Sykes-Picot Archivi - OGzero https://ogzero.org/tag/sykes-picot/ geopolitica etc Tue, 28 Dec 2021 10:00:45 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.4.6 La sfida dei curdi è una sfida per l’umanità https://ogzero.org/la-sfida-anarchica-del-rojava/ Mon, 14 Dec 2020 22:17:21 +0000 http://ogzero.org/?p=2071 Prendiamola larga. Riguardo all’annoso dilemma se sia nato prima l’uovo o la gallina, dopo accurate ricerche storico-paleontologiche, propendo decisamente per l’uovo. L’uovo, naturalmente, di qualche piccolo dinosauro ricoperto di piume e penne che – gradualmente o con un improvviso “salto evolutivo” – produsse quello da cui nacque l’antenato ancestrale della gallina. Ovviamente si può dissentire. […]

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Prendiamola larga. Riguardo all’annoso dilemma se sia nato prima l’uovo o la gallina, dopo accurate ricerche storico-paleontologiche, propendo decisamente per l’uovo. L’uovo, naturalmente, di qualche piccolo dinosauro ricoperto di piume e penne che – gradualmente o con un improvviso “salto evolutivo” – produsse quello da cui nacque l’antenato ancestrale della gallina. Ovviamente si può dissentire.

Parimenti, sull’altra sofferta questione se sia nato prima il capitalismo o lo sfruttamento, le gerarchie sociali… propendo – come mi pare sostenga anche Öcalan – per assegnare la primogenitura alla gerarchia, al potere.

Ma – così come le galline disseminano di uova il pollaio e le immediate vicinanze – così il capitalismo ha diffuso a pioggia l’oppressione nelle sue svariate e molteplici forme.

Esiste tuttavia qualche differenza sostanziale. Personalmente (in quanto vegetariano, ma non solo) non appenderei mai una gallina al lampione.

10-100-1000… Rojava?

Il Rojava, un enigma sospeso tra mille buone ragioni e qualche “effetto collaterale” magari indesiderato.

Tra la guerra e l’autogestione, la resistenza e l’ecologia, il rifiuto delle gerarchie e la necessità dell’autodifesa, la rivoluzione delle donne e le milizie in armi…

Un “groviglio” non indifferente.

Per capirci qualcosa di più, abbiamo consultato la mappa realizzata da Norma Santi e Salvo Vaccaro. Un paziente lavoro di documentazione dell’avventuroso, audace esperimento sociale intrapreso dai curdi e dagli altri popoli presenti nella regione considerata, il Rojava. Un testo che analizza – criticamente – soprattutto il versante libertario, la componente “anarchica” (in senso lato).

In La sfida anarchica nel Rojava (pubblicato da “La Biblioteca Franco Serantini”), risulta particolarmente stimolante e chiarificatore  – oltre a quelli di Salvo Vaccaro, Norma Santi e Debbie Bookchin – l’intervento di Raul Zibechi. Essenziale, direi.

Acutamente, risolve una – solo apparente – contraddizione. Ossia, il fatto che tali accadimenti («…il popolo in armi, il ruolo di spicco delle donne, l’autogoverno…») sembrano attendere, per manifestarsi adeguatamente, i tempi duri, le condizioni difficili, se non addirittura disperate («…durante una guerra, in una situazione estremamente critica per la sopravvivenza»). Come avvenne del resto in Ucraina nel 1921 e in Catalunya nel 1936.

Dopo una breve ricostruzione storica delle essenziali vicende (accordi segreti Sykes-Picot del 1916, Dichiarazione Balfour, Trattato di Sèvres del 1920, Trattato di Losanna del 1923, Trattato di Residenza Forzata imposto dalla Turchia nel 1930, le numerose – una trentina – rivolte tra il 1920 e il 1940, l’insurrezione di Dersim nel 1938, la repressione turca degli anni Ottanta e Novanta…), lo scrittore uruguayano spiega come proprio dalla sostanziale evaporazione delle strutture  statali nel Nord della Siria (2011) sgorgasse sia la necessità che la possibilità di formare le Unità di Protezione del Popolo (Ypg) e le Unità di Difesa delle Donne (Ypj), le milizie che l’anno dopo avrebbero liberato Kobane e altre città consentendo al Pyd (Partito dell’Unione Democratica) e al Knc (Consiglio Nazionale Curdo) di amministrare in base ai principi del Confederalismo democratico (ossia del municipalismo libertario). E in seguito – nel gennaio 2013 – ai cantoni di Jazira, Efrin e Kobane di proclamare la loro autonomia. Tra le macerie della guerra civile, i curdi avevano cercato e individuato la «loro strada attraverso l’autogoverno». Un esempio di possibile convivenza pacifica tra curdi, arabi, aramaici, armeni, turcomanni, ceceni…

Zibechi sembra poi voler polemizzare – se pur garbatamente – con l’inveterata abitudine di attribuire sempre e comunque «l’adozione del Confederalismo democratico alla prigionia di Abdullah Öcalan e all’influenza del pensatore  e militante statunitense Murray Bookchin». In fin dei conti, sostiene, «si tratta di una visione colonialista». Invece «la popolazione curda, come gli indigeni latinoamericani, si costituisce attorno a comunità contadine che determinano la loro  identità e la loro cultura». E la proposta del Confederalismo democratico sarebbe quindi «ancorata al recupero delle tradizioni della Mesopotamia». Quelle che altrove definisce «tradizioni libertarie del popolo curdo».

E proprio il nuovo orientamento del Pkk, precedente alla carcerazione di Apo, costituì un elemento che doveva scatenare la «reazione furibonda  degli Stati Uniti e dei loro alleati che decisero di definirlo terrorista e di perseguire il suo dirigente Abdullah Öcalan». I fatti successivi sono tristemente noti. Espulso dalla Siria, poi anche dalla Russia, dopo un breve soggiorno in Italia (pare che in un primo momento D’Alema avesse garantito a Bertinotti l’asilo politico per il leader curdo perseguitato), Öcalan venne catturato – in un’operazione attribuita alla Cia e al Mossad – mentre dall’ambasciata greca in Kenya si recava in Sudafrica (su invito di Nelson Mandela).

Per Zibechi il Pkk costituirebbe un serio problema per l’imperialismo in quanto «ora possiede una proposta  per tutti i popoli del Medio Oriente». Esprimendo le note “quattro critiche”  allo stato-nazione (in sintesi: qualsiasi stato si fonda sul dominio di una classe, presuppone il dominio di un gruppo etnico o religioso sopra gli altri, tutti gli stati si appoggiano sul patriarcato, lo stato ha necessità di una economia produttivistica che porta alla distruzione della madre Terra).

Per cui «non si può farla finita con il capitalismo senza eliminare lo stato e non possiamo liberarci dello stato senza liberarci del patriarcato».

Di passaggio l’autore rimprovera ai partiti della sinistra turca, anche a quelli della sinistra rivoluzionaria, l’evidente inadeguatezza di fronte alla questione curda. A tale riguardo andrebbe evidenziato come invece, proprio le esperienze di resistenza e autogoverno dei curdi sia in Rojava che – per quanto umanamente possibile – in Bakur, abbiano risvegliato – “ringiovanito” – la sinistra turca, rimasta parzialmente “tetanizzata” dopo il golpe del 1980*.

Contributi statunitensi

Tra i vari contributi, numerosi  – prevalenti direi – quelli di autori statunitensi (Debbie Bookchin, Paul Z. Simons, Janeth Biehl, Marcel Cartier*, David Graeber, il sito itsgoingdown).

Non è detto (pensando alla storia della sinistra d’oltreoceano) che siano sempre i più indicati per comprendere tali dinamiche.

È possibile infatti che La Commune, Kronstadt, la Maknovicina, le collettivizzazioni in Catalunya e Aragona del 1936-1937… (fonte di ispirazione, se non addirittura propedeutiche, per quella analoga del Rojava) siano esperienze riconducibili alla tormentata, secolare storia delle classi subalterne europee**. Per qualche autore, niente di più e niente di meno che la «prosecuzione con altri mezzi» delle jacqueries del 1300, delle guerre contadine e delle insorgenze ereticali. Non certo al «turbinio di cattivo acido, al mandarino, di amore libero e della famiglia Manson» che – come doveva ammettere il compianto Paul Z. Simon – contraddistinse le “comuni” nordamericane.

Murray Bookchin: ripensare l’etica, la natura e la società 

Senza fare però di ogni erba un fascio e sottolineando che comunque ci sono nordamericani e nordamericani.

Significativo e importante conoscere – attraverso la testimonianza della figlia – l’origine del rapporto tra il pensatore anarchico – statunitense, ma di origine russa – Murray Bookchin (che molti di noi ricordano, basco in testa, a Venezia nel 1984) e Öcalan.

Racconta la giornalista Debbie Bookchin, esponente dell’Institute for Social Ecology, di quando Murray le rivelò – in modo casuale e disinvolto – che «apparentemente i curdi hanno letto il mio lavoro e stanno cercando di mettere in pratica le mie idee». Un corpo di idee che il filosofo e storico aveva denominato «ecologia sociale». In quei giorni (aprile 2004) Bookchin padre aveva ricevuto una lettera da un intermediario (un traduttore tedesco, Reimar Heider) che scriveva a nome del militante curdo imprigionato a Imrali.

Comprensibile un certo iniziale stupore, visto e considerato che fino ad allora nulla dell’ideologia del fondatore del Pkk «sembrava in alcun modo assomigliare a quella di mio padre». Invece, come spiegò Heider, «Öcalan stava leggendo le traduzioni turche dei libri di mio padre in carcere e si considerava un suo bravo studente»***. Libri che Öcalan aveva potuto ottenere in carcere in quanto necessari alla preparazione di una strategia legale per la propria difesa durante il processo per tradimento. Individuando nella formazione e sviluppo dello stato-nazione (a partire dalle prime espressioni conosciute in Mesopotamia, in contemporanea con la nascita dell’agricoltura, dell’allevamento, della schiavitù, dell’oppressione delle donne…) le origini storiche del conflitto turco-curdo ed elaborando una soluzione democratica per ristabilire un rapporto di reciproco rispetto e di convivenza. Non solo tra curdi e turchi, ma fra tutti i popoli del Medio Oriente.

Il cammino intrapreso dal Pkk (fino ad approdare – nel 1998 – al Confederalismo democratico) era iniziato nei primi anni Novanta (quindi prima della cattura di Öcalan) in coincidenza con la caduta del socialismo reale. Una nuova strategia che rifletteva – tra l’altro – i cambiamenti demografici avvenuti nella società curda. Dei tredici milioni di abitanti di Istanbul, ricorda la giornalista «sei milioni sono curdi» e altri quattro milioni sarebbero i curdi emigrati in Europa. Al punto che ormai, secondo Debbie Bookchin «la maggior parte dei curdi non vive in Kurdistan». Ne consegue pertanto che «la lotta principale non  è più nazionale, ma sociale».

In qualche modo “più attraente” anche per tutti quei soggetti oppressi e sfruttati, umiliati e offesi che – senza esser curdi – subiscono comunque il tallone di ferro dell’imperialismo e dei vari regimi.

Purtroppo le circostanze sfavorevoli non consentirono un incontro di persona tra i due. Bookchin era già anziano e con problemi di salute, Öcalan in carcere, spesso sottoposto a lunghi periodi di isolamento. Per cui i loro contatti si limitarono a uno scambio epistolare. Nell’ultima lettera aveva scritto: «La mia speranza è che il popolo curdo possa un giorno essere in grado di creare una società libera e razionale che permetta al loro splendore ancora una volta di prosperare. Hanno la fortuna di avere un leader del talento di Öcalan per guidarli».

Alla morte di Bookchin (30 luglio 2006), il Pkk lo volle ricordare con una dichiarazione – presumibilmente dettata dallo stesso Öcalan – di due pagine in cui lo definiva «uno dei più grandi scienziati sociali del ventesimo secolo».

E aggiungeva: «Ci ha introdotti al pensiero dell’ecologia sociale, e per questo verrà ricordato con gratitudine dall’umanità. […]  Ci impegniamo a far vivere Bookchin nella nostra lotta. Metteremo questa promessa in pratica come la prima società che stabilisce un tangibile Confederalismo democratico».

Altrettanto meritevoli di attenzione altri contributi internazionali e internazionalisti: latino-americani (l’uruguayano Raul Zibechi, già nominato), turchi (l’intervista a Devrimci Anarsiste Faaliyet) italiani (Norma Santi, Salvo Vaccaro, Eleonora Corace), curdi (Dilar Dirik, Hawzhin Azeer – citata in “Rivoluzionari o pedine dell’Impero?”), tedeschi e – presumibilmente – francesi (G.D. & T.L.).

Per la rivoluzione, non per il martirio e nemmeno per farsi pubblicità

Esaurienti e significative le interviste a chi materialmente “si è sporcato le mani”, i militanti integrati nelle Ypg, Ypj e Irpgf.

In Non per il martirio (a cura di CrimethInc), oltre a spiegare le diverse motivazioni che possono aver spinto giovani turchi, europei, statunitensi a combattere con i curdi, non si lesina qualche critica a certi atteggiamenti e comportamenti. Per esempio di quelli che «provano un enorme piacere a mostrare i loro volti, posano con le armi in pugno e gongolano dei loro successi». Spiegando che – purtroppo – non sono mancati i casi di volontari che «hanno usato il conflitto nel Rojava come veicolo per farsi pubblicità, che fa un po’ parte della logica dell’età del selfie e dei social media». Questo ha permesso ad alcuni di loro (comunque una «piccola percentuale dei combattenti internazionali, in nessun modo rappresentativi delle motivazioni e delle azioni della maggior parte») di «guadagnare piccole fortune scrivendo libri e usando la rivoluzione per i loro guadagni personali». E questa, lo dicono fuori dai denti «è la peggior forma di avventurismo e di opportunismo».

Anche per rispetto a tutti gli internazionalisti morti combattendo contro il califfato (Daesh) o contro l’esercito turco. Tra cui molte compagne: Barbara Kistler, Andrea Wolf, Ivana Hoffman, Ayse Deniz Karacagil, Anna Campbell, Alina Sanchez…

E nel  suo “Poscritto” Norma Santi ricorda in particolare i compagni anarchici caduti: Michael Israel, Robert Grodt, Haukur Hilarsson, Anna Montgomery Campbell (già ricordata), Sehid Sevger Ara Makhno, Lorenzo Orsetti.

Senza dimenticare altri cinque anarchici (Alper Sapan, Evrim Deniz Erol, Caner Delissu, Serat Devrim, Medali Barutcu) uccisi nella strage jihadista di Suruc (20 luglio 2015) costato la vita a 33 giovani turchi e curdi (membri della Federazione delle Associazioni dei Giovani Socialisti) che intendevano portare aiuti ai civili evacuati da Kobane.

Un libro da consultare – si diceva – da studiare. Non solamente, pare ovvio, dagli anarchici o aspiranti tali. Uno spaccato a 360 gradi (o quasi) della complessa situazione (il famoso “groviglio”) del Rojava (ma nel libro si parla anche del Bakur – i territori curdi sotto amministrazione-occupazione turca – e dei monti Qandil).

Qualche ulteriore osservazione senza intenti polemici

Tra le righe de La sfida anarchica nel Rojava si coglie una preoccupazione ricorrente (e comunque legittima per chi se la vuol porre). Ossia quanto siano veramente “rivoluzionari” i compagni curdi. Quanto realmente “anticapitalisti”. E anche quanto realmente “libertari”, se non proprio anarchici.

Preoccupazione legittima – si diceva – ma forse talvolta eccessiva. Dato che non abbiamo a che fare soltanto con una o più organizzazioni (Ypg, Jpg, Pkk…), ma anche – soprattutto – con un popolo. Un popolo che – come altre comunità minoritarie o minorizzate (in quanto separate da artificiosi confini statali) presenti in quei territori – rischia periodicamente, se non il vero e proprio genocidio, quantomeno l’etnocidio o l’assimilazione (forzata e non).

Quindi direi che – forse – non è il caso di cercare, sempre e comunque, il pelino nell’uovo (ancora!).

Ritengo che per i curdi rimanga prioritario il fatto di resistere, sopravvivere. Sia agli eserciti statali che alle milizie parastatali, così come alle squadre della morte… talvolta anche ad altri curdi, più o meno collaborazionisti (vedi, talvolta, il Pdk).

Viceversa, andrebbe apprezzato – e molto – il fatto che in un contesto come quello mediorientale – e di questi tempi poi – qualcuno (se non un intero popolo, almeno una sua componente significativa)  si autorganizzi mettendo radicalmente in discussione le gerarchie consolidate (di stato, di classe, di genere… perfino l’antropocentrismo talvolta).

 

  • * a parziale conferma di quanto sostenuto – la minor adeguatezza degli statunitensi nel comprendere i processi rivoluzionari – e non solo quelli –  riporto quanto scrive Cartier. Senza nemmeno – almeno apparentemente – un filo di ironia: «Sembra il paradosso dei paradossi. Gli Stati Uniti e i loro alleati occidentali sono impegnati in una guerra spietata e implacabile contro il governo siriano di Damasco, proprio questi cosiddetti difensori della democrazia e della libertà che sostengono una delle più spregevoli organizzazioni terroristiche e reazionarie mai viste nella storia recente…». Dove appare alquanto disdicevole (e lo è ovviamente) la copertura data – almeno in una certa fase – a Daesh dagli Usa. Mentre appare – o almeno così sembra, potrebbe sembrare – assai meno disdicevole l’attacco imperialista alla Siria (fermo restando il giudizio negativo su Assad). Messa giù così – senza contestualizzare – si potrebbe anche pensare (è una domanda la mia) che in fondo gli Usa non sbagliano nel sentirsi autorizzati, legittimati a intervenire militarmente contro chi non corrisponde ai loro parametri o si frappone ai loro intenti predatori… o no?
  • ** Per quanto siano state esperienze finora sostanzialmente fallimentari,  rimangono – a mio avviso – non solo valide, ma generalizzabili e applicabili ovunque in futuro dovessero crearsene le condizioni. Con maggior fortuna ci si augura.
  • *** Oltre che da Bookchin, Öcalan sarebbe stato influenzato dal pensiero di Braudel, Wallerstein, Mies, Foucault. Presumibilmente anche dal Comandante Marcos, a sua volta influenzato dal situazionismo di Guy Debord che – lo ricordava la figlia – fu tra coloro (cita anche Herbert Marcuse, Daniel Cohn-Bendit, Huey Newton…) che ebbero con Bookchin uno scambio proficuo di idee e di reciproche contaminazioni.

Abbiamo proposto qui un articolo dal taglio insolito per OGzero: solitamente non pubblichiamo recensioni di libri ma Gianni Sartori in questo caso ha intessuto un legame tra i saggi citati e i temi che ci sono più cari (resistenza, autogoverno, rifiuto delle gerarchie e del patriarcato…) rendendo il “groviglio” mediorientale un paradigma rintracciabile in molte delle vicende che su questo sito cerchiamo di narrare. Inoltre si tratta di portare l’attenzione su un dibattito che riguarda l’atteggiamento rivoluzionario di esperimenti sociali alternativi al modello capitalistico a livello globale – quindi geopolitico – tanto nell’attuale situazione, quanto a livello diacronico.

La foto in copertina è di Kamal Chomani e raffigura un gruppo di curdi che tentano di passare il confine sui monti tra Iraq e Iran.

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Considerazioni sul Libano che vanno oltre il Libano https://ogzero.org/considerazioni-sul-libano-che-vanno-oltre-il-libano/ Thu, 03 Sep 2020 09:08:42 +0000 http://ogzero.org/?p=1121 Archiviare i rapporti di forza coloniali in questo periodo di nazionalismi esasperati può ricondurre a modelli vecchi di secoli, anziché soddisfare le richieste di emancipazione dei popoli repressi: l'impero ottomano e quello russo tentano di ricreare le antiche sfere di influenza.

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«Noi, popoli della Padania, solennemente proclamiamo: “la Padania è una repubblica federale indipendente e sovrana. Noi offriamo, gli uni agli altri, a scambievole pegno, le nostre vite, le nostre fortune e il nostro sacro onore”». Parole di Umberto Bossi nella sua dichiarazione d’indipendenza della Padania, 15 settembre 1996. Una sfida, una provocazione politica. Ma anche la realtà di un mondo in cui le Nazioni, come sono state disegnate negli ultimi secoli, non necessariamente corrispondono agli elementi coesivi che finora hanno consentito loro di sopravvivere in pace.

Anni fa sentivo un giovane militare israeliano stanco della guerra contro l’indipendentismo palestinese affermare: «A cosa serve tutto questo. Presto il mondo sarà globalizzato e le nazioni, come le conosciamo oggi, non esisteranno più. Ognuno vivrà dove meglio si trova». Quel futuro (non solo per il Covid) c’è e non c’è. E invece assistiamo a una lenta e spesso cruenta trasformazione del mondo come fu tracciato nella sabbia o sulle cime dei monti dai nostri nonni e bisnonni. Divisioni e non consolidamento.

Confini tracciati altrove

Da Bossi e la Padania, tra razzismo e settarismo religioso, non è difficile approdare sulle sponde meridionali del Mediterraneo. Non soltanto perché sono poche ore d’aereo ma perché il Vicino Oriente come lo vediamo sulle cartine geografiche e nelle cronache dei telegiornali, fu creato o disegnato nel Castello Devachan a Sanremo tra il 19 e il 26 aprile 1920 e consolidato – si fa per dire – pochi mesi dopo a Sèvres, in una antica fabbrica di porcellane a sud di Parigi. Il tutto sulle rovine di uno dei più longevi, affascinanti, poco studiati e spesso incompresi imperi della storia. Di cui anche il minuscolo territorio che conosciamo come Libano faceva parte.

Segno di cambiamento degli equilibri

L’esplosione del 4 agosto 2020 a Beirut, che ha ucciso oltre 200 persone e ferito altre 7000 devastando vaste zone della capitale libanese, ha riportato il paese dei cedri sulle prime pagine dei giornali. Accanto a dubbi, incertezze, ipotesi (attentato o incidente?) sono riprese le considerazioni sulla stabilità, direi quasi la sopravvivenza, del piccolo paese creato dalla Francia e di cui Parigi sembra rivendicare un diritto di tutela se non di più. I legami tra Francia e Libano risalgono al XVI secolo quando la monarchia parigina si rivolse al sultano ottomano per proteggere i cristiani di una regione che, dalla nascita di Gesù in poi, il mondo religioso cresciuto attorno alla sua memoria definisce “Terra santa” ma che per 623 anni, dal 1299 al 1922, faceva parte di uno degli imperi più longevi e potenti e spesso più illuminati della storia controllando, in nome dell’islam sunnita, fette importanti dell’Europa e dell’Asia.

Dove le feroci Crociate dei cristiani d’Europa non riuscirono nel loro intento di dominare la terra d’altri, la forza militare e la diplomazia degli imperi più recenti del vecchio continente ebbero maggiore successo. Con la sconfitta tedesca nella Prima guerra mondiale e la conseguente distruzione del suo alleato di comodo – l’impero Ottomano appunto – francesi, inglesi e italiani (con il consenso dello zar di tutte le Russie) si divisero le spoglie. Non fu un processo indolore. Il trattato di Sèvres provocò la reazione immediata dei nazionalisti turchi sopravvissuti alla sconfitta del vecchio impero. Mustafa Kemal Atatürk, il padre della Turchia moderna, guidò una serie di guerre per cacciare francesi, italiani, greci dall’Anatolia e dopo appena tre anni, con il Trattato di Losanna, gli europei furono costretti a fare un piccolo passo indietro riconoscendo i confini della Turchia di oggi. Un prezzo relativamente modesto visto come Gran Bretagna e Francia erano riusciti a consolidare la loro presenza nel Vicino Oriente e determinare la realtà di nuove entità come Siria, Iraq, e a gettare le basi, con il patto semiclandestino di Sykes-Picot (16 maggio 1916), per la creazione di Israele. Nelle loro menti probabilmente più che un regalo ai sionisti ebrei (peraltro quasi tutti europei) doveva essere un elemento di disturbo nel mondo arabo dominato dalle due anime principali dell’islam.

Mandato coloniale permanente?

Torniamo al Libano. La Società delle Nazioni, ratificando l’accordo Sykes-Picot, affidò la Grande Siria (la Siria attuale e cinque province che costituiscono l’attuale Libano) al controllo diretto della Francia. E Parigi agendo da padrone colonialista, nel settembre 1920 istituì la Repubblica libanese con Beirut come capitale sul territorio allora in gran parte cristiana ma con una forte minoranza musulmana (oggi maggioranza) e drusa. Il paese divenne indipendente alla fine della Seconda guerra mondiale. Fu adottata una Costituzione che voleva garantire i diritti delle varie comunità con un sistema di divisione del potere. Per molti anni ha funzionato trasformando il piccolo stato sulle rive del Mediterraneo in una specie di Svizzera del Medio Oriente: nel bene e nel male.

Gli sviluppi politici nella regione dopo la creazione dello stato d’Israele e, più di recente, con la rivoluzione khomeinista in Iran, assommato ai grandi cambiamenti demografici in Libano, hanno portato alla situazione che vediamo oggi. Con una provocatoria petizione online firmata da 60000 tra residenti e membri della grande e influente diaspora libanese, è stato chiesto alla Francia di tornare a prendersi cura del Libano con un nuovo Mandato. «La Francia non lascerà mai il Libano», parole del leader francese Macron in visita a Beirut devastata dall’esplosione al porto. «Il cuore del popolo francese batte ancora al polso di Beirut». Solo retorica o il neocolonialismo francese fatica a morire? Per sottolineare il legame storico, Macron ha fatto il bis tornando a Beirut il 1° settembre, cento anni dopo quel famoso “Mandato”. Ancora parole, ma forse la consapevolezza che troppi fattori, locali e regionali, giocano contro un ruolo di Parigi che vada oltre eventuali piogge di euro per sostenere un sistema corrotto e fallimentare. Di sicuro, con la divisione del potere costituzionale che non rispecchia più la realtà demografica del Libano, il futuro della piccola nazione è sempre più in bilico in un mondo in cui montano le tendenze autonomiste, si inasprisce lo scontro tra Iran e Arabia saudita, gestori delle due verità contrapposte dell’islam, e prendono impeto le aspirazioni di vecchie potenze imperiali, tra cui la Turchia. Una nota: gli stati nazionali radicati nella storia della regione di cui parliamo sono appena quattro: Egitto, Iran, Yemen e Turchia.

Il passato, un incubo rinnovabile

La disgregazione dell’Unione sovietica e della Jugoslavia hanno aggiunto nuove nazioni all’Onu e si è parlato molto negli ultimi anni di ridisegnare i confini del Medio Oriente per soddisfare le istanze, per esempio, dei curdi, traditi dalle spartizioni postimpero Ottomano. Stesse ipotesi aleggiano per risolvere il conflitto interno della Libia, altra realtà complessa disegnata dall’Italia coloniale dopo la cacciata dei turchi da Cirenaica e Tripolitania. In essenza, è in corso nel bacino del Mediterraneo un grande gioco i cui protagonisti rispecchiano più il passato che un’idea rivoluzionaria per il futuro. Mentre la Francia rincorre la sua gloria appassita e la Russia agisce pensando non tanto all’Urss, di relativamente breve memoria storica, quanto al grande impero degli zar che molti osservatori tendono a dimenticare, la Turchia (membro della Nato, formalmente alleato dell’Occidente e, purtroppo, più volte respinta come possibile membro dell’Unione europea) sembra voler ripristinare la gloria dell’impero d’Oriente e dell’islam sunnita che dominarono per sei secoli sulle rovine dell’impero cristiano di Costantinopoli. La nuova classe dirigente turca e buona parte degli ufficiali superiori rivendicano quanto meno un ruolo di potenza regionale soprattutto sul Vicino Oriente islamico.

Per i servizi segreti israeliani, che guardano con simpatia alle mosse di Macron, e per la Cia, in uno stato di confusione anche per la politica attuale della Casa Bianca, la Turchia di Erdoğan (in corso di collisione con la Grecia per lo sfruttamento dei giacimenti petroliferi nel Mediterraneo) «è più pericolosa dell’Iran» degli ayatollah. Di sicuro l’estensione della presenza militare di Ankara – dalla Libia a Siria, Libano settentrionale, Iraq, Qatar, Afghanistan, Somalia e i Balcani – non è mai stata tanto vasta dai giorni dell’Impero Ottomano. L’accordo tra gli Emirati arabi uniti (che hanno paura dell’Iran) e Israele (nemico principale di Tehran) fa parte del Grande gioco regionale che mette in difficoltà soprattutto le pedine più piccole e deboli. Quelle create a tavolino.

Assisteremo a nuove guerre e alla creazione di nuovi confini? Una piccola scintilla potrebbe far esplodere le istanze autonomiste di cui conflitti religiosi e tribali sono i sintomi sempre più evidenti. Se la nostra Padania non è veramente a rischio perché non vi esistono le condizioni fondamentali per rivendicare l’autodeterminazione, non è così per molte delle realtà nel Vicino Oriente (e non soltanto) dove vi sono popoli riconosciuti come tali sottomessi da governi non rappresentativi che li discrimina come razza, credo o colore.

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Che cos’è la trappola Daesh? https://ogzero.org/che-cose-la-trappola-daesh/ Sun, 29 Mar 2020 14:30:21 +0000 http://ogzero.org/?p=37 Intervista di Lorenzo Avellino a Pierre-Jean Luizard La trappola Daesh si riferisce alla volontà deliberata dello Stato islamico di provocare la reazione del maggior numero di attori possibili, stati arabi in testa, come la Turchia, l’Iran ma andando anche oltre – ossia all’Europa – in una dichiarazione di guerra universale a tutti quanti. Ciò aiuta […]

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Intervista di Lorenzo Avellino a Pierre-Jean Luizard

La trappola Daesh si riferisce alla volontà deliberata dello Stato islamico di provocare la reazione del maggior numero di attori possibili, stati arabi in testa, come la Turchia, l’Iran ma andando anche oltre – ossia all’Europa – in una dichiarazione di guerra universale a tutti quanti. Ciò aiuta lo Stato islamico a presentarsi agli occhi delle popolazioni che controlla come uno dei legittimi eredi delle primavere arabe e delle società civili che si sono sollevate contro i regimi repressivi e che hanno avuto come solo risposta, in Iraq, in Siria o altrove, la repressione e l’autoritarismo.

Si può dire che la trappola Daech ha funzionato nella misura in cui gli stati arabi (in particolare lo stato iracheno e siriano) e i paesi occidentali hanno reagito alle campagne di terrorismo sui propri territori lanciandosi in una guerra attraverso una coalizione internazionale di cui si cerca ancora di capire, un anno dopo la sua formazione, gli obiettivi politici (a parte quello di eliminare ciò che viene presentato come un semplice movimento terroristico). Tutto ciò corrisponde esattamente a quanto ricercato dallo Stato islamico ossia far dichiarare ai paesi occidentali una guerra contro di sé prima di avere definito gli obiettivi di guerra e suscitare un’alleanza tra gli stati occidentali e gli stati in loco. Lo Stato islamico è in effetti assolutamente cosciente della situazione di avanzata decomposizione delle istituzioni statali mediorientali e del fatto che tale decomposizione ha un carattere irreversibile che rende la campagna militare magari produttiva sul piano militare ma totalmente controproducente dal punto di vista politico. Tutti gli stati occidentali appaiono così come alleati di istituzioni moribonde.

Ciò che lei fa nel libro è storicizzare il fenomeno Stato islamico. Parlava prima di frazionamento e decomposizione degli stati mediorientali. Qual è la traiettoria di questi stati e come lo Stato islamico è riuscito a inserirvisi, con un notevole intuito politico?

Lo Stato islamico rivendica uno Stato multinazionale che cancella le frontiere, in particolare le frontiere ereditate del periodo dei mandati e si appoggia sul fallimento di un certo numero di stati, in primis lo stato iracheno poi quello siriano. Lo Stato islamico non perde occasione di mostrare che si relaziona con la storia moderna della regione e con le circostanze che hanno portato alla formazione degli stati arabi che, non bisogna scordarlo, sono tutti – eccezion fatta per l’Egitto – delle creazioni coloniali che sono state imposte con la forza militare dalle grandi potenze dell’epoca, la Gran Bretagna e la Francia. Questa operazione è stata fatta a partire dalla concezione che era allora dominante in Europa, ossia quella che la nazione è il fondamento di ogni tipo di sovranità. Le cose erano però ben diverse in Medio oriente, nella misura in cui solamente nel Levante (Libano, Palestina e Siria) cominciava a farsi strada l’idea di cosa potesse essere una nazione araba ma in Iraq e in gran parte del Medio oriente l’idea stessa di nazione era totalmente estranea. Ci si sentiva arabi, profondamente arabi, ma questo sentimento si riferiva più a ciò che chiamerei “arabità” – uruba – e non all'”arabismo” ossia a un nazionalismo etnico esclusivo. La miglior prova è il fatto che i dirigenti politici e religiosi delle tribù arabe in Iraq erano, in maggioranza, iraniani di nascita e di nazionalità e ciò non poneva alcun problema. C’erano certo delle identità molto forti in Medio oriente, secondo una gerarchia che andava dall’identità locale a quella tribale, confessionale e culturale e che differenziavano in particolare gli arabi dai curdi ma queste identità non si sono assolutamente espresse attraverso i nuovi stati nazionali. I nuovi stati nazionali fondati dalla Francia e la Gran Bretagna sono stati osteggiati dalle maggioranze. In Iraq gli sciiti maggioritari si sono rivoltati contro i mandati e l’occupazione britannica. Ciò è successo anche in Siria, dove l’esercito di Faysal –  animatore della Rivolta araba contro l’Impero ottomano sobillata dagli Alleati – ha affrontato le truppe del generale francese Gouraud in nome di un regno arabo unito, di una Grande Siria che doveva includere il Libano, la Palestina e anche una parte del nord dell’Iraq. C’è stato quindi un gioco di prestigio da parte delle potenze mandatarie che hanno provato a far credere di aver importato una cittadinanza irachena, siriana e libanese quando invece si sono appoggiate su delle minoranze: arabe sunnite in Iraq, mentre la Francia ha diviso la Siria in una serie di stati confessionali. Tutto ciò è stato fatto in modo che le maggioranze fossero escluse del potere a beneficio delle minoranze. La miglior illustrazione di questo processo è la fondazione del Grande Libano, quando la Siria è stata privata di province a maggioranza sciita e sunnita al sud e al nord del Libano, in particolare della grande città di Tripoli, per poter creare uno stato che si voleva presentare come il solo stato a maggioranza cristiana del Medio oriente. Bisogna ricordarsi che, allora, i protagonisti di questa politica confessionale in Francia erano élite repubblicane e laiche in lotta contro la chiesa cattolica. Ma ciò che valeva in Francia non valeva in Libano. In particolare le politiche francesi si sono appoggiate molto sulle congregazioni cattoliche, che erano state espulse in Francia nel 1901 e che si sono ritrovate in esilio a Beirut e nella montagna libanese messe quindi al servizio del progetto confessionale. Progetto che sappiamo essere stato un fallimento visto che ha avuto come risultato il confessionalismo che è oggi rifiutato dalla maggior parte della popolazione che lo vede come responsabile delle guerre civili.

Nella conclusione del libro lei dice che le difficoltà ad affrontare lo Stato islamico derivano da un’incapacità dell’Occidente di assumersi il suo passato coloniale e punta il dito contro questa sorta di “spaccatura” tra i valori proclamati a parole in quell’epoca e il fatto che siano stati una copertura per una dominazione imperiale. Ecco quindi che la storia ritorna attraverso lo Stato islamico…

L’Occidente non si assume il suo passato coloniale. Ma il punto è che non può assumerselo! È anche questa la trappola che ci tende lo Stato islamico, lo si vede benissimo attraverso la sua rivista in inglese “Dabiq” che illustra ampiamente le contraddizioni delle politiche occidentali e il fatto che i nostri universalismi basati sui Lumi sono serviti come legittimazione alle conquiste coloniali. La cosa peggiore è che ciò è stato spesso fatto in completa buona fede. Quando leggiamo i discorsi di Jules Ferry – il padre della scuola laica francese – per legittimare la colonizzazione della Tunisia, non vi troviamo altro che buone intenzioni, quelle di una missione civilizzatrice dell’Europa rispetto a popoli che sarebbero meno civili. E cosa dimostra il loro inferiore grado di civilizzazione? Il loro attaccamento alla religione. Per le élites francesi, l’attaccamento dei musulmani all’islam mostrava la necessità degli arabi di essere civilizzati e visto che non si arriva alla civiltà dall’oggi al domani bisognava essere guidati da potenze democratiche e secolarizzate come la Francia e la Gran Bretagna. I 14 punti del presidente americano Wilson in favore dell’autodeterminazione dei popoli sono serviti a legittimare l’imposizione dei mandati, ultima forma di colonizzazione anche se limitata nello spazio, perché c’erano delle frontiere, e nel tempo, perché avevano una data limite. Questi mandati hanno soprattutto istituito degli stati e dei sistemi politici che hanno condizionato la vita politica della regione per più di un secolo nella misura in cui le élite locali, una volta battute militarmente dalle truppe francesi e britanniche, poco a poco hanno abbandonato le loro utopie e non hanno quindi avuto altro obiettivo che quello di controllare gli stati a cui si erano inizialmente opposti. Alla fine degli anni Venti i nazionalisti arabi usano la retorica dell’unità araba unicamente per avere una certa popolarità ma appena sono al potere è evidente che ciò che interessa loro non è certo l’unità ma il controllo di stati che non riusciranno mai ad aprire uno spazio pubblico e a stabilire una cittadinanza condivisa per tutti. Dietro la retorica nazionalista araba si celavano infatti strategie comunitarie, familiari, regionali e confessionali come si può oggi vedere chiaramente in particolare in Iraq e in Siria dove non ci sono più partiti politici ma solo partiti comunitari, arabi e curdi, e gli stessi partiti arabi sono divisi tra loro in sciiti, sunniti e alauiti.

Nel libro lei indica che è come se lo Stato islamico facesse di tutto per inscenare uno “scontro di civiltà” in una sorta di gioco di specchi con il libro di Huntington. Come questo aspetto rientra nella trappola Daech?

Come si deduce da ciò che ho appena detto, la base sociale e politica dello Stato islamico è molto locale. È proprio ciò che fa la sua forza, il fatto che si sia impiantato in alcuni quartieri delle grandi città. Il problema dello Stato islamico però è diventato quello di trascendere un localismo molto forte e ciò è stato fatto attraverso l’universalismo. Questo universalismo, a livello di discorso, si può ottenere esclusivamente attraverso una messa in scena che gli consenta di legare la lotta sul posto contro uno stato predatore e assassino con la lotta su grande scala tra il “vero” islam e le potenze occidentali presentate come “crociate”. Questo ha permesso allo Stato islamico di occultare il carattere molto locale della sua base in Medio oriente e di sviluppare una propaganda che all’universalismo occidentale oppone un altro universalismo, che non comprende più solo gli interessi locali degli arabi sunniti d’Iraq o di Siria ma che è un appello a difendere il “vero” islam e la umma islamica contro i “crociati”. Un’illustrazione dell’efficacia di questa tattica è l’arrivo massiccio di combattenti stranieri originari di paesi musulmani ma anche europei che vengono a dare un viso a questa nuova coalizione islamica che ha intenzione di combattere l’altra coalizione di “miscredenti”, come veniamo chiamati.

Lei segnala anche questo altro paradosso dello Stato islamico: un progetto cosmopolita ma che deve la sua attrattiva a un ancoraggio territoriale. Per la prima volta un gruppo salafita si mette ad applicare la sharia, addirittura ad instaurare il califfato qui e ora. Pensa che sia questa la differenza principale tra lo Stato islamico e gli altri gruppi salafiti?

L’instaurazione del califfato è un’utopia comune a tutti i gruppi salafiti ed è un obiettivo comune di tutti i gruppi jihadisti, che siano alleati con lo Stato islamico o che siano legati ad al Qaeda. C’è semplicemente una differenza di timing. Al Qaeda rimprovera allo Stato islamico di aver bruciato le tappe e di aver voluto territorializzare la fondazione del califfato troppo presto, prima di aver avuto le basi sufficienti per la sua sovranità. Lo Stato islamico, al contrario, ha una visione che afferma che il fatto di possedere un territorio al di là delle frontiere – siamo in un jihad globale – e delle istituzioni è il miglior modo per riunire tutti quelli che vorrebbero unirsi al jihad mentre invece, nella visione dello Stato islamico, al Qaeda resterà sempre condannata ad essere prigioniera di questioni locali. La fondazione di uno Stato e la sua proclamazione, nel discorso dello Stato islamico, gli permette di trascendere i limiti della propria base locale.

Se, al momento dell’uscita della prima edizione francese del libro, il risultato della scommessa dello Stato islamico risultava incerta ora è sempre più definita visto che la stessa struttura statale del califfato è sempre più in difficoltà. Oltre a storicizzare il fenomeno Daech, lei mette anche in luce le cause sociali che hanno portato alla nascita dello Stato islamico. Cause sociali che sono ben lungi dall’essere risolte. Che ne sarà del califfato dopo il califfato?

I paesi occidentali e più in generale della coalizione anti-Daesh fanno finta che lo Stato islamico sia il responsabile del caos in Medio Oriente quando invece il caos precede lo Stato islamico anzi è proprio quello che ha permesso a Daesh di diventare ciò che è. Quindi una sconfitta militare di Daesh senza soluzioni politiche affidabili non risolverebbe nulla e, per esempio, se Daesh perde terreno sul campo, se il califfato diventa sempre più virtuale e meno territoriale, vedremo molto rapidamente le altre questioni – al momento occultate dalla preminenza dello Stato islamico – tornare alla ribalta. Tra queste questioni c’è ovviamente quella curda, che è molto complessa dal momento che si presenta in maniera parecchio diversa in Turchia, in Siria e in Iraq inglobando però oggi tutta la regione, ci sono poi le relazioni tra i curdi e i sunniti, tra i curdi e gli sciiti, tra i sunniti e gli sciiti. La soluzione a volte presa in considerazione di un Iraq federale “a tre”, a mio avviso, non è fattibile perché oggi assistiamo a un processo da cui non c’è ritorno, bisognerebbe che ci fossero degli interlocutori ma gli interlocutori arabi sunniti che hanno fatto il gioco del governo di Bagdad non hanno nessun futuro, prendiamo Atheel al-Nujaifi, che è oggi sostenuto da curdi e vicino alla Turchia. È stato l’ex-governatore di Mosul prima dell’arrivo dello Stato islamico ed è probabilmente una delle persone più odiate di Mosul, che si ricorda bene le condizioni che erano loro imposte prima dell’arrivo di Daesh. Non ci sono quindi, nel quadro delle istituzioni attuali, riforme possibili che permettano ad ognuno di trovare il proprio posto. In caso di sconfitta militare lo Stato Islamico sceglierà l’opzione della guerriglia invece che della difesa di un territorio. Si assisterà a una diffusione, mentre la territorializzazione era, nonostante tutto, una forma di contenimento dello Stato islamico. Rischieremo invece di avere uno Stato islamico che si diffonde fino a Bagdad come è stato già il caso negli anni Novanta. Ricordo che possiamo far risalire l’origine dello Stato islamico, militarmente, alla regione di Helebce, in Kurdistan, lungo la frontiera iraniana. È stata la volontà delle truppe dell’Unione patriottica del Kurdistan di Ǧahlāl Tāhlabānī di espellerli da questa regione che ha permesso la diffusione dei combattenti jihadisti nella zona araba arrivando quindi alla formazione di Daesh negli anni Duemila. Rischiamo quindi di avere lo stesso fenomeno in Iraq mentre in Siria è probabile che la perdita del progetto iniziale dello Stato islamico avrà come effetto l’unificazione dei ranghi jihadisti e in particolare di quelli di al-Qaeda con quelli dello Stato islamico.

Parigi, 30 agosto 2016

Cfr. La trappola Daesh. Lo Stato Islamico o la Storia che ritorna, di Pierre-Jean Luizard, con una prefazione di Alberto Negri, introduzione di Franco Cardini, Torino, Rosenberg & Sellier, 2016, disponibile in libreria e sulle principali piattaforme online.

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