restrizioni Archivi - OGzero https://ogzero.org/tag/restrizioni/ geopolitica etc Thu, 25 Aug 2022 10:18:17 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.4.6 Le sanzioni internazionali funzionano? https://ogzero.org/le-sanzioni-internazionali-funzionano/ Fri, 20 May 2022 10:19:21 +0000 https://ogzero.org/?p=7680 Congelamento di beni di individui e aziende, diniego di visti, divieto di importazione ed esportazione, embargo commerciale, restrizioni finanziarie, nonché sanzioni secondarie e “indirette” come la chiusura di conti bancari… ma le sanzioni – oltre a portare alla fame le popolazioni civili – possono davvero spingere il governante di turno a cambiare la sua politica? […]

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Congelamento di beni di individui e aziende, diniego di visti, divieto di importazione ed esportazione, embargo commerciale, restrizioni finanziarie, nonché sanzioni secondarie e “indirette” come la chiusura di conti bancari… ma le sanzioni – oltre a portare alla fame le popolazioni civili – possono davvero spingere il governante di turno a cambiare la sua politica? Vari studi e rapporti dimostrano di no. Inoltre, perché le sanzioni abbiano legittimità devono discendere dalla condanna espressa dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu. Ed è qui che generalmente si inceppa il meccanismo – come ha spiegato alcuni mesi fa Alfredo Somoza nel suo ultimo volume – «perché il suo statuto prevede che Usa, Russia, Cina, Francia, Regno Unito siano membri permanenti e abbiano potere di veto su qualsiasi argomento discusso dal Consiglio. Questo meccanismo “truccato”, che fu pensato nella logica della Guerra Fredda, impedisce che il Consiglio di Sicurezza sia davvero una guida del diritto internazionale. Lo si è ancora verificato dopo il sanguinoso colpo di stato in Myanmar, non condannato a causa del veto russo e cinese».

E qui, in questo saggio, Giulia Della Michelina ci fornisce, dati alla mano, qualche strumento in più per capire i contorni di quest’arma a doppio taglio che rimane lo strumento punitivo di deterrenza più utilizzato dall’Occidente, mentre il podcast di Raffaele Sciortino fornisce un quadro degli sconvolgimenti sul sistema economico a livello globale e del ridimensionamento del ruolo di ciascuna delle grandi potenze, nonché di un loro potenziamento sotto nuova forma e sviluppo.


Negli ultimi mesi il dibattito attorno alle sanzioni e alla loro efficacia è tornato di attualità a causa delle tensioni tra Ucraina e Russia e alla guerra scatenata da quest’ultima. Si sta discutendo molto di “sanzioni senza precedenti”, embargo, restrizioni finanziarie e commerciali, e delle conseguenze economiche e politiche scatenate da queste misure, anche sui paesi che le impongono. A più di due mesi dall’inizio dell’invasione russa è lecito porsi una serie di domande: le sanzioni contro Mosca stanno avendo successo? Le misure adottate sono adeguate all’intento di sperare in un risultato positivo? E in quanto tempo? Più in generale ci si potrebbe domandare se lo strumento delle sanzioni funzioni davvero nelle controversie internazionali. Si tratta di questioni complesse, in cui oltre a considerazioni economiche e diplomatiche intervengono anche riflessioni di ordine morale e su cui analisti ed esperti non hanno un parere univoco. I dati a disposizione possono però aiutare a fare chiarezza e sembrano mostrare che, nella maggioranza dei casi, le sanzioni non funzionano.

Cosa sono le sanzioni

Come spiega Francesco Giumelli, professore associato al Dipartimento di Relazioni internazionali e Organizzazione internazionale (Irio) dell’Università di Groningen, le sanzioni sono provvedimenti di varia natura (complessive o mirate) solitamente adottati da uno o più stati (o organismi internazionali) che le impongono contro un soggetto (stato, azienda, persona) con lo scopo di modificarne un comportamento. Nel rapporto intitolato Quando sono utili le sanzioni internazionali? dell’Osservatorio di Politica internazionale, Giumelli individua tre sostanziali obiettivi dietro l’imposizione di sanzioni: coercizione, contenimento e segnalazione/ammonimento. Le sanzioni mirate (come restrizioni finanziarie, al commercio di armi, allo scambio di prodotti specifici e alla limitazione del movimento di persone), si legge nel rapporto, sono ormai prevalenti perché dovrebbero limitare i loro effetti agli attori responsabili dei comportamenti che si vorrebbero disincentivare, risparmiando quindi le conseguenze sulla popolazione.

Gli effetti sulle popolazioni

Eppure i dati rivelano che le ripercussioni delle sanzioni hanno un impatto importante, talora devastante, anche sui cittadini degli stati che si intende colpire. Secondo uno studio del “Journal of Development Studies” effettuato su 98 paesi per un periodo di 35 anni (dal 1977 al 2012) le sanzioni economiche riducono l’aspettativa di vita di 1,2-1,4 anni delle popolazioni e in particolare le donne risultano essere i soggetti maggiormente colpiti. In alcuni casi, le sanzioni comportano difficoltà nell’approvvigionamento di medicinali o presidi sanitari di base, come documentato da uno studio di Oxfam sugli effetti dell’embargo contro Cuba. In questo paese e negli altri stati più duramente sanzionati (Iran, Venezuela, Siria) secondo quattro esperti dell’Onu le sanzioni stanno impedendo il diritto allo sviluppo e aumentando il tasso di povertà, rendendo inaccessibili servizi essenziali come acqua, elettricità, gas, cibo e medicine. In Venezuela, le sanzioni hanno contribuito al più grave crollo del Pil nella storia dell’America Latina (74,3%).

Uno dei più drammatici esempi del costo umanitario derivante dalle sanzioni è il caso dell’Iraq, sottoposto nel 1990 a un durissimo regime sanzionatorio in seguito all’invasione del Kuwait. Già nel 1993 un report della Fao e del Wfp sottolineava come queste misure avessero causato «persistenti privazioni, fame e malnutrizione per una vasta maggioranza della popolazione irachena» e l’impossibilità di continuare con le sanzioni «senza aggravare la già drammatica situazione dei rifornimenti di cibo in Iraq».
Poche settimane fa diversi gruppi di attivisti hanno inviato una lettera al presidente Biden in cui si sottolinea il paradosso delle sanzioni, usate come strumento alternativo all’offensiva militare e tuttavia capaci di provocare vittime civili innocenti, e si richiede di rivedere radicalmente l’utilizzo di queste misure.

Le sanzioni funzionano solo nel 30% dei casi

Uno studio della Drexel University di Filadelfia riporta un drastico calo nell’efficacia delle sanzioni a partire dal 1995 e afferma che il tasso medio di successo si attesta al 30%. Inoltre negli ultimi due decenni si è riscontrata la tendenza al perdurare di sanzioni per anni, senza che il loro obiettivo venga considerato né soddisfatto né disatteso. Le sanzioni continuano semplicemente a restare in vigore, quasi per inerzia. Secondo lo studio questo sarebbe dovuto alla crescente complessità delle sanzioni e alla compresenza di target diversificati e spesso non chiaramente delineati.

Il fattore temporale non è un aspetto secondario perché, come ha dichiarato Benn Steil del think tank Council on Foreign Relations al “New Yorker”, «le sanzioni funzionano raramente e quando funzionano tendono a metterci molto tempo». E non a costo zero, si potrebbe aggiungere. Come per esempio nel caso della Rhodesia (attuale Zimbawe), che ha subito 10 anni di sanzioni e 20.000 morti per arrivare a un cambio di regime.

Le sanzioni secondarie

A tutto ciò si aggiungono le conseguenze “indirette” delle sanzioni, come nel caso che ha riguardato diversi cittadini iraniani residenti in Europa a cui è stato chiuso il conto corrente da un momento all’altro e senza spiegazioni da parte delle banche. Ciò si è verificato in seguito alla reintroduzione delle cosiddette sanzioni secondarie da parte dell’allora presidente degli Usa Donald Trump, ovvero quelle sanzioni che penalizzano indirettamente un soggetto colpendo chi fa affari con lui. In questi casi è molto costoso per le banche compiere verifiche per non incorrere nelle sanzioni, perché alcuni soggetti si avvalgono di prestanome o altri stratagemmi per aggirare il meccanismo. L’ipotesi è che ad alcune banche sia bastato accertare la nazionalità iraniana dei correntisti per chiudere arbitrariamente i loro conti: una piccola perdita incomparabile rispetto alle multe comminate in violazione delle sanzioni.

L’effetto rally-around-the-flag

Questi sono solo alcuni esempi di come le sanzioni agiscono e si ripercuotono concretamente sulla vita delle persone comuni. C’è chi sostiene che l’impatto di queste misure sui cittadini possa rivelarsi positivo e renderle più efficaci.

Una popolazione strangolata economicamente dal giogo delle sanzioni sarebbe più incline a protestare e a richiedere alla classe politica di conformarsi alle richieste esterne. Tuttavia non sempre questa tesi risulta veritiera.

In presenza di regimi autoritari, abituati a reprimere o a gestire il dissenso, è raro che le pressioni della cittadinanza apportino cambiamenti sostanziali alla linea governativa. Il rovescio della medaglia è il cosiddetto effetto rally-around-the-flag, ovvero la possibilità che la popolazione faccia fronte comune con i suoi leader contro i paesi sanzionatori, percepiti come i responsabili delle privazioni e delle difficoltà in cui si trovano. In questi casi la posizione dei governanti del paese sanzionato può addirittura rafforzarsi, compromettendo di conseguenza l’efficacia delle sanzioni. Questo effetto è stato riscontrato anche in Russia dopo le sanzioni imposte nel 2014 in seguito all’annessione della Crimea, percepite dal 71% della popolazione come un tentativo di “indebolire e umiliare” il paese.

Uno strumento essenziale di politica estera

Il passaggio alle sanzioni mirate a discapito di quelle complessive ha incentivato notevolmente l’uso di questo strumento, diventato ormai tutt’altro che eccezionale. Il rapporto dell’Osservatorio di Politica internazionale ricorda infatti che «la Carta delle Nazioni Unite indica le condizioni entro le quali è possibile ricorrere alla forza nelle relazioni fra stati, per esempio per legittima difesa o se autorizzata dal Consiglio di sicurezza come indicato dall’articolo 39 del capitolo VII, ma non pone condizioni per l’utilizzo delle sanzioni». L’articolo 41 prevede la sospensione delle relazioni economiche tra le misure che non implicano l’uso della forza, ma la vaghezza dei regolamenti ha di fatto portato le sanzioni a diventare uno strumento essenziale di politica estera per gli stati occidentali.

È bene sottolineare quest’ultimo aggettivo, poiché le sanzioni sono state finora appannaggio di questi paesi, che se ne sono serviti contro i nemici per le più svariate ragioni: pressioni diplomatiche, rivalità economiche, scontri ideologici, deterrenti per futuri attacchi. Le sanzioni sono molto più facilmente giustificabili di un’operazione militare davanti all’opinione pubblica e assicurano allo stesso tempo l’impressione di una presa di iniziativa rispetto a una situazione conflittuale.

Monopolio occidentale

Gli Usa sono il paese che impone il maggior numero di sanzioni: attualmente sono 37 i programmi attivi, alcuni dei quali in corso da decenni, e i paesi coinvolti sono una ventina. Una tendenza che negli ultimi anni, e in particolare dopo l’11 settembre 2001, risulta in crescita: da circa 6000 soggetti nel 2014 a quasi 10.000 del 2021. L’amministrazione Trump ha imposto il doppio delle sanzioni rispetto al predecessore Barack Obama e l’attuale presidente Joe Biden ha confermato finora questa inclinazione. Anche l’Unione Europea ha attivato decine di programmi di misure restrittive in 34 paesi, e le ha definite uno «strumento essenziale della politica estera e di sicurezza comune». Vi sono infine le sanzioni imposte dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu che, dal 1966, ha stabilito 30 regimi di sanzioni. Attualmente sono in vigore 14 programmi, focalizzati sulla risoluzione dei conflitti territoriali, la non-proliferazione del nucleare e l’antiterrorismo.

 

Il monopolio occidentale dello strumento sanzionatorio è legato a una delle condizioni della sua efficacia, ovvero il controllo sul sistema economico e finanziario globale. In altre parole il ruolo di primo piano nell’economia globale dei paesi occidentali, e in particolare degli Usa, renderebbe più efficace l’utilizzo delle sanzioni. Tuttavia, negli ultimi decenni il dominio economico e finanziario occidentale si sta sgretolando a favore di altri attori e ciò contribuisce a erodere anche l’efficacia delle sanzioni.

Paesi come Cina e Russia si stanno attrezzando da diversi anni a reggere il colpo delle sanzioni adottando diverse misure, come l’accumulo di riserve economiche (per esempio di oro) o con altri sistemi volti ad aumentare l’autosufficienza economica.

La Cina sta fortemente puntando sul decoupling (disaccoppiamento, su cui si intreccia un approfondimento di Raffaele Sciortino), rilocalizzando la produzione delle imprese americane fuori dal paese in settori strategici, e sul rafforzamento dell’autosufficienza nel ciclo produttivo.

Ascolta “Il grumo di contraddizioni verso la fine della globalizzazione” su Spreaker.

In aggiunta, l’interdipendenza delle economie porta alla luce un’obiezione non secondaria, ovvero le ripercussioni delle sanzioni sugli stessi paesi che le impongono. Questione che è stata ampiamente dibattuta nel caso della dipendenza dal petrolio e dal gas russi.

Le sanzioni contro la Russia nel 2014

In seguito all’invasione dell’Ucraina la Russia è diventato il paese più sanzionato al mondo, passando da 2754 tipi di sanzioni a oltre 10.000. A partire dal 2014, in seguito all’annessione russa della regione ucraina della Crimea, sono state imposte le prime sanzioni contro Mosca: congelamento di beni di individui e aziende, diniego di visti, divieto di importazione ed esportazione di armi in Russia, embargo commerciale sulla Crimea. Gli effetti delle sanzioni hanno fatto traballare l’economia russa per almeno due anni, facendo scendere il valore del rublo e aumentare i prezzi di molti beni per aziende e consumatori. Nonostante qualcuno le abbia ritenute troppo timide, le sanzioni del 2014 hanno giocato un ruolo di deterrenza nell’immediato, considerando che, secondo un report dell’Atlantic Council, l’invasione dell’Ucraina sarebbe già stata pianificata per quell’anno.le sanzioni internazionali funzionano?Se le sanzioni hanno potuto arginare le azioni della Russia per un certo periodo, e avvalorare così le posizioni dei sostenitori di questo strumento, oggi possiamo dare una lettura diversa.

Dal 2014 la Russia si è adoperata per rendere la propria economia più resiliente di fronte alle pressioni esterne, accumulando circa 630 miliardi di dollari in riserve internazionali, il 50% in più rispetto al 2017.

Le ultime sanzioni hanno certamente scosso l’economia di Mosca, oltre ad aver gettato nel panico i russi, che hanno svuotato gli scaffali dei supermercati e si sono messi in coda davanti ai bancomat. Ma le manovre della Banca centrale russa hanno evitato il collasso e il rublo è ritornato al valore precedente alla guerra. Alcuni economisti, come Elina Ribakova dell’Institute of International Finance, sostengono che questi siano indicatori superficiali, utili alla propaganda del presidente russo Vladimir Putin. Le difficoltà nel reperire materie prime, la chiusura o la delocalizzazione di molte aziende e l’aumento dell’inflazione stanno già provocando effetti diretti sulla popolazione e, secondo le stime, sono già 200.000 le persone che rischiano di perdere il lavoro. L’impatto sul lungo termine sarà probabilmente devastante in termini di crescita, disoccupazione e abbassamento del livello di vita dei cittadini russi.

Ma come insegnano le esperienze precedenti di sanzioni, che le sofferenze della popolazione portino a dissuadere un leader dai propri criminali progetti è ancora tutto da dimostrare.

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n. 14 – Oi Barbaroi, gli schiavi della rotta dell’Egeo https://ogzero.org/gli-schiavi-della-rotta-dellegeo/ Mon, 18 Oct 2021 11:29:13 +0000 https://ogzero.org/?p=5174 Il Mediterraneo orientale rappresenta un braccio di mare in cui si sedimentano conflitti, interessi, estrazioni e alleanze variabili che affondano nei secoli. Sulla omerica lotta tra Ellade e Anatolia si innesca il flusso migratorio che vede la Turchia snodo essenziale e uso strumentale del singolo migrante.  Fabiana Triburgo di nuovo qui ha l’occasione di delineare […]

L'articolo n. 14 – Oi Barbaroi, gli schiavi della rotta dell’Egeo proviene da OGzero.

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Il Mediterraneo orientale rappresenta un braccio di mare in cui si sedimentano conflitti, interessi, estrazioni e alleanze variabili che affondano nei secoli. Sulla omerica lotta tra Ellade e Anatolia si innesca il flusso migratorio che vede la Turchia snodo essenziale e uso strumentale del singolo migrante. 

Fabiana Triburgo di nuovo qui ha l’occasione di delineare gli errori strategici sostanziali dell’Unione, che sfociano in una vera e propria violazione dei diritti umani, questa volta s’evidenzia l’intolleranza delle frange razziste interne all’Unione europea, che in Grecia sono radicate ancora di più dopo la grave crisi che l’inflessibilità di alcuni paesi ha impoverito pesantemente, rinfocolando in parte della società una sorta di sovranismo revanchista che sfocia nel razzismo.


I principali conflitti che attualmente interessano le migrazioni forzate e le prassi di esternalizzazione poste in essere dall’Unione Europea e dai singoli stati membri portano a una predeterminazione delle rotte dei migranti.

Quello che oggi è inevitabile chiedersi è se il nuovo Patto europeo sulla Migrazione e l’Asilo, proposto dalla Commissione UE, possa essere realmente considerato una soluzione della gestione del fenomeno migratorio o se invece vi siano soluzioni legali alternative maggiormente lungimiranti e coraggiose.  


I profughi sono l’unica merce di scambio…

«La Grecia non sarà la porta d’Europa». Questa la dichiarazione del governo greco in merito alla crisi umanitaria afgana in seguito alla presa del potere da parte dei talebani ad agosto di quest’anno. La manifestazione di intenti dell’esecutivo greco certamente non sorprende, considerate le gravissime violazioni del diritto d’asilo, perpetrate da oltre cinque anni lungo la rotta dell’Egeo che rendono davvero difficile per i migranti immaginare la Grecia come un paese di destinazione, non a caso definito dalla presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen “scudo d’Europa”.

La Grecia più che un paese di destinazione è un paese di “sospensione” in primo luogo dei diritti

Attualmente nella rotta dell’Egeo sono bloccate oltre 6000 persone da diversi anni, 4000 delle quali nei centri di accoglienza. Ad ogni modo occorre ricordare che al momento la nazionalità afgana è quella maggiormente presente – circa il 63 % – all’interno dei campi stanziati nel territorio greco.

Profughi afgani

L’articolo di Elena Kaniadakis è apparso su “il manifesto” del 14 settembre 2021.

… soggetta a muri: gabbie per contenerli, frontiere naturali rese invalicabili

Le conseguenze di tale posizione politica non si sono fatte attendere: con prontezza il governo greco lo scorso agosto ha completato la costruzione di un muro di 40 chilometri al confine con la Turchia, in prossimità del confine terrestre di 200 chilometri tra i due paesi, lungo le rive del fiume Evros/Meric, ostacolando in tale modo qualunque accesso terrestre alla rotta balcanica.

A ciò si aggiunge il recente quanto allarmante fenomeno della creazione di 5 hotspot “di ultima generazione” in ciascuna delle isole greche posizionate nell’Egeo:

rispettivamente oltre a Samos, anche a Lesbo – il più grande “campo profughi” d’Europa: Moria – nonché a Levos, Chios e Kos, grazie agli ingenti finanziamenti dell’Unione europea – circa 250 milioni di euro – predisposti per il raggiungimento di tale obiettivo.

Restrizione

Tali politiche rimandano immediatamente alla restrizione geografica nelle isole greche che nel 2015 venne imposta ai migranti che volevano recarsi a chiedere asilo nella Grecia continentale. Ciò avvenne, come detto, in conseguenza dell’aumento del flusso migratorio dovuto prevalentemente allo scoppio della guerra in Siria e della perdurante instabilità in Afghanistan, in Iraq e in Pakistan.

gli schiavi della rotta dell'Egeo

Egeo, Turchia, gennaio 2016: migranti siriani cercano di raggiungere la Grecia per poi rifugiarsi in Centro Europa (foto di beforesunset/Shutterstock).

È proprio in tale contesto infatti che cominciò – seguendo i propositi dell’Agenda europea sulla migrazione in quell’anno – la creazione da parte della Commissione europea di centri di identificazione ed espulsione extraterritoriali rispetto al continente europeo, i cosiddetti hotspot appunto, con contestuale impossibilità per i migranti di presentare le domande d’asilo, pratica che sappiamo poi essere degenerata nel fenomeno – oggi sistematico – dell’esternalizzazione delle frontiere dell’Unione europea. Nei documenti identificativi dei migranti arrivati in Grecia comincia quindi ad apparire la dizione “Restrizione nell’isola di…”. La situazione oggi è ulteriormente peggiorata: con l’International Protection Act, adottato dalla Grecia e modificato più volte, dal 2021 non è più prevista la possibilità di revoca del provvedimento sulla restrizione geografica alle isole greche per quanti, secondo l’ordinamento giuridico greco, vengono considerati vulnerabili – in particolare i minori stranieri non accompagnati e le donne incinte – con la conseguente impossibilità a presentare la domanda d’asilo e a risiedere nella Grecia continentale.

La concessione della revoca della restrizione geografica al momento opera infatti soltanto nei confronti di chi non può ricevere cure mediche adeguate in una delle isole dell’Egeo e se tale condizione sia dimostrabile con una comprovata certificazione di un ospedale pubblico greco.

Detenzione

Il primo di questi “moderni” centri di accoglienza dei richiedenti asilo e dei rifugiati è stato inaugurato il 18 settembre scorso nell’isola di Samos, il cosiddetto campo di Zervos, finanziato dall’Ue con 38 milioni di euro: il centro possiede campi da basket, aria condizionata, cucina accessoriata, adeguati servizi igienici ma, al tempo stesso, si contraddistingue per essere dotato di telecamere di sicurezza, scanner a raggi x – utilizzati per identificare i migranti – tornelli in ingresso e in uscita con orari limitati, porte magnetiche. Non solo, il campo è costantemente pattugliato dagli agenti di polizia greca, circondato da un filo spinato disposto intorno a uno spazio di circa 12.000 chilometri quadrati, posizionato in una valle desolata dell’isola lontano dai centri abitati – proprio come il nuovo campo di Lipa in Bosnia – ma possiede al suo interno un centro detentivo – come se lo stesso campo non lo fosse già – nel quale dovranno rimanere i migranti che devono essere rimpatriati in Turchia in esito al rigetto della domanda d’asilo o perché questa è stata dichiarata inammissibile.

Respingimento

Rispetto alle domande d’asilo si precisa che in Grecia al momento esistono tre tipi di procedure: la procedura “regolare” che si svolge nel continente europeo, la faster border procedure ossia la procedura che si svolge sulle isole dell’Egeo, le procedure accelerate o di frontiera e quelle cosiddette “Dublino”. In particolare, la faster border procedure nelle isole dell’Egeo prevede due fasi: una riguardante il giudizio di ammissibilità, valutata sulla base della nozione di paese terzo sicuro e l’altra concernente l’esame nel merito dei motivi che hanno costretto il richiedente a lasciare il proprio paese di origine. Al riguardo occorre precisare che il 7 giugno di quest’anno,

la Grecia con una decisione ministeriale congiunta ha dichiarato che debba essere considerata la Turchia paese sicuro

per cinque nazionalità dei migranti transitanti lungo la rotta dell’Egeo ossia quella siriana, afgana, bengalese, somala e pakistana.

Turchia, paese sicuro

È chiaro dunque che nell’ambito delle politiche europee oggi ci si sta muovendo ancora sulla scia del già citato accordo Ue-Turchia del 2016, anche se a rigor di logica, ci si chiede come possa essere onestamente considerato sicuro – per un richiedente asilo appartenente alle succitate nazionalità – un paese che ha firmato la Convenzione di Ginevra in modo restrittivo, ossia accettando di riconoscere lo status di rifugiato soltanto ai cittadini provenienti dall’Unione europea. Questo tra l’altro è stato già riscontrato rispetto ai migranti siriani accolti dalla Turchia a partire dal 2015 e soprattutto dal 2016, in esito al succitato accordo, per cui oggi il paese d’ispirazione imperialistica neo-ottomana – attualmente il primo paese al mondo per accoglienza dei migranti – non concede neanche più la protezione temporanea a favore dei siriani ma li strumentalizza per soddisfare le proprie finalità securitarie e di accrescimento della propria sfera di influenza sul suo territorio, favorendo il loro insediamento in zone appartenenti al Kurdistan turco al fine di indebolire le rivendicazioni identitarie del popolo curdo.

I migranti inoltre, siriani e non, sono considerati dalla Turchia un mezzo di ricatto per l’ottenimento di ulteriori finanziamenti dell’Unione,

per cui dal 2020 la Turchia ha cominciato a opporsi ai trasferimenti formali dei migranti respinti dalla Grecia, con l’intento – poi soddisfatto – di ottenere un ulteriore finanziamento dall’Ue mentre chiaramente rimangono sul territorio turco i migranti che hanno fatto ingresso in esso, eludendo i controlli della polizia turca, a seguito dei respingimenti operati dalla Grecia.

gli schiavi della rotta dell'Egeo

Scontri tra migranti e polizia nella buffer zone sul cinfine Turchia-Grecia a Pazarkule, nel febbraio 2020 (foto 4.Murat/Shutterstock).

A tal fine dato di particolare rilievo è il crollo del numero degli sbarchi lungo la rotta – in conseguenza dei pushbacks collettivi ellenici – in cooperazione con Frontex, che da 50.000 nel 2019 sono diminuiti a poco più di 1000 nel 2021, dato questo che si aggiunge a quello della dichiarazione di inammissibilità da parte della Grecia di circa 4000 domande d’asilo.

Dublino, ovvero delle deportazioni

Questo proprio in ragione della considerazione della Turchia come paese sicuro – già prima della dichiarazione ministeriale del giugno scorso – nonché sulla base di argomentazioni concernenti l’erronea applicazione del regolamento di Dublino che ancora prevede, come criterio principale nell’individuazione dello stato competente a trattare la domanda d’asilo, quello del primo paese di ingresso nell’Unione europea.

Rispetto a ciò molti sono i rapporti inquietanti in merito alle modalità con le quali tali respingimenti sono effettuati, come le “deportazioni” notturne – documentate da Amnesty International, Human Rights Watch, da Oxfam e dal Greek Council for Refugees – da parte di uomini con i passamontagna che dai campi prelevano i migranti per introdurli in grossi Van neri e da lì su gommoni diretti in Turchia.

Prima di “deportarli” li denudano completamente per assicurarsi che non abbiano indosso alcun dispositivo – primo tra tutti il cellulare – in grado di filmare tali pratiche e in questa condizione disumana li abbandonano sul territorio turco.

A riguardo va segnalato che a settembre la Grecia ha dovuto sospendere – in conseguenza del ricorso di uno dei tanti migranti respinti nelle isole dell’Egeo che tentavano di accedere alla Grecia continentale – i provvedimenti di rimpatrio in ragione della disposizione di misure ad interim da parte della Corte di Strasburgo (Corte Edu) che, alla fine di agosto, ha ordinato alle autorità greche di garantire condizioni di vita e sanitarie adeguate a favore del ricorrente. Nello stesso provvedimento la Corte ha disposto altresì che la Grecia dovesse revocare la restrizione geografica nelle isole, nel caso di specie l’impedimento a lasciare l’isola di Lesbo attuato nei confronti del migrante parte del giudizio. Già nel 2020 tuttavia la Corte di Strasburgo aveva riconosciuto la necessità di misure ad interim in grado di assicurare migliori condizioni di vita e assistenza sanitaria in seguito alla denuncia presentata da tredici migranti in condizione di vulnerabilità, rappresentati in giudizio dal Legal Centre di Lesvos.

Sottrazioni di servizi e mercato delle adozioni

Va ricordato che i numerosi minori presenti nei campi posizionati sul territorio greco non frequentano la scuola nonostante gli ingenti finanziamenti elargiti dall’Ue al paese ellenico per l’istruzione, di cui 7,5 milioni di euro specificatamente destinati ai bambini rifugiati, per loro inoltre era stato previsto nel 2019 un piano di ricollocamento all’interno dei paesi dell’Unione su base volontaria e per quote: triste dire che nel 2020 esigue sono state le domande accolte dagli stati membri che oltretutto con criteri discrezionali hanno deciso, come in un mercato, di porre dei criteri per l’ingresso come per esempio quello della nazionalità (solo bambini siriani) o dell’età (solo bambini al di sotto dei 12 anni).

Strumentalizzazione di giuste rivolte e devastazioni dell’inferno

Del tutto vana, retorica quanto inutile la dichiarazione pronunciata della commissaria Ue per gli affari interni Ylva Johansson, all’indomani dell’incendio sull’isola di Lesbo: «Mai più Moria». E falsa, considerato che sulle macerie di quel campo si è costruita un’altra tendopoli, costituita da circa 200 tende – il cosiddetto campo “New Kara Tepe” o “Moira 2.0”. A ciò si aggiunga che nessuna responsabilità è stata individuata rispetto alle autorità che erano a capo della gestione del campo – strutturato per accogliere 3000 persone – e che, invece, al momento del rogo, ne accoglieva circa 13.000 in condizioni disumane. Come noto, l’incendio è scoppiato dopo l’individuazione dei primi casi di Covid all’interno del campo con la conseguente assurda decisione di chiuderlo per quattordici giorni invece di mettere in isolamento i pochissimi migranti risultati positivi al virus. Diversa e paradossale inoltre la sorte dei sei afgani, quattro dei quali minori all’epoca dei fatti, ritenuti gli autori dell’innesco che, sottoposti al giudizio in conseguenza della testimonianza di un altro migrante – invero dubbia – sono stati condannati alla pena di 10 anni di reclusione senza avere nessuna possibilità di una vera difesa nel processo.

Marginalizzazione

È chiara dunque la volontà anche dell’esecutivo greco di centrodestra, guidato da Kyriakos Mitsotakis, di rendere invisibili i migranti, “deportandoli” all’interno di ghetti fuori dai centri abitati o dai poli turistici, chiudendo numerosi campi nella Grecia continentale e trasferendoli in lande desolate seppur in campi iperinnovativi.

Tuttavia, si può realmente scambiare con aria condizionata e campi da basket il rispetto dei propri diritti, in particolare l’accesso alla procedura d’asilo, o addirittura godere della libertà personale?

Rivalità locale secolare sfruttata da potenze globali con vittime delocalizzate

Rispetto alle dinamiche geopolitiche che, nella rotta interessano particolarmente i rapporti tra Grecia e Turchia, la questione migratoria e la strumentalizzazione dei migranti con l’Unione che l’agevola, nasconde il gioco di forza tra i due paesi da anni in contrapposizione tra loro per la rivendicazione della supremazia proprio rispetto alle acque dell’Egeo e alle isole che insistono su quel territorio marittimo, nelle quali attualmente sono residenti un elevato numero di migranti. Uscita sconfitta la Grecia dalla guerra del 1919-1922, con il Trattato di Losanna del 1923 si stabilì il ritorno forzato di circa un milione di greci, ellenofoni e turcofoni dal territorio turco – in particolare dalle coste dell’Anatolia – in quello greco. La Grecia riuscì comunque a occupare alcune isole posizionate strategicamente nell’Egeo, anche se prossime alla penisola anatolica, poiché nel corso del conflitto (grazie al sostegno britannico) si sancì di fatto l’interdizione turca ai mari. Infatti le Zone economiche esclusive turche sarebbero scandalosamente ridotte, se l’attività muscolare di Ankara e gli accordi strategici non cercassero di uscire da questo cul de sac volto a contenere l’ambizione ad affrontare il mare aperto di Erdoğan.

Elaborazione Ispi.

Mediterraneo orientale, ma anche l’incursione turca nel mare occidentale

La Grecia oggi come ieri rappresenta infatti – soprattutto per Stati Uniti e Francia – una delle principali risorse geografiche per contrastare la proiezione geopolitica espansionistica turca di Erdoğan, non solo nell’Egeo ma anche nel mar Mediterraneo tenuto conto anche delle postazioni turche in Algeria, Tunisia e in Libia. In particolare, rispetto a quest’ultima vale la pena ricordare l’accordo turco-tripolino, stipulato il 27 novembre del 2019 che si basa sull’irrilevanza del concetto della piattaforma continentale delle isole dell’Egeo come Creta e Rodi, sostenuto invece non solo chiaramente dalla Grecia ma dall’intera comunità internazionale, con la sottoscrizione della Convenzione di Montego Bay del 1982 che definì per la prima volta i criteri con cui spartire le acque tra i due paesi. La Turchia non ha mai ratificato tale convenzione che, se venisse applicata, restringerebbe il suo raggio di azione nei mari dalle 12 miglia alle 6 miglia nautiche occludendo il passaggio delle proprie navi militari dai Dardanelli fino al Mediterraneo orientale. L’accordo con Tripoli, invece sebbene non riconosciuto a livello internazionale consente potenzialmente alla Turchia di rivendicare due tratti di mare amplissimi, non solo nell’Egeo ma anche in parte del Mediterraneo. In reazione a tale accordo la Grecia ha recentemente stipulato due successivi accordi: uno con il governo italiano nel giugno del 2020 e l’altro ad agosto dello stesso anno con l’Egitto.

È facile dunque constatare come la Turchia sia giunta ad avere un controllo dei flussi migratori non solo verso la rotta dell’Egeo, ma anche verso quella balcanica e ora anche verso quella del Mediterraneo che verrà di seguito analizzata.

A sostegno di ciò si sottolinea che l’accordo Ue-Turchia, stipulato nel marzo del 2016, era stato concluso nel prevalente interesse della Germania. Questo sia perché i siriani in fuga nel 2015 erano diretti in primo luogo verso l’Europa centrale, sia poiché da sempre vi è un asse turco-tedesco, essendo la Turchia il primo partner commerciale della Germania che a sua volta ospita una rilevante comunità turca titolare spesso ancora del diritto di voto in Turchia. A giugno del 2021 tuttavia, al vertice con il quale si è dichiarata la volontà di rinnovare per la seconda volta tale accordo, l’ex cancelliera tedesca era affiancata dal presidente del consiglio italiano. Ciò dimostra che ormai il succitato accordo, rinsaldato con un ulteriore bonifico di 3 miliardi di euro, presi dai fondi dalla Cooperazione allo sviluppo dell’Unione, è divenuto la base sulla quale proiettare la politica europea nella gestione dei flussi migratori nelle diverse rotte, con un’evidente incoerenza: da una parte vi è l’intenzione dei paesi dell’Ue – come di altre potenze internazionali quali gli Stati Uniti – di bloccare qualsiasi espansionismo turco a livello geopolitico, dall’altra è sufficiente che la Turchia alzi la voce per chiedere altri finanziamenti volti al contenimento dei migranti e con lo scopo di far obbedire prontamente i leader europei, mettendo da parte le preoccupazioni sull’ambiziosa avanzata della Turchia nelle acque che lambiscono le coste di alcuni paesi dell’Unione. Ci si chiede pertanto, se l’ingresso e l’integrazione dei migranti nel territorio dell’Unione, applicando semplicemente la normativa europea già esistente, sia un pericolo così grave da consentire di porre a rischio la vita di migliaia di persone e, se si vuole parlare in termini di Realpolitik, da permettere a chi è stato definito un “dittatore” il margine per continuare il proprio espansionismo internazionale anche in ambito militare.

L'articolo n. 14 – Oi Barbaroi, gli schiavi della rotta dell’Egeo proviene da OGzero.

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