Taiwan Archivi - OGzero https://ogzero.org/tag/taiwan/ geopolitica etc Sun, 02 Apr 2023 21:32:17 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.4.6 La vita in codice https://ogzero.org/la-vita-in-codice/ Sun, 02 Apr 2023 21:32:17 +0000 https://ogzero.org/?p=10575 ChatGPT  (Generative Pretrained Transformer di OpenAI) viene sospeso dal garante il 31 marzo 2023; in precedenza Elon Musk, ma soprattutto ingegneri ed esperti di Intelligenza Artificiale, avevano chiesto una moratoria della ricerca e dell’interazione con sistemi informatici che si programmano per autoapprendimento. Si profilano scenari da Blade Runner in mezzo ai soliti lanci di allarmi […]

L'articolo La vita in codice proviene da OGzero.

]]>
ChatGPT  (Generative Pretrained Transformer di OpenAI) viene sospeso dal garante il 31 marzo 2023; in precedenza Elon Musk, ma soprattutto ingegneri ed esperti di Intelligenza Artificiale, avevano chiesto una moratoria della ricerca e dell’interazione con sistemi informatici che si programmano per autoapprendimento. Si profilano scenari da Blade Runner in mezzo ai soliti lanci di allarmi – spesso interessati (come nel caso di prodotti open source) –, e forse di quel film di Ridley Scott vengono a riproporsi piuttosto le figure inquiete di demiurghi alla Eldon Tyrell, contro cui le sue Creature “replicanti” si ribellano; certo che le proposte creative delle performance dell’Intelligenza Artificiale non offrono particolari guizzi geniali (dove forse si trovano a essere messi in gioco “concatenamenti” frutto di elaborazioni del pensiero personale), ma si riducono a compitini, a vacue accozzaglie di banalità… che possono essere confusi con brani o creazioni artistiche solo per la superficialità della maggioranza delle pubblicazioni culturali che ottengono successo solo grazie all’abbassamento del livello dell’elaborazione dei prodotti di ingegno della società – almeno quella italiana, narcotizzata da tutti gli organi di informazione e lo smantellamento di tutte le sedi preposte a istruire e diffondere erudizione. E il garantismo insito nella democrazia sconterà sempre un gap rispetto alle ricette superficiali ma repentine della tecnologia, non riuscendo a imbrigliare la sua pericolosità.
L’esatto opposto delle basi di questo intervento tanto creativo quanto colto e informato di Claudio Canal in bilico sul crinale tra Dna e tecnologia, tra le informazioni genetiche e quelle culturali; tra umanesimo, transumanesimo, postumanesimo, inumanesimo… mettendo in relazione i neuroni a disposizione del cervello umano dotato di sinapsi ben più avanzate degli algoritmi, in grado di replicare solo canovacci stantii e banali.

fin qui OGzero, ora le argomentazioni provenienti dalle sinapsi di Claudio Canal


De Sossiri – C’è un’aria tagliente oggi o solo io la sento?

Casnov – Non sbaglia, caro collega, infatti sono qui per fare il solito ritaglio, ma non vedo la cara Ribonu. Senza di lei come ci arrivo?

Ribonu – Scusate, ero sovrappensiero. Direi: Crìspalo, crìspalo adesso!

Si sente come un colpo di forbici grandi: Zac!

Shakespeare, Measure for Measure, Atto II, scena 1° [rivista]


L’agente CRISPR sfida la lotta per la vita sul pianeta.
Geopolitica della geogenomica

Qual è il ballo preferito dal Dna? Il tango, la mazurka o una balsamica zumba? Neanche per idea, Dna ama le marcette veloci nei rigorosi due/quattro tempi. L’hanno dimostrato molti laboratori che si sono applicati  alla sua sonificazione. Non metterei la mano sul fuoco sulla sostanza scientifica di certe applicazioni. C’è chi, al MIT di Boston, trascrive le vibrazioni sonore delle Variazioni Goldberg di J.S.Bach  in architetture di nuove proteine e, per quanto posso capire io, non mi sembra una baggianata. Scriveva Leonardo: Non sai tu che la nostra anima è composta di armonia? [Trattato della pittura, I/23: “Risposta del re Mattia ad un poeta che gareggiava con un pittore”].

Mattonelle del Castello di Buda di Mattia Corvino

Si può dunque ascoltare il Dna? Gli manca solo la parola, anche se possiede un alfabeto piccolo piccolo di quattro lettere con cui codifica ogni vivente e non solo (virus). Un cuoco con pochi ingredienti che cucina la vita.

Dna, in arte Acido Disossiribonucleico, ha dovuto aspettare non poco per essere scoperto e raccontarci con eleganza di che pasta siamo fatti. Da quando la sfortunata Rosalind Franklin ha mostrato la foto 51, i serpentelli in amore, la doppia elica danzante è entrata nel nostro immaginario tanto che è diventato luogo comune un po’ abusato dichiarare di avere questo o quello nel proprio Dna anche o soprattutto quando non è vero niente.

Era il maggio freddoloso del 1952, al King’s College di Londra la foto n. 51 veniva di fatto scippata dalle mani di Rosalind e iniziava la sua avventura sul palcoscenico della scienza. Sei anni dopo la scienziata sarebbe morta, trentaduenne. Ignota ai più.

Rosalind Franklon “osserva” la foto n. 51

 

Radici biotecnologiche

Lo sposalizio tra bio e tecnologie non risuona rassicurante, come succede invece al mistico bio prefisso a diversità, agricoltura, cibo, etica, architettura
Anche il Dna è dondolo, suscita a getto continuo speranze e paure, sogni e incubi. Nel 2002 l’editore Laterza pubblicava Il sogno del genoma umano e altre illusioni della scienza [originale del 2000] di Richard Lewontin, noto biologo e genetista statunitense, deceduto nel 2021. Nella quarta di copertina si poteva leggere:

«Una volta che avremo a disposizione la mappa completa dei nostri geni, saremo in grado di predire lo sviluppo del nostro corpo, delle malattie, della nostra personalità? Comprenderemo meglio le relazioni sociali? Saremo capaci di creare la vita stessa? Da Darwin alla pecora Dolly, inclusi il determinismo biologico, le eredità della selezione naturale, la psicologia evolutiva, le indagini sociologiche sulle abitudini sessuali, la clonazione e il progetto Genoma umano: le critiche di Lewontin sferzano una falsa scienza e si abbattono sull’eccessivo orgoglio di quanti pretendono di dominare, oggi o in un futuro molto vicino, tutti i segreti della vita».

Domande e risposte buttate lì per promuovere un libro, ma non campate in aria. Dopo vent’anni ci è abbastanza chiaro.

Le Biotecnologie si prenderebbero la testa fra le mani se dovessero fornire una definizione di se stesse. Fare formaggio o yogurt è una biotecnologia. Anche il trapianto di fegato o di cuore lo è. Hanno a che fare con ciò che chiamiamo vita e, in certi casi, Vita, in rigoroso maiuscolo. Un campo di ricerca e applicazione in espansione accelerata che si scinde in subsegmenti di subsegmenti. Come la vita, d’altra parte, in cui bíos – la vita individuale e sociale – e zoé  – la vita biologica – si intersecano, si azzuffano e alla fine sembrano scambiarsi i ruoli.

«Io avrei affrontato in me stessa un grado di vita così primario da essere prossimo all’anonimato» (Clarice Lispector, La passione secondo G.H., La Rosa, Torino, 1982, pag. 17).

Per scrutare il Dna era stata concepita negli anni Ottanta del Novecento la Genomica, essendo la Genetica troppo generalista. Al suo fianco la bioinformatica per la eccezionale quantità di dati da trattare. Ne segue una esaltazione classificatoria che si diffonde nei laboratori e la genomica viene sottoposta a una “divisione cellulare” da cui si generano tecnoscienze che sbandierano la desinenza omics: proteomica, metabolomica, epigenomica, trascrittomica, lipidomicaignoroma.

da “Nature Reviews Gastroenterology & Hepatology”

Sembra una c.omica [nessuna parentela etimologica…] l’ingorgo di sentieri di ricerca da febbre dell’oro, dove l’oro è il processo che da qualche miliardo di anni guida il regno della vita e i suoi rituali cellulari. La discesa nel Dna e nei suoi infiniti brusii e moti primari si combina con l’esuberante potenza degli algoritmi. Questo accoppiamento postnovecentesco sollecita aspettative e promesse che nessuno sa se saranno mantenute, tradite o deviate. Mettere le mani sul codice della vita e manipolarlo con o senza secondi fini è l’ampio orizzonte entro cui si muove la genomica e la sua rigogliosa prole – da Joshua Lederberg, ‘Ome Sweet ‘Omics– A Genealogical Treasury of Words  (“The Scientist”, aprile 2001), a Separation Techniques Applied to Omics Sciences. From Principles to Relevant Applications, a cura di Ana Valéria Colnaghi Simionato (Springer, 2021); Wikipedia alla voce List of Omics Topics in Biology ne elenca, per ora, 45. La sesta edizione di 1520 pagine di un trattato universitario Biologia Molecolare della Cellula (traduzione Zanichelli di un’opera collettiva statunitense nota come “l’Alberts”), prevede per ognuno dei 24 capitoli un esteso paragrafo finale Quello che non sappiamo, che, a seconda dell’ottica con cui lo leggiamo, può essere di conforto o di disperazione.
Potremmo chiamarlo un hackeraggio del Dna.

Dispositivo CRISPR

Questo affanno epistemologico ha subìto un ulteriore stress quando una sigla tra le tante che fluttuano nel mare delle scienze ha cominciato a farsi notare:
Crispr. Si scioglie così: Clustered Regularly Interspaced Short Palindromic Repeats che alla lettera si può tradurre Brevi ripetizioni palindrome raggruppate e separate in modo regolare, ancora meno comprensibile dell’originale. Provo: sequenze ripetute di Dna impiegate dai batteri come un vero e proprio sistema immunitario di protezione da acidi nucleici provenienti da altri batteri o da virus.
Venticinque anni di ricerca di base per capire che la sequenza Crispr è uno “schedario” dei Dna dei virus e batteri che in passato avevano sferrato attacchi ai batteri sotto osservazione. Lo “schedario” permette di riconoscere eventuali nuove incursioni e neutralizzarle con una proteina Cas9 [Crispr associated] adibita al taglio del Dna del virus o batterio invasore. Una specie di video gioco in cui, zak!,  non bisogna sbagliare il taglio del cordino infinitesimo che è minaccia.
La mia blasfema sintesi per dire che Crispr-Cas9 è un dispositivo che appartiene agli esseri viventi, perfetti sudditi della natura, come scriveva Giacomo di Recanati.

Nel 2012 due ricercatrici, Jennifer Doudna ed Emmanuelle Charpentier, precedute da una marea di studiosi e dall’attenta analisi della fermentazione del formaggio (e dello yogurt), si rendono conto che il congegno di taglia e incolla praticato dai batteri può essere con una certa facilità riprodotto da esseri umani dotati di intelligenza e di competenza adatte, senza dover spolpare i bilanci di super Stati, come succede ad esempio per l’energia atomica.
In sostanza, Crispr-Cas9 è un insieme di tecniche che permettono di localizzare una sequenza nel Dna di una cellula, rimuoverla, modificarla o sostituirla con una qualsiasi altra sequenza.

 

Si prende il meccanismo in prestito dai batteri e lo si trasforma in una tecnologia di intervento sulla vita. Cioè un prodotto ovvero una merce. Alla genomica vengono improvvisamente i capelli bianchi. Un invecchiamento folgorante. Era infatti concentrata sulla lettura del genoma, mentre si tratta a questo punto non solo di trascrivere-editing il Dna dei viventi [umani e non umani], ma di ricomporlo. Compito della biologia sintetica. Non più una interpretazione del reale, una teoria dell’esistente, ma – citando Bernanr Stiegler da un libro del 2008 (Ėconomie de l’hypermatériel et psychopouvoir-Entretiens avec Philippe Petit et Vincent Bontems) una teoria del possibile, una tecnoscienza che fa avvenire ciò che diviene. E Edward Bryan fornisce pure la prova dei mercati finanziari che scommettono sulla biologia sintetica in un dossier pubblicato nel febbraio 2022 per AllianceBernstein, La rivoluzione della biologia sintetica-Investire nella scienza della sostenibilità

Parte la maratona: migliaia di laboratori si mettono febbricitanti al lavoro, Nobel per la chimica 2020 alle due scienziate. Si può modificare il Dna dei viventi, con discreta facilità, precisione mai vista prima, relativa poca spesa. Sogni, chimere, castelli in aria. Si può guidare l’evoluzione umana, anzi, dei viventi tutti, proclama orgogliosamente la tecnoscienza asserendo, forse a sua insaputa, la materialità della vita e la sua universalità. Non noi e loro, ma solo noi viventi, di qualsiasi specie.

Questa interferenza suscita immediatamente due campi contrapposti:

  1. l’umanità ha una configurazione fissa che deve essere conservata. Guai a chi…! Sugli altri viventi – animali e piante – possiamo intenderci.
  2. l’essenza umana, se c’è, è flessibile e modificabile. In evoluzione, appunto.

Opposte categorie: umanesimo, transumanesimo, postumanesimo, inumanesimo

C’è, mimetizzato da qualche parte, un fronte neo hitleriano? Comunque la si voglia mettere, con CRISPR la biopolitica ha la sua celebrazione solenne. Un potere sulla vita, diretto, allo stato puro, drastico. Vita come campo di battaglia.

Il tumultuoso ginepraio di tecniche Crispr si traduce in migliaia di brevetti con le relative applicazioni industrial-commerciali, che manifestano una tendenza a crisperizzare presente e futuro. In simultanea si alzano grida di allarme: non tutto è innocente e benefico, si documentano danni irreparabili al genoma o esiti cancerosi. Crispr arma di distruzione di massa o elisir di vita nova? Il Nuovo Mondo è veramente brave new world?

Geopolitica

Il 26 novembre 2018 un sorridente biofisico annuncia  che sono nate due bambine a cui in fase embrionale ha modificato il Dna con tecnica CRISPR per renderle immuni all’HIV [AIDS]. Scalpore mondiale. Designer babies. Dopo un po’ il suo governo lo arresta e condanna a tre anni di carcere (non è chiaro in seguito a quale violazione di legge). Il biofisico si chiama He Jankui. Il governo è quello cinese. Lulù e Nana, le due bambine, sembra che non ne abbiano tratto vantaggio, anzi. E se un giorno He Jankui ricevesse il Nobel?
La biopolitica in forma di tecnoscienza inciampa così nella geopolitica. Il momento non è magico. Il Maestro del Mondo tentenna molto nella sua signoria. La splendida solitudine praticata dal 1989 viene poco alla volta rosicchiata dall’esterno e anche dall’interno. Siamo in un’epoca di ridefinizione dei rapporti di potenza e l’ex Contadino Arrabbiato dell’Estremo Oriente contende al Signore del Mondo la sua prerogativa. I due, Cina e Stati Uniti, sono molto interdipendenti economicamente (Global Times), non possono brutalmente disaccoppiarsi, decoupling come dicono gli addetti ai lavori. Il loro divorzio va per le lunghe, la loro separazione non consensuale procede un po’ alla volta e si realizza per ora sul piano della tecnologia, facilitando, di rimbalzo, il coupling, l’accoppiamento Cina/Russia. Sullo sfondo una guerra fredda che si intiepidisce e potrebbe anche diventare calda, se si presta attenzione alla nube che appanna Taiwan.

Il sistema mondo ha bisogno di un rimaneggiamento

Scriveva Giovanni Arrighi: «Uno stato dominante esercita una funzione egemonica se guida il sistema degli stati in una direzione desiderata e, nel far questo, è percepito come se perseguisse un interesse generale» (Il lungo XX secolo – Denaro, potere e le origini del nostro tempo, il Saggiatore, 2014, pag. 51)

Ecco, quest’ultima condizione per gli Stati Uniti non è più riconosciuta da buona parte del pianeta, esclusi governi italiani e consanguinei. Neppure la Cina sprigiona affabilità, nonostante i suoi rilevanti tentativi, la Belt Road Initiative – la nuova Via della Seta –, la fattiva presenza in Africa e in buona parte dell’Asia [ed Europa…], il suo prendere le distanze dal cosiddetto Occidente.  Dalla sua ha una straripante popolazione, in tendenziale decrescita, una coesione sociale imposta dall’alto che funziona epperò scricchiola, una crescita economica travolgente e tuttavia oggi in affanno, una capacità quasi unica di mobilitare menti e intelligenze e non solo corpi.
Anche la Cina deve prendere atto che conta molto la geo, la terra e non solo la politica. Geopolitica. La spaventosa siccità dei mesi estivi del 2022 e la conseguente drastica riduzione del motore dello sviluppo, la banale acqua, hanno messo in graticola popolazione e apparati, piani quinquennali e sviluppo. È indispensabile scongiurare una guerra con la Cina, ma altrettanto lo è esorcizzare una frenata della macchina produttiva cinese, a cui siamo ancora meno preparati.

Il lago Poyang nel tratto di Jinxian il 21 agosto 2022

I due contendenti intitolano il conflitto sulle nuove tecnologie alla propria “sicurezza nazionale” che inevitabilmente genera una spirale di insicurezza reciproca. I due governi sanno che il controllo delle nuove tecnologie emergenti determinerà il successo nel XXI secolo. Il vincitore di questa corsa sarà quello in posizione per guidare l’economia globale e godere dell’influenza e del potere che ne derivano.
Il primato degli Stati Uniti nelle scienze della vita e nelle biotecnologie è indiscutibile. Tuttavia è bene ricordare che fu sì l’URSS la prima a conquistare i cieli con lo Sputnik 1, ma a mettere per primo il piede sulla luna fu Neil Armstrong dell’Ohio. Come allora si tratta non di emulazione, ma di rivalità che negli ultimi tempi ha fatto a pezzi la feconda e significativa cooperazione che intercorreva tra i due. Il panico per le conquiste cinesi nell’intelligenza artificiale si è esteso anche alle biotecnologie (Il “balzo in avanti” nella ricerca scientifica compiuto dalla Cina non ha uguali: Qingnan Xie, Richard B. Freeman, Bigger Than You Thought: China’s Contribution to Scientific Publications and Its Impact on the Global Economy, “China & World Economy”, 2019, 27), con diverse drastiche iniziative di chiusura. Ma il settore biotecnologico è diverso da altri (per esempio quello dei semiconduttori), in particolare l’editing genomico è per sua natura transnazionale e a evoluzione rapidissima (Eric.S.Lander, The Heroes of Crispr, in Cell, 164, 1-2, 2016 la mappa n. 2). C’è rischio che la politica degli Stati Uniti si dia la zappa sui piedi.

Contro Usa contro Cina contro

Due decenni fa gli analisti pensavano che la Cina non avrebbe potuto diventare un gigante economico per l’eccessiva popolazione e per un reddito annuo pro capite pari a quello delle Filippine. Poi, nel decennio successivo, sarebbe invalsa l’abitudine di proclamare che sì, la Cina è economicamente gigantesca, ma tutto si basa sull’abilità di copiare i prodotti delle economie avanzate, non sull’innovazione, la quale ha bisogno di una società libera, di pensatori liberi e indipendenti, non sotto la cappa autoritaria di un regime centralizzatore… I sinologi più avvertiti davano un nome a questa abilità di riprodurre, Shanzhai, un neologismo riferito alla tecnologia che significa contraffatto, imitato. Per noi occidentali un termine spregiativo. Vuoi mettere la romantica creatività dell’individuo in cui si accende per miracolo la lampadina della ispirazione nella sua feconda testa e da cui a cascata poi piovono soluzioni scientifiche, prodotti, sinfonie, poemi. I cinesi in genere, soprattutto se giovani, interpretano Shanzhai come la capacità di incrementare, di migliorare, di far evolvere un quid già esistente. Per dirla in musica, variazioni su un tema.

Epistemologia caotica

Quatto quatto arriva il futuro nel nostro presente e si scopre, soprattutto gli Stati Uniti scoprono, che la Cina è diventata concorrente di livello, anzi competitor, che in effetti dà più l’idea, in questi settori chiave delle nuove tecnologie:

– intelligenza artificiale,
– telefonia di 5° generazione [5G]
– semiconduttori,
– QIS Quantum Information Science [meccanica quantistica applicata all’informazione computazionale]
– biotecnologie,
– energia green.

E non le nanotecnologie, la robotica, le scienze dei materiali, le neuroscienze, il metaverso ecc.? Va bene qualsiasi altro elenco che frulli digitale in mousse con qualcos’altro. È la famosa chaos-epistemology, da non intendersi come epistemologia del caos, il quale abbonda nella realtà, quanto proprio una epistemologia caotica, che non si preoccupa di conoscere, ma di agitare i sogni e i sonni. Lo fa gridando al lupo, al lupo e buttando sul piatto miliardi di dollari per rincorrere, sorpassare, lasciare indietro la Cina.

Se poi il presidente della medesima candidamente dichiara: Noi abbiamo afferrato ben bene lo scopo strategico di costruire un potere scientifico e tecnologico di livello mondiale… e sforzarci per essere i primi nei settori base e in quelli di frontiera non c’è scampo alla costernazione occidentale.

Il paradigma è cambiato. Se la Cina prima era il colosso dai soliti piedi di argilla, adesso è la minaccia da sconfiggere. Con ogni mezzo.

L’analogico senziente

Dentro gli stravolgimenti paradigmatici si sente un rumorino: è l’analogico che avanza, che torna da protagonista sulla scena. È doloroso che sia la guerra a ricordarcelo in mezzo alla nostra infatuazione per il digitale, il virtuale e le tecnologie che se ne nutrono. Bombardamenti, torture, stupri, devastazione, morte, dice la guerra. La vita dice: troppo caldo, troppo freddo, troppa acqua, troppo poca. Bellezza e virus. Nuovi sogni, nuove emozioni, nuova infanzia, nuova lunga vecchiaia. Pieno di gente che rovista nei cassonetti del mondo e quattro gatti [jeff bezos, mark zuckerberg, elon musk, bill gates] che potrebbero comprarsi sull’unghia metà del pianeta. Se gli addizioni il grappolo di oligarchi sparsi qua e là, si comprano tutto il pianeta, satelliti inclusi. Questo per dire che sarà pure una contesa tecnologica quella tra Cina e Stati Uniti, con rispettive confraternite, ma stiamo tutti col fiato sospeso in attesa che la stessa Cina decida o non decida di cosa fare di quella Cina che si chiama Taiwan, per fare un esempio molto analogico e scarsamente virtuale.

Le magnifiche sorti e progressive del digitale non imbottiscono tutto il futuro (David Sax, The Future is Analog, Public Affairs, New York, 2022).

Semaforo verde per Prometeo? Se si può fare una cosa, dobbiamo farla, dice il mito dell’imperativo tecnologico invece di soppesare quello che rischia di fare e sarebbe meglio non facesse. Non siamo forse stati creati come imago Dei? Dice una tradizione cristiana un po’ tirata per i capelli. Quindi con lui co-creatori. Giocando a dio siamo legittimati a cambiare l’evoluzione, a dirigerla come ci pare? Sì, naturalmente, evoluzione significa processo in trasformazione, non un codice fisso per l’eternità.

La paura del Demiurgo al cospetto della Creatura

«Ma noi abbiamo bisogno di pensare a fondo alle vaste implicazioni di una tecnologia potente e di come svilupparla in modo responsabile», dice Jennifer Doudna una delle due scienziate Nobel per il Crispr.

È in scena il rimorso degli inventori. Lo abbiamo già visto con l’energia nucleare o, più alla buona, la scienziata in quanto statunitense ha ben presente il caso dell’afroamericana Henrietta Lacks e il macroscopico business costruito sulle sue cellule immortali. Di cosa si preoccupa Doudna, che ha il DNA addirittura nel suo cognome? Del lato oscuro di Crispr? Sandy Sufian, Rosemarie Garland-Thomson sono due ricercatrici disabili che pongono domande vincolanti nel loro saggio del febbraio 2021 (The Dark Side of CRISPR). E infatti Doudna ribadisce:

«L’editing delle cellule germinali può inavvertitamente trascrivere nel nostro codice genetico le disuguaglianze finanziarie delle nostre società» (A Crack in Creation. Gene Editing and the Unthinkable Power to Control EvolutionCrack in Creation, p. 233)

Chissà perché cancellerei l’inavvertitamente?

Ma forse Doudna si preoccupa della ormai praticabile eugenetica di velluto? Vieni qua che ti togliamo il gene cattivo e, soprattutto, lo togliamo anche ai tuoi discendenti: più nessuno con i capelli rossi. La biodiversità va bene per piante e fiori, ma per gli umani è solo una disgrazia. Estremizzo, ma neppure tanto, una posizione presente in alcune correnti del postumano, del transumanesimo e, molto probabilmente, in alcuni laboratori genetici. Tutti convinti che sia finalmente arrivato il tempo dell’enhancemenet, del potenziamento, dell’aumento della condizione umana, del superamento dei limiti, del salto biologico di qualità. Un futuro aumentato. Sgombrato il negativo dalla vita, cioè la morte, ingombro fastidioso. Immortalità garantita, fra un po’.

Pensieri intriganti e intricati

«C’è una analogia strutturale tra genitori che modificano geneticamente i figli e genitori che li educano tradizionalmente… Non tutte le modificazioni genetiche sono moralmente legittime come non tutti i tipi di educazione sono moralmente appropriati».

Stefan Lorenz Sorgner è un filosofo assertivo e affilato, di cui sto appiattendo un pensiero composito, che non distoglie lo sguardo da una realtà completamente inedita: «guardo la forbice genetica di Crispr o l’editing genetico in generale, come la più importante invenzione scientifica di questo inizio del XXI secolo». Aggiungo, di mio: fino a non molto tempo fa si riteneva che più di due terzi del Dna fosse spazzatura, una materia oscura inerte, poi si è scoperto che invece no, pur non dando origine a proteine, ha un compito regolatore molto importante. Adesso si chiama DNA non codificante-Noncoding DNA. La scienza, come al solito, procede a sbalzi. Sempre più difficile essere lungimiranti.

Ruipeng Lei e Renzong Qiu sono una ricercatrice della School of Philosophy, Huazhong University of Science and Technology, e un ricercatore dell’Institute of Philosophy, Chinese Academy of Social Sciences, in Cina. Ragionando sulle radicali differenze tra l’editing genetico di cellule germinali, che hanno materiale genetico che può essere trasmesso ai discendenti, e quello praticato su cellule somatiche – per esempio quelle del fegato, che invece non hanno questa proprietà – toccano il tema della moralità di Crispr. Concludono con un esempio elementare, ma calzante circa la nostra attuale responsabilità verso il futuro degli umani:

«uno stato A lancia un missile sullo stato B e uccide persone innocenti violando il loro diritto alla vita. Lo stato A lancia oggi un missile che orbita per due secoli e solo dopo va a uccidere persone innocenti. Moralmente è del tutto irrilevante che il missile colpisca subito dopo il lancio o fra due secoli»

Si guardano ormai in cagnesco Cina e Stati Uniti, gli uni mettono tutti i possibili bastoni fra le ruote e lei canta l’inno all’autoproduzione, autosufficienza, autarchia, sovranità scientifico tecnica. Con i corollari che ne possono seguire in chiave di politica nazional/nazionalistica. Sono primedonne della ribalta globale, ma tra le quinte altri protagonisti si affacciano, per esempio l’India che nel campo delle biotecnologie e in specifico nell’Editing genomico sta accumulando una esperienza sostanziosa e mostrando un impegno più che ragguardevole, soprattutto nell’ambito delle coltivazioni, della produttività animale e delle malattie endemiche del Sud Asia [17]. E il Giappone, e il Qatar  e …

Editing the world

Battaglioni corazzati di ricercatori in tutto il mondo stanno espandendo a marce forzate le diverse configurazioni della tecnica Crispr. I geni dei virus, dei batteri, del bioma umano, animale e vegetale non si sono mai sentiti così tanto osservati e maneggiati. C’è un’atmosfera di esaltazione e di ansia utopica nei laboratori, che alimenta inediti sconquassi bioculturali e abissi di abominio. Sono in gioco i parametri fondamentali della vita, tanto che vedere il sommovimento in atto solo come una questione geopolitica tra grandi potenze si rivela una scena incartapecorita. E, come per qualsiasi tecnoscienza, si infiamma una famelica spinta industriale e commerciale che con l’acquolina in bocca intravede miraggi finanziari. Se questo inatteso brodo primordiale sia una chimera è troppo presto per dirlo. Non è invece presto, tornando alla geopolitica spicciola, sottolineare qualche tendenza significativa in ambito militare e agricolo, trascurando la sterminata applicazione in campo medico, difficilmente sintetizzabile.

Premessa simpatica e antipatica: chiunque con una formazione di scuola media superiore è oggi in grado di modificare il genoma di un essere vivente, animale o pianta, senza dover ricorrere a finanziatori formidabili bensì utilizzando i kit adatti a crisperizzarlo, ampiamente disponibili in rete – il caso della società The Odin del biohacker Josiah Zayner è il più noto (la rete è piena di ciarlatani, di genialoidi, di geni [plurale di genio] che operano con Crispr nella versione fai da te). La pericolosità di una proliferazione incontrollata della tecnica Crispr, il cui costo dei reagenti sul mercato Usa si aggira sui 20 dollari, è accuratamente analizzato nel cap. 6° di Genome Editing and Biological Weapons. Assessing the Risk of Misuse, di Katherine Paris (Springer, 2023).

Dual-use

Il criterio che cercava di definire il duplice uso / dual use di un prodotto ovvero la sua destinazione civile con accertate possibilità di impiego militare, caso paradigmatico l’energia nucleare, va svaporando in ambito biotecnologico pur continuando  la Cina a essere accusata di abusarne.  Se, per esempio, con la tecnica Crispr sarà possibile curare qualche tipo di cancro, sarà ugualmente possibile provocarlo, se sarà possibile incrementare una coltivazione basilare, sarà anche possibile ostacolarla. Altro esempio lampante dell’interscambiabilità e fluidità dei risultati è la Neuralink Corporation di Elon Musk che conta, a breve termine, di impiantare un chip neurale nel cervello umano, con finalità – ci mancherebbe – terapeutiche, anche se, al momento, la società è indagata per aver procurato la morte non necessaria in fase di sperimentazione ad almeno 1500 animali. Un piano di ricerca quello dell’interfaccia cervello-computer molto frequentato in ambito militare e Nato in particolare.

La militarizzazione delle biotecnologie non solo in Cina, ma dovunque, può realizzarsi senza recedere dalla loro destinazione “civile”. La nebbia di guerra, di cui parlava Clausewitz, aumenta, non diminuisce nella lettura di Wallace.
La smisurata e lievitante disponibilità di dati sul genoma dei viventi, rende l’applicazione bellica desiderabile e, combinata con altre tecnologie, utilizzabile nel teatro di guerra, senza dover incappare nella deterrenza nucleare che ha regolato la Guerra Fredda: tu spari il primo colpo atomico, io rispondo ed è la fine per entrambi. Cassandra suggerisce che si potrebbero avviare genocidi con bersaglio una certa popolazione ben taggata geneticamente, avendo come mandanti non solo grandi potenze o consueti stati canaglia o regimi apocalittici, come qualcuno li chiama, ma anche compagnie di ventura private, i contractors, ben attivi sul mercato geopolitico, reti mafiose onnipresenti, gruppi terroristici di varia specializzazione.
Attori statali e molti attori non statali. Guardando indietro: l’impero coloniale inglese è stato creato da una compagnia commerciale ben organizzata e non dall’esercito di Sua Maestà. Questa panoramica che risuona di echi di guerra appare linda e stuzzicante perché riesce a strofinare via il suo prodotto finale più genuino, il sangue umano sparso a terra.

Lo scorso ottobre un gruppo di genetisti ha pubblicato su Nature l’articolo Contrastare la militarizzazione della ricerca genetica da parte degli estremisti in cui documenta come la diffusione dei risultati di laboratorio possa incrementare tendenze razziste già ben presenti nella società, in questo caso gli Stati Uniti. Uno degli autori si era accorto che nel documento di 180 pagine pubblicato sui social dal suprematista bianco e fascista orgoglioso, il diciottenne Payton Gendron, era citata con ammirazione una sua ricerca. A maggio il razzista ha ucciso in diretta streaming dieci persone, quasi tutte afroamericane, sparando con un fucile in un supermercato di Buffalo, NY.

Foschia di guerra

In contrasto con questa popolarizzazione delle tecniche di editing genomico, negli ambienti militari prolifera un’ossessione golemica: la creazione del soldato aumentato, non solo per le armi letali che maneggia, ma per la sua strabiliante qualità umana. Opera notte e giorno, non sa cos’è il dolore, quello degli altri meno che mai, sopravvive in ambienti infernali, ha la vista dell’aquila, l’aggressività del leone affamato, è nefasto come un fulmine, immune da fragilità fisiopsichiche come un cherubino, intelligente almeno come Einstein. Un campo di battaglia gremito di vispi David che abbattono uno dopo l’altro i corpulenti Golia che osano presentarsi. Il sogno dei generali, dalla Guerra di Troia. L’alta concentrazione di studi (e di laboratori) sul guerriero superman, Übermensch, può darsi dia qualche risultato bellico, ma soprattutto racconta di un’antropologia militare tentata dalla mitologia in versione contemporanea cioè transumanista, un frullato di Ercole, Maciste, Rambo e Batman. Il Ministero della difesa britannico con quello tedesco parlano infatti di augmentation e non di miglioramento, come consentirebbe il termine enhancement, riferendolo ovviamente all’uomo maschio perché quando si tratta di uomo femmina per accedere alle meraviglie dell’aumentazione deve prima praticare la suppression delle mestruazioni, tanto per cominciare.

Nella foschia il microchip ci vede benissimo

Il nostro sguardo è concentrato sulle Grandi e Medie Potenze, su ciò che arriva ai nostri occhi, e non mi pare che si vedano in giro altri Julian Assange a rovistare  nei sancta sanctorum delle Potenze medesime mettendo in gioco la propria esistenza. È uno sguardo appannato quello con cui scrutiamo gli alti comandi degli stati e forse dovremmo anche scandagliare i tanti hitlerini che gironzolano per il pianeta con intenti predatori. Grabbing non solo di terre, materie prime, acque, biodiversità… ma anche di Dna che la tecnica Crispr ha reso manipolabili e indirizzabili. Sarebbe bene frugare a passi felpati in anonime cucine, cantine, garages, capannoni di periferia, imprese familiari, per mettersi al riparo da future sorprese non gradite e, nello stesso tempo, trarre frutto da questa caotica democrazia genetica per acquisire innovazioni che promuovano equità e non nuove disuguaglianze, che scalfiscano la scienza cementificata nelle istituzioni e nelle imprese multinazionali, che ogni volta aprano e incentivino una discussione pubblica su ciò che è veramente umano. Nella vasta e dispersa comunità di biohackers sarà necessario trovare il punto di equilibrio tra le sperimentazioni dissennate e i disciplinamenti arbitrari. Crispr si lascerà governare?
Mentre noi ci disponiamo ad aguzzare lo sguardo, se ne posa uno su di noi, molto penetrante, nel nostro intimo che più intimo non si può. La sorveglianza genetica in Cina da parte degli apparati governativi ha già racimolato un gruzzoletto di 80 milioni di Dna, negli Stati Uniti si rastrellano quelli degli immigrati, dei detenuti, dei delinquenti e,  meglio essere previdenti, dei neonati. La cara Unione Europea si impegna a far la sua parte.
Che siamo noi stessi a fornirli gioiosamente alla rete o siano scavati ed estratti da altri, il finale non cambia: fantastilioni di dati personali sono minuziosamente accatastati in megacapannoni detti data base, sparsi per il mondo e posseduti da una dozzina di proprietari che ne fanno merce squillante per i loro salvadanai. Le biobanche, in particolare, cresceranno esponenzialmente perché tutti vogliamo che siano debellate quelle malattie che ci fanno paura e quei virus malefici che si sono risvegliati, ben vengano perciò sequenziamenti e screening genetici di massa e magazzini di materiale biologico. Il tecno ottimismo che ci guida (detto anche tecno misticismo) lo esige e se Crispr, o chi per esso, ci promette una panacea per la nostra salute siamo disposti a rinunce anche consistenti. Dentro questa contraddizione, internet + genomica, siamo sballottati e senza grandi idee sul come attraversarla, mentre la Guerra Fredda 2.0 si sta srotolando sul contenimento tecnologico soprattutto dei microprocessori, i chips, che in quanto manufatti prodotti da un’industria rientrano in un quadro visivo tradizionale, più familiare. Una fabbrica con operai e operaie che vanno e vengono, un prodotto impacchettabile, dei consumatori in carne e ossa. La principale azienda produttrice si chiama TSMC, ha sede a Taiwan, ha filiali in Cina e, fra poco, anche in Arizona. Triangolazione bollente che riconosciamo al primo colpo. Crispr e ingegnerie genomiche affini sono meno a vista d’occhio, dunque quasi per niente avvistabili e soprattutto contenibili dalla sorveglianza istituzionale, dalle legislazioni, dalle etiche oggi prevalenti né, presumo, da quelle future.

Dacci oggi

Bazooka, granate e mitragliatrici, rimpiazzate da funghi, muffe e animaletti. Non è un nuovo videogioco per bebè, è uno scenario di guerra. Di agroguerra, un termine che mi invento ipso facto e che applico a una variante della guerra dei mondi che il capitalismo periodicamente ci regala. La cattivissima Cina può impossessarsi del Dna di un seme ogm usato negli Stati Uniti e alterarlo in modo tale da distruggere i raccolti. Proprio così, scrive un rapporto di una commissione governativa di Washington, anche se fino a poco fa vantavano la loro trentennale collaborazione nel settore agrario. Succede nelle migliori famiglie che, aumentando i dissapori, ogni gesto sia percepito come ostilità dichiarata. Nelle collettività in subbuglio tutto diventa strategico. In Iran lo è per le donne togliersi il velo e per il regime impiccarle e con loro chi le appoggia. È un vicolo cieco, finché non si capovolge la strategia dominante. Per farlo è necessario ogni tanto distogliere lo sguardo dai contrasti tra Grandi e setacciare invece lembi e frammenti di una realtà in grande fermento

Agricultural Biotechnology: Latest Research and Trends è un libro di 741 pagine sulle novità delle biotecnologie in agricoltura curato da Dinesh Kumar Srivastava, Ajay Kumar Thakur, Pankaj Kumar; sfogliandolo si sente sgorgare a più voci un’ode alle prodezze dell’ingegneria genomica, le NBT (New Breeding Techniques- nuove tecniche di ibridazione), Crispr e consanguinei. Molti paesi subiscono la scarsità di precipitazioni? Non possiamo ancora modificare il Dna della pioggia, ma possiamo crisperizzare semi, piante e terreni per insegnargli, già dopodomani. a fare a meno dell’acqua.
Fa molto caldo, per equilibrare il loro tasso metabolico i parassiti diventano sempre più voraci? Crisperizziamo a man bassa piante e tutto il resto. In certi luoghi del pianeta si crisperizzano alla vecchia maniera: Dacci oggi il nostro pane quotidiano.
Ci sono, non dubito, elementi di verità in queste attese un po’ messianiche e nelle migliaia di ricerche, esperimenti e applicazioni che si avvantaggiano del caos normativo che differenzia e qualche volta contrappone il comportamento degli stati. Le spinte del mercato costringono i legislatori a riprendere la discussione sugli ogm, mentre il fronte dei crisperizzatori ribatte che non si tratta di transgenico, non viene infilato un gene di altra specie, ma viene semplicemente aggiustato il genoma, la vita sulla terra non viene seviziata. L’effervescenza  del settore è alta, promette bene, piccoli e grandi attori ci scommettono, vale dunque la pena osservare ciò che si agita alle falde.

Biopirateria

Nel 1876 Henry Wickham arriva in Amazzonia per conto dei Reali Giardini Botanici di Londra, raccoglie 70.000 semi di gomma, si fa spiegare ben bene dai nativi come conservarli perché facilmente deperibili e, com’è come non è, a fine Ottocento il Brasile perde il monopolio della gomma che passa all’impero coloniale britannico. Il drenaggio delle risorse genetiche, come ci ha mirabilmente spiegato Crosby, è un tratto essenziale del rapporto Nord/Sud del mondo ed è molto in auge anche oggi, con due varianti. Quella tradizionale, chiamiamola estrattiva, che si impossessa direttamente del materiale genetico vegetale e animale, spesso frutto di un sapere antico, per esempio in Kenya, in Brasile e in generale, quella contemporanea che chiamerei, privatistica, che può accumulare dati genetici a piene mani impugnando una biotecnologia molto sviluppata. La frenesia genomica ha fatto sì che un sistema di conservazione dei miliardi di dati riguardanti il sequenziamento del Dna sia diventato una miniera d’oro in far west normativo. Sono tre i grandi contenitori di dati genetici: GenBank negli Stati Uniti, l’europeo EMBL-EBI e il giapponese DDBJ, pubblici e accessibili. Ci sono poi migliaia di banche dati private, di cui non si sa quali e quanti dati genetici custodiscano, sappiamo però che usufruiscono ampiamente delle banche pubbliche per realizzare le loro sperimentazioni e i loro affari. Si è riusciti nel 2016 a immagazzinare un video musicale, 100 libri e un data base di semi su un filamento di Dna grande come una punta di matita. Si riesce nel gennaio 2023 a produrre sequenze di proteine avendone decodificate 280 milioni. L’abbiamo già incontrata, è la biologia sintetica (o biologia di sintesi o SynBio) che consente, decodificando e ricodificando, il trasferimento digitale senza scambio fisico di materia biologica. E siccome tutto è merce, come predica l’andazzo prevalente, tutto è mercificabile, anche la vita stessa, soprattutto se in forma di astratto codice che di per sé non dà segni di vita, non piange, non ride. Fa da bancomat.

Privatizzazione e commercializzazione

È una pacchia. Scarichi una sequenza e la ricrei in laboratorio. I ricercatori che credono di sapere il latino dicono che tutto avviene in silico, gli altri parlano di Digital Sequence Information- DSI. Acchiappi la zanzara giusta, l’anofele, responsabile della malaria che, in Africa specialmente, uccide centinaia di migliaia di persone, soprattutto bambini e bambine, fai una microriparazione al Dna (detta Gene drive o genetica direzionata) e il gene diventa estintivo,  in questo modo poi lo si può brevettare e commercializzare. Le care estinte sono le zanzare femmine che portano così al collasso l’intera popolazione di animaletti assassini. In laboratorio. All’aria aperta non è ben chiaro se tutto fili così liscio. I piedi di piombo o principio di precauzione sarebbero benvenuti. Nel caso delle cuginette, le vespe,  l’estinzione avviene solo parzialmente e quindi l’esperimento fino a questo momento non sembra funzionare come da previsione. Sarebbe comunque gradito un registro pubblico dei test di gene drive o forzatura genetica, per evitare che le sperimentazioni dal vivo siano generosamente praticate là dove il neocolonialismo continua ad insediarsi con caparbietà, per esempio l’Africa.

Accaparrare biodiversità (“l’inventore” della biodiversità Nicolaj Vavilov [1887-1943] finì la sua vita nel gulag staliniano e, come lui, Aleksandr Čajanov [1888-1939], il più significativo teorico dell’impresa contadina a conduzione familiare) è diventato un must per molte corporations agroindustriali – farmaceutiche e simili – e per agrogenetisti a disposizione del miglior offerente. Si riproduce qui il dual use già evocato.

Tecnologie che sfiorano l’onnipotenza possono essere impiegate per distruggere territori interi o per farne fiorire altri. A scelta. L’infatuazione genomica apre le porte all’eugenetica tuttigusti, per grandi e piccini, ricchi e poverini. Piante in stile e fashion o augmented and multitasking animals: le fantazoologie di Emily Anthes e di Sukanta Mondal sono alla portata di molti.

Mi attrae un libro dal titolo allettante (Women in Sustainable Agriculture and Food Biotechnology. Key Advances and Perspectives on Emerging Topics di Laura Privalle) e dalle inedite informazioni storiche, dalle lodevoli intenzioni pedagogiche (Biotechnology in the Classroom), dalla solidarietà all’Africa’s Fight for Freedom to Innovate e, in ultimo, dalla curatrice che è una ricercatrice dipendente della BayerCropScience, North Carolina, cioè ex Monsanto acquisita dalla Bayer ovvero il connubio luciferino bigpharma e agroindustria globale.

Il biocapitalismo ci sa fare: «Siate astuti come serpenti e puri come colombe» (Matteo 10,16), diceva lui, ma si rivolgeva ai poveracci della Galilea e non agli impresari locali né agli affaristi romani in trasferta.

Il capitolo primo dell’eugenetica è stato scritto nel secolo XX, ed è una lettura ripugnante. Il capitolo secondo lo si sta scrivendo e non è chiara la trama, che oscilla tra lifting della natura a fini produttivistici o estetici e biopirateria e bioprospecting che si sovrappongono starnazzando come la gallina dalle uova d’oro. Ha un nome geopolitico un po’ altisonante lo strillo: agroterrorismo, dal futuro garantito e da una storia non  trascurabile. Può applicarsi alla catena di distribuzione del cibo, alla salute degli animali e di conseguenza a quella umana, ai patogeni per le piante…Una vasta gamma di eugenetiche o, meglio, di disgenetiche per combattere in una qualsiasi forma di guerra, che da sempre è una tecnologia sociale che procede per accumulo. La baionetta si accompagna tranquillamente con i droni, il ratto delle Sabine [=lo stupro di massa] con i bombardamenti a tappeto, le compagnie di ventura [=mercenari parastatali tipo Gruppo Wagner] con gli eserciti professionali di stato e Stati Maggiori. Le avvisaglie di un insolito teatro bellico non mancano. Non ci si potrà più lamentare delle braccia rubate all’agricoltura.

Morale della favola / Favola della morale

C’era una volta una scuola a cui accompagnavo ogni tanto un’amica, si insegnava Taglio e Cucito. Tecniche di ieri, molto in vigore oggi, non per aggiustare tessuti, ma per correggere la vita. Si annunciano benefici, si fiutano sventure. Non è chiaro se siamo immersi in una biofiction, come la chiamano, o se effettivamente i viventi tutti stiano per rigenerarsi, chi oggi chi domani o dopodomani, volenti nolenti.

Il futuro non sta bene di salute. È incerto. C’è chi ne ha paura, chi lo cavalca in sogni diurni, chi lo scambia col passato. Lui capita qua e là in incognito, sempre più biopolitico a prospettare mutazioni dei corpi e dei sistemi neurologici/cervelli, umani animali vegetali.
Questa farfalla non è una farfalla.  No, effettivamente è una farfalla. Insomma, è una farfalla umanizzata. Contiene un gene di una persona, il bioartista Yiannis Melanitis esponente dell’arte transgenica. In più la farfalla e l’uomo condividono lo stesso nome, lei è Leda Melanitis.  Non solo, dunque, ontologie linguistiche, ma scambio genetico come è di norma nella riproduzione dei viventi. Una riaffermazione della interconnettività tra esseri? Un reiterato dominio dell’umano? Una disinvolta indagine sulla vita? Arte chiaroveggente?

Un Ovidio futuro avrà materiale per poetare sulle nuove metamorfosi. Sarebbe meglio che prima di allora si creassero nuove metafore sull’interazione tra i regni viventi (regni!), tra vita sociale-biologia-tecnologie. Le scienze sono potenti, ma non onnipotenti. Corruttibili e, qualche volta, colluse. Le tecnologie godono in modo sproporzionato della loro sacralità. Non confessano depravazioni ed empietà, che hanno patito e patiscono invece le religioni. La vita sociale, che sia quella umana o quella delle api, fa la parte del parente povero. Il clamore mediatico qualche volta si agita ben bene prima dell’uso, intorbidando, o stordisce, tacendo.  Un’informazione non burattina sarebbe già una conquista. I viventi umani potrebbero dedicarsi a elaborare una genEtica non dozzinale e vulnerabile. Se siamo ancora in tempo.

Questo romanzo è opera di fantasia, tranne per le parti che non lo sono (Michael Crichton, Next, 2006).


Alcuni testi di riferimento:

Per ricostruire precedenti e conseguenti della scoperta di CRISPR-Cas9 sono a disposizione ormai bibliografie sterminate: Anna Meldolesi, E l’uomo creò l’uomo. CRISPR e la rivoluzione dell’editing genomico, BollatiBoringhieri, Torino, 2021; l’ottimo blog da lei diretto Crispermania e l’edizione italiana non fluentissima di Kevin Davies, Riscrivere l’umanità. La rivoluzione CRISPR e la nuova era dell’editing genetico, Raffaele Cortina editore, Milano, 2021.
Di Jennifer A.  Doudna e Samuel H. Sternberg, A Crack in Creation. Gene Editing and the Unthinkable Power to Control Evolution, Houghton Mifflin Harcourt, NY, 2017. Importante anche perché Doudna un po’ “mette le mani avanti”  sui pericoli insiti nella tecnica a cui ha contribuito.
Dare un nome alle cose: su come si è giunti a Crispr v. il capitolo terzo di CRISPR People. The Science & Ethics of Editing Humans, di Henry T. Greely, MIT Press, Cambridge, Mass., 2021. Senza tener conto del fatto che c’è ancora un contenzioso apertissimo su chi abbia veramente inventato la biotecnologia Crispr se le due Nobel o Feng Zhang dell’MIT: H. Leidfort,  Major CRISPR Patent Decision won’t end tangled dispute, in Nature, 17.03.2022. I criteri usati dall’Accademia di Svezia non sono quelli dell’Ufficio Brevetti degli Stati Uniti.

Categorie schierate sui due fronti: Umanesimo, transumanesimo, postumanesimo, inumanesimo:
E. Kirksey, The Mutant Project: Inside the Global Race to Genetically Modify Humans, Bristol University Press, 2021;
Aa.Vv., Critica al transumanesimo, Nautilus, Torino, 2019.

Sul concetto di “Shanzhai”:
Jeroen de Kloet, Chow Yiu Fai, and Lena Scheen, a cura di, Boredom, Shanzhai, and Digitisation in the Time of Creative China, Amsterdam University Press, 2019

Stefan Lorenz Sorgner, We Have Always Been Cyborg. Digital Data, Gene Technologies, and an Ethics of Transhumanism, Bristol University Press, 2022, pgg: 8-9, 193. Nonostante insegni in Italia, presso la John Cabot University di Roma, non mi pare che il lavoro complessivo di questo pensatore tedesco abbia suscitato nel nostro paese reazioni significative. Posso sbagliarmi, neppure il tema in generale ha incuriosito, eccetto gli importanti lavori di Mauro Mandrioli, docente di genetica all’università di Modena e Reggio, From genome editing to human genetic enhancement: a new time for discussing eugenics?, in Scienza&Filosofia, n. 27, 2022, e idem L’uomo creatore di se stesso. La rivoluzione della genetica tra nuove possibilità e (in)evitabili rischi, in Scienza&Filosofia, n. 24, 2020.

Su che cosa stia cambiando tra gli eterni contendenti cino/indiani è ben chiarito da Abhay Kumar Singh,  India-China Rivalry: Asymmetric No Longer An Assessment of China’s Evolving Perceptions of India,  Manohar Parrikar Institute for Defence Studies and Analyses, New Delhi, 2021: Il futuro delle due potenze sarà una cooperazione competitiva o un conflitto per l’egemonia?

Per approfondire la relazione in ambito bellico dell’interfaccia uomo-macchina, oltre ai capitoli curati da Alessandro De Pascale e da Gabriele Battaglia per l’opera collettanea 2023: Orizzonti di guerra (OGzero, 2023), un testo datato ma ancora valido è quello di Jonathan D. Moreno, Mind Wars. Brain Science and the Military in the Twenty-First Century, Bellevue Literary Press NY, 2012. Sul proverbiale accrescimento della truppa da parte degli Alti Comandi: Norman Ohler, Tossici. L’arma segreta del Reich. La droga nella Germania nazista, trad. Chicca Galli, Rachele Salerno e Roberta Zuppet di Der totale Rausch. Drogen im dritten Reich, Rizzoli, 2015; ma anche Łukasz Kamieński Shooting up. Storia dell’uso militare delle droghe, Trad. Chiara Baffa, Utet, 2017; la correlata somministrazione di sostanze per inibire remore o per accentuare le prestazioni fisiche, come il recente uso del Captagon nel conflitto siriano: Héloïse Goodley, Pharmacological performance enhancement and the military. Exploring an ethical and legal framework for ‘supersoldiers’ (The Royal Institute of International Affairs Chatham House, novembre.  2020). Jean-François Caron tenta una metainterpretazione comparativa in A Theory of the Super Soldier. The morality of capacity-increasing technologies in the military, Bellevue Literary Press, NY, 2018.

A proposito di microchip: Chris Miller (Chip War. The Fight for the World’s most critical Technology, Scribner, 2022) ricorda giustamente Federico Faggin, il creatore del primo chip nel 1971, ma non dedica un accenno alle biotecnologie e a Crispr. Ruolo dell’Europa in questa “guerra” di semiconduttori. Mi ripeto: gratta gratta anche le tecnologie più di frontiera hanno bisogno di quella cosa molto terra terra chiamata terra. In caso di siccità la produzione di chips ne patisce molto avendo un ingente bisogno di acqua pura. No water no microchips.

Una panoramica ben documentata su privatizzazione e commercio di Dna si trova in Biotechnology, Patents and Morality. A Deliberative and Participatory Paradigm for Reform, di Maureen O’Sullivan (Routledge, 2020).  

Alcune dritte sul Teatro bellico: Panoramica generale,  Panoramica generale n. 2, Panoramica generale n. 3 e curiosa pretesa di dotarsi di “armi bioterroristiche”, Nepal, Le difficoltà di difesa dall’agroterrorismo, l’India, Sospetti sulla Cina e Russia?  Agroterrorismo in Brasile, Modelli di difesa dall’agroterrorismo,  Maria Lodovica Gullino, James P. Stack, Jacqueline Fletcher, John D. Mumford (a cura di): Practical Tools for Plant and Food Biosecurity. Results from a European Network of Excellence, Springer, 2017, in particolare il cap. 2 di Frédéric Suffert: Characterization of the Threat Resulting from Plant Pathogen Use as Anti-cropBioweapons: An EU Perspective on Agroterrorism.
Alberto Cique Moja, Pedro Luis Lorenzo González, Del empleo estratégico de las armas biológicas al agroterrorismo: preparación y respuesta, cap. V di un ampio studio sulla Amenaza biológica dell’ Instituto Español de Estudios Estratégicos: IEEE, 2023, con speciali riferimenti a Crispr.

 

L'articolo La vita in codice proviene da OGzero.

]]>
La distribuzione delle armi ai patrioti https://ogzero.org/la-distribuzione-delle-armi-ai-patrioti/ Mon, 28 Feb 2022 02:36:46 +0000 https://ogzero.org/?p=6548 Non è compito, né obiettivo di OGzero riportare notizie, anche se stravolgono il mondo e condizionano ogni aspetto della geopolitica, finché non si decanta il polverone che sollevano, consentendo un’analisi distaccata di ciò che provocano. Questa la natura analitica del sito; poi OGzero ha una sua componente parziale, schierata – per quanto cinica – e […]

L'articolo La distribuzione delle armi ai patrioti proviene da OGzero.

]]>
Non è compito, né obiettivo di OGzero riportare notizie, anche se stravolgono il mondo e condizionano ogni aspetto della geopolitica, finché non si decanta il polverone che sollevano, consentendo un’analisi distaccata di ciò che provocano. Questa la natura analitica del sito; poi OGzero ha una sua componente parziale, schierata – per quanto cinica – e contraria a ogni autoritarismo e militarismo che rivendichiamo come tratto distintivo. E che ci spinge a intervenire quando un’enormità inaccettabile viene assorbita come se non si trattasse di una barbarie: un’“involuzione copernicana”, che non è tanto l’invasione di un paese ex satellite da parte di un autocrate riconosciuto (Biden ha definito Putin un “killer” a inizio mandato), ma che l’Unione Europea con la sua prosopopea sull’approccio burocraticamente democratico si riduca al rango di trafficante per delegare un suo contenzioso. Questo passo è la vera svolta della vicenda ucraina, che per il resto dal punto di vista geopolitico è una delle innumerevoli situazioni di conflitto che ammorbano il pianeta.


Le infinite declinazioni degli aggettivi bellici

La guerra boot on the ground e il Glovo dei missili anticarro

Abbiamo anche avviato uno studium – non perché subodoravamo risvolti guerrafondai, ma perché l’escalation delle guerre di droni e nuovi sistemi di difesa e offesa è in atto da alcuni anni, producendo sempre nuove guerre – che ci impegna per l’intero 2022 (e forse anche oltre) a monitorare le movimentazioni, le consegne, i traffici di armi nel mondo, perché laddove c’è una transazione di questo tipo, prima o poi quell’arma viene usata. Non siamo anime belle che pensano che l’Europa non venda armi a chi è impegnato in un conflitto (chi se non i combattenti adoperano, consumano e ricomprano altre armi, se non chi le sta usando?) e quindi non ci stupiamo che si stanzino alcune centinaia di milioni per comprare armi da girare a un combattente, preoccupa che venga fatto senza infingimenti: hanno trovato il pretesto per poter moltiplicare gli affari per l’industria bellica senza dover pagare dazio. Senza contare che avevano già iniziato il giorno prima degli annunci ufficiali di Von der Leyen, a consegnare – come da consuetudine – armi ai belligeranti:

Guido Limpio, Missili e lanciarazzi. Italia, i primi soldati, “Corriere della Sera”, 27 febbraio 2022, p. 11. Pubblicato la sera precedente l’annuncio di Ursula Von der Leyen sugli stanziamenti UE per acquisto di armi da consegnare all’Ucraina

Il rilievo che ci viene spontaneo è il fatto che la tipologia degli articoli del delivery europeo via Polonia (ma anche le repubbliche baltiche sono tra i protagonisti più attivi già da alcune settimane nella distribuzione) denuncia la classificazione di quella che sarà la proxy war nel cortile di casa per alcuni anni: armi per un contrasto sul terreno, invischiando l’armata russa nella trappola scavata al suo confine a cominciare da Maidan.

Equipaggiamenti per guerre non lineari e guerriglia urbana

E infatti come sito attento ai rivolgimenti geopolitici siamo mitridatizzati alle guerre: uguali a quella carpatica ce ne sono state e se ne stanno combattendo molte altre nel mondo, certo non con una delle 3 potenze mondiali come protagonista diretta, ma sempre sullo sfondo si trovano impegnate tutte le potenze globali e locali. Perciò del gran polverone suscitato in questi giorni ciò che maggiormente indigna OGzero è il fatto che per la prima volta l’UE sovvenziona ufficialmente l’acquisto di armi per consegnarle a un paese terzo in guerra. Non siamo anime belle illuse che immaginano che con le manifestazioni di un weekend si possa fermare una determinazione alla imposizione delle proprie visioni deliranti da parte di un potere che usa spietati mercenari dovunque, uccide oppositori con il polonio, ammazza giornalisti come regalo di compleanno, sostituisce il colonialismo della Françafrique; ci indigniamo piuttosto a scoprire che un cancelliere socialdemocratico, appena valuta le centinaia di migliaia di migranti ucraini che premono ai confini, fa strame di scelte decennali e decide il riarmo tedesco – che non si può sentire dopo la Seconda guerra mondiale e le macerazioni degli anni Settanta a elaborare il senso di colpa di una nazione (cosa che l’ipocrisia cattolica italiana non ha mai consentito) – trovando 100 miliardi (!!!) per rinnovare la Bundeswehr… nemmeno Merkel sarebbe arrivata a una tale faccia di bronzo. Ma sicuramente il rinnegamento dei “valori europei” maggiore è quello che vede l’intera Unione allineata a rinunciare a ogni retorica – bastano 300.000 migranti – e vendere armi letali per costituire una guerriglia antirussa, affidandole probabilmente a Pravi Sektor e al Battaglione di Azov: più nazisti del modello collaborazionista di Bandera. Piuttosto che trovarsi 7 milioni di migranti (bianchi e caucasici) all’uscio, si impedisce che possano emigrare se hanno meno di 60 anni e più di 18 (coscrizione obbligatoria!), li si approvvigionano di armi e si organizza una guerriglia per procura; gli stessi razzisti polacchi che fino a un mese fa hanno fatto morire di freddo e fame nella foresta, riempiendoli di botte, quei migranti che arrivano dalle guerre scatenate dall’Occidente (afgani, africani, di “speci” evidentemente non abbastanza “famigliari”), accolgono fraternamente – e giustamente – i fuggitivi dai massacri della guerra perpetrata da Putin in Ucraina (ma non le sue vittime siriane).

Manifesto anarchico russo: “ No alla guerra degli oligarchi! Vogliono il carbone del Donbass? Combattano e muoiano loro”

Guerra ibrida e guerra nucleare ipermediatizzata: armi tattiche e molotov

La soluzione sarebbe dunque una proxy war in più (in Yemen siamo già oltre i 300.000 morti civili, ma sono distanti e arabi), fa solo più effetto perché europea e perché il bullo del Cremlino sventola la minaccia delle armi tattiche nucleari cercando di mantenere un ruolo da cattivo credibile dopo lo smacco per il fatto che la Blitzkrieg non è riuscita nemmeno questa volta (ricordate dall’altro lato la Mission accomplished?). Inquieta anche perché gli ucraini vengono trattati da europei di serie B – un nuovo apartheid all’interno del continente –  rimandati indietro al confine e “invitati” a imbracciare i fucili e fabbricare le molotov – se solo avessimo preparato in Valsusa gli stessi “pintoni attivi” in favore di telecamera saremmo pericolosi insurrezionalisti – per assaltare carri armati russi; addirittura si agevolano arruolamenti di volontari targati Europa, mentre i compagni che sono andati a condividere la lotta curda in Rojava (quella davvero una lotta antinazista) sono in sorveglianza speciale. Infingimenti geopolitici: guerra mediatica.

Istruzioni per la preparazione di una bottiglia molotov sui social ucraini

Istruzioni per la preparazione di una bottiglia molotov sui social ucraini

La guerra geopolitica

Si evidenzia allora una stortura che ci fa sospettare che la guerra non sia poi così ideologica come vorrebbe spacciare il Cremlino con il suo improbabile antinazismo, ma smaccatamente geopolitica, come non possono ammettere né Biden (che costringe il mondo a schierarsi, per occuparsi del quadrante indopacifico – ottenendo la neutralità dell’India da un lato, ma anche del Kazakhstan dall’altro… e la preponderanza degli affari nelle scelte degli “alleati” arabi; e che dire dell’imbarazzo turco sul trattato di Montreux e il diritto di chiusura dei Dardanelli che non si capisce come e se viene applicato o meno alle navi da guerra russe?). Tantomeno può definirlo “conflitto geopolitico” l’attendismo cinese – che cerca di capire come sfruttare l’occasione con Taiwan, e gli conviene che si ammanti il tutto di nobili principi degni di una guerra santa, o di liberazione; né gli europei spacciatori di armi letali, un altro aspetto tipico della geopolitica, ammantato come sempre di idealismo di liberazione. Come geopolitiche sono le conseguenze delle sanzioni: tutte avvantaggiano le risorse americane. Il gas – molto più caro, perché va trattato – verrebbe erogato da un ponte navale transatlantico, che legherebbe ancora di più gli europei arruolati dallo Zio Sam; le chiusure di rotte aeree richiederanno maggiore consumo di idrocarburi, forniti da Usa e mondo arabo… NordStream2, capitolo chiuso e nuova umiliazione tedesca (che non è mai una bella cosa, se ricordiamo le cause dell’ascesa di Hitler).

Ascolta “Paralisi e delirio a Mosca. Europa anno zero?” su Spreaker.

 

Quindi ci saremmo aspettati anche da Bruxelles reazioni tipicamente geopolitiche, tattiche come le sulfuree mosse del Cremlino, test di alleanze come quelle intessute da Washington, persino i traccheggiamenti in punta di diritto internazionale di Ankara (che evidentemente non considera concluso il rapporto privilegiato con Putin all’interno degli Accordi di Astana e non intrappola le navi russe nel Mar Nero, pur vendendo droni all’Ucraina), o il sornione attendismo di Pechino… invece si spaccia per raffinato pensiero il nuovo ruolo di mediatori di ordigni per guerriglia che l’impaurita Europa si è ritagliata, facendo strame del raffinato pensiero contro la guerra e interpretando la strategia politica come tattica da trafficante. L’Europa come comparsa in commedia nel ruolo del trafficante: una nuova accezione della esigenza di “aiutarli a casa loro”, fornendogli le armi e alimentando altro fiero nazionalismo. Ma schierandosi così in modo esplicito contro Mosca, rimanendo facili bersagli dei missili tattici per impaurire meglio l’opinione pubblica, quella sì non geopolitica ma ideologizzata dai media mainstream.

Comunque dove ci sono molotov che volano addosso al potere costituito o a un esercito di occupazione, qualunque esse siano, ci trovano solidali

L'articolo La distribuzione delle armi ai patrioti proviene da OGzero.

]]>
Aukus: la Cina pesa pro e contro https://ogzero.org/loperazione-aukus-e-la-disputa-del-mar-cinese-meridionale/ Sat, 25 Sep 2021 08:30:51 +0000 https://ogzero.org/?p=4969 L’operazione Aukus è l’essenza della strategia geopolitica di questo biennio, che rivendica postuma la capacità americana di impostare alleanze volte ad assediare il nemico, al punto di fare figure barbine a Kabul, pur di affrontare la Cina assicurandosi la piena potenza di fuoco per presidiare il Pacifico; anche a costo di offendere i permalosi francesi, […]

L'articolo Aukus: la Cina pesa pro e contro proviene da OGzero.

]]>
L’operazione Aukus è l’essenza della strategia geopolitica di questo biennio, che rivendica postuma la capacità americana di impostare alleanze volte ad assediare il nemico, al punto di fare figure barbine a Kabul, pur di affrontare la Cina assicurandosi la piena potenza di fuoco per presidiare il Pacifico; anche a costo di offendere i permalosi francesi, suscettibili ai miliardi, ma soprattutto allo schiaffo inferto con la dimostrazione che i giochi si fanno altrove, lontano dalla grandeur parigina. In quell’altrove sulle coste occidentali del Pacifico dove si ordiscono trame, s’inventano trattati, si pongono veti, si tracciano rotte, si affronta il nuovo “pericolo rosso”. Tutto ciò che capita in giro in qualche modo è condizionato dalla profusione di energie da dedicare alla disputa del Mar cinese meridionale.

Della questione dei sommergibili, attorno ai quali si cominciano a vedere i contorni di un accordo più ampio (anche i droni saranno forniti all’Australia dalla Boeing – per spiegare a Parigi qual è il vero livello del Gioco), si sono occupati tutti, ma sempre trattando il problema in un’ottica neocolonialista, pochi hanno provato ad assumere il punto di vista delle potenze locali. “China Files” ci aiuta a colmare questa lacuna: questo articolo pubblicato da Alessandra Colarizi ci sembra evidenziare gli aspetti più interessanti della situazione che vede contrapposti Usa e Cina; e l’intervento di Sabrina Moles (anche lei redattrice di “China files”) su Radio Blackout, di cui proponiamo il podcast, risulta complementare. Con una appendice di affari interni sull’implosione della bolla Evergrande, che completa le questioni che attanagliano Pechino, gettando una luce su manovre strategiche interne alla Cina, ma che si possono analizzare in chiave internazionale ed estendere alla speculazione di tutte le borse internazionali.    


Grandi manovre geopolitiche nell’Asia-Pacifico: da una parte ci sono i raggruppamenti militari di Washington, dall’altra le alchimie economiche di Pechino. Nel mezzo i rispettivi partner asiatici e transatlantici che, chiamati a scegliere tra la sicurezza americana e le banconote cinesi, potrebbero finire per giocare la vera partita sullo scacchiere indopacifico.

Biden l’aveva messo in chiaro: al disimpegno americano dall’Asia Centrale sarebbe seguito un maggiore protagonismo nel quadrante asiatico. La nuova alleanza con Australia e Gran Bretagna – l’ “Aukus” – aggiunge un’altra freccia alla faretra di Washington. Come il Quad e i Five Eyes, la nuova sigla mira tra le righe a contrastare la crescente presenza e influenza militare della Cina nel Pacifico. Ma ha fatto infuriare i francesi, scippati di un accordo militare a nove zeri. L’Unione europea insorge, e non per semplice solidarietà comunitaria. Per la seconda volta dal ritiro statunitense dall’Afghanistan, gli States hanno ignorato l’opinione degli alleati europei. Lo strappo rischia di diventare una voragine.

Oltre la Grande Muraglia si pesano sulla bilancia pro e contro. Dopo l’esclusione di Huawei dal 5G australiano e l’indagine sull’origine del Covid-19, le relazioni tra Canberra e Pechino sono precipitate ai minimi storici. La creazione del nuovo triumvirato è un segnale inequivocabile del disagio provocato dalla crescente assertività cinese tra le potenze medie del quadrante asiatico. Ma non tutto il male viene per nuocere. Vediamo perché.

L’Aukus e la “deterrenza integrata”

Tutto è cominciato a febbraio, quando l’amministrazione Biden ha avviato una massiccia revisione delle forze armate americane a livello globale. Il prodotto finale è una “strategia della deterrenza integrata” che valorizza la fitta ragnatela di alleanze americane. In Asia, dove Washington vanta rapporti storici, le maglie della ragnatela sono piuttosto fitte. Fattore che, oltre a proteggere gli asset militari americani da eventuali attacchi, consente operazioni più vicine al territorio cinese. Oltre a dotare Canberra di sottomarini a propulsione nucleare, l’ “Aukus” si prefigge di rafforzare la presenza americana nella regione. Soprattutto dopo le incursioni marittime cinesi nei pressi di Guam. L’Australia si trova in una posizione particolarmente strategica, in quanto fuori dalla portata dell’arsenale cinese fatta eccezione per i missili a più lunga gittata. Secondo Euan Graham, senior fellow presso l’Institute for International Strategic Studies di Singapore, gli Stati Uniti starebbero cercando di collaudare un format già messo in pratica nei primi anni Quaranta, quando Washington e Canberra combatterono insieme il Giappone durante la Seconda guerra mondiale. La tecnologia cambia negli anni, ma la geografia no. Stando agli esperti, gli States ambiscono a parcheggiare i loro sottomarini a propulsione nucleare nella base militare di HMAS Stirling, a Perth, mentre l’isola australiana di Cocos (arcipelago delle Keeling), nell’Oceano Indiano, fa gola per l’affaccio sulle acque contese del Mar cinese meridionale. Una ridistribuzione delle forze di difesa nell’Asia-Pacifico permetterebbe di compensare nell’immediato la superiorità numerica della flotta cinese, la più estesa al mondo e in rapidissima crescita, per quanto ritenuta ancora meno performante di quella americana. Il tempo è dalla parte di Pechino. Secondo gli esperti, infatti, ci vorranno circa dieci anni prima che Canberra ottenga materialmente i nuovi supersommergibili.

Base militare di HMAS Stirling, a Perth

Il nemico del mio nemico è mio amico

Una “coltellata alla schiena”. Così la Francia ha definito la nuova alleanza tripartita, incassando il supporto dei vertici comunitari. Sentendosi nuovamente tradita dal vecchio alleato dopo il frettoloso ritiro dall’Afghanistan, non è escluso che l’Ue decida di optare per un cauto riavvicinamento alla Cina. Nello specifico, a trovare nuovo slancio potrebbe essere l’accordo sugli investimenti bilaterali (CAI), firmato alla fine del 2020 e congelato dal parlamento di Strasburgo a maggio dopo le tariffe incrociate sullo Xinjiang. Una possibilità remota (considerando il sentimento anticinese di molti eurodeputati), ma non da escludere dato il ruolo svolto da Francia e Germania negli annosi negoziati. Con l’imminente uscita di scena di Angela Merkel, ci si attende sarà proprio Macron – in caso di riconfermata alle presidenziali francesi del prossimo anno – a dettare l’agenda cinese dell’Ue nel prossimo futuro. Dopo il voltafaccia americano, è lecito presupporre una spinta anche maggiore verso l’“autonomia strategica” rivendicata dal blocco dei 27. Da tempo il gigante asiatico cerca di sfruttare le divergenze tra Bruxelles e Washington per aprire una breccia nell’alleanza atlantica. Le recenti frizioni rischiano di depotenziare la strategia indopacifica – presentata da Josep Borrell poche ore dopo la nascita di “Aukus” – che prefigura «modi per garantire dispiegamenti navali rafforzati da parte degli stati membri dell’Ue per aiutare a proteggere le linee marittime di comunicazione e la libertà di navigazione». Evidente riferimento a una presenza più massiccia nelle acque rivendicate da Pechino. Non è ancora chiaro cosa questo implicherà. Ma Parigi sta già ripensando le sue alleanze indopacifiche. Dopo lo smacco inferto da Canberra, proprio in queste ore si discute di una possibile cessione dei sottomarini francesi a Nuova Delhi. È troppo presto per dire se l’ira di Parigi (attenuata dopo la telefonata tra Biden e Macron) avrà ripercussioni più ampie per l’asse Washington-Bruxelles. Lo sapremo probabilmente il prossimo 29 settembre quando si terrà il primo incontro del Trade and Tech Council (TTC), piattaforma lanciata per promuovere il coordinamento su temi come il commercio, lo scambio di tecnologia e la protezione della supply chain, con i “valori democratici condivisi” come unico comune denominatore. L’impressione è che la fiducia sia ormai persa. Ma davanti alla minaccia cinese nessuno vuole rischiare che l’ “autonomia strategica” sfoci in un isolamento diplomatico.

Pechino gioca la carta commerciale

Solo poche ore dopo l’annuncio dell’“Aukus”, la Cina ha ufficializzato la richiesta di accesso alla Comprehensive and Progressive Agreement for Trans-Pacific Partnership (CPTPP), l’accordo di libero scambio fortemente voluto da Obama col nome di TPP e diventato il ritratto dell’“America First” dopo il ritiro di Trump. La carica simbolica della mossa cinese è quindi fortissima. Non solo Pechino potrebbe appropriarsi di un tassello fondamentale dell’ex Pivot to Asia obamiano. La contromossa cinese mette in evidenza come, davanti allo sfoggio di muscoli di Washington, la seconda potenza mondiale preferisca ricorrere ancora al “soft power”. Nonostante la minitrade war con Canberra, nell’ultimo anno la Cina ha chiuso, tra gli altri, un accordo di libero scambio con la Nuova Zelanda e ha strappato la scena all’Asean guidando le trattative per la Regional Comprehensive Economic Partnership, concluse a novembre. Presa da altro, invece, l’amministrazione Biden non sembra troppo interessata a sedersi ai tavoli negoziali. Per Pechino, invece, sta diventando sempre più un esercizio diplomatico. Molti dei paesi inclusi nel partenariato (come il Canada) hanno conti in sospeso con la Cina. Giocare la carta commerciale può servire a riannodare il dialogo. Per il momento il semaforo è rosso. Canberra – che come ciascuno degli 11 membri attuali ha potere di veto – ha già messo in chiaro che non permetterà un ingresso cinese a meno che Pechino non rimuova le ritorsioni commerciali imposte negli ultimi due anni. A prescindere dall’esito, gli analisti considerano il tentativo una mossa strategica che permetterà al gigante asiatico di rallentare le negoziazioni tra gli altri paesi compresi nella CPTPP, complicando l’ingresso della Gran Bretagna e, soprattutto, di Taiwan, che ha avanzato la propria candidatura solo pochi giorni dopo la Cina.

“Se lo fanno gli altri perché non noi?”

Tra le critiche mosse da Pechino contro l’ “Aukus” c’è quella di catalizzare la corsa all’atomo. Mentre infatti non è previsto siano armati con ordigni nucleari, tuttavia, i famigerati sommergibili saranno alimentati con uranio fornito dagli Stati Uniti e arricchito allo stesso livello usato per le bombe nucleari. “Se lo fanno gli altri perché non dovremmo noi?” potrebbero chiedersi a Pechino. Recentemente, il programma bellico cinese è tornato sotto i riflettori dopo la diffusione di immagini satellitari che identificano centinaia di silos adatti al lancio di missili balistici nucleari dispiegati nello Xinjiang e della Mongolia interna. Durante un incontro dell’International Atomic Energy Agency, Wang Qun, inviato della Cina presso le Nazioni Unite, ha invitato la comunità internazionale ad opporsi all’alleanza trilaterale, definendola un “puro atto di proliferazione nucleare”. Il trattato di non proliferazione nucleare (tpn) del 1968 che proibisce agli stati firmatari “non-nucleari” (come l’Australia) di procurarsi tali armamenti e agli stati “nucleari” (come gli Stati uniti) di trasferire a chicchessia armi nucleari o altri congegni nucleari esplosivi. Sino a oggi Pechino ha continuato ad additare il numero crescente di testate nucleari altrui per giustificare l’espansione del proprio arsenale. E proprio di recente l’ex ambasciatore cinese all’Onu per il disarmo ha suggerito di rivedere la “no-first-use policy”, che impone alla Cina – unica tra i firmatari del tpn – a non utilizzare per prima le armi nucleari contro qualsiasi altro stato.  La contrarietà di Pechino all’“Aukus” trova forza nei timori condivisi dagli altri attori regionali. La Nuova Zelanda ha fatto sapere che la flotta australiana non sarà esonerata dalla messa al bando di vascelli a propulsione nucleare dalle acque territoriali. A sollevare qualche preoccupazione per un possibile riarmo sono stati persino paesi come l’Indonesia e la Malaysia, con cui la Cina intrattiene rapporti non idilliaci. I toni rodomonteschi degli States da tempo mettono a disagio i player regionali, chiamati – loro malgrado – a scegliere tra le due superpotenze. Anziché svolgere una funzione contenitiva, l’ultima mossa di Washington potrebbe persino aiutare il gigante asiatico a ricostruire rapporti di buon vicinato.    


L’ottima analisi sullo specifico di Alessandra Colarizi si può integrare con le considerazioni di Sabrina Moles, che allarga all’intera area lo sguardo proprio partendo da Aukus, affrontando l’implosione di Evergrande, per arrivare a una nuova epoca di interventi per riformare nuovamente il sistema, affrontando le sfide che vengono dall’aggressività americana e dalla consunzione delle prassi interne di creazione di ricchezza: 

“25 La bolla di Evergrande e l’accerchiamento di Aukus: sfide al sistema”.

L'articolo Aukus: la Cina pesa pro e contro proviene da OGzero.

]]>
Il trailer del kolossal hollywoodiano “America is back” https://ogzero.org/america-is-back-la-regia-del-road-movie-di-biden/ Sun, 20 Jun 2021 01:34:58 +0000 https://ogzero.org/?p=3925 «America is back» in Europe, but… Biden torna a proporre la politica multipolare americana, che mira a presentare gli Stati Uniti come riferimento di un’ampia alleanza in cui si distribuiscono patenti di democrazia a tutti, tollerando in parte anche il regime putiniano (o comunque mostrando di voler aprire un dialogo), purché si adotti un profilo […]

L'articolo Il trailer del kolossal hollywoodiano “America is back” proviene da OGzero.

]]>
«America is back» in Europe, but… Biden torna a proporre la politica multipolare americana, che mira a presentare gli Stati Uniti come riferimento di un’ampia alleanza in cui si distribuiscono patenti di democrazia a tutti, tollerando in parte anche il regime putiniano (o comunque mostrando di voler aprire un dialogo), purché si adotti un profilo intransigente verso Pechino o si rendano meno stretti legami e partnership con l’unico rivale riconosciuto. Infatti la regia raffinata ha dapprima restituito una riunione di famiglia nella verde Cornovaglia, dove il vecchio patriarca è venuto in Europa a cercare location adatte per una ridistribuzione dei ruoli all’interno del consesso europeo, lanciando segnali distensivi di collaborazione che superassero l’isolazionismo dell’amministrazione precedente – di cui si sono frettolosamente cancellati gli sgarbi –, ma sancendo la globalizzazione e lo spostamento dal marcato eurocentrismo, già abbandonato da Obama, all’asse indopacifico.

America is back

Ripulitura preventiva delle deiezioni trumpiane

E di nuovo la trama del film lascia trasparire il messaggio anticinese dell’intreccio.

Il Convitato di Pietra

E allora scomponendo il film del viaggio di formazione della presidenza Biden nei suoi duetti, cominceremmo con quello non ancora avvenuto tra Xi Jinping e Biden – ma di cui c’è già stata una prolessi nei titoli di coda, immaginandolo nella cornice del G20 italiano, in scena esattamente vent’anni dopo quello tragico genovese. Ci pare che cominciare l’analisi dei fotogrammi del road-movie europeo di Biden dal fuoricampo in cui è rimasto collocato per tutto il tempo il co-protagonista principale sia l’ottica attraverso cui assistere almeno a una sequenza della pellicola. Quella che consideriamo centrale e che ci sforziamo di inquadrare come nel film Dark Passage con Humphrey Bogart (regia di Delmer Davies per un titolo perfetto nel 1947 come per sottotitolare l’attuale film di Biden), in cui Vincent non viene inquadrato se non con particolari degli occhi e invece la cinecamera coincide con il suo sguardo, cercando di restituire l’ottica della soggettiva fuori scena di Xi Jinping, il controcampo del Convitato.

Don Giovanni 1979, di Joseph Losey

Per quanto sommessa, accennata e rimasta impigliata nel resto della trama, fatta invece di spettacolari palcoscenici e forti illuminazioni (quasi a voler spostare l’attenzione su episodi collaterali, come avviene spesso nei road-movie); la mano tesa del Convitato di pietra ha preso il fuoriscena come nel finale del Don Giovanni, relegando l’annuncio di un percorso delle merci alternativo a quello promosso dalla Bri, la nuova Via della seta, al rango del catalogo di Leporello: una smargiassata fin dall’allitterazione del nome Build Back Better World.

Il messaggio principale del film, sempre sottotraccia, è che vanno ridimensionati innanzitutto i rapporti commerciali con i cinesi, ma fingendo che si tratti di una guerra morale alle violazioni dei diritti civili.

E parlando di questa sequenza con Sabrina Moles (@moles_sabrina), il film si è trasformato in un viaggio interstellare, con al centro la nuova piattaforma spaziale cinese, che ha costretto Biden a un aggiornamento dell’articolo 5 dell’accordo Nato, estendendolo al dominio spaziale:

“La pantomima globalizzata della Guerra morale alla Cina”.

Il servo di due padroni

Di tutta la pantomima messa in scena nel viaggio di formazione del mondo di Biden infatti, riconsiderando il tourbillon dei messaggi mediatici, una volta conclusa la kermesse e lasciate decantare le dichiarazioni, spenti i riflettori, a posteriori nel consuntivo non si annoverano risultati apparentemente tangibili, ma è stata come una proiezione di slide della sceneggiatura da recitare nei prossimi anni della serie-tv che potrebbe intitolarsi The Great Game. The Revenge, la cui regia è affidata a Biden, con Blinken aiutoregista nelle sequenze del ritiro da Kabul, quindi al di là di ogni simulacro simbolico – che non avrà mai lo stesso impatto dell’ultimo elicottero che il 1° maggio 1975 lasciava l’ambasciata americana in Vietnam, anche se si tratta proprio di quel remake – offerto in pasto alle telecamere i nodi del film vero ruotano ancora attorno a Donbass e Crimea – come ci racconterà Yurii Colombo alla fine di questo articolo – e di conseguenza alle ex repubbliche sovietiche, che ritroviamo nel discorso di Baku, pronunciato da Erdoğan guarda caso proprio il giorno dopo il ritorno nell’alveo della Nato, con il compito speciale di andarsi a immolare in Afghanistan, come già avvenne quando la Turchia dovette pagare l’ingresso nella Nato dissanguandosi nella Guerra di Corea.

M.A.S.H., 1970, regia di Robert Altman

Stavolta il presidente turco di buon grado allunga i suoi tentacoli anche verso il Khorasan con la benevolenza degli Usa, che gli delegano così controllo militare, sfruttamento e ricostruzione di un’area fondamentale per il passaggio di merci tra XInjiang uyguro, Karakum turkmeno, Pamir tajiko, HinduKush multitribale, Karakorum e pianure indo-pakistane… monti e pianure persiane. Nomi evocativi di pellicole in costumi di mercanti: l’autentica antica Via della seta – il copyright – da contrapporre alla Belt Road Initiative per conto americano.

D’altronde nel duetto realmente interpretato con Putin si è giunti a una comunità di intenti («un dialogo bilaterale sulla “stabilità strategica”») su quel territorio che ha visto i due imperialismi rimanere impantanati nella Campagna d’Afghanistan.  Come riporta l’Osservatorio sulla Sicurezza Internazionale della Luiss: «Nella conferenza stampa tenuta da Biden, a seguito dell’incontro che è durato circa 3 ore, il presidente ha affermato di aver discusso dell’interesse condiviso di Stati Uniti e Russia nel prevenire «una recrudescenza del terrorismo in Afghanistan»; [anche se ci sono prove del “Times” di aiuti economici e in armi elargiti da Mosca ai Talebani, ai quali erano anche state promesse taglie dal Cremlino per ogni soldato statunitense ucciso]. Un giornalista gli ha quindi chiesto se avesse fatto qualche domanda a Putin al riguardo. «No, è stato lui a chiedere dell’Afghanistan. Ha detto che spera che saremo in grado di mantenere un po’ di pace e sicurezza, e io ho detto: “questo dipende molto da voi”».

Dunque si direbbe che entrambe le potenze appaltino a Erdoğan il vuoto lasciato dal ritiro, ma poi gli affari azeri hanno inebriato il presidente turco spingendolo a parlare di imminente unità d’intenti tra 6 nazioni, tra queste le tre che hanno animato i protocolli di Astana e che si inserivano nella assenza trumpiana per spartirsi l’area (Russia, Turchia, Iran). Il colpo di scena turco di Baku allarga il novero a Georgia, Azerbaijan e… Armenia (!), dichiarando nella composizione dell’accordo quanto sia centrale proprio l’area caucasica, un’area che Putin non si può permettere sia sotto il controllo occidentale. E in questo caso l’ottica adottata nelle proiezioni della trama del film imbastita a Bruxelles, a cui hanno assistito Biden e Erdoğan alterna quello del documentario in stile Settimana Incom, con la promozione delle prodezze dei droni Bayraktar in Caucaso; mentre l’altro stile retorico utile per inquadrare lo sforzo richiesto alla Turchia in territorio libico non è più quello del materiale mediatico per l’arruolamento nelle Private military and security companies, quanto la brochure patinata delle imprese edili per la ricostruzione con l’imprimatur di Biden.

Illuminante risulta cercare di adottare lo sguardo di Ankara sull’incontro di Bruxelles, il primo tra Biden e Erdoğan, usando la lucida ironia di Murat Cinar (@muratcinar):
“Finto multilateralismo al servizio di reali democrature affaristiche”.

Il Terzo Uomo

Dunque in qualche modo Erdoğan dimostra ambiguità anche genuflettendosi a Bruxelles il giorno prima da Biden e quello successivo intraprendendo anche lui un road-movie interno all’Azerbaijan per controllare appalti e rilanciare l’alleanza di Astana allargata a un’area limitrofa e complementare a quella che coinvolge l’Afghanistan… e che è fondamentale per la politica di Putin, di cui il presidente turco rimane alleato. 

Proprio del terzo incontro del Gran Tour bideniano rimane da parlare, dopo la presenza inquietante del Convitato ingombrante Xi e l’infido Erdoğan, la scena madre e l’epilogo del viaggio di formazione vedeva la compresenza nell’inquadratura del “Killer dagli occhi di ghiaccio e senz’anima”, come lo stesso Biden aveva definito Putin

America is back

L’occhio che uccide, 1960, di Powell e Pressburger

Il consumato stratega aveva organizzato la sfida non tanto come nel torneo di The Quick and the Dead (Sam Raimi, 1995), piuttosto spingendo sull’atmosfera da spy story, per evocare i giornalisti uccisi e i dissidenti avvelenati, senza con questo appendere il Cremlino al cappio dei diritti umani e quindi cambiando registro narrativo l’incontro non ha risolto i veri nodi che rappresentano il dissidio tra Russia e Stati Uniti, ma si è trasformato in una partita a scacchi in stallo… riguardo al possibile  scacco di uno dei due contendenti possiamo seguire lo sguardo moscovita di Yurii Colombo (@matrioska2021):

“Le relazioni insolubili”.

L'articolo Il trailer del kolossal hollywoodiano “America is back” proviene da OGzero.

]]>
Taipei, ossessione cinese in un mare conteso https://ogzero.org/taiwan-e-snodo-essenziale-tra-loccidente-e-il-sogno-cinese/ Wed, 14 Apr 2021 20:33:17 +0000 https://ogzero.org/?p=3084 Taiwan è snodo essenziale nella geopolitica dell’era Biden, che intende recuperare un po’ del prestigio perduto tra i flutti del Mar Cinese meridionale dalla passata amministrazione Trump, soprattutto dopo l’epilogo della disputa hongkonghese, che vede l’isola definitivamente inglobata nella Cina popolare; ora tocca a Taipei. L’isola rappresenta anche il maggior produttore di microchip quasi in […]

L'articolo Taipei, ossessione cinese in un mare conteso proviene da OGzero.

]]>
Taiwan è snodo essenziale nella geopolitica dell’era Biden, che intende recuperare un po’ del prestigio perduto tra i flutti del Mar Cinese meridionale dalla passata amministrazione Trump, soprattutto dopo l’epilogo della disputa hongkonghese, che vede l’isola definitivamente inglobata nella Cina popolare; ora tocca a Taipei. L’isola rappresenta anche il maggior produttore di microchip quasi in regime di monopolio per quelli sotto i 10 nanometri – dunque motivo di preoccupazione per l’Occidente, se dovesse finire sotto il controllo di Pechino, che proprio per questo motivo potrebbe trovare ulteriore incentivo alla riunificazione. Di contro l’attuale amministrazione americana sta rivedendo l’approccio, promuovendo assistenza economica, relazioni diplomatiche e traffico di armi con il governo di Tsai Ing-wen. Per questa serie di ingarbugliate risoluzioni strategiche proponiamo l’indispensabile approfondimento storico di Alessandra Colarizi per collocare la nuova guerra che nel prossimo futuro vedrà al centro l’autonomia di Taipei dalla Cina continentale, le cui navi continuano a solcare un mare conteso e i cui piloti volano nei cieli di Formosa.


La guerra tra il Partito comunista cinese e i nazionalisti del Kuomintang (Kmt) è iniziata negli anni Venti, si è fermata durante la Seconda guerra sino-giapponese (1937-1945), per poi culminare, quattro anni più tardi, nella fuga del Kmt sull’isola di Taiwan. Ma la guerra civile cinese, in realtà, non è mai finita. Seppur con modalità e dinamiche diverse, è una guerra psicologica che – senza spargimenti di sangue – continua ancora oggi.

Per gli esperti, il 2020 è stato l’anno più turbolento dalla terza crisi dello Stretto di Formosa, quando tra il 1995 e il 1996 la Cina rispose alla visita negli States dell’allora presidente taiwanese Lee Teng-hui con esercitazioni missilistiche.. Negli ultimi mesi Pechino ha aumentato le sue incursioni nella zona di identificazione aerea di Taiwan (Aidz) con voli quasi giornalieri di aerei spia e jet militari arrivando persino ad attraversare la linea mediana, la frontiera simbolica tra le due Cine rimasta inviolata per settant’anni. Secondo Philip Davidson, comandante delle Forze Usa nell’Indopacifico, un tentativo di riunificazione manu militari – mai escluso dalla leadership comunista – potrebbe concretizzarsi nel giro di sei anni. Verosimilmente, molto dipenderà dalla postura di Washington, tenuto a sostenere l’autosufficienza bellica di Taipei, ma sollevato da obblighi difensivi fin dall’interruzione del Sino-American Mutual Defense Treaty nel 1980, un anno dopo l’istituzione di rapporti ufficiali con la Repubblica popolare.

Negli ambienti militari cinesi circola la convinzione che la pandemia abbia accelerato l’inesorabile declino della potenza statunitense nel quadrante asiatico. Ormai sceriffo senza stella, una volta persa Taiwan, Washington rischia una crisi di credibilità tra gli alleati regionali, che il gigante asiatico punta a cavalcare. «Il timore di un danno frena. L’azione logora. La prospettiva di un vantaggio incita», scriveva lo stratega cinese Sun Tzu. Ma leggere l’escalation tra Pechino e Taipei attraverso il prisma dell’intervento a stelle e strisce è un esercizio tanto intrigante quanto ingannevole. Come ripetono i media statali, quella taiwanese è una “questione interna”. Propaganda a parte, la retorica muscolare della leadership comunista risponde realmente a dinamiche intestine.

Taiwan, questa sconosciuta

Quella di Taiwan è una storia antica ma non troppo. Come spiega sul blog della Yale University Press Bill Hayton, autore di The Invention of China, dall’occupazione giapponese (1895) all’arrivo dei nazionalisti, la mainland non si è data particolare pensiero della sorte dell’isola, considerata all’epoca inospitale e abitata da popolazioni primitive. Nel 1895, un editto imperiale vietò ogni supporto al governatorato locale istituito dalla dinastia Qing una decina di anni prima quando, in virtù del posizionamento strategico per i commerci con le potenze coloniali, Taiwan fu scorporata dal Fokien e resa provincia. Ben 200 anni dopo essere stata annessa al Celeste Impero. Non godette di maggiori attenzioni nemmeno durante il breve esperimento repubblicano di Sun Yat-sen. Nei piani del fondatore del Kuomintang, l’ex Formosa doveva servire come base d’appoggio per sovvertire la decrepita dinastia mancese, ma non venne mai ufficialmente inclusa tra le nuove 22 province, nonostante la Repubblica di Cina rivendicasse confini in larga parte sovrapponibili ai territori Qing. Questa ambiguità di fondo non cessò nemmeno dopo la vittoria comunista. Anziché ambire a una riunificazione, Mao e compagni auspicavano piuttosto che l’isola riuscisse a ottenere l’indipendenza dal Giappone, tanto che durante il sesto Congresso del Pcc il popolo taiwanese venne espressamente definito una minzu (nazionalità) a sé. Posizione mantenuta fino ai primi anni Quaranta. Più precisamente fino all’attacco nipponico di Pearl Harbour e al conseguente ingresso americano nella Seconda guerra mondiale. Solo allora, fiutando l’imminente sconfitta del Sol Levante, i nazionalisti del generalissimo Chiang Kai-shek scorsero nell’isola selvaggia un riparo temporaneo da cui programmare una riconquista della Cina continentale. Sappiamo che questo non avvenne mai. Ma le rivendicazioni del governo “illegittimo” oltre lo Stretto continuano tutt’oggi ad agitare i sonni dell’establishment comunista. «Sacro territorio inalienabile», così la costituzione cinese definisce dal 1982 l’ex Formosa.

Il senso di Pechino per Taiwan

Per capire l’ossessione cinese per l’isola bisogna scavare tra le pieghe della storia recente. Negli ultimi trent’anni, le due Cine hanno preso strade divergenti: una ha rinnegato il dispotismo militarista di Chiang Kai-shek, diventando un raro esempio asiatico di democrazia illuminata. L’altra ha cambiato diversi “Timonieri”, appeso al chiodo la divisa rivoluzionaria, ma ha giurato amore eterno al sistema monopartitico. Generazione dopo generazione l’involucro è rimasto tale e quale.

Ma gli ideali che un tempo ispirarono i fondatori della patria nella lotta contro i nazionalisti hanno ceduto il posto al “socialismo con caratteristiche cinesi”, quel “capitalismo di stato” che, mixando piani quinquennali e imprenditoria privata, ha sì reso la Cina seconda economia mondiale, ma anche provocato effetti collaterali, come corruzione dilagante e diseguaglianze sociali. Il tutto mentre sull’altra sponda dello Stretto molteplici forze politiche si contendono il voto dei cittadini nella cornice di vivaci campagne elettorali. Taiwan rischia di diventare motivo di imbarazzo per Pechino. Non è facile difendere la superiorità del “modello cinese” con una Cina democratica determinata a ottenere un maggior riconoscimento sullo scacchiere mondiale. Soprattutto da quando l’ottima gestione del coronavirus le è valso il plauso internazionale.

Assicurare stabilità sociale e prosperità economica è quanto, fino a oggi, ha permesso alla leadership comunista di mantenere il consenso popolare anche in tempi di crisi ideologica. Ma le incertezze del contesto globale espongono il binomio sicurezza e benessere a rischiose variabili esterne. Lo dimostrano la pandemia e i chiari di luna con Washington. Ecco perché, nella “Nuova Era” di Xi Jinping, il partito/stato si è rivolto al nazionalismo per consolidare la propria legittimità. Complice la fase decadentista vissuta dall’Occidente democratico. Bu wang chuxin (“Non dimenticare l’intenzione originaria”): il monito riecheggia costantemente nei discorsi del presidente, rievocando una concezione paternalistica del potere che, come al tempo della rivoluzione comunista, si serve di una minaccia esterna – reale o presunta – per unire la popolazione e legittimare la propria sopravvivenza.

Il patriottismo “strabico” di Pechino

Per quanto piuttosto efficace, la strategia del fanatismo patriottico come collante sociale non è priva di ambiguità. Cominciata alla fine dell’Ottocento su ispirazione giapponese, la formazione di un sentimento nazionalista oltre la Grande Muraglia non solo precede la fondazione del Partito comunista, ma è anche strettamente associata alle origini del Kmt e ai “tre principi del popolo” di Sun Yat-sen: minquan (democrazia), minsheng (benessere del popolo) e minzu (nazionalismo) inteso come l’unione di tutte le etnie cinesi in chiave antimperialista. Al contempo il processo di costruzione nazionale, avviato nella Cina continentale intorno agli anni Trenta, non riguardò l’isola oltre lo Stretto, all’epoca ancora nell’orbita nipponica. E, sebbene l’arrivo a Taiwan del governo nazionalista in fuga segnò l’importazione del nation building cinese, all’inizio del nuovo millennio l’ascesa del filoindipendentista Democratic Progressive Party ha sancito la formazione di una vera e propria identità taiwanese, arrivando persino a rinnegare le antiche radici cinesi. Da allora il percorso delle due Cine si è biforcato nuovamente, mettendo a rischio la narrazione delle origini condivise promossa da Pechino. Questo strabismo storico si riflette nella rilettura della controversa figura di Chiang Kai-shek. Considerato un tempo “nemico del popolo”, negli ultimi anni l’industria culturale cinese ha cercato di riabilitare la figura del generalissimo nel nome di un comune patriottismo antigiapponese, laddove a Taiwan, negli ambienti più progressisti, si sta cercando di cancellarne ogni traccia. Per molti taiwanesi Chiang è il ricordo di quarant’anni di arresti e stragi indiscriminate. Per il governo comunista, invece, Chiang è la prova che c’è sempre stata “una sola Cina”.

Taiwan e il “Chinese Dream”

Il ritorno alla madrepatria «non può aspettare di generazione in generazione», aveva sentenziato Xi Jinping nel 2013, appena assunto l’incarico di presidente. In quello stesso anno prendeva forma il “sogno cinese”, concetto evocativo che sintetizza l’impegno del partito/stato non solo ad assicurare benessere economico per la popolazione, ma anche a ripristinare lo standing internazionale dell’ex “malata d’Asia” dopo l’umiliazione subita nell’Ottocento per mano delle potenze imperialiste. Concludere definitivamente la guerra civile è strumentale al raggiungimento dell’agognata “rinascita nazionale”. Un obiettivo che passa per la difesa della sovranità territoriale e l’assoggettamento delle aree periferiche del paese ancora refrattarie all’autorità del governo centrale. Ma le proteste di Hong Kong e la sinizzazione forzata del Tibet e della regione islamica dello Xinjiang hanno reso la prospettiva di un’assimilazione politica anche più invisa alla popolazione taiwanese. Diversi segnali suggeriscono un parziale ripensamento di Pechino davanti alla scarsa persuasività della vecchia strategia dell’annessione pacifica a base di isolamento internazionale e corteggiamento economico. La perdita di sette alleati e l’offerta di una semiautonomia in stile hongkonghese non hanno ammorbidito la posizione di Taipei. E il tempo stringe. La Cina ambisce a diventare una “potenza socialista moderna” entro il 1° ottobre 2049, centenario della Repubblica popolare. Ma tappe e obiettivi anche più ravvicinati incombono minacciosi. Andando a ritroso, il 2027 potrebbe già riservare preoccupanti colpi di scena. Nei piani di Pechino, il centesimo compleanno dell’Esercito popolare di liberazione dovrà coincidere con la fine dell’ambiziosa riforma militare avviata nel 2015 per supportare il “sogno cinese”. C’è chi teme che, una volta ottenuti i mezzi necessari, la leadership cinese possa decidere di assumersi il rischio di una guerra con gli Stati Uniti. Chi invece, anche tra le fila dell’esercito cinese, considera un intervento armato uno spreco di risorse utilizzabili per “migliorare il tenore di vita della popolazione cinese”. Vero obiettivo del “Chinese Dream”.

 

Il sogno di Xi

I prossimi due anni potrebbero rivelarsi determinanti per le relazioni con Taipei. Il biennio 2021-2022 vedrà succedersi a stretto giro il centenario e il 20° Congresso del Partito comunista, che sancirà un parziale ricambio ai vertici della nomenklatura cinese. Un momento delicato che, con ogni probabilità, vedrà Xi sfondare il limite dei due mandati con l’intento di continuare a presiedere la roadmap dei due centenari, potenzialmente sine die. Consolidare l’eredità politica del lider maximo cinese pare conti almeno quanto raggiungere l’obiettivo del “ringiovanimento nazionale”. In questo processo Taiwan ricopre un ruolo centrale. Lo dimostra lo storico incontro tra Xi e l’ex presidente nazionalista Ma Ying-jeou, pochi mesi prima che nel gennaio 2016 la vittoria elettorale della leader del Dpp Tsai Ing-wen facesse naufragare ogni speranza di una riconciliazione pacifica.

Per Xi, la riunificazione è una questione personale. Una questione di famiglia, diciamo. Una storia dimenticata racconta di come la guerra civile intersecò le vicende famigliari del presidente. Perché se i media ufficiali amano ricordare le gesta del padre di Xi, il rivoluzionario Xi Zhongxun rimasto fedele al partito nonostante le purghe maoiste, il nonno materno del presidente, Qi Houzhi, militò nel braccio armato del Kmt durante la spedizione del Nord contro i signori della guerra. Un ruolo che gli permise di intercedere per la liberazione della figlia Qi Yun, zia di Xi Jinping, arrestata dai nazionalisti nel 1937 a causa delle sue note simpatie comuniste. Dopo la vittoria delle truppe maoiste, quel gesto paterno protesse Qi Houzhi dalla campagna contro gli elementi di destra. Non è andata altrettanto bene alla famiglia della first lady Peng Liyuan: il padre fu perseguitato per anni dopo che uno zio fuggì con i nazionalisti a Taiwan. Ancora governatore del Fujian – la provincia davanti allo Stretto – nel 2000 Xi riconobbe l’importanza dei trascorsi famigliari nella sua formazione personale. Probabilmente, lo stesso vale per molti altri cinesi. Senza dubbio, ricucire lo strappo con l’altra Cina darebbe a Xi un posto di primo piano nella storia. La riunificazione «è inevitabile», ha sentenziato il leader. La vera domanda continua a essere “come e quando?”.

L'articolo Taipei, ossessione cinese in un mare conteso proviene da OGzero.

]]>
Il Vietnam digitale al XIII Congresso del Partito https://ogzero.org/cresce-lo-status-del-vietnam/ Sun, 31 Jan 2021 01:26:06 +0000 http://ogzero.org/?p=2348 Vietnam all’alba del 13° Congresso Nazionale del Partito: emergere all’inizio dei nuovi anni Venti Il 2021 sarà un anno chiave per capire la direzione intrapresa dall’Asia verso il futuro – ora più che mai incerto. Il Vietnam in questo senso rappresenta una pedina che sta lentamente assumendo importanza sullo scacchiere regionale, dove a nuove sfide […]

L'articolo Il Vietnam digitale al XIII Congresso del Partito proviene da OGzero.

]]>
Vietnam all’alba del 13° Congresso Nazionale del Partito: emergere all’inizio dei nuovi anni Venti

Il 2021 sarà un anno chiave per capire la direzione intrapresa dall’Asia verso il futuro – ora più che mai incerto. Il Vietnam in questo senso rappresenta una pedina che sta lentamente assumendo importanza sullo scacchiere regionale, dove a nuove sfide nelle alleanze si alternano nuove opportunità economiche e politiche. Dal 25 gennaio al 2 febbraio Hanoi ospiterà il XIII Congresso nazionale del Partito comunista del Vietnam (Pcv): durante questo evento, che si tiene ogni cinque anni, verranno dettate le linee guida per il paese, oltre a decretare le posizioni apicali all’interno del partito e degli organi legislativi. In quest’ultimo caso si tratta di una pura formalità: nelle settimane precedenti una serie di incontri stabilisce ex ante i candidati da proporre al Congresso – dove vengono ratificate le scelte avvenute dietro le quinte. Il Vietnam, dall’assetto politico in parte somigliante a quello cinese (una repubblica socialista monopartitica), si distingue per una concentrazione meno personalistica dell’autorità principale. Il cambio di leadership che i 1500 delegati dovranno avvallare consiste in 200 membri del Congresso Nazionale, 14-19 membri del Politburo e i cosiddetti “quattro pilastri”: il segretario generale del partito del Vietnam, il presidente dello stato, il primo ministro e il presidente dell’Assemblea nazionale. Come altri paesi al mondo con una storia di rapida evoluzione economica nel XX secolo, anche la storia del Vietnam è legata da un doppio filo alla figura di Ho Chi Minh e al Partito comunista, di cui si sono appena festeggiati i 90 anni dalla fondazione. La selezione dei candidati con il compito di guidare il paese è considerata il fulcro per il funzionamento della politica domestica e il raggiungimento degli obiettivi previsti dai piani quinquennali. Al centro della strategia auspicata da Hanoi vi saranno i candidati scelti dal Comitato Centrale, i quali dalle prime indiscrezioni vengono esaltati per le qualifiche: persone di grandi doti morali, talento e alto potenziale. La parola d’ordine è continuità: mentre il paese sta cambiando sotto le allettanti prospettive che i mercati globali aprono al Vietnam, l’apparato politico riafferma le proprie posizioni e la centralità nel determinarne la via. Ciò non impedisce che il XIII Congresso potrebbe riservare, come spesso accade, delle sorprese.

Cresce lo status del Vietnam

Il punto di partenza dello sviluppo vietnamita: le venditrici ambulanti a Hanoi nel dopoguerra, diapositive viventi sullo schermo della continuità

Una politica interna a rischio

L’attuale presidente e segretario generale del Partito è Nguyen Phu Trong, 77 anni e già oltre il limite stabilito per le cariche governative, di 65 anni. Trong è stato apprezzato negli ultimi anni per la lotta alla corruzione, ma ha anche dimostrato di avere una forte presa sul Partito. Il suo intervento ha portato a stravolgere anche alcune cariche apicali, come quando rimosse il precedente primo ministro nel 2016 e fece arrestare Dinh La Thang, il capo del Partito a Ho Chi Minh City, primo ex membro del Politburo nella storia del Vietnam a venir incarcerato.

Trong è stato riconfermato segretario di Partito, nonostante abbia superato i due mandati, mentre l’incarico di presidente – carica che Trong non può più ricoprire avendo superato i due mandati – potrebbe invece essere affidata all’attuale primo ministro, Nguyen Xuan Phuc, anch’egli ormai in età avanzata per ricoprire la carica, 67 anni. Si tratta di scelte anomale rispetto ai precedenti Congressi, segnale di una volontà di regolare le tensioni interne tra fazioni e un’impasse sulla nomina del prossimo leader.

Per gli analisti la mossa potrebbe anche nascondere una crisi interna al Partito, giunto a un punto di svolta generazionale e di grandi sfide interne ed esterne al paese. Nguyen Phu Trong rappresenterebbe dunque un punto di coesione, l’“uomo forte” in grado di mantenere la stabilità all’interno del Pcv. Un’altra nota interessante riguarda la provenienza dei presunti nuovi pilastri della politica vietnamita, tutti originari del Nord del paese. Un fattore che romperebbe con la consuetudine per cui le cariche apicali dovrebbero rappresentare in egual misura entrambe le macroregioni del Sud e del Nord.

Cresce lo status del Vietnam

Il XIII Congresso del Partito comunista vietnamita dal 25 genanio al 2 febbraio 2021

A determinare gli sviluppi della politica interna sono soprattutto alcune tendenze in forte crescita: un’economia rampante ma anche una presa sulla popolazione sempre più attenta alle critiche.

Il 2020 è stato un anno chiave per raggiungere gli obiettivi del piano quinquennale, un anno di successi economici significativi: oltre a Taiwan e Cina è stato l’unico paese a chiudere l’anno con un segno di crescita positivo secondo gli ultimi dati della Banca Mondiale. Ma è anche un record al ribasso dopo anni di crescita rampante e che motiva Hanoi a puntare per il 2021 al +6,5% di crescita del Pil, annunciata da una risoluzione a inizio anno in preparazione degli incontri del partito. Il debito sovrano è in calo, e si prevede di raggiungere nel 2021 la quota del 52,5% rispetto al Pil: secondo la maggior parte degli economisti uno status “virtuoso”, che rende un paese meno vulnerabile in tempi di crisi. Considerato paese politicamente stabile nella regione, le agenzie di rating ne danno una prospettiva molto positiva di sviluppo economico e di sicurezza per gli investimenti esteri. Nonostante il rallentamento causato dalla pandemia di Covid-19, gli investimenti nel paese continuano a mostrare una tendenza positiva – ma rimane invariata la presenza dei vicini asiatici nella classifica dei maggiori investitori: Singapore, Cina e Taiwan sono i maggiori player della zona, con investimenti nel 2020 del valore di circa 28,5 miliardi di dollari. Si punta soprattutto alla manifattura, seguita dalla produzione di energia elettrica e le relative infrastrutture per la distribuzione di elettricità.

In questo contesto emerge una terza figura importante per la politica vietnamita: Nguyen Tan Dung. Grande riformista e primo ministro nel 2006, è considerato l’artefice delle iniziative che hanno aiutato il Vietnam a ottenere buoni risultati in termini di occupazione e crescita economica. Il politico è stato fautore dell’ingresso del Vietnam nell’Organizzazione Mondiale del Commercio (Omc) e viene da alcuni addirittura considerato un “Deng Xiaoping vietnamita”: questo perché la sua persona avrebbe ridato slancio a quella serie di politiche di riforma e apertura iniziate nel 1986 e note come Đổi Mới – “il rinnovamento”.

Cresce lo status del Vietnam

Si solleva il sipario sul Đổi Mới – “il rinnovamento” – la transizione digitale

Tra i nodi cruciali dello sviluppo 2.0 del Vietnam rientrano le tecnologie all’avanguardia e la gestione dell’economia digitale: in pochi anni il paese ha raggiunto i 55,19 milioni di utenti internet, circa il 60% della popolazione totale. La transizione verso il digitale è al centro della ripresa post-Covid, ha dichiarato all’internet day Nguyen Huy Dung, direttore del dipartimento di Tecnologia dell’informazione, ministero dell’Informazione e delle Comunicazioni e viceministro più giovane della storia della repubblica. Con la transizione digitale il Partito punta soprattutto a elaborare una governance digitale coerente, fatta di rapida inclusione delle tecnologie digitali per snellire la burocrazia e far avanzare i nuovi settori produttivi dove il machine learning e una rete infrastrutturale efficiente sono essenziali.

L’internet economy nel paese continua a crescere a doppia cifra, accompagnata dalle osservazioni sulla tutela della “sovranità digitale” del Vietnam. Il paese negli ultimi anni ha infatti aumentato la stretta nei confronti dei dissidenti, riuscendo a ottenere la collaborazione di Facebook e Google nell’eliminazione dei contenuti “sovversivi”. È record anche di prigionieri politici, che vengono sottoposti a pene più lunghe mentre sono sempre più energiche le ripercussioni sugli attivisti rintracciati attraverso internet. L’unità cyber-militare vietnamita oggi conta circa 10.000 individui, che insieme a collaboratori civili hanno il compito di scovare le attività online illecite, tra cui rientra ampiamente la critica all’establishment. Il concetto di sovranità digitale, che sta assumendo le inclinazioni di Pechino ma senza arrivare a chiudere i confini virtuali ai big tech americani, sarà uno dei principali rompicapi per Hanoi.

Dalla sovranità soft a quella reale: il Vietnam verso lo status di potenza media?

Due sono gli elementi essenziali della strategia politica estera di Hanoi: salvaguardia della sovranità e indipendenza.

Gli accordi commerciali che il Vietnam è riuscito a chiudere con diversi partner in tutto il mondo stanno portando il paese ad avere una posizione economica sempre più prestigiosa nel contesto del sudest asiatico. Prima l’accordo di libero scambio con l’Unione Europea, poi la Regional Cooperation Economic Partnership (Rcep) con altri quattordici paesi asiatici hanno contribuito ad aumentare la percezione di apertura economica “facile e veloce” del Vietnam. Molte aziende decidono di trasferirvisi per godere degli incentivi statali a fronte di una manodopera ormai più conveniente della Cina, oltre alle ottime prospettive di evoluzione infrastrutturale e finanziaria. La Cina gioca un ruolo centrale in questo processo, con la guerra commerciale che ha favorito l’allontanamento di alcuni partner dai modelli di business saldamente orientati all’esportazione di beni e servizi a prezzi competitivi. Allo stesso tempo nel settore del commercio internazionale crescono le speranze verso un potenziale boom del mercato dei consumi in Vietnam, dove arrivare prima dei competitor rappresenta un vantaggio importante per le aziende.

Proprio questo multilateralismo apparentemente equanime nei confronti dei partner commerciali ha permesso al Vietnam di crearsi un’immagine tutt’altro che polarizzante in politica estera. La politica dei “tre no” rimane un caposaldo della diplomazia vietnamita: nessuna alleanza, nessuna presa di posizione in caso di tensioni geopolitiche e nessuna base militare ammessa sul suolo nazionale. Questo sistema oggi è sempre più messo in discussione da alcune mosse in politica estera che hanno permesso al Vietnam un posizionamento crescente sullo scacchiere asiatico. Storicamente la Cina ha sempre prevalso come potenza sul Vietnam e l’asimmetria tra i due paesi continua a influire sulle scelte che Hanoi deve fare per mantenere la stabilità intorno ai propri confini. Questo rapporto è sempre stato turbolento e altalenante, nonostante queste frizioni rimangano spesso sopite sotto il velo della retorica della solidarietà ideologica, radicata nel cameratismo dei primi anni Cinquanta, quando la Repubblica popolare cinese fu l’unica a riconoscere formalmente il Vietnam. Oggi un tentativo di Hanoi di bilanciare Pechino attraverso posizioni più assertive risponde alla necessità di mantenere un’apparenza di equilibrio geopolitico nella regione in grado di preservare gli interessi del Vietnam.

A mettere in discussione lo status quo sono però due elementi vitali per il paese asiatico: il Mar Cinese Meridionale e la regione del Delta del Mekong.

La necessità di prendere parte attiva in due delle questioni più spinose – ma vitali – per l’area del Sudest asiatico, ha accresciuto lo status del Vietnam, che alcuni analisti vedono sulla strada per diventare una potenza media con possibilità di avere un impatto anche importante nella regione. Questo si evince in particolare dall’impegno diplomatico del paese a dare voce a queste due istanze condivise per raccogliere le energie sufficienti a contrastare i giganti dell’area, in particolare la Cina. Definire il Vietnam una media potenza già in atto e non in divenire è una sentenza complessa e non completamente esatta a oggi. Ma non è possibile ignorare come negli ultimi vent’anni la politica estera del Vietnam ha avuto una svolta: a partire dal 2001 il Partito ha introdotto per la prima volta una politica più aperta e mirata a diversificare le alleanze, dando il via a un processo i cui risultati sono evidenti oggi.

Nel 2019 il Vietnam ospita il secondo vertice del dialogo Usa-Corea del Nord e da qualche anno invia con regolarità alcune truppe alle missioni Onu. Nel 2020 assume la presidenza dell’Asean e riesce a coordinare i paesi nella lotta al Covid-19. Nelle ultime settimane Hanoi annuncia un nuovo piano per il Delta del Mekong, invitando tutti i paesi coinvolti a partecipare attivamente per contrastare l’attività a monte delle dighe cinesi, che insieme ai cambiamenti climatici in atto stanno riducendo drasticamente un flusso d’acqua che tiene in vita un’intera regione. Più vicine anche le posizioni verso gli Stati Uniti, dato che Washington fino a oggi ha sostenuto qualsiasi forma di opposizione alla Cina nel Mar Cinese Meridionale. L’opportunità rischia però di diventare rischio: Pechino è la grande protagonista della regione, mentre l’America rimane fisicamente – e diplomaticamente – lontana. Non da ultimo il Vietnam si trova stretto in un gioco dove alle minacce di sanzioni fanno da contraltare richieste di maggiore apertura e flessibilità finanziaria.

Mentre l’unico vero alleato che il Vietnam abbia mai dichiarato – il Laos – dall’elezione del nuovo primo ministro Thongloun Sisoulith si è nettamente avvicinato a Pechino, l’India ricompare spesso nelle considerazioni sull’area. Vi è infatti tra i due governi una vicinanza di idee in termini di sicurezza regionale, quel desiderio di stabilità senza giochi di potere e alleanze. Ma è cresciuta l’incertezza da quando il governo Modi e la politica americana per l’Indo-pacifico hanno iniziato a ipotizzare un’alleanza tra democrazie asiatiche.

Se il 2020 è stato l’anno che ha richiamato l’attenzione del mondo sull’Asia, il 2021 potrebbe riservare un posto da protagonista per il Vietnam. Quel “basso profilo” che tanto ricorda i primi anni della ripresa cinese dopo il 1978, oggi è chiamato a rispondere di questioni critiche che richiedono la fermezza di una media potenza regionale. Partire dalle nuove sfide interne è una chiave di lettura per comprendere il livello di sicurezza che mostrerà il Partito nell’esporsi sul palcoscenico geopolitico del Sudest asiatico.

L'articolo Il Vietnam digitale al XIII Congresso del Partito proviene da OGzero.

]]>
La politica estera europea guarda a Oriente https://ogzero.org/la-politica-estera-europea-guarda-a-oriente/ Wed, 14 Oct 2020 19:58:13 +0000 http://ogzero.org/?p=1516 Quando il presidente cinese Xi Jinping visitò Berlino nel marzo 2014, Angela Merkel lo omaggiò di una ristampa tedesca della mappa realizzata dal cartografo francese Jean-Baptiste Bourguignon d’Anville nel 1735 sulla base del precedente lavoro dei gesuiti francesi che, durante il regno dell’imperatore Kangxi dei Qing (1661-1722), furono incaricati di mappare per la prima volta […]

L'articolo La politica estera europea guarda a Oriente proviene da OGzero.

]]>
Quando il presidente cinese Xi Jinping visitò Berlino nel marzo 2014, Angela Merkel lo omaggiò di una ristampa tedesca della mappa realizzata dal cartografo francese Jean-Baptiste Bourguignon d’Anville nel 1735 sulla base del precedente lavoro dei gesuiti francesi che, durante il regno dell’imperatore Kangxi dei Qing (1661-1722), furono incaricati di mappare per la prima volta con criteri scientifici l’estensione territoriale del Celeste Impero.

Il pennuto di D’Anville senza coda né zampe

A quasi tre secoli di distanza, il valore storico della Carte générale de la Chine Dressée sur les Cartes particulières que l’Empereur Cang-hi a fait lever sur les lieux par les Jésuites missionaires dans cet Empire assume sfumature geopolitiche. Anziché un gallo, la Cina di d’Anville è un pennuto senza coda né zampe: le parti mancanti corrispondono, a nordovest, alle attuali regioni autonome del Xinjiang e del Tibet e, a sudest, al Mar Cinese Meridionale, teatro di schermaglie territoriali tra il gigante asiatico e i vicini rivieraschi. Un colore diverso definisce implicitamente le isole di Taiwan e Hainan come realtà distinte.

Rotte commerciali marittime “libere e sicure”

Durante quello stesso incontro, la cancelliera tedesca, citando il “diritto internazionale”, invitò la Cina «a risolvere le dispute territoriali» nelle «corti multinazionali» al fine di «mantenere le rotte commerciali marittime libere e sicure». Chiaro riferimento alla sentenza con cui nel 2016 il Tribunale internazionale dell’Aja contestò i diritti storici rivendicati da Pechino nel Mar Cinese Meridionale, accogliendo la richiesta delle Filippine.

Gli ammonimenti della Merkel sono stati codificati all’inizio di settembre, quando la Germania ha annunciato ufficialmente le nuove linee guida per la politica estera nell’Indo-Pacifico, concetto inaugurato negli anni Venti proprio da un tedesco – il geografo Karl Ernst Haushofer – ripreso nel 2007 dall’ex premier giapponese Shinzo Abe, e rilanciato dieci anni più tardi dall’amministrazione Trump.

L’Indo-Pacifico è un concetto politico variabile

In termini puramente geografici, per Indo-Pacifico si intende una regione biogeografica oceanica che comprende le zone tropicali e subtropicali dell’oceano Indiano e della parte occidentale dell’oceano Pacifico a est, fino alle Hawaii e all’Isola di Pasqua. Ma la sua interpretazione politica cambia da paese a paese. Per Washington, parlare di Indo-Pacifico serve a ridimensionare il ruolo della Cina e della Belt and Road per dare maggiore centralità agli alleati regionali – Australia, Giappone e soprattutto India – in materia di sicurezza e scambi commerciali, con malcelate finalità protezionistiche. E per Berlino? Sfogliando il corposo fascicolo (quasi settanta pagine), si nota l’intenzione di «rafforzare lo stato di diritto e i diritti umani» ma anche e soprattutto l’impegno a «evitare la dipendenza unilaterale [dalla Cina] diversificando le partnership».

L’Europa volge lo sguardo a Oriente, specialmente la Germania

Riconoscendo il valore economico e geopolitico dell’Indo-Pacifico – dove ha sede il 60% della popolazione e un terzo del commercio mondiale – la Germania sfrutta il riposizionamento nel quadrante per rilanciare il multilateralismo e il libero scambio, invocando un dialogo europeo con la NATO e gli attori regionali: Giappone, Corea del Sud, India (citata ben 57 volte) ma anche l’ASEAN, l’organizzazione politica, economica e culturale che riunisce 10 nazioni del Sudest asiatico. La sigla comprende i principali avversari di Pechino nel Mar Cinese Meridionale: Vietnam, Malaysia, Brunei, Filippine e Indonesia. Come sottolinea l’Associazione Italia-ASEAN, è una visione che la Germania punta a trasmettere a livello comunitario, come traspare dal Trio Program formulato dalla presidenza del Consiglio dell’Unione europea, che Berlino lascerà il 31 dicembre al Portogallo e in seguito alla Slovenia.

Mentre le linee guida tedesche segnano un ritorno della prima economia europea tra le Gestaltungsmächten (le “shaping powers” ) – dopo il ridimensionamento militare cominciato alla fine della Guerra Fredda – e un avanzamento in Asia – dopo le distrazioni russe nell’Europa orientale – la Germania non è l’unico paese del Vecchio Continente ad aver voltato lo sguardo a Oriente. Nel 2019, la Francia ha riconosciuto ufficialmente l’importanza della regione con la pubblicazione di un documento programmatico che ne esalta la centralità economica, il peso demografico e la ricchezza di risorse naturali ed energetiche. Anche Parigi parla di “libero commercio”, “multilateralismo” e di un “ordine multipolare”. Ma la svolta indo-pacifica della Germania ha un valore simbolico inedito trattandosi del primo paese “extra-regionale” ad aver formulato una propria strategia, laddove gli interessi francesi sono sostenuti da una presenza fisica massiva.

Come ricorda il documento fin dalle prime righe alludendo ai possedimenti d’oltremare, «il 93% della zona economica esclusiva (ZEE) [della Francia] si trova nell’Oceano Indiano e nel Pacifico, un’area che ospita 1,5 milioni di cittadini francesi e 8000 soldati». La conferma della sovranità sulla Nuova Caledonia – dove è presente la più importante base militare francese del Pacifico – consolida la presa tentacolare di Parigi nella regione, fugando i timori di quanti temevano che un divorzio dalla madrepatria avrebbe lasciato l’arcipelago ricco di nickel in balia della Cina. Mentre l’Indo-Pacific Defense Startegy auspica a chiare lettere maggiori sinergie con Stati Uniti, Giappone, Australia e India, si moltiplicano i segni di un maggior coordinamento anche sul versante europeo.

Francia e Gran Bretagna nel Mar Cinese Meridionale: l’unione fa la forza

Nell’aprile 2017, la missione francese Jeanne d’Arc ha guidato attraverso il Mar Cinese Meridionale una spedizione composta da 52 membri della Royal Navy britannica, 12 ufficiali di varie nazionalità europee e un funzionario UE.  «Visione e valori condivisi» rendono la Gran Bretagna un partner naturale di Parigi. In futuro lo sarà sempre di più. Secondo gli esperti, la minaccia di un no deal con l’Unione europea spingerà gli interessi di Londra anche più a Est. In fondo, si tratterebbe di resuscitare quanto seminato in cinque secoli di colonialismo britannico. Ma il governo di Boris Johnson non sembra volersi fermare qui. L’avvio di trattative per una possibile adesione alla Comprehensive and Progressive Agreement for Trans-Pacific Partnership – l’ex TPP da cui l’America di Trump si è sfilata nel 2017 – ha coinciso con l’emergere di indiscrezioni sulla presunta decisione di inviare, per la prima volta, una delle due portaerei britanniche nella regione. Verosimilmente anche nel Mar Cinese Meridionale. Certo, un maggiore dinamismo economico richiede maggiore stabilità e sicurezza. Ma non giova che l’attivismo militare di Londra giunga proprio mentre Hong Kong e il 5G attentano alla longevità dei rapporti con Pechino. Per contenere lo strappo, le potenze europee paiono aver adottato una vecchia tecnica: in Cina si dice «yī gēn kuàizi róngyì zhé, yī bǎ kuàizi nán zhéduàn». Da noi, semplicemente, «l’unione fa la forza».

Questa non è una Zee

Poco dopo l’annuncio delle linee guida tedesche, nel mese di settembre Germania, Francia e Gran Bretagna hanno rilasciato un comunicato congiunto per denunciare le operazioni dell’Esercito popolare di liberazione nel Mar cinese meridionale. La nota, presentata alle Nazioni Unite, fa eco alle rimostranze di Malaysia, Australia, Indonesia, Vietnam e Filippine, sottolineando «l’importanza di un esercizio senza ostacoli della libertà in alto mare, in particolare la libertà di navigazione e di sorvolo, nonché del diritto di passaggio». Rievocando la sentenza del 2016, i tre paesi hanno anche sottolineato che «i diritti storici – rivendicati da Pechino – non sono conformi al diritto internazionale» e che le isole contese – in quanto artificiali – non generano una zona economica esclusiva, l’area adiacente le acque territoriali, in cui uno stato costiero ha diritti sovrani per la gestione delle risorse naturali, giurisdizione in materia di installazione e uso di strutture artificiali o fisse, ricerca scientifica, protezione e conservazione dell’ambiente marino. Nello specifico, Parigi, Berlino e Londra contestano che le Paracelso costituiscano un arcipelago ai fini della tracciabilità delle cosiddette “linee di base diritte”, metodo utilizzato quando la costa è profondamente incavata e frastagliata per misurare la larghezza del mare territoriale. La questione non è nuova. Nel 2018 il Regno Unito aveva già espresso la propria contrarietà passando entro le 12 miglia nautiche dagli isolotti. Ma è la prima volta che Germania e Francia assumono una posizione chiara a riguardo. Quella dell’Unione europea, invece, continua a esserlo molto meno.

La “neutralità” di Bruxelles…

Come articolato nella EU Global Strategy del 2016, la politica estera di Bruxelles tiene fede a un mix di “pragmatismo” e “Realpolitik con caratteristiche europee”. Una formula che permette al blocco di vendere armi ai paesi ASEAN e, contemporaneamente, rifornire Pechino di “tecnologia dual-use”. Quanto ai contenziosi territoriali, Bruxelles si definisce “neutrale”; invoca la necessità di trovare soluzioni pacifiche all’interno di una cornice normativa condivisa. Si appella alla Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (UNCLOS) – pilastro della EU Maritime Security Strategy – e auspica l’introduzione di un Codice di condotta (Coc) tra le parti. Ma delega ai singoli paesi membri l’onere di «sostenere la libera navigazione» e «combattere le attività illecite». Come per altri dossier, anche nel Mar Cinese Meridionale la mancanza di coesione interna ostacola la formulazione di una risposta concertata, specie quando in gioco ci sono gli interessi economici con il gigante asiatico. Un esempio? La risoluzione UE sull’arbitrato dell’Aja, edulcorata in seguito alle pressioni di Grecia, Ungheria, Slovenia e Croazia. A ciò si aggiunge la necessità di mantenere una delicata equidistanza tra la Cina, primo partner commerciale UE, e gli Stati Uniti, principale alleato militare. Un’impresa sempre più difficile.

… che si avvicina a Taiwan

Ammiccando a Bruxelles, Angela Merkel lo ha detto chiaramente: «la nostra prosperità e la nostra influenza geopolitica degli anni a venire dipenderanno da come collaboreremo con l’Indo-Pacifico». Non solo la regione conta per oltre un terzo degli scambi tra il blocco e i paesi extraeuropei. Davanti a Covid e al rischio di un “decoupling”, questa parte di mondo assumerà anche maggiore rilevanza nell’ottica di una crescente diversificazione della catena di approvvigionamento. In tempi recenti, l’interesse di Bruxelles per il quadrante si è esplicitato in un inedito avvicinamento a Taiwan, l’isola che Pechino considera una “provincia ribelle” da riannettere ai propri territori. Circa una quindicina di nazioni europee – comprese Germania, Francia e Italia – hanno recentemente partecipato per la prima volta a un forum sugli investimenti organizzato dall’European Economic and Trade Office, l’“ambasciata” UE a Taipei. Come auspicato dalla presidente taiwanese Tsai Ing-wen, la nuova piattaforma introduce la possibilità che in futuro il dialogo confluisca nella firma di un trattato bilaterale sugli investimenti all’insegna dell’«apertura, della trasparenza e dell’imparzialità». Tutti qualità per le quali la Cina non eccelle.

L'articolo La politica estera europea guarda a Oriente proviene da OGzero.

]]>
Richieste di cambiamento a Bangkok https://ogzero.org/10-richieste-per-cambiare-a-bangkok/ Mon, 12 Oct 2020 12:04:02 +0000 http://ogzero.org/?p=1488 Sfida all’ultima monarchia assoluta Il 14 ottobre è una giornata importante per il movimento tailandese che da mesi attraversa le piazze di Bangkok e di altre città della Thailandia chiedendo le dimissioni del premier e una riforma costituzionale che riveda la legge elettorale e limiti i poteri della monarchia, una delle più longeve del pianeta. […]

L'articolo Richieste di cambiamento a Bangkok proviene da OGzero.

]]>
Sfida all’ultima monarchia assoluta

Il 14 ottobre è una giornata importante per il movimento tailandese che da mesi attraversa le piazze di Bangkok e di altre città della Thailandia chiedendo le dimissioni del premier e una riforma costituzionale che riveda la legge elettorale e limiti i poteri della monarchia, una delle più longeve del pianeta. Per quella data il movimento degli studenti, che nel tempo ha raccolto consensi anche tra la classe media e tra alcuni membri dell’opposizione in parlamento, si è nuovamente dato appuntamento nella centrale piazza di Bangkok dove campeggia un simbolico monumento alla democrazia per quella che è l’ennesima prova di forza con il governo di Prayut Chan-o.Cha, un ex generale golpista che si è assicurato un nuovo mandato nel 2019 grazie a una maggioranza blindata garantita da un senato non eletto. Ma la prova di forza è anche con il re Rama X, un monarca poco amato dal suo popolo ma protetto da una delle più dure leggi contro chi diffama la casa reale, reato per cui vengono comminate pene severissime.

Ascolta “10 richieste per il cambiamento” su Spreaker.

Milk Tea Alliance: Bangkok come HK e Taiwan

Il movimento, che ha già dei leader consacrati come Parit “Penguin” Chiwarak e la collega Panasaya “Rung” Sitthijirawattanakul (studentessa come lui dell’università Thammasat della capitale), già passati per le maglie di una repressione che per ora li ha però lasciati in libertà, ha la sua fucina proprio alla Thammasat, dove Rung il 10 agosto ha letto un Manifesto in dieci punti in cui, per la prima volta, si faceva esplicito riferimento al re e ai suoi poteri.

Autoidentificatosi come Free Youth Movement, il movimento ha come simboli le tre dita alzate – mediate dal film di fantascienza del 2012 Hunger Games –, il monumento alla democrazia nel centro di Bangkok e una sorta di alleanza regionale (Milk Tea Alliance) con altri movimenti giovanili abbastanza simili: a Taiwan e Hong Kong soprattutto. E la piazza tailandese non sembra aver nulla da invidiare ai colleghi dell’ex colonia britannica: sfidare il re che vive nel palazzo reale di Bangkok non è meno rischioso che sfidare Pechino. La nuova sigla che fa da ombrello alle varie anime del movimento è quella del “People’s Party 2020”, un riferimento al gruppo di militari e civili che rovesciarono la monarchia assoluta nel 1932 e stabilirono un governo parlamentare. Episodio divenuto un altro simbolo della protesta.

 

Trame parlamentari tangenziali al movimento

Proprio la vicenda della contestazione monarchica, speculano gli osservatori locali, farebbe però correre il rischio di un minor consenso alla piazza che mercoledì 14 dovrà dimostrare con i numeri di averne a sufficienza per non farsi schiacciare da una repressione per ora morbida ma che in Thailandia, paese dominato oltreché dalla monarchia dalla casta militare; potrebbe essere molto dura specie se il movimento dovesse sgonfiarsi.

In realtà per ora a tirarsi indietro sarebbero solo le “camice rosse” dell’United Front for Democracy Against Dictatorship, un’organizzazione che fa riferimento al partito Pheu Thai, espressione della famiglia Shinawatra (l’ex premier-tycoon Thaksin, che fu soprannominato il Berlusconi d’Asia, e sua sorella pure lei ex premier Yingluck, entrambi in esilio). I parlamentari del Pheu Thai sarebbero divisi: alcuni vorrebbero appoggiare il movimento (come già hanno fatto uscendo dal parlamento dopo il rinvio del voto sugli emendamenti costituzionali il 24 settembre scorso) ma la de facto nuova leader del partito – Khunying Potjaman (ex moglie di Thaksin Shinawatra) – sarebbe contraria: riapparsa sulla scena nei giorni scorsi mentre scadeva il mandato della leadership del partito, ha pensato bene di farsi veder a una cerimonia reale così da far subito capire da che parte deve andare il Pheu Thai.

Restano ancora i parlamentari del Move Forward Party, erede del Future Forward Party, partito progressista squalificato dopo le elezioni del 2019 dove aveva ottenuto un’ottima affermazione. Proprio i cavilli legali con cui il Ffp fu escluso dall’arena – gli stessi con cui è stato espulso dal parlamento il suo leader, il miliardario progressista e socialdemocratico Thanathorn Juangroongruangkit – erano stati la goccia che aveva fatto traboccare il vaso dando la stura alle proteste che poi sono sempre più cresciute, nonostante le misure anticovid.

10 punti verso lo sciopero generale del 14 ottobre

Da luglio, quando le misure si sono allentate, il movimento ha ripreso fiato arrivando il 10 agosto alla famosa lettura in piazza del Manifesto in dieci punti con cui, oltre a chiedere le dimissioni di Prayut e una nuova Costituzione, il movimento criticava apertamente il ruolo della monarchia, chiedendo la divisione dei suoi beni (tra quelli personali del re e quelli della corona) e un diritto di critica che equivale nel regno a lesa maestà.

C’è da aggiungere che il Pheu Thai – al netto dei calcoli della famiglia Shinawatra che spera sempre in un ritorno di Thaksin e dunque nel perdono del monarca – aveva preso subito le distanze da quell’uscita poco consona alle regole tradizionali anche se poi si era schierato con gli studenti, appoggiando il movimento e dando battaglia in parlamento. Adesso le carte sono tutte sul tavolo e il gioco si fa sempre più impegnativo. E, per il movimento, gravido di rischi. Non certo per l’assenza delle camicie rosse quanto per la presenza di oltre 3000 agenti già schierati nella capitale.

Thailandia in Movimento

Le 10 Richieste

«These demands are not a proposal to topple the monarchy. They are a good-faith proposal made for the monarchy to be able to continue to be esteemed by the people within a democracy»

  1. Revoke Article 6 of the 2017 Constitution that forbids any accusation against the King. And add an article to allow parliament to examine wrongdoing of the King, as was stipulated in the constitution promulgated by the People’s Party.
  2. Revoke Article 112 of the Criminal Code, to allow the people to exercise freedom of expression about the monarchy and amnesty all those prosecuted for criticizing the monarchy.
  3. Revoke the Crown Property Act of 2018 and make a clear division between the assets of the King under the control of the Ministry of Finance and his personal assets.
  4. Reduce the amount of the national budget allocated to the King in line with the economic conditions of the country.
  5. Abolish the Royal Offices. Units with a clear duty, such the Royal Security Command, should be transferred and placed under other agencies. Unnecessary units, such as the Privy Council, should be disbanded.
  6. Cease all giving and receiving of donations by royal charity funds in order for all assets of the monarchy to be open to audit.
  7. Cease the exercise of the royal prerogative over the expression of political opinions in public.
  8. Cease all public relations and education that excessively and one-sidedly glorifies the monarchy.
  9. Investigate the facts about the murders of those who criticized or had some kind of relation with the monarchy.
  10. The king must not endorse any further coups.

L'articolo Richieste di cambiamento a Bangkok proviene da OGzero.

]]>
Catene di isole nella corrente del grande gioco indopacifico https://ogzero.org/studium/catene-di-isole-nella-corrente-del-grande-gioco-indo-pacifico/ Fri, 31 Jul 2020 07:11:27 +0000 http://ogzero.org/?post_type=portfolio&p=956 L'articolo Catene di isole nella corrente del grande gioco indopacifico proviene da OGzero.

]]>

Catene di isole nella corrente del grande gioco indo-pacifico

La Belt Road Initiative sembrava inarrestabile. Dopo la pandemia e la definitiva cinesizzazione di Hong Kong il progresso di questo imponente flusso di infrastrutture, vie di comunicazione, isole “create” nell’oceano e ferrovie che corrono nel deserto non sembra aver perso impulso nelle intenzioni di Xi. Questo Studium prende però le mosse dall’ipotesi che cominci a incontrare la resistenza di una rete internazionale, intessuta per imbrigliare i traffici di questa sorta di neocolonialismo cinese… innanzitutto costituita da una cortina stesa a partire dalle intasate miglia del Mar cinese fino ai contesi dirupi del Kashmir.

40%

Avanzamento

Attori europei sul palco indo-pacifico

Riconoscendo il valore economico e geopolitico dell’Indo-Pacifico – dove ha sede il 60% della popolazione e un terzo del commercio mondiale – la Germania sfrutta il riposizionamento nel quadrante per rilanciare il multilateralismo e il libero scambio, invocando un dialogo europeo con la NATO e gli attori regionali, non è l’unico paese del Vecchio Continente ad aver voltato lo sguardo a Oriente.

Nel 2019 anche Parigi parla di “libero commercio”, “multilateralismo” e di un “ordine multipolare” nella zona e l’avvio di trattative per una possibile adesione alla partnership per l’ex TPP da cui l’America di Trump si è sfilata nel 2017 – ha coinciso con l’emergere di indiscrezioni sulla presunta decisione di inviare, per la prima volta, una delle due portaerei britanniche nella regione.

Ultimamente, l’interesse di Bruxelles (che si era dichiarata neutrale) per il quadrante si è esplicitato in un inedito avvicinamento a Taiwan.


Il futuro del quadrante indo-pacifico: porti cinesi come in un filo di perle

Si inaspriscono i rapporti tra i colossi economici mondiali che mostrano i muscoli con operazioni di militarizzazione che in realtà vanno al di là delle questioni dei diritti nazionali rivendicati e rispecchiano i rispettivi interessi economici nell’area indo-pacifica. Questo antico Risiko vede contrapposti per esempio Cina e India (sulla Line of Actual Control che fa da confine ad alta quota) con ripercussioni sul vicino Pakistan, una triangolazione che favorisce gli Stati uniti nella sua Guerra Fredda contro Pechino.

E i conflitti non sono solo in terra ma anche sui mari, dove la conquista dei porti in punti strategici da parte della Cina rende più aspri anche i rapporti con i vicini regionali interessati economicamente a quelle aree che intessono così alleanze di comodo e scatenano l’interventismo americano nella regione. Inoltre gli scontri diplomatici (e non) che riguardano Hong Kong si riverberano anche sugli accordi tra la Santa Sede e Pechino che avevano preso, con l’attuale papa, una strada di riavvicinamento con l’Accordo provvisorio sulla nomina dei vescovi, disaccordi che fanno buon gioco a Washington (e all’India di Modi) nel suo tentativo di arginare la potenza cinese.

Emanuele Giordana analizza in questo Punctum come si sviluppa il gioco globale in questa zona del mondo.


Alla conquista del Mar cinese, un pezzo alla volta

I rapporti tra Cina e Stati Uniti sono sempre più tesi, anche a causa della disputa territoriale nel Mar cinese meridionale – area che ospita un terzo del commercio marittimo mondiale –, che vede la Cina accusata di militarizzare la zona, alimentando il contrasto con altre potenze (Brunei, Malesia, Filippine, Taiwan e Vietnam, e anche con l’Australia che nelle isole del Pacifico ha sempre investito e ora sta assumendo una posizione difensiva con un piano decennale da 270 miliardi di dollari per rafforzare i propri sistemi difensivi) che ambiscono al controllo di quelle zone del Pacifico come gli arcipelaghi delle Paracel e delle Spratly o le isole Marshall e le Pratas.

La Cina, dal canto suo, accusa gli Stati uniti di ingerenza in affari regionali che non li riguardano, ingerenza dimostrata dalle sempre più frequenti incursioni in quel quadrante.


Segui tutti i contenuti attinenti a questo Studium

L'articolo Catene di isole nella corrente del grande gioco indopacifico proviene da OGzero.

]]> Il piatto mare-monti tra Cina e Usa https://ogzero.org/il-piatto-mare-monti-tra-cina-e-usa/ Tue, 14 Jul 2020 13:25:48 +0000 http://ogzero.org/?p=462 Anche il recente scontro tra Delhi e Pechino va ricondotto a una battaglia più grande nella regione indo-pacifica. Un gioco globale su più tavoli soprattutto tra Usa e Rpc che passa persino per gli abiti talari Il faccia a faccia sino-indiano iniziato a maggio sulle vette himalayane, da sempre teatro di tensione per la questione […]

L'articolo Il piatto mare-monti tra Cina e Usa proviene da OGzero.

]]>
Anche il recente scontro tra Delhi e Pechino va ricondotto a una battaglia più grande nella regione indo-pacifica. Un gioco globale su più tavoli soprattutto tra Usa e Rpc che passa persino per gli abiti talari

Il faccia a faccia sino-indiano iniziato a maggio sulle vette himalayane, da sempre teatro di tensione per la questione del Kashmir e per le mai sopite rivendicazioni di confine tra India e Cina, ha registrato la notte del 15 giugno il primo scontro violento tra i due eserciti da quasi 50 anni a questa parte seppur senza l’uso di armi da fuoco. Il bilancio dei morti resta incerto ma, nonostante le dichiarazioni che da ambo le parti, sostengono di voler riportare la questione nell’ambito di una pacifica e diplomatica risoluzione del contenzioso, la tensione resta elevata. E rischia di farla aumentare anche nelle relazioni sempre tese tra Delhi e Islamabad, alleata di Pechino.

Lo scontro economico tra Cina e India

Dietro allo scontro ci sono molti fattori che non riguardano solo i confini ma il confronto tra due grandi potenze mondiali – India e Cina – e, più in generale, la guerra dell’egemonia globale dove si affacciano ovviamente altri attori, soprattutto gli Stati Uniti (la Russia appare in Asia su posizioni arretrate). Con il premier Narendra Modi, l’India ha avuto una sterzata fortemente anticinese di cui si è avuta prova quando Delhi ha fatto fallire, nel novembre 2019, l’accordo di libero scambio Rcep: è l’acronimo del Partenariato economico globale regionale proposto nella regione indo-pacifica da dieci stati del Sudest asiatico riuniti nell’Asean e Australia, Cina, Giappone, Nuova Zelanda, Corea del Sud e appunto India. Fu la paura dei beni a basso prezzo cinesi sul mercato indiano a preoccupare Delhi. Uno spettro riassunto dalla giornalista indiana Barkha Dutt, autrice di This Unquiet Land: Stories from India’s Fault Lines (non a caso sul “Washington Post”) a commento degli scontri al confine sull’Himalaya, a oltre 4000 metri di altezza e lungo la Linea di controllo (Line of Actual Control: Lac) che fa da confine tra India e Cina. «Il deficit commerciale dell’India con la Cina è di 53 miliardi di dollari», scrive, aggiungendo che sarebbe «un suicidio consentire alla Cina di avere libero accesso ai mercati e ai consumatori indiani mentre costruisce strade e infrastrutture attraverso le parti del Kashmir occupate dal Pakistan».

Dall’altro lato del confine, in Pakistan, prevale la prudenza ma un editoriale di “The Dawn” del 18 giugno chiarisce come la vedono a Islamabad: «Sfortunatamente, l’India ha una storia di bullismo nei confronti dei suoi vicini e cerca di giocare a egemone regionale. Il Pakistan ha da tempo sottolineato la necessità di affrontare la questione del Kashmir al tavolo negoziale, una posizione che l’India ha arrogantemente respinto». Un fatto che purtroppo, al di là delle responsabilità anche pachistane nel conflitto, ha un fondo di verità.

Non solo riflessi regionali

Ovviamente, un conflitto tra Cina e India non ha solo riflessi regionali. Se tocca i vicini come il Pakistan, rientra nel grande gioco internazionale e non è difficile capire dunque come gli Stati Uniti possano servirsene nella neoguerra fredda, soprattutto commerciale, con Pechino. Una guerra fredda commerciale e a parole ma che, come vedremo, è anche armata. È un elemento che desta preoccupazione in tutta l’Asia come ha scritto ai primi di giugno su “Foreign Affairs” Lee Hsien Loong, primo ministro di Singapore: «L’Asia ha prosperato – scrive – perché la Pax Americana dalla fine della Seconda guerra mondiale ha fornito un contesto strategico favorevole. Ma ora, la travagliata relazione tra Stati Uniti e Cina solleva profonde domande sul futuro dell’Asia e sulla forma dell’ordine internazionale emergente».

Ma oltre alle montagne ci sono soprattutto i mari. La regione del Pacifico, o meglio dell’Indo-Pacifico (come ora viene chiamata), comprende la Cina, il Mar cinese orientale e il Mar Cinese meridionale, tutti i paesi che vi si affacciano (dal Giappone all’Indonesia) e il Golfo del Bengala, territorio marino presidiato dall’India che lo ritiene il suo cortile di casa acquatico. I mari sono vie di collegamento commerciali fondamentali, luoghi di caccia, presidi militari e infine riserve energetiche, come rivela la querelle sulle isolette Paracel e Spratly. Su tutta una serie di atolli cinesi a tutti gli effetti, Pechino ha allestito piste di atterraggio, magazzini, baracche militari e il contenzioso su Paracel e Spratly, rivendicati da più nazioni, ha fatto salire il livello di allarme ormai da anni. La storia è antica perché Pechino rivendica un’area estesa per circa mille miglia dalle sue coste e la controlla con navi militari, aerei e pescherecci. Una forza di pressione che nel 2018 obbligò Hanoi – che ha rivendicazioni territoriali in quello specchio di mare assieme a Malaysia, Brunei, Filippine e Taiwan – a sospendere i progetti di trivellazione petrolifera della spagnola Repsol. A fine aprile 2020 tra l’altro, il Vietnam ha protestato con Pechino contro l’istituzione di due distretti sull’isola cinese di Hainan col compito di governare Paracel e Spratly.

Piccole isole grandi problemi

Il contenzioso, come dicevamo, preoccupa un po’ tutti: i più teneri con Pechino sono i filippini, i più agguerriti sono i vietnamiti. E non è un caso se Hanoi stringe relazioni sempre più forti con Washington che sono invece ai minimi storici con Manila. Ma la partita è molto più ampia: la Nuova Via della Seta (Belt Road Initiative) si basa anche su un “filo di perle” marittime che sono i porti di Chittagong in Bangladesh, Sihanoukville in Cambogia, Hambantota in Sri Lanka e Gwadar in Pakistan più altri progetti (in Myanmar, Thailandia…) per la costruzione di nuove infrastrutture portuali e in alcuni casi anche militari. Una recente analisi di “Al Jazeera” ha fatto i conti in tasca alla potenza militare marittima cinese: fregate, portaerei, sottomarini, pattugliatori (acquistati ma sempre più costruiti in loco) con una forza militare navale di circa 100000 uomini, la seconda al mondo dopo gli Stati Uniti (quasi il doppio) e subito prima della Corea del Sud.

Gli americani non sono rimasti a guardare. Nell’area è dislocata la Settima flotta, la più grande di quelle dispiegate dalla marina statunitense con oltre 50-70 navi e sottomarini, 140 aerei e circa 20000 marinai in grado di reagire rapidamente. Il Comando generale dell’area (Usindopacom) conta infine oltre 370000 uomini tra personale di terra, aria, mare. Proprio recentemente sono state rafforzate una serie di manovre di pattugliamento, sorveglianza, osservazione che hanno innervosito i cinesi. Un esercizio muscolare mentre si scaldava il dossier Covid-19, il caso Hong Kong e quello mai chiuso su Taiwan.

Washington scalda i muscoli

L’idea di potenziare la difesa americana nel Pacifico ha cominciato per altro a circolare ai primi di aprile di quest’anno quando le conclusioni di un rapporto dell’ammiraglio Phil Davidson, a capo del Comando Usindopacom, hanno chiesto al Congresso 20 miliardi di dollari per rafforzare operazioni navali, aeree e terrestri nella regione (sistemi d’arma, logistica, training, intelligence…). Nel giro di 15 giorni la richiesta è diventata una proposta di legge, presentata al Congresso il 23 aprile dal repubblicano Mac Thornberry a capo dell’Armed Services Committee della Camera, comitato con compiti di sorveglianza su Pentagono, servizi militari e agenzie del Dipartimento della Difesa, compresi budget e politiche. Falco texano, Thornberry presenta la “Indo-Pacific Deterrence Initiative” come il corollario orientale necessario della “European Deterrence Initiative” che, per controbilanciare l’espansionismo russo a occidente, ha già messo sul tavolo fino al 2021 oltre 26 miliardi di dollari. Nel progetto di legge se ne chiedono più di sei per la sola regione indo-pacifica e per il solo 2021 con un piano che probabilmente arriverà ai 20 miliardi chiesti dall’ammiraglio Davidson nel giro dei prossimi esercizi finanziari.

Naturalmente, come nel “dialogo” tra Cina e India, anche in quello tra Usa e Cina le manifestazioni pubbliche sono sempre “costruttive”. Ma gli incontri faccia faccia danno più la sensazione che gli avversari vogliano soprattutto studiarsi più che mettersi realmente d’accordo. Ne sembra la prova il summit di metà giugno (la battaglia indo-cinese era appena avvenuta) tra il diplomatico cinese Yang Jiechi e il segretario di stato americano Mike Pompeo che si sono incontrati il 17 giugno per un colloquio alle Hawaii preparato in gran segreto, sembra soprattutto per volontà americana. Ma la montagna ha partorito un topolino. Al di là di dichiarazioni assai vaghe, le indiscrezioni emerse a seguito dell’incontro dicono chiaramente che l’unico fatto positivo è semmai che l’incontro c’è stato. Un incontro durato sette ore con cena. Taiwan, Hong Kong e la repressione nello Xinjiang avrebbero dominato il summit – definito appunto “costruttivo” – tra Mike Pompeo e Yang Jiechi. Pechino si sarebbe impegnata a migliorare il suo rapporto con Washington – ha scritto il ben informato “South China Morning Post” – ma avrebbe anche avvertito gli Stati Uniti che la Rpc difenderà risolutamente i suoi interessi. Alla fine l’incontro sembra aver solo offerto la prova di un desiderio condiviso di impedire che i rapporti si inaspriscano ulteriormente. Un modo forse per poter continuare a studiare l’avversario. Gli americani del resto hanno ottenuto che l’incontro si tenesse in un luogo non proprio neutro: le Hawaii dove è dislocato il Comando di Usindopacom in un momento in cui gli americani hanno rafforzato un esercizio muscolare navale davvero bizzarro se si vuole raffreddare il rapporto con la Cina. Un esercizio rafforzato da atteggiamenti sempre più anticinesi dell’alleato australiano e della Nuova Zelanda.

 

La guerra con la tonaca

Ma il virus della guerra Cina/Usa non passa solo dalle accuse di aver strumentalizzato l’Oms, dal quadrante marittimo del Pacifico o dalle battaglie sul commercio e, seppur indirettamente, dalle schermaglie sulle vette himalayane. Ci sono risvolti più o meno aperti e manovre più o meno sotterranee come rivela un caso recente che riguarda Hong Kong, tallone d’Achille della Rpc. “UcaNews”, la più diffusa e potente agenzia cattolica in Asia ha scritto recentemente che il cardinale Zen e il vescovo Ha Chi-shing, due leader religiosi cattolici di Hong Kong che non hanno mai nascosto il loro sostegno ai movimenti nell’ex colonia: «potrebbero essere inviati nella Cina continentale per essere processati» dopo che la nuova proposta legislativa sulla sicurezza a Hong Kong voluta da Pechino è diventata legge. Si tratta in realtà più di un’ipotesi che di una probabilità reale, ma quel che è certo è che i due prelati sono invisi alla Rpc per aver sempre remato contro. Zen, in particolare, che cercò di boicottare persino lo storico accordo tra Pechino e Santa Sede (Accordo Provvisorio sulla nomina dei Vescovi) firmato il 22 settembre 2018 sotto il pontificato di papa Francesco. Fu l’atto che segnava l’inizio della fine della guerra tra Roma e Pechino sulla cosiddetta Chiesa parallela (per cui la Cina sceglieva i vescovi e Roma non li riconosceva) e l’avvio di future relazioni diplomatiche tra i due paesi. Ora che anche l’ultimo vescovo è stato riconosciuto, la deportazione di Zen e Ha Chi-shing manderebbe all’aria la faticosa ma ben avviata riconciliazione tra i due stati.

La bozza ufficiale della legge sulla sicurezza nell’occhio del ciclone non è ancora ufficiale e il suo corpus dovrebbe essere approvato dal Comitato Centrale del Partito entro luglio ma, scrive l’agenzia cattolica: «Il dettaglio più recente – cioè che la Cina ha la possibilità di decidere di processare gli accusati in continente – è emerso in una conferenza a Shenzhen il 15 giugno», quando Deng Zhonghua, vicedirettore del gabinetto di Hong Kong e dell’ufficio affari di Macao, ha spiegato che «in circostanze molto speciali, il governo centrale manterrà la giurisdizione su alcuni casi che coinvolgono atti criminali che mettono gravemente a repentaglio la sicurezza nazionale». Da questo agli arresti di Zen ce ne corre: la mossa – che farebbe del cardinale un martire – inasprirebbe inutilmente i rapporti in via di sempre maggior distensione tra Rpc e Vaticano e non farebbe comodo a nessuno dei due: «probabilmente – dice una fonte vaticana – piacerebbe agli americani che hanno sempre ostacolato il processo e hanno sempre sostenuto Zen. C’è una partita geopolitica più ampia intorno ai rapporti tra Rpc e Santa Sede e che fa anche parte della guerra tra Washington e Pechino».

I piccoli tasselli del grande gioco

Joseph Zen Ze-kiun (classe 1932) è stato il sesto vescovo di Hong Kong ed è cardinale dal 2006. Molto duro con la Cina si è sempre esposto anche dopo che nel 2009 si è ritirato per limiti di età, senza per altro perdere influenza. Joseph Ha Chi-shing è uno dei quattro vescovi ausiliari di Hong Kong che assistono il cardinale John Tong Hon nella gestione della diocesi, al cui posto Zen avrebbe invece voluto il suo pupillo. Non sono gli unici ferventi anticinesi nel mondo cattolico asiatico. Recentemente, suscitando stupore e imbarazzo, si è schierato anche il cardinale Charles Bo, arcivescovo di Yangon e presidente della Federazione delle Conferenze episcopali asiatiche. In una lettera a proposito del Covid-19 apparsa il 2 aprile proprio su “UcaNews” ha accusato la Cina di «atteggiamento negligente, in particolare il suo dispotico partito… Attraverso la sua gestione disumana e irresponsabile, il Pcc ha dimostrato ciò che molti pensavano in precedenza: che è una minaccia per il mondo». Musica per le orecchie di Zen e per quelle di Washington. Probabilmente anche per quelle di Narendra Modi.

L'articolo Il piatto mare-monti tra Cina e Usa proviene da OGzero.

]]>
Collane di atolli, rotte commerciali e cavi sottomarini https://ogzero.org/collane-di-atolli-rotte-commerciali-e-cavi-sottomarini/ Tue, 14 Jul 2020 13:17:36 +0000 http://ogzero.org/?p=574 Lattuga, cavolo cinese, bok choi e molto altro. Non siamo in un mercato di Shanghai, bensì a Woody Island, una delle isole artificiali costruite da Pechino nell’arcipelago delle Paracel, nel Mar cinese meridionale, dove la marina militare cinese ha raccolto 750 chili di vegetali dopo aver reso coltivabili 2000 metri quadrati di spiaggia mescolando alla […]

L'articolo Collane di atolli, rotte commerciali e cavi sottomarini proviene da OGzero.

]]>
Lattuga, cavolo cinese, bok choi e molto altro. Non siamo in un mercato di Shanghai, bensì a Woody Island, una delle isole artificiali costruite da Pechino nell’arcipelago delle Paracel, nel Mar cinese meridionale, dove la marina militare cinese ha raccolto 750 chili di vegetali dopo aver reso coltivabili 2000 metri quadrati di spiaggia mescolando alla sabbia una soluzione a base di cellulosa. Una tecnica messa a punto dagli scienziati della Chongqing Jiaotong University nella Mongolia Interna che permetterà di tenere stabili le forniture alimentari dei soldati dislocati in questo strategico tratto di mare.

Controllata dalla Cina fin dal 1956, Woody Island è uno degli atolli al centro delle dispute territoriali che da decenni coinvolgono le Paracel, la catena delle Spratly, le isole Pratas e altri scogli semisommersi contesi con Vietnam, Filippine, Malaysia, Taiwan e Brunei. A partire dal 2013, il gigante asiatico ha trasformato sette barriere coralline in vere e proprie postazioni insulari protette da missili, di cui tre dotate di piste d’atterraggio “dual use”. Si tratta di un’area che si estende per 3,6 milioni di chilometri quadrati, dalla Cina all’Indonesia, e di cui Pechino rivendica come proprio oltre l’80 per cento sulla base di “diritti storici”.

Undici antichi documenti, presentati in sede di disputa internazionale, proverebbero che già intorno al 210 a.C. la dinastia Han aveva costruito un avamposto amministrativo sull’isola di Hainan, estendendo la propria sfera d’influenza fino agli arcipelaghi menzionati. Le vecchie mappe ingiallite non hanno convinto il Tribunale Permanente di Arbitrato dell’Aia che, chiamato in causa da Manila, nel 2016 ha dichiarato illegittime le rivendicazioni cinesi. Ma la sentenza non è bastata a scoraggiare le pretese di Pechino. Da allora, l’avanzata tentacolare del gigante asiatico nella regione ha continuato a inglobare territori disabitati seguendo la cosiddetta tattica salami-slicing: un pezzetto per volta.

Lo scorso maggio, mentre l’emergenza Covid-19 distraeva i vicini rivieraschi, la situazione nel Mar cinese meridionale è tornata d’attualità dopo che la Repubblica Popolare ha annunciato la creazione di due nuove unità amministrative – il distretto di Xisha, che include le Paracel e il Macclesfield Bank (rivendicato da Taiwan e Filippine), e il distretto di Nansha, concentrato sulle isole Spratly (contese con Vietnam, Filippine, Malaysia, Taiwan e Brunei) – che cadranno sotto l’autorità di Sansha, la città-prefettura istituita nel 2012 su Woody Island e parte della provincia di Hainan. La decisione ha coinciso con l’assegnazione di un nome a un’ottantina di formazioni naturali per la prima volta dal 1983. Secondo indiscrezioni del “South China Morning Post”, la prossima mossa potrebbe prevedere l’istituzione di una “zona di identificazione aerea” (Adiz), come già avvenuto nel Mar cinese orientale, dove Pechino contesta la sovranità del Giappone sulle isole Diaoyu/Senkaku.

Per la Cina, ancora ferita dalle umiliazioni ottocentesche, il Mar cinese è soprattutto una questione di sovranità. Ma, come spesso accade nelle dispute territoriali, all’afflato nazionalistico si intrecciano importanti interessi economici. Secondo dati del 2016 raccolti dal Center for Strategic and International Studies, il Mar cinese meridionale ospita circa il 10 per cento del pescato a livello mondiale e risorse energetiche per un valore di 2500 miliardi di dollari. Un terzo del commercio marittimo globale, il 30 per cento delle forniture di greggio e il 64 per cento degli scambi tra la Cina e il resto del mondo solca le sue turbolente acque. E, con il recente sorpasso dell’Asean sull’Unione Europea come prima destinazione dell’export cinese, il traffico regionale è destinato presumibilmente ad aumentare.

Le manovre cinesi nel cortile di casa potrebbero presto raggiungere le acque dell’Oceano più grande del mondo. L’area contesa lambisce la cosiddetta “prima catena di isole”, un termine preso in prestito dagli Stati uniti che negli anni Cinquanta individuarono nella cintura insulare dalle Curili – tra l’estremità nordorientale dell’isola giapponese di Hokkaidō e la penisola russa della Kamčatka – fino al Borneo, un avamposto per circondare l’Unione Sovietica e la Cina. Il piano non decollò mai, ma la minaccia è ancora presente. Sigillare il tratto di mare tra la costa cinese e il Pacifico è diventata una priorità assoluta per Pechino, specialmente da quando Washington ha incrementato le proprie incursioni nel quadrante in supporto alle rivendicazioni marittime degli alleati asiatici. Una posizione ufficializzata per la prima volta il 13 luglio dal dipartimento di Stato con il comunicato “U.S Position on Maritime Claims in the South China Sea”.

Questo spiega la sempre più frequente presenza di aerei e sottomarini cinesi nel canale di Bashi e nello stretto di Miyako, cerniera naturale tra il Mar cinese e il Pacifico occidentale. Stando alle indiscrezioni della stampa nipponica, il Dragone avrebbe già individuato la prossima preda: il piccolo arcipelago delle Pratas controllato da Taiwan, l’isola “ribelle” che la Repubblica popolare vuole riannettere ai propri territori e che Washington, in assenza di relazioni ufficiali, sostiene militarmente.

Pechino giustifica il proprio attivismo regionale in ottica “difensiva”. Ma lo sfoggio di muscoli soverchia i toni rassicuranti del diplomatichese. Con oltre 330 navi da guerra (ma solo due portaerei), la marina cinese ha superato numericamente quella statunitense (285 alla fine del 2019). E se al vantaggio quantitativo non corrisponde una superiorità in termini di efficienza, vero è che l’epidemia da coronavirus – messa ko la marina a stelle e strisce – ha scoperchiato l’evanescenza della supremazia delle undici portaerei americane in situazioni di crisi. Secondo un rapporto del Congressional Research Service, think tank del Congresso statunitense, l’espansionismo cinese costituisce una minaccia per «il controllo [americano] sulle acque profonde del Pacifico occidentale in stato di guerra».

Più a sud il livello d’allarme non è inferiore. «Is China using its South China Sea strategy in the South Pacific?»: è quanto si chiede il think tank governativo Australian Strategic Policy Institute (Aspi), che in un rapporto spiega come il Pacifico meridionale condivida con il Mar cinese meridionale quattro caratteristiche particolarmente attraenti: è ricco di risorse naturali; ospita atolli disabitati e cavi sottomarini; racchiude snodi strategici per le merci globali; dipende economicamente dalla Cina. Queste somiglianze, conclude l’istituto, potrebbero consentire a Pechino di sfruttare canali scientifici e commerciali come pretesto per migliorare la propria conoscenza del territorio in chiave militare.

Con un pil complessivo di appena 33,7 miliardi di dollari e 10 milioni di abitanti – meno della popolazione della Svezia – le isole del Pacifico sono da sempre stati-satellite di Canberra, che con fare paternalistico ne ha supportato economicamente la sopravvivenza investendo a fondo perduto nei servizi di base – sanità e istruzione in primis –, e difeso la stabilità sociale come previsto da accordi stretti con Stati Uniti e Nuova Zelanda negli anni Cinquanta. È stato così fino a quando, nei primi anni Duemila, la “diplomazia dei dollari” perseguita da Pechino in Africa non ha raggiunto questo remoto angolo di mondo. La svolta ha coinciso con la storica visita di Wen Jiabao, nel 2006, la prima di un premier cinese nelle isole del Pacifico. Da allora, il gigante asiatico ha speso almeno 6 miliardi di dollari nelle repubbliche insulari, per lo più in progetti estrattivi e infrastrutturali. La fetta più consistente risulta concentrata nei sette anni di Belt and Road, il progetto con cui Pechino punta a cementare i rapporti economici e diplomatici strappando assegni nei paesi emergenti. C’è chi le definisce vere e proprie delazioni prezzolate quando si prendono in esame le acque del Pacifico. Qui, infatti, si consuma lo scontro più acceso con Taiwan, “l’isola che non c’è” riconosciuta formalmente ormai da appena quindici paesi, di cui quattro (Palau, Nauru, Tuvalu e Isole Marshall) situati proprio nel “nuovissimo continente”. Le numerose defezioni dell’ultimo anno non sembrano aver alterato la strategia regionale di Taipei, che giorni fa ha annunciato la riapertura della sede consolare di Guam con lo scopo conclamato di «facilitare gli scambi con gli alleati del Pacifico».

La resistenza taiwanese ha implicazioni che trascendono il braccio di ferro tra le “due Cine”. Da anni si teme che l’operosità di Pechino negli arcipelaghi a cavallo tra i due emisferi possa assumere connotazioni militaresche, come avvenuto nel Mar cinese meridionale. Basta pensare alle declinazioni strategiche della stazione spaziale cinesi di Kiribati, le isole sottratte a Taiwan lo scorso settembre. Secondo un rapporto della US-China Review Commission, fortificazioni cinesi nel Pacifico meridionale potrebbero bloccare l’accesso americano alla regione e compromettere la stabilità di Australia e Nuova Zelanda. In tempi di “American First” e crisi epidemica, potrebbero essere proprio i player regionali “minori” a dover dettare una linea comune per arginare l’avanzata di Pechino, prescindendo dalle zoppicanti piattaforme multilaterali istituite da Washington nel cosiddetto “Indo-Pacifico”. Come membro del Quadrilateral Security Dialogue (Quad), Canberra è un frequentatore assiduo del Mar cinese meridionale, sebbene non abbia ancora accolto l’invito americano a condurre “operazioni di libera navigazione”, il provocatorio passaggio entro le 12 miglia nautiche dalle isole contese.

Certo, serviranno capacità funamboliche per tutelare gli interessi nazionali senza sfilacciare le relazioni economiche già pregiudicate dalle polemiche sul 5G e la paternità del coronavirus. Tanto più che il peso cinese nelle dinamiche commerciali del quadrante potrebbe aumentare esponenzialmente se, come ventilato dal primo ministro Li Keqiang, il gigante asiatico – già promotore della Regional Comprehensive Economic Partnership (Rcep) – dovesse entrare anche nella Comprehensive and Progressive Agreement for Trans-Pacific Partnership (Cptpp), il mega accordo fortemente voluto da Obama quando ancora si chiamava Tpp e da cui Trump ha annunciato il ritiro tre giorni dopo l’inizio del suo mandato. Così, mentre Canberra si prepara a rafforzare i propri sistemi difensivi con un piano decennale da 270 miliardi di dollari, non tutti approvano un coinvolgimento australiano nel braccio di ferro tra le due superpotenze. Almeno non quando implica missioni in acque più lontane.

In uno studio dal titolo eloquente (Australia and the US: great allies but different agendas in the South China Sea), il think tank di Sydney Lowy Institue, ricordando come solo il 20 per cento dei commerci con l’Australia passa per il Mar cinese meridionale, nel 2015 concludeva che, se «lo spirito materno impone di difendere la libertà di navigazione», in realtà «solo gli Stati Uniti hanno veramente interesse a condurre attività militari» nelle acque contese.

L'articolo Collane di atolli, rotte commerciali e cavi sottomarini proviene da OGzero.

]]>