Tor-M2KM Archivi - OGzero https://ogzero.org/tag/tor-m2km/ geopolitica etc Sun, 21 Jan 2024 09:53:52 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.4.6 LA GUERRA VIENE CON LE ARMI: LO SPACCIO A NOVEMBRE https://ogzero.org/studium/la-guerra-viene-con-le-armi-lo-spaccio-a-novembre/ Thu, 05 Jan 2023 09:28:05 +0000 https://ogzero.org/?post_type=portfolio&p=9930 L'articolo LA GUERRA VIENE CON LE ARMI: LO SPACCIO A NOVEMBRE proviene da OGzero.

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Miniere di guerra di prossimità africana

In Africa subsahariana i cinque maggiori importatori di armi sono stati Angola, Nigeria, Etiopia, Mali e Botswana. Resta un grande importatore l’Egitto che con il più 73% diventa il terzo importatore di armi a livello globale (Focus di “Atlante delle Guerre”, 29 marzo 2022).

Gianni Sartori ci ha fornito un testo foriero di molteplici spunti di lettura paralleli: a cavallo tra risorse africane, compagnie minerarie, approvvigionamenti di armi e conflitti, presenti e futuri.
Alle tradizionali estrazioni del continente (oro, argento, diamanti, rame, manganese) si aggiungono le basi dei nuovi oggetti: coltan, cobalto, grafite, litio… e gli scenari sono quelli ad alta tensione di Zimbabwe, Sudafrica, Marocco, Mali, Burkina Faso, Congo…


E PER LE GRANDI COMPAGNIE GLI AFFARI VANNO A GONFIE VELE
PREANNUNCIANDO FUTURI CONFLITTI

di Gianni Sartori

Se, come recitava negli anni settanta la rivista “Hérodote” (di cui conservo gelosamente due-tre numeri dell’edizione italiana pubblicati dal mai dimenticato Bertani): «La geografia serve a fare la guerra», parafrasando possiamo aggiungere che “la geologia la determina”. O quantomeno la indirizza e alimenta.
Per cui volendo azzardare ipotesi sui futuri conflitti sarebbe opportuno munirsi di aggiornate carte minerarie.

Litio, cobalto, stagno, rame, grafite, nickel… risultano indispensabili per quella fantomatica “transizione energetica” (dove l’unico verde identificabile sembra quello dei dollari, quelli di una volta almeno) a cui tendono in maniera talvolta spasmodica compagnie minerarie e produttori di automobili. Con il continente africano che al momento sembra essere quello più ambito.

Secondo le compagnie minerarie e alcuni governi (africani e non) molte risorse minerarie (litio, rame, stagno, cobalto…) finora sarebbero state non adeguatamente sfruttate (o addirittura “trascurate”). Oggi si intende rimediare riattivando antiche miniere e aprendone di nuove (e pazienza per l’ambiente e le popolazioni indigene, ovviamente).


ZIMBABWE E LITIO

Pare che l’ex Rhodesia, oggi Zimbabwe, sia uno dei pochi paesi africani dotati di vaste riserve di Lithium. Nel senso di “litio”, il minerale (simbolo Li, numero atomico 3, peso atomico 6,94; nessun riferimento ai Nirvana quindi) essenziale per le batterie dei veicoli elettrici.
E se questo ha già scatenato le comprensibili brame delle grandi compagnie minerarie, finora aveva mobilitato soprattutto schiere di minatori individuali (“artigianali”). Sui quali tuttavia stanno calando pesanti restrizioni ministeriali. In pratica non potranno più esportare il materiale grezzo estratto, spesso fortunosamente, da terreni non necessariamente di loro proprietà e da miniere abbandonate.

Una restrizione che non dovrà interessare le miniere di livello industriale in quanto dovrebbero esportare solo materiale trattato, un “concentrato di litio”. Miniere comunque ancora in fase di realizzazione, dato che l’unica importante produttrice di litio è quella di Bikita. Nello stesso tempo il governo di Harare intende favorire aziende locali per la trasformazione in loco del minerale così che possa venir utilizzato direttamente dall’industria dei veicoli elettrici. Risale a novembre l’accordo firmato con la TsingShan Holding per un impianto in grado di produrre il concentrato di litio (“AgenziaNova”). 


100 %

Avanzamento



GENNAIO FEBBRAIO MARZO APRILE MAGGIO GIUGNO LUGLIO AGOSTO SETTEMBRE OTTOBRE Traffico 2022


Ventotto i Paesi in cui Wagner avrebbe operato, diciotto dei quali africani: Libia, Repubblica Centrafricana, Mozambico, Sudan, Repubblica Democratica del Congo, Mali, Madagascar e Zimbabwe tanto per citarne alcuni (“AnalisiDifesa”). E Wagner è lì solo per curare gli interessi minerari di Mosca

Il primo vertice Russia-Africa, tenutosi nel 2019, ha fatto parlare di “ritorno della Russia in Africa” dopo anni di disimpegno a sud del Sahara. Il rinvio del secondo vertice, che avrebbe dovuto tenersi alla fine del 2022 in Africa, ha apparentemente messo in luce le vulnerabilità economiche e politiche della Russia alla luce della sua guerra di aggressione contro l’Ucraina. Eppure, l’impegno diplomatico e di sicurezza della Russia in Africa sembra continuare senza sosta. Che impatto ha la guerra in Ucraina sulle relazioni della Russia con i Paesi africani? Come stanno reagendo alla guerra? Cosa possiamo aspettarci dal futuro ruolo e dalla presenza della Russia nel continente? (ISPI)

Per l’Africa, con una perdita annua di quattro milioni di ettari di foreste, questo è “mal comune” (ma senza “gaudio” ovviamente). In base agli atti recentemente pubblicati dalla National Academy of Sciences, l’aumento esponenziale delle attività estrattive in aree forestali costituisce il 47% (oltre tremila e duecento chilometri quadrati) della distruzione delle foreste tropicali dal 2000 a oggi. Soprattutto in Ghana, Tanzania, Zimbabwe e Costa d’Avorio.

Contemporaneamente anche Biden ha rivolto l’attenzione degli Usa all’Africa abbandonata da Trump (e in parte prima da Obama), convocando un summit di metà dicembre per contrastare la presenza sinorussa nel continente (ISPI): Guinea, Sudan, Mali, Zimbabwe, Burkina Faso ed Eritrea sono rimaste fouri dalla lista degli invitati. Invece Teodoro Obiang, l’autocrate guineano più longevo al mondo, risultava tra gli invitati: la Guinea equatoriale è tra i porti nevralgici per ogni tipo di merci, legali o meno.

Tutti paesi dove la tensione per il controllo di queste risorse si fa più forte, creando strategie esterne e appoggi da potenze locali. Smerci di armi… ma gli stati che intendono proteggere i loro minerali “rari” e preziosi non si dotano di armi che possono competere con le potenze interessate allo sfruttamento dele miniere, o per avversare le milizie che fanno gli interessi di quegli stati, piuttosto si dotano di elicotteri per il controllo delle rivolte della popolazione, indignata dalla corruzione e dal saccheggio di risorse nazionali.



In Zimbbwe è operativo il MiG21 nella versione J7, copia non autorizzata del Fishbed realizzata in Cina (“AnalisiDifesa”)

Nel gennaio 2022, lo Zimbabwe era al 93° posto sui 142 paesi considerati nella classifica annuale della GFP con PwrIndx di 2,2498 (laddove lo zero sarebbe “perfetto”).
Il Generale di Brigata Mike Nicholas Sango, ambasciatore dello Zimbabwe presso la Federazione Russa, ha detto che «la politica della Russia nei confronti dello Zimbabwe negli ultimi anni si è evoluta in modo positivo. L’impegno del Governo dello Zimbabwe con la Federazione Russa è storicamente radicato nel contributo del nuovo stato al raggiungimento della libertà e della nazione da parte dello Zimbabwe nel 1980» (“Africa24”).
Secondo lui, il presidente della Repubblica dello Zimbabwe, Emmerson Dambudzo Mnangagwa, ha visitato Mosca nel 2019. Da allora, ci sono state visite reciproche di ministri e parlamentari. All’inizio di giugno 2022, la presidente del Consiglio Federale, Valentina Matviyenko, ha visitato lo Zimbabwe. I militari dello Zimbabwe hanno partecipato ai Giochi dell’Esercito nel corso degli anni e ai Giochi dell’Esercito di metà agosto 2022.
E non a caso i russi hanno voluto scambiare Viktor Bout, il mercante di armi.

Russia
Mentre Washington domina il mercato globale delle armi di alta gamma e ad alta tecnologia, la Russia si è ritagliata un posto di primo piano come fornitore mondiale di armi economiche, ma a bassa tecnologia, talvolta descritte come “armi di valore”. Queste includono nuove varianti di equipaggiamenti sovietici e russi come i carri armati T-72 e T-80, pezzi di artiglieria trainati come il D-30, obici semoventi come il 2S1 Gvozdika e il 2S19 Msta, lanciarazzi multipli semoventi come il BM-27 Uragan e il BM-30 Smerch, il sistema di difesa missilistica S-300 e i veicoli corazzati per il trasporto di personale come il BMP-3 e il BTR-70.

Cina
Sebbene i paesi a basso reddito come Myanmar, Zambia e Zimbabwe acquistino solo armi di questa categoria, anche i paesi a medio reddito come Brasile, India e Thailandia, che partecipano a segmenti del mercato di fascia alta, acquistano grandi forniture di armi di valore. Nel 2022, la spesa per la difesa dei paesi principalmente africani, asiatici e latinoamericani che compongono il mercato di valore ammonterà a 246 miliardi di dollari. Dal momento che le aziende americane di solito non competono nel mercato delle armi di valore, le difficoltà della Russia hanno creato un vuoto. E il paese pronto a riempirlo è la Cina. Se non controllata, Pechino potrebbe utilizzare le vendite di attrezzature per la difesa per costruire relazioni più forti con le élite al potere e per assicurarsi basi all’estero, limitando potenzialmente la capacità di manovra delle forze armate statunitensi in tutto il mondo. L’espansione delle vendite di armi cinesi minerebbe l’influenza degli Stati Uniti nella competizione geostrategica in corso. Ma questo esito non è ancora inevitabile. Gli Stati Uniti e i loro alleati sono ancora in tempo per fornire sostituti alle armi russe a prezzi accessibili e contrastare così le ambizioni della Cina. La Cina vanta sei delle 25 maggiori aziende di difesa del mondo. Sebbene l’attuale quota del cinque per cento del mercato globale degli armamenti sia significativamente inferiore al 19 per cento della Russia, ciò indica il potenziale della Cina di espandere la propria quota di mercato. La Cina ha diversi vantaggi distinti che potrebbero permetterle di dominare il mercato del valore.
L’approccio cinese all’esportazione di armi è transazionale, libero da preoccupazioni sui diritti umani o sulla stabilità del regime. La Cina scambia armi non solo in cambio di un compenso finanziario, ma anche per l’accesso ai porti e alle risorse naturali degli stati destinatari. In parte, fornendo armi di valore come radar, missili e veicoli blindati al Venezuela e all’Iran, per esempio, Pechino si è assicurata un accesso costante al petrolio di quei Paesi. La maggior parte dei paesi dell’Africa subsahariana utilizza armi cinesi, ma le vendite alla regione rappresentano solo il 19% delle esportazioni cinesi. Oltre il 75% delle esportazioni cinesi è destinato ai paesi asiatici dove la Cina ha iniziato a espandere la propria rete di produzione industriale. Il Pakistan, per esempio, ora coproduce molti sistemi d’arma cinesi, come il carro armato Al-Khalid e il caccia JF-17 Thunder. Più di recente, oltre alle armi di valore, la Cina ha iniziato a vendere sistemi d’arma di fascia più alta a clienti importanti: ad aprile ha iniziato a vendere missili antiaerei alla Serbia e a giugno l’Argentina ha segnalato interesse per i jet da combattimento JF-17. La Cina è ora il più grande esportatore di droni al mondo e ha iniziato a vendere i suoi Wing Loong e i modelli CH-4 a clienti che prima acquistavano droni britannici, francesi, russi e statunitensi: un elenco di paesi che comprende Egitto, Iraq, Giordania e Arabia Saudita. (“ForeignAffairs”)
Secondo il “Jane’s Defence Weekly”, quasi il 70% dei veicoli militari blindati presenti in tutti i 54 paesi africani sono di origine cinese, mentre quasi il 20% di tutti i veicoli militari del continente sono stati forniti dalla Cina.
Citando un rapporto dell’Istituto Internazionale di Ricerca sulla Pace di Stoccolma (SIPRI), l’outlet ha sottolineato che, emergendo come quarto fornitore globale di armi, la Cina ha rappresentato il 4,6% del totale delle esportazioni di armi globali tra il 2017 e il 2021.
Di questo totale di esportazioni di armi globali, il 10% è stato destinato a paesi africani. Etiopia, Sudan, Nigeria, Tanzania, Camerun, Zimbabwe, Zambia, Gabon, Algeria, Namibia, Ghana, Burundi, Kenya e Mozambico sono stati i principali importatori di armi cinesi negli ultimi cinque anni (“Asia News International”).

Zimbabwe

«Lo Zimbabwe è forse il più longevo beneficiario africano dell’assistenza alle forze di sicurezza (SFA) da parte della Cina», affermano due ricercatori senior del Peace Research Institute di Oslo, Ilaria Carrozza e Nicholas Marsh, nello studio pubblicato sul Journal of Global Security Studies.

La Cina ha fornito addestramento militare ai membri del Fronte patriottico dell’Unione nazionale africana dello Zimbabwe, guidato da Mugabe, durante la sua lotta per la liberazione. Tra le persone addestrate c’era anche il presidente Emmerson Mnangagwa, salito al potere cinque anni fa dopo il colpo di stato che ha spodestato Mugabe.

«Questo sostegno ha contribuito a suggellare un rapporto di sicurezza tra la Cina e la leadership dello Zimbabwe che dura tuttora», si legge nello studio.

L’assistenza alle forze di sicurezza comprende donazioni, in genere di attrezzature militari e di addestramento, che mirano a migliorare la capacità delle forze di sicurezza di un paese beneficiario, ha affermato Carrozza.
Lo Zimbabwe è stato tagliato fuori dai mercati globali dei capitali nei due decenni trascorsi da quando gli Stati Uniti e altri paesi occidentali hanno imposto sanzioni ad Harare per le violazioni dei diritti umani e la confisca delle terre agli agricoltori bianchi, lasciando a Pechino il ruolo di principale finanziatore di progetti infrastrutturali come dighe idroelettriche, aeroporti e strade (SCMP).

SUDAFRICA: MEGLIO IL LITIO DEL CARBONE? DIPENDE…

di Gianni Sartori

Dal 2023 (stando a una recente dichiarazione) la Compagnia mineraria Marula Mining (All Star Minerals) darà il via alla vendita di litio a una filiale della lussemburghese Traxys. Quanto alla provenienza del minerale, sarebbe la miniera di Blesberg, in disuso da tempo e riaperta nel dicembre 2022. Anche se per ora i lavori proseguono lentamente e su piccola scala, in attesa di ulteriori perforazioni e carotaggi.

Oltre al litio (sotto forma di spodumene che qui lo contiene con percentuali tra il 6 e il 7 %), la miniera sarebbe in grado di fornire anche tantalio.

Ma in materia di miniere non son tutte rose e fiori per il Sudafrica. Le miniere abbandonate di carbone, per esempio, rappresentano – oltre che un potenziale pericolo – una documentata fonte di inquinamento per le sorgenti e le falde acquifere, una grave minaccia per la salute delle popolazioni. O almeno questo è quanto sostiene Human Rights Watch in un suo recente rapporto (The Forever Mines : Perpetual Rights Risks from Unrehabilitated Coal Mines in Mpumalanga, South Africa ) con cui accusa il governo sudafricano di non garantire la bonifica, il risanamento delle miniere abbandonate. Di non aver fatto nulla per rimediare a tale “eredità tossica”.

E ovviamente vengono messe sotto accusa anche le compagnie minerarie che «per anni hanno tratto profitti dallo sfruttamento del carbone, ignorando però le proprie responsabilità al momento di ripulire, bonificare il degrado, l’inquinamento che si sono lasciate alle spalle».

Lasciando sovente alle comunità locali l’onere di rimediare ai danni.

  1. Alla realizzazione del dossier di Human Rights Watch hanno contribuito decine di esponenti delle comunità locali (compresi i genitori dei numerosi bambini che hanno perso la vita precipitando in pozzi a cielo aperto), rappresentanti di associazioni locali e di ong, ricercatori universitari e personale sanitario. E anche molti “minatori individuali” o che operavano comunque a livello artigianale, al di fuori delle compagnie minerarie. In genere tra i residui di quelle abbandonate con gravi conseguenze per la salute. Come ha ben documentato Human Rights Watch riportando oltre 300 decessi di questi “zama – zama”. Deceduti in gran parte per il crollo dei tunnel, in minor misura per intossicazione da gas o incidenti con esplosivi). Inevitabile un raffronto con i garimpeiros di Brasile e dintorni o con i minatori (in genera persone anziane o giovanissime) che scavano (scavano?!) tra i residui, gli scarti delle miniere boliviane.

Su 2300 miniere prese in esame e classificate “ad alto rischio” (tra cui sono centinaia quelle di carbone), soltanto 27 sono state bonificate in Sudafrica. Si tratta di quelle da cui si ricavava l’amianto (in genere “amianto nero”, più nocivo, ma meno costoso da estrarre e che ha distrutto la salute di migliaia e migliaia di minatori neri).

Specificatamente per quelle di carbone, si è potuto documentare come i residui minerari esposti alle intemperie contribuiscano ad aumentare notevolmente l’acidità dell’acqua e dei terreni. Il fenomeno conosciuto come ”drenaggio minerario acido” provoca sia l’inquinamento delle acque che la sterilizzazione dei terreni, oltre a corrodere e danneggiare irreparabilmente le infrastrutture di approvvigionamento dell’acqua potabile.

Se l’UE è il principale partner commerciale del paese, la Cina è presente in misura sempre maggiore con investimenti di varia natura

Decine di compagnie minerarie sudafricane si rifiutano di rendere pubblici i loro piani sociali e di lavoro, o SLP, come richiesto dalla legge. Senza l’accesso a questi documenti, le comunità hanno difficoltà a valutare gli impegni sociali delle compagnie minerarie o a ritenerle responsabili. Questi piani dovrebbero descrivere in dettaglio come le aziende sosterranno la creazione di posti di lavoro e il miglioramento dei servizi nelle città in cui estraggono. L’organizzazione no-profit Mining Affected Communities United in Action (MACUA) stima che tra il 70 e il 90% delle miniere in Sudafrica non pubblichino i loro piani.

Fondata nel 2011, la miniera di Kolomela, a 22 chilometri dalla città di Postmasburg, nella provincia di Northern Cape, produce ogni anno oltre 9 milioni di tonnellate di minerale di ferro. Dal 2021, Kolomela, che è di proprietà della filiale locale del gigante minerario Anglo American, Kumba Iron Ore, ha respinto gli sforzi del MACUA e dei membri della comunità per ottenere una copia dello SLP 2020-2024 della miniera (“Mongabay”).

Oggi il Sudafrica non è più leader mondiale della produzione dell’oro, sebbene secondo le stime dell’US Geological Survey detenga il 50% delle risorse aurifere del pianeta, ma è ancora in testa a livello continentale. Le riserve però iniziano ad esaurirsi e il paese è passato dal 15% della produzione mondiale al 12%.

Questa situazione, con la diminuzione delle miniere e la perdita del lavoro, non ha fatto che peggiorare le condizioni di vita e di lavoro dei minatori, uomini, donne e bambini che accettano condizioni lavorative degradanti e rischiano di morire per poter sopravvivere. Una miniera dismessa è terreno fertile per minatori illegali che cercano l’ultimo filone in autonomia o con l’aiuto degli ultimi tra i disperati. Tra il 2004 e il 2015 un terzo delle 180.000 persone che lavoravano nel settore minerario sudafricano sono state licenziate. Molte sono tornate alle miniere da sole, illegalmente (“Orovilla”). Imponenti e ricorrenti scioperi hanno prodotto scontri e massacri della polizia a difesa di istituzioni e investitori cinesi ed europei, che hanno chiesto all’ex sindacalista compagno di Mandela Ramaphosa di eliminare tasse e promesse di maggiori diritti per i lavoratori: «Le lotte che lo attraversano, tanto dei minatori neri e spesso migranti quanto delle popolazioni nere locali, trascendono il più delle volte i confini nazionali, proprio a causa del carattere non-nazionale dei bersagli e delle rivendicazioni in reazione al Trade, Development and Co-operation Agreement: il piano di liberalizzazioni previsto dall’accordo ha infatti imposto leggi sul lavoro, riduzione dei salari, privatizzazione delle aziende statali, leggi sull’immigrazione e tagli alla spesa pubblica in nome di un “rilancio” dell’economia sudafricana. instaurando un regime commerciale preferenziale tra l’UE e il Sudafrica, con la creazione progressiva di zone di libero scambio (ZLS) per la libera circolazione delle merci. Questo vale sia per gli scambi commerciali, sia per gli investimenti, definendo di fatto l’UE come principale partner economico del Sudafrica. Secondo un modello ormai diffuso su scala globale e di cui l’Ue si fa promotrice, le zone economiche… Se l’UE è il principale partner commerciale del paese, la Cina è presente in misura sempre maggiore con investimenti di varia natura. Come si legge sul sito di Taung Gold, una delle principali società finanziarie cinesi attiva principalmente nel settore minerario, la Cina “è profondamente consapevole dell’importanza degli investimenti cinesi in Sudafrica”. Taung Gold è da oltre un decennio una delle molte imprese della Repubblica Popolare che investono in Sud Africa, soprattutto nel settore minerario. Tra gli esempi più significativi vi è l’acquisizione da parte del Gruppo Jinchuan e del China-Africa Development Fund del 45% di Wesizwe Platinum, una junior mining company» (“ConnessioniPrecarie”). E allora, come riportava “Il Post” nel luglio 2019, i vertici militari sudafricani avevano deciso di usare l’esercito per reprimere le proteste e gli scontri iniziati dopo che l’ex presidente Jacob Zuma era stato incarcerato nel luglio per un episodio di corruzione da parte della francese Thales: una tangente relativa all’acquisto di una partita di armi nel 1999. La difesa dell’ex presidente e del suo sistema di corruzione è solo la miccia che ha fatto esplodere la rabbia, temuta da Pretoria, ma anche da UE e Cina: «Le rivolte sono il prodotto delle disuguaglianze crescenti che la fine dell’apartheid non ha saputo ridurre, e di rivalità politiche all’interno del partito al potere, l’African national congress (Anc)»; Zuma è un populista zulu, eroico combattente da giovane, e anche questi elementi sono alla base delle rivolte contro le barriere sociali sostituite dagli stranieri al posto di quelle razziali. Alla fine si sono visti anche i carri armati Olifant e sono arrivati 25.000 soldati ad appoggiare le forze di polizia. L’ultimo bilancio avrebbe parlato di 212 vititme e migliaia di feriti e arresti.

Perciò le necessità di armi dell’esercito sudafricano deve rispondere al contenimento di rivolte interne: infatti nella più imponente esercitazione militare dell’esercito sudafricano tenutasi nel novembre 2022 (Vuk’uhlome – “alzati e armati” in lingua zulu) ha testato la capacità e lo stato di preparazione della forza terrestre, supportata dalle Forze Speciali SA, dall’Aeronautica Militare SA (SAAF), dal Servizio Sanitario Militare SA (SAMHS), dalla Divisione di Polizia Militare e dalla Divisione Servizi Legali. Durante il Distinguished Visitors’ Day dell’esercitazione sono state dimostrate numerose capacità, che vanno dalla gestione dei disordini civili al lancio di forze aeree con il paracadute, agli attacchi di precisione con razzi e artiglieria, alle operazioni di controinsurrezione, agli attacchi di fanteria… Le Forze speciali, con le loro armi e i loro veicoli, hanno svolto un ruolo importante nella battaglia simulata, che ha visto il coinvolgimento di veicoli corazzati, tra cui i carri armati Olifant.

L’Aeronautica militare ha sostenuto l’esercitazione con aerei da trasporto Cessna Caravan e C212, elicotteri da trasporto/utilità Oryx e A109 e un elicottero d’attacco Rooivalk. Quest’ultimo non ha sparato, ma due caccia-addestratori Hawk Mk 120 hanno sganciato bombe sul poligono di Lohatla. La SANDF è penalizzata da un massiccio sottofinanziamento aggravato da una lista crescente di compiti, oltre che dall’invecchiamento dell’equipaggiamento – non è chiaro quando riceverà i nuovi veicoli da combattimento di fanteria Badger da Denel. Tra le recenti acquisizioni figurano i fucili di precisione Truvelo, i lanciagranate da 40 mm Milkor, i fucili senza rinculo Carl Gustaf Saab, i veicoli con cannone antiaereo ZSU-23-2 montati su Land Cruiser e i veicoli con mortaio Scorpion da 60/80 millimetri (tutti con ogni evidenza sistemi di contenimento interni e non di difesa da potenze straniere). Una grande esposizione dell’industria della difesa ha fatto parte dell’esercitazione Vuk’uhlome, con più di mezza dozzina di aziende che hanno esposto i loro prodotti. Tra queste, Reutech (radar e torrette d’arma), Canvas and Tent (alloggi da campo), Rheinmetall Denel Munition (energia verde), Global Command and Control Technologies (soluzioni di comando e controllo), Dinkwanyana Aerospace (veicoli aerei senza pilota), OTT Solutions (veicoli corazzati, tra cui il dimostratore Ratel Service Life Extension) e Denel. Quest’ultima ha presentato i suoi veicoli da combattimento per la fanteria Badger e RG41, i veicoli corazzati per il trasporto di personale RG21 e RG31 e l’obice semovente T5-52. SVI Engineering ha portato nell’area espositiva due dei suoi veicoli blindati (Max 3 e Max 9). L’azienda ha anche fornito veicoli da mortaio Scorpion alla SANDF (“DefenceWeb”). Ma i 9 velivoli C-47TP in servizio con il 35° Squadron della South Africa Air Force sarebbero quasi tutti a terra in attesa che la società Armscor reperisca sul mercato pezzi di ricambio; le difficoltà economiche della Difesa sudafricana si riflettono pesantemente sulle capacità della SAAF che da mesi tiene a terra per mancanza di ricambi e assistenza l’intera flotta di 26 velivoli da combattimento SAAB Jas 39 Gripen (“AnalisiDifesa”).

LA COMPAGNIA MAROCCHINA MANAGEM FARA’ AFFARI D’“ORO”

di Gianni Sartori

Novità rilevanti anche dal Marocco con l’ormai centenaria compagnia Managem sempre più “leader regionale” (ma con aspirazioni evidentemente “continentali”) nell’industria mineraria africana. Da circa vent’anni va ampliando il suo raggio d’intervento in Sudan (oro), Gabon, RdC (sarà mica per il coltan?) e Guinea (ancora per l’oro).

Verso la fine di dicembre il direttore generale di Managem ha annunciato di aver sottoscritto un accordo (una transazione del valore di circa 280 milioni di dollari) con la canadese Iamgold Corporation per acquisire la proprietà di alcuni progetti di estrazione aurifera in Mali (progetto Diakha-Siribaya), Senegal (progetti Boto, Boto ovest, Daorala, Senala ovest) e Guinea (progetto Karita): una striscia unica di territorio conteso tra Senegal, Mali e Guinea: Bambouk Assets che il Marocco si è attribuito con la dichiarata intenzione di aumentare la propria produzione di oro dato che finora si era posizionata ben lontana dai livelli di produzione di compagnie come Iamgold, Endeavoure, B2Gold o Kinross Gold.

ESCALATION MAGHREBINA

A questi territori, per quanto contigui, va assicurata la sicurezza, perciò il Marocco si riarma e si fa forte delle alleanze strette con Usa e Israele.

Per un controllo capillare della sicurezza nell’estrazione mineraria la prima mossa fondamentale è il controllo dall’alto del territorio e infatti in combutta con Sabca (l’impresa marocchina dell’aerospaziale) troviamo Sabena– di Blueberry Group – e Lockhead impegnatee nel progetto di realizzare la prima officin di manutenzione dei C130, essenziale per la sovranità del Marocco. I media riferiscono di piani marocchini per l’acquisto di 22 elicotteri T129 ATAK per un valore di 1,3 miliardi di dollari. L’accordo si aggiungerebbe a un ordine per 36 elicotteri d’attacco AH-64E Apache e relative attrezzature, per un costo stimato di 4,25 miliardi di dollari. Riconoscendo l’importanza della superiorità aerea nel contrastare qualsiasi minaccia alla sicurezza nazionale che possa derivare dalla crescente instabilità del Sahel e dell’Algeria, il Marocco ha anche ordinato altre 25 unità di caccia F-16C/D Block 72, che porteranno il numero totale della flotta di F-16 del Marocco a 48 unità. L’evoluzione della strategia militare del Marocco pone inoltre particolare enfasi sulla guerra con i droni, utilizzata contro la resistenza saharawi; e proprio in seguito allo strappo di Trump con l’imposizione degli Accordi di Abraham in cambio del riconoscimento della occupazione illegittima del Sahara occidentale da parte di Rabat è stata agevolata la partnership con Israele, il cui capo di stato maggiore a luglio fece la prima visita a Rabat, secondo Reuter per rafforzare la cooperazione militare e quindi “AnalisiDifesa” informava in ottobre che l’esercito del Marocco aveva acquistato 150 UAV WanderB e ThunderB dall’israeliana BlueBird Aero Systems.
La Reuters ha riferito che gli Stati Uniti hanno proceduto con la vendita al Marocco di quattro droni MQ-9B SeaGuardian e di armi a guida di precisione per un valore di 1 miliardo di dollari. I media israeliani hanno anche riferito che il Marocco sta cercando il sistema di difesa aerea e missilistica Barak MX in un accordo del valore di oltre 500 milioni di dollari. Il Marocco ha già acquistato indirettamente gli UAV Heron di IAI e altri UAV dell’unità Bluebird di IAI, oltre a sistemi di veicoli robotici di pattugliamento di Elbit Systems e intercettatori di droni di Skylock. Negli ultimi due anni, il Marocco ha aumentato le importazioni di droni. Li ha acquistati da diversi paesi come Cina, Turchia, Francia e Israele, costituendo così una vera e propria flotta, probabilmente la più sviluppata del Nordafrica, secondo gli specialisti. (“Challenge”).

Il Marocco intende mettere in produzione droni di fabbricazione propria con tecnologia israeliana e perciò ha realizzato un partenariato con i belgi di Orizio, gruppo aerospaziale che costruirà un centro di manutenzione per F-16 e elicotteri a Benslimane. La spesa per la Difesa ha raggiunto il 5,2% del pil marocchino.


L’operazione di addestramento “Desert Shield”, svoltasi a novembre con forze congiunte russe e algerine al confine con il Marocco, coincide con un’escalation del riarmo regionale. L’Algeria ha annunciato che aumenterà a 23 miliardi di dollari il suo budget militare del 130 per cento nel 2023 per raggiungere il 12 per cento del suo prodotto interno lordo grazie all’aumento dei prezzi del gas e del petrolio. Di questi, 5 miliardi sono destinati a operazioni fuori dai confini in seguito all’estinzione dell’Operazione Barkhane nel vicino Mali a supporto della milizia Wagner. Mosca è il maggior fornitore di armi di Algeri (in particolare i carri armati T-90M, nuova versione di quelli datati 1993 e usati ancora in Siria dall’esercito russo; i missili terra-aria S-350 e Buk-M2, corrispondenti ai Barak-8 israeliani in dotazione a Rabat), che partecipa a tutte le manovre congiunte dell’esercito russo. Algeri ha stipulato un contratto di 12 miliardi di dollari per l’acquisto di caccia Sukhoi SU-75 “Checkmate” Viste le debacle delle armi russe (proprio quei residuati bellici dei BMP-1 e 2 in dotazione all’esercito algerino) può darsi che il budget sproporzionato sia volto a differenziare le fonti di approvvigionamento, ipotizza Abdelhak Bassou a “Le360”: «Questo aumento del budget potrebbe essere spiegato dal desiderio del governo algerino di calmare gli occidentali acquistando armi da loro. Un modo per soddisfare tutti. Ma è ovvio che più la Russia si isola sulla scena internazionale, più i suoi satelliti si isolano. A meno che non ci sia una svolta e l’Algeria cambi le carte in tavola».
Ad alimentare le tensioni nella regione si aggiunge anche l’Iran, alleato di Putin, che ha confermato ufficialmente la fornitura dei suoi droni all’esercito algerino e al gruppo separatista del Polisario, gli stessi usati dalla Russia nella sua guerra contro l’Ucraina (“l’Opinione”).

I due paesi sono divisi non solo dai. Fosfati saharawi, ma anche dai percorsi di gasdotti: quello algerino interrotto nell’ottobre 2021 (al momento del riconoscimento di Madrid della sovranità spagnola sul Sahara occidentale) e che transitava dal Marocco per convogliare gas in Spagna; e quello che dalla Nigeria, lungo tutta la costa atlantica, porterebbe off-shore fino in Spagna la pipeline (“JeuneAfrique”).

Dunque di nuovo sono i minerali dietro a un consistente riarmo… Come in Sahel e Centrafrica.

ESTRAZIONE ED ESPORTAZIONE IN SAHEL.
MINERALI DI VALORE DOPO L’USCITA DAI CONFINI

di Gianni Sartori
IL MALI VERSO LA LIBERALIZZAZIONE DEL SETTORE?

Mentre il regime militare del Mali annunciava la creazione di una compagnia mineraria nazionale, quasi contemporaneamente (ai primi di dicembre), dal ministero delle Miniere arrivava un comunicato con cui sostanzialmente si apriva la strada a ulteriori liberalizzazioni in materia di “permessi di esplorazione e permessi di sfruttamento minerario”.
Con ogni probabilità, viste le recenti difficoltà incontrate nel settore, lo stato ritiene così di attrarre investimenti stranieri nello sfruttamento delle risorse minerarie.

Ma non tutti esultano, ovviamente. Per esempio i portavoce del Consiglio locale della gioventù della zona aurifera di Kenieba (regione di Kayes, dove già sono attive una mezza dozzina di società minerarie) hanno protestato vigorosamente in quanto «prima di concedere i permessi di esplorazione e di sfruttamento, si deve consultare la popolazione». Soprattutto per “valutare l’impatto ambientale” e sapendo che «verranno espropriate terre coltivabili per cui alla popolazione si dovranno quantomeno offrire delle adeguate compensazioni».
Attualmente tra i minerali estratti in Mali, l’oro rappresenta il 10% del pil e circa l’80% delle esportazioni.

STERILI POLEMICHE SUL BURKINA FASO?

Da segnalare anche la polemica (strumentale?) scatenata dal presidente del Ghana Nana Akufo-Addo mentre si trovava (guarda caso) a Washington, accusando il Burkina Faso di aver ceduto alla compagnia russa Wagner una miniera d’oro a pagamento dell’intervento militare contro l’insorgenza jihadista.
Notizia immediatamente smentita da Simon Pierre Boussim, ministro di Energia, Miniere e Cave, nella conferenza stampa del 20 dicembre, organizzata con l’ITIE-Burkina (Comitato per la Trasparenza nelle Industrie Estrattive) nella capitale Ouagadougou dell’ex Alto Volta.

In realtà in Burkina Faso esiste già una presenza russa in campo minerario (si parla di tre miniere sfruttate da Nordgold). Ma qui operativa da oltre dieci anni
(“Acled”).

ESCALATION SAHELIANA

Paradossalmente la strategia di influenza della Russia in Africa si basa su interessi economici relativamente minori. Il commercio della Russia con l’Africa non supera i 30 miliardi di dollari, il che non la colloca tra i primi venti partner del continente. Quest’ultima, ricca di materie prime, non è molto complementare alla Russia. «La Russia ha firmato molti accordi di cooperazione economica dal 2014, ma pochi sono stati attuati», ha dichiarato Thierry Vircoulon, per il quale «stiamo anche aspettando di vedere se il suo ruolo nel traffico d’oro in Africa aumenterà e se le promesse forniture di petrolio si concretizzeranno».
Per Maxime Audinet: «nell’Africa subsahariana, la posta in gioco economica è secondaria per Mosca, rispetto alla posta in gioco simbolica della proiezione di potenza, anche se le sue leve, come Wagner, sono pagate a peso d’oro in cambio della loro fornitura di sicurezza attraverso l’estrazione di materie prime come oro, diamanti o legni pregiati» (“LesEchos”).

E infatti le armi presenti sul territorio sono sistemi di lancio di multimissili Aml e Sam SA-7°; elicotteri Mi-17 e siste i di difesa antiaerea ZPU-4: tutte tecnologie belliche utili per il contrasto al terrorismo jihadista e per la difesa delle miniere d’oro.

Lo stato russo cerca di estendere la propria influenza attraverso la vendita di armi: è il principale fornitore dei paesi dell’Africa subsahariana, oltre ad avere importanti contratti con Algeria ed Egitto. Poi Wagner assicura la protezione di leader o addestra soldati in molti paesi: Mali, Libia, Madagascar, Sudan, Mozambico, Repubblica Centrafricana (dove è accusato dalle Nazioni Unite di racket, stupri e torture), e probabilmente anche Burkina Faso.

Tuttavia, i mercenari hanno subito sanguinose battute d’arresto in Libia e Mozambico e il Mali sembra ora deluso dal loro coinvolgimento. Come i suoi rivali, anche lo stato russo ha firmato accordi ufficiali di cooperazione militare con una trentina di paesi, che sulla carta sono vantsggiosi ma spesso corrispondono a qualche esercitazione congiunta, senza garanzie di sicurezza reciproca. La Russia non ha ancora una base militare permanente nel continente, nonostante un progetto in Sudan.

In Sahel, ritirata Barkhane, rimangono le milizie jihadiste e la Wagner, il cui armamento sul terreno fornisce risorse alle esigenze dell’occupazione. Dal 2020 tra Libia, Mali, Burkina la Wagner ha dispiegato i caccia Mig-29 e i Su-24, ma questi non sono l’unico equipaggiamento pesante in dotazione: la Pmc russa ha ricevuto anche almeno un veicolo di difesa aerea Pantsir S1, diverso da quelli utilizzati dall’Lna e da Wagner e “prestato” dagli Emirati Arabi Uniti. Per proteggere i suoi aerei, Wagner ha utilizzato radar P-18 Spoonrest oltre a quelli dell’Lna.

Per i loro movimenti i “musicisti” di Wagner utilizzano veicoli blindati prodotti in Russia da un’azienda appartenente al gruppo di società Yevgeny Pirigozhin. Il veicolo è chiamato Valchiria, Chekan, Shchuka o Wagner Wagon[13], ed è un MRAP costruito su un telaio URAL dalla società EVRO POLIS LLC. Tra le armi importate da Wagner ci sono MRAP GAZ Tigr-M, cannoni D-30 da 122 mm e obici MSTA da 152 mm. Per quanto riguarda le armi leggere, le truppe di Wagner utilizzano AK-103 e soprattutto il fucile da cecchino Osiris T-5000. Wagner ha utilizzato alcuni droni durante le sue operazioni, in particolare Zala 421-16E e Orlan 10s. E quando si ritirano i miliziani spargono mine antiuomo MON-50, 90 e 100 (Rosa Luxemburg Stiftung).

MATERIALI GREZZI LAVORATI IN LOCO…
MA CON INVESTIMENTI STRATEGICI AMERICANI

di Gianni Sartori

LA ZLECA SI VA ESPANDENDO?

Risaliva a tre anni fa l’annuncio da parte di Albert Muchanga (commissario allo Sviluppo economico, al Commercio, all’Industria e all’Attività minerarie dell’Unione africana) di consultazioni amichevoli tra due delle maggiori entità minerarie dell’Africa: il Congo e lo Zambia. Nazioni nei cui territori sono sepolte ingenti quantità di minerali fondamentali per la produzione delle batterie per i veicoli elettrici e che ora, in base ai futuri accordi, dovrebbero poterle produrre autonomamente e direttamente.

A suo tempo per esporre i progressi di tale progetto Muchanga aveva scelto l’occasione del Mining Indaba, il maggior meeting del settore minerario africano; e fondamentale era stato l’anno scorso il ruolo di Muchanga nel veder ratificare l’Accordo sulla Zona di libero-scambio continentale africano (Zleca).


E GLI USA? DIVERSAMENTE DALLE STELLE DI CRONIN NON STANNO A GUARDARE

Gli Stati Uniti non stanno a guardare naturalmente. Firmato recentemente da Washington un accordo (un memorandum d’intesa) con Repubblica democratica del Congo e Zambia (con i maggiori giacimenti di cobalto e rame) sui metalli per le batterie.
Nell’accordo è previsto un investimento da 55 miliardi di dollari nel giro di tre anni.
Fondi elargiti dalla Minerals Security Partnership (vi aderiscono Corea del Sud, Canada, Australia, Regno Unito, Giappone, Regno Unito…) a sostegno dei sistemi sanitari, per la tutela del lavoro femminile, nella lotta ai cambiamenti climatici…
Ma anche, o soprattutto, per investire nei progetti per le auto elettriche. Allo scopo dichiarato di contrastare l’egemonia cinese (visto che Pechino, a titolo di esempio, controlla già gran parte delle miniere di cobalto nella Repubblica democratica del Congo).
Come ha preannunciato il segretario di Stato Antony Blinken: «Washington esplorerà meccanismi di finanziamento e di sostegno agli investimenti nelle catene africane dei veicoli elettrici».

In pratica verranno finanziate sia le estrazioni minerarie che la lavorazione dei metalli estratti (raffinerie e affini). Oltre alle operazioni di riciclaggio. Alla vasta operazione partecipano alcune case automobilistiche (General Motors, Ford, Tesla…) e le compagnie minerarie Albemarle e Piedmont Lithium.

ENNESIMO ECOCIDIO NELLA REPUBBLICA DEMOCRATICA DEL CONGO?

Suscita preoccupazione questo ulteriore coinvolgimento della Rd C in progetti estrattivi di rilevanza internazionale.

Sia per la drammatica situazione in cui versano le popolazioni del Nordest del paese (sotto accusa l’estrazione del coltan e le milizie di M23 sostenute dal Ruanda), sia per il già bistrattato ecosistema naturale. Ça va sans dire, soprattutto nelle zone sottoposte a estrazioni petrolifere o minerarie e alla deforestazione. Anche per diretta responsabilità del governo congolese che «svende le foreste che dovrebbe proteggere» (come denunciava un portavoce di Greenpeace).

Governo e ministri sotto accusa non soltanto da parte dei “soliti” ambientalisti, ma anche da associazioni di studiosi e scienziati. Come il Consiglio per la difesa ambientale attraverso la legalità e la tracciabilità (Codelt) e l’Acedh (una Ong regionale) che hanno condotto studi approfonditi sulla foresta pluviale della Cuvette Centrale (provincia di Ituri, sotto stretto controllo militare dal maggio del 2021). Dove appunto si estrae gas, petrolio e oro. Sarebbero soprattutto le miniere aurifere, in continua espansione anche nelle aree protette, a contaminare, distruggere gli ultimi lembi di foresta pluviale dove sopravvive un mammifero raro (da “Lista rossa”), a rischio estinzione, come l’okapi. Oltre ad abbattere le piante e dragare illegalmente i fiumi, i minatori si dedicherebbero al bracconaggio.

Da quasi un decennio l’area viene sfruttata – previo accordo col governo – dalla compagnia Kimia Mining. L’anno scorso ben 205 ong locali, a cui si associava Greenpeace, avevano chiesto al governo della RdC di ritirare le concessioni minerarie alla società cinese. O almeno quelle all’interno della riserva naturale per le okapi.

ENNESIMA GUERRA MONDIALE AFRICANA

Come scrivono anche Marco Dell’Aguzzo e Giuseppe Gagliano l’intervento degli Usa va inquadrato nella necessità di disturbare gli affari minerari cinesi in Africa, in vista della produzione massiva di auto elettriche e dunque del bisogno di Litio e Cobalto: la supply chain africana derivante dall’interdizione finalmente dell’esportazione di litio non lavorato (una mossa dal sapore anticoloniale, che potrebbe, se la stesa misura venisse adottata da molti altri paesi del continente, cominciare uno sviluppo industriale – e di mercato interno – invece di essere solo suolo da depredare).

Dovranno dare lavoro in loco: potrebbe essere un passo avanti. Peccato che gli Usa si propongano essenzialmente per contrastare la penetrazione di Pechino in Africa: le aziende cinesi possiedono la maggioranza delle miniere di terre rare africane e così gli americani si frappongono, impiantando quelle industrie in loco richieste da governi che cercano così di arginare il saccheggio… il problema è che se gli americani cederanno la tecnologia per la lavorazione, si prenderanno una larga fetta del prodotto finale (una mossa essenziale per approvvigionarsi senza arricchire l’avversario) e i cinesi si faranno pagare l’estrazione dei minerali grezzi, agli africani non rimane di nuovo nulla, se non la parvenza di essere entrati a far parte del mercato e non più solo merce – nel caso venga adottata una parte di manodopera locale (che non potrà essere giocoforza specializzata). E così si torna allo Zimbabwe, da cui avevamo cominciato questo safari africano.

Ma il Congo è teatro di scontri e riedizioni di conflitti (la Guerra mondiale africana risale a pochi lustri fa e sembra prepararsi in Kivu di nuovo) che vedono contrapposte le milizie armate da Kigali (come l’M23) all’esercito di Kinshasa e alle truppe di Nairobi –ultimamente – o dell’Uganda.


I gruppi della società civile hanno condannato l’estrazione illegale di oro nella riserva naturale di Okapi, nella Repubblica Democratica del Congo. Da diversi anni, una società di proprietà cinese, la Kimia Mining, ha una concessione all’interno della riserva, rilasciata irregolarmente dal governo della RDC. I gruppi chiedono l’immediata revoca della concessione per proteggere la riserva

In una conferenza stampa tenutasi il 18 ottobre, hanno accusato la Kimia di aver ridotto la copertura forestale, inquinato i fiumi e compromesso l’habitat forestale della riserva. La riserva, inserita dall’Unesco nell’elenco dei Patrimoni dell’Umanità in pericolo, si estende per circa 13.700 chilometri quadrati della foresta pluviale dell’Ituri.  È anche la casa dei nomadi indigeni Efe e Mbuti, che dipendono dai fiumi che nascono nella riserva, ha dichiarato Gabriel Nenungo, coordinatore dei geologi della provincia di Ituri: «Abbiamo osservato le draghe gestite dai cinesi nel fiume Ituri e le fosse di mercurio aperte sono visibili dall’alto». L’attività mineraria ha attirato gruppi armati che trafficano in pelli di okapi e avorio.

L’esercito della RDC fornisce servizi di sicurezza alla Kimia Mining, nonostante le leggi vietino di associarlo alle operazioni minerarie. (“Mongabay”).

Novembre

29 novembre

    • I coyotes mondiali

      • Il 29 novembre Defense Security Cooperation Agency pubblicava la notizia della concessione da parte del Dipartimento di stato americano della vendita di sistemi di difesa antidrone per una spesa pari a un miliardo di dollari in cambio di 10 Fixed Site-Low, Slow, Small Unmanned Aircraft System Integrated Defeat System (FS-LIDS) System of Systems, includendo 200 Coyote Block 2 interceptors; e poi Counter Unmanned Electronic Warfare System (CUAEWS); Coyote launchers; Ku Band Multi-function Radio Frequency System (KuMRFS) radars; Forward Area Air Defense Command e Control (FAAD C2); Counter Unmanned Electronic Warfare Systems (CUAEWS).
      • Lo riportava “BreakingDefense” sottolineava come i principali contractor Raytheon, Northrop Grumman and R&D company SRC.A Marzo si leggeva nel rapporto Sipri del confronto tra il 2017-2021 con il decennio precedente e riprendiamo da lì per inquadrare questa notizia novembrina in omaggio all’esiziale mondiale di calcio ottenuto da Doha (che secondo quel dossier aveva incrementato la spesa del 227% rispetto al lustro precedente) con la corruzione di Sarkozy, Platini e Guéant prima e poi con il sostegno di parlamentari europei di sinistra che negano l’evidenza del sistema omicida e criminale del Qatar (ci limitiamo a suggerire che Messi e Mbappé giocano entrambi nel Psg, che è di proprietà dell’emiro di Doha, un caso che la finale sia per magia tra le loro due compagini?): infatti l’Atlante delle guerre riassumeva così la situazione del Medio Oriente a marzo:

        «Si stabilizzano le importazioni di armi in Medio Oriente. Dopo il forte aumento registrato nel decennio precedente (86% in più tra il 2007-11 e il 2012-16) gli stati mediorientali hanno importato ‘solo’ il 2,8% di armi in più nel 2017-21 rispetto a quello precedente. Il conflitto in Yemen e le tensioni tra l’Iran e altri stati della regione restano alla base delle importazioni di armi nell’area. L’Arabia Saudita si conferma un grande importatore, il secondo al mondo, con un 27% in più investito in armi nel periodo 2012-16, rispetto al precedente.
        Le importazioni di armi del Qatar sono cresciute del 227%, spingendolo dal 22esimo importatore di armi al sesto. Al contrario, le importazioni di armi degli Emirati Arabi Uniti sono diminuite del 41%, passando così dal terzo al nono posto. Tutti e tre questi stati, insieme al Kuwait hanno poi effettuato ingenti ordini che prevedono la consegna nei prossimi anni. Nell’area, poi, Israele ha aumentato le importazioni di armi del 19%».

    • E poi le esportazioni statunitensi verso Riyad sono aumentate del 106%. Ma a cosa serve l’enorme quantità di armi, le più disparate per ogni tipo di guerra, sparpagliate per tutta la penisola araba?

19 novembre

  • La guerra dei droni da Astana

    • La notizia in autunno sul fronte dell’approvvigionamento dei droni per le attività dell’aviazione russa è che si è raggiunto un accordo per impiantare in tempi brevi  uno stabilimento con la tecnologia iraniana direttamente in territorio russo; a rivelarlo il Washington Post, successivamente rilanciato da tutte le testate del mondo. Come sottolinea “DroneBlog”:

      questo accordo oltre che essere strategico mette in luce ancora di più il rapporto e la cooperazione militare fra Iran e Russia, che sta svolgendo un ruolo chiave in Ucraina. Se il nuovo accordo sarà pienamente realizzato, significherebbe un ulteriore rafforzamento dell’alleanza russo-iraniana. Questo accordo, oltre a migliorare la disponibilità di armi all’esercito russo, toglierebbe dall’isolamento l’Iran, dando una nuova spinta economica a un sistema interno collassato ormai da anni e alle prese con una rivoluzione in atto

  • In piena continuità con gli accordi di Astana, che tanto abbiamo analizzato in OGzero.
    E sempre “DroneBlog” scrive che «finora Teheran ha cercato di presentarsi come neutrale nel conflitto ucraino , ma si scopre che sempre più droni di fabbricazione iraniana vengono utilizzati per attaccare le città ucraine, innescando minacce di nuove sanzioni economiche dall’Occidente». E si insinua una scommessa iraniana sul sostegno che deriverebbe dall’alleanza con Mosca per ricavare valore contrattuale per gli accordi sul nucleare
  •  Peraltro l’industria iraniana dei droni si sta già diffondendo in altri paesi. L’Iran ha aperto a maggio una fabbrica in Tagikistan, che produce il drone Ababil-2, secondo l’Eurasia Times: è stato Zelensky stesso a indicare la strategia di avvicinamento a Mosca da parte di Ankara con fini collegati al Jcpoa.
  • The Guardian” il 10 novembre accusava l’Iran di aver sostenuto militarmente fin dal 24 febbraio l’alleato russo, ma ancora prima “Wired” riportava un sistema rudimentale – ma efficace – di aggiramento delle sanzioni: contanti e baratto.
  • In estate il baratto sarebbe dimostrato dall’atterraggio il 20 agosto di 2 Ilyushin IL-76 arrivati e ripartiti da Mehrabad (la città del kurdistan iraniano martirizzata il 19 novembre dalle guardie della rivoluzione): trasportava in cambio di droni armi occidentali sottratte agli ucraini, necessarie agli ingegneri persiani per carpire le tecnologie. Ipotesi suffragate da immagini satellitari diffuse da SkyNews e da dichiarazioni rilasciate al Washington Post il 29 agosto da funzionari statunitensi.

Un ultima notazione sull’asse russo/iraniano: i droni iraniani Mohajer-6 contengono molte componenti provenienti dalla tecnologia occidentale (in particolare giapponesi,  secondo James D. Brown) – quindi senza che si debbano trasferire ordigni catturati per studio – stando alle rivelazioni di “la Repubblica”; ma, a dimostrazione che lo spargimento di morte tra civili attraverso macchine a controllo remoto non comporta scelte di campo, il Blog di Antonio Mazzeo riporta un’informazione raccolta da “DefenseNews”:

    • «Il regime turco di Recep Tayyp Erdogan finanzierà la produzione di droni-elicotteri e droni-kamikaze per il mercato nazionale e l’esportazione, decisione che non potrà non essere accolta con favore anche in Italia. La società di engineering aerospaziale Titra Technoloji, con quartier generale ad Ankara, riceverà sussidi economici governativi per realizzare il primo modello di elicottero a pilotaggio remoto in Turchia. Denominato “Alpin”, il drone-elicottero sarà prodotto in dieci esemplari all’anno, “in aggiunta a 250 droni kamikaze”».

    • La Malesia ha scelto la Turkish Aerospace Industries per la fornitura di tre velivoli senza pilota, secondo quanto dichiarato dal ministro della Difesa della nazione del Sudest asiatico e ripreso da “DefenseNews”.
      TAI aveva presentato il suo Anka, un sistema di velivoli senza pilota a media altitudine e lunga resistenza, alla fiera della difesa e dell’aerospazio LIMA nel 2019. Il 18 agosto 2022 il re malese Al-Sultan Abdullah ha visitato le strutture di TAI ad Ankara, in Turchia. Il 7 ottobre TAI ha annunciato un memorandum d’intesa per una collaborazione con il MIMOS, il centro di ricerca e sviluppo della Malesia. Ma perché la Malesia è alla ricerca di queste macchine da guerra? Le forze armate e la Guardia Costiera della Malesia sono impegnate nella lotta alla pirateria lungo le sue coste, inoltre è loro demandato a livello internazionale il controllo e l’antiterrorismo nel Mare di Sulu (tra la Malesia orientale e le Filippine meridionali, dunque all’interno del quadro anticinese del noto contenzioso nel mar cinese meridionale sulle Spratly Island e nello strategico controllo dello Stretto di Malacca).
  • La famiglia di droni Anka è in grado di svolgere missioni di ricognizione, acquisizione e identificazione di obiettivi e raccolta di informazioni. È dotata di tecnologie elettro-ottiche/infrarosse e radar ad apertura sintetica. Il produttore afferma che i velivoli hanno capacità di volo autonomo e possono decollare e atterrare da soli.La famiglia di UAV ha un’apertura alare di 17,5 metri e una lunghezza di 8,6 metri, e ha un tetto di servizio di 30.000 piedi. Possono rimanere in volo all’altitudine operativa di 18.000-23.000 piedi per più di 30 ore.
    • A metà ottobre il Kazakistan e la Turchia hanno annunciato l’intenzione di sviluppare una “cooperazione strategica a lungo termine” che preveda la coproduzione di satelliti e altri sistemi spaziali.
    • «Questo è il primo passo di una forte cooperazione con il Kazakistan nel campo dello spazio. Il memorandum d’intesa che abbiamo firmato con le società Kazsat e Ghalam sulla creazione di una cooperazione strategica a lungo termine nei settori dei satelliti e dello spazio sarà vantaggioso per il nostro paese e la nostra nazione» (Ismail Demir, Tai)

    • Infatti in maggio, secondo le informazioni di “DefenseNews“, era stato firmato un protocollo tra Kazakhstan e Turchia per la coproduzione di droni da gettare sul mercato Asean e produrre in quella che è la prima fabbrica di Bayraktar fuori dai confini turchi, con contratto che prevede anche manutenzione e riparazione. E quell’accordo faceva seguito a quello di aprile con il Kirghizistan che aveva firmato per primo un accordo per l’acquisto di un numero imprecisato di droni armati: infatti  Bishkek aveva pregato Ankara di soprassedere alla vendita dei letali droni a Dushanbe, alla luce delle tensioni sul confine (e questo spiega la rincorsa al riarmo dei due paesi dell’Asia centrale, sfruttata da Ankara per raddoppiare le vendite).
  • Il drone può essere equipaggiato con armi come il lanciamissili a lancio aereo Roketsan Smart Micro Munition e la capsula missilistica guidata Cirit da 2,75 pollici nelle due stazioni d’armamento sotto l’ala per ingaggiare veicoli leggermente corazzati, personale, rifugi militari e stazioni radar a terra. Un evidente monito per le mire espansionistiche di Mosca.
    • L’aggressività non solo verso il mercato della industria bellica turca si appropria anche di ricerche straniere, come quelle che consentono al criminale Erdoğan di arrivare al drone-elicottero: infatti Antonio Mazzeo spiega che questo velivolo è un sistema a pilotaggio remoto che potrà essere impiegato a fini civili ma soprattutto per missioni bellico-militari di intelligence e ricerca e soccorso. Il prototipo del drone-elicottero è lungo 7 metri, alto 2,35 e ha un diametro del rotore di 6,28 metri; ciò gli consente di essere trasportato in veicoli di medie dimensioni. Il suo peso non supera i 540 kg compresi apparecchiature elettroniche e carburante. L’”Alpin” ha una velocità di crociera di 160 km/h e può coprire un raggio d’azione fino a 840 km di distanza, a un’altitudine di 5000 m. L’autonomia di volo varia dalle due alle nove ore, secondo la portata del carico a bordo.
      Ma perché abbiamo usato il verbo “appropriarsi”? La risposta è nel Blog di Antonio Mazzeo (che cita “DefenseNews”):
    • «L’Alpin è basato sull’elicottero italiano ultraleggero con equipaggio umano Heli-Sport CH-7». Il CH-7 è realizzato infatti dalla Heli-Sport S.r.l. di Torino, azienda fondata dai fratelli Igo, Josy e Charlie Barbaro e specializzata nel design e produzione di velivoli ad ala rotante di ridotte dimensioni. La società si dichiara però del tutto estranea dalla vicenda.

    • In effetti l’Alpin nasce da un accordo tra la Titra turca e la Uavos californiana per convertire il CH-7 in elicottero a pilotaggio remoto: la trasformazione dei velivoli italiani in droni-elicotteri è stata avviata dalla statunitense Uavos, mentre il primo test di volo è stato effettuato nel dicembre del 2020 nei cieli della Turchia.

«L’Alpin è stato progettato per andare incontro alle richieste specifiche ed uniche della Turchia e agli interessi speciali della sua industria nazionale per operare come sistema a pilotaggio remoto in una varietà di scenari complessi nei campi civili e della sicurezza», riporta la nota emessa da Uavos a conclusione delle attività sperimentali in territorio turco. «L’elicottero convertito è indispensabile per l’industria logistica dei velivoli senza pilota per trasportare carichi in zone difficili da raggiungere e sfornite di campi di atterraggio». E viene subito in mente la configurazione del Rojava.

La Turchia – benché socio alla pari nelle concertazioni strategiche di Astana – produrrà entro due anni i tanto decantati Bayraktar TB2 in Ucraina: benché più leggeri e meno efficienti nel contrasto di un attacco aereo, i droni turchi secondo l’Agi saranno già in grado di contrastare quelli iraniani.

    • «l’Ucraina ha un ruolo di primo piano nella catena di approvvigionamento di Baykar, in particolare con il nuovo drone pesante Akinci e il jet da combattimento senza pilota Kizilelma, attualmente in fase di sviluppo, montano entrambi motori ucraini MotorSich» (“Analisi Difesa”).

Secondo Barayktar molto presto i droni turchi TB2 e Akinci potranno colpire con buona efficacia oggetti in volo grazie all’integrazione del sistema di difesa Sungur prodotto da Roketsan, mentre i droni iraniani sono pesanti e rumorosi, sono obiettivi facili perché volano a bassa quota.

Invece quelli turchi sono stati opzionati anche dal governo polacco, che ha ricevuto a ottobre 6 dei 24 TB2 comprati.

19 novembre

    • Comprare gas dalla Tunisia con veicoli militari antimigranti

      • LaLa Francia ha portato a Djerba 200 milioni di prestiti in occasione della Organisation internationale de la Francophonie; ma ha anche consegnato alla Tunisia il primo lotto di una donazione comprendente cento veicoli militari fuoristrada Masstech T4 prodotti da Technam in occasione della ventinovesima sessione della Commissione militare franco-tunisina svoltasi dal 15 al 17 novembre nella capitale del paese nordafricano e documentata da “Tuniscope”; i veicoli sono palesemente utili nel contenimento dei migranti. L’ambasciata di Francia a Tunisi sulla propria pagina Facebook ha precisato che durante i lavori della commissione è stato tratto “un bilancio molto soddisfacente” in termini di cooperazione bilaterale per il 2022. In particolare, sono state svolte 60 attività in Francia o Tunisia.Ma quella più interessante è volta a ristabilire l’asse militare tra le due sponde mediterranee:

        «Per Saied – afferma il politologo francese Vincent Geisser rilanciato da “Africanews” – ospitare questo vertice è “un successo” perché lo porterà fuori dal suo isolamento almeno temporaneamente. È una sorta di pacificazione nei suoi rapporti con i suoi principali partner occidentali, userà questo evento per legittimare una svolta autoritaria fortemente criticata».

    • In cambio la Francia cerca di comprarsi gas in quella che era la sua casa coloniale.

  • Questo veicolo, costruito a partire da un telaio Toyota Land Cruiser HZJ76, è blindato, dotato di griglie di protezione contro le proiezioni e di cinque punti di armamento. È in servizio con l’esercito francese sul territorio francese e in OPEX nel Sahel. Viene utilizzato anche dall’esercito reale giordano (“MenaDefense”)

10 novembre

  • Corsa al riarmo in Africa

    • Nel dossier dell’“Atlante delle guerre” a marzo si leggeva: «In Africa subsahariana i cinque maggiori importatori di armi sono stati Angola, Nigeria, Etiopia, Mali e Botswana. Resta un grande importatore l’Egitto che con il più 73% diventa il terzo importatore di armi a livello globale».

    • L’Etiopia ha usato abbondantemente le sue dotazioni prima di arrivare agli accordi di metà novembre: dopo due anni e un numero imprecisato di morti compreso tra mezzo milione e un milione di vittime (qui un intervento di Matteo Palamidessa raccolto da Radio Blackout).

    “Il genocidio atroce e diffuso nel Corno d’Africa”.

  • Il Mali (e il Sahel nella sua integrità) è alle prese con la necessità di difendersi dai tagliagole jihadisti dotati di armi sofisticate e dunque gli eserciti – affrancatisi da operazioni coloniali francesi, ma così indeboliti – cercano di procurarsi strumenti per liberarsi dalla tenaglia dell’insorgenza, come ci ha raccontato Edoardo Baldaro:
  • Collegata a questa situazione è la notizia lanciata da un tweet postato il 5 novembre da “Spoutenik en Français” (palese indirizzo filorusso) relativa alla richiesta a Mosca per l’acquisto di due elicotteri da parte del Burkina di Ibrahim Traoré nel quadro di un trattato di cooperazione con la Russia di Putin (che affonda le radici nei legami intrecciati tra paesi africani che hanno avviato il proprio distacco dall’Occidente con l’appoggio dell’Urss).

Gli elicotteri sono tra le macchine a uso bellico più ambite nel continente, come documenta Antonio Mazzeo nel suo blog il 10 novembre facendo cenno a una triangolazione di 6 velivoli T-129 “Atak” prodotti in Turchia da Turkish Aerospace Industries su licenza di AgustaWestland (della infinita galassia Leonardo spa) per il governo nigeriano al costo di 61 milioni di dollari. Come sottolinea Mazzeo, la versione turca dell’“Atak” (in uso in Siria, Iraq, Filippine e in futuro in Pakistan) sfodera nuovi sistemi di individuazione e tracciamento dei bersagli ed è dotato di razzi non guidati da 70 mm e missili anticarro L-Umtas.

  • «Nel bilancio della difesa nigeriano per il 2023 è previsto anche uno stanziamento di 4,5 milioni di dollari per l’acquisto di due elicotteri AW109 “Trekker, prodotti in Italia da Leonardo SpA. nel corso di un seminario delle forze armate nigeriane tenutosi a Ibom lo scorso 27 ottobre, il capo di Stato maggiore dell’Aeronautica Oladayo Amao avrebbe confermato l’intenzione di acquisire 24 caccia bimotori M-346 “Master” realizzati negli stabilimenti di Varese-Venegono di Leonardo» (“DefenceWeb”).

  • L’AW109 aveva già riscosso un enorme successo ad agosto al Labace brasiliano:
  • «L’AW109 Trekker, il primo gemello leggero di Leonardo a offrire un carrello di atterraggio a pattino, mantiene la cellula dell’AW109 Grand, l’ampia cabina e le prestazioni di prim’ordine, offrendo al contempo un maggiore carico utile a un costo competitivo, dimostrando così di essere perfettamente in grado di soddisfare i severi requisiti degli operatori in termini di capacità ed economicità. L’AW109 Trekker è dotato di una cabina di pilotaggio in vetro di ultima generazione di Genesys Aerosystems che può essere configurata in base alle esigenze del cliente» (“DGualdo”, un sito evidentemente promozionale di Leonardo)

  • Oltre all’indubbio affare per Leonardo, si può ipotizzare che il gigante africano immagini un innesco di conflitti nell’area… e forse l’odore di bruciato comincia a farsi più forte nella situazione del Nord Kivu, come illustrato in questo intervento di Massimo Zaurrini:
  • “Rischio di Terza guerra mondiale africana dei Grandi Laghi?”.
  • Dunque la Nigeria si sta riarmando potentemente, è sufficiente elencare i prodotti opzionati, prenotati, comprati, acquisiti che riporta “DefenceWeb”, oltre ai T-129 citati da Mazzeo e ai due AW109: gli Stati Uniti hanno approvato la possibile vendita di 12 AH-1Z alla Nigeria nell’ambito di un potenziale accordo da 997 milioni di dollari che include armi ed equipaggiamenti (nonostante i forti dubbi riguardo il mancato rispetto dei diritti umani del regime di Abuja); riceverà due aerei da trasporto C295 da Airbus, agognati dal 2016. La proposta di bilancio della Difesa nigeriana per il 2023 include finanziamenti per la manutenzione degli L-39ZA, degli Alpha Jet e propone 2,7 miliardi di dollari per tre aerei da sorveglianza/attacco MF 212 costruito dalla Magnus Aircraft nella Repubblica Ceca e 3 miliardi (6,8 milioni di dollari) per tre elicotteri Bell UH-1D.
    La BVST ((Belspetsvneshtechnika, ditta bielorussa) ha già collaborato con l’aeronautica nigeriana, fornendo la manutenzione degli elicotteri Mi-35 e l’addestramento; ora ha trasformato gli MF212 in velivoli armati ideali per compiti di sicurezza interna, sorveglianza e pattugliamento. A quanto pare, può essere equipaggiato con un gimbal elettro-ottico iSKY-30 HD e con missili R-60-NT-L o R-60-NT-T-2. In Ottobre il capo di stato maggiore Odalayo Amao aveva già dichiarato che l’Aeronautica militare nigeriana prenderà in consegna due turboelica Beechcraft King Air 360, quattro aerei di sorveglianza Diamond DA 62 e tre veicoli aerei senza pilota (UAV) Wing Loong II. Oltre a dozzine di velivoli ordinati tra il 2016 e il 2021.

Peraltro il mercato africano – ovviamente con le sue richieste. Le disponibilità di spesa e i bisogni commisurati alla tipologia di conflitti che nell’enormemente vasto territorio che costituisce condizioni di combattimento differenti – mette sul piatto finanziamenti corrispondenti alla percezione di pericolo o di preparazione di guerre e quindi mette in piedi una propria frequentata fiera. La biennale Africa Aerospace and Defense Expo di Centurion in Gauteng (Sudafrica) si è tenuta a fine settembre, proiettando in questi ultimi mesi di 2022 le prospettive di collocazione su piazza del nuovo bombardiere B-21 Northtorpe, forse non a caso presentato in Sudafrica per le sue prerogative di deterrenza, come spiega “BreakingDefense” nelle parole del generale dell’aeronautica Jason Armagost riguardo il sistema Sentinel di cui il bombardiere è parte: « Sentinel sarà altamente resiliente e flessibile. Non solo per la nostra sicurezza, ma anche per garantire i nostri partner e alleati in tutto il mondo. Si tratta di una capacità evolutiva e sono state prese decisioni deliberate su come renderla efficiente con l’infrastruttura che abbiamo, e su come modernizzare la capacità per rimanere flessibile con sistemi di missione aperti e un’architettura digitale per evolvere con ambienti di minaccia in evoluzione», sembra la descrizione del panorama fluido africano. Il B-21 verrà definitivamente svelato il 2 dicembre assicura “MilitaryTimes”: probabilmente i paesi del continente africano non si potranno permettere questo bombardiere presentato a casa loro, ma potranno svuotare gli arsenali dei bombardieri che diventeranno obsoleti dopo l’avvento di questa macchina.

Più alla portata delle casse africane è il drone greco Archytas e soprattutto il Mwari aircraft con scopi multipli e infatti già venduto a molti paesi africani; e di quei paesi elencati all’inizio di questa scheda il Botswana probabilmente prenoterà i suoi droni in funzione antimigratoria, e allo scopo i droni presentati alla fiera sudafricana descritta nel video della scheda di ottobre fanno al caso.

AW109 Trekker

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La guerra nei mercati

I paesi importatori di sistemi d’arma

L’Istituto Internazionale di Ricerca sulla Pace di Stoccolma (SIPRI) ha registrato 163 stati come importatori di sistema d’arma nel quinquennio 2017–21. I cinque maggiori importatori di armi sono stati India, Arabia Saudita, Egitto, Australia e Cina, che insieme hanno rappresentato il 38% del totale delle importazioni. La regione che ha ricevuto il maggior volume di sistemi d’arma nel periodo 2017–21 è stata quella di Asia e Oceania (43% del totale mondiale), seguita da Medio Oriente (32%), Europa (13%), Africa (5,8%) e Americhe (5,5%). Tra il 2012–16 e il 2017–21, i flussi di armi verso l’Europa e verso il Medio Oriente sono aumentati (rispettivamente del 19% e del 2,8%), mentre sono diminuiti quelli verso l’Africa (–34%), le Americhe (-36%), l’Asia e l’Oceania (-4.7%). La maggior parte dei 163 stati importatori era direttamente coinvolta in conflitti armati violenti o in tensioni con altri stati in cui i sistemi d’arma importati hanno giocato un ruolo importante.

I paesi esportatori di sistemi d’arma

Il SIPRI ha registrato 60 stati come esportatori di sistema d’arma nel quinquennio 2017–21, ma la maggior parte di essi sono piccoli esportatori.
«I primi 25 stati in classifica hanno fornito il 99% delle esportazioni totali con i primi cinque stati in classifica— Stati Uniti (USA), Russia, Francia, Cina e Germania—responsabili del 77% delle esportazioni. A partire dal 1950, USA e Russia (o Unione Sovietica prima del 1992) sono sempre stati di gran lunga i principali fornitori di sistemi d’arma. Nel periodo 2017–21, le esportazioni statunitensi sono state maggiori di quelle russe del 108% mentre nel periodo 2012–16 erano superiori del 34%, un divario destinato ad aumentare. Sempre nel 2017–21 le esportazioni statunitensi hanno coperto il 39% del totale mondiale ed erano superiori del 14% rispetto al 2012–16. Al contrario, le esportazioni della Russia sono diminuite del 26% e le sue quote sul totale mondiale sono crollate dal 24% nel 2012–16 al 19% nel 2017–21».


Il posizionamento del grande esportatore Corea del Sud

Secondo il “SIPRI”, i primi quattro esportatori di armi tra il 2017 e il 2021 sono Stati Uniti, Russia, Francia e Cina, con quote globali rispettive del 39, 19, 11 e 4,6%. La Corea del Sud si è classificata all’ottavo posto con il 2,8%, ma l’amministrazione di Yoon vuole che rientri tra i primi quattro.

SCMP segnala che la Corea punta a superare la Cina nelle esportazioni militari e in effetti ci sta riuscendo ampiamente. In realtà gli ambiti e i mercati sono diversi: nel 2021, quasi il 70% delle esportazioni totali di armi della Cina è stato destinato al Pakistan, mentre la Nigeria si è piazzata al secondo posto con l’8%; nessun paese europeo ha acquistato armi dalla Cina; recentissimo è il contratto favoloso della Rpc con i sauditi. Comunque «si prevede che le tensioni regionali aumenteranno ulteriormente la spesa militare nei prossimi anni e la Corea del Sud è considerata una fonte di armi “molto attraente”». E in effetti si parla di 17 miliardi di dollari di vendite di armi nel 2022 (il doppio dello scorso anno), ringraziando la guerra in Ucraina.

Il posizionamento del grande importatore Polonia

Infatti seguendo il flusso delle armi per scovare le guerre in preparazione, nel 2021 la Polonia aveva speso solo in Sudcorea 7,5 miliardi acquistando armi, a cui si aggiungono 10 miliardi di spesa nei primi 10 mesi del 2022 da parte di Varsavia, perché ci sono pochi paesi in grado di produrre armamenti con così poco preavviso. E dopo il missile ucraino sulla cascina polacca di confine “DefenseNews” informa che Varsavia ha accettato di schierare sulla frontiera i Patriot offerti da Christine Lambrecht, ministra della Difesa tedesca, che ha aggiunto anche Eurofighter Tycoon.

Strategie di fidelizzazione

Non deve stupire la generosità, perché in realtà cerca di inseguire (timidamente) la strategia statunitense che ha investito 8 miliardi di armamenti forniti all’Ucraina, facendo così promozione per i prodotti più efficaci e così acquisendo quote di mercato di armi presso l’Europa orientale e baltica che si approvvigionava in precedenza presso le produzioni europee in vista di un graduale svecchiamento degli arsenali postsovietici, inserendosi così nel processo di riempimento dei magazzini anche svuotati dai paesi limitrofi all’Ucraina per rifornire Kyiv di armi ex sovietiche, più adatte per contrastare la tipologia degli omologhi sistemi di offesa di Mosca.

La catena militare

Ma la fidelizzazione derivante dalla promozione statunitense, mentre ha coronato un completo successo con le repubbliche baltiche e gli altri di Visegrád, ha invece fatto solo parzialmente breccia sul governo polacco, nonostante si proponga come cane da guardia di Washington in ambito europeo: proprio per questa ambizione il governo polacco fa spazio nei magazzini passando agli ucraini gli S-300 di produzione russa, retaggio del passato (come per Bratislava che già a marzo aveva accettato i patriot tedeschi, offrendo in una catena infinita gli S-300 a Kyiv), preludio per l’acquisto di 6 Patriot direttamente dagli Usa, annunciati da Błaszczak, il ministro polacco che rastrella armi dovunque riesce, in particolare dalla Corea del Sud, culminando in ottobre con un contratto da 3,55 miliardi di dollari intercorso tra Polonia e Hanwha Aerospace per l’acquisto di centinaia di sistemi di artiglieria a razzo K239 Chunmoo; il ministro della Difesa polacco Mariusz Błaszczak aveva elogiato i lanciatori Chunmoo, che sono molto simili ai sistemi Himars statunitensi ordinati precedentemente dalla Polonia.

L’intreccio Polonia / Sud Corea

Il governo sovranista di Kaczyński già prima dello scoppio della guerra si candidava a diventare una potenza militare e soppiantare il ruolo della “pacifista” Germania in ambito Nato e ora sta riuscendo nell’intento, a dar retta a “Politico“:

«Sebbene la Germania, tradizionalmente alleato chiave dell’America nella regione, rimanga un perno come hub logistico, gli infiniti dibattiti di Berlino su come far risorgere le sue forze armate e la mancanza di una cultura strategica hanno ostacolato la sua efficacia come partner».

Specularmente – e in modo complementare, visti gli scambi tra le due potenze locali – il governo di destra sudcoreano ha come traguardo quello di superare nella classifica dei maggiori esportatori di armi la Cina. E ci sta riuscendo; entrambe cambiano così il loro peso politico specifico nelle rispettive sfere.

La spesa per la difesa della Polonia nel 2022 ha già raggiunto la cifra record di 58 miliardi di zloty (12,7 miliardi di dollari), Varsavia ha in programma di aumentarla ulteriormente, avendo annunciato ad agosto di voler destinare circa il 3% del suo prodotto interno lordo, ovvero circa 21 miliardi di dollari, alla difesa nel 2023.
Sebbene nessuno metta in dubbio l’ambizione della spesa polacca, alcuni si interrogano sulla sua fattibilità e sulle motivazioni politiche che la spingono. Entro il 2035, il paese intenderebbe spendere 524 miliardi di złoty per il settore militare (forse una trappola per il prossimo governo).

Secondo l’Istituto Internazionale di Ricerca sulla Pace di Stoccolma (SIPRI), l’aumento delle spese militari della Polonia rispecchia una tendenza globale.
Ma la bulimia polacca è viziata sia dalle divergenze con Bruxelles sui diritti civili europei, sia dalla spesa a buon mercato assicurata dalle produzioni di Seul:

«L’attrattiva della Corea è che le sue attrezzature militari sono generalmente più economiche delle alternative americane ed europee e possono produrle in tempi stretti. Gli acquisti sono ovviamente un pugno nell’occhio ai sogni di “autonomia strategica” del presidente francese Emmanuel Macron, che immagina un’Europa in grado di difendersi con armi di produzione propria (probabilmente francese)» (“Politico“).

L’incremento esponenziale e costante della spesa per le armi

I dati dell’Istituto mostrano che nel 2021 la spesa militare globale ha superato per la prima volta i 2000 miliardi di dollari. Si tratta del settimo anno consecutivo di aumento delle spese militari a livello globale.

Kim Mi-jung ha detto che le vendite finali di armi della Corea del Sud per il 2022 potrebbero essere ancora più alte, dato che nel prossimo mese potrebbero essere firmati accordi con la Malesia e l’Arabia Saudita: «Gli armamenti coreani hanno un buon rapporto qualità-prezzo, in termini di prestazioni, e il paese dispone anche di basi produttive in grado di produrre un’ampia gamma di articoli, dall’artiglieria semovente agli aerei, il che rende la Corea molto attraente» (Kim Mi-jung, ricercatore dell’industria della difesa presso il Korea Institute for Industrial Economics and Trade).



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85 %

Avanzamento



Ottobre

26 ottobre

  • Collaborazione israelo-marocchina

    Definitivamente sdoganata dalla amministrazione Trump, la almeno trentennale ”amicizia” interessata tra Tel Aviv e Rabat ha trovato nel biennio successivo agli Accordi di Abramo intercorsi tra i due stati una grande impennata di ordinativi e collaborazioni, che possono condurre solo a un contenzioso sempre più belligerante con l’Algeria da un lato e dall’altro la penetrazione degli interessi di Israele nel quadrante occidentale del Mediterraneo attraverso la testa di ponte offerta dall’alleanza con il Marocco..

  • AnalisiDifesa” ha dato notizia dell’acquisto da parte del Marocco di  150 droni WanderB e ThunderB dall’israeliana BlueBird Aero Systems che erano stati testati durante l’esercitazione Maroc Mantlet 2022, dove si insisteva sull’uso dual: infatti sono macchinari adottati per la sicurezza delle frontiere e la protezione dei convogli e… delle forze armate e a sostegno dell’artiglieria.
  • L’accordo prevede addirittura una produzione parziale in Marocco e il periodico marocchino “Le Desk” attribuisce un valore di 50 milioni all’operazione, titolando sulla presenza di decine di droni della BlueBird israeliana già acquisiti dalle Forces armées royales (Far) a febbraio al costo di 500 milioni di dollari (Reuters); contestualmente il Marocco ha negato l’informazione divulgata da Amnesty International, secondo la quale avrebbe acquistato il sistema spyware Pegasus di Nso.
  • Quei droni possono caricare munizioni circuitanti Harop prodotti da IAI (costo 22 milioni, continuando nella spesa marocchina sul mercato delle armi israeliano) e si prevede l’acquisto di Hermes 450; sempre da Israele la marina marocchina intende acquisire Elbit Hermes 900. In estate anche militari di Tsahal hanno partecipato per la prima volta alle esercitazioni African Lion organizzate dall’esercito americano. Questo è potuto avvenire nonostante proprio a luglio le pressioni del senato americano avessero richiesto di spostare altrove l’esercitazione che periodicamente avviene in Sahara occidentale, proprio per il contenzioso con la Repubblica democratica araba del Saharawi (Rasd), che «potrebbe essere una nuova polveriera» (“DefenseNews”): l’esercitazione si è normalmente svolta nel Sahara occupato, potenza della lobby ebraica?
  • I UAV israeliani andrebbero ad aggiungersi a 3 Harfang francesi, sistemi controdroni Skylock israeliani, 13 Bayraktar TB2 turchi; gli Emirati hanno donato al regno marocchino 3 droni di fabbricazione cinese Wing Loong II; alla General Atomics americana sono stati ordinati 4 MQ9 Reaper Sea Guardian.Sempre “Le Desk” aveva dato notizia della dotazione di droni da parte del Polisario in risposta a questo stormo marocchino, in particolare un drone frutto dell’elaborazione Yabhon United 40, la cui evoluzione algerina ha ottenuto il Al-Jezair 54.
  • Intanto Minurso, la missione Onu nell’area, ritiene di non essere più in grado di svolgere la sua capacità di interposizione, nonostante sia stata prorogata fino al 31 ottobre 2023.

24 ottobre

  • Diversivi mediorientali

    In questioni mediorientali spesso si riesce a ricomporre un puzzle mettendo di seguito partecipazioni, agenzie relative a esercitazioni comuni che esibiscono alleanze e poi movimenti di truppe reali e dichiarazioni, che permettono interpretazioni su uno scenario di conflitti tra potenze locali che possono sfociare a breve in confronti aperti.

    La notizia del 24 ottobre dell’agenzia saudita è che l’Arabia Saudita dal 1° al 25 novembre prende parte con le proprie forze aeree all’esercitazione militare “Aerial Warfare and Missile Defense Centre 2022” che si tiene presso la base di Al Dhafra, negli Emirati Arabi Uniti. L’ applicazione del concetto di azione congiunta in un ambiente di guerra simile alla guerra reale si tiene congiuntamente alle forze di Emirati, Oman, Usa, Gran Bretagna, Francia… dunque una esplicita scelta di campo e di alleanza. Soprattutto per quel che riguarda l’aumento della tensione con Tehran (perché invece per le decisioni dell’Opec che potevano creare difficoltà all’esportazione petrolifera russa i sauditi si sono schierati con il Cremlino).

  • Se poi si va a consultare “Defaiya.com” si possono repertoriare serie di notizie relative a molte acquisizioni di armi. Il varo del primo gruppo di 79 pattugliatori medi ad alta velocità francesi (partecipanti alle esercitazioni di Al Dharfa) della classe Couach da parte delle Forze Navali Reali Saudite, dunque flessibili e leggeri, velocissimi per gareggiare con le imbarcazioni dei pasdaran iraniani (i vascelli includono una sofisticata combinazione di sistemi elettronici come dispositivi di tracciamento, sensori ottici e termici, scambio di informazioni e navigazione marina che consentono loro di svolgere compiti di ricerca, monitoraggio e follow-up attraverso un sistema elettronico altamente intelligente).
  • «Queste imbarcazioni rappresentano un’aggiunta qualitativa alle capacità della RSNF, in quanto contribuiranno ad aumentare il livello di prontezza militare e di sicurezza, a rafforzare la forza di sicurezza marittima nella regione e a proteggere gli interessi vitali e strategici del regno, sottolineando la costante attenzione e il sostegno illimitato della saggia leadership saudita e del ministro della Difesa per sviluppare le forze armate al servizio del paese» (contrammiraglio Yahya bin Mohammed Asiri).

  • A completare il quadro ci sono le dichiarazioni congiunte di funzionari statunitensi (altri partecipanti alle esercitazioni di Al Dharfa) e sauditi al “Wsj” riguardo a informazioni di intelligence su un imminente attacco da parte dell’Iran contro obiettivi nel regno, ponendo le forze armate americane, e altre in Medio Oriente, su un livello di allerta elevato che sfociano immediatamente in potenziali estensioni del conflitto a Iraq (Erbil, in particolare, suggerisce “Formiche.net”). Salvo poi venire in aiuto di Mosca entrambi i contendenti, secondo il “Washington Post”: sia Teheran (droni) che Riyad (mantenendo elevati i prezzi del greggio). Il diversivo che infiammerebbe ulteriormente il quadrante mediorientale dimostrerebbe la necessità dei turbanti di stornare l’attenzione dall’insurrezione interna e dalla fornitura di droni all’esercito russo. Gli Stati Uniti hanno anche affermato che gli iraniani stanno addestrando operatori di droni russi in una base nella Crimea occupata dai russi. Il Centro nazionale di resistenza ucraino, parte delle Forze per le operazioni speciali ucraine, ha riferito questa settimana che gli addestratori di droni iraniani stavano aiutando i russi a coordinare gli attacchi dei droni a Mykulichi, vicino a Gomel, nella Bielorussia meridionale. Il primo vicepresidente iraniano Mohammad Mokhber e alti funzionari della sicurezza iraniana si sono recati in visita a Mosca il 6 ottobre dove, secondo la Reuters, hanno concordato nuove forniture di armi.
  • «I russi hanno chiesto più droni e missili balistici iraniani con una maggiore precisione, in particolare la famiglia di missili Fateh e Zolfaghar», ha detto uno dei diplomatici iraniani… e si torna agli Shahed-136 della scheda del 13 ottobre. Merce di scambio con i sofisticati S-400, già motivo di scontro tra Turchia e Usa:
  • «Anche Israele ha subito crescenti pressioni per aiutare l’Ucraina, poiché la guerra di Putin è sempre più vista come un terreno di prova per droni e armi iraniane che potrebbero essere rivolte contro Israele, uno Stato che l’Iran ha ripetutamente giurato di distruggere.
    L’Iran potrebbe sperare di ribaltare il rifiuto opposto in passato dalla Russia di fornirgli sistemi di difesa aerea S-400 e jet da combattimento avanzati, mosse che metterebbero in allarme l’Arabia Saudita e potenzialmente la Turchia» (“Washington Post”).

18 ottobre

  • SHORt Air Defence: Ucraina come banco di sperimentazioni

    Mentre l’esercito degli Stati Uniti testa i primi prototipi di Stryker di Leonardo Drs, l’esercito russo schiera i sistemi Sam (Surface-to-Air Missile): Tor-M2 con le stesse modalità, che vanno ad affiancare gli Iskander 9K720 e i nuovi Strela-10.
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  • Mentre la Nato (cfr. 11 ottobre) testa fuori dai contesti di guerra guerreggiata i suoi Shorad, intorno a Kherson il sistema russo di difesa si accreditava presso “Il Faro sul mondo” a luglio con un bottino che comprendeva in una giornata l’abbattimento di un elicottero MI8, 9 droni turchi e 10 Hymars. Propaganda in entrambi i casi, come dimostra questo video diffuso dall’esercito russo il 18 ottobre.
  • Oltre a coprire le truppe dai missili, questo sistema di difesa aerea resiste anche ai droni turchi Bayraktar e ad altri bersagli aerei (“Altervista“). Al di là della propaganda il Tor-M2, noto con il nome di rapporto Nato SA-15 Gauntlet, è un sistema missilistico terra-aria di fabbricazione russa completamente automatizzato, prodotto nello stabilimento di Izhevsk Kupol di Almaz-Antey, per fornire un’efficace difesa aerea.
  • Nell’esercito russo, spiega “Defense-Blog“, il set di sistemi di difesa aerea ТOR-М2 comprende quattro batterie di quattro veicoli da combattimento 9А331М ciascuna (per un totale di 16 veicoli da combattimento). Il munizionamento dei SAM 9А331М TOR-М2 prevede 16 nuovi missili guidati antiaerei 9М338К; progettato per abbattere aerei, elicotteri e missili da crociera, antiradar e altri missili guidati. Invece Il SAM Strela-10 è progettato per l’osservazione visiva e la distruzione di obiettivi aerei a bassa quota.
  • Lo Strela-10, noto con il nome di segnalazione Nato SA-13 Gopher, è un sistema missilistico mobile terra-aria a corto raggio. Il sistema è destinato principalmente a colpire minacce a bassa quota, come gli elicotteri. L’SA-13 è basato sullo scafo del veicolo multiscopo cingolato MT-LB. Lo scafo dell’MT-LB è interamente blindato in acciaio saldato con il compartimento dell’equipaggio nella parte anteriore, il motore immediatamente dietro il compartimento dell’equipaggio sul lato sinistro e il compartimento delle truppe nella parte posteriore dello scafo.

13 ottobre

  • Droni. Guerre del presente combattute dai robot (e subite dai civili)

    Quasi un incubo per Isaac Asimov, tanto che se applicassimo le sue leggi della robotica ai droni forse coglieremmo la portata profetica della grande fantascienza scritta durante la ribellione degli anni Sessanta e Settanta alla minaccia di guerra globale conseguente a quella in Vietnam (l’Ucraina dell’epoca, invasa militarmente da una grande potenza). Il 13 ottobre sono stati avvistati droni in avvicinamento nei cieli norvegesi, attualmente il paese che fornisce la maggior  parte del gas agli utenti europei: il primo drone è stato avvistato mentre sorvolava l’impianto di trattamento del gas di Kårstø, nel Sudovest della Norvegia, dopo questo episodio altri se ne sono susseguiti e 7 russi sono stati arrestati dagli scandinavi per questa “invasione”. Quella attività sembra inedita, ma i droni sono protagonisti in tutti i palcoscenici di guerra o di semplice confronto armato o di intelligence; dare conto di ogni episodio riportato dai mezzi di comunicazione è impossibile, molti non sono diffusi ma si può tentare un’esposizione delle molte applicazioni degli strumenti “unmanned”, limitandoci a quelle delle ultime settimane, tentando così un repertorio di nuovi robot.

  • Gli ucraini portano i trofei di 9 droni kamikaze iraniani Shahed 136 (“Geranium” in Russia, “Martiri” in Iran) abbattuti – veicoli nati da apparecchi anglo-americani abbattuti studiati e fabbricati sulla ricerca derivante dalla preziosa cattura; “Washington Post” e Cnn hanno riferito in estate che l’Iran aveva inviato un lotto di veicoli aerei senza pilota in Russia. Secondo le testate, Teheran aveva inviato i droni Mohajer-6, Shahed-129 e Shahed-191 in Russia il 19 agosto.
  • I droni di fabbricazione iraniana utilizzati dall’esercito russo per distruggere impianti di produzione di energia elettrica ucraini e spargere il terrore sono quindi saliti alla ribalta della invasione dell’Ucraina quando i russi hanno cominciato a farne un uso terroristico. La Nato ha assicurato che verranno forniti sistemi di difesa dagli attacchi di stormi di droni che costano tra gli 8000 e i 20.000 dollari (i più cari), ben sapendo che nemmeno gli scudi israeliani assicurano la completa distruzione di una flottiglia di Uav; infatti, contando sull’esaurimento degli stoccaggi di droni autoprodotti dai russi, lo sforzo sarà probabilmente anche quello di intercettare le forniture da parte della Iran Aircraft Manufactoring Industrial Company. Non a caso abbiamo citato il governo di Tel Aviv: proprio la fornitura di munizioni circuitanti Shahed 136 (il dubbio è relativo alla quantità di produzione che Tehran è in grado di assicurare di questi velivoli) ha mosso Israele a consegnare sistemi di difesa a Kyiv contro questi sciami di droni, scegliendo di schierarsi nel campo opposto agli odiati pasdaran, forse perché i droni più efficaci sono quelli turchi e quelli sono venduti all’Ucraina. E così – secondo “Formiche.net” Tzahal fornisce intelligence su droni, informazioni su spostamenti di truppe e sui droni può mutare il reciproco accordo di non interferenza russo-israeliano (plausible deniability).
  • Peraltro sono tante le tecnologie e molti i produttori di marchingegni senza equipaggio: occupano il paesaggio bellico più fosco che si può immaginare, pervaso di stormi di droni, forse i prodotti più ambiti e alla portata dello stato più squattrinato, utili sia per arrecare danni al nemico e scatenare il panico, ma anche per soffocare proteste, controllare intere aree… Questi dispositivi senza pilota sono forse il business più innovativo della filiera; e propone sia merci “popolari”, fabbricate anche facilmente da gruppi di insorti (per esempio gli houti yemeniti con know how iraniano, o hezbollah che attinge alla stessa tecnologia), sia quelle sofisticate come il nuovo drone sommergibile da 50 tonnellate Orca XLUUV della marina americana, raccontato da “NavalNews” (il cui costo è di 242 milioni di dollari e ancora a livello di prototipo, i costi sono lievitati: all’inizio della pandemia erano stati stanziati 274 milioni per 5 sottomarini Orca).

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    • Tre anni fa le peculiarità di questo enorme robot rispondevano a determinate applicazioni: posa- cacciamine, guerra asimmetrica elettronica e missioni “hunter killer”, dotato di missili Mk. 46 e le caratteristiche erano spingerli verso una zona operativa, lasciarli vagare, stabilire comunicazioni criptate. Gli UUV grossi sono più autonomi rispetto ai minori che costituiscono una rete di droni marittimi tra americani e sauditi in funzione anti-iraniana (“WSJ”), o – sempre con il medesimo nemico – quei nuovissimi Saildrone Explorers di un’esercitazione congiunta Usa/Uk (“NavyTimes”), utile per controllare vasti tratti di mare, perché possono stare a lungo in mare tra Suez, Gibuti, Hormuz, ma bisognosi di navi di supporto nelle vicinanze, come rilevava “Si Vis Pacem Para Bellum”, un sito molto appassionato all’arte della guerra, ma forse questo coinvolgimento non basta a spiegare il titolo datato febbraio 2020 Il nuovo robot wolfpack della marina militare di Orca sarà pronto per la guerra … e invece ha un ritardo di 3 anni, e non è ancora pronto che già c’è la guerra.
    • Altrettanto sofisticato sarebbe il “bat drone”. Non si tratta di uno sciame di piccoli droni travestiti da pipistrelli, ma di una nuova cellula da combattimento: l’MQ-28 Ghost Bat della divisione australiana della Boeing.
      Il Ghost Bat è un drone da combattimento, destinato a essere controllato da piloti umani. Lo descrive “Task & Purpose”: «Il design è pensato per essere modulare, in modo da poter essere modificato per determinate missioni».L’acquisizione fa parte di un più ampio sforzo dell’Air Force per sviluppare il programma Next Generation Air Dominance, il termine con cui si indica lo sviluppo di aerei di sesta generazione. Fondamentale sarà l’uso di gregari robotici, o come li chiama l’Air Force, velivoli collaborativi da combattimento. Le forze armate stanno testando e mettendo in campo dispositivi senza equipaggio come parte degli sforzi per modernizzare le proprie forze. Alcuni, come i minuscoli droni a vela, sono già in uso presso la Marina. L’Assured Positioning, Navigation and Timing / Space Cross-Functional Team dell’Esercito, che fa parte dell’Army Futures Command, ha recentemente testato un drone Airbus Zephyr S presso il Yuma Proving Grounds in Arizona (e in altre località, anche oltreoceano) che ha raggiunto il record di 64 giorni di volo prima di cadere improvvisamente dal cielo.
    • Come sempre poi nel capitalismo, la differenza è fatta dallo smercio nella gamma media che rappresenta nel volume di numeri il vero affare mondiale. E ormai ogni stato si va dotando di una flotta di droni, applicabili nei contesti più disparati. Spesso si tratta di produzione domestica interna a cominciare dalla risposta greca ai droni turchi, Archytas, il drone a decollo e atterraggio verticale (VTOL) presentato alla Thessaloniki International Exhibition (“GreekCityTimes”), una tipica collaborazione tra Forze Armate e Università, “utile” per monitorare i confini e accompagnare le fregate in funzione di difesa da droni nemici.
    • Presentato anche alla Africa Aerospace and Defense Expo di Pretoria insieme al Mwari, venduto dal Paramount Group ad alcune forze aeree africane: anche le sue caratteristiche prevedono ricognizione e precisione di tiro, potendo caricare molteplici sistemi
  • Ma la produzione maggiore di droni è per conto terzi: cioè macchine sfornate per l’esportazione. Alcune per recapitarle agli ucraini (i Phoenix Ghost di Aevex Aerospace, gli RQ-20 Puma e gli Switchblade dell’AeroVironment, di cui scrive “Military.com”), altre sono autentici oggetti del desiderio, come i 18 Bayraktar Tb2, turchi agognati dalla Romania, che a inizio settembre aveva stanziato secondo Reuters 300 milioni di dollari per il loro acquisto.
  • Un esempio diverso sono gli stormi di droni con intelligenza artificiale pilotati attraverso il 5G, che consentono di intercettare e geolocalizzare segnali a basso potenziale, sperimentati da Lockheed e Verizon il 28 settembre (“DefenseNews”). Il Pentagono ha ottenuto quasi 338 milioni di dollari per il 5G e la microelettronica nell’anno fiscale 2022. Ha richiesto 250 milioni di dollari per l’anno fiscale 2023. Ha potuto farlo, trovando una legittimazione dallo sviluppo tecnologico dei missili balistici cinesi (DF-26) e nordcoreani (Hwasong-12), già capaci di raggiungere la base di Guam, che dall’ultima parata militare in occasione del 70° anniversario della Cina popolare può essere nel mirino anche dei droni ipersonici WZ-8 in dotazione al Pla, come scriveva “The Diplomat” ad agosto, contro i quali è indispensabile trovare contromisure.
    • L’esercito israeliano poi sta promuovendo una guerra con i droni come metodo meno sanguinoso per controllare la Cisgiordania. I palestinesi di Gaza sanno che non è così; infatti l’uso di droni è sempre più spesso in funzione di ordine pubblico e per soffocare insurrezioni, rivolte, assembramenti. Non è un caso che l’esordio ufficiale in Cisgiordania i droni lo hanno visto quando una nuova resistenza non riconducibile a nessun protagonista più o meno controllabile: La Tana dei leoni, che è una realtà priva di leader, senza riferimenti religiosi, né indotta dalle forze di occupazione stesse – come Hamas, che fu alimentata agli esordi da Tel Aviv –; nell’incapacità di contrastare questi giovani stufi di occupazione e sopraffazione non c’è altra risposta che una guerra automatizzata in grado di fornire rapide soluzioni a un ciclo di violenza deplorevolmente (per l’Idf) cronico. “Zeitun” ha fatto una piccola ricerca storica dell’utilizzo di droni da parte di Idf:

    • Israele è stato un precoce pioniere nella tecnologia dei droni. Nel 1968 un maggiore della direzione dell’intelligence militare israeliana, Shabtai Brill, applicò mini-telecamere alla fusoliera di aerei a controllo remoto, del tipo di quelli fatti volare dai bambini nel cortile di casa, per sorvegliare clandestinamente i confini con l’Egitto. Nel 1982, all’inizio della guerra del Libano, le Industrie Aerospaziali di Israele produssero droni di sorveglianza di livello militare che potessero volare insieme a jet da caccia per identificare obiettivi e guidare missili.

      Oggi Israele si autodefinisce una “superpotenza dei droni”. La polizia di frontiera utilizza droni per irrorare con gas lacrimogeni i manifestanti nel complesso della moschea di Al Aqsa. In Cisgiordania i soldati disperdono la folla dai posti di controllo con un drone che spara impulsi sonori contro i bersagli, lasciando i dimostranti intontiti e nauseati. Agenti dell’intelligence militare guidano droni da riconoscimento sulla città di Gaza per definire le coordinate esatte da bombardare.

      Molti palestinesi hanno già vissuto per anni all’ombra della guerra con i droni. La loro presenza a Gaza è talmente pervasiva che ai droni ci si riferisce correntemente come a “zanana”, che significa “ronzio”, evocando il costante rumore degli apparecchi che si librano proprio sopra il tetto di casa, come un minaccioso sciame di api.

      Quando lo scorso anno l’esercito ha annunciato il primo stormo di droni mossi da intelligenza artificiale, “The Intercept ha documentato 192 civili uccisi in soli 11 giorni di combattimenti letali.

12 ottobre

  • Le ambizioni polacche di supremazia

    La quantità abnorme di armi di ogni tipo in transito sul territorio polacco svolge solo il ruolo di hub, oppure bisogna registrare un riarmo di dimensioni gigantesche per le dimensioni del paese. Ovviamente, oltre alla scelta di Varsavia di proporsi come potenza locale, va considerata l’enorme importanza della collocazione della Polonia, soprattutto per la Nato che gioca sul sentimento antirusso di una nazione profondamente sovranista.

  • 12 ottobre è arrivato il primo B2 in Polonia, Il Northrop B-2 Spirit è un bombardiere strategico Questo aereo può trasportare 16 missili da crociera con testate nucleari. Carico di combattimento fino a 27.000 chilogrammi. Una data storica: sancisce l’ambizione di divenire una potenza militare nell’area non solo orientale dell’Europa, avendo fatto la scelta di proporsi a modello sia del costume sovranista, sia dotandosi dei mezzi per imporlo.
  • .
  • La Polonia, oltre a rappresentare il nuovo modello per il sovranismo di estrema destra – perché appare agli occhi sovranisti meno impresentabile di Orban – è uno snodo per le armi destinate a Kyiv: dal crowdfunding che a luglio aveva raccolto 4,9 miliardi di dollari per comprare un  Bayraktar TV2 per le forze armate dell’Ucraina (quel drone può trasportare due missili guidati Umta con un raggio di lancio fino a 8 km o quattro bombe di precisione Mamma-C / Mamma-l); la vicinanza al paese aggredito ha spostato l’asse europeo (non solo militare) più a Est e la nazione di Duda e Kaczynski si propone come hub (uno nuovo a est di Ramstein) e laboratorio di conservatorismo reazionario, meglio tollerato dagli americani che mal digeriscono certe impuntature di indipendenza dell’asse franco-tedesco. Ma il nazionalismo è funzionale anche alla servitù militare. Il 4 settembre “Military Times” informava della vendita degli Abrahams in consegna per il 2025 alla Polonia da parte di General Dynamics Land System (il che dimostra quanto le previsioni per una durata della guerra non tanto breve, come dimostrano le dichiarazioni dei massimi contendenti, che hanno lanciato questa guerra per procura, fondata su tipi di armi come gli Abrahams).
    Faceva eco “Defense News” che riportava anche l’entità della spesa (1,1 miliardi di dollari) in cambio di 250 carri armati M1A2 SEPv3.
  • Ma la Polonia non si è fermata all’approvvigionamento di terra, ha acquisito pure 96 elicotteri AH-64E – Apache (per dare una comparazione l’Australia a maggio ne ha comprati 29 dalla Boeing) pagati 1,4 miliardi di dollari e l’annuncio è stato ufficializzato alla fiera delle armi Mspo tenutasi all’inizio di settembre in Polonia, come riportato da “Breaking Defense”. E anche dare spazio a una sede fieristica sul proprio territorio ha un significato di approdo tra gli stati che contano nella filiera delle armi.
    Questo perché Apache e Abrahams lavorano congiuntamente: gli elicotteri

 «saranno schierati per la prima volta presso la 18ª Divisione meccanizzata. Non tutti, ma le prime unità. Questo proprio in seguito al fatto che la 18ª Divisione sarà equipaggiata con i carri armati Abrahams. Questi elicotteri funzionano benissimo con i carri armati Abrahams. Insieme, costituiscono una forza enorme. Una forza di resistenza, perciò vogliamo usarli come deterrente per il nostro avversario», ha dichiarato Błaszczak in una dichiarazione rilasciata dal ministero della Difesa polacco» (“DefenseNews”).

    • Sempre durante l’Expo documentata da “BreakingDefense” Adam Hodges, Capture Team Lead for Vertical Lift International Sales di Boeing Defense, Space & Security, ha dichiarato ai giornalisti che l’azienda sta offrendo alla Polonia “l’AH-64EV6, con capacità MUM-T, proponendo ad aziende polacche il sostentamento locale, quindi altro denaro europeo sperperato in spesa militare, funzionale all’interoperatività polacco-americana.
    • Boeing ha stabilito importanti collaborazioni con il governo e l’industria polacchi, in particolare partnership con il Polish Armaments Group che continuerà a espandersi con l’implementazione di attività di formazione e supporto con l’industria locale.
    • Mentre atterravano a Malbork (a un centinaio di chilometri da Kaliningrad) 4 cacciabombardieri Eurofighter dell’Italian Air Force nell’ambito dell’operazione Nato antiRussia…
    • … la Polonia in quei giorni di fine luglio stava siglando accordi con la Corea del Sud che sommavano a circa 14,5 miliardi di dollari di investimenti, per l’acquisto di 1000 carri armati K2 della Hyundai Rotem, 672 obici semoventi K9 della Hanwa Defense e 48 aerei da combattimento leggero Rokaf FA-50. Notizia confermata anche da “Breaking Defense”. Andando ancora più indietro nel tempo, a maggio, la Polonia aveva deciso di investire in nuove dotazioni di M142-Himars e Patriot: infatti prima del 24 febbraio il Dipartimento di Stato aveva concesso di approvvigionare l’esercito polacco per dotazioni pari a 6 miliardi di dollari.
      Contemporaneamente Varsavia aveva avanzato la richiesta a Seul per acquisire altri lanciamissili K239 della Chunmoo (e l’affare si è concluso a metà ottobre con l’acquisto di 300 di queste batterie di artiglieria coreana), omologhi al prodotto della Lockheed (che ha difficoltà a stare dietro alle richieste del mercato di Himars). Infatti la Lituania ha stanziato un budget di 148 milioni di dollari per comprare M142 Himars, droni e Javelin, dopo il successone ucraino
    • Una notizia di “Defense News” del 17 settembre riportava l’esistenza di due contratti per l’acquisto di 48 aerei d’attacco leggero FA-50 dalla Corea del Sud, con i primi 12 jet che saranno consegnati l’anno prossimo e altri 36 negli anni 2025-2028, per abbandonare completamente l’uso degli aerei MiG-29 e Su-22. La Polonia sta aumentando la propria potenza per diventare la potenza di riferimento anche militare dell’area soppiantando la Germania con l’ausilio degli Usa.
    • Politico”ha riassunto alcune delle commesse di acquisto di sistemi di arma da parte del bulimico esercito polacco:
    • «La Polonia ha firmato un accordo da 23 miliardi di złoty (4,9 miliardi di euro) per 250 carri armati Abrams dagli Stati Uniti questa primavera – una rapida sostituzione per i 240 carri armati di epoca sovietica inviati all’Ucraina. La sua aeronautica militare è equipaggiata con F-16 statunitensi e nel 2020 Varsavia ha firmato un accordo da 4,6 miliardi di dollari per 32 caccia F-35.
      Ma il fulcro della sua recente spesa militare è stata la Corea, dove ha firmato una serie di accordi per l’acquisto di carri armati, aerei e altre armi. Finora la Polonia ha ordinato dalla Corea armamenti per un valore compreso tra i 10 e i 12 miliardi di dollari, ha dichiarato Mariusz Cielma, redattore e analista di “Nowa Technika Wojskowa”, un sito web di notizie e analisi sulla tecnologia militare. Gli ordini includono 180 carri armati K2 Black Panther, 200 obici K9 Thunder, 48 aerei d’attacco leggero FA-50 e 218 lanciarazzi K239 Chunmoo. A completamento delle forniture immediate, i coreani dovrebbero fornire un totale di 1000 carri armati K2 e 600 obici K9 entro la metà e la fine degli anni Venti. Varsavia ha ordinato elicotteri italiani Leonardo per 8 miliardi di złoty, ma l’accordo prevedeva che gli elicotteri fossero prodotti in Polonia.».

11 ottobre

  • SHORt Air Defence: Ucraina come banco di sperimentazioni

    L’Esercito degli Stati Uniti ha equipaggiato un plotone del 5° battaglione, 4° reggimento di artiglieria da difesa aerea, in Europa, con quattro dei primi prototipi di Stryker A1 (sviluppato in 19 mesi da Leonardo Drs). L’Esercito è prossimo a schierare il primo battaglione completo entro la fine dell’anno con l’aggiunta di sistemi M-SHORAD (che comprende anche il lanciamissili veicolare Stinger di Raytheon Technologies), ha dichiarato a “DefenseNews” il generale Maurice Barnett, comandante generale del 10° Comando di difesa aerea e missilistica dell’Esercito in Europa, in un’intervista rilasciata all’esposizione annuale dell’Associazione dell’Esercito degli Stati Uniti.
    .

  • E il primo plotone di sistemi Shorad basati su Stryker A1 ha attraversato Polonia, Lituania, Lettonia ed Estonia, arrivando a testare l’impianto di difesa aerea a corto raggio sul Golfo di Finlandia. Il sistema offre una maggiore protezione rispetto ai vecchi Avenger grazie a una incredibile capacità di sparare in movimento, continuando la stessa protezione aerea e missilistica negli spostamenti, anche su distanze notevoli.
  • Nell’ambito di uno sforzo più ampio per rafforzare la capacità di difesa aerea in Europa, il 6 ottobre l’esercito americano ha attivato il quartier generale della 52ª Brigata di artiglieria per la difesa aerea a Sembach, in Germania. Il quartier generale collegherà tutte le forze di difesa aerea e missilistica dell’Esercito e riferirà direttamente al 10° AAMDC, che è stato aggiornato a un comando a una stella nel 2019.

Stryker A1

7 ottobre

  • C-Uas: la necessità di sviluppare il contrasto a ogni drone

    L’Esercito degli Stati Uniti ha creato l’Ufficio congiunto per il contrasto ai piccoli sistemi aerei senza pilota per affrontare la proliferazione dei droni avversari. Il Jco è nato dopo che l’allora Segretario alla Difesa Mark Esper, nel 2019, ha designato l’Esercito come agente esecutivo per le attività di contrasto agli Uas; gli ufficiali del Comando per le operazioni speciali alla Special Operations Forces Industry Conference, ospitata in Florida dalla National Defense Industrial Association. Il tenente colonnello responsabile del programma di controproliferazione del comando aveva dichiarato in maggio a “DefenseNews” che il Socom sta cercando un dispositivo di contromisura elettronica multimissione di prossima generazione. Il bilancio di ricerca dell’Esercito dello scorso anno ha posto l’accento sull’architettura tattica per la guerra elettronica, includendo una richiesta di aumento della spesa per il programma Multi-Function Electronic Warfare, il programma Terrestrial Layer System-Brigade Combat Team, l’Electronic Warfare Planning and Management Tool e il Terrestrial Layer System-Echelons Above Brigade.

  • L’intento è di trovare opzioni per siti di spedizione portatili, smontati e fissi per il dispositivo di contromisura elettronica multimissione di prossima generazione. Il Corpo dei Marines e il Socom dispongono di un sistema esistente chiamato Modi, prodotto dalla Sierra Nevada Corporation e utilizzato dall’esercito e dai Marine (“C4irsnet” riporta questa direzione nella ricerca del contrasto ai droni), il problema è la difficile maneggevolezza (pesa 20 chili) che ha suggerito gli investimenti per la ricerca, vista l’estensione dell’utilizzo di droni in tutti i quadranti.
  • Per ora l’esercito statunitense tiene corsi, i cui moduli consentono di avvalersi di queste armi di difesa da macchine Uas:

 «Non si può avere solo una capacità c-UAS ovunque. Bisogna essere in grado di sfruttare qualsiasi capacità si abbia: abbiamo essenzialmente massimizzato la capacità di quel sistema per dargli un doppio ruolo, sia che si tratti di abbattere razzi o mortai; ora possono abbattere anche i droni.

  • Il dispositivo anti-UAS DroneDefender ha unito una tecnologia innovativa a un design efficiente per una sicurezza sicura, affidabile e comprovata dalle minacce aeree (così il testo promozionale di Battelle). Il dispositivo interrompe rapidamente il controllo remoto del drone aggressore, neutralizzandolo in modo che non possa avvenire alcuna azione a distanza, compresa la detonazione, riducendo al minimo i danni che può provocare il drone e il rischio per la sicurezza pubblica.Il DroneDefender, che utilizza una soluzione non cinetica per difendere lo spazio aereo dagli UAS, come quadcopter ed esacotteri, opera senza compromettere la sicurezza o rischiare danni collaterali. Il sistema, leggero e facile da usare per due ore di seguito e con un peso contenuto sotto gli 8 chili, assicura la distruzione dei droni a controllo remoto e del loro GPS

1°-14 ottobre

  • Teatro No: come adeguare la nuova realtà di guerra a una Costituzione di pace, o viceversa

    Gli Stati Uniti non sono riusciti a trasformare il cosiddetto Quad, che comprende Giappone, Australia e India, in una versione asiatica dell’Organizzazione del Trattato Nord Atlantico, ma hanno continuato ad allenarsi con molti stati dell’Indo-Pacifico.

  • Stripes” dà notizia che dal 1° al 14 ottobre si sono tenuti gli addestramenti combinati realistici “Rimpac22”con i mitici Himars insieme agli F-35BS in Hokkaido (coinvolte pure le forze militari filippine e coreane). Svolgono il ruolo di esibizione muscolare che s’incunea nelle strategie che regolano gli equilibri nell’Indo-Pacifico.
    Il “Kamandag” – abbreviazione di “Kaagapay Ng Mga Mandirigma Ng Dagat”, ovvero “Cooperazione dei guerrieri del mare” – è iniziato nel 2017 come sostituzione dell’esercitazione di sbarco anfibio su larga scala “Phiblex”. Inizialmente era incentrata sull’assistenza umanitaria e sulla risposta ai disastri.
    L’addestramento ha coinvolto la nave d’assalto anfibio USS “Tripoli” che trasporta i caccia stealth F-35B Lightning II del Marine Fighter Attack Squadron 121
    I Marines hanno anche volato con MV-22 Ospreys, CH-53 Sea Stallions, UH-1Y Venoms, AH-1Z Vipers e KC-130J Super Hercules durante le esercitazioni. L’F-35B è la versione a decollo corto e atterraggio verticale del caccia d’assalto congiunto, progettato per il supporto aereo dei Marines a terra.I Green Knights avevano già schierato 14 jet a bordo della Tripoli durante un pattugliamento del Pacifico quest’estate e inviato altri aerei in Australia per l’esercitazione biennale “Pitch Black”, che ha coinvolto oltre 100 aerei di 17 nazioni in agosto e settembre. Il Giappone è stato coinvolto con 1400 uomini soprattutto per addestramento agli Himars, AT-4 e Javelin, a cui si affiancano sistemi giapponesi di multilancio di razzi (Type 12 Surface-to-Ship Missile – 12SSM della Mitsubishi).
  • Le esercitazioni sono da intendersi in risposta a quelle congiunte operate a luglio dagli eserciti russo e cinese a stringere l’arcipelago nipponico che aveva richiamato “Formiche”, che veva seguito gli spostamenti delle navi russe (il cacciatorpediniere “Marshal Shaposhnikov”, la corvetta “Gremyashchiy” e la nave da supporto “Pechanca”) che avevano avvolto in una tenaglia l’arcipelago, con il supporto della fregata cinese “Jaingwei II”, intorno alle isole Shenkaku/Diayou, contese, come le Paracel. La Russia ha aumentato il livello di ingaggio dei conflitti antinipponici per le altrettanto disputate isole Kurili/Spor e Putin aveva estromesso la Shell e due aziende giapponesi da ogni pretesa di partecipare all’estrazione del gas intorno alle Sakhalin e già a giugno una ventina di navi militari vi erano state mandate in esercitazione prima che il premier nipponico Fumio Kishida prendesse il volo per il vertice Nato di Madrid:
  • In totale si sono mosse venti navi da guerra, di cui 4 cinesi e 16 russe. La crociera cinese è durata dal 12 al 19 giugno, poi le quattro navi (un cacciatorpediniere classe Type 055, uno di classe Type 052D e una nave di rifornimento Type 901 e una nave spia Type 815) hanno preso il largo per il Pacifico. Quelle cinesi si sono mosse in diversi momenti, ma sempre in quegli stessi giorni: tra le corvette e i cacciatorpedinieri impiegati, due di classe Udaloy, insieme ad alcune delle corvette della classe Steregushchiy, e al “Marshal Krylov” ha fatto rifornimento ovest dal Mare di Okhotsk verso il Mar del Giappone, durante esercitazioni nel Mar Cinese Orientale e nel Mar delle Filippine

 «È una dimostrazione di forza che trova due ordini di contesti internazionali come ragione. Il primo è più ampio, generale: il Giappone sta costruendo un proprio standing all’interno dell’Indo Pacifico riscoprendo una dimensione da potenza regionale, mentre sta contemporaneamente integrando sempre di più le sue attività con quelle occidentali. E tutto mentre il Giappone ha una linea sempre più chiara nei confronti della difesa di Taiwan davanti alle ambizioni cinesi».

  • E infatti negli stessi giorni il cacciatorpediniere portaelicotteri “Izumo”, ammiraglio della Flotta di autodifesa di Tokyo, ha condotto un’esercitazione congiunta con il cacciatorpediniere “USS Sampson” e ricevuto rifornimento in mare dalla “USNS Rappahannock“. Contemporaneamente, la fregata della marina indiana “Satpura”, quella filippina “Antonio Luna”, l’indonesiana “Gusti Ngurah Rai”, quella della Repubblica di Singapore “Intrepid” e a la corvetta “Lekir” della Royal Malaysian Navy si sono raggruppate per dirigersi verso le Hawaii, dove si trova il quartier generale dell’Indo Pacific Command americano.

  •  «Kishida ha chiaramente segnalato che il Giappone non rimarrà ai margini delle crisi globali. Più che mai sta dimostrando un impegno diplomatico schierato e e si sforza di proteggere la stabilità regionale e l’ordine internazionale basato sulle regole. Ciò si riflette sulla sua presenza allo Shangri-La Dialogue (evento internazionale organizzato a Singapore dall’IISS dove il premier giapponese ha presentato la sua “Vision for Peace”) e nella prevista partecipazione al vertice Nato di fine giugno. L’alleanza del Giappone con gli Stati Uniti è ancora una volta in primo piano nei calcoli strategici di Tokyo sull’Indo-Pacifico» (Elli Katharina Pohlkamp, European Council on Foreign Relations – Ecfr).

  • E si esplicita in particolare nel ruolo di capofila locale nel contrasto dell’atteggiamento aggressivo di Pechino verso Taipei, come segnalava “Formiche” in settembre agganciando l’impegno al riarmo giapponese – e come già documentato in questo Maxistudium di OGzero a maggio e agosto – e ai budget da capogiro per la Difesa nipponica (più di 40 miliardi su 788 del Bilancio delle spese nazionali) in cui sono inseriti anche capitoli di spesa per missili terra-nave a lungo raggio, o Ssm, dotati di un raggio di tiro di circa mille chilometri ottimo deterrente verso le minacce esterne.Un nuovo giro di boa attende poi una decisione essenziale di Tokyo, che sancirebbe definitivamente il cambio epocale da 70 anni a questa parte, perché è evidente che se si ritiene indispensabile cambiare la Costituzione perché pacifista, significa che in una contingenza storica di guerra si sente il bisogno di passare a una Costituzione bellicosa: una follia che decreterebbe l’ingresso in un’epoca di guerra ed è proprio quello che “AgenziaNova” riporta il 18 novembre. La notizia viene riportata proprio come conseguenza del fatto che il Giappone non ha potuto rifornire Kyiv con i missili anticarro richiesti (Type 12 Surface-to-Ship Missile – 12SSM della Mitsubishi), perché la Costituzione impedisce al Giappone di esportare sistemi e tecnologie di difesa.

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La guerra viene con le armi: lo spaccio nel 2022

L’anno si inaugura con la paura di una guerra che avrebbe potuto essere nucleare in Europa col confronto diretto tra potenze globali, o presunte tali… e lo sviluppo di quella guerra più prossima alla sensibilità occidentale delle “proxy war” fatte combattere lontano procede tra il grottesco delle scenografie imperiali otto-novecentesche e le stragi chirurgiche di armi strategicamente digitali, fino alla “arma segreta” che non può mancare nel delirio dei guerrafondai di ogni secolo.
E infatti questo dossier nasce da un’idea di ricostruzione à rebour: monitorando il bisogno – e dunque l’acquisto – di un’arma si può ricostruire la nascita e l’area che può interessare la prossima guerra, il futuro dissidio, l’ennesimo scoppio di un conflitto.
Nel mondo infinite sono le proxy war, combattute per procura da quelle stesse potenze o altre regionali; molti sono i conflitti a sfondo religioso, che coprono la rapacità di multinazionali che affidano i loro interessi a milizie, o a stati impegnati in scontri con i vicini, o a soffocare secessioni su base coloniale; altrettante sono le lotte contro il neocolonialismo predatore.
Questi bombardamenti, le conseguenti battaglie e stragi… sono rese possibili dallo spaccio di armi: il traffico, ma anche gli accordi tra stati, gli scambi con la droga, o di favori geopolitici. Le fiere che espongono, propongono e vendono ordigni.
Abbiamo pensato di inaugurare l’anno cercando di raccogliere tutte le notizie, le inchieste, gli svelamenti che nell’anno 2022 stanno avvenendo, cercando quanti più dati possibile relativi al traffico di armi mondiale.



GENNAIO FEBBRAIO MARZO APRILE MAGGIO GIUGNO LUGLIO AGOSTO SETTEMBRE OTTOBRE NOVEMBRE




Lo spettacolo può cominciare


Il monitoraggio lungo un anno si è concluso, ottenendo una messe di dati, analisi, considerazioni che abbiamo già proposti in questo dossier, mantenendo come stella polare l’intuizione che ci aveva spinti a tentare di seguire i flussi di armi (quelli denunciati) per vedere dove confluivano e quindi dimostrare che le guerre si preparano industrialmente con largo anticipo sui pretesti politici in base a una strategia. Avevamo pensato di avviare questa attività nel novembre 2021, tre mesi prima che si manifestasse l’innesco del rivolgimento degli equilibri globali con l’“Operazione militare speciale” a rivendicare militarmente un multilateralismo effettivo con lo scopo di informare l’Occidente che la sua centralità è perduta, o almeno messa in discussione. Sicuramente è stato un anno particolare per operare questo monitoraggio, ma – andando a rileggere le schede di questi mesi – risulta palesemente emblematico di come funziona la filiera delle armi e come si concatena con le strategie geopolitiche, in funzione dei bisogni politico-militari, e con una ricerca scientifica sempre più ““dual”, a sancire una sempre maggiore militarizzazione della società civile.

Tutto questo ha fornito basi utili per passare alla consueta seconda fase degli Studium: l’approfondimento che prende corpo in un volume di più ampio respiro, realizzato in collaborazione con l’Atlante dei Conflitti  e delle Guerre del Mondo. Con questo intento OGzero ha affidato ad alcuni complici-esperti la disamina della condizione del mercato delle armi nelle singole aree, o negli aspetti legati a ricerca, logistica, produzione… strategie belliche. Gli estensori dei singoli paper sono Gabriele Battaglia, Roberto Bonadeo, Murat Cinar, Raffaele Crocco, Marco Cuccu, Alessandro De Pascale, Angelo Ferrari, Emanuele Giordana, Antonio Mazzeo, Alice Pistolesi, Eric Salerno, Carlo Tombola, Massimo Zaurrini.

Il dato che spicca rispetto alla motivazione iniziale del monitoraggio è che gli spostamenti di armi hanno assunto un movimento centrifugo di diffusione capillare con una richiesta sempre maggiore e globale (segno che il presente o probabile coinvolgimento è percepito come urgente approvvigionamento da parte di ogni area), e anche centripeto rispetto alle aree in cui è già esploso il conflitto (e dove si concentrano maggiormente le armi, sempre però seguendo un criterio che informa il singolo conflitto, sempre mantenuto nei canoni che i contendenti decidono – altro aspetto rilevato dal percorso operato in questo focus annuale).

Tuttavia non è più la fase in cui si segue il traffico per trovare un nuovo conflitto, ma la “guerra” è già dovunque e sempre di più è richiesto l’allineamento a uno schieramento… e ciascuno è tenuto all’interno del suo campo a riarmarsi e assorbire la sua parte di prodotti bellici. Questo è lo sfondo su cui sono andati a incastonarsi i preziosi contributi degli autori sopraelencati, che vanno a comporre il volume di 264 pagine dense di informazioni e analisi,  a cui corrisponde un e-pub che contiene il valore aggiunto di numerosi collegamenti interattivi.



Dicembre

21 dicembre

  • La vocazione  israeliana al controllo della Sicurezza globale

Intense relazioni tra esercito, università e aziende italiane con le tecnologie di guerra israeliane

AresDifesa” comincia a parlare il 4 settembre di questa sorta di “droni kamikaze” chiamati Hero-30, facendo illazioni sulla costruzione per forze speciali di un paese occidentale di flotte di queste “munizioni orbitanti”. Ancora non si capiva quale fosse mai il paese occidentale; il 21 dicembre Antonio Mazzeo ci informava che:

«I dirigenti di Leonardo DRS (Arlington, Virginia) hanno reso noto che l’unità commerciale dei sistemi terrestri di St. Louis, Missouri, ha stipulato il 6 ottobre un accordo con la SpearUAV Ltd. di Tel Aviv per sviluppare una versione delle munizioni aeree Viper su scala nanometrica “per andare incontro alle richieste emergenti di molteplici clienti militari statunitensi”» (Antonio Mazzeo blog).

ma a ottobre ancora non era uscita la notizia che dava continuità alla rivelazione sulla classe Hero di settembre. Infatti l’idra multiteste dell’industria dei droni israeliani faceva spuntare una nuova esportazione della tecnologia e della cooperazione con le aziende italiane: i mini-droni kamikaze sono stati lanciati ufficialmente all’inizio di ottobre quasi in contemporanea all’accordo tra Leonardo e SpearUAV. Una ventina di giorni dopo il ministro della difesa dell’Azerbaijan, Madat Guliyev, ha incontrato l’amministratore dell’azienda Gadi Kuperman per discutere sulla possibilità di rifornire le forze armate azere proprio con le nuove munizioni circuitanti Viper (“Israeldefence”).

Ma nello stesso articolo di Mazzeo si annunciava già la fusione delle due teste (o testate) israeliane: infatti faceva capolino l’accordo italo-tedesco che sarebbe sfociato nella produzione in Italia di loitering munitions su brevetto Uvision; Spear aveva rastrellato finanziamenti per 17 milioni da UVision, che è una macchina da guerra con sedi in India e negli Usa… e sempre a ottobre ha sottoscritto una partnership con la tedesca Rheinmetall per produrre unità autoesplodenti del tipo Hero, perché sono compatibili con mezzi prodotti dall’azienda di Düsseldorf (Boxer, Lynx, Mission Master). E l’accordo coinvolge RWM Italia, preposta a produrre per l’Europa i sistemi Hero (“FightGlobal“).

Già in questo articolo si faceva accenno allo stabilimento di Domusnovas e alla spesa di 4 miliardi stanziati dall’esercito italiano per il munizionamento con Hero-30. Il 23 gennaio “DefenseNews” trova un Avviso di aggiudicazione di appalti nel settore della difesa e della sicurezza per

«acquisizione del Sistema di Munizioni a guida remota, denominato «Loitering Ammunition» (LA) HERO-30 e relativo supporto tecnico-logistico, a soddisfacimento delle esigenze operative urgenti (Mission Need Urgent Requirement, MNUR) del Comparto Forze Speciali» (MINISTERO DELLA DIFESA – SGD/DNA- DIREZIONE DEGLI ARMAMENTI AERONAUTICI E PER L’AERONAVIGABILITÀ)

Il bando indica come vincitore dell’appalto RWM Italia S.p.A con sede a Ghedi, nel Bresciano. Nel 2021, UVision ha firmato un accordo strategico con l’entità italiana per la produzione su licenza e lo sviluppo di munizioni vaganti di tipo Hero. La partnership vede RWM Italia in qualità di prime contractor per il mercato europeo, fornendo e producendo alcuni componenti di munizioni, sistemi di assemblaggio e gestendo il supporto logistico.

Ma le partnership italo-israeliane hanno una lunga tradizione, soprattutto in rifornimenti da parte israeliana, intensificati dal 24 febbraio in funzione antirussa. Come il caso dei due sofisticati aerei di pronto allarme e intelligence da destinare alle cosiddette «missioni speciali» dell’Aeronautica militare CAEW (Conformal Airborne Early Warning & Control System) basati sulla piattaforma del jet Gulfstream G550 sviluppato dall’azienda statunitense Gulfstream Aerospace, appositamente modificato e potenziato dalla israeliana Elta Systems Ltd, società del gruppo IAI, acquistati il 13 settembre 2022 dal dimissionario Mario Draghi per 550 milioni di euro, come ricordava “il manifesto”; questi due velivoli si vanno ad aggiungere agli 8 aerei spia acquistati per quasi un miliardo e mezzo nel 2020 sempre da Elta.

Il soldato e la sua macchina: l’estensione del fantaccino con la sua protesi kamikaze

Ma la spesa era già lievitata l’anno precedente: infatti la notizia sull’ennesimo folle progetto bellicista del governo e delle autorità militari è stata data da “Milex”, l’Osservatorio sulle spese militari nel novembre 2021: il costo complessivo del programma è stimato in 3,878 milioni di euro in cinque anni, ma il ministero della Difesa ha voluto precisare che in sede di negoziazione del contratto «sarà ritenuta ammissibile una deviazione negli oneri del 10%”. Come dire che alla fine, se tutto andrà bene, i contribuenti italiani si faranno carico di 4,266 milioni di euro».

L’ultima notizia in ordine di tempo  – raccapricciante perché coinvolge accademia (università di Bari), enti locali (comune di Bari) – ripresa da “PagineEsteri”: un classico esempio di dual use questo progetto “Drone-Tech”, che prevede l’uso di droni israeliani per la ricerca di discariche abusive… che poi potrà svolgere le medesime funzioni di controllo e missione in territorio di guerra. Partner sarebbero il Distretto Tecnologico Aerospaziale pugliese (in cui spiccano le Università del Salento-Lecce e “Aldo Moro” di Bari, il Politecnico di Bari, l’Enea, il Cnr, Leonardo SpA, Avio Aereo, IDS – Ingegneria dei Sistemi) e High Lander Aviation Ltd, società con sede nella cittadina israeliana di Ra’anana, nei pressi di Tel Aviv, tra i collaboratori della quale si annovera il gruppo Sightec che ha fornito al colosso industriale IAI – Israel Aerospace Industries – le tecnologie di scansione impiegate a bordo di “MultiFlyer”, il nuovo piccolo drone-elicottero immesso nel mercato per svolgere un largo numero di operazioni dual, civili e militari-securitarie, come ha serenamente riferito all’Ansa il presidente del Distretto Aerospaziale Giuseppe Acierno:

«Siamo contenti di essere stati ritenuti idonei al programma di cooperazione industriale italo-israeliano sostenuto dal ministero degli Esteri. Il consolidamento della nostra collaborazione con i partner israeliani ci aiuta a stare vicino ai livelli più alti di innovazione e ci permette di rafforzare collaborazioni con un Paese che rappresenta l’eccellenza mondiale nel campo dei droni. Il progetto continua nello sforzo di rafforzare ed internazionalizzare le conoscenze e le capacità che il Distretto Tecnologico sta capitalizzando nella sperimentazione di servizi innovativi con droni per Bari Smart City e avvicina il sistema aerospaziale israeliano, tra i più avanzati e dinamici, a quello pugliese, per generare nuove opportunità per lo sviluppo di competenze e nuove forme di imprenditorialità».


  • Israele è comunque al centro di tutto il traffico d’armi in Europa e Medio Oriente

  • La Germania ha iniziato a settembre (si evince da un agenzia della Reuters) trattative per acquistare il sistema di difesa missilistico Arrow 3 da Israele, una parte dei 100 miliardi stanziati da Berlino per ammodernare la Wehrmacht dopo l’invasione dell’Ucraina. Gli intercettori Arrow 3 sono progettati per volare oltre l’atmosfera terrestre, lì le loro testate si staccano per trasformarsi in satelliti che inseguono e colpiscono i loro bersagli. Questi abbattimenti ad alta quota hanno lo scopo di distruggere in modo sicuro i missili nucleari, biologici o chimici in arrivo
  • E gli Usa triangolano con Israele per far pervenire armi all’Ucraina, come esposto dal “NYT“: il Pentagono sta attingendo a una vasta ma poco conosciuta scorta di munizioni americane in Israele, accumulata nelle molte missioni “umanitarie” mediorientali. Israele ha costantemente rifiutato di fornire armi all’Ucraina per paura di danneggiare le relazioni con Mosca: un rapporto di interesse per Israele che porta dal 2013 raid aerei all’interno della Siria per bloccare il passaggio di armi con cui i pasdaran riforniscono gruppi armati come Hezbollah o quelli palestinesi. Sorvola così i cieli di Damasco sotto il controllo russo; la Russia non vedrebbe questa recente mossa come un cambiamento di politica da parte di Israele, perché non si tratta di munizioni israeliane.
  • Un dato significativo in ambito mediorientale è quello della vendita agli Emirati del sistema di difesa aerea israeliano Barak. I primi abboccamenti erano avvenuti a gennaio in seguito agli attacchi con droni Houthi. Gli Emirati Arabi Uniti si erano cominciati a rivolgere a gennaio 2022 a Israele in seguito agli attacchi Houthi portati con i Qasef 2K di fabbricazione iraniana, come avevamo già riportato nella scheda del 17 gennaio). Non è chiaro quale versione del Barack sia stata impiegata, poiché Israel Aerospace Industries produce una famiglia di sistemi moderni basati sul Barak-8 originale. Originariamente progettato e coprodotto con l’India per essere un sistema navale, il Barak è stato modificato e aggiornato per funzionare con le forze terrestri. La IAI ha rifiutato di commentare questo rapporto. Una versione potenziale, il Barak-MX, è stata recentemente acquistata dal Marocco. Secondo IAI, si tratta di un sistema di difesa cinetica progettato per difendere da una serie di minacce aeree di giorno e di notte e in tutte le condizioni atmosferiche; può essere utilizzato con una serie di intercettori diversi la cui gittata va da 35 chilometri a 150 chilometri.
  • Dalla firma degli Accordi di Abraham nel 2020, che hanno normalizzato le relazioni tra Israele, Bahrein, Emirati Arabi Uniti e Marocco, le aziende israeliane del settore della difesa hanno cercato di scoprire i nuovi potenziali clienti.
  • «Sono già stati conclusi oltre 3 miliardi di dollari di nuovi affari nella regione» (“BreakingDefense”)

    Il cliente più recente di Uvision è l’Argentina, il primo paese latinoamericano ad acquistare le munizioni Hero-120 e Hero-30.


  • Ma è soprattutto l’aspetto di sperimentazione e messa in pratica che Tsahal mette a disposizione, fedele alla regola per cui si vendono solo macchine sperimentate sul campo: questa è testimoniata dalla nuova vita degli Apache, elicotteri per il prossimo quarto di secolo, la modernizzazione eseguita dalla Boeing, come rivelato a ottobre da “BreakingDefense“, dotati di missili Spike, sperimentati da Israele (ma con interessi anche francesi) nella esposizione di “DefenseNews” si assiste a una collaborazione tra Lockheed Martin e Rafael Advanced Defense Systems che hanno recentemente completato dei voli di prova in Israele per prepararsi a uno scontro a fuoco; queste esercitazioni permetteranno di scegliere l’arma di precisione a lungo raggio da montare sugli AH64-E Apache.

    Le munizioni a lungo raggio per i futuri velivoli dell’esercito saranno fondamentali per impegnare le posizioni difensive del nemico da una distanza confortevole, ovvero al di là del raggio di rilevamento del nemico e lo Spike Non-Line-of-Sight è stato reso compatibile con il lancio dal Modular Effects Launcher, in ase di sviluppo per l’esercito statunitense.

tayfun


Sulla base dell’Accordo di Cooperazione nel campo della Ricerca e dello Sviluppo Industriale, Scientifico e Tecnologico tra Italia e Israele, nel corso del 2022 sono stati individuati i seguenti progetti ammessi a ricevere un sostegno finanziario da parte del Ministero degli Affari esteri e della Cooperazione internazionale:

  • Drone Tech – partner: Distretto Tecnologico Aerospaziale e High Lander Aviation Ltd.
  • ASTI Auto System THA Insertion – partner: Politecnico di Torino/Intrauma S.p.A. e Value Forces Ltd.
  • We –CAT – partner: Università di Milano Bicocca e Bar Ilan University.
  • GreenH2 – partner: Politecnico di Milano e The Hebrew University of Jerusalem.
  • Hydrogen Sensors – partner: Università degli Studi dell’Aquila e Tel Aviv University.
  • IVANHOE – partner: Università degli Studi dell’Aquila e Ben Gurion University of the Negev.
  • Bio-SoRo – partner: Sapienza Università di Roma e Ben Gurion University of the Negev.
  • F2SMP – partner: Università degli Studi di Pavia e Technion Israel Institute of Technology.
  • C-IGrip – partner: Fondazione Istituto Italiano di Tecnologia e The Hebrew University of Jerusalem.
  • BIONiCS – partner: Università degli Studi di Genova e Tel Aviv University.

11 dicembre

      • Tayfun e le ambizioni neo-ottomane di uno stato militarista

            • Qualche anno fa si è cominciato a mettere in dubbio il concordato mondiale che vedeva l’Onu come il luogo dove arginare la possibilità che un autocrate potesse scatenare una nuova guerra mondiale. Le picconate conclusive su quel poco di autorevolezza che l’Onu aveva ancora fino a pochi lustri fa sono arrivate da Trump e da lì è come se tutte le democrature avessero capito che era saltato il tappo che doveva aiutare a comporre i conflitti riducendo (se non annullando, come nel primo dopoguerra) l’importanza della forza bruta.
              Tra chi ha sfruttato maggiormente questo nuovo modo di affrontare i conflitti e le dispute mondiali ci sono i paesi che animano quello che si può ormai definire il Protocollo di Astana, periodico incontro tra potenze locali, per regolare una sorta di paradossale alleanza spartitoria tra la Russia, l’Iran e la Turchia. Se la prima si è lanciata nell’avventura ucraina che procede innanzitutto facendo carta straccia della diplomazia dell’Onu, la Turchia ha già assestato qualche colpo alla Nato, l’altro apparato militare occidentale, annunciando l’offensiva sia verso il Rojava, sia verso la Grecia: l’11 dicembre “Ekatimerini” riporta la consueta serie di bellicose dichiarazioni elettoralistiche del bullo Erdoğan contro la Grecia (altro membro Nato), minacciando di colpire Atene con un missile Tayfun, «se non rimarrete calmi». Qualche giorno prima il ministro degli Esteri turco Mevlut Čavusoglu ha minacciato la Grecia di invaderla se non smilitarizzerà le sue isole del Mar Egeo, ha detto che la Turchia «arriverebbe all’improvviso da un giorno all’altro», un’espressione che i funzionari turchi amano usare spesso.Il problema è che il bullo dispone già del secondo esercito più potente della Nato e il tredicesimo per forza armata attiva disponibile. E sta riarmandosi a ritmi forsennati, procurandosi ogni tipo di armi e «dato che l’anno prossimo la Grecia dovrà affrontare una doppia elezione, in cui è probabile che tra le due tornate elettorali si insedi un governo di transizione, i funzionari governativi temono che Erdogan possa far coincidere l’incidente con questo periodo di minore stabilità della politica greca».

              • “Future Defense” ha lanciato una serie di video su YouTube per avvertire dell’iperattivismo turco:

              .

              Si comincia con il 14 ottobre: nel video si assiste alle mirabolanti imprese del quadruplo missile da crociera turco da imbarcare su fregate

              • Roketsan, continua a lavorare sul Sistema di Lancio Verticale Nazionale, chiamato Mildas, e sui missili di difesa aerea che saranno utilizzati in esso; l’obiettivo finale è quello di integrare il Quad-Pack funzionale, con la capacità di lanciare più missili da crociera. Le fregate della classe Istif, o TCG Istanbul, avranno un sistema di lancio verticale a 16 celle. e Se il pacchetto funzionale Quad-Pack sarà integrato nel sistema di lancio verticale, ogni cella potrà essere equipaggiata con 4 missili di difesa aerea.
                In questo modo, invece di 16 missili pronti a sparare, il sistema avrà 64 missili di difesa aerea.

                • Altro prodotto Roketsan è il missile Sungur, mostrato in questo video del 10 dicembre 2022 di “Military Coverage”:
                • Il Sungur Air Defense System è un sistema missilistico di difesa aerea a corto raggio integrato nel veicolo blindato tattico a ruote Vuran, ha 8 chilometri di gittata; se da un lato il sistema missilistico aumenta l’accuratezza nel colpire i bersagli grazie alla tecnologia Imaging Infrared Seeker (IIR), dall’altro presenta un importante vantaggio nella distruzione dei bersagli aerei grazie alla sua testata, che ha una potenza esplosiva superiore a quella dei sistemi simili disponibili nell’arsenale di Ankara.
                • E non poteva mancare il nuovo gioiello Baraktar: Kızılelma il regalo di Natale per i vicini ellenici: un caccia senza pilota supersonico, descritto su “DefenseNews“:
              • Il Kızılelma può rimanere in volo fino a 4-5 ore, controllato via satellite attraverso l’antenna Satcom. È alimentato da motori turbofan AI-322F dell’azienda ucraina Ivchenko-Progress.
                Il jet è dotato di un radar Aesa costruito da Aselsan e sarà in grado di lanciare missili aria-aria Bozdogan e Gokdogan. Per la guerra di superficie, il futuro aereo senza pilota sarà armato con missili da crociera SOM-J con una gittata di oltre 250 km e bombe guidate della famiglia MAM, prodotte da Roketsan, per missioni di piccolo attacco
              • Di questi droni supersonici è dotata la nave d’assalto Anadolou una nave strategicamente diventata portadroni quando gli Usa vietarono l’acquisto di F35 alla Turchia, questa ammiraglia vanta a bordo anche elicotteri d’attacco AH-1W SuperCobra e S-70 Seahawk.

          • A cui si aggiunge Anka-3, presentato all’“INDO Defense Expo & Forum 2022” di Jakarta, tenutosi a novembre e illustrato in questo video natalizio:
        • Il sistema, sviluppato sulla base dell’esperienza acquisita con i droni della classe Anka, è stato presentato in anticipo sulle previsioni (e non è una buona notizia): con un motore a reazione turbofan, il drone avrà un peso massimo al decollo di 7000 chili e sarà in grado di trasportare non solo sensori per la sorveglianza, ma anche armi. Il vicepresidente turco Fuat Oktay ha dichiarato che l’Anka-3 sarà in grado di colpire i sistemi di difesa aerea nemici. L’Anka-3 assomiglia al drone multiuso X-47B di Northrop Grumman, che ha volato per la prima volta quasi 12 anni fa e ha una velocità di crociera di quasi 1000 km/h.
          Una delle aspettative per l’ANKA-3 è che sia in grado di operare in tandem con il futuro caccia turco TF-X, un’altra piattaforma prodotta da TAI.

    La Turchia a novembre aveva messo in servizio dalla Marina turca il suo nuovissimo Ucav Aksungur Male nell’ambito dell’esercitazione navale “Mavi Vatan 2022”, caricando munizioni teleguidate Mam-L di produzione nazionale su un bersaglio di superficie, una nave militare. L’Aksungur può svolgere missioni di intelligence, sorveglianza, ricognizione e attacco in tutte le condizioni atmosferiche, di giorno e di notte, con un’elevata capacità di carico utile di 750 kg, può rimanere in volo per 60 ore.

      • Risale al 6 dicembre il lancio di “NavalNews” relativo ai sottomarini nucleari targati Type 214TN, Nell’ambito del progetto, il primo sottomarino, il Piri Reis, in costruzione presso il cantiere navale di Golcuk, è stato varato nel 2019 e ha galleggiato in acqua nel marzo 2021. Il secondo sottomarino Hizir Reis, entrato in bacino di carenaggio il 24 maggio 2022, dovrebbe entrare in servizio nel 2023. A partire da quest’anno, sarà commissionato un sottomarino all’anno e 6 sottomarini della classe Reis saranno consegnati alla Marina turca entro il 2027. La Marina turca dispone di una flotta di 12 sottomarini composta da quattro classe Ay (Tipo 209/1200), quattro classe Preveze (Tipo 209T/1400) e quattro classe Gür (Tipo 209T2/1400), tutti sottomarini d’attacco a propulsione convenzionale (diesel-elettrica). Entro il 2027, la Turchia opererà con sei sottomarini AIP classe Reis.
      • La classe Reis porterà benefici non solo alla Marina turca, ma anche alla base tecnologica e industriale della difesa turca. Il know-how e l’esperienza acquisiti con il progetto del sottomarino classe Reis saranno un forte riferimento per i sottomarini indigeni che saranno costruiti nell’ambito del progetto del sottomarino nazionale (Milden), attualmente in fase di progettazione e la cui costruzione è prevista per il 2030. Molti subappaltatori turchi, tra cui ASELSAN, HAVELSAN, MilSOFT, Defense Technologies Engineering and Trade Inc. (STM), Koç Information and Defense, Scientific and Technological Research Council of Turkey (TÜBİTAK) e AYESAŞ, stanno lavorando ai sottosistemi dei sottomarini della classe Reis, come il sistema di navigazione e gestione dei dati, il collegamento dati, il sistema di contromisure per i siluri.I sottomarini della classe Reis di tecnologia tedesca sono caratterizzati da un sistema di propulsione basato sulla cella a combustibile di Howaldswerke-Deutsche Werft (HDW). I sottomarini hanno una lunghezza di 68,35 metri, un diametro esterno di 6,3 metri, un dislocamento di 1850 tonnellate e una capacità di 40 persone. ThyssenKrupp Marine Systems ha costruito i sottomarini della classe Reis nel cantiere turco di Golcuk, come da contratto del 2009. Il sottomarino è in grado di effettuare dispiegamenti di lunga durata senza dover fare snorkeling. Sono dotati di siluri pesanti (MK48 Mod 6AT e DM2A4), missili antinave (Sub-Harpoon) e mine. Il siluro pesante turco Akya e il missile antinave Atmaca dovrebbero essere montati sui prossimi sottomarini del progetto. I sottomarini della classe Reis saranno in grado di svolgere missioni come operazioni in acque litoranee e pattugliamenti oceanici, comprese operazioni antisuperficie e antisommergibile, compiti ISR e operazioni di forze speciali; sembrano fatti apposta per il controllo delle acque greche.
      • E ciliegina finale su questa torta di miliardi e arsenali micidiali, il missile balistico alluso da Čavusoglu all’inizio di questa scheda: il nuovo missile balistico con una portata di 1000 chilometri: il Tayfun

tayfun


La Grecia dal canto suo nell’ultimo anno ha principalmente posto la sua attenzione su Corvette (in acquisto da Fincantieri), ma partecipa anche all’accordo europeo tra Francia, Germania, Italia, Olanda e Gran Bretagna per lo stanziamento di 28 milioni di dollari per il progetto Next-Generation Rotorcraft Capability (NGRC) per la produzione di un elicottero le cui caratteristiche dovranno essere definite dai committenti: «In collaborazione con l’industria, i partecipanti partiranno da zero per esplorare come abbinare le loro esigenze con le più recenti tecnologie sul mercato, esaminando opzioni come la propulsione ibrida ed elettrica, un’architettura di sistema aperta e sistematica e la fornitura di caratteristiche di volo radicalmente migliorate», si legge nel comunicato della presentazione a Eurosatory.

NGRC

La Grecia ha presentato Archytas, il suo drone dual use all’expo di Salonicco, una macchina dedita al pattugliamento di confini di mare e di terra.
Rispetto ai caccia: alla Turchia non sono concessi quelli più performativi e schierano “soltanto” gli F-16, invece i greci fanno parte del progetto F-35, lo stesso che dopo l’incidente di natale ha spinto American Aircraft Production Administration a lasciare a terra i velivoli in attesa di accertamenti.

5 dicembre

    • Licenza di (contro)spionaggio per DigitalPlatforms: il certificato TEMPEST

      • Formiche” informa che il gruppo industriale italiano DigitalPlatforms è entrato nell’elenco delle aziende classificate e abilitate come produttori TEMPEST sia dal Consiglio dell’Unione europea sia dalla Nato. Gli apparati Tempest consentono una difesa totale da attacchi elettromagnetici; è una sigla della Nsa (National Security Agency) statunitense. TEMPEST ((Telecommunications Electronics Material Protected from Emanating Spurious Transmissions) riguarda sia i metodi per spiare gli altri sia le modalità di schermatura delle apparecchiature contro tale spionaggio. Gli sforzi di protezione sono noti anche come sicurezza delle emissioni (EMSEC), che è un sottoinsieme della sicurezza delle comunicazioni (COMSEC).
        I servizi TEMPEST e di Sicurezza Elettromagnetica supportano i clienti nella comprensione e nella gestione del livello di segnali emessi dalle apparecchiature che possono rivelare dati sensibili: cioè TEMPEST rileva attraverso standard di certificazione quanto sia vulnerabile il sistema informatico-comunicativo di cui ci si avvale e mette in atto contromisure al rischio di trasmettere involontariamente informazioni.
        Gli standard TEMPEST prescrivono elementi quali la distanza delle apparecchiature dalle pareti, la quantità di schermatura negli edifici e nelle apparecchiature e la distanza che separa i cavi che trasportano materiali classificati da quelli non classificati (Nsa).
      • La Fondazione ICSA , di cui è presidente il generale Leonardo Tricarico, ha organizzato sempre per il 5 dicembre 2022 l’evento “Difesa della sovranità digitale ed elettromagnetica. La tecnologia TEMPEST per la protezione dei sistemi informatici da interferenze ed intercettazioni elettromagnetiche
    • «L’iniziativa nasce dalla considerazione che l’esito degli ultimi conflitti bellici globali e, soprattutto, il protrarsi della guerra russo-ucraina nel cuore dell’Europa, impongono un urgente aggiornamento della dottrina militare e dei modelli di intervento in direzione di un significativo irrobustimento dell’approccio multidominio MDO (Multi Domain Operations) e delle attività CEMA (Cyber Electromagnetic Activities) per la sicurezza militare e nazionale» (gen. Leonardo Tricarico, “SNews”).

      L’evento Icsa intendeva incrementare la conoscenza e la diffusione della cultura del TEMPEST ed è interessante notare la coincidenza dell’evento con la certificazione attribuita a DigitalPlatforms

  • Il target dei servizi TEMPEST è rivolto a clienti che sono forze armate nell’ambito Nato. Un fornitore di prodotti TEMPEST ha dimostrato di aver soddisfatto una serie di criteri per ottenere la certificazione del proprio prodotto. Questo dà agli utenti finali la certezza che i prodotti soddisfino i requisiti TEMPEST. Tra questi spiccano gli elicotteri AW149 di Leonardo UK
  • , come attesta il National Cyber Security Centre britannico (macchina da guerra in gara per una fornitura di 44 esemplari al governo britannico per 1,2 miliardi).
  • Il 5 e 6 gennaio 2023 si terrà a Shanghai il quarto appuntamento dell’Asia Cybersecurity Innovation Summit che intende monitorare gli investimenti nella sicurezza in rete: la previsione è che l’investimento totale in hardware, software e servizi legati alla sicurezza di rete a livello globale aumenterà fino a 223,34 miliardi di dollari nel 2025, con un tasso di crescita composto (CAGR) quinquennale del 10,4%. La stima della spesa cinese sarà di 21,46 miliardi di dollari, crescendo del 20,5%. Questo evento combinerà in modo completo politiche e normative per fornire una piattaforma completa di apprendimento e comunicazione per i professionisti della tecnologia della sicurezza di rete e delle normative.

5 dicembre

    • Il mercato si spartisce

      • Di nuovo come per gli ultimi anni si assiste a un incremento degli investimenti per costruire e dotarsi di armi nel bilancio della difesa italiana, parallelo aumento a quello della vendita mondiale di ordigni. Si ricava dai dati dell’Osservatorio Milex e dal rapporto annuale del Sipri svedese, alle cui informazioni avevamo già attinto per l’editoriale di ottobre riguardo all’import/export tra il 2017 e il 2021.

        «Il rapporto del Sipri, l’istituto svedese che monitora il commercio mondiale delle armi, è dedicato alle  “Top 100 arms companies” ed è stato reso pubblico il 5 dicembre. Dice che le vendite di armi e servizi militari da parte delle 100 più grandi aziende del settore hanno raggiunto 592 miliardi di fatturato nel 2021, un aumento dell’1,9 per cento rispetto al 2020 in termini reali. Aggiunge che l’aumento segna il settimo anno consecutivo nella crescita globale della vendita di armi. I dati sono di prima della guerra in Ucraina».

    • così sintetizza Emanuele Giordana sull’“Atlante delle Guerre”, che nell’occhiello riassume: «A causa della pandemia e della crisi nella logistica rallenta la produzione ma il saldo del commercio mondiale delle armi continua ad aumentare. L’Italia conquista posizioni nel Top 100 dei produttori».
      Il rapporto Sipri ci racconta che le vendite di armi e servizi militari da parte delle 100 più grandi aziende del settore hanno raggiunto 592 miliardi di fatturato nel 2021, un aumento dell’1,9 per cento rispetto al 2020 in termini reali e negli ultimi vent’anni l’incremento del valore è stato del 174%, passando dai 201 miliardi del 2002 ai 592 del 2021 e vede Lockheed con profitti doppi (più di 50 miliardi annui) rispetto ai secondi classificati (Boeing e Northrop – circa 30 miliardi a testa) di questa classifica di mercanti di morte, che li vede incalzati a poca distanza da Raytheon, General Dynamics e BAE; dopo il pantheon Usa si trovano 4 marchi cinesi tra 15 e 20 miliardi (Avic, Norinco, Cetc, Casc); poi di nuovo poco sotto le statunitensi L3Harris e United Technologies, di nuovo Casic cinese e 14esima la prima ditta europea (Airbus) con 15 miliardi – azienda transeuropea – subito incalzata dall’italiana Leonardo con un miliardo in meno (13,9). Seguono sotto ai 10 miliardi la russa Almaz-Antey e la francese Thales.
    • Alfonso Navarra (“DisarmistiEsigenti”) scrive che dalle tabelle del ministero della Difesa, del Mise, del Mef riassunte dall’Osservatorio Milex l’incremento della spesa militare italiana raggiunge gli 800 milioni di euro, raggiungendo in previsione per il 2023 i 26,5 miliardi; la spesa per il riarmo italiano del prossimo anno supererà gli 8 miliardi. Esalta il dato con orgoglio “Formiche”:
    • «Le realtà industriali italiane hanno registrato un incremento percentuale nelle vendite militari del 15%, un risultato superiore a quello di tutte le altre regioni (eguagliato solo da Parigi). L’Italia da sola copre il 2,8% delle vendite globali del 2021. Nel dettaglio, nel 2021 Leonardo ha aumentato le sue vendite di difesa del 18%». L’exploit ha una ricaduta non solo a livello globale, dove l’Italia gioca da protagonista, ma anche sull’intero sistema economico, di cui il settore aerospazio, sicurezza e difesa rappresenta un segmento cruciale, anche per i ritorni in termini di tecnologia e innovazione. La crescita delle esportazioni segnala come la bilancia commerciale sia positiva per il comparto Difesa; nonostante la guerra in Ucraina, se da una parte ha innalzato la domanda, abbia avuto anche effetti importanti sulle supply chain di diverse realtà industriali, dato che la Russia è sempre stata un importante fornitore di materie prime necessarie per la produzione».

  • Questa valanga di miliardi ci travolge e lascia attoniti e non si riesce nemmeno a conferirgli una dimensione reale; ma forse il mercato va letto a comparti e allora si riuscirebbe a capire più facilmente come si muove e quali sono le correnti che lo animano: le alleanze tra ditte apparentemente concorrenti, che invece stipulano accordi spartitori per alternare i prodotti proposti ai potenziali clienti, consentono di collocare sul mercato, in tempi regolati dalle aziende stesse, articoli simili con alcune differenze, appetibili da tutti, per poter usufruire dell’intera gamma.Allora alla luce di quella classifica diventa emblematica la vicenda narrata da “BreakingDefense” di L3Harris – 5 posizioni sopra a Leonardo – che nella joint venture per fabbricare aerei da rifornimento con la brasiliana Embraer (il vero outsider, che coglie l’affare) aggira le guerre tra aziende per spartirsi i contratti, concordando due prodotti di scala diversa e prodotti da concorrenti che si spartiscono il mercato, raddoppiando le vendite.
  • Tra il 2012-16 e il 2017-21 si sono verificate diminuzioni complessive delle importazioni di armi in tre regioni del mondo: Americhe (-36%), Africa (-34%) e Asia e Oceania (-4,7%). Nel 2017-21 le importazioni di armi da parte degli stati sudamericani sono state inferiori rispetto a qualsiasi quinquennio degli ultimi cinquant’anni. In controtendenza solo il Brasile, unico stato del Sud America ad avere ingenti consegne di armi in sospeso.
    • Infatti ascrivendo l’Embraer KC-390 alla serie di aerocisterne più piccole e “tattiche” vuol dire escluderlo dal programma KC-Y, il “bridge tanker” che dovrebbe colmare le potenziali lacune tra il momento in cui la parabola dell’imponente KC-46 sarà conclusa e il prodotto della Boeing sarà pronto all’avvicendamento con il suo successore, chiamato KC-Z – dopo il breve interregno del KC-Y, per il quale si sono già schierate le ditte che troviamo in testa alla classifica pubblicata dal Sipri: Boeing, il cui KC-46A aveva vinto la medesima battaglia una decina di anni fa sui rifornimenti – che sono essenziali, e i generali in quiescenza (preposti dovunque alla fureria) ne sono consapevoli –, e un team di Lockheed Martin (primo in assoluto tra i fornitori di armi) e Airbus (prima azienda europea), che sta offrendo una versione dell’A330 MRTT prodotto dal marchio europeo, denominata LMXT per il consumo nazionale – bimotore turboventola multiruolo da trasporto militare e rifornimento in volo, come indicato dalla sigla MRTT, derivato dall’aereo di linea Airbus A330-200.

      In realtà si tratta di un avvicendamento: l’A330 era risultato secondo classificato rispetto al KC-46, e Northrop Grumman è stato il primo contraente statunitense (a completare il gotha delle aziende più importanti del settore bellico). E il “piccolo” KC-390 non è un prodotto in concorrenza, ma complementare, come spiega Kubasik, ceo di L3Harris, il colosso di media caratura che ha fatto l’affare con Embraer, che sta attualmente producendo un totale di 22 KC-390 per le forze aeree brasiliane, e anche Portogallo, Olanda e Ungheria hanno firmato per l’acquisto del velivolo:

    «Penso che il punto chiave che abbiamo detto ai nostri clienti è che questo è complementare, giusto? Voglio dire, avete queste grandi petroliere strategiche molto critiche che trasportano il doppio del carburante, – ha proseguito. – Il carburante è la sfida logistica numero uno per gli aerei, quindi perché non volere più capacità di rifornimento, di dimensioni e forme diverse? Penso che non siamo in competizione con nessun altro. Siamo complementari. Credo che i due strateghi avranno il loro solito botta e risposta. Penso che questo sia – non voglio dire che sia irrilevante per Usaf, ma penso che sia semplicemente “Ok, questo riempie il vuoto”».

  • Nel settore meno spettacolare, ma più sensibile della guerra dei cieli in questo appalto sta la dimostrazione di come quella classifica Sipri rispecchia solo il peso specifico e il potere contrattuale nelle trattative tra le ditte produttrici che si spartiscono e creano il mercato. Alleandosi per una spartizione della torta “senza guerre” (tra loro).

29 novembre

    • I coyotes mondiali

      • Il 29 novembre Defense Security Cooperation Agency pubblicava la notizia della concessione da parte del Dipartimento di stato americano della vendita di sistemi di difesa antidrone per una spesa pari a un miliardo di dollari in cambio di 10 Fixed Site-Low, Slow, Small Unmanned Aircraft System Integrated Defeat System (FS-LIDS) System of Systems, includendo 200 Coyote Block 2 interceptors; e poi Counter Unmanned Electronic Warfare System (CUAEWS); Coyote launchers; Ku Band Multi-function Radio Frequency System (KuMRFS) radars; Forward Area Air Defense Command e Control (FAAD C2); Counter Unmanned Electronic Warfare Systems (CUAEWS).
      • Lo riportava “BreakingDefense” sottolineava come i principali contractor Raytheon, Northrop Grumman and R&D company SRC.A Marzo si leggeva nel rapporto Sipri del confronto tra il 2017-2021 con il decennio precedente e riprendiamo da lì per inquadrare questa notizia novembrina in omaggio all’esiziale mondiale di calcio ottenuto da Doha (che secondo quel dossier aveva incrementato la spesa del 227% rispetto al lustro precedente) con la corruzione di Sarkozy, Platini e Guéant prima e poi con il sostegno di parlamentari europei di sinistra che negano l’evidenza del sistema omicida e criminale del Qatar (ci limitiamo a suggerire che Messi e Mbappé giocano entrambi nel Psg, che è di proprietà dell’emiro di Doha, un caso che la finale sia per magia tra le loro due compagini?): infatti l’Atlante delle guerre riassumeva così la situazione del Medio Oriente a marzo:

        «Si stabilizzano le importazioni di armi in Medio Oriente. Dopo il forte aumento registrato nel decennio precedente (86% in più tra il 2007-11 e il 2012-16) gli stati mediorientali hanno importato ‘solo’ il 2,8% di armi in più nel 2017-21 rispetto a quello precedente. Il conflitto in Yemen e le tensioni tra l’Iran e altri stati della regione restano alla base delle importazioni di armi nell’area. L’Arabia Saudita si conferma un grande importatore, il secondo al mondo, con un 27% in più investito in armi nel periodo 2012-16, rispetto al precedente.
        Le importazioni di armi del Qatar sono cresciute del 227%, spingendolo dal 22esimo importatore di armi al sesto. Al contrario, le importazioni di armi degli Emirati Arabi Uniti sono diminuite del 41%, passando così dal terzo al nono posto. Tutti e tre questi stati, insieme al Kuwait hanno poi effettuato ingenti ordini che prevedono la consegna nei prossimi anni. Nell’area, poi, Israele ha aumentato le importazioni di armi del 19%».

    • E poi le esportazioni statunitensi verso Riyad sono aumentate del 106%. Ma a cosa serve l’enorme quantità di armi, le più disparate per ogni tipo di guerra, sparpagliate per tutta la penisola araba?

Novembre

19 novembre

  • La guerra dei droni da Astana

    • La notizia in autunno sul fronte dell’approvvigionamento dei droni per le attività dell’aviazione russa è che si è raggiunto un accordo per impiantare in tempi brevi  uno stabilimento con la tecnologia iraniana direttamente in territorio russo; a rivelarlo il Washington Post, successivamente rilanciato da tutte le testate del mondo. Come sottolinea “DroneBlog”:

      questo accordo oltre che essere strategico mette in luce ancora di più il rapporto e la cooperazione militare fra Iran e Russia, che sta svolgendo un ruolo chiave in Ucraina. Se il nuovo accordo sarà pienamente realizzato, significherebbe un ulteriore rafforzamento dell’alleanza russo-iraniana. Questo accordo, oltre a migliorare la disponibilità di armi all’esercito russo, toglierebbe dall’isolamento l’Iran, dando una nuova spinta economica a un sistema interno collassato ormai da anni e alle prese con una rivoluzione in atto

  • In piena continuità con gli accordi di Astana, che tanto abbiamo analizzato in OGzero.
    E sempre “DroneBlog” scrive che «finora Teheran ha cercato di presentarsi come neutrale nel conflitto ucraino , ma si scopre che sempre più droni di fabbricazione iraniana vengono utilizzati per attaccare le città ucraine, innescando minacce di nuove sanzioni economiche dall’Occidente». E si insinua una scommessa iraniana sul sostegno che deriverebbe dall’alleanza con Mosca per ricavare valore contrattuale per gli accordi sul nucleare
  •  Peraltro l’industria iraniana dei droni si sta già diffondendo in altri paesi. L’Iran ha aperto a maggio una fabbrica in Tagikistan, che produce il drone Ababil-2, secondo l’Eurasia Times: è stato Zelensky stesso a indicare la strategia di avvicinamento a Mosca da parte di Ankara con fini collegati al Jcpoa.
  • The Guardian” il 10 novembre accusava l’Iran di aver sostenuto militarmente fin dal 24 febbraio l’alleato russo, ma ancora prima “Wired” riportava un sistema rudimentale – ma efficace – di aggiramento delle sanzioni: contanti e baratto.
  • In estate il baratto sarebbe dimostrato dall’atterraggio il 20 agosto di 2 Ilyushin IL-76 arrivati e ripartiti da Mehrabad (la città del kurdistan iraniano martirizzata il 19 novembre dalle guardie della rivoluzione): trasportava in cambio di droni armi occidentali sottratte agli ucraini, necessarie agli ingegneri persiani per carpire le tecnologie. Ipotesi suffragate da immagini satellitari diffuse da SkyNews e da dichiarazioni rilasciate al Washington Post il 29 agosto da funzionari statunitensi.

Un ultima notazione sull’asse russo/iraniano: i droni iraniani Mohajer-6 contengono molte componenti provenienti dalla tecnologia occidentale (in particolare giapponesi,  secondo James D. Brown) – quindi senza che si debbano trasferire ordigni catturati per studio – stando alle rivelazioni di “la Repubblica”; ma, a dimostrazione che lo spargimento di morte tra civili attraverso macchine a controllo remoto non comporta scelte di campo, il Blog di Antonio Mazzeo riporta un’informazione raccolta da “DefenseNews”:

    • «Il regime turco di Recep Tayyp Erdogan finanzierà la produzione di droni-elicotteri e droni-kamikaze per il mercato nazionale e l’esportazione, decisione che non potrà non essere accolta con favore anche in Italia. La società di engineering aerospaziale Titra Technoloji, con quartier generale ad Ankara, riceverà sussidi economici governativi per realizzare il primo modello di elicottero a pilotaggio remoto in Turchia. Denominato “Alpin”, il drone-elicottero sarà prodotto in dieci esemplari all’anno, “in aggiunta a 250 droni kamikaze”».

    • La Malesia ha scelto la Turkish Aerospace Industries per la fornitura di tre velivoli senza pilota, secondo quanto dichiarato dal ministro della Difesa della nazione del Sudest asiatico e ripreso da “DefenseNews”.
      TAI aveva presentato il suo Anka, un sistema di velivoli senza pilota a media altitudine e lunga resistenza, alla fiera della difesa e dell’aerospazio LIMA nel 2019. Il 18 agosto 2022 il re malese Al-Sultan Abdullah ha visitato le strutture di TAI ad Ankara, in Turchia. Il 7 ottobre TAI ha annunciato un memorandum d’intesa per una collaborazione con il MIMOS, il centro di ricerca e sviluppo della Malesia. Ma perché la Malesia è alla ricerca di queste macchine da guerra? Le forze armate e la Guardia Costiera della Malesia sono impegnate nella lotta alla pirateria lungo le sue coste, inoltre è loro demandato a livello internazionale il controllo e l’antiterrorismo nel Mare di Sulu (tra la Malesia orientale e le Filippine meridionali, dunque all’interno del quadro anticinese del noto contenzioso nel mar cinese meridionale sulle Spratly Island e nello strategico controllo dello Stretto di Malacca).
  • La famiglia di droni Anka è in grado di svolgere missioni di ricognizione, acquisizione e identificazione di obiettivi e raccolta di informazioni. È dotata di tecnologie elettro-ottiche/infrarosse e radar ad apertura sintetica. Il produttore afferma che i velivoli hanno capacità di volo autonomo e possono decollare e atterrare da soli.La famiglia di UAV ha un’apertura alare di 17,5 metri e una lunghezza di 8,6 metri, e ha un tetto di servizio di 30.000 piedi. Possono rimanere in volo all’altitudine operativa di 18.000-23.000 piedi per più di 30 ore.
    • A metà ottobre il Kazakistan e la Turchia hanno annunciato l’intenzione di sviluppare una “cooperazione strategica a lungo termine” che preveda la coproduzione di satelliti e altri sistemi spaziali.
    • «Questo è il primo passo di una forte cooperazione con il Kazakistan nel campo dello spazio. Il memorandum d’intesa che abbiamo firmato con le società Kazsat e Ghalam sulla creazione di una cooperazione strategica a lungo termine nei settori dei satelliti e dello spazio sarà vantaggioso per il nostro paese e la nostra nazione» (Ismail Demir, Tai)

    • Infatti in maggio, secondo le informazioni di “DefenseNews“, era stato firmato un protocollo tra Kazakhstan e Turchia per la coproduzione di droni da gettare sul mercato Asean e produrre in quella che è la prima fabbrica di Bayraktar fuori dai confini turchi, con contratto che prevede anche manutenzione e riparazione. E quell’accordo faceva seguito a quello di aprile con il Kirghizistan che aveva firmato per primo un accordo per l’acquisto di un numero imprecisato di droni armati: infatti  Bishkek aveva pregato Ankara di soprassedere alla vendita dei letali droni a Dushanbe, alla luce delle tensioni sul confine (e questo spiega la rincorsa al riarmo dei due paesi dell’Asia centrale, sfruttata da Ankara per raddoppiare le vendite).
  • Il drone può essere equipaggiato con armi come il lanciamissili a lancio aereo Roketsan Smart Micro Munition e la capsula missilistica guidata Cirit da 2,75 pollici nelle due stazioni d’armamento sotto l’ala per ingaggiare veicoli leggermente corazzati, personale, rifugi militari e stazioni radar a terra. Un evidente monito per le mire espansionistiche di Mosca.
    • L’aggressività non solo verso il mercato della industria bellica turca si appropria anche di ricerche straniere, come quelle che consentono al criminale Erdoğan di arrivare al drone-elicottero: infatti Antonio Mazzeo spiega che questo velivolo è un sistema a pilotaggio remoto che potrà essere impiegato a fini civili ma soprattutto per missioni bellico-militari di intelligence e ricerca e soccorso. Il prototipo del drone-elicottero è lungo 7 metri, alto 2,35 e ha un diametro del rotore di 6,28 metri; ciò gli consente di essere trasportato in veicoli di medie dimensioni. Il suo peso non supera i 540 kg compresi apparecchiature elettroniche e carburante. L’”Alpin” ha una velocità di crociera di 160 km/h e può coprire un raggio d’azione fino a 840 km di distanza, a un’altitudine di 5000 m. L’autonomia di volo varia dalle due alle nove ore, secondo la portata del carico a bordo.
      Ma perché abbiamo usato il verbo “appropriarsi”? La risposta è nel Blog di Antonio Mazzeo (che cita “DefenseNews”):
    • «L’Alpin è basato sull’elicottero italiano ultraleggero con equipaggio umano Heli-Sport CH-7». Il CH-7 è realizzato infatti dalla Heli-Sport S.r.l. di Torino, azienda fondata dai fratelli Igo, Josy e Charlie Barbaro e specializzata nel design e produzione di velivoli ad ala rotante di ridotte dimensioni. La società si dichiara però del tutto estranea dalla vicenda.

    • In effetti l’Alpin nasce da un accordo tra la Titra turca e la Uavos californiana per convertire il CH-7 in elicottero a pilotaggio remoto: la trasformazione dei velivoli italiani in droni-elicotteri è stata avviata dalla statunitense Uavos, mentre il primo test di volo è stato effettuato nel dicembre del 2020 nei cieli della Turchia.

«L’Alpin è stato progettato per andare incontro alle richieste specifiche ed uniche della Turchia e agli interessi speciali della sua industria nazionale per operare come sistema a pilotaggio remoto in una varietà di scenari complessi nei campi civili e della sicurezza», riporta la nota emessa da Uavos a conclusione delle attività sperimentali in territorio turco. «L’elicottero convertito è indispensabile per l’industria logistica dei velivoli senza pilota per trasportare carichi in zone difficili da raggiungere e sfornite di campi di atterraggio». E viene subito in mente la configurazione del Rojava.

La Turchia – benché socio alla pari nelle concertazioni strategiche di Astana – produrrà entro due anni i tanto decantati Bayraktar TB2 in Ucraina: benché più leggeri e meno efficienti nel contrasto di un attacco aereo, i droni turchi secondo l’Agi saranno già in grado di contrastare quelli iraniani.

    • «l’Ucraina ha un ruolo di primo piano nella catena di approvvigionamento di Baykar, in particolare con il nuovo drone pesante Akinci e il jet da combattimento senza pilota Kizilelma, attualmente in fase di sviluppo, montano entrambi motori ucraini MotorSich» (“Analisi Difesa”).

Secondo Barayktar molto presto i droni turchi TB2 e Akinci potranno colpire con buona efficacia oggetti in volo grazie all’integrazione del sistema di difesa Sungur prodotto da Roketsan, mentre i droni iraniani sono pesanti e rumorosi, sono obiettivi facili perché volano a bassa quota.

Invece quelli turchi sono stati opzionati anche dal governo polacco, che ha ricevuto a ottobre 6 dei 24 TB2 comprati.

19 novembre

    • Comprare gas dalla Tunisia con veicoli militari antimigranti

      • LaLa Francia ha portato a Djerba 200 milioni di prestiti in occasione della Organisation internationale de la Francophonie; ma ha anche consegnato alla Tunisia il primo lotto di una donazione comprendente cento veicoli militari fuoristrada Masstech T4 prodotti da Technam in occasione della ventinovesima sessione della Commissione militare franco-tunisina svoltasi dal 15 al 17 novembre nella capitale del paese nordafricano e documentata da “Tuniscope”; i veicoli sono palesemente utili nel contenimento dei migranti. L’ambasciata di Francia a Tunisi sulla propria pagina Facebook ha precisato che durante i lavori della commissione è stato tratto “un bilancio molto soddisfacente” in termini di cooperazione bilaterale per il 2022. In particolare, sono state svolte 60 attività in Francia o Tunisia.Ma quella più interessante è volta a ristabilire l’asse militare tra le due sponde mediterranee:

        «Per Saied – afferma il politologo francese Vincent Geisser rilanciato da “Africanews” – ospitare questo vertice è “un successo” perché lo porterà fuori dal suo isolamento almeno temporaneamente. È una sorta di pacificazione nei suoi rapporti con i suoi principali partner occidentali, userà questo evento per legittimare una svolta autoritaria fortemente criticata».

    • In cambio la Francia cerca di comprarsi gas in quella che era la sua casa coloniale.

  • Questo veicolo, costruito a partire da un telaio Toyota Land Cruiser HZJ76, è blindato, dotato di griglie di protezione contro le proiezioni e di cinque punti di armamento. È in servizio con l’esercito francese sul territorio francese e in OPEX nel Sahel. Viene utilizzato anche dall’esercito reale giordano (“MenaDefense”)

10 novembre

  • Corsa al riarmo in Africa

    • Nel dossier dell’“Atlante delle guerre” a marzo si leggeva: «In Africa subsahariana i cinque maggiori importatori di armi sono stati Angola, Nigeria, Etiopia, Mali e Botswana. Resta un grande importatore l’Egitto che con il più 73% diventa il terzo importatore di armi a livello globale».

    • L’Etiopia ha usato abbondantemente le sue dotazioni prima di arrivare agli accordi di metà novembre: dopo due anni e un numero imprecisato di morti compreso tra mezzo milione e un milione di vittime (qui un intervento di Matteo Palamidessa raccolto da Radio Blackout).

    “Il genocidio atroce e diffuso nel Corno d’Africa”.

  • Il Mali (e il Sahel nella sua integrità) è alle prese con la necessità di difendersi dai tagliagole jihadisti dotati di armi sofisticate e dunque gli eserciti – affrancatisi da operazioni coloniali francesi, ma così indeboliti – cercano di procurarsi strumenti per liberarsi dalla tenaglia dell’insorgenza, come ci ha raccontato Edoardo Baldaro:
  • Collegata a questa situazione è la notizia lanciata da un tweet postato il 5 novembre da “Spoutenik en Français” (palese indirizzo filorusso) relativa alla richiesta a Mosca per l’acquisto di due elicotteri da parte del Burkina di Ibrahim Traoré nel quadro di un trattato di cooperazione con la Russia di Putin (che affonda le radici nei legami intrecciati tra paesi africani che hanno avviato il proprio distacco dall’Occidente con l’appoggio dell’Urss).

Gli elicotteri sono tra le macchine a uso bellico più ambite nel continente, come documenta Antonio Mazzeo nel suo blog il 10 novembre facendo cenno a una triangolazione di 6 velivoli T-129 “Atak” prodotti in Turchia da Turkish Aerospace Industries su licenza di AgustaWestland (della infinita galassia Leonardo spa) per il governo nigeriano al costo di 61 milioni di dollari. Come sottolinea Mazzeo, la versione turca dell’“Atak” (in uso in Siria, Iraq, Filippine e in futuro in Pakistan) sfodera nuovi sistemi di individuazione e tracciamento dei bersagli ed è dotato di razzi non guidati da 70 mm e missili anticarro L-Umtas.

  • «Nel bilancio della difesa nigeriano per il 2023 è previsto anche uno stanziamento di 4,5 milioni di dollari per l’acquisto di due elicotteri AW109 “Trekker, prodotti in Italia da Leonardo SpA. nel corso di un seminario delle forze armate nigeriane tenutosi a Ibom lo scorso 27 ottobre, il capo di Stato maggiore dell’Aeronautica Oladayo Amao avrebbe confermato l’intenzione di acquisire 24 caccia bimotori M-346 “Master” realizzati negli stabilimenti di Varese-Venegono di Leonardo» (“DefenceWeb”).

  • L’AW109 aveva già riscosso un enorme successo ad agosto al Labace brasiliano:
  • «L’AW109 Trekker, il primo gemello leggero di Leonardo a offrire un carrello di atterraggio a pattino, mantiene la cellula dell’AW109 Grand, l’ampia cabina e le prestazioni di prim’ordine, offrendo al contempo un maggiore carico utile a un costo competitivo, dimostrando così di essere perfettamente in grado di soddisfare i severi requisiti degli operatori in termini di capacità ed economicità. L’AW109 Trekker è dotato di una cabina di pilotaggio in vetro di ultima generazione di Genesys Aerosystems che può essere configurata in base alle esigenze del cliente» (“DGualdo”, un sito evidentemente promozionale di Leonardo)

  • Oltre all’indubbio affare per Leonardo, si può ipotizzare che il gigante africano immagini un innesco di conflitti nell’area… e forse l’odore di bruciato comincia a farsi più forte nella situazione del Nord Kivu, come illustrato in questo intervento di Massimo Zaurrini:
  • “Rischio di Terza guerra mondiale africana dei Grandi Laghi?”.
  • Dunque la Nigeria si sta riarmando potentemente, è sufficiente elencare i prodotti opzionati, prenotati, comprati, acquisiti che riporta “DefenceWeb”, oltre ai T-129 citati da Mazzeo e ai due AW109: gli Stati Uniti hanno approvato la possibile vendita di 12 AH-1Z alla Nigeria nell’ambito di un potenziale accordo da 997 milioni di dollari che include armi ed equipaggiamenti (nonostante i forti dubbi riguardo il mancato rispetto dei diritti umani del regime di Abuja); riceverà due aerei da trasporto C295 da Airbus, agognati dal 2016. La proposta di bilancio della Difesa nigeriana per il 2023 include finanziamenti per la manutenzione degli L-39ZA, degli Alpha Jet e propone 2,7 miliardi di dollari per tre aerei da sorveglianza/attacco MF 212 costruito dalla Magnus Aircraft nella Repubblica Ceca e 3 miliardi (6,8 milioni di dollari) per tre elicotteri Bell UH-1D.
    La BVST ((Belspetsvneshtechnika, ditta bielorussa) ha già collaborato con l’aeronautica nigeriana, fornendo la manutenzione degli elicotteri Mi-35 e l’addestramento; ora ha trasformato gli MF212 in velivoli armati ideali per compiti di sicurezza interna, sorveglianza e pattugliamento. A quanto pare, può essere equipaggiato con un gimbal elettro-ottico iSKY-30 HD e con missili R-60-NT-L o R-60-NT-T-2. In Ottobre il capo di stato maggiore Odalayo Amao aveva già dichiarato che l’Aeronautica militare nigeriana prenderà in consegna due turboelica Beechcraft King Air 360, quattro aerei di sorveglianza Diamond DA 62 e tre veicoli aerei senza pilota (UAV) Wing Loong II. Oltre a dozzine di velivoli ordinati tra il 2016 e il 2021.

Peraltro il mercato africano – ovviamente con le sue richieste. Le disponibilità di spesa e i bisogni commisurati alla tipologia di conflitti che nell’enormemente vasto territorio che costituisce condizioni di combattimento differenti – mette sul piatto finanziamenti corrispondenti alla percezione di pericolo o di preparazione di guerre e quindi mette in piedi una propria frequentata fiera. La biennale Africa Aerospace and Defense Expo di Centurion in Gauteng (Sudafrica) si è tenuta a fine settembre, proiettando in questi ultimi mesi di 2022 le prospettive di collocazione su piazza del nuovo bombardiere B-21 Northtorpe, forse non a caso presentato in Sudafrica per le sue prerogative di deterrenza, come spiega “BreakingDefense” nelle parole del generale dell’aeronautica Jason Armagost riguardo il sistema Sentinel di cui il bombardiere è parte: « Sentinel sarà altamente resiliente e flessibile. Non solo per la nostra sicurezza, ma anche per garantire i nostri partner e alleati in tutto il mondo. Si tratta di una capacità evolutiva e sono state prese decisioni deliberate su come renderla efficiente con l’infrastruttura che abbiamo, e su come modernizzare la capacità per rimanere flessibile con sistemi di missione aperti e un’architettura digitale per evolvere con ambienti di minaccia in evoluzione», sembra la descrizione del panorama fluido africano. Il B-21 verrà definitivamente svelato il 2 dicembre assicura “MilitaryTimes”: probabilmente i paesi del continente africano non si potranno permettere questo bombardiere presentato a casa loro, ma potranno svuotare gli arsenali dei bombardieri che diventeranno obsoleti dopo l’avvento di questa macchina.

Più alla portata delle casse africane è il drone greco Archytas e soprattutto il Mwari aircraft con scopi multipli e infatti già venduto a molti paesi africani; e di quei paesi elencati all’inizio di questa scheda il Botswana probabilmente prenoterà i suoi droni in funzione antimigratoria, e allo scopo i droni presentati alla fiera sudafricana descritta nel video della scheda di ottobre fanno al caso.

AW109 Trekker

GENNAIO FEBBRAIO MARZO APRILE MAGGIO GIUGNO LUGLIO AGOSTO SETTEMBRE OTTOBRE NOVEMBRE

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]]> L’influenza russa si estingue nelle case incendiate a Karvachar? https://ogzero.org/il-vincolo-di-un-solco-inciso-tra-armenia-e-russia-negli-accordi-del-nagorno/ Sat, 28 Nov 2020 16:30:54 +0000 http://ogzero.org/?p=1862 Fantasie occidentali su Astana, droni reali su Stepanakert Tutta la grande stampa italiana ha sostenuto la tesi secondo cui l’accordo di pace nel Nagorno-Karabach sarebbe stato l’ulteriore capitolo di una alleanza tra Putin ed Erdoğan. Una chiave di lettura tutta ideologica – l’unità dei dittatori contro le democrazie – costruita sulla presunta unità d’intenti dei […]

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Fantasie occidentali su Astana, droni reali su Stepanakert

Tutta la grande stampa italiana ha sostenuto la tesi secondo cui l’accordo di pace nel Nagorno-Karabach sarebbe stato l’ulteriore capitolo di una alleanza tra Putin ed Erdoğan. Una chiave di lettura tutta ideologica – l’unità dei dittatori contro le democrazie – costruita sulla presunta unità d’intenti dei due capi di stato in Medio Oriente. La guerra iniziata nell’enclave a maggioranza etnica armena ha avuto due inoppugnabili vincitori (Turchia e Azerbaigian) e due sconfitti (Armenia e Russia), su questo però non si può non concordare. Gli accordi di pace firmati in fretta e furia la notte del 9 novembre mentre era in corso una vera e propria rotta dell’esercito armeno che stava rischiando di perdere persino Stepanakert, la capitale dell’Artsakh, rappresenta una vera e propria débâcle per il governo di Nikol Pashinyan.

Il vincolo di un solco inciso tra Armenia e Russia

Il giudizio che abbiamo dato a caldo sulle colonne de “il manifesto” l’11 novembre 2020 resta sostanzialmente corretto: «L’accordo è un boccone amaro per l’Armenia che deve dire addio all’idea di giungere a una unificazione con la regione contesa. Il documento siglato dai tre governi afferma che le parti in conflitto rimangono nelle posizioni raggiunte e ciò significa che buona parte del territorio del Nagorno-Karabakh torna in mano azera e pone le truppe di Baku a pochissimi chilometri da Stepanakert, la quale sarà ora collegata all’Armenia solo da un corridoio che attraversa la zona di Lachin. Lo status di Stepanakert non viene definito – come avrebbe voluto Mosca – e questo darà la possibilità successivamente all’Azerbaigian di rivendicarla». La Russia, avendo collocato i suoi caschi blu tra i contendenti piange con un occhio solo perché potrà dire la sua sulla sistemazione definitiva della regione ma segna un suo ulteriore arretramento geostrategico.

Per molti ordini di motivi. Il primo perché malgrado l’Armenia faccia parte pienamente del sistema di difesa euroasiatico (Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva, Csto) capeggiato dalla Federazione, Putin non è intervenuto a sostegno di Erevan neppure quando negli ultimi giorni del conflitto – prima attraverso il ministro degli esteri Zohrab Mnatsakanyane poi direttamente dal premier armeno – era stato espressamente richiesto, sottolineando più di una volta la propria neutralità nel conflitto (mentre Erdoğan sosteneva non solo formalmente il “fratello azero” fornendo combattenti foreign fighters siriani e soprattutto quei droni che hanno avuto, come più in là vedremo, un ruolo importante nel conflitto).

Il vincolo di un solco

I caschi blu russi prendono posizione

… poi la ferita suppurerà nell’equidistanza

Per restare nel gioco e avere un ruolo centrale nella trattativa di pace, Mosca ha dovuto pagare un prezzo politico fondamentale: il futuro definitivo allontanamento dell’Armenia in un “fronte Europeo” della Federazione dove Bielorussia e Moldavia finiranno – a medio termine – per pencolare inevitabilmente verso la Nato. È evidente quanto il “ruggito” di Putin a sostegno di Lukashenko in agosto sia stato seguito dall’equidistanza nel conflitto nel Nagorno-Karabach, il cui motivo principale della tiepidezza russa non può essere ricercato nell’antipatia personale di Pashinyan – che pure c’è – o nella doppiezza con cui Erevan ha condotto negli ultimi due anni la sua politica estera. Per riequilibrare l’evidente crescente peso turco nella regione che permette ora di collegare Ankara direttamente al Karabach, Mosca ha mostrato per ora solo di voler far rientrare dalla finestra i mediatori francesi e americani, lasciati fuori formalmente dall’armistizio del 9 novembre.

Nell’intervista concessa a “Rossia1” dopo l’armistizio, il presidente russo ha voluto togliersi un sassolino dalle scarpe: «Il 19-20 ottobre, ho avuto una serie di conversazioni telefoniche sia con il presidente Aliyev che con il primo ministro Pashinyan, dopo che le forze armate azere avevano ripreso il controllo di una parte insignificante, la parte meridionale del Karabach. Nel complesso, ero riuscito a convincere il presidente Aliyev che fosse possibile fermare le ostilità, ma una condizione obbligatoria da parte sua era il ritorno dei profughi, anche nella città di Shushi. Inaspettatamente… il primo ministro Pashinyan mi ha detto direttamente che lo vedeva come una minaccia per gli interessi dell’Armenia e del Karabach. Anche adesso non mi è molto chiaro quale sarebbe stata questa minaccia, tenendo presente che il ritorno dei civili sarebbe stato supposto mantenendo il controllo da parte armena su quella parte del territorio del Karabakh, Shushi compreso, e tenendo presente la presenza dei nostri caschi blu».

Una dichiarazione che può essere letta come un modo per indebolire il premier armeno, ora contestato dall’opposizione interna come “capitolatore”, ma di cui non vanno dimenticate le valenze interne russe. Non solo perché nella Federazione russa vivono 2 milioni di armeni (ma anche 2 milioni di azeri) ma perché le simpatie dei russi “autoctoni” erano tutti per l’“alleato cristiano”. Se Putin non ha alcun interesse ora a far saltare Pashinyan, non ha neppure interesse che in Armenia si possa battere il tamburo propagandistico del tradimento russo.

Il vincolo di un solco

Armeni bruciano le case prima di lasciare il Nagorno

Forniture sbilanciate: pessima propaganda per l’industria bellica russa

Il destino del primo ministro armeno resta legato alla posizione che assumeranno i militari (anche se l’insperato appello del senato francese al riconoscimento di Artsakh del 26 novembre 2020 gli ha fatto riprendere un po’ di vigore). L’esercito che sembrava sostenere il primo ministro in carica appare ora diviso. Qualcuno nello stato maggiore sta iniziando a pensare che debba essere salvato l’essenziale a fronte delle proteste che si levano a livello popolare, e Pashinyan debba essere sacrificato sull’altare della riconciliazione nazionale. Si tratta dell’opinione, per esempio, espressa dall’ex ministro della difesa dell’Armenia. Secondo il militare «non è stato l’esercito a perdere la guerra e la responsabilità dovrà essere assunta in solido dall’attuale leadership politica». Del resto la discussione sull’impreparazione militare nella disfatta armena continuerà a tenere banco ancora per parecchio. Subito dopo il cessate il fuoco è stato per primo a Stepanakert il presidente Arayik Aratyunyan a sollevare la questione dell’arretratezza delle armi a disposizione dei suoi combattenti. Una denuncia di sbieco nei confronti degli alleati russi che avrebbero lasciato in condizioni di degrado l’esercito di un paese alleato. Ma non solo. Si tratta di un tema delicato che tocca – come già nella guerra in Georgia del 2008, mitigata però dal facile successo – l’eventuale inefficienza delle armi russe, ovvero un eventuale spot negativo per il mercato dell’industria bellica della Federazione e per i suoi volumi di esportazione.

Collaudo per guerre di droni

I siti specialistici si sono concentrati sul ruolo inedito avuto dai droni nel conflitto azero-armeno ma che ha interessanti ricadute politico-militari visto che l’aggressività turca non è destinata certo a ripiegare nei prossimi mesi e anni.

Dopo la guerra nel Karabach, molti esperti hanno iniziato a sostenere che sarebbe in corso una rivoluzione nelle questioni tattico-militari, che sta per cambiare persino le strategie degli eserciti – non solo dei paesi in via di sviluppo, ma anche di quelli più potenti. Stiamo parlando dell’uso massiccio di veicoli aerei senza pilota da parte dell’Azerbaigian nel recente conflitto, sulla base degli sviluppi tecnici e strategici turchi. La teoria secondo cui i droni cambieranno radicalmente l’arte della guerra ha incontrato, a dire il vero anche molte perplessità. Secondo queste scuole i droni in Karabach non hanno mostrato nulla di nuovo: l’esercito turco e azero avrebbero semplicemente approfittato della debolezza del sistema di difesa aerea armeno e hanno mostrato al mondo un modo convincente di come si sconfigge un esercito debole ma l’uso massiccio di droni non funzionerebbe contro un esercito “strutturato”.

Ordigni di diversa fabbricazione (e di varia efficacia)

Le ostilità sono iniziate con vari tipi di attacchi di droni. Sono stati usati da parte azera, in primo luogo, i turchi Bayraktar TB2, detti anche hunter-killer, che montano missili e bombe ad alta precisione e droni Harop kamikaze di fabbricazione israeliana, antiradiazioni contro la difesa aerea armena.

Il vincolo di un solco inciso

I droni forniti dai turchi a Baku

Nei primissimi giorni del conflitto, l’esercito del Karabach ha perso dozzine di installazioni di difesa aerea, perlopiù obsolete, ereditate dall’Armenia dopo il crollo dell’Urss. Gli assalti alle sue difese antiaeree sono poi proseguiti: in ottobre e novembre sono stati colpiti diversi elementi dei sistemi missilistici antiaerei a lungo raggio S-300 (ampiamente superato visto che ora è in fase di progettazione nei laboratori russi l’S-500) e un lanciatore del più moderno complesso Tor-M2KM, sempre di fabbricazione russa. Dopo aver messo fuorigioco le difese antiaeree, i droni azeri sono passati al campo terrestre distruggendo sistematicamente carri armati, autoblindo, artiglieria e camion che trasportavano munizioni avversari. Seguiti da una serie di attacchi diretti alle postazioni della fanteria armena e ai depositi di munizioni. La diseguaglianza delle forze in campo – già nota prima del conflitto – è apparsa evidentissima. A seguito delle pesanti perdite di armeni a causa di attacchi aerei, il fronte nel sud del Karabach è stato sfondato in più punti, e in seguito (all’inizio di novembre) la fanteria azera, avanzando attraverso il terreno montuoso, che l’Armenia considerava la sua “fortezza naturale”, ha raggiunto le aree vitali della repubblica non riconosciuta, cioè le città di Shushi e Stepanakert. A questo punto, come risulta dai discorsi dei leader della difesa armena pubblicati al termine del conflitto, a causa degli attacchi dei droni, il loro esercito aveva perso quasi tutta l’artiglieria.

Tuttavia però negli ultimi giorni di guerra, gli attacchi aerei sono diventati più radi. Ciò potrebbe essere attribuito alla nebbia e alle nuvole basse ma secondo i giornalisti israeliani, che citano l’intelligence del loro paese, l’uso dei droni avrebbe potuto essere ostacolato da forniture urgenti di guerra elettronica russa. Questa sarebbe giunta sì in largo ritardo ma avrebbe evitato alla ritirata armena di assumere i caratteri della rotta (Sergej Lavrov aveva più volte dichiarato negli ultimi giorni di conflitto di “non guardare con piacere” a un trionfo militare turco-azero). Arayik Aratyunyan ha dichiarato da parte sua che «recentemente eravamo stati in grado di risolvere il problema dei droni, ma l’ultimo giorno il nemico è riuscito di nuovo a usarli e a sferrare attacchi pesanti».

Valutazioni a consuntivo per sviluppi del sistema industrial-militare

Così, la guerra transcaucasica è diventata la prima in cui i compiti principali, di solito risolti con l’aviazione “tradizionale”, sono stati realizzati dai droni. Molti esperti ritengono che questa non sia solo la sostituzione di un tipo di velivolo con un altro, ma una svolta decisiva, una vera rivoluzione negli scontri militari.

Il vincolo di un solco inciso

Caratteristiche dei droni kamikaze israeliani

Secondo il giornale moscovita “Kommersant”: «Il vantaggio principale dei droni, soprattutto di classe piccola e media, sarebbe il basso costo di funzionamento. I droni d’attacco di piccola e media portata sono piattaforme per l’utilizzo di armi ad alta precisione e strumenti di sorveglianza e ricognizione abbastanza avanzati. Sono in grado di colpire la maggior parte dei bersagli sul campo di battaglia e dietro le linee nemiche, pur rimanendo velivoli molto semplici rispetto ai moderni aerei e elicotteri con equipaggio». I progressi della tecnologia hanno reso possibile la produzione di missili e bombe di piccole dimensioni e massa, che, nonostante le dimensioni e il prezzo, possono colpire i bersagli più tipici sul campo di battaglia.

Il secondo vantaggio dei droni è che non c’è un pilota a bordo e sono controllati da operatori che sono a decine, centinaia e persino migliaia di chilometri dal fronte. Ciò consente di renderli economici anche sotto il profilo del “capitale umano”: se il pilota non può essere ucciso o catturato durante la missione, questa può essere molto più rischiosa. Il terzo vantaggio è la possibilità di svolgere missioni di molte ore. I droni a turbogetto che volano a velocità molto basse (meno di 200 km/h) – spiegano gli esperti – sono estremamente economici in termini di consumo di carburante.

Il last but not least tra i vantaggi dei droni è che sono stati originariamente concepiti come una parte importante della rete informativa sul campo di battaglia. I droni sono una piattaforma per vari sensori che studiano la situazione e identificano i bersagli. Condividono queste informazioni in tempo reale con gli operatori, che, a loro volta, le condividono anche in tempo reale con l’intera rete di controllo del combattimento. Inoltre, è possibile insegnare facilmente ai droni a interagire tra loro. Entrambe le opzioni sono state mostrate nel video del Ministero della Difesa azero del Karabach. Non è un caso che durante la guerra il Canada ha vietato la fornitura di stazioni elettroniche ottiche alla Turchia, di solito risolti con l’aviazione “tradizionale” ma che in questo caso sono state eseguite da droni.

Adattabilità a guerre con caratteristiche diverse

Gli aerei senza pilota presentano comunque anche evidenti svantaggi rispetto alle piattaforme con equipaggio. Il carico utile dei droni di piccole e medie dimensioni è limitato a causa dei motori di potenza relativamente bassa. In parole povere, i sistemi con equipaggio sono in grado di lanciare simultaneamente molti più bombe o proiettili sul nemico rispetto ai droni. E questo può essere importante in una “guerra ad alta intensità” – un conflitto tra potenze militari avanzate.

Per 38 anni, da quando furono usati per al prima volta dall’aviazione israeliana, i droni si sono trasformati da uno strumento di nicchia per operazioni speciali in parte integrante della ricognizione e della designazione del bersaglio. Fino a pochi anni fa, infatti, i droni d’assalto venivano usati (principalmente dagli americani) per effettuare attacchi mirati contro “bersagli leggeri”: leader politici o “terroristi”, petroliere dello Stato Islamico…

Come ha dimostrato l’esperienza della guerra in Karabach, i droni di altri produttori possono essere rapidamente inclusi in questo sistema: in particolare, i droni kamikaze di fabbricazione israeliana e gli aerei d’attacco Su-25 di progettazione sovietica fanno parte integrante dell’arsenale azero ma guarda caso non di quello armeno.

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