Putin Archivi - OGzero https://ogzero.org/tag/putin/ geopolitica etc Mon, 18 Sep 2023 20:48:14 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.4.6 G7 – G8 – G20 – G77+1… G8miliardi https://ogzero.org/g7-g8-g20-g771-g8miliardi/ Mon, 18 Sep 2023 20:48:14 +0000 https://ogzero.org/?p=11622 Le famose bande di ragazzini. C’è quello grande e grosso che si tira dietro i suoi e botte da orbi a chi li contrasta. In questa strada non ci dovete mettere piede! Una banda vicina invece l’attraversa, anche se di corsa. Il capo è meno corpulento, ma sa il fatto suo. Altri gruppetti sono incerti, […]

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Le famose bande di ragazzini. C’è quello grande e grosso che si tira dietro i suoi e botte da orbi a chi li contrasta. In questa strada non ci dovete mettere piede! Una banda vicina invece l’attraversa, anche se di corsa. Il capo è meno corpulento, ma sa il fatto suo. Altri gruppetti sono incerti, con chi stare? Un po’ con l’uno un po’ con l’altro. All’aria aperta la situazione è abbastanza caotica. Diversa da prima dove c’era la banda più forte e non ce n’era per nessuno. In più adesso succede che un giorno il sole è rovente e nessuno ha voglia di venir fuori dall’ombra. Un altro diluvia che appena ti affacci in strada quasi anneghi. Un disastro. Non si capisce più niente. Bisogna solo aspettare che i ragazzini, ragazzine incluse, crescano. Ma cresceranno?


Quando sarai grande…

Sì, diventeranno grandi. Anzi G(randi)20. Una specie di super banda che cerca di spartirsi le zone di influenza. Assenti XI Jinping e Putin. Presente! però Giorgia M. e questo ci rincuora.
Il padrone di casa, Modi si è indaffarato moltissimo, senza fare i pignoli su come per l’occasione ha ripulito le periferie di Nuova Delhi. Vuole che l’India sia chiamata Bharat, e su questo niente da dire. Sta già scritto nella Costituzione. Per noi di una certa età va anche meglio perché nel nostro immaginario gli indiani continuano a essere i nativi americani (stavo per scrivere i peller…).
Poi ha ufficialmente siglato la Global Biofuel Alliance a cui aderiscono Brasile, Stati Uniti, Bangladesh, Argentina, Sudafrica, Mauritius, Emirati Arabi e Italia, oltre a Bharat. Mi propongo a Giorgia come servitore della patria ai prossimi incontri nelle Mauritius. Ci tengo ai biocarburanti.

Non è passata inosservata la dichiarazione fatta da Stati Uniti e IBSA – India, Brasile, Sudafrica – sul potenziamento degli aiuti finanziari al Sud Globale.
La geografia sta slittando verso il meridione del mondo. Da un punto di vista delle aspirazioni geopolitiche, delle prese di parola, non può non piacere. Dirà l’avvenire se sarà un guadagno per la Terra e l’Umanità.

 

Nel quartiere c’è sempre qualcuno dei ben piantati che invece di farsi vivo in piazza con lo sguardo strafottente se ne sta non si sa dove. Perfino quelli della sua banda sono sconcertati. Cosa starà macchinando?


… saprai perché…

Xi Jinping perché non è venuto? Se ne fotte? Il suo ruolo se lo gioca nei Brics? Cioè Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica e prossimi Argentina, Egitto, Etiopia, Iran, Emirati arabi uniti e Arabia saudita. Augurandosi che non si trasformino in Bricsaeeieauas.  L’erede di Mao lascia intenzionalmente il G20 all’India? Sembrerebbe di sì.

Modi ha così organizzato gli accordi, fossero anche solo pacche sulle spalle, senza la Cina. Tutta questa sua agitazione sta in piedi? Amico di tutti e di nessuno? Putin ha fatto bene a starsene dov’è, deve salvare l’eterna anima russa con i carrarmati e questo disturba le calorose strette di mano.

Sta finalmente cambiando la faccia geopolitica del Mondo, detta anche multipolarismo, oppure sono solo geometrie variabili destinate ad essere ormai perennemente variabili? In altre parole, la novità è il movimento continuo e non la configurazione che assume?

… è un gioco strano: devi imparare…

L’IMEC è una prima risposta. Un baccanale di acronimi da imparare a memoria. India-Middle East-Europe Economic Corridor. Lo promuovono il principe saudita Mohammed bin Salman Al Saud, il presidente degli Emirati Arabi Uniti Mohammed bin Zayed Al Nahyan, il presidente francese Emmanuel Macron, il cancelliere tedesco Olaf Scholz, la presidente dell’Unione Europea Ursula von der Leyen, la primo ministro italiana Giorgia Meloni, il capo della Banca Mondiale Ajay Banga e, ovviamente, Joe Biden e Narendra Modi. Treni, porti, fibre ottiche, pipeline, autostrade, ponti, hub.

Applausi a scena aperta.

Uno per tutti, quello di U.v.der Leyen: «È un ponte verde e digitale tra i continenti e le civiltà».

All’esterno del G20 un encomio altissimo.

Viene da Netanyahu: «Israele è al centro di un inedito progetto internazionale che unirà infrastrutture dall’Asia all’Europa, realizzerà una antica visione e cambierà il Medio Oriente, Israele, e influenzerà il mondo intero».

Coro stellare per un mondo a più facce? Risposta robusta, dieci anni dopo, alla Via della Seta cinese? Entusiasmo a buon mercato? Trionfalismo fuori posto?

… è un gioco strano: devi imparare…

Calma, dice la Cina: «Il tempo mostrerà la differenza tra un’iniziativa che abbraccia tutti con cuore aperto [la Belt and Road Initiative cinese] e una di idee ristrette che divide le nazioni. Noi speriamo che l’IMEC non diventi così».

Risposta secca e stizzita.

I giochi sono aperti e soprattutto il quadrante del mondo si è messo in moto. Una cosa è sicura, il Medio Oriente torna ad essere uno snodo delle politiche mondiali.

Se qualcuno poi, sprovveduto di finezze geopolitiche, osserva un po’ più da vicino i Grandi 20, presenti e assenti, il modo con cui governano i loro paesi e come fanno e disfanno le loro società, qualche brivido giù per la schiena gli corre. Allora il sempliciotto inesperto sceglie di chinarsi sulla minuteria storica e scopre, per esempio, che un treno merci con 36 vagoni container è partito dal sud della Russia, ha attraversato l’Iran, già nemico numero uno dell’Arabia Saudita, e poi dallo Stretto di Hormuz è stato travasato via mare a Gedda, in… Arabia Saudita. A fine agosto.

Oppure viene informato che a Ryad, capitale dell’Arabia Saudita, lo scorso 11 settembre grazie all’Unesco  era in visita ufficiale una delegazione del governo israeliano, anteprima di una possibile normalizzazione tra i due stati mediorientali. Il candido osservatore inoltre si stupirà vieppiù nel vedere che Erdoğan, il sultano turco, si sia subito scagliato contro il corridoio in questione proponendone uno di gamma superiore. Provvisoriamente definito – che strano! – corridoio turco.

… è tutto scritto, catalogato: ogni segreto, ogni peccato…

Non stanno mai fermi i Grandi, anche i Meno Grandi. Saltabeccano da un summit, da un vertice all’altro un po’ qua un po’ là. Finito uno, di corsa all’altro [Brics, 21/24 agosto, G20, 9/10 settembre, G77+Cina a Cuba, dal 15 settembre]. Gli farà bene tutto questo sbattimento? E se prendono aria? E se fanno indigestione? E se perdono l’orientamento? E il jet lag? Cos’è, fregola di contrasto alla depressione?
C’è un moto ondulatorio o sussultorio nella geopolitica? Preludio ad eventi tettonici più duri e consistenti?

Se scendo dai vertici e lo chiedo a una immigrata filippina a Ryad, a un palestinese di Nablus, a una giornalista kurdo-turca in carcere, mi guardano con un certo disincanto. Eppure.

… quando sarai grande, saprai perché

Qualcuno si perde, altri mettono su famiglia, qualcuno ricorda con nostalgia e parla male dei nuovi ragazzini di strada, certi fanno carriera.

Tutto il GMondo è paese.

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A chi è utile la Wagner? https://ogzero.org/a-chi-e-utile-la-wagner/ Tue, 27 Jun 2023 16:00:14 +0000 https://ogzero.org/?p=11209 Che fine farà la Wagner? A chi è utile? Il continente africano è utile alla Russia come fonte di approvvigionamenti e di nuovi mercati alternativi a quello europeo, e la milizia capeggiata da Prigozhin era la testa di ponte russa che serviva allo scopo per militarizzare le risorse ottenute e controllare i territori che le […]

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Che fine farà la Wagner? A chi è utile? Il continente africano è utile alla Russia come fonte di approvvigionamenti e di nuovi mercati alternativi a quello europeo, e la milizia capeggiata da Prigozhin era la testa di ponte russa che serviva allo scopo per militarizzare le risorse ottenute e controllare i territori che le ospitano (senza contare l’utilizzo anti-jihad fattone da parte dei numerosi dittatori o golpisti africani). In Occidente non se ne è parlato molto in questi giorni in cui si è assistito ai fatti avvenuti in Casa Russia, ma è bene che se ne tenga conto, per capire gli sviluppi negli equilibri futuri del continente e degli investimenti che lì sono in corso. Angelo Ferrari ne parla qui e nel podcast dedicato al neocolonialismo africano, un’intervista per la trasmissione “I bastioni di Orione” di Radio Blackout.


La Wagner si sfalderà in Africa o verrà riassorbita nei ranghi ufficiali russi? È quello che si stanno chiedendo molti dittatori o golpisti africani che fanno ricorso ai mercenari della Compagnia Wagner per “sistemare” le questioni interne dei loro paesi, in particolare la lotta al jihadismo come nel Sahel. Di sicuro, fino a ora, la Wagner è la testa di ponte di Mosca per riaffermare la sua influenza su parte del continente africano. La Russia ha bisogno dell’Africa per due motivi: il primo perché deve trovare nuovi partner, nuove fonti di approvvigionamento, e nuovi mercati alternativi a quello europeo; il secondo luogo perché il sogno della Russia è quello di rafforzare il suo ruolo di gigante minerario per poi cercare di militarizzare le risorse, sviluppando tecnologia bellica. Per queste ragioni Vladimir Putin ha utilizzato la Wagner come forza di sfondamento nel continente africano. Questo, inoltre, ha fatto sì che la base operativa economica della Wagner sia diventata l’Africa. Un aspetto che l’Occidente non deve sottovalutare come gli avvenimenti dei giorni scorsi in Russia.

Dove opera la Wagner

L’attività del gruppo Wagner si svolge in tredici paesi diversi: Libia, Eritrea, Sudan, Algeria, Mali, Burkina Faso, Camerun, Sud Sudan, Guinea Equatoriale, Repubblica Centrafricana, Madagascar, Mozambico e Zimbabwe. Tutti paesi ricchi di risorse naturali di cui Mosca ha bisogno e sulle quali si è sviluppata la forza della Wagner, non solo militare, ma economica. La Repubblica Centrafricana, per esempio, è diventata per la Wagner un partner privilegiato – ha 13 basi militari – ha prestato i suoi servigi militari a difesa del governo del presidente Faustin-Archange Touderà, minacciato dai ribelli e da una guerra civile, avendo in cambio un accesso privilegiato alle miniere d’oro e di diamanti, oltre ad avere il controllo di alcuni ministeri. Significativo, da questo punto di vista, Il divieto di sorvolo dei droni, deciso a febbraio dal governo centrafricano, proprio per tutelare le attività di Wagner nella miniera d’oro di Ndassima, recentemente ampliata e messa in sicurezza.

Una situazione simile si sta verificando in Mali e in Burkina Faso. Con il fallimento dell’operazione antiterrorismo Barkhane e il conseguente ritiro dei francesi, il campo si è aperto ai russi e alla Compagnia Wagner – nonostante i governi di questi paesi neghino – che è passata all’incasso. Secondo un recente rapporto dell’Africa Command degli Stati Uniti, il Mali paga Wagner il corrispettivo di 10 milioni di dollari al mese, sotto forma di risorse naturali come oro e pietre preziose.

Il forziere economico della Wagner: contratti, armi e potere

E poi c’è il Sudan. La guerra tra l’esercito regolare del generale Abdel Fattah al Burhan e il capo delle Forze di supporto rapido (Fsr), Mohammed Hamdane Dagalo, detto Hemedti, continua senza tregua. E la Wagner, pur sostenendo le milizie Fsr, è rimasta defilata, si è occupata solo del trasferimento di armi dalla sua base in Cirenaica, in Libia, è ha privilegiato i suoi interessi economici che sono indipendenti da chi prevarrà sul campo. I rapporti tra Mosca e Kharthoum sono di lunga data. Il Sudan è ricco di metalli preziosi, la stragrande maggioranza dei quali viene esportata illegalmente. Molte miniere sono nelle mani di Hemedti. In questo settore la Wagner agisce attraverso la società M Invest di Yevgeny Prigozhin e la sua controllata Meroe Gold, che si è trasferita in Sudan nel 2017 e lavora con Aswar, una società controllata dall’intelligence militare sudanese. Il gruppo di giornalisti del Progetto di segnalazione di criminalità organizzata e corruzione (Occrp) è riuscita a raccogliere prove di un contratto tra Meroe Gold e Aswar. La società russa, inoltre, è esentata dal 2018 dalla tassa del 30% imposta dalla legge sudanese alle società aurifere. Anche per queste ragioni Wagner in Sudan ha assunto un profilo opportunista piuttosto che fedele a una particolare fazione. Questo ha permesso a Prigozhin di proseguire le sue attività economiche anche dopo la caduta del dittatore Omar al-Bashir e anche dopo il golpe del 2021, messo in atto proprio da chi ora si combatte per il potere. Dunque, il vero forziere economico della Wagner è in Africa. E tutto ciò fa gola anche a Putin.

Ascolta “Neocolonialismo africano: la trappola dietro allo sforzo di affrancamento” su Spreaker.

Le “fattorie di troll”

Dopo la “tentata marcia” su Mosca da parte della Wagner, nel continente africano non si segnalano particolari movimenti del gruppo. I mercenari, abituati a lavorare in autonomia, continuano le loro attività: sicurezza, sfruttamento delle risorse naturali e manovre di disinformazione con lo scopo di avvicinare le opinioni pubbliche alle ragioni della Russia. La compagnia Wagner, già dal 2017, ha utilizzato campagne per destabilizzare e manipolare le opinioni pubbliche attraverso le sue “fattorie di troll” sia in Sudan così come nel Sahel.

I due possibili sbocchi

Molti analisti concordano che Wagner non può fare a meno del supporto logistico dell’esercito russo nelle sue operazioni in Africa. Mosca fornisce armi e istruttori a molti paesi. Ma, anche in caso di smantellamento del gruppo Wagner, la Russia non lascerà il terreno non “occupato”. Le conquiste politiche, economiche e diplomatiche dell’ultimo decennio sono vitali per Mosca. I leader africani, che si avvalgono dei servizi dei mercenari russi, devono necessariamente interrogarsi anche sui rapporti di forza in Russia, soprattutto se i contrasti dovessero durare, potrebbero trovarsi di fronte a un conflitto di lealtà. I leader africani, così come molte cancellerie occidentali e asiatiche, stanno aspettando che la “polvere si depositi”. Di certo se la Wagner viene riassorbita nei ranghi dell’esercito di Mosca, il problema non si pone. I leader africani potranno continuare a trattare con questa compagnia senza il timore di scatenare conflitti di fedeltà con la Russia. Altro se Prigozhin rimarrà a capo della Wagner “africana”. Allora si entrerebbe in una zona grigia, senza dimenticare che la gran parte del personale russo schierato in Africa appartiene alla Wagner.

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Brecce nei modelli dello status quo https://ogzero.org/brecce-nei-modelli-dello-status-quo/ Fri, 12 Aug 2022 08:53:28 +0000 https://ogzero.org/?p=8520 Si stanno indubbiamente aprendo brecce nell’equilibrio mondiale a cui s’ispira il modello che ha consentito finora all’Occidente di imporre la propria impronta sul mondo. Il multilateralismo faceva perno su una potenza globale come quella americana che assicurava la possibilità di intessere relazioni multilaterali, ora quel sistema vede erodere la propria incontrastata egemonia in particolare dalla […]

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Si stanno indubbiamente aprendo brecce nell’equilibrio mondiale a cui s’ispira il modello che ha consentito finora all’Occidente di imporre la propria impronta sul mondo. Il multilateralismo faceva perno su una potenza globale come quella americana che assicurava la possibilità di intessere relazioni multilaterali, ora quel sistema vede erodere la propria incontrastata egemonia in particolare dalla Cina e dal corredo di potenze locali in grado di portare sfide in aree specifiche. Nell’ultimo anno, dopo la caduta di Kabul il 15 agosto 2021, si è assistito a un’accelerazione inarrestabile della messa in discussione della globalizzazione e alla proposta di modelli socio-politici autocratici che si contrappongono alla “rassicurante” liberal-democrazia.
Era un sogno della sinistra libertaria aprire brecce nel capitalismo liberal-democratico per scardinarne il sistema, e ora chi metterebbe al centro l’emancipazione antitotalitaria dei popoli non riesce a interpretare l’attacco allo strapotere americano come una rivoluzione imposta dall’alto e realizzata dal nazionalismo autoritario, militarista e tecno-finanziario come quello statunitense. Infatti non sortisce di meglio che accettare la narrazione che vede ancora due blocchi contrapposti, da cui non si riesce a prescindere… né a evitare di schierarsi, non riconoscendo che si tratta della riproposta di schieramenti ottocenteschi: il superamento del “secolo breve” sta avvenendo, sì… ma in senso contrario, nel passato di oligarchie imperiali ottocentesche che controllano i propri territori, rinverdendo tradizioni culturali che si appropriano della critica alla globalizzazione.

Dopo un anno il regime talebano consegue il riconoscimento da parte di Cina e Russia. Quella capitolazione di Kabul alla più vieta e arcaica concezione religiosa e culturale locale del Waziristan ha dato la stura alla spartizione del mondo in aree di riferimento. OGzero ha pensato che ci fosse la necessità di ipotizzare e far dialogare processi in corso e possibili strategie adottate dai protagonisti del rivolgimento epocale, sperando così di avviare un dibattito che descriva la situazione prescindendo dalla versione parziale che scaturisce da un sistema in mutazione e quindi non in grado di fotografare il cambiamento che sta subendo.


Sostituzioni di modelli

Nelle infinite analisi del ribaltamento in corso di quell’equilibrato sistema di relazioni internazionali sancito da Yalta – e mantenuto invariato perché a nessuna delle potenze andava stretto o non avevano l’opportunità di imporre finora alcun rilievo – esistono un paio di elementi che sembrano non venir evidenziati a sufficienza nelle disamine della situazione geopolitica attuale: la rivoluzione è imposta dall’alto, è un pranzo di gala esclusivo dove gli invitati giocano a Risiko – e infatti si punta su una comunicazione che fondi la legittimità delle mosse sul confronto nazionalista; e al contrario di quel che avviene di solito in caso di conflitti, il contenzioso non coinvolge il Sud del mondo, sconvolgendolo. Le popolazioni alle quali ci si riferiva come Terzo mondo, ai tempi in cui lo spunto per molte speculazioni proveniva dall’internazionalismo non solo ora non si schierano a favore della “democrazia”, ma cominciano a considerare l’occasione ghiotta per ridimensionare la presenza e il condizionamento di un sistema, forgiato su un modello culturale ed economico sviluppato da una cultura estranea come quella europea, esportato in forma coloniale.

«Noi giovani abbiamo organizzato questa manifestazione per il ritiro delle forze armate francesi dal territorio nazionale del Mali. Vogliamo dare un contributo alla soluzione definitiva della crisi e ripristinare i valori della sovranità della nostra nazione. Non nascondiamo e riaffermiamo la nostra comune disponibilità con le nuove autorità di transizione a dare priorità alla cooperazione militare con la Russia per il rapido ripristino della Repubblica, in modo da poter lottare per la stabilità a lungo termine, che porterà alla nostra sovranità assoluta» (appello ad Assimi Goita pubblicato dalla piattaforma Debout sur les remparts, Yerewolo: giovani maliani, settembre 2021)

Ecco: un primo errore nella narrazione e nell’approccio al rivolgimento epocale sta nel vizio occidentale di voler imporre il proprio sguardo etico-politico anche sull’interpretazione dei conflitti globali, senza considerare le narrazioni sviluppate da altre tradizioni politico-culturali. Geopolitica chiederebbe di attenersi all’analisi di strategie messe in atto a seguito di bisogni e presunta potenza; invece la propaganda sia dal punto di vista liberal-capitalista, sia nell’ambito autocratico-capitalista sfrutta le spinte nazionaliste identitarie, inanellando tutti i più vieti luoghi comuni per salvaguardare la propria sussistenza entro i confini di riferimento di stati consorziati militarmente a fare da scudo al proprio ordine socio-culturale. Persino l’internazionalismo era caduto nella stessa trappola di avanzare una filosofia di emancipazione comunque sviluppata all’interno della cultura occidentale, nonostante l’intento meritevole di liberazione dell’Altro.

Vecchi sogni antimperialisti offuscati da modelli di imperialismi contrapposti

Infatti la sfida in corso al predominio americano e al suo sistema di sfruttamento mondiale era il sogno di ogni rivoluzionario degli anni Sessanta-Ottanta. Al contrario vediamo i regimi autocratici intenti a scalfire il potere americano, avendo ipotizzato, dopo la disfatta di Kabul, che si sia avviato allo stesso declino subito dall’Urss dopo il pantano afgano. Ma forse si tratta soltanto di una speculare reazione al pressing statunitense sui russi, volto a togliere alla potenza locale il terreno sotto i piedi; e questo cominciò con l’amministrazione Obama. In particolare l’esecuzione di Gheddafi ha suggestionato il capo del Cremlino: infatti dal 2011 Putin ha cambiato strategia geopolitica, convinto nel suo sospetto dalla costante cooptazione nel campo filoamericano di molte nazioni ex sovietiche, sottratte alla influenza russa; questo ha giocato un ruolo rilevante di intenzionale provocazione per la potenza militare moscovita.

Un po’ tutti hanno impugnato quelle forbici, che hanno innescato il cambiamento, tagliando i fili del multilateralismo che erano in tensione già da tempo.
Putin è stato forse indotto a credere nella possibilità di costituire un fronte antiamericano sufficientemente ampio e militarmente sostenibile: potrebbe essere credibile una sorta di accordo tacito di non belligeranza se non di reciproco sostegno con altre grandi potenze, come la Cina che invece – a cominciare dall’amministrazione Trump – è stata messa sotto pressione dal punto di vista economico. Si potrebbe adottare uno sguardo capace di spiegare le indubbie provocazioni americane (l’ultimo episodio è quello che ha visto protagonista Pelosi a Taiwan, imbarazzante per gli alleati coreano e giapponese, come si è visto nelle tappe successive del viaggio) per arrivare a un confronto di intensità variabile che consenta a Washington di ridimensionare gli sfidanti quando ancora gli Usa detengono la preminenza nei mezzi sia militari che economici (il “momento tucidideo” di cui parla Streeck su “New Left Review”, ripreso da “Internazionale”). I rivali non hanno potuto evitare di rispondere alle provocazioni e mettersi in gioco quando ancora gli Usa sono in grado di fronteggiarli.

«Gli Stati Uniti si stanno comportando da stupidi, ed effettivamente lo sono. Fingendo di esserlo significa che sanno quali sono gli interessi della Cina sulla questione di Taiwan e la sua linea rossa. Ma, nonostante questo, la calpestano ripetutamente» (Wang Wen dell’Università Renmin)

Si è arrivati alla guerra aperta perché a quel risultato erano improntati i piani strategici di tutti i protagonisti per rispondere all’esigenza da parte di potenze nucleari energivore di espandere il controllo di risorse e mercati e in nome di quelle dinamiche dominanti si sta tentando la scalata all’egemonia, la stessa che gli Usa intendono mantenere ancora per alcuni decenni, com’è avvenuto 30 anni fa quando a crescere al punto da sfidare la preminenza tecnologico-finanziaria fu il Giappone simboleggiato da Goldrake, allora detentore delle maggiori conoscenze sui semiconduttori e ora investito da Blinken del ruolo di gendarme del Pacifico; la sfida di Tokyo fu ridimensionata proprio con l’avvento della globalizzazione e agevolando la crescita della Cina ispirata a Deng in grado di eclissare prima e surclassare nel 2010 l’ascesa del Giappone – isolato e costituzionalmente privo di deterrenza militare; ora il conflitto appena scatenato rappresenta la fine della globalizzazione e l’industria nipponica torna a fare da testa di ponte per conservare al campo “occidentale” il controllo dei microchip, collaborando con le maggiori fabbriche di Taiwan. Premendo così in ambito tecnologico sulla possibilità di sviluppo dell’economia cinese, costretta a mostrare i muscoli a Nancy Pelosi (per uso interno, ma anche più pragmaticamente per salvaguardare le forniture tecnologiche di Formosa), come il pressing e la cooptazione degli stati satelliti dell’ex Urss lasciava poche chance alla sicurezza russa.

«Putin ha lanciato un’invasione per eliminare la minaccia che vedeva, perché la questione non è cosa dicono i leader occidentali sui propositi o le intenzioni della Nato: è come Mosca vede le azioni della Nato. la politica occidentale sta esacerbando i rischi di un conflitto allargato. Per i russi, l’Ucraina non è tanto importante perché ostacola le loro ambizioni imperiali, ma perché un suo distacco dalla sfera d’influenza di Mosca è “una minaccia diretta al futuro della Russia”» (John Mearsheimer da “The Economist”).
«Molti tendono a equiparare egemonia e imperialismo. In realtà imperialismo è una nazione che ne forza altre a entrare nella sua sfera, mentre egemonia è più una condizione che un proposito. Il problema di Putin e di coloro che sostengono l’esistenza di sfere d’influenza russa e cinese è che “tali sfere non sono ereditate, né sono create dalla geografia, dalla storia o dalla ‘tradizione’. Sono acquisite dal potere economico, politico e militare” che gli Stati Uniti possiedono più della Cina e che la Russia non ha» (Robert Kagan, “Foreign Affairs”).
(Ugo Tramballi, Ispi).

Conflitti collaterali e proxy wars

Ormai appare evidente che l’escalation di tensione costringe il mondo a uno stretto passaggio tramite il quale ogni area dello scacchiere internazionale è costretta a transitare, ovvero locali confronti tra protagonisti per definire gli schieramenti attraverso innumerevoli conflitti ristretti che ambiscono al controllo di territorio, risorse, commodities e mercati a cui attingere quando lo sforzo bellico sarà globale e a tutti i livelli.

Di tutti il confronto che maggiormente ha costituito la consapevolezza che si stava andando verso un rivolgimento globale è la crisi sarmatico-pontica, usata come grimaldello per coinvolgere anche l’Occidente europeo nel processo di trasformazione degli equilibri e delle supremazie su zone di influenza che si è innescato con l’attacco di Sarkozy a Gheddafi. Di lì discende la nuova strategia russa da un lato (innescata come già spiegò Bagnoli dalla paura di Putin di fare la stessa fine) e dall’altro la pulsione all’affrancamento nel Mediterraneo dei satrapi che nel 2011 erano ancora al guinzaglio di potenze globali e da allora invece sempre più autonomi e spregiudicati, come la Turchia, l’Arabia Saudita, gli Emirati… che hanno cominciato a sgomitare perseguendo strategie, alleanze, riarmo, penetrazioni in territori colonizzati proprio da quell’Occidente europeo da cui gli Usa si allontanavano, non avendo più interesse energetico derivante dal Mena, essendo divenuto autosufficiente durante l’amministrazione Obama con lo shale oil, e che ha optato in quel quadrante per la delega alle autocrazie locali. Si è venuta così a creare una pulsione all’autodeterminazione, all’affrancamento e all’autoaffermazione che passa attraverso un forte impulso al nazionalismo e al militarismo. Altra benzina sul fuoco.

Modelli sovranisti stanziano ad Astana

In questo quadro van rivisti a livello di potenze locali, tendenzialmente non più tali, la guerra siriana e i conseguenti accordi di Astana… Si sono svolti nelle ultime due settimane due atti di questo canovaccio, uno a Tehran e uno a Soci, di quest’ultimo Yurii Colombo ha parlato nel suo canale telegram Matrioska.info, sottolineando i due aspetti richiamati dal viceprimoministro Alexander Novak che rinsaldano i legami tra i due autocrati: le forniture di 26 miliardi di metri cubi annui di gas alla Turchia – il cui Turkish Stream diviene un hub del gas russo ad aggirare gli embarghi – e gli scambi in valuta nazionale: lira e rubli, entrambe in sofferenza. L’incontro in Iran è stato affiancato dall’Ispi agli sviluppi dell’attività diplomatica di Lavrov:

«A pochi giorni dall’incontro del terzetto di Astana dove oltre a Ebrahim Reisi Putin ha incontrato anche l’omologo turco Recep Tayyip Erdoğan, la visita di Lavrov sembra anche voler ribadire che la Russia non è isolata sulla scena internazionale. Al termine dell’incontro con il presidente egiziano Abdelfattah al Sisi e con il segretario generale della Lega araba, Ahmed Aboul Gheit, il ministro ha esortato il mondo arabo a sostenere la Russia “contro i tentativi palesi degli Stati Uniti e dei loro satelliti europei di prendere il sopravvento e di imporre un ordine mondiale unipolare”. Non è detto che in paesi in cui il sentimento antiamericano è forte (corroborato dall’invasione in Afghanistan e Iraq e dal sostegno storico a Israele) i suoi argomenti non facciano presa» (Alessia De Luca, Ispi).

Mosca è tutt’altro che isolata, se si ripensa al voto di marzo all’Onu sulla risoluzione di condanna dell’invasione ucraina.

Tutti contro tutti appassionatamente insieme

Ankara contemporaneamente è un nodo della gestione per procura americana del Medio Oriente insieme a Tel Aviv (il giorno dopo l’incontro con Herzog, Hamas è stato cacciato da Ankara, come avvenne ad Arafat a Beirut) – però Israele è schierato con Egitto, Cipro e Grecia per controllare il Mediterraneo orientale in contrasto con Ankara – e Riad, gradualmente disciogliendo il contenzioso yemenita come il corpo di Kasshoggi nell’abbraccio tra Erdoğan e Mbs (con sullo sfondo gli Accordi di Abramo voluti da Kushner e proseguiti da Blinken).  A maggio persino sauditi e iraniani hanno ripreso relazioni diplomatiche. Evoluzioni tutte previste da Antonella De Biasi in Astana e i 7 mari.

“Astana prepara crepe nell’asse mondiale sparigliando le polarità”.

Risulta sempre più importante districarsi tra alleanze interstatali, che in ogni caso – siano regimi liberal-democratici o democrature rette da autocrati e oligarchi, dinastie, latifondi o gruppi economico-industriali – soffocano le libertà civili e il controllo dei media impedisce ai sudditi di riconoscersi come tali e proporre una coalizione dei sottomessi che si sottraggano e levino il consenso alle istituzioni militari assassine.

Questa ricostruzione permane all’interno di un quadro a blocchi, ma lo fa diversamente dal rimpianto che si affaccia presso alcuni vecchi rivoluzionari per quella condizione semplice da leggere costituita da due imperi anche geograficamente divisi per blocchi contigui. Invece in realtà lo sconquasso operato con l’invasione ucraina ha sconvolto ogni possibile lettura di strategie e mosse sullo scacchiere internazionale, che va componendosi all’interno di quel quadro in una serie di alleanze militari (Quad, Aukus), cooptazioni (gli stati africani controllati da Wagner e quelli inseriti negli accordi di Abramo), scelte di campo fondate sui nemici dei nemici (Etiopia), attendismo neutralista (eclatante in questo senso la posizione dell’India), ambigue mediazioni (il ruolo che si è conferito Erdoğan).

Il rivolgimento globale registra soprattutto in Mena e in Europa (e nelle sue colonie africane) il rimescolamento di alleanze, controllo di risorse e sfere di influenza, mentre nell’Indopacifico si assiste a viaggi diplomatici che si inseguono per creare coalizioni in vista del confronto.

Orizzonti senza gloria

Però quei vecchi rivoluzionari ormai incanutiti dovrebbero leggere il presente con occhiali diversi da quelli adottati negli anni Settanta e proporre un pensiero estraneo all’ottica meramente mercantile di un capitalismo ancora più feroce di allora che permea tutte le innumerevoli parti in causa, le quali infatti si confrontano con i mezzi previsti dal Finanzcapitalismo (non a caso Gallino lo scrisse nel 2011, l’anno del tracollo libico, durante le Primavere arabe).

Un modello che sconfigga il sovranismo neototalitario non può certo affidarsi al nazionalismo dell’imperialismo di stampo americano in contrapposizione a quelli irricevibili di stampo cinese o russo o neo-ottomano o saudita, o viceversa: rispondono tutti ai medesimi criteri ed è come rivelare l’acqua calda la denuncia che la barbarie dell’esercito russo è identica a quella delle invasioni americane di Vietnam, Somalia, Iraq… Afghanistan. Quest’ultima, emblematicamente comune a quella sovietica, dovrebbe anche simbolicamente chiudere il cerchio e l’epoca.

Allora bisognerebbe riuscire a fabbricare una chiave per attribuire il fulcro delle strategie che regolano i rapporti nel mondo a valori diversi, esterni al capitalismo – o alla identità nazionale o religiosa. Per farlo andrebbe forse messa al centro della proposta di ricostruzione dei modelli mondiali l’emancipazione dei popoli e la loro difesa dagli imperi sovranisti che non solo ripropongono l’idea degli imperi ma anche la loro considerazione della carne da cannone, contrapponendogli quel ripudio delle guerre, militari o economiche che siano, sicuramente diffuso come all’inizio della Prima guerra mondiale su cui potrebbe costruirsi un modello che si sottrae agli interessi imperialistici.

Quindi innanzitutto vanno smontati i meccanismi e gli interessi militari che stanno informando le cancellerie del mondo. E per farlo vanno individuati e descritti nei particolari quegli stessi meccanismi per disinnescarli, come la bomba che gli imperialismi, cambiando gli equilibri di sistema dall’interno e ponendosi fuori dai blocchi, stanno preparando, intessendo l’ordito di trame e temporanei accordi che sfoceranno in nuovi focolai di guerra funzionali a uno di quei modello di mondo.

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N. 20 – Polonia e Unione Europea: il segnale non intercettato dell’imminente conflitto in Ucraina https://ogzero.org/polonia-e-unione-europea-il-segnale-non-intercettato/ Mon, 27 Jun 2022 17:33:53 +0000 https://ogzero.org/?p=7994 I campanelli di allarme che non sono stati ascoltati erano tutti nel vacillare degli assetti politici dell’Europa centrale. Attraverso una lettura attenta anche dal punto di vista giuridico delle normative, Fabiana Triburgo fa emergere i cavilli e le deroghe che rendono possibile una strumentalizzazione del migrante che corrisponde alle strategie politiche e geopolitiche degli stati […]

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I campanelli di allarme che non sono stati ascoltati erano tutti nel vacillare degli assetti politici dell’Europa centrale. Attraverso una lettura attenta anche dal punto di vista giuridico delle normative, Fabiana Triburgo fa emergere i cavilli e le deroghe che rendono possibile una strumentalizzazione del migrante che corrisponde alle strategie politiche e geopolitiche degli stati membri (e non) dell’Unione Europea in difficoltà attraverso patti e accordi che rendono possibile attuare respingimenti illegali, costruire ancora muri e campi di detenzione con la scusa di false emergenze. In questo saggio si analizza il caso di Polonia e Unione Europea, nel suo sviluppo all’interno di un contesto più ampio di interessi internazionali scatenatisi con la guerra ucraina.


Risulta sempre più evidente come i flussi dei movimenti umani non siano semplicemente fenomeni da valutare nell’ambito dei temi riguardanti le politiche migratorie di uno o più stati o più specificatamente rispetto al sistema normativo in materia ma piuttosto qualificabili quali eventi che nascondono questioni, giochi di forza e interessi geopolitici dei quali sono la diretta conseguenza e, non come si potrebbe superficialmente pensare, la causa. Ciò emerge anche rispetto al conflitto armato in corso in Ucraina: rileggere all’indietro alcuni accadimenti della storia degli ultimi due anni dell’Europa orientale ci consente di comprendere come il fenomeno migratorio, così come era andato strutturandosi già nell’agosto del 2021 e ancor prima – almeno negli intenti di due attori statali dell’area ossia Russia e Bielorussia – fosse uno dei primi e più rilevanti campanelli d’allarme che gli assetti politici – apparentemente calcificati a livello geografico lungo la nuova cortina di ferro – stavano cominciando a vacillare. Gli eventi verificatisi a partire dal 2020 potrebbero dunque essere definiti iniziali scosse di terremoto che, a distanza di oltre trent’anni dalla caduta del muro di Berlino, hanno risvegliato il sottosuolo degli equilibri internazionali creando delle faglie o – visti gli attuali sviluppi del conflitto ucraino – vere e proprie voragini, simbolo di questioni silenti ma non certo più esistenti. Occorre dunque per l’analisi dei flussi migratori nell’Europa orientale – certamente anomali, per come sono andati delineandosi, ma non particolarmente emergenziali quantitativamente come invece si è voluto lasciare intendere – tornare indietro all’estate del 2020 quando il presidente bielorusso Lukashenko, in carica dal 1994, è stato rieletto con circa l’80% dei voti favorevoli ma al contempo accusato di brogli elettorali al punto da essere destinatario di violente proteste da parte della popolazione civile finalizzate a far cadere il regime. A questo punto il primo elemento rilevante è che l’ondata di proteste che interessò gran parte della popolazione bielorussa anche prima delle elezioni venne foraggiata dalla Lituania e dalla Polonia.

Proteste a gennaio 2014 a Kiev (foto Roman Mikhailiuk / Shutterstock).

La strumentalizzazione dei migranti

In particolare, la Polonia costituisce l’ultimo avamposto dell’Alleanza Atlantica o meglio ancora l’ultimo stato satellite degli Stati Uniti a livello militare in quell’area. Con gli Stati Uniti la Polonia vanta solidi patti di cooperazione e intese che non sono esattamente speculari rispetto al tipo di relazioni che la Polonia intrattiene con l’Unione, pur essendone a tutti gli effetti un paese membro.

Il tentativo quindi di Polonia e Lituania in quel momento di voler far entrare la Bielorussia nella sfera di influenza posta dall’altro lato della cosiddetta “nuova cortina di ferro”, cercando di rafforzarla a proprio vantaggio, è stata percepita come una pericolosa provocazione dal regime di Lukashenko che ha quindi prontamente provveduto a chiedere il sostegno militare e politico del capo del Cremlino Vladimir Putin che è riuscito a sedare le proteste popolari nel paese a lui alleato e con il quale ha successivamente sottoscritto 28 programmi per l’unione statale.

Si pensi come negli ultimi anni il presidente russo prima in Siria ma a gennaio del 2021 anche in Kazakistan, sia intervenuto su esplicita richiesta dei leader al potere per mantenere lo status quo a livello politico, spesso con il beneplacito di buona parte della comunità internazionale, sebbene non palesemente espresso. Tutto questo per far riflettere che a livello politico il leader di uno stato acquisisce sempre più potere nella misura in cui altri attori statali gli attribuiscono un ruolo fondamentale nel dirimere talune annose questioni internazionali. Tuttavia, la crisi di governo bielorussa e l’intervento del capo del Cremlino che in un primo momento sembrava fosse una vicenda eccezionale – risolta ristabilendo l’allineamento al preesistente asse della cortina di ferro – nascondeva evidentemente proiezioni geopolitiche molto più ambiziose, emerse un anno dopo, proprio mediante quella che è stata definita “strumentalizzazione della questione migratoria”.

Le proteste in Kazakhstan.

Il piano orchestrato

Iniziata apparentemente come una pressione migratoria che Minsk intendeva porre limitatamente al confine lituano e che, come si scrisse allora, venne attuata per lanciare un messaggio all’Unione Europea in ragione delle sanzioni applicate alla Bielorussia in seguito al dirottamento dell’aereo della Ryanair con a bordo i due dissidenti del regime di Lukashenko, a settembre dello stesso anno raggiungeva invero risvolti ben più allarmanti. Infatti, con la spinta dei migranti attuata da Minsk al confine con la Polonia si delineavano più nettamente i profili di un piano orchestrato ad hoc del quale – anche qualora il presidente russo non si voglia definire il regista – non si può non qualificare quale complice, avendo mostrato di non voler intervenire nella vicenda, nonostante – considerati  i rapporti con la Bielorussia – avrebbe potuto fermarla in qualsiasi momento e tenuto conto degli ignorati appelli di sostegno più volte avanzati telefonicamente dall’allora cancelliera tedesca Angela Merkel.

In realtà si può affermare che l’appoggio della Russia a Minsk nella questione migratoria è stato la conditio sine qua non affinché essa si realizzasse. Al riguardo non si dimentichi che la quasi totalità dei migranti, prima spinti al confine bielorusso verso la Lituania e in seguito verso la Polonia, provenissero dal Medioriente – principalmente iracheni curdi, afghani e siriani – e che beneficiarono di un rilevante numero di rilasci di visti turistici per la Bielorussia nella quale arrivarono attraverso compagnie aeree turche. Non si può sottovalutare infatti che la Russia vanti un rapporto privilegiato con la Turchia: i due paesi – come più volte detto – sono in una condizione di continuo antagonismo nello scacchiere internazionale ma dimostrano di avere un reciproco rispetto nelle decisioni in politica estera. Ciò si traduce nel fatto che quando le circostanze lo richiedono sono in grado di stringere accordi, compromessi, alleanze per fronteggiare le questioni che man mano si presentano, soprattutto in situazioni di conflitti armati come in Nagorno Karabakh o ancor di più in Siria relativamente alla questione dei curdi.

Ascolta “Mosca chiude: autarchia senza prospettive” su Spreaker.

Il ruolo della Turchia

Non si può del tutto escludere dunque il coinvolgimento, almeno in un primo momento, della Turchia in questa specifica strumentalizzazione dei migranti portata avanti da Minsk. D’altra parte la Turchia è già avvezza a tattiche, o meglio strategie, basate sulla questione migratoria per il soddisfacimento dei propri interessi espansionistici ma anche puramente economici. Basti pensare al più volte citato accordo di 6 miliardi di euro elargiti dall’Unione Europea alla Turchia – recentemente rinnovato – per “l’accoglienza/trattenimento” nel proprio territorio dei profughi siriani per scongiurare la solita “invasione” che avrebbe coinvolto il vecchio continente.

E, di nuovo, i diritti violati

Come si può tristemente constatare tuttavia la cosiddetta invasione non sarebbe mai avvenuta e non ci sarebbe alcuna questione geopolitica in merito sulla quale discutere nell’ipotesi di obbligatoria ed equa ripartizione dei flussi migratori nei 28 stati dell’Unione, attraverso piani di ricollocamento, ancorati a indici demografici e del prodotto interno lordo dei paesi di destinazione. In questa sede ciò che interessa è la continua violazione dei diritti fondamentali dei migranti attuata dalla Polonia a partire da settembre 2021 quando le forze armate bielorusse cominciarono a scortarli verso quel tratto di confine tra i due stati. Va preliminarmente sottolineato che la Polonia – trovatasi in tale situazione – ha deciso di agire fin da subito in completa autonomia, senza consultare o dar seguito alle istanze – come vedremo in seguito prevalentemente di facciata – provenienti dalle istituzioni dell’Unione rispetto alla “crisi migratoria (?!)” che si stava verificando sul proprio territorio. A settembre del 2021 quindi il capo di stato polacco con l’approvazione del Parlamento proclama lo stato di emergenza che poi rinnova prontamente nel mese di novembre. Ai migranti dunque – anche richiedenti asilo – non viene data la possibilità di entrare nel territorio polacco e di presentare la domanda di protezione internazionale. Uomini singoli, soggetti vulnerabili tra cui minori, nuclei familiari e donne incinte vengono fatti stazionare al di fuori dei check point polacchi all’addiaccio.

Tuttavia, l’intento di ignorare esseri umani in difficoltà e respingerli prima dell’ingresso, oltre a violazioni formali del diritto internazionale – primo tra tutti il principio di non-refoulement – e del diritto europeo in materia d’asilo, ha causato la morte nel 2021 di ben 21 persone!

Ci si potrebbe fermare su questo dato che per la sua gravità non ammette giustificazioni di sorta e non solo con riferimento all’Unione ma a tutti i paesi membri che non sono intervenuti nella vicenda. La discussione invece in modo sterile si è sviluppata sul fatto che a Spagna, Grecia e Italia non è stato mai offerto alcun sostegno con arrivi numericamente più elevati. Ci si chiede perché in tali situazioni invece di fare confronti non si convoglino le forze politiche dell’Unione per cogliere l’occasione  di un atteggiamento politico diverso e per rivedere gli assiomi europei attuati – diversi da quelli teorizzati – dando un segnale forte, in modo tale che nessuna strumentalizzazione dei migranti produca più effetti sull’Unione o su uno dei paesi membri e non perché venga ignorata o repressa ma perché vengano rispettate le norme sul diritto d’asilo già vigenti e finalmente messo in atto il principio di solidarietà di cui all’art. 78 del trattato sul funzionamento dell’Unione.

Il punto debole dell’Unione

È chiaro infatti che a livello internazionale gli stati che hanno proiezioni egemoniche, spesso in contrasto con gli interessi del vecchio continente, hanno ben compreso – vedi Russia e Turchia – come la questione migratoria sia il vero, grande punto debole dell’Unione con il quale ricattarla, dato che non riesce in alcun modo a gestirla, se non cercando di renderla invisibile e traghettandola al di là dei propri confini. Tuttavia, visto che a quanto pare il fatto che degli esseri umani siano lasciati in tali indegne e mortifere condizioni non desta alcuna indignazione e non comporta mutamenti delle tattiche degli stati membri forse è il caso di cominciare più cinicamente a riflettere sulle conseguenze politiche ed economiche (che forse interessano maggiormente) che il perpetrare di tali comportamenti implicano e che sono ben più gravi rispetto all’adozione di un’accoglienza condivisa dei migranti soprattutto in un  caso come quello della Polonia rispetto al quale, data anche l’estensione del suo territorio e il numero di rifugiati accolti è un’eresia definire crisi o situazione di emergenza migratoria l’arrivo di 10.000 migranti!

Muri e centri di detenzione

Nonostante ciò sono stati apportati emendamenti alla normativa nazionale polacca in materia di migrazione – che a quanto pare però non vengono applicati (fortunatamente, anche se non si capisce la differenza con gli altri profughi) ai profughi ucraini – rendendola più restrittiva così come era avvenuto in Lituania e sempre alla stessa stregua si è realizzata la costruzione di un muro al confine con la Bielorussia lungo circa 186 chilometri e alto 5 metri e mezzo oltre, alla costruzione di ulteriori tre centri di detenzione all’interno dei quali in ogni stanza sono ammassate circa 22 persone in meno di 2 metri quadri ciascuno per potersi muovere.

Istituzioni in difficoltà

Nessuna novità quindi o quasi. Infatti, per quanto riguarda l’analisi dei profili giuridici, rispetto a tale vicenda, va posta attenzione sulla proposta di regolamento avanzata alla fine del 2021 dalla Commissione europea riguardo le misure che gli stati membri possono adottare in caso di strumentalizzazione dei flussi migratori ossia la “Proposta di regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio volta ad affrontare le situazioni di strumentalizzazioni nel settore della migrazione e l’asilo”.

Prima di entrare nel merito del testo va preliminarmente detto che se un’istituzione europea “alla bisogna” compone un testo giuridico ad hoc per fronteggiare una situazione squisitamente politica – quando tra l’altro si è presentata già una proposta di regolamento europeo nei casi di crisi e di forza maggiore nel settore della migrazione e dell’asilo” – dimostra di essere in palese difficoltà.

Tuttavia, anche in questo testo normativo non solo non si evidenzia alcun cambiamento di visione ma si è andati ben oltre ogni limite del rispetto dei diritti fondamentali degli individui migranti per cui si auspica vivamente che il Parlamento europeo non approvi tale proposta, assurda sotto il profilo giuridico.

Nella relazione introduttiva alla proposta di regolamento viene delineato l’ambito di applicazione del medesimo ancorandolo a quelle situazioni nelle quali gli attori statali utilizzino «i flussi migratori come strumento per fini politici, per destabilizzare l’Unione europea e i suoi Stati membri».

Il diavolo sta nei dettagli

A conferma della singolarità del testo normativo in oggetto e del suo contenuto squisitamente politico – dettato da un evidente senso di preoccupazione rispetto alla situazione allora in corso – si noti come in esso vi siano, in modo del tutto inconsueto per un atto giuridico, addirittura specifici riferimenti alla situazione geopolitica in prossimità di quel confine che emergono mediante l’impiego di espressioni quali «in risposta alla strumentalizzazione delle persone da parte del regime bielorusso» o mediante l’utilizzo di termini politici – o ancor meglio propri del gergo militare – per definire la  strumentalizzazione, come per esempio «attacco ibrido in corso lanciato dal regime bielorusso alle frontiere dell’UE».

C’è da dire infatti che nella proposta di regolamento non viene data alcuna puntuale definizione giuridica del termine “strumentalizzazione” – rendendo più estesa e quindi più pericolosa l’applicazione del regolamento a situazioni che potrebbero verificarsi in futuro – tanto che per ricavarla è necessario far riferimento ad un altro testo giuridico (già analizzato nell’articolo relativo ai flussi migratori al confine Ventimiglia-Menton) ossia la proposta di modifica del Regolamento Shenghen del 14 dicembre 2021 che all’art. 2 (con l’introduzione del punto 27) stabilisce che

la «strumentalizzazione dei migranti è la situazione in cui un paese terzo istiga flussi migratori irregolari  verso l’Unione incoraggiando o favorendo attivamente lo spostamento verso le frontiere esterne di cittadini di paesi terzi già presenti sul suo territorio o che transitino sul suo territorio se tali azioni denotano l’intenzione del paese terzo di destabilizzare l’Unione».

Per quanto attiene alle conseguenze della “strumentalizzazione” inoltre è necessario che la natura delle azioni del paese terzo sia potenzialmente tale «da mettere a repentaglio le funzioni essenziali dello stato quali la sua integrità territoriale, il mantenimento dell’ordine pubblico o la salvaguardia della sicurezza nazionale». Sono chiaramente delle conseguenze gravissime ma dato che la proposta di regolamento in esame è stata stilata specificatamente per la situazione al confine polacco-bielorusso, o comunque in conseguenza di questa, ci si chiede:

può realmente l’arrivo di circa 10.000 migranti in Polonia potenzialmente mettere a repentaglio l’integrità del suo territorio, il mantenimento del suo ordine pubblico o mettere a rischio la sicurezza nazionale?!

Anomalie e volute mancanze

Inoltre, si fa riferimento alla solita dizione “migranti irregolari” quando, come noto, il richiedente asilo è irregolare nella quasi totalità dei casi perché in fuga dal proprio paese d’origine – e non è certamente ammissibile che nell’ipotesi della strumentalizzazione attuata da uno stato terzo – non abbia il medesimo diritto di altri richiedenti a presentare la domanda di protezione internazionale! Per di più altre anomalie – o meglio volute mancanze – si rilevano nel testo del regolamento: non vi è alcuna menzione di indicatori, in particolare di tipo quantistico, con i quali delineare la strumentalizzazione, per cui – ragionando per assurdo – anche due soli migranti strumentalizzati potrebbero portare all’applicazione del regolamento. Ancora più pericoloso è che il regolamento, qualora venga applicato, sia idoneo a comportare gravissime deroghe al rispetto dei diritti fondamentali in materia d’asilo.

Deroghe e cavilli

La prima deroga è relativa alla registrazione delle domande d’asilo prevista all’art. 2 (“Procedura di emergenza per la gestione dell’asilo in una situazione di strumentalizzazione”): in caso di domande presentate alla frontiera, tra l’altro in punti specifici, il termine è di ben 4 settimane per la loro registrazione (e non per l’esame!), durante le quali ovviamente i profughi restano al di fuori del territorio dell’Unione. In secondo luogo, lo stato può decidere alle sue frontiere o più genericamente nelle zone di transito, «sull’ammissibilità e il merito di tutte le domande» registrate nell’arco del periodo in cui il regolamento viene applicato. Ciò quindi senza alcun riferimento alla nazionalità di alcuni profughi come i cittadini afgani per i quali sarebbe facilmente ipotizzabile una palese fondatezza della domanda di protezione internazionale.

L’unica priorità legata alla visibile fondatezza delle domande è quella data a quelle presentate dai minori o dai nuclei familiari ma ciò che è fondamentale ricordare è che comunque tutta la procedura anche in questi casi è una procedura squisitamente di frontiera! All’art. 4 (“Procedura di emergenza per la gestione dei rimpatri in una situazione di strumentalizzazione”) si deroga inoltre rispetto al regolamento sulla procedura d’asilo e all’applicazione della direttiva rimpatri: viene meno in questo modo il diritto ad un ricorso effettivo in caso di rigetto della domanda di protezione internazionale.

Più esattamente resta il diritto alla presentazione del ricorso ma senza che questo implichi un diritto di permanenza nel territorio dell’Unione nelle more dell’attesa di una decisione in merito e ciò a meno che non venga accolta un’istanza di sospensiva degli effetti della decisione di rigetto del ricorso.

Si precisa tuttavia che qualora l’istanza di sospensiva non venga comunque accolta è disposto l’allontanamento immediato del richiedente asilo, pur se «nel rispetto del principio di non refoulement».

Inoltre, l’ipocrisia di questa proposta di regolamento si riscontra tanto nell’articolo 3 che nell’articolo 5. Nel primo infatti (“Condizioni materiali di accoglienza”) si fa riferimento a misure di accoglienza «diverse» nel caso di applicazione del regolamento e non inferiori come in realtà sono – cercando di celare i propri intenti – dietro l’espressione «in grado di soddisfare le esigenze essenziali del migrante»: si noti al riguardo quanta discrezionalità possa nascondersi dietro al termine «esigenze essenziali». Nell’articolo 5 invece (“Misure di sostegno e solidarietà”) si raggiunge l’apice dell’assurdo. La solidarietà degli altri paesi membri, qualora venga richiesta, prevista nei confronti dello stato membro vittima di una strumentalizzazione dei migranti – anche se per inciso le vere vittime della strumentalizzazione sono i migranti stessi – non è certamente quella di una ripartizione per quote dei profughi tra gli stati ma l’impiego di «misure di sviluppo delle capacità, misure a supporto dei rimpatri» che vuol dire il semplice invio di funzionari e personale appartenenti agli altri stati membri per fronteggiare la situazione “emergenziale” nonché  provvedimenti operativi a sostegno dei rimpatri.

È chiaro quindi come anche in questa circostanza l’intento reale della Commissione, con tale proposta, non sia quello di offrire a livello europeo un supporto allo stato in una situazione “emergenziale” dal punto di vista migratorio, ma quello di assicurarsi il rinforzo delle misure di frontiera al fine di porre velocemente fine a tale situazione cercando di attuare il rinvio degli individui arrivati alle porte del territorio dell’Unione il più velocemente possibile.

Gli eventi tuttavia sono sempre un passo avanti nell’imprevedibilità del loro verificarsi rispetto a qualsiasi logica o tentativo di controllo sia esso da parte degli esseri umani, degli attori statali o delle istituzioni europee e internazionali.

La solidarietà “mirata”

Alla fine del 2021 si scrisse tale proposta per l’arrivo di circa 10.000 migranti, inconsapevoli che da lì a poco si sarebbe scatenato un conflitto di portata internazionale in Ucraina alle porte dell’Unione in ragione del quale, per l’arrivo di milioni di profughi, sarebbero caduti di fatto come le tessere di un domino gli emendamenti polacchi in materia di migrazione insieme ad ogni velleità europea di contenimento e con la conseguente apertura dei confini degli stati membri. Perché dunque non pensare prima a rendere effettiva la solidarietà europea per esseri umani che avevano e hanno gli stessi diritti dei cittadini ucraini? E ancora, non conviene riflettere come per interessi economici ed energetici si è scesi a patti e sotto ricatto del leader del Cremlino e come forse non si stia facendo lo stesso errore individuando Erdoǧan come mediatore per la risoluzione di tale conflitto, considerato come detto che egli stesso è sospettato di essere stato complice della pressione iniziale dei flussi migratori al confine con la Lituania? Corsi e ricorsi storici a quanto pare spesso nulla insegnano.

barriere e ostacoli

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La strategia del grano https://ogzero.org/la-strategia-del-grano/ Fri, 10 Jun 2022 16:01:50 +0000 https://ogzero.org/?p=7867 Sulla scorta della proverbiale definizione di “granaio del mondo” l’Occidente sta attribuendo integralmente alla guerra in Ucraina la responsabilità della fame che si sta annunciando per carenza di grano (ma non si parla del fatto che la Russia è il maggior esportatore di fertilizzanti), senza considerare che il prezzo dei cereali era già in aumento […]

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Sulla scorta della proverbiale definizione di “granaio del mondo” l’Occidente sta attribuendo integralmente alla guerra in Ucraina la responsabilità della fame che si sta annunciando per carenza di grano (ma non si parla del fatto che la Russia è il maggior esportatore di fertilizzanti), senza considerare che il prezzo dei cereali era già in aumento prima del 24 febbraio e che sono periodiche le rivolte del pane (anche dopo il 2011 delle Primavere arabe).
La guerra è stata solo il la ciliegina su una torta immangiabile per i 20 milioni di potenziali morti per fame che la contingenza può creare e i due autocrati di Astana si stanno mettendo d’accordo anche in questo caso per spartirsi guadagni e prestigio nei paesi africani sbloccando la situazione del Mar Nero con il blocco delle tonnellate di grano ammassato nei silos ucraini che rappresentano comunque soltanto l’8 per cento del prodotto annuale mondiale. Un’arma ibrida come le bombe di migranti gettate ai confini, che si produrranno anche attraverso questa nuova fame indotta dalla guerra sarmatica. Ma non solo: esistono infinite esponenziali conseguenze al conflitto (e allo scellerato agribusiness, all’intollerabile landgrabbing, allo sfruttamento coloniale, che hanno preparato il terreno alla fame globale) che portano alle scelte strategiche dei singoli stati vincolati in qualche modo ai prodotti russi (per esempio il Brasile) e il ritorno d’immagine per i popoli affamati d’Africa che si troveranno a ringraziare i garanti russo-turchi delle forniture alimentari di cui sono responsabili per l’improvvisa carenza; senza contare la stagflazione ormai globale e l’indebitamento generalizzato.
Per questo riprendiamo, con l’accordo dell’autore – che ringraziamo –, un pezzo di Angelo Ferrari scritto per l’Agi sul ritorno delle mosse russo-turche nei paesi africani a rischio di carestia per la carenza di approvvigionamenti di cereali, a cui alleghiamo il podcast di un intervento di Alfredo Somoza su Radio Blackout a proposito delle cause globali della carestia.


La guerra del grano deve essere risolta nel più breve tempo possibile e vincerla non è solo una questione di “buon cuore”, ma anche strategica. I numeri dimostrano che la carestia potrebbe colpire oltre 400 milioni di persone. A questi si debbono aggiungere tutti coloro che vivono con gli aiuti alimentari delle Nazioni Unite. Il Corno d’Africa e gran parte del Sahel si apprestano ad affrontare una carestia senza precedenti (Human rights watch) che, indubbiamente, sarà aggravata dalla guerra in Ucraina. Sbloccare centinaia di milioni di tonnellate di grano nei silos nei porti ucraini è dunque una priorità per scongiurare una catastrofe umanitaria che avrà ripercussioni globali che potrebbero durare anni. Molto attivi su questo fronte sono i turchi e i russi, anche se un accordo chiaro che garantisca tutti, in primo luogo gli ucraini, sembra lontano dall’essere siglato.

La penetrazione russa

La Russia, come stiamo vedendo in questi giorni, ha tutto l’interesse a scaricare sull’Occidente la responsabilità di una possibile crisi alimentare globale. Un interesse che non deve stupire. Di sicuro, come è già avvenuto, farà partire le sue navi cariche di grano dai porti ucraini conquistati sul mar d’Azov. Grano rubato, secondo gli ucraini. Grano di loro proprietà secondo Mosca. Al di là di chi abbia ragione questa è la realtà. Le navi hanno fatto rotta verso l’Africa dove la presenza russa si fa sempre più penetrante.
Il caso del Mali, nel Sahel, è l’aspetto più eclatante. È riuscita a “cacciare” la Francia da un’ex colonia. Poi c’è la Repubblica Centrafricana, anch’essa ex colonia francese. Qui la presenza russa è ancora più evidente. Senza dimenticare il Burkina Faso e ancora i recenti accordi militari e di sicurezza tra il Camerun e Mosca. Nel mirino di Putin c’è anche il Ciad, dove nella capitale N’Djamena ci sono state manifestazioni antifrancesi molto violente. Il sentimento antifrancese e antioccidentale sta dilagando in gran parte del Sahel e Mosca lo cavalca e incoraggia abilmente.

L’attivismo turco

Dall’altra parte del tavolo negoziale c’è la Turchia, il sultano Recep Erdoğan, che non fa nulla senza che ne abbia un tornaconto significativo. Anche Ankara ha interessi diffusi in Africa. Oramai è un po’ ovunque, ha stretto accordi commerciali, di fornitura di armi, ma anche si sta impegnando molto sul fronte dell’aiuto alimentare, come in Somalia. La forza della Turchia in Africa è assai maggiore di quella russa. Dal 2004 Erdoğan ha fatto più di 50 viaggi nel continente africano e visitato oltre 30 nazioni. Solo nell’ottobre del 2021 il capo di stato turco ha visitato Angola, Nigeria e Togo e nello stesso mese, Istanbul ha ospitato leader aziendali e dozzine di ministri degli stati africani per un vertice volto specificatamente ad aumentare il commercio. Nei primi mesi del 2021 il commercio bilaterale Turchia-Africa ha raggiunto i 30 miliardi di dollari e l’obiettivo della Turchia è di aumentarlo ad almeno 50-75 miliardi di dollari nei prossimi anni. Inoltre circa 25.000 lavoratori africani sono attualmente impiegati nel continente da aziende turche in progetti del valore di 78 miliardi di dollari e più di 14.000 studenti africani hanno studiato in Turchia. Il numero degli ambasciatori turchi distaccati nel continente è passato dai 12 del 2005 ai 43 nel 2021, mentre il numero degli ambasciatori africani ad Ankara è passato da 10 a 37. «Miriamo ad aumentare il numero dei nostri ambasciatori fino a 49», ha detto Erdoğan, affermando che il vertice di Istanbul ha dato luogo a sessioni congiunte a livello ministeriale nei settori della sanità, dell’istruzione, dell’agricoltura e della difesa. Turkish Airlines vola verso 61 destinazioni in Africa, l’Agenzia turca di cooperazione e coordinamento (Tika) ha 22 uffici locali, la Fondazione Maarif gestisce 175 scuole in 16 paesi e la presidenza dei turchi all’estero e delle comunità correlate offre borse di studio a oltre 5000 studenti africani. Una potenza di fuoco enorme che ha anche lo scopo di ottenere il sostegno africano per un seggio permanente al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite.Per Ankara, dunque, arrivare a una soluzione negoziata sul grano ucraino sarebbe un grande successo e rafforzerebbe i legami già molto stretti con l’intero continente. Obiettivo che ha anche lo zar di Mosca. Putin e Erdoğan, su questa partita si intendono benissimo. Tutto ciò avrebbe, inoltre, anche lo scopo di allontanare sempre di più il continente africano dall’influenza occidentale, sostituendola con quella turca e russa. La Cina, vera padrona del continente, sta a guardare anche perché non ha competitor. Vincere la guerra del grano non è solo una questione di buon cuore, ma ha una valenza strategica tale da spostare gli equilibri anche in Africa, dove quasi la metà degli stati non ha votato o si è astenuta per la risoluzione delle Nazioni Unite di condanna all’invasione russa dell’Ucraina. Di sicuro, se Erdoğan avrà ragione in questa partita, sarebbe la sconfitta dell’occidente – oltre che quella dell’Onu – la cui diplomazia non fa altro che accusare Mosca della catastrofe alimentare. Non basta. Agli africani di certo non basta.

Ascolta “Dormi sepolto in un campo di grano” su Spreaker.

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LA GUERRA VIENE CON LE ARMI: LO SPACCIO AD APRILE https://ogzero.org/studium/la-guerra-viene-con-le-armi-lo-spaccio-ad-aprile/ Mon, 09 May 2022 09:22:59 +0000 https://ogzero.org/?post_type=portfolio&p=7408 L'articolo LA GUERRA VIENE CON LE ARMI: LO SPACCIO AD APRILE proviene da OGzero.

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Deterrenza integrata nello cyberspazio bellico

La cyberwar è il panorama che in Ucraina ha sostituito i carri armati usati in Afghanistan 40 anni fa; è avvenuto con l’affondamento della Moskva, l’ammiraglia della flotta russa del Mar Nero, episodio ricostruito da “The Times” (e ripreso da Antonio Mazzeo) durante il quale è sempre più evidente l’apporto delle tecnologie sofisticate di scambio di dati tattici (L16). Ma non è solo lo scambio di informazioni multifunzionale tra entità belliche o la presenza dei Poseidon decollati da Sigonella che non ci vengono documentate – e anzi sono secretate dal governo Draghi, seguendo protocolli atlantici, non repubblicani –: infatti trapela da articoli di analisti entusiasti l’accelerazione degli investimenti in tecnologie emergenti basate su 5G, intelligenza artificiale, blockchain (registro digitale con voci raggruppate in blocchi e crittografate), cloud computing «per generare nuove capacità di combattimento»; su “Formiche.net” si può leggere la descrizione dettagliata delle filosofie sottese all’avanzata del processo decisionale nell’intervento militare grazie alla compenetrazione della “collaborazione uomo-macchina”. Insomma il parterre di armati in combattimento si va componendo di brutali mercenari tagliagole contrapposti o sommati a professionisti guidati e condizionati dai dati forniti sui loro display.
Per estendere e rendere efficace questa rete informatica di dati a disposizione della guerra degli alleati, la Nato sta cooptando e creando centri di ricerca in tecnologie di frontiera attraverso il programma Diana, che – apprendiamo da “Wired” – nel 2021 ha sviluppato strategie relative all’intelligenza artificiale, il 2022 è dedicato allo sviluppo dei computer quantistici e il 2023 alle biotecnologie e all’ingegneria applicata all’uomo.
Un nodo delle reti di acceleratori è stato individuato nello stabilimento Alenia di corso Marche a Torino. “Difesa.it” descrive pudicamente l’operazione come “Sinergia per l’innovazione tra Industria Mondo Accademico e Difesa”. E prosegue: «L’offerta nazionale per la partecipazione all’iniziativa, lanciata dai capi di Stato e di Governo al summit di Bruxelles del giugno 2021 nell’ambito dell’agenda NATO 2030, consiste nella realizzazione di una rete federata di centri di sperimentazione e acceleratori d’innovazione con il compito di supportare la NATO e i paesi alleati nel proprio processo di innovazione, sostenendo le start-up a sviluppare le tecnologie necessarie a preservare la superiorità tecnologica e facilitando la cooperazione tra settore privato e realtà militari.
L’Italia propone di ospitare il Regional Office presso le strutture nella costituenda Città dello Spazio, dove si insedierà, a fianco dei laboratori e degli spazi per le start-up, il Business Incubation Centre dell’Agenzia Spaziale Europea. Nelle more del completamento della Città dello Spazio, saranno comunque disponibili per l’immediato degli uffici presso le Officine Grandi Riparazioni di Torino.
Lo stesso generale Portolano ha ribadito a fine aprile l’importanza di Diana, confermando la candidatura del Piemonte, del suo Politecnico e l’industria bellica già strettamente interconnessi (come puntualmente stigmatizzato da “Umanità Nova”) a e ha confermato anche la denuncia di co-belligeranza di Antonio Mazzeo, relativa a quel coinvolgimento di Sigonella nelle operazioni di guerra nel Mar Nero, che nelle parole del generale di corpo d’armata riportate da “AnalisiDifesa” diventa: « il forte impegno dell’Italia nel sostenere il programma Air Ground Surveillance (AGS), evidenziando quanto esso sia indispensabile per l’Alleanza, poiché permette di espletare le fondamentali attività interforze di intelligence, surveillance e reconnaisance sia al livello strategico che operativo. Ciò assume una rilevanza ancora maggiore in questo momento storico con l’attuale conflitto in Ucraina».

100 %

Avanzamento



Approfondimenti


Neutralismo annientato dalle armi

Il triste caso della capitolazione scandinava nella delusione di Monica Quirico:
“Fine di un mito: la neutralità scandinava”.


Excusatio non petita, la debolezza di un destino presunto

Il tentativo di essere catalizzatore di ogni forma nazionalista e sovranista esibisce una parodia di parata sulla Piazza Rossa, cercando di spiegare cosa ci fa l’esercito d’occupazione russo in Ucraina:

GENNAIO FEBBRAIO MARZO MAGGIO GIUGNO LUGLIO AGOSTO SETTEMBRE OTTOBRE NOVEMBRE Traffico 2022

Aprile

28 aprile

    • Gaia Ravazzolo su “Formiche.net” ha descritto la consegna della seconda corvetta (la Damsah) delle 4 ordinate nel 2016 dal Qatar a Fincantieri. L’accordo prevedeva la costruzione secondo le regole Rinamil di altri 2 pattugliatori d’altura (Opv) e 1 nave anfibia (Lpd) per un controvalore di 4 miliardi di euro.
      Le corvette possono ospitare 112 militari d’equipaggio e un elicottero NH90.

Tra le attività a supporto del programma addestrativo a favore degli equipaggi delle QENF, previsto nel contratto, rientra la costruzione di un simulatore navale integrato preposto ad integrare le lezioni di carattere teorico previste per i frequentatori; il SiNaI.

23 aprile

  • Focus.de” informa che il cancelliere Olaf Scholz, insieme al ministero della difesa, ha deciso di acquistare elicotteri da trasporto pesanti per la Bundeswehr. Per cinque miliardi di euro, l’esercito tedesco riceverà 60 elicotteri da trasporto pesante CH-47F Chinook dal produttore americano Boeing, che rifornisce quasi tutti i paesi aderenti al patto atlantico; il costo stimato è di circa 5 miliardi di euro. Gli elicotteri saranno finanziati dal pacchetto di 100 miliardi per la Bundeswehr. La prossima settimana, il parlamento sarà informato dal ministro Christine Lambrecht (Spd); l’agenzia Reuters informa che gli elicotteri saranno finanziati dal fondo speciale previsto di 100 miliardi di euro per i militari che il cancelliere Olaf Scholz ha annunciato a seguito dell’invasione della Russia in Ucraina, ha detto il giornale. Gli elicotteri Chinook potrebbero essere consegnati al più presto nel 2025 e sostituiranno gli elicotteri CH-53G del produttore americano Sikorsky, che hanno circa 50 anniLa decisione pone fine a una disputa durata anni sul fatto che le truppe debbano ottenere il Chinook o il modello Sikorsky CH-53K, più nuovo ma anche più costoso. Secondo le informazioni di “Bild am Sonntag”, il prezzo ha fatto pendere la bilancia a favore di Boeing. Per la stessa somma di denaro, l’aviazione tedesca avrebbe ricevuto solo 40 aerei Sikorsky.


22 aprile

  • Da “ArmadaInternational” apprendiamo che il nuovo governo cileno del presidente Gabriel Boric ha acquistato 22 veicoli anfibi d’assalto modello AAV7 per trasporto truppe dall’esercito neozelandese al costo di 19,8 milioni di dollari. L’intento è di rafforzare le capacità di spedizione e di spiegamento rapido della brigata di spedizione anfibia della marina cilena, forte di 1200 uomini.
    La Nuova Zelanda aveva offerto il suo surplus di veicoli corazzati leggeri neozelandesi nel 2020. Dopo aver identificato il NZLAV come la soluzione più conveniente, il Cile ha iniziato i negoziati nel 2021.Si tratta di un derivato della serie LAV III di General Dynamics, il NZLAV è un veicolo da 17 tonnellate, a otto ruote motrici, tutto fuoristrada e corazzato. Armato con un cannone automatico Bushmaster da 25 mm, mitragliatrici secondarie e lanciagranate, ogni NZLAV può trasportare un equipaggio di tre persone e può ospitare e trasportare sette fucilieri. L’acquisizione di questo tipo di anfibio per il trasporto truppe prevede anche la spesa per 4 nuove navi da 9800 tonnellate.


22 aprile

  • Global Times” ha annunciato l’acquisizione da parte dell’esercito cinese di 2 cacciatorpediniere di classe 055 Renhai da 10.000 tonnellate equipaggiate con il missile balistico antinave ipersonico YJ-21 (testato in aprile dal People’s Liberation Army Navy nel report del Centro Studi Internazionali), costituito di 112 celle missilistiche a lancio verticale a bordo (un connubio difensivo efficace secondo “Agenzia Nova” per contenere l’egemonia Usa e scoraggiare un eventuale intervento a sostegno di Taiwan, dotata a sua volta di missili Hsiung Feng 3, inquadrata nel sistema Harpoon), 1 lanciamissili 052D e una nave d’assalto anfibia di classe 075, dichiarando esplicitamente che verranno dislocate nell’Indopacifico a causa della pressante rivalità statunitense nell’area, che però (secondo il “South China Morning Post”) non trova nessun alleato nella regione – Australia, Giappone, Filippine, Corea del Sud e Thailandia – disposto a ospitare missili a medio raggio con una portata fino a 5000 km con base a terra.


21 aprile

  • Triangolazioni del governo Usa per trasferire articoli e servizi di Difesa ai paesi alleati: l’holding italiana Leonardo vende a Tzahal, l’esercito israeliano, una fornitura di elicotteri da guerra AW119Kx della classe “Koala” fabbricati a Philadelphia (Penn.) attraverso il Dipartimento della Difesa americano (Foreign Military Sales) per 29 milioni di dollari; la notizia diffusa dalla rivista specializzata “Helis” è stata ripresa da Antonio Mazzeo nel suo blog, aggiungendo che «nel settembre 2020 il gruppo italiano e le forze armate israeliane avevano avviato una trattativa per la fornitura di altri elicotteri modello “Koala” e di due simulatori per la Scuola di Volo dell’Aeronautica militare ospitata nella base aerea di Hatzerim, nel deserto del Negev». Ma Israele è già cliente di Agusta Westland dal 2019, quando ne aveva acquisiti 7 per un controvalore di 350 milioni di dollari con compiti di sicurezza.

    Formiche.net” spiega che «tramite questi accordi l’acquirente non tratta direttamente con le industrie appaltatrici, ed è invece la Defense security cooperation agency americana a fungere da intermediario, gestendo l’approvvigionamento, la logistica e la consegna. Dal punto di vista contrattuale, saranno responsabili le Forze armate Usa», che hanno adottato questi elicotteri sulle unità navali della US Navy, sulle guardie costiere e per il corpo dei Marines; e sono già 104 i velivoli operativi nelle forze armate statunitensi e 470 sono i “Koala” venduti agli eserciti di Algeria, Bangladesh, Ecuador, Portogallo e Stati Uniti d’America; alla polizia della Corea del Sud e di tre stati brasiliani (Goias, Santa Catarina e Rio Grande do Sul); oltreché alle unità di controllo delle frontiere della Finlandia e della Lettonia. L’elenco è desunto dal blog di Antonio Mazzeo, che aggiunge: «Quello degli elicotteri “Koala” non è l’unico grande affare degli ultimi anni in Israele del gruppo militare-industriale italiano. Nel maggio 2020 Leonardo ha concluso un accordo con l’holding israeliana Rafael Advanced Defense Systems Ltd., per acquisire le tecnologie per il funzionamento dei sistemi d’arma e la ricerca dei bersagli dei nuovi aerei da combattimento leggero M-346FA, la variante di combattimento multi-ruolo dell’addestratore già in servizio con le forze armate di Italia, Polonia, Singapore e Israele. Nello specifico gli israeliani si sono impegnati a fornire i pod di quinta generazione Litening-5 e RecceLite per consentire ai caccia di Leonardo “di eseguire la ricerca del bersaglio utilizzando l’intelligenza artificiale per il suo rilevamento e tracciamento automatico”, secondo quanto dichiarato dai dirigenti di Rafael Advanced Defense Systems».

19 aprile

    • L’esercito americano ha annunciato che SIG Sauer  ha vinto il contratto per fornire le armi dei soldati statunitensi per il prossimo decennio; “DefenseNews” riporta che il fucile mitragliatore NGSW anche nella versione automatica è stato scelto dopo 27 mesi di valutazioni e test. È stato assegnato un contratto di ordine di consegna iniziale del valore di 20,4 milioni di dollari. L’MCX 6.8 Spear di SIG sarà designato come “XM5 Rifle” e l’LMG-6.8 belt-fed sarà designato come “XM250” – designazioni che seguono direttamente la M4/M4A1 Carbine e la M249 SAW che le nuove armi sostituiranno. Entrambe le armi sparano munizioni comuni da 6,8 millimetri utilizzando proiettili forniti dal governo e cartucce progettate dal fornitore. Le nuove munizioni includono diversi tipi di proiettili tattici e da addestramento che aumentano la precisione e sono più letali: infatti il nuovo proiettile da 6,8 mm dell’esercito americano sarà basato su un bossolo metallico ibrido, non sul design basato sui polimeri sviluppato da True Velocity.

Il sito specializzato “ModernFireArms” specifica che la mitragliatrice SIG SAUER NGSW-AR usa il blocco dell’otturatore rotante, e l’otturatore si aggancia all’estensione della canna. La pistola spara dall’otturatore aperto e, insolitamente per armi di questa classe, può sparare sia raffiche continue che colpi singoli. Il sistema a gas si trova sotto la canna e dispone di un pistone a corsa breve con un regolatore di gas manuale. La canna raffreddata ad aria può essere rapidamente sostituita se surriscaldata o usurata. Nella maggior parte dei casi, le canne sono dotate di soppressori di suono e flash rimovibili (moderatori), che sono necessari a causa delle alte pressioni delle munizioni militari da 6,8 mm.

La SIG Sauer ha sviluppato un proiettile con bossolo ibrido 6,8x51mm, commercializzato per i civili come 277 Fury, la munizione ha un corpo in ottone e una base in acciaio. Nel gennaio 2022, SIG ha annunciato che il fucile MCX SPEAR sarebbe stato disponibile sul mercato civile nel prossimo futuro.

19 aprile

  • Il Dipartimento di stato americano evidenzia sempre nei dispacci del Defense security cooperation agency che le forniture di armi sono proposte di vendita sono a sostegno della politica estera e degli obiettivi di sicurezza nazionale degli Usa. Nel caso della vendita per 42 milioni di dollari di articoli relativi al sistema di distribuzione delle informazioni multifunzionale Joint Tactical Radio Systems e relative attrezzature servirà per interoperare con le forze degli Stati Uniti e scambiare i dati tattici sicuri e avrà funzioni di deterrenza alle minacce regionali e rafforzerà la sua difesa interna. Tutti dati essenziali per rendere la transazione allineata con gli interessi americani e quindi ottenere il via libera da parte del Dipartimento di difesa, e sarebbero gli stessi criteri per ottenere dal Congresso permessi per eventuali acquisti di armi da parte degli americani.In questo caso le ditte coinvolte sono la californiana Viasat, Carlsbad e la Data Link Solutions, Cedar Rapids, una joint venture tra BAE Systems and Collins Aerospace di stanza in Iowa. Il governo australiano ha richiesto l’acquisto di 106 terminali MIDS JTRS; 15 terminali MIDS JTRS 6; e 7 kit di retrofit MIDS-Low Volume Terminal (MIDS-LVT); 4 Block Upgrade Two (BU2) del Multifunctional Information Distribution System. Sono inclusi anche i moduli crittografici (LCM) del terminale a basso volume (LVT). MIDS JTRS sostituisce numerose radio legacy, riducendo la necessità di ricambi eccessivi e di supporto logistico. Il MIDS JTRS è una radio a 4 canali progettata per eseguire la complessa forma d’onda Link 16, che consente una maggiore efficacia operativa senza consumare spazio, peso o potenza aggiuntivi. Aerei come caccia, petroliere, trasporto, comando e controllo e ala rotante, insieme a siti marittimi e fissi, possono tutti avvalersi dell’ottimizzazione offerta dal nuovo terminale di comunicazione e collegamento dati.

14 aprile

  • Venduti 12 elicotteri d’attacco AH-1 Cobra tutto compreso per 1 miliardo di dollari. La rivista “Nigrizia” riprendendo la notizia ricorda che 25 milioni del pacchetto comprendono una formazione sui Diritti umani (impartita dagli americani!!!): infatti a luglio “Foreign Policy” il Congresso aveva ritardato la vendita perché il governo Buhari stava intraprendendo una china autoritaria; ma ora è considerato un partner affidabile nella lotta contro il terrorismo. La vendita – riporta “DefenseNews” – include i Cobra prodotti dalla Bell; 28 motori T700-401C prodotti dalla General Electric; 2mila sistemi di armi di precisione avanzata usati per convertire missili non guidati, in missili a guida di precisione; e sistemi di visione notturna, puntamento e navigazione.
    Il nuovo elicottero va ad aggiungersi ai russi Mil Mu-24/35 “Hind” e agli italiani Agusta A109 power light attack helicopters.


13 aprile

  • L’altro Ouattara, Téné Birahima (il fratello che per ora fa il ministro della Difesa), ha dotato – secondo “Jeune Afrique” – l’esercito ivoriano di 10 nuovi elicotteri, 3 dei quali in consegna dopo pasqua: già alla fine del 2021 si sarebbe conclusa l’intermediazione eseguita attraverso un faccendiere maliano un contratto con l’azienda israeliana TAR Ideal Concepts per 5 MD-500 e 5 Agusta, a cui si aggiungerebbero alcuni droni; la C4 System assicurerebbe la formazione degli operatori dei velivoli senza pilota a bordo.
    Il paese tenta così di evitare l’insediamento di basi jihadiste nel Nord al confine con il Mali e il Burkina. Una base militare ivoriana è stata insediata a Tengrela.


11 aprile

  • Non si era ancora arrivati a richiedere l’ingresso nella Nato, ma già fughe di notizie (“Militaryleak”) riportavano la volontà anche della ancora neutrale Svezia di rammodernare la flotta aerea.
    La Saab si è aggiudicata un contratto dalla Defence Materiel Administration svedese per modernizzare il caccia JAS 39 Gripen C/D dell’aeronautica militare svedese: «fornirà miglioramenti di capacità» per estendere la vita utile del velivolo fino al 2035. L’ordine ha un valore di 52 milioni di dollari.Il JAS 39 Gripen è un caccia leggero multiruolo sviluppato dal costruttore svedese Saab. Oltre al Gripen C/D, l’aeronautica svedese dovrebbe ricevere 60 JAS 39 E/F, l’ultima variante del caccia, entro il 2027. Le consegne di serie sono iniziate il 24 novembre 2021.
    Il Gripen ha una configurazione ad ala a delta e canard con un design a stabilità rilassata e controlli di volo fly-by-wire. I velivoli successivi sono completamente interoperabili con la NATO. Nel 2006 infatti gli aerei Gripen svedesi hanno partecipato a Red Flag – Alaska, un’esercitazione multinazionale di combattimento aereo ospitata dall’Aeronautica degli Stati Uniti. I Gripen hanno effettuato sortite di combattimento simulato contro F-16 Block 50, Eurofighter Typhoon e F-15C, ottenendo dieci uccisioni senza subire perdite.


10 aprile

  • La Serbia di Vucic ha ribadito la sua intenzione di acquisire droni da combattimento turchi; secondo “klix.ba” il suo presidente ha promesso di rafforzare ulteriormente le difese del paese, tra le tensioni nei Balcani e l’invasione russa dell’Ucraina. Quando Erdoğan ha telefonato al presidente serbo per complimentarsi per la rielezione Vucic gli ha ricordato la promessa di forniture di droni Bayraktar Tb2, ottenendo assicurazioni che sarebbe stato accontentato. Gli stessi velivoli senza pilota venduti dalla Turchia a tutti i belligeranti del mondo, dagli alleati azeri agli ucraini, dal Marocco al Qatar, Polonia… e ad un’altra decina di paesi.

    Non è casuale poi che dopo l’acquisto di 12 Rafale da parte croata nel novembre 2021, Vucic ha annunciato nella stessa occasione che pure la Serbia è interessata all’acquisto di 12 velivoli della Dassault Aviation, anzi…

drone turco

8-9 aprile

  • Il 14 aprile il governo filoatlantista di Mitsotakis, tra i più impegnati a stanziare fondi in bilancio nell’acquisto di armi, ha fatto sapere (“EuropaToday ha diffuso la notizia) che sospende le forniture belliche a Kyiv, a cui sono già stati inviati due C-130 carichi di Kalashnikov e lanciarazzi. Questo perché ritiene di non poter sguarnire le proprie difese nel momento in cui la Turchia ha violato lo spazio aereo greco 11 volte in un solo giorno, come riferisce il ministro della Difesa greco, Nikos Panagiotopoulos.
    Già il 4 aprile secondo “GreekcityTimes” il 66% dei greci erano contrari all’invio di armi in Ucraina e i macchinisti ferrovieri di Trainose (proprietà di FS italiane) railway workers si rifiutavano di trasportare ordigni statunitensi e della Nato dal porto di Alexandropoulis.
    Dall’inizio degli eventi militari in Ucraina, più di 3000 soldati statunitensi e centinaia di veicoli corazzati e carri armati sono arrivati al porto greco di Alessandropoli. Da lì continuano in treno verso la Romania e altri paesi dell’Europa dell’Est membri della NATO: «I carri armati statunitensi appartenenti alle forze NATO, scaricati dall’enorme traghetto “Liberty Passion” nel porto di Alessandropoli, sono stati trasportati con la ferrovia attraverso la prefettura di Evros verso i paesi dell’Europa dell’Est. I carri armati delle forze NATO sono stati trasportati con la ferrovia da Alessandroupolis alla Romania attraverso la Bulgaria» (“in”).
  • Altro episodio di “resistenza” in terra ellenica contro la consegna di armi agli ucraini è avvenuto al porto di Thessaloniki, da dove provengono notizie (riprese da Osservatorio Repressione) di pressioni sui lavoratori perché si spostino ad Alexandropoulis a fare i crumiri al posto dei colleghi in mobilitazione


8-9 aprile

  • Come parte della cooperazione annuale tra i due paesi aerei dell’Esercito Popolare di Liberazione è stato effettuato un ponte aereo di due giorni (Pechino-Baku-Istanbul-Belgrado) con 6 pesanti Xi’an Y-20 della People’s Liberation Army Air Force per consegnare alla Serbia missili antiaerei a medio raggio cinesi HQ-22/FK-3 come parte di un contratto che Belgrado ha firmato con la Cina e che comprende anche droni CH-92 della China Aerospace Science and Technology Corporation, lo ha riferito “Defense news”.

    Un aereo da trasporto militare Y20 usato per il ponte aereo tra Pechino e Belgrado

    Il sistema (assimilabile ai Patriot americani e agli S-300 russi) è dotato di un nuovo missile ha una velocità di mach 6, può ingaggiare aerei, elicotteri, missili balistici e da crociera essendo condotto da un veicolo radar accoppiato a 3 veicoli lanciarazzi dotati di 4 missili a testa, quindi possono essere inquadrati 6 obiettivi in volo contemporaneamente

    Il neo rieletto presidente serbo Aleksandar Vučić ha respinto in un video sul  suo sito ufficiale le preoccupazioni dei paesi limitrofi per il “nuovo gioiello” dell’esercito serbo: «Non sono in grado di dire come li minacciamo con le armi difensive, perché è un sistema che serve a difendere dai missili da crociera e dagli aerei che violerebbero lo spazio aereo della Serbia».
    Montenegro e Kosovo sono molto preoccupati.
    Ma comunque non è il primo paese in Europa a dotarsi di missili cinesi: già in Turchia e Bulgaria sono state effettuate consegne, “Agenzia Nova” ritiene che si tratti di una dimostrazione di forza cinese nell’attuale contesto geopolitico balcanico, dove si stanno accumulando enormi quantità di armi .


8 aprile

  • Un programma di sostituzione del sistema missilistico di difesa americano Fim-92 Stinger  Reprogrammable Microprocessor (RMP) è stato avviato e si è ipotizzata la disponibilità per US Army e alleati di missili Maneuver-Short Range Air Defense (M-SHORAD Increment 3) operativi entro il 2027 quando ne saranno sfornati 10.000, secondo le informazioni di “Formiche.net”.
    Ma già il 23 aprile 2021 “Defense News” aveva dato notizia che i primi sistemi Shorad erano stati consegnati al battaglione dislocato ad Ansbach in Germania per testarne l’affidabilità.

    Nonostante il massivo utilizzo di Stinger nelle operazioni di guerra in Ucraina – o forse proprio in seguito a quell’esaurimento di fondi di magazzino – i missili spalleggiabili entrati nell’immaginario bellico delle milizie di Kyiv sono giudicati ormai obsoleti e quindi è automatico per il sistema di approvvigionamento mettere in cantiere il nuovo prodotto, i cui obiettivi da neutralizzare saranno aerei del tipo Rotary Wing (RW), Group 2-3 Unmanned Aircraft Systems (UAS) e velivoli da attacco al suolo Fixed Wing (FW); dovranno essere trasportabili dai soliti Stinger Vehicle Universal Launcher (SVUL) e comunque lanciabili da un solo uomo. Solo che, come riportato da “AresDifesa” ci sarà una maggiore precisione e intervalli di lancio più ravvicinati.
    Leonardo era già capofila per queste forniture del sistema di difesa antiaereo: l’M-SHORAD Mission Equipment Package (MEP) di Leonardo DRS è un sistema basato su un veicolo da combattimento Stryker A1 che include un pacchetto di attrezzature di missione progettato da Leonardo Drs. A settembre aveva conseguito un contratto da General Dynamics per fornire nuovi Mission Equipment Packages per M-Shorad a fronte di un ricavo di 204 milioni di dollari.


7 aprile

  • Una struttura di formazione sulla sicurezza finanziata dagli Stati Uniti per il Mediterraneo orientale, il Cyprus Centre for Land, Open-seas, and Port Security (CyCLOPS) è stata inaugurata a Larnaca. Secondo l’agenzia di France Press ripreso da “al-MonitorIl centro di alta formazione ispirato dagli Usa nasce per preparare in materia di controlli doganali, di sicurezza portuale, marittima e informatica e si rivolge a funzionari di stati dell’Unione Europea e del Mena; è fornito di piattaforme per la formazione, tra cui un finto passaggio di frontiera terrestre, un’area di screening dei passeggeri e un laboratorio mobile di formazione sulla cybersicurezza.

    Avviato dal Dipartimento di Stato americano ai tempi di Mike Pompeo, nel 2019, che scelse Cipro per incentivare il partenariato energetico con Grecia, Egitto, Israele e perché la posizione può difendere l’intera area del Mediterraneo orientale, inserendo nell’accordo anche la revoca di un embargo di 33 anni sulle armi degli Stati Uniti a Cipro per permettere l’esportazione di hardware militare “non letale”.


5 aprile

  • Stati Uniti, Gran Bretagna, Australia si accordano per una collaborazione per creare armi ipersoniche (a Mach5) e anti-ipersoniche chiamata SCIFiRE (Southern Cross Integrated Flight Research Experiment) a sottolineare il patto di difesa che ha dato luogo all’Aukus. Si tratta di un lancio della Reuters, ripreso da “Infobae” e il sito delle forze armate aeree statunitensi rimarca i 15 anni di collaborazioni tra Usa e Australia per arrivare a jet ipersonici, motori a razzo, sensori… la nuova arma di precisione ipersonica, lanciata a propulsione e alimentata da un motore scramjet a soffio d’aria. Questa tecnologia, sviluppata dall’onnipresente Raytheon, sarà in grado di essere trasportato da aerei da combattimento tattici come l’F/A-18F Super Hornet, EA-18G Growler e F-35A Lightning II, così come l’aereo di sorveglianza marittima P-8A Poseidon.

    L’etichetta conferita a questi accordi è Air Warfare, Global.



5 aprile

  • Il 5 aprile l’Agenzia per la cooperazione di difesa e sicurezza del Dipartimento della Difesa degli Usa ha approvato una nuova vendita di armi a Taiwan per un valore di 95 milioni di dollari in attrezzature relative al sistema di difesa aerea Patriot, compreso l’addestramento. Infatti l’Ufficio di Rappresentanza Economica e Culturale di Taipei negli Stati Uniti (Tecro). ha richiesto l’acquisto del Contractor Technical Assistance, ovvero di addestramento, pianificazione, messa in campo, dispiegamento, funzionamento, manutenzione e sostegno del sistema di difesa aerea Patriot, delle attrezzature associate e degli elementi di supporto logistico. Oltre a questo Taiwan ha anche richiesto il Patriot Ground Support Equipment, pezzi di ricambio e materiali di consumo necessari a supporto delle attività di assistenza tecnica. L’appaltatore principale sarà Raytheon Technologies.

    Il Dipartimento degli Esteri taiwanese ha ringraziato gli Usa, sottolineando che si è trattato della terza volta in cui l’amministrazione del presidente Joe Biden, in carica dal 21 gennaio 2021, ha approvato vendite di armi a Taiwan.



5 aprile

  • L’Australia accelera i piani per l’acquisto di missili d’attacco a lungo raggio anni prima del previsto a causa delle crescenti minacce poste da Russia e Cina. L’“Associated Press” lo conferma con il fatto che i caccia FA-18F Super Hornet della Boeing sarebbero armati con missili aria-superficie JASSM-ER prodotti negli Stati Uniti da Lockheed entro il 2024, tre anni prima del previsto.
    Questi missili migliorati permetterebbero ai caccia di ingaggiare obiettivi a una distanza di 900 chilometri (560 miglia). Inoltre le fregate australiane di classe ANZAC e i cacciatorpediniere di classe Hobart è stato annunciato che saranno dotati di missili di fabbricazione norvegese Kongsberg NSM, che raddoppiano il raggio d’azione, entro il 2024, cinque anni prima del previsto.
    Il riarmo accelerato dei jet da combattimento e delle navi da guerra costerebbe 3,5 miliardi di dollari australiani (2,6 miliardi di dollari) e aumenterebbe la deterrenza dell’Australia nei confronti dei potenziali avversari: infatti il nuovo calendario di riarmo arriva dopo che le Isole Salomone hanno annunciato un progetto di patto di sicurezza con la Cina. Secondo i suoi termini, la Cina potrebbe inviare personale militare nelle isole del Sud Pacifico, per aiutare a mantenere l’ordine e per altre ragioni, anche navi da guerra per scali e rifornimenti, il che ha portato a immaginare la costruzione di una base navale cinese lì.

JASSM-ER

GENNAIO FEBBRAIO MARZO MAGGIO GIUGNO LUGLIO AGOSTO SETTEMBRE OTTOBRE NOVEMBRE Traffico 2022

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]]> Il “nuovo” ordine mondiale e il gioco delle parti da Astana a Kyiv https://ogzero.org/il-gioco-delle-parti-e-il-nuovo-ordine-mondiale/ Sun, 27 Mar 2022 21:52:07 +0000 https://ogzero.org/?p=6901 Confrontandoci tra complici di “OGzero” sulla complessa situazione ucraina, che è (sì!) una delle decine di guerre in corso nel mondo, ma è anche la parte per il tutto del confronto globale ereditato dalla transizione attraverso il multilateralismo verso un Nuovo ordine mondiale, destinato a venire spostato verso l’Indo-pacifico, abbiamo tratto dall’ultima puntata di Transatlantica24 […]

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Confrontandoci tra complici di “OGzero” sulla complessa situazione ucraina, che è (sì!) una delle decine di guerre in corso nel mondo, ma è anche la parte per il tutto del confronto globale ereditato dalla transizione attraverso il multilateralismo verso un Nuovo ordine mondiale, destinato a venire spostato verso l’Indo-pacifico, abbiamo tratto dall’ultima puntata di Transatlantica24 spunti offerti da Eric Salerno e Sabrina Moles, che ci hanno rievocato le intuizioni messe in gioco in Astana e i 7 mari di Antonella De Biasi. Così “OGzero” nel momento dell’annuncio di un tavolo di pace imbandito a Istanbul comincia a credere che lo spirito di Astana non è sfumato del tutto e su questo dubbio ha cercato di ricostruire i cocci prodotti dall’esplosione del multilateralismo nei rapporti tra stati, dallo scardinamento di alleanze esili, dalla individuazione del momento in cui il Cremlino ha pensato che fosse più opportuno far saltare gli equilibri. Un istante che Antonella nel suo scritto, steso a ottobre, preconizzava individuando nella ignominiosa ritirata americana dall’Afghanistan il segnale della debolezza per cui era possibile azzardare il morso del serpente.

Salvo poi accorgerci che ciascuno ha tratto vantaggio o imponendo spese militari, o annettendosi nuovi territori rivieraschi, o soffiando su un nazionalismo sovranista, cancellando piani ecologisti e ridistribuendo energia con un maggior profitto per i produttori. Distribuito sciovinismo e testosterone in tutti i paesi del primo mondo.

Perciò a partire dalla chiosa del libro, proviamo con questo editoriale a mettere in fila gli eventi di queste ultime 5 settimane sulla scorta di quello che il volume di Antonella De Biasi aveva già individuati come potenziali snodi critici; andremo a trovare nel libro verifiche delle analisi prodotte a posteriori dagli equilibri scaturiti dalla “spezial operazy” di Putin, così da inserirla nell’annoso flusso geopolitico senza gli isterismi cavalcati dal profitto guerrafondaio. Infatti il volume si chiude con una frase emblematica: «Il gioco di Astana, seppur precario, in fondo è anche un gioco delle parti» e le dichiarazioni e le mosse diplomatiche di fine marzo seguono il canovaccio.


Il conflitto in corso è figlio della interpretazione data da una nazione come la Russia al periodo governato da una sorta di multilateralismo: se ne riconoscono i metodi inseguendo i gangli della dottrina Gerasimov (mai realmente scritta o teorizzata, ma resa evidente dalla prassi bellica russa), il cui scopo principale era quello di spezzare l’unilateralismo derivato dalla fine della Prima guerra fredda, in particolare: la soluzione cecena, da cui deriva la carriera del generale; Georgia e Crimea, rimaste senza risposta da parte delle altre potenze… ancora più palese l’uso strumentale del Donbass oggi, come 8 anni fa a suffragio della considerazione dei territori a est del Dnepr come giardino di casa.

Nel caso del conflitto in Nagorno-Karabakh gli armeni hanno pensato erroneamente che Mosca li avrebbe difesi “contro una minaccia turca e musulmana”, come sostiene il professore francese esperto di islam Olivier Roy. Così non è stato perché in fondo l’immagine di una Russia cristiana, ultimo argine all’islam di cui l’Armenia si sente avamposto, serve solo a intermittenza e sempre più raramente come topic/pedina intercambiabile per la personale partita a scacchi di Putin, per ristabilire la grandezza della Russia agli occhi degli occidentali e dei paesi rappresentati dalle economie emergenti. Alcune reazioni caute e sottotono lasciano pensare che Putin non solo fosse al corrente dell’offensiva azera ma che ne abbia addirittura discusso i limiti con il regime di Aliyev così da riprendere solo i territori che, secondo il diritto internazionale, sono azeri. L’estrema destra occidentale ha sempre visto la Russia di Putin, costruita a sua immagine e somiglianza negli ultimi vent’anni, come il baluardo dei valori cristiani minacciati dall’islam. Il Cremlino sfrutta quando servono queste simpatie da sempliciotti. L’obiettivo di Putin è riprendersi e controllare his back-yard.

(Antonella De Biasi, Astana e i 7 mari, OGzero, Torino 2021, p. 49)

Ma anche e soprattutto andava preso nella giusta considerazione l’interventismo in Siria. E in Libia: non si dimentichi il voto del 3 marzo all’Onu che ha visto la metà di paesi africani compromessi per armi, sicurezza e traffici con la Russia compattamente astenuti, in particolare allarmanti le astensioni dei paesi maghrebini fornitori di gas e con interessi – anche militari – intrecciati con il Sud dell’Europa; tutto questo dinamismo del Volga sullo scacchiere internazionale è un prodotto degli accordi di Astana, che è l’altro snodo diplomatico-pragmatico attraverso cui passa la strategia russa di questo periodo e che ha finora imposto i dossier al mondo.

Ma la preparazione alla guerra classica, dotandosi di armi sofisticate, da parte dell’Ucraina attraverso gli stessi meccanismi di alleanze e accordi ibridi con ciascuna potenza locale (e talvolta globale, ma cambiando ogni volta campo contrapposto) ha scombinato il disegno di Shoigu, Gerasimov e Putin. Questa si può considerare una conseguenza del fatto che la Nato si è risvegliata dal coma (indotto da Trump, sodale della deriva reazionaria putiniana mondiale) di cui parlava Macron, ma lo ha fatto predisponendosi a rispondere alla guerra che Bruxelles (e soprattutto Arlington e Langley) sapeva sarebbe stata scatenata: in che modo si preparava? armando gli ucraini con ogni ordigno convenzionale o meno, sia attraverso le armi in dotazione agli alleati europei (baltici in primis), sia con i droni turchi, che con alcune armi di fabbricazione israeliana – ma non tutte, come vedremo – e producendo una propaganda nazionalista identitaria per sollevare lo spirito bellico dell’Europa. Addirittura gli S-400 che furono motivo di sanzioni americane contro la Turchia potrebbero diventare paradossalmente strumenti di difesa per gli ucraini se Ankara si farà convincere a passarle a Zelensky, o le porrà sulla bilancia della trattativa: la tecnologia di cui sono dotate sicuramente è efficace contro le macchine belliche del cui impianto sono parte.

L’amministrazione Biden è ben consapevole che deve tenere la Turchia dentro l’asse Nato per impedire che passi nell’orbita russo-cinese. Così Erdoğan userà questo punto per ottenere vantaggi almeno nelle relazioni bilaterali. La questione critica più importante per gli Usa è il sistema missilistico S-400 che Erdoğan ha acquistato da Putin, non compatibile con quello Nato

(Antonella De Biasi, Astana e i 7 mari, OGzero, Torino 2021, p. 84).

Si può dunque parlare di una proxy war combattuta in territorio europeo e con obiettivi gli interessi europei, che vede gli Usa defilati e non interventisti, ma guerrafondai e impegnati a far esporre l’UE, tagliando così tutti i ponti (e gli oleodotti) euro-russi che in particolare la Germania merkeliana (e di Schroeder) avevano costruito: doppio risultato per gli americani che vendono all’altra sponda atlantica il loro gas poco ambientalista, piazzando (o affittando a caro prezzo) anche le navi che trasportano i rigasificatori.

Ora che gli altri protagonisti in commedia hanno appreso come prendere le misure al sistema bellico ordito da Mosca dalla Cecenia in avanti, accettando una vera e propria guerra con migliaia di morti e smaltimento di magazzini di armi novecentesche; ora che si è dimostrata la marginalità della UE e la sua riduzione a mera potenza locale succube della Nato, mentre la Russia – pur non sfondando e rimettendoci in immagine guerresca e di efficienza militare, piangendo molti più morti e dissanguandosi in spese  – si prende tutte le coste del Mar Nero settentrionale e del mar d’Azov; ora rimane in piedi il modello di rapporti e accordi spartitori; scambi e traffici multilaterali che han funzionato per spartirsi territori di confine, operazioni militari e aree di riferimento tra potenze locali: quel sistema di accordi, che Antonella De Biasi ha correttamente descritto nel suo testo dedicato agli Accordi di Astana, e dove si possono rintracciare in nuce le dinamiche e gli equilibri che ora dopo la guerra spiccano nella narrazione della resistenza ucraina, trova una riproposizione nella fornitura di armi e nelle candidature alla composizione del conflitto da parte di potenze “locali”. Insomma: gli Accordi di Astana vedono trasformati gradualmente i ruoli dei singoli attori e la chiave che ne promana vede protagonisti Turchia (che ospita sia gli yacht degli oligarchi – magari sfuggiti al Novichok dell’Fsb –, sia le denunce dei dissidenti) e Israele (che accoglie ebrei russi e ebrei ucraini), nella totale assenza di strategia Usa/EU.

In fondo la prospettiva di incontri bilaterali russo-ucraini riferita da David Arakhamia, leader parlamentare ucraino e partecipante ai negoziati, previsti per il 28-30 marzo a Istanbul (e/o successivamente a Gerusalemme, probabilmente) con padrini gli equidistanti Turchia e Israele che stanno facendo avance l’un l’altro per ritessere reciproci rapporti diplomatici dopo l’incidente della Mavi Marmara evocato da Murat Cinar nel suo articolo, appare come i memoranda d’intesa stipulati durante il vuoto trumpiano riempito ad Astana, evocati da Antonella De Biasi:

Erdoğan e Putin per primi, e a seguire l’appena eletto Raisi, cercheranno di mantenere l’influenza guadagnata negli ultimi quattro anni della presidenza Trump facendo buon viso a cattivo gioco. Si sa che le alleanze non sono per sempre – anche e soprattutto tra leader autoritari e populisti –, ma ogni volta che ci sarà una crisi, e quindi anche un’occasione per aumentare l’influenza nello scacchiere internazionale, si farà sempre in tempo a scrivere inediti memorandum d’intesa e scegliere una nuova suggestiva località per sottoscriverli.

(Antonella De Biasi, Astana e i 7 mari, OGzero, Torino 2021, p. 85)

 

E il terzo protagonista degli Accordi di Astana, l’Iran, che vi ha partecipato da potenza locale impegnata a mantenere la preminenza sulla mezzaluna sciita e con l’intento di contribuire alla marginalizzazione delle potenze europee, non ha avuto reazioni dopo la crisi afgana e non prende posizione in quella attuale: è apparso chiaro che la repubblica islamica viene tenuta in sospeso per il fatto proprio che a Putin serve l’appoggio di Bennett e quindi potrebbe far pesare un veto alla ripresa degli accordi Jcpoa, nel momento in cui pare che l’amministrazione Biden sarebbe invece disponibile a riprendere i negoziati sul nucleare iraniano, per focalizzarsi sull’indo-pacifico. Come per gli altri teatri delle guerre scatenate e composte ad Astana, il ruolo iraniano è stato in genere di supporto non attivo agli accordi: una sorta di notaio che assicura il proprio assenso in cambio della non intromissione nei propri affari.

Gilles Kepel su “Le Grand Continent” anticipando stralci del suo ultimo libro: «L’amministrazione Biden, il cui primo impulso diplomatico è consistito nel relativizzare il peso del Medio Oriente nella sua agenda politica estera a favore delle questioni cinesi e russe, e nel far prevalere nella regione la riattivazione del Jcpoa sull’antagonismo israelo-palestinese, le cui asperità si pensava fossero state cancellate dagli Accordi di Abramo, si trova così costretta a giocare dietro le quinte durante la guerra del maggio 2021», chiamata dal professore francese “la guerra degli undici giorni”. In questo nuovo caos con gli smottamenti nei paesi dell’area mediorientale, caucasica e mediterranea la Libia e quel che accadrà a cavallo del nuovo anno, determineranno i confini geopolitici degli attori di Astana, nello specifico la Turchia e la Russia.

 (Antonella De Biasi, Astana e i 7 mari, OGzero, Torino 2021, p. 85).

Applicazione di un modello

Qui infatti ritroviamo attivo come sempre il compare di Putin di tanti incontri ad Astana: Erdoğan ha mantenuto lo stesso atteggiamento ambiguo che lo ha contraddistinto in Siria, in Libia, in Nagorno-Karabakh – non a caso di nuovo gli azeri stanno sfruttando l’occasione che impedisce a Mosca di difendere l’alleato armeno – quando ha sostenuto in genere la parte avversa al fantoccio locale di Putin, salvo poi comporre ogni questione attraverso una spartizione de facto di territori, interessi, occupazioni. Anche in questo caso Erdoğan ha fornito a Zelensky armi e sostegno da appartenente alla Nato, ha mantenuto un ruolo ambiguo sui Dardanelli e sull’accesso al Mar Nero in relazione alla Convenzione di Montreux – e anche in questo caso la sottolineatura di Antonella De Biasi di p. 48 di Astana e i 7 mari, relativa all’appoggio russo ad abkhazi e agiari che solleva questioni ataviche in contrapposizione russi e turchi, sostenitori dell’etnia tatara, poneva già il problema di schieramenti – ma poi non aderisce a sanzioni ed embarghi… e questo consente ad Ankara di proseguire la diplomazia di Astana verso Mosca e di proporsi come mediatore, forse per la sua esperienza di occupazione del Rojava e strage di curdi. Ruolo che è in grado di svolgere l’altro campione di democrazia: Israele che da 55 anni occupa territorio palestinese e applica l’apartheid. Anche Israele compare 49 volte nel libro di Antonella De Biasi, pur non essendo tra gli ospiti di Astana, se non in veste di Convitato di Pietra: infatti Tel Aviv ha mantenuto un profilo basso, senza contrariare il Cremlino, sia per i milioni di russi e ucraini immigrati in Israele, sia per gli innumerevoli interessi che legano i due paesi; peraltro ha fornito qualche ordigno a Kyiv, senza consentire l’uso di Pegasus o di Blue Wolf, e tantomeno Iron Dome, sistema di difesa antiaerea richiesto dall’Ucraina fin dal 2019 (per dire da quanto si stavano preparando alla “sorprendente” aggressione russa). E soprattutto, come dice Eric Salerno: «Israele ha bisogno di alleati» e questo è reso ancora più evidente dall’accoglienza per gli Accordi di Abramo che ha stipulato prontamente con alcuni paesi arabi.

Israele e Turchia evidenziano il proseguimento sotto altre forme del multilateralismo sotto il cappello della crisi russo-ucraina: come ci ha detto Eric Salerno nella puntata di Transatlantica24 per quanto riguarda Tel Aviv – ma vale anche per Ankara, nonostante il disastro economico: se va in porto l’occupazione coloniale di tutte le zone in cui la Turchia è impegnata, il colonialismo predatorio può rimpinguare le casse. A entrambe il ruolo di potenze locali va stretto e sia nell’area interessata dalle operazioni belliche, sia nel resto dei 7 mari presi in considerazione nel volume dedicato da OGzero ad Astana, si propongono come interlocutori privilegiati, spesso in sostituzione degli interessi delle potenze coloniali europee classiche, assurgendo a un ruolo di potenze più ampia di quella locale mediterranea.

Il ridimensionamento del ruolo dell’Occidente nel panorama internazionale è determinato soprattutto dalla radicale contestazione del suo modello politico, economico e culturale attuata dalla Cina e in secondo luogo dalla Russia. Non è un caso che Cina e Russia siano tra i principali sostenitori di due organizzazioni multilaterali come i Brics e la Shangai Cooperation Organization (Sco). Di recente i due paesi hanno iniziato a collaborare per ridurre la loro dipendenza dal dollaro.

(Antonella De Biasi, Astana e i 7 mari, OGzero, Torino 2021, p. 73).

Dunque di nuovo le potenze asiatiche evidenziano la inadeguatezza della prosopopea dell’UE, che preferisce riarmarsi, dissanguandosi e riducendo a nulla il sistema welfare liberal-democratico, pur di rincorrere sul piano militare le altre potenze guerrafondaie e venditrici di tecnologie militari per sostenere le industrie belliche anche europee, ringalluzzite dalla guerra per procura al confine eurasiatico, evocativo di altre invasioni, ma che sembra preludere a un ridimensionamento tanto dell’Europa, quanto della Russia stessa, ridotti a belligeranti locali di una guerra a cui stanno alla finestra le due vere potenze globali, che preparano il confronto in ambito indo-pacifico. Gli Usa ottengono – dopo che da due amministrazioni lo richiedono – che tutti gli europei destinino il 2% del pil alla “sicurezza”, sgravando gli americani di parte della spesa militare; la Cina – come ci spiegava Sabrina Moles nell’incontro di Transatlantica24 – senza schierarsi, ma lanciando segnali di propensione per l’invasore, pur facendo attenzione a non confondersi con una potenza sull’orlo del fallimento come la Russia che ha il pil di una provincia cinese (il Guandong), può trarre vantaggi, se non si prolunga troppo la crisi e se non si propone come mediatrice, perché rischierebbe di venire degradata al rango di potenza intermedia come appunto Turchia e Israele. I mediatori nel gioco delle parti.

Dopo la normalizzazione delle relazioni sino-russe alla fine della Guerra Fredda, la Russia è emersa come un importante fornitore di armi e tecnologia per la Cina. Quella relazione era un’ancora di salvezza finanziaria per l’industria della difesa russa in un momento in cui gli ordini di approvvigionamento nazionali si erano prosciugati. Ma da allora le vendite russe alla Cina sono diminuite man mano che l’industria della difesa cinese è maturata «in misura significativa grazie al trasferimento di tecnologia e al furto dalla Russia», commentano Eugene Rumer e Richard Sokolski sul sito di Carnegie Endowment for international peace. La Cina ora compete con la Russia nei mercati delle armi. Attualmente le vendite di armi dalla Russia alla Cina rappresentano solo il 3% del commercio totale annuo dei due paesi, che supera i 100 miliardi di dollari. Con l’accesso alla tecnologia occidentale tagliato a causa delle sanzioni, l’industria della difesa russa ha guardato alla Cina come una fonte alternativa di innovazione che non ha la capacità di sviluppare a livello locale.

 (Antonella De Biasi, Astana e i 7 mari, OGzero, Torino 2021, p. 73).

Può essere che il prossimo teatro di questo “Risiko per procura” torni in zona balcanico-caucasica (Nagorno Karabakh ed enclave etniche della Repubblika Srpska, oppure le tensioni panslavistein Bosnia); può darsi si inaspriscano le dispute che in Africa vedono impegnati militari turchi e miliziani della Wagner in contrasto – soprattutto in Françafrique – con gli eserciti coloniali classici; sicuramente Russia e Cina stanno collaborando assiduamente per spartirsi il Sudamerica, grazie alla distrazione di Biden che prosegue il disimpegno del suo predecessore.

L'articolo Il “nuovo” ordine mondiale e il gioco delle parti da Astana a Kyiv proviene da OGzero.

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La guerra in Ucraina cambierà le scelte di Ankara? https://ogzero.org/la-posizione-di-ankara-nel-conflitto-russo-ucraino/ Fri, 18 Mar 2022 14:40:19 +0000 https://ogzero.org/?p=6806 Mar Nero settentrionale con la tatara Crimea; Mar Nero meridionale con gli Stretti strategici per la navigazione. Gli accordi di Astana, che già adombravano un ridimensionamento della Russia al rango delle altre due potenze regionali che li animano, facevano pensare che la Turchia fosse destinata a trarne maggiori vantaggi, mentre Mosca appariva alla ricerca di […]

L'articolo La guerra in Ucraina cambierà le scelte di Ankara? proviene da OGzero.

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Mar Nero settentrionale con la tatara Crimea; Mar Nero meridionale con gli Stretti strategici per la navigazione. Gli accordi di Astana, che già adombravano un ridimensionamento della Russia al rango delle altre due potenze regionali che li animano, facevano pensare che la Turchia fosse destinata a trarne maggiori vantaggi, mentre Mosca appariva alla ricerca di accordi per spartire senza problemi le aree lasciate “libere” dal disimpegno dell’America trumpiana, dimostrando forse un inizio di affanno a svolgere il ruolo di grande potenza. Forse si può inquadrare la “spezial operazy” come una delle tappe delle spartizioni di Astana, che hanno visto diversamente impegnati gli eserciti e le milizie di Ankara e Mosca e quindi l’equidistanza  tra i contendenti da parte di Erdoğan fa il paio con l’interposizione di Putin in finale di conflitto in Nagorno Karabakh concluso a favore dell’Azerbaijan dai droni Bayraktar, protagonisti anche nel confronto bellico in Ucraina. L’equilibrio di Ankara, apparentemente sbilanciato a favore di Kiev (in chiave atlantista), ma attento a lasciare ampi spiragli di apertura a Mosca per proporsi come mediatore – forse per esperienza diretta nell’occupazione imperiale di territori limitrofi al proprio come il Rojava –, può ottenere riconoscimento internazionale, premiando l’ambiguità e la politica dei due forni di Erdoğan? Ed è vera competizione tra Israele e Turchia per ottenere il ruolo di paciere («proprio loro!?!», diranno curdi e palestinesi), o non è il gioco delle parti, per cui ognuno appare come campione valido per ciascuno dei due contendenti, perché tutti legati a filo doppio dallo scambio delle armi?

Vera rivalità tra Israele e Turchia per il ruolo di mediatore?

L’ossessione di OGzero per Astana arriva fin qui, lasciando spazio alle intuizioni di Murat Cinar…


Due paesi importanti per la Turchia sono in piena guerra; Ucraina e Russia. Dai droni ai pomodori, dalla centrale nucleare agli S-400, dal turismo al grano… e dal gas al riciclaggio di denaro. Per il governo centrale della Turchia, Mosca e Kiev sono due partner strategici con i quali ha consolidato dei rapporti economici, politici e militari in questi ultimi anni.
Ora invece questi due vicini stanno attraversando un forte conflitto armato tra loro. Dunque qual è stata, finora, la posizione di Ankara?

Le prime scelte

La politica della Turchia, dal 24 febbraio, quando la Russia ha iniziato a invadere l’Ucraina, mostra che rimarrà in armonia e coordinamento con l’occidente e la Nato, ma senza mettere in pericolo il suo legame con questi due paesi.

Atlantismo

La Turchia, che ha attuato la Convenzione di Montreux e ha impedito a più navi da guerra russe di accedere al Mar Nero, attraverso il mar di Marmara e gli stretti dei Dardanelli e del Bosforo, afferma che non intende imporre sanzioni alla Russia e che farà del suo meglio per mantenere aperti i canali di dialogo con Mosca per la soluzione del problema, accolto con favore anche dall’Occidente.
Con le dichiarazioni rese il giorno dell’inizio dell’operazione, che la Russia definisce “operazione militare speciale”, la Turchia ha chiesto il rispetto dell’integrità territoriale e dell’unità politica dell’Ucraina e ha dichiarato di rifiutare l’attacco russo. La Turchia, che non ha riconosciuto l’invasione e l’annessione della Crimea da parte della Russia nel 2014, ha rivelato che continuerà ad agire insieme all’opinione pubblica internazionale con questa posizione che ha assunto. La Turchia ha anche appoggiato il testo della risoluzione di condanna della Russia all’Assemblea generale delle Nazioni Unite (Onu).

Oltre a condannare la Russia, la Turchia ha anche fornito all’Ucraina il massimo livello di sostegno. Il presidente Recep Tayyip Erdoğan, il presidente dell’Ucraina Volodymyr Zelensky e i ministri degli Esteri e della Difesa turchi si sono incontrati spesso con le loro controparti ucraine e hanno discusso degli sviluppi riguardanti l’occupazione russa esprimendo il sostegno della Turchia alla sovranità dell’Ucraina.
L’uso efficace dei droni armati “made in Turkey”, Bayraktar venduti dalla Turchia, che negli ultimi anni ha approfondito la cooperazione con l’Ucraina nel campo dell’industria della difesa, ha reso ancora più importante il dialogo tra i ministri della Difesa dei due paesi. Le dichiarazioni delle autorità ucraine di voler acquistare più droni dalla Turchia si sono riflesse anche sulla stampa durante questo processo.

Droni autarchici turchi: l'esercito di Ankara si fornisce di ogni dettaglio tecnologico dall'industria nazionale per equipaggiare il proprio gioiello bellico: i sistemi aerei senza pilota

Bayraktar-TB2 Sịha, che fanno strame dei carri armati russi incolonnati.

Sin dall’inizio della guerra, la Turchia ha annunciato di aver iniziato a inviare aiuti umanitari in Ucraina. Con tutti questi passi, la Turchia ha dimostrato di sostenere l’Ucraina.

Caro amico Putin

Il presidente della Repubblica di Turchia, prima e dopo l’inizio dell’operazione, ha dichiarato: «Non rinunceremo alle nostre relazioni speciali né con l’Ucraina né con la Russia» e ha lanciato il messaggio che cercherà di mantenere una politica equilibrata anche se la crisi approfondisse.

Tuttavia, ciò non ha impedito ad Ankara di «invitare Mosca a interrompere l’operazione il prima possibile». Nelle loro dichiarazioni, il presidente Erdoğan e il ministro degli Esteri Mevlüt Çavuşoğlu hanno sottolineato che l’operazione militare ha messo in pericolo la sicurezza sia regionale che mondiale e che la Russia dovrebbe rinunciarvi il prima possibile. Nelle dichiarazioni rilasciate alla stampa è stato anche affermato che Çavuşoğlu ha trasmesso direttamente questo richiamo al ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov, con il quale aveva parlato al telefono.
La Turchia è stata anche tra i paesi che hanno criticato le minacce sventolate da Putin sull’eventuale utilizzo delle armi nucleari. İbrahim Kalın, il consulente per la politica estera del presidente Erdoğan, ha definito “sconcertante” il fatto che Mosca abbia messo sul tavolo la carta nucleare.

Con la Nato ma…

La dedizione della Turchia al patto transatlantico è molto discutibile da parecchi anni. Sia Trump sia Biden, diverse volte hanno criticato Ankara per le sue scelte militari e politiche in Siria e per le sue relazioni con la Russia. Mentre gli Usa sono arrivati anche alle sanzioni economiche e militari, con la Grecia e la Francia ci sono stati dei momenti di grande tensione e reciproche minacce in questi ultimi 2 anni.

La posizione di Ankara nel conflitto russo-ucraino

Settembre 2020, dispute tra appartenenti alla Nato nel Mediterraneo orientale: Grecia e Francia contro Turchia.

Tuttavia dalla guerra in Libia fino al caso degli uiguri, dall’Afghanistan alla produzione militare joint venture con gli alleati, dall’occupazione russa in Crimea e ora con l’appoggio a Kiev, possiamo dire che la Turchia ha seguito molto fedelmente la linea politica, economica e militare della Nato.

… It’s the economy…

La guerra in Ucraina arriva in un momento molto importante per la Turchia; sia per le sue relazioni forti con Mosca sia per la devastante situazione economica e politica che Erdoğan deve affrontare a casa. Un governo ai minimi storici nei sondaggi (meno di 35%) un anno prima delle elezioni presidenziali e parlamentari, sia per il lavoro di grande successo che portano avanti i sindaci delle opposizioni eletti nelle grandi città nel 2019 sia per l’enorme corruzione sempre più conosciuta e evidente che rappresenta il governo e la famiglia del presidente della Repubblica. Ovviamente a questa situazione catastrofica politica bisognerà aggiungere anche la crisi economica senza precedenti. Un’inflazione che supera la soglia del 130%, una Lira che perde il suo valore ogni giorno davanti alle monete straniere, una povertà diffusa e terribile e un vuoto nel fisco che spinge Ankara a svendere qualsiasi cosa al capitale russo, cinese e mediorientale.

… l’intermediario

Insomma: le scelte discutibili, radicali e pericolose di Erdoğan, operate in questi ultimi anni per consolidare un rapporto forte con Putin, fanno paradossalmente sì che la Nato trovi in Ankara un alleato a cui attribuire un ruolo chiave in questo conflitto. Quello del mediatore. Dall’altro lato Erdoğan non vorrebbe assolutamente perdere l’occasione per fare una forte propaganda elettorale nella politica interna portando a casa prestigio, rispetto e forse anche un po’ di soldi, vista la situazione economica e elettorale devastante.

Mediazione

Infatti l’incontro importante ma non fruttifero, avvenuto ad Antalya in Turchia, tra il ministro degli Esteri russo Lavrov e quello ucraino Kubela il 10 marzo è una delle dimostrazioni del fatto che il governo centrale vorrebbe lavorare come mediatore in questo conflitto, molto probabilmente per portare a casa un paio di carte vincenti. L’impegno apprezzato sia da Zelensky sia da Putin ha ricevuto anche gli applausi dal segretario generale della Nato, Stoltenberg che ha espresso la sua gratitudine direttamente al presidente della repubblica di Turchia quando l’ha incontrato durante la sua visita ad Ankara l’11 marzo.
Inoltre, la Turchia si era astenuta, il 26 febbraio, dal votare contro la sospensione della Russia nel Consiglio d’Europa, sulla base del fatto che «una completa interruzione del dialogo e la demolizione dei ponti non sarebbe vantaggiosa». Il ministro Çavuşoğlu ha dichiarato: «Non dovremmo concordare sull’interruzione del dialogo. C’è qualche vantaggio per il Consiglio d’Europa nel rompere i legami con la Russia qui? No. Ecco perché ci siamo astenuti nella votazione. Perché questo comporterebbe la chiusura del dialogo». Tuttavia il 17 marzo, durante una riunione straordinaria: «Il Comitato dei Ministri ha deciso, nel quadro della procedura avviata in virtù dell’articolo 8 dello Statuto del Consiglio d’Europa, che la Federazione russa cessa di essere membro del Consiglio d’Europa a partire da oggi, 26 anni dopo la sua adesione».

La diplomazia di Twitter e le telefonate private

Ankara, sin dall’inizio della guerra, ha mantenuto l’opinione secondo la quale tenere aperti i canali di dialogo con Mosca avrà un impatto positivo sul processo negoziale avviato tra funzionari russi e ucraini. Il consulente per la politica estera del presidente Erdoğan, İbrahim Kalın, in una dichiarazione alla stampa turca, ha affermato che la Turchia segue da vicino il processo negoziale tra le parti in guerra e trasmette i suoi suggerimenti alla Russia, soprattutto grazie al dialogo in corso.
A tutti questi passi e dichiarazioni ovviamente dovremmo aggiungere il continuo traffico di telefonate tra Ankara, Mosca e Kiev e i ringraziamenti di Zelensky direttamente verso Erdoğan comunicati ripetutamente su Twitter, per il suo sostegno

Importanti relazioni sia con Kiev sia con Mosca

In un’intervista rilasciata alla Cnn International, İbrahim Kalın ha dichiarato di non volere che i loro forti legami economici con Mosca, inclusi settori come l’energia, il turismo e l’agricoltura, siano danneggiati, e ha sottolineato che credono nei vantaggio provenienti da una condizione di dialogo alternativa all’imposizione di sanzioni.

La Turchia, che l’anno scorso ha ospitato circa 5 milioni di turisti russi (e 2 milioni di ucraini), ha preferito non assecondare i paesi occidentali che hanno chiuso il loro spazio aereo.

La Russia è il più grande fornitore di gas naturale della Turchia e sta anche costruendo la prima centrale nucleare del paese. I primi reattori dovrebbero essere messi in servizio nel 2023. Il volume degli scambi tra Turchia e Russia supera i 20 miliardi di dollari. I due paesi puntano ad aumentare questa cifra a 100 miliardi di dollari.

Questo rapporto commerciale in crescita vale anche per l’Ucraina. Secondo la Camera di Commercio di Istanbul (Ito) nel 2021 il volume commerciale superava i 7,4 miliardi di dollari Usa e nel 2022 l’obiettivo è raggiungere i 10. Solo nell’ultimo incontro avvenuto il 3 febbraio sono stati firmati ben 8 accordi commerciali tra Erdoğan e Zelensky. La collaborazione tra questi due paesi è in forte crescita anche nel campo militare.

Mediatori sì ma non da soli

La crisi energetica, l’interruzione dei rapporti commerciali, degli investimenti finanziari e del gigantesco riciclaggio di soldi nelle banche europee e in collaborazione con le mafie europee e la minaccia sulla sicurezza cibernetica sono solo alcuni punti che necessitano un piano B nel caso in cui le cose si mettessero molto male a lungo termine con Mosca. Dunque a questo punto insieme ad Ankara subentrano nel gioco due altri attori insospettabili: Grecia e Israele.
La Turchia, ultimamente, sembra che stia ricucendo i suoi rapporti con questi due “alleati”/vicini.

Israele, una volta “razzista” e ”terrorista” per Erdoğan

Infatti non è un caso che il presidente della Repubblica d’Israele, Isaac Herzog, abbia visitato la Turchia, incontrando il suo omologo turco il 9 di marzo. Una visita che era stata già organizzata ma ovviamente ha assunto un’importanza particolare in questo periodo esattamente come il contenuto delle dichiarazioni finali.

«Sia l’inizio di una nuova fase nelle relazioni tra questi due paesi. Dobbiamo rafforzare i nostri obiettivi commerciali soprattutto nel campo dell’energia»: erano alcune parole pronunciate da Erdoğan alla fine dell’incontro. Herzog invece ha voluto parlare anche della convivenza dei popoli, la pace tra le religioni e ha pure citato una poesia di Hikmet.

Secondo il conduttore televisivo israeliano, Mohammad Micedle, questi due paesi hanno obiettivi in comune in Siria e in Ucraina. Quindi devono lavorare insieme. Invece secondo, Jonathan Freeman, uno dei professori dell’Università di Gerusalemme il ruolo di questi due paesi acquisisce un valore aggiunto derivante dalla guerra in Ucraina soprattutto nell’ambito della sicurezza, dell’energia e dal punto di vista economico.

«Grecia e Cipro avranno le risposte che meritano» (Erdoğan, 14 ottobre 2020)

Lo stesso tipo di visita a Istanbul è stato effettuato il 13 di marzo anche dal primo ministro greco Kyriakos Mītsotakīs con Erdoğan.

L’incontro si è concluso con una serie di buoni intenti e progetti legati al «nuovo piano di sicurezza in Europa alla luce della guerra in Ucraina, lotta contro l’immigrazione irregolare e rafforzamento dei rapporti commerciali».

Una nuova fase, una nuova era positiva e felice meno di 2 anni dopo quel famoso momento di crisi registrato nelle acque dell’Egeo che portava quasi alla guerra questi due vicini storici; come l’incontro tra Erdoğan e Herzog mette la parola fine ai dissapori sorti nel maggio 2010 con la vicenda della Freedom Flotilla e l’assalto alla Mavi Marmara, nave turca assaltata dai servizi israeliani che causarono la morte di 9 marinai turchi.

La posizione di Ankara nel conflitto russo-ucraino

Assalto del Mossad alla nave turca Mavi Marmara in rotta verso Gaza nel maggio 2010: causarono 9 morti tra l’equipaggio e il pretesto al presidente turco per ergersi a paladino della causa palestinese.

Oligarchi e oppositori già in Turchia

Approfittare della fuga dei capitali dai paesi in conflitto e isolati è una scelta ormai molto diffusa in diversi angoli del mondo. Esattamente come quello di aprire le porte agli oppositori che a lungo andare potrebbero rappresentare una “carta” politica importante nei confronti dell’alleato di oggi. La Turchia ha fatto queste mosse ospitando quell’enorme quantità di denaro dello stato libico e di quello venezuelano nei momenti di grande crisi economica, politica e militare. Questa scelta fatta da Tripoli e Caracas comporta fedeltà e collaborazione e per Ankara la parziale disponibilità di questi due paesi rappresenta anche un elemento di forza nei confronti dei suoi alleati. In merito alla presenza degli oppositori invece possiamo citare il caso degli uiguri in fuga dallo Xinjiang e dei tatari scappati dalla Crimea in due tempi diversi in questi ultimi anni, rendendo così la Turchia rifugio degli oppositori e degli oppressi per quegli attivisti che rappresentano “minaccia e problema” per gli alleati Cina e Russia.

La storica attrazione per Istanbul

Secondo il professore universitario, Aydin Sezer, la vicinanza geografica della Turchia fa sì che per chi volesse portare via il suo capitale dalla Russia la rende più accessibile e attraente rispetto alla Cina e ai paesi del Golfo. Nel suo intervento fatto in diretta il 7 marzo, organizzato dal portale di notizie “Gazete Duvar, Sezer sostiene che numerose aziende russe stanno già avviando operazioni di acquisto dei beni di lusso, immobili costosi e vari investimenti finanziari a Istanbul. La stessa notizia è stata approfondita il 15 marzo in un articolo di Nuran Erkul Kaya ed Emre Gurkan Abay anche sul sito dell’agenzia di stato “Anadolou Ajansi” e un’esaustiva carrellata di patrimoni investiti in Turchia da parte di oligarchi russi molto vicini a Putin è stata redatta da su “medyascope”.
In una notizia firmata da “Euronews”, il 15 marzo, invece si parlava di quelle migliaia di “benestanti” russi che hanno deciso di lasciare la Russia per via della loro opposizione contro la guerra ma anche perché pensano che una catastrofe economica sia in arrivo. Lo stesso argomento era stato reso pubblico il giorno prima anche da “The New York Times”. In questo articolo, firmato da Anton Troianovski e Patrick Kingsley, si citavano i principali paesi di destinazione come Armenia, Georgia, Uzbekistan, Kirghizistan e Kazakistan ma anche la Turchia. Perché?

Profughi russi a Istanbul

Un turco trasporta nella neve stambulina materassi comprati da organizzazioni umanitarie per aiutare profughi russi contrari alla guerra e timorosi della catastrofe economica russa.

I motivi sono parecchi. Per esempio, nonostante il fatto che i paesi europei abbiano chiuso i loro spazi aerei agli aerei russi, la Turchia non l’ha fatto e questa scelta rende Istanbul una delle alternative per i russi che vogliono lasciare il paese. Solo la Turkish Airlines continua a organizzare 5 voli al giorno per Mosca e, insieme ad altre compagnie, questo numero supera i 30 in alcuni giorni. Kirill Nabutov, un commentatore sportivo di 64 anni fuggito a Istanbul, nell’intervista rilasciata al quotidiano statunitense afferma che la storia si ripete. Anche la cugina della madre di Nabutov fuggì a Istanbul nel 1920 e da lì andò in Tunisia. Anche se non grande come gli ucraini, questa fuga ricorda quelle 100.000 persone in fuga dalla guerra civile negli anni Venti, dopo la rivoluzione bolscevica, rifugiate a Istanbul.

Politica interna appesa ai colpacci internazionali

Il ruolo della Turchia, da diversi punti di vista, possiede un peso importante in questa fase storica che sta attraversando prima di tutti l’Ucraina poi il resto del mondo. Questo ruolo senz’altro è dovuto alle relazioni che Ankara ha costruito in questi ultimi anni, quelle relazioni basate sul reciproco sfruttamento, esattamente come diversi leader mondiali fanno da tempo. A questo fattore sarebbe opportuno aggiungere anche la crisi diplomatica, economica, energetica e politica in cui si trovano alcuni alleati della Turchia. Come abbiamo visto nell’esperienza della “gestione dei migranti” e nei conflitti armati in Libia e Azerbaigian/Armenia, dove l’incapacità oppure l’indifferenza dell’Unione europea e della Nato subalterna, Ankara approfitta dell’occasione. Infine la situazione economica e politica, devastante, in cui si trova il governo di Erdoğan deve fare qualcosa. Un leader che ha sempre fatto alimentare la politica interna con quella estera non può perdere quest’occasione sperando di perdere a casa qualche vittoria. Ce la farà? Questo dipende anche dagli alleati e dai partner della Turchia.

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Ma in Russia… a che punto è la notte? https://ogzero.org/la-crisi-economica-in-russia-a-che-punto-e-la-notte/ Fri, 11 Mar 2022 17:07:54 +0000 https://ogzero.org/?p=6723 La crisi economica in Russia abbraccia nella stretta mortifera delle sanzioni la popolazione e le aziende che finora hanno investito nel paese. Mosca studia mosse difensive che non sono contro-sanzioni e il rublo si svaluta sempre più. Il cauto alleato cinese pensa agli affari e molti attori economici di tutto il mondo si ritirano dalla […]

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La crisi economica in Russia abbraccia nella stretta mortifera delle sanzioni la popolazione e le aziende che finora hanno investito nel paese. Mosca studia mosse difensive che non sono contro-sanzioni e il rublo si svaluta sempre più. Il cauto alleato cinese pensa agli affari e molti attori economici di tutto il mondo si ritirano dalla piazza russa. Migliaia di posti di lavoro in fumo, esportazioni bloccate verso i paesi non amici, soldati di leva spediti al fronte e fatti prigionieri non ammansiscono certo l’opinione pubblica che – vedendo lo spettro di un ritorno all’era sovietica – non segue il suo presidente, nonostante il bombardamento propagandistico dei media. Ma esiste un piano B?

[fin qui OGzero…  Ora Yurii Colombo prosegue fornendo una analisi della situazione economica russa in questo tempo] 


Import-export: le contro-sanzioni?

Non è ancora panico ma ora i russi sono davvero preoccupati. La messe delle sanzioni occidentali, come ha dovuto riconoscere lo stesso portavoce di Putin Dmitry Peskov, sono veramente pesanti e rischiano di essere un colpo di maglio insostenibile per l’economia del paese. «Ora bisogna agire e in fretta», ha detto Peskov anche se per ora le decisioni assunte dalla presidenza e dal gabinetto russo appaiono poco chiare e incerte. Il governo ha definito una lista di beni temporaneamente vietati per l’esportazione dalla Russia per tutto il 2022. Un totale di 200 articoli tra cui attrezzature tecnologiche, apparecchiature per telecomunicazione, attrezzature mediche, veicoli di qualsiasi tipo, attrezzature agricole, attrezzature elettriche. A ben vedere si tratta di una mossa difensiva e non di contro-sanzioni. Di queste si è parlato dei primi giorni della spez operazy (in Russia il termine più prosaico per definire ciò che succede in Ucraina è vietato e può costare fino a 15 anni di reclusione a chi lo usa) ma poi è stato deciso di derubricare visto che perlopiù avrebbero un effetto boomerang. Del resto, è vero, si potrebbe vietare l’importazione di vino italiano o gin, ma questi beni a breve avranno dei prezzi tali che i russi stessi li toglieranno dalle loro tavole senza dover essere soggetti a imposizioni dall’alto. In realtà resta poco chiaro in quale direzione voglia spingere Putin dopo aver limitato a 5000 dollari i versamenti all’estero di valuta pregiata.

Cambio, insolvenza e titoli di stato: lo spettro del default

Da quando dai bancomat sono spariti dollari ed euro (il loro cambio è tassato al 30% per tentare di frenarne l’ascesa) si fanno ora lunghe file – prima e dopo il lavoro – per ritirare anche rubli. Non certo per tesaurizzarli ma per acquistare immediatamente soprattutto beni durevoli. Giovedì l’agenzia di statistica ufficiale Rosstat ha confermato un tasso d’inflazione settimanale del 2,2%, che in linea di tendenza sarebbe intorno al 100% annuo, ma nessuno sa quali saranno gli effetti delle sanzioni tra 3 o 6 mesi.

Le pagine di internet e dei blog in lingua russa sono piene di titoli sulla possibile insolvenza russa, il che rende nervosi i possessori di titoli di stato e spaventa la gente comune sopravvissuta al crack del 1998 che non vorrebbe ripetere l’esperienza di vedere andare in fumo i propri risparmi da un giorno dall’altro.

Secondo Morgan Stanley si può prevedere il default già il 15 aprile, data in cui terminerà il periodo di grazia di 30 giorni dalla scadenza degli eurobond russi per un valore di 117 milioni di dollari. Certo non pagare più i paesi ormai considerati “non amici” attira il Cremlino. Tecnicamente come spiega il canale Telegram moscovita “L’ufficio dell’investitore”, «il ministero delle Finanze onorerà gli obblighi di pagamento, ma a causa delle restrizioni imposte, la Banca Centrale russa non trasferirà le cedole dovute ai detentori stranieri dei titoli». Ma anche questa variabile appare poco potabile. I creditori della Russia e dei paesi che non hanno aderito alle sanzioni non sono interessati da questo “regolamento di conti” politico. Tanto è vero che i produttori cinesi di tecnologia di consumo come Huawei e Xiaomi si sono autoridotti le esportazioni di telefonini e Pc del 60% in Russia temendo di non essere più pagati dagli importatori o rischiare di ricevere sui conti rubli in rapida svalutazione.

Gli amici cinesi: business as usual

Insomma “l’alleato cinese” pensa più al business as usual che alle romanticherie “antimperialiste” di Sergey Lavrov che ha tuonato dalla Turchia: «Non saremo più in ginocchio di fronte allo Zio Sam». Laconicamente una agenzia Tass ha dovuto però registrare che «La Cina ha rifiutato di fornire alle compagnie aeree russe pezzi di aerei, ma la Russia cercherà opportunità di fornitura in altri paesi, tra cui Turchia e India, ha sostenuto il portavoce di Rosaviatsiya». Se però non si parlerà di biglietti verdi difficile che anche questi due paesi possano commuoversi più di tanto.

Le aziende straniere abbandonano il mercato

In questi giorni è fuga dal mercato russo anche per gli attori economici che non avrebbero voluto lasciare una piazza di 145 milioni di consumatori ma che le prospettive dell’insolvenza e delle ridotte capacità di pagamento è considerato “poco attraente”. Ha iniziato Ikea svendendo i mobili stoccati nei depositi di Mosca e San Pietroburgo e chiudendo in fretta e furia. Seguiti dai giganti dell’automobile come Ford, Volkswagen e Porsche. “Pausa di riflessione” anche per Nissan e Toyota.

Secondo quanto riporta “Japan News”, la Panasonic ha smesso di fornire prodotti da fuori della Russia al suo distributore russo a Mosca: «Abbiamo preso in considerazione le difficoltà economiche e logistiche», ha detto un portavoce della compagnia.
Out anche la Komatsu, produttore leader di macchinari per l’edilizia, come anche la Hitachi Construction Machinery che smetterà di esportare escavatori idraulici in Russia. L’azienda prevede anche di cessare la produzione locale a metà aprile. Sempre nello stesso settore, il produttore di gru mobili Tadano ha sospeso le spedizioni in Russia e Bielorussia venerdì per la preoccupazione che le sanzioni finanziarie ostacolino i pagamenti.
Yamaha Motor, che vende motociclette e motori fuoribordo in Russia, ha anche sospeso le esportazioni dal Giappone e da altri paesi verso la Russia.

Disoccupazione, antimperialismo e autarchia: una soluzione?

Migliaia e migliaia di posti lavoro che stanno andando in fumo in un mondo dove il mercato del lavoro – per usare un eufemismo – è sempre stato “volatile”. I comunisti di Zjuganov hanno chiesto a gran voce la «nazionalizzazione delle imprese capitaliste», ma non si capisce bene cosa si potrebbe mai produrre alle condizioni attuali.

Una postura “antimperialista” che piace anche al sindaco di Mosca Sergey Sobjanin che ha promesso di sostituire a breve tutti i McDonald’s con dei fast food russi. L’investimento per ora è limitato (500 milioni di  rubli, al cambio attuale poco più di 3 milioni di euro) ma è il segnale di una chiusura a riccio semiautarchica che ricorda l’Unione Sovietica e che non può piacere soprattutto alle nuove generazioni della capitale.

Il fronte più specificatamente militare lascia più che fredda l’opinione pubblica russa, bombardata da un lato sulle Tv che insistono con messaggi rassicuranti secondo cui «tutto sta andando secondo i piani» e dall’altro dalla macchina delle fake news occidentali che vedono bombardamenti di centrali nucleari dell’esercito russo a ogni piè sospinto.

I “volontari” siriani e le perdite russe (ammesse)

L’impressione – dalla Russia – è che Putin abbia ordinato ai suoi generali di non calcare la mano e di usare il “guanto di velluto” (nella misura in cui si possa fare in una operazione del genere). I russi – anche quelli più convinti delle tesi del Cremlino – difficilmente accetterebbe bombardamenti a tappeto sulla popolazione civile. Ma le difficoltà dell’esercito ad avanzare, malgrado la superiorità tecnica e numerica – appare evidente ai più. Tanto è vero che Putin ha autorizzato perfino la mobilitazione di 16000 “volontari” provenienti dal Medio Oriente, in particolare dalla Siria.

Se si eccettua il Donbass il livello motivazionale a combattere appare scarso mentre lo stato maggiore di Mosca sembra voler evitare lo scontro nelle grandi città e affrontare il pericolo della guerriglia. Secondo Sergey Kirchuk, un attivista comunista ucraino emigrato in Russia e non certo simpatizzante per il regime di Volodymir Zelensky, «l’esercito russo non è riuscito a prendere nessuna grande città ucraina in quindici giorni di combattimenti, a eccezione di Kherson, dove l’insubordinazione locale e la guerriglia sono però già iniziate. I territori degli oblast di Luhansk e Donetsk non sono stati completamente posti sotto controllo. Ci sono battaglie a Kharkiv, Mykolaiv, Sumy, Marjupol e Kyiv. E l’esercito russo sta subendo pesanti perdite. I soldati di leva russi sono coinvolti nell’invasione russa, e molti di loro sono stati fatti prigionieri dall’esercito ucraino. Il ministero della Difesa russo ha confermato questi fatti. L’esercito ucraino sta respingendo con forza l’attacco. Non ci sono stati casi di abbandono di massa delle posizioni o di resa, né di comandanti di formazioni che si sono consegnati al nemico (come successe in Crimea nel 2014). La Russia continua a ridispiegare truppe dall’Estremo Oriente, poiché le attuali forze sono insufficienti per prendere l’Ucraina».

Il piano B è il governo “non ostile”: un film già visto

Si tratta di una interpretazione – quella secondo cui Mosca vorrebbe occupare tutta l’Ucraina – respinta dai vertici del Cremlino e che resterebbe assai onerosa da ogni punto di vista ma che potrebbe diventare un “piano B” se non si riuscisse a trovare la quadra con Kiev. A questo punto il problema sarebbe comunque la formazione di un governo “non ostile” alla Russia.

La vecchia leadership del “Partito delle regioni” di Viktor Janukovich (ora ridenominatasi “Ucraina, casa nostra”) non sembra per ora disponibile all’operazione. L’unico uomo di quell’area che sembra spendibile sarebbe Oleg Zariov, classe 1970, già deputato alla Rada, piccolo businessman tra Mosca e il Donbass. Tuttavia più di un osservatore ritiene che non abbia lo spessore e l’esperienza per prendersi simili responsabilità.

Le trattative di Antalya tra il ministro della Difesa ucraino Dmytro Kuleba e il capo della diplomazia russa Sergey Lavrov sono, come era prevedibile, fallite. Per ora l’argine ucraino non è crollato e la Russia non può tornare a casa senza aver realizzato alcun obiettivo tra quelli apertamente dichiarati, per cui la situazione appare bloccata. Alla fine il Cremlino potrebbe puntare perlomeno a sottomettere Marjupol e aggiungere lo sbocco al mar d’Azov al bottino.

«La Nato non è pronta a garantire la sicurezza dell’Ucraina», ha protestato Kuleba dalla Turchia, senza però citare proprio Erdoǧan che tra i paesi dell’Alleanza è quello che più sta facendo il doppio gioco. Una pressione sull’opinione pubblica occidentale che può far comodo, ma che non sposterà di un millimetro la posizione della UE e degli Usa. Si tratta di un refrain agitato ormai spesso da Zelensky nei suoi quotidiani interventi. Il quale entrato nella crisi con rating bassissimi di consenso e a rischio di essere travolto dalla corruzione che impera nel suo entourage ora si trova a essere “eroe per caso” di un paese che necessita di una qualsiasi leadership per continuare a resistere.

Ascolta “Tutto secondo i piani” su Spreaker.

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Cambi della guardia in Africa, e la Russia suona Wagner https://ogzero.org/cambi-della-guardia-in-africa-e-la-russia-suona-wagner/ Thu, 24 Feb 2022 08:45:35 +0000 https://ogzero.org/?p=6471 In un quadro che vede il ritiro dell’“Impero francese” dall’Africa, il continente diventa una tavola imbandita per chi intravede possibilità di sfruttamento, per chi cerca di farne una piazza del mercato delle armi, per chi porta avanti traffici illeciti con la connivenza di dittatori fantocci. La lotta al terrorismo nasconde l’esigenza di poter condurre affari […]

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In un quadro che vede il ritiro dell’“Impero francese” dall’Africa, il continente diventa una tavola imbandita per chi intravede possibilità di sfruttamento, per chi cerca di farne una piazza del mercato delle armi, per chi porta avanti traffici illeciti con la connivenza di dittatori fantocci. La lotta al terrorismo nasconde l’esigenza di poter condurre affari in un paese stabile, l’indigenza delle popolazioni è funzionale all’assoggettamento del tessuto sociale, basta frenare le partenze per oltremare… con le buone (accordi capestro e che calpestano i diritti umani) o con le cattive (presenza militare mercenaria ben pagata).

[fin qui… OGzero]

Qui una rielaborazione di due articoli di Angelo Ferrari pubblicati su Africa Rivista e Agi, ampliati per OGzero. Aggiungiamo un podcast realizzato con Edoardo Baldaro (ricercatore alla Scuola Sant’Anna di Pisa, esperto di Sahel) e Stefano Ruzza (professore associato in Scienze politiche all’Università di Torino, responsabile di T.wai – Torino, esperto di agenzie di sicurezza).


Spostare il confine del Mediterraneo

Il Niger è e diventerà sempre di più il bastione italiano nel Sahel. L’Italia, nel suo piccolo – sia geografico sia diplomatico – ha deciso di rilanciare la sua presenza nel continente africano proprio privilegiando il rafforzamento di quella militare in parte a scapito della cooperazione allo sviluppo, soprattutto in chiave anti-immigrazione. L’obiettivo è fermare i flussi proprio alle porte della Libia, cioè in Niger, con la presunzione e l’illusione che blindando i confini i problemi possano restare dall’altra parte. Spostare, dunque, più a Sud il confine del Mediterraneo. Ci riuscirà? Non è del tutto scontato.

In Niger la presenza militare è rilevante. Si tratta di 290 militari, 160 mezzi terrestri e 5 aerei. Mentre il rapporto tra spese militari e cooperazione allo sviluppo è di 10 a 1. Un po’ quello che è successo in Afghanistan, con le conseguenze, dopo il ritiro occidentale, che sono sotto gli occhi di tutti dal punto di vista umanitario. Tutto ciò, evidentemente, confligge con un principio che dovrebbe accompagnare le missioni militari all’estero in generale, e in particolare in Africa, è cioè quello per cui creare le condizioni di sicurezza nelle aree di crisi è indispensabile per poter realizzare anche le missioni civili e di sostegno socio-economico che aiutino i paesi interessati a costruire o ricostruire i loro apparati pubblici e a sviluppare le loro economie, a loro volta premessa indispensabile per migliorare le condizioni di vita della popolazione e stabilizzare il contesto locale e regionale.

Il Mali lasciato dagli occidentali

Il sentimento antifrancese che è montato in buona parte del Sahel deriva proprio da questo. Cioè le popolazioni hanno visto un gran numero di militari occidentali, ma nessun cambiamento sostanziale, non solo nella sicurezza, ma soprattutto nelle condizioni di vita reale. La precarietà “umanitaria” si è aggravata. La lezione del Mali dovrebbe insegnare qualcosa anche a noi italiani. Non a caso il presidente del Niger, Mohamed Bazoum, si è detto molto “preoccupato” per il ritiro dei francesi e degli occidentali in generale dal Mali.

A questo punto può risultare utile ascoltare le considerazioni sulla situazione dopo la chiusura di Barkhane e il subentro conseguente dei contractor russi, oltre al confronto tra le diverse reazioni nei paesi subsahariani, con Stefano Ruzza ed @EdoardoBaldaro

 “Il senso di Wagner per le crepe: le interconnessioni con le giunte del Sahel?”.

La “fortuna” del Niger, il paese più povero al mondo

Il Niger, tuttavia, interessa moltissimo all’Italia e non si tira indietro, lo ha dimostrato nel recente passato aprendo un’ambasciata nel 2017 e dal 2018 con la “Missione bilaterale di supporto” – militare. Il Niger, dunque, è un partner strategico e, nelle intenzioni del governo italiano, può rappresentare un’opportunità di business per l’Italia. L’Italia è tra quei paesi che guardano con interesse al crescere di questo mercato e in generale a quello di tutta l’area saheliana e la presenza dell’ambasciata italiana a Niamey ha anche il significato di voler accompagnare quanto più possibile le imprese italiane che vorranno avviare affari in questo contesto relativamente ancora incontaminato. Queste le intenzioni del governo italiano. Ma, diciamo noi, occorre arrivare per tempo. Per l’Italia, dunque, il Niger è un paese stabile – e questo aiuta – ma non si può dimenticare il passato recente. Il paese è sempre stato il crocevia di traffici illeciti, dalla droga alle armi, dal riciclaggio dei soldi sporchi alla tratta degli esseri umani.

Le fortune del Niger – se così si può dire – e dei suoi governanti, sono derivate proprio da questo. Un paese che ha fatto dell’illecito la ragione dei propri guadagni.

È il paese più povero al mondo, ma, Mohammad Issoufou, ex presidente nigerino – ha governato il paese per dieci anni fino al 2021 – ha speso milioni e milioni di dollari per acquistare armi, elicotteri e aerei da combattimento russi e francesi, tradendo la sua piattaforma elettorale di stampo socialista-progressista, che lo ha portato al vertice dello stato, impoverendo ancora di più la sua gente. Il suo successore, Bazoum, va nella stessa direzione, non a caso sul finire del 2021 ha acquistato dalla Turchia nuovi droni. L’impegno e le spese militari prevalgono su tutte, pur di mantenere i privilegi ereditati dal suo predecessore. Le cancellerie di tutto il mondo conoscono a perfezione i due burattinai nigerini, sanno perfettamente con chi hanno a che fare, ma hanno deciso che del Niger si possono fidare. Ma alcune domande, tra le tante, vengono spontanee: per quale ragione le varie milizie e fazioni che controllano il territorio dovrebbero abbandonare i lauti profitti che arrivano dai traffici illeciti che siano di esseri umani, droga, armi o denaro? Quali garanzie sono state fornite? Quali accordi stipulati?

Il governo italiano dovrebbe rispondere a queste domande con il linguaggio schietto della politica e non con quello della diplomazia. Occorre, dunque, fare attenzione. Ma le parole chiave sono “arrivare in tempo”. Non possiamo dimenticare che il paese saheliano è strategico anche per la Francia che è ormai una presenza organica, ma sul quale Parigi rivolge lo sguardo, soprattutto ora che si è ritirata dal Mali. L’intenzione francese è proprio quella di rafforzare la sua presenza in Niger e sul fronte Sud del Sahel, paesi come Costa d’Avorio, Togo e Benin. Gli interessi strategici di Parigi sono noti: l’estrazione dell’uranio è fondamentale per un paese che vive di centrali nucleari. Il Niger è il quarto produttore di uranio al mondo e il sesto per riserve.

L’Italia, dunque, deve adottare una via pragmatica e diplomatica per non andare a cozzare con gli interessi di altri paesi che hanno radici solide in quel pezzetto di deserto.

Wagner: gli strumenti “non convenzionali ” della Russia

In Africa, per esempio, la Russia suona la musica di Wagner. La presenza dei mercenari di Mosca rappresenta per Vladimir Putin la guarnigione di “sfondamento” nella sua politica di espansione in Africa. Non è un mistero che la Russia stia cercando di tornare agli antichi fasti dell’Unione Sovietica e non lo fa impegnandosi direttamente sul campo militare, quello dove si combatte, ma inviando la Wagner che per Mosca fa il lavoro sporco. Lo si vede in maniera evidente, per esempio, nella Repubblica Centrafricana, che è diventata la base operativa russa in Africa centrale. Lì i mercenari combattono a fianco delle truppe regolari e sostengono il regime. La guardia presidenziale è tutta nelle mani del Cremlino, così come i consiglieri del ministero della Difesa. Il Centrafrica è diventata una sorta di portaerei nel mezzo dell’Africa che funziona come trampolino di lancio per l’espansionismo russo. Già nel passato questo paese ha avuto questa funzione, con la presenza di numerose basi della Francia, ex potenza coloniale, almeno fino alla metà degli anni Novanta del secolo scorso. Ora la storia è molto diversa e, come è normale che sia, Putin nega tutto. Si limita a spiegare che l’intervento russo in Africa riguarda la fornitura di armi e l’addestramento militare. Ma ogni evidenza porta da un’altra parte. Lo si sta vedendo in maniera plastica in Mali, dove il sentimento prevalente è quello filorusso. Così come in Burkina Faso dove si sono viste manifestazioni a sostegno dei golpisti, con la gente in piazza che sventolava le bandiere di Mosca.

L’Africa, per Putin, è diventato uno degli scenari privilegiati della sua competizione con il mondo occidentale.

Lo fa, appunto, attraverso la fornitura di armi e con il sostegno dell’industria bellica, come in Sudan terzo produttore di armi nel continente africano dopo Egitto e Sudafrica. Per raggiungere i suoi obiettivi, il Cremlino utilizza non solo i normali canali diplomatici ma anche strumenti non “convenzionali”: i famigerati mercenari della Wagner e la propaganda attraverso i social network, come accade in altre parti del mondo. E funziona.

L’impegno italiano: ridurre le partenze

Il governo italiano sta mettendo in atto un cambio di paradigma nel guardare a questo paese e alla regione del Sahel nel suo insieme, cercando di colmare la sua lacuna di presenza, intercettando in maniera tempestiva il crescere dell’attenzione internazionale. Il Niger guarda ormai all’Italia come un “partner di riferimento”, soprattutto nella gestione delle migrazioni, nella lotta all’avanzamento del terrorismo jihadista, nel contenimento delle sfide ambientali e nello sviluppo. Se sul piano militare l’Italia è ben posizionata e il rinnovo delle missioni all’estero voluto dal governo Draghi va proprio in questa direzione. L’Africa si conferma il continente in cui l’Italia è maggiormente coinvolta, con 17 missioni in corso. Tra quelle più rilevanti in termini di unità impiegate e risorse economiche c’è la Task Force Takouba, per il contrasto della minaccia terroristica nel Sahel, e l’impiego di un dispositivo aeronavale nazionale nel Golfo di Guinea in funzione antipirateria.

Le forze della missione Takouba si preparano a lasciare il paese (fonte Africa Rivista).

Sul piano, invece, della cooperazione allo sviluppo fa segnare il passo. Non si può dimenticare che oltre il 40 per cento della popolazione nigerina vive sotto la soglia di povertà e il paese si colloca in fondo alla ben poco onorevole classifica dell’indice di sviluppo umano. C’è da augurarsi, dunque, che il rinnovato impegno in Niger e in tutta la regione sia teso, anche, al rafforzamento di un impegno umanitario. L’impegno italiano è concentrato – almeno così sembra – alla riduzione delle partenze dei migranti (come racconta qui Fabiana Triburgo). Rimane, tuttavia, la domanda: “È sufficiente la cooperazione militare per impedire le partenze?”. È lecito chiedersi se controllo del territorio di questi paesi e lotta al terrorismo non passino anche e soprattutto attraverso politiche di sviluppo: cioè alla creazione di un welfare state che manca totalmente in questi paesi. Non si considera infatti che la maggior parte delle persone che fuggono da quelle situazioni lo fanno perché manca totalmente la percezione della possibilità di costruirsi un futuro solido per sé e la propria famiglia. Non è solo mancanza di cibo, spesso è la mancanza di welfare state, cioè di una rete sanitaria adeguata e di una rete scolastica capace di formare.

In quei paesi dove la cooperazione militare è importante, gli apparati di governo sacrificano, già di loro, gli investimenti per il welfare a scapito di una crescente spesa militare. Tutto ciò dovrebbe far riflettere.

L’impegno russo: fornire armi e sfruttare le risorse

L’arrivo in Centrafrica, tuttavia, rappresenta, uno spartiacque per Mosca. Le armi russe fanno gola un po’ a tutti: Mali, Niger, Ciad, Burkina Faso e Mauritania hanno lanciato appelli a Mosca perché aiuti le loro forze di sicurezza a combattere il terrorismo, appelli che hanno avuto risposte positive. Tutto ciò piace molto al Cremlino e preoccupa enormemente l’occidente che sta perdendo posizioni strategiche. L’opzione di Mosca è quella di rafforzare la presenza militare per poi passare all’incasso, anche in termini di risorse naturali. L’interesse militare si giustifica, inoltre, con il fatto che il Cremlino è consapevole della sua marginalità nei mercati africani e di non poter competere con l’espansionismo cinese. Le armi, quelle vere, per Mosca, tuttavia, funzionano ancora. Ma è del tutto evidente che l’aiuto militare è subordinato, nel futuro, ad avere un ruolo anche nello sfruttamento delle materie prime.

Non a caso il paradigma di collaborazione con l’Unione africana – emerso nel forum Russia-Africa – che Putin vuole, mira a migliorare i rapporti esistenti, rafforzare i legami diplomatici e aumentare la sua presenza economica nel continente, per avvicinarsi agli elevati livelli di scambi commerciali che già caratterizzano Cina, India, Giappone, Corea del Sud, Turchia, Europa e Stati Uniti.

La presenza russa in Africa (fonte Ispi).

La retorica di Putin definisce la sua agenda per l’Africa “positiva” e si contrappone, a detta sua, ai “giochi geopolitici” degli altri, spiegando che la Russia non è interessata a depredare la ricchezza dell’Africa, ma a lavorare a favore di una cooperazione “civilizzata”. Parola, questa, già usata da coloro che hanno colonizzato il continente.

Dal punto di vista economico, non è da trascurare la presenza in Namibia dove la Russia è impegnata nell’estrazione dell’uranio e in Angola nel settore diamantifero. Da qui, dall’Africa, Putin vuole ripartire per lanciare la sua sfida e tornare a vantare il ruolo di potenza mondiale. Ma la “prudenza” sta caratterizzando la presenza russa. Putin non arriverà a schierare l’esercito regolare e per questo si avvale di mercenari della Wagner, che fa il bello e cattivo tempo un po’ ovunque, in particolare nella Repubblica Centrafricana che, di fatto, è governata proprio dai russi. Il Mali, dopo il ritiro delle truppe occidentali, rappresenta una vittoria significativa per Putin che è riuscito a ridimensionare l’impero francese.

Attività russe in Africa nel 2019 (Fonte ISW).


Gruppo Wagner: un po’ di storia

Sul Gruppo Wagner, ovviamente, sono più le supposizioni che le certezze. Ciò che si sa è che nasce intorno al 2013 con il nome di Corpi Slavi. Il loro fondatore è l’ex colonnello dei servizi segreti militari Dmitry Utkin. Insieme a un piccolo contingente di ex appartenenti alle forze speciali russe, Utkin si schiera in Siria a protezione delle infrastrutture strategiche per la Russia e per il governo siriano di Bashar al-Assad. I mercenari non ottengono grandi risultati e ben presto rientrano in patria. Qui Utkin rifonda l’organizzazione ribattezzandola Gruppo Wagner in onore del compositore tedesco (Utkin ha forti simpatie naziste). È l’incontro con Yevgeny Prigozhin, oligarca con interessi nei comparti dell’alimentazione, dell’estrazione mineraria e nel mondo della gestione dei dati informatici, che fa compiere al Gruppo Wagner il salto di qualità. Prigozhin è legato a doppio filo a Putin che lo utilizza per portare a termine “operazioni delicate”. I mercenari di Utkin vengono quindi impiegati in Ucraina e a sostegno dei separatisti della Repubblica separatista di Lugansk. Poi di nuovo in Siria, dove si affiancano alle forze di Bashar al-Assad. Il momento più tragico avviene nel febbraio 2018 a Deir ez-Zor, quando un centinaio di uomini viene ucciso in un raid americano nei pressi del villaggio di al-Isba durante gli scontri con le forze curde dell’Sdf. Le imprese compiute in tre anni di guerra, permettono a Prigozhin di passare all’incasso. Un incasso chiamato Africa, dove, nel frattempo, la Russia sta conducendo una delicata partita per recuperare spazi di influenza. Mosca cerca di stringere rapporti con numerosi paesi offrendo assistenza militare in cambio di risorse minerarie. Ma in modo informale. Un gruppo di uomini viene quindi inviato in Sudan. Vengono schierati a protezione del presidente Omar al-Bashir e come presidio sul confine con il Sud Sudan. In cambio, i mercenari russi ricevono la gestione di alcuni impianti minerari. Un’operazione molto simile avviene anche nella Repubblica Centrafricana, dove nel luglio 2018 vengono uccisi tre giornalisti russi che indagavano proprio sulle operazioni di Prigozhin. Il magnate russo farebbe affari con almeno dieci paesi, tra i quali Repubblica democratica del Congo, Madagascar, Angola, Guinea, Guinea-Bissau, Mozambico e Zimbabwe. Uomini del Gruppo Wagner sono stati incorporati nelle milizie di Khalifa Haftar in Libia. Il resto è storia recente.


Per rinfrescarvi la memoria su come operano i contractors o le milizie mercenarie e su come funzionano le regole di ingaggio e quali sono i rapporti di forza con gli stati che li “assumono” guardate questa intervista di OGzero a Stefano Ruzza, regia di Murat Cinar.


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Russia-Ucraina: la possibile guerra del dottor Stranamore https://ogzero.org/russia-ucraina-la-possibile-guerra-del-dottor-stranamore/ Sat, 05 Feb 2022 18:46:06 +0000 https://ogzero.org/?p=6152 Come promesso, ecco il secondo intervento di Yurii Colombo sulla situazione ucraina. Si ripercorrono qui gli snodi principali dell’evoluzione della crisi, tra risorse energetiche irrinunciabili, la paura delle potenze internazionali di dispiacere all’alleato americano, le disomogeneità tra la Russia e l’Ucraina, nonché i veri motivi della protesta sociale russa che spesso è stata superficialmente collegata […]

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Come promesso, ecco il secondo intervento di Yurii Colombo sulla situazione ucraina. Si ripercorrono qui gli snodi principali dell’evoluzione della crisi, tra risorse energetiche irrinunciabili, la paura delle potenze internazionali di dispiacere all’alleato americano, le disomogeneità tra la Russia e l’Ucraina, nonché i veri motivi della protesta sociale russa che spesso è stata superficialmente collegata al fascino di leader come Navalny o Zyuganov. Tutti dettagli di un quadro che ancora non è definito e che rischia di sfociare in futuro in un conflitto sebbene questo sia esattamente quello che tutte le parti in gioco vogliono evitare.


La scontro tra Usa e Russia sull’Ucraina non avrà immediate ricadute belliche come avevamo già previsto nel precedente articolo su OGzero. Le forze in campo ai confini non sarebbero mai state sufficienti come rivela in articolo pubblicato molto ben documentato su “Novaya Gazeta” da Valery Shiryaev.

Mostrare i muscoli

Malgrado ciò molti media e social russi hanno continuato a dispensare a piene mani immagini nel web dove si vedono attrezzature militari russe che si spostano su treni dalla Siberia e dall’Estremo Oriente verso ovest sostenendo persino che l’esercito russo potrebbe giungere ad ammassare sul confine ucraino circa 500.000 soldati (ma nessuno smentisce e neppure segnala che il complesso delle forze armate della Federazione è a oggi composto complessivamente da circa 280.000 uomini!).

Che un’incursione russa non sia all’ordine del giorno ne è convinto anche LInstitute for the Study of War, uno dei think tank più aggressivi degli Stati Uniti, sostenuto dalle donazioni dei giganti dell’industria militare, che a dicembre ha pubblicato uno studio sui possibili sviluppi del negoziato. Nel rapporto del 27 gennaio intitolato Putin’s Likely Course of Action in Ukraine: Updated Course of Action Assessment si sostiene una linea di ragionamento che è tutta l’opposto di quella della propaganda dell’establishment americano. In particolare si legge che: «Uno sguardo più ravvicinato su cosa comporterebbe una tale invasione […] e ai rischi e ai costi che Putin dovrebbe correre […] ci porta a prevedere che è improbabile che quest’inverno verrà lanciata un’invasione dell’Ucraina. Potrebbe lanciare un’invasione limitata del Sudest non occupato dell’Ucraina che non sarà all’altezza di un’invasione su vasta scala […]. Un’invasione russa su vasta scala dell’Ucraina sarebbe di gran lunga l’operazione militare più importante, più audace e più rischiosa che Mosca abbia lanciato dall’invasione dell’Afghanistan nel 1979. Sarebbe molto più difficile delle guerre statunitensi contro l’Iraq del 1991 o del 2003. E sarebbe un netto allontanamento dagli approcci su cui Putin ha fatto affidamento dal 2015 (come racconto nel mio libro La spada e lo scudo). Ciò costerebbe alla Russia molti soldi e probabilmente molte migliaia di vittime».

Reticenza e cautela

Si tratta di timori fondati che attraversano anche l’opinione pubblica russa in gran parte poco propensa a “morire per Kiev” e comunque comporterebbe il ritorno a stili di vita autarchici dell’epoca sovietica che inevitabilmente si imporrebbero in seguito alle messe di sanzioni finanziarie già promesse dagli Usa in caso di “escalation”.

L’assetto degli schieramenti nella disputa (fonte Ispi / The Washington Post)

Ma anche per Joe Biden, in questo momento, mantenere la tensione alta sull’Europa orientale risulta difficile.

In primo luogo perché i paesi dell’Unione Europea risultano sempre più reticenti a infilarsi in una guerra “calda” in cui hanno ben poco da guadagnare. Il gioco potrebbe eventualmente valere la candela se una pressione anche militare portasse a un crollo del regime putiniano facendo diventare la Russia terreno di caccia per le multinazionali internazionali, ma allo stato dell’arte la cosa è altamente improbabile. La Germania in particolare attraverso il leader della Cdu tedesca Friedrich Merz ha segnalato forte preoccupazione in caso di fuoriuscita della Russia dal sistema Swift: «Se disconnettiamo la Russia da Swift, c’è un grande pericolo che il sistema crolli e potremmo dover passare al sistema di pagamento cinese. Ci faremmo un grande torto», ha sostenuto alla fine di gennaio. Si tratta di preoccupazioni condivise anche al cancellierato.

La Cina da parte sua sta nicchiando come al solito, ma all’Onu non ha fatto mancare il suo sostegno al Cremlino.

Nella notte del 1° febbraio il Consiglio di Sicurezza si è riunito a New York per discutere di Ucraina su proposta degli Stati Uniti. Gli americani avevano bisogno di 9 voti su 15 dei membri permanenti e provvisori del Consiglio di Sicurezza, escluse le astensioni, per mettere il tema in agenda. Ci sono riusciti per il rotto della cuffia ma hanno dovuto incassare il netto no di Pechino e una più cauta astensione di Delhi, un’astensione che però nella circostanza era un sostanziale voto contrario.

L’India insiste per la soluzione negoziata, preoccupata anche per la sua importante comunità di studenti presente oggi a Kiev e dal suo ruolo di bilancia in Asia che l’ha portata ad acquistare ingenti forniture militari russe.

Ancora più netta è l’ultraconservatrice Ungheria di Orban, la quale spacca il fronte di Visegrád per schierarsi «nettamente contro ogni intervento Nato».

Orbán giunto a Mosca all’inizio di febbraio ha lasciato stupefatti quando ha avanzato la sfrontata proposta: datemi più gas a prezzi stracciati che ci penserò io a venderlo… all’Ucraina! Nello stesso giorno l’Ungheria iniziava a fornire gas russo all’Ucraina approfittando del fatto di poterlo ottenere grazie a un contratto stipulato fino al 2036 a prezzi 5 volte inferiori a quelli del mercato attuale.

Non c’è alternativa al gas russo

Tutto ciò mette a nudo una prosaica realtà che quasi nessuno in Europa vuol guardare in faccia pur di non dispiacere all’alleato americano: al netto delle prospettive fumose della green economy planetaria non ci sono a oggi alternative al gas russo neppure per l’Ucraina. Per ora Zelensky ha sostituito le forniture di idrocarburi russi con armi americane (l’ultima fornitura di fine gennaio è per un miliardo di dollari), ma com’è noto queste ultime rappresentano solo una zavorra per il bilancio, se non vengono utilizzate in un conflitto. Anche perché presto il contribuente europeo potrebbe essere messo al corrente di un’amara realtà:

che il riarmo ucraino viene pagato da Bruxelles con la nuova tranche di prestiti all’Ucraina per un miliardo e mezzo di euro appena fornita, proprio mentre gli Usa vendevano armi a Zelensky.

La triangolazione Mosca-Budapest-Kiev non può non avere ricadute politiche su più vasta scala. L’escalation con Putin a questo punto diverrebbe una sola esigenza americana per tenere insieme un’Europa sempre più sfrangiata nell’atteggiamento da tenere con la Russia. Da questo punto di vista c’è da ritenere che la guerra militare e non solo diplomatica e commerciale in Europa – in prospettiva – non sia solo un’ipotesi di scuola.

Come se l’Ucraina fosse un membro della Nato

Per la prima volta nella storia della Nato, lo scorso 11 dicembre un aereo da ricognizione strategica statunitense Boeing RC-135 partito dalla base aerea britannica Mildenhall ha effettuato un profondo raid lungo i confini della Federazione Russa. Ha raccolto informazioni sulla configurazione del sistema di difesa aerea e sulla struttura della difesa russa, volando lungo il confine della Bielorussia: Kharkov, Dnepropetrovsk, regioni di Zaporozhye e finendo in Crimea. In questo caso, l’esercito americano ha agito esattamente come se l’Ucraina fosse un membro a pieno titolo della Nato. Un approccio che coinvolge appieno la Nato visto che i droni da ricognizione RQ-4 Global Hawk, che regolarmente volano sul Donbass partono dalla base aerea di Sigonella. Da parte sua la Csto, il Patto di Varsavia versione XXI secolo, dopo il blitz in Kazakhstan, svolge un’esercitazione operativa congiunta non programmata delle forze armate di Bielorussia e Russia denominata “Allied Resolve-2022”. Le prime unità (non più di 15.000 uomini in totale, 12 caccia e 2 battaglioni S-400) sono già arrivate in zona. War games, si dirà, ma che si collocano in una crisi, quella Ucraina, che non trovando soluzione si è incancrenita sempre di più.

 

Manifestazione contro la guerra a Kiev

La visione russa

La radice dei problemi delle relazioni tra Ucraina e Russia affonda nelle relazioni tra i due paesi slavi sin dalle origini, sin dalla formazione della Rus’ nel X secolo. Il comune ceppo e l’appartenenza a una comune area territoriale è stato segnalato non a caso da Vladimir Putin in un lungo articolo (qui nella sua versione inglese) che giustamente è stato definito “strategico”, in quanto il leader osserva le relazioni tra i due popoli non nella contingenza ma in prospettiva.

Tuttavia il lungo excursus storico che passa attraverso la vicenda della dominazione mongola fino ai giorni nostri, appare rozzo, russocentrico, incapace di relazionarsi con una identità nazionale ormai pienamente formata.

In particolare, pesa nella ricostruzione del presidente russo, soprattutto il mancato riconoscimento del ruolo nefasto giocato dallo stalinismo in epoca sovietica per quanto riguarda il vero e proprio genocidio (Holomodor) nei confronti della popolazione contadina negli anni Trenta durante la collettivizzazione forzata delle terre imposta dal potere sovietico e con le repressioni dei tatari di Crimea. Tuttavia il comune ceppo slavo e la lunga coabitazione per settant’anni aveva reso fortemente integrate le due repubbliche: dal punto di vista economico ma anche sociale con la formazione di un gran numero di famiglie “miste” dentro un paese che conservava forti tratti di disomogeneità. Basti pensare alle differenze culturali e etniche tra gli ex cittadini polacchi o rumeni integrati nell’Urss dopo il “Patto Molotov-Ribbentrop” e gli abitanti delle zone del Donbass, definite da sempre “Piccola, Nuova Russia” (Malaja, Novaja Rossija). L’indipendenza ucraina, giunta alla fine del 1991 ebbe da questo punto di vista conseguenze nefaste: lungo 30 anni l’economia ucraina non si è più ripresa forgiando un’oligarchia parassitaria tanto quella russa ma senza il vantaggio di poter esportare le materie prime.

La visione ucraina

Da questo punto di vista l’Ucraina fino al grande crack del 2014 con l’insurrezione reazionaria della Maidan, la guerra nel Donbass e l’annessione della Crimea hanno sempre oscillato tra attrazione verso la UE e fattivo legame economico e sociale con la Russia (per una ricostruzione dettagliata della storia ucraina dal 1991 a oggi si veda il mio libro su questa tema Svoboda).

La necessità da parte della nuova nomenklatura antirussa emersa dopo il 2014 esigeva che si creasse una narrazione storica lontana dagli stilemi sovietici che per una serie di motivi si è andata ad agglutinare nelle ideologie del nazionalismo indipendentista di Stepan Bandera, collaborazionista del nazismo durante la Seconda guerra mondiale ma spacciato come “terzocampista” equidistante tra Urss e nazismo. Ciò permetteva, tra l’altro, di usare come volontari militari e guardie nazionali, quei militanti neofascisti formatisi con quelle ideologie negli anni Duemila. Come si può cogliere, si tratta di un intricato groviglio storico-economico-politico difficile da districare, una bomba pronta a riesplodere in ogni momento.

Addestramento ucraino nelle foreste di Kharkiv (fonte Euronews).

L’Ucraina colonia delle potenze occidentali

Anche perché la situazione interna dei due paesi resta difficile. Contraddizioni sociali interne nei due paesi, alimentano spinte nazionaliste e belliciste come arma di distrazione di massa. L’Ucraina dal punto di vista socio-economico continua a essere il fanalino di coda europeo. Il suo Prodotto interno lordo è ripartito negli ultimi anni ma sta raggiungendo solo ora la parità in termini assoluti (e tenendo conto delle amputazioni della Crimea e del Donbass). Con 130 miliardi di dollari di debiti soprattutto nei confronti del Fondo monetario internazionale, gli Usa e la UE (che rappresentano circa l’81% del Pil nazionale annuo secondo i dati della Banca Mondiale) l’Ucraina si è trasformata in una vera e propria colonia delle potenze occidentali dimostrandosi solerte nel pagare le rate trimestrali ai suoi creditori ma schiacciando sempre di più i redditi di un’economia che come quella russa resta in buona parte dipendente dallo stato. I salari superano a stento i 150 dollari mensili mentre il reddito medio supera di poco i 4000 collocando il paese al 133° posto della classifica dei paesi più abbienti, ben dietro Iraq, Guatemala o Belize. E, non a caso, il paese resta quello a più ampia conflittualità rivendicativa nel Vecchio continente, benché snobbata dalla stampa internazionale. Dopo le grandi manifestazioni dei minatori nel paese di ottobre che pretendevano il pagamento dei salari arretrati non pagati (come riporta “Apostroph”), alla fine di novembre si sono tenute dimostrazioni a Kiev, sfociate in scontri con la polizia contro gli aumenti delle tariffe elettriche. Il degrado economico è tale che il presidente Zelensky si è potuto permettere di rimbrottare Joe Biden per aver spinto l’acceleratore sui pericoli di guerra con la Russia che alla fine di gennaio stavano affossando il mercato finanziario interno, come immediatamente rilevato il 2 febbraio dal “Financial Times”.

Il peso e il ruolo della Difesa nel bilancio russo

La Russia ha problemi diversi da quello del vicino slavo. Nei primi dieci anni del millennio – negli anni della ripresa economica – Putin fu in grado di pagare per intero il debito estero e di accumulare grandi riserve di oro e di valuta occidentale per far fronte alla volatilità del rublo. Si tratta di un approccio a lungo termine se è vero quanto è scritto nel 46° Rapporto sull’economia russa della Vsemirnyj Bank uscito il 1° dicembre, dove si legge che buona parte degli utili determinati dall’aumento dei profitti dovuti all’aumento dei prezzi delle materie prime energetiche sono stati investiti.

Ora però, malgrado i “fondamentali” (a parte l’inflazione) restino eccellenti, da un decennio l’economia ristagna, i redditi diminuiscono e si coglie soprattutto nelle città europee uno iato sempre più profondo tra le aspettative e le promesse elargite a piene mani dal regime e la realtà corrente.

Questa è stata la base sociale della protesta intercettata in modo diverso da Navalny e dal Partito comunista di Zyuganov.

Al fondo resta il peso improduttivo di quel 25% di bilancio dello stato investito in sicurezza; in primo luogo nella Difesa che alimenta il ruolo dei Dottor Stranamore all’interno del Cremlino e riduce la possibilità di grandi investimenti nelle infrastrutture ancora particolarmente carenti nel Nord europeo del paese e in buona parte della Siberia.

Ecco perché la guerra russo-ucraina, che nessuno è così pazzo da voler scientemente perseguire, resta un’ipotesi possibile nel futuro anche prossimo.

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Ucraina, frenetici dialoghi tra sordi https://ogzero.org/ucraina-frenetici-dialoghi-tra-sordi/ Fri, 28 Jan 2022 22:50:01 +0000 https://ogzero.org/?p=5994 Pubblichiamo il primo di due interventi di Yurii Colombo volti ad analizzare dal punto di vista geopolitico giochi di guerra e trattative in corso tra le varie diplomazie per la situazione in Ucraina: frenetici dialoghi tra sordi, ovvero silenzi prolungati nel secondo articolo. Un vecchio proverbio ucraino (conosciuto anche in Russia) dice che  “C’è un […]

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Pubblichiamo il primo di due interventi di Yurii Colombo volti ad analizzare dal punto di vista geopolitico giochi di guerra e trattative in corso tra le varie diplomazie per la situazione in Ucraina: frenetici dialoghi tra sordi, ovvero silenzi prolungati nel secondo articolo.


Un vecchio proverbio ucraino (conosciuto anche in Russia) dice che  “C’è un sambuco in giardino e uno zio a Kiev” per indicare quando tra due interlocutori non c’è nulla in comune, ognuno dice la sua e non ascolta l’altro. Un dialogo tra sordi, potremmo tradurre in italiano. Sarebbe questo il consuntivo di frenetiche settimane di incontri bilaterali, messaggi diffusi sulla stampa in codice agli avversari, scambi di accuse e naturalmente ammassamenti di truppe e war games tra Russia e Nato con al centro l’Ucraina e per certi versi il destino del vecchio (e malandato) continente.

La vecchia “dottrina Breznev”

Mercoledì 26 gennaio 2022, dopo i round di trattative dei primi giorni dell’anno a Ginevra, gli Usa hanno consegnato la risposta alla proposta di accordo fatta circolare pubblicamente dalla Russia già il 17 dicembre scorso e leggibile qui. Nella “bozza” del ministero degli Esteri russi si sosteneva che «La Russia e gli Usa […] non dovrebbero dispiegare le loro forze armate e armi in aree in cui tale dispiegamento sarebbe percepito dall’altra parte come una minaccia alla loro sicurezza nazionale» ma soprattutto si chiedeva alla Nato di escludere l’ipotesi un’ulteriore espansione verso Est. Si tratterebbe di una versione rivista e corretta della vecchia “dottrina Breznev” che prevedeva il riconoscimento di un’area di “influenza russa” nell’Est-Europa dopo l’invasione della Cecoslovacchia nel fatidico 1968. Ma se negli anni Settanta ciò implicava il riconoscimento del controllo degli stati d’oltre cortina da parte sovietica, ora a Mosca ci si accontenterebbe di impedire a Kiev e Tblisi di allearsi militarmente all’Occidente.

Per Putin l’Ucraina rappresenterebbe quella linea rossa da non superare che l’Alleanza Atlantica non dovrebbe varcare, pena la «rottura verticale delle relazioni».

Visto dalla Moscova il ragionamento non fa una grinza: negli ultimi 24 anni, 14 stati dell’Europa orientale hanno aderito alla Nato in barba alle promesse (a parole) che erano state fatte a Gorbačëv ai tempi dell’unificazione tedesca, e questa non solo bussa ora sul fronte occidentale ma rischia – in prospettiva – di infettare il Centro-Asia in particolare il Turkmenistan e l’Uzbekistan che dopo il disfacimento del Patto di Varsavia non hanno aderito all’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva.

La risposta americana – per ora non pubblicata dal Cremlino – è stata interlocutoria. Il “New York Times” sostiene che gli Stati Uniti hanno proposto di rilanciare il Trattato sulle forze nucleari a medio raggio (Trattato Inf), dal quale si sono ritirati nel 2019. La pubblicazione dell’East Coast riporta la risposta degli Stati Uniti la quale «afferma chiaramente che la Russia non avrà potere di veto sulla presenza di armi nucleari, truppe o armi convenzionali nei paesi della Nato», ma «apre le porte a negoziati sulle restrizioni reciproche per quelle a corto e medio raggio». Il piano sarebbe quello di giungere ad accordi “realistici” compreso quello sui “cieli aperti” che con una certa leggerezza erano stati lasciati scadere dall’amministrazione Trump e che invece Joe Biden considererebbe imprescindibili per evitare crisi impreviste dell’ordine globale.

L’espansione della Nato verso est

Ma la trattativa in realtà è ancora più ampia. Andrey Kortunov, direttore generale del Consiglio per gli affari internazionali della Russia (Inac) ha sottolineato che un’altra componente necessaria degli attuali negoziati tra Russia e Occidente sulle garanzie di sicurezza dovrebbe essere il rinnovo del Trattato sulle forze armate convenzionali in Europa (Cfe). «Dovremo sviluppare una nuova versione del Trattato Cfe, che dovrebbe certamente contenere la tesi di limitare l’espansione verso est della Nato. La nuova versione del Cfe dovrebbe contenere anche clausole relative ai droni e una serie di altri nuovi tipi di armi che non erano nel precedente trattato, firmato nel 1990», sostiene Kortunov.

Che questo sia il canovaccio – e buona sostanza della vera trattativa in corso tra le due potenze – lo si desume anche dalle parole di Sergey Lavrov, ministro degli Esteri russo, il quale ha stigmatizzato Washington sostenendo che sulla “ciccia” (ovvero lo stop all’espansione della Nato) non c’è “nessuna risposta positiva”. Allo stesso tempo però, il diplomatico russo, ha osservato che il contenuto della risposta degli Stati Uniti ci consente di contare su una discussione seria, ma su questioni secondarie. La decisione sugli ulteriori passi della Russia sarà presa da Vladimir Putin, ha precisato il ministro degli Esteri. E anche il Consiglio della Federazione ritiene che la risposta degli Stati Uniti contenga una volontà di compromesso in alcune aree. La replica americana in sostanza si condenserebbe in ciò che aveva affermato Jens Stoltemberg qualche ora prima e che era stato letto negativamente dalla City russa provocando una caduta poco piacevole del mercato azionario e del rublo. Era del resto anche quanto affermato da Biden il 20 gennaio: «L’adesione dell’Ucraina alla Nato è improbabile nel prossimo futuro. Per unirsi all’Alleanza, l’Ucraina deve fare molto lavoro dal punto di vista della democrazia e di una serie di altre cose». In linguaggio corrente significa che l’Ucraina dovrebbe abbandonare ogni richiamo alle ideologie neofasciste di Stepan Bandera sui cui tristemente in parte poggia oggi (invise alla Polonia e alla lobby ebraica a Washington) ma garantire la possibilità di un accesso limpido al suo mercato per gli occidentali, riducendo il tasso di corruzione interna.

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Armi Nato in arrivo in Ucraina.

Le minacce “ibride” di Putin

Come ha segnalato correttamente il politologo ucraino Volodmyr Ishchienko, lo stesso “Center of Defense Strategies”, un think tank ucraino guidato da un ex ministro della Difesa, «aveva affermato in modo persuasivo che qualsiasi invasione russa di massa con l’occupazione di grandi territori e grandi città ucraine è molto improbabile non solo nelle prossime settimane ma anche durante il 2022». Secondo Ishchienko «l’accumulo di truppe russe alle frontiere non è superiore a quello della primavera del 2021 e i preparativi logistici non sono nemmeno lontanamente al livello di sostenere un’operazione militare di questa portata. In tali condizioni tale operazione sarebbe semplicemente suicida per Putin, le minacce più realistiche dalla Russia nel breve termine sono di natura “ibrida”», come per esempio la ripresa in grande stile delle scaramucce nel Donbass.

L’obiettivo primario della campagna mediatica non sarebbe quindi probabilmente nemmeno l’Ucraina, ma la Germania e non solo.

Ci raccontano di questo del resto anche le dimissioni imposte al comandante della Marina tedesca Kay-Achim Schönbach dopo che aveva fatto coming out la settimana precedente sostenendo che «la penisola di Crimea non tornerà ai suoi legittimi proprietari». Aveva anche definito «una sciocchezza» che Mosca possa presumibilmente pianificare di destabilizzare l’Ucraina. Secondo lui, India e Germania hanno bisogno della Russia per contrastare la Cina. Schoenbach aveva chiosato persino affermando che il presidente russo Vladimir Putin vuole «rispetto alla pari» dall’Occidente, ed «è facile dargli il rispetto che chiede – e probabilmente – merita». La stampa tedesca più attenta ha commentato che il generale sarebbe caduto in un “trappolone”. Infatti le dichiarazioni “bomba” erano state rilasciate durante un discorso all’Istituto indiano per gli Studi e l’Analisi della Difesa intitolato a Manohar Parrikar (Idsa) a Nuova Delhi, cioè in uno dei paesi più interessati a mantenere una politica di appeasement tra Mosca e Washington.

Del resto forse basta uscire dall’Europa per percepire la crisi intorno all’Ucraina con tutt’altre lenti più segnate dalla Realpolitik e meno dalle ideologie correnti.

Tuttavia le affermazioni del capo della Marina tedesca – benché pronunciate a migliaia di chilometri da casa e proprio in quei giorni – non potevano non produrre reazioni forti e ciò rimanda alle contraddizioni presenti dentro la cancelleria tedesca e più in generale nei circoli teutonici del business. In primo luogo ovviamente la questione delle rotte energetiche di cui anche cittadini e imprese tedesche quest’inverno hanno potuto constatare l’importanza con il salasso dovuto all’aumento delle bollette del gas (+69% nel giro di un anno). Gazprom controlla una serie di impianti di stoccaggio del gas in Germania e in Europa. Naturalmente, in Europa, soprattutto nella sua parte orientale e centrale, temono che in caso di guerra in Ucraina e con l’imposizione di sanzioni “infernali” contro la Russia, Mosca possa chiudere completamente la valvola del gas come risposta. Come annota il moscovita “Expert” nel numero in edicola, «Berlino ha fatto investimenti molto cospicui nell’energia pulita, ma la transizione dai combustibili fossili alle rinnovabili è lenta e irregolare. Il gas nel bilancio energetico della Germania rappresenta ora circa il 25%. Con la chiusura delle centrali nucleari e delle centrali a carbone, questa quota aumenterà. La quota di gas nella produzione di elettricità lo scorso anno ha già superato la quota del 1990. Al gas russo oggi non c’è alcuna alternativa».

Mosca, l’insegna della Gazprom svetta sui palazzi governativi russi (foto Aleksey H / Shutterstock).

Alleati e rivali europei

Ma non si tratta solo di “North Stream 2” a cui a Berlino in fin dei conti non vorrebbe rinunciare, ma anche del ruolo dell’Europa in una trattativa in cui il pallino sembra finito in mano americana. Qui però la Germania trova un alleato – ma anche rivale – nella Francia, che in questi giorni ha esibito iniziative autonome in incontri bilaterali con Putin. Andrey Kortunov, direttore generale del Consiglio per gli Affari internazionali della Russia è convinto che «la questione ucraina va considerata principalmente nel contesto delle elezioni presidenziali di aprile in Francia. Macron, nell’ambito della campagna elettorale, convincerà tutti che può diventare il leader d’Europa, avendo uno scenario per risolvere i problemi con l’Ucraina. Dirà che Parigi ha il diritto di guidare il dialogo con Mosca e che queste tradizioni sono state stabilite sotto De Gaulle». Non è solo la vecchia idea dell’Europa da Vladivostock a Lisbona che trovò proseliti anche nella destra neonazista europea degli anni Sessanta a tornare in auge, ma anche un rilancio del confronto tra locomotiva franco-tedesca e carro di Visegrad sull’approccio da tenere con Putin. Il Formato Normandia probabilmente ripartirà anche se i russi si sono convinti che senza l’adesione formale anche degli Usa (a cui si sono detti favorevoli) non si faranno dei grandi passi avanti.

La Croazia fuori dal coro

Che non tutta l’Unione europea si pronta a mettersi in fila indiana dietro Biden è saltato all’occhio con la posizione assunta durante la crisi dalla Croazia.Il presidente Zoran Milanović ha sostenuto che se il conflitto tra Russia e Ucraina crescerà, il paese ritirerà i suoi militari dal contingente Nato nella regione. Ha sottolineato anche che la Croazia non ha nulla a che fare con ciò che sta accadendo tra i due paesi slavi, e ha collegato la situazione stessa al rinnovato attivismo dell’amministrazione statunitense in chiave elettorale visto che inesorabilmente si avvicinano le elezioni di mid-term. Ciò che sta succedendo per Zagabria «non ha niente a che fare con l’Ucraina o la Russia, ha a che fare con le dinamiche della politica interna americana… nelle questioni di sicurezza internazionale vedo un comportamento pericoloso. Non solo la Croazia non invierà, ma in caso di escalation richiamerà fino all’ultimo soldato croato. Fino all’ultimo!».

Il presidente croato ha avuto parole di duro rimprovero anche per Bruxelles: «L’Ucraina è ancora uno dei paesi più corrotti, l’UE non ha dato nulla all’Ucraina». Si tratta, in linea di massima, della stessa posizione di tutti i paesi ex jugoslavi e balcanici e probabilmente malgrado il superatlantista Draghi anche dei facitori della politica estera alla Farnesina che devono dare da un lato un colpo al cerchio russofobo ma anche uno alla botte dei pur cospicui interessi commerciali italiani in Russia.

Rulli di tamburi o partite a scacchi?

Insomma tanto rullare di tamburi di guerra delle scorse settimane si sarebbe trasformato in una sorta di partita a scacchi stile Fischer-Spassky. Tutto bene quindi? Per nulla, anche perché la scintilla di un conflitto in piena Europa resta sempre dietro l’angolo, vuoi per caso, vuoi per provocazione, ma soprattutto perché la crisi ucraina resta aperta, come resta aperta la questione della sistemazione complessiva della “frontiera naturale” russa che va dalla Transnistria fino alla Bielorussia, passando per l’Armenia.

Sarà quindi importante fare un passo indietro per farne due avanti ed evitare una lettura appiattita sulle tattiche delle diplomazie. Lo faremo tra qualche giorno proprio qui su Ogzero per meglio inquadrare la crisi ucraina e i potenziali pericoli per la pace e la stabilità internazionale nei prossimi mesi e anni che restano squadernati sotto i nostri occhi.

Qui un approfondimento dell’autore in un intervento ai microfoni di “Bastioni di Orione” sulle frequenze di Radio Blackout:

Ascolta “L’Ukraina rimane un pendolo tra Est e Ovest?” su Spreaker.

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I contorni geopolitici della crisi polacco-bielorussa https://ogzero.org/nuova-fase-di-squilibrio-in-europa/ Sun, 05 Dec 2021 15:40:59 +0000 https://ogzero.org/?p=5526 Mentre i media mainstream hanno già distolto lo sguardo dal confine polacco-bielorusso, i problemi aperti (che in buona parte sono ancora lì!) dall’ammassamento di migliaia di migranti provenienti da diverse regioni dell’Asia in cerca di approdo in Germania restano squadernati e rimandano alla nuova fase di squilibrio in Europa apertasi ai confini della Russia, prima […]

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Mentre i media mainstream hanno già distolto lo sguardo dal confine polacco-bielorusso, i problemi aperti (che in buona parte sono ancora lì!) dall’ammassamento di migliaia di migranti provenienti da diverse regioni dell’Asia in cerca di approdo in Germania restano squadernati e rimandano alla nuova fase di squilibrio in Europa apertasi ai confini della Russia, prima con la guerra nel Donbass nel 2014 e poi con le manifestazioni antiregime in Bielorussia nell’estate del 2020.


Il menu dei telegiornali russi di queste ultime settimane rappresentano, da questo punto di vista, l’altra faccia della propaganda polacca della “guerra ibrida” che sarebbe stata scatenata da Alexander Lukashenko (con il pieno sostegno di Putin) ai confini occidentali della Bielorussia.

I programmi d’informazione della Federazione, va da sé, continuano a battere quasi su un solo tasto: esiste un tentativo di aggressione e di isolamento della Russia che usa tutti gli strumenti di intimidazione. La portavoce del ministero degli Esteri russo Marya Zacharova, per sottolineare questo aspetto ha persino fatto un po’ di pubblicità a la Repubblica definendo una “deliziosa sciocchezza” un articolo di Maurizio Molinari intitolato senza troppe metafore Carri armati e migranti: la morsa di Putin sull’Europa. Secondo Zacharova, nel valutare la situazione al confine tra Russia e Ucraina, Molinari si concentra solo sulle “fobie americane” senza impegnarsi nel fact-checking. Non ci vuole un gran impegno per mettere in luce le rozzezze geopolitiche del direttore de la Repubblica e così la diplomatica russa ha spiegato che «non c’è nessuna base», non ci sono «basi militari in Russia», ma «c’è solo un dispiegamento di unità delle forze armate russe sul suo territorio nazionale», che «è strettamente il nostro diritto sovrano, non viola i requisiti degli obblighi internazionali e si riferisce, come piace dire alla Nato tra gli altri, alle “attività di routine”». D’altro canto, il governo russo, vestiti i panni improbabili dei difensori dei diritti dei  migranti e tolta dalla naftalina dell’era sovietica la retorica antimperialista ha “consigliato” la UE «di cercare le vere cause della crisi migratoria […] vecchie dichiarazioni dei leader della coalizione anti-irachena e anti-Libia, i capi di stato e di governo di quei paesi hanno stimolato la Primavera Araba e si sono impegnati  a destabilizzare per 20 anni l’Afghanistan».

Bruxelles e Varsavia: benzina sul fuoco

La Bielorussia, ormai legatasi mani e piedi alla Russia, ha forse cinicamente cercato – facendo atterrare a Minsk grazie a compagnie aeree bielorusse compiacenti migliaia di improbabili turisti afgani e iracheni come ha voluto sottolineare Igor Stankevich sul portale di “Open Democracy” – di buttare altra benzina sul fuoco dei già difficili rapporti tra Bruxelles e Varsavia ma l’operazione, alla fine dei conti, non sembra riuscita. Se la Bielorussia ha deliberatamente deciso di portare i rifugiati dal Medio Oriente in Europa per imporre di riaprire i cieli del Vecchio Continente alla Belavia (la compagnia aerea di stato bielorussa che sta subendo gigantesche perdite per le sanzioni), l’operazione è fallita.

Su questo terreno non c’era possibilità di trattativa o di scambio ed è strano che Lukashenko abbia potuto illudersi.

E come sempre… il North Stream 2 è centrale

Angela Merkel – ancora per ora cancelliera in attesa che si formi il nuovo gabinetto tedesco – ha tentato in tutti i modi di disinnescare la crisi dichiarandosi perfino disponibile ad assorbire, in diversi municipi tedeschi che si erano detti disponibili all’accoglienza, i migranti al confine bielorusso-polacco, ma è stata frenata non solo dal fronte dei paesi di Visegrad e baltici ma soprattutto dagli Usa. Le ragioni tedesche erano evidenti: si vuole ancora tentare di condurre in porto la messa in opera del gasdotto North Stream 2 aggiungendo qualche migliaio di rifugiati alle decine di migliaia che raggiungono il paese durante l’anno seguendo le più diverse rotte. Che la partita energetica possa essere motivo di scambio politico tra Mosca e Berlino lo ha da sempre chiaro il primo ministro polacco Mateusz Morawiecki. Non è un caso che quest’ultimo, bypassando Merkel, abbia fatto appello al possibile cancelliere della Germania, il leader dei socialdemocratici, Olaf Scholz. «Nord Stream 2 deve essere fermato», ha chiesto il premier polacco a Spd. I migranti puzzano sì, ma di gas: basterà rammentare che il regolatore tedesco ha sospeso la certificazione della Nord Stream in un quadro in cui i futures sul gas in Europa stanno continuando ad aumentare e hanno superato  più di una volta in novembre la soglia critica di 1200 dollari per 1000 metri cubi.

Una dinamica in cui la Bielorussia dopo la crisi politica interna del 2020 non può più giocare il ruolo che le piaceva di più: acquistare dalla Russia idrocarburi a prezzi sussidiati e rivenderli in Europa, Polonia e Ucraina tra le altre.

Fonte Agi

Il ruolo dell’Ucraina

Già l’Ucraina. Nella crisi polacco-bielorussa il suo ruolo sembra marginale (anche se forse parte dei migranti sembra essere giunto in Bielorussia via terra anche da lì) ma così non è.

Ben pochi osservatori internazionali hanno mostrato di voler intendere cosa sta succedendo di strategicamente importante nelle Repubbliche Popolari di Donetsk e Lugansk, ormai da 7 anni fuori dal controllo giurisdizionale di Kiev. Il presidente russo, lo scorso 17 novembre, ha firmato il decreto che gli abitanti delle due repubbliche autoproclamate dell’Ucraina orientale  aspettavano da diversi anni. La Russia ha aperto completamente i suoi mercati ai beni prodotti nel Donbass, il che la aiuterà a invertire il suo degrado economico e la fuga della popolazione verso la vicina Rostov sul Don. Si tratta di un evento storico perché si tratta del passo definitivo de facto di incorporazione delle Repubbliche “ribelli” alla Russia. Un de facto che viene discussa apertamente nei think-thank internazionali. Nikolaus von Twickel, per esempio, uno degli autori del libro Beyond the Frozen Conflicts. Scenarios of Separatist Conflicts in Eastern Europe, crede che il Donbass sia stato annesso dalla Russia nello stesso modo in cui sette anni fa fu annessa la Crimea. Von Twickel è anche l’autore di un rapporto che analizza gli eventi relativi al conflitto nell’Ucraina orientale nel 2020 e nel 2021 intitolato per l’appunto Verso l’annessione di fatto.

Donetsk e Lugansk: l’economia dei documenti

Nel 2017, la Russia aveva riconosciuto molti documenti emessi nelle repubbliche di Donetsk e di Lugansk, dalle carte d’identità ai diplomi scolastici dal 2019; è stato reso facilissimo ai residenti del Donbass acquisire la cittadinanza russa e quindi il passaporto, mantenendo formalmente quello ucraino. Ora, nel 2021, le imprese locali saranno uguali a quelle russe dal punto di vista giuridico. In primo luogo, saranno riconosciuti i certificati per i prodotti fabbricati nelle Repubbliche. In precedenza, questi certificati, presentati alla dogana e ad altre autorità della Federazione Russa, dovevano essere ucraini – ovvero del “paese d’origine” ufficiale. In secondo luogo, con poche eccezioni, le quote sulle esportazioni verso la Federazione Russa saranno abolite per le imprese di Donetsk e Lugansk. In terzo luogo, i produttori del Donbass saranno collegati al sistema di approvvigionamento statale, cioè uno dei clienti per loro sarà lo stesso stato russo. Difficilmente, come alcuni sognano, ci sarà uno sviluppo significativo dell’economia di quelle regioni (che continuano a essere legate alla produzione di carbone e di altri settori economici “decotti” per il mercato mondiale).

Tuttavia il significato politico è chiaro: si tratta di un addio alle trattative basate sui protocolli di Minsk e del Formato Normandia, nella cui adozione, guarda caso, proprio Lukashenko aveva giocato il ruolo di pacere tra “fratelli slavi” nel 2014.

Tamburi di guerra sulla frontiera ucraina

Lo stesso giorno il ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov con una mossa senza precedenti e violando il protocollo diplomatico ha pubblicato parte della corrispondenza recente tra diplomazie russe, tedesche e francesi a proposito delle trattative per giungere a un nuovo incontro per ottenere la pace in Ucraina orientale. Da cui emerge – in particolare dalle missive franco-tedesche ai russi – la volontà di non voler coinvolgere direttamente le repubbliche autoproclamate nella trattativa. Difficile dire cosa succederà a breve ma lo Stato maggiore ucraino sostenuto in particolare dalla Gran Bretagna e dagli Stati Uniti sta battendo da mesi i tamburi di guerra e innervosendo sempre di più la Russia. Il 22 novembre scorso il ministro della Difesa russo Sergey Shoigu ha denunciato che recentemente c’è stato un marcato aumento dell’attività dei bombardieri strategici dell’aeronautica statunitense vicino ai confini della Russia. Secondo il capo della Difesa russa, circa 30 sortite di aerei della Nato ai confini della Russia sono state registrate nell’ultimo mese, ovvero 2,5 volte di più rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso. Sarebbe questo aumento dell’attivismo della Nato ad aver spinto ad ammassare 90-100.000 soldati russi non lontano dalla frontiera ucraina: ormai un confronto armato nel Sudest Europa che coinvolga la Russia non è più fantascienza e in tale disgraziata ipotesi, è certo che la Bielorussia giocheerebbe un ruolo non marginale.

Immagini scattate il 9 novembre e pubblicate dal Center for Strategic and International Studies: mezzi e truppe russe in continuo aumento fuori dalla città russa di Yelnya.

La posta in gioco

In un editoriale in occasione di uno dei tanti anniversari della nascita della Russia imperiale (2 novembre 1721: incoronazione di Pietro I dopo la vittoria delle “Guerra del Nord”) su “Rossijskaja Gazeta”, Fyodr Lukyanov uno dei politologi oggi più vicini al presidente russo, ha sostenuto che

«la particolarità della Russia è quella di aver ricevuto uno shock molto recente per gli standard storici. In effetti, l’anniversario coincide quasi con un altro – il trentesimo anniversario della scomparsa dell’Urss – considerata da alcuni come l’ultima incarnazione veramente imperiale nella storia russa [si potrebbe discutere]. La freschezza del trauma della disintegrazione aggiunge amarezza e impulsività alla politica da un lato, ma dall’altro rende il paese e il popolo più resiliente di fronte ai nuovi shock inevitabili su scala globale, dato che l’intero quadro internazionale sta cambiando. E in questo senso, l’ultimo sopravvissuto ha più “anticorpi” per la prossima ondata di cataclismi».

La Russia sicuramente è uno dei paesi più coscienti della posta in gioco (la sua sopravvivenza in primis) e sta cercando disperatamente di prepararsi al futuro. Ma è una corsa contro il tempo in cui la forza di volontà putiniana ha solo un peso relativo.

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La lenta decadenza dello zar tecnologico https://ogzero.org/la-lenta-decadenza-dello-zar-tecnologico/ Thu, 23 Sep 2021 18:05:30 +0000 https://ogzero.org/?p=4958 Malgrado è la congiunzione più usata in questo articolo che Yurii Colombo ha fortemente voluto, perché ha risvolti senz’altro sugli equilibri geopolitici, anche se non sono né evidenti ancora, né gli analisti internazionali che non vivono a Mosca hanno potuto annusare il cambiamento, una lenta decadenza dello zar. Stavolta è iniziato davvero il declino del […]

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Malgrado è la congiunzione più usata in questo articolo che Yurii Colombo ha fortemente voluto, perché ha risvolti senz’altro sugli equilibri geopolitici, anche se non sono né evidenti ancora, né gli analisti internazionali che non vivono a Mosca hanno potuto annusare il cambiamento, una lenta decadenza dello zar. Stavolta è iniziato davvero il declino del suo sistema, le elezioni ne hanno dato la stura e se si assisterà alla differenziazione economica indispensabile per evitare il tracollo, a un’emersione di una nuova leadership e a nuovi gruppi di potere nei gangli dello stato, molto probabilmente le scelte strategiche internazionali fissate dal ventennio putiniano vedranno una transizione verso strategie geopolitiche che ancora non si possono nemmeno ipotizzare, ma saranno molto diverse da quanto abbiamo conosciuto finora. Malgrado l’apparato abbia fatto di tutto per fissare lo status quo ante, non è bastato per stoppare l’avvio del declino e l’analisi delle urne è impietosa: lo scollamento della società civile, in particolare giovanile, dal sistema di potere. Malgrado ufficialmente l’apparato tecnologico sia riuscito a mantenere il consenso nelle mani di questa oligarchia, allestendo una nuova vittoria del putinismo a cui nessuno crede nella realtà fuori dalle urne digitali.


Cedimento strutturale: scricchiolii nel sistema di potere

Alla fine anche i media che si erano ostinatamente rifiutati di riconoscere che le elezioni per il rinnovo dei deputati della Duma di stato avrebbero potuto condurre a dei mutamenti profondi del quadro politico interno e quindi, inevitabilmente, visto il peso specifico della Russia nel Vecchio Continente, si sono dovuti arrendere: l’arretramento di Russia Unita è irrevocabile. Il partito padre-padrone dello stato russo da due decenni mostra chiari segni di cedimento strutturale mentre il profondo disagio della società russa profonda trova il modo di canalizzarsi, almeno per ora nel voto per il Partito Comunista. Si apre quindi una nuova inedita fase politica segnata dal lento ma inesorabile declino della stella di Putin, già iniziato in realtà da almeno tre anni.

I numeri che parlano del partito-regime ancora vicino al 50% dei suffragi e la maggioranza assoluta dei seggi non devono trarre in inganno. Se formalmente non cambia un granché nel nuovo emiciclo russo con Russia Unita che passa dai 343 deputati del parlamento precedente agli attuali 324 e i comunisti crescono da 42 a 57, il messaggio che arriva dalle urne è chiaro: soprattutto nelle grandi città i russi esigono un cambiamento del personale politico dirigente.

Propaganda drogata e brogli digitali non bastano più

Malgrado le frodi (una normalità per la Federazione), malgrado si sia allungata la possibilità di votare a ben tre giorni, malgrado si sia aggiunto il voto elettronico a quello tradizionale nelle scuole in cui i partiti di opposizione non hanno possibilità di realizzare alcun controllo, il meno 6% per Russia Unita è ben più che un campanello d’allarme: evidentemente l’oliata macchina della raccolta del consenso pilotato si è inceppata.

Non è bastata l’estrazione di premi (appartamenti, automobili, buoni-acquisto nei supermercati) finanziata dalle grandi imprese russe per chi avesse deciso di votare elettronicamente; non è bastato un assegno una-tantum a militari, poliziotti e pensionati di quasi 200 euro; non è bastata la giornata libera del venerdì per i lavoratori dei municipi, per dare l’impressione che tutto stesse andando come al solito, con una squillante vittoria putiniana. E non è bastato neppure mettere alla testa delle liste di Russia Unita candidati civetta – che mai si presenteranno in parlamento come i popolari ministri della Difesa (Sergey Shougu) e quello degli Esteri (Sergey Lavrov). I russi seppur compassati sufficientemente dal non credere che il voto sia sufficiente a far cambiare qualcosa, hanno voluto comunque evidenziare che il corso dell’attuale amministrazione a loro non piace.

Mosca - elezioni 2021, risultati variabili

La grafica riportata qui sopra mostra come sarebbero andate le cose nei collegi uninominali di Mosca (il 50% dei deputati vengono eletti così mentre il restante 50% su base proporzionale con lo sbarramento del 5%) se non fosse intervenuto l’“aiutino” del voto elettronico ad aggiustare il responso. A sinistra i risultati delle circoscrizioni prima dell’aggiunta dei voti elettronici (dove con il colore verde si indica dove il partito comunista avrebbe preso la maggioranza e in blu dove l’avrebbe preso Russia Unita) e a destra quello venuto fuori una volta aggiunti i voti elettronici. Nella quota proporzionale il trend della capitale è lo stesso: il partito di Putin al 36,7% e i comunisti al 22,7% mentre il complesso delle liste di opposizione si colloca intorno al 40% dei suffragi. In Siberia come nella Jacuzia, dove la crisi economica e il disfacimento sociale sono elementi caratterizzanti e persistenti e dove l’egemonia comunista era troppo evidente, i comunisti superano spesso agevolmente Russia Unita anche nei collegi uninominali.

Si è trattato delle elezioni più manipolate della storia russa come ha voluto sottolineare qualcuno? Difficile dirlo, ma la percezione è che nelle scorse tornate il fenomeno dei brogli più classici (la manomissione dell’urna da parte della commissione elettorale) era stato più accentuato. Il dato essenziale e più interessante è un altro: malgrado i brogli milioni di russi continuano comunque ad andare alle urne.

Il voto è intelligente, non nostalgico

Il partito comunista quindi è diventato come catalizzatore del disagio quando non della protesta. Come è possibile che un partito che ancora rivendica la continuità del “programma di Lenin e di Stalin” sia riuscito a invertire un declino che da 20 anni era sembrato a tutti inesorabile? Come è possibile che un partito che alle amministrative di Mosca superava a stento il 5%, sia diventato il vincitore (perlomeno morale) delle elezioni per la Duma? I motivi sono molteplici. In primo luogo il partito di Zyuganov, è stato quello che – con maggiore enfasi – si è opposto alla controriforma delle pensioni del 2018 che ha innalzato per la prima volta l’età pensionabile in Russia (gradualmente innalzata da 60 a 65 anni per gli uomini e da 55 a 63 per le donne). E in linea generale è stata la formazione politica che ha votato alla Duma contro tutte le misure antisociali promosse dal governo negli ultimi anni. Malgrado le timidezze (i comunisti avevano promesso che sulla previdenza avrebbero raccolto le firme per un referendum, ma alle parole poi non sono seguiti i fatti), malgrado troppe volte – soprattutto in politica estera – non si sia mai distinto strategicamente dal corso putiniano, si tratta comunque del partito che parla di quello che sta più a cuore a milioni di russi: ovvero della disastrosa distruzione del welfare iniziata da Eltsin e proseguita nei decenni turboliberisti di zar Putin.

A ciò si deve aggiungere la tattica del “voto intelligente” scelta da quel che rimane del gruppo dirigente del partito Navalny che non si trova ancora in prigione o in esilio. Schiacciata dalla repressione (in questi mesi sono proseguiti selettivamente arresti, fermi, condanne e chiusure di siti internet) quella vasta galassia di opposizione “liberal” (cioè giovanile e residente nelle grandi città che la stampa occidentale fa coincidere superficialmente tout-court con Navalny) nei social network ha iniziato il tam tam per il voto ai comunisti come unica arma per incalzare il Cremlino (una tattica a cui si è unita la rarefatta area della “sinistra alternativa”).

La lunga marcia verso il 2024

Era inevitabile che con il “paziente berlinese” in prigione (e lo resterà ancora per almeno due anni) il pallino del gioco di chi deve dirigere l’opposizione sarebbe spettato ad altri e così è stato. Ora toccherà ai comunisti decidere se mettersi in gioco e diventare un ampio polo di riferimento per chi vuole mettere fine a un regime in affanno, o ripetere alla Duma la tattica accorta dell’opposizione “costruttiva” delle scorse legislature. Nel primo caso non potrebbe essere un’operazione di maquillage, ma dovrebbe essere la trasformazione di un partito, percepito come poco più che una reliquia nostalgica dell’Unione Sovietica, in un organismo “moderno”, di impianto socialdemocratico come invocano soprattutto i suoi nuovi quadri emergenti che punti direttamente – nelle prossime elezioni presidenziali del 2024 – a contendere seriamente la presidenza a Putin. Sotto questo profilo gli impazienti dovranno rassegnarsi: la lotta dell’opposizione russa non è una gara di velocità ma piuttosto una maratona.

Nuove Persone, un embrione per nuovi oligarchi?

In questa tornata Putin ha riconfermato di avere un approccio “tecnologico” alla politica. I risultati delle elezioni erano stati “disegnati” in modo da garantire il controllo assoluto di Russia Unita sul parlamento ma con un’allusione al pluralismo. “C’è più scontento, ecco vedete, faccio avanzare un po’ i comunisti”. “Si vogliono più libertà? Ecco per voi il nuovo partito Nuove Persone”. Questa formazione, di ispirazione vagamente liberale, che riesce alla sua prima apparizione nell’agone politico a superare lo sbarramento del 5% e a entrare alla Duma, è la quintessenza di ciò che al Cremlino si immagina debba essere il “quadro politico nazionale”. Movimento fondato poco più di un anno fa, Nuove Persone dice di far riferimento alle teorie interdisciplinari del filosofo sovietico (dissidente) Georgy Shchedrovitsky, scomparso nel 1994. Dietro però ci sono corposi interessi che hanno permesso alla lista di spendere almeno 20 milioni di rubli nella campagna elettorale. In primo luogo il patrimonio del proprietario dell’azienda di cosmetica Faberlic Alexey Necaev ma anche secondo il portale sempre ben informato “The Bell”, di Yuri Kovalchuk, comproprietario di Rossiya Bank e ben piazzato ai vertici nella classifica dei più ricchi uomini del paese di “Forbes Russia. Un partito non putiniano ma non avverso al potere che ha raccolto il voto soprattutto nella fascia demografica che va dai 18 ai 30 anni.

Cedimento strutturale: scricchiolii nel sistema economico

Congiuntura economica: una differenziazione in ritardo

Del resto nella lettura della società del capo del Cremlino non c’è spazio per l’alternanza al potere e men che meno, per i movimenti e le aspirazioni delle classi sociali: queste possono essere sempre manipolate e incanalate grazie proprio a quelle tecnologie politiche create ad hoc. Oggi chi lavora su questo aspetto è principalmente Sergey Kirienko, nello staff della segretaria presidenziale già dal 2016.

Tuttavia le cose, piaccia o meno alla presidenza russa, dal punto di vista “oggettivo” – materialistico – gli equilibri stanno cambiando in fretta nel mondo e metteranno ancora più in crisi l’approccio tecnocratica che piace tanto allo “Zar”. Da qualche mese il prezzo del petrolio è tornato a galleggiare verso l’alto, stabilmente sopra i 75 dollari al barile dopo i lunghi mesi di magra della pandemia. Ciò ha dato, e darà ancora, una boccata d’aria all’economia russa, ma gli effetti non si sono visti né nelle entrate delle famiglie né sul rublo che resta ben oltre gli 85 rubli contro euro, schiacciando così importazioni e consumi. I veri problemi dell’economia russa però non sono neppure congiunturali ma strutturali. Si tratta di capire, in primo luogo, come un paese che ha prosperato sull’esportazione degli idrocarburi potrà affrontare la sfida della green economy che in prospettiva dovrebbe rendere l’Europa indipendente dalle forniture di gas e petrolio russo. Una sfida decisiva per la Federazione che solo ora sta iniziando a ragionare in termini di differenziazione dell’economia (dopo averci già provato durante la presidenza Medvedev). A cui si collega il problema di un saldo demografico disastroso destinato a peggiorare in conseguenza di un covid-19 che in Russia non cessa di mordere (da oltre due mesi i casi di contagio sono rimasti intorno ai 20.000 al giorno con una media di 800 morti).

Le elezioni hanno avviato il cambiamento, malgrado i risultati

Ecco, dentro questa dinamica profonda, probabilmente il dibattito delle oligarchie e i gruppi di potere del capitalismo di stato russo è già iniziato e l’emergere di un partito come Nuove Persone potrebbe non essere un fuoco di paglia. In alcuni circoli russi si dubita già che l’ex direttore del Fsb ormai quasi settantenne, sempre meno popolare e senza una grande formazione economica potrà gestire la sfida del prossimo decennio.

La soluzione non è a portata di mano visto che per ora non si vede all’orizzonte un leader o una nuova classe dirigente che possa garantire una transizione morbida o permetta a Putin se non di andare in pensione almeno di tirare le fila politiche russe da una posizione defilata. Per storia e tradizione tutti i cambi di regime in Russia sono stati complessi e spesso segnati da fortissime fibrillazioni e c’è ragione di pensare che anche questa volta possa essere così: Putin è stato – ed è ancora – il punto di equilibrio tra un complesso di poteri e interessi che verosimilmente faranno molto fatica a trovare una mediazione stabilizzante.

Del resto, a ben vedere, si tratta di una questione che va ben oltre le camarille moscovite e investe tutte le grandi capitali europee se è vero, come è vero, che l’Europa potrà affrancarsi dall’abbraccio americano solo se troverà una sponda in Russia. Sullo sfondo potrebbe tornare in auge persino il vecchio dilemma russo: slavofili o occidentalisti?

Se proiettato su scala internazionale il voto russo ha prodotto un paradosso politico che le cancellerie dei paesi occidentali stenteranno a comprendere: il loro sostegno a Navalny ha determinato per ora il rafforzamento dei comunisti. Né Merkel,né Macron, né Biden, avrebbero immaginato che i loro sforzi per sostenere l’opposizione “liberale” avrebbero potuto avere un simile sviluppo. Nei prossimi mesi potremmo avere persino un’Europa che si riappacifica con Putin. Una svolta “comunista” nel paese, sarebbe ancora più nazionalista e statalista (e sicuramente filo-cinese) di quanto a Bruxelles e a Washington si possano permettere.

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Kabul post-Usa: il Cremlino corre ai ripari in Centrasia https://ogzero.org/astana-e-realmente-tramontata-l-afghanistan-e-la-ritirata-usa/ Thu, 22 Jul 2021 10:13:50 +0000 https://ogzero.org/?p=4306 Il punto di vista di Yurii Colombo sulla situazione che la Russia si trova ad affrontare con il ritiro delle truppe Usa dal suolo afgano. L’equilibrio dei paesi ex sovietici traballa e Putin si muove cautamente: dopo le vicende in Nagorno-Karabach e di fronte alla conquista neotalebana che potrebbe riportare l’islamismo radicale nei paesi più […]

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Il punto di vista di Yurii Colombo sulla situazione che la Russia si trova ad affrontare con il ritiro delle truppe Usa dal suolo afgano. L’equilibrio dei paesi ex sovietici traballa e Putin si muove cautamente: dopo le vicende in Nagorno-Karabach e di fronte alla conquista neotalebana che potrebbe riportare l’islamismo radicale nei paesi più poveri del Centrasia la Russia non può che trattare con molta cautela direttamente con i Talebani. Al Cremlino si pensa che gli Stati Uniti abbiano intenzione di usare l’Asia centrale come trampolino di lancio per contenere Russia, Cina, Turchia e Iran. Astana è realmente tramontata?

Questo articolo di Yurii Colombo si affianca ad altri due interventi contemporanei ospitati sul sito, uno di Emanuele Giordana e l’altro di Sabrina Moles, completando la panoramica sulla situazione geopolitica afgana in seguito al ritiro delle truppe americane dal paese che abbiamo intrapreso cominciando da una tavola rotonda che li ha visti partecipi e trasmessa in diretta nella serata del 13 luglio da Radio Blackout, un’analisi che poi abbiamo cercato di approfondire nello studium “La solita musica afgana?”, chiedendoci se sarà un altro Afghanistan quello imbandito in questi due mesi di approcci internazionali.


L’ormai prossima conquista da parte dei neotalebani di tutto il territorio afgano sta inquietando non poco il Cremlino. I motivi sono evidenti. Malgrado Mosca non abbia più confini con Kabul, tre paesi centroasiatici ex sovietici (Tagikistan, Uzbekistan e Turkmenistan) si trovano a diretto contatto con il paese più conteso dell’area, facendo diventare molto concreta la possibilità di una futura penetrazione in Russia della guerriglia radicale islamica.

Fonte: elaborazione OGzero, da La Grande Illusione. L’Afghanistan in guerra dal 1979, a cura di Emanuele Giordana (Rosenberg & Sellier, 2019)

Dopo che Michail Gorbaciov ordinò il ritiro delle truppe sovietiche, l’Urss e poi la Federazione Russa non cessarono naturalmente di interessarsi alle vicende afgane: sostennero il regime di Najibullah e seppur con accortezza, anche lo sforzo bellico degli Usa e dei suoi alleati per stabilizzare e neocolonizzare il paese dopo l’Undici Settembre. Non è un caso che quando l’amministrazione Trump decise di lasciare l’Afghanistan al suo destino, al Cremlino non hanno avuto ragioni per festeggiare la ritirata americana, anzi. Il ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov ha espresso un giudizio molto netto sui 20 anni di presenza Nato in Afghanistan e sulle sue prospettive:

«La situazione tende a un rapido deterioramento, anche nel contesto del ritiro precipitoso delle truppe americane e di altre truppe della Nato, che nei decenni della loro permanenza in questo paese non hanno raggiunto risultati tangibili in termini di stabilizzazione della situazione».

Il confine afgano-tagiko

La Russia però, ancor prima di pensare a strategie ad ampio raggio, ha bisogno di affrontare con urgenza la situazione apertasi al confine tra Afghanistan e Tagikistan con l’inizio dell’estate. Ai primi di luglio 2021, le guardie di frontiera del Tagikistan hanno permesso l’ingresso nel paese a più di 1000 soldati afgani in rotta dopo un duro scontro con i Talebani. Secondo quanto riportato da fonti dell’intelligence russa, i Talebani controllerebbero già oltre il 70 per cento dei 1344 chilometri del confine afgano-tagiko. Che le valutazioni russe siano in linea di massima corrette è stato confermato dal Comitato di Stato per la sicurezza nazionale del Tagikistan, il quale sostiene che i Talebani sarebbero riusciti a impossessarsi dell’ufficio del comandante di frontiera di Ovez nella contea di Hohon. Si tratta del Gorno-Badakhshan, dove gli insediamenti tagiki e afgani si trovano uno di fronte all’altro, separati solo dal fiume Pyanj.

Putin e l’impegno coi tagiki

Vladimir Putin sta monitorando la situazione da vicino e ha espresso dopo un colloquio con il presidente tagiko Emomali Rahmon, anche formalmente la sua disponibilità a fornire sostegno al Tagikistan su base bilaterale e nel quadro dell’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva (l’alleanza militare guidata dalla Russia che ha sostituito il Patto di Varsavia e di cui fanno parte oltre la Federazione Kazakistan, Tagikistan, Kirghizistan l’Armenia e la Bielorussia) se i Talebani dovessero decidere di far penetrare le loro strutture militari nel paese ex sovietico. La Russia ha una presenza non propriamente simbolica in Tagikistan: la sua base militare nel paese è a soli 70 chilometri dal confine afgano e può garantire in pochissimo tempo l’arrivo in zona di truppe e di artiglieria pesante. Tuttavia l’avvertimento del presidente russo per ora sembra più che altro formale come già era avvenuto con l’Armenia in autunno durante la guerra dello scorso autunno nel Nagorno-Karabach. La Russia è rimasta scottata in Afghanistan e ha dovuto constatare che neppure l’alleanza militare più forte del mondo è riuscita a sconfiggere l’islamismo radicale e quindi agirà con molta cautela.

Tanto è vero che mentre rassicurava l’alleato tagiko ha invitato per una due-giorni di colloqui informali a Mosca proprio una delegazione talebana (a dimostrazione che in politica e diplomazia tutto è possibile visto che l’organizzazione musulmana in questione è fuorilegge in Russia).

Una delegazione dell’ufficio politico del movimento talebano composta da quattro persone e guidata dallo sceicco Shahabuddin Delawar ha provato a rassicurare i russi sulle loro intenzioni una volta che avranno conquistato Kabul. I Talebani, secondo il comunicato del ministero degli Esteri russo seguito agli incontri, «hanno confermato il loro interesse a raggiungere una pace sostenibile nel paese attraverso negoziati, tenendo conto degli interessi di tutti i gruppi etnici della popolazione del paese, nonché della loro disponibilità a rispettare i diritti umani, comprese le donne nel quadro delle norme islamiche e delle tradizioni afgane».

I Talebani hanno perfino sostenuto di voler combattere l’Isis sul proprio territorio e di non voler violare i confini degli stati dell’Asia Centrale.

Non credete alle promesse dei Talebani

Forse i Talebani sono cambiati, forse sono meno rigidi ideologicamente e più “glamour”, ma è pur sempre un’organizzazione radicale, è un “ordine della sharia” di cui i russi non si fidano. Si tratta di un approccio condiviso da Andrey Serenko, direttore del centro di analisi della Società russa di scienze politiche, che aggiunge: «Non bisogna credere alle promesse talebane di combattere il narcotraffico, le cui entrate ammontano oggi ad almeno la metà dell’intero bilancio dei Talebani (cioè circa un miliardo di dollari), e neppure bisogna far conto sulle loro promesse di non proliferazione della guerra oltre i confini afgani».

I russi si sarebbero trovati di fronte alla stessa faccia moderata che gli islamici radicali hanno già tentato di mostrare agli americani, anche se nessuno ovviamente può realmente prevedere quali saranno le loro intenzioni una volta che conquisteranno Kabul. Mosca però deve fare di necessità virtù e ha accolto positivamente le rassicurazioni e sottobanco probabilmente si è dimostrata persino disponibile a finanziare la ricostruzione delle infrastrutture afgane proponendo di fornire bollette petrolifere low-cost al futuro governo a trazione talebana.

Turkmeni e uzbeki: di nuovo sotto l’ala di Mosca?

La prudenza del Cremlino è stata intesa perfettamente a Dushanbe tanto è vero che il presidente tagiko Emomali Rahmon ha capito che per ora dovrà difendersi da solo e ha incaricato il ministro della Difesa di mobilitare 20.000 riservisti per rafforzare il confine tagiko-afgano.

Anche gli altri paesi centro-asiatici sono sul chi vive e mostrano preoccupazione, soprattutto il Turkmenistan e l’Uzbekistan, i quali dopo il crollo dell’Urss si erano defilati su posizioni neutrali ma che ora potrebbero essere costretti, almeno temporaneamente, a tornare sotto l’ala protettrice di Mosca.

Le autorità uzbeke hanno già chiuso il ponte di Termez, attraverso il quale i soldati sovietici entrarono in Afghanistan nel 1979 e se ne andarono nel 1989 e il loro esercito sta conducendo esercitazioni su larga scala al confine con l’Afghanistan, mentre nelle scuole si tengono corsi di addestramento militare.

L’arrivo di Lavrov in Uzbekistan.

Il terreno fertile per il successo dei Talebani

Se si esclude il Kazakistan dove la crescita economica sta perfino conducendo alla formazione di una significativa classe media, gli altri paesi centroasiatici restano poverissimi, sono spesso governati da caste corrotte e autoritarie e alimentano costanti flussi migratori verso le metropoli russe.

I Talebani una volta insediatisi al potere potrebbero far diventare il paese la “terra promessa” per radicali e islamisti di tutto il mondo ma soprattutto attirare dalla loro parte quelle frange giovanili del Centrasia che hanno partecipato in migliaia all’avventura dell’Isis in Siria.

Mercenari siriani alleati della Turchia

Tra le fila talebane del resto già adesso si trovano molti giovani militanti di etnia uzbeka, turkmena e tagika, attirati dalle sirene di un’ideologia reazionaria che si presenta radicale e non incline ai compromessi. Ma anche organizzazioni più strutturate e con una certa tradizione come per esempio il Movimento islamico del Turkestan orientale piuttosto attivo nella regione negli ultimi anni, soprattutto in Kirghizistan. Dopo le disfatte subite dall’esercito cinese negli scorsi decenni, questa formazione ha costruito legami stabili anche con i Talebani.

I Talebani verso l’Asia Centrale

Secondo l’editorialista di “Kommersant” Maxim Yushin anche la stessa determinazione dei Talebani a combattere lo Stato Islamico potrebbe rivelarsi un boomerang per i russi e i propri alleati. «I Talebani – scrive Yushin – possono iniziare l’espansione in Asia Centrale, possono cacciare i loro avversari dello Stato Islamico. Ci sarebbero allora decine di migliaia di tagiki e uzbeki, in precedenza arruolati nell’Isis, in fuga dai nuovi padroni del paese che potrebbero riversarsi in Tagikistan e Uzbekistan, il che inevitabilmente aumenterebbe la tensione sociale e politica in questi stati, dove già ci sono abbastanza problemi».

Se la situazione prendesse un tale corso, secondo lo specialista russo di Afghanistan, Mosca allora non potrebbe abbandonare i regimi laici di Dushanbe, Tashkent, Ashgabat e Bishkek al loro destino. «La radicalizzazione della popolazione dell’Asia centrale – conclude Yushin – è uno scenario disastroso per le autorità russe, dato che milioni di persone di queste repubbliche lavorano nel nostro paese. Tutto sommato, da un mal di testa americano, l’Afghanistan molto presto potrebbe trasformarsi in un mal di testa russo».

Un ragionamento che filerebbe fino in fondo se non fosse che una parte dei gruppi dirigenti dei paesi del Centrasia sarebbe tentata di avere relazioni dirette con i Talebani per evitare di tornare a essere delle specie di protettorati russi.

Resta da vedere per la Russia anche quali relazioni stabilire pure con il traballante governo di Kabul. Secondo gli specialisti del Fsb l’esercito afgano sta perdendo la partita con la guerriglia musulmana sul terreno motivazionale come la persero i vietnamiti filoamericani negli anni Sessanta. In teoria il governo in carica dovrebbe avere una struttura di 300.000 uomini bene equipaggiata e dotata di artiglieria pesante che avrebbe agevolmente la meglio contro i 75.000 miliziani talebani. Ma negli ultimi mesi a fronte dell’avanzata dell’opposizione in diverse province, interi distaccamenti governativi, intere tribù, che in precedenza avevano giurato fedeltà a Kabul, avrebbero fatto il più prosaico “salto della quaglia”.

Nessun sostegno a Ghani

Putin continua ovviamente a tenere i contatti con il governo in carica guidato dal presidente Ashraf Ghani provando a capire quanto ancora potrebbe reggere e quanto sia pronto a farsi da parte, alla malaparata, in buon ordine. Secondo un grande esperto di Asia centrale e Afghanistan come Arkady Dubnov,

Mosca non sarebbe pronta ad assicurare il sostegno a Ghani dopo la partenza definitiva degli americani, perché ciò danneggerebbe il dialogo recentemente aperto proprio con i Talebani.

Questi ultimi avrebbero fatto intendere – durante la loro visita moscovita – che la figura di Ghani sarebbe per loro del tutto inaccettabile in qualsiasi ipotesi di governo di coalizione ed è proprio il fatto che lo stesso Ghani cerchi di restare a galla che finisce per irritare Mosca.

Secondo Dubnov, «più a lungo Ghani si aggrappa al potere, maggiore sarà la portata dello spargimento di sangue in Afghanistan e minore sarà l’influenza di Mosca sul futuro governo di Kabul».

E malgrado Kabul abbia fatto di tutto per accreditarsi di fronte a Putin negli ultimi anni, facendo anche scelte bizzarre, come il riconoscimento dell’annessione della Federazione della Crimea nel 2014.

Il tradimento Usa

Mosca non nasconde che vive il ritiro americano come un piccolo tradimento. Quando gli Stati Uniti intervennero in Afghanistan nel 2001, Mosca appoggiò la risoluzione 1368 e più tardi, nel 2008, quando i Talebani iniziarono ad attaccare la rotta pakistana, attraverso la quale veniva effettuato l’80 per cento dei rifornimenti per le truppe della Nato, la Russia garantì all’Alleanza persino il suo spazio aereo. Ora con l’Accordo di Doha, che prevede l’evacuazione delle forze armate statunitensi e la riconciliazione nazionale in Afghanistan, la Russia si è trovata spiazzata di fronte a una mossa che riconosce legittimità all’islamismo radicale e anche per questo ha deciso di trattare direttamente con i Talebani senza ritessere troppo il filo con gli americani.

Al Cremlino si è inteso che gli Stati Uniti non sarebbero tanto interessati a mantenere il controllo sulla situazione in Afghanistan quanto di utilizzare l’Asia centrale come trampolino di lancio per contenere Russia, Cina, Turchia e Iran.

Il ritorno di Astana

Oggi del resto sono le truppe turche a garantire la sicurezza dell’aeroporto di Kabul, la Cina si è offerta di finanziare la ripresa del paese proponendo di farlo entrare di sbieco nel grande progetto della Via della Seta e l’Iran ha già annunciato di volersi proporre come grande mediatore tra Talebani e autorità ufficiali afgane. Se Astana è tramontata, con la ritirata Usa in Afghanistan potrebbe ripresentarsi però in inedite e più estese varianti.

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Destini dirottati: equilibri in bilico nella Federazione russa https://ogzero.org/destini-dirottati-gli-equilibri-della-federazione-russa-in-bilico/ Fri, 28 May 2021 17:40:35 +0000 https://ogzero.org/?p=3678 La vicenda del “dirottamento” del volo Ryanair sui cieli della Bielorussia ha riportato in auge il tema del destino del piccolo paese slavo, dopo i tumultuosi mesi seguiti alle presidenziali del 9 agosto scorso che hanno riconfermato – tra violenze della polizia e manifestazioni oceaniche dell’opposizione – Alexander Lukashenko alla presidenza della Repubblica. Il tema […]

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La vicenda del “dirottamento” del volo Ryanair sui cieli della Bielorussia ha riportato in auge il tema del destino del piccolo paese slavo, dopo i tumultuosi mesi seguiti alle presidenziali del 9 agosto scorso che hanno riconfermato – tra violenze della polizia e manifestazioni oceaniche dell’opposizione – Alexander Lukashenko alla presidenza della Repubblica. Il tema è scottante perché già come scrivemmo nel giugno scorso, rimanda alle prospettive non solo per la Bielorussia e per tutte quelle realtà che un tempo si definivano il “Vicino estero” russo ma soprattutto del destino della Federazione russa stessa, ovvero del vero oggetto del contendere.

Il traghettatore filoccidentale o il golpe soft?

Per lungo tempo – almeno dal 2018 – Vladimir Putin è stato tentato da un soft putsch a Minsk che portasse ai vertici dello stato bielorusso Victor Babariko, esperto banchiere con molti agganci a Mosca, soprattutto a Gazprom. Un’incertezza durata fino a dopo il 20 agosto 2020 quando dopo l’avvelenamento di Alexey Navalny, lo “Zar” ha sentito “odore di bruciato” (cioè si è convinto che ci fosse un tentativo dei paesi baltici e della Polonia di imporre una transizione filoccidentale alla Bielorussia, via manifestazioni di massa) e ha riconfermato il pieno endorsement al governo di Minsk, non solo a parole, ma nei fatti, tanto è vero che la stessa operazione dell’arresto del fondatore di “Nexta” sarebbe stata gestita tra Atene e Minsk proprio dai servizi russi. Dopo lo sgonfiamento delle manifestazioni antiregime (in larga parte determinate dall’insipienza del gruppo dirigente dell’opposizione ancor prima che dalla repressione) l’ipotesi di “golpe soft” che porti al governo di Minsk un traghettatore del paese verso una “Nuova Bielorussia” continua a circolare all’interno di molte cancellerie europee come ci ha confermato una nostra autorevole fonte dell’opposizione bielorussa oggi in esilio a Londra. L’idea che circola insistentemente sarebbe quella di proporre un uomo dell’esercito “rinnovatore e filoccidentale” che però non sia inviso (se non addirittura gradito) a Mosca. Si riproporrebbe così – seppur in un contesto diverso – l’accordo sottobanco sulla Polonia post-1981 quando il generale Wojciech Jaruzelski pilotò il colpo di stato del 13 dicembre. Come diventò evidente in seguito la mossa sovietica fu realizzata tenendo conto delle esigenze occidentali e rappresentò il punto di equilibrio tra la Dottrina Breznev e la conferma dell’impegno da parte di Varsavia con il Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale a pagare i debiti contratti negli anni Settanta.

Il North Stream 2 a rischio

Una variabile che difficilmente oggi potrebbe andare in porto sia perché Lukashenko non sembra disposto a farsi deporre, sia perché Putin potrebbe accettare di valutare tale possibilità solo nel quadro di una trattativa globale che tenga insieme perlomeno la questione del Donbass ma soprattutto il destino dei gasdotti russi in Europa (e in questo senso andrebbe la disponibilità Usa a congelare le sanzioni contro North Stream 2). Secondo Sofia Solomofova del sempre ben informato portale Vzgljad in questi giorni soprattutto Londra starebbe lavorando per far saltare definitivamente il completamento di North Stream 2. Ma soprattutto Boris Johnson punterebbe a bloccare l’altro grande progetto russo: il gasdotto (che attraverserebbe inevitabilmente la Bielorussia e quindi fonte di finanziamento per il regime di Lukashenko), che dovrebbe portare in Germania dalla Siberia Occidentale materia prima per un volume complessivo di 33 miliardi di metri cubi di gas entro il 2022.

La posa della pipeline del Nord Stream 2 nel Mar Baltico (foto Axel Schmidt / © Nord Stream 2).

L’Europa è alla svolta green: o meglio, cambia fornitori…

Schierata ormai apertamente contro la collaborazione energetica tra Russia e UE c’è ora anche il capo della Commissione europea Ursula von der Leyen la quale in questa fase non vorrebbe dare nessuna boccata di respiro all’economia russa. Quello che sarebbe assolutamente da evitare per von der Leyen è che «la Russia tenti di modernizzare la sua economia con i proventi del settore del petrolio e del gas». L’Unione Europea del resto, nel quadro della svolta verso la green economy ha già dichiarato che smetterà di consumare idrocarburi entro il 2050 e nel frattempo potrebbe fare sempre più a meno dell’energia russa puntando non tanto sul gas americano trasportato via mare (che costa davvero troppo) quanto piuttosto sui giacimenti in Algeria e sulle enormi riserve dell’Azerbaigian.

… e la Russia cambia clienti

Igor Yushkov, esperto dell’Università della Finanza del governo della Federazione russa e del Fondo nazionale per la Sicurezza energetica ritiene che ormai Mosca dovrebbe pensare seriamente ad abbandonare l’idea di restare semplicemente una potenza energetica (che rappresenta ancora oggi il 35% del suo Pil) per puntare a una diversificazione della propria economia che guardi all’Asia. Un processo che sarebbe, seppur forse troppo lentamente, già in corso: la Banca mondiale – non a caso – ha rivisto al rialzo le stime per la crescita economica russa che grazie alla scelta “no-lockdown” durante la pandemia dovrebbe crescere con una media del 2,5%-3,5% malgrado i ricavi russi sugli idrocarburi si siano ridotti del 30% nel  2020, l’annus horribilis per eccellenza dell’economia mondiale del Secondo dopoguerra.

Parola d’ordine: diversificare

Sia chiaro, mancando la Russia di una mercato finanziario adeguato alle sue pretese di potenza regionale petrolio e gas restano per ora, come già successe dopo il crack del 1998  (sperando che il prezzo del petrolio continui a restare stabilmente oltre i 40 dollari al barile) la base per qualsiasi ipotesi di differenziazione della propria economia, ma alcune dinamiche sembrano comunque già visibili. In due settori principalmente: agricoltura e industria metallurgica.

1) Agricoltura

Già da qualche anno la Russia sta conoscendo un vero e proprio boom dell’agricoltura dovuto alla modernizzazione delle aziende agricole che l’hanno riportata a vertici mondiali tra gli esportatori di grano (era stato il grande punto di forza dell’economia zarista e la principale debolezza di tutta l’economia sovietica dopo le collettivizzazioni forzate dell’era staliniana). Ma non solo. La Russia putiniana è diventata autosufficiente dal punto di vista delle esigenze del mercato interno nella produzione di carne di manzo (limitando le importazioni a quote provenienti dall’America Latina) e addirittura ha iniziato a inondare i mercati asiatici di proprio pollame e carne suina. E successi significativi il mondo agricolo russo li sta ottenendo anche nella produzione di zucchero, olio di semi e, parzialmente, anche nella produzione di frutta bio.

2) Industria metallurgica

Negli ultimi anni la Rust Belt russa è stata completamente modernizzata. Un esempio lampante dello sviluppo delle industrie ad alta tecnologia russa è la cantieristica (la Russia è leader nella produzione di navi rompighiaccio) e la costruzione di aeromobili. Stiamo parlando principalmente del progetto All Siberian (progettazione e produzione sono stati realizzati a Irkutsk) dell’innovativo aereo civile di linea Irkut Ms-21 a fusoliera stretta, un bireattore monoplano ad ala bassa che non solo dovrebbe sostituire già quest’anno i desueti Tupolev Tu-154 e Tu-204/2014, ma pure altamente concorrenziale rispetto a Airubus e Boeing (e non a caso tale progetto è finito sotto sanzione Usa già da tempo) sul mercato mondiale.

destini dirottati

Il nuovo velivolo di produzione All Siberian.

Business as usual: la resa dei conti tra Bielorussia e Ucraina

La nuova crisi  tra Russia  e Occidente nella variante bielorussa sarebbe quindi una faccenda di business as usual e di rotte energetiche, e assai meno una “querelle antifascista”.  Solo degli inguaribili ingenui come alcuni rossobruni di casa nostra del resto sono riusciti a vedere dietro l’operazione di pirateria aerea di Lukashenko una “svolta antifascista” di Minsk (il suo appello contro una fantomatica ondata “neonazista” in Bielorussia è apparsa davvero bizzarra) e che avrà come ricaduta inevitabile una resa dei conti, a questo punto definitiva, tra Bielorussia e Ucraina. Non che Roman Protasevich e la sua fidanzata non siano stati realmente in prima fila prima nella fase finale delle manifestazioni armate dell’estrema destra in Piazza Maidan e poi  a combattere nel Battaglione Azov in Ucraina orientale sette anni fa, ma la faccenda – per quanto grave – risale a quando Protasevich aveva poco più di 18 anni e successivamente egli ha ripetutamente affermato di aver rotto ogni relazione con il mondo dell’estrema destra. L’ex neofascista preoccupava Lukashenko per altri motivi. In primo luogo per i suoi rapporti con la Cia, da cui nel 2017 ha ottenuto i finanziamenti per aprire il suo fortunato canale telegram “Nexta (oltre un milione di iscritti) – una vera e propria spina nel fianco per Lukashenko – che ha avuto un ruolo non del tutto marginale nelle mobilitazioni dello scorso autunno.

Roman Protasevich

Giochi regionali

Per capire cosa significa la rottura definitiva tra Zelensky e Lukashenko oggi in corso basterà ricordare due aspetti significativi nelle relazioni tra i due paesi slavi. Dopo il cessate il fuoco del 2014 nel Donbass fu proprio il presidente bielorusso a proporsi come mediatore tra Putin e l’allora presidente ucraino Petr Poroshenko, e non a caso la Bielorussia, in quel contesto, non riconobbe l’annessione russa della Crimea (anche se poi non votò le risoluzioni Onu di condanna della Federazione russa). Ora Minsk non potrà più giocare il ruolo dell’ago della bilancia su questo terreno e ciò implica la rottura verticale delle relazioni anche con Ankara che ancora qualche settimana fa ha dichiarato apertamente di voler essere l’alfiere degli interessi di Kiev nella regione, a prescindere dal ruolo che gli Usa vogliano giocare in Ucraina (dove Monsanto ha messo gli occhi sulle fertilissime terre nere).

Mini-Urss: la svolta occidentale rimarrà una chimera?

L’isolamento internazionale di Lukashenko è ormai pressoché totale  e ciò potrebbe far rinascere le aspirazioni mai sopite di Mosca alla formazione di una Confederazione panrussa (una mini-Urss di cui farebbero sostanzialmente parte solo Russia e Bielorussia), e di conseguenza Lukashenko diverrebbe solo un leader regionale. Se l’operazione andasse in porto ciò dovrà avvenire forzatamente entro il 2024, in occasione della rielezione di Putin alla presidenza fino al 2030 e blinderebbe dal punto di vista politico-militare la Bielorussia. A questo punto la svolta filoccidentale di Minsk diverrebbe una chimera e questo spiega perché Polonia e paesi Baltici insistano per un rapido cambio nei rapporti di forza tra Russia e paesi Nato a Est.

A restare schiacciato in un gioco ormai apertamente geopolitico rischia di restare l’ampio movimento democratico e femminista bielorusso dei mesi scorsi che aveva con intelligenza tentato di sottrarsi dalla scelta di schierarsi al di qua o al di là di quella invisibile cortina di ferro che divide ancora l’Europa nel 2021.

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n. 8 – Siria (III): il clan al-Assad e la Guerra civile https://ogzero.org/il-clan-al-assad-e-la-guerra-civile-siriana/ Wed, 26 May 2021 11:33:21 +0000 https://ogzero.org/?p=3559 Nella serie di articoli dedicati alle rotte mediorientali della raccolta di analisi stilate da Fabiana Triburgo sulla questione migratoria la sezione siriana si compone doverosamente di alcuni interventi ciascuno dedicato a uno dei molteplici aspetti che presenta questa diaspora, biblica per proporzioni, e vicissitudini toccate ai più di 12 milioni di individui siriani coinvolti nella […]

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Nella serie di articoli dedicati alle rotte mediorientali della raccolta di analisi stilate da Fabiana Triburgo sulla questione migratoria la sezione siriana si compone doverosamente di alcuni interventi ciascuno dedicato a uno dei molteplici aspetti che presenta questa diaspora, biblica per proporzioni, e vicissitudini toccate ai più di 12 milioni di individui siriani coinvolti nella catastrofe umanitaria che ha fatto seguito allo scatenarsi del conflitto siriano dell’ultimo decennio.

L’autrice ha dapprima analizzato le attuali condizioni di siriani ormai integrati in realtà esterne al paese ai quali ora viene chiesto di rimpatriare, rischiando la vita e rinunciando alla nuova esistenza costruita faticosamente in esilio. L’analisi è proseguita valutando le condizioni economiche e umanitarie in cui si tengono le elezioni il 26 maggio, senza dimenticare la specificità della Primavera araba nelle diverse regioni siriane; prosegue qui collegando le modalità di protesta alla particolare peculiarità del regime alauita del clan al-Assad; le fasi della politica di Bashir – fino alla Primavera araba e il conflitto esploso nel 2011, che ha fatto del territorio siriano uno scenario usato dalle potenze globali e locali per imporre la propria supremazia.


n. 8, parte III

I principali conflitti che attualmente interessano le migrazioni forzate e le prassi di esternalizzazione poste in essere dall’Unione Europea e dai singoli stati membri portano a una predeterminazione delle rotte dei migranti.

Quello che oggi è inevitabile chiedersi è se il nuovo Patto europeo sulla migrazione e l’asilo, proposto dalla Commissione UE, possa essere realmente considerato una soluzione della gestione del fenomeno migratorio o se invece vi siano soluzioni legali alternative maggiormente lungimiranti e coraggiose.  

Il conflitto siriano: il clan al-Assad e la Guerra civile

I regimi degli al-Assad

Nonostante in Siria si riscontri l’esistenza di istituzioni statali come il parlamento, il consiglio dei ministri, il potere decisionale è sempre nelle mani di un solo clan ossia quello di Assad e dei suoi familiari e dai capi dei servizi di intelligence.

il clan al Assad

Come noto Bashar al-Assad è succeduto al padre Hafiz, a capo della nazione per trent’anni, in seguito alla sua morte nel 2000. Il figlio Basil che avrebbe dovuto succedergli, al momento della sua morte, è deceduto in un incidente stradale nel 1994; in sua vece quindi nel 2000 subentrò al potere il secondogenito Bashar. Tra le immediate nomine “familiari” del neoeletto presidente, all’interno del regime, citiamo quella del fratello minore Mahir al-Assad e della sorella Bushra al-Assad al comando della Quarta divisione corazzata dell’Esercito Siriano e quella del cognato Assef Shawkat designato vicecapo di stato maggiore e all’epoca già a capo del Mis – Il Dipartimento di intelligence militare siriana – in particolare nella sezione Perquisizioni (sezione 235).

La legge d’emergenza controlla la libera espressione

Il presidente della Siria, già durante il regime instaurato da Hafiz a partire dal 1970, riunì nella sua persona la carica di capo dello stato, quella di comandante delle forze armate, quella di segretario generale del Partito ba’at al potere e quella di presidente del Fronte nazionale progressista, sotto il quale vi furono tutte le forze politiche di opposizione autorizzate dal regime. In quest’ottica va citata la “legge d’emergenza” in vigore dal 1963 che garantisce il ferreo controllo di ogni manifestazione di dissenso di libera espressione politica, il divieto di assembramenti pubblici, il fermo di sospetti dissidenti e infine indica per quali accuse il fermo può trasformarsi in arresto. La legge inoltre definisce il ruolo dei tribunali speciali per i dissidenti, impone rigidi controlli sui mezzi d’informazione ma soprattutto concede ampi poteri alle quattro agenzie di sicurezza operative in tutto il paese. Rispetto al regime da lui guidato va detto però che Bashar è un primus inter pares ossia a capo di un’oligarchia composta dai membri della famiglia al-Assad, da alleati e da alcuni ufficiali legati al clan familiare, e non un capo indiscusso come lo era il padre Hafiz. La Siria, infatti ha acquisito l’indipendenza dai francesi nel 1946, tuttavia con l’indipendenza non si è raggiunta una stabilità politica ma si sono succeduti nel tempo una serie di colpi di stato e di guerre come quella dei 6 giorni nel 1967 con Israele, paese ancora oggi considerato nemico dai siriani.

A ogni modo già tra la fine degli anni Quaranta e l’inizio degli anni Cinquanta si registrò l’ascesa della comunità alauita – minoranza sciita originaria delle montagne a est di Latakia e delle sue pianure costiere a sud – la quale si unì al Partito ba’at (Partito della resurrezione, movimento panarabo nazionalista, socialista e laico) nel quale Hafiz al-Assad entrò a far parte a soli 16 anni perseguendo al contempo la carriera militare. Nel 1963 il Partito ba’at, per effetto di un colpo di stato, conquistò il potere e da lì cominciò l’ascesa di Hafiz che nel 1964 venne nominato generale, quindi nel 1965 capo dell’Aereonautica.

Un nuovo colpo di stato

Tuttavia, la succitata guerra dei 6 giorni con Israele nella quale la Siria venne sconfitta, fece vacillare il potere di al-Assad ma, nel 1970, Hafiz portò avanti un ennesimo colpo di stato – non sanguinario come i precedenti – definito come “Rivoluzione Correttiva” mediante il quale ottenne in modo indiscusso il governo del paese che ebbe sempre un maggiore controllo del territorio siriano.

Nel 1976, inoltre, è importante ricordare che il regime di Damasco decise di fare del Libano un proprio protettorato, condizione che resterà salda fino al 2005 quando venne assassinato il premier libanese Rafiq al-Hariri, intervenendo militarmente e politicamente nella guerra civile libanese che ebbe luogo dal 1975 fino al 1990.

Ciò che risulta interessante è che la composizione alauita del regime non seguì fin da subito una logica confessionale per la sua affermazione, ma mirò piuttosto all’appoggio della borghesia urbana e delle periferie:

A sostenere il regime infatti fu non solo la destra alauita della quale faceva parte Hafiz ma anche i drusi e i cristiani che temevano la presenza della maggioranza sunnita nel paese.

Allo stesso tempo i sunniti si allearono in quegli anni con il clero islamico ortodosso, ossia la frangia estremista rappresentata quasi totalmente dalla Fratellanza Musulmana. Iniziarono cruenti attentati da parte dei sunniti e violentissime repressioni da parte del regime fino a quando nel 1982 Hafiz decise di bombardare la città di Hamah – definita da Hafiz “la testa del serpente” in quanto patria dei maggiori conservatori tra i sunniti in Siria – per reprimere la rivolta della comunità musulmana sunnita dando inizio a uno dei più cruenti conflitti civili. In quella circostanza si parlò di almeno 10.000 siriani uccisi nel conflitto. Hafiz volle affermare con tale efferata e sanguinaria repressione, fatta di esecuzioni di massa, di fosse comuni, di feriti, di donne e di bambini sepolti vivi tra le macerie, che la religione veniva dopo lo stato ba’atista e che l’uso politico di questa non sarebbe mai stato tollerato dal regime.

il clan al Assad

La distruzione della città di Hamah perpetrata da Assad nel 1982.

Le atrocità commesse nei confronti dei sunniti non furono finalizzate solo a prevalere sulla Fratellanza Musulmana ma anche come ammonizione, per i sopravvissuti e per i membri di tutte le altre organizzazioni che si opponevano al regime, di quello che sarebbe potuto accadere nell’ipotesi di ulteriori atti di disobbedienza in futuro.

La repressione sanguinaria e le promesse tradite

Dopo circa trent’anni dal massacro di Hamah nel 2011 il figlio di Hafiz, Bashar al-Assad si trovò quindi ad affrontare una nuova escalation di proteste, contro le quali decise, come il padre, di scatenare una sanguinaria repressione, nonostante queste avessero poco a che fare con l’elemento religioso – caratteristico delle rivolte della popolazione sunnita del 1982 – quanto piuttosto con un senso di tradimento avvertito dalla popolazione siriana legato al mancato riconoscimento delle libertà e dello sviluppo economico. Questi ultimi erano stati promessi infatti dal governo ba’atista di Bashar che tuttavia avrebbe accumulato nel tempo tutte le ricchezze per sé stesso. Da quanto si sta verificando fino a oggi, dopo dieci anni dall’inizio del conflitto civile, Bashar al-Assad non sembra aver riproposto la forza armata “risolutiva” del conflitto che aveva dimostrato il padre nel 1982.

il clan al Assad

Manifestazione a Homs.

Non si può tacere tuttavia che, se le proteste del 2011 sono state sicuramente meno accanite di quelle del 1982, allo stesso tempo – per il fatto di non essere strettamente legate alla questione confessionale sunnita – hanno saputo raccogliere importanti consensi in ambito nazionale e internazionale molto più ampi rispetto al passato.

Tuttavia, per capire come si sia arrivati a tali proteste e per apprendere meglio la ragioni dell’intervento di più forze internazionali nel conflitto siriano occorre fare una breve sintesi degli eventi concernenti gli anni del governo di Bashar al-Assad prima del 2011.

La politica di Bashar al Assad dal 2000 al 2011

Nel 2000 Bashar al-Assad riprese il dialogo con gli “ulama” (il clero islamico), tra cui il leader del movimento islamico Zayd – in quegli anni considerato forza religiosa prevalente a Damasco. Il regime invece non si riavvicinò ai Fratelli Musulmani ormai di base a Londra.

Quindi nel 2005, poiché come detto il regime fu sospettato dell’assassinio dell’ex premier libanese Rafiq al-Hariri, Damasco dovette ritirare, su pressione popolare libanese e internazionale dell’Onu, degli Usa e della Francia, le sue truppe dal Libano. In quell’anno i Fratelli Musulmani crearono, in opposizione al regime, il Fronte di salvezza nazionale costretto poi a dissolversi nel 2009, a causa del rinnovato vigore politico e militare di Damasco, grazie all’appoggio dato a Hamas durante in conflitto israelo-palestinese nella Striscia di Gaza.

Allo stesso modo nel 2006 una nuova generazione di islamisti in esilio creò a Londra il Movimento di giustizia e sviluppo (ispirato all’Apk turco di Erdoǧan), movimento musulmano più democratico che islamista. Tuttavia, la questione dell’opposizione islamista in esilio manifestò subito i suoi problemi strutturali, quali la sua estrema frammentarietà e la sua mancata rappresentatività all’interno della Siria, dato che i loro interessi erano divergenti rispetto a quegli degli ulama – interessati più all’indebolimento dell’apparato statale di sicurezza che al multipartitismo nella repubblica – e dato che questi non potevano svolgere alcun ruolo di rappresentanza politica di forte opposizione al regime per il timore costante della repressione.

Il legame col Libano

Dal 2008 il regime ristabilì un’influenza politica sul Libano, data la sua importanza strategica dal punto di vista geopolitico, rafforzando l’armamento di Hezbollah e, godendo di una quasi completa riabilitazione da parte dell’Occidente, rinunciò completamente alla causa di riappacificazione con gli ulama. Dal 2008 Damasco infatti iniziò una politica di affermazione di superiorità del proprio potere politico su quello religioso, cercando di escludere l’influenza del movimento islamico in diversi settori della società come nelle scuole e nelle associazioni benefiche presenti nel paese.

Quando nel marzo 2011 esplosero le proteste contro il regime, Bashar al-Assad strategicamente accolse come in passato le istanze del clero musulmano per paura che anche esso si unisse alle rivendicazioni democratiche del resto della popolazione: venne chiuso il casinò di Damasco, vennero reinserite “le insegnanti con il velo”, vennero creati un istituto islamico pubblico e un’emittente nazionale musulmana.

Tale strategia ebbe successo poiché assicurò il silenzio del clero musulmano rispetto ai movimenti di protesta che in quell’anno dominarono la scena politica del paese.

Inoltre, per le politiche messe in atto dal regime di Damasco nel Libano, Hezbollah fornì pieno appoggio a Bashar al-Assad già durante le rivolte del 2011, mentre Ankara – pur essendo passata da un autoritarismo militare laico a una democrazia conservatrice dei valori musulmani, unita a una politica iperliberista sul piano economico – nel 2011 prese inizialmente le distanze sia dai movimenti di protesta che dalle dure repressioni esercitate da Damasco.

Le tappe del conflitto dal 2011 a oggi

Nei dieci anni precedenti al conflitto la Siria era quindi già un avamposto nel quale si dispiegarono numerose questioni politiche, sociali ed economiche non solo in ragione del desiderio di acquisizione del potere centrale nella repubblica, ma anche per le trattative intessute in questi anni tra il potere centrale, le comunità locali e le forze internazionali; inoltre nel conflitto hanno avuto e continuano ad avere peso diversi fattori etnici, confessionali, politici, individuali e culturali.

Occorre sottolineare che ciascuna potenza internazionale intervenuta nel conflitto ha visto nella guerra siriana la possibilità di consolidarsi nella regione del Medioriente rispetto ad altre potenze rivali nell’area.

Il 18 marzo 2011 le milizie governative di Assad spararono contro i manifestanti a Dara’a uccidendo quattro persone: le manifestazioni e, di conseguenza anche la loro repressione, ebbero un’eco sempre maggiore, mentre ad aprile dello stesso anno nella città di Homs, una delle città più grandi del paese, migliaia di cittadini siriani organizzarono un importante “sit in” che rievocò le manifestazioni in piazza Tahrir contro il regime di Mubarak. Gli scontri continuarono per tutto il 2011 e portarono come detto alla formazione dell’Esercito siriano libero – oggi forza militare marginale sostituita da jihadistimotivo per cui il regime mise in campo forze militari di artiglieria e di aviazione. Il 18 luglio 2012 dalla rivolta si raggiunse l’apice della guerra civile: i manifestanti bombardarono il Palazzo di sicurezza nazionale, durante una riunione di crisi, provocando l’uccisione di quattro funzionari del regime tra cui il succitato cognato di Assad e l’allora ministro della Difesa. Le forze militari del governo di Assad assediarono il quartiere di Baba Amir sempre a Homs. In quella circostanza all’Esercito siriano libero si affiancarono i combattenti di al-Nusra, gruppo jihadista nato da al-Qaeda e composto da fondamentalisti sunniti che miravano alla destituzione del regime per poter instaurare uno Stato Islamico nel paese.

Arrivano le forze internazionali

Il 2013 invece segnò l’inizio della presenza di forze internazionali nel conflitto siriano: la condizione nasce dal fatto che gli Stati Uniti, nella persona dell’allora presidente Barack Obama, dichiararono che l’utilizzo di armi chimiche avrebbe condizionato il coinvolgimento degli Usa nel conflitto. Nel 2013 iniziò l’indagine delle Nazioni Unite relativamente alla morte di 26 persone civili e soldati nella città di Khan Shaykhun e, rispetto al quale, tanto il regime quanto le forze di opposizione rinnegarono ogni responsabilità. L’Onu, anche se non riuscirà mai a conoscere la verità sulla responsabilità dell’attacco, dichiarerà in seguito che si trattò di un attentato compiuto mediante l’utilizzo di gas nervino. Inoltre, sempre nel 2013, un attacco chimico nella periferia della capitale Damasco uccise centinaia di persone. Gli Stati Uniti a quel punto attribuirono la responsabilità della strage al regime decidendo in un primo momento di intervenire nel conflitto, ma successivamente ritirarono le loro dichiarazioni. Tuttavia il Consiglio di Sicurezza dell’Onu impose al regime la distruzione di tutte le proprie armi chimiche come conseguenza di un surreale accordo tra Stati Uniti e Russia, per cui Bashar al-Assad fu costretto a firmare il 14 ottobre 2013 la Convenzione sulle armi chimiche che ne vieta la produzione, lo stoccaggio e l’utilizzo.

Le ultime armi chimiche a disposizione del regime siriano verranno dichiarate rimosse l’anno successivo dall’Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche, nonostante l’opposizione sostenesse che l’esecutivo continuava a disporne di ulteriori.

L’osservazione internazionale sull’elemento chimico della guerra nel 2013 determinò così il decisivo intervento diplomatico della Russia nel conflitto siriano che conferì a Bashar al-Assad un possibile ruolo di “attore-interlocutore” per il processo di pace nel paese.

Nel maggio del 2013, inoltre, anche il gruppo militante libanese Hezbollah si inserisce nel conflitto siriano accanto ad Assad, in questo caso a livello militare, attaccando e riconquistando la città di Qusair al confine tra i due paesi. Anche il sostegno fornito dal gruppo sciita libanese, quindi, ha finito per internazionalizzare il conflitto siriano in quanto – in conseguenza della presenza di Hezbollah in Siria – decisero di intervenire da un lato l’Arabia Saudita, il Qatar e gli Emirati Arabi e la Turchia a favore delle forze di opposizione e dall’altro l’Iran e l’Iraq, i quali appoggiarono il regime di Assad. Intanto gli insorti appartenenti all’opposizione si frammentarono nel corso degli anni in gruppi militari laici e islamisti per cui la coalizione tra l’Esercito siriano libero e al-Nusra si ruppe definitivamente nel 2014.

La fuga della popolazione dallo Stato Islamico

Il 2014 rappresentò tuttavia uno degli anni più rilevanti del conflitto siriano anche per altre ragioni: nel giugno dello stesso anno si tennero nel paese le elezioni presidenziali, il cui verdetto vide riconfermato capo di stato, con l’88 per cento dei voti a favore, Bashar al-Assad  ma il 30 giugno 2014 il sedicente Stato Islamico dichiarò il Califfato nelle aree che ormai erano poste sotto il suo controllo, non solo in Iraq, ma anche in Siria, provocando la fuga di migliaia di cittadini siriani dal paese. Nel settembre del 2014 gli Usa cominciarono a sferrare attacchi aerei contro gli avamposti del sedicente Stato Islamico in Siria.

Nel 2015 il regime siriano raccolse una serie di sconfitte militari in conseguenza dei continui attacchi sia dei ribelli che dell’IS e inoltre il 28 marzo del 2015 la città nordoccidentale di Idlib cadde nelle mani dei militanti islamici guidati da al-Nusra. Proprio in quest’anno si ricorda il ritrovamento del corpo del bambino siriano Alan Kurdi di tre anni su una spiaggia turca: quest’immagine che forse sarà ancora presente negli occhi di molti lettori portò l’opinione pubblica internazionale a non voltare più lo sguardo rispetto alla condizione dei profughi fuggiti in conseguenza del conflitto siriano e speriamo che non occorrano ancora immagini come quella per scegliere l’opzione dei canali umanitari e non quella assurda della prassi delle esternalizzazioni delle frontiere.

Le potenze regionali intervengono

Nell’autunno del 2015, quindi, poiché il regime siriano rischiava ormai di collassare, la Russia decise di intervenire militarmente nella Siria occidentale lanciando i primi raid aerei e attrezzando di nuovo militarmente le basi militari di Tartus e Latakia e successivamente il Consiglio di Sicurezza approvò all’unanimità la Risoluzione Onu n. 2254 finalizzata alla costituzione di un processo di pace nel paese.

Nel 2016 si registrò la vittoria del Partito ba’at di Assad nelle consultazioni parlamentari ma il conflitto proseguì duramente, in particolare nella città di Aleppo, portato avanti però più che dalle forze militari del regime da parte di quelle internazionali, nello specifico da quelle russe.

Il 2016 tuttavia segnò per la prima volta l’intervento della Turchia, proprio a nord di Aleppo, mentre i quartieri a est della città rientrarono, dopo mesi di assedio, sotto il controllo delle milizie lealiste in particolare di quelle iraniane e russe. Allo stesso tempo la coalizione curdo-araba – ossia le Forze democratiche siriane anti-Isis, guidata dagli Stati Uniti nel Nordest del paese – riconquistarono la città di Raqqa, storica roccaforte dello Stato Islamico, con una campagna che si concluse nell’anno seguente.

Gli attacchi chimici

Nell’aprile del 2017 vi fu un attacco di gas nervino nuovamente nella città settentrionale di Kahna Sheikhoun, in quel periodo in mano ai ribelli, la responsabilità del quale venne negata da Mosca e Damasco. Tuttavia, gli Usa, in risposta a tale attacco chimico, spararono missili crociera direttamente contro il territorio dominato dal regime di Damasco, mentre i ribelli si ritirarono a Homs. Anche Israele in conseguenza del presunto attacco chimico per opera del regime è intervenuto nel 2017 con bombardamenti contro una base aerea militare siriana. Sempre nel 2017 venne ripreso il controllo anche di altre città in tale area del paese e Putin a dicembre dello stesso anno dichiarò la definitiva sconfitta dello Stato Islamico in Siria.

il clan al Assad

Le rovine della città di Homs (foto gsafarek).

Nel 2018 la novità fu quella di sostenere che al-Assad ormai avesse vinto la guerra.

Ma, nonostante le forze governative riconquistassero in quest’anno anche il Sudovest del paese e la regione agricola orientale di Ghouta a ridosso della città Damasco – regione dal 2012 sottratta al controllo del regime – le milizie turche consolidarono la loro posizione nel Nordovest della Siria in particolare nella città di Idlib. Quest’ultima prende il nome dalla stressa provincia, intorno alla quale, la Russia e la Turchia volevano creare una zona “cuscinetto” di circa venti chilometri, mediante la stipula dell’Accordo di Sochi siglato nell’autunno del 2018 dalle due potenze e aggiornato con la recente intesa del marzo del 2020 principalmente per evitare che i futuri sfollati siriani si dirigessero nuovamente verso la Turchia come in passato. L’area a Nordovest infatti nel 2018 era considerata l’ultima roccaforte delle forze di opposizione jihadiste. Rispetto a Israele, paese sempre maggiormente preoccupato della continua espansione iraniana nel conflitto siriano, la Russia è corsa ai ripari negoziando proprio con l’Iran l’allontanamento dalle frontiere di Israele per circa 80 chilometri dalle alture del Golan, garantendo il monitoraggio dell’area attraverso le proprie truppe militari.

Truppe israeliane al confine con la Siria (foto Alexeys).

Le diverse violazioni dell’Accordo di Sochi

Ciò non fu sufficiente a evitare più volte la violazione dell’Accordo di Sochi, soprattutto nel 2019, quando le truppe russe cercarono di invadere la provincia di Idlib al confine con la Turchia – stante la permanenza delle forze di opposizione in particolare di quelle jihadiste dell’Hts (Hay’et Tahrir al-Sham) – sostenute proprio dalla Turchia che a sua volta cercò di contrastare le milizie curde dell’Ypg/Ypj (ramo siriano del Pkk turco) che combattono per uno stato indipendente nel Nord del paese.

Le violazioni degli accordi di Sochi: i russi intervengono in Siria invadendo la provincia di Idlib.

Inoltre, la promessa Usa del 2018 del ritiro definitivo delle proprie truppe americane dall’area a Nordest del paese – che si ponevano a guida della coalizione arabo-curda delle Forze democratiche siriane – venne mantenuta verso la fine del 2019, motivo per cui le Forze democratiche siriane dopo l’abbandono Usa dal Nordest si spostarono principalmente sul versante Nordovest del paese per resistere all’avanzata turca.

L’offensiva anticurda della Turchia

Dopo il ritiro degli Usa, infatti, il 10 ottobre del 2019 la Turchia portò avanti un’offensiva contro i combattenti curdi. Il succitato accordo del marzo del 2020 tra Putin ed Erdoğan per un cessate il fuoco nel Nordovest della Siria è riuscito a scongiurare un confronto diretto delle forze armate filogovernative russe contro quelle turche e ha bloccato un’importante offensiva del regime verso la città di Idlib. Tali condizioni sono state accettate da Damasco perché certa non era la possibilità di riuscita contro le forze di opposizione a Idlib, senza l’aiuto di Ankara.

Come si evince dalla sintesi del conflitto siriano dopo 10 anni si può giungere alla conclusione che le scelte politiche, e di conseguenza quelle militari, che caratterizzano le dinamiche e le interazioni nella repubblica siriana vengono assunte prevalentemente dalle potenze straniere, mentre un ruolo del tutto marginale rivestono ormai le scelte e le azioni poste in essere dalle rappresentanze politiche interne al paese compreso lo stesso regime. È solo partendo da questo presupposto che potremo cercare di comprendere successivamente i recenti accadimenti che stanno interessando il paese, consapevoli che interazioni, interessi, negoziazioni oggi sono prevalentemente tra le potenze esterne: sono tali azioni che possono essere oggetto di una valutazione prognostica autentica rispetto alla concreta realizzabilità del tanto auspicato processo di pace nel paese ormai devastato dal conflitto civile. Analizzeremo dunque ogni attore estero e il ruolo che attualmente possiede nella determinazione della condizione della Siria, rivelando ciò che oggi è già chiaro:

la Siria e il “suo” conflitto stanno divenendo la cartina al tornasole di tutte le questioni di conflittualità esistenti tra i paesi dell’area mediorientale, i movimenti jihadisti in esso presenti, e tra le grandi potenze straniere, fuori dall’area, che avvertono “la responsabilità” di intervenire nel conflitto.

Analizzando le azioni di queste forze sembra che poco si stia compiendo nell’interesse della popolazione civile siriana: infatti le decisioni di ciascuna potenza estera appaiono maggiormente volte all’affermazione di sé legata o a un’idea di espansionismo geopolitico, o agli interessi economici, o alla volontà di riscatto personale contro un paese rivale nella medesima area. “Ai posteri l’ardua sentenza”, se questo si può definire un passaggio necessario per la definizione del conflitto o se possa essere a questo punto gestito in modo alternativo, valutando il bilancio delle vittime, la distruzione dei territori e l’immutabilità dell’impianto politico esistente dopo un decennio di guerra.

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Oltre i confini e nel cuore dell’Europa: il Kgb e la Guerra Fredda https://ogzero.org/influenza-dei-servizi-russi-il-kgb-fuori-dall-urss/ Fri, 23 Apr 2021 09:21:27 +0000 https://ogzero.org/?p=3220 Pubblichiamo la terza puntata della serie dedicata da Yurii Colombo ai servizi di intelligence russi. L’attenzione dell’autore questa volta si concentra sul rapporto tra il Kgb e la Stasi, sull’influenza dei servizi segreti russi sulla politica cecoslovacca, e  su come il Kgb cercò di condizionare le mosse di Nehru e Indira Gandhi. Non mancano accenni […]

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Pubblichiamo la terza puntata della serie dedicata da Yurii Colombo ai servizi di intelligence russi. L’attenzione dell’autore questa volta si concentra sul rapporto tra il Kgb e la Stasi, sull’influenza dei servizi segreti russi sulla politica cecoslovacca, e  su come il Kgb cercò di condizionare le mosse di Nehru e Indira Gandhi. Non mancano accenni alla figura di Harvey Lee Oswald e alla sua posizione rispetto ai sovietici e agli sviluppi che dopo l’uscita di scena di Kruscev portarono a una sorta di “pace sociale” durante la quale l’Urss dovette fare i conti con un ampio movimento di dissidenza. Questo articolo è accompagnato da una diretta streaming che sarà trasmessa domenica 2 maggio alle 18, appuntamento durante il quale Yurii Colombo ospiterà Brunello Mantelli per approfondire questo periodo storico in relazione all’attuale situazione politica (interna ed estera) russa.


Kgb e MfS: l’Accordo per la cooperazione

Da quando nel 2018 l’amburghese “Bild” ha pubblicato la tessera identificativa della Stasi del giovane Vladimir Putin (datata 1985) è ripreso il dibattito su quali fossero le relazioni tra Kgb e servizi tedeschi dopo la guerra.

La Stasi non ebbe infatti mai una reale autonomia organizzativa e politica anche se sarebbe riduttivo sostenere che fu una semplice struttura ausiliaria dei servizi del suo più “Grande Fratello”. Tuttavia a seconda delle fasi politiche e del suo  grado di sviluppo i servizi segreti tedeschi godettero della possibilità di operare in modo indipendente, soprattutto quando ciò concerneva l’attività sui pericoli interni. In particolare «la subordinazione del MfS  [acronimo dei servizi tedesco-orientali prima della riorganizzazione in Stasi, N.d.R.] si allentò un po’ a metà degli anni Cinquanta, quando il Pcus e il Partito comunista della Germania orientale, la Sed, cercarono di migliorare lo status della Repubblica Democratica Tedesca (Rdt) nel diritto internazionale. Nel 1957, i “consiglieri” sovietici assegnati al MfS furono ufficialmente ribattezzati “ufficiali di collegamento” e il 30 ottobre 1959 fu firmato un accordo ufficiale che regolò le relazioni tra il Kgb e il MfS», hanno precisato Walter Süß e Douglas Selvage. Successivamente L’Accordo di cooperazione tra il Kgb e il MfS del 1973 estese quello del 1959, citando gli obiettivi specifici della collaborazione come combattere la «sovversione ideologica», «scoprire e contrastare i piani ostili del nemico», «i preparativi immediati del nemico per l’attacco militare».

L’insurrezione operaia di Berlino (1953)

La questione di come gestire da parte sovietica una situazione incandescente e complessa come quella della Germania divisa in due stati indipendenti si pose in maniera urgente dopo gli eventi del giugno del 1953 quando erano dovute intervenire direttamente le truppe russe per stroncare a Berlino Est un’estesa insurrezione operaia.

L’insurrezione operaia di Berlino nel 1953

Secondo Andrew e Gordevskij nella loro classica storia del Kgb, a Mosca un tale disastro d’immagine per un paese che si proclamava socialista era stato principalmente «dovuto al caos prodotto dalla riorganizzazione del ministero degli Interni tedesco» (è noto che Beria, avesse una pessima opinione degli alleati tedesco-orientali al punto che in una riunione si spinse a darne una valutazione sarcastica: «La Rdt? Che cos’è questa Rdt? Non è nemmeno un vero stato. Sono le truppe sovietiche a tenerla in piedi», ricordò in seguito un Andrey Gromiko ancora in erba).

Cia e Kgb nel cuore dell’Europa

Da allora in poi – e soprattutto dopo  la decisione di Nikita Kruscev di costruire il muro che divise Berlino tra il 1961 e il 1989 – la Germania occidentale e quella orientale divennero nel cuore dell’Europa il ring per eccellenza in cui Cia e Kgb si scontrarono con maggiore accanimento.

Nel luglio 1954 Otto John, il capo del servizio di sicurezza della Rft, il Bundesamt für Verfassungsschutz (BfV), scomparve da Berlino Ovest. Riapparve pochi giorni dopo in una conferenza stampa in Germania orientale nel corso della quale denunciò la «rinascita del nazismo nella Germania Ovest», una defezione gravissima dal punto di vista dell’immagine ancora di più delle informazioni che avrebbe presumibilmente fornito al governo di Walter Ulbricht. Personaggio instabile, John poi nel 1955 tornò a Bonn sostenendo che era stato drogato da Wolfgang Wohlgemuth, un medico del Kgb, cosa che però non impedì comunque ai giudici di condannarlo a quattro anni di detenzione. La talpa tedesco-occidentale più produttiva dei sovietici fu però Heinz Felfe che, nel 1958, divenne capo della sezione sovietica del servizio di controspionaggio dei servizi tedesco-occidentali. Felfe riuscì per molti anni a fornire al quartier generale del Kgb nella zona di Karlshorst a Berlino Est, le copie di quasi tutti i documenti importanti dei servizi tedeschi. Come nei migliori romanzi del genere, i rapporti urgenti venivano trasmessi via radio, il resto seguiva in doppi fondi di valigie, in pellicole nascoste nelle scatolette di alimenti per bambini e poi veniva depositato in posti convenuti o inviati tramite un corriere. Secondo la Cia i danni provocati da Felfe alle strutture di spionaggio della Germania Ovest furono enormi.

Guillaume, la talpa che mandò in crisi Brandt

Un’altra talpa importantissima per i russi fu Günther Guillaume, figlio di un medico tedesco che aveva curato e nascosto in casa il socialista Willy Brandt, quando era stato braccato dalla Gestapo. Nel 1955, Guillaume, istruito dai russi, scrisse a Brandt allora sindaco di Berlino Ovest, chiedendogli di dare una mano a suo figlio che era oggetto di discriminazione in Germania orientale. Fin dal primo incontro Brandt si affezionò a Günther e si sentì in dovere di aiutarlo. Nel 1956 Guillaume e sua moglie, ambedue agenti dei servizi orientali, furono accolti in Germania occidentale come profughi politici. Nel giro di pochi anni furono assunti entrambi a tempo pieno come funzionari del partito socialdemocratico tedesco (Spd). L’ascesa al potere di una coalizione diretta dall’Spd, con Brandt come Cancelliere, nel 1969, offrì a Guillaume un’occasione straordinaria: diventare suo segretario alla Cancelleria di Bonn. Nel gran numero di informazioni ad alto livello che Guillaume poté fornire ai servizi tedeschi e, tramite questi al Kgb, vi furono le istruzioni dettagliate per la nuova Ostpolitik della Rft, che tentava di stabilire allora i primi contatti ufficiali con la Rdt e gli altri stati oltrecortina. Lo scandalo causato, nel 1974, dalla scoperta del vero ruolo di Guillaume fu così grave da provocare una grave crisi politica e le dimissioni dello stesso Brandt.

influenza dei servizi segreti russi

Günther Guillaume e Willy Brandt

“L’offensiva delle segretarie”

Guillaume fu la punta di diamante di una massiccia incursione di talpe tedesco-orientali nella Repubblica Federale. Un disertore dei servizi tedesco-orientali ha calcolato che nel 1958 vi fossero oltre 2000 agenti infiltrati in varie strutture dello stato tedesco occidentale e il loro  numero costantemente si accrebbe negli anni Sessanta e Settanta. Uno dei maggiori strumenti strategici dei servizi di Berlino Est per  infiltrarsi negli apparati statali di Bonn fu la cosiddetta “offensiva delle segretarie” ideata a Mosca dagli uffici esteri del Kgb. Una serie di agenti della Germania comunista infatti riuscirono a sedurre delle impiegate governative di Bonn che avevano accesso a informazioni riservate. Una delle principali vittime di questa iniziativa, fu Irmgard Römer, quarantenne, segretaria al ministero degli Esteri, che si occupava delle comunicazioni con le ambasciate all’estero. Ella fornì copie in carta carbone a Carl Helmers, un agente della Hauptverwaltung Aufklärung (Hva, l’agenzia tedesco-orientale per lo spionaggio all’estero) a cui, dopo l’arresto, fu affibbiato il soprannome di “Casanova rosso”. Nei vent’anni successivi il suo ruolo fu svolto con successo anche maggiore da altri “Casanova rossi” inviati da Markus Wolf, il vicedirettore della Hva nella “Germania capitalista”.

Markus Wolf

La tattica dell’“offensiva delle segretarie” continuò con ottimo risultati ancora a lungo.

Nel 1967 Leonore Sütterlein, impiegata al ministero degli Esteri di Bonn, fu condannata per avere consegnato, tramite suo marito Heinz, 3500 documenti segreti al Kgb. La vicenda si concluse tragicamente: quando Leonore scoprì che Heinz era un agente dello spionaggio russo e l’aveva circuita soltanto per assicurarsi la sua collaborazione, si suicidò in carcere. Altre segretarie vennero condannate come spie dell’Hva, nella prima metà degli anni Settanta, fra cui Irene Schultz, funzionaria del ministero delle Scienze, e Gerda Schröte, impiegata dell’ambasciata tedesco-occidentale a Varsavia. Anche alcuni funzionari della Spd finirono in quell’epoca per incontrarsi regolarmente con un ufficiale del Kgb operante sotto copertura diplomatica, convinti che il fornire informazione su quanto succedeva ad Ovest potesse spianare la strada della Ostpolitik.

Il Kgb in Usa: l’ombra su Oswald

Contemporaneamente l’attività del Kgb procedeva anche negli Usa. Non è un caso che sul misterioso caso dell’omicidio di John F. Kennedy – malgrado non sia l’ipotesi principale – si stenda ancora oggi l’ombra che un qualche ruolo nel piano ideato da Lee Harvey Oswald sia stato giocato dai servizi russi. Nel 2017 il governo americano ha declassificato un’ingente quantità di documenti (circa 3000) relativi all’assassinio nel 1963 del presidente Kennedy in cui sono emerse prove di contatti tra Lee Harvey Oswald e gli ufficiali dell’intelligence sovietica in Messico, due mesi prima dell’omicidio. Secondo i documenti Usa uno di quegli ufficiali, Valery Kostikov, avrebbe avuto una lunga telefonata con Oswald qualche settimana prima dell’attentato.

La notizia che Kostikov fosse stato in relazione con Oswald è assai curiosa visto che quest’ultimo aveva rotto formalmente le relazioni con l’Urss al momento di lasciare l’Unione Sovietica l’anno precedente.

Oswald infatti dopo aver chiesto asilo politico in Urss, aveva vissuto e lavorato a Minsk tra il 1959 e il 1962, e perfino sposato una cittadina della capitale bielorussa prima di richiedere al governo sovietico di poter rientrare in Usa (e sorprendentemente avere tale deroga senza problemi) dove ebbe ancora rapporti saltuari con formazioni della sinistra americana.

influenza dei servizi segreti russi

Lee Harvey Oswald, foto del 1959 che forniscono diverse versioni della sua immagine, messe a confronto in una ricostruzione di Jack White per la John F. Kennedy Assassination Collection, University of Texas at Arlington Libraries – Identifier: 2012-043.

L’intelligence e la crisi politica di Praga

Dal punto di vista dell’intelligence, qualche anno dopo all’interno del quadro dei “rapporti fraterni di internazionalismo” tra stati socialisti  ebbero grande importanza gli avvenimenti in Cecoslovacchia nel 1968, dove venne sospesa la norma che vietava al Kgb lo spionaggio all’interno dei paesi aderenti al Patto di Varsavia. Il generale Alexander Kotov, consigliere capo del Kgb a Praga, sospettando che presto sarebbe stato necessario entrare in azione, ottenne qualche tempo prima dell’invasione, da Josef Houska esponente della “linea dura” dei servizi cecoslovacchi, copie delle fotografie di tutti gli ufficiali del servizio di sicurezza. Tuttavia malgrado poi venissero spedite a Praga alcune decine dei migliori agenti sovietici per gestire la crisi politica, la struttura stessa dell’organizzazione comunista non fu in grado di operare al meglio perché non in grado di capire quanto stesse avvenendo, cogliendo nei riformatori di Dubcek solo dei “pericolosi controrivoluzionari”. Secondo alcuni storici russi come Rudolf Picharya furono proprio le informazioni eccessivamente allarmistiche sui “complotti  imperialisti” di Yuri Andropov allora a capo del Kgb, a far propendere l’ago della bilancia di un incerto Politiburo verso l’intervento dell’agosto.

influenza dei servizi segreti russi

L’invasione di Praga da parte dei sovietici nel 1968

Per ironia della storia secondo Gordevskij «nel corso dell’invasione, il Kgb operò meno bene dell’Armata Rossa. I suoi reparti armati, che accompagnavano le forze regolari sovietiche con il compito di eseguire operazioni del tipo Smers per identificare e neutralizzare l’eventuale opposizione controrivoluzionaria, erano male addestrati e furono poco efficienti».

Chandra ed Erokin: la politica russa in Asia meridionale

Il paese dell’allora cosiddetto “Terzo Mondo” in cui il Kgb finì per investire i maggiori sforzi fu l’India non tanto al fine di spiare un paese che per lungo tempo fu molto vicino all’Urss (una vera e propria bilancia tra gli appetiti russi, americani e cinesi) sia ai tempi di Nehru sia in quelli di Indira Gandhi, ma al fine di tentare di condizionarne le mosse.

La figura di maggiore spicco nell’organizzazione dei “fronti” sovietici durante l’era di Breznev fu il comunista indiano Romesh Chandra, il cui entusiasmo per la causa sovietica risaliva ai tempi in cui aveva studiato all’Università di Cambridge.

Alla fine degli anni Sessanta egli spinse Breznev a fare dei rapporti speciali con l’India la base della propria politica nell’Asia meridionale.

I successi sembra furono tali che Dmitry Erokin, l’uomo di punta dei servizi russi a Nuova Delhi, tornò a Mosca nel 1970, con una promozione che fece di lui il più giovane maggior generale del Kgb in attività. Malgrado ciò, più recentemente l’India ha iniziato a guardare agli Usa come principale partner internazionale, anche se ancora oggi i rapporti tra Putin e Modi sono ottimi soprattutto in alcuni settori strategici come quello energetico e militare.

“Pace sociale”, dissidenti e oppositori

Sul piano interno dopo l’uscita di scena di Nikita Kruscev e l’ascesa della “direzione collegiale” brezneviana si assistette alla più lunga fase di controllo sociale e di gestione dell’ordine pubblico più moderata e pacifica di tutta la storia sovietica e il ruolo del Kgb si limitò quasi al livello della routine. Tale “pace sociale” fu la conseguenza prima di tutto di una crescita economica e del tenore di vita significativo un po’ in tutta l’Urss. Il problema centrale per il Kgb restò il movimento della dissidenza. Secondo una valutazione degli stessi servizi sovietici, alla fine degli anni Sessanta del secolo scorso, nel paese esistevano circa 8,5 milioni di oppositori o potenzialmente tali. Si trattava di una stima al contempo esagerata e riduttiva: questi settori della società erano, è vero, solo del 5% della popolazione adulta del periodo, ma anche quelli a più alto grado di formazione intellettuale. Questa caratteristica rendeva questi strati sociali poco propensi a organizzare attività violente e illegali e i servizi si limitarono per molti anni a gestire il problema spedendo in esilio, al confino o negli ospedali psichiatrici i suoi più riottosi rappresentanti di cui l’accademico Andrey Sakharov fu il più celebre (curioso il caso dello scrittore Eduard Limonov che sostenne al suo rientro in Russia negli anni Novanta, dopo esserne stato espulso nel 1975, di essere uscito dal paese in qualità di agente Kgb).

Bibliografia consigliata
  • Il Wilson Center ha pubblicato un’interessante selezione di documenti riguardanti la relazione tra servizi sovietici e tedesco-orientali durante la Guerra Fredda consultabili sulla sua pagina web.
  • David E. Murphy, Sergei A. Kondrashev, George Bailey, Battleground Berlin: CIA vs. KGB in the Cold War, London, Yale University Press, New edition, 1999.

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Licenza di espellere https://ogzero.org/colpi-di-scena-e-cambio-di-attori/ Wed, 07 Apr 2021 16:52:30 +0000 https://ogzero.org/?p=2925 L’Intelligence mondiale impegnata in questo periodo nell’adeguamento al nuovo approccio agli Affari internazionali che Biden ha riportato alla contrapposizione del Fronte del Bene all’Impero del Male viene a trovarsi tra le mani dossier scottanti, che sono eredità della arrembante e tatticamente originale dottrina Trump; Yurii Colombo ci ha fornito una serie di chiavi utili per […]

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L’Intelligence mondiale impegnata in questo periodo nell’adeguamento al nuovo approccio agli Affari internazionali che Biden ha riportato alla contrapposizione del Fronte del Bene all’Impero del Male viene a trovarsi tra le mani dossier scottanti, che sono eredità della arrembante e tatticamente originale dottrina Trump; Yurii Colombo ci ha fornito una serie di chiavi utili per inquadrare quella che appare una rinnovata guerra di spie creata apposta per indirizzare messaggi espliciti di allineamento all’interno di una fazione… anche quando la Ostpolitik e gli affari energetici suggerirebbero equidistanza.

Riabituarsi alla banalità dello spionaggio da Guerra Fredda

Il recente caso di spionaggio russo ai danni dell’Italia e della Nato ha riacceso l’attenzione dell’opinione pubblica italiana sui rapporti tra Occidente e Russia. Un’opinione pubblica ormai impreparata a leggere gli avvenimenti internazionali e frastornata dal perdurare della pandemia ha perlopiù commentato in chiave di burla («ma quali segreti mai si venderanno per 5 mila euro?!») e di incredulità quanto successo alla fine di marzo. Se solo avesse letto non qualche spy-story strampalata ma una storia dei servizi segreti internazionali, l’opinione pubblica avrebbe saputo che di queste cifre si è spesso parlato nella storia della compravendita di segreti (anche perché altrettanto spesso di tratta di informazioni di scarso rilievo, antiquate…). Lo ha messo in rilievo Dario Fabbri su Limes on-line e in chiave storica anche chi scrive nella seconda puntata sullo spionaggio russo-sovietico in pubblicazione su Ogzero. Senza rendersi conto della dinamica che da questa estate in poi è in pieno sviluppo (dalle manifestazioni anti-Lukashenko in Bielorussia e dall’avvelenamento di Navalny sui cieli siberiani in sostanza) il “villaggio globale” è stato costantemente sollecitato a prendere parte al rinverdimento della guerra fredda 2.0 che ha ripreso vigore dopo l’elezione di Joe Biden alla presidenza Usa. Nella nostra ipotesi e canovaccio analitico il rilancio, in questa fase in grande stile, del tema dell’“impero del male” russo si basa su elementi di carattere tattico più che strategico. Se il superamento o il rovesciamento di Putin è visto dall’Unione Europea come dagli Stati Uniti come un obiettivo fondamentale (in chiave di accesso al mercato interno postsovietico nel suo complesso e al controllo del flusso delle sue materie prime) nessuna cancelleria occidentale ritiene ragionevolmente che la fine dell’era Putin sia cosa di mesi, malgrado le evidenti fibrillazioni non solo sui suoi confini occidentali (non si dimentichi l’area caucasica e la questione Transnistria oltre alla vicenda Bielorussia a cui per ora è stata posto un rattoppo) ma anche in Siberia. Il vero dibattito tra Berlino e Parigi da una parte e Washington dall’altra è su come sviluppare una crescente pressione sul Cremlino. E qui le divergenze si rivelano non solo di interessi e prospettive di fondo tra l’asse franco-tedesco e americano (che può contare sulle “quinte colonne” baltiche e dell’Europa orientale) ma anche culturali. Da molte parti è stato sottolineato di recente come l’approccio tedesco, storicamente, è spesso stato basato sull’“interdipendenza”.

Il contenimento viene da lontano

Fanteria russa alla Grande Guerra del Nord – L’artigliere stanco

«Gli orizzonti delle diverse linee politiche europee nei confronti della Russia hanno preso forma circa 300 anni fa, quando finì la Grande Guerra del Nord e divenne chiaro che la Russia era saldamente radicata nel Baltico», afferma Martin Schulze-Wessel, professore di Storia dell’Europa orientale all’Università di Monaco. Già allora furono gettate le basi della politica, che più tardi fu chiamata del “contenimento” che trovò nel XX secolo il suo principale interprete negli Stati Uniti d’America e di quella prussiana già allora divisa tra “Occidente”, a cui aspirava, e Impero russo zarista, con il quale non voleva essere nemica. Senza contare che Prussia e Russia avevano la comune aspirazione di indebolire e dividere la Polonia.

L’esperienza di due disastrose guerre mondiali ha rafforzato l’aspirazione delle élite tedesca e sovietica (e poi russa) a politiche reciprocamente vantaggiose piuttosto che conflittuali. L’obiettivo non era – e non è solo – che gli industriali tedeschi facciano profitti, e lo stato sovietico vendesse petrolio e gas all’Occidente. Il punto nodale, da parte tedesca è sempre stato la realizzazione di un mutamento di rotta al Cremlino non con la pressione, come stanno facendo gli Stati Uniti (e come fece per esempio Ronald Reagan quando ipotizzò prima dell’avvento di Gorbaciov delle Guerre stellari) ma rafforzando l’interdipendenza economica tra Europa occidentale e orientale.

Ostpolitik: dal NordStream2 ai fuochi di guerra in Donbass

L’idea di “cambiamento attraverso il riavvicinamento” (Wandel durch Annäherung) fu il motto della “Nuova politica orientale” (Ostpolitik) tedesca, avviata dal cancelliere tedesco Willy Brandt all’inizio degli anni Settanta. Alcune somiglianze con questa politica possono essere viste nell’iniziativa Partnership for Modernization, per la quale l’allora ministro degli Esteri tedesco (attuale presidente) Frank-Walter Steinmeier fece alla fine del primo decennio del 2000.

Anche ora, dopo l’attentato a Navalny, la Germania resta riluttante a compiere passi decisivi, come per esempio l’abbandono del progetto di partnership energetica di North Stream 2, la quale ha una rilevanza non solo economica. Il nuovo gasdotto ha evidentemente un significato: quello strategico e geopolitico, inteso come un’operazione diretta contro la Polonia che verrebbe aggirata a nord. Si tratta di un timore condiviso anche dal presidente ucraino Volodomyr Zelensky che vedrebbe diventare definitivamente obsolete le pipeline russe che ora attraversano il suo territorio e gli garantiscono un’importante rendita economica. La portavoce di Zelensky, Yulia Mendel, ha definito “sorprendente” il dialogo a tre tra Macron, Merkel e Putin rilanciato alla fine di marzo con una lunga riunione online in cui, tra l’altro, si è parlato esplicitamente di Donbass senza coinvolgere la parte ucraina. Successivamente le tensioni sul confine ucraino dopo la ridislocazione delle truppe russe e la dura reazione congiunta di Zelensky-Biden dopo un colloquio durato ben 50 minuti, lasciano presagire che presto tra i due paesi slavi potrebbero persino tornare a battere i tamburi di guerra. Al percorso dei “Protocolli di Minsk” per giungere alla pace nella zona orientale dell’Ucraina del resto non crede più nessuno dopo che il governo di Kiev ha smesso di riconoscere la capitale bielorussa come sede preposta alle trattative per la sua implementazione.

“Nuova guerra in Donbass: consenso interno, equilibri geopolitici e giochi di spie”.

 

Storie di spie tra pipeline contrastate e protocolli stracciati

È in questo quadro che si colloca sia l’accresciuto protagonismo del Gru (Glavnoe razvedyvatel’noe upravlenie), il servizio segreto russo militare, in particolare in Europa, e dell’aumento della soglia di attenzione del controspionaggio dei paesi dell’Unione Europea (anche in chiave propagandistica). Dopo i casi di spie russe scoperte in Austria più recentemente è venuto agli onori delle cronache l’attività dei servizi russi in Bulgaria, un caso assai più significativo di quello tricolore ma completamente – e naturalmente – ignorato dalla stampa italiana. Il 19 marzo scorso è scattata un’operazione in grande stile della polizia di Sofia per neutralizzare “spie straniere”, con perquisizioni in diversi quartier e il blocco di tutte le autostrade interurbane della capitale bulgara. Sono stati arrestati sei cittadini di quel paese che avrebbero costituito nel tempo una “rete di spionaggio” a favore di Mosca. Il gruppo di spie avrebbe fornito costantemente notizie di routine e sarebbe stato posto sotto controllo già dal 2020 e non è da escludere che si sia deciso di interrompere il flusso di informazioni (che avveniva attraverso la moglie russa di uno degli informatori che si incaricava ogni tanto di portare le informazioni all’Ambasciata russa) proprio in corrispondenza della volontà di accrescere la pressione su Mosca. (A proposito: il gruppo riceveva, secondo quanto sostenuto dai funzionari bulgari, circa 2000-3000 leva al mese per spiare le attività del paese ex socialista cioè cica 1000-1500 euro al mese: è davvero un lavoro poco remunerato quello della spia!).

Secondo l’investigatore il giornalista investigativo bulgaro Hristo Grozev che ha lavorato la scorsa estate al disvelamento del caso Navalny ci sarebbe stata una «influenza invisibile di Washington (…) e non è escluso che le informazioni sulle spie possano essere state trasferite ai servizi segreti europei dagli Stati Uniti». Secondo Grozev «scoprire una spia sotto copertura è, prima di tutto, notoriamente un atto politico dimostrativo. Molto spesso infatti l’azione delle spie è ben conosciuta e l’espulsione o l’arresto impedisce l’azione di contrasto per mezzo di notizie false o forvianti. Il secondo si chiama “opportunità politica”. Non bisogna essere degli specialisti del settore per sapere che ogni paese conduce attività di intelligence contro altri paesi. Allo stesso tempo, ogni paese ha obiettivi strategici di natura politica commerciale, economica e internazionale. Ecco perché, se la leadership di un servizio speciale o di un paese riceve informazioni su spie che vendono segreti, allora, prima di tutto, vengono valutati i rischi della distruzione dei piani strategici determinati dall’espulsione dei diplomatici».

In tal caso secondo il portale ucraino Ukrinform, sempre bene informato delle dinamiche dei servizi russi, «sia la parte bulgara che quella italiana avrebbero fatto dei calcoli logici dell’opportunità operativa e politica» per espellere i diplomatici russi. In particolare la scelta italiana sarebbe la diretta conseguenza della linea super-atlantista imposta al suo esecutivo (la definitiva rottura con Putin è stata la condizione essenziale posta alla Lega per entrare nel governo) e segna il definitivo abbandono della politica estera dei “due forni” dell’era tardo guerra fredda dei ministeri Andreotti-De Michelis.

Si tratta di una partita quella della pressione occidentale su Mosca, destinata a durare ancora a lungo e destinata ad avere molti colpi di scena e cambio di attori e di cui la carta dello spionaggio, sarà forse quella meno pesante.

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Alexey Navalny, questo sconosciuto: una prospettiva https://ogzero.org/alexey-navalny-questo-sconosciuto-una-prospettiva/ Wed, 27 Jan 2021 11:16:20 +0000 http://ogzero.org/?p=2312 Il riaffiorare delle proteste antiregime in Russia ripropone il tema dello stato di salute socio-economico del paese, delle prospettive della presidenza Putin e della riemersione di Alexey Navalny (dopo l’avvelenamento con Novichok ad agosto in Siberia e l’arresto al ritorno in patria) come possibile alternativa democratica. Rimandando ad altra occasione l’approfondimento, importante, dei primi due […]

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Il riaffiorare delle proteste antiregime in Russia ripropone il tema dello stato di salute socio-economico del paese, delle prospettive della presidenza Putin e della riemersione di Alexey Navalny (dopo l’avvelenamento con Novichok ad agosto in Siberia e l’arresto al ritorno in patria) come possibile alternativa democratica. Rimandando ad altra occasione l’approfondimento, importante, dei primi due aspetti, vediamo di concentrarci sulla figura del blogger antisistema tanto discussa quanto poco conosciuta anche in Occidente.

Dall’opposizione mainstream a Narod

Navalny muove i suoi primi passi nel mondo politico nei primi anni Duemila nell’universo dell’opposizione “mainstream” di Yabloko di Viktor Yavlinskij uno stimato accademico, vice primo ministro in era gorbacioviana che propone ricette economiche di liberismo temperato sulla falsariga dei cristiano-sociali tedeschi condite con disponibilità e aperture alle questioni dei diritti civili, Lgbt compresi. Ma per Navalny si tratta di un mondo compassato e old fashion che gli sta stretto: il giovane blogger vuole una politica più aggressiva, più militante e costruita sull’uso professionale delle nuove tecnologie. Nel 2007 lascia Yabloko per fondare il Movimento nazional-democratico “Narod” (“Popolo”): un pot-pourri in cui si agglutinano soprattutto gli ex nazional-bolscevichi di Limonov. Controllo rigido della migrazione interna e stato forte caratterizzano una forza politica che non decollerà, anche perché quello spazio politico è ben presidiato da Vladimir Zirinovsky, lo xenofobo leader del Partito liberaldemocratico.

Dal fascino della destra e al maquillage populista

Tre anni dopo, e siamo nel 2010, Navalny prende parte a “Russky Marsh” la manifestazione dell’estrema destra in cui si sprecano le bandiere nere con la celtica, le foto di Ivan Grozny, e i cui partecipanti non si vergognano di dichiararsi antisemiti e omofobi. Ma con la candidatura per sindaco di Mosca, nel 2012, su consiglio dei suoi spin-doctor Navalny “ribrandizza” la sua immagine per intercettare l’elettorato giovanile della capitale, educato al liberalismo di stampo occidentale. Un riposizionamento che gli frutterà il 27,2% dei consensi. Un maquillage populista, il suo programma elettorale alla carica di sindaco, che accanto alla rivendicazione del diritto al matrimonio gay alterna l’attacco a Putin sui temi della corruzione, ma anche una politica sull’immigrazione centroasiatica reazionaria non molto diversa da quella della Lega di Salvini. Nel frattempo parteciperà, in prima fila, alle grandi manifestazioni contro i brogli delle elezioni presidenziali del 2011-2012.

Navalny sconosciuto

Alexey Navalny alla Marcia Russa il 4 novembre a Mosca nel 2011

Una macchina politica fondata sul personaggio

Il riflusso di quelle che per ora restano le più grandi manifestazioni di protesta da quando è nata la Federazione russa lo inducono a riflettere. Da allora in poi inizia a costruire una propria macchina politica centralizzata di stile “leninista” che ruota tutto intorno alla sua persona che cresce negli anni in oltre sessanta provincie in tutto il paese, dimostrando, va detto, notevole coraggio in uno stato dove qualsiasi cosa si muova viene messo subito sotto la lente d’ingrandimento dei servizi segreti e della polizia. Si tratta di un’intuizione forte: per i russi, tradizionalmente, la politica è sempre qualcosa che ruota intorno a un leader carismatico – non importa se si chiami Pietro I o Stalin, Ivan Grozny o Pugacev. Il nome del suo partito cambia spesso, più importanti sono le front organizations di cui la principale è “il centro anticorruzione” (che ha prodotto il recente film – oltre 70 milioni di visualizzazioni – sull’ormai famosa residenza di Putin da 38.000 metri quadrati in Crimea) ma al cui centro c’è sempre e solamente il portale navalny.com. Non a caso quando viene escluso dalla corsa per le presidenziali del 2018 a causa di una condanna penale (un reato fiscale che molti osservatori sostengono sia stato fabbricato dall’Fsb) preferisce non puntare su qualche suo braccio destro ma chiamare al boicottaggio del voto.

Il programma politico neoliberale

È in questo periodo che mette a punto il suo programma politico che non ha mai voluto troppo pubblicizzare, temendo come altri politici populisti in ascesa, i “temi divisivi”. Il suo piano economico per lo sviluppo della Russia è sin troppo semplice: aumento del salario minimo a 25.000 rubli al mese, aumento delle pensioni e dei servizi sociali dalla Sanità all’Istruzione. Da dove reperire queste risorse? Le ricette, neoliberali, non sono molto diverse da quelle attuate in Occidente che si sono dimostrate disastrose per le classi subalterne: «Il nostro programma include un’ampia gamma di misure per liberare gli imprenditori dalla pressione della burocrazia, dei funzionari della sicurezza e dei monopoli. Stiamo implementando un programma per demonopolizzare l’economia e ridurre i prezzi. Ridurremo il numero di organismi di regolamentazione e ne liquideremo alcuni. […] Aboliremo la contabilità fiscale separata e passeremo completamente alla rendicontazione contabile in conformità con gli standard internazionali. Vieteremo l’avvio di procedimenti penali nel caso in cui si consideri lo stesso caso nel quadro di una controversia commerciale, così come mettere in custodia gli imprenditori per reati economici in attesa di una sentenza».

Le sue bordate ovviamente sono contro quella “rinazionalizzazione” dell’economia volta da Putin – una sorta di bicefalo di capitalismo di stato con turboliberismo nel mondo lavorativo – che ha rimesso sotto controllo statale tutti i settori strategici dell’economia, comprese le banche e quello immobiliare. «In Russia ora c’è una sorta di capitalismo incomprensibile, in cui lo stato controlla più della metà dell’economia e domina gli uomini d’affari. Un tale sistema ostacola lo sviluppo del paese», denuncia Navalny, peccato però che buona parte degli oligarchi e dei businessmen a cui si rivolge hanno prosperato sotto l’economia di “pianificazione comandata neoliberale” di Putin: sono ormai cento gli oligarchi miliardari in dollari in un paese dove la forbice della ricchezza è tornata a essere quella dei tempi del 1905 che mise in moto la prima rivoluzione sovietica, come ha dimostrato Thomas Piketty.

La ricetta fiscale: il federalismo nel federalismo

L’uovo di Colombo per l’oppositore sarebbe un’ulteriore riduzione delle tasse – questa volta per il piccolo e medio business – in un paese dove esiste già un prelievo ridottissimo (flat tax al 13-15%). L’oneroso sistema della difesa che assorbe – e siamo ai dati del 2021 – il 14,5% del budget statale verrebbe inoltre ridotto grazie all’introduzione dell’esercito professionale: «la Russia è in grado di permettersi un esercito completamente “a contratto”: 500.000 soldati con uno stipendio medio di 200.000 rubli al mese (il nostro obiettivo) sono 1200 miliardi di rubli all’anno. Il budget militare di oggi è di circa 3 mila miliardi…». Un altro tassello fondamentale della sua amministrazione sarebbe il federalismo fiscale in un paese già federale ma dove troppe risorse finirebbero al centro: «Il nostro programma di riforma del bilancio prevede un aumento della quota di imposte e tasse trattenute nelle regioni. […] Oggi il denaro va avanti e indietro: prima viene prelevato dalle regioni e poi assegnato sotto forma di sussidi. Questo viene fatto per mettere le regioni in una posizione politicamente subordinata. Siamo categoricamente contrari a questo. Una giusta distribuzione del gettito fiscale tra centro e regioni dovrebbe essere di 50/50 in pochi anni (negli ultimi anni si è arrivati a 70/30 a favore del centro)». Null’altro. Davvero troppo per risolvere i problemi di dipendenza dell’economia russa dalla produzione ed esportazione di idrocarburi (che rappresenta il 30% del Pil) dal cronico deficit di capitali e da una valuta fragile e volatile. Per non parlare di un mondo del lavoro in cui la precarietà, l’inesistenza di diritti e tutele, oltre che i bassi salari sono la norma.

La politica nazionalista: il regime dei visti

La riforma del sistema giudiziario e un’organizzazione degli apparati di sicurezza completano il menù “riformista” interno. Allo stesso tempo Navalny non ha mai nascosto di voler perseguire una politica “realmente nazionalista” – sulla falsariga di quella promossa dalle forze sovraniste e di destra nell’Unione Europea – nei confronti delle ondate migratorie dal Centro-Asia. La sua latente posizione xenofoba era già venuta a galla durante la sua campagna elettorale per la carica di sindaco di Mosca nel 2013 quando si era detto favorevole alla deportazione coatta dei migranti illegali e il divieto della costruzione di moschee. Posizione riaffermata in modo più vago anche nel suo programma politico sostenendo la necessità di «introdurre un regime dei visti con i paesi dell’Asia centrale e della Transcaucasia».

Navalny sconosciuto

Mosca 2013, uno striscione pubblicizza la candidatura di Navalny

La minaccia per Putin: la sua politica estera

Ma ciò che rende il suo programma particolarmente insidioso per Putin sono le direttrici della politica estera. Navalny non ha fatto mai mistero di considerare avventurista la politica russa dal 2014 in poi in Ucraina. Più di una volta ha infatti sostenuto che se assumesse il potere chiuderebbe rapidamente il contenzioso nel Donbass e proporrebbe un nuovo referendum per decidere lo status giuridico internazionale della Crimea. E di voler puntare a un’integrazione con l’Unione Europea. «La Russia dovrebbe tornare all’ideologia del partenariato strategico e dell’integrazione con i paesi dell’UE sulla base del concetto di “quattro spazi comuni”, individuando come obiettivo finale la creazione di una zona di libero scambio tra l’UE e l’EurAsEC», sostiene sempre nel suo programma politico. Tutta musica per le orecchie di Bruxelles ancor prima che di Washington, se si aggiunge che Navalny abbandonerebbe al loro destino sia Assad sia Maduro – strategici alleati di Mosca – e rimodulerebbe le relazioni con Erdoğan. Il che rappresenterebbe il ritorno di quell’ipotesi di inserimento della Russia nella Nato che era stata ipotizzata, se non accarezzata, dallo stesso Putin nei suoi primi anni di amministrazione.

L’Europa si allontana da Putin: una partita da giocare

Tuttavia fino a questa estate né la UE né la Casa Bianca (o meglio il Pentagono) avevano considerato seriamente l’ipotesi di sostenere gli sforzi dell’oppositore russo. Poi si sono determinati una serie di fattori che hanno indotto Macron ad archiviare le sue aperture al Cremlino (facendo baluginare più volte l’idea di una versione riveduta e corretta del sogno gollista di un’Europa da Lisbona a Vladivostok) e la Merkel a non portare a compimento la megapipeline North Stream 2 che prevede un raddoppio dell’afflusso di gas russo in Germania. La crisi politica in Bielorussia, l’allontanamento da Putin della storica alleata Serbia in direzione stelle-striscie, il cambio della guardia in Moldavia che ha riportato i filo-UE alla presidenza dopo il mandato di Igor Dodon a cui si aggiunge l’avventuristico uso ormai reiterato da parte dell’Fsb di armi chimiche, ha fatto ritenere alle cancellerie europee che ogni possibilità di dialogo con il regime putiniano – almeno per il momento – siano giunte al capolinea e che si possa tentare di lavorare al fine di provocare il collasso del suo regime in tempi medi, usando appunto anche il cavallo di troia dell’opposizione di Navalny, l’unica oggi strutturata e capace di essere il magnete del variegato scontento che serpeggia nel paese. Una scommessa azzardata perché dovrebbe puntare a una scissione dentro i poteri forti russi: il complesso militar-industriale, i cinovniki degli idrocarburi e i servizi segreti. Forse per questo la partita geopolitica iniziata con il crollo dell’Urss trent’anni fa è ancora in gran parte da giocare.

Dopo le manifestazioni del 31 gennaio Yurii Colombo è intervenuto più volte a commentare la situazione dal suo osservatorio privilegiato:

“I disperati del Putin declinante”.

 

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Minsk: perché l’opposizione non ha rovesciato il regime? https://ogzero.org/minsk-perche-lopposizione-non-ha-rovesciato-il-regime/ Fri, 08 Jan 2021 12:49:46 +0000 http://ogzero.org/?p=2187 In Bielorussia proseguono le manifestazioni di protesta contro il regime di Alexander Lukashenko anche in questo gelido inverno. I riflettori dei media occidentali si sono andati via via spegnendo sulla tragedia di un popolo imprigionato da un bizzarro dittatore e con l’avanzare della stagione fredda anche le mobilitazioni autorganizzate in molte città si sono rarefatte. […]

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In Bielorussia proseguono le manifestazioni di protesta contro il regime di Alexander Lukashenko anche in questo gelido inverno. I riflettori dei media occidentali si sono andati via via spegnendo sulla tragedia di un popolo imprigionato da un bizzarro dittatore e con l’avanzare della stagione fredda anche le mobilitazioni autorganizzate in molte città si sono rarefatte. Da più di un mese i gruppi dell’opposizione e i collettivi informali di caseggiato a Minsk hanno deciso di evitare l’organizzazione di manifestazioni centrali che aveva punteggiato la straordinaria estate bielorussa, e si sono concentrati su iniziative di quartiere. Per far “passare ’a nuttata”, ma soprattutto per evitare un impietoso confronto tra le mobilitazioni oceaniche di qualche mese fa e quelle che l’opposizione sarebbe in grado di mettere in campo ora.

proteste a Minsk

Proteste oceaniche a Minsk in agosto 2020 (foto di Ruslan Kalnitsky)

Dunque a cinque mesi dall’inizio delle proteste seguite alle presidenziali, elezioni-farsa del 9 agosto scorso, la prospettiva di un cambio di regime appare oggi meno probabile, almeno a breve termine. E molti si chiedono: perché l’opposizione non è riuscita a rovesciare il Conducator di Minsk? Quali sono stati i suoi limiti? E, soprattutto, quali sono le prospettive?

Per rispondere a queste domande varrà la pena fare un passo indietro, anzi due.

Perché non hanno rovesciato il Conducator?

La società bielorussa già da anni appare divisa. Da una parte ci sono i settori più dinamici della società, raccolti intorno alla nuovissima industria hi-tech, al commercio al minuto, a un crescente movimento femminista (non tout court riconducibile per tematiche e radicalità a quello occidentale), alla gioventù delle aree metropolitane che richiedono a gran voce allentamento dell’autoritarismo, della grettezza misogina, un nuovo ascensore sociale che permetta l’ascesa non solo per chi è legato all’apparato presidenziale o alla filiera dell’industria statale. Si tratta di settori sociali urbani e metropolitani solo parzialmente riconducibili a una tendenza verso l’integrazione con il mercato dell’Unione Europea e ai suoi “valori”.

L’economia bielorussa è rimasta dall’epoca sovietica profondamente integrata a quella sovietica e la sua industria continua ad avere come mercato di sbocco (per il 60%) il mercato russo. La Russia volente o nolente, anche per i profondi legami culturali, resta un fattore della chiave per la Bielorussia, e lo resterà verosimilmente anche nel futuro. Non è un caso che solo raramente – e solo dopo che Putin ha chiaramente espresso il suo endorsement per Lukashenko – sono apparsi dei cartelli antirussi durante le manifestazioni dell’opposizione. Dall’altra parte, il regime continua a raccogliere un certo consenso – seppur passivo – nel vasto mondo agricolo bielorusso, il cui export è praticamente solo in direzione di Mosca e dell’apparato amministrativo. Un primo errore dell’opposizione è stato sottovalutare questa parte della società.

Il ruolo della classe operaia: la vendita della pelle dell’orso bielorusso

L’irrisione di “Sasha 3%” dopo un improbabile sondaggio che dava il presidente in carica una popolarità ridottissima se è servita inizialmente a dar coraggio a una opposizione marginalizzata, ha finito per diventare un boomerang quando una parte del movimento antiregime ha iniziato a credere che Lukashenko avesse perso completamente contatto con la società civile. Non essendoci elezioni libere e non manipolate nel paese è difficile valutare il grado di consenso attuale di Lukashenko ma è immaginabile pensare che possa godere ancora del 40-50% di sostegno. Ripetiamo, passivo ma sufficientemente ampio. In mezzo ai due schieramenti, c’è essenzialmente, la classe operaia. Una vasta working class composta di tradizionalissime tute blu, per nulla postfordista, che rappresenta ancora oggi nel paese slavo la metà della popolazione attiva.

Negli anni Novanta del secolo scorso e nel primo decennio del nuovo millennio questa classe operaia fu la spina dorsale del regime bielorusso. A differenza degli altri paesi ex sovietici infatti Lukashenko aveva impedito la privatizzazione di buona parte delle imprese e, malgrado i bassi salari, la piena occupazione era stata garantita assieme al mantenimento del welfare seppur in salsa sovietica. Ma le cose sono iniziate a cambiare negli ultimi anni quando i salari reali hanno cominciato a ridursi, è stata avviata la “riforma” del sistema previdenziale con l’aumento dell’età pensionabile e sono state introdotte forme di lavoro precario e tra le tute blu è iniziata a serpeggiare l’inquietudine. Si può ritenere che la maggioranza dei lavoratori delle grandi impresi delle grandi città il 9 agosto 2020 abbiano votato per la candidata unitaria dell’opposizione Svetlana Tichanovskaya, seppur con qualche perplessità.

opposizione

Svetlana Tichanovskaya, leader dell’opposizione al regime, con le sue collaboratrici (foto di Svetlana Turchenick)

Il malumore latente degli operai nei confronti del regime è poi venuto fuori in modo ancora più evidente dopo la mattanza di stile cileno contro i manifestanti seguita alle poderose manifestazioni della prima settimana dopo le elezioni-farsa che portarono alla morte di 4 persone, a decine di feriti gravi, a migliaia di arresti e alle torture in carcere. Nel giro di pochi giorni, in quel frangente, gli operai scesero in sciopero e in assemblea e misero di fatto la parola fine alle violenze più efferate degli Omon e delle forze dell’ordine. Ma non si spinsero oltre, non abbatterono il regime con lo sciopero generale. Non solo, e non soprattutto perché, la macchina repressivo-paternalistica dei “direttori rossi” si mise in moto per far rientrare gli scioperi, ma in particolare perché non si fidarono di un’ipotesi – quella propugnata dalla “direzione” del movimento di opposizione – che allude a privatizzazione e turbo-neoliberismo per la Bielorussia di domani.

La sottile linea rossa: limite invalicabile per il Cremlino

D’altro canto la presunta “direzione” del movimento si è squagliata o è stata repressa rapidamente. Ciò che è rimasto in campo è un vasto movimento semispontaneo articolato e ramificato di comitati di quartiere, studenteschi e collettivi femministi difficilmente riconducibile a ipotesi politiche definite. Un elemento di ricchezza che rappresenta al contempo un elemento di debolezza di fronte a un sistema repressivo che non ha subito defezioni e fratture particolari. Allo stesso tempo il sostegno di Putin a Lukashenko è stato in grado di stabilizzare negli ultimi mesi la situazione interna.

La traiettoria della crisi bielorussa resta una pedina decisiva nella scacchiera politica estera russa. Dmitry Peskov, il portavoce di Putin, ha sostenuto in una recente intervista televisiva, che la Bielorussia “resta una linea rossa” da non superare per i paesi occidentali e lo stesso vale per la Moldavia, o meglio ancora per la Transnistria: lo sgretolamento delle ultime cittadelle ex sovietiche alleate di Mosca rende agitati, inevitabilmente, i sonni al Cremlino.

Il livello di benessere dei cittadini bielorussi ha continuato a contrarsi, lentamente ma inesorabilmente, negli ultimi anni. Dopo aver raggiunto il suo apice nel 2014 quando, secondo la Banca mondiale, il Pil pro capite aveva raggiunto gli 8300 dollari al tasso attuale di cambio, nel 2019 si è attestato a 6700 dollari. Il confronto con la vicina Polonia dove è quasi il triplo, continua a essere, da questo punto di vista, impietoso. La gestione – disastrosa, in tutta una prima fase da parte di Lukashenko – della pandemia è stata corretta in una posizione non apertamente “negazionista” anche se di lockdown non si è mai parlato e Mosca ora sta mandando a Minsk già decine di migliaia di dosi di vaccino anti-Covid19. Mosca ha teso una mano alla repubblica bielorussa già da settembre: durante un incontro ai massimi vertici a Soci il presidente russo non è stato prodigo solo di un sostegno formale a Lukashenko, ma ha concordato un prestito a Minsk per un importo di 1,5 miliardi di dollari.

Il dispendioso paternalismo energetico russo potrà contenere il malcontento?

In precedenza Mosca aveva sovvenzionato una media del 10% del Pil bielorusso attraverso prestiti, sconti sul petrolio e gas, altre regalie. La stessa centrale nucleare appena costruita da Rosatom sul territorio del piccolo paese slavo è stata di fatto completamente finanziata da Mosca e non verrà, verosimilmente, mai ripagata. Si tratta di una politica di patronato che un alleato come la Russia, anche in epoca sovietica, ha sempre tradizionalmente sviluppato, per tenere al guinzaglio i paesi delle allora “democrazie popolari”, però costosa e non priva di rischi.

Riprenderanno dunque vigore le manifestazioni con i primi tepori primaverili? C’è da ritenere di sì. La società bielorussa appare ormai frantumata e le contraddizioni apertesi non appaiono più ricomponibili. L’ipotesi che si vada verso uno scenario polacco appare verosimile. Dopo l’esplosione di Solidarność il generale Yaruzelski, negli anni Ottanta del XX secolo, riuscì a mantenere a galla il paese con l’aiuto del “grande fratello” russo per qualche anno, ma non riuscì mai a stabilizzare definitivamente la situazione. Per Lukashenko si tratta di un incubo, ma le alternative per lui non sono molte. Un effetto di trascinamento della crisi, allo stesso tempo, spingerebbe il movimento democratico sempre più nelle braccia dei paesi occidentali come già successe a Varsavia, i quali anelano a trasformare la Bielorussia in una sorta di Svizzera tax-free con forza-lavoro a basso prezzo. Una soluzione a cui guardano con particolare interesse i paesi del gruppo di Visegrád e i baltici. In questo contesto la Bielorussia rischierebbe di trasformarsi in un altro tassello di quella filiera di paesi dell’Unione Europea, politicamente reazionari soprattutto per quanto riguarda i diritti civili e dei lavoratori.

Boiardi bielorussi in orbita moscovita: disperati epigoni di Sasha

Una prospettiva che i facitori della politica estera del Cremlino vogliono disperatamente evitare. Per mantenere la sua influenza in Bielorussia, Mosca intende creare una rete di leader politici, strutture, think tank e anche una rete informativa. A questo proposito, si sta sviluppando la cosiddetta “Strategia di lavoro nella Repubblica di Bielorussia”, per giungere alla formazione di un partito di opposizione moderato filorusso, che secondo il portale “The Insider”, dovrebbe denominarsi “Diritto del popolo”. Già da settembre-ottobre si starebbe alacremente lavorando a questa soluzione dopo che Lukashenko si è rifiutato di scarcerare Viktor Babariko, il candidato più moderato tra quelli non ammessi al voto di quest’estate e legato a doppio filo con il colosso del gas russo Gazprom.

Tra gli uomini che dovrebbero far salpare a breve il “partito russo” ci sarebbero il presidente del consiglio di amministrazione dell’associazione Assistenza e sviluppo Maxim Leonenkov, il fondatore della Ferment Valery Bestolkov, il presidente del consiglio di amministrazione di Farmland Ivan Logovoy, il direttore del Centro per la trasformazione digitale Maxim Tarasevich, il presidente di Confindustria bielorussa Alexander Shvets, il cofondatore della Ipm Business School, Pavel Daneiko. Un pacchetto di mischia di tecnocrati pronto a gestire l’addio di Lukashenko senza allentare gli storici legami con Mosca. L’obiettivo sarebbe quello di trovare consenso nella “classe media” bielorussa con un programma ben calibrato di privatizzazioni di piccole e medie imprese e un ampliamento e modernizzazione del sistema distributivo. Che l’operazione possa riuscire è dubbio, anche perché rischia di essere una gara contro il tempo. E il tempo a Minsk rischia di scadere, se non è già scaduto.

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Navalny: il Cremlino e la Lubyanka, chi decide cosa? https://ogzero.org/il-cremlino-e-la-lubyanca-chi-decide-cosa/ Tue, 15 Dec 2020 18:13:58 +0000 http://ogzero.org/?p=2078 Chi ha avvelenato l’oppositore russo Alexey Navalny – entrato in coma il 20 agosto sul volo Tomsk-Mosca – con un agente nervino denominato dalla stampa Novichok sarebbe stato un reparto specializzato dei servizi russi. È quanto emerge dall’inchiesta condotta dai portali di giornalismo investigativo “Bellingcat” (Gran Bretagna) e “The Insiders” (Russia) con il sostegno di […]

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Chi ha avvelenato l’oppositore russo Alexey Navalny – entrato in coma il 20 agosto sul volo Tomsk-Mosca – con un agente nervino denominato dalla stampa Novichok sarebbe stato un reparto specializzato dei servizi russi.

È quanto emerge dall’inchiesta condotta dai portali di giornalismo investigativo “Bellingcat” (Gran Bretagna) e “The Insiders” (Russia) con il sostegno di “Der Spiegel” e la “Cnn”.

Controlli incrociati

L’inchiesta è particolarmente significativa perché si basa su una massa di prove indiziarie e di concatenazione di fatti così particolari e dettagliati da rendere l’ipotesi della semplice “casualità” assai remota. I due portali sono divenuti particolarmente autorevoli in questo tipo di vicende dopo aver già lavorato in tandem qualche tempo fa, riuscendo a dimostrare fattualmente la responsabilità di due agenti Fsb nell’avvelenamento nel 2018 dell’ex agente russo defected al MI5 Sergey Skripal a Salisbury.

Dopo aver analizzato i database relativi ai voli aerei e ai viaggi in treno (in Russia anche i viaggiatori delle ferrovie vengono registrati con il passaporto) di una serie di persone individuate come agenti Fsb, i giornalisti hanno scoperto i loro spostamenti in dozzine di città russe negli stessi giorni di Navalny sin dal 2017, a partire cioè dal momento in cui quest’ultimo aveva deciso di presentarsi come candidato alle elezioni presidenziali. I metodi e i sistemi con cui gli investigatori sono giunti a ottenere queste informazioni è molto particolare ed esigerà un approfondimento a parte perché dimostra quanto stia mutando il giornalismo d’inchiesta nell’era digitale. Tuttavia si può anticipare qui che il lavoro si è basato su un’analisi degli intrecci tra centinaia di migliaia di tabulati telefonici e dettagli relativi agli spostamenti che fornisce un quadro quasi completo dei legami tra i presunti avvelenatori e che conferma i loro legami con l’Fsb.

Gli otto agenti coinvolti nell’attentato alla vita di Navalny

Non una semplice “opposizione antisistema”

Fino a qui, per tornare al caso in questione, sarebbe possibile asserire che potrebbe trattarsi di semplice sorveglianza dell’attività di uno dei leader di quella che Putin chiama “l’opposizione antisistema”, cioè di qualunque partito o gruppo che non sieda in parlamento. Ma lo screening dei nomi degli agenti coinvolti rivela qualcos’altro. Stanislav Makshakov, Oleg Tayakin (“Tarasov”), Alexey Alexandrov (“Frolov”), Ivan Osipov (“Spiridonov”), Konstantin Kudryavtsev (“Sokolov”), Alexey Krivoshchekov, Mikhail Shvets (“Stepanov”), Vladimir Panyaev sarebbero un “gruppo di fuoco” di specialisti in attentati con armi chimiche. Il ruolo di pivot, secondo gli investigatori, è giocato da Makshakov, chiamato e messaggiato costantemente da tutti i membri del gruppo. Nel passato Makshakov aveva lavorato presso l’Istituto statale di Tecnologia di Sintesi organica, che dirigeva lo sviluppo di nuove forme di armi chimiche fino alla conclusione ufficiale di questi programmi in Russia nel 2017.

Il passo falso di Aleksandrov

In particolare durante il tour elettorale di Navalny in agosto che toccò prima Novosibirsk e poi Tomsk – due grandi città siberiane – e che si concluse con la tragedia sul volo Tomsk-Mosca, il politico fu seguito da Aleksandrov, Osipov e Panyaev. Durante tale viaggio i tre avrebbero – secondo lo studio – utilizzato schede sim usa e getta e quindi gli investigatori non hanno potuto stabilire i loro movimenti esatti. Malgrado ciò per due volte Aleksandrov ha acceso il suo telefono personale per diversi secondi geolocalizzandosi la prima volta vicino a un hotel a Novosibirsk dove la collega di Navalny, Maria Pevchikh, aveva prenotato una stanza, e una seconda volta, non lontano dall’hotel dove si trovava Navalny stesso.

Cambio di programma

Quando la mattina del 20 agosto Navalny fu salvato grazie all’atterraggio di emergenza e il ricovero a Omsk, Aleksandrov, Osipov e Panyaev non ripartirono per Mosca con i biglietti che avevano prenotato in precedenza, ma si trasferirono invece a Gorno-Altaisk, raggiunti nel contempo da Mosca da Tayakin. “The Insiders” e “Bellingcat” presumono che da lì si sarebbero recati all’Istituto per le Tecnologie chimiche ed energetiche, nella vicina Biysk, nella quale si trova anche l’Istituto di Scienze forensi dell’Fsb, al fine di sbarazzarsi degli abiti con le tracce del veleno.

Durante tutti i viaggi dal 2017 in poi, compreso l’ultimo, i membri del gruppo hanno contattato regolarmente per telefono anche il direttore dell’Istituto di Criminalistica, il colonnello generale Kirill Vasiliev e il vicedirettore del servizio tecnico e scientifico dell’Fsb, il generale Vladimir Bogdanov. Inoltre, Zhirov e Makshakov erano in contatto telefonico con Oleg Demidov, uno specialista di armi chimiche che in precedenza aveva lavorato presso il 33° Istituto militare di Shikhany, uno dei presunti luoghi in cui è stato sviluppato il Novichok.

I luoghi visitati da Navalny dal 2017 in cui è stato seguito dagli agenti dell’Fsb

Il terrorismo di stato

Contemporaneamente alla pubblicazione dell’inchiesta, Navalny – dal suo rifugio tedesco – ha messo online un film-documentario reperibile sul suo sito internet con sottotitoli in inglese, aggiungendo alcuni dettagli alla ricostruzione di “Bellingcat” e “The Insiders”. In particolare il blogger anti-Putin ritiene che l’agente nervino gli sarebbe stato somministrato in un cocktail “Negroni” servito nel bar dell’hotel Xander a Tomsk, nella tarda serata del 19 agosto. Navalny sostiene pure di aver subito un altro tentato omicidio a Kaliningrad, il 6 luglio scorso. Tuttavia la parte finale del video, dedicata alla denuncia politica del complotto ai suoi danni, quando parla apertamente di “terrorismo di stato”, è la più significativa dal punto di vista politico. «Quelli che mi hanno perseguitato non sono ficcanaso dell’Fsb che lavorano agli ordini di un oligarca o di un funzionario che ho offeso con le mie denunce. Un intero dipartimento dell’Fsb sotto la guida di alti funzionari ha condotto un’operazione per due anni, durante la quale hanno tentato più volte di uccidere me e i miei familiari ottenendo armi chimiche da un laboratorio statale segreto. Ovviamente un’operazione di questa portata e di questa durata non può essere organizzata da nessuno che non sia il capo dell’Fsb [Alexander] Bortnikov, il quale, a sua volta, non avrebbe mai osato farlo senza l’ordine di Putin», afferma Navalny. Una denuncia non nuova già lanciata dall’oppositore russo il 1° ottobre scorso (a cui aveva replicato piccato il portavoce del Cremlino Dmitry Peskov accusandolo di essere al servizio della Cia), quando forse aveva già in mano parte del materiale ora pubblicato dai due portali di giornalismo investigativo. Tuttavia, questa denuncia desta qualche perplessità. Quando Navalny il 9 agosto viene avvelenato – i principali laboratori europei lo hanno confermato – si stanno tenendo delle gigantesche manifestazioni e scioperi in Bielorussia contro uno dei più importanti alleati della Federazione russa: Alexander Lukashenko. Risulta difficile pensare, anche se non si può escludere, che in una tale situazione Putin, che è pur sempre un politico guardingo e per certi versi persino cauto, abbia autorizzato alcuni suoi uomini a gettare benzina sul fuoco. Seppure bisogna riconoscere che l’avvelenamento di Skrypal – la cui responsabilità del Fsb è ormai stata provata – avvenne a pochi mesi da quella grande vetrina che era per la Russia l’organizzazione in casa dei mondiali di calcio.

I servizi segreti agiscono autonomamente?

Esiste un’altra ipotesi che Navalny non sembra voler prendere in considerazione, è cioè che l’Fsb possa operare autonomamente dalla presidenza, sia un organo separato con “licenza di uccidere”, per citare un classico della letteratura della Guerra Fredda. Dentro quali dinamiche e per quali fini è in buona parte da capire, ma tutta la storia recente russa va in quella direzione. O magari forse Navalny lo intuisce ma resta schiacciato dalle necessità propagandistiche immediate? Non si può escludere, visto che non a caso nella parte finale della sua videodenuncia, parla inizialmente del fallimento dell’attentato contro di lui come un elemento del degrado del paese: «Tuttavia, nel complesso, è vero, l’operazione è fallita e di ciò ovviamente sono molto contento. Non c’è bisogno di essere sorpresi di questo. Per vent’anni, sotto la guida di Putin, tutto è stato degradato. E se Rogozin è responsabile per la cosmonautica e Chubais è responsabile delle nanotecnologie, allora come è possibile pensare che l’Fsb sia organizzato meglio? Cosa ti fa pensare che il Novichok funzionerà meglio del robot spaziale Fedor? […] Perché tutto è finito in pezzi nel paese e i funzionari pensano solo a dove rubare. Il sistema sta implodendo nel suo insieme, a tutti i livelli».

È un tradimento nazionale: l’appello alla “diserzione”

Navalny, infine, conclude rivolgersi direttamente all’apparato dei servizi segreti: «Vorrei dire qualche parola agli ufficiali dell’Fsb e alle forze dell’ordine in generale. Non vi vergognate di lavorare in questo sistema? Bene, è chiaro che vi siete trasformati in servitori di ladri e traditori. Per vent’anni Putin ha costantemente trasformato sia l’Fsb che il Ministero degli Affari interni in strutture il cui compito principale è aiutare lui e i suoi amici a rubare. E questo è l’unico progetto nazionale che è stato completato perfettamente. Il paese più ricco e con enormi risorse è diventato indigente. […] Non c’è bisogno di partecipare a questo tradimento nazionale. Coloro che sostengono Putin e il suo sistema non sono patrioti, ma traditori. Hanno tradito il popolo russo». Un appello alla “diserzione” – per ora destinato a restare probabilmente senza successo – ma che pone un quesito: quali sono oggi gli equilibri di potere tra Cremlino e Piazza della Lubyanka dove si trova il grande edificio che ospita gli uffici del Fsb?

 

Questo articolo inaugura una serie di articoli che Yurii Colombo produrrà per OGzero riguardanti i rapporti tra Vladimir Putin e i servizi segreti del suo paese, un’interpretazione dei meccanismi e delle strategie di potere che legano Cremlino e Lubyanka. Come si riflette questo rapporto sulle decisioni e sulla politica internazionale?

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L’influenza russa si estingue nelle case incendiate a Karvachar? https://ogzero.org/il-vincolo-di-un-solco-inciso-tra-armenia-e-russia-negli-accordi-del-nagorno/ Sat, 28 Nov 2020 16:30:54 +0000 http://ogzero.org/?p=1862 Fantasie occidentali su Astana, droni reali su Stepanakert Tutta la grande stampa italiana ha sostenuto la tesi secondo cui l’accordo di pace nel Nagorno-Karabach sarebbe stato l’ulteriore capitolo di una alleanza tra Putin ed Erdoğan. Una chiave di lettura tutta ideologica – l’unità dei dittatori contro le democrazie – costruita sulla presunta unità d’intenti dei […]

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Fantasie occidentali su Astana, droni reali su Stepanakert

Tutta la grande stampa italiana ha sostenuto la tesi secondo cui l’accordo di pace nel Nagorno-Karabach sarebbe stato l’ulteriore capitolo di una alleanza tra Putin ed Erdoğan. Una chiave di lettura tutta ideologica – l’unità dei dittatori contro le democrazie – costruita sulla presunta unità d’intenti dei due capi di stato in Medio Oriente. La guerra iniziata nell’enclave a maggioranza etnica armena ha avuto due inoppugnabili vincitori (Turchia e Azerbaigian) e due sconfitti (Armenia e Russia), su questo però non si può non concordare. Gli accordi di pace firmati in fretta e furia la notte del 9 novembre mentre era in corso una vera e propria rotta dell’esercito armeno che stava rischiando di perdere persino Stepanakert, la capitale dell’Artsakh, rappresenta una vera e propria débâcle per il governo di Nikol Pashinyan.

Il vincolo di un solco inciso tra Armenia e Russia

Il giudizio che abbiamo dato a caldo sulle colonne de “il manifesto” l’11 novembre 2020 resta sostanzialmente corretto: «L’accordo è un boccone amaro per l’Armenia che deve dire addio all’idea di giungere a una unificazione con la regione contesa. Il documento siglato dai tre governi afferma che le parti in conflitto rimangono nelle posizioni raggiunte e ciò significa che buona parte del territorio del Nagorno-Karabakh torna in mano azera e pone le truppe di Baku a pochissimi chilometri da Stepanakert, la quale sarà ora collegata all’Armenia solo da un corridoio che attraversa la zona di Lachin. Lo status di Stepanakert non viene definito – come avrebbe voluto Mosca – e questo darà la possibilità successivamente all’Azerbaigian di rivendicarla». La Russia, avendo collocato i suoi caschi blu tra i contendenti piange con un occhio solo perché potrà dire la sua sulla sistemazione definitiva della regione ma segna un suo ulteriore arretramento geostrategico.

Per molti ordini di motivi. Il primo perché malgrado l’Armenia faccia parte pienamente del sistema di difesa euroasiatico (Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva, Csto) capeggiato dalla Federazione, Putin non è intervenuto a sostegno di Erevan neppure quando negli ultimi giorni del conflitto – prima attraverso il ministro degli esteri Zohrab Mnatsakanyane poi direttamente dal premier armeno – era stato espressamente richiesto, sottolineando più di una volta la propria neutralità nel conflitto (mentre Erdoğan sosteneva non solo formalmente il “fratello azero” fornendo combattenti foreign fighters siriani e soprattutto quei droni che hanno avuto, come più in là vedremo, un ruolo importante nel conflitto).

Il vincolo di un solco

I caschi blu russi prendono posizione

… poi la ferita suppurerà nell’equidistanza

Per restare nel gioco e avere un ruolo centrale nella trattativa di pace, Mosca ha dovuto pagare un prezzo politico fondamentale: il futuro definitivo allontanamento dell’Armenia in un “fronte Europeo” della Federazione dove Bielorussia e Moldavia finiranno – a medio termine – per pencolare inevitabilmente verso la Nato. È evidente quanto il “ruggito” di Putin a sostegno di Lukashenko in agosto sia stato seguito dall’equidistanza nel conflitto nel Nagorno-Karabach, il cui motivo principale della tiepidezza russa non può essere ricercato nell’antipatia personale di Pashinyan – che pure c’è – o nella doppiezza con cui Erevan ha condotto negli ultimi due anni la sua politica estera. Per riequilibrare l’evidente crescente peso turco nella regione che permette ora di collegare Ankara direttamente al Karabach, Mosca ha mostrato per ora solo di voler far rientrare dalla finestra i mediatori francesi e americani, lasciati fuori formalmente dall’armistizio del 9 novembre.

Nell’intervista concessa a “Rossia1” dopo l’armistizio, il presidente russo ha voluto togliersi un sassolino dalle scarpe: «Il 19-20 ottobre, ho avuto una serie di conversazioni telefoniche sia con il presidente Aliyev che con il primo ministro Pashinyan, dopo che le forze armate azere avevano ripreso il controllo di una parte insignificante, la parte meridionale del Karabach. Nel complesso, ero riuscito a convincere il presidente Aliyev che fosse possibile fermare le ostilità, ma una condizione obbligatoria da parte sua era il ritorno dei profughi, anche nella città di Shushi. Inaspettatamente… il primo ministro Pashinyan mi ha detto direttamente che lo vedeva come una minaccia per gli interessi dell’Armenia e del Karabach. Anche adesso non mi è molto chiaro quale sarebbe stata questa minaccia, tenendo presente che il ritorno dei civili sarebbe stato supposto mantenendo il controllo da parte armena su quella parte del territorio del Karabakh, Shushi compreso, e tenendo presente la presenza dei nostri caschi blu».

Una dichiarazione che può essere letta come un modo per indebolire il premier armeno, ora contestato dall’opposizione interna come “capitolatore”, ma di cui non vanno dimenticate le valenze interne russe. Non solo perché nella Federazione russa vivono 2 milioni di armeni (ma anche 2 milioni di azeri) ma perché le simpatie dei russi “autoctoni” erano tutti per l’“alleato cristiano”. Se Putin non ha alcun interesse ora a far saltare Pashinyan, non ha neppure interesse che in Armenia si possa battere il tamburo propagandistico del tradimento russo.

Il vincolo di un solco

Armeni bruciano le case prima di lasciare il Nagorno

Forniture sbilanciate: pessima propaganda per l’industria bellica russa

Il destino del primo ministro armeno resta legato alla posizione che assumeranno i militari (anche se l’insperato appello del senato francese al riconoscimento di Artsakh del 26 novembre 2020 gli ha fatto riprendere un po’ di vigore). L’esercito che sembrava sostenere il primo ministro in carica appare ora diviso. Qualcuno nello stato maggiore sta iniziando a pensare che debba essere salvato l’essenziale a fronte delle proteste che si levano a livello popolare, e Pashinyan debba essere sacrificato sull’altare della riconciliazione nazionale. Si tratta dell’opinione, per esempio, espressa dall’ex ministro della difesa dell’Armenia. Secondo il militare «non è stato l’esercito a perdere la guerra e la responsabilità dovrà essere assunta in solido dall’attuale leadership politica». Del resto la discussione sull’impreparazione militare nella disfatta armena continuerà a tenere banco ancora per parecchio. Subito dopo il cessate il fuoco è stato per primo a Stepanakert il presidente Arayik Aratyunyan a sollevare la questione dell’arretratezza delle armi a disposizione dei suoi combattenti. Una denuncia di sbieco nei confronti degli alleati russi che avrebbero lasciato in condizioni di degrado l’esercito di un paese alleato. Ma non solo. Si tratta di un tema delicato che tocca – come già nella guerra in Georgia del 2008, mitigata però dal facile successo – l’eventuale inefficienza delle armi russe, ovvero un eventuale spot negativo per il mercato dell’industria bellica della Federazione e per i suoi volumi di esportazione.

Collaudo per guerre di droni

I siti specialistici si sono concentrati sul ruolo inedito avuto dai droni nel conflitto azero-armeno ma che ha interessanti ricadute politico-militari visto che l’aggressività turca non è destinata certo a ripiegare nei prossimi mesi e anni.

Dopo la guerra nel Karabach, molti esperti hanno iniziato a sostenere che sarebbe in corso una rivoluzione nelle questioni tattico-militari, che sta per cambiare persino le strategie degli eserciti – non solo dei paesi in via di sviluppo, ma anche di quelli più potenti. Stiamo parlando dell’uso massiccio di veicoli aerei senza pilota da parte dell’Azerbaigian nel recente conflitto, sulla base degli sviluppi tecnici e strategici turchi. La teoria secondo cui i droni cambieranno radicalmente l’arte della guerra ha incontrato, a dire il vero anche molte perplessità. Secondo queste scuole i droni in Karabach non hanno mostrato nulla di nuovo: l’esercito turco e azero avrebbero semplicemente approfittato della debolezza del sistema di difesa aerea armeno e hanno mostrato al mondo un modo convincente di come si sconfigge un esercito debole ma l’uso massiccio di droni non funzionerebbe contro un esercito “strutturato”.

Ordigni di diversa fabbricazione (e di varia efficacia)

Le ostilità sono iniziate con vari tipi di attacchi di droni. Sono stati usati da parte azera, in primo luogo, i turchi Bayraktar TB2, detti anche hunter-killer, che montano missili e bombe ad alta precisione e droni Harop kamikaze di fabbricazione israeliana, antiradiazioni contro la difesa aerea armena.

Il vincolo di un solco inciso

I droni forniti dai turchi a Baku

Nei primissimi giorni del conflitto, l’esercito del Karabach ha perso dozzine di installazioni di difesa aerea, perlopiù obsolete, ereditate dall’Armenia dopo il crollo dell’Urss. Gli assalti alle sue difese antiaeree sono poi proseguiti: in ottobre e novembre sono stati colpiti diversi elementi dei sistemi missilistici antiaerei a lungo raggio S-300 (ampiamente superato visto che ora è in fase di progettazione nei laboratori russi l’S-500) e un lanciatore del più moderno complesso Tor-M2KM, sempre di fabbricazione russa. Dopo aver messo fuorigioco le difese antiaeree, i droni azeri sono passati al campo terrestre distruggendo sistematicamente carri armati, autoblindo, artiglieria e camion che trasportavano munizioni avversari. Seguiti da una serie di attacchi diretti alle postazioni della fanteria armena e ai depositi di munizioni. La diseguaglianza delle forze in campo – già nota prima del conflitto – è apparsa evidentissima. A seguito delle pesanti perdite di armeni a causa di attacchi aerei, il fronte nel sud del Karabach è stato sfondato in più punti, e in seguito (all’inizio di novembre) la fanteria azera, avanzando attraverso il terreno montuoso, che l’Armenia considerava la sua “fortezza naturale”, ha raggiunto le aree vitali della repubblica non riconosciuta, cioè le città di Shushi e Stepanakert. A questo punto, come risulta dai discorsi dei leader della difesa armena pubblicati al termine del conflitto, a causa degli attacchi dei droni, il loro esercito aveva perso quasi tutta l’artiglieria.

Tuttavia però negli ultimi giorni di guerra, gli attacchi aerei sono diventati più radi. Ciò potrebbe essere attribuito alla nebbia e alle nuvole basse ma secondo i giornalisti israeliani, che citano l’intelligence del loro paese, l’uso dei droni avrebbe potuto essere ostacolato da forniture urgenti di guerra elettronica russa. Questa sarebbe giunta sì in largo ritardo ma avrebbe evitato alla ritirata armena di assumere i caratteri della rotta (Sergej Lavrov aveva più volte dichiarato negli ultimi giorni di conflitto di “non guardare con piacere” a un trionfo militare turco-azero). Arayik Aratyunyan ha dichiarato da parte sua che «recentemente eravamo stati in grado di risolvere il problema dei droni, ma l’ultimo giorno il nemico è riuscito di nuovo a usarli e a sferrare attacchi pesanti».

Valutazioni a consuntivo per sviluppi del sistema industrial-militare

Così, la guerra transcaucasica è diventata la prima in cui i compiti principali, di solito risolti con l’aviazione “tradizionale”, sono stati realizzati dai droni. Molti esperti ritengono che questa non sia solo la sostituzione di un tipo di velivolo con un altro, ma una svolta decisiva, una vera rivoluzione negli scontri militari.

Il vincolo di un solco inciso

Caratteristiche dei droni kamikaze israeliani

Secondo il giornale moscovita “Kommersant”: «Il vantaggio principale dei droni, soprattutto di classe piccola e media, sarebbe il basso costo di funzionamento. I droni d’attacco di piccola e media portata sono piattaforme per l’utilizzo di armi ad alta precisione e strumenti di sorveglianza e ricognizione abbastanza avanzati. Sono in grado di colpire la maggior parte dei bersagli sul campo di battaglia e dietro le linee nemiche, pur rimanendo velivoli molto semplici rispetto ai moderni aerei e elicotteri con equipaggio». I progressi della tecnologia hanno reso possibile la produzione di missili e bombe di piccole dimensioni e massa, che, nonostante le dimensioni e il prezzo, possono colpire i bersagli più tipici sul campo di battaglia.

Il secondo vantaggio dei droni è che non c’è un pilota a bordo e sono controllati da operatori che sono a decine, centinaia e persino migliaia di chilometri dal fronte. Ciò consente di renderli economici anche sotto il profilo del “capitale umano”: se il pilota non può essere ucciso o catturato durante la missione, questa può essere molto più rischiosa. Il terzo vantaggio è la possibilità di svolgere missioni di molte ore. I droni a turbogetto che volano a velocità molto basse (meno di 200 km/h) – spiegano gli esperti – sono estremamente economici in termini di consumo di carburante.

Il last but not least tra i vantaggi dei droni è che sono stati originariamente concepiti come una parte importante della rete informativa sul campo di battaglia. I droni sono una piattaforma per vari sensori che studiano la situazione e identificano i bersagli. Condividono queste informazioni in tempo reale con gli operatori, che, a loro volta, le condividono anche in tempo reale con l’intera rete di controllo del combattimento. Inoltre, è possibile insegnare facilmente ai droni a interagire tra loro. Entrambe le opzioni sono state mostrate nel video del Ministero della Difesa azero del Karabach. Non è un caso che durante la guerra il Canada ha vietato la fornitura di stazioni elettroniche ottiche alla Turchia, di solito risolti con l’aviazione “tradizionale” ma che in questo caso sono state eseguite da droni.

Adattabilità a guerre con caratteristiche diverse

Gli aerei senza pilota presentano comunque anche evidenti svantaggi rispetto alle piattaforme con equipaggio. Il carico utile dei droni di piccole e medie dimensioni è limitato a causa dei motori di potenza relativamente bassa. In parole povere, i sistemi con equipaggio sono in grado di lanciare simultaneamente molti più bombe o proiettili sul nemico rispetto ai droni. E questo può essere importante in una “guerra ad alta intensità” – un conflitto tra potenze militari avanzate.

Per 38 anni, da quando furono usati per al prima volta dall’aviazione israeliana, i droni si sono trasformati da uno strumento di nicchia per operazioni speciali in parte integrante della ricognizione e della designazione del bersaglio. Fino a pochi anni fa, infatti, i droni d’assalto venivano usati (principalmente dagli americani) per effettuare attacchi mirati contro “bersagli leggeri”: leader politici o “terroristi”, petroliere dello Stato Islamico…

Come ha dimostrato l’esperienza della guerra in Karabach, i droni di altri produttori possono essere rapidamente inclusi in questo sistema: in particolare, i droni kamikaze di fabbricazione israeliana e gli aerei d’attacco Su-25 di progettazione sovietica fanno parte integrante dell’arsenale azero ma guarda caso non di quello armeno.

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La Siberia tra il Dragone e il Sultano https://ogzero.org/la-luna-di-miele-turco-russa-e-finita/ Sat, 14 Nov 2020 19:09:43 +0000 http://ogzero.org/?p=1765 La luna di miele turco-russa è finita La linea di faglia apertasi nel Nagorno-Karabakh ha dimostrato, se ce ne era ancora bisogno, che la luna di miele tra Turchia e Russia è ormai archiviata malgrado proprio sull’enclave a etnia armena Putin sia stato costretto – con gli accordi del 9 novembre – a un nuovo […]

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La luna di miele turco-russa è finita

La linea di faglia apertasi nel Nagorno-Karabakh ha dimostrato, se ce ne era ancora bisogno, che la luna di miele tra Turchia e Russia è ormai archiviata malgrado proprio sull’enclave a etnia armena Putin sia stato costretto – con gli accordi del 9 novembre – a un nuovo compromesso tattico per impedire il completo collasso del fronte. L’intraprendenza di quello che alcuni osservatori già chiamano “imperialismo ottomano” è sotto gli occhi di tutti e a Oriente i danni maggiori di tale intraprendenza li potrebbe subire proprio la Federazione. Non a caso sulla Moscova hanno da tempo iniziato a ricalibrare la politica nei confronti di Ankara: Sergej Lavrov, il ministro degli esteri russo, ha recentemente sostenuto di non aver mai considerato la Turchia “un alleato” ma solo un “partner”.  Il massiccio bombardamento russo a Idlib contro la guerriglia filoturca in Siria della fine di ottobre 2020, da questo punto di vista, è probabilmente stato un parlare a moglie perché suocera intenda. Ma la Transcaucasia è solo la punta dell’iceberg di uno scontro ben più ampio che parte dalla Crimea e si estende fino all’estremo Oriente russo ai confini con la Cina.

L’intelligence turca a caccia di spie

Il 16 ottobre scorso nell’incontro tra Volodomyr  Zelenskij e Recep Erdoğan non solo quest’ultimo ha dato il suo via libera alla cosiddetta “piattaforma di Crimea” promossa dal governo di Kiev (un’offensiva diplomatica volta al recupero della penisola annessa dalla Russia nel 2014, a cui guarda caso aderisce anche l’Azerbaijan) ma ha anche siglato degli accordi di collaborazione commerciali con l’Ucraina nel settore degli armamenti. La settimana successiva poi esplodeva una vera e propria spy-story tra Turchia e Russia. L’intelligence turca annunciava di aver arrestato il vicedirettore delegato di Bosphorus Gaz Emel Oztürk e altri quattro suoi collaboratori, che da tempo, secondo l’accusa, passavano informazioni riservate a un agente di Gazprom. Il gigante russo dell’energia avrebbe ottenute notizie sui volumi di acquisti di gas non russo della Turchia e dati sui giacimenti scoperti dalla Turchia nel Mar Nero quest’estate.

La guerra del gas

Al momento Putin fornisce a Erdoğan – via Turkish Stream – 7,75 miliardi di metri cubi all’anno di gas ma è chiaro che “l’indipendenza energetica” anelata da Erdoğan – se divenisse realtà – potrebbe rappresentare un duro colpo ai volumi di esportazioni russe, già in forse in Europa dopo che il progetto di North Stream 2 è entrato in stand-by in seguito al “caso Navalny”. Per tutta risposta la Duma russa ha fatto baluginare il blocco del turismo russo verso la Turchia, un business da qualche miliardo di dollari annuo. Più che punzecchiature tra i due eterni rivali con possibili conseguenze geopolitiche più vaste. La leva di un nuovo fondamentalismo islamico, di un califfato sui generis in cui la Turchia diventi la “protettrice di tutti i sunniti nel mondo”, potrebbe produrre una divisione insanabile tra i due stati. Si tratta di suggestioni – quelle dell’“imperialismo ottomano” – che vengono confermate negli ambienti diplomatici dei paesi balcanici anch’essi preoccupati dell’incipiente aggressività turca: «Indubbiamente, se analizziamo ciò che leggiamo e vediamo oggi, diventa chiaro che in alcuni circoli islamici radicali e organizzazioni religiose vaga l’idea che l’Europa dovrebbe essere un califfato islamico. Ciò che sta accadendo oggi in Francia, in Svezia, in altri stati dell’Europa occidentale, mi sembra che dovrebbe destare grande preoccupazione tra questi stati. Non mi occupo di attività di spionaggio in particolare, ma di tanto in tanto leggo in note analitiche che i servizi speciali turchi sono molto attivi», ha sostenuto l’ex ambasciatore serbo a Mosca, Slavenko Terzič.

Il Caucaso e il “laicismo irresponsabile dell’Occidente”

Il riflesso dello scontro con la Francia sulla questione dei limiti del laicismo si è subito sentito a Mosca dove la preservazione degli equilibri, faticosamente costruiti dal regime di Putin, in una federazione multiconfessionale, sono considerati intangibili. Le manifestazioni antifrancesi guidate prima di tutto dai migranti azeri nella capitale russa sono state sì stroncate con durezza dalla polizia sul nascere, ma Putin ha voluto al contempo anche denunciare il “laicismo irresponsabile dell’Occidente”. Il terrorista che ha ucciso a Parigi l’insegnante francese faceva parte della diaspora cecena, e quindi formalmente antirussa, ma la reazione del presidente della Repubblica cecena Rusman Kadyrov, scagliatosi con forza contro Macron nei giorni successivi all’attentato, dimostra quanto gli umori dei musulmani del Caucaso restino antioccidentali: non è un caso che nel Caucaso russo furono migliaia i reclutati dall’Isis per la guerra in Siria. Del resto, non si soffia sulla “guerra di civiltà” solo da una parte: anche il primo ministro armeno Nikol Pashinyan aveva invitato gli stati europei a sostenere l’Armenia cristiana nel Nagorno-Karabakh in funzione antiturca, anche se sia Macron sia Trump hanno preferito fare orecchie da mercante.

Lo sguardo russo verso lo Xinjiang

Dmitry Ruschin, Professore Associato del Dipartimento di Teoria e Storia delle Relazioni Internazionali all’Università di San Pietroburgo sostiene che “l’internazionalismo sunnita” di Ankara è veramente su scala globale: «Erdoğan sta perfino interessandosi della regione autonoma uigura dello Xinjiang dove Xi ha più di un problema. È del tutto possibile che in questo modo voglia diventare un unificatore dei popoli turchi e un leader islamico su scala globale. Curiosamente, lo scontro della Turchia con la Cina significa supporto automatico per Ankara da Washington perlomeno in quel contesto». E a medio termine ciò potrebbe condurre a un confronto diretto tra Russia e Turchia.

Siberia: la protesta anticentralista

In questo quadro la Siberia può diventare uno dei teatri più importanti. Dallo scorso luglio Khabarovsk, la più grande città dell’Estremo oriente russo, a un paio di centinaia di chilometri da Vladivostok, “porta bianca” ai mercati orientali, sono in corso delle manifestazioni di massa dopo che Sergej Furgal il governatore della provincia, outsider e antiPutin, è stato arrestato con l’accusa di essere il mandante di alcuni omicidi risalenti a un’epoca in cui non aveva ancora in carico l’amministrazione. Il protrarsi e le dimensioni del movimento di protesta segnala però in maniera evidente che le sventure del governatore sono state solo la miccia dietro cui covano a livello di massa spinte anticentraliste (oblastničestvo) nei confronti di Mosca se non apertamente secessioniste. “The Diplomat” ha riassunto così la situazione: «Sin dai tempi della Russia imperiale, i suoi paesi e città sono stati visti come una semplice estensione della nazione europea, una frontiera asiatica da colonizzare e domare. Come parte dell’Unione Sovietica, le deportazioni di massa verso est e il suo status di destinazione per i prigionieri dei GULag hanno rafforzato questa nozione. Ma ora, come dimostrano i manifestanti a Khabarovsk, l’estremo Oriente russo potrebbe formare la propria identità».

proteste pro-Furgal in Siberia

Un punto importante della contesa è che, mentre la Russia orientale detiene gran parte delle risorse naturali del paese – inclusi petrolio, gas e metalli preziosi – i proventi della loro estrazione sono ampiamente usati per rimpolpare i forzieri di Mosca piuttosto che arricchire le comunità locali.

E la terra va ai cinesi

Che la Cina sicuramente sia interessata a sfruttare a suo vantaggio la situazione che sta montando nell’estremo Oriente russo non è un segreto. In questa zona della Siberia gli investimenti del Dragone sono massicci e alla fine del 2018, proprio a Khabarovsk, un’azienda russa ha annunciato l’intenzione di affittare ben 100.000 ettari di terreno paludoso coltivabile a soia e affittarlo a imprese cinesi. Alexander Bortnikov, il presidente del Fsb, ha più volte segnalato l’attivismo di servizi di molti paesi in tutta la Siberia. E se il nome della Cina non è stato fatto ufficialmente, la presenza discreta di informatori cinesi nelle zona è stata più volte confermata da più parti.

Dietro la provocazione, la mano dei turchi

Chi invece sicuramente opera in quell’area è l’intelligence turca. Questa può fare affidamento su un vasto retroterra di gruppi fondamentalisti islamici nel Centro Asia allo sbando dopo il crollo dell’Isis. L’Fsb (Federal’naja služba bezopasnosti – Agenzia federale per la sicurezza interna) nell’ultimo anno ha contato ben 22 tentativi di organizzare azioni terroristiche e diversive in Siberia. Si tratta per lo più di incidenti provocati da foreign-fighters di ritorno ai confini del Tagikistan e del Kazakhstan collegati a contingenti più folti del fondamentalismo islamico afgano. Ma alcune di queste avrebbero segni e obiettivi diversi e rimanderebbero a un inedito protagonismo turco. In particolare parliamo di una fallita provocazione organizzata proprio a Khabarovsk questa estate nel momento più caldo delle dimostrazioni di strada, il cui mandante sarebbe da ricercarsi proprio ad Ankara. Secondo quanto riportato da Semyon Pegov – un reporter russo di guerra che da molti anni gravita tra il Medio Oriente e la Siberia – quest’estate l’organizzazione terroristica siriana Hayat Tahrir Al-Sham, supervisionata dai servizi speciali turchi, aveva reclutato due residenti di Khabarovsk, guarda caso di origine uzbeka e di fede musulmana, per organizzare il lancio di bottiglie molotov contro la manifestazione a sostegno di Furgal, al fine di far ricadere poi la responsabilità sul governo russo e rendere ancora più incandescente di quanto non sia la situazione nella provincia. Un’azione diversiva fallita in seguito all’arresto dei due provocatori prezzolati da parte della polizia russa, ma che dimostrerebbe quanto la Turchia intenda sfruttare le contraddizioni interne russe.

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Astana agli sgoccioli. Chi ha più filo da filare tra Mosca e Ankara? https://ogzero.org/astana-agli-sgoccioli-chi-ha-piu-filo-da-filare-tra-mosca-e-ankara/ Thu, 22 Oct 2020 08:38:32 +0000 http://ogzero.org/?p=1563 Traiettorie diverse di attraversamento transcaucasico-mediorientale L’alleanza tra Vladimir Putin e Recep Erdoğan è sempre stata a tempo e i due contraenti non ne hanno fatto mai mistero. Isolati e osservati con diffidenza da buona parte della comunità internazionale, strategicamente concorrenti e avversari in Medio Oriente, hanno fatto di necessità virtù per cinque anni ma ora […]

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Traiettorie diverse di attraversamento transcaucasico-mediorientale

L’alleanza tra Vladimir Putin e Recep Erdoğan è sempre stata a tempo e i due contraenti non ne hanno fatto mai mistero. Isolati e osservati con diffidenza da buona parte della comunità internazionale, strategicamente concorrenti e avversari in Medio Oriente, hanno fatto di necessità virtù per cinque anni ma ora la politica di appeasement tra i due paesi seguita alle scuse del presidente turco per l’abbattimento del Su-24 russo sui cieli siriani nel 2015, potrebbe essere agli sgoccioli.

Il ritorno di fiamma della guerra in Nagorno-Karabach lo dimostra con evidenza. Non a caso in una recente intervista il ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov ha voluto sottolineare di considerare la Turchia «non un alleato ma un interlocutore stretto».

Mosca e Ankara sono le due principali potenze regionali nell’area che va dal mar Nero al Medio Oriente, passa per la Transcaucasia e lambisce la Persia. Con due traiettorie però assai diverse.

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Confrontando le parabole di Turchia e Russia

L’economia turca a partire dall’inizio del nuovo millennio è cresciuta costantemente, triplicando il proprio Pil. Un decollo economico accompagnato da un potente incremento demografico che ha fatto passare la sua popolazione complessiva da 67 a 83 milioni (a cui va aggiunta la diaspora). Il “neoimperialismo ottomano”, in questo quadro, è il prodotto di una crisi di crescita del paese a cui ormai vanno stretti i confini definiti nel primo Dopoguerra.

La Russia invece, dopo il boom del primo decennio del XXI secolo basato essenzialmente sugli alti prezzi degli idrocarburi sul mercato mondiale e la stabilizzazione sociale interna, vede da molti anni la propria economia stagnare. Dal 2018 la sua popolazione è tornata a contrarsi malgrado milioni di ucraini e centroasiatici abbiano acquisito il passaporto della Federazione: la Banca Mondiale stima che se non ci sarà una svolta, la Russia passerà dagli attuali 145 milioni di abitanti a 131 nel 2050. Dopo la facile vittoria nella guerra con la Georgia del 2008 – che aveva mostrato però dei limiti soprattutto logistico-satellitari – dagli anni Dieci in poi il declino dell’egemonia strategico-militare di Putin sul vicino estero ex sovietico è continuata con la perdita definitiva dell’Ucraina (compensata solo in parte dall’annessione della Crimea) e ora esiste il rischio concreto – a seguito dello sviluppo del movimento di opposizione in Bielorussia – di perdere un altro alleato fondamentale proprio laddove la Nato, grazie all’integrazione di Polonia e paesi baltici, è più aggressiva.

La partnership economica tra le due potenze locali (turismo, abbigliamento, prodotti alimentari e soprattutto forniture di gas russo attraverso Turkish Stream) ha reso più fluide anche le relazioni diplomatiche. La luna di miele tra i due paesi ha raggiunto il suo zenit nel periodo che va dall’acquisto da parte turca del sistema difensivo antiaereo russo S-400 (preferito ai Patriot americani con gran dispetto di Washington) e il sostegno convinto di Erdoğan a Nicolas Maduro nella crisi venezuelana del 2019 e suggellato dagli accordi di Astana per la sistemazione della matassa siriana. Dopo di allora però, lentamente ma inesorabilmente, il corso delle relazioni turco-russe è andato via via peggiorando e la guerra nel Nagorno-Karabach, qualunque sarà il suo esito, marcherà il passaggio in una fase che potremmo definire “postAstana”, foriera di nuove tempeste e procelle nella regione.

In quali intrecci si sta azzoppando Astana?

Le prime avvisaglie che si stava entrando in una fase nuova emerse a inizio 2020 quando ci fu più di una scaramuccia tra Siria e Turchia che vide coinvolto il contingente russo. Qualche mese dopo i due paesi si trovavano a confrontarsi ancora su fronti avversi in Libia. La Turchia sostiene da sempre il governo libico riconosciuto dalle Nazioni Unite, guidato da Fayez al-Serraj, che sta lottando da più di un anno per resistere a un assalto alla capitale Tripoli da parte del comandante ribelle Khalifa Haftar. Quest’ultimo è sostenuto, anche se non formalmente, dalla Russia grazie alla penetrazione dei suoi gruppi di foreign fighters organizzati nell’ormai celebre agenzia dei “wagneriani”, già presente in vari teatri, non ultimi quelli africani. Un modo per la Russia, quello dell’uso di compagnie di ventura, per giocare un ruolo di ago della bilancia in diverse crisi senza esporsi direttamente e soprattutto dai costi economici relativi.

Sia la Russia che la Turchia hanno investito molto in Libia: la Federazione in termini di reputazione, influenza e potenziali accordi petroliferi e la Turchia con interessi commerciali ed energetici ancora più ampi, ma hanno evitato in ogni modo di confrontarsi direttamente. «Quella libica potrebbe essere la loro più grande divergenza, ma ce ne sono altre. Sono a disagio per il ruolo crescente dell’Iran nella regione, che Putin generalmente sostiene fintanto che infastidisce gli Stati Uniti. I turchi odiano il regime di al-Sisi in Egitto che Putin giudica invece positivamente. E sono da sempre ai ferri corti anche con gli israeliani, con i quali Putin ha un solido rapporto di partnership», sostiene Jonathan Schanzer della Foundation for Defense of Democracies, un think tank con sede a Washington.

Presenze strategiche dei due contendenti sullo scacchiere internazionale

Ma nel complesso la partnership rischia di crollare a causa dell’inconciliabilità delle ambizioni geopolitiche. Schanzer, a tale proposito, segnala la grandiosa visione ottomana delineata da uno dei massimi consiglieri di Erdoğan, il generale in pensione Adnan Tanrıverdi, che interpreta la Turchia emergente come una superpotenza islamica con capacità di esercitare autorità e influenza su 61 paesi musulmani con Istanbul a capitale di un inedito califfato.

Putin ha forse obiettivi meno ambiziosi – più tattico che stratega è abituato a misurare ogni passo di politica estera – ma non meno importanti per gli equilibri internazionali. A fronte dell’ulteriore sgretolamento dell’influenza nell’area ex sovietica, Mosca è interessata a inserire dei cunei di propria presenza su scala globale che le permettano di restare al centro di quanto si va definendo nei diversi scacchieri. Un approccio parzialmente diverso da quello del tradizionale contenimento sviluppato dal Cremlino fino a qualche anno fa e che poggiava in gran parte sul suo ruolo di potenza nucleare. La ripresa della guerra in Nagorno-Karabach non sta facendo che accelerare, da questo punto di vista, delle tendenze già in atto.

Un Anschluss turco-azero?

Ma se le scaramucce tra Armenia e Azerbaigian del luglio potevano lasciare presagire che lo scontro ruotasse intorno ai gasdotti azeri Baku-Tbilisi-Ceyhan e quello nel Caucaso meridionale ovvero sulle rotte del reperimento di risorse energetiche alternative a quelle russe nella regione, la guerra iniziata il 27 settembre 2020 dall’alleanza turco-azera ha ben altri obiettivi, in primo luogo di ridefinizione complessiva degli equilibri nella regione. Evidentemente, Erdoğan intende saggiare la reazione russa e dei paesi Nato a fronte di un chiaro tentativo espansionista: in questo senso l’alleanza turco-azera basata sulla teoria “un popolo, due stati” sta realizzando seppur in trentaduesimi, la stessa politica che la Germania negli anni Trenta del XX secolo portò avanti con l’Anschluss e l’occupazione della Cecoslovacchia. Da questo punto di vista Erdoğan ha ricevuto segnali positivi riuscendo a mettere sotto scacco l’Europa con il ricatto dell’ondata migratoria dalla Siria e paralizzando una Russia già alle prese con la crisi in Bielorussia e la querelle di Navalny. Malgrado Francia, Usa e Russia abbiano chiesto con due dichiarazioni comuni il cessate il fuoco, malgrado siano arrivati segnali di inquietudine da parte di molti altri stati, la macchina bellica turco-azera non si è fermata.

Valore “locale” del conflitto caucasico

Allo stesso tempo non va però dimenticato che l’offensiva in Nagorno-Karabach ha obiettivi tutti interni al quadro transcaucasico. Sin dall’inizio del conflitto, malgrado l’Armenia sia parte integrante del Trattato di sicurezza collettiva (l’alleanza militare guidata dalla Russia dopo la fine del Patto di Varsavia), a differenza che in Bielorussia, la Federazione non ha minacciato interventi a fianco di Erevan se non nel caso estremo di aggressione diretta dentro i confini armeni. Una postura che non è certo piaciuta a Nikol Pashinyan, il premier armeno asceso al potere dopo la Rivoluzione di Velluto del 2018. Pashynian è un ex difensore dei diritti civili che guarda per sua formazione e cultura a Occidente. Tuttavia in nome della Realpolitik e delle forniture di idrocarburi a prezzi low-cost è restato legato finora a Mosca, ma l’evidente neutralità assunta dalla Russia nel conflitto nel Nagorno-Karabach potrebbe fargli riconsiderare – a medio termine – il legame con Mosca, ripiegando su una posizione di neutralità. Non è un caso che tutti i suoi sforzi per giungere al cessate il fuoco nelle prime settimane del conflitto abbiano cercato di far leva sui timori della UE (e di Merkel in particolare) per la crescente aggressività turca, anche se Berlino in realtà ha le mani legate perché – piaccia o no – la Turchia resta un membro imprescindibile della Nato.

In questo quadro proprio l’Alleanza Atlantica sta accelerando il suo programma di allargamento a Est. Due settimane dopo l’inizio del conflitto, il segretario generale della Nato Jens Stoltenberg ha invitato apertamente la Georgia ad aderire al sistema difensivo occidentale: «Siamo concentrati sulla regione del Mar Nero, stiamo sviluppando le nostre capacità marittime, la difesa costiera della Georgia e stiamo conducendo visite di navi Nato nei porti georgiani. Nei nostri negoziati sottolineiamo l’importanza strategica della regione del Mar Nero sia per la Georgia che per gli stati della Nato e siamo pronti ad accoglierla nell’alleanza», ha affermato il segretario generale. Un quadro fosco per la Russia soprattutto in caso di sgancio della Bielorussia e dell’Armenia.

Si tratta ora di capire se il punto di caduta dello scontro nel Nagorno-Karabakh, escludendo la catastrofe di un confronto diretto tra Russia e Turchia, sarà una vittoria completa azera o se, come continuano ad affermare gli esperti di strategia russi, Ilham Aliyev si accontenterà di sedersi al tavolo della trattativa dopo essersi ripreso i corridoi che collegano il Nagorno-Karabakh all’Armenia. In entrambi i casi, Mosca ne uscirà indebolita e dovrà ripensare seriamente ai suoi rapporti con Ankara. A settembre Erdoğan ha annunciato di aver trovato giacimenti di gas nel Mar Nero che dovrebbero garantire entro il 2023 l’autonomia energetica al suo paese. A quel punto allora, i buoni rapporti con Putin, potrebbero per lui essere solo un intralcio.

I timori dell’Occidente per l’attivismo turco

L’Azerbaijan ha fatto intendere che non vuole iniziare alcuna trattativa per risolvere la contesa sull’enclave etnico armeno, senza che vi partecipi direttamente la Turchia. Una posizione che manderebbe in soffitta definitivamente il format del “gruppo di Minsk” a cui partecipano, oltre ai paesi coinvolti nel conflitto, la Francia, gli Usa e la Russia. Un Diktat a cui è seguito l’inevitabile stop di Erevan mentre il segretario di stato Mike Pompeo esortava Erdoğan «a evitare di interferire nel conflitto». La presa di posizione dell’Eliseo, seppur non ufficiale, è stata particolarmente dura. «Il presidente francese ha già espresso preoccupazione per il ruolo della Turchia nel conflitto in Nagorno-Karabach. È motivo di preoccupazione che Erdoğan stia moltiplicando le sue avventure, non tenendo conto della necessità di garantire una sicurezza comune», si legge in un comunicato fatto circolare dalla diplomazia francese nella giornata del 18 ottobre. Macron teme che Erdoğan voglia tastare il polso alla Comunità europea per capire fino a che punto possa spingersi nella propria impunità.

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L’Iran da Astana all’Eurasia https://ogzero.org/liran-da-astana-alleurasia/ Sun, 02 Aug 2020 22:20:34 +0000 http://ogzero.org/?p=990 Massima pressione americana e scenario multilaterale regionale È passato inosservato l’ultimo vertice dei presidenti di Russia, Turchia e Iran, riuniti il 1° luglio scorso (in videoconferenza) per discutere gli ultimi sviluppi della situazione in Siria. Il virtuale incontro però aveva la sua importanza. Per cominciare, ha riaffermato che il cosiddetto “processo di Astana” non è […]

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Massima pressione americana e scenario multilaterale regionale

È passato inosservato l’ultimo vertice dei presidenti di Russia, Turchia e Iran, riuniti il 1° luglio scorso (in videoconferenza) per discutere gli ultimi sviluppi della situazione in Siria. Il virtuale incontro però aveva la sua importanza. Per cominciare, ha riaffermato che il cosiddetto “processo di Astana” non è defunto, come molti andavano annunciando.

Con questo nome si indica la serie di colloqui cominciata del dicembre 2016 nella città di Astana (Kazakhstan) per iniziativa di Vladimir Putin, Recep Tayyip Erdoğan e Hassan Rohani con l’inviato del segretario generale dell’Onu per la Siria: una iniziativa diplomatica per la pace in Siria, parallela agli (inconcludenti) colloqui sponsorizzati dall’Onu a Ginevra. Il format di Astana ha portato nel settembre 2017 a un accordo per istituire quattro “zone di de-escalation” nel territorio siriano, di cui le tre potenze si sono fatte “garanti”.

Non entreremo qui nei dettagli di come questi accordi si sono tradotti sul terreno: che la Siria sia ancora lontana da una effettiva stabilizzazione è sotto gli occhi di tutti. Il punto che qui interessa è che sotto lo stravagante format intitolato a una citta kazakha abbiamo tre potenze regionali che discutono compromessi e accordi in uno scenario, la Siria e il Vicino Oriente, dove però le rispettive agende politiche sono diverse e spesso in aperto conflitto. A cominciare dal fatto che la Turchia appoggia le formazioni ribelli sunnite che cercano di rovesciare il governo di Bashar al Assad, mentre la Russia e l’Iran si sono adoperati anche militarmente per tenerlo in piedi.

Più in particolare, il vertice di luglio è stato il primo da quando Turchia da un lato, Russia e Iran dall’altro si sono scontrati nella provincia di Idlib, la più ampia delle zone di “de-escalation” (la tensione era salita in febbraio con 33 militari turchi uccisi da un raid attribuito a jet russi, a cui la Turchia ha risposto attaccando forze del regime siriano e milizie sciite filoiraniane). Una relativa calma è tornata dopo che Erdoğan in marzo è volato a Mosca e ha concordato con Putin un cessate il fuoco, con un meccanismo di “corridoi di sicurezza” per garantire le vie di comunicazione, e di pattugliamenti comuni che però dovrebbe preludere alla ripresa di controllo delle forze di Damasco sulla provincia di Idlib (ovvero, sembrerebbe che Ankara abbia dovuto accettare le condizioni russe). In realtà molti segnali dal terreno fanno temere una ripresa di ostilità.

 

Integrazione attraverso scambi, favori e relazioni complicate

Eppure il comunicato congiunto del vertice tripartito lascia intendere che la Russia lascerà alla Turchia più tempo per concludere ciò che si è impegnata a fare nel quadro degli accordi di Astana, e cioè mettere sotto controllo i ribelli jihadisti siriani che operano nella provincia di Idlib. Le variabili sono numerose e complicate: dalla dinamica tra le formazioni ribelli più dipendenti dal sostegno turco (come Hayat Tahrir Shams) e quelle più radicali – al controllo delle province nordorientali a maggioranza kurda, che la Turchia considera una propria zona di pertinenza (tanto che occupa un’ampia “zona cuscinetto” con l’accordo di fatto degli Usa e anche della Russia). Concedere alla Turchia di occupare altro territorio siriano-kurdo potrebbe diventare moneta di scambio per recuperare zone strategiche controllate dai ribelli sunniti più a sud. Altre variabili poi ci porterebbero in Libia, un altro teatro di guerra internazionalizzata dove Mosca e Ankara sono su fronti contrapposti: le due crisi sono molto intrecciate.

Tutto questo dice quanto sia ancora lontano un assetto stabile che sia preludio alla pace in Siria. Intanto però il format di Astana afferma la sua esistenza sulla scena mediorientale come un fronte politico-diplomatico contrapposto a quello a conduzione statunitense.

La dichiarazione dei tre presidenti per esempio se la prende con «l’appropriazione e trasferimento illegale di risorse petrolifere che appartengono alla Repubblica Araba di Siria», allusione alle forze degli Stati Uniti che presidiano due campi petroliferi nella provincia nord-orientale siriana, la cui amministrazione autonoma curda (controllata dalle Forze democratiche siriane, filo Usa) ha di recente concesso a compagnie Usa il diritto di commercializzare il petrolio estratto. I tre presidenti ribadiscono inoltre l’impegno a difendere «sovranità, indipendenza e integrità territoriale» della Siria, quindi a «respingere iniziative illegali di autogoverno» – riferimento alla tentazione di affermare un’autonomia territoriale curda nel Nordest difesa dagli Usa. Condannano le sanzioni statunitensi contro la Siria.

La dichiarazione congiunta poi condanna «gli attacchi militari di Israele in Siria», e questa è una concessione al presidente Rohani: si riferisce alla serie di raid condotti nelle ultime settimane da forze israeliane contro obiettivi iraniani e delle milizie filoiraniane intorno a Damasco (l’ultimo episodio è del 20 luglio). Ma proprio questo è anche un esempio di come il format tripartito copra agende molto diverse. Infatti è dubbio che la Russia abbia davvero intenzione di reagire agli attacchi di Israele contro obiettivi iraniani in Siria. C’è perfino chi parla di un vero e proprio accordo dietro le quinte tra Mosca e Tel Aviv (che peraltro hanno intensi contatti diplomatici) per ridimensionare le milizie filoiraniane, e in generale la presenza dell’Iran in Siria.

Lo scenario è complicato, e anche le relazioni tra Tehran e Mosca lo sono. Nel 2015 l’Iran ha concesso ai jet russi in partenza dalle basi nella regione del Caucaso di sorvolare il proprio spazio aereo per andare a bombardare le postazioni dello Stato islamico in Siria, e a Tehran la cosa era presentata come il primo passo di una nuova alleanza strategica con Mosca. L’occasione era la comune “guerra alla Stato islamico”, o Daesh secondo l’acronimo in arabo (pare che ai russi interessasse in particolare colpire le milizie cecene all’interno delle formazioni jihadiste). L’Iran aveva già mandato forze speciali sul terreno a sostenere l’esercito governativo e organizzare milizie; l’entrata in gioco della Russia ha contribuito in modo decisivo a cambiare le sorti militari del conflitto siriano e salvato il regime di Assad.

Dal punto di vista dell’Iran, l’interesse strategico in Siria è evidente. Si tratta di un raro “paese amico” tra i vicini arabi (e da lunga data: negli anni Ottanta Damasco con Hafez al Assad, è stata l’unica capitale araba a non appoggiare l’invasione dell’Iran da parte dell’Iraq di Saddam Hussein), e di un’area di influenza strategica importante, via di comunicazione verso il Mediterraneo, accesso verso l’alleato movimento di Hezbollah in Libano: dunque quella che Tehran considera la sua “profondità strategica” nei confronti di Israele. Vedere a Damasco un governo sunnita di stampo saudita sarebbe per Tehran un disastro da evitare a tutti i costi. Per questo ha sostenuto l’esercito governativo siriano e varie milizie filogovernative, spesso addestrate e organizzate dalle Guardie della rivoluzione iraniana (anche se nessuno ne darà mai conferma ufficiale): cosa che continuerà finché le varie reincarnazioni di Daesh e di al-Qaeda avranno i loro sponsor. L’obiettivo iraniano è assicurarsi in futuro che a Damasco sieda un governo non ostile. Anche la Russia, che ha in Siria la sua unica base militare nel Mediterraneo, ha tutto l’interesse a garantirsi in Siria un governo amico.

Le convergenze di interessi però non sono eterne, e comunque non esclusive. Le milizie organizzate dalle Guardie della Rivoluzione iraniane in Siria (e in Iraq) sono state fondamentali per respingere l’offensiva dello Stato islamico (e il principale artefice di questo successo sul terreno è stato il comandante delle forze speciali al Qods, Qassem Soleimani, poi ucciso da un raid statunitense nei primi giorni di gennaio 2020 a Baghdad). Ma quelle milizie sono diventate ingombranti per molti, sia in Iraq che in Siria: che esista o meno un accordo dietro le quinte tra Israele e Russia, entrambe le parti hanno interesse a ridimensionare l’influenza iraniana sul terreno.

Questo non significa che l’alleanza strategica sia finita. E in ogni caso non impedirà a Russia, Turchia e Iran di tenere “al più presto” il prossimo vertice del “processo tripartito”, questa volta in presenza a Tehran su invito del governo iraniano (ma non c’è ancora una data).

 

Astana per uscire dall’isolamento: cooperazione e infrastrutture

Come valutare il “processo di Astana”, visto da Tehran? Per rispondere bisogna allargare lo sguardo. L’Iran ha un evidente interesse a far parte di una sede di diplomazia multilaterale. In primo luogo per restare nel gioco regionale: riaffermare che una soluzione per la Siria non può prescindere da tutte le parti in causa nella regione, e l’Iran è una di queste (si ricordi che i primi, vani tentativi di dialogo sulla Siria promossi in sede Onu avevano escluso l’Iran a causa del veto Usa: solo dopo l’accordo sul nucleare del 2015, su insistenza russa, i rappresentanti di Tehran sono stati ammessi ai “colloqui sulla Siria” – benché finora inconcludenti).

L’interesse però va oltre la Siria, per quanto importante. Il punto è che la Repubblica Islamica dell’Iran fa i conti con uno storico accerchiamento nella regione: politico, diplomatico, a volte militare (come quando le truppe Usa si trovavano in Iraq, in Afghanistan, oltre a pattugliare il Golfo Persico). L’accordo sul nucleare del 2015 (il Joint Comprehensive Plan of Action, Jcpoa, firmato da sei potenze mondiali e dall’Iran) aveva rotto l’isolamento. Ma da quando nel maggio 2018 il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha deciso di buttare alle ortiche l’accordo, intorno all’Iran si è costruito un nuovo blocco: un muro di sanzioni senza precedenti. Benché unilaterali, il sistema di sanzioni Usa riesce a isolare l’Iran grazie al ricatto delle sanzioni secondarie (che colpiscono aziende e paesi terzi che abbiano contatti commerciali con Tehran). È la strategia della “massima pressione”. Non che sia riuscita a far crollare l’Iran, e difficilmente ci riuscirà: ma certo sta pesando molto. Dal crollo delle esportazioni di greggio alla difficoltà di acquistare pezzi di ricambio industriali, derrate alimentari o materiale medico, gli iraniani stanno pagando un prezzo molto alto.

L’Iran ha un disperato bisogno di rompere questo isolamento. Per questo, con il “programma tripartito” di Astana e ben oltre, l’Iran ha un interesse fondamentale ad approfondire la cooperazione strategica con la Russia, come del resto con la Cina. E con i paesi vicini. Con la Turchia in particolare l’Iran ha legami di vecchia data, sia politici che commerciali, culturali, umani (la Turchia è tra i pochissimi paesi dove i cittadini con passaporto iraniano non abbiano bisogno di un visto d’ingresso). Benché spesso in concorrenza sulla scena regionale, Tehran e Ankara mantengono una “cooperazione strategica” nell’interesse reciproco.

Tanto più importante è la sponda russa. Il 22 luglio scorso il ministro degli esteri iraniano Javad Zarif ha concluso una missione a Mosca, dove ha portato un “messaggio speciale” del presidente Hassan Rohani a Vladimir Putin (il contenuto del messaggio non è stato diffuso), e dove ha discusso con il suo omologo, il ministro degli esteri Sergey Lavrov, una serie di questioni bilaterali e di coordinamento regionale. Non sapremo cosa si sono detti circa lo scacchiere siriano. Sappiamo però che Iran e Russia hanno concordato di definire un nuovo accordo ventennale di cooperazione strategica, che vada oltre quello attualmente in vigore (che scade in marzo).

Analogo accordo è quello che l’Iran ha in ballo con la Cina: un accordo venticinquennale di cooperazione economica e di sicurezza, che secondo alcune fonti sarebbe addirittura già stato firmato anche se finora è circolata solo una bozza ufficiosa e numerose illazioni (cosa che ha suscitato grandi critiche in Iran, e attacchi dell’opposizione conservatrice che accusa il governo di Rohani di “svendere” il paese). L’accordo è in discussione da quando il presidente Xi Jinping in visita a Tehran nel 2016 ne ha parlato con l’ayatollah Ali Khamenei, e tratterà di energia, telecomunicazioni, infrastrutture come porti e ferrovie – e del petrolio che la Cina comprerà dall’Iran.

Gli accordi di cooperazione con Russia e Cina sono di sicuro il tentativo, per l’Iran, di allentare la “massima pressione” statunitense cercando la partnership di due potenze altre (entrambe membri permanenti del Consiglio di sicurezza dell’Onu). Ma in entrambi i casi la cooperazione è cominciata ben prima dell’avvento di Trump a Washington. La realtà è che la “massima pressione” avrà solo accelerato una dinamica che sarebbe emersa comunque, la tendenza a una maggiore integrazione in quello spazio di scambi e relazioni politiche ed economiche spesso chiamato “Eurasia” e di cui l’Iran è un tassello centrale, in senso geografico e politico: in cui si incrociano corridoi di trasporti e progetti industriali, la Belt Road Initiative cinese, i gasdotti russi, ferrovie, porti (come quello Chabahar sulla costa iraniana, possibile sbocco nell’oceano Indiano per molte repubbliche centroasiatiche). Uno spazio multilaterale in cui Tehran sta a pieno titolo.

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La spartizione delle risorse nel Mediterraneo https://ogzero.org/accordo-tra-erdogan-e-serraj-e-la-spartizione-delle-risorse-nel-mediterrano/ Fri, 24 Jul 2020 00:24:15 +0000 http://ogzero.org/?p=99 24 luglio 2020 Con le esplicite intenzioni espresse ad alto livello dai due responsabili degli Affari esteri turco e russo in relazione alla soluzione libica, che da opposte fazioni sarebbe individuata nella diplomazia da trovare in un prossimo incontro a Mosca, appare sempre più evidente un più ampio piano comune globale giocato nel centinaio di […]

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24 luglio 2020

Con le esplicite intenzioni espresse ad alto livello dai due responsabili degli Affari esteri turco e russo in relazione alla soluzione libica, che da opposte fazioni sarebbe individuata nella diplomazia da trovare in un prossimo incontro a Mosca, appare sempre più evidente un più ampio piano comune globale giocato nel centinaio di incontri tra Putin e Erdoğan nei quattro anni intercorsi dal fallito golpe del 15 luglio 2016 e sancito dagli Astana Papers. Dovunque nello scacchiere mediorientale le due potenze locali occupano campi avversi e in ciascuno di questi teatri di guerra, dopo scaramucce per procura, giocano il ruolo dei pacificatori, spartendosi risorse e territori, economie e infrastrutture, governance e vie di comunicazioni… Hanno cominciato il gioco in Siria, dove la Turchia, appartenente ancora alla Nato, ha coperto il maggiore interesse russo – procurandosi la striscia antikurda che richiedeva e congelando Idlib, bacino di milizie jihadiste da svuotare per utilizzarle in Libia,  dove risulterà il vincitore accaparrandosi il petrolio dell’Eni (come nel quadrante del Mediterraneo orientale), pur beneficiando l’“alleato” russo del controllo di parte del territorio sottraendolo all’influenza occidentale tanto paventata da Putin all’indomani dell’abbattimento di Gheddafi; e ora il connubio tra zar e sultano si va a occupare del Nagorno Karabakh, resuscitando una disputa trentennale nei piani di Putin utile a bloccare il South Caucasus Pipeline, impossibile da far passare in mezzo a una nuova guerra tra armeni (fieri nemici dei turchi per il genocidio e alleati dei russi per affinità religiosa) – che infatti hanno iniziato le provocazioni belliche nel giugno 2020 – e azeri, appoggiati dai turchi.

Il prossimo palcoscenico della pantomima che apparentemente divide Russia e Turchia, ma non i loro interessi finali si gioca attorno al reale interesse dei due tiranni: le pipeline, quelle da boicottare per l’interesse di Gazprom, a cominciare da quella che passerebbe attraverso la Grecia a partire da Israele per giungere in Salento, che si configura come concorrente del South Stream turco, ma anche delle pipeline russe, da cui dipendono gli approvvigionamenti energetici occidentali.  

Le prime reazioni internazionali al sempre maggiore dinamismo turco nell’area si ebbero con l’accordo intercorso tra Erdoğan e Sarraj per spartirsi il petrolio del Mediterraneo, un vero e proprio abuso, sono state minime: una fregata italiana a difendere i giacimenti che l’Eni si era aggiudicata nel mare prospiciente Cipro – dimenticata in questa operazione, forse perché comunque la Turchia la considera integralmente di sua proprietà – e infatti  la Grecia ha espulso l’ambasciatore turco. Ma cosa si può immaginare in trasparenza dietro a questa sorprendente iniziativa? In quale contesto nei due paesi si va a inserire?

 

Il maresciallo libico Khalifa Haftar e il ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov a Mosca, il 13 gennaio 2020 (Ufficio stampa del ministero degli Esteri russo via AP)

Murat Cinar analizza i meccanismi che il 12 dicembre 2019 regolavano gli interessi nell’area

Da quell’episodio si è potuto allargare il campo, ai molti motivi di scontro e guerra aperta, di repressione e strategie, alleanze e affinità religiose (piegate a fare da foglia di fico per gli interessi geopolitici): il parlamentare Demirtaş malato non curato nel carcere di Edirne dove è ostaggio del regime, banche nazionalizzate per svuotarne i forzieri e sovvenzionare le infrastrutture che fanno da bacino di voti per l’Akp, e poi l’arabizzazione forzata del Rojava negli intenti di Erdoğan – e in questo ambito si registrano le affermazioni di Assad, disponibile a incontrare il presidente turco ma solo per ricordargli che è un invasore (ma in fondo anche Assad padre aveva operato un’arabizzazione della regione ai danni dei curdi); le due fazioni che si contendono il potere in quella che era la Libia sono sempre più internazionalizzate, con precisi appoggi agli uni o agli altri, con la presenza russa che condiziona protagonisti di entrambi i campi di questa guerra per procura, che è un risvolto di quanto è successo e sta accadendo in Siria, un paese che sta diventando modello anche per una nazione che non esiste più dalla fine di Gheddafi; l’attenzione turca si sta da tempo concentrando anche sul Nordafrica e la Libia dove Arabia Saudita ed Emirati, insieme all’Egitto del generale al-Sisi, sostengono il capo della Cirenaica Khalifa Haftar. Mentre Ankara, con il Qatar e in parte l’Italia, appoggia il governo di Tripoli, la città di Misurata e la Fratellanza Musulmana.

La guerra in Libia non è più guerra civile, è diventata regionale. A sostegno di Haftar si prodigano militarmente Egitto, Emirati Arabi e Russia. A oggi l’unico attore forte regionale è la Turchia che non ha mai cambiato posizione e non ha problemi a dichiarare il suo approccio interventista, riaffermando il suo ruolo nella regione anche in relazione a quanto accade in Siria (lì si riproduce lo stesso meccanismo insito nel rapporto di Ankara con la Russia).
La Francia auspica una risoluzione politica-diplomatica ma è, insieme alla Nato, sul campo a combattere a fianco di Haftar. L’Italia – che politicamente appoggia Tripoli (e ha interessi economici in Tripolitania) – è in realtà statica, non ha “amici” in Libia, ma in realtà non è ostile a Haftar. Al-Sarraj aveva bisogno di sostegno militare, ma a parte la missione in difesa dell’ospedale di Misurata sicuramente una certa attività di intelligence, l’Italia non si è poi attivata più di tanto. La Turchia invece è disposta a farlo e al-Sarraj è stato obbligato ad accettare l’aiuto della Turchia. Le reazioni a catena dimostrano che ormai in quel territorio si sta svolgendo una proxy war, una guerra per procura.

Nancy Porsia spiegava il carattere regionale della guerra in Libia nel dicembre 2019

Il governo di Tripoli, ha reso noto di temere la “minaccia” di intervento egiziano in Libia dopo che il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi, in una dichiarazione pubblicata, ha definito il Governo di accordo nazionale libico (Gna) “ostaggio di formazioni armate e terroriste”. Il Consiglio del Gna afferma di comprendere “il diritto dello Stato egiziano” alla “sicurezza nazionale ma non accetta alcuna minaccia alla propria sovranità” e “invita le autorità egiziane a rivedere le proprie posizioni circa la crisi libica e a giocare un ruolo positivo che rifletta la profondità delle relazioni storiche fra i due Paesi fratelli”.

E mentre a Tripoli si combatteva e le milizie misuratine lanciavano lo stato di mobilitazione contro l’ennesima fase dell’offensiva del generale cirenaico Haftar sulla capitale, il presidente turco Erdogan incassava l’approvazione da parte della commissione parlamentare Esteri dell’accordo di cooperazione militare con il Gna (il governo tripolino, inventato dall’Onu) siglato il 27 novembre a Istanbul con il premier Serraj.

Quanto la guerra libica sia sempre legata alla profonda crisi in atto nel Mediterraneo Orientale sui confini marittimi delle Zone Economiche Esclusive lo si evince anche dal rischieramento di un drone turco armato BayraktarTB2 all’aeroporto di Gecitakle nella regione di Famagosta, nella Cipro del Nord.

Come affermava Chiara Cruciati su “il manifesto” del 17 dicembre 2019:

Se con il memorandum Ankara si impegna a inviare materiale e consulenze (cosa che con i droni già fa da tempo, violando l’embargo libico), ora Erdogan promette anche truppe, in cambio del controllo sullo specchio di mare tra Creta e Cipro.

Il cosiddetto “accordo di demarcazione” regalerebbe ad Ankara la giurisdizione in acque che ospitano giacimenti di gas naturale tra i più ricchi al mondo, da quelli ciprioti (su cui minaccia anche Israele: è di domenica la notizia dell’allontanamento di una nave dell’Istituto di Oceanografia israeliano da parte della marina turca nelle acque di Cipro) e su quelli nordafricani.

Lo fa sfidando apertamente l’altro attore regionale della crisi libica, l’Egitto, che sta sulla barricata opposta, con Haftar. E sfida anche l’Italia, convinta da aspirazioni neocoloniali, più che dalla vicinanza geografica, che la Libia sia doverosamente affar suo: oggi il ministro degli Esteri Di Maio dovrebbe volare a Bengasi per vedere il generale renegade perché, come dicono in tanti, è tempo di mediare tra le due parti (fossero solo due…) e uscire dal guado. Il probabile incontro è stato preparato nei giorni scorsi dall’Aise, i servizi segreti italiani, già a Bengasi.

Insomma, ormai Haftar va rivalutato (questa sembra la visione dell’Italia che teme di perdere il malloppo a favore della Francia) sebbene da mesi stia stringendo d’assedio il governo voluto dall’Onu e riconosciuto come il solo legittimo dalla comunità internazionale, a partire da Roma.

Identica narrazione, indirettamente, la dà il governo egiziano: «Il governo a Tripoli – ha detto da Sharm el Sheik il presidente al-Sisi – è ostaggio di milizie armate e terroriste». Non li nomina, ma nel mirino di al-Sisi ci sono i Fratelli musulmani, considerati i veri reggenti tripolini e riferimento politico dell’Akp di Erdogan e del Qatar, l’altra potenza regionale alleata di Sarraj che nei giorni scorsi, per bocca dell’emiro Al Thani, ha detto di voler/poter intervenire «sul piano economico e della sicurezza» al fianco di Tripoli.

Dall’interventismo turco in mezzo Vicino Oriente non poteva mancare la stoccata al nemico-amico statunitense. Brucia ancora il riconoscimento da parte della Camera Usa, il 31 ottobre, del genocidio armeno. Ma bruciano di più la sospensione della vendita degli F35 e le sanzioni che Washington ha paventato se Ankara proseguirà nell’acquisto del sistema di difesa missilistico russo S-400.

E così Erdogan ha pensato bene di minacciare gli Usa di «chiudere la base aerea di Incirlik e la stazione radar di Kurecik, che ospitano i militari americani». Nella seconda c’è la Nato, nella prima bombe atomiche Usa. Erdogan non vede l’ora di metterci le mani: da Incirlik è partito un pezzo del tentato golpe del 2016.

L’aeroporto di al-Watiya a sudovest di Tripoli diventerà una base militare turca

Intanto, in seguito all’accordo bilaterale di cooperazione militare sottoscritto lo scorso novembre tra Ankara e il Gna, la Turchia occuperà due basi militari in Libia: il grande aeroporto di al-Watiya (nella foto), vicino al confine tunisino, 125 chilometri a sudovest di Tripoli, da dove sono state cacciate da poco le forze dell’Lna che la controllava dal 2014) e nel porto di Misurata. Forse la base verrà occupata anche dalle forze statunitensi dell’Africa Command (Africom) dopo le intese tra Ankara e Washington dei giorni scorsi e il colloquio tra Donald Trump ed Erdoğan. Mentre a Misurata verrebbe invece creata una base navale: la presenza di navi turche è considerata essenziale per la sicurezza delle attività di perforazione (petrolio e gas) nella regione.

Il porto di Misurata dove la Turchia installerà la sua base navale

 

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L’attivismo di Erdoğan concepito al Cremlino https://ogzero.org/lattivismo-di-erdogan-concepito-al-cremlino-2/ Tue, 07 Jul 2020 16:04:29 +0000 http://ogzero.org/?p=781 Le strategie parallele russo-turche per l'indipendenza ottomana dagli Usa porta alle intese di Astana per spartirsi energia e controllo sullo scacchiere mediterraneo

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Dieci anni di strategie parallele per il distacco ottomano dagli Usa

L’attuale tavolo da gioco

Sin dall’inizio della guerra in Siria, la posizione di Ankara è stata sempre a favore della caduta del regime Ba’th. Nel frattempo le relazioni tra Turchia e Russia, nonostante alcuni periodi difficili, si sono allacciate sempre più. Questo fatto ovviamente crea stupore dato che in Siria, dal 2014, Putin è apertamente schierato in forze accanto al presidente Assad per salvarlo e sembra che l’appoggio di Mosca abbia cambiato le sorti della guerra a favore di Damasco.

Le cose sono diventate ancora più complicate con l’intervento della Turchia nella guerra libica. Nel 2019, Ankara ha deciso di sostenere economicamente, militarmente e politicamente Fayez al-Sarraj, presidente riconosciuto dall’Onu, contro il generale Haftar, uomo appoggiato da Mosca che vorrebbe ottenere il controllo assoluto del paese. Dunque anche in Libia queste due forze si trovano a portare avanti due strategie diverse con un forte rischio di scontrarsi.

Tuttavia, fuori dai territori libici e siriani la collaborazione turco-russa vive una fase senza precedenti. La domanda che sorge è semplice: “Com’è possibile un quadro del genere?”. Le risposte sono molteplici e non del tutto definitive. Scelte economiche, strategie di alleanza per mantenere il potere e nascondere la corruzione. Cerchiamo di mettere sul tavolo tutto questo per provare a capirci qualcosa.

Il germe del flirt

Senz’altro la caduta del comunismo e l’introduzione del libero mercato ha fatto sì che la Turchia s’introducesse sempre di più nell’economia della Russia. Negli anni Novanta i rapporti commerciali crescevano notevolmente, tuttavia la svolta storica è avvenuta nel 2010 quando questi due paesi hanno costituito il Consiglio di Collaborazione ad Alto Livello (Udik).

La Centrale nucleare di Akkuyu, ancora in fase di costruzione, è stata finanziata dall’investitore russo Rosatom; l’ex banca statale Denizbank è stata venduta alla russa Sberbank; più del 50 per cento del fabbisogno nazionale della carta per i giornali è di fabbricazione russa e la Russia risulta tuttora il principale fornitore del fabbisogno energetico della Turchia. Questi sono soltanto alcuni punti eclatanti di un rapporto commerciale che oggi supera 25 miliardi di dollari statunitensi. Nella lista ovviamente non mancano vari prodotti agricoli, investimenti militari e un enorme mercato turistico.

Un breve attimo di crisi

Senz’altro questa spettacolare storia d’amore ha subito una momentanea rottura nel 2015; ossia cinque anni dopo l’inizio della crescita sproporzionata dei rapporti commerciali e un anno dopo che la Russia aveva deciso d’intervenire in Siria accanto a Damasco.

Il 24 novembre 2015 un Su-24M russo è stato abbattuto alle 9,24, da due F-16 delle Forze Armate Turche, mentre stava ritornando alla base aerea di Khmeimim, vicino Laodicea. Secondo la versione turca, l’aereo russo stava per compiere un bombardamento contro i ribelli Siriano-Turkmeni. Al momento dell’abbattimento, i due membri dell’equipaggio dell’aereo sono riusciti a eiettarsi con successo, ma il pilota è stato catturato dai gruppi armati in Siria e il suo corpo è stato mostrato in un video diffuso su internet. Il vicecomandante della Brigata Turcomanna, identificato come Alparslan Çelik (figlio dell’ex sindaco di Keban, del Partito del movimento nazionalista), ha dichiarato di aver ucciso i due membri dell’equipaggio del Su-24 mentre scendevano col paracadute.

I rapporti sono rimasti congelati per quasi nove mesi, fino a quando Ankara non ha presentato le scuse ufficiali. Oltre allo scambio commerciale interrotto, si sono registrati alcuni episodi anche significativi che hanno aumentato il livello dello stress. Il trattenimento di una decina d’imprenditori turchi in diversi centri d’identificazione ed espulsione e la confisca dei beni di diversi imprenditori legalmente residenti in Russia da più di 20 anni sono state le inevitabilmente decise ritorsioni.

Mosca ha chiamato in causa anche il coinvolgimento della Turchia in Siria per pareggiare i conti con la ricostruzione turca dell’abbattimento dell’aereo. Anatoly Antonov, il viceministro della Difesa nazionale, il 5 dicembre, a Mosca, in una conferenza stampa, utilizzando diverse immagini satellitari, ha comunicato al mondo che la famiglia del presidente della Repubblica di Turchia comprava petrolio direttamente dall’Isis in Siria.

Circa nove mesi dopo, giugno 2016, Ankara, tramite una lettera scritta dal presidente, ha chiesto ufficialmente scusa alla famiglia del pilota russo ucciso. Anche se questa versione non è stata riportata esattamente in questa maniera dai media turchi, in un comunicato ufficiale il Cremlino ha confermato le scuse di Erdoğan.

Un golpe spifferato dai russi?

Un mese dopo l’inizio della normalizzazione dei rapporti con la Russia, il 15 luglio del 2016, la Turchia ha vissuto un tentativo di colpo di stato. Questo gesto folle e violento è stato respinto con la determinazione delle forze armate e della popolazione civile. Restano tuttora numerosi punti oscuri dietro questo strano colpo di stato. Tuttavia ci sono due punti che collegano il golpe al nostro filo.

  1. Innanzitutto secondo Ankara, il tentativo è l’opera dell’ex alleato di Erdoğan, in esilio negli Stati Uniti da più di 20 anni: Fethullah Gülen. Accusato di essere uno dei membri di Gladio è stato definito il principale responsabile del fallito golpe. Il fatto che sia un grande e storico ammiratore della Nato, sia in esilio negli Usa e le amministrazioni statunitensi non abbiano deciso di rimpatriarlo e consegnarlo ad Ankara (nonostante le numerose richieste) fa sì che Erdoğan possa accusare gli Usa di essere «il mentore principale del golpe». Non solo Erdoğan ma la maggiora parte del suo partito e una buona parte del paese pensa tuttora così. Questo è ovviamente un elemento che raffredda i rapporti tra Washington e Ankara, due alleati storici nella Nato.
  2. Il secondo punto legato al golpe è il fatto che siano stati i servizi segreti russi presenti in Turchia a informare Ankara dell’avvento del golpe. Secondo Aleksandr Dugin, consulente di Sergey Naryshkin, capo dei servizi d’intelligence internazionale russi, il 14 luglio del 2016, Ankara è stata informata della preparazione del golpe proprio da lui stesso. Nell’intervista rilasciata all’“Independent” redazione in lingua turca, Dugin sostiene che sia stata la Cia a organizzare il fallito golpe con l’obiettivo di distruggere i rapporti tra Mosca e Ankara, «esattamente come fu fatto nel caso dell’abbattimento dell’aereo».

La versione è stata successivamente sposata in parte anche da Erdoğan. In un’intervista rilasciata ad Al Jazeera, il presidente della Repubblica sosteneva che i piloti turchi che hanno colpito l’aereo russo, erano uomini di Gülen, l’ex predicatore e, secondo Ankara, il responsabile del fallito golpe.

Questo momento storico ha dato slancio al cambiamento delle relazioni tra Ankara-Washington e Mosca.

L’ultima goccia

Mentre le scelte politiche e militari dell’amministrazione statunitense in Siria non venivano apprezzate da Ankara i rapporti con Mosca si complicavano ancora di più. Una Turchia che aveva appena respinto un tentativo di colpo di stato e viveva sotto lo stato d’emergenza assistette in diretta tv all’assassinio dell’ambasciatore russo. Andrej Karlov è stato ucciso il 19 dicembre 2016 mentre presenziava a una mostra d’arte in Turchia, a seguito di colpi d’arma da fuoco sparatigli a breve distanza da Mevlüt Mert Altıntaş, un giovane poliziotto locale.

Altinas ha gridato per circa un minuto dopo aver ucciso l’ambasciatore, elogiando la guerra santa e sottolineando che «coloro che creano sofferenze in Siria saranno sempre puniti». Le sue parole, pronunciate anche in arabo, sono state associate ad alcuni comunicati dell’organizzazione terroristica Al Nusra. Il fatto successivamente è stato smentito ma era chiaro che Altintas avesse deciso di uccidere un diplomatico russo per la difesa della guerra religiosa portata avanti da diversi gruppi armati in Siria, anche contro il governo di Damasco. Dall’inizio della guerra sul territorio siriano operano numerosi gruppi jihadisti che come obiettivo hanno la destituzione di Assad. Ricordiamoci che Mosca si trova, dal 2014, in Siria per salvare Damasco.

Successivamente, nel 2018, il procuratore Adem Akinci ha deciso di emettere il mandato di cattura contro 8 persone ipoteticamente coinvolte nell’assassinio dell’ambasciatore russo. La cosa curiosa è il fatto che secondo Akinci l’attentato sia stato realizzato con il mandato di Gülen, l’ex alleato del governo, accusato di aver messo in atto il fallito golpe del 2016. Per quanto le accuse siano state smentite dallo stesso Gülen, la politica, i media e la magistratura hanno operato in modo che in Turchia la versione di Akinci sia quella accreditata.

La tensione con gli Usa spinge Ankara verso Mosca

Operazioni anticorruzione

Il 2013 si conclude in Turchia con una grande operazione anticorruzione. Fotografie, video, registrazioni audio e numerosi schemi riempiono le pagine dei giornali e le inquadrature dei canali televisivi. In poche parole il governo, numerosi imprenditori e vari governatori locali sono stati accusati di aver ideato e creato un sistema per aggirare l’embargo statunitense in atto contro l’Iran e nel fare questo sembra che le persone coinvolte abbiano riciclato un notevole volume di denaro di provenienza sconosciuta.

Tra le persone coinvolte si vede anche il nome del figlio del presidente della Repubblica e nelle registrazioni audio diffuse su internet si sente la voce di Erdoğan che ordina a suo figlio Bilal di far scomparire i contanti presenti a casa. Bilal Erdoğan è nella lista dei ricercati ma non sarà mai catturato. Ankara reagisce a tutto questo con le dimissioni di 4 ministri e con un’ondata di arresti contro i giudici, procuratori e poliziotti che hanno fatto parte dell’operazione. In pochi giorni Erdoğan definirà tutto questo come un «tentativo di colpo di stato ideato da Gülen».

Il 19 marzo 2016, negli Usa, il numero uno di questo scandalo, l’imprenditore turco-iraniano Reza Sarraf viene arrestato. Durante i lunghi interrogatori, il 30 novembre 2017 Sarraf pronuncia queste parole in aula: «A dare l’ordine è stato Recep Tayyip Erdoğan» e illustra perfettamente tutto il giro di riciclaggio di denaro. Quindi Ankara diventa decisamente ricattabile da Washington. Il 23 marzo del 2017 viene arrestato e condannato anche Hakan Atilla, l’ex vicepresidente della banca statale Halkbank, con l’accusa di aver messo a disposizione la sua banca per questi lavori di riciclaggio denaro e corruzione.

Posizioni diverse in Siria

Il gelo tra i vecchi alleati avviene su diversi fronti. Tra questi ovviamente c’è anche l’enorme differenza nella presa di posizione in Siria.

La scelta dell’ex presidente statunitense, Barack Obama, di armare le unità di difesa popolare Ypg/Ypj nella lotta contro l’Isis, è uno dei punti più importanti. Le Ypg/Ypj sono state sempre definite come un’organizzazione terroristica da Ankara per via della loro vicinanza politica al Partito dei lavoratori del Kurdistan( Pkk), l’organizzazione armata definita “terroristica” dalla Turchia. Senz’altro non possiamo escludere il fatto che il profilo economico e politico del Confederalismo Democratico, progetto rivoluzionario lanciato in Rojava, sia in contraddizione con il disegno politico ed economico fondamentalista, saccheggiatore e nazionalista che governa la Turchia. Inoltre, in numerosi incontri, Washington ha sempre respinto le richieste di Ankara per creare una No fly zone nel Nord della Siria.

Di fronte a queste differenze Erdoğan continua a rifiutarsi di interloquire: né con le Ypg/Ypj né con le Forze Democratiche Siriane (Sf). Secondo Ankara la lotta contro l’Isis è uguale con la lotta contro le Ypg/Ypj. Quindi la sua preferenza è quella di entrare di persona sul territorio siriano e ripristinare la situazione a modo suo.

Non possiamo nascondere anche le dinamiche legate alla politica interna. La questione Pkk-Ypg/Ypj è storicamente irrisolta in Turchia. Il problema della negazione dei diritti delle persone curde negli anni Settanta ha portato una parte del movimento curdo ad abbracciare le armi e nessun governo in Turchia ha voluto veramente dialogare con il Pkk e aprire una strada per la pace. Nonostante due anni di cessate il fuoco, Erdoğan ha notato, nel 2015, a causa dell’esito delle elezioni politiche, che la pace non portava voti. Dopo 15 anni di governo a partito unico, aveva perso la possibilità di comporre il governo da solo e aveva visto entrare in parlamento 80 deputati appartenenti al Partito democratico dei popoli, progetto politico proposto da Abdullah Öcalan, leader storico del Pkk. Erdoğan ora vedeva vacillare il suo potere come l’esito di «un passo avanti fatto per la pace». Quindi quel breve dialogo con il Pkk è stato archiviato e il conflitto è ripreso. In pochi giorni la Turchia è diventata di nuovo, come negli anni Novanta, il campo di battaglia.

Ora Ankara non si trovava assolutamente sulla stessa lunghezza d’onda con gli Usa in Siria. Quindi se voleva mantenere voce in capitolo in Siria e mandare avanti i suoi piani ultranazionalisti con l’obiettivo di mantenere il suo potere, doveva assolutamente trattare con Mosca.

Rapporti stretti con la Russia per motivi economici

Turkish Stream e centrale nucleare Akkuyu

Ovviamente l’ombelico di Ankara si lega alla mamma Russia anche per motivi economici. Mosca non è solo un rifugio politico, oppure un elemento di ricatto contro gli Usa, ma è anche una copiosa fonte di denaro.

Il piano di un gasdotto gigantesco è stato proposto nel 2014 dal presidente russo, Vladimir Putin, durante una sua visita in Turchia. Nel 2016 è stato firmato l’accordo e nel mese di gennaio del 2020 sono state aperte le valvole per pompare il gas. Ankara si aspetta di ottenere, all’anno, 15,75 miliardi di metri cubi di gas, con il diritto alla rivendita. È un progetto simile a quello inaugurato nel 2003 con la presenza di Silvio Berlusconi in Turchia: Blue Stream, il grande progetto di gasdotto in cui è coinvolto non solo il russo Gazprom ma anche l’italiana Eni. La Turchia, grazie all’accordo firmato, è obbligata a comprare il gas da Mosca fino al 2023.

Un altro progetto massiccio russo sul territorio della Turchia è quello della centrale nucleare Akkuyu. I lavori di costruzione sono partiti nel 2018 e la conclusione è prevista per il 2023 per un costo di 20 miliardi di dollari.

Queste due, e non solo, grandi opere ovviamente legano anche dal punto di vista economico Ankara a Mosca.

Inizia Astana Process

La Siria derivante dagli accordi

Questi numerosi cambiamenti storici, spesso sviluppati attorno alla guerra siriana, hanno fatto sì che la Turchia si allontanasse dal suo storico alleato e si avvicinasse a Mosca.

Il 23 gennaio del 2017 nella città di Astana avviene il primo incontro per la pace in Siria tra Ankara, Mosca e Tehran. Con questo primo passo è ormai chiaro che per Erdoğan gli interlocutori sono queste due forze importanti, presenti sul territorio siriano con forze ingenti e l’obiettivo di salvare il governo di Assad. Tuttavia era sempre lo stesso Erdoğan che ormai risultava essere l’unico leader nel mondo che voleva la fine del regime Ba’th.

Mentre negli incontri nella capitale kazaka si parlava dei modi per stabilire la pace in Siria, le Forze Armate della Repubblica di Turchia intervenivano sul territorio settentrionale del paese. Pochi giorni dopo il fallito golpe del 2016 Ankara avviò la sua prima operazione. Fino al 2020 la Turchia è entrata, in modo massiccio, nel Nord della Siria per ben tre volte. L’obiettivo ufficiale era quello di proseguire la lotta contro l’Isis ma anche quello di «mantenere sicuro il confine contro la minaccia delle Ypg/Ypj». In numerose occasioni Erdoğan ha specificato che non avrebbe permesso assolutamente la nascita di una zona autonoma in queste zone controllata dalle forze di unità popolari.

Ovviamente non possiamo ignorare anche le ripetute dichiarazioni di Ankara volte a chiedere in modo insistente la fine del regime di Assad.

Gli incontri di Astana sono un percorso molto complicato composto finora (10 luglio 2020) da 13 incontri. Ankara al tavolo si trova in accordo con queste due forze che sostengono Damasco, mentre sul campo persegue il suo piano quasi in totale tranquillità, molto probabilmente con il permesso di Tehran e Mosca. Infatti nel Nord della Siria, i lavori di monitoraggio e sorveglianza vengono svolti con l’assistenza dell’esercito russo.

Tenendo in considerazione tutto l’andamento storico è evidente che Mosca e Ankara abbiano un rapporto di reciproco sfruttamento e dipendenza. Soprattutto con l’acquisto del sistema d’arma antiaereo russo S400 da parte di Ankara ha fatto sì che la sua dipendenza militare, economica e politica dalla Russia diventasse molto palese. Dunque anche in Siria questi due paesi mettono in atto una collaborazione perversa e strana ma in qualche maniera “funzionante”.

Spostiamoci in Libia, passando da Sochi

(podcast di un intervento di Murat Cinar del 20 febbraio 2020 nella mattinata informativa di Radio Blackout)

Il 22 ottobre del 2019 Erdogan e Putin si incontravano nella città di Sochi, sul Mar Nero, per firmare un accordo di pace in Siria. Quest’incontro avveniva 13 giorni dopo l’inizio dell’intervento militare “Sorgente di Pace” avviato da Ankara in Siria. Dunque in quest’accordo Ankara otteneva una piccola zona “sicura e libera” e lo spostamento di circa 33000 militanti delle Sdf dalle zone sotto il suo controllo. L’area più interessante per Erdogan era la città d’Idlib, famosa per la sua alta concentrazione dei gruppi armati oppositori a Damasco.

Un mese dopo l’accordo di Sochi, il 27 novembre del 2019, Ankara decide di firmare un patto con il governo di Tripoli che le permetta d’intervenire nella guerra libica; militarmente, economicamente e politicamente. Ankara ovviamente appoggia il governo di Tripoli guidato da Al Sarraj e riconosciuto dall’ONU. Di fronte a questo politico accusato di essere l’espressione dei Fratelli Musulmani troviamo il generale Haftar sostenuto dalla Russia e non solo.

Dunque anche in questo caso Ankara, pur continuando a conservare il suo rapporto eccellente con Mosca, si trova a sostenere una linea contro il campione appoggiato dalla Russia. A questo punto, per trovare una soluzione ai punti interrogativi, sottolineiamo un’informazione fornita dall’Osservatorio siriano per i diritti umani (Sohr). Nella relazione pubblicata dall’organizzazione, nel mese di giugno del 2020, si specifica che da Idlib in Libia sono arrivati più di 13000 miliziani jihadisti per combattere accanto al governo di Tripoli. Secondo alcune fonti i voli sarebbero partiti dalla città di Antep, in Turchia. Secondo il presidente del Forum Curdo Tedesco, Yunis Behram, il costo economico di questi combattenti viene sostenuto dalla Turchia grazie ai soldi ricevuti dall’Unione europea per creare un sistema di accoglienza dignitoso per i rifugiati siriani presenti nel paese. Secondo Behram un’altra fonte economica proviene dalla vendita del petrolio da parte del governo Al-Sarraj.

Dunque in Libia a prendere decisioni sul campo, dietro le quinte, e fare conti di ogni tipo tra di loro sono due paesi; Turchia e Russia. Apparentemente sembra che siano contrapposti in un quadro di conflitto, tuttavia tra la Siria e la Libia sono loro due a cambiare gli scenari e l’andamento della guerra soddisfacendo reciprocamente i propri bisogni e rispettando le precedenze.

Obiettivi economici

Oltre all’idea di sostenere un leader espressione dei Fratelli Musulmani e disfarsi dei miliziani jihadisti d’Idlib, essere presente in Libia per Ankara concerne ovviamente anche il fabbisogno nazionale di petrolio e di altre necessità economiche.

Stiamo parlando di un paese che compra più del 90 per cento del petrolio che consuma dall’estero. Dunque le fonti energetiche a basso costo sono estremamente importanti. Infatti Ankara cerca nuovi giacimenti petroliferi in Libia dal 2000 tramite le aziende Tpao e Noc. Queste ricerche hanno fatto scoprire sette nuovi giacimenti e per questi lavori la Turchia ha dovuto spendere circa 150 milioni di dollari statunitensi. Ovviamente in questa nuova fase Ankara ha la volontà di usufruire del petrolio con condizioni economiche agevolate grazie al suo sostegno per Tripoli che sta vincendo la guerra sul campo. Quest’obiettivo oltre a non essere smentito da Ankara è stato sempre messo in alto nella lista delle motivazioni che l’hanno spinta a entrare in guerra.

Ovviamente anche in altri ambiti commerciali si prospettano novità. Il 17 giugno 2020 una delegazione di alto livello è partita dalla Turchia per Tripoli portandosi dietro una serie d’imprenditori pronti a firmare nuovi accordi in Libia. Secondo Mithat Yenigun, presidente dell’Associazione degli imprenditori edili, presto le aziende turche inizieranno a costruire delle grandi opere in Libia per la ricostruzione del paese.

Un’altra novità interessante in termini economici invece arriva dalla Banca centrale della Libia che decide di depositare nelle casse della Banca centrale della Turchia, 8 miliardi di dollari in quattro anni.

Tutto questo ha ovviamente un senso molto importante tenendo in considerazione la forte crisi economica in cui si trova la Turchia da circa quattro anni. La disoccupazione cresce, l’inflazione è sempre in aumento, la Lira turca perde costantemente il suo valore e la crescita economica non è più così aggressiva come prima.

Conclusione

La guerra è un momento di caos e nebbia, spesso è difficile comprendere ciò che sta succedendo. Le guerre per procura senz’altro sono ancora più complesse. In Libia e Siria assistiamo a questo tipo di guerre. Due paesi devastati e saccheggiati da diverse forze straniere per diverse ma simili motivazioni. Dunque comprendere le basi e le caratteristiche delle alleanze, come anche le ostilità, non è semplice. In quest’ottica, senz’altro non è molto d’aiuto anche una cultura politica ed economica opportunista e basata sul reciproco sfruttamento.

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La Russia e il Medio Oriente https://ogzero.org/la-russia-e-il-medio-oriente/ Mon, 06 Jul 2020 10:56:02 +0000 http://ogzero.org/?p=427 Da zar a raiss. La tentazione di esagerare, quando si affronta il tema della politica mediorientale di Vladimir Putin, è forte. Il perché è ovvio. L’operazione militare in Siria è stata (quasi) un successo, la gestione degli equilibri di forza sul campo con Iran e Turchia un capolavoro di tattica, l’offensiva diplomatica nell’area – tra […]

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Da zar a raiss. La tentazione di esagerare, quando si affronta il tema della politica mediorientale di Vladimir Putin, è forte. Il perché è ovvio. L’operazione militare in Siria è stata (quasi) un successo, la gestione degli equilibri di forza sul campo con Iran e Turchia un capolavoro di tattica, l’offensiva diplomatica nell’area – tra contratti miliardari di armi e visite di stato “storiche” del presidente russo, come quella a Riad nell’ottobre del 2019 – il tratto del maestro. Se si aggiunge lo zampino di Washington con la sua volontà di disimpegno dall’Oriente Medio, iniziata da Barack Obama e proseguita da Donald Trump, ecco spiegato perché oggi si parla di Vladimir d’Arabia. In quella parte di mondo però il successo non è mai stabile, bensì mobile come le dune dei suoi deserti. L’esempio più fulgido, e attuale, è la “campagna” di Libia. Mosca, dopo la ritirata del maresciallo Haftar, pare in difficoltà. Ma non mollerà. Perché, paradossalmente, nella mente di Putin è Tripoli, e non Damasco, il vero obiettivo per vincere la ‘regata’ nel Mediterraneo.

La Libia, infatti, per Putin è l’omphalos delle crisi che hanno portato alla destabilizzazione della regione e il segnale tangibile – se ce ne fosse ancora bisogno – che dell’Occidente non ci si può fidare. Al Cremlino, nel 2011, era in sella Dmitry Medvedev e Putin, al contrario, si era adattato alle mansioni del primo ministro (che non prevedono la politica estera, saldamente nelle mani del presidente). Come ricorda Mikhail Zygar nel suo Tutti gli uomini del Presidente, «per Putin la decisione di Medvedev di non porre il veto all’ONU sulla risoluzione antilibica fu un’imperdonabile dimostrazione di debolezza». Così ruppe la comanda del silenzio e iniziò a criticare pubblicamente la Nato (e implicitamente le decisioni di Medvedev). «Se l’obiettivo era la no-fly zone perché i palazzi di Gheddafi vengono bombardati ogni giorno?», dichiarò in Tv. Per Putin Europa e Usa non solo avevano truffato Gheddafi – prima revocando il suo status di paria, ammettendolo nel circolo bene dei vari G8, e poi pugnalandolo alla schiena – ma anche Medvedev. E dunque la Russia.

Secondo Zygar la morte del dittatore libico per Putin fu un vero e proprio shock. Non solo. Fu l’evento che lo convinse a tornare al Cremlino, ordinando a Medvedev di farsi da parte. «Il mondo è un casino, rischieresti di perdere la Russia», disse Putin al suo incredulo delfino nel corso (appropriatamente) di una battuta di pesca nei pressi di Astrakhan. «Gheddafi non credeva di certo che avrebbe perso la Libia ma gli americani lo hanno fregato: io resto il candidato più forte». Così l’arrocco fu deciso e Putin s’incoronò zar per davvero (ora, grazie alla riforma della Costituzione, potrà governare indisturbato, se lo vuole, fino al 2036). C’è di più. La Libia non è cruciale nel Putin-pensiero solo per la detronizzazione di Gheddafi, ovvero per gli effetti della rivoluzione, ma soprattutto per le sue cause. Che secondo il Cremlino sono esogene.

Tutte le “rivoluzioni colorate”, infatti, per Mosca sono create dall’estero, in particolare dalla Cia, e la “Primavera araba” rientra in questo esercizio di sovvertimento dello status quo attraverso metodi “ibridi”, che fondono la manipolazione sapiente dell’opinione pubblica (grazie ai social media) alla buona vecchia forza bruta, quando serve. L’uso qui del termine “ibrido” non è un caso. Anzi. Perché la Libia è un caleidoscopio dove le nostre certezze sulla Russia si smontano per essere ricomposte subito dopo in altra foggia e colore. Se dunque fino a oggi avete pensato che il concetto di “guerra ibrida” fosse il prisma adatto con cui osservare e spiegare le mosse di Mosca, be’, è vero l’esatto contrario. La guerra ibrida, per la Russia, l’ha inventata l’Occidente e il suo principale poligono di tiro è stata propria la Libia. Altro che Ucraina.

Ecco, qui per non perdere la bussola sarà necessario aprire una rapida parentesi. La guerra ibrida russa, nei circoli occidentali, prende anche il nome di “dottrina Gerasimov”, in onore del capo dello stato maggiore dell’esercito, il generale Valery Gerasimov. Era il febbraio del 2013 e il periodico russo “Military-Industrial Courier” aveva dato alle stampe un discorso di Gerasimov in cui il generale parlava di come, nel mondo moderno, l’uso della propaganda e dei sotterfugi rendesse possibile a «uno stato perfettamente fiorente di trasformarsi, nel giro di mesi e persino di giorni, in un’arena di feroci conflitti armati, cadere vittima d’intervento straniero e sprofondare nel caos, nella catastrofe umanitaria e nella guerra civile». Ovvero la carta d’identità della Libia post-Gheddafi.

Nel “saggio” si afferma che «lo spazio informatico apre grandi possibilità asimmetriche per ridurre la capacità combattiva di un potenziale nemico: in Africa siamo stati testimoni dell’uso delle tecnologie per influenzare istituzioni e popolazioni con l’aiuto dei network informativi (i social, N.d.r.) ed è necessario perfezionare le attività della sfera digitale, compresa la difesa nei nostri stessi obiettivi». Insomma, a essere ibridi sono gli altri, è la Russia che si deve attrezzare, e il target finale è proprio Mosca, che si vorrebbe destabilizzare con una rivoluzione colorata ad hoc. L’intervento di Gerasimov, in sé passato inosservato, è stato però tradotto in inglese e rilanciato dal blog dell’analista Mark Galeotti. Che per amor di fama ha un po’ forzato la mano. «Un blog – racconterà poi nel 2018 in un articolo pubblicato da “Foreign Policy” – è un esercizio di vanità come tante altre cose: ovviamente volevo che la gente lo leggesse. Così, per avere un titolo scattante, ho coniato il termine “dottrina Gerasimov”, anche se già allora avevo notato nel testo che questo non si trattava altro che di “un contenitore” e non era certo “una dottrina”».

Bene. Se il desiderio era fare colpo, missione compiuta. Con lo scoppiare della crisi ucraina, e l’euro-Maidan di Kiev, altra operazione speciale dell’Occidente agli occhi del Cremlino, il titolo “scattante” di Galeotti tracima l’ambito degli addetti ai lavori e grazie ai media diventa di dominio comune. «All’annessione della Crimea, quando “gli omini verdi” – commandos senza mostrine – si impadronirono della penisola senza sparare un colpo, seguì la guerra del Donbass, combattuta inizialmente da una variegata schiera di teppisti locali, separatisti, avventurieri russi e forze speciali, accompagnati da una raffica di sapida propaganda russa: all’improvviso sembrò che Gerasimov avesse davvero descritto ciò che sarebbe venuto, se solo ce ne fossimo resi conto», riflette ancora Galeotti. Il che è curioso. Sembra una versione geopolitica del Batman di Tim Burton, in cui il Joker e l’eroe mascherato si accusano di essersi creati a vicenda.

La Russia e l’Occidente d’altra parte hanno una lunga tradizione di incomprensioni reciproche e Winston Churchill si spinse a definirla «un rebus all’interno di un enigma avvolto nel mistero». Il grande statista britannico, campione negli aforismi tanto quanto modesto coi pennelli, non si limitò però a lasciarci nella nebbia. Il segreto per decifrare il segreto russo era infatti seguire il filo d’Arianna «dell’interesse nazionale». E in effetti funziona. Oggi, se vogliamo, possiamo aggiornare Churchill usando il concetto di “sovranità” – termine senz’altro più à la page – e le nebbie inizieranno a diradarsi. In Siria la Russia è intervenuta per difendere i propri interessi nazionali e la sovranità del governo in carica (piaccia o no, Bashar al-Assad formalmente era il presidente legittimamente eletto), riaffermando al contempo un doppio principio: Mosca non abbandona i propri alleati ed è ora abbastanza forte per dimenticare le guerre di cortile (Cecenia 1 e 2, Georgia 2008) e tornare a proiettare la sua influenza sullo scacchiere internazionale, come ai tempi dell’Unione Sovietica. Tripoli è dunque la conclusione logica di questo processo. Per chiudere la partita là dove è iniziata. E ristabilire al contempo il proprio interesse nazionale – ovvero il rispetto dei contratti firmati al tempo di Gheddafi.

L’abbiamo presa un tantino larga, ma alla fine siamo arrivati al punto. La Libia, per la Russia, è anche una questione di soldi. Armi, infrastrutture, energia. Mosca aveva dei bei piani con l’autore del Libro Verde. Poi è stato il caos e il Cremlino non ha perso l’occasione per ritagliarsi un posto al tavolo libico. Ma l’equazione Mosca-Libia non è automatica. O perlomeno, non lo era. Nel corso della conferenza stampa di Serghei Lavrov, ministro degli Esteri russo nonché veterano della diplomazia globale, e del suo omologo italiano (al tempo Paolo Gentiloni, era il 2016), dopo un incontro nella capitale russa, Lavrov rispose in modo abbastanza piccato a chi, tra di noi, gli chiedeva se tra Russia e Italia potesse aprirsi un ponte sul dossier libico. In sintesi, Lavrov si lamentava del fatto che in Siria la Russia era vista dall’Occidente come una forza «destabilizzante» mentre in Libia era stato l’intervento della Nato a causare «la distruzione dello stato». «Mi pare curioso pensare che adesso sia compito della Russia trovare il modo per risolvere la crisi», disse Lavrov, legando di fatto i due teatri.

Ecco, quattro anni più tardi lo status quo è sotto gli occhi di tutti. In Libia operano i mercenari russi della Wagner (benché il Cremlino smentisca) e recentemente gli Usa hanno pubblicato delle immagini satellitari che proverebbero la presenza di jet russi moderni nell’est del paese. Insomma, un aiuto sostanziale a Haftar. Mosca, dal canto suo, ha smentito anche questa informazione, per bocca di Mikhail Bogdanov, fine arabista nonché inviato speciale di Putin in Medio Oriente e viceministro degli Esteri: aerei «vecchi», già presenti «da tempo», le solite «fake news». Al di là della querelle sull’aiutino russo, che peraltro viene confermato da chiunque si occupi con attenzione di Libia, la vera questione, persino più interessante, è se davvero Haftar si possa considerare un uomo di Putin. E la risposta è ni.

Dietro l’uomo forte della Cirenaica ci sono diversi interessi. L’Egitto, per esempio. Ma anche gli Emirati Arabi. Il passato di un uomo, parafrasando Fitzgerald, non passa davvero mai, fino in fondo. Se infatti è vero che Haftar, al termine degli anni Settanta, ha ricevuto l’addestramento militare nell’Unione Sovietica, completando una speciale laurea triennale per ufficiali stranieri presso l’Accademia militare M.V. Frunze, in seguito ha poi proseguito la sua formazione militare in Egitto. Senza contare che ha vissuto per 20 anni negli Usa, fino a diventare cittadino americano. Da eroi dei due mondi a voltagabbana il confine d’altra parte è spesso sottile. Quindi sì, Mosca ha una certa familiarità con il maresciallo ma, come ha recentemente sottolineato Jalel Harchaoui, ricercatore dell’Istituto Clingendael dell’Aia, «se dipendesse dai russi, Haftar oggi avrebbe molto meno potere».

L’amara verità è che la vera novità, in Libia come in altre parti del Medio Oriente, è l’inedito attivismo della Turchia. A cambiare le sorti della guerra civile è stato l’intervento di Erdoğan, su richiesta di Tripoli. Che poi è esattamente quanto accaduto in Siria, a parti invertite. Putin in tal senso ha fatto davvero scuola e forse il sultano che fu costretto a baciare la pantofola dello zar per archiviare il grande affronto del jet russo abbattuto dai turchi nei cieli siriani si è tolto un bel sassone dalla scarpa. Sia come sia, Ankara e Mosca hanno ormai alle spalle una lunga storia di collaborazione (per certi versi quasi un’intesa). Senz’altro in Siria, dove, con l’aggiunta dell’Iran, è nata la troika genitrice del format di Astana: piaccia o non piaccia, quella piattaforma ha portato a dei progressi sul piano negoziale, sebbene forse ormai del tutto vanificati dall’esuberanza turca nell’area di Idlib.

E proprio Idlib è stata al centro delle ultime divergenze tra Mosca e Ankara, sanate poi da un summit Putin-Erdoğan in cui si è salvato il salvabile, con un’intesa che ha sino adesso riportato la calma sul terreno. In quell’occasione i due leader hanno affermato che Russia e Turchia, quando la situazione lo richiede, sanno “sempre” giungere a un “accordo”. Non sempre alleati, insomma, ma nemici mai. Un rapporto certo non facile eppure di reciproca soddisfazione. Erdoğan ha acquistato i famigerati sistemi antimissilistici russi S-400 mandando su tutte le furie gli Usa, che da un alleato Nato si aspetterebbero ben altra fedeltà. Un punto a favore (sulla carta) per Putin. C’è poi il TurkStream. Che oltre a portare altro gas russo in Turchia ha dato la possibilità al Cremlino di resuscitare, di fatto, il South Stream, allacciando al tubo i Balcani e l’Est Europa meridionale (e un giorno forse anche l’Italia). Altro favore a Putin. Ma anche a se stessa. La Turchia, infatti, è diventata così un importante hub energetico (sempre sul suo territorio passa il gasdotto che unirà a breve l’Azerbaigian alla Puglia).

Ecco allora che la presenza turca, in Libia, potrebbe non essere così deleteria, per Putin: il punto di caduta, nel medio periodo, si troverebbe su una spartizione del territorio per zone d’influenza. Poi chi vivrà vedrà. Intanto finché l’Occidente non vince, il Cremlino non perde. C’è chi pensa infatti che sarebbe un errore credere che Mosca abbia un “gran piano” in mente per tutto il Medio Oriente e il Mediterraneo. Bruno Macaes, ex ministro portoghese per gli Affari europei e autore di fortunati libri sul ruolo dell’Eurasia (e dunque di Cina e Russia) nella geopolitica che verrà, non esclude che la Russia al momento si accontenti di «partecipare al gioco».

Il coronavirus ha poi scompigliato tutte le carte. Mosca avrà il suo daffare a tamponare la crisi, che sarà pesante dal punto di vista economico, e non è detto che per Putin rappresenti un giro di boa indolore, al netto della riforma costituzionale che dovrebbe (o se non altro potrebbe) garantirgli la poltrona al Cremlino fino al 2036. Il paradiso, per lo zar, può dunque attendere, in Medio Oriente o altrove. Il 2020-2021 sarà probabilmente l’anno in cui, più che giocare a Risiko, Putin si dedicherà a consolidare il fronte interno.

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