Panama Archivi - OGzero https://ogzero.org/tag/panama/ geopolitica etc Mon, 08 Jan 2024 15:23:26 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.4.6 Gentrificazione e apartheid incistati sul lascito coloniale https://ogzero.org/studium/gentrificazione-e-apartheid-incistati-sul-lascito-coloniale/ Sat, 30 Dec 2023 23:14:39 +0000 https://ogzero.org/?post_type=portfolio&p=12219 L'articolo Gentrificazione e apartheid incistati sul lascito coloniale proviene da OGzero.

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Casco Viejo. Panama City coloniale

Il luogo che più di tutti sta soffrendo la gentrificazione è la Città Vecchia di Panama, dove casi come quello della scuola Nicolás Pacheco simboleggiano la resistenza implacabile degli ex residenti del quartiere contro le politiche predatorie del capitale.

Sulla gentrificazione e sul diritto ad abitare

Prima però di parlare di questo caso simbolo e di raccontare come si è giunti alla situazione odierna, è importante fare una riflessione sul concetto di gentrificazione e sul diritto ad avere un luogo nel quale abitare con dignità. Per fare ciò condivido le considerazioni di Carla Luisa Escoffié Duarte, direttrice del Centro per i Diritti Umani della Libera Facoltà di Giurisprudenza di Monterrey. È l’autrice del libro El derecho a la vivienda en México. Derechos homónimos pubblicato da Editorial Tirant lo blanch.
Nelle parole di Escoffié Duarte, che ho tradotto da un suo articolo apparso su “Este País” il 21 giugno 2022 scopriamo che:

«Questo concetto è causa di continui dibattiti e lotte all’interno del mondo accademico, motivo per cui non è possibile accontentare tutte le voci. La sua stessa formulazione è solitamente tanto elementare quanto complicata. È un concetto emerso negli anni Sessanta come proposta concettuale di Ruth Glass. I processi che ha cercato di descrivere in Inghilterra presentano somiglianze e distanze da ciò che accade oggi nelle città dell’America Latina. Di conseguenza, sono state proposte classificazioni geografiche, storiche e qualitative su cosa sia la gentrificazione.
Attualmente, l’America Latina si sta spostando sempre più da uno scenario alla Burning Plain a uno più simile a Blade Runner. Secondo i dati UN-Habitat, oltre l’80% della popolazione della regione vive attualmente nelle città. Secondo i dati Inegi, nel 2020, due terzi della popolazione messicana vivrà nelle città e più della metà in città con 100.000 o più abitanti. Questo fenomeno non implica la scomparsa della vita rurale, ma piuttosto un’alchimia rurale-urbana… dove la città appare come il nuovo scenario di conflitti e tensioni tra classi, generi, identità, religioni ed esperienze. Ciò lo rende anche il nuovo spazio di monopolio da parte delle grandi potenze economiche. Il territorio rurale ha continuato a essere di grande interesse ed è ancora ambito per la produzione che utilizza manodopera a basso costo, ma è emerso un nuovo campo di coltivazione: l’agricoltura immobiliare. Le città sono gli spazi in cui possono germogliare grandi progetti residenziali che non richiedono un’abitazione a breve termine per avere successo economico. Il processo di finanziarizzazione dell’edilizia abitativa consiste proprio nel fatto che gli immobili vengono convertiti in attività finanziarie a fini speculativi. Ecco perché gli edifici vuoti che proliferano nelle zone centrali delle grandi città non rappresentano il fallimento di quel mercato, ma piuttosto le sue forme di accumulazione territoriale contemporanea».

L’abitazione come territorio, la casa come feticcio

Escoffié Duarte già in queste poche righe ci aiuta a cristallizare una dinamica che sta attraversando tutta la regione, come per esempio avevo avuto modo di raccontate intervistando la giornalista Bianca Graulau per “El Páis” sul caso similare di Porto Rico.
L’avvocata messicana però va oltre nell’analisi e ci spinge nell’articolo già citato (e nel suo libro) a una riflessione più profonda che ha a che vedere con il diritto a un luogo in cui vivere in modo dignitoso spiegando cosa intende quando afferma: l’abitazione come territorio, la casa come feticcio.

«Parlare di diritto alla casa in questo contesto implica parlare dei rapporti di potere e delle disuguaglianze socioeconomiche-territoriali che persistono nella regione. Per capirlo dobbiamo prima capire che abitare non è la stessa cosa di avere una casa. La casa è una costruzione architettonica materiale e tangibile. L’abitazione è l’insieme dei processi attraverso i quali una persona abita uno spazio, motivo per cui è costituito da elementi materiali e immateriali. La casa è un oggetto, abitare è un’azione. La casa è uno spazio, abitare è vivere»..

Esistere in quanto abitare

L’abitazione è l’insieme dei processi attraverso i quali una persona abita uno spazio, motivo per cui è costituito da elementi materiali e immateriali

Si parla quindi di diritto ad abitare e non di diritto alla casa. Il diritto umano consiste nell’avere uno spazio in cui vivere, che può essere garantito attraverso la proprietà, ma anche attraverso altre modalità come cooperative abitative, affitti e persino rifugi temporanei per donne vittime di violenza o giovani lgbt+ rifiutati dalle loro famiglie.
Tuttavia, i discorsi egemonici – definiti principalmente dalle élite del settore architettonico e immobiliare – mirano a confondere questi concetti. L’obiettivo è molto semplice: che la popolazione confonda il proprio bisogno con una questione di avere (casa) invece che di essere (abitante di un luogo materiale e immateriale).

Fatte queste necessarie considerazioni possiamo dunque passare a introdurre cioè che sta succedendo nella Cittá vecchia di Panama con il violento processo di gentrificazione già menzionato.

Riavvolgiamo il nastro di Casco viejo

La zona coloniale della Città di Panama, chiamata “Casco Viejo”, ha rappresentato il primo insediamento europeo sulla costa americana fin da quando nel 1519 Pedro Arias Dávila promosse la sua fondazione. Un centro che si trasformò in breve nel quartier generale dei rappresentanti della Corona spagnola e un punto strategico sulle rotte commerciali coloniali e sulle spedizioni che avvenivano verso il Sudamerica (come quella per la conquista del Perù). All’inizio del Diciassettesimo secolo la città contava circa 10.000 abitanti che animavano una vita cosmopolita che si svolgeva in case, alberghi, taverne, conventi, un ospedale, una cattedrale, un forte, una piazza principale, tutti collegati da strade e ponti in entrata e in uscita dalla città. Sappiamo però quanto il Mar dei Caraibi all’epoca fosse rifugio di corsari e pirati, e nel 1671 fu proprio il pirata inglese Henry Morgan a guidare un feroce attacco alla vecchia Panama, saccheggiandola e riducendola in macerie. Sono queste rovine che conformano il Complesso Monumentale Storico di “Panama Viejo”, che comprende appunto le rovine dell’insediamento coloniale e le vestigia archeologiche del periodo preispanico.

Dopo l’attacco e la distruzione lasciata da Morgan, la corona spagnola trasferì la città nel 1673 a sud, su una piccola penisola circondata da scogliere rocciose. È questa nuova città che corrisponde a quello che oggi è conosciuto come Casco Viejo di Panama, zona considerata patrimonio mondiale dell’Unesco fin dal 1997.

Casco Viejo negli anni Trenta

L’Unesco come inizio della fine per i residenti

Fino a questo punto le ricostruzioni, delle autorità della città (e del governo) e dei residenti storici del Casco Viejo, coincidono. Però è negli anni Novanta del secolo passato che si inizia a delineare una frattura nella narrazione.

Questa la versione edulcorata dalla autorità:

«Prima del 1997, il Casco Viejo soffriva di alti livelli di criminalità che causarono lo sfollamento della maggior parte dei suoi abitanti. Tuttavia, dal 2000 in poi, Casco Viejo ha vissuto un processo di gentrificazione volto alla ristrutturazione della maggior parte degli edifici abbandonati della zona. Nascono così centri culturali, ristoranti moderni, nuove boutique e alberghi con bar sulle terrazze. La riabilitazione di Casco Viejo ha riformato molti membri di bande e gangster che ora si dedicano a offrire visite guidate ai turisti. Lo spaccio di droga era l’attività più diffusa nel centro storico, è il caso della banda di Ciudad de Dios. I giovani si ritrovarono senza lavoro e cercarono un modo per sopravvivere nel business della droga. Fortunatamente, l’arrivo di nuove imprese, del turismo e del boom economico ha aiutato questo settore a prendere una nuova direzione nella loro vita. Ora camminano per le strade del centro storico, luoghi di svago, cultura e storia, e dimenticano la violenza e le loro brutte esperienze personali».

Il degrado riqualificato con l’eterno riciclaggio

In base a ciò che avete appena letto, mentre il resto della Città di Panama si espandeva e pensava in grande (vedremo più avanti un progetto multimilionario che iniziò proprio nel 1997), la zona del Casco Viejo era un ricettacolo di delinquenti, perdigiorno, persone di bassa o nulla disponibilità economica e con un limitato livello educativo. In base a questa narrazione (spiegata e difesa in questo articolo di stampa locale) l’opera lungimirante e magnanima dello stato e delle autorità cittadine ha veicolato milioni di dollari (anche procedenti dal riciclaggio come abbiamo visto con lo scandalo dei Panama Papers) per la riqualificazione di questa zona della città.

Trincee e barricate

Basta però passeggiare per le vie Casco Viejo per imbattersi in sacche di resistenza, vere e proprie trincee urbane, che raccontano un’altra storia, una più simile a quello che ci ha spiegato precedentemente Carla Luisa Escoffié Duarte.

Per esempio, striscioni con slogan del tipo Senza abitanti non c’è patrimonio, oppure Il paese si vende al miglior offerente sono posizionati di fronte a una scuola in Plaza Herrera, dove vivono decine di famiglie, unite nell’Associazione dei residenti di San Felipe, che lottano contro uno sfratto coatto che li vuole fuori da questa zona della città.  Lo spiegano bene Leila Nilipur e Melissa Pinel, giornaliste indipendenti, autrici del riconosciuto podcast Indomables, nell’episodio intitolato  La trinchera (la trincea).

Patrimonio dell’Umanità vs Patrimonio umano

«I residenti del quartiere storico della Cittá di Panama vengono cacciati dalle loro case. Abbandonate dalle élite per decenni, le loro dimore coloniali erano deteriorate, ma non vuote. Centinaia di famiglie vivevano lì, mantenendo il quartiere vivace e pieno di tradizione. Ma non appena l’Unesco ha dichiarato il quartiere storico dimenticato Patrimonio dell’Umanità, gli sfratti sono stati immediati. E quei vecchi edifici furono trasformati in alberghi o ristoranti di lusso. Nel frattempo, un gruppo di vicini lotta per una causa che sembra persa: impedire che il loro quartiere perda il suo patrimonio umano».

Fin da prima della Pandemia, questi residenti hanno reagito contro quello che sentono e vivono come un sopruso.

In una intervista al giornale “La estrella de Panama” spiegava che con il piano di riforma e riqualificazione del Casco Viejo li hanno cacciati dalle case dove sono cresciuti. «L’affitto della casa più cara costava 150 dollari al mese, adesso le case ristrutturate non si affittano per meno di 1200 dollari al mese. Ditemi chi può pagarlo», denuncia la presidentessa dell’Associazione dei residenti di San Felipe, Esther Sánchez, già nel 2019.

Esther è una delle vittime del vorace boom immobiliare nel centro storico di Panama scoppiato nel 1997 quando l’Unesco ha dichiarato la zona patrimonio dell’umanità  per i suoi numerosi luoghi storici (Piazze Mayor, Herrera, Bolívar, Chiese di San José, San Francisco…) ed edifici come il Teatro nazionale o quello della Presidenza della repubblica, il Palazzo di giustizia o Bólivar, la Casa Góngora e Boyacá, oltre a un ricco patrimonio architettonico di edifici civili presenti in tutte le sue strade, molti dei quali consumati dalle fiamme nell’incendio del Diciassettesimo secolo e recuperati ecletticamente con nuovi stili aggiunti successivamente: dal coloniale al neoclassico e persino all’art déco.

Dal 2000, l’Ufficio per il Restauro e la Valorizzazione del Complesso Monumentale Storico della Città Vecchia della Città di Panama (Oca) inizia a operare con il Piano Generale per la riabilitazione e il restauro di un’area già occupata da classi sociali con basso podere acquisitivo. Negli anni successivi alla dichiarazione dell’Unesco come patrimonio dell’Umanità della zona, si assiste a un massivo investimento di capitali privati e Fondi stranieri (principalmente europei, canadesi e nordamericani), che non contemplavano nel loro piano di “sviluppo” la permanenza della popolazione locale.

Perciò automaticamente si inizia un piano di espulsione capillare delle persone con minor possibilità economica, con più basso tasso di alfabetizzazione e isolata da gruppi sociali di appoggio. Non stupisce che il piano messo in atto dalle autorità cittadine si chiamasse direttamente “Plan de Evacuación del distrito histórico del Casco Antiguo”, come riportato da questo articolo del giornale nazionale “La Estrella de Panamá”. Come detto, lo slogan del capitalismo che ha invaso questa zona della città è chiaro – Rivive il Centro Storico, rilanciamo il Turismo, rilanciamo la qualità, rilanciamo la comunità. Non si intende però rilanciare un tessuto sociale di quartiere, bensì il varo di un megaprogetto che include anche lo sviluppo della cosiddetta Cinta Costera 3 (che circonda la penisola), per far diventare tutta l’area una boutique a cielo aperto dove il turismo internazionale possa assaporare la “Vecchia Panama” dentro alberghi di lusso e bar/discoteche di tendenza. Un luogo non solo dove non possano più abitare i vecchi residenti ma dove risulta complesso anche per gli abitanti della città poter accedere ai servizi, sempre più cari e diretti in modo netto e chiaro a un potere d’acquisto che non è alla portata della maggior parte delle e dei panamensi.

Calzada di Amador (Causeway)

Visitando oggi la Città di Panama è impossibile non sentir palare della Calzada di Amador, più conosciuta tra le nuove generazioni con il nome di Causeway. La storia di questa passeggiata unica, circondata dall’acqua risale agli inizi del secolo, quando le tre isole Naos, Flamenco e Perico erano ancora separate e collegate solo attraverso piccole barche o traghetti. Quello che oggi conosciamo come Amador Causeway è un enorme frangiflutto costruito tra il 1908 e il 1914 con terra e rocce estratte dagli scavi del Canale, con lo scopo principale di proteggere l’ingresso del Canale dalle forti correnti della Baia di Panama e di diventare una base militare statunitense (la prima fu installata nel 1911).

Il Biomuseo, che oggi si trova proprio nella Calzada de Amador ha dedicato un esteso e dettagliato progetto alla storia di questo luogo simbolo della città, un progetto che permette attraverso foto e testimonianze di fare un salto nel passato.
È così che scopriamo Causeway, per lungo tempo foce del Rio Grande, un enorme delta pieno di mangrovie e paludi, dove si trovava il molo La Boca, parte del sistema portuale della città di Panama. All’inizio del Ventesimo secolo, il fiume fu ostruito con una diga, le sue mangrovie e le sue paludi furono cancellate e il canale trasformato fino a diventare l’ingresso del Canale di Panama. Come detto, dal 1911 al 1996 Amador fu sede di basi militari statunitensi, e le truppe utilizzarono la strada rialzata per raggiungere le batterie di artiglieria costiera delle isole di Naos, Perico e Flamenco.
Il progetto del Biomuseo denuncia come per 75 anni pochissimi panamensi abbiano potuto camminare lungo il bordo del Canale sulla Amador Causeway, perché questa striscia di territorio larga 16 chilometri era sotto controllo (e sovranità) degli Stati Uniti tra il 1904 e il 1979, come abbiamo avuto modo di spiegare nel capitolo La Zona del Canale.

Amador – CauseWay | foto Diego Battistessa, ottobre 2021

Prima del 1979, le uniche persone che potevano entrare ad Amador erano il personale militare statunitense, i lavoratori delle basi civili, i dipendenti della Canal Company e i membri dei club sociali e sportivi che avevano strutture ad Amador, come il Balboa Yacht Club che oltre all’attracco per le imbarcazioni da diporto, disponeva di un bar-ristorante che fu sede di numerose feste, finché un incendio nel 1999 distrusse l’intero edificio.
Nel 1930 iniziò a operare il traghetto Thatcher, che offriva un servizio gratuito per facilitare il transito tra Cittá di Panama e l’interno del paese, che era stato separato dalla costruzione del Canale. Questo traghetto operò fino al 1962 quando fu inaugurato il Ponte delle Americhe: all’epoca circa 40 navi attraversavano Amador per entrare e uscire dal Canale (per un ulteriore approfondimento si può consultare a questo indirizzo)

Vista dalla Calzada de Amador del ponte della Americhe | foto Diego Battistessa, dicembre 2021

L’Amador Causeway è oggi una delle zone più vive della città e finalmente è disponibile per tutta la popolazione, anche se il suo alto interesse turistico ha prodotto un rialzo dei prezzi di beni e servizi, che ovviamente produce un effetto indiretto di esclusione sociale.
Non a pagamento rimane però la vista, una delle più privilegiate di tutta la città. Verso est si può vedere un panorama che va dal Cerro Ancón, passando per Chorrillo, Casco Antiguo fino ai grattacieli della città. A ovest vediamo l’ingresso del Canale, Veracruz, Punta Chame fino all’isola di Taboguilla.

L’isola di Taboga

Dalla Calzada di Amador (isola Flamenco) si prende il traghetto per arrivare, in circa 30 minuti, a Taboga, popolare isola utilizzata per le gite familiari del fine settimana dalla popolazio ne cittadine e sempre di più anche dai turisti, che la trovano facile da raggiungere (e molto più economica della internazionalmente famosa Bocas del Toro). Emblematica di certo atteggiamento turistico da cui sorge la richiesta di “bonificare” territori è questa breve descrizione di Taboga che si può trovare su Lonely Planet: «Un’unica strada e traffico praticamente inesistente fanno di quest’isola tropicale, situata a soli 20 km dalla costa, un luogo perfetto per fuggire dal trambusto della capitale: Panama City. Soprannominata “Isola dei Fiori”, è coperta di profumatissimi boccioli per gran parte dell’anno. Il pittoresco villaggio di Taboga, fondato dagli spagnoli nel 1515, ospita una delle chiese più antiche dell’intero emisfero occidentale».

Artificial Islands

Vista della Ocean Reef Island da Punta Patilla | foto Diego Battistessa, ottobre 2021

Il caso delle Ocean Reef Islands

Si tratta di uno dei progetti più ambizioni realizzati nella regione negli ultimi anni e consiste nella costruzione di due isole artificiali collegata alla costa (nella zona di Punta Pacifico) per mezzo di un ponte. Sul sito della compagnia che promuove la vendita degli esclusivi appartamenti di questo enclave di ricchi creata artificialmente fuori dalla città, letteralmente in mezzo all’oceano, troviamo la frase di marketing: trasforma il tuo modo di vivere la città. Come se non fosse sufficientemente chiaro, in mezzo alla promozione per la vendita delle unità ancora in costruzione, ai possibili acquirenti in merito al piccolo porto privato, si specifica quanto segue:

BENVENUTI IN PARADISO. Una Marina di prim’ordine nella Repubblica di Panama. Più di 150 ormeggi fino a 60 metri (200 piedi), protetti da due isole private dove esclusività e lusso permettono di vivere la propria esperienza con un’incomparabile varietà di servizi che vanno oltre il tradizionale.

Resort isolato per ultraricchi in apartheid dorato

Insomma, un luogo creato artificialmente, un progetto originariamente concepito nel 1997 come ultima fase dello sviluppo dell’area di Punta Pacifica, una delle zone ricche di Panama (dove sorge l’Hotel Marriott per intendersi): le prime isole residenziali costruite dall’uomo in America Latina. Un luogo dove gli ultraricchi possono sentirsi tali nella loro privacy senza doversi mischiare con il resto della capitale di un paese con un tasso di povertà in preoccupante crescita. Già nel 2019, le statistiche i dati ufficiali sulla povertà generale di Panama (dati offerti dal Ministero di Economia e Finanza) avevano raggiunto il 21,5% della popolazione, ovvero 917.069 persone; di cui, il 10%, viveva in condizioni di estrema povertà (o indigenza): cioè 428.005 persone. E questi erano i numeri prima del Covid19 e della crisi del prezzo dei combustibili causati dalla coda lunga della guerra in Ucraina.

Il piano delle isole disponibile sul sito web della compagnia

Ocean Reef Islands è composta da due isole (Isola I e Isola II) di 103.251 m² e 87.552,95 metri quadrati unite da un ponte. Una comunità residenziale privata che conta con un eliporto, uno yacht club, e che è situata nel centro di Panama City pero senza doversi “mischiare” con il resto della città (e soprattutto dei cittadini/e).

Lo stesso gruppo immobiliare che si è incaricato del progetto, fornisce sul sito l’e-book della costruzione. Si tratta di Los Pueblos, un gruppo panamense costituito da varie imprese che fin dal 1985 si occupa dello “sviluppo” della città di Panama. Uno dei nomi noti e fondatore del gruppo Los Pueblos è Mayor Alfredo Alemán, che nel giugno 2020 veniva segnalato da Forbes come una delle persona più ricche di Panama (e una delle più ricche dell’America Centrale) con un investimento di 1,9 miliardi di dollari. Un’enorme ricchezza che però non è cosa rara a Panama dove troviamo per esempio il 78enne, Stanley Motta, azionista in Motta International, Copa Holdings, Gruppo Assa, Inversiones Bahía, TVM Media, Banco Intercontinentale di Panama, con un attivo totale di 4,347 miliardi di dollari (al 2019) e inserito in questo 2023 sempre da “Forbes nella lista delle persone più ricche del mondo.

Riflessione finale

Panama insomma, non smette di sorprendere. Con i suoi contrasti, le sue moderne spavalderie che si stagliano alte nel cielo o in alto mare, circondate da radici di tradizione, storia e folklore, le sue complesse vicissitudini, il suo calore (climatico e umano), la sua capacità di diventare casa per chiunque e allo stesso tempo di togliere la casa a chi qui ha sempre vissuto.
Dalla selva del Darien, al mar dei Caraibi, passando per il maestoso Canale, l’antica base militare statunitense, l’Oceano Pacifico e l’Oceano Atlantico, le contee indigene e i luoghi della (R)esistenza afrodiscendente.
Una babele di mondi, di storie, di lingue, di natura selvaggia, di geografie di lotta e insorgenza. Rifugio di malfattori, terra promessa di migranti, forgia di donne indomabili e crocevia di quasi tutto ciò che si consuma nel mondo.
Concentrato di disuguaglianza eppure paese di opportunità, sede degli uffici regionali dall’Onu ma anche delle società che riciclano tonnellate di dollari, solidarietà e corruzione, cosmogonie ancestrali e fast food… Chiunque arrivi a Panama per la prima volta sentirà di conoscerla da sempre eppure conoscerla davvero nella sua complessità è probabilmente impresa quasi impossibile, fin qui in queste 7 puntate abbiamo provato a mostrare quanti problemi e temi si nascondono in questo istmo da cui fuoriescono poche informazioni… se siamo riusciti a incuriosirvi, troverete tra qualche tempo un ulteriore approfondimento… probabilmente anche in formato cartaceo.

Fine

¡Ya Basta extractivismo! Marca-paese Dighe e discariche Merci rivolte e infrastrutture La Zona del Canale Ancestralità e gentrificazione

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]]> Memoria ancestrale vs merci inurbate e retaggio infrastrutturale https://ogzero.org/studium/memoria-ancestrale-vs-merci-inurbate-e-retaggio-infrastrutturale/ Sun, 24 Dec 2023 00:26:00 +0000 https://ogzero.org/?post_type=portfolio&p=12165 L'articolo Memoria ancestrale vs merci inurbate e retaggio infrastrutturale proviene da OGzero.

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Gentrificazione battente bandiera panamense

Dopo la panoramica che abbiamo dato rispetto a un paese, Panama, le cui dinamiche interne sfuggono usualmente al grande pubblico, andiamo a esplorare la sua capitale e soprattutto un modello di vita che manifesta una gentrificazione senza scrupoli, senza limiti e promossa in modo costante sia dal capitale nazionale che straniero.

Città di Panama, fondata il 15 agosto 1519 dallo spagnolo Pedro Arias Dávila con il nome di La Muy Noble y Leal Nuestra Señora de la Asunción de Panamá, è oggi una delle città che meglio rappresentano i contrasti e le disuguaglianze che attanagliano l’America Latina. In questa urbe di 1,5 milioni di persone (secondo dati ONU) troviamo una speculazione edilizia costante, spesso correlata al riciclaggio di denaro, un processo accelerato di gentrificazione (soprattutto nella zona della Città Vecchia), e una separazione netta e violenta delle classi sociali, operata attraverso l’utilizzo di elementi di architettura ostile (o design dell’emarginazione) che si riflettono in tutte le zone moderne e “high class” della capitale del paese centroamericano.

Una marcata discriminazione della strutturazione sociale che riverbera sugli spazi e sull’architettura della città

Nella città gli elementi della diversità etnica del paese sono molto presenti ma risulta altrettanto chiaro a che classe sociale sia attribuito ogni “livello” della struttura demografica. Da una lato infatti possiamo vedere come le persone appartenenti alle popolazioni indigene del paese vivano del lavoro informale, della particolare mancanza di accesso ai diritti fondamentali e del salario alla giornata. Non è insolito vedere persone indigene vendere la loro merce per le strade, in zone degradate della città (come via Veneto, una dei centri del traffico di persone e della prostituzione di tutto il paese centroamericano) oppure chiedere alcuni spiccioli per comprare l’ennesima bottiglia di alcool del giorno. Nonostante ciò è importante sottolineare che l’immagine generale che si percepisce rispetto alle culture ancestrali nella capitale, ha davvero poco a che vedere con ciò che si scopre e si può imparare dalla visita alle sei contee (già descritte in precedenza) che dal 1938 al 2020 hanno cambiato il volto politico-amministrativo del paese, dando autonomia e una certa indipendenza alle popolazioni native.

L’apporto nativo alla cultura del paese…

La situazione in città, appena descritta, non fa certo giustizia al contributo di queste popolazioni, basti pensare per esempio come lo stesso nome della capitale (e per estensione del paese) provenga da una parola indigena (anche se c’è ancora dibattito sul significato). Le due versioni esistenti coincidono sull’origine, e cioè che gli spagnoli una volta arrivati nella zona costiera dove oggi sorge la città abbiano attinto al linguaggio locale per battezzare il nuovo insediamento. Una versione spiega come Arias Dávila abbia utilizzato il nome che gli indigeni cueva (popolazione originaria completamente massacrata ed estinta durante la conquista spagnola dell’istmo) davano a un piccolo gruppo di case nei pressi della zona, conglomerato chiamato appunto Panama. Secondo questa versione la parola Panama potrebbe avere due significati: “abbondanza di pesci e farfalle” oppure potrebbe essere “il nome che gli indigeni davano a un albero” sotto la cui ombra erano soliti riunirsi. L’altra versione chiama in causa il popolo indigeno guna, protagonista nel 1925 della Rivoluzione guna e della effimera repubblica di Tule (sul golfo di Urabá, a cavallo del confine colombiano), che avrebbe utilizzato le parole panna mai (da qui Panama per gli spagnoli) come sinonimo di “oltre quel punto”.

… e alla superficialità della merce-turismo

Ovviamente però le popolazioni indigene costituiscono anche un forte richiamo turistico, elemento che non è stato sottovalutato dal capitale avido di poter trasformare in merce ogni cosa. E così, nella città che vede vivere nella periferia e nella precarietà quelle persone indigene che hanno lasciato le contee, si vende l’immagine di un paese plurale, che custodisce e apprezza la sua eredità indigena e che mette in vetrina l’arte ancestrale e la sapienza manifatturiera dei nativi. Un doppio standard che serve, dentro la capitale, per offrire al turismo internazionale una foto ricordo, un souvenir “stravagante”, un pezzo di cultura locale. In mezzo a tutto questo ci sono però anche punti di luce e tra questi spicca il museo Mumo, Museo della mola, prodotto della messa in comune di più di 200 molas provenienti dalle collezioni della Fondazione Llopis (più di due terzi delle molas), dalla collezione privata di David de Castro (un quarto del totale) e dalla Fondazione di Alberto Motta che ha promosso l’idea della creazione di questo spazio. Un luogo assolutamente da visitare (ingresso gratuito) e che contribuisce a innalzare l’immagine e cultura del popolo indigeno guna, (che ha appoggiato l’iniziativa attraverso i suoi cinque diversi congressi) mostrando a chi visita il museo qualcosa di unico.

Porta d’ingresso del Museo della Mola: El Colegio II, Planta baja y nivel 200, Calle José D. de la Obaldía – Casco Antiguo, Panamá. | Foto Diego Battistessa, gennaio 2022

Storia emblematica delle tipiche molas

Le molas sono piccoli rettangoli di tela che vengono usati per coprire (integrati nei vestiti) il petto e le spalle dell’abito tradizionale delle donne guna. Sono elaborate a mano mediante la tecnica della sovrapposizione di diverse cappe di tessuto. Si tratta di un lavoro certosino e una donna guna può impiegare fino a 60 ore di lavoro per produrre una mola di difficoltà medio (la difficoltà dipende dai colori, dai motivi, dalla grandezza…). Storicamente si crede che le donne guna abbiano cominciato a utilizzare questa tecnica all’inizio del Diciannovesimo secolo. La produzione delle molas ha visto un salto di qualità negli anni Sessanta, quando le comunità hanno perfezionato la tecnica arrivando alla produzione di molas di una complessità straordinaria.

Dal punto di vista ancestrale, all’interno del museo viene spiegato che, secondo la cosmovisione guna, le molas furono create fin dall’origine dell’universo nel Galu Dugbis, un luogo sacro che si trova nella quarta cappa dell’inframondo, spazio nel quale vivono le specialiste delle forbici, spiriti con aspetto di bellissime donne. Quando un uomo nele (o guida spirituale), si avvicinava a questo Galu, veniva ammaliato da una di queste donne che lo convertiva immediatamente in suo sposo. Secondo il mito, nessun uomo sarebbe mai tornato dal Galu Dugbis e fu una donna, Nagegiryai, l’unica che riuscì a penetrare questa cappa riuscendo a vedere i disegni, armonici e cangianti, tessuti dagli spiriti. Nagegiryai apprese dentro il Galu Dugbis l’arte delle molas insieme a molte altre conoscenze ancestrali femminili, che poi trasmise al resto delle donne del popolo guna.

Le molas vengono vendute in tutte il Casco Antiguo (città vecchia) ma anche nel resto della città, come souvenir e attrattivo turistico, insieme ad altri oggetti appartenenti alle culture degli altri popoli indigeni. Da Yaviza e dintorni, per esempio, un piccolo porto nel mezzo della selva del Darién arrivano le meravigliose e complesse manifatture realizzate dal popolo emberá. Yaviza è un nodo di collegamento con il pacifico e il punto di termine della famosa “Carrettera panamericana” che inizia in Alaska, 12 580 km più a nord. La Panamericana riprende poi a Turbo in Colombia, dall’altra parte della Selva del Darién, per arrivare fino alla punta sud del continente.

Un villaggio di circa 4500 anime, con un mix etnico afroamerindio che fa del luogo un melting pot storico, sociale e culturale. Il popolo indigeno emberá (le cui donne vestono le coloratissime paruma), il popolo indigeno wounaan, una folta comunità afrodiscendente e molti sfollati del lungo e terribile conflitto interno colombiano: tutto questo è Yaviza A ricordo della colonia spagnola si trova la piccola fortezza di San Geronimo, molto deteriorata e “mangiata” dal fiume Chucunaque, ma ancora visibile: meno di 100 chilometri più a sud, nella spessa e quasi impenetrabile selva del Darién, è già Colombia, ma questa è un’altra storia.

Testa di Ara, realizzata dalle sapienti mani del popolo indigeno emberá. | Foto Diego Battistessa, Yaviza, novembre 2021

La migrazione afroantillana e il quartiere di Calidonia

Un altro importante luogo di memoria storica e di rivendicazione del ruolo della popolazione afrodiscendente nella regione latinoamericana è senza dubbio il museo afroantillano di Panama.  Un luogo che l’estensore di queste note panamensi ha avuto il privilegio di poter visitare durante le ricerche per la stesura del suo libro America Latina afrodiscendente: una storia di (R)esistenza e che ci guida dentro una storia purtroppo poco conosciuta.

Contractors afroantillani per costruire infrastrutture ottocentesche

La prima migrazione afroantillana (afrodiscendenti provenienti dalle Antille) arrivò a Panama, nella zona atlantica di Bocas del Toro, intorno al 1820. In quella zona infatti operavano le compagnie bananiere britanniche provenienti dalle isole di San Andrés e Providencia. Verso le metà del 1800 però, la febbre dell’oro californiana generò un forte interesse per la costruzione di una linea ferroviaria transcontinentale e fu così che la Compañia del Ferrocarril di Panama (con sede a New York) mise sotto contratto 5000 giamaicani tra il 1850 e il 1855. A quell’epoca si credeva che i lavoratori neri giamaicani fossero gli operai perfetti per quel tipo di compito: da un lato si pensava che i neri fossero immuni (o quasi) alle malattie tropicali e dall’altro la pessima situazione economica della Giamaica li obbligava a emigrare per lavorare.

Vecchie e nuove rotte commerciali si concentrano sull’asse Colon/Panama

I nuovi arrivati si stabilirono lungo la rotta del treno, percorso che passava da Colón (città sulla costa atlantica all’epoca conosciuta come Aspinwall) e che arrivava alla città di Panama. Questa migrazione massiva fomentò il commercio dell’istmo attivando/riattivando nuove e vecchie rotte commerciali con Kingston (Giamaica), Europa e Usa. I migranti afroantillani che poi decisero di rimanere nel paese anche nella seconda metà dell’Ottocento, forgiarono un tessuto sociale ricco e articolato, fatto di scuole, negozi, chiese, logge e associazioni benefiche.

Scene di vita della popolazione afroantillana che decide di rimanere nell’istmo nel Diciannovesimo secolo | Foto del Museo afroantillano di Panama

Gli afroantillani giocarono inoltre un ruolo di primo piano come forza lavoro per il progetto francese del Canale di Panama: quello guidato da Lesseps e che terminò in un fallimento. Centinaia di loro morirono per gli incidenti e le malattie tropicali, falcidiati dall’inclemenza della selva. Con l’avvento degli Stati Uniti d’America il progetto del Canale si riattivò e ancora una volta loro, gli afroantillani erano in prima linea…

Il genius loci di Calidonia tra Ferrocarril e Canal

Il museo afroantillano di Panama sorge nella parte della città corrispondente al distretto di Calidonia, zona dove molte delle famiglie afroantillane migranti si stabilirono durante il periodo della costruzione della rete ferroviaria e del canale. Un luogo simbolico, attraverso il quale è possibile raccontare la storia di una città che ha vissuto un fiorente commercio, una forte migrazione e una importante mescolanza culturale. Processi che hanno segnato quella che venne battezzata da William Patterson alla fine del Seicento come Baia di Caledonia, giacché la prima colonia che si stabilì nella zona era scozzese e Patterson decide di assegnarle il nome latino con il quale era conosciuta la Scozia. Il nome passò poi attraverso la lingua castigliano e diventò Calidonia, allo stesso tempo in cui, quando Panama era ancora colombiana, le terre corrispondenti oggi al distretto venivano distribuite a pochi ricchi latifondisti. L’idea era quella di rendere la zona un luogo di commercio che potesse attirare la migrazione straniera e così nel 1823, il Congresso della Colombia (stato nato solo 2 anni prima) emanò un decreto che autorizzava la distribuzione di 1.920.000 ettari di terra demaniale.

Costruzione della comunità afroantillana giunta nell’istmo nel Diciannovesimo secolo | Foto del Museo afroantillano di Panama

Prodromi della finanziarizzazione panamense e conseguente prima gentrificazione (1908)

L’obiettivo erano gli investimenti europei e nordamericani che avrebbero dovuto aiutare a stabilire nuove imprese e colonie commerciali per attivare la zona dell’istmo. Nonostante ciò, almeno all’inizio la zona “non decollò” e per gli abitanti, per lo più immigrati dei caraibi che lavorano in condizioni precarie per le grandi compagnie, esistevano limitazioni sanitarie dovute alla mancanza di acqua potabile, all’inesistenza di un sistema sanitario, alle paludi e alle strade allagate che facilitavano la proliferazione di zanzare e la trasmissione di malattie come la malaria.

Fn in quello scenario che due compagnie che all’epoca furono tra le protagoniste della scena pubblica dell’istmo, la Panama Railroad Company e la Isthmian Canal Company, decisero di intervenire per creare una zona abitabile che permettesse l’espandersi delle loro operazioni commerciali. Per fare ciò dovevano poter contare su un quartiere moderno e così decisero di intervenire per riqualificare un quartiere che nel 1908 contava una popolazione di 35.668 abitanti (la maggior parte della quale era forza lavoro proprio per queste compagnie). I lavori vennero incentrati su un piano igienico-sanitario che vide anche la necessità di asfaltare le strade, la demolizione di molte case (specialmente quelle dei migranti caraibici, la costruzione dell’acquedotto e di un nuovo sistema di fognature. Come era previsto la riqualificazione della zona aumentò il valore del terreno e incoraggiò la speculazione immobiliare per la costruzione di grandi edifici popolari (a capitale privato) per l’affitto di stanze ai residenti.

Ponte di Calidonia

Calidonia fu anche lo scenario di numerosi scontri tra liberali e conservatori (che si disputavano il controllo politico della Colombia) e proprio in questo distretto venne combattuta la sanguinosa battaglia del Ponte di Calidonia, che vide la sconfitta dei liberali e dove morirono 800 soldati (700 della fazione dei liberali e 100 della fazione dei conservatori).
Il Ponte Calidonia sorgeva proprio nella zona dove oggi si trova il Museo afroantillano.

Vista del Ponte di Calidonia (destra) nel 1916, insieme alla famosa Casa Miller (sinistra). | Fonte wikipedia, foto di uso comune

Il 29 aprile 1915 il presidente Belisario Porras (Panama aveva dichiarato la sua indipendenza dalla Colombia nel 1903) divise la città in 4 grandi settori tra i quali figurava appunto Calidonia, insieme a Curundú, Bella Vista e Santa Ana; rispettivamente a ovest, nord e sud. A oggi invece il distretto è amministrativamente composto da cinque quartieri: Calidonia, Marañón, San Miguel, La Expósito e Perejil.
I fragili edifici in legno che costituivano i blocchi comunitari porticati e i balconi furono esclusi dai lavori di conservazione (come la Casa Miller che si vede nella foto: qui un approfondimento) ma oggi camminando per le strade di Calidonia, un occhio attento può ancora riconoscere tracce di quel passato che tanto ha contribuito alla coesione sociale e alla formazione del centro urbano.

Casco Viejo…

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Da un imperialismo all’altro… l’arroganza di Washington

L’importanza geopolitica del Canale

Non è però possibile capire la storia di Colón e dello Repubblica di Panama senza fare riferimento alla creazione della zona del Canale e all’ingerenza degli Stati Uniti d’America nelle vicende interne di questo paese centroamericano.

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Terminal Atlantico del Canale di Panama, provincia di Colón | Foto D. Battistessa (2021)

Concessione capestro

Tutto parte dal Trattato Hay-Bunau Varilla. siglato solo15 giorni dopo l’indipendenza di Panama dalla Colombia (avvenuta il 3 novembre 1903) e che dava agli Usa la concessione per la costruzione del Canale, la sua gestione perpetua e il possesso infinito di una fascia adiacente al percorso del Canale di 16 km (10 miglia) di estensione su ogni lato (est ed ovest). La storica panamense Marixa Lasso nel suo controegemonico libro “Erased: The Untold Story of the Panama Canal” (2020) ci aiuta a capire come i termini di quel trattato furono volontariamente “mal interpretati” dagli Usa, che imposero una lettura unilaterale degli accordi con conseguenze drammatiche sia per gli abitanti originari di quella che divenne poi la Zona del Canale sia per il paese centroamericano in generale.

L’imprescindibile libro della storica Marixa Lasso, nella versione inglese e nella versione in spagnolo. Un documento inestimabile per comprendere la storia del Canale di Panama, non raccontata dagli Stati Uniti D’America

Un territorio occupato e diviso in due

Con l’applicazione di questo trattato si divideva di fatto il paese centroamericano in due, con una frangia di 16 km che costeggiava sui due lati il Canale, spazio nel quale vivevano migliaia di statunitensi con le loro famiglie, in una vera e propria enclave Usa, che funzionava con leggi e regole proprie. Gli abitanti di questa zona erano chiamati zonians (dall’inglese) e vivevano isolati, protetti dalla polizia del Canale e dalle truppe dell’esercito Usa. Un territorio al quale i panamensi non avevano accesso (se non con permessi speciali) e nel quale il tenore di vita era molto più alto che nel resto di Panama. I cittadini di Panama vissero per anni in un clima di discriminazione, ingerenza, disprezzo e soprusi da parte del contingente Usa formato da civili e militari e le tensioni crebbero per anni, fino ai fatti drammatici del gennaio del 1964.

Murales nel centro di Panama, di fronte al monumento ai martiri del 9 gennaio 1964 | Foto D. Battistessa (2022)

Costante riproposizione di imperialismi nei secoli

Contesto imperialista negli anni Sessanta

Fatti che si verificarono in un contesto internazionale molto volatile e di necessaria comprensione per analizzare la trascendenza del sacrificio di quei giovani panamensi, passati alla storia come martiri della patria. Dobbiamo ricordare infatti che il 1° gennaio 1959 aveva trionfato la rivoluzione castrista a Cuba e in tutta la regione soffiava un forte vento antimperialista. A Panama, dove gli Usa esercitavano de facto la sovranità sulla zona del Canale, questo sentimento crebbe e nutrì le giovani menti delle nuove leve, studenti convinti di dover fare la loro parte nel grande “gioco” della storia. Inoltre, pochi mesi prima di quel fatidico 9 gennaio, ricordato appunto come “giorno dei martiri”, venne ucciso a Dallas il presidente degli Stati Uniti d’America John Fitzgerald Kennedy (22 novembre 1963), scatenando una convulsione nazionale che si sommava alla lotta del movimento per i diritti civili delle persone afroamericane e al momento algido della guerra fredda contro l’Unione Sovietica. Nell’agosto del 1964 inoltre gli Stati Uniti d’America entrarono ufficialmente nel conflitto del Vietnam (durato fino al 1975) aprendo un nuovo fronte di lotta internazionale. Il Canale di Panama non era dunque un elemento scollegato dalla trama internazionale ma era bensì un pezzo chiave della scacchiera geopolitica dell’epoca, dove gli Stati Uniti d’America guidavano la loro azione politica in America Latina basandosi sulla “dottrina Monroe”. Una dottrina elaborata dal presidente James Monroe nel suo discorso del 2 dicembre 1823 al Congresso e che stabiliva che gli Stati Uniti d’America non avrebbero tollerato l’ingerenza delle potenze europee nel continente americano. Essa stabiliva inoltre che qualsiasi intervento degli europei nelle Americhe sarebbe stato visto come un atto di aggressione che avrebbe richiesto l’intervento degli Stati Uniti d’America.

La Mattanza…

Fu dunque in questo contesto che il 9 gennaio 1964 decine di giovani studenti marciarono stringendo tra le mani la bandiera di Panama verso la Zona del Canale, area che come detto era fortemente protetta da un contingente militare degli Stati Uniti d’America. Quel giorno, secondo i documenti che furono declassificati anni dopo dal governo di Washington, la polizia della Zona del Canale sparò 600 colpi di fucile, 132 bombe lacrimogene e 1850 proiettili di revolver calibro 0,38. In quegli scontri morirono 22 panamensi e 4 statunitensi, e si registrarono più di 400 feriti. Un giorno drammatico, nel quale si manifestò tutta la spietata e cinica forza bruta dell’imperialismo Usa. Un evento che però lasciò un segno indelebile nelle menti e nei cuori dei panamensi e che favorì la revisione degli accordi sulla sovranità territoriale nel Canale: revisione sfociata nell’abolizione del concetto di controllo “perpetuo” sulla Zona del Canale da parte degli Stati Uniti d’America e nella firma dei Trattati Torrijos-Carter nel 1977.

… e la Dignità

Dopo la repressione del 9 gennaio 1964 infatti, l’allora presidente della Repubblica di Panama, Roberto Francisco Chiari Remón (conosciuto come Roberto Chiari), compì un atto senza precedenti nella storia del piccolo stato centroamericano: rompendo le relazioni diplomatiche con gli Usa. L’azione di Chiari non solo fu coraggiosa ma creò anche un punto di frattura storica in relazione al vassallaggio esercitato dal gigante nordamericano nei confronti degli stati sotto la sua orbita di influenza. Il 15 gennaio Chiari lanciò dichiarazioni infuocate, inspirate dal sacrificio dei suoi concittadini caduti sotto il fuoco delle truppe del Canale per aver difeso la bandiera patria: Panama non avrebbe riallacciato relazioni diplomatiche con gli Usa a meno di una revisione sostanziale del Trattato Hay-Bunau Varilla. Chiari, che fu presto soprannominato dal popolo come “Presidente della Dignità” decise di non dare più corso allo storico sopruso del trattato del 1903 e forzò la mano di Washington che dovette cedere alle pressioni, acconsentendo alla revisione dei termini degli accordi di inizio secolo. Nell’aprile del 1964, Lyndon B. Johnson (prima vicepresidente di J.F. Kennedy e successivamente 36esimo presidente USA) accettò l’apertura di un dialogo per l’eliminazione della causa del conflitto, inviando a Panama il delegato speciale Robert Anderson per avviare i negoziati. Ci vollero ancora 15 anni ma nel 1979 la Zona del Canale venne “cessata” e fu iniziato il processo di passaggio di proprietà degli immobili così come lo smantellamento delle basi militari Usa nella zona. Finalmente, in adempimento a quanto stabilito nei Trattati Torrijos-Carter (concernenti la Neutralità Permanete e il Funzionamento del Canale di Panama), a mezzogiorno del 31 dicembre 1999, il governo degli Stati Uniti d’America trasferì il controllo del Canale di Panama al governo panamense.

I fatti del 9 gennaio 1964

Operazione sovranità

Statua posizionata di fronte al Museo di Arte Contemporanea di Panama che ricorda i martiri del 9 gennaio 1964 |. Foto D. Battistessa (2021)

Quanto successo in quei giorni di gennaio affonda le radici negli accordi del 1903 e in una ingerenza sulla sovranità territoriale esercitata per decenni dagli Usa sul territorio della Repubblica di Panama. Come detto gli abitanti statunitensi della Zona del Canale erano chiamati zonians e vivevano in una realtà parallela rispetto al resto della popolazione di Panama, cittadine e cittadini che dopo anni di separazione, soprusi e boicottaggi, covarono un sentimento di rivalsa che portò ad azioni concrete iniziate nel 1958. In quell’anno ebbe luogo la dimostrazione chiamata Operazione Soberania, attraverso la quale un gruppo di audaci studenti universitari “piantarono” 75 bandiere panamensi nella Zona del Canale. Il motto degli studenti all’epoca era «el que siembra banderas, cosecha soberanía» (chi semina bandiere, raccoglie sovranità), come ricorda uno di protagonisti di quegli eventi, lo scrittore e storico Ricardo Ríos Torres intervistato da BBC nel 2019. L’anno successivo gli stessi studenti organizzarono quella che venne chiamata Marcia Patriottica, invitando i cittadini panamensi a entrare in modo pacifico nella Zona del Canale sotto giurisdizione Usa. Il governatore della Zona del Canale, che all’epoca era William Everett Potter, dette però l’ordine alla polizia di fermare i manifestanti e di impedire loro l’ingresso: scatenando tumulti e scontri che terminarono con un saldo di vari feriti.

Disfide di bandiera

È in questo contesto di tensione che arriviamo alla quistión de la bandera”, pomo della discordia che scatenò le proteste del 9 gennaio 1964. Per far fronte al crescente nervosismo intorno alla Zona del Canale e alle dispute tra i cittadini dei due stati, i presidenti di Panama e Usa dell’epoca (Roberto Chiari e J.F. Kennedy), giunsero a un accordo nel 1962. Con quella negoziazione si decise che a partire dal 1° gennaio 1964, nei luoghi civili dentro la Zona del Canale, sarebbero state fatte sventolare sia la bandiera statunitense che quella panamense. Giunti però alla fatidica data del 1°gennaio del ’64, gli zonians non rispettarono l’ordinanza del governatore (che dal 1° febbraio 1962 era Robert John Fleming) e issarono solo la bandiera statunitense in segno di protesta e provocazione. Gli abitanti della Zona ritenevano infatti che il provvedimento minasse la memoria dei loro antenati, coloro che avevano costruito il canale e lo avevano gestito per 60 anni. Molti di loro erano nati lì, convinti di essere parte di una missione civilizzatrice su grande scala, sentivano di essere creditori di un ringraziamento da parte dei panamensi e non delle loro “arroganti pretese”.

Gli studenti della Balboa High School si negarono ad issare le due bandiere | Foto dell’archivio del Museo del Canale di Panama

Il caso più noto fu quella della Balboa High School (Scuola Superiore Balboa) dove il 7 di gennaio gli studenti si rifiutarono di seguire le istruzioni date dall’amministrazione del Canale e non issarono la bandiera del paese centroamericano insieme a quella Usa. Il gesto di sfida della Balboa High School fu raccolto dagli studenti dell’Istituto Nazionale di Panama, una scuola pubblica conosciuta popolarmente come “Nido de águilas” (Nido delle Aquile), che il 9 di gennaio si diressero verso la Zona del Canale. Gli studenti panamensi marciarono con alla testa la bandiera di Panama e un cartello con la scritta “Panamá es soberana en la Zona del Canal” (Panama è sovrana nella Zona del Canale). Sei di loro, arrivati nei pressi della Balboa High School, dopo aver ottenuto il permesso delle autorità per issare la bandiera, vennero affrontati però dagli zonians della scuola.

Sei studenti panamensi arrivano con il permesso della polizia della Zona alla Scuola Superiore Balboa – Foto dell’archivio del Museo del Canale di Panama

Scontri e polizia assassina (ACAB)

Nei tumulti che seguirono la bandiera di Panama venne strappata e oltraggiata e gli studenti dell’Istituto Nazionale dovettero fare dietrofront. Malconci e umiliati i giovani del Nido delle aquile raccontarono quanto successo e la loro storia accese la miccia definitiva. Le radio di Panama raccontarono l’accaduto a un popolo che tratteneva a stento l’ardore patrio: migliaia si riversarono ai limiti della Zona del Canale. La polizia del Canale si vide presto superata e cominciò a sparare: il quel momento cadde il primo martire di quel drammatico giorno. Si trattava di Ascanio Arosemena Chávez, giovane dirigente studentesco che aveva da poco compiuto 20 anni e che si trovava in prima fila per aiutare i feriti. A rinforzo della polizia del Canale arrivarono i militari della vicina base Usa, moltiplicando così in breve tempo i morti e i feriti.

Nel frattempo la città di Colón, nella parte atlantica del Canale, si univa alle proteste amplificando la magnitudine dello scontro. Nella Città di Panama i negozi statunitensi divennero bersaglio della furia della folla, case e botteghe vennero date alle fiamme, stessa sorte che toccò all’edificio appena inaugurato della compagnia aerea Usa, Pan American Airlines.

Qui i nomi dei martiri panamensi di quel fatidico giorno: Ascanio Arosemena Chávez, Gonzalo Antonio Crance Robles, Teófilo Belisario De La Torre Espinosa, Jacinto Palacios Cobos, Alberto Oriel Tejada, Ezequiel Meneses González, Luis Vicente Bonilla Cacó, José Enrique Gil, Alberto Nichols Constance, Víctor Manuel Iglesias, Rodolfo Sánchez Benítez, Víctor Manuel Garibaldo Figueroa, Gustavo Rogelio Lara, José Del Cid Cobos, Ricardo Murgas Villamonte, Rosa Elena Landecho, Ovidio Lizandro Saldaña Armuelles, Etanislao Orobio Williams, Maritza Avila Alabarca, Carlos Renato Lara, Evilio Lara e Celestino Villareta.

Operation Just Cause (Operazione Giusta Causa)

La storia degli Usa con Panama non termina però con i Trattati Torrijos-Carter nel 1977, ma vede un altro capitolo oscuro che si sviluppò 10 anni prima della consegna definitiva del Canale alle autorità panamensi.

Il 20 dicembre 1989 infatti si produsse l’invasione statunitense di Panama, sotto il nome in codice di “Operation Just Cause”. L’operazione, durata circa due settimane (terminò ufficialmente il 3 gennaio 1990), fu la risposta alla dichiarazione di guerra pronunciata il 15 dicembre da Noriega, generale e dittatore del paese centroamericano dal 1983. Noriega in passato era stato un collaboratore della Central Intelligence Agency (Cia) e conosciuto per essere particolarmente spietato e opportunista. Soprannominato Cara de Piña (Faccia d’Ananas), Noriega si mosse nel contesto della guerra fredda con furbizia e destrezza tra gli interessi e le manovre diplomatiche delle due superpotenze. Tuttavia, quando Washington gli ritirò l’appoggio (accusandolo di estorsione e narcotraffico), decise di dichiarare “guerra all’impero”. George H.W. Bush, presidente statunitense dell’epoca non tardò nel rispondere e decise di inviare a Panama 26.000 militari. Le truppe Usa usarono l’artiglieria e la forza aerea per bombardare i centri nevralgici del paese soprattutto a Città di Panama e Colón. Uno dei luoghi più bombardati fu il quartiere popolare del Chorrillo (nel casco storico della Città di Panama), dove 20.000 persone vennero sfollate e dove ancora oggi non si conosce il numero esatto dei morti causati da quell’operazione.

L’episodio del podcast Indomables, delle giornaliste indipendenti panamensi Leila Nilipur e Melissa Pinel dal titolo “Quien se acordarà de nosotros” (Chi si ricorderà di noi), ci aiuta a fare luce sui centinaia di desaparecidos che conseguirono a quell’attacco.

Un’operazione militare che fu condannata dalla Nazioni Unite e dall’Organizzazione degli Stati Americani (Oas), come violazione della stessa Carta costitutiva dell’organizzazione. Inoltre, il 29 dicembre 1989 l’Assemblea Generale dell’Onu condannò ufficialmente l’intervento militare come una flagrante violazione del diritto internazionale con 75 voti a favore, 20 contrari e 40 astensioni. Le forze di occupazione statunitensi appoggiarono successivamente l’insediamento, come presidente e vicepresidente della repubblica, di Guillermo Endara e Ricardo Arias Calderón nella base militare di Clayton: Endara aveva vinto le elezioni (poi annullate da Noriega), celebratesi nel maggio del 1989 capitanando l’Alianza Democrática de Oposición Cívilista (Adoc). Come risultato dell’intervento militare Usa, non solo Noriega venne arrestato il 3 gennaio 1990 (e condannato il 16 settembre 1992 a 40 anni di carcere, poi ridotti a 30) ma venne abolito definitivamente l’esercito del paese centroamericano. Infatti, per evitare la possibilità di un altro regime militare, il governo di Panama decise di seguire l’esempio del vicino Costa Rica e, nel febbraio 1990, non ripristinò le forze armate.

Clayton – Vecchia Zona del Canale sotto Amministrazione Usa | Foto. D. Battistessa (2021)

Nel 1994, tale divieto venne incluso nella Costituzione all’articolo 310, che stabilisce che «la Repubblica di Panama non ha un esercito» e aggiunge che sono tutti i cittadini di Panama a dover «prendere le armi per difendere l’indipendenza nazionale e l’integrità territoriale dello stato».

Discriminazione, infrastrutture e valori ancestrali

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500 anni di rotte commerciali e rivolte afrodiscendenti

Skyline di Città di Panama | Foto D. Battistessa (2022)

Colón e la popolazione afropanamense

Quanto succede nella provincia di Colón non può però essere compreso se non si fa un passo indietro nella storia di Panama e non si conosce la situazione della popolazione afrodiscendente del paese centroamericano, popolazione fortemente concentrata in questa provincia caraibica.

El Cimarronaje

(

Estratto da America latina afrodiscendente, di Diego Battistessa (Arcoiris, Salerno 2021)

Le ribellioni dell’istmo di Panama

Nella Panama della colonia spagnola il fenomeno del cimarronaje (epiteto peggiorativo con il quale venivano chiamate le persone schiavizzate che fuggivano) iniziò fin dai primi decenni del Cinquecento, proprio con l’arrivo dei primi “carichi” di forza lavoro schiavizzata dall’Africa. Gli schiavi vennero portati nella zona per svolgere diversi lavori: uno dei principali era la pesca delle perle. Un’attività che, al pari della vita delle miniere d’oro e d’argento, non solo era molto dura ma anche molto pericolosa: decine infatti furono gli africani morti per annegamento, per embolie polmonari o vittime di attacchi di verdesca. A fronte di questa situazione iniziarono le fughe verso l’interno e verso la giungla del Darién. I cimarrones però non si nascondevano dagli spagnoli, li affrontavano in campo aperto e attaccavano le carovane che percorrevano la rotta commerciale dell’istmo che collegava i due oceani. Verso la fine del decennio del 1540, si cominciano ad avere notizie di uno schiavo liberto chiamato Felipillo, leader fuggito dalle zone perlacee e capace di organizzare i cimarrones in un palenque (comunità autonoma di liberti) sulle rive del Golfo di San Miguel, nel Darién. Felipillo e i suoi portavano avanti una guerra di guerrilla nella giungla panamense, realizzando attacchi sul cammino reale e derubando i viaggiatori di armi e rifornimenti: di notte poi razziavano gli insediamenti spagnoli per liberare altri africani schiavizzati.

La difesa spagnola delle rotte di merci atlantiche

Per gli spagnoli la situazione era insostenibile. Avevano da pochi anni iniziato le operazioni commerciali nell’istmo e non potevano permettere a degli schiavi di mettere a rischio quella rotta mercantile. L’impatto delle azioni di Felipillo aveva causato non poche proteste alle autorità spagnole da parte dei coloni, che argomentavano di non poter/voler pagare le tasse e di non avere sufficiente forza lavoro. Il compito di eliminare la minaccia dei cimarrones ricadde sul Capitano Francisco Carreño che iniziò una guerra senza quartiere, infliggendo gravi e inumani castighi a coloro che venivano catturati. Le truppe di Carreño, dopo diverse scaramucce, scoprirono nel 1549 l’ubicazione esatta del palenque di Felipillo, che fu attaccato in forze e ridotto in cenere. Dopo aver ucciso il leader africano gli spagnoli probabilmente pensarono di aver eliminato il problema delle ribellioni nella zona, ma non avevano fatto i conti con l’esigenza biologica di libertà di coloro che erano stati schiavizzati. Poco dopo, altre ribellioni esplosero a Panama, guidate da capi come Antón Mandinga e il Negro Mozambique (che non ebbero molta fortuna) e soprattutto da Bayano, erede dello spirito di Felipillo.

Le origini di Bayano non sono chiare. Si dice che fosse stato catturato nell’attuale Sierra Leone, che fosse un famoso guerriero e che appartenesse alla tribù Mandinga. Un’altra ipotesi lo colloca come membro del popolo Yoruba, al quale appartenevano la maggior parte degli schiavi portati nelle Americhe: ipotesi che spiegherebbe anche il suo nome, derivante probabilmente dalla parola bayanni che in lingua yoruba identifica un idolo o un oggetto venerato dai fedeli del dio del tuono. Anche sull’inizio della sua ribellione le versioni sono discordanti. Alcuni parlano di una ribellione iniziata quando ancora Bayano si trovava sulla barca negriera che lo stava portando a Panama, altri di una fuga e un’insurrezione iniziata poco dopo essere arrivato nel Darién. Quel che è certo è che Bayano, negli anni in cui Felipillo soccombeva alle truppe di Carreño, riuscì a riorganizzare i cimarrones scappati nella selva e a costituire un nuovo, grande palenque conosciuto come Ronconcholon, vicino al fiume Chepo (conosciuto anche come fiume Bayano). Il condottiero africano contava su una forza che gli storici fanno oscillare tra i 400 e i 1200 uomini. Il Palenque di Ronconcholon era dunque una città in piena regola, che poteva disporre di un esercito che rappresentava una grande minaccia per la forza di occupazione spagnola. Per anni le truppe di Bayano portarono avanti una guerriglia che mise in ginocchio il commercio della corona spagnola. Per affrontare il pericolo rappresentato dall’insurrezione dei cimarrones arrivò a Panama anche il marchese de Cañate, viceré del Perù, che incaricò il capitano Gil Sánchez di dirigersi nella regione di Chepo e sconfiggere le truppe di Bayano. Sánchez e il suo contingente però vennero sconfitti. Una successiva spedizione guidata questa volta dal capitano che uccise anni prima Felipillo, Francisco Carreño, ebbe successo e Bayano venne catturato e portato nella località di Nombre de Dios nell’attuale provincia di Colón. Qui il Presidente della Real Audiencia de Panamá, Álvaro De Sosa, offrì ai cimarrones la possibilità di stabilire un accordo per uscire dall’illegalità e convivere con le autorità spagnole. Dopo aver accettato l’accordo ed essere dunque tornato in libertà, Bayano ricominciò tuttavia le razzie e gli attacchi sulle rotte commerciali: di nuovo catturato, questa volta da un contingente di 200 uomini guidato da Pedro de Ursúa venne inviato successivamente in Perù per essere giudicato. Nel cuore dell’impero spagnolo in Sudamerica, il cimarrón ribelle venne processato e successivamente portato in Spagna, dove morì.

Lago di Bayano, che prende il nome dal condottiero liberto del palenque di Ronconcholon | Foto Diego Battistessa (2022)

La storia delle ribellioni di persone schiavizzate a Panamà e la loro presenza sul territorio sono vincolate in modo profondo e simbolico all’identità di tutta la regione. Va sottolineato infatti che i principali insediamenti di gruppi di afrodiscendenti si trovavano in quella che veniva chiamata “Costa Arriba” nell’attuale provincia di Colón (ci furono altri palenque Costa Abajo de Colón, a ovest dell’attuale canale, ma ebbero meno rilevanza). Proprio in quella zona arrivò Cristoforo Colombo durante il suo quarto viaggio, in quelle che ancora non si chiamavano Americhe, nel 1502. La città di Nombre de Dios (dove fu portato Bayano) venne fondata nel 1510 da Diego de Nicuesa ed è uno dei primi insediamenti europei in America: è considerato il più antico insediamento ancora abitato, fondato nell’America continentale dagli europei. La cittadina di Nombre de Dios ebbe fortune alterne: abbandonata e ripopolata nel 1519, saccheggiata e incendiata dai pirati nel 1572 e nel 1596. Dopo l’incendio del 1596 innescato dal corsaro inglese Francis Drake, la popolazione venne spostata nella zona più salubre e fortificabile di Portobelo: altro luogo nel quale si concentra la storia e la trazione afrodiscendente.

La spiaggia del piccolo villaggio di Nombre de Dios, luogo nel quale sbarcò Cristoforo Colombo nel 1502 | Foto D.Battistessa (2022)

Comunità africane sovrapposte a snodi commerciali

In tutta la provincia di Colón troviamo comunità afropanamensi (da notare per esempio anche l’insediamento chiamato Palenque, che nacque come un vero e proprio villaggio di cimarrones e che ha mantenuto il nome fino ai nostri giorni) ma senza ombra di dubbio Portobelo rappresenta il centro identitario più forte. Portobelo non era all’epoca un luogo di permanenza della popolazione afrodiscendente, ma era sicuramente uno dei nodi commerciali di transito più importanti. Con il tempo però si formarono delle comunità africane stabili che si organizzarono nei quartieri di Guinea e Malambo, veri e propri conglomerati di tradizione africana e sincretica. Come eredità di questo processo storico sincretico troviamo la cultura “congo”, concentrata nella Costa Arriba e Costa Abajo della provincia di Colón. Si tratta di un articolato sistema di lingua, musica e danza afrocoloniale. Questa pratica è caratterizzata da un’espressione violenta ed erotica durante la danza, associata a una rappresentazione teatrale, il cui tema riporta a episodi storici della tratta degli schiavi, della schiavitù e delle conseguenti ribellioni nere durante i tempi del colonialismo. Tamburi, danza a piedi nudi, momenti di trance e un linguaggio che mischia lingue coloniali pronunciate al contrario e lingue di origine africana. Un’eredità dei primi schiavi africani che dentro i palenque svilupparono una pratica culturale riconosciuta oggi dall’Unesco come patrimonio culturale immateriale dell’umanità.

Passaggio strategico

Il polo atlantico: Colón

A oggi dunque la provincia di Colón, è caratterizzata per essere la zona di Panama con la più alta concentrazione di popolazione afrodiscendente, popolazione che storicamente vive gli strascichi lasciati da un razzismo strutturale che durante 4 secoli si è manifestato nella regione con la schiavitù e successivamente con una marginalizzazione e mancanza di accesso ai diritti umani fondamentali e alle condizioni di base per lo sviluppo di una piena forma di cittadinanza. La città di Colón, capoluogo dell’omonima provincia ha una popolazione di poco meno di 100.000 persone e dista solo 80 chilometri dalla Capitale, collegata alla stessa dall’Autostrada Transístmica (Panamá-Colón), che unisce le due coste oceaniche (Atlantico e Pacifico) del paese centroamericano. Colón è anche la seconda città più popolosa dei Caraibi centroamericani e qui si trova uno dei porti più grandi di tutta l’America Latina. Dato che contrasta non poco per la situazione di depressione economica e mancanza di servizi e infrastrutture urbane (in comparazione con la Capitale) nella quale versa la città e per estensione tutta la provincia. Colón è infatti un enorme hub commerciale, essendo la zona caraibica di entrata del Canale di Panama, ragione per la quale nell’area è stata istituita quella che si chiama Zona di Libero Commercio di Colón, interconnessa con il Sistema Integrato di Gestione Doganale di Panama, per facilitare e accelerare le procedure del commercio estero.

La vocazione infrastrutturale tra ferrovia e canale interoceanici

Ma le modalità e la nascita della stessa città di Colón, quando l’istmo di Panama faceva ancora parte del territorio nazionale colombiano, ci fanno capire come la zona sia da sempre solo stata vista come un luogo da sfruttare per i capitali nazionali e stranieri. Dobbiamo infatti tornare indietro fino al 1850, quando si decise finalmente di dare vita a un progetto che fu a suo tempo dello stesso Simón Bolivar, ovvero il collegamento attraverso una rotta ferroviaria dei due oceani (il canale di Panama sarebbe stato inaugurato solo 64 anni dopo). Il progetto interessava molto agli Stati Unit d’America e fu proprio lo statunitense William Henry Aspinwall (16 dicembre 1807 – 18 gennaio 1875), socio della società mercantile Howland & Aspinwall e cofondatore sia della Pacific Mail Steamship Company che del Panama Canal Railway a rendersi protagonista di questo progetto ingegneristico. Proprio la Panama Railroad Company aveva bisogno di un terminal sull’Atlantico per costruire la prima ferrovia interoceanica e per fare ciò si decise di costruire l’infrastruttura necessaria sull’isola di Manzanillo (poco più di 250 ettari), sul lato orientale della baia di Limón. I lavori iniziarono nella primavera del 1850 e la manodopera arrivò dalle Antille (con un gran numero di Giamaicani), dalla Spagna e anche dall’Italia: uomini falcidiati da malaria e dissenteria che morirono a decine per realizzare questo progetto. Una volta terminato il terminal Atlantico della ferrovia, alla zona venne data una parvenza (tra degrado e abbandono) di piccolo centro urbano e gli investitori statunitensi proposero di chiamare la “nuova città” Aspinwall, in onore di uno dei grandi capitalisti che finanziavano le operazioni di Panama Canal Railway (William Henry Aspinwall). Lo stato colombiano istituito in quegli anni però non accettò la proposta e battezzò ufficialmente il 27 febbraio 1852 la città con il nome di Colón. Gli statunitensi rifiutarono la decisione e continuarono a chiamare la città (che si trovava in territorio colombiano!) con il nome di Aspinwall. La disputa durò fino al 1890 quando una ferma azione del governo di Bogotá, che eliminò la possibilità di utilizzare l’indirizzo postale di Aspinwall, obbligò gli statunitensi a cedere e accettare il nome di Colón. La città sorta da una stazione ferroviaria non venne però risparmiata dalle vicende belliche che scossero la Colombia nel 1885 e anche dopo l’indipendenza di Panama (nel 1903) fu devastata da un incendio che la distrusse completamente nel 1915 (un anno dopo l’inaugurazione del Canale). Proprio la costruzione del Canale di Panama e la sua messa in funzionamento, portarono nuovo vigore a questo centro urbano che iniziò nella seconda decade del 1900 una costante crescita demografica. A questo si aggiunse nel 1953 la creazione della zona libera per il commercio internazionale di Colón (prima zona franca del mondo moderno) che però non salvò la città da una dura recessione economica iniziata nel 1960 e non ancora terminata.

Il Canale

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La devastazione corre sul filo… elettrico

Un flumicidio premeditato

L’agonia del fiume Tabasará iniziò nel 2007 con la complicità dello stato panamense che autorizzò una concessione per la società Genisa – Generadora del Istmo S.A. (creata ad hoc per la realizzazione del progetto idroelettrico di Barro Blanco): società che iniziò nel 2011 i lavori di costruzione in un clima di forte tensione. Le critiche erano legate alle preoccupazioni sull’impatto del progetto nonché alla mancanza di un’adeguata consultazione pubblica e alle violazioni dei diritti umani perpetrate dalla stessa società.

Quest’ultima, dopo un lungo processo di negoziazioni iniziato nel febbraio 2015, tra alcuni rappresentanti indigeni e lo stato panamense (con intervento dell’Onu), venne estromessa definitivamente dal progetto nel 2016: quando la centrale era già stata costruita per un 95%.

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Con l’acqua alla gola

L’accordo siglato nel 2016 creò però non pochi attriti all’interno della comunità Ngäbe-Buglé, giacché non tutti i membri riconobbero la legittimità di tali accordi, che sancirono de facto l’inizio delle attività della centrale idroelettrica.
Dopo Genisa arrivò Cobra (impresa facente parte fino al 2002 del gruppo Impregilo e oggi parte del gruppo spagnolo Acs) e sul suo sito web si legge che il progetto è iniziato il 15 febbraio 2011 e si è concluso il 23 gennaio 2017: circa 6 anni di lavori. Quello che però attira di più l’attenzione è questo paragrafo che descrive le difficoltà nella realizzazione della centrale e della diga.

«La sfida più grande che venne affrontata durante i lavori fu la chiusura della diga, poiché a causa del tipo di idrologia del fiume Tabasará, c’erano inondazioni durante tutto l’anno e non c’era una stagione secca che facilitasse il getto del cancello di deviazione».

Non c’è traccia dunque delle problematiche legate all’inondazione del territorio indigeno ancestrale Ngäbe-Buglé e delle denunce dei caciques (leader indigeni) che lamentavano i danni irreparabili che avrebbero subito quasi 500 persone delle comunità di Quebrada Caña, Nuevo Palomar, Comunidad Cultural Kiad, Labramona e Calabacito, del distretto Müna, regione di Kodrí.

Non si parla neanche del movimento 10 di aprile e delle molteplici manifestazioni di protesta, blocchi stradali e scontri con la polizia che hanno caratterizzato la presidenza di Juan Carlos Varela (2014-2019). Un processo di invisibilizzazione di una resistenza costante e coraggiosa schiacciata da una centrale idroelettrica da 28,84 MW.

Indígenas panameños alzan su voz contra proyecto Barro Blanco (giugno 2016) | Foto: @jaimesaldana01

Popoli Indigeni di Panama

Quella dei Ngäbe-Buglé, che costituiscono il gruppo indigeno con la popolazione più numerosa (al censimento del 1990 superavano già i 123.000 abitanti), è una lotta che dura da anni ma il loro fronte non è l’unico aperto.

Sei Comarcas di emancipazione

A Panama, secondo i dati del censimento del 2010, sono 417.559 le persone che si riconoscono come indigene, un numero che corrispondeva per quell’anno a poco più del 12% della popolazione. Parliamo però di un gruppo molto eterogeneo che si diversifica in otto popoli indigeni: Ngäbe, Buglé, Guna, Emberá, Wounaan, Bri Bri, Naso Tjërdi e Bokota. Per questi popoli ancestrali, dopo le due indipendenze di quella che oggi è la Repubblica di Panama (nel 1821 dalla Corona spagnola e nel 1903 dalla Colombia) è iniziato un lungo e lento processo di emancipazione e rivendicazione di diritti nel nuovo spazio geografico e amministrativo del giovane paese centroamericano. Un processo fatto di accordi, scontri e rivoluzioni che ha portato il movimento indigeno a ottenere un certo grado di autonomia. A oggi infatti esistono a Panama 6 Comarcas Indigene (Contee) le cui leggi costitutive contengono il riconoscimento della tradizionale struttura politico-amministrativa di questi popoli, della loro autonomia, della loro identità e dei loro valori storico-culturali, nel sistema-stato panamense. Le 6 Contee Indigene coprono oggi un’area di 1,7 milioni di ettari e sono state create in epoche diverse: Guna Yala (1938), Emberá-Wounaan (1983), Guna Madungandi (1996), Ngäbe-Buglé (1997), Guna Wargandí (2000) e Naso Tjër Di (2020).

dighe e discariche

Parara Puru (2022). Comunità indigena Emberà sulla rive del fiume Chagres | Foto Diego Battistessa

1925. La rivoluzione Guna e la repubblica di Tule 

Una menzione speciale in questo processo di emancipazione e lotta per i diritti, merita la rivoluzione Guna scoppiata tra febbraio e marzo 1925 e che portò alla creazione dell’effimera repubblica di Tule. La ribellione fu la risposta del popolo indigeno Guna alla forzata occidentalizzazione imposta dal governo centrale che cancellava così secoli di storia dei nativi. Dopo gli scontri si arrivò a un accordo e la Comarca di Guna Yala fu la prima a essere creata. Da sottolineare che proprio dalla lingua di questo popolo indigeno arriva il concetto di Abya Yala, termine precolombiano che sempre più comunemente viene utilizzato dai popoli ancestrali e dai movimenti antiegemonici per riferirsi alle Americhe.

Territorio di Guna Yala (2021). Sulla barca di può vedere la bandiera del popolo Guna che riporta una svastica. Il simbolo, diventato manifestazione di orrore nella Germania nazista, è però antecedente al suo utilizzo da parte di Hitler | Foto Diego Battistessa

La gigantesca discarica del Cerro Patacón

Dalla devastazione idrica nelle comarcas al fuoco tossico in periferia

Non sono però solo i territori ancestrali delle popolazioni indigene a soffrire un deterioramento costante e un attacco frontale di una speculazione economica senza scrupoli: la stessa sorte è vissuta anche nella periferia della capitale e dentro la stesso Città di Panama. È il caso del Cerro Patacón, un luogo dantesco dove si concentra più del 40% della spazzatura prodotta in un paese di 4,5 milioni di abitanti, dove arrivano, al giorno, circa 2 tonnellate di rifiuti. Un centro di raccolta dei residui capitolini, meglio conosciuto come uno dei più grandi disastri ambientali e sanitari del paese centroamericano. Si tratta di un vero e proprio mostro di rifiuti, che secondo molti esperti è già collassato, con infiltrazioni nelle falde acquifere del sottosuolo, una contaminazione diretta del fiume Guabinoso che lo circonda e con frequenti incendi che liberano nell’aria miasmi tossici. La discarica copre più di 130 ettari, ma alcuni studi ambientali spiegano che la tossicità di questo gigante di rifiuti provoca un impatto negativo sui 9000 ettari circostanti: basti pensare che alcuni quartieri della capitale (Città di Panama) che si trovano a più di 3 km di distanza dalla discarica, soffrono direttamente la contaminazione area e gli effetti degli incendi che si sviluppano sul Cerro Patacón.

Pompieri lavorano nell’incendio del Cerro Patacón, La più grande discarica di Panama, considerata un disastro ambientale, che ha provocato una gran nube di fumo tossico che ammorba una parte della capitale (14 febbraio 2023) | Foto EFE/Carlos Lemos

La situazione è raccontata nel dettaglio da Errol Caballero, nell’encomiabile lavoro giornalistico del 2019 dal titolo La salud del Cerro Patacón pubblicato da Connectas – plataforma periodistica para las Americas.
In questo documento, che conta anche su materiale audiovisuale, troviamo parole lapidare che spiegano come la situazione sia completamente fuori controllo:

«La contaminazione mette a rischio la salute delle comunità vicine alla discarica di Città di Panama e le autorità stanno indagando sulla concessione della società Urbalia, per aver compromesso le fonti idriche a causa della mancanza di controlli. A sua volta, lo Stato non vigila sull’azienda, non offre soluzioni al problema e viene denunciato dagli abitanti della zona».

Una situazione già vista. Un’azienda privata che ottiene una concessione e massimizza i profitti non preoccupandosi delle esternalità negative e dell’incolumità della popolazione, uno stato inerte quando non connivente, che non fiscalizza e non effettua controlli. Nel reportage di Caballero troviamo però anche dure testimonianze, come questa:

«Jackeline Chango, 39 anni, è residente a La Isla, un quartiere marginale costruito sulle rive del Mocambo, uno dei fiumi che attraversa la zona. Quando il sistema di distribuzione dell’acqua potabile viene a mancare – come accade spesso nel settore – lei, insieme al marito Domecin e ai suoi figli, tutti di etnia indigena Emberá, si devono lavare nel ruscello. Lo fanno per necessità, sapendo che quell’acqua è completamente contaminata dalla spazzatura.
Suo figlio Kelvin, cinque anni, non era però cosciente del pericolo e mentre faceva il bagno nel ruscello ha bevuto alcuni sorsi d’acqua. Due giorni dopo hanno dovuto portarlo all’ospedale Santo Tomás, sofferente per dei dolori muscolari. I medici hanno identificato un batterio che aveva colpito uno dei polmoni. Suo padre gli ha donato sangue, ma non è bastato a salvarlo. Dopo aver subito un arresto cardiaco, Kelvin è morto a mezzogiorno del 31 dicembre, la vigilia di Capodanno».

Urbalia: basura business

La storia di questo enorme disastro che oggi incide negativamente sulla vita degli abitanti della zona e sul territorio, si fa risalire agli anni Ottanta, quando venne chiusa la vecchia discarica di Panama. Fin dall’inizio la gestione fu statale e si proiettava un’aspettativa di utilizzo di 25/30 anni della struttura di raccolta dei residui. Nel 2008 però il Consiglio Comunale della Città di Panama (organo che all’epoca aveva la potestà su queste decisioni) ordinò la concessione della discarica a una società spagnola, Urbasel Protosa. Solo due anni dopo, avvenuto un cambio di governo, l’appalto venne passato a Urbalia, mantenendo lo stesso contratto iniziale. Nel 2011 l’impresa Urbalia fu comprata dalla colombiana Interaseo SA., di proprietà di colui che viene definito lo “Zar della spazzatura”, cioè William Vélez Sierr. Già nel 2016 il Ministero dell’Ambiente di Panama aprì due procedimenti amministrativi contro Urbalia per «mancato rispetto delle misure stabilite negli strumenti di gestione ambientale» e finalmente il 27 marzo di quest’anno, le autorità statali di Panama hanno eseguito un’operazione di controllo sulla situazione del Cerro Patacón e a radice di quanto riscontrato hanno estromesso Urbalia dalle operazioni (a poche settimane dalla scadenza naturale del contratto). Attualmente vige lo stato di emergenza ambientale per il collasso di un mostro di rifiuti che continua a costare salute e vita alle persone più vulnerabili che già vivono in una situazione di estrema marginalità.

Testimoni locali di sopraffazione

Di fronte a tutto quanto letto finora, è importante poter far riferimento a voci di attivisti locali, voci lucide, che conoscono il contesto e che possono guidarci verso un’analisi di una profonda complessità, unificando tutti i territori diversamente devastati dal capitalismo. Una di queste voci è sicuramente quella di Olmedo Carrasquilla Ávila , ecologista, comunicatore sociale, attivista e dirigente di Covec che in una recente intervista per il giornale nazionale “La Estrella de Panamá” ha saputo manifestare in modo chiaro l’incoerenza dell’attuale azione di governo. Carrasquilla, intervistato nel contesto di una profonda crisi di siccità che ha colpito Panama in questo 2023, denuncia la mancanza di una politica chiara in materia socio-ambientale da parte di un governo che da un lato dichiara lo stato di emergenza ambientale per la scarsità d’acqua e dall’altra continua ad autorizzare concessioni minerarie a imprese per le cui operazioni servono ingenti quantità di acqua.

dighe e discariche

La siccità del Canale costringe a ridurre le quantità di navi che possono transitare da quel chokepointe delle catene di distribuzione

In questo podcast da “Liberation Font”, trasmissione di Radio Blackout del 13 dicembre, si trova un efficace riepilogo insieme a Diego Battistessa riguardo ai temi fin qui da lui trattati e dei molti snodi di interessi della finanza innanzitutto (che sotto traccia rappresenta l’impossibilità di concedere reale indipendenza a Panama), della gentrificazione interna, dello spolpamento predatorio di risorse da parte del colonialismo, dello sfruttamento imperialista di infrastrutture

Ma la storia affonda nei secoli

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Cancellare l’ambiente per cancellare la cultura indigena

Cortizo doble cara 3

Insomma, nonostante gli accordi raggiunti e il disinnesco momentaneo della boma sociale, si intravedeva già nell’estate del 2022 che il livore verso la figura di Cortizo e in generale verso le istituzioni, attraversava tutto il paese. La questione dell’alto prezzo dei beni di consumo di base rimane aperta e anche la scarsità di medicine (e l’altissimo costo di quelle reperibili) mantengono alta la tensione sociale nel paese. Come se questo non bastasse, con un pessimo timing, il presidente Cortizo aveva approvato il 20 giugno 2022 (dopo aver negato la possibilità di abbassare le tasse sui carburanti) degli sgravi fiscali per il settore alberghiero (legge 314 che modifica la legge 80 del 2012) diminuendo ancora di più la sua credibilità di fronte alla popolazione. Inoltre, lo scandalo già soprannominato McCallan 18 anni che ha visto come protagonisti alcuni deputati dell’assemblea (1° luglio 2022) ha gettato ancora più benzina sul fuoco e tolto credito alle istituzioni. Uno scandalo partito da un video diventato subito virale dove si vedono i deputati del Partido revolucionario democrático (Prd) celebrare con un bottiglia di whiskey McCallan che nel paese centroamericano costa (nei supermercati) quasi 400 dollari. La sensazione generale è quella dunque di una diffusa corruzione e di una continua malversazione del denaro pubblico ad appannaggio di pochi eletti e delle grandi imprese che si beneficiano di un sistemico e atavico clientelismo.

La celebración por la reelección como presidente de la Asamblea Nacional del diputado oficialista Crispiano Adames

Depredazione ambientale e capitalismo selvaggio come “marca paese”

Chi non conosce Panama potrebbe pensare che il contesto relativo a Minera Cobre Panama nella provincia di Colón sia un caso isolato. Purtroppo non è così. Il Ciam, Radio Temblor e altre piattaforme di attivisti che monitorano e difendono i diritti della popolazione denunciano da anni uno spietato e sistematico utilizzo del capitale, spesso straniero, per operazioni di trasformazione del territorio, rurale e urbano, con il fine di massimizzare i guadagni senza considerare nessun tipo di esternalità negativa per gli abitanti della zona.

Cancellazione della cultura Ngäbe-Buglé e del suo fiume Tabasará

In termini ambientali possiamo citare per esempio il caso della dura repressione sofferta dagli indigeni Ngäbe-Buglé, come mi è occorso raccontare mentre mi trovavo a Panama nell’autunno del 2021. Il 29 ottobre di quell’anno infatti un gruppo di indigeni del popolo Ngäbe-Buglé che ancora resistevano sulle rive deli fiume Tabasará, nella zona adiacente al progetto idroelettrico di Barro Blanco, fu sgombrato con la forza dalla polizia nazionale panamense. Uomini, donne, bambini e anziani rimasero gravemente feriti (Attenzione, immagini molto forti) dall’impatto di proiettili di gomma sparati dalle guardie in tenuta antisommossa.

Il corpo di polizia che ha sgombrato con la forza le famiglie della comunità indigena Ngäbe-Buglé (ottobre 2021) – Foto di Basilio Jiménez. Radio Temblor Internacional

Il Collecttivo Voci Ecologiche – Covec denunciò in un manifesto l’accaduto, sottolineando l’ipocrisia dell’operato dell’attuale presidente di Panama, Laurentino Cortizo, che proprio nei giorni successivi agli scontri, partecipò a Glasgow alla Cop26 parlando delle misure adottate dal suo governo per rispettare la natura e i popoli indigeni:

«Il nostro impegno inizia col rispettare i popoli originari e le nostre foreste, misure attraverso le quali proteggiamo il 33% della superficie del nostro paese», dichiarava Cortizo in Scozia.

Nel documento del Covec leggiamo però che:

«La realtà è esattamente il contrario e come se questo non bastasse il governo ha appena approvato il Decreto Esecutivo N.141 del 2021 che crea i Certificati di Accreditamento di Uso del Suolo in Aree Protette con il quale punta a riconoscere diritti di proprietà (e sfruttamento) dentro le aree protette. Una chiara evidenza che il business della terra viene realizzato a esclusivo vantaggio delle multinazionali e delle imprese estrattive».

Una ennesima manifestazione di uno stato che nella zona di Barro Blanco (Caña Blanca de Tolé, provincia di Chiriquí) non riconosce ai membri della comunità indigena Ngäbe-Buglé il loro diritto di abitare un territorio al quale sono legati ancestralmente. L’azione della polizia mirava a sfollare membri della comunità indigena che abitano quelle terre da anni, una zona di “pubblica servitù” e sulla quale pende un contenzioso amministrativo non ancora risolto. Molte di quelle famiglie sono inoltre doppiamente sfollate perché avevano già perso i loro terreni a seguito della creazione della diga sul fiume Tabasará: un megaprogetto che ruota intorno alla centrale idroelettrica di Barro Blanco e che ha inondato 250 ettari di territorio, “uccidendo” lo stesso Tabasará.

Disastro ecologico-culturale

Un fiume trasformato oggi in un lago artificiale, che si trova dentro la Comarca Ngäbe Buglé, divisione amministrativa territoriale creata con la legge numero 10 del 7 marzo 1997. Le comunità indigene che abitano la suddetta Contea hanno provato a salvarlo (senza riuscirci) e con lui tutto un ecosistema purtroppo spazzato via dal progetto. La resistenza è iniziata nel 2008 (anche se fin dagli anni Settanta gli indigeni si sono fortemente opposti a interventi di sfruttamento massivo del loro territorio ancestrale) ed è proseguita con sorti alterne per anni.
Il fiume era utilizzato per la pesca di sussistenza dalle popolazioni autoctone e non (che ottenevano così un’importante fonte di cibo); ma anche in quanto luogo di svago, come di venerazione – ricco di incisioni rupestri, come fonte di acqua potabile e come mezzo di accesso e trasporto di merci ad altre città.
Inoltre i boschi circostanti, intrinsecamente dipendenti dal fiume, fornivano carne per la popolazione, legname per case, mobili, tralicci e barche, piante medicinali, materie prime per la produzione di articoli per uso personale e commerciale (come cesti, cappelli e borse). Tra i luoghi colpiti dal progetto alcuni dei punti simbolo dell’organizzazione e incontro della comunità: spazi di grande simbolismo religioso, educativo e culturale della zona, dove tra le altre attività si insegnava alle nuove generazioni la lingua Ngabere. Qui di seguito un ascolto tratto dal sito “Indomables

“Hacer las letras hablar”.

Un granello di sabbia nell’ingranaggio?

Il 28 novembre, diversi settori sociali, organizzazioni sociali e cittadini sono scesi in piazza per celebrare la sentenza di incostituzionalità emessa dalla Corte suprema di giustizia contro il contratto della Legge mineraria 406. Più di un mese di resistenza e lotta nelle strade di diversi settori, che hanno visto i settori sociali schierati compattamente contro l’estrattivismo minerario, prospettando una serie di conseguenze a livello economico, ambientale, di diritti umani e di ingovernabilità socio-ambientale ed evidenziando la mancanza di trasparenza, la corruzione e il legame di alcuni rappresentanti del governo legati a membri della famiglia con scopi commerciali con l’impresa Minera Cobre Panama, hanno ottenuto una prima soddisfazione. Il granello di sabbia nel meccanismo estrattivista sarà più risolutivo dei suoi precedenti?

Questo il comunicato su Instagram di Minera Cobre Panama:

Visualizza questo post su Instagram

Un post condiviso da Cobre Panamá (@cobrepanama)

Questa società operava dal 1997 attraverso un contratto di legge in cui non vi era alcuna partecipazione dei cittadini, con irregolarità anche nello studio di impatto ambientale.
Nel 2017 la Corte Suprema di Giustizia aveva emesso una sentenza, in cui se ne dichiarava l’incostituzionalità, tuttavia l’azienda e il governo centrale non si sono mai conformati a questa sentenza, che è diventata un oltraggio alla corte ed è rimasta lettera morta. La società Minera Panama ha continuato a esportare, sfruttare e operare in questa regione del paese, in particolare nel Corridoio Biologico Mesoamericano, dove esiste anche una ricca biodiversità e un’area protetta, oltre che una cultura comunitaria.

Dighe e discariche: uccisione del fiume Tabasará

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Panama: un ecocidio senza fine

Devastazione mineraria: neocolonialismo canadese

¡Ya Basta extractivismo!

Nel mese di settembre 2023 sono cominciate a Città di Panama (e altre zone del paese) delle proteste, all’inizio solo di poche centinaia di persone, per manifestare il dissenso alla nuova espansione dei progetti minerari nella provincia di Colón. La concessione che ha scatenato il malcontento popolare riguarda un territorio di 12.000 ettari nel distretto di Donoso, un ecosistema che include una foresta protetta e che fa parte del corridoio biologico mesoamericano: un importante santuario per migliaia di specie animali e piante.

Pochi giorni prima , il 28 di agosto, era stato dato il via ufficialmente al dibattito parlamentare di un progetto di legge per la firma del nuovo contratto tra lo Stato panamense e la filiale Minera Cobre Panamá della compagnia canadese First Quantum Minerals, negoziazione che riguarda la regolarizzazione della concessione per lo sfruttamento di una zona mineraria già in disputa dalla seconda metà degli anni Novanta.

Da quelle prime proteste – capeggiate da pochi ambientalisti, alcune ong e membri delle comunità indigene – è sorto un enorme movimento di persone che ha portato a varie giornate di sciopero nazionale e centinaia di migliaia di manifestanti sfilare per le strade di Città di Panama e nelle altre principali province del paese. Una marea eterogenea di cittadini e cittadine che al grido di Questa terra non si vende, questa terra si difende o Panama vale di più senza sfruttamento minerario hanno obbligato il presidente della Repubblica Laurentino Cortizo a «dar la cara» (metterci la faccia) e pronunciarsi.

Panama Protest

Proteste della cittadinanza contro la nuova legge mineraria – Foto Olmedo Carraasquilla Ávila per Radio Temblor

Cortizo doble cara 1

Cortizo (in scadenza del mandato nel 2024) inizialmente pubblicamente schierato a favore del contratto minerario, ha dichiarato che l’ultima parola spetterà alla Corte Suprema di Giustizia, che dovrà decidere sulla regolarità della legge 406, che garantisce per 20 anni (prorogabili) le attività di Minera Cobre Panama.

«Panama è un paese democratico dove tutti dobbiamo rispettare lo Stato di diritto e proteggere l’istituzione, che consiste nel fatto che ogni organo dello stato compia le funzioni che costituzionalmente gli corrispondono. Ciò implica che tutti noi aspetteremo i tempi che determineranno le risoluzioni della Corte suprema di giustizia».

La repressione violentissima

Queste parole, pronunciate in occasione dello sciopero generale del 16 novembre, arrivano dopo un bilancio di almeno 4 morti e numerosi feriti nelle proteste delle settimane precedenti. Le persone decedute partecipavano a blocchi stradali, realizzati nella cornice di una mobilizzazione nazionale su grande scala. E mentre due di loro hanno perso la vita investiti da veicoli che non si sono fermati di fronte ai posti di blocco improvvisati, altri due (entrambi insegnanti) sono stati uccisi a colpi d’arma da fuoco nella zona di Chame, da un uomo di 77 anni che non ha esitato a sparare sui manifestanti per farsi strada. Tra i feriti, spicca il caso del fotografo di 40 anni Aubrey Baxter, appartenente al collettivo Ya es Ya Panamá. Baxter, la cui storia è stata raccontata da “El País” (che lo ha intervistato) ha perso un occhio per la brutale repressione della polizia, mentre cercava di documentare le proteste il 19 ottobre scorso nella capitale del paese centroamericano.

Cartello affisso nella città di Colón (2021). Foto Diego Battistessa

Questo il tremendo racconto di Baxter al giornale spagnolo “El País”, una storia che documenta molto bene quale sia stato il primo approccio del governo Cortizo verso le proteste:

«Ero vicino all’Assemblea Nazionale (Palacio Justo Arosemena), che è il luogo in cui si riuniscono le diverse marce di protesta, ma anche dove solitamente avviene la maggior repressione. Lì sono posizionate alcune barriere e c’era un agente della Mcu (Unità di Controllo della Folla) che dominava la scena, con in mano un cannone lacrimogeno. Più vicini a me, altri agenti che avevano armi di gomma o spray al peperoncino. Non ho mai saputo cosa mi abbia accecato, perché l’oggetto non è entrato nell’occhio e quindi non è stato ritrovato e studiato. Però, a causa del suo diametro, il mio occhio è diventato completamente nero. Dato che stavo registrando, una coincidenza perché di solito non registro ma faccio solo foto, penso che sia stato l’agente che si trovava in alto a dare l’ordine di sparare. Quando ho capito ho cercato di proteggermi dietro dei pali ma mi ha raggiunto una vera e propria raffica di proiettili. Uno di questi mi ha centrato in pieno un occhio, però io non mi sono reso subito conto di cosa stesse accadendo. Un collega ha provato a chiamare un’ambulanza, ma non è stato facile. Dopo qualche metro, mentre cercavo di continuare a camminare, sono riusciti a portarmi in ospedale».

Un milione di $ al giorno per comprare una nazione

Un approccio giustificatodal denaro, parecchio denaro. Si perché i numeri che mette sul tavolo First Quantum Minerals sono numeri da capogiro secondo le fonti statali. Infatti i termini dell’accordo raggiunto dall’impresa canadese con sede a Vancouver, attribuiscono alla stessa, il diritto di sfruttare il sito minerario per almeno 20 anni, in cambio di royalties annuali di 375 milioni di dollari al governo panamense. Per cercare di dare una dimensione di quello che significa questo contratto, i portavoce della compagnia canadese spiegano che dopo il Canale di Panama, la vasta miniera di rame di Cobre Panamá (la più grande miniera a cielo aperto di tutto il Centroamerica) è il secondo maggior contributore all’economia del paese, responsabile di circa il 5% del PIL. Inoltre a Panama, una persona su 50 è impiegata direttamente o indirettamente nelle attività di questa impresa mineraria, afferma First Quantum, una cifra che corrisponde a migliaia di famiglie. Dal canto suo, nella sessione inaugurale di quel “lontano” 28 agosto 2023, fu il ministro del Commercio, Federico Alfaro Boyd, con la Commissione per il Commercio e gli Affari Economici dell’Assemblea Nazionale (AN), a presentare l’iniziativa come un contratto pieno di vantaggi per Panama. Boyd spiegava a fine agosto che il 50% dei benefici generati dall’attività sarebbe stato destinato al programma IVM della Cassa di Previdenza Sociale e il 20% sarebbe stato destinato ad aumentare le pensioni di coloro che guadagnano meno di 350 Balboa al mese (circa 350 euro). Un’altra somma significativa sarebbe stata destinata a progetti nei comuni circostanti e il 5% alla costruzione e allo sviluppo dell’Istituto per il miglioramento e il benessere degli insegnanti.

Non è questione di $, ma di qualità della vita

I manifestanti però non vogliono ragionare di cifre ma di legalità e di protezione dell’ambiente. Una opposizione ferrea all’azione arbitraria del governo, protesta che somma un costo giornaliero paese di 80 milioni di dollari (secondo le fonti ufficiali del governo) e che si nutre di slogan e striscioni che prendono di mira direttamente anche il primo ministro canadese: Justin Trudeau, questo è neocolonialismo”, facendo riferimento alle politiche d’impresa portate avanti dal governo del paese nordamericano fuori dai propri confini e che sarebbero illegali sul territorio nazionale.

I precedenti di sfruttamento

Le operazioni della filiale First Quantum Minerals non sono però nuove a Panama e infatti queste massive mobilitazioni si focalizzano contro le politiche che promuovono un estrattivismo minerario predatorio, imposto da interessi statali senza consultazioni con le comunità, molte della quali chiedono una vera e propria moratoria mineraria.

Questa situazione proviene da una concessione data dallo stato panamense attraverso la legge n. 9 del 25 febbraio 1997 (alla presidenza della repubblica sedeva Ernesto Pérez Balladares) a Petaquilla Gold, diventata poi Minera Cobre Panamá. Le operazioni di esplorazione mineraria del territorio iniziarono nel 1991: data della prima concessione per la ricerca di possibili giacimenti. Come detto, fu però nel 1997 che si approvò la legge di sfruttamento minerario con il precursore di Minera Cobre Panamá e nel 2005 si iniziò la massiva costruzione delle infrastrutture: solo nel 2009 furono autorizzate le operazioni di sfruttamento commerciale della miniera.

Durante tutto questo lungo periodo le comunità della zona denunciarono con forza che dove prima c’erano alberi, vita e un corridoio biologico funzionante, la terra diventava spoglia, l’acqua inquinata e si moltiplicavano i macchinari per l’estrazione mineraria e la distruzione senza freni dell’ambiente. A radice di ciò, il Centro di Incidenza Ambientale – Ciamong panamense costituitasi nel 2007 e dedicata alla conservazione ambientale, denunciò per incostituzionalità nel 2009 il suddetto contratto alla Corte Suprema di Giustizia. Successivamente, (come ho avuto di scrivere per “Osservatorio Diritti”) vennero denunciati più di 200 danni ambientali descritti in 13 rapporti che danno conto di oltre venti ispezioni del ministero dell’Ambiente di Panama (Miambiente), effettuate tra il 2012 e il 2019 presso la miniera di rame di Colón, gestita appunto da Minera Cobre Panamá.

I precedenti di inquinamento

Queste ispezioni hanno registrato l’inquinamento dei fiumi e del suolo, con impatti negativi sia sugli ecosistemi naturali sia sulle comunità umane, vista la presenza in grandi quantità di elementi altamente tossici come metalli pesanti e altri agenti patogeni.

Finalmente, il 21 dicembre 2017 (20 anni dopo il primo accordo tra lo stato panamense e la filiale di First Quantum Minerals) quel contratto fu dichiarato incostituzionale dalla Corte suprema di giustizia (Csj per la sua sigla in spagnolo) e quindi legalmente annullato. Secondo la Csj lo stato avrebbe infatti dovuto realizzare una gara d’appalto pubblica per dare la concessione e avrebbe dovuto far realizzare uno studio d’impatto ambientale, elementi che hanno portato al verdetto favorevole della Corte rispetto alla denuncia del Ciam.

Cortizo doble cara 2

Sembrava una vittoria per gli ambientalisti, ma di fronte alla decisione dei giudici, il governo decise di mantenere in piedi le operazioni di Minera Cobre Panamá (First Quantum Minerals aveva già investito 10 miliardi di dollari nell’operazione), non pubblicando la sentenza nella Gazzetta Ufficiale dello Stato, e rinnovando per altri 20 anni (fino al 28 febbraio 2037) la concessione mineraria. Una situazione complessa a livello legale e commerciale, dove il governo cercava di prendere tempo per trovare il modo di regolarizzare le attività della compagnia a capitale canadese, mentre nel 2021, la Csj ratificò la sentenza del 2017, respingendo ben 6 istanze d’appello. Nonostante First Quantum Minerals si sia sempre detta forte della sua posizione legale rispetto al governo di Panama, la pressione derivante dalle sentenze della Csj hanno portato a una nuova necessità di negoziare e “ripulire” il raggio di azione della compagnia nel paese centroamericano.

Ed è esattamente quello che si pretende oggi, con un accordo che risale a marzo 2023, traghettato all’Assemblea ad agosto e ratificato in fretta e furia” dal parlamento come legge 406, legge firmata lo stesso giorno da Laurentino Cortizo (il 20 ottobre scorso) e immediatamente, questa volta sì, divulgata sulla Gazzetta Ufficiale. Un vero e proprio make up legale, che regola attraverso un nuovo impianto normativo, quelle stesse pratiche distruttive che hanno già lasciato un segno devastante sul territorio: pratiche che hanno portato all’apertura di diversi processi amministrativi e di indagini del pubblico ministero per presunte non conformità in materia ambientale.

Un malessere generalizzato che viene da lontano

Le proteste di questa fine 2023 fanno eco ad altre manifestazioni, meno coperte dalla stampa internazionale, che hanno segnato il 2022 e che già facevano intuire un diffuso malessere sociale. Panama infatti nel luglio 2022 si è unita all’ondata di proteste che hanno scosso l’America Latina, con un vero e proprio “estallido social” iniziato nella città di Santiago de Veraguas, capitale della provincia di Veraguas (250 km ad ovest di Città di Panama). La ragione principale della protesta diventata poi massiva ed estesa a tutto il territorio nazionale, ha riguardato l’aumento del costo del carburante, il cui prezzo era lievitato quasi del 50% dall’inizio dell’anno. Una lunga coda della guerra in Ucraina che ha portato lo stato centroamericano ad affrontare la sua maggiore crisi economica dopo la caduta del dittatore Manuel Antonio Noriega nel 1989, con un tasso di inflazione che superava i 4 punti percentuali e con una disoccupazione al 10%. E in questo scenario post Covid 19, dove l’economia fatica a riprendersi nonostante il Canale di Panama continui a produrre 2 miliardi di dollari di gettito fiscale annuo, si stima che il 20% della popolazione (circa 800.000 persone delle 4,2 milioni che vivono nel paese) si trovi in situazione di povertà: questo dato colloca Panama come uno dei paesi con il maggior tasso di disuguaglianza nel mondo. L’economia del paese centroamericano è “dollarizzata” e questo, già prima della crisi del petrolio provocata dall’invasione russa dell’Ucraina e dalle conseguenti misure coercitive unilaterali combinate da Usa e UE, manteneva i prezzi del paniere di consumo relativamente alti per la maggior parte della popolazione.

Situazione economica insostenibile…

Nel luglio 2022 però la situazione per la gente de a piè (il popolo) è diventata insostenibile perché l’aumento del costo dei carburanti ha provocato un’impennata dei prezzi dei prodotti alimentari e delle medicine: causando situazioni critiche in molte case panamensi.

Il 17 giugno 2022 il gallone di benzina di 95 ottani (3,78 litri) aveva superato i 6 dollari. Un prezzo impossibile da pagare in un paese dove è stata stabilita dal governo del presidente Laurentino Cortizo, giusto il 31 dicembre 2021, una tabella salariale di base dove per esempio si corrispondeva a un impiegato domestico un salario di 315 dollari al mese. Inoltre gli altissimi prezzi del carburante che hanno creato un effetto a spirale su tutto il resto, arrivavano proprio mentre le grandi compagnie petrolifere fanno registrare enormi guadagni, così come denunciato dal mezzo di comunicazione indipendente panamense Antonima. Nelle settimane precedenti alle proteste era stato presentato nell’assemblea nazionale dal deputato Luis Ernesto Carles un progetto di legge che chiedeva di sospendere per almeno 3 mesi la tassa statale sui carburanti liquidi, che incide per 60 centesimi di dollaro sul prezzo finale. Il presidente panamense Cortizo però decise di porre il veto sulla proposta di legge, impedendone l’attuazione e aprendo la porta a un aumento indiscriminato del prezzo del carburante.

… e prime lotte vittoriose

Allo scoppio delle proteste inoltre il presidente di Panama non si trovava nel paese ma stava viaggiando negli Usa, precisamente a Houston. Laurentino Cortizo infatti aveva già annunciato a fine giugno 2022 che gli era stato riscontrato un cancro e per questo aveva comunicato che sarebbe andato in Texas a inizio luglio per chiedere un secondo parere. In assenza della prima carica dello stato il vicepresidente José Gabriel Carrizo non prese nessuna iniziativa e così da Santiago de Veraguas la protesta si estese presto alle altre province arrivando fino alla capitale. L’autostrada Panamericana fu bloccata da folle di manifestanti e lunghe file di Tir che provocarono de facto, l’isolamento di intere zone del paese (con casi estremi come quello della provincia di Chiriquí). Anche nei supermercati i prodotti alimentari scarseggiarono per settimane ma il popolo non cedette di un passo. Chi invece nel braccio di ferro dovette cedere el brazo a torcer (piegare il braccio) fu il presidente Laurentino Cortizo che dopo aver aperto dei tavoli di mediazione a una settimana dall’inizio delle proteste con le diverse sigle sindacali e comunità indigene, annunciò il blocco del prezzo di 10 prodotti del paniere di consumo e un ribasso dei prezzi del carburante. Un primo passo che però non ha messo d’accordo tutti i manifestanti e che è stato solo l’antipasto dell’accordo definitivo arrivato domenica 17 luglio, quando la presidenza annunciò in pompa magna di aver firmato un decreto che bloccava per tre mesi il prezzo del combustibile a 3,25 dollari al gallone. Accordi che hanno soddisfatto le delegazioni degli indigeni Ngäbe-Buglé e gli agricoltori, presenti alla firma dell’accordo in un edificio della chiesa cattolica nel distretto di San Félix, provincia di Chiriquí (nell’ovest del paese). Ma non altre frange della protesta, che occuparono lo stesso giorno la “cinta costera” (zona costiera) della capitale e che, nel caso del potente sindacato dell’edilizia, promisero di fare sentire duramente la loro voce.

“Colonialismo estrattivista e gentrificazione a Panama”.

Tre giorni dopo questo intervento su Radio Blackout la Corte suprema ha decretato l’incostituzionalità della legge mineraria 406, questa la reazione spontanea dei cittadini sollevati… almeno per ora:

La marca-paese è la sua cancellazione come cultura territoriale e ambientale…

to be continued (2)

Marca-paese Dighe e discariche Merci rivolte e infrastrutture La Zona del Canale Ancestralità e gentrificazione Casco Viejo – CauseWay – Artificial Island

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]]> Cronache dalla terra del Quetzal https://ogzero.org/cronache-dalla-terra-del-quetzal/ Tue, 09 May 2023 23:18:54 +0000 https://ogzero.org/?p=11000 Si tratta di oblio – ed è possibile una rimozione collettiva così pesante, vista la quantità di lutti e soprattutto cenotafi che il regime di Rios Montt fece neanche tanti anni fa – oppure, come anche si evince dalla costituente cilena infarciti di arnesi della peggiore estrema destra, la politica non solo latinoamericana si costruisce […]

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Si tratta di oblio – ed è possibile una rimozione collettiva così pesante, vista la quantità di lutti e soprattutto cenotafi che il regime di Rios Montt fece neanche tanti anni fa – oppure, come anche si evince dalla costituente cilena infarciti di arnesi della peggiore estrema destra, la politica non solo latinoamericana si costruisce senza memoria storica e si fonda sull’immediato presente e le sue esigenze; un dibattito solo racchiuso nel recinto dei bisogni fissati dalla propaganda e dall’agenda imposta dal neoliberismo, che si basa sul costante e repentino ribaltamento degli orientamenti di una cittadinanza disorientata e resa sempre più omologata dal retrocedere delle grandi narrazioni, sostituite da populismi nazionalisti e corrotti, soprattutto laddove il degrado della democrazia è più palpabile e la libertà di espressione soffocata.
Diego Battistessa al termine di questo intervento su Radio Blackout (@rbo10525),
che inquadra l’oscillazione ondulatoria del consenso politico latinoamericano, segnala quel processo come travolgente per ogni paese chiamato alle urne in questo periodo e il flusso migratorio con il venir meno del Tituolo42 (e il Tren Maya) raggiungerà i confini del Guatemala, pronto a una tornata elettorale che non può essere persa dagli Usa in termini di contrasto alla immigrazione.

Ascolta “¿Desgaste de la izquierda en América Latina?” su Spreaker.


Temi e deliri securitari in mesoamerica

In questo periodo si parla molto nella stampa internazionale di America Centrale. Sulle prime pagine delle più note testate mondiali spicca l’immagine di un impavido Nayib Bukele che con pugno fermo (e sospendendo le libertà costituzionali) ferisce a morte le sanguinarie Maras diventando, come sancito dal sondaggio di Gallup a gennaio 2023, il politico più popolare dell’America Latina con un consenso del 92%. Segue la saga in Nicaragua di Daniel Ortega e della sua compagna Rosario Murillo, rispettivamente presidente e sua vice, che hanno oramai sequestrato il paese e che sono stati accusati il 6 marzo scorso (da un consiglio di esperti nominati dall’Onu) di crimini contro l’umanità; oltre che di una spietata e sistemica repressione del dissenso. Non mancano le prime pagine dei giornali neanche per Xiomara Castro, presidentessa dell’Honduras che da un lato prova a seguire le orme di Bukele nel delirio di securitarizzazione del paese e dall’altro prova a aprire degli spiragli per i diritti delle donne: l’8 marzo scorso Castro ha firmato il decreto legge 75-2023, che garantisce e promuove la libera diffusione, accesso, acquisto e vendita della Pillola anticoncezionale d’emergenza (Pae) in Honduras. Del Belize nemmanco si parla, ma questa non è una stranezza in quanto si tratta di un paese con una popolazione che non supera i 400.000 abitanti e che ha un passato coloniale diverso dal resto della regione: era infatti conosciuto come l’Honduras britannico ed è diventato indipendente solo nel 1981 – anche se continua a fare parte del Commonwealth e il suo capo di stato è il sovrano del Regno Unito, re Carlo III. Ma in questo “gran parlare” di America Centrale, che include anche Costa Rica e Panama soprattutto per i flussi migratori provenienti dal corridoio del Darién, “brilla” un grande assente: il Guatemala.

Si scrive Guatemala, si legge desaparición y migracion

Il Guatemala è un paese dal basso profilo eppure strategico per gli equilibri regionali, un paese che condivide una lunga frontiera con il Messico (quasi 1000 chilometri) e che possiede un oscuro passato e un futuro sempre più incerto. Tra poche settimane, il 25 giugno, infatti, nella terra nella quale nacque (triste primato) la parola desaparecido, si celebreranno le elezioni presidenziali, un appuntamento cruciale che riporta sulla scena i fantasmi della dittatura e del genocidio indigeno del Ventesimo secolo. Con tutti i desaparecidos che il periodo ha prodotto.

Questa pratica efferata nasce negli anni Sessanta in America Centrale, per mano delle forze militari. Un metodo repressivo, usato già nel 1932 nel Salvador dal regime di Hernández Martínez ma che trova la sua vera e propria genesi in Guatemala tra il 1963 e il 1966. Ana Lucrecia Molina Theissen, nel suo libro La desaparición forzada en America Latina (La sparizione forzata in America Latina) ci racconta che dopo il suo primo utilizzo massivo, la pratica si estese a macchia d’olio negli stati di El Salvador, Cile, Uruguay, Argentina, Brasile, Colombia, Perù, Honduras, Bolivia, Haiti e Messico.
Amnesty Internacional e Fedefam (Federación Latinoamericana de Asociaciones de Familiares de Detenidos-Desaparecidos) hanno denunciato che in poco più di 20 anni, dal 1966 al 1986, circa novantamila persone siano state vittima di questa orribile pratica in America Latina (che continua ancora oggi). Per i perpetratori è il delitto perfetto: se non si trova la vittima non c’è colpevole e quindi non c’è delitto. Una logica folle e inumana che ha seminato di morte, e continua a farlo, la regione latinoamericana.

Quei fantasmi tornano: tra i 23 candidati alla presidenza ammessi dal Tribunale supremo elettorale (Tse) del Guatemala si trova Zury Mayté Ríos Sosa.

Un nome che in Italia potrebbe non dire molto ma che ai chapines (soprannome colloquiale, oggi non dispregiativo, con il quale si identifica la gente del Guatemala) ricorda invece un periodo ben preciso della loro storia recente. La 55enne guatemalteca infatti (quattro volte consecutive eletta come deputata nel Congresso del Guatemala, dal 1996 al 2012)  non è una candidata qualunque, visto che è la figlia del militare e dittatore guatemalteco Efraín Ríos Montt, morto nel 2018. E nonostante esista una legge in Guatemala che esclude l’elezione a presidente per i consanguinei dei dittatori (articolo 186, comma C della Costituzione), il suo tramite burocratico è stata una pura formalità per il Tribunale supremo elettorale (Tse). In realtà Zury ci aveva già provato in precedenza, nel 2011 (anche se dopo aver avviato la campagna elettorale, non partecipò alle elezioni), nel 2015 e poi nel 2019, quando però una risoluzione della Corte Costituzionale (CC) la estromise dal processo elettorale proprio in base all’articolo 186.

Una campagna elettorale già partita con indizi di frode

Il Guatemala si avvicina a un processo elettorale dove non sono garantite le libertà costituzionali e dove la giustizia ha operato  come filtro per escludere possibili candidature alla presidenza che risultano scomode all’attuale dirigenza del paese centroamericano. Le elezioni sono previste per il prossimo 25 giugno e tra le candidature bocciate c’è quella di Thelma Cabrera, leader indigena maya Mam, attivista per la difesa dei diritti umani (già candidata alla presidenza nel 2019 dove ottenne il 4° posto con il 10,37 % dei voti), che si presentava in coppia con l’ex procuratore nazionale per i diritti umani, Jordán Rodas. Entrambi sono membri del partito politico di sinistra Movimento per la liberazione dei popoli (Mlp) e hanno già incontrato la Commissione interamericana per i diritti umani (Cidh) a Washington per denunciare questa situazione. Proprio la Cidh ha diffuso un comunicato in merito, nel quale invita lo Stato guatemalteco «a garantire i diritti politici, il pluralismo e la pari partecipazione al processo elettorale», sottolineando come le autorità giudiziarie competenti debbano agire in conformità con il quadro normativo e gli standard interamericani. Anche Human Rights Watch, congiuntamente al Washington Office on Latin America, ha lanciato un allarme, avvertendo che la decisione del Tse del Guatemala di impedire la partecipazione di alcuni candidati alle elezioni presidenziali di giugno 2023 si basa su motivi dubbi, mette a rischio i diritti politici e mina la credibilità del processo elettorale nella sua totalità. Il caso del binomio Thelma Cabrera – Jordán Rodas è arrivato anche al parlamento europeo, dove la coppia il 21 marzo ha potuto esporre le proprie ragioni e denunciare l’abuso del Tse, che ha determinato la loro esclusione, ottenendo l’appoggio di vari eurodeputati. Cabrera e Rodas non sono però i soli. A fare scalpore è anche l’esclusione dall’arena elettorale di Roberto Arzú, imprenditore e uno dei candidati della destra, colpevole, secondo il Tse, di aver violato le regole che vietano di iniziare la campagna elettorale prima della data ufficiale prevista, in questo caso il 27 marzo scorso.

Il retrocesso democratico del Guatemala

«Il presidente Alejandro Giammattei e i suoi alleati hanno velocizzato e reso ancora più profondo il deterioramento della democrazia in Guatemala, in un evidente sforzo congiunto per mantenere l’impunità rispetto alla diffusa corruzione ad alti livelli dello stato. Le autorità, agendo spesso in coordinamento con alcuni uomini d’affari, hanno minato lo stato di diritto e indebolito le garanzie sui diritti umani. L’ufficio del procuratore generale ha bloccato le indagini sulla corruzione e le violazioni dei diritti umani e ha avviato procedimenti arbitrari contro giornalisti, pubblici ministeri e giudici indipendenti. Giornalisti e difensori dei diritti umani continuano a subire vessazioni e violenze. Gli abusi contro i migranti, la scarsa protezione delle persone lgbtqi e gli alti livelli di povertà, soprattutto nelle comunità indigene, continuano a destare seria preoccupazione».

Quanto avete appena letto è il paragrafo d’inizio della scheda paese di Human Rights Watch, un quadro disarmante rispetto alle libertà civili e allo stato di salute della democrazia nel paese centroamericano. Un paese dove 3 degli ultimi 7 presidenti hanno avuto gravi problemi con la giustizia: Alfonso Portillo (2000-2004), detenuto negli Stati Uniti, Álvaro Colom (2008-2012) arrestato e imprigionato nel 2018 per la sua presunta relazione con un caso di frode e appropriazione indebita (morto il 23 gennaio di quest’anno) e Otto Pérez Molina (2012-2015), condannato a 16 anni di carcere nel 2022 per associazione illecita e frode doganale. Un degrado, quello della democrazia in Guatemala, che  è dimostrato anche da diversi indicatori che danno conto di una situazione al collasso. Oltre alle ingerenze nel processo elettorale del Tse, i dati di Trasparency International sulla percezione della  situazione della corruzione nel paese sono in peggioramento (il Guatemala si trova al 150esimo posto su 180 paesi). Anche il dossier sulla libertà di stampa a livello mondiale del 2022 di Reporter senza Frontiere aiuta a delineare il quadro di una situazione molto precaria. Infatti anche in questa classifica il Guatemala si trova in una pessima posizione (124esimo posto). Nel documento si sottolinea che, nonostante la libertà di espressione sia garantita dalla Costituzione, questo diritto è costantemente violato dalle autorità e dagli attori politici. I giornalisti e gli organi di stampa che indagano o criticano atti di corruzione e violazioni dei diritti umani spesso subiscono rappresaglie, come campagne di discredito e procedimenti penali.

Il pericolo di essere periodista

Questo però non ha frenato la stampa indipendente che in Guatemala come in tutta l’America centrale, vede grandi professionisti e professioniste rischiare la propria integrità fisica per mantenere viva la libertà di stampa. E uno degli esponenti di questo giornalismo coraggioso e implacabile è sicuramente Marvin Del Cid (che ho avuto il privilegio di conoscere ad aprile di quest’anno nel mio ultimo viaggio in Guatemala) che insieme a Sonny Figueroa ha pubblicato nel 2021 un libro che è già “cult”. Si tratta di ¡Yo no quiero ser reconocido como un hijueputa más! (Io non voglio essere riconosciuto come un altro figlio di puttana) un titolo che è tutta una provocazione e che cita testualmente quanto pronunciato da Alejandro Giammattei, in un discorso elettorale nel 2019. Un documento letterario che racchiude 15 reportage di giornalismo d’inchiesta pubblicati sui giornali digitali “Artículo 35” e “Vox Populi” e che passano ai raggi X quelli che furono i primi 12 mesi della gestione Giammattei. Due giornali che sono il riferimento di quanti vogliono vedere chiaro nei meandri di un paese storicamente in mano a poche famiglie (oscenamente ricche come le famiglie Gutiérrez Bosch, Castillo, Herrera, Paiz, Novella e López Estrada), che hanno il potere di muovere i fili della politica e dell’economia nazionale.

Come siamo arrivati a questo punto: un viaggio nella memoria

Per raccontare come in una terra così ricca di storia e cultura come il Guatemala, siamo arrivati a una deriva (senza ritorno?) come quella di oggi prendo in prestito le parole, quasi poetiche e premonitorie, che il professore cubano di storia, René Villaboy Zaldivar, scrisse nel dicembre 2019 e che potete trovare qui o a pagina 172 del libro Historia e Cultura de la Madre América:

«Il Guatemala, noto come la terra del Quetzal, mostra attualmente tassi allarmanti di povertà, disuguaglianza sociale, malnutrizione infantile e un’impressionante convivenza con la violenza e la criminalità organizzata. Le tante risorse naturali del paese vengono divorate dai proprietari terrieri locali, dalle compagnie straniere che costruiscono centrali idroelettriche, lasciando le comunità senz’acqua e uccidendo la ricca biodiversità, e il tutto con la complicità o l’ammissibilità di uno Stato corroso dalla corruzione in tutti i suoi poteri. e livelli.
Paese che ha ospitato la grande civiltà maya, patria di Miguel Ángel Asturias, Premio Nobel per la Letteratura, e Rigoberta Menchú, Premio Nobel per la Pace, la sua triste realtà attuale, contrasta con gli ideali che hanno spinto una parte dei suoi figli a imbracciare le armi per costruire un paese diverso . Dal 1979, sotto l’impatto diretto della vittoria del Fronte Sandinista in Nicaragua, la guerriglia è stata riorganizzata in Guatemala e fino al 1996 questo è stato il cammino di un gruppo di organizzazioni progressiste per cercare di trasformare l’ingiustizia sociale che prevaleva allora e continua a prevalere in questa nazione dolente. Durante tutti questi anni, le forze repressive dell’Esercito e dei suoi gruppi paramilitari hanno commesso ogni tipo di violazione dei diritti umani e massacri contro la popolazione civile, che consideravano il principale sostegno della guerriglia».

Ma Villaboy ci porta ancora più indietro perché il Guatemala è stato uno dei primi esperimenti delle politiche intervenzioniste degli Usa in America Latina.  La cosiddetta Dichiarazione di Caracas” (Decima Conferenza interamericana, Caracas del 1954) che avvenne in Venezuela nel contesto della dittatura di Marcos Pérez Jiménez (1953-1958), inventata a contenimento della presunta minaccia comunista sull’integrità politica degli stati americani, è infatti un chiaro esempio di come il postulato della lotta contro il comunismo locale e internazionale nel contesto della “guerra fredda” portò a un avvicinamento degli Stati Uniti ai populismi militari dell’epoca con una politica di intervenzionismo feroce e sanguinario a protezioni di precisi interessi, come quello della United Fruit Company.

Stralci della dichiarazione

Considerando che le repubbliche americane, alla IX Conferenza internazionale americana, dichiararono che il comunismo internazionale,
per la sua natura antidemocratica e per la sua tendenza interventista, è incompatibile con la concezione della libertà americana,
e decisero di adottare, nei rispettivi territori, le misure necessarie per sradicare e prevenire le attività sovversive;

Condanna le attività del movimento comunista internazionale, in quanto costituenti un intervento negli affari americani;
Esprimere la determinazione degli Stati d’America a prendere le misure necessarie per proteggere la loro indipendenza politica
contro l’intervento del comunismo internazionale, che agisce nell’interesse di un dispotismo straniero
.

Continua Villaboy spiegando che «dalla cosiddetta Rivoluzione d’Ottobre del 1944, interrotta dall’intervento diretto degli Stati Uniti nel 1954, dopo il rovesciamento del presidente Jacobo Arbenz, il Guatemala cadde nelle mani di persone prive della volontà di attuare veri cambiamenti per risolvere la grave crisi economica che il paese centroamericano viveva. In un contesto di stimolo alle lotte rivoluzionarie con mezzi armati, alla fine degli anni Settanta le principali organizzazioni di guerriglia che si erano formate ispirandosi prima dalla Rivoluzione cubana, e poi dalla vittoria sandinista, raggiunsero una maggiore organizzazione militare e politica».

Gli anni di repressione violenta

Cominciarono così gli anni di violenza che scatenarono una guerra all’ultimo sangue dell’Esercito contro il movimento rivoluzionario locale. I numerosi omicidi di leader sociali e il brutale assalto all’ambasciata spagnola (31 gennaio 1980), dove si rifugiarono contadini e indigeni quiches, la maggior parte dei quali furono bruciati vivi, furono segni della decisione del governo e delle sue forze armate di mantenere l’ordine stabilito dalle classi dirigenti.
Le Forze Armate Ribelli (Far), l’Esercito Guerriglia dei Poveri (Egp), l’Organizzazione del Popolo in Armi (Orpa) e una parte del Partito Laburista Guatemalteco (Pgt) diedero vita all’Urng nel febbraio 1982. Allo stesso tempo, venne strutturato il Comitato guatemalteco di unità patriottica (Cgup), che riunì personalità politiche e sociali di spicco che erano sostenitori della lotta armata. Poche settimane dopo un colpo di stato insediò il generale Efraín Ríos Montt, che riorientò l’esercito verso un profilo più repressivo e controinsurrezionale, integrato da mostruosità paramilitari come pattuglie civili e i cosiddetti “villaggi strategici”. I massacri contro le popolazioni indigene divennero una pratica frequente dei militari e del suo corpo d’élite, i kaibiles. Il ripristino della democrazia nel gennaio 1986, con l’elezione di Vinicio Cerezo, cercò di limitare gli eccessi dell’Esercito, in un impegno assecondato anche dai suoi successori, Jorge Serrano Elías e Ramiro León Carpio, mentre però il conflitto armato continuava.
Ecco dunque che nel racconto di René Villaboy Zaldivar appare uno dei protagonisti indiretti del processo elettorale del prossimo 25 giugno, quell’ Efraín Ríos Montt che oggi vede sua figlia tra le favorite (la quarta negli ultimi sondaggi) alla guida del Guatemala.

Il viaggio nella memoria del Guatemala, del professore di Storia cubano, termina con «l’ascesa al potere del magnate Álvaro Arzú, che nel 1996, mise sul tavolo il negoziato di pace con le principali forze della guerriglia, in un contesto in cui il vero socialismo era scomparso e Cuba resisteva alle devastazioni del cosiddetto “Periodo Speciale”. In questo modo, con il sostegno dell’Onu e di paesi come la Norvegia e il Messico, si arrivò alla firma della pace. Il 29 dicembre 1996 si conclusero lunghi anni di conflitto armato con un bilancio stimato di oltre 150.000 morti e 50.000 dispersi».

Importanza strategica del Guatemala in vista delle elezioni

Il solo fatto che Zury Rios sia stata ammessa come candidata per le elezioni presidenziali che si decideranno a giugno è un chiaro segnale dei gravi problemi che attraversa la democrazia guatemalteca. Una donna espressione di un sistema elitista che continua a discriminare e disprezzare la radice indigena di questa terra millenaria ricca di conoscenza e saperi ancestrali. La violenza continua a essere presente, così come l’impunità e la corruzione: le estorsioni alle imprese sono all’ordine del giorno così come denunciato da “Deutsche Welle” in questo articolo. I traffici di influenza sono all’ordine del giorno, come denunciato per esempio da “Vox Populi” che segnala una triangolazione sospetta proprio tra Rios, il suo partito Valor e membri del Tse. Il Guatemala ha già dimostrato di essere un paese strategico per gli Stati Uniti che devono provare a fermare il prossimo (e già preannunciato) enorme flusso migratorio in arrivo alla frontiera Sud (lungo il Rio Grande). L’11 maggio è infatti prevista la sospensione definitiva del titolo 42 da parte dell’amministrazione Biden (norma eredità della presidenza Trump che permetteva per motivi sanitari l’espulsione immediata dei migranti dagli Usa) e ci sarà bisogno per lo ZIO SAM, oltre alla “collaborazione” del Messico anche di quella del Guatemala per far diventare quei 1000 chilometri di frontiera un primo grande muro per fermare chi cerca l’American Dream. Da parte nostra è fondamentale rimanere informati e non lasciare sole quelle persone, tante, che credono ancora in una Guatemala migliore. Dall’Italia, una delle figure più preparate e rigorose che apre delle finestre su questa complessa e affascinante terra è sicuramente la giornalista Simona Carnino. (proprio ora in Guatemala), che vi invito a seguire. Nel frattempo, mentre aspettiamo il verdetto delle urne non possiamo non essere d’accordo con la considerazione di Villaboy che constata come

«i proiettili non si sono fermati nella terra del Quetzal, perché i proiettili dell’insicurezza, della mancanza di opportunità e della disuguaglianza continuano a privare centinaia di guatemaltechi della vita».

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