sanzioni Archivi - OGzero https://ogzero.org/tag/sanzioni/ geopolitica etc Fri, 20 May 2022 10:19:21 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.4.6 Le sanzioni internazionali funzionano? https://ogzero.org/le-sanzioni-internazionali-funzionano/ Fri, 20 May 2022 10:19:21 +0000 https://ogzero.org/?p=7680 Congelamento di beni di individui e aziende, diniego di visti, divieto di importazione ed esportazione, embargo commerciale, restrizioni finanziarie, nonché sanzioni secondarie e “indirette” come la chiusura di conti bancari… ma le sanzioni – oltre a portare alla fame le popolazioni civili – possono davvero spingere il governante di turno a cambiare la sua politica? […]

L'articolo Le sanzioni internazionali funzionano? proviene da OGzero.

]]>
Congelamento di beni di individui e aziende, diniego di visti, divieto di importazione ed esportazione, embargo commerciale, restrizioni finanziarie, nonché sanzioni secondarie e “indirette” come la chiusura di conti bancari… ma le sanzioni – oltre a portare alla fame le popolazioni civili – possono davvero spingere il governante di turno a cambiare la sua politica? Vari studi e rapporti dimostrano di no. Inoltre, perché le sanzioni abbiano legittimità devono discendere dalla condanna espressa dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu. Ed è qui che generalmente si inceppa il meccanismo – come ha spiegato alcuni mesi fa Alfredo Somoza nel suo ultimo volume – «perché il suo statuto prevede che Usa, Russia, Cina, Francia, Regno Unito siano membri permanenti e abbiano potere di veto su qualsiasi argomento discusso dal Consiglio. Questo meccanismo “truccato”, che fu pensato nella logica della Guerra Fredda, impedisce che il Consiglio di Sicurezza sia davvero una guida del diritto internazionale. Lo si è ancora verificato dopo il sanguinoso colpo di stato in Myanmar, non condannato a causa del veto russo e cinese».

E qui, in questo saggio, Giulia Della Michelina ci fornisce, dati alla mano, qualche strumento in più per capire i contorni di quest’arma a doppio taglio che rimane lo strumento punitivo di deterrenza più utilizzato dall’Occidente, mentre il podcast di Raffaele Sciortino fornisce un quadro degli sconvolgimenti sul sistema economico a livello globale e del ridimensionamento del ruolo di ciascuna delle grandi potenze, nonché di un loro potenziamento sotto nuova forma e sviluppo.


Negli ultimi mesi il dibattito attorno alle sanzioni e alla loro efficacia è tornato di attualità a causa delle tensioni tra Ucraina e Russia e alla guerra scatenata da quest’ultima. Si sta discutendo molto di “sanzioni senza precedenti”, embargo, restrizioni finanziarie e commerciali, e delle conseguenze economiche e politiche scatenate da queste misure, anche sui paesi che le impongono. A più di due mesi dall’inizio dell’invasione russa è lecito porsi una serie di domande: le sanzioni contro Mosca stanno avendo successo? Le misure adottate sono adeguate all’intento di sperare in un risultato positivo? E in quanto tempo? Più in generale ci si potrebbe domandare se lo strumento delle sanzioni funzioni davvero nelle controversie internazionali. Si tratta di questioni complesse, in cui oltre a considerazioni economiche e diplomatiche intervengono anche riflessioni di ordine morale e su cui analisti ed esperti non hanno un parere univoco. I dati a disposizione possono però aiutare a fare chiarezza e sembrano mostrare che, nella maggioranza dei casi, le sanzioni non funzionano.

Cosa sono le sanzioni

Come spiega Francesco Giumelli, professore associato al Dipartimento di Relazioni internazionali e Organizzazione internazionale (Irio) dell’Università di Groningen, le sanzioni sono provvedimenti di varia natura (complessive o mirate) solitamente adottati da uno o più stati (o organismi internazionali) che le impongono contro un soggetto (stato, azienda, persona) con lo scopo di modificarne un comportamento. Nel rapporto intitolato Quando sono utili le sanzioni internazionali? dell’Osservatorio di Politica internazionale, Giumelli individua tre sostanziali obiettivi dietro l’imposizione di sanzioni: coercizione, contenimento e segnalazione/ammonimento. Le sanzioni mirate (come restrizioni finanziarie, al commercio di armi, allo scambio di prodotti specifici e alla limitazione del movimento di persone), si legge nel rapporto, sono ormai prevalenti perché dovrebbero limitare i loro effetti agli attori responsabili dei comportamenti che si vorrebbero disincentivare, risparmiando quindi le conseguenze sulla popolazione.

Gli effetti sulle popolazioni

Eppure i dati rivelano che le ripercussioni delle sanzioni hanno un impatto importante, talora devastante, anche sui cittadini degli stati che si intende colpire. Secondo uno studio del “Journal of Development Studies” effettuato su 98 paesi per un periodo di 35 anni (dal 1977 al 2012) le sanzioni economiche riducono l’aspettativa di vita di 1,2-1,4 anni delle popolazioni e in particolare le donne risultano essere i soggetti maggiormente colpiti. In alcuni casi, le sanzioni comportano difficoltà nell’approvvigionamento di medicinali o presidi sanitari di base, come documentato da uno studio di Oxfam sugli effetti dell’embargo contro Cuba. In questo paese e negli altri stati più duramente sanzionati (Iran, Venezuela, Siria) secondo quattro esperti dell’Onu le sanzioni stanno impedendo il diritto allo sviluppo e aumentando il tasso di povertà, rendendo inaccessibili servizi essenziali come acqua, elettricità, gas, cibo e medicine. In Venezuela, le sanzioni hanno contribuito al più grave crollo del Pil nella storia dell’America Latina (74,3%).

Uno dei più drammatici esempi del costo umanitario derivante dalle sanzioni è il caso dell’Iraq, sottoposto nel 1990 a un durissimo regime sanzionatorio in seguito all’invasione del Kuwait. Già nel 1993 un report della Fao e del Wfp sottolineava come queste misure avessero causato «persistenti privazioni, fame e malnutrizione per una vasta maggioranza della popolazione irachena» e l’impossibilità di continuare con le sanzioni «senza aggravare la già drammatica situazione dei rifornimenti di cibo in Iraq».
Poche settimane fa diversi gruppi di attivisti hanno inviato una lettera al presidente Biden in cui si sottolinea il paradosso delle sanzioni, usate come strumento alternativo all’offensiva militare e tuttavia capaci di provocare vittime civili innocenti, e si richiede di rivedere radicalmente l’utilizzo di queste misure.

Le sanzioni funzionano solo nel 30% dei casi

Uno studio della Drexel University di Filadelfia riporta un drastico calo nell’efficacia delle sanzioni a partire dal 1995 e afferma che il tasso medio di successo si attesta al 30%. Inoltre negli ultimi due decenni si è riscontrata la tendenza al perdurare di sanzioni per anni, senza che il loro obiettivo venga considerato né soddisfatto né disatteso. Le sanzioni continuano semplicemente a restare in vigore, quasi per inerzia. Secondo lo studio questo sarebbe dovuto alla crescente complessità delle sanzioni e alla compresenza di target diversificati e spesso non chiaramente delineati.

Il fattore temporale non è un aspetto secondario perché, come ha dichiarato Benn Steil del think tank Council on Foreign Relations al “New Yorker”, «le sanzioni funzionano raramente e quando funzionano tendono a metterci molto tempo». E non a costo zero, si potrebbe aggiungere. Come per esempio nel caso della Rhodesia (attuale Zimbawe), che ha subito 10 anni di sanzioni e 20.000 morti per arrivare a un cambio di regime.

Le sanzioni secondarie

A tutto ciò si aggiungono le conseguenze “indirette” delle sanzioni, come nel caso che ha riguardato diversi cittadini iraniani residenti in Europa a cui è stato chiuso il conto corrente da un momento all’altro e senza spiegazioni da parte delle banche. Ciò si è verificato in seguito alla reintroduzione delle cosiddette sanzioni secondarie da parte dell’allora presidente degli Usa Donald Trump, ovvero quelle sanzioni che penalizzano indirettamente un soggetto colpendo chi fa affari con lui. In questi casi è molto costoso per le banche compiere verifiche per non incorrere nelle sanzioni, perché alcuni soggetti si avvalgono di prestanome o altri stratagemmi per aggirare il meccanismo. L’ipotesi è che ad alcune banche sia bastato accertare la nazionalità iraniana dei correntisti per chiudere arbitrariamente i loro conti: una piccola perdita incomparabile rispetto alle multe comminate in violazione delle sanzioni.

L’effetto rally-around-the-flag

Questi sono solo alcuni esempi di come le sanzioni agiscono e si ripercuotono concretamente sulla vita delle persone comuni. C’è chi sostiene che l’impatto di queste misure sui cittadini possa rivelarsi positivo e renderle più efficaci.

Una popolazione strangolata economicamente dal giogo delle sanzioni sarebbe più incline a protestare e a richiedere alla classe politica di conformarsi alle richieste esterne. Tuttavia non sempre questa tesi risulta veritiera.

In presenza di regimi autoritari, abituati a reprimere o a gestire il dissenso, è raro che le pressioni della cittadinanza apportino cambiamenti sostanziali alla linea governativa. Il rovescio della medaglia è il cosiddetto effetto rally-around-the-flag, ovvero la possibilità che la popolazione faccia fronte comune con i suoi leader contro i paesi sanzionatori, percepiti come i responsabili delle privazioni e delle difficoltà in cui si trovano. In questi casi la posizione dei governanti del paese sanzionato può addirittura rafforzarsi, compromettendo di conseguenza l’efficacia delle sanzioni. Questo effetto è stato riscontrato anche in Russia dopo le sanzioni imposte nel 2014 in seguito all’annessione della Crimea, percepite dal 71% della popolazione come un tentativo di “indebolire e umiliare” il paese.

Uno strumento essenziale di politica estera

Il passaggio alle sanzioni mirate a discapito di quelle complessive ha incentivato notevolmente l’uso di questo strumento, diventato ormai tutt’altro che eccezionale. Il rapporto dell’Osservatorio di Politica internazionale ricorda infatti che «la Carta delle Nazioni Unite indica le condizioni entro le quali è possibile ricorrere alla forza nelle relazioni fra stati, per esempio per legittima difesa o se autorizzata dal Consiglio di sicurezza come indicato dall’articolo 39 del capitolo VII, ma non pone condizioni per l’utilizzo delle sanzioni». L’articolo 41 prevede la sospensione delle relazioni economiche tra le misure che non implicano l’uso della forza, ma la vaghezza dei regolamenti ha di fatto portato le sanzioni a diventare uno strumento essenziale di politica estera per gli stati occidentali.

È bene sottolineare quest’ultimo aggettivo, poiché le sanzioni sono state finora appannaggio di questi paesi, che se ne sono serviti contro i nemici per le più svariate ragioni: pressioni diplomatiche, rivalità economiche, scontri ideologici, deterrenti per futuri attacchi. Le sanzioni sono molto più facilmente giustificabili di un’operazione militare davanti all’opinione pubblica e assicurano allo stesso tempo l’impressione di una presa di iniziativa rispetto a una situazione conflittuale.

Monopolio occidentale

Gli Usa sono il paese che impone il maggior numero di sanzioni: attualmente sono 37 i programmi attivi, alcuni dei quali in corso da decenni, e i paesi coinvolti sono una ventina. Una tendenza che negli ultimi anni, e in particolare dopo l’11 settembre 2001, risulta in crescita: da circa 6000 soggetti nel 2014 a quasi 10.000 del 2021. L’amministrazione Trump ha imposto il doppio delle sanzioni rispetto al predecessore Barack Obama e l’attuale presidente Joe Biden ha confermato finora questa inclinazione. Anche l’Unione Europea ha attivato decine di programmi di misure restrittive in 34 paesi, e le ha definite uno «strumento essenziale della politica estera e di sicurezza comune». Vi sono infine le sanzioni imposte dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu che, dal 1966, ha stabilito 30 regimi di sanzioni. Attualmente sono in vigore 14 programmi, focalizzati sulla risoluzione dei conflitti territoriali, la non-proliferazione del nucleare e l’antiterrorismo.

 

Il monopolio occidentale dello strumento sanzionatorio è legato a una delle condizioni della sua efficacia, ovvero il controllo sul sistema economico e finanziario globale. In altre parole il ruolo di primo piano nell’economia globale dei paesi occidentali, e in particolare degli Usa, renderebbe più efficace l’utilizzo delle sanzioni. Tuttavia, negli ultimi decenni il dominio economico e finanziario occidentale si sta sgretolando a favore di altri attori e ciò contribuisce a erodere anche l’efficacia delle sanzioni.

Paesi come Cina e Russia si stanno attrezzando da diversi anni a reggere il colpo delle sanzioni adottando diverse misure, come l’accumulo di riserve economiche (per esempio di oro) o con altri sistemi volti ad aumentare l’autosufficienza economica.

La Cina sta fortemente puntando sul decoupling (disaccoppiamento, su cui si intreccia un approfondimento di Raffaele Sciortino), rilocalizzando la produzione delle imprese americane fuori dal paese in settori strategici, e sul rafforzamento dell’autosufficienza nel ciclo produttivo.

Ascolta “Il grumo di contraddizioni verso la fine della globalizzazione” su Spreaker.

In aggiunta, l’interdipendenza delle economie porta alla luce un’obiezione non secondaria, ovvero le ripercussioni delle sanzioni sugli stessi paesi che le impongono. Questione che è stata ampiamente dibattuta nel caso della dipendenza dal petrolio e dal gas russi.

Le sanzioni contro la Russia nel 2014

In seguito all’invasione dell’Ucraina la Russia è diventato il paese più sanzionato al mondo, passando da 2754 tipi di sanzioni a oltre 10.000. A partire dal 2014, in seguito all’annessione russa della regione ucraina della Crimea, sono state imposte le prime sanzioni contro Mosca: congelamento di beni di individui e aziende, diniego di visti, divieto di importazione ed esportazione di armi in Russia, embargo commerciale sulla Crimea. Gli effetti delle sanzioni hanno fatto traballare l’economia russa per almeno due anni, facendo scendere il valore del rublo e aumentare i prezzi di molti beni per aziende e consumatori. Nonostante qualcuno le abbia ritenute troppo timide, le sanzioni del 2014 hanno giocato un ruolo di deterrenza nell’immediato, considerando che, secondo un report dell’Atlantic Council, l’invasione dell’Ucraina sarebbe già stata pianificata per quell’anno.le sanzioni internazionali funzionano?Se le sanzioni hanno potuto arginare le azioni della Russia per un certo periodo, e avvalorare così le posizioni dei sostenitori di questo strumento, oggi possiamo dare una lettura diversa.

Dal 2014 la Russia si è adoperata per rendere la propria economia più resiliente di fronte alle pressioni esterne, accumulando circa 630 miliardi di dollari in riserve internazionali, il 50% in più rispetto al 2017.

Le ultime sanzioni hanno certamente scosso l’economia di Mosca, oltre ad aver gettato nel panico i russi, che hanno svuotato gli scaffali dei supermercati e si sono messi in coda davanti ai bancomat. Ma le manovre della Banca centrale russa hanno evitato il collasso e il rublo è ritornato al valore precedente alla guerra. Alcuni economisti, come Elina Ribakova dell’Institute of International Finance, sostengono che questi siano indicatori superficiali, utili alla propaganda del presidente russo Vladimir Putin. Le difficoltà nel reperire materie prime, la chiusura o la delocalizzazione di molte aziende e l’aumento dell’inflazione stanno già provocando effetti diretti sulla popolazione e, secondo le stime, sono già 200.000 le persone che rischiano di perdere il lavoro. L’impatto sul lungo termine sarà probabilmente devastante in termini di crescita, disoccupazione e abbassamento del livello di vita dei cittadini russi.

Ma come insegnano le esperienze precedenti di sanzioni, che le sofferenze della popolazione portino a dissuadere un leader dai propri criminali progetti è ancora tutto da dimostrare.

L'articolo Le sanzioni internazionali funzionano? proviene da OGzero.

]]>
Ma in Russia… a che punto è la notte? https://ogzero.org/la-crisi-economica-in-russia-a-che-punto-e-la-notte/ Fri, 11 Mar 2022 17:07:54 +0000 https://ogzero.org/?p=6723 La crisi economica in Russia abbraccia nella stretta mortifera delle sanzioni la popolazione e le aziende che finora hanno investito nel paese. Mosca studia mosse difensive che non sono contro-sanzioni e il rublo si svaluta sempre più. Il cauto alleato cinese pensa agli affari e molti attori economici di tutto il mondo si ritirano dalla […]

L'articolo Ma in Russia… a che punto è la notte? proviene da OGzero.

]]>
La crisi economica in Russia abbraccia nella stretta mortifera delle sanzioni la popolazione e le aziende che finora hanno investito nel paese. Mosca studia mosse difensive che non sono contro-sanzioni e il rublo si svaluta sempre più. Il cauto alleato cinese pensa agli affari e molti attori economici di tutto il mondo si ritirano dalla piazza russa. Migliaia di posti di lavoro in fumo, esportazioni bloccate verso i paesi non amici, soldati di leva spediti al fronte e fatti prigionieri non ammansiscono certo l’opinione pubblica che – vedendo lo spettro di un ritorno all’era sovietica – non segue il suo presidente, nonostante il bombardamento propagandistico dei media. Ma esiste un piano B?

[fin qui OGzero…  Ora Yurii Colombo prosegue fornendo una analisi della situazione economica russa in questo tempo] 


Import-export: le contro-sanzioni?

Non è ancora panico ma ora i russi sono davvero preoccupati. La messe delle sanzioni occidentali, come ha dovuto riconoscere lo stesso portavoce di Putin Dmitry Peskov, sono veramente pesanti e rischiano di essere un colpo di maglio insostenibile per l’economia del paese. «Ora bisogna agire e in fretta», ha detto Peskov anche se per ora le decisioni assunte dalla presidenza e dal gabinetto russo appaiono poco chiare e incerte. Il governo ha definito una lista di beni temporaneamente vietati per l’esportazione dalla Russia per tutto il 2022. Un totale di 200 articoli tra cui attrezzature tecnologiche, apparecchiature per telecomunicazione, attrezzature mediche, veicoli di qualsiasi tipo, attrezzature agricole, attrezzature elettriche. A ben vedere si tratta di una mossa difensiva e non di contro-sanzioni. Di queste si è parlato dei primi giorni della spez operazy (in Russia il termine più prosaico per definire ciò che succede in Ucraina è vietato e può costare fino a 15 anni di reclusione a chi lo usa) ma poi è stato deciso di derubricare visto che perlopiù avrebbero un effetto boomerang. Del resto, è vero, si potrebbe vietare l’importazione di vino italiano o gin, ma questi beni a breve avranno dei prezzi tali che i russi stessi li toglieranno dalle loro tavole senza dover essere soggetti a imposizioni dall’alto. In realtà resta poco chiaro in quale direzione voglia spingere Putin dopo aver limitato a 5000 dollari i versamenti all’estero di valuta pregiata.

Cambio, insolvenza e titoli di stato: lo spettro del default

Da quando dai bancomat sono spariti dollari ed euro (il loro cambio è tassato al 30% per tentare di frenarne l’ascesa) si fanno ora lunghe file – prima e dopo il lavoro – per ritirare anche rubli. Non certo per tesaurizzarli ma per acquistare immediatamente soprattutto beni durevoli. Giovedì l’agenzia di statistica ufficiale Rosstat ha confermato un tasso d’inflazione settimanale del 2,2%, che in linea di tendenza sarebbe intorno al 100% annuo, ma nessuno sa quali saranno gli effetti delle sanzioni tra 3 o 6 mesi.

Le pagine di internet e dei blog in lingua russa sono piene di titoli sulla possibile insolvenza russa, il che rende nervosi i possessori di titoli di stato e spaventa la gente comune sopravvissuta al crack del 1998 che non vorrebbe ripetere l’esperienza di vedere andare in fumo i propri risparmi da un giorno dall’altro.

Secondo Morgan Stanley si può prevedere il default già il 15 aprile, data in cui terminerà il periodo di grazia di 30 giorni dalla scadenza degli eurobond russi per un valore di 117 milioni di dollari. Certo non pagare più i paesi ormai considerati “non amici” attira il Cremlino. Tecnicamente come spiega il canale Telegram moscovita “L’ufficio dell’investitore”, «il ministero delle Finanze onorerà gli obblighi di pagamento, ma a causa delle restrizioni imposte, la Banca Centrale russa non trasferirà le cedole dovute ai detentori stranieri dei titoli». Ma anche questa variabile appare poco potabile. I creditori della Russia e dei paesi che non hanno aderito alle sanzioni non sono interessati da questo “regolamento di conti” politico. Tanto è vero che i produttori cinesi di tecnologia di consumo come Huawei e Xiaomi si sono autoridotti le esportazioni di telefonini e Pc del 60% in Russia temendo di non essere più pagati dagli importatori o rischiare di ricevere sui conti rubli in rapida svalutazione.

Gli amici cinesi: business as usual

Insomma “l’alleato cinese” pensa più al business as usual che alle romanticherie “antimperialiste” di Sergey Lavrov che ha tuonato dalla Turchia: «Non saremo più in ginocchio di fronte allo Zio Sam». Laconicamente una agenzia Tass ha dovuto però registrare che «La Cina ha rifiutato di fornire alle compagnie aeree russe pezzi di aerei, ma la Russia cercherà opportunità di fornitura in altri paesi, tra cui Turchia e India, ha sostenuto il portavoce di Rosaviatsiya». Se però non si parlerà di biglietti verdi difficile che anche questi due paesi possano commuoversi più di tanto.

Le aziende straniere abbandonano il mercato

In questi giorni è fuga dal mercato russo anche per gli attori economici che non avrebbero voluto lasciare una piazza di 145 milioni di consumatori ma che le prospettive dell’insolvenza e delle ridotte capacità di pagamento è considerato “poco attraente”. Ha iniziato Ikea svendendo i mobili stoccati nei depositi di Mosca e San Pietroburgo e chiudendo in fretta e furia. Seguiti dai giganti dell’automobile come Ford, Volkswagen e Porsche. “Pausa di riflessione” anche per Nissan e Toyota.

Secondo quanto riporta “Japan News”, la Panasonic ha smesso di fornire prodotti da fuori della Russia al suo distributore russo a Mosca: «Abbiamo preso in considerazione le difficoltà economiche e logistiche», ha detto un portavoce della compagnia.
Out anche la Komatsu, produttore leader di macchinari per l’edilizia, come anche la Hitachi Construction Machinery che smetterà di esportare escavatori idraulici in Russia. L’azienda prevede anche di cessare la produzione locale a metà aprile. Sempre nello stesso settore, il produttore di gru mobili Tadano ha sospeso le spedizioni in Russia e Bielorussia venerdì per la preoccupazione che le sanzioni finanziarie ostacolino i pagamenti.
Yamaha Motor, che vende motociclette e motori fuoribordo in Russia, ha anche sospeso le esportazioni dal Giappone e da altri paesi verso la Russia.

Disoccupazione, antimperialismo e autarchia: una soluzione?

Migliaia e migliaia di posti lavoro che stanno andando in fumo in un mondo dove il mercato del lavoro – per usare un eufemismo – è sempre stato “volatile”. I comunisti di Zjuganov hanno chiesto a gran voce la «nazionalizzazione delle imprese capitaliste», ma non si capisce bene cosa si potrebbe mai produrre alle condizioni attuali.

Una postura “antimperialista” che piace anche al sindaco di Mosca Sergey Sobjanin che ha promesso di sostituire a breve tutti i McDonald’s con dei fast food russi. L’investimento per ora è limitato (500 milioni di  rubli, al cambio attuale poco più di 3 milioni di euro) ma è il segnale di una chiusura a riccio semiautarchica che ricorda l’Unione Sovietica e che non può piacere soprattutto alle nuove generazioni della capitale.

Il fronte più specificatamente militare lascia più che fredda l’opinione pubblica russa, bombardata da un lato sulle Tv che insistono con messaggi rassicuranti secondo cui «tutto sta andando secondo i piani» e dall’altro dalla macchina delle fake news occidentali che vedono bombardamenti di centrali nucleari dell’esercito russo a ogni piè sospinto.

I “volontari” siriani e le perdite russe (ammesse)

L’impressione – dalla Russia – è che Putin abbia ordinato ai suoi generali di non calcare la mano e di usare il “guanto di velluto” (nella misura in cui si possa fare in una operazione del genere). I russi – anche quelli più convinti delle tesi del Cremlino – difficilmente accetterebbe bombardamenti a tappeto sulla popolazione civile. Ma le difficoltà dell’esercito ad avanzare, malgrado la superiorità tecnica e numerica – appare evidente ai più. Tanto è vero che Putin ha autorizzato perfino la mobilitazione di 16000 “volontari” provenienti dal Medio Oriente, in particolare dalla Siria.

Se si eccettua il Donbass il livello motivazionale a combattere appare scarso mentre lo stato maggiore di Mosca sembra voler evitare lo scontro nelle grandi città e affrontare il pericolo della guerriglia. Secondo Sergey Kirchuk, un attivista comunista ucraino emigrato in Russia e non certo simpatizzante per il regime di Volodymir Zelensky, «l’esercito russo non è riuscito a prendere nessuna grande città ucraina in quindici giorni di combattimenti, a eccezione di Kherson, dove l’insubordinazione locale e la guerriglia sono però già iniziate. I territori degli oblast di Luhansk e Donetsk non sono stati completamente posti sotto controllo. Ci sono battaglie a Kharkiv, Mykolaiv, Sumy, Marjupol e Kyiv. E l’esercito russo sta subendo pesanti perdite. I soldati di leva russi sono coinvolti nell’invasione russa, e molti di loro sono stati fatti prigionieri dall’esercito ucraino. Il ministero della Difesa russo ha confermato questi fatti. L’esercito ucraino sta respingendo con forza l’attacco. Non ci sono stati casi di abbandono di massa delle posizioni o di resa, né di comandanti di formazioni che si sono consegnati al nemico (come successe in Crimea nel 2014). La Russia continua a ridispiegare truppe dall’Estremo Oriente, poiché le attuali forze sono insufficienti per prendere l’Ucraina».

Il piano B è il governo “non ostile”: un film già visto

Si tratta di una interpretazione – quella secondo cui Mosca vorrebbe occupare tutta l’Ucraina – respinta dai vertici del Cremlino e che resterebbe assai onerosa da ogni punto di vista ma che potrebbe diventare un “piano B” se non si riuscisse a trovare la quadra con Kiev. A questo punto il problema sarebbe comunque la formazione di un governo “non ostile” alla Russia.

La vecchia leadership del “Partito delle regioni” di Viktor Janukovich (ora ridenominatasi “Ucraina, casa nostra”) non sembra per ora disponibile all’operazione. L’unico uomo di quell’area che sembra spendibile sarebbe Oleg Zariov, classe 1970, già deputato alla Rada, piccolo businessman tra Mosca e il Donbass. Tuttavia più di un osservatore ritiene che non abbia lo spessore e l’esperienza per prendersi simili responsabilità.

Le trattative di Antalya tra il ministro della Difesa ucraino Dmytro Kuleba e il capo della diplomazia russa Sergey Lavrov sono, come era prevedibile, fallite. Per ora l’argine ucraino non è crollato e la Russia non può tornare a casa senza aver realizzato alcun obiettivo tra quelli apertamente dichiarati, per cui la situazione appare bloccata. Alla fine il Cremlino potrebbe puntare perlomeno a sottomettere Marjupol e aggiungere lo sbocco al mar d’Azov al bottino.

«La Nato non è pronta a garantire la sicurezza dell’Ucraina», ha protestato Kuleba dalla Turchia, senza però citare proprio Erdoǧan che tra i paesi dell’Alleanza è quello che più sta facendo il doppio gioco. Una pressione sull’opinione pubblica occidentale che può far comodo, ma che non sposterà di un millimetro la posizione della UE e degli Usa. Si tratta di un refrain agitato ormai spesso da Zelensky nei suoi quotidiani interventi. Il quale entrato nella crisi con rating bassissimi di consenso e a rischio di essere travolto dalla corruzione che impera nel suo entourage ora si trova a essere “eroe per caso” di un paese che necessita di una qualsiasi leadership per continuare a resistere.

Ascolta “Tutto secondo i piani” su Spreaker.

L'articolo Ma in Russia… a che punto è la notte? proviene da OGzero.

]]>
L’Iran guarda a Est https://ogzero.org/attacco-cibernetico-a-natanz/ Tue, 13 Apr 2021 09:02:44 +0000 https://ogzero.org/?p=3058 Il più importante impianto nucleare iraniano è di nuovo al centro dell’attenzione internazionale: il 10 aprile Rohani aveva inaugurato lì, a Natanz, in pompa magna una nuova serie di centrifughe per l’arricchimento dell’uranio. Il giorno dopo però l’impianto è stato colpito da un attacco cibernetico che le autorità iraniane hanno definito “terrorismo nucleare”. Già il […]

L'articolo L’Iran guarda a Est proviene da OGzero.

]]>
Il più importante impianto nucleare iraniano è di nuovo al centro dell’attenzione internazionale: il 10 aprile Rohani aveva inaugurato lì, a Natanz, in pompa magna una nuova serie di centrifughe per l’arricchimento dell’uranio. Il giorno dopo però l’impianto è stato colpito da un attacco cibernetico che le autorità iraniane hanno definito “terrorismo nucleare”. Già il 2 luglio 2020 l’impianto di Natanz era stato oggetto di un attacco, presumibilmente israeliano. Questa volta la responsabilità di Israele è asserita da fonti dell’intelligence statunitense citate dal New York Times. Il ministro degli esteri iraniano Javad Zarif ha dichiarato, lunedì 12 aprile, che l’Iran “risponderà” all’attacco, e ha accusato: Israele «ha voluto vendicarsi per i nostri progressi sulla via la revoca delle sanzioni». Insomma:  il nuovo attacco a Natanz  accentua i rischi di escalation tra Iran e Israele, e minaccia di ipotecare i colloqui appena avviati a Vienna per rilanciare l’accordo del 2015 sul programma nucleare iraniano.

L’articolo di Marina Forti che proponiamo colloca il contenzioso sul nucleare iraniano nel contesto, allargando lo sguardo ad altri protagonisti, ponendo le basi per interpretare la collocazione geopolitica dell’Iran nei prossimi anni.


Uno spostamento, verso Est?

La firma di un accordo venticinquennale di partenariato tra l’Iran e la Cina è stata accolta da commenti contrastanti. Firmato il 27 marzo a Tehran dai ministri degli Esteri iraniano e cinese, Javad Zarif e Wang Yi, l’accordo riguarda commercio, investimenti e difesa. È uno sviluppo importante, per il merito, e forse prima ancora per il momento in cui viene annunciato.

Presupposti per la ripresa del Jcpoa

Infatti, una delle partite più difficili affrontate oggi dalla diplomazia internazionale riguarda il possibile rilancio dell’accordo sul nucleare iraniano – il Joint Comprehensive Plan of Action, o Jcpoa, firmato da sei potenze mondiali con l’Iran nel 2015, da cui gli Stati Uniti si sono ritirati unilateralmente nel maggio 2018 per volere dell’allora presidente Donald Trump.

Il suo successore Joe Biden, appena insediato alla Casa Bianca, ha affermato l’intenzione di riportare gli Stati Uniti in quell’accordo: a condizione però che l’Iran torni a osservare le limitazioni alle sue attività nucleari previste dal Jcpoa, in parte abbandonate negli ultimi mesi. Tehran ha risposto che è stata Washington a rompere gli accordi: dunque prima gli Usa revocano le sanzioni draconiane e unilaterali che da due anni e mezzo soffocano l’economia iraniana, poi anche l’Iran torna a osservare i patti. La questione di chi debba compiere il primo passo ne nasconde altre, non ultimo il fatto che sia a Washington, sia a Tehran lavorano gruppi di interesse contrari alla ripresa di quegli accordi.

L’impasse si è prolungata per oltre due mesi. Finché gli Stati Uniti hanno accettato di partecipare a un vertice dei firmatari dell’accordo nucleare (Francia, Regno Unito, Germania, Russia, Cina, Unione europea e Iran), che si è tenuto a Vienna nella settimana dopo Pasqua, con i rappresentanti europei nel ruolo di mediatori. Iran e Stati Uniti hanno dunque accettato di definire un meccanismo di rientro simultaneo: gli Usa revocano le sanzioni del periodo Trump mentre l’Iran torna a limitare l’arricchimento dell’uranio secondo il vecchio accordo. Definire le modalità non sarà semplice, ma il percorso è aperto.

C’entra qualcosa tutto questo con l’accordo di cooperazione sino-iraniano, annunciato solo pochi giorni prima? Direttamente no, certo. E però, è chiaro che un partenariato economico tra l’Iran e la Cina limita l’efficacia del principale strumento di pressione usato da Washington verso Tehran, cioè le sanzioni commerciali. «L’Iran sta cercando di dire che ha dei partner, anche in un momento di tensione e difficoltà», commenta Esfandiar Batmangheligj, direttore della newsletter Bourse and Bazar specializzata in Iran e Asia centrale (citato da “The Independent”).

L’importanza di questo accordo però va oltre il dossier nucleare, e si inquadra nella più ampia strategia di sviluppo dell’Iran tra Europa e Asia.

Cosa sappiamo degli accordi tra Cina e Iran?

Per la verità non conosciamo molti dettagli sul “patto di cooperazione strategica” firmato a Tehran. Sappiamo che è stato in gestazione per cinque anni: ne parlò per la prima volta il presidente cinese Xi Jinping nel gennaio 2016 durante la sua visita a Tehran, dove aveva incontrato il Leader supremo, ayatollah Ali Khamenei. Sul momento la cosa sembrava caduta; si tornò a parlarne solo nel febbraio del 2019, quando l’allora presidente del parlamento iraniano Ali Larijani, in visita a Pechino, ne riparlò con il presidente Xi. Nel luglio di quell’anno lo stesso Larijani dichiarò che l’Iran aveva elaborato una bozza di accordo da discutere con le controparti cinesi. I negoziati sono proseguiti nel più assoluto riserbo; nel settembre 2019, quando il giornale “Petroleum News” ha dato notizia di un accordo negoziato “in segreto”, è sembrata una sorpresa.

Nel luglio del 2020 un’agenzia di stampa iraniana ha affermato di avere la bozza dell’accordo appena approvata dal governo di Hassan Rohani; poco dopo la stessa bozza è stata diffusa da “IranWire”, sito di oppositori iraniani all’estero.

Tanta segretezza ha suscitato molte polemiche in Iran. Le correnti più oltranziste hanno accusato il governo Rohani di “svendere” il paese; si diceva che avesse dato in concessione alla Cina alcune isolette iraniane nel Golfo Persico, forse addirittura l’isola di Kish, nota destinazione turistica. Il governo ha smentito. Il parlamento (dominato da deputati ultraconservatori) ha convocato il ministro degli Esteri per rispondere a interrogazioni molto ostili. L’ex presidente Mahmoud Ahmadi Nejad ha accusato Rohani di trasformare l’Iran in un protettorato cinese. Polemiche basate su illazioni e anche vane, poiché è noto che un tale accordo non si potrebbe negoziare senza il coinvolgimento del Consiglio di sicurezza nazionale e il consenso del Leader supremo. (Interessante però che le stesse accuse al governo Rohani siano state mosse dagli ultraconservatori interni e dagli exilés di “IranWire”).

Anche il “New York Times” nel luglio 2020 ha affermato di aver ricevuto il documento in 18 pagine che delinea la cooperazione tra Iran e Cina: secondo il giornale newyorkese, gli è stata data «da qualcuno al corrente dei negoziati con l’intenzione di mostrare l’ampiezza dei progetti considerati». In altre parole, fonti della Repubblica Islamica intenzionate a far sapere agli Stati Uniti (c’era ancora Trump) quanto la strategia di “massima pressione” fosse vana.

Dettagli del Patto di cooperazione sino-iraniana

In ogni caso, tutto ciò che sappiamo di quell’accordo si basa su quella bozza (secondo fonti citate sempre dal “New York Times” non sarebbe cambiata in modo sostanziale). Se dobbiamo prenderla per buona dunque sappiamo che la “cooperazione strategica” permetterà alla Cina di espandere la propria presenza in Iran nei settori delle telecomunicazioni, porti, ferrovie, nel sistema bancario, industria energetica, sanità, turismo e molti altri.

Città petrolifere alla foce dello Shatt-el Arab (foto di Wollwerth).

L’accordo elenca un centinaio di progetti, dai treni ad alta velocità alla creazione di “zone economiche speciali”: a Maku, nel Nordovest dell’Iran; a Abadan, città di installazioni petrolifere dove il fiume che separa Iran e Iraq (Shatt-el Arab per gli iracheni, Arvand per gli iraniani) si butta nel Golfo Persico; e sull’isola di Qeshm, nel Golfo. Si parla poi di infrastrutture per la rete di telecomunicazioni 5G, del sistema di posizionamento globale Beidou (il “Gps cinese”), di sistemi di monitoraggio del cyberspazio (controllare ciò che circola sulla rete).

Il sistema di posizionamento cinese Beidou

I progetti elencati non hanno nulla di stupefacente: sono quelli che la Cina ha proposto ovunque nell’ambito della sua “Belt Road Initiative”, il progetto globale di infrastrutture con cui sta espandendo commercio e investimenti cinesi nel mondo. Però denotano che Pechino non ha avuto troppe remore, anche ai tempi dell’amministrazione Trump, a pianificare investimenti in Iran nonostante il rischio di incorrere nelle “sanzioni secondarie” degli Stati Uniti – quelle che gli Usa applicano a paesi e aziende di paesi terzi che intrattengono relazioni economiche con l’Iran. (Si ricordi che la compagnia di telecom cinese Huawei è stata punita negli Usa proprio per non aver rispettato l’embargo all’Iran.)

Investimenti e accordi militari del Patto di cooperazione sino-iraniana

Le fonti citate dal “New York Times” dicono che la Cina investirà un totale di 400 miliardi di dollari nel periodo coperto dagli accordi (25 anni), in gran parte nei primi anni. E che riceverà in cambio regolari forniture di petrolio iraniano, a quanto pare a prezzi molto scontati: l’interesse sarebbe reciproco, perché Pechino importa tre quarti del suo fabbisogno di greggio, mentre l’Iran è tra i maggiori produttori mondiali ma ha visto il suo export assottigliarsi proprio a causa delle sanzioni statunitensi.

Quanto alla cifra di 400 miliardi di dollari non ci sono conferme, e secondo alcuni esperti è molto esagerata. Il portavoce del ministero degli Esteri cinese, Zhao Lijan, ha dichiarato che l’accordo non prevede “target definiti” sul volume degli scambi e degli investimenti; c’è solo la volontà di sviluppare «il potenziale di cooperazione dei due paesi nel campo economico, umano e altro».

L’accordo ha anche un capitolo sulla difesa, e qui i dettagli sono ancora più scarsi: si parla di addestramenti ed esercitazioni congiunte, ricerca, scambio di intelligence. Non è una novità assoluta. La cooperazione militare tra Cina e Iran ha già portato a tenere esercitazioni congiunte almeno tre volte dal 2014 a oggi; l’ultima nel dicembre scorso quando una nave da guerra cinese ha raggiunto quelle di Iran e Russia in una esercitazione nel golfo di Oman. Dire che sia un’alleanza in chiave antiamericana è esagerato (la Cina ha ottimi rapporti e acquista petrolio anche da paesi che invece sono nel campo americano, a cominciare dall’Arabia saudita). Però il segnale resta, e l’Iran tiene a sottolinearlo. In occasione delle manovre navali sino-russo-iraniane l’agenzia ufficiale cinese, Xinhua, aveva citato il comandante della Marina militare iraniana, Ammiraglio Hossein Khanzadi, secondo cui «l’era delle invasioni americane nella regione è finita».

Ricaduta infrastrutturale del Patto di cooperazione sino-iraniana

Quale sarà la traduzione pratica di questi accordi è presto per dire. Lo sviluppo più significativo per la Cina sarà rafforzare la sua presenza in un paese al crocevia geografico dell’Eurasia – e consolidare una presenza strategica sulle coste iraniane del mare d’Oman: si parla di un porto a Jask, appena fuori dallo stretto di Hormuz, quindi all’imboccatura del Golfo Persico tanto importante per il trasporto di petrolio mondiale (non a caso sul lato opposto di quel mare, in Bahrein, ha base la Quinta flotta degli Stati Uniti). Non pare che l’Iran si prepari a concedere una base militare alla Cina sulle sue coste (la sola base navale cinese all’estero oggi è a Gibuti, costruita nel 2015 a poche miglia da una base statunitense). Ma è chiaro che anche i porti commerciali hanno una valenza strategica, e negli ultimi decenni la Cina ne ha costruita una serie in tutto l’oceano Indiano, da Hambantota nello Sri Lanka meridionale a Gwadar in Pakistan, sulla rotta per Suez.

Per l’Iran invece lo sviluppo più concreto sono proprio i potenziali investimenti in infrastrutture e altri progetti economici. E secondo diversi osservatori questo si inserisce nel quadro di un riorientamento strategico delle priorità iraniane, che va ben oltre la necessità di resistere alle sanzioni statunitensi.

La Cina soppianta l’Unione europea

Le relazioni economiche tra Tehran e Pechino in effetti non sono nuove. Già nel 2011 la Cina aveva preso il posto dell’Unione europea come primo partner commerciale dell’Iran. Il motivo è semplice: tra il 2010 e il 2014, durante il secondo mandato del presidente Ahmadi Nejad, l’Iran si era trovato circondato da un muro di sanzioni (allora erano multilaterali, decretate dell’Onu oltre che da Unione europea e Stati Uniti), che aveva reso molto difficile importare qualunque cosa.

Allora però la Cina era solo un ripiego; per l’Iran il partner economico prioritario restava l’Europa. Così nel 2015, quando il moderato presidente Rohani ha firmato l’accordo sul nucleare, l’Iran ha puntato a rafforzare gli scambi e attirare gli investimenti europei. In effetti, per qualche tempo delegazioni commerciali da tutta Europa sono arrivate a Tehran in cerca di affari, e decine di memorandum d’intesa sono state firmate. Le aspettative però hanno tardato a realizzarsi (anche perché l’Iran restava escluso dal sistema bancario internazionale, controllato dagli Usa attraverso il dollaro). Poi l’avvento del presidente Trump ha decretato per l’Iran un isolamento economico ancora più forte delle precedenti sanzioni multilaterali. Gli investimenti europei, che in ogni caso erano rimasti sulla carta, si sono dileguati. E Tehran ha cominciato a riconsiderare la sua strategia.

Scelte di partnership alternative forzate dal protrarsi di sanzioni

Per resistere all’accerchiamento economico l’Iran doveva assicurarsi fonti alternative per le sue importazioni, soluzioni alternative per le transazioni finanziarie, vie alternative per esportare il proprio petrolio, e soprattutto modi per espandere le esportazioni di manufatti e prodotti non petroliferi. Ed è ciò che ha fatto.

Oggi due elementi vanno sottolineati. Il primo è «una crescente importanza dei paesi vicini come partner commerciali e lo spostamento delle fonti di importazione dai paesi occidentali a quelli della regione e orientali», osserva l’analista e imprenditore iraniano Bijan Khajehpour, che si basa sui dati diffusi dal ministero degli esteri iraniano per i primi dieci mesi dell’ultimo anno fiscale (dal 20 marzo 2020 al 20 gennaio 2021).

Il volume totale degli scambi, esclusi petrolio e prodotti petroliferi, ammontava in quei dieci mesi a 58,7 miliardi di dollari (è il 18 per cento meno del periodo corrispondente l’anno prima, ma pesa la pandemia di Covid-19). Le esportazioni non-petrolifere ammontavano a circa 28 miliardi di dollari, di cui oltre il 76 per cento è andato a cinque paesi: per il 26 per cento alla Cina (primo mercato per i prodotti iraniani), poi all’Iraq, gli Emirati Arabi Uniti, la Turchia e l’Afghanistan.

Nello stesso periodo l’Iran ha importato poco più di 30 miliardi di dollari di beni e servizi (il 20 per cento meno dell’anno prima), e i primi cinque paesi d’origine sono Cina (24,8 per cento), Emirati, Turchia, India e Germania (poco meno del 5 per cento).

Quanto all’export di petrolio bisogna fare delle ipotesi, perché i dati restano confidenziali (ovvio: sfugge ai monitoraggi ufficiali, perché chiunque ammetta di importare petrolio iraniano rischia ritorsioni da parte statunitense). Khajehpour ipotizza che l’export di greggio nei dieci mesi considerati ammonti a 7,2 miliardi di dollari, calcolando circa 600.000 barili al giorno al prezzo medio di 40 dollari a barile. (Per avere un’idea di quanto le sanzioni Usa costino all’economia iraniana si pensi che nel giugno 2018, quando gli Stati uniti si sono ritirati dall’accordo nucleare, l’Iran esportava 2,7 milioni di barili di greggio al giorno.)

Riconversione economica e sviluppo di medio-piccola manifattura locale

Il secondo elemento da sottolineare è che nelle esportazioni iraniane l’industria manifatturiera ha superato gli idrocarburi, e non solo nell’ultimo anno di pandemia. Già nel 2019 l’export non-petrolifero aveva totalizzato 41 miliardi di dollari, superando quello del petrolio. Non solo: mentre il settore petrolifero si era contratto del 35 per cento a causa delle sanzioni, il manifatturiero si era contratto appena dell’1,8 per cento.

Questo conferma che l’economia iraniana è molto più diversificata di quelle di altri paesi grandi produttori di idrocarburi: e sebbene fosse una tendenza già visibile nei primi anni del secolo, sono state proprio le sanzioni ad accelerarla. L’industria manifatturiera iraniana – automobili, meccanica, agroalimentare, farmaceutica e altro – rappresenta ormai l’ossatura dell’economia nazionale, con una struttura di piccole e medie imprese che producono sia per un mercato interno di 84 milioni di persone, sia per esportare nella regione circostante.

Strategia di resistenza

È questo che negli ultimi tre anni ha permesso all’economia iraniana di resistere alla “massima pressione” esercitata dagli Usa. La cosiddetta “economia di resistenza”, cioè la strategia di consolidare la produzione industriale interna, non è servita solo a sostituire le importazioni (sempre più costose a causa delle sanzioni), ma anche a consolidare «una strategia mista, promuovere le esportazioni e diversificare le fonti delle importazioni», osserva Khajehpour (così anche nelle importazioni pesano meno di una volta i beni di consumo finiti; nell’ultimo anno il 70 per cento delle importazioni erano beni intermedi, destinati all’industria interna).

La strategia di resistenza è stata questa: espandere la produzione nazionale anche per rafforzare l’export; rafforzare gli scambi con i paesi vicini, inclusa la Russia e l’Asia centrale; ridurre la dipendenza tecnologica dall’Occidente diversificando le importazioni. E guardare all’Eurasia, stabilire accordi di cooperazione a lungo termine con la Cina e nel prossimo futuro la Russia.

Si può immaginare che tutto questo andrà ben oltre l’esito dei colloqui cominciati a Vienna, la (auspicabile) revoca di almeno parte delle sanzioni statunitensi e il possibile rilancio dell’accordo sul nucleare. L’Iran ha cominciato a guardare all’Eurasia.

L'articolo L’Iran guarda a Est proviene da OGzero.

]]>
Onda d’urto nucleare sull’Iran https://ogzero.org/dalla-esplosione-di-natanz-alla-bocciatura-allonu-di-nuove-sanzioni-a-tehran-sabotaggio-e-pressione-rohani/ Fri, 04 Sep 2020 12:17:22 +0000 http://ogzero.org/?p=1141 L'amministrazione Trump ha stracciato l’Accordo sul nucleare che l'Occidente con Obama aveva stipulato con il regime degli ayatollah; e Israele non perde occasione per sabotare gli impianti iraniani, da ultimo l'esplosione di Natanz il 2 luglio. Si crea così un duplice fronte, interno ed esterno all'Iran, insufficiente a mettere in crisi la Repubblica Islamica

L'articolo Onda d’urto nucleare sull’Iran proviene da OGzero.

]]>
Sabotaggio: massima pressione su Rohani

L’ammissione è arrivata con quasi due mesi di ritardo. L’esplosione avvenuta il 2 luglio negli impianti nucleari di Natanz, in Iran, è il risultato di un atto di “sabotaggio”, ha dichiarato il 23 agosto un portavoce dell’Agenzia per l’energia atomica della repubblica islamica iraniana, citato dall’agenzia di stampa ufficiale Irna. Non ha precisato che tipo di esplosione e che materiali siano stati usati: questo «verrà annunciato a momento debito».

L’esplosione, che ha distrutto un intero edificio nell’impianto di Natanz, era stata preceduta da una serie di “misteriosi” incendi e esplosioni nei giorni e settimane precedenti in diverse altre installazioni di carattere militare in Iran, e aveva già suscitato un turbine di ipotesi: bombe, attacchi missilistici, attacco elettronico, sabotaggio? Da parte di dissidenti iraniani, degli Stati uniti, di Israele? Di sicuro l’ipotesi di incidenti fortuiti non ha mai convinto nessuno. In particolare, nel caso di Natanz già pochi giorni dopo l’esplosione il governo annunciava di aver determinato la causa, anche se non poteva per il momento rivelarla per “considerazioni di sicurezza”.

Chi tocca il reattore muore

La parola sabotaggio dunque non sorprende. Del resto non sarebbe la prima volta: sia gli Stati uniti che Israele hanno in passato condotto azioni coperte in Iran, come gli attentati in cui sono stati uccisi diversi scienziati nucleari iraniani (che molti attribuiscono a Israele), o le azioni di sabotaggio elettronico ai danni di impianti atomici attribuite agli Usa (ben prima dell’avvento di Donald Trump). Solo pochi giorni dopo l’esplosione del 2 luglio, il New York Times citava anonimi «agenti di intelligence mediorientali» (tra cui uno delle Guardie della Rivoluzione iraniane) secondo cui l’attacco a Natanz è stato compiuto da Israele con una bomba ad alto potenziale. Cosa in sé plausibile, ma difficilmente vedremo prove o ammissioni ufficiali. Da parte israeliana certo non verranno conferme, e di prassi neppure smentite (interrogato in proposito, il ministro della difesa israeliano Benny Gantz ha semplicemente detto alla radio di stato: «Non tutto quello che accade in Iran ha necessariamente a che fare con noi»: risposta che non è una smentita).

Natanz, regione di Esfahan

Il capoluogo dello sharestan omonimo ospita l’impianto nucleare più imponente dell’Iran

L’uranio di Natanz

Altri interrogativi riguardano l’entità del danno provocato. L’impianto di Natanz, costruito in parte nel sottosuolo non lontano dalla città di Isfahan nell’Iran centrale, è tra quelli soggetti a regolari ispezioni da parte dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea), l’ente delle Nazioni unite per la sicurezza nucleare. È a Natanz che a partire dal 2012 l’Iran ha cominciato a costruire le sofisticate centrifughe necessarie ad arricchire l’uranio. In luglio l’Agenzia atomica iraniana ha ammesso che l’esplosione ha ritardato il programma di arricchimento dell’uranio di alcuni mesi. Alcuni esperti occidentali sostengono invece che i danni all’impianto potrebbero aver ritardato il programma di un paio d’anni.

Che si voglia credere all’agenzia iraniana o agli esperti occidentali, pare chiaro che il sabotaggio potrà al massimo rallentare il programma atomico di Tehran – difficilmente riuscirà a fermarlo. Non ci sono riusciti i sabotaggi del passato. L’Agenzia atomica iraniana ha già annunciato che ricostruirà l’impianto distrutto, «con equipaggiamenti ancora più moderni».

Conviene ricordare che quando nel 2015 l’Iran e sei potenze mondiali hanno firmato il Joint Comprehensive Plan of Action (Jcpoa), più semplicemente chiamato l’“Accordo sul nucleare iraniano”, Tehran aveva accettato di rinunciare a buona parte della sua riserva di uranio già arricchito appunto a Natanz (intorno al 20 per cento, livello necessario alla ricerca medica ma lontano da quello che serve per confezionare armi atomiche); aveva inoltre accettato di non costruire nuove centrifughe per i successivi otto anni. In effetti l’uranio arricchito era stato spedito fuori dal paese, e la costruzione di centrifughe a Natanz era stata fermata, come hanno certificato le regolari ispezioni dell’Aiea. L’Iran ha sempre negato di voler costruire armi nucleari, mentre ha sempre puntato in modo abbastanza esplicito ad avere la “capacità atomica”, cioè la capacità di maneggiare il ciclo nucleare: considerando che dava migliori garanzie di “deterrenza” avere la capacità di costruire un ordigno in caso di necessità, piuttosto che costruirlo effettivamente. Ma anche a voler diffidare delle intenzioni di Tehran, bisogna osservare che dal punto di vista della non proliferazione, il Jcpoa aveva effettivamente messo un freno alle attività iraniane.

L’indipendenza europea sotto tutela

Finché nel maggio 2018 il presidente Trump ha annunciato il ritiro degli Stati uniti dal Jcpoa, ed è allora che a Natanz l’officina di fabbricazione delle centrifughe ha ripreso l’attività. Non subito, bisogna dire: per un anno e mezzo l’Iran ha continuato a osservare la sua parte dell’accordo, chiedendo piuttosto ai partner europei (Francia, Germania e Gran Bretagna sono i firmatari insieme all’Unione europea) di compensare l’Iran per i benefici persi. Sappiamo però che questo è il punto dolente: i paesi europei continuano ad affermare l’importanza del Jcpoa, della diplomazia multilaterale, e del dialogo con l’Iran, ma sul lato pratico non hanno saputo davvero contrastare le sanzioni economiche statunitensi: vivida illustrazione di quanto sia limitata l’autonomia europea in una economia mondiale dominata dal dollaro (ogni transazione rilevante che avviene in dollari, ovunque, è soggetta allo scrutinio delle autorità finanziarie statunitensi). Il meccanismo finanziario chiamato Instex, annunciato dall’Unione europea nel settembre 2018 (ma diventato operativo solo nel gennaio 2020) per offrire un canale per gli scambi commerciali con l’Iran, incluso il settore petrolifero, avrebbe dovuto permettere alle imprese europee di aggirare le sanzioni Usa: ma finora non è andato oltre una singola transazione dimostrativa. Lo stesso vale per un meccanismo che dovrebbe facilitare forniture “umanitarie”, farmaci e attrezzature mediche.

Insomma: di fronte agli indugi europei, nell’ultimo anno gradualmente Tehran ha ripreso ad arricchire uranio oltre il limite previsto dal Jcpoa (anche se resta ben al di sotto delle quantità di cui disponeva prima di firmare l’accordo). Passi molto graduali, definiti da parte iraniana una “riduzione degli impegni”; per il resto l’Aiea nota che Tehran continua ad attenersi agli accordi. Il presidente Hassan Rohani ha più volte ripetuto che le attività riprese sono facilmente reversibili, e che l’Iran è pronto a tornare indietro se gli Stati uniti rientreranno nel Jcpoa o se gli altri firmatari troveranno il modo di compensare il ritiro americano. Il presidente Rohani, e il ministro degli esteri Javad Zarif, sono convinti che restare nei termini dell’accordo sia nell’interesse dell’Iran.

Fronte nucleare interno

Ma è chiaro che la posizione di Rohani è sempre più difficile da tenere, in Iran. Quelli che hanno accusato Rohani di “svendere” gli interessi nazionali, ora possono dire “non bisognava fidarsi degli Stati uniti che firmano un accordo e non lo rispettano”. E dopo il sabotaggio a Natanz le voci contrarie all’accordo nucleare hanno alzato il volume. In parlamento è stato detto che il sabotaggio è frutto delle “infiltrazioni” di “spie” sotto la copertura dell’Aiea. Un gruppo di deputati sta raccogliendo firme su un progetto di legge per il ritiro “automatico” dell’Iran dall’Accordo nucleare nel caso che l’Onu torni a imporre le sue sanzioni come chiesto da Washington. Altri vorrebbero che l’Iran si ritirasse anche dal Trattato di Non Proliferazione, il Tnp, quello da cui discende l’Aiea con tutta la sua architettura di ispezioni e controlli (a cui l’Iran si è sempre sottoposto, si fa notare, al contrario di molti paesi della regione, Pakistan e India a est, Israele a ovest). C’è chi ha detto che l’Iran dovrebbe fare come la Corea del Nord, non subisce attacchi un paese che ha fatto davvero un test nucleare.

Posizioni simili ben poco realistiche, neanche ora che le correnti oltranziste dominano il parlamento: i processi decisionali su questioni di sicurezza nazionale non passano per il Majlis ma per un complicato equilibrio di poteri rappresentati nel Consiglio supremo di sicurezza nazionale, e in ultima istanza sono sanzionati dal Leader, prima autorità dello stato. Ma la crescente retorica antiaccordo è un segno del clima politico. E dopo il sabotaggio a Natanz, appare anche più giustificata.

Falchi americani e falchi iraniani

Il punto è proprio questo. Come in uno specchio, la guerra scatenata dall’amministrazione di Donald Trump ha fatto un enorme favore alle correnti più oltranziste della Repubblica Islamica. Attentati e sabotaggi infatti fanno parte di una vera e propria guerra: non dichiarata, non l’invasione spesso evocata dai falchi e sostenitori del “regime change” che albergano nella Casa Bianca (rappresentati ora dal segretario di stato Mike Pompeo). Ma pur sempre una guerra: in forma militare, come con l’attacco mirato che ha ucciso il generale iraniano Qassem Soleimani a Baghdad lo scorso gennaio, o la guerra economica condotta con le sanzioni. O ancora con le provocazioni, come i jet statunitensi che volano pericolosamente vicino a un aereo civile iraniano. Le provocazioni si moltiplicano: come quando Mike Pompeo è intervenuto alla Convention Repubblicana in videoconferenza da Gerusalemme rivendicando l’uccisione di Soleimani. L’ultima nomina della Casa Bianca alla carica di “inviato per l’Iran” è l’ennesimo segnale di ostilità: Elliott Abrams, è un autentico falco, già coinvolto nell’affare Iran-Contras durante l’amministrazione Reagan.

Ciò non farà crollare il regime. Il muro di sanzioni pesa sull’economia, certo, e sulla vita quotidiana degli iraniani; i sabotaggi e le provocazioni infliggono danni e alzano la tensione in modo pericoloso: ma tutto ciò non spingerà l’Iran a tornare al tavolo dei negoziati con gli Stati uniti (che sarebbe l’obiettivo teorico dichiarato dall’amministrazione Trump).

Invece, ha contribuito a cambiare l’equilibrio dei poteri a Tehran: a screditare i fautori del dialogo, l’amministrazione di Hassan Rohani, i “pragmatici” che avevano riaperto l’Iran al mondo (e allentato il clima di controllo interno: in un paese sotto attacco, anche le libertà civili sono schiacciate). Ha contribuito anche a rafforzare il potere e l’influenza della casta militare, che va ben oltre la difesa: le Guardie della rivoluzione hanno un ruolo essenziale nell’economia sotterranea che si espande proprio a causa delle sanzioni; gruppi industriali legati alle Guardie rilevano i contratti per grandi infrastrutture, petrolifere e non, abbandonate dalle imprese occidentali timorose di incorrere nelle ritorsioni americane.

Qualche scacco allo strapotere americano

In questo quadro però sorgono degli intoppi. Gli Stati uniti hanno subito una rara sconfitta al Consiglio di sicurezza dell’Onu, quando in agosto non sono riusciti a far passare una risoluzione per reimporre sanzioni delle Nazioni unite all’Iran, tra cui un embargo sulle vendite di armi (quello attualmente in vigore scade in ottobre, ai sensi del Jcpoa): la risoluzione Usa ha raccolto solo il voto della Repubblica Dominicana, mentre gli altri 13 membri del Consiglio di sicurezza hanno votato contro o si sono astenuti, inclusi i tradizionali alleati europei. [Sulla minaccia rappresentata dall’Iran, è utile ricordare che Tehran spende per la difesa una frazione rispetto ai paesi vicini, secondo il Stockholm International Peace Research Institute: il budget della difesa iraniano era stimato a quasi 13 miliardi di dollari nel 2019, contro i 62 miliardi dell’Arabia Saudita, i 20,4 miliardi per Israele (e lo stanziamento di 732 miliardi nel budget statunitense)].

Gli Stati uniti hanno allora tentato la carta di avviare il “meccanismo di arbitrato” (dispute mechanism) previsto dal Jcpoa, cioè il meccanismo legale che i firmatari dell’accordo possono avviare se uno dei partecipanti viola gli accordi, e che dovrebbe portare a sanzioni entro 30 giorni. Gli altri firmatari degli accordi però hanno osservato che Washington non è più un membro del Jcpoa, da cui si è ritirato nel 2018, quindi non ha il potere di avviare il meccanismo legale di sanzioni. Commentatori americani hanno osservato con disappunto che invece di isolare l’Iran, l’amministrazione Trump ha messo gli Usa in una posizione imbarazzante.

Mentre l’Iran ha avuto l’occasione di mostrare che in fondo sa prendere decisioni pragmatiche. Il 26 agosto infatti ha annunciato un accordo con l’Aiea, che chiedeva accesso a due siti atomici per ispezioni. L’accordo è stato annunciato insieme dal direttore dell’Agenzia iraniana per l’energia atomica, ali Akbar Salehi, e dal direttore generale dell’Aiea Rafael Grossi al termine di una missione di quest’ultimo a Tehran. L’Iran “dà volontariamente accesso” ai due siti interessati, è stato detto. Una data per la visita degli ispettori è stata concordata (“molto presto”, ha aggiunto Grossi). La questione non riguarda direttamente il Jcpoa (su questo, le ispezioni dell’Aiea non sono mai state interrotte). L’Iran applica un “Protocollo addizionale” che permette all’Aiea ispezioni ulteriori: ma in gennaio si era vista negare l’accesso per verifiche in due siti dove sarebbero state condotte nei primi anni Duemila attività di conversione dell’uranio e test su esplosivi che potrebbero alludere a attività belliche: dubbi che l’Aiea chiede di chiarire dopo aver ricevuto informazioni da Israele (sulla base, pare, di documenti che i servizi israeliani erano riusciti a trafugare dall’Iran). Il fatto che le illazioni siano arrivate da Israele aveva provocato le rimostranze iraniane. Durante la sua visita, Grossi ha precisato che l’Aiea non vuole “politicizzare” la questione. Il comunicato congiunto afferma che «sulla base delle sue informazioni, l’Aiea non ha ulteriori richieste di accesso» con l’Iran: la questione sembra chiusa.

La linea del dialogo dunque tiene – per ora. Ma è precaria: in attesa che gli europei facciano funzionare i canali commerciali con l’Iran, che la cooperazione prevalga sulle provocazioni. In attesa, soprattutto, delle elezioni presidenziali statunitensi: di sapere se alla Casa Bianca siederà il democratico Joe Biden, che promette di riportare gli Stati uniti nell’accordo nucleare con l’Iran, o il presidente Trump che continuerà a perseguire la sua “massima pressione”.

L'articolo Onda d’urto nucleare sull’Iran proviene da OGzero.

]]>
La crisi iraniana ai tempi del coronavirus https://ogzero.org/la-crisi-iraniana-ai-tempi-del-coronavirus/ Tue, 28 Jul 2020 17:50:16 +0000 http://ogzero.org/?p=417 I dispacci del ministero della sanità iraniano non lasciano dubbi: in Iran il coronavirus ha ripreso a correre. I contagi sono in costante aumento e il numero totale dei decessi ufficialmente attribuiti al Covid-19 ha superato ormai le 17000 persone. L’allarme era scattato alla fine di giugno, con una media di oltre cento morti al […]

L'articolo La crisi iraniana ai tempi del coronavirus proviene da OGzero.

]]>
I dispacci del ministero della sanità iraniano non lasciano dubbi: in Iran il coronavirus ha ripreso a correre. I contagi sono in costante aumento e il numero totale dei decessi ufficialmente attribuiti al Covid-19 ha superato ormai le 17000 persone. L’allarme era scattato alla fine di giugno, con una media di oltre cento morti al giorno; un mese dopo, il 27 luglio il portavoce del ministero della sanità ha avvertito che la media ormai supera i 200 decessi quotidiani. L’epidemia di Covid-19 così è tornata di prepotenza sulle prime pagine della stampa iraniana, da cui era pressoché scomparsa, con titoli allarmati: Il coronavirus uccide un iraniano ogni 12 minuti. Alcuni parlano di «seconda ondata», altri di «una nuova, pericolosa fase del coronavirus in Iran», e invitano a «prendere il coronavirus sul serio».

I messaggi di allarme sono alternati però a tentativi di rassicurare. Il 25 giugno il presidente Hassan Rohani aveva annunciato che l’uso della mascherina in pubblico sarebbe stato reso obbligatorio, ma aveva aggiunto che non sarebbe stato necessario chiudere gli esercizi commerciali – se tutti avessero mostrato senso di responsabilità e rispettato le norme del “distanziamento”. Alla fine di luglio, di fronte al contagio che continua ad aumentare, il viceministro della Sanità Iraj Harirchi ha osservato che è Tehran la «fonte di diffusione» del coronavirus nel resto del paese, visto che ogni giorno centinaia di migliaia di persone raggiungono l’area metropolitana per lavoro o altro. Un moltiplicatore di contagi sono «usanze e tradizioni locali» come feste e celebrazioni religiose: Harischi cita il caso di 120 persone infettate dopo aver partecipato alla stessa festa di matrimonio. Ha però aggiunto che il 95 per cento dei contagiati guarisce senza bisogno di particolari cure.

Sta di fatto che a metà giugno il ministero della sanità ha dichiarato “zona rossa” cinque province (Bushehr, Khuzestan, Est Azarbaijan, Kermanshah e Hormozgan, nel sud-ovest, ovest e nord del paese) e poi via via altre: ora sono 12, sul totale di 31.

Se basteranno le mascherine e gli appelli al distanziamento, resta da vedere. Intanto, la ripresa dell’epidemia pone un dilemma ai dirigenti della Repubblica Islamica dell’Iran, restìi ad ammettere che le restrizioni imposte in marzo sono state probabilmente tolte troppo presto.

All’inizio di marzo l’Iran era emerso tra i maggiori punti caldi della pandemia del coronavirus Sars-CoV-2 fuori dalla Cina (prima di essere superato dall’Italia). Colta di sorpresa, Tehran aveva dapprima cercato di minimizzare: il primo decesso ufficialmente attribuito al Covid-19 risale al 19 febbraio, ma solo il 5 marzo il governo iraniano ha dichiarato la “mobilitazione nazionale” per contenere l’epidemia. I media internazionali ne hanno riferito soprattutto per accusare le autorità iraniane di lentezza e avanzare dubbi sul conteggio ufficiale dei decessi, che molti in Iran e fuori considerano sottostimati. In effetti una analisi del Centro studi del Parlamento iraniano in aprile suggerisce che il numero reale dei decessi dovuti a Covid-19 sarebbe quasi il doppio di quello dichiarato dal ministero della sanità.

In ogni caso alla vigilia di Nowrooz, il capodanno persiano che quest’anno cadeva il 20 marzo, il governo ha imposto una chiusura generalizzata, benché non totale: chiuse scuole e università, sospese le preghiere del venerdì, annullate tutte le manifestazioni culturali e festival di ogni tipo, limitate le attività commerciali, scoraggiati (benché non vietati) gli spostamenti interni.

Poi però, a partire dall’11 di aprile il blocco è stato gradualmente revocato, nonostante il parere contrario di molti esperti di sanità pubblica: prima le attività “a basso rischio” poi via via tutto il resto (solo eventi culturali, cinema e moschee hanno prolungato la chiusura per tutto maggio).

Il punto è che l’epidemia ha colpito l’Iran in un momento difficile, tra crescenti tensioni internazionali e con un’economia già colpita dalla recessione e dalle sanzioni imposte dagli americani. E con un quadro politico interno decisamente spostato a favore delle fazioni conservatrici, opposte al presidente Rohani e alla sua linea di dialogo internazionale e moderazione interna: sono queste che dominano la nuova legislatura insediata formalmente il 27 maggio.

Per ironia, le elezioni parlamentari tenute il 21 febbraio sarebbero proprio uno dei motivi per cui il governo non aveva voluto dichiarare l’emergenza per il coronavirus né isolare il primo focolaio, registrato allora nella città di Qom, sede delle scuole teologiche molto presenti nella politica interna: temeva di scoraggiare la partecipazione al voto. Infatti era previsione unanime che l’affluenza alle urne sarebbe stata bassa, dopo mesi di crisi: la repressione delle proteste di novembre, l’escalation della tensione con gli Stati Uniti e l’uccisione del generale Soleimani, lo sconcertante episodio dell’aereo ucraino abbattuto per errore. Per non parlare dell’esclusione di gran parte dei candidati “riformisti”. E infatti la nuova legislatura, dominata dagli ultraconservatori, è stata eletta con il voto meno partecipato nella storia della Repubblica Islamica: appena il 42 per cento di affluenza, e solo il 25 per cento a Tehran (le precedenti elezioni parlamentari avevano visto votare il 61 per cento degli elettori, e per le presidenziali del 2017 alle urne si era recato il 73 per cento degli aventi diritto).

Perché l’Iran è uscito dal “lockdown”

Rimettere in moto l’economia era “una necessità” per il paese,  ha argomentato il presidente Rohani in un discorso del 22 aprile: l’Iran non poteva permettersi di prolungare il blocco.

Per capire perché il presidente Rohani abbia preso una decisione così rischiosa sul piano sanitario bisogna ricordare che già prima dell’epidemia, l’Iran era in recessione profonda. Il Prodotto interno lordo aveva registrato una crescita negativa del 7 per cento nell’anno fiscale concluso il 20 marzo (secondo il Fondo monetario internazionale la decrescita sarebbe più profonda, meno 9,5). L’inflazione aveva raggiunto il 41 per cento secondo la stima della Banca centrale iraniana, un livello che non si vedeva dalla fine della disastrosa presidenza di Ahmadi Nejad.

Tutto questo è in buona parte conseguenza della nuova ondata di sanzioni decretata dagli Stati uniti a partire dal maggio 2018, quando il presidente Donald Trump ha deciso di ritirarsi dall’accordo sul nucleare (il Joint Comprehensive Plan of Action, o Jcpoa) firmato nel 2015 dall’Iran e da sei potenze mondiali (Usa, Russia, Cina, e da Francia, Regno unito e Germania in rappresentanza dell’Unione europea). Tre anni dopo le grandi speranze aperte da quell’accordo, per l’Iran è cominciata una nuova stagione di isolamento economico.

Le sanzioni decretate da Washington infatti sono particolarmente pesanti, benché unilaterali, sia perché gli Usa bloccano l’accesso dell’Iran al circuito bancario internazionale, sia perché con il meccanismo delle sanzioni secondarie colpiscono anche i soggetti di paesi terzi che mantengono relazioni economiche con Tehran. I paesi europei firmatari del Jcpoa hanno più volte proclamato la volontà di mantenere aperti canali commerciali con l’Iran; a questo dovrebbe servire uno strumento finanziario chiamato Instex, lungamente discusso e varato infine nel gennaio del 2019: ma senza grandi conseguenze pratiche;  la prima e per ora unica transazione di merci con questo meccanismo è avvenuta nel marzo del 2020.

La prima conseguenza che le esportazioni iraniane sono crollate e le importazioni sono diventate più care. In particolare è crollato l’export di petrolio, specialmente preso di mira da quella che la Casa Bianca  definisce “strategia della massima pressione”.

L’effetto è stato drastico. Nel giugno 2018, quando gli Stati uniti si sono ritirati dall’accordo nucleare, l’Iran esportava 2,7 milioni di barili di greggio al giorno (bpd, barrel-per-day); nel settembre di quell’anno (ancora prima che le nuove sanzioni entrassero in vigore) era già sceso a 1,9 milioni. Da allora ha continuato a scendere: un milione di bpd nell’aprile del 2019, una media di 260000 bpd nell’ottobre 2019. Il ricavato netto è sceso di conseguenza, da un picco di 67 miliardi di dollari nel 2018 a circa 20 miliardi di dollari nei primi sei mesi del 2019 (secondo la Aie, Agenzia internazionale per l’energia). In altre parole, le sanzioni costano all’Iran miliardi di dollari di mancato reddito. Ed è a questo punto che arriva il coronavirus.

La pandemia sotto sanzioni

L’Iran è l’unico paese al mondo che stia combattendo una pandemia sotto sanzioni. Il paese ha un servizio sanitario tra i migliori della regione mediorientale, con una rete di strutture decentrata e personale medico e paramedico di ottimo livello, tra cui molti specializzati all’estero (anche se ha un numero di posti letto per abitante appena sufficiente in tempi normali). Ma sconta una cronica carenza di attrezzature e farmaci, proprio a causa delle sanzioni applicate dagli Stati Uniti. Il materiale sanitario in teoria non è coperto da embargo, ma di fatto anche importare attrezzature mediche o ospedaliere è quasi impossibile perché l’esclusione delle banche iraniane dal sistema bancario globale blocca i normali canali di pagamento. Il 27 febbraio il governo svizzero ha ufficialmente varato un meccanismo finanziario per permettere l’acquisto da parte iraniana di medicinali, cibo e forniture “umanitarie”. Ma due mesi dopo la prima transazione “pilota”, una vendita di materiale medico per 2,5 milioni di dollari, non si è visto più nulla: segno che la “massima pressione” esercitata da Washington continua a dissuadere molte aziende dal vendere all’Iran materiale medico peraltro perfettamente legale.

Il confinamento intanto ha aggravato la recessione, com’era inevitabile. Ha colpito in primo luogo il commercio, perché gli acquisti che precedono il Nowrooz contano per circa metà del fatturato annuo dei negozianti e di molte imprese di beni di consumo. Poi l’industria turistica: ristoranti, agenzie viaggi e hotel sono rimasti semivuoti durante le vacanze più importanti dell’anno; il giro d’affari del settore è crollato di oltre il 90 per cento, secondo le prime stime.

Un bilancio più approfondito resta da fare. L’economia iraniana è molto più diversificata di molti altri paesi grandi produttori di idrocarburi, e le sanzioni hanno accelerato l’emancipazione dell’Iran dal petrolio. Il settore manifatturiero rappresenta già da tempo l’ossatura dell’economia nazionale, con una struttura di piccole e medie imprese che producono sia per un mercato interno di 80 milioni di persone, sia per l’esportazione – in particolare nella regione circostante (dall’Iraq alla Turchia, agli Emirati arabi, alle repubbliche dell’Asia centrale). Anzi: è proprio questo settore – dalle automobili alla meccanica all’agroalimentare – che ha permesso all’economia iraniana di resistere alla “massima pressione” esercitata dalle sanzioni Usa. L’anno scorso l’export di prodotti non-oil ha fatto 41 miliardi di dollari superando per la prima volta il reddito petrolifero. E mentre il settore petrolifero si è contratto del 35 per cento nell’anno appena trascorso a causa delle sanzioni, il manifatturiero si è contratto appena dell’1,8 per cento.

Se questo lascia sperare per una futura ripresa, il punto è che l’epidemia di Covid-19 ha effetti disastrosi nell’immediato.

Secondo alcune stime il prodotto interno iraniano sarà diminuito del 15 per cento a causa del blocco delle attività durante il confinamento. Il valore della valuta iraniana, il Rial, è crollato negli ultimi due anni e ha avuto un ulteriore crollo alla fine di giugno: sotto la duplice spinta delle aspettative nere e di manovre speculative.  Di sicuro sono andati in fumo molti posti di lavoro. Anche qui sono stime preliminari: la  stampa iraniana cita la Mezzaluna rossa iraniana secondo cui due milioni di lavoratori alla giornata hanno perso ogni reddito. Prima del coronavirus circa 3 milioni di iraniani figuravano disoccupati (ma secondo alcune stime erano di più); l’11 aprile un portavoce del governo aveva detto che un lockdown prolungato avrebbe aggiunto altri 4 milioni di disoccupati. In termini di impoverimento e aumento delle diseguaglianze, il futuro è fosco.

L’allarme degli economisti

In una lettera indirizzata al presidente Hassan Rohani il 3 aprile, una cinquantina di economisti iraniani avvertivano che l’impatto dell’epidemia aggraverà in modo insostenibile la recessione e il declino della produzione interna, con la conseguenza di accrescere la povertà e il disagio sociale, approfondire il deficit di bilancio dello stato, far lievitare l’inflazione. Dicevano che l’Iran rischia nuove proteste e disordini nelle periferie urbane a basso reddito – magari alla fine di quest’anno o nei primi mesi del prossimo.

Una prospettiva tutt’altro che remota, per chi ricordi l’ondata di rabbia innescata dall’aumento del prezzo della benzina nel novembre scorso. Allora la repressione fu così brutale da suscitare sconcerto nel paese e spingere il Majlis (il parlamento) a istituire una commissione d’inchiesta. Alla fine di maggio proprio il deputato che presiede quella commissione ha dichiarato che 230 manifestanti sono stati uccisi durante i disordini: la prima ammissione, benché semiufficiale.

Nella loro lettera, gli economisti propongono diverse misure per attutire il crollo dell’economia, a cominciare da una serie di sussidi ai cittadini e alle imprese.

In parte, è proprio ciò che il presidente Rohani ha fatto. Il 16 marzo il suo governo ha annunciato misure come un “bonus” una tantum per i cittadini già percipienti dei programmi di welfare statale; piccoli prestiti senza interesse ripagabili in trent’anni a piccoli negozianti e venditori ambulanti; sussidi e inserimento al lavoro per le madri sole. È stato annunciato anche un aumento del 50 per cento del salario degli impiegati pubblici di basso livello, che rientrano senza dubbio tra le fasce più povere della società.

Questi però sono piccoli interventi. Il governo ha anche sospeso per tre mesi l’esazione delle imposte per le aziende in difficoltà. E ha promesso di stanziare l’equivalente di 6,25 milioni di dollari per garantire prestiti a tasso agevolato (ripagabili in tre anni al tasso del 12 per cento, mentre le banche praticano normalmente tassi del 20 per cento): molti hanno obiettato che doveva offrire almeno prestiti a interesse zero.

In termini di “stimolo” per rilanciare l’economia è ben poco, se si pensa alle migliaia di miliardi mobilitati in Europa. Il fatto è che il governo ha serie difficoltà a offrire assistenza finanziaria  agli imprenditori iraniani, per il semplice motivo che le entrate dello stato si sono ridotte in modo drammatico proprio in questi mesi di crisi sanitaria. La domanda mondiale di petrolio è crollata in seguito alla pandemia, facendo scendere il prezzo, e questo ha colpito le già declinanti esportazioni iraniane. Anche le entrate fiscali sono crollate, con tante aziende costrette a chiudere o in crisi.

Questo ha spinto il governo Rohani prima a chiedere (e ottenere) il permesso del parlamento a prelevare un miliardo di euro dal Fondo nazionale per lo sviluppo, una riserva speciale dello stato. Poi a chiedere di attingere al fondo speciale del Fondo monetario internazionale (Fmi) per la lotta al Covid-19, con un prestito di 5 miliardi di dollari: la prima volta che l’Iran chiede un prestito al  Fmi dalla Rivoluzione del 1979. Un gesto “politico” dunque, con cui Rohani si è guadagnato forti critiche interne dall’opposizione conservatrice. Ma comunque vano: è assai improbabile che il prestito sia concesso, tanto più che Washington ha una posizione preminente nel Consiglio d’Amministrazione del Fmi e blocca la domanda iraniana.

Il governo si è poi rivolto all’interno, proponendo dei titoli di stato (una sorta di “coronavirus bond”) per attingere al risparmio degli iraniani – e magari alle grandi fortune che un certo numero di super-ricchi nazionali tiene ben al sicuro all’estero: con quanta fortuna si vedrà.

C’è però da considerare un altro aspetto della risposta pubblica alla crisi sanitaria. Anche in Iran l’epidemia ha mobilitato a vari livelli la società civile, suscitando un diffuso movimento di solidarietà esemplificata da casi di “crowdfunding” per finanziare servizi medici, o la Campagna chiamata Nafas, “respiro”: una coalizione di organizzazioni umanitarie non governative, imprese e camere di commercio, che ha cercato di facilitare l’importazione di beni necessari (protezioni mediche, per esempio), arrivando ad allestire una clinica specializzata in pazienti Covid (ne accenna qui l’analista Bijan Khajehpour).

Notizie come questa fanno pensare alla capacità di resistenza degli iraniani: abituati a vivere tra crisi e sanzioni, faranno fronte anche all’epidemia.

Il 27 luglio il portavoce del ministero della Sanità iraniano ha annunciato che in media 200 persone al giorno sono morte di Covid-19 nelle ultime due settimane; il numero totale dei decessi attribuiti ufficialmente alla pandemia ora supera i 16000. Le provincie sottoposte a restrizioni per motivi sanitari sono salite a 12 (su 31). Secondo il viceministro della Sanità Iraj Harirchi però è Tehran la “fonte di diffusione” del coronavirus nel resto del paese, visto che centinaia di migliaia di persone vi si recano ogni giorno per lavoro o altro. Il dato positivo e che il 95 per cento delle persone infettate guarisce senza bisogno di particolari cure.

L'articolo La crisi iraniana ai tempi del coronavirus proviene da OGzero.

]]>