Repubblica democratica del Congo Archivi - OGzero https://ogzero.org/tag/repubblica-democratica-del-congo/ geopolitica etc Fri, 03 Jan 2025 00:21:31 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.4.6 Le missioni di Peacekeeping. 1: profili giuridici e la Monusco in Congo https://ogzero.org/le-missioni-di-peacekeeping-1-profili-giuridici-e-la-monusco-in-congo/ Thu, 02 Jan 2025 23:32:12 +0000 https://ogzero.org/?p=13594 Una ulteriore questione posta dalla necessità di riequilibrare regioni sottoposte a tensioni, guerre civili e, più spesso, percorse dai residui venefici del colonialismo è tipicamente quella inerente agli aspetti giuridici regolatori le missioni cosiddette portatrici di pace, presunta e foriera di nuovi interessi lesivi della autodeterminazione dei popoli forzati a riceverla perché le nazioni si […]

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Una ulteriore questione posta dalla necessità di riequilibrare regioni sottoposte a tensioni, guerre civili e, più spesso, percorse dai residui venefici del colonialismo è tipicamente quella inerente agli aspetti giuridici regolatori le missioni cosiddette portatrici di pace, presunta e foriera di nuovi interessi lesivi della autodeterminazione dei popoli forzati a riceverla perché le nazioni si possano spartire i miliardi stanziati. Fabiana Triburgo affronta questa montagna di interessi intrecciati in due puntate, in questa prima esemplificando sulla missione Monusco. 


Regole d’ingaggio di Guerra e norme di Peacekeeping

I molteplici scenari di guerra che attualmente si stanno diramando a livello globale e le evidenti crepe dell’impianto Onu createsi dall’immobilismo del Consiglio di Sicurezza – per il sistema dei veti incrociati –, nonché dall’inefficacia in concreto delle recenti pronunce degli organi di giustizia internazionale, fanno emergere quella crisi del sistema di sicurezza internazionale che già si era manifestata durante il periodo della guerra fredda. Oggi, come allora, una delle principali ragioni di questa crisi è da ricercarsi in una sezione della Carta delle Nazioni Unite che non ha mai trovato attuazione ossia il capitolo VII – più in particolare gli articoli 42 e seguenti – nel quale, all’indomani della seconda guerra mondiale, si stabilì che l’uso della forza armata per la risoluzione dei conflitti non si sarebbe mai più dovuto rimettere all’iniziativa del singolo stato – tranne nei casi di legittima difesa ex art. 51 della Carta – ma a un contingente internazionale facente capo esclusivamente al Consiglio, quale garante della pace e della sicurezza internazionale.

Secondo tali norme – poste al fine di garantire obiettività e imparzialità per ogni azione di carattere militare – il Consiglio, non solo avrebbe avuto il potere decisionale in merito all’uso della forza armata, ma avrebbe dovuto anche assumere la direzione delle operazioni militari. Rispetto a tale contingente – così come previsto dalla Carta delle Nazioni Unite (artt. 42, 43, 44, 45) – sarebbe poi dovuto sussistere l’obbligo per ciascuno degli stati membri dell’Onu, di stipulare con il Consiglio di Sicurezza dei veri e propri accordi per decidere il numero, il grado di preparazione nonché la dislocazione delle forze armate di volta in volta utilizzabili parzialmente o totalmente da parte del Consiglio. L’azione militare del Consiglio prevista dalla Carta delle Nazioni Unite nel Capitolo VII sarebbe stata quindi un’azione di polizia internazionale che si sarebbe dovuta esplicare previe risoluzioni del Consiglio di Sicurezza aventi il carattere di delibere operative. Tale azione di polizia sarebbe stata strettamente vincolata nella sua attuazione a sole due ipotesi: quella contro uno stato responsabile di aggressione, di minaccia o di violazione della pace o quella dispiegata in un singolo stato se al suo interno, in ragione di un conflitto civile, si fossero ravvisati gli estremi della minaccia alla pace.

Riscontrata dunque la mancata attuazione dell’impianto giuridico della forza militare internazionale – originariamente prevista dalla Carta delle Nazioni Unite per sottrarre al singolo Stato l’iniziativa dell’uso della forza armata – si può più agevolmente comprendere la nascita delle operazioni di “peacekeeping” comunemente definite “Missioni di Pace” o “Caschi blu dell’Onu”.

L’istituto del peacekeeping non è previsto in alcun articolo della Carta delle Nazioni Unite ma è strutturato su una norma consuetudinaria particolare nell’ambito del capitolo VII che si è formata a integrazione della Carta e a titolo della quale il Consiglio di Sicurezza ha sempre agito ogni volta che ha istituito una singola missione di pace. Inoltre il Consiglio di Sicurezza non ha solo il potere di creare le forze per il mantenimento della pace ma anche di regolarne l’attività. Allo stesso tempo, uno degli aspetti altrettanto importanti del peacekeeping è la delega che il Consiglio di Sicurezza emana nei confronti del Segretario generale dell’Onu per compiere – mediante accordi con gli stati membri – le attività necessarie di reperimento e di comando delle forze internazionali in ordine a tali operazioni di pace. I principi fondanti dell’iniziale costituzione del peacekeeping furono infatti: la necessità del consenso alla sua azione da parte delle autorità territoriali di uno Stato; la neutralità del suo operato rispetto alle parti in conflitto; l’uso della forza limitato alla protezione dei propri militari o più in generale della missione (sempre mediante il reperimento dei militari con accordi stipulati con i singoli stati). Tuttavia, come è facile immaginare il peacekeeping ebbe un timido inizio durante il periodo della guerra fredda ma con la caduta delle ultime repubbliche socialiste negli anni Novanta – in particolare durante il conflitto nell’ex Jugoslavia – raggiunse l’apice del proprio interventismo arrivando ad ampliare i propri settori di competenza e spesso a derogare, almeno in parte, a uno o più di quei tre principi fondanti del peacekeeping di cui sopra.

L’allargamento delle finalità inceppa l’ingranaggio

Già dopo il 1989 infatti si passa dall’iniziale attività di peacekeeping – attuata in scenari locali nei quali Usa e Urss non potevano affrontarsi direttamente – a missioni con finalità più ampie come il controllo del rispetto dei diritti umani, l’attività di monitoraggio di libere elezioni, il rimpatrio dei rifugiati e le attività di soccorso in catastrofi naturali. Ad ogni modo, negli anni successivi il peacekeeping arriva a voler soddisfare, con il proprio intervento, obiettivi sempre più ambiziosi che rientrano nelle cosiddette attività di “peace enforcement” ossia alla vera e propria imposizione della pace raggiunta con l’uso della forza militare, derogando quindi a uno dei tre principi fondanti che avrebbero dovuto caratterizzare la sua attività ossia a quello del non uso della forza. se non per autodifesa o difesa del mandato della missione. È quanto avvenuto nel 2013 (Risoluzione n. 2098) con il tentativo di Peace enforcement della “Brigata di Intervento”, cioè: una forza offensiva di combattimento del contingente Onu, destinata a venire impiegata per vere e proprie operazioni militari contro i gruppi armati presenti nella Repubblica Democratica del Congo, prorogata fino al 2017 con una risoluzione del Consiglio di Sicurezza. In particolare, tale Brigata era autorizzata a condurre operazioni offensive mirate a neutralizzare i gruppi armati al fine di determinare una stabilità politica nel paese ma, considerata la vastità del territorio, si è coordinata con l’esercito congolese nello svolgimento delle proprie attività che potevano prevedere attacchi militari su propria iniziativa fino al bombardamento aereo.

Il disastroso impegno in Kivu: Monusco

Tale attività in ogni caso sembra non aver conseguito alcun risultato duraturo nel tempo, considerato che già nel 1999 era stata istituita, con la Risoluzione del Consiglio di Sicurezza n. 1279, la missione di osservazione Monuc (United Nation Organization in the Democratic Republic of Congo) operante nel territorio fino al 2010, a sua volta sostituita nello stesso anno da una nuova operazione di peacekeeping ossia la Monusco (United Nations Organization Stabilization Mission in the Democratic Republic of the Congo) con la Risoluzione del Consiglio di Sicurezza n. 1925 del 29 maggio 2010. Si ricorda che la Monusco, prorogata in un primo momento fino al 31 dicembre 2018, è tuttora operante. Più nello specifico, se la Missione di osservazione Monuc aveva il compito di monitorare l’implementazione dell’“accordo di Lusaka” che ha posto fine alla Seconda guerra del Congo (1997-2003) – detta anche Prima guerra mondiale africana, nata dalla rottura dell’alleanza del Congo con Ruanda e Uganda – il mandato principale della Missione di pace Monusco invece «è quello di proteggere i civili e supportare il governo congolese nel consolidamento del processo di pace». La regione interessata da decenni di violenze e saccheggi è in particolar modo quella del Kivu – a Est del paese, al confine con Burundi, Ruanda e Uganda – ricca di Coltan ossia un prezioso materiale utilizzato per la fabbricazione degli schermi dei cellulari e di altri minerali preziosi quali diamanti, oro e rame nonché di legnami di altissima qualità.

Il personale delle Nazioni Unite è malvisto dai gruppi armati in tale regione anche perché è testimone dei traffici di questi materiali a livello internazionale pur non avendo – come appare evidente – alcun potere, capacità o la reale volontà di limitare il contrabbando e lo sfruttamento illegale delle risorse del territorio congolese.

Il contrabbando delle ricchezze della regione del Kivu viene favorito dalle multinazionali europee e americane nei paesi confinanti, primo fra tutti il Ruanda che si configura tra i primi produttori mondiali di Coltan, nonostante il proprio territorio sia del tutto privo di tale minerale. È proprio il criminale riciclaggio delle risorse minerarie della Repubblica Democratica del Congo – mediante lo sfruttamento della popolazione civile – a determinare il rafforzamento dei gruppi armati che combattono contro le forze militari del governo congolese – in particolare i miliziani dell’M23 (Movimento 23 marzo)accusati da Kinshasa e dalle Nazioni Unite di essere sovvenzionati dal Ruanda, con la conseguente impossibilità a ripristinare la pace e la sicurezza nel territorio. Ad ogni modo, il rappresentante speciale del Segretario dell’Onu, responsabile della Missione Minurso, Bintou Keita ha dichiarato recentemente che anche neutralizzare la milizia Adf (Allied Democratic Force) nel nord del Kivu – responsabile nel giugno del 2024 dell’uccisione di 274 civili – rimane una delle priorità della Missione di pace. La fine della missione – per l’aggravarsi delle relazioni tra le forze di pace e la popolazione civile nel Nord Kivu in conseguenza di alcuni eventi accaduti nel biennio precedente – era stata prevista in un primo momento il 30 giugno del 2024.

Tuttavia in prossimità della scadenza l’ambasciatore della Repubblica Democratica del Congo presso le Nazioni Unite, in un discorso dinanzi al Consiglio di Sicurezza, ha dichiarato che «in conseguenza della continua aggressione del Ruanda nel Nord Kivu la seconda fase di ritiro delle truppe della Monusco, in seguito a una comune valutazione, sarà posta in essere quando le condizioni lo consentiranno».

Anche il capo della Missione Bintou Keita ha affermato che non esiste una tempistica per il ritiro dalle province del Nord del Kivu e dell’Ituri per cui le forze di pace nell’Est del paese hanno sospeso il loro ritiro, iniziato a febbraio 2024, senza che attualmente vi sia una nuova tempistica fissata per la fase conclusiva delle operazioni di pace.

Il Governo dei territori

Un’altra forma di intervento delle Forze dell’Onu, ancora più ingerente, che ha finito per riguardare di nuovo l’ex Jugoslavia si è verificata quando il Consiglio – invocando il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale – ha organizzato per prassi un governo dei territori. La differenza ontologica più rilevante del peacekeeping rispetto al cosiddetto governo dei territori è che il primo prevede un potere pubblico limitato delle forze delle Nazioni Unite che si deve affiancare – almeno in linea di principio – necessariamente a quello delle autorità locali mentre nelle ipotesi di “governo dei territori” vi è una sostituzione integrale dell’Onu a tali autorità anche solo temporaneamente. Il governo dei territorisul piano ideologico pur se rientrante nel peacekeeping – ha avuto origine nel principio di autodeterminazione dei popoli e nel processo di decolonizzazione sviluppatosi a partire dagli anni Sessanta, per cui nei territori interessati dalla fine di un conflitto civile o nei quali era messa in discussione la sovranità statale l’Onu ha cercato di ergersi quale garante in concreto degli interessi delle popolazioni locali. Questo processo di deviazione del peacekeeping tuttavia si è intensificato alla fine della Guerra Fredda quando sono scoppiati numerosi conflitti civili in stati ex colonie ma in un’ottica sempre più orientata di fatto verso il Peacebuilding postbellico – ossia verso quel processo di consolidamento della pace e della sicurezza internazionale – garantito dalle Forze dell’Onu nei territori interessati.

Le missioni di peacekeeping si sono quindi moltiplicate e ampliate fino al punto che alcune di esse hanno previsto di fatto lo svolgimento di alcune funzioni di governo nei territori nei quali hanno operato. La competenza del Consiglio, in questo modo, non solo è passata inevitabilmente dalle guerre internazionali a quelle civili, ma più volte alla vera e propria ricostruzione degli stati al termine dei conflitti armati. Infatti, muovendosi nella dimensione del peacebuilding, è stato più agevole per il Consiglio di Sicurezza – nelle situazioni postconflitto – sconfinare verso il governo dei territori, come è avvenuto tra il 1995 e il 1999 nell’ex Jugoslavia ovverosia quando le forze internazionali di pace finirono con il sostituirsi del tutto ai governi nazionali. Si può lecitamente affermare quindi che la prassi del Consiglio di Sicurezza ha ampiamente deviato dalle norme del Capitolo VII fino a interpretare come minaccia alla pace e alla sicurezza internazionale – delle quali il Consiglio di Sicurezza ha la principale responsabilità – qualsiasi “situazione di pericolo” all’interno di uno stato. In questo modo non solo si è finito con il legittimare l’applicazione di qualsiasi misura che apparisse al Consiglio sufficientemente adeguata. ma si è provocata la trasformazione delle originarie missioni di peacekeeping in missioni di fatto di governo dei territori, se non addirittura come vedremo in vere e proprie missioni di state building.

continua nei Balcani: Peacekeeping 2

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Come uscire dalla Françafrique e rimanere buoni amici, però? https://ogzero.org/come-uscire-dalla-francafrique-e-rimanere-buoni-amici-pero/ Fri, 03 Mar 2023 13:57:56 +0000 https://ogzero.org/?p=10429 Una scommessa impossibile, dopo l’arroganza plurisecolare della potenza coloniale francese. Macron, presidente dimezzato in patria, si sottrae all’ira sulla riforma delle pensioni proseguendo il tentativo di recuperare un rapporto postcoloniale con il continente africano. Dall’inizio del suo primo mandato – va riconosciuto – ha tentato di mutare l’atteggiamento gaullista, ma non ha un paradigma scevro […]

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Una scommessa impossibile, dopo l’arroganza plurisecolare della potenza coloniale francese. Macron, presidente dimezzato in patria, si sottrae all’ira sulla riforma delle pensioni proseguendo il tentativo di recuperare un rapporto postcoloniale con il continente africano. Dall’inizio del suo primo mandato – va riconosciuto – ha tentato di mutare l’atteggiamento gaullista, ma non ha un paradigma scevro da ogni possibile idea coloniale: non è nei cromosomi francesi, tanto che non sono riusciti a cogliere il momento giusto per tagliare i cordoni con le colonie, riuscendo a renderle autonome e un embrione di politica macroniana per il continente vede gli africani francesi fare da ponte. Il presidente francese ha dovuto registrare la sostituzione da parte dei russi sul piano militare (rimangono truppe francesi in Gabon, Niger, Senegal, Ciad… ma è proprio la loro figura a restituire quel feedback che procura un rigurgito antifrancese) e dei cinesi in economia, che hanno acquisito larghe fette del mercato della Françafrique (ma il ritorno per l’economia francese è ormai ridotto all’osso), prima di avventurarsi nel viaggio tra le foreste gabonesi, i Congo e l’Angola.

Un passato che sembra non passare mai. Infatti il tour di Macron comincia dal vicino Gabon della dinastia Bongo (emblematico del sistema “francese” di rapportarsi all’Africa attraverso famiglie fedeli che gestiscono il paese con corruzione e centri di potere), e poi si concentrerà su quelli più a rischio di sfuggire al controllo (Congo Kinshasa – dove sventola già la bandiera russa come “bienvenue” e l’ex luso-cinese Angola). Angelo Ferrari si lascia ispirare dal viaggio disperato dell’inquilino dell’Eliseo, cacciato dal Sahel occidentale e contestato per la mancata difesa del Congo dall’aggressione ruandese, per augurarsi che gli africani trovino la forza di liberarsi dei coloni di qualsiasi colore (ma con scarse speranze che cambi qualcosa); Macron si trova vituperato in patria dai nostalgici della grandeur d’outre-mer e destinato a risultare il presidente che “perderà” il controllo delle colonie, forse proprio in virtù dell’approccio iniziale di riconoscimento della brutalità dell’occupazione coloniale; ed è svillaneggiato in Françafrique, dove prova il grimaldello spuntato dell’approccio green per organizzare il tour elettorale a sostegno di regimi autocratici… e degli interessi petroliferi di Total (il green-paradox).


Macron l’Africano… ingombrante

Proteste a Kinshasa

La missione africana del presidente francese Emmanuel Macron non è iniziata nel migliore dei modi. Mentre il suo aereo arrivava in Gabon, prima tappa della sua visita in Africa, nella capitale della Repubblica democratica del Congo, Kinshasa – ultima fermata del suo viaggio – decine di giovani congolesi manifestavano contro di lui davanti all’Ambasciata di Francia. Brandendo bandiere russe, questi giovani lo accusavano di sostenere il Ruanda a spese del loro paese. “Macron assassino, Putin in soccorso”, questi gli slogan scanditi in piazza e su alcuni cartelli e striscioni si leggevano accuse ancore peggiori: “Macron padrino della balcanizzazione della Rdc”, “I congolesi dicono no alla politica della Francia” o anche “Macron indesiderabile in Rdc”. La Repubblica Democratica del Congo (Rdc), dove nel fine settimana è atteso il presidente francese, accusa il vicino Ruanda di sostenere una ribellione attiva nell’est – confermata dagli esperti Onu nonostante le smentite di Kigali – e si aspetta una chiara condanna di questa “aggressione” da parte della comunità internazionale.

«Siamo qui per dire no all’arrivo di Emmanuel Macron perché la Francia è complice della nostra disgrazia», ha dichiarato davanti ai giornalisti Josue Bung, del movimento cittadino Sang-Lumumba, sfoggiando la tipica acconciatura dell’eroe dell’indipendenza congolese Patrice Lumumba (1925-1961).

Lunedì scorso Emmanuel Macron ha presentato a Parigi la sua strategia africana per i prossimi anni e, rispondendo a una domanda sulla Rdc, ha sostenuto che la sovranità e l’integrità territoriale del paese «non possono essere discusse». Ma “non ha menzionato il Ruanda, che è il nostro aggressore”, gli hanno rimproverato i manifestanti.

Le bandiere russe significano «che non abbiamo più bisogno della Francia, vogliamo collaborare con partner affidabili, come la Russia o la Cina», ha sostenuto Bruno Mimbenga, altro organizzatore delle proteste davanti all’ambasciata francese, in un momento in cui la Russia è sempre più in competizione con la Francia nella sua storica sfera di influenza in Africa.

I giovani congolesi hanno ribadito quello che è un sentimento diffuso sia in Africa centrale sia nel Sahel e cioè che “la comunità internazionale non ci serve”. La Rdc sarà questa settimana l’ultima tappa di un viaggio di Emmanuel Macron in Centrafrica, che lo porterà anche in Gabon per un vertice sulle foreste, in Angola e in Congo-Brazzaville.

La dinastia Bongo e la foglia di fico delle foreste

Il diciottesimo viaggio nel continente è iniziato, quindi, a Libreville, dove Emmanuel Macron vuole dare nuovo impulso al rapporto tra i due paesi. Sono passati 13 anni da quando un presidente francese ha fatto un viaggio in Gabon. L’ultimo è stato Nicolas Sarkozy, nel febbraio 2010. Nel frattempo, la contestata rielezione del presidente Ali Bongo e la crisi elettorale del 2016 sono passate attraverso aspre tensioni tra i due paesi. Poi c’è stata la crisi sanitaria, e la lite è continuata fino a un inizio di riavvicinamento dal 2021. Questo viaggio per Macron era, secondo una fonte vicina all’Eliseo, diventato essenziale. Era già in lavorazione da diversi mesi, ed è stato nell’estate del 2022 che è stata presa in considerazione l’idea di usare il One Forest Summit e di focalizzare il viaggio sulla protezione delle foreste, per fugare ogni dubbio sulla natura della visita che arriva nell’anno elettorale del Gabon, con le elezioni presidenziali previste per la prossima estate. Una tempistica che ha fato sobbalzare la società civile e l’opposizione gabonese:

«È venuto per lanciare la campagna elettorale del suo amico», ha detto l’ambientalista Marc Ona.

Perplessità espresse anche dall’opposizione a Macron a Parigi. Un gruppo di parlamentari del gruppo Lfi-Nupes della Commissione Affari Esteri ha infatti scritto alla ministra degli Esteri, Catherine Colonna, facendo notare che due dei paesi visitati terranno fra pochi mesi le elezioni presidenziali, il Gabon e la Repubblica democratica del Congo. «In un tale contesto, questa visita potrebbe essere interpretata come un sostegno politico da parte dell’esecutivo francese a governi o regimi le cui derive autoritarie, persino autocratiche» sono evidenti, si legge nella nota.

La lettera ricorda che in Gabon, dove nessun presidente francese si recava da 13 anni, le elezioni si terranno fra cinque mesi. La visita, secondo i deputati d’opposizione, “offre una legittimità internazionale” a un regime, quello della famiglia Bongo, al potere dal 1967. Sottolinea inoltre che è stato negato un visto a una giornalista di “Liberation” per seguire il One Forest Summit – co-organizzato dalla Francia – lasciando intendere che si vuole coprire l’evento in un’ottica solo positiva per il regime, mentre molti osservatori temono che si tratterà di un’operazione di greenwashing.

I deputati di La France insoumise et Nouvelle union populaire écologique et sociale evidenziano anche dubbi sulla sincerità che circonda le prossime elezioni in Congo-Kinshasa, nonché la repressione di manifestazioni dell’opposizione in Angola nei mesi scorsi.

«Il carattere a volte selettivo e contraddittorio delle posizioni del governo francese sulla natura e le pratiche dei regimi e dei governi, in particolare in Africa, lascia spazio alle critiche, sincere o pilotate da altre potenze, che indeboliscono le nostre relazioni strategiche con i paesi del continente» africano, stigmatizzano gli autori della lettera.

Arginare il legittimo sentimento antifrancese: safari impossibile

Un viaggio, inoltre, che arriva a pochi giorni da una lunghissima conferenza stampa nella quale Macron ha voluto ridisegnare la politica francese nei confronti del continente africano. Un tentativo legittimo, visto il dilagare del sentimento antifrancese in buona parte dell’Africa centrale e del Sahel. Per Macron è necessario un nuovo rapporto “equilibrato, reciproco e responsabile”. Questo il mantra presidenziale. Ma ancora:

«L’Africa non è terra di competizione», ha detto Macron durante la conferenza stampa all’Eliseo, invitando a «passare da una logica degli aiuti a quella degli investimenti».

Ha, inoltre, affermato di aver mostrato «profonda umiltà di fronte a quanto si sta svolgendo nel continente africano, una situazione senza precedenti nella storia», con «una somma di sfide vertiginose. Dalla sfida della sicurezza climatica alla sfida demografica con i giovani ai quali dobbiamo offrire un futuro in ognuno degli stati africani», invitando a «consolidare stati e amministrazioni, investendo in modo massiccio in istruzione, salute, lavoro, formazione, transizione energetica».

L’inquilino dell’Eliseo ha voluto anche sottolineare che la Francia «sta chiudendo un ciclo segnato dalla centralità della questione militare e della sicurezza», annunciando una “riduzione visibile” del personale militare francese in Africa e un “nuovo modello di partenariato” che prevede un “aumento del potere degli africani”. Tutto ciò segna un cambio di paradigma nella politica dell’Eliseo? Per ora sono solo parole a cui devono seguire dei fatti concreti, anche perché la riduzione del personale militare più che una scelta è stata una via obbligata visto il ritiro dal Mali, dal Burkina Faso e dalla Repubblica Centrafricana, tre roccaforti dell’influenza parigina in Africa. Paesi che, dopo la “cacciata” dei francesi si sono affidati in maniera decisa proprio alla Russia, dimostrando che l’Africa è, ancora, una terra dove la competizione tra potenze internazionali è viva più che mai, a differenza di ciò che sostiene Macron e lui stesso ne è complice.

Da ultimo occorre ricordare che nei paesi visitati dal presidente francese – Gabon, Angola, Repubblica del Congo e Repubblica democratica del Congo – la Francia ha enormi interessi economici soprattutto nel settore petrolifero.

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Da qui il coltan… https://ogzero.org/da-qui-il-coltan/ Fri, 09 Dec 2022 23:45:12 +0000 https://ogzero.org/?p=9746 Bagatelle contrastanti per un massacro Soltanto venti giorni fa, in occasione del 18° vertice della francofonia (Oif, in rappresentanza di una novantina di stati) nell’isola tunisina di Djerba, Louise Mushikiwabo (ministro degli Esteri ruandese dal 2009 al 2018 e segretaria generale dell’Oif, appena rieletta per i prossimi quattro anni) lanciava accuse – se non proprio […]

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Bagatelle contrastanti per un massacro

Soltanto venti giorni fa, in occasione del 18° vertice della francofonia (Oif, in rappresentanza di una novantina di stati) nell’isola tunisina di Djerba, Louise Mushikiwabo (ministro degli Esteri ruandese dal 2009 al 2018 e segretaria generale dell’Oif, appena rieletta per i prossimi quattro anni) lanciava accuse – se non proprio del tutto infondate, perlomeno non documentate – secondo cui ci sarebbero «elementi nella Repubblica democratica del Congo, proprio alla frontiera con il Ruanda, che sono una minaccia per la sicurezza del mio paese».
Quando in realtà – stando ai rapporti onusiani – quello che sta avvenendo sarebbe esattamente il contrario. Basti pensare al sostegno anche di natura militare dato dal governo di Kigali (e dal presidente Kagame di etnia tutsi, quella che subì il genocidio del 1994) al movimento M23 che imperversa nel Nord Kivu, una regione nell’Est della Repubblica democratica del Congo da dove sono fuggiti centinaia di migliaia di sfollati (e dove, ricordo, sono stati assassinati l’ambasciatore Luca Attanasio, l’autista Mustapha Milambo e il carabiniere Vito Iacovacci).

Erano passati soltanto alcuni giorni quando, il 29 novembre, veniva attaccata la città di Kishishe (circa 70 chilometri da Goma, la capitale del Nord Kivu). Se inizialmente si parlava di una cinquantina di vittime, via via che le indagini proseguivano si arrivava alla cifra terribile di oltre 270 civili uccisi (tra cui diversi bambini).
Stando alle fonti ufficiali, il governo e le forze armate congolesi, la responsabilità dell’attacco cruento sarebbe del Movimento 23 marzo (l’M23 però, da parte sua, smentisce). Nella generale costernazione del paese, il presidente della Rdc, Félix Tshisekedi, aveva indetto tre giorni di lutto nazionale.
Significativo che tale strage sia avvenuta (come una provocazione per sabotare gli accordi se non di pace, almeno di non belligeranza attiva) a soli cinque giorni dall’ultima dichiarazione di cessate il fuoco. Anche se, forse inopportunamente, M23 (inattivo dal 2013 al 2021) era rimasto escluso dalle trattative del vertice dei Grandi Laghi (fine di novembre) che si erano svolte a Luanda.
Invitato invece Paul Kagame, pur facendosi sostituire da Biruta, suo ministro degli Esteri.

Milioni al Ruanda… per pagare cosa?

Lotta al terrorismo?

Intanto, dando prova di scarso tempismo, l’Unione Europea approvava il 1° dicembre un ulteriore stanziamento (circa 20 milioni di dollari) per l’esercito ruandese. Ufficialmente per rafforzare la lotta al terrorismo in Mozambico (regione di Cabo Delgado), ma alcuni osservatori non escludono che in parte tali finanziamenti vengano dirottati ad alimentare il conflitto nel Nord Kivu.
Recentemente la politica di Kagame nei confronti del Congo Kinshasa è stata messa in discussione proprio da uno dei principali sostenitori del governo di Kigali. Il segretario di stato statunitense Antony Blinken ha chiesto infatti a Kagame di non sostenere più M23 e di promuovere concretamente “pace e stabilità”.
Critiche che non sarebbero state ben accolte dal presidente del Ruanda.

Soldo per milizie predatrici?

Quanto a M23, sarebbe costituito soprattutto da miliziani ed ex insorti di etnia tutsi (ma spesso di nazionalità congolese) che in parte erano stati integrati nell’esercito congolese. Il tentativo di smantellare le unità formate appunto da tali ex ribelli (o di trasferirli in altre regioni della Rdc) aveva provocato la loro ribellione.
Attualmente chiedono l’amnistia e la possibilità di rientrare dai campi profughi del Ruanda e dell’Uganda per i rifugiati tutsi di nazionalità congolese. Senza escludere la possibilità di essere reintegrati nell’esercito congolese in modo da poter esercitare un maggiore controllo su traffici e commerci nel Nord Kivu. Per esempio quello del cobalto, nella cui estrazione, su un totale di 300.000 minatori, sono coinvolti almeno 35.000 bambini ridotti in schiavitù. Oppure dell’altrettanto famigerato coltan che ugualmente si estrae a mani nude con danni irreparabili per la salute dei giovanissimi minatori. Per non parlare degli abusi sessuali di cui sono vittime.

Subappalti?

Da qui il coltan, attraverso una catena commerciale gestita da bande, milizie e mercenari di varia etnia ed estrazione (a cui le compagnie subappaltano il lavoro sporco), arriva in Ruanda e Uganda. Per essere acquistato dalle compagnie che si occuperanno dell’export, eventualmente della raffinazione. Destinazione finale: le multinazionali in Germania, Usa, Cina…

Di questa crisi avevamo parlato con Massimo Zaurrini a metà novembre, immaginando già scenari apocalittici verso cui ci stiamo avviando, visti gli interessi di tutte le comparse coinvolte: il gigante congolese incapace di controllo, gli esportatori di terre rare ruandesi e ugandesi (senza estrarne, ma controllando), militari di frapposizione (kenioti); le potenze occidentali, interessate a calmierare i prezzi con la schiavitù giovanile…:

“Rischio di Terza guerra mondiale africana dei Grandi Laghi?”.

to be continued

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Nord Kivu: la tregua tra Ruanda e Congo resuscita l’M23 https://ogzero.org/nord-kivu-la-tregua-tra-ruanda-e-congo-resuscita-lm23/ Thu, 14 Jul 2022 10:52:21 +0000 https://ogzero.org/?p=8201 La distrazione globale derivata dalla guerra in Europa nasconde ancora di più tensioni, conflitti esplosi o quasi, guerre prolungate e seriali. Lo scontro in Nord Kivu è tra i più annosi e coinvolge diversi interessi, in particolare quelli tra comunità che si contendono interessi e sfruttamento delle risorse della regione. I due protagonisti di questa […]

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La distrazione globale derivata dalla guerra in Europa nasconde ancora di più tensioni, conflitti esplosi o quasi, guerre prolungate e seriali. Lo scontro in Nord Kivu è tra i più annosi e coinvolge diversi interessi, in particolare quelli tra comunità che si contendono interessi e sfruttamento delle risorse della regione. I due protagonisti di questa disputa abitano a Kigali e Kinshasa; si sono scatenate guerre, massacri, sfruttamenti e il controllo di miniere maledette di metalli preziosi legittima il perdurare delle tensioni, che richiedono la presenza di antagonisti, conosciuti e riconoscibili. Il movimento M23 nelle province nordorientali della Repubblica democratica del Congo serve per evitare che sui Grandi Laghi scenda il livello di scontro; un Movimento che si muove sempre più come un esercito regolare con la stessa potenza di fuoco, come sottolinea “Nigrizia”. Angelo Ferrari, contestualizzando gli eventi e segnalando il ruolo autonomo di M23 come attore in commedia, ha scritto per l’agenzia Agi questa breve nota che riprendiamo, lasciando immaginare l’incertezza come sistema per perpetuare lo scontro… e gli affari. 


Cosa sta succedendo nel Nordest della Repubblica democratica del Congo?

Ma, soprattutto, a cosa è servito l’incontro del 6 luglio a Luanda tra il presidente congolese, Felix Tshisekedi e quello ruandese, Paul Kagame, mediato dal loro omologo angolano, João Lourenço? Probabilmente a nulla.
I tre dovevano trovare una soluzione alle crescenti tensioni tra Congo e Ruanda che si sono acuite con l’intensificarsi delle attività nel Nord Kivu del gruppo ribelle M23, che si riteneva sconfitto dal 2013, ma che ha ripreso le sue attività provocando decine di vittime e migliaia di sfollati. Kinshasa sostiene che i ribelli siano sostenuti dal Ruanda, quasi una longa manus di Kigali che, invece, nega in maniera decisa.
Smentite che non hanno fatto calare la tensione che, anzi, si è riaccesa dopo l’annuncio del 13 giugno scorso da parte delle Forze armate della Repubblica del Congo (Fardc) che hanno parlato di «un’occupazione della città di confine di Bunagana» da parte delle Forze di difesa del Ruanda (Rdf). A dimostrazione che non si tratta solo di una disputa tra diplomazie ci sono le manifestazioni della popolazione a Goma: una vera e propria rivolta, una marcia verso il confine con il Ruanda al grido “dateci le armi che sconfiggeremo il nemico”, cioè Kigali. Manifestazioni che sono state sedate dalle forze di polizia del Congo.

Nord Kivu

Cessate il fuoco in Nord Kivu: fare la tregua senza l’oste

I tre presidenti, il 6 luglio, si erano accordati per un “cessate il fuoco”, annunciato in pompa magna dal capo di stato angolano e mediatore tra le parti.

«Sono felice di annunciare che abbiamo compiuto progressi, dal momento che abbiamo concordato un cessate il fuoco», ha detto pomposamente Lourenço.

Il presidente del Congo e quello del Ruanda, dal canto loro, avrebbero anche deciso di «creare un meccanismo di monitoraggio ad hoc», che sarà guidato da un ufficiale dell’esercito angolano. La tensione tra i due paesi è “inutile”, ha spiegato Tshisekedi, perché «costituisce un fattore destabilizzante e non contribuisce allo sviluppo e al benessere dei rispettivi popoli». Kagame, dal canto suo ha ritenuto “soddisfacenti” i risultati del vertice di Luanda che prevede, tra l’altro, l’immediata cessazione delle ostilità e il ritiro immediato e incondizionato dell’M23 dalle sue posizioni.

Il giorno dopo il vertice arrivano le dichiarazioni dell’M23, una doccia fredda sugli accordi. Il portavoce del movimento ribelle, Willy Ngoma, spiega che «l’accordo non coinvolge l’M23. Siamo congolesi, non ruandesi. Se c’è un cessate il fuoco, può essere solo tra noi e il governo congolese, non abbiamo niente a che fare con il Ruanda. Ci viene chiesto di partire da qui, ma per andare dove? È impossibile».

Probabilmente a Luanda si sono dimenticati di invitare il terzo attore delle tensioni in Nord Kivu, oppure credono davvero che i ribelli in questione siano realmente sostenuti da Kagame. Non è una questione da poco. L’M23 è un gruppo ribelle a maggioranza tutsi – la stessa etnia che ha le redini del potere a Kigali – che ha ripreso le ostilità alla fine dell’anno scorso, accusando Kinshasa di non aver rispettato gli accordi sulla smobilitazione e il reinserimento dei suoi combattenti.

Ascolta “Nord Kivu: la consuetudine alla guerra” su Spreaker.

Ma la trama si infittisce

Nessun accordo, nessun cessate il fuoco ma solo una tabella di marcia comune “con obiettivi e attività chiari”, in vista del prossimo vertice a Luanda. Così il 12 luglio il governo di Kigali ha ufficialmente smentito la firma o un qualsiasi accordo di cessate il fuoco nell’Est della Repubblica democratica del Congo, come invece annunciato il 6 luglio. La smentita è stata diffusa dal ministro ruandese degli Esteri e della Cooperazione, Vincent Biruta, che ha poi aggiunto che la «disinformazione e il populismo stanno minando l’obiettivo generale di raggiungere la pace» nella Repubblica democratica del Congo.

Nord Kivu: tutto da rifare?

Pare proprio di sì.
Le schermaglie diplomatiche si aggiungono a quelle sul campo e non fanno altro che surriscaldare gli animi. La contesa armata tra Fardc e M23 continua e a farne le spese, come sempre, la popolazione che si trova tra due fuochi, senza comprenderne bene la ragione, sa solo che deve fuggire dalle proprie case; e sono già 170.000 i profughi di questo ritorno di fiamma del conflitto. Il Nord Kivu continua a essere teatro di scontri e delle scorribande di gruppi armati, ribelli o no che siano, da ormai 25 anni e il governo congolese non riesce a governare il territorio dove ha decretato, l’anno scorso, lo stato di emergenza che consente all’esercito pieni poteri e libertà di azione, con risultati, tuttavia, molto scarsi ed è comprensibile visto che neanche i tre presidenti, quello congolese, quello ruandese e quello angolano, riescono a concordare una dichiarazione comune.

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Kivu, un non-luogo: l’habitat autosostenibile di traffici e milizie https://ogzero.org/il-kivu-un-non-luogo-habitat-autosostenibile-di-traffici-e-milizie/ Sun, 14 Mar 2021 15:48:23 +0000 https://ogzero.org/?p=2599 «In un viaggio del 2003, ho incontrato un vecchio amico, Lino, nella capitale Kinshasa. Era appena arrivato dalla città di Kikiwit. La strada che porta da Kinshasa a Kikiwit, circa 600 chilometri, l’avevamo percorsa insieme nel 1993 e ci avevamo impiegato circa 8 ore. Dieci anni dopo Lino ha impiegato 15 giorni per lo stesso […]

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«In un viaggio del 2003, ho incontrato un vecchio amico, Lino, nella capitale Kinshasa. Era appena arrivato dalla città di Kikiwit. La strada che porta da Kinshasa a Kikiwit, circa 600 chilometri, l’avevamo percorsa insieme nel 1993 e ci avevamo impiegato circa 8 ore. Dieci anni dopo Lino ha impiegato 15 giorni per lo stesso percorso. La rete viaria completamente distrutta. E oggi non è cambiato nulla. Ma alle aziende minerarie non servono le strade, si muovono con aerei ed elicotteri». Riprendiamo da qui il viaggio nella zona dei Grandi Laghi africani, nel Kivu, un non-luogo le cui risorse arricchiscono un mondo già ricco e predatorio, e dove milizie e rivalità si spartiscono il territorio ai danni di una popolazione sempre più povera la cui identità è smarrita e spesso dimenticata.

Il quadro storico e quello dei traffici: guerre mondiali e per procura

La Repubblica democratica del Congo (RdC) è un non-lieux. Un non-luogo che non trova pace, attraversato da conflitti aspri o a bassa intensità, snaturato dalle pressioni da oltreconfine di una nazione devastata e irriconoscibile per gli smarriti autoctoni; nella definizione di Marc Augé “non-luogo” è quello che non riesce a essere identitario (non contrassegna univocamente l’identità di chi lo abita), relazionale (non c’è comune appartenenza nei rapporti tra tutti i soggetti della regione), storico (le singole comunità non si riconducono a comuni radici). Nessuno, fino a ora, è riuscito a dare in sessant’anni una speranza a oltre 84 milioni di abitanti di un paese ridotto a supermercato di risorse da taccheggiare. Anche se le elezioni del 2019, con la vittoria di Felix Tshisekedi, figlio dell’oppositore storico di Mobutu Sese Seko e di Kabila padre, hanno portato il Congo Kinshasa verso una parvenza di stabilità, l’oggetto del contendere rimane, ovvero il paese stesso. Ciò che il suo sottosuolo contiene: tutto quello che il mondo libero desidera.

Non a caso quelle aree sono ricche di risorse minerarie, cambiano nome, affiliazione, ma l’obiettivo è sempre quello: coltan, diamanti, oro, legname, petrolio… e per impossessarsene si è combattuta una guerra che l’ex segretario di stato americano Madeleine Albright definì la “Guerra mondiale africana” (1996-2004). Sul terreno si sono dispiegati gli eserciti di Angola, Burundi, Namibia, Ruanda, Uganda e Zimbabwe; si sono contesi pezzi di territorio e le aeree di più intenso conflitto corrispondevano a quelle più ricche di risorse naturali.

Da quella guerra che vide combattersi 8 eserciti nazionali e 21 milizie sono nate decine di formazioni di guerriglieri al soldo di quelle stesse nazioni o di altre più lontane; nell’area ora si confrontano oltre venti gruppi etnici con propri miliziani che operano tuttora in tutto il paese e in particolare nel Kivu e nel Nordest del paese, continuando a contendersi quella spartizione bellica. Guerre di mercenari per procura, che proseguono (ciascuno cambiando nazioni di riferimento in base al prezzo) quel conflitto panafricano che ha provocato più di 4 milioni di morti, la maggior parte per fame e non per armi da fuoco. Il paese è arretrato di 100 anni: alla fine della guerra la popolazione non aveva nulla e così le ong hanno cominciato a ripristinare, innanzitutto, dispensari e ospedali, ma nessuno vi accedeva: la gente si vergognava ad andare in ospedale perché non aveva di che coprirsi, i vestiti erano un lusso.

Invece paesi come l’Uganda sono diventati improvvisamente esportatori di oro. Il Ruanda del preziosissimo coltan, che si trova solo in Congo nella regione del Kivu dove si muovono milizie e faccendieri spregiudicati che lo trasportano oltre confine e il Pil di Kigali cresce a dismisura.

Per riportare la “pace” è stata istituita una missione dell’Onu composta da oltre 17.000 uomini, Monusco è il tentativo di stabilizzazione di una regione più grande e impegnativo mai messo in campo dalle Nazioni Unite. Oggi la missione è ancora al suo posto (i suoi budget stratosferici di più di un miliardo all’anno fanno parte del sistema economico del Kivu), la guerra non è finita e la pace lontana: spariti gli eserciti stranieri, sono rimasti i guerriglieri che infestano il territorio, lo rendono insicuro e si battono per lobby economiche e politiche, persino di potenze regionali interessate alle risorse.

Contrabbando e saccheggio

Questo paese è un non-lieux. Come per la corsa all’oro, le aree dei ritrovamenti diventano la meta di disperati in cerca di fortuna. Ma non solo. Sono la meta delle multinazionali, degli stati di mezzo mondo che vogliono approfittare delle risorse del Congo.

«Il requisito principale di un non-luogo non è attribuibile a un generico elenco di luoghi progettati, ma dipende dalla percezione collettiva, che gli utenti hanno di quel determinato contesto spaziale» (Paolo Campanella, 2006), perciò riconduciamo quella definizione se non a tutta la repubblica congolese, almeno alla regione del Kivu, una zona di razzia; il luogo delle guerre fratricide, vendute come tribali, ma combattute proprio per le risorse minerarie.

In Rdc si trova di tutto: legno, rame, cobalto, coltan, diamanti, oro, zinco, uranio, stagno, argento, carbone, manganese, tungsteno, cadmio e petrolio. Materie prime che fanno gola a mezzo mondo.

La Repubblica democratica del Congo è lo stato più ricco di risorse naturali dell’Africa, gli oltre 84 milioni di abitanti potrebbero vivere nel benessere, solo se i suoi governanti investissero le royalties ricavate dalle estrazioni minerarie nel paese. Invece no: l’economia del paese è tradizionalmente orientata alle esportazioni, fortemente dipendente dalle commodities primarie. I diamanti hanno sostituito rame e cobalto come principale voce delle esportazioni (un terzo del contrabbando della zona dei Grandi Laghi): il cobalto finisce tutto nelle mani dei cinesi; i diamanti, oltre 22 milioni di carati, sono nelle mani delle multinazionali; il coltan – estratto praticamente solo in Congo – prezioso per l’industria della telefonia mobile e per quella aerospaziale, è gestito dal Ruanda. Il Congo possiede la seconda foresta pluviale al mondo, da cui si ricava legname pregiato. L’autosufficienza alimentare in molte aree del paese è un miraggio. Le terre coltivate rappresentano solo il 4 per cento del totale, nonostante il 75 per cento della popolazione attiva si occupi di agricoltura, per lo più di sussistenza; il Pil pro-capite è di circa 450 dollari, uno tra i più bassi al mondo, e l’indice di sviluppo umano è 0,433 che colloca la Repubblica democratica del Congo al 176° posto al mondo.  E la stragrande maggioranza della popolazione vive con meno di 2 dollari al giorno.

La “fluidità” delle milizie abita territori porosi

Secondo il Gec (Gruppo di studio sul Congo), almeno 125 gruppi armati sono censiti nelle regioni orientali del Nord Kivu e del Sud Kivu, teatro da oltre 20 anni di quello che è stato definito da più fonti un “lento genocidio”, la metà dei quali è tutt’ora in attività.

Nella regione orientale della Repubblica democratica del Congo si muovono decine di milizie. Difficile tracciarne una mappa. La loro ragion d’essere è la fluidità, cambiare “padrone”, seguire gli affari economici e, dunque, concentrarsi sulle risorse minerarie e lì mettere in atto la loro azione di controllo e gestione del territorio. Storicamente nell’area agiscono i miliziani Mayi Mayi – storica formazione nata tra la fine degli anni Novanta e l’inizio dei Duemila come sorta di autodifesa dalle truppe ruandesi che per alcuni anni hanno occupato quell’area – sono tornati a essere molto attivi nella regione.

La distribuzione delle milizie nella Regione dei Grandi Laghi (fonte dati Agi rimaneggiata da OGzero)

I Mayi Mayi, tuttavia, sono semplicemente un nome, infatti comprendono milizie guidate dai signori della guerra, dagli anziani delle tribù, dai capi villaggio, da faccendieri economici. I gruppi hanno perso anche la loro aura mistica: un tempo combattevano solo con il machete forti del potere che gli derivava dall’acqua che li proteggeva dalle pallottole. Quell’epoca è finita. E agli inizi degli anni Duemila dalla loro lotta di “autodifesa” dei villaggi sono passati alla difesa del territorio contro l’occupazione ruandese. Occupazione che Kigali ha sempre negato, evidente nei primi anni Duemila proprio nell’area di Goma. L’esempio più eclatante della presenza ruandese e del controllo del territorio era che il prefisso telefonico internazionale per chiamare quelle zone era quello del Ruanda. Un abitante di Kinshasa, la capitale della Repubblica democratica del Congo, per parlare con un parente di Goma doveva comporre il prefisso internazionale del confinante Ruanda e viceversa. Quell’occupazione, giustificata da Kigali con il pretesto della lotta contro le milizie hutu responsabili del genocidio fuggite nel Kivu, si è presto trasformata in un’azione predatoria nei confronti delle risorse della regione, in particolare il coltan di cui Kigali è diventato esportatore. La milizia dei Mayi Mayi si è presto trasformata, data la sua fluidità, in una lobby d’affari armata, partecipando alla cosiddetta “guerra del coltan”. Da mesi il gruppo ha ripreso vigore nella regione. Ai Mayi Mayi è stata attribuita la responsabilità di 82 attacchi, che hanno provocato 81 morti.

Nel Nordest della Repubblica democratica del Congo è stato attivo anche il famigerato movimento, il Lord’s Resistence Army (Lra), esercito di resistenza del Signore, guidato dal famigerato Joseph Koni, che ha fatto della religione la motivazione della sua lotta. Il movimento nato in Uganda si è presto trasformato in gruppo terroristico e ha allargato il suo raggio di azione sconfinando, tra gli altri paesi, nel vicino Congo e le motivazioni religiose sono scomparse. L’Lra ha rapito e costretto più di 60.000 bambini a combattere nelle sue fila. La ferocia di Koni ha trasceso ogni ragione politica e religiosa della sua lotta. Questo movimento, tuttavia, ha ridotto le sue attività, ma non è scomparso. L’Lra è rimasto acefalo per l’incriminazione all’Aia del suo capo e si è diviso in cellule al soldo del miglior offerente.

Gli eredi del genocidio: l’influenza ruandese

In tutto questo disordine e povertà non poteva mancare la penetrazione del terrorismo islamista. I jihadisti vivono di disordine e povertà (forse meno di religione): il loro brodo di coltura. È nato, infatti, l’Islam State Central Africa Province, una sorta di emanazione del Califfato del defunto al-Baghdadi. Ed è proprio nel Nordest della Repubblica democratica del Congo che avvengono la maggior parte degli attentati; svariati gruppi volta per volta li rivendicano, ma la maggior parte di queste azioni criminali sono attribuite al gruppo nato in Uganda e di ispirazione salafita, Allied democratic Forces (Afd). Guidata da Jamil Mukulu, un ex cattolico convertito all’islam, è considerata vicina al movimento sunnita Tablighi Jamat e secondo molte fonti ufficiali è legata all’Isis e alle reti del terrorismo internazionale. Gli attacchi messi in atto da questo gruppo dall’ottobre scorso sono più di una decina e hanno provocato 10 morti, evidenziando l’espansione del terrorismo islamico nella regione dei Grandi Laghi. Azioni che hanno come obiettivo le ricchezze minerarie. Queste milizie, che hanno ripreso vigore proprio grazie alla sua affiliazione all’Isis, sono diventate una sorta di attore “parastatale” creando scuole, ospedali e riscuotendo le tasse. Ma gli introiti maggiori arrivano dal commercio illegale dell’oro e del legno. L’Adf, tuttavia, è molto attento a non entrare in conflitto con i Mayi Mayi e con il Fronte democratico di liberazione del Ruanda.

Ma da dove nasce l’Adf?

Prima guerra africana

Il Fronte democratico di liberazione del Ruanda è nato nel 2000, dopo aver assorbito l’Esercito di liberazione del Ruanda (ALiR), gruppo armato costituito per lo più da ex militari delle Forze armate ruandesi (Far), che difendevano l’ideologia dell’Hutu Power, sconfitte durante il genocidio del 1994 contro i tutsi e gli hutu moderati, che portò al potere il tutsi Kagame. A luglio 1994, dopo l’ascesa al potere di Kagame, l’Esercito patriottico del Ruanda ha sostituito le Far, un gran numero di esponenti del quale ha attraversato il confine, scappando in Congo dove si erano rifugiati decine di migliaia di cittadini hutu. Dal 1995 al 1996 le ex Far si sono riorganizzate per formare l’Esercito di liberazione del Ruanda, il cui obiettivo era quello di riprendere il potere a Kigali, lanciando incursioni in territorio ruandese dalle sue basi congolesi. Per arginare questi ribelli hutu, il presidente Kagame ha fornito armi e fatto addestrare delle milizie tutsi banyamulenge che gravitano nella provincia del Sud Kivu.

In modo concertato con l’Uganda queste milizie si sono amalgamate con militari dell’esercito ruandese e ugandese, formando un movimento ribelle al soldo di Kagame, l’Alleanza delle forze democratiche per la liberazione del Congo (Afdl), diretta da un gruppo di oppositori all’allora presidente congolese, il dittatore Mobutu.

In un gioco complesso di alleanze incrociate, i due movimenti ribelli ruandesi – quello hutu e quello tutsi – seminarono terrore nel confinante Congo a partire dal 1997, con l’Afdl impegnato in una guerra di invasione delle province orientali dell’ex Zaire, scatenando la Prima guerra del Congo e portando al potere nel mese di luglio 1997 il suo portavoce Laurent Désiré Kabila, autoproclamatosi presidente e ribattezzando il paese in Repubblica democratica del Congo.

Seconda guerra africana

I tutsi ruandesi, alleati con il nuovo presidente, si trovarono in una posizione di forza, spingendo 300.000 rifugiati ruandesi a fuggire in altre regioni del Congo e altre migliaia a fare ritorno in Ruanda. Fu allora che l’Esercito di liberazione del Ruanda (hutu) si rese responsabile del massacro di altre migliaia di civili in una controffensiva nell’Est della Rdc, anche nel Parco nazionale del Virunga, e nel Nord del Ruanda.

Nel 1998 in Rdc scoppiò la Seconda guerra africana, dopo che il presidente Kabila aveva chiesto ai soldati ruandesi e ugandesi, suoi alleati, di uscire dal territorio nazionale, ma questi ultimi crearono un nuovo movimento ribelle, il Raggruppamento congolese per la Democrazia (Rcd) per ribaltare il potere di Kinshasa. Per difendersi Kabila strinse un accordo militare con gli hutu ruandesi dell’ALiR, rifornendoli di armi e munizioni, che alla stregua di altri gruppi armati rivali si resero protagonisti di gravi crimini contro l’umanità sia nell’Est della Rdc che in Ruanda e persino in Uganda.

Dopo l’assassinio del presidente Kabila, il 18 gennaio 2001, e la successione del figlio Joseph, l’ALiR ha consolidato la sua alleanza con l’organizzazione hutu ruandese delle Forze democratiche per la liberazione del Ruanda – basata a Kinshasa, la capitale –, che lo ha progressivamente assorbito. Le Fdlr sono l’emanazione del Comitato di coordinamento della resistenza, un gruppo di esiliati ruandesi hutu, dissidenti dell’Esercito di liberazione del Ruanda, che hanno dato vita al nuovo gruppo nel maggio 2000.

Le guerre, anche a bassa intensità, che si combattono nella regione del Kivu, servono alle varie milizie presenti sul territorio proprio per impadronirsi dei giacimenti di coltan e quindi poter esercitare il monopolio dell’estrazione, (utilizzando manodopera minorile, veri e propri schiavi che muoiono di fatica e malattie portate dal contatto con questo minerale) contrabbandare il minerale nei paesi vicini – come il Ruanda che è diventato uno dei maggiori esportatori, pur non avendone dei giacimenti, per poi venderlo alle industrie produttrici di componenti elettronici. Lo sfruttamento incontrollato di questa risorsa congolese ha costretto l’Onu ad accusare, in un rapporto del 2002, le compagnie impegnate nello sfruttamento delle risorse naturali del Congo – quindi anche il coltan – di favorire indirettamente i conflitti civili nell’area.

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Non spegnete subito i riflettori sul Congo https://ogzero.org/riflettori-sul-congo/ Sat, 06 Mar 2021 09:14:03 +0000 https://ogzero.org/?p=2564 Il 22 febbraio 2021 si accendono i riflettori sul Congo: nel parco del Virunga, in un agguato sulla via che porta a Rutshuru, vengono uccisi l’ambasciatore italiano a Kinshasa Luca Attanasio, il carabiniere Vittorio Iacovacci e l’autista del Pam Mustapha Milambo. Angelo Ferrari ricorda il percorso compiuto nella regione nota per la presenza (e la […]

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Il 22 febbraio 2021 si accendono i riflettori sul Congo: nel parco del Virunga, in un agguato sulla via che porta a Rutshuru, vengono uccisi l’ambasciatore italiano a Kinshasa Luca Attanasio, il carabiniere Vittorio Iacovacci e l’autista del Pam Mustapha Milambo. Angelo Ferrari ricorda il percorso compiuto nella regione nota per la presenza (e la tutela) dei gorilla quando ancora era in corso la Seconda guerra africana. Ve lo proponiamo prima che i riflettori si spengano nuovamente sulla zona dei Grandi Laghi su cui torneremo presto con una analisi approfondita su milizie, saccheggi di risorse e spartizioni di territori…


Mobutu se ne è andato

In un viaggio del 2003, ho incontrato un vecchio amico, Lino, nella capitale Kinshasa. Era appena arrivato dalla città di Kikiwit. La strada che porta da Kinshasa a Kikiwit, circa 600 chilometri, l’avevamo percorsa insieme nel 1993 e ci avevamo impiegato circa 8 ore. Dieci anni dopo Lino ha impiegato 15 giorni per lo stesso percorso. La rete viaria completamente distrutta. E oggi non è cambiato nulla. Ma alle aziende minerarie non servono le strade, si muovono con aerei ed elicotteri.

Una normalità che si accompagna alla rassegnazione. Mobutu se ne è andato, ha terminato la sua marcia alla faccia del nome che si era dato dopo il suo editto di eliminazione dei nomi occidentali per sostituirli con quelli tribali. Lui prese il nome di Mobutu Sese Seko Kuku Ngbendu Wa Za Banga, che significa “il guerriero onnipotente che, grazie alla sua resistenza e all’inflessibile volontà di vittoria, passerà di conquista in conquista lasciando una scia di fuoco dietro di sé”. Lui ha lasciato un paese distrutto e depredato.

Una brutta piega: invasioni e fazioni ribelli

Mobutu non c’è più, ma la storia non ha preso la piega che avrebbe dovuto. Quella che il popolo congolese si aspettava, che i padri si auguravano, in cui i figli hanno creduto. Invece nulla di tutto ciò. Nel 1996 il Ruanda ha invaso la Repubblica democratica del Congo e organizzato l’estromissione di Mobutu l’anno seguente, con l’entrata trionfale a Kinshasa di Laurent-Désiré Kabila. Il 1998 gli stessi ruandesi se la prendono con il loro uomo, innescando una guerra che ha causato oltre 4 milioni di morti. Kabila se ne va ucciso dalla sua stessa guardia del corpo. Gli succede il figlio Joseph Kabila, 29 anni, in tutta fretta, nel gennaio del 2001 e i maligni vedono in lui la mente che ha ordito il complotto di cui è rimasto vittima il padre. Dopo intensi negoziati Kabila riesce ad arrivare agli accordi di pace nel 2003 e il nuovo governo riesce a mettere fine alla “grande guerra” che porta al ritiro degli eserciti stranieri alleati con il governo, Angola, Namibia e Zimbabwe, e di quelli che sostenevano i ribelli, Ruanda e Uganda. Finita la grande guerra gli scontri tra le fazioni ribelli, che crescono come funghi, non si placano. Proseguono incessantemente anche oggi, senza sosta per il Congo e la sua gente che vive, ormai, nella rassegnazione, avendo perduto la capacità di progettare un futuro compatibile con la dignità umana. I sogni e le speranze, che maturano oggi, si infrangono, domani, contro la ripresa di azioni violente da parte di un neonato gruppo ribelle. Sembra che gli unici capaci di progettare un futuro siano gli uomini in armi. I congolesi, invece, rassegnati a una comunità internazionale che considera il Congo una causa persa.

2003: un paese distrutto e depredato

E nel 2003, dieci anni dopo il primo viaggio in Zaire, mi si presenta un paese distrutto fino nell’intimo. Una lingua nera attraversa Goma. Il Nyiragongo, colui che vomita, ha riversato migliaia di tonnellate di lava sulla città, spaccandola in due. È passato più di un anno ma i segni della distruzione sono ancora evidenti.

Il cratere del Nyiragongo nel parco del Virunga (foto Marian Galovic)

Destino amaro per questa città del Nord Kivu in Congo. Nel 1994 “l’invasione” dei profughi ruandesi, più di due milioni, nel 1996 l’inizio della guerra di Desiré Kabila, nel 1998 una nuova guerra ha trovato il suo risvolto più cruento proprio in questa città e lungo la dorsale del parco del Virunga al confine con il Ruanda. La lava ha trascinato con sé case, abitanti, una parte dell’aeroporto – dopo sette anni la ferita è ancora aperta e l’ho potuto constatare di persona durante un viaggio a Goma nel 2010 – la cattedrale, la casa dei saveriani, fino a spegnersi nel lago Kivu che ha ribollito per giorni. Ironia della sorte non ha colpito la casa del vecchio e defunto dittatore, Mobutu. Ironia della sorte per una città che non si rassegna al suo destino, che in meno di cinque anni ha visto triplicata la sua popolazione. Una città segnata, fin nel profondo, dai profughi ruandesi, che poi ha visto l’invasione delle truppe del confinante Ruanda.

A Goma l’inizio del viaggio

Goma non si rassegna. Sulla lava i suoi abitanti hanno già ricominciato a costruire case di legno, hanno ridisegnato le strade, le rotonde, un lento ritorno alla normalità di una vita di un paese, il Congo, diviso dalla guerra e dall’odio. Ed è proprio a Goma che inizia il mio viaggio in questo paese ricchissimo e dimenticato dal mondo. Un viaggio per ricordare al mondo che quei 54 milioni di abitanti (nel 2021 hanno superato gli 84 milioni) vivono nella miseria e nel terrore. Un viaggio per rendere memoria a quasi quattro milioni di morti in cinque anni di guerra. Un viaggio per cercare nelle pieghe della disperazione, quei pochi rivoli di speranza e di pace che fanno dire a Bisidi Yalolo, responsabile del Wwf di Goma: «vedete quei fiori che piantiamo… Belli no?». Sì, quei fiori, quelle donne curve sulla lava a piantarli, sono uno dei segni più evidenti di una rinascita di una città che ha deciso di tornare a vivere e di dare un senso anche alla lava che ha bruciato tutto. Bisidi Yalolo la ricorda bene la guerra, ne ha subito le conseguenze, è dovuto scappare nella foresta, è tornato per proseguire un lavoro iniziato nel 1987. Una bomba ha centrato il suo ufficio e allora la fuga disperata. Lo hanno dato per morto finché non l’hanno visto ricomparire a Goma.

«L’epoca era quella della prima guerra di Kabila», mi racconta Bisidi. «Da Goma chiediamo a Nairobi il da farsi. È scoppiata la guerra, dicevo, loro mi hanno risposto, aspettate. Ma una bomba è piovuta diritta sulla nostra sede. Allora sono scappato e ho camminato per giorni percorrendo più di mille chilometri e sono arrivato a Kisangani. A Goma mi davano per morto. Poi sono tornato quando la bufera si è conclusa». È tornato e ha ripreso il suo lavoro di conservazione ambientale, di salvaguardia dei gorilla di montagna. Ma a che serve, quando c’è un intero popolo che muore? «Il problema – continua Bisidi – non è certo quello di interessarsi solo della natura o dei gorilla. Il problema è capire che la natura deve essere protetta ed è una risposta per la gente». I progetti, infatti, del Wwf, sono rivolti alla riduzione dell’impatto dell’uomo sul parco del Virunga. Come? Mettendo in campo progetti di sviluppo sostenibile per la gente del parco.

Rubare: i bambini che cantano

Nel villaggio di Rubare, sulla pista che porta a Rushuru – la stessa maledetta strada dove ha trovato la morte l’ambasciatore italiano Luca Attanasio il 22 febbraio del 2021 – è una festa quando ci vedono arrivare. Per la prima volta negli ultimi cinque anni, dei bianchi si avventurano nella zona. Soldataglia, banditi, retroguardie degli eserciti occupati, quello del Ruanda, imperversano ancora nella zona. Non è più una guerra sistematica, ma saccheggio. Ciò che è accaduto pochi giorni prima del mio arrivo, una ventina di morti, rende ragione di una situazione ancora di tensione. Così come la nutrita scorta armata di militari che mi accompagna e che aumenta di numero man mano che ci addentriamo nella foresta. Io ne ho contati più di una trentina, ma potrebbero essere di più. Ogni tanto vedo facce mai viste che spuntano da dietro le colline. Tutti militari adolescenti. Ma a Rubare, il nostro arrivo, sembra una festa, quasi di liberazione. I bambini ci accolgono con una canzone che, pressappoco, dice così: «Siete venuti in pace, vi accogliamo in pace, tornate a casa e dite a tutti che siamo gente pacifica». Qui a Rubare è in atto un progetto sostenibile a vasto raggio. L’obiettivo è quello di creare una demarcazione tra il parco e la zona agricola, attraverso una serie di attività: produzione di legno per uso energetico alternativo al prelievo del parco, sviluppo di attività agricole per l’arricchimento del suolo e approvvigionamento di generi alimentari, l’allevamento. Ma non solo. Sono stati creati laboratori di sartoria e una scuola di alfabetizzazione frequentata soprattutto da donne. Un modello sperimentale che si sta applicando in molti villaggi.

Sopravvivenza negli insediamenti intorno a Goma (foto Ispencer)

«Abbiamo prodotto e piantato sei milioni di piante», racconta orgoglioso Bisidi. Percorrendo la strada, sinonimo di disperazione e morte, si trovano villaggi che tornano a vivere. Ed è questo che ti capita di vedere mentre ti avvicini al limitare del parco. Vedi le donne, nei campi, chine a zappare una terra fertile che potrebbe dare tanti frutti. Girano appena il capo, non raddrizzano la schiena perché devono continuare a zappare, ma gli occhi raccontano tutto. Tutto il dolore vissuto, tutta la speranza che può dare quel semplice incontro. Mi hanno raccontato che veder dei bianchi, dopo lunghi anni di guerra, gli ha portato un po’ di speranza, anche se è solo un passaggio, un saluto con la mano e un sorriso.

Se hai visto l’Africa, | questo continente gigantesco | che un tempo partorì la stirpe umana, | hai visto anche le donne | con la schiena curva | e le zappe alzate | che cadono e si sollevano | cadono e si sollevano. | La terra turbina | attorno a queste zappe. | Il canto della terra è il canto della zappa. | Il canto della donna. | Il canto della zappa è il canto della vita.      (Henning Mankell, Racconto dalla spiaggia del tempo)

 

“Incontrare” i gorilla nel parco del Virunga:

L’obiettivo del viaggio è, anche, vedere i gorilla di montagna. Farlo da questa parte del parco, nel Congo, ha solo il senso di dimostrare che qualcosa sta cambiando. Che qualche segnale di speranza c’è anche qui, come quei bambini di Rubare che cantano. Ma la stessa speranza rappresentata dalla maestosità della natura, della foresta. Più che “vedere”, la parola giusta è “incontrare” i gorilla di montagna. Entriamo nella foresta vergine, facendoci largo con il machete, aspettiamo un segnale, un richiamo. I militari che ci “accompagnano” restano al limitare della foresta vergine, anche questo per dimostrare che quello spazio deve essere libero e in pace. I gorilla li devi cercare. Ti trovano loro. L’incontro fa tremare le gambe. Una famiglia intera di 14 componenti e i guardiani del parco hanno dato a tutte un nome, quella che incontriamo si chiama Kwitonda. Loro davanti a te, a pochi metri, ti guardano, i piccoli vorrebbero giocare, il dominante, il silverback, invece, non si cura nemmeno di te. Lui è quello che comanda. Ti tremano le gambe quando un gorilla si appoggia al tronco di un albero, incrocia le braccia, e ti guarda, come se volesse entrare in relazione con te, per chiederti «che ci fai tu qui». La paura monta quando uno dei piccoli di tocca un braccio e, come ci hanno spiegato i ranger, abbassi lo sguardo, mai guardarli diritto negli occhi, sarebbe un segno di sfida. La paura passa quando ti prende il berretto e lo porta via.

Gorilla silverback nel parco del Virunga in Congo (foto Photocech)

Sono istanti indimenticabili. Il fremito del corpo, questa volta, non è il sintomo della paura, è piuttosto meraviglia e stupore per essere entrato in relazione con un altro essere vivente e a casa sua. Ecco, la natura ha deciso di renderti partecipe della sua bellezza, come insegna il Wwf di Bisidi nelle scuole di Goma.

In volo: solo un taccuino e la macchina fotografica

Ed è durante una rappresentazione tenutati in onore degli ospiti bianchi, che arriva la telefonata. Dall’altro capo del telefono il generale Roberto Martinelli vicecomandante della Monuc, che ci invita ad andare all’aeroporto di Goma per registrarci su un aereo delle Nazioni Unite diretto a Bunia. I voli commerciali per quella località sono tutti sospesi, troppo pericolo, e allora per poter vedere e documentare ciò che accade in quell’angolo d’Africa non rimaneva altro che chiedere all’Onu. Le probabilità erano poche, ma ora pare che si stia per partire. Di corsa all’aeroporto, ci registriamo su un volo che parte da lì a 15 minuti. Con me non ho nulla, se non la macchina fotografica e il taccuino, ma l’occasione potrebbe non ripetersi e allora si sale sul volo che sta trasportando mezzi blindati e alcuni uomini del contingente uruguaiano dei caschi blu, non c’è tempo per prendere nemmeno lo spazzolino da denti. Dopo uno scalo tecnico per riempire i serbatoi del C-130 a Kigali, si arriva a Bunia.

Bunia: “era una città bellissima”

Disperazione ovunque. Le strade di Bunia, capoluogo dell’Ituri, regione del Nordest del Congo, sono deserte. Si sente solo il rumore sordo delle armi. I colpi dei mortai fanno capire che qui la guerra non è finita. La popolazione si è rassegnata a piangere i morti, a cercare di che sfamarsi. La vita è paralizzata. E nulla possono fare le organizzazioni non governative presenti in città. Riesco a incontrare i volontari di Coopi, Cooperazione Internazionale, che da giorni sono asserragliati in casa. «Nei periodi di calma – dice Silvia Giardino – la gente viene nei nostri centri dove aiutiamo i malnutriti e distribuiamo cibo. Poi cresce la tensione e tutti scappano. Così il nostro lavoro viene vanificato». Coopi si occupa di due centri terapeutici e di otto punti sanitari per combattere la malnutrizione. La popolazione percorre, per raggiungere i centri, anche 60 chilometri a piedi, arriva sfinita. Sono tutti sfollati che non hanno respiro, sono costretti a fuggire di villaggio in villaggio, inseguendo la vita, lasciandosi alle spalle la morte. «La guerra non si è mai interrotta – continua Silvia – si sposta continuamente. Il 70 per cento delle persone vengono nei centri sono sfollati e per questo lavoriamo anche nella distribuzione dei kit cucina. Soffriamo nel vedere la popolazione ridotta in queste condizioni». Dai centri, in momenti di relativa calma, passano tra le 100 e le 150 persone al giorno. Gianni di Mauro, un altro volontario, però ricorda un’altra Bunia, quella di vent’anni fa. «Era una città bellissima – dice – l’ospedale era forse il migliore del Congo. Le strade asfaltate, fiori ovunque. L’economia era fiorente, c’erano addirittura negozi di Armani. In certi alberghi si poteva entrare solo con la cravatta.

Tornare indietro di sessant’anni

La strada Mambasa-Kisangani, lunga 700 chilometri, si percorreva in una giornata, oggi ci vogliono settimane». Bunia è tornata indietro di sessant’anni. Tanta tristezza negli occhi di Gianni. Ma è così, la guerra schiaccia tutto, distrugge. Fuga, disperazione e morte. La città si svuota. Come in ogni guerra. Materassi di gommapiuma sulla testa. Il sole a picco. E rigorosamente in fila indiana lungo la strada che porta all’aeroporto. Bambini per mano con il volto rigato dalla paura. Una processione verso una speranza improbabile. Alle spalle le armi che crepitano. Migliaia cercano rifugio all’aeroporto, chiuso da giorni e diventati ora base militare ugandese, in cerca di una via di fuga dai massacri. La gente di Bunia scappa dai colpi di mortaio che li rincorrono. Sono tutti hema, l’etnia minoritaria della regione, gente orgogliosa, allevatori, nipoti o cugini dei tutsi ruandesi. Dietro di loro i lendu, bantu, figli o cugini degli hutu ruandesi. Sembra un film già visto: quello del genocidio ruandese. Ma questa è realtà. Dura e cruda realtà fatta di morti, massacri, fughe, stupri, rifugiati, contrasti etnici usati ad arte dai ribelli, appoggiati da questo o quest’altro paese in una guerra infinita, quella del Congo, che dura da cinque anni. Gli appetiti dei paesi confinanti, dei ribelli con sigle altisonanti, non si sono arrestati di fronte alle tregue, agli accordi politici che tentano di mettere la parola fine al massacro sistematico.

Ricordare questo viaggio, a distanza di quasi vent’anni, è utile per capire quello che accade oggi. Se allora era guerra piena, ora è a bassa intensità, ma altrettanto feroce. La gente non ha il tempo di riorganizzarsi in un luogo, se deve, nuovamente, più volte all’anno, fare fagotto e scappare altrove. Chi ce la fa. E le milizie, con altri nomi, sono sempre lì a dettare legge. Lo stato lontano e impercettibile.

La speranza (vana) si chiama Uganda

In aeroporto i fuggiaschi si mettono in fila. Dall’altra parte della pista gli ugandesi stanno caricando un aereo: carri armati, blindati e soldati dai volti gentili. Ma anche bambini soldato arruolati per combattere una guerra non loro. Gli hema, in fila, attendono il loro turno. Sperano di salire su quell’aereo che ha come meta Entebbe. Uganda: la salvezza e la certezza di vivere da rifugiati in un paese non loro, in campi fatiscenti, ma lontano dalla sicura morte. I “soldatini” adolescenti scattano all’ordine dei loro comandanti. I rifugiati attendono da giorni di partire. Ecco, vengono chiamati, avanzano. No, tutti indietro. Dietrofront, non è ancora arrivato il momento. E la speranza di sgretola, affonda nell’asfalto bollente della pista.

Gli ugandesi devono lasciare l’aeroporto. La tensione è alta. La Monuc, la missione di osservatori dell’Onu, non ha la forza militare per mantenere il controllo della città, figuriamoci dunque della regione dell’Ituri. Eppure, i compound dell’Onu si riempiono di persone che, qui, si sentono più protette.

È una mattina qualsiasi. La vigilia della partenza delle truppe dell’Uganda, paese occupante, e la tensione si alza. Le strade di Bunia sono deserte, I magazzini chiusi. E non è notte. Tutti aspettano l’offensiva dei lendu. Intanto un plotone di militari congolesi, travestiti da poliziotti, fanno la loro parata, cantando e correndo, mostrando i muscoli per le vie centrali della città. Fanno sapere che ci sono. Sembrerebbero voler rassicurare la popolazione. Ma la gente non sorride. Da lì a poco il plotone cerca rifugio negli uffici della Monuc dove ha trovato riparo anche il capo della polizia locale e dove sono asserragliati i caschi blu uruguaiani. Il plotone si squaglia al primo colpo di mortaio.

Nei palazzi si parla, per strada si muore

Il giorno è arrivato: 6 maggio. Riprendono i combattimenti. È un massacro. Lo scontro è feroce. Si fronteggiano le due fazioni: hema e lendu. È una storia infinita di potere. Tutto questo mentre a Kinshasa sono in corso le trattative per formare il governo di transizione, per definire quanti e quali vicepresidenti affiancheranno il capo dello stato. Nei palazzi del potere, compresi quelli della missione Onu, si discute e intanto per le strade di Bunia si muore. Il gioco politico è chiaro. Il Consiglio di sicurezza ha imposto agli ugandesi di lasciare la regione. L’Uganda ha risposto deciso: lasciamo il Congo in tempo zero. Panico e sconcerto. La Monuc non ha la forza per rimpiazzare militarmente gli ugandesi. E allora si tratta. Il gioco è chiaro. L’Uganda vorrebbe rimanere. La regione è ricca di risorse, il petrolio vorrebbe trovare la luce, e gli ugandesi lo sanno. Per questo lavorano dietro le quinte, sostenendo questa o quest’altra fazione ribelle. All’inizio è l’Unione dei patrioti congolesi (Upc), guidata da Thomas Lubanga di etnia hema, a prendere il potere, ma subito fa l’occhiolino ai ruandesi. Scontenta gli ugandesi e, allora, si va nuovamente alle armi. L’aiuto di Kampala si rivolge ai lendu, nemici giurati dell’Uganda. Insomma, il giochino delle tre carte. In mezzo un contingente di caschi blu uruguaiani che non possono nulla, se non fare da deterrente. Però il mandato è debole. E poi a Bunia non esiste nessuna logistica militare dell’Onu. I primi militari arrivano con due bottiglie d’acqua e due razioni da combattimento. Troppo poco. L’Uganda lo sa. Nei palazzi della Monuc di Kinshasa le trattative di affiancano alla preparazione del contingente militare che dovrebbe sostituire l’esercito di Kampala. Settecento uomini che dovrebbero diventare 2300 entro l’estate. Lo sforzo è enorme. Ma gli ugandesi se ne vanno. È guerra. Sei giorni di battaglia feroce e l’ex amico dell’Uganda, tornato all’ovile, Lubanga torna a controllare Bunia. Viene firmata la tregua. Ma le preoccupazioni rimangono. Gli osservatori sono scettici, se non pessimisti. La parola fine non è stata ancora scritta. All’Uganda, a questo punto, conviene di più il giochino delle tre carte che un intervento diretto.

E l’inferno si scatena

Un giorno carico di tensione. L’obiettivo, tra gli altri, è ancora capire, facendocelo raccontare dai funzionari Onu, cosa sta davvero succedendo nella regione. Ma le riunioni si moltiplicano. L’appuntamento con la funzionaria italiana viene spostato in continuazione, mentre nella stanza, sbattendo porte, si succedono ufficiali di diversi paesi occidentali. Nel compound delle Nazioni Unite gli sfollati crescono, ne arrivano in continuazione, lo pensano un luogo protetto, ma sono anche il segnale che la guerra è alle porte. Decido, insieme a un collega, di mangiare qualcosa. C’è un ristorante, l’unico aperto, proprio lì, ed è lì che attendiamo udienza e la nostra funzionaria. Di cibo poco, qualche spiedino di carne di capra e dell’insalata. Ai tavoli altri bianchi, tutti funzionari di qualche agenzia dell’Onu. Chiediamo la birra, la capra è dura da mandare giù. Non c’è. Solo una bottiglia. Un segno inequivocabile che la guerra è alle porte. Poi cade l’occhio, che esprime tutta la voglia di birra, sotto le sedie dei tavoli occupati: casse di birra portate dagli stessi avventori. Merce preziosa, in tempi di guerra. Chiedo ancora la birra, la stessa risposta: non ce n’è. Suggerisco alla gestrice del ristorante di andare a comprarne almeno una cassa. Gli occhi diventano grandi per la paura: tutti i magazzini sono chiusi. Insisto, con anche un po’ di superbia: impossibile che non si trovi della birra, e alla fine spuntano le bottiglie della preziosa Primus. Con la birra arriva anche la funzionaria che aspettavamo, sono le 23. Ci racconta delle riunioni che devono rimanere segrete, poi ci racconta la realtà. Io e il collega ci guardiamo stupefatti: ma queste cose le sappiamo anche noi. Non c’è bisogno di essere nelle stanze segrete dell’Onu. Lei, la giovane funzionaria, sorride ed è evidente che di segreto non c’è nulla. Ci capiscono poco anche loro. Dal sorriso al saluto e ci lascia il suo pomposo biglietto da visita e sotto il nome – lo tralascio per la privacy e nella speranza, soprattutto, che ora sia un po’ più avveduta e competente di allora – c’è tutta la sua vita: “Master of International Affairs Human Rights and Conflict Resolution”. Un master conseguito alla Columbia University di New York. Ma prima di congedarci le diciamo dei rumors che circolano tra i poveracci assiepati nella sede dell’Onu e cioè, per farla breve, che l’indomani ci sarebbero stati scontri violenti. Lei sorride e liquida le voci così: «Non abbiamo segnali in questo senso». Il giorno dopo si è scatenato l’inferno.

Il ritorno a Goma

Il nostro tempo a Bunia è finito. Le condizioni di sicurezza sono pessime e dunque bisogna partire. All’aeroporto dovrebbe esserci l’areo dell’Onu che ci riporterà a Goma, dopo un passaggio a Kisangani. Arriviamo all’aerostazione e un uomo della sicurezza dell’Onu ci dice che l’areo non c’è. Un guasto o non so che. Dunque, chiediamo all’uomo che dobbiamo fare. «State qui e ammirate il panorama». Sarcasmo, stupidità. Il panorama: la gente che scappa dagli scontri cercando rifugio in Uganda. Una bella prospettiva. Ma, detto questo, l’uomo sale sulla sua jeep e tanti saluti. Da lì a poco scopriamo che sta arrivando un aereo dell’Unione europea, EcoFly, che dà lì tornerà direttamente a Goa, e che fa servizio umanitario nelle zone di guerra trasportando i cooperanti. I giornalisti, però, non sono ammessi. Beh, provarci non guasta. Appena arriva, mostro al funzionario un tesserino che mi identifica come cooperante. Avevo dimenticato di averlo, ma potrebbe essere la mia salvezza. Lui, forse la fretta, controlla appena e mi indica il portellone del velivolo.

Torna il silenzio sulla guerra dimenticata dal mondo

Riesco a salire sull’aereo – sono più fortunato dei congolesi – che mi porta lontano dall’inferno. Un abbraccio frettoloso con le persone conosciute, non c’è tempo per soffermarsi, ma l’abbraccio è caloroso e avvolgente. Indimenticabile. Corre il bimotore sulla pista. Decolla, i rumori della guerra svaniscono. E torna il silenzio su una guerra dimenticata dal mondo. Solo per onore di cronaca: dopo la nostra partenza da Bunia l’areo dell’Onu è arrivato e ripartito per Kisangani. Il generale Martinelli, non avendo nostre notizie, stava lanciando l’allarme: due giornalisti dispersi in Congo. Solo una nostra telefonata al quartier generale delle Nazioni Unite a Kinshasa fa rientrare l’allarme.

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