Palestina Archivi - OGzero https://ogzero.org/tag/palestina/ geopolitica etc Sun, 15 Sep 2024 22:17:38 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.4.6 n. 3 – Due Corti internazionali a confronto: il conflitto israelo-palestinese https://ogzero.org/corti-internazionali-a-confronto-il-conflitto-israelo-palestinese/ Sun, 23 Jun 2024 12:42:06 +0000 https://ogzero.org/?p=12735 Prosegue l’analisi di Fabiana Triburgo con approccio giuridico gli organismi sovrastatali come l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Questo saggio in particolare si concentra sulla Corte internazionali di giustizia e sulla Corte penale internazionale, due entità autonome e che seguono tipi diversi di istruttorie e possono emanare provvedimenti differenti. Vediamo il caso del conflitto israelo-palestinese. L’immobilismo […]

L'articolo n. 3 – Due Corti internazionali a confronto: il conflitto israelo-palestinese proviene da OGzero.

]]>
Prosegue l’analisi di Fabiana Triburgo con approccio giuridico gli organismi sovrastatali come l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Questo saggio in particolare si concentra sulla Corte internazionali di giustizia e sulla Corte penale internazionale, due entità autonome e che seguono tipi diversi di istruttorie e possono emanare provvedimenti differenti. Vediamo il caso del conflitto israelo-palestinese.


L’immobilismo del processo decisionale determinatosi per diversi mesi all’interno del Consiglio di Sicurezza, in ragione del diritto di veto, relativamente all’ipotesi di una tregua o del passaggio degli aiuti umanitari nel conflitto israelo-palestinese è stato scosso dalla forza propulsiva delle risultanze giurisdizionali legate a due corti internazionali in particolare la Corte internazionale di giustizia e la Corte penale internazionale, più nello specifico l’ufficio del procuratore generale (Office of the Prosecutor, cosiddetto OTP), entrambe aventi sede all’Aja nei Paesi Bassi.

Ruoli e funzioni

Questo attivismo così precipuo nei provvedimenti emanati da entrambi nel 2024 – a seguito di due diversi tipi di istruttoria – consentono di delineare meglio le funzioni e i ruoli dell’una e dell’altra Corte nell’alveo delle dinamiche internazionali, pur essendo doveroso anticipare fin da subito che – in considerazione della base volontaristica che caratterizza l’adesione degli stati al diritto internazionale – spesso i provvedimenti delle medesime, pur essendo vincolanti secondo le norme del diritto internazionale, non producono conseguenze giuridiche effettive nei confronti dei soggetti verso i quali vengono emanate ma assumono piuttosto una valenza di natura politica. Ad ogni modo nel corso degli anni – si rammenta che la data di costituzione della Corte di giustizia internazionale è il 1945 mentre la Corte penale internazionale è stata istituita nel 1998 oltre 50 anni dopo – si sono potenziati meccanismi legati alle consuetudini internazionali e alla cooperazione degli stati aderenti ai trattati, per ovviare, sia pure parzialmente, alla mancanza di efficacia sul piano della realtà delle decisioni di tali Corti così diverse tra loro da poter operare contemporaneamente rispetto alla medesima situazione internazionale come sta avvenendo nel conflitto scoppiato da oltre otto mesi nella striscia di Gaza.

Rispetto al confitto israelo-palestinese, più precisamente per gli eventi avvenuti in seguito all’attacco di Hamas il 7 ottobre 2023, la Corte di giustizia internazionale è stata adita mediante ricorso d’urgenza presentato dal Sudafrica nel quale si dichiarava che la guerra condotta dall’esercito israeliano nella striscia di Gaza fosse qualificabile come un atto di genocidio contro il popolo palestinese e che quindi Israele avesse violato la Convenzione sul genocidio del 1948. A tal proposito, come vedremo più avanti nel dettaglio, la Corte di giustizia internazionale si è pronunciata con l’applicazione di misure cautelari nei confronti dello Stato di Israele. Rispetto ai medesimi avvenimenti, l’azione di impulso della Corte penale internazionale è invece avvenuta motu proprio da parte del procuratore generale presso la corte Karimi Khan, secondo una delle ipotesi previste dallo Statuto di Roma del 1998 ed entrato in vigore il primo luglio 2002. Il procuratore, svolgendo attività di indagine nello Stato di Israele e in Cisgiordania, ha concluso emettendo un mandato di arresto per crimini di guerra e contro l’umanità nei confronti di tre esponenti di Hamas ossia Yahya Sinwar, capo del movimento di resistenza islamica Hamas nella Striscia di Gaza, Mohammed Diab Ibrahim al-Masri, comandante in capo all’ala militare di Hamas, ossia delle cosiddette Brigate Al-Qassam e Ismail Haniyeh, capo dell’ufficio politico di Hamas, ma nello stesso tempo nei confronti del premier israeliano Benjamin Netanyahu e del ministro israeliano della Difesa attualmente in carica, Yoav Gallant.

Due Corti, due teste

La diversità della tipologia e delle conseguenze dei provvedimenti adottati dalla Corte di giustizia internazionale e dal procuratore generale presso la Corte penale è dovuta alle differenze ontologiche dei due organismi internazionali e delle loro diverse funzioni. La Corte internazionale di giustizia infatti è il principale organo giurisdizionale delle Nazioni Unite e il suo statuto è parte integrante della Carta delle Nazioni Unite. Essa ha come scopo principale – oltre alla funzione consultiva esercitata a favore dell’Assemblea Generale, del Consiglio di Sicurezza e delle Agenzie delle Nazioni Unite – quello di risolvere le controversie tra gli stati applicando il diritto internazionale o “secondo equità”, qualora le parti ossia gli stati lo richiedano espressamente. Si rammenta che i 17 giudici che la compongono, ognuno di diversa nazionalità in carica per 9 anni e rieleggibili nominati dall’Assemblea Generale e dal Consiglio di Sicurezza, non sono rappresentanti delle posizioni politiche dei diversi stati dei quali sono cittadini e le decisioni vengono assunte con la maggioranza dei voti dei giudici presenti. Premesso ciò, rispetto al ricorso d’urgenza presentato dal Sudafrica contro Israele, la Corte di giustizia con Ordinanza 192 del 26 gennaio 2024 non ha chiaramente deciso nel merito degli accadimenti verificatisi dal 7 ottobre 2023 – decisione che potrebbe richiedere anni per la sua emanazione – ma ha emesso misure cautelari nei confronti dello Stato di Israele chiedendogli al contempo di fare tutto il possibile per prevenire atti genocidari nella striscia di Gaza e di consentire l’accesso agli aiuti umanitari.

L’ipotesi di genocidio: la Corte di giustizia definisce le vittime

Se con tale decisione la Corte di giustizia internazionale non ha dato seguito alla richiesta del Sudafrica di interrompere i combattimenti, imponendo il cessate il fuoco, ha tuttavia implicitamente riconosciuto, decidendo per l’applicazione delle misure cautelari, il cosiddetto fumus boni iuris – ovverossia l’ipotesi di genocidio – rispetto alle azioni compiute da Israele, avendo oltretutto sostenuto che i palestinesi sembrano costituire «gruppo nazionale etnico razziale o religioso» richiamando in tal modo proprio l’esatta dizione mediante la quale, nell’art. 2 della Convenzione sul genocidio del 1948, vengono individuati i destinatari di tale delitto. La Corte di giustizia infatti può adottare in base all’art. 41 del suo statuto nei confronti di uno stato provvedimenti cautelari qualora ritenga che vi sia: il rischio di un pregiudizio irreparabile rispetto ai diritti oggetto del procedimento giurisdizionale, nell’ipotesi in cui la violazione di questi diritti potrebbe comportare conseguenze irreparabili o ancora nei casi di urgenza, ossia qualora ricorra un rischio reale e imminente che sia arrecato un pregiudizio irreparabile a tali diritti prima della decisione definitiva della Corte.

Nello specifico la Corte internazionale di giustizia ha emesso alcune misure cautelari nei confronti di Israele. In primo luogo, la Corte ha ordinato a Israele che il suo esercito non violi la Convenzione sul genocidio – ratificata sia dal Sudafrica che da Israele – evitando l’uccisione dei civili palestinesi nonché di causare loro danni fisici e morali; la Corte ha poi statuito che Israele dovrà punire i cittadini israeliani che pongono in essere atti vietati ai sensi della Convenzione sul genocidio, consentire l’ingresso degli aiuti umanitari sulla striscia di Gaza senza alcuna limitazione, impedire la distruzione di prove utilizzabili nel corso del giudizio di merito sul genocidio e dovrà anche presentarsi davanti alla medesima dopo un mese per dimostrare che tutte le succitate misure cautelari siano state effettivamente adottate.

Vale la pena dunque soffermarsi sul delitto che secondo il Sudafrica sarebbe stato compiuto da Israele nei confronti del popolo palestinese ossia il genocidio che può essere realizzato sia in tempo di guerra che in tempo di pace.

Come già detto la commissione di condotte riconducibili al succitato crimine sono vietate da una specifica Convenzione del 1948 non solo ai fini della repressione ma anche della prevenzione di atti di natura genocidaria. Inoltre, il genocidio come ogni reato è composto sia dall’elemento cosiddetto oggettivo, ossia gli atti compiuti materialmente dagli autori del reato, che dall’elemento soggettivo – in questo caso dolo specifico – ossia la condizione mentale dei medesimi autori del reato atta a sorreggere quei comportamenti vietati dall’ordinamento internazionale. Integrano a tal fine atti di genocidio nei confronti delle vittime di tale delitto le seguenti condotte: le uccisioni, le gravi lesioni dell’integrità fisica e di quella mentale, la sottoposizione a condizioni di vita insostenibili, l’impedimento alle nascite e il trasferimento forzato dei minori. Va altresì precisato che anche i comportamenti definibili quali complicità, concorso, istigazione o incitamento pubblico alla commissione di condotte genocidarie sono punibili ai sensi della Convenzione. Per quanto riguarda invece l’elemento soggettivo del reato è necessario (ai sensi della Convenzione) che l’autore / gli autori – in questo caso lo stato o gli stati – abbiano posto in essere gli atti genocidari «al fine di distruggere in tutto o in parte un gruppo nazionale etnico, razziale o religioso», gruppo che, come già anticipato in precedenza, può essere agevolmente considerato quello del popolo palestinese presente sulla Striscia di Gaza con circa oltre 2 milioni di abitanti.

Corti internazionali

Il riconoscimento di un singolo stato può minare i provvedimenti

Tuttavia, se da una parte è vero che tutti gli stati facenti parte dell’Organizzazione delle Nazioni Unite sono obbligati a conformarsi al contenuto dei provvedimenti emessi dalla Corte di giustizia, dall’altra ciò che è fondamentale sottolineare è che tale assunto è comunque subordinato al fatto che il singolo stato, facente parte della controversia dinanzi alla Corte, abbia accettato la giurisdizione della medesima mentre Israele non l’ha fatto, così come d’altronde gli Stati Uniti, la Russia e la Cina. Questa posizione mina evidentemente la reale efficacia giuridica di un provvedimento della Corte di giustizia verso Israele o verso qualsiasi altro stato che non abbia accettato la sua giurisdizione tenuto conto che – come vedremo anche per la Corte penale internazionale – non vi è un organo in seno alle Nazioni Unite che sia in grado di far applicare i provvedimenti delle Corti internazionali in modo coercitivo. Ciò si ricollega indirettamente anche alla consuetudine internazionale delle missioni di peacekeeping ed è strettamente collegato al fatto che le disposizioni di cui agli artt. 43 e seguenti della Carta delle Nazioni Unite che prevedono un organo di “polizia internazionale” non hanno mai trovato applicazione. Secondo gli artt. 43, 44, 45, gli stati membri avrebbero dovuto stipulare con il Consiglio di Sicurezza il numero, il grado di preparazione e la dislocazione delle forze armate da impiegare nell’alveo di tale organo di polizia internazionale mediante vari contingenti nazionali facenti capo a un Comitato di Stato Maggiore, sottoposto all’autorità del Consiglio di Sicurezza.

Quali differenze tra le Corti internazionali?

Prima di soffermarci sul contenuto del mandato di arresto emesso dal procuratore generale presso la Corte penale internazionale il 20 maggio 2024 occorre specificare le differenze di tale Corte – oltre a quelle temporali relative all’anno della sua istituzione mediante lo Statuto di Roma del 1998 – rispetto alla Corte di giustizia internazionale.

“Sterminio di Gaza: violazione di norme di consuetudine internazionale”.

La Corte penale internazionale non è infatti un organo giurisdizionale delle Nazioni Unite e non persegue gli stati per le violazioni delle norme di diritto internazionale bensì i singoli individui per alcune fattispecie di reati rilevanti ai sensi del diritto penale internazionale, più nello specifico il genocidio, i crimini di guerra, i crimini contro l’umanità e i crimini contro la pace e di aggressione.

Tale distinzione comporta delle conseguenze non trascurabili in quanto come visto

la Corte di giustizia internazionale ha invece come destinatari gli stati che, in quanto enti collettivi qualificabili come persone giuridiche, non possono – qualora vengano condannati per violazione delle norme internazionali – commettere crimini penalmente sanzionabili e quindi le pene a essi comminate, mediante i provvedimenti giurisdizionali, non potranno mai essere quelle previste comunemente negli ordinamenti penali ma avranno tutt’altro tipo di contenuto

come per esempio l’embargo o la rottura dei rapporti diplomatici con gli altri stati delle Nazioni Unite. D’altro canto, va altresì precisato che la competenza giurisdizionale della Corte penale internazionale – così come definita dagli artt. 17 e 18 dello Statuto di Roma – è sussidiaria o meglio complementare rispetto a quella degli stati.

Essa quindi sussiste solo nell’ipotesi in cui gli stati non vogliano o non possano punire le quattro fattispecie dei crimini internazionali di cui sopra e può essere attivata solo mediante le tre modalità previste dallo Statuto di Roma, ossia su iniziativa spontanea del procuratore generale presso la Corte penale, come nel conflitto israelo-palestinese, o mediante richiesta di uno degli stati membri della Corte (a oggi sono 123) oppure ancora su richiesta del Consiglio di sicurezza ma solo riguardo questioni che attengano alla violazione o alla minaccia della pace o ipotesi di aggressione che il Consiglio di sicurezza ritenga non siano di propria competenza. Inoltre, è necessario precisare che l’art. 12 dello Statuto di Roma stabilisce che la Corte penale internazionale – come si è visto per la Corte internazionale di giustizia – è competente soltanto nell’ipotesi in cui la sua giurisdizione sia riconosciuta dallo stato interessato dai suoi provvedimenti.

Tale disposizione di legge nel caso del conflitto israelo-palestinese è particolarmente rilevante perché, se da un lato Israele – così come gli Stati Uniti e la Russia – è tra gli stati firmatari, ma non ha ratificato lo Statuto di Roma per cui formalmente non ha riconosciuto la giurisdizione della Corte, nel caso della Palestina non si può giungere alla stessa conclusione. Infatti, già nel 2015 la Palestina ha richiesto di essere riconosciuta stato parte della Corte penale internazionale in conseguenza degli accadimenti avvenuti a opera di Israele nel giugno del 2014. Non è insolito infatti che gli stati che non percepiscano alcuna tutela da un organo giurisdizionale interno per condotte penalmente rilevanti – come diversi stati africani – sperino di ottenerla mediante l’adesione alla Corte penale internazionale.

Nel 2021 dunque a fronte di tale richiesta la Camera preliminare ha deciso che la Palestina debba essere riconosciuta a tutti gli effetti uno stato ai fini della giurisdizione della Corte penale internazionale e che essa è pienamente esercitabile rispetto ai territori occupati da Israele nel 1967 ossia la Striscia di Gaza, la Cisgiordania e Gerusalemme Est.

corti internazionali

146 stati (e lo Stato Città del Vaticano) appartenenti all’Onu su 193 riconoscono lo Stato di Palestina.

Nel mandato di arresto del 20 maggio del 2024 il procuratore generale presso la Corte penale internazionale – in seguito alle attività di indagine svolte – ha ritenuto che sia i tre esponenti di Hamas sopraccitati che il primo ministro israeliano Netanyahu e il ministro della Difesa dello Stato di Israele sono responsabili della commissione di crimini di guerra e di crimini contro l’umanità, ragione per la quale, ancor prima di analizzare il contenuto del provvedimento del procuratore occorre chiarire quali siano le fattispecie che vanno a integrare i suddetti crimini, perseguibili penalmente a livello internazionale.

Cosa sono i crimini di guerra?

Con crimini di guerra si fa riferimento alla violazione di quell’insieme di norme che disciplinano le condotte di quanti combattono nel corso delle ostilità. Tuttavia se è vero che non ogni violazione del cosiddetto Diritto bellico integri necessariamente un crimine internazionale, d’altro canto è vero che anche durante i conflitti armati debbano essere rispettate delle regole minime di civiltà non solo nei confronti della popolazione civile dello stato contro il quale si combatte ma anche rispetto ai prigionieri “dell’esercito nemico” che, non essendo più nella condizione di combattere, devono essere comunque rispettati nella loro condizione di esseri umani da cui discende come corollario il divieto assoluto di essere destinatari di qualsiasi forma ulteriore di violenza bellica, in esito alla loro cattura. Chiarito dunque quali sono i destinatari dei crimini di guerra occorre aggiungere che – così come per il genocidio – anche per i crimini di guerra è presente un complesso di norme internazionali scritte – più specificamente le quattro Convenzioni internazionali di Ginevra del 1949 – che indicano le fattispecie qualificabili come crimini di guerra. Come stabilito da tutte le quattro le Convenzioni di Ginevra del 1949 – trattandosi anche in questo caso di un reato – costituiscono l’elemento oggettivo del suddetto crimine le condotte di omicidio, di stupro, di tortura, la presa di ostaggi, la violazione della dignità personale e i trattamenti inumani e degradanti, ma solo se compiuti nel corso di un conflitto armato o comunque compiuti in ragione dello stesso ovverossia essi devono essere qualificabili come una forma di partecipazione al conflitto. Per quanto attiene all’elemento soggettivo del reato invece in questo caso non è richiesto il dolo specifico come nel caso del genocidio ma l’intenzione di reggere la condotta così come sopra delineata dal punto di vista fattuale.

Si ricorda inoltre che i crimini di guerra sanzionabili secondo le quattro Convenzioni di Ginevra del 1949 erano soltanto quelli internazionali, ossia tra due o più stati, mentre con lo Statuto di Roma del 1998 si sono fatti rientrare nel novero di tali crimini anche quelli compiuti nei conflitti civili ossia tra fazioni diverse ma appartenenti al medesimo stato.

Non un’unica definizione

Più nello specifico con riferimento alla competenza della Corte penale internazionale i crimini di guerra vengono definiti dall’art. 8 dello Statuto di Roma. Diversa analisi è quella che deve essere dedicata alla nozione dei crimini contro l’umanità disciplinati invece dall’art 7 dello statuto della Corte penale internazionale – ma rispetto ai quali non c’è una Convenzione internazionale di riferimento. I crimini contro l’umanità sono una tipologia di crimini che vennero delineati, dal punto di vista storico, mediante l’attività del Tribunale di Norimberga nel corso dell’accertamento dei crimini del regime nazista nel periodo antecedente la Seconda guerra mondiale nei confronti dei cittadini tedeschi come destinatari di condotte criminose, i quali – non essendoci un conflitto in corso – non potevano rientrare chiaramente nel novero dei prigionieri o dei civili dello stato nemico come nel caso dei crimini di guerra.

Ci troviamo sempre, ad ogni modo, dinanzi a reati di rilievo internazionale per cui come è stato individuato per altri crimini penalmente sanzionabili, occorre comprendere l’elemento oggettivo del reato ossia la condotta del “reo” e il suo elemento soggettivo.

Quando il contesto conta

Per quanto attiene al primo aspetto va preliminarmente chiarito – anche in funzione della comprensione del contenuto del mandato di arresto internazionale del procuratore Karimi Khan – che le condotte riconducibili a crimini contro l’umanità possono essere compiute tanto in tempo di guerra quanto in tempo di pace. Esse sono l’omicidio, la tortura, lo stupro, la violenza, la riduzione in schiavitù, e altri atti penalmente rilevanti ma considerati leciti dall’esecutivo al potere in un dato momento storico. Tuttavia, tali condotte vengono qualificate come crimini contro l’umanità solo se compiute nel corso di un attacco sistemico e massiccio, ragione per la quale non possono essere configurati crimini contro l’umanità atti isolati bensì soltanto gli atti che rispondono a una puntuale politica di governo, tollerata dalle autorità nazionali. Inoltre, per quanto riguarda l’elemento soggettivo del reato, anche nel caso dei crimini contro l’umanità ricorre la necessità di un dolo specifico – come si è visto per il genocidio – ossia non solo l’intenzione di porre in essere le condotte di cui sopra ma anche la consapevolezza che quanto si sta compiendo costituisca una violazione generalizzata dei diritti umani. Nel mandato di arresto del procuratore generale più nello specifico si ritengono responsabili – mediante diversi capi di accusa – gli esponenti di Hamas Yahya Sinwar, Mohammed Ibrahim al- Masri, e Ismail Haniyeh, tanto della commissione di crimini di guerra che di crimini contro l’umanità.

Corti internazionali

Quali crimini?

Con riferimento ai soli crimini di guerra (in conformità al succitato art. 8 dello Statuto di Roma) vengono annoverati nel mandato di arresto la presa in ostaggio, i trattamenti crudeli e gli oltraggi alla dignità personale perpetrati nel corso della prigionia mentre come crimini contro l’umanità – in base all’art. 7 – vengono indicati lo sterminio, l’omicidio, e altri atti disumani e degradanti anche se nel contesto della prigionia. Ricondotti ad entrambi i crimini invece sono la tortura, lo stupro e gli altri atti di violenza sessuale. Nel mandato di arresto, rispetto a tali fattispecie rilevanti penalmente a livello internazionale, viene specificato che i crimini di guerra sono stati compiuti nel corso di un conflitto armato qualificato al contempo come internazionale e non internazionale tra Israele e Hamas mentre i crimini contro l’umanità nel corso di un attacco diffuso e sistematico contro la popolazione civile di Israele, compiuto da parte di Hamas e di altri gruppi armati in conformità all’organizzazione del Movimento.

Tale contesto è il medesimo all’interno del quale il procuratore generale Karimi Khan ha ritenuto destinatari del mandato di arresto internazionale anche il Primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e il ministro della difesa Yoav Gallant in quanto responsabili penalmente, come i tre esponenti di Hamas, di crimini di guerra e contro l’umanità.

Più nello specifico vengono ascritti quali crimini di guerra dei due ministri israeliani: la fame dei civili e l’aver arrecato intenzionalmente grandi sofferenze, gravi lesioni al corpo o alla salute o trattamenti crudeli, nonché gli omicidi e di dirigere intenzionalmente gli attacchi contro la popolazione civile. Il primo ministro e il ministro della Difesa israeliano vengono inoltre ritenuti responsabili di aver provocato sterminio e omicidio anche nel contesto di morti per fame, la persecuzione e altri atti disumani e degradanti ossia crimini contro l’umanità. Tuttavia, poiché diverse delle condotte delle quali sono ritenuti responsabili Netanyahu e Gallant come crimini contro l’umanità sono le medesime idonee a integrare dal punto di vista oggettivo il crimine di genocidio non può passare inosservata in tale ricostruzione dei fatti l’affermazione del procuratore generale Khan mediante la quale si specifica che

«Israele ha intenzionalmente privato la popolazione civile in tutte le parti del territorio di Gaza di oggetti indispensabili alla sopravvivenza umana», ossia con dolo quale elemento soggettivo del reato.

L’integrale perfezionamento del crimine di genocidio – già sollevato dinanzi alla Corte di giustizia che ancora, ricordiamo non si è espressa con un provvedimento definitivo in esito a un giudizio nel merito, nel caso del mandato di arresto del procuratore generale presso la Corte penale internazionale difetta nell’accertamento unicamente della specificità del dolo ossia di quella «volontà di distruggere in tutto o in parte» i palestinesi che tuttavia si ricorda sono già stati considerati riconducibili alla nozione di «gruppo nazionale, etnico, razziale e religioso», unici destinatari di tale crimine secondo la Convenzione di Ginevra. Sulla valutazione dell’esistenza del dolo specifico potrebbero certamente pesare le dichiarazioni del ministro della difesa rilasciate il 9 ottobre del 2023.

Si vedrà solo con il passare degli anni se le due Corti addiverranno nel giudizio di merito a un’univoca ricostruzione dei fatti corroborata o meno dall’individuazione dell’integrazione del o dei medesimi crimini internazionali, sperando che l’attesa non sia ancora inondata di sangue versato da innocenti e che se giustizia non vi può essere perché l’efficacia del sistema di giustizia internazionale non è effettiva che quanto meno si dia una risposta politica così inequivocabile da tracciare non più confini ma filamenti di una maglia di integrazione così estesa e fitta da coprire – seppur con vivida memoria – gli orrori del passato e del presente.


In quanto a risposta inequivocabile a un mese circa dalla pubblicazione di questo articolo la Corte  internazionale di Giustizia dell’Aja ha dato un responso su cui le persone di buonsenso e qualsiasi approccio onesto in punta di Diritto internazionale non possono che concordare da 57 anni a questa parte: Israele ha saccheggiato territori non suoi, imposto un regime di apartheid su popolazioni che non dovrebbero dipendere dallo Stato ebraico, ha vessato, torturato, incarcerato, commesso crimini di guerra e perpetrato massacri, anche favorendo epidemie ed esecuzioni sommarie. Deve smantellare ogni colonia e ritirare le truppe di occupazione da Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme, rientrando nei suoi confini riconosciuti: quelli del 1967 antecedenti la Guerra dei sei giorni. Il fatto che 50.000 palestinesi siano stati uccisi nell’indifferenza generale, i feriti siano nell’ordine di centinaia di migliaia, Gaza distrutta, si continui a impedire la consegna di aiuti umanitari, medicinali salvavita, si diffonda scientemente la poliomielite è solo la dimostrazione che il Diritto internazionale è solo quello del più forte. Anche se – e proprio perché – le indicazioni della Corte comportano un obbligo preciso di boicottaggio, disinvestimento e sanzioni contro il paese incriminato, questo assunto – che dovrebbe portare alla soluzione definitiva della questione israelo-palestinese e alla fine dell’arroganza di Tel Aviv – è dimostrato come mera utopia dall’ultima sentenza della Corte internazionale di Giustizia che nel 2003 aveva condannato Israele per l’illegalità del Muro di separazione eretto unilateralmente, derubando tra l’altro i bantustan palestinesi dell’accesso all’acqua.

L'articolo n. 3 – Due Corti internazionali a confronto: il conflitto israelo-palestinese proviene da OGzero.

]]>
Palestina costruire l’apartheid https://ogzero.org/studium/palestina-costruire-lapartheid/ Fri, 06 May 2022 14:19:25 +0000 https://ogzero.org/?post_type=portfolio&p=7340 L'articolo Palestina costruire l’apartheid proviene da OGzero.

]]>


Palestina – Costruire il Bantustan

Testo di Piero Grippa, mappe di Luigi Giroldo

Muro di separazione, muro di protezione, muro della vergogna, muro dell’apartheid. Molte espressioni vengono usate per descrivere la separazione della Cisgiordania dalle colonie e dal territorio israeliani. E dietro ogni definizione potremmo trovare un’interpretazione, un senso dato all’esistenza di quello che è in definitiva uno strumento di oppressione.

Oltre 700 chilometri per separare, segnare una distinzione netta tra un noi e un loro, ma anche per separare città, villaggi e comunità più o meno grandi le une dalle altre, e ognuna dalle proprie risorse idriche e agricole. Checkpoint, torrette, filo spinato e otto metri di cemento per proteggere quel noi dagli attacchi di quel loro, un confine militarizzato la cui necessità di protezione nasce con la sua stessa costruzione, in quello che potrebbe sembrare un paradosso politico, ma che rappresenta uno dei concetti chiave nella sostanza delle relazioni internazionali dalla guerra fredda in giù. Una piattaforma di resistenza, per chi subisce le umanamente umilianti conseguenze dell’esistenza del muro, e vuole gridare quella vergogna al mondo facendone arte. Uno degli strumenti per un’esperienza politica, sociale ed economica ben precisa, che in altri contesti e periodi si è chiamata apartheid, che decide al momento i confini entro i quali si svilupperanno le opportunità di tutta la vita.

Una sostanza ben più eloquente della forma in cui viene presentata si può individuare anche nella differenza tra il tracciato della Linea Verde – sul quale la barriera sarebbe dovuta sorgere – e l’effettivo tracciato del muro, che, prima di tutto, è ben più lungo di quella linea tracciata sulla carta. La sostanza del muro è il sistema di colonizzazione e isolamento di cui fa parte, insieme alle migliaia di chilometri di strade che collegano esclusivamente città e insediamenti israeliani, scavalcando (e in alcuni casi accerchiando) quelli palestinesi. La sostanza del muro è anche il modo in cui viene tagliato l’accesso alle risorse: è facile creare zone cuscinetto tra un muro di cemento e un confine disegnato sulla carta, così come farci rientrare terreni agricoli da utilizzare come ulteriore forma di controllo. Sono infatti numerosi i checkpoint e le porte destinati all’accesso alle zone agricole, che gli agricoltori palestinesi sono costretti ad attraversare (nei predeterminati periodi di apertura, naturalmente), vedendosi quindi dettare dall’esterno modalità e tempistiche di lavoro.

Molti significati possono quindi essere attribuiti all’esistenza e all’utilizzo del muro della Cisgiordania, non semplicemente (come se questo non fosse già abbastanza per innescare un dissenso) un confine artificiale, ma uno strumento ben integrato in un sistema coloniale e di oppressione attivo e in continua evoluzione, in interdipendenza con la rete infrastrutturale e la gestione degli insediamenti. L’esistenza dell’elemento muro deve quindi essere parte dell’interpretazione globale della questione palestinese, e, in conseguenza, delle possibili soluzioni. Un sistema in cui la separazione di un territorio abitato da un popolo si interseca con l’occupazione di quello stesso territorio (non impedendo per altro, ma militarizzando, la comunicazione con l’esterno) rende certamente più complicato pensare a una soluzione basata sul rafforzamento in forma statale del territorio, che sia in termini di autonomie o di totale indipendenza. Oltre 700 chilometri di cemento per 8 metri di altezza con centinaia di checkpoint rendono evidente che un sistema socio-politico in cui all’idea di apartheid si somma un controllo militarizzato è semplicemente un sistema coloniale, e, storicamente, prima della costruzione statale viene la decolonizzazione.

Una decolonizzazione che deve passare attraverso l’abbattimento di quel muro, per un libero accesso alle risorse e allo sfruttamento dei terreni agricoli; e anche l’appropriazione a livello simbolico che possiamo leggere nell’utilizzo del muro come base per la realizzazione di grandi opere (da parte non solo di chi ne è direttamente oppresso, ma anche di grandi nomi dell’arte internazionale) potrebbe essere uno dei passi verso la sua distruzione.

La Tana dei Leoni

E l’orgoglio palestinese non ha mai smesso di opporsi all’aggressione sionista, cercando di dissolvere quel muro che sta soffocando solo uno dei due popoli. Nelle ultime settimane in Cisgiordania e a Gerusalemme Est ha cominciato a crescere un movimento che i militari israeliani non possono contenere con il solito metodo stragista applicato a Gaza – essendosi costruiti un nemico jihadista e militare con Hamas –, e nemmeno cooptando attraverso accordi capestro un’autorità svuotata come l’Anp. Infatti La Tana dei Leoni è un movimento dal basso, costituito da giovani, senza leader riconosciuti, che si contrappongono con i loro corpi alle provocazioni costanti dei coloni (che il governo non può e non vuole contenere), le esecuzioni quotidiane di palestinesi, gli sfratti arbitrari, il regime di apartheid e marginalizzazione, di cui il muro è strumento e simbolo. Proponiamo a corredo del testo di Piero Grippa queste testimonianze giunteci da una compagna transitata a fine ottobre 2022 in Cisgiordania e a Gerusalemme con un gruppo di osservatori delle condizioni di vita in quei territori occupati, a cui si aggiunge la voce di Bassan, nativo di Nablus, ora facente parte di quella diaspora non mai silenziata.

“Testimonianze dal sopruso sionista: il genuino incendio attizzato dalla Tana dei Leoni”.

Segui tutti i contenuti attinenti a questo Studium

L'articolo Palestina costruire l’apartheid proviene da OGzero.

]]> Barriere https://ogzero.org/studium/barriere-e-ostacoli-impediscono-il-libero-movimento-delle-persone/ Tue, 03 May 2022 15:50:06 +0000 https://ogzero.org/?post_type=portfolio&p=7240 L'articolo Barriere proviene da OGzero.

]]>

Ostacolato movimento

In un mondo che vive di relazioni impostate sul confine, abbiamo la necessità di parlare di come il confine stesso si evolve, e come viene vissuto da chi lo rafforza, da chi lo combatte, da chi lo rende fluido, da chi se ne appropria facendone una parte di sé.

Abbiamo la necessità di raccontare che, mentre l’interconnessione globale permette di portare i confini della propria comunità di appartenenza come parte del bagaglio di viaggio, con i migranti che in tutto il mondo possono continuare a vivere attivamente più luoghi (se non fisici, sicuramente culturali e politici), assistiamo ancora alla tendenza a rafforzare, militarizzare e brutalizzare linee di demarcazione che dovrebbero e potrebbero essere ogni giorno meno visibili.

Abbiamo la necessità di raccontare le barriere e i muri che impediscono fisicamente il movimento, la migrazione, l’accesso alle risorse e la sostenibilità sociale.

Abbiamo scelto di raccontare il muro della vergogna di Lima, barriera tutta interna a una città e a un paese in cui la sperequazione sociale ed economica bolla, spesso incondizionatamente, la vita di migliaia e milioni di persone. Abbiamo scelto di raccontare le barriere tra Botswana e Zimbabwe, caso non isolato nella regione, che bloccano il movimento di animali e persone migranti, in controtendenza con l’integrazione di territori naturali da proteggere per il bene di tutti e tutte. Abbiamo scelto di raccontare il muro della Cisgiordania, da anni strumento di separazione e colonizzazione nei confronti di un popolo che si vede limitare l’accesso alle risorse naturali.

Abbiamo scelto di raccontare i muri e le barriere del mondo, per sostenere le pratiche e le esperienze reali che seguono processi sociali, economici e storici opposti a quelli che vedono e vogliono l’esistenza di quei muri.

(Testi di Piero Grippa, mappe di Luigi Giroldo)

25%

Avanzamento

Lima – Muro della vergogna

43 distretti, 10 milioni di abitanti, e un muro di 10 chilometri che se ci sbatti il muso non ti permette più – se mai ci fossi riuscito – di far finta di non vederlo, quel confine evidente in tutta la metropoli. Lima, il miraggio di una vita più serena, la grande città dove trovare lavoro e costruirsi un’esistenza per qualcuno impossibile da immaginare nei villaggi di provincia. La provincia, prima invasa e saccheggiata dagli imperi europei, oggi stritolata da compagnie minerarie. In mezzo, il periodo En la boca del lobo – come recita uno dei film più importanti prodotti in Perù nel 1988 per la regia di Francisco Lombardi – tra le minacce dei guerriglieri terroristi di Sendero Luminoso e della repressione governativa che non guardava in faccia a nessuno.


Approfondisci qui


Consulta la mappa interattiva

Botswana-Zimbabwe: l’uomo e l’ambiente

Due storie diverse, separate da una linea – una tra le tante che segnano le mappe del continente – che arbitrariamente attraversa territori comuni agli allevatori e, soprattutto, al bestiame. E sono proprio gli animali – il bestiame da reddito destinato alle esportazioni, così come la fauna che popola gli ambienti naturali – che sembrano essere al centro di questa vicenda: per raccontare la gestione delle zone di confine tra Botswana e Zimbabwe (ma anche, ampliando lo sguardo, Namibia, Zambia e Sudafrica) non si possono non tenere in conto le relazioni tra bestiame allevato e selvatico, e tra uomo e ambiente, insieme alle dinamiche migratorie prettamente umane. Parliamo infatti di una regione caratterizzata dalla presenza (e dall’ampliamento) di parchi naturali e zone protette transfrontaliere, tra cui quella dell’Okavango-Zambesi. Ampie zone, quindi, in cui la protezione delle specie animali selvatiche da un lato, e dei bovini allevati per l’esportazione dall’altro, rappresenta evidentemente una priorità politica.


Approfondisci qui


Consulta la mappa interattiva

Palestina – Mauer macht frei

Oltre 700 chilometri per separare, segnare una distinzione netta tra un noi e un loro, ma anche per separare città, villaggi e comunità più o meno grandi le une dalle altre, e ognuna dalle proprie risorse idriche e agricole. Checkpoint, torrette, filo spinato e otto metri di cemento per proteggere quel noi dagli attacchi di quel loro, un confine militarizzato la cui necessità di protezione nasce con la sua stessa costruzione, in quello che potrebbe sembrare un paradosso politico, ma che rappresenta uno dei concetti chiave nella sostanza delle relazioni internazionali dalla guerra fredda in giù.


Approfondisci qui


Consulta la mappa interattiva

Segui tutti i contenuti attinenti a questo Studium

L'articolo Barriere proviene da OGzero.

]]> Le città visibili https://ogzero.org/studium/le-citta-visibili/ Fri, 29 Apr 2022 16:47:51 +0000 https://ogzero.org/?post_type=portfolio&p=7172 L'articolo Le città visibili proviene da OGzero.

]]>

OGzero nelle città

È possibile individuare un genius loci che rappresenti una costante nel tempo e negli spazi urbani utilizzati? Nella collana “Le città visibili”, sì.

Città rese visibili attraverso la narrazione dell’esperienza personale degli autori, coadiuvati dalle voci dei testimoni e degli abitanti che forniranno un’interpretazione del territorio, della sua trasformazione e degli elementi alieni che proliferano tramite flussi di merci e di persone a provocare le contrazioni di spazi, come le loro estensioni, urbane e demografiche. Autori che esamineranno le strategie di conservazione monumentale e di “reinterpretazione delle rovine” viaggiando tra smart cities, improntate alla sicurezza digitale, che accentuano – costituendosi come ascensori e discensori sociali – la differenza nella struttura e nella mobilità urbana tra periferie e downtown. Esploreranno i luoghi di aggregazione attorno allo scambio di merci, come i mercati popolari e i centri della grande distribuzione, cercheranno di illustrare il cambio di destinazioni d’uso che prelude ai grandi progetti di infrastrutture e di conseguenza l’impatto sul tessuto urbano. Impossibile non collegare a tutto ciò i flussi migratori, con l’inclusione di nuovi arrivi e l’evoluzione della loro tipologia e l’eventuale marginalizzazione dei migranti – interni o esterni che siano; a cui si correlano anche l’esclusione di massa e lo svuotamento di aree, le ghost-town e i quartieri già progettati e costruiti come ghetti, o la gentrificazione causata da interessi immobiliari.
Gli autori di questa serie ci porteranno per mano nei loro luoghi del cuore, come guide capaci di farci sentire l’atmosfera delle città, permettendoci di intuirne realmente le attuali peculiarità senza dimenticare la Storia passata per quelle strade.

Clicca qui sotto sul nome della città per approfondire



Già Visibili in libreria


GERUSALEMME NAIROBI FREETOWN LUSAKA BANGKOK BRAZZAVILLE BOBO-DIOULASSO

In questa sezione venite indirizzati a materiali e indicazioni inerenti ai volumi già pubblicati nella collana dedicata alle città rese visibili attraverso la penna e gli occhi di autori che conoscono bene il genius loci di ciascuno di quei territori che han dato luogo a quella realtà urbana identificata dal nome della città in copertina.



Visibilità ancora in preparazione


ISTANBUL BEIRUT BUENOS AIRES BAMAKO PECHINO KIGALI PANAMÁ y COLÓN

La produzione di un libro proviene da un lungo percorso di individuazione della città che può suscitare interesse all’interno della collana, del suo potenziale autore e poi lo sviluppo del testo a seguito della raccolta degli argomenti e delle testimonianze, delle immagini e delle mappe da integrare. Ma anche del confronto e della elaborazione della sostanza che sta costituendo la base del futuro volume in via di realizzazione. Queste sono per ora le città su cui abbiamo cominciato a focalizzare la nostra attenzione e che sono già state affidate alla penna di esperti conoscitori di quelle comunità urbane.

Intanto traspaiono potenziali visibilità altrove…


Esistono poi situazioni urbanistiche e di agglomerazione umana particolarmente interessanti e che non riusciamo ancora a ricondurre a un formato editoriale di pubblicazione da proporre in libreria. Però assumono già una forma tale che… racchiudono già in embrione una… svolgono una narrazione riconducibile a… colgono una particolare situazione metropolitana che… riteniamo abbiano diritto a venire divulgate in questa sezione delle nostre proposte. Insomma finiscono con l’essere tutte collegate dal filo rosso della abitabilità di un territorio, dallo sviluppo della forma “città” e potrebbero contenere in sé un’idea che informa l’intera superficie metropolitana a cui ricondurre magari una nuova impresa libraria.

Per ora aggiungiamo queste suggestioni al dossier dedicato alle comunità urbane, come proposte di lettura collaterali ai volumi:

_ L’ultimo racconto di Diego Battistessa si dipana tra Savador de Bahia, Liverpool/Mancheser e prende spunto da Gorée/Saint-Louis. Il Triangolo del Mercantilismo

_ Avevamo cominciato con le favelas brasiliane. Il racconto di Diego Battistessa si dipana tra Rio de Janeiro, São Paulo e Brasilia

_ E proseguito con il 40ennale della costituzione di Yamoussoukro, la capitale della Costa d’Avorio, descritta da Angelo Ferrari e fortemente voluta da Boigny

400 anni di modello geopolitico schiavista

_ Per fondare un Capitalismo duraturo bisogna “scoprire” territori da “colonizzare” esterni al mondo regolato da diritti, i cui abitanti vanno deumanizzati per motivare la loro schiavizzazione.
E questo è stato perpetuato dal sistema negli ultimi secoli con poche varianti, dettate soprattutto dalle esigenze della tecnologia e dalle richieste di beni da depredare e di genti da sfruttare.

_ La terra dei caporali: dovunque lo schiavismo perpetua il suo orrore c’è un Eichmann che obbedisce?
Quando Diego ci ha proposto di analizzare questa triangolazione di porti nel colonialismo storico abbiamo pensato che poteva essere utile individuare in quali meccanismi il capitalismo si è andato perpetuando fin dalle sue basi date dall’allargamento dei potenziali mercati di merci e braccia con le scoperte geografiche della modernità (che non a caso viene datata da quel periodo di nuove tecnologie come la polvere da sparo, e le nuove rotte marittime più convenienti), adattandoli via-via alla “tecnologia” più attuale che sostiene la logistica da un lato – tracciando le rotte –, e quali organizzazioni possono sovrintendere all’approvvigionamento di manodopera schiavizzata nell’interno, che si avvale di percorsi paralleli o subalterni alle stesse vie battute da armi, droga, merci grezze dall’altro. Questi sono i meccanismi innaturali che tengono in piedi il capitalismo, senza i quali quel sistema energivoro e oligarchico non potrebbe reggersi. E l’operazione di Diego funge molto bene da memoria di quel che è stata la culla dell’attuale sfruttamento globale della migrazione, ma anche a rievocare quegli stessi meccanismi inventati con il mercantilismo e che regolano tutt’ora economia, politica e morale.
Ovviamente maggiore è l’investimento e la conseguente copertura degli stati-nazione, più ampi sono gli interessi e più si allarga il coinvolgimento finanziario, incontrastabile anche se nocivo quando la soglia del capitale profuso supera il livello di rischio di rientro qualora l’operazione fallisse: sia essa incentrata su estrazione, sfruttamento, riduzione in schiavitù, saccheggio e occupazione di territorio, ammantato da regole di controllo commerciale adattate agli stati più potenti. E tuttora diversamente – ma non meno ferocemente – coloniali, a cominciare dall’apartheid israeliano.

_ Saccheggio e debito infrastrutturale: le triangolazioni imperialiste descritte dal presidente del Burkina Faso Ibrahim Traoré sembrano – nel tentativo di collegarsi all’insegnamento anticoloniale di Sankara – ricalcare le stesse impronte triangolari su cui si fonda il capitalismo dal mercantilismo Secentesco in poi, che è l’argomento di questa serie di articoli di Diego Battistessa attorno a tre città: Salvador de Bahia, Gorée/Saint-Louis, Liverpool/Manchester.
La triangolazione si ripete identica con i medesimi meccanismi del mercantilismo emerso con la nascita dell’epoca industriale, perché il depauperamento dei territori di provenienza è prodotto dal saccheggio delle risorse da parte del capitalismo globale che attinge ai beni africani attraverso l’estrattivismo e impone infrastrutture che creano debito per paesi che sono così schiacciati dalla finanza mondiale; attraverso l’ipocrisia della Comunità europea che stanzia fondi contro la fame e poi sottrae ai pescatori proprio di Saint-Louis i prodotti dell’Oceano per farne mangimi per salmoni destinati a tavole non esattamente affamate (film di Francesco De Agustinis, Until the end of the world); lasciando “sgocciolare” soltanto la gestione della manodopera ai livelli inferiori di mera manovalanza mantenuta nella miseria e marginalità – e in alcuni casi nemmeno quella –, in modo da essere spinta a emigrare nella terra dei caporali dove il marchio “clandestino” cancella i diritti, riproponendo il modello dell’apartheid; e dovunque abbassa i livelli di contrattazione delle classi lavoratrici. Una migrazione gestita attraverso le organizzazioni di intermediazione che usano gommoni quando va bene, se non scafi assemblati con saldature di pezzi di acciaio, imbarcazioni assimilabili alle galere dello schiavismo seicentesco. Ma più pericolose.

_ Meglio le stive delle galere di quelle dei barconi? Una tratta gestita da scafisti africani, ma organizzata grazie alle leggi degli europei che realizzano le condizioni perché i padroni possano usufruire di manodopera schiava a basso o nullo costo, facendo finta di chiudere le frontiere per lasciar passare solo i sopravvissuti tra i disperati pronti a tutto e privi di diritti, senza documenti e quindi inesistenti come umani: non pesano in nessun bilancio di spesa e nella stessa condizione degli africani deportati in America sulle galere.

_ Capitali europei, merci esotiche… schiavi africani. Forse per seguire il bandolo storico della matassa ordita da Diego Battistessa si può partire da Liverpool, dove si sono stanziati i denari per armare i vascelli, usando i proventi derivanti dal commercio di schiavi – e, se ci si chiede ancora come sia stato possibile che una cultura come quella inglese (in grado di pensare di ripulirsi la coscienza riconoscendo in un museo le sue colpe, esibendole e così annientando nuovamente la cultura africana, collocata in bacheca e resa innocua) abbia potuto ordire una tratta così razzista, bastano le immagini di agosto 2024 che ritraggono i fanatici sovranisti britannici impegnati nel loro sport preferito, la caccia all’emigrato.


Triangolo britannico Scousers Ransom in Liverpool Manchester

Anche se, mettendo al centro la manovalanza, salpare da Gorée (o meglio Saint-Louis) è probabilmente il moto più immediato, perché viene umanamente spontaneo seguire il destino dei deportati africani.


Gorée Maison des Esclaves Perpetua schiavitù Saint-Louis

O piuttosto considerare centrale Bahia, dove si assorbiva la manodopera schiavizzata e si caricavano preziose merci per i porti occidentali… Liverpool/Manchester in testa, a chiudere il cerchio di The Birth of a Capitalism (per parafrasare il film di Griffith, forse il più nazionalista, e razzista, della storia del cinema).


Salvador de Bahia Pelourinho Sincretismo Elevador Lacerda

Sta di fatto che l’importanza dei porti lievita con l’apertura di rotte commerciali globali che spostano sugli oceani gran parte del commercio dell’interno, che si configura come percorso per raggiungere il porto attrezzato più vicino e competitivo. Infatti questa triangolazione documentata da Diego Battistessa si inserisce in un sistema che creò molte altre triangolazioni e tutte si vanno conglobando all’interno di un unico sistema che sullo Schiavismo costituì (e continua a costituire) l’embrione dello sfruttamento globale chiamato Capitalismo.


Salvador de Bahia Pelourinho Sincretismo Elevador Lacerda

Gorée Maison des Esclaves Perpetua schiavitù Saint-Louis

Triangolo britannico Scousers Ransom in Liverpool Manchester

Le grandi capitali senza storia 

Capitali: sono le città che ospitano le sedi del governo di uno stato. Spesso sono rappresentative anche dello spirito del paese che le ospita, quando non capita è perché sono frutto di una operazione artificiale. Abbiamo già considerato l’atto di erigere capitali dal nulla, in particolare dando un quadro del sistema di potere militare birmano con la capitale Naypyidaw; oppure con la altrettanto spettacolare Brasilia –  comunque in questi 60 anni di “vita” maggiormente percorsa dalla Storia, non foss’altro perché il visionario che le ha insufflato lo spirito si chiamava Niemeyer.

Tutti esempi accomunati dalla pretesa di imporre una agglomerazione dove manca la comunità, tenuta insieme da cultura, storia, riconoscimento nazionale, riferimento amministrativo e commerciale, vie e snodo di traffici… tutte prerogative mancanti a Yamoussoukro

Tutto questo è sviluppato da Angelo Ferrari che coglie l’occasione del quarantesimo anniversario della hybris di Boigny, che volle far assurgere il suo villayet avito al rango di grande capitale. Ma ciò che non può vantare una grande tradizione, non è stata attraversata dalla storia o non può vantare grandi produzioni culturali è destinato a trasmettere un senso di vacuità, di artificioso e una freddezza che deriva dalla mancanza di sostrato culturale e di storie. Oltre che di Storia. Questa la descrizione di una capitale – Yamoussoukro – voluta dal dispotico padre della patria ivoriana.  


Yamoussoukro

Favelas nelle città

Favela: una parola brasiliana che oramai è entrata nel nostro lessico e nell’immaginario collettivo. Sei lettere che descrivono un luogo che abita una dimensione marginale, periferica e volontariamente dimenticata dallo stato. Favelado/a colui o colei che è costretto a una (non) vita nella favela.
La spinta all’industrializzazione dell’Estado Novo di Getúlio Vargas trascinò centinaia di migliaia di migranti nell’ex Distretto Federale all’interno del disegno del Estado Novo, creando un’esplosione delle baraccopoli, il cui nome istituzionale era ormai diventato favelas.

La sconfitta delle elite pauliste a livello nazionale con la dittatura di Getulio Vargas non portò però a uno stop di quell’impulso che trasformò completamente il volto urbano di São Paulo, coprendo i terreni delle vecchie fazendas con nuovi e moderni quartieri e proiettandosi verso un grande salto industriale che si sarebbe pienamente compiuto durante la Seconda guerra mondiale. São Paulo aveva già iniziato dunque quel cammino che l’ha portata oggi a essere la città più popolosa del Brasile e suo vero centro economico e finanziario. Negli stessi anni in cui a Rio de Janeiro, l’amministrazione pubblica istituzionalizzava le favelas, a São Paulo entrava in scena il futuro, sotto forma di un edificio oggi iconico, Esther…

Negli anni Quaranta su Rio si riversò un potente flusso migratorio. Su questi migranti stava però per abbattersi una nuova grande “disgrazia” economica, manifestatasi sotto il nome di Brasilia. Progettata infatti come una metropoli futuristica nel mezzo della pianura dello stato del Goiás, Brasilia fu inaugurata il 21 aprile 1960 dall’allora presidente Juscelino Kubitschek.

Un Brasile che viaggiava dunque a due velocità e che negli anni Settanta, con la dittatura militare, inaugurò un progetto politico di sradicamento della favela: furono cacciati fisicamente dalle loro case centinaia di migliaia di residenti. Durante l’amministrazione di Carlos Lacerda, molti furono trasferiti in progetti di edilizia popolare come Cidade de Deus.

Negli anni Ottanta si assistette invece allo scoppio della violenza associata al fiorente commercio di droga, che aveva fatto diventare le metropoli snodi logistici molto importanti per i carichi di cocaina destinati all’Europa. Le favelas, luoghi nei quali lo stato non esisteva, si riempirono di armi e lo spazio lasciato vuoto dalle istituzioni venne presto riempito da gruppi criminali.

Le favelas in Brasile, possono essere caratterizzate con ordini di grandezza diversi a seconda per esempio della densità demografica o dello sviluppo urbano delle stesse: in estensione verticale sulle colline (come quella di Vidigal a Rio de Janeiro) o in estensione orizzontale (come Cidade de Deus a Rio de Janeiro o Paraisópolis a São Paulo, in modo paradossale perché a ridosso di un’estensione verticale di un grattacielo di lusso al di là del muro – apparentando questo dossier con quello che OGzero va sviluppando sulle Barriere).

La tensione tra le due dimensioni abitative della città, quella delle favelas e quella “ordinata” del Brasile proiettato nel futuro, rimane alta. Un esempio di questo è il Parco Nazionale di Tijuca, situato nella zona Sud di Rio de Janeiro, considerato la più grande “foresta urbana” del mondo e dichiarata Riserva della Biosfera dall’Unesco nel 1991. L’integrità di quest’area è stata minacciata dall’avanzare degli insediamenti informali, che sono cresciuti esponenzialmente sulle pendici delle montagne e delle colline che formano il Parco Nazionale.

Il 19 novembre 2008 nella città di Rio de Janeiro venne installata la prima UPP – Unità di Polizia di Pacificazione, il germe di un nuovo paradigma di presenza militare del governo in aeree fino a quel momento completamente dimenticate. Da quella cultura repressiva sono usciti quelli che hanno ucciso Marielle Franco, filha da Maré (figlia carioca della favela Maré). Marielle come Carolina Maria de Jesús, voce afrobrasiliana delle favelas paulista che negli anni Sessanta prese letteralmente “a pugni” il Brasile e il mondo squarciando il velo che copriva le reali condizioni di vita dei favelados.

Tutto questo è sviluppato da Diego Battistessa in un flusso analitico e narrativo che abbiamo cadenzato nelle 6 pagine accessibili attraverso i pulsanti che trovate qui


RIO DE JANEIRO SÃO PAULO BRASILIA CIUDADE DE DEUS PARAISÓPOLIS ROCINHA MARÉ GÁVEA CANINDÉ RECIFE

Segui tutti i contenuti attinenti a questo Studium

L'articolo Le città visibili proviene da OGzero.

]]> Gerusalemme https://ogzero.org/studium/gerusalemme-caleidoscopio-di-luoghi-e-di-volti-ogzero/ Fri, 29 Apr 2022 16:34:13 +0000 https://ogzero.org/?post_type=portfolio&p=7193 L'articolo Gerusalemme proviene da OGzero.

]]>

Gerusalemme

«Tempo fa alcuni amici mi parlarono di una giovane casa editrice, la OGzero, interessata a inaugurare una collana dal titolo “Le città visibili”, con l’intenzione di cogliere gli aspetti urbanistici, sociali, economici di alcune città significative. Città rese visibili attraverso la narrazione dell’esperienza personale dei vari autori, coadiuvati dalle voci dei testimoni e degli abitanti che forniscono un’interpretazione del territorio, della sua trasformazione nel corso dei secoli. In qualità di inviato speciale e capo del servizio esteri de “Il Messaggero”, per oltre cinquant’anni mi sono occupato dei problemi e delle vicende del Medio Oriente, dal 1987 con base a Gerusalemme, città che posso dire di conoscere bene. All’inizio ero un po’ perplesso, perché non sapevo cosa avrei potuto raccontare di nuovo di Gerusalemme, città a cui sono stati dedicati libri su libri, poi ho deciso di lanciarmi in questa nuova avventura. Gerusalemme è il primo della serie di volumi “Le città visibili”». [Eric Salerno]


Gerusalemme di Eric Salerno, primo volume de Le città visibili



Eric Salerno è un archivio vivente di storie e immagini, a cui attinge per elaborare nuovi e attuali testi, precisi nell’analisi della realtà e godibili per capacità di scrittura, quella stessa che si dipana nella storia del giornalismo italiano dal 1959, quando cominciò a “Paese sera”, come rievoca qui, durante la trasmissione del 18 novembre 2022, assieme a Maurizio Costanzo, con cui condivise gli inizi della carriera:

Eric Salerno al Costanzo Show del 18 novembre 2022

“Gerusalemme”, fra mappa e memoria per capire il conflitto

L’estensore “aggiorna” il libro cogliendovi gli argomenti e le citazioni giuste per contestualizzare l’attuale conflitto e lo fa rispetto alla città di Gerusalemme.

Ci piace durante il genocidio in corso da parte del governo fascista dello Stato ebraico di Netanyahu proporre questa lettura del libro di Eric, che vola nei secoli di citazione in citazione riconducendo su un piano di dialogo tra elementi mossi non da sacri fuochi ideologici, ma da umanità e condivisione di spazi, cercando di evitare di etichettare con bandiere faziose le Mura e i Muri di Gerusalemme.


Chi arriva a Gerusalemme la sente, la cappa della spiritualità. Ma è vera o fittizia? Non c’è luogo al mondo – almeno per gli occidentali – più simbolico non solo delle fedi monoteiste ma del conflitto che in quel fazzoletto di terra incendia e uccide. Gerusalemme di Salerno è stato scritto poco prima dell’attuale, devastante guerra a Gaza; oggi è un manuale per capire, un inno alla città vera, un racconto delle molte Gerusalemme che si stratificano nell’immaginario, e del luogo che rappresenta l’evoluzione, o l’involuzione, di Israele lungo i decenni. «La durata, intere generazioni, del conflitto israelo-palestinese nasconde le dimensioni lillipuziane del territorio su cui si svolge».

La storia: i romani, il tempio di Salomone, l’archeologia che da decenni cerca di ricostruire una città più legata alle leggende che alla realtà. Un chilometro quadrato appena, quello della Città Vecchia, diviso in confessioni religiose grazie, pensate un po’, al “feroce Saladino”, sovrano illuminato che strappò Gerusalemme ai Crociati: «tra il 1100 e il 1186 la città divenne la capitale del regno latino d’Oriente e vi furono costruite in abbondanza, ancora in gran parte visibili, chiese, monasteri e conventi». Fu Saladino, sultano ed emiro di Damasco ed Aleppo, a «purificare i luoghi santi musulmani per riconsegnarli all’Islam, a lasciare il Santo Sepolcro ai cristiani e rendere agli ebrei le loro sinagoghe».

C’è fin troppo da raccontare, a Gerusalemme, dove storia e politica e dominazione (anche coloniale) si intrecciano nei millenni. I luoghi sacri e non, i quartieri cresciuti nell’ultimo secolo sempre nella pietra bianca prescritta dal protettorato britannico, l’architettura moderna. E ancora, dove la storia si fonde con la politica, i villaggi palestinesi svuotati (come Lifta)  o distrutti, i crimini di guerra: la strage compiuta dai giordani che nel conflitto 1947-48 «rasero al suolo il quartiere ebraico della città vecchia… e per la prima volta in mille anni svanì la presenza ebraica all’interno delle mura». E il secondo crimine, quando nel 1967 l’esercito israeliano sfondò le difese giordane e occupò tutta la città: ma per accedere al muro del Pianto dovettero passare per Mughrabi, il quartiere marocchino che «da sette secoli fiancheggiava il muro di contenimento sopra il quale, migliaia di anni prima, si innalzava il tempio ebraico. Due giorni più tardi arrivarono le ruspe e con poche ore di preavviso gli abitanti… furono cacciati, le loro case demolite».

E ancora, i luoghi dove si convive nonostante tutto; eppure, l’avanzata israeliana che continua a costruire insediamenti tutto attorno alla città. Questo libro è una fusione di informazioni, malinconia, amore e geopolitica. Si parla dei quartieri ortodossi, delle costruzioni moderne e contestate. Il capitolo “I testimoni” è un romanzo corale di tante voci che ci raccontano la città dal vivo. A Gerusalemme “si abita con il nemico”, racconta l’accorata storia dell’avvocato Elias Khoury, arabo israeliano, che dopo tanti lutti ha perso anche il figlio George, giovane universitario ammazzato “per sbaglio”  da una sigla della resistenza palestinese, perchè stava facendo jogging  coi vestiti di marca.

Soprattutto, Gerusalemme è il fulcro di tutte le contraddizioni del conflitto arabo-israeliano. Salerno cita Steve Rosen, preside della Divisione di studi biblici e del Vicino Oriente all’Università Ben Gurion a Beersheva, nel Negev: «Tutti si impegnano nell’interpretazione archeologica e i risultati sono quasi sempre una totale sciocchezza. L’uso semplicistico e acritico dell’archeologia, una disciplina complessa, per giustificare ideologie politiche, prende in giro l’intero settore». B’tselem, il centro israeliano per i diritti umani nei territori occupati, analizza nelle sue denunce «gli strumenti scientifici usati per consolidare l’occupazione di Gerusalemme est e la riduzione sistematica della popolazione palestinese».

E questo è il punto, anche in questi mesi dove tanto si è discusso, in buona o malafede, se la richiesta di uno Stato palestinese abbia fondamento storico (come se il concetto di Stato poi non fosse un’idea moderna occidentale ma fosse nato un millennio fa). «Non c’è un solo luogo costruito in questo paese che non abbia avuto prima una popolazione araba»: la citazione è da Moshe Dayan, generale eroe della guerra del 1967. Sulla città del futuro si sono esercitati archistar, politici come Bill Clinton, industriali e amministratori. Snaturata? Interamente israeliana? Un’altra citazione, anzi un atto d’accusa contro il sistema, da Teddy Kollek, storico sindaco per 28 anni: «Gli arabi erano e rimangono cittadini di seconda anzi di terza classe. Per gli ebrei di Gerusalemme negli ultimi 25 anni ho fatto moltissime cose. Cosa ho fatto per gli arabi di Gerusalemme est? Niente! Marciapiedi? Nessuno. Centri culturali? Nessuno…».

«L’occupazione progressiva del territorio non è solo atto politico ma culturale: a perdersi è anche il cosmopolitismo millenario di questa città travagliata. Salerno vuole finire su una nota diversa però, che ci ricorda che siamo tutti di passaggio. “Gli ebrei hanno atteso duemila anni, abbiamo tempo anche noi”: sono “le parole di un notabile palestinese, rassegnato, fatalista, che ascoltai non molti anni fa, sorbendo un caffè arabo mazboot”».

Un’occupazione che lascia i palestinesi isolati

Eric Salerno è stato invitato nella trasmissione “Mondo alla Radio”in occasione del 75° anniversario della risoluzione che poneva le basi per la creazione di due stati in terra di Palestina, uno ebraico e uno arabo… abbiamo visto come è finita ed è particolarmente interessante sentire le considerazioni di Eric Salerno, insieme a quelle di Luigi Bisceglie, da Gerusalemme; il discorso transita da un piano che considera la condizione senza prospettive dei (giovani e meno giovani) palestinesi, nati e cresciuti sotto occupazione, per arrivare alle attuali tensioni e strage razziale da parte di Tzahal, inquadrandole, dopo gli accordi di Abramo, in un isolamento sempre più totale dei palestinesi, che sentono l’urgenza di liberarsi della repressione dell’occupazione militare più che della presenza degli ingombranti vicini-occupanti ebrei.

Ascolta “Bollettino di guerra di un’occupazione ottusa” su Spreaker.


La conclusione sembra spostare la speranza di una composizione oltreatlantico:

«Rimane il bisogno di una soluzione politica internazionale che probabilmente non può prescindere da un impegno degli ebrei americani».

Il clima morale ed etico di Gerusalemme al punto più basso

Proponiamo la precisa recensione pubblicata dalla rivista dove già nell’occhiello si rileva il carattere di contesa che da sempre muove i rapporti tra comunità che abitano la città che le religioni monoteiste hanno preteso fosse simbolo di pace, ribaltandone la propensione alla sopraffazione e alla divisione.

«L’autore – giornalista, esperto di Medio Oriente, corrispondente da Gerusalemme per quasi trent’anni – non fa sconti a nessuno. Di tutti gli schieramenti condanna l’incapacità di compiere alcun passo verso il compromesso».


Recensione Mosaico di Pace

«Città machista intollerante e tormentata, spazio in cui la morte e la notizia della morte costano sempre meno.».

Un’incursione nelle contraddizioni di Gerusalemme

Proponiamo la precisa recensione pubblicata dalla rivista “Terrasanta”, sottolineando la giusta rilevanza conferita alle mappe e alla funzione di consultazione in presenza.

Questo del giornalista Eric Salerno è un volume per nulla pedante e con un ritmo narrativo invidiabile. Descrivendo luoghi e ascoltando testimoni, in cento pagine traccia con maestria il ritratto di una città unica al mondo.


«Proprio per le sue contraddizioni, brutture, poesia e “santità” Gerusalemme si conferma, più che mai in questo libro, una città unica al mondo. Almeno fino a quando non prevarranno i disegni di chi sogna di “omogeneizzarla”, facendole subire la sorte di Alessandria d’Egitto, un tempo cosmopolita, oggi monocorde».

Sacralità e laicità nella città santa

Particolarmente azzeccata la combinazione dei capolavori di Eric Salerno e Paola Caridi incentrati su Gerusalemme escogitata nella doppia recensione di Ugo Tramballi su  “Il Sole 24 Ore Domenicale”, pubblicato il 10 luglio 2022.

Scrittori gerosolimitani: Avraham turista indigeno

Scompare oggi uno scrittore molto legato al territorio che fa centro a Gerusalemme, i cui personaggi gravitano spesso attorno alla Città, incarnandola ed essendone impregnati dalla sua intensità; proprio quella da cui Abraham Yehoshua intendeva rifuggire a quanto diceva nell’intervista riportata da Eric Salerno in questo libro dedicato a Gerusalemme, dove traspariva quella pacata tensione dello scrittore sionista ad affrontare dilemmi cangianti nelle loro manifestazioni, a cui dare risposte spesso diversificate nel tempo.

Proponiamo qui una risposta di Yehoshua, scelta tra quelle contenute nel libro:

Gerusalemme

Quando pensa a Gerusalemme pensa a qualche luogo in par­ticolare?
Sono cresciuto a Talbieh, quartiere meraviglioso, dove ci sono oggi le residenze del presidente e del primo ministro. È un quartiere che non cambia nonostante tutte le non sempre piacevoli trasformazioni della città. Torno volentieri a visitarlo. Vi trascorro volentieri una notte. Ma ammetto il mio sollievo quando me ne vado dopo 24 ore. Molti israeliani hanno un attaccamento nazionalistico e religioso a Gerusa­lemme ma paradossalmente preferiscono non visitarla. La loro è una forma di risentimento per la posizione ideologica e politica che ha as­sunto. Gli israeliani laici sono molti e odiano tutto ciò che simboleggia la religione. Vedo questo fenomeno in mia sorella. Non sopporta la città. Ma io ho superato questo limite ideologico e vedo Gerusalemme come ogni buon turista. Vi sono alcuni quartieri, soprattutto là dove la città araba incontra quella israeliana, molto belli. Luoghi come la Cinémathèque, a ridosso delle antiche mura, il quartiere di Mamilla vicino alla porta di Giaffa, o Musrara presso la porta di Damasco.


Riprendiamo qui il necrologio dedicato da Eric ad Avraham comparso su “Huffington Post”.


Abraham Yehoshua, lo scrittore che regalava insieme certezze e incertezze. Ma soprattutto speranza

Conversare con lui era come leggere uno dei suoi straordinari libri. Osservava le metamorfosi del suo paese e spesso dava l’impressione di cambiare idea su come risolvere la difficile equazione ebrei-arabi-convivenza pacifica

Conversare con Abraham B. Yehoshua era come leggere, lentamente, uno dei suoi straordinari libri. Una voce pacata ma forte. Ogni colloquio, ogni intervista, regalava insieme certezze e incertezze.  E anche speranza. «Colui che non muta le proprie opinioni è come un marinaio che, non orientando le proprie vele, non giungerà mai in porto», amava ripetere. «Quando decisi di verificare con onestà e lealtà le idee e opinioni che avevo sostenuto per anni su molti e svariati argomenti, mi accorsi che anche in me erano avvenuti dei cambiamenti, e non di poco conto».
Per Alef Bet (da molti in Israele veniva affettuosamente chiamato con le due prime lettere dell’alfabeta), c’erano molte certezze e incertezze sul futuro del suo paese. E anche sulla realtà – tra paure e speranze – degli ebrei della diaspora dopo la tragedia dell’Olocausto. Dal suo modo di comunicare quasi sempre privo di arroganza e superbia in qualche modo trasparivano le sue origini sefardite. Suo padre era un professore universitario. Lui era nato nel 1936 a Gerusalemme dove era approdata dal Marocco pochi anni prima sua madre. «Cosa è per te Gerusalemme?», gli chiesi una volta mentre eravamo seduti nella sua casa sul monte Carmel a Haifa. «È la città in cui sono nato. La mia famiglia vi ha abitato dall’inizio del secolo. Mio padre ha scritto dodici libri sulla comunità sefardita di Gerusalemme, interrogando gli anziani, raccogliendo le loro storie, descrivendo costumi e festività, e le relazioni con gli arabi. Nel libro che considero la mia opera più importante, Signor Mani, quattro dei cinque protagonisti sono di Gerusalemme. Gerusalemme non è soltanto la città della mia infanzia, è anche la mia città letteraria, fonte dell’energia necessaria per raccontare».

Yehoshua amava raccontare. E anche ascoltare. Ebbi il piacere, a ridosso della fine dello scorso secolo, di averlo alla presentazione di un mio libro su Israele nell’Istituto culturale italiano di Haifa (occasione a cui fa riferimento la foto che illustra questo pezzo). «Non leggo l’italiano ma dopo aver parlato molto in questi anni con Salerno mi fido di lui. Come giornalista si è impegnato a imparare e a capire prima di scrivere le sue cronache quasi quotidiane. Sento anche in lui dubbi e incertezze». Lo scrittore, più forse di altri suoi colleghi, osservava le metamorfosi del suo paese e spesso dava l’impressione di cambiare idea su come risolvere la difficile equazione ebrei – arabi – convivenza pacifica
«Per il bene dei vostri figli, per il bene dei nostri figli, vi prego coloni mostrate coraggio e saggezza e ritornate volontariamente nello Stato d’Israele». Nel novembre 2000, tra un’Intifada e l’altra lanciò un accorato appello pubblicato sul popolare “Yediot Aharonot”. «Molti sentono che inutilmente mettete in pericolo voi stessi e anche noi nella vostra ostinazione senza speranza di lasciare le vostre case d’origine in Israele per piantarvi nel cuore della popolazione palestinese, con il reticolato di strade, blocchi stradali, confisca di terre e devastazione degli alberi di frutta che questo insediamento rende necessario». Yehoshua ricordava come un milione di algerini furono uccisi nei dieci anni della rivoluzione algerina. «Con crudeltà e grande determinazione, gli algerini furono oppressi dai francesi, distrutti, uccisi e puniti senza pietà. Ma questo non servì nemmeno un poco a schiacciare la loro ribellione per ottenere l’indipendenza. E dopo 130 anni di insediamento francese in Algeria, la Francia fu costretta a evacuare la sua gente facendola rientrare a casa e a concedere l’indipendenza all’Algeria».
Quel suo appello si concluse con un’enfatica, emotiva, forse anche sarcastica richiesta ai coloni di «tornare allo Stato d’Israele. Anche esso fa parte della Terra d’Israele». Negli anni, nelle interviste e colloqui spesso telefonici e di fretta per commentare realtà che cambiavano, passava dall’idea di vedere nascere accanto a Israele uno stato palestinese indipendente con una parte di Gerusalemme come capitale e l’alternativa per molti più difficile di un unico stato democratico dal Mediterraneo al fiume Giordano da condividere tra i due popoli. Certezze e incertezze. Come quando, seduti nella platea della Basilica di Massenzio a Roma dove si presentava un suo libro, parlammo dell’Urbe e del fatto che spesso gli ebrei della diaspora dicono di sentirsi soli, abbandonati: «Anche questo è sbagliato. Eravamo soli nell’Olocausto, questo è vero. Ma erano altri tempi. Una situazione, allora, così diversa da quella attuale. Non dobbiamo dimenticare quegli anni e quanto è accaduto oltre cinquant’anni fa, ma dobbiamo anche riconoscere che la nostra realtà è un’altra. Se talvolta possiamo sentirci isolati politicamente all’interno della comunità internazionale forse è anche un bene. Aiuta a riflettere». Con un grande sorriso aggiunse: «Io, comunque, vorrei tanto sentirmi più solo, più isolato. Per il bene della mia mente e della mia indipendenza e libertà intellettuale».

Se l’identità di Gerusalemme è nei suoi strati architettonici

Compare oggi un’ispirata recensione su “Il Messaggero”, il quotidiano presso il quale venivano pubblicati i reportage dell’inviato speciale Eric Salerno: l’estensore ha colto alcuni spunti essenziali del libro, fornendo ai lettori alcune delle chiavi di lettura più appropriate e che sono all’origine dell’intuizione di un possibile racconto della città, della sua occupazione e delle idee per uno sviluppo urbanistico, che sarebbe informato da quell’inclusiva pietra bianca omogenea ed è invece deformato dall’esclusione dell’apartheid.

Gerusalemme come una mappa per comprendere il conflitto israelo-palestinese

L’approccio della trasmissione “Il mondo alla radio” andata in onda il 25 maggio 2022 dalle frequenze di Radio Vaticana ha messo al centro il libro di Eric Salerno evidenziando subito il fulcro attorno a cui ruotano i materiali esposti nel testo, cioè, come introduce il conduttore Stefano Leszczynski: «Quanto la faccia delle nostre città rispecchia quella che è – sì – l’evoluzione storica che ha contribuito a costruirle, ma anche quelle che sono le crisi e le ferite aperte nel nostro tempo», palesate nella topografia, che congloba le cicatrici degli interventi che la Storia ha solcato nel territorio. L’intuizione di Eric Salerno è stata quella di ribaltare lo sguardo che in genere risale dall’espressione urbana (per esempio con l’erezione e l’abbattimento di edifici religiosi e culturali…)  alla sua ispirazione socio-politica (… atti a esibire la preminenza di una comunità sull’altra); mentre nella Gerusalemme del decano dei reporter italiani si predilige individuare la scelta urbanistica come strumento di apartheid, precisa volontà neosionista dove la gentrificazione è a monte del processo che conduce alla completa sottomissione di una comunità usando la leva dell’espulsione attraverso la pianificazione degli edifici e dei servizi della città. Una metropoli caratterizzata dalla pietra bianca tradizionale con cui oggi si costruisce in funzione dell’occupazione della città.

L’analisi di Eric si dipana nella trasmissione intrecciandosi con la testimonianza di Luigi Bisceglia, scrittore e accademico residente e cooperante a Gerusalemme Est, che ha raccontato di barriere non fisiche all’interno della città, quanto de facto. A cominciare dalla discriminazione in quelli che sono i servizi erogati in quartieri a presenza palestinese rispetto a quelli colonizzati da ebrei; tuttavia le divisioni si addensano in particolare usando a pretesto e per provocazione deliberata le celebrazioni religiose, e poi quando avvengono episodi di sempre maggiore escalation, come l’efferato omicidio della giornalista-icona palestinese Shireen Abu Akleh, premeditato da Tsahal, ma che ha mostrato al mondo le ferite dell’occupazione sul territorio gerosolimitano con l’intervento brutale e blasfemo dei militari durante i funerali. Il palese vulnus nelle strade di Gerusalemme non si può semplicemente attribuire alla ferocia degli israeliani indivisa, ma va ascritta a una precisa volontà che il libro descrive, indicando come si persegua per la crescita della città un disegno di appropriazione non (più) applicabile: bisogna risolvere il conflitto israelo-palestinese e smetterla con la sua infinita riproposizione, procrastinandone la soluzione quanto più a lungo possibile, pensando così di poter eradicare tanto più spirito arabo permane nel tessuto urbano di Gerusalemme.

“Gerusalemme come una mappa per comprendere il conflitto israelo-palestinese”.

La sofferenza che il quieto vivere ignora

È venuto il tempo di fare i conti con la tristezza del vivere quotidiano, a Gerusalemme. Non quella, però, che toglie forza all’uomo, sia questo padre o fratello, o alla donna, sia essa madre o sorella. La tristezza di questi giorni è come un velo squarciato, attraverso il quale si vede la dura  realtà del vivere quotidiano.  È uno sguardo carico di pena e di rabbia. Uno sguardo che può essere anche  il nostro, di chi guarda Gerusalemme a distanza.

Ieri era il corteo funebre di Shireen Abu Aqleh, la giornalista, a essere fermato e aggredito nelle strade di Gerusalemme, dopo che il suo corpo vivo era stato ucciso nella città di Jenin. Oggi è il corteo funebre di Walid al-Sharif, ragazzo di 21 anni, a giungere vittorioso sulla Spianata delle Moschee, dove un mese fa il suo  corpo era stato portato via in fin di vita.

Gerusalemme

Nessuno, nei palazzi del Potere, ha chiesto per Walid una autopsia “congiunta”. Troppo poco importante agli occhi dei governanti israeliani. Eppure anche Walid ha avuto il suo corteo, anzi, lui è giunto fin sulla Spianata, nonostante le bastonate dei poliziotti e altri feriti.

Non si può raccontare, ovvero occultare per l’ennesima volta  la realtà a Gerusalemme e fuori le sue mura, parlando genericamente di “scontri”.  Come alcuni giornalisti hanno fatto, rimanendo finalmente  isolati dall’opinione pubblica.

Per questo non si può dimenticare  quello che è accaduto a Gerusalemme, quando si prende in mano un libro, che porta nel titolo solo il suo nome: “Gerusalemme”.

Eric Salerno compie un lungo cammino, ma avanzare insieme a  lui nella storia e nelle strade di Gerusalemme significa gustare un’aria  severa e  sincera. Le pietre bianche di Gerusalemme, che lui descrive, diventano presto parole altrettanto pesanti, ma anche lievi nella loro forza liberatoria. L’occupazione israeliana viene chiamata con il suo vero nome “occupazione”. La storia percorsa in questi ultimi decenni incastonata da frasi semplici, che fanno da corrimano al nostro cammino. “Ossia: Gerusalemme deve restare indivisa, la sua popolazione palestinese non deve crescere demograficamente e deve rassegnarsi e accettare la cittadinanza-supremazia israeliana.”

Sono affermazioni ripetute e mai lasciate alla debolezza della retorica o della superficialità. Si intrecciano con i fatti della storia archeologica, demografica, urbanistica di Gerusalemme. Più volte  Eric Salerno fa riferimento alla religione, anzi alle religioni che nella città catturano il cuore, la mente e la memoria di chi qui vive o vorrebbe venire sia pure per attraversare le sue strade e poi ripartire. In qualche occasione il narratore sembra attribuire al fanatismo religioso la causa prima della sofferenza che colpisce in profondità la città. In verità, non arriva a fare di questo giudizio la chiave esaustiva dei problemi. Le cause dell’odio, infatti, sono molte. Il fanatismo religioso, forse, sarebbe rimasto in un ambito ristretto, fisiologico, se  a Gerusalemme non si fosse  incarnato anche nella recente storia di  “ingordigia e Occupazione”. Vengono definite così le ragioni  che hanno mosso i comportamenti dei politici israeliani. Non solo loro, ma anche la corte  umana compiacente, composta da archeologi, architetti ed ovviamente burocrati. Ci fa conoscere le eccezioni e condividere la loro sconfitta.

Per questo la lunga storia di Gerusalemme, a partire dal 1967, cioè dalla vittoria israeliana nella Guerra dei sei giorni, si è sviluppata in un nuovo “cantiere”. Il racconto  è dettagliato, va seguito passo dopo passo. Si possono cogliere differenze tra i diversi protagonisti, dallo storico sindaco Teddy Kollek al generale e primo ministro Ariel Sharon. Quest’ultimo compra casa nel quartiere arabo di Gerusalemme per affermare il diritto  per gli ebrei a espandersi dove vogliono, l’altro costruisce interi quartieri per ebrei a ridosso delle zone palestinesi, ma non all’interno della Città Vecchia per non far esplodere le tensioni. In ogni caso, l’obiettivo è la crescita della componente ebraica  (a discapito)  di quella palestinese di Gerusalemme Est, che mai dovrà più chiedere la sua contiguità con le altre zone palestinesi.

Gerusalemme

Porta di Damasco, agosto 1998

Innumerevoli gli episodi raccontati di questa vera guerra, prolungata nel tempo, per togliere diritti e futuro alla parte arabo palestinese della popolazione della città. Si giunge a una delle punte più alte di cinismo, nella trasformazione della piazza antistante la Porta di Damasco in un quasi  check point. In una seconda edizione del libro si potrebbe inserire una fotografia più recente: documenta la Porta di Damasco schiacciata tra strutture di  cemento a uso della polizia israeliana, per la propria sicurezza, i controlli, gli arresti e i primi interrogatori. Un orrore architettonico che colpisce la parte araba della città, mentre in altre parti si consumano altre oscenità urbanistiche. Le venti nuove “torri” che si stanno costruendo nella zona finanziaria insieme  ai grattacieli costruiti nel cuore della parte ebraica, fuori dalle antiche mura, sono come un drago che divora se stesso, spinto dall’ingordigia speculativa.

Gerusalemme

Porta di Damasco, febbraio 2018

Quando si legge l’ultima pagina del libro rimane la comprensione della sofferenza a Gerusalemme, cresciuta mentre si passava sulle aspirazioni di una parte della sua popolazione. C’è anche in mente il gusto di un racconto vero. Eric Salerno, un ebreo, un laico, ha dato una lezione di libertà intellettuale, proprio parlando di Gerusalemme. Possa essere di ammonimento per quei pavidi intellettuali che  pensano  più alle loro, piccole o grandi carriere, e per questo  inseguono solo il proprio quieto vivere.



24 aprile 2022

La nuova miccia per nuovi scontri, e nuovi razzi e nuove reazioni spropositate di Tzahal: durante il ramadan, la pasqua ebraica e quelle cristiane basta un cerino ed esplode tutto. Gerusalemme ovvio epicentro per rivendicarne il controllo. Eric Salerno ha affrontato questo aspetto di petto in “Gerusalemme”, il libro incentrato sulla urbanistica e la geopolitica gerosolimitane e lo riprende in questo intervento per la trasmissione Prisma di Radio Popolare, incalzato da Lorenza Ghedini e Roberto Maggioni.
Ma questo punto di vista è colto anche da Lorenzo Santucci, il quale lo riassume nella sua recensione del volume per l’Huffington Post del 23 aprile: «La domanda che accompagna il lettore per tutte le pagine, a un tratto viene messa nero su bianco da Salerno: “A chi appartiene Gerusalemme?”. Agli ebrei? Agli arabi? O ai cristiani? Una delle risposte arriva da un suo incontro con Sari Nusseibeh, ex presidente dell’Università Al-Quds, in quella Gerusalemme Est diventata terreno di scontro dopo la guerra dei sei giorni nel giugno 1967 con cui Israele occupò la parte orientale della città sotto controllo giordano. Nella storia di Gerusalemme esiste infatti un prima e un dopo la guerra dei sei giorni: nell’architettura, nella demografia e nell’estremismo religioso che, insieme, hanno peggiorato la vita di chi la abita.
I dati parlano di una povertà che interessa tanto gli ebrei ortodossi quanto i palestinesi, i primi “perché si autoisolano” e i secondi in quanto “vittime del conflitto e di scelte precise da parte dell’amministrazione israeliana”».
I paesi arabi come da 50 anni stigmatizzano, parlano per sollevare polveroni, ma poi dietro al polverone lasciano che il piano sionista prosegua in Cisgiordania e Gerusalemme Est, dove le elite palestinesi si arricchiscono e le forze giovani sono alla disperazione, mentre gli ultraortodossi e i coloni cercano di espandere il controllo del territorio; infatti prosegue Lorenzo Santucci: «La necessità per il nazionalismo israeliano è quella di trovare sempre e dovunque un nemico “per portare avanti il loro progetto, consolidare l’occupazione e rendere sempre meno proponibile la condivisione di Gerusalemme”. Per riuscirci, nel corso degli ultimi decenni si è affidata all’architettura e ai suoi interpreti». La divisione del territorio occupato in una maniera urbanisticamente più edulcorata, in modo da eliminare il più possibile lo scontro diretto tra gli abitanti, i colonizzatori israeliani e la popolazione locale rinchiusa in specie di bantustan, facendo sbiadire l’identità della comunità palestinese e «lL’urbanistica può trasformarsi in un’arma di esclusione di parte della popolazione, anche se si tratta di un terzo di quella complessiva, come nel caso palestinesi. Ma a Gerusalemme, “l’arte dell’urbanistica è stata affinata come proseguimento della politica con mezzi non militari”, scrive Salerno» e ribadisce Santucci.

“La fragilità tra le bianche mura di Gerusalemme produce tensione e scontri”.


Eric Salerno: Gerusalemme, la città culla delle grandi religioni

24 aprile 2022 – Francesca Bianchi – FreeTopNews

FtNews ha intervistato il giornalista Eric Salerno, autore del libro Gerusalemme, recentemente pubblicato per la casa editrice torinese OGzero. Nel corso della nostra conversazione lo scrittore ha presentato questo testo dedicato alla Città Santa, con cui è stata inaugurata la collana Le città visibili di OGzero. Salerno ha lavorato un decennio per “Paese Sera”; nel 1967, in qualità di inviato speciale e capo del servizio esteri, è passato a “Il Messaggero”, interessandosi ai problemi del Terzo Mondo e del Medio Oriente, dal 1987 al 2017 con base a Gerusalemme. Tra i molti libri pubblicati nel corso della sua carriera: Genocidio in Libia. Le atrocità nascoste dell’avventura coloniale (1979); Israele, la guerra dalla finestra (2002); Uccideteli tutti (2008); Mossad base Italia (2010); Orizzonti perduti, orizzonti ritrovati (2021).

Sig. Salerno, nella sua carriera ha pubblicato molti libri, i più recenti sono usciti per la casa editrice “Il Saggiatore”. Come e quando è maturata l’idea di dare alle stampe il libro Gerusalemme con l’editore torinese “OGzero”?
Tempo fa alcuni amici mi parlarono di una giovane casa editrice, la OGzero, interessata ad inaugurare una collana dal titolo “Le città visibili”, con l’intenzione di cogliere gli aspetti urbanistici, sociali, economici di alcune città significative. Città rese visibili attraverso la narrazione dell’esperienza personale dei vari autori, coadiuvati dalle voci dei testimoni e degli abitanti che forniscono un’interpretazione del territorio, della sua trasformazione nel corso dei secoli. In qualità di inviato speciale e capo del servizio esteri de “Il Messaggero”, per oltre cinquant’anni mi sono occupato dei problemi e delle vicende del Medio Oriente, dal 1987 con base a Gerusalemme, città che posso dire di conoscere bene. All’inizio ero un po’ perplesso, perché non sapevo cosa avrei potuto raccontare di nuovo di Gerusalemme, città a cui sono stati dedicati libri su libri, poi ho deciso di lanciarmi in questa nuova avventura. Gerusalemme è il primo della serie di volumi “Le città visibili”.

A quando risale la sua prima visita a Gerusalemme? Che ricordo conserva di quel soggiorno?
Visitai per la prima volta Gerusalemme negli anni 1978-1979. Andai con vari colleghi giornalisti per seguire la visita dell’allora Presidente americano Jimmy Carter, che si era recato nella Città Santa per aiutare egiziani ed israeliani a stipulare un trattato di pace. Ricordo una passeggiata fatta in tarda serata, quando con alcuni colleghi entrammo nella Città Vecchia. L’atmosfera era molto affascinante, soprattutto per me che non sono legato a nessuna delle tre grandi religioni.

Come cambiò Gerusalemme dopo la creazione dello Stato di Israele e la conquista israeliana?
La città all’epoca era divisa in due parti in maniera netta: la guerra tra ebrei e arabi lasciò la Città Vecchia in mano araba. Chi arrivava lì da Israele poteva avvicinarsi, ma non poteva entrare all’interno delle mura. Per entrare nella Città Vecchia, se non si era in possesso di un permesso da parte delle Nazioni Unite, bisognava passare per la Giordania e la valle del fiume Giordano.

A cosa si riferisce quando, nel libro, parla di sincretico cosmopolitismo?
Gerusalemme è una città dove si vede di tutto a livello di popolazioni e religioni. Vi sono vari livelli di ortodossia ebraica che si incontrano a Gerusalemme. La gente vestita di nero, che ricorda la gente vestita di nero di Teheran e dell’Afghanistan, suscita rabbia e spesso un senso di fastidio, intellettuale e fisico, in molti israeliani non solo laici. Ci sono persone con idee diverse su come dovrebbe essere la città. Molti pellegrini arrivano senza capire che si tratta di una città contestata da due popoli; molti entrano con una guida che racconta. Questo racconto, pur essendo ogni volta diverso, unisce. Si tratta di una città divisa, ma in grado di unire, nel racconto della creazione, chi ritiene che ci sia una forza superiore che ci guida in questo mondo.

Che ruolo ha avuto l’archeologia nella giustificazione di alcune ideologie politiche?
La questione archeologica viene sfruttata da parte israeliana per legittimare l’appartenenza di questa parte della Terrasanta agli Ebrei. Gli israeliani sostengono di essere stati i primi abitanti dell’area. In realtà, l’archeologia restituisce una storia molto stratificata: in superficie, o quasi, una importante presenza islamica, poi cristiana, infine ebraica. Ma gli ebrei non sono stati i primi abitanti di Gerusalemme: c’era qualcuno su quel monte, ma di loro non se ne parla mai. Gli ebrei arrivarono da fuori, come loro stessi raccontano, e conquistarono il luogo che era abitata da un altro gruppo etnico. L’archeologia, oltre alla narrativa biblica, viene utilizzata da Israele come prova dell’appartenenza, da sempre, di questo territorio agli ebrei. “Siamo tornati a casa”, dicono, ma si rifiutano di accettare che nei duemila anni della loro assenza altri avevano costruito ed eletto domicilio su quei monti contestati.

Nel libro parla di una lunga conversazione che ebbe il piacere di fare con lo scrittore Avraham B. Yehoshua; avete parlato molto del fanatismo religioso. Cosa ricorda di quell’incontro?
Sì, ero andato a trovarlo nella sua bella casa sulle pendici del monte Carmelo, a Haifa. Ho creato con lui un rapporto interessante; è una persona notevole. Mi raccontò della sua Gerusalemme. Mi disse che non amava il confronto e lo scontro che ci sono in questa città. Lo scontro non è soltanto tra israeliani e palestinesi. Lo scontro è tra credenti e non credenti. E anche tra le varie comunità religiose. Gli ultraortodossi ebrei, ad esempio, non sostengono lo Stato d’Israele perché ritengono che Israele debba nascere soltanto al ritorno del Messia. Le comunità degli ortodossi si sono estese un po’ ovunque a Gerusalemme e dove arrivano cercano di imporsi. Non tollerano coloro che, nelle feste comandate o nelle ventiquattro ore dalla prima stella del venerdì sera alla prima del sabato, girano in automobile nei quartieri dove abitano. Molte strade, grazie a rivolte anche violente, sono delineate da transenne di metallo per tenere a distanza i diversi. Il venerdì si chiudono alcuni quartieri, il sabato sera si riaprono. Molti anni prima della famosa Intifada dei palestinesi del 1987, l’auto su cui viaggiavo fu bersagliata da giovani ebrei ortodossi perché avevo sbagliato strada ed ero finito in uno dei loro quartieri.

C’è un luogo della città che le è particolarmente caro?
Alcuni posti nelle vicinanze dell’ultima casa in cui ho vissuto mi sono cari per motivi affettivi. Inoltre, trovandosi l’abitazione a ridosso della Città Vecchia, ricordo che quando mi affacciavo alla finestra vedevo il passato, antico e meno antico, ma non lo scempio del presente.

Quali sono i quartieri che cambiano identità, a cui fa riferimento nel libro?
Ho lasciato Gerusalemme prima dello scoppio della pandemia. Ho visto trasformarsi interi quartieri nel giro di pochi anni. Bisogna tenere presente che con la rivolta palestinese qualcosa accadde anche nel conflitto tra laici e religiosi. La città per alcuni anni aveva mostrato un volto nuovo, quasi una crescita della presenza laica. Quindici anni dopo la realtà è di nuovo cambiata. Come a Emek Refaim, strada principale della cosiddetta “German colony”, così chiamata perché numerosi tedeschi protestanti si erano insediati in quel quartiere e avevano costruito molte case lì. German Colony era il vecchio quartiere dei Templari, per anni rifugio della classe benestante degli israeliani laici: la via, gremita nei giorni di festa fino all’inverosimile per alcuni anni, oggi diventa un deserto dal pomeriggio del venerdì alla sera del sabato. L’unico rifugio è il bar-ristorante all’interno di uno storico cinema, il Lev Smadar.

Cosa rappresenta culturalmente e politicamente Gerusalemme per i palestinesi?
Rappresenta la loro capitale. Dobbiamo sempre ricordarlo, ogni volta che si parla di Gerusalemme. Arafat aveva firmato un accordo di pace con Israele. Per loro era scontato che una parte di Gerusalemme sarebbe diventata la capitale di uno Stato che sarebbe nato accanto a Israele, non al suo posto.

Cosa sta accadendo adesso a Gerusalemme?
Attualmente c’è la solita tregua armata. Le autorità rispondono a logiche diverse. La parte israeliana spesso impone scelte tali da scoraggiare la convivenza con i palestinesi. Pesano sulla realtà quotidiana di Gerusalemme le paure, spesso esagerate e inculcate da politici come l’ex premier Netanyahu, il quale impediva agli arabi di riunirsi in certi luoghi per timore, sosteneva, che potessero creare manifestazioni di protesta contro Israele. Lo scorso anno la polizia intervenne con lacrimogeni e altri strumenti antisommossa, fino a provocare la reazione di Hamas da Gaza e la risposta pesantissima d’Israele. Netanyahu e altri come lui, prima e ancora oggi, si servono della paura per consolidare l’occupazione e rendere sempre meno proponibile la condivisione di Gerusalemme. Itzhak Rabin, il leader che i sostenitori di Netanyahu paragonavano a Hitler, esortava gli israeliani a uscire dalla mentalità del ghetto. Il premier attuale ha subito compreso che non c’è bisogno di vietare ai musulmani di gustarsi il Ramadan; che non ha senso impedire loro di pregare sulla Spianata delle Moschee. Purtroppo ci sono fanatici da una parte come dall’altra. Gli ultimi scontri furono provocati dalla minaccia di un gruppo di ebrei estremisti di salire sulla Spianata delle Moschee, che è, in quanto “monte del tempio”, luogo anche per loro sacro, e compiere alcuni riti proibiti.

Gerusalemme rappresenta davvero la “grande città” più povera di Israele? Dove si concentra la povertà?
Le statistiche confermano che degrado e povertà regnano nei quartieri degli ebrei ortodossi e dei palestinesi, i due gruppi che rappresentano la maggioranza della popolazione della città. I primi si autoisolano, i secondi sono vittime del conflitto e di scelte precise da parte dell’amministrazione israeliana. Ci sono situazioni pesanti: in alcuni contesti vediamo famiglie ebree di oltre dieci persone che vivono in piccoli appartamenti. La parte araba soffre economicamente per la sua condizione molto particolare: non sono cittadini israeliani e non possono andare e venire liberamente nei territori occupati (la Cisgiordania). L’autorità israeliana impedisce o frena ogni forma di sviluppo economico-sociale degli arabi di Gerusalemme nella speranza di vederli emigrare. Quelli che restano, anche quando le loro famiglie aumentano numericamente, ottengono con difficoltà licenze per costruire nuove abitazioni o ampliare quelle esistenti.

A chi appartiene Gerusalemme?
Vorrei poter dire che Gerusalemme appartiene a chi vi abita e paga le tasse. Appartiene spiritualmente alle tre religiosi monoteistiche. E appartiene anche a un non credente come me, perché nella sua storia, nei suoi conflitti, sono radicate le radici della nostra cultura occidentale. Un progetto originario di spartizione della Palestina, approvato dalle Nazioni Unite, metteva Gerusalemme e Betlemme al di fuori della spartizione, sotto un controllo internazionale. Tanti israeliani non vanno mai a Gerusalemme. Molti palestinesi, che considerano Gerusalemme la loro casa, la loro capitale, non sono mai riusciti ad andarci a causa del conflitto.

Quando tornerà a Gerusalemme? Cosa si augura per il futuro di questa città?
Vorrei che la gente iniziasse a guardare Gerusalemme con un interesse anche laico, ma senza deturpare il paesaggio con iniziative urbanistiche che sono molto discutibili. Quanto a me, tornerò volentieri quando potrò farlo. Gerusalemme è una città piena di ricordi; ho tanti amici lì. Mi piacerebbe andarci in un clima diverso. Non sono ottimista: la globalizzazione come futuro positivo è fallita e il nazionalismo diventa sempre più forte. I popoli della Terrasanta devono imparare a vivere uno accanto all’altro. Altrimenti vedremo soltanto sangue e distruzione, come è accaduto nei lunghi anni della vita di Gerusalemme.

Quale messaggio si augura possa arrivare ai lettori di Gerusalemme?
Mi auguro che nei lettori nasca il desiderio di andare a visitare questa città incredibile, cercando di capirla. Innanzitutto occorre rendersi conto della dimensione del conflitto: tutto si svolge in uno spazio minimo, corrispondente all’incirca a due piccole regioni italiane. Valori ed elementi qualificanti delle religioni monoteistiche sono uguali: ribadisco che oltre al virus del nazionalismo, non si tratta di uno scontro tra credenti, ma di uno scontro tra ciò che chi gestisce le religioni costringe a credere.


Architettura politicizzata, estremismo religioso e demografia: così Gerusalemme ha perso la sua santità

23 Aprile 2022 – Lorenzo Santucci – Huffington Post

Nel libro “Gerusalemme” di Eric Salerno l’immagine di una città sospesa tra religione, nazionalismo e violenza.

A Gerusalemme la tensione è tornata a salire come non accadeva da un anno. A maggio scorso come oggi, il centro delle violenze rimane quello che per gli ebrei è il Monte del Tempio mentre per i musulmani è Haram al-Sharif, la Spianata delle Moschee. Lo stesso che lo scrittore utopista Theodor Herzl immaginò come un “palazzo di pace”, dove i vari capi di Stato si potessero incontrare per discutere su come risolvere i problemi di tutti. L’idea abbracciava un po’ quella di una Gerusalemme internazionalizzata così come suggerito anni fa dall’Onu, ma sembra destinata a rimanere utopia, appunto. Piuttosto, questo luogo è conosciuto come uno dei più contesi al mondo, dove con una certa fatica si prova a distinguere religione, nazionalismo e violenza. Un po’ come nella Gerusalemme di Eric Salerno, raccontata nel suo libro edito da Orizzonti Geopolitici: una città sempre più caratterizzata dal fanatismo religioso che le sta facendo perdere quell’aura di santità.

La domanda che accompagna il lettore per tutte le pagine, a un tratto viene messa nero su bianco da Salerno: “A chi appartiene Gerusalemme?”. Agli ebrei? Agli arabi? O ai cristiani? Una delle risposte arriva da un suo incontro con Sari Nusseibeh, ex presidente dell’Università Al-Quds, in quella Gerusalemme Est diventata terreno di scontro dopo la guerra dei sei giorni nel giugno 1967 con cui Israele occupò la parte orientale della città sotto controllo giordano. Nella storia di Gerusalemme esiste infatti un prima e un dopo la guerra dei sei giorni: nell’architettura, nella demografia e nell’estremismo religioso che, insieme, hanno peggiorato la vita di chi la abita.

I dati parlano di una povertà che interessa tanto gli ebrei ortodossi quanto i palestinesi, i primi “perché si autoisolano” e i secondi in quanto “vittime del conflitto e di scelte precise da parte dell’amministrazione israeliana”. Con quest’ultima Salerno – che Gerusalemme l’ha raccontata nelle colonne dei giornali, l’ha vissuta da cittadino per poi emigrare altrove senza mai tagliare quel cordone che l’ha portato a scrivere, di nuovo, su di lei – intende la necessità per il nazionalismo israeliano di trovare sempre e dovunque un nemico “per portare avanti il loro progetto, consolidare l’occupazione e rendere sempre meno proponibile la condivisione di Gerusalemme”. Per riuscirci, nel corso degli ultimi decenni si è affidata all’architettura e ai suoi interpreti. Il futuro di Gerusalemme viene pertanto disegnato sulla carta e messo in pratica da architetti che guardano per lo più al passato, quando non si abbandonano ai loro concetti.

L’urbanistica può trasformarsi in un’arma di esclusione di parte della popolazione, anche se si tratta di un terzo di quella complessiva, come nel caso palestinesi. Ma a Gerusalemme, “l’arte dell’urbanistica è stata affinata come proseguimento della politica con mezzi non militari”, scrive Salerno. Testimonianza diretta sono le idee esposte dai suoi interpreti. Le decisioni non sono prese a caso ma hanno un fine preciso: il Museo della Tolleranza, tanto per dirne uno, sorge sopra quello che un tempo era un cimitero islamico. Ma, nel libro, gli esempi di come si tenti la cancellazione della cultura araba si susseguono uno dopo l’altro e sono un modo per l’autore di ripercorrere le strade di questa città. Ci sono le eccezioni, certo. Il noto architetto israeliano Moshe Safdie aveva proposto un piano per includere i palestinesi di ritorno dai campi in Libano e Giordania che piaceva anche al leader laburista Shimon Peres, ma aveva troppo poco potere in mano per convincere l’allora primo ministro Levi Eshkol. Come una guida turistica, Eric Salerno ci mostra quello che era Gerusalemme, quello che è e quello che, forse, sarà un giorno. Dipende da che strada decideranno di prendere i suoi governanti. Se rimane quella intrapresa, sottolineava Spyro Houris, la città si troverà ad affrontare lo stesso destino di Alessandria, trasformata da capitale multiculturale a monolitica per via delle scelte che l’hanno obbligata a un futuro “cupo e monolitico”.

La trasformazione di Gerusalemme è evidente ed è mossa dalla paura del diverso. La funivia-cabinovia, che dovrebbe collegare la vecchia stazione ferroviaria al Muro del Pianto e quindi a evitare i luoghi musulmani, probabilmente non si farà ma la sua funzione, come dichiarato dall’ex sindaco Nir Barkat di fronte ai militanti del partito di centro-destra Likud, serve “a chiarire nuovamente a chi appartiene questa città”. La ghettizzazione palestinese nasce da un timore atavico che l’arabo possa rappresentare una minaccia, quindi meglio recintarlo, escluderlo. Anche con la demografia – altra arma che in mano alla politica può provocare danni – in modo tale da sopraffare numericamente il nemico e impedire che possa un giorno ripensare a un modello urbano. Due a uno: doveva essere questo il rapporto tra ebrei e musulmani, noncurante di come le popolazioni più oppresse sono anche quelle che mettono al mondo più figli, simbolo di come la lotta debba continuare generazione dopo generazione. Al 2020, il tasso di crescita israeliano era all’1,8%, quello palestinese invece al 2,5%.

Numeri che non servono però a spiegare una città complessa, difficile da interpretare ed estremamente violenta. Salerno, con oggettività, punta il dito da un estremo all’altro contro chi cerca di appropriarsi della città indebitamente: Hamas, per aver lucrato sulla debolezza di alcuni dei leader e della comunità palestinese che avevano “sempre evitato di trasformare un conflitto generato dalla conquista e la spartizione di un territorio in una guerra di religione”; Israele, per la sua paura di convivere e, quindi, per la sua violenza gratuita e ingiustificata. Quasi come chi non riesce a spiegarsi quanto la “Religione”, questa “grande nuvola grigia, talvolta nera, che aleggia come una cupola sulla città”, riesca ad annientare un luogo che è stato crocevia di culture e, quindi, fedi differenti. Se lo è chiesto anche lo scrittore Avraham B. Yehoshua, che proprio a causa della spiritualità di Gerusalemme ha deciso di andarsene. Quando ritorna, non riesce a starci per più di un giorno per via della posizione che questa ha assunto a causa del nazionalismo senza freni che fa odiare agli israeliani laici “tutto ciò che simboleggia la religione”.

A Gerusalemme, architettura ed estremismo religioso hanno camminato fianco a fianco per anni. La città si è allargata, a tratti ha cambiato pelle, è diventata moderna come le teste dei suoi grattacieli rimanendo ancorata al suo passato fatto di moschee, sinagoghe e chiese. Molto spesso costruite in pietra, come le sue case, rigorosamente bianche. Il colore che è la sintesi di tutti gli altri e che doveva contraddistinguere la città, forse per sottolineare la coesistenza della diversità culturale e religiosa che la caratterizzava e che invece, oggi, rimane causa di morte.


Guerra ucraina e conflitto in M. O. Parla Eric Salerno

20 aprile 2022 – Barbara Marengo – Ytali

Con Eric Salerno parliamo della grave crisi internazionale innescata dall’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, con uno sguardo a quanto contemporaneamente accade in Israele, dove la Pasqua ebraica ha coinciso con quella cristiana e con il secondo venerdi di Ramadan, in un clima di forti tensioni. Nato a New York da madre ebrea russa e da padre italo americano, Salerno è autore di molti saggi sulle sue esperienze di inviato speciale e di corrispondente del Messaggero da Gerusalemme (il suo ultimo libro, uscito da poco, si chiama appunto Gerusalemme).

Pochi giorni fa – racconta Salerno – mi sono capitate sotto gli occhi alcune carte di mio padre, che è stato vice-direttore di Paese Sera: nel 1955 un suo commento racconta di una incursione israeliana nella striscia di Gaza che in quell’epoca non apparteneva al contenzioso israelo–palestinese ed era controllata dall’Egitto. Erano gli anni della contrapposizione tra Stati Uniti e l’Unione Sovietica e nell’analisi Michele Salerno spiegava i complessi giochi delle due superpotenze per dividersi il controllo del Vicino Oriente. Più di mezzo secolo è trascorso. L’Urss non c’è più ma i giochi vanno avanti e all’ombra del conflitto Russia – Ucraina si sono riaperti i complessi giochi mediorientali e non si sa bene dove porteranno. L’ Ucraina è in Europa quindi a noi vicina, diciamo spiritualmente, ma il Medio Oriente in fatto di chilometri è più vicino a noi (Roma dista da Kiev 2360 chilometri, e da Damasco 2283) e soprattutto è là, nel sud del Mediterraneo, che si gioca la grande partita del petrolio come abbiamo visto in questi giorni.

Gerusalemme

Oggi con una guerra in Europa quali sono le prospettive per un accordo di pace tra israeliani e palestinesi e quali le mediazioni possibili per far terminare lutti e distruzioni?
Il quadro generale che abbiamo sotto gli occhi è grave: dopo una serie di incontri proposti da israeliani e turchi come mediatori con le delegazioni Ucraina e Russa, le trattative si sono arenate e nessun colloquio è in vista. In Medio Oriente, però, i giochi vanno avanti in funzione di nuovi possibili allineamenti. Il più clamoroso salto si è visto quando un tribunale di Ankara ha deciso che il processo contro gli assassini del giornalista dissidente saudita Jamal Khashoggi ucciso nel consolato saudita a Istanbul si dovrà tenere in Arabia Saudita. Situazione a dir poco paradossale visto che persino gli Usa considerano il mandante principale dell’omicidio lo stesso principe della corona saudita. Il quale, peraltro, proprio per cercare di cambiare la posizione della Casa bianca si è rifiutato di abbassare il prezzo del petrolio come richiesto da Biden, che si preoccupa delle difficoltà interne negli USA. E a proposito di riallineamenti, i sauditi sembrano avvicinarsi alla Cina. Questi giochi diplomatici sono soltanto all’inizio e possono riscaldarsi. La questione ucraina non è finita né sappiamo quando finirà e cosa mai potrà succedere nel frattempo. Serpeggiava una certa soddisfazione a livello europeo sul fatto che probabilmente si sarebbe arrivati a un nuovo accordo con Teheran sul nucleare, mentre adesso il Presidente Biden, seguendo le pressioni che gli arrivano da Israele, ha fatto dei passi indietro e non è detto che l’accordo si faccia. E senza accordo tutto può succedere. Non mi sorprenderebbe se Israele lanciasse un attacco contro qualche istallazione iraniana, come ha fatto in passato, coinvolgendo in eventuali azioni belliche anche il Libano per schiacciare Hezbollah ed il suo arsenale.

Dunque, un quadro di grande incertezza e movimento nel quale i Palestinesi rappresentano un fattore minimo. Gli scontri sulla spianata delle moschea, le azioni terroristiche nelle città israeliane delle ultime settimane (portate avanti soprattutto da giovani frustrati che non sanno cosa fare della loro vita) la repressione israeliane con numerosi morti e feriti, sono gravi ma, al momento, soltanto una piccola turbolenza. C’è una stabilità relativa nei territori palestinesi (Cisgiordania) a vantaggio soprattutto di una élite guidata dal presidente Abu Mazen (Mahmoud Abbas) che è sempre stato contrario alla lotta armata. Al contrario di Arafat sapeva bene che i Palestinesi con i mezzi militari in loro possesso non avrebbero mai sconfitto Israele. L’anziano leader non abbandona perché sa che nuove elezioni quasi certamente porterebbero a una vittoria di Hamas che già ha il controllo della striscia di Gaza. Hamas dall’altra parte si arricchisce e si rafforza con il sostegno dei Paesi del Golfo e lo status quo attuale va bene anche, direi soprattutto, a Israele.

Detto questo tutto può succedere, un calcolo sbagliato, un attentato, come quello gravissimo avvenuto a Tel Aviv pochi giorni fa: psicologicamente terribile, perché Tel Aviv è una città che si considera e vive fuori dal conflitto, non come Gerusalemme cuore e simbolo costante della lotta dei due popoli per la stessa terra.

L’Europa per la prima volta in settanta anni si trova di fronte ad una guerra alle porte di casa: una pace nel Mediterraneo sarà mai possibile?
Il Medio Oriente non è mai stato in pace da quando Francia e Gran Bretagna, con il consenso di Mosca (c’era ancora lo zar), si divisero le spoglie dell’Impero ottomano e gettarono le basi per la creazione di Israele. Il problema dei confini usciti da colonialismo è sempre più pressante, può succedere di tutto. Oggi abbiamo una Siria a pezzi, un Iraq che cerca di sopravvivere dopo essere stata massacrata (un milione di morti) da Stati Uniti e suoi alleati, uno Yemen in guerra (c’è una tregua ma non si sa quanto reggerà), una Libia devastata, oltre al conflitto tra palestinesi e israeliani per la stessa terra. E dobbiamo riconoscere uno degli elementi, a mio parere, più dolorosi: l’Europa unita non riesce a trovare la via giusta e il Regno Unito, dopo il Brexit, ci offre la follia di Boris Johnson che ha deciso di inviare i profughi “illegali” in Ruanda, paese guidato da un regime tra i meno democratici del continente africano.

Cosa pensa dell’invio di armi così massiccio a sostegno della resistenza Ucraina?
Le armi servono per combattere. Io vorrei vedere sforzi più concreti per una tregua da parte dell’Europa che sta seguendo, in modo acritico, la politica della Casa Bianca quando appare chiaro che il presidente americano non vuole mettere fine alla guerra in tempi brevi. Siamo sicuri che gli americani vogliano negoziare? Non è che il loro vero obiettivo sia l’eliminazione di Putin e l’indebolimento della Russia e soprattutto dell’Europa?

Assistiamo a un crescendo quotidiano di uso di armi e rivendicazioni: come finirà questa guerra?
Non credo che si arriverà all’uso di armi nucleari. Le armi tattiche funzionano, richiedono più tempo. Intanto la gente muore (anche se un balletto di cifre che non coincidono), le bombe russe hanno appiattito città e villaggi, ci sono provocazioni ucraine e disinformazione che fa parte della guerra.

Tornando alla situazione in Israele, sembra di assistere ad una storia di tensione infinita, come scriveva suo padre nel lontano 1955.
In Israele la situazione politica è indebolita dalle dimissioni della deputata Idit Silman che sosteneva la mini-maggioranza del governo Bennet, ma in realtà l’idea di tornare alle elezioni non piace a nessuno. Sarà un governo fragile di fronte ad una situazione interna che si barcamena tra le richieste degli ortodossi più o meno, sotto controllo, e la difficile posizione del partito arabo che vi partecipa. Bennett sta cercando di fare un lavoro diverso da Netanyahu, che un po’ di mascalzonate ne ha fatte ma tutto sommato per il disegno di questa Israele ha portato avanti con coerenza la sua idea senza lasciarsi intimorire dall’atteggiamento dei laburisti che volevano dimostrare di essere tolleranti pur convinti che se lo Stato Palestinese non si fosse realizzato sarebbe stato meglio. Secondo questa teoria condivisa da quasi tutti, ormai, non esiste nemmeno l’ ipotesi dei due stati per due popoli. Esiste da tempo invece un piano – diciamo teorico -pratico – preparato dai militari su richiesta di esponenti politici: se arrivasse l’occasione giusta, leggi attentato massiccio contro i coloni all’interno della Cisgiordania o di Israele che possa giustificare una ritorsione in grande stile, l’esercito sarebbe pronto a spingere la popolazione palestinese al di là del Giordano.

Ora se tale piano si avverasse domattina – un attentato massiccio e la ritorsione israeliana – in questa circostanza di guerra tra Russia e Ucraina, tra Occidente e Oriente, non si opporrebbero che poche decine di politici in Italia e in Francia, nessuno negli USA, proclamando che è ora di finirla con il “terrorismo”.

Un problema secondo me per Israele, per le sue scelte interne e nei confronti dei palestinesi, sono in qualche modo le comunità ebraiche in Europa che a differenza di molti ebrei negli Stati Uniti o sono silenziose o sono schierate in maniera acritica a favore di tutto ciò che fa quel paese. Di questo si sente parlare molto in Israele. E il dibattito si collega anche a un altro fenomeno di cui si parla poco all’estero. Sono circa un milione gli ebrei israeliani che hanno scelto di vivere all’estero. Chi per motivi economici (il paese è uno dei più cari del mondo) sia per motivi ideologici e per non far crescere i loro figli in un paese sempre in guerra.


18 aprile 2022

In questa bella intervista di Luigi Spinola trasmessa da Radio3mondo Eric fa il punto sulla nuova crisi a Gerusalemme.

Quello a cui si assiste nelle strade gerosolimitane in questi giorni, come sempre, prende a pretesto la concomitanza di appuntamenti religiosi per far emergere la divisione, da cui è pervasa la città, nonostante la pietra bianca che formalmente è un fattore unitario. Dall’occupazione del 1967 in avanti la città è simbolicamente e nei fatti oggetto di divisione e erosione del territorio con l’espulsione il più possibile di ogni cultura araba nei confini di Gerusalemme, sia nella sua parte Ovest che Est. Eric Salerno ha lungamente abitato quelle vie, le ha descritte nel loro sviluppo, evidenziando l’intervento di una urbanistica sionista che piega l’archeologia con lo scopo di cancellare le tracce di culture che hanno costituito lo spirito di Gerusalemme lungo i secoli.


17 aprile 2022

Nella congiunzione astrale in cui a Gerusalemme nel plenilunio si festeggiano pesach, pasqua e ramadan Eric Salerno ha parlato del suo nuovo libro su Gerusalemme con Roberto Festa durante la trasmissione La domenica dei libri di Radio Popolare.
Da questa sorta di autobiografia da laico non credente abitante della città santa sorge subito la complessità del reticolo urbano e si evidenzia subito l’approccio critico di Eric alle scelte architettoniche di cambiamento operate in senso anche geopolitico. A cominciare dalla importanza della pietra bianca, un colore che – sembra banale, ma non lo è – lega tutti i quartieri e dovrebbe ispirare un senso di pace sia in senso religioso, sia tra le varie comunità.
Ma poi lo skyline che si affaccia alla visione di un osservatore della conca in cui è racchiusa la città vecchia è costituito da grattacieli che sottraggono fascino al genius loci, già ferito dalle due guerre (invasione giordana del 1947 e quella israeliana del 1967) che ne hanno cominciato a deturpare e ferire lo spirito fino alla attuale accelerazione della giudaizzazione di Gerusalemme Est; emblematico l’uso della creazione dei parchi in funzione di un’espropriazione gentrificatrice che serve per allontanare i palestinesi da certe zone della città: l’apoteosi dell’esegesi archeologica volta a mistificare la centralità dei luoghi. L’apartheid psico-architettonico.
Gerusalemme si pone come città dell’Intolleranza e lo si coglie proprio guardando alla differenza nell’uso delle vie di Gerusalemme Est/Ovest; e si percepisce come tra le sue vie il conflitto scorre eterno e inarrestabile: abitarci non è attraente.
Eric Salerno era intervenuto sollecitato da OGzero sul ruolo di Israele nelle guerra ucraina e in questa intervista spiega meglio la sua adesione a un documento di riconosciuti maestri del reportage da zone di guerra che stigmatizzano il modo raffazzonato e propagandistico con cui vengono riportati gli eventi della guerra in Ucraina in modo palesemente schierato, senza controllo della notizia né di ciò di cui si è testimoni.

Ascolta “Dalla Disneyland della religione alla gentrificazione dei parchi gerosolimitani” su Spreaker.


Gerusalemme. Un villaggio, una metropoli

29 marzo 2022 – Barbara Marengo – Ytali

Alla città delle tre grandi religioni monoteiste, città simbolo con tremila anni di storia e un presente dalle tante contraddizioni, Eric Salerno dedica un libro, di informazioni e di emozioni, come nel suo stile di grande reporter.
Gerusalemme
Un racconto che si snoda attraverso le pietre bianche di Gerusalemme, un racconto lungo i millenni di questa città-simbolo, un racconto scritto da chi a Gerusalemme ha abitato e attraverso le voci di testimoni ripercorre storia passata e presente della città che racchiude l’essenza delle tre religioni monoteistiche, Ebraismo, Islam, Cristianesimo: Eric Salerno, giornalista e autore di numerosi libri, di famiglia ebraica, nato a New York e cittadino del mondo, esplora il “genius loci” di questa intensa città per la collana “Le città visibili” (editore Orizzonti Geopolitici Zero).

Da villaggio a metropoli, attraverso cambiamenti urbanistici che hanno stravolto quello che era il nucleo antico della città, dove tempi, chiese e moschee intrecciano le vite degli abitanti, attori di una storia che parla di Patria sia per gli ebrei sia per i palestinesi, storia marcata da lutti e attentati, da diritti ad avere un luogo dove vivere e diritti negati, da quelle pietre bianche che Salerno descrive e osserva da vicino: città esplorata  dall’alto grazie al Timelapse di Google Earth “che consente di passare dalla visione più recente del satellite al passato”, correndo indietro nel tempo fino a mostrare com’era la Città trentasette anni fa, com’erano le sue pietre, bianche perché cosi decise, nel 1918, il responsabile del mandato britannico: pietra bianca, com’erano bianche le tavole di Mosè, chi può dirlo? Pietre usate da Davide per uccidere Golia? Pietra angolare che accompagna il cammino di Gesù in questa terra bellissima? Pietra come quella usata da Pietro per fondare la Chiesa? Pietra dalla quale il profeta Maometto è asceso al cielo?

“Pietre memoriali di vita” che corrono indietro nei millenni, pietra che in ebraico si dice “eben” e figlio si dice “ben”, stabilità della stirpe e della nazione. Bastano le pietre, oggi studiate dagli archeologi, per stabilire che Gerusalemme fu da sempre abitata da tribù di Israele? Dalla città di Salomone, mille anni prima di Cristo, fino all’estesa Gerusalemme di oggi, le pietre parlano del “conflitto che schiaccia la dimensione dei luoghi”, un conflitto di rivendicazioni, contese, luogo simbolo delle tre religioni monoteiste: dalla romana Aelia Capitolina al regno latino d’oriente, dai crociati a Saladino, dall’impero ottomano al mandato britannico, dalla guerra dei sei giorni all’oggi pieno di tensioni, “due rivolte palestinesi, un accordo di pace (Oslo) che non è mai andato oltre le prime fasi, ”scontri di civiltà”, come qualcuno ha definito l’ondata di terrorismo di stampo islamista e gli assalti folli dei “buoni” che hanno destabilizzato il Vicino Oriente e propaggini, hanno relegato i palestinesi nel dimenticatoio.

I cambiamenti urbanistici che la città ha subito in questi anni sono descritti dall’autore, fuori e dentro le mura antiche, con piani di sviluppo tesi a “emarginare” i palestinesi espulsi dalla città in una sorta di “pulizia etnica”, con occupazione da parte israeliana di villaggi palestinesi antichi trasformati in moderne  zone residenziali.

A chi appartiene Gerusalemme? Tanti sono i testimoni sentiti dall’autore, che raccontano la “loro” Gerusalemme, arabi ed israeliani, laici e religiosi, colpiti da lutti ed incomprensioni insanabili: luoghi e persone che Eric Salerno conosce bene, luoghi che negli anni hanno cambiato identità, tanto da far dire allo scrittore Avraham che non esiste più il luogo ideale dove “la città araba incontra la città israeliana, ma regna la diffidenza e il distacco tra quartieri.

Scrive Salerno:

L’equilibrio, si fa per dire, o meglio lo squilibrio tra ebrei e arabi si va rafforzando non soltanto con la foresta di grattacieli per uffici e abitazioni ma anche con la demolizione di interi quartieri e di molte vecchie case…..

Ebrei e arabi che molte volte si confondono per un aspetto fisico comune, semiti e con dna in comune, e purtroppo con lutti in comune. Uno spazio urbano, che l’autore denuncia, stravolto dalla necessità del controllo dovuto ai flussi turistici, alla natura (creazione di parchi tematici su aree palestinesi) e all’archeologia tesa a legittimare l’appartenenza antichissima al popolo eletto della città fin dai primordi, un uso “semplicistico della religione” con un eccesso di interpretazione favolistica che molti governi hanno avallato.

Religione usata in maniera ideologica, con una “ortodossia invasiva” in un “clima sociale soffocante” che molti israeliani abbandonano per vivere con meno tensioni a Tel Aviv.

Muro del Pianto, spianata delle Moschee, Santo Sepolcro, intersecati in poche centinaia di metri, dove pellegrinaggi ininterrotti di credenti si mescolano ai turisti, pietre candide e assolate, punteggiate dagli abiti rituali degli ebrei, dei frati cristiani, dei pellegrini musulmani.

E se all’interno del Santo Sepolcro i cattolici siriani, copti, armeni, etiopi, ortodossi, attorno alla pietra che ospitò il corpo di Cristo, si azzuffano per il controllo di poche porzioni di selciato, a volte a colpi di crocefisso brandito a mo’ di alabarda, come potrebbe esserci all’esterno un clima sociale disteso? La tensione si trasforma in progetti alquanto bizzarri, con dispute tra architetti disposti a cancellare presenze arabe o conciliare le differenti società. I nuovi quartieri fortezza, che sembrano veri e propri bunker a metà costa sulle colline fuori le mura, dividono i territori palestinesi con superstrade, in un eterno cantiere: un paesaggio stravolto, che Eric Salerno osserva dal monte Scopus, una foresta di gru che occhieggiano attorno alle mura antiche. Accanto a tante pietre che dividono, l’autore cita anche quelle che uniscono, come quelle che hanno edificato l’ospedale Hadassah, dove convivono e lavorano in un “melting-pot” incredibile popolazioni diverse e indispensabili l’una all’altra.

Mentre sempre le pietre, anzi il cemento dell’alto muro che divide i villaggi palestinesi dal territorio comunale di Gerusalemme, “trancia in due intere famiglie” per “ridurre il più possibile la continuità del mondo palestinese e l’idea che Gerusalemme Est possa un giorno diventare la capitale di uno stato palestinese indipendente” .

Tremila anni di storia di una città assediata 37 volte, conquistata e persa, oggi preda di immobilità negoziale che lascia tanti problemi irrisolti, e l’architettura assieme allo sviluppo urbanistico è uno di questi.

Pietra bianca che unisce e divide: idee fantascientifiche come quella che prevederebbe una cabinovia tra il Monte degli Ulivi ed il Santo Sepolcro con vista sulla valle della Gehenna, piloni e stazioni di salita e discesa, 73 cabine che ogni ora ondeggerebbero sulle antiche strade, porte, mura, monumenti, per alcuni “crimine contro Gerusalemme”.

Segui tutti i contenuti attinenti a questo Studium

L'articolo Gerusalemme proviene da OGzero.

]]> Terre (r)esistenti https://ogzero.org/studium/terre-resistenti/ Sun, 07 Feb 2021 16:18:16 +0000 http://ogzero.org/?post_type=portfolio&p=2340 L'articolo Terre (r)esistenti proviene da OGzero.

]]>

Terre (r)esistenti

L’ambizione all’autonomia e all’indipendenza del popolo saharawi, di quello curdo e di quello palestinese li accomuna nell’impronta laica e progressista e nella persistenza dell’occupazione da parte di soggetti coloniali emanazione dei vecchi imperi ottocenteschi.
La Francia protegge e collabora con il regno marocchino per approvvigionarsi dei fosfati della regione dei saharawi; Israele occupa i territori della vecchia colonia britannica sottraendo le terre ai palestinesi; i curdi sono passati dall’oppressione ottomana al controllo da parte di quattro potenze locali. Tutte queste sono terre (r)esistenti.
Questi tre popoli hanno adottato nel tempo strategie diverse che contemplano anche la lotta armata, ma parzialmente diversi sono i modelli di convivenza che vorrebbero sviluppare, pur partendo da strutture comunitarie abbastanza assimilabili.
Il confederalismo democratico curdo appare come il più avanzato per superare il concetto di stato-nazione; l’attenzione alla democrazia partecipativa del Polisario si ispira a una sorta di socialismo reale fondato anche sulle rimesse della diaspora; la sovrastruttura oligarchica palestinese è infitta nel gioco dell’occupante al punto da rendere ancora più lontana la soluzione del problema.
In tutti e tre i casi è comunque vivace il confronto su una nuova idea di comunità e in tutti e tre i casi le loro disgrazie discendono da trattati disattesi, vulnus del diritto internazionale, che ha prodotto campi profughi per intere esistenze.

60%

Avanzamento

Saharawi. E da dove arriva questo conflitto

A ridosso del rinnovo della missione Onu Minurso, da sempre bloccata dal veto francese nel suo intento di organizzare il referendum i giovani saharawi avevano cominciato a mobilitarsi per richiedere un cambiamento sfociando a fine novembre in un blocco dell’unica strada che consente il passaggio di merci e uomini tra Maghreb e il Sahel occidentale. È stato l’intervento dell’esercito marocchino che ha imposto la riapertura della via di comunicazione a riaccendere gli scontri armati.

Qualche settimana dopo l’amministrazione Trump usa il contenzioso sul territorio del Sahara occidentale per comprare l’adesione del Marocco agli Abraham Accords e infatti il re Mohammed VI ha riconosciuto Israele, ma questa è un’altra storia che è raccontata dalla serie di documentari di Tullio Togni che trovate qui di seguito.


La ricchezza che impedisce la libertà

Giacimenti di fosfati, uranio, petrolio, e la costa di questa terra tra le più pescose del mondo fanno gola da sempre: la lotta per la libertà di questa terra si è scontrata negli ultimi decenni con i trafficanti di morte (armamenti, cacciatori di risorse…) di paesi europei come l’Italia e la Francia e ora il popolo saharawi si ribella al destino e rifiuta di essere semplice merce di scambio tra le potenze internazionali.


Scongelato un conflitto postcoloniale

Le interviste a El Ajun, Sahara occidentale, a pochi chilometri dal confine con il Marocco costano l’espulsione a Tullio Togni e ai suoi compagni seguiti e fermati dai servizi marocchini. L’attività giornalistica non embedded è un reato gravissimo nel territorio riconosciuto dagli Usa di Trump.
Il dibattito politico è intenso nella democrazia partecipativa della repubblica araba Saharawi, complessa realtà riconosciuta dall’Onu e del tutto simile a una qualunque agglomerazione comunitaria di altre società, locate in territori più ospitali. Qui potete ascoltare interviste a persone che animano queste realtà di servizi gratuiti.

La libertà nelle parole degli anziani che ricordano la loro terra, le loro case e le loro capre: un concetto di ricchezza diverso e perduto per finire sudditi di un regno alieno, perdendo le radici, i sepolcri dei propri cari. Da stabili, autonomi, indipendenti improvvisamente si diventa sottomessi da un invasore che arriva con l’intenzione di commettere un genocidio. E si diventa hijos de las nubes, figli delle nuvole, oppressi.
Gli anni di cessate il fuoco hanno solo congelato una situazione favorevole al Marocco e poi è bastato un presidente suprematista a Washington per far pendere la bilancia in bilico da 28 anni. Ma già prima i giovani saharawi erano spazientiti dalla complicità dell’Onu, e il Fronte Polisario deve seguire le indicazioni del suo popolo, in maggioranza fatto da giovani, colti e preparati, senza prospettive e proiettati verso la piena indipendenza, da conseguire anche con la Guerra, perché un altro proverbio recita: «Non si gioca con la pace».

A partire dall’intervento di Trump che riconosce la sovranità marocchina sul territorio delimitato dal suo stesso muro, costruito da Israele, a cui si aggiunge il dato che vede rapporti commerciali e militari tra il regno alawida e lo stato di apartheid di Tel Aviv, si è ragionato con Tullio Togni riguardo a potenziali comunanze – evidenziando anche le eventuali differenze – tra lotte di autonomia e indipendenza che combattono da più di 40 anni per raggiungere affrancamento da colonialismo e occupazione: saharawi, curdi e palestinesi hanno molti tratti che assimilano le loro vicende.

Rifugiati Saharawi Unhcr


Trump e Biden per la Palestina pari son

Nei suoi anni di mandato presidenziale, Trump ha ascoltato e assecondato tutti i sogni della destra israeliana, ignorando del tutto il diritto internazionale, tagliando gli aiuti all’Autorità nazionale palestinese e all’agenzia Onu che si occupa dei rifugiati e infine ha affermato, come Israele, che non vanno più considerati tali. Ha proposto il cosiddetto “accordo del secolo”, che ignora praticamente ogni rivendicazione dei palestinesi. Esso prevede per loro uno stato frammentato, su modello dei bantustan sudafricani, ossia la formalizzazione dell’attuale situazione sul terreno, e quindi della colonizzazione israeliana dei territori palestinesi occupati.
Ma la propensione a votare Biden da parte della comunità ebraica americana non significa di per sé un allontanamento da Israele, anche se la spudorata identificazione di Netanyahu con Trump ha alienato almeno in parte le simpatie nei confronti dell’attuale governo israeliano. Nonostante le note differenze tra i due candidati alla Casa Bianca, sulla questione del conflitto israelo-palestinese c’è un sostanziale accordo. Le differenze sono più di metodo che di merito. Su pressione della lobby israeliana, dal programma elettorale del partito democratico è stata tolta la definizione di Israele come “potenza occupante”. Inoltre il candidato democratico ha dichiarato che manterrà l’ambasciata americana a Gerusalemme occupata e appoggerà l’accordo di Abramo promosso da Trump tra Israele e alcuni paesi arabi. Pur affermando di essere a favore della soluzione a due stati (ormai di fatto impraticabile), ha dichiarato che si opporrà in tutti i modi a ogni risoluzione dell’Onu che condanni le violazioni del diritto internazionale da parte di Israele.



Antiche strade che decidono il destino

Quaranta anni fa la colonizzazione ebraica in Palestina, a macchia di leopardo e apparentemente senza coordinamento, appariva ancora un fenomeno destinato a soccombere presto.

Architetti e strateghi militari, gli stessi pianificatori urbanistici della Gerusalemme moderna dopo la guerra del 1967 e degli insediamenti in Cisgiordania, studiarono a fondo la storia della vasta rete stradale, non soltanto regionale, degli antichi romani, che a loro volta avevano avuto come insegnanti egizi, etruschi, greci. I nuovi conquistatori (all’inizio circondati da paesi nemici) avevano bisogno di vie capaci di consentire uno spostamento rapido di truppe e mezzi militari, spesso da un fronte all’altro. Dal Sinai al Golan o viceversa. Nei territori occupati la rete, oltre a garantire il rapido schieramento di soldati e polizia, ha il compito di facilitare il movimento dei coloni e ridurre al massimo il contatto tra loro e la popolazione palestinese. Le strade, ormai autostrade, sono così diventate strumento di occupazione e di strisciante annessione



Tuareg, i curdi dell’Africa

Il cammino intrapreso dal Pkk (fino ad approdare – nel 1998 – al Confederalismo democratico) era iniziato nei primi anni Novanta (quindi prima della cattura di Öcalan) in coincidenza con la caduta del socialismo reale. Una nuova strategia che rifletteva – tra l’altro – i cambiamenti demografici avvenuti nella società curda. Dei tredici milioni di abitanti di Istanbul, ricorda la giornalista «sei milioni sono curdi» e altri quattro milioni sarebbero i curdi emigrati in Europa. Al punto che ormai, secondo Debbie Bookchin «la maggior parte dei curdi non vive in Kurdistan». Ne consegue pertanto che «la lotta principale non è più nazionale, ma sociale». In qualche modo “più attraente” anche per tutti quei soggetti oppressi e sfruttati, umiliati e offesi che – senza esser curdi – subiscono comunque il tallone di ferro dell’imperialismo e dei vari regimi.
Purtroppo le circostanze sfavorevoli non consentirono un incontro di persona tra Bookchin, già anziano e con problemi di salute, e Öcalan in carcere, spesso sottoposto a lunghi periodi di isolamento. Per cui i loro contatti si limitarono a uno scambio epistolare.
Non abbiamo a che fare soltanto con una o più organizzazioni (Ypg, Jpg, Pkk…), ma anche – soprattutto – con un popolo. Un popolo che – come altre comunità minoritarie o minorizzate (in quanto separate da artificiosi confini statali) presenti in quei territori – rischia periodicamente, se non il vero e proprio genocidio, quantomeno l’etnocidio o l’assimilazione (forzata e non). Non solo quindi i popoli presi in considerazione direttamente in questo studium ma anche le comunità limitrofe subiscono la stessa sorte, in particolare gli azawad stanziali dall’Atlante alla Tripolitania e dal Lago Chad alle dune del Ouagadou.

Il mare di Astana: il Mediterraneo


Segui tutti i contenuti attinenti a questo Studium

L'articolo Terre (r)esistenti proviene da OGzero.

]]> Antiche strade che decidono il destino https://ogzero.org/le-vie-del-controllo/ Sun, 17 Jan 2021 12:06:04 +0000 http://ogzero.org/?p=2238 Alto è sicurezza. Alto è potere. Alto domina il paesaggio e come mi illustrava nel 1980 con una nota di orgoglio il portavoce dell’insediamento israeliano tra Gerusalemme e Hebron nella Cisgiordania occupata: «da qui si vede tutto: il nostro passato, il nostro presente, il nostro futuro». Quaranta anni fa la colonizzazione ebraica in Palestina, a […]

L'articolo Antiche strade che decidono il destino proviene da OGzero.

]]>
Alto è sicurezza. Alto è potere. Alto domina il paesaggio e come mi illustrava nel 1980 con una nota di orgoglio il portavoce dell’insediamento israeliano tra Gerusalemme e Hebron nella Cisgiordania occupata: «da qui si vede tutto: il nostro passato, il nostro presente, il nostro futuro». Quaranta anni fa la colonizzazione ebraica in Palestina, a macchia di leopardo e apparentemente senza coordinamento, appariva ancora un fenomeno destinato a soccombere presto. L’Egitto di Sadat aveva firmato la pace con Israele e, si diceva, prima o poi la leadership israeliana e quella palestinese avrebbero trovato una via d’uscita dal conflitto. Due popoli si contendevano la stessa terra. Si trattava di mettersi d’accordo soltanto su un compromesso. Ma quale?

Camp David, nel 1978: Begin, Carter e Sadat

Di chi è la terra?

«Là in fondo verso il mare – insisteva il colono (termine che fa pensare a un agricoltore ma nella realtà dei territori occupati è quasi sempre tutt’altra cosa) – ci sono Ashkelon e Ashdod, due nostre antiche città. E poi… si giri. Da quest’altro lato c’è la discesa verso il mar Morto. Vede quel tracciato? È un’antica strada romana». Invece di polemizzare lanciai una provocazione. «Credo di comprendere quello che sente. Sono romano e quella strada l’hanno costruito i miei antenati. Questa terra era nostra…».

Essere ebrei dentro e fuori da Israele

L’archeologia, molto spesso al servizio dell’occupazione, conferma la vasta presenza delle comunità israelitiche nell’antichità relegando in secondo piano o addirittura nascondendo il passato delle altre popolazioni che abitavano questa terra. Quello che Bibbia e Storia non confermano è la pretesa che Israele sia “la patria storica del popolo ebraico”. A respingere questa teoria alla base del sionismo religioso è tornato recentemente uno degli uomini politici israeliani più noti e battaglieri. Avraham Burg, figlio di uno dei fondatori dello stato e del Partito nazional-religioso, ha militato a lungo nel partito laburista, è stato presidente della knesset, il parlamento israeliano, e anche presidente dell’Agenzia Ebraica, l’organizzazione israeliana che sostiene l’ebraicità di Israele e opera in stretto collegamento con le comunità ebraiche in tutto il mondo. «Il patriarca Abramo scoprì Dio al di fuori delle frontiere della Terra d’Israele, le tribù divennero un popolo al di fuori della Terra d’Israele, la Torà fu data fuori dalla Terra d’Israele, e il Talmud di Babilonia, che è molto più importante del Talmud di Gerusalemme, fu scritto fuori della Terra d’Israele. E aggiunge: “Gli ultimi duemila anni, che hanno formato il giudaismo di questa generazione, si svolsero fuori d’Israele. L’attuale popolo ebraico non è nato in Israele”».

Quando la religione costruisce le “vie” dell’occupazione

È una polemica che riguarda il mondo ebraico ma anche chi vuole comprendere origine e strategia della destra israeliana e dei suoi alleati e il furto strisciante delle terre palestinesi. Se una lettura di comodo della religione è – qui come per altri credenti – uno strumento di lotta, pianificazione urbanistica e territoriale sono le armi con le quali va avanti, in modo sistematico, l’occupazione. I vasti quartieri costruiti negli anni immediatamente successivi alla presa di Gerusalemme Est dopo la guerra del 1967 e buona parte degli insediamenti in Cisgiordania sono usciti dalle penne di architetti e strateghi militari. Per loro era essenziale un modello capace di garantire la difesa della nuova popolazione dagli attacchi dall’esterno. Questi stessi pianificatori studiarono a fondo la storia della vasta rete stradale, non soltanto regionale, degli antichi romani, che a loro volta avevano avuto come insegnanti egizi, etruschi, greci. I nuovi conquistatori (all’inizio circondati da paesi nemici) avevano bisogno di vie capaci di consentire uno spostamento rapido di truppe e mezzi militari, spesso da un fronte all’altro. Dal Sinai al Golan o viceversa. Nei territori occupati la rete, oltre a garantire il rapido schieramento di soldati e polizia, ha il compito di facilitare il movimento dei coloni e ridurre al massimo il contatto tra loro e la popolazione palestinese.

Vie di confine e di occupazione (foto di Eric Salerno)

La scuola romana: strategie di colonizzazione

I resti ancora visibili di quella via romana minore indicati dal colono ebraico sul costone dal quale si dominano mare e deserto risalgono ai primi decenni del secondo secolo d.C.. Giulio Cesare, nel 46 a.C. cominciò la presa dell’Africa e la costruzione di intere città lungo la costa meridionale del Mediterraneo. Meno di cento anni dopo la via Nerva, dal nome dell’imperatore che l’aveva ordinata, fu completata da Traiano. Collegava gli insediamenti romani d’Occidente con Alessandria d’Egitto e con la rete viaria che li legava alla Palestina, sul mare, e ai monti e ai deserti all’interno dell’Arabia. Poco meno di duemila anni dopo, i genieri israeliani, hanno seguito gli insegnamenti della scuola romana nel tracciare, a partire dal 1967, la prima grande arteria voluta dal progetto politico dei laburisti per il futuro dei Territori. La Via Allon scorre da Nord a Sud lungo le montagne di Samaria e Giudea. Il suo nome si rifaceva a Yigal Allon, politico e militare israeliano. Il suo scopo era chiaro. Metteva in conto l’eventuale restituzione alla Giordania di parte dei territori occupati salvo Gerusalemme e un vasto corridoio di terra lungo le rive del fiume Giordano per garantire a Israele una minima profondità strategica rispetto ai paesi con cui era formalmente in guerra. Mentre la piattaforma del Likud, il partito di centro di cui oggi Netanyahu è il leader e l’esponente più noto, ha sempre rivendicato per lo stato d’Israele tutto il territorio tra il Mediterraneo e il Giordano, i laburisti apparivano disposti a negoziare anche se ritenevano che per la difesa del paese era necessario annettere almeno una parte, non densamente popolata, della Cisgiordania. Il piano Allon gettò le basi per la situazione attuale in quanto stabiliva la creazione in quel “corridoio” di insediamenti agricoli e residenziali. Dal 1967 al 1977 i governi laburisti, spronati da Shimon Peres – premio Nobel con Rabin e Arafat per gli accordi di Oslo – ne autorizzarono ben ventuno accanto agli avamposti militari, tutti in alto, come Masada. L’antica fortezza che domina il mar Morto e fu scelta, curiosamente, come simbolo della eroica resistenza ebraica antica ai romani: secondo la storia tramandata, i suoi difensori, ribelli contro l’occupazione, si uccisero per non finire in mano ai conquistatori.

La scuola romana: la rete viaria in tempo tra pace e guerra

Israele-Palestina, un pezzo di ciò che i cristiani conoscono come Terra Santa, è intrisa di richiami religiosi e altri legati alle conquiste antiche e meno. In Marco 8:27 si legge: «Poi Gesù partì con i suoi discepoli verso i villaggi intorno a Cesarèa di Filippo; e per via interrogava i suoi discepoli dicendo: “Chi dice la gente che io sia?”». La “via” era un antico tracciato romano poche centinaia di chilometri a nord di Masada. Collegava la Galilea con Damasco, il centro amministrativo di Roma, passando dalle alture del Golan, terra siriana che gli israeliani hanno annesso e colonizzato. Coltivazioni, colonie agricole, tanto filo spinato, campi ancora minati e scavi archeologici per dimostrare che gli ebrei abitavano l’altopiano strategico millenni fa. La linea di confine, disegnata da Gran Bretagna e Francia nel 1924, per definire Libano, Israele-Palestina e Siria, segue un tracciato di una delle più importanti arterie della rete stradale romana che tra Mediterraneo e fiume Giordano raggiungeva una lunghezza di mille chilometri. Nel 1983, sottolineando come quella rete fu probabilmente il più importante progetto dell’amministrazione imperiale romana, Israel Roll, uno dei maggiori archeologi israeliani, pubblicò un sommario delle ricerche fatte dagli studiosi a partire dall’Ottocento. «Come per molti imperi – sottolineava – le preoccupazioni maggiori di Roma riguardavano l’amministrazione della provincia nei periodi di calma, e l’organizzazione e trasporto di unità militari alle aree chiave nei momenti di guerra e ribellione». Israele ha imparato la lezione.

“Alto” è potere, sicurezza, controllo

In cima a un’altura sul Golan che si affaccia sulla linea d’armistizio e alcune cittadine siriane, accanto a una postazione della forza di pace dell’Onu e a un bar-ristorante per turisti e pellegrini, gli israeliani hanno piantato un palo con le distanze delle città vicine e più distanti. È là per indicare insieme paura e aggressività anche se, come confermano gli stessi generali israeliani, pochi pensano più a scontri ravvicinati: carri armati e forze di terra sono stati ridotti a favore di droni e missili. E questo, in qualche modo, dovrebbe ridurre anche la giustificazione israeliana per l’occupazione del territorio palestinese come cuscinetto difensivo contro il mondo arabo.

“Alto” è controllo (foto di Eric Salerno)

L’autostrada per l’annessione: il progetto di dominio

Le strade, ormai autostrade, sono così diventate strumento di occupazione e di strisciante annessione della Cisgiordania. Yehuda Shaul, come quasi tutti gli israeliani, ha fatto il servizio militare. È oggi è uno dei leader del movimento per la pace. «Tutti sono convinti che l’annessione della West Bank sia stata congelata con la firma degli accordi di normalizzazione con gli Emirati arabi uniti ma in realtà Israele continua ad accelerare i lavori sull’autostrada per lannessione attraverso lo sviluppo di infrastrutture che consentiranno di raddoppiare il numero dei coloni e di solidificare per sempre il nostro controllo sul popolo palestinese». Pochi giorni dopo la presentazione della sua denuncia, è arrivata da B’Tselem, l’ong ebraica per i diritti umani un’altra denuncia: «Non c’è metro quadrato tra il fiume Giordano e il Mediterraneo in cui un palestinese e un ebreo siano uguali». E per la prima volta l’organizzazione parla apertamente di apartheid. L’accusa è stata subito definita antisemitismo puro. Il nuovo piano urbanistico e stradario per la Cisgiordania occupata, però, sembra confermare l’imposizione e le paure dei pacifisti israeliani. Per almeno due motivi. Da una parte le autostrade in costruzione o già funzionanti creano corridoi e spazi separati per le due popolazioni. Dall’altra, la rete nuova sarà collegata a quella israeliana, sempre più vasta, per consentire un legame diretto tra le comunità all’interno della “linea verde” – i confini finora riconosciuti di Israele –- e quelli dei coloni nei territori occupati.

La conquista dell’Arabia e di quella parte del Vicino Oriente – da Gaza al Libano e nell’interno fino ad Aqaba, sul mar Rosso, e Petra nel deserto della Giordania – non fu formalmente festeggiata da Roma se non dopo il completamento della via Traiana Nova negli anni 120. Soltanto da allora cominciarono ad apparire monete con l’effige di Traiano su un lato, e sull’altro un cammello. Israele non ha ancora completato il suo progetto di dominio su tutto il territorio dal mar Mediterraneo al fiume Giordano.

L'articolo Antiche strade che decidono il destino proviene da OGzero.

]]>
Un complesso militar-industriale rinnovato e senza remore https://ogzero.org/nuovi-armamenti-e-suk-dell-usato-sicuro/ Thu, 12 Nov 2020 14:36:10 +0000 http://ogzero.org/?p=1722 A volte ritornano… le tangenti Lockheed Guerra e Pace. Pace e guerra. Distruzione e ricostruzione. Elementi fondamentali delle economie e delle contorte politiche mondiali. Appena incassati i cosiddetti “Accordi di Abramo” tra gli Emirati arabi e Israele, Donald Trump ha informato il Congresso della sua intenzione di vendere al piccolo stato arabo di fronte all’Iran […]

L'articolo Un complesso militar-industriale rinnovato e senza remore proviene da OGzero.

]]>
A volte ritornano… le tangenti Lockheed

Guerra e Pace. Pace e guerra. Distruzione e ricostruzione. Elementi fondamentali delle economie e delle contorte politiche mondiali. Appena incassati i cosiddetti “Accordi di Abramo” tra gli Emirati arabi e Israele, Donald Trump ha informato il Congresso della sua intenzione di vendere al piccolo stato arabo di fronte all’Iran 50 caccia-bombardieri Lockheed Martin F-35-II, per una cifra che potrebbe aggirarsi attorno ai 10 miliardi di dollari (8421514000,00 euro). L’operazione ha bisogno dell’approvazione del Congresso e, indirettamente, di Israele che per bocca del suo premier Netanyahu, amico e complice del presidente uscente che farà i bagagli a fine gennaio, ha chiesto soltanto di far in modo che venisse mantenuto, come da accordi ormai consolidati dalla legislazione Usa, la superiorità militare del suo paese su tutte le altre nazioni arabe e del Vicino Oriente. E per mantenere questa superiorità serviranno nuove armi. Un funzionario della difesa israeliana ha atteso soltanto la conferma ufficiosa della sconfitta di Trump per dire al “Jerusalem Post” che non appena sarà possibile Tel Aviv vuole negoziare un nuovo pacchetto multimiliardario di assistenza militare da mettere in coda a quello stilato con Barak Obama e che scade nel 2027. Sicuramente dovrà tenere in considerazione la corsa degli arabi al F-35 e l’enorme quantità di armi acquistate dall’Arabia saudita negli ultimi anni. Sono stati che Israele considera alleati nella guerra all’Iran ma di cui si fida poco soprattutto per quanto riguarda la stabilità dei loro regimi. Stati clientelari per gli Usa che vi hanno basi militari importanti e che con i loro petro/gas-dollari continuano ad arricchire l’industria bellica americana. Spesso contro la volontà di una parte dell’establishment Usa, apparentemente incapace di contrastare la Casa bianca. Nel giugno di quest’anno l’Ispettore generale del Dipartimento di Stato (ossia il ministero degli esteri) fu licenziato su due piedi da Trump. Il presidente lo aveva scoraggiato dall’indagare sulla massiccia vendita di armi all’Arabia saudita portata avanti nonostante l’opposizione di una parte del Congresso. Il Regno era nel mirino dei parlamentari per il suo ruolo criminale nella guerra in Yemen; per l’assassinio del giornalista del “Washington Post” Jamal Khashoggi; e anche per i finanziamenti diretti o indiretti a organizzazioni islamiste collegate al terrorismo internazionale antioccidentale.

Nuovi armamenti sofisticati e suk dell’usato sicuro

È presto per capire cosa Joe Biden, sostenitore senza incertezze d’Israele, cambierà nella confusa politica Usa nei confronti di quella regione. È probabile un ritorno ai negoziati sul nucleare con l’Iran e forse ci sarà qualche passo per fermare l’idea – la “Abraham Peace” perorata da Trump e dal suo entourage di ebrei americani vicini a Netanyahu e alle sue idee estremiste – di mettere fine al conflitto arabo-israeliano, abbandonando completamente il popolo palestinese a un destino incomprensibile. Non è detto, però, che il Congresso bloccherà la vendita degli F-35 agli Emirati: non ha mai vietato una vendita già decisa al livello governativo. Di sicuro, se come probabile andrà avanti, favorirà una rinnovata corsa a nuovi più sofisticati armamenti da parte di tutti i giocatori, grandi e minuscoli, della regione. E con l’arrivo delle nuove armi, si movimenterà il solito grande suk dell’usato che come più di una volta in passato potrebbe portare armi “superate” ma più che efficienti nelle mani dei nemici degli Usa e dell’intero mondo occidentale.

Un filo di acciaio imbastisce l’industria bellica con la politica americana

Donald Trump, a differenza del suo predecessore Barak Obama, responsabile quanto meno della devastazione della Libia e, in qualche modo, anche della Siria, mantenendo le sue promesse pre-elettorali non ha avviato nuovi conflitti ma questo non significa che non abbia mantenuto quello stretto rapporto che da anni lega il mondo degli armamenti alla politica americana. E non solo americana. Oltre mezzo secolo dopo il famoso discorso-ammonimento d’addio dell’allora presidente Usa Dwight D. Eisenhower, i timori del generale passato alla politica sono diventati una realtà che influisce su tutti gli inquilini della sala ovale. E su chi aspira ad abitarci.

Dwight D. Eisenhower

Image from the broadcast of President Dwight D. Eisenhower and his farewell address to the nation on January 17, 1961, from the White House in Washington, D.C. (National Archives)

«Nei concili di governo dobbiamo guardarci dall’acquisizione di influenze che non diano garanzie, sia palesi che occulte, esercitate dal complesso militare-industriale. Il potenziale per l’ascesa disastrosa di poteri che scavalcano la loro sede e le loro prerogative esiste ora e persisterà in futuro».

Ike didn’t like weapons?

Pochi allora vollero attribuire molta importanza a quelle parole di Eisenhower – il generale che aveva portato alla vittoria l’alleanza contro il nazifascismo – pronunciate il 17 gennaio 1961 nel momento in cui stava lasciando la Casa bianca. Era stato eletto nelle liste del Partito repubblicano, lo stesso di Donald Trump e di altri outsider alla politica come l’attore Ronald Reagan, di ben altro spessore grazie a una squadra di consiglieri più capaci. Ike, così era chiamato da tutti, era l’uomo più popolare degli Stati Uniti. Sei anni prima, il 17 giugno 1945, mia madre volle portarmi – avevo sei anni – dalla nostra casa nel Bronx fino a Manhattan per essere con i quattro milioni di americani che accolsero al suo ritorno negli Usa l’eroe della guerra. Indossavo orgoglioso una giacca “modello Ike” – di moda perché era stato adottato dal generale e da molte truppe – che la mamma aveva tagliato e cucito con le sue mani.

Per Eisenhower, furono sufficienti i due mandati, otto anni, alla Casa Bianca, per comprendere i rischi insiti in un’industria bellica capace di influenzare la politica di una grande potenza come erano diventati gli Stati Uniti. Voleva un’America in grado di difendersi dagli orrori che aveva visto con i suoi occhi in un’Europa devastata dalla ferocia delle menti e delle armi ma nutriva molto più di un sospetto sul mostro che era cresciuto in casa per combattere quei mali.

«Un elemento vitale nel mantenimento della pace sono le nostre istituzioni militari. Le nostre armi devono essere poderose, pronte all’azione istantanea, in modo che nessun aggressore potenziale possa essere tentato dal rischiare la propria distruzione…

Questa congiunzione tra un immenso corpo di istituzioni militari e un’enorme industria di armamenti è nuovo nell’esperienza americana. L’influenza totale nell’economia, nella politica, anche nella spiritualità è sentita in ogni città, in ogni organismo statale, in ogni ufficio del governo federale. Riconosciamo il bisogno imperativo di questo sviluppo. Ma tuttavia non dobbiamo mancare di comprenderne le gravi implicazioni. La nostra filosofia ed etica, le nostre risorse e il nostro stile di vita sono coinvolti; la struttura portante della nostra società.

Non dobbiamo mai permettere che il peso di questa combinazione di poteri metta in pericolo le nostre libertà o processi democratici. Non dobbiamo presumere che nessun diritto sia dato per garantito. Soltanto un popolo di cittadini allerta e consapevole può esercitare un adeguato compromesso tra l’enorme macchina industriale e militare di difesa e i nostri metodi pacifici e obiettivi a lungo termine in modo che sia la sicurezza che la libertà possano prosperare assieme».

Corruzione e finanziamenti nel traffico di armi

I rischi insiti nella politica degli armamenti Usa sono stati documentati e denunciati nel 2018 da uno studio approfondito di due ricercatori – A. Trevor Thrall e Caroline Dorminey – del Cato Institute: Risky Business: The Role of Arms Sales in U.S. Foreign Policy. Tra i pericoli illustrati e ampiamente documentati, le situazioni di guerra in cui le armi americane vendute a “paesi amici” finiscono nelle mani di nemici degli Usa e vengono usate contro le truppe americane. Il caso recente più clamoroso riguarda l’Iraq dove interi arsenali hanno armato gruppi di islamisti in lotta contro le forze occidentali in quel paese.

Tangenti Lockheed Martin nei decenni

Corruzione e finanziamenti sono all’ordine del giorno nel mondo degli armamenti. Per restare nella regione che ci interessa, Netanyahu e alcune personalità israeliane del mondo militare e civile sono sotto inchiesta per tangenti che sarebbero state pagate per un affare miliardario di sommergibili tedeschi. Qualcuno si chiederà se l’affare degli F-35 e le massicce vendite di armi all’Arabia saudita in questi ultimi anni sono servite a rafforzare economicamente le campagne elettorali del presidente uscente o di altri politici impegnati nelle lunghe costose campagne per presidenza, congresso e senato. Ipotesi basate su fatti avvenuti in passato. Gli stessi costruttori degli F-35 furono incriminati negli anni Settanta quando il Congresso americano accertò che la corruzione era un sistema diffuso da parte della Lockheed Corporation e della più piccola Northrop. Nel 1976 il “New York Magazine” scrisse che il senatore Church, capo della commissione d’inchiesta, «ha prove che la Lockheed ha pagato tangenti in almeno quindici paesi, e che in almeno sei paesi ha provocato gravi crisi di governo». L’Italia fu una di questi. Mario Tanassi, ministro della difesa, fu silurato per aver intascato una tangente di 50000 dollari su circa 2 milioni di dollari, destinati dalla Lockheed alla corruzione in Italia. Furono condannati anche il generale dell’aeronautica Duilio Fanali, il segretario di Tanassi Bruno Palmiotti, i faccendieri Ovidio Lefebvre e Antonio Lefebvre, e il presidente di Finmeccanica Camillo Crociani.

Nuovi armamenti e suk dell’usato sicuro

Torniamo in Vicino Oriente e dintorni. Non soltanto perché è il più grande mercato di armi di ogni tipo ma perché è il perfetto testing-ground, il terreno su cui le armi nuove possono essere sperimentate prima di finire sulla linea di produzione e poi sul mercato. Usa, Russia, Francia e Israele sono qui in prima linea. In tutti i sensi. Secondo una delle più recenti ricerche del Stockholm International Peace Research Institute (Sipri), nella regione in guerra – dalla Siria, allo Yemen, dall’Iraq alla Palestina e poi al più distante Sud Sudan – le commesse sono aumentate del 61 per cento dal 2015 al 2019. Gli Usa sono in cima alla lista dei venditori lì e nel mondo: hanno ben 96 paesi-clienti. La Russia, ex superpotenza, ha perso una fetta importante del mercato dopo che l’India con un leader nazionalista di destra ha stretto rapporti con Israele dove ha trovato non soltanto una politica simile ma anche una delle più grandi, moderne e immorali delle industrie belliche pronte a vendere senza fare troppe domande. Nel maggio 2019 Amnesty International ha sottolineato che le armi israeliane vengono vendute a nazioni notoriamente colpevoli di violazioni dei diritti umani delle proprie popolazioni come Myanmar, Filippine, Sud Sudan e Sri Lanka. Negli ultimi mesi, bombe a grappolo israeliane, vietate dalle convenzioni internazionali, hanno seminato morte e feriti nella regione del Nagorno-Karabakh contesa tra Azerbaijan e Armenia. Grazie a testimonianze raccolte da giornalisti e analisi delle immagini dei bombardamenti nella capitale dell’autoproclamata repubblica dell‘Artsakh, Stepanakert, gli esperti di Amnesty hanno potuto confermare l’uso di bombe a grappolo di tipo M095 Dpicm, di fabbricazione israeliana. «Vecchi stock», hanno risposto da Tel Aviv per difendersi dalle critiche in uno scacchiere in cui le sue alleanze sono confuse. La guerra è guerra: la logica del potente apparato militare-industriale israeliano è strettamente controllato e gestito ai massimi livelli del governo.

Ma, ancora più importante della disponibilità a non fare domande o giudicare chi deve comprare, Israele offre (anche rispondendo a richieste specifiche quando possibile) di provare le armi nei conflitti dietro casa, da Gaza al Libano, alla Siria. Ci sono segnalazioni di richieste precise da parte di paesi acquirenti (gli Usa tra questi) perché certe armi sofisticate (come i droni e i loro armamenti ormai entrati in prima linea nelle moderne guerre) vengano usate in combattimento e approvate prima di finire sul mercato. La distruzione senza senso di abitazioni e altri edifici nella striscia di Gaza è spesso servita a questo scopo. E c’è chi – in Israele e fuori – vorrebbe assistere ad almeno uno scontro limitato con il meglio armato Hezbollah in Libano per mettere alla prova nuove generazioni di ordigni contro i bunker in profondità.

Nel 2017 le esportazioni di armi israeliane hanno raggiunto la cifra record di 9 miliardi di dollari. Questo non include il reddito delle società paramilitari che operano nel settore dell’informatica e della sicurezza. Un settore accusato di aver collaborato con regimi noti per i loro bassi voti nel rispetto dei diritti dei loro cittadini. E di spiare anche paesi amici.

L'articolo Un complesso militar-industriale rinnovato e senza remore proviene da OGzero.

]]>