siccità Archivi - OGzero https://ogzero.org/tag/siccita/ geopolitica etc Sun, 31 Dec 2023 00:25:51 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.4.6 Dighe e discariche a Panama https://ogzero.org/studium/dighe-e-discariche-a-panama/ Sat, 02 Dec 2023 23:09:38 +0000 https://ogzero.org/?post_type=portfolio&p=12012 L'articolo Dighe e discariche a Panama proviene da OGzero.

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La devastazione corre sul filo… elettrico

Un flumicidio premeditato

L’agonia del fiume Tabasará iniziò nel 2007 con la complicità dello stato panamense che autorizzò una concessione per la società Genisa – Generadora del Istmo S.A. (creata ad hoc per la realizzazione del progetto idroelettrico di Barro Blanco): società che iniziò nel 2011 i lavori di costruzione in un clima di forte tensione. Le critiche erano legate alle preoccupazioni sull’impatto del progetto nonché alla mancanza di un’adeguata consultazione pubblica e alle violazioni dei diritti umani perpetrate dalla stessa società.

Quest’ultima, dopo un lungo processo di negoziazioni iniziato nel febbraio 2015, tra alcuni rappresentanti indigeni e lo stato panamense (con intervento dell’Onu), venne estromessa definitivamente dal progetto nel 2016: quando la centrale era già stata costruita per un 95%.

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Con l’acqua alla gola

L’accordo siglato nel 2016 creò però non pochi attriti all’interno della comunità Ngäbe-Buglé, giacché non tutti i membri riconobbero la legittimità di tali accordi, che sancirono de facto l’inizio delle attività della centrale idroelettrica.
Dopo Genisa arrivò Cobra (impresa facente parte fino al 2002 del gruppo Impregilo e oggi parte del gruppo spagnolo Acs) e sul suo sito web si legge che il progetto è iniziato il 15 febbraio 2011 e si è concluso il 23 gennaio 2017: circa 6 anni di lavori. Quello che però attira di più l’attenzione è questo paragrafo che descrive le difficoltà nella realizzazione della centrale e della diga.

«La sfida più grande che venne affrontata durante i lavori fu la chiusura della diga, poiché a causa del tipo di idrologia del fiume Tabasará, c’erano inondazioni durante tutto l’anno e non c’era una stagione secca che facilitasse il getto del cancello di deviazione».

Non c’è traccia dunque delle problematiche legate all’inondazione del territorio indigeno ancestrale Ngäbe-Buglé e delle denunce dei caciques (leader indigeni) che lamentavano i danni irreparabili che avrebbero subito quasi 500 persone delle comunità di Quebrada Caña, Nuevo Palomar, Comunidad Cultural Kiad, Labramona e Calabacito, del distretto Müna, regione di Kodrí.

Non si parla neanche del movimento 10 di aprile e delle molteplici manifestazioni di protesta, blocchi stradali e scontri con la polizia che hanno caratterizzato la presidenza di Juan Carlos Varela (2014-2019). Un processo di invisibilizzazione di una resistenza costante e coraggiosa schiacciata da una centrale idroelettrica da 28,84 MW.

Indígenas panameños alzan su voz contra proyecto Barro Blanco (giugno 2016) | Foto: @jaimesaldana01

Popoli Indigeni di Panama

Quella dei Ngäbe-Buglé, che costituiscono il gruppo indigeno con la popolazione più numerosa (al censimento del 1990 superavano già i 123.000 abitanti), è una lotta che dura da anni ma il loro fronte non è l’unico aperto.

Sei Comarcas di emancipazione

A Panama, secondo i dati del censimento del 2010, sono 417.559 le persone che si riconoscono come indigene, un numero che corrispondeva per quell’anno a poco più del 12% della popolazione. Parliamo però di un gruppo molto eterogeneo che si diversifica in otto popoli indigeni: Ngäbe, Buglé, Guna, Emberá, Wounaan, Bri Bri, Naso Tjërdi e Bokota. Per questi popoli ancestrali, dopo le due indipendenze di quella che oggi è la Repubblica di Panama (nel 1821 dalla Corona spagnola e nel 1903 dalla Colombia) è iniziato un lungo e lento processo di emancipazione e rivendicazione di diritti nel nuovo spazio geografico e amministrativo del giovane paese centroamericano. Un processo fatto di accordi, scontri e rivoluzioni che ha portato il movimento indigeno a ottenere un certo grado di autonomia. A oggi infatti esistono a Panama 6 Comarcas Indigene (Contee) le cui leggi costitutive contengono il riconoscimento della tradizionale struttura politico-amministrativa di questi popoli, della loro autonomia, della loro identità e dei loro valori storico-culturali, nel sistema-stato panamense. Le 6 Contee Indigene coprono oggi un’area di 1,7 milioni di ettari e sono state create in epoche diverse: Guna Yala (1938), Emberá-Wounaan (1983), Guna Madungandi (1996), Ngäbe-Buglé (1997), Guna Wargandí (2000) e Naso Tjër Di (2020).

dighe e discariche

Parara Puru (2022). Comunità indigena Emberà sulla rive del fiume Chagres | Foto Diego Battistessa

1925. La rivoluzione Guna e la repubblica di Tule 

Una menzione speciale in questo processo di emancipazione e lotta per i diritti, merita la rivoluzione Guna scoppiata tra febbraio e marzo 1925 e che portò alla creazione dell’effimera repubblica di Tule. La ribellione fu la risposta del popolo indigeno Guna alla forzata occidentalizzazione imposta dal governo centrale che cancellava così secoli di storia dei nativi. Dopo gli scontri si arrivò a un accordo e la Comarca di Guna Yala fu la prima a essere creata. Da sottolineare che proprio dalla lingua di questo popolo indigeno arriva il concetto di Abya Yala, termine precolombiano che sempre più comunemente viene utilizzato dai popoli ancestrali e dai movimenti antiegemonici per riferirsi alle Americhe.

Territorio di Guna Yala (2021). Sulla barca di può vedere la bandiera del popolo Guna che riporta una svastica. Il simbolo, diventato manifestazione di orrore nella Germania nazista, è però antecedente al suo utilizzo da parte di Hitler | Foto Diego Battistessa

La gigantesca discarica del Cerro Patacón

Dalla devastazione idrica nelle comarcas al fuoco tossico in periferia

Non sono però solo i territori ancestrali delle popolazioni indigene a soffrire un deterioramento costante e un attacco frontale di una speculazione economica senza scrupoli: la stessa sorte è vissuta anche nella periferia della capitale e dentro la stesso Città di Panama. È il caso del Cerro Patacón, un luogo dantesco dove si concentra più del 40% della spazzatura prodotta in un paese di 4,5 milioni di abitanti, dove arrivano, al giorno, circa 2 tonnellate di rifiuti. Un centro di raccolta dei residui capitolini, meglio conosciuto come uno dei più grandi disastri ambientali e sanitari del paese centroamericano. Si tratta di un vero e proprio mostro di rifiuti, che secondo molti esperti è già collassato, con infiltrazioni nelle falde acquifere del sottosuolo, una contaminazione diretta del fiume Guabinoso che lo circonda e con frequenti incendi che liberano nell’aria miasmi tossici. La discarica copre più di 130 ettari, ma alcuni studi ambientali spiegano che la tossicità di questo gigante di rifiuti provoca un impatto negativo sui 9000 ettari circostanti: basti pensare che alcuni quartieri della capitale (Città di Panama) che si trovano a più di 3 km di distanza dalla discarica, soffrono direttamente la contaminazione area e gli effetti degli incendi che si sviluppano sul Cerro Patacón.

Pompieri lavorano nell’incendio del Cerro Patacón, La più grande discarica di Panama, considerata un disastro ambientale, che ha provocato una gran nube di fumo tossico che ammorba una parte della capitale (14 febbraio 2023) | Foto EFE/Carlos Lemos

La situazione è raccontata nel dettaglio da Errol Caballero, nell’encomiabile lavoro giornalistico del 2019 dal titolo La salud del Cerro Patacón pubblicato da Connectas – plataforma periodistica para las Americas.
In questo documento, che conta anche su materiale audiovisuale, troviamo parole lapidare che spiegano come la situazione sia completamente fuori controllo:

«La contaminazione mette a rischio la salute delle comunità vicine alla discarica di Città di Panama e le autorità stanno indagando sulla concessione della società Urbalia, per aver compromesso le fonti idriche a causa della mancanza di controlli. A sua volta, lo Stato non vigila sull’azienda, non offre soluzioni al problema e viene denunciato dagli abitanti della zona».

Una situazione già vista. Un’azienda privata che ottiene una concessione e massimizza i profitti non preoccupandosi delle esternalità negative e dell’incolumità della popolazione, uno stato inerte quando non connivente, che non fiscalizza e non effettua controlli. Nel reportage di Caballero troviamo però anche dure testimonianze, come questa:

«Jackeline Chango, 39 anni, è residente a La Isla, un quartiere marginale costruito sulle rive del Mocambo, uno dei fiumi che attraversa la zona. Quando il sistema di distribuzione dell’acqua potabile viene a mancare – come accade spesso nel settore – lei, insieme al marito Domecin e ai suoi figli, tutti di etnia indigena Emberá, si devono lavare nel ruscello. Lo fanno per necessità, sapendo che quell’acqua è completamente contaminata dalla spazzatura.
Suo figlio Kelvin, cinque anni, non era però cosciente del pericolo e mentre faceva il bagno nel ruscello ha bevuto alcuni sorsi d’acqua. Due giorni dopo hanno dovuto portarlo all’ospedale Santo Tomás, sofferente per dei dolori muscolari. I medici hanno identificato un batterio che aveva colpito uno dei polmoni. Suo padre gli ha donato sangue, ma non è bastato a salvarlo. Dopo aver subito un arresto cardiaco, Kelvin è morto a mezzogiorno del 31 dicembre, la vigilia di Capodanno».

Urbalia: basura business

La storia di questo enorme disastro che oggi incide negativamente sulla vita degli abitanti della zona e sul territorio, si fa risalire agli anni Ottanta, quando venne chiusa la vecchia discarica di Panama. Fin dall’inizio la gestione fu statale e si proiettava un’aspettativa di utilizzo di 25/30 anni della struttura di raccolta dei residui. Nel 2008 però il Consiglio Comunale della Città di Panama (organo che all’epoca aveva la potestà su queste decisioni) ordinò la concessione della discarica a una società spagnola, Urbasel Protosa. Solo due anni dopo, avvenuto un cambio di governo, l’appalto venne passato a Urbalia, mantenendo lo stesso contratto iniziale. Nel 2011 l’impresa Urbalia fu comprata dalla colombiana Interaseo SA., di proprietà di colui che viene definito lo “Zar della spazzatura”, cioè William Vélez Sierr. Già nel 2016 il Ministero dell’Ambiente di Panama aprì due procedimenti amministrativi contro Urbalia per «mancato rispetto delle misure stabilite negli strumenti di gestione ambientale» e finalmente il 27 marzo di quest’anno, le autorità statali di Panama hanno eseguito un’operazione di controllo sulla situazione del Cerro Patacón e a radice di quanto riscontrato hanno estromesso Urbalia dalle operazioni (a poche settimane dalla scadenza naturale del contratto). Attualmente vige lo stato di emergenza ambientale per il collasso di un mostro di rifiuti che continua a costare salute e vita alle persone più vulnerabili che già vivono in una situazione di estrema marginalità.

Testimoni locali di sopraffazione

Di fronte a tutto quanto letto finora, è importante poter far riferimento a voci di attivisti locali, voci lucide, che conoscono il contesto e che possono guidarci verso un’analisi di una profonda complessità, unificando tutti i territori diversamente devastati dal capitalismo. Una di queste voci è sicuramente quella di Olmedo Carrasquilla Ávila , ecologista, comunicatore sociale, attivista e dirigente di Covec che in una recente intervista per il giornale nazionale “La Estrella de Panamá” ha saputo manifestare in modo chiaro l’incoerenza dell’attuale azione di governo. Carrasquilla, intervistato nel contesto di una profonda crisi di siccità che ha colpito Panama in questo 2023, denuncia la mancanza di una politica chiara in materia socio-ambientale da parte di un governo che da un lato dichiara lo stato di emergenza ambientale per la scarsità d’acqua e dall’altra continua ad autorizzare concessioni minerarie a imprese per le cui operazioni servono ingenti quantità di acqua.

dighe e discariche

La siccità del Canale costringe a ridurre le quantità di navi che possono transitare da quel chokepointe delle catene di distribuzione

In questo podcast da “Liberation Font”, trasmissione di Radio Blackout del 13 dicembre, si trova un efficace riepilogo insieme a Diego Battistessa riguardo ai temi fin qui da lui trattati e dei molti snodi di interessi della finanza innanzitutto (che sotto traccia rappresenta l’impossibilità di concedere reale indipendenza a Panama), della gentrificazione interna, dello spolpamento predatorio di risorse da parte del colonialismo, dello sfruttamento imperialista di infrastrutture

Ma la storia affonda nei secoli

to be continued (4)

¡Ya Basta extractivismo! Marca-paese Merci rivolte e infrastrutture La Zona del Canale Ancestralità e gentrificazione Casco Viejo – CauseWay – Artificial Island

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]]> I fiori avvelenati di Atacama https://ogzero.org/i-fiori-avvelenati-di-atacama/ Tue, 14 Jun 2022 15:05:41 +0000 https://ogzero.org/?p=7915 Riprendiamo il fotoreportage realizzato da Alice Pistolesi per l’“Atlante dei conflitti e delle guerre”, in cui viene mostrato lo sfruttamento delle risorse minerarie in Cile a scapito delle popolazioni native e con ripercussioni sull’ambiente in un paese già provato dal cambiamento climatico. Quanto è davvero “green” la produzione di ciò che è utile al mondo […]

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Riprendiamo il fotoreportage realizzato da Alice Pistolesi per l’“Atlante dei conflitti e delle guerre”, in cui viene mostrato lo sfruttamento delle risorse minerarie in Cile a scapito delle popolazioni native e con ripercussioni sull’ambiente in un paese già provato dal cambiamento climatico. Quanto è davvero “green” la produzione di ciò che è utile al mondo per la sua svolta verde? Le foto sono state scattate in Cile nel dicembre 2018 e la mostra è stata presentata a Villa Lascaris a Pianezza il 12 giugno 2022.


L’antica lotta tra lavoro e ambiente, tra interessi economici e tutela del territorio ha in Cile e nelle sue miniere uno dei più significativi campi di battaglia. Il Cile è un paese minerario, ricco di risorse dal deserto di Atacama alla Patagonia. Il Nord è pieno di giacimenti di rame, ferro, molibdeno, piombo, zinco, oro, argento e litio. Moltissimo carbone si trova poi nella macro regione Meridionale. Il Cile è il primo produttore mondiale di rame e di litio, il terzo di molibdeno, il quinto di argento, il diciottesimo di oro. L’attività legata all’estrazione di minerali e alla loro esportazione rappresenta circa un terzo del Pil.

Dietro l’imponente attività estrattiva del paese non può che nascondersi il pericolo ambientale: su un totale di 205 conflitti ambientali mappati dall’Osservatorio dei conflitti minerari in America Latina, almeno 35 interessano il Cile.

Lo stato è uno più vulnerabili al climate change: possiede, nonostante produca solo lo 0,25% delle emissioni globali di gas serra, sette dei nove fattori di rischio stabiliti dalla Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici. Nel paese il settore industriale e minerario è responsabile del 77,4% delle emissioni di gas serra.

Questa mostra ci porta al Nord del Cile, nei suoi paesaggi e nelle sue contraddizioni. Si parte dalla celebre Chuquiquamata, la più grande miniera a cielo aperto del mondo e, attraverso il villaggio costruito all’interno del comparto minerario e abbandonato nel 2009, si approda nel deserto di Atacama, dove si trova tra il 27% e il 30% delle riserve mondiali di litio. Un elemento essenziale per le batterie di laptop, telefoni cellulari e auto elettriche, considerato uno dei simboli dell’economia verde. Difficile però stabilire se sia davvero green o se le sue conseguenze siano semplicemente ignorate.

Scenari che ci parlano, oltre che di ambiente e lavoro, anche di progresso e transizione ecologica, di quanto si continui a pretendere dalla Terra per inseguire uno sviluppo sempre meno sostenibile.

Chuquiquamata è la più grande miniera a cielo aperto del mondo e opera dal 1910. Gli scarti della miniera hanno prodotto un conflitto ambientale a Quillagua, un’oasi nel bacino del fiume Loa, nel Comune di María Elena a nordovest di Calama. Lì vivevano tra le 2000 e le 3000 persone, sfollate verso la città di Calama a causa della contaminazione delle acque del fiume con sostanze chimiche come xantate e isopropanolo, detergenti e metalli pesanti, tutti elementi utilizzati nei processi di estrazione del rame. L’inquinamento delle acque del Loa ha causato la graduale morte di colture e bovini. Dal 2020 si è iniziato a lavorare in sotterranea. Questo ha comportato molti cambiamenti, tra cui la notevole diminuzione dei lavoratori.

Nel complesso della miniera di Chuquiquamata fino al 2009 hanno abitato oltre 15.000 lavoratori con le rispettive famiglie. Oggi è un villaggio fantasma visitato ogni anno da migliaia di turisti grazie alle visite guidate effettuate dalla stessa azienda che gestisce la miniera, la Codelco.
I minatori che abitavano il villaggio vivono ora a Calama, a 9 chilometri da Chuquiquamata. La città ha un alto livello di contaminazione ed è una delle più inquinate del paese. La principale causa di morte è il cancro e si contano più di 2.000 casi di malattie respiratorie ogni inverno.

Il territorio che circonda il vecchio villaggio minerario e la strada che collega la città di Calama a Chuquiquamata è cosparso da “torte”, montagnole di terreno scavato e di scarto minerario. Quantificare chi si ammalerà a causa dell’arsenico respirato in anni di lavoro, ma anche di vita dentro il villaggio, non è a oggi possibile.

Il Salar de Atacama è uno dei più grandi del continente dopo il Salar de Uyuni (Bolivia). Si trova nel comune di San Pedro de Atacama, la più grande destinazione turistica del Cile. Qui si trova tra il 27% e il 30% delle riserve mondiali di litio; l’80% si trova in America Latina, nel cosiddetto ‘triangolo del litio’, ovvero la regione al confine tra Cile, Argentina e Bolivia. In questi tre Stati il minerale si trova nei deserti salati: qui il litio è presente nell’acqua dei laghi salati sotterranei che viene portata in superficie e fatta evaporare in grandi vasche. Ad estrarre litio ad Atacama sono principalmente le società Sociedad Química y Minera (SQM) e ALBEMARLE, che costituiscono due dei principali gruppi economici mondiali nell’estrazione della risorsa. In previsione dell’aumento della domanda di litio, la SQM, società privatizzata sotto la dittatura di Pinochet e i cui familiari possiedono ancora oggi parte rilevante delle azioni, promette di triplicare la produzione entro il 2030.

L’estrazione del litio, che risale alla metà degli anni Ottanta, ha nel tempo causato gravi danni agli ecosistemi e alle comunità. Questo secondo l’Osservatorio Plurinazionale di Salares Andinos, un gruppo nato a San Pedro de Atacama e che riunisce rappresentanti di comunità, organizzazioni e ricercatori provenienti da Cile, Argentina e Bolivia, preoccupati per le conseguenze, l’intensificazione e l’espansione dell’estrazione del litio nel triangolo delle saline andine e le altre associazioni ambientaliste. L’osservatorio ha rilevato che con il tempo si è danneggiata la distesa di sale, prosciugando gradualmente le sue zone umide. Queste aree e le oasi del bacino di Atacama hanno anche il compito di regolare la temperatura del deserto e catturare la CO2: sono armi vive contro il cambiamento climatico. Secondo gli studi dell’Università di Antofagasta in Cile, per ogni tonnellata di minerale estratto sono necessari due milioni di litri di acqua.

Nella comunità di San Pedro de Atacama convivono quattro fattori di rischio: presenta aree aride o semi-aride, è incline a disastri naturali, ha aree soggette a siccità e desertificazione e ecosistemi montuosi. Nel territorio le alte temperature e l’estrema aridità (il deserto di Atacama è considerato l’area più arida della terra) si combinano con le violente piogge estive che causano morti, inondazioni, erosione ed enormi perdite economiche. Secondo i ricercatori, per soddisfare il crescente mercato delle auto elettriche, il già sovrasfruttato Salar de Atacama non sarà sufficiente, e sarà necessario sfruttare più falde acquifere e saline in territori indigeni Atacameños o Lickanantay, Colla, Quechua e Aymara, andando ad impattare su altre aree protette.

Nell’area di San Pedro de Atacama vivono 11mila abitanti, di cui la metà sono indigeni, per la maggior parte Atacameños. Il costante intervento di tutte le società minerarie della zona ha generato forti divisioni, conflitti, inganni e resistenze nella convivenza comunitaria. L’estrazione mineraria indiscriminata colpisce direttamente le comunità, che devono affrontare gravi problemi di approvvigionamento idrico per l’agricoltura, la pastorizia (allevamenti di lama in primis) e per il turismo locale. Secondo gli osservatori, gli accordi e le compensazioni che le società minerarie hanno concluso nel territorio hanno causato divisioni e tensioni tra la popolazione. Le aziende hanno sfruttato l’assenza dello Stato per soddisfare numerosi bisogni primari della popolazione locale e sottoscrivere accordi di assistenza in cambio dell’accettazione delle aziende e delle gravi conseguenze socio-ambientali dell’estrazione mineraria nei loro territori.

Fenicotteri nella Laguna Chaxa. Lo squilibrio idrico collegato all’estrazione sta provocando il prosciugamento di fiumi e falde acquifere e sta interessando i laghi e le zone umide ai margini della distesa di sale e nelle montagne, ovvero ecosistemi che ospitano specie endemiche altamente vulnerabili, molte delle quali protette. Nel territorio, secondo gli osservatori, a causa degli effetti dell’estrazione e del riscaldamento globale, stanno scomparendo i fenicotteri e altre specie autoctone del salare.

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Geopolitica della siccità: chi ha ucciso il Mekong? https://ogzero.org/la-minaccia-della-siccita-chi-ha-ucciso-il-mekong/ Sun, 29 Nov 2020 19:04:58 +0000 http://ogzero.org/?p=1889 La “madre delle acque” Per il secondo anno consecutivo, la siccità sta divorando il bacino del Mekong. Le piogge monsoniche, che investono il Sudest asiatico tra maggio e agosto, sono state esigue. In ottobre, quando il fiume dovrebbe essere in piena, il livello dell’acqua era invece appena un terzo del normale. Lo stesso era successo […]

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La “madre delle acque”

Per il secondo anno consecutivo, la siccità sta divorando il bacino del Mekong. Le piogge monsoniche, che investono il Sudest asiatico tra maggio e agosto, sono state esigue. In ottobre, quando il fiume dovrebbe essere in piena, il livello dell’acqua era invece appena un terzo del normale. Lo stesso era successo nel 2019. La Mekong River Commission, organismo intergovernativo che rappresenta i quattro paesi del basso bacino fluviale (Laos, Thailandia, Cambogia e Vietnam), parla di “siccità estrema”. La pesca e l’agricoltura da cui dipendono milioni di persone sono in crisi. E mentre la regione indocinese comincia a contare i danni, economici quanto ecologici, un istituto statunitense che usa immagini satellitari per monitorare i cambiamenti climatici accusa la Cina: avrebbe trattenuto preziosa acqua nei reservoir formati dalle sue undici dighe sull’alto corso del fiume, provocando il disastro a valle. Pechino respinge l’accusa. Ancora una volta, il Mekong si rivela un caso paradigmatico delle tensioni politico-diplomatiche, ambientali e sociali della convivenza lungo un grande fiume dall’ecosistema fragile e dalla storia tormentata.

dighe sul Mekong

Dighe già operative, in costruzione o in fase di progetto sul corso del Mekong

Le parti in causa sono sei paesi. Il Mekong infatti nasce sull’altopiano tibetano, oltre i 4500 metri d’altezza, e scorre per 4900 chilometri fino al Mar Cinese meridionale. La prima metà del suo percorso è in Cina, attraversa la provincia dello Yunnan tra gole spettacolari dove perde circa il 90 per cento del suo dislivello totale: questo è il “bacino dell’Alto Mekong”. Poi entra in Laos nella regione detta “triangolo d’oro”, segna il confine tra Laos e Myanmar e più a valle tra Laos e Thailandia; attraversa la Cambogia e infine forma un grande delta nel Vietnam meridionale: e questo è il “bacino del Basso Mekong”. La distinzione riflette la geografia, ma ancora di più la storia e la geopolitica della regione. A cominciare dal nome: in Cina è il Lancang Jang (“fiume turbolento”), nel resto del mondo è noto con il nome derivato dalla lingua thai, Mae Nam Khong, “madre delle acque”.

Il fiume che “respira”

La Mekong River Commission (Mrc) annuncia quest’anno una situazione ancora più grave che nel 2019.

I segni del disastro sono visibili nel delta, dove la portata d’acqua è così scarsa che i dodici bracci del fiume sono ridotti a rigagnoli e l’acqua salina del Mar Cinese meridionale sta penetrando sempre più all’interno. Più a monte, in Laos, dove il corso del Mekong è disseminato di scogli e rapide, l’inverno scorso il fiume era ridotto a pozze isolate tra ampi tratti in secca: questo inverno ci si aspetta la stessa scena.

Il segno più tangibile del disastro è che quest’anno il Tonle Sap (“grande lago”) non si è riempito. La particolarità del Mekong infatti è che la sua corrente cambia secondo le stagioni. Tra maggio e l’estate, alimentato dallo scioglimento dei ghiacci himalayani e dalle piogge monsoniche, il fiume si gonfia, la corrente è turbolenta e la piena allaga le zone pianeggianti ricoprendole di limo. Poco prima di raggiungere la capitale cambogiana Phnom Penh però la corrente cambia direzione e l’acqua risale un affluente laterale, il Tonle Sap, fino all’omonimo lago. Tra agosto e novembre questo cresce fino a cinque volte per superficie e volume d’acqua; poi si stabilizza e nell’inverno l’acqua riprende a scorrere verso il Mekong e il suo delta. Come se il fiume respirasse, e il Tonle Sap fosse il suo cuore.

Tonle Sap

Villaggio galleggiante sul lago Tonle Sap, sempre più secco, in Cambogia

Da questo “respiro” dipende il ciclo della vita fluviale, e in primo luogo la pesca. Gran parte dei pesci del Mekong sono specie migratorie, che risalgono la corrente nella stagione secca per riprodursi tra gli scogli a monte, per poi scendere con la piena a ingrassare nel Tonle Sap.  Secondo la Fao il basso bacino del Mekong è la più produttiva regione di pesca d’acqua dolce al mondo, con circa il 15 per cento del pescato mondiale (secondo altre fonti arriva al 20 o al 25 per cento del totale); tra pesca e acquacoltura, si stima una produzione annua di circa 4,5 milioni di tonnellate di pesce e altri organismi acquatici. Questo non include del tutto la pesca artigianale, a cui è legata la sussistenza di milioni di persone. Pesce e organismi acquatici sono la principale fonte di proteine animali per gli abitanti della regione (tra 40 e 60 per cento in media, fino all’80 per cento per la popolazione rurale e più povera). Nel Tonle Sap, le circa 500.000 tonnellate di pesce pescate nelle annate normali sono una parte consistente dell’economia locale. In queste settimane però le cronache raccontano di reti vuote, pescatori disperati, interi villaggi rurali sul lastrico. Anche l’agricoltura stagionale è in crisi: di solito, quando la piena si ritira, milioni di abitanti rivieraschi  coltivano orti e risaie sulle terre concimate dal limo, che quest’anno non è arrivato. E il livello del fiume è così basso che le pompe per l’irrigazione dei campi non arrivano a pescare acqua.

Bisogna pensare che circa 60 milioni di persone abitano il basso bacino del Mekong, di cui circa la metà vive entro 15 chilometri dal fiume e ne dipende direttamente. In altre parole, la siccità  minaccia l’economia e la sicurezza alimentare di milioni di persone, e in particolare della popolazione rurale.

Il clima e le dighe

La causa di tutto questo, afferma la Mekong River Commission, sono piogge monsoniche arrivate tardi e troppo scarse, conseguenza del fenomeno meteorologico detto “El Niño”.

Ma se le condizioni climatiche non fossero l’unica causa della crisi? Se il Mekong fosse in secca perché l’acqua viene trattenuta dalle dighe costruite nell’alto corso fluviale, cioè in Cina?

È proprio questa l’accusa lanciata da un istituto di ricerca statunitense, Eyes on Earth, in uno studio pubblicato nell’aprile di quest’anno e condotto insieme a un altro centro specializzato, il Global Environmental Satellite Applications. Sulla base di accurate osservazioni satellitari, lo studio conclude che nei sei mesi centrali del 2019, mentre il basso bacino del Mekong era a corto di piogge, nella parte alta del fiume le precipitazioni erano abbondanti e nel Lancang è affluita una quantità d’acqua superiore alla norma: ma è rimasta quasi tutta a monte, nei reservoir costituiti dalle dighe, e non è defluita a valle. L’accusa è precisa: «Le dighe sul tratto cinese hanno  trattenuto una quantità d’acqua senza precedenti», ha scritto Brian Eyler, direttore del Programma per il Sudest asiatico del Stimson Center (un’altra istituzione di ricerca statunitense), che ha ripreso quello studio in un articolo su “Foreign Policy”. Lo studio americano afferma inoltre che già da alcuni anni la Cina trattiene quantità crescenti d’acqua, cosa che già in passato ha creato condizioni di siccità a valle. Sostiene poi che la gestione delle dighe a monte, con improvvisi rilasci d’acqua, spiega anche le strane ondate di piena viste in passato nella stagione secca, che hanno provocato inondazioni lungo la frontiera laotiano-thailandese.

Toni da guerra fredda tra Cina e Usa

Lo studio qui citato ha monitorato la situazione nel decennio dal 2010 al 2019, con una metodologia che ha passato il vaglio di una peer-review (cioè la revisione di idrologi e climatologi, che hanno trovato convincenti le conclusioni). Eye on Earth è un’istituzione privata, ma lo studio è stato sostenuto dalla Lower Mekong Initiative, una “partnership multinazionale” avviata dagli Stati uniti con Cambogia, Laos, Myanmar, Thailandia e Vietnam, come si legge sul sito Mekongwater.org (fondato dal Dipartimento di stato Usa).

Così non stupisce che Pechino abbia risposto, più o meno con gli stessi strumenti. In luglio un gruppo di istituzioni accademiche coordinate dalla Tsinghua University, la più prestigiosa università statale cinese, ha pubblicato uno studio secondo cui le dighe sul Lancang hanno un effetto positivo nell’alleviare la siccità. «L’ultimo studio di ricercatori cinesi confuta i nessi causali e le sprezzanti accuse di alcuni media statunitensi», osserva il “Global Times”, media cinese in lingua inglese (Gli autori dello studio americano hanno poi ribattuto con un commento sul “Bangkok Post”, principale quotidiano thailandese in inglese).

I toni da guerra fredda sono evidenti. Ciò non toglie che i dati raccolti da Eye on Earth sembrano dare conferma a sospetti annosi.

Infatti è da quando la Cina ha cominciato a pianificare una serie di sbarramenti tra le gole del Lancang-Mekong, fin dagli anni Ottanta del secolo scorso, che il malumore dei paesi a valle è andato crescendo. Anche perché Pechino non ha condiviso molto dei suoi progetti. La diga di Man Wan, la prima, costruita senza consultare i vicini, è entrata in attività nel 1996 (fornisce energia elettrica alla regione industriale di Kunming, capitale dello Yunnan). Poi la costruzione si è intensificata; oggi le dighe sono undici, e altre sono in progetto. Il governo della Repubblica popolare cinese le chiama la “cascata di dighe”. La più imponente oggi è quella di Nouzhadu, entrata in attività tra il 2012 e il 2014. (Secondo l’analisi di Eye on Earth è proprio da allora che il volume d’acqua trattenuto in territorio cinese è aumentato drasticamente).

Si capisce il nervosismo dei paesi a valle: con le sue dighe, la Cina può controllare il flusso d’acqua che raggiunge il basso Mekong. Senza contare che le dighe trattengono una buona parte dei sedimenti indispensabili all’agricoltura, come sottolinea un’organizzazione non governativa come International Rivers, che lavora per la difesa degli ecosistemi fluviali.

Mekong River Commission, ma senza la Cina

Del resto la Cina (insieme a Myanmar) non ha mai voluto aderire alla Mekong River Commission, nata nel 1995, prima e tuttora unica organizzazione stabile di cooperazione regionale nella regione indocinese (il peso dei conflitti indocinesi nell’ultima metà del Novecento è evidente). La Cina è riluttante perfino a condividere le osservazioni delle sue centrali di monitoraggio fluviale, cosa che fa solo in parte. Nel 2016 ha invece fondato il “suo” organismo parallelo, chiamato Lancang-Mekong Cooperation Framework, con Laos, Thailandia, Myanmar, Cambogia e Vietnam, per promuovere la cooperazione tecnica – in un organismo però in cui è dominante, accusano i critici.

La Cina è un vicino ingombrante, ma anche i paesi del basso Mekong si sono lanciati a costruire dighe. In particolare il Laos, povero e stretto tra vicini più potenti, ha fatto della produzione idroelettrica l’elemento portante della sua strategia di sviluppo, e dalla metà degli anni Novanta ha costruito una decina di impianti sugli affluenti del Mekong per esportare energia.

In questa strategia ci sono due momenti chiave. Uno è nei primi anni Duemila quando la Banca Asiatica di Sviluppo ha lanciato un programma regionale di infrastrutture per la “Greater Mekong Subregion”, che include tutti i sei paesi rivieraschi. Al centro del progetto ci sono corridoi stradali e una rete di trasmissione di energia elettrica, oltre a progetti di sviluppo del commercio e del turismo. Tutto alimentato da investimenti propiziati dalla Banca Asiatica di Sviluppo e in parte la Banca Mondiale. In altre parole, la prima sede di “integrazione regionale” non è stato un organismo di cooperazione intergovernativo, ma un programma di investimenti gestito da organismi finanziari internazionali. Inutile dire che una parte considerevole degli investimenti diretti in Laos e Cambogia (le due economie più deboli della regione) sono di fonte cinese, oltre che thailandese e vietnamita.

L’altro momento chiave, per motivi diversi, è stato il 2006, quando i governi di Laos, Cambogia e Thailandia hanno autorizzato i primi studi di fattibilità per costruire dighe sul basso Mekong: non più gli affluenti, ma il fiume principale. La cosa ha suscitato grandi controversie; non solo organizzazioni ambientaliste ma perfino l’intergovernativa e prudente Mekong River Commission ha pubblicato studi estremamente allarmati: sbarrare il fiume avrebbe creato danni irreversibili all’intera vita fluviale, interrotto le vie di migrazione dei pesci e il ciclo delle inondazioni. Un impatto mortale per il fiume, come argomenta la più recente analisi di International Rivers che riprende studi della Mekong Rivers Commission.

Nonostante tutto, il Laos ha costruito la prima diga sul Mekong nella parte centro-settentrionale  del paese (diga di Xayaburi) e un’altra al confine con la Cambogia presso le Siphandone – un punto dove il Mekong forma diversi canali per aggirare una miriade di piccole isole, formando salti e rapide spettacolari (da cui il nome: si-phan-don significa “mille isole” in lingua lao). Altre dighe sul Mekong sono in progetto; almeno tre progetti sono nella fase delle “consultazioni” presso la Mrc. Inutile dire che in queste imprese si sono riscontrati forti investimenti cinesi, oltre che di aziende thailandesi, sudcoreane, e altre.

La diga di Xayaburi in Laos

Nel frattempo il governo laotiano ha messo a tacere le conseguenze del disastro avvenuto due anni fa con il crollo di una diga nel sud del paese (la diga Xe-Pian Xe-Namnoy, di costruzione sudcoreana): 70 persone sono morte o disperse e 7000 sono sfollate, ma le richieste di giustizia sono rimaste vane. Del resto, la sorte degli sfollati di tante dighe non è mai stata all’ordine del giorno, per i governi della regione. Uniche buone notizie, per il fiume: la Cambogia ha annunciato di aver sospeso fino al 2030 ogni progetto di nuove dighe sul suo tratto del Mekong, perché il fabbisogno energetico è ampiamente coperto. Mentre la Thailandia ha sospeso il progetto di dinamitare le rapide del fiume a nord per renderlo navigabile.

È una piccola tregua per la “madre delle acque”. Perché a lavorare per ucciderla sono in molti.

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