Saddam Hussein Archivi - OGzero https://ogzero.org/tag/saddam-hussein/ geopolitica etc Tue, 22 Jun 2021 11:17:42 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.4.6 n. 9 Iraq: Il Destino comune dei paesi mesopotamici. (I) La fine dello stato e il settarismo https://ogzero.org/una-mobilitazione-costante-in-iraq-il-destino-comune-dei-paesi-mesopotamici/ Tue, 22 Jun 2021 10:41:18 +0000 https://ogzero.org/?p=3949 Lo spazio dedicato alla sezione irachena non a caso cade a ridosso delle puntate siriane nella serie di articoli dedicati alle rotte mediorientali della raccolta di analisi stilate da Fabiana Triburgo sulla questione migratoria. Intanto evidenziamo come a completamento dell’area si assista agli stessi meccanismi condivisi tra Siria, Libano e Iraq, la cui frazione nella serie […]

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Lo spazio dedicato alla sezione irachena non a caso cade a ridosso delle puntate siriane nella serie di articoli dedicati alle rotte mediorientali della raccolta di analisi stilate da Fabiana Triburgo sulla questione migratoria. Intanto evidenziamo come a completamento dell’area si assista agli stessi meccanismi condivisi tra Siria, Libano e Iraq, la cui frazione nella serie di articoli si compone di due interventi strettamente correlati. Anche in Iraq ovviamente mordono ancora i danni della divisione Sykes-Picot e infatti l’Isis simbolicamente si manifestò sul confine tirato senza criterio dalle potenze coloniali per spartirsi i territori dell’impero ottomano al suo crollo.

L’autrice ha dapprima analizzato nel presente articolo il settarismo religioso che ha visto la presa del potere sciita alla caduta di Saddam e le conseguenti proteste sunnite, veicolo della rivendicazione dei diritti civili, espresse in Libano in modo ecumenico con il Movimento popolare e in Siria con l’insurrezione contro al-Assad; tra la protesta repressa da al-Maliki e quella dei movimenti giovanili del 2019 l’Isis scorrazzò per ampia parte del territorio iracheno, sgozzando e perseguendo le minoranze religiose, in particolare gli yazidi; a corollario di ciò l’autrice analizza i risvolti geopolitici degli incontri interreligiosi promossi da Bergoglio.

Nel successivo articolo si occuperà delle tribù curde nel Kurdistan iracheno e della presenza del Pkk sui monti di  Kandil e della conseguente aggressione turca.


n. 9, parte I

I principali conflitti che attualmente interessano le migrazioni forzate e le prassi di esternalizzazione poste in essere dall’Unione Europea e dai singoli stati membri portano a una predeterminazione delle rotte dei migranti.

Quello che oggi è inevitabile chiedersi è se il nuovo Patto europeo sulla migrazione e l’asilo, proposto dalla Commissione UE, possa essere realmente considerato una soluzione della gestione del fenomeno migratorio o se invece vi siano soluzioni legali alternative maggiormente lungimiranti e coraggiose.  

Non c’è pace a 30 anni dalla Guerra del Golfo

Quest’anno ricorre il trentennale della prima guerra del Golfo ma la situazione geopolitica che oggi si riscontra in Iraq è fortemente diversa da quella di allora. Gli elementi peculiari sui quali occorre soffermarsi sono attualmente: il settarismo religioso, la questione curda con l’ingerenza della Turchia nel territorio iracheno, la recrudescenza dello Stato Islamico, l’ingerenza iraniana nel paese, gli scontri tra gli Stati Uniti e l’Iran nonché la mobilitazione costante della popolazione civile contro l’esecutivo al potere. L’Iraq che raggiunse l’indipendenza dal colonialismo inglese nel 1932 e nel 1968 vide l’ascesa del Partito socialista unico (Ba’at). E già si notano le rilevanti “contaminazioni” con gli altri paesi del Medioriente riscontrate nel corso dell’analisi geopolitica del Libano e della Siria, poi fortemente manifestate con le primavere arabe: infatti, nell’instaurazione dell’esecutivo baatista in Iraq non si può ignorare che nello stesso periodo, all’inizio degli anni Settanta, anche in quella Siria geograficamente prossima, il medesimo partito si impose con veemenza e diede inizio al regime degli al-Assad, con Hafiz padre dell’attuale presidente siriano. Nel contesto iracheno baatista però si stagliò in seguito la dittatura di Saddam Hussein salito al potere nel 1979. Da questo momento in poi la storia irachena seguì per alcuni anni un iter peculiare: dapprima lo scontro con l’Iran nel 1980 terminato solo nel 1988, dal quale il paese uscì fortemente indebolito, e successivamente l’invasione del Kuwait, a causa dell’abbassamento dei prezzi del petrolio, nel 1990, alla quale seguì lo scoppio della Prima guerra del Golfo del 1991.

una mobilitazione costante in Iraq

Colin Powell durante il Consiglio di Sicurezza dell’Onu sventola la prova falsa di una provetta di antrace, accusando Saddam di guerra chimica e scatenando la Seconda guerra del Golfo

Tale ultimo conflitto, su iniziativa statunitense e su legittimazione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite che vide il coinvolgimento dell’intervento armato di numerose potenze occidentali e che ebbe un’eco mediatica mai riscontrata fino a quel momento, fu totalmente diverso dall’intervento militare del 2003 per opera di Stati Uniti e Regno Unito – questa volta fortemente osteggiato dal Consiglio di Sicurezza – sulla base dell’esistenza di presunte armi di distruzioni di massa in Iraq, invero mai rinvenute. A ogni modo, ciò che è rilevante notare è che alla destituzione del regime di Saddam Hussein, individuato dalle truppe statunitensi nello stesso anno e impiccato nel 2006, si determinò l’instaurazione di un governo ad interim: un esecutivo basato sulla coalizione curdo-sciita guidato dal premier Nouri al-Maliki. Quando però quest’ultimo incentrò su di sé tutti i poteri con l’ossessivo controllo della popolazione irachena, nel 2011 il suo governo vacillò – come in Siria avvenne per Bashar al-Assad – per cui si pensò a una “primavera irachena”.

La protesta sunnita

In Iraq però la protesta popolare in quegli anni non si accese tanto sulla base della mancanza di riconoscimento delle libertà e dei diritti civili della popolazione come in Siria, quanto piuttosto sulla reazione violenta dei sunniti – stanchi della continua discriminazione religiosa subita dall’esecutivo sciita – che tuttavia non sfociò in un conflitto civile ma in una violentissima repressione del popolo sunnita da parte del governo centrale e alla quale seguì nuovamente la vittoria, nel corso delle elezioni provinciali del 2012, del premier Nouri al-Maliki. La storia irachena ritrova comunanza con la Siria per l’ascesa del sedicente Stato Islamico in entrambi i paesi e così, come in Siria Putin, anche Haydar al-Abadi in Iraq il 9 dicembre del 2017 dichiarò la sconfitta dell’IS in conseguenza dell’intervento armato da parte dell’esercito iracheno, delle milizie sciite e dei peshmerga (“combattenti fino alla morte”) curdi che in quell’anno riconquistarono la città di Mosul, la prima città a essere assediata in Iraq dal sedicente Stato Islamico. Gli anni seguenti, dopo la nomina nel 2018 di un’economista a primo ministro (Adil Abdul Mahdi), si caratterizzarono prevalentemente per una commistione con la situazione socioeconomica libanese. In particolare, nel 2019, così come in Libano, l’Iraq registrò una rovinosa discesa del Pil: venne reso noto dall’esecutivo un deficit economico di più di 50 miliardi di dollari, si attuarono tagli al settore pubblico – nel quale era impiegata il 40% della popolazione – e, infine, si determinò una riduzione dell’export iracheno. Le proteste popolari – delle quali simbolo è l’irachena piazza Tahrir – iniziate il 1° ottobre contro il governo, a causa della situazione economica, della corruzione e della disoccupazione nel paese, vennero promosse principalmente dal leader sciita Muqtada al-Sadr e portarono alle dimissioni a novembre del 2019 di Abdul Mahdi, come in Libano si dimise il primo ministro Saad Hariri in seguito alle proteste del 19 ottobre. Sia in Iraq che in Libano infatti a protestare contro la situazione di indigenza della popolazione e il governo furono prevalentemente i giovani, tuttavia la polizia e le milizie sciite estremiste filoiraniane in Iraq – i c.d. “squadroni della morte” – così come l’esercito libanese, furono sguinzagliati a soffocare la rivolta popolare giovanile con il terrore e con una repressione sanguinaria. Amnesty International intervenne in merito dichiarando che queste sono costate la vita ad almeno 300 iracheni. Al riguardo c’è da dire che il leader sciita Muqtada al-Sadr a capo del partito sadrista se in un primo momento si schierò con i manifestanti, istituendo una forza paramilitare per proteggere i civili scesi in piazza, successivamente utilizzò la medesima forza militare per reprimere le proteste. Tuttavia, nel mese scorso, dopo una momentanea riduzione della mobilitazione popolare, dovuta principalmente alla diffusione del Covid 19, le proteste dei giovani della “rivoluzione di ottobre” contro la corruzione e il regime settario nel paese sono tornate a infiammarsi e con esse anche le violente repressioni della polizia irachena e delle milizie armate sciite fondamentaliste.

una mobilitazione costante in Iraq

Autunno 2019, squadroni della morte di militanti sciiti filoiraniani attaccano e massacrano i giovani manifestanti antisistema a Kerbala e Najaf

La crisi dell’idea di stato condiziona lo scenario geopolitico mediorientale

Mustafa al-Kadhimi – ex capo dell’intelligence irachena, nominato premier nel maggio del 2020 – dopo cinque mesi di stallo politico seguito alle dimissioni di Abdul Madhi – pur dimostrando forti aperture verso le istanze delle proteste popolari e chiedendo che fossero giudicati tutti coloro che si macchiarono della violenta repressione; e oggi è in realtà a capo di un esecutivo  fortemente depotenziato allo stesso modo di quello libanese che, in seguito alle proteste del 2019, subì le dimissioni di tre premier nell’arco di un anno. Tuttavia la necessità dell’immutabilità e della stabilità degli attuali governi è resa esplicita dalle continue conflittualità e dalle ingerenze degli attori regionali e delle potenze internazionali presenti e riscontrata anche in altri paesi dell’area mediorientale, primo tra tutti quello siriano come precedentemente analizzato. Così come in Siria, quest’anno il prossimo 10 ottobre in Iraq sono previste le elezioni fortemente reclamate dai giovani manifestanti già dallo scorso anno, ma proprio come nella repubblica guidata da Bashar al-Assad, la popolazione civile non spera più che queste possano condurre a una svolta politica e sociale nel paese. Rimangono evidenti le difficoltà del presidente di gestire le tensioni politiche tra sunniti, sciiti filoiraniani e sciiti antiraniani. Nel 2021 la centralità dello stato iracheno è messa in discussione da numerosi fattori: tra questi tuttavia, rispetto all’obiettivo che tale sezione del saggio si propone, saranno analizzati soltanto quelli rilevanti perché realmente o potenzialmente induttivi del fenomeno migratorio forzato.

Il settarismo religioso ed etnico in Iraq. Le persecuzioni contro le principali minoranze religiose

Nel periodo della transizione “democratica” del paese dal 2003 al 2013, dopo la caduta di Saddam Hussein, seguì un esecutivo guidato da Nouri al-Maliki con funzioni prevalentemente securitarie che non solo provocò una crescente marginalizzazione della componente sunnita nel paese, ma anche continue intimidazioni nei confronti delle minoranze etnico religiose tra cui quella cristiana. A tale periodo seguì poi quello dell’occupazione del territorio iracheno da parte del sedicente Stato Islamico che aggravò ulteriormente la situazione ponendo in essere violenze generalizzate contro tutte le popolazioni appartenenti alle minoranze locali, in particolare contro i cristiani e gli yazidi ritenuti “infedeli”.

Queste azioni provocarono lo sfollamento di una moltitudine di persone appartenenti alle suddette minoranze dalla piana di Ninive (al confine con la Siria) verso le zone del Nord, in particolare quelle del vicino Kurdistan iracheno. Tale situazione agevolò, infatti, un rilevante aumento degli sfollati interni: più di tre milioni nel 2018 ma, essendo tale provincia autonoma un territorio considerato diverso da quello guidato dall’autorità centrale di Baghdad, gli Idp (Internally displaced persons) dovettero seguire, per vedersi riconosciuta una legittimazione della loro presenza sul territorio, procedure e iter burocratici simili a quelli ai quali sono sottoposti i richiedenti asilo. La costituzione approvata nel 2005 invero non ha mai ovviato alla frammentarietà, al settarismo e alla fragilità del sistema istituzionale del paese nel quale sono prevalenti le comunità sciite, sunnite e curde. Il 95 per cento della popolazione irachena infatti appartiene a due gruppi etnici: gli arabi – che costituiscono circa l’80 per cento della popolazione locale – e i curdi iracheni che costituiscono circa il 15/20 per cento della popolazione; tuttavia entrambi i gruppi sono prevalentemente musulmani: il 65 per cento sono sciiti mentre circa il 30 per cento sunniti.

Distinzioni etno-religiose

Gli sciiti sono quasi totalmente arabi mentre i sunniti comprendono arabi, curdi ma anche azeri e turkmeni. Il restante 5 per cento della popolazione irachena è costituito da cristiani, yazidi, kakai, sabeani, bahai, turkmeni – iracheni, turco-circassi, beduini, shabak, armeni, iracheni neri e romani. Cristiani– il cui luogo di origine è la piana di Ninive – sono i caldei (80 per cento dei cristiani presenti nel paese), i siriaci, gli armeni, gli assiri e gli arabi. In particolare, i caldei sono in comunione con la Chiesa cattolica di Roma, mentre gli assiri fanno parte di una chiesa sorella a quella cattolica di Roma ossia la Chiesa assira d’Oriente del quale patriarcato negli anni Quaranta si trasferì negli Stati Uniti mentre negli ultimi anni ha di nuovo ristabilito la sua sede a Erbil, capoluogo della provincia autonoma curda. A partire dal 2014, ossia dalla dominazione di buona parte del territorio iracheno dal sedicente Stato Islamico, i cristiani hanno subito deportazioni e massacri. Le comunità cristiane tuttavia vennero perseguitate, in ragione del proprio credo, già prima del 2014 quando 1,4 milioni di cristiani fuggirono dall’Iraq e oggi – pur costituendo una minoranza – continuano a essere perseguitate dalle comunità arabe presenti nel paese, soppiantate spesso dal ripopolamento delle tribù sciite nei loro “luoghi storici” e il cui ritorno in tali territori viene reso impossibile dal costante intervento delle diverse milizie arabe presenti nel paese.

Diplomazia pontificia: marzo 2021, Bergoglio incontra al-Sistani

In questo contesto di persecuzione delle minoranze cristiane in Iraq si inserisce la visita di Jorge Bergoglio del 5-8 marzo 2021: tale accadimento ha un valore non solo dal punto di vista religioso ma anche una forte rilevanza politico sociale. Sotto il primo profilo vi è da sottolineare che Bergoglio ha presenziato a una celebrazione nella Piana di Ur luogo nel quale è nato il profeta Abramo più precisamente nella regione meridionale irachena di Dhi Qar. L’evento si riveste di un’importanza religiosa non indifferente se pensiamo che una delle definizioni maggiormente impiegate per le tre religioni monoteistiche è quella di “religioni abramitiche”: Cristianesimo, Ebraismo e Islam condividono tutte la fede nel profeta Abramo anche se la vita e la storia del profeta è ricostruita in modo differente dall’Islam rispetto a quanto riportato nel Vecchio Testamento. In particolare, i musulmani non credono che Abramo appartenga a una delle tre religioni monoteiste ma che debba essere considerato piuttosto come “amico di Dio” e per questo padre di tutti i profeti che si sono succeduti nella storia compreso lo stesso Maometto. Il viaggio del Pontefice svolto con l’intento di ripercorrere le “tappe di Abramo” rievoca l’intenzione manifestata nella terza enciclica del 2020 Fratelli tutti. L’espressione va intesa in tale specifico scenario geopolitico anche nel senso di parità di diritti per ogni individuo a prescindere dall’appartenenza a una determinata etnia, comunità religiosa, politica nazionale o regionale, lasciando intendere anche la necessità di riconsiderare il ruolo delle milizie repressive nel paese nei confronti dei civili. Secondo il patriarca dei caldei in Iraq il termine fratellanza è nominato dal pontefice con l’intento di superare gli scontri religiosi tra le comunità sunnite e sciite da un lato, cristiane e musulmane dall’altro e infine quelli etnici tra arabi e curdi. Secondo aspetto rilevante del viaggio di Bergoglio è quello dell’incontro a Najaf con l’ayatollah sciita Ali al-Sistani, considerato la guida internazionale, spirituale e politica per eccellenza dell’Iraq e in contrasto con la Guida Suprema della rivoluzione iraniana, l’ayatollah Ali Khamenei, guida sciita della rivoluzione iraniana. Sistani, grato agli Usa per l’aiuto per la lotta contro Saddam Hussein ma sempre in opposizione all’ingerenza americana nel paese, nel 2014 legittimò l’uso delle armi da parte dei civili iracheni sotto la sua autorità – fatti confluire all’interno delle forze istituzionali di “Mobilitazione Popolare” – per difendersi dagli attacchi del sedicente Stato Islamico contro i principali luoghi sciiti iracheni. L’ayatollah Ali Sistani caldeggiò inoltre le sopraccitate mobilitazioni popolari del 2019 contro la corruzione e le politiche economiche e occupazionali del governo e lo strapotere delle milizie armate. Tale visita ha quindi una rilevanza maggiormente politica rispetto alla celebrazione liturgica compiuta nella piana di Ur essendo il pontefice ben consapevole che le proteste popolari sono state portate avanti negli ultimi anni non solo dai giovani iracheni ma anche da quelli libanesi, algerini e tunisini. Infine, sempre in tale ottica politico-sociale il papa ha visitato anche Erbil, Qaraqosh e Mosul città violentemente dominata dal sedicente Stato Islamico dal 2014 al 2017. Già a Ur il pontefice aveva detto: «Noi credenti non possiamo tacere quando il terrorismo abusa della religione».

Gli yazidi, ma soprattutto le yazide

una mobilitazione costante in Iraq

Premio Sackarov 2016: Nadia Murad e Lamiya Aji Bashar, due donne yazide vittime dell’Isis sono insignite del premio europeo per chi lotta per i diritti umani

Altra famiglia oggetto di persecuzione nel paese è quella degli yazidi, tribù indigena nei territori del Sinjar. Lo yazidismo inoltre è una religione più antica delle tre religioni abramitiche e i suoi seguaci vennero perseguitati e uccisi perché ritenuti dagli arabi musulmani adoranti il “diavolo”. La loro lingua è il Kurmanji ossia una variante della lingua curda. Quando nel 2014 l’Isis invase i territori del Sinjar molti membri furono uccisi, sfollati e ridotti in schiavitù, circa 7000 persone, principalmente per entrare a combattere tra le milizie del sedicente Stato Islamico o di quelle curde. Nel dicembre del 2014 tuttavia le unità irachene di “Mobilitazione Popolare”, i peshmerga e le stesse milizie yazide determinarono la sconfitta dell’Isis nella stessa zona del Sinjar. Gli Yazidi sfollati nei campi del Kurdistan iracheno si trovano tuttora in campi periferici alle principali città del Kurdistan ma questo non ha impedito un fenomeno di eccezionale ed esemplare peculiarità: diverse donne sfollate interne – nonostante molte di loro siano state in passato rapite e siano divenute oggetto di abusi da parte degli uomini del sedicente Stato Islamico nel periodo dal 2014 al 2017 – hanno ottenuto in tale dimensione autonomia e opportunità che non avrebbero mai avuto nei loro villaggi grazie a progetti educativi – anche sulla sessualità – nonché di alfabetizzazione che gli assistenti sociali nel paese hanno garantito a tutti gli sfollati interni nel Kurdistan. Diversi sono stati i corsi dedicati in particolar modo alle donne non solo di formazione professionale ma anche sull’uguaglianza di genere, sulla genitorialità e più in generale quelli d’informazione sui loro diritti tra cui quello sulla possibilità di denunciare le violenze domestiche.

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n. 9 Iraq: Il Destino comune dei paesi mesopotamici. (II) I curdi iracheni https://ogzero.org/guerre-civili-e-per-procura-e-invadenza-neo-ottomana-in-iraq/ Tue, 22 Jun 2021 10:40:56 +0000 https://ogzero.org/?p=3951 Lo spazio dedicato alla sezione irachena non a caso cade a ridosso delle puntate siriane nella serie di articoli dedicati alle rotte mediorientali della raccolta di analisi stilate da Fabiana Triburgo sulla questione migratoria. Intanto evidenziamo come a completamento dell’area si assista agli stessi meccanismi condivisi tra Siria, Libano e Iraq, la cui frazione nella serie […]

L'articolo n. 9 Iraq: Il Destino comune dei paesi mesopotamici. (II) I curdi iracheni proviene da OGzero.

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Lo spazio dedicato alla sezione irachena non a caso cade a ridosso delle puntate siriane nella serie di articoli dedicati alle rotte mediorientali della raccolta di analisi stilate da Fabiana Triburgo sulla questione migratoria. Intanto evidenziamo come a completamento dell’area si assista agli stessi meccanismi condivisi tra Siria, Libano e Iraq, la cui frazione nella serie di articoli si compone di due interventi strettamente correlati. Anche in Iraq ovviamente mordono ancora i danni della divisione Sykes-Picot e infatti l’Isis simbolicamente si manifestò sul confine tirato senza criterio dalle potenze coloniali per spartirsi i territori dell’impero ottomano al suo crollo.

Questo secondo articolo si occupa delle tribù curde nel Kurdistan iracheno e della presenza del Pkk sui monti di Kandil e della conseguente aggressione turca, collegata con gli anni di al-Baghdadi e l’Isis a Mosul. Analizzando gli stessi eventi riproposti sotto nuova ottica in questo pezzo complementare al precedente in cui l’autrice aveva analizzato il settarismo religioso che ha visto la presa del potere sciita alla caduta di Saddam e le conseguenti proteste sunnite, veicolo della rivendicazione dei diritti civili, espresse in Libano in modo ecumenico con il Movimento di popolo e in Siria con l’insurrezione contro al-Assad; tra la protesta repressa da al-Maliki e quella dei movimenti giovanili del 2019 l’Isis scorrazzò per ampia parte del territorio iracheno, sgozzando e perseguendo le minoranze religiose, in particolare perpetrando un genocidio della popolazione yazida.


n. 9, parte II

I principali conflitti che attualmente interessano le migrazioni forzate e le prassi di esternalizzazione poste in essere dall’Unione Europea e dai singoli stati membri portano a una predeterminazione delle rotte dei migranti.

Quello che oggi è inevitabile chiedersi è se il nuovo Patto europeo sulla migrazione e l’asilo, proposto dalla Commissione UE, possa essere realmente considerato una soluzione della gestione del fenomeno migratorio o se invece vi siano soluzioni legali alternative maggiormente lungimiranti e coraggiose.  

Il Kurdistan di Barzani stringe accordi, tradendo i fratelli turchi

Il 9 ottobre 2020 è stato siglato un accordo tra Baghdad ed Erbil per cooperare in modo congiunto all’espulsione delle cellule del Pkk: la presenza del partito in Iraq rappresenta anche la legittimazione dell’intervento della Turchia nei territori iracheni. In conclusione, la diversità etnica e religiosa di tali due minoranze, come delle altre, pur essendo riconosciuta a livello costituzionale non è adeguatamente tutelata nelle sue garanzie previste per legge venendo escluse queste comunità da qualunque processo decisionale a livello politico, condizione ulteriormente aggravata proprio a causa del precedente dominio del sedicente Stato Islamico nell’area. La situazione di un pluralismo di etnie e religioni che caratterizza il territorio iracheno determina lo scontro interetnico costante non garantendo il governo iracheno un’effettiva decentralizzazione del potere a livello amministrativo locale che invece consentirebbe un’esistenza pacifica tra le diverse etnie, facilitando l’inclusione sociopolitica tra le comunità per il governo dei territori in cui esse sono presenti. Ciò, come già accennato, deve essere ricondotto alla formulazione della Costituzione del 2005 redatta a seguito della caduta di Saddam Hussein soprattutto dai partiti sciiti con l’ausilio dell’Iran interessato al fatto che l’Iraq non acquisisse più lo stesso potere che ebbe durante la dittatura di Saddam Hussein.

L’etnia curda e i conflitti nel Kurdistan iracheno

La semplice cooperazione tra Erbil e Baghdad prevista in Costituzione determina una difficile attribuzione dei ruoli e dei poteri. Con riferimento al popolo curdo – vittima nel 1988 del genocidio di al-Anfal, ordito da Saddam Hussein con l’utilizzo di armi chimiche – la disputa sulla governance investe non più solo attori interni ma anche potenze regionali estere quali la Turchia, l’Iran o internazionali come gli Stati Uniti. Le operazioni militari nel Nord del paese – presenti ancora oggi – hanno provocato trent’anni di vittime, di sfollamenti e di distruzione. Nei mesi scorsi il Christian Peacemaker Team – Iraqi Kurdistan, l’Iraqi Civil Society Iniziative, e il Kurdistan Social Forum hanno chiesto pubblicamente a tutte le organizzazioni locali e internazionali di aderire alla campagna per la fine dei bombardamenti nel Kurdistan iracheno riferendosi in particolar modo a quelli compiuti negli ultimi anni dalla Turchia e dall’Iran.

Il genocidio di al-Anfal fu perpetrato con armi chimiche da Saddam Hussein nel 1988

L’invadenza neo-ottomana

L’auspicio è quello di un cessate il fuoco completo tra le due potenze regionali nel territorio iracheno e l’immediato smantellamento di tutte le basi militari straniere dalla provincia autonoma curda, chiedendo ai governi di Ankara, Tehran, Baghdad, Erbil e alle Nazioni Unite di innescare un processo diplomatico per porre fine ai combattimenti. Negli ultimi mesi si sono verificati diversi attacchi armati che hanno coinvolto la provincia autonoma. Nel giugno del 2020 la Turchia diede inizio all’operazione militare “Artiglio di Tigre”, è considerata la più lunga delle invasioni di Ankara del territorio iracheno, condotta contro il Pkk sostenuto dalla popolazione nel Sudest della Turchia ma attivo anche nel Kurdistan iracheno. L’obiettivo della Turchia è quello di colpire i membri del Partito dei lavoratori in Kurdistan e le loro roccaforti nelle aree irachene. Baghdad ha perciò più volte accusato Ankara di violare la sovranità del territorio curdo chiedendo il ritiro delle proprie truppe e la cessazione delle aggressive attività militari di Ankara. Le milizie turche hanno infatti preso di mira anche i campi profughi nelle città di Makhumar e Sinjar. In particolare, a Sinjar nella provincia settentrionale di Ninive, il governo iracheno ha esortato i membri del Pkk a lasciare la regione senza successo: Ypg/Ypj han preso il controllo della regione nel 2014 in seguito all’intervento a protezione della comunità yazida contro lo Stato Islamico. A febbraio del 2021 è stata decretata la fine dell’operazione turca “Artiglio di Tigre 2” che ha causato la morte di 50 combattenti del Pkk. Ciò nonostante, anche dopo il 14 febbraio, sono continuati i bombardamenti nel Nord dell’Iraq in territorio curdo: 2 aprile 2021 caccia turchi attaccano postazioni militari del Pkk.

guerre civili e per procura

Posto di blocco di resistenti Ypg/Ypj a Kandil nel 2013.

Il 30 aprile Ankara si è detta pronta a ristabilire una propria base militare a Nord dell’Iraq e il ministro della Difesa turco ha annunciato la continuazione di due nuove operazioni militari nel Nord del paese. Secondo Erdoğan: «Non c’è posto per il gruppo separatista terroristico nel futuro della Turchia, dell’Iraq o della Siria» e ha aggiunto «continueremo a combattere fino a quando queste bande criminali che causano solo lacrime e distruzione non verranno sradicate». Infine, nel mese di maggio in particolare il ministro degli Esteri iracheno ha espresso risentimento per la visita del ministro della Difesa turco a una base militare nella provincia di Sirniak senza essersi prima coordinato con l’Iraq che ha nuovamente denunciato: «Continue violazioni della sovranità e dell’inviolabilità del suo territorio e del suo spazio aereo da parte delle forze militari turche». Nella regione curda inoltre, risparmiata dalle proteste popolari che coinvolsero l’intero paese nel 2019, si sono verificate mobilitazioni giovanili a partire dalla fine del 2020 e continuate nel 2021, pur essendo comunque represse nel sangue da parte delle milizie irachene.

Guerre civili e per procura in Kurdistan

In tale ottica si evidenzia il problema storico della necessità della riforma delle forze di sicurezza dei peshmerga e dell’intelligence che non sono organizzazioni ufficiali di polizia della provincia autonoma, ma rispondono piuttosto a partiti di tendenza opposta al Pkk e questo potrebbe innescare una guerra civile e indebolire e dividere il popolo curdo. Inoltre il Kurdistan come il resto del territorio iracheno è il campo sul quale si fronteggiano le forze militari iraniane e quelle statunitensi: il 14 aprile 2021 si è registrato un attacco della sconosciuta milizia sciita “Guardiani del sangue” contro l’aeroporto militare di Erbil e la base della Coalizione internazionale a guida Usa sempre nel capoluogo del Kurdistan; evidenziando come la sicurezza della provincia autonoma sia continuamente esposta all’intensificarsi degli attacchi iraniani contro obiettivi statunitensi.

Il conflitto tra Usa e Iran sul territorio iracheno

Cosi come tra regime turco e Pkk nel Kurdistan iracheno, anche i violenti scontri militari tra Usa e Iran sull’intero territorio dell’Iraq sono una costante. Già nel maggio del 2019 l’allora segretario di stato Mike Pompeo chiese all’allora presidente iracheno Mahdi rassicurazioni sul disarmo delle varie milizie sciite vicine a Tehran (Forze di mobilitazione popolare in Iraq – Pmf), nate in risposta alla richiesta del jihad da parte dell’ayatolllah Ali al-Sistani contro lo Stato islamico, dopo la caduta di Mosul, e successivamente unitesi alle milizie iraniane dell’al-Quds ossia il “braccio armato” dei Guardiani della rivoluzione dell’Iran a capo delle quali vi era il generale Qasem Soleimani. Gli Stati Uniti inoltre vollero rassicurazioni anche in merito alla condizione di sicurezza di circa 6000 militari americani presenti in Iraq e dunque cominciarono a inviare navi da guerra sul territorio. Tale escalation di tensione tra Usa e Iran avvenne in seguito alla visita del presidente iraniano Rohani il 6 marzo 2019 quando incontrò figure politiche militari e religiose irachene ponendo le basi per una collaborazione tra Iran e Iraq in più settori. La situazione tra Stati Uniti e Iran peggiorò con l’uccisione all’aeroporto di Baghdad del generale iraniano Qasem Soleimani il 3 gennaio 2020 – in seguito sostituito da Esmail Ghani – e di altre importanti personalità militari e di sicurezza sciite filoiraniane come Abu Mahdi al-Muhandis, vicecomandante delle Forze di mobilitazione popolare che in passato avevano anche coordinato nel paese i combattimenti contro l’Isis. Dopo questo omicidio il parlamento iracheno votò e approvò una mozione che richiedeva il ritiro immediato delle truppe statunitensi. La decisione dell’uccisione del generale Soleimani – giustificata come misura proporzionata di autodifesa preventiva nel rispetto del diritto internazionale delle Nazioni Unite – venne adottata dall’allora presidente Trump, su consiglio del Pentagono, dopo essersi consultato anche con l’allora segretario di stato Mike Pompeo in seguito all’assalto all’ambasciata statunitense in Iraq condotto dai miliziani iracheni collegati all’Iran. Da allora si ripeterono diversi e violenti attacchi missilistici dell’Iran contro basi militari irachene a Erbil e Ain al-Asad nelle quali erano presenti soldati americani. Il 27 marzo 2020 gli Stati Uniti annunciarono di aver ordinato ai propri impiegati dell’ambasciata americana in Iraq e ai funzionari del consolato di Erbil di lasciare il paese. Gli Stati Uniti decisero di evitare d’inasprire la propria forza militare contro la milizia filoiraniana delle falangi di Hezbollah, pur se particolarmente ostile alle milizie americane e annunciarono di voler ritirare 2000 dei circa 5000 militari statunitensi presenti in Iraq.

In tale scenario occorre menzionare anche il leader sciita di origine libanese Muqtada al-Sadr leader del movimento sadrista del partito Sairoon che vanta una discendenza diretta con il profeta Maometto: le sue milizie furono protagoniste dell’insurrezione armata contro le truppe di occupazione americane nel 2003, ma volendosi ora mostrare distante da Tehran lo scorso anno dichiarò: «L’occupazione americana si combatte in parlamento e non con la violenza, attaccando sedi di cultura e ambasciate». Dopo pochi mesi, tuttavia, ritornò nel quadro delle milizie filoiraniane. Rispetto alla continua attività di belligeranza in Iraq tra le due potenze il nuovo premier Mustafa al-Kadhimi – nominato su comune intesa di Iran e Stati Uniti e considerato il “premier di tutti e di nessuno” – non ha preso una vera posizione, principalmente concentrato su questioni securitarie. Infatti l’attuale premier nonostante abbia dichiarato in più occasioni di voler contrastare l’impunità delle milizie filoiraniane, non ha di fatto mai avviato alcuna attività politica in tal senso. Il 15 febbraio 2021 una dozzina di razzi lanciati da gruppi sciiti sostenuti dall’Iran – come Kata’ib Hezbollah – hanno preso di mira le forze della coalizione a guida Usa fuori dall’aeroporto Internazionale di Erbil.

Il 1° marzo del 2021 Joe Biden ha ordinato un attacco sulla base operativa di un gruppo di miliziani sciiti vicini all’Iran, due giorni dopo diversi missili iraniani hanno colpito nuovamente la base di Ain al-Asad della coalizione anti-Isis a guida statunitense e impiegata altresì dalle truppe britanniche stanziate in Iraq nel governatorato occidentale di Anbar. Le notizie di continui attacchi contro obiettivi statunitensi ancora sono state riportate il 16 e il 29 marzo 2021 così come nel mese di aprile e di maggio sempre a opera di gruppi armati affiliati all’Iran. In tale situazione di continua belligeranza va sottolineata la dichiarazione congiunta di Washington e Baghdad ad aprile: le truppe da combattimento statunitensi, impiegate contro la lotta allo Stato Islamico, abbandoneranno l’Iraq. Le forze Usa tuttavia continueranno a fornire consulenza e addestramento all’esercito iracheno mentre la presenza italiana nella Missione Nato nel paese continua ad aumentare.

I continui attentati nel paese da parte del sedicente Stato Islamico

Con la fine del regime di Saddam nel 2003, lo scioglimento e l’immediata ricostruzione delle forze di difesa statali condussero all’espansione di al-Qaeda in Iraq in particolare a Mosul e Falluja tra i sunniti – in precedenza unitisi nel gruppo dei Fratelli Musulmani – che temevano sia la crescita del potere sciita sia le conseguenti rappresaglie della popolazione curda. Il governo ad interim guidato da Ayad Allawi nel 2004 infatti si impegnò per il rafforzamento sia delle forze armate irachene, con l’inclusione delle unità dei peshmerga, sia delle forze di polizia sciite, in modo da aver un maggiore controllo della città di Mosul. Nel 2005 i sunniti tuttavia boicottarono le elezioni provinciali e ciò portò alla vittoria del Partito democratico del Kurdistan nel Consiglio provinciale alla quale seguì la violenta protesta sciita. Intanto l’anno successivo mentre diminuiva la presenza militare irachena e statunitense proprio a Mosul si faceva già strada quello che sarebbe divenuto il leader del sedicente Stato Islamico Abu Bakr al-Baghdadi. La politica anticurda successivamente portata avanti dal premier Maliki – coincidente questa volta con la volontà della comunità sunnita – determinò l’allontanamento della comunità curda da molti territori di appartenenza e la conseguente vittoria dei sunniti nel 2009 i quali ottennero la maggioranza dei seggi nel Comitato provinciale.

Mappa demografica delle etnie curde in Mesopotamia (tratto da Curdi, a cura di Antonella De Biasi, Rosenberg & Sellier, 2018).

Nel 2011 il rapporto tra il governo centrale e quello locale si deteriorò con un conseguente aumento delle forze federali a scapito di quelle locali e così, quando nel 2012 scoppiò la guerra civile nella vicina Siria, l’Isis ebbe la possibilità di strutturarsi meglio per poi attaccare le forze di sicurezza del paese assediando la città di Mosul dal 2014 al 2017. Dopo la conquista di Mosul nacquero le cosiddette Forze di mobilitazione popolare in Iraq (Pmf) unitesi in seguito alle milizie iraniane del Quds che con i peshmerga e le truppe americane riconquistarono la città nel 2017 dichiarando la sconfitta dell’Isis. Già a partire dal 2019, nonostante l’annuncio degli Stati Uniti dell’uccisione di al-Baghdadi, i funzionari dell’intelligence curda segnalavano che l’Isis fosse tutt’altro che sconfitto e che doveva essere considerato piuttosto come un’organizzazione terrorista risorgente. Nonostante la cattura lo scorso 3 maggio del governatore dell’Isis a Fallujah, Abu Ali al-Jumaili a opera dei servizi segreti iracheni l’Iraq oggi non può considerarsi ancora al sicuro dalla minaccia terroristica dello Stato Islamico che negli ultimi mesi del 2021 ha notevolmente intensificato gli attacchi nel paese.

L’Iraq non è un paese sicuro

In conclusione, oggi l’Iraq non può essere considerato un paese sicuro, tradendo l’attuale esecutivo di al-Kadhimi forti difficoltà a mantenere quei propositi securitari posti all’inizio del suo mandato, stante l’attuale impossibilità di un effettivo contenimento delle milizie filoiraniane, degli attacchi dello Stato Islamico, così come delle continue proteste della popolazione locale. Fallisce in questo modo, mentre si avvicinano le nuove elezioni nel paese, l’idea di un recupero della centralità e dell’influenza dello stato e dell’esercito iracheno che invece risulta sempre maggiormente dipendente dall’aiuto militare esterno locale e internazionale proprio come riscontrato in Siria.

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Nazione di poeti, navigatori e… trafficanti d’armi https://ogzero.org/italia-nazione-di-trafficanti-darmi/ Sun, 21 Mar 2021 11:25:30 +0000 https://ogzero.org/?p=2638 L’attenzione per la repressione sanguinosa in Myanmar e gli addentellati con i traffici d’armi dell’industria italiana hanno smosso nei nostri ricordi alcuni collegamenti che si dipanano dal Sudest asiatico al Sahara occidentale, attraversando la storia dell’industria bellica italiana dal 1973, anno della Guerra del Kippur (e della sua conseguenza sull’approvvigionamento energetico mondiale), fino alle armi […]

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L’attenzione per la repressione sanguinosa in Myanmar e gli addentellati con i traffici d’armi dell’industria italiana hanno smosso nei nostri ricordi alcuni collegamenti che si dipanano dal Sudest asiatico al Sahara occidentale, attraversando la storia dell’industria bellica italiana dal 1973, anno della Guerra del Kippur (e della sua conseguenza sull’approvvigionamento energetico mondiale), fino alle armi che fanno strage dei resistenti di Mandalay e un’inchiesta di Atlante delle Guerre e Opal ha dimostrato come abbiano aggirato l’embargo più che decennale nei confronti del Myanmar

La tradizionale presenza della industria bellica italiana nei teatri di guerra

Riprendiamo a proporre gli articoli che Eric Salerno scrisse per “Il Messaggero” seguendo le prime azioni del Polisario, quelle che prendevano di mira le truppe mauritane illuse di poter partecipare della spartizione delle spoglie del Sahara ex spagnolo. Bastò l’incipit del catenaccio, le raffiche sul palazzo presidenziale di Nouakchott e i mauritani lasciarono perdere: i colonizzatori avevano puntato sui marocchini per perpetuare lo sfruttamento delle risorse.

La lettura dell’ingerenza delle potenze coloniali è massicciamente presente nell’articolo di Eric, dove si respirano le tensioni positive che parlavano di panafricanismo – chiamato proprio a difesa delle sacrosante rivendicazioni saharawi, e gli stati africani rispondevano a tono, mentre ora sono in coda per accedere agli Abraham Accords – e di altre illusioni di un periodo esaltante, dove non era una bestemmia parlare del ruolo svolto dall’Italia nell’“aggressione condotta dall’imperialismo” contro la lotta di liberazione: era il 5 luglio 1977.

Polisario contro Mauritania

Primi attacchi del Polisario e scoperta dell’approvvigionamento di armi italiane all’esercito mauritano

 

Ma perché ci siamo affrettati ora a passare a un nuovo appuntamento con gli articoli di Eric Salerno pubblicati nel 1977 proprio in questo periodo concitato che cerca di capire come il mondo trascorre dall’epoca di Trump a quella di Biden? Semplice: perché in questi giorni alcune realtà complici della nostra testata hanno scoperchiato la vergogna di armi di fabbricazione italiana usate da Tatmadaw contro i manifestanti birmani che si ribellano al golpe in Myanmar. E in questo articolo in enjambement trovate un lungo pezzo, incastonato in centro al reportage che rilascia una scia di disgusto non ancora consumata: «La presenza dell’industria italiana sul mercato mondiale della armi ci vede oggi impegnati in un dibattito che tocca i punti fondamentali dello scontro di classe in Italia» [e oggi era il 1977, non è cambiato nulla se non in peggio].

Ma è soprattutto la combinazione dei due elementi compresenti nell’articolo (l’Flm, coinvolta a sostegno della lotta saharawi; e le armi costruite dalle maestranze italiane, probabilmente aderenti alla Federazione lavoratori metalmeccanici) che vanno a unirsi in un altro testo che ricordava quegli anni e va nel ricordo a comporli insieme: il redattore era un amico di Eric, uno di quelli che avevano fortemente voluto la nascita di un sindacato forte e internazionalista come poteva essere negli anni Settanta la Federazione di tutti i lavoratori metalmeccanici: Alberto Tridente si impegnò infatti anche a lungo per sostenere la lotta saharawi.

In particolare a corredo dell’articolo di Eric Salerno ci piace riproporre stralci da questo racconto autobiografico di Alberto Tridente, raccolto nel volume da lui redatto nel 2011, poco prima di arrendersi al cancro dopo 10 anni di resistenza alla malattia senza smettere di denunciare i trafficanti di morte e l’ipocrisia che li ha sempre coperti nella vulgata italiana: Dalla parte dei diritti (Torino, Rosenberg & Sellier, 2011, pp. 178 e sgg.).

Scommettere sulla guerra?

Nel dicembre del 1973 dalla Oto Melara di La Spezia, nota fabbrica di sistemi d’arma esportati in tutto il mondo, era partita una nave carica di cannoni Oto-Mat diretta al Cile di Pinochet. All’inizio del 1974 andai a La Spezia e mi confermarono il cinico invio di armi al governo assassino. Non potevo crederci. Ne parlai a lungo con i sindacalisti e seppi che il Pci stava organizzando una “Conferenza di produzione”.

Era l’iniziativa attraverso la quale il Pci (in quella critica fase di ripensamento della sua strategia del compromesso storico in seguito ai fatti cileni) andava da tempo realizzando nelle grandi fabbriche, cercando di accreditare la sua idoneità a governare il paese, presentandosi alle imprese come interlocutore fondamentale per lo sviluppo delle attività produttive. L’incremento occupazionale era lo scopo dichiarato della “Conferenza di produzione”.

Un passo indietro a questo punto. necessario. Negli anni torinesi avevo conosciuto Achille Croce, giovane animatore del Movimento non violento valsusino. Nel 1972 Croce era impegnato a convincere i lavoratori delle Officine di Moncenisio, fabbrica che riparava carri ferroviari, a non accettare la trasformazione dell’azienda in fabbrica di sistemi d’arma. L’incontro con Achille Croce era stato un altro di quelli che lasciavano il segno. Testimoniava la resistenza allo scandalo del cinico scambio: quello di produrre più armi in cambio di maggiori occupati. Nel sindacato avevamo affrontato da tempo i temi del “cosa e come produrre”, ma quello delle armi era ancora un argomento scabroso del quale non si parlava perché non facile da trattare. Non mi ero mai direttamente occupato, come tutto il sindacato del resto, dell’industria bellica, delle implicazioni che quelle produzioni comportavano dal punto di vista morale, né delle prospettive che maggiori commesse belliche significavano per l’occupazione. Achille aveva invece le idee chiare. Era membro del direttivo della Fim provinciale e nelle riunioni dell’organismo aveva qualche volta posto il problema della produzione bellica che il sindacato non poteva trascurare di affrontare. Allora non aveva trovato molto ascolto, sembrava che parlasse nel deserto, ma quelle sue appassionate parole non erano state dimenticate. All’assemblea della Oto Melara, all’inizio del 1974, mi trovavo di fronte a una straordinaria e lacerante sfida: come accettare, dopo tante manifestazioni e proteste contro il colpo di stato di Pinochet in Cile e la morte di Allende, che un’importante fabbrica italiana, a capitale pubblico e altamente sindacalizzata, provvedesse a rifornire di cannoni i golpisti?

Cannoni navali in lavorazione nella fabbrica dell’Oto Melara di La Spezia nel 1980

La situazione aveva del paradossale. L’invio di un carico di cannoni a Pinochet avveniva senza proteste o un minimo di obiezioni da parte del Consiglio di fabbrica e del sindacato provinciale della Flm di La Spezia. Al contrario si organizzava una “Conferenza di produzione”, il cui fine era maggiore produzione bellica per ulteriore occupazione, ovvero si scommetteva sulla guerra. Erano annunciate significative presenze: il Consiglio di fabbrica, la sezione interna del Pci alla Oto Melara, il sindaco di La Spezia, il presidente della provincia, insieme all’amministratore delegato, ingegner Stefanini. La scommessa sulla guerra era non solo implicita, ma andava oltre: ne auspicava cinicamente altre, magari più estese, al fine di ottenere incrementi produttivi e occupazionali. Non ricordo se il film Finché c’è guerra c’è speranza con Alberto Sordi nella parte del mercante di armi fosse apparso sugli schermi italiani prima o dopo la Conferenza della Oto Melara, fatto sta che decisi di parteciparvi a nome della Flm nazionale, per parlare ai lavoratori contro le ragioni che l’avevano proposta, rovesciando lo slogan che dà titolo al film di Sordi.

 

Nella segreteria nazionale Flm proposi che se ne discutesse a fondo, non senza contrasti da parte di coloro che, specie nella Fiom e nella Uilm, non percepivano ancora con chiarezza la contraddizione del produrre armi in cambio di occupazione, come se queste fossero prodotti come gli altri. Ottenni comunque il consenso a sostenere la tesi che non era nella linea della Flm affidare la garanzia della maggiore occupazione alla speranza di maggiori conflitti nel mondo. Con questa convinta posizione andai a La Spezia. Una foto del mio intervento testimonia questa mia prima personale e diretta esperienza in un’assemblea di lavoratori che auspicava maggiori produzioni belliche. La mia “conversione sulla via delle Officine Moncenisio di Condove”, in bassa Valle di Susa, e la memoria dell’incontro con Achille Croce mi aiutarono ad affrontare un cammino che si annunciava tutto in salita.

Il refettorio della Oto Melara dove si teneva l’assemblea era strapieno di operai e impiegati. Parlarono i provinciali della Flm, il Consiglio di fabbrica, l’amministratore della Oto Melara, ingegner Stefanini, e poi toccò a me concludere.

Sparai – . proprio il caso di dirlo, data la fabbrica – tutte le mie cartucce contro l’illusione della “scommessa sulle guerre”. Dissi che era inaccettabile: «Manifestare il sabato contro i colpi di stato fascisti e, poi, dal lunedì al venerdì, lavorare e rifornire di armi coloro che le avrebbero usate per reprimere nel sangue la democrazia! Le guerre sarebbero, prima o poi, finite e la crisi del settore bellico avrebbe sgonfiato tutte le illusioni delle conferenze produttive di quel tipo… Sarebbe stato più saggio, oltre che morale, pensare per tempo a produzioni alternative, per non trovarsi sprovvisti di altre opportunità di produzione e lavoro, strangolati dalla mancanza di alternative a quella bellica, e che appariva rischioso affidare ai conflitti nel mondo le speranze produttive e occupazionali».

Era stata una provocatoria, temeraria e frontale accusa a tutti i presenti che avevano organizzato e creduto in quella iniziativa, che privilegiava apertamente una scelta cinica, contraddittoria e immorale che inavvertitamente corrompeva le coscienze dei lavoratori e tradiva coerenti scelte politiche. E aggiungevo: «Seppure l’intento di avere più occupati in futuro potrà apparire un obiettivo nobile, questo non dovrà avvenire auspicando il passaggio dalla guerra fredda a quella calda, in ogni parte del pianeta!» Silenzio e sconcerto accompagnarono le mie conclusioni. Le tesi da me esposte rovesciavano la “torta appena confezionata”. Gelido il commento dell’ingegner Stefanini, così come dei dirigenti sindacali e di partito presenti. Al termine della Conferenza,

il solo ad avvicinarsi e a parlarmi fu un delegato della Fiom, Claudio Rissicini, che mi disse: «Belìn, cosa volevi, che ti applaudissero? Lo avrebbero fatto volentieri, ma con le mani sulla tua faccia! Lo sai che parlare in questa fabbrica di conversione al civile ha significato nel dopoguerra solo disoccupazione?». Claudio, negli anni che seguirono, divenne un caro, fraterno amico e compagno di importanti iniziative nel settore della cooperazione. Fu uno dei primi a partire per anni di missione in Mozambico, nel quadro dei programmi di cooperazione che per conto della Flm firmai con quel paese, quando si liberò dal colonialismo portoghese.

Cresce il fatturato bellico italiano.

Nella mia attività mi stavo dedicando anima e corpo a queste idee centrali, complicate e difficili, che avevano saturato anche il mio poco tempo libero: convincere i lavoratori del settore sulla validità della distinzione storica fra interessi dei lavoratori e quelli delle lobby dell’industria bellica, persuaderli a non produrre armi e in ogni caso a non venderle ai regimi dittatoriali e razzisti; elaborare un coerente intervento del sindacato sui temi della pace e della solidarietà e, nello stesso tempo, proteggere l’occupazione in quelle stesse fabbriche. In quel momento la produzione bellica e il suo commercio crescevano a ritmi impressionanti in Italia e all’estero. Erano perciò un ostacolo in più, ai numerosi che già si ergevano sul cammino del disarmo e della pace.

Questo lavoro si raccordava inoltre con l’attività del Tribunale Russell, che affrontava spesso la vergogna delle esportazioni di armi in quei paesi considerati criminali dall’attività del Tribunale. Il volume produttivo e commerciale collocava il nostro paese al primo posto nel gruppo dei minori esportatori di sistemi d’arma. Il fatturato totale esportato dal nostro paese aveva ormai raggiunto e oltrepassato i 5000 miliardi di lire a metà degli anni Settanta: un record mai raggiunto dall’industria bellica italiana. L’aumento della produzione e l’affermazione dei prodotti sui mercati internazionali avevano fatto dire al ministro del commercio estero di allora, il socialista Enrico Manca, che la vendita di undici navi militari (quattro fregate e sei corvette, più una nave appoggio) all’Iraq di Saddam Hussein era un fatto inedito e veramente straordinario. Per quantità e qualità del naviglio venduto lo si poteva definire “l’affare del secolo”. Prima dell’attacco al Kuwait, oltre all’Italia, vendevano armi a Saddam soprattutto i francesi. Fornivano cacciabombardieri Mirage e Super Standard e i relativi missili che li equipaggiavano. Da parte loro i sovietici vendevano carri armati e blindati, i brasiliani blindati e autocarri. Generoso l’aiuto finanziario statunitense all’Iraq, affinché potesse comprarne di più e su tutti i mercati. Saddam era un “buon cliente e amico”, si preparava ad attaccare il “cattivo dell’area”, l’Iran di Khomeyni, e fin lì tutto andava bene, per gli americani, per l’Occidente e per “madama la marchesa”!

Italia nazione di trafficanti

Elicottero AW109M costruito da AgustaWestland partecipata di Leonardo, azienda controllata dallo stato italiano

A Firenze nacque un gruppo che si proponeva di studiare a fondo il tema e che tuttora [2012, N.d.R.] continua a pubblicare ricerche sull’argomento. Era cresciuto nel frattempo il numero dei lavoratori e dei Consigli di fabbrica che collaboravano. Il lavoro sull’industria bellica aveva già prodotto i primi obiettori di coscienza nelle fabbriche dove lavoravano: tra questi, Elio Pagani, operaio dell’Aermacchi, e Marco Tamburini dell’Agusta elicotteri. Ero fermamente convinto che il difficile lavoro per la riconversione richiedeva anche momenti fortemente emozionali per farsi ascoltare da assemblee talvolta scettiche, se non ostili o nettamente contrarie alla sola idea di rischiare il posto di lavoro per quelle che erano ritenute utopie. La produzione e la vendita di sistemi d’arma creava infatti occupazione e apparivano stolti coloro che opponevano scrupoli morali allo sviluppo di un settore che migliorava la bilancia commerciale. All’assemblea della Aermacchi, la prima in una fabbrica italiana di aerei da guerra e addestratori che commerciavano con il Sudafrica razzista, mi aveva accompagnato Antonio Mongalo, l’africano di etnia Zulu, rappresentante in Italia dell’Africa National Congress del carismatico leader Nelson Mandela, allora ancora in carcere. L’impatto fu emotivamente fortissimo. Alle obiezioni di alcuni operai e capetti, che giustificavano in nome del lavoro la liceità del commercio con quel regime, Antonio parlò con passione della sua gente: «Segregata, sfruttata come schiavi nelle miniere, relegata nei tuguri malsani delle disperate periferie delle città da un regime spietato, lì, nella loro stessa terra, usurpata con la forza da coloni bianchi. Non cittadini, senza i più elementari diritti in quella che era stata da sempre la loro patria».

Imposto un embargo si trova l’inghippo

L’aggiramento dei divieti era da tempo collaudato; nel caso del Sudafrica l’embargo veniva aggirato attraverso il cosiddetto commercio triangolare: le imprese vendevano a un paese autorizzato a riceverle e questo le girava al paese sotto embargo e il gioco era fatto. Pajetta era furibondo. Mi accusava di aver attaccato l’iniziativa della conferenza e mi sfidava a provare quanto affermavo. L’irritazione era fondata: a Livorno il Pci era forte, specie fra i portuali. Anche Granelli mi domandò, più educatamente, se quanto denunciavo nell’intervista al “Corriere della Sera” era accaduto per davvero.

L’intervento dei mozambicani nel dibattito mi aiutò, confermando quanto detto da me nell’intervista. Essi affermarono: «In effetti questo accadeva ed era accaduto spesso nel passato», aggiungendo che erano talvolta sconcertati perché non capivano come l’Italia, da sempre impegnata nella solidarietà, vendesse armi a paesi che le usavano contro di loro. La soddisfazione per me fu enorme. Granelli in seguito si scusò: aveva accertato che la mia denuncia era fondata.

Il prodotto venduto che più ci copriva di vergogna nel mondo erano le mine antiuomo della Valsella e della Valmara. Erano armi povere per vittime povere. Infinito il numero di bimbi e di contadini mutilati alla fine di ogni conflitto: vittime di esplosioni subdole, perché “ritardate” nella loro criminale efficacia. Finalizzate per uccidere, come tutte le altre armi, erano state progettate (e lasciate nel terreno) per terrorizzare e mutilare le potenziali vittime, soprattutto quelle innocenti di tutti i dopoguerra. Il divieto alla loro esportazione era stato, finalmente, un modesto successo, che confermava e incoraggiava a proseguire nel lavoro. Molte produzioni erano e sono tuttora “dualistiche”, basate su tecnologie che permettono di realizzare prodotti sia civili che militari, offrendo così merci alternative. Consorzi di imprese inter-armi erano e sono stati promossi per integrarne le produzioni e facilitarne la penetrazione nei mercati. Il modello del Consorzio Melara, prodotto “chiavi in mano”. ormai diffuso con successo.

 

E con le mine antiuomo torniamo al Saharawi, che fa da perno a questa triangolazione virtuosa tra inchiesta di Opal, Atlante delle guerre, Rete Pace Disarmo sfociata in una serie di articoli di Emanuele Giordana e Alessandro De Pascale sulla presenza di armi di fabbricazione italiana nel Myanmar dei golpisti; lavoro di una vita antimilitarista di Alberto Tridente, narrata nel suo libro-testamento, infarcito di figure mitiche dell’indignazione del profitto derivante dalle guerre; la testimonianza di Eric Salerno collocata nel Sahara occidentale e risalente al 1977 delle prime imprese del Frente Polisario, che vide tra gli ambasciatori di giustizia proprio Alberto Tridente, attivo nel denunciare la presenza delle micidiali mine nel deserto abitato dagli esuli Saharawi. Non con sole armi l’Italia esporta guerre, ma anche con scuole di polizia per l’addestramento di  apparati speciali, assimilabile alla famigerata Escuela de Las Americas, per questo aspetto è interessante seguire il lavoro di Antonio Mazzeo

 

 

 

 

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Usa e Iran: “Missiles will be on the table” https://ogzero.org/strategie-per-accordi-epocali-sugli-armamenti-in-iran/ Mon, 01 Mar 2021 10:25:23 +0000 https://ogzero.org/?p=2521 Pubblichiamo un articolo che Lorenzo Forlani ha scritto per OGzero a breve distanza dal primo bombardamento ordinato da Biden su postazioni missilistiche sciite in Siria come segnale nei confronti dell’Iran, all’interno di un cambio di strategie Usa per raggiungere accordi epocali sul programma nucleare iraniano che coinvolgono anche gli armamenti missilistici di Teheran. Nel ridimensionamento […]

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Pubblichiamo un articolo che Lorenzo Forlani ha scritto per OGzero a breve distanza dal primo bombardamento ordinato da Biden su postazioni missilistiche sciite in Siria come segnale nei confronti dell’Iran, all’interno di un cambio di strategie Usa per raggiungere accordi epocali sul programma nucleare iraniano che coinvolgono anche gli armamenti missilistici di Teheran. Nel ridimensionamento delle potenze regionali (il contenimento di Bin Salman e la spregiudicatezza di Erdoğan non più tollerabile), collegabile al cambio di strategia dell’amministrazione americana, il negoziato sul nucleare – in cui è anche incluso il programma missilistico iraniano – si trova a un punto delicatissimo e nel panorama mediorientale (e con gli ultimi eventi di Erevan) torna alla ribalta il fallimento dei nuovi equilibri che si erano insinuati negli spazi lasciati vuoti da Trump durante gli Accordi di Astana, al punto che la Turchia rientra nell’alveo della Nato con un regalo “balistico”, condividendo con gli Usa la tecnologia del missile russo Pantsir, catturato sull’ambiguo fronte libico, emblematico della svolta nel dopo Trump.


Quanto può essere alzata la posta?

Esiste una porzione della società e dell’arena politica americana convinta che l’amministrazione guidata da Donald Trump, con la sua strategia della “massima pressione” sull’Iran, abbia lasciato a Joe Biden una preziosa eredità, mettendolo in condizione di “alzare la posta” in un nuovo possibile negoziato sul nucleare. E nelle stanze del potere statunitense, quando si parla di “alzare la posta” sul dossier iraniano, si fa riferimento a due dimensioni: quella delle milizie filoiraniane in Medio Oriente, e soprattutto quella del programma missilistico iraniano. Non solo una parte dei repubblicani ma anche un segmento dei democratici – oltre agli alleati americani nella regione, cioè Israele, Emirati Arabi Uniti e Arabia Saudita – spinge per inserire soprattutto quest’ultimo nei nuovi colloqui sul nucleare. «Missiles will be on the table», ha detto recentemente Jack Sullivan, National Security Advisor di Joe Biden.

Si tratta di un aspetto molto delicato, potenzialmente anche in grado di far fallire un accordo di massima sul nucleare, perché il programma missilistico costituisce per l’Iran una linea rossa, un pilastro della sua capacità di difesa asimmetrica. I missili, è noto, sono armamenti facili da occultare e relativamente difficili da intercettare: per Teheran, che rispetto ai suoi rivali regionali ha una tecnologia meno avanzata e una minore capacità militare complessiva – riflesso di spese militari annuali in rapporto al Pil che mediamente, dal 1990 al 2012, ammontano a un terzo di quelle saudite e alla metà di quelle israeliane –, i missili sono un vitale strumento di deterrenza, in una regione nella quale il fronte antiraniano – ulteriormente rafforzato dalla firma degli “Accordi di Abramo” tra Israele e una serie di Paesi arabi, soprattutto nel Golfo – è sempre più compatto.

Potenza e potenzialità degli arsenali

Non sorprende, quindi, che quella iraniana sia la flotta missilistica più eterogenea e ricca in termini numerici nella regione. Nel marzo 2020 si stimava attorno ai 2500-3000 la somma di missili balistici iraniani, ai quali va aggiunto un numero imprecisato di missili Cruise. I missili balistici si dividono in quattro classi: a raggio corto (fino a 1000 km di gittata), medio (da 1000 a 3000), intermedio (da 3000 a 5500) e intercontinentale (da 5500 in su).

Missili iraniani nel Museo della Difesa di Teheran (Foto di Elena Odareeva)

L’arsenale iraniano è composto da missili a corta gittata (Tondar, Fateh, Shabab 1 e 2) e soprattutto da missili a gittata media (Shabab 3, Zolfaghar, Qiam 1, Burkhan 2h, , Sejil, Emad e Ghadr), mentre a oggi la Repubblica islamica non sembra avere le capacità – ma forse neanche l’interesse, considerando la natura regionale delle sue preoccupazioni in politica estera e di sicurezza – di sviluppare missili intercontinentali (Icbm), in grado di raggiungere l’Europa, sebbene al dipartimento della Difesa americana si registri una certa inquietudine rispetto ai progressi fatti da Teheran nella realizzazione di veicoli di lancio spaziale (Slv), con cui sono stati mandati dei satelliti in orbita (il primo fu il Sina-1, satellite iraniano mandato in orbita nell’ottobre 2005 dalla Russia). Secondo il Worldwide Threat Assessment realizzato dall’intelligence americana nel 2019: «I progressi dell’Iran con gli Slv diminuiscono i tempi per arrivare agli Icbm, poiché Icbm e Slv usano tecnologie simili».

40 anni di Repubblica islamica fondata sui sistemi di difesa

L’Iran ha maturato la decisione di sviluppare un programma missilistico autonomo durante la Guerra con l’Iraq (1980-1988). Il programma missilistico precedente, nato con lo shah, era stato interrotto da Khomeini, per via della avviata collaborazione con Israele e dei sospetti che pendevano sugli ufficiali delle Forze armate, specie dopo il tentato golpe del 1980 (il golpe di Nojeh).

L’indisponibilità di gran parte della comunità internazionale a fornire a Teheran i missili con cui rispondere agli attacchi di Saddam Hussein sulle città iraniane convinse in realtà già nel 1985 l’allora presidente del Parlamento e membro del Consiglio di guerra, Ali Akbar Rafsanjani, a ottenere i missili Scud da Corea del Nord e Libia, per poi produrre localmente, nel 1990, il primo missile a corto raggio (il Mushak, probabilmente con l’assistenza cinese).

Reazioni difensive meccaniche introiettate e…

Ciò è utile a ricordare una postura non più molto familiare in Occidente: a torto o a ragione, sin dalla fine della guerra con l’Iraq, Teheran attribuisce una natura esistenziale alle minacce che affronta, fronteggiamenti che rendono il mantenimento di un programma missilistico fuori discussione. Ciò si spiega anche con quella che i politologi chiamano la path dependance (dipendenza dal percorso): una concezione interiorizzata, per cui piccoli o grandi eventi del passato, anche se non più rilevanti (l’Iraq oggi non è più un paese ostile come con Saddam), possono avere conseguenze significative in tempi successivi, che l’azione economica può modificare in maniera limitata, anche perché i costi di una regressione da un cammino intrapreso sono alti.

Nel caso iraniano, il motivo contingente alla base della decisione di dotarsi di missili fu l’aggressione di Saddam Hussein: una motivazione che non sussiste più ma che è stata “riempita” con le minacce di strike da parte di Israele. Spesso nel Parlamento iraniano è stato citato il caso di Libia e Iraq per mettere in guardia da qualunque concessione sul programma missilistico: sia la Libia che l’Iraq, infatti, furono invasi dopo aver accettato alcune limitazioni al proprio programma missilistico. Diverse componenti politiche in Iran, in sostanza, si chiedono: a che prezzo porre limitazioni al principale deterrente contro un regime change? Chi garantisce che non sia la premessa per ulteriori restrizioni militari?

… quali priorità nelle riduzioni degli arsenali?

Se in molti, sia in Occidente che nei paesi del Medio Oriente riconducibili al blocco antiraniano, spingono in diverse sedi e modalità per porre un freno al programma missilistico dell’Iran, in pochi sembrano in grado di entrare nel dettaglio, rispondendo anzitutto alla domanda: cosa limitare? La capacità iraniana di trasporto delle testate nucleari? Il numero di missili (a prescindere dalla capacità di trasporto nucleare) prodotti e impiegati dall’Iran? Il dispiegamento di nuovi e più avanzati sistemi? È difficile trovare delle risposte elaborate a questi punti.

Vista la diffidenza diffusa nella regione, qualunque accordo sul dossier missilistico – con limitazioni anche per gli altri paesi regionali – dovrebbe essere sostenuto da adeguati meccanismi di verifica, che a oggi sono impossibili da implementare, non esistendo peraltro alcun framework internazionale per il controllo dei programmi missilistici (per cui l’Iran percepirebbe l’eccezionalità del controllo esclusivo sul suo programma, in una riedizione del dossier nucleare). Privare l’Iran degli strumenti e dei sistemi per trasportare armi nucleari è inverosimile, poiché i missili Shabab 3 e Ghadr – utilizzabili anche a questo scopo – costituiscono soprattutto il cuore della capacità iraniana di rispondere a eventuali attacchi israeliani; limitare il numero dei missili prodotti e impiegati richiederebbe ispezioni intrusive e approfondite alle basi militari e ai centri di produzione militare iraniani, difficili da accettare per l’Iran, specie in assenza del framework menzionato.

Il fatto che a oggi Teheran non sia interessata agli Icbm è in parte dimostrato dal fatto che, a fronte di enormi progressi in campo missilistico negli ultimi 20 anni, Teheran non abbia mai effettuato nemmeno dei test con missili a lungo raggio, in grado di raggiungere gli Stati Uniti, e che abbia ristretto volontariamente la gittata massima dei suoi missili a 2000 km. Se da una parte l’unico aspetto “controllabile”, senza essere eccessivamente intrusivi, è la capacità iraniana di trasporto di testate nucleari, per la quale potrebbero essere introdotte restrizioni ai test di volo, è bene anche ricordare che eventuali pressioni o ricatti sui missili da parte dell’Occidente potrebbero spingere le autorità iraniane a inaugurare per rappresaglia proprio i test sui missili a lungo raggio.

Strategie per accordi epocali

In conclusione, anche a prescindere dal raggiungimento in tempi brevi di un nuovo accordo sul nucleare, appare chiaro come le richieste unilaterali all’Iran di cessazione o limitazione al proprio programma missilistico siano destinate a non funzionare. Ne consegue che l’eventuale tentativo americano di inserire modifiche al programma missilistico iraniano come precondizione a un rientro degli Stati Uniti nel nuclear deal sarebbe rovinoso: nel più roseo dei casi ne uscirebbe un accordo “vuoto”, e delle limitazioni che non soddisferebbero nessuno. Sarebbe forse più utile aprire discussioni di lungo termine – e allargate alla regione – sui missili intercontinentali, come ricordano gli studiosi Fabian Hinz e Sahil Shah.

Ex ambasciata degli Stati Uniti a Teheran (Foto di Fotokon)

Con i presupposti attuali, una ipotesi – comunque complessa da percorrere – potrebbe essere quella di accordare all’Iran il rafforzamento della flotta di missili a medio raggio (con la attuale soglia massima di 2000 chilometri) in cambio di limitazioni all’uso di tecnologie militari nel programma spaziale di Teheran e/o al trasferimento di missili Cruise e balistici ad attori non statali sostenuti da Teheran (come gli houthi in Yemen). A ogni modo, così come sul dossier nucleare, anche sul programma missilistico sarebbe profondamente sbagliato guardare all’Iran con il “prisma” libico, nella convinzione quindi che Teheran ceda se messa sotto pressione. Se non altro, perché Teheran è sotto pressione dal 1979.

Lo sforzo empatico non sarebbe tanto una concessione ma anzitutto una operazione funzionale all’inquadramento del problema: tenere conto della percezione delle minacce – le strategie israeliane, i paesi del Golfo, le formazioni jihadiste perlopiù antisciite e antipersiane, le basi militari americane in tutti i paesi confinanti… – da parte dell’Iran, e in particolare della convinzione che la sua sicurezza, in una regione polarizzata e instabile, dipenda dalla sofisticazione del suo arsenale missilistico. Le lezioni della Guerra fredda possono essere d’aiuto, ma fino a un certo punto: se è infatti vero che la limitazione delle capacità militari sovietiche non avvenne grazie alle sanzioni, ma mediante l’istituzione dei meccanismi di controllo e concessioni accompagnate da leveraging militare, è anche bene ricordare che in Medio Oriente la citata scarsa fiducia diffusa sussista non tra due ma tra un numero consistente di attori regionali, mossi da agende quasi inconciliabili.

L'articolo Usa e Iran: “Missiles will be on the table” proviene da OGzero.

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