S-400 Archivi - OGzero https://ogzero.org/tag/s-400/ geopolitica etc Sun, 15 Dec 2024 14:51:49 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.4.6 Il “nuovo” ordine mondiale e il gioco delle parti da Astana a Kyiv https://ogzero.org/il-gioco-delle-parti-e-il-nuovo-ordine-mondiale/ Sun, 27 Mar 2022 21:52:07 +0000 https://ogzero.org/?p=6901 Confrontandoci tra complici di “OGzero” sulla complessa situazione ucraina, che è (sì!) una delle decine di guerre in corso nel mondo, ma è anche la parte per il tutto del confronto globale ereditato dalla transizione attraverso il multilateralismo verso un Nuovo ordine mondiale, destinato a venire spostato verso l’Indo-pacifico, abbiamo tratto dall’ultima puntata di Transatlantica24 […]

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Confrontandoci tra complici di “OGzero” sulla complessa situazione ucraina, che è (sì!) una delle decine di guerre in corso nel mondo, ma è anche la parte per il tutto del confronto globale ereditato dalla transizione attraverso il multilateralismo verso un Nuovo ordine mondiale, destinato a venire spostato verso l’Indo-pacifico, abbiamo tratto dall’ultima puntata di Transatlantica24 spunti offerti da Eric Salerno e Sabrina Moles, che ci hanno rievocato le intuizioni messe in gioco in Astana e i 7 mari di Antonella De Biasi. Così “OGzero” nel momento dell’annuncio di un tavolo di pace imbandito a Istanbul comincia a credere che lo spirito di Astana non è sfumato del tutto e su questo dubbio ha cercato di ricostruire i cocci prodotti dall’esplosione del multilateralismo nei rapporti tra stati, dallo scardinamento di alleanze esili, dalla individuazione del momento in cui il Cremlino ha pensato che fosse più opportuno far saltare gli equilibri. Un istante che Antonella nel suo scritto, steso a ottobre, preconizzava individuando nella ignominiosa ritirata americana dall’Afghanistan il segnale della debolezza per cui era possibile azzardare il morso del serpente.

Salvo poi accorgerci che ciascuno ha tratto vantaggio o imponendo spese militari, o annettendosi nuovi territori rivieraschi, o soffiando su un nazionalismo sovranista, cancellando piani ecologisti e ridistribuendo energia con un maggior profitto per i produttori. Distribuito sciovinismo e testosterone in tutti i paesi del primo mondo.

Perciò a partire dalla chiosa del libro, proviamo con questo editoriale a mettere in fila gli eventi di queste ultime 5 settimane sulla scorta di quello che il volume di Antonella De Biasi aveva già individuati come potenziali snodi critici; andremo a trovare nel libro verifiche delle analisi prodotte a posteriori dagli equilibri scaturiti dalla “spezial operazy” di Putin, così da inserirla nell’annoso flusso geopolitico senza gli isterismi cavalcati dal profitto guerrafondaio. Infatti il volume si chiude con una frase emblematica: «Il gioco di Astana, seppur precario, in fondo è anche un gioco delle parti» e le dichiarazioni e le mosse diplomatiche di fine marzo seguono il canovaccio.


Il conflitto in corso è figlio della interpretazione data da una nazione come la Russia al periodo governato da una sorta di multilateralismo: se ne riconoscono i metodi inseguendo i gangli della dottrina Gerasimov (mai realmente scritta o teorizzata, ma resa evidente dalla prassi bellica russa), il cui scopo principale era quello di spezzare l’unilateralismo derivato dalla fine della Prima guerra fredda, in particolare: la soluzione cecena, da cui deriva la carriera del generale; Georgia e Crimea, rimaste senza risposta da parte delle altre potenze… ancora più palese l’uso strumentale del Donbass oggi, come 8 anni fa a suffragio della considerazione dei territori a est del Dnepr come giardino di casa.

Nel caso del conflitto in Nagorno-Karabakh gli armeni hanno pensato erroneamente che Mosca li avrebbe difesi “contro una minaccia turca e musulmana”, come sostiene il professore francese esperto di islam Olivier Roy. Così non è stato perché in fondo l’immagine di una Russia cristiana, ultimo argine all’islam di cui l’Armenia si sente avamposto, serve solo a intermittenza e sempre più raramente come topic/pedina intercambiabile per la personale partita a scacchi di Putin, per ristabilire la grandezza della Russia agli occhi degli occidentali e dei paesi rappresentati dalle economie emergenti. Alcune reazioni caute e sottotono lasciano pensare che Putin non solo fosse al corrente dell’offensiva azera ma che ne abbia addirittura discusso i limiti con il regime di Aliyev così da riprendere solo i territori che, secondo il diritto internazionale, sono azeri. L’estrema destra occidentale ha sempre visto la Russia di Putin, costruita a sua immagine e somiglianza negli ultimi vent’anni, come il baluardo dei valori cristiani minacciati dall’islam. Il Cremlino sfrutta quando servono queste simpatie da sempliciotti. L’obiettivo di Putin è riprendersi e controllare his back-yard.

(Antonella De Biasi, Astana e i 7 mari, OGzero, Torino 2021, p. 49)

Ma anche e soprattutto andava preso nella giusta considerazione l’interventismo in Siria. E in Libia: non si dimentichi il voto del 3 marzo all’Onu che ha visto la metà di paesi africani compromessi per armi, sicurezza e traffici con la Russia compattamente astenuti, in particolare allarmanti le astensioni dei paesi maghrebini fornitori di gas e con interessi – anche militari – intrecciati con il Sud dell’Europa; tutto questo dinamismo del Volga sullo scacchiere internazionale è un prodotto degli accordi di Astana, che è l’altro snodo diplomatico-pragmatico attraverso cui passa la strategia russa di questo periodo e che ha finora imposto i dossier al mondo.

Ma la preparazione alla guerra classica, dotandosi di armi sofisticate, da parte dell’Ucraina attraverso gli stessi meccanismi di alleanze e accordi ibridi con ciascuna potenza locale (e talvolta globale, ma cambiando ogni volta campo contrapposto) ha scombinato il disegno di Shoigu, Gerasimov e Putin. Questa si può considerare una conseguenza del fatto che la Nato si è risvegliata dal coma (indotto da Trump, sodale della deriva reazionaria putiniana mondiale) di cui parlava Macron, ma lo ha fatto predisponendosi a rispondere alla guerra che Bruxelles (e soprattutto Arlington e Langley) sapeva sarebbe stata scatenata: in che modo si preparava? armando gli ucraini con ogni ordigno convenzionale o meno, sia attraverso le armi in dotazione agli alleati europei (baltici in primis), sia con i droni turchi, che con alcune armi di fabbricazione israeliana – ma non tutte, come vedremo – e producendo una propaganda nazionalista identitaria per sollevare lo spirito bellico dell’Europa. Addirittura gli S-400 che furono motivo di sanzioni americane contro la Turchia potrebbero diventare paradossalmente strumenti di difesa per gli ucraini se Ankara si farà convincere a passarle a Zelensky, o le porrà sulla bilancia della trattativa: la tecnologia di cui sono dotate sicuramente è efficace contro le macchine belliche del cui impianto sono parte.

L’amministrazione Biden è ben consapevole che deve tenere la Turchia dentro l’asse Nato per impedire che passi nell’orbita russo-cinese. Così Erdoğan userà questo punto per ottenere vantaggi almeno nelle relazioni bilaterali. La questione critica più importante per gli Usa è il sistema missilistico S-400 che Erdoğan ha acquistato da Putin, non compatibile con quello Nato

(Antonella De Biasi, Astana e i 7 mari, OGzero, Torino 2021, p. 84).

Si può dunque parlare di una proxy war combattuta in territorio europeo e con obiettivi gli interessi europei, che vede gli Usa defilati e non interventisti, ma guerrafondai e impegnati a far esporre l’UE, tagliando così tutti i ponti (e gli oleodotti) euro-russi che in particolare la Germania merkeliana (e di Schroeder) avevano costruito: doppio risultato per gli americani che vendono all’altra sponda atlantica il loro gas poco ambientalista, piazzando (o affittando a caro prezzo) anche le navi che trasportano i rigasificatori.

Ora che gli altri protagonisti in commedia hanno appreso come prendere le misure al sistema bellico ordito da Mosca dalla Cecenia in avanti, accettando una vera e propria guerra con migliaia di morti e smaltimento di magazzini di armi novecentesche; ora che si è dimostrata la marginalità della UE e la sua riduzione a mera potenza locale succube della Nato, mentre la Russia – pur non sfondando e rimettendoci in immagine guerresca e di efficienza militare, piangendo molti più morti e dissanguandosi in spese  – si prende tutte le coste del Mar Nero settentrionale e del mar d’Azov; ora rimane in piedi il modello di rapporti e accordi spartitori; scambi e traffici multilaterali che han funzionato per spartirsi territori di confine, operazioni militari e aree di riferimento tra potenze locali: quel sistema di accordi, che Antonella De Biasi ha correttamente descritto nel suo testo dedicato agli Accordi di Astana, e dove si possono rintracciare in nuce le dinamiche e gli equilibri che ora dopo la guerra spiccano nella narrazione della resistenza ucraina, trova una riproposizione nella fornitura di armi e nelle candidature alla composizione del conflitto da parte di potenze “locali”. Insomma: gli Accordi di Astana vedono trasformati gradualmente i ruoli dei singoli attori e la chiave che ne promana vede protagonisti Turchia (che ospita sia gli yacht degli oligarchi – magari sfuggiti al Novichok dell’Fsb –, sia le denunce dei dissidenti) e Israele (che accoglie ebrei russi e ebrei ucraini), nella totale assenza di strategia Usa/EU.

In fondo la prospettiva di incontri bilaterali russo-ucraini riferita da David Arakhamia, leader parlamentare ucraino e partecipante ai negoziati, previsti per il 28-30 marzo a Istanbul (e/o successivamente a Gerusalemme, probabilmente) con padrini gli equidistanti Turchia e Israele che stanno facendo avance l’un l’altro per ritessere reciproci rapporti diplomatici dopo l’incidente della Mavi Marmara evocato da Murat Cinar nel suo articolo, appare come i memoranda d’intesa stipulati durante il vuoto trumpiano riempito ad Astana, evocati da Antonella De Biasi:

Erdoğan e Putin per primi, e a seguire l’appena eletto Raisi, cercheranno di mantenere l’influenza guadagnata negli ultimi quattro anni della presidenza Trump facendo buon viso a cattivo gioco. Si sa che le alleanze non sono per sempre – anche e soprattutto tra leader autoritari e populisti –, ma ogni volta che ci sarà una crisi, e quindi anche un’occasione per aumentare l’influenza nello scacchiere internazionale, si farà sempre in tempo a scrivere inediti memorandum d’intesa e scegliere una nuova suggestiva località per sottoscriverli.

(Antonella De Biasi, Astana e i 7 mari, OGzero, Torino 2021, p. 85)

 

E il terzo protagonista degli Accordi di Astana, l’Iran, che vi ha partecipato da potenza locale impegnata a mantenere la preminenza sulla mezzaluna sciita e con l’intento di contribuire alla marginalizzazione delle potenze europee, non ha avuto reazioni dopo la crisi afgana e non prende posizione in quella attuale: è apparso chiaro che la repubblica islamica viene tenuta in sospeso per il fatto proprio che a Putin serve l’appoggio di Bennett e quindi potrebbe far pesare un veto alla ripresa degli accordi Jcpoa, nel momento in cui pare che l’amministrazione Biden sarebbe invece disponibile a riprendere i negoziati sul nucleare iraniano, per focalizzarsi sull’indo-pacifico. Come per gli altri teatri delle guerre scatenate e composte ad Astana, il ruolo iraniano è stato in genere di supporto non attivo agli accordi: una sorta di notaio che assicura il proprio assenso in cambio della non intromissione nei propri affari.

Gilles Kepel su “Le Grand Continent” anticipando stralci del suo ultimo libro: «L’amministrazione Biden, il cui primo impulso diplomatico è consistito nel relativizzare il peso del Medio Oriente nella sua agenda politica estera a favore delle questioni cinesi e russe, e nel far prevalere nella regione la riattivazione del Jcpoa sull’antagonismo israelo-palestinese, le cui asperità si pensava fossero state cancellate dagli Accordi di Abramo, si trova così costretta a giocare dietro le quinte durante la guerra del maggio 2021», chiamata dal professore francese “la guerra degli undici giorni”. In questo nuovo caos con gli smottamenti nei paesi dell’area mediorientale, caucasica e mediterranea la Libia e quel che accadrà a cavallo del nuovo anno, determineranno i confini geopolitici degli attori di Astana, nello specifico la Turchia e la Russia.

 (Antonella De Biasi, Astana e i 7 mari, OGzero, Torino 2021, p. 85).

Applicazione di un modello

Qui infatti ritroviamo attivo come sempre il compare di Putin di tanti incontri ad Astana: Erdoğan ha mantenuto lo stesso atteggiamento ambiguo che lo ha contraddistinto in Siria, in Libia, in Nagorno-Karabakh – non a caso di nuovo gli azeri stanno sfruttando l’occasione che impedisce a Mosca di difendere l’alleato armeno – quando ha sostenuto in genere la parte avversa al fantoccio locale di Putin, salvo poi comporre ogni questione attraverso una spartizione de facto di territori, interessi, occupazioni. Anche in questo caso Erdoğan ha fornito a Zelensky armi e sostegno da appartenente alla Nato, ha mantenuto un ruolo ambiguo sui Dardanelli e sull’accesso al Mar Nero in relazione alla Convenzione di Montreux – e anche in questo caso la sottolineatura di Antonella De Biasi di p. 48 di Astana e i 7 mari, relativa all’appoggio russo ad abkhazi e agiari che solleva questioni ataviche in contrapposizione russi e turchi, sostenitori dell’etnia tatara, poneva già il problema di schieramenti – ma poi non aderisce a sanzioni ed embarghi… e questo consente ad Ankara di proseguire la diplomazia di Astana verso Mosca e di proporsi come mediatore, forse per la sua esperienza di occupazione del Rojava e strage di curdi. Ruolo che è in grado di svolgere l’altro campione di democrazia: Israele che da 55 anni occupa territorio palestinese e applica l’apartheid. Anche Israele compare 49 volte nel libro di Antonella De Biasi, pur non essendo tra gli ospiti di Astana, se non in veste di Convitato di Pietra: infatti Tel Aviv ha mantenuto un profilo basso, senza contrariare il Cremlino, sia per i milioni di russi e ucraini immigrati in Israele, sia per gli innumerevoli interessi che legano i due paesi; peraltro ha fornito qualche ordigno a Kyiv, senza consentire l’uso di Pegasus o di Blue Wolf, e tantomeno Iron Dome, sistema di difesa antiaerea richiesto dall’Ucraina fin dal 2019 (per dire da quanto si stavano preparando alla “sorprendente” aggressione russa). E soprattutto, come dice Eric Salerno: «Israele ha bisogno di alleati» e questo è reso ancora più evidente dall’accoglienza per gli Accordi di Abramo che ha stipulato prontamente con alcuni paesi arabi.

Israele e Turchia evidenziano il proseguimento sotto altre forme del multilateralismo sotto il cappello della crisi russo-ucraina: come ci ha detto Eric Salerno nella puntata di Transatlantica24 per quanto riguarda Tel Aviv – ma vale anche per Ankara, nonostante il disastro economico: se va in porto l’occupazione coloniale di tutte le zone in cui la Turchia è impegnata, il colonialismo predatorio può rimpinguare le casse. A entrambe il ruolo di potenze locali va stretto e sia nell’area interessata dalle operazioni belliche, sia nel resto dei 7 mari presi in considerazione nel volume dedicato da OGzero ad Astana, si propongono come interlocutori privilegiati, spesso in sostituzione degli interessi delle potenze coloniali europee classiche, assurgendo a un ruolo di potenze più ampia di quella locale mediterranea.

Il ridimensionamento del ruolo dell’Occidente nel panorama internazionale è determinato soprattutto dalla radicale contestazione del suo modello politico, economico e culturale attuata dalla Cina e in secondo luogo dalla Russia. Non è un caso che Cina e Russia siano tra i principali sostenitori di due organizzazioni multilaterali come i Brics e la Shangai Cooperation Organization (Sco). Di recente i due paesi hanno iniziato a collaborare per ridurre la loro dipendenza dal dollaro.

(Antonella De Biasi, Astana e i 7 mari, OGzero, Torino 2021, p. 73).

Dunque di nuovo le potenze asiatiche evidenziano la inadeguatezza della prosopopea dell’UE, che preferisce riarmarsi, dissanguandosi e riducendo a nulla il sistema welfare liberal-democratico, pur di rincorrere sul piano militare le altre potenze guerrafondaie e venditrici di tecnologie militari per sostenere le industrie belliche anche europee, ringalluzzite dalla guerra per procura al confine eurasiatico, evocativo di altre invasioni, ma che sembra preludere a un ridimensionamento tanto dell’Europa, quanto della Russia stessa, ridotti a belligeranti locali di una guerra a cui stanno alla finestra le due vere potenze globali, che preparano il confronto in ambito indo-pacifico. Gli Usa ottengono – dopo che da due amministrazioni lo richiedono – che tutti gli europei destinino il 2% del pil alla “sicurezza”, sgravando gli americani di parte della spesa militare; la Cina – come ci spiegava Sabrina Moles nell’incontro di Transatlantica24 – senza schierarsi, ma lanciando segnali di propensione per l’invasore, pur facendo attenzione a non confondersi con una potenza sull’orlo del fallimento come la Russia che ha il pil di una provincia cinese (il Guandong), può trarre vantaggi, se non si prolunga troppo la crisi e se non si propone come mediatrice, perché rischierebbe di venire degradata al rango di potenza intermedia come appunto Turchia e Israele. I mediatori nel gioco delle parti.

Dopo la normalizzazione delle relazioni sino-russe alla fine della Guerra Fredda, la Russia è emersa come un importante fornitore di armi e tecnologia per la Cina. Quella relazione era un’ancora di salvezza finanziaria per l’industria della difesa russa in un momento in cui gli ordini di approvvigionamento nazionali si erano prosciugati. Ma da allora le vendite russe alla Cina sono diminuite man mano che l’industria della difesa cinese è maturata «in misura significativa grazie al trasferimento di tecnologia e al furto dalla Russia», commentano Eugene Rumer e Richard Sokolski sul sito di Carnegie Endowment for international peace. La Cina ora compete con la Russia nei mercati delle armi. Attualmente le vendite di armi dalla Russia alla Cina rappresentano solo il 3% del commercio totale annuo dei due paesi, che supera i 100 miliardi di dollari. Con l’accesso alla tecnologia occidentale tagliato a causa delle sanzioni, l’industria della difesa russa ha guardato alla Cina come una fonte alternativa di innovazione che non ha la capacità di sviluppare a livello locale.

 (Antonella De Biasi, Astana e i 7 mari, OGzero, Torino 2021, p. 73).

Può essere che il prossimo teatro di questo “Risiko per procura” torni in zona balcanico-caucasica (Nagorno Karabakh ed enclave etniche della Repubblika Srpska, oppure le tensioni panslavistein Bosnia); può darsi si inaspriscano le dispute che in Africa vedono impegnati militari turchi e miliziani della Wagner in contrasto – soprattutto in Françafrique – con gli eserciti coloniali classici; sicuramente Russia e Cina stanno collaborando assiduamente per spartirsi il Sudamerica, grazie alla distrazione di Biden che prosegue il disimpegno del suo predecessore.

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La guerra in Ucraina cambierà le scelte di Ankara? https://ogzero.org/la-posizione-di-ankara-nel-conflitto-russo-ucraino/ Fri, 18 Mar 2022 14:40:19 +0000 https://ogzero.org/?p=6806 Mar Nero settentrionale con la tatara Crimea; Mar Nero meridionale con gli Stretti strategici per la navigazione. Gli accordi di Astana, che già adombravano un ridimensionamento della Russia al rango delle altre due potenze regionali che li animano, facevano pensare che la Turchia fosse destinata a trarne maggiori vantaggi, mentre Mosca appariva alla ricerca di […]

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Mar Nero settentrionale con la tatara Crimea; Mar Nero meridionale con gli Stretti strategici per la navigazione. Gli accordi di Astana, che già adombravano un ridimensionamento della Russia al rango delle altre due potenze regionali che li animano, facevano pensare che la Turchia fosse destinata a trarne maggiori vantaggi, mentre Mosca appariva alla ricerca di accordi per spartire senza problemi le aree lasciate “libere” dal disimpegno dell’America trumpiana, dimostrando forse un inizio di affanno a svolgere il ruolo di grande potenza. Forse si può inquadrare la “spezial operazy” come una delle tappe delle spartizioni di Astana, che hanno visto diversamente impegnati gli eserciti e le milizie di Ankara e Mosca e quindi l’equidistanza  tra i contendenti da parte di Erdoğan fa il paio con l’interposizione di Putin in finale di conflitto in Nagorno Karabakh concluso a favore dell’Azerbaijan dai droni Bayraktar, protagonisti anche nel confronto bellico in Ucraina. L’equilibrio di Ankara, apparentemente sbilanciato a favore di Kiev (in chiave atlantista), ma attento a lasciare ampi spiragli di apertura a Mosca per proporsi come mediatore – forse per esperienza diretta nell’occupazione imperiale di territori limitrofi al proprio come il Rojava –, può ottenere riconoscimento internazionale, premiando l’ambiguità e la politica dei due forni di Erdoğan? Ed è vera competizione tra Israele e Turchia per ottenere il ruolo di paciere («proprio loro!?!», diranno curdi e palestinesi), o non è il gioco delle parti, per cui ognuno appare come campione valido per ciascuno dei due contendenti, perché tutti legati a filo doppio dallo scambio delle armi?

Vera rivalità tra Israele e Turchia per il ruolo di mediatore?

L’ossessione di OGzero per Astana arriva fin qui, lasciando spazio alle intuizioni di Murat Cinar…


Due paesi importanti per la Turchia sono in piena guerra; Ucraina e Russia. Dai droni ai pomodori, dalla centrale nucleare agli S-400, dal turismo al grano… e dal gas al riciclaggio di denaro. Per il governo centrale della Turchia, Mosca e Kiev sono due partner strategici con i quali ha consolidato dei rapporti economici, politici e militari in questi ultimi anni.
Ora invece questi due vicini stanno attraversando un forte conflitto armato tra loro. Dunque qual è stata, finora, la posizione di Ankara?

Le prime scelte

La politica della Turchia, dal 24 febbraio, quando la Russia ha iniziato a invadere l’Ucraina, mostra che rimarrà in armonia e coordinamento con l’occidente e la Nato, ma senza mettere in pericolo il suo legame con questi due paesi.

Atlantismo

La Turchia, che ha attuato la Convenzione di Montreux e ha impedito a più navi da guerra russe di accedere al Mar Nero, attraverso il mar di Marmara e gli stretti dei Dardanelli e del Bosforo, afferma che non intende imporre sanzioni alla Russia e che farà del suo meglio per mantenere aperti i canali di dialogo con Mosca per la soluzione del problema, accolto con favore anche dall’Occidente.
Con le dichiarazioni rese il giorno dell’inizio dell’operazione, che la Russia definisce “operazione militare speciale”, la Turchia ha chiesto il rispetto dell’integrità territoriale e dell’unità politica dell’Ucraina e ha dichiarato di rifiutare l’attacco russo. La Turchia, che non ha riconosciuto l’invasione e l’annessione della Crimea da parte della Russia nel 2014, ha rivelato che continuerà ad agire insieme all’opinione pubblica internazionale con questa posizione che ha assunto. La Turchia ha anche appoggiato il testo della risoluzione di condanna della Russia all’Assemblea generale delle Nazioni Unite (Onu).

Oltre a condannare la Russia, la Turchia ha anche fornito all’Ucraina il massimo livello di sostegno. Il presidente Recep Tayyip Erdoğan, il presidente dell’Ucraina Volodymyr Zelensky e i ministri degli Esteri e della Difesa turchi si sono incontrati spesso con le loro controparti ucraine e hanno discusso degli sviluppi riguardanti l’occupazione russa esprimendo il sostegno della Turchia alla sovranità dell’Ucraina.
L’uso efficace dei droni armati “made in Turkey”, Bayraktar venduti dalla Turchia, che negli ultimi anni ha approfondito la cooperazione con l’Ucraina nel campo dell’industria della difesa, ha reso ancora più importante il dialogo tra i ministri della Difesa dei due paesi. Le dichiarazioni delle autorità ucraine di voler acquistare più droni dalla Turchia si sono riflesse anche sulla stampa durante questo processo.

Droni autarchici turchi: l'esercito di Ankara si fornisce di ogni dettaglio tecnologico dall'industria nazionale per equipaggiare il proprio gioiello bellico: i sistemi aerei senza pilota

Bayraktar-TB2 Sịha, che fanno strame dei carri armati russi incolonnati.

Sin dall’inizio della guerra, la Turchia ha annunciato di aver iniziato a inviare aiuti umanitari in Ucraina. Con tutti questi passi, la Turchia ha dimostrato di sostenere l’Ucraina.

Caro amico Putin

Il presidente della Repubblica di Turchia, prima e dopo l’inizio dell’operazione, ha dichiarato: «Non rinunceremo alle nostre relazioni speciali né con l’Ucraina né con la Russia» e ha lanciato il messaggio che cercherà di mantenere una politica equilibrata anche se la crisi approfondisse.

Tuttavia, ciò non ha impedito ad Ankara di «invitare Mosca a interrompere l’operazione il prima possibile». Nelle loro dichiarazioni, il presidente Erdoğan e il ministro degli Esteri Mevlüt Çavuşoğlu hanno sottolineato che l’operazione militare ha messo in pericolo la sicurezza sia regionale che mondiale e che la Russia dovrebbe rinunciarvi il prima possibile. Nelle dichiarazioni rilasciate alla stampa è stato anche affermato che Çavuşoğlu ha trasmesso direttamente questo richiamo al ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov, con il quale aveva parlato al telefono.
La Turchia è stata anche tra i paesi che hanno criticato le minacce sventolate da Putin sull’eventuale utilizzo delle armi nucleari. İbrahim Kalın, il consulente per la politica estera del presidente Erdoğan, ha definito “sconcertante” il fatto che Mosca abbia messo sul tavolo la carta nucleare.

Con la Nato ma…

La dedizione della Turchia al patto transatlantico è molto discutibile da parecchi anni. Sia Trump sia Biden, diverse volte hanno criticato Ankara per le sue scelte militari e politiche in Siria e per le sue relazioni con la Russia. Mentre gli Usa sono arrivati anche alle sanzioni economiche e militari, con la Grecia e la Francia ci sono stati dei momenti di grande tensione e reciproche minacce in questi ultimi 2 anni.

La posizione di Ankara nel conflitto russo-ucraino

Settembre 2020, dispute tra appartenenti alla Nato nel Mediterraneo orientale: Grecia e Francia contro Turchia.

Tuttavia dalla guerra in Libia fino al caso degli uiguri, dall’Afghanistan alla produzione militare joint venture con gli alleati, dall’occupazione russa in Crimea e ora con l’appoggio a Kiev, possiamo dire che la Turchia ha seguito molto fedelmente la linea politica, economica e militare della Nato.

… It’s the economy…

La guerra in Ucraina arriva in un momento molto importante per la Turchia; sia per le sue relazioni forti con Mosca sia per la devastante situazione economica e politica che Erdoğan deve affrontare a casa. Un governo ai minimi storici nei sondaggi (meno di 35%) un anno prima delle elezioni presidenziali e parlamentari, sia per il lavoro di grande successo che portano avanti i sindaci delle opposizioni eletti nelle grandi città nel 2019 sia per l’enorme corruzione sempre più conosciuta e evidente che rappresenta il governo e la famiglia del presidente della Repubblica. Ovviamente a questa situazione catastrofica politica bisognerà aggiungere anche la crisi economica senza precedenti. Un’inflazione che supera la soglia del 130%, una Lira che perde il suo valore ogni giorno davanti alle monete straniere, una povertà diffusa e terribile e un vuoto nel fisco che spinge Ankara a svendere qualsiasi cosa al capitale russo, cinese e mediorientale.

… l’intermediario

Insomma: le scelte discutibili, radicali e pericolose di Erdoğan, operate in questi ultimi anni per consolidare un rapporto forte con Putin, fanno paradossalmente sì che la Nato trovi in Ankara un alleato a cui attribuire un ruolo chiave in questo conflitto. Quello del mediatore. Dall’altro lato Erdoğan non vorrebbe assolutamente perdere l’occasione per fare una forte propaganda elettorale nella politica interna portando a casa prestigio, rispetto e forse anche un po’ di soldi, vista la situazione economica e elettorale devastante.

Mediazione

Infatti l’incontro importante ma non fruttifero, avvenuto ad Antalya in Turchia, tra il ministro degli Esteri russo Lavrov e quello ucraino Kubela il 10 marzo è una delle dimostrazioni del fatto che il governo centrale vorrebbe lavorare come mediatore in questo conflitto, molto probabilmente per portare a casa un paio di carte vincenti. L’impegno apprezzato sia da Zelensky sia da Putin ha ricevuto anche gli applausi dal segretario generale della Nato, Stoltenberg che ha espresso la sua gratitudine direttamente al presidente della repubblica di Turchia quando l’ha incontrato durante la sua visita ad Ankara l’11 marzo.
Inoltre, la Turchia si era astenuta, il 26 febbraio, dal votare contro la sospensione della Russia nel Consiglio d’Europa, sulla base del fatto che «una completa interruzione del dialogo e la demolizione dei ponti non sarebbe vantaggiosa». Il ministro Çavuşoğlu ha dichiarato: «Non dovremmo concordare sull’interruzione del dialogo. C’è qualche vantaggio per il Consiglio d’Europa nel rompere i legami con la Russia qui? No. Ecco perché ci siamo astenuti nella votazione. Perché questo comporterebbe la chiusura del dialogo». Tuttavia il 17 marzo, durante una riunione straordinaria: «Il Comitato dei Ministri ha deciso, nel quadro della procedura avviata in virtù dell’articolo 8 dello Statuto del Consiglio d’Europa, che la Federazione russa cessa di essere membro del Consiglio d’Europa a partire da oggi, 26 anni dopo la sua adesione».

La diplomazia di Twitter e le telefonate private

Ankara, sin dall’inizio della guerra, ha mantenuto l’opinione secondo la quale tenere aperti i canali di dialogo con Mosca avrà un impatto positivo sul processo negoziale avviato tra funzionari russi e ucraini. Il consulente per la politica estera del presidente Erdoğan, İbrahim Kalın, in una dichiarazione alla stampa turca, ha affermato che la Turchia segue da vicino il processo negoziale tra le parti in guerra e trasmette i suoi suggerimenti alla Russia, soprattutto grazie al dialogo in corso.
A tutti questi passi e dichiarazioni ovviamente dovremmo aggiungere il continuo traffico di telefonate tra Ankara, Mosca e Kiev e i ringraziamenti di Zelensky direttamente verso Erdoğan comunicati ripetutamente su Twitter, per il suo sostegno

Importanti relazioni sia con Kiev sia con Mosca

In un’intervista rilasciata alla Cnn International, İbrahim Kalın ha dichiarato di non volere che i loro forti legami economici con Mosca, inclusi settori come l’energia, il turismo e l’agricoltura, siano danneggiati, e ha sottolineato che credono nei vantaggio provenienti da una condizione di dialogo alternativa all’imposizione di sanzioni.

La Turchia, che l’anno scorso ha ospitato circa 5 milioni di turisti russi (e 2 milioni di ucraini), ha preferito non assecondare i paesi occidentali che hanno chiuso il loro spazio aereo.

La Russia è il più grande fornitore di gas naturale della Turchia e sta anche costruendo la prima centrale nucleare del paese. I primi reattori dovrebbero essere messi in servizio nel 2023. Il volume degli scambi tra Turchia e Russia supera i 20 miliardi di dollari. I due paesi puntano ad aumentare questa cifra a 100 miliardi di dollari.

Questo rapporto commerciale in crescita vale anche per l’Ucraina. Secondo la Camera di Commercio di Istanbul (Ito) nel 2021 il volume commerciale superava i 7,4 miliardi di dollari Usa e nel 2022 l’obiettivo è raggiungere i 10. Solo nell’ultimo incontro avvenuto il 3 febbraio sono stati firmati ben 8 accordi commerciali tra Erdoğan e Zelensky. La collaborazione tra questi due paesi è in forte crescita anche nel campo militare.

Mediatori sì ma non da soli

La crisi energetica, l’interruzione dei rapporti commerciali, degli investimenti finanziari e del gigantesco riciclaggio di soldi nelle banche europee e in collaborazione con le mafie europee e la minaccia sulla sicurezza cibernetica sono solo alcuni punti che necessitano un piano B nel caso in cui le cose si mettessero molto male a lungo termine con Mosca. Dunque a questo punto insieme ad Ankara subentrano nel gioco due altri attori insospettabili: Grecia e Israele.
La Turchia, ultimamente, sembra che stia ricucendo i suoi rapporti con questi due “alleati”/vicini.

Israele, una volta “razzista” e ”terrorista” per Erdoğan

Infatti non è un caso che il presidente della Repubblica d’Israele, Isaac Herzog, abbia visitato la Turchia, incontrando il suo omologo turco il 9 di marzo. Una visita che era stata già organizzata ma ovviamente ha assunto un’importanza particolare in questo periodo esattamente come il contenuto delle dichiarazioni finali.

«Sia l’inizio di una nuova fase nelle relazioni tra questi due paesi. Dobbiamo rafforzare i nostri obiettivi commerciali soprattutto nel campo dell’energia»: erano alcune parole pronunciate da Erdoğan alla fine dell’incontro. Herzog invece ha voluto parlare anche della convivenza dei popoli, la pace tra le religioni e ha pure citato una poesia di Hikmet.

Secondo il conduttore televisivo israeliano, Mohammad Micedle, questi due paesi hanno obiettivi in comune in Siria e in Ucraina. Quindi devono lavorare insieme. Invece secondo, Jonathan Freeman, uno dei professori dell’Università di Gerusalemme il ruolo di questi due paesi acquisisce un valore aggiunto derivante dalla guerra in Ucraina soprattutto nell’ambito della sicurezza, dell’energia e dal punto di vista economico.

«Grecia e Cipro avranno le risposte che meritano» (Erdoğan, 14 ottobre 2020)

Lo stesso tipo di visita a Istanbul è stato effettuato il 13 di marzo anche dal primo ministro greco Kyriakos Mītsotakīs con Erdoğan.

L’incontro si è concluso con una serie di buoni intenti e progetti legati al «nuovo piano di sicurezza in Europa alla luce della guerra in Ucraina, lotta contro l’immigrazione irregolare e rafforzamento dei rapporti commerciali».

Una nuova fase, una nuova era positiva e felice meno di 2 anni dopo quel famoso momento di crisi registrato nelle acque dell’Egeo che portava quasi alla guerra questi due vicini storici; come l’incontro tra Erdoğan e Herzog mette la parola fine ai dissapori sorti nel maggio 2010 con la vicenda della Freedom Flotilla e l’assalto alla Mavi Marmara, nave turca assaltata dai servizi israeliani che causarono la morte di 9 marinai turchi.

La posizione di Ankara nel conflitto russo-ucraino

Assalto del Mossad alla nave turca Mavi Marmara in rotta verso Gaza nel maggio 2010: causarono 9 morti tra l’equipaggio e il pretesto al presidente turco per ergersi a paladino della causa palestinese.

Oligarchi e oppositori già in Turchia

Approfittare della fuga dei capitali dai paesi in conflitto e isolati è una scelta ormai molto diffusa in diversi angoli del mondo. Esattamente come quello di aprire le porte agli oppositori che a lungo andare potrebbero rappresentare una “carta” politica importante nei confronti dell’alleato di oggi. La Turchia ha fatto queste mosse ospitando quell’enorme quantità di denaro dello stato libico e di quello venezuelano nei momenti di grande crisi economica, politica e militare. Questa scelta fatta da Tripoli e Caracas comporta fedeltà e collaborazione e per Ankara la parziale disponibilità di questi due paesi rappresenta anche un elemento di forza nei confronti dei suoi alleati. In merito alla presenza degli oppositori invece possiamo citare il caso degli uiguri in fuga dallo Xinjiang e dei tatari scappati dalla Crimea in due tempi diversi in questi ultimi anni, rendendo così la Turchia rifugio degli oppositori e degli oppressi per quegli attivisti che rappresentano “minaccia e problema” per gli alleati Cina e Russia.

La storica attrazione per Istanbul

Secondo il professore universitario, Aydin Sezer, la vicinanza geografica della Turchia fa sì che per chi volesse portare via il suo capitale dalla Russia la rende più accessibile e attraente rispetto alla Cina e ai paesi del Golfo. Nel suo intervento fatto in diretta il 7 marzo, organizzato dal portale di notizie “Gazete Duvar, Sezer sostiene che numerose aziende russe stanno già avviando operazioni di acquisto dei beni di lusso, immobili costosi e vari investimenti finanziari a Istanbul. La stessa notizia è stata approfondita il 15 marzo in un articolo di Nuran Erkul Kaya ed Emre Gurkan Abay anche sul sito dell’agenzia di stato “Anadolou Ajansi” e un’esaustiva carrellata di patrimoni investiti in Turchia da parte di oligarchi russi molto vicini a Putin è stata redatta da su “medyascope”.
In una notizia firmata da “Euronews”, il 15 marzo, invece si parlava di quelle migliaia di “benestanti” russi che hanno deciso di lasciare la Russia per via della loro opposizione contro la guerra ma anche perché pensano che una catastrofe economica sia in arrivo. Lo stesso argomento era stato reso pubblico il giorno prima anche da “The New York Times”. In questo articolo, firmato da Anton Troianovski e Patrick Kingsley, si citavano i principali paesi di destinazione come Armenia, Georgia, Uzbekistan, Kirghizistan e Kazakistan ma anche la Turchia. Perché?

Profughi russi a Istanbul

Un turco trasporta nella neve stambulina materassi comprati da organizzazioni umanitarie per aiutare profughi russi contrari alla guerra e timorosi della catastrofe economica russa.

I motivi sono parecchi. Per esempio, nonostante il fatto che i paesi europei abbiano chiuso i loro spazi aerei agli aerei russi, la Turchia non l’ha fatto e questa scelta rende Istanbul una delle alternative per i russi che vogliono lasciare il paese. Solo la Turkish Airlines continua a organizzare 5 voli al giorno per Mosca e, insieme ad altre compagnie, questo numero supera i 30 in alcuni giorni. Kirill Nabutov, un commentatore sportivo di 64 anni fuggito a Istanbul, nell’intervista rilasciata al quotidiano statunitense afferma che la storia si ripete. Anche la cugina della madre di Nabutov fuggì a Istanbul nel 1920 e da lì andò in Tunisia. Anche se non grande come gli ucraini, questa fuga ricorda quelle 100.000 persone in fuga dalla guerra civile negli anni Venti, dopo la rivoluzione bolscevica, rifugiate a Istanbul.

Politica interna appesa ai colpacci internazionali

Il ruolo della Turchia, da diversi punti di vista, possiede un peso importante in questa fase storica che sta attraversando prima di tutti l’Ucraina poi il resto del mondo. Questo ruolo senz’altro è dovuto alle relazioni che Ankara ha costruito in questi ultimi anni, quelle relazioni basate sul reciproco sfruttamento, esattamente come diversi leader mondiali fanno da tempo. A questo fattore sarebbe opportuno aggiungere anche la crisi diplomatica, economica, energetica e politica in cui si trovano alcuni alleati della Turchia. Come abbiamo visto nell’esperienza della “gestione dei migranti” e nei conflitti armati in Libia e Azerbaigian/Armenia, dove l’incapacità oppure l’indifferenza dell’Unione europea e della Nato subalterna, Ankara approfitta dell’occasione. Infine la situazione economica e politica, devastante, in cui si trova il governo di Erdoğan deve fare qualcosa. Un leader che ha sempre fatto alimentare la politica interna con quella estera non può perdere quest’occasione sperando di perdere a casa qualche vittoria. Ce la farà? Questo dipende anche dagli alleati e dai partner della Turchia.

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Turchia: cosa bolle in pentola con i missili S-400? https://ogzero.org/turchia-cosa-bolle-in-pentola-con-i-missili-s-400/ Fri, 23 Oct 2020 23:14:38 +0000 http://ogzero.org/?p=1592 Russia e Turchia sono potenze grandi o regionali? A voler trovare sempre e comunque un piano preordinato, collocare ogni singolo evento all’interno di un progetto coerente si rischia – talvolta – di affondare nel complottismo. Resta comunque il dubbio. Nel caso della Turchia alcune recenti iniziative potrebbero costituire la prova provata che Ankara ormai si […]

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Russia e Turchia sono potenze grandi o regionali?

A voler trovare sempre e comunque un piano preordinato, collocare ogni singolo evento all’interno di un progetto coerente si rischia – talvolta – di affondare nel complottismo.

Resta comunque il dubbio. Nel caso della Turchia alcune recenti iniziative potrebbero costituire la prova provata che Ankara ormai si muove (o almeno si rappresenta) come una superpotenza in grado di trattare da pari a pari con i due colossi (Usa e Russia) oltre che con le altre entità rilevanti (Iran, Arabia Saudita…). Sarebbe quindi fuori luogo cercare di ridimensionarla specificando “potenza a livello regionale”, visto che qui si parla sia di Medio Oriente che di Mediterraneo e Caucaso. Un rilancio – la prosecuzione – dell’Impero ottomano con altri mezzi?

Potrebbe anche essere. Ma procediamo con ordine.

Prove di sistemi di difesa russi a Sinop, Nato

Risaliva ai primi di ottobre il gentile preavviso (per garantire la sicurezza dei voli nella zona) del lancio di un missile (senza specificarne la gittata) nell’area del Mar Nero. Più precisamente in prossimità di Sinop da dove il 16 ottobre veniva girato un video rivelatore (con l’evidente colonna di fumo prodotta dall’esplosione dell’ordigno).

Gli esperti che lo hanno analizzato ritengono di avervi identificato un missile S-400 di tipo 40N6E (con una gittata presunta di circa 400 chilometri).

E allora? Quale sarebbe il problema?

Il problema consiste nel fatto che tali missili sono una componente del sistema di difesa venduto alla Turchia da Mosca. Più che una ostentazione di forza – o di indipendenza dall’Occidente – il gesto di Ankara assumeva quasi l’aspetto di uno sgarro. Soprattutto nei confronti di Washington, in lampante contraddizione con il ruolo della Turchia. Per il momento ancora alleata degli Usa e membro della Nato.

Messaggi alla Casa Bianca

Ankara aveva operato il test missilistico incurante della minaccia di ulteriori sanzioni. Formulata esplicitamente da Mike Pompeo quando l’anno scorso aveva definito “semplicemente inaccettabile” la sola ipotesi di una attivazione del sistema degli S-400.

Sanzioni che tuttavia – va precisato – Trump non sembrava molto propenso a imporre.

Non mancavano i precedenti. Ancora l’anno scorso in una base nei pressi di Ankara (dove si trovano alcune batterie di S-400) venivano messi in attività aerei da combattimento F-16 e F-4. Allo scopo – si presume – di testare altre componenti (probabilmente i radar).

Un passetto alla volta, la Turchia sembrerebbe intenzionata a integrare – anche ufficialmente – il sistema di difesa S-400 nella sua struttura di difesa contraerea e di combattimento.

Dislocazioni strategiche

Quanto a dove tali batterie di missili verrebbero collocate definitivamente, il mistero è ancora fitto.

Una – molto probabilmente – dovrebbe rimanere nei pressi di Ankara. Le altre a sorvegliare mar Egeo e Mediterraneo orientale. Oppure alle frontiere con la Siria e con l’Armenia.

Una maggior cautela nel procedere mostrata da Erdoğan successivamente al test potrebbe dipendere dall’attesa per i risultati delle elezioni negli Usa.

Pur non dando ufficialmente conferma dell’avvenuto test missilistico del 16 ottobre, il Dipartimento di Stato aveva ribadito la possibilità di “gravi conseguenze” qualora il sistema fosse divenuto operativo a tutti gli effetti.

Se fin dall’inizio il Pentagono si era dichiarato totalmente contrario all’acquisto da parte di Ankara del sistema S-400, l’esponente repubblicano Jim Risch si spingeva oltre affermando fuori dai denti che «la Turchia ha superato il limite» e invitando l’amministrazione statunitense a dare un “forte segnale” per indurre Ankara a liberarsi del recente acquisto.

Minacce che – come è noto – erano destinate a rimanere lettera morta.

Esiste anche un’altra ipotesi. Ossia che Erdoğan abbia semplicemente alzato la posta per ottenere da Washington (anche in caso di vittoria da parte di Joe Biden) concessioni di altro genere. Per esempio la sostanziale, definitiva accettazione degli interventi nel Nordest della Siria contro i curdi e ora contro l’Armenia. In questo caso, agitare la minaccia dell’impiego operativo dei missili S-400 funzionerebbe come merce di scambio (o, se preferite, ricatto).

Messaggi interni

Ma comunque l’esercitazione del 16 ottobre era stata rivendicata pubblicamente dai dirigenti di Akp (il partito di Erdoğan).

Bulent Turan in particolare si era complimentato per l’avvenuto test cogliendo l’occasione per dichiarare che «il problema principale di questo nostro bellissimo paese sono quei miserabili che si fan passare per intellettuali, ma non sono in grado di riconciliarsi con i valori della nazione e non hanno fiducia nello stato; così come gli insignificanti esponenti politici dell’opposizione incapaci di comprendere quali siano gli interessi nazionali». Affermazioni piuttosto nebulose, ma che potrebbero risultare chiare e precise per chi, in Turchia, deve sentirsi nella condizione di “uomo avvisato”.

Da parte di quella che ormai, almeno nella testa di Erdoğan, è destinata a diventare definitivamente una potenza autoreferenziale e indipendente.

Per non parlare dell’effetto galvanizzante riversato sugli strati sociali turchi (soprattutto il ceto medio, ma non solo) che pur appoggiando Erdoğan si sentono colpiti, travolti dalla crisi economica.

E quindi necessitano di compensazioni (almeno a livello immaginario, di falsa coscienza).

Messaggi al Cremlino

Torniamo ora un attimo al discorso introduttivo, ossia al voler trovare qualche motivo recondito in ogni gesto compiuto da Erdoğan. Per alcuni osservatori non sarebbe per niente casuale che l’esperimento missilistico sia avvenuto quasi in contemporanea con l’incontro (e la firma di accordi anche di cooperazione militare) tra Erdoğan e Volodymyr Zelensky, il suo omologo ucraino. Anche in questo caso potrebbe essersi trattato di una ostentazione di indipendenza, ma stavolta da Mosca.

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Il mare di Astana: il Mediterraneo https://ogzero.org/studium/il-mare-di-astana-il-mediterraneo/ Thu, 09 Jul 2020 10:26:26 +0000 http://ogzero.org/?post_type=portfolio&p=435 L'articolo Il mare di Astana: il Mediterraneo proviene da OGzero.

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Il mare di Astana: il Mediterraneo

Le strategie diventate palesi in questioni mediorientali hanno prodotto proposte per risolvere i conflitti sulla sponda meridionale del Mediterraneo ma anche spartizioni di aree sottoposte al controllo dei poteri locali coalizzati ad Astana. Questo “studium” tentava di illustrare i diversi ruoli delle potenze regionali coinvolte e gli equilibri toccati a livello globale dagli sviluppi dei frequenti appuntamenti nel quadro del Processo di Astana.
Con il coinvolgimento di alcuni tra i più occhiuti esperti del quadrante mediorientale abbiamo tentato di accompagnare la narrazione di questo scorcio di periodo che volge al termine con la conclusione del “non coinvolgimento” trumpiano e le prime mosse della amministrazione Biden; ci siamo convinti che il cambiamento in atto vada a incidere sugli accordi che ad Astana hanno creato le condizioni per la spartizione tra Iran, Turchia e Russia delle spoglie della Mesopotamia, concludendo quella sorta di alleanza e dunque può essere legittima un’analisi conclusiva e complessiva, allargando lo “studium”, che avevamo avviato limitandolo al Mediterraneo, proponendo una fiaba piratesca intitolata ‘Tutti i mari di Astana’ come progetto editoriale.
Alla fine ce l’abbiamo fatta: questo è il primo prodotto risultato di un agglomerato di idee, interventi, articoli, podcast pubblicati attorno agli sviluppi degli Accordi di Astana: ha seguito esattamente i passi previsti dall’idea che ha dato la stura al progetto di OGzero, che proprio con questo confronto iterato deve arrivare a individuare la necessità di una pubblicazione che faccia il punto sull’argomento. Il lungo percorso, durato 16 mesi, con i tanti materiali che trovate qui di seguito, ha trovato in Antonella De Biasi chi ne ha fatto non solo una sintesi ma anche analisi ulteriori, ipotesi interpretative, collegato eventi e inanellato strategie più o meno palesi, usando una rotonda e piacevole forma linguistica puntellata da evocative metafore marinare.

E così possiamo proporvi questo splendido volumetto di 88 pagine, un concentrato di informazioni, approfondimenti e analisi: “Astana e i 7 mari”… buona lettura


Accordi di Astana di pacificazione graduale delle Sirie

A  caldo, mentre Tahrir al-Sham entrava in Damasco e le altre insorgenze prendevano possesso del territorio abbandonato dall’esercito in disfatta di Bashar al-Assad, abiamo sentito Murat Cinar per una brevissima analisi su quelli che possono essere i futuri orizzonti per quella terra che eravamo abituati a chiamare Siria e ora è un bantustan di comunità che come unico collante ha la gioia per la liberazione dal tirano fuggito a Mosca:

“La dissoluzione siriana: tappa storica del progetto di rivolgimento mediorientale”.

Non è l’epilogo di Astana, ma solo una tappa in più verso il nuovo disegno del medioriente

100%

Avanzamento



Acquistabile in libreria attraverso la rete di Fastbook

isbn: 9791280780027


Dopo il compimento definitivo della trasformazione del territorio tracciato da Sykes-Picot finora chiamato Siria, con l’accelerazione degli accordi globali che ha dato semaforo verde ai mercenari di Tahrir al-Sham concentrati per anni a Idlib per proseguire il piano ebraico-statunitense di cancellazione degli equilibri del Medio Oriente come li conosciamo da mezzo secolo a questa parte, abbiamo chiesto a Murat Cinar di aiutarci a comporre il mosaico, seguendo le strategie dei singoli protagonisti e lo sviluppo della Storia che ha visto travolgere i regimi tunisino,libico, egiziano, siriano… come diceva il (profetico nei suoi confronti) Gheddafi: «Chi è il prossimo?»

Intanto Astana si sposta a Doha, dando un segnale di quale dei tre pards stia dando le carte in questa fine del 2024: ERdogan e il suo bancomat al-Thani cercano di evitare di venire travolti e lo fanno giocando su più tavoli e facendo le mosse giuste, previste nel piano di imposizione dello Stato ebraico come pivot unico mediorientale a guardia degli interessi americani.

Gli eventi globali che coinvolgono il superamento del multilateralismo e il nuovo ordine mondiale che dovrà scaturire dal confronto pesante tra potenze mondiali continua a poter venire interpretato alla luce del testo scritto da Antonella De Biasi ormai quasi un anno fa e ancora completamente consultabile per ritrovare i prodromi di quanto sta avvenendo… e ancora ci si incontra tra compari di Astana, lasciando immaginare accordi particolari in funzione antioccidentale. Così abbiamo interpellato la nostra autrice per fare il punto sulla situazione mediorientale:

Il libro di Antonella De Biasi continua anche a mesi dalla sua uscita a suggerire percorsi interpretativi per i nuovi panorami che si dipanano nella direzione individuata in Astana e i 7 mari. E OGzero continua a porre al centro proprio quegli accordi giunti al settimo appuntamento (oltre ai molti collaterali incontri spartitori); adesso ci sembra che quel sistema di controllo regionale tra Russia, Turchia, Iran si inserisca nello stravolgimento globale innescato dalla sfida all’egemonia americana dell’invasione russa dell’Ucraina, palesemente fuori dal sistema di controllo mondiale e con un occhio al confronto dell’Indopacifico. Proponiamo qui un intervento di Matteo Bressan docente di Relazioni internazionali presso l’Osservatorio per la stabilità e sicurezza del Mediterraneo allargato della Lumsa, durante il quale sono emersi molteplici spunti che si trovavano in nuce nel libro ma che ora  trovano nuovi inquietanti risvolti collegabili al processo inaugurato ad Astana tra Mosca, Teheran e Ankara. Questa la registrazione:

Confrontandoci tra complici di “OGzero” sulla complessa situazione ucraina, che è (sì!) una delle decine di guerre in corso nel mondo, ma è anche la parte per il tutto del confronto globale ereditato dalla transizione attraverso il multilateralismo verso un Nuovo ordine mondiale, destinato a venire spostato verso l’Indo-pacifico, abbiamo tratto dall’ultima puntata di Transatlantica24 spunti offerti da Eric Salerno e Sabrina Moles, che ci hanno rievocato le intuizioni messe in gioco in Astana e i 7 mari di Antonella De Biasi. Così “OGzero” nel momento dell’annuncio di un tavolo di pace imbandito a Istanbul comincia a credere che lo spirito di Astana non è sfumato del tutto e su questo dubbio ha cercato di ricostruire i cocci prodotti dall’esplosione del multilateralismo nei rapporti tra stati, dallo scardinamento di alleanze esili, dalla individuazione del momento in cui il Cremlino ha pensato che fosse più opportuno far saltare gli equilibri. Un istante che Antonella nel suo scritto, steso a ottobre, preconizzava individuando nella ignominiosa ritirata americana dall’Afghanistan il segnale della debolezza per cui era possibile azzardare il morso del serpente.

Salvo poi accorgerci che ciascuno ha tratto vantaggio o imponendo spese militari, o annettendosi nuovi territori rivieraschi, o soffiando su un nazionalismo sovranista, cancellando piani ecologisti e ridistribuendo energia con un maggior profitto per i produttori. Distribuito sciovinismo e testosterone in tutti i paesi del primo mondo.

Perciò a partire dalla chiosa del libro, proviamo con questo editoriale a mettere in fila gli eventi delle ultime settimane sulla scorta di quello che il volume di Antonella De Biasi aveva già individuati come potenziali snodi critici; andremo a trovare nel libro verifiche delle analisi prodotte a posteriori dagli equilibri scaturiti dalla “spezial operazy” di Putin, così da inserirla nell’annoso flusso geopolitico senza gli isterismi cavalcati dal profitto guerrafondaio. Infatti il volume si chiude con una frase emblematica: «Il gioco di Astana, seppur precario, in fondo è anche un gioco delle parti» e le dichiarazioni e le mosse diplomatiche di fine marzo seguono il canovaccio.

Continua a leggere qui

Sulla base del testo di Antonella De Biasi il 21 gennaio 2021 si è assistito a un webinar condotto da Vittoria Valentini con Matteo Bressan docente di Relazioni internazionali presso l’Osservatorio per la stabilità e sicurezza del Mediterraneo allargato della Lumsa, durante il quale sono emersi molteplici spunti evinti da Astana e i 7 mari, evidenziando come sia un testo valido per sviluppare ulteriori analisi degli Accordi tra Mosca, Teheran e Ankara. Questa la registrazione:

“Osservatorio mediterraneo su Astana e i 7 mari”.

Introduciamo alcune considerazioni fatte con Stefano Capello in questa fase di riepilogo dei materiali affastellati nello Studium durato alcuni mesi. Alterniamo in questa sezione le parole di Stefano Capello con le suggestioni tra parentesi dei potenziali sviluppi dell’aspetto portato in evidenza che ci sorgono come insieme di ipotesi e perplessità, che potranno essere fugate dall’analisi più approfondita che intendiamo realizzare.

Considerazioni finali

di Stefano Capello

L’accordo di Astana tra Turchia, Iran e Russia sembra messo in grave difficoltà dai recenti avvenimenti del Caucaso, dai cambiamenti di peso delle potenze locali con l’inizio dell’Amministrazione Biden e dalla nuova strategia Blinken. In realtà si tratta di un patto che non poteva che produrre un equilibrio dinamico di competizione tra i tre attori.

Elementi pregressi con potenziali sviluppi

Per capire il patto di Astana bisogna tenere conto dell’evoluzione del sistema geopolitico del Grande Medio Oriente.

  • In primo luogo il ridimensionamento definitivo della Russia da superpotenza mondiale a superpotenza regionale. La Russia ha ormai una proiezione di potenza che è concentrata sull’estero vicino e non è più considerabile un rivale globale degli Stati Uniti. Le sue rivalità si calibrano sui rapporti con le altre grandi potenze regionali con le quali condivide gli spazi di influenza e di interesse immediato. Resta ovviamente l’esistenza di un grande arsenale nucleare che in questo momento risulta più un peso economico che non un effettivo strumento di proiezione di potenza.

[Per l’ambito relativo ad Astana questo vale se lo consideriamo rivolto verso i paesi occidentali e il bacino del Mediterraneo; ci sorge il dubbio che sul Pacifico e nei confronti delle altre grandi potenze asiatiche (Cina e India) si possano immaginare alleanze in grado di consegnare alla Russia un ruolo come potenza di riferimento? Perché non sarebbe prevedibile una sorta di Accordo di Astana con la Cina, visto che è rimasta fuori dalle alleanze militari anticinesi (ma anche dal Rcep)?]

  • La Turchia è una potenza Nato in via di autonomizzazione nelle dinamiche regionali. in questo senso persegue una sua politica di potenza che deve sicuramente tener conto delle necessità e delle pressioni della superpotenza americana con la quale però i rapporti sono definibili come di partenariato conflittuale a livello del grande Medio Oriente. Ankara comunque persegue una sua autonoma proiezione di potenza sui territori “ottomani”. Da un lato prosegue il conflitto con la Grecia sia per l’Egeo che per Cipro mirando al controllo del Mediterraneo orientale e in questo senso deve essere letta anche la riapertura della conflittualità con Israele ed Egitto (per quanto con entrambi siano in corso negoziati per la spartizione delle risorse del Mediterraneo orientale); dall’altra persegue un ritorno alle posizioni del vecchio impero tanto nel vicino Medio Oriente (proiezione militare in Siria e Iraq, quanto diplomatica verso il Libano e il Qatar); alcuni segnalano una forte presenza nei Balcani anche, con una presa in particolare ovviamente sui territori maggiormente abitati da musulmani come Albania, Kosovo, Macedonia, bosgnacchi e in modo molto diverso gli accordi amichevoli con lo stato bulgaro. La presenza poi in Libia non deve essere vista solo come una vestigia dell’impero ottomano prima del 1911, ma piuttosto come un aspetto del conflitto con l’Egitto e allo stesso tempo una sfida aperta alla Francia e alla sua volontà di egemonia sul Mediterraneo occidentale, iniziato con l’attacco a Gheddafi e che per Bagnoli è il motivo che ha spinto Putin a intervenire in Siria, per paura che gli occidentali potessero occupare il Mediterraneo orientale; il conflitto nel Caucaso va visto nel suo aspetto di aumento dell’egemonia in un’area cruciale per il transito energetico e, per la longue durée, come il riproporsi di un’area di frizione tra i tre imperi dell’area, quello ottomano, quello russo e quello persiano.

[Si direbbe che la Turchia stia rimodulando le alleanze e cerchi di rientrare nell’alveo della Nato, guardando all’Egitto come possibile partner economico e svolgendo il ruolo di player diplomatico per conto di Blinken; un riposizionamento che non può che consolidare le posizioni di Ankara nell’Asia centrale e nei Balcani, facendo collidere maggiormente gli interessi in aree dove il contrasto con Putin è maggiore?]

  • Infine l’Iran fin dalla rivoluzione islamica si è posto il problema di porsi come potenza regionale autonoma in conflitto con la superpotenza americana ma non solo; il conflitto con i sauditi e le altre monarchie del golfo è un conflitto da questo punto di vista non essenziale per l’Iran dal momento che lo spazio di profondità strategica dell’Iran non è la penisola arabica o il Golfo persico ma è il vicino Oriente nella parte relativa agli attuali Iraq e Siria, cioè gli stati che si frappongono tra l’Iran stesso e il Mediterraneo. Da questo punto di vista il conflitto strategico è proprio quello con la Turchia che ha interesse sulle stesse aree. In fondo si tratta di ritornare al progetto millenario dell’impero persiano che è quello di egemonizzare il vicino Oriente allo scopo di porsi come paese intermediario dell’asse del commercio europ-asiatico, cioè l’80 per cento del commercio mondiale.

[Quindi i cardini su cui Tehran e Ankara possono ancora trovare delle intese o un patto di non belligeranza a cosa si ridurrebbero? Il contenimento dei curdi, che abitano parte del territorio di entrambi; dei comuni nemici sauditi – a questo punto  anche per conto degli americani da parte turca; il contrasto degli interessi israeliani?]

Situazione sviluppatasi durante il patto a tre

  • Progressivo disinvestimento americano dall’area del “Grande Medio Oriente”. Per gli Stati Uniti il Medio Oriente conta meno di una volta. in fondo l’ultimo tentativo di controllo diretto dell’area è stato il progetto “Grande Medio Oriente” di Bush con la catastrofica invasione dell’Iraq del 2003. Da questo punto di vista l’amministrazione Obama ha segnato un effettivo cambio di strategia americana sull’area. Il progetto di indipendenza energetica perseguito soprattutto attraverso la pratica del fracking hanno reso gli Stati Uniti sempre meno dipendenti dal petrolio arabo; questo ha cambiato parecchio la situazione degli interessi degli Stati Uniti nell’area. D’altra parte tanto l’amministrazione Obama, quanto l’amministrazione Biden sono perfettamente coscienti che lo scontro vero e proprio si giocherà con la Cina e questo rende i teatri fondamentali della guerra l’Europa (da schierare contro la Cina) e l’Indopacifico (dove gli Stati Uniti hanno fatto passi da gigante per costruire un’alleanza navale anticinese). In questo quadro il Medio Oriente per gli americani diventa un teatro da stabilizzare secondo i principi classici delle potenze di mare: evitare sempre che ci sia un paese in una determinata area che assuma un ruolo egemonico. Da questo punto di vista per gli Stati Uniti la stabilizzazione del Medio Oriente passa attraverso un equilibrio di potenza tra i maggiori attori regionali: Israele, Turchia, Arabia Saudita, Iran ed Egitto.
    Resta ovviamente la relazione privilegiata con Israele che però viene sempre più forzatamente integrato all’interno di una alleanza regionale che vede come protagonisti anche l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti (il cosiddetto “Patto di Abramo”).

[L’Iran e la Turchia in questo quadro sono due potenze regionali che vanno ridimensionate o semplicemente si cerca di attribuire loro un ruolo mediorientale utile per il minore coinvolgimento diretto degli Usa? È escluso un conflitto diretto che da un lato mischierebbe gli Stati Uniti in una guerra che rischia di essere simile a quella di Bush, dall’altra rischierebbe di squilibrare troppo il rapporto di potere a favore degli altri attori regionali, piuttosto è possibile che nei piani americani si stiano prendendo le misure per ridurre il potenziale di scontro con il mondo sciita filoiraniano da un lato e si intenda far svolgere il ruolo di gendarme pacificatore alla Turchia per quel che riguarda l’area compresa in quelli che erano i confini ottomani?]

  • La Russia in tutto ciò si comporta come una potenza regionale che tesse accordi con le altre potenze regionali tutte comunque allo stesso tempo alleate e concorrenti. Una strategia estesa un po’ in ogni quadro dello scacchiere (anche in Africa, per esempio in Mali o in Sudan), dove Putin invia milizie, o fa accordi con tutti i protagonisti anche in contrasto tra loro (palese tattica messa in atto in Nagorno) L’accordo con l’Iran è storico ed è soprattutto in funzione antiamericana, l’Iran però è anche storicamente nemico di Turchia e Arabia Saudita con le quali i russi hanno continuato a svolgere accordi nel corso di questi anni. Sicuramente è stato fondamentale nell’alleanza tra Russia e Iran il rapporto sul territorio siriano a difesa del governo di Assad ma non è l’unico punto; in larga parte il contrasto all’espansionismo turco nel Caucaso ha unito le due potenze. Più in generale però la Russia sembra interessata più che a costruire un’alleanza di ferro con l’Iran a costruire una seria di rapporti a geometria variabile nell’area con tutti gli attori presenti. Rapporti che sono a seconda dei momenti di tensione anche militare o di collaborazione.

[Più in generale l’interesse della Russia è fondamentalmente quello di mantenere il controllo sull’estero vicino, in questo caso il Caucaso e non perdere il piede a terra nel Mediterraneo. fondamentali diventano le alleanze in questo quadro che permettono la stabilizzazione delle basi siriane ma anche l’appoggio alla fazione cirenaica nella guerra in Libia; in Siria il nemico erano quindi la Turchia e le monarchie del Golfo che in forme diverse appoggiavano le fazioni anti-Assad nel paese. In Libia invece le stesse monarchie che attraverso l’Egitto, appoggiano i cirenaici sono gli alleati del momento mentre la Turchia rimane il nemico. Potrà essere questo rivolgimento il motivo che farà saltare il periodo di Accordi di Astana?]

Quadro finale dopo il Nagorno-Karabakh

In questo quadro però le alleanze, come dimostrato dalla situazione in Siria e Libia non sono finalizzate a ricercare una soluzione definitiva quanto a cercare un equilibrio che permetta ai russi di mantenere le loro posizioni.

  • In generale da questo punto di vista l’accordo di Astana sembra più un tentativo di trovare un punto di accordo che delimiti delle sfere di interesse piuttosto che una vera e propria partnership globale nell’ambito regionale.
  • Nello specifico della guerra per il Nagorno-Karabakh in realtà l’accordo di Astana è stato sostanzialmente mantenuto. L’Armenia è stata decisamente ridimensionata senza che l’Azerbaijan potesse arrivare a una vittoria totale sul campo; la Turchia ha aumentato il suo peso specifico sul campo tramite l’alleanza con Baku; le truppe di interposizione sono russe e sia l’Armenia che l’Azerbaijan devono fare i conti con Mosca rispetto alle loro politiche interne; il presidente armeno è stato pesantemente colpito nel suo tentativo di avvicinarsi all’Occidente; l’Iran ha potuto evitare di schierarsi con uno dei due contendenti dal momento che si trova nella scomoda posizione di alleato dell’Armenia mentre il 21 per cento della sua popolazione è di origine azera.

Il mare di Astana: il Mediterraneo

Ultima tappa della normalizzazione del “dopo-Trump” per il Vecchio Mondo

Dopo i segnali lanciati dai sauditi come tentativo di composizione delle dispute scatenate il 5 giugno 2017 contro l’emirato del Qatar, reo di non adeguarsi alle sanzioni antiraniane e sottoposto a sua volta a un embargo durissimo, che solo l’aiuto turco ha evitato la capitolazione e la chiusura persino della emittente “Al-Jazeera”, nel dicembre 2020 si assiste a manovre volte a reintegrare a tutti gli effetti il Qatar. L’aiuto turco era giunto in cambio dell’appoggio ricevuto da Erdogan nel momento del golpe fallito, ma soprattutto sanciva l’alleanza che da quel momento in particolare ha consentito a Turchia e Qatar di espandere controllo su territori, intensificare le relazioni militari tra loro e colonizzare mercati; ma soprattutto la Turchia ha potuto avvalersi delle enormi disponibilità di denaro dell’emiro, in cambio della svendita e del controllo di infrastrutture, impianti, industrie, interi pezzi di territorio turco. Forse con il cambio alla presidenza americana MbS ha intensificato gli sforzi per ricollocare il Qatar nell’ambito delle monarchie arabe della Penisola, in funzione antiraniana; in questo contesto rimane soltanto l’Egitto di al-Sisi restio ad accettare di riaccogliere il Qatar nel consesso arabo-sunnita. In particolare è il Kuwait a intensificare gli sforzi per una mediazione tra il “Quartetto” e la “Corrente di Doha”, coadiuvato dal dinamico genero di Trump, che ha già sponsorizzato gli Abraham Accords tra Israele e due dei componenti del “Quartetto” (Emirati e Barhein): Kushner si è infatti recato a Riad e a Doha il 2 dicembre per verificare le potenzialità di un accordo e mantenere un po’ di prestigio e potere al regno wahhabita durante il New Deal di Biden?

Il punto dopo gli attentati antiraniani e gli accordi sul Nagorno-Karabach

Gli sviluppi della concertazione tra i protagonisti di Astana – ovvero le potenze localmente più attive nel controllo del Mediterraneo orientale e delle sue sponde meridionali; del Medio Oriente, in particolare la Mesopotamia; del Caucaso e dei paesi dell’Asia centrale – dopo il cessate il fuoco in Nagorno Karabach e gli omicidi mirati antiraniani passati quasi sotto silenzio da parte di Russia e Turchia ci hanno convinto che il quadro risulta sufficientemente chiaro da poter cominciare a tirare le somme.

Un trappolone ordito a Neom ai danni degli iraniani, già sotto sanzioni in tempo di Covid

Quello che getta una luce sinistra sugli accordi di Astana dopo un 2020 che si apre con il drone che centra l’auto di Qasem Soleimani, capo delle Guardie della Rivoluzione e si chiude con un altro drone che inquadra la vettura di Muslim Shahdan, capo dei pasdaran fa pensare che stiano venendo meno uno dei presupposti per cui la repubblica islamica aveva aderito agli incontri di Astana: poter contare su appoggi e sull’alleanza in particolare con la Turchia, con cui condivide anche le medesime “soluzioni” del  comune problema curdo. Di fronte all’attacco provocatorio del Mossad si trova a dover risolvere pulsioni vendicative che sarebbero controproducenti e Realpolitik che suggerirebbe cautela. Questa l’analisi di quali potenziali percorsi stretti rimangono per rieditare gli accordi obamiani affidata a Michele Giorgio in un intervento su Radio Blackout del 3 dicembre a commento della eliminazione di Mohsen Fakrizadeh, capo del progetto della agenzia nucleare iraniana.

Ascolta “Eliminazioni nucleari per avvelenare i pozzi nel Golfo” su Spreaker.

Di conseguenza ci si può chiedere quali strategie siano state innescate a Neom tra Netanyahu, Mbs e Pompeo e se ci si deve attendere reazioni iraniane prima che subentri l’amministrazione Biden (e questo potrebbe rendere inutile l’alleanza di Astana?), oppure si registreranno escalation apertamente belliche che Trump potrebbe lasciare in eredità insieme a Netanyahu, a ridosso di nuove elezioni a Tel Aviv e con i guai giudiziari ad attenderlo? Le ripercussioni coinvolgerebbero l’intero Golfo persico, con le prevedibili ritorsioni sugli Emirati per un eventuale attacco israelo-statunitense sul suolo persiano. Anche su questo abbiamo chiesto il parere di Michele Giorgio.

Ascolta “Mossad in azione antiraniana o in estensione degli Abraham Accords?” su Spreaker.

Un trappolone ordito ai danni degli armeni, i russi distribuiscono le spoglie

Nel caso del recente conflitto tra armeni e azeri la raffinata tattica russa ha fatto in modo di immaginare una soluzione che accontentasse tutte le nazioni in gioco senza nemmeno guastare i rapporti con l’unico attore in commedia che ha subito una umiliante sconfitta (confidando erroneamente in un maggiore appoggio da parte russa): gli armeni, puniti per la loro rivoluzione di velluto che stava portandoli pericolosamente a flirtare con quelle democrazie occidentali (Gruppo di Minsk), uscite dal conflitto senza aver ottenuto nemmeno una tregua che durasse più di un paio di ore, durante il conflitto in cui la differenza è stata data dall’uso di tecnologie sofisticate da parte dell’esercito azero (i droni di fabbricazione turca e tecnologia israeliana in particolare). I russi hanno legato a sé ancora di più gli armeni: infatti controlleranno per 5 anni il territorio attraverso il Fsb, compreso il corridoio per unire il Nakhchivan all’Azerbaijan, contestato dall’Iran. Questo il punto di vista di Murat Cinar:

Ascolta “Accordo moscovita pigliatutto” su Spreaker.

Leggermente discorde il parere di Yurii Colombo, che considera un ripiego la soluzione adottata da Putin per il Nagorno, messo alle strette dall’evoluzione della guerra e volendo mantenere un profilo equidistante tra i due contendenti, evitando di intervenire come in Bielorussia, ma finendo con l’inimicarsi la parte che non ha potuto contare sugli armamenti conferiti invece agli azeri da turchi e israeliani, in particolare; secondo Yurii Colombo sarà  facile che anche l’Armenia cerchi nella Nato un protettore più affidabile.

Il mare di Astana: il Mediterraneo

Putin e Aliyev firmano l’accordo per la cessazione dei combattimenti tra armeni e azeri

L’Iran ha scongiurato eccessivi coinvolgimenti sul confine segnato dal fiume Aras con la persistenza dell’enclave armena che limita la pressione sui confini settentrionali dell’Iran; questo può bastare per salvaguardare gli interessi di Tehran? In fondo il piano che aveva presentato Khamenei aveva come primo punto il ritorno ai confini riconosciuti dall’Onu e questo è il fondamento dell’accordo sancito; inoltre l’intervento russo ha impedito una vittoria completa dell’Azerbaijan e ha posto fine alle dimostrazioni della minoranza azera in Iran che chiedevano agli ayatollah di intervenire a fianco di Baku. Infine la fine delle ostilità porterà via i mercenari sunniti scaricati da Erdoğan al confine anche iraniano.

La Turchia ha invece ottenuto l’accesso diretto a Baku via terra e sono state esaudite molte richieste decennali del nazionalismo interno che produrranno consenso, confermando Erdoğan nella strategia volta a potenziare un’economia di guerra, dispendiosa ma che in prospettiva potrebbe fornire risorse dai territori controllati e costruzione di infrastrutture adesso fuori dai confini. Un’ipotesi di cambio nell’impostazione dell’economia bellica turca nelle parole di Murat Cinar che potrebbe preludere a una ulteriore e più difficilmente sanabile frattura tra Mosca e Ankara.

Ascolta “Erdoğanomics di guerra in Nagorno-Karabach” su Spreaker.

I missili S-400: un rilancio – la prosecuzione – dell’Impero ottomano?

Alcune recenti iniziative della Turchia potrebbero dimostrare che Ankara ormai si muove come una superpotenza in grado di trattare da pari a pari con i due colossi (Usa e Russia) oltre che con le altre entità rilevanti (Iran, Arabia Saudita…). Sarebbe quindi fuori luogo cercare di ridimensionarla specificando “potenza a livello regionale”, visto che qui si parla sia di Medio Oriente che di Mediterraneo e Caucaso.
Un passetto alla volta, la Turchia sembrerebbe intenzionata a integrare – anche ufficialmente – il sistema di difesa S-400 nella sua struttura di difesa contraerea e di combattimento, nonostante il gesto di Ankara assuma quasi l’aspetto di uno sgarro nei confronti di Washington, in lampante contraddizione con il ruolo della Turchia, per il momento ancora alleata degli Usa e membro della Nato.
E dove verrebbero collocate definitivamente tali batterie di missili? Una – molto probabilmente – dovrebbe rimanere nei pressi di Ankara. Le altre a sorvegliare mar Egeo e Mediterraneo orientale. Oppure alle frontiere con la Siria e con l’Armenia e in questo caso, agitare la minaccia dell’impiego operativo dei missili S-400 funzionerebbe come merce di scambio (o, se preferite, ricatto). Non mancano peraltro risvolti della vicenda che suonano come ostentazione di indipendenza da Mosca.

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I giochi di Astana sono agli sgoccioli?

Il ritorno di fiamma della guerra in Nagorno-Karabach dimostra con evidenza che i cinque anni di politica di appeasement tra Russia e Turchia stanno volgendo al termine e la partnership rischia di crollare a causa dell’inconciliabilità delle ambizioni geopolitiche (già sintomatiche erano le posizioni prese in relazione alla situazione libica a inizio 2020).

Bisogna capire se il punto di caduta dello scontro nel Nagorno-Karabakh, escludendo la catastrofe di un confronto diretto tra Russia e Turchia, sarà una vittoria completa azera o se, come continuano ad affermare gli esperti di strategia russi, Ilham Aliyev si accontenterà di sedersi al tavolo della trattativa dopo essersi ripreso i corridoi che collegano il Nagorno-Karabakh all’Armenia. In entrambi i casi, Mosca ne uscirà indebolita e dovrà ripensare seriamente ai suoi rapporti con Ankara. A settembre Erdoğan ha annunciato di aver trovato giacimenti di gas nel Mar Nero che dovrebbero garantire entro il 2023 l’autonomia energetica al suo paese. A quel punto allora, i buoni rapporti con Putin, potrebbero per lui essere solo un intralcio.

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Massima pressione americana e corridoio multilaterale eurasiatico

Russia e Turchia sembrano voler affinare ulteriori strategie bilaterali, che si aggiungono a quelle orchestrate con gli ayatollah.

Per il terzo protagonista l’interesse essenziale degli accordi tripartiti è l’uscita dall’isolamento e la realizzazione di rapporti e scambi che aggirino le sanzioni. L’Iran è apparentemente più defilato ma è il tassello centrale del mosaico di corridoi commerciali e infrastrutturali, sbocchi sull’oceano Indiano e passaggi di pipeline; non si limita a rinnovare gli accordi ventennali in scadenza con la Russia, o a rinsaldare la partnership con la Turchia in un quadro complesso dato da divisioni di ogni tipo, ma sulla base mesopotamica degli accordi di Astana, nati sul pretesto di dare una soluzione al conflitto siriano, fonda il mantenimento del ruolo regionale e salvaguarda la multilateralità alla base della geopolitica eurasiatica… magari guardando anche ad accordi con la Cina già in atto.

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Da zar a raiss: la strategia putiniana in Medio Oriente e nel Mediterraneo

La “guerra ibrida” non è quella creata dai russi ma – nel pensiero putiniano – è quella che l’Occidente ha creato con l’uccisione di Gheddafi,  tramite la propaganda sui media – in un continuo ribaltamento di ruoli tra chi ne è il fautore – sia per l’occupazione della Crimea sia per l’interventismo sull’altra sponda del Mediterraneo.

Da questo deriva la strategia putiniana messa in atto con le potenze regionali per seguire i suoi interessi economici: appoggiare al-Assad in Siria mentre Erdoǧan dà il suo sostegno ad al-Sarraj in Libia, spartendosi territorio su cui far correre infrastrutture (pipeline), trafficare in armi e risorse energetiche.

Da zar a rais. La tentazione di esagerare, quando si affronta il tema della politica mediorientale di Vladimir Putin, è forte. Il perché è ovvio. L’operazione militare in Siria è stata (quasi) un successo, la gestione degli equilibri di forza sul campo con Iran e Turchia un capolavoro di tattica, l’offensiva diplomatica nell’area il tratto del maestro. Se si aggiunge la volontà di disimpegno americana dall’Oriente Medio, ecco spiegato perché oggi si parla di Vladimir d’Arabia: nella mente di Putin è Tripoli, e non Damasco, il vero obiettivo per vincere la ‘regata’ nel Mediterraneo. In quella parte di mondo però il successo non è mai stabile, bensì mobile come le dune dei suoi deserti: nel 1941 l’offensiva coloniale italiana contro la colonia egiziana della Gran Bretagna cominciò l’inizio della fine del nazifascismo, ma avrebbe dovuto saldarsi con le truppe lanciate alla conquista dell’Unione Sovietica per controllare gran parte delle risorse energetiche dell’area, quell’Urss che già nel 1946 richiese l’amministrazione controllata della Tripolitania e dell’Eritrea. Evidentemente già strategiche per la Russia di allora.

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L’idillio turco-russo messo alla prova da Libia e Siria

Sin dall’inizio della guerra in Siria, la posizione di Ankara è stata sempre a favore della caduta del regime Ba’th. Nel frattempo le relazioni tra Turchia e Russia, nonostante alcuni periodi difficili, si sono allacciate sempre più. Questo crea stupore dato che in Siria, dal 2014, Putin è apertamente schierato in forze accanto al presidente Assad per salvarlo e sembra che l’appoggio di Mosca abbia cambiato le sorti della guerra a favore di Damasco.

Le cose sono diventate ancora più complicate con l’intervento della Turchia nella guerra libica. Nel 2019, Ankara ha deciso di sostenere economicamente, militarmente e politicamente Fayez al-Sarraj, presidente riconosciuto dall’Onu, contro il generale Haftar, uomo appoggiato da Mosca che vorrebbe ottenere il controllo assoluto del paese. Dunque anche in Libia queste due forze si trovano a portare avanti due strategie diverse con un forte rischio di scontrarsi.

Fuori dai territori libici e siriani la collaborazione turco-russa vive un idillio senza precedenti. La domanda che sorge è semplice: “Com’è possibile un quadro del genere?”. Le risposte sono molteplici e non del tutto definitive. Scelte economiche, strategie di alleanza per mantenere il potere e nascondere la corruzione.

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