risorse Archivi - OGzero https://ogzero.org/tag/risorse/ geopolitica etc Sun, 19 Jun 2022 00:04:47 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.4.6 I fiori avvelenati di Atacama https://ogzero.org/i-fiori-avvelenati-di-atacama/ Tue, 14 Jun 2022 15:05:41 +0000 https://ogzero.org/?p=7915 Riprendiamo il fotoreportage realizzato da Alice Pistolesi per l’“Atlante dei conflitti e delle guerre”, in cui viene mostrato lo sfruttamento delle risorse minerarie in Cile a scapito delle popolazioni native e con ripercussioni sull’ambiente in un paese già provato dal cambiamento climatico. Quanto è davvero “green” la produzione di ciò che è utile al mondo […]

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Riprendiamo il fotoreportage realizzato da Alice Pistolesi per l’“Atlante dei conflitti e delle guerre”, in cui viene mostrato lo sfruttamento delle risorse minerarie in Cile a scapito delle popolazioni native e con ripercussioni sull’ambiente in un paese già provato dal cambiamento climatico. Quanto è davvero “green” la produzione di ciò che è utile al mondo per la sua svolta verde? Le foto sono state scattate in Cile nel dicembre 2018 e la mostra è stata presentata a Villa Lascaris a Pianezza il 12 giugno 2022.


L’antica lotta tra lavoro e ambiente, tra interessi economici e tutela del territorio ha in Cile e nelle sue miniere uno dei più significativi campi di battaglia. Il Cile è un paese minerario, ricco di risorse dal deserto di Atacama alla Patagonia. Il Nord è pieno di giacimenti di rame, ferro, molibdeno, piombo, zinco, oro, argento e litio. Moltissimo carbone si trova poi nella macro regione Meridionale. Il Cile è il primo produttore mondiale di rame e di litio, il terzo di molibdeno, il quinto di argento, il diciottesimo di oro. L’attività legata all’estrazione di minerali e alla loro esportazione rappresenta circa un terzo del Pil.

Dietro l’imponente attività estrattiva del paese non può che nascondersi il pericolo ambientale: su un totale di 205 conflitti ambientali mappati dall’Osservatorio dei conflitti minerari in America Latina, almeno 35 interessano il Cile.

Lo stato è uno più vulnerabili al climate change: possiede, nonostante produca solo lo 0,25% delle emissioni globali di gas serra, sette dei nove fattori di rischio stabiliti dalla Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici. Nel paese il settore industriale e minerario è responsabile del 77,4% delle emissioni di gas serra.

Questa mostra ci porta al Nord del Cile, nei suoi paesaggi e nelle sue contraddizioni. Si parte dalla celebre Chuquiquamata, la più grande miniera a cielo aperto del mondo e, attraverso il villaggio costruito all’interno del comparto minerario e abbandonato nel 2009, si approda nel deserto di Atacama, dove si trova tra il 27% e il 30% delle riserve mondiali di litio. Un elemento essenziale per le batterie di laptop, telefoni cellulari e auto elettriche, considerato uno dei simboli dell’economia verde. Difficile però stabilire se sia davvero green o se le sue conseguenze siano semplicemente ignorate.

Scenari che ci parlano, oltre che di ambiente e lavoro, anche di progresso e transizione ecologica, di quanto si continui a pretendere dalla Terra per inseguire uno sviluppo sempre meno sostenibile.

Chuquiquamata è la più grande miniera a cielo aperto del mondo e opera dal 1910. Gli scarti della miniera hanno prodotto un conflitto ambientale a Quillagua, un’oasi nel bacino del fiume Loa, nel Comune di María Elena a nordovest di Calama. Lì vivevano tra le 2000 e le 3000 persone, sfollate verso la città di Calama a causa della contaminazione delle acque del fiume con sostanze chimiche come xantate e isopropanolo, detergenti e metalli pesanti, tutti elementi utilizzati nei processi di estrazione del rame. L’inquinamento delle acque del Loa ha causato la graduale morte di colture e bovini. Dal 2020 si è iniziato a lavorare in sotterranea. Questo ha comportato molti cambiamenti, tra cui la notevole diminuzione dei lavoratori.

Nel complesso della miniera di Chuquiquamata fino al 2009 hanno abitato oltre 15.000 lavoratori con le rispettive famiglie. Oggi è un villaggio fantasma visitato ogni anno da migliaia di turisti grazie alle visite guidate effettuate dalla stessa azienda che gestisce la miniera, la Codelco.
I minatori che abitavano il villaggio vivono ora a Calama, a 9 chilometri da Chuquiquamata. La città ha un alto livello di contaminazione ed è una delle più inquinate del paese. La principale causa di morte è il cancro e si contano più di 2.000 casi di malattie respiratorie ogni inverno.

Il territorio che circonda il vecchio villaggio minerario e la strada che collega la città di Calama a Chuquiquamata è cosparso da “torte”, montagnole di terreno scavato e di scarto minerario. Quantificare chi si ammalerà a causa dell’arsenico respirato in anni di lavoro, ma anche di vita dentro il villaggio, non è a oggi possibile.

Il Salar de Atacama è uno dei più grandi del continente dopo il Salar de Uyuni (Bolivia). Si trova nel comune di San Pedro de Atacama, la più grande destinazione turistica del Cile. Qui si trova tra il 27% e il 30% delle riserve mondiali di litio; l’80% si trova in America Latina, nel cosiddetto ‘triangolo del litio’, ovvero la regione al confine tra Cile, Argentina e Bolivia. In questi tre Stati il minerale si trova nei deserti salati: qui il litio è presente nell’acqua dei laghi salati sotterranei che viene portata in superficie e fatta evaporare in grandi vasche. Ad estrarre litio ad Atacama sono principalmente le società Sociedad Química y Minera (SQM) e ALBEMARLE, che costituiscono due dei principali gruppi economici mondiali nell’estrazione della risorsa. In previsione dell’aumento della domanda di litio, la SQM, società privatizzata sotto la dittatura di Pinochet e i cui familiari possiedono ancora oggi parte rilevante delle azioni, promette di triplicare la produzione entro il 2030.

L’estrazione del litio, che risale alla metà degli anni Ottanta, ha nel tempo causato gravi danni agli ecosistemi e alle comunità. Questo secondo l’Osservatorio Plurinazionale di Salares Andinos, un gruppo nato a San Pedro de Atacama e che riunisce rappresentanti di comunità, organizzazioni e ricercatori provenienti da Cile, Argentina e Bolivia, preoccupati per le conseguenze, l’intensificazione e l’espansione dell’estrazione del litio nel triangolo delle saline andine e le altre associazioni ambientaliste. L’osservatorio ha rilevato che con il tempo si è danneggiata la distesa di sale, prosciugando gradualmente le sue zone umide. Queste aree e le oasi del bacino di Atacama hanno anche il compito di regolare la temperatura del deserto e catturare la CO2: sono armi vive contro il cambiamento climatico. Secondo gli studi dell’Università di Antofagasta in Cile, per ogni tonnellata di minerale estratto sono necessari due milioni di litri di acqua.

Nella comunità di San Pedro de Atacama convivono quattro fattori di rischio: presenta aree aride o semi-aride, è incline a disastri naturali, ha aree soggette a siccità e desertificazione e ecosistemi montuosi. Nel territorio le alte temperature e l’estrema aridità (il deserto di Atacama è considerato l’area più arida della terra) si combinano con le violente piogge estive che causano morti, inondazioni, erosione ed enormi perdite economiche. Secondo i ricercatori, per soddisfare il crescente mercato delle auto elettriche, il già sovrasfruttato Salar de Atacama non sarà sufficiente, e sarà necessario sfruttare più falde acquifere e saline in territori indigeni Atacameños o Lickanantay, Colla, Quechua e Aymara, andando ad impattare su altre aree protette.

Nell’area di San Pedro de Atacama vivono 11mila abitanti, di cui la metà sono indigeni, per la maggior parte Atacameños. Il costante intervento di tutte le società minerarie della zona ha generato forti divisioni, conflitti, inganni e resistenze nella convivenza comunitaria. L’estrazione mineraria indiscriminata colpisce direttamente le comunità, che devono affrontare gravi problemi di approvvigionamento idrico per l’agricoltura, la pastorizia (allevamenti di lama in primis) e per il turismo locale. Secondo gli osservatori, gli accordi e le compensazioni che le società minerarie hanno concluso nel territorio hanno causato divisioni e tensioni tra la popolazione. Le aziende hanno sfruttato l’assenza dello Stato per soddisfare numerosi bisogni primari della popolazione locale e sottoscrivere accordi di assistenza in cambio dell’accettazione delle aziende e delle gravi conseguenze socio-ambientali dell’estrazione mineraria nei loro territori.

Fenicotteri nella Laguna Chaxa. Lo squilibrio idrico collegato all’estrazione sta provocando il prosciugamento di fiumi e falde acquifere e sta interessando i laghi e le zone umide ai margini della distesa di sale e nelle montagne, ovvero ecosistemi che ospitano specie endemiche altamente vulnerabili, molte delle quali protette. Nel territorio, secondo gli osservatori, a causa degli effetti dell’estrazione e del riscaldamento globale, stanno scomparendo i fenicotteri e altre specie autoctone del salare.

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Russia-Ucraina: la possibile guerra del dottor Stranamore https://ogzero.org/russia-ucraina-la-possibile-guerra-del-dottor-stranamore/ Sat, 05 Feb 2022 18:46:06 +0000 https://ogzero.org/?p=6152 Come promesso, ecco il secondo intervento di Yurii Colombo sulla situazione ucraina. Si ripercorrono qui gli snodi principali dell’evoluzione della crisi, tra risorse energetiche irrinunciabili, la paura delle potenze internazionali di dispiacere all’alleato americano, le disomogeneità tra la Russia e l’Ucraina, nonché i veri motivi della protesta sociale russa che spesso è stata superficialmente collegata […]

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Come promesso, ecco il secondo intervento di Yurii Colombo sulla situazione ucraina. Si ripercorrono qui gli snodi principali dell’evoluzione della crisi, tra risorse energetiche irrinunciabili, la paura delle potenze internazionali di dispiacere all’alleato americano, le disomogeneità tra la Russia e l’Ucraina, nonché i veri motivi della protesta sociale russa che spesso è stata superficialmente collegata al fascino di leader come Navalny o Zyuganov. Tutti dettagli di un quadro che ancora non è definito e che rischia di sfociare in futuro in un conflitto sebbene questo sia esattamente quello che tutte le parti in gioco vogliono evitare.


La scontro tra Usa e Russia sull’Ucraina non avrà immediate ricadute belliche come avevamo già previsto nel precedente articolo su OGzero. Le forze in campo ai confini non sarebbero mai state sufficienti come rivela in articolo pubblicato molto ben documentato su “Novaya Gazeta” da Valery Shiryaev.

Mostrare i muscoli

Malgrado ciò molti media e social russi hanno continuato a dispensare a piene mani immagini nel web dove si vedono attrezzature militari russe che si spostano su treni dalla Siberia e dall’Estremo Oriente verso ovest sostenendo persino che l’esercito russo potrebbe giungere ad ammassare sul confine ucraino circa 500.000 soldati (ma nessuno smentisce e neppure segnala che il complesso delle forze armate della Federazione è a oggi composto complessivamente da circa 280.000 uomini!).

Che un’incursione russa non sia all’ordine del giorno ne è convinto anche LInstitute for the Study of War, uno dei think tank più aggressivi degli Stati Uniti, sostenuto dalle donazioni dei giganti dell’industria militare, che a dicembre ha pubblicato uno studio sui possibili sviluppi del negoziato. Nel rapporto del 27 gennaio intitolato Putin’s Likely Course of Action in Ukraine: Updated Course of Action Assessment si sostiene una linea di ragionamento che è tutta l’opposto di quella della propaganda dell’establishment americano. In particolare si legge che: «Uno sguardo più ravvicinato su cosa comporterebbe una tale invasione […] e ai rischi e ai costi che Putin dovrebbe correre […] ci porta a prevedere che è improbabile che quest’inverno verrà lanciata un’invasione dell’Ucraina. Potrebbe lanciare un’invasione limitata del Sudest non occupato dell’Ucraina che non sarà all’altezza di un’invasione su vasta scala […]. Un’invasione russa su vasta scala dell’Ucraina sarebbe di gran lunga l’operazione militare più importante, più audace e più rischiosa che Mosca abbia lanciato dall’invasione dell’Afghanistan nel 1979. Sarebbe molto più difficile delle guerre statunitensi contro l’Iraq del 1991 o del 2003. E sarebbe un netto allontanamento dagli approcci su cui Putin ha fatto affidamento dal 2015 (come racconto nel mio libro La spada e lo scudo). Ciò costerebbe alla Russia molti soldi e probabilmente molte migliaia di vittime».

Reticenza e cautela

Si tratta di timori fondati che attraversano anche l’opinione pubblica russa in gran parte poco propensa a “morire per Kiev” e comunque comporterebbe il ritorno a stili di vita autarchici dell’epoca sovietica che inevitabilmente si imporrebbero in seguito alle messe di sanzioni finanziarie già promesse dagli Usa in caso di “escalation”.

L’assetto degli schieramenti nella disputa (fonte Ispi / The Washington Post)

Ma anche per Joe Biden, in questo momento, mantenere la tensione alta sull’Europa orientale risulta difficile.

In primo luogo perché i paesi dell’Unione Europea risultano sempre più reticenti a infilarsi in una guerra “calda” in cui hanno ben poco da guadagnare. Il gioco potrebbe eventualmente valere la candela se una pressione anche militare portasse a un crollo del regime putiniano facendo diventare la Russia terreno di caccia per le multinazionali internazionali, ma allo stato dell’arte la cosa è altamente improbabile. La Germania in particolare attraverso il leader della Cdu tedesca Friedrich Merz ha segnalato forte preoccupazione in caso di fuoriuscita della Russia dal sistema Swift: «Se disconnettiamo la Russia da Swift, c’è un grande pericolo che il sistema crolli e potremmo dover passare al sistema di pagamento cinese. Ci faremmo un grande torto», ha sostenuto alla fine di gennaio. Si tratta di preoccupazioni condivise anche al cancellierato.

La Cina da parte sua sta nicchiando come al solito, ma all’Onu non ha fatto mancare il suo sostegno al Cremlino.

Nella notte del 1° febbraio il Consiglio di Sicurezza si è riunito a New York per discutere di Ucraina su proposta degli Stati Uniti. Gli americani avevano bisogno di 9 voti su 15 dei membri permanenti e provvisori del Consiglio di Sicurezza, escluse le astensioni, per mettere il tema in agenda. Ci sono riusciti per il rotto della cuffia ma hanno dovuto incassare il netto no di Pechino e una più cauta astensione di Delhi, un’astensione che però nella circostanza era un sostanziale voto contrario.

L’India insiste per la soluzione negoziata, preoccupata anche per la sua importante comunità di studenti presente oggi a Kiev e dal suo ruolo di bilancia in Asia che l’ha portata ad acquistare ingenti forniture militari russe.

Ancora più netta è l’ultraconservatrice Ungheria di Orban, la quale spacca il fronte di Visegrád per schierarsi «nettamente contro ogni intervento Nato».

Orbán giunto a Mosca all’inizio di febbraio ha lasciato stupefatti quando ha avanzato la sfrontata proposta: datemi più gas a prezzi stracciati che ci penserò io a venderlo… all’Ucraina! Nello stesso giorno l’Ungheria iniziava a fornire gas russo all’Ucraina approfittando del fatto di poterlo ottenere grazie a un contratto stipulato fino al 2036 a prezzi 5 volte inferiori a quelli del mercato attuale.

Non c’è alternativa al gas russo

Tutto ciò mette a nudo una prosaica realtà che quasi nessuno in Europa vuol guardare in faccia pur di non dispiacere all’alleato americano: al netto delle prospettive fumose della green economy planetaria non ci sono a oggi alternative al gas russo neppure per l’Ucraina. Per ora Zelensky ha sostituito le forniture di idrocarburi russi con armi americane (l’ultima fornitura di fine gennaio è per un miliardo di dollari), ma com’è noto queste ultime rappresentano solo una zavorra per il bilancio, se non vengono utilizzate in un conflitto. Anche perché presto il contribuente europeo potrebbe essere messo al corrente di un’amara realtà:

che il riarmo ucraino viene pagato da Bruxelles con la nuova tranche di prestiti all’Ucraina per un miliardo e mezzo di euro appena fornita, proprio mentre gli Usa vendevano armi a Zelensky.

La triangolazione Mosca-Budapest-Kiev non può non avere ricadute politiche su più vasta scala. L’escalation con Putin a questo punto diverrebbe una sola esigenza americana per tenere insieme un’Europa sempre più sfrangiata nell’atteggiamento da tenere con la Russia. Da questo punto di vista c’è da ritenere che la guerra militare e non solo diplomatica e commerciale in Europa – in prospettiva – non sia solo un’ipotesi di scuola.

Come se l’Ucraina fosse un membro della Nato

Per la prima volta nella storia della Nato, lo scorso 11 dicembre un aereo da ricognizione strategica statunitense Boeing RC-135 partito dalla base aerea britannica Mildenhall ha effettuato un profondo raid lungo i confini della Federazione Russa. Ha raccolto informazioni sulla configurazione del sistema di difesa aerea e sulla struttura della difesa russa, volando lungo il confine della Bielorussia: Kharkov, Dnepropetrovsk, regioni di Zaporozhye e finendo in Crimea. In questo caso, l’esercito americano ha agito esattamente come se l’Ucraina fosse un membro a pieno titolo della Nato. Un approccio che coinvolge appieno la Nato visto che i droni da ricognizione RQ-4 Global Hawk, che regolarmente volano sul Donbass partono dalla base aerea di Sigonella. Da parte sua la Csto, il Patto di Varsavia versione XXI secolo, dopo il blitz in Kazakhstan, svolge un’esercitazione operativa congiunta non programmata delle forze armate di Bielorussia e Russia denominata “Allied Resolve-2022”. Le prime unità (non più di 15.000 uomini in totale, 12 caccia e 2 battaglioni S-400) sono già arrivate in zona. War games, si dirà, ma che si collocano in una crisi, quella Ucraina, che non trovando soluzione si è incancrenita sempre di più.

 

Manifestazione contro la guerra a Kiev

La visione russa

La radice dei problemi delle relazioni tra Ucraina e Russia affonda nelle relazioni tra i due paesi slavi sin dalle origini, sin dalla formazione della Rus’ nel X secolo. Il comune ceppo e l’appartenenza a una comune area territoriale è stato segnalato non a caso da Vladimir Putin in un lungo articolo (qui nella sua versione inglese) che giustamente è stato definito “strategico”, in quanto il leader osserva le relazioni tra i due popoli non nella contingenza ma in prospettiva.

Tuttavia il lungo excursus storico che passa attraverso la vicenda della dominazione mongola fino ai giorni nostri, appare rozzo, russocentrico, incapace di relazionarsi con una identità nazionale ormai pienamente formata.

In particolare, pesa nella ricostruzione del presidente russo, soprattutto il mancato riconoscimento del ruolo nefasto giocato dallo stalinismo in epoca sovietica per quanto riguarda il vero e proprio genocidio (Holomodor) nei confronti della popolazione contadina negli anni Trenta durante la collettivizzazione forzata delle terre imposta dal potere sovietico e con le repressioni dei tatari di Crimea. Tuttavia il comune ceppo slavo e la lunga coabitazione per settant’anni aveva reso fortemente integrate le due repubbliche: dal punto di vista economico ma anche sociale con la formazione di un gran numero di famiglie “miste” dentro un paese che conservava forti tratti di disomogeneità. Basti pensare alle differenze culturali e etniche tra gli ex cittadini polacchi o rumeni integrati nell’Urss dopo il “Patto Molotov-Ribbentrop” e gli abitanti delle zone del Donbass, definite da sempre “Piccola, Nuova Russia” (Malaja, Novaja Rossija). L’indipendenza ucraina, giunta alla fine del 1991 ebbe da questo punto di vista conseguenze nefaste: lungo 30 anni l’economia ucraina non si è più ripresa forgiando un’oligarchia parassitaria tanto quella russa ma senza il vantaggio di poter esportare le materie prime.

La visione ucraina

Da questo punto di vista l’Ucraina fino al grande crack del 2014 con l’insurrezione reazionaria della Maidan, la guerra nel Donbass e l’annessione della Crimea hanno sempre oscillato tra attrazione verso la UE e fattivo legame economico e sociale con la Russia (per una ricostruzione dettagliata della storia ucraina dal 1991 a oggi si veda il mio libro su questa tema Svoboda).

La necessità da parte della nuova nomenklatura antirussa emersa dopo il 2014 esigeva che si creasse una narrazione storica lontana dagli stilemi sovietici che per una serie di motivi si è andata ad agglutinare nelle ideologie del nazionalismo indipendentista di Stepan Bandera, collaborazionista del nazismo durante la Seconda guerra mondiale ma spacciato come “terzocampista” equidistante tra Urss e nazismo. Ciò permetteva, tra l’altro, di usare come volontari militari e guardie nazionali, quei militanti neofascisti formatisi con quelle ideologie negli anni Duemila. Come si può cogliere, si tratta di un intricato groviglio storico-economico-politico difficile da districare, una bomba pronta a riesplodere in ogni momento.

Addestramento ucraino nelle foreste di Kharkiv (fonte Euronews).

L’Ucraina colonia delle potenze occidentali

Anche perché la situazione interna dei due paesi resta difficile. Contraddizioni sociali interne nei due paesi, alimentano spinte nazionaliste e belliciste come arma di distrazione di massa. L’Ucraina dal punto di vista socio-economico continua a essere il fanalino di coda europeo. Il suo Prodotto interno lordo è ripartito negli ultimi anni ma sta raggiungendo solo ora la parità in termini assoluti (e tenendo conto delle amputazioni della Crimea e del Donbass). Con 130 miliardi di dollari di debiti soprattutto nei confronti del Fondo monetario internazionale, gli Usa e la UE (che rappresentano circa l’81% del Pil nazionale annuo secondo i dati della Banca Mondiale) l’Ucraina si è trasformata in una vera e propria colonia delle potenze occidentali dimostrandosi solerte nel pagare le rate trimestrali ai suoi creditori ma schiacciando sempre di più i redditi di un’economia che come quella russa resta in buona parte dipendente dallo stato. I salari superano a stento i 150 dollari mensili mentre il reddito medio supera di poco i 4000 collocando il paese al 133° posto della classifica dei paesi più abbienti, ben dietro Iraq, Guatemala o Belize. E, non a caso, il paese resta quello a più ampia conflittualità rivendicativa nel Vecchio continente, benché snobbata dalla stampa internazionale. Dopo le grandi manifestazioni dei minatori nel paese di ottobre che pretendevano il pagamento dei salari arretrati non pagati (come riporta “Apostroph”), alla fine di novembre si sono tenute dimostrazioni a Kiev, sfociate in scontri con la polizia contro gli aumenti delle tariffe elettriche. Il degrado economico è tale che il presidente Zelensky si è potuto permettere di rimbrottare Joe Biden per aver spinto l’acceleratore sui pericoli di guerra con la Russia che alla fine di gennaio stavano affossando il mercato finanziario interno, come immediatamente rilevato il 2 febbraio dal “Financial Times”.

Il peso e il ruolo della Difesa nel bilancio russo

La Russia ha problemi diversi da quello del vicino slavo. Nei primi dieci anni del millennio – negli anni della ripresa economica – Putin fu in grado di pagare per intero il debito estero e di accumulare grandi riserve di oro e di valuta occidentale per far fronte alla volatilità del rublo. Si tratta di un approccio a lungo termine se è vero quanto è scritto nel 46° Rapporto sull’economia russa della Vsemirnyj Bank uscito il 1° dicembre, dove si legge che buona parte degli utili determinati dall’aumento dei profitti dovuti all’aumento dei prezzi delle materie prime energetiche sono stati investiti.

Ora però, malgrado i “fondamentali” (a parte l’inflazione) restino eccellenti, da un decennio l’economia ristagna, i redditi diminuiscono e si coglie soprattutto nelle città europee uno iato sempre più profondo tra le aspettative e le promesse elargite a piene mani dal regime e la realtà corrente.

Questa è stata la base sociale della protesta intercettata in modo diverso da Navalny e dal Partito comunista di Zyuganov.

Al fondo resta il peso improduttivo di quel 25% di bilancio dello stato investito in sicurezza; in primo luogo nella Difesa che alimenta il ruolo dei Dottor Stranamore all’interno del Cremlino e riduce la possibilità di grandi investimenti nelle infrastrutture ancora particolarmente carenti nel Nord europeo del paese e in buona parte della Siberia.

Ecco perché la guerra russo-ucraina, che nessuno è così pazzo da voler scientemente perseguire, resta un’ipotesi possibile nel futuro anche prossimo.

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Terre rare e guerre abbondanti https://ogzero.org/terre-rare-e-guerre-abbondanti/ Thu, 13 May 2021 16:45:36 +0000 https://ogzero.org/?p=3477 Lo stato kachin è una regione settentrionale di Myanmar/Birmania. Due volte la Svizzera, meno di 2 milioni di abitanti. Montagne himalaiane, fiumi solenni, distese vallate. Risorse naturali in eccesso: legname pregiato (teak), giada, oppio, oro. Una storia non placida: già retrovia dei nazionalisti cinesi di Chiang Kai-shek e del suo Kuomingtang, fin dall’indipendenza della Birmania […]

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Lo stato kachin è una regione settentrionale di Myanmar/Birmania. Due volte la Svizzera, meno di 2 milioni di abitanti. Montagne himalaiane, fiumi solenni, distese vallate. Risorse naturali in eccesso: legname pregiato (teak), giada, oppio, oro. Una storia non placida: già retrovia dei nazionalisti cinesi di Chiang Kai-shek e del suo Kuomingtang, fin dall’indipendenza della Birmania (1948) conflitti armati delle forze locali indipendentiste contro il governo centrale, popolazioni con culture, lingue e religioni diverse, profughi interni, andirivieni continuo sul lungo confine con la Cina.

terre rare e guerre

Gli stati che compongono il Myanmar e le etnie principali che vi abitano (fonte “Burma Blue”, di Massimo Morello, Rosenberg & Sellier, 2021, elaborazione OGzero).

Un boccone prelibato

Un concentrato genuino di geopolitica.

Le terre rare sono appetitose sostanze che fanno gola ai dispositivi che deliziano la nostra vita tecnologica, microchip, laser, energia solare, industria aerospaziale, militare …Un boccone prelibato. Hanno però un difetto, si trovano solo confuse e avvinghiate ad altri metalli tanto da richiedere enormi sbancamenti e lavorazioni molto elaborate, come si è accennato in un precedente articolo intitolato Materia della rete – rete della materia.

Dopo il colpo di stato del primo febbraio il traffico di autocarri e tir al confine cinese del Kachin si è molto intensificato. La Cina, tra i massimi produttori di terre rare, ne sta riducendo l’esportazione, per porre un limite alle devastazioni ambientali delle sue miniere e, soprattutto, per mettere in crisi l’impiego che ne fanno gli Usa principalmente in campo militare [un F-35 ha bisogno di 417 chilogrammi di terre rare]. Ne deriva che la supply chain – catena di approvvigionamento mondiale di terre rare entra in affanno.

Per le sue necessità la Cina da diversi anni si rivolge a Myanmar che ne è un ottimo produttore.

Da dove la Cina importa terre rare: percentuali per paese.

Gli eserciti etnici contro Tatmadaw

Ma Myanmar è in turbolenza. La feroce repressione della giunta militare non ha messo a tacere le proteste, ha, in qualche modo, addirittura ravvicinato le posizioni tra la maggior parte delle formazioni militari e politiche indipendentiste. Il più importante esercito dello stato kachin [Kia] ha abbattuto il 4 maggio un elicottero del Tatmadaw, l’esercito birmano.

Uno dei risultati del caos militare e politico è che nello stato kachin aumentano le già fiorenti miniere illegali di terre  rare, in una regione sfigurata da giganteschi scavi di altre materie e dalla deforestazione per il legname prezioso.

Miniere illegali a Pangwa, nel Kachin (fonte “Myitkyna Journal” e “The Irrawaddy”).

Il “capitalismo del cessate il fuoco”

Per concludere: nello stato kachin si ha una inequivocabile realizzazione dell’accumulazione per spoliazione attraverso la manipolazione della crisi permanente di una regione di frontiera dotata di risorse, schiacciata da appetiti di potenti apparati di potere (Cina, Myanmar, Signori della guerra locali) e dalla storica disarticolazione sociale prodotta dal colonialismo inglese. La globalizzazione del mercato ha aggravato una condizione già segnata da quello che Kevin Woods definiva dieci anni fa come capitalismo del cessate il fuoco: accordi saltuari di tregua tra militari e leader ribelli per spartirsi risorse e aree di influenza garantendosi reciproca impunità. Le citate miniere illegali sono gestite o direttamente da emissari che fanno riferimento alle aziende di stato cinesi o da milizie di frontiera collaborazioniste con l’esercito birmano. La ripartizione dei profitti ne è l’instabile architrave. Tutti i boss ci guadagnano.

terre rare e guerre

La rete di infrastrutture e le risorse (fonte “Burma Blue”, di Massimo Morello, Rosenberg & Sellier, 2021, elaborazione OGzero).

Non ci guadagnano le popolazioni che qualche volta al momento giusto riescono a reagire. È dal 2011 che la grande diga Myitsone, voluta dalla Cina famelica di energia elettrica, è stata bloccata dalle proteste popolari contro le evacuazioni di moltissimi villaggi, contro la distruzione radicale di un ampio sistema ecologico e, perché no?, contro la profanazione dell’anima idrica del paese, il fiume Irrawaddy.

La ricomposizione degli interessi e dei diritti è di là da venire.

terre rare e guerre

Fonti:

The Irrawaddy”, “S&P Global-Market Intelligence”, “Tea Circle”, “The Rare Earth Observer”, “Asia Times Financial”, “Roskill”.

 

Approfondimenti:

D. Harvey, The ‘new’ imperialism: Accumulation by dispossession, Socialist Register, n. 40, 2004.

K. Woods, Ceasefire Capitalism: Military–Private Partnerships, Resource Concessions and Military – State Building in the Burma – China Borderlands, “The Journal of Peasant Studies”, vol. 38, n. 4.

K. Dean e M. Viirand, Multiple borders and bordering processes in Kachin State, in A. Horstmann, M. Saxer, A. Rippa, Routledge Handbook of Asian Borderlands, Routledge, 2018.

R. Einzenberger, Frontier capitalism and politics of dispossession in Myanmar: The case of the Mwetaung (Gullu Mual) nickel mine in Chin State, “Austrian Journal of South-East Asian Studies”, vol. 11, n. 1.

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Kivu, un non-luogo: l’habitat autosostenibile di traffici e milizie https://ogzero.org/il-kivu-un-non-luogo-habitat-autosostenibile-di-traffici-e-milizie/ Sun, 14 Mar 2021 15:48:23 +0000 https://ogzero.org/?p=2599 «In un viaggio del 2003, ho incontrato un vecchio amico, Lino, nella capitale Kinshasa. Era appena arrivato dalla città di Kikiwit. La strada che porta da Kinshasa a Kikiwit, circa 600 chilometri, l’avevamo percorsa insieme nel 1993 e ci avevamo impiegato circa 8 ore. Dieci anni dopo Lino ha impiegato 15 giorni per lo stesso […]

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«In un viaggio del 2003, ho incontrato un vecchio amico, Lino, nella capitale Kinshasa. Era appena arrivato dalla città di Kikiwit. La strada che porta da Kinshasa a Kikiwit, circa 600 chilometri, l’avevamo percorsa insieme nel 1993 e ci avevamo impiegato circa 8 ore. Dieci anni dopo Lino ha impiegato 15 giorni per lo stesso percorso. La rete viaria completamente distrutta. E oggi non è cambiato nulla. Ma alle aziende minerarie non servono le strade, si muovono con aerei ed elicotteri». Riprendiamo da qui il viaggio nella zona dei Grandi Laghi africani, nel Kivu, un non-luogo le cui risorse arricchiscono un mondo già ricco e predatorio, e dove milizie e rivalità si spartiscono il territorio ai danni di una popolazione sempre più povera la cui identità è smarrita e spesso dimenticata.

Il quadro storico e quello dei traffici: guerre mondiali e per procura

La Repubblica democratica del Congo (RdC) è un non-lieux. Un non-luogo che non trova pace, attraversato da conflitti aspri o a bassa intensità, snaturato dalle pressioni da oltreconfine di una nazione devastata e irriconoscibile per gli smarriti autoctoni; nella definizione di Marc Augé “non-luogo” è quello che non riesce a essere identitario (non contrassegna univocamente l’identità di chi lo abita), relazionale (non c’è comune appartenenza nei rapporti tra tutti i soggetti della regione), storico (le singole comunità non si riconducono a comuni radici). Nessuno, fino a ora, è riuscito a dare in sessant’anni una speranza a oltre 84 milioni di abitanti di un paese ridotto a supermercato di risorse da taccheggiare. Anche se le elezioni del 2019, con la vittoria di Felix Tshisekedi, figlio dell’oppositore storico di Mobutu Sese Seko e di Kabila padre, hanno portato il Congo Kinshasa verso una parvenza di stabilità, l’oggetto del contendere rimane, ovvero il paese stesso. Ciò che il suo sottosuolo contiene: tutto quello che il mondo libero desidera.

Non a caso quelle aree sono ricche di risorse minerarie, cambiano nome, affiliazione, ma l’obiettivo è sempre quello: coltan, diamanti, oro, legname, petrolio… e per impossessarsene si è combattuta una guerra che l’ex segretario di stato americano Madeleine Albright definì la “Guerra mondiale africana” (1996-2004). Sul terreno si sono dispiegati gli eserciti di Angola, Burundi, Namibia, Ruanda, Uganda e Zimbabwe; si sono contesi pezzi di territorio e le aeree di più intenso conflitto corrispondevano a quelle più ricche di risorse naturali.

Da quella guerra che vide combattersi 8 eserciti nazionali e 21 milizie sono nate decine di formazioni di guerriglieri al soldo di quelle stesse nazioni o di altre più lontane; nell’area ora si confrontano oltre venti gruppi etnici con propri miliziani che operano tuttora in tutto il paese e in particolare nel Kivu e nel Nordest del paese, continuando a contendersi quella spartizione bellica. Guerre di mercenari per procura, che proseguono (ciascuno cambiando nazioni di riferimento in base al prezzo) quel conflitto panafricano che ha provocato più di 4 milioni di morti, la maggior parte per fame e non per armi da fuoco. Il paese è arretrato di 100 anni: alla fine della guerra la popolazione non aveva nulla e così le ong hanno cominciato a ripristinare, innanzitutto, dispensari e ospedali, ma nessuno vi accedeva: la gente si vergognava ad andare in ospedale perché non aveva di che coprirsi, i vestiti erano un lusso.

Invece paesi come l’Uganda sono diventati improvvisamente esportatori di oro. Il Ruanda del preziosissimo coltan, che si trova solo in Congo nella regione del Kivu dove si muovono milizie e faccendieri spregiudicati che lo trasportano oltre confine e il Pil di Kigali cresce a dismisura.

Per riportare la “pace” è stata istituita una missione dell’Onu composta da oltre 17.000 uomini, Monusco è il tentativo di stabilizzazione di una regione più grande e impegnativo mai messo in campo dalle Nazioni Unite. Oggi la missione è ancora al suo posto (i suoi budget stratosferici di più di un miliardo all’anno fanno parte del sistema economico del Kivu), la guerra non è finita e la pace lontana: spariti gli eserciti stranieri, sono rimasti i guerriglieri che infestano il territorio, lo rendono insicuro e si battono per lobby economiche e politiche, persino di potenze regionali interessate alle risorse.

Contrabbando e saccheggio

Questo paese è un non-lieux. Come per la corsa all’oro, le aree dei ritrovamenti diventano la meta di disperati in cerca di fortuna. Ma non solo. Sono la meta delle multinazionali, degli stati di mezzo mondo che vogliono approfittare delle risorse del Congo.

«Il requisito principale di un non-luogo non è attribuibile a un generico elenco di luoghi progettati, ma dipende dalla percezione collettiva, che gli utenti hanno di quel determinato contesto spaziale» (Paolo Campanella, 2006), perciò riconduciamo quella definizione se non a tutta la repubblica congolese, almeno alla regione del Kivu, una zona di razzia; il luogo delle guerre fratricide, vendute come tribali, ma combattute proprio per le risorse minerarie.

In Rdc si trova di tutto: legno, rame, cobalto, coltan, diamanti, oro, zinco, uranio, stagno, argento, carbone, manganese, tungsteno, cadmio e petrolio. Materie prime che fanno gola a mezzo mondo.

La Repubblica democratica del Congo è lo stato più ricco di risorse naturali dell’Africa, gli oltre 84 milioni di abitanti potrebbero vivere nel benessere, solo se i suoi governanti investissero le royalties ricavate dalle estrazioni minerarie nel paese. Invece no: l’economia del paese è tradizionalmente orientata alle esportazioni, fortemente dipendente dalle commodities primarie. I diamanti hanno sostituito rame e cobalto come principale voce delle esportazioni (un terzo del contrabbando della zona dei Grandi Laghi): il cobalto finisce tutto nelle mani dei cinesi; i diamanti, oltre 22 milioni di carati, sono nelle mani delle multinazionali; il coltan – estratto praticamente solo in Congo – prezioso per l’industria della telefonia mobile e per quella aerospaziale, è gestito dal Ruanda. Il Congo possiede la seconda foresta pluviale al mondo, da cui si ricava legname pregiato. L’autosufficienza alimentare in molte aree del paese è un miraggio. Le terre coltivate rappresentano solo il 4 per cento del totale, nonostante il 75 per cento della popolazione attiva si occupi di agricoltura, per lo più di sussistenza; il Pil pro-capite è di circa 450 dollari, uno tra i più bassi al mondo, e l’indice di sviluppo umano è 0,433 che colloca la Repubblica democratica del Congo al 176° posto al mondo.  E la stragrande maggioranza della popolazione vive con meno di 2 dollari al giorno.

La “fluidità” delle milizie abita territori porosi

Secondo il Gec (Gruppo di studio sul Congo), almeno 125 gruppi armati sono censiti nelle regioni orientali del Nord Kivu e del Sud Kivu, teatro da oltre 20 anni di quello che è stato definito da più fonti un “lento genocidio”, la metà dei quali è tutt’ora in attività.

Nella regione orientale della Repubblica democratica del Congo si muovono decine di milizie. Difficile tracciarne una mappa. La loro ragion d’essere è la fluidità, cambiare “padrone”, seguire gli affari economici e, dunque, concentrarsi sulle risorse minerarie e lì mettere in atto la loro azione di controllo e gestione del territorio. Storicamente nell’area agiscono i miliziani Mayi Mayi – storica formazione nata tra la fine degli anni Novanta e l’inizio dei Duemila come sorta di autodifesa dalle truppe ruandesi che per alcuni anni hanno occupato quell’area – sono tornati a essere molto attivi nella regione.

La distribuzione delle milizie nella Regione dei Grandi Laghi (fonte dati Agi rimaneggiata da OGzero)

I Mayi Mayi, tuttavia, sono semplicemente un nome, infatti comprendono milizie guidate dai signori della guerra, dagli anziani delle tribù, dai capi villaggio, da faccendieri economici. I gruppi hanno perso anche la loro aura mistica: un tempo combattevano solo con il machete forti del potere che gli derivava dall’acqua che li proteggeva dalle pallottole. Quell’epoca è finita. E agli inizi degli anni Duemila dalla loro lotta di “autodifesa” dei villaggi sono passati alla difesa del territorio contro l’occupazione ruandese. Occupazione che Kigali ha sempre negato, evidente nei primi anni Duemila proprio nell’area di Goma. L’esempio più eclatante della presenza ruandese e del controllo del territorio era che il prefisso telefonico internazionale per chiamare quelle zone era quello del Ruanda. Un abitante di Kinshasa, la capitale della Repubblica democratica del Congo, per parlare con un parente di Goma doveva comporre il prefisso internazionale del confinante Ruanda e viceversa. Quell’occupazione, giustificata da Kigali con il pretesto della lotta contro le milizie hutu responsabili del genocidio fuggite nel Kivu, si è presto trasformata in un’azione predatoria nei confronti delle risorse della regione, in particolare il coltan di cui Kigali è diventato esportatore. La milizia dei Mayi Mayi si è presto trasformata, data la sua fluidità, in una lobby d’affari armata, partecipando alla cosiddetta “guerra del coltan”. Da mesi il gruppo ha ripreso vigore nella regione. Ai Mayi Mayi è stata attribuita la responsabilità di 82 attacchi, che hanno provocato 81 morti.

Nel Nordest della Repubblica democratica del Congo è stato attivo anche il famigerato movimento, il Lord’s Resistence Army (Lra), esercito di resistenza del Signore, guidato dal famigerato Joseph Koni, che ha fatto della religione la motivazione della sua lotta. Il movimento nato in Uganda si è presto trasformato in gruppo terroristico e ha allargato il suo raggio di azione sconfinando, tra gli altri paesi, nel vicino Congo e le motivazioni religiose sono scomparse. L’Lra ha rapito e costretto più di 60.000 bambini a combattere nelle sue fila. La ferocia di Koni ha trasceso ogni ragione politica e religiosa della sua lotta. Questo movimento, tuttavia, ha ridotto le sue attività, ma non è scomparso. L’Lra è rimasto acefalo per l’incriminazione all’Aia del suo capo e si è diviso in cellule al soldo del miglior offerente.

Gli eredi del genocidio: l’influenza ruandese

In tutto questo disordine e povertà non poteva mancare la penetrazione del terrorismo islamista. I jihadisti vivono di disordine e povertà (forse meno di religione): il loro brodo di coltura. È nato, infatti, l’Islam State Central Africa Province, una sorta di emanazione del Califfato del defunto al-Baghdadi. Ed è proprio nel Nordest della Repubblica democratica del Congo che avvengono la maggior parte degli attentati; svariati gruppi volta per volta li rivendicano, ma la maggior parte di queste azioni criminali sono attribuite al gruppo nato in Uganda e di ispirazione salafita, Allied democratic Forces (Afd). Guidata da Jamil Mukulu, un ex cattolico convertito all’islam, è considerata vicina al movimento sunnita Tablighi Jamat e secondo molte fonti ufficiali è legata all’Isis e alle reti del terrorismo internazionale. Gli attacchi messi in atto da questo gruppo dall’ottobre scorso sono più di una decina e hanno provocato 10 morti, evidenziando l’espansione del terrorismo islamico nella regione dei Grandi Laghi. Azioni che hanno come obiettivo le ricchezze minerarie. Queste milizie, che hanno ripreso vigore proprio grazie alla sua affiliazione all’Isis, sono diventate una sorta di attore “parastatale” creando scuole, ospedali e riscuotendo le tasse. Ma gli introiti maggiori arrivano dal commercio illegale dell’oro e del legno. L’Adf, tuttavia, è molto attento a non entrare in conflitto con i Mayi Mayi e con il Fronte democratico di liberazione del Ruanda.

Ma da dove nasce l’Adf?

Prima guerra africana

Il Fronte democratico di liberazione del Ruanda è nato nel 2000, dopo aver assorbito l’Esercito di liberazione del Ruanda (ALiR), gruppo armato costituito per lo più da ex militari delle Forze armate ruandesi (Far), che difendevano l’ideologia dell’Hutu Power, sconfitte durante il genocidio del 1994 contro i tutsi e gli hutu moderati, che portò al potere il tutsi Kagame. A luglio 1994, dopo l’ascesa al potere di Kagame, l’Esercito patriottico del Ruanda ha sostituito le Far, un gran numero di esponenti del quale ha attraversato il confine, scappando in Congo dove si erano rifugiati decine di migliaia di cittadini hutu. Dal 1995 al 1996 le ex Far si sono riorganizzate per formare l’Esercito di liberazione del Ruanda, il cui obiettivo era quello di riprendere il potere a Kigali, lanciando incursioni in territorio ruandese dalle sue basi congolesi. Per arginare questi ribelli hutu, il presidente Kagame ha fornito armi e fatto addestrare delle milizie tutsi banyamulenge che gravitano nella provincia del Sud Kivu.

In modo concertato con l’Uganda queste milizie si sono amalgamate con militari dell’esercito ruandese e ugandese, formando un movimento ribelle al soldo di Kagame, l’Alleanza delle forze democratiche per la liberazione del Congo (Afdl), diretta da un gruppo di oppositori all’allora presidente congolese, il dittatore Mobutu.

In un gioco complesso di alleanze incrociate, i due movimenti ribelli ruandesi – quello hutu e quello tutsi – seminarono terrore nel confinante Congo a partire dal 1997, con l’Afdl impegnato in una guerra di invasione delle province orientali dell’ex Zaire, scatenando la Prima guerra del Congo e portando al potere nel mese di luglio 1997 il suo portavoce Laurent Désiré Kabila, autoproclamatosi presidente e ribattezzando il paese in Repubblica democratica del Congo.

Seconda guerra africana

I tutsi ruandesi, alleati con il nuovo presidente, si trovarono in una posizione di forza, spingendo 300.000 rifugiati ruandesi a fuggire in altre regioni del Congo e altre migliaia a fare ritorno in Ruanda. Fu allora che l’Esercito di liberazione del Ruanda (hutu) si rese responsabile del massacro di altre migliaia di civili in una controffensiva nell’Est della Rdc, anche nel Parco nazionale del Virunga, e nel Nord del Ruanda.

Nel 1998 in Rdc scoppiò la Seconda guerra africana, dopo che il presidente Kabila aveva chiesto ai soldati ruandesi e ugandesi, suoi alleati, di uscire dal territorio nazionale, ma questi ultimi crearono un nuovo movimento ribelle, il Raggruppamento congolese per la Democrazia (Rcd) per ribaltare il potere di Kinshasa. Per difendersi Kabila strinse un accordo militare con gli hutu ruandesi dell’ALiR, rifornendoli di armi e munizioni, che alla stregua di altri gruppi armati rivali si resero protagonisti di gravi crimini contro l’umanità sia nell’Est della Rdc che in Ruanda e persino in Uganda.

Dopo l’assassinio del presidente Kabila, il 18 gennaio 2001, e la successione del figlio Joseph, l’ALiR ha consolidato la sua alleanza con l’organizzazione hutu ruandese delle Forze democratiche per la liberazione del Ruanda – basata a Kinshasa, la capitale –, che lo ha progressivamente assorbito. Le Fdlr sono l’emanazione del Comitato di coordinamento della resistenza, un gruppo di esiliati ruandesi hutu, dissidenti dell’Esercito di liberazione del Ruanda, che hanno dato vita al nuovo gruppo nel maggio 2000.

Le guerre, anche a bassa intensità, che si combattono nella regione del Kivu, servono alle varie milizie presenti sul territorio proprio per impadronirsi dei giacimenti di coltan e quindi poter esercitare il monopolio dell’estrazione, (utilizzando manodopera minorile, veri e propri schiavi che muoiono di fatica e malattie portate dal contatto con questo minerale) contrabbandare il minerale nei paesi vicini – come il Ruanda che è diventato uno dei maggiori esportatori, pur non avendone dei giacimenti, per poi venderlo alle industrie produttrici di componenti elettronici. Lo sfruttamento incontrollato di questa risorsa congolese ha costretto l’Onu ad accusare, in un rapporto del 2002, le compagnie impegnate nello sfruttamento delle risorse naturali del Congo – quindi anche il coltan – di favorire indirettamente i conflitti civili nell’area.

L'articolo Kivu, un non-luogo: l’habitat autosostenibile di traffici e milizie proviene da OGzero.

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