uiguri Archivi - OGzero https://ogzero.org/tag/uiguri/ geopolitica etc Sat, 19 Mar 2022 09:41:36 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.4.6 La guerra in Ucraina cambierà le scelte di Ankara? https://ogzero.org/la-posizione-di-ankara-nel-conflitto-russo-ucraino/ Fri, 18 Mar 2022 14:40:19 +0000 https://ogzero.org/?p=6806 Mar Nero settentrionale con la tatara Crimea; Mar Nero meridionale con gli Stretti strategici per la navigazione. Gli accordi di Astana, che già adombravano un ridimensionamento della Russia al rango delle altre due potenze regionali che li animano, facevano pensare che la Turchia fosse destinata a trarne maggiori vantaggi, mentre Mosca appariva alla ricerca di […]

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Mar Nero settentrionale con la tatara Crimea; Mar Nero meridionale con gli Stretti strategici per la navigazione. Gli accordi di Astana, che già adombravano un ridimensionamento della Russia al rango delle altre due potenze regionali che li animano, facevano pensare che la Turchia fosse destinata a trarne maggiori vantaggi, mentre Mosca appariva alla ricerca di accordi per spartire senza problemi le aree lasciate “libere” dal disimpegno dell’America trumpiana, dimostrando forse un inizio di affanno a svolgere il ruolo di grande potenza. Forse si può inquadrare la “spezial operazy” come una delle tappe delle spartizioni di Astana, che hanno visto diversamente impegnati gli eserciti e le milizie di Ankara e Mosca e quindi l’equidistanza  tra i contendenti da parte di Erdoğan fa il paio con l’interposizione di Putin in finale di conflitto in Nagorno Karabakh concluso a favore dell’Azerbaijan dai droni Bayraktar, protagonisti anche nel confronto bellico in Ucraina. L’equilibrio di Ankara, apparentemente sbilanciato a favore di Kiev (in chiave atlantista), ma attento a lasciare ampi spiragli di apertura a Mosca per proporsi come mediatore – forse per esperienza diretta nell’occupazione imperiale di territori limitrofi al proprio come il Rojava –, può ottenere riconoscimento internazionale, premiando l’ambiguità e la politica dei due forni di Erdoğan? Ed è vera competizione tra Israele e Turchia per ottenere il ruolo di paciere («proprio loro!?!», diranno curdi e palestinesi), o non è il gioco delle parti, per cui ognuno appare come campione valido per ciascuno dei due contendenti, perché tutti legati a filo doppio dallo scambio delle armi?

Vera rivalità tra Israele e Turchia per il ruolo di mediatore?

L’ossessione di OGzero per Astana arriva fin qui, lasciando spazio alle intuizioni di Murat Cinar…


Due paesi importanti per la Turchia sono in piena guerra; Ucraina e Russia. Dai droni ai pomodori, dalla centrale nucleare agli S-400, dal turismo al grano… e dal gas al riciclaggio di denaro. Per il governo centrale della Turchia, Mosca e Kiev sono due partner strategici con i quali ha consolidato dei rapporti economici, politici e militari in questi ultimi anni.
Ora invece questi due vicini stanno attraversando un forte conflitto armato tra loro. Dunque qual è stata, finora, la posizione di Ankara?

Le prime scelte

La politica della Turchia, dal 24 febbraio, quando la Russia ha iniziato a invadere l’Ucraina, mostra che rimarrà in armonia e coordinamento con l’occidente e la Nato, ma senza mettere in pericolo il suo legame con questi due paesi.

Atlantismo

La Turchia, che ha attuato la Convenzione di Montreux e ha impedito a più navi da guerra russe di accedere al Mar Nero, attraverso il mar di Marmara e gli stretti dei Dardanelli e del Bosforo, afferma che non intende imporre sanzioni alla Russia e che farà del suo meglio per mantenere aperti i canali di dialogo con Mosca per la soluzione del problema, accolto con favore anche dall’Occidente.
Con le dichiarazioni rese il giorno dell’inizio dell’operazione, che la Russia definisce “operazione militare speciale”, la Turchia ha chiesto il rispetto dell’integrità territoriale e dell’unità politica dell’Ucraina e ha dichiarato di rifiutare l’attacco russo. La Turchia, che non ha riconosciuto l’invasione e l’annessione della Crimea da parte della Russia nel 2014, ha rivelato che continuerà ad agire insieme all’opinione pubblica internazionale con questa posizione che ha assunto. La Turchia ha anche appoggiato il testo della risoluzione di condanna della Russia all’Assemblea generale delle Nazioni Unite (Onu).

Oltre a condannare la Russia, la Turchia ha anche fornito all’Ucraina il massimo livello di sostegno. Il presidente Recep Tayyip Erdoğan, il presidente dell’Ucraina Volodymyr Zelensky e i ministri degli Esteri e della Difesa turchi si sono incontrati spesso con le loro controparti ucraine e hanno discusso degli sviluppi riguardanti l’occupazione russa esprimendo il sostegno della Turchia alla sovranità dell’Ucraina.
L’uso efficace dei droni armati “made in Turkey”, Bayraktar venduti dalla Turchia, che negli ultimi anni ha approfondito la cooperazione con l’Ucraina nel campo dell’industria della difesa, ha reso ancora più importante il dialogo tra i ministri della Difesa dei due paesi. Le dichiarazioni delle autorità ucraine di voler acquistare più droni dalla Turchia si sono riflesse anche sulla stampa durante questo processo.

Droni autarchici turchi: l'esercito di Ankara si fornisce di ogni dettaglio tecnologico dall'industria nazionale per equipaggiare il proprio gioiello bellico: i sistemi aerei senza pilota

Bayraktar-TB2 Sịha, che fanno strame dei carri armati russi incolonnati.

Sin dall’inizio della guerra, la Turchia ha annunciato di aver iniziato a inviare aiuti umanitari in Ucraina. Con tutti questi passi, la Turchia ha dimostrato di sostenere l’Ucraina.

Caro amico Putin

Il presidente della Repubblica di Turchia, prima e dopo l’inizio dell’operazione, ha dichiarato: «Non rinunceremo alle nostre relazioni speciali né con l’Ucraina né con la Russia» e ha lanciato il messaggio che cercherà di mantenere una politica equilibrata anche se la crisi approfondisse.

Tuttavia, ciò non ha impedito ad Ankara di «invitare Mosca a interrompere l’operazione il prima possibile». Nelle loro dichiarazioni, il presidente Erdoğan e il ministro degli Esteri Mevlüt Çavuşoğlu hanno sottolineato che l’operazione militare ha messo in pericolo la sicurezza sia regionale che mondiale e che la Russia dovrebbe rinunciarvi il prima possibile. Nelle dichiarazioni rilasciate alla stampa è stato anche affermato che Çavuşoğlu ha trasmesso direttamente questo richiamo al ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov, con il quale aveva parlato al telefono.
La Turchia è stata anche tra i paesi che hanno criticato le minacce sventolate da Putin sull’eventuale utilizzo delle armi nucleari. İbrahim Kalın, il consulente per la politica estera del presidente Erdoğan, ha definito “sconcertante” il fatto che Mosca abbia messo sul tavolo la carta nucleare.

Con la Nato ma…

La dedizione della Turchia al patto transatlantico è molto discutibile da parecchi anni. Sia Trump sia Biden, diverse volte hanno criticato Ankara per le sue scelte militari e politiche in Siria e per le sue relazioni con la Russia. Mentre gli Usa sono arrivati anche alle sanzioni economiche e militari, con la Grecia e la Francia ci sono stati dei momenti di grande tensione e reciproche minacce in questi ultimi 2 anni.

La posizione di Ankara nel conflitto russo-ucraino

Settembre 2020, dispute tra appartenenti alla Nato nel Mediterraneo orientale: Grecia e Francia contro Turchia.

Tuttavia dalla guerra in Libia fino al caso degli uiguri, dall’Afghanistan alla produzione militare joint venture con gli alleati, dall’occupazione russa in Crimea e ora con l’appoggio a Kiev, possiamo dire che la Turchia ha seguito molto fedelmente la linea politica, economica e militare della Nato.

… It’s the economy…

La guerra in Ucraina arriva in un momento molto importante per la Turchia; sia per le sue relazioni forti con Mosca sia per la devastante situazione economica e politica che Erdoğan deve affrontare a casa. Un governo ai minimi storici nei sondaggi (meno di 35%) un anno prima delle elezioni presidenziali e parlamentari, sia per il lavoro di grande successo che portano avanti i sindaci delle opposizioni eletti nelle grandi città nel 2019 sia per l’enorme corruzione sempre più conosciuta e evidente che rappresenta il governo e la famiglia del presidente della Repubblica. Ovviamente a questa situazione catastrofica politica bisognerà aggiungere anche la crisi economica senza precedenti. Un’inflazione che supera la soglia del 130%, una Lira che perde il suo valore ogni giorno davanti alle monete straniere, una povertà diffusa e terribile e un vuoto nel fisco che spinge Ankara a svendere qualsiasi cosa al capitale russo, cinese e mediorientale.

… l’intermediario

Insomma: le scelte discutibili, radicali e pericolose di Erdoğan, operate in questi ultimi anni per consolidare un rapporto forte con Putin, fanno paradossalmente sì che la Nato trovi in Ankara un alleato a cui attribuire un ruolo chiave in questo conflitto. Quello del mediatore. Dall’altro lato Erdoğan non vorrebbe assolutamente perdere l’occasione per fare una forte propaganda elettorale nella politica interna portando a casa prestigio, rispetto e forse anche un po’ di soldi, vista la situazione economica e elettorale devastante.

Mediazione

Infatti l’incontro importante ma non fruttifero, avvenuto ad Antalya in Turchia, tra il ministro degli Esteri russo Lavrov e quello ucraino Kubela il 10 marzo è una delle dimostrazioni del fatto che il governo centrale vorrebbe lavorare come mediatore in questo conflitto, molto probabilmente per portare a casa un paio di carte vincenti. L’impegno apprezzato sia da Zelensky sia da Putin ha ricevuto anche gli applausi dal segretario generale della Nato, Stoltenberg che ha espresso la sua gratitudine direttamente al presidente della repubblica di Turchia quando l’ha incontrato durante la sua visita ad Ankara l’11 marzo.
Inoltre, la Turchia si era astenuta, il 26 febbraio, dal votare contro la sospensione della Russia nel Consiglio d’Europa, sulla base del fatto che «una completa interruzione del dialogo e la demolizione dei ponti non sarebbe vantaggiosa». Il ministro Çavuşoğlu ha dichiarato: «Non dovremmo concordare sull’interruzione del dialogo. C’è qualche vantaggio per il Consiglio d’Europa nel rompere i legami con la Russia qui? No. Ecco perché ci siamo astenuti nella votazione. Perché questo comporterebbe la chiusura del dialogo». Tuttavia il 17 marzo, durante una riunione straordinaria: «Il Comitato dei Ministri ha deciso, nel quadro della procedura avviata in virtù dell’articolo 8 dello Statuto del Consiglio d’Europa, che la Federazione russa cessa di essere membro del Consiglio d’Europa a partire da oggi, 26 anni dopo la sua adesione».

La diplomazia di Twitter e le telefonate private

Ankara, sin dall’inizio della guerra, ha mantenuto l’opinione secondo la quale tenere aperti i canali di dialogo con Mosca avrà un impatto positivo sul processo negoziale avviato tra funzionari russi e ucraini. Il consulente per la politica estera del presidente Erdoğan, İbrahim Kalın, in una dichiarazione alla stampa turca, ha affermato che la Turchia segue da vicino il processo negoziale tra le parti in guerra e trasmette i suoi suggerimenti alla Russia, soprattutto grazie al dialogo in corso.
A tutti questi passi e dichiarazioni ovviamente dovremmo aggiungere il continuo traffico di telefonate tra Ankara, Mosca e Kiev e i ringraziamenti di Zelensky direttamente verso Erdoğan comunicati ripetutamente su Twitter, per il suo sostegno

Importanti relazioni sia con Kiev sia con Mosca

In un’intervista rilasciata alla Cnn International, İbrahim Kalın ha dichiarato di non volere che i loro forti legami economici con Mosca, inclusi settori come l’energia, il turismo e l’agricoltura, siano danneggiati, e ha sottolineato che credono nei vantaggio provenienti da una condizione di dialogo alternativa all’imposizione di sanzioni.

La Turchia, che l’anno scorso ha ospitato circa 5 milioni di turisti russi (e 2 milioni di ucraini), ha preferito non assecondare i paesi occidentali che hanno chiuso il loro spazio aereo.

La Russia è il più grande fornitore di gas naturale della Turchia e sta anche costruendo la prima centrale nucleare del paese. I primi reattori dovrebbero essere messi in servizio nel 2023. Il volume degli scambi tra Turchia e Russia supera i 20 miliardi di dollari. I due paesi puntano ad aumentare questa cifra a 100 miliardi di dollari.

Questo rapporto commerciale in crescita vale anche per l’Ucraina. Secondo la Camera di Commercio di Istanbul (Ito) nel 2021 il volume commerciale superava i 7,4 miliardi di dollari Usa e nel 2022 l’obiettivo è raggiungere i 10. Solo nell’ultimo incontro avvenuto il 3 febbraio sono stati firmati ben 8 accordi commerciali tra Erdoğan e Zelensky. La collaborazione tra questi due paesi è in forte crescita anche nel campo militare.

Mediatori sì ma non da soli

La crisi energetica, l’interruzione dei rapporti commerciali, degli investimenti finanziari e del gigantesco riciclaggio di soldi nelle banche europee e in collaborazione con le mafie europee e la minaccia sulla sicurezza cibernetica sono solo alcuni punti che necessitano un piano B nel caso in cui le cose si mettessero molto male a lungo termine con Mosca. Dunque a questo punto insieme ad Ankara subentrano nel gioco due altri attori insospettabili: Grecia e Israele.
La Turchia, ultimamente, sembra che stia ricucendo i suoi rapporti con questi due “alleati”/vicini.

Israele, una volta “razzista” e ”terrorista” per Erdoğan

Infatti non è un caso che il presidente della Repubblica d’Israele, Isaac Herzog, abbia visitato la Turchia, incontrando il suo omologo turco il 9 di marzo. Una visita che era stata già organizzata ma ovviamente ha assunto un’importanza particolare in questo periodo esattamente come il contenuto delle dichiarazioni finali.

«Sia l’inizio di una nuova fase nelle relazioni tra questi due paesi. Dobbiamo rafforzare i nostri obiettivi commerciali soprattutto nel campo dell’energia»: erano alcune parole pronunciate da Erdoğan alla fine dell’incontro. Herzog invece ha voluto parlare anche della convivenza dei popoli, la pace tra le religioni e ha pure citato una poesia di Hikmet.

Secondo il conduttore televisivo israeliano, Mohammad Micedle, questi due paesi hanno obiettivi in comune in Siria e in Ucraina. Quindi devono lavorare insieme. Invece secondo, Jonathan Freeman, uno dei professori dell’Università di Gerusalemme il ruolo di questi due paesi acquisisce un valore aggiunto derivante dalla guerra in Ucraina soprattutto nell’ambito della sicurezza, dell’energia e dal punto di vista economico.

«Grecia e Cipro avranno le risposte che meritano» (Erdoğan, 14 ottobre 2020)

Lo stesso tipo di visita a Istanbul è stato effettuato il 13 di marzo anche dal primo ministro greco Kyriakos Mītsotakīs con Erdoğan.

L’incontro si è concluso con una serie di buoni intenti e progetti legati al «nuovo piano di sicurezza in Europa alla luce della guerra in Ucraina, lotta contro l’immigrazione irregolare e rafforzamento dei rapporti commerciali».

Una nuova fase, una nuova era positiva e felice meno di 2 anni dopo quel famoso momento di crisi registrato nelle acque dell’Egeo che portava quasi alla guerra questi due vicini storici; come l’incontro tra Erdoğan e Herzog mette la parola fine ai dissapori sorti nel maggio 2010 con la vicenda della Freedom Flotilla e l’assalto alla Mavi Marmara, nave turca assaltata dai servizi israeliani che causarono la morte di 9 marinai turchi.

La posizione di Ankara nel conflitto russo-ucraino

Assalto del Mossad alla nave turca Mavi Marmara in rotta verso Gaza nel maggio 2010: causarono 9 morti tra l’equipaggio e il pretesto al presidente turco per ergersi a paladino della causa palestinese.

Oligarchi e oppositori già in Turchia

Approfittare della fuga dei capitali dai paesi in conflitto e isolati è una scelta ormai molto diffusa in diversi angoli del mondo. Esattamente come quello di aprire le porte agli oppositori che a lungo andare potrebbero rappresentare una “carta” politica importante nei confronti dell’alleato di oggi. La Turchia ha fatto queste mosse ospitando quell’enorme quantità di denaro dello stato libico e di quello venezuelano nei momenti di grande crisi economica, politica e militare. Questa scelta fatta da Tripoli e Caracas comporta fedeltà e collaborazione e per Ankara la parziale disponibilità di questi due paesi rappresenta anche un elemento di forza nei confronti dei suoi alleati. In merito alla presenza degli oppositori invece possiamo citare il caso degli uiguri in fuga dallo Xinjiang e dei tatari scappati dalla Crimea in due tempi diversi in questi ultimi anni, rendendo così la Turchia rifugio degli oppositori e degli oppressi per quegli attivisti che rappresentano “minaccia e problema” per gli alleati Cina e Russia.

La storica attrazione per Istanbul

Secondo il professore universitario, Aydin Sezer, la vicinanza geografica della Turchia fa sì che per chi volesse portare via il suo capitale dalla Russia la rende più accessibile e attraente rispetto alla Cina e ai paesi del Golfo. Nel suo intervento fatto in diretta il 7 marzo, organizzato dal portale di notizie “Gazete Duvar, Sezer sostiene che numerose aziende russe stanno già avviando operazioni di acquisto dei beni di lusso, immobili costosi e vari investimenti finanziari a Istanbul. La stessa notizia è stata approfondita il 15 marzo in un articolo di Nuran Erkul Kaya ed Emre Gurkan Abay anche sul sito dell’agenzia di stato “Anadolou Ajansi” e un’esaustiva carrellata di patrimoni investiti in Turchia da parte di oligarchi russi molto vicini a Putin è stata redatta da su “medyascope”.
In una notizia firmata da “Euronews”, il 15 marzo, invece si parlava di quelle migliaia di “benestanti” russi che hanno deciso di lasciare la Russia per via della loro opposizione contro la guerra ma anche perché pensano che una catastrofe economica sia in arrivo. Lo stesso argomento era stato reso pubblico il giorno prima anche da “The New York Times”. In questo articolo, firmato da Anton Troianovski e Patrick Kingsley, si citavano i principali paesi di destinazione come Armenia, Georgia, Uzbekistan, Kirghizistan e Kazakistan ma anche la Turchia. Perché?

Profughi russi a Istanbul

Un turco trasporta nella neve stambulina materassi comprati da organizzazioni umanitarie per aiutare profughi russi contrari alla guerra e timorosi della catastrofe economica russa.

I motivi sono parecchi. Per esempio, nonostante il fatto che i paesi europei abbiano chiuso i loro spazi aerei agli aerei russi, la Turchia non l’ha fatto e questa scelta rende Istanbul una delle alternative per i russi che vogliono lasciare il paese. Solo la Turkish Airlines continua a organizzare 5 voli al giorno per Mosca e, insieme ad altre compagnie, questo numero supera i 30 in alcuni giorni. Kirill Nabutov, un commentatore sportivo di 64 anni fuggito a Istanbul, nell’intervista rilasciata al quotidiano statunitense afferma che la storia si ripete. Anche la cugina della madre di Nabutov fuggì a Istanbul nel 1920 e da lì andò in Tunisia. Anche se non grande come gli ucraini, questa fuga ricorda quelle 100.000 persone in fuga dalla guerra civile negli anni Venti, dopo la rivoluzione bolscevica, rifugiate a Istanbul.

Politica interna appesa ai colpacci internazionali

Il ruolo della Turchia, da diversi punti di vista, possiede un peso importante in questa fase storica che sta attraversando prima di tutti l’Ucraina poi il resto del mondo. Questo ruolo senz’altro è dovuto alle relazioni che Ankara ha costruito in questi ultimi anni, quelle relazioni basate sul reciproco sfruttamento, esattamente come diversi leader mondiali fanno da tempo. A questo fattore sarebbe opportuno aggiungere anche la crisi diplomatica, economica, energetica e politica in cui si trovano alcuni alleati della Turchia. Come abbiamo visto nell’esperienza della “gestione dei migranti” e nei conflitti armati in Libia e Azerbaigian/Armenia, dove l’incapacità oppure l’indifferenza dell’Unione europea e della Nato subalterna, Ankara approfitta dell’occasione. Infine la situazione economica e politica, devastante, in cui si trova il governo di Erdoğan deve fare qualcosa. Un leader che ha sempre fatto alimentare la politica interna con quella estera non può perdere quest’occasione sperando di perdere a casa qualche vittoria. Ce la farà? Questo dipende anche dagli alleati e dai partner della Turchia.

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Afghanistan: l’instabile cortile di Pechino in Asia Centrale https://ogzero.org/afghanistan-linstabile-cortile-di-pechino-in-asia-centrale/ Thu, 22 Jul 2021 10:14:17 +0000 https://ogzero.org/?p=4326 Il ritiro americano dei Boots on the afghan Ground somiglia un po’ in chiave geopolitica alla Teoria delle Catastrofi di René Thom che vedeva come si creassero laddove si veniva a creare un vuoto che andava in qualche modo riempito e di conseguenza avvenivano sconvolgimenti per il vortice di riempimento che si andava a creare […]

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Il ritiro americano dei Boots on the afghan Ground somiglia un po’ in chiave geopolitica alla Teoria delle Catastrofi di René Thom che vedeva come si creassero laddove si veniva a creare un vuoto che andava in qualche modo riempito e di conseguenza avvenivano sconvolgimenti per il vortice di riempimento che si andava a creare e lo spostamento a cascata. Per gli interessi americani probabilmente le tecnologie di controllo e intervento rapido sono ormai in grado di ritirare le truppe tradizionali da un territorio diversamente colonizzato; per gli interessi cinesi l’Afghanistan ha invece ancora un duplice “tradizionale” interesse, che richiede non truppe, ma accordi con chi deterrà il potere sulle infrastrutture – per le merci del Bri – e sul confine di 75 chilometri condiviso con lo Xinjiang – per poter contenere internamente il nazionalismo uiguro e assicurarsi il controllo del Corridoio del Wakhan. 

Questo articolo di Sabrina Moles incentrato sull’analisi degli interessi cinesi per l’Afghanistan si affianca ad altri due interventi contemporanei ospitati sul sito, uno di Emanuele Giordana, che documenta la situazione interna e i rapporti di forza attuali nei distretti afgani, e l’altro di Yurii Colombo sugli interessi russi a Kabul, completando la panoramica sulla situazione geopolitica afgana in seguito al ritiro delle truppe americane dal paese che abbiamo intrapreso cominciando da una tavola rotonda che li ha visti partecipi e trasmessa in diretta nella serata del 13 luglio da Radio Blackout, un’analisi che poi abbiamo cercato di approfondire nello studium “La solita musica afgana?”, chiedendoci se sarà un altro Afghanistan quello imbandito in questi due mesi di approcci internazionali..


Colmare gli svuotamenti irresponsabili con il basso profilo strategico

La Cina è apparsa come marginale nelle dinamiche afghane dall’inizio della guerra al terrorismo annunciata dagli Stati Uniti dopo i fatti del 2001, ma ha sempre agito con il basso profilo che ha caratterizzato la diplomazia cinese degli ultimi quarant’anni. Oggi più che mai, però, Kabul torna a risvegliare l’attenzione del vicinato e la dipartita delle forze armate americane contribuisce a lasciare un vuoto nel risiko dei nomi più influenti sull’area. Ecco che allora Pechino ritorna a far parlare di sé e del suo ruolo in Asia Centrale con uno sguardo particolare verso l’Afghanistan.

Guardando la cartina del continente asiatico, la distanza tra la capitale cinese e Kabul è quasi tre volte la distanza che separa l’Italia da Mosca. Eppure, alla Cina importa moltissimo dell’Afghanistan e di quei 76 chilometri di confine che dividono i due paesi. In questa breve striscia di territorio, che per la Cina è spesso sovradimensionata a 90 chilometri, corre la periferia dello Xinjiang. Già epicentro delle accuse della comunità internazionale contro Cina e snodo chiave dei progetti di connettività cinesi in Asia, con il ritorno dell’instabilità questo territorio è diventato un grattacapo per Pechino. Sebbene da un lato quello che la Repubblica Popolare indica come “abbandono irresponsabile” degli Stati Uniti sia un conveniente strumento per posizionarsi come partner regionale intenzionato a mantenere gli equilibri.

Ghani o Talebani, purché sian libere le mani

Gli interessi della Cina, come Pechino dichiara e tiene a ribadire nelle sue esternazioni pubbliche, sono la stabilità declinata attraverso la prosperità economica, il dialogo equo tra attori e il rispetto della sovranità. Non per niente questa posizione ha giovato nel rapporto storico che Pechino intrattiene con i Talebani e che recentemente è stato descritto dal portavoce Suhail Shaheen (anche parte attiva nei negoziati) come un saldo rapporto di amicizia. I rappresentanti dei Talebani sono anche stati ospitati in Cina, ancora non si conoscono i dettagli di questi incontri. L’intesa tra Talebani e Cina risale al dicembre 2000, quando Mullah Mohammed Omarera era capo del gruppo e governatore ufficiale dell’Emirato Islamico dell’Afghanistan. Nell’ultimo decennio la Cina ha continuato a tenersi tutte le porte aperte, palleggiando tra il governo riconosciuto di Ashraf Ghani e gli altri attori non statali diffusi sul territorio. Le diverse narrazioni, insomma, hanno una cosa in comune: il contatto dichiarato più o meno apertamente tra la Cina e un ampio ventaglio di attori, compresi quelli non statali.

Risorse succulente per la Bri e concorrenza agguerrita

I due grandi temi che sembrano emergere dal discorso cinese sullo sviluppo e stabilizzazione dell’Afghanistan sono quindi economia e sicurezza, un mix che non è nuovo nella proiezione estera di Pechino, ancora di più se questa coinvolge il vicinato. L’Afghanistan è di fatto una delle gemme incastonate negli ambiziosi piani della nuova Via della Seta (o Belt and Road Inititiative, Bri), la cui instabilità attuale non può essere ignorata da Pechino quando ragiona sull’avanzamento dei suoi progetti lungo il corridoio sino-pakistano. Investimenti che secondo le proiezioni accoglieranno almeno 62 miliardi di dollari da parte cinese. Per non parlare delle attività pensate dentro i confini afghani, dove esistono ancora grandi bacini di risorse sottosfruttate – secondo alcune stime si parla di un triliardo di dollari. Non solo corridoio per far passare scambi commerciali e infrastrutture, quindi: l’Afghanistan è il più grande bacino di rame della regione, oltre a essere ricco di carbone, ferro, gas, cobalto, mercurio, oro, litio e torio. Ci sono inoltre anche altri beni che iniziano a interessare agli investitori cinesi, come i jalghoza, un tipo di pinoli il cui commercio è esploso in Cina negli ultimi anni. Rimane da evidenziare, però, che la Cina è ancora lontana dall’essere il primo partner commerciale di Kabul, settore dove prevalgono Emirati Arabi (le cui importazioni dall’Afghanistan sono cresciute addirittura del 730 per cento tra 2018 e 2019), Pakistan e India.

Reti tribali e infiltrazioni cinesi in rete

A partire dal 2011 si registra una maggiore presenza di investimenti diretti esteri nel settore energetico, con l’ottenimento da parte della China National Petroleum Corporation (Cnpc) dei diritti di perforazione di tre giacimenti petroliferi per 25 anni, per un totale previsto di circa 87 milioni di barili di petrolio. Tra i giacimenti minerari assicurati, invece, figurano i diritti di estrazione del rame a Mes Aynak, nella provincia di Logar.

Il sito archeologico di Mes Aynak, la cui conservazione è in pericolo a causa degli interessi minerari cinesi.

Infine, il Badakhshan, la provincia afghana che confina con la provincia cinese dello Xinjiang, è una zona di forti traffici illeciti e non – in particolare di pietre preziose. Il caso delle infiltrazioni cinesi nella rete Haqqani dello scorso dicembre 2020 aveva, per esempio, fatto riemergere il tema delle attività “dietro le quinte” dei cinesi in Afghanistan. Tra i principali protagonisti degli attacchi terroristici a Kabul e sulla lista dei gruppi terroristi statunitensi, pare che il gruppo fosse coinvolto in attività di contrabbando di droga e armi, ma anche nella creazione di una finta cellula separatista uigura per incastrare i combattenti in arrivo dallo Xinjiang. È stata l’agenzia di spionaggio indiana Research and Analysis Wing (R&AW) a riferire all’intelligence afghana della presenza di cittadini cinesi sospetti a Kabul, e ora non è chiaro se alcuni sospettati siano rimasti in detenzione nel paese o se siano stati tutti trasferiti nella madrepatria. I progetti cinesi sono spesso soggetti a rallentamenti e non è una novità che possano cadere in un nulla di fatto. Oggi il Pil dell’Afghanistan dipende al 40 per cento dagli aiuti esteri [dati Banca Mondiale], ma si prevede almeno un dimezzamento entro il 2030: si pone quindi l’imperativo di affidarsi a progetti concreti, che permettano al paese di rendersi sempre più indipendente e autonomo sul piano economico.

Delirio securitario in attesa di liste di proscrizione comuni

La protezione dell’infiltrazione economica cinese in Afghanistan non può non prescindere dalla stabilità lungo il confine, ecco quindi che anche la tutela del territorio e l’incolumità dei cittadini cinesi diventano prioritari. Il ritorno a una situazione di relativa instabilità non giova alla Repubblica Popolare, che durante il mese di luglio 2021 ha evacuato 210 connazionali con voli charter. La Cina può ancora offrire aiuti nel processo di sviluppo e ricostruzione afghano, ma lo farà alle sue condizioni, in primis la sicurezza degli asset finanziati di banche e imprese cinesi. Sul piano della sicurezza, quindi, non spaventa tanto il cosiddetto “vuoto di potere” lasciato dagli Stati Uniti, quanto un generale senso di instabilità lungo il confine sino-afghano.

Wakhan Corridor

Moto donate dai cinesi a soldati afgani dislocati in un checkpoint sino-afgano nel corridoio Wakhan

In questo senso la ripresa dei Talebani diventa sia motivo di apprensione, che di sollievo. Tutto dipenderà dalla relativa stabilità che riusciranno a creare nel paese: anche per questo la Cina non chiude le possibilità di dialogo con nessuno. Gli accordi con i Talebani sono incentrati sulla promessa che le milizie controllino e impediscano gli ingressi degli uiguri dal confine con lo Xinjiang, e viceversa: la provincia occidentale cinese che condivide il breve tratto di confine con l’Afghanistan deve essere protetta dall’ingresso delle milizie di tutti i gruppi terroristici, da al-Qaeda allo Etim.

Il Badakhshan è stato infatti rifugio storico del Movimento indipendentista del Turkestan orientale (Etim), gruppo separatista di matrice islamica nato nel 1993 con l’obbiettivo di rendere lo Xinjiang uno stato indipendente da Pechino. Secondo le ultime stime il movimento raccoglierebbe poche centinaia di individui, che nell’ultimo periodo si sarebbero stabilizzati in Siria e che oggi starebbero invece ritornando in Asia Centrale. A complicare la situazione, però, è arrivata la bagarre diplomatica tra Cina e Stati Uniti sul tema Xinjiang. Mentre ai Talebani viene riconosciuto questo ruolo di “poliziotti oltreconfine” e l’Etim rappresenta per la Cina uno scomodo impiccio, gli Stati Uniti hanno deciso di rimuovere il movimento dalla Us Terrorism Exclusion List nel novembre 2020. L’Etim era stato schedato da Washington nel 2002, ma oggi gli Usa affermano che non esistono prove concrete dell’esistenza del gruppo oggi. Inoltre, la mossa arriva anche per lanciare un segnale a Pechino, finita nell’ultimo anno sotto lo scrutinio internazionale con l’accusa di internare gli uiguri in campi di lavoro forzato – accuse che si sono trasformate in sanzioni da parte di Unione Europea e Usa, a cui la Cina ha risposto con altrettante sanzioni a individui e società. La scelta statunitense non è piaciuta alla Repubblica Popolare, che ha accusato gli americani di portare avanti una logica di doppio standard sui diritti umani in Asia e «utilizzare [la lotta al terrorismo] fin quando fa comodo e poi scartarla quando non serve più». Anzi: secondo alcuni osservatori cinesi gli Usa hanno deliberatamente preso questa decisione per incoraggiare i miliziani dell’Etim a destabilizzare le attività cinesi nella regione.

Scommesse sul cambiamento dei Talebani

Altri analisti cinesi invece cercano di contrastare quella che chiamano una «strategia occidentale di esporre le presunte paure della Cina», ovvero: sarebbe tutto un tentativo mediatico per ridurre gli interventi della Repubblica Popolare a piani di difesa contro un pugno di terroristi uiguri. La situazione è molto più complessa. Cao Wei, un esperto di studi sulla sicurezza internazionale presso l’Università di Lanzhou, ha dichiarato al “Global Times” (megafono mediatico di Pechino in lingua inglese) che è altamente improbabile che estremisti e gruppi terroristici entrino in Cina dal corridoio del Wakhan.  Per il dottor Wei i talebani sono molto cambiati e dovranno prima o poi fare i conti con un paese da gestire oltre lo stato di guerra civile: il Badakhshan è già sotto il loro controllo, e per questo motivo la Cina dovrà fare più attenzione alle infiltrazioni dello Etim da altri paesi dell’Asia centrale.

Wakhan, ancora tomba degli imperi?

L’attenzione sul corridoio del Wakhan non è una prerogativa esclusivamente cinese: nella “tomba degli imperi” si alternano tanti attori diversi, ognuno con interessi differenti e che spesso cerca nella Cina una spalla su cui contare. Talvolta, è la Cina stessa che prende l’iniziativa, soprattutto ora che l’addio degli Stati Uniti rischia di far precipitare la situazione in tutta la regione.

Il Pakistan, alleato ad ammansire gruppi ribelli diversamente minacciosi

Ecco, quindi, che tra i primi nomi in lista compare quello del Pakistan, storico partner economico di Pechino con cui porta avanti un dialogo trilaterale insieme all’Afghanistan dal 2015. Il Pakistan lavora su tutti i fronti per porre in sicurezza il confine con l’Afghanistan e la Cina è stata di aiuto nel gestire, per esempio, quella che sembra la ristrutturazione del gruppo Tehreek-e-Taliban Pakistan (Ttp) nella provincia afghana Paktika. E qui ritorna la Cina, perché proprio i talebani e la rete Haqqani con cui dialoga Pechino sono strumentali anche per Islamabad a tenere sotto controllo la minaccia terroristica. Il Ttp è inoltre dichiaratamente antagonista della Cina, che condanna per la persecuzione degli uiguri. A sua volta, il premier pakistano Imran Khan ha ripreso il dialogo con i gruppi ribelli del Belucistan che si oppongono alla Belt and Road Initiative cinese: una mossa non scontata che potrebbe facilitare le cose a Pechino. In questo senso, per la Cina è importante il rapporto con il Pakistan (che viene definito tie gan “ferreo, solido come una roccia” – una nozione ancora dibattuta ma che tende a evidenziare la solidità che Pechino vede nella relazione) nel contesto mutevole dell’Afghanistan postritiro statunitense.

Mosca e gli “stan”: partner fondamentali nella questione afgana

Sempre parlando di politiche di vicinato, la Cina ha avviato da tempo il dialogo con i cinque stati centrasiatici sulla situazione afghana per combattere quelli che chiama i “tre grandi mali”: terrorismo, estremismo e separatismo. Gli stessi elementi che ricorrono nel discorso cinese sul terrorismo internazionale e i rischi a esso associati nella regione dello Xinjiang. In questo 2021 di cambiamenti per Kabul e, di conseguenza, per chi con l’Afghanistan condivide confini instabili e porosi, sono diventate centrali le visite del ministro agli affari esteri Wang Yi e il dialogo congiunto multilaterale. Talvolta questi incontri sono inseriti nel più ampio meccanismo di sicurezza regionale fondato dalla Cina e che vede partecipe anche la Russia: la Shanghai Cooperation Organization. La Russia rimane un importante alleato da mantenere nella regione, in quanto a sua volta promette di non cedere all’interventismo di stampo neoliberale promosso dagli Usa. Importanti per entrambi i giganti le partnership strategiche su tutto il territorio, dove contano sicurezza e interessi economici, ancor meglio se corredato di una buona relazione con gli stati centrasiatici. A essere favorita da entrambi rimane la soluzione politica del conflitto afghano, attraverso negoziati tra le parti. Rimane però un vuoto nella sostanza di queste operazioni, dove per ora sembra che Mosca e Pechino vadano ad agire individualmente.

La Cina appare cauta nei confronti dei gruppi di potere di matrice islamica, ma i fatti dimostrano una disposizione a scendere a patti mediata da negoziati in grado di soddisfare le parti. Lo scacchiere afghano dei mesi a venire rimane un ambiente molto complesso da interpretare, dove non si esclude che possano ancora avvenire dei cambiamenti decisivi. Per ora, quindi, niente rapporti di ferro definiti per Pechino, ma flessibili palleggiamenti tra gruppi di potere.

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