Sahel Archivi - OGzero https://ogzero.org/tag/sahel/ geopolitica etc Sun, 05 May 2024 15:32:06 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.4.6 Bobo-Dioulasso https://ogzero.org/studium/bobo-dioulasso/ Mon, 01 Apr 2024 14:59:10 +0000 https://ogzero.org/?post_type=portfolio&p=12491 L'articolo Bobo-Dioulasso proviene da OGzero.

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Bobo Break!

Bobo-Dioulasso, una città africana di media grandezza, si manifesta attraverso la sua oralità e l’arte dei griots, non solo agli occhi di chi la osserva ma anche nella memoria di chi ascolta le sue storie. Non si può raccontare senza passare attraverso i suoi canti e le sue danze. È un luogo dove la parola modella l’argilla nelle zone rurali durante i lunghi sei mesi della stagione secca, da novembre a maggio, e dove la musica dà vita agli spazi urbani durante i matrimoni e le celebrazioni di quartiere. Il ritmo quotidiano è scandito dal suono delle donne che preparano il to’, la polenta, dall’intensa attività dei mercati mattutini e infine dalle storie narrate nei maquis serali. In questo libro mi propongo di narrare le storie che ho ascoltato e i significativi cambiamenti che hanno interessato sia le aree rurali che urbane di Bobo in un determinato arco temporale, a partire da un periodo di stabilità politica che è durato 27 anni, dal 1987 al 2014. Durante questi anni, il Burkina Faso è stato governato da un uomo controverso, temuto e ammirato, che ha compiaciuto alcuni ma dimenticato altri, portando Bobo-Dioulasso a distaccarsi dalle politiche centrali. Tuttavia, il delicato equilibrio cominciò a incrinarsi nel 2002 con la guerra civile in Costa d’Avorio e divenne ancora più instabile con la scoperta di grandi risorse auree nel Burkina Faso nel 2006, trasformando il Sahel in un Eldorado poi dimenticato.

«Questo libro è nato dalla mia necessità di aprire un dialogo con altri curiosi abitanti delle città, con altri cittadini cosmopoliti, sull’esistenza di un’anima non umana, sull’anima del mondo, sulla percezione della città da un punto di vista frontale e vissuto – come sperimentato da tutti i sensi –, e che ho vissuto nel fare architettura a Bobo, cambiando il mio modo di ascoltare la natura e il territorio».

Chiara Rigotti



Il libro come si può leggere ora è cominciato con alcune elucubrazioni dell’Autrice nell’agosto 2023, che ha condiviso con OGzero e che cominciamo a proporvi, questa volta inserendo a posteriori i testi preparatori di un libro già uscito e disponibile, che si può così ricostruire negli intenti e nella fattura.

Racconta Chiara Rigotti, architetta a lungo vissuta e operante in Burkina Faso: «Ho conosciuto un Burkina che presto non esisterà più, ho assistito a molti rituali invitata dai capi villaggi, ho creato cantieri-scuola seguendo i principi di Thomas Sankara usando solo materiali locali e formando i giovani di almeno due generazioni. Insegno nelle Università Burkinabé dal 2002.
Ho vissuto la rivoluzione del 2014 che ha cambiato tutto e ho assistito agli ultimi due colpi di stato. Ho lavorato 6 anni nei villaggi prima di aprire il mio studio in città, ho avuto molti clienti diversi: istituzioni pubbliche e private, parrocchie, ong, privati e anche i ministeri.
Il mio impegno nell’architettura sostenibile e socialmente responsabile in Burkina Faso è stato guidato dalla convinzione che l’architettura non debba solo rispondere a esigenze funzionali ed estetiche, ma debba anche essere un motore per il progresso sociale e culturale. Ogni comunità ha una storia, una cultura e un contesto unici che devono essere rispettati e integrati nella progettazione degli spazi che abitano. La sfida sta nel trovare il giusto equilibrio tra innovazione e tradizione, tra esigenze moderne e radici culturali».

Uno degli intenti principali è quello di riuscire a trasmettere l’aspetto spesso invisibile di questa cultura rurale, che ha rinunciato a favorire una forma architettonica in favore di uno stile che si integri con il paesaggio circostante e rispetti l’ambiente naturale; non bastano dunque competenze tecniche per operare senza fare danni in una realtà così complessa, ma sono richieste anche capacità psicologiche per comprendere le esigenze dei committenti, sensibilità antropologica per comprendere i simboli e i segni culturali, nonché una visione futuristica per creare in armonia con gli usi e le tradizioni locali, facendo tesoro di un mosaico di storie di vita vissuta che si intrecciano in un racconto cronologico unito dal filo rosso di un’architettura consapevole dei luoghi e delle comunità a cui essa è destinata.
In questa prospettiva grandi architetti africani come Francis Keré hanno potuto costruire architetture ecologiche e socialmente rilevanti grazie al supporto consolidato nel tempo di leader visionari come Thomas Sankara, che diceva «Osez inventer l’avenir».

La storia del Burkina Faso è caratterizzata da scambi culturali e commerciali che affondano le radici nell’epoca medievale e da grandi imperi, come l’Impero del Mali Malinké e l’Impero Shongai del Ghana, che hanno cercato spesso di conquistare la città di Bobo-Dioulasso senza mai riuscirci e di recente pure la grandeur francese è stata ridimensionata fino a venire estromessa dal paese. Il Burkina Faso è uno dei paesi più densamente popolati dell’Africa occidentale. Secondo le stime delle Nazioni Unite la popolazione è di circa 21,4 milioni di persone su un territorio di 330 chilometri quadrati.

L’urbanizzazione è in costante aumento, con un tasso di urbanizzazione stimato al 33,6% nel 2021. Questo indica che circa un terzo della popolazione vive in aree urbane. Le città principali, come la capitale Ouagadougou e Bobo-Dioulasso, hanno sperimentato un rapido aumento della popolazione e dell’urbanizzazione a causa della migrazione rurale e dell’aumento delle opportunità economiche nelle aree urbane.
Nel corso degli ultimi quattro anni, le migrazioni verso le aree urbane sono state innescate dalla confisca delle terre settentrionali da parte dei gruppi terroristici. Il numero dei deplacées interni è aumentato in modo significativo, ponendo una pressione urgente sulle città per affrontare l’emergente povertà. Un considerevole numero di individui nelle aree urbane vive in insediamenti informali, affrontando sfide legate all’alloggio, all’igiene e all’accesso all’acqua potabile.

La popolazione giovanile gioca un ruolo significativo in tutto il continente. La maggior parte della popolazione è composta da giovani sotto i 25 anni. Questa giovane popolazione rappresenta sia una risorsa che una sfida per il Burkina Faso. Da un lato, offre il potenziale per lo sviluppo economico e sociale, ma dall’altro lato, richiede opportunità educative, formazione professionale e opportunità di lavoro per evitare problemi di disoccupazione giovanile.
Inoltre, la crescente urbanizzazione richiede una pianificazione urbana e un’infrastruttura adeguata per sostenere le esigenze della popolazione urbana in crescita. Il governo e le organizzazioni internazionali stanno lavorando per affrontare queste sfide e migliorare la qualità della vita nelle città medie oltre che nelle capitali. Nell’attuale contesto, l’approccio degli urbanisti deve adottare una prospettiva olistica che tenga conto della storia e delle dinamiche della popolazione.

La città di Bobo-Dioulasso ha una storia leggendaria che riflette l’interazione di diverse etnie come i bobo e i dioula, ognuna con la propria cultura e tradizioni. I bobo sono una popolazione sedentaria, principalmente animista, che non si spostò mai dalla regione delle grandi pianure e dei grandi bacini d’acqua, una zona molto fertile e ricca di vegetazione che occupa la parte ovest del Burkina Faso fino al sud del Mali, mentre i dioula sono commercianti, spesso musulmani, che si spostano per i loro commerci dal Sud del Senegal e della Guinea fino alla Costa d’Avorio, passando per il Mali. Bobo-Dioulasso nella lingua locale significa la casa (so) dei bobo e dei dioula.

Caratterizzata da una stretta interazione tra gli edifici e il territorio, l’architettura soudano-saheliana è spesso realizzata utilizzando materiali locali come la terra cruda, la paglia e il legno. Uno dei principali elementi distintivi di questo stile è l’uso di tecniche di costruzione ancestrale, locali, come la “boule di terra” o “pisé”, che coinvolgono la creazione di pareti solide in terra compattata. Questo metodo consente un buon isolamento termico, mantenendo gli interni freschi durante le calde giornate e limitando i cambiamenti di temperatura.

Le abitazioni soudano-saheliane spesso presentano forme compatte con tetti spioventi che favoriscono il deflusso delle piogge. Le finestre sono progettate per consentire una buona ventilazione naturale e l’ingresso di luce, ma al contempo limitano l’irradiazione solare diretta durante le ore più calde della giornata.
Un altro aspetto importante dell’architettura tradizionale di questi luoghi è la possibilità di ampliare gli edifici in base alle esigenze. Questo permette di adattare le strutture agli sviluppi familiari o alle nuove attività, senza dover demolire o modificare l’intero edificio.

L’importazione indiscriminata di materiali da costruzione “stranieri” negli ultimi 50 anni, come il cemento e la lamiera, ha avuto un impatto negativo sull’architettura tradizionale e sostenibile dell’Africa occidentale, in particolare nella regione del Burkina Faso. Questi materiali, sebbene possano sembrare moderni e convenienti, spesso non sono adeguati alle condizioni climatiche e alle risorse locali, portando a conseguenze nefaste per l’ambiente e per la cultura architettonica.
Il cemento è diventato un materiale molto popolare nell’edilizia, ma la sua produzione richiede grandi quantità di energia e risorse naturali, contribuendo all’emissione di gas serra e all’alterazione dell’equilibrio ecologico. Inoltre, gli edifici in cemento tendono a trattenere il calore e a provocare sbalzi termici significativi, causando disagi termici all’interno delle abitazioni.
La lamiera, sebbene possa sembrare una soluzione economica per i tetti, crea un serio problema di surriscaldamento. Le temperature sotto la lamiera possono diventare insopportabilmente alte durante la stagione calda, rendendo gli spazi abitativi inospitali e poco confortevoli.


L’abbandono dei materiali locali e delle tecniche tradizionali è stato spesso guidato da un desiderio di modernità e di adottare ciò che è percepito come “moderno” o “occidentale”. Questo cambiamento di mentalità è spesso incoraggiato dalla pubblicità, dai media e dalla percezione che l’uso di materiali di importazione sia sinonimo di progresso.
La deforestazione ha ulteriormente aggravato la situazione, poiché la mancanza di legno ha spinto le persone a cercare alternative ai tetti tradizionali. I blocchi di cemento e la lamiera sono diventati le opzioni preferite per costruire più rapidamente e a un costo inferiore, nonostante i loro svantaggi in termini di efficienza energetica e comfort.
Tuttavia, negli ultimi anni, c’è stata una crescente consapevolezza dei danni causati da queste pratiche e un ritorno alla valorizzazione dei materiali locali e delle tecniche tradizionali. Gli architetti e gli urbanisti stanno lavorando per sviluppare soluzioni che combinino l’uso di materiali locali con approcci moderni e sostenibili. Ciò include la promozione di tecniche di costruzione bioclimatiche, l’uso di materiali naturali come la terra cruda e la paglia e la reintroduzione di tecniche tradizionali di raffreddamento passivo.





Chiara Rigotti è architetto e consulente internazionale, da più di 20 anni svolge un lavoro di progettazione e ricerca nell’architettura ecologica e sociale. Nel 2002, il suo percorso l’ha portata in Burkina Faso con Arquitectos sin Fronteras – Barcelona, dove si è dedicata alla costruzione di infrastrutture e alla formazione di maestranze locali tessendo un dialogo costruttivo tra la pratica architettonica e le sapienti tecniche tradizionali, imparando e insegnando al contempo. Ha realizzato diversi progetti in Burkina Faso e in molti altri paesi africani tenendo sempre uno sguardo attento sulla natura del luogo e le sue potenzialità. Il suo studio di bioarchitettura nasce nel 2014, e dopo qualche anno ottiene il Terra Sahel Award 2019. Scrive e coordina progetti di cooperazione locale e internazionale, ha co-fondato Architettura senza Frontiere – Piemonte e ha deciso di trasmettere attraverso l’insegnamento quello che ha imparato nei suoi viaggi.


La ricca sezione delle città africane pensata e inserita nella collana dietro indicazione, selezione e cura di Angelo Ferrari è ora nelle capaci mani di Federico Monica, architetto specializzato nell’analisi dei fenomeni urbani in Africa, ha accettato l’impegnativo compito di ereditare e proseguire il suo impegno a partire da qui…

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]]> Cambi della guardia in Africa, e la Russia suona Wagner https://ogzero.org/cambi-della-guardia-in-africa-e-la-russia-suona-wagner/ Thu, 24 Feb 2022 08:45:35 +0000 https://ogzero.org/?p=6471 In un quadro che vede il ritiro dell’“Impero francese” dall’Africa, il continente diventa una tavola imbandita per chi intravede possibilità di sfruttamento, per chi cerca di farne una piazza del mercato delle armi, per chi porta avanti traffici illeciti con la connivenza di dittatori fantocci. La lotta al terrorismo nasconde l’esigenza di poter condurre affari […]

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In un quadro che vede il ritiro dell’“Impero francese” dall’Africa, il continente diventa una tavola imbandita per chi intravede possibilità di sfruttamento, per chi cerca di farne una piazza del mercato delle armi, per chi porta avanti traffici illeciti con la connivenza di dittatori fantocci. La lotta al terrorismo nasconde l’esigenza di poter condurre affari in un paese stabile, l’indigenza delle popolazioni è funzionale all’assoggettamento del tessuto sociale, basta frenare le partenze per oltremare… con le buone (accordi capestro e che calpestano i diritti umani) o con le cattive (presenza militare mercenaria ben pagata).

[fin qui… OGzero]

Qui una rielaborazione di due articoli di Angelo Ferrari pubblicati su Africa Rivista e Agi, ampliati per OGzero. Aggiungiamo un podcast realizzato con Edoardo Baldaro (ricercatore alla Scuola Sant’Anna di Pisa, esperto di Sahel) e Stefano Ruzza (professore associato in Scienze politiche all’Università di Torino, responsabile di T.wai – Torino, esperto di agenzie di sicurezza).


Spostare il confine del Mediterraneo

Il Niger è e diventerà sempre di più il bastione italiano nel Sahel. L’Italia, nel suo piccolo – sia geografico sia diplomatico – ha deciso di rilanciare la sua presenza nel continente africano proprio privilegiando il rafforzamento di quella militare in parte a scapito della cooperazione allo sviluppo, soprattutto in chiave anti-immigrazione. L’obiettivo è fermare i flussi proprio alle porte della Libia, cioè in Niger, con la presunzione e l’illusione che blindando i confini i problemi possano restare dall’altra parte. Spostare, dunque, più a Sud il confine del Mediterraneo. Ci riuscirà? Non è del tutto scontato.

In Niger la presenza militare è rilevante. Si tratta di 290 militari, 160 mezzi terrestri e 5 aerei. Mentre il rapporto tra spese militari e cooperazione allo sviluppo è di 10 a 1. Un po’ quello che è successo in Afghanistan, con le conseguenze, dopo il ritiro occidentale, che sono sotto gli occhi di tutti dal punto di vista umanitario. Tutto ciò, evidentemente, confligge con un principio che dovrebbe accompagnare le missioni militari all’estero in generale, e in particolare in Africa, è cioè quello per cui creare le condizioni di sicurezza nelle aree di crisi è indispensabile per poter realizzare anche le missioni civili e di sostegno socio-economico che aiutino i paesi interessati a costruire o ricostruire i loro apparati pubblici e a sviluppare le loro economie, a loro volta premessa indispensabile per migliorare le condizioni di vita della popolazione e stabilizzare il contesto locale e regionale.

Il Mali lasciato dagli occidentali

Il sentimento antifrancese che è montato in buona parte del Sahel deriva proprio da questo. Cioè le popolazioni hanno visto un gran numero di militari occidentali, ma nessun cambiamento sostanziale, non solo nella sicurezza, ma soprattutto nelle condizioni di vita reale. La precarietà “umanitaria” si è aggravata. La lezione del Mali dovrebbe insegnare qualcosa anche a noi italiani. Non a caso il presidente del Niger, Mohamed Bazoum, si è detto molto “preoccupato” per il ritiro dei francesi e degli occidentali in generale dal Mali.

A questo punto può risultare utile ascoltare le considerazioni sulla situazione dopo la chiusura di Barkhane e il subentro conseguente dei contractor russi, oltre al confronto tra le diverse reazioni nei paesi subsahariani, con Stefano Ruzza ed @EdoardoBaldaro

 “Il senso di Wagner per le crepe: le interconnessioni con le giunte del Sahel?”.

La “fortuna” del Niger, il paese più povero al mondo

Il Niger, tuttavia, interessa moltissimo all’Italia e non si tira indietro, lo ha dimostrato nel recente passato aprendo un’ambasciata nel 2017 e dal 2018 con la “Missione bilaterale di supporto” – militare. Il Niger, dunque, è un partner strategico e, nelle intenzioni del governo italiano, può rappresentare un’opportunità di business per l’Italia. L’Italia è tra quei paesi che guardano con interesse al crescere di questo mercato e in generale a quello di tutta l’area saheliana e la presenza dell’ambasciata italiana a Niamey ha anche il significato di voler accompagnare quanto più possibile le imprese italiane che vorranno avviare affari in questo contesto relativamente ancora incontaminato. Queste le intenzioni del governo italiano. Ma, diciamo noi, occorre arrivare per tempo. Per l’Italia, dunque, il Niger è un paese stabile – e questo aiuta – ma non si può dimenticare il passato recente. Il paese è sempre stato il crocevia di traffici illeciti, dalla droga alle armi, dal riciclaggio dei soldi sporchi alla tratta degli esseri umani.

Le fortune del Niger – se così si può dire – e dei suoi governanti, sono derivate proprio da questo. Un paese che ha fatto dell’illecito la ragione dei propri guadagni.

È il paese più povero al mondo, ma, Mohammad Issoufou, ex presidente nigerino – ha governato il paese per dieci anni fino al 2021 – ha speso milioni e milioni di dollari per acquistare armi, elicotteri e aerei da combattimento russi e francesi, tradendo la sua piattaforma elettorale di stampo socialista-progressista, che lo ha portato al vertice dello stato, impoverendo ancora di più la sua gente. Il suo successore, Bazoum, va nella stessa direzione, non a caso sul finire del 2021 ha acquistato dalla Turchia nuovi droni. L’impegno e le spese militari prevalgono su tutte, pur di mantenere i privilegi ereditati dal suo predecessore. Le cancellerie di tutto il mondo conoscono a perfezione i due burattinai nigerini, sanno perfettamente con chi hanno a che fare, ma hanno deciso che del Niger si possono fidare. Ma alcune domande, tra le tante, vengono spontanee: per quale ragione le varie milizie e fazioni che controllano il territorio dovrebbero abbandonare i lauti profitti che arrivano dai traffici illeciti che siano di esseri umani, droga, armi o denaro? Quali garanzie sono state fornite? Quali accordi stipulati?

Il governo italiano dovrebbe rispondere a queste domande con il linguaggio schietto della politica e non con quello della diplomazia. Occorre, dunque, fare attenzione. Ma le parole chiave sono “arrivare in tempo”. Non possiamo dimenticare che il paese saheliano è strategico anche per la Francia che è ormai una presenza organica, ma sul quale Parigi rivolge lo sguardo, soprattutto ora che si è ritirata dal Mali. L’intenzione francese è proprio quella di rafforzare la sua presenza in Niger e sul fronte Sud del Sahel, paesi come Costa d’Avorio, Togo e Benin. Gli interessi strategici di Parigi sono noti: l’estrazione dell’uranio è fondamentale per un paese che vive di centrali nucleari. Il Niger è il quarto produttore di uranio al mondo e il sesto per riserve.

L’Italia, dunque, deve adottare una via pragmatica e diplomatica per non andare a cozzare con gli interessi di altri paesi che hanno radici solide in quel pezzetto di deserto.

Wagner: gli strumenti “non convenzionali ” della Russia

In Africa, per esempio, la Russia suona la musica di Wagner. La presenza dei mercenari di Mosca rappresenta per Vladimir Putin la guarnigione di “sfondamento” nella sua politica di espansione in Africa. Non è un mistero che la Russia stia cercando di tornare agli antichi fasti dell’Unione Sovietica e non lo fa impegnandosi direttamente sul campo militare, quello dove si combatte, ma inviando la Wagner che per Mosca fa il lavoro sporco. Lo si vede in maniera evidente, per esempio, nella Repubblica Centrafricana, che è diventata la base operativa russa in Africa centrale. Lì i mercenari combattono a fianco delle truppe regolari e sostengono il regime. La guardia presidenziale è tutta nelle mani del Cremlino, così come i consiglieri del ministero della Difesa. Il Centrafrica è diventata una sorta di portaerei nel mezzo dell’Africa che funziona come trampolino di lancio per l’espansionismo russo. Già nel passato questo paese ha avuto questa funzione, con la presenza di numerose basi della Francia, ex potenza coloniale, almeno fino alla metà degli anni Novanta del secolo scorso. Ora la storia è molto diversa e, come è normale che sia, Putin nega tutto. Si limita a spiegare che l’intervento russo in Africa riguarda la fornitura di armi e l’addestramento militare. Ma ogni evidenza porta da un’altra parte. Lo si sta vedendo in maniera plastica in Mali, dove il sentimento prevalente è quello filorusso. Così come in Burkina Faso dove si sono viste manifestazioni a sostegno dei golpisti, con la gente in piazza che sventolava le bandiere di Mosca.

L’Africa, per Putin, è diventato uno degli scenari privilegiati della sua competizione con il mondo occidentale.

Lo fa, appunto, attraverso la fornitura di armi e con il sostegno dell’industria bellica, come in Sudan terzo produttore di armi nel continente africano dopo Egitto e Sudafrica. Per raggiungere i suoi obiettivi, il Cremlino utilizza non solo i normali canali diplomatici ma anche strumenti non “convenzionali”: i famigerati mercenari della Wagner e la propaganda attraverso i social network, come accade in altre parti del mondo. E funziona.

L’impegno italiano: ridurre le partenze

Il governo italiano sta mettendo in atto un cambio di paradigma nel guardare a questo paese e alla regione del Sahel nel suo insieme, cercando di colmare la sua lacuna di presenza, intercettando in maniera tempestiva il crescere dell’attenzione internazionale. Il Niger guarda ormai all’Italia come un “partner di riferimento”, soprattutto nella gestione delle migrazioni, nella lotta all’avanzamento del terrorismo jihadista, nel contenimento delle sfide ambientali e nello sviluppo. Se sul piano militare l’Italia è ben posizionata e il rinnovo delle missioni all’estero voluto dal governo Draghi va proprio in questa direzione. L’Africa si conferma il continente in cui l’Italia è maggiormente coinvolta, con 17 missioni in corso. Tra quelle più rilevanti in termini di unità impiegate e risorse economiche c’è la Task Force Takouba, per il contrasto della minaccia terroristica nel Sahel, e l’impiego di un dispositivo aeronavale nazionale nel Golfo di Guinea in funzione antipirateria.

Le forze della missione Takouba si preparano a lasciare il paese (fonte Africa Rivista).

Sul piano, invece, della cooperazione allo sviluppo fa segnare il passo. Non si può dimenticare che oltre il 40 per cento della popolazione nigerina vive sotto la soglia di povertà e il paese si colloca in fondo alla ben poco onorevole classifica dell’indice di sviluppo umano. C’è da augurarsi, dunque, che il rinnovato impegno in Niger e in tutta la regione sia teso, anche, al rafforzamento di un impegno umanitario. L’impegno italiano è concentrato – almeno così sembra – alla riduzione delle partenze dei migranti (come racconta qui Fabiana Triburgo). Rimane, tuttavia, la domanda: “È sufficiente la cooperazione militare per impedire le partenze?”. È lecito chiedersi se controllo del territorio di questi paesi e lotta al terrorismo non passino anche e soprattutto attraverso politiche di sviluppo: cioè alla creazione di un welfare state che manca totalmente in questi paesi. Non si considera infatti che la maggior parte delle persone che fuggono da quelle situazioni lo fanno perché manca totalmente la percezione della possibilità di costruirsi un futuro solido per sé e la propria famiglia. Non è solo mancanza di cibo, spesso è la mancanza di welfare state, cioè di una rete sanitaria adeguata e di una rete scolastica capace di formare.

In quei paesi dove la cooperazione militare è importante, gli apparati di governo sacrificano, già di loro, gli investimenti per il welfare a scapito di una crescente spesa militare. Tutto ciò dovrebbe far riflettere.

L’impegno russo: fornire armi e sfruttare le risorse

L’arrivo in Centrafrica, tuttavia, rappresenta, uno spartiacque per Mosca. Le armi russe fanno gola un po’ a tutti: Mali, Niger, Ciad, Burkina Faso e Mauritania hanno lanciato appelli a Mosca perché aiuti le loro forze di sicurezza a combattere il terrorismo, appelli che hanno avuto risposte positive. Tutto ciò piace molto al Cremlino e preoccupa enormemente l’occidente che sta perdendo posizioni strategiche. L’opzione di Mosca è quella di rafforzare la presenza militare per poi passare all’incasso, anche in termini di risorse naturali. L’interesse militare si giustifica, inoltre, con il fatto che il Cremlino è consapevole della sua marginalità nei mercati africani e di non poter competere con l’espansionismo cinese. Le armi, quelle vere, per Mosca, tuttavia, funzionano ancora. Ma è del tutto evidente che l’aiuto militare è subordinato, nel futuro, ad avere un ruolo anche nello sfruttamento delle materie prime.

Non a caso il paradigma di collaborazione con l’Unione africana – emerso nel forum Russia-Africa – che Putin vuole, mira a migliorare i rapporti esistenti, rafforzare i legami diplomatici e aumentare la sua presenza economica nel continente, per avvicinarsi agli elevati livelli di scambi commerciali che già caratterizzano Cina, India, Giappone, Corea del Sud, Turchia, Europa e Stati Uniti.

La presenza russa in Africa (fonte Ispi).

La retorica di Putin definisce la sua agenda per l’Africa “positiva” e si contrappone, a detta sua, ai “giochi geopolitici” degli altri, spiegando che la Russia non è interessata a depredare la ricchezza dell’Africa, ma a lavorare a favore di una cooperazione “civilizzata”. Parola, questa, già usata da coloro che hanno colonizzato il continente.

Dal punto di vista economico, non è da trascurare la presenza in Namibia dove la Russia è impegnata nell’estrazione dell’uranio e in Angola nel settore diamantifero. Da qui, dall’Africa, Putin vuole ripartire per lanciare la sua sfida e tornare a vantare il ruolo di potenza mondiale. Ma la “prudenza” sta caratterizzando la presenza russa. Putin non arriverà a schierare l’esercito regolare e per questo si avvale di mercenari della Wagner, che fa il bello e cattivo tempo un po’ ovunque, in particolare nella Repubblica Centrafricana che, di fatto, è governata proprio dai russi. Il Mali, dopo il ritiro delle truppe occidentali, rappresenta una vittoria significativa per Putin che è riuscito a ridimensionare l’impero francese.

Attività russe in Africa nel 2019 (Fonte ISW).


Gruppo Wagner: un po’ di storia

Sul Gruppo Wagner, ovviamente, sono più le supposizioni che le certezze. Ciò che si sa è che nasce intorno al 2013 con il nome di Corpi Slavi. Il loro fondatore è l’ex colonnello dei servizi segreti militari Dmitry Utkin. Insieme a un piccolo contingente di ex appartenenti alle forze speciali russe, Utkin si schiera in Siria a protezione delle infrastrutture strategiche per la Russia e per il governo siriano di Bashar al-Assad. I mercenari non ottengono grandi risultati e ben presto rientrano in patria. Qui Utkin rifonda l’organizzazione ribattezzandola Gruppo Wagner in onore del compositore tedesco (Utkin ha forti simpatie naziste). È l’incontro con Yevgeny Prigozhin, oligarca con interessi nei comparti dell’alimentazione, dell’estrazione mineraria e nel mondo della gestione dei dati informatici, che fa compiere al Gruppo Wagner il salto di qualità. Prigozhin è legato a doppio filo a Putin che lo utilizza per portare a termine “operazioni delicate”. I mercenari di Utkin vengono quindi impiegati in Ucraina e a sostegno dei separatisti della Repubblica separatista di Lugansk. Poi di nuovo in Siria, dove si affiancano alle forze di Bashar al-Assad. Il momento più tragico avviene nel febbraio 2018 a Deir ez-Zor, quando un centinaio di uomini viene ucciso in un raid americano nei pressi del villaggio di al-Isba durante gli scontri con le forze curde dell’Sdf. Le imprese compiute in tre anni di guerra, permettono a Prigozhin di passare all’incasso. Un incasso chiamato Africa, dove, nel frattempo, la Russia sta conducendo una delicata partita per recuperare spazi di influenza. Mosca cerca di stringere rapporti con numerosi paesi offrendo assistenza militare in cambio di risorse minerarie. Ma in modo informale. Un gruppo di uomini viene quindi inviato in Sudan. Vengono schierati a protezione del presidente Omar al-Bashir e come presidio sul confine con il Sud Sudan. In cambio, i mercenari russi ricevono la gestione di alcuni impianti minerari. Un’operazione molto simile avviene anche nella Repubblica Centrafricana, dove nel luglio 2018 vengono uccisi tre giornalisti russi che indagavano proprio sulle operazioni di Prigozhin. Il magnate russo farebbe affari con almeno dieci paesi, tra i quali Repubblica democratica del Congo, Madagascar, Angola, Guinea, Guinea-Bissau, Mozambico e Zimbabwe. Uomini del Gruppo Wagner sono stati incorporati nelle milizie di Khalifa Haftar in Libia. Il resto è storia recente.


Per rinfrescarvi la memoria su come operano i contractors o le milizie mercenarie e su come funzionano le regole di ingaggio e quali sono i rapporti di forza con gli stati che li “assumono” guardate questa intervista di OGzero a Stefano Ruzza, regia di Murat Cinar.


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n. 1 – Corno d’Africa: Migranti e secolari conflitti etnici e coloniali https://ogzero.org/una-visione-di-insieme-degli-scenari-che-provocano-migrazioni/ Sun, 11 Apr 2021 08:22:39 +0000 https://ogzero.org/?p=2976 Questo saggio fa parte di una raccolta di articoli che fornisce una panoramica sulla questione migratoria: analizzeremo insieme a Fabiana Triburgo le varie rotte che si sono delineate nel tempo a causa di conflitti o e instabilità che provocano questo fenomeno per giungere infine a un’analisi della normativa europea e delle alternative che potrebbero emergere […]

L'articolo n. 1 – Corno d’Africa: Migranti e secolari conflitti etnici e coloniali proviene da OGzero.

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Questo saggio fa parte di una raccolta di articoli che fornisce una panoramica sulla questione migratoria: analizzeremo insieme a Fabiana Triburgo le varie rotte che si sono delineate nel tempo a causa di conflitti o e instabilità che provocano questo fenomeno per giungere infine a un’analisi della normativa europea e delle alternative che potrebbero emergere da politiche più coraggiose e lungimiranti. Qui il primo contributo, focalizzato sul Corno d’Africa.


n. 1

I principali conflitti che attualmente interessano le migrazioni forzate e le prassi di esternalizzazione poste in essere dall’Unione Europea e dai singoli stati membri portano a una predeterminazione delle rotte dei migranti.

Quello che oggi è inevitabile chiedersi è se il nuovo Patto europeo sulla migrazione e l’asilo, proposto dalla Commissione UE, possa essere realmente considerato una soluzione della gestione del fenomeno migratorio o se invece vi siano soluzioni legali alternative maggiormente lungimiranti e coraggiose.  


Le diverse culle dell’emigrazione dal continente africano e l’accoglienza in Europa

Occorre da principio analizzare alcuni dei conflitti e situazioni di instabilità politica che continuano a interessare diverse aree del Mondo per poter capire meglio quali siano le nazionalità coinvolte nelle attuali correnti umane quantomeno di quelle forzate. Gli accadimenti bellici determinatisi in Etiopia dal mese di novembre 2020 per esempio, con particolare riferimento alla regione del Tigray, hanno proiettato nuovamente il rischio di un’instabilità politica dell’area che si pensava superata con l’elezione del nuovo presidente Abiy Ahmed Ali e dagli accordi di non belligeranza del 2018. Tali accadimenti hanno di fatto riportato l’attenzione della Comunità internazionale in questa area del Corno D’Africa.

Il campo di Dadaab che il Kenya intende chiudere. Il Corno d’Africa è l’area del mondo che produce e accoglie il maggior numero di sfollati, circa 11 milioni.

Le dinamiche di tale conflitto che il Governo Federale Etiope cerca di tenere sotto controllo, nonostante le attuali guerriglie, anche in vista delle prossime elezioni, coinvolgono non solo L’Etiopia ma anche L’Eritrea, la Somalia, il Sudan, paesi già interessati tra l’altro da conflitti interni, nonché l’Egitto che, caratterizzato da un sistema autoritario, mantiene comunque forti interessi economici nella zona. Non solo, la Libia da diversi anni, in una situazione di assenza di un governo unitario del paese, è concretamente divisa in due aree d’influenza politica la Cirenaica e la Tripolitania nelle quali i rispettivi esponenti Khalifa Haftar da un lato e Fayez al-Sarraj dall’altro si contendono l’egemonia e le risorse del paese nel quale vi sono anche altre presenze internazionali ossia Russia, Egitto e Francia da un lato, Turchia e Italia dall’altro; l’idea al momento è quella di creare un governo transitorio che guidi il paese fino alle elezioni di dicembre del 2021.

La Tunisia, invece, dove ebbero inizio dieci anni fa le cosiddette primavere arabe, dal 2010 ha formalmente adottato un sistema democratico ma al contempo ha visto susseguirsi, negli ultimi anni, diversi governi ed è attualmente interessata da numerose e continue proteste popolari che denunciano il mancato rispetto da parte dell’attuale governo di alcuni diritti civili fondamentali. A tali scenari si aggiungono le situazioni geopolitiche non ancora risolte riguardanti più in generale l’Africa subsahariana ossia non solo paesi come la Nigeria ma anche l’area del Sahel in particolare il Mali e il Niger mentre sul fronte del Medio Oriente a destare maggiori preoccupazioni sono l’Afghanistan, l’Iraq e la Siria.

In tale contesto internazionale si inserisce la politica europea e dei singoli stati membri dell’UE in materia di immigrazione che, vista la perdurante applicabilità dal Regolamento di Dublino e dei criteri da esso stabiliti, ha determinato di fatto un condizionamento o meglio un vero impedimento per i migranti ad attraversare determinate frontiere. Ciò è avvenuto mediante la definizione da parte dell’UE o di singoli paesi dell’UE di accordi bilaterali, contraddistinti dai continui respingimenti dei migranti (dei quali i numeri per il solo anno 2020 sono impressionanti anche con riferimento alle vittime), con i paesi che geograficamente sono collocati alle porte dell’UE: l’accordo con la Turchia nel 2016 per fermare i flussi migratori verso la Grecia (rotta dell’Egeo), con la guardia costiera Libica, con il Niger e la Tunisia, per bloccare i flussi migratori verso l’Italia e Malta (rotta del Mediterraneo centrale), con il Marocco per fermare l’emigrazione verso la Spagna (rotta Atlantica). Il supporto finanziario per il contrasto al fenomeno migratorio di flussi misti si è spinto oltre: l’agenzia europea Frontex ha coadiuvato tali controlli e respingimenti delle frontiere insieme alla polizia croata, per i migranti provenienti dalla Bosnia, e anche a quella Italiana rispetto ai migranti provenienti dalla Slovenia (Rotta Balcanica) che hanno quindi così garantito la riuscita del cosiddetto “Game”.

Per quanto riguarda le “frontiere liquide”, ossia quelle marittime, occorre prestare attenzione alla definizione delle zone Sar (“Search and Rescue”) e alla criminalizzazione del diritto al soccorso in mare in evidente violazione delle Convenzioni internazionali in materia, nelle quali il soccorso in mare prima ancora di un diritto è un obbligo.

Divisione Sar mediterranee

In conclusione ci si chiede se sia corretta l’approvazione del parlamento europeo e del consiglio europeo di una proposta di una normativa della commissione che mira alla creazione di campi di confinamento, ossia grandi “hotspot” in prossimità delle frontiere UE, non solo per l’identificazione (attività di “screening”) ma anche per una valutazione accelerata della domanda d’asilo, che continua a mantenere il criterio gerarchico del primo paese d’arrivo e che infine considera l’obbligo del diritto al soccorso in mare come un diritto il cui monopolio spetta alle singole autorità statali dell’Unione Europea. Le minori garanzie per i diritti dei migranti e i rischi per la loro vita si potrebbero superare con una vera inversione di rotta: un sistema giuridico fondato principalmente, e non in via residuale, su “canali legali” quali i corridoi umanitari, su una maggiore concessione di visti di ingresso da parte dei paesi UE e da ultimo un sistema obbligatorio di ripartizione per quote delle domande d’asilo, pratiche sicuramente meno negazioniste del fenomeno dell’emigrazione.

Flussi della mobilità umana indotti da teatri di guerra

I conflitti e le situazioni di instabilità politica che attualmente interessano diversi paesi del Nordafrica, cosi come quelli riguardanti la zona del Sahel e dell’Africa subsahariana più in generale, e i paesi dell’Area Mediorientale, hanno ripercussioni inevitabili sulle correnti umane – definibili come flussi delle migrazioni forzate – alcune già in essere, altre invece che manifestano già ora il loro carattere di potenzialità di determinazione in un prossimo futuro. Tali situazioni geopolitiche non possono pertanto lasciarci indifferenti traducendosi in correnti che hanno come punto di arrivo la stessa Europa se non, come in molti casi, proprio l’Italia.  Prenderne atto o averne una conoscenza anche minima ci offre la possibilità di uscire dal nostro ristretto punto di vista ed entrare in contatto, in modo maggiormente consapevole, con un fenomeno che è quello della mobilità umana, in questi casi, chiaramente non volontaria, ma imposta da accadimenti esterni, da sempre presente nella storia.

Porre uno sguardo attento e senza pregiudizi verso i paesi per noi lontani o diversi può essere il modo di prendere atto dell’inarrestabilità del fenomeno migratorio e di come esso, anche nel tentativo di essere contenuto, non smetterà di esistere. Perché dunque non concederci una possibilità di riflessione e capire come a volte cambiare la nostra ottica voglia dire entrare maggiormente in contatto con la realtà senza doverla a tutti i costi rinnegare o soffocare?

Quello che si propone questa serie di articoli è dare una visione di insieme che cercherà di essere il più possibile inclusiva degli scenari internazionali che riguardano le aree maggiormente a rischio di implosione nel momento attuale e le ragioni di tali  rischi, per poi meglio comprendere le tappe delle migrazioni forzate fino a formulare una proposta di gestione alternativa del fenomeno migratorio che non può essere avulsa dall’analisi delle prassi, attualmente messe in campo dall’Unione Europea e da alcuni dei paesi membri, nonché  dalle proposte normative di contenimento delle correnti umane verso l’occidente ponendo attenzione a quanto è accaduto negli ultimi anni e chiedendosi non solo se tali prassi e proposte legislative siano eticamente orientate ma se prima di tutte siano logiche.

Il conflitto in Etiopia e nel Corno d’Africa

I massacri

Uno dei conflitti più recenti, al momento apparentemente sedato, ma interessato da una costante guerriglia, è quello riguardante l’area del Corno d’Africa e, più specificamente, l’Etiopia e la regione del Tigray posta al suo interno. Il 4 novembre del 2020 ha visto l’inizio delle operazioni militari ad opera del primo ministro etiope Abiy Ahmed Ali, a fronte di supposti attacchi da parte delle milizie della forza politica prevalente della regione del Tigray – il Fronte popolare di liberazione del Tigray (Tplf) – contro il governo centrale federale. Quello che doveva essere un intervento lampo, secondo il primo ministro etiope, non è stato così.

In particolare, Amnesty International riporta che il 9 novembre e il 10 novembre 2020 nella città di Mai- Kadra nello stato del Tigray, c’è stato uno spaventoso massacro di civili, circa 500, ufficialmente non identificato per quanto riguarda l’attribuzione di una responsabilità. Tuttavia, vi sono testimoni oculari che hanno chiamato in causa forze leali al Tlpf, tra cui la polizia speciale del Tigray, riportando che queste si sarebbero accanite contro la popolazione della città di Mai-Kadra (di etnia amhara) in risposta all’ attacco subito, il medesimo giorno, da parte delle Forze armate federali e della Forza speciale amhara nella regione del Tigray.

Mai-Kadra, Tigray

Il massacro di Mai-Kadra il 9 e 10 novembre ha contato 600 morti di etnia amhara

Inoltre, tra il 28 e il 29 novembre 2020, questa volta, le truppe eritree, presenti anch’esse nella regione del Tigray, già a partire dal 16 novembre 2020, hanno ucciso centinaia di civili nella città di Axum per il controllo della regione mettendo in essere esecuzioni sommarie, bombardamenti e saccheggi a danno dei civili tali da poter essere lecitamente qualificati, il 4 marzo 2021, come “crimini contro l’umanità”, da parte delle Nazioni Unite.

Gli eventi sono stati riportati da parte di alcuni etiopi sopravvissuti e da altri presenti nei campi rifugiati in Sudan. Nuove fosse comuni sono state identificate in prossimità delle due chiese di Axum, attraverso le immagini satellitari di Amnesty International, riportando che il massacro sarebbe avvenuto poco prima della celebrazione della Festa cristiana ortodossa etiope di Santa Maria di Sion. La festa ricorre il 30 novembre e vede partecipare ogni anno, oltre ai cittadini della città santa di Axum, diversi turisti e fedeli provenienti anche da altre zone dell’Etiopia. La documentazione di quanto avvenuto è resa quasi impossibile dalla reticenza del governo etiope a qualsiasi ingerenza, anche mediatica, a livello internazionale sulla questione locale.

Il superamento della coalizione di fazioni etniche

Dopo tali avvenimenti l’attenzione generale sulla “questione etiope” è quasi scomparsa – tanto che il conflitto è stato dichiarato ufficialmente cessato il 28 novembre 2020 – nonostante al momento sia ancora presente una situazione di guerriglia armata. Per capire quanto è avvenuto dunque occorre analizzare le cause storiche e politiche che hanno esacerbato il conflitto nella regione etiope del Tigray. Tale scenario attuale è maturato gradualmente a partire dal 2018, anno che può essere considerato rivoluzionario per gli equilibri politici del Corno d’Africa. Infatti, da più di due anni era presente in Etiopia lo scontro tra due gruppi dirigenti all’interno della medesima forza politica che ha guidato l’Etiopia negli ultimi trent’anni, ossia il Fronte democratico rivoluzionario del popolo etiope, una coalizione di partiti creata su base etnica all’inizio degli anni Novanta dal Fronte Popolare di Liberazione del Tigray e da questo controllata fino al 2018 quando è salito al potere il primo ministro Abiy Ahmed.

Il cambio di governo ha sancito l’ascesa di una nuova alleanza nella coalizione tra i partiti corrispondenti ad altrettanti gruppi etnici ossia amhara e oromo dal quale proviene lo stesso primo ministro, e che, fino ad allora, avevano giocato un ruolo secondario nel governo dell’Etiopia e che però dal 2018 divengono forze egemoniche. Da quel momento si determina un aspro processo di rinegoziazione delle sfere di influenza all’interno delle istituzioni federali del paese. Infatti il primo ministro Abiy Ahmed ha subito individuato il Fronte popolare di liberazione del Tigray come primo e unico responsabile delle malversazioni del passato, cercando sia di creare un terreno di sintesi delle forze di opposizione e determinandosi come uomo del cambiamento, celando quelle che invece erano le sue continuità con il passato regime, sia di legittimare un ricambio dei vertici tigrini delle istituzioni federali e delle Forze Armate con figure a lui fedeli.

Questo processo di ricambio ha raggiunto il suo apice alla fine del 2019 quando Abiy Ahmed ha sciolto la coalizione del Fronte democratico rivoluzionario del popolo etiope e, in sua vece, ha creato un partito autenticamente nazionale a guida fortemente centralizzata ossia il Partito della prosperità a cui però il Fronte popolare del Tigray si è rifiutato di aderire venendo così escluso da ogni incarico nel governo federale. Il Fronte popolare del Tigray ha risposto sottolineando che si stava determinando ideologicamente la costituzione di uno stato etiopico unitario e il superamento del principio di autodeterminazione dei gruppi etnici e dell’effettiva autonomia delle regioni etiopi rispetto al potere centrale. In questo modo il Fronte di Liberazione Popolare del Tigray, da un lato ha rotto l’autoisolamento in cui il Tigray versava dal 2018, dall’altro ha legittimato quello che gradualmente è divenuto il suo ruolo ossia uno stato nello stato, in nome del principio di autonomia regionale, al quale Abiy Ahmed ha risposto con ordini di cattura da parte della procura federale verso gli ufficiali politici tigrini e con il rinvio delle elezioni presidenziali del 2020 a causa della pandemia, elezioni che al momento sono previste per il 5 giugno 2021. Quindi è seguita la decisione del Tigray di indire elezioni in maniera autonoma nel solo stato regionale settentrionale che ha sancito il culmine di questo scontro istituzionale. L’amministrazione federale si è rifiutata di riconoscere il risultato delle elezioni regionali in Tigray che riconfermavano quasi all’unanimità il Fronte popolare di liberazione tigrino e da quel momento non ha riconosciuto più l’amministrazione regionale come interlocutore istituzionale. Il Fronte popolare a sua volta ha annunciato di non riconoscere più la legittimità dell’amministrazione federale in quanto decorso il termine di 5 anni dall’inizio del mandato di governo senza che vi fossero nuove elezioni. Quindi, come detto, la guerra civile è scoppiata il 4 novembre 2020 quando vi è stato un attacco delle forze militari tigrine contro una base dell’esercito federale etiope nel nord del paese. Il conflitto del Tigray dunque può essere letto come il tentativo del Fronte popolare di liberazione nazionale di resistere a una marginalizzazione dalla scena politica etiope.

Inoltre, va considerata anche la maggiore influenza nell’amministrazione federale etiope di forze militari nazionaliste, come quelle del partito legato all’etnia “amhara”, che già dal 3 novembre sono state posizionate tra lo stato dell’Amhara e quello del Tigray e che oggi sono ancora presenti nell’Ovest della regione. Ciò ha un rilievo storico non indifferente: tali territori dal 1991 fanno parte del Tigray, ma sono storicamente reclamati dallo stato regionale dell’Amhara, che, proprio in conseguenza del conflitto scoppiato nell’area del Tigray, oggi ha acquisito l’amministrazione, seppure temporanea di essi.

Internazionalizzazione del conflitto

Il Sudan

 

una visione di insieme

4000 rifugiati etiopi dopo aver attraversato la frontiera con il Sudan

Il conflitto della regione del Tigray è poi strettamente connesso con il conflitto tra Etiopia e Sudan (che si appresta a divenire uno stato federale) che da settimane ha provocato decine di morti e centinaia di sfollati. In evidenza il tentativo sudanese di sostenere l’intervento bellico condotto dal Fronte popolare di liberazione nazionale del Tigray che, quando negli anni precedenti al 2018 era al governo, aveva costituito un’asse privilegiato con il governo di Khartum. Inoltre, questo asse aveva implicato un accordo di confine tra Etiopia e Sudan, secondo il quale, proprio su alcuni territori reclamati dall’etnia amhara, era stata riconosciuta una sovranità sudanese ed erano stati militarizzati.

Infatti l’Etiopia e il Sudan condividono un confine di circa 1600 chilometri e questa contiguità ha provocato una tensione legata alla rivendicazione di taluni territori “comuni” da diversi anni. Nel 1902 fu stipulato tra la Gran Bretagna, allora potenza coloniale del Sudan, e l’Etiopia un accordo per individuare una frontiera ma non venne specificata una demarcazione territoriale ben definita tra i due paesi. Regolari riunioni tra Etiopia e Sudan, su tale questione, si sono svolte tra il 2002 e il 2006 mentre gli ultimi colloqui riguardanti i confini territoriali sono di maggio del 2020. È chiaro che oggi, quindi, ponendo il governo federale etiope le milizie dello stato regionale dell’Amhara come forza di controllo di alcuni territori al confine tra i due paesi, il conflitto civile etiope potrebbe trasformarsi in una guerra di più vasto rilievo.

La Diga della Rinascita e al-Fashqa

Lo scorso marzo lo scontro etiope con Il Sudan si è intensificato sulla piana di al-Fashqa, contesa da decenni dai due paesi, e almeno 50 soldati etiopi sarebbero stati uccisi proprio in ragione dello scontro in quest’area. Gli scontri sono iniziati il 4 febbraio 2021 quando l’Etiopia ha lanciato una serie di attacchi contro le forze sudanesi nell’area di Umm Karura. A metà gennaio il Sudan aveva denunciato lo sconfinamento di caccia etiopi nello spazio aereo sudanese aggravando le tensioni già alte per la diga sul Nilo e i problemi causati dai 56.000 profughi etiopi fuggiti dal Tigray, in seguito all’offensiva dell’esercito etiope lo scorso 4 novembre. Alla base rimane sempre la tensione che coinvolge Etiopia, Sudan ed Egitto per la “grande diga” sul Nilo che Addis Abeba sta terminando e sulla quale non si registrano progressi negli accordi.  Nell’area di al-Fashqa, inoltre, circa 2000 militari eritrei avrebbero attraversato il confine tra Etiopia e Sudan nei pressi di Wadi-al-Charab per supportare l’esercito etiope nella difesa dell’area contesa di al-Fashqa. Tuttavia, a fine marzo, il Governo di transizione del Sudan ha appoggiato la proposta degli Emirati Arabi Uniti di mediare nella disputa con Il governo etiope. Tale atteggiamento, assertivo di un tentativo di riconciliazione con l’Etiopia da parte del Sudan, è avvenuto solo in esito alle dichiarazioni del presidente Abiy Ahmed che ha affermato, martedì 23 marzo 2021, di non voler iniziare una guerra con Il Sudan ma di voler risolvere pacificamente le tensioni su al-Fashqa e sulla questione della grande diga (Grand Ethiopian Renaissance Dam).

Il Tigray. Tra Eritrea, Etiopia e Somalia

Va in seguito sottolineata chiaramente, soprattutto alla luce di questi eventi sovraesposti, il tipo di relazione che vi è tra Tigray, Governo Federale Etiope da un lato, ed Eritrea dall’altro. Nel 2019 è stata firmata dal governo federale etiope e l’Eritrea una pace storica che ha determinato il riconoscimento del Premio Nobel per la pace ad Abiy Ahmed Ali.

Tuttavia, la relazione tra i due paesi è ancora molto complessa e va ricercata in alcuni accadimenti avvenuti diversi anni prima dell’inizio del conflitto del 2020. I tigrini del Fronte popolare di liberazione del Tigray in passato erano di fatto il fronte armato gemello del Fronte di liberazione popolare dell’Eritrea e si erano alleati negli anni Ottanta tra di loro per condurre i rispettivi paesi verso la ribellione contro un governo di tipo sovietico. Dal 1991 al 1998, infatti, i due fronti avevano delle relazioni così pacifiche che gli etiopi utilizzavano su consenso eritreo gli sbocchi sul mare dei porti di Assab e Massaua per i propri interessi economici. Nel 1998 questa relazione pacifica è stata invece interrotta da una guerra tra il Fronte popolare di liberazione eritreo e quello etiope: questo creerà delle basi per la sedimentazione di una conflittualità e dei sentimenti di odio tra i due paesi oltre che un gran numero di morti e di persone deportate fino all’elezione dell’attuale presidente etiope.

Interessi eritrei in Tigray e spartizione degli aiuti e di aree di influenza

una visione di insieme

Interessi e presenze internazionali nel Corno d’Africa

Tutto ciò premesso, deve essere analizzata la partecipazione dell’Eritrea nell’attuale conflitto etiope, a sostegno di Abiy Ahmed Ali e, in opposizione al Fronte popolare di liberazione del Tigray, che possiede i caratteri di quello che si potrebbe definire un “regolamento di conti” nei confronti del popolo tigrino.

Sulla base di quanto avvenuto lo scorso novembre si può legittimamente affermare che la pace tra i due paesi – siglata nel 2019 – deve essere considerata soltanto l’inizio di un completo processo di pace tra i medesimi e che quindi, con riferimento all’intervento eritreo nell’attuale conflitto civile etiope, occorre tenere ben a mente il rapporto tra il Fronte popolare di liberazione nazionale Etiope e l’Eritrea a partire proprio dal 1998. In secondo luogo, devono essere analizzate le annose questioni degli aiuti internazionali, già in passato elargiti ai due paesi, da parte della Comunità internazionale e, infine, la questione dei rifugiati eritrei.

Per quanto concerne l’aspetto degli aiuti internazionali va detto che l’Eritrea e l’Etiopia ricevono circa 3,5 milioni di dollari annui, che implicano anche la stipula di accordi commerciali con altri paesi non presenti nel Corno d’Africa, e dei quali entrambi i paesi vogliono continuare a beneficiare. Questo rinfocola il sospetto che la guerra contro il Tigray sarebbe l’ultimo passo per una stabilizzazione degli accordi commerciali tra Addis Abeba e Asmara. Infatti, pur essendo l’Eritrea riconosciuta come un sanguinario regime militare, nel quale la leva è obbligatoria per tutti i cittadini, dai 18 ai 50 anni gli uomini, dai 18 ai 40 anni le donne, il suo attuale presidente gode di una legittimazione internazionale essendo stato coinvolto nella stipula di accordi commerciali con diversi paesi occidentali tra cui l’Italia. D’altra parte, anche l’Etiopia è beneficiaria di un fondo rilasciato dalla Banca Mondiale in cambio di un programma di privatizzazioni. Tuttavia, i partner di maggior rilievo a livello commerciale sono quelli mediorientali, in particolare l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti che hanno sponsorizzato l’accordo tra Etiopia ed Eritrea firmato simbolicamente a Gedda. In conseguenza del conflitto tra la regione del Tigray e lo Stato federale etiope, infatti, sono emerse accuse nei confronti degli Emirati Arabi Uniti per aver messo a disposizione dei droni, stanziati nella base militare ad Assab in Eritrea, a favore della repressione della rivolta da parte del Fronte popolare di liberazione nazionale.

Alla luce di tutto ciò deve essere riletto anche quindi il processo di pace tra Eritrea ed Etiopia con il dubbio, che si aveva già da principio, che sia prevalentemente un accordo di regolamentazione dei rapporti economico-commerciali tra i due paesi. Sul conflitto in Tigray, d’altra parte, oggi continua intanto la pressione internazionale per fare entrare in modo libero e accessibile gli aiuti umanitari internazionali in conseguenza del conflitto per tutta la popolazione tigrina a rischio denutrizione, come ribadito da molti allarmi delle agenzie umanitarie. Denutrizione causata anche dagli ostacoli provocati dal governo etiope all’ingresso di cibo e farmaci nella regione settentrionale. In un comunicato stampa pubblicato il 15 marzo “Medici senza Frontiere” ha condannato una serie di attacchi alle cliniche nella regione del Tigray che sono state saccheggiate, vandalizzate e distrutte.

Altra questione particolarmente rilevante, data l’ingerenza militare da parte dell’Eritrea nel conflitto tra la Regione del Tigray e l’Etiopia, è quella della condizione dei rifugiati: sono migliaia gli eritrei che si sono rifugiati nella regione del Tigray, dal 2001 – anno del golpe di Isaias Afewerki – fuggendo dalla dittatura di Asmara. Tale situazione ha oggi subito una drammatica deriva proprio in conseguenza dell’attuale conflitto e sembra rappresentare la tragica contropartita dell’Eritrea per il suo intervento militare di sostegno all’azione armata del governo federale etiope. Infatti, la guerra civile etiope non soltanto avrebbe provocato la presenza in Sudan di 56.000 rifugiati etiopi conseguenti al conflitto, così come di rifugiati eritrei, ma anche la deportazione in Eritrea da parte delle milizie di circa 6000/7000 eritrei rifugiati in Etiopia, che sarebbero stati prelevati dai campi rifugiati del nord dell’Etiopia, proprio in conseguenza del conflitto. A febbraio 2021, infatti, l’Alto Commissario Onu per i rifugiati, Filippo Grandi, ha denunciato la presenza di 20.000 rifugiati eritrei che, secondo testimoni da lui incontrati, sarebbero stati uccisi e deportati in Eritrea dai militari del regime di Afewerki.

Massacro di Debre Abbay

La Somalia

Va considerato, inoltre, non solo il coinvolgimento del Sudan e dell’Eritrea nel conflitto civile etiope ma anche quello della Somalia. L’Eritrea infatti, come riportato a gennaio del 2021, avrebbe inviato armi pesanti all’esercito somalo e una delle partite di scambio risulterebbe essere l’intervento dei militari somali nel Tigray. Secondo la rivista “Somali Guardian” in Eritrea sono stati addestrati almeno 10.000 militari somali, originariamente preposti per difendere il governo della Somalia dagli attacchi degli al Shabab, e una parte di queste reclute sarebbe stata inviata già a novembre del 2020 nella regione del Tigray. In corrispondenza di ciò le truppe etiopi sono state ritirate dalla missione Amisom in Somalia proprio per andare a combattere nella guerriglia contro il Fronte popolare di liberazione del Tigray a discapito della missione che sostiene il fragile governo somalo. L’ indebolimento di Amisom, così rischia di dare un seguito maggiormente rilevante alla destabilizzazione del governo federale somalo messa in atto dagli al Shabab.

Inoltre, nel mese di marzo 2021, in seguito alla pubblicazione il 26 febbraio scorso di un documento redatto  da Amnesty International sul conflitto etiope, in particolare sull’intervento delle truppe eritree nella città di Axum,  il capo dell’Alto Commissariato Onu per i diritti umani, Michelle Bachelet ha accettato la richiesta del governo etiope di avviare un’indagine congiunta nella regione a Nord del paese,  dove si presume siano stati commessi crimini di guerra e contro l’umanità. Infatti, in un lungo discorso al parlamento etiope il primo ministro ha recentemente dichiarato che “il popolo e il governo eritreo hanno fatto un favore ai nostri soldati durante il conflitto” e ha continuato dicendo “nonostante ciò, dopo che l’esercito eritreo ha attraversato il confine, qualsiasi danno abbia fatto al nostro popolo è inaccettabile. Non lo accettiamo perché è l’esercito eritreo, e non lo accetteremmo se fossero i nostri soldati. La campagna militare era contro i nostri nemici chiaramente mirati, non contro il popolo. Ne abbiamo discusso quattro-cinque volte con il governo eritreo”.

Sempre il 23 marzo di quest’anno, Abiy Ahmed ha ammesso che le truppe eritree sono state presenti durante il conflitto nella regione settentrionale del Tigray suggerendo che potrebbero essere state coinvolte in abusi contro i civili. L’ammissione è intervenuta dopo mesi di smentite, sia da parte dell’Etiopia che da parte dell’Eritrea, del coinvolgimento di uomini appartenenti alle rispettive forze armate nella violazione dei diritti umani, nei massacri e nei crimini di guerra compiuti i mesi scorsi.

Il 25 marzo, intanto, le Nazioni Unite hanno reso noto che almeno 516 casi di stupri sono stati segnalati da alcune cliniche presenti nella regione del Tigray e il presidente etiope – che ha preso molto seriamente tale comunicato –  il 26 marzo, secondo l’agenzia di stampa internazionale “Reuters”, ha annunciato su “Twitter” che l’Eritrea ha accettato il ritiro delle proprie milizie dal confine etiope. Tale dichiarazione è stata resa pubblicamente dal presidente etiope in seguito all’incontro in Eritrea con il presidente Afewerki ad Asmara.

una visione di insieme

L’amministrazione Biden

Inoltre, sempre nella guerra civile, che continua a dispiegare i suoi effetti, nel quasi totale silenzio – data anche la difficoltà ad ottenere informazioni in merito, per le restrizioni imposte dall’attuale presidente ai Media – sono recentemente intervenuti gli Stati Uniti con una reazione che può qualificarsi il più veemente interessamento della Comunità internazionale in merito a quanto avvenuto nei mesi scorsi nell’area. 

Gli Usa hanno dichiarato la loro presenza mediante l’intervento dell’agenzia umanitaria statunitense “Usaid”, notoriamente intrecciata con operazioni gestite dalla Cia, annunciando di aver schierato un “Disaster Assisance Response Team” nella regione del Tigray. Infatti il 27 febbraio il segretario di stato americano Blinken, ha imposto al presidente etiope di aprire il Tigray all’accesso degli aiuti umanitari e di essere preoccupato per i crimini di guerra che molto probabilmente sono stati compiuti in conseguenza del conflitto nell’area. Questo interessamento degli Stati Uniti per la regione del Tigray si è manifestato, in seguito, con la pubblica condanna, da parte del segretario di Stato Antony Blinken, degli atti di pulizia etnica avvenuti nella regione e per i quali ha chiesto la piena responsabilità del governo etiope e il ritiro delle truppe eritree.

Il 10 marzo scorso Blinken ha, altresì, espresso chiaramente di non accettare forze di sicurezza nella regione che si rendano responsabili della violazione dei diritti umani del popolo del Tigray o che commettano atti di pulizia etnica. Il giorno seguente Gizhachew Muluneh, docente alla Sharda University e portavoce amhara, ha condannato le dichiarazioni di Blinken considerandole fuorvianti, ritenendo che il territorio del Tigray, occupato dalle sue forze regionali, debba effettivamente essere considerato, da ora in poi, parte della regione dell’Amhara. Le dichiarazioni di Blinken sono state rilasciate in seguito sia alla pubblicazione del Rapporto di Amnesty International, sia alle dimissioni di Berhane Kidane Mariam, vicecapo della missione presso l’ambasciata etiope a Washington DC che ha sottolineato che il presidente Abiy Ahmed sta conducendo il suo paese verso un “sentiero oscuro verso la distruzione e la disintegrazione” e di essersi dimessa per “protestare contro la guerra genocida nel Tigray”.

Infine, l’attuale presidente degli Stati Uniti Biden, a fine marzo, ha deciso di inviare il senatore americano Chris Coons ad incontrare il primo ministro etiope per discutere delle accuse di pulizia etnica nella regione del Tigray. L’intervento americano, tuttavia, deve essere considerato in un’ottica più complessa: le operazioni del presidente etiope a partire dal conflitto dovrebbero essere analizzate valutando l’ambizione geopolitica degli Usa di controllare la regione del Corno D’Africa attraverso la manipolazione del presidente etiope, con la volontà di escludere la Cina e la Russia da quest’area di influenza.

In conclusione, anche in passato era già avvenuto in Etiopia che a una transizione politica facesse seguito un periodo di instabilità del paese, ma oggi l’Etiopia non si appresta a divenire uno “stato fallito” ed è invece in grado di chiamare altri poteri Internazionali in suo aiuto che probabilmente eviteranno un processo di “balcanizzazione” dell’attuale stato federale etiope.

Proponiamo infine un intervento di Angelo Ferrari, registrato il 15 novembre 2020 durante la trasmissione dedicata alla crisi etiope da I Bastioni di Orione, rubrica di affari internazionali di Radio Blackout

“Resa dei conti tra tribù etiopi”.

Fonti:

L'articolo n. 1 – Corno d’Africa: Migranti e secolari conflitti etnici e coloniali proviene da OGzero.

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n. 2 – Mali e Niger: conflitti e instabilità nel Sahel https://ogzero.org/n-2-mali-e-niger-conflitti-e-instabilita-nel-sahel/ Sun, 11 Apr 2021 08:22:10 +0000 https://ogzero.org/?p=2912 Questo saggio fa parte di una raccolta di articoli che fornisce una panoramica sulla questione migratoria: analizzeremo insieme a Fabiana Triburgo le varie rotte che si sono delineate nel tempo a causa di conflitti o e instabilità che provocano questo fenomeno per giungere infine a un’analisi della normativa europea e delle alternative che potrebbero emergere […]

L'articolo n. 2 – Mali e Niger: conflitti e instabilità nel Sahel proviene da OGzero.

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Questo saggio fa parte di una raccolta di articoli che fornisce una panoramica sulla questione migratoria: analizzeremo insieme a Fabiana Triburgo le varie rotte che si sono delineate nel tempo a causa di conflitti o e instabilità che provocano questo fenomeno per giungere infine a un’analisi della normativa europea e delle alternative che potrebbero emergere da politiche più coraggiose e lungimiranti. Qui il secondo contributo, focalizzato sulla regione del Sahel.


n. 2

I principali conflitti che attualmente interessano le migrazioni forzate e le prassi di esternalizzazione poste in essere dall’Unione Europea e dai singoli stati membri portano a una predeterminazione delle rotte dei migranti.

Quello che oggi è inevitabile chiedersi è se il nuovo Patto europeo sulla migrazione e l’asilo, proposto dalla Commissione UE, possa essere realmente considerato una soluzione della gestione del fenomeno migratorio o se invece vi siano soluzioni legali alternative maggiormente lungimiranti e coraggiose.  


Sahel: estrema povertà, crescita demografica e marginalità delle comunità periferiche

Secondo l’interpretazione dell’Unione Europea a far parte di quest’area sono i cosiddetti paesi del G5, ossia Mali, Mauritania, Burkina Faso, Ciad e Niger. Nell’area è presente un forte attivismo dei gruppi armati jihadisti in particolare nei territori del Mali, Niger e Mauritania, favoriti anche dai confini estremamente porosi tra i tre paesi. Ad ogni modo tutti gli stati appartenenti all’area del Sahel sono oggi interessati da traffici illeciti di armi, droga e di uomini nonché da massicci fenomeni migratori che spingono l’Europa a esternalizzare nella regione le sue frontiere, come vedremo in seguito. I paesi del Sahel infatti si trovano in una condizione di instabilità dalla caduta del regime di Gheddafi in Libia. Già nel 2014 emergeva la drammatica condizione del Sahel: estrema povertà dell’area, forte crescita demografica e marginalità delle comunità periferiche. Questi fenomeni sono stati acuiti proprio dalla caduta di Gheddafi, dalle Primavere Arabe determinate nel Nord del continente africano, e dalla diffusione degli estremisti di matrice fondamentalista.

Le missioni Onu

Soprattutto in ragione della presenza di gruppi terroristi nei territori del Sahel è dovuto l’intervento di forze internazionali ed europee nell’area con la missione Onu Minusma, missione di pace nella regione del Mali, e rispettivamente con le missioni europee: Eucap in Niger per fornire assistenza alle forze di sicurezza interne al paese e per un maggiore coordinamento con altri paesi del Sahel, in particolare con Mali e Mauritania, Eucap in Mali con lo scopo di difendere la democrazia già flebile per ristabilire l’autorità di uno stato in un territorio dove le forze jihadiste sembrano inarrestabili. Infine, si segnalano l’Eutm, ossia la missione europea per fornire assistenza e mentoring alle forze armate maliane, e la Racc missione europea per consentire in Mauritania e in Ciad una maggiore e più stabile presenza europea.

Missione Minusma in Mali (foto del Ministero della Difesa dei Paesi Bassi)

Il mese di marzo è stato interessato da diversi scontri tra le ramificazioni di al-Qaeda e l’Isis nel Sahel, nella regione delle tre frontiere tra Burkina Faso, Mali e Niger. Il conflitto si è verificato da ultimo tra il gruppo di sostegno all’islam e ai musulmani ossia lo Jnim affiliato ad al-Qaeda e l’Isgs ossia lo Stato Islamico nel grande Sahara. Secondo l’istituto per gli studi di politica internazionale tale conflitto può essere legittimamente qualificato come uno dei più cruenti al mondo.

Conflitti e instabilità nel Sahel

Video propagandistico rilasciato dalle milizie Jnim (foto Menastream)

Jnim e Isgs condividono origini comuni nella rete di al-Qaeda nel Maghreb islamico (Aqmi). Tra i due gruppi infatti vi erano legami personali e di lungo periodo basati anche su azioni coordinate per affrontare nemici che allora erano comuni, contraddistinti dalla mancanza assoluta di lotte intestine jihadiste tra loro.

Tuttavia, negli ultimi anni si sono strutturati in maniera diversa: l’Isgs si è fondato nel 2015 dopo essersi separato da al-Mourabiton, movimento affiliato ad al-Qaeda. Tuttavia, il suo rapporto con al-Qaeda non è mai terminato e anzi, ancora oggi, si riscontrano tra loro accordi, collusioni e relazioni di coesistenza nel territorio.  Lo Jnim, fondato invece nel 2017, ha riunito diversi gruppi jihadisti disparati in diverse aree, tra cui proprio il gruppo al-Mourabiton e il gruppo jihadista burkinabè Ansarul Islam.

L’Isgs, gruppo piccolo e oscuro, dotato di una rudimentale infrastruttura multimediale ha saputo sfruttare l’assenza dello stato nelle comunità remote, intercettando le sensazioni di abbandono della popolazione civile e gli interessi delle comunità pastorali presenti nell’area, al contempo non ha dimostrato alcuna reticenza a incorporare anche unità dello Jnim, indebolite o marginalizzate. Lo Jnim nello stesso periodo ha preferito maggiormente rafforzare il suo processo d’integrazione nell’Isis. Nel 2019 con un’azione simultanea le due forze jihadiste hanno preso possesso della regione al confine dei tre stati costringendo al ritiro gli eserciti locali. Oggi l’Isgs sfida apertamente lo Jnim vantandosi delle sue vittorie su questo. Lo Jnim scredita apertamente l’Isgs per le vittime civili a causa dei suoi militanti.  A questa situazione si aggiunge la pressione delle forze militari contro il terrorismo, guidate dalla Francia nella missione Barkhane. È necessario quindi interrogarsi come sia nata tale missione e a che punto si trovi oggi rispetto ai fini precostituiti in passato e che legittimano la sua esistenza nella regione del Sahel.

I francesi nel Sahel: i movimenti in Azawad

La Francia era stata già presente militarmente nell’area del Sahel con la missione Serval. Il presidente Hollande nel 2013 è intervenuto con tale operazione in esito ad alcuni accadimenti di particolare rilievo che avevano interessato il Mali. Dopo la caduta di Gheddafi, infatti, la maggiore instabilità del Sahel si era riscontrata nei territori sahariani del Nord del Mali, nella regione dell’Azawad, che dopo l’indipendenza dalla Francia nel 1960, sono passati a Bamako.

La caduta del regime dittatoriale libico infatti ha provocato la formazione di movimenti filoindipendentisti tuareg nei quali militavano non solo cittadini maliani, ma anche altri cittadini africani con un background militare non indifferente. Alcuni di loro provenivano proprio dalle fila militari lealiste di Gheddafi. Tali militanti insieme hanno fondato l’Mnla, ossia il Movimento di Liberazione dell’Azawad. Questo fenomeno e la concomitante condizione di malcontento nelle caserme militari e l’incapacità delle forze militari maliane di fermare gli stessi movimenti filo-indipendentisti, nonché l’appoggio fornito ai tuareg da parte di al-Qaeda, hanno contribuito in modo fondamentale alla determinazione del colpo di stato nel dicembre 2012 in Mali. Il colpo di stato è stato infatti condotto dai tuareg e dai gruppi estremisti islamici. Tuttavia, dopo il colpo di stato, i gruppi estremisti hanno sempre più limitato la presenza dei tuareg negli interventi militari e hanno portato il conflitto sempre più a sud del paese fino ad arrivare a Konna, località non lontana dalla capitale Bamako. A questo punto il governo maliano ha chiesto aiuto e supporto a Parigi e alle forze militari francesi, in accordo con la comunità economica degli stati dell’Africa occidentale.

Dall’operazione Serval a Barkhane

L’operazione Serval, quindi, prima attraverso dei bombardamenti aerei, poi con dei gruppi militari di terra, costringendo i ribelli a fuggire nuovamente a Nord, ha consentito che Bamako riacquisisse il controllo di quasi tutto il territorio del Mali. In seguito a tale operazione, nel 2014, i francesi con l’operazione Barkhane, sono intervenuti nuovamente a livello militare in Africa, non solo in Mali, ma anche in tutta la regione del Sahel comprendente i cinque stati sopracitati. L’operazione Serval, quindi, è stata ristrutturata e rinominata.

I colpi di stato

In ogni caso questa volta, nonostante la presenza militare della Francia, ad agosto del 2020, si è verificato un nuovo colpo di stato simile a quello del 2012. Infatti, vi è stato l’ammutinamento della base militare a Katim e il presidente Ibrahim Boubacar Keita è stato rimosso. Ritorna l’elemento comune al colpo di stato del 2012 del malcontento delle Forze armate del Mali rispetto al governo centrale.  Ad agosto del 2020 Amnesty International con un comunicato si è detta estremamente preoccupata per l’arresto dell’ormai ex presidente del Mali, Ibrahim Boubacar Keita, dell’ex primo ministro Boubou Cissé e di altri esponenti del deposto governo a opera del Comitato nazionale per la Salvezza del Popolo, autore del colpo di stato del 18 agosto 2020. L’organizzazione ha chiesto alla giunta militare che ha assunto il potere di liberare tutte le persone arrestate – tranne quelle per cui possono provare che siano state autrici di crimini riconosciuti dal diritto internazionale – e di impegnarsi a rispettare i diritti umani. Amnesty International ha espresso preoccupazione anche per la notizia riguardante la morte di 4 persone e il ferimento di 15 colpite da armi da fuoco in circostanze ancora poco chiare. Il colpo di stato si è verificato, come specifica l’organizzazione umanitaria, in un contesto di forte crisi politica, nata in seguito alla proclamazione dei risultati delle elezioni legislative dell’aprile del 2020 e acuitasi durante le proteste di massa, promosse e dirette, dal mese di giugno, dal Movimento 5 giugno Fronte patriottico di resistenza. Il 10 luglio scorso le proteste, infatti, ricorda Amnesty erano state soppresse dalle forze di sicurezza con estrema brutalità. Alla fine della giornata i morti erano stati almeno 14 e i feriti 300. La crisi istituzionale, infatti, è stata esacerbata dalla questione Covid, che ha provocato numerosi scioperi e un peggioramento del sistema educativo. Per tali motivi il presidente ha deciso il rinvio delle elezioni legislative in Mali e, in seguito, i giudici della Corte Costituzionale in Mali hanno accolto il ricorso dell’ex presidente Boubacar Keita assegnandogli 8 seggi in più rispetto a quanti ne risultavano dall’esito delle votazioni. Questo è stato uno degli elementi che ha portato al colpo di stato questa estate.

Milizie e gruppi terroristici

In tutta l’area del Sahel, ad ogni modo, si rileva la presenza costante di gruppi terroristi ed è per questo che molte forze internazionali ed europee hanno deciso di intervenire negli ultimi anni nella regione. Tra tali gruppi terroristici, tuttavia, ci sono state molte tensioni negli ultimi anni come tra al-Qaeda e Stato Islamico nel Sahel, per cui oggi, con riferimento alla regione, si parla di “terrorismo non unitario”. Tuttavia, vi sono anche moltissimi gruppi armati non terroristici (groupes armés non identifiès) che sono da considerarsi comunque pericolosi come quelli terroristici e così anche le forze armate maliane autrici di molteplici abusi che rappresentano un terzo delle violenze perpetrate nell’area. È bene, tuttavia, soffermarsi sui gruppi non terroristici presenti nell’area. La proliferazione di gruppi non statali armati nel Sahel ha determinato violenza e insicurezza nella regione; tali gruppi, come visto, oltre a quelli estremisti violenti, sono gruppi armati politicamente motivati, le milizie di autodifesa, i gruppi di sicurezza locali. L’aumento di tutti i gruppi armati presenti nella regione riflette in ogni caso l’incapacità degli stati del Sahel di esercitare il monopolio della forza in modo da proteggere efficacemente i loro cittadini e preservare l’integrità del territorio. Gli attori non statali infatti operano in modo scioccante in spazi in cui la presenza dello stato è debole o contestata, come per esempio le aree rurali e di confine, così come le aree maggiormente periferiche. Il Niger – nonostante una politica che afferma “tolleranza zero” verso le milizie locali e i gruppi di autodifesa – non è stato risparmiato dai gruppi estremistici violenti che stanno guadagnando sempre più terreno nel territorio nigerino. In Mali, invece, le regioni di Mopti e di Segon, interessate da conflitti secolari, da una limitata presenza delle forze di sicurezza dello stato e da un facile accesso alle armi, hanno condotto alla creazione di gruppi locali di autodifesa su base comunitaria e di milizie locali.

Ascolta “Le frontiere liquide del Sahel” su Spreaker.

I gruppi armati non violenti ed estremisti, ma politicamente motivati, invece in Mali sono stati ritenuti ufficialmente partner legittimi per lo stato con cui lavorare, come è avvenuto con gli accordi di pace e di riconciliazione del 2015.

Barkhane: una missione controversa

In questo scenario è importante capire quali siano dunque le prospettive per l’operazione Barkhane nel Sahel. Macron, infatti, ha ribadito l’impegno della Francia nell’area del Sahel con la missione, senza una diminuzione delle forze armate militari impiegate nell’area. L’obiettivo principale di Macron è quello di annientare militarmente i principali gruppi terroristi jihadisti che hanno fatto del Sahel la propria roccaforte. Barkhane è la più ingente missione europea su suolo africano e fornisce training, mentoring, supporto logistico ed intelligence alle forze armate e all’intelligence dei paesi del G5, in un’ottica di cooperazione governativa della politica di sicurezza contro il terrorismo. Tale ultima dichiarazione del presidente francese ha destato non poco stupore in ambito internazionale poiché Macron aveva precedentemente comunicato la volontà di ritirare circa 600 uomini facenti parte dell’unità di supporto in Burkhinabé, facendo trapelare l’intento di rimodulazione dell’intervento del contingente, in linea con parte dell’opinione pubblica francese che ha assunto opinioni critiche sulla missione.

Takouba: quando Barkhane non basta

Infatti, la Francia nella missione ha visto il verificarsi di molteplici incidenti e 55 vittime tra i militari francesi nonostante con Barkhane si siano riportati dei “successi” come l’uccisione di Abdelmalek Proukdel, il leader di al-Qaeda nel Maghreb islamico. La missione viene criticata perché concepita solo sotto il profilo militare e diversa dagli approcci degli stati G5 e delle Nazioni Unite che concepiscono come strumento utile per lo state-building, la riduzione dei conflitti e la capacità di negoziare con i principali gruppi insorgenti nell’area in quanto darebbe a Parigi la possibilità di strutturarsi come presenza di medio-lungo periodo nella regione del Sahel.

Conflitti e instabilità nel Sahel

Operazioni della Missione Takouba

Su queste basi infatti sembrerebbe nata l’idea della missione francese Takouba, ossia una missione che implicherebbe il coinvolgimento di altri paesi in sostegno alla propria attività militare nel Sahel alla quale hanno già aderito, a livello intenzionale, Belgio, Danimarca, Italia, Estonia, Olanda e Repubblica Ceca. Tuttavia, la missione Takouba sembra fondarsi più su un approccio massimalista che riflessivo, ossia poiché Barkhane non sta funzionando come previsto, occorre aggiungere altro supporto militare e quindi chiedere ad altri paesi europei di partecipare alla propria missione militare con forze congiunte.

Al proposito Antonio Mazzeo può approfondire l’aspetto relativo all’impegno militare, estendendo il discorso a strategie neocolonialiste

Ascolta “Missioni coloniali in Sahel: tassello della guerra globale e della spartizione del mercato africano” su Spreaker.

Le armi come aiuti umanitari

I conflitti armati nel Sahel hanno coinciso con un aumento di importazione delle armi da parte dei paesi G5, in particolare Mali e Burkina Faso. Alcuni di questi trasferimenti sono stati finanziati dall’Unione Europea o sono stati consegnati come aiuti umanitari da parte della Francia, del Qatar o degli Emirati Arabi Uniti. Secondo il Sipri, infatti, diverse grandi potenze stanno usando le forniture di armi come uno strumento di politica estera per aumentare l’influenza nell’area.

Inoltre, in Niger si è registrata negli ultimi giorni una recrudescenza dei conflitti che desta grande preoccupazione a livello internazionale. Il 15 marzo 2021 sono rimaste uccise 58 persone e si registrano molti feriti in seguito all’attacco sferrato contro gli abitanti dei villaggi che facevano ritorno dal mercato settimanale di Banibangou, nella regione di Tilabèri, in prossimità del confine con il Mali.

Insicurezza interna

Gli autori di questa strage anche in questa circostanza sono ritenuti “gruppi armati non identificati”; il medesimo giorno i gruppi hanno attaccato anche il villaggio di Darey Dey nel quale sono rimasti uccisi tutti gli abitanti e si sono verificati episodi di saccheggio, devastazioni e incendi. Lo scopo di tali attacchi è quello di costringere la popolazione locale, attraverso atti violenti e vandalici, a lasciare i territori di appartenenza. La sessa zona di Tilabèri, tra l’altro, era stata interessata a gennaio del 2020, da un’uccisione di massa rivendicata, in questo caso, dallo Stato Islamico nel Grande Sahara.

Ancora, il 21 marzo 2021 sono stati uccisi 40 civili nei villaggi di Intazayene, Bakorat, e AkiFakit nel distretto di Tillia, nella regione di Tahoua, sempre in prossimità del confine con il Mali. La regione stessa ospita diversi rifugiati maliani. In questa zona di confine normalmente operano diversi gruppi terroristi, in particolare lo Stato Islamico nel Grande Sahara. Anche la responsabilità di questo ulteriore drammatico evento viene attribuita a “non meglio identificati individui armati”.  In realtà, a causa dell’attacco nel distretto di Tillia, di domenica 21 marzo, è salito a 137 il bilancio delle vittime.

Tra dicembre 2020 e marzo 2021, mentre in Niger erano in corso le elezioni, infatti, sono state uccise complessivamente circa 262 persone, tutte civili, la maggior parte proprio da gruppi armati non identificati. La questione si incardina proprio nell’impossibilità di comprendere il fenomeno alla base di tali attacchi poiché quasi nessuno di essi è stato rivendicato. La tesi prevalente è quella, al momento, che tali gruppi armati non identificati vogliano operare, attraverso le proprie attività criminali, una sorta di pulizia etnica.

In questo momento storico dunque il Niger si trova ad affrontare, oltre agli atti di natura terroristica anche gli scontri politici determinati dagli esiti delle votazioni elettorali del 21 febbraio del 2021 che hanno decretato la vittoria ufficiale di Mahamane Bazoum, contestata fortemente dall’altro candidato, Mahamane Ousmane che ha denunciato brogli e ha promesso forti proteste nel paese. Per Bazoum, quindi, che assumerà la carica il prossimo, 2 aprile 2021, la questione securitaria è certamente la prima da affrontare.

Fonti:

L'articolo n. 2 – Mali e Niger: conflitti e instabilità nel Sahel proviene da OGzero.

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n. 3 – Nigeria: la natura ibrida delle minacce https://ogzero.org/n-3-nigeria-la-natura-ibrida-delle-minacce/ Sun, 11 Apr 2021 08:21:46 +0000 https://ogzero.org/?p=2918 Questo saggio fa parte di una raccolta di articoli che fornisce una panoramica sulla questione migratoria: analizzeremo insieme a Fabiana Triburgo le varie rotte che si sono delineate nel tempo a causa di conflitti o e instabilità che provocano questo fenomeno per giungere infine a un’analisi della normativa europea e delle alternative che potrebbero emergere […]

L'articolo n. 3 – Nigeria: la natura ibrida delle minacce proviene da OGzero.

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Questo saggio fa parte di una raccolta di articoli che fornisce una panoramica sulla questione migratoria: analizzeremo insieme a Fabiana Triburgo le varie rotte che si sono delineate nel tempo a causa di conflitti o e instabilità che provocano questo fenomeno per giungere infine a un’analisi della normativa europea e delle alternative che potrebbero emergere da politiche più coraggiose e lungimiranti. Qui il terzo contributo, focalizzato sulla Nigeria.


n. 3

I principali conflitti che attualmente interessano le migrazioni forzate e le prassi di esternalizzazione poste in essere dall’Unione Europea e dai singoli stati membri portano a una predeterminazione delle rotte dei migranti.

Quello che oggi è inevitabile chiedersi è se il nuovo Patto europeo sulla migrazione e l’asilo, proposto dalla Commissione UE, possa essere realmente considerato una soluzione della gestione del fenomeno migratorio o se invece vi siano soluzioni legali alternative maggiormente lungimiranti e coraggiose.  


L’importanza degli attori non statali

La proliferazione di attori non statali in grado di acquisire sempre un ruolo di maggior potere rispetto alle istituzioni, ossia le propagazioni del governo centrale democraticamente eletto, riscontrata nella zona del Sahel, è altresì presente in Nigeria, in particolare, per quanto riguarda i gruppi jihadisti, nell’area nordest del paese, ossia negli stati di Adamawa, Bauchi, Borno, Gombe, Taraba e Yobe e in tutto il territorio nazionale per quanto riguarda le bande criminali.

La causa di tale fenomeno si può individuare, come nel caso del Sahel, nell’assenza di un potere del governo centrale incapace di intercettare i bisogni socio-economici della nazione e che mostra un deficit dal punto di vista securitario. Questo pone la Nigeria nella difficile e drammatica condizione, visti i recenti e i meno recenti episodi di rapimenti e uccisioni ai danni di civili, di dover ricorrere a banditi locali e vigilantes per poter assicurare il pieno soddisfacimento delle istanze securitarie in alcune realtà rurali periferiche e di sottomettersi alla presenza dei movimenti estremisti jihadisti ai quali non riesce più a far fronte.

Infatti, nonostante gli aiuti anche da parte della comunità internazionale per la lotta al terrorismo jihadista, il sistema militare e quello delle forze di sicurezza speciali si dimostrano da anni fallimentari fino ad arrivare essi stessi a costituire un pericolo per la sicurezza e la vita della popolazione civile che è la prima vittima di questa condizione.

Corruzione e insicurezza alimentare

A ciò si aggiungono i problemi di corruzione che interessano il paese, soprattutto per quanto riguarda il sistema giudiziario, per cui è vana la perseguibilità giuridica di alcuni atti contro i civili da parte delle forze armate e di polizia, e la vendita illecita di armi che sta divenendo sempre più esponenziale, data la permanente situazione di belligeranza all’interno del paese, così come quella dell’insicurezza alimentare.

Makoko (foto Dan Ikpoyi)

Per quanto riguarda l’aumento della presenza e del ruolo degli attori non statali in Nigeria, rispetto all’attuale potere del governo di Abuja, occorre soffermarsi in primo luogo sul ruolo delle “milizie popolari di autodifesa”.  Il 17 febbraio 2021, infatti, il ministro della Difesa nigeriano Bashir Salihi Magashi ha dichiarato che è necessaria la mobilitazione dei cittadini per fronteggiare con successo le attività di contrabbando, estorsione, saccheggio, rapimenti, furti, sfruttamento della prostituzione, nonché di traffico di migranti che stanno coinvolgendo tutte le aree della Nigeria.

Il ministro in questa circostanza si riferiva particolarmente al fenomeno del banditismo e della criminalità organizzata, più che a quello del terrorismo jihadista, anche se entrambi i fenomeni sono fonte di seria preoccupazione da parte del governo guidato del presidente Muhammadu Buhari.

Criminalità di stato e “milizie di autodifesa popolare”

Lo scenario in cui si trova infatti il paese è altamente complesso: da una parte vi sono tali gruppi di banditi criminali, dall’altra si riscontra, ormai da anni, la presenza di jihadisti legati all’islam dell’area mediorientale e del Maghreb con lotte interne e separatismi come è avvenuto nel caso dell’Iswap.

Da un altro lato ancora, vi sono gli atti criminali compiuti dagli stessi militari e dalle forze speciali di polizia, le Sars, contro i civili proprio nella lotta al banditismo e al terrorismo di stampo jihadista. Il Tribunale penale internazionale permanente ha confermato, infatti, a conclusione delle indagini preliminari avviate nel 2010, che sia Boko Haram sia le forze armate nigeriane hanno commesso gravi crimini di diritto internazionale contro la popolazione civile.

È chiaro, quindi, che lo stato nigeriano al momento si trovi in una situazione di difficoltà e che, almeno per quanto riguarda le bande criminali, ha lasciato intendere che non è in grado di fronteggiare il problema attraverso le proprie forze militari, di sicurezza e di polizia e sta chiamando sorprendentemente lo stesso popolo in suo aiuto. Le mancanze strutturali di uomini e di mezzi nell’esercito e nelle forze di polizia è ormai noto e per questo spesso il ministero della Difesa e dell’Interno affidano i servizi di sicurezza a organizzazioni locali, ossia ad altre bande armate reclutate su base geografica o etnico-tribale, chiamate appunto “milizie di autodifesa popolare”.

Nelle regioni meridionali la criminalità si contraddistingue per la presenza di confraternite pari alle cosiddette mafie internazionali e, sempre a sud, nella regione del Delta del Niger vi sono elementi armati indipendentisti, bande di pirati, contrabbandieri di carburanti e ladri di petrolio. Nella fascia centrale invece si rilevano molteplici scontri tra le comunità nomadi pastorali e quelle sedentarie rurali sempre per l’accesso alle risorse del suolo.

Il jihadismo e le differenze etniche

A ciò si aggiunge, come già accennato, a nord della Nigeria, il fenomeno dei jihadisti, primi fra tutti Boko Haram e lo Stato Islamico in Africa Occidentale. Il problema, quindi, è che non è di facile individuazione la provenienza di determinati atti criminali, come stiamo vedendo per i recenti rapimenti nel paese, non essendoci una linea netta in grado di dividere criminalità, insorgenza etnica e terrorismo a livello locale.

Per questo il governo nigeriano, date le aree di promiscuità di tali gruppi e la natura ibrida delle minacce, ha deciso di delegare le funzioni di sicurezza alle milizie popolari di autodifesa dei villaggi che già combattono da tempo in prima linea.

Tuttavia, tale fenomeno, lungi dall’essere risolutore del problema securitario nel paese, può costituire esso stesso un’ulteriore condizione di instabilità come è avvenuto, nella zona centrale della Nigeria, con i gruppi di autodifesa Ya sa kai di etnia hausa, muniti di rudimentali armi di difesa e dei gruppi armati di autodifesa di etnia fulani, muniti di armi maggiormente sofisticate, sovvenzionate con attività criminali come i rapimenti.

Inoltre, data la presenza dell’etnia fulani, anche nel Nord del paese all’interno delle organizzazioni terroristiche jihadiste, queste milizie di autodifesa spesso sono state sfruttate dagli stessi jihadisti beneficiando del loro supporto logistico e di addestramento. In questo modo lo stato, che in questa circostanza già era in difficoltà proprio per la creazione di milizie di autodifesa, si è trovato ancora più incapace di gestire lo scontro tra l’etnia hausa e quella fulani.

Negli ultimi dieci anni le violenze dei gruppi di autodifesa hanno creato più di 15.000 vittime, numero più elevato di quello dei movimenti terroristi; quasi ogni tentativo di dialogo con questi gruppi armati è stato fallimentare in quanto questi sono privi di una struttura unitaria e divisi al loro interno a seconda del capo villaggio o il capo tribù.

La “protezione” delle milizie di autodifesa

Inoltre, deve essere sottolineata la proliferazione di armi di cui questi gruppi si sono nel tempo dotati ossia soprattutto fucili d’assalto. Chiaramente, rileggendo le dichiarazioni del ministro della Difesa nigeriano, alla luce di quanto finora esposto, è legittimo chiedersi se questa tattica politica, nell’ipotesi in cui le milizie di difesa fossero percepite dal governo come efficaci a proteggere le popolazioni locali, sarebbe realmente opportuna in uno stato, come quello nigeriano, nel quale  le istituzioni statali sono già al collasso o se invece creerebbe uno scontro ancora maggiore tra esso  e le singole comunità locali.

La soluzione migliore sarebbe quella di integrarle in strutture nazionali ufficiali che ne possano facilitare l’addestramento e soprattutto il loro controllo, senza venir meno all’impegno primario del governo a implementare e migliorare le proprie forze armate e quelle di polizia nel paese.

“End Sars”

A conferma della necessità di migliorare le forze armate e di polizia occorre ricordare l’ondata di proteste avvenute lo scorso 7 ottobre 2020, contro le Sars (Special Anti Robbery Squad), ossia le forze speciali di polizia, che ha interessato la Nigeria con una nuova eco anche fuori dal territorio nazionale e con una forza propulsiva che ha investito profondamente  il paese al suo interno.

L’evento scatenante si è verificato il 4 ottobre 2020: è stato divulgato in rete un video di un uomo innocente ucciso dalle Unità speciali della polizia nigeriana. Le proteste sono state portate avanti spontaneamente soprattutto da ragazzi con un’età compresa tra i 20 e i 30 anni con grande eterogeneità della classe di appartenenza, di religione e di provenienza. I giovani, in tale occasione, hanno chiesto una vera riforma delle forze di polizia in Nigeria in modo particolare il riconoscimento delle responsabilità delle azioni da queste compiute mediante una riforma del sistema giudiziario che possa essere in grado di promuovere e sostenere un’azione legale nei confronti degli appartenenti alle Sars che hanno compiuto atti violenti senza ragione a danno di civili.

Le Sars, infatti, costituite nel 1992 con l’intento di creare un corpo specializzato per il contrasto delle rapine e di crimini nel paese, sono oggi accusate di abusi, di prevaricazioni, di esecuzioni extragiudiziarie. Amnesty International ha stimato che dal 2017 al 2020 sono state 82 le vittime di esecuzioni extragiudiziali da loro commesse.

La reazione del governo in seguito alle proteste è stata considerata insoddisfacente dai manifestanti. Il presidente Muhammadu Buhari ha ordinato infatti lo scioglimento delle Sars, ma a buona parte della popolazione è sembrata un’operazione fittizia in quanto anche in passato era stato promesso il loro scioglimento senza mai realizzarlo. Poiché le proteste si sono esacerbate con il passare dei giorni, il governo ha optato per una forte repressione popolare tanto che Amnesty International ha stimato che siano circa 50 le vittime in conseguenza di tali manifestazioni anti-Sars. Anche per questo l’attuale presidente viene considerato da molti nigeriani incapace di governare, pur se non considerato “corruttibile” come altri politici, un paese così complesso e dinamico come la Nigeria.

Pressioni al governo di Abuja sono state rivolte anche da attori internazionali come Joe Biden, Clinton, il segretario generale delle Nazioni Unite Guterres e da parte dell’Unione Europea. Infine, rispetto a quanto detto sinora va segnalato il rapporto di Amnesty International My heart is in pain, in cui la nota organizzazione internazionale accusa i militari nigeriani di violazioni dei diritti umani a danno dei civili proprio nel combattere il pericoloso gruppo jihadista presente da diversi anni in Nigeria.

Boko Haram: la trasformazione

Infatti, l’altro attore non statale, autore di molteplici atti criminali e di conflitti armati in Nigeria, è il gruppo terroristico jihadista Boko Haram. Come accennato in principio la zona del Nord della Nigeria e gli stati che ne fanno parte hanno subito principalmente le attività del gruppo jihadista con un conseguente peggioramento della situazione di insicurezza e di arresto di ogni potenziale attività di sviluppo nell’area.

Il termine Boko Haram significa “proibizione dell’educazione occidentale”. In particolare, la parola del dialetto hausa “Boko” sta per libro o educazione occidentale, mentre “Haram” sta per proibita o per peccato. Questa infatti era l’idea della setta (cui nome tradotto è “persone impegnate nella diffusione degli insegnamenti della jihad del profeta”) che ha dato origine al gruppo terroristico nel 2002 a Maiduguri nello stato di Borno, nella parte nordoccidentale del paese, non lontano dai confini con il Niger, il Ciad e il Camerun.

Il gruppo viene costituito in ragione di una delusione percepita da parte di alcuni nigeriani delle forme occidentali di governo, responsabili di ingiustizie, corruzioni, malversazioni. L’imam Mohamed Youssuf che fondò Boko Haram nel 2002, anche per costruire la sua moschea, ottenne finanziamenti dal governatore dello stato di Kano e da quello dello stato di Borno. All’epoca la creazione del gruppo non fece notizia neanche in Nigeria e il gruppo tra il 2002 e il 2009 aveva adottato modalità d’azione pacifiche. Nel 2009, invece, l’imam Mohamed Youssuf fu arrestato e ucciso in carcere dopo una presunta insurrezione da lui guidata nella città di Maiduguri, capitale dello stato di Borno. Sia l’arresto sia l’uccisione del predicatore hanno determinato un punto di svolta per il gruppo: fino allora, infatti, Boko Haram era stato un gruppo di integralisti che protestavano pubblicamente in modo minaccioso con bastoni e machete, contro le scuole di tipo occidentale a causa, a loro dire, del progressivo allentamento dei costumi, contro la polizia che non puniva malavitosi e commercianti di alcol e, infine contro la dilagante corruzione dei politici e dei militari. Nel 2009, però, dopo l’uccisione, Mohammed Youssuf è stato sostituito da Abubakar Shekau e Boko Haram ha cambiato strategia provocando morti, sia avvalendosi progressivamente di un uso più indistinto della violenza per perseguire i suoi obiettivi, sia impiegando armi pericolose, come missili, granate, ordigni esplosivi improvvisati, carri armati, machete e pugnali. Gli obiettivi del gruppo erano semplici individui, istituzioni statali e religiose, polizia, esercito, scuole non solo nel nord-est della Nigeria ma anche in Camerun, Ciad e Niger. Il gruppo si è reso autore anche di incendi di case, di mercati, di attentati suicidi, e di rapimenti ed uccisioni di operatori umanitari, predicatori, viaggiatori, scolari e donne nonché di stupri.  Quindi già nel 2014, Boko Haram aveva acquisito all’interno del gruppo oltre ad armi più sofisticate, un buon numero di combattenti esperti, una buona capacità logistica, enormi riserve di esplosivo e militanti in grado di utilizzarlo con estrema perizia.

Le pressioni jihadiste esterne

Infatti, era intuibile che interessi locali, sia politici che economici, traevano profitto dall’esistenza del gruppo jihadista e in particolare su Boko Haram si avvertirono anche pressioni esterne provenienti dal jihadismo mediorientale e maghrebino dello Stato Islamico di al-Baghdadi che vedevano nei territori della Nigeria del Nord un califfato con il cuore nell’Africa.

Nel rapporto pubblicato da Amnesty International nel 2015 si denuncia l’efferatezza del regno del terrore imposto da Boko Haram nel contesto della Nigeria. Infatti, l’anno precedente, nel 2014, si era verificato il rapimento di 276 studentesse a Chibok, nello stato di Borno. Tuttavia, le studentesse rapite nel 2014 sono solo una piccola parte delle donne, delle bambine, degli uomini e dei bambini rapiti da Boko Haram. Delle duemila donne e bambine rapite dal 2014 molte sono state ridotte in schiavitù sessuale e addestrate a combattere. Nel rapporto Il regno del terrore di Boko Haram si documentano almeno 3000 raid e attacchi compiuti dal gruppo contro i civili e che, dopo il rapimento delle studentesse, sempre nel 2014, il 6 agosto a Gwozwa, ha ucciso 600 persone. Nel rapporto si leggono anche i tratti distintivi del regno del terrore imposto da Boko Haram: appena conquistato un centro il gruppo armato raduna la popolazione per annunciare le limitazioni dei movimenti, specialmente per le donne. Le famiglie a quel punto dipendono dai bambini che possono uscire a cercare cibo o se fortunate durante le visite del gruppo terrorista possono ricevere da questo del cibo saccheggiato altrove. A questo punto chi non prende parte alle preghiere rischia le frustate in pubblico. Nello stesso anno in cui è uscito tale rapporto, la setta ha giurato fedeltà allo Stato Islamico in Iraq e ha cambiato il suo nome in Stato Islamico nella Provincia dell’Africa Occidentale (Iswap). Tuttavia, sempre nel 2015, il gruppo ha subito una scissione per cui una fazione ha continuato a usare il nome di Boko Haram e un’altra ha mantenuto quella di Iswap.

Le cause economiche, politiche e religiose

Le principali cause degli incessanti conflitti nel paese e dell’insurrezione nella parte nordoccidentale della Nigeria sono di tipo economico, politico e religioso. Gli elementi economici sono da individuarsi nella povertà, nella diseguaglianza, nella disoccupazione o nel basso livello di istruzione. Le cause politiche devono invece essere attribuite alla cattiva governance, all’elevato livello di corruzione e all’utilizzo e poi all’abbandono di bande armate e infine all’impiego di armi.

La componente religiosa, invece, alla base del conflitto, è correlata all’estremismo e alle ideologie tramandate e radicate nelle comunità nel tempo. Inoltre, altro aspetto da sottolineare è che il reclutamento all’interno del gruppo jihadista comporta una notevole assistenza sotto forma di denaro, cibo, riparo e abbigliamento che, in un paese in cui il livello di povertà è molto alto, costituisce una forte attrazione all’arruolamento. Chiaramente, tuttavia, l’idea del benessere percepita da alcuni giovani che si inseriscono tra i militanti del gruppo jihadista è una mera illusione: il terrorismo in Nigeria non ha fatto altro che aumentare il livello di insicurezza, di povertà, il tasso di analfabetismo, così come la delocalizzazione delle imprese, con una conseguente diminuzione anche dei progetti di sviluppo pubblico e privato così come dei finanziamenti a favore del paese.

Nel corso degli anni, varie strategie sono state messe in atto senza successo dal governo, con l’intento di negoziare con la setta e, nel 2017 è stata istituita la Commissione dello Sviluppo del Nordest con l’obiettivo di stanziare i fondi internazionali e dei governi federali per riabilitare l’area spesso oggetto di distruzione e con l’intento di affrontare povertà e diminuzione dell’alfabetizzazione provocate dallo stesso terrorismo. Le iniziative poste in essere per il contrasto al terrorismo, in un primo momento, sembravano avessero prodotto alcuni risultati positivi. Ciò è avvenuto con il passaggio nel 2015 dall’amministrazione di Jonathan Goodluck a Buhari che aveva promesso di sconfiggere il gruppo terrorista in sei mesi. L’esercito in quell’occasione aveva ricevuto un migliore addestramento grazie anche ad Usa e Regno Unito e aveva cooptato un gruppo di vigilantes locali e una task force civile. Infatti, vennero liberati diversi ostaggi sia nel 2015 che nel 2017 e nel 2018. Tuttavia, molti ostaggi a oggi non sono stati ancora liberati e attualmente si registra una recrudescenza dell’attività della setta che sembrerebbe da attribuire proprio al coinvolgimento del gruppo internazionale jihadista Iswap.

Tra il 2018 e il 2020 il gruppo ha ucciso diverse persone tra cui civili e operatori umanitari. Da qui la richiesta dell’Assemblea nazionale nigeriana di licenziare i vertici militari e di nominarne di nuovi come il presidente Buhari, all’inizio reticente, cosa che ha fatto il 26 gennaio del 2021.

In questi ultimi anni Boko Haram ha messo in atto diversi tipi di attacchi tra cui la guerriglia, il posizionamento di mine terrestri contro i militari e la raccolta di informazioni di intelligence tra le truppe militari. Non si intravede quindi la fine del conflitto dell’autorità statale contro il gruppo terroristico che sta continuando a intensificarsi ed è ancora molto attivo nel Nord del paese. La pandemia, che in Nigeria si è diffusa alla fine del 2019, ha peggiorato la situazione in un paese che, già in lotta contro il terrorismo, ora deve lottare anche contro la propagazione di un virus.

I recenti tragici eventi, soprattutto rapimenti, che hanno interessato la Nigeria in modo particolare dalla fine del 2020 a oggi, sono espressioni proprio della presenza dei due attori non statali precedentemente descritti: il terrorismo di stampo jihadista – anche con la sua ala scissionista – e i gruppi di banditi, fortemente armati e violenti, appartenenti a determinati gruppi etnici. Di seguito si segnalano alcuni dei più recenti e importanti accadimenti.

Gli eventi più recenti

Il 16 dicembre del 2020 sono stati sequestrati nello stato nordoccidentale di Katsina circa 800 studenti. Il rapimento ha subito rimandato in mente, per modalità e strategia, al rapimento del 2014, nella stessa regione, a danno delle 276 ragazze nigeriane.

Tuttavia, questa volta, nonostante la rivendicazione da parte di Boko Haram, le autorità nigeriane hanno parlato piuttosto di un rapimento eseguito da banditi locali, fenomeno, come già detto, spesso attiguo alle violenze dei jihadisti nel Nordest del paese.

I sequestri in quest’ottica sono compiuti dai gruppi di banditi violenti per ottenere visibilità e riscatti. Alla base c’è la nota competizione, di lungo periodo, tra i pastori nomadi di etnia fulani e gli agricoltori di etnia hausa, protetti costantemente da banditi e vigilantes. L’attacco e il rapimento degli studenti a Kankara è avvenuto durante una visita del presidente nigeriano Buhari, originario proprio della regione di Katsina.

È del 25 novembre 2020 la notizia del rapimento, confermato anche dall’Unicef, di 317 studentesse nello stato nordoccidentale di Zamfara, anche questa volta compiuto da gruppi armati non identificati. Si tratta del secondo sequestro di questo tipo in poco più di una settimana.

Nello stesso periodo, inoltre, uomini armati probabilmente affiliati a Boko Haram o a qualcuno dei suoi gruppi terroristi satelliti avrebbero rapito, secondo “Africa ExPress”, più di 400 studentesse in un college statale situato sempre nello stato nigeriano di Zamfara.

Il 2 marzo del 2021, tuttavia, le circa 300 giovani rapite il 27 novembre 2020 sono state liberate. Secondo il governatore dello stato di Zamfara, il rilascio sarebbe stato frutto di un negoziato con i rapitori ma non è stato pagato alcun riscatto. Il numero effettivo delle ragazze liberate è di 279 perché, nelle ore successive al rapimento, alcune di loro sono riuscite a fuggire.

Quello degli attacchi e dei rapimenti nelle scuole è ormai un fenomeno persistente: negli ultimi dieci anni, nel Nord della Nigeria, circa 1500 scuole sono state distrutte, un migliaio di studenti sono stati rapiti e 2300 insegnanti sono rimasti uccisi.

Il 15 marzo si è verificato un nuovo rapimento in Nigeria: questa volta le vittime sono bambini che frequentavano una scuola primaria di Birnin Gwari nello stato di Kaduna e al momento sono trapelate pochissime informazioni: «Il governo dello stato di Kaduna sta attualmente provando a ottenere dettagli sull’effettivo numero di alunni ed insegnanti che si dice siano stati rapiti e rilascerà una dichiarazione esauriente il prima possibile», ha dichiarato il commissario statale per la sicurezza interna e gli affari esterni. I bambini, secondo il professor Hakeem Onapajo, docente a contratto presso il Dipartimento di Scienze politiche e Relazioni internazionali alla Nile University di Abuja, sono strategicamente importanti e interessanti sia per i terroristi, sia per le forze di sicurezza dello stato. Alla loro sicurezza non è stata prestata sufficiente attenzione dal governo nigeriano.

La questione è divenuta rilevante a partire dal 2013, anno in cui Boko Haram ha iniziato ad attaccare oltre che ospedali e centri per sfollati, anche scuole, come è avvenuto proprio in quell’anno con un raid lanciato contro un dormitorio notturno nello stato di Yobe in conseguenza del quale sono morti 44 scolari.

Negli ultimi cinque anni, tuttavia, l’ascesa del banditismo e, quindi non più soltanto l’intervento violento del gruppo jihadista Boko Haram, ha aggiunto una nuova e pericolosa dimensione degli attacchi contro i bambini: oltre a quelli già citati, sono da segnalare il rapimento dell’11 dicembre del 2020 di 333 studenti nello stato di Katsina e quello del 20 dicembre 2020 di 80 studenti sempre nello stesso stato.

Il rapimento di bambini, secondo il professor Onapajo, è diventato “strategico” per diverse drammatiche ragioni: sono uno strumento efficace per negoziare il rilascio dei membri di un gruppo in prigione e con il loro riscatto è possibile acquistare nuove armi; servono a ottenere maggiore visibilità internazionale e quindi l’alleanza di altri gruppi violenti presenti in Africa; i bambini possono essere utili in certe operazioni militari, come per esempio nel piazzare mine e, infine, le ragazze interessano per lo sfruttamento sessuale. Inoltre, il rapimento di bambini o bambine in età scolare, nel caso di attacchi da parte di Boko Haram, si allinea perfettamente al divieto della “cattiva educazione occidentale” da cui prende il proprio nome.

Gli attacchi all’Onu

Per quanto riguarda invece gli attacchi propriamente e indubbiamente jihadisti si segnala che nella notte del primo marzo 2021 due distinti gruppi hanno attaccato un campo militare e una base delle Nazioni Unite a Dikwa una città nello stato del Borno nella Nigeria settentrionale. Il conflitto, protrattosi per tutta la notte fino alla mattina del 2 marzo, non ha causato vittime nel personale grazie ai rinforzi militari giunti con uomini e mezzi dalle città vicine. L’operazione è stata rivendicata dall’Iswap, ossia lo Stato Islamico della Provincia dell’Africa occidentale, la nota fazione secessionista di Boko Haram, che come si riscontra dall’analisi dei recenti accadimenti, da circa due anni, opera nel Nordest del paese con azioni molto violente che riguardano non più solo le scuole ma, come detto in precedenza, anche militari e funzionari dell’Onu.

Fonti:

L'articolo n. 3 – Nigeria: la natura ibrida delle minacce proviene da OGzero.

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