pashtun Archivi - OGzero https://ogzero.org/tag/pashtun/ geopolitica etc Thu, 09 Sep 2021 22:06:20 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.4.6 Khyber Pass: orizzonti perduti, orizzonti ritrovati https://ogzero.org/khyber-pass-mitico-luogo-nel-racconto-di-eric-salerno/ Sun, 05 Sep 2021 17:10:24 +0000 https://ogzero.org/?p=4834 Per concessione dell’autore e dell’Atlante delle Guerre pubblichiamo un estratto da “Orizzonti perduti, orizzonti ritrovati”, appena pubblicato da il Saggiatore. Si racconta del mitico Khyber Pass e di com’era un giovane Pakistan che cercava il suo posto nel mondo. Non com’è oggi dove, sulla frontiera tra i due paesi, si accalcano gli afgani che vogliono […]

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Per concessione dell’autore e dell’Atlante delle Guerre pubblichiamo un estratto da “Orizzonti perduti, orizzonti ritrovati”, appena pubblicato da il Saggiatore. Si racconta del mitico Khyber Pass e di com’era un giovane Pakistan che cercava il suo posto nel mondo. Non com’è oggi dove, sulla frontiera tra i due paesi, si accalcano gli afgani che vogliono sfuggire al regime talebano e alla miseria del loro paese dopo oltre 40 anni di guerra. Abbiamo pensato di accostare a questo racconto, quello – anch’esso di Eric Salerno – scritto nel dicembre 1960, che descrive le tribù che abitavano il Passo Khyber. Spunti di riflessione per capire la composizione tribale odierna e gli scontri tra comunità in quelle terre illustrati da immagini scattate dall’autore.


Passo Khyber. Abito scuro, camicia bianca e cravatta: io, invitato sulla rotta che sarebbe stata resa famosa dagli hippy europei e americani e che la Pakistan International Airlines, all’epoca una delle più importanti compagnie aeree dell’Oriente, forse del mondo, apriva al turismo d’élite. Siamo nel 1960, tredici anni dopo la Partizione, quella terribile divisione della vecchia India in due stati che costò la vita a un milione di persone, stravolse quella di centinaia di milioni e lasciò una ferita che oggi sembra più aperta di allora. Fu una delle mie prime esperienze all’estero da viaggiatore e giornalista insieme.

Sono nato nel 1939. La data di nascita del Pakistan è il 14 agosto 1947. Negli anni Sessanta il paese, giovane e antico allo stesso tempo, vide uno dei suoi momenti migliori. Io ero giornalista da poco, ma avevo un patrimonio invidiabile da sfruttare: oltre a me, solo un altro redattore di “Paese Sera” parlava l’inglese, ma era molto più grande e i suoi impegni mi regalarono ampio spazio di manovra. La lingua dell’Impero britannico in fase decadente e dei vincitori della Seconda guerra mondiale era ancora relegata in secondo ordine dagli italiani, dopo quella dei cugini odiati d’oltralpe. Eppure stava diventando sempre più essenziale nel mondo che iniziava ad aprirsi anche grazie allo sviluppo dell’aviazione civile, di cui avevo cominciato a occuparmi sulle pagine del battagliero quotidiano romano di sinistra, vera scuola di giornalismo.

Da Roma, il gruppo di reporter italiani, di cui ero il più giovane, volò fino a Londra per imbarcarsi sul volo inaugurale del primo 707 con i colori della Pia, un quadrigetto della Boeing, sulla rotta di Karachi, allora – ma ancora per poco – la capitale del Pakistan. Una prima classe come non ne vidi più. Un servizio impeccabile: la mia prima aragosta, champagne e tutto il resto. Tappa sotto la neve a Francoforte, un’altra a Zurigo. Poi la traversata del Mediterraneo e il mio primo approdo a Beirut, la Svizzera del Medio Oriente si diceva allora, dove ci aspettava una splendida cena levantina con tanto di danza del ventre in un ristorante dell’aeroporto prima di riprendere il volo per Teheran e, tempo di fare rifornimento, di assistere a un altro spettacolo di danza in un locale non distante dallo scalo. Arrivammo a Karachi all’alba, accolti da dirigenti della Pia, da una delegazione dell’ambasciata italiana e, scesi dal pulmino davanti allo storico hotel Metropole, da stormi di corvi neri.

Il verde, quello dell’islam, era il colore ufficiale della Pia e dello stato nato apposta per i musulmani, ma allora Karachi era una metropoli multiculturale, multietnica e multireligiosa aperta al mondo – più all’Occidente che all’Oriente – che usciva dalla Grande guerra numero due e dalla fine ufficiale degli imperi coloniali. Le divise delle hostess erano state disegnate da Pierre Cardin, icona della moda parigina, l’unico a fare testo. Turisti americani e britannici in costume prendevano il sole sulla spiaggia di fronte al mar Arabico. I locali notturni abbondavano. Le orchestre jazz imperversavano. L’alcol era tabù solo per chi non voleva bere. L’hashish, con discrezione, era accessibile a hippy e finti figli dei fiori di passaggio. Droghe più pesanti non mancavano. I camerieri in livrea del Metropole, luogo di ritrovo dei giornalisti stranieri, di una certa borghesia locale, dei turisti – avanguardia del boom degli anni a venire –, erano impeccabili nel loro servizio. E nel prendersi gioco dei clienti, ai quali propinavano prelibatezze della cucina locale che nemmeno un fachiro mangiatore di fuoco avrebbe mandato giù senza una smorfia di dolore. «Con un sorso di scotch si smorza tutto» e lo offrivano sorridendo….
….
Non ci sono turisti oggi a Peshawar e le botteghe della città di confine vendono soprattutto fucili, mitragliatrici, pistole, cartucce di ogni genere, cartucciere. Roba nuova di zecca e armi avanzate da quando, non molti anni fa, Usa e Urss si fronteggiavano indirettamente per il controllo dell’Afghanistan, uno dei paesi strategicamente più importanti della regione. Sarebbe riduttivo parlare solo di armi sui banchi dei negozi. Da quando le truppe di Mosca lasciarono il posto a quelle di Washington, il Pakistan (potenza nucleare come l’India) è direttamente o indirettamente coinvolto nei grandi traffici di stupefacenti, soprattutto oppio e i suoi derivati, partiti dalle ricche coltivazioni afgane. Ci vorrebbero livelli di turismo oggi nemmeno pensabili per sostituire e distribuire l’elevato reddito pro capite prodotto dalla droga.

E oggi – mi riferisco sempre ai gloriosi tempi pre Covid – non ci sono turisti nemmeno a Lahore, se non pochi gruppi isolati attirati da un paio di intraprendenti e molto sospetti travel blogger americani e inglesi. Una di loro è stata accusata di lavorare non soltanto per gli addetti al turismo locali ma addirittura per i servizi segreti, considerati molto vicini alle numerose organizzazioni terroristiche che operano nella zona. «Nessun pericolo» sostiene il regime (uno dei meno democratici di quella regione), la blogger «non fa che difendere gli interessi del popolo». Affermazioni che hanno provocato la dura reazione di organizzazioni antigovernative che denunciano come i diritti umani in Pakistan siano un’opzione, il terrorismo e il traffico di stupefacenti marcino mano nella mano, le donne vengano trattate come nel Medioevo e i dissidenti finiscano quasi sempre in galera se non sottoterra. Nonostante le campagne dei blogger entusiasti che riempiono il web di parole e filmati, girati anche in alcune delle zone più pericolose del paese, turisti e viaggiatori stranieri restano pochi. Passeggiare, come ebbi la possibilità di fare nei viali degli straordinari giardini Shalimar di Lahore, eredità del Gran Moghul Shah Jahan che li fece costruire nel 1641, è raro e spesso pericoloso. I giardini furono inclusi dall’Unesco tra i patrimoni dell’umanità nel 1981.

Hanno la forma di un parallelogramma oblungo, circondato da un alto muro a mattoni. Il giardino misura 658 metri sulla direttrice nord‐sud e 258 sulla est‐ovest. Ai giornalisti italiani invitati nel 1960 per raccontare le bellezze del paese e stimolare il turismo non fu difficile descrivere, nei loro articoli, la meravigliosa simmetria del vasto parco che si sviluppa su tre terrazze, sopraelevate di 4‐5 metri una dall’altra. Appuntai il loro nome in lingua urdu: Farah Baksh (“apportatrice di piacere”), Faiz Baksh (“apportatrice di bontà”), Hayat Baksh (“apportatrice di vita”).
Mi dicono che le guide turistiche più anziane non trovano difficile spiegare per quale motivo e come si è potuti passare dal boom degli anni Sessanta alla tragica situazione di oggi – gelosie tribali e intricati giochi politici –, ma preferiscono parlare dei tesori di questa città. La moschea imperiale, che coniuga passione, bellezza e gloria dei moghul, come altri luoghi di culto in giro per il mondo, fu sconsacrata più volte nel corso dei secoli e usata come presidio militare dagli invasori sikh e dai gentiluomini di Londra in divisa. I turisti che, come me, la visitarono negli anni Sessanta potevano apprezzarne l’architettura ma poco le sue opere d’arte, che soltanto di recente sono state restaurate e rimesse al loro posto, o sostituite.

La Pia era considerata una delle compagnie aeree principali del mondo e l’aeroporto di Karachi, la “porta all’Asia”. Titolo e funzione che avrebbe mantenuto durante tutto il boom economico e la rapida industrializzazione che accompagnarono la prima metà del regime militare di Ayub Khan, feldmaresciallo arrivato al potere con un golpe e votato a schiacciare corruzione e crimine nella vecchia capitale mentre preparava le basi per costruire quella nuova, Islamabad. Le spiagge di Karachi, scrisse all’epoca il “Washington Post” che raccontava la vita dei turisti stranieri, «sono le più pulite dell’Asia». E non soltanto le spiagge. Le vie del boom, con una nuova borsa, banche, società di assicurazioni, giornali, venivano «lavate con l’acqua tutti i giorni». Il sogno e il turismo sarebbero durati poco. Già nel 1965, pochi anni dopo la mia visita, le contraddizioni e i contrasti dovuti all’industrializzazione cominciarono a provocare i primi scontri tra la maggioranza muhajir di Karachi e i migranti pashtun, arrivati dall’Afghanistan in cerca di lavoro. La capitale era in difficoltà, ma lo era anche il resto del paese, che non riusciva a trovare pace nella sua faticosa ricerca di un’identità, sempre più islamica, sempre meno tollerante.

Ormai è chiaro, e quasi tutti gli storici e chi osserva le realtà del mondo di oggi concordano: i vecchi imperi avevano una tenuta che gli stati usciti dalla loro frammentazione non hanno ereditato. Negli anni Settanta i movimenti islamisti divennero più forti. Le attrazioni per i viaggiatori stranieri, meno appetibili. La minoranza cristiana, fulcro di una parte importante della vita notturna di Karachi, cominciò ad abbandonare il paese. Il declino lento ma inesorabile toccò anche alla Pia e l’aeroporto dell’ex capitale fu costretto a cedere l’etichetta di «porta dell’Asia» a Dubai. Nel 2002, agli scontri tribali e ai contrasti etnici si aggiunse una nuova forma di terrorismo. Decine di passanti furono uccisi da alcuni kamikaze che si fecero saltare in aria accanto all’albergo Marriott e all’ambasciata Usa.

Articolo di Eric Salerno su “Paese Sera” del 12-13 dicembre 1960.

Qualche mese prima, il giornalista del “Wall Street Journal” Daniel Pearl era stato rapito dopo essere uscito dal Village restaurant di fronte a quel famoso ma ormai decaduto albergo Metropole, sarebbe stato decapitato nel giro di pochi giorni. Nel 2007 gli dedicarono un film, Un cuore grande, e per girare la scena del rapimento fu richiesto un imponente cordone di sicurezza della polizia di Karachi. Erano stati i fondamentalisti islamici a uccidere il mio collega, non si voleva rischiare un’altra tragedia. Da allora pochi osano parlare di turismo occidentale da quelle parti.

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Syngué sabour: appunti per un’Orestiade afgana https://ogzero.org/l-occidente-non-ha-mai-compreso-larea-centrasiatica/ Sat, 04 Sep 2021 13:40:21 +0000 https://ogzero.org/?p=4811 L’Occidente non ha mai compreso l’area centrasiatica, perché l’ha assimilata nell’immaginario alla propria mentalità e alla propria filosofia, senza sforzarsi di collocare i sistemi delle comunità nella loro tradizione di riferimento. A decolonizzazione avvenuta si può forse tentare di inquadrare alcuni aspetti per intessere poi una tragedia pasoliniana che possa raccontare il Great Game come […]

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L’Occidente non ha mai compreso l’area centrasiatica, perché l’ha assimilata nell’immaginario alla propria mentalità e alla propria filosofia, senza sforzarsi di collocare i sistemi delle comunità nella loro tradizione di riferimento. A decolonizzazione avvenuta si può forse tentare di inquadrare alcuni aspetti per intessere poi una tragedia pasoliniana che possa raccontare il Great Game come è avvenuto e perché si è arrivati a questo epilogo. E di lì imparare a trovare la corretta e rispettosa forma relazionale con il mondo compreso tra l’Hindu-Kush e il deserto iranico.

Syngué sabour: la pietra paziente, la pietra ascolta, finché non si frantuma.


La clanicità esibita dal processo di talebanizzazione

Rassicuranti non lo sono mai stati e le loro biffe senza sorriso non lo saranno mai. Ma ora sono cambiati: i Talebani hanno imparato soprattutto il modo di promuoversi sugli schermi occidentali e quanto sia importante la comunicazione in un mondo mediatico, dove persino l’impressione levantina dei capi e quella orrifica dei tagliagole, nei loro stracci e barboni vecchi di due millenni nell’iconografia stantia e un po’ razzista, diventano folklore; se fanno la parte a loro assegnata da Trump, risultando credibili a Doha, perché svolgono il ruolo di negoziatori (attribuitogli dal circo mediatico per assicurare il business degli accordi geopolitici), consentono al mondo di sfilare gli scarponi costosi dal terreno e consegnare al Pakistan, loro mentore, di controllare il territorio su mandato americano.

Un ruolo quello di negoziatori che la loro cultura riconosce ai capiclan maschi e che è quella ricercata dalla controparte fatta di maschi americani. Ciò che li ha accomunati è l’appartenenza al più vieto conservatorismo di entrambe le società.
Certo l’evoluzione degli squadristi diventa la requisizione delle auto degli anziani hazara nella provincia di Ghazni, come ci racconta un afgano delal diaspora di ciò che è avvenuto a suo padre al villaggio durante un rastrellamento (a cui il fratello si è sottratto scappando in montagna), quando 30 anni fa avrebbero perpetrato l’abigeato di tutti gli armenti; ma in fondo anche i fascisti nostrani usano con spregiudicatezza i social, pur rimanendo buzzurri celoduristi.

Colonizzatori si nasce

La solita eccezione culturale francese si chiede se sia possibile confrontarsi, e quindi conferirgli un riconoscimento, con le posizioni talebane senza venir meno ai propri principi. Una posizione palesemente ancora fondamentalmente colonialista perché connota il gruppo in senso razzista e prevede una superiorità di principi da esportare: in realtà quei principi dovrebbero riuscire a comprendere come ragiona la controparte per poter individuare i punti su cui avviare la trattativa (ed eventualmente insinuare un elemento che possa fare da base a un sincretismo che permetta un’evoluzione di entrambi), perché senza il confronto non c’è che la soluzione di forza, visto che non si è potuta creare una alternativa nazionale credibile riconosciuta dagli afgani ai quali si sono volute imporre figure – corrotte e inconsistenti – ritagliate sul modello occidentale, alieno a chi rimaneva povero e sfruttato dagli occidentali come dai Signori della Guerra – tutti ugualmente fondamentalisti (uzbeki di Dostum, tajik di Massoud, hazara di Mazari, pashtun di Hekmatyar). E questo è il risultato.

L’anima feroce

Vero che il movimento politicamente retrivo dei Talebani ha due facce: una pashtun, quindi interna alla nazione – anche se proveniente dall’unica cultura dei monti del Waziristan divisi dalla Durand Line tra Pakistan e Afghanistan – le cui tribù si possono scoprire nel capitolo (collocato nel 1960!) dedicato al Pakistan da Eric Salerno nel suo volume Orizzonti perduti, orizzonti ritrovati – e guida politica di questo tradizionalismo che ambisce a dare vita a un governo che imponga tutte le convinzioni tribali, legittimate da un sunnismo invariato anche perché utilizzato per fungere da collante contro le molte aggressioni coloniali a cui ha fatto fronte proprio grazie alla sua chiusura; l’altra, in parte uzbeka e in buona parte araba – saudita, qatariota e tutta la compagnia di giro del jihadismo – che costituisce il nerbo dell’ala militare, feroce e pervasa di volontà di vendetta fanatica, che impone il giro di vite sui diritti all’interno della nazione… e questo potrebbe risvegliare le coscienze della società civile che mal tollerava la presenza straniera e ora guarda con altrettanto dispetto ai jihadisti di varia provenienza – con aggiunta di orrore nelle notti riempite da musiche inneggianti alla guerra santa sparate a tutto volume nei pressi dei quartieri hazara, minacciosa e incombente presenza che prelude a rastrellamenti e abusi come nelle notti kabuline subito dopo la fuga statunitense. Un disimpegno che ha permesso già molti abusi e atti di violenza: l’uccisione in diretta Fb di un hazara cittadino australiano che riprendeva violenze, apostrofato dagli squadristi e ucciso sotto gli occhi di moglie e figli; l’umiliazione di dover seguire un percorso attraverso le fogne per arrivare all’aeroporto e venire sollevati di peso e rigettati dai marines sul gregge vociante, ma incapace di ribellione (perché non è nelle modalità previste da nessun clan); essere sottomessi al trattamento dei militari addestrati dallo US Army, che nell’aeroporto ti fanno abbassare la mascherina per riconoscere i connotati hazara e a quel punto avvicinano l’arma al tuo orecchio, esplodendo colpi che sfiorano tua moglie… questi sono episodi narrati con indignato terrore da un hazara che usava le ferie per ottenere documenti per il ricongiungimento e che il Console buono ha sedotto e abbandonato.

Clan e tribù: la coazione a ripetere

Per capire come funziona un accordo che si va a stringere con una realtà simile a quella talebana ci si deve ancora una volta immergere nell’idea clanica, opposta a quella di comunità di individui postilluminista: ciò che accomuna gli afgani – a qualunque appartenenza culturale facciano riferimento (pashtun, tajik, uzbek, hazara, turkmeni, kirghizi, nuri, aimak, wakhi…) – è la consapevolezza che tutto si regge sulla tradizionale competizione tra tribù fondata sulla coazione a ripetere invariata di ogni singola consuetudine della struttura, e quindi dei riti, delle cerimonie, dei matrimoni combinati, ma soprattutto dei ruoli; ciò che l’Occidente non è in grado di capire, perché ha scardinato quel sistema secoli fa e non ne ha più memoria, è che nessuno dei fondamenti custoditi dai potenti del clan può venir meno, a rischio di implosione di tutto. E quindi, come ribadiscono testimoni abbandonati dai ponti aerei, le donne non devono poter accedere alla istruzione per più di 7 anni (perché la cultura è l’antidoto contro ogni forma di repressione), le barbe non vanno tagliate (perché si è sempre fatto così), le donne non possono indossare pantaloni bianchi (mamnu, perché il loro culo contaminerebbe il colore della bandiera talebana)… sciocchezze per altre tradizioni, ma metodi già ripristinati con il corredo di taglio di mani ai ladri e lapidazione alle adultere, per rassicurare chi ha introiettato un ordine prescrittivo forte che non tralascia alcun dettaglio per perpetuare invariato un mondo, preservandolo da incrinature che potrebbero rovesciare i rapporti di controllo sulla società.

L’articolo di Giuliano Battiston è stato pubblicato da “il manifesto” il 29 agosto 2021 e si trova tra gli articoli di analisi prodotti da “Lettera 22

La ribellione non è contemplata

Ma non è un caso che non ci siano state resistenze all’avvento delle orde talebane: erano già collaterali a una società che tra occupanti portatori di affari e tradizionalisti aveva già deciso come regolarsi. Sarebbe bastata quella incrinatura a minare il “cimitero degli Imperi” ben più di un’oliata macchina da guerra tecnologica. In realtà la ribellione, anzi anche solo la protesta, non è contemplata. Per esempio le donne (poche significative decine inizialmente e poi sempre di più, ma ancora minoranza, nonostante il supporto di molti uomini estranei alla tradizione patriarcale) che il 2 settembre hanno inscenato manifestazioni in particolare a Herat sono il risultato dei vent’anni di apparente vacanza dal controllo della tradizione: il fatto che abbiano potuto farlo senza una reazione significativa iniziale da parte dei fondamentalisti dimostra come non le considerino realmente pericolose e che i vent’anni di affari e traffici senza immaginare di poter consentire la creazione di un sistema alternativo non hanno emancipato che pochi individui… e che i Talebani hanno imparato anche come in certe situazioni conviene fingersi tolleranti: finisce che fa gioco mostrare che non si reprimono manifestazioni pubbliche. E non ci si può scandalizzare per un po’ di lacrimogeni il giorno successivo a Kabul, perché altrimenti gli stessi giornalisti inorriditi dai manganelli a Kabul, dovrebbero farlo anche in Val di Susa; piuttosto è da valutare l’imbarazzo e la reazione legata alla sorpresa di scoprire un mondo femminile sconosciuto, e così diventano le situazioni quotidiane, che vengono represse dal patriarcato, a fare la differenza rispetto alla predisposizione a un confronto dialettico impossibile, non avendo una lingua comune. Sparare nervosamente in aria, perché non si può (ancora) sparare addosso a questi che sono alieni per l’universo di riferimento talebano, è la più esplicita esibizione di lontananza dal mondo cresciuto in questi vent’anni a Kabul e nelle grandi città, spazi fuori controllo rispetto ai giochetti rassicuranti dei vilayet dei monti. Lo stesso distacco, che non può tollerare la ricetta oscurantista, produce un mondo separato di repressi, brutalmente – e quindi per la legge islamica giustamente terrorizzati dai poco lucidi e ancor meno rassicuranti filopakistani. E quelle donne a loro volta vengono sottoposte a minacce da parte dei confusi (dall’impatto con la metropoli) Talebani e sgomente al punto di indossare il burqa –anche manifestando – pur se nessuno lo ha prescritto.

Herat, manifestazione di donne 3 settembre 2021

Dal fronte femminile si registrano alcune ribellioni, contestazioni – impossibile sognare che si svolgano provocatoriamente senza veli: sarebbe davvero suicidio –, o prese di posizione che possano infastidire, ma non è vero che non agiscano “autonomamente”: sono sempre più numerosi i casi di mogli selezionate dal clan che – dopo un tempo più o meno lungo di permanenza nei paesi in cui i giovani afgani protagonisti della migrazione di 15 anni fa le hanno ricongiunte – abbandonano il tetto coniugale per raggiungere i paesi del Nordeuropa attraverso una rete che organizza il trasferimento. Fin dal primo momento insistono per ricollocarsi in paesi in cui le possibilità sono migliori di quelle del Sudeuropa – evidente la missione assegnata dal clan anche a loro, un incarico che non prevede il coinvolgimento del coniuge, ridotto a semplice passeur legale che spesso non è nemmeno a conoscenza dell’intenzione iniziale della famiglia, benché la blanda opposizione lasci intendere che l’epilogo era messo in conto, conoscendo i calcoli clanici. Anche in questo caso in cui apparentemente sembra che le donne prendano in mano il loro futuro, sono ancora una volta strumenti della volontà della famiglia patriarcale.

Una storia, tante storie

Figurarsi quanto possono radicarsi e durare i diritti mai realmente compenetrati nella società afgana, perché non è una società di individui: persino quando scrivono i libri che raccontano la loro storia, commuovendo l’Occidente, ciascuno dei giovani afgani, stimolati a far conoscere la loro storia dagli amici europei ammaliati dall’esotismo e colpiti dalle vicissitudini, non riesce a fare una biografia ma la figura dell’io narrante comprende tante storie di tanti esuli: tutti insieme costituiscono la comunità afgana della diaspora e la sua narrazione che è unica e collettiva e quindi è anche eticamente corretto per loro attribuirsi episodi non vissuti in prima persona, ma comuni ai “conoscenti” afgani che hanno incrociato nel viaggio e nell’inserimento nella società europea e contemporaneamente i nuovi rituali degli expat e le telefonate quotidiane con il clan.

Scatto di Seyf Karimi, Kabul – Chindawol, 4 settembre 2021

Una realtà che non si fonda sull’individuo riconosce solo il ruolo collettivo in cui il singolo è un numero la cui attività è regolata dalla tradizione: infatti ora i Talebani si trovano di fronte a un incrocio: i giovani che in questi 20 anni sono stati contaminati dalla frequentazione di mentalità e comportamenti estranei alla tradizione, o i ragazzi della diaspora costretti all’emigrazione – che tutti, nessuno escluso, hanno mantenuto i contatti con il clan e ne sono stati in qualche modo condizionati e manipolati, soprattutto per legami matrimoniali o per mantenere il ruolo che era loro prescritto già alla partenza – ora trentenni con metà della vita trascorsa in Europa, pur sempre avvolti o protetti o comunque coinvolti dalla comunità expat, sono portatori di modi di pensare e vivere che sarebbero letali per il meccanismo clanico, quindi vanno trattenuti per il loro know how tecnologico utile all’emirato di “trogloditi in turbante” come vengono concepiti da quelli intrappolati a Kabul dalla loro repentina avanzata, oppure è meglio consentirgli di abbandonare il territorio per continuare a mandare rimesse senza contaminare la restaurazione? Forse che vengano riconosciuti come elementi ormai irrecuperabili all’islam e quindi nocivi può consentire il successo dei corridoi umanitari; dopo probabilmente i restanti verranno eliminati, pena mantenere attivi e inglobati nella realtà congelata locale potenziali tarli capaci di minare il processo di conservazione.
Poi gli affari si fanno con chiunque anche da confini nei quali la cultura estranea non può insinuarsi, ma pecunia non olet.

Emanuele Giordana è attento da tempo alle potenziali esportazioni di califfati fuori dalla Mesopotamia, fin dal volume collettaneo pubblicato da Rosenberg & Sellier nel 2017: A oriente del califfo.

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Il dramma dimenticato degli hazara in Pakistan https://ogzero.org/gli-hazara-di-quetta/ Thu, 11 Feb 2021 17:27:11 +0000 http://ogzero.org/?p=2405 Emozioni elitarie ad alta quota Vuoi per “provocazione amichevole”, vuoi per sapere cosa ne penso (in riferimento al polverone sollevato l’anno scorso dal mio articolo sulla relazione tra alpinismo e colonialismo), qualche compagno ha voluto scomodarsi per aggiornarmi su alcune recenti “imprese” alpinistiche extraeuropee. Vedi sul K2 destinato – azzardo – a diventare la nuova, […]

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Emozioni elitarie ad alta quota

Vuoi per “provocazione amichevole”, vuoi per sapere cosa ne penso (in riferimento al polverone sollevato l’anno scorso dal mio articolo sulla relazione tra alpinismo e colonialismo), qualche compagno ha voluto scomodarsi per aggiornarmi su alcune recenti “imprese” alpinistiche extraeuropee. Vedi sul K2 destinato – azzardo – a diventare la nuova, costosa meta di prestigio per ricchi turisti in cerca di emozioni elitarie (e presumibilmente a trasformarsi nella seconda grande discarica d’alta quota, dopo l’ormai inflazionato Everest).

Cos’altro posso dire che non abbia già detto?  Forse soltanto: “A volte ritornano” (crisi d’astinenza o coazione a ripetere?).

Peccato comunque per i leopardi delle nevi che nel corso del 2020 – come sostenevano alcuni naturalisti – si stavano  riappropriando dei legittimi spazi e territori. Grazie alla consistente rarefazione di turisti-alpinisti (effetto collaterale – benigno – del Covid-19).

Peccato, ripeto. Resta sempre il problema di come si possa fare serenamente del turismo – se pure d’alta quota – in un paese che opprime e reprime donne, diseredati e minoranze.

In precedenza mi ero occupato dei beluci. Non sono gli unici naturalmente.

Una premessa di carattere generale: tutto il mondo è paese

Inoltrandosi nel complicato “groviglio” orientale può capitare, per quanto in buonafede, di trascurare alcune “minoranze” (termine riduttivo, in realtà si dovrebbe parlare di “popoli minorizzati”, in genere forzatamente).

Popolazioni che talvolta emergono dall’anonimato in cui le vorrebbe segregate qualche potenza regionale (magari cambiando denominazione: vedi l’epiteto di “turchi di montagna” usato per i curdi del Bakur) soltanto per qualche rivolta disperata a cui segue – fatalmente – un’impietosa repressione. Oppure quando qualche potenza concorrenziale cerca di utilizzarli per scopi non certo disinteressati.

O ancora, sempre pensando ai curdi (ma stavolta del Bashur), ripercorrendo quanto avvenne 30 anni fa con la prima guerra del Golfo, quando le rivolte curda (a nord) e sciita (a sud) stavano per abbattere autonomamente – sia pure come effetto collaterale dell’attacco statunitense – il regime (e non solo l’ormai impresentabile Saddam, alleato storico dell’Occidente). Temendo che la situazione sfuggisse loro di mano, gli Usa preferirono liberare e riarmare – con elicotteri e carri armati in parte di produzione italica – i soldati iracheni già sconfitti e catturati. Consentendo loro di scatenare l’ennesima, sanguinosa repressione. Fatte le debite proporzioni, ricordava quanto avvenne in Francia all’epoca della Commune. Quando i prussiani – temendo il “contagio” della grandiosa sollevazione popolare – ugualmente liberarono e riarmarono i soldati francesi. Per consentirgli di “ristabilire l’ordine a Parigi” massacrando i comunardi.

Gli hazara del Pakistan, minoranza nativa sciita

Messi da parte contrasti e inimicizie, alla fine – quasi sempre – i potenti trovano un accordo. Perlomeno quando si tratta di conservare il controllo, la sottomissione di classi subalterne, minoranze indocili e popoli ribelli.

Ma non tutti i popoli, purtroppo, approdano in maniera significativa alle pagine dei giornali o del web.

È questo – mi pare – il caso degli hazara insediati nella regione pachistana del Belucistan (la maggior parte, circa 500.000, a Quetta). Da considerare ormai alla stregua di “minoranza nativa” in quanto discendono da coloro che qui emigrarono dall’Afghanistan più di un secolo fa.

Di religione sciita, periodicamente sono sottoposti a uccisioni mirate, rapimenti e massacri.

Una mappa dei gruppi etnolinguistici dell’area, tratta da “La Grande Illusione”, a cura di Emanuele Giordana, Torino, Rosenberg & Sellier, 2019

E non da ora. Risalendo indietro nel tempo, vediamo che tra il 2001 e il 2011 almeno 600 hazara avevano perso la vita in attacchi settari. Solo nei primi tre mesi del 2012 altri 30.

All’epoca la maggior parte degli attentati vennero rivendicati dai fondamentalisti sunniti di Lashkar-e-Jhangvi Al-Alami, braccio armato del Sipah Sahaba Pakistan (Ssp), entrambi – presumibilmente – manipolati dai servizi segreti pachistani.

Dopo essere state dichiarate illegali, le due organizzazioni si ricostituirono come Millat Islamia Pakistan e Ahl-e-Sunnat Wal Jamat.

Quetta, attivisti di Ahle Sunnat Wal Jamat (ASWJ, fondamentalisti sunniti) cantano slogan contro la dissacrazione del Corano durante una protesta nel dicembre 2013 (foto Arsalan Naseer/PPI Images).

La ribellione senza velleità separatiste

Da parte loro, gli hazara rispondevano solo politicamente, con scioperi e proteste. E, particolare non irrilevante, senza particolari velleità separatiste (anche per non fornire alibi alla repressione governativa).

La manifestazione del 21 settembre 2011 – indetta per protestare contro una strage di pellegrini sciiti che viaggiavano in autobus – era entrata nella storia per la grande partecipazione popolare.

Ma solo dopo pochi giorni, il 4 ottobre 2011, la violenza settaria colpiva un altro autobus e diversi hazara – operai che andavano al lavoro – perdevano la vita.

Con le stesse modalità il 29 marzo 2012 venivano ammazzati otto hazara, mentre il 6 aprile altri sei venivano trucidati in una bottega artigianale. Nei primi mesi del 2013 si parlava addirittura di quasi 200 hazara morti in attentati settari.

In precedenza, nel 2010, era stato assassinato Hussein Ali Youssafi, presidente del Partito democratico hazara (fondato nel 2003). A lui subentrava Abdul Khaliq Hazara che – quando si recò a Islamabad per denunciare la situazione in cui versava il suo popolo – si sentì chiedere di sospendere le manifestazioni di protesta.

L’ingerenza saudita

Per la cronaca, circa nello stesso periodo i fondamentalisti sunniti tornavano a colpire anche gli hazara dell’Afghanistan (oltre due milioni), accusandoli – ovviamente – di essere “infedeli”. Venne poi accertato che alcuni degli attentati più devastanti erano opera non dei talebani afgani, ma di miliziani provenienti dal Pakistan legati a Lashkar-e-Jhangvi Al-Alami.

Intanto continuava lo stillicidio di omicidi settari e vere e proprie stragi nelle strade di Quetta (e alcuni osservatori vi intravedono ingerenze, infiltrazioni e finanziamenti sauditi).

A Quetta (2,3 milioni di abitanti) vivono sia pasthun che beluci e aimak, ma è fuori discussione che – almeno in percentuale – il maggior numero di vittime sono hazara.

Non solo. Per anni questa “comunità sotto controllo” è vissuta praticamente confinata, segregata in enclave circondate da posti di blocco (tipo Irlanda del Nord). In teoria potrebbero circolare liberamente per la città, ma a proprio rischio e pericolo.

Gli hazara di Quetta

E la comunità internazionale?

Quanto alla comunità internazionale – Usa e Unione europea in particolare – non sembra aver mai mostrato particolare interesse per le vicende di tale minoranza che in quanto sciiti venivano – e vengono – considerati potenziali alleati di Teheran. Così come, coincidenza o analogia, all’epoca nessuno mostrò particolare interesse per la “primavera” sciita nel Barhein (repressa con l’intervento di Arabia Saudita e Qatar e il tacito assenso dell’Occidente).

E invece l’Iran «non ci aiuta, cerca piuttosto di infiltrarci e controllarci tramite la religione».

O almeno così sosteneva, ritengo a ragion veduta, in una conferenza stampa Khaliq Hazara.

Comunque, proseguiva «grazie ai finanziamenti di Teheran, gruppi filoiraniani come Tehreik-e-NifazFiqa-e-Jafria avevano aperto a Quetta dozzine di scuole coraniche, ma noi siamo laici e lottiamo per la giustizia sociale, la democrazia, il rispetto della vita umana e la tolleranza».

Ricordando che «i due milioni di hazara (in gran parte rifugiati dall’Afghanistan N. d. A.) che vivono in Iran sono trattati come cittadini di serie C». In qualche modo ostaggi dei conflitti di influenza tra l’Iran sciita e l’Arabia saudita sunnita (e non si può escludere che talvolta i responsabili vadano individuati tra i beluci sunniti).

Le violenze continuano anche in Afghanistan

Ai nostri giorni le violenze ai danni degli sciiti hazara, delle loro scuole e luoghi di culto proseguono inesorabili.

Per esempio, nel settembre dell’anno scorso, un attentato suicida (rivendicato da Wahhabi Daesh e da Lashkar-e- Jhangvi) ha causato più di venti morti e oltre cinquanta feriti in un mercato.

Quest’anno, il 3 gennaio, 11 membri della comunità hazara sono stati prima sequestrati e poi assassinati dall’Isis nella città di Machh. Si trattava di minatori qui emigrati – spinti dalla miseria – da Daikondi (Afghanistan).

Le famiglie delle vittime avevano espresso la loro rabbia manifestando nelle strade contro il governo (definito “complice”). Addirittura si rifiutavano di seppellire i morti come forma di protesta per la mancata protezione.

Anche se poi, come hanno dichiarato alcuni familiari: «alla fine dovremo seppellirli e non avremo altra scelta che chiedere ai nostri parenti in Afghanistan e all’estero di aiutarci a pagare». Una ulteriore umiliazione per chi versa in condizioni di estrema povertà. Peraltro da entrambe le parti della Durand Line.

E non sono certo bastate a placare gli animi le pubbliche dichiarazioni – di circostanza – venute da vari esponenti dell’apparato politico-militare al potere. Comprese quelle del primo ministro Imran Khan che in varie occasioni ha espresso solidarietà alle vittime.

Nessuna risposta, nessuna protesta

Amnesty International ha condannato con forza le molteplici violazioni dei diritti umani subite dagli hazara. In particolare ha chiesto che «il capo di Stato maggiore dell’esercito venga a Quetta per vedere di persona la miseria e le difficoltà del popolo hazara».

Senza – almeno per ora – ricevere risposta.Tutto questo, ripeto, nel paese che un sempre maggior numero di scanzonati turisti benestanti d’alta quota (il cui livello di consapevolezza sociale e ambientale lascia quantomeno a desiderare) ha individuato come “parco giochi spettacolare”. Invece di boicottarlo come ai vecchi tempi si faceva con il Sudafrica dell’apartheid.

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Il jihad come instrumentum regni https://ogzero.org/il-jihad-come-instrumentum-regni/ Sat, 30 May 2020 08:27:40 +0000 http://ogzero.org/?p=182 Segmentazione e unificazione tribale periodica nel contesto magmatico dei brand jihadisti. La capacità di resistere alla centralizzazione dello stato Elisa Giunchi, novembre 2019 – maggio 2020 L’islam tribale e la sua militarizzazione Già nell’Ottocento funzionari, etnografi e viaggiatori britannici annotarono quanto sarebbe poi stato confermato dagli studi antropologici a partire dagli anni Cinquanta del Novecento: […]

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Segmentazione e unificazione tribale periodica nel contesto magmatico dei brand jihadisti. La capacità di resistere alla centralizzazione dello stato

Elisa Giunchi, novembre 2019 – maggio 2020

L’islam tribale e la sua militarizzazione

Già nell’Ottocento funzionari, etnografi e viaggiatori britannici annotarono quanto sarebbe poi stato confermato dagli studi antropologici a partire dagli anni Cinquanta del Novecento: le tribù pashtun del Sudest erano caratterizzate da un codice etico, il pashtunwali, incentrato su alcuni valori che, pur presenti anche presso altre comunità, erano stati qui tradotti in norme minuziose, da una struttura acefala che rendeva necessaria la pratica del consenso attraverso assemblee consultive (jirga) e da una sostanziale indipendenza dal potere centrale, che era facilitata dalle distanze e dalla natura impervia del Sudest. Tra i pashtun dell’Ovest, per lo più Durrani, e quelli detribalizzati vi era sì una “memoria tribale”, fondata su genealogie mitiche, ma la struttura sociale era maggiormente legata allo stato e gli elementi caratterizzanti del pashtunwali risultavano meno evidenti. Non che le tribù del Sudest fossero realmente indipendenti, come immaginavano i britannici: nella seconda metà dell’Ottocento esse erano legate da tempo al centro da un sistema di sussidi, favori e privilegi, e come contropartita assicuravano al potere politico centrale il loro sostegno militare, in un rapporto di reciprocità che sostanzialmente rimarrà invariato fino agli anni Venti-Trenta del Novecento. 

In materia religiosa, la differenza tra pashtunwali e sharia, spesso rimarcata dagli studiosi, non era percepita come problematica dai pashtun: nella concezione comune i legami genealogici che collegano al profeta Muhammad l’ascendente apicale Qais bin Rashid rendevano i pashtun inerentemente musulmani: osservare il pashtunwali – “fare pashtun” – significava essere musulmani. La sostanziale assenza del potere centrale e il modello acefalo, tendenzialmente egalitario, che era prevalente tra i pashtun più “tribalizzati”, in particolare nel Sudest, provocava tensioni e faide continue tra i segmenti che componevano la comunità. In questa situazione di conflittualità endemica, la composizione delle faide e la ricomposizione del tessuto sociale dopo le violazioni del pashtunwali potevano avvenire solo grazie a figure esterne. Tra queste, le figure religiose, che erano “esterne” in un duplice senso: innanzitutto, in quanto appartenevano a rami minori della genealogia locale o provenivano da altre tribù; in secondo luogo, soprattutto se erano dotate di baraka, rappresentavano la dimensione sacrale, e si prestavano a mediare, quindi, in quanto parte non interessata, con riferimento al volere divino e non a un segmento specifico della tribù.

Questi aspetti si ritrovano attualizzati nella decentralizzazione del controllo del paese alle tribù pashtun del Sudest del paese ma con una forza minore del potere centrale delegittimato dalle compromissioni con gli americani e con potenze regionali come il Pakistan con maggiore possibilità di gestire il territorio a cavallo della Durand Line e di indirizzare il jihad. Si riscontrano similitudini con il passato e differenze, come le interferenze di altri paesi e la necessità di trovare l’accordo con le altre etnie che costituiscono il paese, in precedenza marginalizzate da Durrani, come si coglie in questa clip dell’intervento di Elisa Giunchi registrato il 28 maggio 2020 sulle frequenze di Radio Blackout:

Elisa Giunchi, 28 maggio 2020: Similitudini e differenze tra altre epoche di decentramento controllato e attuale difficoltà di Kabul a controllare il territorio
Porzione della mappa delle separazioni territoriali coloniali contenuta nel volume Sconfinate, a cura di Emanuele Giordana, Torino, Rosenberg & Sellier, 2018. Al numero 1 si dipana la Durand Line; la Radcliffe Line corrisponde al numero 2; lungo la linea 9 scorre l’Hindukush; il numero 11 coincide con il Khyber Pass. A, B, C indicano le tre zone in cui è diviso il Kashmir.

Il ruolo dei religiosi in ambito tribale

Contro una presupposta laicità del sistema tribale, sulla quale hanno insistito alcuni antropologi, le figure religiose, anche quando non prendevano parte alle jirga, o lo facevano esprimendosi solo su aspetti specifici della fede, assicuravano la liceità religiosa delle decisioni comunitarie: approvavano le decisioni della jirga pur non concorrendo sempre alla loro elaborazione, potevano avviare procedimenti contro individui o clan e disponevano spesso di proprie milizie, composte dai loro deputati e seguaci e da membri della comunità locale che si attivavano ad hoc per rendere effettive le decisioni dei “religiosi carismatici”. Un ruolo di non poco conto che i religiosi ricoprirono più volte presso le tribù pashtun nel corso dell’Ottocento era quello di proclamare e guidare il jihad contro nemici esterni, con l’effetto di ricomporre temporaneamente le differenze interne. Il riferimento ai valori sacrali e, nel caso di coloro che possedevano la baraka, l’incarnazione – per così dire – di quei valori, permettevano di superare la segmentazione locale e di mobilitare più tribù, compito che risultava impossibile al malek/khan che rappresentava uno specifico segmento clanico o tribale. Non è un caso, quindi, che nelle due guerre anglo-afgane (1839-1842 e 1878-1880) i religiosi ricoprissero un ruolo importante, mobilitando la popolazione tribale in nome del jihad e, in diversi casi, soprattutto nel Sudest, guidando le milizie contro l’esercito anglo-indiano. Nelle sollevazioni che scoppiarono al Sud e Sudest sul finire del secolo in reazione alla forward policy britannica le figure carismatiche della variante marabutica riuscirono ancora una volta a unire clan e tribù, superando almeno temporaneamente divisioni e rivalità locali.

Gli stessi inglesi, paradossalmente, contribuirono alla turbolenza tribale e alla militarizzazione delle figure religiose: innanzitutto, i tentativi di occupazione perseguiti con le due guerre anglo-afgane, e le annessioni e ingerenze successive, favorirono il compattamento delle tribù pashtun sotto la guida dei religiosi carismatici, accrescendo l’influenza di questi ultimi rispetto ai capitribù, inerentemente impossibilitati a superare, come si è visto, la segmentazione locale. In secondo luogo, le necessità del jihad contro gli inglesi (e i russi, che premevano da Nord) aumentò la domanda di armi e munizioni, che verso la fine del secolo iniziarono ad affluire in grandi quantità dal Golfo. Al traffico illegale di armi provenienti dall’Europa si sommavano fucili e munizioni provenienti dagli arsenali governativi, sottratti ai sepoy in India e prodotti localmente. Sia i capitribù sia i religiosi più influenti, che si avvalevano di milizie di murid/talib, si dotarono così di armi moderne, costringendo l’Indian Army ad aggiustamenti tattici e il governo in India a incorrere in nuove spese, proprio in una fase in cui la minaccia russa tornava a turbare i sonni di politici e strateghi a Londra e Calcutta. In terzo luogo, la politica inglese di istituire tribal levies e di armare i khassadar perché proteggessero le postazioni britanniche e i passi contribuirono alla militarizzazione delle aree al confine con l’India, di cui i religiosi erano parte integrante. 

Un islam di stato

All’evoluzione dell’islam tribale sul finire dell’Ottocento contribuì, con ogni probabilità, anche l’uso strumentale che l’emiro Abdurrahman (1844-1901) fece dell’islam non solo in funzione antimperialista, ma anche con l’obiettivo di accentrare e unire il paese.

Al potere dal 1880, Abdurrahman si adoperò per trasformare una struttura politica in cui l’assenso all’emiro era contrattato ad hoc e si fondava sulla reciprocità in una monarchia assoluta. L‘emiro fino ad allora era stato una sorta di primus inter pares che poteva in qualsiasi momento, se non andava incontro alle istanze e ai valori pashtun, perdere il sostegno delle tribù e, quindi, il trono. Il potere centrale era quindi fortemente instabile, e chi deteneva le redini del potere era impossibilitato a perseguire riforme di ampio respiro, soprattutto se contraddicevano gli interessi e l’ethos pashtun. E difatti la storia afgana è puntellata da rivolte guidate da figure religiose, che esprimevano la resistenza di ampi settori della popolazione pashtun a imposizioni percepite come devianti rispetto al sistema valoriale e agli interessi delle tribù dalle quali dipendeva in ultima analisi il potere dell’emiro. Già nel 1880 a Shinwar il mullah Najm al-Din, noto nelle fonti britanniche come ‘mullah Hadda’, accusò l’emiro, che si era appena insediato al potere con l’aiuto britannico, di essere un infedele; accusa di non poco conto, visto che il mullah aveva moltissimi seguaci, soprattutto a Est del paese, ma anche nelle aree a maggioranza pashtun sottoposte al controllo del Raj britannico. 

Negli anni successivi i tentativi dell’emiro di ridurre i privilegi e l’autonomia delle figure religiose, e la delimitazione nel 1893 della Durand Line, che attribuiva alcuni territori pashtun ai britannici, costituirono l’occasione di nuove proteste in cui mullah e pir ricoprivano un ruolo fondamentale. Le proteste non dissuasero l’emiro, che anzi moltiplicò i tentativi di arginare la loro influenza e centralizzare il potere. A tal fine, oltre a mettere a morte alcuni mawlawi e a costringerne all’esilio altri, rafforzò il potere dell’esecutivo, diminuì l’indipendenza economica delle figure religiose – sottoponendo i waqf al controllo centrale, imponendo una tassa sulle proprietà religiose e riducendo i finanziamenti alle khanaqa – e integrò mawlawi e mullah nell’apparato statale, favorendone la fedeltà: i mawlawi ottennero il diritto a percepire uno stipendio previo esame da parte di una commissione nominata dall’emiro, al quale spettava il compito di controllare che la loro dottrina non si discostasse dall’islam “corretto”, vale a dire dall’interpretazione approvata dall’emiro. Muhtasib e qazi dovevano vigilare sull’applicazione dei precetti religiosi, epurati dalle loro degenerazioni popolari e di ogni carica eversiva. Agli ulama più fidati fu chiesto, infine, di propagare l’islam ufficiale nel paese, uniformando la pratica religiosa. Significativamente, se nei testi religiosi non trovavano una risposta, i qadi, che erano nominati dall’emiro, erano tenuti non a esercitare l’ijtihad (l’interpretazione di Corano e Sunna), ma a rivolgersi ad Abdurrahman. Fu sempre sotto Abdurrahman che sorse la prima scuola coranica finanziata dal governo, la Madarasa-e-shahi, i cui studenti, una volta diplomati, diventavano funzionari dello stato, secondo un processo di “statalizzazione” dei religiosi che si è verificato ovunque, nel mondo musulmano, tra la seconda metà dell’Ottocento e la prima metà del secolo successivo. 

Le dinamiche illustrate in questo brano pubblicato nella raccolta La Grande Illusione che si applicano all’analisi del rapporto tra apparati religiosi, tribali e statali nei secoli precedenti nel territorio del Khorasan trovano continuità in queste delucidazioni sull’attualità che Elisa Giunchi ha esposto intervenendo il 28 maggio 2020 durante la mattinata informativa di Radio Blackout, dove descrive il contesto magmatico instabile sui due lati della Durand Line in cui operano i jihadisti – adattandosi alle strutture tribali pashtun – con i diversi intenti che contrappongono i brand: governare uno stato come obiettivo ultimo per l’Isis, mentre al Qaeda è dedita a creare basi da cui lanciare attacchi al potere centrale. Entrambi non rappresentano comunque una novità nella storia afgana, bensì si potrebbe trattare della attualizzazione di quel «ruolo dei religiosi presso le tribù pashtun di proclamare e guidare il jihad contro nemici esterni», di cui si accennava nel testo:

Elisa Giunchi, 28 maggio 2020 (Radio Blackout): continuità delle prassi tribali di contrapposizione nei gruppi jihadisti affiliati sia a Isis che ad al Qaeda

Il jihad come instrumentum regni

Abdurrahman decise di enfatizzare, nei manuali religiosi e nei pamphlet che autorizzava e in alcuni casi scriveva di proprio pugno, la necessità di compiere il jihad contro gli infedeli, contribuendo a consolidare la tradizione militante delle aree pashtun. Il jihad, beninteso, poteva essere proclamato solo dall’emiro. Se era l’emiro a proclamarlo, era dovere di ogni afgano combattere o contribuire alla battaglia con i propri averi. Il jihad senza il suo benestare equivaleva invece a una forma di kufr, principio che permetteva di bollare come blasfema ogni forma di sedizione. Si recuperava quindi la componente quietista della dottrina sunnita classica: per giustificare l’importanza dell’obbedienza al potere costituito si sottolineava che Dio aveva delegato ai sovrani la conduzione degli affari dei fedeli; disobbedire all’emiro significava quindi contravvenire al volere di Dio. Oltre a essere un obbligo religioso, l’obbedienza al potere costituito preservava la comunità dalla fitna, l’anarchia sociale paventata dai giuristi classici. Persino un sovrano ingiusto era preferibile al caos che sarebbe risultato dalla sua deposizione. Ma se, da una parte, si sottolineava che spettava all’emiro proclamare il jihad, al contempo, delegando la difesa del territorio ai leader carismatici pashtun – gli unici in grado di coagulare e guidare i segmenti tribali –, si manteneva in vita e anzi si alimentava la turbolenza tribale e, paradossalmente, la sua capacità di resistere alla centralizzazione dello stato. 

Il jihad, oltre a costituire un utile strumento anticoloniale, si prestava a essere usato per ottenere il consenso dei religiosi proprio nel momento in cui si intaccava la loro autonomia. Tra il 1891 e il 1893 l’emiro organizzò, infatti, diverse spedizioni contro gli sciiti hazara, che furono privati dei terreni più fertili, ridotti in schiavitù e costretti a fuggire in Iran e in Baluchistan; sempre a lui si deve la conversione forzata dei kafiri nel 1895-1896, che era già iniziata sul finire del Cinquecento con una spedizione dei mughal. I mullah – incluso quel mullah Hadda che si era inizialmente opposto all’emiro – furono impiegati nel processo di conversione dei kafiri, beneficiarono dell’espropriazione dei terreni hazara e, di conseguenza, sul finire del regno di Abdurrahman erano nel complesso ben disposti nei suoi confronti.

Quando, nel contesto di una crescente ostilità popolare contro il colonialismo europeo, Habibullah (regnante tra il 1901 e il 1919) si rifiuterà di rinnegare gli accordi conclusi dal padre con i britannici, e quando Amanullah (che regnò fino al 1929) cercherà di imporre dall’alto riforme volte a trasformare in senso “moderno” l’ambito più privato – la famiglia – e a intaccare i valori prevalenti tra i pashtun, mawlawi e pir torneranno, soprattutto nel Sudest, a opporsi frontalmente al potere centrale, grazie alla loro tradizionale capacità di mobilitare e unire i segmenti tribali e alle armi affluite nella regione nei decenni precedenti. Habibullah sarà ucciso e Amanullah, prima di abdicare, si vedrà costretto a rinnegare le riforme che aveva introdotto.

Gli aspetti correlati alla frammentazione del territorio e alle pulsioni a resistere all’accentramento da parte dello stato e il richiamo al jihad come strumento anticoloniale che accentua la turbolenza tribale e l’incapacità di costituire un’“afganità” si ritrova nell’attualità descritta sempre da Elisa Giunchi nel prosieguo dell’intervento, laddove si occupa di ricondurre ai contrasti tradizionali tra le strutture verticistiche verticali della cultura turkmena-mongola con quella orizzontale acefala del sistema pashtun, che rappresentano la tensione costante tra tendenza ad accentrare/decentrare il controllo del potere: Durrani e il periodo della difesa della cintura pashtun emarginava le altre etnie, da cui le rivolte contro l’accentramento; mentre ora i gruppi sono infiltrati da potenze esterne (con i corrispondenti signori della guerra), che favoriscono la frammentazione etnica regionale volta a impedire a Kabul la possibilità di essere un centro forte in grado di impedire interferenze e mediare tra le identità di base. L’instabilità deriva forse proprio dall’eccessivo decentramento. L’unica soluzione sarebbe un programma di emancipazione sociale che esuli da apparato confessionale e etnicità, coagulando gruppi diversi su un programma socioeconomico che si concentrino attorno a figure carismatiche di varie componenti; si parla di Massoud, ma forse è troppo connotato e quindi potrebbe rinfocolare il dissidio tra pashtun e tajik.

Elisa Giunchi, 28 maggio 2020 (Radio Blackout): il superamento della frammentazione etnica regionale può passare attraverso uno sviluppo sociale che superi divisioni etniche e religiose, mancano leader e gruppi disposti a svoltare rispetto a un passato ingombrante di divisioni.

Enfatizzare l’identità religiosa rispetto ad altri fattori identitari

La nascita dei Talebani (letteralmente “studenti”) nei primi anni Novanta all’interno delle madrase affiliate al Jamiat-e Ulema-e Pakistan, il partito pakistano deobandita, trae le sue origini proprio dal legame formatosi a partire dalla fine dell’Ottocento tra madrase deobandite e “religiosi carismatici” del Sudest afgano. Anche altre influenze esterne penetrarono nel paese attraverso i suoi porosi confini meridionali, dal nazionalismo confessionale della Lega musulmana, che nel 1947 avrebbe portato alla nascita del Pakistan, al nazionalismo etnico di Ghaffar Khan, venato di istanze egalitarie e alleato al Congresso nazionale indiano. Negli anni Sessanta, grazie a una limitata apertura politica e in un clima di grande effervescenza intellettuale, si diffusero in ambito urbano movimenti islamisti che, ispirandosi al pensiero di Qutb e Maududi, criticavano la religiosità popolare a favore di un approccio più scritturalista e dogmatico; a essi si sommeranno, durante la resistenza antisovietica, militanti jihadisti, provenienti per lo più dal mondo arabo, che contribuiranno a delegittimare le autorità tribali tradizionali e introdurranno nella società pashtun una rigidità e una spietatezza nuove. Queste concezioni militanti dell’islam si sono diffuse nelle aree tribali, talora intrecciandosi con le reti religiose marabutiche, altre volte scontrandosi con la religiosità e le strutture di autorità locali. Il loro effetto è stato di enfatizzare l’identità religiosa rispetto ad altri fattori identitari, di diffondere una religiosità più normativa, di fornire ai “religiosi carismatici” un’agenda più vasta e di svalutarne parallelamente le competenze “tradizionali”, minando di conseguenza anche la loro capacità di mediare in ambito tribale; parallelamente, le jirga hanno perso la loro autorità originaria; il pashtunwali, infine, appare oggi più un’idealizzazione del passato che una realtà, e quel che è rimasto di questo codice etico si trova a competere con altri sistemi valoriali. L’opinione secondo la quale sia stato il solo jihadismo di matrice araba ad avere impresso una svolta militante all’islam tribale e determinato la nascita del fenomeno Talebano è tuttavia difficilmente condivisibile. Anche l’enfasi sul ruolo che le madrase pachistane hanno avuto nella “nascita” dei Talebani e sugli interessi geostrategici che hanno indotto Islamabad e Riad a sostenere l’estremismo in Afghanistan è eccessiva, e offusca sia le specificità pashtun degli “studenti coranici” sia i processi storici che, ben prima degli anni Ottanta del Novecento, influirono sulla loro militanza. 

Sulla natura pashtun dei Talebani – basti qui dire che negli anni Novanta, quando emersero sulla scena afgana, i loro vertici, per quanto avessero studiato per periodi più o meno lunghi nelle madrase pachistane, provenivano dall’ambiente rurale e tribale pashtun, un ambiente che, nonostante le influenze esterne, manteneva alcune peculiarità. Il mullah Omar, che guiderà i Talebani fino alla sua morte, avvenuta nel 2013, era il mullah di un villaggio vicino a Kandahar ed era sostenuto da altri mullah della sua provincia originaria, l’Uruzgan. Almeno il 60 per cento dei vertici Talebani aveva ricevuto quasi tutta la propria istruzione nelle hujra, un’istituzione tradizionale degli ambienti tribali. Molti erano intrisi della religiosità popolare – quella, in particolare, tipica del sufismo marabutico, fatta di amuleti, reliquie e visite alle tombe dei pir: lo stesso mullah Omar prendeva le proprie decisioni sulla base dei sogni, secondo modalità tipiche dei pir. Alcuni suoi stretti collaboratori erano pir o murid, e il simbolismo sufi era onnipresente nel movimento. Sarà questo, tra l’altro, un elemento di attrito tra i Talebani e al-Qaeda, che porterà quest’ultima a interrogarsi sull’ortodossia degli “studenti” coranici. I Talebani mantenevano inoltre negli anni Novanta, e mantengono tutt’ora, alcune peculiarità dell’ambiente tribale da cui provengono – continuando per esempio a seguire pratiche decisionali inclusive, tipiche delle jirga, che smussano quel potere assoluto dei singoli comandanti che caratterizza i gruppi jihadisti arabi. 

Frags tratti da L’islam: la declinazione afgana della parola del Profeta, di Elisa Giunchi, in La grande Illusione. L’Afghanistan in guerra dal 1979, a cura di Emanuele Giordana, Torino, Rosenberg & Sellier, 2019, disponibile in libreria e su tutte le maggiori piattaforme online.

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