Seconda guerra africana Archivi - OGzero https://ogzero.org/tag/seconda-guerra-africana/ geopolitica etc Fri, 19 Mar 2021 16:42:06 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.4.6 Kivu, un non-luogo: l’habitat autosostenibile di traffici e milizie https://ogzero.org/il-kivu-un-non-luogo-habitat-autosostenibile-di-traffici-e-milizie/ Sun, 14 Mar 2021 15:48:23 +0000 https://ogzero.org/?p=2599 «In un viaggio del 2003, ho incontrato un vecchio amico, Lino, nella capitale Kinshasa. Era appena arrivato dalla città di Kikiwit. La strada che porta da Kinshasa a Kikiwit, circa 600 chilometri, l’avevamo percorsa insieme nel 1993 e ci avevamo impiegato circa 8 ore. Dieci anni dopo Lino ha impiegato 15 giorni per lo stesso […]

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«In un viaggio del 2003, ho incontrato un vecchio amico, Lino, nella capitale Kinshasa. Era appena arrivato dalla città di Kikiwit. La strada che porta da Kinshasa a Kikiwit, circa 600 chilometri, l’avevamo percorsa insieme nel 1993 e ci avevamo impiegato circa 8 ore. Dieci anni dopo Lino ha impiegato 15 giorni per lo stesso percorso. La rete viaria completamente distrutta. E oggi non è cambiato nulla. Ma alle aziende minerarie non servono le strade, si muovono con aerei ed elicotteri». Riprendiamo da qui il viaggio nella zona dei Grandi Laghi africani, nel Kivu, un non-luogo le cui risorse arricchiscono un mondo già ricco e predatorio, e dove milizie e rivalità si spartiscono il territorio ai danni di una popolazione sempre più povera la cui identità è smarrita e spesso dimenticata.

Il quadro storico e quello dei traffici: guerre mondiali e per procura

La Repubblica democratica del Congo (RdC) è un non-lieux. Un non-luogo che non trova pace, attraversato da conflitti aspri o a bassa intensità, snaturato dalle pressioni da oltreconfine di una nazione devastata e irriconoscibile per gli smarriti autoctoni; nella definizione di Marc Augé “non-luogo” è quello che non riesce a essere identitario (non contrassegna univocamente l’identità di chi lo abita), relazionale (non c’è comune appartenenza nei rapporti tra tutti i soggetti della regione), storico (le singole comunità non si riconducono a comuni radici). Nessuno, fino a ora, è riuscito a dare in sessant’anni una speranza a oltre 84 milioni di abitanti di un paese ridotto a supermercato di risorse da taccheggiare. Anche se le elezioni del 2019, con la vittoria di Felix Tshisekedi, figlio dell’oppositore storico di Mobutu Sese Seko e di Kabila padre, hanno portato il Congo Kinshasa verso una parvenza di stabilità, l’oggetto del contendere rimane, ovvero il paese stesso. Ciò che il suo sottosuolo contiene: tutto quello che il mondo libero desidera.

Non a caso quelle aree sono ricche di risorse minerarie, cambiano nome, affiliazione, ma l’obiettivo è sempre quello: coltan, diamanti, oro, legname, petrolio… e per impossessarsene si è combattuta una guerra che l’ex segretario di stato americano Madeleine Albright definì la “Guerra mondiale africana” (1996-2004). Sul terreno si sono dispiegati gli eserciti di Angola, Burundi, Namibia, Ruanda, Uganda e Zimbabwe; si sono contesi pezzi di territorio e le aeree di più intenso conflitto corrispondevano a quelle più ricche di risorse naturali.

Da quella guerra che vide combattersi 8 eserciti nazionali e 21 milizie sono nate decine di formazioni di guerriglieri al soldo di quelle stesse nazioni o di altre più lontane; nell’area ora si confrontano oltre venti gruppi etnici con propri miliziani che operano tuttora in tutto il paese e in particolare nel Kivu e nel Nordest del paese, continuando a contendersi quella spartizione bellica. Guerre di mercenari per procura, che proseguono (ciascuno cambiando nazioni di riferimento in base al prezzo) quel conflitto panafricano che ha provocato più di 4 milioni di morti, la maggior parte per fame e non per armi da fuoco. Il paese è arretrato di 100 anni: alla fine della guerra la popolazione non aveva nulla e così le ong hanno cominciato a ripristinare, innanzitutto, dispensari e ospedali, ma nessuno vi accedeva: la gente si vergognava ad andare in ospedale perché non aveva di che coprirsi, i vestiti erano un lusso.

Invece paesi come l’Uganda sono diventati improvvisamente esportatori di oro. Il Ruanda del preziosissimo coltan, che si trova solo in Congo nella regione del Kivu dove si muovono milizie e faccendieri spregiudicati che lo trasportano oltre confine e il Pil di Kigali cresce a dismisura.

Per riportare la “pace” è stata istituita una missione dell’Onu composta da oltre 17.000 uomini, Monusco è il tentativo di stabilizzazione di una regione più grande e impegnativo mai messo in campo dalle Nazioni Unite. Oggi la missione è ancora al suo posto (i suoi budget stratosferici di più di un miliardo all’anno fanno parte del sistema economico del Kivu), la guerra non è finita e la pace lontana: spariti gli eserciti stranieri, sono rimasti i guerriglieri che infestano il territorio, lo rendono insicuro e si battono per lobby economiche e politiche, persino di potenze regionali interessate alle risorse.

Contrabbando e saccheggio

Questo paese è un non-lieux. Come per la corsa all’oro, le aree dei ritrovamenti diventano la meta di disperati in cerca di fortuna. Ma non solo. Sono la meta delle multinazionali, degli stati di mezzo mondo che vogliono approfittare delle risorse del Congo.

«Il requisito principale di un non-luogo non è attribuibile a un generico elenco di luoghi progettati, ma dipende dalla percezione collettiva, che gli utenti hanno di quel determinato contesto spaziale» (Paolo Campanella, 2006), perciò riconduciamo quella definizione se non a tutta la repubblica congolese, almeno alla regione del Kivu, una zona di razzia; il luogo delle guerre fratricide, vendute come tribali, ma combattute proprio per le risorse minerarie.

In Rdc si trova di tutto: legno, rame, cobalto, coltan, diamanti, oro, zinco, uranio, stagno, argento, carbone, manganese, tungsteno, cadmio e petrolio. Materie prime che fanno gola a mezzo mondo.

La Repubblica democratica del Congo è lo stato più ricco di risorse naturali dell’Africa, gli oltre 84 milioni di abitanti potrebbero vivere nel benessere, solo se i suoi governanti investissero le royalties ricavate dalle estrazioni minerarie nel paese. Invece no: l’economia del paese è tradizionalmente orientata alle esportazioni, fortemente dipendente dalle commodities primarie. I diamanti hanno sostituito rame e cobalto come principale voce delle esportazioni (un terzo del contrabbando della zona dei Grandi Laghi): il cobalto finisce tutto nelle mani dei cinesi; i diamanti, oltre 22 milioni di carati, sono nelle mani delle multinazionali; il coltan – estratto praticamente solo in Congo – prezioso per l’industria della telefonia mobile e per quella aerospaziale, è gestito dal Ruanda. Il Congo possiede la seconda foresta pluviale al mondo, da cui si ricava legname pregiato. L’autosufficienza alimentare in molte aree del paese è un miraggio. Le terre coltivate rappresentano solo il 4 per cento del totale, nonostante il 75 per cento della popolazione attiva si occupi di agricoltura, per lo più di sussistenza; il Pil pro-capite è di circa 450 dollari, uno tra i più bassi al mondo, e l’indice di sviluppo umano è 0,433 che colloca la Repubblica democratica del Congo al 176° posto al mondo.  E la stragrande maggioranza della popolazione vive con meno di 2 dollari al giorno.

La “fluidità” delle milizie abita territori porosi

Secondo il Gec (Gruppo di studio sul Congo), almeno 125 gruppi armati sono censiti nelle regioni orientali del Nord Kivu e del Sud Kivu, teatro da oltre 20 anni di quello che è stato definito da più fonti un “lento genocidio”, la metà dei quali è tutt’ora in attività.

Nella regione orientale della Repubblica democratica del Congo si muovono decine di milizie. Difficile tracciarne una mappa. La loro ragion d’essere è la fluidità, cambiare “padrone”, seguire gli affari economici e, dunque, concentrarsi sulle risorse minerarie e lì mettere in atto la loro azione di controllo e gestione del territorio. Storicamente nell’area agiscono i miliziani Mayi Mayi – storica formazione nata tra la fine degli anni Novanta e l’inizio dei Duemila come sorta di autodifesa dalle truppe ruandesi che per alcuni anni hanno occupato quell’area – sono tornati a essere molto attivi nella regione.

La distribuzione delle milizie nella Regione dei Grandi Laghi (fonte dati Agi rimaneggiata da OGzero)

I Mayi Mayi, tuttavia, sono semplicemente un nome, infatti comprendono milizie guidate dai signori della guerra, dagli anziani delle tribù, dai capi villaggio, da faccendieri economici. I gruppi hanno perso anche la loro aura mistica: un tempo combattevano solo con il machete forti del potere che gli derivava dall’acqua che li proteggeva dalle pallottole. Quell’epoca è finita. E agli inizi degli anni Duemila dalla loro lotta di “autodifesa” dei villaggi sono passati alla difesa del territorio contro l’occupazione ruandese. Occupazione che Kigali ha sempre negato, evidente nei primi anni Duemila proprio nell’area di Goma. L’esempio più eclatante della presenza ruandese e del controllo del territorio era che il prefisso telefonico internazionale per chiamare quelle zone era quello del Ruanda. Un abitante di Kinshasa, la capitale della Repubblica democratica del Congo, per parlare con un parente di Goma doveva comporre il prefisso internazionale del confinante Ruanda e viceversa. Quell’occupazione, giustificata da Kigali con il pretesto della lotta contro le milizie hutu responsabili del genocidio fuggite nel Kivu, si è presto trasformata in un’azione predatoria nei confronti delle risorse della regione, in particolare il coltan di cui Kigali è diventato esportatore. La milizia dei Mayi Mayi si è presto trasformata, data la sua fluidità, in una lobby d’affari armata, partecipando alla cosiddetta “guerra del coltan”. Da mesi il gruppo ha ripreso vigore nella regione. Ai Mayi Mayi è stata attribuita la responsabilità di 82 attacchi, che hanno provocato 81 morti.

Nel Nordest della Repubblica democratica del Congo è stato attivo anche il famigerato movimento, il Lord’s Resistence Army (Lra), esercito di resistenza del Signore, guidato dal famigerato Joseph Koni, che ha fatto della religione la motivazione della sua lotta. Il movimento nato in Uganda si è presto trasformato in gruppo terroristico e ha allargato il suo raggio di azione sconfinando, tra gli altri paesi, nel vicino Congo e le motivazioni religiose sono scomparse. L’Lra ha rapito e costretto più di 60.000 bambini a combattere nelle sue fila. La ferocia di Koni ha trasceso ogni ragione politica e religiosa della sua lotta. Questo movimento, tuttavia, ha ridotto le sue attività, ma non è scomparso. L’Lra è rimasto acefalo per l’incriminazione all’Aia del suo capo e si è diviso in cellule al soldo del miglior offerente.

Gli eredi del genocidio: l’influenza ruandese

In tutto questo disordine e povertà non poteva mancare la penetrazione del terrorismo islamista. I jihadisti vivono di disordine e povertà (forse meno di religione): il loro brodo di coltura. È nato, infatti, l’Islam State Central Africa Province, una sorta di emanazione del Califfato del defunto al-Baghdadi. Ed è proprio nel Nordest della Repubblica democratica del Congo che avvengono la maggior parte degli attentati; svariati gruppi volta per volta li rivendicano, ma la maggior parte di queste azioni criminali sono attribuite al gruppo nato in Uganda e di ispirazione salafita, Allied democratic Forces (Afd). Guidata da Jamil Mukulu, un ex cattolico convertito all’islam, è considerata vicina al movimento sunnita Tablighi Jamat e secondo molte fonti ufficiali è legata all’Isis e alle reti del terrorismo internazionale. Gli attacchi messi in atto da questo gruppo dall’ottobre scorso sono più di una decina e hanno provocato 10 morti, evidenziando l’espansione del terrorismo islamico nella regione dei Grandi Laghi. Azioni che hanno come obiettivo le ricchezze minerarie. Queste milizie, che hanno ripreso vigore proprio grazie alla sua affiliazione all’Isis, sono diventate una sorta di attore “parastatale” creando scuole, ospedali e riscuotendo le tasse. Ma gli introiti maggiori arrivano dal commercio illegale dell’oro e del legno. L’Adf, tuttavia, è molto attento a non entrare in conflitto con i Mayi Mayi e con il Fronte democratico di liberazione del Ruanda.

Ma da dove nasce l’Adf?

Prima guerra africana

Il Fronte democratico di liberazione del Ruanda è nato nel 2000, dopo aver assorbito l’Esercito di liberazione del Ruanda (ALiR), gruppo armato costituito per lo più da ex militari delle Forze armate ruandesi (Far), che difendevano l’ideologia dell’Hutu Power, sconfitte durante il genocidio del 1994 contro i tutsi e gli hutu moderati, che portò al potere il tutsi Kagame. A luglio 1994, dopo l’ascesa al potere di Kagame, l’Esercito patriottico del Ruanda ha sostituito le Far, un gran numero di esponenti del quale ha attraversato il confine, scappando in Congo dove si erano rifugiati decine di migliaia di cittadini hutu. Dal 1995 al 1996 le ex Far si sono riorganizzate per formare l’Esercito di liberazione del Ruanda, il cui obiettivo era quello di riprendere il potere a Kigali, lanciando incursioni in territorio ruandese dalle sue basi congolesi. Per arginare questi ribelli hutu, il presidente Kagame ha fornito armi e fatto addestrare delle milizie tutsi banyamulenge che gravitano nella provincia del Sud Kivu.

In modo concertato con l’Uganda queste milizie si sono amalgamate con militari dell’esercito ruandese e ugandese, formando un movimento ribelle al soldo di Kagame, l’Alleanza delle forze democratiche per la liberazione del Congo (Afdl), diretta da un gruppo di oppositori all’allora presidente congolese, il dittatore Mobutu.

In un gioco complesso di alleanze incrociate, i due movimenti ribelli ruandesi – quello hutu e quello tutsi – seminarono terrore nel confinante Congo a partire dal 1997, con l’Afdl impegnato in una guerra di invasione delle province orientali dell’ex Zaire, scatenando la Prima guerra del Congo e portando al potere nel mese di luglio 1997 il suo portavoce Laurent Désiré Kabila, autoproclamatosi presidente e ribattezzando il paese in Repubblica democratica del Congo.

Seconda guerra africana

I tutsi ruandesi, alleati con il nuovo presidente, si trovarono in una posizione di forza, spingendo 300.000 rifugiati ruandesi a fuggire in altre regioni del Congo e altre migliaia a fare ritorno in Ruanda. Fu allora che l’Esercito di liberazione del Ruanda (hutu) si rese responsabile del massacro di altre migliaia di civili in una controffensiva nell’Est della Rdc, anche nel Parco nazionale del Virunga, e nel Nord del Ruanda.

Nel 1998 in Rdc scoppiò la Seconda guerra africana, dopo che il presidente Kabila aveva chiesto ai soldati ruandesi e ugandesi, suoi alleati, di uscire dal territorio nazionale, ma questi ultimi crearono un nuovo movimento ribelle, il Raggruppamento congolese per la Democrazia (Rcd) per ribaltare il potere di Kinshasa. Per difendersi Kabila strinse un accordo militare con gli hutu ruandesi dell’ALiR, rifornendoli di armi e munizioni, che alla stregua di altri gruppi armati rivali si resero protagonisti di gravi crimini contro l’umanità sia nell’Est della Rdc che in Ruanda e persino in Uganda.

Dopo l’assassinio del presidente Kabila, il 18 gennaio 2001, e la successione del figlio Joseph, l’ALiR ha consolidato la sua alleanza con l’organizzazione hutu ruandese delle Forze democratiche per la liberazione del Ruanda – basata a Kinshasa, la capitale –, che lo ha progressivamente assorbito. Le Fdlr sono l’emanazione del Comitato di coordinamento della resistenza, un gruppo di esiliati ruandesi hutu, dissidenti dell’Esercito di liberazione del Ruanda, che hanno dato vita al nuovo gruppo nel maggio 2000.

Le guerre, anche a bassa intensità, che si combattono nella regione del Kivu, servono alle varie milizie presenti sul territorio proprio per impadronirsi dei giacimenti di coltan e quindi poter esercitare il monopolio dell’estrazione, (utilizzando manodopera minorile, veri e propri schiavi che muoiono di fatica e malattie portate dal contatto con questo minerale) contrabbandare il minerale nei paesi vicini – come il Ruanda che è diventato uno dei maggiori esportatori, pur non avendone dei giacimenti, per poi venderlo alle industrie produttrici di componenti elettronici. Lo sfruttamento incontrollato di questa risorsa congolese ha costretto l’Onu ad accusare, in un rapporto del 2002, le compagnie impegnate nello sfruttamento delle risorse naturali del Congo – quindi anche il coltan – di favorire indirettamente i conflitti civili nell’area.

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Non spegnete subito i riflettori sul Congo https://ogzero.org/riflettori-sul-congo/ Sat, 06 Mar 2021 09:14:03 +0000 https://ogzero.org/?p=2564 Il 22 febbraio 2021 si accendono i riflettori sul Congo: nel parco del Virunga, in un agguato sulla via che porta a Rutshuru, vengono uccisi l’ambasciatore italiano a Kinshasa Luca Attanasio, il carabiniere Vittorio Iacovacci e l’autista del Pam Mustapha Milambo. Angelo Ferrari ricorda il percorso compiuto nella regione nota per la presenza (e la […]

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Il 22 febbraio 2021 si accendono i riflettori sul Congo: nel parco del Virunga, in un agguato sulla via che porta a Rutshuru, vengono uccisi l’ambasciatore italiano a Kinshasa Luca Attanasio, il carabiniere Vittorio Iacovacci e l’autista del Pam Mustapha Milambo. Angelo Ferrari ricorda il percorso compiuto nella regione nota per la presenza (e la tutela) dei gorilla quando ancora era in corso la Seconda guerra africana. Ve lo proponiamo prima che i riflettori si spengano nuovamente sulla zona dei Grandi Laghi su cui torneremo presto con una analisi approfondita su milizie, saccheggi di risorse e spartizioni di territori…


Mobutu se ne è andato

In un viaggio del 2003, ho incontrato un vecchio amico, Lino, nella capitale Kinshasa. Era appena arrivato dalla città di Kikiwit. La strada che porta da Kinshasa a Kikiwit, circa 600 chilometri, l’avevamo percorsa insieme nel 1993 e ci avevamo impiegato circa 8 ore. Dieci anni dopo Lino ha impiegato 15 giorni per lo stesso percorso. La rete viaria completamente distrutta. E oggi non è cambiato nulla. Ma alle aziende minerarie non servono le strade, si muovono con aerei ed elicotteri.

Una normalità che si accompagna alla rassegnazione. Mobutu se ne è andato, ha terminato la sua marcia alla faccia del nome che si era dato dopo il suo editto di eliminazione dei nomi occidentali per sostituirli con quelli tribali. Lui prese il nome di Mobutu Sese Seko Kuku Ngbendu Wa Za Banga, che significa “il guerriero onnipotente che, grazie alla sua resistenza e all’inflessibile volontà di vittoria, passerà di conquista in conquista lasciando una scia di fuoco dietro di sé”. Lui ha lasciato un paese distrutto e depredato.

Una brutta piega: invasioni e fazioni ribelli

Mobutu non c’è più, ma la storia non ha preso la piega che avrebbe dovuto. Quella che il popolo congolese si aspettava, che i padri si auguravano, in cui i figli hanno creduto. Invece nulla di tutto ciò. Nel 1996 il Ruanda ha invaso la Repubblica democratica del Congo e organizzato l’estromissione di Mobutu l’anno seguente, con l’entrata trionfale a Kinshasa di Laurent-Désiré Kabila. Il 1998 gli stessi ruandesi se la prendono con il loro uomo, innescando una guerra che ha causato oltre 4 milioni di morti. Kabila se ne va ucciso dalla sua stessa guardia del corpo. Gli succede il figlio Joseph Kabila, 29 anni, in tutta fretta, nel gennaio del 2001 e i maligni vedono in lui la mente che ha ordito il complotto di cui è rimasto vittima il padre. Dopo intensi negoziati Kabila riesce ad arrivare agli accordi di pace nel 2003 e il nuovo governo riesce a mettere fine alla “grande guerra” che porta al ritiro degli eserciti stranieri alleati con il governo, Angola, Namibia e Zimbabwe, e di quelli che sostenevano i ribelli, Ruanda e Uganda. Finita la grande guerra gli scontri tra le fazioni ribelli, che crescono come funghi, non si placano. Proseguono incessantemente anche oggi, senza sosta per il Congo e la sua gente che vive, ormai, nella rassegnazione, avendo perduto la capacità di progettare un futuro compatibile con la dignità umana. I sogni e le speranze, che maturano oggi, si infrangono, domani, contro la ripresa di azioni violente da parte di un neonato gruppo ribelle. Sembra che gli unici capaci di progettare un futuro siano gli uomini in armi. I congolesi, invece, rassegnati a una comunità internazionale che considera il Congo una causa persa.

2003: un paese distrutto e depredato

E nel 2003, dieci anni dopo il primo viaggio in Zaire, mi si presenta un paese distrutto fino nell’intimo. Una lingua nera attraversa Goma. Il Nyiragongo, colui che vomita, ha riversato migliaia di tonnellate di lava sulla città, spaccandola in due. È passato più di un anno ma i segni della distruzione sono ancora evidenti.

Il cratere del Nyiragongo nel parco del Virunga (foto Marian Galovic)

Destino amaro per questa città del Nord Kivu in Congo. Nel 1994 “l’invasione” dei profughi ruandesi, più di due milioni, nel 1996 l’inizio della guerra di Desiré Kabila, nel 1998 una nuova guerra ha trovato il suo risvolto più cruento proprio in questa città e lungo la dorsale del parco del Virunga al confine con il Ruanda. La lava ha trascinato con sé case, abitanti, una parte dell’aeroporto – dopo sette anni la ferita è ancora aperta e l’ho potuto constatare di persona durante un viaggio a Goma nel 2010 – la cattedrale, la casa dei saveriani, fino a spegnersi nel lago Kivu che ha ribollito per giorni. Ironia della sorte non ha colpito la casa del vecchio e defunto dittatore, Mobutu. Ironia della sorte per una città che non si rassegna al suo destino, che in meno di cinque anni ha visto triplicata la sua popolazione. Una città segnata, fin nel profondo, dai profughi ruandesi, che poi ha visto l’invasione delle truppe del confinante Ruanda.

A Goma l’inizio del viaggio

Goma non si rassegna. Sulla lava i suoi abitanti hanno già ricominciato a costruire case di legno, hanno ridisegnato le strade, le rotonde, un lento ritorno alla normalità di una vita di un paese, il Congo, diviso dalla guerra e dall’odio. Ed è proprio a Goma che inizia il mio viaggio in questo paese ricchissimo e dimenticato dal mondo. Un viaggio per ricordare al mondo che quei 54 milioni di abitanti (nel 2021 hanno superato gli 84 milioni) vivono nella miseria e nel terrore. Un viaggio per rendere memoria a quasi quattro milioni di morti in cinque anni di guerra. Un viaggio per cercare nelle pieghe della disperazione, quei pochi rivoli di speranza e di pace che fanno dire a Bisidi Yalolo, responsabile del Wwf di Goma: «vedete quei fiori che piantiamo… Belli no?». Sì, quei fiori, quelle donne curve sulla lava a piantarli, sono uno dei segni più evidenti di una rinascita di una città che ha deciso di tornare a vivere e di dare un senso anche alla lava che ha bruciato tutto. Bisidi Yalolo la ricorda bene la guerra, ne ha subito le conseguenze, è dovuto scappare nella foresta, è tornato per proseguire un lavoro iniziato nel 1987. Una bomba ha centrato il suo ufficio e allora la fuga disperata. Lo hanno dato per morto finché non l’hanno visto ricomparire a Goma.

«L’epoca era quella della prima guerra di Kabila», mi racconta Bisidi. «Da Goma chiediamo a Nairobi il da farsi. È scoppiata la guerra, dicevo, loro mi hanno risposto, aspettate. Ma una bomba è piovuta diritta sulla nostra sede. Allora sono scappato e ho camminato per giorni percorrendo più di mille chilometri e sono arrivato a Kisangani. A Goma mi davano per morto. Poi sono tornato quando la bufera si è conclusa». È tornato e ha ripreso il suo lavoro di conservazione ambientale, di salvaguardia dei gorilla di montagna. Ma a che serve, quando c’è un intero popolo che muore? «Il problema – continua Bisidi – non è certo quello di interessarsi solo della natura o dei gorilla. Il problema è capire che la natura deve essere protetta ed è una risposta per la gente». I progetti, infatti, del Wwf, sono rivolti alla riduzione dell’impatto dell’uomo sul parco del Virunga. Come? Mettendo in campo progetti di sviluppo sostenibile per la gente del parco.

Rubare: i bambini che cantano

Nel villaggio di Rubare, sulla pista che porta a Rushuru – la stessa maledetta strada dove ha trovato la morte l’ambasciatore italiano Luca Attanasio il 22 febbraio del 2021 – è una festa quando ci vedono arrivare. Per la prima volta negli ultimi cinque anni, dei bianchi si avventurano nella zona. Soldataglia, banditi, retroguardie degli eserciti occupati, quello del Ruanda, imperversano ancora nella zona. Non è più una guerra sistematica, ma saccheggio. Ciò che è accaduto pochi giorni prima del mio arrivo, una ventina di morti, rende ragione di una situazione ancora di tensione. Così come la nutrita scorta armata di militari che mi accompagna e che aumenta di numero man mano che ci addentriamo nella foresta. Io ne ho contati più di una trentina, ma potrebbero essere di più. Ogni tanto vedo facce mai viste che spuntano da dietro le colline. Tutti militari adolescenti. Ma a Rubare, il nostro arrivo, sembra una festa, quasi di liberazione. I bambini ci accolgono con una canzone che, pressappoco, dice così: «Siete venuti in pace, vi accogliamo in pace, tornate a casa e dite a tutti che siamo gente pacifica». Qui a Rubare è in atto un progetto sostenibile a vasto raggio. L’obiettivo è quello di creare una demarcazione tra il parco e la zona agricola, attraverso una serie di attività: produzione di legno per uso energetico alternativo al prelievo del parco, sviluppo di attività agricole per l’arricchimento del suolo e approvvigionamento di generi alimentari, l’allevamento. Ma non solo. Sono stati creati laboratori di sartoria e una scuola di alfabetizzazione frequentata soprattutto da donne. Un modello sperimentale che si sta applicando in molti villaggi.

Sopravvivenza negli insediamenti intorno a Goma (foto Ispencer)

«Abbiamo prodotto e piantato sei milioni di piante», racconta orgoglioso Bisidi. Percorrendo la strada, sinonimo di disperazione e morte, si trovano villaggi che tornano a vivere. Ed è questo che ti capita di vedere mentre ti avvicini al limitare del parco. Vedi le donne, nei campi, chine a zappare una terra fertile che potrebbe dare tanti frutti. Girano appena il capo, non raddrizzano la schiena perché devono continuare a zappare, ma gli occhi raccontano tutto. Tutto il dolore vissuto, tutta la speranza che può dare quel semplice incontro. Mi hanno raccontato che veder dei bianchi, dopo lunghi anni di guerra, gli ha portato un po’ di speranza, anche se è solo un passaggio, un saluto con la mano e un sorriso.

Se hai visto l’Africa, | questo continente gigantesco | che un tempo partorì la stirpe umana, | hai visto anche le donne | con la schiena curva | e le zappe alzate | che cadono e si sollevano | cadono e si sollevano. | La terra turbina | attorno a queste zappe. | Il canto della terra è il canto della zappa. | Il canto della donna. | Il canto della zappa è il canto della vita.      (Henning Mankell, Racconto dalla spiaggia del tempo)

 

“Incontrare” i gorilla nel parco del Virunga:

L’obiettivo del viaggio è, anche, vedere i gorilla di montagna. Farlo da questa parte del parco, nel Congo, ha solo il senso di dimostrare che qualcosa sta cambiando. Che qualche segnale di speranza c’è anche qui, come quei bambini di Rubare che cantano. Ma la stessa speranza rappresentata dalla maestosità della natura, della foresta. Più che “vedere”, la parola giusta è “incontrare” i gorilla di montagna. Entriamo nella foresta vergine, facendoci largo con il machete, aspettiamo un segnale, un richiamo. I militari che ci “accompagnano” restano al limitare della foresta vergine, anche questo per dimostrare che quello spazio deve essere libero e in pace. I gorilla li devi cercare. Ti trovano loro. L’incontro fa tremare le gambe. Una famiglia intera di 14 componenti e i guardiani del parco hanno dato a tutte un nome, quella che incontriamo si chiama Kwitonda. Loro davanti a te, a pochi metri, ti guardano, i piccoli vorrebbero giocare, il dominante, il silverback, invece, non si cura nemmeno di te. Lui è quello che comanda. Ti tremano le gambe quando un gorilla si appoggia al tronco di un albero, incrocia le braccia, e ti guarda, come se volesse entrare in relazione con te, per chiederti «che ci fai tu qui». La paura monta quando uno dei piccoli di tocca un braccio e, come ci hanno spiegato i ranger, abbassi lo sguardo, mai guardarli diritto negli occhi, sarebbe un segno di sfida. La paura passa quando ti prende il berretto e lo porta via.

Gorilla silverback nel parco del Virunga in Congo (foto Photocech)

Sono istanti indimenticabili. Il fremito del corpo, questa volta, non è il sintomo della paura, è piuttosto meraviglia e stupore per essere entrato in relazione con un altro essere vivente e a casa sua. Ecco, la natura ha deciso di renderti partecipe della sua bellezza, come insegna il Wwf di Bisidi nelle scuole di Goma.

In volo: solo un taccuino e la macchina fotografica

Ed è durante una rappresentazione tenutati in onore degli ospiti bianchi, che arriva la telefonata. Dall’altro capo del telefono il generale Roberto Martinelli vicecomandante della Monuc, che ci invita ad andare all’aeroporto di Goma per registrarci su un aereo delle Nazioni Unite diretto a Bunia. I voli commerciali per quella località sono tutti sospesi, troppo pericolo, e allora per poter vedere e documentare ciò che accade in quell’angolo d’Africa non rimaneva altro che chiedere all’Onu. Le probabilità erano poche, ma ora pare che si stia per partire. Di corsa all’aeroporto, ci registriamo su un volo che parte da lì a 15 minuti. Con me non ho nulla, se non la macchina fotografica e il taccuino, ma l’occasione potrebbe non ripetersi e allora si sale sul volo che sta trasportando mezzi blindati e alcuni uomini del contingente uruguaiano dei caschi blu, non c’è tempo per prendere nemmeno lo spazzolino da denti. Dopo uno scalo tecnico per riempire i serbatoi del C-130 a Kigali, si arriva a Bunia.

Bunia: “era una città bellissima”

Disperazione ovunque. Le strade di Bunia, capoluogo dell’Ituri, regione del Nordest del Congo, sono deserte. Si sente solo il rumore sordo delle armi. I colpi dei mortai fanno capire che qui la guerra non è finita. La popolazione si è rassegnata a piangere i morti, a cercare di che sfamarsi. La vita è paralizzata. E nulla possono fare le organizzazioni non governative presenti in città. Riesco a incontrare i volontari di Coopi, Cooperazione Internazionale, che da giorni sono asserragliati in casa. «Nei periodi di calma – dice Silvia Giardino – la gente viene nei nostri centri dove aiutiamo i malnutriti e distribuiamo cibo. Poi cresce la tensione e tutti scappano. Così il nostro lavoro viene vanificato». Coopi si occupa di due centri terapeutici e di otto punti sanitari per combattere la malnutrizione. La popolazione percorre, per raggiungere i centri, anche 60 chilometri a piedi, arriva sfinita. Sono tutti sfollati che non hanno respiro, sono costretti a fuggire di villaggio in villaggio, inseguendo la vita, lasciandosi alle spalle la morte. «La guerra non si è mai interrotta – continua Silvia – si sposta continuamente. Il 70 per cento delle persone vengono nei centri sono sfollati e per questo lavoriamo anche nella distribuzione dei kit cucina. Soffriamo nel vedere la popolazione ridotta in queste condizioni». Dai centri, in momenti di relativa calma, passano tra le 100 e le 150 persone al giorno. Gianni di Mauro, un altro volontario, però ricorda un’altra Bunia, quella di vent’anni fa. «Era una città bellissima – dice – l’ospedale era forse il migliore del Congo. Le strade asfaltate, fiori ovunque. L’economia era fiorente, c’erano addirittura negozi di Armani. In certi alberghi si poteva entrare solo con la cravatta.

Tornare indietro di sessant’anni

La strada Mambasa-Kisangani, lunga 700 chilometri, si percorreva in una giornata, oggi ci vogliono settimane». Bunia è tornata indietro di sessant’anni. Tanta tristezza negli occhi di Gianni. Ma è così, la guerra schiaccia tutto, distrugge. Fuga, disperazione e morte. La città si svuota. Come in ogni guerra. Materassi di gommapiuma sulla testa. Il sole a picco. E rigorosamente in fila indiana lungo la strada che porta all’aeroporto. Bambini per mano con il volto rigato dalla paura. Una processione verso una speranza improbabile. Alle spalle le armi che crepitano. Migliaia cercano rifugio all’aeroporto, chiuso da giorni e diventati ora base militare ugandese, in cerca di una via di fuga dai massacri. La gente di Bunia scappa dai colpi di mortaio che li rincorrono. Sono tutti hema, l’etnia minoritaria della regione, gente orgogliosa, allevatori, nipoti o cugini dei tutsi ruandesi. Dietro di loro i lendu, bantu, figli o cugini degli hutu ruandesi. Sembra un film già visto: quello del genocidio ruandese. Ma questa è realtà. Dura e cruda realtà fatta di morti, massacri, fughe, stupri, rifugiati, contrasti etnici usati ad arte dai ribelli, appoggiati da questo o quest’altro paese in una guerra infinita, quella del Congo, che dura da cinque anni. Gli appetiti dei paesi confinanti, dei ribelli con sigle altisonanti, non si sono arrestati di fronte alle tregue, agli accordi politici che tentano di mettere la parola fine al massacro sistematico.

Ricordare questo viaggio, a distanza di quasi vent’anni, è utile per capire quello che accade oggi. Se allora era guerra piena, ora è a bassa intensità, ma altrettanto feroce. La gente non ha il tempo di riorganizzarsi in un luogo, se deve, nuovamente, più volte all’anno, fare fagotto e scappare altrove. Chi ce la fa. E le milizie, con altri nomi, sono sempre lì a dettare legge. Lo stato lontano e impercettibile.

La speranza (vana) si chiama Uganda

In aeroporto i fuggiaschi si mettono in fila. Dall’altra parte della pista gli ugandesi stanno caricando un aereo: carri armati, blindati e soldati dai volti gentili. Ma anche bambini soldato arruolati per combattere una guerra non loro. Gli hema, in fila, attendono il loro turno. Sperano di salire su quell’aereo che ha come meta Entebbe. Uganda: la salvezza e la certezza di vivere da rifugiati in un paese non loro, in campi fatiscenti, ma lontano dalla sicura morte. I “soldatini” adolescenti scattano all’ordine dei loro comandanti. I rifugiati attendono da giorni di partire. Ecco, vengono chiamati, avanzano. No, tutti indietro. Dietrofront, non è ancora arrivato il momento. E la speranza di sgretola, affonda nell’asfalto bollente della pista.

Gli ugandesi devono lasciare l’aeroporto. La tensione è alta. La Monuc, la missione di osservatori dell’Onu, non ha la forza militare per mantenere il controllo della città, figuriamoci dunque della regione dell’Ituri. Eppure, i compound dell’Onu si riempiono di persone che, qui, si sentono più protette.

È una mattina qualsiasi. La vigilia della partenza delle truppe dell’Uganda, paese occupante, e la tensione si alza. Le strade di Bunia sono deserte, I magazzini chiusi. E non è notte. Tutti aspettano l’offensiva dei lendu. Intanto un plotone di militari congolesi, travestiti da poliziotti, fanno la loro parata, cantando e correndo, mostrando i muscoli per le vie centrali della città. Fanno sapere che ci sono. Sembrerebbero voler rassicurare la popolazione. Ma la gente non sorride. Da lì a poco il plotone cerca rifugio negli uffici della Monuc dove ha trovato riparo anche il capo della polizia locale e dove sono asserragliati i caschi blu uruguaiani. Il plotone si squaglia al primo colpo di mortaio.

Nei palazzi si parla, per strada si muore

Il giorno è arrivato: 6 maggio. Riprendono i combattimenti. È un massacro. Lo scontro è feroce. Si fronteggiano le due fazioni: hema e lendu. È una storia infinita di potere. Tutto questo mentre a Kinshasa sono in corso le trattative per formare il governo di transizione, per definire quanti e quali vicepresidenti affiancheranno il capo dello stato. Nei palazzi del potere, compresi quelli della missione Onu, si discute e intanto per le strade di Bunia si muore. Il gioco politico è chiaro. Il Consiglio di sicurezza ha imposto agli ugandesi di lasciare la regione. L’Uganda ha risposto deciso: lasciamo il Congo in tempo zero. Panico e sconcerto. La Monuc non ha la forza per rimpiazzare militarmente gli ugandesi. E allora si tratta. Il gioco è chiaro. L’Uganda vorrebbe rimanere. La regione è ricca di risorse, il petrolio vorrebbe trovare la luce, e gli ugandesi lo sanno. Per questo lavorano dietro le quinte, sostenendo questa o quest’altra fazione ribelle. All’inizio è l’Unione dei patrioti congolesi (Upc), guidata da Thomas Lubanga di etnia hema, a prendere il potere, ma subito fa l’occhiolino ai ruandesi. Scontenta gli ugandesi e, allora, si va nuovamente alle armi. L’aiuto di Kampala si rivolge ai lendu, nemici giurati dell’Uganda. Insomma, il giochino delle tre carte. In mezzo un contingente di caschi blu uruguaiani che non possono nulla, se non fare da deterrente. Però il mandato è debole. E poi a Bunia non esiste nessuna logistica militare dell’Onu. I primi militari arrivano con due bottiglie d’acqua e due razioni da combattimento. Troppo poco. L’Uganda lo sa. Nei palazzi della Monuc di Kinshasa le trattative di affiancano alla preparazione del contingente militare che dovrebbe sostituire l’esercito di Kampala. Settecento uomini che dovrebbero diventare 2300 entro l’estate. Lo sforzo è enorme. Ma gli ugandesi se ne vanno. È guerra. Sei giorni di battaglia feroce e l’ex amico dell’Uganda, tornato all’ovile, Lubanga torna a controllare Bunia. Viene firmata la tregua. Ma le preoccupazioni rimangono. Gli osservatori sono scettici, se non pessimisti. La parola fine non è stata ancora scritta. All’Uganda, a questo punto, conviene di più il giochino delle tre carte che un intervento diretto.

E l’inferno si scatena

Un giorno carico di tensione. L’obiettivo, tra gli altri, è ancora capire, facendocelo raccontare dai funzionari Onu, cosa sta davvero succedendo nella regione. Ma le riunioni si moltiplicano. L’appuntamento con la funzionaria italiana viene spostato in continuazione, mentre nella stanza, sbattendo porte, si succedono ufficiali di diversi paesi occidentali. Nel compound delle Nazioni Unite gli sfollati crescono, ne arrivano in continuazione, lo pensano un luogo protetto, ma sono anche il segnale che la guerra è alle porte. Decido, insieme a un collega, di mangiare qualcosa. C’è un ristorante, l’unico aperto, proprio lì, ed è lì che attendiamo udienza e la nostra funzionaria. Di cibo poco, qualche spiedino di carne di capra e dell’insalata. Ai tavoli altri bianchi, tutti funzionari di qualche agenzia dell’Onu. Chiediamo la birra, la capra è dura da mandare giù. Non c’è. Solo una bottiglia. Un segno inequivocabile che la guerra è alle porte. Poi cade l’occhio, che esprime tutta la voglia di birra, sotto le sedie dei tavoli occupati: casse di birra portate dagli stessi avventori. Merce preziosa, in tempi di guerra. Chiedo ancora la birra, la stessa risposta: non ce n’è. Suggerisco alla gestrice del ristorante di andare a comprarne almeno una cassa. Gli occhi diventano grandi per la paura: tutti i magazzini sono chiusi. Insisto, con anche un po’ di superbia: impossibile che non si trovi della birra, e alla fine spuntano le bottiglie della preziosa Primus. Con la birra arriva anche la funzionaria che aspettavamo, sono le 23. Ci racconta delle riunioni che devono rimanere segrete, poi ci racconta la realtà. Io e il collega ci guardiamo stupefatti: ma queste cose le sappiamo anche noi. Non c’è bisogno di essere nelle stanze segrete dell’Onu. Lei, la giovane funzionaria, sorride ed è evidente che di segreto non c’è nulla. Ci capiscono poco anche loro. Dal sorriso al saluto e ci lascia il suo pomposo biglietto da visita e sotto il nome – lo tralascio per la privacy e nella speranza, soprattutto, che ora sia un po’ più avveduta e competente di allora – c’è tutta la sua vita: “Master of International Affairs Human Rights and Conflict Resolution”. Un master conseguito alla Columbia University di New York. Ma prima di congedarci le diciamo dei rumors che circolano tra i poveracci assiepati nella sede dell’Onu e cioè, per farla breve, che l’indomani ci sarebbero stati scontri violenti. Lei sorride e liquida le voci così: «Non abbiamo segnali in questo senso». Il giorno dopo si è scatenato l’inferno.

Il ritorno a Goma

Il nostro tempo a Bunia è finito. Le condizioni di sicurezza sono pessime e dunque bisogna partire. All’aeroporto dovrebbe esserci l’areo dell’Onu che ci riporterà a Goma, dopo un passaggio a Kisangani. Arriviamo all’aerostazione e un uomo della sicurezza dell’Onu ci dice che l’areo non c’è. Un guasto o non so che. Dunque, chiediamo all’uomo che dobbiamo fare. «State qui e ammirate il panorama». Sarcasmo, stupidità. Il panorama: la gente che scappa dagli scontri cercando rifugio in Uganda. Una bella prospettiva. Ma, detto questo, l’uomo sale sulla sua jeep e tanti saluti. Da lì a poco scopriamo che sta arrivando un aereo dell’Unione europea, EcoFly, che dà lì tornerà direttamente a Goa, e che fa servizio umanitario nelle zone di guerra trasportando i cooperanti. I giornalisti, però, non sono ammessi. Beh, provarci non guasta. Appena arriva, mostro al funzionario un tesserino che mi identifica come cooperante. Avevo dimenticato di averlo, ma potrebbe essere la mia salvezza. Lui, forse la fretta, controlla appena e mi indica il portellone del velivolo.

Torna il silenzio sulla guerra dimenticata dal mondo

Riesco a salire sull’aereo – sono più fortunato dei congolesi – che mi porta lontano dall’inferno. Un abbraccio frettoloso con le persone conosciute, non c’è tempo per soffermarsi, ma l’abbraccio è caloroso e avvolgente. Indimenticabile. Corre il bimotore sulla pista. Decolla, i rumori della guerra svaniscono. E torna il silenzio su una guerra dimenticata dal mondo. Solo per onore di cronaca: dopo la nostra partenza da Bunia l’areo dell’Onu è arrivato e ripartito per Kisangani. Il generale Martinelli, non avendo nostre notizie, stava lanciando l’allarme: due giornalisti dispersi in Congo. Solo una nostra telefonata al quartier generale delle Nazioni Unite a Kinshasa fa rientrare l’allarme.

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