petrolio Archivi - OGzero https://ogzero.org/tag/petrolio/ geopolitica etc Sun, 07 May 2023 11:09:57 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.4.6 Etiopia Saudita. Fornire migranti usa-e-getta https://ogzero.org/etiopia-saudita-fornire-migranti-usa-e-getta/ Sun, 30 Apr 2023 11:33:24 +0000 https://ogzero.org/?p=10858 Qui Gianni Sartori offre un bello spaccato sui diritti a geometria variabile insiti nell’approccio alla filosofia ed economia politica dell’Arabia Saudita. Un mondo antropologicamente diverso retto da norme differenti, di cui  l’estensore del pezzo evidenzia le storture umanitarie, lo schiavismo e lo sfruttamento in particolare di genti etiopi. Motivo per cui l’articolo che proponiamo  è […]

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Qui Gianni Sartori offre un bello spaccato sui diritti a geometria variabile insiti nell’approccio alla filosofia ed economia politica dell’Arabia Saudita. Un mondo antropologicamente diverso retto da norme differenti, di cui  l’estensore del pezzo evidenzia le storture umanitarie, lo schiavismo e lo sfruttamento in particolare di genti etiopi. Motivo per cui l’articolo che proponiamo  è tutto sul filo del rapporto tra le due sponde del Mar Rosso. Il podcast dell’intervento di Laura Silvia Battaglia su Radio Blackout del 20aprile 2023, inserito a corredo del testo, inquadra la posizione nello scacchiere internazionale della Arabia Saudita in uno snodo epocale che con la rivoluzione di partnership operata da Mbs con il sua Vision2030 produrrà conseguenze per l’intero Medio Oriente e zone limitrofe… e al di là del Mar Rosso sono già evidenti con lo scardinamento della diarchia in Sudan, che di nuovo coinvolge l’Etiopia e il gioco di alleanze… e il cambio in ambito di diritti delle popolazioni locali non sta cambiando in meglio.

Il ruolo dell’Etiopia?

Serbatoio di mano d’opera docile e a buon mercato, disciplinata e addomesticata, per la borghesia saudita

Curioso. Solo un anno fa veniva siglato un accordo tra governo di Addis Abeba e Arabia Saudita per cui oltre centomila migranti etiopi dovevano venir espulsi dall’Arabia Saudita per essere riportati in patria (come poi sostanzialmente era avvenuto in questi ultimi mesi).
La notizia coincideva con l’arrivo (30 marzo 2022) nell’aeroporto di Addis-Abeba del primo migliaio (900 per la precisione, tra cui molte donne con figli), accolti e rifocillati dagli operatori dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim).

Per l’occasione un accorato appello veniva rivolto dal governo di Addis-Abeba alle Nazioni Unite e alle varie agenzie umanitarie affinché intervenissero per far fronte alle impellenti necessità.
Negli ultimi quattro anni l’Arabia Saudita ne aveva già rimandati in Etiopia oltre 350.000. Soprattutto persone con problemi di salute o comunque vulnerabili, in difficoltà: donne incinte, anziani, malati sia a livello fisico che mentale (applicando quindi una sorta di selezione poco “naturale”, ma funzionale al mercato del lavoro-sfruttamento).

Durante l’ultimo anno i programmi di rimpatrio si sono mantenuti, se non addirittura rinforzati per «garantire un rientro ordinato dei cittadini etiopi emigrati» (leggi: “non più funzionali alle esigenze delle classi dominanti saudite”).

Dal 12 novembre 2022 al 30 dicembre 2022 più di 20.000 etiopi sono rientrati in patria dall’Arabia Saudita

Per la cronaca, si calcola (presumibilmente per difetto) che attualmente siano almeno 750.000 i migranti etiopi presenti nel Reame (di cui circa 450.000 vi sarebbero giunti in maniera irregolare).
Così come previsto dal Piano regionale di sostegno ai migranti in situazioni di vulnerabilità e alle comunità di accoglienza nei Paesi del Corno d’Africa sulle rotte migratorie verso l’est (in genere con destinazione Arabia Saudita attraverso Gibuti e Yemen), erano intervenuti finanziariamente l’Ufficio dei rifugiati e delle migrazioni del Dipartimento di Stato americano (leggi: statunitense), l’Agenzia svedese  di cooperazione internazionale allo sviluppo e per le operazioni europee di protezione civile e di aiuto umanitario.

In controtendenza (ma solo apparente, se pensiamo che in realtà lo scopo è il medesimo: controllare i flussi migratori,  “addomesticarli” per renderli funzionali al sistema economico imperante) in questi giorni il governo regionale dell’Amhara ha annunciato un programma di reclutamento e formazione professionale (come donne di servizio nelle magioni dei benestanti sauditi) per migliaia di cittadine della regione. Garantendo che i loro salari in moneta straniera verranno depositato come moneta nazionale (birr) al tasso attuale del “mercato nero” e non a quello, sfavorevole, ufficiale.

Anche se questo sembra non turbare più di tanto le autorità etiopi (sia a livello regionale che nazionale), non si contano i casi di abusi sessuali subiti dalle donne di servizio di origine africana nei paesi del Golfo (ben sapendo che quelli denunciati o di cui comunque si viene a conoscenza, costituiscono solo la punta dell’iceberg). Per non parlare delle ricorrenti accuse di “trattamenti disumani” (torture, uccisioni…) nei centri di detenzione per migranti.

Come aveva denunciato Human Rights Watch «per anni l’Arabia Saudita ha arrestato e detenuto arbitrariamente migliaia di migranti etiopici in condizioni spaventose, incluse torture, pestaggi a morte e condizioni degradanti, deportandone a migliaia».

Stando a quanto riportava “Al Jazeera”, sarebbero almeno mezzo milione le donne (età compresa tra i 18 e i 40 anni) di cui si va pianificando il reclutamento per inviarle in Arabia Saudita come lavoratrici domestiche. Con una vera e propria campagna promozionale anche con cartelloni pubblicitari nelle maggiori città che invitano a registrarsi presso gli uffici governativi. Le donne verranno poi trasportate in aereo nel Golfo a spese del governo di Addis-Abeba.

Tutto questo, ripeto, mentre le organizzazioni umanitarie denunciavano il ritorno forzato in Etiopia di migliaia di donne e uomini vittime di abusi fisici e sessuali da parte dei loro datori di lavoro sauditi.

Questo il comunicato ufficiale dell’amministrazione dell’Amhara:
«In ragione dei forti legami diplomatici del nostro paese con l’Arabia Saudita, sono state rese disponibili opportunità di lavoro per 500.000 etiopiche, tra cui 150.000 dalla regione Amhara»

Il ruolo dell’Arabia Saudita?

Serbatoio di sfruttamento schiavista

Niente di nuovo sotto il sole naturalmente. Ricorda per certi aspetti quanto avveniva in Namibia quando era occupata dal Sudafrica (e sottoposta all’apartheid) con i lavoratori delle miniere di uranio rispediti a casa loro, nei villaggi, quando manifestavano i sintomi della malattia. O i migranti dai bantustan reclusi nei dormitori-prigioni (“ostelli” eufemisticamente), lontano dalle famiglie, forza lavoro a basso costo in condizioni di semischiavitù.

“L’epocale repentino cambiamento dei riferimenti sauditi”.
Volendo anche i nostri minatori in Belgio (previo accordo tra i governi dell’epoca) all’epoca di Marcinelle.

Coincidenza. Mentre avviava queste operazioni di ferreo controllo dei flussi migratori, il governo etiope procedeva allo smantellamento delle milizie regionali.

Stando a un comunicato del 6 aprile, si ripromette di «integrare le forze speciali regionali all’interno delle forze dell’esercito federale (Endf) e delle forze di polizia federale».

Allo scopo evidente di centralizzare il controllo sui gruppi armati e sminuire la relativa autonomia delle singole regioni.
La cosa non è risultata gradita proprio nello stato-regione dell’Amhara dove sono già scoppiate proteste e rivolte.

Quindi, per il governo centrale: Sì alla fornitura di forza-lavoro subalterna, ma No all’autodeterminazione regionale.

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El paro mueve (a las masas) y gana a Quito https://ogzero.org/acta-de-paz-el-paro-mueve-a-las-masas-y-gana-a-quito/ Sun, 03 Jul 2022 08:35:57 +0000 https://ogzero.org/?p=8040 Alle ore 14 del 30 giugno presso la Basilica di Quito Leonidas Iza (Conaie), Eustaquio Tuala (Feine), Gary Espinoza (Fenocin) e Francisco Jiménez, in qualità di Ministro del Governo per conto del presidente della repubblica dell’Ecuador, hanno firmato l’Acta de Paz e posto fine al conflitto sociale. All’incirca nello stesso momento sulle frequenze di Radio […]

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Alle ore 14 del 30 giugno presso la Basilica di Quito Leonidas Iza (Conaie), Eustaquio Tuala (Feine), Gary Espinoza (Fenocin) e Francisco Jiménez, in qualità di Ministro del Governo per conto del presidente della repubblica dell’Ecuador, hanno firmato l’Acta de Paz e posto fine al conflitto sociale.

All’incirca nello stesso momento sulle frequenze di Radio Blackout stavamo ospitando questa testimonianza di Davide Matrone, docente a Quito e attento analista del mondo latinoamericano:

riproponiamo qui il suo articolo pubblicato su “PagineEsteri subito dopo l’intervento in radio, analizzando immediatamente motivazioni e conseguenze, lotte e rivendicazioni, richieste ottenute e tavoli avviati da una mobilitazione popolare e tragica per lo strascico di morti e fatica prodotta… certo, mantenendo la vigile attenzione dovuta nel momento in cui la piazza smobilita e gli accordi proseguono al tavolo negoziale. Quello che ci sembra essenziale è la ricostruzione di chi ha fatto pressione (il capitalismo messo in difficoltà dall’unanime blocco del paese, che per la mediazione si è rivolto all’istituzione principale: la chiesa) e anche la chiosa sulle possibili suture tra sinistre latinoamericane in questo periodo che vede l’avanzata delle istanze di emancipazione in tutto il Cono Sur.


Dopo 18 giorni di forti proteste popolari contro le politiche neoliberiste del governo Lasso, la Confederazione Episcopale dell’Ecuador ha insistito affinché si trovasse un accordo tra le parti in conflitto. In realtà, le pressioni son giunte da più parti e cioè, dal mondo imprenditoriale e dal commercio che messo alle strette ha pressato a sua volta la Conferenza Episcopale affinché giocasse un ruolo determinante in questo duro scontro. La situazione era giunta all’apice e gli ultimi 3 giorni sono stati incandescenti dopo la sollevazione del quartiere popolare di San Miguel de los Bancos di Calderón in cui ci sono stati scontri durissimi con le forze dell’ordine. Altri espisodi analoghi si erano registrati al Puyo, in Amazzonia e nella località di Sant’Antonio del Pichincha dove erano state incediante le caserme della polizia dopo uno spargimento di sangue. Il bilancio di questo sciopero è pesante: 8 morti, centinaia di feriti e violazioni dei diritti umani come dichiara il rapporto della Commissione di Solidarietà dei Diritti Umani di Argentina in visita nel paese dal 24 al 26 giugno.

Grazie alla lotta popolare del movimento indigeno, dei lavoratori, degli studenti, degli operatori sanitari, dei docenti e finanche del settore dei trasporti, il Governo ha dovuto cedere e negoziare alcuni dei 10 punti rivendicati della Conaie. In definitiva, si può concludere che dopo 18 giorni di lotta il movimento indigeno dell’Ecuador porta a casa quanto segue:

  • Riduzione dei carburanti di 0,15 centesimi per ogni gallone,
  • Derogazione del Decreto 95 che vieta l’ampiamento della frontiera petrolifera per proteggere i territori e i diritti collettivi dei popoli indigeni,
  • Riforma del Decreto 151 con il quale si vieta lo sfruttamento delle risorse naturali nelle aree protette, nelle zone dichiarate intangibili, nelle zone archelogiche. Inoltre, si garantisce la consulta previa e libera nei territori interessati allo sfruttamento delle risorse naturali d’accordo a quanto stabilito dalla Corte Interamericana dei Diritti e dalla Corte Costituzionale dell’Ecuador,
  • Emanazione del Decreto 456 che prevede l’aumento del Bonus sociale da 50 a 55 dollari che beneficierà a 1,4 milioni di ecuadoriani, riduzione dei tassi d’interessi dal 10% al 5% per crediti fino a 3000 dollari e i prestiti scaduti fino a 3000 dollari saranno condonati,
  • Si elabora un progetto di Legge di riforma dell’articolo 66 della Legge Organica della Circoscrizione Territoriale Speciale Amazzonica,
  • Raddoppio delle risorse dello stato per l’Educazione Bilingue e Interculturale.

Inoltre, per 90 giorni si istallerà un tavolo di concertazione per continuare il dialogo tra le due parti per risolvere i temi questionati durante lo sciopero nazionale. Tra i quali l’aumento delle risorse statali per l’Educazione pubblica, l’attuazione di politiche statali che aumentino l’occupazione e intervento dello stato in materia di prevenzione alla delinquenza.

Potremmo trarre alcune conclusioni da questo sciopero popolare e nazionale:

  • Il Governo neoliberista del banchiere Lasso ne esce più indebolito e con pochissima legittimità popolare. Dopo 1 anno di governo (24 maggio) i sondaggi registravano una disapprovazione del 72%, oggi è aumentata al 88%. È di fatti un governo impopolare. Inoltre, si registra una delegittimazione all’interno del parlamento in quanto la mozione di sfiducia, presentata dal partito dell’opposizione Unes, pur non riuscendo nell’intento ha raccolto 82 voti che rappresenta la maggioranza del parlamento. Lasso ha raccolto 44 voti e, se dovesse continuare così, non riuscirebbe a governare.
  • Il costo politico ed elettorale di 2 partiti del parlamento e cioè la Izquierda Democratica e il Partito Social Cristiano: dopo l’appoggio a Lasso vedranno quasi sicuramente ridimensionati i loro voti alle prossime elezioni.
  • Il Movimento Indigeno ne esce rafforzato, dimostrando una grande capacità organizzativa in tutto il territorio nazionale. La strategia di accendere fuochi e rivolte in tutto il paese ha raggiunto un risultato vittorioso. Inoltre, il leader Leonidas Iza aumenta il suo capitale politico e simbolico riposizionandosi molto bene all’interno del Movimento Indigeno e nello schiacchiere politico nazionale.
  • C’è un malcontento generale contro le politiche neoliberiste che negli ultimi 5 anni hanno aumentato la povertà relativa ed assoluta nel paese, hanno incrementato la precarizzazione del lavoro, hanno smantellato il sistema di salute pubblica e svenduto il patrimonio pubblico del paese.
  • Si sono aperte delle interessanti contraddizioni in termini politici, all’interno del campo politico, che possono determinare una serie di alleanze all’interno della compagine di centro / sinistra che potrebbe vincere le destre alle prossime elezioni amministrative del 2023.

Inoltre, questo sciopero si inserisce in un quadro regionale interessante che vede nuovamente la vittoria delle sinistre latinoamericane che criticano il paradigma di sviluppo neoliberista. Le ultime vittorie in Cile e in Colombia danno speranza anche per l’Ecuador, se si riuscisse a unire le forze politiche progressiste contro le destre reazionarie e fasciste.

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L’Iran guarda a Est https://ogzero.org/attacco-cibernetico-a-natanz/ Tue, 13 Apr 2021 09:02:44 +0000 https://ogzero.org/?p=3058 Il più importante impianto nucleare iraniano è di nuovo al centro dell’attenzione internazionale: il 10 aprile Rohani aveva inaugurato lì, a Natanz, in pompa magna una nuova serie di centrifughe per l’arricchimento dell’uranio. Il giorno dopo però l’impianto è stato colpito da un attacco cibernetico che le autorità iraniane hanno definito “terrorismo nucleare”. Già il […]

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Il più importante impianto nucleare iraniano è di nuovo al centro dell’attenzione internazionale: il 10 aprile Rohani aveva inaugurato lì, a Natanz, in pompa magna una nuova serie di centrifughe per l’arricchimento dell’uranio. Il giorno dopo però l’impianto è stato colpito da un attacco cibernetico che le autorità iraniane hanno definito “terrorismo nucleare”. Già il 2 luglio 2020 l’impianto di Natanz era stato oggetto di un attacco, presumibilmente israeliano. Questa volta la responsabilità di Israele è asserita da fonti dell’intelligence statunitense citate dal New York Times. Il ministro degli esteri iraniano Javad Zarif ha dichiarato, lunedì 12 aprile, che l’Iran “risponderà” all’attacco, e ha accusato: Israele «ha voluto vendicarsi per i nostri progressi sulla via la revoca delle sanzioni». Insomma:  il nuovo attacco a Natanz  accentua i rischi di escalation tra Iran e Israele, e minaccia di ipotecare i colloqui appena avviati a Vienna per rilanciare l’accordo del 2015 sul programma nucleare iraniano.

L’articolo di Marina Forti che proponiamo colloca il contenzioso sul nucleare iraniano nel contesto, allargando lo sguardo ad altri protagonisti, ponendo le basi per interpretare la collocazione geopolitica dell’Iran nei prossimi anni.


Uno spostamento, verso Est?

La firma di un accordo venticinquennale di partenariato tra l’Iran e la Cina è stata accolta da commenti contrastanti. Firmato il 27 marzo a Tehran dai ministri degli Esteri iraniano e cinese, Javad Zarif e Wang Yi, l’accordo riguarda commercio, investimenti e difesa. È uno sviluppo importante, per il merito, e forse prima ancora per il momento in cui viene annunciato.

Presupposti per la ripresa del Jcpoa

Infatti, una delle partite più difficili affrontate oggi dalla diplomazia internazionale riguarda il possibile rilancio dell’accordo sul nucleare iraniano – il Joint Comprehensive Plan of Action, o Jcpoa, firmato da sei potenze mondiali con l’Iran nel 2015, da cui gli Stati Uniti si sono ritirati unilateralmente nel maggio 2018 per volere dell’allora presidente Donald Trump.

Il suo successore Joe Biden, appena insediato alla Casa Bianca, ha affermato l’intenzione di riportare gli Stati Uniti in quell’accordo: a condizione però che l’Iran torni a osservare le limitazioni alle sue attività nucleari previste dal Jcpoa, in parte abbandonate negli ultimi mesi. Tehran ha risposto che è stata Washington a rompere gli accordi: dunque prima gli Usa revocano le sanzioni draconiane e unilaterali che da due anni e mezzo soffocano l’economia iraniana, poi anche l’Iran torna a osservare i patti. La questione di chi debba compiere il primo passo ne nasconde altre, non ultimo il fatto che sia a Washington, sia a Tehran lavorano gruppi di interesse contrari alla ripresa di quegli accordi.

L’impasse si è prolungata per oltre due mesi. Finché gli Stati Uniti hanno accettato di partecipare a un vertice dei firmatari dell’accordo nucleare (Francia, Regno Unito, Germania, Russia, Cina, Unione europea e Iran), che si è tenuto a Vienna nella settimana dopo Pasqua, con i rappresentanti europei nel ruolo di mediatori. Iran e Stati Uniti hanno dunque accettato di definire un meccanismo di rientro simultaneo: gli Usa revocano le sanzioni del periodo Trump mentre l’Iran torna a limitare l’arricchimento dell’uranio secondo il vecchio accordo. Definire le modalità non sarà semplice, ma il percorso è aperto.

C’entra qualcosa tutto questo con l’accordo di cooperazione sino-iraniano, annunciato solo pochi giorni prima? Direttamente no, certo. E però, è chiaro che un partenariato economico tra l’Iran e la Cina limita l’efficacia del principale strumento di pressione usato da Washington verso Tehran, cioè le sanzioni commerciali. «L’Iran sta cercando di dire che ha dei partner, anche in un momento di tensione e difficoltà», commenta Esfandiar Batmangheligj, direttore della newsletter Bourse and Bazar specializzata in Iran e Asia centrale (citato da “The Independent”).

L’importanza di questo accordo però va oltre il dossier nucleare, e si inquadra nella più ampia strategia di sviluppo dell’Iran tra Europa e Asia.

Cosa sappiamo degli accordi tra Cina e Iran?

Per la verità non conosciamo molti dettagli sul “patto di cooperazione strategica” firmato a Tehran. Sappiamo che è stato in gestazione per cinque anni: ne parlò per la prima volta il presidente cinese Xi Jinping nel gennaio 2016 durante la sua visita a Tehran, dove aveva incontrato il Leader supremo, ayatollah Ali Khamenei. Sul momento la cosa sembrava caduta; si tornò a parlarne solo nel febbraio del 2019, quando l’allora presidente del parlamento iraniano Ali Larijani, in visita a Pechino, ne riparlò con il presidente Xi. Nel luglio di quell’anno lo stesso Larijani dichiarò che l’Iran aveva elaborato una bozza di accordo da discutere con le controparti cinesi. I negoziati sono proseguiti nel più assoluto riserbo; nel settembre 2019, quando il giornale “Petroleum News” ha dato notizia di un accordo negoziato “in segreto”, è sembrata una sorpresa.

Nel luglio del 2020 un’agenzia di stampa iraniana ha affermato di avere la bozza dell’accordo appena approvata dal governo di Hassan Rohani; poco dopo la stessa bozza è stata diffusa da “IranWire”, sito di oppositori iraniani all’estero.

Tanta segretezza ha suscitato molte polemiche in Iran. Le correnti più oltranziste hanno accusato il governo Rohani di “svendere” il paese; si diceva che avesse dato in concessione alla Cina alcune isolette iraniane nel Golfo Persico, forse addirittura l’isola di Kish, nota destinazione turistica. Il governo ha smentito. Il parlamento (dominato da deputati ultraconservatori) ha convocato il ministro degli Esteri per rispondere a interrogazioni molto ostili. L’ex presidente Mahmoud Ahmadi Nejad ha accusato Rohani di trasformare l’Iran in un protettorato cinese. Polemiche basate su illazioni e anche vane, poiché è noto che un tale accordo non si potrebbe negoziare senza il coinvolgimento del Consiglio di sicurezza nazionale e il consenso del Leader supremo. (Interessante però che le stesse accuse al governo Rohani siano state mosse dagli ultraconservatori interni e dagli exilés di “IranWire”).

Anche il “New York Times” nel luglio 2020 ha affermato di aver ricevuto il documento in 18 pagine che delinea la cooperazione tra Iran e Cina: secondo il giornale newyorkese, gli è stata data «da qualcuno al corrente dei negoziati con l’intenzione di mostrare l’ampiezza dei progetti considerati». In altre parole, fonti della Repubblica Islamica intenzionate a far sapere agli Stati Uniti (c’era ancora Trump) quanto la strategia di “massima pressione” fosse vana.

Dettagli del Patto di cooperazione sino-iraniana

In ogni caso, tutto ciò che sappiamo di quell’accordo si basa su quella bozza (secondo fonti citate sempre dal “New York Times” non sarebbe cambiata in modo sostanziale). Se dobbiamo prenderla per buona dunque sappiamo che la “cooperazione strategica” permetterà alla Cina di espandere la propria presenza in Iran nei settori delle telecomunicazioni, porti, ferrovie, nel sistema bancario, industria energetica, sanità, turismo e molti altri.

Città petrolifere alla foce dello Shatt-el Arab (foto di Wollwerth).

L’accordo elenca un centinaio di progetti, dai treni ad alta velocità alla creazione di “zone economiche speciali”: a Maku, nel Nordovest dell’Iran; a Abadan, città di installazioni petrolifere dove il fiume che separa Iran e Iraq (Shatt-el Arab per gli iracheni, Arvand per gli iraniani) si butta nel Golfo Persico; e sull’isola di Qeshm, nel Golfo. Si parla poi di infrastrutture per la rete di telecomunicazioni 5G, del sistema di posizionamento globale Beidou (il “Gps cinese”), di sistemi di monitoraggio del cyberspazio (controllare ciò che circola sulla rete).

Il sistema di posizionamento cinese Beidou

I progetti elencati non hanno nulla di stupefacente: sono quelli che la Cina ha proposto ovunque nell’ambito della sua “Belt Road Initiative”, il progetto globale di infrastrutture con cui sta espandendo commercio e investimenti cinesi nel mondo. Però denotano che Pechino non ha avuto troppe remore, anche ai tempi dell’amministrazione Trump, a pianificare investimenti in Iran nonostante il rischio di incorrere nelle “sanzioni secondarie” degli Stati Uniti – quelle che gli Usa applicano a paesi e aziende di paesi terzi che intrattengono relazioni economiche con l’Iran. (Si ricordi che la compagnia di telecom cinese Huawei è stata punita negli Usa proprio per non aver rispettato l’embargo all’Iran.)

Investimenti e accordi militari del Patto di cooperazione sino-iraniana

Le fonti citate dal “New York Times” dicono che la Cina investirà un totale di 400 miliardi di dollari nel periodo coperto dagli accordi (25 anni), in gran parte nei primi anni. E che riceverà in cambio regolari forniture di petrolio iraniano, a quanto pare a prezzi molto scontati: l’interesse sarebbe reciproco, perché Pechino importa tre quarti del suo fabbisogno di greggio, mentre l’Iran è tra i maggiori produttori mondiali ma ha visto il suo export assottigliarsi proprio a causa delle sanzioni statunitensi.

Quanto alla cifra di 400 miliardi di dollari non ci sono conferme, e secondo alcuni esperti è molto esagerata. Il portavoce del ministero degli Esteri cinese, Zhao Lijan, ha dichiarato che l’accordo non prevede “target definiti” sul volume degli scambi e degli investimenti; c’è solo la volontà di sviluppare «il potenziale di cooperazione dei due paesi nel campo economico, umano e altro».

L’accordo ha anche un capitolo sulla difesa, e qui i dettagli sono ancora più scarsi: si parla di addestramenti ed esercitazioni congiunte, ricerca, scambio di intelligence. Non è una novità assoluta. La cooperazione militare tra Cina e Iran ha già portato a tenere esercitazioni congiunte almeno tre volte dal 2014 a oggi; l’ultima nel dicembre scorso quando una nave da guerra cinese ha raggiunto quelle di Iran e Russia in una esercitazione nel golfo di Oman. Dire che sia un’alleanza in chiave antiamericana è esagerato (la Cina ha ottimi rapporti e acquista petrolio anche da paesi che invece sono nel campo americano, a cominciare dall’Arabia saudita). Però il segnale resta, e l’Iran tiene a sottolinearlo. In occasione delle manovre navali sino-russo-iraniane l’agenzia ufficiale cinese, Xinhua, aveva citato il comandante della Marina militare iraniana, Ammiraglio Hossein Khanzadi, secondo cui «l’era delle invasioni americane nella regione è finita».

Ricaduta infrastrutturale del Patto di cooperazione sino-iraniana

Quale sarà la traduzione pratica di questi accordi è presto per dire. Lo sviluppo più significativo per la Cina sarà rafforzare la sua presenza in un paese al crocevia geografico dell’Eurasia – e consolidare una presenza strategica sulle coste iraniane del mare d’Oman: si parla di un porto a Jask, appena fuori dallo stretto di Hormuz, quindi all’imboccatura del Golfo Persico tanto importante per il trasporto di petrolio mondiale (non a caso sul lato opposto di quel mare, in Bahrein, ha base la Quinta flotta degli Stati Uniti). Non pare che l’Iran si prepari a concedere una base militare alla Cina sulle sue coste (la sola base navale cinese all’estero oggi è a Gibuti, costruita nel 2015 a poche miglia da una base statunitense). Ma è chiaro che anche i porti commerciali hanno una valenza strategica, e negli ultimi decenni la Cina ne ha costruita una serie in tutto l’oceano Indiano, da Hambantota nello Sri Lanka meridionale a Gwadar in Pakistan, sulla rotta per Suez.

Per l’Iran invece lo sviluppo più concreto sono proprio i potenziali investimenti in infrastrutture e altri progetti economici. E secondo diversi osservatori questo si inserisce nel quadro di un riorientamento strategico delle priorità iraniane, che va ben oltre la necessità di resistere alle sanzioni statunitensi.

La Cina soppianta l’Unione europea

Le relazioni economiche tra Tehran e Pechino in effetti non sono nuove. Già nel 2011 la Cina aveva preso il posto dell’Unione europea come primo partner commerciale dell’Iran. Il motivo è semplice: tra il 2010 e il 2014, durante il secondo mandato del presidente Ahmadi Nejad, l’Iran si era trovato circondato da un muro di sanzioni (allora erano multilaterali, decretate dell’Onu oltre che da Unione europea e Stati Uniti), che aveva reso molto difficile importare qualunque cosa.

Allora però la Cina era solo un ripiego; per l’Iran il partner economico prioritario restava l’Europa. Così nel 2015, quando il moderato presidente Rohani ha firmato l’accordo sul nucleare, l’Iran ha puntato a rafforzare gli scambi e attirare gli investimenti europei. In effetti, per qualche tempo delegazioni commerciali da tutta Europa sono arrivate a Tehran in cerca di affari, e decine di memorandum d’intesa sono state firmate. Le aspettative però hanno tardato a realizzarsi (anche perché l’Iran restava escluso dal sistema bancario internazionale, controllato dagli Usa attraverso il dollaro). Poi l’avvento del presidente Trump ha decretato per l’Iran un isolamento economico ancora più forte delle precedenti sanzioni multilaterali. Gli investimenti europei, che in ogni caso erano rimasti sulla carta, si sono dileguati. E Tehran ha cominciato a riconsiderare la sua strategia.

Scelte di partnership alternative forzate dal protrarsi di sanzioni

Per resistere all’accerchiamento economico l’Iran doveva assicurarsi fonti alternative per le sue importazioni, soluzioni alternative per le transazioni finanziarie, vie alternative per esportare il proprio petrolio, e soprattutto modi per espandere le esportazioni di manufatti e prodotti non petroliferi. Ed è ciò che ha fatto.

Oggi due elementi vanno sottolineati. Il primo è «una crescente importanza dei paesi vicini come partner commerciali e lo spostamento delle fonti di importazione dai paesi occidentali a quelli della regione e orientali», osserva l’analista e imprenditore iraniano Bijan Khajehpour, che si basa sui dati diffusi dal ministero degli esteri iraniano per i primi dieci mesi dell’ultimo anno fiscale (dal 20 marzo 2020 al 20 gennaio 2021).

Il volume totale degli scambi, esclusi petrolio e prodotti petroliferi, ammontava in quei dieci mesi a 58,7 miliardi di dollari (è il 18 per cento meno del periodo corrispondente l’anno prima, ma pesa la pandemia di Covid-19). Le esportazioni non-petrolifere ammontavano a circa 28 miliardi di dollari, di cui oltre il 76 per cento è andato a cinque paesi: per il 26 per cento alla Cina (primo mercato per i prodotti iraniani), poi all’Iraq, gli Emirati Arabi Uniti, la Turchia e l’Afghanistan.

Nello stesso periodo l’Iran ha importato poco più di 30 miliardi di dollari di beni e servizi (il 20 per cento meno dell’anno prima), e i primi cinque paesi d’origine sono Cina (24,8 per cento), Emirati, Turchia, India e Germania (poco meno del 5 per cento).

Quanto all’export di petrolio bisogna fare delle ipotesi, perché i dati restano confidenziali (ovvio: sfugge ai monitoraggi ufficiali, perché chiunque ammetta di importare petrolio iraniano rischia ritorsioni da parte statunitense). Khajehpour ipotizza che l’export di greggio nei dieci mesi considerati ammonti a 7,2 miliardi di dollari, calcolando circa 600.000 barili al giorno al prezzo medio di 40 dollari a barile. (Per avere un’idea di quanto le sanzioni Usa costino all’economia iraniana si pensi che nel giugno 2018, quando gli Stati uniti si sono ritirati dall’accordo nucleare, l’Iran esportava 2,7 milioni di barili di greggio al giorno.)

Riconversione economica e sviluppo di medio-piccola manifattura locale

Il secondo elemento da sottolineare è che nelle esportazioni iraniane l’industria manifatturiera ha superato gli idrocarburi, e non solo nell’ultimo anno di pandemia. Già nel 2019 l’export non-petrolifero aveva totalizzato 41 miliardi di dollari, superando quello del petrolio. Non solo: mentre il settore petrolifero si era contratto del 35 per cento a causa delle sanzioni, il manifatturiero si era contratto appena dell’1,8 per cento.

Questo conferma che l’economia iraniana è molto più diversificata di quelle di altri paesi grandi produttori di idrocarburi: e sebbene fosse una tendenza già visibile nei primi anni del secolo, sono state proprio le sanzioni ad accelerarla. L’industria manifatturiera iraniana – automobili, meccanica, agroalimentare, farmaceutica e altro – rappresenta ormai l’ossatura dell’economia nazionale, con una struttura di piccole e medie imprese che producono sia per un mercato interno di 84 milioni di persone, sia per esportare nella regione circostante.

Strategia di resistenza

È questo che negli ultimi tre anni ha permesso all’economia iraniana di resistere alla “massima pressione” esercitata dagli Usa. La cosiddetta “economia di resistenza”, cioè la strategia di consolidare la produzione industriale interna, non è servita solo a sostituire le importazioni (sempre più costose a causa delle sanzioni), ma anche a consolidare «una strategia mista, promuovere le esportazioni e diversificare le fonti delle importazioni», osserva Khajehpour (così anche nelle importazioni pesano meno di una volta i beni di consumo finiti; nell’ultimo anno il 70 per cento delle importazioni erano beni intermedi, destinati all’industria interna).

La strategia di resistenza è stata questa: espandere la produzione nazionale anche per rafforzare l’export; rafforzare gli scambi con i paesi vicini, inclusa la Russia e l’Asia centrale; ridurre la dipendenza tecnologica dall’Occidente diversificando le importazioni. E guardare all’Eurasia, stabilire accordi di cooperazione a lungo termine con la Cina e nel prossimo futuro la Russia.

Si può immaginare che tutto questo andrà ben oltre l’esito dei colloqui cominciati a Vienna, la (auspicabile) revoca di almeno parte delle sanzioni statunitensi e il possibile rilancio dell’accordo sul nucleare. L’Iran ha cominciato a guardare all’Eurasia.

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