respingimenti Archivi - OGzero https://ogzero.org/tag/respingimenti/ geopolitica etc Thu, 25 Aug 2022 10:49:53 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.4.6 n. 21 –  Lo “strano” caso della protezione temporanea per i cittadini ucraini https://ogzero.org/il-massiccio-afflusso-di-sfollati-ucraini-e-la-politica-europea/ Tue, 02 Aug 2022 09:46:31 +0000 https://ogzero.org/?p=8359 Proseguiamo l’analisi delle conseguenze migratorie della guerra russo-ucraina, fornendo un panorama giurisprudenziale dei cavilli che regolamentano il massiccio afflusso di sfollati ucraini in Europa, e mettendo in evidenza attraverso le parole di Fabiana Triburgo quanto ancora una volta si riesumi una direttiva che prevede la protezione temporanea, e si offrano sempre soluzioni ad hoc che […]

L'articolo n. 21 –  Lo “strano” caso della protezione temporanea per i cittadini ucraini proviene da OGzero.

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Proseguiamo l’analisi delle conseguenze migratorie della guerra russo-ucraina, fornendo un panorama giurisprudenziale dei cavilli che regolamentano il massiccio afflusso di sfollati ucraini in Europa, e mettendo in evidenza attraverso le parole di Fabiana Triburgo quanto ancora una volta si riesumi una direttiva che prevede la protezione temporanea, e si offrano sempre soluzioni ad hoc che salvano il salvabile ma che dimostrano che ancora non vi è nelle coscienze delle istituzioni dell’Unione una visione lungimirante per affrontare la questione migratoria che è e sarà sempre una costante nella storia dell’umanità.


Afflusso massiccio di sfollati

L’attivazione di strumenti giuridici come conseguenza di dinamiche geopolitiche ha avuto la sua massima espressione con la decisione da parte dell’Unione europea e dei paesi membri di attivare la Direttiva n. 55 del 2001 a seguito dell’attacco sferrato su larga scala nel territorio ucraino da parte della Federazione Russa e dalla Bielorussia il 24 febbraio scorso. La direttiva stabilisce uno standard di norme minime nell’ipotesi in cui nel territorio europeo vi sia un afflusso massiccio di sfollati provenienti da paesi terzi che non possono tornare nel paese d’origine finalizzate alla concessione di una protezione temporanea per i medesimi (art. 1 e art. 2 lett. a direttiva 2001/55/CE) che gli stati membri sono chiamati obbligatoriamente ad attuare.

La migrazione ucraina (Fonte Unhcr, per approfondire la singola situazione degli afflussi paese per paese consultare i dati aggiornati costantemente sul sito https://data.unhcr.org/en/situations)/ukraine#_ga=2.235099137.1057807161.1659368831-42331758.1659368831).

La prima applicazione della Direttiva 55

Ciò appare singolare, non certamente in quanto non si ritenga legittima l’attivazione della direttiva con riferimento alle specifiche circostanze del conflitto ucraino, ma piuttosto poiché è la prima volta in assoluto che tale norma viene applicata, nonostante sia stata ideata appositamente per la guerra nell’ex Jugoslavia – in particolare quella nel Kosovo – e nonostante, se vogliamo soffermarci solo all’ultimo ventennio, altri gravissimi conflitti armati hanno avuto come conseguenza un massiccio afflusso di sfollati che intendevano dirigersi verso l’Europa. A riguardo basti pensare ai cittadini provenienti dall’Iraq, dall’Afghanistan e dalla Siria che nei primi due casi oltretutto fuggivano da conflitti pianificati dall’Occidente. In particolare, più recentemente nel caso dei cittadini afghani in relazione alla presa di possesso del paese da parte dei talebani, ormai quasi un anno fa, è fondamentale ricordare che la direttiva in base all’art. 2 lett. d – è attivabile non solo qualora l’arrivo degli sfollati avvenga spontaneamente ma anche mediante programmi di evacuazione!

Ma per cittadini iraqeni, afghani e siriani solo respingimenti

Nei confronti degli individui provenienti da questi paesi terzi, l’Unione invece non ha mai ritenuto importante lanciare un messaggio a livello internazionale di solidarietà dei paesi membri in ambito migratorio, e – come visto, ripercorrendo le attuali correnti migratorie del vecchio continente – ha messo in atto respingimenti dei migranti, anche a catena da un paese all’altro dell’Unione, impedimenti fisici alla presentazione delle domande d’asilo, anche con l’uso della violenza, nonché finanziamenti per la costruzione di muri, di fili spinati e di campi di confinamento, per citare soltanto alcune delle cosiddette “cattive prassi” dell’esternalizzazione delle frontiere.

Possiamo dunque affermare con certezza che il conflitto in Ucraina abbia scosso talmente tanto la coscienza delle istituzioni europee e dei paesi membri da trovarci oggi in una nuova stagione della politica europea in ambito migratorio? O forse è più lecito pensare che la riesumazione di una direttiva risalente a 21 anni fa ci dice che quando vi sono ragioni squisitamente politiche per un timore, pur legittimo di una guerra prossima ai confini dell’Unione, si è disposti a tutto ma nulla di fatto oggi è davvero cambiato nelle politiche europee nei confronti dei migranti?

La musica non cambia: non è una nuova coscienza istituzionale europea

La speranza è chiaramente che sia la prima delle due ipotesi a rispondere a verità ma rispetto a ciò solo il tempo darà delle risposte chiare e definitive alle suddette questioni. Alcuni dubbi rispetto a un effettivo cambiamento dell’humus europeo tuttavia sorgono in ragione del fatto che la Direttiva 55 del 2001 non sia stata recepita in modo totalmente conforme al suo testo ma, sia nella Decisione del Consiglio dell’Unione Europeo (da non confondere con il Consiglio d’Europa) n. 382 del 4 marzo 2022 che ha “attivato” la direttiva – accertando l’esistenza di un massiccio afflusso di sfollati dall’Ucraina – sia per quanto riguarda l’Italia, nel Decreto della Presidenza del Consiglio dei Ministri (da ora in poi DPCM) del 28 marzo 2022, con il quale è stata recepita, sono state aggiunte delle ulteriori specifiche a livello giuridico che comprimono e non estendono le tutele derivanti dall’applicazione della protezione temporanea e il rilascio del relativo permesso di soggiorno, soprattutto con riferimento alle categorie dei potenziali destinatari, ossia cosiddetti “sfollati”.

Visegrad esclude gli altri cittadini di paesi terzi residenti in Ucraina

Infatti, i cittadini di paesi terzi dell’Unione, chiaramente diversi da quelli ucraini, – pur se residenti o soggiornanti anch’essi in Ucraina al momento dello scoppio del conflitto e fatte salve alcune rare ipotesi che analizzeremo in seguito – non possono chiedere e quindi beneficiare della protezione temporanea nel territorio di un paese membro. Quello che fa riflettere in modo più specifico – conformemente ai dubbi sovraesposti rispetto a un radicale ed effettivo cambiamento delle politiche dell’Unione e di tutti i suoi paesi membri in materia – è che l’esclusione degli altri cittadini di paesi terzi nell’alveo dei beneficiari della protezione temporanea, eccetto i casi eccezionali, sia stata posta da parte dei paesi appartenenti al gruppo di Visegrad, in particolare dalla Polonia, dall’Ungheria, dalla Slovacchia e dalla Repubblica Ceca come conditio sine qua non per  l’approvazione della Decisione di esecuzione del Consiglio, che richiede la maggioranza qualificata (art. 5 Direttiva 55/2001/CE), necessaria per attivare la direttiva del 2001.

Questo d’altronde non stupisce, considerato che – ancor prima dell’entrata in vigore della decisione di esecuzione del Consiglio il 4 marzo 2022, soprattutto in Polonia, venivano fatti entrare milioni di ucraini ed escluse poche migliaia di altri cittadini di paesi terzi provenienti dall’Ucraina, attuando così una vera e propria discriminazione su base razziale. Non solo, la direttiva così come attivata e recepita in Italia non offre neanche una tutela, per così dire lungimirante rispetto alla condizione degli stessi cittadini ucraini, prevedendo sia la Decisione del Consiglio dell’Unione che il nostro DPCM che la direttiva possa essere applicata soltanto ai cittadini ucraini residenti e che vivevano fisicamente in Ucraina prima del 24 febbraio del 2022 ma fuggiti dopo il 24 febbraio del 2022 incluso.

Ragionando per assurdo quindi, un cittadino ucraino fuggito qualche giorno prima del 24 febbraio, magari intuendo l’imminenza del conflitto, in teoria non può oggi beneficiare della protezione temporanea!

Il confine ucraino-polacco (foto dal profilo Twitter di Nico Popescu).

L’inadeguatezza della Direttiva 55

Chiaramente invece la Direttiva 55 del 2001 – anche solo per il fatto di essere stata pensata in ragione di un altro conflitto e dati i suoi caratteri di generalità – non prevede né l’esclusione dei cittadini terzi di cui sopra né i limiti temporali così stringenti per la presentazione della richiesta della protezione temporanea. Per essere più precisi vengono oggi quindi esclusi dall’applicazione della direttiva:  a) tutti i cittadini che il 24 febbraio vivevano fuori dall’Ucraina; b) i cittadini, come già accennato, che sono fuggiti prima del 24 febbraio del 2022 dall’Ucraina; c) tutti i cittadini di paesi terzi diversi dagli ucraini seppur   viventi in Ucraina, alla data del 24 febbraio 2022 – per tornare al gioco forza antimigranti del gruppo di Visegrad – tranne nell’ipotesi in cui fossero già titolari di protezione internazionale o protezione equivalente ai sensi della legge ucraina o titolari di un permesso di soggiorno permanente prima del 24 febbraio 2022 e che solo qualora dimostrino di non poter ritornare in condizioni sicure e stabili nel proprio paese di origine!

Nel Decreto del Consiglio tuttavia al considerando n. 13 e all’art. 3 invece si specifica che tale ultima circostanza – in merito alla sicurezza e alla stabilità del paese di origine per i cittadini dei paesi terzi – può consentire agli stati membri di estendere tale protezione anche a coloro che si trovavano in Ucraina legalmente per un breve periodo quindi per esempio a quanti  fossero titolari di un permesso per motivi di lavoro o di studio al momento degli eventi che hanno determinato l’afflusso massiccio di individui sfollati.

Il nostro DPCM però esclude tale ipotesi e per questo motivo i cittadini di paesi terzi, titolari di permesso di studio e lavoro – fuggiti dall’Ucraina in conseguenza del conflitto e anche qualora nel proprio paese d’origine non sussistano condizioni di stabilità e sicurezza – in Italia non possono vedersi riconoscere in Italia la protezione temporanea.

Sia il Decreto di esecuzione del Consiglio sia il DPCM del 28 marzo 2022 stabiliscono invece che possono beneficiare della protezione temporanea anche i familiari dei cittadini di nazionalità ucraina residenti in Ucraina prima del 24 febbraio 2022 e i familiari dei cittadini dei paesi terzi titolari di protezione internazionale o equivalente in Ucraina. In entrambi i testi normativi, all’art. 4 si elencano infatti le categorie di persone che possono essere considerati familiari, specificando la necessità tuttavia che anche questi soggiornassero in Ucraina già prima del 24 febbraio del 2022. Il Decreto della Presidenza del Consiglio dei Ministri in aggiunta, stabilisce tra i requisiti che i succitati familiari debbano possedere la titolarità di un permesso di soggiorno valido ai sensi del diritto ucraino e il possesso di certificazione attestante il vincolo familiare preventivamente validata, ove possibile, dalla competente rappresentanza consolare. Inoltre, se la direttiva prevede che la durata del permesso di soggiorno per “protezione temporanea” sia di un anno prorogabile fino a due anni, il nostro DPCM all’art. 1, così come la Decisione di esecuzione del Consiglio, prevede che la protezione temporanea abbia la durata massima di un anno (per l’Italia a decorrere dal 4 marzo del 2022). Ancora, sempre secondo il DPCM, il permesso di soggiorno per protezione temporanea – la cui domanda deve essere presentata direttamente nella questura del luogo in cui lo sfollato è domiciliato – dà diritto all’accesso al Servizio Sanitario Nazionale, al diritto allo studio e al lavoro, conformemente a quanto stabilito dall’art. 12 della Direttiva 55/2001.

Non si dimentichi, comunque, che in Italia il 28 febbraio 2022 con una Delibera del Consiglio dei Ministri è stato dichiarato lo stato di emergenza in relazione all’esigenza di assicurare soccorso e assistenza alla popolazione ucraina sul territorio nazionale in conseguenza della grave crisi internazionale in atto.

Italia: stato di emergenza

Come noto, tradotto in termini giuridici, questo consente all’esecutivo di derogare alle consuete norme ordinarie e quindi all’attività parlamentare in merito alla questione migratoria in oggetto, delegando l’esecuzione delle proprie decisioni principalmente alla protezione civile.

A complicare ulteriormente il quadro normativo non solo europeo ma soprattutto interno, nel tentativo di armonizzare la disciplina relativa alla protezione temporanea, vi è il DLgs 85 del 2003 che di fatto aveva già previsto il recepimento della suddetta direttiva, introducendo l’art. 20 nel TUI (Testo Unico sull’Immigrazione) tuttora vigente che prevede anch’esso, in presenza di determinate circostanze, il riconoscimento di tale protezione.

Sotto invece il profilo normativo comune a tutti gli stati membri dell’Unione occorre specificare che

qualora il Consiglio – e questo vale per tutti i beneficiari della protezione temporanea – decidesse di revocare l’attivazione della direttiva, per esempio qualora l’Unione stringesse paradossalmente un accordo con il Capo del Cremlino, il diritto alla protezione temporanea cesserebbe immediatamente e con esso la validità del rispettivo titolo di soggiorno in qualsiasi paese membro dell’Unione.

E i russi in fuga non sono inclusi nella protezione temporanea

Prima di soffermarci sulla compatibilità tra la protezione temporanea e la protezione internazionale che è la protezione comunemente riconosciuta nelle ipotesi di conflitto armato, vale la pena riflettere anche su un’altra categoria di esclusi dalla possibilità di richiedere la protezione temporanea ossia i cittadini russi. Già, perché non sono pochi i cittadini russi che non identificandosi con la decisione del conflitto armato del proprio rappresentante di governo Vladimir Putin abbiano deciso di fuggire dalla Federazione Russa recandosi prevalentemente in paesi come l’Armenia o il Kirghizistan con i quali hanno una comunanza linguistica ma anche perché consapevoli che l’Europa non li considera potenzialmente beneficiari di una protezione temporanea nonostante anche loro siano fuggiti a causa del medesimo conflitto armato! Si ricorda che l’applicazione di un diritto di protezione debba però prescindere da una valutazione politica di uno stato verso un altro e guardare esclusivamente al singolo individuo e ai diritti che gli spettano in quanto tale e non alla nazionalità di sua provenienza se non – come nel caso della protezione internazionale – al fine dell’individuazione di uno dei motivi ai sensi della Convenzione di Ginevra, per il riconoscimento dello status di rifugiato. È proprio la convivenza dell’una e dell’altra disciplina – protezione internazionale e protezione temporanea – a creare tuttavia alcuni problemi giuridici in merito alla corretta applicazione del contenuto della Direttiva 55 del 2001.

Ascolta “Diaspora russa in Armenia” su Spreaker.

Decreti contraddittori

D’altronde le due protezioni sono inscindibilmente legate in ragione del fatto che la protezione temporanea è stata pensata proprio affinché l’afflusso massiccio di sfollati, in conseguenza di un conflitto non possa gravare eccessivamente sul sistema di asilo di ciascun stato membro. La direttiva stabilisce che la protezione temporanea non pregiudica il riconoscimento dello status di rifugiato ma che gli stati membri possano disporre che le persone che hanno ottenuto la protezione temporanea non possano avere al contempo lo status di richiedente asilo. Al riguardo il DPCM all’art. 3 pur stabilendo al comma 1 che il titolare di protezione temporanea possa sempre presentare domanda d’asilo, ai sensi del decreto legislativo n. 25 del 2008 (c.d. Decreto procedure), aggiunge al comma 3 del medesimo articolo – rispetto al testo della direttiva – che questa debba essere momentaneamente sospesa. Ciò significa che il richiedente, titolare della protezione temporanea, non verrà dunque ascoltato dalla Commissione Territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale e questa verrebbe riattivata (non si comprende ancora se in modo automatico o meno) in alcune ipotesi per esempio se il Consiglio dell’Unione decidesse di porre fine all’attivazione della protezione temporanea. Se invece uno “sfollato” ha già presentato domanda di protezione internazionale e successivamente presenta domanda di protezione temporanea – fintanto che non si veda rilasciare il relativo permesso – verosimilmente beneficerà dell’una o dell’altra forma di protezione a seconda di quale iter delle due domande si svolgerà in modo più celere.

Non è escluso pertanto che qualora la valutazione della domanda di protezione temporanea richieda più tempo del previsto, nel mentre “lo sfollato” possa essere convocato dalla Commissione territoriale e vedersi riconoscere quantomeno la protezione sussidiaria – poiché in fuga da un conflitto armato internazionale ai sensi dell’art. 14 del Dlgs 251/2007 (c.d. Decreto qualifiche) – se non addirittura lo status di rifugiato. Si ricorda che secondo l’art. 3 comma 4 del DPCM del 28 marzo 2022 il riconoscimento della protezione internazionale preclude l’accesso al beneficio della protezione temporanea. In particolare, al cittadino ucraino, oltre all’ipotesi del rifugiato sur place – ossia quella del cittadino di paese terzo già presente e soggiornante in Italia ad altro titolo al quale viene riconosciuto comunque il diritto di presentare domanda di protezione internazionale per ragioni sopravvenute – potrebbe essere riconosciuto lo status di rifugiato nell’ipotesi in cui sia un obiettore di coscienza rispetto al conflitto armato, un disertore della leva obbligatoria in ragione dei crimini compiuti nel corso del conflitto al quale avrebbe dovuto prendere parte, perché appartenente a minoranze etniche/nazionali – come potrebbe avvenire per i cittadini ucraini del Donbass – o nell’ipotesi in cui appartenga a una delle minoranze russofone in Ucraina. Infine, secondo un’interpretazione più estensiva, lo status potrebbe essere riconosciuto anche a tutti i cittadini ucraini in quanto più genericamente individui perseguitati in ragione della propria nazionalità.

L’asilo non richiesto

Si precisa in questa sede, senza entrare precipuamente nel merito, che i cittadini ucraini in particolari circostanze, potrebbero beneficiare, a determinate condizioni, altresì in Italia della “protezione speciale” erede della protezione umanitaria abrogata dal cosiddetto Decreto Salvini ossia il DL n. 113 del 2018 che ha subito una forte estensione con il cosiddetto Decreto Lamorgese, ossia il DL n. 130 del 21 ottobre 2020, convertito nella Legge n. 173 del 2020. È stato chiaro in ogni caso come fin dall’inizio i cittadini ucraini non volessero presentare domanda d’asilo principalmente per due ragioni: in particolare la prima, più facilmente intuibile, poiché qualora venisse loro riconosciuto lo status non potrebbero far ritorno nel proprio paese d’origine, l’altro più specifico è perché al momento della presentazione della domanda di protezione internazionale dovrebbero lasciare il proprio passaporto in questura e questo non consentirebbe loro di andare a trovare i propri familiari ancora in Ucraina.

Si ricorda infatti che nel caso di presentazione della domanda di protezione temporanea il cittadino ucraino non solo mantiene il proprio passaporto ma ha il diritto di circolare liberamente nel territorio dell’Unione per un periodo massimo di 90 giorni come turista, ossia senza possibilità di lavorare ma anche di entrare e uscire nel territorio ucraino ai sensi dell’art. 6 comma 1 del DPCM al fine di prestare soccorso ai propri familiari.

Sempre con riferimento alla domanda d’asilo, in particolare in relazione all’applicazione del Regolamento Dublino che individua lo stato membro competente a trattare la domanda di protezione internazionale, è necessario sottolineare un’ulteriore differenza tra i cittadini ucraini che abbiano deciso di presentare domanda di protezione internazionale in conseguenza del conflitto armato, rispetto agli altri cittadini di paesi terzi che comunque sono fuggiti per la medesima ragione.

I cittadini ucraini infatti sono cittadini “esenti visto”, ciò vuol dire che per poter circolare nel territorio dell’Unione non hanno necessità di alcun visto di ingresso. Per tale ragione per il cittadino ucraino fuggito dal conflitto nel proprio paese di origine non è essenziale accertare che il paese nel quale abbia presentato domanda di protezione internazionale sia effettivamente il paese europeo di primo ingresso. Viceversa, gli altri cittadini terzi dell’Unione, diversi dagli ucraini, non sono esenti visto, ragione per la quale qualora presentino domanda di protezione internazionale, per esempio in Italia è necessario che dichiarino di non aver prima varcato il territorio di un altro paese europeo. Ciò chiaramente risulta altamente improbabile e quindi difficile da credere anche qualora al cittadino del Paese terzo non siano state prese le impronte in un paese o più paesi membri diversi da quello in cui è stata presentata la domanda di protezione internazionale. In conclusione, si può affermare che la protezione temporanea, almeno con riferimento alla sua applicazione in Italia, non ha rappresentato il simbolo del superamento di ancestrali recrudescenze rispetto all’ingresso di cittadini di paesi terzi ma ha avuto una particolare efficacia in ragione di alcune caratteristiche della migrazione ucraina. Sono gli stessi ucraini infatti ad aver superato qualsiasi questione in merito alla distribuzione solidale legata alla loro accoglienza nel territorio dell’Ue, essendosi collocati spontaneamente e autonomamente  nel paese membro nel quale più agevole era la fuga o maggiore erano i contatti familiari e poiché hanno principalmente optato per un sistema di accoglienza privato presso amici e  familiari e non per il sistema di accoglienza pubblico degli stranieri in Italia attraverso i Cas (Centri di accoglienza straordinari) o i Sai (centri per l’accoglienza e l’integrazione) i cui posti è bene ricordarlo sarebbero stati insufficienti ad accogliere tutti i profughi arrivati in conseguenza del conflitto.

Questo viene confermato dall’ordinanza n. 881 del 28 marzo del 2022 secondo la quale il capo della Protezione civile ha stabilito l’erogazione di un contributo una tantum per un massimo di tre mesi per i cittadini ucraini che abbiano optato per un’accoglienza presso privati.

È chiaro quindi che la protezione temporanea sia stata attivata in Europa, a seguito del conflitto ucraino, in ragione del fatto che non si sarebbe potuto procedere all’esame individuale della domanda di tutti i cittadini ucraini che avessero voluto presentare la protezione internazionale in ciascun stato membro e che gravissima è l’esclusione dei cittadini dei paesi terzi diversi dagli ucraini che sono scappati dall’Ucraina sempre per l’aggressione armata russa.

Ancora una volta la miopia europea

Tale visione è fortemente miope e si spera venga superata, se necessario a livello giurisprudenziale, considerando piuttosto l’effettivo radicamento nel territorio ucraino del cittadino del paese terzo a prescindere dal proprio titolo di soggiorno in Ucraina. Quello che si nota inevitabilmente ancora una volta, con la riesumazione di una direttiva che prevede la protezione temporanea, è che si offrono sempre soluzioni ad hoc che salvano il salvabile ma che dimostrano

che ancora non vi è nelle coscienze delle istituzioni dell’Unione una visione lungimirante per affrontare la questione migratoria che è e sarà sempre una costante nella storia dell’umanità.

L'articolo n. 21 –  Lo “strano” caso della protezione temporanea per i cittadini ucraini proviene da OGzero.

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N. 20 – Polonia e Unione Europea: il segnale non intercettato dell’imminente conflitto in Ucraina https://ogzero.org/polonia-e-unione-europea-il-segnale-non-intercettato/ Mon, 27 Jun 2022 17:33:53 +0000 https://ogzero.org/?p=7994 I campanelli di allarme che non sono stati ascoltati erano tutti nel vacillare degli assetti politici dell’Europa centrale. Attraverso una lettura attenta anche dal punto di vista giuridico delle normative, Fabiana Triburgo fa emergere i cavilli e le deroghe che rendono possibile una strumentalizzazione del migrante che corrisponde alle strategie politiche e geopolitiche degli stati […]

L'articolo N. 20 – Polonia e Unione Europea: il segnale non intercettato dell’imminente conflitto in Ucraina proviene da OGzero.

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I campanelli di allarme che non sono stati ascoltati erano tutti nel vacillare degli assetti politici dell’Europa centrale. Attraverso una lettura attenta anche dal punto di vista giuridico delle normative, Fabiana Triburgo fa emergere i cavilli e le deroghe che rendono possibile una strumentalizzazione del migrante che corrisponde alle strategie politiche e geopolitiche degli stati membri (e non) dell’Unione Europea in difficoltà attraverso patti e accordi che rendono possibile attuare respingimenti illegali, costruire ancora muri e campi di detenzione con la scusa di false emergenze. In questo saggio si analizza il caso di Polonia e Unione Europea, nel suo sviluppo all’interno di un contesto più ampio di interessi internazionali scatenatisi con la guerra ucraina.


Risulta sempre più evidente come i flussi dei movimenti umani non siano semplicemente fenomeni da valutare nell’ambito dei temi riguardanti le politiche migratorie di uno o più stati o più specificatamente rispetto al sistema normativo in materia ma piuttosto qualificabili quali eventi che nascondono questioni, giochi di forza e interessi geopolitici dei quali sono la diretta conseguenza e, non come si potrebbe superficialmente pensare, la causa. Ciò emerge anche rispetto al conflitto armato in corso in Ucraina: rileggere all’indietro alcuni accadimenti della storia degli ultimi due anni dell’Europa orientale ci consente di comprendere come il fenomeno migratorio, così come era andato strutturandosi già nell’agosto del 2021 e ancor prima – almeno negli intenti di due attori statali dell’area ossia Russia e Bielorussia – fosse uno dei primi e più rilevanti campanelli d’allarme che gli assetti politici – apparentemente calcificati a livello geografico lungo la nuova cortina di ferro – stavano cominciando a vacillare. Gli eventi verificatisi a partire dal 2020 potrebbero dunque essere definiti iniziali scosse di terremoto che, a distanza di oltre trent’anni dalla caduta del muro di Berlino, hanno risvegliato il sottosuolo degli equilibri internazionali creando delle faglie o – visti gli attuali sviluppi del conflitto ucraino – vere e proprie voragini, simbolo di questioni silenti ma non certo più esistenti. Occorre dunque per l’analisi dei flussi migratori nell’Europa orientale – certamente anomali, per come sono andati delineandosi, ma non particolarmente emergenziali quantitativamente come invece si è voluto lasciare intendere – tornare indietro all’estate del 2020 quando il presidente bielorusso Lukashenko, in carica dal 1994, è stato rieletto con circa l’80% dei voti favorevoli ma al contempo accusato di brogli elettorali al punto da essere destinatario di violente proteste da parte della popolazione civile finalizzate a far cadere il regime. A questo punto il primo elemento rilevante è che l’ondata di proteste che interessò gran parte della popolazione bielorussa anche prima delle elezioni venne foraggiata dalla Lituania e dalla Polonia.

Proteste a gennaio 2014 a Kiev (foto Roman Mikhailiuk / Shutterstock).

La strumentalizzazione dei migranti

In particolare, la Polonia costituisce l’ultimo avamposto dell’Alleanza Atlantica o meglio ancora l’ultimo stato satellite degli Stati Uniti a livello militare in quell’area. Con gli Stati Uniti la Polonia vanta solidi patti di cooperazione e intese che non sono esattamente speculari rispetto al tipo di relazioni che la Polonia intrattiene con l’Unione, pur essendone a tutti gli effetti un paese membro.

Il tentativo quindi di Polonia e Lituania in quel momento di voler far entrare la Bielorussia nella sfera di influenza posta dall’altro lato della cosiddetta “nuova cortina di ferro”, cercando di rafforzarla a proprio vantaggio, è stata percepita come una pericolosa provocazione dal regime di Lukashenko che ha quindi prontamente provveduto a chiedere il sostegno militare e politico del capo del Cremlino Vladimir Putin che è riuscito a sedare le proteste popolari nel paese a lui alleato e con il quale ha successivamente sottoscritto 28 programmi per l’unione statale.

Si pensi come negli ultimi anni il presidente russo prima in Siria ma a gennaio del 2021 anche in Kazakistan, sia intervenuto su esplicita richiesta dei leader al potere per mantenere lo status quo a livello politico, spesso con il beneplacito di buona parte della comunità internazionale, sebbene non palesemente espresso. Tutto questo per far riflettere che a livello politico il leader di uno stato acquisisce sempre più potere nella misura in cui altri attori statali gli attribuiscono un ruolo fondamentale nel dirimere talune annose questioni internazionali. Tuttavia, la crisi di governo bielorussa e l’intervento del capo del Cremlino che in un primo momento sembrava fosse una vicenda eccezionale – risolta ristabilendo l’allineamento al preesistente asse della cortina di ferro – nascondeva evidentemente proiezioni geopolitiche molto più ambiziose, emerse un anno dopo, proprio mediante quella che è stata definita “strumentalizzazione della questione migratoria”.

Le proteste in Kazakhstan.

Il piano orchestrato

Iniziata apparentemente come una pressione migratoria che Minsk intendeva porre limitatamente al confine lituano e che, come si scrisse allora, venne attuata per lanciare un messaggio all’Unione Europea in ragione delle sanzioni applicate alla Bielorussia in seguito al dirottamento dell’aereo della Ryanair con a bordo i due dissidenti del regime di Lukashenko, a settembre dello stesso anno raggiungeva invero risvolti ben più allarmanti. Infatti, con la spinta dei migranti attuata da Minsk al confine con la Polonia si delineavano più nettamente i profili di un piano orchestrato ad hoc del quale – anche qualora il presidente russo non si voglia definire il regista – non si può non qualificare quale complice, avendo mostrato di non voler intervenire nella vicenda, nonostante – considerati  i rapporti con la Bielorussia – avrebbe potuto fermarla in qualsiasi momento e tenuto conto degli ignorati appelli di sostegno più volte avanzati telefonicamente dall’allora cancelliera tedesca Angela Merkel.

In realtà si può affermare che l’appoggio della Russia a Minsk nella questione migratoria è stato la conditio sine qua non affinché essa si realizzasse. Al riguardo non si dimentichi che la quasi totalità dei migranti, prima spinti al confine bielorusso verso la Lituania e in seguito verso la Polonia, provenissero dal Medioriente – principalmente iracheni curdi, afghani e siriani – e che beneficiarono di un rilevante numero di rilasci di visti turistici per la Bielorussia nella quale arrivarono attraverso compagnie aeree turche. Non si può sottovalutare infatti che la Russia vanti un rapporto privilegiato con la Turchia: i due paesi – come più volte detto – sono in una condizione di continuo antagonismo nello scacchiere internazionale ma dimostrano di avere un reciproco rispetto nelle decisioni in politica estera. Ciò si traduce nel fatto che quando le circostanze lo richiedono sono in grado di stringere accordi, compromessi, alleanze per fronteggiare le questioni che man mano si presentano, soprattutto in situazioni di conflitti armati come in Nagorno Karabakh o ancor di più in Siria relativamente alla questione dei curdi.

Ascolta “Mosca chiude: autarchia senza prospettive” su Spreaker.

Il ruolo della Turchia

Non si può del tutto escludere dunque il coinvolgimento, almeno in un primo momento, della Turchia in questa specifica strumentalizzazione dei migranti portata avanti da Minsk. D’altra parte la Turchia è già avvezza a tattiche, o meglio strategie, basate sulla questione migratoria per il soddisfacimento dei propri interessi espansionistici ma anche puramente economici. Basti pensare al più volte citato accordo di 6 miliardi di euro elargiti dall’Unione Europea alla Turchia – recentemente rinnovato – per “l’accoglienza/trattenimento” nel proprio territorio dei profughi siriani per scongiurare la solita “invasione” che avrebbe coinvolto il vecchio continente.

E, di nuovo, i diritti violati

Come si può tristemente constatare tuttavia la cosiddetta invasione non sarebbe mai avvenuta e non ci sarebbe alcuna questione geopolitica in merito sulla quale discutere nell’ipotesi di obbligatoria ed equa ripartizione dei flussi migratori nei 28 stati dell’Unione, attraverso piani di ricollocamento, ancorati a indici demografici e del prodotto interno lordo dei paesi di destinazione. In questa sede ciò che interessa è la continua violazione dei diritti fondamentali dei migranti attuata dalla Polonia a partire da settembre 2021 quando le forze armate bielorusse cominciarono a scortarli verso quel tratto di confine tra i due stati. Va preliminarmente sottolineato che la Polonia – trovatasi in tale situazione – ha deciso di agire fin da subito in completa autonomia, senza consultare o dar seguito alle istanze – come vedremo in seguito prevalentemente di facciata – provenienti dalle istituzioni dell’Unione rispetto alla “crisi migratoria (?!)” che si stava verificando sul proprio territorio. A settembre del 2021 quindi il capo di stato polacco con l’approvazione del Parlamento proclama lo stato di emergenza che poi rinnova prontamente nel mese di novembre. Ai migranti dunque – anche richiedenti asilo – non viene data la possibilità di entrare nel territorio polacco e di presentare la domanda di protezione internazionale. Uomini singoli, soggetti vulnerabili tra cui minori, nuclei familiari e donne incinte vengono fatti stazionare al di fuori dei check point polacchi all’addiaccio.

Tuttavia, l’intento di ignorare esseri umani in difficoltà e respingerli prima dell’ingresso, oltre a violazioni formali del diritto internazionale – primo tra tutti il principio di non-refoulement – e del diritto europeo in materia d’asilo, ha causato la morte nel 2021 di ben 21 persone!

Ci si potrebbe fermare su questo dato che per la sua gravità non ammette giustificazioni di sorta e non solo con riferimento all’Unione ma a tutti i paesi membri che non sono intervenuti nella vicenda. La discussione invece in modo sterile si è sviluppata sul fatto che a Spagna, Grecia e Italia non è stato mai offerto alcun sostegno con arrivi numericamente più elevati. Ci si chiede perché in tali situazioni invece di fare confronti non si convoglino le forze politiche dell’Unione per cogliere l’occasione  di un atteggiamento politico diverso e per rivedere gli assiomi europei attuati – diversi da quelli teorizzati – dando un segnale forte, in modo tale che nessuna strumentalizzazione dei migranti produca più effetti sull’Unione o su uno dei paesi membri e non perché venga ignorata o repressa ma perché vengano rispettate le norme sul diritto d’asilo già vigenti e finalmente messo in atto il principio di solidarietà di cui all’art. 78 del trattato sul funzionamento dell’Unione.

Il punto debole dell’Unione

È chiaro infatti che a livello internazionale gli stati che hanno proiezioni egemoniche, spesso in contrasto con gli interessi del vecchio continente, hanno ben compreso – vedi Russia e Turchia – come la questione migratoria sia il vero, grande punto debole dell’Unione con il quale ricattarla, dato che non riesce in alcun modo a gestirla, se non cercando di renderla invisibile e traghettandola al di là dei propri confini. Tuttavia, visto che a quanto pare il fatto che degli esseri umani siano lasciati in tali indegne e mortifere condizioni non desta alcuna indignazione e non comporta mutamenti delle tattiche degli stati membri forse è il caso di cominciare più cinicamente a riflettere sulle conseguenze politiche ed economiche (che forse interessano maggiormente) che il perpetrare di tali comportamenti implicano e che sono ben più gravi rispetto all’adozione di un’accoglienza condivisa dei migranti soprattutto in un  caso come quello della Polonia rispetto al quale, data anche l’estensione del suo territorio e il numero di rifugiati accolti è un’eresia definire crisi o situazione di emergenza migratoria l’arrivo di 10.000 migranti!

Muri e centri di detenzione

Nonostante ciò sono stati apportati emendamenti alla normativa nazionale polacca in materia di migrazione – che a quanto pare però non vengono applicati (fortunatamente, anche se non si capisce la differenza con gli altri profughi) ai profughi ucraini – rendendola più restrittiva così come era avvenuto in Lituania e sempre alla stessa stregua si è realizzata la costruzione di un muro al confine con la Bielorussia lungo circa 186 chilometri e alto 5 metri e mezzo oltre, alla costruzione di ulteriori tre centri di detenzione all’interno dei quali in ogni stanza sono ammassate circa 22 persone in meno di 2 metri quadri ciascuno per potersi muovere.

Istituzioni in difficoltà

Nessuna novità quindi o quasi. Infatti, per quanto riguarda l’analisi dei profili giuridici, rispetto a tale vicenda, va posta attenzione sulla proposta di regolamento avanzata alla fine del 2021 dalla Commissione europea riguardo le misure che gli stati membri possono adottare in caso di strumentalizzazione dei flussi migratori ossia la “Proposta di regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio volta ad affrontare le situazioni di strumentalizzazioni nel settore della migrazione e l’asilo”.

Prima di entrare nel merito del testo va preliminarmente detto che se un’istituzione europea “alla bisogna” compone un testo giuridico ad hoc per fronteggiare una situazione squisitamente politica – quando tra l’altro si è presentata già una proposta di regolamento europeo nei casi di crisi e di forza maggiore nel settore della migrazione e dell’asilo” – dimostra di essere in palese difficoltà.

Tuttavia, anche in questo testo normativo non solo non si evidenzia alcun cambiamento di visione ma si è andati ben oltre ogni limite del rispetto dei diritti fondamentali degli individui migranti per cui si auspica vivamente che il Parlamento europeo non approvi tale proposta, assurda sotto il profilo giuridico.

Nella relazione introduttiva alla proposta di regolamento viene delineato l’ambito di applicazione del medesimo ancorandolo a quelle situazioni nelle quali gli attori statali utilizzino «i flussi migratori come strumento per fini politici, per destabilizzare l’Unione europea e i suoi Stati membri».

Il diavolo sta nei dettagli

A conferma della singolarità del testo normativo in oggetto e del suo contenuto squisitamente politico – dettato da un evidente senso di preoccupazione rispetto alla situazione allora in corso – si noti come in esso vi siano, in modo del tutto inconsueto per un atto giuridico, addirittura specifici riferimenti alla situazione geopolitica in prossimità di quel confine che emergono mediante l’impiego di espressioni quali «in risposta alla strumentalizzazione delle persone da parte del regime bielorusso» o mediante l’utilizzo di termini politici – o ancor meglio propri del gergo militare – per definire la  strumentalizzazione, come per esempio «attacco ibrido in corso lanciato dal regime bielorusso alle frontiere dell’UE».

C’è da dire infatti che nella proposta di regolamento non viene data alcuna puntuale definizione giuridica del termine “strumentalizzazione” – rendendo più estesa e quindi più pericolosa l’applicazione del regolamento a situazioni che potrebbero verificarsi in futuro – tanto che per ricavarla è necessario far riferimento ad un altro testo giuridico (già analizzato nell’articolo relativo ai flussi migratori al confine Ventimiglia-Menton) ossia la proposta di modifica del Regolamento Shenghen del 14 dicembre 2021 che all’art. 2 (con l’introduzione del punto 27) stabilisce che

la «strumentalizzazione dei migranti è la situazione in cui un paese terzo istiga flussi migratori irregolari  verso l’Unione incoraggiando o favorendo attivamente lo spostamento verso le frontiere esterne di cittadini di paesi terzi già presenti sul suo territorio o che transitino sul suo territorio se tali azioni denotano l’intenzione del paese terzo di destabilizzare l’Unione».

Per quanto attiene alle conseguenze della “strumentalizzazione” inoltre è necessario che la natura delle azioni del paese terzo sia potenzialmente tale «da mettere a repentaglio le funzioni essenziali dello stato quali la sua integrità territoriale, il mantenimento dell’ordine pubblico o la salvaguardia della sicurezza nazionale». Sono chiaramente delle conseguenze gravissime ma dato che la proposta di regolamento in esame è stata stilata specificatamente per la situazione al confine polacco-bielorusso, o comunque in conseguenza di questa, ci si chiede:

può realmente l’arrivo di circa 10.000 migranti in Polonia potenzialmente mettere a repentaglio l’integrità del suo territorio, il mantenimento del suo ordine pubblico o mettere a rischio la sicurezza nazionale?!

Anomalie e volute mancanze

Inoltre, si fa riferimento alla solita dizione “migranti irregolari” quando, come noto, il richiedente asilo è irregolare nella quasi totalità dei casi perché in fuga dal proprio paese d’origine – e non è certamente ammissibile che nell’ipotesi della strumentalizzazione attuata da uno stato terzo – non abbia il medesimo diritto di altri richiedenti a presentare la domanda di protezione internazionale! Per di più altre anomalie – o meglio volute mancanze – si rilevano nel testo del regolamento: non vi è alcuna menzione di indicatori, in particolare di tipo quantistico, con i quali delineare la strumentalizzazione, per cui – ragionando per assurdo – anche due soli migranti strumentalizzati potrebbero portare all’applicazione del regolamento. Ancora più pericoloso è che il regolamento, qualora venga applicato, sia idoneo a comportare gravissime deroghe al rispetto dei diritti fondamentali in materia d’asilo.

Deroghe e cavilli

La prima deroga è relativa alla registrazione delle domande d’asilo prevista all’art. 2 (“Procedura di emergenza per la gestione dell’asilo in una situazione di strumentalizzazione”): in caso di domande presentate alla frontiera, tra l’altro in punti specifici, il termine è di ben 4 settimane per la loro registrazione (e non per l’esame!), durante le quali ovviamente i profughi restano al di fuori del territorio dell’Unione. In secondo luogo, lo stato può decidere alle sue frontiere o più genericamente nelle zone di transito, «sull’ammissibilità e il merito di tutte le domande» registrate nell’arco del periodo in cui il regolamento viene applicato. Ciò quindi senza alcun riferimento alla nazionalità di alcuni profughi come i cittadini afgani per i quali sarebbe facilmente ipotizzabile una palese fondatezza della domanda di protezione internazionale.

L’unica priorità legata alla visibile fondatezza delle domande è quella data a quelle presentate dai minori o dai nuclei familiari ma ciò che è fondamentale ricordare è che comunque tutta la procedura anche in questi casi è una procedura squisitamente di frontiera! All’art. 4 (“Procedura di emergenza per la gestione dei rimpatri in una situazione di strumentalizzazione”) si deroga inoltre rispetto al regolamento sulla procedura d’asilo e all’applicazione della direttiva rimpatri: viene meno in questo modo il diritto ad un ricorso effettivo in caso di rigetto della domanda di protezione internazionale.

Più esattamente resta il diritto alla presentazione del ricorso ma senza che questo implichi un diritto di permanenza nel territorio dell’Unione nelle more dell’attesa di una decisione in merito e ciò a meno che non venga accolta un’istanza di sospensiva degli effetti della decisione di rigetto del ricorso.

Si precisa tuttavia che qualora l’istanza di sospensiva non venga comunque accolta è disposto l’allontanamento immediato del richiedente asilo, pur se «nel rispetto del principio di non refoulement».

Inoltre, l’ipocrisia di questa proposta di regolamento si riscontra tanto nell’articolo 3 che nell’articolo 5. Nel primo infatti (“Condizioni materiali di accoglienza”) si fa riferimento a misure di accoglienza «diverse» nel caso di applicazione del regolamento e non inferiori come in realtà sono – cercando di celare i propri intenti – dietro l’espressione «in grado di soddisfare le esigenze essenziali del migrante»: si noti al riguardo quanta discrezionalità possa nascondersi dietro al termine «esigenze essenziali». Nell’articolo 5 invece (“Misure di sostegno e solidarietà”) si raggiunge l’apice dell’assurdo. La solidarietà degli altri paesi membri, qualora venga richiesta, prevista nei confronti dello stato membro vittima di una strumentalizzazione dei migranti – anche se per inciso le vere vittime della strumentalizzazione sono i migranti stessi – non è certamente quella di una ripartizione per quote dei profughi tra gli stati ma l’impiego di «misure di sviluppo delle capacità, misure a supporto dei rimpatri» che vuol dire il semplice invio di funzionari e personale appartenenti agli altri stati membri per fronteggiare la situazione “emergenziale” nonché  provvedimenti operativi a sostegno dei rimpatri.

È chiaro quindi come anche in questa circostanza l’intento reale della Commissione, con tale proposta, non sia quello di offrire a livello europeo un supporto allo stato in una situazione “emergenziale” dal punto di vista migratorio, ma quello di assicurarsi il rinforzo delle misure di frontiera al fine di porre velocemente fine a tale situazione cercando di attuare il rinvio degli individui arrivati alle porte del territorio dell’Unione il più velocemente possibile.

Gli eventi tuttavia sono sempre un passo avanti nell’imprevedibilità del loro verificarsi rispetto a qualsiasi logica o tentativo di controllo sia esso da parte degli esseri umani, degli attori statali o delle istituzioni europee e internazionali.

La solidarietà “mirata”

Alla fine del 2021 si scrisse tale proposta per l’arrivo di circa 10.000 migranti, inconsapevoli che da lì a poco si sarebbe scatenato un conflitto di portata internazionale in Ucraina alle porte dell’Unione in ragione del quale, per l’arrivo di milioni di profughi, sarebbero caduti di fatto come le tessere di un domino gli emendamenti polacchi in materia di migrazione insieme ad ogni velleità europea di contenimento e con la conseguente apertura dei confini degli stati membri. Perché dunque non pensare prima a rendere effettiva la solidarietà europea per esseri umani che avevano e hanno gli stessi diritti dei cittadini ucraini? E ancora, non conviene riflettere come per interessi economici ed energetici si è scesi a patti e sotto ricatto del leader del Cremlino e come forse non si stia facendo lo stesso errore individuando Erdoǧan come mediatore per la risoluzione di tale conflitto, considerato come detto che egli stesso è sospettato di essere stato complice della pressione iniziale dei flussi migratori al confine con la Lituania? Corsi e ricorsi storici a quanto pare spesso nulla insegnano.

barriere e ostacoli

L'articolo N. 20 – Polonia e Unione Europea: il segnale non intercettato dell’imminente conflitto in Ucraina proviene da OGzero.

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n. 18 – Tra mare e boschi alpini. La frontiera che uccide (II) https://ogzero.org/la-cancellazione-del-diritto-alla-mobilita/ Wed, 13 Apr 2022 19:20:10 +0000 https://ogzero.org/?p=7034 Movimenti secondari dei flussi migratori si riscontrano, oltre che tra Francia e Inghilterra, anche in prossimità dei confini italo-francesi, più specificatamente in Alta Val di Susa e a Ventimiglia. Nella frontiera Nordovest dell’Italia con la Francia si registra un’importante corrente migratoria che ogni anno nell’ultimo triennio ha visto il transito di circa 100.000 persone e […]

L'articolo n. 18 – Tra mare e boschi alpini. La frontiera che uccide (II) proviene da OGzero.

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Movimenti secondari dei flussi migratori si riscontrano, oltre che tra Francia e Inghilterra, anche in prossimità dei confini italo-francesi, più specificatamente in Alta Val di Susa e a Ventimiglia. Nella frontiera Nordovest dell’Italia con la Francia si registra un’importante corrente migratoria che ogni anno nell’ultimo triennio ha visto il transito di circa 100.000 persone e che vede intensificarsi la repressione poliziesca che bloccano gli autobus in transito, bloccano le persone in movimento in situazioni fatiscenti e pericolose, applicando la cancellazione del diritto alla mobilità grazie a una legislazione europea che va sancendo un po’ alla volta la cancellazione del Codice Schengen e il “collaborazionismo transfrontaliero” tra polizie. Fabiana Triburgo, Emilie Pesselier, Chiara Maugeri e Daniela Trucco uniscono le loro competenze e i loro materiali in questo articolo, corredato dalle riprese video girate da Stefano Bertolino fonte di notizie anche sul passaggio del Colle dell’Agnello e nella sua provvidenziale presenza sui Balzi Rossi nel 2015, lungo il confine meridionale italo-francese, che vede da un lato e dall’altro persone solidali e squadracce intolleranti.


La rotta secondaria Ventimiglia-Menton

La rotta migratoria dalla città di Ventimiglia alla città di Menton – primo avamposto del confine meridionale francese con l’Italia – viene percorsa sia con il treno che transita tra le stazioni delle due città, sia in macchina – principalmente avvalendosi dei passeurs e infine a piedi mediante il cosiddetto “Passo della Morte”, il sentiero non indicato sulle cartine topografiche – in prossimità della località italiana di Grimaldi, frazione del comune di Ventimiglia – che attraversa Francia e Italia e che in passato ha visto il passaggio dei migranti provenienti dal conflitto civile dell’ex Jugoslavia ma anche quello di persone che più generalmente fuggivano da persecuzioni come Sandro Pertini da quella fascista e gli ebrei da quelle razziali del 1938.

Mappa della zona con indicati gli uffici della polizia di frontiera italiana e francese, il posto di sostegno Kesha Niya, il passaggio del Passo della Morte e il valico di confine Ponte San Ludovico. Fonte: Serena Chiodo e Anna Dotti (Rosa Luxembourg Stiftung, Bruxelles).

L’imbuto che raccoglie rotta balcanica e mediterranea

La rotta è percorsa prevalentemente da migranti provenienti dall’Africa subsahariana dopo aver attraversato la rotta del Mediterraneo centrale ed essere transitati o aver soggiornato in Italia; minore invece è la percentuale al momento dei migranti che tenta di percorrerla dopo aver attraversato quella dei Balcani – soprattutto cittadini afghani. Il motivo prevalente che caratterizza i movimenti secondari, tuttavia, è quello di legami familiari o affettivi che evidentemente non vi sono nel primo paese di approdo.

Nell’analisi delle caratteristiche peculiari di tale rotta secondaria è opportuno porre attenzione alla nuova proposta di modifica normativa del Codice frontiere Shengen avanzata dalla Commissione europea il 14 dicembre del 2021.

Disposizione di legge: cancellare il diritto alla mobilità

L’intenzione di chi scrive è quella di dare un contributo di sensibilizzazione rispetto a un contingente tentativo di aggiramento delle normative europee e internazionali vigenti, attraverso l’introduzione di nuove disposizione di legge volte a impedire in ogni modo i flussi migratori all’interno del territorio dell’Unione; non solo quindi alle frontiere esterne – come si è visto nella maggior parte degli articoli riguardanti le attuali correnti migratorie – ma anche a quelle interne all’Unione, come già parzialmente approfondito anche nel precedente articolo riguardante il confine italo-francese Oulx-Monginevro/Briançon. La proposta infatti, qualora venisse approvata dal Parlamento e dal Consiglio europeo, potrebbe essere foriera di importanti conseguenze giuridiche, sia rispetto al Regolamento Dublino – più specificatamente in merito al trasferimento di un cittadino di un paese terzo da un paese all’altro dell’Unione – sia in relazione a un maggior ricorso a dispositivi di alta tecnologia per il tracciamento dei movimenti secondari – con scarsa tutela dei diritti della persona – sia infine a una maggiore attribuzione di poteri alla cooperazione delle forze di polizia dei paesi membri nelle zone di frontiera già interessate da numerosi respingimenti, con riferimento al confine italo-francese circa 24.000 nell’anno 2021. Non solo, cambierebbe la condizione di legittimità di una serie di situazioni di fatto consolidatesi a livello geopolitico – al momento solo considerate cattive prassi – che coinvolge in particolare in questo caso il confine italo-francese a Ventimiglia/Menton e a Oulx/Briançon (oltre a quello austro-sloveno e austro-tedesco) interessato negli ultimi anni da un ripristino continuo dei controlli temporanei alle frontiere interne da parte della Francia. Tale analisi giuridica – pur se chiaramente limitata – è doverosa visto che ancora oggi indirettamente si consente che un migrante possa morire folgorato al di sopra di un treno in viaggio dalla stazione di Ventimiglia o come accaduto per due migranti deceduti il 2 aprile scorso, essere travolti da un furgone nell’autostrada A20 a Bordighera, la città appena prima di Ventimiglia andando verso Nizza – nel tentativo disperato di attraversare il confine tra due paesi membri dell’Unione.

Pattugliamento bilaterale e cooperazione poliziesca transfrontaliera

Tali argomentazioni acquisiscono una valenza ancora più grave se si pensa che il transito delle merci e dei servizi – diversamente da quello delle persone – non registra alcun tipo di controllo alle frontiere interne dell’Unione e ciò nonostante entrambi i movimenti – secondo la versione ancora attuale del Codice Shenghen (n. 399 del 2016) – siano ugualmente sottoposti al principio di libera circolazione. Si pensi che a partire dal 2015 – anno in cui diversi paesi sono stati interessati dal flusso di “importanti” movimenti migratori e nel quale si è registrata la crisi del sistema Shengen, Francia, Germania e Austria – nonostante il limite di 2 anni previsto per la reintroduzione degli stessi – hanno ripristinato per ben 268 volte i controlli alle frontiere interne, facendo ricorso ad accordi bilaterali di riammissione e di cooperazione delle diverse forze di polizia, come il già citato accordo di Chambery, tra Francia e Italia, applicato ovviamente anche ai flussi migratori di cittadini terzi dell’Unione che transitano sulla rotta Ventimiglia-Menton, ora sotto la lente di questa analisi. La Commissione tuttavia, anziché impedire tali prassi illegittime, con la proposta di modifica normativa del regolamento Shengen del dicembre 2021, le ha consolidate – e questo si evince sia dai “considerando” che dall’“articolato” della presente proposta legislativa – stabilendo da una parte che la decisione del ripristino dei controlli alle frontiere possa essere adottata dagli stati anche unilateralmente, senza ancora prevedere alcuna sanzione in caso di proroga continua dei controlli, dall’altra spingendo affinché gli stati ricorrano sempre più a misure alternative al controllo delle frontiere interne.

La polizia respinge con la violenza i migranti al confine italo-francese.

Tra queste in primo luogo si annovera (al considerando 25) il pattugliamento bilaterale dei confini e la cooperazione transfrontaliera delle forze di polizia che si precisa possa portare – rispetto ai movimenti secondari – ai medesimi risultati del ripristino dei controlli.

Inoltre (al considerando 26), con una contestuale proposta di modifica della direttiva rimpatri (2008/115/CE) – più specificatamente l’art.6 paragrafo 3 che così modificato prevede la facoltà per gli stati di concludere nuovi accordi e intese bilaterali da notificare alla Commissione – viene di fatto introdotta la legittimazione delle riammissioni informali (al momento oggetto di diversi procedimenti giurisdizionali tra cui quello pendente dinanzi al Tribunale di Roma riguardante le riammissioni attuate al confine italo/sloveno e momentaneamente sospese)trasformandole in “formali”, mediante le disposizioni normative che prevedono il rilascio di una copia del provvedimento alla persona con la possibilità di presentar ricorso ma senza che questo abbia un effetto sospensivo del provvedimento di riammissione (Procedura di cui all’allegato XII al codice frontiere Shengen punti 5,6,7).

Legittimato arbitrio

Verrebbe in questo modo dunque resa legittima la possibilità di trasferire i migranti da uno stato membro all’altro, qualora venissero intercettati in prossimità di un confine interno. Al riguardo si sottolinea quanto labile sia l’espressione “cittadino di un paese terzo fermato nelle immediate vicinanze delle frontiere interne” (contenuta nell’articolo 23 bis – “Procedura per il trasferimento di persone fermate alle frontiere interne”) rispetto a un’eventualità così compressiva della libertà del migrante quale quella di essere riammesso nello stato di provenienza. Si incentiva inoltre l’utilizzo della sorveglianza tecnologica delle frontiere interne che secondo la Commissione, non deve essere equiparato al controllo delle frontiere (considerando 21), ragione per cui l’impiego di droni e di scansioni termiche – utilizzati spesso per controllare le aree e i confini – non sarebbe soggetto a tutti quei limiti temporali e motivazionali previsti invece per il ripristino dei controlli dei confini interni. Nello specifico si aggiunge che le attività di controllo effettuate sulla base di tecnologie di monitoraggio e sorveglianza generalmente utilizzate nel territorio al fine di affrontare le minacce alla sicurezza pubblica o all’ordine pubblico «non sono assimilabili ai controlli alle frontiere interne, senza però stabilirne i limiti della loro applicazione» (art. 23).

Frontex: il diritto d’asilo a rischio valutazione

Altra questione da sottolineare è l’accresciuto ruolo che viene conferito da tale proposta di modifica ad alcune istituzioni dell’Unione. In base all’art. 27 – come emendato dalla proposta – qualora il ripristino temporaneo dei controlli sia legato a «movimenti secondari di persone prolungati nel tempo, la notifica relativa a essi deve essere sì svolta dallo stato membro ma deve includere qualsiasi informazione che derivi dalle agenzie interne all’Unione: Frontex appunto. Essendo l’agenzia UE specificatamente demandata a svolgere la Risk Assessment (la valutazione dei rischi) dei movimenti secondari».

Non è difficile comprendere come questo possa essere particolarmente pericoloso per il rispetto del diritto d’asilo alle frontiere.

Inoltre all’art. 28 si prevede un nuovo ruolo di impulso della stessa Commissione nelle ipotesi di ripristino temporaneo dei controlli, in particolare nei casi in cui vi sia una minaccia grave per l’ordine pubblico o la sicurezza interna che riguardi la maggioranza degli stati membri e che metta a repentaglio il funzionamento globale dello spazio Shengen: in questo caso la Commissione può presentare essa stessa al Consiglio una proposta per l’adozione di una decisione di esecuzione che autorizzi il ripristino dei controlli alle frontiere interne. L’unico punto di tale macchinoso impianto normativo – che lascia la possibilità di muovere contenziosi strategici relativi ai controlli che oggi si basano sul racial profiling (profilo razziale) riguardanti anche il confine italo-francese di Ventimiglia – è quello del succitato art. 23 (al punto iii) attraverso il quale la Commissione, invitando gli stati a implementare le misure alternative, ossia i controlli di polizia transfrontaliera, stabilisce che questi non possano essere considerati controlli alle frontiere interne solamente se pensati ed eseguiti in maniera distinta dai controlli sulle persone alle frontiere esterne dell’Unione, «anche nell’ipotesi in cui vengano attuati alle stazioni degli autobus o più genericamente nei poli di trasporto che collegano i vari stati o a bordo dei servizi dei passeggeri». È noto invece che al confine Ventimiglia/Menton, a partire dal 2015, si attuino sistematicamente respingimenti dei migranti alla frontiera dalla Francia e vere e proprie deportazioni dall’Italia nei Centri di permanenza per i rimpatri (Cpr) collocati in altre regioni come quelli di Taranto o di Torino. Rispetto a quest’ultimo si ricorda Musa Balde il ragazzo guineano di 23 anni morto suicida nel maggio del 2021 nel Cpr di Torino dopo essere stato vittima di una grave violenza in strada proprio a Ventimiglia. Rispetto ai respingimenti l’attività di osservazione collettiva e di sostegno ai migranti alla frontiera Ventimiglia/Menton è svolta dal già citato CAFI – Coordination d’actions aux frontières intérieures, in partenariato con l’Anafé – Association nationale d’assistance aux frontières pour les étrangers.

Il supporto legale ai migranti e i rigetti dei loro ricorsi

L’Anafé svolge tanto un’attività operativa di osservazione e di supporto legale per i migranti alla frontiera quanto un’attività di tipo politico ossia di advocacy e sensibilizzazione rispetto ai respingimenti contraddistinti dai Refus d’entrée e ai trattenimenti alla frontiera eseguiti dalla Paf (Police aux frontières). Nello specifico l’avvocato Emilie Pesselier coordinatrice dell’Anafé durante la riunione online organizzata a marzo con la dottoressa Chiara Maugeri di Médecins du Monde – ex coordinatrice del programma di migrazione alla frontiera transalpina – ha riferito che, a partire dal 2015, quando la Francia ha “chiuso le frontiere” è iniziata l’attività di sostegno e accompagnamento, rispetto ai contenziosi individuali dell’associazione a favore dei migranti che si affianca ad attività di formazione sul quadro normativo vigente in materia. Dal 2017 si registra la denuncia delle violazioni dei diritti da parte dell’Anafé rispetto alle intercettazioni dei migranti compiute dalla Paf che notificando il refus d’entrée – senza alcun rispetto dei diritti di informazione come quello alla mediazione culturale e all’assistenza legale – respingono i migranti direttamente verso l’Italia o li accompagnano alla stazione di polizia a Menton qualora i respingimenti non possano essere eseguiti – ossia dalle 19 alle 7 di mattina – perché, essendo chiusa la stazione di polizia italiana, la riammissione da parte dell’Italia non sarebbe possibile.

Si specifica che nell’attesa che la polizia italiana sia nuovamente “disponibile”, i migranti pernottano esposti alle intemperie in strutture prive delle superfici di copertura, sprovviste di servizi igienici, senza accesso all’acqua e in condizioni di promiscuità tali da non consentire il distanziamento sociale previsto per il virus da Covid 19. L’avvocato Pellier ha poi segnalato due importanti pronunce emesse dai tribunali francesi: in particolare dal Tribunale amministrativo di Nizza e dal Consiglio di stato francese. Con la sentenza n. 1800699 del 23 febbraio 2018 il Tribunale amministrativo di Nizza, dietro a un ricorso che aveva per oggetto un provvedimento di non ammissione nel territorio francese, ha dichiarato l’illegittimità dello stesso da un lato per il mancato rispetto del diritto fondamentale a richiedere asilo dall’altro per l’assenza di protezione in Francia per i minori stranieri non accompagnati, sistematicamente respinti verso l’Italia dalla Paf senza alcuna considerazione rispetto alla loro minore età.

Tuttavia, nonostante tale pronuncia va detto che continuano i respingimenti dei minori stranieri che siano accompagnati o meno.

Respingimenti!

Al riguardo è necessario richiamare un’altra sentenza riguardante il ricorso presentato da una donna straniera respinta alla frontiera con il figlio di cinque anni dalla Paf: in questo caso a pronunciarsi è il Consiglio di stato francese che ha rigettato il ricorso con l’ordinanza n. 440756 del primo luglio del 2020, sostenendo nelle argomentazioni che al confine italo-francese sia rispettato il diritto d’asilo potendo la donna presentare la sua domanda in Italia! Per di più a tale pronuncia si è fatto riferimento al fine di rigettare successive richieste di liberazione provvisoria di alcuni richiedenti asilo respinti, con il pretesto che non fosse soddisfatta alcuna esigenza per l’adozione di una decisione di urgenza – avendo questi libero accesso alla domanda d’asilo in Italia.

Da allora le persone respinte alla frontiera non hanno avuto più alcuna possibilità di presentare ricorsi urgenti ma solo nel “merito” dinanzi al tribunale competente ossia facendo ricorso a procedure che possono durare fino a due anni prima dell’emissione di una pronuncia.

La vicenda legata ai respingimenti al confine Ventimiglia/Menton, quando la Francia ha ripristinato i controlli alle frontiere nel 2015, ha chiaramente dispiegato i suoi effetti anche in Italia accendendo però un esempio di resistenza memorabile da parte della società civile e dei migranti stessi unitisi nel presidio No Borders in contestazione delle politiche di riammissione, da parte della polizia italiana in collaborazione con la polizia francese e più in generale delle politiche europee in ambito migratorio. Il presidio è stato considerato da Guglielmo Mazzia nel libro Presidio permanente No Borders Ventimiglia. Diario 13 giugno/30 settembre, uno dei più potenti e vincenti eventi politici degli ultimi anni. La ricostruzione delle origini del Movimento è stata possibile grazie al professor Broglio autore del libro Bucare il confine al quale si rimanda e il giornalista Stefano Bertolino, autore di alcuni reportage, uno dei quali famoso perché l’agente digos ripreso riassumeva tutta la brutalità offensiva dei metodi polizieschi.

Per individuarle occorre tornare indietro all’11 giugno del 2015 quando, in seguito al G7 dello stesso anno tenutosi in Baviera, la Francia ripristina improvvisamente i controlli alle frontiere interne iniziando a respingere circa 80 migranti al giorno: la Paf li identifica e – a volte anche sulla base di uno scontrino di un acquisto in Italia in possesso del migrante – decide per il loro respingimento appellandosi al succitato accordo di Chambery del 3 ottobre del 1997 e al Regolamento Dublino che come detto individua la competenza degli stati membri dell’Ue a trattare la domanda d’asilo sulla base del criterio del primo paese di arrivo del migrante.

Dopo l’estate 2015: tra Balzi Rossi e Campo Roja

I migranti decidono per questo di occupare gli scogli, i cosiddetti Balzi Rossi al confine tra i due paesi, dando vita alla protesta We are not going back; la Gendarmerie schiera quindi i blindati mentre da Ventimiglia non transitano più i treni verso la Francia accrescendo la presenza di migranti bloccati nella stazione. Nei giorni successivi, con l’arrivo della digos e della polizia in assetto antisommossa con scudi e manganelli, il presidio No Borders diviene un presidio permanente. Tuttavia, il 16 giugno del 2015 la polizia alla presenza dei media italiani procede allo sgombero della scogliera e i migranti vengono deportati sulle macchine della polizia italiana e sui pullman della Croce Rossa verso la città di Ventimiglia. Con la manifestazione non autorizzata del 20 giugno dello stesso anno contraddistinta dallo striscione “Siamo tutti cittadini del mondo no frontiere, no borders” iniziano le deportazioni dei migranti nei Cpr del Suditalia ma si unisce anche il supporto al presidio del collettivo di Bologna Eat the Rich. L’8 agosto si tiene l’assemblea nazionale sostenuta da varie associazioni e ong tra cui Médecins du Monde, Amnesty International e Arci Camalli Imperia. Il sindaco Ioculano nel mentre si dimette dal Pd denunciando la mancata posizione politica del partito sulla vicenda e chiede per l’ennesima volta al ministro degli Interni Alfano lo sgombero definitivo del presidio e del campo.

Il mese successivo tuttavia anche il Consiglio regionale della Liguria si schiera per lo sgombero del presidio che inizia il 30 settembre del 2015 con l’intervento della polizia italiana. Ai Balzi Rossi cittadini europei e migranti continuano l’occupazione resistendo per 12 ore fino a quando si concretizza un accordo: i migranti verranno rilasciati senza essere identificati e i manifestanti europei verranno portati in questura. Il presidio commenta così la sua “fine”: «Hanno distrutto un luogo, una casa, un riparo per molti. Hanno distrutto un presidio ma non un percorso di lotta perché Ventimiglia non è solo un luogo. Ventimiglia è un’idea di resistenza che poggia su una rete di solidarietà consolidata in questi 3 mesi e mezzo e che nessuna ruspa e nessuno sgombero riuscirà a smantellare». Da quel momento in poi vi saranno diversi tentativi di riorganizzazione: tra questi si segnalano sia i campi informali presso la chiesa di San Nicola e quella delle Gianchette, sia l’accoglienza del Campo Roja aperto il 16 luglio del 2016 e a oggi uno dei simboli del fallimento della coordinazione politica tra municipalità, prefettura e ministero degli Interni con riferimento alle politiche di accoglienza a Ventimiglia. Rispetto a ciò si sottolinea il contributo della dottoressa Daniela Trucco ricercatrice presso l’Università di Nizza e le testimonianze della dottoressa Annalisa Trombetta. In particolare, la dottoressa Trucco ha sviluppato un’analisi dell’amministrazione della città di Ventimiglia nel periodo di tempo intercorrente dal 2014 al 2019, comprese le ronde civiche di cittadini in opposizione al transito e bivacco coatto dal respingimento dei migranti.

La conseguenza dei continui rapporti altalenanti di cooperazione e opposizione tra prefettura e amministrazione comunale si evidenzia soprattutto rispetto alla gestione del sistema di accoglienza cittadino a favore dei migranti.

In conseguenza del ripristino dei controlli alle frontiere interne della Francia, infatti, sono stati aperti tre centri di accoglienza: quello emergenziale nel giugno del 2015 su mandato della prefettura e d’intesa con il Comune e con la compagnia ferroviaria, gestito dal Comitato regionale della Croce Rossa e chiuso nel maggio del 2016 proprio su iniziativa dell’amministrazione comunale; quello aperto con il benestare del vescovo di Ventimiglia-Sanremo Antonio Suetta a fine maggio del 2016 e chiuso nell’agosto del 2017 – inizialmente tollerato sia dal Comune che dalla Prefettura – sulla base di un’ordinanza emessa dal sindaco Enrico Ioculano e infine il Campo Roja aperto dalla Prefettura nel 2016, in collaborazione con l’allora amministrazione comunale guidata dal sindaco Ioculano (nonostante sia stato firmatario di discutibili ordinanze relativamente all’accesso a cibo e acqua da parte dei migranti), collocato ai margini della città e gestito sempre dalla Croce Rossa italiana ma definitivamente chiuso il 31 luglio del 2020, su richiesta della Prefettura, dal sindaco Scullino appartenente alla coalizione di centro-destra, rieletto nel 2019 dopo aver governato la città dal 2007 al 2012.

La conseguenza di tale decisione ormai da due anni è nota ma volutamente non visibile come sempre accade in tali circostanze: i migranti oggi si trovano a vivere ai margini della città riuscendo ad accedere ai beni essenziali soltanto tramite la Caritas diocesana, stazionando in prossimità delle rive del fiume Roja ed esposti ai pericoli derivanti dai periodici straripamenti, nell’abbandono totale delle istituzioni in mezzo ai rifiuti in accampamenti definibili più che informali, improvvisati.

È la quiete agghiacciante e senza riflettori, nostalgica di quella tempesta di resistenza che per un breve periodo aveva posto attenzione alla sofferenza degli individui su questa rotta cercando di elevarla a strumento per l’affermazione di diritti che ancora oggi però evidentemente restano incompiuti.

L'articolo n. 18 – Tra mare e boschi alpini. La frontiera che uccide (II) proviene da OGzero.

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n. 16 – Rotta del Mediterraneo centrale: lo sbocco marino delle piste libiche https://ogzero.org/il-mediterraneo-centrale-la-rotta-delle-piste-libiche/ Wed, 22 Dec 2021 23:02:41 +0000 https://ogzero.org/?p=5605 Il Mediterraneo centrale è il palcoscenico che maggiormente è stato emblematico del fenomeno migratorio per l’Europa. Fabiana Triburgo prende spunto per occuparsi di Libia dalla evanescenza della data delle elezioni fissate un anno fa al 24 dicembre destinata a venire disattesa, poiché non è in agenda delle potenze locali, né per Mosca, né per Ankara […]

L'articolo n. 16 – Rotta del Mediterraneo centrale: lo sbocco marino delle piste libiche proviene da OGzero.

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Il Mediterraneo centrale è il palcoscenico che maggiormente è stato emblematico del fenomeno migratorio per l’Europa.

Fabiana Triburgo prende spunto per occuparsi di Libia dalla evanescenza della data delle elezioni fissate un anno fa al 24 dicembre destinata a venire disattesa, poiché non è in agenda delle potenze locali, né per Mosca, né per Ankara che occupano militarmente il territorio. Ma la situazione viene dipanata nel suo articolo cercando di cogliere le pieghe giuridiche che potranno impostare rapporti con la futura entità istituzionale libica, se mai ci potrà essere; e dunque anche dalla sua esperienza personale si analizzano i meccanismi geopolitici alla base di questa rotta aperta con il crollo del regime di Gheddafi.


I principali conflitti che attualmente interessano le migrazioni forzate e le prassi di esternalizzazione poste in essere dall’Unione Europea e dai singoli stati membri portano a una predeterminazione delle rotte dei migranti.

Quello che oggi è inevitabile chiedersi è se il nuovo Patto europeo sulla Migrazione e l’Asilo, proposto dalla Commissione UE, possa essere realmente considerato una soluzione della gestione del fenomeno migratorio o se invece vi siano soluzioni legali alternative maggiormente lungimiranti e coraggiose.  


La costa dell’insieme di regioni composite chiamato Libia

Nell’imminenza del rinvio delle elezioni previste in Libia – se e quando riusciranno a tenersi – sembra inevitabile chiedersi se (quando si formeranno i nuovi assetti istituzionali) saranno in grado di fare emergere figure con le quali l’Unione europea e in particolare l’Italia saranno in grado di improntare rapporti diplomatici diversi rispetto alla questione migratoria, svincolati dai concetti di invasione e di sicurezza di cui ormai sembra intrisa tutta la narrazione della politica estera dei paesi europei, gli stessi che hanno disegnato a forza confini reali solo nell’immaginario occidentale.

L’area libica: risorse, campi, infrastrutture, pozzi, etnie

Protagonisti in campo

Necessario tra tutti un superamento di patti, intese e accordi bilaterali, finora strumenti per mezzo dei quali si è realizzato un sistema aberrante nel quale in un’ottica di contenimento dei flussi migratori gli individui vengono utilizzati come merce di scambio per la soddisfazione degli interessi economici, in Libia principalmente legati all’estrazione del greggio.

Turchia, Russia, Cina

Molteplici sono infatti gli attori regionali e internazionali in gioco in questa porzione di area del mondo chiamata Mediterraneo centrale nella quale tutti i “partecipanti” vogliono ritagliarsi un ruolo: dalla Turchia che cerca di affermare la proiezione del proprio espansionismo geopolitico in queste acque, poiché ostili risultano quelle dell’ Egeo – blindate dagli accordi internazionali – che pongono la Grecia in una posizione di sovranità marittima nella quale difficilmente riesce a dimenarsi; alla Russia che cerca di recuperare in quest’area una contropartita per contrastare l’avanzamento delle forze Nato verso quella “nuova Cortina di ferro” rispetto alla quale gli stati-cuscinetto (Ucraina e Bielorussia) destano maggiori preoccupazioni che l’inserirsi di paesi baltici, Polonia e Romania; alla Cina che tenta di crearsi uno sbocco commerciale rilevante attraverso “le nuove vie della seta”.

Stati Uniti, Unione europea

Ancora: gli Stati Uniti che si sono ben resi conto di essersi disinteressati troppo a lungo di questa porzione di mare, chiamata non semplicemente Mediterraneo centrale, ma Medio Oceano. Infatti è posto nel mezzo tra Pacifico e Atlantico nei quali gli Stati Uniti hanno molto da perdere se continua ad affermarsi la posizione di Cina e Russia – ossia dei loro antagonisti per antonomasia – facendo stridere quell’immagine di baluardo di potenza egemone indiscussa sul piano militare e geopolitico alla quale gli Usa tengono molto.

Sono inoltre da non sottovalutare anche le potenze europee, prime tra tutte Italia e Francia, che a causa degli interessi confliggenti legati alle compagnie petrolifere Eni e Total hanno impedito la determinazione di una politica estera comune dell’Unione nel conflitto libico per molto tempo.

Potenze regionali: Tunisia, Algeria

Occorre infine citare le potenze regionali quali Tunisia e Algeria che al momento sono in una tensione diplomatica senza precedenti e che hanno risentito molto della prossimità geografica rispetto alla Libia.

Già, perché è proprio la Libia a rappresentare la sintesi di questo caleidoscopio marittimo di strategie e di tattiche regionali e non, ma di queste – già analizzate in parte negli approfondimenti precedenti relativi ai paesi del Nordafrica – quello che interessa in questo articolo è la questione giuridica al fine di comprendere con serietà come si sia arrivati a questa tragedia migratoria e soprattutto cosa si possa fare in concreto per cambiare queste dinamiche politiche malate.

Riflettori improvvisati spenti sui morti di Guerre ibridate

La questione non ha necessità di essere trattata perché fa tendenza come sta avvenendo negli ultimi mesi per la crisi migratoria al confine polacco/bielorusso o lungo la rotta balcanica, anche perché in questa logica come abbiamo visto per la situazione in Afghanistan i riflettori si spengono velocemente, ma perché invece questi scenari sono gravemente mortiferi: si parla di individui deceduti ogni giorno in mare e in terra (più specificatamente nel deserto del Sahara, nel caso di questa rotta) a causa di politiche assurde.

 

Si ricorda che nella prima parte del 2021 circa 1146 persone sono morte nel mar Mediterraneo nel tentativo di raggiungere l’Europa, un numero molto più elevato di quello registrato nei due anni precedenti.

Libia 2011

Intorno al 2011 in prossimità della caduta del regime di Gheddafi quello che mi sorprendeva durante gli ascolti legali dei migranti provenienti dall’Africa subsahariana, transitati in Libia prima di arrivare in Italia, era il fatto che si trovassero in questo paese del Nordafrica da molti anni e in conseguenza del conflitto libico avevano dovuto lasciare un impiego stabile in Libia – spesso nell’edilizia – che fino a quel momento gli aveva consentito di condurre una vita dignitosa e di mantenere il proprio nucleo familiare. La Libia per molto tempo aveva rappresentato per i profughi provenienti principalmente dall’Africa subsahariana e dal Corno d’Africa una sorta di vicino Eldorado nel quale avevano trovato “rifugio” rispetto alle situazioni di conflitto o di instabilità nel proprio paese di origine.

Quindi molti di loro erano in realtà migranti forzati anche se apparentemente economici poiché avevano da tempo un lavoro in Libia ma non avevano potuto beneficiare dello status di rifugiato in quanto la Libia non è firmataria della Convenzione di Ginevra.

Protezione per i migranti sostenitori  di Gheddafi

Va precisato che Gheddafi aprì, durante la ribellione, le carceri nelle quali erano stati rinchiusi i passeur e offrì loro denaro per fare arrivare i migranti in Europa, considerata – non a torto – responsabile del capovolgimento della dittatura. Le ragioni di tutto questo vanno ricercate nelle radici storiche della politica panafricana di Gheddafi che dalla fine degli anni Novanta fino ai primi anni 2000 aveva creato un paese di accoglienza, aprendo le frontiere principalmente a chi proveniva dal resto del continente, in quanto l’offerta di mano d’opera straniera era molto elevata nel paese grazie soprattutto alla presenza di giacimenti petroliferi e anche perché i cittadini libici potevano contare su stipendi pubblici. Tra i migranti che arrivavano in Libia solo una parte più esigua proseguiva il proprio viaggio verso l’Italia.

La “formidabile” idea di cambiare questa politica di integrazione arrivò al dittatore libico soprattutto grazie al trattato di amicizia Gheddafi-Berlusconi del 2008 quando si registrò un “picco di arrivi” nel nostro Paese, ossia circa 37.000 migranti. L’Italia berlusconiana ha la colpa di aver fatto da apripista alla logica delle politiche di esternalizzazione: in quel caso la cooperazione, oltre al miraggio di avere un canale privilegiato al petrolio legittimato dalle ancestrali quanto disastrose radici coloniali che legano Tripoli a Roma, ebbe come snodo centrale la necessità che il governo libico respingesse verso le coste i migranti che tentavano di attraversare il Mediterraneo centrale.

Cadaveri sulle coste libiche (fonte Adif, 2018)

Così alla stregua della legge Bossi-Fini ossia la n. 94 del 2009, la Libia nel 2010 approvò una legge che criminalizzava l’immigrazione clandestina prevedendo la detenzione per tale reato.

È importante scrivere ciò perché è proprio sulla base di questi accordi che si cominciarono a creare i centri detentivi libici, quei famigerati Lager che oggi rappresentano il simbolo più crudele di quanto l’essere umano possa macchiarsi di comportamenti atroci. Anche in questo caso vennero trasferiti fondi alla dittatura libica (5 miliardi di dollari in venti anni come risarcimento per gli orrori del colonialismo), insieme a quattro motovedette italiane per il pattugliamento delle coste libiche in collaborazione con la Guardia costiera italiana nei respingimenti collettivi dei migranti vietati, come già detto, secondo l’art. 4 del Protocollo n. 4 della Cedu. Così nel 2010 gli arrivi in Italia calarono del 90 per cento.

I respingimenti sono a priori illegali

Questa attività deplorevole come noto andò avanti per anni fino a che intervenne la cosiddetta sentenza Hirsi Jamaa e altri contro Italia. Con tale sentenza l’Italia venne condannata nel 2012 dalla Corte di Strasburgo per essersi resa responsabile del respingimento collettivo di alcuni migranti nel 2009: in quella circostanza i migranti intercettati dal personale delle imbarcazioni italiane vennero trasferiti su queste per essere riportati in Libia e consegnati alle autorità libiche.

Ecco, forse quello era il momento di fermarsi ma non è stato così vedendo cosa è accaduto qualche anno dopo, a parte la breve parentesi dell’operazione Mare Nostrum, con il Memorandum d’intesa Italia-Libia del febbraio del 2 febbraio 2017 – che richiama nel testo proprio il precedente trattato di amicizia italo-libico firmato a Bengasi nel 2008 – redatto su iniziativa dell’ex ministro dell’Interno Minniti e siglato dall’allora primo ministro Gentiloni e dal presidente libico al-Serraj, all’epoca a capo del governo di Unità nazionale sostenuto dall’Italia e, ironia della sorte, dalle Nazioni Unite.

Il problema era questo: come si potevano respingere i migranti senza essere responsabili legalmente in modo da non essere condannati di nuovo? Semplice, delegando il “lavoro sporco”, ossia i respingimenti collettivi, direttamente ai libici previo pagamento, e ovviamente sempre nel perseguimento di fini umanitari (!?) per contrastare “il traffico di esseri umani” e garantire “la riduzione dei flussi migratori illegali”, addestrando la guardia costiera libica e fornendole armamenti e di nuovo motovedette italiane.

Vacanza governativa: accordi capestro e respingimenti illegali

Non essendoci più un governo unitario in Libia al momento dell’accordo del 2017 la sedicente guardia costiera libica era soltanto espressione di una delle tante milizie armate presenti nel paese e capeggiata oltretutto da un ricercato dal Tribunale penale Internazionale, tale Bija (nome d’arte o meglio di guerra) sulla cui vicenda si richiama il lavoro eccellente svolto dal giornalista di “Avvenire” Nello Scavo autore di un’attività giornalistica di inchiesta che è riuscita a far luce su questioni completamente nascoste all’opinione pubblica italiana.

Secondo Idos nei primi mesi del 2021 la guardia costiera libica ha intercettato in mare 11.891 migranti riportandoli indietro sulle spiagge libiche e sottoponendoli – secondo Amnesty International – a sparizioni, detenzioni arbitrarie indefinite in luoghi ufficiali e non, a torture, a lavoro forzato ed estorsione, nonché a violenza sessuale. Soffermiamoci dunque sull’aspetto legale perché è sempre da lì che si deve partire per non portare avanti discussioni fini a sé stesse: l’accordo del 2017 è un accordo da considerarsi illegittimo.

La Open Arms lascia il porto di Barcellona diretta in Libia (2018, foto Marco Pachiega / Shutterstock)

Gli accordi internazionali, come già sottolineato nell’articolo giuridico sulla rotta balcanica di questa serie con riferimento al discusso accordo posto alla base delle riammissioni della Slovenia dall’Italia, devono essere presentati dal governo al parlamento italiano e approvati da parte di quest’ultimo tramite legge di ratifica ai sensi dell’art. 80 della Costituzione. A chi contesta che il memorandum del 2017 non si debba annoverare tra quelli previsti dall’articolo 80 basta leggerne il contenuto per rendersi conto che esso soddisfa già prima facie tutti i parametri definiti dal medesimo articolo che chiarisce la necessità di ratifica da parte delle Camere dei trattati di natura politica che “importano variazioni del territorio od oneri alle finanze o modificazioni di legge”. È noto infatti che all’accordo del 2017 seguì la definizione di una zona SAR libica rispetto ad acque che prima erano definite internazionali e nelle quali quindi l’Italia era chiamata al soccorso e che sono stati stanziati milioni di euro dall’Italia alla Libia per finalizzare questo accordo influendo sul bilancio dello stato e che con questo sistema sono state violate indirettamente diverse normative. In particolare è opportuno citare l’art.10 della Costituzione italiana, la Convenzione di Ginevra e più specificatamente il principio contenuto all’art. 33 della Convenzione ossia il principio del non refoulement, le norme sul soccorso in mare, nonché quelle stabilite dalla Convenzione Europea dei Diritti dell’uomo. Inutile poi dire che la Libia, paese non sicuro dove stupri e torture sono sistemiche, non è firmataria della maggior parte delle Convenzioni internazionali, tra le quali come detto quella di Ginevra, quindi la garanzia della presenza di Organizzazioni Internazionali in questo accordo è irrilevante e le pone in una posizione di ambiguità. Rispetto ai respingimenti si segnala la recente sentenza emessa dalla VI sezione della Corte di Cassazione n. 12/2021. Qualche mese dopo la firma dell’accordo inoltre l’ex ministro Minniti negoziava un codice di condotta con le ong che prestavano soccorso in mare che provocava il rallentamento delle operazioni di soccorso.

Palesi violazioni

Giunti a questo punto appare necessario richiamare alcuni degli strumenti giuridici impiegati per contrastare tali politiche. In primo luogo, occorre menzionare, oltre alla Missione d’inchiesta delle Nazioni Unite sulla Libia, per la violazione del diritto internazionale e dei diritti umani, il caso della nave Asso 29 che si affianca alla recente condanna del Tribunale di Napoli nei confronti del comandante della nave Asso 28 per aver ricondotto in Libia centinaia di persone soccorse in mare: entrambe le navi sono appartenenti all’Augusta Off-Shore uno spedizioniere marittimo con sede a Napoli.

Il 13 ottobre il Tribunale di Napoli ha condannato il comandante di una nave privata, la Asso 28 della compagnia Augusta Offshore, per aver ricondotto in Libia oltre cento persone soccorse in mare.

Rispetto a tale vicenda risalente al 2018 cinque cittadini eritrei hanno presentato ricorso al Tribunale di Roma – ivi ancora pendente – chiamando in giudizio oltre alla nave Asso 29 – in servizio presso una piattaforma petrolifera di una società partecipata di Eni – anche lo stato italiano più specificatamente il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti. Mediante il ricorso, partendo dal caso specifico, viene ben delineato come si determina in concreto questo sistema dei respingimenti collettivi verso le coste libiche ossia attraverso l’attività di intercettazione dei migranti da parte della cosiddetta guardia costiera libica. Ciò che desta maggiore preoccupazione tuttavia è che la regia di questo sistema provenga dall’Unità centrale di soccorso di Roma, organo dipendente a sua volta dal Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti italiano e che nell’intercettazione dei migranti siano coinvolte delle navi legate a compagnie petrolifere.

Inutile dire quanto sia complicato l’accesso ad atti che potrebbero essere utili per la ricostruzione dei fatti avendo lo stato italiano posto su essi il segreto per motivi di sicurezza perché riguardanti operazioni militari o di politica estera, la cui rivelazione potrebbe essere pregiudizievole per le relazioni interazionali con Malta e con la Libia.

Inoltre, va ricordato tra gli strumenti giuridici l’esposto presentato da diverse associazioni – tra cui Arci – per l’accertamento delle responsabilità del naufragio del 22 aprile del 2021 nel quale sono morte 130 persone nel Mediterraneo centrale.

Come dunque si è arrivati a tutto ciò? È importante preliminarmente sottolineare che l’accordo del 2017 viene rinnovato tacitamente ogni tre anni come stabilito nello stesso testo, come è avvenuto nel 2020, e che il 15 luglio di quest’anno è stato rinnovato il rifinanziamento della guardia costiera libica con 361 voti a favore, 34 contrari e 22 astenuti.

Scarico di responsabilità

Un risultato agghiacciante essendo tutti ormai a conoscenza di quanto avviene nei centri detentivi libici grazie al denaro italiano ed europeo. L’unica modifica che si è riusciti ad approvare a luglio di quest’anno è che dal 2022 la missione in Libia dovrebbe passare sotto la diretta responsabilità dell’Unione Europea. Ciò, anche se appare come un modo per lavarsene le mani – finché ancora si può –, ha un senso dato che tutto è iniziato dagli accordi della Valletta del 2015 e dall’Agenda Europea dello stesso anno in occasione della quale l’Unione si è concentrata sul ruolo strategico dei paesi terzi-con i quali poi ha stretto accordi sul rafforzamento delle frontiere dell’Unione e fuori dall’Unione – vedi Frontex – nonché sulla necessità di aumentare il numero dei rimpatri. In seguito, si è aggiunto l’ormai noto accordo Ue-Turchia del 2016, all’indomani del quale le milizie libiche si sono adoperate per mostrare la capacità di imprigionare i profughi, speranzose di ottenere anche loro un lauto riconoscimento economico per il loro “lavoro” come la creazione del nuovo Centro di detenzione libico di Tarik Al Sikka.

La campagna #notonourborderwatch lanciata dal Consiglio Olandese per i Rifugiati, BKB, Sea-Watch Legal Aid Fund, Jungle Minds e Prakken D’Oliveira Human Rights Lawyers, sostenuta dall’ASGI assieme ad altre ONG di tutta Europa

Detto fatto: è stato stanziato denaro dall’UE attraverso il fondo Africa – circa 140 milioni di euro – che solo in minima parte ha sovvenzionato i progetti di cooperazione allo sviluppo (5 %) poiché destinato prevalentemente al controllo e alla gestione delle frontiere per opera dei paesi terzi (61 %).

Tuttavia, anche relativamente a tale Fondo, la questione è stata riportata puntualmente sul piano giuridico per cui sia Arci che Asgi nel 2020 hanno presentato un esposto alla procura presso la Corte dei Conti europea.

Il ruolo del Niger

Sempre per comprendere come le norme siano in grado di cambiare le rotte migratorie occorre ricordare il ruolo fondamentale del Niger nel mutamento della rotta terrestre per arrivare in Libia al fine di attraversare il Mediterraneo centrale. Il Niger infatti è stato uno dei primi paesi beneficiari di un altro fondo, il Fondo Fiduciario europeo di emergenza per L’Africa, avendo presentato all’Unione già nel 2015 un piano d’azione per attrarre gli investimenti europei. All’epoca il paese, uno dei più poveri al mondo, si trovava in piena campagna elettorale all’esito della quale nel 2016 era stato rieletto Mahamadou Issoufou (presidente del Niger in carica dal 2011 al 2021) importante interlocutore per l’Unione rispetto ai flussi migratori verso le sponde del Mediterraneo centrale, nel momento in cui la Libia non solo non aveva più un unico leader ma oltretutto si trovava in una situazione di conflitto civile con presenze regionali e internazionali a complicare lo scenario. Va precisato che in seguito ai conflitti etnici civili in Niger negli anni Novanta e negli anni Duemila si tentò il reinserimento dei tuareg nella società nigerina e più nello specifico nell’apparato militare. Un’altra parte di loro, tuttavia, cominciò a svolgere – con il bene placido delle autorità nigerine – l’attività di passeur attraverso il deserto del Sahara del quale sono i principali conoscitori.

Nella maggior parte dei colloqui legali i migranti provenienti dall’Africa subsahariana riferivano di essere giunti in Libia passando attraverso il Niger in particolare per Agadez attraversando il deserto a bordo di pick-up nei quali venivano stipate decine di persone con due tre corse al giorno.

Tuttavia in Niger sulla base di tali concertazioni con i paesi dell’Ue, con la legge 2015/36 è stato introdotto per la prima volta nell’ordinamento giuridico nigerino il reato di attraversamento irregolare delle frontiere (Relative au trafic illicite de migrants) che entrò in vigore solo all’inizio del 2016 con la rielezione di Issoufou: da quel momento vennero arrestati gli ex combattenti tuareg che prima agevolavano il transito dei migranti e dei quali vennero confiscati anche i mezzi di trasporto. In seguito alla criminalizzazione di tale attività i dati del flusso dei migranti provenienti dall’Africa subsahariana e diretti dal Niger alla Libia dal 2017 al 2019 si riducevano dunque in modo drastico.

Profughi iniziano il loro viaggio nel Deserto del Sahara dalla città di Agadez in Niger per giungere in Libia fe poi in Europa (2019, Catay / Shutterstock)

In conseguenza di tale norma, solo tra il 2016 e il 2017, l’Oim ha registrato una diminuzione dei flussi in uscita dal Niger equivalente a meno del 70% rispetto al 2015. Quindi il blocco dei migranti in Niger, in prossimità di Agadez e Seguedine, e quello determinato con il memorandum italo-libico del 2017 hanno spinto i migranti subsahariani a optare negli ultimi anni per altre rotte marittime ossia principalmente attraversando l’Atlantico per raggiungere le isole Canarie, rotta della quale si è già ampiamente discusso nella parte precedente di questo saggio. I dati ufficiali del Ministero dell’Interno rivelano che nel 2020, le persone sbarcate dopo aver attraversato il Mediterraneo centrale provenivano principalmente dalla Tunisia, tanto che nello stesso anno l’attuale Ministro degli Esteri ha dichiarato – constatando un aumento dei flussi migratori in tale area – che se la Tunisia non avesse bloccato le partenze avrebbe tagliato i fondi della cooperazione stanziati a favore del paese nordafricano.

La professionalizzazione dei trafficanti in Libia e Niger

La gravità di tali politiche sta nel fatto che anche in Libia, così come in Niger, prima del 2017 vi era un rapporto di reciproca consensualità tra il migrante e i passeurs mentre oggi questi sono divenuti tutti trafficanti di professione. Quindi il paradosso è che gli ufficiali della guardia costiera libica che sulla base del Memorandum avrebbero dovuto combattere il traffico dei migranti sono divenuti loro stessi trafficanti. Inoltre, nelle maglie di un sistema sprovvisto di un governo stabile e unitario da più di dieci anni, quale quello libico, si è inserita la criminalità organizzata di Sudan e Nigeria personalmente riscontrata nei colloqui legali tenuti con le donne vittime di tratta detenute e abusate in Libia nelle Connection Houses simbolo della mafia nigeriana che tra l’altro propaga i suoi effetti fino in Italia attraverso i canali della prostituzione.

Tutto ciò finora esposto lascia intendere quanto sia pericoloso continuare con tali tipi di politiche il cui intento è apparso indiscusso con il nuovo Patto europeo sulla migrazione e l’asilo, sul quale ci soffermeremo in seguito, solo dopo aver analizzato le soluzioni emergenziali e – come tali limitate – che si stanno strutturando nel mentre della sua approvazione, ossia i corridoi umanitari e le molteplici attività di soccorso dei migranti per opera della società civile, spesso sottoposte a procedimenti penali.

L'articolo n. 16 – Rotta del Mediterraneo centrale: lo sbocco marino delle piste libiche proviene da OGzero.

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n. 14 – Oi Barbaroi, gli schiavi della rotta dell’Egeo https://ogzero.org/gli-schiavi-della-rotta-dellegeo/ Mon, 18 Oct 2021 11:29:13 +0000 https://ogzero.org/?p=5174 Il Mediterraneo orientale rappresenta un braccio di mare in cui si sedimentano conflitti, interessi, estrazioni e alleanze variabili che affondano nei secoli. Sulla omerica lotta tra Ellade e Anatolia si innesca il flusso migratorio che vede la Turchia snodo essenziale e uso strumentale del singolo migrante.  Fabiana Triburgo di nuovo qui ha l’occasione di delineare […]

L'articolo n. 14 – Oi Barbaroi, gli schiavi della rotta dell’Egeo proviene da OGzero.

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Il Mediterraneo orientale rappresenta un braccio di mare in cui si sedimentano conflitti, interessi, estrazioni e alleanze variabili che affondano nei secoli. Sulla omerica lotta tra Ellade e Anatolia si innesca il flusso migratorio che vede la Turchia snodo essenziale e uso strumentale del singolo migrante. 

Fabiana Triburgo di nuovo qui ha l’occasione di delineare gli errori strategici sostanziali dell’Unione, che sfociano in una vera e propria violazione dei diritti umani, questa volta s’evidenzia l’intolleranza delle frange razziste interne all’Unione europea, che in Grecia sono radicate ancora di più dopo la grave crisi che l’inflessibilità di alcuni paesi ha impoverito pesantemente, rinfocolando in parte della società una sorta di sovranismo revanchista che sfocia nel razzismo.


I principali conflitti che attualmente interessano le migrazioni forzate e le prassi di esternalizzazione poste in essere dall’Unione Europea e dai singoli stati membri portano a una predeterminazione delle rotte dei migranti.

Quello che oggi è inevitabile chiedersi è se il nuovo Patto europeo sulla Migrazione e l’Asilo, proposto dalla Commissione UE, possa essere realmente considerato una soluzione della gestione del fenomeno migratorio o se invece vi siano soluzioni legali alternative maggiormente lungimiranti e coraggiose.  


I profughi sono l’unica merce di scambio…

«La Grecia non sarà la porta d’Europa». Questa la dichiarazione del governo greco in merito alla crisi umanitaria afgana in seguito alla presa del potere da parte dei talebani ad agosto di quest’anno. La manifestazione di intenti dell’esecutivo greco certamente non sorprende, considerate le gravissime violazioni del diritto d’asilo, perpetrate da oltre cinque anni lungo la rotta dell’Egeo che rendono davvero difficile per i migranti immaginare la Grecia come un paese di destinazione, non a caso definito dalla presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen “scudo d’Europa”.

La Grecia più che un paese di destinazione è un paese di “sospensione” in primo luogo dei diritti

Attualmente nella rotta dell’Egeo sono bloccate oltre 6000 persone da diversi anni, 4000 delle quali nei centri di accoglienza. Ad ogni modo occorre ricordare che al momento la nazionalità afgana è quella maggiormente presente – circa il 63 % – all’interno dei campi stanziati nel territorio greco.

Profughi afgani

L’articolo di Elena Kaniadakis è apparso su “il manifesto” del 14 settembre 2021.

… soggetta a muri: gabbie per contenerli, frontiere naturali rese invalicabili

Le conseguenze di tale posizione politica non si sono fatte attendere: con prontezza il governo greco lo scorso agosto ha completato la costruzione di un muro di 40 chilometri al confine con la Turchia, in prossimità del confine terrestre di 200 chilometri tra i due paesi, lungo le rive del fiume Evros/Meric, ostacolando in tale modo qualunque accesso terrestre alla rotta balcanica.

A ciò si aggiunge il recente quanto allarmante fenomeno della creazione di 5 hotspot “di ultima generazione” in ciascuna delle isole greche posizionate nell’Egeo:

rispettivamente oltre a Samos, anche a Lesbo – il più grande “campo profughi” d’Europa: Moria – nonché a Levos, Chios e Kos, grazie agli ingenti finanziamenti dell’Unione europea – circa 250 milioni di euro – predisposti per il raggiungimento di tale obiettivo.

Restrizione

Tali politiche rimandano immediatamente alla restrizione geografica nelle isole greche che nel 2015 venne imposta ai migranti che volevano recarsi a chiedere asilo nella Grecia continentale. Ciò avvenne, come detto, in conseguenza dell’aumento del flusso migratorio dovuto prevalentemente allo scoppio della guerra in Siria e della perdurante instabilità in Afghanistan, in Iraq e in Pakistan.

gli schiavi della rotta dell'Egeo

Egeo, Turchia, gennaio 2016: migranti siriani cercano di raggiungere la Grecia per poi rifugiarsi in Centro Europa (foto di beforesunset/Shutterstock).

È proprio in tale contesto infatti che cominciò – seguendo i propositi dell’Agenda europea sulla migrazione in quell’anno – la creazione da parte della Commissione europea di centri di identificazione ed espulsione extraterritoriali rispetto al continente europeo, i cosiddetti hotspot appunto, con contestuale impossibilità per i migranti di presentare le domande d’asilo, pratica che sappiamo poi essere degenerata nel fenomeno – oggi sistematico – dell’esternalizzazione delle frontiere dell’Unione europea. Nei documenti identificativi dei migranti arrivati in Grecia comincia quindi ad apparire la dizione “Restrizione nell’isola di…”. La situazione oggi è ulteriormente peggiorata: con l’International Protection Act, adottato dalla Grecia e modificato più volte, dal 2021 non è più prevista la possibilità di revoca del provvedimento sulla restrizione geografica alle isole greche per quanti, secondo l’ordinamento giuridico greco, vengono considerati vulnerabili – in particolare i minori stranieri non accompagnati e le donne incinte – con la conseguente impossibilità a presentare la domanda d’asilo e a risiedere nella Grecia continentale.

La concessione della revoca della restrizione geografica al momento opera infatti soltanto nei confronti di chi non può ricevere cure mediche adeguate in una delle isole dell’Egeo e se tale condizione sia dimostrabile con una comprovata certificazione di un ospedale pubblico greco.

Detenzione

Il primo di questi “moderni” centri di accoglienza dei richiedenti asilo e dei rifugiati è stato inaugurato il 18 settembre scorso nell’isola di Samos, il cosiddetto campo di Zervos, finanziato dall’Ue con 38 milioni di euro: il centro possiede campi da basket, aria condizionata, cucina accessoriata, adeguati servizi igienici ma, al tempo stesso, si contraddistingue per essere dotato di telecamere di sicurezza, scanner a raggi x – utilizzati per identificare i migranti – tornelli in ingresso e in uscita con orari limitati, porte magnetiche. Non solo, il campo è costantemente pattugliato dagli agenti di polizia greca, circondato da un filo spinato disposto intorno a uno spazio di circa 12.000 chilometri quadrati, posizionato in una valle desolata dell’isola lontano dai centri abitati – proprio come il nuovo campo di Lipa in Bosnia – ma possiede al suo interno un centro detentivo – come se lo stesso campo non lo fosse già – nel quale dovranno rimanere i migranti che devono essere rimpatriati in Turchia in esito al rigetto della domanda d’asilo o perché questa è stata dichiarata inammissibile.

Respingimento

Rispetto alle domande d’asilo si precisa che in Grecia al momento esistono tre tipi di procedure: la procedura “regolare” che si svolge nel continente europeo, la faster border procedure ossia la procedura che si svolge sulle isole dell’Egeo, le procedure accelerate o di frontiera e quelle cosiddette “Dublino”. In particolare, la faster border procedure nelle isole dell’Egeo prevede due fasi: una riguardante il giudizio di ammissibilità, valutata sulla base della nozione di paese terzo sicuro e l’altra concernente l’esame nel merito dei motivi che hanno costretto il richiedente a lasciare il proprio paese di origine. Al riguardo occorre precisare che il 7 giugno di quest’anno,

la Grecia con una decisione ministeriale congiunta ha dichiarato che debba essere considerata la Turchia paese sicuro

per cinque nazionalità dei migranti transitanti lungo la rotta dell’Egeo ossia quella siriana, afgana, bengalese, somala e pakistana.

Turchia, paese sicuro

È chiaro dunque che nell’ambito delle politiche europee oggi ci si sta muovendo ancora sulla scia del già citato accordo Ue-Turchia del 2016, anche se a rigor di logica, ci si chiede come possa essere onestamente considerato sicuro – per un richiedente asilo appartenente alle succitate nazionalità – un paese che ha firmato la Convenzione di Ginevra in modo restrittivo, ossia accettando di riconoscere lo status di rifugiato soltanto ai cittadini provenienti dall’Unione europea. Questo tra l’altro è stato già riscontrato rispetto ai migranti siriani accolti dalla Turchia a partire dal 2015 e soprattutto dal 2016, in esito al succitato accordo, per cui oggi il paese d’ispirazione imperialistica neo-ottomana – attualmente il primo paese al mondo per accoglienza dei migranti – non concede neanche più la protezione temporanea a favore dei siriani ma li strumentalizza per soddisfare le proprie finalità securitarie e di accrescimento della propria sfera di influenza sul suo territorio, favorendo il loro insediamento in zone appartenenti al Kurdistan turco al fine di indebolire le rivendicazioni identitarie del popolo curdo.

I migranti inoltre, siriani e non, sono considerati dalla Turchia un mezzo di ricatto per l’ottenimento di ulteriori finanziamenti dell’Unione,

per cui dal 2020 la Turchia ha cominciato a opporsi ai trasferimenti formali dei migranti respinti dalla Grecia, con l’intento – poi soddisfatto – di ottenere un ulteriore finanziamento dall’Ue mentre chiaramente rimangono sul territorio turco i migranti che hanno fatto ingresso in esso, eludendo i controlli della polizia turca, a seguito dei respingimenti operati dalla Grecia.

gli schiavi della rotta dell'Egeo

Scontri tra migranti e polizia nella buffer zone sul cinfine Turchia-Grecia a Pazarkule, nel febbraio 2020 (foto 4.Murat/Shutterstock).

A tal fine dato di particolare rilievo è il crollo del numero degli sbarchi lungo la rotta – in conseguenza dei pushbacks collettivi ellenici – in cooperazione con Frontex, che da 50.000 nel 2019 sono diminuiti a poco più di 1000 nel 2021, dato questo che si aggiunge a quello della dichiarazione di inammissibilità da parte della Grecia di circa 4000 domande d’asilo.

Dublino, ovvero delle deportazioni

Questo proprio in ragione della considerazione della Turchia come paese sicuro – già prima della dichiarazione ministeriale del giugno scorso – nonché sulla base di argomentazioni concernenti l’erronea applicazione del regolamento di Dublino che ancora prevede, come criterio principale nell’individuazione dello stato competente a trattare la domanda d’asilo, quello del primo paese di ingresso nell’Unione europea.

Rispetto a ciò molti sono i rapporti inquietanti in merito alle modalità con le quali tali respingimenti sono effettuati, come le “deportazioni” notturne – documentate da Amnesty International, Human Rights Watch, da Oxfam e dal Greek Council for Refugees – da parte di uomini con i passamontagna che dai campi prelevano i migranti per introdurli in grossi Van neri e da lì su gommoni diretti in Turchia.

Prima di “deportarli” li denudano completamente per assicurarsi che non abbiano indosso alcun dispositivo – primo tra tutti il cellulare – in grado di filmare tali pratiche e in questa condizione disumana li abbandonano sul territorio turco.

A riguardo va segnalato che a settembre la Grecia ha dovuto sospendere – in conseguenza del ricorso di uno dei tanti migranti respinti nelle isole dell’Egeo che tentavano di accedere alla Grecia continentale – i provvedimenti di rimpatrio in ragione della disposizione di misure ad interim da parte della Corte di Strasburgo (Corte Edu) che, alla fine di agosto, ha ordinato alle autorità greche di garantire condizioni di vita e sanitarie adeguate a favore del ricorrente. Nello stesso provvedimento la Corte ha disposto altresì che la Grecia dovesse revocare la restrizione geografica nelle isole, nel caso di specie l’impedimento a lasciare l’isola di Lesbo attuato nei confronti del migrante parte del giudizio. Già nel 2020 tuttavia la Corte di Strasburgo aveva riconosciuto la necessità di misure ad interim in grado di assicurare migliori condizioni di vita e assistenza sanitaria in seguito alla denuncia presentata da tredici migranti in condizione di vulnerabilità, rappresentati in giudizio dal Legal Centre di Lesvos.

Sottrazioni di servizi e mercato delle adozioni

Va ricordato che i numerosi minori presenti nei campi posizionati sul territorio greco non frequentano la scuola nonostante gli ingenti finanziamenti elargiti dall’Ue al paese ellenico per l’istruzione, di cui 7,5 milioni di euro specificatamente destinati ai bambini rifugiati, per loro inoltre era stato previsto nel 2019 un piano di ricollocamento all’interno dei paesi dell’Unione su base volontaria e per quote: triste dire che nel 2020 esigue sono state le domande accolte dagli stati membri che oltretutto con criteri discrezionali hanno deciso, come in un mercato, di porre dei criteri per l’ingresso come per esempio quello della nazionalità (solo bambini siriani) o dell’età (solo bambini al di sotto dei 12 anni).

Strumentalizzazione di giuste rivolte e devastazioni dell’inferno

Del tutto vana, retorica quanto inutile la dichiarazione pronunciata della commissaria Ue per gli affari interni Ylva Johansson, all’indomani dell’incendio sull’isola di Lesbo: «Mai più Moria». E falsa, considerato che sulle macerie di quel campo si è costruita un’altra tendopoli, costituita da circa 200 tende – il cosiddetto campo “New Kara Tepe” o “Moira 2.0”. A ciò si aggiunga che nessuna responsabilità è stata individuata rispetto alle autorità che erano a capo della gestione del campo – strutturato per accogliere 3000 persone – e che, invece, al momento del rogo, ne accoglieva circa 13.000 in condizioni disumane. Come noto, l’incendio è scoppiato dopo l’individuazione dei primi casi di Covid all’interno del campo con la conseguente assurda decisione di chiuderlo per quattordici giorni invece di mettere in isolamento i pochissimi migranti risultati positivi al virus. Diversa e paradossale inoltre la sorte dei sei afgani, quattro dei quali minori all’epoca dei fatti, ritenuti gli autori dell’innesco che, sottoposti al giudizio in conseguenza della testimonianza di un altro migrante – invero dubbia – sono stati condannati alla pena di 10 anni di reclusione senza avere nessuna possibilità di una vera difesa nel processo.

Marginalizzazione

È chiara dunque la volontà anche dell’esecutivo greco di centrodestra, guidato da Kyriakos Mitsotakis, di rendere invisibili i migranti, “deportandoli” all’interno di ghetti fuori dai centri abitati o dai poli turistici, chiudendo numerosi campi nella Grecia continentale e trasferendoli in lande desolate seppur in campi iperinnovativi.

Tuttavia, si può realmente scambiare con aria condizionata e campi da basket il rispetto dei propri diritti, in particolare l’accesso alla procedura d’asilo, o addirittura godere della libertà personale?

Rivalità locale secolare sfruttata da potenze globali con vittime delocalizzate

Rispetto alle dinamiche geopolitiche che, nella rotta interessano particolarmente i rapporti tra Grecia e Turchia, la questione migratoria e la strumentalizzazione dei migranti con l’Unione che l’agevola, nasconde il gioco di forza tra i due paesi da anni in contrapposizione tra loro per la rivendicazione della supremazia proprio rispetto alle acque dell’Egeo e alle isole che insistono su quel territorio marittimo, nelle quali attualmente sono residenti un elevato numero di migranti. Uscita sconfitta la Grecia dalla guerra del 1919-1922, con il Trattato di Losanna del 1923 si stabilì il ritorno forzato di circa un milione di greci, ellenofoni e turcofoni dal territorio turco – in particolare dalle coste dell’Anatolia – in quello greco. La Grecia riuscì comunque a occupare alcune isole posizionate strategicamente nell’Egeo, anche se prossime alla penisola anatolica, poiché nel corso del conflitto (grazie al sostegno britannico) si sancì di fatto l’interdizione turca ai mari. Infatti le Zone economiche esclusive turche sarebbero scandalosamente ridotte, se l’attività muscolare di Ankara e gli accordi strategici non cercassero di uscire da questo cul de sac volto a contenere l’ambizione ad affrontare il mare aperto di Erdoğan.

Elaborazione Ispi.

Mediterraneo orientale, ma anche l’incursione turca nel mare occidentale

La Grecia oggi come ieri rappresenta infatti – soprattutto per Stati Uniti e Francia – una delle principali risorse geografiche per contrastare la proiezione geopolitica espansionistica turca di Erdoğan, non solo nell’Egeo ma anche nel mar Mediterraneo tenuto conto anche delle postazioni turche in Algeria, Tunisia e in Libia. In particolare, rispetto a quest’ultima vale la pena ricordare l’accordo turco-tripolino, stipulato il 27 novembre del 2019 che si basa sull’irrilevanza del concetto della piattaforma continentale delle isole dell’Egeo come Creta e Rodi, sostenuto invece non solo chiaramente dalla Grecia ma dall’intera comunità internazionale, con la sottoscrizione della Convenzione di Montego Bay del 1982 che definì per la prima volta i criteri con cui spartire le acque tra i due paesi. La Turchia non ha mai ratificato tale convenzione che, se venisse applicata, restringerebbe il suo raggio di azione nei mari dalle 12 miglia alle 6 miglia nautiche occludendo il passaggio delle proprie navi militari dai Dardanelli fino al Mediterraneo orientale. L’accordo con Tripoli, invece sebbene non riconosciuto a livello internazionale consente potenzialmente alla Turchia di rivendicare due tratti di mare amplissimi, non solo nell’Egeo ma anche in parte del Mediterraneo. In reazione a tale accordo la Grecia ha recentemente stipulato due successivi accordi: uno con il governo italiano nel giugno del 2020 e l’altro ad agosto dello stesso anno con l’Egitto.

È facile dunque constatare come la Turchia sia giunta ad avere un controllo dei flussi migratori non solo verso la rotta dell’Egeo, ma anche verso quella balcanica e ora anche verso quella del Mediterraneo che verrà di seguito analizzata.

A sostegno di ciò si sottolinea che l’accordo Ue-Turchia, stipulato nel marzo del 2016, era stato concluso nel prevalente interesse della Germania. Questo sia perché i siriani in fuga nel 2015 erano diretti in primo luogo verso l’Europa centrale, sia poiché da sempre vi è un asse turco-tedesco, essendo la Turchia il primo partner commerciale della Germania che a sua volta ospita una rilevante comunità turca titolare spesso ancora del diritto di voto in Turchia. A giugno del 2021 tuttavia, al vertice con il quale si è dichiarata la volontà di rinnovare per la seconda volta tale accordo, l’ex cancelliera tedesca era affiancata dal presidente del consiglio italiano. Ciò dimostra che ormai il succitato accordo, rinsaldato con un ulteriore bonifico di 3 miliardi di euro, presi dai fondi dalla Cooperazione allo sviluppo dell’Unione, è divenuto la base sulla quale proiettare la politica europea nella gestione dei flussi migratori nelle diverse rotte, con un’evidente incoerenza: da una parte vi è l’intenzione dei paesi dell’Ue – come di altre potenze internazionali quali gli Stati Uniti – di bloccare qualsiasi espansionismo turco a livello geopolitico, dall’altra è sufficiente che la Turchia alzi la voce per chiedere altri finanziamenti volti al contenimento dei migranti e con lo scopo di far obbedire prontamente i leader europei, mettendo da parte le preoccupazioni sull’ambiziosa avanzata della Turchia nelle acque che lambiscono le coste di alcuni paesi dell’Unione. Ci si chiede pertanto, se l’ingresso e l’integrazione dei migranti nel territorio dell’Unione, applicando semplicemente la normativa europea già esistente, sia un pericolo così grave da consentire di porre a rischio la vita di migliaia di persone e, se si vuole parlare in termini di Realpolitik, da permettere a chi è stato definito un “dittatore” il margine per continuare il proprio espansionismo internazionale anche in ambito militare.

L'articolo n. 14 – Oi Barbaroi, gli schiavi della rotta dell’Egeo proviene da OGzero.

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n. 13 – Rotta balcanica: il Game, simbolo del fallimento europeo https://ogzero.org/il-fallimento-delle-politiche-migratorie-la-rotta-balcanica/ Thu, 16 Sep 2021 09:45:18 +0000 https://ogzero.org/?p=4908 Se esiste una rotta migratoria che simboleggia il fallimento delle politiche migratorie europee è quella balcanica, un percorso che cambia direttrici adeguando il passo, la resistenza al clima, alla fame e alle malattie, al disastro umanitario del momento. Il Game (non a caso il termine significa in italiano anche “cacciagione”) è ormai un gioco violento, […]

L'articolo n. 13 – Rotta balcanica: il Game, simbolo del fallimento europeo proviene da OGzero.

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Se esiste una rotta migratoria che simboleggia il fallimento delle politiche migratorie europee è quella balcanica, un percorso che cambia direttrici adeguando il passo, la resistenza al clima, alla fame e alle malattie, al disastro umanitario del momento. Il Game (non a caso il termine significa in italiano anche “cacciagione”) è ormai un gioco violento, perpetrato dalla fortezza Europa che i migranti tentano di vincere valicando muri, superando respingimenti illeciti, subendo accordi disumani tra paesi non sicuri e tornando e ritornando sui loro passi per anni.

Fabiana Triburgo qui delinea gli errori strategici sostanziali dell’Unione, che sfociano in una vera e propria violazione dei diritti umani.


I principali conflitti che attualmente interessano le migrazioni forzate e le prassi di esternalizzazione poste in essere dall’Unione Europea e dai singoli stati membri portano a una predeterminazione delle rotte dei migranti.

Quello che oggi è inevitabile chiedersi è se il nuovo Patto europeo sulla Migrazione e l’Asilo, proposto dalla Commissione UE, possa essere realmente considerato una soluzione della gestione del fenomeno migratorio o se invece vi siano soluzioni legali alternative maggiormente lungimiranti e coraggiose.  


Il transito dei migranti lungo la cosiddetta rotta balcanica non è certo semplicemente un fenomeno relativo alla mobilità umana che riguarda una specifica area geopolitica ma l’espressione di una politica migratoria che, al di là degli orientamenti, non può essere ignorata poiché gravissima è la violazione dei diritti umani perpetrati sulla stessa. È necessario prendere coscienza di quanto sta avvenendo e di quanto è accaduto perché l’omertà e la volontà di confinare e segregare per non rendere visibili i migranti non potrà mai essere una soluzione autentica e sicuramente non rende giustizia ai tanti individui che migrano da un paese all’altro della rotta –  europeo o non – e che, nelle migliori delle ipotesi una volta respinti, vengono derubati, picchiati, umiliati, derisi.

Ciò avviene contrariamente a qualsiasi disposizione normativa in materia sia essa nazionale, sovranazionale, internazionale. La strategia di rendere i migranti folli attraverso il Game –  così viene denominato questo orrendo e assurdo gioco –  respingendoli sistematicamente da un paese all’altro lungo la rotta, costringendoli a ripartire dopo i respingimenti dal “punto zero”, venti, trenta, cinquanta volte continua tuttavia spesso a non funzionare: grande la soddisfazione e l’ammirazione di chi scrive nel momento in cui alcuni di questi individui comunque riescono ad entrare in Europa, non per l’impiego di reinsediamenti dai paesi terzi a paesi dell’Unione, ma grazie solo alle loro forze.

Nessuna politica illogica, assurda, strategicamente programmata e attuata da chi è in una posizione di potere può contrastare la forza umana di chi lotta perché non ha alternative. E fintanto che vi è qualcuno che lotta il minimo è che ci sia qualcuno che scriva con profondo rispetto.

Vecchia rotta, nuova rotta

Iniziamo pertanto a dare alcuni riferimenti temporali rispetto alla mobilità dei migranti in tale area che non è una recente emergenza umanitaria riguardante i cosiddetti Balcani occidentali a meno che non la si consideri volutamente indotta. Il primo passo per accostarsi alla comprensione del fenomeno richiede “un salto” all’indietro di almeno cinque-sei anni. Con rotta balcanica si intende invero quel percorso che i migranti compiono passando attraverso il Nord della Grecia, Macedonia del Nord, Bulgaria, Serbia, Bosnia Erzegovina, Croazia e Slovenia. Dapprima era “legalizzata”: nel 2015 e nei primi mesi del 2016 circa un milione di persone, per lo più siriani, attraversarono a piedi tale area senza quasi alcun impedimento degli stati al passaggio dei migranti alle frontiere nei paesi UE ed extra UE che sono parte del percorso. Per alcuni anni la migrazione nei Balcani ebbe infatti come tappe Turchia, Grecia, Macedonia del Nord, Serbia e Ungheria nell’evidente tentativo dei migranti di arrivare prevalentemente verso Germania e Francia. Tuttavia, la rotta a oggi continua ad essere percorsa da un rilevante numero di individui nonostante tutti gli strumenti di deterrenza impiegati nei loro confronti nel corso degli anni.

Migranti in Ungheria, vicino al confine con la Serbia (foto Gémes Sándor/SzomSzed).

Chi passa e dove

I migranti sono prevalentemente afghani, siriani, iracheni, pakistani e iraniani rispetto ai quali in parte abbiamo già analizzato le situazioni dei paesi d’origine che danno luogo alle migrazioni forzate. Nel 2015 dunque la Turchia fu interessata dal passaggio di un rilevante numero di profughi che confluirono verso l’Egeo e verso i paesi dei Balcani per raggiungere l’Europa occidentale, ma i mezzi adottati in seguito da questi e dall’UE – finalizzati all’impedimento dell’ingresso alle frontiere – determinarono un mutamento nel 2018 dell’originario percorso che oggi registra nella Bosnia ed Erzegovina il maggior numero di presenze di migranti sul percorso, in particolare nel cantone di Una Sana al confine con la Croazia.

Da campi emergenziali a campi di confinamento

Dopo la chiusura del Campo di Bira nel settembre 2020 nel cantone se ne è costruito un altro nel maggio dello stesso anno, quello di Lipa (a cui si riferisce il video) la cui gestione era stata affidata all’Oim che a dicembre 2020 ha lasciato il campo a causa delle condizioni disumane nelle quali erano trattenuti i migranti, sprovvisti di acqua e di corrente elettrica. All’abbandono del campo dell’organizzazione internazionale ne è seguito l’incendio ma attualmente sopra le macerie della vecchia tendopoli si stanno costruendo dei container: da campo emergenziale Lipa sta divenendo campo temporaneo di confinamento dei migranti che consente l’accoglienza di sole 1.500 persone strategicamente posizionato su un altopiano, lontano 25 chilometri dal primo centro abitato ossia dalla città di Bihać.

La polizia bosniaca trasferisce nel campo di Lipa centinaia di migranti (aprile 2020, foto Ajdin Kamber / Shutterstock).

Muri e liste di ammissione

Appare evidente che stia divenendo prassi consolidata la creazione di hotspot ai confini delle frontiere dell’Unione, come emerge anche dalla lettura del nuovo patto sulla migrazione e l’asilo. Non si può in tale ricostruzione quindi ignorare quali siano stati i più gravi espedienti utilizzati per la compressione dell’applicazione del diritto d’asilo che hanno contribuito al cambiamento delle correnti migratorie. A partire dal luglio 2015 l’Ungheria iniziò a costruire un muro costituito da una barriera metallica al confine con la Serbia lungo 175 chilometri e successivamente un altro al confine con la Croazia; a tali imponenti barriere fisiche si aggiunsero – in una logica di pericolosa emulazione – le recinzioni della Slovenia al confine con la Croazia e della Macedonia del Nord al confine con la Grecia. Belgrado, che era uno degli snodi fondamentali della Rotta confinando con Ungheria, Croazia e Romania cominciò negli anni successivi la gestione dei flussi migratori in collaborazione con il governo ungherese mediante liste di ammissione dei migranti.

Il famigerato accordo UE-Turchia

Si arrivò dunque a quel famigerato quanto costoso accordo – ossequiosamente rinnovato – tra Unione Europea e Turchia del marzo del 2016 per il successivo triennio, con impegno di bonifico di 6 miliardi di euro entro il 2018 da parte della prima a quest’ultima, secondo il quale «tutti i nuovi migranti che hanno compiuto la traversata dalla Turchia alle isole greche a decorrere dal 20 marzo 2016 saranno rimpatriati in Turchia» e chiaramente sottolineando che ciò sarebbe avvenuto «nel rispetto del diritto dell’Unione e internazionale escludendo le espulsioni collettive» e che «una volta fermati o per lo meno drasticamente e sensibilmente  ridotti gli attraversamenti irregolari tra Turchia e UE» sarebbe stato attivato «un programma  volontario di ammissione umanitaria degli stati membri dell’Ue».

Il coivolgimento della Grecia il collegamento alla rotta dell’Egeo

Al di là dei discorsi di facciata – utili quando bisogna nascondere altre intenzioni – sembra che di fatto non sia andata esattamente così. Chiudendo quel flusso migratorio tra Grecia e Turchia se ne generò un altro verso il confine terreste turco-bulgaro che poi è sfociato nuovamente in Grecia. Rispetto alla rotta dell’Egeo, la cui analisi è collegata a quella balcanica, all’accordo del 2016 seguì la creazione di fatto di “hotspot” mediante la restrizione geografica operata, nei confronti dei migranti, nelle cinque isole greche – prima di accedere alla Grecia continentale – nelle quali si istituirono centri di accoglienza e di identificazione volti al contenimento dei flussi migratori e con essi anche delle domande d’asilo.

Se tale politica in un primo periodo ha determinato una sensibile diminuzione degli ingressi dei migranti, non ha evitato che la Grecia dal 2017 al 2019 fosse comunque la prima frontiera tra i paesi UE a essere attraversata.

La registrazione nel Paese di 121.000 persone nel 2020, anno che ha visto l’esasperazione delle condizioni nei centri nelle isole greche, come avvenuto in quello di Moira a Lesbo, non ci consente di soprassedere rispetto al fatto che i migranti appartenenti alle nazionalità succitate non solo non si sono mai fermati in conseguenza dell’accordo, dei muri e delle recinzioni ma molti di loro hanno continuato a optare oltre che per l’altra rotta marittima, ossia verso le principali città dell’Adriatico, nascosti nei tir diretti in Italia, per la percorrenza della via terrestre in prossimità del fiume Evros, al confine greco-turco, andando a confluire nuovamente nella rotta balcanica.

Il campo di Moira devastato dall’incendio.

Torna lo snodo di Idomeni

Oggi l’ex campo di Idomeni, il primo campo della rotta balcanica, costruito sul confine tra Macedonia del Nord e Grecia (sgombrato nel 2016) è nuovamente il simbolo di uno snodo principale per chi tenta di raggiungere attraverso i Balcani l’Europa centrale: la Grecia – così come la Bulgaria, la Croazia, la Slovenia e l’Ungheria, ma di recente anche l’Albania e la Romania – non sono certamente paesi di destinazione dei migranti, ma di transito, sebbene facciano parte dell’Unione, e considerati i trattamenti, ai quali sono sottoposti in essi se ne intuisce anche il motivo.

Immagine da un video di Bledar Hasko, campo di Idomeni.

Divieto di respingimento: riconosciuto e poi violato

Come noto lungo la rotta balcanica si attuarono e si attuano numerosi respingimenti: con tale espressione ci si riferisce a quegli atti coercitivi messi in atto da parte delle autorità di pubblica sicurezza di uno stato mediante l’impedimento all’ingresso nel proprio territorio di cittadini stranieri privi del titolo per l’ingresso o attraverso il rinvio verso un altro stato di individui che già sono presenti nel territorio. Tali atti – legittimi in quanto basati sul principio della sovranità nazionale riconosciuto agli stati secondo il diritto internazionale – trovano tuttavia il proprio limite nel rispetto dei diritti umani e di altri principi internazionali come quello sancito dal divieto di respingimento (non refoulement) considerata norma accettata e riconosciuta dalla Comunità internazionale della cui violazione da parte degli stati dell’UE si è già precedentemente argomentato nell’introduzione di questa sezione del saggio dedicata alle rotte migratorie. Si aggiunge che spesso i respingimenti lungo la rotta balcanica sono collettivi e come tali vietati secondo quanto stabilito dall’art.4 del quarto protocollo addizionale della Cedu.

Il confine croato respinge “a catena”

Ciò che rileva è che una buona parte degli individui che sono attualmente confinati nella rotta riferisce di essere stata respinta “a catena” dall’Italia o dalla Slovenia fino alla Croazia, paese dal quale poi sono stati ulteriormente respinti violentemente in Bosnia ossia fuori dalle frontiere dell’Unione: secondo il Danish Refugee Council da maggio del 2019 a novembre del 2020 circa 22.550 sono stati i respingimenti sommari dalla Croazia alla Bosnia.

In tale ambito dei respingimenti a catena per lo più collettivi, l’elemento sul quale è necessario soffermarsi è quello delle riammissioni “informali” dei migranti, non solo di quelle attuate dalla Croazia relativamente ai migranti respinti dalla Slovenia, ma anche di quelle della Slovenia in conseguenza degli accompagnamenti forzati alla frontiera da parte dell’Italia.

L’Italia e le riammissioni informali

La questione assume una particolare rilevanza se si considera che la Slovenia dal primo luglio ha assunto la presidenza del Consiglio dell’Unione fino al 31 dicembre e che perciò nei prossimi mesi avrà un ruolo strategico per quanto riguarda il nuovo patto europeo sulla migrazione e l’asilo proposto dalla Commissione UE. Si ricorda che il governo italiano ha ammesso nel 2020 di aver collaborato con la Slovenia alle riammissioni informali, in esito ad un’interrogazione urgente dell’onorevole Riccardo Magi del luglio del 2020 che chiedeva di far chiarezza in merito alle operazioni di Polizia al confine italo-sloveno. L’Italia ha collaborato a tali riammissioni con la Slovenia all’incirca da maggio del 2020 fino almeno a gennaio del 2021: con l’ordinanza del Tribunale di Roma del 18 gennaio 2021 è stato accolto il ricorso d’urgenza presentato da un cittadino pakistano che dichiarava di essere stato ricondotto dall’Italia alla Slovenia, quindi in Croazia e infine in Bosnia. All’uomo assistito da Asgi è stata concessa la riammissione in Italia con un visto umanitario.

E l’Europa?

Per quanto attiene gli aspetti giuridici – nelle ipotesi di accompagnamenti forzati da un paese dell’Unione, nei confronti di un altro paese dell’Unione che effettua le riammissioni – occorre argomentare sul diritto d’asilo, inteso come diritto d’accesso alla domanda di protezione internazionale, nonché sul concetto di individuazione del paese UE competente a trattare in merito alla domanda d’asilo.

Il diritto d’asilo nel nostro ordinamento nazionale è disciplinato dall’art. 10 co. 3 della Costituzione ed è un pilastro di questa essendo inserito in quei primi 12 articoli immodificabili: secondo il nostro ordinamento esso non può quindi in alcun modo subire limitazioni o deroghe.

 

D’alta parte anche diritto dell’Unione Europea stabilisce che le autorità dei paesi membri debbano rispettare la manifestazione di volontà del cittadino di un paese terzo che intenda chiedere asilo alla frontiera o sul territorio di un paese dell’Unione. Riguardo a ciò si vedano l’art. 3 del Regolamento Shenghen ossia il n.399 del 2016, la direttiva 32/2013/UE  – cosiddetta Direttiva procedure agli artt. 3 e 9 –, nonché il regolamento n. 604 del 2013, denominato comunemente Dublino III – che all’art. 3 paragrafo 1 stabilisce che gli stati membri esaminano qualsiasi domanda di protezione internazionale presentata da un cittadino di un paese terzo o da un apolide sul territorio o alla frontiera dell’Unione, e nelle zone di transito.

È stabilito inoltre che lo straniero che ha manifestato la volontà di chiedere asilo debba essere sempre trattato come un richiedente protezione internazionale e come tale è fatto obbligo allo stato che ha registrato la domanda, di collocare il richiedente in uno specifico centro secondo quanto stabilito dall’art. 3 della direttiva accoglienza. Inoltre, nel caso in cui si ritenga che lo stato competente non sia quello in cui è stata presentata la domanda di protezione internazionale si deve attivare il procedimento di accertamento del paese competente. Al riguardo si rammenta che in base all’art. 4 del Regolamento di Dublino lo stato nel quale è stata presentata la domanda ha l’obbligo di informare il richiedente che è stata attivata tale procedura e di attivare un colloquio relativamente alla medesima in una lingua da lui comprensibile nonché di fornirgli copia del verbale del colloquio. Solo infatti una volta che il paese dell’Unione accerti che la responsabilità sia di un altro stato, in base ai criteri enunciati al Capo III del Regolamento di Dublino, si potrà procedere al trasferimento in esso. L’art. 27 del Regolamento stabilisce inoltre che il richiedente ha diritto a un ricorso effettivo avverso la decisione di trasferimento o alla revisione della medesima mediante un organo giurisdizionale:

nessun trasferimento di un richiedente asilo da uno stato all’altro dell’Unione quindi può avvenire in violazione di tale regolamento.

Si aggiunge che in base all’art. 3 paragrafo 2 del Regolamento Dublino qualora sussistano carenze sistemiche nella procedura d’asilo e nelle condizioni di accoglienza dello stato membro in cui la persona verrebbe rinviata, il rinvio non è possibile e la competenza a trattare della domanda di protezione internazionale rimane quella dello stato in cui la domanda è stata presentata. Si veda al riguardo la sentenza del 21 gennaio del 2011 della Corte di Strasburgo M.S.S. contro Belgio e Grecia.

Ne discende che ogni trasferimento di un richiedente asilo verso un altro stato dell’Unione non possa essere mai automatico ma debba necessariamente essere valutato individualmente e concretamente rispetto alla persona che ha presentato domanda di protezione internazionale e che non possono esservi degli stati che vengano considerati aprioristicamente sicuri come invece è stato dichiarato con riferimento alla Slovenia e alla Croazia semplicemente perché facenti parte del territorio dell’Unione.

Ogni trasferimento del richiedente infatti deve essere valutato solo in base alla domanda d’asilo registrata e ulteriori accordi bilaterali e multilaterali non possono essere applicati in violazione del regolamento n. 604 del 2013. Ulteriori riflessioni giuridiche si sviluppano poi rispetto dell’accordo intergovernativo tra Italia e Slovenia del 1996 questa volta con riferimento a tutti i migranti siano o meno richiedenti asilo. L’accordo riesumato per legittimare le riammissioni informali di cui sopra è entrato in vigore il primo settembre 1997.

Rispetto all’accordo va detto che non è stato mai ratificato dal Parlamento italiano secondo quanto stabilito dall’art. 80 della Costituzione.

L’accordo essendo dunque di natura politica non può certamente modificare o derogare alle leggi ordinarie vigenti nel nostro ordinamento e tanto meno alla normativa europea. Inoltre, l’art. 2 dell’accordo sancisce che esso non sia applicabile ai rifugiati ma si ritiene che tale espressione attui una discriminazione tra rifugiati e richiedenti asilo che hanno il diritto di far ingresso in un paese UE altrimenti non sarebbe possibile l’esperimento del procedimento amministrativo necessario per dichiarare lo status di rifugiato. Sempre nel testo dell’accordo, più specificatamente all’articolo 6, si fa riferimento al carattere di informalità delle riammissioni dei cittadini di uno dei due paesi Ue o di cittadini terzi. Tuttavia, l’espressione “senza formalità” contenuta nell’accordo non può essere riferita all’atto della riammissione in senso stretto: in quanto sono atti amministrativi che incidono sui diritti soggettivi dello straniero e come tali devono essere disposti dalla Pubblica amministrazione con un provvedimento motivato in fatto e in diritto e notificato alla persona destinataria del provvedimento secondo quanto stabilito dalla Legge 241/1990. Pur potendo assumere una forma semplificata-succinta e immediatamente esecutiva rimane il fatto che per ogni atto di rinvio/ammissione o trasferimento debba essere comunque presente un atto che lo disponga e che sia impugnabile a livello giurisdizionale diversamente da quanto è avvenuto con le riammissioni tra Italia e Slovenia: il rischio è quello della violazione dell’articolo 24 della Costituzione sul diritto di difesa e dell’articolo 13 della CEDU nonché dell’art. 47 della Carta fondamentale dell’Unione Europea.

«La libertà personale è inviolabile»

Poiché inoltre la riammissione comporta l’accompagnamento forzato alla frontiera anche nel caso in cui sia eseguito nell’ambito di frontiere interne dell’Unione è un’attività che incide comunque sulla libertà personale dell’individuo e per questo motivo deve essere sottoposto a convalida dell’autorità giudiziaria secondo l’art. 13 della Costituzione. La stessa Direttiva rimpatri 115/2008/CE all’art. 6 par. 3 – che stabilisce la riammissione di un cittadino terzo irregolare anche senza l’emissione di una decisione sul rimpatrio – non esonera però lo stato che effettua la riammissione ad adottare una decisione sulla riammissione stessa: ossia un provvedimento scritto e notificato alla persona interessata e sottoponibile al controllo di un organo giurisdizionale.

Senza formalità = rapidità

Si può affermare in conclusione che il termine “senza formalità” non si debba interpretare acconsentendo all’attività di riammissione in assenza di un provvedimento, quanto piuttosto nel senso della speditezza e della forma succinta dell’atto amministrativo di riammissione.

Pattugliamenti congiunti vs indagini

Ad ogni modo con una nota stampa del 14 giugno del 2021 è stata resa pubblica la decisione del Ministero degli interni di nuovi pattugliamenti congiunti con forze di Polizia italo-slovene nelle frontiere Trieste/Koper e Gorizia/Nova Gorica in seguito all’incontro dei ministri degli Interni dei due paesi, al fine di sgominare le organizzazioni criminali che gestiscono il traffico dei migranti su tale area della rotta balcanica. I pattugliamenti congiunti sono frutto di un accordo sottoscritto alcuni mesi fa dalle autorità di Polizia di Roma e di Lubiana ma sebbene se ne condividano gli intenti è stato sottolineato che tale accordo non è sicuramente lo strumento migliore per contrastare il traffico di esseri umani riservato piuttosto a un’attività di intelligence o a una di inchiesta con il  coordinamento delle diverse autorità giudiziarie:

sembra piuttosto che l’intento sia nuovamente di contrastare l’ingresso dei migranti al confine italo-sloveno.

Si ricorda che il Tribunale amministrativo di Lubiana ha stabilito che con il respingimento di un cittadino camerunense in Croazia e da qui inviato in Bosnia, da parte della polizia slovena, dopo essere stato trattenuto dalla stessa per due giorni, è stata violata la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea. La sentenza si affianca alle pronunce di Tribunali italiani e austriaci (Tribunale di Stiria, 1 luglio 2021) a favore dei migranti respinti oltre i confini esterni dell’Unione.

Il fallimento delle politiche dell’Unione

S’intuisce quindi il colossale fallimento di tali politiche che se si vuole essere cinici, non hanno raggiunto l’obiettivo sperato, visto che la rotta continua comunque a essere percorsa e – se si considera che la proposta di ricollocamento automatico in tutti i paesi dell’Unione dei migranti che hanno presentato domanda d’asilo, in proporzione al Pil e all’assetto demografico di ciascuno da anni – è pressoché ignorata e allo stesso tempo non viene modificato il regolamento Dublino: tale parziale soluzione avrebbe permesso quanto meno di evitare non solo l’erogazione da parte dell’UE di ingenti finanziamenti a Frontex nonché alla Bosnia per “l’accoglienza” di migranti respinti evitando la catastrofe umanitaria nel cantone verificatasi nel 2019, nel 2020 e ancora oggi nel 2021.

Operazioni di “sicurezza” marittima di Frontex, sovvenzionate da finanziamenti europei.

In tale situazione, dinanzi all’emergenza umanitaria che sta attraversando l’Afghanistan e che inevitabilmente dispiegherà i suoi effetti sulla rotta con un aumento sostanziale del transito dei migranti provenienti da tale area dell’Asia centrale, l’unico timore dell’Europa è che non si riviva “un nuovo 2015”. Un’altra occasione persa per rivedere l’intero impianto di un sistema farraginoso e disumano cui l’unico scopo e alzare i muri – in qualunque modo siano intesi – della fortezza Europa.

L'articolo n. 13 – Rotta balcanica: il Game, simbolo del fallimento europeo proviene da OGzero.

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