Raqqa Archivi - OGzero https://ogzero.org/tag/raqqa/ geopolitica etc Fri, 29 Apr 2022 14:52:05 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.4.6 L’assalto al carcere di Sina “forse” orchestrato da Ankara e Damasco https://ogzero.org/assalto-al-carcere-forse-orchestrato-da-ankara-e-damasco/ Thu, 03 Feb 2022 17:10:52 +0000 https://ogzero.org/?p=6122 Quattro giorni di ininterrotti scontri tra i combattenti dello Stato Islamico (Isis) e le forze curdo-siriane (Fds), che presidiavano il carcere assalito da miliziani ben equipaggiati. Il bilancio finale è stato di più di 330 morti, molti jihadisti fuggiti (un migliaio i catturati dalla pronta reazione curda); un preoccupante segnale di quanto la rete jihadista […]

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Quattro giorni di ininterrotti scontri tra i combattenti dello Stato Islamico (Isis) e le forze curdo-siriane (Fds), che presidiavano il carcere assalito da miliziani ben equipaggiati. Il bilancio finale è stato di più di 330 morti, molti jihadisti fuggiti (un migliaio i catturati dalla pronta reazione curda); un preoccupante segnale di quanto la rete jihadista si sia ricostruita, ancora più allarmante se si riconduce a una precisa orchestrazione occulta da cercare ad Ankara – e non solo – questo improvviso assalto dei tagliagole del Daesh al carcere curdo in cui erano reclusi i foreign fighters che gli occidentali non rivogliono indietro. Un ritorno dell’interesse occidentale per la questione dei jihadisti stranieri detenuti deve aver sollecitato il presidente turco a intervenire; e il risultato è stato l’annientamento di Abu Ibrahim al Hashimi Al Qurayshi, leader dell’Isis, dopo l’insuccesso del piano ordito dai satrapi turco-siriani.

A questo proposito abbiamo ricevuto alcune rilevanti osservazioni di Gianni Sartori, confermate dai bombardamenti avvenuti una settimana dopo per mano dell’aviazione di Erdoğan, come racconta l’articolo di Chiara Cruciati per “il manifesto” del 3 febbraio 2022, che proponiamo qui sotto. Riprendiamo dunque il pezzo di Sartori comparso sulla rivista “Etnie”, corredandolo tra le altre con un’immagine di Matthias Canapini, con il quale inauguriamo una collaborazione che immaginiamo proficua.


Lo davamo per scontato. Intravedere dietro l’attacco di Daesh al carcere di Sina (nel quartiere di Xiwêran/Gweiran della città di Hesîçe/Hassaké) la complicità di Ankara era tutto meno che un esercizio di fantasia. Ma a quanto sembra la manina inopportuna non era l’unica. In base ai primi accertamenti, le fonti curde hanno denunciato un ruolo, oltre che dell’intelligence turca, anche di quella siriana.

Bombardamenti turchi sui curdi siriani dopo l'assalto jihadista

3 febbraio 2022. Bombardamenti turchi sul Confederalismo democratico dei curdi siriani dopo l’assalto jihadista del 20 gennaio: evidente l’impronta di Ankara.

Premesse dell’assalto e mandanti

Iniziato il 20 gennaio, l’assalto operato dallo Stato islamico dell’Iraq e del Levante (Daesh) veniva se non stroncato sul nascere, perlomeno ridotto ai minimi termini. Purtroppo aveva avuto il tempo di provocare “danni collaterali” non irrilevanti. Sono almeno una cinquantina (ma il bilancio potrebbe accrescersi) i caduti tra membri di Fds, Asayish e civili curdi accorsi volontariamente per contrastare l’operazione jihadista. Dopo mesi di sostanziale menefreghismo per la sorte delle popolazioni (curde, ma non solo) del Nord e dell’Est della Siria sottoposte all’occupazione o comunque agli attacchi dell’esercito e dell’aviazione turca, l’Occidente è parso ridestarsi e prendere coscienza che la minaccia dell’Isis/Daesh non era stata definitivamente cancellata.
Per cui, non detto ma pensato, anche la presenza curda recuperava spessore e spazio sui media. Perlomeno come argine al fanatismo degli estremisti islamici.
Se pur lentamente, emergono le prime connessioni – interne ed estere – che hanno reso operativo il progetto per liberare i circa 5000 detenuti (membri o sostenitori di Daesh) rinchiusi a Sina. E tutte invariabilmente conducono ad Ankara o a Damasco. O magari a entrambe. Si tratta di elementi, indizi riguardanti le riunioni preliminari, le varie fasi di pianificazione, gli obiettivi individuati dalla banda degli assalitori. Non si sarebbe trattato quindi di un’azione pianificata esclusivamente dall’Isis, ma di una complessa operazione con il sostegno – come dire: bilaterale – proveniente dall’esterno del gruppo jihadista (per quanto questo sia presumibilmente infiltrato come un colabrodo da servizi vari).
A quanto sembra, condizionale sempre d’obbligo, l’operazione potrebbe essere stata decisa e pianificata in Turchia. I membri di Daesh catturati dalle Fds avrebbero confessato che era stata preceduta da una lunga preparazione (almeno 7-8 mesi) e che le riunioni di pianificazione si sarebbero tenute a Serêkaniyê (Ras al-Ain) ossia in un’area attualmente sotto occupazione turca. Vi avrebbero partecipato membri di varie “cellule dormienti” sia locali che provenienti dalla Turchia. E tutte indistintamente sarebbero state rifornite di adeguati armamenti.
Dato che tra i prigionieri si trovavano diversi esponenti di alto livello dell’organizzazione terrorista, è evidente che l’operazione rivestiva una certa importanza.
Per prima cosa, con qualche mese di anticipo, vari esponenti dell’organizzazione terrorista, sia individualmente che in piccoli gruppi, erano venuti ad abitare nel quartiere di Gweiran/Xiwêran, dove sorge la prigione (una ex scuola provvisoriamente adibita a carcere) e in quello di Heyî Zihur.
Nel comunicato delle Fds del 25 gennaio si legge che «almeno 200 esponenti dello stato islamico si erano installati a Serêkaniyê, Girê Spî e Ramadî, in particolare nel quartiere di Gweiran e nei dintorni del carcere».
Contemporaneamente anche i detenuti si organizzavano per la rivolta.
Va ribadito che in maggioranza si tratta di persone addestrate alla guerra e di origine straniera (muhajir ossia “migranti”, termine utilizzato per indicare i miliziani stranieri che combattono per Daesh). Persone che – in genere – i rispettivi paesi di provenienza si rifiutano di riportare in patria.

Dinamica dell’assalto e indizi sui mandanti

Orchestrazione Isis
Il primo veicolo imbottito di esplosivo era stato posto in prossimità dello svincolo di una condotta petrolifera (moltiplicando quindi la potenza dell’attentato) mentre venivano bloccate le strade d’accesso al carcere. Altri veicoli, ugualmente riempiti con materiale esplodente, colpivano la porta della prigione e l’edificio delle Forze di autodifesa (Erka Xweparastinê). Entravano allora in azione anche le “cellule dormienti” precedentemente installate nel quartiere. Catturando alcuni civili (da usare come ostaggi o scudi umani) e abbattendo un muro della prigione con una ruspa.
Assalto al carcere di Sina

Famiglia yazida a Dohuk (© Matthias Canapini)

Una volta entrati, distribuivano le armi ai detenuti islamisti e prendevano altri ostaggi tra il personale del carcere.

Risposta Fds

La priorità per le Fds e per le forze della sicurezza interna (Asayish) è stata quella di proteggere i civili. Nel contempo circondavano (bloccandone a loro volta le vie d’accesso) e mettevano in sicurezza (procedendo all’evacuazione degli abitanti) i quartieri di Gweiran e di Heyî Zihur. Al momento sarebbero circa 200 (per almeno tre quarti facenti parte delle “cellule dormienti” esterne al carcere) gli esponenti di Daesh uccisi in cinque giorni di combattimenti. Alcune centinaia degli evasi poi sono già stati ripresi.

Quello che sta emergendo, sia dalle prove raccolte che dalle testimonianze e dagli interrogatori, è un probabile ruolo di Ankara e Damasco nell’orchestrare il grave episodio.
Equipaggiamento turco, attività siriana

Tra gli “indizi” (ma messi tutti in fila acquistano le sembianze di prove) a sostegno della tesi di un diretto coinvolgimento di Turchia e Siria: le armi – della Nato – con numeri di serie turchi trovate in mano ai terroristi dell’Isis; la registrazione di telefonate dei membri di Daesh in prigione con la Turchia; le confessioni di quelli catturati mentre cercavano di rientrare a Serêkaniyê (sotto l’ombrello turco); le carte d’identità siriane di recente emissione in mano ai miliziani jihadisti; l’incremento di attività del regime siriano nella regione…

Assalto al carcere di Sina

Jihadisti evasi dalla prigione secondo l’agenzia russa “Sputnik”.

Altri elementi, altre prove, assicurano le Fds saranno presto messi a disposizione dell’opinione pubblica. Nel giro di qualche giorno.

Pianificazione a lunga scadenza:

contrattempi…
Stando ai piani preliminari, l’attacco avrebbe dovuto svolgersi ancora in ottobre o novembre, in coincidenza con un ennesimo attacco turco nel nord e nell’est della Siria e con il previsto rafforzamento dei suoi presidi e avamposti militari nelle zone già occupate. Proprio in ottobre Erdoğan si era consultato sia con Biden che con Putin ed è plausibile pensare che non ne abbia ottenuto il tacito assenso per l’ulteriore invasione.
Un contrattempo (per Ankara e Daesh beninteso) a cui se ne aggiunse presto un altro. Quando le Fds avevano individuato e arrestato alcune “cellule dormienti” a Hesekê e Raqqa ricevendo da uno dei caporioni arrestati la confessione che il loro obiettivo era il carcere di Hesekê. Un progetto quindi apparentemente disinnescato dall’operazione delle Fds, ma in realtà solo rinviato.
… e coincidenze d’intelligence
Altra coincidenza. Con un tempismo perfetto, al momento dell’attacco jihadista al carcere, l’esercito e l’aviazione turchi attaccavano simultaneamente Zirgan, Tel Tamer (da dove avrebbero potuto intervenire agevolmente in sostegno a Daesh) e Ain Issa causando vittime tra i civili.
Questo per quanto riguarda Ankara. E Damasco?
Rimane sempre a guardare mentre il territorio della Siria viene occupato da forze straniere? In realtà prima dell’attacco jihadista si era registrata un’intensa attività militare dell’esercito siriano proprio a Hesekê. Ma soprattutto era andata intensificandosi una violenta campagna diffamatoria nel confronti dell’amministrazione autonoma (Aanes) delle Fds sui media siriani filogovernativi. Inevitabile collegare tutto ciò ai recenti incontri tra il Mit (intelligence turca) e il Mukhabarat (intelligence siriana).
Un riavvicinamento tra i rispettivi servizi (ostili e su fronti opposti per molte questioni, ma sostanzialmente concordi nei confronti del “pericolo curdo”) che li aveva visti confrontarsi alla fine di dicembre (stando almeno a quanto riportava la stampa turca) in Giordania, ad Aqaba.
Sempre basandoci su quanto scrivevano i giornali turchi, nel corso della riunione si sarebbe discusso anche di «operazioni congiunte nel Nordest della Siria» e in particolare di «un’operazione militare turca per la profondità di 35 chilometri in revisione agli accordi di Adana; la sollevazione delle tribù (in chiave anticurda, ça va sans dire, come ci aggiornano regolarmente alcuni siti rosso-bruni italici N.d.A) a Deir ez-Zor, Hesekê  e Raqqa; la liberazione dei detenuti nelle prigioni e la ricostruzione di Aleppo».
Sempre sulla stampa turca – e quindi la cosa va presa con beneficio d’inventario – si suggeriva che Mosca e Damasco apparivano interessati, favorevolmente, alle richieste turche.

Un complotto annunciato contro l’amministrazione autonoma

Minacce velate

Qualche giorno prima, il 22 dicembre 2021, c’era stata la dichiarazione congiunta dell’ultima (per ora, siamo già alla diciassettesima) riunione di Astana tra Russia, Turchia e Iran, dove si stabiliva che le parti interessate erano concordi nell’«opporsi alle attività separatiste che minacciano la sicurezza nazionale dei paesi vicini all’est dell’Eufrate». Inoltre venivano definite “illegali” (anzi, un vero e proprio “sequestro”) i redditi provenienti dal petrolio siriano. Con un evidente riferimento al fatto che i curdi, dovendo comunque sopravvivere e tenere in piedi l’amministrazione autonoma, le milizie di autodifesa e soprattutto garantire prezzi calmierati (sia del pane che del combustibile) alla popolazione, si rivendono il petrolio. Del resto perché non dovrebbero farne uso visto che sgorga su quei territori dove convivono con arabi, turcomanni, armeni e altre popolazioni? Territori, ricordo, liberati dalla presenza di Daesh soprattutto grazie al sacrificio di migliaia di curdi delle Ypg.
Per chi vuole intendere, se pur dietro un linguaggio formalmente corretto, il messaggio era chiaro.

Il complotto dei Servizi

Ora, secondo i curdi, in questa dichiarazione si intravedono i presupposti per un autentico complotto contro l’amministrazione autonoma (Aanes) e il Rojava. In caso di vittoria dell’operazione al carcere di Hesekê è probabile che la Turchia sarebbe intervenuta da Tell Tamer (da nord) mentre Damasco avrebbe attaccato da Tabqa, Raqqa e Deir ez- Zor (da sud). Così come si era probabilmente stabilito nell’incontro tra il Mit e il Mukhabarat.
Magari con la scusa di porre fine al massacro (facilmente prevedibile se Daesh non fosse stata fermata in tempo) da loro stessi promosso, previsto e forse pianificato.
Se la pronta, coraggiosa risposta delle Fds ha impedito comunque un disastro ben peggiore, rimane il dubbio che a conti fatti quanto è accaduto possa ugualmente portare acqua al mulino dei due regimi. Potrebbe infatti fornire il pretesto (non solo a Damasco e Ankara, ma anche a Mosca e Teheran) per accusare l’amministrazione autonoma di incapacità e inadeguatezza. Di essere esposta ai rigurgiti di Daesh. Prima alimentati e innescati, poi strumentalizzati come alibi per “riportare l’ordine” in Rojava.
A consolazione, va ricordato che i curdi hanno dimostrato ancora una volta di essere un osso duro. Oltre che per i cani rabbiosi di Daesh, anche per i mastini di Ankara e Damasco.
Assalto al carcere di Sina

A completamento della ingarbugliata serie di eventi intrecciati nella zona denominata Mena giunge notizia (la riporta “Mediapart”) dell’eliminazione del capo dello Stato Islamico in seguito a un raid dell’esercito americano: un’esplosione ha raso al suolo la casa di tre piani che ospitava il turkmeno Abu Ibrahim al-Hashimi al-Qurayshi (alias Abdullah Kardaş, ufficiale di Saddam Hussein, ovvero Amir Mohammed Abdul Rahman al Mawli al Salbi) e parte della sua famiglia che si è fatto saltare in aria al momento dell’attacco ordinato da Biden. Abitava ad Atamah, un villaggio nei pressi di un campo profughi al confine tra Siria e Turchia, in quella provincia di Idlib, che fa da zona cuscinetto pretesa da Erdoğan al momento della sconfitta dell’Isis di al-Baghdadi e da lui controllata… un’altra coincidenza?

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n. 8 – Siria (III): il clan al-Assad e la Guerra civile https://ogzero.org/il-clan-al-assad-e-la-guerra-civile-siriana/ Wed, 26 May 2021 11:33:21 +0000 https://ogzero.org/?p=3559 Nella serie di articoli dedicati alle rotte mediorientali della raccolta di analisi stilate da Fabiana Triburgo sulla questione migratoria la sezione siriana si compone doverosamente di alcuni interventi ciascuno dedicato a uno dei molteplici aspetti che presenta questa diaspora, biblica per proporzioni, e vicissitudini toccate ai più di 12 milioni di individui siriani coinvolti nella […]

L'articolo n. 8 – Siria (III): il clan al-Assad e la Guerra civile proviene da OGzero.

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Nella serie di articoli dedicati alle rotte mediorientali della raccolta di analisi stilate da Fabiana Triburgo sulla questione migratoria la sezione siriana si compone doverosamente di alcuni interventi ciascuno dedicato a uno dei molteplici aspetti che presenta questa diaspora, biblica per proporzioni, e vicissitudini toccate ai più di 12 milioni di individui siriani coinvolti nella catastrofe umanitaria che ha fatto seguito allo scatenarsi del conflitto siriano dell’ultimo decennio.

L’autrice ha dapprima analizzato le attuali condizioni di siriani ormai integrati in realtà esterne al paese ai quali ora viene chiesto di rimpatriare, rischiando la vita e rinunciando alla nuova esistenza costruita faticosamente in esilio. L’analisi è proseguita valutando le condizioni economiche e umanitarie in cui si tengono le elezioni il 26 maggio, senza dimenticare la specificità della Primavera araba nelle diverse regioni siriane; prosegue qui collegando le modalità di protesta alla particolare peculiarità del regime alauita del clan al-Assad; le fasi della politica di Bashir – fino alla Primavera araba e il conflitto esploso nel 2011, che ha fatto del territorio siriano uno scenario usato dalle potenze globali e locali per imporre la propria supremazia.


n. 8, parte III

I principali conflitti che attualmente interessano le migrazioni forzate e le prassi di esternalizzazione poste in essere dall’Unione Europea e dai singoli stati membri portano a una predeterminazione delle rotte dei migranti.

Quello che oggi è inevitabile chiedersi è se il nuovo Patto europeo sulla migrazione e l’asilo, proposto dalla Commissione UE, possa essere realmente considerato una soluzione della gestione del fenomeno migratorio o se invece vi siano soluzioni legali alternative maggiormente lungimiranti e coraggiose.  

Il conflitto siriano: il clan al-Assad e la Guerra civile

I regimi degli al-Assad

Nonostante in Siria si riscontri l’esistenza di istituzioni statali come il parlamento, il consiglio dei ministri, il potere decisionale è sempre nelle mani di un solo clan ossia quello di Assad e dei suoi familiari e dai capi dei servizi di intelligence.

il clan al Assad

Come noto Bashar al-Assad è succeduto al padre Hafiz, a capo della nazione per trent’anni, in seguito alla sua morte nel 2000. Il figlio Basil che avrebbe dovuto succedergli, al momento della sua morte, è deceduto in un incidente stradale nel 1994; in sua vece quindi nel 2000 subentrò al potere il secondogenito Bashar. Tra le immediate nomine “familiari” del neoeletto presidente, all’interno del regime, citiamo quella del fratello minore Mahir al-Assad e della sorella Bushra al-Assad al comando della Quarta divisione corazzata dell’Esercito Siriano e quella del cognato Assef Shawkat designato vicecapo di stato maggiore e all’epoca già a capo del Mis – Il Dipartimento di intelligence militare siriana – in particolare nella sezione Perquisizioni (sezione 235).

La legge d’emergenza controlla la libera espressione

Il presidente della Siria, già durante il regime instaurato da Hafiz a partire dal 1970, riunì nella sua persona la carica di capo dello stato, quella di comandante delle forze armate, quella di segretario generale del Partito ba’at al potere e quella di presidente del Fronte nazionale progressista, sotto il quale vi furono tutte le forze politiche di opposizione autorizzate dal regime. In quest’ottica va citata la “legge d’emergenza” in vigore dal 1963 che garantisce il ferreo controllo di ogni manifestazione di dissenso di libera espressione politica, il divieto di assembramenti pubblici, il fermo di sospetti dissidenti e infine indica per quali accuse il fermo può trasformarsi in arresto. La legge inoltre definisce il ruolo dei tribunali speciali per i dissidenti, impone rigidi controlli sui mezzi d’informazione ma soprattutto concede ampi poteri alle quattro agenzie di sicurezza operative in tutto il paese. Rispetto al regime da lui guidato va detto però che Bashar è un primus inter pares ossia a capo di un’oligarchia composta dai membri della famiglia al-Assad, da alleati e da alcuni ufficiali legati al clan familiare, e non un capo indiscusso come lo era il padre Hafiz. La Siria, infatti ha acquisito l’indipendenza dai francesi nel 1946, tuttavia con l’indipendenza non si è raggiunta una stabilità politica ma si sono succeduti nel tempo una serie di colpi di stato e di guerre come quella dei 6 giorni nel 1967 con Israele, paese ancora oggi considerato nemico dai siriani.

A ogni modo già tra la fine degli anni Quaranta e l’inizio degli anni Cinquanta si registrò l’ascesa della comunità alauita – minoranza sciita originaria delle montagne a est di Latakia e delle sue pianure costiere a sud – la quale si unì al Partito ba’at (Partito della resurrezione, movimento panarabo nazionalista, socialista e laico) nel quale Hafiz al-Assad entrò a far parte a soli 16 anni perseguendo al contempo la carriera militare. Nel 1963 il Partito ba’at, per effetto di un colpo di stato, conquistò il potere e da lì cominciò l’ascesa di Hafiz che nel 1964 venne nominato generale, quindi nel 1965 capo dell’Aereonautica.

Un nuovo colpo di stato

Tuttavia, la succitata guerra dei 6 giorni con Israele nella quale la Siria venne sconfitta, fece vacillare il potere di al-Assad ma, nel 1970, Hafiz portò avanti un ennesimo colpo di stato – non sanguinario come i precedenti – definito come “Rivoluzione Correttiva” mediante il quale ottenne in modo indiscusso il governo del paese che ebbe sempre un maggiore controllo del territorio siriano.

Nel 1976, inoltre, è importante ricordare che il regime di Damasco decise di fare del Libano un proprio protettorato, condizione che resterà salda fino al 2005 quando venne assassinato il premier libanese Rafiq al-Hariri, intervenendo militarmente e politicamente nella guerra civile libanese che ebbe luogo dal 1975 fino al 1990.

Ciò che risulta interessante è che la composizione alauita del regime non seguì fin da subito una logica confessionale per la sua affermazione, ma mirò piuttosto all’appoggio della borghesia urbana e delle periferie:

A sostenere il regime infatti fu non solo la destra alauita della quale faceva parte Hafiz ma anche i drusi e i cristiani che temevano la presenza della maggioranza sunnita nel paese.

Allo stesso tempo i sunniti si allearono in quegli anni con il clero islamico ortodosso, ossia la frangia estremista rappresentata quasi totalmente dalla Fratellanza Musulmana. Iniziarono cruenti attentati da parte dei sunniti e violentissime repressioni da parte del regime fino a quando nel 1982 Hafiz decise di bombardare la città di Hamah – definita da Hafiz “la testa del serpente” in quanto patria dei maggiori conservatori tra i sunniti in Siria – per reprimere la rivolta della comunità musulmana sunnita dando inizio a uno dei più cruenti conflitti civili. In quella circostanza si parlò di almeno 10.000 siriani uccisi nel conflitto. Hafiz volle affermare con tale efferata e sanguinaria repressione, fatta di esecuzioni di massa, di fosse comuni, di feriti, di donne e di bambini sepolti vivi tra le macerie, che la religione veniva dopo lo stato ba’atista e che l’uso politico di questa non sarebbe mai stato tollerato dal regime.

il clan al Assad

La distruzione della città di Hamah perpetrata da Assad nel 1982.

Le atrocità commesse nei confronti dei sunniti non furono finalizzate solo a prevalere sulla Fratellanza Musulmana ma anche come ammonizione, per i sopravvissuti e per i membri di tutte le altre organizzazioni che si opponevano al regime, di quello che sarebbe potuto accadere nell’ipotesi di ulteriori atti di disobbedienza in futuro.

La repressione sanguinaria e le promesse tradite

Dopo circa trent’anni dal massacro di Hamah nel 2011 il figlio di Hafiz, Bashar al-Assad si trovò quindi ad affrontare una nuova escalation di proteste, contro le quali decise, come il padre, di scatenare una sanguinaria repressione, nonostante queste avessero poco a che fare con l’elemento religioso – caratteristico delle rivolte della popolazione sunnita del 1982 – quanto piuttosto con un senso di tradimento avvertito dalla popolazione siriana legato al mancato riconoscimento delle libertà e dello sviluppo economico. Questi ultimi erano stati promessi infatti dal governo ba’atista di Bashar che tuttavia avrebbe accumulato nel tempo tutte le ricchezze per sé stesso. Da quanto si sta verificando fino a oggi, dopo dieci anni dall’inizio del conflitto civile, Bashar al-Assad non sembra aver riproposto la forza armata “risolutiva” del conflitto che aveva dimostrato il padre nel 1982.

il clan al Assad

Manifestazione a Homs.

Non si può tacere tuttavia che, se le proteste del 2011 sono state sicuramente meno accanite di quelle del 1982, allo stesso tempo – per il fatto di non essere strettamente legate alla questione confessionale sunnita – hanno saputo raccogliere importanti consensi in ambito nazionale e internazionale molto più ampi rispetto al passato.

Tuttavia, per capire come si sia arrivati a tali proteste e per apprendere meglio la ragioni dell’intervento di più forze internazionali nel conflitto siriano occorre fare una breve sintesi degli eventi concernenti gli anni del governo di Bashar al-Assad prima del 2011.

La politica di Bashar al Assad dal 2000 al 2011

Nel 2000 Bashar al-Assad riprese il dialogo con gli “ulama” (il clero islamico), tra cui il leader del movimento islamico Zayd – in quegli anni considerato forza religiosa prevalente a Damasco. Il regime invece non si riavvicinò ai Fratelli Musulmani ormai di base a Londra.

Quindi nel 2005, poiché come detto il regime fu sospettato dell’assassinio dell’ex premier libanese Rafiq al-Hariri, Damasco dovette ritirare, su pressione popolare libanese e internazionale dell’Onu, degli Usa e della Francia, le sue truppe dal Libano. In quell’anno i Fratelli Musulmani crearono, in opposizione al regime, il Fronte di salvezza nazionale costretto poi a dissolversi nel 2009, a causa del rinnovato vigore politico e militare di Damasco, grazie all’appoggio dato a Hamas durante in conflitto israelo-palestinese nella Striscia di Gaza.

Allo stesso modo nel 2006 una nuova generazione di islamisti in esilio creò a Londra il Movimento di giustizia e sviluppo (ispirato all’Apk turco di Erdoǧan), movimento musulmano più democratico che islamista. Tuttavia, la questione dell’opposizione islamista in esilio manifestò subito i suoi problemi strutturali, quali la sua estrema frammentarietà e la sua mancata rappresentatività all’interno della Siria, dato che i loro interessi erano divergenti rispetto a quegli degli ulama – interessati più all’indebolimento dell’apparato statale di sicurezza che al multipartitismo nella repubblica – e dato che questi non potevano svolgere alcun ruolo di rappresentanza politica di forte opposizione al regime per il timore costante della repressione.

Il legame col Libano

Dal 2008 il regime ristabilì un’influenza politica sul Libano, data la sua importanza strategica dal punto di vista geopolitico, rafforzando l’armamento di Hezbollah e, godendo di una quasi completa riabilitazione da parte dell’Occidente, rinunciò completamente alla causa di riappacificazione con gli ulama. Dal 2008 Damasco infatti iniziò una politica di affermazione di superiorità del proprio potere politico su quello religioso, cercando di escludere l’influenza del movimento islamico in diversi settori della società come nelle scuole e nelle associazioni benefiche presenti nel paese.

Quando nel marzo 2011 esplosero le proteste contro il regime, Bashar al-Assad strategicamente accolse come in passato le istanze del clero musulmano per paura che anche esso si unisse alle rivendicazioni democratiche del resto della popolazione: venne chiuso il casinò di Damasco, vennero reinserite “le insegnanti con il velo”, vennero creati un istituto islamico pubblico e un’emittente nazionale musulmana.

Tale strategia ebbe successo poiché assicurò il silenzio del clero musulmano rispetto ai movimenti di protesta che in quell’anno dominarono la scena politica del paese.

Inoltre, per le politiche messe in atto dal regime di Damasco nel Libano, Hezbollah fornì pieno appoggio a Bashar al-Assad già durante le rivolte del 2011, mentre Ankara – pur essendo passata da un autoritarismo militare laico a una democrazia conservatrice dei valori musulmani, unita a una politica iperliberista sul piano economico – nel 2011 prese inizialmente le distanze sia dai movimenti di protesta che dalle dure repressioni esercitate da Damasco.

Le tappe del conflitto dal 2011 a oggi

Nei dieci anni precedenti al conflitto la Siria era quindi già un avamposto nel quale si dispiegarono numerose questioni politiche, sociali ed economiche non solo in ragione del desiderio di acquisizione del potere centrale nella repubblica, ma anche per le trattative intessute in questi anni tra il potere centrale, le comunità locali e le forze internazionali; inoltre nel conflitto hanno avuto e continuano ad avere peso diversi fattori etnici, confessionali, politici, individuali e culturali.

Occorre sottolineare che ciascuna potenza internazionale intervenuta nel conflitto ha visto nella guerra siriana la possibilità di consolidarsi nella regione del Medioriente rispetto ad altre potenze rivali nell’area.

Il 18 marzo 2011 le milizie governative di Assad spararono contro i manifestanti a Dara’a uccidendo quattro persone: le manifestazioni e, di conseguenza anche la loro repressione, ebbero un’eco sempre maggiore, mentre ad aprile dello stesso anno nella città di Homs, una delle città più grandi del paese, migliaia di cittadini siriani organizzarono un importante “sit in” che rievocò le manifestazioni in piazza Tahrir contro il regime di Mubarak. Gli scontri continuarono per tutto il 2011 e portarono come detto alla formazione dell’Esercito siriano libero – oggi forza militare marginale sostituita da jihadistimotivo per cui il regime mise in campo forze militari di artiglieria e di aviazione. Il 18 luglio 2012 dalla rivolta si raggiunse l’apice della guerra civile: i manifestanti bombardarono il Palazzo di sicurezza nazionale, durante una riunione di crisi, provocando l’uccisione di quattro funzionari del regime tra cui il succitato cognato di Assad e l’allora ministro della Difesa. Le forze militari del governo di Assad assediarono il quartiere di Baba Amir sempre a Homs. In quella circostanza all’Esercito siriano libero si affiancarono i combattenti di al-Nusra, gruppo jihadista nato da al-Qaeda e composto da fondamentalisti sunniti che miravano alla destituzione del regime per poter instaurare uno Stato Islamico nel paese.

Arrivano le forze internazionali

Il 2013 invece segnò l’inizio della presenza di forze internazionali nel conflitto siriano: la condizione nasce dal fatto che gli Stati Uniti, nella persona dell’allora presidente Barack Obama, dichiararono che l’utilizzo di armi chimiche avrebbe condizionato il coinvolgimento degli Usa nel conflitto. Nel 2013 iniziò l’indagine delle Nazioni Unite relativamente alla morte di 26 persone civili e soldati nella città di Khan Shaykhun e, rispetto al quale, tanto il regime quanto le forze di opposizione rinnegarono ogni responsabilità. L’Onu, anche se non riuscirà mai a conoscere la verità sulla responsabilità dell’attacco, dichiarerà in seguito che si trattò di un attentato compiuto mediante l’utilizzo di gas nervino. Inoltre, sempre nel 2013, un attacco chimico nella periferia della capitale Damasco uccise centinaia di persone. Gli Stati Uniti a quel punto attribuirono la responsabilità della strage al regime decidendo in un primo momento di intervenire nel conflitto, ma successivamente ritirarono le loro dichiarazioni. Tuttavia il Consiglio di Sicurezza dell’Onu impose al regime la distruzione di tutte le proprie armi chimiche come conseguenza di un surreale accordo tra Stati Uniti e Russia, per cui Bashar al-Assad fu costretto a firmare il 14 ottobre 2013 la Convenzione sulle armi chimiche che ne vieta la produzione, lo stoccaggio e l’utilizzo.

Le ultime armi chimiche a disposizione del regime siriano verranno dichiarate rimosse l’anno successivo dall’Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche, nonostante l’opposizione sostenesse che l’esecutivo continuava a disporne di ulteriori.

L’osservazione internazionale sull’elemento chimico della guerra nel 2013 determinò così il decisivo intervento diplomatico della Russia nel conflitto siriano che conferì a Bashar al-Assad un possibile ruolo di “attore-interlocutore” per il processo di pace nel paese.

Nel maggio del 2013, inoltre, anche il gruppo militante libanese Hezbollah si inserisce nel conflitto siriano accanto ad Assad, in questo caso a livello militare, attaccando e riconquistando la città di Qusair al confine tra i due paesi. Anche il sostegno fornito dal gruppo sciita libanese, quindi, ha finito per internazionalizzare il conflitto siriano in quanto – in conseguenza della presenza di Hezbollah in Siria – decisero di intervenire da un lato l’Arabia Saudita, il Qatar e gli Emirati Arabi e la Turchia a favore delle forze di opposizione e dall’altro l’Iran e l’Iraq, i quali appoggiarono il regime di Assad. Intanto gli insorti appartenenti all’opposizione si frammentarono nel corso degli anni in gruppi militari laici e islamisti per cui la coalizione tra l’Esercito siriano libero e al-Nusra si ruppe definitivamente nel 2014.

La fuga della popolazione dallo Stato Islamico

Il 2014 rappresentò tuttavia uno degli anni più rilevanti del conflitto siriano anche per altre ragioni: nel giugno dello stesso anno si tennero nel paese le elezioni presidenziali, il cui verdetto vide riconfermato capo di stato, con l’88 per cento dei voti a favore, Bashar al-Assad  ma il 30 giugno 2014 il sedicente Stato Islamico dichiarò il Califfato nelle aree che ormai erano poste sotto il suo controllo, non solo in Iraq, ma anche in Siria, provocando la fuga di migliaia di cittadini siriani dal paese. Nel settembre del 2014 gli Usa cominciarono a sferrare attacchi aerei contro gli avamposti del sedicente Stato Islamico in Siria.

Nel 2015 il regime siriano raccolse una serie di sconfitte militari in conseguenza dei continui attacchi sia dei ribelli che dell’IS e inoltre il 28 marzo del 2015 la città nordoccidentale di Idlib cadde nelle mani dei militanti islamici guidati da al-Nusra. Proprio in quest’anno si ricorda il ritrovamento del corpo del bambino siriano Alan Kurdi di tre anni su una spiaggia turca: quest’immagine che forse sarà ancora presente negli occhi di molti lettori portò l’opinione pubblica internazionale a non voltare più lo sguardo rispetto alla condizione dei profughi fuggiti in conseguenza del conflitto siriano e speriamo che non occorrano ancora immagini come quella per scegliere l’opzione dei canali umanitari e non quella assurda della prassi delle esternalizzazioni delle frontiere.

Le potenze regionali intervengono

Nell’autunno del 2015, quindi, poiché il regime siriano rischiava ormai di collassare, la Russia decise di intervenire militarmente nella Siria occidentale lanciando i primi raid aerei e attrezzando di nuovo militarmente le basi militari di Tartus e Latakia e successivamente il Consiglio di Sicurezza approvò all’unanimità la Risoluzione Onu n. 2254 finalizzata alla costituzione di un processo di pace nel paese.

Nel 2016 si registrò la vittoria del Partito ba’at di Assad nelle consultazioni parlamentari ma il conflitto proseguì duramente, in particolare nella città di Aleppo, portato avanti però più che dalle forze militari del regime da parte di quelle internazionali, nello specifico da quelle russe.

Il 2016 tuttavia segnò per la prima volta l’intervento della Turchia, proprio a nord di Aleppo, mentre i quartieri a est della città rientrarono, dopo mesi di assedio, sotto il controllo delle milizie lealiste in particolare di quelle iraniane e russe. Allo stesso tempo la coalizione curdo-araba – ossia le Forze democratiche siriane anti-Isis, guidata dagli Stati Uniti nel Nordest del paese – riconquistarono la città di Raqqa, storica roccaforte dello Stato Islamico, con una campagna che si concluse nell’anno seguente.

Gli attacchi chimici

Nell’aprile del 2017 vi fu un attacco di gas nervino nuovamente nella città settentrionale di Kahna Sheikhoun, in quel periodo in mano ai ribelli, la responsabilità del quale venne negata da Mosca e Damasco. Tuttavia, gli Usa, in risposta a tale attacco chimico, spararono missili crociera direttamente contro il territorio dominato dal regime di Damasco, mentre i ribelli si ritirarono a Homs. Anche Israele in conseguenza del presunto attacco chimico per opera del regime è intervenuto nel 2017 con bombardamenti contro una base aerea militare siriana. Sempre nel 2017 venne ripreso il controllo anche di altre città in tale area del paese e Putin a dicembre dello stesso anno dichiarò la definitiva sconfitta dello Stato Islamico in Siria.

il clan al Assad

Le rovine della città di Homs (foto gsafarek).

Nel 2018 la novità fu quella di sostenere che al-Assad ormai avesse vinto la guerra.

Ma, nonostante le forze governative riconquistassero in quest’anno anche il Sudovest del paese e la regione agricola orientale di Ghouta a ridosso della città Damasco – regione dal 2012 sottratta al controllo del regime – le milizie turche consolidarono la loro posizione nel Nordovest della Siria in particolare nella città di Idlib. Quest’ultima prende il nome dalla stressa provincia, intorno alla quale, la Russia e la Turchia volevano creare una zona “cuscinetto” di circa venti chilometri, mediante la stipula dell’Accordo di Sochi siglato nell’autunno del 2018 dalle due potenze e aggiornato con la recente intesa del marzo del 2020 principalmente per evitare che i futuri sfollati siriani si dirigessero nuovamente verso la Turchia come in passato. L’area a Nordovest infatti nel 2018 era considerata l’ultima roccaforte delle forze di opposizione jihadiste. Rispetto a Israele, paese sempre maggiormente preoccupato della continua espansione iraniana nel conflitto siriano, la Russia è corsa ai ripari negoziando proprio con l’Iran l’allontanamento dalle frontiere di Israele per circa 80 chilometri dalle alture del Golan, garantendo il monitoraggio dell’area attraverso le proprie truppe militari.

Truppe israeliane al confine con la Siria (foto Alexeys).

Le diverse violazioni dell’Accordo di Sochi

Ciò non fu sufficiente a evitare più volte la violazione dell’Accordo di Sochi, soprattutto nel 2019, quando le truppe russe cercarono di invadere la provincia di Idlib al confine con la Turchia – stante la permanenza delle forze di opposizione in particolare di quelle jihadiste dell’Hts (Hay’et Tahrir al-Sham) – sostenute proprio dalla Turchia che a sua volta cercò di contrastare le milizie curde dell’Ypg/Ypj (ramo siriano del Pkk turco) che combattono per uno stato indipendente nel Nord del paese.

Le violazioni degli accordi di Sochi: i russi intervengono in Siria invadendo la provincia di Idlib.

Inoltre, la promessa Usa del 2018 del ritiro definitivo delle proprie truppe americane dall’area a Nordest del paese – che si ponevano a guida della coalizione arabo-curda delle Forze democratiche siriane – venne mantenuta verso la fine del 2019, motivo per cui le Forze democratiche siriane dopo l’abbandono Usa dal Nordest si spostarono principalmente sul versante Nordovest del paese per resistere all’avanzata turca.

L’offensiva anticurda della Turchia

Dopo il ritiro degli Usa, infatti, il 10 ottobre del 2019 la Turchia portò avanti un’offensiva contro i combattenti curdi. Il succitato accordo del marzo del 2020 tra Putin ed Erdoğan per un cessate il fuoco nel Nordovest della Siria è riuscito a scongiurare un confronto diretto delle forze armate filogovernative russe contro quelle turche e ha bloccato un’importante offensiva del regime verso la città di Idlib. Tali condizioni sono state accettate da Damasco perché certa non era la possibilità di riuscita contro le forze di opposizione a Idlib, senza l’aiuto di Ankara.

Come si evince dalla sintesi del conflitto siriano dopo 10 anni si può giungere alla conclusione che le scelte politiche, e di conseguenza quelle militari, che caratterizzano le dinamiche e le interazioni nella repubblica siriana vengono assunte prevalentemente dalle potenze straniere, mentre un ruolo del tutto marginale rivestono ormai le scelte e le azioni poste in essere dalle rappresentanze politiche interne al paese compreso lo stesso regime. È solo partendo da questo presupposto che potremo cercare di comprendere successivamente i recenti accadimenti che stanno interessando il paese, consapevoli che interazioni, interessi, negoziazioni oggi sono prevalentemente tra le potenze esterne: sono tali azioni che possono essere oggetto di una valutazione prognostica autentica rispetto alla concreta realizzabilità del tanto auspicato processo di pace nel paese ormai devastato dal conflitto civile. Analizzeremo dunque ogni attore estero e il ruolo che attualmente possiede nella determinazione della condizione della Siria, rivelando ciò che oggi è già chiaro:

la Siria e il “suo” conflitto stanno divenendo la cartina al tornasole di tutte le questioni di conflittualità esistenti tra i paesi dell’area mediorientale, i movimenti jihadisti in esso presenti, e tra le grandi potenze straniere, fuori dall’area, che avvertono “la responsabilità” di intervenire nel conflitto.

Analizzando le azioni di queste forze sembra che poco si stia compiendo nell’interesse della popolazione civile siriana: infatti le decisioni di ciascuna potenza estera appaiono maggiormente volte all’affermazione di sé legata o a un’idea di espansionismo geopolitico, o agli interessi economici, o alla volontà di riscatto personale contro un paese rivale nella medesima area. “Ai posteri l’ardua sentenza”, se questo si può definire un passaggio necessario per la definizione del conflitto o se possa essere a questo punto gestito in modo alternativo, valutando il bilancio delle vittime, la distruzione dei territori e l’immutabilità dell’impianto politico esistente dopo un decennio di guerra.

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Il confederalismo democratico e l’ossessione anticurda della Turchia https://ogzero.org/confederalismo-democratico/ Sun, 29 Mar 2020 15:18:02 +0000 http://ogzero.org/?p=44 Forze in campo e alleanze geopolitiche: combattenti o terroristi? Daesh ha impressionato per ampiezza dei mezzi bellici a disposizione, dai blindati ai lanciagranate: armi che ha soprattutto strappato all’esercito iracheno, allorché si è impadronito di vaste porzioni di territorio in Iraq; vi si trovavano anche raffinerie, e con i proventi della vendita del petrolio il […]

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Forze in campo e alleanze geopolitiche: combattenti o terroristi?

Daesh ha impressionato per ampiezza dei mezzi bellici a disposizione, dai blindati ai lanciagranate: armi che ha soprattutto strappato all’esercito iracheno, allorché si è impadronito di vaste porzioni di territorio in Iraq; vi si trovavano anche raffinerie, e con i proventi della vendita del petrolio il Califfato è stato in grado di foraggiare i suoi militanti, la cui entità numerica rimane incerta. Dato certo è invece il controllo esercitato da Daesh su alcune città conquistate – la siriana Raqqa e l’irachena Mosul – da quando ha avviato la sua azione militare, nel giugno 2014. 

A metà ottobre 2015, combattenti delle tribù arabe del Nord della Siria e assiro-cristiani confluiscono in un corpo combattente di nuova formazione, le Forze democratiche siriane (Sdf), in cui il ruolo prevalente fu esercitato da combattenti curdi dello Ypg. Essa riceveva, soprattutto per volontà di Francia e Stati Uniti, l’appoggio della coalizione internazionale che combatteva Daesh. Da allora a più riprese la Turchia avanzò la pretesa di colpire Sdf e Ypg, asserendo la loro contiguità con il “gruppo terroristico Pkk” e pertanto la loro rilevanza come minaccia terroristica. 

I combattenti curdi, sostenuti dalla coalizione internazionale e dimostratisi non pregiudizialmente ostili verso Russia e Iran, trassero vantaggio dall’offensiva del regime siriano per guadagnare terreno nell’area settentrionale a nord di Aleppo, a spese di fazioni ribelli spalleggiate da Arabia Saudita e Turchia. Ciò spinse la Turchia, a metà febbraio 2016, a bombardare postazioni curde oltreconfine, nonostante gli appelli di Washington e altre capitali occidentali affinché Ankara fermasse gli attacchi.

Obiettivo: il Confederalismo democratico in Rojava

Il 12 agosto 2016, Sdf liberò da Daesh la città di Manbij, a ovest dell’Eufrate. Il 24 agosto, artiglieri e aviatori delle forze armate turche, spalleggiati dall’Esl (Esercito siriano libero), avviarono in Siria l’Operazione Scudo dell’Eufrate, il cui scopo era duplice: respingere i jihadisti dalla zona di confine siro-turca (avvenne a Dabiq, poi a Jarabulus) e bloccare l’espansione dei curdi; il 28 agosto, per esempio, attacchi aerei colpiscono, mietendo 35 vittime, i villaggi Jeb el-Kussa e al-Amarneh, controllati da forze curde. Contemporaneamente il ministro degli Esteri francese Ayrault, intervistato da “Le Monde”, esortava in generale i russi a cessare i bombardamenti e a tornare a percorrere la “via politica”, al fine di risolvere il conflitto siriano. Auspicava una Siria pacificata, stabile e unitaria, che rispettasse i diritti delle proprie minoranze (menzionava espressamente cristiani e curdi). Definiva inoltre positivo un robusto inserimento della Turchia nella lotta contro Daesh e legittimava l’aspirazione turca alla sicurezza delle proprie frontiere; tuttavia metteva in guardia Ankara dall’innescare un violento ingranaggio, cedendo alla tentazione di affrontare in Siria la propria questione curda, vale a dire la lotta contro il Pkk. Ayrault rammentava che i curdi siriani combattevano efficacemente contro Daesh e che non occorreva aggiungere una dimensione anticurda ai nodi di conflittualità già esistenti in Siria.

A metà ottobre 2016 era palese la volontà degli alti gradi statunitensi di lanciare rapidamente un’offensiva su Raqqa, per impedire l’afflusso verso la città di ulteriori combattenti di Daesh reduci da Mosul. Ma la Turchia si oppose alla proposta di utilizzare in tale offensiva una forza a guida curda; taluni ufficiali occidentali sostenevano che avrebbe potuto accrescere la conflittualità interetnica in una città come Raqqa, abitata in prevalenza da genti d’origine araba, però gli Stati Uniti dubitavano che la Turchia fosse in grado di addestrare rapidamente combattenti arabi capaci di sostituire nell’offensiva i curdi, dimostratisi peraltro molto efficienti. Dal 17 ottobre era in corso l’offensiva su Mosul: la coalizione a guida statunitense garantiva alle truppe irachene sostegno con attacchi aerei, artiglieria e truppe d’élite; forze arabe sunnite erano incaricate di combattere nel centro cittadino, i curdi iracheni agivano per garantire sicurezza nell’area perimetrale attorno alla città, soprattutto a sudest. Simile fu l’approccio offensivo proposto dagli Stati Uniti per Raqqa, che richiedeva a tal fine circa 10 000 uomini. Gli ufficiali turchi preferirono attendere piuttosto che veder coinvolti nell’offensiva gli appartenenti allo Ypg. Dal canto loro, i curdi, nel negoziare la loro partecipazione all’offensiva, richiedevano sostegno politico in cambio del loro sforzo volto a creare una regione autonoma nel Nord della Siria. 

Come e chi ha liberato Raqqa

Sdf comunicò a inizio novembre 2016 l’avvio dell’Operazione Ira dell’Eufrate con la partecipazione di 30 000 combattenti e l’appoggio di 300 militari delle forze speciali statunitensi: l’obiettivo era sottrarre Raqqa al controllo di Daesh. A tal fine s’intendeva utilizzare la componente araba di Sdf, invece di quella curda, per evitare tensioni di natura etnica con la popolazione locale d’origine araba. Il capo di stato maggiore statunitense, Dunford, preferì puntare sull’Sdf invece che sull’esercito turco, visto che fino a quel momento la Turchia non aveva esitato ad attaccare Sdf per impedire il consolidamento del controllo curdo sulla zona di confine siro-turca, per quanto sapesse che godeva dell’appoggio statunitense.

Prima della guerra Raqqa annoverava circa 300 000 abitanti. Vi fu un’evacuazione negoziata della città spostando i jihadisti rimasti verso il deserto orientale siriano e la vittoria fu proclamata il 17 ottobre 2017. Nei giorni successivi Sdf provvide a ripulire il territorio dalle ultime sacche di resistenza di Daesh. Raqqa era però ridotta in larga parte in macerie ed erano seriamente danneggiate le reti idrica ed elettrica; a quanto sembra, oltre 1000 civili avevano perso la vita negli ultimi quattro mesi e 270 000 persone erano fuggite dalla città e dai villaggi circostanti, incrementando soprattutto il numero degli sfollati interni siriani. Talal Sello, portavoce di Sdf, invitava pertanto la comunità internazionale a stanziare fondi per sostenere il nascente consiglio civile chiamato a governare la città, aiutandolo nello sforzo di ricostruzione. La coalizione internazionale elogiava i combattenti, principalmente curdi, di Sdf, per tenacia e coraggio dimostrati in combattimento contro un nemico privo di principi, nonché per il loro costante sforzo per ridurre al minimo le perdite fra i civili, facendo spostare con grande cura le popolazioni, anticipatamente, da aree poi interessate da scontri armati dovuti all’avanzata. Sdf fu definita una “forza etnicamente diversificata”. In essa era effettivamente presente un consistente numero di combattenti arabi, ma nella struttura operativa prevalevano i curdi, collegati al Pkk; nei festeggiamenti del 20 ottobre, in una piazza di Raqqa in precedenza utilizzata da Daesh per decapitazioni pubbliche, i combattenti si radunarono dietro un enorme drappo raffigurante Öcalan; ciò contribuì ad alimentare timori fra gli ex abitanti di Raqqa di essere dominati al ritorno da una forza che percepivano ostile. Comunque 655 combattenti persero la vita nel corso della battaglia di Raqqa.

La trama turca

Il posizionamento internazionale di Ankara, con la preoccupazione per l’evoluzione favorevole ai curdi in Siria, si sviluppò su più fronti all’inizio del 2017, dopo l’insediamento a Washington dell’amministrazione Trump. Il 13 febbraio combattenti dell’Esl penetrarono in al-Bab, sottraendo vari quartieri al controllo di Daesh. Erdoğan annunciò personalmente tale successo parziale del gruppo ribelle siriano alleato, indicando i prossimi obiettivi di Scudo dell’Eufrate: Manbij, controllata da forze curdo-arabe, e poi Raqqa, capoluogo siriano del Daesh. Si trattava di propositi alquanto roboanti, considerando che per penetrare nella più piccola al-Bab soldati turchi e Esl avevano impiegato alcuni mesi. Poi Erdoğan si recò in Arabia Saudita. 

Ossessione anticurda: accordi con l’Arabia Saudita

Dall’inizio della Primavera araba non sono mancate divergenze di vedute con i sauditi: in Siria Ankara e Riad hanno talvolta appoggiato gruppi ribelli differenti, e le accomunava solo l’opposizione ad al-Assad e la percezione, condivisa con fastidio, d’un disimpegno statunitense dall’area mediorientale. Ankara decise di giocare più carte. Da un lato s’impegnava per una soluzione diplomatica al conflitto siriano nei colloqui di Astana patrocinati assieme a Mosca e Teheran; dall’altro faceva leva sull’ostilità saudita verso la sempre più influente presenza iraniana – in Libano, Yemen, Siria e Iraq – per avvicinare Riad e altri Paesi del Golfo che sostengono economicamente gli oppositori siriani. In tal modo riuscì a propagandare l’intenzione di creare una No-fly Zone, di circa 5000 chilometri quadrati, nei territori che con i ribelli siriani alleati aveva sottratto a Daesh; si guadagnò così il gradimento saudita: per Riad la presenza turca era un valido contrappeso a quella iraniana; per la Turchia ovviamente la No-fly Zone era da intendersi anche in chiave anticurda.

Ossessione anticurda: accordi con la Russia

Erdoğan auspicò che s’instaurasse una cooperazione militare turco-russa per compiere operazioni in Siria e pervenire alla formazione di una “zona di sicurezza” libera dalla presenza tanto di Daesh quanto dello Ypg. Putin ed Erdoğan tennero a Mosca una conferenza stampa congiunta (marzo 2017), dove Erdoğan dichiarò: «il vero obiettivo ora è Raqqa». La Turchia riteneva che lo Ypg fosse un’emanazione del Pkk e voleva escluderlo dall’operazione di Raqqa, alla quale auspicava invece di partecipare. Comunque, il 26 marzo, Sdf, fruendo ancora del sostegno statunitense, conquistò l’aeroporto militare di Tabqa, a 50 chilometri da Raqqa, controllato da Daesh dall’agosto 2014.

Il 13 novembre 2017 Putin ed Erdoğan s’incontrarono nuovamente a Soči. Si parlò dell’acquisizione del sistema di difesa antiaerea russo S-400 e del contributo di Mosca alla costruzione di una centrale nucleare ad Akkuyu, nel Sud della Turchia. Le divergenze riguardavano la Siria: Erdoğan lamentava l’intenzione del ministero degli Esteri russo di invitare esponenti del Pyd a prender parte al Congresso dei popoli della Siria, finalizzato a regolare la fase postbellica dell’ormai annoso conflitto. Il presidente turco aveva già criticato la dichiarazione russo-statunitense che riconduceva nell’ambito dei colloqui di Ginevra sotto l’egida dell’Onu la ricerca di soluzioni pacificatrici per la Siria: avrebbe preferito un prolungamento della sola conferenza di Astana per poter conservare maggiore influenza sugli sviluppi futuri nel paese; d’altro canto, non voleva polemizzare eccessivamente con Putin, al quale faticosamente era riuscito a riavvicinarsi, dopo l’aspra divergenza dovuta all’abbattimento d’un velivolo militare russo da parte turca nel novembre 2015 citato nel capitolo sui curdi in Turchia.

Ossessione anticurda: il sabotaggio turco della pace

Il 20 novembre 2017 Putin riceve a Soči al-Assad per definire la regolamentazione postbellica; una settimana dopo è prevista la ripresa dei colloqui di Ginevra. Ad Astana la Russia è riuscita a conseguire lo scopo di ridurre gli scontri armati tramite la creazione di quattro “zone di de-escalation” in territorio siriano; al-Assad intende dimostrare buona volontà, come richiesto da Putin, ma a sua volta esige qualche garanzia sulla “non ingerenza di attori esterni”.

Un paio di giorni dopo in una dichiarazione congiunta Putin, Erdoğan e Rohani invitano governo e opposizione a prendere parte a un Congresso dei Popoli impegnandosi a redigere una lista di partecipanti chiamati a elaborare una nuova Costituzione siriana e organizzare elezioni supervisionate dall’Onu. Fissata a fine gennaio, la riunione del Congresso risulterà inconcludente: nel frattempo, infatti, da un lato Turchia e Esl nel Nord, dall’altro truppe siriane con l’appoggio russo nell’area di Ghuta, a est di Damasco, ripresero l’iniziativa militare, svuotando di fatto il progetto.

Ossessione anticurda: i contrasti con gli Usa

A metà gennaio 2018 gli Stati Uniti, nell’ambito della coalizione internazionale impegnata contro Daesh, manifestarono la volontà di costituire in Siria una forza adibita alla protezione delle frontiere, che comprendesse 30 000 uomini. Con motivazioni differenti i più reagirono ostilmente. La Siria parlò d’attacco alla sovranità e all’integrità territoriale, la Russia accusò gli Stati Uniti di puntare a una suddivisione del paese e di adoperarsi per un cambio di governo; Erdoğan si irritò per il fatto che fosse prevista la confluenza in essa di membri dello Ypg: gli Stati Uniti, paese alleato di Ankara in ambito Nato, intendevano in sostanza proseguire la collaborazione con Ypg e continuare a fornirgli armi pur dopo che Daesh era stato sconfitto. Intollerabile per Ankara. 

Il Comando militare statunitense di Baghdad provò invano a sminuire la portata della nuova forza, indicando che essa avrebbe riflettuto la composizione etnica delle popolazioni dell’area in cui avrebbe operato, che l’apporto numerico di Sdf sarebbe stato solo della metà – necessario per garantire esperienza e disciplina –, che l’area da sorvegliare avrebbe incluso porzioni della valle dell’Eufrate, nonché aree di confine internazionale della Siria. La Turchia in riferimento alla costituzione della cosiddetta Forza per la Sicurezza delle Frontiere siriane negò di essere stata consultata da Washington e non poté tollerare che ciò implicasse il posizionamento pressoché costante di combattenti curdi al suo confine meridionale. Infatti erano già iniziati i colpi d’artiglieria contro le postazioni curde nell’enclave di Afrin.

Sconfinamento del conflitto: il ramoscello d’ulivo avvelenato

Sabato 20 gennaio 2018, nel pomeriggio l’attacco annunciato: aerei da combattimento turchi bombardarono postazioni nel Nord della Siria. Il bersaglio era costituito da postazioni d’osservazione dello Ypg nell’area di Afrin, come riferì l’agenzia di stampa turca “Anadolu”. Sull’attacco riferì anche l’Osservatorio siriano per i Diritti umani, che parlava di almeno dieci velivoli militari turchi implicati. La Francia richiedeva una riunione d’urgenza del Consiglio di Sicurezza dell’Onu. I prodromi risalivano a una settimana prima, quando le postazioni in territorio siriano controllate dai curdi erano state prese di mira da colpi d’artiglieria; a un raduno di suoi sostenitori, Erdoğan aveva annunciato come imminente un’operazione delle forze di sicurezza turche contro le milizie curde presenti nel Nord della Siria e lo scopo sarebbe stato di ripulire l’area di Afrin dalla presenza di forze terroristiche. 

In seguito all’offensiva, l’esercito turco sembrava intenzionato a far sloggiare lo Ypg non solo da Afrin ma anche dall’intera regione di confine siro-turca. Il 9 marzo, Erdoğan dichiarava che l’obiettivo di quel momento era Afrin, ma in seguito si sarebbe giunti a Manbij e dopo ancora si sarebbe garantito che l’intera area a est dell’Eufrate, fino al confine con l’Iraq, venisse “ripulita dai terroristi”. Il confine siro-turco a est dell’Eufrate si estendeva per circa 400 chilometri; in quel momento le truppe turche erano giunte a circa sei chilometri da Afrin e si preparavano ad assediarla. Vi penetreranno il 18 marzo.

A fine marzo 2018 Erdoğan criticò la proposta di mediazione, a suo dire “ingannevole”, proveniente dal presidente francese: la Turchia non intendeva negoziare con i “terroristi” curdi che stavano combattendo in Siria. Erdoğan accusò Macron d’intromissione nelle operazioni militari turche solo per aver ricevuto a Parigi degli esponenti di Sdf, mossa considerara da Ankara un atto ostile. Sdf era, per Erdoğan, alla stessa stregua del Pkk; d’altronde Unione europea e Stati Uniti non consideravano lo Ypg un gruppo terroristico. Agli esponenti di Sdf, Macron aveva assicurato sostegno per stabilire il dialogo con la Turchia e contribuire a stabilizzare l’area, tuttavia il proposito di dispiegare nell’area truppe francesi, asserito da esponenti della delegazione curda e riferito da giornali francesi, venne smentito dalla Francia; essa tuttavia non se la sentiva di abbandonare completamente i curdi, dopo esserne stata alleata nello sforzo bellico contro Daesh.

A metà giugno 2018, Turchia e Stati Uniti si accordarono; Ankara ottenne che le forze dello Ypg venissero allontanate da Manbij; truppe turche e statunitensi provvederanno d’ora in poi congiuntamente a pattugliamenti e ricognizioni dell’area. Lo Ypg attesta di aver concluso l’addestramento delle forze locali e d’aver pertanto avviato il ritiro da Manbij; tuttavia è ovvio che tale ritiro avviene dopo che lo Ypg ha ricevuto comunicazione da Washington dell’accordo turco-statunitense.

La Turchia continua a muoversi a tutto campo, al fine di non perdere la posizione finora acquisita sul fronte siriano allorché si tratterà di agire per instaurare sforzi multilaterali finalizzati a porre fine al conflitto in Siria. Punta a salvaguardare i gruppi ribelli moderati, che ha finora sostenuto e che sono ormai concentrati a Idlib e dintorni. A metà settembre, per evitare che fossero attaccati da truppe di al-Assad , si è accordata con la Russia a Soči per l’istituzione nella provincia di Idlib di una zona demilitarizzata, in vista della restituzione della zona stessa al controllo di Damasco. Ankara ha istituito molteplici postazioni d’osservazione nell’area, per supervisionare l’allontanamento degli armamenti pesanti dalla zona. Tuttavia permane l’obiettivo di arginare il consolidamento curdo nel Nord. A tal fine, a Soči la Turchia ha proposto che parte dei ribelli siano reinseriti nelle forze di sicurezza siriane e parte siano adoperati per contrastare un eventuale ritorno di forze curde nell’area di Afrin, a nord di Idlib. Nell’altra zona da cui i curdi sono stati allontanati, Manbij, la Turchia porta avanti l’impegno preso con gli Stati Uniti: sta infatti provvedendo ad addestrare truppe da adibire al pattugliamento congiunto turco-statunitense. Ciò potrebbe parzialmente consentire di lenire i dissapori recenti di Erdoğan con l’amministrazione Trump. Quest’ultima mantiene a sua volta un po’ di ambivalenza: continua ad avvalersi – nell’ambito della coalizione internazionale volta a estromettere il gruppo Stato Islamico dal territorio siriano – delle forze curde e arabe di Sdf: in particolare nell’assalto in corso all’ultimo baluardo di Daesh, Hajin, nelle vicinanze del confine siro-iracheno. Lo sforzo turco consta anche di una continua proposizione, e procrastinazione, di incontri ad alto livello fra Russia, Turchia, Francia e Germania: lo scopo è coinvolgere i governi di Parigi e Berlino, sul piano economico, nella ricostruzione postbellica siriana. Del resto né la Turchia di Erdoğan né la Russia di Putin sono in grado di provvedervi da sé in assenza di aiuti finanziari. 

Frags tratti da Curdi, a cura di Antonella De Biasi, con i contributi di Giovanni Caputo, Kamal Chomani e Nicola Pedde, Torino, Rosenberg & Sellier, 2018, disponibile in libreria e su tutte le maggiori piattaforme online.

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