunale bielorusso ha rifiutato l’estradizione di un Testimone richiesta dalla polizia di San Pietroburgo che lo ricercava da tempo. E non si tratta di un’eccezione. A Brest e in altre città della Bielorussia molti russi credenti in Geova sono stati rilasciati dalla polizia dopo normali controlli e continuano la loro vita di ospiti-esuli del paese senza problemi particolari. Non si può prevedere quale sarà l’atteggiamento di Minsk nei confronti della piccola organizzazione religiosa nel futuro visti i legami politici oltre che economici sempre più stretti tra la Russia e la Bielorussia, ma a oggi l’atteggiamento delle autorità bielorusse resta quello della prudente apertura.

Pavel Yadlovsky, il presidente dell’organizzazione bielorussa dei Testimoni di Geova, attribuisce il rifiuto dell’estradizione al fatto che i Testimoni di Geova operano legalmente in Bielorussia. Sono registrati come un’organizzazione nazionale autogestita con 27 gruppi a livello di comunità in varie città. «È difficile dire [perché le richieste di estradizione sono state negate]. Forse ci sono differenze nella formulazione degli articoli sull’estremismo nella legislazione russa e bielorussa che hanno permesso all’ufficio del procuratore di prendere una tale decisione», suggerisce Yadlovsky.

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Afghanistan: tolto il ciocco che attizza il fuoco, il vuoto si riempie di caos https://ogzero.org/il-vuoto-che-si-riempie-di-caos/ Tue, 15 Jun 2021 07:32:13 +0000 https://ogzero.org/?p=3819 Gli anni del Great Game afgano superano ormai la quarantina, la popolazione è stremata da scontri e Signori della guerra e non ne può più di scontri. E forse su questo si può contare affinché le forze talebane non ripetano l’esperienza di un regime oscurantista intollerabile. In un articolo per “Atlante delle Guerre” Emanuele Giordana […]

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Gli anni del Great Game afgano superano ormai la quarantina, la popolazione è stremata da scontri e Signori della guerra e non ne può più di scontri. E forse su questo si può contare affinché le forze talebane non ripetano l’esperienza di un regime oscurantista intollerabile. In un articolo per “Atlante delle Guerre” Emanuele Giordana espone queste speranze, ribadite ai nostri microfoni nel podcast estratto da Radio Blackout, mentre Giuliano Battiston si aggira per Kabul, registrando umori, scelte di campo, decisioni che gli afgani di ogni comunità, stirpe, ceto o credo religioso si ripromettono di seguire nel momento in cui lo straniero se ne sarà andato. E lo fa stilando un diario di appunti quotidiano, pubblicato su “Lettera22“, che riporta le molteplici ricostruzioni dei giochi di potere, a seconda dell’interlocutore. Intanto la violenza cresce e il vero pericolo è questo: il vuoto che si riempie di caos.


Il futuro dell’Afghanistan

Emanuele Giordana ci ricorda che in passato, in questi 40 anni di guerra continua e occupazioni, i “ritiri” non sono mai stati indolori e auspica un livello di cooperazione internazionale che permetta sostegno vero alla popolazione, a guida Onu e non della Nato che comprenda anche i paesi musulmani, per evitare che il vuoto non porti a una soluzione pacifica.

La dipartita completa delle truppe straniere dall’Afghanistan prevista a settembre solleva una serie di preoccupazioni, in parte condivisibili in parte forse sovrastimate, che sembrano a volte sottintendere che, magari… sarebbe stato meglio restare. Tensione e timori sono comprensibili, assai meno una specie di racconto del caos in cui l’Afghanistan precipiterebbe proprio perché noi ce ne andiamo. Con un ragionamento molto semplice e quasi banale, viene infatti da pensare che, se si leva dal fuoco il ciocco più grosso (la guerra contro gli stranieri), dovrebbe esser più facile governare le ceneri per quanto ancora calde. La Storia può dare una mano.

1989: Quando le donne non portavano il burqa

Quando nel 1989 dopo dieci anni di una guerra fallimentare l’Urss si ritirò dall’Afghanistan, nessuno si preoccupò del baratro su cui il paese era sospeso: con una guerra civile in corso, uno stato fallimentare ormai privo di aiuti (che l’Urss cominciò a sospendere dal ritiro) e un futuro oscuro per donne che, all’epoca del soviet afgano, erano ministre o direttrici di giornali che non portavano il burqa. Proprio quanto avvenne ai tempi dell’Urss dovrebbe servire di lezione perché col ritiro delle truppe andrebbe previsto un piano a lungo termine, una visione per ricompensare almeno in parte i danni di un conflitto durato vent’anni. Allora non era semplice farlo ma oggi si può.
Quando dopo gli accordi di Ginevra dell’aprile 1988 Urss, Usa e Pakistan si accordarono sul ritiro dell’Armata rossa, a patto che nessuno più finanziasse la resistenza, a maggio iniziò il ritiro dei soldati che si concluse in febbraio. Il governo di Najibullah però resisteva: è nota la battaglia di Jalalabad dell’aprile 1989 quando i mujahedin, che Usa e Pakistan continuavano a rifornire violando gli accordi, non riuscirono a prendere la città che sta sulla frontiera col Pakistan, retroterra dell’intera coalizione guerrigliera. Fu solo dopo il 1990 che le cose si complicarono: gli Usa smisero di sostenere i combattenti islamici (ma non cosi Islamabad e Riad) mentre Gorbachov si rifiutò di continuare a pagare Najibullah. Non potendo più erogare gli stipendi, il suo esercito si sciolse come neve al sole e i mujahedin, gente non molto più progressista dei Talebani, entrarono vittoriosi a Kabul dove iniziarono a guerreggiare tra loro.

Un gruppo di mujaheddin nella provincia di Kunar nel 1987 (foto erwinlux).

2021: il consenso dei Talebani al lumicino

Trent’anni dopo, pur con tutte le differenze, siamo a un punto simile. I Talebani controllano in parte campagne e piccoli centri ma hanno un consenso al lumicino, fiaccato da vent’anni di guerra. Non possono prendere le città e, in presenza di un piano di reclutamento nelle file dell’esercito nazionale, si troverebbero senza manodopera. Continuando a finanziare l’esercito afgano con stipendi decorosi e stimolando la creazione di un partito politico (non sarebbe il primo partito radicale dell’Afghanistan), i Talebani potrebbero essere coinvolti nel gioco parlamentare, con qualche ministero e posti nell’amministrazione pubblica e nell’esercito. Quanto alle donne afgane, esse hanno da temere dai Talebani non molto più di quanto già non debbano temere da una società maschile che non ha risparmiato loro, nemmeno in democrazia, la negazione dei diritti fondamentali.

Kabul 2004 (foto timsimages.uk).

Naturalmente è necessario continuare a sostenerle, finanziando i loro progetti e rafforzando una società civile cui i governi Karzai e Ghani hanno sempre riservato uno spazio esiguo.

Jalalabad 2021, proteste delle donne del Nangarhar.

L’Italia, per esempio, ha speso per l’apparato militare 8,4 miliardi di euro in 20 anni (cui vanno forse detratti spiccioli della cosiddetta cooperazione civile-militare). Solo 320 in cooperazione civile, nemmeno il 5 per cento…

Il quadro di accompagnamento

La comunità internazionale e l’Italia potrebbero allora lavorare a un piano che preveda un forte aumento della spesa di cooperazione, un sostegno politico alle istituzioni, riconfermando un contributo finanziario per molti anni con dei paletti, e l’appoggio alle ong – locali e internazionali – attive nel paese. Andrebbe aggiunto un quadro di “accompagnamento” guidato dall’Onu – non certo dalla Nato – con l’allargamento a partner regionali (Russia compresa) finora tenuti fuori dai negoziati. Una riformulazione dell’impegno potrebbe anche passare dall’impiego, se davvero necessario, di una forza di interposizione a guida Onu che coinvolga anche i paesi musulmani, dall’Indonesia al Marocco. Ma di tutto ciò, a parte un’iniziativa turca – che proprio perché nelle mani di Erdogan lascia perplessi – nulla si vede tranne qualche frase di rito che appare un po’ retorica. Se tornare a casa lascerà un vuoto sarà più facile che a riempirlo sia il caos.

Kabul: l’attentato del 13 giugno 2021.


Diario afgano

E a riempire il caos con voci dissonanti raccolte estemporaneamente ci pensa Giuliano Battiston con l’esordio del suo diario kabulino, pubblicato da “Lettera22”, la prima e la seconda puntata raccontano la nascita della “seconda resistenza” all’oscurantismo talebano.

«Piuttosto che finire sotto i Talebani prendo un’arma anche io». Abdul (nome di fantasia) è avvocato, lavora in un progetto per la riforma della giustizia, con fondi americani. Parla di transitional justice, ma se si mette male si dice pronto a fare quello che non ha mai fatto: “prendere un’arma”. Il giovedì pomeriggio il caffè Simple, nel quartiere di Kart-e-Char, si riempie di giovani come lui. Ventenni e trentenne istruiti, che parlano inglese e chiacchierano nei caffè del quartiere, a poche centinaia di metri dall’università di Kabul, chiusa per Covid.

È un tardo pomeriggio prefestivo. Tavolini e panchetti esterni sono pieni. Incontriamo quattro ragazzi, tre hanno avuto il Covid. Uno indossa la mascherina. Molto meno congestionata del solito, la città non si spenge. «Come potranno i Talebani controllare una città come questa, cinque milioni di abitanti, oppure Herat, la stessa Kandahar?».

Sotto i Talebani, qui non ci vogliono stare. Come altrove nel paese. «Siamo pronti alla pace ma anche alla guerra», ripetono tutti. È tempo di “moqawamat-e-do”, di una seconda resistenza. Contro l’eventuale offensiva militare dei Talebani, si sta formando un’alleanza armata simile a quella che ha resistito negli anni Novanta all’Emirato islamico.

«Retrospettivamente, con prima resistenza si intende quella condotta contro i Talebani dalla cosiddetta Alleanza del Nord, soprattutto il Jamiat-e-Islami, il Jumbesh-e-Milli e il Hezb-e-Whadat. La “seconda resistenza” è un termine diffuso da qualche mese dagli stessi protagonisti», ci spiega Ali Adili, ricercatore dell’Afghanistan Analysts Network, che sul tema ha appena pubblicato un articolo informato.

La seconda resistenza nasce dall’impasse del processo negoziale intra-afghano. «Mi pare che nessuno dei due attori, Talebani e fronte repubblicano, consideri più il processo di pace come il piano A», ci dice Ali Adili. «Entrambi hanno intensificato il conflitto. I Talebani occupando nuovi distretti, il governo concentrandosi sulle capitali provinciali». Il fronte repubblicano è più diviso che mai. «Non c’è una strategia comune, nessun consenso su cosa fare». Lo dimostra l’impasse sul Consiglio Supremo di Stato.

Kabul divisa, periferie in fermento

Il ritiro delle truppe innesca dinamiche nuove: si gonfiano i muscoli e ci si arma. Rivendicando sui social le milizie, oltre l’autorità di Kabul. «Restando attaccato al potere Ghani ostacola la soluzione. L’unico modo per uscire dall’impasse è convincerlo a farsi da parte, facendo nascere un governo a interim», ci raccontano due abituali interlocutori qui, nella capitale afghana. La sovranità centrale del governo e delle stesse forze di sicurezza viene apertamente sfidata. «Se non è in grado di proteggerci, lo faremo da noi», si dice. Sul cancello non lontano dall’ingresso della scuola Sayed al-Shohada, nel quartiere sciita di Dasht-e-Barchi, dove un mese fa un attentato ha ucciso 85 studentesse, uno striscione funebre chiede giustizia, «o ci prenderemo la nostra vendetta».

Alla scuola Sayed al-Shohada, i familiari delle studentesse ferite nell’attentato chiedono sostegno (foto Giuliano Battiston).

Ci si protegge da sé. Il processo di pace mal gestito da Washington ha rafforzato i Talebani, «che rimangono un movimento sostanzialmente pashtun», sottolinea ai tavolini del caffè Simple Abdul, la cui famiglia viene da Bamiyan. «Per noi sono come i fascisti che voi avete combattuto in Europa», sostiene Jawad, che lavora in una ong. Canteranno pure vittoria, ma non si illudano di prendere Kabul e le città, i Talebani. La seconda resistenza nazionale è pronta.

Nel suo articolo Ali Adili elenca una serie di casi. A Herat, nella sua residenza il dominus della provincia Ismail Khan, Jamiat-e-Islami, celebra i vecchi mujahedin, accoglie nuovi uomini armati e si dice pronto: «Abbiamo più di 500.000 uomini, difenderemo questa terra. Il governo centrale ci lasci fare». Ahmad Massud, figlio del comandante Massud, si dice pronto a «restaurare il vero sistema islamico che era obiettivo dei nostri martiri e mujahedin». L’ex peso massimo del Jamiat e ora fuoriuscito, Atta Mohammad Noor, dice ai Talebani che è bene «capiscano che siamo ancora vivi e che la nazione si difenderà».

L’hazara Mohammed Mohaqeq manda messaggi simili. Nell’Hazarajat spunta la milizia “Dai Chahar”. L’ex presidente Karzai dichiara a “Der Spiegel”: «stiamo serrando i ranghi e organizzando la resistenza. Dico al Pakistan: siate ragionevoli». A Maimana, capoluogo della provincia nordoccidentale di Faryab, gli uomini del generale Dostum e del suo Jombesh-e-Melli si oppongono con le armi all’insediamento del governatore provinciale, scelto dal palazzo presidenziale.

Sull’“Atlantic Council”, Tamim Asey, già viceministro della Difesa afghano, scrive che i Talebani «vanno dissuasi militarmente dall’idea di cercare la vittoria con la guerra». La “resistenza 2.0 è inevitabile” e sarà fatta anche di milizie, sostenute dagli attori regionali anti-Talebani.

«Ci aspettano tempi bui», dicono i ragazzi del caffè Simple. Sulla strada per casa, superato il passo Gardanah-ye Sakhi e scendendo verso la grande arteria Salang Wat, sventola un bandierone. Non è nero, rosso e verde. Non è la bandiera nazionale della Repubblica islamica d’Afghanistan. È verde, bianca e nera: la bandiera dello Stato islamico d’Afghanistan. Il governo di Rabbani e dei mujahedin anti-Talebani.

Le voci sul presidente Ghani

Kabul – Incontro Seema– nome di fantasia – nel suo ufficio con aria condizionata di Qala-e-Fatullah. È direttrice di una ong che ha fatto propria la liturgia liberale del periodo post-Talebano: democracy, empowerment, good governance, civil society. Progetti, progetti, progetti. Partner o donatori sono Usaid, le ambasciate britannica, danese e statunitense, tra gli altri. Ha ricoperto incarichi importanti nelle istituzioni. Lamenta il disimpegno diplomatico e finanziario della comunità internazionale, parallelo al ritiro delle truppe. Sa che i fondi verranno meno. Sul fronte interno dice che «c’è una sola soluzione: convincere Ghani a farsi da parte».

Il negoziato tra Talebani e fronte repubblicano è lento. La violenza cresce. Le posizioni negoziali sono più rigide di prima. I Talebani capitalizzano il ritiro delle truppe straniere, guadagnano distretti, fanno propaganda. Il governo riproduce il conflitto intorno a sempre nuovi corpi istituzionali che servivano a disinnescarlo. Contenitori costruiti per concedere potere a chi non lo aveva. L’Alto consiglio per la riconciliazione nazionale, l’organismo creato per far ingoiare ad Abdullah Abdullah il nuovo mandato di Ghani dopo le ultime contestate elezioni, ancora non è del tutto formato. Eppure ora ci si accapiglia su struttura, mandato e nomi del Consiglio supremo di stato.

(Foto Giuliano Battiston)

Previsto nell’accordo del maggio 2020 «per accomodare chi era rimasto escluso dall’accordo tra Ghani e Abdullah, soprattutto Rabbani, Karzai, Hekmatyar», ci spiega Ali Adili, dell’“Afghanistan Analysts Network”.

Una seconda resistenza

Nel paese intanto si parla apertamente di una seconda resistenza, come quella dei mujahedin contro i Talebani. Milizie sostenute da attori regionali anti-Talebani, suggerisce qualcuno. In posti come Sar-e-Pul, Samangan, che non sono mai finiti sotto il controllo degli studenti coranici, ci si attrezza.

«Una parte del quadro politico imputa al presidente una resistenza eccessiva. Ghani ritiene di poter inglobare i Talebani nelle strutture esistenti, concedendo porzioni di potere. Ed esclude invece il governo a interim», sostiene Adili. Già prima delle elezioni presidenziali, Ghani aveva resistito alle pressioni per rinunciarvi in favore di un governo di transizione. Cercava un mandato forte da giocare sul tavolo negoziale con i Talebani. Ne è uscito con elezioni contestate e un mandato debole. «Il governo non è migliore dei Talebani», dice più di uno, qui a Kabul. Ci si fida poco dei Talebani quanto del governo.

Per Seema, Ghani è il problema. Talmente attaccato al potere da essere «pronto a trasferire il palazzo presidenziale a Paghman e continuare a governare da lì, anche se i Talebani prendessero Kabul… Ma sono solo rumors», precisa. Uno dei ragazzi hazara del caffè Simple, ieri raccontava una storia diversa, su Ghani: «Pur di non lasciare il paese in mano a non-pashtun, è disposto a darlo ai Talebani e a tornarsene negli Usa».

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Il Kgb: dalla bionda (atomica) di 007 agli anarchici dei Caraibi https://ogzero.org/kgb-da-ian-fleming-alla-realta/ Sun, 28 Mar 2021 13:31:03 +0000 https://ogzero.org/?p=2725 Pubblichiamo il secondo articolo di Yurii Colombo dedicato alla storia delle spie e dei servizi segreti russi. Come il primo, sarà accompagnato da una videointervista di approfondimento all’autore trasmessa in diretta streaming l’11 aprile sui nostri profili social. Questa nuova puntata focalizza l’attenzione sul periodo che va dalla fine della Seconda guerra mondiale ai primissimi […]

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Pubblichiamo il secondo articolo di Yurii Colombo dedicato alla storia delle spie e dei servizi segreti russi. Come il primo, sarà accompagnato da una videointervista di approfondimento all’autore trasmessa in diretta streaming l’11 aprile sui nostri profili social. Questa nuova puntata focalizza l’attenzione sul periodo che va dalla fine della Seconda guerra mondiale ai primissimi anni Sessanta, quel tempo storico che fu oggetto di sceneggiature e romanzi in cui la Russia progettava il proprio programma nucleare e che sancì il passaggio dall’Nkvd al famigerato Kgb. Ed ecco gli anni della famosa “linea rossa” diretta tra Usa e Urss, del controspionaggio, dei doppiogiochisti americani e della crisi dei missili a Cuba.


Da Ian Fleming alla realtà e viceversa

Nel 1963 la versione cinematografica del romanzo di Ian Fleming Dalla Russia con amore, il giallo che narra la vicenda di una avvenente spia sovietica desiderosa di passare con l’Occidente (la Tatiana Romanova interpretata dall’italiana Daniela Bianchi), ebbe un enorme successo di pubblico in tutto il mondo. Si era in piena Guerra Fredda e l’idea che un’ingenua ragazza russa non anelasse altro che finire tra le braccia di un agente dei servizi di Sua Maestà, piacque agli spettatori del “mondo libero”.

La corsa all’atomo con gli Usa

La Guerra Fredda era iniziata 18 anni prima – prima ancora delle celebri frasi di Churchill sulla cortina di ferro – quando il presidente americano Harry Truman aveva deciso di far esplodere due bombe atomiche sul Giappone. Stalin ne fu profondamente colpito e mise nelle mani del fidato Lavrentij Berija il progetto di costruire la propria atomica socialista. Berija era a capo della Nkvd e tale posizione gli dava la possibilità di mobilitare la forza-lavoro del GULag per quel progetto (forza-lavoro manuale per la costruzione dei centri di ricerca e sperimentazione e scientifica, e forza-lavoro intellettuale, spesso anch’essa detenuta nei GULag, per la ricerca e la sperimentazione). Inoltre attraverso i servizi il tecnocrate georgiano tentò – con successo – di ottenere preziose informazioni segrete dagli Stati Uniti che accelerassero la corsa militare all’atomo. Secondo il professor Igor Golovin «a quel tempo le capacità direttive di Berija erano evidenti per tutti noi. Aveva un’energia fuori del comune. Le riunioni non si protraevano per ore; tutto veniva deciso molto in fretta. Avevamo un unico pensiero in mente: che cosa dovevamo fare per finire il lavoro al più presto possibile, prima che la bomba atomica americana ci cadesse sulla testa. La paura di una nuova guerra nucleare era più importante di tutto il resto; può confermarlo chiunque abbia vissuto quel momento», ha ricordato ancora il fisico.

Malenkov, Berija e Stalin

Il controspionaggio americano

Malgrado sia stato riconosciuto recentemente che l’Urss giunse in gran parte con le proprie forze a creare la Bomba H, il contributo della rete di spie e informatori in America velocizzarono la ricerca. La spia Harry Gold controllata dall’agente Semyon Semyonov riuscì a ottenere dei rapporti nell’industria chimica americana, ma le informazioni più sensibili giunsero da due scienziati americani che avevano lavorato al Manhattan Project a Los Alamos.

Nel 1950 i russi ammettono di possedere la bomba atomica

Inoltre Klaus Fuchs e Theodore Hall, due fisici teorici, con l’assistenza di Lona Cohen (una spia comunista americana poi emigrata in Urss) e dell’ingegnere elettronico Oscar “Godsend” Seborer, fornirono importanti indicazioni e notizie che permisero agli scienziati russi di velocizzare i loro studi. Seborer confesserà di aver aiutato i russi solo alla fine degli anni Novanta, non perché guidato da ideali comunisti ma perché riteneva pericoloso il monopolio americano della bomba atomica. Fuchs, invece, scoperto dall’intelligence americana sarà poi condannato a 14 anni di reclusione negli Usa. La vicenda ebbe come ricaduta secondaria l’esplosione del caso Rosenberg: nel clima da caccia alle streghe i due coniugi comunisti vennero condannati alla sedia elettrica ma la querelle sulla loro colpevolezza è arrivata fino ai giorni nostri (la tesi più accreditata oggi è che i coniugi avessero realmente collaborato con i sovietici ma non in relazione alla bomba atomica fornendo informazioni su radar difensivi e dispositivi di artiglieria). Nello smantellamento dell’attività di spionaggio atomico sovietico giocò un ruolo importante il cosiddetto Venona Project una collaborazione sistematica organizzata tra Cia e MI5 per sventare i tentativi di interferenza sovietica in Occidente che proseguì fino al 1980.

Julius e Ethel Rosenberg (foto di Roger Higgins – Library of Congress Prints and Photographs Division, New York)

La grande trasformazione: nasce il Kgb

Nel marzo del 1954 la Sicurezza di Stato sovietica subì la sua più importante riorganizzazione postbellica. L’Nkvd fu trasformato in Comitato per la Sicurezza dello Stato, Kgb (Komitet Gosurdarstvennoij Bezopasnosti), il quale venne posto formalmente alle dipendenze del Consiglio dei ministri, nel tentativo di tenere sotto controllo politico la struttura dopo la dipartita di Stalin. Il primo capo del Kgb divenne il quarantanovenne generale Ivan Serov, noto soprattutto per la brutale efficienza con cui aveva eseguito in tempo di guerra le deportazioni dal Caucaso e schiacciato l’opposizione anticomunista negli stati baltici e nell’Europa orientale.

La mano pesante di Serov a Tblisi e Budapest

I primi avvenimenti che Serov dovette affrontare non furono proprio di ordinaria amministrazione. Nel 1956, pochi giorni dopo la denuncia dei crimini di Stalin da parte di Nikita Khruscev durante la sessione chiusa del XX Congresso del Pcus, scoppiò una sommossa a Tblisi a difesa dell’onore perduto del dittatore georgiano. La rivolta – in buona parte giovanile e nazionalista – preoccupò non poco i vertici del Kgb che mandarono in loco un gruppo di agenti. Filipp Bobkov – che allora era un agente in erba del Comitato – racconta nelle sue memorie che il loro intervento una volta appurato che le manifestazioni non avevano obiettivi direttamente politici e non erano state alimentate da governi stranieri, evitò un’inconsulta repressione e calmò gli animi. Restarono comunque uccisi 150 dimostranti.

Qualche mese dopo, in autunno, la mano del Kgb, guidata da Ivan Serov (chiamato dalla stampa occidentale “il macellaio”) sarà assai più pesante quando lavorerà sottotraccia prima per isolare il primo ministro ungherese, il riformatore Imre Nagy, e poi per gestire l’ondata repressiva contro gli insorti di Budapest.

La Finlandia di Kekkonen in bilico tra Occidente e Oriente

Sempre nel 1956 quando fu eletto presidente della Finlandia Urho Kaleva Kekkonen, esponente politico del partito agrario finlandese, a Mosca pensarono di aver vinto alla lotteria. Infatti Kekkonen non solo incontrava regolarmente un agente del Kgb ma accettava di buon grado i consigli che gli venivano dati dall’ambasciata sovietica a Helsinki, al punto tale che Khruscev lo considerava un “suo uomo”. Qualche volta accettò di inserire nei propri discorsi le “tesi” preparate dalla Divisione Internazionale del Comitato Centrale del Pcus recapitate tramite il residente russo nella capitale finlandese. Restò alla presidenza del suo paese per ben 18 anni, fino al 1982, e nella commedia degli equivoci, l’Urss pensò di aver avuto per quasi un ventennio un ammiccante capo di stato disposto a qualsiasi concessione e posizione filorussa compreso il rifiuto di accettare gli aiuti del piano Marshall. In realtà, come ha dimostrato ampiamente la storiografia finlandese l’obiettivo di Kekkonen era esplicitamente quello di salvare l’indipendenza del suo paese dagli artigli dell’Orso sovietico. Nel gioco doppio, triplo e quadruplo di ogni relazione diplomatica e informativa, il piccolo paese nordeuropeo riuscì così a cavarsela, restando in bilico tra Occidente e Oriente.

Il presidente finlandese Urho Kekkonen all’arrivo negli Stati Uniti, accolto da J.F. Kennedy, ottobre 1961.

Castro, all’altro capo del mondo

All’altro capo del mondo Fidel Castro che diventerà negli anni Sessanta la punta di lancia della geopolitica sovietica internazionale, neanche tanto paradossalmente, fu visto a lungo dal governo russo e dal Kgb come un elemento inaffidabile, troppo indipendente e alla testa di un movimento nazionalista poco controllabile.

Il Secondo Dipartimento (quello del Kgb per l’America latina) dei servizi esteri colse per primo la potenzialità di Castro. Il primo a rendersene conto fu un giovane ufficiale, Nikolai Leonov, che conosceva la lingua spagnola, distaccato negli anni Cinquanta nell’ufficio di Città del Messico. Castro che era stato due anni in carcere per avere organizzato l’attacco a una caserma, quando fu liberato, trascorse un anno in esilio nel Messico, e si rivolse all’ambasciata sovietica chiedendo armi per la guerriglia contro Batista. Le armi gli furono rifiutate, ma Leonov era rimasto immediatamente impressionato dal carisma e dalla determinazione di Castro come capo guerrigliero.

Il Cremlino e gli “anarchici dei Caraibi”

Nell’autunno del 1959, quando la rivoluzione aveva già vinto, una delegazione cubana diretta da Raúl Castro si recò a Praga per discutere la possibilità di un’assistenza militare cecoslovacca. Raúl piacque ai cechi che diedero a Khruscev il via libera per stringere relazioni più strette con “gli anarchici dei Caraibi” come venivano chiamati ironicamente al Cremlino.

Una delle prime spericolate azioni organizzate dal Kgb nel dicembre 1959 fu quella di far volare a L’Avana due crittografi americani Bernon F. Mitchell e William H. Martin con in tasca importanti informazioni top secret. I due fuggirono poi definitivamente a Mosca nel settembre 1960 portandosi con sé molte informazioni sensibili. In una conferenza stampa che fece storia e che provocò l’imbarazzo di tutte le cancellerie mondiali, denunciarono che la Cia decifrava le comunicazioni di diversi alleati americani tra cui, a detta di Martin, figuravano anche «l’Italia, la Turchia, la Francia, gli Emirati Arabi, l’Indonesia, l’Uruguay». Sempre nello stesso periodo a libro paga del Kgb venne posto Jack E. Dunlap, un ufficiale Usa di basso rango che lavorava alla base militare di Fort Meade. Dunlap che aveva il vizio delle roulette e delle belle donne, in cambio di danaro, nel giro di tre anni fornì ai sovietici manuali d’istruzioni e di riparazione, modelli matematici, disegni costruttivi delle più segrete macchine di crittografazione degli Stati Uniti. Ebbe anche accesso alle valutazioni della Cia sugli effettivi sovietici e delle loro forze missilistiche in Europa orientale, soprattutto quelle collocate nella Repubblica Democratica Tedesca (Ddr). Nel 1963 però, dopo essere stato sottoposto alla macchina della verità, Dunlap, si suicidò.

Fidel Castro e Nikita Khrushev si fanno strada tra la folla, 1960 (foto di Herman Hiller – World-Telegram & Sun Photograph Collection – Library of Congress).

Gli avventurieri dei primi anni Sessanta

In quel periodo il Kgb, non potendo più contare come negli anni Trenta e Quaranta su agenti fedeli agli ideali del socialismo come erano stati Trepper o a suo modo anche Philby, iniziò ad affidarsi ad avventurieri di ogni tipo. Come Robert Lee Johnson già ufficiale americano in attività a Berlino Ovest con il vizietto della bottiglia e delle scommesse clandestine, il quale una volta rientrato negli Usa iniziò a rendere i suoi servigi all’ambasciata russa. Il 15 dicembre 1961, Johnson entrò per la prima volta in una camera blindata dell’agenzia di sicurezza americana, riempì una borsa da viaggio dell’Air France di sacchetti sigillati contenenti materiale crittografico e documenti top-secret, e la portò nel luogo dove lo attendeva l’agente Felix Ivanov, che consegnò poi il tutto alla residenza del Kgb presso l’ambasciata di Parigi. Una squadra di tecnici, già in attesa, tolse i sigilli, fotografò i documenti, li rimise nei sacchetti e ripristinò i sigilli. Nel giro di meno di un’ora la borsa Air France era di nuovo in viaggio verso Johnson, che rimise il contenuto nella camera blindata molto prima dello scadere del proprio turno di guardia. A fine aprile 1962 Johnson aveva consegnato ben 17 borsoni pieni di documenti ai sovietici che comprendevano dati sul sistema di decifrazione americano, l’ubicazione delle testate nucleari Usa in Europa, i piani difensivi della Nato e degli Stati Uniti, al Kgb. Johnson riuscirà infine a scappare a Mosca dove visse il resto dei suoi giorni da nababbo sovietico.

Non tutto però filò lisciò in quel periodo. Almeno 3 agenti sovietici passarono armi e bagagli al nemico: Nikolay Koklov, Anatolij Golitsyn e soprattutto Bohdan Stashynsky autore dell’uccisione in Germania Ovest del capo della destra collaborazionista ucraina Stepan Bandera durante la Seconda guerra mondiale. Stashynsky fu processato a Karlsruhe nell’ottobre 1962 e condannato a otto anni di carcere per complicità in omicidio. In seguito a queste “disconnessioni” furono licenziati o retrocessi 17 ufficiali del Kgb secondo quanto riportato da Golitsyn nelle sue memorie.

Golitsyn, Koklov e Stashynsky

I missili a Cuba e la “linea rossa” tra Kennedy e Khrushev

Ma il momento in cui le strutture dei servizi russi furono messe più a dura prova fu durante la crisi dei missili a Cuba nell’estate del 1962 dopo il fallimentare tentativo americano dell’anno precedente di invadere l’isola rivoluzionaria alla Baia dei Porci. Quando i tecnici sovietici cominciarono a costruire a Cuba le rampe di lancio per missili nucleari uno dei compiti principali affidati al Kgb fu quello di costruire informazioni che potessero filtrare in ambienti ben introdotti tra i Kennedy, installare un canale privato per i contatti con la Casa Bianca dove diffondere false informazioni mentre a Cuba venivano piazzati i missili sovietici. L’addetto incaricato di ciò fu Georgy Bolshakov, un ufficiale del Kgb che operava a Washington sotto la copertura di giornalista. Per più di un anno, già prima della crisi dei missili, Bolshakov si trovò a fungere da “linea rossa” – come lui la definiva – e da “canale di comunicazione segreto” tra John Kennedy e Nikita Khruscev. Bolshakov era un uomo di punta dei servizi russi all’estero, tanto è vero che era stato utilizzato l’anno prima a Berlino quando Khruscev aveva deciso di costruire il muro. Presentato da un giornalista americano a Robert Kennedy, nel maggio 1961, cominciò ad avere con lui regolari incontri quindicinali. Bolshakov convinse Robert Kennedy che poteva aggirare il ponderoso protocollo della diplomazia ufficiale e conoscere direttamente le opinioni di Khruscev e «parlare in modo diretto e aperto senza ricorrere alle battute propagandistiche di repertorio usate dai politicanti». Secondo Bolshakov, «entrambe le parti fecero largo uso» del canale di comunicazione da lui fornito.

29 ottobre 1962: Riunione dell’Executive Committee of the National Security Council (foto di Cecil Stoughton, White House, John F. Kennedy Presidential Library and Museum)

Malgrado ciò la scommessa di Khruscev si concluse con un mezzo fallimento e fu costretto a desistere dall’installare i missili nell’isola caraibica proprio perché la Cia convinse Kennedy che quello del leader sovietico non era altro che un bluff, seppure ben congegnato. Secondo alcuni fu allora che entrò in scena Lee H. Oswald…

Bibliografia consigliata:

Vladimir Antonov, Vladimir Karpov – Taynje Informatory Kremlja. Očerki o sovietskich razvedčikach, Moskva, Veče, 2011.

Christopher Andrew, Oleg Gordievskij – La storia segreta del Kgb, Milano, Rizzoli, 2017.

Christopher Andrew, Vasili Mitrokhin – The Mitrokhin Archive: The KGB in Europe and the West, London, Penguin, 2018.

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