Perù Archivi - OGzero https://ogzero.org/tag/peru/ geopolitica etc Sat, 14 Jan 2023 11:14:26 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.4.6 L’equilibrismo di tre pesi diversi in Nordamerica https://ogzero.org/lequilibrismo-di-tre-pesi-diversi-in-nordamerica/ Sat, 14 Jan 2023 00:52:49 +0000 https://ogzero.org/?p=10062 Dietro alla relativa eco ottenuta dall’ennesimo incontro tra i tre paesi del Nordamerica si nascondono invece tematiche annose difficilmente risolvibili: i cartelli dei narcos che sull’altra riva del Rio Bravo chiamano War on drugs e che sviluppano  business sempre diversi con l’obiettivo dei mercati anglosassoni del continente; mentre visti dalla frontiera settentrionale i flussi migratori […]

L'articolo L’equilibrismo di tre pesi diversi in Nordamerica proviene da OGzero.

]]>
Dietro alla relativa eco ottenuta dall’ennesimo incontro tra i tre paesi del Nordamerica si nascondono invece tematiche annose difficilmente risolvibili: i cartelli dei narcos che sull’altra riva del Rio Bravo chiamano War on drugs e che sviluppano  business sempre diversi con l’obiettivo dei mercati anglosassoni del continente; mentre visti dalla frontiera settentrionale i flussi migratori si ammassano sulla riva opposta del Rio Grande, come in un grande hub, dove comunque si riescono a spuntare salari maggiori, dove in qualche modo si può “aspettare”. Però sia gli uni – i flussi di droga – che gli altri – i flussi migratori – risalgono lungo tutto il territorio messicano a partire dalla frontiera meridionale. Infatti non manca nemmeno nell’incontro del Distrito Federal di Ciudad de México il confronto tra comunità native e afrodiscendenti – vessate e umiliate dai colonialisti e dai loro discendenti – e bianchi che diventano ancora più feroci nella difesa di privilegi anacronistici. Ma non sono rappresentate da nessuno dei partecipanti, sono pura merce di scambio: per creare difficoltà ai paesi antagonisti (non ammessi alla Cumbre di L.A.) si accettano migranti da quelle frontiere… e si sbattono le porte in faccia agli altri.
Amlo è riuscito nell’intento di apparire all’altezza dei due “amici” anglosassoni? Diego Battistessa ha analizzato la tre giorni de los tres amigos anche mantenendo accesa la luce proveniente dal continente che si apre a Sud di quel confine meridionale messicano che non trova spazio nell’economia autosufficiente del vertice.

fin qui OGzero


Dal 9 all’11 gennaio si sono riuniti a Città del Messico “I tre amici”, in spagnolo Los tres amigos. Non stiamo parlando di Alfonso Cuarón, Alejandro González Iñárritu e Guillermo del Toro, direttori di cinema messicani, conosciuti appunto come “Los tres amigos” – e nemmeno Steve Martin, Chevy Chase e Martin Short (protagonisti della omonima pellicola di John Landis del 1986 all’origine dell’espressione) –, ma bensì dei capi di stato di Canada (nella veste del primo ministro), Usa e Messico (presidenti delle reciproche Federazioni di stati). Trudeau, Biden e Lopez Obrador hanno dato vita al vertice dei leader nordamericani per stabilire delle politiche comuni su temi chiave per “i tre paesi”: in special modo migrazione, sicurezza (leggi narcotraffico) e commercio. Questo incontro trilaterale è il decimo della sua storia, iniziata il 23 marzo 2005 sotto il nome di Alliance for North American Security and Prosperity, con la riunione a Waco (Texas) di George W. Bush (USA) , Paul Martin (Canada) e Vicente Fox (Messico).

Un evento che segna questo inizio 2023 ma che affonda le radici nel 2022. Prima di addentrarci infatti dentro l’analisi di quanto discusso dai tre leader nordamericani nell’evento di Città del Messico è necessario volgere lo sguardo all’anno appena trascorso per capire con quale stato d’animo Trudeau, Biden e Lopez Obrador, si sono seduti al tavolo delle trattative.

 

Mexico – United States of America

Tensione diplomatica

In primo luogo non si può non sottolineare che questo vertice risana una frattura che si era palesata durante un altro importante summit, quello delle Americhe, celebratosi a Los Angeles dal 6 al 10 giugno 2022. Un incontro del quale vi abbiamo parlato in queste pagine  (dove ho potuto partecipare di persona) e dove, tra le altre, pesava proprio l’assenza di Andrés Manuel Lopez Obrador (Amlo). La presa di posizione del presidente messicano rispetto alla sua non partecipazione a questo importante incontro, che si celebra ogni 4 anni, riguardava l’esclusione a priori di Cuba, Nicaragua e Venezuela, paesi ritenuti antidemocratici dagli Usa. Tra il 9 e l’11 gennaio dunque, Lopez Obrador e Biden hanno potuto tornare a negoziare “face to face” in un contesto internazionale, dove strette di mano e foto di rito hanno allentato (almeno a favore di telecamera) una tensione che ancora era nell’aria.

War on drugs di Nixon: mezzo secolo fa

Non è da sottovalutare neanche quanto sono riusciti a realizzare Messico e Usa – nello specifico le autorità messicane –, lavorando insieme alla Drug Enforcement Agency (Dea) degli Stati Uniti rispetto alla lotta ai cartelli che controllano le rotte del narcotraffico. La cattura a luglio 2022 in Messico del narcotrafficante Rafael Caro Quintero (uno dei fondatori del Cartello di Guadalajara insieme a Miguel Ángel Félix Gallardo ed Ernesto Fonseca Carrillo) considerato uno dei latitanti più ricercati del mondo e reso famoso al grande pubblico per la serie Narcos, è stato un gran risultato.

Amlo antidroga

Operazione che ha fatto vedere in modo chiaro la volontà dell’amministrazione di Amlo di lottare contro questa piaga (il Messico ha dichiarato guerra al narcotraffico nel 2007) e di appoggiare le autorità Usa nella persecuzione di questi criminali. Persecuzione, cattura ed estradizione, quest’ultima proprio la più temuta dai leader dei cartelli che sanno di poter vivere una vita “alla grande” nelle carceri messicane ma di tutt’altra storia si tratta se invece la pena è da scontare in una prigione “gringa”.

La catena delle estradizioni

In questo senso il Messico nel 2022 ha estradato più di 50 criminali legati al narcotraffico, principalmente verso gli Stati Uniti, assestando duri colpi ai cartelli di Sinaloa, del Golfo, di Arellano Félix e del gruppo criminale Guerreros Unidos (quest’ultimo collegato al caso dei 43 studenti di Ayotzinapa nel 2014, episodio della politica avversa alle realtà indigene del Mexico). Oltre a Rafael Caro Quintero, altri “narcos” di spicco catturati o estradati nel 2022 sono Mario Cárdenas Guillén, uno dei capi del Cartello del Golfo (conosciuto come “M-1” o “El Gordo), Adán Casarrubias Salgado, conosciuto come El tomate, che si suppone essere il leader del gruppo Guerreros Unidos e Carlos Arturo Quintana, alias “El 80”, uno dei capi del gruppo criminale La Línea, nell’ orbita del Cartello di Juárez. E ancora Juan Francisco Sillas Rocha, uomo di fiducia degli Arellano Felix e Jaime González Durán, alias El Hummer, parte del gruppo di comando degli Zetas.

Welcome, Mr President

Insomma una collaborazione che ha portato buoni frutti e che proprio pochi giorni prima dell’inizio di questo nuovo vertice dei leader nordamericani ha avuto la sua ciliegina sulla torta. Si perché non è certo passato inosservato il tempismo con il quale, proprio 4 giorni prima dell’inizio dell’incontro trilaterale, le autorità messicane hanno realizzato un imponente operazione che ha portato alla cattura di Ovidio Guzmán, uno dei figli (“los chapitos”) dello storico capo del Cartello di Sinaloa, Joaquín El Chapo” Guzmán.

Alle 5 del mattino di giovedì 5 gennaio, diversi elicotteri, uno dei quali armato di mitragliatrice, hanno aperto il fuoco contro bersagli a terra nella città di Culiacán, stato di Sinaloa. Così è iniziato il blitz delle forze federali messicane che hanno catturato Ovidio, conosciuto anche come El Ratón” o “El Gato Negro, sul quale pendeva una taglia di 5 milioni di dollari. Il Cartello ha però reagito in modo rapido e violento, Culiacán è rimasta ostaggio di più di 50 blocchi stradali realizzati da uomini armati appartenenti all’esercito di Guzmán, criminali che hanno anche assaltato l’aeroporto per evitare che Ovidio venisse portato via dalla città.

Il governo messicano ha notificato all’amministrazione di Joe Biden l’azione portata a termine con successo, una sorta di gesto di buona volontà che Amlo ha presentato al presidente degli Stati Uniti d’America prima del suo arrivo a Città del Messico.

Lunga vita all’infame Titolo 42

Sul tema migratorio bisognerebbe scrivere un articolo a parte. È comunque chiaro che questo aspetto è stato centrale nella strategia dell’amministrazione Biden fin dall’inizio della presidenza nel 2021: basti considerare che il primo viaggio fatto dalla vicepresidente Kamala Harris (giugno 2021) riguardava proprio la questione migratoria, ed è stato realizzato tra Messico e Guatemala. Amlo è stato un buon alleato per le politiche migratorie dei democratici statunitensi che durante questi ultimi due anni hanno dovuti fare i conti con l’aumento dei flussi e della pressione verso la frontiera nord, nella misura in cui si minimizzavano (o eliminavano) le barriere per prevenire la diffusione del Covid-19.

L’esternalizzazione delle frontiere in salsa guacamole

Frontera norte

Biden nel 2022 ha cercato per ben due volte di far eliminare il famoso Titolo 42 (a maggio e a dicembre) ma in entrambe le occasioni la maggioranza repubblicana dei giudici ha fermato l’azione della Casa Bianca. Nel frattempo nell’ottobre del 2022 il governo del Messico dava per concluso il programma chiamato Quédate en Mexico (rimani in Messico): programma creato nella legislatura dell’ex presidente Donald Trump (2017-2021) che stabiliva che i migranti che volevano entrare negli Stati Uniti d’America legalmente, dovevano attendere la risoluzione delle procedure burocratiche in territorio messicano. Una misura che il Messico ha subito suo malgrado e che oltre a creare un enorme caos alla frontiera, ha generato multiple violazione dei diritti fondamentali delle persone migranti.

Nonostante ciò, il 2022 si è concluso con dei record storici di transiti migratori irregolari verso gli Usa, situazione che ha esposto il fianco di Joe Biden agli attacchi dei repubblicani che parlano di vera e propria “invasione”, minacciando di processare il segretario alla sicurezza nazionale, Alejandro Mayorkas. Da qui l’ultimo “asso nella manica” giocato dall’attuale presidente a stelle e strisce proprio pochi giorni prima del vertice dei Tre amigos: ancora una volta un piano di bastone e carota.

«Do not come!»

Proprio mentre a Culiacán l’esercito messicano battagliava con il Cartello di Sinaloa per arrestare Ovidio Guzmán, Joe Biden annunciava nuove misure per rafforzare il controllo del confine con il Messico e in cambio prometteva l’apertura di nuovi canali di immigrazione legale, soprattutto alle persone provenienti da Venezuela e Cuba (che vivono la più grande crisi migratoria della loro storia) oltre a Nicaragua e Haiti. Gli Usa, ha detto Biden, accetteranno 30.000 migranti al mese provenienti dai sopracitati paesi, a patto che queste persone in movimento possano dimostrare legami familiari con emigrati già presenti nel territorio statunitense. Allo stesso modo verrà rafforzato il controllo nella frontiera sud e non ci sarà “nessuna pietà” per chi cerca di passare il confine in modo illegale. «Do not come!» (Non venite), continua a recitare Biden, il mantra gringo che sentiamo ripetere ai democratici da giugno 2021, quando proprio in Messico lo disse Kamala Harris per la prima volta in questa amministrazione – e ribadito durante la Cumbre di Los Angeles.

Dossier top secret

Per concludere, a Biden in questi giorni non sono mancati neanche problemi interni. Infatti proprio lunedì 9 gennaio, mentre stavano iniziando i lavori del vertice si è saputo di una importante indagine che lo vede implicato direttamente. Sarebbero infatti stati trovati circa una dozzina di documenti riservati su Iran, Ucraina e Gran Bretagna nell’armadio di un ufficio che l’attuale presidente ha utilizzato mentre collaborava con l’Università della Pennsylvania (2017- 2021), periodo nel quale non ricopriva nessun incarico politico. Una volta trovati i documenti è stato informato il Dipartimento di Giustizia, che ha nominato un pubblico ministero, John Lausch (uomo scelto a suo tempo da Donald Trump), per portare avanti le indagini. Il problema (un altro) è che mentre erano in corso le indagini preliminari per determinare se sussistono gli indizi di reato, sono venuti alla luce nuovi documenti “top secret”, stipati nel garage della residenza di Biden nel Delaware, suo feudo elettorale. Ora bisogna capire se ci sono gli estremi per istruire un processo e in quel caso si staglierebbero nubi molto oscure nell’orizzonte dei democratici, visto che tra poco l’ottantenne presidente Usa dovrà far sapere se correrà per un secondo mandato nel 2024 o se lascerà il testimone del partito a qualcun altro.

Canada

Sappiamo che il Canada è un paese dal basso profilo, nel senso che non riempie di scandali i “rotocalchi” internazionali. Nonostante ciò, questa vetrina internazionale offerta da Amlo è però servita al primo ministro Justin Trudeau per sottolineare il rispetto dovuto alle comunità indigene e alla protezione dell’ambiente.

Pellegrinaggi penitenziali

Parole che riportano subito all’immagine simbolo del 24 luglio 2022, quando Jorge Bergoglio atterrava dopo un volo di 10 ore all’aeroporto canadese di Edmonton per iniziare un viaggio di 6 giorni nel quale avrebbe chiesto perdono ai rappresentanti di vari popoli indigeni (Inuit e Métis tra gli altri) per la complicità della Chiesa cattolica negli abusi perpetrati nei collegi dove venivano internati i bambini indigeni.

Più di 150.000 di loro vennero allontanati dalle loro case dal 1800 fino agli anni Settanta del secolo scorso e internati con la forza nelle scuole nel tentativo di isolarli dall’influenza delle loro famiglie e della loro cultura. Queste scuole/collegi erano finanziati dalla Chiesa cattolica e dal governo e il loro compito era quello di integrare alla forza le nuove generazioni di indigeni alla società canadese di religione cristiana. Dopo la visita di papa Francesco, il governo canadese ha effettuato una dichiarazione nella quale riteneva insufficienti le scuse del Pontefice, che non aveva fatto menzione nei suoi discorsi agli abusi fisici e sessuali perpetrati contro i bambini indigeni. Lo stesso Justin Trudeau aveva chiesto perdono alle popolazioni indigene native il 25 giugno 2021 dopo che la Federation of Sovereign Indigenous Nations (FSIN, che rappresenta nazioni indigene native a Saskatchewan) aveva riferito del ritrovamento di circa 750 tombe anonime in una fossa comune in un collegio in Canada: nel luogo dove prima si ergeva la  Marieval Indian Residential School nella provincia di Saskatchewan. Un tema ancora scottante in Canada e che ha segnato il governo di Trudeau.

I temi del vertice

«Condividiamo una visione comune per il futuro, basata su valori comuni», le parole di Biden a corollario di un incontro che si è centrato principalmente su sicurezza, economia, clima e migrazione.

Autosufficienza economica

Una delle azioni concrete è stata la creazione di un comitato di 12 membri (4 per ogni paese) per la pianificazione e la sostituzione delle importazioni in Nordamerica. L’idea è che i tre paesi possano raggiungere insieme l’autosufficienza, creando un‘unione economica forte ed efficace.

In questo senso Trudeau ha sottolineato che insieme i tre amici superano il pil dell’Unione Europea e che possono essere il volano di una «economia continentale, solida e resiliente».

Respingimenti limitati

Il tema migratorio è stato centrale e se da un lato Amlo ha chiesto a Biden di promuovere riforme per agevolare la legalizzazione di milioni di messicani che vivono e lavorano in Usa, dall’altro lo ha ringraziato per non aver costruito nemmeno “un metro” di muro (il famoso muro promesso da Trump). Il Canada, che riceve una minore migrazione di cittadini messicani, dal canto suo ha posto in marcia il programma di concessione di visti di lavoro a giornalieri messicani, un piano di mobilità regolare che già include 25.000 persone. Il focus però è stata la frontiera del Rio Bravo o Rio Grande, a seconda della riva da cui si guarda, e della pressione migratoria che viene esercitata in questo punto. Come detto in precedenza il nuovo piano di Biden è stato annunciato pochi giorni prima del vertice, spazio nel quale è stato reiterato e confermato da Amlo.

Il mercato di Fentanyl

Lopez Obrador ha poi posto sul tavolo un’altra questione, quella che riguarda il fentanyl, e la sua sempre maggiore diffusione in Usa e Canada. Si tratta di una droga molto potente, che viene confezionata in modo illegale in Messico e che viene poi esportata nel Nord del continente. Dal sito del Centers for Disease Control and Prevention:

«Il fentanyl è un oppioide sintetico che è fino a 50 volte più forte dell’eroina e 100 volte più forte della morfina. È un importante fattore che contribuisce alle overdose fatali e non fatali negli Stati Uniti. Esistono due tipi di fentanyl: fentanyl farmaceutico e fentanyl prodotto illegalmente. Entrambi sono considerati oppioidi sintetici. Il fentanyl farmaceutico è prescritto dai medici per trattare il dolore intenso, specialmente dopo un intervento chirurgico e negli stadi avanzati del cancro.
Tuttavia, i casi più recenti di overdose correlate al fentanyl sono collegati a quello prodotto illegalmente, che viene distribuito nei mercati di stupefacenti per il suo effetto simile all’eroina. Viene spesso aggiunto ad altri farmaci a causa della sua estrema potenza, rendendo i farmaci più economici, più potenti, più stimolanti e più pericolosi».

In questo senso, il presidente del Messico si è impegnato con Stati Uniti e Canada a lottare contro il traffico di fentanyl, confermando che questa attività è stata messa tra le priorità delle Forze Armate del paese latinoamericano.
Il vertice si è chiuso in un clima di cordialità e mutuo intendimento, un gioco politico di do ut des , nel quale ognuno dei tre attori ha “giocato” pensando al cortile di casa sua.

Lo scenario latinoamericano visto dal vertice dei tre amici

Durante il vertice Amlo ha chiesto a Biden e Trudeau di «porre fine a questo oblio, abbandono e disprezzo verso l’America Latina». Parole lapidarie che però rendono bene l’idea di come le forti economie nordamericane facciano “orecchie da mercante” rispetto alla situazione attuale del resto del continente, in preda a forti convulsioni sociali e attacchi profondi alle fondamenta democratiche, così faticosamente costruite negli anni passati.

Tre casi su tutti ci portano a una riflessione sullo stato della regione: Brasile, Perù e Bolivia.

In Brasile abbiamo visto l’8 gennaio migliaia di sostenitori di Bolsonaro assaltare la piazza dei tre poteri a Brasilia. Un atto di superbia morale, terrorismo interno e sdegno verso le istituzioni che ha connotato uno dei giorni più tristi per il Brasile.

In Perù, dove i fatti di dicembre che hanno portato all’arresto dell’ex presidente Pedro Castillo e la nomina della sua vice, Dina Boluarte come prima donna a dirigere il paese sudamericano, le repressioni delle proteste hanno causato decine di morti e centinaia di feriti. Il popolo che si rispecchia in Castillo, contadini e indigeni delle zone rurali, grida que se vayan todos (che se ne vadano tutti) chiedendo elezioni anticipate e la cacciata della corruzione dalle istituzioni: le forze dell’ordine rispondono con proiettili ad altezza d’uomo. Per capire il livello dello scontro basti pensare che a Lima la procura ha chiesto di indagare Boluarte per «presuntos delitos de genocidio, homicidio calificado y lesiones graves».

In Bolivia nel periodo natalizio è stato arrestato il governatore del dipartimento di Santa Cruz, (zona che fa parte della chiamata mezzaluna bianca) dove la destra conservatrice si oppone da anni a Evo Morales prima e ad Arce ora. Luis Fernando Camacho (il governatore) è stato detenuto per i fatti legati alla crisi politica che ha seguito le elezioni del 2019, la cacciata di Evo dal paese e l’insediamento di Jeanine Áñez come presidente del paese (oggi anche lei in carcere): dopo la sua cattura sono iniziate manifestazioni per chiederne la liberazione.


Proprio di questi eventi distribuiti tra Brasilia, Cuzco, Ayacucho, Arequipa, Puno e di considerazioni sui fatti boliviani di questi giorni si è parlato su Radio Blackout il 12 gennaio 2023 con Diego, concludendo ad anello il discorso, ritornando all’inizio di questo articolo:
“Sacudidas en la marea rosa”.


Insomma, uno scenario di instabilità che vede proprio nell’occhio del ciclone tre dei paesi della nuova “ondata” della Marea Rosa fare i conti con la polarizzazione sociale e politica. Se a questo aggiungiamo gli appuntamenti elettorali importanti di questo 2023, specialmente in Argentina, dove il kirchnerismo sembra partire in svantaggio per l’elezione del prossimo presidente e l’attentato sventato contro Francia Marquéz (vicepresidente) in Colombia, possiamo capire quanto il bandolo della matassa sia difficile da districare.

Un aiuto può venire da Moleskine Sur, un ottimo compagno di viaggio nei meandri delle realtà latinoamericane proiettate verso un 2023 dai risvolti molto incerti.

L'articolo L’equilibrismo di tre pesi diversi in Nordamerica proviene da OGzero.

]]>
“Alta Marea” in America Latina https://ogzero.org/alta-marea-in-america-latina/ Tue, 08 Nov 2022 20:30:20 +0000 https://ogzero.org/?p=9403 Il Brasile svolta con fatica. I governanti sovranisti usano ogni trucco pur di non lasciare il potere: fake news, calunnie, alleanze con il peggio della società retriva e delle sette religiose; Bolsonaro ne è un modello, come Trump. Ma il Brasile ha indubbiamente svoltato non rieleggendo per la prima volta il proprio presidente al secondo […]

L'articolo “Alta Marea” in America Latina proviene da OGzero.

]]>
Il Brasile svolta con fatica. I governanti sovranisti usano ogni trucco pur di non lasciare il potere: fake news, calunnie, alleanze con il peggio della società retriva e delle sette religiose; Bolsonaro ne è un modello, come Trump. Ma il Brasile ha indubbiamente svoltato non rieleggendo per la prima volta il proprio presidente al secondo mandato. Questo però apre a uno scenario apparentemente positivo per un Latinoamerica che vede la stragrande maggioranza dei paesi governati da esponenti di variegate sinistre, ciascuna con peculiarità diverse ed elementi che gettano ombre da un lato sull’effettiva attenzione ai diritti civili (la dinastia nicaraguense, il partito unico cubano), dall’altro sulla reale volontà di eliminare diseguaglianze, sganciarsi dal giogo neoliberista (in particolare in Cile) o dal paternalismo (il Perù di Castillo). Tutto questo produce incertezza: sarà possibile per questi governi progressisti contenere il consueto ritorno del populismo fascistoide? quale unità della nuova “Marea Rosa” si potrà ottenere con queste radici tra loro diversissime e senza un collante che vent’anni fa proveniva dal carisma di alcuni leader e dal laboratorio sociale in fermento?
Da questa situazione prende spunto Diego Battistessa, che già in altri snodi si era peritato di cogliere possibili sviluppi per le comunità latinoamericane, per riassumere le puntate immediatamente precedenti – schieramenti, accordi, patti, strategie degli ultimi 30 anni, dal crollo del muro… – e tentare di immaginare i temi che rappresentano la sfida per i progressisti sudamericani: o riusciranno a cambiare le condizioni di vita, le strutture economiche, le disparità imposte dal neoliberismo, le storture puramente mediatiche; oppure tornerà la ferocia bolsonarista, che sopravvive al fantoccio Bolsonaro.

Fin qui OGzero…   


Il Giro di Giostra

Con la vittoria di Luiz Inácio Lula da Silva in Brasile il 30 ottobre scorso, sono quasi 570 milioni le persone che a oggi in America Latina sono governate dalla sinistra: quasi il 90% di un subcontinente la cui popolazione si aggira intorno ai 640 milioni di abitanti. Tra questi paesi figurano le 5 più grandi economie della regione: Brasile, Messico, Argentina, Colombia e Cile.
Uno scenario storico che ci riporta a una nuova manifestazione espansiva della cosiddetta “Marea Rosa”, apparsa all’inizio del terzo millennio con un giro, una svolta a sinistra di molti paesi della regione latinoamericana. Oggi questa marea è ancora più estesa (da capire se anche più forte) visto che include Messico e Colombia (anche se ha perso Uruguay ed Ecuador).
Vediamo però da dove viene questa ondata di “governi di sinistra”, in quale contesto storico si è generata e soprattutto di che sinistra (sinistre) stiamo parlando quando osserviamo con maggiore dettaglio cosa succede nel contesto latinoamericano.

Doveroso a questo punto premettere la definizione di “gringo”, perché la diffidenza nei suoi confronti è uno dei collanti, forse il più viscerale per gli abitanti del Cono Sur, e allora eccolo:

Esistono varie versioni sull’origine della parola “gringo”, qui vediamo le due più diffuse. La prima versione, accreditata dalla Reale Accademia Spagnola dice che “Gringo” equivale a «straniero, soprattutto di lingua inglese o persona che generalmente parla una lingua diversa dallo spagnolo». Gringo è un’antica parola spagnola che si è evoluta dalla parola “greco”, perché quando si ascoltava parlare qualcuno una lingua sconosciuta, si diceva che ti stavano “parlando in greco”, spiega il linguista messicano Luis Fernando Lara alla BBC Mundo. La seconda versione ci riporta alla guerra tra Messico e Stati Uniti d’America nella quale i soldati messicani solevano gridare “Green go home!” riferendosi al colore dell’uniforme degli statunitensi. Sulla stessa linea un’altra versione dice che i battaglioni statunitensi erano identificati con dei colori e che quando il battaglione verde si lanciava all’attacco, nell’aria risuonava il grido: “Green go!” Ad ogni modo il termine oggi è usato in America Latina per definire in modo specifico gli statunitensi e in modo generico uno straniero: il primo uso in un testo scritto in inglese rimonta al 1849.

Il Foro de São Paulo come risposta al criminale imperialismo “Gringo”

Tutto nasce nel Foro de São Paulo, che è stato senza ombra di dubbio l’embrione di quanto oggi vediamo nella regione. Dal sito della stessa organizzazione possiamo leggere l’incipit della presentazione:

«Il Forum trae origine nel luglio 1990 dall’appello rivolto a partiti, movimenti e organizzazioni di sinistra da parte di Lula e Fidel Castro, affinché si riflettesse al di là delle risposte tradizionali sugli eventi successivi alla caduta del muro di Berlino (9 novembre 1989) e sui possibili percorsi alternativi e autonomi per la sinistra dell’America Latina e dei Caraibi».

In quel primo storico incontro parteciparono in 48, tra partiti e organizzazioni, plurali e diverse ma tutte appartenenti all’arco politico della sinistra, che firmarono la Dichiarazione di San Paolo, manifestando obiettivi precisi e una comunione d’intenti in chiave antineoliberista. In quel documento possiamo sottolineare l’intenzione di continuare a elaborare proposte di unità consensuale di azione nella lotta antimperialista e popolare, di produrre sforzi mirati alla promozione di scambi specializzati su problemi economici, politici, sociali e culturali e di definire, in contrasto con la proposta di integrazione sotto il dominio imperialista, le basi di un nuovo concetto di unità e integrazione continentale.

Un manifesto per una nuova visione latinoamericana, lontana dalla “Dottrina Monroe” (Monroe Doctrine, 1823), dall’“Operazione Condor” (Operación Cóndor, 1975-1989) e dal “Accordo di Washington” (Washington Consensus, le riforme neoliberali raccomandate nel 1989). Il preludio di quanto sarebbe successo solo 10 anni dopo…

Monroe Doctrine

Il concetto di Dottrina Monroe fa riferimento al principio della politica estera degli Stati Uniti d’America di non consentire l’intervento delle potenze europee negli affari interni dei paesi dell’emisfero americano. Questa dottrina deriva da un messaggio al Congresso del presidente James Monroe  inviato il 2 dicembre 1823 (paragrafi 7, 48 e 49). Si riassume nella famosa frase «America agli americani» dove per americani si fa ovviamente riferimento agli uomini bianchi del Nordamerica, ma soprattutto “non alle potenze coloniali”.

Operación Cóndor

«L’Operazione Condor invade il mio nido: io perdono, però non dimenticherò mai», canta il famoso gruppo portoricano Calle 13 in uno degli inni moderni della regione: la canzone lanciata nel 2011:

Quando parliamo di questa operazione, anche conosciuta come Plan Condor facciamo riferimento a una strategia di ingerenza criminale degli Usa, messa in atto per frenare l’espansione dei governi di sinistra nella regione latinoamericana. Dopo il trionfo della rivoluzione cubana (1° gennaio 1959) e i successivi falliti tentativi statunitensi di diroccare Fidel Castro, la Casa Bianca dette il via libera a una nuova strategia che “raffinava” quanto già la Cia (Agenzia Centrale di Intelligence) stava realizzando nella regione. Per contrastare l’insediamento di governi di sinistra in America Latina nei primi anni della Guerra Fredda gli Usa promossero e finanziarono diversi colpi di stato (golpe) come parte del loro interesse geostrategico nella regione. Tra questi ricordiamo il colpo di stato guatemalteco del 1954, il colpo di stato brasiliano del 1964, il colpo di stato cileno del 1973 e il colpo di stato argentino del 1976. Paesi nei quali vennero poi installate feroci dittature militari di destra, che commisero massive violazioni dei diritti umani, tra le quali detenzioni illegali di sospetti oppositori politici e/o dei loro parenti, torture, stupri, sparizioni forzate e traffico di bambini. Tutto questo sotto lo sguardo compiacente e complice degli Stati Uniti d’America che appoggiarono questi regimi fino a quando la pressione internazionale e la pressione dell’opinione pubblica interna non obbligò Washington a fare marcia indietro. Le dittature nelle quali l’intervenzionismo “gringo” ha lasciato il segno (e una lunga scia di sangue) prima e durante il “Plan Condor” sono quelle di Fulgencio Batista a Cuba, Rafael Trujillo nella Repubblica Dominicana, la famiglia Somoza in Nicaragua, Tiburcio Carias Andino in Honduras, Carlos Castillo Armas in Guatemala, Hugo Banzer in Bolivia, Juan María Bordaberry in Uruguay, Jorge Rafael Videla in Argentina, Augusto Pinochet in Cile, Alfredo Stroessner in Paraguay, François Duvalier in Haiti, Artur da Costa e Silva e il suo successore Emílio Garrastazu Medici in Brasile e Marcos Pérez Jiménez in Venezuela. I nuovi processi democratici nella regione iniziarono solo tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli Ottanta, mentre si estendeva e rafforzava tra i popoli dell’America Latina un forte sentimento antistatunitense e antimperialista.

Washington Consensus

Per Accordo di Washington si intende un insieme di “ricette” economiche neoliberiste promosse da varie organizzazioni finanziarie internazionali negli anni Ottanta e Novanta. Proposte che formavano un nuovo decalogo del neoliberismo volto ad affrontare la crisi economica del 1989 in America Latina, regione che stava vivendo una lunga e drammatica recessione, passata alla storia come il decennio perduto. Fu l’economista britannico John Williamson a coniare il termine in un suo articolo del 1989 che esaminava le dieci misure economiche professate dal Fondo Monetario Internazionale (Fmi), dalla Banca Mondiale, dalla Banca Interamericana di Sviluppo e dal Dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti d’America: tutte istituzioni con sede a Washington DC.


Anche per introdurre gli eventi del nuovo millennio con le fughe in avanti progressiste e i bruschi ritorni all’ordine reazionari va spiegato il concetto di “Socialismo del XXI secolo”:

l’espressione fa riferimento al concetto originariamente formulato nel 1996 dal sociologo tedesco Heinz Dieterich Steffan e si riferisce alla combinazione di socialismo con democrazia partecipativa e diretta. È una tendenza che cerca di dare risposte al grave problema del sottosviluppo in cui l’America Latina vive sommersa a causa delle devastazioni del capitalismo. Il socialismo del XXI secolo è una manifestazione attuale del socialismo; cioè del periodo di transizione relativamente lungo dal capitalismo al comunismo. Pertanto, questo “nuovo socialismo” prende spunto dalle precomprensioni socialiste che si trovano nei fondatori del marxismo. Il socialismo del XXI secolo presuppone uno sfondo democratico: è necessario costruire una democrazia partecipativa o diretta nella regione e in ciascuno dei suoi paesi che lasci alle spalle la tradizionale democrazia rappresentativa. Il punto di partenza deve essere la dignità inviolabile di ogni essere umano, che richiede la considerazione dell’uomo come un essere eminentemente sociale, di tendere al pieno sviluppo umano, di istituire una democrazia partecipativa, di creare un nuovo modello economico e di raggiungere un alto grado di decentramento

La prima apparizione ufficiale del termine in America Latina si deve a un discorso dell’allora presidente del Venezuela, Hugo Chávez, il 30 gennaio 2005 dal V World Social Forum.

La “Marea Rosa”: il socialismo del XXI secolo

Come detto, nel Foro de São Paulo si comincia a dare vita a un nuovo sogno latinoamericano che verrà poi plasmato da eventi storici come il primo forum sociale mondiale di Porto Alegre (Brasile) nel 2001 nel quale si forgia la consegna “Un altro mondo è possibile”. In quegli anni la regione è attraversata da enormi livelli di disuguaglianza e da una frustrazione nell’accessibilità di grandi fasce della popolazione ai diritti fondamentali: basti pensare che nel 2002 vivevano in povertà 221 milioni di latinoamericani, ovvero all’epoca il 44% della popolazione della regione. Per rispondere a questa situazione e frenare le politiche neoliberali proposte (imposte) da Washington, sorgono nuovi leader che, anche grazie alla legalizzazione della concorrenza elettorale (con la transizione alla democrazia in America Latina i partiti di sinistra hanno potuto competere per il potere), guidano i popoli oppressi della regione a una rivincita storica.

L’inizio di quella che verrà chiamata in seguito “Marea Rosa” (termine di Larry Rohter, inviato del “NY times” per seguire le elezioni in Uruguay) si ha con l’elezione di Hugo Rafael Chávez Frías in Venezuela, che assume il potere il 2 febbraio 1999. Un momento cruciale nel quale si consolida il primo governo di un partito membro del Foro de São Paulo e che segna l’inizio di un’onda socialista e progressista seguita dalle vittoriose elezioni di Luiz Inácio Lula da Silva in Brasile (2003), Néstor Kirchner in Argentina (2003), Tabaré Vázquez in Uruguay (2005), Evo Morales in Bolivia (2006), Michelle Bachelet in Cile (2006), Rafael Correa in Ecuador (2007), Daniel Ortega in Nicaragua (2007) e José “Pepe” Alberto Mujica in Uruguay (2010). Si configura quindi un nuovo assetto latinoamericano che ruota intorno a innovativi progetti di integrazione economica e politica come l’Alba e l’Unasur e che riporta Cuba e la sua rivoluzione al centro del panorama politico.

Questa prima ondata della “Pink Tide”, il termine inglese per “Mare Rosa”, subisce però una brusca frenata dopo la fine del primo decennio del 2000, situazione aggravata poi dalla forte recessione del 2012. La morte di Chavéz prima (2013) e di Fidel Castro poi (2016), gli scandali di corruzione (soprattutto Argentina e Brasile) e uno spinto “caudillismo” presidenziale che in molti casi ha spinto i leader a mettere in dubbio le basi del sistema democratico (così per come si concepisce in Europa), ha portato un risorgimento delle forze conservatrici. Partiti di destra che hanno ripreso il controllo delle principali economie della regione partendo dall’Argentina nel 2015, passando poi per il Brasile nel 2016 e per il Cile nel 2017.

Il gruppo di Lima

Nel 2017, in quel contesto e sospinto dal crollo economico Venezuelano che ha provocato un esodo di milioni di persone dal paese sudamericano (a oggi più di 7 milioni secondo l’Onu), prende forma un nuovo gruppo di lavoro con un baricentro palesemente spostato verso destra. Questo consorzio di Stati latinoamericani (e non) , prende il nome di Gruppo di Lima e si configura come un organismo multilaterale basato sulla Dichiarazione di Lima dell’8 agosto 2017. Quel giorno rappresentanti di dodici paesi ufficializzano il loro appoggio all’opposizione venezuelana contro il chavismo-madurismo, per accompagnare un processo negoziato e pacifico che possa portare al superamento della crisi multilivello del Venezuela. Vengono stabilite delle condizioni di base per la negoziazione come la liberazione dei prigionieri politici, lo svolgimento di libere elezioni con supervisione esterna, la possibilità di far entrare aiuti umanitari e la necessità di riportare una separazione di poteri nel Paese. I paesi firmatari della dichiarazione furono: Argentina, Brasile, Canada, Cile, Colombia, Costa Rica, Guatemala, Honduras, Messico, Panama, Paraguay e Perù. A questi si sono aggiunti in seconda battuta Guyana, Haiti e Santa Lucia, mentre la Bolivia si è unita con la gestione di Jeanine Áñez (oggi in carcere) dopo la crisi politica del 2019 che ha portato all’uscita di Evo Morales dal paese. Il documento ha ricevuto l’appoggio anche dell’Unione Europea, dell’Oea (Organizzazione degli Stati Americani) oltre che degli Stati Uniti d’America, Barbados, Granada e Giamaica. Con il Lima Group si configura dunque una antitesi del Foro de São Paulo che rende chiara la lotta ideologica e politica che attraversa l’America Latina. Il Gruppo di Lima ha lavorato per ottenere l’isolamento politico venezuelano, con sorti alterne e varie vicissitudini. Nicolás Maduro ha sempre potuto contare, oltre che sull’appoggio dell’alleato storico Cuba, anche sula vicinanza del Nicaragua e fuori dalla regione sul sostegno di Russia e Iran. Inoltre i circa due anni di attività del Gruppo, che formalmente non è ancora sciolto, hanno dovuto fare i conti con l’inizio di una nuova ondata socialista che ci porta alla situazione odierna e che ha visto l’Argentina (da paese fondatore e firmatario) lasciare l’organismo nel 2019, Messico e Bolivia ritirare l’appoggio all’opposizione venezuelana e disconoscere la dichiarazione, oltre allo stesso Perù che ha riallacciato relazioni diplomatiche con il Venezuela di Maduro. A questo si aggiunge la visita del 1° novembre 2022 del presidente colombiano Gustavo Petro al palazzo di Miraflores a Caracas, in un incontro storico con Nicolás Maduro che segna un nuovo riavvicinamento diplomatico tra le sue nazioni sorelle. È da immaginare che anche Lula in Brasile, da gennaio 2023 farà lo stesso.

Una nuova “Alta Marea”

La nuova ondata socialista che ha visto il suo apogeo con il voto del 30 ottobre in Brasile inizia nel 2018 con la storica vittoria di Andrés Manuel Lopez Obrador “Amlo” in Messico, continuando nel 2019 in Argentina con l’elezione di Alberto Fernández, passando poi nel 2020 in Bolivia con l’elezione di Arce, nel 2021 in Perù con Pedro Castillo, in Honduras con Xiomara Castro e in Cile con Gabriel Boric, per arrivare a questo 2022 in Colombia con Gustavo Petro e ora in Brasile con il terzo mandato di Lula.

L’analisi di questo nuovo zenit dei partiti di sinistra può estendersi a molti ambiti ma sicuramente va riconosciuto che la prima “Marea Rosa” aveva raggiunto importanti traguardi legati all’inclusione, all’equità, ai diritti e alla dignità dei popoli indigeni e alla democratizzazione delle risorse. Le donne hanno avuto accesso a posizioni di potere effettivo in politica e nell’esercito e l’agenda dei diritti umani aveva compiuto un notevole salto in avanti soprattutto riguardo a minoranze storicamente perseguitate ed escluse come il collettivo Lgbtqi+.

Ora si apre uno scenario nuovo nel quale la sinistra (le sinistre) latinoamericane si trovano a dover convivere con un contesto globale più che mai volatile e frammentato. Da un lato la guerra in Ucraina, dall’altro gli interessi economici e geostrategici di Stati Uniti d’America, Russia e Cina che per motivi diversi continuano a guardare all’America Latina come un bacino di risorse, commerciale e di influenza, per arrivare agli effetti della pandemia da Covid-19, che ha riportato le lancette dell’orologio indietro di 10-15 anni rispetto ai livelli di povertà e disuguaglianze.

Che sinistra(e) e che democrazia?

El pueblo unido, jamás será vencido” cantava la banda cilena Quilapayún in un manifesto di protesta politica e di futuro possibile che per decenni ha scaldato i cuori “rossi” dell’America Latina e non solo. Un passaggio di questa storica canzone scritta da Sergio Ortega Alvarado e lanciata nel 1973 intona: «De pie, cantar que vamos a triunfar. Avanzan ya banderas de unidad…».

Repressione del dissenso / Condivisione di linee guida socialiste

Cantiamo, in piedi, andiamo a trionfare. Stanno già avanzando le bandiere dell’unità, uno degli attacchi più famosi del mondo nei cori imponenti dei concerti degli Inti Illimani. Ma è proprio sulle bandiere dell’unità che si gioca oggi la partita nella regione. Si perché se un da un lato e in modo generico, vengono definite tutte sinistre quelle che governano oggi in America Latina, tra le stesse esistono fratture e differenze che riguardano la percezione dello stato di diritto, il rispetto dei diritti umani e il contenuto della parola democrazia. È possibile definire Cuba, Nicaragua e Venezuela degli Stati di Diritto? Secondo la definizione canonica, che ci parla degli elementi di base dello stesso (impero della legge, separazione dei poteri, rispetto dei diritti fondamentali) si direbbe proprio di no. Non solo non esiste separazione dei poteri (partito unico a Cuba, controllo totale dello stato da parte del partito di governo in Venezuela, vera e propria istituzionalizzazione della dinastia Ortega-Murillo in Nicaragua) ma assistiamo a una persecuzione totale del dissenso, una privazione del diritto di libertà di espressione e una massiva e strutturale violazione di una lunga lista di diritti umani. Attenzione perché queste critiche non vengono da governi conservatori della regione quali, per esempio quello di Guillermo Lasso in Ecuador, ma bensì da governi di una nuova (e a volte giovane) sinistra come quella di Gabriel Boric in Cile o quella di Petro in Colombia.

Le dichiarazioni del presidente cileno a inizio 2022 in un suo viaggio negli Stati Uniti d’America dove ha parlato alla Columbia University hanno marcato un chiaro punto di inflessione: «Mi dà davvero fastidio quando sei di sinistra e condanni la violazione dei diritti umani in Yemen o El Salvador, ma non puoi parlare delle violazioni degli stessi in Venezuela, Nicaragua o Cile». Aggiungendo poi che non è possibile avere un doppio standard di valutazione perché si tratta di temi di civiltà e non di ideologia. Sempre Boric nel giugno 2022, nel contesto della sua partecipazione al Summit delle Americhe a Los Angeles ha fortemente criticato la repressione del governo cubano contro i manifestanti: «Oggi ci sono delle persone incarcerate a Cuba solo per pensare diversamente (rispetto al partito di governo) e questo per noi è inaccettabile».

Insomma una prima frattura cavalcata poi anche da Gustavo Petro, che già con la fascia presidenziale non ha risparmiato critiche contro Chávez e Ortega (Venezuela e Nicaragua): «Per noi i diritti umani sono fondamentali. La prima discussione che ho avuto con Hugo Chávez mentre era in vita, e forse l’ultima prima della sua morte, riguardava proprio il rispetto del sistema interamericano dei diritti umani. Molti di noi devono la vita, incluso io, a questo sistema dal quale Chávez ha deciso di far uscire il Venezuela», ha affermato Petro in una intervista internazionale a fine giugno 2022. Parlando di Nicaragua ha poi aggiunto: «Coloro che sono imprigionati oggi in Nicaragua sono quelli che hanno fatto la rivoluzione contro la dittatura di Anastasio Somoza», sottolineando che «erano nostri amici e ora sono in prigione. E perché? Ebbene, perché ci sono delle derive che non sono più propriamente democratiche e che vanno evitate».

Le difficoltà e il rischio di risacca

Insomma una chiara e netta frattura sul rispetto dei diritti umani e sul concetto di democrazia, che non può essere sminuito solo all’esercizio del voto (soprattutto quando questo si esercita nella più totale repressione e vulnerabilità). A questo si aggiunge una instabilità interna ai vari paesi del “blocco” di sinistra che potrebbe cambiare la scacchiera con nuovi possibili ritorni di fiamma dei governi conservatori. Pedro Castillo in Perù è in crisi di governo fin dal primo giorno di presidenza e ha già affrontato due mozioni di censura e ora un processo costituzionale. Alberto e Cristina (Fernández e Kirchner) Presidente e Vicepresidente in Argentina sono in rotta da tempo e le prossime elezioni presidenziali saranno tutte in salita per la sinistra argentina. Boric è in caduta libera di consensi e la sconfitta nel referendum per la nuova costituzione cilena a settembre 2022 ha fatto capire che il suo governo cammina “sulle uova”. In Bolivia il presidente Arce ha sostituito tutta la cupola militare a inizio novembre di fronte a quella che lui stesso ha qualificato come «una minaccia di un nuovo colpo di stato». In Messico, Andrés Manuel Lopéz Obrador deve provare a spegnere un incendio dopo l’altro (a livello interno) e la sua leadership regionale è molto debole. Cuba e Venezuela affrontano due crisi migratorie (ed economiche) senza precedenti e il Nicaragua è immerso in una guerra interna contro la Chiesa cattolica, tacciata come terrorista e dissidente da Daniel Ortega. Xiomara Castro non è ancora riuscita a dare un impulso forte al cambiamento in Honduras, sommerso da narcotraffico, impunità e violenza generalizzata. Petro ha dato il primo passo diplomatico con il Venezuela ma ora dovrà concentrarsi su questioni interne come le riforme promesse in campagna elettorale, il processo di Pace con l’Eln (Esercito di Liberazione Nazionale) e la questione del narcotraffico nel paese. Rimane da vedere che impronta darà Lula a questa nuova “Alta Marea”, giacché è l’unico grande leader carismatico sopravvissuto alla prima onda della “Marea Rosa” e veterano della prima riunione del Foro di San Paolo.

Anche su questo si sono confrontati Diego Battistessa e Alfredo Somoza

“Lula riprenderà per mano il Latinoamerica?”: un dialogo a caldo sulla vittoria di Lula tra Diego Battistessa e Alfredo Somoza su Radio Blackout.

L'articolo “Alta Marea” in America Latina proviene da OGzero.

]]>
Barriere https://ogzero.org/studium/barriere-e-ostacoli-impediscono-il-libero-movimento-delle-persone/ Tue, 03 May 2022 15:50:06 +0000 https://ogzero.org/?post_type=portfolio&p=7240 L'articolo Barriere proviene da OGzero.

]]>

Ostacolato movimento

In un mondo che vive di relazioni impostate sul confine, abbiamo la necessità di parlare di come il confine stesso si evolve, e come viene vissuto da chi lo rafforza, da chi lo combatte, da chi lo rende fluido, da chi se ne appropria facendone una parte di sé.

Abbiamo la necessità di raccontare che, mentre l’interconnessione globale permette di portare i confini della propria comunità di appartenenza come parte del bagaglio di viaggio, con i migranti che in tutto il mondo possono continuare a vivere attivamente più luoghi (se non fisici, sicuramente culturali e politici), assistiamo ancora alla tendenza a rafforzare, militarizzare e brutalizzare linee di demarcazione che dovrebbero e potrebbero essere ogni giorno meno visibili.

Abbiamo la necessità di raccontare le barriere e i muri che impediscono fisicamente il movimento, la migrazione, l’accesso alle risorse e la sostenibilità sociale.

Abbiamo scelto di raccontare il muro della vergogna di Lima, barriera tutta interna a una città e a un paese in cui la sperequazione sociale ed economica bolla, spesso incondizionatamente, la vita di migliaia e milioni di persone. Abbiamo scelto di raccontare le barriere tra Botswana e Zimbabwe, caso non isolato nella regione, che bloccano il movimento di animali e persone migranti, in controtendenza con l’integrazione di territori naturali da proteggere per il bene di tutti e tutte. Abbiamo scelto di raccontare il muro della Cisgiordania, da anni strumento di separazione e colonizzazione nei confronti di un popolo che si vede limitare l’accesso alle risorse naturali.

Abbiamo scelto di raccontare i muri e le barriere del mondo, per sostenere le pratiche e le esperienze reali che seguono processi sociali, economici e storici opposti a quelli che vedono e vogliono l’esistenza di quei muri.

(Testi di Piero Grippa, mappe di Luigi Giroldo)

25%

Avanzamento

Lima – Muro della vergogna

43 distretti, 10 milioni di abitanti, e un muro di 10 chilometri che se ci sbatti il muso non ti permette più – se mai ci fossi riuscito – di far finta di non vederlo, quel confine evidente in tutta la metropoli. Lima, il miraggio di una vita più serena, la grande città dove trovare lavoro e costruirsi un’esistenza per qualcuno impossibile da immaginare nei villaggi di provincia. La provincia, prima invasa e saccheggiata dagli imperi europei, oggi stritolata da compagnie minerarie. In mezzo, il periodo En la boca del lobo – come recita uno dei film più importanti prodotti in Perù nel 1988 per la regia di Francisco Lombardi – tra le minacce dei guerriglieri terroristi di Sendero Luminoso e della repressione governativa che non guardava in faccia a nessuno.


Approfondisci qui


Consulta la mappa interattiva

Botswana-Zimbabwe: l’uomo e l’ambiente

Due storie diverse, separate da una linea – una tra le tante che segnano le mappe del continente – che arbitrariamente attraversa territori comuni agli allevatori e, soprattutto, al bestiame. E sono proprio gli animali – il bestiame da reddito destinato alle esportazioni, così come la fauna che popola gli ambienti naturali – che sembrano essere al centro di questa vicenda: per raccontare la gestione delle zone di confine tra Botswana e Zimbabwe (ma anche, ampliando lo sguardo, Namibia, Zambia e Sudafrica) non si possono non tenere in conto le relazioni tra bestiame allevato e selvatico, e tra uomo e ambiente, insieme alle dinamiche migratorie prettamente umane. Parliamo infatti di una regione caratterizzata dalla presenza (e dall’ampliamento) di parchi naturali e zone protette transfrontaliere, tra cui quella dell’Okavango-Zambesi. Ampie zone, quindi, in cui la protezione delle specie animali selvatiche da un lato, e dei bovini allevati per l’esportazione dall’altro, rappresenta evidentemente una priorità politica.


Approfondisci qui


Consulta la mappa interattiva

Palestina – Mauer macht frei

Oltre 700 chilometri per separare, segnare una distinzione netta tra un noi e un loro, ma anche per separare città, villaggi e comunità più o meno grandi le une dalle altre, e ognuna dalle proprie risorse idriche e agricole. Checkpoint, torrette, filo spinato e otto metri di cemento per proteggere quel noi dagli attacchi di quel loro, un confine militarizzato la cui necessità di protezione nasce con la sua stessa costruzione, in quello che potrebbe sembrare un paradosso politico, ma che rappresenta uno dei concetti chiave nella sostanza delle relazioni internazionali dalla guerra fredda in giù.


Approfondisci qui


Consulta la mappa interattiva

Segui tutti i contenuti attinenti a questo Studium

L'articolo Barriere proviene da OGzero.

]]> La rapacità estrattivista distrugge aree protette dell’Amazzonia https://ogzero.org/non-e-un-approccio-a-favore-dell-ambiente/ Fri, 11 Feb 2022 22:06:31 +0000 https://ogzero.org/?p=6285 Due diversi sversamenti di greggio hanno inquinato in gennaio enormi aree protette dell’Amazzonia ecuadoriana attorno a Piedra Fina e le coste peruviane nei pressi di Lima, tra due riserve naturali. Le ricostruzioni riconducono a cause evitabili, se si seguissero protocolli di sicurezza o materiali resistenti, ma ciò che risulta subito evidente è che la causa […]

L'articolo La rapacità estrattivista distrugge aree protette dell’Amazzonia proviene da OGzero.

]]>
Due diversi sversamenti di greggio hanno inquinato in gennaio enormi aree protette dell’Amazzonia ecuadoriana attorno a Piedra Fina e le coste peruviane nei pressi di Lima, tra due riserve naturali. Le ricostruzioni riconducono a cause evitabili, se si seguissero protocolli di sicurezza o materiali resistenti, ma ciò che risulta subito evidente è che la causa prima del disastro ecologico è il sistema estrattivista di un capitalismo rapace, le cui scelte di privatizzazione e di catene di approvvigionamento insicure sono improntate al massimo profitto. E non è mai un approccio a favore dell’ambiente, come si evince dall’esposizione di Diego Battistessa, che in questo pezzo accomuna i due eventi proprio per la riconducibilità palese al sistema di sfruttamento delle risorse fossili.


Nel mese di gennaio due gravissimi disastri ambientali hanno colpito il Perù e l’Ecuador. Non si tratta di casi isolati ma di esternalità negative prodotte da strategie economiche di estrattivismo massivo: esternalità che nel corso degli anni vengono ciclicamente prodotte da un capitalismo predatorio che in America Latina trova il suo asse portante nell’estrazione mineraria e nello sfruttamento delle risorse idriche e di idrocarburi. Le imprese private alla quali i governi latinoamericani garantiscono (o hanno garantito) concessioni lucrative e una quasi totale impunità, hanno calpestato per anni i diritti delle popolazioni indigene, non rispettando in molti casi la Convenzione dei popoli indigeni e tribali del 1989 (n. 169) dell’Oit che garantisce alle stesse il diritto del consenso libero, preventivo e informato sulla costruzione e/o attivazione di progetti con grande impatto socio-ambientale nei loro territori.

Il continuo attacco alle coste pacifiche

Non è un approccio a favore dell'ambiente

21 spiagge di Ventanilla, Santa Rosa y Áncón sono inerdette dopo lo sversamento di petrolio del 15 gennaio 2022

Il primo disastro in ordine di tempo è quello avvenuto in Perù, dove uno sversamento di 11.000 barili di petrolio avvenuto il 15 gennaio nella raffineria La Pampilla (nel quale è coinvolta la petroliera italiana Mare Doricum) ha contaminato decine di chilometri di costa tra cui due aree protette: la  Zona Reservada de Ancón e la Reserva Nacional Sistema de Islas, Islotes y Puntas Guaneras. Lo sversamento si sarebbe prodotto (da quanto ricostruito fino a ora) mentre la Mare Doricum, stava consegnando il suo carico di petrolio nella raffineria gestita dalla compagnia petrolifera spagnola Repsol. Durante le operazioni di scarico la petroliera sarebbe stata colpita dallo tsunami provocato dall’eruzione del vulcano Hunga Tonga-Hunga Ha’apai (Tonga, Oceania): esploso proprio il 15 gennaio liberando una quantità di energia tra i 5 e i 30 megatoni di Tnt (secondo le prime stime realizzate dalla Nasa). Il risultato di quello che è già il più grande disastro ambientale della storia del Perù, sono decine di chilometri di costa pacifica a nord di Lima sommerse dal liquido nero, animali intossicati o uccisi dalla sostanza viscosa e migliaia di pescatori locali che hanno perso il lavoro. Se il danno è certo e visibile, stessa cosa però non si può dire della causa dello sversamento. La versione al vaglio degli inquirenti non è infatti la prima versione data da Repsol, che il 16 gennaio aveva riportato un piccolo incidente con la fuoruscita di poche decine di barili. Solo successivamente, di fronte all’innegabilità dei fatti, la compagnia spagnola ha ritrattato la sua versione offrendo supporto alle operazioni di mitigazioni del danno.

L’incredibile difesa di Repsol

Il presidente di Repsol Perù, Jaime Fernández-Cuesta, ha affermato nei giorni successivi all’accaduto che, sebbene la compagnia abbia commesso degli errori – soprattutto rispetto alle dichiarazioni iniziali sulla quantità di petrolio sversato –, a oggi il piano di contingenza di Repsol è attivo impegnando circa 850 persone sulla costa, oltre a tre macchine per la pulizia marina, sei serbatoi galleggianti, 13 navi di grosse dimensioni grandi e 31 navi più piccole nelle acque circostanti. Un’azione, quella di Repsol, che però è stata giudicata tardiva dalle autorità peruviane che, per bocca della (ora ex) prima ministra Mirtha Vásquez, hanno annunciato a gennaio la possibilità di denunciare la multinazionale in tre diversi ambiti: false dichiarazioni, deficienza e lentezza del piano di contingenza e la obbligatorietà di garantire aiuto umanitario alla popolazione danneggiata per l’accaduto.

La situazione politica in cui capita
Non è un approccio a favore dell'ambiente

L’indagine per “presunto” inquinamento ambientale provocato dalla fuoruscita di greggio della multinazionale spagnola Repsol promanava dall’ex ministro della giustizia, che nel turbillon imposto dalla presidenza di Castillo si trova ora collocato sullo scranno di primo ministro. Una farfalla sbatte le ali alle isole Tonga e una marea di greggio si abbatte sulle coste di Lima… e subito dopo abbatte un premier peruviano.

Una battaglia che si preannuncia lunga e complicata anche per l’incerto orizzonte politico del Perù attuale. Mirtha Vásquez è infatti una delle protagoniste di quello che sicuramente è oggi uno dei panorami politici più complessi della regione. Pedro Castillo, nominato presidente a metà 2021 dopo una serrata, lunga e dura battaglia elettorale contro Keiko Fujimori, non sembra poter trovare il bandolo della matassa e dà l’impressione di camminare in un terreno minato dove è difficile distinguere gli amici dai nemici. Per responsabilità proprie, sabotaggi interni alla sua coalizione e attacchi costanti dall’opposizione (da distribuire secondo le simpatie e percezioni del caso), Castillo è stato incapace di dare continuità alla sua azione di governo e dopo 6 mesi di presidenza si trova in questi giorni a cambiare il suo gabinetto per la quarta volta. A Natale 2021 infatti, il paese e la stampa già facevano i conti con 11 cambi al vertice dei vari ministeri dando conto che dei 19 ministri in carica a quella data, solo 10 avevano iniziato il mandato insieme a Castillo 5 mesi prima.  Il 2022 non è iniziato in modo diverso. L’avvocatessa Mirtha Vásquez ha infatti rinunciato al suo incarico di primo ministro il 31 gennaio, allegando come detonante della sua decisione le dimissioni dell’ex ministro dell’interno Avelino Guillén. Al suo posto Castillo ha nominato a inizio febbraio l’avvocato e congressista Héctor Valer che però ha rinunciato all’incarico dopo soli 8 giorni per lo scandalo prodotto dalla pubblicazione di una serie di denunce per aggressione familiare che lo riguardano. Infine l’8 febbraio il presidente Castillo ha dovuto promuovere in modo repentino e urgente Aníbal Torres Vásquez (che era ministro della Giustizia e Diritti Umani da luglio 2021) al ruolo di presidente del consiglio dei ministri. In tutto questo l’opposizione non sta a guardare e il 18 novembre la congressista di Avanza País, Patty Chirino ha promosso una “moción de vacancia” (istanza di destituzione) per supposta incapacità morale nella guida del paese di Castillo. La mozione non ha prosperato visto che necessitavano 52 voti a favore nella votazione del 7 dicembre e ne sono stati ottenuti solo 46; contrari alla mozione: 76 e 4 astenuti.

Il partito di estrema destra Renovación popular ha però annunciato il 2 febbraio una nuova “moción de vacancia”, negando questa volta a Castillo le competenze per poter governare il paese. La questione risulta ancora più complessa se si pensa che mentre Renovación popular presentava la mozione, era primo ministro Héctor Valer, che in passato aveva militato nelle fila di quella formazione. Insomma una scacchiera degna di Garri Kaspárov.

Ascolta “L’imprevedibile insubordinazione istituzionale di Castillo” su Spreaker.

Basta una pietra a produrre una falla micidiale

Ascolta “Un tubo bucato innaffia di greggio l’Amazzonia ecuadoriana” su Spreaker.

In Ecuador la fuoruscita di 6300 barili di petrolio in Amazzonia nella zona di Piedra Fina, provincia amazzonica di Napo (circa 80 km dalla capitale Quito) ha portato il greggio a raggiungere alcune aree protette nel Parco nazionale Cayambe Coca, provocando un grave disastro ecologico. La fuoruscita è avvenuta il 28 gennaio quando una pietra di grosse dimensioni è franata (a causa della forti piogge) sul grosso tubo dell’oleodotto dell’impresa privata Oleuducto de crudos pesados – Ocp Ecuador. La Confederazione delle nazionalità indigene dell’Ecuador (Conaie) ha denunciato immediatamente attraverso le sue reti la fuoriuscita, allertando riguardo all’enorme danno ambientale e criticando le politiche estrattiviste del nuovo presidente Guillermo Lasso (alla presidenza dal maggio 2021).

Le riparazioni di Ocp Ecuador

Jorge Vugdelija, presidente esecutivo di Ocp Ecuador ha dichiarato a inizio settimana alla stampa ecuadoregna che il 7 febbraio sono terminati i lavori di riparazione all’oleodotto e che le operazioni di trasporto del greggio dall’Amazzonia fino al porto sul Pacifico di Esmeraldas, sono riprese senza inconvenienti. Incalzato rispetto al danno ecologico provocato, Vugdelija ha assicurato che le azioni di riparazione ambientale e compensazione sociale sono già state attivate seguendo gli accordi presi con il governo e con l’appoggio e l’accompagnamento delle autorità. Ocp Ecuador ha confermato che sono state già inviate sul posto tre imprese specializzate in mitigazione del danno ambientale, con un dispiegamento di 790 persone nella zona della fuoruscita. Allo stesso modo è stato comunicato da Vugdelija che sono stati ritirati circa 1000 metri cubi  di terra contaminata, che sono stati già distribuiti 120.000 litri di acqua e kit alimentari alla popolazione vittima del disastro e che sono state inviate delle equipe mediche per iniziare ad affrontare problemi di salute nei centri abitati della zona.

La lunga scia di danni nei 20 anni di oleodotti ecuadoriani

La via dell'Oleodotto ecuadoriano

L’oleodotto Ocp è il secondo più grande dell’Ecuador e trasporta circa il 30% della produzione petrolifera del paese: è lungo 485 chilometri e può trasportare 450.000 barili al giorno (attualmente ne trasporta 180.000). Nel 2001 l’impresa privata Ocp Ecuador ha prodotto uno studio ambientale sull’impatto del progetto che è stato successivamente attivato nel 2003. Fin dall’inizio però si sono manifestate grosse negligenze che hanno portato a severi danni ambientali. Il tragitto dell’Ocp (che va da lago Agrio vicino ai giacimenti petroliferi della regione dell’Oriente dell’Ecuador fino al terminal petrolifero di Balao a Esmeraldas, sulla costa pacifica) infatti corre per buona parte parallelo all’oleodotto SOTE – Sistema de Oleoducto Transecuatoriano: il primo oleodotto partito dall’Amazzonia ecuadoriana nel 1972 e lungo 497 chilometri. Nell’aprile del 2003, durante i lavori per la costruzione dell’oleodotto Ocp è stato danneggiato il Sote, provocando una fuoriuscita di petrolio di 10.000 barili che ha raggiunto la Riserva Cayambe Coca e la laguna di Papallacta, che fornisce circa il 60% dell’acqua potabile di Quito. Da quel momento in poi si sono riportati numerosi incidenti e fuoruscite di petrolio (2009, 2013 zona di Esmeraldas  e 2020 zona cascata San Rafael).

Bucato sull'oleodotto bucato

Stendere il bucato su un oleodotto bucato

La lotta delle comunità indigene

Rispetto a quest’ultima fuoruscita di petrolio di fine gennaio 2022, il ministro dell’Ambiente dell’Ecuador, Gustavo Manrique, ha segnalato che è stata avvistata una chiazza di petrolio arrivata fino ad Añangu, nel Parco nazionale Yasuní. Il rapporto del ministro coincide con quanto già affermato e denunciato dalle comunità indigene (come il video pubblicato dalla leader indigena Nina Gualinga), che hanno stimato che l’ultima fuoriuscita ha interessato almeno 300 chilometri, dall’area in cui l’oleodotto si è rotto fino all’ingresso dell’area dello Yasuní. Il petrolio ha contaminato le fonti di acqua e cibo di centinaia di comunità indigene visto che lo sversamento ha raggiunto gli affluenti del fiume Coca: almeno 60.000 persone sarebbero state colpite da questo disastro.

In un contesto difficile nel quale le comunità indigene e in generale gli abitanti dell’Amazzonia ecuadoriana vivono una ulteriore avanzata del neocolonialismo estrattivo è arrivata però una buona notizia. Il 4 febbraio infatti l’Ong Alianza Ceibo ha pubblicato questo comunicato stampa, dando conto di una grandissima vittoria per le popolazioni indigene ecuadoriane:

«La Corte Costituzionale dell’Ecuador infatti si è pronunciata poco fa a favore del diritto dei popoli indigeni di decidere, in base alle loro forme di governo, il futuro dei loro territori in Amazzonia. Questa sentenza è storica e fornisce uno dei precedenti più potenti al mondo sul diritto dei popoli indigeni ad avere l’ultima parola sui progetti estrattivi che interessano le loro terre. Questo diritto, noto anche come Consenso Libero, Previo e Informato (Fpic), ci offre un potente strumento per proteggere 9,3 milioni di ettari di territori ancestrali in tutto il paese, e quindi affrontare i piani del presidente Guillermo Lasso, che intende intensificare l’estrazione di petrolio e la produzione mineraria. La lunga battaglia che la Comunità di Sinangoe ha condotto per la difesa del proprio territorio è un’azione esemplare condotta dalle popolazioni indigene per mitigare la crisi climatica globale».

L'articolo La rapacità estrattivista distrugge aree protette dell’Amazzonia proviene da OGzero.

]]>
Gli spartiacque delle comunità latinoamericane – 2 https://ogzero.org/gli-spartiacque-delle-comunita-latinoamericane-2/ Thu, 30 Dec 2021 17:24:55 +0000 https://ogzero.org/?p=5713 L’anno elettorale sudamericano è stato ricco di responsi in grado di fornire materiali per scattare una serie di foto del mondo latinoamericano. Qui Alfredo Somoza sembra accennare a un abbozzo di modello per un nuovo approccio a una politica svincolata da corruzione e commodities, autoritarismo e oligarchie, che già si trovano al centro del suo […]

L'articolo Gli spartiacque delle comunità latinoamericane – 2 proviene da OGzero.

]]>
L’anno elettorale sudamericano è stato ricco di responsi in grado di fornire materiali per scattare una serie di foto del mondo latinoamericano. Qui Alfredo Somoza sembra accennare a un abbozzo di modello per un nuovo approccio a una politica svincolata da corruzione e commodities, autoritarismo e oligarchie, che già si trovano al centro del suo libro.Vedremo se quello che troviamo in Siamo già oltre? e accennato qui può svilupparsi in una nuova socialità o rimarrà a livello simbolico.

Sollecitato dalle considerazioni di Diego Battistessa, che ha utilizzato la chiave di lettura delle molte tornate elettorali del continente sudamericano per evocare scenari reali e possibili nel prossimo anno 2022 nel primo di questa coppia di articoli, Alfredo ha immaginato innanzitutto una dicotomia forte tra due concezioni di progressismo, forse mondi altrettanto distanti tra loro dell’abisso che li divide da una destra priva di idee e livorosa, ma che continua a rappresentare istanze neoliberiste provenienti per lo più dall’estero, ma anche collaterali ai mondi sovranisti anche legati alle sette religiose. Un mondo che la sconfitta di José Antonio Kast, ammiratore del boia Pinochet, ha collocato definitivamente nei manuali di storia; un sistema imposto dalle strategie dei gringos e un grimaldello in mano all’ultraneoliberismo, che con le svolte provenienti dai responsi del 2021 viene messo in soffitta… Alfredo Somoza si appresta a immaginare cosa potrà nascere da questo fermento che è sorto dai Movimenti popolari scesi in piazza negli ultimi anni per i diritti negati dal neoliberismo e che insieme alle istanze di emancipazione delle comunità indigene stanno mettendo sotto scacco i fantocci del Fmi.

Anche in questa seconda parte abbiamo intervallato la prosa di Alfredo con podcast raccolti durante l’anno e talvolta inseriti a punteggiare l’e-pub del suo Siamo già oltre?


Le due sinistre sudamericane

L’anno elettorale latinoamericano è stato ricco di appuntamenti molto importanti sia per il loro peso specifico sia per quello simbolico. La prima lettura riguarda la legittimità del processo elettorale. Non sempre sono state rispettate le regole, come nel clamoroso caso del Nicaragua dove il regime guidato da Daniel Ortega ha inscenato elezioni presidenziali senza opposizione. Ma anche buone notizie in questo senso, come le elezioni dell’Honduras, paese nel quale negli anni si sono succeduti colpi di stato e manipolazione dei risultati, e dove ha vinto la candidata della sinistra senza che ci siano dubbi sulla trasparenza del voto. Lo stesso si può dire del Venezuela, dove pare siano state rispettate le regole nelle elezioni amministrative che hanno visto la vittoria del partito di Nicolas Maduro. I segnali più interessanti arrivano però da tre paesi andini, Ecuador, Bolivia e Cile. In Ecuador il candidato della nuova sinistra e dei movimenti indigeni Yaku Pérez non riuscì per 30.000 voti a passare al secondo turno, nel quale l’imprenditore Guillermo Lasso riuscì a battere il candidato correista per 400.000 voti.

Di Ecuador durante l’anno avevamo parlato con Davide Matrone, docente a Quito:
Ne avevamo parlato con Davide Matrone: “Flessibili alle riforme Fmi a Quito | a Guayaquil le gang in carcere sono inflessibili”.

Chiaramente buona parte degli elettori di Pérez non votarono per Andrés Aráuz al secondo turno, anche se di “sinistra”, e questo perché ormai esistono due progetti di sinistra che spesso, come in Ecuador, si scontrano. Una sinistra ormai “tradizionale” e che ha governato a lungo, dai forti tratti populisti, poco ambientalista e lontana dalle minoranze. Sono il correismo ecuadoregno, il peronismo argentino, il post chavismo venezuelano, il Mas boliviano. L’altra nata dalla lotta dei movimenti sociali, minoranze etniche e di genere, ambientalisti, contadini. E lo schieramento di forze che ha sostenuto Pérez in Ecuador, Verònica Mendoza in Perù, che sosterrà Petro in Colombia e che ha fatto vincere Boric in Cile; le due sinistre hanno in comune molti riferimenti culturali, ma una diversa concezione della democrazia. Per i primi, Cuba è legittimata anche a reprimere per tutelare la rivoluzione, per gli altri il diritto a protestare e a opporsi è sacro; per i populisti lo stato deve essere gestore ed erogatore di assistenza senza preoccuparsi dell’economia, per gli altri deve guidare una crescita economica in senso inclusivo; per i primi le denunce di corruzione sono solo un complotto ai loro danni, per la nuova sinistra la politica deve anzitutto avere le mani pulite.

Il Sudamerica dei due progressismi sta velocemente virando di nuovo a sinistra a maggioranza e per il 2022 si prevede che altri due grandi paesi cambino guida: Colombia e Brasile. Se questo sarà confermato resteranno piccole isole di centrodestra in Uruguay, Paraguay ed Ecuador. Rispetto allo scenario precedente simile, quello degli anni 2000, le cose sono però radicalmente cambiate: si sono spenti gli slanci continentali, cioè le ipotesi di creazione di aree di libero scambio e di democrazia multilaterali; si è tornati drammaticamente a dipendere dalle commodities, che tra l’altro in questo periodo hanno subito un calo del loro prezzo internazionale; l’alleanza con la Cina ha indebolito la democrazia e rinforzato i circuiti di corruzione. Il Sudamerica in questa fase non interessa a nessuno, nemmeno agli Stati Uniti di Biden che hanno come unica priorità fermare l’immigrazione centroamericana.

Soprattutto mancano leadership. La politica sudamericana si è rimpicciolita per quanto riguarda la capacità dei nuovi leader. Nel 2022 potremo vedere sorgere forse due nuovi punti di riferimento, Gabriel Boric e Lula da Silva se sarà presidente. Il Brasile isolato da Bolsonaro non è stato solo un danno per se stesso, ma anche per tutto il processo politico sudamericano; il ritorno di Lula alla presidenza potrebbe segnare l’avvio di una nuova fase, ma prima ancora si dovrà dirimere cosa si intende per progressismo e come lo si aggiorna di fronte alle sfide del domani. Da questo punto di vista la lezione boliviana è illuminante: quando Evo Morales forzò la sua stessa costituzione per perpetuarsi al potere, disconoscendo il parere del suo popolo che aveva bocciato la proposta con un referendum, la sua caduta era già scritta. Anzi, quella mossa è stata la miccia che aspettavano i settori golpisti e della estrema destra boliviana per spazzare via dal potere l’esperienza del Mas; quello stesso Mas che con un nuovo candidato, Arce, nel rispetto del dettato costituzionale è tornato al potere a grandissima maggioranza. È questa la morale valida per tutto il continente: quella sinistra sopravvissuta agli anni Settanta, uscita dalle lotte popolari e arrivata al potere grazie alla fine della Guerra Fredda e quindi dei vincoli di schieramento dovrebbe essere paladina della democrazia e della trasparenza, seguendo l’esempio di grandi presidenti come Raul Alfonsin o Pepe Mujica. Non sempre è così, è questo resta uno dei grandi spartiacque irrisolti che comunque non impediscono di vincere e governare in assenza di una destra seria e con un progetto che non sia la tutela dei propri interessi. In America Latina la democrazia, malgrado i problemi enumerati, è solida e la gente vota ormai chi gli somiglia. Grande conquista mai scontata che nel 2022 si consoliderà.

L'articolo Gli spartiacque delle comunità latinoamericane – 2 proviene da OGzero.

]]>
Gli spartiacque delle comunità latinoamericane – 1 https://ogzero.org/gli-spartiacque-delle-comunita-latinoamericane-1/ Thu, 30 Dec 2021 17:22:22 +0000 https://ogzero.org/?p=5695 L’anno elettorale sudamericano è stato ricco di responsi in grado di fornire materiali per scattare una serie di foto del mondo latinoamericano. L’idea di usare i molti appuntamenti elettorali del 2021, in prosecuzione nel 2022, per incardinare in un unico flusso i rivolgimenti elettorali a consuntivo dell’anno che sta finendo e in continuità nella prospettiva […]

L'articolo Gli spartiacque delle comunità latinoamericane – 1 proviene da OGzero.

]]>
L’anno elettorale sudamericano è stato ricco di responsi in grado di fornire materiali per scattare una serie di foto del mondo latinoamericano.

L’idea di usare i molti appuntamenti elettorali del 2021, in prosecuzione nel 2022, per incardinare in un unico flusso i rivolgimenti elettorali a consuntivo dell’anno che sta finendo e in continuità nella prospettiva dell’anno che verrà, è sorta dalla consueta attenta osservazione di Diego Battistessa sui fenomeni che avvengono nel continente. Abbiamo punteggiato questo rapido excursus individuando le tappe più significative con podcast sugli aspetti che lungo l’anno ci avevano incuriositi e che confermano le scelte di Diego per proporre un’analisi posta anche in dialettica con una parallela esposizione del punto di vista di Alfredo Somoza, focalizzata sull’individuazione delle due sinistre latinoamericane: quella populista-autoritaria e quella trasparente, popolare perché nata dalle pulsioni all’emancipazione dei popoli – anche e soprattutto latinos – e dai Movimenti di rivolta al neoliberismo, che sono al centro della critica all’involuzione del Capitalismo compresa in Siamo già oltre?


Il 2021 elettorale in America Latina e nei Caraibi:
un ritorno della regione a quale sinistra?

Con la vittoria di Gabriel Boric Font le elezioni presidenziali in Cile, la cui seconda tornata elettorale si è svolta il 19 dicembre scorso, chiudono un anno elettorale turbolento nella regione. Cerchiamo di fare il punto di quanto successo e di ciò che ci aspetta per il 2022 prossimo venturo.

L’anno che si sta per concludere è iniziato con un primo importante appuntamento con le elezioni presidenziali in Ecuador, celebratesi il 7 febbraio. L’uscente Lenin Moreno godeva del più basso consenso regionale e i suoi anni di governo si erano caratterizzati per un duro scontro con colui che fu il suo padrino politico: Rafael Correa (ex presidente ecuadoregno 2007-2017). A disputarsi la presidenza del paese andino sono stati il banchiere e imprenditore Guillermo Lasso, il leader indigeno Yaku Pérez e l’economista Andrés Arauz, nuovo delfino di Correa, la cui condanna per corruzione gli ha impedito di candidarsi alla vicepresidenza. La prima tornata elettorale, nella quale si votava anche per il parlamento, ha visto la vittoria schiacciante di Arauz che però non ha superato il 50 per cento dei consensi e ha dovuto quindi affrontare il ballottaggio con Guillermo Lasso: arrivato secondo dopo un polemico testa a testa con Yaku Pérez. L’11 aprile la votazione finale ha ribaltato i pronostici e ha dato la vittoria al banchiere conservatore Lasso, in un voto che si è concentrato principalmente sul correismo o anticorreismo, polarizzando il contesto politico e sociale.

Nel Salvador le elezioni legislative e municipali del 28 febbraio hanno visto la schiacciante vittoria del partito Nuevas Ideas, facente capo al presidente in carica, Nayib Bukele.

Alfredo Somoza ce ne fece un ritratto, mentre i salvadoregni si ribellavano al presidente populista

Ottenendo 56 seggi su 84 in gioco nel Congresso e 152 consigli municipali su 262, Bukele si è assicurato il totale potere politico nel paese centroamericano. Le azioni che hanno seguito a questo nuevo accentramento dei poteri dello stato hanno provocato però duri scontri interni e la critica della comunità internazionale nei confronti del “presidente millenial” del Salvador.

Alfredo Somoza evidenzia le radici comuni di Bukele e Ortega in quell’altra sinistra latinoamericana, riprendendo i fili della insurrezione della popolazione salvadoregna impoverita dal populismo
“Corsi e ricorsi nella storia del Mesoamerica”.

 


La sinistra paternalista delle Ande

Il 7 marzo nella Bolivia del presidente Luis Alberto Arce Catacora, si è votato per le elezioni subnazionali nelle quali la popolazione veniva chiamata a votare per i 9 dipartimenti che compongono lo stato plurinazionale della Bolivia e 336 comuni. Il Mas (Movimiento al Socialismo), partito dell’attuale presidente – e dell’ex presidente Evo Morales –, ha ottenuto la vittoria solo in 3 dipartimenti (Cochabamba, Oruro e Potosí) ma si è affermato in più di due terzi dei comuni: ben 240.

In aprile la scena politica regionale viene accaparrata dal Perù dove, dopo anni di terremoto sociale e politico, si cerca di ritornare a una normalità democratica. Tra i numerosi candidati che si presentano alla sfida presidenziale, sono due persone che rappresentano poli opposti che arrivano al ballottaggio. Si tratta di Keiko Fujimori (figlia dell’ex presidente Alberto Fujimori) del partito di destra Fuerza Popular e del candidato Pedro Castillo, un “signor nessuno” membro del partito di sinistra Perú Libre. Poi il 6 giugno nonostante la dura campagna mediatica contro Castillo, maestro elementare delle zone rurali, portata avanti da Keiko e dai settori conservatori del paese, la sinistra vince. Il Perù rimane con il fiato sospeso perché il risultato ufficiale tarda ad arrivare. Giorni di tensione, ricorsi, frustrazione fino al 19 di luglio, quando finalmente anche Keiko Fujimori si deve arrendere e riconoscere Pedro Castillo come nuovo presidente eletto del Perù.

Del tema dell’estrattivismo peruviano avevamo parlato con Matteo Tortone

 

 

Sempre nel mese di aprile (il 19) il Partito Comunista di Cuba – Pcc conferma il presidente Miguel Díaz-Canel come primo segretario, segnano la fine di un’epoca. Il 16 dello stesso mese infatti, Raúl Castro (89 anni) si era dimesso dalla carica del partito per dare spazio a una nuova generazione di rivoluzionari che potessero portare avanti lo spirito del castrismo. L’isola, ancora sotto embargo, è però oggi scossa dalle proteste di numerosi Artivisti che lottano per ottenere libertà di espressione e contro la repressione politica e sociale del partito unico.


La sinistra costituente spinta dai Movimenti popolari

Aprile avrebbe dovuto essere inoltre il mese storico per le votazioni che in Cile dovevano portare il popolo a scegliere i membri dell’Assemblea costituente ma per l’emergenza Covid-19 il processo elettorale è stato spostato al 15 e 16 maggio. Nella stessa data si sono svolte inoltre le elezioni municipali e quelle dei governatori regionali, previste inizialmente per il 20 ottobre 2020 e rimandate per ben 4 volte. Il risultato è stato un plebiscito per le eterogenee forze politiche della sinistra che hanno ottenuto più di due terzi dei seggi dell’Assemblea e risultati storici come la vittoria della giovane comunista Irací Hassler: eletta sindaco della capitale Santiago.

 Anche in questo caso possiamo affidare al commento di Alfredo Somoza il compiacimento per la svolta cilena:
“Chile despertó y entierra Pinochet”.

Giugno ci porta alle elezioni federali e statali in Messico dove Morena, il partito dell’attuale presidente Andrés Manuel Lopez Obrador (Amlo) ha mantenuto il controllo del Congresso (grazie alle alleanze), perdendo però la maggioranza assoluta. L’obiettivo di Amlo di ottenere una maggioranza qualificata insieme al Pt e al Partito dei Verdi si è vista dunque frustrata chiudendo le porte alle riforme costituzionali che erano l’obiettivo di Morena per i prossimi tre anni di presidenza.

A luglio si è tornato a votare in Cile per le primarie presidenziali e per la prima volta è apparso il nome di Boric, ma soprattutto la regione è stata sconvolta da ciò che succede a Haiti. Nella notte tra 6 e 7 luglio, un commando di 28 persone prende d’assalto la residenza del presidente Jovenel Moïse nel quartiere Pelerin, a Pourt-au-Prince, la capitale del paese. Sette uomini armati entrano nella casa sparando 16 colpi al presidente e ferendo anche sua moglie (che si è finta morta per sopravvivere all’attacco). Il magnicidio fa piombare il paese ancora più nel caos e scopre trame e interessi internazionali che intrecciano Colombia, Ecuador, Usa e il piccolo paese caraibico. Le elezioni presidenziali previste per novembre sono state spostate a data da destinarsi e nel frattempo Ariel Henry, membro del partito Inite (centro sinistra) funge da presidente provvisorio.

Diego Battistessa proprio a luglio commentava così la deriva haitiana:

 


La sinistra populista, dinastica e totalitaria

Il 12 di settembre in Argentina più di 34 milioni di persone sono state chiamate a votare alle primarie aperte simultanee e obbligatorie (Paso) per definire le liste dei candidati che si sarebbero sfidati a novembre per rinnovare metà della Camera dei deputati (127 dei 257 seggi) e più di un terzo del Senato (24 dei 54 seggi). In questo contesto l’opposizione è riuscita ad assestare un duro colpo al partito del presidente Alberto Fernández, vincendo nella provincia di Buenos Aires, principale roccaforte della coalizione di governo, Frente de Todos. La tendenza delle Paso è stata poi confermata nelle elezioni del 14 novembre dove la coalizione dell’opposizione Juntos por el Cambio ha vinto in 13 province, includendo i cinque distretti più popolosi del paese: la provincia di Buenos Aires, la Città Autonoma di Buenos Aires, Córdoba, Santa Fe e Mendoza. In generale, al livello nazionale l’opposizione è riuscita a staccare di ben 9 punti percentuali la colazione di governo, ottenendo quasi il 42% dei voti contro il 33% del Kirchnerismo.

Nel frattempo però, a ottobre si sono tenute le elezioni municipali nei 261 distretti territoriali del Paraguay: elezioni che erano previste per il 2020 ma che causa coronavirus furono rimandate. Il risultato più importante (e anche il più discusso) è stata la rielezione di Óscar Rodríguez, membro del partito di governo (Partido colorado) nella capitale Asunción, nonostante gli scandali di corruzione che lo hanno visto protagonista.

 

Il  7 novembre ci sono state inoltre le elezioni “farsa” in Nicaragua che hanno dato ancora una volta una vittoria “schiacciante” a Daniel Ortega e alla vicepresidente (sua moglie) Rosario Murillo. Dietro questo apparente plebiscito (con dati di astensionismo che si aggirano intorno all’80%) ci sono infatti molteplici violazioni dei diritti umani: una repressione senza precedenti, l’incarcerazione arbitraria (iniziata a maggio 2021) di 39 persone identificate dal regime come opposizione, tra queste sette aspiranti alla presidenza.

Diego Battistessa ci aveva già fatto a luglio un parallelo tra due situazioni di quell’altra sinistra simile a quello descritto da Alfredo Somoza tra Bukele e Ortega, questa volta la incredibile dinastia nicaraguense era posta a confronto con l’eredità castrista

“Las revoluciones desencantadas y socavadas”.

Il 21 dello stesso mese si è tornato a votare in Venezuela, in una votazione dove l’opposizione, anche se ancora frammentata, ha deciso di partecipare (prima volta dal 2018). Il Partito Socialista Unito del Venezuela – Psuv (partito di governo) ha vinto 20 dei 23 governi locali in ballo. All’opposizione invece la vittoria negli stati di Cojedes, Nueva Esparta e Zulia. Ancora una volta queste votazioni hanno suscitato non poche polemiche, anche per le irregolarità registrate dalla delegazione degli osservatori elettorali dell’UE presente sul territorio fin dal 14 ottobre e tornata in Venezuela dopo 15 anni di assenza. I delegati dell’UE sono stati chiamati spie e nemici del popolo venezuelano dallo stesso Maduro, che come se non bastasse, ha invalidato la vittoria del candidato dell’opposizione Freddy Superlano nello stato di Barinas. Qui infatti Superlano, della Mud (Mesa de la Unidad Democrática) ha affrontato sconfiggendolo, il fratello del defunto Hugo Chávez, ovvero Agernis Chávez. Barinas però è anche lo stato che ha dato i natali a Chávez ed è dunque un simbolo trascendentale per la rivoluzione bolivariana. In questo senso, accogliendo il diktat di Maduro, il Tribunal Supremo de Justicia (Tsj) ha informato a fine novembre che le elezioni a Barinas sono state invalidate e che si ripeteranno il 9 gennaio 2022: Superlano non potrà partecipare visto che su di lui esiste un processo amministrativo che gli impedisce di ricoprire cariche pubbliche.


Novembre ha visto poi la prima tornata elettorale delle presidenziali cilene che ha determinato la definizione del ballottaggio tra Boric e Kast, con il quale abbiamo iniziato questo veloce excursus, ma anche le storiche elezioni in Honduras: elezioni che hanno portato alla vittoria della leader di centrosinistra Xiomara Castro. Con una partecipazione del 70% degli aventi diritto, il paese centroamericano ha messo fine a 12 anni di neoliberismo (iniziato dopo il colpo di stato del 2009), dando la presidenza a una donna e sancendo la vittoria dei movimenti sociali e delle organizzazioni che si battono per la difesa dei territori e dei beni comuni.

Su queste due elezioni avevamo fatto il punto con Davide Matrone:

“Cile e Honduras: motivi sociali per confrontare responsi elettorali”.

Il mese si è concluso con un altro avvenimento epocale, ovvero la cerimonia attraverso la quale una giurista, Sandra Mason, è diventata la prima presidente della recente nata Repubblica delle Barbados. La cerimonia attraverso la quale l’isola caraibica ha cambiato il suo status da Monarchia Costituzionale (sotto il Regno di Elisabetta II) a Repubblica è avvenuta il 30 novembre. Un passaggio di consegne che ha coinciso con il 55esimo anniversario dell’indipendenza dell’isola caraibica, avvenuta nel 1966 ma che fino a fine novembre aveva continuato a essere legata alla Corona inglese.

Cosa ci aspetta nel 2022?

Se il 2021 è stato “senza tregua”, anche il 2022 ha davvero molto da offrire in termini di elezioni e processi elettorali.

Come già detto il calendario elettorale vedrà nuovamente a gennaio le elezioni nello stato di Barinas in Venezuela dove, senza troppa immaginazione, verrà dichiarato governatore Agernis Chávez. Il 6 febbraio si sposterà in Costa Rica per le elezioni legislative e presidenziali con una eventuale seconda tornata elettorale prevista per il 3 aprile. Ancora da definire poi le date delle elezioni “comarcali” a Panama ma soprattutto quelle del plebiscito nazionale in Cile per l’approvazione della nuova Costituzione. Inoltre il 2 ottobre si tornerà ancora una volta a votare in Perù per le elezioni regionali e municipali, sempre e quando le azioni di “spodestamento” di Pedro Castillo da parte dell’opposizioni non vadano a buon fine e non aprano la strada a nuovi e incerti scenari politici.

I due appuntamenti salienti però riguardano Colombia e Brasile dove due visioni diverse di società e di mondo si daranno battaglia per la presidenza.

In Colombia quest’anno siamo andati molte volte dapprima, a febbraio, con Ana Cristina Vargas, che poi è intervenuta in voce descrivendo l’insurrezione antiuribista di maggio:

e poi ci ha accompagnato anche Tullio Togni nei suoi vari interventi dal territorio, a giugno e dicembre
“Differenti protagonisti della rivolta colombiana. La necropolitica uribista”.

In Colombia, paese segnato da un processo di Pace che non decolla, da una disuguaglianza sociale in aumento e da interminabili casi di corruzione, violenza e impunità; l’Uribismo (movimento ideologico conservatore che segue la linea del’ex presidente Alvaro Uribe Vélez) dovrà cercare di frenare la sinistra in aumento di consenso. Il presidente uscente, l’uribista Ivan Duque, è stato indicato come il principale colpevole del fallimento degli accordi di Pace siglati da Juan Manuel Santos con le Farc e le proteste iniziate il 28 aprile 2021 hanno sancito la frattura definitiva con il popolo. La credibilità di Duque e la sua popolarità hanno subito dei duri colpi, anche a livello internazionale per i report delle ong e anche dell’Onu, sulle violazioni dei diritti umani perpetrate dagli squadroni antisommossa (Esmad) durante le proteste. In questo senso neanche i successi militari come la cattura del narcotrafficante Otoniel sono serviti a ridare smalto alla figura di Duque che milita nel partito Centro democratico, fondato da Uribe nel 2013.  Dall’altro lato la lista dei precandidati presidenziali continua ad ampliarsi favorendo una frammentazione del voto: a sinistra spicca il senatore Gustavo Petro che proverà per la terza volta a diventare presidente. Le elezioni si svolgeranno il 29 di maggio (prima tornata) con il ballottaggio previsto per il 19 giugno. Prima di quella data ci sarà un altro appuntamento elettorale che servirà per avere il polso della situazione, ovvero le elezioni legislative del 13 marzo.


In Brasile la situazione non solo è complessa ma è anche molto tesa. L’ex presidente Luiz Inácio Lula da Silva, una volta superati i “problemi giudiziari” non ha nascosto la volontà di candidarsi per le presidenziali che si svolgeranno in prima istanza il 2 ottobre, con il ballottaggio previsto per il 30 ottobre. Da un lato la sua popolarità è in crescita e dall’altro Jair Bolsonaro, l’attuale presidente cerca di correre ai ripari dopo anni di politiche aggressive, escludenti e negazioniste nei confronti del Covid-19 e dei relativi vaccini. La popolarità di Bolsonaro non gode di buona salute ma nel frattempo il 30 novembre scorso lo stesso Bolsonaro si è affiliato al Partido liberal (destra), pensando a una ricandidatura per il periodo 2022- 2026.

Altre figure di rilievo nel paese hanno annunciato la loro volontà di candidarsi e tra queste spicca sicuramente il nome di Sergio Moro. Moro infatti a novembre scorso si è affiliato al partito di centro Podemos, in vista della partecipazione alle elezioni del 2022, presentandosi come una terza via per il Brasile. La possibile candidatura a presidente di questo ex giudice di 49 anni ha sollevato però non poche polemiche visto che proprio lui aveva diretto in modo non imparziale la mega operazione anticorruzione conosciuta come “Lava Jato” che aveva portato alla carcerazione di Lula. La non imparzialità di Moro, sostenuta a più riprese da molte voci della sinistra brasiliana, è stata sancita in modo definitivo dalla Seconda sezione della Corte suprema del Brasile, che ha dichiarato martedì 23 marzo 2021 che l’ex giudice non ha agito con “imparzialità” in uno dei processi contro l’ex presidente Luiz Inácio Lula da Silva, le cui sentenze erano già state annullate in precedenza.

L'articolo Gli spartiacque delle comunità latinoamericane – 1 proviene da OGzero.

]]>