Regolamento Dublino Archivi - OGzero https://ogzero.org/tag/regolamento-dublino/ geopolitica etc Thu, 25 Aug 2022 10:49:53 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.4.6 n. 18 – Tra mare e boschi alpini. La frontiera che uccide (II) https://ogzero.org/la-cancellazione-del-diritto-alla-mobilita/ Wed, 13 Apr 2022 19:20:10 +0000 https://ogzero.org/?p=7034 Movimenti secondari dei flussi migratori si riscontrano, oltre che tra Francia e Inghilterra, anche in prossimità dei confini italo-francesi, più specificatamente in Alta Val di Susa e a Ventimiglia. Nella frontiera Nordovest dell’Italia con la Francia si registra un’importante corrente migratoria che ogni anno nell’ultimo triennio ha visto il transito di circa 100.000 persone e […]

L'articolo n. 18 – Tra mare e boschi alpini. La frontiera che uccide (II) proviene da OGzero.

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Movimenti secondari dei flussi migratori si riscontrano, oltre che tra Francia e Inghilterra, anche in prossimità dei confini italo-francesi, più specificatamente in Alta Val di Susa e a Ventimiglia. Nella frontiera Nordovest dell’Italia con la Francia si registra un’importante corrente migratoria che ogni anno nell’ultimo triennio ha visto il transito di circa 100.000 persone e che vede intensificarsi la repressione poliziesca che bloccano gli autobus in transito, bloccano le persone in movimento in situazioni fatiscenti e pericolose, applicando la cancellazione del diritto alla mobilità grazie a una legislazione europea che va sancendo un po’ alla volta la cancellazione del Codice Schengen e il “collaborazionismo transfrontaliero” tra polizie. Fabiana Triburgo, Emilie Pesselier, Chiara Maugeri e Daniela Trucco uniscono le loro competenze e i loro materiali in questo articolo, corredato dalle riprese video girate da Stefano Bertolino fonte di notizie anche sul passaggio del Colle dell’Agnello e nella sua provvidenziale presenza sui Balzi Rossi nel 2015, lungo il confine meridionale italo-francese, che vede da un lato e dall’altro persone solidali e squadracce intolleranti.


La rotta secondaria Ventimiglia-Menton

La rotta migratoria dalla città di Ventimiglia alla città di Menton – primo avamposto del confine meridionale francese con l’Italia – viene percorsa sia con il treno che transita tra le stazioni delle due città, sia in macchina – principalmente avvalendosi dei passeurs e infine a piedi mediante il cosiddetto “Passo della Morte”, il sentiero non indicato sulle cartine topografiche – in prossimità della località italiana di Grimaldi, frazione del comune di Ventimiglia – che attraversa Francia e Italia e che in passato ha visto il passaggio dei migranti provenienti dal conflitto civile dell’ex Jugoslavia ma anche quello di persone che più generalmente fuggivano da persecuzioni come Sandro Pertini da quella fascista e gli ebrei da quelle razziali del 1938.

Mappa della zona con indicati gli uffici della polizia di frontiera italiana e francese, il posto di sostegno Kesha Niya, il passaggio del Passo della Morte e il valico di confine Ponte San Ludovico. Fonte: Serena Chiodo e Anna Dotti (Rosa Luxembourg Stiftung, Bruxelles).

L’imbuto che raccoglie rotta balcanica e mediterranea

La rotta è percorsa prevalentemente da migranti provenienti dall’Africa subsahariana dopo aver attraversato la rotta del Mediterraneo centrale ed essere transitati o aver soggiornato in Italia; minore invece è la percentuale al momento dei migranti che tenta di percorrerla dopo aver attraversato quella dei Balcani – soprattutto cittadini afghani. Il motivo prevalente che caratterizza i movimenti secondari, tuttavia, è quello di legami familiari o affettivi che evidentemente non vi sono nel primo paese di approdo.

Nell’analisi delle caratteristiche peculiari di tale rotta secondaria è opportuno porre attenzione alla nuova proposta di modifica normativa del Codice frontiere Shengen avanzata dalla Commissione europea il 14 dicembre del 2021.

Disposizione di legge: cancellare il diritto alla mobilità

L’intenzione di chi scrive è quella di dare un contributo di sensibilizzazione rispetto a un contingente tentativo di aggiramento delle normative europee e internazionali vigenti, attraverso l’introduzione di nuove disposizione di legge volte a impedire in ogni modo i flussi migratori all’interno del territorio dell’Unione; non solo quindi alle frontiere esterne – come si è visto nella maggior parte degli articoli riguardanti le attuali correnti migratorie – ma anche a quelle interne all’Unione, come già parzialmente approfondito anche nel precedente articolo riguardante il confine italo-francese Oulx-Monginevro/Briançon. La proposta infatti, qualora venisse approvata dal Parlamento e dal Consiglio europeo, potrebbe essere foriera di importanti conseguenze giuridiche, sia rispetto al Regolamento Dublino – più specificatamente in merito al trasferimento di un cittadino di un paese terzo da un paese all’altro dell’Unione – sia in relazione a un maggior ricorso a dispositivi di alta tecnologia per il tracciamento dei movimenti secondari – con scarsa tutela dei diritti della persona – sia infine a una maggiore attribuzione di poteri alla cooperazione delle forze di polizia dei paesi membri nelle zone di frontiera già interessate da numerosi respingimenti, con riferimento al confine italo-francese circa 24.000 nell’anno 2021. Non solo, cambierebbe la condizione di legittimità di una serie di situazioni di fatto consolidatesi a livello geopolitico – al momento solo considerate cattive prassi – che coinvolge in particolare in questo caso il confine italo-francese a Ventimiglia/Menton e a Oulx/Briançon (oltre a quello austro-sloveno e austro-tedesco) interessato negli ultimi anni da un ripristino continuo dei controlli temporanei alle frontiere interne da parte della Francia. Tale analisi giuridica – pur se chiaramente limitata – è doverosa visto che ancora oggi indirettamente si consente che un migrante possa morire folgorato al di sopra di un treno in viaggio dalla stazione di Ventimiglia o come accaduto per due migranti deceduti il 2 aprile scorso, essere travolti da un furgone nell’autostrada A20 a Bordighera, la città appena prima di Ventimiglia andando verso Nizza – nel tentativo disperato di attraversare il confine tra due paesi membri dell’Unione.

Pattugliamento bilaterale e cooperazione poliziesca transfrontaliera

Tali argomentazioni acquisiscono una valenza ancora più grave se si pensa che il transito delle merci e dei servizi – diversamente da quello delle persone – non registra alcun tipo di controllo alle frontiere interne dell’Unione e ciò nonostante entrambi i movimenti – secondo la versione ancora attuale del Codice Shenghen (n. 399 del 2016) – siano ugualmente sottoposti al principio di libera circolazione. Si pensi che a partire dal 2015 – anno in cui diversi paesi sono stati interessati dal flusso di “importanti” movimenti migratori e nel quale si è registrata la crisi del sistema Shengen, Francia, Germania e Austria – nonostante il limite di 2 anni previsto per la reintroduzione degli stessi – hanno ripristinato per ben 268 volte i controlli alle frontiere interne, facendo ricorso ad accordi bilaterali di riammissione e di cooperazione delle diverse forze di polizia, come il già citato accordo di Chambery, tra Francia e Italia, applicato ovviamente anche ai flussi migratori di cittadini terzi dell’Unione che transitano sulla rotta Ventimiglia-Menton, ora sotto la lente di questa analisi. La Commissione tuttavia, anziché impedire tali prassi illegittime, con la proposta di modifica normativa del regolamento Shengen del dicembre 2021, le ha consolidate – e questo si evince sia dai “considerando” che dall’“articolato” della presente proposta legislativa – stabilendo da una parte che la decisione del ripristino dei controlli alle frontiere possa essere adottata dagli stati anche unilateralmente, senza ancora prevedere alcuna sanzione in caso di proroga continua dei controlli, dall’altra spingendo affinché gli stati ricorrano sempre più a misure alternative al controllo delle frontiere interne.

La polizia respinge con la violenza i migranti al confine italo-francese.

Tra queste in primo luogo si annovera (al considerando 25) il pattugliamento bilaterale dei confini e la cooperazione transfrontaliera delle forze di polizia che si precisa possa portare – rispetto ai movimenti secondari – ai medesimi risultati del ripristino dei controlli.

Inoltre (al considerando 26), con una contestuale proposta di modifica della direttiva rimpatri (2008/115/CE) – più specificatamente l’art.6 paragrafo 3 che così modificato prevede la facoltà per gli stati di concludere nuovi accordi e intese bilaterali da notificare alla Commissione – viene di fatto introdotta la legittimazione delle riammissioni informali (al momento oggetto di diversi procedimenti giurisdizionali tra cui quello pendente dinanzi al Tribunale di Roma riguardante le riammissioni attuate al confine italo/sloveno e momentaneamente sospese)trasformandole in “formali”, mediante le disposizioni normative che prevedono il rilascio di una copia del provvedimento alla persona con la possibilità di presentar ricorso ma senza che questo abbia un effetto sospensivo del provvedimento di riammissione (Procedura di cui all’allegato XII al codice frontiere Shengen punti 5,6,7).

Legittimato arbitrio

Verrebbe in questo modo dunque resa legittima la possibilità di trasferire i migranti da uno stato membro all’altro, qualora venissero intercettati in prossimità di un confine interno. Al riguardo si sottolinea quanto labile sia l’espressione “cittadino di un paese terzo fermato nelle immediate vicinanze delle frontiere interne” (contenuta nell’articolo 23 bis – “Procedura per il trasferimento di persone fermate alle frontiere interne”) rispetto a un’eventualità così compressiva della libertà del migrante quale quella di essere riammesso nello stato di provenienza. Si incentiva inoltre l’utilizzo della sorveglianza tecnologica delle frontiere interne che secondo la Commissione, non deve essere equiparato al controllo delle frontiere (considerando 21), ragione per cui l’impiego di droni e di scansioni termiche – utilizzati spesso per controllare le aree e i confini – non sarebbe soggetto a tutti quei limiti temporali e motivazionali previsti invece per il ripristino dei controlli dei confini interni. Nello specifico si aggiunge che le attività di controllo effettuate sulla base di tecnologie di monitoraggio e sorveglianza generalmente utilizzate nel territorio al fine di affrontare le minacce alla sicurezza pubblica o all’ordine pubblico «non sono assimilabili ai controlli alle frontiere interne, senza però stabilirne i limiti della loro applicazione» (art. 23).

Frontex: il diritto d’asilo a rischio valutazione

Altra questione da sottolineare è l’accresciuto ruolo che viene conferito da tale proposta di modifica ad alcune istituzioni dell’Unione. In base all’art. 27 – come emendato dalla proposta – qualora il ripristino temporaneo dei controlli sia legato a «movimenti secondari di persone prolungati nel tempo, la notifica relativa a essi deve essere sì svolta dallo stato membro ma deve includere qualsiasi informazione che derivi dalle agenzie interne all’Unione: Frontex appunto. Essendo l’agenzia UE specificatamente demandata a svolgere la Risk Assessment (la valutazione dei rischi) dei movimenti secondari».

Non è difficile comprendere come questo possa essere particolarmente pericoloso per il rispetto del diritto d’asilo alle frontiere.

Inoltre all’art. 28 si prevede un nuovo ruolo di impulso della stessa Commissione nelle ipotesi di ripristino temporaneo dei controlli, in particolare nei casi in cui vi sia una minaccia grave per l’ordine pubblico o la sicurezza interna che riguardi la maggioranza degli stati membri e che metta a repentaglio il funzionamento globale dello spazio Shengen: in questo caso la Commissione può presentare essa stessa al Consiglio una proposta per l’adozione di una decisione di esecuzione che autorizzi il ripristino dei controlli alle frontiere interne. L’unico punto di tale macchinoso impianto normativo – che lascia la possibilità di muovere contenziosi strategici relativi ai controlli che oggi si basano sul racial profiling (profilo razziale) riguardanti anche il confine italo-francese di Ventimiglia – è quello del succitato art. 23 (al punto iii) attraverso il quale la Commissione, invitando gli stati a implementare le misure alternative, ossia i controlli di polizia transfrontaliera, stabilisce che questi non possano essere considerati controlli alle frontiere interne solamente se pensati ed eseguiti in maniera distinta dai controlli sulle persone alle frontiere esterne dell’Unione, «anche nell’ipotesi in cui vengano attuati alle stazioni degli autobus o più genericamente nei poli di trasporto che collegano i vari stati o a bordo dei servizi dei passeggeri». È noto invece che al confine Ventimiglia/Menton, a partire dal 2015, si attuino sistematicamente respingimenti dei migranti alla frontiera dalla Francia e vere e proprie deportazioni dall’Italia nei Centri di permanenza per i rimpatri (Cpr) collocati in altre regioni come quelli di Taranto o di Torino. Rispetto a quest’ultimo si ricorda Musa Balde il ragazzo guineano di 23 anni morto suicida nel maggio del 2021 nel Cpr di Torino dopo essere stato vittima di una grave violenza in strada proprio a Ventimiglia. Rispetto ai respingimenti l’attività di osservazione collettiva e di sostegno ai migranti alla frontiera Ventimiglia/Menton è svolta dal già citato CAFI – Coordination d’actions aux frontières intérieures, in partenariato con l’Anafé – Association nationale d’assistance aux frontières pour les étrangers.

Il supporto legale ai migranti e i rigetti dei loro ricorsi

L’Anafé svolge tanto un’attività operativa di osservazione e di supporto legale per i migranti alla frontiera quanto un’attività di tipo politico ossia di advocacy e sensibilizzazione rispetto ai respingimenti contraddistinti dai Refus d’entrée e ai trattenimenti alla frontiera eseguiti dalla Paf (Police aux frontières). Nello specifico l’avvocato Emilie Pesselier coordinatrice dell’Anafé durante la riunione online organizzata a marzo con la dottoressa Chiara Maugeri di Médecins du Monde – ex coordinatrice del programma di migrazione alla frontiera transalpina – ha riferito che, a partire dal 2015, quando la Francia ha “chiuso le frontiere” è iniziata l’attività di sostegno e accompagnamento, rispetto ai contenziosi individuali dell’associazione a favore dei migranti che si affianca ad attività di formazione sul quadro normativo vigente in materia. Dal 2017 si registra la denuncia delle violazioni dei diritti da parte dell’Anafé rispetto alle intercettazioni dei migranti compiute dalla Paf che notificando il refus d’entrée – senza alcun rispetto dei diritti di informazione come quello alla mediazione culturale e all’assistenza legale – respingono i migranti direttamente verso l’Italia o li accompagnano alla stazione di polizia a Menton qualora i respingimenti non possano essere eseguiti – ossia dalle 19 alle 7 di mattina – perché, essendo chiusa la stazione di polizia italiana, la riammissione da parte dell’Italia non sarebbe possibile.

Si specifica che nell’attesa che la polizia italiana sia nuovamente “disponibile”, i migranti pernottano esposti alle intemperie in strutture prive delle superfici di copertura, sprovviste di servizi igienici, senza accesso all’acqua e in condizioni di promiscuità tali da non consentire il distanziamento sociale previsto per il virus da Covid 19. L’avvocato Pellier ha poi segnalato due importanti pronunce emesse dai tribunali francesi: in particolare dal Tribunale amministrativo di Nizza e dal Consiglio di stato francese. Con la sentenza n. 1800699 del 23 febbraio 2018 il Tribunale amministrativo di Nizza, dietro a un ricorso che aveva per oggetto un provvedimento di non ammissione nel territorio francese, ha dichiarato l’illegittimità dello stesso da un lato per il mancato rispetto del diritto fondamentale a richiedere asilo dall’altro per l’assenza di protezione in Francia per i minori stranieri non accompagnati, sistematicamente respinti verso l’Italia dalla Paf senza alcuna considerazione rispetto alla loro minore età.

Tuttavia, nonostante tale pronuncia va detto che continuano i respingimenti dei minori stranieri che siano accompagnati o meno.

Respingimenti!

Al riguardo è necessario richiamare un’altra sentenza riguardante il ricorso presentato da una donna straniera respinta alla frontiera con il figlio di cinque anni dalla Paf: in questo caso a pronunciarsi è il Consiglio di stato francese che ha rigettato il ricorso con l’ordinanza n. 440756 del primo luglio del 2020, sostenendo nelle argomentazioni che al confine italo-francese sia rispettato il diritto d’asilo potendo la donna presentare la sua domanda in Italia! Per di più a tale pronuncia si è fatto riferimento al fine di rigettare successive richieste di liberazione provvisoria di alcuni richiedenti asilo respinti, con il pretesto che non fosse soddisfatta alcuna esigenza per l’adozione di una decisione di urgenza – avendo questi libero accesso alla domanda d’asilo in Italia.

Da allora le persone respinte alla frontiera non hanno avuto più alcuna possibilità di presentare ricorsi urgenti ma solo nel “merito” dinanzi al tribunale competente ossia facendo ricorso a procedure che possono durare fino a due anni prima dell’emissione di una pronuncia.

La vicenda legata ai respingimenti al confine Ventimiglia/Menton, quando la Francia ha ripristinato i controlli alle frontiere nel 2015, ha chiaramente dispiegato i suoi effetti anche in Italia accendendo però un esempio di resistenza memorabile da parte della società civile e dei migranti stessi unitisi nel presidio No Borders in contestazione delle politiche di riammissione, da parte della polizia italiana in collaborazione con la polizia francese e più in generale delle politiche europee in ambito migratorio. Il presidio è stato considerato da Guglielmo Mazzia nel libro Presidio permanente No Borders Ventimiglia. Diario 13 giugno/30 settembre, uno dei più potenti e vincenti eventi politici degli ultimi anni. La ricostruzione delle origini del Movimento è stata possibile grazie al professor Broglio autore del libro Bucare il confine al quale si rimanda e il giornalista Stefano Bertolino, autore di alcuni reportage, uno dei quali famoso perché l’agente digos ripreso riassumeva tutta la brutalità offensiva dei metodi polizieschi.

Per individuarle occorre tornare indietro all’11 giugno del 2015 quando, in seguito al G7 dello stesso anno tenutosi in Baviera, la Francia ripristina improvvisamente i controlli alle frontiere interne iniziando a respingere circa 80 migranti al giorno: la Paf li identifica e – a volte anche sulla base di uno scontrino di un acquisto in Italia in possesso del migrante – decide per il loro respingimento appellandosi al succitato accordo di Chambery del 3 ottobre del 1997 e al Regolamento Dublino che come detto individua la competenza degli stati membri dell’Ue a trattare la domanda d’asilo sulla base del criterio del primo paese di arrivo del migrante.

Dopo l’estate 2015: tra Balzi Rossi e Campo Roja

I migranti decidono per questo di occupare gli scogli, i cosiddetti Balzi Rossi al confine tra i due paesi, dando vita alla protesta We are not going back; la Gendarmerie schiera quindi i blindati mentre da Ventimiglia non transitano più i treni verso la Francia accrescendo la presenza di migranti bloccati nella stazione. Nei giorni successivi, con l’arrivo della digos e della polizia in assetto antisommossa con scudi e manganelli, il presidio No Borders diviene un presidio permanente. Tuttavia, il 16 giugno del 2015 la polizia alla presenza dei media italiani procede allo sgombero della scogliera e i migranti vengono deportati sulle macchine della polizia italiana e sui pullman della Croce Rossa verso la città di Ventimiglia. Con la manifestazione non autorizzata del 20 giugno dello stesso anno contraddistinta dallo striscione “Siamo tutti cittadini del mondo no frontiere, no borders” iniziano le deportazioni dei migranti nei Cpr del Suditalia ma si unisce anche il supporto al presidio del collettivo di Bologna Eat the Rich. L’8 agosto si tiene l’assemblea nazionale sostenuta da varie associazioni e ong tra cui Médecins du Monde, Amnesty International e Arci Camalli Imperia. Il sindaco Ioculano nel mentre si dimette dal Pd denunciando la mancata posizione politica del partito sulla vicenda e chiede per l’ennesima volta al ministro degli Interni Alfano lo sgombero definitivo del presidio e del campo.

Il mese successivo tuttavia anche il Consiglio regionale della Liguria si schiera per lo sgombero del presidio che inizia il 30 settembre del 2015 con l’intervento della polizia italiana. Ai Balzi Rossi cittadini europei e migranti continuano l’occupazione resistendo per 12 ore fino a quando si concretizza un accordo: i migranti verranno rilasciati senza essere identificati e i manifestanti europei verranno portati in questura. Il presidio commenta così la sua “fine”: «Hanno distrutto un luogo, una casa, un riparo per molti. Hanno distrutto un presidio ma non un percorso di lotta perché Ventimiglia non è solo un luogo. Ventimiglia è un’idea di resistenza che poggia su una rete di solidarietà consolidata in questi 3 mesi e mezzo e che nessuna ruspa e nessuno sgombero riuscirà a smantellare». Da quel momento in poi vi saranno diversi tentativi di riorganizzazione: tra questi si segnalano sia i campi informali presso la chiesa di San Nicola e quella delle Gianchette, sia l’accoglienza del Campo Roja aperto il 16 luglio del 2016 e a oggi uno dei simboli del fallimento della coordinazione politica tra municipalità, prefettura e ministero degli Interni con riferimento alle politiche di accoglienza a Ventimiglia. Rispetto a ciò si sottolinea il contributo della dottoressa Daniela Trucco ricercatrice presso l’Università di Nizza e le testimonianze della dottoressa Annalisa Trombetta. In particolare, la dottoressa Trucco ha sviluppato un’analisi dell’amministrazione della città di Ventimiglia nel periodo di tempo intercorrente dal 2014 al 2019, comprese le ronde civiche di cittadini in opposizione al transito e bivacco coatto dal respingimento dei migranti.

La conseguenza dei continui rapporti altalenanti di cooperazione e opposizione tra prefettura e amministrazione comunale si evidenzia soprattutto rispetto alla gestione del sistema di accoglienza cittadino a favore dei migranti.

In conseguenza del ripristino dei controlli alle frontiere interne della Francia, infatti, sono stati aperti tre centri di accoglienza: quello emergenziale nel giugno del 2015 su mandato della prefettura e d’intesa con il Comune e con la compagnia ferroviaria, gestito dal Comitato regionale della Croce Rossa e chiuso nel maggio del 2016 proprio su iniziativa dell’amministrazione comunale; quello aperto con il benestare del vescovo di Ventimiglia-Sanremo Antonio Suetta a fine maggio del 2016 e chiuso nell’agosto del 2017 – inizialmente tollerato sia dal Comune che dalla Prefettura – sulla base di un’ordinanza emessa dal sindaco Enrico Ioculano e infine il Campo Roja aperto dalla Prefettura nel 2016, in collaborazione con l’allora amministrazione comunale guidata dal sindaco Ioculano (nonostante sia stato firmatario di discutibili ordinanze relativamente all’accesso a cibo e acqua da parte dei migranti), collocato ai margini della città e gestito sempre dalla Croce Rossa italiana ma definitivamente chiuso il 31 luglio del 2020, su richiesta della Prefettura, dal sindaco Scullino appartenente alla coalizione di centro-destra, rieletto nel 2019 dopo aver governato la città dal 2007 al 2012.

La conseguenza di tale decisione ormai da due anni è nota ma volutamente non visibile come sempre accade in tali circostanze: i migranti oggi si trovano a vivere ai margini della città riuscendo ad accedere ai beni essenziali soltanto tramite la Caritas diocesana, stazionando in prossimità delle rive del fiume Roja ed esposti ai pericoli derivanti dai periodici straripamenti, nell’abbandono totale delle istituzioni in mezzo ai rifiuti in accampamenti definibili più che informali, improvvisati.

È la quiete agghiacciante e senza riflettori, nostalgica di quella tempesta di resistenza che per un breve periodo aveva posto attenzione alla sofferenza degli individui su questa rotta cercando di elevarla a strumento per l’affermazione di diritti che ancora oggi però evidentemente restano incompiuti.

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n. 17 – Francia e Gran Bretagna: tra i due litiganti, il migrante muore https://ogzero.org/francia-e-gran-bretagna-tra-i-due-litiganti-il-migrante-muore/ Sun, 30 Jan 2022 18:08:12 +0000 https://ogzero.org/?p=6031 Prosegue la serie dedicata alle rotte dei migranti a cura di Fabiana Triburgo. Questo saggio evidenzia la natura fluida dei percorsi delle persone in movimento ed esamina una delle diramazioni battute, il Canale della Manica, dopo che hanno percorso le rotte principalmente attraversate, in arrivo da lontano, su una rete che si dipanerà sotto i […]

L'articolo n. 17 – Francia e Gran Bretagna: tra i due litiganti, il migrante muore proviene da OGzero.

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Prosegue la serie dedicata alle rotte dei migranti a cura di Fabiana Triburgo. Questo saggio evidenzia la natura fluida dei percorsi delle persone in movimento ed esamina una delle diramazioni battute, il Canale della Manica, dopo che hanno percorso le rotte principalmente attraversate, in arrivo da lontano, su una rete che si dipanerà sotto i nostri occhi e che dimostra quanto le politiche europee siano miopi rispetto ai meccanismi innescati da blocchi e respingimenti, e quanto siano pesanti le conseguenze, soprattutto tenendo conto – come sottolinea l’autrice – che questi eventi non si registrano nell’ambito di rapporti bilaterali tra una potenza occidentale europea e un paese terzo nel quale non viene di fatto assicurato il rispetto dei diritti fondamentali della persona, come la Libia o la Turchia, ma tra due potenze internazionali quali Francia e Gran Bretagna che da secoli si ergono a paladine della tutela dei diritti della persona, principio che hanno posto oltretutto come uno dei pilastri fondanti dei propri sistemi costituzionali.


La rotta migratoria, avente quale punto di partenza alcune città della Francia settentrionale, quali – per citare le più rilevanti – le aree intorno alla città di Calais, Boulogne e Dunkerque e come punto di arrivo la città di Dover nel Regno Unito è caratterizzata dalla presenza del canale della Manica che si frappone tra le località francesi e quella inglese che distano circa 40 chilometri tra loro o – se si considera la tratta marittima – circa 20 miglia. La rotta quindi se può essere indubbiamente definita “breve”, allo stesso tempo deve essere considerata altamente mortifera, non solo nell’ipotesi in cui venga percorsa mediante l’attraversamento marittimo, a causa delle forti correnti che contraddistinguono il canale della Manica, ma anche nel caso in cui i migranti optino per la percorrenza della via terrestre attraverso l’Eurotunnel. Molti infatti sono i migranti rimasti uccisi nel corso degli ultimi trent’anni nel tratto di autostrada che unisce Francia e Gran Bretagna, sia per asfissia nei tir, nei quali erano nascosti, sia per essere stati investiti dagli automobilisti nel disperato tentativo di chiedere un passaggio fino alla Gran Bretagna (come si legge su questo approfondimento di InfoMigrants).

È necessario pertanto soffermarsi su tale fenomeno per il dato – di non poco rilievo – secondo il quale lo scorso anno sono stati circa 28.000 i migranti arrivati nel Regno Unito percorrendo tale rotta, con un altrettanto elevato numero di dispersi al quale è doveroso aggiungere quello delle persone decedute durante l’attraversamento del canale.

Francia e Gran Breatagna

I resti di un naufragio nelle acque della Manica (fonte Notizie.it).

Francia e Gran Bretagna: la difesa di quali diritti?

Gli sbarchi nel solo 2021 sono triplicati rispetto all’anno precedente e pertanto occorre analizzare le ragioni sottese a tale mutamento. Ciò su cui occorre preliminarmente riflettere, con riferimento alla questione migratoria, è che in tale rotta – come vedremo – gli accordi, i milioni spesi per i finanziamenti per la “gestione” dei flussi migratori, i controlli alle frontiere, le violentissime repressioni perpetrate dalle forze di polizia e i respingimenti non si registrano nell’ambito di rapporti bilaterali tra una potenza occidentale europea e un paese terzo nel quale non viene di fatto assicurato il rispetto dei diritti fondamentali della persona, come la Libia o la Turchia, ma tra due potenze internazionali quali Francia e Gran Bretagna che da secoli si ergono a paladine della tutela dei diritti della persona, principio che hanno posto oltretutto come uno dei pilastri fondanti dei propri sistemi costituzionali.

La rotta per di più – è bene ricordarlo – non è da annoverarsi tra quelle di recente determinazione: essa nasce intorno agli anni ’90, più specificatamente durante la guerra nell’ex Jugoslavia.

Fino al 2015 Calais, la città francese contraddistinta ancora oggi da un basso tasso demografico e da un’alta percentuale di povertà tra i residenti, era l’unica città nella quale stazionava la quasi totalità dei migranti – centinaia ogni anno – che tentavano di raggiungere il Regno Unito e che venivano chiamati dalla popolazione locale “i kosovari”. Erano i tempi della cosiddetta Jungle di Calais, nella quale i migranti, stipati prevalentemente nei containers o nelle tende, “beneficiavano” comunque dell’accoglienza francese in attesa di compiere il tanto agognato viaggio verso la Gran Bretagna. Tra il 2015 e il 2016 la situazione cambiò repentinamente per cui, in esito allo scoppio della guerra in Siria e con la crescente instabilità politica di alcuni paesi del Medio Oriente e in ragione del peggioramento di alcuni scenari legati a perduranti conflitti in Africa, i migranti a Calais raggiunsero le oltre 10.000 unità. Per dirla secondo le parole del noto regista cinematografico e scrittore francese Emmanuel Carrère, autore del libro A Calais, uscito a seguito del reportage che realizzò recandosi personalmente nella cittadina francese nel 2016, la popolazione locale si preoccupò per l’ingente arrivo di quelli che definivano i “siberiani” – ossia, per dirlo in modo corretto, i siriani. Non è difficile immaginare la reazione di ostilità della popolazione locale rispetto a tale aumento dei migranti nella città che già versava in uno stato di sofferenza per la situazione economica e che– è giusto il caso di dirlo visto il richiamo a Carrère “come da copione”, cominciò a manifestare comportamenti fortemente razzisti e xenofobi, percependo l’aumento della presenza dei migranti come simbolo di un ormai precipitato dramma sociale locale.

 

È questo il periodo in cui la Jungle cominciò a essere smantellata attraverso gli sgombri violenti dei migranti da parte dei CRS, gli agenti antisommossa francesi, mediante la distruzione dei containers e delle tende (come riportato anche dai quotidiani italiani e da Amnesty International).

Vi è da questo momento in poi infatti una svolta tragica di questa rotta che finora non si è mai arrestata e rispetto alla quale si rimanda al recente rapporto di Human Rights Watch che analizza le condizioni in cui versano i migranti che stazionano nel nord della Francia e i trattamenti disumani ai quali sono sottoposti.

La Manica, la rotta secondaria

Gli agenti della polizia francese cominciarono dunque in questo periodo a impegnarsi costantemente nella distruzione degli accampamenti informali dei migranti, nella confisca delle tende, in retate notturne che li costringono ancora oggi a scappare più volte all’alba con le tende “sotto braccio”, al lancio di gas lacrimogeni e al disboscamento delle aree intorno a Dunkerque per impedire ai migranti di nascondersi, sottoponendoli così a una tortura psicologica assimilabile a quella già analizzata nell’articolo relativo alla rotta balcanica. Non è casuale tale richiamo poiché la rotta della Manica si contraddistingue per un altro aspetto ovverosia quello di essere una “rotta secondaria”. Infatti, prima di giungere nel Nord della Francia – essendo difficilmente la Francia un paese di primo arrivo – i migranti hanno già percorso altre rotte, prevalentemente quella del Mediterraneo centrale – recentemente analizzata su questo sito – e appunto quella balcanica, per cui arrivano in territorio francese in esito a viaggi estenuanti protratti per molti mesi, se non per anni, e molto tempo dopo aver lasciato il proprio paese di origine. In particolare, se la Francia, come visto, nel 2016 cominciò lo smantellamento dei campi governativi a Calais, dall’altra parte la Gran Bretagna nel 2018 – stanziando circa 2,7 milioni di euro – ha concluso la costruzione di un muro di cemento alto 4 metri e lungo 1 chilometro in prossimità dell’autostrada che unisce i due paesi (si occupò dell’argomento l’Atlante delle Guerre).

Francia e Gran Bretagna

Demolizione della Jungle di Calais nell’ottobre 2016 (foto Edward Crawford / Shutterstock).

Il Trattato di Le Touquet: durata illimitata

Come si registrò in molti altri paesi europei gli accordi per il contenimento dei flussi proliferarono dal 2015 e ciò avvenne anche per la corrente migratoria lungo la Manica ma in questo caso la sottoscrizione di un atto internazionale tra il paese di partenza, comunemente la Francia, e quello di arrivo, la Gran Bretagna, fu siglato già nel 2003 con il Trattato di Le Touquet (il testo, qui), a oggi ancora in vigore.

Prima di analizzare il trattato e gli effetti che su di esso ha avuto l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea mediante la Brexit, entrata in vigore il primo gennaio del 2021, è naturale interrogarsi su quale sia la ragione per la quale i migranti presenti in questa rotta, a oggi prevalentemente curdi iracheni, sudanesi ed eritrei, decidano in modo ostinato di rimanere sulle coste del Nord della Francia per giungere nel Regno Unito. I migranti invero prediligono tale destinazione poiché lì si trovano i familiari di precedenti generazioni a loro volta emigrate diversi anni fa: questo avviene soprattutto nel caso di migranti minori stranieri non accompagnati provenienti da paesi di origine interessati da conflitti di vecchia data. In altri casi la ragione è da rinvenirsi nel fatto che il migrante che risiede stabilmente in Gran Bretagna non ha comunque il reddito sufficiente per avanzare la domanda di ricongiungimento familiare, per cui l’unico modo per raggiungere il familiare è quello di tentare l’impresa lungo la Manica. Inoltre, non è da sottovalutare la conoscenza della lingua inglese che i migranti che transitano in tale rotta possiedono più di quella francese e infine la maggiore coesione tra i gruppi etnici nel Regno Unito rispetto alla Francia.

Il Trattato di Le Toquet del 4 febbraio 2003 tra Francia e Gran Bretagna costituisce la base normativa in conformità della quale sono state istituite strutture nazionali di controllo delle frontiere comuni ai due paesi nei porti marittimi della Manica e nel Mare del Nord destinate al transito delle persone oltre a quello dei veicoli e delle merci. Sono stati autorizzati pertanto gli agenti di polizia dei rispettivi paesi a svolgere le proprie funzioni in modo reciproco, ossia non solo nel territorio di propria appartenenza, ma anche sul territorio dell’altro stato. Il trattato è a favore prevalentemente del Regno Unito: più specificatamente con riferimento ai flussi migratori le norme dello stato di arrivo – principalmente la Gran Bretagna – relative ai controlli di frontiera, sono applicabili oltre che nel proprio territorio anche nelle zone di controllo di frontiera dell’altro stato. Ne discende che le violazioni delle medesime norme, pur se rilevate nel paese di partenza, vengono sanzionate ai sensi della legge dello stato di arrivo come se fossero commesse su tale territorio. È chiaro dunque che lo scopo del Trattato è quello di scoraggiare le partenze verso la Gran Bretagna. Oggetto delle verifiche effettuate da parte dello stato di arrivo nelle zone di frontiera istituite in Francia è la sussistenza, relativamente alle persone che vi transitano, delle condizioni e del rispetto degli obblighi previsti dallo stato di arrivo per il controllo delle frontiere. Gli agenti dello stato di arrivo infatti possono arrestare, trattenere e interrogare le persone che transitano nelle zone comuni debitamente preposte nello stato di partenza, prevalentemente la Francia, per effettuare controlli sull’immigrazione o nell’ipotesi in cui vi siano fondati motivi per ritenere che il migrante abbia violato una norma relativa ai controlli di frontiera.

La gestione del controllo

Nessun individuo tuttavia può essere trattenuto in tale aeree di controllo per un periodo superiore alle 24 ore prorogabile solo eccezionalmente per ulteriori 24. Tutti i controlli alla frontiera da parte dello stato di partenza normalmente devono essere effettuati sempre prima di quelli dello stato di arrivo. Per quanto attiene alla domanda di asilo o di altra forma di protezione internazionale il trattato stabilisce che, qualora venga presentata nel corso dei controlli effettuati dallo stato di arrivo ma nei luoghi di controllo delle frontiere dello stato di partenza, dovrà essere esaminata comunque dalle autorità di quest’ultimo, al quale oltretutto viene attribuita la responsabilità dell’allestimento delle strutture, degli alloggi di servizio e delle attrezzature per l’attuazione delle zone di controllo. Infine, è necessario sottolineare che il presente Trattato ha una durata illimitata con la facoltà per ciascuna delle parti di recedervi con notifica scritta all’altra parte in qualsiasi momento: in tal caso gli effetti del recesso decorreranno due anni dopo dalla data della notifica.

Dal 2021 con l’entrata in vigore del Brexit, in seguito al referendum del 2016 – a sua volta diretta conseguenza del referendum consultivo della Scozia del 2014 relativamente all’indipendenza dal Regno Unito – la maggiore preoccupazione del governo francese è che la dogana relativa all’attraversamento della Manica ritorni esclusivamente in territorio inglese lasciandolo da solo nella gestione dei controlli dei migranti presenti nel Nord del paese.

Allo stesso tempo la Gran Bretagna però, essendo uscita dall’Unione europea, non può più ricorrere al Regolamento Dublino (n. 604 del 2013). Il Regolamento – che come già detto fissa i criteri di individuazione dello stato membro competente a trattare le domande di protezione internazionale – è, secondo la gerarchia delle fonti (qui informazioni sull’ordinamento giuridico), norma di rango superiore rispetto alla legge interna di ratifica di un trattato internazionale, per cui fino al primo gennaio del 2021 le norme del Regolamento Dublino prevalevano su quelle del Trattato di Le Touquet, in special modo in merito alle richieste d’asilo. Sulla base di ciò la Gran Bretagna spesso ricorreva al Regolamento Dublino per rimandare indietro i migranti in Francia in virtù del presupposto che questi, prima di arrivare nel Regno Unito, avessero transitato sul territorio di un altro stato membro, ossia quello francese. Per questo motivo, sulla base del Trattato di Le Touquet, il Regno Unito nel 2021 una volta uscito dall’Unione ha promesso circa 62 milioni di euro alla Francia per il controllo dei flussi migratori lungo la Manica che tuttavia alla del fine 2021 non risultavano ancora versati. Quindi ad ottobre dello scorso anno il ministro degli Interni francese Darmanin ha invitato il Regno Unito a stanziare i fondi promessi e a negoziare con l’UE un trattato sull’immigrazione, appello che non ha avuto alcun seguito da ambo le parti (come si legge qui).

Infatti con la Brexit, oltre a essere aumentato notevolmente il costo del viaggio per i migranti, si sono inaspriti i rapporti tra i due paesi che si sono accusati reciprocamente: per quanto riguarda Il Regno Unito di non adempiere ai controlli dovuti e per quanto riguarda la Francia di procedere con i respingimenti senza valutare nel merito le domande d’asilo.

Fonte: Ispi.

Asilo impossibile

A peggiorare tale situazione è intervenuto il Sovereign Borders Bill, la proposta di legge sulla cittadinanza e sul diritto d’asilo nel Regno Unito, in conseguenza della Brexit, presentata dal ministro degli Interni britannico Priti Patel a luglio del 2021 dopo la concessione da parte di Westminster, nel novembre del 2020, di poteri legislativi eccezionalmente ampi al ministro degli Interni. Secondo tale proposta non solo l’ingresso nel territorio del Regno Unito – sprovvisti di documenti – integrerebbe una fattispecie di reato punita con la reclusione da 6 mesi a 4 anni, ma è previsto il maggior conferimento di poteri alla polizia di frontiera che potrà bloccare i migranti in mare e forzare i respingimenti – intensificando proprio quelli verso la Francia, qualora i migranti arrivino con barconi provenienti dalla Manica, nonché il rimpatrio per chi più genericamente arriva nel Regno Unito  transitando per paesi definiti “sicuri”. A tutto ciò va aggiunta la previsione del confinamento per i richiedenti asilo sprovvisti di documenti di ingresso nel Regno Unito su isole lontanissime come Ascension Island, a ben 6000 miglia da Londra o su piattaforme petrolifere fuori uso, in attesa che si decida in merito alla loro domanda d’asilo o sul loro respingimento. È chiaro quindi che se tale proposta di riforma venisse approvata dal Parlamento inglese diverrebbe quasi impossibile presentare la domanda d’asilo nel Regno Unito. Inoltre, la ministra degli Interni paradossalmente figlia di immigrati ma autrice di questo agghiacciante quadro normativo, si è spinta oltre prevedendo altresì la possibilità di creare centri di detenzione – sul modello australiano – in Papa Nuova Guinea, Marocco o Moldavia, ipotesi fortunatamente respinta dal ministro degli Esteri poiché ritenuta eccessivamente onerosa. Ciò che risulta oltremodo allarmante in ogni caso, anche se non stupisce particolarmente, è che tali politiche – pur essendo la Gran Bretagna uscita dall’Unione Europea – siano perfettamente in linea con quelle esplicitate nel nuovo patto europeo sulla migrazione e l’asilo proposto della Commissione europea e con quelle di buona parte degli stati membri: in particolare vale la pena citare la Danimarca che, come noto, recentemente ha approvato una nuova legge che le consente di trattare le domande d’asilo fuori dal territorio dell’Unione (un approfondimento qui).

Benvenuti al Nord

Si arriva dunque al drammatico naufragio del 24 novembre 2021 che ha avuto un’eco internazionale (qui il report di Ispi) non soltanto per il numero dei migranti morti nella traversata nella Manica, 27 per la precisione con tre superstiti – tra le vittime sette donne, un adolescente e un bambino di sette anni – ma per le modalità del naufragio, essendo stati ritrovati i migranti a bordo di una piscina gonfiabile distrutta (dopo la lungimirante decisione di Decathlon, probabilmente su pressione del governo francese, di non vendere più le proprie canoe ai migranti) e per il comportamento probabilmente adottato dalle autorità di Francia e Gran Bretagna anche in questa circostanza come in passato che – quando contattate dai migranti nel Canale – hanno portato avanti un ridicolo e deplorevole teatrino di rimpallo di responsabilità.

Una volta arrivati al punto di non ritorno ossia alla strage di vite umane hanno dunque messo in atto la solita pantomima di cordoglio per quanto accaduto senza mancare anche in questa circostanza di sottolineare le responsabilità dell’altro stato. Francia e Gran Bretagna sono state prontamente richiamate per iscritto dal commissario del Consiglio d’Europa Mijatovic ma anche questo non ha impedito loro di continuare a battibeccare sulla questione migratoria.

Per cui dalle dichiarazioni sconcertanti del ministro degli Interni francese che ha sostenuto – rispetto a quanti hanno lamentato la presenza immobile dei soccorritori francesi mentre i migranti naufragavano – che i funzionari francesi in quel momento erano minacciati dagli stessi migranti di lanciare i bambini in mare se li avessero riportati indietro, si arriva alla “seria” comunicazione diplomatica su Twitter (?!) di rimprovero del presidente Boris Johnson – attualmente del tutto in panne a livello politico – rivolta al presidente Macron in merito all’accaduto.

Grazie a tale lettera “istituzionale” è stato ritirato dalla Francia l’invito alla ministra Patel al vertice con le istituzioni europee organizzato con alcuni paesi membri quali Belgio, Olanda e Germania per affrontare la questione dei flussi migratori nel canale della Manica e nel corso del quale c’è stata un’evidente sensibilizzazione sul tema, dato che è stata raggiunta la proposta “rivoluzionaria” di mandare quotidianamente dal 1 dicembre un aereo di Frontex a pattugliare giorno e notte il canale!

Inoltre, Londra a quel punto ha cercato e ottenuto un’intesa con il Belgio con il quale a fine novembre 2021 ha siglato un accordo di cooperazione con riferimento ai flussi migratori.

Quindi pur distaccandosi la Gran Bretagna dall’Unione ha portato comunque con sé la peggiore delle eredità delle sue politiche e qualora Westminster approvi il famigerato Bill di luglio si porrà in una posizione xenofoba in materia alla pari di alcuni dei paesi membri dell’UE appartenenti al gruppo di Visegrad. E la Francia? Purtroppo, nonostante i suoi ancestrali principi di libertà, fraternità, e uguaglianza difficilmente taglierà qualsiasi rapporto diplomatico con il Regno Unito per via della questione migratoria, rappresentando questo l’unico modo per controbilanciare nell’UE la posizione della Germania divenuta ancora maggiormente “ingombrante” dopo l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione europea.

L'articolo n. 17 – Francia e Gran Bretagna: tra i due litiganti, il migrante muore proviene da OGzero.

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n. 13 – Rotta balcanica: il Game, simbolo del fallimento europeo https://ogzero.org/il-fallimento-delle-politiche-migratorie-la-rotta-balcanica/ Thu, 16 Sep 2021 09:45:18 +0000 https://ogzero.org/?p=4908 Se esiste una rotta migratoria che simboleggia il fallimento delle politiche migratorie europee è quella balcanica, un percorso che cambia direttrici adeguando il passo, la resistenza al clima, alla fame e alle malattie, al disastro umanitario del momento. Il Game (non a caso il termine significa in italiano anche “cacciagione”) è ormai un gioco violento, […]

L'articolo n. 13 – Rotta balcanica: il Game, simbolo del fallimento europeo proviene da OGzero.

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Se esiste una rotta migratoria che simboleggia il fallimento delle politiche migratorie europee è quella balcanica, un percorso che cambia direttrici adeguando il passo, la resistenza al clima, alla fame e alle malattie, al disastro umanitario del momento. Il Game (non a caso il termine significa in italiano anche “cacciagione”) è ormai un gioco violento, perpetrato dalla fortezza Europa che i migranti tentano di vincere valicando muri, superando respingimenti illeciti, subendo accordi disumani tra paesi non sicuri e tornando e ritornando sui loro passi per anni.

Fabiana Triburgo qui delinea gli errori strategici sostanziali dell’Unione, che sfociano in una vera e propria violazione dei diritti umani.


I principali conflitti che attualmente interessano le migrazioni forzate e le prassi di esternalizzazione poste in essere dall’Unione Europea e dai singoli stati membri portano a una predeterminazione delle rotte dei migranti.

Quello che oggi è inevitabile chiedersi è se il nuovo Patto europeo sulla Migrazione e l’Asilo, proposto dalla Commissione UE, possa essere realmente considerato una soluzione della gestione del fenomeno migratorio o se invece vi siano soluzioni legali alternative maggiormente lungimiranti e coraggiose.  


Il transito dei migranti lungo la cosiddetta rotta balcanica non è certo semplicemente un fenomeno relativo alla mobilità umana che riguarda una specifica area geopolitica ma l’espressione di una politica migratoria che, al di là degli orientamenti, non può essere ignorata poiché gravissima è la violazione dei diritti umani perpetrati sulla stessa. È necessario prendere coscienza di quanto sta avvenendo e di quanto è accaduto perché l’omertà e la volontà di confinare e segregare per non rendere visibili i migranti non potrà mai essere una soluzione autentica e sicuramente non rende giustizia ai tanti individui che migrano da un paese all’altro della rotta –  europeo o non – e che, nelle migliori delle ipotesi una volta respinti, vengono derubati, picchiati, umiliati, derisi.

Ciò avviene contrariamente a qualsiasi disposizione normativa in materia sia essa nazionale, sovranazionale, internazionale. La strategia di rendere i migranti folli attraverso il Game –  così viene denominato questo orrendo e assurdo gioco –  respingendoli sistematicamente da un paese all’altro lungo la rotta, costringendoli a ripartire dopo i respingimenti dal “punto zero”, venti, trenta, cinquanta volte continua tuttavia spesso a non funzionare: grande la soddisfazione e l’ammirazione di chi scrive nel momento in cui alcuni di questi individui comunque riescono ad entrare in Europa, non per l’impiego di reinsediamenti dai paesi terzi a paesi dell’Unione, ma grazie solo alle loro forze.

Nessuna politica illogica, assurda, strategicamente programmata e attuata da chi è in una posizione di potere può contrastare la forza umana di chi lotta perché non ha alternative. E fintanto che vi è qualcuno che lotta il minimo è che ci sia qualcuno che scriva con profondo rispetto.

Vecchia rotta, nuova rotta

Iniziamo pertanto a dare alcuni riferimenti temporali rispetto alla mobilità dei migranti in tale area che non è una recente emergenza umanitaria riguardante i cosiddetti Balcani occidentali a meno che non la si consideri volutamente indotta. Il primo passo per accostarsi alla comprensione del fenomeno richiede “un salto” all’indietro di almeno cinque-sei anni. Con rotta balcanica si intende invero quel percorso che i migranti compiono passando attraverso il Nord della Grecia, Macedonia del Nord, Bulgaria, Serbia, Bosnia Erzegovina, Croazia e Slovenia. Dapprima era “legalizzata”: nel 2015 e nei primi mesi del 2016 circa un milione di persone, per lo più siriani, attraversarono a piedi tale area senza quasi alcun impedimento degli stati al passaggio dei migranti alle frontiere nei paesi UE ed extra UE che sono parte del percorso. Per alcuni anni la migrazione nei Balcani ebbe infatti come tappe Turchia, Grecia, Macedonia del Nord, Serbia e Ungheria nell’evidente tentativo dei migranti di arrivare prevalentemente verso Germania e Francia. Tuttavia, la rotta a oggi continua ad essere percorsa da un rilevante numero di individui nonostante tutti gli strumenti di deterrenza impiegati nei loro confronti nel corso degli anni.

Migranti in Ungheria, vicino al confine con la Serbia (foto Gémes Sándor/SzomSzed).

Chi passa e dove

I migranti sono prevalentemente afghani, siriani, iracheni, pakistani e iraniani rispetto ai quali in parte abbiamo già analizzato le situazioni dei paesi d’origine che danno luogo alle migrazioni forzate. Nel 2015 dunque la Turchia fu interessata dal passaggio di un rilevante numero di profughi che confluirono verso l’Egeo e verso i paesi dei Balcani per raggiungere l’Europa occidentale, ma i mezzi adottati in seguito da questi e dall’UE – finalizzati all’impedimento dell’ingresso alle frontiere – determinarono un mutamento nel 2018 dell’originario percorso che oggi registra nella Bosnia ed Erzegovina il maggior numero di presenze di migranti sul percorso, in particolare nel cantone di Una Sana al confine con la Croazia.

Da campi emergenziali a campi di confinamento

Dopo la chiusura del Campo di Bira nel settembre 2020 nel cantone se ne è costruito un altro nel maggio dello stesso anno, quello di Lipa (a cui si riferisce il video) la cui gestione era stata affidata all’Oim che a dicembre 2020 ha lasciato il campo a causa delle condizioni disumane nelle quali erano trattenuti i migranti, sprovvisti di acqua e di corrente elettrica. All’abbandono del campo dell’organizzazione internazionale ne è seguito l’incendio ma attualmente sopra le macerie della vecchia tendopoli si stanno costruendo dei container: da campo emergenziale Lipa sta divenendo campo temporaneo di confinamento dei migranti che consente l’accoglienza di sole 1.500 persone strategicamente posizionato su un altopiano, lontano 25 chilometri dal primo centro abitato ossia dalla città di Bihać.

La polizia bosniaca trasferisce nel campo di Lipa centinaia di migranti (aprile 2020, foto Ajdin Kamber / Shutterstock).

Muri e liste di ammissione

Appare evidente che stia divenendo prassi consolidata la creazione di hotspot ai confini delle frontiere dell’Unione, come emerge anche dalla lettura del nuovo patto sulla migrazione e l’asilo. Non si può in tale ricostruzione quindi ignorare quali siano stati i più gravi espedienti utilizzati per la compressione dell’applicazione del diritto d’asilo che hanno contribuito al cambiamento delle correnti migratorie. A partire dal luglio 2015 l’Ungheria iniziò a costruire un muro costituito da una barriera metallica al confine con la Serbia lungo 175 chilometri e successivamente un altro al confine con la Croazia; a tali imponenti barriere fisiche si aggiunsero – in una logica di pericolosa emulazione – le recinzioni della Slovenia al confine con la Croazia e della Macedonia del Nord al confine con la Grecia. Belgrado, che era uno degli snodi fondamentali della Rotta confinando con Ungheria, Croazia e Romania cominciò negli anni successivi la gestione dei flussi migratori in collaborazione con il governo ungherese mediante liste di ammissione dei migranti.

Il famigerato accordo UE-Turchia

Si arrivò dunque a quel famigerato quanto costoso accordo – ossequiosamente rinnovato – tra Unione Europea e Turchia del marzo del 2016 per il successivo triennio, con impegno di bonifico di 6 miliardi di euro entro il 2018 da parte della prima a quest’ultima, secondo il quale «tutti i nuovi migranti che hanno compiuto la traversata dalla Turchia alle isole greche a decorrere dal 20 marzo 2016 saranno rimpatriati in Turchia» e chiaramente sottolineando che ciò sarebbe avvenuto «nel rispetto del diritto dell’Unione e internazionale escludendo le espulsioni collettive» e che «una volta fermati o per lo meno drasticamente e sensibilmente  ridotti gli attraversamenti irregolari tra Turchia e UE» sarebbe stato attivato «un programma  volontario di ammissione umanitaria degli stati membri dell’Ue».

Il coivolgimento della Grecia il collegamento alla rotta dell’Egeo

Al di là dei discorsi di facciata – utili quando bisogna nascondere altre intenzioni – sembra che di fatto non sia andata esattamente così. Chiudendo quel flusso migratorio tra Grecia e Turchia se ne generò un altro verso il confine terreste turco-bulgaro che poi è sfociato nuovamente in Grecia. Rispetto alla rotta dell’Egeo, la cui analisi è collegata a quella balcanica, all’accordo del 2016 seguì la creazione di fatto di “hotspot” mediante la restrizione geografica operata, nei confronti dei migranti, nelle cinque isole greche – prima di accedere alla Grecia continentale – nelle quali si istituirono centri di accoglienza e di identificazione volti al contenimento dei flussi migratori e con essi anche delle domande d’asilo.

Se tale politica in un primo periodo ha determinato una sensibile diminuzione degli ingressi dei migranti, non ha evitato che la Grecia dal 2017 al 2019 fosse comunque la prima frontiera tra i paesi UE a essere attraversata.

La registrazione nel Paese di 121.000 persone nel 2020, anno che ha visto l’esasperazione delle condizioni nei centri nelle isole greche, come avvenuto in quello di Moira a Lesbo, non ci consente di soprassedere rispetto al fatto che i migranti appartenenti alle nazionalità succitate non solo non si sono mai fermati in conseguenza dell’accordo, dei muri e delle recinzioni ma molti di loro hanno continuato a optare oltre che per l’altra rotta marittima, ossia verso le principali città dell’Adriatico, nascosti nei tir diretti in Italia, per la percorrenza della via terrestre in prossimità del fiume Evros, al confine greco-turco, andando a confluire nuovamente nella rotta balcanica.

Il campo di Moira devastato dall’incendio.

Torna lo snodo di Idomeni

Oggi l’ex campo di Idomeni, il primo campo della rotta balcanica, costruito sul confine tra Macedonia del Nord e Grecia (sgombrato nel 2016) è nuovamente il simbolo di uno snodo principale per chi tenta di raggiungere attraverso i Balcani l’Europa centrale: la Grecia – così come la Bulgaria, la Croazia, la Slovenia e l’Ungheria, ma di recente anche l’Albania e la Romania – non sono certamente paesi di destinazione dei migranti, ma di transito, sebbene facciano parte dell’Unione, e considerati i trattamenti, ai quali sono sottoposti in essi se ne intuisce anche il motivo.

Immagine da un video di Bledar Hasko, campo di Idomeni.

Divieto di respingimento: riconosciuto e poi violato

Come noto lungo la rotta balcanica si attuarono e si attuano numerosi respingimenti: con tale espressione ci si riferisce a quegli atti coercitivi messi in atto da parte delle autorità di pubblica sicurezza di uno stato mediante l’impedimento all’ingresso nel proprio territorio di cittadini stranieri privi del titolo per l’ingresso o attraverso il rinvio verso un altro stato di individui che già sono presenti nel territorio. Tali atti – legittimi in quanto basati sul principio della sovranità nazionale riconosciuto agli stati secondo il diritto internazionale – trovano tuttavia il proprio limite nel rispetto dei diritti umani e di altri principi internazionali come quello sancito dal divieto di respingimento (non refoulement) considerata norma accettata e riconosciuta dalla Comunità internazionale della cui violazione da parte degli stati dell’UE si è già precedentemente argomentato nell’introduzione di questa sezione del saggio dedicata alle rotte migratorie. Si aggiunge che spesso i respingimenti lungo la rotta balcanica sono collettivi e come tali vietati secondo quanto stabilito dall’art.4 del quarto protocollo addizionale della Cedu.

Il confine croato respinge “a catena”

Ciò che rileva è che una buona parte degli individui che sono attualmente confinati nella rotta riferisce di essere stata respinta “a catena” dall’Italia o dalla Slovenia fino alla Croazia, paese dal quale poi sono stati ulteriormente respinti violentemente in Bosnia ossia fuori dalle frontiere dell’Unione: secondo il Danish Refugee Council da maggio del 2019 a novembre del 2020 circa 22.550 sono stati i respingimenti sommari dalla Croazia alla Bosnia.

In tale ambito dei respingimenti a catena per lo più collettivi, l’elemento sul quale è necessario soffermarsi è quello delle riammissioni “informali” dei migranti, non solo di quelle attuate dalla Croazia relativamente ai migranti respinti dalla Slovenia, ma anche di quelle della Slovenia in conseguenza degli accompagnamenti forzati alla frontiera da parte dell’Italia.

L’Italia e le riammissioni informali

La questione assume una particolare rilevanza se si considera che la Slovenia dal primo luglio ha assunto la presidenza del Consiglio dell’Unione fino al 31 dicembre e che perciò nei prossimi mesi avrà un ruolo strategico per quanto riguarda il nuovo patto europeo sulla migrazione e l’asilo proposto dalla Commissione UE. Si ricorda che il governo italiano ha ammesso nel 2020 di aver collaborato con la Slovenia alle riammissioni informali, in esito ad un’interrogazione urgente dell’onorevole Riccardo Magi del luglio del 2020 che chiedeva di far chiarezza in merito alle operazioni di Polizia al confine italo-sloveno. L’Italia ha collaborato a tali riammissioni con la Slovenia all’incirca da maggio del 2020 fino almeno a gennaio del 2021: con l’ordinanza del Tribunale di Roma del 18 gennaio 2021 è stato accolto il ricorso d’urgenza presentato da un cittadino pakistano che dichiarava di essere stato ricondotto dall’Italia alla Slovenia, quindi in Croazia e infine in Bosnia. All’uomo assistito da Asgi è stata concessa la riammissione in Italia con un visto umanitario.

E l’Europa?

Per quanto attiene gli aspetti giuridici – nelle ipotesi di accompagnamenti forzati da un paese dell’Unione, nei confronti di un altro paese dell’Unione che effettua le riammissioni – occorre argomentare sul diritto d’asilo, inteso come diritto d’accesso alla domanda di protezione internazionale, nonché sul concetto di individuazione del paese UE competente a trattare in merito alla domanda d’asilo.

Il diritto d’asilo nel nostro ordinamento nazionale è disciplinato dall’art. 10 co. 3 della Costituzione ed è un pilastro di questa essendo inserito in quei primi 12 articoli immodificabili: secondo il nostro ordinamento esso non può quindi in alcun modo subire limitazioni o deroghe.

 

D’alta parte anche diritto dell’Unione Europea stabilisce che le autorità dei paesi membri debbano rispettare la manifestazione di volontà del cittadino di un paese terzo che intenda chiedere asilo alla frontiera o sul territorio di un paese dell’Unione. Riguardo a ciò si vedano l’art. 3 del Regolamento Shenghen ossia il n.399 del 2016, la direttiva 32/2013/UE  – cosiddetta Direttiva procedure agli artt. 3 e 9 –, nonché il regolamento n. 604 del 2013, denominato comunemente Dublino III – che all’art. 3 paragrafo 1 stabilisce che gli stati membri esaminano qualsiasi domanda di protezione internazionale presentata da un cittadino di un paese terzo o da un apolide sul territorio o alla frontiera dell’Unione, e nelle zone di transito.

È stabilito inoltre che lo straniero che ha manifestato la volontà di chiedere asilo debba essere sempre trattato come un richiedente protezione internazionale e come tale è fatto obbligo allo stato che ha registrato la domanda, di collocare il richiedente in uno specifico centro secondo quanto stabilito dall’art. 3 della direttiva accoglienza. Inoltre, nel caso in cui si ritenga che lo stato competente non sia quello in cui è stata presentata la domanda di protezione internazionale si deve attivare il procedimento di accertamento del paese competente. Al riguardo si rammenta che in base all’art. 4 del Regolamento di Dublino lo stato nel quale è stata presentata la domanda ha l’obbligo di informare il richiedente che è stata attivata tale procedura e di attivare un colloquio relativamente alla medesima in una lingua da lui comprensibile nonché di fornirgli copia del verbale del colloquio. Solo infatti una volta che il paese dell’Unione accerti che la responsabilità sia di un altro stato, in base ai criteri enunciati al Capo III del Regolamento di Dublino, si potrà procedere al trasferimento in esso. L’art. 27 del Regolamento stabilisce inoltre che il richiedente ha diritto a un ricorso effettivo avverso la decisione di trasferimento o alla revisione della medesima mediante un organo giurisdizionale:

nessun trasferimento di un richiedente asilo da uno stato all’altro dell’Unione quindi può avvenire in violazione di tale regolamento.

Si aggiunge che in base all’art. 3 paragrafo 2 del Regolamento Dublino qualora sussistano carenze sistemiche nella procedura d’asilo e nelle condizioni di accoglienza dello stato membro in cui la persona verrebbe rinviata, il rinvio non è possibile e la competenza a trattare della domanda di protezione internazionale rimane quella dello stato in cui la domanda è stata presentata. Si veda al riguardo la sentenza del 21 gennaio del 2011 della Corte di Strasburgo M.S.S. contro Belgio e Grecia.

Ne discende che ogni trasferimento di un richiedente asilo verso un altro stato dell’Unione non possa essere mai automatico ma debba necessariamente essere valutato individualmente e concretamente rispetto alla persona che ha presentato domanda di protezione internazionale e che non possono esservi degli stati che vengano considerati aprioristicamente sicuri come invece è stato dichiarato con riferimento alla Slovenia e alla Croazia semplicemente perché facenti parte del territorio dell’Unione.

Ogni trasferimento del richiedente infatti deve essere valutato solo in base alla domanda d’asilo registrata e ulteriori accordi bilaterali e multilaterali non possono essere applicati in violazione del regolamento n. 604 del 2013. Ulteriori riflessioni giuridiche si sviluppano poi rispetto dell’accordo intergovernativo tra Italia e Slovenia del 1996 questa volta con riferimento a tutti i migranti siano o meno richiedenti asilo. L’accordo riesumato per legittimare le riammissioni informali di cui sopra è entrato in vigore il primo settembre 1997.

Rispetto all’accordo va detto che non è stato mai ratificato dal Parlamento italiano secondo quanto stabilito dall’art. 80 della Costituzione.

L’accordo essendo dunque di natura politica non può certamente modificare o derogare alle leggi ordinarie vigenti nel nostro ordinamento e tanto meno alla normativa europea. Inoltre, l’art. 2 dell’accordo sancisce che esso non sia applicabile ai rifugiati ma si ritiene che tale espressione attui una discriminazione tra rifugiati e richiedenti asilo che hanno il diritto di far ingresso in un paese UE altrimenti non sarebbe possibile l’esperimento del procedimento amministrativo necessario per dichiarare lo status di rifugiato. Sempre nel testo dell’accordo, più specificatamente all’articolo 6, si fa riferimento al carattere di informalità delle riammissioni dei cittadini di uno dei due paesi Ue o di cittadini terzi. Tuttavia, l’espressione “senza formalità” contenuta nell’accordo non può essere riferita all’atto della riammissione in senso stretto: in quanto sono atti amministrativi che incidono sui diritti soggettivi dello straniero e come tali devono essere disposti dalla Pubblica amministrazione con un provvedimento motivato in fatto e in diritto e notificato alla persona destinataria del provvedimento secondo quanto stabilito dalla Legge 241/1990. Pur potendo assumere una forma semplificata-succinta e immediatamente esecutiva rimane il fatto che per ogni atto di rinvio/ammissione o trasferimento debba essere comunque presente un atto che lo disponga e che sia impugnabile a livello giurisdizionale diversamente da quanto è avvenuto con le riammissioni tra Italia e Slovenia: il rischio è quello della violazione dell’articolo 24 della Costituzione sul diritto di difesa e dell’articolo 13 della CEDU nonché dell’art. 47 della Carta fondamentale dell’Unione Europea.

«La libertà personale è inviolabile»

Poiché inoltre la riammissione comporta l’accompagnamento forzato alla frontiera anche nel caso in cui sia eseguito nell’ambito di frontiere interne dell’Unione è un’attività che incide comunque sulla libertà personale dell’individuo e per questo motivo deve essere sottoposto a convalida dell’autorità giudiziaria secondo l’art. 13 della Costituzione. La stessa Direttiva rimpatri 115/2008/CE all’art. 6 par. 3 – che stabilisce la riammissione di un cittadino terzo irregolare anche senza l’emissione di una decisione sul rimpatrio – non esonera però lo stato che effettua la riammissione ad adottare una decisione sulla riammissione stessa: ossia un provvedimento scritto e notificato alla persona interessata e sottoponibile al controllo di un organo giurisdizionale.

Senza formalità = rapidità

Si può affermare in conclusione che il termine “senza formalità” non si debba interpretare acconsentendo all’attività di riammissione in assenza di un provvedimento, quanto piuttosto nel senso della speditezza e della forma succinta dell’atto amministrativo di riammissione.

Pattugliamenti congiunti vs indagini

Ad ogni modo con una nota stampa del 14 giugno del 2021 è stata resa pubblica la decisione del Ministero degli interni di nuovi pattugliamenti congiunti con forze di Polizia italo-slovene nelle frontiere Trieste/Koper e Gorizia/Nova Gorica in seguito all’incontro dei ministri degli Interni dei due paesi, al fine di sgominare le organizzazioni criminali che gestiscono il traffico dei migranti su tale area della rotta balcanica. I pattugliamenti congiunti sono frutto di un accordo sottoscritto alcuni mesi fa dalle autorità di Polizia di Roma e di Lubiana ma sebbene se ne condividano gli intenti è stato sottolineato che tale accordo non è sicuramente lo strumento migliore per contrastare il traffico di esseri umani riservato piuttosto a un’attività di intelligence o a una di inchiesta con il  coordinamento delle diverse autorità giudiziarie:

sembra piuttosto che l’intento sia nuovamente di contrastare l’ingresso dei migranti al confine italo-sloveno.

Si ricorda che il Tribunale amministrativo di Lubiana ha stabilito che con il respingimento di un cittadino camerunense in Croazia e da qui inviato in Bosnia, da parte della polizia slovena, dopo essere stato trattenuto dalla stessa per due giorni, è stata violata la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea. La sentenza si affianca alle pronunce di Tribunali italiani e austriaci (Tribunale di Stiria, 1 luglio 2021) a favore dei migranti respinti oltre i confini esterni dell’Unione.

Il fallimento delle politiche dell’Unione

S’intuisce quindi il colossale fallimento di tali politiche che se si vuole essere cinici, non hanno raggiunto l’obiettivo sperato, visto che la rotta continua comunque a essere percorsa e – se si considera che la proposta di ricollocamento automatico in tutti i paesi dell’Unione dei migranti che hanno presentato domanda d’asilo, in proporzione al Pil e all’assetto demografico di ciascuno da anni – è pressoché ignorata e allo stesso tempo non viene modificato il regolamento Dublino: tale parziale soluzione avrebbe permesso quanto meno di evitare non solo l’erogazione da parte dell’UE di ingenti finanziamenti a Frontex nonché alla Bosnia per “l’accoglienza” di migranti respinti evitando la catastrofe umanitaria nel cantone verificatasi nel 2019, nel 2020 e ancora oggi nel 2021.

Operazioni di “sicurezza” marittima di Frontex, sovvenzionate da finanziamenti europei.

In tale situazione, dinanzi all’emergenza umanitaria che sta attraversando l’Afghanistan e che inevitabilmente dispiegherà i suoi effetti sulla rotta con un aumento sostanziale del transito dei migranti provenienti da tale area dell’Asia centrale, l’unico timore dell’Europa è che non si riviva “un nuovo 2015”. Un’altra occasione persa per rivedere l’intero impianto di un sistema farraginoso e disumano cui l’unico scopo e alzare i muri – in qualunque modo siano intesi – della fortezza Europa.

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Esternalizzare le frontiere: è legittimo o opportunista? https://ogzero.org/lesternalizzazione-delle-frontiere-e-le-politiche-europee/ Tue, 31 Aug 2021 14:54:56 +0000 https://ogzero.org/?p=4758 Riprendiamo con Fabiana Triburgo il focus sulle rotte migratorie introducendo il tema dell’esternalizzazione delle frontiere, ossia quella politica europea e degli stati membri dell’Unione, contraddistinta da un insieme di azioni giuridiche, militari e finanziarie – spesso di dubbia legittimità – che ha come fine ultimo quello di ostacolare l’ingresso dei migranti all’interno del territorio dell’UE. […]

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Riprendiamo con Fabiana Triburgo il focus sulle rotte migratorie introducendo il tema dell’esternalizzazione delle frontiere, ossia quella politica europea e degli stati membri dell’Unione, contraddistinta da un insieme di azioni giuridiche, militari e finanziarie – spesso di dubbia legittimità – che ha come fine ultimo quello di ostacolare l’ingresso dei migranti all’interno del territorio dell’UE. Ecco il contesto giuridico.


Le politiche di esternalizzazione: introduzione alle nuove rotte migratorie

Corridoi umanitari, mediante visti di ingresso, reinsediamenti e ricollocamenti automatici, e non volontari, dei migranti attraverso un’equa distribuzione dei medesimi all’interno dei territori dei paesi UE, sulla base del principio di solidarietà sancito dall’articolo 80 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea, sono di recente gli ultimi disperati appelli che la società civile, in particolare le associazioni del Terzo Settore, rivolgono alla politica europea e a quella degli stati membri improntata sull’esternalizzazione delle frontiere. Tale espressione risuona invero in più contesti giuridici e mediatici.

L’esternalizzazione delle frontiere, ossia quella politica europea e degli stati membri dell’Unione, contraddistinta da un insieme di azioni giuridiche, militari e finanziarie – spesso di dubbia legittimità – che ha come fine ultimo quello di ostacolare l’ingresso dei migranti all’interno del territorio dell’UE, tra i quali i richiedenti asilo, comporta l’impossibilità aprioristicamente, per loro determinata, di esercitare i propri diritti e godere delle tutele giurisdizionali garantite per legge. Già, perché questo godimento ed esercizio non è un’opinione ma si evince da quel “Sistema comune d’Asilo europeo”, stabilito dal paragrafo 1 dell’art. 78 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea,  del quale a partire dagli anni Novanta l’Europa stessa ha voluto dotarsi, ma che dal 2015 l’Unione (anche prima, con riferimento alle legislazioni nazionali di alcuni paesi UE, tra cui l’Italia), dato l’aumento sostanziale dei flussi migratori, ha riadattato, modificato a più riprese ma sul quale non ha trovato ancora oggi una soluzione condivisa.

Potremmo così affermare:

fin quando l’Unione attua le pratiche di esternalizzazione dimostra la sua incapacità a rendere effettiva una politica migratoria comune a tutti i paesi che ne fanno parte,

ma tale politica in realtà è già puntualmente regolamentata da disposizioni normative alle quali hanno aderito volontariamente tutti i paesi dell’UE, in senso opposto alle prassi dei respingimenti ancora oggi messe in atto. Le esternalizzazioni vengono realizzate infatti sia dall’UE sia dai singoli paesi membri in collaborazione con paesi terzi extra-UE – quasi sempre in via di sviluppo e spesso definiti “sicuri” per ragioni di opportunismo – attraverso accordi bilaterali o multilaterali, piani d’azione, il cui testo normativo è difficilmente accessibile da parte della società civile. Tuttavia, tali atti normativi di consueto contraddistinti da una sezione relativa allo sviluppo economico – che l’UE o il paese membro garantisce a favore del paese terzo parte dell’accordo o dell’Azione Comune – sono anche connaturati da una sezione dedicata all’accoglienza e alla gestione dei flussi migratori attraverso il finanziamento di programmi di addestramento e di equipaggiamento militare delle forze armate del paese terzo per il contrasto dell’immigrazione definita irregolare.

Campo di Sanliurfa in Turchia (foto Thomas Koch / Shutterstock)

Le responsabilità

Opinabile la portata del termine “irregolare”, essendo la singola valutazione dei motivi per il quale un individuo ha posto in essere il proprio percorso migratorio, attuabile perlopiù quando la persona ha fatto già ingresso nel territorio dell’UE. È noto infatti che le pratiche di esternalizzazione sono concepite, per definizione, al fine di eludere l’applicazione della normativa europea sulla migrazione e l’asilo mediante la delega a paesi terzi di attività che se venissero compiute dagli stati membri o dall’UE senza “l’aiuto” di questi, sarebbero sottoponibili a procedimenti giurisdizionali anche internazionali per l’accertamento delle loro responsabilità. Con tali prassi vengono a ogni modo violati i principi contenuti nelle norme di diritto internazionale alle quali l’Unione Europea ha deciso di adeguarsi. Non solo infatti tutti gli stati dell’UE, facenti parte anche del Consiglio d’Europa, hanno sottoscritto la Convenzione di Ginevra del 1951, ma secondo le norme del diritto dell’Unione, in particolare conformemente al succitato punto 1 dell’art. 78 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea,

«la politica comune in materia di asilo, protezione sussidiaria e temporanea deve essere volta a garantire il principio di non respingimento in conformità non solo all’art. 33 della Convenzione di Ginevra del 1951 (principio di non refoulement) e del suo Protocollo del 1967 ma anche dei trattati internazionali pertinenti in materia»,

quali in particolare la Convenzione Cedu sui diritti umani del 1950, la Convenzione Onu contro la tortura e i trattamenti inumani o degradanti del 1975, il Patto internazionale sui diritti economici sociali e culturali del 1966, nonché la Convenzione Onu sui diritti dei fanciulli del 1989.

Per quanto riguarda il diritto internazionale infatti il “principio del non respingimento” si applica oltre che secondo l’art. 4 e l’art. 19 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea e in conformità all’art. 33 della Convenzione di Ginevra, anche sulla base dell’art. 3 della Convenzione internazionale contro la tortura, nonché secondo l’orientamento giurisprudenziale della Corte di Strasburgo ossia la Corte europea sui diritti dell’uomo in merito all’art. 3 Cedu

che sancisce il divieto assoluto di allontanare lo straniero qualora lo stesso allontanamento costituisca una forma di trattamento inumano o degradante o nell’ipotesi in cui lo straniero rischi di subire trattamenti inumani e degradanti nello stato di destinazione.

Ne discende pertanto che tale principio debba essere applicato non solo ai migranti potenzialmente dichiarabili rifugiati – in base ai requisiti stabiliti della Convenzione di Ginevra – ma a qualunque individuo che rischia di subire un trattamento inumano e degradante. I respingimenti inoltre vengono attuati non solo direttamente ma anche indirettamente. Questi ultimi in particolare sono caratterizzati – come quelli “a catena” nella Rotta balcanica – dalle riammissioni informali, rispetto alle quali si è pronunciato il Tribunale di Roma con l’ordinanza dell’8 gennaio del 2021 nei confronti dell’Italia per quelle attuate in cooperazione con la Slovenia.

Dicembre 2020: incendio nel campo profughi di Lipa, a una ventina di chilometri da Bihać, nel nordovest della Bosnia-Erzegovina al confine con la Croazia

Violazioni e controllo effettivo su un altro stato

Tuttavia, va detto che in base all’art. 1 della Convenzione Europea sui diritti dell’uomo l’esercizio della giurisdizione da parte di uno stato su un territorio è il principio fondamentale per attribuire a esso responsabilità rispetto ad azioni compiute in violazione della Convenzione.

Come si concilia dunque tale interpretazione con quella di una responsabilità statale o sovrastatale, quale quella dell’UE, per trattamenti inumani e degradanti causati in un contesto “extraterritoriale”, in particolare per atti inumani e degradanti che sono stati agevolati indirettamente ma consapevolmente da stati membri dell’UE e/o dall’UE stessa ma eseguiti da paesi terzi?

È chiaro infatti che i paesi terzi quali per esempio Libia e Sudan, nei quali centri detentivi si attua la tipologia di trattamenti di cui sopra, non hanno aderito alle convenzioni internazionali succitate e dunque non possono essere ritenuti responsabili di tali pratiche. A ogni modo sussistono però secondo la Corte di Strasburgo circostanze secondo le quali è consentito derogare eccezionalmente al principio della sovranità territoriale o sovraterritoriale comportando l’attribuzione di responsabilità a uno stato contraente della Cedu, per la violazione dei principi della Convenzione in particolare dell’art. 3 e 5, nell’ipotesi in cui esso abbia un “controllo effettivo” sul territorio di un altro stato.

Sulla base di ciò si può interpretare che i cosiddetti “aiuti” che gli stati dell’Unione finalizzano con gli accordi e i piani di azione attraverso i  finanziamenti per gli addestramenti e gli equipaggiamenti militari – in particolare droni, elicotteri e visori notturni –, nonché la donazione di proprie imbarcazioni per il controllo dei flussi migratori ai paesi terzi, possano essere qualificabili come strumenti che denotano un’ingerenza talmente rilevante, rispetto al territorio di quel paese, da far superare il vincolo della giurisdizione territoriale strettamente concepita dall’art. 1 della Convenzione Europea sui diritti dell’uomo, fatta salva ovviamente la produzione di prove del nesso di causalità tra il danno subito dal migrante e l’azione compiuta dall’UE o da uno stato membro del Consiglio d’Europa. In conformità a tale interpretazione si pone anche la Commissione del diritto internazionale delle Nazioni Unite che ha approvato norme riguardanti il cosiddetto “illecito internazionale” ossia l’attribuzione di responsabilità a uno stato aderente alla Cedu dinanzi alla Corte di Strasburgo che si sia reso artefice, anche indirettamente, di azioni riconducibili alla violazione degli artt. 2, 3, 4, 5 della Convenzione.

I numeri

Al riguardo è necessario fornire alcuni dati in merito agli effetti che tale fenomeno dell’esternalizzazione delle frontiere sta causando. Il numero dei richiedenti asilo in Europa è crollato sensibilmente, ossia di circa il 34% nel 2020 rispetto all’anno precedente: in proporzione vi sono 931 richiedenti asilo in Europa ogni milione di abitanti, per cui ci si chiede se questa sia “un’invasione” tale da scaturire un “allarme sicurezza”. Occorre piuttosto rilevare che ci sono paesi quali Romania, Irlanda, Danimarca, Finlandia, Lituania, Portogallo, Polonia, Repubblica Ceca e Slovacchia nei quali non si è registrata rispetto al 2020 la presenza di alcun richiedente asilo. Solo cinque paesi su 27 membri dell’UE infatti hanno accolto i richiedenti quali Germania, Francia, Spagna, Grecia e infine l’Italia che tuttavia registra una media dell’accoglienza dei richiedenti asilo, rispetto alla propria popolazione, due terzi più bassa dell’intera media europea: all’interno del nostro territorio con riferimento al 2020 si sono registrati circa 355 richiedenti asilo ogni milione di abitanti.

Tali dati uniti alle riflessioni di cui sopra sulle attività poste in essere dall’UE stessa e dai paesi membri nel tentativo di eludere la propria responsabilità rispetto alla normativa europea in materia d’asilo, delegando a paesi terzi l’onere dei respingimenti, delle riammissioni informali e delle detenzioni arbitrarie, fanno intuire il fallimento del Sistema comune di Asilo (Ceas) di cui l’UE ha deciso di dotarsi in passato a partire dal Consiglio europeo di Tampere nel 1999, ma ancora prima con la firma nel 1990 sia della Convenzione Shengen sulla libera circolazione nel territorio europeo nonché della Convenzione di Dublino riguardante la definizione dei criteri per l’individuazione dello stato competente a trattare di volta in volta le domande di protezione internazionale.

Con il Consiglio di Tampere del 1999 l’inserimento della materia d’asilo dal Terzo al Primo pilastro sui quali si fonda l’UE contribuì a implementare la materia con strumenti propri dell’Unione quali direttive e regolamenti, per cui vale la pena ricordare la direttiva 2001/55/CE sulla protezione temporanea ideata per accogliere profughi provenienti dai conflitti del Ruanda e dell’ex Jugoslavia, il Regolamento Dublino II n. 343 del 2003, la direttiva accoglienza dei richiedenti asilo del 2003, la direttiva qualifiche del 2004, con la quale è stata inserita un’ulteriore forma europea di protezione, ossia quella sussidiaria, da applicare in via residuale nei casi in cui non ricorrano i requisiti relativi allo status di rifugiato, la direttiva Procedure del 2005 sul riconoscimento e la revoca dello status di rifugiato, nonché la contestata direttiva Rimpatri 2008/115/CE.

Dublino III

Nel periodo dal 2010 al 2014 invece con la decisione 281/2012/UE è stato istituito il Programma di reinsediamento europeo; inoltre nello stesso periodo è stata attuata la riforma delle direttive qualifiche, procedura e accoglienza ed è stato approvato il regolamento n. 604/2013 detto Dublino III, tuttora vigente.

L’incapacità del Sistema comune di Asilo a regolamentare i flussi migratori si palesò in modo lampante nel 2015 quando alcuni stati vennero messi a dura prova per un incremento sostanziale del numero dei migranti che fecero ingresso nell’Unione. Tuttavia, come vedremo nell’ambito della sezione dedicata al Mediterraneo centrale, analizzando anche il memorandum Italia-Libia, si può agevolmente affermare che il fenomeno dell’esternalizzazione non sia recente ma già compiuto prima della “crisi migratoria” del 2015. Quali sono dunque le politiche che a partire dal 2015 l’UE e i singoli stati membri hanno deciso di mettere in atto per contrastare i cosiddetti flussi dei “migranti irregolari” che tuttora dispiegano i loro effetti e sono ampiamente contestati dalle Associazione giuridiche e del Terzo Settore che si occupano di migrazioni? Sicuramente, il vertice della Valletta del 2015, l’accordo UE-Turchia nel 2016 e lo stesso memorandum del 2017 Italia-Libia, al quale si è unito il Piano d’Azione europeo sempre nel 2017 per sostenere l’Italia nel fronteggiare la questione migratoria, sono stati i primi importanti passi verso l’implementazione delle prassi di esternalizzazione dei confini, a discapito di quei principi di accoglienza e del rispetto dei diritti dei migranti tanto agognati nel trentennio precedente. Oggi tali politiche si realizzano per lo più con fondi europei (l’European Trust Fund) e nazionali (il cosiddetto Fondo Africa) nei quali sono coinvolte anche organizzazioni internazionali quali Unhcr e Oim strumentalizzate per fornire una parvenza di rispetto dei diritti umani in contesti in cui questi sono totalmente ignorati come nel caso dei centri detentivi libici le cui condizioni disumane già sono state evidenziate in precedenza.

Il male minore

In quest’ottica anche le pratiche di reinsediamento portate avanti prevalentemente dall’Unhcr spesso sono considerate “il male minore” poiché, essendo attuate in paesi non firmatari della Convenzione di Ginevra, come avviene in Niger, finiscono per essere sottoposte a una forte discrezionalità che differisce molto dalla puntualità dei diritti di cui beneficiano i richiedenti che si trovano nel territorio dell’UE. Inoltre, il nuovo Patto sulla migrazione e l’asilo del 23 settembre del 2020 – ossia il documento programmatico della Commissione Europea che tenta di istituzionalizzare tali prassi illegittime, di cui ci occuperemo in seguito – e la reticenza al superamento del criterio del primo paese di arrivo, con riferimento al Regolamento Dublino che resta pressoché immutato, non lasciano presagire un cambiamento nel breve periodo di tali politiche. Non resta dunque che analizzare i mutamenti geografici delle attuali correnti umane – nelle diverse rotte migratorie e nei differenti contesti geopolitici in cui essi si determinano – causati proprio da tali politiche.

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