Spagna Archivi - OGzero https://ogzero.org/tag/spagna/ geopolitica etc Sun, 15 Sep 2024 22:17:38 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.4.6 Annessione perpetua https://ogzero.org/studium/annessione-perpetua/ Wed, 28 Aug 2024 06:40:17 +0000 https://ogzero.org/?post_type=portfolio&p=13120 L'articolo Annessione perpetua proviene da OGzero.

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Tutto inizia a Saint-Louis

Già all’inizio del 1600 i francesi arrivarono nel nord dell’attuale Senegal, colonizzando un’isola che venne chiamata Saint Louis. Sulla stessa isola venne costruita più tardi una base commerciale di rilievo (1659) e nel 1673, su ordine del Re Sole, venne costituita la Compagnie du Senegal. Una compagnia coloniale che doveva dedicarsi all’amministrazione del fiorente commercio di schiavi africani (traite négrière in francese) e che seguiva le orme dell’inglese Royal African Company, fondata nel 1660 (con licenza di monopolio per il traffico di schiavi a partire dal 1663). L’espansione francese portò all’occupazione dell’isola di Gorée nel 1677 e a un commercio che già all’epoca si differenziava tra oro, gomma arabica e tratta di persone. L’anno successivo, nel 1678, ebbe termine la guerra franco-olandese (iniziata nel 1672) con una vittoria della Francia che manifestò la sua supremazia militare sul continente europeo. Una supremazia che si vedeva riflessa anche in Africa occidentale, dove nel 1696 venne creata una nuova compagnia, questa volta chiamata Compagnie Royale de Senegal, Cap-Verd et côtes d’Affrique.

Carta ideale della Concessione ottenuta dalla Compagnie Royale du Sénégal consegnata il 31 dicembre 1719 al signor de St Robert dal signor Brüe. Va da Cap-blanc a Bissaux, sancendo fin da allora i confini di un territorio che ha condiviso il medesimo destino

 

Due secoli di scontro anglo-francese per l’affaire mercantilista della storia moderna

Eliminati dunque dalla competizione per il Senegal, sia il Portogallo, che la Spagna, che la Repubblica delle Sette Province Unite, per l’impero francese rimaneva un solo grande avversario, l’Inghilterra, che dal canto suo stava provando a consolidare la sua presenza in Africa. Già dalla metà del Seicento infatti gli inglesi penetrarono lungo la valle del fiume Gambia, iniziando un fiorente commercio che portò nel secolo successivo a uno scontro aperto e costante con la Francia. Il Diciottesimo secolo fu infatti segnato da continue guerre tra Francia e Inghilterra e precisamente alle fine di una di queste, la guerra dei sette anni (1756-1763), la Francia sconfitta dovette rinunciare a tutte le basi che possedeva in Senegal. Solo vent’anni dopo però la partecipazione delle truppe francesi a sostegno degli insorti durante la rivoluzione americana (1776) consentì al governo di Parigi di sedere al tavolo della pace. Con il trattato di Versailles (3 settembre 1783) l’impero inglese, sconfitto, riconosceva l’indipendenza degli Stati Uniti d’America e restituiva alla Francia i porti senegalesi occupati due decenni prima.

Senegambia in una mappa del 1707 intitolata Carte de la Barbarie de la Nigritie et de La Guinee. Il destino di quel territorio e dell’incremento della tratta schiavista è condizionato dallo scontro tra Francia e Inghilterra – e di nuovo diventa centrale la sponda atlantica dell’America – con la parentesi delle Rivoluzioni di fine Settecento

Sospensione rivoluzionaria e Restaurazione coloniale

Pochi anni dopo però arrivò la rivoluzione francese, iniziata con la presa della Bastiglia il 14 luglio 1789 e seguita dalle guerre napoleoniche. Eventi che frenarono (se non proprio interruppero) la politica coloniale della Francia, facendo passare di nuovo i possedimenti francesi in Senegal, sotto il controllo inglese. Per il ritorno della Francia in Senegal bisognerà aspettare il 1816, dopo il crollo dell’impero Napoleonico e la “restaurazione” figlia del Congresso di Vienna (1° novembre 1814 – 9 giugno 1815).

☞Porti e mari “britannici”

Gorée – St-Louis: basi schiavistiche del colonialismo della Françafrique

Pax coloniale francese

Con la Restaurazione postbonapartista la Francia rientrò in possesso delle sue basi coloniali, iniziando un’opera espansiva di sistematica conquista di tutto il territorio, creando un tessuto amministrativo e di “sviluppo” per la creazione di una vera e propria colonia. Nel 1816, Luigi XVIII, appena ritornato sul trono di Francia, nominò il colonnello Julien-Désiré Schmaltz come amministratore dei possedimenti francesi sulla costa senegalese, con il compito di dare il via alla conquista dell’interno del territorio. Tra il 1817 e il 1845 le truppe francesi occuparono la regione di Waalo (ex provincia del regno Djolof) annientando il fragile regime teocratico instaurato nel 1830 dal marabut Diile. Nel 1854, Napoleone III incaricò un intraprendente ufficiale francese, Louis Faidherbe (che all’epoca aveva solo 36 anni), di governare ed espandere il mercato coloniale e di modernizzare l’economia del Senegal. Faidherbe costruì una serie di forti lungo il fiume Senegal, formò alleanze con i leader dell’interno del paese e inviò spedizioni contro coloro che resistevano al dominio francese. Nel 1857 fondo la città di Dakar, costruendo un nuovo porto, installando linee telegrafiche, costruendo strade, e propiziando quella che successivamente sarebbe stata la linea ferroviaria tra la capitale Dakar con il primo insediamento francese nel Nord, Saint Louis. L’opera di Faidherbe, ingegnere militare che fu impegnato anche in Algeria, era impregnata di quella che lui considerava una missione civilizzatrice e per questo costruì scuole, ponti (il ponte principale di St-Louis porta oggi il suo nome) e sistemi per fornire acqua potabile alle città. A livello agricolo introdusse la coltivazione su larga scala di arachidi, espandendo i possedimenti francesi. fino alla Valle del Niger e facendo diventare il Senegal (e la sua nuova capitale Dakar) la principale base nell’Africa Occidentale Francese (Aof). Rimase in carica fino al 1865 (gli succedette come governatore l’ammiraglio Jauréguiberry) e nel 1889 (anno della sua morte) venne pubblicato il suo libro dal titolo Le Sénégal: la France dans l’Afrique occidental (Il Senegal, la Francia nell’Africa Occidentale).

Foto di Diego Battistessa

L’annessione

I governatori che succedettero a Faidherbe conquistarono i regni di Fouta Toro, del Baol, del Kaydor e del Saloum e nel 1889 si arrese ai francesi anche Ali Bouri, l’ultimo sovrano wolof. Mentre venne annessa solo nel 1896 la regione meridionale del Casamance che fino a quel momento era rimasta sotto il controllo del Portogallo. A quel punto la Francia considerò il Senegal come un territorio “pacificato” e nel 1904 venne nominato il primo governatore civile dell’Aof, una federazione fondata nel 1895 con capitale Dakar e che comprendeva Senegal, Niger, Costa d’Avorio, Ciad, Dahomey, Guinea, Alto Volta (attuale Burkina Faso) e Mauritania.

Egalité eurocentrica nella Françafrique

Come ci spiega Papa Saer Sako, nel suo libro Senegal (edizioni Pendragon): «La filosofia coloniale francese si ispirava agli ideali della rivoluzione del 1789, condizionati però da un radicale eurocentrismo, il cui presupposto poggiava sulla convinzione che i popoli colonizzati avrebbero potuto accedere a un superiore grado di civiltà solo adottando i fondamenti della cultura europea. Le autorità coloniali, dunque, si ritennero investite della missione di civilizzare popolazioni considerate ancora immerse nella barbarie, riconoscendo loro una potenziale eguaglianza di diritti in quanto esseri umani, ma rigettando e soffocando ogni aspetto della cultura africana».

Nonostante il forte controllo culturale ed economico francese, su una società complessa e multietnica (composta dalle etnie Wolof, Sérère, Lébou, Peul o Foulbé, Toucouleur, Diola, Mandingo, Sarakholé e Bassari) tra il 1910 e il 1912 nacquero le organizzazioni dell’Aurora di St-Louise quella dei Giovani Senegalesi, le prime organizzazioni finalizzate a dar voce alle aspirazioni dei nativi. Solo due anni dopo, per la prima volta nella storia, un deputato di origine africana, Blaise Diagne, sedette nell’Assemblea Nazionale di Parigi. Ci vorranno però ancora 15 anni di costruzione del tessuto politico senegalese perché nel 1929, prenda vita il Partito della Solidarietà Senegalese, tra i cui membri troviamo Lamine Gueye e soprattutto Sédar Senghor. Quest’ultimo verrà eletto nel 1945 come rappresentante del Senegal nel parlamento francese e tra il 1959 e il 1960 il Senegal e il Sudan francese si unirono nella Federazione del Mali, con Senghor come presidente della nuova Repubblica.

In questo 2024 si è assistito a molte rivolte di giovani africani colti e consapevoli del condizionamento coloniale ancora perdurante: in Kenya contro il presidente Ruto, in Sahel con la presa di potere di giovani militari che hanno espulso l’esercito francese “diversamente occupante”… il Senegal ha tradizioni saldamente democratiche e la comunità si è liberata del burattino francese Macky Sall, completando una presa di coscienza dell’intera comunità, costituita da una ventina di realtà culturali e linguistiche diverse, che attingono alle radici precoloniali; un percorso interno all’Africa che può essere paragonato alla riappropriazione parallela a quella che guarda alle componenti afrodiscendenti in America, come superamento del male coloniale che ha però trasferito in America una cultura, la cui componente si chiede venga riconosciuta nella costituzione delle inter comunità oltreatlantico.

☞Un ponte tra Bahia e Benin

Per i francesi però tutto ebbe inizio a Saint-Louis

«Immense barche (Cayucos), molte volte policromate dai toni accesi e sempre ricche di bandiere e simboli, preghiere e auguri: ciascuna affidata al rispettivo marabù (leader religioso) e/o a Mame Coumba Bang, lo spirito femminile che li protegge dall’ira dell’oceano e, quindi per estensione, protettore anche delle città evitando che vengano fatte scomparire dalle inondazioni. Barche realizzate artigianalmente partendo da un unico pezzo di albero, che trasportano ogni giorno centinaia di pescatori…

Foto di Diego Battistessa

Il fiume Senegal si butta in mare avidamente, dopo aver attraversato altri tre paesi e circa 1700 chilometri, in questo angolo peculiare del pianeta. L’Oceano Atlantico attacca con furia eterna questa lingua di sabbia e dune lunga una trentina di chilometri e larga appena 500 metri, e punisce tutto ciò che incontra sul suo cammino (oggi ancor più a causa dell’impatto dei cambiamenti climatici e della mano artificiale dell’uomo manifestatasi con l’apertura di una breccia nel 2003 nella zona, che ha diviso in due la lingua aumentando l’ansia dominatrice del mare) … Gli autoctoni dicono che nessuno è come i pescatori di queste acque, che lottano per emergere vittoriosi contro le mortali onde oceaniche che già tanti naufragi hanno causato. Nessuno. E attenzione, non solo l’uscita in mare è pericolosa, ma anche il ritorno, “perché sbarcare a St-Louisnon è una cosa qualunque”, sottolineano.
Il sociale, l’economico, il politico, il culturale, il gastronomico, il festivo, l’ambientale… Tutto ruota attorno alla pesca a St-Louis(circa 250.000 abitanti), un tempo capitale dell’Africa occidentale francese e del Senegal e della Mauritania; la seconda città del Paese da quando Dakar divenne capitale nel 1857. Basta guardare una mappa per apprezzare la sua peculiarità geografica, il suo valore strategico nel Nord del Paese. St-Louisè il confine con la Mauritania, per alcuni è il punto finale del deserto del Sahara, per altri ne è la porta d’ingresso…
Città creata dai francesi nel 1659 come primo insediamento europeo nell’Africa occidentale, ma prima di loro la storia qui già cresceva, proprio come crescono i baobab…»

Queste parole, che travolgono come fossero colori di un dipinto su tela, sono della giornalista Lola Huete Machado, che nel 2019 pubblicò sul “El Páis” un articolo che coglieva l’anima di Saint-Louis. E chiunque l’abbia visitata non può non sentire vibrare quelle parole, sovrapponendole alle immagini di una città i cui tratti coloniali sono ancora ben visibili, sia nell’architettura ma anche nell’economia che vede nel turismo (maggioritariamente europeo e specialmente francese) una fonte importante di ingresso.

Foto di Diego Battistessa

Una città dalle molte sfaccettature, con hotel di lusso a pochi metri da una linea di costa dove l’impoverimento e l’economia di sussistenza scandiscono il tempo marcato dall’andare e venire dalle onde. Sulla spiaggia, piena di rifiuti dove deambulano in cerca di cibo capre, pecore e cavalli (spesso di una magrezza non compatibile con la vita), ci sono decine di cayucos, descritti magistralmente da Lola Huete Machado. Accanto a loro un uomo anziano che ha voglia di parlare, lui li ripara i cayucos, mi spiega in francese. Oramai è troppo vecchio per salire su uno di quelli che vanno verso un futuro possibile, verso l’Europa.

Mi indica un’ombra nell’orizzonte, una lingua di terra nascosta dalla foschia che si crea per il troppo calore: «Quella è la Mauritania», mi dice. E poi, spostando il dito un po’ più in là, verso l’oceano, verso la vastità dell’azzurro orizzonte mi dice con fermezza. «Quella invece è l’Europa, tu non la vedi, ma in quella direzione ci sono le Canarie, c’è la Spagna, c’è la speranza».

Foto di Diego Battistessa

Ma se un da lato l’isola di Saint Louis, chiamata anche la “Venezia africana”, è parte di una rotta che da anni è percorsa da migliaia di persone che cercano un miglior futuro, dall’altra è anche (dal 2000) annoverata dall’Unesco come patrimonio dell’umanità.  Un riconoscimento che ha portato a un programma di rinnovamento e riqualificazione di vecchi edifici coloniali, trasformando molti di questi in ristoranti e hotel (gestiti spesso da europei).

Città del Mercantilismo Gorée Maison des Esclaves Perpetua schiavitù
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Fatale attrazione schiavista tra iberici e mauritani

Ancora adesso in Mauritania – paese che ha contribuito alla presenza di un’ultima colonia sul suolo africano: il Sahara occidentale – vige una legislazione che prevede lo schiavismo, una pratica – denunciata soprattutto dal movimento abolizionista fondato da Biram Dah Abeid, ex schiavo – perpetrata dalla minoranza “bianca” berbera, discendente da antichi nobili beydens, che vessano da secoli la maggioranza nera haratine, piantando in antichità semi panafricani per quello sfruttamento europeo della schiavitù su scala globale benedetto da bolle papali ancora precedenti l’impulso alla tratta derivante dalla spedizione di Cristobal Colon: Niccolò V prendeva semplicemente atto degli enormi interessi e ricchezze provenienti dalla deportazione e dal colonialismo, dunque lo benediva.
Come si legge in questo estratto dal volume di Diego Battistessa America Latina Afrodiscendente: una storia di (R)esistenza, esistono porte che mettono in comunicazione mondi diversi, in cui lo schiavismo si incista perfettamente sugli affari dei rispettivi gruppi dominanti su sistemi diversi tra loro ma complementari nello sfruttamento.

L’impero portoghese (l’ultimo impero a sciogliersi dopo la Rivoluzione dei Garofani, 1415 -1975) è stato indissolubilmente caratterizzato dalla tratta degli schiavi che divenne la colonna portante delle attività economiche d’oltremare. Il Portogallo in Africa si occupò di istituzionalizzare la pratica della schiavitù (già operata in diverse forme dai regni locali) e di darle un apparato legale e amministrativo. Non a caso la cittadina di Lagos, in Algarve, nel sud del Portogallo è conosciuta come la porta europea della tratta degli schiavi africani. Nel 1444, in un giorno infausto, arrivarono in quel porto 200 schiavi africani sequestrati in una retata partita da un porto commerciale che il Principe Enrique (conosciuto come El Navegante) aveva stabilito sulle coste dell’attuale Mauritania.

Cronologia e rotte dei principali movimenti della tratta degli schiavi. Mappa: NGM-P. Fonte: An Atlas of the Transatlantic Slave Trade, di David Eltis e David Richardson, riprodotto con il permesso della Yale University Press.

I profitti della vendita di quegli esseri umani spinsero molti altri a cercare fortuna con spedizioni verso le coste africane. Nei dieci anni successivi centinaia di africani arrivarono al porto di Lagos che si trasformò in breve tempo nel primo mercato europeo di vendita di schiavi provenienti dall’Africa. Questo è il punto di inizio dell’industrializzazione della tratta di esseri umani che portò più di 12 milioni di persone a essere “trafficate” verso le Americhe (oggi a Lagos esiste il Museo della Schiavitù, monito di quel passato di infamia e terrore diffuso ormai nei luoghi topici dello schiavismo: Gorée, Bahia, Liverpool, Amsterdam).

Foto di Diego Battistessa

Solo 8 anni dopo l’arrivo dei primi schiavi a Lagos, venne concessa la benedizione papale al re del Portogallo Alfonso V per legalizzare, agli occhi della comunità cristiana, quell’abominevole pratica. Il commercio di esseri umani fioriva, il centro delle operazioni si era spostato da Lagos alla capitale Lisbona e si cominciavano a stabilire regole e tariffe standard per normare la tratta e la vendita di esseri umani provenienti dall’Africa.

Dum diversas

Il papa Niccolò V (Tommaso Parentucelli) con la bolla Dum diversas del 16 giugno 1452 (quindi ben quarant’anni prima dell’arrivo di Cristoforo Colombo nelle Americhe) legalizzava per volere di Dio la schiavitù e concedeva al re del Portogallo Alfonso V di «ridurre in perpetua schiavitù saraceni, pagani, infedeli e nemici di Cristo». Qui un estratto della bolla papale:

«Noi, rafforzati dall’amore divino, spinti dalla carità cristiana, e costretti dagli obblighi nel nostro ufficio pastorale, desideriamo, come si conviene, incoraggiare ciò che è pertinente all’integrità e alla crescita della Fede, per la quale Cristo, nostro Dio, ha versato il suo sangue, e sostenere in questa santissima impresa il vigore delle anime di coloro che sono fedeli a noi e alla vostra Maestà Reale. Quindi, in forza dell’autorità apostolica, col contenuto di questa lettera, noi vi concediamo la piena e libera facoltà di catturare e soggiogare Saraceni e pagani, come pure altri non credenti e nemici di Cristo, chiunque essi siano e dovunque abitino; di prendere ogni tipo di beni, mobili o immobili, che si trovino in possesso di questi stessi Saraceni, pagani, non credenti e nemici di Cristo; di invadere e conquistare regni, ducati, contee, principati; come pure altri domini, terre, luoghi, villaggi, campi, possedimenti e beni di questo genere a qualunque re o principe essi appartengano e di ridurre in sudditanza i loro abitanti; di appropriarvi per sempre, per voi e i vostri successori, i re del Portogallo, dei regni, ducati, contee, principati; come pure altri domini, terre, luoghi, villaggi, campi, possedimenti e beni di questo genere, destinandoli a vostro uso e vantaggio, e a quelli dei vostri successori…» (Niccolò V, Dum diversas)

Mexico, Distrito Federal, Palazzo Nazionale, murales di Diego Rivera dipinti sulla civiltà precolombiana

☞Conseguenze misericordiose del possesso di uomini

L’asse lusitano Gorée-Lagos diventa commercio transoceanico con Bahia

Nel 1536 dunque i portoghesi stabilirono una redditizia base commerciale sull’isola di Gorée ma le vicende del continente africano (e in questo caso la colonizzazione del Senegal) sono sempre state strettamente legate alle vicende interne del continente europeo. Nel 1580 infatti, con l’annessione del Portogallo alla corona di Spagna, la corte di Madrid prese possesso anche di tutti i territori che fino a quel momento erano stati sotto il dominio portoghese in Africa; e non solo…

L’unione iberica tra Spagna e Portogallo, tra il 1580 e il 1640, sotto l’egida della casa reale degli Asburgo dette origine a un conglomerato territoriale che comprendeva possedimenti in tutto il mondo: Messico, gli attuali Stati Uniti occidentali e meridionali, America centrale, Caraibi, Sud America, Filippine, Timor orientale, Paesi Bassi spagnoli (eccetto Paesi Bassi), nonché nuclei costieri e diverse enclave in Barberia (termine utilizzato per riferirsi alle zone costiere di Marocco, Algeria, Tunisia e Libia), Guinea, Angola, Mozambico e altre basi in Africa orientale, Golfo Persico, India, regni e ducati territoriali in Francia e in Italia e nel Sudest asiatico, (Macao, Molucche e Formosa).

Infatti il commercio portoghese non entrerà mai nello schema della Triangolazione: contando direttamente sui possedimenti intermedi di Capo Verde, San Paulo, Fernando de Nouronha tra Guinea, Angola, Mozambico e coste del “vicino Brasile (Salvador de Bahia)”, finché la tratta degli schiavi fu un affare iberico non transitò dall’Europa, ma andò direttamente dal Golfo di Guinea al Pernambuco.

Nonostante ciò però, la priorità che la Spagna dava allo sfruttamento delle enormi ricchezze delle colonie del “Nuovo Mondo” e la lunga e logorante guerra navale con l’Inghilterra (scoppiata proprio perché lo schiavismo industriale inglese andava a collidere su zone di influenza spagnole) fece passare in secondo piano il progetto di espansione nel continente africano, aprendo la porta all’arrivo di nuove potenze coloniali europee, come la Repubblica delle Sette Province Unite (1581-1795, territori calvinisti che oggi costituiscono i Paesi Bassi renani dalla Frisia a Rotterdam, in contrapposizione alle 8 province meridionali cattoliche, corrispondenti alle Fiandre, Artois, Brabante e Lussemburgo) che presto stabilì una base proprio sull’isola di Gorèe.

La piazza della borsa di Amsterdam come simbolo del nascente capitalismo, che si sviluppò soprattutto in Olanda e Inghilterra (alleate contro Luigi XIV). Capitale economica d’Europa nel Seicento, Amsterdam basò la sua fortuna soprattutto sull’attività commerciale e finanziaria; nella borsa venivano trattati i prezzi di tutte le merci e vi investivano anche i piccoli agricoltori e gli artigiani. Dipinto del 1659 (Rotterdam, Museum Boymans – Van Beuningen)

Arrivo in Senegal della Repubblica delle Sette Province Unite

Il settore tessile era alla base dell’economia olandese e inglese; il cotone ovviamente proveniva dal commercio della triangolazione schiavista. La tratta degli schiavi olandesi – avvenuta tra il XVII e il XIX secolo – è stata determinante per lo sviluppo economico e sociale del paese. Dipinto di Isaac Claesz van Swanenburgh in cui si vede il momento della filatura, che veniva eseguita prevalentemente dalle donne. (Leida, Stedelijk Museum de Lakenhal)


Stampa custodita nel National Museum of World Cultures in Amsterdam, Netherlands. Il Museo Nazionale della Schiavitù, un progetto a lungo atteso dai discendenti delle comunità africane delle ex colonie olandesi in Suriname (Sud America) e nelle Antille Olandesi (Caraibi), sta finalmente prendendo forma e l’apertura è prevista per il 2030

L’arrivo dei commercianti della Repubblica delle Sette Province Unite in quello che oggi è il Senegal (per gli olandesi Senegambia, o in dutch Bovenkust), ha coinciso con la progressiva perdita di controllo del territorio da parte del Portogallo. Le prime basi commerciali della Dutch West India Company furono stabilite sull’isola tra il 1588 e il 1617, periodo nel quale l’isola assunse il suo nome attuale partendo dal Goede Reede olandese e derivato poi nel francese Gorée. In quest’epoca vennero costruiti la maggior parte dei forti e dei magazzini che furono successivamente utilizzati per il massivo “stoccaggio” e commercio delle persone schiavizzate, mentre la prima base commerciale permanente fu installata solo nel 1621 (quando l’isola venne annessa alla Repubblica delle Sette Province Unite, comprandola dal Portogallo). Nel giugno di quell’anno infatti, venne fondata dai fiamminghi Willem Usselincx e Joannes de Laet, la Compagnia delle Indie Occidentali (Geoctroyeerde West-Indische Compagnie – WIC): una compagnia della marina mercantile olandese che rimase operativa fino al 1792. La sua sede si trovava ad Amsterdam e nel 1621, la Repubblica delle Sette Province Unite gli concesse una licenza per un monopolio commerciale nelle Antille olandesi, autorizzando la partecipazione olandese alla tratta degli schiavi atlantica, brasiliana, caraibica e del Nordamerica. L’area in cui la compagnia poteva operare era costituita dall’Africa occidentale (tra il Tropico del Cancro e il Capo di Buona Speranza) e dalle Americhe, inclusi l’Oceano Pacifico e la Nuova Guinea orientale. Lo scopo della licenza era eliminare la concorrenza, in particolare spagnola e portoghese, tra le varie stazioni commerciali.

☞La Casa degli schiavi inaugurata dagli olandesi

L’importanza dei porti atlantici nel Mercantilismo

La Repubblica delle Sette Province Unite non riuscì a mantenere però per molto tempo il controllo totale dell’isola anche perché proprio nella seconda metà del Diciassettesimo secolo si consumò una sfibrante lotta tra l’Olanda e la Francia di Luigi XIV (il Re Sole), confronto che portò a un progressivo tramonto del dominio olandese sui mari, a favore della già citata Francia (i porti atlantici di Nantes innanzi a tutti, e poi La Rochelle, Le Havre e Bordeaux in particolare) e dell’Inghilterra con i suoi porti (Liverpool soprattutto, e poi Londra, Bristol).

Una nota importante quando parliamo di commercio di persone e di Africa è data dalla comprensione del tipo di scambio che veniva proposto dalle potenze coloniali europee ai regni africani, che erano i principali “fornitori” di schiavi. I trafficanti europei intercambiavano diversi tipi di mercanzie nelle coste africane per l’acquisto di schiavi: tessuti, alcool, armi, diversi tipi di utensili e anche un particolare tipo di conchiglia molto ricercata e ambita dai nobili, sacerdoti e guerrieri locali, chiamata cauri. Il cauri è una piccola conchiglia che possiede una spiccata lucentezza, tanto da farla assomigliare alla porcellana e per questo in passato è stata utilizzata alla stregua di una pietra preziosa, assumendo un valore commerciale molto alto.

Una stampa del 1845 che mostra come le conchiglie cowry venissero usate come moneta corrente da un commerciante arabo. Il Ghana ha adottato l’immagine della conchiglia come moneta aggiungendo per antifrasi “Libertà e Giustizia”

Queste conchiglie sono “la casa” di un mollusco della famiglia Cypraeidae, che si ritiene essere originario delle Maldive, sebbene si trovi anche in diverse aree non solo nell’Oceano Indiano, ma anche nel Pacifico. I grandi imperi coloniali erano gli unici che potevano acquisire grosse quantità di cauri, che veniva poi scambiato con persone, sulle coste occidentali dell’Africa. In questo senso, un altro elemento da sottolineare (e molto spesso poco considerato), era la dinamica attraverso la quale gli schiavi venivano catturati e posteriormente venduti ai commercianti europei.

 

Le tratte dello schiavismo nell’interno africano

Questi ultimi infatti non si addentravano nel cuore del continente africano per ridurre in schiavitù le popolazioni native, ma promuovevano quest’attività tra i regni locali.

Così il compito di catturare e schiavizzare uomini e donne africane ricadeva sui sovrani delle tribù locali che dominavano le relazioni commerciali nel continente, lasciando agli europei la parte della navigazione e della distribuzione degli schiavi nei territori coloniali oltre oceano. Gli schiavizzati venivano catturati durante i conflitti tra le popolazioni locali, portati fino alla costa e poi venduti ai trafficanti europei. Non mancavano però casi di persone, appartenenti alle stesse comunità che commerciavano con gli europei che, o per aver commesso un crimine o semplicemente per essere caduti in disgrazia agli occhi del sovrano, venivano venduti come schiavi. Questo ci permette di poter affermare che in sostanza gli europei controllavano solo la parte costiera oceanica del traffico degli schiavi africano, che vedeva nello stesso continente un forte protagonismo dei sovrani locali, veri signori e padroni del commercio di esseri umani nel continente.

☞ La cattura degli africani sugli africani

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Nhara lusitana – signare francese: tenutarie amministrative

La più grande Casa degli Schiavi dell’isola di Gorée (e ultima) fu aperta dagli olandesi nel 1776. Questa “casa degli orrori” era amministrata da Anna Colas Pépin e oggi è stata convertita dall’Unesco in un museo della memoria e santuario per la riconciliazione.  La stessa Unesco che dichiarò nel 1978 patrimonio dell’umanità questa isola di soli 17 ettari che si trova a 15 minuti di traghetto dal porto di Dakar.

Edouard-Auguste Nousveaux, Il principe di Joinville assiste a un ballo sull’isola di Gorée, dicembre 1842 – Collezioni del castello di Versailles – (Tra le persone che lo ricevono si può vedere la figura di quella che potrebbe essere Anna Colas Pépin)

Anna Colas Pépin era una signare che gestì nel Diciannovesimo secolo quella che oggi è la casa museo sull’isola di Gorée. “Annacolas” Pépin (1787-1872), ostentò il prestigioso ruolo di signare, nome dato alle donne mulatte franco-africane dell’isola di Gorée e della città di Saint-Louis nel Senegal coloniale francese tra il Settecento e l’Ottocento, diventando una delle persone più rilevanti nel commercio dell’isola. Esisteva una parola anche in portoghese per definire lo stesso ruolo, nhara, che identificava le donne d’affari afro-portoghesi che hanno svolto un ruolo importante come agenti d’affari attraverso i loro legami con le popolazioni portoghesi e africane.

Belle vite tra mito e romanzo storico su sfondo schiavista

Il ruolo delle signare era importantissimo e spesso fungeva anche da vincolo sociale e culturale con le amministrazioni coloniali dei territori sotto il controllo delle potenze europee. Queste relazioni non si limitavano allo spazio commerciale e al traffico di influenze ma spesso includevano anche relazioni amorose più o meno ufficiali, con alti rappresentanti della colonia. Il loro mito e la loro influenza hanno attraversato varie generazioni e le troviamo anche in opere letterarie di enorme spessore, come nel romanzo storico Segu (1988), della recentemente scomparsa scrittrice e giornalista dell’arcipelago della Guadalupa (Caraibi), Marise Liliane Appoline Boucolon (Maryse Condé). In questa magnifica e già immortale opera, Maryse Condé, ci parla nella prima parte del capitolo 9, di Anna Pépin (zia di Anna Colas Pépin).

 

La memoria controversa in epoca contemporanea

Il diverso significato museale

Ciascuno dei vertici del triangolo mercantilista propone un suo approccio alla memoria, museificando gli aspetti con cui si trova a fare maggiormente i conti dal proprio punto di vista della tratta: a Bahia il museo della coscienza nera, a Liverpool quello delle scuse vergognose, in Algarve quello della memoria rimossa delle deportazioni portoghesi da Gorée, tanto poco riconosciuto da essere in madrepatria lusitana.

Il Museo della memoria e la Maison des Esclaves

«Sdraiata su una stuoia sul balcone della sua casa sull’isola di Gorée, Anne Pépin si annoiava. Si annoiava da dieci anni, da quando il suo amante, il gentiluomo di Boufflers, che era stato governatore dell’isola, era tornato in Francia. Aveva messo da parte abbastanza soldi per sposare la sua bella amica, la contessa di Sabran. Anne restava sveglia la notte pensando alla sua ingratitudine. Non aveva potuto dimenticare che per alcuni mesi aveva organizzato feste di alta classe e balli in maschera, intrattenimenti teatrali come quelli della corte del re di Francia. Ma ormai tutto era finito e lei era lì, abbandonata nel suo pezzo di basalto gettato in mare davanti a Capo Verde, unico insediamento francese in Africa, a parte Saint-Louis alla foce del fiume Senegal» (Maryse Condé, Segu).

Per un approfondimento sulla storia e creazione di questa casa museo, possiamo fare riferimento a un articolo della Ph.D Deborah L. Mack, pubblicato dall’American Alliance of Museums (AAM) – un’associazione senza scopo di lucro che si occupa di riunire i musei degli Stati Uniti sin dalla sua fondazione nel 1906.

Mack ci spiega come che nel Novecento i membri della famiglia di Boubacar Joseph Ndiaye (nativo di Gorée) acquisirono una residenza del Diciottesimo secolo che fu la casa di una ricca imprenditrice senegalese e signare di nome Anna Colas Pépin. Ndiaye passò diversi anni della sua infanzia in questa residenza e dopo l’indipendenza del Senegal dalla Francia, con l’incoraggiamento personale di Léopold Sédar Senghor (illustre poeta e primo presidente del Senegal indipendente dal 1960 al 1980), Ndiaye iniziò la sua ricerca storica sull’edificio. Investendo in proprio tempo e risorse economiche, Ndiaye “scavò” nel passato sociale e architettonico della residenza Pépin. scoprendo un infame passato che lo portò a ribattezzare la casa come Maison des Esclaves (la Casa degli Schiavi). Il lavoro di Ndiaye come curatore prima e fondatore del museo poi, è durato fino alla data della sua morte, avvenuta nel 2008.

Foto di Diego Battistessa

Dall’industria schiavistica a quella turistica

Con l’abolizione della schiavitù finì l’epoca di splendore di Gorée che doveva la sua fama e la sua ricchezza al commercio di quello che all’epoca veniva chiamato “avorio nero”, una forma mercantilista e disumanizzante di chiamare le persone vittime della tratta.

Di fronte alle sue coste nacque Dakar, la futura capitale del Senegal, e Gorée si svuotò progressivamente. Dei 5000 abitanti che contava alla fine dell’Ottocento, oggi se ne contano poco più di 1000. L’isola divenne un luogo di riposo e svago per le famiglie benestanti dei politici coloniali in cerca di tranquillità e oggi, anche grazie al lavoro svolto dall’Unesco, è un luogo che riceve un flusso importante di turisti internazionali.

L’orrore dello schiavismo in epoca moderna

Per le strade dell’isola, dove non circolano automobili e il tempo sembra essersi fermato, le costruzioni color pastello si alternano a edifici in rovina che ricordano antichi fasti del tempo che fu. Una ricchezza che nascondeva un orrore senza pari, perché mentre al secondo piano di queste mansioni si consumava la vita in stile “europeo” con cerimonie, balli e riunioni d’affari, al piano terra “vivevano” un vero e proprio inferno le persone “ammassate” in attesa di essere vendute: infatti mentre al piano superiore viveva il proprietario della Masion des Esclaves, al piano inferiore tutto era stato costruito nei minimi dettagli per il commercio umano. Un’architettura della tortura con celle anguste dove venivano divisi uomini, donne e bambini; ma esistevano anche prigioni (luoghi ancora più angusti e claustrofobici), dove annientare la resistenza psicologica dei più ribelli, oltre a una stanza utilizzata per l’alimentazione. In quest’ultimo spazio venivano “ingrassati” gli schiavi prima di essere venduti, secondo dei protocolli che prevedevano di raggiungere un certo peso prima delle trattative con i proprietari delle navi negriere.  Si creava volontariamente anche una separazione fisica tra i bambini (da 4 a 12 anni) e le loro madri, per impedire a queste ultime di udire il pianto dei figli, e preservare così la loro “salute” e quindi il prezzo di vendita della “merce”. La Casa Museo dell’isola di Gorée è il perfetto esempio di queste costruzioni del terrore. Il pianoterra di questo edificio poteva arrivare a contenere fino a 200 persone, divise in celle di poco più di 2 metri quadrati, dove erano costrette a rimanere in piedi ed espletare i loro bisogni nella stessa posizione. All’arrivo i prigionieri passavano la prima ispezione dove si controllava la dentatura, si cercavano segni di malattie, cicatrici, qualsiasi indizio che potesse diminuire il prezzo. Gli uomini, in forza, che pesavano almeno 60 kg erano destinati immediatamente alla vendita. Tra il primo e il secondo piano della mansione, due scale semicurve, venivano esposte le persone sequestrate e schiavizzate per essere mostrate e negoziarne il prezzo con i potenziali acquirenti.

Foto di Diego Battistessa

Una volta acquistati, non veniva dato il loro tempo di dire addio a nessuno, venivano fatti passare per un angusto corridoio nella cui parte finale si trovava una porta affacciata sul mare: il luogo tristemente noto come la porta del non ritorno. L’ultimo punto di contatto fisico con il proprio continente, la propria terra, il proprio universo: il primo passo nella tratta oceanica che li avrebbe portati vero il “Nuovo Mondo“.

Ile de Goré

Una simbolica porta sull’isola di Gorée, da dove le imbarcazioni schiaviste salpavano verso il continente americano, trasportando nelle stive gli schiavi catturati come manodopera nei campi oltreatlantico. Foto di Adriano Boano

Merce all’ingrasso

Chi però non pesava almeno 60 kg e non dimostrava di essere sufficientemente in forza, veniva obbligato a mangiare, secondo le stesse pratiche usate per ingrassare il bestiame. Catene, ceppi e pesanti palle di ferro logoravano polsi, collo e caviglie, impedendo ogni tentativo di fuga, rompendo la resistenza psicologica e facendo piombare queste persone nella più totale rassegnazione. L’incapacità di comunicare tra loro (spesso venivano da luoghi, etnie e culture diverse) aumentava il sentimento di solitudine, portando alcuni di loro a tentare il suicido. Morirono a migliaia, in queste e nelle altre case degli schiavi dell’isola. Morirono di malattie, morirono di botte, morirono di paura, violentati in ogni modo possibile e immaginabile, abusati in ogni aspetto della dignità umana: morirono anche quelli che restarono vivi.

☞e continuarono a morire in catene oltreatlantico

Edifici tra le rovine: la riconciliazione impossibile

Sull’isola sono presenti oggi altri luoghi simbolo che rendono testimonianza di un passato lontano dall’abbandono del presente. Arrivando dal mare, con La Chaloupe de Gorée (barca Gorée) che parte dal Porto di Dakar (Terminal dei Traghetti), la prima cosa che si vede è il Fort d’Estrées. Un forte con una importante batteria di cannoni, costruito dai francesi tra il 1852 e il 1856 per proteggere l’ingresso del porto della recentemente fondata Dakar. Oggi questo spazio ospita un museo, gestito dall’Institut fondamental d’Afrique noire (Ifan), dedicato alla memoria africana. Nella stessa zona trovavamo anche un simbolo che voleva essere di riconciliazione ma che ha acceso più di una controversia. Proprio di fronte al museo si trovava infatti la piazza Europa, per celebrare gli aiuti che l’Unione europea ha destinato per il ripristino dei valori storici dell’isola. Nel giugno 2020 però l’amministrazione locale ha deciso di ribattezzare il luogo come “Place de la Liberté et de la Dignité humaine”, così come spiegato in questo articolo di “Le Monde”.

Foto di Diego Battistessa

Lasciandosi alle spalle il forte-museo si può iniziare una passeggiata (tra le poche strade che intrecciano l’isola) circondati da baobab e rigogliose bouganville, antiche case coloniali, ristoranti, piccoli punti di vendita di prodotti artigianali, alcune pensioni per il pernottamento e alcuni edifici in rovina. Possiamo trovare anche una chiesa, una moschea, una scuola e una piccola spiaggia di sabbia dove spiccano i variopinti tipici cayucos senegalesi.

Foto di Adriano Boano

Una passeggiata obbligata è quella che porta dal Mercato dell’Artigianato attraverso il sentiero dei Baobab, poche centinaia di metri che aprono lo sguardo verso i resti del Fort Saint-Michel, costruito dagli olandesi dopo aver acquistato l’isola dai portoghesi. L’isola è inoltre oggi sede e musa ispiratrice di una grande comunità artistica, le cui opere sono ben visibili in ogni angolo di questo piccolo pezzo di terra circondato dal mare.

Approcci diversi tra afrorappresentanti di opposte provenienze

Foto di Diego Battistessa


Foto di Diego Battistessa

L’isola di Gorée è diventata con il tempo anche un luogo di pellegrinaggio e manifesto politico per grandi leader mondiali contemporanei, tra i quali spiccano sicuramente Nelson Mandela e Barack Obama. Il 25 novembre 1991 Mandela visitò Gorée e nello specifico il Museo della Casa degli Schiavi, entrando una delle anguste celle di punizione e rimanendoci per svariati minuti. Quando lasciò la cella si racconta che non poté trattenere l’emozione, spiegando come quel posto gli ricordava Robben Island, in Sudafrica, dove era stato prigioniero.

Ancora presenti sul web, sono invece le immagini del presidente degli Usa, Barack Obama, che nel giugno del 2013 visitò l’isola di Gorée: occasione sfruttata dai suoi detrattori per strumentalizzare revisionisticamente il dibattito sulla reale o presunta importanza dell’isola e sul suo reale impatto numerico nella tratta transatlantica di persone.

☞c’è toponomastica e toponomastica

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Prime contaminazioni europee

Tra il 1444 e il 1445 l’esploratore portoghese Dinis Dias fece rotta dal Portogallo verso sud, verso le coste occidentali dell’Africa. Nel suo viaggio non si applicò nella cattura di persone da schiavizzare e da poter rivendere nel nascente mercato di esseri umani di Lagos, bensì si concentrò nell’esplorazione di nuove terre e nuove rotte marittime. Dias giunse in quella che oggi è la penisola della regione di Dakar, battezzandola come penisola di Cabo Verde.

L’esploratore portoghese non sapeva di aver raggiunto la parte più occidentale del continente africano e di tutto il congiunto territoriale dell’Eurafrasia (Vecchio Mondo o Continente antico), quello che però vedeva era un eccellente porto naturale di fronte al quale si trovava un’isola che sarebbe diventata tristemente famosa in tutto il mondo: l’isola di Gorée (in francese, Île de Gorée; in portoghese, Ilha de Goreia) che fu per più di tre secoli uno dei mercati di persone che “rifornirono” le economie schiaviste di Stati Uniti d’America, Caraibi e Brasile. Dagli abitanti locali l’isola era chiamata Berzeguiche, però l’esploratore portoghese la battezzò come Ilha de Palma (l’isola delle Palme) e anche se non fu usata immediatamente come base permanente, il luogo venne utilizzato come punto di sbarco e commercio nella regione: cristianizzato nel 1481 con la costruzione di una cappella per i riti religiosi.

 

L’interesse delle potenze coloniali

Fu 84 anni dopo l’arrivo di Dinis Dias che i portoghesi costruirono sull’isola la prima Casa degli Schiavi, una data marcata a fuoco nella storia: il 1536 è l’anno che inaugurò uno dei processi più oscuri dell’umanità. L’isola passò di “mano in mano” più volte, giacché le potenze coloniali e marittime dell’epoca (Portogallo, Francia, Inghilterra e Paesi Bassi) a partire dal Sedicesimo secolo si dedicarono all’installazione di forti e insediamenti militari dal Senegambia (un’area geografica che corrisponde approssimativamente ai bacini dei fiumi Senegal e Gambia) fino al Golfo di Guinea. Fortezze che fungevano sia da scalo economico che come rifugio dalle aggressioni dalle potenze europee rivali e contro gli attacchi dei vicini stati africani.

Adolphe d’Hastrel, Casa della signara Anna Colas a Gorée, 1839

Dopo l’arrivo dei portoghesi giunsero sull’isola anche i naviganti della repubblica delle Sette Province Unite (attualmente Paesi Bassi) che nel 1588 ne iniziarono la colonizzazione, costruendo nel 1621 un insediamento per proteggere la loro attività di commercio di schiavi. Ed è proprio in riferimento al periodo di dominio dei Paesi Bassi che si fa risalire il nome dell’isola, giacché per la sua posizione strategica, questo piccolo pezzo di terra in mezzo al mare offriva un porto sicuro per l’ancoraggio delle navi, da qui perciò l’origine del suo nome: chiamata Goede Reede dagli olandesi (Baia buona). Nel 1677 arrivarono anche i francesi (dalla vicina e recentemente consolidata, nel 1659, base commerciale di Saint Louis), che assunsero il controllo e stabilirono una piccola base commerciale sull’isola. I francesi rimasero in possesso (in modo alterno) dell’isola fino al 4 aprile 1960 (data dell’indipendenza del Senegal) però a partire dall’abolizione della schiavitù in Francia e nelle colonie, avvenuta nel 1848, Gorée soffrì un enorme declino economico, che aumentò ancora di più con la fondazione della città di Dakar nel 1857 (attuale capitale del Senegal).

☞I francesi arrivano per rimanere

 

Destinazione d’uso schiavista

Fu così come questo piccolo lembo di terra si trasformò, secondo quanto riporta l’Unesco, in un quartier generale (prima legale e poi clandestino) della tratta di persone schiavizzate, dove arrivarono a operare contemporaneamente 28 Case di Schiavi, che “stipavano” in condizioni disumane (dentro veri e proprio ergastulum di romana memoria), persone rapite da varie parti dell’Africa occidentale. Persone schiavizzate (donne, uomini, bambini) che venivano imprigionati, incatenati e poi fatti salire su delle barche che li avrebbero portati (dopo orribili mesi di navigazione) a destinazione, in porti come quello di Salvador da Bahia, dove sarebbero stati marchiati a fuoco e venduti.

1. Le navi negriere

Vittime di una guerra etnica o del capriccio di un sovrano, catturati, fatti camminare incatenati per chilometri prima di raggiungere la costa africana dell’Oceano Atlantico. Lì, privati del loro nome, della loro identità, di tutti i diritti.

Vengono fatti salire su una nave: la prima che molte di quelle persone avessero mai visto. Di fronte a loro un viaggio di mesi attraversando l’Atlantico per raggiungere le piantagioni di canna da zucchero dove avrebbero lavorato fino a morire di stenti.

Una folla di neri di ogni tipo incatenati insieme, che a malapena hanno spazio per voltarsi, che viaggiano per mesi, storditi, circondati dalla sporcizia e da grandi contenitori pieni di vomito, in cui spesso cadono e muoiono soffocati i bambini. Le grida delle donne e il lamento dei morenti trasformano l’intera scena in un inconcepibile orrore. Morte e malattie sono ovunque e una persona su sei non sopravviverà a questo viaggio e al lavoro brutale ed estenuante che seguirà (Organizzazione delle Nazioni Unite – Onu)

Il “middle passage” (passaggio intermedio) era la parte del commercio triangolare che prevedeva un viaggio disumano (che durava dai due ai tre mesi) dai porti africani verso le coste del continente americano; questo commercio dalla rotta triangolare è il legame che tiene insieme il trittico proposto in questo dossier. Questa rotta stabilita nell’oceano Atlantico a partire dal Diciassettesimo secolo fino al Diciannovesimo secolo prevedeva l’acquisto di schiavi nei porti africani (specialmente nel Golfo di Guinea) per vendere le persone schiavizzate nei porti del “Nuovo Mondo”, dopo un lungo e penoso viaggio in mare di mesi (middle passage). Le barche quindi cariche di merci acquisite con la vendita degli schiavi, tornavano nei porti europei chiudendo il triangolo. Le barche destinate al trasporto di schiavi prendevano il nome di barche negriere. Le imbarcazioni venivano modificate dagli armatori in modo da poter contenere il maggior numero di persone possibile: il livello di sovraffollamento, mancanza di igiene e di qualsiasi minima considerazione umana, rendeva queste barche un vero inferno.

La storia infinita di abusi, sfruttamento, contenzione e scafisti

Il carico di persone schiavizzate (che in alcuni casi arrivò anche a 400 per una singola imbarcazione) veniva diviso tra uomini, adolescenti e donne insieme ai bambini. Le donne venivano costantemente stuprate dal capitano e dal resto dell’equipaggio, gli uomini venivano utilizzati per alcuni lavori minori e si cercava di tenerli in allenamento per mantenere la loro forza fisica. Alle donne venivano dati alcuni abiti per coprire i loro corpi mentre gli uomini spesso erano lasciati completamenti nudi. Le donne si occupavano anche di preparare il cibo per l’equipaggio e spesso agli schiavi veniva richiesto di intrattenere i marinai con balli e canti: negarsi voleva dire guadagnarsi una punizione fisica.

Domanda di merce abbondante e non avariata

Da un lato il capitano della barca negriera doveva assicurarsi di poter caricare quanti più schiavi possibile per massimizzare il suo guadagno, dall’altro però era necessario contenere le epidemie e le morti per denutrizione. Gli schiavi viaggiavano non solo in spazi angusti, senza luce, stipati come merce nella stiva o in sottocoperta ma anche incatenati. Durante la maggior parte delle infinte giornate di navigazione non potevano quasi muoversi. La dissenteria era la maggior causa di morte tra gli schiavizzati, che però molto spesso venivano colpiti anche dalla malaria, febbre gialla, scorbuto, problemi respiratori e infezioni. Non possiamo sapere per certo quali fossero le condizioni psicologiche delle persone che vivevano questa disumana situazione, né quanti casi di suicidio (o di tentato suicidio) ci siano stati: diventa però comprensibile immaginare che non fosse solo la dolenza fisica la causa di tante morti. La reale percentuale di morti, delle persone che dall’Africa venivano portate in schiavitù verso le Americhe è ancora fonte di dibattito, ma il punto di partenza comune degli storici è che si tratti di una cifra superiore al 15 per cento del totale.

I cimiteri nei mari

Quando una persona schiavizzata moriva sulla barca negriera non gli veniva concesso nessun rito funebre, veniva semplicemente gettata nell’oceano. Il compito dei marinai, spesso gente senza scrupoli e senza futuro (l’ultimo posto sul quale avrebbe voluto lavorare un marinaio bianco europeo dell’epoca, era una barca negriera), ero quello di prevenire le ribellioni, mantenere vivi gli schiavi e preparali (tagliare loro barba e capelli, curare le ferite superficiali, etc.…) per la vendita, prima di giungere a destinazione.

Una volta raggiunti i porti delle Americhe venivano fatti passare per un controllo sanitario e dopo il passaggio alla dogana venivano presi in carica dal commerciante locale autorizzato (che contava con una particolare licenza) che procedeva a marchiarli con un ferro incandescente per stabilirne la proprietà.

Estratto dal libro America Latina Afrodiscendente: una storia di (R)esistenza, di Diego Battistessa

Il Mercato e la Capoheira☜

 

Africa di David Diop

Difficile immaginare cosa abbia voluto dire, difficile provare a sentire quello che hanno sentito quelle persone, difficile se non impossibile immedesimarci in quel terrore, in quello spaesamento, in quella rabbia e in quell’angoscia. Lasciamo allora che siano le parole di David Mandessi Diop (9 luglio 1927 – 29 agosto 1960) un poeta senegalese (morto troppo giovane in un incidente aereo) che ha contribuito enormemente con il suo lavoro, che parte da un forte e convinta posizione anticoloniale, al movimento letterario della Négritude. In questa poesia Diop fa dialogare l’Africa con un discendente di quelle persone trafficate, che idealmente possiamo immaginare si trovi ora nel continente americano.

A mia madre

Africa, mia Africa

L’Africa e i fieri guerrieri negli antichi deserti

L’Africa cantata da mia nonna

Sul bordo del suo fiume lontano

Io non ti ho mai conosciuto

Ma il mio sguardo è pieno del tuo sangue

Il tuo buon sangue nero è stato versato sui campi

Il sangue del tuo sudore

Il sudore del tuo lavoro

L’opera della schiavitù

La schiavitù dei tuoi figli

Africa, dimmi Africa

Sei tu allora quella schiena che si curva

E che cade sotto il peso dell’umiliazione

Quella spada tremante, macchiata di rosso

Chi dice sì alla frusta nel lavoro di mezzogiorno

Ed ecco che gravemente, mi risponde una voce

Figlio impetuoso, quell’albero giovane e robusto

Quell’albero laggiù

Splendidamente solo tra i fiori appassiti

È l’Africa, la tua Africa che rinasce ancora

Che germoglia di nuovo con paziente ostinazione

I cui frutti acquisiscono a poco a poco

Il sapore amaro della libertà.

☞e una voce risponde oltreatlantico

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]]> Mercantilismo europeo https://ogzero.org/studium/mercantilismo-europeo/ Thu, 08 Aug 2024 22:43:25 +0000 https://ogzero.org/?post_type=portfolio&p=12904 L'articolo Mercantilismo europeo proviene da OGzero.

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Manchester al centro del vertice europeo

Nella storia della tratta transatlantica delle persone africane schiavizzate, la città di Liverpool (capitale della contea di Merseyside) ha svolto un ruolo di primo piano, insieme alla vicina Manchester (Cottonopolis). Un porto (Liverpool) che ha beneficiato direttamente del traffico di esseri umani, riuscendo ad accumulare enormi fortune e sviluppando la propria economia al costo della vita di milioni di persone.

Prima di parlare però di Liverpool, dobbiamo fare un passo indietro e cercare di capire come il Regno Unito abbia iniziato a giocare un ruolo determinante nel commercio triangolare, nome che storicamente viene dato alla rotta commerciale stabilita nell’Oceano Atlantico dal Diciasettesimo al Diciannovesimo secolo: una rotta che se vista sulla mappa, disegna una figura simile a un triangolo tra Africa, America e Europa.

Come per Gorée e Salvador de Bahia, i nuovi orizzonti geografici aperti dalle spedizioni marittime delle grandi potenze europee avevano stabilito nuove rotte, creando le basi per una fiorente rete di rapporti economici che vedeva l’Europa al centro. Gli apripista di questa nuova forma di espansione coloniale furono i portoghesi che crearono la loro base operativa in Brasile e che istituzionalizzarono il commercio di persone africane schiavizzate (in Portogallo a Lagos si istituì infatti il primo mercato europeo degli schiavi). Dopo i lusitani, fu la volta degli spagnoli e dei francesi che avevano già stabilito delle colonie in America continentale e nelle Antille, e che puntavano alla sostituzione della manodopera indigena (gli indigeni vennero sottoposti a un regime di tale sfruttamento che intere popolazioni vennero sterminate in pochi decenni) con quella dei neri africani schiavizzati. Infine dal Seicento, furono gli Inglesi, la Repubblica delle Sette Province Unite (Olanda, Zelanda, Utrecht, Gheldria, Overijssel, Frisia, e Groninga) e la Francia in piena auge, a togliere il monopolio del commercio schiavista al Portogallo, diventando così i nuovi protagonisti del commercio triangolare sull’Atlantico.

Le carte dilatano gli orizzonti… e moltiplicano le Compagnie

Da un lato, la scoperta della possibilità di poter circumnavigare l’Africa (l’arrivo al Capo di Buona Speranza da parte del portoghese Bartolomeu Dias il 12 marzo 1488) aveva aperto la “corsa” verso le ricchezze dell’India, provocando il fiorire di numerose Compagnie europee di navigazione e commerciali. Multinazionali dell’epoca che iniziarono a stabilire basi di scambio e rifornimento (e anche forti militari) lungo la costa africana, soprattutto in Africa occidentale. In questo caso, come già segnalato, l’apripista fu il Portogallo (con gli insediamenti a Sao Tomé e Principe, Fernão do Pó, l’isola di Gorée, Angola, Mozambico o Zanzibar), al quale si accodarono la Repubblica delle Sette Province Unite (Colonia del Capo, oggi in Sudafrica) e successivamente la Francia e il Regno Unito. Si trattava all’inizio di basi di appoggio, senza la pretesa di espandere il controllo delle potenze europee verso l’interno del continente africano (dove gli arabi da anni controllavano le rotte commerciali), espansione che arriverà solo in pieno 1800, ratificata posteriormente alla conferenza di Berlino del 1914, dove l’Africa venne spartita tra Francia, Regno Unito, Belgio, Portogallo, Spagna, Italia e Germania. In questo senso è importante ricordare che prima della Grande Guerra 1914-1918 (conosciuta successivamente come Prima guerra mondiale) esistevano solo due territori indipendenti in Africa: Etiopia e Liberia.

European colonial possessions in Africa, from 1600s to 1922. Figure provided by Kevin Tervala of Baltimore Museum of Art.

Dall’altro la rotta aperta da Cristoforo Colón verso il “Nuovo Mondo” nel 1492, una terra che il navigante genovese era convinto fossero le Indie e che cominciò a chiamarsi America (in onore del navigante Amerigo Vespucci) solo con la mappa del cartografo tedesco Martin Waldseemüller del 1507.

Fu in quel momento storico, con l’apertura di queste due rotte, che si posero le basi per il futuro commercio triangolare. Le stesse potenze che si disputavano le basi africane iniziarono la conquista del “Nuovo Mondo” dove però in questo caso l’apripista era stata la Spagna

Liverpool e Manchester: come la Gran Bretagna ha fondato il suo benessere sul traffico e sfruttamento degli schiavi

British delivery: le prime consegne di materiale umano

I primi africani ad arrivare nelle colonie che l’Inghilterra stava cercando di stabilire in Nordamerica, furono un gruppo di circa 20 persone schiavizzate che arrivarono nell’agosto del 1619 a Point Comfort, Virginia (vicino a Jamestown): persone (merce) sottratte da corsari britannici a una nave negriera portoghese. Fu l’inizio dell’orrore, il primo passo per la creazione della più grande e massiva impresa di disumanizzazione che la storia ricordi, operata dalla corona britannica e da uno stuolo di commercianti senza scrupoli.

The Maroons In Ambush On The Dromilly Estate In The Parish Of Trelawney, Jamaica (1810)

Un altro importante spartiacque storico si ebbe pochi anni dopo con la conquista della Giamaica da parte del Regno Unito ai danni della Spagna. Fu infatti nel 1655, quando una spedizione britannica guidata dall’ammiraglio Sir William Penn e dal generale Robert Venables riuscì a impossessarsi dell’isola, iniziando una guerra che in 5 anni eliminò ogni resistenza spagnola ancora presente (ma non quella degli schiavi liberti, chiamati Maroons, che dettero molto filo da torcere agli inglesi). La Giamaica iniziò a essere uno dei grandi “laboratori” britannici della sottomissione e sfruttamento delle persone schiavizzate dall’Africa, considerando che la popolazione dell’isola crebbe da poche migliaia al loro arrivo – alla metà del Diciassettesimo secolo – fino a 18.000 nel 1680: a quella data un abitante su due degli abitanti dell’isola erano persone schiavizzate.

 

Mare britannicum

In questo contesto venne redatto il Navigation Act del 1660, un documento che stabiliva che solo le navi di proprietà inglese potevano entrare nei porti coloniali della corona britannica. Sempre nel 1660 Carlo II concesse uno status speciale alla Company of Royal Adventurers Trading to Africa, compagnia guidata da suo fratello minore Giacomo, il duca di York (in seguito Giacomo II). Questa compagnia poteva contare sul monopolio del commercio britannico con l’Africa occidentale (che includeva oro, argento e schiavi) però fallì nel 1667 a causa di numerosi debiti accumulati. Nel 1672 tuttavia la compagnia venne ricreata, con un nuovo beneplacito reale e con il Royal African Company (Rac).

Possiamo vedere dunque che la monarchia britannica sostenne fin dall’inizio lo sfruttamento del continente africano e la tratta degli schiavi, molti dei quali venivano marchiati a fuoco con le lettere DOY, a significare “proprietà del duca di York”. Ma la responsabilità non era solo dei re e della loro corte, ma anche degli uomini d’affari e della classe mercantile di Liverpool e di Cottonopolis (Manchester ricevette questo nome per essere la capitale mondiale del commercio del cotone che proveniva dalle piantagioni del Sud degli Stati Uniti, paese nato dalle 13 colonie inglesi che nel 1776 dichiararono la loro indipendenza). Senza gli schiavi la rivoluzione industriale non sarebbe stata ciò che è stata, così come ci ricorda Eric Williams nel suo libro del 1944 Capitalismo e Schiavitù.

Un libro che spiega come la schiavitù abbia contribuito a finanziare la rivoluzione industriale in Inghilterra e di come proprietari di piantagioni, costruttori navali e mercanti legati alla tratta degli schiavi accumularono vaste fortune che permisero la fondazione di banche e di numerose industrie europee, che amplificarono la portata del capitalismo in tutto il mondo.

☞le basi dell’annessione perpetua

 

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Sfarzi coloniali e riappropriazione afro

Pelourinho e sullo sfondo Nossa Senhora do Rosario Foto di Diego Battistessa

Il centro della terribile pratica di mercificazione umana a Salvador de Bahia era proprio il quartiere di Pelourinho, nome che in portoghese richiama la gogna dove venivano legate e frustate le persone schiavizzate. Si tratta di un enorme complesso monumentale, arroccato su una collina di fronte al mare: un luogo scelto strategicamente dai portoghesi perché facile da fortificare e con la possibilità di vedere con largo anticipo possibili navi nemiche che si avvicinavano. Il quartiere raccoglie l’insieme più importante dell’architettura coloniale del Seicento e Settecento nella regione e tra le innumerevoli chiese che ne fanno un luogo unico nel mondo (come la famosa Chiesa di San Francesco), ospita anche la chiesa di Nossa Senhora do Rosario dos Pretos (Nostra Signora del Rosario dei Neri): edificio di culto la cui costruzione durò quasi 100 anni e che è uno dei simboli della “rivalsa afro” nella città. L’elemento curioso e storico di questo edificio religioso, risiede nel fatto che durante gli anni della colonia portoghese, questa era l’unica chiesa della città che permetteva l’ingresso alle persone afrodiscendenti.

Chiesa di San Francesco. Foto di Diego Battistessa

 

Progressiva commistione di culture 

Proprio dal quartiere di Pelourinho e dalla chiesa di Nossa Senhora do Rosario dos Pretos parte il 4 dicembre la celebrazione di Santa Barbara e dell’orixá Iansã. Un rituale sincretico, considerato patrimonio immateriale dal Governo dello Stato di Bahia dal 2008, che riunisce cattolici e religiosi di origine africana. Un atto di fede che da un lato omaggia una delle grandi Sante cristiane e dall’altro professa devozione a una delle entità divine che furono associate al cristianesimo in epoca coloniale da parte della popolazione nera africana schiavizzata, in un esercizio di resistenza e di preservazione delle proprie radici religiose e culturali: Iansã.

Statuetta yoruba della Sierra Leone: il sincretismo della santeria

Originaria delle popolazioni che occupavano il territorio subsahariano oggi corrispondente a Nigeria, Togo e Sierra Leone, Iansã fa parte del pantheon yoruba, una ricca tradizione religiosa che comprende diverse divinità legate agli aspetti naturali come vento e acqua. Conosciuta anche come Oiá o Oyá, è una delle principali orixá femminili, ampiamente venerata e celebrata in varie tradizioni religiose in Brasile, Africa occidentale e nei Caraibi.

Festa di Santa Barbara, appuntamento fisso del 4 dicembre Foto di Diego Battistessa

 

O Pagador de Promessas

Il film O Pagador de Promessas del 1962, diretto da Anselmo Duarte, che vinse la Palma d’Oro al Festival di Cannes dello stesso anno, diventando il primo film sudamericano nel conseguire tale distinzione è emblematico di questa convivenza di culture forzata dalla deportazione coloniale e che gradualmente attraverso scontri e rifiuti ha prodotto un sincretismo religioso e culturale. L’anno successivo divenne anche il primo film brasiliano e sudamericano nominato all’Oscar come miglior film straniero. Il film segue le vicende di Zé, un umile contadino che fa una promessa a Santa Barbara in un terreiro (luogo di culto del Candomblé e dell’Umbanda): se il suo asino si riprenderà dalla malattia, porterà una croce da casa sua alla chiesa di Santa Barbara, che si trova proprio nella città di Salvador, nel quartiere di Santo Antônio Além do Carmo. Ma quando il prete locale scopre che ha pregato secondo il rito delle religioni afrobrasiliane, rifiuta di lasciarlo entrare in chiesa, non permettendogli di mantenere così la sua promessa. Anche se contro la sua volontà, Zé diventa un martire religioso e un attivista politico per coloro che interpretano in modo ambiguo il suo messaggio, portando la storia a un epilogo fatale. Oggi però, rispetto all’epoca ritrattata nel film, la città è cambiata così come è cambiato il sentire di una Chiesa cattolica locale che sempre di più si è aperta alle professioni di fede sincretiche.

Per rimanere in tema cinema merita una menzione il Cinema Glauber Rocha, uno delle ultime sale di strada rimasti a Salvador de Bahia (i cinema di Rua di Salvador vertevano sull’idea che l’esperienza culturale cinematografica poteva andare ben oltre la visione di un film). Un cinema popolare, che è anche punto di ritrovo per il quartiere e che si trova a pochi passi dal Muncab e dal centro di Pelourinho. Un cinema che prende il nome da Glauber Pedro de Andrade Rocha (14 marzo 1938 – 22 agosto 1981), regista, attore e sceneggiatore brasiliano considerato come il principale rappresentante del Cinema Novo. Questo spazio fu inaugurato nel 1919 con il nome di Cine Guarany e fu per quasi 70 anni la principale sala cinematografica di Salvador de Bahia, essendo caratterizzato da elementi che lo rendevano modernissimo per la sua epoca. Nel 1955 fu rinnovato con le “nuove” attualizzazioni tecnologiche dell’epoca e dopo un periodo di “alti e bassi” con diverse opere di riqualificazione, fu riaperto nel 1982 con l’attuale nome di Glauber Rocha, diventando uno spazio di incontro, di cinema d’autore e di esposizioni artistiche (ospita oggi infatti anche dei pannelli dell’artista plastico Carybé, opera dal titolo Indios Guaranys).

Jorge Amado: l’impegno politico nel Novecento di Bahia

Tornando però al cuore di Pelourinho e alla sua architettura che rappresenta una viva testimonianza di un passato che si intreccia con forza al presente, in pieno Largo do Pelourinho troviamo l’edificio della Fundaçao – Casa di Jorge Amado, inaugurata nel 1987 dallo stesso famoso politico e scrittore brasiliano (pluripremiato però senza mai essere riuscito a ottenere il premio Nobel per la letteratura). Un luogo di “culto” per chi onora ancora oggi la memoria di questo illustre brasiliano e che ospita e conserva la sua collezione, promovendo tra l’altro, attraverso la fondazione, lo sviluppo delle attività culturali nello stato di Bahia. Lo scrittore brasiliano Jorge Amado (nato il 10 agosto 1912 a Itabuna) fu sicuramente uno dei grandi ambasciatori di Bahia e morì, solo quattro giorni prima di compiere 89 anni, proprio nella città di Salvador, il 6 agosto 2001.

Fundaçao – Casa di Jorge Amado, Largo Terreiro de Jesús. Foto di Diego Battistessa

Siamo di fronte a uno degli autori più letti al mondo, la cui vita però fu marcata dall’isolamento a causa della sua adesione al comunismo. Amado si dedicò infatti alla militanza politica (che gli costò anche il carcere) e nel 1945 fu deputato del Partito comunista brasiliano, lo stesso partito che solo cinque anni dopo fu messo al bando e considerato un partito illegale. L’esilio insieme alla famiglia, una vita rocambolesca in latitanza, l’abbandono della carriera politica e infine il ritorno nel suo Brasile solo nel 1955. Una vita di lotta, che si riflette nelle sue opere che spesso hanno trattato di temi sociali, scritti per la cui descrizione non basterebbe un libro. Pubblicò il suo primo romanzo all’età di 18 anni e già nel 1944 dette vita uno dei suoi capolavori Terras do Sem Fim (La terra senza fine), un libro che descrive con crudezza la dura vita dei lavoratori nelle piantagioni di cacao. Famoso tra i molti altri anche Gabriella, garofano e cannella, opera scritta in età più adulta (nel 1958) ma non può mancare un riferimento a un’opera che lo lega in modo particolare alla città di Salvador de Bahia. Un libro che si chiama appunto Bahia de Todos-os-Santos pubblicato nel 1945. Una specie di guida di una città che Amado ci aiuta a conoscere attraverso la sua gente e i suoi miracoli, i suoi angeli e i suoi demoni, la sua musica e gli amori incorniciati dal blu intenso dell’oceano. Tutto questo oggi è trasmesso e custodito dentro la Fundaçao – Casa di Jorge Amado, dove si trovano anche le quasi 100.000 pagine di lettere che lo scrittore ha ricevuto durante la sua vita, da persone di tutto il mondo.

Candomblé. Foto di Luciano Paiva, Flickr. CC BY-NC-ND 2.0

Adiacente alla casa di Jorge Amado si trova il Museu da Cidade, che oltre a un’ampia collezione di costumi candomblé – la tradizionale danza bahiana –, custodisce oggetti personali del poeta Castro Alves, l’autore di La nave degli schiavi annoverato tra i primi personaggi pubblici a schierarsi contro la schiavitù nell’Ottocento.

 

Flussi e riflussi tra Bahia e Benin

L’edificio della fondazione si trova a pochi metri dalla chiesa di Nossa Senhora do Rosario dos Pretos e poco più in basso, troviamo un altro dei tesori storico-culturali di questo quartiere: la casa do Benin. Dal sito della prefettura di Bahia possiamo trovare più informazioni su questo centro culturale già diventato iconico, ideato dall’etnografo Pierre Verger e nato come risultato di un accordo bilaterale per unire i legami tra Salvador de Bahia e la Repubblica del Benin, luogo di origine della maggior parte delle persone schiavizzate arrivate a Salvador de Bahia.

Foto di Diego Battistessa

Inaugurato nel 1988, lo spazio si trova in un palazzo in Rua Padre Agostinho Gomes, vicino a Taboão, nel Pelourinho. Nel cuore del Centro Storico Casa do Benin rappresenta un pezzo di Africa, un luogo generatore di uno scambio culturale da e verso il continente africano. Questo spazio culturale possiede un importante patrimonio artistico e culturale afrobrasiliano ed è mantenuto dalla Fondazione Gregório de Mattos per migliorare le relazioni culturali tra le due sponde dell’Atlantico: all’interno è visibile una collezione composta da 200 pezzi provenienti dal Golfo del Benin, raccolti dal fotografo francese Pierre Verger, durante i suoi viaggi in Africa, per studiare i flussi e riflussi tra l’Africa e Bahia. Contiene anche pezzi legati alla cultura afrodiasporica, donati da artisti e istituzioni di tutto il mondo.

A donare un’atmosfera unica, il modo particolare nel quale vengono appesi dei tessuti colorati dell’artista plastico e designer Goya Lopes, che danno ancora più vita e movimento a un luogo che vuole anche promuovere la creatività artistica della moda afrobrasiliana.

Texture di Goya Lopez

Città del mercantilismo Salvador de Bahia Sincretismo Elevador Lacerda
Triangolo britannico Scousers Ransom in Liverpool Manchester
Gorée Maison des Esclaves Perpetua schiavitù Saint-Louis

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]]> Merci rivolte e infrastrutture https://ogzero.org/studium/merci-rivolte-e-infrastrutture/ Sat, 09 Dec 2023 22:26:55 +0000 https://ogzero.org/?post_type=portfolio&p=12082 L'articolo Merci rivolte e infrastrutture proviene da OGzero.

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500 anni di rotte commerciali e rivolte afrodiscendenti

Skyline di Città di Panama | Foto D. Battistessa (2022)

Colón e la popolazione afropanamense

Quanto succede nella provincia di Colón non può però essere compreso se non si fa un passo indietro nella storia di Panama e non si conosce la situazione della popolazione afrodiscendente del paese centroamericano, popolazione fortemente concentrata in questa provincia caraibica.

El Cimarronaje

(

Estratto da America latina afrodiscendente, di Diego Battistessa (Arcoiris, Salerno 2021)

Le ribellioni dell’istmo di Panama

Nella Panama della colonia spagnola il fenomeno del cimarronaje (epiteto peggiorativo con il quale venivano chiamate le persone schiavizzate che fuggivano) iniziò fin dai primi decenni del Cinquecento, proprio con l’arrivo dei primi “carichi” di forza lavoro schiavizzata dall’Africa. Gli schiavi vennero portati nella zona per svolgere diversi lavori: uno dei principali era la pesca delle perle. Un’attività che, al pari della vita delle miniere d’oro e d’argento, non solo era molto dura ma anche molto pericolosa: decine infatti furono gli africani morti per annegamento, per embolie polmonari o vittime di attacchi di verdesca. A fronte di questa situazione iniziarono le fughe verso l’interno e verso la giungla del Darién. I cimarrones però non si nascondevano dagli spagnoli, li affrontavano in campo aperto e attaccavano le carovane che percorrevano la rotta commerciale dell’istmo che collegava i due oceani. Verso la fine del decennio del 1540, si cominciano ad avere notizie di uno schiavo liberto chiamato Felipillo, leader fuggito dalle zone perlacee e capace di organizzare i cimarrones in un palenque (comunità autonoma di liberti) sulle rive del Golfo di San Miguel, nel Darién. Felipillo e i suoi portavano avanti una guerra di guerrilla nella giungla panamense, realizzando attacchi sul cammino reale e derubando i viaggiatori di armi e rifornimenti: di notte poi razziavano gli insediamenti spagnoli per liberare altri africani schiavizzati.

La difesa spagnola delle rotte di merci atlantiche

Per gli spagnoli la situazione era insostenibile. Avevano da pochi anni iniziato le operazioni commerciali nell’istmo e non potevano permettere a degli schiavi di mettere a rischio quella rotta mercantile. L’impatto delle azioni di Felipillo aveva causato non poche proteste alle autorità spagnole da parte dei coloni, che argomentavano di non poter/voler pagare le tasse e di non avere sufficiente forza lavoro. Il compito di eliminare la minaccia dei cimarrones ricadde sul Capitano Francisco Carreño che iniziò una guerra senza quartiere, infliggendo gravi e inumani castighi a coloro che venivano catturati. Le truppe di Carreño, dopo diverse scaramucce, scoprirono nel 1549 l’ubicazione esatta del palenque di Felipillo, che fu attaccato in forze e ridotto in cenere. Dopo aver ucciso il leader africano gli spagnoli probabilmente pensarono di aver eliminato il problema delle ribellioni nella zona, ma non avevano fatto i conti con l’esigenza biologica di libertà di coloro che erano stati schiavizzati. Poco dopo, altre ribellioni esplosero a Panama, guidate da capi come Antón Mandinga e il Negro Mozambique (che non ebbero molta fortuna) e soprattutto da Bayano, erede dello spirito di Felipillo.

Le origini di Bayano non sono chiare. Si dice che fosse stato catturato nell’attuale Sierra Leone, che fosse un famoso guerriero e che appartenesse alla tribù Mandinga. Un’altra ipotesi lo colloca come membro del popolo Yoruba, al quale appartenevano la maggior parte degli schiavi portati nelle Americhe: ipotesi che spiegherebbe anche il suo nome, derivante probabilmente dalla parola bayanni che in lingua yoruba identifica un idolo o un oggetto venerato dai fedeli del dio del tuono. Anche sull’inizio della sua ribellione le versioni sono discordanti. Alcuni parlano di una ribellione iniziata quando ancora Bayano si trovava sulla barca negriera che lo stava portando a Panama, altri di una fuga e un’insurrezione iniziata poco dopo essere arrivato nel Darién. Quel che è certo è che Bayano, negli anni in cui Felipillo soccombeva alle truppe di Carreño, riuscì a riorganizzare i cimarrones scappati nella selva e a costituire un nuovo, grande palenque conosciuto come Ronconcholon, vicino al fiume Chepo (conosciuto anche come fiume Bayano). Il condottiero africano contava su una forza che gli storici fanno oscillare tra i 400 e i 1200 uomini. Il Palenque di Ronconcholon era dunque una città in piena regola, che poteva disporre di un esercito che rappresentava una grande minaccia per la forza di occupazione spagnola. Per anni le truppe di Bayano portarono avanti una guerriglia che mise in ginocchio il commercio della corona spagnola. Per affrontare il pericolo rappresentato dall’insurrezione dei cimarrones arrivò a Panama anche il marchese de Cañate, viceré del Perù, che incaricò il capitano Gil Sánchez di dirigersi nella regione di Chepo e sconfiggere le truppe di Bayano. Sánchez e il suo contingente però vennero sconfitti. Una successiva spedizione guidata questa volta dal capitano che uccise anni prima Felipillo, Francisco Carreño, ebbe successo e Bayano venne catturato e portato nella località di Nombre de Dios nell’attuale provincia di Colón. Qui il Presidente della Real Audiencia de Panamá, Álvaro De Sosa, offrì ai cimarrones la possibilità di stabilire un accordo per uscire dall’illegalità e convivere con le autorità spagnole. Dopo aver accettato l’accordo ed essere dunque tornato in libertà, Bayano ricominciò tuttavia le razzie e gli attacchi sulle rotte commerciali: di nuovo catturato, questa volta da un contingente di 200 uomini guidato da Pedro de Ursúa venne inviato successivamente in Perù per essere giudicato. Nel cuore dell’impero spagnolo in Sudamerica, il cimarrón ribelle venne processato e successivamente portato in Spagna, dove morì.

Lago di Bayano, che prende il nome dal condottiero liberto del palenque di Ronconcholon | Foto Diego Battistessa (2022)

La storia delle ribellioni di persone schiavizzate a Panamà e la loro presenza sul territorio sono vincolate in modo profondo e simbolico all’identità di tutta la regione. Va sottolineato infatti che i principali insediamenti di gruppi di afrodiscendenti si trovavano in quella che veniva chiamata “Costa Arriba” nell’attuale provincia di Colón (ci furono altri palenque Costa Abajo de Colón, a ovest dell’attuale canale, ma ebbero meno rilevanza). Proprio in quella zona arrivò Cristoforo Colombo durante il suo quarto viaggio, in quelle che ancora non si chiamavano Americhe, nel 1502. La città di Nombre de Dios (dove fu portato Bayano) venne fondata nel 1510 da Diego de Nicuesa ed è uno dei primi insediamenti europei in America: è considerato il più antico insediamento ancora abitato, fondato nell’America continentale dagli europei. La cittadina di Nombre de Dios ebbe fortune alterne: abbandonata e ripopolata nel 1519, saccheggiata e incendiata dai pirati nel 1572 e nel 1596. Dopo l’incendio del 1596 innescato dal corsaro inglese Francis Drake, la popolazione venne spostata nella zona più salubre e fortificabile di Portobelo: altro luogo nel quale si concentra la storia e la trazione afrodiscendente.

La spiaggia del piccolo villaggio di Nombre de Dios, luogo nel quale sbarcò Cristoforo Colombo nel 1502 | Foto D.Battistessa (2022)

Comunità africane sovrapposte a snodi commerciali

In tutta la provincia di Colón troviamo comunità afropanamensi (da notare per esempio anche l’insediamento chiamato Palenque, che nacque come un vero e proprio villaggio di cimarrones e che ha mantenuto il nome fino ai nostri giorni) ma senza ombra di dubbio Portobelo rappresenta il centro identitario più forte. Portobelo non era all’epoca un luogo di permanenza della popolazione afrodiscendente, ma era sicuramente uno dei nodi commerciali di transito più importanti. Con il tempo però si formarono delle comunità africane stabili che si organizzarono nei quartieri di Guinea e Malambo, veri e propri conglomerati di tradizione africana e sincretica. Come eredità di questo processo storico sincretico troviamo la cultura “congo”, concentrata nella Costa Arriba e Costa Abajo della provincia di Colón. Si tratta di un articolato sistema di lingua, musica e danza afrocoloniale. Questa pratica è caratterizzata da un’espressione violenta ed erotica durante la danza, associata a una rappresentazione teatrale, il cui tema riporta a episodi storici della tratta degli schiavi, della schiavitù e delle conseguenti ribellioni nere durante i tempi del colonialismo. Tamburi, danza a piedi nudi, momenti di trance e un linguaggio che mischia lingue coloniali pronunciate al contrario e lingue di origine africana. Un’eredità dei primi schiavi africani che dentro i palenque svilupparono una pratica culturale riconosciuta oggi dall’Unesco come patrimonio culturale immateriale dell’umanità.

Passaggio strategico

Il polo atlantico: Colón

A oggi dunque la provincia di Colón, è caratterizzata per essere la zona di Panama con la più alta concentrazione di popolazione afrodiscendente, popolazione che storicamente vive gli strascichi lasciati da un razzismo strutturale che durante 4 secoli si è manifestato nella regione con la schiavitù e successivamente con una marginalizzazione e mancanza di accesso ai diritti umani fondamentali e alle condizioni di base per lo sviluppo di una piena forma di cittadinanza. La città di Colón, capoluogo dell’omonima provincia ha una popolazione di poco meno di 100.000 persone e dista solo 80 chilometri dalla Capitale, collegata alla stessa dall’Autostrada Transístmica (Panamá-Colón), che unisce le due coste oceaniche (Atlantico e Pacifico) del paese centroamericano. Colón è anche la seconda città più popolosa dei Caraibi centroamericani e qui si trova uno dei porti più grandi di tutta l’America Latina. Dato che contrasta non poco per la situazione di depressione economica e mancanza di servizi e infrastrutture urbane (in comparazione con la Capitale) nella quale versa la città e per estensione tutta la provincia. Colón è infatti un enorme hub commerciale, essendo la zona caraibica di entrata del Canale di Panama, ragione per la quale nell’area è stata istituita quella che si chiama Zona di Libero Commercio di Colón, interconnessa con il Sistema Integrato di Gestione Doganale di Panama, per facilitare e accelerare le procedure del commercio estero.

La vocazione infrastrutturale tra ferrovia e canale interoceanici

Ma le modalità e la nascita della stessa città di Colón, quando l’istmo di Panama faceva ancora parte del territorio nazionale colombiano, ci fanno capire come la zona sia da sempre solo stata vista come un luogo da sfruttare per i capitali nazionali e stranieri. Dobbiamo infatti tornare indietro fino al 1850, quando si decise finalmente di dare vita a un progetto che fu a suo tempo dello stesso Simón Bolivar, ovvero il collegamento attraverso una rotta ferroviaria dei due oceani (il canale di Panama sarebbe stato inaugurato solo 64 anni dopo). Il progetto interessava molto agli Stati Unit d’America e fu proprio lo statunitense William Henry Aspinwall (16 dicembre 1807 – 18 gennaio 1875), socio della società mercantile Howland & Aspinwall e cofondatore sia della Pacific Mail Steamship Company che del Panama Canal Railway a rendersi protagonista di questo progetto ingegneristico. Proprio la Panama Railroad Company aveva bisogno di un terminal sull’Atlantico per costruire la prima ferrovia interoceanica e per fare ciò si decise di costruire l’infrastruttura necessaria sull’isola di Manzanillo (poco più di 250 ettari), sul lato orientale della baia di Limón. I lavori iniziarono nella primavera del 1850 e la manodopera arrivò dalle Antille (con un gran numero di Giamaicani), dalla Spagna e anche dall’Italia: uomini falcidiati da malaria e dissenteria che morirono a decine per realizzare questo progetto. Una volta terminato il terminal Atlantico della ferrovia, alla zona venne data una parvenza (tra degrado e abbandono) di piccolo centro urbano e gli investitori statunitensi proposero di chiamare la “nuova città” Aspinwall, in onore di uno dei grandi capitalisti che finanziavano le operazioni di Panama Canal Railway (William Henry Aspinwall). Lo stato colombiano istituito in quegli anni però non accettò la proposta e battezzò ufficialmente il 27 febbraio 1852 la città con il nome di Colón. Gli statunitensi rifiutarono la decisione e continuarono a chiamare la città (che si trovava in territorio colombiano!) con il nome di Aspinwall. La disputa durò fino al 1890 quando una ferma azione del governo di Bogotá, che eliminò la possibilità di utilizzare l’indirizzo postale di Aspinwall, obbligò gli statunitensi a cedere e accettare il nome di Colón. La città sorta da una stazione ferroviaria non venne però risparmiata dalle vicende belliche che scossero la Colombia nel 1885 e anche dopo l’indipendenza di Panama (nel 1903) fu devastata da un incendio che la distrusse completamente nel 1915 (un anno dopo l’inaugurazione del Canale). Proprio la costruzione del Canale di Panama e la sua messa in funzionamento, portarono nuovo vigore a questo centro urbano che iniziò nella seconda decade del 1900 una costante crescita demografica. A questo si aggiunse nel 1953 la creazione della zona libera per il commercio internazionale di Colón (prima zona franca del mondo moderno) che però non salvò la città da una dura recessione economica iniziata nel 1960 e non ancora terminata.

Il Canale

to be continued (5)

¡Ya Basta extractivismo! Marca-paese Dighe e discariche La Zona del Canale Ancestralità e gentrificazione Casco Viejo – CauseWay – Artificial Island

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]]> Chi specula sulla questione Saharawi? https://ogzero.org/progressiva-annessione-del-sahara-occidentale/ Sat, 17 Dec 2022 22:08:28 +0000 https://ogzero.org/?p=9799 La diplomazia di Rabat nell’ultimo anno ha ottenuto risultati importanti in vista della progressiva annessione del Sahara Occidentale, anche grazie ai ritorni derivanti dalla guerra in Ukraina: il ricatto nei confronti della Spagna sulla concessione riguardo al passaggio di oleodotti ha drasticamente azzerato la simpatia tra la Spagna e il Saharawi, vista la fame di […]

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La diplomazia di Rabat nell’ultimo anno ha ottenuto risultati importanti in vista della progressiva annessione del Sahara Occidentale, anche grazie ai ritorni derivanti dalla guerra in Ukraina: il ricatto nei confronti della Spagna sulla concessione riguardo al passaggio di oleodotti ha drasticamente azzerato la simpatia tra la Spagna e il Saharawi, vista la fame di gas di Madrid; ma aveva cominciato a ottenere risultati già con la presidenza Trump che ne aveva riconosciuto le pretese di controllo sull’ex Sahara spagnolo, in cambio degli Accordi di Abraham con Israele, che sancivano solamente una collaborazione ormai annosa soprattutto sul piano militare (infatti si sono viste sventolare bandiere palestinesi e algerine dopo la sconfitta dei “Leoni” in semifinale dei mondiali di football a Doha – nonostante l’eliminazione provenisse per mano dell’odiata potenza francese).

Il risultato ai mondiali qatarini è comunque spendibile dal regime per una nuova autorevolezza nel mondo arabo, spostando a ovest gli equilibri disputati con i sauditi; il fatto che sia stato relegato nei giochi della Fifa al quarto posto allargando a orologeria anche al Marocco lo scandalo della corruzione riuscita con il lobbismo dei commissari socialisti europei non può che giocare a favore di Rabat, perché colloca il Marocco tra le nazioni che si accreditano per un lavoro di “convincimento” credibile (e può anche richiamarsi a una sorta di discriminazione dell’ultimo paese africano in lizza).
Per questo ci sembra opportuno rendere pubblico l’articolo di Gianni Sartori che vi proponiamo a poche ore dalla sconfitta della nazionale marocchina nella disputa per il terzo posto con una Croazia, che contemporaneamente rifiuta l’accoglienza a soldati ucraini da addestrare in ambito Nato (“Le Parisien”), temendo di farsi coinvolgere nel conflitto.

OGzero


Corruttori ed eurocorrotti

Stando alle notizie riportate da“Le Soir”, da “Knack” e da “il manifesto”, l’ex deputato europeo Panzeri a Strasburgo si sarebbe occupato soprattutto di “diritti umani e del Maghreb”. Oltre ad aver fondato nel 2019 una ong (Fight Impunity), avrebbe intrattenuto rapporti amichevoli con l’esponente marocchino Abderrahim Atmoun (dal 2019 ambasciatore in Polonia).

Sempre nel 2019, Panzeri figurava tra gli oltre 400 deputati europei che avevano votato a favore di un accordo di pesca che interessava anche le coste del Sahara Occidentale. A tutto vantaggio di Rabat, ma naturalmente senza il consenso del popolo saharawi e del Fronte Polisario. Va sottolineato che questo mare molto pescoso è una delle due principali risorse (l’altra è rappresentata dai fosfati) in grado di garantire la futura sopravvivenza della popolazione saharawi e della Rasd.
Fortunatamente tale accordo iniquo venne poi annullato (ma solo nel 2021) dalla Corte di Giustizia europea in quanto

«sancirebbe il diritto di sfruttamento di uno stato occupante in un territorio riconosciuto internazionalmente come “non autonomo”».

Congiurati socialisti in combutta con Mohammed VI contro il Polisario

Annessione del Sahara Occidentale camuffata

Pressanti le ricorrenti richieste di Rabat all’Unione europea di allinearsi con le posizioni di Washington (nel 2020 con Trump) che di fatto sottoscrivevano quelle marocchine in merito a una non meglio definita (ma comunque limitata) “autonomia del Sahara Occidentale all’interno dei confini del regno del Marocco” – in pratica l’ufficializzazione dell’annessione del Sahara Occidentale.
La proposta risaliva all’aprile 2007: presentata dal Marocco come una

«risposta alle richieste del Consiglio di Sicurezza alle parti per porre fine alla situazione di stallo politico» e rivolta direttamente al Segretario Generale, venne descritta come «l’iniziativa marocchina di negoziazione di uno status d’autonomia per la regione del Sahara».

Scontato che ai saharawi apparisse come una mossa propedeutica alla completa assimilazione.

Recentemente tale prospettiva sembra aver raccolto il favore sia del governo madrileno, sia di alcuni ex esponenti del Polisario, dissidenti nei confronti del Fronte (ma non per questo collaborazionisti del Marocco).

Il dovere della memoria come garanzia della non ripetizione

Sul ruolo sempre più “conciliante” (eufemismo) assunto da Madrid nei confronti di Rabat, era intervenuto Luis Portillo Pasqual del Riquelme (“Etnie”).

Per il docente di scienze economiche alla madrilena Università Complutense, il leader socialista Pedro Sánchez avrebbe «ceduto vergognosamente alle richieste di Mohamed VI perpetrando un secondo tradimento del popolo saharawi». Anzi, aggiungeva, «stando ai miei calcoli addirittura il terzo» (il secondo sarebbe quello operato da Felipe Gonzalez, precedente leader socialista, che già nel 2008 Luis Portillo stigmatizzava su “Rebellion”, sottolineando il lobbismo spinto di Rabat).
L’illustre accademico ricordava come Félix Bolaños, ministro della Presidenza, Relazioni con le Cortes e Memoria Democratica, aveva affermato nel suo intervento che

«la memoria è un diritto, un diritto della cittadinanza e soprattutto un diritto delle vittime».

In sintesi: “Il dovere della memoria come garanzia della non ripetizione”. In riferimento soprattutto alle violazioni dei diritti umani e del diritto dei popoli perpetrate dal franchismo, una questione con cui la Spagna non aveva fatto i conti a momento debito.

Ma questa legge, continuava Bolaños, per quanto riguardava la questione del Sahara Occidentale e del popolo saharawi risultava quantomeno “insoddisfacente”. Nonostante costituisse l’estrema colpa dell’ultimo governo della dittatura fascista.

 

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Le città visibili https://ogzero.org/studium/le-citta-visibili/ Fri, 29 Apr 2022 16:47:51 +0000 https://ogzero.org/?post_type=portfolio&p=7172 L'articolo Le città visibili proviene da OGzero.

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OGzero nelle città

È possibile individuare un genius loci che rappresenti una costante nel tempo e negli spazi urbani utilizzati? Nella collana “Le città visibili”, sì.

Città rese visibili attraverso la narrazione dell’esperienza personale degli autori, coadiuvati dalle voci dei testimoni e degli abitanti che forniranno un’interpretazione del territorio, della sua trasformazione e degli elementi alieni che proliferano tramite flussi di merci e di persone a provocare le contrazioni di spazi, come le loro estensioni, urbane e demografiche. Autori che esamineranno le strategie di conservazione monumentale e di “reinterpretazione delle rovine” viaggiando tra smart cities, improntate alla sicurezza digitale, che accentuano – costituendosi come ascensori e discensori sociali – la differenza nella struttura e nella mobilità urbana tra periferie e downtown. Esploreranno i luoghi di aggregazione attorno allo scambio di merci, come i mercati popolari e i centri della grande distribuzione, cercheranno di illustrare il cambio di destinazioni d’uso che prelude ai grandi progetti di infrastrutture e di conseguenza l’impatto sul tessuto urbano. Impossibile non collegare a tutto ciò i flussi migratori, con l’inclusione di nuovi arrivi e l’evoluzione della loro tipologia e l’eventuale marginalizzazione dei migranti – interni o esterni che siano; a cui si correlano anche l’esclusione di massa e lo svuotamento di aree, le ghost-town e i quartieri già progettati e costruiti come ghetti, o la gentrificazione causata da interessi immobiliari.
Gli autori di questa serie ci porteranno per mano nei loro luoghi del cuore, come guide capaci di farci sentire l’atmosfera delle città, permettendoci di intuirne realmente le attuali peculiarità senza dimenticare la Storia passata per quelle strade.

Clicca qui sotto sul nome della città per approfondire



Già Visibili in libreria


GERUSALEMME NAIROBI FREETOWN LUSAKA BANGKOK BRAZZAVILLE BOBO-DIOULASSO

In questa sezione venite indirizzati a materiali e indicazioni inerenti ai volumi già pubblicati nella collana dedicata alle città rese visibili attraverso la penna e gli occhi di autori che conoscono bene il genius loci di ciascuno di quei territori che han dato luogo a quella realtà urbana identificata dal nome della città in copertina.



Visibilità ancora in preparazione


ISTANBUL BEIRUT BUENOS AIRES BAMAKO PECHINO KIGALI PANAMÁ y COLÓN

La produzione di un libro proviene da un lungo percorso di individuazione della città che può suscitare interesse all’interno della collana, del suo potenziale autore e poi lo sviluppo del testo a seguito della raccolta degli argomenti e delle testimonianze, delle immagini e delle mappe da integrare. Ma anche del confronto e della elaborazione della sostanza che sta costituendo la base del futuro volume in via di realizzazione. Queste sono per ora le città su cui abbiamo cominciato a focalizzare la nostra attenzione e che sono già state affidate alla penna di esperti conoscitori di quelle comunità urbane.

Intanto traspaiono potenziali visibilità altrove…


Esistono poi situazioni urbanistiche e di agglomerazione umana particolarmente interessanti e che non riusciamo ancora a ricondurre a un formato editoriale di pubblicazione da proporre in libreria. Però assumono già una forma tale che… racchiudono già in embrione una… svolgono una narrazione riconducibile a… colgono una particolare situazione metropolitana che… riteniamo abbiano diritto a venire divulgate in questa sezione delle nostre proposte. Insomma finiscono con l’essere tutte collegate dal filo rosso della abitabilità di un territorio, dallo sviluppo della forma “città” e potrebbero contenere in sé un’idea che informa l’intera superficie metropolitana a cui ricondurre magari una nuova impresa libraria.

Per ora aggiungiamo queste suggestioni al dossier dedicato alle comunità urbane, come proposte di lettura collaterali ai volumi:

_ L’ultimo racconto di Diego Battistessa si dipana tra Savador de Bahia, Liverpool/Mancheser e prende spunto da Gorée/Saint-Louis. Il Triangolo del Mercantilismo

_ Avevamo cominciato con le favelas brasiliane. Il racconto di Diego Battistessa si dipana tra Rio de Janeiro, São Paulo e Brasilia

_ E proseguito con il 40ennale della costituzione di Yamoussoukro, la capitale della Costa d’Avorio, descritta da Angelo Ferrari e fortemente voluta da Boigny

400 anni di modello geopolitico schiavista

_ Per fondare un Capitalismo duraturo bisogna “scoprire” territori da “colonizzare” esterni al mondo regolato da diritti, i cui abitanti vanno deumanizzati per motivare la loro schiavizzazione.
E questo è stato perpetuato dal sistema negli ultimi secoli con poche varianti, dettate soprattutto dalle esigenze della tecnologia e dalle richieste di beni da depredare e di genti da sfruttare.

_ La terra dei caporali: dovunque lo schiavismo perpetua il suo orrore c’è un Eichmann che obbedisce?
Quando Diego ci ha proposto di analizzare questa triangolazione di porti nel colonialismo storico abbiamo pensato che poteva essere utile individuare in quali meccanismi il capitalismo si è andato perpetuando fin dalle sue basi date dall’allargamento dei potenziali mercati di merci e braccia con le scoperte geografiche della modernità (che non a caso viene datata da quel periodo di nuove tecnologie come la polvere da sparo, e le nuove rotte marittime più convenienti), adattandoli via-via alla “tecnologia” più attuale che sostiene la logistica da un lato – tracciando le rotte –, e quali organizzazioni possono sovrintendere all’approvvigionamento di manodopera schiavizzata nell’interno, che si avvale di percorsi paralleli o subalterni alle stesse vie battute da armi, droga, merci grezze dall’altro. Questi sono i meccanismi innaturali che tengono in piedi il capitalismo, senza i quali quel sistema energivoro e oligarchico non potrebbe reggersi. E l’operazione di Diego funge molto bene da memoria di quel che è stata la culla dell’attuale sfruttamento globale della migrazione, ma anche a rievocare quegli stessi meccanismi inventati con il mercantilismo e che regolano tutt’ora economia, politica e morale.
Ovviamente maggiore è l’investimento e la conseguente copertura degli stati-nazione, più ampi sono gli interessi e più si allarga il coinvolgimento finanziario, incontrastabile anche se nocivo quando la soglia del capitale profuso supera il livello di rischio di rientro qualora l’operazione fallisse: sia essa incentrata su estrazione, sfruttamento, riduzione in schiavitù, saccheggio e occupazione di territorio, ammantato da regole di controllo commerciale adattate agli stati più potenti. E tuttora diversamente – ma non meno ferocemente – coloniali, a cominciare dall’apartheid israeliano.

_ Saccheggio e debito infrastrutturale: le triangolazioni imperialiste descritte dal presidente del Burkina Faso Ibrahim Traoré sembrano – nel tentativo di collegarsi all’insegnamento anticoloniale di Sankara – ricalcare le stesse impronte triangolari su cui si fonda il capitalismo dal mercantilismo Secentesco in poi, che è l’argomento di questa serie di articoli di Diego Battistessa attorno a tre città: Salvador de Bahia, Gorée/Saint-Louis, Liverpool/Manchester.
La triangolazione si ripete identica con i medesimi meccanismi del mercantilismo emerso con la nascita dell’epoca industriale, perché il depauperamento dei territori di provenienza è prodotto dal saccheggio delle risorse da parte del capitalismo globale che attinge ai beni africani attraverso l’estrattivismo e impone infrastrutture che creano debito per paesi che sono così schiacciati dalla finanza mondiale; attraverso l’ipocrisia della Comunità europea che stanzia fondi contro la fame e poi sottrae ai pescatori proprio di Saint-Louis i prodotti dell’Oceano per farne mangimi per salmoni destinati a tavole non esattamente affamate (film di Francesco De Agustinis, Until the end of the world); lasciando “sgocciolare” soltanto la gestione della manodopera ai livelli inferiori di mera manovalanza mantenuta nella miseria e marginalità – e in alcuni casi nemmeno quella –, in modo da essere spinta a emigrare nella terra dei caporali dove il marchio “clandestino” cancella i diritti, riproponendo il modello dell’apartheid; e dovunque abbassa i livelli di contrattazione delle classi lavoratrici. Una migrazione gestita attraverso le organizzazioni di intermediazione che usano gommoni quando va bene, se non scafi assemblati con saldature di pezzi di acciaio, imbarcazioni assimilabili alle galere dello schiavismo seicentesco. Ma più pericolose.

_ Meglio le stive delle galere di quelle dei barconi? Una tratta gestita da scafisti africani, ma organizzata grazie alle leggi degli europei che realizzano le condizioni perché i padroni possano usufruire di manodopera schiava a basso o nullo costo, facendo finta di chiudere le frontiere per lasciar passare solo i sopravvissuti tra i disperati pronti a tutto e privi di diritti, senza documenti e quindi inesistenti come umani: non pesano in nessun bilancio di spesa e nella stessa condizione degli africani deportati in America sulle galere.

_ Capitali europei, merci esotiche… schiavi africani. Forse per seguire il bandolo storico della matassa ordita da Diego Battistessa si può partire da Liverpool, dove si sono stanziati i denari per armare i vascelli, usando i proventi derivanti dal commercio di schiavi – e, se ci si chiede ancora come sia stato possibile che una cultura come quella inglese (in grado di pensare di ripulirsi la coscienza riconoscendo in un museo le sue colpe, esibendole e così annientando nuovamente la cultura africana, collocata in bacheca e resa innocua) abbia potuto ordire una tratta così razzista, bastano le immagini di agosto 2024 che ritraggono i fanatici sovranisti britannici impegnati nel loro sport preferito, la caccia all’emigrato.


Triangolo britannico Scousers Ransom in Liverpool Manchester

Anche se, mettendo al centro la manovalanza, salpare da Gorée (o meglio Saint-Louis) è probabilmente il moto più immediato, perché viene umanamente spontaneo seguire il destino dei deportati africani.


Gorée Maison des Esclaves Perpetua schiavitù Saint-Louis

O piuttosto considerare centrale Bahia, dove si assorbiva la manodopera schiavizzata e si caricavano preziose merci per i porti occidentali… Liverpool/Manchester in testa, a chiudere il cerchio di The Birth of a Capitalism (per parafrasare il film di Griffith, forse il più nazionalista, e razzista, della storia del cinema).


Salvador de Bahia Pelourinho Sincretismo Elevador Lacerda

Sta di fatto che l’importanza dei porti lievita con l’apertura di rotte commerciali globali che spostano sugli oceani gran parte del commercio dell’interno, che si configura come percorso per raggiungere il porto attrezzato più vicino e competitivo. Infatti questa triangolazione documentata da Diego Battistessa si inserisce in un sistema che creò molte altre triangolazioni e tutte si vanno conglobando all’interno di un unico sistema che sullo Schiavismo costituì (e continua a costituire) l’embrione dello sfruttamento globale chiamato Capitalismo.


Salvador de Bahia Pelourinho Sincretismo Elevador Lacerda

Gorée Maison des Esclaves Perpetua schiavitù Saint-Louis

Triangolo britannico Scousers Ransom in Liverpool Manchester

Le grandi capitali senza storia 

Capitali: sono le città che ospitano le sedi del governo di uno stato. Spesso sono rappresentative anche dello spirito del paese che le ospita, quando non capita è perché sono frutto di una operazione artificiale. Abbiamo già considerato l’atto di erigere capitali dal nulla, in particolare dando un quadro del sistema di potere militare birmano con la capitale Naypyidaw; oppure con la altrettanto spettacolare Brasilia –  comunque in questi 60 anni di “vita” maggiormente percorsa dalla Storia, non foss’altro perché il visionario che le ha insufflato lo spirito si chiamava Niemeyer.

Tutti esempi accomunati dalla pretesa di imporre una agglomerazione dove manca la comunità, tenuta insieme da cultura, storia, riconoscimento nazionale, riferimento amministrativo e commerciale, vie e snodo di traffici… tutte prerogative mancanti a Yamoussoukro

Tutto questo è sviluppato da Angelo Ferrari che coglie l’occasione del quarantesimo anniversario della hybris di Boigny, che volle far assurgere il suo villayet avito al rango di grande capitale. Ma ciò che non può vantare una grande tradizione, non è stata attraversata dalla storia o non può vantare grandi produzioni culturali è destinato a trasmettere un senso di vacuità, di artificioso e una freddezza che deriva dalla mancanza di sostrato culturale e di storie. Oltre che di Storia. Questa la descrizione di una capitale – Yamoussoukro – voluta dal dispotico padre della patria ivoriana.  


Yamoussoukro

Favelas nelle città

Favela: una parola brasiliana che oramai è entrata nel nostro lessico e nell’immaginario collettivo. Sei lettere che descrivono un luogo che abita una dimensione marginale, periferica e volontariamente dimenticata dallo stato. Favelado/a colui o colei che è costretto a una (non) vita nella favela.
La spinta all’industrializzazione dell’Estado Novo di Getúlio Vargas trascinò centinaia di migliaia di migranti nell’ex Distretto Federale all’interno del disegno del Estado Novo, creando un’esplosione delle baraccopoli, il cui nome istituzionale era ormai diventato favelas.

La sconfitta delle elite pauliste a livello nazionale con la dittatura di Getulio Vargas non portò però a uno stop di quell’impulso che trasformò completamente il volto urbano di São Paulo, coprendo i terreni delle vecchie fazendas con nuovi e moderni quartieri e proiettandosi verso un grande salto industriale che si sarebbe pienamente compiuto durante la Seconda guerra mondiale. São Paulo aveva già iniziato dunque quel cammino che l’ha portata oggi a essere la città più popolosa del Brasile e suo vero centro economico e finanziario. Negli stessi anni in cui a Rio de Janeiro, l’amministrazione pubblica istituzionalizzava le favelas, a São Paulo entrava in scena il futuro, sotto forma di un edificio oggi iconico, Esther…

Negli anni Quaranta su Rio si riversò un potente flusso migratorio. Su questi migranti stava però per abbattersi una nuova grande “disgrazia” economica, manifestatasi sotto il nome di Brasilia. Progettata infatti come una metropoli futuristica nel mezzo della pianura dello stato del Goiás, Brasilia fu inaugurata il 21 aprile 1960 dall’allora presidente Juscelino Kubitschek.

Un Brasile che viaggiava dunque a due velocità e che negli anni Settanta, con la dittatura militare, inaugurò un progetto politico di sradicamento della favela: furono cacciati fisicamente dalle loro case centinaia di migliaia di residenti. Durante l’amministrazione di Carlos Lacerda, molti furono trasferiti in progetti di edilizia popolare come Cidade de Deus.

Negli anni Ottanta si assistette invece allo scoppio della violenza associata al fiorente commercio di droga, che aveva fatto diventare le metropoli snodi logistici molto importanti per i carichi di cocaina destinati all’Europa. Le favelas, luoghi nei quali lo stato non esisteva, si riempirono di armi e lo spazio lasciato vuoto dalle istituzioni venne presto riempito da gruppi criminali.

Le favelas in Brasile, possono essere caratterizzate con ordini di grandezza diversi a seconda per esempio della densità demografica o dello sviluppo urbano delle stesse: in estensione verticale sulle colline (come quella di Vidigal a Rio de Janeiro) o in estensione orizzontale (come Cidade de Deus a Rio de Janeiro o Paraisópolis a São Paulo, in modo paradossale perché a ridosso di un’estensione verticale di un grattacielo di lusso al di là del muro – apparentando questo dossier con quello che OGzero va sviluppando sulle Barriere).

La tensione tra le due dimensioni abitative della città, quella delle favelas e quella “ordinata” del Brasile proiettato nel futuro, rimane alta. Un esempio di questo è il Parco Nazionale di Tijuca, situato nella zona Sud di Rio de Janeiro, considerato la più grande “foresta urbana” del mondo e dichiarata Riserva della Biosfera dall’Unesco nel 1991. L’integrità di quest’area è stata minacciata dall’avanzare degli insediamenti informali, che sono cresciuti esponenzialmente sulle pendici delle montagne e delle colline che formano il Parco Nazionale.

Il 19 novembre 2008 nella città di Rio de Janeiro venne installata la prima UPP – Unità di Polizia di Pacificazione, il germe di un nuovo paradigma di presenza militare del governo in aeree fino a quel momento completamente dimenticate. Da quella cultura repressiva sono usciti quelli che hanno ucciso Marielle Franco, filha da Maré (figlia carioca della favela Maré). Marielle come Carolina Maria de Jesús, voce afrobrasiliana delle favelas paulista che negli anni Sessanta prese letteralmente “a pugni” il Brasile e il mondo squarciando il velo che copriva le reali condizioni di vita dei favelados.

Tutto questo è sviluppato da Diego Battistessa in un flusso analitico e narrativo che abbiamo cadenzato nelle 6 pagine accessibili attraverso i pulsanti che trovate qui


RIO DE JANEIRO SÃO PAULO BRASILIA CIUDADE DE DEUS PARAISÓPOLIS ROCINHA MARÉ GÁVEA CANINDÉ RECIFE

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]]> n. 15 – Rotta atlantica: patti scellerati e muri invalicabili https://ogzero.org/rotta-atlantica-patti-scellerati-e-muri-invalicabili/ Thu, 18 Nov 2021 16:28:22 +0000 https://ogzero.org/?p=5362 Il Mediterraneo occidentale è il teatro naturale della rotta atlantica, via percorsa dai migranti obbligati a sfidare l’Oceano Atlantico invece del Mediterraneo per approdare alle sponde europee da accordi economico-politici tra l’Europa e i loro paesi. Dal Plan de Canarias agli Accordi di Abramo, sulla pelle dei migranti si consuma il crimine dei potenti che […]

L'articolo n. 15 – Rotta atlantica: patti scellerati e muri invalicabili proviene da OGzero.

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Il Mediterraneo occidentale è il teatro naturale della rotta atlantica, via percorsa dai migranti obbligati a sfidare l’Oceano Atlantico invece del Mediterraneo per approdare alle sponde europee da accordi economico-politici tra l’Europa e i loro paesi. Dal Plan de Canarias agli Accordi di Abramo, sulla pelle dei migranti si consuma il crimine dei potenti che erigono muri invalicabili e respingono, confinano e segregano, calpestando i diritti umani, approfittando della povertà e dell’instabilità politica dei paesi africani con cui stipulano scellerati trattati bilaterali.

Fabiana Triburgo analizza i meccanismi geopolitici alla base di questa rotta riaperta negli ultimi due anni prima di spostare lo sguardo, prossimamente, sull’ultimo percorso che riguarda le sponde europee, il Mediterraneo centrale.


I principali conflitti che attualmente interessano le migrazioni forzate e le prassi di esternalizzazione poste in essere dall’Unione Europea e dai singoli stati membri portano a una predeterminazione delle rotte dei migranti.

Quello che oggi è inevitabile chiedersi è se il nuovo Patto europeo sulla Migrazione e l’Asilo, proposto dalla Commissione UE, possa essere realmente considerato una soluzione della gestione del fenomeno migratorio o se invece vi siano soluzioni legali alternative maggiormente lungimiranti e coraggiose.  

Vecchi e nuovi approdi del Mediterraneo occidentale

L’espressione ripetuta più volte nel 2020 e nel 2021 “riapertura della rotta atlantica” nasconde fenomeni molto complessi sul piano geopolitico rispetto ai quali la questione migratoria è soltanto la loro inevitabile propagazione. Invero la riapertura di tale rotta non è semplicemente legata alle dinamiche politiche che hanno interessato negli ultimi anni le altre rotte, come quella dell’Egeo, del Mediterraneo centrale o ancor di più, come vedremo, quella del Mediterraneo occidentale, ma il gioco forza di rilievo internazionale, nel quale sono protagonisti Spagna, Marocco, Unione Europea, Algeria, Stati Uniti e diversi paesi dell’Africa subsahariana tra cui Senegal, Mauritania e Gambia, per citarne alcuni. La rotta venne attraversata per la prima volta nel 1994 da due migranti provenienti dal Sahara occidentale ma viene ricordata ancora oggi, negli ambienti competenti in materia di migrazione, per la grande crisi umanitaria dei “cayucos” –  le piccole imbarcazioni dei pescatori simili a canoe – a bordo delle quali, tra il 2005 e il 2006, circa 36.000 migranti provenienti dall’Africa, nello specifico dal Senegal e dalla Mauritania, cercarono di raggiungere le isole Canarie.

Le ragioni di ieri rispetto a tale flusso migratorio sono quelle di oggi, almeno in parte.

In quella circostanza le politiche nazionali, fortemente repressive rispetto al fenomeno migratorio – portate avanti all’inizio del 2000 tramite il Sive – ossia il Servizio Integrale di Vigilanza Esterna dell’esecutivo spagnolo dotato di radar e di strumenti tecnologici avanzati per l’identificazione dei migranti – vennero dispiegate soprattutto sulla rotta del Mediterraneo occidentale che ha ancora oggi come tappe di transizione/destinazione le enclavi spagnole di Ceuta e Melilla distanti rispettivamente 182 e 270 chilometri da Malaga, al confine con il Marocco. Esse sono le uniche frontiere terrestri dell’UE in Africa. Tra il 1995 e il 2005 di fatti si iniziò la progettazione delle prime due barriere terrestri, alte circa tre metri ciascuna a protezione delle due enclavi, finalizzate all’impedimento di ogni spinta migratoria indirizzata verso le medesime.

I primi muri

Tali barriere vennero successivamente innalzate fino a 7 metri grazie ai finanziamenti dell’Europa, sostituendo le lame alla sommità, con un’ulteriore barriera di cemento. Vale la pena sottolineare che i due muri furono i primi a essere eretti dopo la caduta del muro di Berlino, dimostrando come la storia spesso conceda spazi di regressione più avanzati di quelli di evoluzione che tra l’altro sembrano non avere argine, dato che nel 2020 si è giunti al terzo innalzamento dei muri fino a 10 metri ossia alla creazione della recinzione più alta al mondo che circonda Ceuta per 8 km e Melilla per 12 km ipocritamente annunciata come un mezzo per eliminare l’odioso filo spinato.

Peccato che al suo posto è stato previsto un cilindro di acciaio che rende impossibile la presa da parte dei migranti, il tutto costato soltanto 17 milioni di euro!

Proprio in tale ultimo dato è da rinvenirsi, come si accennava, una delle cause della cosiddetta riapertura della rotta atlantica: la decisione dei migranti di attraversare un’area marittima molto più pericolosa ossia quella dell’Oceano Atlantico – sottoposta a numerose quanto imponenti correnti – in luogo del Mar Mediterraneo, non è certo spontanea. Questa infatti è stata imposta dalla chiusura pericolosa talvolta mortifera, ostinata e triplicemente rinnovata, con l’innalzamento dei muri da gli anni Novanta del Novecento al 2020, in prossimità del percorso più sicuro al confine con il Marocco nel quale le enclavi di Ceuta e Melilla sarebbero più che luoghi di destinazione dei migranti – pur essendo territorio spagnolo a tutti gli effetti – meri punti di transito per accedere alla penisola iberica, mediante l’attraversamento dello stretto di Gibilterra.

Va registrato poi il fenomeno delle “porteadoras de Melilla” (le donne-mulo), che camminano per giorni e aspettano in fila con grosse merci caricate sulle spalle senza potersi sedere ne accedere ai servizi igienici e vengono fatte passare a Ceuta e Melilla in ragione delle merci che interessano alla Spagna

Patti scellerati

Da menzionare inoltre è anche la repressione attuata nella rotta denominata “El Corredor”, corridoio del Mar Mediterraneo tra l’Algeria occidentale e la penisola iberica, percorso prevalentemente da algerini nel quale si registra una attività di criminalizzazione del fenomeno migratorio e di intercettazione da parte delle autorità algerine. Non è solo questo tuttavia ad aver lasciato ai migranti come ultima sponda tra le rotte marittime quella più ad ovest per il raggiungimento dei confini europei ma anche la chiusura sancita nel 2016 della rotta dell’Egeo e soprattutto quella del Mediterraneo centrale bloccata dall’accordo Italia-Libia del 2017.

Anche la rotta del Mediterraneo occidentale tuttavia, in una logica di pericolosa emulazione, registra un’importante recente chiusura, come se già non fosse stata sufficientemente blindata – determinata da un ulteriore accordo, uno dei tanti presumibilmente siglato a dicembre del 2020 tra Marocco e Spagna, in base al quale la monarchia magrebina di Mohamed VI si sarebbe impegnata a riammettere dalla Spagna circa 80 persone a settimana tramite l’Air Maroc Royal. A tale accordo vanno aggiunti quelli siglati con la Mauritania disposta ad accogliere i migranti rimpatriati dalla Spagna non solo mauritani ma cittadini di qualsiasi altro paese dell’Africa subsahariana e occidentale. Infine, si registrano accordi bilaterali tra Spagna e Senegal. Come è facilmente intuibile anche in questo caso le riammissioni vengono implicitamente legittimate sulla base della nozione di paese terzo sicuro assegnata ai paesi africani come lo stesso Marocco.

Tale importante e “prestigioso” titolo di riconoscimento assegnato alla Libia per il Mediterraneo centrale e alla Turchia per l’Egeo è solo uno stratagemma politico per non entrare in contrasto con la propria coscienza almeno davanti all’opinione pubblica.

Un po’ di numeri

Si arriva così all’impressionante numero di 23.000 persone che tentano di raggiungere le isole Canarie nel 2020 rispetto ai 2557 arrivi registrati nel 2019. Per il 2021 i dati sono in ulteriore peggioramento: nei primi 6 mesi sono circa 7000 le persone che hanno già tentato di raggiungere le Canarie e 50 i morti ufficiali, con un gran numero di dispersi senza nome ottenibile soltanto grazie alle testimonianze dei familiari dei naufraghi. Occorre inoltre tener presente che, secondo i dati relativi al 2020 e al 2021, la rotta presenta specifiche caratteristiche: è percorsa da uomini, adulti o minori stranieri non accompagnati principalmente provenienti da Marocco, Mauritania, Senegal, Gambia.

Dai molteplici punti di partenza si riesce dunque a intuire come il viaggio lungo l’oceano Atlantico possa durare 24 ore come 10 giorni.

Oltre tuttavia alla blindatura delle rotte del Mediterraneo occidentale e del Mediterraneo centrale, in ragione della quale i migranti pur di non soffocare nelle sabbie del deserto del Sahara in Niger o per non finire nei lager libici, sono stati costretti a deviare verso le coste del Senegal o della Mauritania, nelle quali è comunque quasi sempre presente Frontex accanto alla Guardia Civil, vi è un’ulteriore concausa della riapertura della rotta atlantica ossia quella della pandemia. Con la diffusione del virus da Covid-19 è stata adottata da quasi ogni paese la chiusura delle frontiere terrestri, marittime e aeroportuali per cui i migranti si sono diretti dove minori erano i controlli ossia verso le coste dei paesi dell’Africa occidentale dai quali con delle imbarcazioni di fortuna hanno cercato di raggiungere le isole Canarie. A ciò deve essere aggiunto l’effetto collaterale della crisi economica determinata dalla pandemia – in ragione delle misure di lockdown e di distanziamento sociale – che ha messo ulteriormente in ginocchio paesi africani già a basso reddito e caratterizzati da una forte instabilità politica che hanno subito anche il forte crollo delle rimesse provenienti dall’estero. Infine, non si può ignorare l’accordo sulla pesca tra Senegal e Unione europea in vigore dal 1979 e costantemente rinnovato che ha tolto ancor di più lo scorso anno un mezzo di sussistenza essenziale, quale quello del mercato ittico, al paese già in una drammatica situazione di indigenza economica. Alla depredazione delle risorse derivanti dalla pesca nelle acque e dei fondali senegalesi si ricorda anche la partecipazione della Cina.

Punto d’arrivo: il molo di Arguineguìn

A partire da agosto fino a novembre del 2020, la situazione degli sbarchi nelle isole Canarie diventa esponenziale: nello specifico nel molo di Arguineguìn, nell’Isola di Gran Canaria, nell’estate del 2020 sono giunti in un campo allestito dalla Croce Rossa, destinato ad accogliere 400 persone, 2600 migranti senza l’applicazione di alcuna forma di distanziamento sociale o di controllo dell’eventuale trasmissibilità del virus mediante tamponi.

Successivamente i migranti sono stati trasferiti in strutture alberghiere preesistenti e ivi trattenuti per oltre 72 ore contrariamente a qualsiasi normativa nazionale, europea e internazionale, in merito alla libera circolazione delle persone.

La risposta dell’esecutivo spagnolo in conseguenza di tale scenario è stata, oltre come detto alla sigla di un accordo a fine dicembre dello scorso anno con il Marocco, il dispiegamento del Plan Canarias il terzo piano di accoglienza applicato nel contesto della migrazione attraverso l’Atlantico da parte della Spagna. Ecco che in tale sistema organizzato, ritroviamo il medesimo approccio riscontrato nella rotta dell’Egeo con un confinamento illegittimo dei migranti nelle isole e con la conseguente impossibilità di giungere alla piattaforma continentale, in quel caso quella ellenica in questo quella iberica.

Hotspot = centri detentivi

Come se ciò non bastasse si sono messe in atto vere e proprie politiche discriminatorie nella zona di transito aeroportuale dell’isola di Gran Canaria con impedimento a raggiungere la Spagna continentale per coloro che non fossero turisti o comunque dotati di un passaporto comunitario. Ciò sarebbe avvenuto in conseguenza di un’istruzione da parte del ministero degli Interni spagnolo che ha stabilito che nessuna persona migrante, anche dotata di passaporto, presente nell’isola potesse proseguire il proprio viaggio liberamente verso altre città spagnole. Con il Plan Canarias del 2020 dunque si conferma la politica sistemica dell’Unione e dei paesi che ne fanno parte della creazione di grandi hotspot nelle isole europee che, per modalità assomigliano a veri e propri centri detentivi, schermati dietro la dizione di “Centri temporanei di accoglienza” e strategicamente accompagnati all’intenzione, semplicemente dichiarata e mai attuata, di trasformarli in “Centri di integrazione”. Tali centri – in spagnolo detti Cate – previsti dal Plan Canarias, sono come al solito sottoposti a un costante controllo poliziesco, situati in luoghi di difficile accesso, con limitazione della libertà di movimento e dei diritti di assistenza legale e sanitaria, in ambienti gravemente insalubri come ha testimoniato Human Rights Watch in un recente rapporto. I centri a Gran Canaria quasi tutti ricavati da ex strutture carcerarie o da basi militari e riconvertiti in centri di accoglienza sono: il “Canaria 50”, il “Collegio Leon”, il Cate di “Barranco Seco” e quello di “Bankia” ricavato da un ex poligono. Per quanto riguarda Tenerife invece i Cate sono quello di “Las Raíces” e “Las Canteras” mentre a Fuerteventura si registra la presenza di un solo Cate quello di “El Matorral”.

Al proposito una testimonianza di Mirca Leccese, attivista di Un ponte per Moria, in questo novembre 2021 complice proprio a Tenerife delle persone “custodite” nei campi delle Canarie:

“Lo snodo di Tenerife sulla rotta atlantica”.

Soccorso in mare militarizzato

A peggiorare ulteriormente la situazione in tale rotta è il mutamento del sistema di salvataggio in mare nel 2018, anno in cui con l’istituzione del comando unico in Spagna sì è passati a una militarizzazione del soccorso in mare. Infatti, prima del 2018 l’attività di soccorso marino veniva ordinata da un pubblico impiegato o da un vice delegato del governo ossia da un civile, mentre con l’istituzione del comando unico al vertice delle attività di salvataggio vi è un organismo che dipende dalla Guardia Civil che è un corpo militarizzato dipendente a sua volta dal ministero degli Interni che coordina tutte le operazioni di soccorso in mare. Tale comando unico pur includendo al di sotto, come con il comando civile – secondo un ordine gerarchico il capitano di marina, una torre di controllo e l’imbarcazione di salvataggio – non prevede più la localizzazione fisica del barcone sul quale transitano i migranti e quindi, l’attività di salvataggio non parte secondo gli stessi tempi di allora.

Attualmente infatti, occorrono circa quattro ore per raggiungere i migranti in mare quando prima invece si riusciva a raggiungere i naufraghi in 30/40 minuti: è agevole intuire come il tempo abbia un ruolo determinante in tale attività rappresentando la maggiore rapidità dei soccorsi una maggiore probabilità che delle vite vengano salvate.

Occorre dunque ora analizzare alcuni aspetti geopolitici alla base della dura repressione della rotta del Mediterraneo occidentale che, come detto, impone ai migranti di optare per la mortifera rotta atlantica. il Marocco infatti viene comunemente definito il gendarme di Europa per l’impedimento imposto ai migranti dell’Africa occidentale e subsahariana ad accedere al territorio delle enclavi di Ceuta e Melilla ma non possiamo ignorare l’evento eccezionale avvenuto a Ceuta nel maggio scorso, quando circa 8000 migranti sono stati fatti passare nel territorio spagnolo dell’enclave senza alcuna forma di controllo da parte delle forze di polizia marocchina.

Il dossier del Sahara occidentale

Per capire le ragioni di tale insolito approccio della monarchia è necessario far riferimento al dossier del Sahara occidentale: su tale territorio dopo il cessate il fuoco del 1991 il Marocco ha sempre rivendicato la propria autorità nazionale, mentre il Fronte Polisario che invece rivendica con la Rasd l’indipendenza della Repubblica araba democratica dei Sahrawi, appoggiata dall’Algeria e sostenuta dalle risoluzioni delle Nazioni Unite si oppone a tale posizione di forza da parte del Marocco.

Le terre del Sahara occidentale interessano al Marocco perché il territorio è ricco di fosfati allo stesso tempo per l’Algeria l’alleanza con il Fronte Polisario garantisce quell’eventuale sbocco sull’oceano Atlantico che geograficamente, diversamente dal Marocco, non detiene.

Quando dunque la monarchia di Mohamed VI è venuta a conoscenza che la Spagna ad aprile del 2021, su pressione dell’Algeria, suo principale fornitore di gas, ha accolto il leader del Fronte Polisario Ghali “per ragioni umanitarie”, in quanto malato di cancro e contagiato dal Covid-19 in una forma grave, il Marocco per ritorsione ha deciso di aprire il “rubinetto dei migranti”.  Va specificato in ogni caso che la pretesa di un riconoscimento da parte della Spagna e dell’Europa tutta della propria sovranità da parte del Marocco sui territori del Sahara occidentale, giunge all’indomani del riconoscimento concesso in tal senso da parte dell’amministrazione Trump, in esito alla firma degli Accordi di Abramo nel 2020, con i quali Rabat ha sancito il proprio sostegno allo Stato di Israele. La questione migratoria è stata rapidamente risolta come al solito con un accordo tra Marocco e Spagna nel 2021 con il quale si è stabilito il rimpatrio di circa 40 migranti stranieri ogni due ore al giorno, per cui nei giorni successivi allo sbarco degli 8.000 migranti, 5.000 già erano stati rimpatri in Marocco.

Madrid. Manifestazioni in favore del popolo saharawi (foto Valentin Sama-Rojo / Shutterstock)

Marocco: il ricatto sulla pelle dei migranti

Tuttavia, anche nel 2018 il Marocco – che in realtà vorrebbe la sovranità sulle due enclavi o comunque una cogestione delle stesse con la Spagna – ha fatto pressione strumentalizzando i migranti facendo salire il numero degli sbarchi nella penisola iberica a circa 56.000 mediante proprio il passaggio nelle due enclavi. In quel caso infatti la Monarchia marocchina consapevole dell’accordo UE-Turchia e del pagamento a favore di quest’ultima di 3 miliardi di euro per la gestione dei flussi migratori del levante e dei circa 130 milioni elargiti alla Libia nell’anno successivo da parte dell’UE (per la gestione di quelli del Mediterraneo centrale) ha preteso, alla stregua di un ricatto, un ingente finanziamento dall’Europa che non ha tardato ad arrivare:

il Marocco si è aggiudicato così la cifra di 140 milioni di euro nel 2018 per il confinamento e la segregazione dei migranti perfino di quelli con cittadinanza marocchina.

È facile dunque intuire come il Marocco in Africa rispetto alla questione migratoria si stia atteggiando come la Turchia in Medio Oriente, facendo leva però sull’appoggio degli Stati Uniti e sugli ottimi rapporti di partenariato con quasi tutti i paesi dell’Africa subsahriana, nonché del ruolo fondamentale che detiene, data la propria posizione geopolitica come potenziale freno degli intenti terroristici provenienti dalla parte sud del continente africano. Tutto ciò fa emergere come l’area del Maghreb sia tutt’altro che unita, se si fa riferimento al rapporto di forte opposizione che intercorre tra Marocco e Algeria, dovuto non solo al dossier del Sahara occidentale ma anche al ruolo delle due potenze rispetto al Mediterraneo. Si ricorda in tal senso che, con la recente rivendicazione unilaterale della propria Zee nel Mediterraneo, l’Algeria è arrivata a sfiorare anche le coste marocchine. Vale la pena inoltre ricordare che lo scorso 3 novembre vi è stato un presunto assalto delle autorità marocchine a mezzi di trasporto algerini che transitavano in Mauritania dopo che, qualche mese prima, l’Algeria aveva dichiarato ufficialmente e unilateralmente chiusi i rapporti diplomatici con il Marocco.

Il rapporto Algeria-Libia

Ciò è particolarmente rilevante rispetto al conflitto libico – momentaneamente sospeso – e dagli effetti che esso propaga sulla questione migratoria, con i lager e le morti nel Mediterraneo centrale. Vale la pena ricordare come l’Algeria infatti si sia sempre posta, rispetto al conflitto libico, come paese non allineato astenendosi innanzitutto dall’appoggio all’intervento Nato che ha portato alla caduta del regime di Gheddafi. D’altra parte l’Algeria che confina con la Libia rappresenta la prima potenza militare africana, armata dalla Russia che invece in Libia ha un ruolo rilevante nella regione della Cirenaica in cui da anni – come già analizzato in precedenza – foraggia la presa di potere sull’intero territorio libico da parte di Haftar. Analizzeremo come tutto ciò abbia un effetto sull’(in)stabilità del governo ad interim libico e sulla questione migratoria addentrandoci nell’ultima delle rotte marittime che coinvolgono il territorio dell’Unione.

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