Turkmenistan Archivi - OGzero https://ogzero.org/tag/turkmenistan/ geopolitica etc Tue, 05 Oct 2021 17:50:18 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.4.6 Cronaca di una relazione annunciata: il Turkmenistan guarda con interesse ai Taliban https://ogzero.org/turkmenistan-e-taliban-interessi-e-attrazione-fatale/ Mon, 04 Oct 2021 22:59:24 +0000 https://ogzero.org/?p=5084 Continuiamo a tentare di comprendere come potrà evolvere la situazione nell’area centrasiatica, nonostante il lento oblio in cui sta sprofondando l’incubo afgano: da un lato ospitiamo corrispondenze di un giovane rifugiato ancora intrappolato a Kabul, che descrive la condizione vieppiù precaria dell’esistenza kabulina (soprattutto per le donne e gli hazara); dall’altro interpellando esperti, studiosi, analisti […]

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Continuiamo a tentare di comprendere come potrà evolvere la situazione nell’area centrasiatica, nonostante il lento oblio in cui sta sprofondando l’incubo afgano: da un lato ospitiamo corrispondenze di un giovane rifugiato ancora intrappolato a Kabul, che descrive la condizione vieppiù precaria dell’esistenza kabulina (soprattutto per le donne e gli hazara); dall’altro interpellando esperti, studiosi, analisti a cominciare da chi studia e frequenta da molto tempo la politica, cultura, storia e governance dei paesi limitrofi. Dopo il Pakistan di Beniamino Natale e Eric Salerno, il paese confinante con l’Afghanistan di cui si conosce in misura molto limitata la politica e il posizionamento nei confronti dei Taliban è il Turkmenistan. E scopriamo nelle parole di Luca Anceschi una predisposizione del regime di Ashgabat a farsi irretire da interessi cleptoautoritari comuni ai due regimi diversamente islamici.   


Alla geografia non si comanda. Mentre le truppe statunitensi si preparavano a lasciare definitivamente l’Afghanistan, le cancellerie dell’Asia Centrale seguivano l’inesorabile ascesa delle truppe affiliate al movimento dei Taliban con trepidante attesa. Una larghissima porzione di territorio afgano è incuneata nella regione centroasiatica: una linea di poco superiore agli 800 chilometri, spesso combaciante con lunghi tratti fluviali (Tedzhen, Kushk, Murghab, Amu Darya), traccia il confine con il Turkmenistan, il più isolato e autoritario tra gli stati subentrati all’Unione Sovietica. Nonostante le conclamate tendenze isolazioniste del regime turkmeno, ciò che accade a Kabul non può quindi non esser notato da chi governa ad Ashgabat.

Asia Centrale: gli “stan” in ordine sparso

La rapida assuefazione di Ashgabat

Mentre in Occidente si infervora il dibattito sull’opportunità di riconoscere il regime instauratosi alla guida dell’Emirato Islamico d’Afghanistan, il Turkmenistan – al pari degli altri stati centroasiatici – si è dovuto rapidamente adattare al nuovo, impresentabile vicino. D’altronde, il regime di Ashgabat non ha mai rinunciato a mantenere rapporti di buon vicinato con i Taliban: negli anni Novanta, i luogotenenti dell’allora presidente Saparmurat Niyazov sembravano non aver nessun problema nel farsi ritrarre in compagnia di esponenti Taliban della prima ora, tessendo una fittissima rete di relazioni economiche per lo più informali, spesso legate al narcotraffico, che si accompagnavano a patti (più o meno stabili) di non aggressione. La musica non è cambiata neanche nella turbolenta estate appena conclusasi: ancor prima della presa di Kabul e la frettolosa fuga di Ashraf Ghani, emissari del governo turkmeno già si incontravano con i governatori messi dai Taliban a capo delle regioni di Balkh ed Herat. Negli ultimi mesi, l’ambasciata turkmena a Kabul e il consolato a Mazar-i Sharif non hanno praticamente mai smesso di espletare le proprie funzioni, arrivando addirittura a godere della protezione di guerriglieri Taliban appostatisi all’ingresso delle due sedi diplomatiche.

Attrazione fatale

Pur avendo concesso il proprio spazio aereo al transito degli aeromobili impegnati nell’evacuazione di truppe occidentali e profughi afgani, il Turkmenistan ha evitato in ogni modo possibile di accogliere sul proprio territorio i rifugiati provenienti dall’Afghanistan, rinunciando finanche al rimpatrio della comunità etnica turkmena presente in Afghanistan. Alla preoccupazione con cui il presidente Gurbanguly Berdimuhamedov guardava alla questione afgana nella primavera scorsa, quando il governo turkmeno aveva iniziato una massiccia mobilitazione di truppe nelle zone confinanti con l’Afghanistan, si è dunque sostituito un tacito ma evidente opportunismo. Nonostante il Turkmenistan non abbia ancora riconosciuto ufficialmente l’Emirato Islamico di stanza a Kabul, la dissonanza tra l’atteggiamento di apertura di Ashgabat e le politiche occidentali che tassativamente evitano contatti ufficiali con i Taliban rimane evidentissima. Al contempo, i buoni rapporti tra il Turkmenistan e il regime di Kabul devono esser visti come un’importante eccezione alla regola centroasiatica, una regione in cui gli altri stati limitrofi si sono rivolti ai nuovi padroni dell’Afghanistan con una malcelata ambivalenza (Uzbekistan) o sfoggiando un’aperta ostilità (Tagikistan).

Matrimonio di convenienza autoritaria con il vicino Emirato

Consolidamento della cleptocrazia assoluta

È la ricerca di una spesso effimera stabilità autoritaria che, a mio modo di vedere, continua a indirizzare le strategie di lungo raggio tramite cui il Turkmenistan intende correlarsi con i Taliban. Per un regime ossessionato dal potere assoluto come quello guidato da Berdimuhamedov, i rapporti di vicinato sono semplici veicoli di consolidamento autoritario. In quest’ottica l’Afghanistan diventa un interlocutore primario per la costruzione di rapporti economici più o meno leciti che hanno tuttavia un fine meramente cleptocratico: arricchire il regime turkmeno consentendo al presidente e ai suoi alleati più importanti la gestione di ingenti capitali per scopi prettamente personali. L’Afghanistan rimane indispensabile per lo sviluppo del commercio con il subcontinente indiano, un’area a cui il Turkmenistan guarda con un solo, grande obiettivo in mente: la commercializzazione delle proprie riserve di gas naturale.

Tapi: un gasdotto virtuale

Turkmenistan-Afghanistan-Pakistan-India (TAPI) pipeline project proposed map [9].

L’Afghanistan come hub energetico emergente nella regione (2 ottobre 2021).

Il gasdotto Tapi [Turkmenistan-Afghanistan-Pakistan-India] è, nella fattispecie, il progetto che dovrebbe concretizzare le ambizioni turkmene di esportare ingenti quantità di gas naturale nei mercati del subcontinente. Sono quasi 30 anni che si parla, spesso a sproposito, di Tapi: sponsorizzato inizialmente dagli Stati Uniti e, in un secondo momento, da importanti istituzioni finanziarie tra cui l’Asian Development Bank, questo gasdotto è finora rimasto un castello in aria e, a mio modo di vedere, resterà tale nonostante il ritorno dei Taliban al potere. L’interesse per il progetto in questione è sicuramente elevatissimo ma la comunità internazionale continua a guardare alle dinamiche progettuali da una prospettiva essenzialmente distorta. Negli ultimi decenni, i lavori di costruzione sono rimasti bloccati allo stadio iniziale, non per la profonda instabilità afgana, come molti hanno frettolosamente concluso e ripetutamente suggerito, bensì a causa dell’ostinazione turkmena a finanziare internamente il progetto senza ricorrere a fondi erogati da compagnie petrolifere estere. La motivazione per tale ostinazione è legata alla logica di controllo totale su cui il regime di Ashgabat ha finora modellato le proprie politiche energetiche: mentre importanti sinergie con compagnie del Golfo hanno contribuito a sviluppare il settore turkmeno del Caspio, l’accesso di investimenti stranieri alle riserve onshore è a tutt’oggi limitato a una sola joint-venture conclusa con Cnpc verso la fine degli anni Duemila. È impensabile che un progetto i cui profitti sono avvolti da un alone di mistero possa arrivare ad attrarre gli importanti capitali internazionali di cui necessita: anche se i prezzi del gas naturale sono destinati a rimanere alti nel medio periodo, e nonostante l’interesse dei Taliban a garantire la sicurezza del settore afgano del gasdotto, Tapi rimane un progetto di difficilissima realizzazione.

Infrastrutture: mobilità e reti energetiche

Su quali orizzonti potrà dunque espandersi la cooperazione commerciale tra il Turkmenistan e l’Emirato Islamico d’Afghanistan? Considerando che l’economia turkmena è formata da un vastissimo settore energetico e poc’altro, le opzioni a disposizione del regime di Ashgabat sembrano essere piuttosto limitate. Garantendo una certa stabilità interna, l’avvento dei Taliban potrebbe offrire un contesto favorevole alla realizzazione di progetti a partecipazione turkmena la cui vocazione rimane incentrata sulla connettività (autostrade e ferrovie), facilitando anche l’integrazione della rete elettrificata tramite cui il Turkmenistan intende esportare annualmente una media di 500-kilovolt verso l’Afghanistan. Al contempo i rapporti di buon vicinato offrono un ottimo contesto per il contrabbando e il narcotraffico, rendendo il confine turkmeno/afgano terreno fertile per la conduzione di attività essenzialmente illecite.

Utilitarismo diversamente islamico

È dunque un matrimonio di convenienza autoritaria quello che si andrà realizzando tra il regime di Ashgabat e quello di Kabul. I religiosissimi Taliban sono pronti a chiudere un occhio davanti alle politiche antireligiose portate avanti da Berdimuhamedov, che vede l’Islam come una fonte di legittimità interna e continua in tal senso a reprimere fonti indipendenti di attivismo islamico. Il regime turkmeno, dal canto suo, è pronto a mettere da parte ogni riserbo sul ruolo potenzialmente dirompente che l’avvento dei Taliban potrà recitare sulla scena regionale al fine di garantirsi sbocchi commerciali verso nuovi mercati. Quest’alleanza tra improbabili partner conferma una volta per tutte che l’integrazione tra Asia Centrale e Asia Meridionale si costituirà non su infrastrutture e connettività, come auspicato dalle potenze occidentali, ma rimarrà fermamente incentrata sugli interessi prettamente autoritari espressi dai regimi locali.

Monumento nel Parco dell’Indipendenza ad Ashgabat.

 

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Timori e prospettive russe ai suoi confini meridionali https://ogzero.org/timori-e-prospettive-russe-su-kabul/ Wed, 25 Aug 2021 09:26:07 +0000 https://ogzero.org/?p=4702 Per la Russia il Centrasia è il cortile di casa. Putin, durante un vertice straordinario dell’Organizzazione del Trattato per la Sicurezza Collettiva (Csto), ha affermato che è importante limitare l’espansione dell’estremismo islamico dall’Afghanistan al resto dell’Asia, dopo la presa di potere dei talebani. Il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov, ha affermato che il Csto ha discusso […]

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Per la Russia il Centrasia è il cortile di casa. Putin, durante un vertice straordinario dell’Organizzazione del Trattato per la Sicurezza Collettiva (Csto), ha affermato che è importante limitare l’espansione dell’estremismo islamico dall’Afghanistan al resto dell’Asia, dopo la presa di potere dei talebani. Il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov, ha affermato che il Csto ha discusso delle implicazioni di “un’altra guerra civile in Afghanistan”, ma ha aggiunto: «Nessuno interverrà in questi eventi». La Russia ha adottato un duplice approccio nei confronti del neoproclamato Emirato Islamico. Da una parte, Mosca ha avviato contatti con i rappresentanti del Talebani; dall’altra ha annunciato, il 17 agosto, esercitazioni su larga scala in Tagikistan, lungo il confine con l’Afghanistan. Annunciando che non avrebbe ancora riconosciuto il nuovo regime di Kabul, non ha però ritirato la sua rappresentanza diplomatica; peraltro da almeno 4 anni circolano notizie di collaborazioni militari tra russi e talebani e i più avvertiti tra gli analisti americani pensano che da vecchio scacchista Putin abbia calcolato una mossa del suo gioco afgano verso il declino del sistema liberale delle democrazie occidentali, di cui questa sembra una tappa importante, anche nella lettura degli osservatori russi.

Per comprendere meglio quali contromisure alla veloce conquista talebana può avere in mente Putin e i temi che si dibattono in Russia a proposito dell’area centrasiatica abbiamo ripreso da “Matrioska”, il blog di Yurii Colombo, la raccolta di opinioni di politologi e giornalisti russi tra i più accreditati su quella parte del mondo gettate a caldo nel web nei giorni immediatamente successivi alla presa di Kabul.


Igor Yakovenko, pubblicista

Per tutti i vent’anni in cui gli Stati Uniti sono stati in Afghanistan, mantenendo il paese più o meno sicuro per i suoi vicini, la Russia ha costantemente cercato di giocare brutti scherzi. Sono riusciti a far perdere agli Stati Uniti le loro basi in Asia centrale, e si sono lamentati senza posa tra di loro sull’occupazione militare americana dell’Afghanistan. Ora è un problema del regime di Putin.

Arkady Dubnov, esperto di Asia centrale

Per la Russia, il problema principale nel trattare con i Talebani sarà la riaffermazione delle garanzie che non opererà fuori dall’Afghanistan e che non si espanderà, militarmente e ideologicamente, nell’Asia centrale. Finora i talebani non possono essere incolpati: non una volta nei loro 27 anni di esistenza hanno mostrato di volerlo.

Se verranno confermate tali garanzie, Mosca promuoverà il riconoscimento politico dei Talebani e li toglierà dalla lista delle organizzazioni terroristiche dell’Onu. Se Mosca li rimuoverà dalla sua lista è difficile da dire. Tuttavia, la richiesta dei talebani agli Stati Uniti e all’Onu – una delle principali richieste di oggi – troverà comprensione soprattutto in Russia.

Difficilmente ci si può aspettare che Mosca fornisca un’assistenza finanziaria significativa a Kabul. Gli americani e l’Occidente se ne faranno carico perché sono in gran parte responsabili di ciò che è successo oggi in Afghanistan. La Russia non è coinvolta in questo. Ma naturalmente, la Russia otterrà dividendi politici da questo.

[16 agosto]

Alexey Makarkin, analista politico

Ci sono diversi rischi. Il primo è la tendenza concreta dei Talebani a spingere verso nord. È improbabile che la leadership talebana voglia iniziare l’espansione ora, ma questo non significa che non intraprenderà tale azione in futuro. Soprattutto quando l’aiuto estero viene tagliato – in situazioni finanziarie difficili le guerre di conquista diventano una priorità. Il secondo è la misura reale in cui i leader talebani hanno l’effettivo controllo sui vari gruppi armati che possono agire autonomamente. Il terzo è l’effetto dimostrativo di una vittoria dei terroristi in un singolo paese sui loro simpatizzanti. In ogni caso, la Russia si preoccuperà di contenere i talebani nella regione e di sostenere i suoi alleati… Una vittoria dei Talebani potrebbe dare impulso ai gruppi radicali all’interno della Russia. I Talebani sono tradizionalisti, non wahhabiti, ai quali la Russia associa di solito il radicalismo islamico… Ma questo potrebbe solo accrescere il rischio, poiché la propaganda potrebbe essere fatta nelle comunità tradizionaliste, essendo più compatibile con le loro opinioni e pratiche. Si può diventare un sostenitore dei Talebani senza rompere con la Mazhab Hanafi. L’opposizione sarà condotta sia ideologicamente che dai servizi speciali, usando la forza, e ciò che ne verrà non è chiaro.

[16 agosto]

Ivan Kurilla, storico

Permettetemi di ricordare che la decisione degli Stati Uniti di andare in Afghanistan nel 2001 fu sostenuta dalla Russia, non solo perché Putin allora voleva essere amico dell’America, o perché la guerra in Cecenia fu poi reinterpretata come parte della “guerra globale al terrorismo”. Ma anche perché una delle principali preoccupazioni della politica estera russa all’inizio del secolo era il destino dei paesi dell’Asia centrale, che sembravano senza protezione contro l’islamismo talebano. Questo è il motivo per cui la Russia ha fornito agli Stati Uniti un corridoio aereo e persino un “posto di sosta” a Ulyanovsk, e ha accettato di aprire basi militari statunitensi in Uzbekistan e Kirghizistan.

Quindi è così. La situazione sembra tornare al 2001. Gli Stati Uniti ammettono il fallimento, la Russia e i suoi alleati dell’Asia centrale affrontano una nuova minaccia.

[14 agosto]

Sergey Medvedev, professore

È la più grande vittoria simbolica sugli Stati Uniti e un grande passo verso un mondo demodernizzato e un nuovo Medioevo. Gli echi di questa vittoria risuoneranno ancora per molto tempo, molto più fortemente a Mosca che a Washington; abbiamo il nostro sguardo rivolto verso questo arco di instabilità, è il nostro fronte, non quello americano. Il XXI secolo, iniziato l’11 settembre 2001, continua a rotolare verso il Caos.

[16 agosto]

Lilia Shevtsova, politologa

Naturalmente, il potere dei Talebani rimette all’ordine del giorno la minaccia del terrorismo globale. La cooperazione occidentale con la Russia e la Cina è inevitabile in tal caso. Forse i Talebani ammorbidiranno il confronto ideologico tra i rivali. I Talebani giocheranno anche un altro ruolo, costringendo l’Occidente a pensare a come promuovere i suoi valori per evitare umilianti fallimenti.

L’Occidente è cambiato dopo il Vietnam. L’Occidente sarà diverso dopo l’Afghanistan. La Russia deve prepararsi a questo. E il fatto che una sconfitta degli Stati Uniti crea una zona di instabilità vicino al confine della Russia, e non è chiaro cosa fare al riguardo, suggerisce che la sconfitta americana non è necessariamente una buona notizia per la Russia.

Piuttosto che gongolare e godere del fallimento dell’America, dovremmo imparare la lezione che non abbiamo mai tratto dalla sconfitta in Afghanistan: mai impegnarsi in un’avventura senza conoscerne le conseguenze e sapere come uscirne; ci sono guerre che non possono essere vinte.

[17 agosto]

Stanislav Kucher, giornalista

Per la Russia, il trionfo dei Talebani è una minaccia diretta e chiara alla sicurezza nazionale. Ora tutti i paesi confinanti con l’Afghanistan nella cosiddetta Csi, cioè il ventre meridionale della Russia, sono nella zona ad alto rischio. La prospettiva di espansione dell’Islam ultraradicale non è mai stata così grande come ora… Se si ha la volontà, l’emergere dei Talebani a Dushanbe è semplicemente una questione di tempo… Sia geopoliticamente che ideologicamente, un trionfo talebano è più pericoloso per la Russia che per gli Stati Uniti.

…Posso facilmente immaginare come in Russia, in certe circostanze, un Talebano ortodosso convenzionale alzerà la testa. Cioè, una certa terza forza che odia allo stesso modo il governo corrotto e i suoi alleati, i liberali, e l’Occidente, il quale secondo loro, non ha portato altro che male alla Russia durante la sua storia.

[16 agosto]

Nikolai Mitrokhin, storico, sociologo

A giudicare dalle reazioni delle ambasciate russa, cinese e iraniana, che non stanno per essere evacuate, la cerchia di amici dei talebani e del nuovo Afghanistan sotto la loro guida, è evidente. E la Russia è abbastanza soddisfatta della vittoria dei Talebani. Così è. Come dice in pubblico M. Shevchenko, esperto di contatti segreti con i radicali barbuti, tutta l’ala militare del paese ha studiato in Unione Sovietica ed era membro del partito.

Ma in ogni caso, dal punto di vista della geopolitica ufficiale russa, il crollo della democrazia di tipo europeo in Afghanistan è una grande vittoria per l’internazionale autoritaria conservatrice in cui la Russia gioca un ruolo significativo. Ma al di là dello spettacolo di un nemico umiliato, ancora più importante, è che i Talebani hanno preso il controllo di un paese chiave dell’Asia centrale. E questo significa che gli interessi americani ed europei si sono ritirati dalla zona dell’“interesse vitale” della Federazione Russa o, per dirla meglio, dai confini dell’ex Unione Sovietica. Cioè, se i paesi postsovietici dell’Asia centrale erano di interesse per gli Stati Uniti e l’UE come transito per il contingente in Afghanistan, questo interesse è ora scomparso.

I paesi dell’Asia centrale sono ora stretti tra gli interessi della Cina, della Turchia, della Federazione Russa e dei loro pericolosi vicini del sud. Allo stesso tempo, la Turchia è lontana e non entrerà in guerra nella regione. Pertanto, la Russia ha un’“opportunità” per stabilire le sue guarnigioni ovunque, come ha fatto lo scorso inverno nel Caucaso meridionale. E in seguito, dovrà applicare delicatamente e sistematicamente la sua pressione. Se il Kirghizistan e il Tagikistan sono satelliti russi, l’Uzbekistan ha agito indipendentemente per 20 anni, e il Turkmenistan ha guardato troppo in direzione dell’Iran. Non credo che ora creeranno problemi ai turkmeni, ma tratteranno seriamente con l’Uzbekistan. Le truppe russe sono già lì (per prima volta in 25 anni) ci hanno già messo un paio di migliaia di uomini). Ritengo che la Russia finirà per aprire proprie basi a Termez, Karshi, Fergana (dove i generali russi hanno passato la loro gioventù in addestramento) e una specie di centro di coordinamento e base aerea a Tashkent.

[17 agosto]

 

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Gli sguardi centrasiatici sul paese al centro dell’Asia centrale https://ogzero.org/gli-spunti-di-analisi-degli-stan-nel-great-game-afgano/ Sat, 14 Aug 2021 19:00:02 +0000 https://ogzero.org/?p=4615 “Belt and Road Watcher” è la fonte originale che ha assemblato in lingua cinese i molteplici spunti di analisi dell’Eurasian Rhythm Network che gli “stan” vanno sviluppando per digerire e collocare l’evoluzione del Great Game afgano nella giusta dimensione dal punto di vista regionale. L’ennesimo giro di valzer che il mondo inscena per continuare a […]

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“Belt and Road Watcher” è la fonte originale che ha assemblato in lingua cinese i molteplici spunti di analisi dell’Eurasian Rhythm Network che gli “stan” vanno sviluppando per digerire e collocare l’evoluzione del Great Game afgano nella giusta dimensione dal punto di vista regionale. L’ennesimo giro di valzer che il mondo inscena per continuare a sfruttare il paese all’ombra dei nuovi vecchi padroni dell’Afghanistan, che abbiamo cercato di approfondire nello studium “La solita musica afgana?”, chiedendoci se sarà un altro Afghanistan quello imbandito in questi due mesi di approcci internazionali.

Sabrina Moles ha scovato e tradotto per noi questo lavoro redazionale di “Belt and Road Watcher” firmato da Edward Polletayev, utile per acquisire un ulteriore approccio al garbuglio centrasiatico, questa volta elencando il punto di vista dei paesi limitrofi, ma con l’interessante mediazione dell’“occhio cinese”.


L’Afghanistan unirà in una strategia panregionale i paesi dell’Asia centrale?

Fotografia scattata al momento dell’analisi

Il portavoce dei Talebani Zabihullah Mujahid ha affermato sui social media che le milizie hanno occupato il capoluogo di provincia Ghazni, è la decima città a cadere sotto il loro controllo, a soli 150 km dalla capitale Kabul. Funzionari della difesa degli Stati Uniti hanno affermato che i militanti talebani potrebbero tagliare la capitale afgana Kabul dal mondo esterno entro 30 giorni e potrebbero occupare Kabul entro 90 giorni.

In questi ultimi mesi alcuni media dell’ex Unione Sovietica hanno pubblicato diversi articoli di analisti ed esperti che parlano dei problemi delle nazioni dell’Asia centrale. Il tutto motivato principalmente dal ritiro degli Stati Uniti e delle truppe Nato dall’Afghanistan. Si cerca di rispondere a due domande in particolare: “Ora che cosa dovremmo fare?” e “Quanto la crisi afghana influenzerà la sicurezza della regione?”. Di conseguenza cresce la tensione generale, tensione che continua ad aumentare a causa della crescente incertezza su quello che accadrà nelle prossime settimane.

Fino a oggi le nazioni dell’Asia centrale non sono state in grado di rispondere con una strategia unitaria, anche se sono aumentate di recente le occasioni di confronto e dialogo tra i capi di stato. Per esempio, il Turkmenistan ha ospitato lo scorso 6 agosto la terza assemblea generale degli stati dell’Asia centrale. Ogni incontro è stata occasione per parlare della questione afghana sia da un punto di vista militare che di sviluppo. Il 24 luglio il presidente russo Vladimir Putin e il presidente del Kazakistan Kassym-Jomart Tokayev si sono concentrati sul possibile impatto della crisi afghana sulla sicurezza e sulla stabilità della regione.

KazAID, un possibile aiuto finanziario regionale

La stabilità dell’Afghanistan influisce oggi sulla ridefinizione della regione, diventando l’interesse principale che le nazioni dell’Asia centrale hanno in comune. Molti esperti di affari della regione hanno discusso della questione in occasione dell’incontro intitolato Asia centrale dopo il 2021: sfide e opportunità. Il Kazakistan ha recentemente istituito l’Agenzia per la cooperazione allo sviluppo internazionale KazAID, che si occupa dell’Afghanistan e dell’Asia centrale e fornisce sostegno finanziario ai progetti. Nel luglio di quest’anno, il presidente Tokayev ha approvato le principali direttive politiche nazionali per l’assistenza ufficiale allo sviluppo per il periodo 2021-2025. Il documento afferma che «i paesi dell’Asia centrale e la Repubblica islamica dell’Afghanistan diventeranno la priorità degli aiuti allo sviluppo». Tuttavia, la minaccia afghana e la definizione dei confini del paese in Asia centrale, così come la sostenibilità della sua politica interna, sono state a lungo oggetto di dibattito.

La situazione in Afghanistan è una minaccia per l’Asia centrale?

La ricercatrice dell’Istituto kazako di Studi strategici Irina Chernykh ha sottolineato:

Quello di cui stiamo parlando ora è simile al dialogo dalla fine degli anni Novanta all’inizio del XXI secolo. L’Asia centrale esiste come regione o no? Per me è regionalizzato. Qual è lo standard? Circa 20 anni fa, abbiamo menzionato il Great Game in Asia centrale. A quel tempo, l’Afghanistan era la principale minaccia per la regione. Qualche anno dopo, ritorna ancora una volta la questione della sicurezza e dell’unificazione dell’Asia centrale.

Guzel Majtdinova, direttore del Centro di studi geopolitici e professore del Dipartimento di politica estera presso l’Università russo-tagika, ritiene che l’Asia centrale moderna sia nel pieno di un processo che punta a ripristinare l’integrità geopolitica basata su fattori storici, economici e culturali che accomunano i paesi dell’area. Ha detto:

L’Asia centrale non è solo le cinque ex repubbliche sovietiche definite dalle Nazioni Unite, ma include parti dell’India, del Pakistan, dell’Iran e dell’intero Afghanistan, nonché della Cina occidentale. Finora si è ottenuto un certo livello di cooperazione nell’area settentrionale dell’ex Unione Sovietica. Al contrario, l’unità regionale dell’Asia meridionale è lontana dall’essere una realtà, a causa dei problemi di connettività e di sicurezza. In realtà, se si fa riferimento ai cinque paesi dell’ex Unione sovietica, l’Asia centrale negli ultimi anni ha compiuto progressi in alcune aree di cooperazione e il livello di interazione regionale bilaterale e multilaterale è notevolmente aumentato. Per esempio, l’approfondimento delle relazioni con l’Uzbekistan è inseparabile dall’Unione economica eurasiatica.

Lavshan Nazarov, professore associato del Dipartimento distaccato di economia della Plekhanov Russian University of Economics a Tashkent, ha dichiarato:

L’Afghanistan è una parte imprescindibile dell’Asia centrale. Bisogna chiarirlo a più riprese, quella che interpretiamo come Asia centrale è l’Asia del post-Unione Sovietica. Quindi l’Afghanistan non può essere ‘scollato’ da questo concetto”.

Nazarov sostiene che il problema principale dell’Afghanistan è che manca di un passato di occupazione coloniale.

I pashtun che un tempo vivevano nell’impero britannico oggi sono cittadini del Pakistan. Il loro tasso di alfabetizzazione era quattro volte quello dei Pashtun in Afghanistan. Mentre, al contrario, non ha senso parlare di divario culturale tra gli altri stati dell’Asia centrale, dove invece il tasso di alfabetizzazione non è inferiore al 97 per cento.

Tuttavia, Lesya Karatayeva, ricercatrice dell’Istituto presidenziale del Kazakistan per gli studi strategici, ritiene che non importa quale nuovo slancio abbia avuto la discussione sulla qualità della regionalizzazione dell’Asia centrale postsovietica: in ogni caso sarà difficile compiere progressi significativi nel rafforzamento regionale. Ha spiegato:

La sicurezza è un fattore importante. In questo caso, ha senso prestare attenzione al fatto che l’instabilità della situazione politica in un determinato paese o il deterioramento delle relazioni bilaterali influenzerà la situazione di altri paesi della regione? L’esperienza ci ha insegnato che non c’è un’influenza grave. Quando crisi occasionali accadono, bisogna rispondere con decisioni politiche; ogni deterioramento occasionale richiede una risposta politica, ma per i paesi che non si lasciano coinvolgere non rappresenta un rischio per la sicurezza, né vi è alcuna escalation in instabilità regionale.

Un altro problema importante: il processo di state-building afghano ha dei rischi per la regione?

Karatayeva ha poi spiegato:

La posizione di ciascun paese su questo tema dipende dal grado di vicinanza all’Afghanistan. Per esempio, per il Tagikistan e il Kazakistan, il grado di percezione del rischio è diverso. Ironia della sorte, il suo ruolo di ‘outsider’ ha notevolmente promosso l’integrazione dell’Asia centrale. Per almeno un quarto di secolo, la riluttanza dell’Afghanistan a unirsi al piccolo gruppo dei paesi dell’Asia centrale ha sostenuto l’agenda di politica estera dell’intera regione.

La ricercatrice ha anche affermato che dal 2018 la visione sul ruolo dell’Afghanistan è cambiata e anche la situazione interna in Afghanistan è cambiata.

Al momento è difficile fare previsioni, ci sono troppi fattori di incertezza. Da un lato, la realizzazione di progetti economici richiede sicurezza. Nessuno è interessato a investire in territori instabili. Dall’altro, se la situazione economica ha bisogno di migliorare, come raggiungere la stabilità? Partecipanti diversi, interessi diversi, posizioni diverse. Una cosa è certa: non c’è bisogno di aspettarsi risultati presto.

Marat Shibutov, membro del Kazakistan National Public Trust Committee e membro dell’Almaty Public Committee, ha dichiarato:

Il recente conflitto al confine di Gita è di grande importanza per l’Asia centrale. Questo è il vero risultato, possiamo addirittura dire che sia una nuova epoca per il rilancio delle relazioni tra questi paesi. Non dobbiamo avere paura dei Talebani, la maggior parte di loro sono una minaccia “inventata, esagerata”. Ciò che è necessario ora è guardarci l’un l’altro: l’Asia centrale ha una mole enorme di conflitti irrisolti. Di conseguenza, i conflitti passano da potenziali a armati Ci sono anche molte ragioni per i conflitti. Per esempio, è arrivato il periodo di siccità e la siccità estiva durerà per tre anni. Non si sa ancora cosa ne deriverà. Potrebbero esserci conflitti armati a causa dell’estrazione dell’acqua. È meglio spostare l’attenzione dall’Afghanistan alle questioni regionali, altrimenti rischiamo di diventare nuovamente estranei tra di noi.

Come ha affermato il professore della Kazakh-German University Rustam Burnashev, per 30 anni i paesi dell’Asia centrale non sono stati in grado di stabilire relazioni nel campo della sicurezza regionale. Ma a suo avviso, il fallimento è proprio perché questi paesi non hanno avuto conflitti importanti. Ha detto:

Non si è mai creata l’esigenza di cooperare. Se, per esempio, il Kirghizistan e il Tagikistan entrassero in una fase di conflitto violento, allora sarebbe immediatamente necessaria la cooperazione regionale. Finché non si presentano occasioni di tale gravità, vivremo tutti al sicuro nel nostro ‘buco’.

Burnashev ritiene che l’Uzbekistan oggi stia costruendo il suo ideale di Asia centrale, ma si presentano due problematiche impreviste. Spiega:

Il primo è rafforzare i legami con l’Afghanistan: non tiene più le distanze e comincia a vederlo come un’opportunità. L’Uzbekistan è un ponte verso l’Asia meridionale e il Medio Oriente. Esistono ancora collegamenti con l’Iran. Ciò fornisce all’Uzbekistan maggiori opportunità per entrare nel mercato mondiale ed espandere il proprio.

Il secondo punto è il cambiamento nella percezione della sicurezza. Burnashev dice:

La recente conferenza internazionale sull’Asia centrale e meridionale a Tashkent ha chiarito che per l’Uzbekistan il concetto di sicurezza va ora ben oltre la cosiddetta “sicurezza nuda” in quanto tale, ma si estende anche alla sicurezza degli esseri umani, dell’ambiente e dell’economia. Allo stesso tempo, l’Istituto di ricerca internazionale dell’Asia centrale nella capitale dell’Uzbekistan è stato ufficialmente messo in funzione.

In ogni caso, tutti gli esperti concordano sul fatto che il modello tradizionale di risoluzione del problema afghano stia diventando un ricordo del passato. Sergey Belyakov, professore alla Siberian School of Management, ha dichiarato:

L’Asia centrale ha bisogno di sviluppare un suo modo di risoluzione di questo problema e sviluppare una propria strategia. Forse l’idea di una potenziale espansione esterna dei talebani è un po’ esagerata, perché i Pashtun si concentrano principalmente sul controllo del proprio Paese. Ma in ogni caso, in quanto vicini dell’Afghanistan, abbiamo molti legami in comune, etnie in comune. Questo significa che una risposta pronta deve essere necessaria.

 

La normalizzazione talebana: meglio non scuotere l’albero

Andrei Chebotarev, direttore del Kazakhstan Center for Alternative Contemporary Research, ritiene che le vaghe prospettive di ulteriore sviluppo della situazione in Afghanistan abbiano oggettivamente stimolato i paesi dell’Asia centrale non solo a proseguire il processo di cooperazione multilaterale intraregionale avviato nel 2018, ma anche ad accelerare il processo di instaurazione di meccanismi di coordinamento e azione.

Ha sottolineato:

Il punto centrale della questione riguarda la sicurezza della regione. La base giuridica di questi accordi risale già al 2000, ma non è mai stato attuato concretamente il Trattato per combattere il terrorismo, l’estremismo politico e religioso, la criminalità organizzata transnazionale e altre minacce alla stabilità e alla sicurezza. I suoi firmatari sono Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan e Uzbekistan. Questi paesi potrebbero da subito avviare discussioni di cooperazione nell’ambito di questo documento e invitare il Turkmenistan ad aderire.

Un altro aspetto, sostiene Chebotarev, riguarda il fatto che le controversie nei rapporti bilaterali tra le varie nazioni dell’Asia centrale potrebbero ostacolare questo processo di integrazione.

Soprattutto i problemi irrisolti di confine. In questo caso, è meglio che i paesi della regione considerino e discutano l’istituzione di un meccanismo di mediazione congiunto per facilitare la risoluzione di determinate controversie e conflitti. Questo potrebbe avvicinare i cinque paesi.

Anche Doron Aben, ricercatore presso l’Accademia delle scienze eurasiatica, si trova d’accordo con questa interpretazione. Ha affermato:

La normalizzazione della situazione in Afghanistan è nell’interesse di tutte le parti. Pertanto, nella realtà attuale, è necessario prestare attenzione, in modo pragmatico, alla cooperazione tra Uzbekistan e Kazakistan, che sono i principali attori in questo. Quando il bacino idrico di Saldoba è crollato e l’acqua si è riversata in Kazakistan, le due parti hanno dato l’esempio di come sia possibile cooperare in una situazione di emergenza. L’Uzbekistan ha contribuito alle operazioni postcrisi e al risarcimento dei danni al Kazakistan. Allo stesso tempo, le due parti stanno risolvendo la questione della creazione di un centro di cooperazione internazionale transfrontaliera al confine tra i due paesi. In altre parole, «possiamo cooperare e abbiamo il potenziale di cooperare».

Anche l’analista Zamir Karazhanov tende a credere che la situazione non sia così grave. Ha detto:

In generale ci sono pochissime regioni al mondo che si stanno integrando e hanno gli stessi obiettivi e interessi. Per esempio, quando è comparsa la crisi del debito e i relativi problemi in Europa, c’era persino una tendenza a dividersi, non è un’organizzazione o un’associazione perfetta. I problemi esistono e l’attenzione deve andare su come superarli. Questo potrebbe essere l’indicatore più importante di integrazione e regionalizzazione.

L’esperto ha sottolineato che l’Afghanistan è oggi uno dei motori principali di questa tendenza. Sebbene in linea di principio l’Afghanistan influisca da 30 anni sui paesi postsovietici della regione, anche solo perché questi ultimi non hanno accesso ai porti del Sud, dell’Oceano Indiano, del Pakistan e dell’India. Karazhanov ha dichiarato:

Tutti capiscono che i Talebani influiscono sulla stabilità dell’Afghanistan. Forse, con i talebani che finalmente saliranno al potere, la situazione in Afghanistan tornerà alla normalità. Se sia possibile negoziare con loro o meno non è ancora certo, ma sappiamo bene che sono tanti gli obbiettivi e interessi comuni. Tuttavia, l’attuazione di questi progetti è possibile solo se sarà garantita la sicurezza della regione. In Afghanistan, dobbiamo trovare il male minore.

Nel frattempo, Karazhanov confida nel fatto che i paesi dell’Asia centrale possono creare dei forti legami di cooperazione. E conclude:

Tutti sono paesi senza sbocco sul mare. È come un albero con degli uccelli posati sopra: meglio non scuoterlo, altrimenti voleranno tutti via.

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Kabul post-Usa: il Cremlino corre ai ripari in Centrasia https://ogzero.org/astana-e-realmente-tramontata-l-afghanistan-e-la-ritirata-usa/ Thu, 22 Jul 2021 10:13:50 +0000 https://ogzero.org/?p=4306 Il punto di vista di Yurii Colombo sulla situazione che la Russia si trova ad affrontare con il ritiro delle truppe Usa dal suolo afgano. L’equilibrio dei paesi ex sovietici traballa e Putin si muove cautamente: dopo le vicende in Nagorno-Karabach e di fronte alla conquista neotalebana che potrebbe riportare l’islamismo radicale nei paesi più […]

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Il punto di vista di Yurii Colombo sulla situazione che la Russia si trova ad affrontare con il ritiro delle truppe Usa dal suolo afgano. L’equilibrio dei paesi ex sovietici traballa e Putin si muove cautamente: dopo le vicende in Nagorno-Karabach e di fronte alla conquista neotalebana che potrebbe riportare l’islamismo radicale nei paesi più poveri del Centrasia la Russia non può che trattare con molta cautela direttamente con i Talebani. Al Cremlino si pensa che gli Stati Uniti abbiano intenzione di usare l’Asia centrale come trampolino di lancio per contenere Russia, Cina, Turchia e Iran. Astana è realmente tramontata?

Questo articolo di Yurii Colombo si affianca ad altri due interventi contemporanei ospitati sul sito, uno di Emanuele Giordana e l’altro di Sabrina Moles, completando la panoramica sulla situazione geopolitica afgana in seguito al ritiro delle truppe americane dal paese che abbiamo intrapreso cominciando da una tavola rotonda che li ha visti partecipi e trasmessa in diretta nella serata del 13 luglio da Radio Blackout, un’analisi che poi abbiamo cercato di approfondire nello studium “La solita musica afgana?”, chiedendoci se sarà un altro Afghanistan quello imbandito in questi due mesi di approcci internazionali.


L’ormai prossima conquista da parte dei neotalebani di tutto il territorio afgano sta inquietando non poco il Cremlino. I motivi sono evidenti. Malgrado Mosca non abbia più confini con Kabul, tre paesi centroasiatici ex sovietici (Tagikistan, Uzbekistan e Turkmenistan) si trovano a diretto contatto con il paese più conteso dell’area, facendo diventare molto concreta la possibilità di una futura penetrazione in Russia della guerriglia radicale islamica.

Fonte: elaborazione OGzero, da La Grande Illusione. L’Afghanistan in guerra dal 1979, a cura di Emanuele Giordana (Rosenberg & Sellier, 2019)

Dopo che Michail Gorbaciov ordinò il ritiro delle truppe sovietiche, l’Urss e poi la Federazione Russa non cessarono naturalmente di interessarsi alle vicende afgane: sostennero il regime di Najibullah e seppur con accortezza, anche lo sforzo bellico degli Usa e dei suoi alleati per stabilizzare e neocolonizzare il paese dopo l’Undici Settembre. Non è un caso che quando l’amministrazione Trump decise di lasciare l’Afghanistan al suo destino, al Cremlino non hanno avuto ragioni per festeggiare la ritirata americana, anzi. Il ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov ha espresso un giudizio molto netto sui 20 anni di presenza Nato in Afghanistan e sulle sue prospettive:

«La situazione tende a un rapido deterioramento, anche nel contesto del ritiro precipitoso delle truppe americane e di altre truppe della Nato, che nei decenni della loro permanenza in questo paese non hanno raggiunto risultati tangibili in termini di stabilizzazione della situazione».

Il confine afgano-tagiko

La Russia però, ancor prima di pensare a strategie ad ampio raggio, ha bisogno di affrontare con urgenza la situazione apertasi al confine tra Afghanistan e Tagikistan con l’inizio dell’estate. Ai primi di luglio 2021, le guardie di frontiera del Tagikistan hanno permesso l’ingresso nel paese a più di 1000 soldati afgani in rotta dopo un duro scontro con i Talebani. Secondo quanto riportato da fonti dell’intelligence russa, i Talebani controllerebbero già oltre il 70 per cento dei 1344 chilometri del confine afgano-tagiko. Che le valutazioni russe siano in linea di massima corrette è stato confermato dal Comitato di Stato per la sicurezza nazionale del Tagikistan, il quale sostiene che i Talebani sarebbero riusciti a impossessarsi dell’ufficio del comandante di frontiera di Ovez nella contea di Hohon. Si tratta del Gorno-Badakhshan, dove gli insediamenti tagiki e afgani si trovano uno di fronte all’altro, separati solo dal fiume Pyanj.

Putin e l’impegno coi tagiki

Vladimir Putin sta monitorando la situazione da vicino e ha espresso dopo un colloquio con il presidente tagiko Emomali Rahmon, anche formalmente la sua disponibilità a fornire sostegno al Tagikistan su base bilaterale e nel quadro dell’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva (l’alleanza militare guidata dalla Russia che ha sostituito il Patto di Varsavia e di cui fanno parte oltre la Federazione Kazakistan, Tagikistan, Kirghizistan l’Armenia e la Bielorussia) se i Talebani dovessero decidere di far penetrare le loro strutture militari nel paese ex sovietico. La Russia ha una presenza non propriamente simbolica in Tagikistan: la sua base militare nel paese è a soli 70 chilometri dal confine afgano e può garantire in pochissimo tempo l’arrivo in zona di truppe e di artiglieria pesante. Tuttavia l’avvertimento del presidente russo per ora sembra più che altro formale come già era avvenuto con l’Armenia in autunno durante la guerra dello scorso autunno nel Nagorno-Karabach. La Russia è rimasta scottata in Afghanistan e ha dovuto constatare che neppure l’alleanza militare più forte del mondo è riuscita a sconfiggere l’islamismo radicale e quindi agirà con molta cautela.

Tanto è vero che mentre rassicurava l’alleato tagiko ha invitato per una due-giorni di colloqui informali a Mosca proprio una delegazione talebana (a dimostrazione che in politica e diplomazia tutto è possibile visto che l’organizzazione musulmana in questione è fuorilegge in Russia).

Una delegazione dell’ufficio politico del movimento talebano composta da quattro persone e guidata dallo sceicco Shahabuddin Delawar ha provato a rassicurare i russi sulle loro intenzioni una volta che avranno conquistato Kabul. I Talebani, secondo il comunicato del ministero degli Esteri russo seguito agli incontri, «hanno confermato il loro interesse a raggiungere una pace sostenibile nel paese attraverso negoziati, tenendo conto degli interessi di tutti i gruppi etnici della popolazione del paese, nonché della loro disponibilità a rispettare i diritti umani, comprese le donne nel quadro delle norme islamiche e delle tradizioni afgane».

I Talebani hanno perfino sostenuto di voler combattere l’Isis sul proprio territorio e di non voler violare i confini degli stati dell’Asia Centrale.

Non credete alle promesse dei Talebani

Forse i Talebani sono cambiati, forse sono meno rigidi ideologicamente e più “glamour”, ma è pur sempre un’organizzazione radicale, è un “ordine della sharia” di cui i russi non si fidano. Si tratta di un approccio condiviso da Andrey Serenko, direttore del centro di analisi della Società russa di scienze politiche, che aggiunge: «Non bisogna credere alle promesse talebane di combattere il narcotraffico, le cui entrate ammontano oggi ad almeno la metà dell’intero bilancio dei Talebani (cioè circa un miliardo di dollari), e neppure bisogna far conto sulle loro promesse di non proliferazione della guerra oltre i confini afgani».

I russi si sarebbero trovati di fronte alla stessa faccia moderata che gli islamici radicali hanno già tentato di mostrare agli americani, anche se nessuno ovviamente può realmente prevedere quali saranno le loro intenzioni una volta che conquisteranno Kabul. Mosca però deve fare di necessità virtù e ha accolto positivamente le rassicurazioni e sottobanco probabilmente si è dimostrata persino disponibile a finanziare la ricostruzione delle infrastrutture afgane proponendo di fornire bollette petrolifere low-cost al futuro governo a trazione talebana.

Turkmeni e uzbeki: di nuovo sotto l’ala di Mosca?

La prudenza del Cremlino è stata intesa perfettamente a Dushanbe tanto è vero che il presidente tagiko Emomali Rahmon ha capito che per ora dovrà difendersi da solo e ha incaricato il ministro della Difesa di mobilitare 20.000 riservisti per rafforzare il confine tagiko-afgano.

Anche gli altri paesi centro-asiatici sono sul chi vive e mostrano preoccupazione, soprattutto il Turkmenistan e l’Uzbekistan, i quali dopo il crollo dell’Urss si erano defilati su posizioni neutrali ma che ora potrebbero essere costretti, almeno temporaneamente, a tornare sotto l’ala protettrice di Mosca.

Le autorità uzbeke hanno già chiuso il ponte di Termez, attraverso il quale i soldati sovietici entrarono in Afghanistan nel 1979 e se ne andarono nel 1989 e il loro esercito sta conducendo esercitazioni su larga scala al confine con l’Afghanistan, mentre nelle scuole si tengono corsi di addestramento militare.

L’arrivo di Lavrov in Uzbekistan.

Il terreno fertile per il successo dei Talebani

Se si esclude il Kazakistan dove la crescita economica sta perfino conducendo alla formazione di una significativa classe media, gli altri paesi centroasiatici restano poverissimi, sono spesso governati da caste corrotte e autoritarie e alimentano costanti flussi migratori verso le metropoli russe.

I Talebani una volta insediatisi al potere potrebbero far diventare il paese la “terra promessa” per radicali e islamisti di tutto il mondo ma soprattutto attirare dalla loro parte quelle frange giovanili del Centrasia che hanno partecipato in migliaia all’avventura dell’Isis in Siria.

Mercenari siriani alleati della Turchia

Tra le fila talebane del resto già adesso si trovano molti giovani militanti di etnia uzbeka, turkmena e tagika, attirati dalle sirene di un’ideologia reazionaria che si presenta radicale e non incline ai compromessi. Ma anche organizzazioni più strutturate e con una certa tradizione come per esempio il Movimento islamico del Turkestan orientale piuttosto attivo nella regione negli ultimi anni, soprattutto in Kirghizistan. Dopo le disfatte subite dall’esercito cinese negli scorsi decenni, questa formazione ha costruito legami stabili anche con i Talebani.

I Talebani verso l’Asia Centrale

Secondo l’editorialista di “Kommersant” Maxim Yushin anche la stessa determinazione dei Talebani a combattere lo Stato Islamico potrebbe rivelarsi un boomerang per i russi e i propri alleati. «I Talebani – scrive Yushin – possono iniziare l’espansione in Asia Centrale, possono cacciare i loro avversari dello Stato Islamico. Ci sarebbero allora decine di migliaia di tagiki e uzbeki, in precedenza arruolati nell’Isis, in fuga dai nuovi padroni del paese che potrebbero riversarsi in Tagikistan e Uzbekistan, il che inevitabilmente aumenterebbe la tensione sociale e politica in questi stati, dove già ci sono abbastanza problemi».

Se la situazione prendesse un tale corso, secondo lo specialista russo di Afghanistan, Mosca allora non potrebbe abbandonare i regimi laici di Dushanbe, Tashkent, Ashgabat e Bishkek al loro destino. «La radicalizzazione della popolazione dell’Asia centrale – conclude Yushin – è uno scenario disastroso per le autorità russe, dato che milioni di persone di queste repubbliche lavorano nel nostro paese. Tutto sommato, da un mal di testa americano, l’Afghanistan molto presto potrebbe trasformarsi in un mal di testa russo».

Un ragionamento che filerebbe fino in fondo se non fosse che una parte dei gruppi dirigenti dei paesi del Centrasia sarebbe tentata di avere relazioni dirette con i Talebani per evitare di tornare a essere delle specie di protettorati russi.

Resta da vedere per la Russia anche quali relazioni stabilire pure con il traballante governo di Kabul. Secondo gli specialisti del Fsb l’esercito afgano sta perdendo la partita con la guerriglia musulmana sul terreno motivazionale come la persero i vietnamiti filoamericani negli anni Sessanta. In teoria il governo in carica dovrebbe avere una struttura di 300.000 uomini bene equipaggiata e dotata di artiglieria pesante che avrebbe agevolmente la meglio contro i 75.000 miliziani talebani. Ma negli ultimi mesi a fronte dell’avanzata dell’opposizione in diverse province, interi distaccamenti governativi, intere tribù, che in precedenza avevano giurato fedeltà a Kabul, avrebbero fatto il più prosaico “salto della quaglia”.

Nessun sostegno a Ghani

Putin continua ovviamente a tenere i contatti con il governo in carica guidato dal presidente Ashraf Ghani provando a capire quanto ancora potrebbe reggere e quanto sia pronto a farsi da parte, alla malaparata, in buon ordine. Secondo un grande esperto di Asia centrale e Afghanistan come Arkady Dubnov,

Mosca non sarebbe pronta ad assicurare il sostegno a Ghani dopo la partenza definitiva degli americani, perché ciò danneggerebbe il dialogo recentemente aperto proprio con i Talebani.

Questi ultimi avrebbero fatto intendere – durante la loro visita moscovita – che la figura di Ghani sarebbe per loro del tutto inaccettabile in qualsiasi ipotesi di governo di coalizione ed è proprio il fatto che lo stesso Ghani cerchi di restare a galla che finisce per irritare Mosca.

Secondo Dubnov, «più a lungo Ghani si aggrappa al potere, maggiore sarà la portata dello spargimento di sangue in Afghanistan e minore sarà l’influenza di Mosca sul futuro governo di Kabul».

E malgrado Kabul abbia fatto di tutto per accreditarsi di fronte a Putin negli ultimi anni, facendo anche scelte bizzarre, come il riconoscimento dell’annessione della Federazione della Crimea nel 2014.

Il tradimento Usa

Mosca non nasconde che vive il ritiro americano come un piccolo tradimento. Quando gli Stati Uniti intervennero in Afghanistan nel 2001, Mosca appoggiò la risoluzione 1368 e più tardi, nel 2008, quando i Talebani iniziarono ad attaccare la rotta pakistana, attraverso la quale veniva effettuato l’80 per cento dei rifornimenti per le truppe della Nato, la Russia garantì all’Alleanza persino il suo spazio aereo. Ora con l’Accordo di Doha, che prevede l’evacuazione delle forze armate statunitensi e la riconciliazione nazionale in Afghanistan, la Russia si è trovata spiazzata di fronte a una mossa che riconosce legittimità all’islamismo radicale e anche per questo ha deciso di trattare direttamente con i Talebani senza ritessere troppo il filo con gli americani.

Al Cremlino si è inteso che gli Stati Uniti non sarebbero tanto interessati a mantenere il controllo sulla situazione in Afghanistan quanto di utilizzare l’Asia centrale come trampolino di lancio per contenere Russia, Cina, Turchia e Iran.

Il ritorno di Astana

Oggi del resto sono le truppe turche a garantire la sicurezza dell’aeroporto di Kabul, la Cina si è offerta di finanziare la ripresa del paese proponendo di farlo entrare di sbieco nel grande progetto della Via della Seta e l’Iran ha già annunciato di volersi proporre come grande mediatore tra Talebani e autorità ufficiali afgane. Se Astana è tramontata, con la ritirata Usa in Afghanistan potrebbe ripresentarsi però in inedite e più estese varianti.

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Il Grande Gioco in Asia centrale: la Cina palleggerà da sola contro il muro? https://ogzero.org/la-bri-cambia-rotta-in-asia-centrale-la-cina-palleggera-da-sola/ Thu, 26 Nov 2020 15:32:30 +0000 http://ogzero.org/?p=1844 Ricordate il “nuovo Grande Gioco”? Agli inizi degli anni Duemila, qualcuno aveva etichettato così la competizione tra Cina, Russia e Stati Uniti in Asia Centrale, rievocando la rivalità regionale tra impero russo e britannico nel XIX secolo. Ebbene, negli ultimi anni il “Grande Gioco” è diventato un “singolo” tra i due ingombranti vicini: la Russia, […]

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Ricordate il “nuovo Grande Gioco”? Agli inizi degli anni Duemila, qualcuno aveva etichettato così la competizione tra Cina, Russia e Stati Uniti in Asia Centrale, rievocando la rivalità regionale tra impero russo e britannico nel XIX secolo. Ebbene, negli ultimi anni il “Grande Gioco” è diventato un “singolo” tra i due ingombranti vicini: la Russia, che da vecchia Madre ha continuato a garantire la sicurezza dell’area ex sovietica, e la Cina, la potenza emergente che con il suo peso economico si è gradualmente imposta nelle dinamiche interne, arrivando a esercitare un maggiore ascendente anche sugli equilibri politici e sul mantenimento della sicurezza nel quadrante minacciato dal terrorismo islamico. Con la pandemia di coronavirus c’è chi prevede che Pechino comincerà presto a palleggiare da solo contro il muro.

Pechino e i suoi rapporti diretti con gli “stan”

Ma facciamo un passo indietro. Dalla caduta dell’Unione Sovietica il gigante asiatico non ha lesinato gli sforzi per cercare di recuperare il tempo perduto stabilendo rapporti diretti con gli “stan”, gestiti fino agli anni Novanta attraverso il filtro di Mosca. Nel 2009, il Dragone ha soppiantato la Russia diventando primo partner commerciale dell’Asia Centrale con 10 miliardi di dollari di scambi contro i 527 milioni del 1992. Di più. Ha cominciato a ridisegnare il network di infrastrutture energetiche d’epoca sovietica entrando a gamba tesa negli affari di Mosca. Ormai la Cina controlla un quarto del petrolio kazako ed è il primo acquirente di gas turkmeno. Tiene a galla Kirghizistan e Tagikistan finanziando un terzo del debito estero di Bishkek e coprendo il 42 per cento dei conti in rosso accumulati da Dushambe.

L’Asia Centrale: un ponte tra Oriente e Occidente

La nascita della Belt Road Initiative (BRI) – annunciata nel 2013 in Kazakistan – si colloca alla fine di un lungo corteggiamento cominciato nel 1994, quando l’allora premier cinese Li Peng passò in rassegna tutta l’Asia Centrale – Tagikistan escluso – trascinandosi al seguito una truppa di imprenditori per promuovere lo sviluppo di “una nuova Via della Seta” a base di “infrastrutture moderne”. Il resto è storia recente. Sette anni fa, il presidente cinese Xi Jinping ha individuato nella regione, ricca di risorse naturali, uno snodo cruciale per stabilizzare e rilanciare economicamente le arretrate regioni della Cina occidentale, che condividono confini ed etnie con Tagikistan, Kirghizistan e Kazakistan. Per sua vocazione naturale, l’Asia Centrale si candidava a ponte tra Oriente e Occidente.

La Nato asiatica e il soft power cinese

Da allora Pechino ha guadagnato terreno a scapito di Mosca coltivando il proprio soft power (con borse di studio e l’istituzione di oltre 20 centri specializzati in studi centroasiatici), cementando la propria presenza militare con esercitazioni sulle alture del Pamir, e rafforzando la propria posizione all’interno della Shanghai Cooperation Organization, la “Nato asiatica” che dopo aver svolto per il primo decennio funzioni di antiterrorismo è stata arricchita di finalità economiche in previsione di possibili sinergie con la Bri e l’Unione economica eurasiatica. Nonostante l’iniziale reticenza di Mosca, la spartizione dei vecchi ruoli è andata sfumando. Agli attori regionali, inizialmente, la cosa stava anche bene. Nell’ottica di un processo di “derussificazione” nello spazio postsovietico, l’avanzata cinese serviva a controbilanciare l’influenza moscovita, fornendo un nuovo modello di riferimento a base di capitalismo di stato, sistema politico monopartitico e scarsa tutela dei diritti umani. Risultato: nel 2018, gli investimenti diretti esteri cinesi nei cinque “stan” hanno raggiunto i 14,7 miliardi di dollari rispetto agli 8,9 miliardi registrati al momento del lancio della Bri.

Il nuovo “impero” è economicamente e politicamente instabile

Poi è successo qualcosa. Come spiega Jonathan Hillman in The Emperor’s New Road: China and the Project of the Century, a oggi la nuova via della seta si presenta come un insieme di «iniziative mal coordinate più che una vera e propria strategia». Nonostante le ricorrenti accuse di “neocolonialismo”, il gigante asiatico non sembra gestire al meglio il nuovo “impero”. L’insostenibilità economica degli investimenti cinesi, in Asia Centrale, è stata amplificata dalla corruzione endemica, mentre la stabilità assicurata per anni dalla longevità politica dei leader sovietici non è più così scontata dopo la successione in Kazakistan e Uzbekistan, e la recente insurrezione popolare in Kirghizistan. A conti fatti, nell’ultimo lustro l’heartland ha perso terreno a vantaggio del Sudest asiatico, dove si concentra quasi un terzo degli investimenti complessivi della Bri. Ma questo non implica necessariamente un disimpegno del Dragone dalle steppe centroasiatiche, quanto piuttosto un cambiamento di rotta. Un cambiamento reso anche più necessario dall’arrivo di Covid-19 .

Il virus fa cambiare rotta ai cinesi

Con gli Stati Uniti in balia del coronavirus e la Russia schienata dal crollo dei prezzi del petrolio, la Cina rimane l’unica ancora di salvezza per la regione. Dopo un primo illusorio contenimento dell’epidemia, la chiusura dei confini di Kazakistan, Kirghizistan e Uzbekistan non solo non ha prevenuto la diffusione del contagio – secondo cifre sottostimate sono oltre 162.000 le infezioni in Kazakistan, il paese centroasiatico con il bilancio più elevato. Ma ha persino aggravato le difficoltà economiche della regione interrompendo la catena di approvvigionamento, impedendo il ritorno dei lavoratori migranti e facendo schizzare l’inflazione. Secondo la Banca Mondiale, l’Asia Centrale chiuderà il 2020 con una contrazione della crescita del 5,4%. Al contrario la locomotiva cinese ha ripreso a viaggiare in terreno positivo. Qualche incidente di percorso c’è stato. A giugno il ministero degli Esteri cinese aveva ammesso che il 20% dei progetti Bri è risultato “gravemente compromesso” dalla pandemia, mentre il 30-40% lo è stato parzialmente. Ma le ultime statistiche ufficiali danno gli investimenti cinesi lungo la via della seta in crescita del 30% nei primi tre trimestri. Secondo dati dell’Amministrazione generale delle dogane cinese il commercio estero con i paesi Bri è aumentato dell’1,5% fino a oltrepassare i mille miliardi di dollari.

Nuovi piani strategici

Nonostante le molte criticità, l’interessamento per l’Asia Centrale non sembra prossimo a svanire. Lo scorso 16 luglio, per la prima volta, Pechino ha chiamato virtualmente a raccolta i ministri degli Esteri di tutti e cinque gli “stan” replicando un format già utilizzato nella regione da Giappone, Corea del Sud e Unione europea. L’iniziativa, che rompe con l’usuale predilezione cinese per i bilaterali, ha spianato la strada per la visita fisica del capo della diplomazia cinese Wang Yi in Kazakistan e Kirghizistan poco prima che la contestazione del voto gettasse Bishkek nella peggiore crisi politica dagli scontri etnici del 2010. In quell’occasione, non è stata fatta nemmeno una parola dei nuovi investimenti da 600 milioni di dollari preannunciati a giugno da Pechino e Nursultan. In compenso, Wang ha promesso il supporto cinese «fino a quando la pandemia sarà completamente sconfitta».

La Nuova Via della Seta “sanitaria”…

In tempi di virus e difficoltà economiche globali, i capitali cinesi saranno in buona parte dirottati nel sistema sanitario locale, noto per le condizioni ospedaliere non ottimali, il limitato accesso ai farmaci e le carenze di un personale medico mal pagato. Dall’inizio dell’epidemia, la regione ha beneficiato di donazioni, forniture sanitarie e assistenza medica a distanza, messi a disposizione tanto dalle autorità provinciali quanto dalle aziende cinesi presenti nella regione, come Huaxin, Sany, Sinopec, China Construction e China Road and Bridge Corporation. Anche la Sco ha fatto la sua parte organizzando un seminario in tandem con Alibaba e l’Università di Medicina di Wenzhou. Secondo l’agenzia di stampa ufficiale Xinhua, a seguito dell’ultimo meeting tra i rispettivi ministri degli Esteri «Cina, Russia, Kazakistan, Kirghizistan e Mongolia hanno deciso di costruire insieme una fortezza antipandemia, una via della seta sanitaria e una comunità della salute per tutti». I partner regionali non hanno perso tempo. Solo pochi giorni fa l’Uzbekistan ha annunciato che 5000 volontari si sottoporranno alla sperimentazione del vaccino prodotto dalla Anhui Zhifei Longcom Biopharmaceutical nella speranza di ottenere un accesso privilegiato nel caso in cui il farmaco dovesse rivelarsi efficace.

Quello che sta avvenendo in Asia Centrale rispecchia su piccola scala il nuovo corso della Bri. Come spiega su “Eurasianet” Dirk van der Kley, Research Fellow presso l’Australian National University, Pechino non abbandonerà l’heartland, ma probabilmente cambierà la natura del suo attivismo economico puntando sempre meno sul finanziamento delle infrastrutture tradizionali per privilegiare gli investimenti diretti esteri, l’export di sovracapacità industriale e l’importazione di prodotti agricoli. Un segnale in tal senso giunge dal progressivo calo del debito accumulato da Tagikistan e Kirghizistan, i due paesi centroasiatici più dipendenti dai capitali cinesi. Secondo “Eurasianet”, l’ultimo prestito consistente concesso a Bishkek e Dushambe risale addirittura al 2014. Solo pochi giorni fa l’Asian Infrastructure Investment Bank (Aiib), la superbanca nata per colmare il deficit infrastrutturale dei paesi asiatici, ha annunciato la creazione di un dipartimento dedicato alla sanità e all’istruzione.

… e informatizzata

Con queste premesse è lecito attendersi un maggior protagonismo non solo della via della seta sanitaria ma anche della sua declinazione digitale: telemedicina, e-commerce, e-learning e fintech potrebbero in futuro sostituire le grandi opere. Il motivo lo sintetizza il Csis così: «Rispetto ai massicci progetti energetici e dei trasporti che hanno dominato i primi anni della Bri quelli che coinvolgono la tecnologia dell’informazione e della comunicazione sono generalmente a basso costo, meno visibili e destabilizzanti per le comunità locali, più semplici da realizzare e facili da monetizzare. Tutte qualità che li rendono meno rischiosi e più attraenti per gli investitori». Le cinesi Huawei, Ceiec, Citic Group e Costar Group sono già presenti da anni in Kirghizistan, Uzbekistan e Tagikistan con l’istallazione di sistemi di videosorveglianza contro il crimine e gli incidenti stradali. Tashkent, Dushambe e Nursultan hanno speso ciascuna tra i 21 e i 22 milioni di dollari per realizzare il progetto “Safe City” in partnership con Huawei.

Il rigurgito etnonazionalista anticinese

Quello della sicurezza è un tema che sta a cuore tanto alle autocrazie centroasiatiche quanto al regime comunista cinese. Assicurare la stabilità dei paesi partner è diventata una priorità per Pechino. Soprattutto da quando, nel 2016, l’ambasciata cinese di Bishkek è stata colpita da un attacco dinamitardo attribuito a militanti uiguri, la minoranza etnica musulmana che l’Asia Centrale condivide con la regione autonoma del Xinjiang aldilà del confine con la Cina.

Dopo un ventennio di guerra a bassa intensità, l’astio degli uiguri nei confronti delle politiche cinesi ha finito per contagiare anche le altre etnie centroasiatiche. La reclusione di kazaki e kirghisi nei “centri per la rieducazione” del Xinjiang hanno infiammato l’opinione pubblica nei paesi d’origine. A febbraio accese proteste anticinesi hanno costretto alla cancellazione di un progetto Bri da 275 milioni di dollari per la costruzione di un hub logistico ad At-Bashy, nel Kirghizistan settentrionale. Nonostante il controllo sulle informazioni da oltrefrontiera, ci sono le prime avvisaglie di un latente rigurgito etnonazionalista. Secondo Oxus Society for Central Asian Affairs, negli ultimi due anni e mezzo si sono verificate almeno 98 manifestazioni contro la penetrazione cinese nella regione. Non è facile quantificare l’impatto del malumore popolare sugli interessi economici del gigante asiatico. Con la Russia e gli Stati Uniti messi fuori gioco dal Covid difficilmente i “nuovi khanati” sapranno dire di no ai finanziamenti cinesi. Ma è indicativa l’assenza di Kazakistan e Kirghizistan tra i 50 paesi firmatari della mozione presentata da Pechino per difendere le proprie politiche etniche in sede Onu.

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