Tanzania Archivi - OGzero https://ogzero.org/tag/tanzania/ geopolitica etc Fri, 31 Mar 2023 14:59:06 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.4.6 Kamala Harris in Africa: investimenti e basi contro il pericolo Cina https://ogzero.org/kamala-harris-in-africa-investimenti-contro-il-pericolo-cina/ Fri, 31 Mar 2023 11:19:41 +0000 https://ogzero.org/?p=10651 Gli Stati Uniti si sono impegnati a fornire aiuti per 100 milioni di dollari agli stati dell’Africa occidentale che si affacciano sul Golfo di Guinea per combattere l’estremismo e l’instabilità. E stanno pensando all’apertura di una base Africa Command proprio sulla costa occidentale del continente. Anche gli Usa – come già stanno facendo altri paesi […]

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Gli Stati Uniti si sono impegnati a fornire aiuti per 100 milioni di dollari agli stati dell’Africa occidentale che si affacciano sul Golfo di Guinea per combattere l’estremismo e l’instabilità. E stanno pensando all’apertura di una base Africa Command proprio sulla costa occidentale del continente. Anche gli Usa – come già stanno facendo altri paesi occidentali – girano lo sguardo verso questi paesi minacciati dal dilagare del terrorismo negli Stati del Sahel, in particolare Mali e Burkina Faso, che sta sempre di più spostando la sua attenzione verso il Golfo di Guinea.

Investimenti, accordi pubblico-privato e sicurezza

L’annuncio è stato fatto dalla vicepresidente degli Stati Uniti, Kamala Harris, in visita in questi giorni in tre paesi africani: Ghana, Tanzania e Zambia. «Accogliamo con favore l’importante posizione del Ghana nella regione del Sahel e vi ringrazio per la vostra leadership in questa», ha detto Kamala Harris in un discorso nella capitale ghanese, Accra. «Oggi sono lieta di annunciare 100 milioni di dollari a Benin, Ghana, Guinea, Costa d’Avorio e Togo per aiutarli ad affrontare la minaccia dell’estremismo e dell’instabilità», ha aggiunto. La vicepresidente degli Stati Uniti ha anche sottolineato il piano strategico del presidente americano Joe Biden per prevenire i conflitti e promuovere la stabilità nella regione africana del Sahel. Il piano degli Usa, sviluppato durante il vertice Usa-Africa del dicembre scorso a Washington, poggia le sue basi su un approccio più legato agli investimenti per piani di sviluppo concertati con i paesi africani, che si possono sintetizzare in un cambio di passo:

non più “cosa possiamo fare per l’Africa, ma cosa possiamo fare con l’Africa”. Un cambio di paradigma che la vicepresidente americana ha più volte sottolineato durante questo suo viaggio – termina sabato 1° aprile – e cioè non più un approccio dove prevale l’aspetto securitario, ma dove a prevalere sono gli investimenti mirati pubblico-privato.

Gli Stati Uniti, dunque, vogliono tornare a esercitare un’influenza che si è un po’ annacquata negli ultimi anni soprattutto sul piano economico e dello sviluppo, visto che nell’ultimo decennio ha prevalso la politica securitaria che ha lasciato ampio spazio di manovra, sul piano commerciale, alla Cina e ora anche alla Russia che sta tornando a essere protagonista nel continente africano. Gli Usa, tuttavia, tengono sotto traccia la “disputa” con Pechino, non “chiedono di scegliere”, ma continuano a ritenere di offrire un modello “migliore”.

Kamala Harris in Africa

I numeri di Usa e Cina in Africa

Gli Usa hanno esportato 26,7 miliardi di dollari di beni e prodotti in Africa nel 2021 e, nello stesso anno, hanno importato 37,6 miliardi di dollari di beni dall’Africa, con il privilegio di importare prodotti senza dazi doganali in decine di paesi del continente. Nel 2011, le esportazioni statunitensi nel continente ammontavano a circa 32,8 miliardi di dollari e le importazioni a circa 93 miliardi di dollari. Se guardiamo alla Cina i numeri sono di tutt’altra entità: il commercio bilaterale totale tra il continente africano e la Cina nel 2021 ha raggiunto i 254,3 miliardi di dollari, in crescita del 35,3% su base annua. L’Africa ha esportato 105,9 miliardi di dollari di merci in Cina, un valore in crescita del 43,7% anno su anno. La Cina, dunque, è rimasta il principale partner commerciale dell’Africa per 12 anni consecutivi. A ciò si aggiungono gli investimenti infrastrutturali.

Come scalzare la Cina?

La visita del vicepresidente degli Stati Uniti è una delle visite di più alto livello nel continente dai tempi dell’ex presidente degli Stati Uniti Barack Obama. Dall’inizio dell’anno l’attività politico-diplomatica americana in Africa è stata intensa, con i viaggi del segretario di stato americano Antony Blinken, della moglie del presidente Joe Biden, Jill Biden, e della rappresentante permanente presso le Nazioni unite, Linda Thomas-Greenfield che, hanno visitato diversi paesi del continente. La crescente influenza della Cina sul continente africano è la ragione alla base di queste visite: gli Stati Uniti sono preoccupati per la crescente presenza economica della Cina in Africa e vogliono promuovere maggiori investimenti privati nel continente per far progredire le relazioni commerciali.

Gli Stati Uniti d’America, dunque, vogliono intensificare gli investimenti in Africa, recuperando posizioni sulla Cina, che rimane il maggior investitore nel continente africano.

Intensificare i rapporti pubblico-privato per dare più slancio all’economia africana e per rispondere alle esigenze di finanziamenti dei progetti infrastrutturali, stimate tra i 68 e i 108 miliardi di dollari.

La nuova strategia americana pone le sue basi su alcuni pilastri fondamentali: prosperità economica, la promozione della democrazia, i cambiamenti climatici, l’avanzamento tecnologico, l’emancipazione economica e la sicurezza alimentare. L’azione statunitense è, dunque, a tutto tondo: diplomatica, commerciale e securitaria. Il tema degli investimenti è l’aspetto cruciale dell’attivismo Usa dopo il vertice di Washington, tanto che il presidente della Banca africana di sviluppo, Akinwumi Adesina, ha sollecitato gli Stati Uniti a investire di più: «Questo è il momento per gli investitori statunitensi di spostarsi rapidamente e investire in Africa. Le opportunità non aspettano nessuno. Gli investimenti diretti esteri (Fdi) statunitensi verso l’Africa nel 2020 sono stati pari a 47,5 miliardi di dollari, ossia il 5,2% degli investimenti esteri globali degli Stati Uniti. Il Build Back Better World del presidente Biden può portare più investimenti del settore privato statunitense in Africa».

L’Africa Command piazza una nuova base in Liberia

Mentre in Africa la Harris spiega questo cambio di paradigma a Washington, invece, si sta pensando di aprire una base militare di Africa Command, proprio in Africa occidentale e uno dei paesi candidati sembra essere la Liberia. Il comandante dell’Africa Command degli Stati Uniti, il generale Michael Langley, è comparso davanti al Comitato per i servizi armati del Senato degli Stati Uniti e ha rivelato che l’Africa Command sta esplorando aree dell’Africa occidentale dove stabilire un nuovo centro di comando, ma non ha potuto rivelare i possibili paesi durante l’udienza pubblica.

 

E la Cina punta alla Guinea Equatoriale

Secondo i media liberiani questo nuovo centro potrebbe essere stabilito a Monrovia, capitale della Liberia. Gli Stati Uniti infatti sono preoccupati per le incursioni che Cina e Russia stanno facendo in Africa e sono ancora più preoccupati per la possibilità che la Cina stabilisca una base militare in Africa occidentale (in Guinea Equatoriale): «In questo momento, non possiamo lasciare che abbiano una base sulla costa occidentale perché stanno cambiando le dinamiche» ha detto Langley al Senato americano, dicendo che la necessità di un nuovo comando «è urgente».

Dopo l’audizione di Langley, il presidente liberiano, George Weah, ha visitato il quartier generale della Cia in Virginia, una visita che ha suscitato molte speculazioni in Liberia e non solo. Secondo il quotidiano liberiano “Front page Africa” «l’America ha bisogno di stabilità in Liberia» e necessita di una più ampia ed efficace collaborazione con il paese africano nella sua lotta contro la Russia e contro l’influenza cinese.

La Liberia, fondata da schiavi americani liberati, ha legami forti e storici con gli Stati Uniti ed è stata nell’orbita americana sin dalla sua esistenza. I liberiani residenti negli Stati Uniti inviano annualmente oltre 400 milioni di dollari in rimesse estere, il che rappresenta un importante impulso per l’economia liberiana.

L’America, dunque, non rinuncia del tutto all’opzione militare e securitaria e soprattutto rende ancora più evidente che il suo impegno in Africa – tornata a essere centrale nelle strategie geopolitiche mondiali – è anche di contrasto alla presenza cinese che non limita più la sua presenza all’aspetto economico e commerciale. Con una nuova base in Guinea Equatoriale – già ne ha una sulla costa orientale a Gibuti – rafforza anche la sua presenza militare nel continente. E questo dimostra come l’Africa sia ancora terreno di scontro tra potenze e i cambi di paradigma, per ora, rimangono solo sulla carta. Non solo.

I leader africani ne sono consapevoli e, spesso, non si fanno più incantare. Per ora il loro sguardo è rivolto a Est.

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Dalla Perestrojka al Commonwealth in Africa https://ogzero.org/dalla-perestrojka-al-commonwealth-in-africa/ Sat, 17 Sep 2022 23:23:21 +0000 https://ogzero.org/?p=8921 Archiviando epoche: gli imperialismi seppelliscano gli imperi Parlando con Angelo Ferrari dei due suoi articoli scritti ultimamente per Agi che qui riproponiamo ci siamo convinti che seguendo queste tracce si possono avanzare ipotesi: se non tutte saranno verificabili, aiutano comunque nell’individuazione e valutazione di possibili strategie globali in ambito africano. Senz’altro queste comparazioni tra caratteristiche […]

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Archiviando epoche: gli imperialismi seppelliscano gli imperi

Parlando con Angelo Ferrari dei due suoi articoli scritti ultimamente per Agi che qui riproponiamo ci siamo convinti che seguendo queste tracce si possono avanzare ipotesi: se non tutte saranno verificabili, aiutano comunque nell’individuazione e valutazione di possibili strategie globali in ambito africano. Senz’altro queste comparazioni tra caratteristiche di periodi storici rendono conto di un passaggio epocale, scandito simbolicamente dalla morte di due ultranovantenni protagonisti della politica degli anni Ottanta: Michail Sergeevič Gorbačëv ha incarnato la fine della Guerra Fredda – con tutto ciò che la sua archiviazione ha significato per la spartizione di tasselli sullo scacchiere internazionale che facevano rigidamente riferimento all’una o all’altra grande potenza. La contrapposizione per blocchi è apparentemente un modello di rapporti tra grandi potenze che torna a riconfigurarsi, e di cui dovremmo analizzare cosa può riproporsi e in quali modalità, considerando anche il progresso delle comunità da depredare a trent’anni dalla caduta del muro e dalla trasformazione dei regimi marxisti-leninisti sostenuti dall’Urss in Africa.
Elisabeth Windsor-Mountbatten è stata la più rigida conservatrice dell’impero britannico così come le era stato consegnato, opprimendo con brutalità (fin dall’inizio soffocando le richieste di emancipazione dei Mau-Mau in Kenya); la spasmodica attenzione dei media francesi per le sue esequie è una buona cartina al tornasole, perché evidenzia la sensazione dei regicidi francesi che i destini delle due ex potenze coloniali siano strettamente correlati, angosciando gli ancora tanti nostalgici della grandeur, ma anche galvanizzando gli anticolonialisti come “Mediapart”, che preconizzano che, dopo il bagno di folla ebete dei funerali «Con la morte della regina Elisabetta II, il velo di oblio o di cecità intenzionale che ha coperto la mente pubblica britannica sul suo passato imperiale e coloniale scomparirà. I dannati della memoria si alzeranno in piedi e parleranno». E dopo il processo indipendentista a cavallo tra anni Cinquanta e Sessanta – che ha richiesto la trasformazione dell’approccio e dei processi di occupazione di territori, il loro saccheggio e il condizionamento economico –, ora non è l’emancipazione delle comunità autoctone ma la ripresa dell’espansione di quel colonialismo russo nel Continente nero (che i processi di apertura di Nikita Sergeevič Chruščëv prima e poi di Gorbačëv avevano trasformato, ridimensionandolo) a premere sulle acciaccate potenze coloniali europee.
E di nuovo l’impegno di Mosca sorge nel momento in cui la tensione ha il sopravvento sul multilateralismo. Queste pulsioni, assimilabili alle esigenze che spingono la Realpolitik turca a espandere la propria sfera di influenza su alcuni angoli africani, aggiungono un elemento che configura il neoimperialismo, echeggiando altri momenti epocali in cui si è assistito a conflitti di blocchi contrapposti: neo-ottomanesimo e neozarismo possono sperare che la divisione europea ridimensioni l’egemonia occidentale, approfittando di una nuova Guerra Fredda da cui trae linfa l’espansionismo autocratico nella realtà africana.
Fin qui OGzero, ma questo sproloquio attinge alle suggestioni e ai dati esibiti da Angelo Ferrari nei suoi due originali obituary. E non a caso iniziamo dallo studio sul rilancio del Commonwealth (l’espressione imperiale britannica rivale di quella zarista e dei sultani) che paradossalmente ottiene nuovo slancio dalla morte della simbolica depositaria per 70 anni della potenza inglese, dacché era già sovrana – ingombrante figura difficile da adeguare alle istanze indipendentiste dell’impero senza modificarne l’icona (interessante come nell’articolo di Angelo non venga citata, ma aleggi il venir meno di una prassi pluridecennale caratteristica del suo lungo regno) – quando gli stati decolonizzati entrarono nell’organizzazione grazie alla Dichiarazione di Londra che riformava il vecchio Commonwealth con un compromesso costituzionale, proprio in quegli stessi primi anni Sessanta che costrinsero alla apertura con la prima parziale sospensione della Guerra Fredda.

Ora il Commonwealth rappresenta una valida alternativa per la cooperazione economica tendente a 2 trilioni di scambi. Per gli altri c’è l’“amicizia” predona della Wagner, che non chiede conto alle leadership cresciute militarmente a Rostov (o disposte a scommettere di restituire i prestiti ai cravattari cinesi), di certo non è l’epilogo immaginato dalla perestrojka africana.


Il Commonwealth sempre più africano

Londra sta intensificando la sua presenza nel continente africano attraverso rapporti bilaterali, vuole – è stata la promessa fatta da BoJo nell’ultimo vertice afro-britannico a Londra il 20 gennaio 2020 – incrementare i suoi investimenti ed espandere il suo mercato. Vuole diventare il maggior investitore sul continente africano e superare gli altri membri del G7 e stiamo parlando di Stati Uniti, Canada, Francia, Germania, Giappone e mettiamoci anche l’Italia.

Carta d’identità dell’organizzazione

Il Commonwealth è il più grande gruppo di nazioni che non coinvolge la Russia o la Cina e gli conferisce, sono parole della Truss, «un peso crescente sulla scena mondiale». Quanto può valere entrare nell’ormai grande famiglia? Secondo Patricia Scotland, segretario generale dell’organizzazione nata sulle ceneri dell’impero britannico e andata ormai oltre le ex colonie di Londra, già oggi il commercio tra i paesi membri vale 700 miliardi di dollari. Ma l’obiettivo, anche guardando gli ultimi ingressi, Togo e Gabon, è di superare i 2 trilioni di dollari entro il 2030.
Il Commonwealth è un’organizzazione che conta 56 nazioni per un totale di 2,5 miliardi di abitanti, con un Prodotto interno lordo che si prevede salirà a 19,5 trilioni di dollari nei prossimi cinque anni.


Il Gabon, che si affaccia sul Golfo di Guinea, ultimo arrivato nell’organizzazione è un paese con una superficie boscosa molto rilevante ed è destinato a svolgere un ruolo importante nel commercio dei crediti di carbonio per combattere il cambiamento climatico. E questo, per Londra, è un vantaggio non da poco.

Strategia in chiave anticinese

Londra vuole aprire le sue porte all’Africa e il Commonwealth (oggi conta 21 paesi africani: Sudafrica, Ghana, Nigeria, Sierra Leone, Uganda, Kenya, Malawi, Tanzania, Zambia, Gambia, Botswana, Lesotho, eSwatini, Seychelles, Namibia, Camerun, Mozambico, Nauru, Ruanda, Gabon, Togo) potrebbe diventare la chiave di volta. Ma non solo. Nelle strategie di Londra rientra anche il contrasto alla Cina e in Africa la sfida sembra quasi improba. Ciò era negli intenti dell’ex premier Boris Johnson, ma ribaditi dall’attuale prima ministra, Liz Truss, che è stata molto chiara.

Il Regno Unito deve aumentare l’interscambio commerciale con i paesi del Commonwealth per contrastare la «grave minaccia della Cina ai nostri valori e al nostro modo di vivere, e firmare accordi commerciali con procedure accelerate con gli stati così da aiutare il Regno Unito e altre democrazie a vincere la lotta contro gli stati autoritari».

Truss ritiene che legami economici più stretti aiuteranno ad annullare lo schema della Belt Road Initiative della Cina in base alla quale Pechino ha finanziato progetti in dozzine di paesi in via di sviluppo che si sono rivelati come una “coercizione economica”.

Per allargare il mercato cade la pregiudiziale democratica

Tutti vogliono entrare nel Commonwealth e Londra apre le porte a chiunque, rinunciando anche ai principi fondativi dell’organizzazione delle ex colonie britanniche. Non guarda se è un paese è democratico, se rispetta i diritti fondamentali delle persone. Tutto questo, dopo la Brexit, non conta. Londra sembra avere mani libere, tanto da accettare nell’organizzazione membri che non hanno legami storici con il Regno Unito. Contano gli investimenti e le potenzialità di mercato che offre chi entra nell’organizzazione.

«In passato alcuni paesi africani non avevano relazioni con i paesi del Pacifico o con i paesi anglofoni», ha spiegato il ministro degli Esteri del Gabon – ex colonia francese – Michael Moussa-Adamo, ma ora «ci stiamo allargando e stiamo ottenendo nuovi partner internazionali, rafforzando la nostra economia».

Dinastie africane nell’organizzazione della dinastia britannica

Dati gli obiettivi che si prefigge è evidente che qualsiasi stato è ben accetto. «Il Commonwealth – ha spiegato Scotland – ha iniziato con otto nazioni nel 1949, è cresciuta fino a raggiungere 56 nazioni. La nostra continua crescita, al di là della nostra storia, riflette i vantaggi dell’appartenenza al Commonwealth e la forza della nostra nazione. Sono entusiasta di vedere questi vivaci paesi unirsi alla famiglia e dedicarsi ai valori e alle aspirazioni della nostra Carta» (“360Mozambique”).

È del tutto evidente che la “Carta”, oggi, conta ben poco. Se l’organizzazione dovesse tenere fede ai suoi principi non potrebbe accettare nelle sue file paesi come il Gabon e il Togo che non hanno nulla a che fare con una democrazia moderna.
Il Gabon più che uno stato è una monarchia governata da sempre dalla dinastia dei Bongo Ondimba, padre e figlio, stiamo parlando di oltre cinquant’anni di regno (però i Windsor sono avvezzi a questo tipo di regime, ma proprio il Gabon può rappresentare un ponte tra gli imperi, visto che era in quota sovietica fino al crollo del Pcus). E anche il Togo non è da meno: l’attuale presidente, Faure Gnassingbé detiene il potere dal 2005, ma lo ha ereditato dal padre che lo gestiva in maniera dittatoriale dal colpo di stato del 1967.
Ma anche il Ruanda, che ha ospitato l’ultimo vertice del Commonwealth a fine giugno 2022, non sarebbe un paese “idoneo”, perché nelle sue carceri sono ancora detenuti oppositori, giornalisti indipendenti e youtuber critici con le autorità ruandesi.

Centro congressi di Kigali, sede della convention del Commonwealth 2022

Paul Kagame è presidente del Ruanda dal 1994 quando entrò a Kigali da trionfatore e liberatore, ha modificato la Costituzione così da permettergli di governare il paese fino al 2034. Per non parlare di un altro membro del Commonwealth, il Camerun. Il paese è “guidato” dal 1982 da Paul Biya, ma se aggiungiamo i sette anni da primo ministro, 1975-1982, è al potere da 47 anni.


Le aree di interesse evidenziate dalle citazioni di paesi aderenti alla sfera britannica, poste a confronto con quelle evocate dal mondo sovietico africano, mostrano una vera e propria spartizione tra i due imperialismi che non sovrapponevano i domini. Le incursioni russe e turche in Sahel, Centrafrica e Corno d’Africa entrano in diretta concorrenza soprattutto con l’imperialismo francese, quello più debole e impreparato, perché ancora troppo fondato sull’occupazione militare, ambito in cui i contractor russi e i miliziani turchi sono più efficaci su quel terreno.


Con la fine dell’Urss cambiarono i giochi di potere in Africa… erano solo sospesi?

Cosa ha comportato la scomparsa dell’Urss e quali le conseguenze per chi deteneva il potere? I regimi alleati del blocco orientale, per esempio, furono costretti a riformarsi o cadere.
L’opera intrapresa da Michail Gorbačëv di riforma del sistema sovietico negli anni Ottanta e di disgelo delle relazioni internazionali, cambiando radicalmente la situazione internazionale, ha avuto ripercussioni ed effetti importanti anche per il continente africano. La scomparsa dell’Urss dallo scacchiere africano ha costretto i regimi alleati del blocco orientale a riformarsi o cadere. Nella prima categoria, Angola e Mozambico sono stati costretti a entrare in processi di democratizzazione che hanno posto fine alle guerre civili, prima Maputo e poi Luanda.

Superamento del colonialismo lusitano

Frelimo/Renamo

In Mozambico il sostegno dell’Unione Sovietica si è rivelato fondamentale per la sopravvivenza del paese negli anni Ottanta del secolo scorso. Le spinte anticoloniali portarono i movimenti indipendentisti a coalizzarsi nel movimento armato Frelimo (Fronte di Liberazione del Mozambico) e dopo dieci anni di guerriglia contro i coloni portoghesi, il paese ottiene l’indipendenza nel 1975. Iniziò una campagna di nazionalizzazione delle piantagioni e furono costruite scuole e ospedali per i contadini. Una rivoluzione di stampo sovietico. Il Frelimo sostenne le forze rivoluzionarie in Rhodesia e Sudafrica. I governi di questi paesi, appartenenti al blocco occidentale, risposero sostenendo i ribelli mozambicani della Renamo. Ne scaturì un’atroce guerra civile che terminò con gli accordi di pace di Roma del 1992 da cui nacque una nuova costituzione di stampo multipartitico. Il Frelimo, nelle elezioni libere tenute negli anni successivi si confermò sempre il primo partito del Mozambico.

Mpla/Unita

In Angola la situazione era abbastanza simile. Il Movimento per la liberazione dell’Angola, che lottò con determinazione contro i colonizzatori portoghesi, ottenendo l’indipendenza nel 1975, portò il paese nell’orbita sovietica e instaurò un regime totalitario. Di contro il blocco occidentale, per far valere i suoi interessi, sosteneva un gruppo di ribelli sotto il nome di Unione nazionale per l’indipendenza totale dell’Angola.
Da questo scontro iniziò una guerra civile durata oltre un ventennio al termine della quale vennero firmati gli accordi di pace che portarono alle prime elezioni nel 1992. Le ostilità, tuttavia, continuarono e terminarono solo dopo l’uccisione del leader dell’Unita, Jonas Savimbi, nel 2002. Il paese, dall’indipendenza è sempre stato governato dall’Mpla e l’Unita ha sempre svolto un ruolo di opposizione. Ma il padre della patria, Eduardo dos Santos, si è trasformato presto in un cleptocrate, governando il paese con pugno di ferro fino al 2017.

Il passaggio dalla geopolitica alla geoeconomia

In Mozambico e Angola i regimi, riformati, sono sopravvissuti, mentre in Etiopia, nel 1991, Menghistu, soprannominato il “Negus rosso”, viene estromesso dal potere.

Mandela/Mobutu

Proprio in quegli anni anche il Sudafrica è costretto a riformarsi ed è nel contesto della fine della Guerra Fredda che cade l’apartheid, che porta alle prime elezioni multirazziali del 1994 e la Namibia trova l’indipendenza. Anche gli interessi degli Stati Uniti per l’Africa cambiano di conseguenza, meno legati alla geopolitica e più all’economia. Il loro grande alleato nell’Africa centrale, Mobuto Sese Seko, dittatore dello Zaire, è costretto ad aprire il sistema politico e cedere, su pressione degli Stati Uniti, al multipartitismo. Soluzione che non porta alcun beneficio al paese, perché è sempre il dittatore che muove i fili, ma il paese crolla nel giro di pochi anni e si apre una fase di guerra permanente.

La perestroika africana

Benin, Congo, Mali, Niger…

Nel mondo francofono, sempre in quegli anni, soffia un vento di libertà. Era l’epoca delle Conferenze nazionali che avevano lo scopo di creare un clima democratico con la partecipazione di tutti. Il Benin fu il precursore nel 1990, il marxista Mathieu Keredoku fu sconfitto alle elezioni e si ritirò. Ma non andò così nella Repubblica del Congo, dove il presidente di allora, Denis Sassou Nguesso, continua a governare il paese. Fasi alterne vivono i paesi come il Mali, il Niger. Ma hanno una caratteristica comune: sono regimi poco democratici e accentratori del potere. La “perestrojka africana” che si poteva leggere tra le righe delle Conferenze nazionali non ha mai attecchito, anche se aveva suscitato molte speranze nelle popolazioni di questi paesi.

Rimane, tuttavia, il fatto che Gorbačëv si era adoperato per porre fine al mondo bipolare in cui l’Africa era alla mercè del gioco strategico di Washington e Mosca.

Secondo lo scrittore Vladimir Fedorovski, molto vicino all’ultimo leader sovietico, ai paesi africani mancherà il suo messaggio a favore di un mondo equilibrato: «Aveva un grande rispetto per il continente africano, che considerava il continente del futuro. Gorbačëv diceva che bisognava tener conto degli interessi delle diverse nazioni e trovare equilibri, e anche e forse essere prima di tutto africani. Sprecheremo somme da capogiro per la guerra, dimenticando che l’Africa è minacciata dalla carestia».

I primi a dimenticarsi delle parole di Gorbačëv sono stati proprio quei presidenti africani che si ispiravano all’Unione Sovietica. La Guerra Fredda non c’era più, ma le contrapposizioni rimangono e diventano sempre più complesse. Da una parte il mondo occidentale che cerca di frenare le aspirazioni di Mosca che, piano piano, sta rosicchiando pezzi di influenza occidentale. Il messaggio di Gorbačëv vale ancora oggi.

Dal 24 al 27 luglio, il ministro degli Esteri della Federazione russa, Sergej Lavrov, ha visitato quattro stati africani: Egitto, Repubblica del Congo, Uganda ed Etiopia. Non ha parlato di progetti o interventi. La sua missione era chiedere agli africani di schierarsi con la Russia contro l’Occidente, con un unico argomento: l’Occidente ha un passato coloniale e ha tuttora delle mire coloniali e imperiali.

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L’adesione dell’Africa alla Belt Road Iniziative è stata unanime? https://ogzero.org/la-penetrazione-della-cina-in-tanzania-rispetto-ai-paesi-limitrofi/ Mon, 13 Apr 2020 09:50:20 +0000 http://ogzero.org/?p=142 Grado di penetrazione degli investimenti asiatici in Africa: spartizioni tra India e Cina di OGzero, 21 giugno 2020 La Belt Road Initiative cinese, oltre a essere un’opera di collegamento con l’Europa, privilegia le relazioni con l’Africa orientale, porta di ingresso straordinaria per un’invasione pacifica, ma non senza conseguenze, dell’intero continente. E le porte di accesso […]

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Grado di penetrazione degli investimenti asiatici in Africa: spartizioni tra India e Cina

di OGzero, 21 giugno 2020

La Belt Road Initiative cinese, oltre a essere un’opera di collegamento con l’Europa, privilegia le relazioni con l’Africa orientale, porta di ingresso straordinaria per un’invasione pacifica, ma non senza conseguenze, dell’intero continente. E le porte di accesso sono numerose. L’ultima è rappresentata da Mauritius. Con l’isola nell’Oceano Indiano è stato siglato il primo accordo di libero scambio. L’intesa riguarda il commercio di beni e servizi nonché la cooperazione in materia di investimenti. L’accordo, secondo quel che viene reso noto dal governo cinese, non solo fornirà una più potente garanzia istituzionale per approfondire le relazioni economiche e commerciali bilaterali con Mauritius, ma promuoverà anche la cooperazione economica e commerciale, nonché finanziaria, tra Cina e Africa. La Belt Road Initiative cinese, oltre a essere un’opera di collegamento con l’Europa, privilegia le relazioni con l’Africa orientale, porta di ingresso straordinaria per un’invasione pacifica, ma non senza conseguenze, dell’intero continente. E le porte di accesso sono numerose. L’ultima è rappresentata da Mauritius. Con l’isola nell’Oceano Indiano è stato siglato il primo accordo di libero scambio. L’intesa riguarda il commercio di beni e servizi nonché la cooperazione in materia di investimenti. L’accordo, secondo quel che viene reso noto dal governo cinese, non solo fornirà una più potente garanzia istituzionale per approfondire le relazioni economiche e commerciali bilaterali con Mauritius, ma promuoverà anche la cooperazione economica e commerciale, nonché finanziaria, tra Cina e Africa.

Nel momento in cui si cerca di comprendere lo sviluppo economico e le partnership tra nazioni in via di sviluppo e le potenze economiche che si prefiggono di godere di esclusività nei settori più sensibili e importanti per alcuni stati è indispensabile indossare un paio di occhiali privi di pregiudizi. Vale per tutti i meccanismi di sviluppo globali, ma in particolare per l’immagine deformata delle differenti società africane. Sono situazioni che possono condizionare il mercato mondiale e che vedono in competizione giganti come la Cina, che è molto presente da decenni in Tanzania e che è snodo del Belt Road Iniziative con il porto di Bagamoyo; o l’India che invece ha relazioni privilegiate con Kenya e Sudafrica, anche per la comune tradizione coloniale britannica. Gli investimenti che vengono fatti sono ovviamente sempre comunque mirati a uno sviluppo la cui sostenibilità è sottomessa alla possibilità che consenta ovviamente agli investitori di ottenere profitti

Angelo Ferrari, 23 marzo 2020 su Radio Blackout
© 2015, Railway Gazette

Durante un intervento registrato il 24 novembre 2018 Andrea Spinelli Barrile ha preso spunto dalle infrastrutture per evidenziare la spartizione delle aree tra grandi potenze asiatiche. Del 1964 è il primo progetto cinese per una tratta ferroviaria in Tanzania, una nazione rivolta verso l’Asia che scatena la concorrenza tra Cina e India per soddisfare i loro bisogni (le risorse maggiormente saccheggiate sono legno, petrolio, minerali, gas), arrivando a parlare di investimenti stranieri in Africa orientale e presenza sul territorio anche di maestranze straniere più o meno tollerate in base alle abitudini nazionali.

Andrea Spinelli Barrile, 24 novembre 2018 (Radio Blackout): concorrenza tra grandi potenze asiatiche per controllare le risorse dell’Africa Orientale

L’adesione dell’Africa alla Belt Road Initiative è stata unanime, nessuno escluso. Ma perché attrae tanto la nuova via della seta cinese? I leader africani percepiscono questa iniziativa come una valida e tangibile alternativa agli incerti piani di investimento a lungo periodo proposti da europei e americani. I russi piacciono di più perché offrono su un piatto d’argento armamenti e addestramento militare. Pechino, tuttavia, ha saputo sfruttare la complessità delle garanzie a lungo termine di beni e risorse attraverso un sistema, tanto antico quanto nuovo, di baratto: in cambio del capitale di investimento e dell’infrastruttura, alcuni paesi concedono lo sfruttamento delle proprie risorse e una quota nei progetti infrastrutturali. Insomma, vince il capitalismo di stato. Ma vi è un altro fattore, oltre al denaro, che affascina i governi africani: la politica di non ingerenza negli affari interni ha indotto molti presidenti a individuare nella Cina un partner privilegiato

Andrea Spinelli Barrile descrive lo Zimbabwe in recessione profonda nel 2018, però con una tipologia di formazione educativa molto simile a quella occidentale e quindi con maggiori difficoltà ad avvicinarsi al mondo cinese, più ostico e lontano nell’immaginario e quindi apparentemente in contraddizione con quanto si legge nello stralcio del libro di Masto e Ferrari; in realtà forse è la differenza di accoglienza tra potere economico e politico locale e difficoltà culturale di integrare la presenza cinese. Per esempio la lingua kiswahili si trova arricchita da traslitterazioni cinesi in molte scritte e istruzioni in Tanzania: le lingue avvicinano (i comboniani non a caso hanno traslitterato lo swahili in epoche non recenti, agevolando così i rapporti tra africani e occidentali… che poi questi rapporti evolvano in termini negativi come le conseguenze coloniali, o positivi derivano dall’uso dei mezzi a disposizione), ma in realtà l’approccio dei cinesi che vivono o lavorano in Africa Orientale non concede nulla alle relazioni con le popolazioni locali e si nota anche da come viene percepito il linguaggio.

Andrea Spinelli Barrile su Radio Blackout, 24 novembre 2018: difficile metissage di culture sino-africane

I paesi dell’Africa occidentale – la maggior parte ex colonie francesi e con la famigerata moneta ancorata all’euro e garantita dal tesoro francese – stanno pensando di dotarsi di una moneta propria abbandonando, quindi, il franco Cfa. Tutto ciò è emerso durante una riunione che si è tenuta ad Abidjan tra i ministri delle Finanze e i governatori delle banche centrali dei paesi della Comunità economica degli Stati dell’Africa dell’Ovest (Cedeao); la nuova moneta, l’eco, potrebbe essere ancorato allo yuan cinese, per evitare oscillazioni pericolose per i mercati. Ciò che è accaduto con il franco Cfa ancorato all’euro. Il progetto di moneta unica della Cedeao è fortemente voluto dal Ghana, paese con una moneta abbastanza instabile. Insomma, l’Africa occidentale, se non tutta, vorrebbe passare, con questa decisione, dalla tutela francese a quella cinese. Ciò dimostra, inoltre, che per questi paesi non è pensabile garantire la stabilità monetaria senza un ancoraggio a una moneta forte. Il franco Cfa, negli anni, ha garantito proprio questo: stabilità e bassa inflazione, a differenza di ciò che è accaduto nei paesi dell’area che non avevano adottato quella moneta, il Ghana, ancora, ne è un esempio. Il Ghana è il principale partner commerciale della Cina nell’area: il commercio bilaterale è passato da meno di 100 milioni di dollari nel Duemila a 6,7 miliardi nel 2017. La metà della massa monetaria della comunità economica dell’Africa occidentale circola in Costa d’Avorio e il 40 per cento delle merci viene movimentata attraverso il porto di Abidjan. Nel Duemila il debito nei confronti della Cina era pari a zero, tra il 2010 e il 2015 è diventato di 2,5 miliardi di dollari.

Frags tratti da Mal d’Africa, di Raffaele Masto e Angelo Ferrari, postfazione di Marco Trovato, Torino, Rosenberg & Sellier, 2020, disponibile in libreria e su tutte le maggiori piattaforme online.

Angelo Ferrari il 26 marzo 2020 su Radio Blackout enumerava quanti e quali paesi africani rischiano la sovranità in cambio degli investimenti cinesi e crisi postepidemia

Anche Andrea Spinelli Barrile si occupava dell’economia, immaginando di poter usare occhiali diversi in grado di adattarsi alle soluzioni parziali connaturate alla struttura economica-finanziaria dell’Africa Orientale. Attrarre capitali stranieri serve per sopperire con quella liquidità alla inflazione; la produttiva o il welfare, la ricchezza si sposano a un approccio forse più umano all’economia delle varie Afriche.

Andrea Spinelli Barrile, 24 novembre 2018: monetarismo e sistemi economico-finanziari in Africa Orientale; intervento registrato su Radio Blackout

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La presenza militare cinese in Africa orientale https://ogzero.org/la-tanzania-tra-risorse-naturali-e-interessi-cinesi/ Sun, 12 Apr 2020 12:21:28 +0000 http://ogzero.org/?p=130 Boots on the ground La guerra fredda è un lontano ricordo. Eppure Russia e Usa hanno ripreso le ostilità, e dove? In Africa. Mosca sta cercando di riprendersi una qualche centralità nel continente africano, favorita, anche, dalle mutate condizioni politiche. Crollato il muro di Berlino, infatti, su tutto il continente si sono scatenate numerose guerre […]

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Boots on the ground

La guerra fredda è un lontano ricordo. Eppure Russia e Usa hanno ripreso le ostilità, e dove? In Africa. Mosca sta cercando di riprendersi una qualche centralità nel continente africano, favorita, anche, dalle mutate condizioni politiche. Crollato il muro di Berlino, infatti, su tutto il continente si sono scatenate numerose guerre che non avevano più nessun legame con gli amici di un tempo – America e Unione Sovietica – ma, semplicemente, rappresentavano il tentativo di riposizionarsi e trovare nuovi amici attraverso l’accaparramento delle risorse naturali. Finito, non del tutto per la verità, quel periodo, ora è “guerra” commerciale, ma anche militare, di tutti contro tutti. L’Occidente ha deciso che è giunto il momento di arginare l’influenza cinese che, ormai, ha le mani su tutto il continente, nessun paese escluso. La Russia non ci sta e non vuole, certo, rimanere ai margini. Mosca sta in maniera sistematica espandendo la sua incidenza militare e strategica nel continente. E tutto ciò allarma, e non poco, le cancellerie occidentali. Gli Stati Uniti, dal canto loro, hanno ben marcato il territorio attraverso il comando Africom. Oltre ai 4000 militari di stanza a Gibuti, la missione americana, dispone di 34 siti militari, 14 basi principali e 20 postazioni secondarie a supporto della lotta al terrorismo. In tutto oltre 7000 militari. Le presenze più significative sono in Somalia, Niger, Kenya, Mali e Camerun. 

Tornare a essere protagonisti in Africa, significa anche rafforzare la presenza militare. Un obbligo dettato dal fatto che la Cina ha già messo gli “scarponi” sul terreno attraverso le missioni di peacekeeping. I caschi blu cinesi, tuttavia, dispiegati in Africa – circa 2500 – sono concentrati nelle aeree di particolare interesse per Pechino. Non è un caso che mille di questi siano in Sud Sudan dove la Cina ha investito molto nel petrolio e altri 400 in Mali.

Frag tratto da Mal d’Africa, di Raffaele Masto e Angelo Ferrari, postfazione di Marco Trovato, Torino, Rosenberg & Sellier, 2020, disponibile in libreria e su tutte le maggiori piattaforme online.

 

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