Unione Europea Archivi - OGzero https://ogzero.org/tag/unione-europea/ geopolitica etc Mon, 19 Dec 2022 23:54:56 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.4.6 Chi specula sulla questione Saharawi? https://ogzero.org/progressiva-annessione-del-sahara-occidentale/ Sat, 17 Dec 2022 22:08:28 +0000 https://ogzero.org/?p=9799 La diplomazia di Rabat nell’ultimo anno ha ottenuto risultati importanti in vista della progressiva annessione del Sahara Occidentale, anche grazie ai ritorni derivanti dalla guerra in Ukraina: il ricatto nei confronti della Spagna sulla concessione riguardo al passaggio di oleodotti ha drasticamente azzerato la simpatia tra la Spagna e il Saharawi, vista la fame di […]

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La diplomazia di Rabat nell’ultimo anno ha ottenuto risultati importanti in vista della progressiva annessione del Sahara Occidentale, anche grazie ai ritorni derivanti dalla guerra in Ukraina: il ricatto nei confronti della Spagna sulla concessione riguardo al passaggio di oleodotti ha drasticamente azzerato la simpatia tra la Spagna e il Saharawi, vista la fame di gas di Madrid; ma aveva cominciato a ottenere risultati già con la presidenza Trump che ne aveva riconosciuto le pretese di controllo sull’ex Sahara spagnolo, in cambio degli Accordi di Abraham con Israele, che sancivano solamente una collaborazione ormai annosa soprattutto sul piano militare (infatti si sono viste sventolare bandiere palestinesi e algerine dopo la sconfitta dei “Leoni” in semifinale dei mondiali di football a Doha – nonostante l’eliminazione provenisse per mano dell’odiata potenza francese).

Il risultato ai mondiali qatarini è comunque spendibile dal regime per una nuova autorevolezza nel mondo arabo, spostando a ovest gli equilibri disputati con i sauditi; il fatto che sia stato relegato nei giochi della Fifa al quarto posto allargando a orologeria anche al Marocco lo scandalo della corruzione riuscita con il lobbismo dei commissari socialisti europei non può che giocare a favore di Rabat, perché colloca il Marocco tra le nazioni che si accreditano per un lavoro di “convincimento” credibile (e può anche richiamarsi a una sorta di discriminazione dell’ultimo paese africano in lizza).
Per questo ci sembra opportuno rendere pubblico l’articolo di Gianni Sartori che vi proponiamo a poche ore dalla sconfitta della nazionale marocchina nella disputa per il terzo posto con una Croazia, che contemporaneamente rifiuta l’accoglienza a soldati ucraini da addestrare in ambito Nato (“Le Parisien”), temendo di farsi coinvolgere nel conflitto.

OGzero


Corruttori ed eurocorrotti

Stando alle notizie riportate da“Le Soir”, da “Knack” e da “il manifesto”, l’ex deputato europeo Panzeri a Strasburgo si sarebbe occupato soprattutto di “diritti umani e del Maghreb”. Oltre ad aver fondato nel 2019 una ong (Fight Impunity), avrebbe intrattenuto rapporti amichevoli con l’esponente marocchino Abderrahim Atmoun (dal 2019 ambasciatore in Polonia).

Sempre nel 2019, Panzeri figurava tra gli oltre 400 deputati europei che avevano votato a favore di un accordo di pesca che interessava anche le coste del Sahara Occidentale. A tutto vantaggio di Rabat, ma naturalmente senza il consenso del popolo saharawi e del Fronte Polisario. Va sottolineato che questo mare molto pescoso è una delle due principali risorse (l’altra è rappresentata dai fosfati) in grado di garantire la futura sopravvivenza della popolazione saharawi e della Rasd.
Fortunatamente tale accordo iniquo venne poi annullato (ma solo nel 2021) dalla Corte di Giustizia europea in quanto

«sancirebbe il diritto di sfruttamento di uno stato occupante in un territorio riconosciuto internazionalmente come “non autonomo”».

Congiurati socialisti in combutta con Mohammed VI contro il Polisario

Annessione del Sahara Occidentale camuffata

Pressanti le ricorrenti richieste di Rabat all’Unione europea di allinearsi con le posizioni di Washington (nel 2020 con Trump) che di fatto sottoscrivevano quelle marocchine in merito a una non meglio definita (ma comunque limitata) “autonomia del Sahara Occidentale all’interno dei confini del regno del Marocco” – in pratica l’ufficializzazione dell’annessione del Sahara Occidentale.
La proposta risaliva all’aprile 2007: presentata dal Marocco come una

«risposta alle richieste del Consiglio di Sicurezza alle parti per porre fine alla situazione di stallo politico» e rivolta direttamente al Segretario Generale, venne descritta come «l’iniziativa marocchina di negoziazione di uno status d’autonomia per la regione del Sahara».

Scontato che ai saharawi apparisse come una mossa propedeutica alla completa assimilazione.

Recentemente tale prospettiva sembra aver raccolto il favore sia del governo madrileno, sia di alcuni ex esponenti del Polisario, dissidenti nei confronti del Fronte (ma non per questo collaborazionisti del Marocco).

Il dovere della memoria come garanzia della non ripetizione

Sul ruolo sempre più “conciliante” (eufemismo) assunto da Madrid nei confronti di Rabat, era intervenuto Luis Portillo Pasqual del Riquelme (“Etnie”).

Per il docente di scienze economiche alla madrilena Università Complutense, il leader socialista Pedro Sánchez avrebbe «ceduto vergognosamente alle richieste di Mohamed VI perpetrando un secondo tradimento del popolo saharawi». Anzi, aggiungeva, «stando ai miei calcoli addirittura il terzo» (il secondo sarebbe quello operato da Felipe Gonzalez, precedente leader socialista, che già nel 2008 Luis Portillo stigmatizzava su “Rebellion”, sottolineando il lobbismo spinto di Rabat).
L’illustre accademico ricordava come Félix Bolaños, ministro della Presidenza, Relazioni con le Cortes e Memoria Democratica, aveva affermato nel suo intervento che

«la memoria è un diritto, un diritto della cittadinanza e soprattutto un diritto delle vittime».

In sintesi: “Il dovere della memoria come garanzia della non ripetizione”. In riferimento soprattutto alle violazioni dei diritti umani e del diritto dei popoli perpetrate dal franchismo, una questione con cui la Spagna non aveva fatto i conti a momento debito.

Ma questa legge, continuava Bolaños, per quanto riguardava la questione del Sahara Occidentale e del popolo saharawi risultava quantomeno “insoddisfacente”. Nonostante costituisse l’estrema colpa dell’ultimo governo della dittatura fascista.

 

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n. 21 –  Lo “strano” caso della protezione temporanea per i cittadini ucraini https://ogzero.org/il-massiccio-afflusso-di-sfollati-ucraini-e-la-politica-europea/ Tue, 02 Aug 2022 09:46:31 +0000 https://ogzero.org/?p=8359 Proseguiamo l’analisi delle conseguenze migratorie della guerra russo-ucraina, fornendo un panorama giurisprudenziale dei cavilli che regolamentano il massiccio afflusso di sfollati ucraini in Europa, e mettendo in evidenza attraverso le parole di Fabiana Triburgo quanto ancora una volta si riesumi una direttiva che prevede la protezione temporanea, e si offrano sempre soluzioni ad hoc che […]

L'articolo n. 21 –  Lo “strano” caso della protezione temporanea per i cittadini ucraini proviene da OGzero.

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Proseguiamo l’analisi delle conseguenze migratorie della guerra russo-ucraina, fornendo un panorama giurisprudenziale dei cavilli che regolamentano il massiccio afflusso di sfollati ucraini in Europa, e mettendo in evidenza attraverso le parole di Fabiana Triburgo quanto ancora una volta si riesumi una direttiva che prevede la protezione temporanea, e si offrano sempre soluzioni ad hoc che salvano il salvabile ma che dimostrano che ancora non vi è nelle coscienze delle istituzioni dell’Unione una visione lungimirante per affrontare la questione migratoria che è e sarà sempre una costante nella storia dell’umanità.


Afflusso massiccio di sfollati

L’attivazione di strumenti giuridici come conseguenza di dinamiche geopolitiche ha avuto la sua massima espressione con la decisione da parte dell’Unione europea e dei paesi membri di attivare la Direttiva n. 55 del 2001 a seguito dell’attacco sferrato su larga scala nel territorio ucraino da parte della Federazione Russa e dalla Bielorussia il 24 febbraio scorso. La direttiva stabilisce uno standard di norme minime nell’ipotesi in cui nel territorio europeo vi sia un afflusso massiccio di sfollati provenienti da paesi terzi che non possono tornare nel paese d’origine finalizzate alla concessione di una protezione temporanea per i medesimi (art. 1 e art. 2 lett. a direttiva 2001/55/CE) che gli stati membri sono chiamati obbligatoriamente ad attuare.

La migrazione ucraina (Fonte Unhcr, per approfondire la singola situazione degli afflussi paese per paese consultare i dati aggiornati costantemente sul sito https://data.unhcr.org/en/situations)/ukraine#_ga=2.235099137.1057807161.1659368831-42331758.1659368831).

La prima applicazione della Direttiva 55

Ciò appare singolare, non certamente in quanto non si ritenga legittima l’attivazione della direttiva con riferimento alle specifiche circostanze del conflitto ucraino, ma piuttosto poiché è la prima volta in assoluto che tale norma viene applicata, nonostante sia stata ideata appositamente per la guerra nell’ex Jugoslavia – in particolare quella nel Kosovo – e nonostante, se vogliamo soffermarci solo all’ultimo ventennio, altri gravissimi conflitti armati hanno avuto come conseguenza un massiccio afflusso di sfollati che intendevano dirigersi verso l’Europa. A riguardo basti pensare ai cittadini provenienti dall’Iraq, dall’Afghanistan e dalla Siria che nei primi due casi oltretutto fuggivano da conflitti pianificati dall’Occidente. In particolare, più recentemente nel caso dei cittadini afghani in relazione alla presa di possesso del paese da parte dei talebani, ormai quasi un anno fa, è fondamentale ricordare che la direttiva in base all’art. 2 lett. d – è attivabile non solo qualora l’arrivo degli sfollati avvenga spontaneamente ma anche mediante programmi di evacuazione!

Ma per cittadini iraqeni, afghani e siriani solo respingimenti

Nei confronti degli individui provenienti da questi paesi terzi, l’Unione invece non ha mai ritenuto importante lanciare un messaggio a livello internazionale di solidarietà dei paesi membri in ambito migratorio, e – come visto, ripercorrendo le attuali correnti migratorie del vecchio continente – ha messo in atto respingimenti dei migranti, anche a catena da un paese all’altro dell’Unione, impedimenti fisici alla presentazione delle domande d’asilo, anche con l’uso della violenza, nonché finanziamenti per la costruzione di muri, di fili spinati e di campi di confinamento, per citare soltanto alcune delle cosiddette “cattive prassi” dell’esternalizzazione delle frontiere.

Possiamo dunque affermare con certezza che il conflitto in Ucraina abbia scosso talmente tanto la coscienza delle istituzioni europee e dei paesi membri da trovarci oggi in una nuova stagione della politica europea in ambito migratorio? O forse è più lecito pensare che la riesumazione di una direttiva risalente a 21 anni fa ci dice che quando vi sono ragioni squisitamente politiche per un timore, pur legittimo di una guerra prossima ai confini dell’Unione, si è disposti a tutto ma nulla di fatto oggi è davvero cambiato nelle politiche europee nei confronti dei migranti?

La musica non cambia: non è una nuova coscienza istituzionale europea

La speranza è chiaramente che sia la prima delle due ipotesi a rispondere a verità ma rispetto a ciò solo il tempo darà delle risposte chiare e definitive alle suddette questioni. Alcuni dubbi rispetto a un effettivo cambiamento dell’humus europeo tuttavia sorgono in ragione del fatto che la Direttiva 55 del 2001 non sia stata recepita in modo totalmente conforme al suo testo ma, sia nella Decisione del Consiglio dell’Unione Europeo (da non confondere con il Consiglio d’Europa) n. 382 del 4 marzo 2022 che ha “attivato” la direttiva – accertando l’esistenza di un massiccio afflusso di sfollati dall’Ucraina – sia per quanto riguarda l’Italia, nel Decreto della Presidenza del Consiglio dei Ministri (da ora in poi DPCM) del 28 marzo 2022, con il quale è stata recepita, sono state aggiunte delle ulteriori specifiche a livello giuridico che comprimono e non estendono le tutele derivanti dall’applicazione della protezione temporanea e il rilascio del relativo permesso di soggiorno, soprattutto con riferimento alle categorie dei potenziali destinatari, ossia cosiddetti “sfollati”.

Visegrad esclude gli altri cittadini di paesi terzi residenti in Ucraina

Infatti, i cittadini di paesi terzi dell’Unione, chiaramente diversi da quelli ucraini, – pur se residenti o soggiornanti anch’essi in Ucraina al momento dello scoppio del conflitto e fatte salve alcune rare ipotesi che analizzeremo in seguito – non possono chiedere e quindi beneficiare della protezione temporanea nel territorio di un paese membro. Quello che fa riflettere in modo più specifico – conformemente ai dubbi sovraesposti rispetto a un radicale ed effettivo cambiamento delle politiche dell’Unione e di tutti i suoi paesi membri in materia – è che l’esclusione degli altri cittadini di paesi terzi nell’alveo dei beneficiari della protezione temporanea, eccetto i casi eccezionali, sia stata posta da parte dei paesi appartenenti al gruppo di Visegrad, in particolare dalla Polonia, dall’Ungheria, dalla Slovacchia e dalla Repubblica Ceca come conditio sine qua non per  l’approvazione della Decisione di esecuzione del Consiglio, che richiede la maggioranza qualificata (art. 5 Direttiva 55/2001/CE), necessaria per attivare la direttiva del 2001.

Questo d’altronde non stupisce, considerato che – ancor prima dell’entrata in vigore della decisione di esecuzione del Consiglio il 4 marzo 2022, soprattutto in Polonia, venivano fatti entrare milioni di ucraini ed escluse poche migliaia di altri cittadini di paesi terzi provenienti dall’Ucraina, attuando così una vera e propria discriminazione su base razziale. Non solo, la direttiva così come attivata e recepita in Italia non offre neanche una tutela, per così dire lungimirante rispetto alla condizione degli stessi cittadini ucraini, prevedendo sia la Decisione del Consiglio dell’Unione che il nostro DPCM che la direttiva possa essere applicata soltanto ai cittadini ucraini residenti e che vivevano fisicamente in Ucraina prima del 24 febbraio del 2022 ma fuggiti dopo il 24 febbraio del 2022 incluso.

Ragionando per assurdo quindi, un cittadino ucraino fuggito qualche giorno prima del 24 febbraio, magari intuendo l’imminenza del conflitto, in teoria non può oggi beneficiare della protezione temporanea!

Il confine ucraino-polacco (foto dal profilo Twitter di Nico Popescu).

L’inadeguatezza della Direttiva 55

Chiaramente invece la Direttiva 55 del 2001 – anche solo per il fatto di essere stata pensata in ragione di un altro conflitto e dati i suoi caratteri di generalità – non prevede né l’esclusione dei cittadini terzi di cui sopra né i limiti temporali così stringenti per la presentazione della richiesta della protezione temporanea. Per essere più precisi vengono oggi quindi esclusi dall’applicazione della direttiva:  a) tutti i cittadini che il 24 febbraio vivevano fuori dall’Ucraina; b) i cittadini, come già accennato, che sono fuggiti prima del 24 febbraio del 2022 dall’Ucraina; c) tutti i cittadini di paesi terzi diversi dagli ucraini seppur   viventi in Ucraina, alla data del 24 febbraio 2022 – per tornare al gioco forza antimigranti del gruppo di Visegrad – tranne nell’ipotesi in cui fossero già titolari di protezione internazionale o protezione equivalente ai sensi della legge ucraina o titolari di un permesso di soggiorno permanente prima del 24 febbraio 2022 e che solo qualora dimostrino di non poter ritornare in condizioni sicure e stabili nel proprio paese di origine!

Nel Decreto del Consiglio tuttavia al considerando n. 13 e all’art. 3 invece si specifica che tale ultima circostanza – in merito alla sicurezza e alla stabilità del paese di origine per i cittadini dei paesi terzi – può consentire agli stati membri di estendere tale protezione anche a coloro che si trovavano in Ucraina legalmente per un breve periodo quindi per esempio a quanti  fossero titolari di un permesso per motivi di lavoro o di studio al momento degli eventi che hanno determinato l’afflusso massiccio di individui sfollati.

Il nostro DPCM però esclude tale ipotesi e per questo motivo i cittadini di paesi terzi, titolari di permesso di studio e lavoro – fuggiti dall’Ucraina in conseguenza del conflitto e anche qualora nel proprio paese d’origine non sussistano condizioni di stabilità e sicurezza – in Italia non possono vedersi riconoscere in Italia la protezione temporanea.

Sia il Decreto di esecuzione del Consiglio sia il DPCM del 28 marzo 2022 stabiliscono invece che possono beneficiare della protezione temporanea anche i familiari dei cittadini di nazionalità ucraina residenti in Ucraina prima del 24 febbraio 2022 e i familiari dei cittadini dei paesi terzi titolari di protezione internazionale o equivalente in Ucraina. In entrambi i testi normativi, all’art. 4 si elencano infatti le categorie di persone che possono essere considerati familiari, specificando la necessità tuttavia che anche questi soggiornassero in Ucraina già prima del 24 febbraio del 2022. Il Decreto della Presidenza del Consiglio dei Ministri in aggiunta, stabilisce tra i requisiti che i succitati familiari debbano possedere la titolarità di un permesso di soggiorno valido ai sensi del diritto ucraino e il possesso di certificazione attestante il vincolo familiare preventivamente validata, ove possibile, dalla competente rappresentanza consolare. Inoltre, se la direttiva prevede che la durata del permesso di soggiorno per “protezione temporanea” sia di un anno prorogabile fino a due anni, il nostro DPCM all’art. 1, così come la Decisione di esecuzione del Consiglio, prevede che la protezione temporanea abbia la durata massima di un anno (per l’Italia a decorrere dal 4 marzo del 2022). Ancora, sempre secondo il DPCM, il permesso di soggiorno per protezione temporanea – la cui domanda deve essere presentata direttamente nella questura del luogo in cui lo sfollato è domiciliato – dà diritto all’accesso al Servizio Sanitario Nazionale, al diritto allo studio e al lavoro, conformemente a quanto stabilito dall’art. 12 della Direttiva 55/2001.

Non si dimentichi, comunque, che in Italia il 28 febbraio 2022 con una Delibera del Consiglio dei Ministri è stato dichiarato lo stato di emergenza in relazione all’esigenza di assicurare soccorso e assistenza alla popolazione ucraina sul territorio nazionale in conseguenza della grave crisi internazionale in atto.

Italia: stato di emergenza

Come noto, tradotto in termini giuridici, questo consente all’esecutivo di derogare alle consuete norme ordinarie e quindi all’attività parlamentare in merito alla questione migratoria in oggetto, delegando l’esecuzione delle proprie decisioni principalmente alla protezione civile.

A complicare ulteriormente il quadro normativo non solo europeo ma soprattutto interno, nel tentativo di armonizzare la disciplina relativa alla protezione temporanea, vi è il DLgs 85 del 2003 che di fatto aveva già previsto il recepimento della suddetta direttiva, introducendo l’art. 20 nel TUI (Testo Unico sull’Immigrazione) tuttora vigente che prevede anch’esso, in presenza di determinate circostanze, il riconoscimento di tale protezione.

Sotto invece il profilo normativo comune a tutti gli stati membri dell’Unione occorre specificare che

qualora il Consiglio – e questo vale per tutti i beneficiari della protezione temporanea – decidesse di revocare l’attivazione della direttiva, per esempio qualora l’Unione stringesse paradossalmente un accordo con il Capo del Cremlino, il diritto alla protezione temporanea cesserebbe immediatamente e con esso la validità del rispettivo titolo di soggiorno in qualsiasi paese membro dell’Unione.

E i russi in fuga non sono inclusi nella protezione temporanea

Prima di soffermarci sulla compatibilità tra la protezione temporanea e la protezione internazionale che è la protezione comunemente riconosciuta nelle ipotesi di conflitto armato, vale la pena riflettere anche su un’altra categoria di esclusi dalla possibilità di richiedere la protezione temporanea ossia i cittadini russi. Già, perché non sono pochi i cittadini russi che non identificandosi con la decisione del conflitto armato del proprio rappresentante di governo Vladimir Putin abbiano deciso di fuggire dalla Federazione Russa recandosi prevalentemente in paesi come l’Armenia o il Kirghizistan con i quali hanno una comunanza linguistica ma anche perché consapevoli che l’Europa non li considera potenzialmente beneficiari di una protezione temporanea nonostante anche loro siano fuggiti a causa del medesimo conflitto armato! Si ricorda che l’applicazione di un diritto di protezione debba però prescindere da una valutazione politica di uno stato verso un altro e guardare esclusivamente al singolo individuo e ai diritti che gli spettano in quanto tale e non alla nazionalità di sua provenienza se non – come nel caso della protezione internazionale – al fine dell’individuazione di uno dei motivi ai sensi della Convenzione di Ginevra, per il riconoscimento dello status di rifugiato. È proprio la convivenza dell’una e dell’altra disciplina – protezione internazionale e protezione temporanea – a creare tuttavia alcuni problemi giuridici in merito alla corretta applicazione del contenuto della Direttiva 55 del 2001.

Ascolta “Diaspora russa in Armenia” su Spreaker.

Decreti contraddittori

D’altronde le due protezioni sono inscindibilmente legate in ragione del fatto che la protezione temporanea è stata pensata proprio affinché l’afflusso massiccio di sfollati, in conseguenza di un conflitto non possa gravare eccessivamente sul sistema di asilo di ciascun stato membro. La direttiva stabilisce che la protezione temporanea non pregiudica il riconoscimento dello status di rifugiato ma che gli stati membri possano disporre che le persone che hanno ottenuto la protezione temporanea non possano avere al contempo lo status di richiedente asilo. Al riguardo il DPCM all’art. 3 pur stabilendo al comma 1 che il titolare di protezione temporanea possa sempre presentare domanda d’asilo, ai sensi del decreto legislativo n. 25 del 2008 (c.d. Decreto procedure), aggiunge al comma 3 del medesimo articolo – rispetto al testo della direttiva – che questa debba essere momentaneamente sospesa. Ciò significa che il richiedente, titolare della protezione temporanea, non verrà dunque ascoltato dalla Commissione Territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale e questa verrebbe riattivata (non si comprende ancora se in modo automatico o meno) in alcune ipotesi per esempio se il Consiglio dell’Unione decidesse di porre fine all’attivazione della protezione temporanea. Se invece uno “sfollato” ha già presentato domanda di protezione internazionale e successivamente presenta domanda di protezione temporanea – fintanto che non si veda rilasciare il relativo permesso – verosimilmente beneficerà dell’una o dell’altra forma di protezione a seconda di quale iter delle due domande si svolgerà in modo più celere.

Non è escluso pertanto che qualora la valutazione della domanda di protezione temporanea richieda più tempo del previsto, nel mentre “lo sfollato” possa essere convocato dalla Commissione territoriale e vedersi riconoscere quantomeno la protezione sussidiaria – poiché in fuga da un conflitto armato internazionale ai sensi dell’art. 14 del Dlgs 251/2007 (c.d. Decreto qualifiche) – se non addirittura lo status di rifugiato. Si ricorda che secondo l’art. 3 comma 4 del DPCM del 28 marzo 2022 il riconoscimento della protezione internazionale preclude l’accesso al beneficio della protezione temporanea. In particolare, al cittadino ucraino, oltre all’ipotesi del rifugiato sur place – ossia quella del cittadino di paese terzo già presente e soggiornante in Italia ad altro titolo al quale viene riconosciuto comunque il diritto di presentare domanda di protezione internazionale per ragioni sopravvenute – potrebbe essere riconosciuto lo status di rifugiato nell’ipotesi in cui sia un obiettore di coscienza rispetto al conflitto armato, un disertore della leva obbligatoria in ragione dei crimini compiuti nel corso del conflitto al quale avrebbe dovuto prendere parte, perché appartenente a minoranze etniche/nazionali – come potrebbe avvenire per i cittadini ucraini del Donbass – o nell’ipotesi in cui appartenga a una delle minoranze russofone in Ucraina. Infine, secondo un’interpretazione più estensiva, lo status potrebbe essere riconosciuto anche a tutti i cittadini ucraini in quanto più genericamente individui perseguitati in ragione della propria nazionalità.

L’asilo non richiesto

Si precisa in questa sede, senza entrare precipuamente nel merito, che i cittadini ucraini in particolari circostanze, potrebbero beneficiare, a determinate condizioni, altresì in Italia della “protezione speciale” erede della protezione umanitaria abrogata dal cosiddetto Decreto Salvini ossia il DL n. 113 del 2018 che ha subito una forte estensione con il cosiddetto Decreto Lamorgese, ossia il DL n. 130 del 21 ottobre 2020, convertito nella Legge n. 173 del 2020. È stato chiaro in ogni caso come fin dall’inizio i cittadini ucraini non volessero presentare domanda d’asilo principalmente per due ragioni: in particolare la prima, più facilmente intuibile, poiché qualora venisse loro riconosciuto lo status non potrebbero far ritorno nel proprio paese d’origine, l’altro più specifico è perché al momento della presentazione della domanda di protezione internazionale dovrebbero lasciare il proprio passaporto in questura e questo non consentirebbe loro di andare a trovare i propri familiari ancora in Ucraina.

Si ricorda infatti che nel caso di presentazione della domanda di protezione temporanea il cittadino ucraino non solo mantiene il proprio passaporto ma ha il diritto di circolare liberamente nel territorio dell’Unione per un periodo massimo di 90 giorni come turista, ossia senza possibilità di lavorare ma anche di entrare e uscire nel territorio ucraino ai sensi dell’art. 6 comma 1 del DPCM al fine di prestare soccorso ai propri familiari.

Sempre con riferimento alla domanda d’asilo, in particolare in relazione all’applicazione del Regolamento Dublino che individua lo stato membro competente a trattare la domanda di protezione internazionale, è necessario sottolineare un’ulteriore differenza tra i cittadini ucraini che abbiano deciso di presentare domanda di protezione internazionale in conseguenza del conflitto armato, rispetto agli altri cittadini di paesi terzi che comunque sono fuggiti per la medesima ragione.

I cittadini ucraini infatti sono cittadini “esenti visto”, ciò vuol dire che per poter circolare nel territorio dell’Unione non hanno necessità di alcun visto di ingresso. Per tale ragione per il cittadino ucraino fuggito dal conflitto nel proprio paese di origine non è essenziale accertare che il paese nel quale abbia presentato domanda di protezione internazionale sia effettivamente il paese europeo di primo ingresso. Viceversa, gli altri cittadini terzi dell’Unione, diversi dagli ucraini, non sono esenti visto, ragione per la quale qualora presentino domanda di protezione internazionale, per esempio in Italia è necessario che dichiarino di non aver prima varcato il territorio di un altro paese europeo. Ciò chiaramente risulta altamente improbabile e quindi difficile da credere anche qualora al cittadino del Paese terzo non siano state prese le impronte in un paese o più paesi membri diversi da quello in cui è stata presentata la domanda di protezione internazionale. In conclusione, si può affermare che la protezione temporanea, almeno con riferimento alla sua applicazione in Italia, non ha rappresentato il simbolo del superamento di ancestrali recrudescenze rispetto all’ingresso di cittadini di paesi terzi ma ha avuto una particolare efficacia in ragione di alcune caratteristiche della migrazione ucraina. Sono gli stessi ucraini infatti ad aver superato qualsiasi questione in merito alla distribuzione solidale legata alla loro accoglienza nel territorio dell’Ue, essendosi collocati spontaneamente e autonomamente  nel paese membro nel quale più agevole era la fuga o maggiore erano i contatti familiari e poiché hanno principalmente optato per un sistema di accoglienza privato presso amici e  familiari e non per il sistema di accoglienza pubblico degli stranieri in Italia attraverso i Cas (Centri di accoglienza straordinari) o i Sai (centri per l’accoglienza e l’integrazione) i cui posti è bene ricordarlo sarebbero stati insufficienti ad accogliere tutti i profughi arrivati in conseguenza del conflitto.

Questo viene confermato dall’ordinanza n. 881 del 28 marzo del 2022 secondo la quale il capo della Protezione civile ha stabilito l’erogazione di un contributo una tantum per un massimo di tre mesi per i cittadini ucraini che abbiano optato per un’accoglienza presso privati.

È chiaro quindi che la protezione temporanea sia stata attivata in Europa, a seguito del conflitto ucraino, in ragione del fatto che non si sarebbe potuto procedere all’esame individuale della domanda di tutti i cittadini ucraini che avessero voluto presentare la protezione internazionale in ciascun stato membro e che gravissima è l’esclusione dei cittadini dei paesi terzi diversi dagli ucraini che sono scappati dall’Ucraina sempre per l’aggressione armata russa.

Ancora una volta la miopia europea

Tale visione è fortemente miope e si spera venga superata, se necessario a livello giurisprudenziale, considerando piuttosto l’effettivo radicamento nel territorio ucraino del cittadino del paese terzo a prescindere dal proprio titolo di soggiorno in Ucraina. Quello che si nota inevitabilmente ancora una volta, con la riesumazione di una direttiva che prevede la protezione temporanea, è che si offrono sempre soluzioni ad hoc che salvano il salvabile ma che dimostrano

che ancora non vi è nelle coscienze delle istituzioni dell’Unione una visione lungimirante per affrontare la questione migratoria che è e sarà sempre una costante nella storia dell’umanità.

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N. 20 – Polonia e Unione Europea: il segnale non intercettato dell’imminente conflitto in Ucraina https://ogzero.org/polonia-e-unione-europea-il-segnale-non-intercettato/ Mon, 27 Jun 2022 17:33:53 +0000 https://ogzero.org/?p=7994 I campanelli di allarme che non sono stati ascoltati erano tutti nel vacillare degli assetti politici dell’Europa centrale. Attraverso una lettura attenta anche dal punto di vista giuridico delle normative, Fabiana Triburgo fa emergere i cavilli e le deroghe che rendono possibile una strumentalizzazione del migrante che corrisponde alle strategie politiche e geopolitiche degli stati […]

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I campanelli di allarme che non sono stati ascoltati erano tutti nel vacillare degli assetti politici dell’Europa centrale. Attraverso una lettura attenta anche dal punto di vista giuridico delle normative, Fabiana Triburgo fa emergere i cavilli e le deroghe che rendono possibile una strumentalizzazione del migrante che corrisponde alle strategie politiche e geopolitiche degli stati membri (e non) dell’Unione Europea in difficoltà attraverso patti e accordi che rendono possibile attuare respingimenti illegali, costruire ancora muri e campi di detenzione con la scusa di false emergenze. In questo saggio si analizza il caso di Polonia e Unione Europea, nel suo sviluppo all’interno di un contesto più ampio di interessi internazionali scatenatisi con la guerra ucraina.


Risulta sempre più evidente come i flussi dei movimenti umani non siano semplicemente fenomeni da valutare nell’ambito dei temi riguardanti le politiche migratorie di uno o più stati o più specificatamente rispetto al sistema normativo in materia ma piuttosto qualificabili quali eventi che nascondono questioni, giochi di forza e interessi geopolitici dei quali sono la diretta conseguenza e, non come si potrebbe superficialmente pensare, la causa. Ciò emerge anche rispetto al conflitto armato in corso in Ucraina: rileggere all’indietro alcuni accadimenti della storia degli ultimi due anni dell’Europa orientale ci consente di comprendere come il fenomeno migratorio, così come era andato strutturandosi già nell’agosto del 2021 e ancor prima – almeno negli intenti di due attori statali dell’area ossia Russia e Bielorussia – fosse uno dei primi e più rilevanti campanelli d’allarme che gli assetti politici – apparentemente calcificati a livello geografico lungo la nuova cortina di ferro – stavano cominciando a vacillare. Gli eventi verificatisi a partire dal 2020 potrebbero dunque essere definiti iniziali scosse di terremoto che, a distanza di oltre trent’anni dalla caduta del muro di Berlino, hanno risvegliato il sottosuolo degli equilibri internazionali creando delle faglie o – visti gli attuali sviluppi del conflitto ucraino – vere e proprie voragini, simbolo di questioni silenti ma non certo più esistenti. Occorre dunque per l’analisi dei flussi migratori nell’Europa orientale – certamente anomali, per come sono andati delineandosi, ma non particolarmente emergenziali quantitativamente come invece si è voluto lasciare intendere – tornare indietro all’estate del 2020 quando il presidente bielorusso Lukashenko, in carica dal 1994, è stato rieletto con circa l’80% dei voti favorevoli ma al contempo accusato di brogli elettorali al punto da essere destinatario di violente proteste da parte della popolazione civile finalizzate a far cadere il regime. A questo punto il primo elemento rilevante è che l’ondata di proteste che interessò gran parte della popolazione bielorussa anche prima delle elezioni venne foraggiata dalla Lituania e dalla Polonia.

Proteste a gennaio 2014 a Kiev (foto Roman Mikhailiuk / Shutterstock).

La strumentalizzazione dei migranti

In particolare, la Polonia costituisce l’ultimo avamposto dell’Alleanza Atlantica o meglio ancora l’ultimo stato satellite degli Stati Uniti a livello militare in quell’area. Con gli Stati Uniti la Polonia vanta solidi patti di cooperazione e intese che non sono esattamente speculari rispetto al tipo di relazioni che la Polonia intrattiene con l’Unione, pur essendone a tutti gli effetti un paese membro.

Il tentativo quindi di Polonia e Lituania in quel momento di voler far entrare la Bielorussia nella sfera di influenza posta dall’altro lato della cosiddetta “nuova cortina di ferro”, cercando di rafforzarla a proprio vantaggio, è stata percepita come una pericolosa provocazione dal regime di Lukashenko che ha quindi prontamente provveduto a chiedere il sostegno militare e politico del capo del Cremlino Vladimir Putin che è riuscito a sedare le proteste popolari nel paese a lui alleato e con il quale ha successivamente sottoscritto 28 programmi per l’unione statale.

Si pensi come negli ultimi anni il presidente russo prima in Siria ma a gennaio del 2021 anche in Kazakistan, sia intervenuto su esplicita richiesta dei leader al potere per mantenere lo status quo a livello politico, spesso con il beneplacito di buona parte della comunità internazionale, sebbene non palesemente espresso. Tutto questo per far riflettere che a livello politico il leader di uno stato acquisisce sempre più potere nella misura in cui altri attori statali gli attribuiscono un ruolo fondamentale nel dirimere talune annose questioni internazionali. Tuttavia, la crisi di governo bielorussa e l’intervento del capo del Cremlino che in un primo momento sembrava fosse una vicenda eccezionale – risolta ristabilendo l’allineamento al preesistente asse della cortina di ferro – nascondeva evidentemente proiezioni geopolitiche molto più ambiziose, emerse un anno dopo, proprio mediante quella che è stata definita “strumentalizzazione della questione migratoria”.

Le proteste in Kazakhstan.

Il piano orchestrato

Iniziata apparentemente come una pressione migratoria che Minsk intendeva porre limitatamente al confine lituano e che, come si scrisse allora, venne attuata per lanciare un messaggio all’Unione Europea in ragione delle sanzioni applicate alla Bielorussia in seguito al dirottamento dell’aereo della Ryanair con a bordo i due dissidenti del regime di Lukashenko, a settembre dello stesso anno raggiungeva invero risvolti ben più allarmanti. Infatti, con la spinta dei migranti attuata da Minsk al confine con la Polonia si delineavano più nettamente i profili di un piano orchestrato ad hoc del quale – anche qualora il presidente russo non si voglia definire il regista – non si può non qualificare quale complice, avendo mostrato di non voler intervenire nella vicenda, nonostante – considerati  i rapporti con la Bielorussia – avrebbe potuto fermarla in qualsiasi momento e tenuto conto degli ignorati appelli di sostegno più volte avanzati telefonicamente dall’allora cancelliera tedesca Angela Merkel.

In realtà si può affermare che l’appoggio della Russia a Minsk nella questione migratoria è stato la conditio sine qua non affinché essa si realizzasse. Al riguardo non si dimentichi che la quasi totalità dei migranti, prima spinti al confine bielorusso verso la Lituania e in seguito verso la Polonia, provenissero dal Medioriente – principalmente iracheni curdi, afghani e siriani – e che beneficiarono di un rilevante numero di rilasci di visti turistici per la Bielorussia nella quale arrivarono attraverso compagnie aeree turche. Non si può sottovalutare infatti che la Russia vanti un rapporto privilegiato con la Turchia: i due paesi – come più volte detto – sono in una condizione di continuo antagonismo nello scacchiere internazionale ma dimostrano di avere un reciproco rispetto nelle decisioni in politica estera. Ciò si traduce nel fatto che quando le circostanze lo richiedono sono in grado di stringere accordi, compromessi, alleanze per fronteggiare le questioni che man mano si presentano, soprattutto in situazioni di conflitti armati come in Nagorno Karabakh o ancor di più in Siria relativamente alla questione dei curdi.

Ascolta “Mosca chiude: autarchia senza prospettive” su Spreaker.

Il ruolo della Turchia

Non si può del tutto escludere dunque il coinvolgimento, almeno in un primo momento, della Turchia in questa specifica strumentalizzazione dei migranti portata avanti da Minsk. D’altra parte la Turchia è già avvezza a tattiche, o meglio strategie, basate sulla questione migratoria per il soddisfacimento dei propri interessi espansionistici ma anche puramente economici. Basti pensare al più volte citato accordo di 6 miliardi di euro elargiti dall’Unione Europea alla Turchia – recentemente rinnovato – per “l’accoglienza/trattenimento” nel proprio territorio dei profughi siriani per scongiurare la solita “invasione” che avrebbe coinvolto il vecchio continente.

E, di nuovo, i diritti violati

Come si può tristemente constatare tuttavia la cosiddetta invasione non sarebbe mai avvenuta e non ci sarebbe alcuna questione geopolitica in merito sulla quale discutere nell’ipotesi di obbligatoria ed equa ripartizione dei flussi migratori nei 28 stati dell’Unione, attraverso piani di ricollocamento, ancorati a indici demografici e del prodotto interno lordo dei paesi di destinazione. In questa sede ciò che interessa è la continua violazione dei diritti fondamentali dei migranti attuata dalla Polonia a partire da settembre 2021 quando le forze armate bielorusse cominciarono a scortarli verso quel tratto di confine tra i due stati. Va preliminarmente sottolineato che la Polonia – trovatasi in tale situazione – ha deciso di agire fin da subito in completa autonomia, senza consultare o dar seguito alle istanze – come vedremo in seguito prevalentemente di facciata – provenienti dalle istituzioni dell’Unione rispetto alla “crisi migratoria (?!)” che si stava verificando sul proprio territorio. A settembre del 2021 quindi il capo di stato polacco con l’approvazione del Parlamento proclama lo stato di emergenza che poi rinnova prontamente nel mese di novembre. Ai migranti dunque – anche richiedenti asilo – non viene data la possibilità di entrare nel territorio polacco e di presentare la domanda di protezione internazionale. Uomini singoli, soggetti vulnerabili tra cui minori, nuclei familiari e donne incinte vengono fatti stazionare al di fuori dei check point polacchi all’addiaccio.

Tuttavia, l’intento di ignorare esseri umani in difficoltà e respingerli prima dell’ingresso, oltre a violazioni formali del diritto internazionale – primo tra tutti il principio di non-refoulement – e del diritto europeo in materia d’asilo, ha causato la morte nel 2021 di ben 21 persone!

Ci si potrebbe fermare su questo dato che per la sua gravità non ammette giustificazioni di sorta e non solo con riferimento all’Unione ma a tutti i paesi membri che non sono intervenuti nella vicenda. La discussione invece in modo sterile si è sviluppata sul fatto che a Spagna, Grecia e Italia non è stato mai offerto alcun sostegno con arrivi numericamente più elevati. Ci si chiede perché in tali situazioni invece di fare confronti non si convoglino le forze politiche dell’Unione per cogliere l’occasione  di un atteggiamento politico diverso e per rivedere gli assiomi europei attuati – diversi da quelli teorizzati – dando un segnale forte, in modo tale che nessuna strumentalizzazione dei migranti produca più effetti sull’Unione o su uno dei paesi membri e non perché venga ignorata o repressa ma perché vengano rispettate le norme sul diritto d’asilo già vigenti e finalmente messo in atto il principio di solidarietà di cui all’art. 78 del trattato sul funzionamento dell’Unione.

Il punto debole dell’Unione

È chiaro infatti che a livello internazionale gli stati che hanno proiezioni egemoniche, spesso in contrasto con gli interessi del vecchio continente, hanno ben compreso – vedi Russia e Turchia – come la questione migratoria sia il vero, grande punto debole dell’Unione con il quale ricattarla, dato che non riesce in alcun modo a gestirla, se non cercando di renderla invisibile e traghettandola al di là dei propri confini. Tuttavia, visto che a quanto pare il fatto che degli esseri umani siano lasciati in tali indegne e mortifere condizioni non desta alcuna indignazione e non comporta mutamenti delle tattiche degli stati membri forse è il caso di cominciare più cinicamente a riflettere sulle conseguenze politiche ed economiche (che forse interessano maggiormente) che il perpetrare di tali comportamenti implicano e che sono ben più gravi rispetto all’adozione di un’accoglienza condivisa dei migranti soprattutto in un  caso come quello della Polonia rispetto al quale, data anche l’estensione del suo territorio e il numero di rifugiati accolti è un’eresia definire crisi o situazione di emergenza migratoria l’arrivo di 10.000 migranti!

Muri e centri di detenzione

Nonostante ciò sono stati apportati emendamenti alla normativa nazionale polacca in materia di migrazione – che a quanto pare però non vengono applicati (fortunatamente, anche se non si capisce la differenza con gli altri profughi) ai profughi ucraini – rendendola più restrittiva così come era avvenuto in Lituania e sempre alla stessa stregua si è realizzata la costruzione di un muro al confine con la Bielorussia lungo circa 186 chilometri e alto 5 metri e mezzo oltre, alla costruzione di ulteriori tre centri di detenzione all’interno dei quali in ogni stanza sono ammassate circa 22 persone in meno di 2 metri quadri ciascuno per potersi muovere.

Istituzioni in difficoltà

Nessuna novità quindi o quasi. Infatti, per quanto riguarda l’analisi dei profili giuridici, rispetto a tale vicenda, va posta attenzione sulla proposta di regolamento avanzata alla fine del 2021 dalla Commissione europea riguardo le misure che gli stati membri possono adottare in caso di strumentalizzazione dei flussi migratori ossia la “Proposta di regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio volta ad affrontare le situazioni di strumentalizzazioni nel settore della migrazione e l’asilo”.

Prima di entrare nel merito del testo va preliminarmente detto che se un’istituzione europea “alla bisogna” compone un testo giuridico ad hoc per fronteggiare una situazione squisitamente politica – quando tra l’altro si è presentata già una proposta di regolamento europeo nei casi di crisi e di forza maggiore nel settore della migrazione e dell’asilo” – dimostra di essere in palese difficoltà.

Tuttavia, anche in questo testo normativo non solo non si evidenzia alcun cambiamento di visione ma si è andati ben oltre ogni limite del rispetto dei diritti fondamentali degli individui migranti per cui si auspica vivamente che il Parlamento europeo non approvi tale proposta, assurda sotto il profilo giuridico.

Nella relazione introduttiva alla proposta di regolamento viene delineato l’ambito di applicazione del medesimo ancorandolo a quelle situazioni nelle quali gli attori statali utilizzino «i flussi migratori come strumento per fini politici, per destabilizzare l’Unione europea e i suoi Stati membri».

Il diavolo sta nei dettagli

A conferma della singolarità del testo normativo in oggetto e del suo contenuto squisitamente politico – dettato da un evidente senso di preoccupazione rispetto alla situazione allora in corso – si noti come in esso vi siano, in modo del tutto inconsueto per un atto giuridico, addirittura specifici riferimenti alla situazione geopolitica in prossimità di quel confine che emergono mediante l’impiego di espressioni quali «in risposta alla strumentalizzazione delle persone da parte del regime bielorusso» o mediante l’utilizzo di termini politici – o ancor meglio propri del gergo militare – per definire la  strumentalizzazione, come per esempio «attacco ibrido in corso lanciato dal regime bielorusso alle frontiere dell’UE».

C’è da dire infatti che nella proposta di regolamento non viene data alcuna puntuale definizione giuridica del termine “strumentalizzazione” – rendendo più estesa e quindi più pericolosa l’applicazione del regolamento a situazioni che potrebbero verificarsi in futuro – tanto che per ricavarla è necessario far riferimento ad un altro testo giuridico (già analizzato nell’articolo relativo ai flussi migratori al confine Ventimiglia-Menton) ossia la proposta di modifica del Regolamento Shenghen del 14 dicembre 2021 che all’art. 2 (con l’introduzione del punto 27) stabilisce che

la «strumentalizzazione dei migranti è la situazione in cui un paese terzo istiga flussi migratori irregolari  verso l’Unione incoraggiando o favorendo attivamente lo spostamento verso le frontiere esterne di cittadini di paesi terzi già presenti sul suo territorio o che transitino sul suo territorio se tali azioni denotano l’intenzione del paese terzo di destabilizzare l’Unione».

Per quanto attiene alle conseguenze della “strumentalizzazione” inoltre è necessario che la natura delle azioni del paese terzo sia potenzialmente tale «da mettere a repentaglio le funzioni essenziali dello stato quali la sua integrità territoriale, il mantenimento dell’ordine pubblico o la salvaguardia della sicurezza nazionale». Sono chiaramente delle conseguenze gravissime ma dato che la proposta di regolamento in esame è stata stilata specificatamente per la situazione al confine polacco-bielorusso, o comunque in conseguenza di questa, ci si chiede:

può realmente l’arrivo di circa 10.000 migranti in Polonia potenzialmente mettere a repentaglio l’integrità del suo territorio, il mantenimento del suo ordine pubblico o mettere a rischio la sicurezza nazionale?!

Anomalie e volute mancanze

Inoltre, si fa riferimento alla solita dizione “migranti irregolari” quando, come noto, il richiedente asilo è irregolare nella quasi totalità dei casi perché in fuga dal proprio paese d’origine – e non è certamente ammissibile che nell’ipotesi della strumentalizzazione attuata da uno stato terzo – non abbia il medesimo diritto di altri richiedenti a presentare la domanda di protezione internazionale! Per di più altre anomalie – o meglio volute mancanze – si rilevano nel testo del regolamento: non vi è alcuna menzione di indicatori, in particolare di tipo quantistico, con i quali delineare la strumentalizzazione, per cui – ragionando per assurdo – anche due soli migranti strumentalizzati potrebbero portare all’applicazione del regolamento. Ancora più pericoloso è che il regolamento, qualora venga applicato, sia idoneo a comportare gravissime deroghe al rispetto dei diritti fondamentali in materia d’asilo.

Deroghe e cavilli

La prima deroga è relativa alla registrazione delle domande d’asilo prevista all’art. 2 (“Procedura di emergenza per la gestione dell’asilo in una situazione di strumentalizzazione”): in caso di domande presentate alla frontiera, tra l’altro in punti specifici, il termine è di ben 4 settimane per la loro registrazione (e non per l’esame!), durante le quali ovviamente i profughi restano al di fuori del territorio dell’Unione. In secondo luogo, lo stato può decidere alle sue frontiere o più genericamente nelle zone di transito, «sull’ammissibilità e il merito di tutte le domande» registrate nell’arco del periodo in cui il regolamento viene applicato. Ciò quindi senza alcun riferimento alla nazionalità di alcuni profughi come i cittadini afgani per i quali sarebbe facilmente ipotizzabile una palese fondatezza della domanda di protezione internazionale.

L’unica priorità legata alla visibile fondatezza delle domande è quella data a quelle presentate dai minori o dai nuclei familiari ma ciò che è fondamentale ricordare è che comunque tutta la procedura anche in questi casi è una procedura squisitamente di frontiera! All’art. 4 (“Procedura di emergenza per la gestione dei rimpatri in una situazione di strumentalizzazione”) si deroga inoltre rispetto al regolamento sulla procedura d’asilo e all’applicazione della direttiva rimpatri: viene meno in questo modo il diritto ad un ricorso effettivo in caso di rigetto della domanda di protezione internazionale.

Più esattamente resta il diritto alla presentazione del ricorso ma senza che questo implichi un diritto di permanenza nel territorio dell’Unione nelle more dell’attesa di una decisione in merito e ciò a meno che non venga accolta un’istanza di sospensiva degli effetti della decisione di rigetto del ricorso.

Si precisa tuttavia che qualora l’istanza di sospensiva non venga comunque accolta è disposto l’allontanamento immediato del richiedente asilo, pur se «nel rispetto del principio di non refoulement».

Inoltre, l’ipocrisia di questa proposta di regolamento si riscontra tanto nell’articolo 3 che nell’articolo 5. Nel primo infatti (“Condizioni materiali di accoglienza”) si fa riferimento a misure di accoglienza «diverse» nel caso di applicazione del regolamento e non inferiori come in realtà sono – cercando di celare i propri intenti – dietro l’espressione «in grado di soddisfare le esigenze essenziali del migrante»: si noti al riguardo quanta discrezionalità possa nascondersi dietro al termine «esigenze essenziali». Nell’articolo 5 invece (“Misure di sostegno e solidarietà”) si raggiunge l’apice dell’assurdo. La solidarietà degli altri paesi membri, qualora venga richiesta, prevista nei confronti dello stato membro vittima di una strumentalizzazione dei migranti – anche se per inciso le vere vittime della strumentalizzazione sono i migranti stessi – non è certamente quella di una ripartizione per quote dei profughi tra gli stati ma l’impiego di «misure di sviluppo delle capacità, misure a supporto dei rimpatri» che vuol dire il semplice invio di funzionari e personale appartenenti agli altri stati membri per fronteggiare la situazione “emergenziale” nonché  provvedimenti operativi a sostegno dei rimpatri.

È chiaro quindi come anche in questa circostanza l’intento reale della Commissione, con tale proposta, non sia quello di offrire a livello europeo un supporto allo stato in una situazione “emergenziale” dal punto di vista migratorio, ma quello di assicurarsi il rinforzo delle misure di frontiera al fine di porre velocemente fine a tale situazione cercando di attuare il rinvio degli individui arrivati alle porte del territorio dell’Unione il più velocemente possibile.

Gli eventi tuttavia sono sempre un passo avanti nell’imprevedibilità del loro verificarsi rispetto a qualsiasi logica o tentativo di controllo sia esso da parte degli esseri umani, degli attori statali o delle istituzioni europee e internazionali.

La solidarietà “mirata”

Alla fine del 2021 si scrisse tale proposta per l’arrivo di circa 10.000 migranti, inconsapevoli che da lì a poco si sarebbe scatenato un conflitto di portata internazionale in Ucraina alle porte dell’Unione in ragione del quale, per l’arrivo di milioni di profughi, sarebbero caduti di fatto come le tessere di un domino gli emendamenti polacchi in materia di migrazione insieme ad ogni velleità europea di contenimento e con la conseguente apertura dei confini degli stati membri. Perché dunque non pensare prima a rendere effettiva la solidarietà europea per esseri umani che avevano e hanno gli stessi diritti dei cittadini ucraini? E ancora, non conviene riflettere come per interessi economici ed energetici si è scesi a patti e sotto ricatto del leader del Cremlino e come forse non si stia facendo lo stesso errore individuando Erdoǧan come mediatore per la risoluzione di tale conflitto, considerato come detto che egli stesso è sospettato di essere stato complice della pressione iniziale dei flussi migratori al confine con la Lituania? Corsi e ricorsi storici a quanto pare spesso nulla insegnano.

barriere e ostacoli

L'articolo N. 20 – Polonia e Unione Europea: il segnale non intercettato dell’imminente conflitto in Ucraina proviene da OGzero.

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Russia-Ucraina: la possibile guerra del dottor Stranamore https://ogzero.org/russia-ucraina-la-possibile-guerra-del-dottor-stranamore/ Sat, 05 Feb 2022 18:46:06 +0000 https://ogzero.org/?p=6152 Come promesso, ecco il secondo intervento di Yurii Colombo sulla situazione ucraina. Si ripercorrono qui gli snodi principali dell’evoluzione della crisi, tra risorse energetiche irrinunciabili, la paura delle potenze internazionali di dispiacere all’alleato americano, le disomogeneità tra la Russia e l’Ucraina, nonché i veri motivi della protesta sociale russa che spesso è stata superficialmente collegata […]

L'articolo Russia-Ucraina: la possibile guerra del dottor Stranamore proviene da OGzero.

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Come promesso, ecco il secondo intervento di Yurii Colombo sulla situazione ucraina. Si ripercorrono qui gli snodi principali dell’evoluzione della crisi, tra risorse energetiche irrinunciabili, la paura delle potenze internazionali di dispiacere all’alleato americano, le disomogeneità tra la Russia e l’Ucraina, nonché i veri motivi della protesta sociale russa che spesso è stata superficialmente collegata al fascino di leader come Navalny o Zyuganov. Tutti dettagli di un quadro che ancora non è definito e che rischia di sfociare in futuro in un conflitto sebbene questo sia esattamente quello che tutte le parti in gioco vogliono evitare.


La scontro tra Usa e Russia sull’Ucraina non avrà immediate ricadute belliche come avevamo già previsto nel precedente articolo su OGzero. Le forze in campo ai confini non sarebbero mai state sufficienti come rivela in articolo pubblicato molto ben documentato su “Novaya Gazeta” da Valery Shiryaev.

Mostrare i muscoli

Malgrado ciò molti media e social russi hanno continuato a dispensare a piene mani immagini nel web dove si vedono attrezzature militari russe che si spostano su treni dalla Siberia e dall’Estremo Oriente verso ovest sostenendo persino che l’esercito russo potrebbe giungere ad ammassare sul confine ucraino circa 500.000 soldati (ma nessuno smentisce e neppure segnala che il complesso delle forze armate della Federazione è a oggi composto complessivamente da circa 280.000 uomini!).

Che un’incursione russa non sia all’ordine del giorno ne è convinto anche LInstitute for the Study of War, uno dei think tank più aggressivi degli Stati Uniti, sostenuto dalle donazioni dei giganti dell’industria militare, che a dicembre ha pubblicato uno studio sui possibili sviluppi del negoziato. Nel rapporto del 27 gennaio intitolato Putin’s Likely Course of Action in Ukraine: Updated Course of Action Assessment si sostiene una linea di ragionamento che è tutta l’opposto di quella della propaganda dell’establishment americano. In particolare si legge che: «Uno sguardo più ravvicinato su cosa comporterebbe una tale invasione […] e ai rischi e ai costi che Putin dovrebbe correre […] ci porta a prevedere che è improbabile che quest’inverno verrà lanciata un’invasione dell’Ucraina. Potrebbe lanciare un’invasione limitata del Sudest non occupato dell’Ucraina che non sarà all’altezza di un’invasione su vasta scala […]. Un’invasione russa su vasta scala dell’Ucraina sarebbe di gran lunga l’operazione militare più importante, più audace e più rischiosa che Mosca abbia lanciato dall’invasione dell’Afghanistan nel 1979. Sarebbe molto più difficile delle guerre statunitensi contro l’Iraq del 1991 o del 2003. E sarebbe un netto allontanamento dagli approcci su cui Putin ha fatto affidamento dal 2015 (come racconto nel mio libro La spada e lo scudo). Ciò costerebbe alla Russia molti soldi e probabilmente molte migliaia di vittime».

Reticenza e cautela

Si tratta di timori fondati che attraversano anche l’opinione pubblica russa in gran parte poco propensa a “morire per Kiev” e comunque comporterebbe il ritorno a stili di vita autarchici dell’epoca sovietica che inevitabilmente si imporrebbero in seguito alle messe di sanzioni finanziarie già promesse dagli Usa in caso di “escalation”.

L’assetto degli schieramenti nella disputa (fonte Ispi / The Washington Post)

Ma anche per Joe Biden, in questo momento, mantenere la tensione alta sull’Europa orientale risulta difficile.

In primo luogo perché i paesi dell’Unione Europea risultano sempre più reticenti a infilarsi in una guerra “calda” in cui hanno ben poco da guadagnare. Il gioco potrebbe eventualmente valere la candela se una pressione anche militare portasse a un crollo del regime putiniano facendo diventare la Russia terreno di caccia per le multinazionali internazionali, ma allo stato dell’arte la cosa è altamente improbabile. La Germania in particolare attraverso il leader della Cdu tedesca Friedrich Merz ha segnalato forte preoccupazione in caso di fuoriuscita della Russia dal sistema Swift: «Se disconnettiamo la Russia da Swift, c’è un grande pericolo che il sistema crolli e potremmo dover passare al sistema di pagamento cinese. Ci faremmo un grande torto», ha sostenuto alla fine di gennaio. Si tratta di preoccupazioni condivise anche al cancellierato.

La Cina da parte sua sta nicchiando come al solito, ma all’Onu non ha fatto mancare il suo sostegno al Cremlino.

Nella notte del 1° febbraio il Consiglio di Sicurezza si è riunito a New York per discutere di Ucraina su proposta degli Stati Uniti. Gli americani avevano bisogno di 9 voti su 15 dei membri permanenti e provvisori del Consiglio di Sicurezza, escluse le astensioni, per mettere il tema in agenda. Ci sono riusciti per il rotto della cuffia ma hanno dovuto incassare il netto no di Pechino e una più cauta astensione di Delhi, un’astensione che però nella circostanza era un sostanziale voto contrario.

L’India insiste per la soluzione negoziata, preoccupata anche per la sua importante comunità di studenti presente oggi a Kiev e dal suo ruolo di bilancia in Asia che l’ha portata ad acquistare ingenti forniture militari russe.

Ancora più netta è l’ultraconservatrice Ungheria di Orban, la quale spacca il fronte di Visegrád per schierarsi «nettamente contro ogni intervento Nato».

Orbán giunto a Mosca all’inizio di febbraio ha lasciato stupefatti quando ha avanzato la sfrontata proposta: datemi più gas a prezzi stracciati che ci penserò io a venderlo… all’Ucraina! Nello stesso giorno l’Ungheria iniziava a fornire gas russo all’Ucraina approfittando del fatto di poterlo ottenere grazie a un contratto stipulato fino al 2036 a prezzi 5 volte inferiori a quelli del mercato attuale.

Non c’è alternativa al gas russo

Tutto ciò mette a nudo una prosaica realtà che quasi nessuno in Europa vuol guardare in faccia pur di non dispiacere all’alleato americano: al netto delle prospettive fumose della green economy planetaria non ci sono a oggi alternative al gas russo neppure per l’Ucraina. Per ora Zelensky ha sostituito le forniture di idrocarburi russi con armi americane (l’ultima fornitura di fine gennaio è per un miliardo di dollari), ma com’è noto queste ultime rappresentano solo una zavorra per il bilancio, se non vengono utilizzate in un conflitto. Anche perché presto il contribuente europeo potrebbe essere messo al corrente di un’amara realtà:

che il riarmo ucraino viene pagato da Bruxelles con la nuova tranche di prestiti all’Ucraina per un miliardo e mezzo di euro appena fornita, proprio mentre gli Usa vendevano armi a Zelensky.

La triangolazione Mosca-Budapest-Kiev non può non avere ricadute politiche su più vasta scala. L’escalation con Putin a questo punto diverrebbe una sola esigenza americana per tenere insieme un’Europa sempre più sfrangiata nell’atteggiamento da tenere con la Russia. Da questo punto di vista c’è da ritenere che la guerra militare e non solo diplomatica e commerciale in Europa – in prospettiva – non sia solo un’ipotesi di scuola.

Come se l’Ucraina fosse un membro della Nato

Per la prima volta nella storia della Nato, lo scorso 11 dicembre un aereo da ricognizione strategica statunitense Boeing RC-135 partito dalla base aerea britannica Mildenhall ha effettuato un profondo raid lungo i confini della Federazione Russa. Ha raccolto informazioni sulla configurazione del sistema di difesa aerea e sulla struttura della difesa russa, volando lungo il confine della Bielorussia: Kharkov, Dnepropetrovsk, regioni di Zaporozhye e finendo in Crimea. In questo caso, l’esercito americano ha agito esattamente come se l’Ucraina fosse un membro a pieno titolo della Nato. Un approccio che coinvolge appieno la Nato visto che i droni da ricognizione RQ-4 Global Hawk, che regolarmente volano sul Donbass partono dalla base aerea di Sigonella. Da parte sua la Csto, il Patto di Varsavia versione XXI secolo, dopo il blitz in Kazakhstan, svolge un’esercitazione operativa congiunta non programmata delle forze armate di Bielorussia e Russia denominata “Allied Resolve-2022”. Le prime unità (non più di 15.000 uomini in totale, 12 caccia e 2 battaglioni S-400) sono già arrivate in zona. War games, si dirà, ma che si collocano in una crisi, quella Ucraina, che non trovando soluzione si è incancrenita sempre di più.

 

Manifestazione contro la guerra a Kiev

La visione russa

La radice dei problemi delle relazioni tra Ucraina e Russia affonda nelle relazioni tra i due paesi slavi sin dalle origini, sin dalla formazione della Rus’ nel X secolo. Il comune ceppo e l’appartenenza a una comune area territoriale è stato segnalato non a caso da Vladimir Putin in un lungo articolo (qui nella sua versione inglese) che giustamente è stato definito “strategico”, in quanto il leader osserva le relazioni tra i due popoli non nella contingenza ma in prospettiva.

Tuttavia il lungo excursus storico che passa attraverso la vicenda della dominazione mongola fino ai giorni nostri, appare rozzo, russocentrico, incapace di relazionarsi con una identità nazionale ormai pienamente formata.

In particolare, pesa nella ricostruzione del presidente russo, soprattutto il mancato riconoscimento del ruolo nefasto giocato dallo stalinismo in epoca sovietica per quanto riguarda il vero e proprio genocidio (Holomodor) nei confronti della popolazione contadina negli anni Trenta durante la collettivizzazione forzata delle terre imposta dal potere sovietico e con le repressioni dei tatari di Crimea. Tuttavia il comune ceppo slavo e la lunga coabitazione per settant’anni aveva reso fortemente integrate le due repubbliche: dal punto di vista economico ma anche sociale con la formazione di un gran numero di famiglie “miste” dentro un paese che conservava forti tratti di disomogeneità. Basti pensare alle differenze culturali e etniche tra gli ex cittadini polacchi o rumeni integrati nell’Urss dopo il “Patto Molotov-Ribbentrop” e gli abitanti delle zone del Donbass, definite da sempre “Piccola, Nuova Russia” (Malaja, Novaja Rossija). L’indipendenza ucraina, giunta alla fine del 1991 ebbe da questo punto di vista conseguenze nefaste: lungo 30 anni l’economia ucraina non si è più ripresa forgiando un’oligarchia parassitaria tanto quella russa ma senza il vantaggio di poter esportare le materie prime.

La visione ucraina

Da questo punto di vista l’Ucraina fino al grande crack del 2014 con l’insurrezione reazionaria della Maidan, la guerra nel Donbass e l’annessione della Crimea hanno sempre oscillato tra attrazione verso la UE e fattivo legame economico e sociale con la Russia (per una ricostruzione dettagliata della storia ucraina dal 1991 a oggi si veda il mio libro su questa tema Svoboda).

La necessità da parte della nuova nomenklatura antirussa emersa dopo il 2014 esigeva che si creasse una narrazione storica lontana dagli stilemi sovietici che per una serie di motivi si è andata ad agglutinare nelle ideologie del nazionalismo indipendentista di Stepan Bandera, collaborazionista del nazismo durante la Seconda guerra mondiale ma spacciato come “terzocampista” equidistante tra Urss e nazismo. Ciò permetteva, tra l’altro, di usare come volontari militari e guardie nazionali, quei militanti neofascisti formatisi con quelle ideologie negli anni Duemila. Come si può cogliere, si tratta di un intricato groviglio storico-economico-politico difficile da districare, una bomba pronta a riesplodere in ogni momento.

Addestramento ucraino nelle foreste di Kharkiv (fonte Euronews).

L’Ucraina colonia delle potenze occidentali

Anche perché la situazione interna dei due paesi resta difficile. Contraddizioni sociali interne nei due paesi, alimentano spinte nazionaliste e belliciste come arma di distrazione di massa. L’Ucraina dal punto di vista socio-economico continua a essere il fanalino di coda europeo. Il suo Prodotto interno lordo è ripartito negli ultimi anni ma sta raggiungendo solo ora la parità in termini assoluti (e tenendo conto delle amputazioni della Crimea e del Donbass). Con 130 miliardi di dollari di debiti soprattutto nei confronti del Fondo monetario internazionale, gli Usa e la UE (che rappresentano circa l’81% del Pil nazionale annuo secondo i dati della Banca Mondiale) l’Ucraina si è trasformata in una vera e propria colonia delle potenze occidentali dimostrandosi solerte nel pagare le rate trimestrali ai suoi creditori ma schiacciando sempre di più i redditi di un’economia che come quella russa resta in buona parte dipendente dallo stato. I salari superano a stento i 150 dollari mensili mentre il reddito medio supera di poco i 4000 collocando il paese al 133° posto della classifica dei paesi più abbienti, ben dietro Iraq, Guatemala o Belize. E, non a caso, il paese resta quello a più ampia conflittualità rivendicativa nel Vecchio continente, benché snobbata dalla stampa internazionale. Dopo le grandi manifestazioni dei minatori nel paese di ottobre che pretendevano il pagamento dei salari arretrati non pagati (come riporta “Apostroph”), alla fine di novembre si sono tenute dimostrazioni a Kiev, sfociate in scontri con la polizia contro gli aumenti delle tariffe elettriche. Il degrado economico è tale che il presidente Zelensky si è potuto permettere di rimbrottare Joe Biden per aver spinto l’acceleratore sui pericoli di guerra con la Russia che alla fine di gennaio stavano affossando il mercato finanziario interno, come immediatamente rilevato il 2 febbraio dal “Financial Times”.

Il peso e il ruolo della Difesa nel bilancio russo

La Russia ha problemi diversi da quello del vicino slavo. Nei primi dieci anni del millennio – negli anni della ripresa economica – Putin fu in grado di pagare per intero il debito estero e di accumulare grandi riserve di oro e di valuta occidentale per far fronte alla volatilità del rublo. Si tratta di un approccio a lungo termine se è vero quanto è scritto nel 46° Rapporto sull’economia russa della Vsemirnyj Bank uscito il 1° dicembre, dove si legge che buona parte degli utili determinati dall’aumento dei profitti dovuti all’aumento dei prezzi delle materie prime energetiche sono stati investiti.

Ora però, malgrado i “fondamentali” (a parte l’inflazione) restino eccellenti, da un decennio l’economia ristagna, i redditi diminuiscono e si coglie soprattutto nelle città europee uno iato sempre più profondo tra le aspettative e le promesse elargite a piene mani dal regime e la realtà corrente.

Questa è stata la base sociale della protesta intercettata in modo diverso da Navalny e dal Partito comunista di Zyuganov.

Al fondo resta il peso improduttivo di quel 25% di bilancio dello stato investito in sicurezza; in primo luogo nella Difesa che alimenta il ruolo dei Dottor Stranamore all’interno del Cremlino e riduce la possibilità di grandi investimenti nelle infrastrutture ancora particolarmente carenti nel Nord europeo del paese e in buona parte della Siberia.

Ecco perché la guerra russo-ucraina, che nessuno è così pazzo da voler scientemente perseguire, resta un’ipotesi possibile nel futuro anche prossimo.

L'articolo Russia-Ucraina: la possibile guerra del dottor Stranamore proviene da OGzero.

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n. 14 – Oi Barbaroi, gli schiavi della rotta dell’Egeo https://ogzero.org/gli-schiavi-della-rotta-dellegeo/ Mon, 18 Oct 2021 11:29:13 +0000 https://ogzero.org/?p=5174 Il Mediterraneo orientale rappresenta un braccio di mare in cui si sedimentano conflitti, interessi, estrazioni e alleanze variabili che affondano nei secoli. Sulla omerica lotta tra Ellade e Anatolia si innesca il flusso migratorio che vede la Turchia snodo essenziale e uso strumentale del singolo migrante.  Fabiana Triburgo di nuovo qui ha l’occasione di delineare […]

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Il Mediterraneo orientale rappresenta un braccio di mare in cui si sedimentano conflitti, interessi, estrazioni e alleanze variabili che affondano nei secoli. Sulla omerica lotta tra Ellade e Anatolia si innesca il flusso migratorio che vede la Turchia snodo essenziale e uso strumentale del singolo migrante. 

Fabiana Triburgo di nuovo qui ha l’occasione di delineare gli errori strategici sostanziali dell’Unione, che sfociano in una vera e propria violazione dei diritti umani, questa volta s’evidenzia l’intolleranza delle frange razziste interne all’Unione europea, che in Grecia sono radicate ancora di più dopo la grave crisi che l’inflessibilità di alcuni paesi ha impoverito pesantemente, rinfocolando in parte della società una sorta di sovranismo revanchista che sfocia nel razzismo.


I principali conflitti che attualmente interessano le migrazioni forzate e le prassi di esternalizzazione poste in essere dall’Unione Europea e dai singoli stati membri portano a una predeterminazione delle rotte dei migranti.

Quello che oggi è inevitabile chiedersi è se il nuovo Patto europeo sulla Migrazione e l’Asilo, proposto dalla Commissione UE, possa essere realmente considerato una soluzione della gestione del fenomeno migratorio o se invece vi siano soluzioni legali alternative maggiormente lungimiranti e coraggiose.  


I profughi sono l’unica merce di scambio…

«La Grecia non sarà la porta d’Europa». Questa la dichiarazione del governo greco in merito alla crisi umanitaria afgana in seguito alla presa del potere da parte dei talebani ad agosto di quest’anno. La manifestazione di intenti dell’esecutivo greco certamente non sorprende, considerate le gravissime violazioni del diritto d’asilo, perpetrate da oltre cinque anni lungo la rotta dell’Egeo che rendono davvero difficile per i migranti immaginare la Grecia come un paese di destinazione, non a caso definito dalla presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen “scudo d’Europa”.

La Grecia più che un paese di destinazione è un paese di “sospensione” in primo luogo dei diritti

Attualmente nella rotta dell’Egeo sono bloccate oltre 6000 persone da diversi anni, 4000 delle quali nei centri di accoglienza. Ad ogni modo occorre ricordare che al momento la nazionalità afgana è quella maggiormente presente – circa il 63 % – all’interno dei campi stanziati nel territorio greco.

Profughi afgani

L’articolo di Elena Kaniadakis è apparso su “il manifesto” del 14 settembre 2021.

… soggetta a muri: gabbie per contenerli, frontiere naturali rese invalicabili

Le conseguenze di tale posizione politica non si sono fatte attendere: con prontezza il governo greco lo scorso agosto ha completato la costruzione di un muro di 40 chilometri al confine con la Turchia, in prossimità del confine terrestre di 200 chilometri tra i due paesi, lungo le rive del fiume Evros/Meric, ostacolando in tale modo qualunque accesso terrestre alla rotta balcanica.

A ciò si aggiunge il recente quanto allarmante fenomeno della creazione di 5 hotspot “di ultima generazione” in ciascuna delle isole greche posizionate nell’Egeo:

rispettivamente oltre a Samos, anche a Lesbo – il più grande “campo profughi” d’Europa: Moria – nonché a Levos, Chios e Kos, grazie agli ingenti finanziamenti dell’Unione europea – circa 250 milioni di euro – predisposti per il raggiungimento di tale obiettivo.

Restrizione

Tali politiche rimandano immediatamente alla restrizione geografica nelle isole greche che nel 2015 venne imposta ai migranti che volevano recarsi a chiedere asilo nella Grecia continentale. Ciò avvenne, come detto, in conseguenza dell’aumento del flusso migratorio dovuto prevalentemente allo scoppio della guerra in Siria e della perdurante instabilità in Afghanistan, in Iraq e in Pakistan.

gli schiavi della rotta dell'Egeo

Egeo, Turchia, gennaio 2016: migranti siriani cercano di raggiungere la Grecia per poi rifugiarsi in Centro Europa (foto di beforesunset/Shutterstock).

È proprio in tale contesto infatti che cominciò – seguendo i propositi dell’Agenda europea sulla migrazione in quell’anno – la creazione da parte della Commissione europea di centri di identificazione ed espulsione extraterritoriali rispetto al continente europeo, i cosiddetti hotspot appunto, con contestuale impossibilità per i migranti di presentare le domande d’asilo, pratica che sappiamo poi essere degenerata nel fenomeno – oggi sistematico – dell’esternalizzazione delle frontiere dell’Unione europea. Nei documenti identificativi dei migranti arrivati in Grecia comincia quindi ad apparire la dizione “Restrizione nell’isola di…”. La situazione oggi è ulteriormente peggiorata: con l’International Protection Act, adottato dalla Grecia e modificato più volte, dal 2021 non è più prevista la possibilità di revoca del provvedimento sulla restrizione geografica alle isole greche per quanti, secondo l’ordinamento giuridico greco, vengono considerati vulnerabili – in particolare i minori stranieri non accompagnati e le donne incinte – con la conseguente impossibilità a presentare la domanda d’asilo e a risiedere nella Grecia continentale.

La concessione della revoca della restrizione geografica al momento opera infatti soltanto nei confronti di chi non può ricevere cure mediche adeguate in una delle isole dell’Egeo e se tale condizione sia dimostrabile con una comprovata certificazione di un ospedale pubblico greco.

Detenzione

Il primo di questi “moderni” centri di accoglienza dei richiedenti asilo e dei rifugiati è stato inaugurato il 18 settembre scorso nell’isola di Samos, il cosiddetto campo di Zervos, finanziato dall’Ue con 38 milioni di euro: il centro possiede campi da basket, aria condizionata, cucina accessoriata, adeguati servizi igienici ma, al tempo stesso, si contraddistingue per essere dotato di telecamere di sicurezza, scanner a raggi x – utilizzati per identificare i migranti – tornelli in ingresso e in uscita con orari limitati, porte magnetiche. Non solo, il campo è costantemente pattugliato dagli agenti di polizia greca, circondato da un filo spinato disposto intorno a uno spazio di circa 12.000 chilometri quadrati, posizionato in una valle desolata dell’isola lontano dai centri abitati – proprio come il nuovo campo di Lipa in Bosnia – ma possiede al suo interno un centro detentivo – come se lo stesso campo non lo fosse già – nel quale dovranno rimanere i migranti che devono essere rimpatriati in Turchia in esito al rigetto della domanda d’asilo o perché questa è stata dichiarata inammissibile.

Respingimento

Rispetto alle domande d’asilo si precisa che in Grecia al momento esistono tre tipi di procedure: la procedura “regolare” che si svolge nel continente europeo, la faster border procedure ossia la procedura che si svolge sulle isole dell’Egeo, le procedure accelerate o di frontiera e quelle cosiddette “Dublino”. In particolare, la faster border procedure nelle isole dell’Egeo prevede due fasi: una riguardante il giudizio di ammissibilità, valutata sulla base della nozione di paese terzo sicuro e l’altra concernente l’esame nel merito dei motivi che hanno costretto il richiedente a lasciare il proprio paese di origine. Al riguardo occorre precisare che il 7 giugno di quest’anno,

la Grecia con una decisione ministeriale congiunta ha dichiarato che debba essere considerata la Turchia paese sicuro

per cinque nazionalità dei migranti transitanti lungo la rotta dell’Egeo ossia quella siriana, afgana, bengalese, somala e pakistana.

Turchia, paese sicuro

È chiaro dunque che nell’ambito delle politiche europee oggi ci si sta muovendo ancora sulla scia del già citato accordo Ue-Turchia del 2016, anche se a rigor di logica, ci si chiede come possa essere onestamente considerato sicuro – per un richiedente asilo appartenente alle succitate nazionalità – un paese che ha firmato la Convenzione di Ginevra in modo restrittivo, ossia accettando di riconoscere lo status di rifugiato soltanto ai cittadini provenienti dall’Unione europea. Questo tra l’altro è stato già riscontrato rispetto ai migranti siriani accolti dalla Turchia a partire dal 2015 e soprattutto dal 2016, in esito al succitato accordo, per cui oggi il paese d’ispirazione imperialistica neo-ottomana – attualmente il primo paese al mondo per accoglienza dei migranti – non concede neanche più la protezione temporanea a favore dei siriani ma li strumentalizza per soddisfare le proprie finalità securitarie e di accrescimento della propria sfera di influenza sul suo territorio, favorendo il loro insediamento in zone appartenenti al Kurdistan turco al fine di indebolire le rivendicazioni identitarie del popolo curdo.

I migranti inoltre, siriani e non, sono considerati dalla Turchia un mezzo di ricatto per l’ottenimento di ulteriori finanziamenti dell’Unione,

per cui dal 2020 la Turchia ha cominciato a opporsi ai trasferimenti formali dei migranti respinti dalla Grecia, con l’intento – poi soddisfatto – di ottenere un ulteriore finanziamento dall’Ue mentre chiaramente rimangono sul territorio turco i migranti che hanno fatto ingresso in esso, eludendo i controlli della polizia turca, a seguito dei respingimenti operati dalla Grecia.

gli schiavi della rotta dell'Egeo

Scontri tra migranti e polizia nella buffer zone sul cinfine Turchia-Grecia a Pazarkule, nel febbraio 2020 (foto 4.Murat/Shutterstock).

A tal fine dato di particolare rilievo è il crollo del numero degli sbarchi lungo la rotta – in conseguenza dei pushbacks collettivi ellenici – in cooperazione con Frontex, che da 50.000 nel 2019 sono diminuiti a poco più di 1000 nel 2021, dato questo che si aggiunge a quello della dichiarazione di inammissibilità da parte della Grecia di circa 4000 domande d’asilo.

Dublino, ovvero delle deportazioni

Questo proprio in ragione della considerazione della Turchia come paese sicuro – già prima della dichiarazione ministeriale del giugno scorso – nonché sulla base di argomentazioni concernenti l’erronea applicazione del regolamento di Dublino che ancora prevede, come criterio principale nell’individuazione dello stato competente a trattare la domanda d’asilo, quello del primo paese di ingresso nell’Unione europea.

Rispetto a ciò molti sono i rapporti inquietanti in merito alle modalità con le quali tali respingimenti sono effettuati, come le “deportazioni” notturne – documentate da Amnesty International, Human Rights Watch, da Oxfam e dal Greek Council for Refugees – da parte di uomini con i passamontagna che dai campi prelevano i migranti per introdurli in grossi Van neri e da lì su gommoni diretti in Turchia.

Prima di “deportarli” li denudano completamente per assicurarsi che non abbiano indosso alcun dispositivo – primo tra tutti il cellulare – in grado di filmare tali pratiche e in questa condizione disumana li abbandonano sul territorio turco.

A riguardo va segnalato che a settembre la Grecia ha dovuto sospendere – in conseguenza del ricorso di uno dei tanti migranti respinti nelle isole dell’Egeo che tentavano di accedere alla Grecia continentale – i provvedimenti di rimpatrio in ragione della disposizione di misure ad interim da parte della Corte di Strasburgo (Corte Edu) che, alla fine di agosto, ha ordinato alle autorità greche di garantire condizioni di vita e sanitarie adeguate a favore del ricorrente. Nello stesso provvedimento la Corte ha disposto altresì che la Grecia dovesse revocare la restrizione geografica nelle isole, nel caso di specie l’impedimento a lasciare l’isola di Lesbo attuato nei confronti del migrante parte del giudizio. Già nel 2020 tuttavia la Corte di Strasburgo aveva riconosciuto la necessità di misure ad interim in grado di assicurare migliori condizioni di vita e assistenza sanitaria in seguito alla denuncia presentata da tredici migranti in condizione di vulnerabilità, rappresentati in giudizio dal Legal Centre di Lesvos.

Sottrazioni di servizi e mercato delle adozioni

Va ricordato che i numerosi minori presenti nei campi posizionati sul territorio greco non frequentano la scuola nonostante gli ingenti finanziamenti elargiti dall’Ue al paese ellenico per l’istruzione, di cui 7,5 milioni di euro specificatamente destinati ai bambini rifugiati, per loro inoltre era stato previsto nel 2019 un piano di ricollocamento all’interno dei paesi dell’Unione su base volontaria e per quote: triste dire che nel 2020 esigue sono state le domande accolte dagli stati membri che oltretutto con criteri discrezionali hanno deciso, come in un mercato, di porre dei criteri per l’ingresso come per esempio quello della nazionalità (solo bambini siriani) o dell’età (solo bambini al di sotto dei 12 anni).

Strumentalizzazione di giuste rivolte e devastazioni dell’inferno

Del tutto vana, retorica quanto inutile la dichiarazione pronunciata della commissaria Ue per gli affari interni Ylva Johansson, all’indomani dell’incendio sull’isola di Lesbo: «Mai più Moria». E falsa, considerato che sulle macerie di quel campo si è costruita un’altra tendopoli, costituita da circa 200 tende – il cosiddetto campo “New Kara Tepe” o “Moira 2.0”. A ciò si aggiunga che nessuna responsabilità è stata individuata rispetto alle autorità che erano a capo della gestione del campo – strutturato per accogliere 3000 persone – e che, invece, al momento del rogo, ne accoglieva circa 13.000 in condizioni disumane. Come noto, l’incendio è scoppiato dopo l’individuazione dei primi casi di Covid all’interno del campo con la conseguente assurda decisione di chiuderlo per quattordici giorni invece di mettere in isolamento i pochissimi migranti risultati positivi al virus. Diversa e paradossale inoltre la sorte dei sei afgani, quattro dei quali minori all’epoca dei fatti, ritenuti gli autori dell’innesco che, sottoposti al giudizio in conseguenza della testimonianza di un altro migrante – invero dubbia – sono stati condannati alla pena di 10 anni di reclusione senza avere nessuna possibilità di una vera difesa nel processo.

Marginalizzazione

È chiara dunque la volontà anche dell’esecutivo greco di centrodestra, guidato da Kyriakos Mitsotakis, di rendere invisibili i migranti, “deportandoli” all’interno di ghetti fuori dai centri abitati o dai poli turistici, chiudendo numerosi campi nella Grecia continentale e trasferendoli in lande desolate seppur in campi iperinnovativi.

Tuttavia, si può realmente scambiare con aria condizionata e campi da basket il rispetto dei propri diritti, in particolare l’accesso alla procedura d’asilo, o addirittura godere della libertà personale?

Rivalità locale secolare sfruttata da potenze globali con vittime delocalizzate

Rispetto alle dinamiche geopolitiche che, nella rotta interessano particolarmente i rapporti tra Grecia e Turchia, la questione migratoria e la strumentalizzazione dei migranti con l’Unione che l’agevola, nasconde il gioco di forza tra i due paesi da anni in contrapposizione tra loro per la rivendicazione della supremazia proprio rispetto alle acque dell’Egeo e alle isole che insistono su quel territorio marittimo, nelle quali attualmente sono residenti un elevato numero di migranti. Uscita sconfitta la Grecia dalla guerra del 1919-1922, con il Trattato di Losanna del 1923 si stabilì il ritorno forzato di circa un milione di greci, ellenofoni e turcofoni dal territorio turco – in particolare dalle coste dell’Anatolia – in quello greco. La Grecia riuscì comunque a occupare alcune isole posizionate strategicamente nell’Egeo, anche se prossime alla penisola anatolica, poiché nel corso del conflitto (grazie al sostegno britannico) si sancì di fatto l’interdizione turca ai mari. Infatti le Zone economiche esclusive turche sarebbero scandalosamente ridotte, se l’attività muscolare di Ankara e gli accordi strategici non cercassero di uscire da questo cul de sac volto a contenere l’ambizione ad affrontare il mare aperto di Erdoğan.

Elaborazione Ispi.

Mediterraneo orientale, ma anche l’incursione turca nel mare occidentale

La Grecia oggi come ieri rappresenta infatti – soprattutto per Stati Uniti e Francia – una delle principali risorse geografiche per contrastare la proiezione geopolitica espansionistica turca di Erdoğan, non solo nell’Egeo ma anche nel mar Mediterraneo tenuto conto anche delle postazioni turche in Algeria, Tunisia e in Libia. In particolare, rispetto a quest’ultima vale la pena ricordare l’accordo turco-tripolino, stipulato il 27 novembre del 2019 che si basa sull’irrilevanza del concetto della piattaforma continentale delle isole dell’Egeo come Creta e Rodi, sostenuto invece non solo chiaramente dalla Grecia ma dall’intera comunità internazionale, con la sottoscrizione della Convenzione di Montego Bay del 1982 che definì per la prima volta i criteri con cui spartire le acque tra i due paesi. La Turchia non ha mai ratificato tale convenzione che, se venisse applicata, restringerebbe il suo raggio di azione nei mari dalle 12 miglia alle 6 miglia nautiche occludendo il passaggio delle proprie navi militari dai Dardanelli fino al Mediterraneo orientale. L’accordo con Tripoli, invece sebbene non riconosciuto a livello internazionale consente potenzialmente alla Turchia di rivendicare due tratti di mare amplissimi, non solo nell’Egeo ma anche in parte del Mediterraneo. In reazione a tale accordo la Grecia ha recentemente stipulato due successivi accordi: uno con il governo italiano nel giugno del 2020 e l’altro ad agosto dello stesso anno con l’Egitto.

È facile dunque constatare come la Turchia sia giunta ad avere un controllo dei flussi migratori non solo verso la rotta dell’Egeo, ma anche verso quella balcanica e ora anche verso quella del Mediterraneo che verrà di seguito analizzata.

A sostegno di ciò si sottolinea che l’accordo Ue-Turchia, stipulato nel marzo del 2016, era stato concluso nel prevalente interesse della Germania. Questo sia perché i siriani in fuga nel 2015 erano diretti in primo luogo verso l’Europa centrale, sia poiché da sempre vi è un asse turco-tedesco, essendo la Turchia il primo partner commerciale della Germania che a sua volta ospita una rilevante comunità turca titolare spesso ancora del diritto di voto in Turchia. A giugno del 2021 tuttavia, al vertice con il quale si è dichiarata la volontà di rinnovare per la seconda volta tale accordo, l’ex cancelliera tedesca era affiancata dal presidente del consiglio italiano. Ciò dimostra che ormai il succitato accordo, rinsaldato con un ulteriore bonifico di 3 miliardi di euro, presi dai fondi dalla Cooperazione allo sviluppo dell’Unione, è divenuto la base sulla quale proiettare la politica europea nella gestione dei flussi migratori nelle diverse rotte, con un’evidente incoerenza: da una parte vi è l’intenzione dei paesi dell’Ue – come di altre potenze internazionali quali gli Stati Uniti – di bloccare qualsiasi espansionismo turco a livello geopolitico, dall’altra è sufficiente che la Turchia alzi la voce per chiedere altri finanziamenti volti al contenimento dei migranti e con lo scopo di far obbedire prontamente i leader europei, mettendo da parte le preoccupazioni sull’ambiziosa avanzata della Turchia nelle acque che lambiscono le coste di alcuni paesi dell’Unione. Ci si chiede pertanto, se l’ingresso e l’integrazione dei migranti nel territorio dell’Unione, applicando semplicemente la normativa europea già esistente, sia un pericolo così grave da consentire di porre a rischio la vita di migliaia di persone e, se si vuole parlare in termini di Realpolitik, da permettere a chi è stato definito un “dittatore” il margine per continuare il proprio espansionismo internazionale anche in ambito militare.

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Esternalizzare le frontiere: è legittimo o opportunista? https://ogzero.org/lesternalizzazione-delle-frontiere-e-le-politiche-europee/ Tue, 31 Aug 2021 14:54:56 +0000 https://ogzero.org/?p=4758 Riprendiamo con Fabiana Triburgo il focus sulle rotte migratorie introducendo il tema dell’esternalizzazione delle frontiere, ossia quella politica europea e degli stati membri dell’Unione, contraddistinta da un insieme di azioni giuridiche, militari e finanziarie – spesso di dubbia legittimità – che ha come fine ultimo quello di ostacolare l’ingresso dei migranti all’interno del territorio dell’UE. […]

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Riprendiamo con Fabiana Triburgo il focus sulle rotte migratorie introducendo il tema dell’esternalizzazione delle frontiere, ossia quella politica europea e degli stati membri dell’Unione, contraddistinta da un insieme di azioni giuridiche, militari e finanziarie – spesso di dubbia legittimità – che ha come fine ultimo quello di ostacolare l’ingresso dei migranti all’interno del territorio dell’UE. Ecco il contesto giuridico.


Le politiche di esternalizzazione: introduzione alle nuove rotte migratorie

Corridoi umanitari, mediante visti di ingresso, reinsediamenti e ricollocamenti automatici, e non volontari, dei migranti attraverso un’equa distribuzione dei medesimi all’interno dei territori dei paesi UE, sulla base del principio di solidarietà sancito dall’articolo 80 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea, sono di recente gli ultimi disperati appelli che la società civile, in particolare le associazioni del Terzo Settore, rivolgono alla politica europea e a quella degli stati membri improntata sull’esternalizzazione delle frontiere. Tale espressione risuona invero in più contesti giuridici e mediatici.

L’esternalizzazione delle frontiere, ossia quella politica europea e degli stati membri dell’Unione, contraddistinta da un insieme di azioni giuridiche, militari e finanziarie – spesso di dubbia legittimità – che ha come fine ultimo quello di ostacolare l’ingresso dei migranti all’interno del territorio dell’UE, tra i quali i richiedenti asilo, comporta l’impossibilità aprioristicamente, per loro determinata, di esercitare i propri diritti e godere delle tutele giurisdizionali garantite per legge. Già, perché questo godimento ed esercizio non è un’opinione ma si evince da quel “Sistema comune d’Asilo europeo”, stabilito dal paragrafo 1 dell’art. 78 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea,  del quale a partire dagli anni Novanta l’Europa stessa ha voluto dotarsi, ma che dal 2015 l’Unione (anche prima, con riferimento alle legislazioni nazionali di alcuni paesi UE, tra cui l’Italia), dato l’aumento sostanziale dei flussi migratori, ha riadattato, modificato a più riprese ma sul quale non ha trovato ancora oggi una soluzione condivisa.

Potremmo così affermare:

fin quando l’Unione attua le pratiche di esternalizzazione dimostra la sua incapacità a rendere effettiva una politica migratoria comune a tutti i paesi che ne fanno parte,

ma tale politica in realtà è già puntualmente regolamentata da disposizioni normative alle quali hanno aderito volontariamente tutti i paesi dell’UE, in senso opposto alle prassi dei respingimenti ancora oggi messe in atto. Le esternalizzazioni vengono realizzate infatti sia dall’UE sia dai singoli paesi membri in collaborazione con paesi terzi extra-UE – quasi sempre in via di sviluppo e spesso definiti “sicuri” per ragioni di opportunismo – attraverso accordi bilaterali o multilaterali, piani d’azione, il cui testo normativo è difficilmente accessibile da parte della società civile. Tuttavia, tali atti normativi di consueto contraddistinti da una sezione relativa allo sviluppo economico – che l’UE o il paese membro garantisce a favore del paese terzo parte dell’accordo o dell’Azione Comune – sono anche connaturati da una sezione dedicata all’accoglienza e alla gestione dei flussi migratori attraverso il finanziamento di programmi di addestramento e di equipaggiamento militare delle forze armate del paese terzo per il contrasto dell’immigrazione definita irregolare.

Campo di Sanliurfa in Turchia (foto Thomas Koch / Shutterstock)

Le responsabilità

Opinabile la portata del termine “irregolare”, essendo la singola valutazione dei motivi per il quale un individuo ha posto in essere il proprio percorso migratorio, attuabile perlopiù quando la persona ha fatto già ingresso nel territorio dell’UE. È noto infatti che le pratiche di esternalizzazione sono concepite, per definizione, al fine di eludere l’applicazione della normativa europea sulla migrazione e l’asilo mediante la delega a paesi terzi di attività che se venissero compiute dagli stati membri o dall’UE senza “l’aiuto” di questi, sarebbero sottoponibili a procedimenti giurisdizionali anche internazionali per l’accertamento delle loro responsabilità. Con tali prassi vengono a ogni modo violati i principi contenuti nelle norme di diritto internazionale alle quali l’Unione Europea ha deciso di adeguarsi. Non solo infatti tutti gli stati dell’UE, facenti parte anche del Consiglio d’Europa, hanno sottoscritto la Convenzione di Ginevra del 1951, ma secondo le norme del diritto dell’Unione, in particolare conformemente al succitato punto 1 dell’art. 78 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea,

«la politica comune in materia di asilo, protezione sussidiaria e temporanea deve essere volta a garantire il principio di non respingimento in conformità non solo all’art. 33 della Convenzione di Ginevra del 1951 (principio di non refoulement) e del suo Protocollo del 1967 ma anche dei trattati internazionali pertinenti in materia»,

quali in particolare la Convenzione Cedu sui diritti umani del 1950, la Convenzione Onu contro la tortura e i trattamenti inumani o degradanti del 1975, il Patto internazionale sui diritti economici sociali e culturali del 1966, nonché la Convenzione Onu sui diritti dei fanciulli del 1989.

Per quanto riguarda il diritto internazionale infatti il “principio del non respingimento” si applica oltre che secondo l’art. 4 e l’art. 19 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea e in conformità all’art. 33 della Convenzione di Ginevra, anche sulla base dell’art. 3 della Convenzione internazionale contro la tortura, nonché secondo l’orientamento giurisprudenziale della Corte di Strasburgo ossia la Corte europea sui diritti dell’uomo in merito all’art. 3 Cedu

che sancisce il divieto assoluto di allontanare lo straniero qualora lo stesso allontanamento costituisca una forma di trattamento inumano o degradante o nell’ipotesi in cui lo straniero rischi di subire trattamenti inumani e degradanti nello stato di destinazione.

Ne discende pertanto che tale principio debba essere applicato non solo ai migranti potenzialmente dichiarabili rifugiati – in base ai requisiti stabiliti della Convenzione di Ginevra – ma a qualunque individuo che rischia di subire un trattamento inumano e degradante. I respingimenti inoltre vengono attuati non solo direttamente ma anche indirettamente. Questi ultimi in particolare sono caratterizzati – come quelli “a catena” nella Rotta balcanica – dalle riammissioni informali, rispetto alle quali si è pronunciato il Tribunale di Roma con l’ordinanza dell’8 gennaio del 2021 nei confronti dell’Italia per quelle attuate in cooperazione con la Slovenia.

Dicembre 2020: incendio nel campo profughi di Lipa, a una ventina di chilometri da Bihać, nel nordovest della Bosnia-Erzegovina al confine con la Croazia

Violazioni e controllo effettivo su un altro stato

Tuttavia, va detto che in base all’art. 1 della Convenzione Europea sui diritti dell’uomo l’esercizio della giurisdizione da parte di uno stato su un territorio è il principio fondamentale per attribuire a esso responsabilità rispetto ad azioni compiute in violazione della Convenzione.

Come si concilia dunque tale interpretazione con quella di una responsabilità statale o sovrastatale, quale quella dell’UE, per trattamenti inumani e degradanti causati in un contesto “extraterritoriale”, in particolare per atti inumani e degradanti che sono stati agevolati indirettamente ma consapevolmente da stati membri dell’UE e/o dall’UE stessa ma eseguiti da paesi terzi?

È chiaro infatti che i paesi terzi quali per esempio Libia e Sudan, nei quali centri detentivi si attua la tipologia di trattamenti di cui sopra, non hanno aderito alle convenzioni internazionali succitate e dunque non possono essere ritenuti responsabili di tali pratiche. A ogni modo sussistono però secondo la Corte di Strasburgo circostanze secondo le quali è consentito derogare eccezionalmente al principio della sovranità territoriale o sovraterritoriale comportando l’attribuzione di responsabilità a uno stato contraente della Cedu, per la violazione dei principi della Convenzione in particolare dell’art. 3 e 5, nell’ipotesi in cui esso abbia un “controllo effettivo” sul territorio di un altro stato.

Sulla base di ciò si può interpretare che i cosiddetti “aiuti” che gli stati dell’Unione finalizzano con gli accordi e i piani di azione attraverso i  finanziamenti per gli addestramenti e gli equipaggiamenti militari – in particolare droni, elicotteri e visori notturni –, nonché la donazione di proprie imbarcazioni per il controllo dei flussi migratori ai paesi terzi, possano essere qualificabili come strumenti che denotano un’ingerenza talmente rilevante, rispetto al territorio di quel paese, da far superare il vincolo della giurisdizione territoriale strettamente concepita dall’art. 1 della Convenzione Europea sui diritti dell’uomo, fatta salva ovviamente la produzione di prove del nesso di causalità tra il danno subito dal migrante e l’azione compiuta dall’UE o da uno stato membro del Consiglio d’Europa. In conformità a tale interpretazione si pone anche la Commissione del diritto internazionale delle Nazioni Unite che ha approvato norme riguardanti il cosiddetto “illecito internazionale” ossia l’attribuzione di responsabilità a uno stato aderente alla Cedu dinanzi alla Corte di Strasburgo che si sia reso artefice, anche indirettamente, di azioni riconducibili alla violazione degli artt. 2, 3, 4, 5 della Convenzione.

I numeri

Al riguardo è necessario fornire alcuni dati in merito agli effetti che tale fenomeno dell’esternalizzazione delle frontiere sta causando. Il numero dei richiedenti asilo in Europa è crollato sensibilmente, ossia di circa il 34% nel 2020 rispetto all’anno precedente: in proporzione vi sono 931 richiedenti asilo in Europa ogni milione di abitanti, per cui ci si chiede se questa sia “un’invasione” tale da scaturire un “allarme sicurezza”. Occorre piuttosto rilevare che ci sono paesi quali Romania, Irlanda, Danimarca, Finlandia, Lituania, Portogallo, Polonia, Repubblica Ceca e Slovacchia nei quali non si è registrata rispetto al 2020 la presenza di alcun richiedente asilo. Solo cinque paesi su 27 membri dell’UE infatti hanno accolto i richiedenti quali Germania, Francia, Spagna, Grecia e infine l’Italia che tuttavia registra una media dell’accoglienza dei richiedenti asilo, rispetto alla propria popolazione, due terzi più bassa dell’intera media europea: all’interno del nostro territorio con riferimento al 2020 si sono registrati circa 355 richiedenti asilo ogni milione di abitanti.

Tali dati uniti alle riflessioni di cui sopra sulle attività poste in essere dall’UE stessa e dai paesi membri nel tentativo di eludere la propria responsabilità rispetto alla normativa europea in materia d’asilo, delegando a paesi terzi l’onere dei respingimenti, delle riammissioni informali e delle detenzioni arbitrarie, fanno intuire il fallimento del Sistema comune di Asilo (Ceas) di cui l’UE ha deciso di dotarsi in passato a partire dal Consiglio europeo di Tampere nel 1999, ma ancora prima con la firma nel 1990 sia della Convenzione Shengen sulla libera circolazione nel territorio europeo nonché della Convenzione di Dublino riguardante la definizione dei criteri per l’individuazione dello stato competente a trattare di volta in volta le domande di protezione internazionale.

Con il Consiglio di Tampere del 1999 l’inserimento della materia d’asilo dal Terzo al Primo pilastro sui quali si fonda l’UE contribuì a implementare la materia con strumenti propri dell’Unione quali direttive e regolamenti, per cui vale la pena ricordare la direttiva 2001/55/CE sulla protezione temporanea ideata per accogliere profughi provenienti dai conflitti del Ruanda e dell’ex Jugoslavia, il Regolamento Dublino II n. 343 del 2003, la direttiva accoglienza dei richiedenti asilo del 2003, la direttiva qualifiche del 2004, con la quale è stata inserita un’ulteriore forma europea di protezione, ossia quella sussidiaria, da applicare in via residuale nei casi in cui non ricorrano i requisiti relativi allo status di rifugiato, la direttiva Procedure del 2005 sul riconoscimento e la revoca dello status di rifugiato, nonché la contestata direttiva Rimpatri 2008/115/CE.

Dublino III

Nel periodo dal 2010 al 2014 invece con la decisione 281/2012/UE è stato istituito il Programma di reinsediamento europeo; inoltre nello stesso periodo è stata attuata la riforma delle direttive qualifiche, procedura e accoglienza ed è stato approvato il regolamento n. 604/2013 detto Dublino III, tuttora vigente.

L’incapacità del Sistema comune di Asilo a regolamentare i flussi migratori si palesò in modo lampante nel 2015 quando alcuni stati vennero messi a dura prova per un incremento sostanziale del numero dei migranti che fecero ingresso nell’Unione. Tuttavia, come vedremo nell’ambito della sezione dedicata al Mediterraneo centrale, analizzando anche il memorandum Italia-Libia, si può agevolmente affermare che il fenomeno dell’esternalizzazione non sia recente ma già compiuto prima della “crisi migratoria” del 2015. Quali sono dunque le politiche che a partire dal 2015 l’UE e i singoli stati membri hanno deciso di mettere in atto per contrastare i cosiddetti flussi dei “migranti irregolari” che tuttora dispiegano i loro effetti e sono ampiamente contestati dalle Associazione giuridiche e del Terzo Settore che si occupano di migrazioni? Sicuramente, il vertice della Valletta del 2015, l’accordo UE-Turchia nel 2016 e lo stesso memorandum del 2017 Italia-Libia, al quale si è unito il Piano d’Azione europeo sempre nel 2017 per sostenere l’Italia nel fronteggiare la questione migratoria, sono stati i primi importanti passi verso l’implementazione delle prassi di esternalizzazione dei confini, a discapito di quei principi di accoglienza e del rispetto dei diritti dei migranti tanto agognati nel trentennio precedente. Oggi tali politiche si realizzano per lo più con fondi europei (l’European Trust Fund) e nazionali (il cosiddetto Fondo Africa) nei quali sono coinvolte anche organizzazioni internazionali quali Unhcr e Oim strumentalizzate per fornire una parvenza di rispetto dei diritti umani in contesti in cui questi sono totalmente ignorati come nel caso dei centri detentivi libici le cui condizioni disumane già sono state evidenziate in precedenza.

Il male minore

In quest’ottica anche le pratiche di reinsediamento portate avanti prevalentemente dall’Unhcr spesso sono considerate “il male minore” poiché, essendo attuate in paesi non firmatari della Convenzione di Ginevra, come avviene in Niger, finiscono per essere sottoposte a una forte discrezionalità che differisce molto dalla puntualità dei diritti di cui beneficiano i richiedenti che si trovano nel territorio dell’UE. Inoltre, il nuovo Patto sulla migrazione e l’asilo del 23 settembre del 2020 – ossia il documento programmatico della Commissione Europea che tenta di istituzionalizzare tali prassi illegittime, di cui ci occuperemo in seguito – e la reticenza al superamento del criterio del primo paese di arrivo, con riferimento al Regolamento Dublino che resta pressoché immutato, non lasciano presagire un cambiamento nel breve periodo di tali politiche. Non resta dunque che analizzare i mutamenti geografici delle attuali correnti umane – nelle diverse rotte migratorie e nei differenti contesti geopolitici in cui essi si determinano – causati proprio da tali politiche.

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Un gioco è bello quando dura poco. Report dal confine bosniaco-croato https://ogzero.org/report-dal-confine-bosniaco-croato-buco-nero-d-europa/ Wed, 25 Aug 2021 08:43:29 +0000 https://ogzero.org/?p=4689 Proponiamo questo reportage sulla situazione dei migranti al confine bosniaco-croato a cura di Simone Zito (Collettivo Rotte Balcaniche Alto Vicentino), pubblicato su Melting Pot, diventato poi uno dei nostri volumi (Rott’amare), composto con i materiali che Simone ha salvato dal suo impegno estivo in Bosnia. Più avanti, con altri contributi, approfondiremo il tema anche dal […]

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Proponiamo questo reportage sulla situazione dei migranti al confine bosniaco-croato a cura di Simone Zito (Collettivo Rotte Balcaniche Alto Vicentino), pubblicato su Melting Pot, diventato poi uno dei nostri volumi (Rott’amare), composto con i materiali che Simone ha salvato dal suo impegno estivo in Bosnia. Più avanti, con altri contributi, approfondiremo il tema anche dal punto di vista giuridico per evidenziare i lati oscuri della pratica dell’esternalizzazione che portano alla violazione del diritto internazionale e inquadreremo i criteri che le democrazie occidentali individuano all’interno dei vari quadranti interessati e le aspettative che fanno “investire” su un paese piuttosto che un altro affinché questo svolga il ruolo di gendarme blindato che impedisce l’arrivo di migranti nella “Fortezza”.

“Alta tensione per l’emergenza bosniaca”.

 


Ci sono molte cose che non ti aspetti tra le colline boschive che separano la Bosnia-Erzegovina dalla Croazia. Le armi da fuoco, per esempio. La settimana scorsa c’era una pistola puntata contro una donna nigeriana dal suo passeur, chiusa in una casa e stuprata. È riuscita a fuggire lanciandosi da una finestra e ora è ospitata in una casa sicura. Qualche giorno fa un’avvocata ci ha informato anche di un traffico di organi lungo il confine e sappiamo di gang che, come nelle migliori tradizioni medioevali, rapinano i migranti che provano a passare la frontiera. Per non parlare di droni, microfoni nei boschi, telecamere, migranti marchiati con vernice sulla testa o dai bastoni della polizia croata. Per non farsi mancare nulla possiamo citare anche mine e orsi nelle foreste. Dopo le prime settimane di permanenza lungo il confine bosniaco-croato, lavorando attivamente e in modo complice con i migranti che quotidianamente cercano di valicarlo, iniziamo a farci un’idea dell’atrocità dei meccanismi di accoglienza dell’Unione Europea.

Il buco nero d’Europa

Quella bosniaca è una migrazione giovane, iniziata tre anni fa, nel 2018. Da allora la Bosnia ed Erzegovina (Bih) è diventata il nuovo crocevia delle rotte dei migranti in fuga da paesi in guerra o dove forte è l’instabilità politica nel continente asiatico, come Afghanistan, Siria, Iraq e Pakistan. I due centri di raduno più significativi sono Bihać e Velika Kladuša, due piccole cittadine del Cantone Una-Sana nella parte nord-occidentale del paese. Questo per la loro prossimità al confine con la Croazia e per il fatto che le altre regioni che costituiscono la federazione bosniaca rivendicano apertamente di non volere migranti e pertanto non autorizzano la presenza di campi che, quindi, si concentrano nel cantone dell’Una-sana e attorno a Sarajevo.

Da Bihać e Velika Kladuša sono circa 240 i chilometri che dividono i migranti dal confine italiano e austriaco, chilometri che macinano a piedi in una decina di giorni con lo zaino pieno di pane, il timore di essere individuati dalla polizia croata e la fame e la sete degli ultimi giorni, quando ciò che si erano portati dietro è finito e a spingerli in avanti sono solo la speranza e la disperazione impastate assieme. Spesso i pochi fortunati che arrivano a Trieste arrivano in condizioni difficili, a volte critiche.

Secondo un rapporto dell’Oim (l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni) di maggio 2021, sono 3220 i migranti che, a fine aprile 2021, vivono in accampamenti informali fuori dai centri di “accoglienza”. Vista l’immobilità e l’ingovernabilità dello Stato bosniaco, in un primo momento è stata l’Oim a occuparsi della creazione e della gestione dei campi autorizzati. Il Rapporto denuncia tuttavia la progressiva diminuzione dei posti disponibili, arrivando a 3242 nel 2021, situati in poche strutture isolate, con standard insufficienti (assenza di elettricità, di acqua calda o di servizi essenziali). Questo nonostante i fondi dell’Unione europea arrivati in Bosnia ed Erzegovina per la gestione dei flussi migratori ammontino a più di 88 milioni di euro dal 2018 al 2021. Ovviamente a questi finanziamenti bisogna sommare quelli erogati per la gestione delle frontiere e il rafforzamento delle capacità della polizia nelle attività di controllo dei flussi migratori per oltre 23 milioni di euro.

Nonostante quanto scritto finora, la recente politica del governo bosniaco è quella di una progressiva chiusura dei campi preesistenti su proprietà private, anche a causa degli alti costi pagati a personaggi non sempre trasparenti, l’esclusione delle Ong internazionali dalla gestione delle strutture di “accoglienza” e il passaggio sotto la giurisdizione del ministero per la Sicurezza.

Verosimilmente, questo comporterà l’abbandono di standard internazionali nell’organizzazione dei campi che finiranno per essere sotto il diretto controllo di un Paese al momento incapace, per volontà e capacità, di gestire un fenomeno migratorio pur di modesta portata [1].

Altre conseguenze rilevanti saranno il progressivo aumento della logica securitaria all’interno dei campi, un cambiamento di paradigma della finalità di queste strutture, sempre più simili a luoghi di detenzione, e una diversa politica nei confronti delle organizzazioni informali e delle Ong non registrate. Finora questi gruppi sono stati generalmente tollerati dalle autorità locali e non, data l’impossibilità da parte loro di affrontare, per il momento, la gestione dei migranti in territorio bosniaco. Quando però il campo di Lipa sarà pronto è prevedibile un inasprimento della repressione nei confronti di queste organizzazioni.

Lipa: un passato di tende, un futuro di container

Il campo di Lipa rientra all’interno delle dinamiche appena descritte: il nuovo insediamento dovrebbe essere inaugurato il 6 settembre. “Nuovo” perché il 23 dicembre del 2020 è andato a fuoco lasciando centinaia di persone in ciabatte in mezzo alla neve. Il nuovo campo sarà costituito da container e dovrebbe ospitare 1500 persone (1000 uomini singoli, 300 membri di nuclei familiari e 200 minori non accompagnati). La strategia è quella di chiudere i campi vicino alle zone di confine e relegare le persone in questa enorme struttura, situata su un altopiano isolato. Al momento il campo di Lipa è costituito da 30 tendoni con una capienza di 30 persone l’uno. Per il momento sono 600-700 le persone “ospitate” e possono entrare e uscire a piacimento; in passato, tuttavia, si è arrivati a contenerne fino a 1500. Anche se tutto dovesse andare secondo i piani del Governo, non sarà possibile coprire il numero di migranti presenti in Bosnia ed Erzegovina (tra i 7000 e i 9000) che avrebbero bisogno di un ricovero, almeno nel periodo invernale. La previsione è comunque già quella di un futuro ampliamento. Il fine, ben poco celato, è il rallentamento dei flussi di migranti verso l’Unione europea.

Questa nuova politica dei campi sta già probabilmente modificando le rotte migratorie che potrebbero spostarsi in zone differenti, probabilmente più vicine alla Serbia.

C’era una volta la Jugoslavia

Se si volesse fare un paragone tra la Serbia e la Bosnia-Erzegovina, si potrebbe dire che la prima ha una tradizione più lunga di gestione dei flussi migratori: iniziata come rotta nel 2016, ora sono presenti 18 centri per il transito e i richiedenti asilo. Il numero dei People On the Move – Pom (persone in movimento) presenti sui rispettivi territori nazionali è simile (8000-10.000 in Serbia, 7000-9000 in Bosnia). I campi con meno servizi e meno organizzati sono quelli per uomini singoli e vicino al confine (per il gran numero di persone che tenta il game e i problemi di gestione a esso legati). Capita che d’inverno i Pom tornino in Serbia date le condizioni di invivibilità all’esterno dei campi e per la migliore qualità dell’accoglienza.
Per quanto riguarda, invece, il rapporto tra Croazia e Bosnia, quest’ultima non accusa formalmente la Croazia per le riammissioni [2], quanto per i respingimenti illegali fatti all’interno del suolo nazionale. La questione dirimente non è quindi la violenza sistematica e illegale di una polizia che sequestra telefoni, bastona e toglie le scarpe ai migranti anche in pieno inverno per ributtarli in mezzo al nulla, quanto la violazione della sovranità nazionale. Purtroppo sono pochissimi i Pom che decidono di denunciare i respingimenti violenti subiti: molti non ne vedono l’utilità o hanno paura che questo possa rallentare o impedire il riconoscimento del loro stato di rifugiato. Spesso, molto più prosaicamente, non hanno alcuna intenzione di stare fermi un anno per attendere i tempi burocratici della pratica o preferiscono dimenticare senza essere costretti a rivivere il trauma. A volte capita siano i migranti stessi a giustificare quanto hanno subito: «Mi hanno picchiato, ma io sono un migrante irregolare». Al di là dei motivi, lo stato croato continua ad affermare che non ci sono prove di respingimenti violenti e che i segni delle percosse, le ferite, i traumi sono auto inflitti dagli stessi migranti o causati da conflitti tra loro [3].

“Acab anche nei Balcani il problema sono loro”.

«Migranti big problem»

Per il momento gruppi di cittadini organizzati e razzisti non sono ancora preoccupanti. Esistono e uno dei più significativi è guidato da Sej Ramić, un professore d’arte il cui slogan è “stop all’invasione dei migranti” e la cui propaganda è caratterizzata da contenuti xenofobi e razzisti. Pur avendo un certo seguito sui social e tra la gente, quando si è candidato alle elezioni nella città di Bihać nel 2020 non ha riscosso grandi consensi anche a causa del forte legame degli elettori con i tre partiti etnonazionalisti.

Là dove la politica manca, bisogna farla

Non vi sono lotte collettive o autorganizzate da parte dei Pom, questo per svariati motivi: la fatica fisica, la miseria del viaggio e la mancanza di leader politici o di comunità. Vi è un egoismo più che comprensibile che nasce dalla volontà di sopravvivere nonostante tutto e tutti e, nelle zone di confine, disperde mesi o anni di relazioni costruite durante il viaggio. Le poche battaglie fatte avvengono a titolo personale.

Il governo bosniaco sembra intenzionato a promuovere la costruzione di pochi grandi campi lontani dalle zone di confine, in modo da ridurre il numero di migranti che tentano di entrare in Croazia. Questo per svolgere al meglio il ruolo che l’Unione Europea ha deciso di attribuire a questa terra, cioè quella di uno stato cuscinetto in grado di ridurre gli ingressi in cambio di milioni di euro di denaro pubblico. Il tutto condito con livelli di inefficienza, corruzione e confusione legislativa e burocratica importanti.

Le Ong presenti sul territorio svolgono un lavoro difficile e prezioso, calmierando quella che potrebbe essere una mattanza silenziosa e silenziata, senza però riuscire a evitare di trasformare un fenomeno migratorio che ha cause politiche e responsabilità chiare in rivoli infiniti di disperazioni monodose, di morti e ferite tutte individuali. Tuttavia, la necessità di farsi riconoscere a livello ufficiale dal Governo bosniaco riteniamo comporti scelte che, pur tatticamente utili al fine di alleviare le sofferenze dei migranti, strategicamente possano comportare una difesa dello stato di cose presente, piuttosto che un suo ribaltamento. Inoltre, vi è un rischio che queste organizzazioni dovrebbero valutare nella progettazione delle loro attività: l’essere funzionali a un processo di invisibilizzazione del fenomeno a quasi vantaggio solo delle autorità locali, permettendo una qualche sorta di sopravvivenza nelle jungle fuori dalla città e, conseguentemente, l’allontanamento dei migranti dai centri urbani e dalla vista degli onesti cittadini.

Pertanto riteniamo sia necessario e urgente, da parte di organizzazioni, collettivi e singoli individui che si sentono solidali con i migranti e nemici delle frontiere, riempire quello spazio politico che i vari attori di questo spettacolo non possono o non vogliono agire. Nascondersi dietro la finzione che siamo solo turisti in vacanza e non collettivi politici, riteniamo non sia utile a porre la questione su un piano che non è più rimandabile. Scegliamo di venire lungo le rotte per denunciare le politiche mortifere di esclusione dei poveri da parte dell’UE. Questa nostra rimane una riflessione sicuramente iniziale e incompleta, dato che vorremmo fosse arricchita da una molteplicità di contributi di chi lavora sul campo e di chi, invece, si spende su altri ambiti.

“La condizione umana nei campi di Sarajevo: Ušivak”.
Pensiamo che sul lungo periodo non riconoscere pubblicamente il contenuto politico del nostro operato possa essere controproducente: non siamo turisti che regalano pantaloncini, anche perché non basterebbero tutte le braghe del mondo per mettere anche solo una pezza su quanto sta succedendo qui, tutti i giorni.

Un elemento della discussione, proposto spesso da chi lavora sul campo, è che portare una qualche forma di conflitto può mettere a rischio le attività o addirittura le persone in movimento. Di questo dobbiamo tenere conto, ovviamente, essendo una realtà complessa e articolata.

Tuttavia alzare il livello del conflitto ora dovrebbe essere visto come un aprire spazi di agibilità in futuro, quando le politiche securitarie saranno efficienti e rodate.

Le manifestazioni di Trieste prima e Maljevac dopo sono state un piccolo passo in questa direzione, ma importante. Abbiamo capito che è possibile portare pressanti richieste anche dove fino a quel momento sembrava impossibile. Tutto ciò si collega anche con le lotte contro le denunce arrivate e che ci aspetteranno nel breve futuro. Gli attivisti e le attiviste denunciate non possono restare sole nel percorso giudiziario, dobbiamo contrastare questo attacco alla solidarietà creando un fronte comune. E continueremo a stare dove non dovremmo stare.

 

Fonti

- Dossier Bosnia ed Erzegovina, la mancata accoglienza Dall’emergenza artificiale ai campi di confinamento finanziati dall’Unione europea, RiVolti ai Balcani, luglio 2021, https://altreconomia.it/prodotto/bosnia-ed-erzegovina-la-mancata-accoglienza/

- Consiglio europeo Comunicato stampa 18 marzo 2016, Dichiarazione UE-Turchia, 18 marzo 2016
https://www.consilium.europa.eu/it/press/press-releases/2016/03/18/eu-turkey-statement/

- L’Oim chiede la fine dei respingimenti e delle violenze contro i migranti lungo le frontiere esterne dell’UE https://italy.iom.int/it/notizie/loim-chiede-la-fine-dei-respingimenti-e-delle-violenze-contro-i-migranti-lungo-le-frontiere

- Iom: Temporary Reception Center Profiles, https://bih.iom.int/temporary-reception-center-profiles

- Save the Children, Viaggio (attra)verso l’Europa, report 20 giugno 2021, https://www.meltingpot.org/Report-di-Save-the-Children-Nascosti-in-piena-vista-Minori.html

- La vittoria dei talebani è inevitabile?, https://www.ilpost.it/2021/08/07/afghanistan-talebani-vittoria-inevitabile/

- Giuseppe Smorto, Fabio Tonacci, Le riammissioni dei migranti in Slovenia sono illegali, il Tribunale di Roma condanna il Viminale, https://www.repubblica.it/cronaca/2021/01/21/news/viminale_condannato_riammissioni_illegali_respingimenti_slovenia_migranti-283542228/

Note

[1] Per approfondire quanto questa crisi sia creata ad hoc più che giustificata dai numeri, si veda il prezioso dossier Bosnia ed Erzegovina, la mancata accoglienza. Dall’emergenza artificiale ai campi di confinamento finanziati dall’Unione europea, RiVolti ai Balcani, luglio 2021 – https://altreconomia.it/prodotto/bosnia-ed-erzegovina-la-mancata-accoglienza/

[2] Sarebbe interessante fare un’analisi del linguaggio utilizzato, in una logica sostanzialmente orwelliana. Per “riammissioni” si intendono gli allontanamenti informali (e illegali) attuati dalla polizia del Paese d’ingresso che, in modo generalmente violento, riporta i migranti al precedente Paese di transito senza dare loro la possibilità di presentare domanda di protezione internazionale. Famoso è il caso della sentenza del tribunale ordinario di Roma che condannò il ministero dell’Interno accusandolo, con queste prassi, di star violando contemporaneamente la legge italiana, la Costituzione, la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea e persino lo stesso accordo bilaterale Italia-Slovenia.

[3] Vi sono casi sporadici di poliziotti croati che, tra il 2019 e il 2020, hanno denunciato in modo anonimo al loro sindacato le azioni criminali di cui sono stati testimoni. Quando vengono prese in carico queste denunce e non si concludono con un’impossibilità a procedere, finiscono per colpire singoli poliziotti presentati all’opinione pubblica come “mele marce” di un sistema sano che
tutela i migranti secondo il diritto internazionale e nel rispetto dei diritti umani.

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