uranio Archivi - OGzero https://ogzero.org/tag/uranio/ geopolitica etc Fri, 15 Dec 2023 17:29:34 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.4.6 Bhopal, la tragedia tra crimini ambientali e industriali https://ogzero.org/bhopal-la-tragedia-tra-crimini-ambientali-e-industriali/ Fri, 15 Dec 2023 17:28:30 +0000 https://ogzero.org/?p=12139 Bhopal: fu il primo e più clamoroso disastro industriale con copertura mediatica a diffusione internazionale, utile solo a scatenare l’indignazione del mondo ignaro delle condizioni in cui si lavora(va) nelle fabbriche del mondo, in particolare in quelle prive anche delle minime tutele non sempre rispettate nei paesi “occidentali” (solo in Italia basterebbe citare la diossina […]

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Bhopal: fu il primo e più clamoroso disastro industriale con copertura mediatica a diffusione internazionale, utile solo a scatenare l’indignazione del mondo ignaro delle condizioni in cui si lavora(va) nelle fabbriche del mondo, in particolare in quelle prive anche delle minime tutele non sempre rispettate nei paesi “occidentali” (solo in Italia basterebbe citare la diossina di Seveso… fino all’Ilva a Taranto, o il disastro della Thyssen-Krupp a Torino). Può tornare utile rinfrescare la memoria di questo 39° anniversario in un periodo in cui gli apprendisti stregoni soffiano su pozioni magiche e addirittura torna forte il “vento nucleare” come soluzione energetica “pulita”, anche proposta a cuor leggero come alternativa al fossile all’ultima Cop28 di Dubai.

Grazie alla Raghu Rai Foundation per la concessione delle immagini.


Nota come la Hiroshima dei disastri industriali, la tragedia del gas di Bhopal compie quest’anno 39 anni. La notte del 2 dicembre 1984, 45 tonnellate di isocianato di metile (MIC), altamente pericoloso, fuoriuscirono dall’impianto di insetticidi della Union Carbide Corporation, un importante produttore americano di prodotti chimici e protochimici nella città di Bhopal, nel Madhya Pradesh. I sistemi di sicurezza che avrebbero dovuto contenere il gas ed evitarne la fuoriuscita non funzionarono, facendo sì che il gas si diffondesse in ogni parte di Bhopal, esponendo ad esso mezzo milione di persone: circa 25.000 morirono e altre 120.000 stanno ancora soffrendo le conseguenze dei crimini industriali della Union Carbide.

La Union Carbide India Corporation (UCIC) e la Green Revolution

La Union Carbide India Corporation si era costruita una reputazione prima della tragedia. Con un fatturato annuo di 9 miliardi di dollari, l’impegno dell’azienda nelle guerre mondiali ne ha trasformato la crescita: all’inizio della Seconda guerra mondiale l’azienda produceva uranio e concentrati di quel materiale così centrale nelle produzioni radioattive e, poco dopo, divenne la 37a più grande al mondo, costruendosi una solida reputazione. A metà degli anni Venti la UCC mise piede in India, inizialmente producendo batterie a Calcutta, dando vita alla Ever Ready Company Ltd nel 1934. La crescita continua portò alla costruzione della fabbrica di pesticidi di Bhopal nel 1969. L’impulso a produrre pesticidi era strettamente collegato all’ambizione dell’India di essere autosufficiente dal punto di vista alimentare, nota come “Green Revolution” e le carestie dell’India britannica con i loro effetti di lunga durata incrementavano un bisogno urgente di raccolti più abbondanti. Per UCC questo significava un mercato vergine per la produzione di pesticidi.

Bhopal

L’impianto della Union Carbide, 1984 (© Raghu Rai Foundation)

Tuttavia, gli agricoltori indiani che già dovevano affrontare condizioni climatiche estreme come siccità e inondazioni stavano subendo danni alle colture e perdite finanziarie, per cui questi costosi pesticidi divennero inaccessibili. A causa della mancanza di acquirenti, l’azienda subì una perdita di 4 milioni di dollari nel 1984 ma la Union Carbide India Corporation celebrò quell’anno il suo 50° anniversario, con un fatturato annuo di 200 milioni di dollari e 14 impianti già installati in tutta il paese. Tuttavia le previsioni di fatturato furono disattese e la UCIC progettò di liquidare l’impianto, smantellandolo e trasferendolo in Messico o in Indonesia.

L’azienda iniziò a tagliare i costi durante i mesi che portarono al disastro e questo ebbe importanti ripercussioni sulle misure di sicurezza (ricordiamo che già 15 anni prima del disastro l’azienda scaricava spesso rifiuti chimici letali all’interno e nei dintorni della fabbrica).

Elusione delle responsabilità mediche e legali

Mentre inizialmente l’isocianato di metile (MIC) e altre sostanze chimiche venivano importate dagli Stati Uniti in piccole quantità per la produzione di questi pesticidi, l’azienda presto iniziò a produrre strategicamente il MIC in India. Sebbene l’impianto non fosse in grado di funzionare a pieno regime, l’azienda – che stava perdendo il proprio valore – continuò a stoccare grandi quantità di sostanze chimiche pericolose (è stata segnalata la presenza di tre serbatoi contenenti oltre 60 tonnellate di isocianato di metile).

Secondo il rapporto del 2010 del Council for Medical Research indiano (ICMR), «il MIC è un forte veleno, anche se ingerito; la lesione che colpisce le mucose è dovuta alla reazione esotermica quando questo entra in contatto con l’umidità dei tessuti». Il rapporto spiega inoltre che: «Il MIC è considerato così pericoloso che qualsiasi azienda britannica che lo utilizzi o lo conservi dovrebbe presentare piani di emergenza per affrontare le conseguenze in caso di fuoriuscita». Incolore, inodore e altamente volatile, il suo aspetto più letale in caso di fuoriuscita nell’atmosfera è l’impossibilità di contenerlo all’interno di un impianto o di un serbatoio in fabbrica».

Nell’apocalittica notte del 2 dicembre un dipendente dell’UCIC stava cercando di spurgare una tubatura corrosa, e a causa del malfunzionamento di diversi rubinetti l’acqua fluì liberamente nel serbatoio più grande del MIC. Il contatto con l’acqua provocò un’esplosione incontrollabile, il serbatoio iniziò a sprigionare nubi tossiche di cianuro di idrogeno, amina monometilica e MIC, oltre ad altre sostanze chimiche che si diffusero nell’aria di Bhopal e le persone cominciarono a morire.

La Union Carbide chiuse il sito e l’impianto fu abbandonato nell’incuria; la necessaria pulizia dell’impianto non ebbe mai luogo perciò le sostanze chimiche tossiche permangono nel sito ancora a livelli elevati. Nel 1989 la Union Carbide stessa condusse in segreto dei test, i cui risultati mostrarono come le acque sotterranee stessero rapidamente uccidendo i pesci. La raccolta dei campioni avveniva all’interno delle mura della fabbrica – la popolazione locale spesso attingeva l’acqua dalle condutture e dai pozzi che si trovavano al di là di queste mura. Nel 1999 si effettuarono test sull’acqua di pozzo e sulle falde acquifere che rivelarono alti livelli di mercurio, 6 milioni di volte superiori a quelli considerati sicuri dalla Environmental Protection Agency degli Stati Uniti (EPA).

Dopo continue smentite e ritardi legali da parte dell’UCC, nel 1989 si raggiunse un parziale accordo extragiudiziale tra il governo indiano e la Union Carbide, e quest’ultima pur accettando di pagare 470 milioni di dollari a titolo di risarcimento, rifiutò di assumersi qualsiasi responsabilità legale. Le vittime non furono mai consultate durante le trattative; 470 milioni di dollari potrebbero sembrare una somma elevata in termini di valore nominale, ma non sono stati sufficienti a pagare i danni, le vittime e i processi di riabilitazione: a nove vittime su dieci sono stati risarciti 500 dollari a testa o una somma sufficiente a coprire le spese mediche per un massimo di cinque anni. Inoltre, molti di coloro che sono stati esposti al gas hanno perso la capacità di guadagnarsi da vivere: coloro che lavoravano come operai occasionali, non erano più in grado di sostenere attività fisiche impegnative.

Bhopal

Sede del Centro vittime del gas istituito nel 2002 dal Governo (© Raghu Rai Foundation)

Nel 1991, il presidente e amministratore delegato della Union Carbide all’epoca del disastro, Warren Anderson, fu accusato dal sistema di giustizia penale indiano di «omicidio colposo non colposo». Anderson fu arrestato non appena mise piede in India, ma non affrontò mai un processo, poiché gli fu concessa rapidamente la libertà su cauzione dopo aver trascorso alcune ore agli arresti domiciliari e fuggì immediatamente dopo, salendo sul primo volo disponibile. Se fosse stato condannato, Anderson avrebbe rischiato 10 anni di carcere.

Il governo indiano ha chiesto l’estradizione, ma la richiesta è rimasta inascoltata per oltre tre anni e mezzo, fino a quando è stata dimenticata.

Stop Dow Chemical Company!

Nel 2001, la Dow Chemical Company, con sede in Michigan, ha acquisito la Union Carbide con tutte le attività e le passività connesse. Tuttavia, dopo questa fusione, il sito di Bhopal non è mai stato bonificato come avrebbe dovuto, l’impatto tossico del MIC non è mai stato comunicato alla comunità medica indiana e i rapporti sono stati tenuti nascosti agli studiosi che li richiedevano.

Bhopal

Proteste, 2001 (© Raghu Rai Foundation)

I rapporti dei test di follow-up pubblicati nel 2002 hanno rivelato la presenza di tricloroetano, sostanza chimica che causa danni allo sviluppo fetale, e negli anni successivi, gli studi condotti nel 2016-17 hanno rivelato le sostanze chimiche che continuano a essere presenti nelle acque, causando danni cerebrali, cancro e malformazioni congenite. Il 3 ottobre 2023, il tribunale di Bhopal ha emesso un settimo avviso di garanzia alla Dow Chemical Company, dopo che tutti e sei i precedenti erano stati ignorati. Sul sito web della società si continua a negare qualsiasi legame con la Union Carbide.

L’insieme dei crimini ecologici e aziendali

Oggi circa 50.000 bhopali non possono lavorare a causa di quel disastro. L’UCC è ancora responsabile dei danni ambientali che ha causato, argomento che non è mai stato affrontato durante le trattative del 1989. Nel frattempo la contaminazione continua a diffondersi nella città. La tragedia del gas di Bhopal ha segnato la coscienza collettiva degli abitanti.

Il disastro evidenzia i fallimenti della politica urbana, degli standard di sicurezza e di come il progresso industriale non tenga conto dei quadri normativi.

Questo ci ricorda la sconsideratezza delle imprese transnazionali come la Union Carbide, che agiscono non in base a ciò che è giusto, ma a ciò che è redditizio ed efficiente. La tragedia ha avuto luogo negli anni iniziali della globalizzazione economica e quando i diritti umani fondamentali delle persone vengono calpestati in nome dello sviluppo economico si configura un vero e proprio crimine. La tragedia del gas di Bhopal è una testimonianza eloquente della giustizia rinviata e della giustizia negata per le persone decedute e per quelle che continuano a sopravvivere in quelle condizioni ambientali. Come ha giustamente sottolineato il professor Reece Walters:

«Bhopal fornisce lezioni e sfide per la giustizia ambientale, il commercio globalizzato e il potere e la criminalità delle imprese e la giustizia delle vittime, la regolamentazione delle imprese transnazionali e i pericoli derivanti dall’autoregolamentazione orientata al commercio delle compagnie transnazionali».

Bhopal

Vittima della fuga di gas (© Raghu Rai Foundation)

 

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Litio, legno e… tamponare l’emorragia africana https://ogzero.org/litio-legno-e-tamponare-lemorragia-africana/ Mon, 16 Jan 2023 12:46:24 +0000 https://ogzero.org/?p=10094 La Svezia ha scoperto l’11 gennaio a Kiruna quello che sembra uno dei più significativi giacimenti di terre rare, valutato in circa un milione di tonnellate di ossidi; sicuramente la più grande miniera europea di metalli strategici per la transizione ecologica e digitale. Ma ci vorranno almeno una dozzina di anni prima che si possa […]

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La Svezia ha scoperto l’11 gennaio a Kiruna quello che sembra uno dei più significativi giacimenti di terre rare, valutato in circa un milione di tonnellate di ossidi; sicuramente la più grande miniera europea di metalli strategici per la transizione ecologica e digitale. Ma ci vorranno almeno una dozzina di anni prima che si possa procedere all’estrazione. Quindi è necessario nel frattempo approvvigionarsi altrove, magari continuando a saccheggiare l’Africa.
Il 21 dicembre 2022 il governo di Harare ha adottato il decreto “Base Minerals Export Control” forse con l’obiettivo di imporre restrizioni all’esportazione del litio grezzo; apparentemente è una disposizione volta a imporre alle potenze straniere – in un momento di estremo bisogno di materia prima – di impiantare stabilimenti di lavorazione in territorio africano, prima di portarlo in Occidente. Specifichiamo i porti di destinazione, perché una nota di Reuters, ripresa da “GreenReport” ha segnalato la deroga nei confronti di tre importanti compagnie minerarie cinesi che hanno investito 678 milioni di dollari nel 2022.

E poi c’è l’emorragia del contrabbando da cui ha preso le mosse questo informatissimo articolo di Angelo Ferrari, che in un unico flusso di minerali con numero atomico compreso tra 51 e 71 lega nel discorso l’intera Africa australe, ma poi assumendo come criterio i meccanismi di saccheggio del continente raggiunge il mercato dell’ammoniaca autoctona del Maghreb, attraverso il legno grezzo rapinato dai cinesi al Congo. In questo Angelo è affiancato da Massimo Zaurrini nel breve podcast inserito dove, partendo dalla travagliata regione in cui il 15 gennaio le bombe hanno risvegliato per un giorno le coscienze mondiali, si legano facilmente scontri, tensioni e milizie agli interessi minerari.

OGzero


Le arterie pulsanti dell’Africa

Lo Zimbabwe ha vietato l’esportazione del litio grezzo. Un materiale preziosissimo utilizzato per la fabbricazione delle batterie. Senza il litio è impossibile pensare a un futuro di energie rinnovabili e per l’auto elettrica su vasta scala. La decisione dello Zimbabwe può essere storica e diventare punto di riferimento anche per altri paesi africani ricchi di materie prime e terre rare. Il paese dell’Africa australe intende avviare con questa decisione una propria industria di trasformazione.
Le materie prime vengono esportate grezze per poi essere trasformate altrove. Inoltre la decisione dello Zimbabwe vuole mettere un freno ai minatori “artigianali” che lo estraggono più o meno illegalmente e poi lo esportano all’estero. Secondo le stime fatte dal governo tutto ciò costa 1,7 miliardi di mancati guadagni a causa del contrabbando in Sudafrica e negli Emirati Arabi Uniti. A trarne maggiore beneficio, dunque, sono le multinazionali del settore e in particolare quelle cinesi che ne hanno praticamente il monopolio. Se questa scommessa avrà successo, molti consigli di amministrazione delle multinazionali non dormono sonni tranquilli, ma soprattutto i governi africani potranno cominciare a pensare a uno sviluppo dell’industria mineraria non più sbilanciata verso l’esterno, tesa piuttosto ad avviare processi di trasformazione nei paesi di estrazione.

I preziosi dello Zimbabwe: oro, diamanti e… litio

Per Harare il litio è una risorsa enorme: lo Zimbabwe è il terzo produttore africano e detiene le più grandi riserve di minerale del continente che, nei calcoli del governo, dovrebbero essere sufficienti per soddisfare un quinto del fabbisogno mondiale. Il paese poi si spinge ancora più in là: gli operatori minerari che operano nel paese dovranno pagare alcune delle royalties in metallo raffinato anziché in denaro contante. È lo stesso presidente dello Zimbabwe, Emmerson Mnangagwa, ad annunciarlo attraverso un articolo pubblicato del “Sunday Mail”; il paese, infatti, ha abbondanti riserve di minerali come l’oro e i metalli del gruppo del platino (Pgm), ma i problemi di approvvigionamento energetico, la mancanza di industrie ausiliarie per supportare l’estrazione mineraria e le fluttuazioni valutarie rendono complicato tranne profitto dal boom del mercato. L’iniziativa, dunque, riguarda quattro principali minerali estratti nel paese: oro, diamanti, Pgm e litio.
L’obiettivo è quello di costruire una riserva nazionale di metalli preziosi e “riserve critiche” a beneficio della popolazione attuale e delle generazioni future. Il presidente scrive così sul “Sunday Mail”:

«Non possiamo, come governo attuale e come generazione attuale, gestire risorse limitate in modo dissoluto, senza alcun riguardo per le generazioni a venire».

Se tutto ciò diventerà realtà, potrà rappresentare un cambio di paradigma per l’intero continente. Quindi le compagnie che operano nel settore, come le sudafricane Impala Platinum e Anglo American Platinum, dovranno adeguarsi così come quelle cinesi che hanno il monopolio del litio.
Le restrizioni imposte dallo Zimbabwe non riguarderanno, con molta probabilità, le miniere a livello industriale perché dovrebbero esportare solo materiale trattato, un “concentrato di litio”. Miniere, però, che sono ancora in fase di realizzazione, dato che l’unica importante produttrice di litio è quella di Bikita.

E la Namibia apre all’UE: uranio, diamanti e… litio

Sono anche altri i paesi, sempre rimanendo nell’Africa australe, che stanno lanciando timidi segnali di volersi svincolare dallo sfruttamento selvaggio delle risorse. La Namibia ha infatti interrotto le operazioni di esplorazione dell’uranio affidate dal 2019 a One Uranium, sussidiaria dell’agenzia statale russa per l’energia atomica Rosatom, dicendosi preoccupata per la potenziale contaminazione delle acque sotterranee. La One Uranium, infatti, non è riuscita a dimostrare che il suo metodo estrattivo non causa inquinamento.

La Namibia poi ha ambizioni anche in altri settori minerari; l’Europa sta cercando partner per lo sfruttamento delle terre rare in Africa, finora detenuto dalla Cina. In questo quadro si inserisce l’accordo concluso tra la Namibia e l’Unione europea per la vendita delle terre rare, minerali essenziali per lo sviluppo del settore delle energie rinnovabili come le turbine eoliche e le batterie delle auto elettriche. Windhoek, capitale della Namibia, sta sviluppando con la canadese NCM un progetto per lo sfruttamento e la trasformazione del disprosio e del terbio. Più in generale, il paese dell’Africa meridionale intende posizionarsi come attore globale nella transizione verso le energie verdi.
Mentre la Cina detiene il monopolio virtuale della produzione di terre rare nel mondo, molti paesi sono alla ricerca di alternative (e la Svezia ha annunciato l’11 gennaio la scoperta di imponenti giacimenti di terre rare, ma non in tempi brevi). Per gli europei il progetto Lofdal, attualmente in fase di sviluppo da parte di un’azienda canadese, rappresenta un serio vantaggio. La miniera potrebbe produrre negli anni a venire più di cento tonnellate di disprosio e 17 tonnellate di terbio, due metalli usati nei magneti per le turbine eoliche e le batterie delle auto. La concorrenza in questo settore è molto forte: infatti anche il Giappone è in corsa per acquisire parte della produzione.
Windhoek desidera che la lavorazione industriale avvenga in loco e vede nello sviluppo di questa miniera un’opportunità per diversificare un settore minerario che sta guadagnando slancio.
Oltre ai diamanti e all’uranio, già operativi, il paese si sta posizionando anche come attore nel mercato del litio. Più in generale, la Namibia spera di diventare un hub per fornire idrogeno verde privo di emissioni di carbonio all’Europa. Un grande progetto misto, eolico e solare, mira a produrre idrogeno verde che verrebbe poi esportato in Europa. La Germania ha collaborato con diversi paesi africani per sviluppare un atlante del potenziale idrogeno e stanziato 45,7 milioni di dollari per la Strategia nazionale di sviluppo dell’idrogeno verde proprio in Namibia. L’idrogeno verde, secondo gli esperti giocherà un ruolo cruciale nella futura economia europea decarbonizzata.

Infrastrutture, il problema di fondo

Ma tutto dipenderà dalle infrastrutture che verranno realizzate per il trasporto. Questo è uno dei nodi. Anche per questo l’Europa sta cercando di sviluppare partenariati con i paesi della costa sud del Mediterraneo, in particolare il Marocco e in seconda battuta la Tunisia. Inoltre qualsiasi strategia per sviluppare le esportazioni di idrogeno – come scrive Massimo Zaurrini su “Africa e Affari” – dovrà tenere conto dell’uso interno africano e delle ambizioni di politica industriale di importanti attori del continente.

“Terre rare nella polveriera Africa”.

Fertilizzanti, ammoniaca e tecnologie dell’idrogeno

Il Marocco, uno dei principali esportatori di fertilizzanti, prevede di sostituire le importazioni di ammoniaca convenzionale (utilizzata per la preparazione di questi prodotti) con ammoniaca verde nazionale, grazie a un progetto che dovrebbe vedere la luce a breve che immagina, appunto, l’impiego di idrogeno pulito anziché a base di idrocarburi. Analogamente, l’Egitto sta investendo in un impianto per la produzione di un milione di tonnellate di ammoniaca verde all’anno. Il Sudafrica ha lanciato una strategia finalizzata non solo alla produzione di idrogeno, ma anche alla produzione nazionale di tecnologie e prodotti legati all’idrogeno.

L’inutile sacrificio di ettari di legno congolese

Sull’Africa, dunque, aleggia una nuova aria? Forse, ma le regole si possono aggirare con facilità. In Congo Brazzaville, per esempio, è vietata l’esportazione dei tronchi interi, ma solo di prodotti semilavorati, proprio per favorire l’industria locale. Un’iniziativa che, però, non ha avuto grande successo, o l’ha avuto solo in parte, perché le aziende cinesi del settore che operano nel paese, sono riuscite ad aggirare il divieto attraverso “oculate strategie di convincimento” delle autorità. In una parola: corruzione. Dal porto di Pointe Noire, sull’oceano Atlantico, continuano a partire i tronchi interi e non i semilavorati. La Cina sia nella Repubblica del Congo sia in Gabon – insieme rappresentano circa il 60% dell’area del Bacino del Congo – taglia in maniera indiscriminata e, soprattutto, importa legno grezzo, non i semilavorati come vorrebbero le regole. Tutto ciò oltre a distruggere milioni di ettari di foreste, non porta alcun beneficio alla popolazione, perché viene saltato un passaggio fondamentale, quello che crea lavoro, perché i semilavorati vanno elaborati nei paesi produttori. Dopo quattro anni di investigazioni sotto copertura, terminate nel 2019, la ong britannica, Environmental Investigation Agency (Eia), ha evidenziato come il legname africano tagliato illegalmente sia stato poi trasformato in prodotti che venivano venduti come “eco-frendly” negli Stati Uniti.

Fatta la legge, trovato l’inganno

Tutto ciò è imputabile a un gruppo cinese, il Djia Group che controlla oltre 1,5 milioni di ettari di foresta del Gabon e della Repubblica del Congo. Ettari di foresta ottenuti attraverso pratiche corruttive. Il gruppo cinese, attraverso queste elargizioni di denaro, ha potuto sovrasfruttare le concessioni, esportando tronchi interi, per un valore di 80 milioni di dollari in violazione della legge nazionale in un periodo di quattro anni e avrebbe eluso le tasse per diversi milioni di dollari in ogni anno di attività. Quei tronchi “illegali”, poi, potrebbero essere finiti anche in Europa, attraverso i semilavorati, visto che la Cina è il maggior fornitore di legno dell’Europa. Insomma, la morale è: una volta fatta la legge si può comodamente aggirarla proprio grazie agli stessi legislatori a cui sono state “regalate” valigette stracolme di denaro.

Il solito serbatoio che non diventa mercato

Per tornare allo Zimbabwe, il governo di Harare, con le restrizioni che ha imposto, intende favorire aziende locali per la trasformazione in loco del minerale così che possa essere utilizzato direttamente dall’industria dei veicoli elettrici. Per decenni, infatti, così come altri stati africani ricchi di minerali e risorse naturali, lo Zimbabwe ha permesso che le sue risorse fossero estratte dalle multinazionali, senza sviluppare industrie locali che potessero lavorarle e creare posti di lavoro dignitosi. Vedremo se questa iniziativa avrà il successo sperato o non si troverà il modo, anche qui, di aggirare i divieti e le restrizioni.

L’Africa, più in generale, risulta essere un grande serbatoio di risorse energetiche ma non ancora un mercato “interessante” per chi vende energia. Gli investimenti in infrastrutture non sono ancora adeguati e molta parte del continente rimane al buio. Ecco perché occorre trovare un bilanciamento: il continente è caratterizzato da un’ampia disponibilità di risorse minerarie, ma anche di potenziali risorse verdi, idroelettrico per i grandi fiumi, fotovoltaico nelle ampie zone desertiche, eolico e anche geotermico. Se ben valorizzata politicamente, la grande disponibilità di risorse rinnovabili può mitigare la competizione tra l’esigenza di vendere energia e quella di usarla per il proprio sviluppo. È una strada da percorrere; il divario di competenze tecniche tra occidente e paesi africani sta diventando progressivamente meno esclusivo. Per queste ragioni i paesi africani, come sta cercando di fare la Namibia, cercheranno dei partner con cui stabilire un rapporto più equo.

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L’Iran guarda a Est https://ogzero.org/attacco-cibernetico-a-natanz/ Tue, 13 Apr 2021 09:02:44 +0000 https://ogzero.org/?p=3058 Il più importante impianto nucleare iraniano è di nuovo al centro dell’attenzione internazionale: il 10 aprile Rohani aveva inaugurato lì, a Natanz, in pompa magna una nuova serie di centrifughe per l’arricchimento dell’uranio. Il giorno dopo però l’impianto è stato colpito da un attacco cibernetico che le autorità iraniane hanno definito “terrorismo nucleare”. Già il […]

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Il più importante impianto nucleare iraniano è di nuovo al centro dell’attenzione internazionale: il 10 aprile Rohani aveva inaugurato lì, a Natanz, in pompa magna una nuova serie di centrifughe per l’arricchimento dell’uranio. Il giorno dopo però l’impianto è stato colpito da un attacco cibernetico che le autorità iraniane hanno definito “terrorismo nucleare”. Già il 2 luglio 2020 l’impianto di Natanz era stato oggetto di un attacco, presumibilmente israeliano. Questa volta la responsabilità di Israele è asserita da fonti dell’intelligence statunitense citate dal New York Times. Il ministro degli esteri iraniano Javad Zarif ha dichiarato, lunedì 12 aprile, che l’Iran “risponderà” all’attacco, e ha accusato: Israele «ha voluto vendicarsi per i nostri progressi sulla via la revoca delle sanzioni». Insomma:  il nuovo attacco a Natanz  accentua i rischi di escalation tra Iran e Israele, e minaccia di ipotecare i colloqui appena avviati a Vienna per rilanciare l’accordo del 2015 sul programma nucleare iraniano.

L’articolo di Marina Forti che proponiamo colloca il contenzioso sul nucleare iraniano nel contesto, allargando lo sguardo ad altri protagonisti, ponendo le basi per interpretare la collocazione geopolitica dell’Iran nei prossimi anni.


Uno spostamento, verso Est?

La firma di un accordo venticinquennale di partenariato tra l’Iran e la Cina è stata accolta da commenti contrastanti. Firmato il 27 marzo a Tehran dai ministri degli Esteri iraniano e cinese, Javad Zarif e Wang Yi, l’accordo riguarda commercio, investimenti e difesa. È uno sviluppo importante, per il merito, e forse prima ancora per il momento in cui viene annunciato.

Presupposti per la ripresa del Jcpoa

Infatti, una delle partite più difficili affrontate oggi dalla diplomazia internazionale riguarda il possibile rilancio dell’accordo sul nucleare iraniano – il Joint Comprehensive Plan of Action, o Jcpoa, firmato da sei potenze mondiali con l’Iran nel 2015, da cui gli Stati Uniti si sono ritirati unilateralmente nel maggio 2018 per volere dell’allora presidente Donald Trump.

Il suo successore Joe Biden, appena insediato alla Casa Bianca, ha affermato l’intenzione di riportare gli Stati Uniti in quell’accordo: a condizione però che l’Iran torni a osservare le limitazioni alle sue attività nucleari previste dal Jcpoa, in parte abbandonate negli ultimi mesi. Tehran ha risposto che è stata Washington a rompere gli accordi: dunque prima gli Usa revocano le sanzioni draconiane e unilaterali che da due anni e mezzo soffocano l’economia iraniana, poi anche l’Iran torna a osservare i patti. La questione di chi debba compiere il primo passo ne nasconde altre, non ultimo il fatto che sia a Washington, sia a Tehran lavorano gruppi di interesse contrari alla ripresa di quegli accordi.

L’impasse si è prolungata per oltre due mesi. Finché gli Stati Uniti hanno accettato di partecipare a un vertice dei firmatari dell’accordo nucleare (Francia, Regno Unito, Germania, Russia, Cina, Unione europea e Iran), che si è tenuto a Vienna nella settimana dopo Pasqua, con i rappresentanti europei nel ruolo di mediatori. Iran e Stati Uniti hanno dunque accettato di definire un meccanismo di rientro simultaneo: gli Usa revocano le sanzioni del periodo Trump mentre l’Iran torna a limitare l’arricchimento dell’uranio secondo il vecchio accordo. Definire le modalità non sarà semplice, ma il percorso è aperto.

C’entra qualcosa tutto questo con l’accordo di cooperazione sino-iraniano, annunciato solo pochi giorni prima? Direttamente no, certo. E però, è chiaro che un partenariato economico tra l’Iran e la Cina limita l’efficacia del principale strumento di pressione usato da Washington verso Tehran, cioè le sanzioni commerciali. «L’Iran sta cercando di dire che ha dei partner, anche in un momento di tensione e difficoltà», commenta Esfandiar Batmangheligj, direttore della newsletter Bourse and Bazar specializzata in Iran e Asia centrale (citato da “The Independent”).

L’importanza di questo accordo però va oltre il dossier nucleare, e si inquadra nella più ampia strategia di sviluppo dell’Iran tra Europa e Asia.

Cosa sappiamo degli accordi tra Cina e Iran?

Per la verità non conosciamo molti dettagli sul “patto di cooperazione strategica” firmato a Tehran. Sappiamo che è stato in gestazione per cinque anni: ne parlò per la prima volta il presidente cinese Xi Jinping nel gennaio 2016 durante la sua visita a Tehran, dove aveva incontrato il Leader supremo, ayatollah Ali Khamenei. Sul momento la cosa sembrava caduta; si tornò a parlarne solo nel febbraio del 2019, quando l’allora presidente del parlamento iraniano Ali Larijani, in visita a Pechino, ne riparlò con il presidente Xi. Nel luglio di quell’anno lo stesso Larijani dichiarò che l’Iran aveva elaborato una bozza di accordo da discutere con le controparti cinesi. I negoziati sono proseguiti nel più assoluto riserbo; nel settembre 2019, quando il giornale “Petroleum News” ha dato notizia di un accordo negoziato “in segreto”, è sembrata una sorpresa.

Nel luglio del 2020 un’agenzia di stampa iraniana ha affermato di avere la bozza dell’accordo appena approvata dal governo di Hassan Rohani; poco dopo la stessa bozza è stata diffusa da “IranWire”, sito di oppositori iraniani all’estero.

Tanta segretezza ha suscitato molte polemiche in Iran. Le correnti più oltranziste hanno accusato il governo Rohani di “svendere” il paese; si diceva che avesse dato in concessione alla Cina alcune isolette iraniane nel Golfo Persico, forse addirittura l’isola di Kish, nota destinazione turistica. Il governo ha smentito. Il parlamento (dominato da deputati ultraconservatori) ha convocato il ministro degli Esteri per rispondere a interrogazioni molto ostili. L’ex presidente Mahmoud Ahmadi Nejad ha accusato Rohani di trasformare l’Iran in un protettorato cinese. Polemiche basate su illazioni e anche vane, poiché è noto che un tale accordo non si potrebbe negoziare senza il coinvolgimento del Consiglio di sicurezza nazionale e il consenso del Leader supremo. (Interessante però che le stesse accuse al governo Rohani siano state mosse dagli ultraconservatori interni e dagli exilés di “IranWire”).

Anche il “New York Times” nel luglio 2020 ha affermato di aver ricevuto il documento in 18 pagine che delinea la cooperazione tra Iran e Cina: secondo il giornale newyorkese, gli è stata data «da qualcuno al corrente dei negoziati con l’intenzione di mostrare l’ampiezza dei progetti considerati». In altre parole, fonti della Repubblica Islamica intenzionate a far sapere agli Stati Uniti (c’era ancora Trump) quanto la strategia di “massima pressione” fosse vana.

Dettagli del Patto di cooperazione sino-iraniana

In ogni caso, tutto ciò che sappiamo di quell’accordo si basa su quella bozza (secondo fonti citate sempre dal “New York Times” non sarebbe cambiata in modo sostanziale). Se dobbiamo prenderla per buona dunque sappiamo che la “cooperazione strategica” permetterà alla Cina di espandere la propria presenza in Iran nei settori delle telecomunicazioni, porti, ferrovie, nel sistema bancario, industria energetica, sanità, turismo e molti altri.

Città petrolifere alla foce dello Shatt-el Arab (foto di Wollwerth).

L’accordo elenca un centinaio di progetti, dai treni ad alta velocità alla creazione di “zone economiche speciali”: a Maku, nel Nordovest dell’Iran; a Abadan, città di installazioni petrolifere dove il fiume che separa Iran e Iraq (Shatt-el Arab per gli iracheni, Arvand per gli iraniani) si butta nel Golfo Persico; e sull’isola di Qeshm, nel Golfo. Si parla poi di infrastrutture per la rete di telecomunicazioni 5G, del sistema di posizionamento globale Beidou (il “Gps cinese”), di sistemi di monitoraggio del cyberspazio (controllare ciò che circola sulla rete).

Il sistema di posizionamento cinese Beidou

I progetti elencati non hanno nulla di stupefacente: sono quelli che la Cina ha proposto ovunque nell’ambito della sua “Belt Road Initiative”, il progetto globale di infrastrutture con cui sta espandendo commercio e investimenti cinesi nel mondo. Però denotano che Pechino non ha avuto troppe remore, anche ai tempi dell’amministrazione Trump, a pianificare investimenti in Iran nonostante il rischio di incorrere nelle “sanzioni secondarie” degli Stati Uniti – quelle che gli Usa applicano a paesi e aziende di paesi terzi che intrattengono relazioni economiche con l’Iran. (Si ricordi che la compagnia di telecom cinese Huawei è stata punita negli Usa proprio per non aver rispettato l’embargo all’Iran.)

Investimenti e accordi militari del Patto di cooperazione sino-iraniana

Le fonti citate dal “New York Times” dicono che la Cina investirà un totale di 400 miliardi di dollari nel periodo coperto dagli accordi (25 anni), in gran parte nei primi anni. E che riceverà in cambio regolari forniture di petrolio iraniano, a quanto pare a prezzi molto scontati: l’interesse sarebbe reciproco, perché Pechino importa tre quarti del suo fabbisogno di greggio, mentre l’Iran è tra i maggiori produttori mondiali ma ha visto il suo export assottigliarsi proprio a causa delle sanzioni statunitensi.

Quanto alla cifra di 400 miliardi di dollari non ci sono conferme, e secondo alcuni esperti è molto esagerata. Il portavoce del ministero degli Esteri cinese, Zhao Lijan, ha dichiarato che l’accordo non prevede “target definiti” sul volume degli scambi e degli investimenti; c’è solo la volontà di sviluppare «il potenziale di cooperazione dei due paesi nel campo economico, umano e altro».

L’accordo ha anche un capitolo sulla difesa, e qui i dettagli sono ancora più scarsi: si parla di addestramenti ed esercitazioni congiunte, ricerca, scambio di intelligence. Non è una novità assoluta. La cooperazione militare tra Cina e Iran ha già portato a tenere esercitazioni congiunte almeno tre volte dal 2014 a oggi; l’ultima nel dicembre scorso quando una nave da guerra cinese ha raggiunto quelle di Iran e Russia in una esercitazione nel golfo di Oman. Dire che sia un’alleanza in chiave antiamericana è esagerato (la Cina ha ottimi rapporti e acquista petrolio anche da paesi che invece sono nel campo americano, a cominciare dall’Arabia saudita). Però il segnale resta, e l’Iran tiene a sottolinearlo. In occasione delle manovre navali sino-russo-iraniane l’agenzia ufficiale cinese, Xinhua, aveva citato il comandante della Marina militare iraniana, Ammiraglio Hossein Khanzadi, secondo cui «l’era delle invasioni americane nella regione è finita».

Ricaduta infrastrutturale del Patto di cooperazione sino-iraniana

Quale sarà la traduzione pratica di questi accordi è presto per dire. Lo sviluppo più significativo per la Cina sarà rafforzare la sua presenza in un paese al crocevia geografico dell’Eurasia – e consolidare una presenza strategica sulle coste iraniane del mare d’Oman: si parla di un porto a Jask, appena fuori dallo stretto di Hormuz, quindi all’imboccatura del Golfo Persico tanto importante per il trasporto di petrolio mondiale (non a caso sul lato opposto di quel mare, in Bahrein, ha base la Quinta flotta degli Stati Uniti). Non pare che l’Iran si prepari a concedere una base militare alla Cina sulle sue coste (la sola base navale cinese all’estero oggi è a Gibuti, costruita nel 2015 a poche miglia da una base statunitense). Ma è chiaro che anche i porti commerciali hanno una valenza strategica, e negli ultimi decenni la Cina ne ha costruita una serie in tutto l’oceano Indiano, da Hambantota nello Sri Lanka meridionale a Gwadar in Pakistan, sulla rotta per Suez.

Per l’Iran invece lo sviluppo più concreto sono proprio i potenziali investimenti in infrastrutture e altri progetti economici. E secondo diversi osservatori questo si inserisce nel quadro di un riorientamento strategico delle priorità iraniane, che va ben oltre la necessità di resistere alle sanzioni statunitensi.

La Cina soppianta l’Unione europea

Le relazioni economiche tra Tehran e Pechino in effetti non sono nuove. Già nel 2011 la Cina aveva preso il posto dell’Unione europea come primo partner commerciale dell’Iran. Il motivo è semplice: tra il 2010 e il 2014, durante il secondo mandato del presidente Ahmadi Nejad, l’Iran si era trovato circondato da un muro di sanzioni (allora erano multilaterali, decretate dell’Onu oltre che da Unione europea e Stati Uniti), che aveva reso molto difficile importare qualunque cosa.

Allora però la Cina era solo un ripiego; per l’Iran il partner economico prioritario restava l’Europa. Così nel 2015, quando il moderato presidente Rohani ha firmato l’accordo sul nucleare, l’Iran ha puntato a rafforzare gli scambi e attirare gli investimenti europei. In effetti, per qualche tempo delegazioni commerciali da tutta Europa sono arrivate a Tehran in cerca di affari, e decine di memorandum d’intesa sono state firmate. Le aspettative però hanno tardato a realizzarsi (anche perché l’Iran restava escluso dal sistema bancario internazionale, controllato dagli Usa attraverso il dollaro). Poi l’avvento del presidente Trump ha decretato per l’Iran un isolamento economico ancora più forte delle precedenti sanzioni multilaterali. Gli investimenti europei, che in ogni caso erano rimasti sulla carta, si sono dileguati. E Tehran ha cominciato a riconsiderare la sua strategia.

Scelte di partnership alternative forzate dal protrarsi di sanzioni

Per resistere all’accerchiamento economico l’Iran doveva assicurarsi fonti alternative per le sue importazioni, soluzioni alternative per le transazioni finanziarie, vie alternative per esportare il proprio petrolio, e soprattutto modi per espandere le esportazioni di manufatti e prodotti non petroliferi. Ed è ciò che ha fatto.

Oggi due elementi vanno sottolineati. Il primo è «una crescente importanza dei paesi vicini come partner commerciali e lo spostamento delle fonti di importazione dai paesi occidentali a quelli della regione e orientali», osserva l’analista e imprenditore iraniano Bijan Khajehpour, che si basa sui dati diffusi dal ministero degli esteri iraniano per i primi dieci mesi dell’ultimo anno fiscale (dal 20 marzo 2020 al 20 gennaio 2021).

Il volume totale degli scambi, esclusi petrolio e prodotti petroliferi, ammontava in quei dieci mesi a 58,7 miliardi di dollari (è il 18 per cento meno del periodo corrispondente l’anno prima, ma pesa la pandemia di Covid-19). Le esportazioni non-petrolifere ammontavano a circa 28 miliardi di dollari, di cui oltre il 76 per cento è andato a cinque paesi: per il 26 per cento alla Cina (primo mercato per i prodotti iraniani), poi all’Iraq, gli Emirati Arabi Uniti, la Turchia e l’Afghanistan.

Nello stesso periodo l’Iran ha importato poco più di 30 miliardi di dollari di beni e servizi (il 20 per cento meno dell’anno prima), e i primi cinque paesi d’origine sono Cina (24,8 per cento), Emirati, Turchia, India e Germania (poco meno del 5 per cento).

Quanto all’export di petrolio bisogna fare delle ipotesi, perché i dati restano confidenziali (ovvio: sfugge ai monitoraggi ufficiali, perché chiunque ammetta di importare petrolio iraniano rischia ritorsioni da parte statunitense). Khajehpour ipotizza che l’export di greggio nei dieci mesi considerati ammonti a 7,2 miliardi di dollari, calcolando circa 600.000 barili al giorno al prezzo medio di 40 dollari a barile. (Per avere un’idea di quanto le sanzioni Usa costino all’economia iraniana si pensi che nel giugno 2018, quando gli Stati uniti si sono ritirati dall’accordo nucleare, l’Iran esportava 2,7 milioni di barili di greggio al giorno.)

Riconversione economica e sviluppo di medio-piccola manifattura locale

Il secondo elemento da sottolineare è che nelle esportazioni iraniane l’industria manifatturiera ha superato gli idrocarburi, e non solo nell’ultimo anno di pandemia. Già nel 2019 l’export non-petrolifero aveva totalizzato 41 miliardi di dollari, superando quello del petrolio. Non solo: mentre il settore petrolifero si era contratto del 35 per cento a causa delle sanzioni, il manifatturiero si era contratto appena dell’1,8 per cento.

Questo conferma che l’economia iraniana è molto più diversificata di quelle di altri paesi grandi produttori di idrocarburi: e sebbene fosse una tendenza già visibile nei primi anni del secolo, sono state proprio le sanzioni ad accelerarla. L’industria manifatturiera iraniana – automobili, meccanica, agroalimentare, farmaceutica e altro – rappresenta ormai l’ossatura dell’economia nazionale, con una struttura di piccole e medie imprese che producono sia per un mercato interno di 84 milioni di persone, sia per esportare nella regione circostante.

Strategia di resistenza

È questo che negli ultimi tre anni ha permesso all’economia iraniana di resistere alla “massima pressione” esercitata dagli Usa. La cosiddetta “economia di resistenza”, cioè la strategia di consolidare la produzione industriale interna, non è servita solo a sostituire le importazioni (sempre più costose a causa delle sanzioni), ma anche a consolidare «una strategia mista, promuovere le esportazioni e diversificare le fonti delle importazioni», osserva Khajehpour (così anche nelle importazioni pesano meno di una volta i beni di consumo finiti; nell’ultimo anno il 70 per cento delle importazioni erano beni intermedi, destinati all’industria interna).

La strategia di resistenza è stata questa: espandere la produzione nazionale anche per rafforzare l’export; rafforzare gli scambi con i paesi vicini, inclusa la Russia e l’Asia centrale; ridurre la dipendenza tecnologica dall’Occidente diversificando le importazioni. E guardare all’Eurasia, stabilire accordi di cooperazione a lungo termine con la Cina e nel prossimo futuro la Russia.

Si può immaginare che tutto questo andrà ben oltre l’esito dei colloqui cominciati a Vienna, la (auspicabile) revoca di almeno parte delle sanzioni statunitensi e il possibile rilancio dell’accordo sul nucleare. L’Iran ha cominciato a guardare all’Eurasia.

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