Sergey Shougu Archivi - OGzero https://ogzero.org/tag/sergey-shougu/ geopolitica etc Mon, 30 Jan 2023 23:10:08 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.4.6 Caro fratello Assad, ti va un panino insieme?! https://ogzero.org/caro-fratello-assad-ti-va-un-panino-insieme/ Mon, 02 Jan 2023 00:29:02 +0000 https://ogzero.org/?p=9934 Il 28 dicembre si è svolto a Mosca un vertice a tre con la partecipazione del ministro della Difesa turco Hulusi Akar e il generale Ali Mahmoud Abbas, alla presenza del ministro della Difesa russo Sergey Shoigu nell’ottica della svolta turca per cambiamenti politici e trasformazioni globali – in riavvicinamento e riconciliazione con Damasco per […]

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Il 28 dicembre si è svolto a Mosca un vertice a tre con la partecipazione del ministro della Difesa turco Hulusi Akar e il generale Ali Mahmoud Abbas, alla presenza del ministro della Difesa russo Sergey Shoigu nell’ottica della svolta turca per cambiamenti politici e trasformazioni globali – in riavvicinamento e riconciliazione con Damasco per «la necessità di porre fine alle differenze e raggiungere soluzioni che servano gli interessi della regione». Secondo al-Watan si tratta del risultato finale di diversi incontri avvenuti in precedenza tra i servizi di intelligence e la Turchia avrebbe contestualmente accettato un completo ritiro dal conflitto siriano; oltre al riconoscimento da parte di Ankara del rispetto per la sovranità e l’integrità territoriale della Siria; sarebbe stata discussa anche l’attuazione dell’accordo concluso nel 2020 per l’apertura della strada M4.
È stato pianificato dal Cremlino a breve un incontro tra i ministri degli esteri e infine, sempre nella capitale russa, il vertice Erdoğan-Assad. Evidente che per l’ennesima volta il presidente turco intende sfruttare a proprio favore la situazione siriana, sabotando l’autonomia curda e nello stesso tempo rimandando in patria i profughi siriani residenti attualmente in Turchia. Due carte da giocare nelle prossime elezioni presidenziali. Intanto si continua a vellicare l’istinto militarista, vera continuità tra potere ottomano, kemalista e neo-ottomano di Erdoğan, con un costante riarmo e investimenti in produzioni belliche

In questo processo, che è evidentemente il proseguimento dello spirito di Astana nell’ambito più precipuamente della Guerra siriana per cui si è manifestato inizialmente, le parti riunite hanno confermato che il Pkk, con le sue emanazioni siriane Ypg-Ypj, è una milizia per procura di America e Israele e rappresenta il pericolo maggiore per la Siria e la Turchia. L’articolo che proponiamo è stato completato da Murat Cinar il giorno prima di questo incontro, ma già da quasi un mese ci stava lavorando,  avendo avuto sentore della direzione in cui si stavano evolvendo gli eventi geopolitici in Mesopotamia.

Fin qui l’introduzione di OGzero, la parola a Murat…


Retaggio ottomano

Tra Turchia e Siria c’è un confine di 911 chilometri. I due paesi hanno iniziato a avere un rapporto complicato sin dal crollo dell’Impero Ottomano; confini, acqua, formazioni armate, rapporti commerciali, energia, rifugiati, traffico di droghe e persone e infine spese militari. Oggi sembra che sia giunto il momento di aprire l’ennesimo “nuovo capitolo”.

Un passato importante lungo l’Eufrate

L’Eufrate è uno dei due fiumi che danno il nome alla Mesopotamia. Nasce nel territorio della Repubblica di Turchia ma cresce e prosegue il suo percorso verso lo Shatt-al Arab attraversando la Siria. Innegabile l’importanza di questa fonte d’acqua, ma anche che ne scaturiscano conflitti e manovre politiche. Sia Ankara che Damasco, tranne alcuni momenti nella storia, hanno sempre voluto sfruttare questa risorsa comune come elemento di ricatto e non di cooperazione. In Turchia, sia il governo di Süleyman Demirel sia quello di Turgut Özal sono stati sempre sostenitori, negli anni Settanta e Ottanta, dell’idea che Ankara avesse il diritto di controllare totalmente il regime delle acque. Infatti la costruzione del megaprogetto delle dighe (Progetto del Sudest Anatolia) aveva l’obiettivo di risultare una opportunità di ricatto ai danni del regime di Damasco.
Ovviamente il fatto che la Turchia fosse sempre stata un fedele membro della famiglia Nato e la Siria fosse l’alleato numero uno dell’Unione Sovietica in zona ha fatto sì che la rivalità tra questi due vicini risultasse come una sorta di “guerra fredda” di riflesso per procura.

Il ruolo in commedia del Pkk

Senz’altro la nascita e la crescita negli anni Settanta e Ottanta dell’organizzazione armata Pkk (Partito dei Lavoratori del Kurdistan) ha un po’ scombussolato la situazione. Soprattutto dopo la decisione da parte dell’organizzazione di lasciare, quasi totalmente, il territorio della Repubblica di Turchia e creare le proprie “basi” e “accademie” in Siria, le relazioni tra questi due vicini sono diventate molto complicate. Dalle lezioni di “sicurezza nazionale” presso le scuole pubbliche alle dichiarazioni dei governatori, dal linguaggio dei media fino alle scelte politiche dei governi che risiedevano ad Ankara ormai la presenza del Pkk per la maggior parte della società turca risultava essere un enorme problema e una notevole minaccia. Ormai la vicina Siria ufficialmente “sosteneva i terroristi”.

La svolta di Adana

Infatti proprio su questo tema nel 1998 fu firmato l’Accordo di Adana tra questi due vicini. Un accordo che impegnava Damasco a collaborare con Ankara nella sua “lotta contro il terrorismo”, perché ormai per la Turchia la presenza del Pkk sul territorio del vicino era un “casus belli”. Proprio in quel periodo, ottobre 1998, mentre si consolidava per la prima volta una collaborazione del genere, Abdullah Öcalan (“Apo”), il leader storico del Pkk che viveva da anni in Siria, dovette lasciare il paese e nel giro di pochi mesi a Nairobi in Kenya fu arrestato dai servizi segreti turchi. Öcalan, condannato all’ergastolo, vive tuttora in isolamento in un carcere speciale sull’isola di Imrali in Turchia.

Il progetto del Grande Medioriente

Pochi anni dopo l’arrivo al potere dell’Akp (Partito dello Sviluppo e della Giustizia) i rapporti tra Ankara e Damasco si consolidano ancora di più. La Turchia lavorava come intermediario nei tentativi di dialogo tra Israele e Siria che si svolgevano a Istanbul e il presidente siriano, Bashar al-Assad, insieme a sua moglie decideva di fare le vacanze a Bodrum in Turchia, incontrando l’attuale presidente della repubblica, Recep Tayyip Erdoğan che all’epoca era il primo ministro. Proprio in quel periodo Erdoğan si intestava, in diretta tv, la copresidenza del Greater Middle East Project, ideato e promosso dall’allora presidente statunitense George W. Bush con l’obiettivo di creare una zona di collaborazione e alleanza tra i paesi di maggioranza musulmana, dai Balcani fino all’Asia orientale.

Una nuova fase

In alcuni incontri del 2004 tra i paesi della Nato e del G8 erano persino state organizzate delle presentazioni per annunciare alcuni dettagli di questo progetto, che secondo alcuni analisti rappresentava un tentativo di allargamento non ufficiale della Nato con l’intento di limitare lo spazio di manovra dei paesi ancora comunisti e socialisti. A dirigere questo progetto c’era anche Erdoğan, quindi il rapporto intercorrente tra Ankara e Damasco diventava fondamentale.
A quest’ondata di cambiamenti in positivo per una collaborazione amichevole tra i due paesi si può aggiungere l’abolizione del visto tra i due paesi nel 2009 e una serie di accordi commerciali straordinari firmati tra Erdoğan e Assad soprattutto nell’ottica delle privatizzazioni che il governo di Damasco aveva avviato.

La guerra per procura

Senz’altro la guerra per procura ancora in corso in Siria ha cambiato radicalmente le carte in tavola. L’instabilità generalizzata che domina tuttora in Siria è partita nel 2011 con le prime rivolte popolari. In poco tempo l’infiltrazione dei servizi segreti delle terze parti, la nascita e la crescita delle formazioni armate terroristiche sostenute da numerosi paesi vicini e la presenza dei soldati di vari paesi hanno fatto sì che ormai la guerra in Siria potesse essere definita come una proxy war.

Le prime reazioni e scelte

«Assad è come Mussolini, lasci il suo potere. Prima che scorra ulteriore sangue lasci la sua poltrona».

Subito dopo le prime manifestazioni che hanno ricevuto la risposta dura di Damasco, erano queste le parole pronunciate da Recep Tayyip Erdoğan. Una posizione netta e chiara, assunta nel lontano 2011, dichiarata durante il suo intervento nel gruppo parlamentare dell’Akp.
All’inizio della guerra in Siria il piano di Ankara era quello di fare il possibile perché Assad lasciasse il suo potere. In quest’ottica nel 2014 aveva anche partecipato agli incontri di Ginevra con l’intento di creare un nuovo percorso per la ricostruzione politica e amministrativa della Siria. Nel mentre non mancavano le dichiarazioni forti e convinte di Erdogan:

«Il Presidente siriano ha ucciso circa un milione di cittadini suoi. In realtà stiamo parlando di un terrorista che sparge il terrorismo di stato. Non possiamo dialogare con una persona del genere, non sarebbe corretto nei confronti di un milione di siriani assassinati».

Le prime milizie antisiriane e il ruolo dell’Isis

Sempre nello stesso periodo, in collaborazione con l’amministrazione statunitense dell’epoca, Ankara aveva avviato i lavori per l’addestramento delle prime brigate dell’Esercito libero siriano (Fsa) con l’intento di creare un corpo militare che potesse lottare contro il regime di Damasco. Successivamente questa forza in parte è scomparsa, in parte ha aderito alle formazioni terroristiche e in parte ha collaborato con Ankara.


Quel periodo fu molto importante per la Turchia e per il resto del Medioriente. La nascita e crescita dell’Isis ha rimescolato i piani: soprattutto i lavori di reclutamento dei nuovi adepti, l’utilizzo di territori senza rispetto del confine e la creazione di nuove fonti di guadagno in Turchia, da parte dell’organizzazione terroristica, hanno fatto sì che Ankara ormai fosse direttamente coinvolta nella guerra in Siria. Alcune intercettazioni relative alle riunioni dei servizi segreti turchi, varie dichiarazioni rilasciate da parte di numerosi esponenti del governo e la posizione dei mezzi di propaganda rivelarono quanto poco Ankara fosse dispiaciuta della presenza dell’Isis in Siria. Alla fine della partita avrebbe potuto anche rendere più “facile” la caduta di Assad.

Tuttavia sono successe tre cose che hanno ribaltato ancora un’altra volta i piani.

L’alba degli Accordi di Astana

Mosca in Siria

Innanzitutto la Russia, insieme all’Iran, decise d’intervenire militarmente in Siria per salvare Damasco che stava subendo dei gravi colpi in questa guerra. Ormai chiunque avesse avuto l’intenzione d’immischiarsi con gli affari interni della Siria era obbligato a dialogare con Mosca e Teheran.

Confederalismo democratico in Rojava

Poi la nascita del Confederalismo democratico con il protagonismo delle sue forze armate nella lotta contro l’Isis fece sì che a livello mondiale la nuova esperienza politica ed economica guadagnasse credibilità e rispetto. Questo punto ovviamente era un problema per Ankara dato che dietro il progetto del Confederalismo democratico che sorgeva, come zona autonoma nel Nord della Siria (il Rojava), c’erano una serie di attori molto “problematici” come Öcalan e Pkk. Nel 2012 il Partito dell’unione democratica (Pyd) dichiarava la nascita delle unità di difesa popolari (Ypg-Ypj) impegnate nella lotta contro il terrorismo fondamentalista nella regione.

Isis in Turchia

Infine gli attentati dell’Isis sul territorio della Repubblica di Turchia che causarono la morte di centinaia di persone in meno di due anni coinvolgevano ancora di più Ankara in questa guerra che era in corso ormai da quasi cinque anni. Alla lista di priorità nuove si aggiungeva la lotta contro l’Isis che ormai era una netta minaccia contro la sicurezza nazionale per la Turchia.

Forzata alleanza

Per risolvere i suoi problemi Ankara si trovava ormai obbligata a consolidare i rapporti con la Russia per poter agire in Siria. Oltre a ciò le Ypg-Ypj non potevano essere degli interlocutori dato che erano i cugini degli storici “terroristi” per Ankara. Anche se per poco un tentativo di dialogo con Salih Muslim era stato fatto. Muslim è il leader politico del partito politico siriano Pyd – la forza non armata dominante in Rojava. Tuttavia in poco tempo questo tentativo si è concluso senza successo. Secondo alcuni analisti perché Ankara aveva proposto al Pyd di lottare contro Assad in collaborazione con l’Esercito libero siriano, invece il Pyd ha rifiutato la proposta decidendo di non prendere parte nella guerra in Siria e proseguire per la sua strada. Questa “terza scelta” non prevedeva né di collaborare con la Turchia né di sostenere Damasco.
Relativamente a quest’ultimo punto non si può ovviamente tralasciare il fatto che il tentativo di dialogo tra lo stato e il Pkk, in Turchia, sia fallito proprio nel periodo in cui le Ypg-Ypj acquisivano più credibilità a livello internazionale nella loro lotta contro l’Isis.


Dunque si tratta di un momento che ha creato una notevole preoccupazione strategica per Ankara.

Le “operazioni speciali” turche in Siria

Dunque nel 2016, poche settimane dopo il fallito golpe in Turchia e in pieno stato d’emergenza, Ankara decise di avviare la sua prima operazione militare. Gli obiettivi erano 3: lottare contro l’Isis, contro le Ypg-Ypj e contro il governo centrale. Da quel momento a oggi sono passati circa 7 anni e la Turchia, ufficialmente, ha lanciato 4 altre operazioni aumentando nel Nord della Siria la sua presenza militare, politica e economica. Ankara è stata accusata in questo periodo di avviare anche una campagna di cambiamento culturale e demografico della zona provando a cancellare l’identità curda e distruggendo i segni del Confederalismo democratico.

Equilibrismi tra Nato e Russia

In questo gioco molto delicato e pericoloso Ankara ha dovuto gestire i rapporti con la Russia e con i suoi alleati della Nato presenti sul territorio. Non è stata una partita facile perché quanto più il tempo passava, tanto Ankara diventava sempre più dipendente dalla Russia anche al di fuori dalla guerra in Siria: turismo, accordi energetici, agricoltura, investimenti militari, presenza dei servizi segreti, centrali nucleari…

Quest’avvicinamento ovviamente presupponeva una sorta di allontanamento parziale e graduale dalla famiglia della Nato anche se la Turchia restava sempre un membro del patto transatlantico e l’unico membro fortemente presente sul territorio siriano.

Freddezza tra Turchia e UE

Il rapporto consolidato, delicato ma anche fragile tra Ankara e Mosca con la nascita del conflitto armato in Ucraina è entrato in una nuova fase. Il rapporto con la Nato e con l’UE invece è diventato sempre più debole e oggi lo possiamo considerare come una “collaborazione strategica” più che alleanza. Tra Ankara e Nato in tutto questo tempo ci sono state delle divergenze: dai processi per evasione fiscale e frode, all’embargo non rispettato contro l’Iran, fino ad arrivare agli accordi militari con Mosca e l’acquisto degli S-400. Oggi l’Isis sembra essere morto oppure in coma e l’esperienza del Confederalismo Democratico molto indebolito, accerchiato e in parte anche distrutto.
Invece a Damasco è ancora al potere Assad.

Nuova fase dopo l’“operazione speciale” in Ucraina

Oggi Ankara ha deciso di riprendere, gradualmente, il dialogo con il presidente siriano. Il 27 novembre 2022 l’attuale presidente della Repubblica di Turchia ha rilasciato queste dichiarazioni dopo aver inaugurato il ripristino delle relazioni con l’Egitto:

«Ci sono diversi paesi che vogliono approfittare delle relazioni precarie del nostro paese con i paesi del Golfo. Non glielo possiamo permettere. Come abbiamo ripristinato le relazioni con l’Egitto in futuro possiamo fare la stessa cosa anche con la Siria».

Proprio in quei giorni l’agenzia di notizia internazionale Associated Press pubblicava un articolo in cui sosteneva che Erdogan avesse mandato una lettera ad Assad invitando l’esercito siriano di riprendere in mano le zone liberate delle Ypg-Ypj e chiedeva a Damasco di collaborare per il rimpatrio dei siriani presenti in Turchia, ormai circa 4 milioni.
Pochi giorni dopo, il 15 dicembre, sempre lo stesso Erdoğan, sull’aereo, al rientro dal Turkmenistan ha deciso di concretizzare la sua proposta, parlando con i giornalisti a bordo:

«Vorremmo fare un incontro a tre con la Russia e la Siria. Prima si impegneranno i servizi segreti e poi i Ministri di Sicurezza Nazionale. Dopo questi potrebbero incontrare anche i leader. Ne ho parlato con il Presidente Putin anche lui è d’accordo. Così possiamo iniziare a una serie di incontri».

Mentre Mosca accoglieva con piacere questa proposta, dalla Siria arrivavano le prime dichiarazioni scettiche: Pierre Marjane, parlamentare siriano responsabile delle Relazioni esteri del parlamento, il 29 novembre rilasciava queste dichiarazioni a un giornale in Turchia, “Kisa Dalga”:

«Potremmo dialogare con la Turchia tuttavia deve ammettere che ha finanziato e addestrato le forze armate terroriste e le ha fatte entrare in Siria. Poi deve dichiarare che è pronta a ritirarsi dalla Siria».

Ovvero: lo stato dell’arte

Infatti – secondo una serie di osservatori internazionali, alcuni governi stranieri e una serie di giornalisti che lavorano in Turchia – l’attuale governo ha sostenuto direttamente oppure indirettamente alcune organizzazioni terroristiche fondamentaliste che hanno agito in questi anni in Siria. Questo punto ovviamente ha causato sempre le reazioni dure di Damasco: a oggi la Turchia risulta presente militarmente sul territorio siriano in modo massiccio, tanto che solo nel 2021 il numero di truppe impegnate contava più di 10.000 soldati.

Tra le parole pronunciate da Marjane si vede anche un riferimento all’Accordo di Adana firmato nel 1998. Secondo il parlamentare siriano sarebbe necessario prenderlo in mano e applicarlo. In realtà si tratta di una premessa ch’era stata fatta negli incontri di Astana nel 2019 tra Mosca e Ankara. Dunque oggi la situazione in cui ci troviamo ci fa capire che, a grandi linee, l’intenzione sia di tornare alle condizioni del 2010: prima delle rivolte arabe.

“Erdoğan esagerato: un dittatore rilancia sempre nuove pretese”.

Come mai?

Le risposte sono tante. Potremmo studiare questa sezione concentrandoci sulle motivazioni legate alla politica interna ma anche estera.

Elezioni del 2023

Se guardiamo la politica interna senz’altro la profonda crisi economica che strozza la Turchia rappresenta un problema per Ankara soprattutto alla luce delle elezioni del 2023. L’inflazione alle stelle, la fuga dei giovani, le opposizioni sempre più compatte e il caro vita ogni giorno fa perdere punti a Erdogan nei sondaggi.
Le spese militari in Siria forse per Ankara risultano ormai difficilmente sostenibili e un rapporto commerciale (soprattutto petrolio) regolare con il vicino confinante per più di 900 km potrebbero essere una soluzione.

I rifugiati in ostaggio

Ovviamente la presenza di circa 4 milioni di siriani in Turchia rappresenta un problema per Ankara. Una popolazione in parte proveniente dalle zone, come Afrin, colpite dalla Turchia in questi ultimi anni e “ripulite” delle sue popolazioni curdofone. Un esercito privo di diritti, di persone ricattabili e sfruttate rappresenta il nuovo proletariato a basso salario messo in concorrenza con la mano d’opera locale. Mentre questa contrapposizione può far piacere agli industriali, ma non è gradita ai cittadini che devono fare i conti con la profonda crisi economica. Quindi l’eventuale rimpatrio graduale di queste persone è necessario per Ankara in particolare per riprendere quell’emorragia di voti che defluisce verso quei partiti che da tempo sostengono che “i siriani se ne devono andare”.


Si tratta di un progetto che in prima persona Erdoğan promuove ormai da circa 4 anni:

«Una zona cuscinetto nel nord della Siria, lunga 480 chilometri e profonda 30,  dove sarebbero collocati circa 2 milioni di siriani».

In diversi interventi pubblici e televisivi Erdoğan raccontava il suo progetto di costruire nuove cittadelle in questa zona e collocarci principalmente le persone arabofone. Per fare tutto questo è ormai necessario accettare che a Damasco c’è un interlocutore e parlare con questo anche perché il progetto di Erdogan in questi anni non ha ricevuto riconoscimento né dalla Russia né dalla Nato.

Al posto di Ypg-Ypj: dialogo tra autocrati

Invece nella politica estera molto conta la presenza della Russia in Siria che potrebbe diventare debole, se la guerra in Ucraina non si concludesse a breve. Dunque per Ankara iniziare a costruire ponti con Damasco attraverso un canale di dialogo diretto senza l’ausilio di Mosca potrebbe essere un investimento per quel giorno in futuro quanto Putin deciderà di lasciare definitivamente la Siria. Nel fare questo ovviamente Ankara avrebbe un piatto pronto per Damasco ossia le zone che controlla in Rojava, “bonificate” dalle Ypg-Ypj, che potrebbero essere consegnate a Damasco [come sancirebbero le indiscrezioni di “al-Watan”]. Inoltre ovviamente Ankara vuole mettere le mani avanti per evitare ciò che è successo in Iraq quando si è “conclusa” l’invasione statunitense ossia la nascita di un Kurdistan. Il regime al potere in Turchia senz’altro non ha voglia di avere una zona federale curda che si comporti in modo diverso rispetto a quella irachena che collabora senza problemi con Ankara. Quindi per Ankara ovviamente è meglio avere il governo centrale siriano al di là del confine al posto dei “terroristi”. In quest’ottica spolverare l’Accordo di Adana, che promette una reciproca collaborazione nella lotta contro il “terrorismo” ha molto senso.

Dalla parte della Nato

Sempre bazzicando affari geopolitici il ripristino dei rapporti con Damasco potrebbe fornire ad Ankara come una mossa apprezzata da parte della famiglia della Nato, dato che sarebbe l’unico paese del “club” a dialogare direttamente con Assad. Dunque Erdoğan risulterebbe ancora un importante e irrinunciabile interlocutore. Alla luce delle elezioni generali del 2023 per Erdoğan questo potrebbe dire portare a casa una vittoria importante in termini di credibilità internazionale.

Ma contemporaneamente sarebbe anche una mossa che renderebbe “indipendente” e “privilegiata” la Turchia. Erdoğan potrebbe usare questa novità come un elemento di forza o un ricatto contro i suoi alleati (come ha fatto per contrastare le reazioni ogni volta che ha invaso il Rojava), visto che il suo rapporto con gli alleati è sempre più precario. Le relazioni tra Ankara e Nato sono diventate deboli in questi anni anche perché la scelta di sostenere politicamente e militarmente le Ypg-Ypj è stata definita come un “tradimento” per Ankara dato che queste sigle per il regime in Turchia sarebbero le cugine dei “terroristi”.
Inoltre anche la nascita dell’Esercito Democratico Siriano (Sdf) con il sostegno degli Usa ha creato preoccupazione ad Ankara che temeva la nascita di un esercito curdo in zona. Dunque le scelte radicalmente diverse per quel che concerne la Siria si fondano tuttora sulla grande amarezza derivante dalla tensione che esiste tra Ankara e il resto della Nato. Quindi la manovra di Ankara (per consolidare i rapporti con Damasco) potrebbe fare sì che Erdoğan continui ad agire in Siria con l’intento di creare nuove strategie indipendentemente dalla Nato.

Stuccare vicendevolmente le crepe, perpetuando i relativi poteri

Il 28 dicembre Hulusi Akar, il ministro della Difesa Nazionale, e il capo dei Servizi segreti Hakan Fidan, sono partiti da Ankara per Mosca per incontrare i loro colleghi siriani. L’incontro avvenuto dopo 11 anni di gelo nelle relazioni è stato produttivo secondo Akar: avrebbero parlato della questione dei rifugiati, della lotta contro il “terrorismo”, della difesa dell’integrità territoriale della Siria e dell’espulsione delle forze straniere dal territorio.

Ripristinare i rapporti con la Siria per Ankara ha questi valori. Invece per Damasco ha qualche importanza in più. Nel caso in cui si potesse avviare il progetto congiunto di eliminare il Confederalismo democratico in Rojava e le sue forze (Sdf, Ypg-Ypj) per Damasco significherebbe riprendersi quel quarto del suo territorio occupato e controllare una grande fonte di petrolio e gas che attualmente si trova sotto il controllo di queste forze armate e degli Usa.

Inoltre, per Assad, ripristinare i rapporti con Ankara vuol dire far accettare la sua presenza al potere e archiviare le possibili proposte legate all’abbandono del potere. In quest’ottica per Damasco accettare la proposta di Erdoğan potrebbe sembrare il conferimento di una sorta di vittoria che potrebbe usare nella campagna elettorale del 2023; ma contemporaneamente Assad avrebbe immediatamente un interlocutore già al potere con il quale interloquire senza discutere di tutti i crimini contro il suo popolo da lui commessi durante questa guerra lunga 11 anni. In realtà la situazione rientrerebbe all’interno delle scelte che sta facendo Ankara ultimamente, ossia: il consolidamento dei rapporti direttamente con i leader dei paesi controllati dai regimi o dalle famiglie come l’Arabia Saudita, il Qatar, l’Egitto e gli Emirati Arabi.

Sostanzialmente: due regimi potrebbero trovare un accordo su una serie di temi senza avere “il peso” della giustizia e della democrazia.

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La lenta decadenza dello zar tecnologico https://ogzero.org/la-lenta-decadenza-dello-zar-tecnologico/ Thu, 23 Sep 2021 18:05:30 +0000 https://ogzero.org/?p=4958 Malgrado è la congiunzione più usata in questo articolo che Yurii Colombo ha fortemente voluto, perché ha risvolti senz’altro sugli equilibri geopolitici, anche se non sono né evidenti ancora, né gli analisti internazionali che non vivono a Mosca hanno potuto annusare il cambiamento, una lenta decadenza dello zar. Stavolta è iniziato davvero il declino del […]

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Malgrado è la congiunzione più usata in questo articolo che Yurii Colombo ha fortemente voluto, perché ha risvolti senz’altro sugli equilibri geopolitici, anche se non sono né evidenti ancora, né gli analisti internazionali che non vivono a Mosca hanno potuto annusare il cambiamento, una lenta decadenza dello zar. Stavolta è iniziato davvero il declino del suo sistema, le elezioni ne hanno dato la stura e se si assisterà alla differenziazione economica indispensabile per evitare il tracollo, a un’emersione di una nuova leadership e a nuovi gruppi di potere nei gangli dello stato, molto probabilmente le scelte strategiche internazionali fissate dal ventennio putiniano vedranno una transizione verso strategie geopolitiche che ancora non si possono nemmeno ipotizzare, ma saranno molto diverse da quanto abbiamo conosciuto finora. Malgrado l’apparato abbia fatto di tutto per fissare lo status quo ante, non è bastato per stoppare l’avvio del declino e l’analisi delle urne è impietosa: lo scollamento della società civile, in particolare giovanile, dal sistema di potere. Malgrado ufficialmente l’apparato tecnologico sia riuscito a mantenere il consenso nelle mani di questa oligarchia, allestendo una nuova vittoria del putinismo a cui nessuno crede nella realtà fuori dalle urne digitali.


Cedimento strutturale: scricchiolii nel sistema di potere

Alla fine anche i media che si erano ostinatamente rifiutati di riconoscere che le elezioni per il rinnovo dei deputati della Duma di stato avrebbero potuto condurre a dei mutamenti profondi del quadro politico interno e quindi, inevitabilmente, visto il peso specifico della Russia nel Vecchio Continente, si sono dovuti arrendere: l’arretramento di Russia Unita è irrevocabile. Il partito padre-padrone dello stato russo da due decenni mostra chiari segni di cedimento strutturale mentre il profondo disagio della società russa profonda trova il modo di canalizzarsi, almeno per ora nel voto per il Partito Comunista. Si apre quindi una nuova inedita fase politica segnata dal lento ma inesorabile declino della stella di Putin, già iniziato in realtà da almeno tre anni.

I numeri che parlano del partito-regime ancora vicino al 50% dei suffragi e la maggioranza assoluta dei seggi non devono trarre in inganno. Se formalmente non cambia un granché nel nuovo emiciclo russo con Russia Unita che passa dai 343 deputati del parlamento precedente agli attuali 324 e i comunisti crescono da 42 a 57, il messaggio che arriva dalle urne è chiaro: soprattutto nelle grandi città i russi esigono un cambiamento del personale politico dirigente.

Propaganda drogata e brogli digitali non bastano più

Malgrado le frodi (una normalità per la Federazione), malgrado si sia allungata la possibilità di votare a ben tre giorni, malgrado si sia aggiunto il voto elettronico a quello tradizionale nelle scuole in cui i partiti di opposizione non hanno possibilità di realizzare alcun controllo, il meno 6% per Russia Unita è ben più che un campanello d’allarme: evidentemente l’oliata macchina della raccolta del consenso pilotato si è inceppata.

Non è bastata l’estrazione di premi (appartamenti, automobili, buoni-acquisto nei supermercati) finanziata dalle grandi imprese russe per chi avesse deciso di votare elettronicamente; non è bastato un assegno una-tantum a militari, poliziotti e pensionati di quasi 200 euro; non è bastata la giornata libera del venerdì per i lavoratori dei municipi, per dare l’impressione che tutto stesse andando come al solito, con una squillante vittoria putiniana. E non è bastato neppure mettere alla testa delle liste di Russia Unita candidati civetta – che mai si presenteranno in parlamento come i popolari ministri della Difesa (Sergey Shougu) e quello degli Esteri (Sergey Lavrov). I russi seppur compassati sufficientemente dal non credere che il voto sia sufficiente a far cambiare qualcosa, hanno voluto comunque evidenziare che il corso dell’attuale amministrazione a loro non piace.

Mosca - elezioni 2021, risultati variabili

La grafica riportata qui sopra mostra come sarebbero andate le cose nei collegi uninominali di Mosca (il 50% dei deputati vengono eletti così mentre il restante 50% su base proporzionale con lo sbarramento del 5%) se non fosse intervenuto l’“aiutino” del voto elettronico ad aggiustare il responso. A sinistra i risultati delle circoscrizioni prima dell’aggiunta dei voti elettronici (dove con il colore verde si indica dove il partito comunista avrebbe preso la maggioranza e in blu dove l’avrebbe preso Russia Unita) e a destra quello venuto fuori una volta aggiunti i voti elettronici. Nella quota proporzionale il trend della capitale è lo stesso: il partito di Putin al 36,7% e i comunisti al 22,7% mentre il complesso delle liste di opposizione si colloca intorno al 40% dei suffragi. In Siberia come nella Jacuzia, dove la crisi economica e il disfacimento sociale sono elementi caratterizzanti e persistenti e dove l’egemonia comunista era troppo evidente, i comunisti superano spesso agevolmente Russia Unita anche nei collegi uninominali.

Si è trattato delle elezioni più manipolate della storia russa come ha voluto sottolineare qualcuno? Difficile dirlo, ma la percezione è che nelle scorse tornate il fenomeno dei brogli più classici (la manomissione dell’urna da parte della commissione elettorale) era stato più accentuato. Il dato essenziale e più interessante è un altro: malgrado i brogli milioni di russi continuano comunque ad andare alle urne.

Il voto è intelligente, non nostalgico

Il partito comunista quindi è diventato come catalizzatore del disagio quando non della protesta. Come è possibile che un partito che ancora rivendica la continuità del “programma di Lenin e di Stalin” sia riuscito a invertire un declino che da 20 anni era sembrato a tutti inesorabile? Come è possibile che un partito che alle amministrative di Mosca superava a stento il 5%, sia diventato il vincitore (perlomeno morale) delle elezioni per la Duma? I motivi sono molteplici. In primo luogo il partito di Zyuganov, è stato quello che – con maggiore enfasi – si è opposto alla controriforma delle pensioni del 2018 che ha innalzato per la prima volta l’età pensionabile in Russia (gradualmente innalzata da 60 a 65 anni per gli uomini e da 55 a 63 per le donne). E in linea generale è stata la formazione politica che ha votato alla Duma contro tutte le misure antisociali promosse dal governo negli ultimi anni. Malgrado le timidezze (i comunisti avevano promesso che sulla previdenza avrebbero raccolto le firme per un referendum, ma alle parole poi non sono seguiti i fatti), malgrado troppe volte – soprattutto in politica estera – non si sia mai distinto strategicamente dal corso putiniano, si tratta comunque del partito che parla di quello che sta più a cuore a milioni di russi: ovvero della disastrosa distruzione del welfare iniziata da Eltsin e proseguita nei decenni turboliberisti di zar Putin.

A ciò si deve aggiungere la tattica del “voto intelligente” scelta da quel che rimane del gruppo dirigente del partito Navalny che non si trova ancora in prigione o in esilio. Schiacciata dalla repressione (in questi mesi sono proseguiti selettivamente arresti, fermi, condanne e chiusure di siti internet) quella vasta galassia di opposizione “liberal” (cioè giovanile e residente nelle grandi città che la stampa occidentale fa coincidere superficialmente tout-court con Navalny) nei social network ha iniziato il tam tam per il voto ai comunisti come unica arma per incalzare il Cremlino (una tattica a cui si è unita la rarefatta area della “sinistra alternativa”).

La lunga marcia verso il 2024

Era inevitabile che con il “paziente berlinese” in prigione (e lo resterà ancora per almeno due anni) il pallino del gioco di chi deve dirigere l’opposizione sarebbe spettato ad altri e così è stato. Ora toccherà ai comunisti decidere se mettersi in gioco e diventare un ampio polo di riferimento per chi vuole mettere fine a un regime in affanno, o ripetere alla Duma la tattica accorta dell’opposizione “costruttiva” delle scorse legislature. Nel primo caso non potrebbe essere un’operazione di maquillage, ma dovrebbe essere la trasformazione di un partito, percepito come poco più che una reliquia nostalgica dell’Unione Sovietica, in un organismo “moderno”, di impianto socialdemocratico come invocano soprattutto i suoi nuovi quadri emergenti che punti direttamente – nelle prossime elezioni presidenziali del 2024 – a contendere seriamente la presidenza a Putin. Sotto questo profilo gli impazienti dovranno rassegnarsi: la lotta dell’opposizione russa non è una gara di velocità ma piuttosto una maratona.

Nuove Persone, un embrione per nuovi oligarchi?

In questa tornata Putin ha riconfermato di avere un approccio “tecnologico” alla politica. I risultati delle elezioni erano stati “disegnati” in modo da garantire il controllo assoluto di Russia Unita sul parlamento ma con un’allusione al pluralismo. “C’è più scontento, ecco vedete, faccio avanzare un po’ i comunisti”. “Si vogliono più libertà? Ecco per voi il nuovo partito Nuove Persone”. Questa formazione, di ispirazione vagamente liberale, che riesce alla sua prima apparizione nell’agone politico a superare lo sbarramento del 5% e a entrare alla Duma, è la quintessenza di ciò che al Cremlino si immagina debba essere il “quadro politico nazionale”. Movimento fondato poco più di un anno fa, Nuove Persone dice di far riferimento alle teorie interdisciplinari del filosofo sovietico (dissidente) Georgy Shchedrovitsky, scomparso nel 1994. Dietro però ci sono corposi interessi che hanno permesso alla lista di spendere almeno 20 milioni di rubli nella campagna elettorale. In primo luogo il patrimonio del proprietario dell’azienda di cosmetica Faberlic Alexey Necaev ma anche secondo il portale sempre ben informato “The Bell”, di Yuri Kovalchuk, comproprietario di Rossiya Bank e ben piazzato ai vertici nella classifica dei più ricchi uomini del paese di “Forbes Russia. Un partito non putiniano ma non avverso al potere che ha raccolto il voto soprattutto nella fascia demografica che va dai 18 ai 30 anni.

Cedimento strutturale: scricchiolii nel sistema economico

Congiuntura economica: una differenziazione in ritardo

Del resto nella lettura della società del capo del Cremlino non c’è spazio per l’alternanza al potere e men che meno, per i movimenti e le aspirazioni delle classi sociali: queste possono essere sempre manipolate e incanalate grazie proprio a quelle tecnologie politiche create ad hoc. Oggi chi lavora su questo aspetto è principalmente Sergey Kirienko, nello staff della segretaria presidenziale già dal 2016.

Tuttavia le cose, piaccia o meno alla presidenza russa, dal punto di vista “oggettivo” – materialistico – gli equilibri stanno cambiando in fretta nel mondo e metteranno ancora più in crisi l’approccio tecnocratica che piace tanto allo “Zar”. Da qualche mese il prezzo del petrolio è tornato a galleggiare verso l’alto, stabilmente sopra i 75 dollari al barile dopo i lunghi mesi di magra della pandemia. Ciò ha dato, e darà ancora, una boccata d’aria all’economia russa, ma gli effetti non si sono visti né nelle entrate delle famiglie né sul rublo che resta ben oltre gli 85 rubli contro euro, schiacciando così importazioni e consumi. I veri problemi dell’economia russa però non sono neppure congiunturali ma strutturali. Si tratta di capire, in primo luogo, come un paese che ha prosperato sull’esportazione degli idrocarburi potrà affrontare la sfida della green economy che in prospettiva dovrebbe rendere l’Europa indipendente dalle forniture di gas e petrolio russo. Una sfida decisiva per la Federazione che solo ora sta iniziando a ragionare in termini di differenziazione dell’economia (dopo averci già provato durante la presidenza Medvedev). A cui si collega il problema di un saldo demografico disastroso destinato a peggiorare in conseguenza di un covid-19 che in Russia non cessa di mordere (da oltre due mesi i casi di contagio sono rimasti intorno ai 20.000 al giorno con una media di 800 morti).

Le elezioni hanno avviato il cambiamento, malgrado i risultati

Ecco, dentro questa dinamica profonda, probabilmente il dibattito delle oligarchie e i gruppi di potere del capitalismo di stato russo è già iniziato e l’emergere di un partito come Nuove Persone potrebbe non essere un fuoco di paglia. In alcuni circoli russi si dubita già che l’ex direttore del Fsb ormai quasi settantenne, sempre meno popolare e senza una grande formazione economica potrà gestire la sfida del prossimo decennio.

La soluzione non è a portata di mano visto che per ora non si vede all’orizzonte un leader o una nuova classe dirigente che possa garantire una transizione morbida o permetta a Putin se non di andare in pensione almeno di tirare le fila politiche russe da una posizione defilata. Per storia e tradizione tutti i cambi di regime in Russia sono stati complessi e spesso segnati da fortissime fibrillazioni e c’è ragione di pensare che anche questa volta possa essere così: Putin è stato – ed è ancora – il punto di equilibrio tra un complesso di poteri e interessi che verosimilmente faranno molto fatica a trovare una mediazione stabilizzante.

Del resto, a ben vedere, si tratta di una questione che va ben oltre le camarille moscovite e investe tutte le grandi capitali europee se è vero, come è vero, che l’Europa potrà affrancarsi dall’abbraccio americano solo se troverà una sponda in Russia. Sullo sfondo potrebbe tornare in auge persino il vecchio dilemma russo: slavofili o occidentalisti?

Se proiettato su scala internazionale il voto russo ha prodotto un paradosso politico che le cancellerie dei paesi occidentali stenteranno a comprendere: il loro sostegno a Navalny ha determinato per ora il rafforzamento dei comunisti. Né Merkel,né Macron, né Biden, avrebbero immaginato che i loro sforzi per sostenere l’opposizione “liberale” avrebbero potuto avere un simile sviluppo. Nei prossimi mesi potremmo avere persino un’Europa che si riappacifica con Putin. Una svolta “comunista” nel paese, sarebbe ancora più nazionalista e statalista (e sicuramente filo-cinese) di quanto a Bruxelles e a Washington si possano permettere.

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