sikh Archivi - OGzero https://ogzero.org/tag/sikh/ geopolitica etc Thu, 09 Sep 2021 22:06:20 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.4.6 Khyber Pass: orizzonti perduti, orizzonti ritrovati https://ogzero.org/khyber-pass-mitico-luogo-nel-racconto-di-eric-salerno/ Sun, 05 Sep 2021 17:10:24 +0000 https://ogzero.org/?p=4834 Per concessione dell’autore e dell’Atlante delle Guerre pubblichiamo un estratto da “Orizzonti perduti, orizzonti ritrovati”, appena pubblicato da il Saggiatore. Si racconta del mitico Khyber Pass e di com’era un giovane Pakistan che cercava il suo posto nel mondo. Non com’è oggi dove, sulla frontiera tra i due paesi, si accalcano gli afgani che vogliono […]

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Per concessione dell’autore e dell’Atlante delle Guerre pubblichiamo un estratto da “Orizzonti perduti, orizzonti ritrovati”, appena pubblicato da il Saggiatore. Si racconta del mitico Khyber Pass e di com’era un giovane Pakistan che cercava il suo posto nel mondo. Non com’è oggi dove, sulla frontiera tra i due paesi, si accalcano gli afgani che vogliono sfuggire al regime talebano e alla miseria del loro paese dopo oltre 40 anni di guerra. Abbiamo pensato di accostare a questo racconto, quello – anch’esso di Eric Salerno – scritto nel dicembre 1960, che descrive le tribù che abitavano il Passo Khyber. Spunti di riflessione per capire la composizione tribale odierna e gli scontri tra comunità in quelle terre illustrati da immagini scattate dall’autore.


Passo Khyber. Abito scuro, camicia bianca e cravatta: io, invitato sulla rotta che sarebbe stata resa famosa dagli hippy europei e americani e che la Pakistan International Airlines, all’epoca una delle più importanti compagnie aeree dell’Oriente, forse del mondo, apriva al turismo d’élite. Siamo nel 1960, tredici anni dopo la Partizione, quella terribile divisione della vecchia India in due stati che costò la vita a un milione di persone, stravolse quella di centinaia di milioni e lasciò una ferita che oggi sembra più aperta di allora. Fu una delle mie prime esperienze all’estero da viaggiatore e giornalista insieme.

Sono nato nel 1939. La data di nascita del Pakistan è il 14 agosto 1947. Negli anni Sessanta il paese, giovane e antico allo stesso tempo, vide uno dei suoi momenti migliori. Io ero giornalista da poco, ma avevo un patrimonio invidiabile da sfruttare: oltre a me, solo un altro redattore di “Paese Sera” parlava l’inglese, ma era molto più grande e i suoi impegni mi regalarono ampio spazio di manovra. La lingua dell’Impero britannico in fase decadente e dei vincitori della Seconda guerra mondiale era ancora relegata in secondo ordine dagli italiani, dopo quella dei cugini odiati d’oltralpe. Eppure stava diventando sempre più essenziale nel mondo che iniziava ad aprirsi anche grazie allo sviluppo dell’aviazione civile, di cui avevo cominciato a occuparmi sulle pagine del battagliero quotidiano romano di sinistra, vera scuola di giornalismo.

Da Roma, il gruppo di reporter italiani, di cui ero il più giovane, volò fino a Londra per imbarcarsi sul volo inaugurale del primo 707 con i colori della Pia, un quadrigetto della Boeing, sulla rotta di Karachi, allora – ma ancora per poco – la capitale del Pakistan. Una prima classe come non ne vidi più. Un servizio impeccabile: la mia prima aragosta, champagne e tutto il resto. Tappa sotto la neve a Francoforte, un’altra a Zurigo. Poi la traversata del Mediterraneo e il mio primo approdo a Beirut, la Svizzera del Medio Oriente si diceva allora, dove ci aspettava una splendida cena levantina con tanto di danza del ventre in un ristorante dell’aeroporto prima di riprendere il volo per Teheran e, tempo di fare rifornimento, di assistere a un altro spettacolo di danza in un locale non distante dallo scalo. Arrivammo a Karachi all’alba, accolti da dirigenti della Pia, da una delegazione dell’ambasciata italiana e, scesi dal pulmino davanti allo storico hotel Metropole, da stormi di corvi neri.

Il verde, quello dell’islam, era il colore ufficiale della Pia e dello stato nato apposta per i musulmani, ma allora Karachi era una metropoli multiculturale, multietnica e multireligiosa aperta al mondo – più all’Occidente che all’Oriente – che usciva dalla Grande guerra numero due e dalla fine ufficiale degli imperi coloniali. Le divise delle hostess erano state disegnate da Pierre Cardin, icona della moda parigina, l’unico a fare testo. Turisti americani e britannici in costume prendevano il sole sulla spiaggia di fronte al mar Arabico. I locali notturni abbondavano. Le orchestre jazz imperversavano. L’alcol era tabù solo per chi non voleva bere. L’hashish, con discrezione, era accessibile a hippy e finti figli dei fiori di passaggio. Droghe più pesanti non mancavano. I camerieri in livrea del Metropole, luogo di ritrovo dei giornalisti stranieri, di una certa borghesia locale, dei turisti – avanguardia del boom degli anni a venire –, erano impeccabili nel loro servizio. E nel prendersi gioco dei clienti, ai quali propinavano prelibatezze della cucina locale che nemmeno un fachiro mangiatore di fuoco avrebbe mandato giù senza una smorfia di dolore. «Con un sorso di scotch si smorza tutto» e lo offrivano sorridendo….
….
Non ci sono turisti oggi a Peshawar e le botteghe della città di confine vendono soprattutto fucili, mitragliatrici, pistole, cartucce di ogni genere, cartucciere. Roba nuova di zecca e armi avanzate da quando, non molti anni fa, Usa e Urss si fronteggiavano indirettamente per il controllo dell’Afghanistan, uno dei paesi strategicamente più importanti della regione. Sarebbe riduttivo parlare solo di armi sui banchi dei negozi. Da quando le truppe di Mosca lasciarono il posto a quelle di Washington, il Pakistan (potenza nucleare come l’India) è direttamente o indirettamente coinvolto nei grandi traffici di stupefacenti, soprattutto oppio e i suoi derivati, partiti dalle ricche coltivazioni afgane. Ci vorrebbero livelli di turismo oggi nemmeno pensabili per sostituire e distribuire l’elevato reddito pro capite prodotto dalla droga.

E oggi – mi riferisco sempre ai gloriosi tempi pre Covid – non ci sono turisti nemmeno a Lahore, se non pochi gruppi isolati attirati da un paio di intraprendenti e molto sospetti travel blogger americani e inglesi. Una di loro è stata accusata di lavorare non soltanto per gli addetti al turismo locali ma addirittura per i servizi segreti, considerati molto vicini alle numerose organizzazioni terroristiche che operano nella zona. «Nessun pericolo» sostiene il regime (uno dei meno democratici di quella regione), la blogger «non fa che difendere gli interessi del popolo». Affermazioni che hanno provocato la dura reazione di organizzazioni antigovernative che denunciano come i diritti umani in Pakistan siano un’opzione, il terrorismo e il traffico di stupefacenti marcino mano nella mano, le donne vengano trattate come nel Medioevo e i dissidenti finiscano quasi sempre in galera se non sottoterra. Nonostante le campagne dei blogger entusiasti che riempiono il web di parole e filmati, girati anche in alcune delle zone più pericolose del paese, turisti e viaggiatori stranieri restano pochi. Passeggiare, come ebbi la possibilità di fare nei viali degli straordinari giardini Shalimar di Lahore, eredità del Gran Moghul Shah Jahan che li fece costruire nel 1641, è raro e spesso pericoloso. I giardini furono inclusi dall’Unesco tra i patrimoni dell’umanità nel 1981.

Hanno la forma di un parallelogramma oblungo, circondato da un alto muro a mattoni. Il giardino misura 658 metri sulla direttrice nord‐sud e 258 sulla est‐ovest. Ai giornalisti italiani invitati nel 1960 per raccontare le bellezze del paese e stimolare il turismo non fu difficile descrivere, nei loro articoli, la meravigliosa simmetria del vasto parco che si sviluppa su tre terrazze, sopraelevate di 4‐5 metri una dall’altra. Appuntai il loro nome in lingua urdu: Farah Baksh (“apportatrice di piacere”), Faiz Baksh (“apportatrice di bontà”), Hayat Baksh (“apportatrice di vita”).
Mi dicono che le guide turistiche più anziane non trovano difficile spiegare per quale motivo e come si è potuti passare dal boom degli anni Sessanta alla tragica situazione di oggi – gelosie tribali e intricati giochi politici –, ma preferiscono parlare dei tesori di questa città. La moschea imperiale, che coniuga passione, bellezza e gloria dei moghul, come altri luoghi di culto in giro per il mondo, fu sconsacrata più volte nel corso dei secoli e usata come presidio militare dagli invasori sikh e dai gentiluomini di Londra in divisa. I turisti che, come me, la visitarono negli anni Sessanta potevano apprezzarne l’architettura ma poco le sue opere d’arte, che soltanto di recente sono state restaurate e rimesse al loro posto, o sostituite.

La Pia era considerata una delle compagnie aeree principali del mondo e l’aeroporto di Karachi, la “porta all’Asia”. Titolo e funzione che avrebbe mantenuto durante tutto il boom economico e la rapida industrializzazione che accompagnarono la prima metà del regime militare di Ayub Khan, feldmaresciallo arrivato al potere con un golpe e votato a schiacciare corruzione e crimine nella vecchia capitale mentre preparava le basi per costruire quella nuova, Islamabad. Le spiagge di Karachi, scrisse all’epoca il “Washington Post” che raccontava la vita dei turisti stranieri, «sono le più pulite dell’Asia». E non soltanto le spiagge. Le vie del boom, con una nuova borsa, banche, società di assicurazioni, giornali, venivano «lavate con l’acqua tutti i giorni». Il sogno e il turismo sarebbero durati poco. Già nel 1965, pochi anni dopo la mia visita, le contraddizioni e i contrasti dovuti all’industrializzazione cominciarono a provocare i primi scontri tra la maggioranza muhajir di Karachi e i migranti pashtun, arrivati dall’Afghanistan in cerca di lavoro. La capitale era in difficoltà, ma lo era anche il resto del paese, che non riusciva a trovare pace nella sua faticosa ricerca di un’identità, sempre più islamica, sempre meno tollerante.

Ormai è chiaro, e quasi tutti gli storici e chi osserva le realtà del mondo di oggi concordano: i vecchi imperi avevano una tenuta che gli stati usciti dalla loro frammentazione non hanno ereditato. Negli anni Settanta i movimenti islamisti divennero più forti. Le attrazioni per i viaggiatori stranieri, meno appetibili. La minoranza cristiana, fulcro di una parte importante della vita notturna di Karachi, cominciò ad abbandonare il paese. Il declino lento ma inesorabile toccò anche alla Pia e l’aeroporto dell’ex capitale fu costretto a cedere l’etichetta di «porta dell’Asia» a Dubai. Nel 2002, agli scontri tribali e ai contrasti etnici si aggiunse una nuova forma di terrorismo. Decine di passanti furono uccisi da alcuni kamikaze che si fecero saltare in aria accanto all’albergo Marriott e all’ambasciata Usa.

Articolo di Eric Salerno su “Paese Sera” del 12-13 dicembre 1960.

Qualche mese prima, il giornalista del “Wall Street Journal” Daniel Pearl era stato rapito dopo essere uscito dal Village restaurant di fronte a quel famoso ma ormai decaduto albergo Metropole, sarebbe stato decapitato nel giro di pochi giorni. Nel 2007 gli dedicarono un film, Un cuore grande, e per girare la scena del rapimento fu richiesto un imponente cordone di sicurezza della polizia di Karachi. Erano stati i fondamentalisti islamici a uccidere il mio collega, non si voleva rischiare un’altra tragedia. Da allora pochi osano parlare di turismo occidentale da quelle parti.

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Occhi sull’India: agricoltori uniti contro le riforme agricole https://ogzero.org/occhi-sull-india-agricoltori-uniti-contro-le-riforme-agricole/ Tue, 09 Feb 2021 00:51:09 +0000 http://ogzero.org/?p=2396 L’inverno è una stagione produttiva Per gli agricoltori in India, è la stagione del rabi, in cui vengono coltivati alimenti essenziali come grano, orzo, lenticchie, piselli e patate, tra gli altri. Poiché le colture di rabi hanno bisogno di un clima caldo per germogliare e di un clima freddo per crescere, vengono piantate durante la […]

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L’inverno è una stagione produttiva

Per gli agricoltori in India, è la stagione del rabi, in cui vengono coltivati alimenti essenziali come grano, orzo, lenticchie, piselli e patate, tra gli altri. Poiché le colture di rabi hanno bisogno di un clima caldo per germogliare e di un clima freddo per crescere, vengono piantate durante la stagione dei monsoni e raccolte in primavera. Questo inverno, tuttavia, gli agricoltori di tutta l’India sono stati costretti a lasciare i loro campi e le risaie per dedicarsi a un diverso tipo di lavoro. Sono passati più di due mesi da quando si sono accampati ai confini di Delhi in una dharna indefinita. Sebbene dharna possa essere semplicemente tradotto con “sit-in”, in hindi il termine non implica solo l’occupazione fisica dello spazio ma anche un esercizio di perseveranza: fissare la propria mente su un obiettivo o risultato chiaro. In termini di applicazione pratica, una dharna di solito si svolge alla porta di un delinquente o di un debitore ed è uno strumento mediante il quale le componenti più vulnerabili della società possono costringere un soggetto più potente a rispondere alle loro richieste. Per esempio, una dharna potrebbe essere messa in scena al di fuori dell’ufficio di un esattore delle tasse, del capo di una azienda o della casa di un proprietario. Nel caso della protesta dei contadini, il colpevole sembra essere il governo centrale che, mentre presiedeva gli uffici parlamentari di Delhi, ha approvato una serie di progetti di legge che ribaltano completamente il modo in cui si regola l’agricoltura in India.

Il punto cruciale delle 3 proposte di legge può essere riassunto come segue:
  • La creazione di nuovi spazi commerciali che aggirano le restrizioni esistenti sulla vendita e l’acquisto di prodotti agricoli.
  • L’abilitazione dell’agricoltura a contratto con obblighi minimi (a differenza dell’attuale accordo, gli agricoltori saranno in grado di commerciare in diversi stati).
  • La rimozione delle restrizioni sulle scorte di merci essenziali (il che significa che i grandi acquirenti possono trarre profitto dall’accumulazione).

Gli agricoltori devono essere consapevoli dei molteplici fattori che influenzano la crescita, la resa e il commercio dei raccolti. Ciò include la conoscenza della maturità del raccolto, delle variazioni del clima e della qualità del suolo, nonché il prezzo di fertilizzanti e benzina, e anche fattori logistici come la disponibilità di strutture di trasporto e stoccaggio. In questo modo, l’agricoltura è un’attività che comporta molti rischi e variabili che vanno oltre il solo lavoro degli agricoltori. Capire questo aiuta a chiarire meglio perché le nuove riforme proposte dal governo indiano stanno subendo una così feroce resistenza da parte di coloro che hanno passato tutta la vita a lavorare la terra. Nonostante la retorica neoliberale usata per persuadere gli agricoltori – per esempio che le nuove riforme garantiscano loro una maggiore “libertà” di vendere a qualunque prezzo vogliano e farla finita con l’“uomo di mezzo”, l’intermediario – gli agricoltori temono che l’apertura di uno spazio di mercato parallelo, come propone il primo disegno di legge, porterà inevitabilmente al crollo del sistema mandi attualmente in vigore.

Il sistema mandi: aste regolamentate e consolidate

In India, i mandi sono spazi d’asta regolamentati in cui i prodotti agricoli vengono acquistati e venduti in base a una serie di accordi specifici dello stato. In questi spazi, i commercianti all’ingrosso e al dettaglio non possono acquistare direttamente dagli agricoltori e le transazioni vengono invece effettuate tramite commercianti autorizzati che fungono da salvaguardia contro lo sfruttamento dei prezzi. Il sistema mandi dovrebbe anche garantire agli agricoltori un prezzo minimo di sostegno (Msp) per determinate colture, ovvero un prezzo al quale lo stato deve acquistare i loro prodotti. Ciò garantisce che il lavoro del raccolto non vada sprecato, sebbene gli agricoltori dicano che spesso finiscono comunque per ricevere un prezzo al di sotto del minimo. Anche se da tempo gli agricoltori chiedono riforme nel sistema, sono convinti che la soluzione non sia abolirlo. In stati come il Bihar, dove i mandi sono già stati sciolti con il pretesto di promesse simili, ciò ha solo portato a una maggiore volatilità dei prezzi dei cereali e alla monopolizzazione dei mercati da parte delle grandi aziende agricole. Gli agricoltori del Bihar, che sono tra i più poveri del paese, riferiscono anche che le loro scorte possono rimanere inutilizzate per mesi senza ricevere alcun pagamento e che sono spesso costretti a vendere a prezzi poco convenienti per liberarsene.

Non c’è libertà a meno che non ci venga garantito un prezzo minimo o garantita la possibilità di far sentire la nostra voce all’alta corte o alla Corte Suprema. Ora hanno detto (secondo le nuove proposte di legge) che puoi solo andare all’Sdm (tribunale inferiore) e, come sappiamo, l’Sdm appartiene a chi ha i soldi.

 

“Consapevolezza e determinazione contadina: resistere all’annientamento identitario di Modi”.
La riforma si abbatte sui piccoli agricoltori…

L’elenco delle complicazioni che circondano le leggi è ampio. In India, gli agricoltori piccoli e marginali (che possiedono meno di due ettari di terra) costituiscono l’86,2% di tutti gli agricoltori, ma possiedono solo il 47,3% della superficie coltivata. Inutile dire che questi agricoltori sono destinati a essere colpiti in modo peggiore rispetto ai proprietari terrieri più grandi e probabilmente, a lungo termine, saranno costretti a vendere la loro terra. Tuttavia, anche queste statistiche trascurano una quota fondamentale della forza lavoro agricola: le donne. A causa del fatto che l’agricoltura è vista prevalentemente come una professione “maschile”, le donne sono troppo spesso escluse dalla narrazione sull’agricoltura indiana. Questo nonostante il fatto che le donne rappresentino la maggioranza dei lavoratori agricoli complessivi (70%) e tendano anche a lavorare più ore rispetto agli uomini, pur possedendo solo il 12,8% dei terreni agricoli. Le donne contadine, a cui raramente viene concesso il potere decisionale in famiglia – per non parlare del potere di negoziare con le grandi compagnie – saranno senza dubbio quelle che soffriranno di più a causa dei nuovi accordi agricoli dell’India. Oltre a dover affrontare l’espropriazione economica (con scarse possibilità di occupazioni alternative), dovranno anche sostenere il peso di gestire la carenza di cibo in casa, che è quasi inevitabile se alle imprese viene consentito di accumulare beni essenziali.

… e la mobilitazione parte dal Punjab

“Canto punjabi di protesta a Delhi”.

A differenza del lavoro agricolo e del suo collegamento ai cicli stagionali, il lavoro dei governi fascisti è più in sintonia con i cicli di crisi e opportunità. E quale migliore opportunità per approvare una serie di proposte di legge contro i poveri, contro le donne e contro gli agricoltori che nel bel mezzo di una crisi sanitaria globale? Tuttavia, nel rendersi conto di alcuni dei modi in cui gli agricoltori rischiano di soccombere, quelli dello stato del Punjab (il terzo più grande stato produttore di colture in India) sono stati tra i primi a mobilitarsi dopo che le leggi sono state promosse in parlamento lo scorso settembre. Avendo avuto luogo senza alcuna consultazione pubblica o il coinvolgimento esplicito dei governi statali, molte persone hanno anche sottolineato che le leggi erano completamente incostituzionali. Tuttavia, dopo due mesi di proteste locali e nessuna risposta da parte del governo centrale, i contadini del Punjab hanno deciso di lanciare un appello per assaltare la capitale, portando le loro lamentele direttamente al parlamento. Con lo slogan #dillichallo (andiamo a Delhi), la chiamata è stata sostenuta dagli agricoltori del vicino stato di Haryana che si sono uniti a loro sulle autostrade. È solo dopo essere arrivati ai confini di Delhi che i contadini sono stati fermati dalla polizia pesantemente armata e dalle forze di azione rapida (Raf). Eppure qualcosa di incredibile era già avvenuto nel processo.

Trattori indiani

Blocco di Delhi per impedire una riforma che cancella la già immiserita agricoltura delle piccole aziende

Creare ostacoli nell’anno del Covid rinfocola una reazione collettiva

Dopo essersi lasciati andare all’arresto indiscriminato di studenti attivisti durante tutto l’anno, oltre a smantellare le leggi sul lavoro e le politiche di protezione ambientale, i conti con le aziende agricole era forse solo un altro obiettivo che il governo di Modi pensava di poter raggiungere all’ombra della pandemia. Dal punto di vista di quelli di noi impegnati nei sit-in della capitale, forse inizialmente sembrava anche così. Tuttavia, mentre gli agricoltori del Punjab si facevano strada verso di noi, siamo rimasti incollati ai nostri feed dei social media e alle possibilità politiche che si stavano aprendo davanti ai nostri occhi. Le autostrade dell’India sono state improvvisamente trasformate in un palcoscenico per eroici atti di disobbedienza, con video di persone che lanciavano transenne della polizia nel fiume e trattori che tiravano via lastre di cemento che proliferavano nello spazio digitale. Facendosi strada tra cannoni ad acqua e lanci di gas lacrimogeni, i contadini erano riusciti a capovolgere la situazione: non era l’indebolimento della marcia, ma la brutalità dello stato che, appunto, veniva smascherato. Penetrando attraverso la dissoluzione e la depressione politica che annebbiano i nostri cuori, tali scene ci hanno lasciato sbalorditi. Una battaglia era certamente iniziata, e mentre il governo era impegnato a scavare buche nella strada, ogni ostacolo che i contadini riuscivano a superare alimentava solo ulteriormente lo spirito collettivo.

All’inizio abbiamo sentito che Delhi è così lontana, cosa faremo una volta arrivati? Ma ogni trattore e camion ha riempito da 5 a 10.000 rupie di diesel per arrivare qui perché sappiamo che se non prendiamo una posizione ora, non saremo in grado di stare in piedi.

Una volta raggiunta Delhi, anche gli agricoltori di molti altri stati dell’India hanno cominciato ad affluire, insieme agli studenti, ai sindacati dei trasporti e agli alleati di diversi settori. Dormire dieci per un camion, al riparo di una stazione di servizio abbandonata, o in tende improvvisate tra pneumatici di trattori e carrelli, attualmente occupano cinque principali autostrade che portano in città. L’atmosfera è gioiosa, con cucina, giochi di carte, discorsi e kirtan dal vivo (canto devozionale) che si svolgono l’uno accanto all’altro. Secondo la pratica sikh, numerose cucine comunitarie (langar) sono state istituite in tutto il sito e chiunque e tutti i passanti sono incoraggiati a sedersi e mangiare. Con rifornimenti freschi in arrivo dai villaggi del Punjab e dell’Haryana ogni giorno, i contadini si vantano di avere abbastanza da sfamare se stessi e l’intera Delhi. Nei primi giorni della dharna, l’India ha anche assistito al più grande sciopero della storia mondiale, con oltre 250 milioni di lavoratori che si sono schierati a sostegno degli agricoltori. Sotto la bandiera di #bharatbandh (chiusura dell’India), si sono svolte marce in varie città del paese, con canti di kisaan majdoor ekta zindabad (lunga vita all’unità dei contadini e dei lavoratori) che hanno riempito le strade. «L’intero paese si è riunito. Se Modi non avesse fatto questa legge non avremmo saputo della situazione degli agricoltori in luoghi diversi. Non saremmo stati in grado di unirci … ora non puoi fare distinzioni anche tra di noi!».

Contadini indiani

Gli agricoltori indiani scesi a bloccare la capitale

Ambiente vs. neoliberismo

Tuttavia le attuali proteste dovrebbero essere viste come il punto di svolta all’interno di una lunga storia di disagio agrario, che è stato solo esacerbato da quando Modi è salito al potere nel 2014. Un’indicazione di ciò risiede nei tassi catastrofici di suicidio degli agricoltori in India, con oltre 20.000 agricoltori che hanno riferito di essersi tolti la vita tra il 2017 e il 2019: stress finanziario legato a prestiti predatori, alti oneri del debito e la pressione che ciò esercita sui rapporti personali sono stati identificati come tra le ragioni principali. Naturalmente ci sono anche fattori meno percettibili di cui tenere conto. Gli agricoltori in India, come nel resto del mondo, sono in prima linea nella crisi climatica e i cambiamenti nelle condizioni meteorologiche e delle precipitazioni hanno avuto effetti devastanti sui raccolti. Anche le politiche di pianificazione in India trascurano ampie aree rurali, dedicando invece risorse statali allo sviluppo di economie produttive e di servizi. Di conseguenza, i sindacati degli agricoltori si sono da tempo organizzati in tutto il paese, con azioni particolarmente intense in risposta alle successive politiche neoliberiste introdotte con Modi. Oltre alla mobilitazione sindacale, è necessario riconoscere che gran parte della forza dietro l’attuale agitazione proviene dagli agricoltori sikh della regione del Punjab, per i quali l’agricoltura è parte integrante dell’identità culturale. Dopo aver subito la divisione del Punjab (la loro patria originale) nel 1947, e un genocidio per mano dello stato indiano nel 1984, anche la comunità sikh è stata sistematicamente cacciata e detenuta per decenni come parte delle guerre segrete dell’India contro le sue “minacce alla sicurezza” percepite. Questa storia di lotta e il particolare rapporto con lo stato indiano da questa generato rafforza il movimento contro le tattiche di divisione dello stato. Per questa ragione, tra le diverse bandiere sindacali, si trova anche la Nishaan Sahib (una bandiera Sikh) che viene issata. Tra le varie fazioni di contadini, si trovano anche Nihang Sikh che si prendono cura dei loro cavalli e praticano le loro abilità con la spada. In qualità di esercito ufficiale della comunità sikh, si sono schierati in prima linea sulle barricate, direttamente di fronte alla polizia e alle forze della Raf.

Fanno volare i droni sul sito ogni giorno per guardarci e tenere d’occhio il movimento.

Ma vedi quel Baaj [falco] nel cielo? Appartiene al Nihang. Abbiamo la nostra sicurezza, vedi.

Nonostante i molteplici round di colloqui tra leader sindacali e funzionari governativi, la situazione rimane in una condizione di stallo politico. Gli agricoltori da un lato sono risoluti a non accettare niente di meno del ritiro completo delle fatture e hanno inoltre richiesto che l’Msp sia convertito in legge per tutte le colture e in tutti gli stati, poiché questo è l’unico modo per garantire la sua corretta attuazione. Il partito al potere, d’altra parte, è impegnato nelle sue campagne di propaganda, dipingendo gli agricoltori come separatisti militanti o come confusi sui termini delle fatture. Collaborando con la polizia, ha anche inviato assassini pagati (che sono stati catturati dai manifestanti) per eliminare i leader sindacali e molti altri recentemente, hanno usato scagnozzi assunti per lanciare pietre contro i manifestanti e abbattere le loro tende. Tuttavia, fino ad ora, a ogni attacco è stato risposto da un numero ancora maggiore di agricoltori arrivati sul posto. In un paese di oltre 1,3 miliardi di cui il 70 per cento dei mezzi di sussistenza sono legati all’agricoltura, i numeri sono uno dei maggiori punti di forza che gli agricoltori hanno.

Anche la mia figlia più piccola mi dice di non tornare a mani vuote: «Legate Modi e portatelo di nuovo qui (in Punjab) su un trattore».

Eppure l’inverno è anche la stagione più dura

Soprattutto i mesi di dicembre e gennaio in cui le temperature quest’anno sono scese fino a 1° Celsius a Delhi. È importante notare che la stragrande maggioranza di coloro che sono accampati alle frontiere sono anziani, molti dei quali anche affetti da malattie croniche. Tra i 170 contadini martirizzati dall’inizio delle proteste a settembre, molti sono morti a causa della loro esposizione al freddo e all’esaurimento generale. Altri sono morti per incidente stradale o suicidio. Tuttavia, la dharna rimane incrollabile. Tutti gli agricoltori intervenuti hanno detto che non avevano intenzione di andarsene fino a quando le loro richieste non saranno soddisfatte, non importa quanti mesi o anni questo può richiedere. In tal modo, gli agricoltori spesso si riferivano a vite oltre la loro; dei loro figli, nipoti e pronipoti a venire. In India, la terra non costituisce solo fonte di reddito e sicurezza sociale, ma è anche profondamente implicita nella nozione di famiglia. Quindi rappresenta un senso di continuità; una promessa tra antenati e generazioni future quella attuale generazione di agricoltori intende mantenere.

“Modi ascolta!”.
A partire dal 29 gennaio, il governo indiano ha chiuso i servizi Internet nei vari siti di protesta situati ai confini di Delhi. Anche l’elettricità e l’acqua sono state interrotte e le punte di ferro sono state cementate sulla strada per impedire l’arrivo di altri manifestanti. Con il dispiegamento della sicurezza intensificato alle frontiere e il crescente arresto e detenzione di giornalisti, la Fortezza Delhi è l’ultima strategia per isolare gli agricoltori e reprimere il movimento. Adesso è un momento critico. Questo governo è guidato da un uomo che ha già commesso due massacri sponsorizzati dallo stato. Abbiamo bisogno di occhi sull’India.

Traduzione di Masha e Nicola

[L’articolo non riporta i cognomi dell’autrice e dei traduttori per preservare la loro libertà e integrità]

Fotografie di Mohd Abuzar Chaudhary

e di Amit

[l’articolo sarà pubblicato in inglese sul prossimo LavaLetters]

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