Pakistan Archivi - OGzero https://ogzero.org/tag/pakistan/ geopolitica etc Mon, 13 Nov 2023 22:32:04 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.4.6 Lettera22: luoghi e tempi per immaginare il sequel https://ogzero.org/lettera22-luoghi-e-tempi-per-immaginare-il-sequel/ Thu, 09 Nov 2023 16:17:25 +0000 https://ogzero.org/?p=11838 Nell’estate 2023 è uscito dopo una accorta e lunga gestazione, il numero zero di “Lettera22”, manifestazione in forma di rivista del consorzio omonimo di giornalisti indipendenti in occasione del trentennale della creazione del gruppo di professionisti che testimoniano la realtà dove si svolge, essendone esperti di lunga data. La produzione è descritta nell’editoriale come “lento […]

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Nell’estate 2023 è uscito dopo una accorta e lunga gestazione, il numero zero di “Lettera22”, manifestazione in forma di rivista del consorzio omonimo di giornalisti indipendenti in occasione del trentennale della creazione del gruppo di professionisti che testimoniano la realtà dove si svolge, essendone esperti di lunga data.
La produzione è descritta nell’editoriale come “lento ruminare” che racconta l’addensarsi dell’esplorazione dello spazio scritto a specchio di quella dei luoghi dove gli eventi, liberati dalle colonne della cronaca geopolitica, fuoriescono per costituire i capitoli di un libro in forma di magazine; l’oggetto dell’esplorazione diventa così una “terra di mezzo”, come esplicitano gli autori che rivendicano l’ibridazione delle forme narrative: dalla graphic novel al saggio sociologico, dal reportage di viaggio al racconto storico immerso in un orto o in un aeroporto al momento dello scoppio di una “operazione militare speciale”… rigoroso, circostanziato, preciso, eppure godibile per la creatività spontanea.
Rilegate in una confezione raffinata le storie graficamente impreziosite dei complici dell’Associazione di giornalisti indipendenti ci portano a spasso per il mondo con storie che si dipanano tra Corno d’Africa e Sudest asiatico, dal preludio al ritorno dei Talebani in Afghanistan all’Italia del fascismo – quello precedente e parallelo alla contemporanea invasione nazista della Serbia descritta nei disegni inediti di Zograf

Alla fine della lettura abbiamo pensato che valesse la pena tornare su alcuni dei luoghi evocati nel libro-fascicolo: ciascuno degli interventi è corredato da un Secondo Tempo, ci sembra che un buon approccio per OGzero per interpretare l’utilità di questa formula editoriale – e proporne un processo di lettura in sintonia con gli obiettivi di entrambe le testate – sia quello di partire dalla realtà in cui si stanno evolvendo ora i processi che troviamo in nuge tra le righe di questo volume e rintracciarvi le tracce o i prodromi; una sorta di Terzo tempo che ritorna sulla meditazione dei testi proposti per rilanciarne la attualità che li ribadisce.


In the mook del giornalismo indipendente

Gli afgani collaterali

Il fascicolo si apre sul quartiere del Politecnico di Kabul dopo il ripristino della shari’a, ma la storia rievocata da Giuliano Battiston insieme al padre della vittima, a cui le illustrazioni pointilliste di Giacomo Nanni conferiscono cromatismi psichedelici, percorre il 3 maggio 2009 una strada vicino a Gozarah…

Illustrazione di Giacomo Nanni

Ora si è richiuso il sipario sul paese abbandonato dalla Nato definitivamente due anni fa, ma quell’episodio di sprezzo per la vita delle popolazioni civili autoctone da parte del contingente italiano ai tempi in cui Ignazio Benito era ministro della Difesa rimane irrisolto e il generale Rosario Castellano ha potuto andare in pensione come generale di corpo d’armata il 28 giugno 2023 senza macchia e con tutti gli onori; solo un ulteriore episodio del corollario di collateral damage, perla lessicale eufemistica coniata da Bush per le stragi perpetrate dagli eserciti alleati. Nei vent’anni di occupazione euro-americana l’Afghanistan è stato oggetto di aiuti che servivano di più alle organizzazioni e istituzioni occidentali, che hanno gestito il paese in maniera diversamente coloniale, spesso con disprezzo per una cultura che nessuno ha voluto conoscere e che le truppe non incrociavano nell’apartheid armato che vigeva e che causò l’omicidio al centro della ricostruzione di Battiston. Il risultato è la diffidenza restituita dagli afgani che si sono sentiti presi in giro e non hanno trovato motivi per resistere al ritorno dei Talebani a seguito di una nuova fuga dopo quelle dei britannici del Great Game e del generale Gromov, mentre attraversava il ponte della Fratellanza, prima crepa sul muro dell’imperialismo sovietico. Le condizioni del paese fanno da sfondo alla precisa restituzione della testimonianza del padre della vittima effettuata da Battiston e si ripresentano invariate: la situazione delle carceri, le spie, l’economia dell’oppio dell’Hellmand sostituita dalla produzione di metanfetamine, la prevenzione inesistente per i disastri dei terremoti (con il corredo di migliaia di morti nell’autunno delle province dell’Ovest), proprio dove operava quel contingente italiano.

OGzero ha frequentato spesso la tragedia afgana e raccolto i racconti dei ragazzi, le cui radici affondano in quella cerniera tra mondo persiano, continente indiano e corridoi per le merci dal mondo cinese al di là dell’Himalaya, da dove sono espatriati quasi vent’anni fa, mantenendo forti contatti con le famiglie, tornando tutti a sposare donne scelte dal clan, a volte ancora nelle case avite di Ghazni, in altri casi già trapiantati a Quetta fin dalla disfatta sovietica. La novità di questo periodo è quella che la diaspora di un popolo espulso dalle sue terre non ha fine e il governo pakistano ha decretato la cacciata degli afgani dal proprio territorio, adducendo il pretesto che molti degli attentati jihadisti sono attribuibili a profughi afgani.

 

 

Ma proprio quei ragazzi hazara ci invitano ad approfondire chi sarebbero quel paio di milioni di afgani che devono lasciare il Pakistan e la loro destinazione, per comprendere meglio il disegno che potrebbe nascondersi dietro il loro rimpatrio. Innanzitutto i senza documenti afgani non stanno a Quetta, ma a Nord e i Talebani afgani saprebbero già dove collocarli: sarebbero destinati al territorio confinante con il Tagikistan e l’Uzbekistan, perché nella regione a maggioranza tagika e uzbeca scarsi sono gli islamisti e la deportazione dei pashtun molto probabilmente affini ai talebani servirebbero a diventare maggioranza in un territorio in cui si è completato un canale, il Qosh Tepa, che dirotta le acque del Amu Darya, in grado di irrigare i terreni desertici e poco abitati, dando opportunità di lavoro a comunità poco rappresentate in zona. Ma soprattutto possono esportare nei paesi limitrofi il radicalismo islamista caro ai talebani, e in particolare l’Uzbekistan potrebbe essere a rischio di infiltrazione, ovvero la nazione a ridosso della quale si trova l’area più arretrata dell’Afghanistan, quella con minori risorse.

Mappa tratta dal volume La grande illusione (Rosenberg &Sellier, 2019)

A proposito di deportazioni e diaspore capitano a fagiolo due dei racconti del “Secondo tempo” di “Lettera22”, quello che vede protagonista Ahmad Naser Sarmast, fondatore dell’Istituto nazionale di musica, chiuso dai talebani provocando la fuga all’estero delle allieve musiciste e il breve racconto da Kandahar, la capitale delle melograne, dove il conflitto si fece aspro quando gli americani precipitosamente restituirono il paese all’oscurantismo e gli agricoltori dovettero abbandonare case e terreni. Ora «la guerra è finita e siamo tornati a lavorare i campi».

Questo avviene più al Sud del paese; al Nord si stanno preparando penetrazioni del jihad verso le repubbliche centrasiatiche, attraverso una possibile “sostituzione etnica”; proprio le due repubbliche che Francia e Unione europea hanno preso in considerazione per imbastire una rete di relazioni commerciali, in alternativa alle risorse minerarie di cui non riescono più ad approvvigionarsi in Africa. E il viaggio di un paio di giorni di Mattarella a Samarcanda non può non avere risvolti strategici in questo senso.

Una serie di dubbi di una serie con troppi spunti e ipotesi, che proprio il cofondatore di “Lettera22” ci aiuta a ricomporre in questo podcast:

“L’ingombrante presenza afgana in Pakistan risolta con l’espulsione?”.

 

Il giornalista a una dimensione: quella in viaggio

Uno dei fili rossi del numero zero di “Lettera22” si può individuare nel reportage, talvolta seguendo itinerari di camminanti alla scoperta di territori; più spesso i paesaggi sono di conflitti e talvolta di intrichi delittuosi; in altri casi si tratta di semplici brevi spostamenti nello spazio, ma sprofondati nell’utopia delle performance voguing inseguita in Germania o dislocamenti lontani nel tempo a disvelare delitti irrisolti nella Lucania insurrezionale postborbonica. Appassionanti comunque, non ci soffermiamo su questi apporti contenuti nel fascicolo solo perché il nostro ambito è già fin troppo ampio delimitandolo alle questioni geopolitiche.

La tassonomia coloniale come classificazione della specie

Illustrazione di Adriana Marineo

Un approccio neanche tanto nascosto tra le pieghe dell’intelligente apporto di Paola Caridi che mette al centro la Sicilia, quella dell’annuncio mussoliniano dell’impero dell’agosto 1937– sembra di assistere ancora una volta alle immagini dell’Istituto Luce – quello dalla vicina Libia e del remoto Corno d’Africa. Entrambe aree non a caso in fibrillazione: 120 anni di storia di un colonialismo (e protettorato dell’Agip/Eni) straccione hanno prodotto scollamento e odio intercomunitario come eredità delle nefandezze. La Sicilia al centro geografico dell’impero che rende colonialismo l’emigrazione, e ora diventa testimonianza di ciò che di quella Palermo hanno lasciato i bombardamenti: Villa Giulia e l’Orto botanico – “colonizzati” ora per contrappasso dall’immigrazione bengalese per praticare il cricket. Quella Sicilia al centro dello schieramento strategico Nato nel Mediterraneo: Sigonella, il Muos… come racconta un altro complice di “OGzero” e “Lettera22”, Antonio Mazzeo.

Come si vede s’intrecciano in poche pagine serie di argomenti che regolano i rapporti mondiali tuttora, affondando le radici in quel precedente regime fascista – e in quell’altra Guerra mondiale –, retaggi della storia che tornano, evocati da quei luoghi che nella storia hanno rappresentato le stazioni di molte tappe. Anche se ora il Giardino coloniale non esiste più fisicamente, però le piante dell’Altro ci hanno conquistato, dimostrando come si ripeta la seduzione eclettica della cultura aliena che aveva ellenizzato la vittoria militare della Roma antica. Ma soprattutto l’aggettivo del Giardino è importante nell’evoluzione dell’articolo di Paola Caridi che si può gustare da pagina 68 di “Lettera22” numero zero: l’approccio coloniale dell’Italia fascista rispunta nella sua brutalità come la gramigna sulla falsariga di britannici e soprattutto degli olandesi descritti da Amitav Gosh a proposito della noce moscata. Scrive l’estensore del saggio:

«L’agricoltura coloniale doveva imporre alle comunità native un modo di coltivare secondo la nostra impostazione agricola. Allo stesso tempo doveva formare tecnici italiani capaci di coltivare le specie locali», a cui nel trasporto in “patria” gli scienziati italiani avevano persino cambiato nome a piante che loro ritenevano di aver “scoperto” e riconducendole alla sistematica classificazione linneana, ma che stavano lì da sempre, con quell’atteggiamento che Gerima, il regista etiope, stigmatizza da sempre: l’imposizione di un punto di vista culturale esogeno che fa della “integrazione” delle Species plantarum un paradigma per quella delle “razze”, per dirla alla Almirante. E infatti nell’articolo di Caridi lo spostamento dall’Orto botanico palermitano a quello romano trova protagonista una donna di origine somala, lingua letteraria italiana e «cosmogonia botanica complessa», che mette in relazione lo stato «sofferente, striminzito, piccolo» di una pianta d’incenso, che erano le stesse condizioni in cui si sentiva l’animo della donna; per poi tornare all’Orto siciliano e lì ritrovare gli insegnamenti paterni e l’originario nome della coltura. Le jacaranda palermitane però sono solo una “citazione lontana” delle strade di Gaza… quando esisteva ancora: forse per non offuscare la bellezza della copia si è operato in modo da cancellare l’originale.

In questa tassonomia non poteva mancare la supponenza bonapartista della reinterpretazione in chiave orientalista della cultura dei popoli attraversati dalle armate francesi:

«Dare un nome alle piante significa non soltanto appropriarsene, ma cancellare completamente una storia. È la storia all’interno di un preciso ecosistema che viene resa invisibile, anche attraverso il “nominare”. E assieme a questo battesimo non richiesto ci son le ramificazioni scientifiche, mediche, culturali».

Le stesse usate da Bonaparte: è la cancellazione degli eventi precedenti all’arrivo del colonizzatore, in modo da restituire una verginità culturale su cui imbastire una narrazione occidentale che faccia sue le risorse altrui. Il pessimo ultimo colonialismo italiano si insediò con le scuole di agraria. Sempre meglio che esternalizzare lager in Albania.

Quel treno per Yunnan

E questo “orientalismo” ci consente di salire insieme a Emanuele Giordana sul Cina-Laos Express, senza provare l’ebbrezza del viaggio verso le terre evocate dall’Orient Express.

Mappa di Andrea Bruno

L’estensore aveva accennato a questo percorso già in un intervento radiofonico (dal minuto 45 di questo podcast) in cui illustrava con evidente ammirazione il percorso ferroviario che porta da Kunming nello Yunnan cinese a Singapore, attraverso Vientiane. Un ramo di quella rete di trasporti che i cinesi hanno inserito nella Belt Road Initiative per omogeneizzare e far crescere l’Asean, aggirando il chockpoint potenziale dello Stretto di Malacca:

“Il mattatoio birmano dopo 2 anni: dati, analisi, prospettive allargate all’Asean”.

Subito il pezzo di Emanuele Giordana si dipana dalla capitale del Laos, ma anche sollevando il velo del tempo sulla prima esperienza degli anni Settanta: facile il confronto… anche perché allora persino la Thailandia era coinvolta dagli Yankee nella guerra al Vietnam. Gli spostamenti e l’attraversamento come sempre relativi alla situazione epocale si alternano nel racconto che è sempre avventura: in questo caso si trascorre da ricordi “stupefacenti” di rivoluzioni e sostanze, monaci e Ak-47, bombe e principi rossi, a taxi carissimi e le difficoltà a muoversi autonomamente; cimeli museali di chemins de fer e “scommesse” (arriveremo a Boten in una delle tappe del treno: «centro del gioco d’azzardo con annessi e connessi») cinesi sul futuro avamposto laotiano, trascorrendo dal periodo coloniale classico al neocolonialismo, attraversando nuvole di oppio che escono dal treno su cui risaliamo a Vang Vieng, dopo una pausa narrativa tutta da godere nel Triangolo d’oro, di cui ancora vagheggiamo in certi articoli. Adesso i divertimenti sono equiparabili a divertifici economici a basso contenuto culturale e infima attenzione ecologica… ma si può proseguire alla tappa successiva Luang Prabang; ma soprattutto il viaggio racconta tante verità sul paese e sulla condizione dei laotiani (e forse di un po’ tutto il Sudest asiatico), che il testimone rileva da par suo: infrastrutture cinesi e platea di consumatori laotiani; appaltatori e tecnologie… ovvero il Bignami della Bri fatto tratta ferroviaria… con tutto il contorno di affari e presenza cinesi.

Illustrazione di Andrea Bruno

E allora si coglie la politica della rieducazione dell’intera area effettuata da Pechino alla propria cultura, alla propria lingua; e il treno – lo insegna il vecchio West e Sam Peckimpah – è fattore unificante e ficcante, utile per diffondere idee e modi di vita ad “alta velocità”.

E così arriviamo a Boten: come Oudom Xai è l’ombelico del mondo ferroviario, così Boten è la fenice locale che risorge sempre dalle sue ceneri… però solo il ricordo del viaggiatore, che negli ultimi decenni è transitato di qui periodicamente, può restituire l’evoluzione del territorio. E Boten è di nuovo un fulgido modello di molte città sul confine di stati, dove è concesso ciò che altrove non si può fare. E intanto il Laos muta la sua natura: ambiziosi progetti cinesi visti dal finestrino tolgono spazio al Laos agricolo e rurale… ma queste lampisterie non sono che alcuni passaggi di un racconto preciso e a tutto tondo dell’evoluzione del paese ai lati della ferrovia… che i cinesi vorrebbero portare fino a Bangkok, e infatti i tailandesi temono il progetto, perché con il treno si estende l’influenza di Pechino.

Ma questa è un’altra storia e vedremo di raccontarla sia con “Lettera22” che nei libri di “OGzero”

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Il Pakistan brucia… la neve distrae, ovattando l’eco dei conflitti https://ogzero.org/il-pakistan-brucia-la-neve-distrae-ovattando-leco-dei-conflitti/ Sun, 21 May 2023 09:51:28 +0000 https://ogzero.org/?p=11093 Il Pakistan, già in sofferenza per gli attacchi dell’estremismo islamico e per i disastri ambientali, rischia forse di precipitare nella guerra civile. Niente di nuovo naturalmente. Almeno per le minoranze etniche e religiose e – soprattutto – per le donne, i bambini, i diseredati. Vittime designate di una costante “guerra a bassa intensità”. Ma l’importante […]

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Il Pakistan, già in sofferenza per gli attacchi dell’estremismo islamico e per i disastri ambientali, rischia forse di precipitare nella guerra civile. Niente di nuovo naturalmente. Almeno per le minoranze etniche e religiose e – soprattutto – per le donne, i bambini, i diseredati. Vittime designate di una costante “guerra a bassa intensità”.
Ma l’importante è continuare a sciare sulle “cime inviolate” del “Terzo Polo”. Come non mancano di segnalarci amabilmente su Instagram gli stessi vacanzieri d’alta quota nostrani… che non boicottano e così immemori non si accorgono di affiancare i militari di uno stato oppressore, in mano a un’oligarchia che spadroneggia su cittadini discriminati. Sintomatico del modo di fare affari, senza badare alla natura delle oligarchie genocidiarie che controllano i paesi con cui si intrecciano.
In questi giorni in cui il Pakistan è tornato alla ribalta per gli scontri con decine di morti dopo l’arresto di Imran Khan ci sembra interessante il modo in cui Gianni Sartori inforca il grandangolo perlustrando l’area pakistana, allargando lo sguardo sia nel tempo che ai temi.  


Il balletto criminale delle elezioni imminenti

Ma cosa sta succedendo in Pakistan? Davvero siamo alle soglie di una guerra civile? O stiamo assistendo al preludio (“con altri mezzi”) della campagna elettorale in vista delle elezioni di ottobre (salvo modifiche, rinvii)?

Il risvolto etnico

In realtà per alcune minoranze etniche o religiose: hazara, beluci, cristiani, sciiti… così come per le donne, i bambini e un gran numero di diseredati, la situazione era già difficile. Tra attentati, aggressioni, (guerra a bassa intensità ?), discriminazioni…che si vengono a sovrapporre (con effetti sinergici) alla grave crisi economica e alla disastrosa situazione sanitaria. Per non parlare di alluvioni e altre emergenze ambientali.

Il risvolto talebano

Un recente avvenimento è sintomo emblematico di una situazione in via di ulteriore degrado (e qui non mi riferisco a quello ambientale).
Qualche giorno fa Muhammad Alam Khan, un poliziotto assegnato alla protezione della Catholic Public High School (una scuola cattolica femminile) nel Nordovest del Pakistan (a Sangota, nella valle dello Swat, provincia del Khyber Pakhtunkhwa), ha aperto il fuoco contro il pulmino che trasportava le allieve uccidendone una di 8 anni e ferendone altre sei e un’insegnante.
Il tragico episodio è avvenuto nella stessa regione da cui proviene Malala Yousafzai, l’attivista premio Nobel per la pace per aver condotto una campagna contro il divieto all’istruzione femminile imposto dal Tehreek-e Taliban Pakistan (Ttp, i talebani pakistani). Nel 2012 anche lei era stata colpita alla testa da un proiettile sull’autobus per tornare a casa da scuola, mentre anni fa la Catholic Public High School aveva dovuto chiudere per le minacce e per gli attentati.

Nel 2022 in questa provincia si sono registrati almeno 225 attentati (“solo” 168 nel 2021). O almeno secondo le cifre ufficiali. Da parte loro i miliziani legati al Ttp ne avevano rivendicato oltre 360. Senza dimenticare gli attacchi di un’altra organizzazione jihadista-terrorista operativa anche in Pakistan: lo Stato islamico che solo nel marzo 2022 aveva ucciso oltre 60 persone.
E anche il 2023 non sembra promettere bene. Solo nei primi quattro mesi sono già 180 quelli ufficiali.

Nel gennaio di quest’anno i talebani pakistani avevano rivendicato anche il sanguinoso attacco suicida (con oltre una trentina di morti e centinaia di feriti) ad una moschea di Peshawar, situata in un complesso dove si trova il quartiere generale della provincia del Khyber Pakhtunkhwa.

Il risvolto separatista

Per completezza va anche ricordato che gli attentati non sono monopolio esclusivo degli estremisti islamici. Un attacco suicida dell’agosto 20121 nella città di Gwadar (contro un veicolo cinese) era stato rivendicato dai separatisti beluci.

Una situazione drammatica, convulsa e foriera di ulteriori lutti.

Le malefatte di Imran Khan

Non per niente tra le questioni sollevate dall’attuale conflitto interno tra governo e opposizione (ma anche tra militari e una parte della società civile) appare rilevante l’accusa di ambiguità rivolta all’ex primo ministro Imran Khan. Per aver consentito, favorito il rientro in patria dei talebani pakistani purché garantissero di deporre le armi (cosa auspicabile ma difficile da realizzare). Come era prevedibile, nonostante le trattative per il loro reinserimento e per una “soluzione politica” del conflitto, dopo poco tempo gli attentati erano ripresi. Alimentando il sospetto che i colloqui, le trattative avessero in realtà consentito al Ttp di riorganizzarsi.

Le persecuzioni contro Imran Khan

Quanto alle numerose azioni giudiziarie lanciate contro lo stesso leader del Pakistan Tehreek-e-Insaf (Pti) per corruzione e reati finanziari (e anche un probabile tentativo di eliminarlo fisicamente, stroncato dalla mobilitazione dei militanti del Pti), presumibilmente in parte strumentali, per ora sembrano aver portato più che altro all’incarcerazione di tanti suoi seguaci. Pare anche dietro sua indicazione: farsi arrestare per “saturare le carceri e screditare il governo”… quanto meno un rischioso azzardo.

Tra le accuse principali, quella relativa all’Al-Qadir Trust, proprietà di Khan e della moglie, a cui l’impresa immobiliare Bahria Town avrebbe fornito un terreno del valore di 530 milioni di rupie (1,71 milioni di euro)
Ma forse Imran Khan sta anche pagando il prezzo di un suo avvicinamento alla Russia (malvisto dagli Usa, oltre che dall’India per ragioni inverse). Questo potrebbe aver innescato la rottura con l’esercito e favorito la sua defenestrazione.

Come è noto l’ex primo ministro è stato arrestato (a quanto sembra da un gruppo paramilitare legato ai servizi segreti) mentre si trovava all’Alta corte di Islamabad per testimoniare in un processo.

Ambiguità pakistane nel posizionamento geopolitico

Naturalmente non mancano (anche a sinistra, tra quella più “campista”) gli estimatori del regime pakistano.
Pensando di intravedervi una componente di possibili “blocchi egemonici alternativi musulmani” per un mondo multipolare contro l’imperialismo statunitense. Blocchi di cui potrebbero far parte sia la Turchia che l’Iran e in buoni rapporti con Russia e Cina. Sarà, ma non mi convince. In realtà è più probabile che il Pakistan (come da tradizione) continuerà a giocare su due tavoli. Se con gli Stati Uniti prevale la collaborazione sul piano militare (e i finanziamenti), con la Cina va sviluppando l’aspetto commerciale (vedi la Via della Seta).

Lasciando per ora da parte l’altro rischio, quello di un possibile conflitto nucleare con l’India. Magari a causa di un “malfunzionamento tecnico”, di un errore. Come quando nel marzo scorso l’India ha lanciato accidentalmente un missile supersonico in Pakistan. Caduto senza danni particolari nel Punjab (distretto di Khanewal).

Indifferenza occidentale

In alta quota si trovano i retaggi degli scambi d’interessi tra imprese occidentali (molto spesso italiane, anche affondando nelle nevi storicamente del passato) e intrecci tra potere canaglia di uno stato dai molteplici scambi interessanti. Sempre intenti a individuare qualche residua “cima inviolata” (lapsus rivelatore?) da cui scendere con gli sci (anche qualche giorno fa nella regione del Gilgit-Baltistan).
Mentre – che so – negli anni Ottanta del secolo scorso era quasi normale (almeno per persone con un minimo di coscienza sociale, politica…) boicottare almeno turisticamente un paese come il Sudafrica dell’apartheid e in epoca più recente la Turchia che reprime il popolo curdo, oggi come oggi andare a trascorrere le “settimane bianche” in Pakistan per alpinisti, escursionisti e sciatori nostrani non sembra assolutamente fuori luogo. Anche a persone che magari poi se la tirano con le questioni umanitarie e ambientali. O quelli che mentre denunciano lo scioglimento dei ghiacciai del “Terzo Polo” vi contribuiscono con i loro mezzi (nel senso di veicoli).

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Guerre di religione: continuazione del colonialismo con altri mezzi https://ogzero.org/guerre-di-religione-continuazione-del-colonialismo-con-altri-mezzi/ Sat, 12 Nov 2022 08:48:30 +0000 https://ogzero.org/?p=9436 Gianni Sartori si propone come autodidatta che propone analisi “a naso”: avercene di nasi così raffinati! E soprattutto con una memoria storica e uno sguardo libertario come il suo. Peraltro l’analisi dei guasti del neocolonialismo è uno dei motivi per cui OGzero è nato e questo scritto ci sembra perfetto per avviare la discussione che […]

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Gianni Sartori si propone come autodidatta che propone analisi “a naso”: avercene di nasi così raffinati! E soprattutto con una memoria storica e uno sguardo libertario come il suo. Peraltro l’analisi dei guasti del neocolonialismo è uno dei motivi per cui OGzero è nato e questo scritto ci sembra perfetto per avviare la discussione che si fonde e intreccia con le altre che muovono masse di disperati, distruggono il clima, depredano territori, spacciano armi, innescano conflitti per controllare risorse. Si può interpretare questo uso della divisione religiosa come un nodo delle diverse emergenze del Finanzkapitalismus nella sua fase iperliberista, un nodo a cui arrivare dagli altri orrori geopolitici, o da cui partire per inserirlo nella rete che mette insieme l’uso politico-aggressivo della religione, il pastone mediatico, la scorciatoia militarista, l’espansionismo imperialista… ma partiamo dallo storico conflitto irlandese tra cattolici separatisti e unionisti protestanti e poi ci espandiamo nelle più complesse – ma riconducibili agli stessi modelli di potere – contrapposizioni mediorientali.


Solo un’ipotesi, la mia. Da “proletario autoalfabetizzato” senza pretese accademiche. A naso diciamo.
Se in passato le “guerre di religione” potevano, forse, esprimere (“fotografare”) in qualche modo i conflitti etnici e/o sociali del tempo (vedi alcune “eresie” e certe “riforme” diretta conseguenza dei conflitti di classe), direi che in seguito, perlomeno dal secolo scorso, il più delle volte sono state la copertura, la “vetrina” di interessate strumentalizzazioni.

Partiamo dall’Irlanda…

A titolo di esempio, il conflitto irlandese, soprattutto dopo la divisione dell’Isola di smeraldo. Se già nel Settecento cattolici e protestanti (discendenti i primi dagli indigeni irlandesi colonizzati, gli altri dai coloni scozzesi presbiteriani) avevano fatto fronte comune per l’indipendenza dell’Irlanda, anche in seguito (vedi gli scioperi di lavoratori salariati cattolici e protestanti a Belfast) non mancarono lotte comuni. A porvi fine intervennero le ricche borghesie filobritanniche (si veda La Casa d’Orange) elargendo piccoli privilegi e organizzando milizie settarie “lealiste” (v. Uvf). Non potendo utilizzare – che so – un diverso colore della pelle o diversità etniche rilevanti (in quanto entrambe le comunità erano di origine celtica, diversamente dagli inglesi anglosassoni – di origine germanica – e anglicani) si accontentarono di ampliare il modesto solco di natura religiosa.


Poi è andata come sappiamo. Esperimento sostanzialmente riuscito, un modello per future strumentalizzazioni a “geometria variabile”.

… e giungiamo tra le comunità beluci, curde e hazara

Quindi ritengo che anche le sanguinose faide mediorientali tra sunniti e sciiti (con ricadute particolarmente gravi per le minoranze qui presenti: yazidi, alaviti, assiro-cristiani, zoroastriani…) siano state perlomeno “pompate”, gonfiate, esasperate ad arte.
Quanto è avvenuto nelle aree curde, occupate militarmente dalla Turchia, di Afrin e di Sere Kaniyê (Nord della Siria) appare emblematico. Non essendo in grado di controllare adeguatamente le proprie milizie mercenarie (vedi l’Esercito Nazionale Siriano, Sna), Ankara si starebbe affidando direttamente al gruppo terrorista Hayat Tahrir al-Sham (Hts, successore di al-Nusra), con tutta probabilità l’emanazione locale di al-Qaeda.

Il ruolo della Turchia

Anche perché tra le fila di alcune formazioni sul libro paga di Ankara ultimamente serpeggiava, oltre al malcontento, anche una certa preoccupazione.

Le voci su un possibile riavvicinamento tra Ankara e Damasco (patrocinato da Mosca) lasciava intravedere la possibilità di venir scaricati, se non addirittura consegnati, per diversi membri delle milizie mercenarie. In quanto ricercati da Damasco potrebbero venire estradati e questo suggerisce una possibile spiegazione su alcuni episodi di insubordinazione. Come per gli scontri a mano armata intercorsi tra membri di Jabhat al-Shamiya e di Jaish al-Islam.
Tali dispute ricorrenti (oltre al rischio concreto di insubordinazione e defezione) tra le diverse fazioni di Sna (forse non adeguatamente attrezzate, oltre che sul piano politico, anche in quello religioso?) avrebbero suggerito a Erdoğan di far leva sul maggiore entusiasmo, fervore religioso (eufemismo per fanatismo) di Hts. Un fanatismo indispensabile per annichilire le minoranze “eretiche” e non omologate (tutti apostati, dissidenti, “pagani”… addirittura comunisti o anarchici talvolta) del nord della Siria. Nella prospettiva di ulteriori invasioni.
Già all’epoca delle prime manifestazioni contro il regime siriano si assisteva a una proliferazione di gruppi armati, in genere appoggiati, oltre che dalla Turchia, da alcuni stati del Golfo come il Qatar.

Negli Usa è ancora in corso il processo contro “Qatar Charity” e contro Qatar Bank per aver finanziato con 800.000 dollari il leader dell’Esercito Islamico Fadhel al-Salim.

Pulizie etnico-religiose nella Mezzaluna sciita

Per inciso, è probabile che questo stia oggi avvenendo in Iran, nel tentativo di strumentalizzare, “dirottare” altrove, le legittime proteste popolari. Con un occhio di riguardo per i beluci, già manovrati in passato anche da qualche potenza imperialista di Oltreoceano. Come da manuale, ça va sans dire, anche i beluci ci mettono “del loro”: per esempio in Pakistan alcuni gruppi indipendentisti beluci sono ritenuti responsabili di vere e proprie stragi ai danni degli hazara, un’altra minoranza, ma di fede sciita.
Va anche detto che da parte sua la Repubblica islamica sembra far di tutto per fornire pretesti in tal senso. In una recente manifestazione (4 novembre 2022) a Khach, provincia di Zahedan, le forze di sicurezza hanno ucciso una ventina di civili beluci (16 le vittime identificate, tra cui alcuni bambini) ferendone oltre sessanta. Da segnalare – stando a quanto dichiarato da alcuni attivisti – che altri feriti erano poi deceduti non essendo stati traspostati all’ospedale dove rischiavano seriamente di essere arrestati.


Un’altra strage di 90 civili beluci era già avvenuta, sempre nella provincia di Zahedana, il 30 settembre.

Appare evidente che – analogamente a quella curda – anche la popolazione minorizzata dei beluci (“minorizzata” e non minoritaria, in quanto divisa da frontiere statali) in Sistan e Baluchistan subisce quotidiane discriminazioni ed è sottoposta a una dura repressione (come del resto altre comunità delle aree periferiche del paese) da parte di Teheran.
Sia per la loro appartenenza etnica, sia per ragioni religiose in quanto sunniti.
Il comandante di al-Nusra, Al-Hana (Abu Mansour al-Maghrebi) arrestato nel 2020 in Iraq aveva rivelato che lo sceicco Khalid Sueliman (della potente famiglia al-Thani), a capo del Jabhat al-Nusra (e pare anche delle organizzazioni derivate), veniva finanziato con qualcosa come un milione di dollari al mese. Turchia e Qatar sosterrebbero, sia finanziariamente, sia con la fornitura di armamenti, i vari gruppi combattenti emanazione dei Fratelli musulmani salafiti in quanto utile strumento per la loro politica estera. Anche in chiave panislamica.

Guerra turca ai curdi in Siria

Alcune organizzazioni hanno stabilito un’analogia, per vastità e inasprimento, tra l’attuale repressione in Iran e i massacri subiti dai beluci a Deraa (in Siria) nel 2011, denunciati dall’Onu come crimini di guerra.
Storicamente accertato che potenze regionali ostili a Damasco avevano favorito la militarizzazione (vedi appunto la formazione di Sna) e l’escalation del conflitto.
Oltre che a Sna, la Turchia non avrebbe lesinato nel fornire sostegno al fronte al-Nusra (dal 2012 nella lista del terrorismo internazionale in quanto ritenuto emanazione di al-Qaeda) e addirittura a Daesh. Formazioni entrambe notoriamente jihadiste.

Quanto al fronte al-Nusra, va ricordato che nell’ottobre 2012 attaccava i distretti autonomi di Şêxmeqsûd e Eşrefiye (regione di Aleppo) uccidendo decine di curdi. Subito dopo gli ascari jihadisti si scagliavano contro Afrin, incontrando però la ferrea resistenza delle Ypg/Ypj. Nel voler annichilire in primis le zone curde del Rojava (dove si sperimentava la rivoluzione del Confederalismo democratico) il Jabhat al -Nusra si smascherava da solo, mostrando apertamente di agire su indicazione della Turchia.

Sempre nel 2012, in novembre, veniva attaccata, partendo direttamente dalla Turchia, anche Serêkaniyê. Un’operazione congiunta tra al-Nusra e alcune milizie curde collaborazioniste legate al Pdk. Entrando in alcuni dei quartieri a maggioranza araba di Serêkaniyê, queste milizie si spacciavano per ribelli antiAssad cercando di stabilire alleanze. Solo successivamente (il 19 novembre) partiva il brutale attacco contro i quartieri a maggioranza curda. Veniva assassinato il sindaco della città e la chiesa diventava un bivacco per il loro quartiere generale.

Nel frattempo la loro già consistente presenza veniva rinforzata dall’apporto della cosiddetta Coalizione nazionale (Etilaf), che – secondo i curdi – sarebbe al Etilaf di Sna o comunque della sua derivazione, il “governo di transizione siriano”. Oltre al seggio di Istanbul, Etilaf ne controlla uno anche a Berlino (oltretutto finanziato dal governo tedesco).
Avrebbe anche una certa influenza in alcuni progetti (ugualmente finanziati dal governo tedesco) che sembrano funzionare come “specchietti per allodole”, allo scopo di creare cortine fumogene sulla realtà della situazione curda. Tra questi, il Centro europeo di studi curdi (Ezks) e il sito Kurdwatch, divulgatore di notizie farlocche intese a giustificare le operazioni militari di Erdoğan nel Nord della Siria e nel Nord dell’Iraq. Ma nonostante questo ulteriore apporto di milizie, successivamente venivano scacciati dalla popolazione insorta dei quartieri curdi, grazie anche all’intervento dei combattenti di Ypg e Ypj.

Gli scontri ripresero, durissimi, nel gennaio 2013. Praticamente una vera e propria ammucchiata di gruppi mercenari guidata da al-Nusra quella che contese per circa due settimane il controllo dei quartieri alle milizie curde. Sconfitte nuovamente, le truppe jihadiste si misero in salvo direttamente oltre il confine turco (immediatamente blindato dai soldati turchi per maggior sicurezza), ma lasciando in mano ai curdi un’ampia documentazione della loro intensa collaborazione con Ankara.
Purtroppo durante la ritirata sia al-Nusra che Daesh non mancarono di vendicarsi sulla popolazione curda con una vile rappresaglia.

Come a Til Eran (luglio 2013) e a Tal Hasil. Dichiarando pubblicamente, attraverso le moschee, che sia il bagno di sangue nei confronti della popolazione curda (circa un’ottantina le vittime accertate) che il sequestro-rapimento delle donne curde (prelevate a centinaia) era giustificato dal punto di vista religioso. Rastrellando poi casa per casa le due località sopracitate alla ricerca di “Apoisti”, ossia di seguaci di Apo Öcalan. Oltre a quelli crudelmente assassinati (alcuni bruciati vivi, con le immagini poi diffuse nei social), vanno considerati anche i desaparecidos (qualche decina) e i cadaveri (una ventina) di cui non è stata possibile l’identificazione.

Til Hasil

Da sottolineare che – per quanto entrambe aspirassero alla supremazia – Al-Nusra e Daesh (o Stato Islamico che dir si voglia) non smisero mai di collaborare proficuamente. Sia garantendo una certa “osmosi” di combattenti –praticamente intercambiabili – da una formazione all’altra (in base alle necessità del momento), sia dandosi il cambio, alternandosi nel controllo delle aree occupate. E soprattutto instaurando congiuntamente durante l’occupazione delle città, dei villaggi e dei quartieri curdi un aspro regime di ispirazione salafita. Anche a livello di tribunali islamici dove operavano in coppia.

Sempre sotto la supervisione di Ankara ovviamente. L’assalto al carcere di Sina à Hesekê (gennaio 2022) era stato pianificato dai territori occupati dalla Turchia.

Come già detto negli ultimi tempi al-Nusra aveva cercato di “riciclarsi” prendendo (almeno ufficialmente) le distanze da al-Qaeda e cambiando pelle e nome. Diventando prima, nel 2016, Liwa Fatah al-Sham e successivamente, nel 2017, appunto Hayat Tahrir al-Sham (Hts, in realtà una finta coalizione di vari gruppi, sostanzialmente sotto il controllo della vecchia al-Nusra, comunque denominata). Attualmente la casa madre sarebbe localizzata in quel di Idlib, in felice coabitazione con l’alleato turco. Allo scopo dichiarato di soffocare il risorgere e la diffusione del Confederalismo democratico in questa parte del Rojava. Esperienza pericolosa perché esemplare e contagiosa, soprattutto così in prossimità del confine turco.

Dal maggio di quest’anno (a seguito dell’incontro di Idlib-Sarmada con esponenti del regime turco) le milizie di Hts hanno ripreso a riposizionarsi e raggrupparsi su Idlib puntando quindi su Afrin. Inoltre si sarebbero acquartierati anche nelle zone di Girê Spî, Azaz, al-Bab, Cerablus e intorno alla città di Minbić (ancora gestita dall’amministrazione autonoma).
Sempre in vista di ulteriori attacchi in Rojava.

Per concludere, pur essendo presto rientrato nella lista nera dei gruppi terroristi, Hts continua a godere dei finanziamenti di Turchia, Qatar, Arabia Saudita…
Pare anche di qualche non meglio identificato “paese occidentale”…

Vai a sapere.

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Il dazio dell’inondazione pakistana sulle tavole africane https://ogzero.org/il-dazio-dellinondazione-pakistana-sulle-tavole-africane/ Thu, 29 Sep 2022 13:56:07 +0000 https://ogzero.org/?p=9038 Cotone e riso sono stati spazzati via con conseguenze globali, Rispetto alle alluvioni del 2010, i danni di quest’anno sono 4 volte superiori. Con 50 milioni di persone colpite e più di 1100 uccise, circa il 90% dei terreni agricoli è stato spazzato via, colpendo le principali produzioni agricole del Pakistan: cotone e riso. Essendo […]

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Cotone e riso sono stati spazzati via con conseguenze globali, Rispetto alle alluvioni del 2010, i danni di quest’anno sono 4 volte superiori. Con 50 milioni di persone colpite e più di 1100 uccise, circa il 90% dei terreni agricoli è stato spazzato via, colpendo le principali produzioni agricole del Pakistan: cotone e riso. Essendo il paese il quinto produttore di cotone e il quarto di riso, l’impatto di questa perdita sarà sicuramente globale.
Di qui prendeva spunto l’articolo che abbiamo pubblicato di Masha Hassan sull’inondazione pakistana; l’autrice del pezzo ha poi approfondito gli addentellati collegati alla filiera del cotone, più che quella del riso, seguita invece dall’attenzione di Angelo Ferrari (già in luglio un suo intervento lanciava l’allarme alimentare, prima della guerra in Ucraina e dei disastri climatici) per le ripercussioni sull’alimentazione dell’Africa, riproponiamo qui il pezzo ripreso da “AfricaRivista” per completare l’analisi del cataclisma poco seguito dai media occidentali miopi di fronte alle conseguenze del cambiamento climatico subito nei disastri dal Sud del Mondo, ma prodotto soprattutto dal mondo industrializzato.


Secondo gli analisti molti governi dovranno far fronte all’aumento dei prezzi di mercato del riso, un alimento base per gli africani, dovuto alle catastrofi naturali che stanno colpendo l’Asia e alle nuove strette sulle esportazioni imposte da India, Vietnam e Thailandia.

L’Africa non ha pace. La sicurezza è messa a rischio dall’aumento dei prezzi delle materie prime e ora potrebbe aggravarsi ulteriormente per le inondazioni che hanno investito il Pakistan. Il continente africano deve far fronte all’aumento dei prezzi del grano e del mais a causa della guerra in Ucraina, ma, secondo molti analisti economici, dovrà far fronte anche all’aumento dei prezzi di mercato del riso, un alimento base per gli africani, a causa delle inondazioni che hanno investito il Pakistan e alla decisione dell’India di limitare le sue esportazioni.

L’accaparramento asiatico

L’India ha vietato le esportazioni di riso spezzato (frammenti di chicchi rotti) dopo l’inondazione e ha imposto un dazio del 20% sulle esportazioni di riso di qualità superiore. Con questa misura, il più grande esportatore mondiale cerca di abbassare i prezzi a livello locale, dopo che le piogge monsoniche sono state inferiori alla media. Le esportazioni potrebbero, grazie a questa misura, crollare del 25% nei prossimi mesi.

«Tutti i cereali sono aumentati, tranne il riso, ma ora si unirà a questa tendenza», ha spiegato Himanshu Agarwal, direttore di Satyam Balajee – il principale esportatore di riso indiano – sentito dalla Reuters.

Contemporaneamente Thailandia e Vietnam hanno deciso di aumentare i prezzi per remunerare meglio i loro agricoltori. Secondo Phin Zinell, economista alimentare presso la National Australia Bank, ci «saranno tensioni significative sulla sicurezza alimentare in molti paesi». E a farne maggiormente le spese, sarà l’Africa, tanto più che la situazione in Pakistan di fronte alle alluvioni che lo hanno investito potrebbe pesare sui prezzi mondiali.

«Il Pakistan è un grande esportatore di riso, ma un terzo del paese è sott’acqua e quindi il rischio, a lungo termine, è un aumento del prezzo del riso sul mercato internazionale», ha spiegato Nicolas Bricas, titolare della Cattedra mondiale dell’alimentazione dell’Unesco, sentito da France24.

Un altro fattore rischia di aggravare ulteriormente la situazione: la forte domanda cinese di rotture di riso per sostituire il mais, diventato troppo costoso per nutrire il bestiame, ha provocato un innalzamento dei prezzi.

Il fabbisogno africano

Tutto ciò, evidentemente, rappresenta una brutta notizia sul fronte della sicurezza alimentare nell’Africa subsahariana, che dipende in larga misura dalle importazioni di cereali bianchi dall’Asia. L’Africa, quest’anno, potrebbe assorbire il 40% del commercio mondiale di riso, ovvero 20 milioni di tonnellate, un vero e proprio record.

La dipendenza dalle importazioni di riso è cronica e durerà nel tempo, anche perché la produzione locale non è in grado di seguire la curva dei bisogni che cresce con la crescita demografica urbana. In Africa il riso è l’alimento preferito dagli abitanti delle città perché è un prodotto pronto all’uso a differenza dei tradizionali cereali, come il miglio e il sorgo, che hanno bisogni di una preparazione.

Se la sicurezza alimentare in Africa subsahariana non si base esclusivamente sul riso, come in altri continenti, questo rimane il secondo cereale più consumato dopo il mais. Un’impennata dei prezzi rappresenterebbe un nuovo colpo per le popolazioni africane, già indebolite dai prezzi dei generi di prima necessità, soprattutto quelli agricoli. La situazione è particolarmente critica nel Corno d’Africa, che sta attraversando una siccità mai vista negli ultimi quarant’anni. Secondo le Nazioni Unite, dall’Etiopia meridionale al Kenya settentrionale fino alla Somalia, 36 milioni di persone sono a rischio fame.

«Con l’aggravarsi della situazione della sicurezza alimentare in Etiopia, siamo particolarmente preoccupati per l’impatto che sta avendo su donne e ragazze. Anche se CARE è intervenuta tempestivamente con distribuzioni di cibo per alcune comunità colpite, oltre che con interventi nel settore agricolo, trasferimenti di denaro, salute e nutrizione e WASH, il bisogno insoddisfatto rimane sconcertante».

L’aumento del prezzo del riso è, dunque, atteso, ma secondo molti analisti dovrebbe rimanere contenuto e di breve durata. Di sicuro è un azzardo, anche se il raccolto dei principali paesi produttori ed esportatori – India, Thailandia e Vietnam – inizierà tra poche settimane. Questo riso dovrà andare ad aggiungersi alle scorte, già al massimo, e quindi dovrebbe spingere questi paesi a vendere il vecchio raccolto, allentando la pressione sul mercato. Ma bisognerà capire se i maggiori esportatori di riso applicheranno misure di protezionismo del proprio mercato interno.

Di sicuro gli effetti maggiori si vedranno nei primi mesi dell’anno prossimo. Occorre ricordare, infine, che il Pakistan esporta 4 milioni di tonnellate di riso all’anno, contro i 21 milioni dell’India. La domanda è: il mercato sarà in grado di resistere allo shock anche se il Pakistan, come è prevedibile, limiterà le sue esportazioni e l’India manterrà i dazi e il tetto alle esportazioni di riso?

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Man made disasters: Floods in Pakistan https://ogzero.org/man-made-disasters-floods-in-pakistan/ Fri, 16 Sep 2022 00:52:07 +0000 https://ogzero.org/?p=8884 Abbiamo ricevuto da Masha Hassan un interessante punto di vista sul Pakistan nel momento in cui l’economia di Islamabad è sull’orlo della bancarotta e il Balochistan è stato devastato da alluvioni. Preferiamo proporlo nella sua lingua originale (trovate comunque la traduzione in calce), premettendo un abstract riassuntivo senz’altro riduttivo rispetto alla rotonda prosa che ci […]

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Abbiamo ricevuto da Masha Hassan un interessante punto di vista sul Pakistan nel momento in cui l’economia di Islamabad è sull’orlo della bancarotta e il Balochistan è stato devastato da alluvioni. Preferiamo proporlo nella sua lingua originale (trovate comunque la traduzione in calce), premettendo un abstract riassuntivo senz’altro riduttivo rispetto alla rotonda prosa che ci riconduce in spazi ridotti dalla gentrificazione e che prende spunto dalla vulnerabilità della nazione pakistana ai cambiamenti climatici; un aspetto che ha agevolato il disastro originato da monsoni e scioglimento di ghiacciai. Cotone e riso sono stati spazzati via con conseguenze globali, ma l’insostenibilità ambientale dei marchi pakistani di prodotti tessili andrebbe perseguita già solo perché sposta le emissioni occidentali in territorio pakistano e i danni irreparabili di questo disastro ambientale ricadono sulle case dei lavoratori schiavizzati del Balochistan, spazzate via, mentre le aziende – per nulla “sostenibili” – non vengono scalfite dalla furia delle acque. Nell’articolo si accenna alla rivendicazione diffusa nei paesi dell’area che non hanno partecipato al benessere derivante dalla debacle ambientale, ma ne subiscono pesantemente gli effetti: il nome per identificare questo stato è “apartheid climatica”, visto il paragone con le emissioni dell’esercito statunitense.
Ma le cause del disastro sono anche interne, visto il crollo di 12 dighe in Balochistan per l’uso di materie prime scadenti per la corruzione endemica negata dal governo provinciale, mentre l’approccio dovrebbe rifiutare l’idea di naturalezza dei disastri perché in realtà sono causati da processi sociali antropici che evidenziano la sproporzione nella spartizione delle risorse (di tradizione coloniale britannica) e l’assenza di infrastrutture pubbliche (causata dal collaborazionismo dei potentati locali, comprati con assegnazioni di terre irrigue), con il corollario di proprietari terrieri in solidi complessi abitativi e contadini che vivono in case di fango spazzate dalle inondazioni. Così si esprime Shozab Raza, ricercatore che ricorda come fin dai primi anni dello stato pakistano le dighe abbiano rappresentato la deportazione e la miseria di migliaia di persone; e già nel 2010 questo ha provocato le alluvioni. Il prossimo disastro è annunciato dal Corridoio economico sino-pachistano, una trappola del debito sul modello di quello che ha strozzato lo Sri-Lanka nell’esposizione con la Cina.
Un aspetto che non si considera mai a sufficienza dei disastri ambientali è quello di genere, perché le strutture sanitarie fuori uso per il cataclisma rendono ancora più complesso portare a termine una gravidanza e il disinteresse per i servizi sanitari ginecologici sono un’ulteriore prova di quanto l’atteggiamento patriarcale finisca con il rendere più vulnerabili minoranze sessuali, di genere, o le puerpere.

La dichiarazione d’intenti nell’epilogo dell’articolo è totalmente condivisibile: «Ciò che serve ora è una radicale decolonizzazione delle scienze della sostenibilità, una decrescita per i paesi occidentali, un piano d’azione per un sistema energetico decarbonizzato e, soprattutto, una decostruzione della femminilizzazione negativa della terra antropomorfizzata».


  • Pakistan’s climate change vulnerability: colonialism to blame

 

  • In the midst of celebrating rivalries between India and Pakistan’s cricket match, where both the countries were busy trolling each other on social media or bursting fireworks in their backyards, in other news, a third of Pakistan was under water.

Often referred to as the Third Pole, containing around 7200 glaciers, that is more glacial ice than anywhere else in the world outside of the polar-region, the Global Climate Index in its annual report of 2020 placed Pakistan on the fifth spot on the list of countries being most vulnerable to climate change. As this vulnerability increases with a considerably high rate of warming, Pakistan faced an extreme heat wave this summer. While climate analysts are unsure if torrential monsoon rains or accelerating of the melting of glaciers is the cause of these disastrous flooding but they are certain of the fact that climate crisis is a global responsibility.

 

Compared to the floods of 2010, this year’s damage is 4 times more. With 50 million people being affected and more than 1100 killed, around 90% of farmland has been flushed away hitting Pakistan’s major agricultural productions i.e. cotton and rice. The country being the fifth largest producer of cotton and fourth largest producer of rice, the impact of this loss will definitely be global. In 2021 Pakistan exported cotton worth $3.4 billion i.e. 6% of the global supply meaning that they fed the so called ‘sustainable’ cotton requirements of brands such as H&M, Zara and Gap.

Pakistan

September 13, 2012 Over 250 workers perished in the fire at a garment factory in Baldia

Climate change and slavery

Acknowledging the fact that there is nothing sustainable about these brands as their industry not only outsources western emissions (causing politicians such as Donald Trump and Peter Mackey playing the blame game by pointing fingers towards the population divide in the global south) it is also tightly linked to modern slavery, continuing to profit through labor exploitation with the deception of corporate greenwashing. The manufacturing industries remain intact whereas the irreparable damages of homes and livelihoods of the workers in Pakistan that have been washed away will fall only on to its shoulders.
In an article published by “the thirdpole”, Pakistan’s climate minister Sherry Rehman stated that the country “would press hard for big polluters to pay up at the annual UN climate summit in Egypt this November”. The country that is suffering from  ‘climate apartheid’, has less than 1% of carbon emissions but is disproportionately bearing the brunt of what wealthy nations have caused. We shouldn’t shy away from mentioning the less spoken role of the U.S military’s carbon boot print that is said to be as big as 140 countries. Remember two decades ago how the Bush administration unhesitatingly denied climate change that is caused due to human activity! The Biden presidency is no better. Although the U.S has rejoined the Paris agreement with a claim for a decarbonization push, it still avoids imposing limits in order to cut emissions produced by their department of defence.
The loss and damage is a contentious debate for the developed countries who have a historical responsibility since the time of the industrial revolution such as the UK and they remain worried regarding climate litigations and negotiations in terms of compensation and liability, for example the historic climate litigation between Luciano Lliuya v. RWE AG. Saúl Luciano Lliuya who is a farmer from Peru has sued the German energy company called RWE AG to pay for the damages for the floods that took place in his hometown in Huaraz. This lawsuit could be a landmark and a game changer, opening doors for many to sue against world’s largest polluters.

Lake Palcacocha in 2014. Siphons were installed in the glacial lake to lower the water level. Photo: Cooperación Suiza COSUDE/ via Flickr CC

Climate change and corruption

Sherry Rehman rightly called out the wealthy nations asking for reparations, however, international assistance is not the only solution for avoiding a climate catastrophe of this magnitude.

A ground level interview with The New Humanitarian reveals how in the southwestern province of Balochistan 12 dams broke. The provincial government’s response was a denial of corruption in sub standard construction of these Dams whereas local narratives explain otherwise that often water is released through irrigation canals that are not well constructed. The Pakistani elite as well as the provincial ministers are hiding behind the monsoon rains and the water overflow by calling it ‘natural disasters’, indirectly implying its inevitability and brushing off their responsibility by leaving us at the usual mercy of God. Many Risk mitigation scholars for decades have asked to give up the very phrase “natural disaster”,

Ilan Kelman from the Institute for Risk and Disaster Reduction at University of College London says “natural disasters do not exist”: «Disasters are caused by society and societal processes, forming and perpetuating vulnerabilities through activities, attitudes, behaviour, decisions, paradigms, and values».

These societal processes are undeniably anthropic posing questions such as; why there is a disproportionate division of resource? Why are people compelled to live on areas prone to climate disasters? Who is responsible for the approval or rejection of building codes and most importantly how much money is allotted and how much is actually used up to build public infrastructures?

The fault of British imperialism…

In Pakistan, this disproportionality has a close relationship to  Britain’s imperialist extractive legacy, resulting in economic and social invisibilisation of regions such as Balochistan that lies on the periphery. The alliances built during the 19th century between the British aristocrats and local elites collaborated together, mutually profiting through feudalism, pillaging and exploitation of these regions leaving the future generation with its after effects.

… responsibility of Pakistani notables…

Shozab Raza, writer and researcher, explains that the loyalty of tribal chiefs was bought by the British through allotting them huge amounts of land estates in irrigated areas. He further explains how the disparities grew between the peasant and the landlords resulting in unequal housing ownership. Peasants were forced to live in mud houses becoming vulnerable to the disasters of flooding whereas the landlords ended up constructing strong luxurious housing compounds for themselves on these land estates. In this neoliberal era, feudal societies and mutually benefitting extraction practices and extortion exists till date.
Raza further points out how after the 1950s the local elite politicians teaming up with international firms organized several hydropower and irrigation infrastructures such as the construction of the Taunsa Barrage leading to the displacement of thousands. Its faulty construction is said to play a significant role in the 2010 floods.

Pakistan

… and chinese Trap

Another such project that will dry up Pakistan is the China-Pakistan Economic Corridor (CPEC), the country that is already drowning in a debt crises with the IMF prior to these floods, with the CPEC that lacks transparency, they might end up(or probably already have) falling into a similar ‘debt trap’ that of Sri Lanka with the upcoming imperial power of China.

Man made disasters and Patriarchy

Around 8.2 million women are affected in this year’s floods where 650,000 are pregnant women and 73,000 are expected to deliver next month. Estimated 1,000 health care infrastructures are damaged. In the flood affected areas of Balochistan 198 health care structures are destroyed, and damaged bridges and roads is a logistical hindrance to gain access to health facilities. In Pakistan where there is a great stigma and taboo attached to menstruation, in many affected areas of Balochistan, Sindh and Southern Punjab menstruation materials were left out from donation lists of many foundations on the claim that it is a ‘luxury item’.  Inadequate supply of menstruation materials will create a high risk of urogenital infections like vaginosis and UTIs (urinary tract infections).  This disregard of health care infrastructures, toilets, feminine hygiene, menstruation relief and maternal health care services is a proof of how patriarchy and climate change are intrinsically intertwined. Perils of climate catastrophe are gendered which means that it amplifies social instability by disproportionately impacting the already marginalized and vulnerable people in the social ladder. Sexual and gendered minorities who lived inside a certain gendered space are now forced to move from a private to public domain, making them vulnerable to violence, harassment and sexual abuse inside flood relief camps.

As says Tithi Battacharya  “Against this explicitly anti-solidaristic policies of state and capital, feminists, now more than ever, need to rescue a solidarity that is as anti-capitalist as it is openly confrontational with capital. In the current moment of escalating social inequalities and the climate emergency we should realize how deeply imbricated are our fates with that of others.  And as wars and pandemics rip through the world, we need to re-animate a politics of recuperative hospitality, where the fate of our most vulnerable is only the vision of our own future”

As international funds very slowly pour in, there has been a call to cancel Pakistan’s international debt with the International Monetary Fund (IMF) and can prove to be an important step to avoid the further worsening of the economic crisis. Simultaneously asking for accountability from the disaster management and their lack of preparation in anticipatory action and prioritizing grassroots narratives by making them equal stakeholders in policy-making and resource management can be effective measures. What is required now is a radical decolonization of sustainability sciences, degrowth for Western countries, an action plan for a decarbonized energy system and most importantly a deconstruction of the negative feminization of the very anthropomorphized earth.

La vulnerabilità pakistana al cambiamento climatico: colonialismo alla sbarra

  • Pakistan

    2022 Pakistan Floods – August 27, 2021 vs. August 27, 2022 in Sindh Source: https://worldview.earthdata.nasa.gov/ Corrected Reflectance (Bands 7-2-1) Aqua / MODIS

  • Nel bel mezzo dei festeggiamenti per la partita di cricket tra India e Pakistan, in cui entrambi i paesi erano impegnati a trollarsi a vicenda sui social media o a far scoppiare fuochi d’artificio nei loro cortili, in altri servizi giornalistici, un terzo del Pakistan si trovava sott’acqua.

Spesso indicato come il Terzo Polo, che contiene circa 7200 ghiacciai, cioè più area glaciale di qualsiasi altra parte del mondo al di fuori della regione polare, il Global Climate Index nel suo rapporto annuale del 2020 ha collocato il Pakistan al quinto posto nella lista dei paesi più vulnerabili ai cambiamenti climatici. Poiché questa predisposizione aumenta con un tasso di riscaldamento considerevolmente elevato, quest’estate il Pakistan ha dovuto affrontare un’ondata di caldo estremo. Gli analisti climatici non sanno se le piogge torrenziali dei monsoni o l’accelerazione dello scioglimento dei ghiacciai siano la causa di queste disastrose inondazioni, ma sono certi che la crisi climatica sia una responsabilità globale.

Rispetto alle alluvioni del 2010, i danni di quest’anno sono 4 volte superiori. Con 50 milioni di persone colpite e più di 1100 uccise, circa il 90% dei terreni agricoli è stato spazzato via, colpendo le principali produzioni agricole del Pakistan: cotone e riso. Essendo il paese il quinto produttore di cotone e il quarto di riso, l’impatto di questa perdita sarà sicuramente globale. Nel 2021 il Pakistan ha esportato cotone per un valore di 3,4 miliardi di dollari, pari al 6% dell’offerta globale, il che significa che ha alimentato il cosiddetto fabbisogno di cotone “sostenibile” di marchi come H&M, Zara e Gap.

Cambiamento climatico e schiavitù

Riconoscendo il fatto che non c’è nulla di sostenibile in questi marchi, poiché la loro industria non solo esternalizza le emissioni occidentali (facendo sì che politici come Donald Trump e Peter Mackey colpevolizzino il Sud del mondo per il divario demografico), ma è anche strettamente legata alla schiavitù moderna, continuando a trarre profitto attraverso lo sfruttamento del lavoro con l’inganno del greenwashing aziendale. Le industrie manifatturiere rimangono intatte, mentre i danni irreparabili alle case e ai mezzi di sussistenza dei lavoratori pakistani che sono stati spazzati via ricadranno solo sulle loro spalle

In un articolo pubblicato dal Terzo Polo, il ministro pakistano per il clima Sherry Rehman ha dichiarato che il paese «eserciterà forti pressioni affinché i grandi inquinatori paghino al vertice annuale delle Nazioni Unite sul clima che si terrà in Egitto a novembre». Il paese che soffre di “apartheid climatica”, ha meno dell’1% delle emissioni di carbonio ma sta sopportando in modo sproporzionato il peso di ciò che le nazioni ricche hanno causato. Non ci si può esimere a questo proposito dal menzionare il ruolo meno esposto dell’impatto di emissioni di carbonio dell’esercito statunitense, che si dice sia pari a quella di 140 Paesi. Ricordiamo che due decenni fa l’amministrazione Bush negava senza esitazione il cambiamento climatico dovuto all’attività umana! La presidenza Biden non è migliore. Sebbene gli Stati Uniti abbiano aderito all’accordo di Parigi con la richiesta di una spinta alla decarbonizzazione, continuano a evitare di imporre limiti per ridurre le emissioni prodotte dal loro dipartimento della difesa

Le perdite e i danni sono un dibattito controverso per i paesi sviluppati che hanno una responsabilità storica fin dai tempi della rivoluzione industriale, come il Regno Unito, e che continuano a essere preoccupati per le controversie e i negoziati sul clima in termini di risarcimento e responsabilità, come per esempio la storica controversia sul clima tra Luciano Lliuya e RWE AG. Saúl Luciano Lliuya, un agricoltore peruviano, ha citato in giudizio la società energetica tedesca RWE AG per il risarcimento dei danni causati dalle inondazioni che hanno colpito la sua città natale, Huaraz. Questa causa potrebbe essere un punto di riferimento e cambiare le carte in tavola, aprendo a molti la possibilità di fare causa ai maggiori inquinatori del mondo.

Cambiamento climatico e corruzione

Sherry Rehman ha giustamente richiamato le nazioni ricche che chiedono risarcimenti, ma l’assistenza internazionale non è l’unica soluzione per evitare una catastrofe climatica di questa portata.

Un’intervista sul campo con “The New Humanitarian” rivela che nella provincia sudoccidentale del Balochistan sono crollate 12 dighe. La risposta del governo provinciale è stata la negazione della corruzione nella costruzione di queste dighe al di sotto degli standard, mentre le narrazioni locali spiegano invece come spesso l’acqua viene rilasciata attraverso canali di irrigazione non ben costruiti. L’élite pakistana e i ministri provinciali si nascondono dietro le piogge monsoniche e gli straripamenti d’acqua chiamandoli “disastri naturali”, sottintendendo indirettamente la loro inevitabilità e scansando le loro responsabilità affidandosi alla solita misericordia di Dio. Molti studiosi del contenimento del rischio da decenni chiedono di abbandonare l’espressione stessa di “disastro naturale”.

Ilan Kelman dell’Istituto per la riduzione dei rischi e dei disastri dell’Università del College di Londra afferma che «i disastri naturali non esistono: I disastri sono causati dalla società e dai processi sociali, che formano e perpetuano le vulnerabilità attraverso attività, atteggiamenti, comportamenti, decisioni, paradigmi e valori».

Questi processi sociali sono innegabilmente antropici e pongono alcune domande come per esempio: perché c’è una divisione sproporzionata delle risorse? Perché le persone sono costrette a vivere in aree soggette a disastri climatici? Chi è responsabile dell’approvazione o del rifiuto delle norme edilizie e, soprattutto, quanto denaro viene stanziato e quanto viene effettivamente utilizzato per costruire infrastrutture pubbliche?

La colpa dell’imperialismo britannico…

In Pakistan questa sproporzione ha una stretta relazione con l’eredità estrattiva imperialista della Gran Bretagna, che ha portato all’invisibilizzazione economica e sociale di regioni come il Balochistan, che si trova alla periferia. Le alleanze costruite durante il Diciannovesimo secolo tra gli aristocratici britannici e le élite locali hanno collaborato strettamente, traendo reciproco profitto attraverso il feudalesimo, il saccheggio e lo sfruttamento di queste regioni, lasciando alle prossime generazioni tutti gli effetti collaterali.

… responsabilità dei notabili pakistani…

Shozab Raza, scrittore e ricercatore, spiega che la lealtà dei capi tribali fu comprata dagli inglesi attraverso l’assegnazione di enormi quantità di proprietà terriere in aree irrigue. Spiega inoltre come siano cresciute le disparità tra i contadini e i proprietari terrieri, con conseguenti disuguaglianze nella proprietà degli alloggi. I contadini furono costretti a vivere in case di fango, diventando così vulnerabili ai disastri delle inondazioni, mentre i proprietari terrieri finirono per costruire per loro stessi forti e lussuosi complessi abitativi in queste proprietà terriere. In quest’epoca neoliberale, le società feudali e le pratiche di estrazione ed estorsione a reciproco vantaggio permangono invariate ancora oggi. Raza sottolinea inoltre come, dopo gli anni Cinquanta, l’élite politica locale, in collaborazione con imprese internazionali, abbia organizzato diverse infrastrutture idroelettriche e di irrigazione, come la costruzione dello sbarramento di Taunsa, che ha portato alla deportazione di migliaia di persone. Si dice che la sua costruzione difettosa abbia giocato un ruolo significativo nelle alluvioni del 2010.

… e trappola cinese

Un altro progetto di questo tipo che prosciugherà il Pakistan è il Corridoio economico Cina-Pakistan (Cpec), il paese – che stava già affogando in una crisi del debito con il Fmi prima di queste inondazioni – con il Cpec, che manca di trasparenza, potrebbe finire (o probabilmente è già caduto) in una “trappola del debito” simile a quella dello Sri Lanka con l’immanente potenza imperiale della Cina.

Disastri ascrivibili all’uomo in generale e al patriarcato in particolare

Circa 8,2 milioni di donne sono state colpite dalle inondazioni di quest’anno, di cui 650.000 sono incinta e 73.000 dovrebbero partorire il mese prossimo. Si stima che 1000 infrastrutture sanitarie siano state danneggiate. Nelle aree colpite dalle inondazioni del Balochistan 198 strutture sanitarie sono state distrutte e i ponti e le strade danneggiati rappresentano un ostacolo logistico per accedere alle strutture sanitarie. In Pakistan, dove c’è un grande stigma e tabù legato alle mestruazioni, in molte aree colpite del Balochistan, del Sindh e del Punjab meridionale il materiale mestruale è stato escluso dalle liste di donazione di molte fondazioni, sostenendo che si tratta di un “bene di lusso”.  L’inadeguata fornitura di supporti ginecologici comporta un alto rischio di infezioni urogenitali, come vaginosi e UTI (infezioni del tratto urinario).  Questo disinteresse per le infrastrutture sanitarie, per i servizi igienici, per l’igiene femminile, per le mestruazioni e per i servizi di assistenza sanitaria materna è una prova di come il patriarcato e il cambiamento climatico siano intrinsecamente intrecciati. I pericoli delle catastrofi climatiche sono “di genere”, il che significa che amplificano l’instabilità sociale colpendo in modo sproporzionato le persone già emarginate e vulnerabili nella scala sociale. Le minoranze sessuali e di genere che vivevano all’interno di un certo spazio di genere sono ora costrette a spostarsi da un ambito privato a uno pubblico, rendendole vulnerabili alla violenza, alle molestie e agli abusi sessuali all’interno dei campi di soccorso per le alluvioni.

Come afferma Tithi Battacharya: «Contro queste politiche esplicitamente antisolidaristiche dello stato e del capitale, le femministe, ora più che mai, devono salvare una solidarietà che sia tanto anticapitalista quanto apertamente conflittuale con il capitale. Nell’attuale momento di escalation delle disuguaglianze sociali e di emergenza climatica, dobbiamo renderci conto di quanto i nostri destini siano profondamente intrecciati con quelli degli altri.  E mentre guerre e pandemie dilaniano il mondo, dobbiamo rianimare una politica di ospitalità recuperativa, in cui il destino dei più vulnerabili sia solo la visione del nostro futuro» (“Transnational Strike”).

Mentre i fondi internazionali arrivano molto lentamente, è stato chiesto di cancellare il debito internazionale del Pakistan con il Fondo Monetario Internazionale (Fmi) e può rivelarsi un passo importante per evitare un ulteriore peggioramento della crisi economica. Chiedere contemporaneamente la responsabilità della gestione delle catastrofi e la loro mancanza di preparazione nell’azione preventiva e dare priorità alle narrazioni della base, rendendole parti interessate a pieno titolo nella definizione delle politiche e nella gestione delle risorse, possono essere misure efficaci. Ciò che serve ora è una radicale decolonizzazione delle scienze della sostenibilità, una decrescita per i paesi occidentali, un piano d’azione per un sistema energetico decarbonizzato e, soprattutto, una decostruzione della femminilizzazione negativa della terra antropomorfizzata.

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Khyber Pass: orizzonti perduti, orizzonti ritrovati https://ogzero.org/khyber-pass-mitico-luogo-nel-racconto-di-eric-salerno/ Sun, 05 Sep 2021 17:10:24 +0000 https://ogzero.org/?p=4834 Per concessione dell’autore e dell’Atlante delle Guerre pubblichiamo un estratto da “Orizzonti perduti, orizzonti ritrovati”, appena pubblicato da il Saggiatore. Si racconta del mitico Khyber Pass e di com’era un giovane Pakistan che cercava il suo posto nel mondo. Non com’è oggi dove, sulla frontiera tra i due paesi, si accalcano gli afgani che vogliono […]

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Per concessione dell’autore e dell’Atlante delle Guerre pubblichiamo un estratto da “Orizzonti perduti, orizzonti ritrovati”, appena pubblicato da il Saggiatore. Si racconta del mitico Khyber Pass e di com’era un giovane Pakistan che cercava il suo posto nel mondo. Non com’è oggi dove, sulla frontiera tra i due paesi, si accalcano gli afgani che vogliono sfuggire al regime talebano e alla miseria del loro paese dopo oltre 40 anni di guerra. Abbiamo pensato di accostare a questo racconto, quello – anch’esso di Eric Salerno – scritto nel dicembre 1960, che descrive le tribù che abitavano il Passo Khyber. Spunti di riflessione per capire la composizione tribale odierna e gli scontri tra comunità in quelle terre illustrati da immagini scattate dall’autore.


Passo Khyber. Abito scuro, camicia bianca e cravatta: io, invitato sulla rotta che sarebbe stata resa famosa dagli hippy europei e americani e che la Pakistan International Airlines, all’epoca una delle più importanti compagnie aeree dell’Oriente, forse del mondo, apriva al turismo d’élite. Siamo nel 1960, tredici anni dopo la Partizione, quella terribile divisione della vecchia India in due stati che costò la vita a un milione di persone, stravolse quella di centinaia di milioni e lasciò una ferita che oggi sembra più aperta di allora. Fu una delle mie prime esperienze all’estero da viaggiatore e giornalista insieme.

Sono nato nel 1939. La data di nascita del Pakistan è il 14 agosto 1947. Negli anni Sessanta il paese, giovane e antico allo stesso tempo, vide uno dei suoi momenti migliori. Io ero giornalista da poco, ma avevo un patrimonio invidiabile da sfruttare: oltre a me, solo un altro redattore di “Paese Sera” parlava l’inglese, ma era molto più grande e i suoi impegni mi regalarono ampio spazio di manovra. La lingua dell’Impero britannico in fase decadente e dei vincitori della Seconda guerra mondiale era ancora relegata in secondo ordine dagli italiani, dopo quella dei cugini odiati d’oltralpe. Eppure stava diventando sempre più essenziale nel mondo che iniziava ad aprirsi anche grazie allo sviluppo dell’aviazione civile, di cui avevo cominciato a occuparmi sulle pagine del battagliero quotidiano romano di sinistra, vera scuola di giornalismo.

Da Roma, il gruppo di reporter italiani, di cui ero il più giovane, volò fino a Londra per imbarcarsi sul volo inaugurale del primo 707 con i colori della Pia, un quadrigetto della Boeing, sulla rotta di Karachi, allora – ma ancora per poco – la capitale del Pakistan. Una prima classe come non ne vidi più. Un servizio impeccabile: la mia prima aragosta, champagne e tutto il resto. Tappa sotto la neve a Francoforte, un’altra a Zurigo. Poi la traversata del Mediterraneo e il mio primo approdo a Beirut, la Svizzera del Medio Oriente si diceva allora, dove ci aspettava una splendida cena levantina con tanto di danza del ventre in un ristorante dell’aeroporto prima di riprendere il volo per Teheran e, tempo di fare rifornimento, di assistere a un altro spettacolo di danza in un locale non distante dallo scalo. Arrivammo a Karachi all’alba, accolti da dirigenti della Pia, da una delegazione dell’ambasciata italiana e, scesi dal pulmino davanti allo storico hotel Metropole, da stormi di corvi neri.

Il verde, quello dell’islam, era il colore ufficiale della Pia e dello stato nato apposta per i musulmani, ma allora Karachi era una metropoli multiculturale, multietnica e multireligiosa aperta al mondo – più all’Occidente che all’Oriente – che usciva dalla Grande guerra numero due e dalla fine ufficiale degli imperi coloniali. Le divise delle hostess erano state disegnate da Pierre Cardin, icona della moda parigina, l’unico a fare testo. Turisti americani e britannici in costume prendevano il sole sulla spiaggia di fronte al mar Arabico. I locali notturni abbondavano. Le orchestre jazz imperversavano. L’alcol era tabù solo per chi non voleva bere. L’hashish, con discrezione, era accessibile a hippy e finti figli dei fiori di passaggio. Droghe più pesanti non mancavano. I camerieri in livrea del Metropole, luogo di ritrovo dei giornalisti stranieri, di una certa borghesia locale, dei turisti – avanguardia del boom degli anni a venire –, erano impeccabili nel loro servizio. E nel prendersi gioco dei clienti, ai quali propinavano prelibatezze della cucina locale che nemmeno un fachiro mangiatore di fuoco avrebbe mandato giù senza una smorfia di dolore. «Con un sorso di scotch si smorza tutto» e lo offrivano sorridendo….
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Non ci sono turisti oggi a Peshawar e le botteghe della città di confine vendono soprattutto fucili, mitragliatrici, pistole, cartucce di ogni genere, cartucciere. Roba nuova di zecca e armi avanzate da quando, non molti anni fa, Usa e Urss si fronteggiavano indirettamente per il controllo dell’Afghanistan, uno dei paesi strategicamente più importanti della regione. Sarebbe riduttivo parlare solo di armi sui banchi dei negozi. Da quando le truppe di Mosca lasciarono il posto a quelle di Washington, il Pakistan (potenza nucleare come l’India) è direttamente o indirettamente coinvolto nei grandi traffici di stupefacenti, soprattutto oppio e i suoi derivati, partiti dalle ricche coltivazioni afgane. Ci vorrebbero livelli di turismo oggi nemmeno pensabili per sostituire e distribuire l’elevato reddito pro capite prodotto dalla droga.

E oggi – mi riferisco sempre ai gloriosi tempi pre Covid – non ci sono turisti nemmeno a Lahore, se non pochi gruppi isolati attirati da un paio di intraprendenti e molto sospetti travel blogger americani e inglesi. Una di loro è stata accusata di lavorare non soltanto per gli addetti al turismo locali ma addirittura per i servizi segreti, considerati molto vicini alle numerose organizzazioni terroristiche che operano nella zona. «Nessun pericolo» sostiene il regime (uno dei meno democratici di quella regione), la blogger «non fa che difendere gli interessi del popolo». Affermazioni che hanno provocato la dura reazione di organizzazioni antigovernative che denunciano come i diritti umani in Pakistan siano un’opzione, il terrorismo e il traffico di stupefacenti marcino mano nella mano, le donne vengano trattate come nel Medioevo e i dissidenti finiscano quasi sempre in galera se non sottoterra. Nonostante le campagne dei blogger entusiasti che riempiono il web di parole e filmati, girati anche in alcune delle zone più pericolose del paese, turisti e viaggiatori stranieri restano pochi. Passeggiare, come ebbi la possibilità di fare nei viali degli straordinari giardini Shalimar di Lahore, eredità del Gran Moghul Shah Jahan che li fece costruire nel 1641, è raro e spesso pericoloso. I giardini furono inclusi dall’Unesco tra i patrimoni dell’umanità nel 1981.

Hanno la forma di un parallelogramma oblungo, circondato da un alto muro a mattoni. Il giardino misura 658 metri sulla direttrice nord‐sud e 258 sulla est‐ovest. Ai giornalisti italiani invitati nel 1960 per raccontare le bellezze del paese e stimolare il turismo non fu difficile descrivere, nei loro articoli, la meravigliosa simmetria del vasto parco che si sviluppa su tre terrazze, sopraelevate di 4‐5 metri una dall’altra. Appuntai il loro nome in lingua urdu: Farah Baksh (“apportatrice di piacere”), Faiz Baksh (“apportatrice di bontà”), Hayat Baksh (“apportatrice di vita”).
Mi dicono che le guide turistiche più anziane non trovano difficile spiegare per quale motivo e come si è potuti passare dal boom degli anni Sessanta alla tragica situazione di oggi – gelosie tribali e intricati giochi politici –, ma preferiscono parlare dei tesori di questa città. La moschea imperiale, che coniuga passione, bellezza e gloria dei moghul, come altri luoghi di culto in giro per il mondo, fu sconsacrata più volte nel corso dei secoli e usata come presidio militare dagli invasori sikh e dai gentiluomini di Londra in divisa. I turisti che, come me, la visitarono negli anni Sessanta potevano apprezzarne l’architettura ma poco le sue opere d’arte, che soltanto di recente sono state restaurate e rimesse al loro posto, o sostituite.

La Pia era considerata una delle compagnie aeree principali del mondo e l’aeroporto di Karachi, la “porta all’Asia”. Titolo e funzione che avrebbe mantenuto durante tutto il boom economico e la rapida industrializzazione che accompagnarono la prima metà del regime militare di Ayub Khan, feldmaresciallo arrivato al potere con un golpe e votato a schiacciare corruzione e crimine nella vecchia capitale mentre preparava le basi per costruire quella nuova, Islamabad. Le spiagge di Karachi, scrisse all’epoca il “Washington Post” che raccontava la vita dei turisti stranieri, «sono le più pulite dell’Asia». E non soltanto le spiagge. Le vie del boom, con una nuova borsa, banche, società di assicurazioni, giornali, venivano «lavate con l’acqua tutti i giorni». Il sogno e il turismo sarebbero durati poco. Già nel 1965, pochi anni dopo la mia visita, le contraddizioni e i contrasti dovuti all’industrializzazione cominciarono a provocare i primi scontri tra la maggioranza muhajir di Karachi e i migranti pashtun, arrivati dall’Afghanistan in cerca di lavoro. La capitale era in difficoltà, ma lo era anche il resto del paese, che non riusciva a trovare pace nella sua faticosa ricerca di un’identità, sempre più islamica, sempre meno tollerante.

Ormai è chiaro, e quasi tutti gli storici e chi osserva le realtà del mondo di oggi concordano: i vecchi imperi avevano una tenuta che gli stati usciti dalla loro frammentazione non hanno ereditato. Negli anni Settanta i movimenti islamisti divennero più forti. Le attrazioni per i viaggiatori stranieri, meno appetibili. La minoranza cristiana, fulcro di una parte importante della vita notturna di Karachi, cominciò ad abbandonare il paese. Il declino lento ma inesorabile toccò anche alla Pia e l’aeroporto dell’ex capitale fu costretto a cedere l’etichetta di «porta dell’Asia» a Dubai. Nel 2002, agli scontri tribali e ai contrasti etnici si aggiunse una nuova forma di terrorismo. Decine di passanti furono uccisi da alcuni kamikaze che si fecero saltare in aria accanto all’albergo Marriott e all’ambasciata Usa.

Articolo di Eric Salerno su “Paese Sera” del 12-13 dicembre 1960.

Qualche mese prima, il giornalista del “Wall Street Journal” Daniel Pearl era stato rapito dopo essere uscito dal Village restaurant di fronte a quel famoso ma ormai decaduto albergo Metropole, sarebbe stato decapitato nel giro di pochi giorni. Nel 2007 gli dedicarono un film, Un cuore grande, e per girare la scena del rapimento fu richiesto un imponente cordone di sicurezza della polizia di Karachi. Erano stati i fondamentalisti islamici a uccidere il mio collega, non si voleva rischiare un’altra tragedia. Da allora pochi osano parlare di turismo occidentale da quelle parti.

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Il Pakistan, l’Occidente e la “patata bollente” afgana https://ogzero.org/l-occidente-affida-al-pakistan-le-vicende-afgane/ Sun, 05 Sep 2021 17:09:51 +0000 https://ogzero.org/?p=4829 Il 4 settembre le agenzie battono la notizia dell’arrivo a Kabul di Faiz Hammed, il capo dei servizi di Islamabad, in veste di consulente dei Talebani per stroncare la resistenza del Panjshir; questa apparizione in pieno giorno dovrebbe aver chiarito definitivamente l’apporto pakistano alle vicende afgane: l’Occidente affida al Pakistan il passaggio di consegne nel […]

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Il 4 settembre le agenzie battono la notizia dell’arrivo a Kabul di Faiz Hammed, il capo dei servizi di Islamabad, in veste di consulente dei Talebani per stroncare la resistenza del Panjshir; questa apparizione in pieno giorno dovrebbe aver chiarito definitivamente l’apporto pakistano alle vicende afgane: l’Occidente affida al Pakistan il passaggio di consegne nel controllo militare del paese. Si tratta di uno degli aspetti meno analizzati tra quelli che coinvolgono l’area a seguito del ribaltamento afgano, eppure è l’elemento più significativo e condizionante della vicenda, come si rileva dalla lettura di questo contributo scritto da Beniamino Natale, tra i più assidui frequentatori della storia e cultura pakistana. 


Commentando la disastrosa ritirata delle truppe americane dall’Afghanistan, il primo ministro pakistano Imran Khan non ha nascosto la sua gioia, affermando che «i Taliban hanno spezzato le catene della schiavitù». Gran parte del mondo politico e della popolazione del Pakistan sono d’accordo con lui. Nessuna voce si è fatta sentire per contraddire la “narrazione” che da alcuni decenni l’establishment pakistano diffonde sulla realtà del terrorismo islamico.

L’offensiva contro la stampa

Forse anche perché in Pakistan è in corso un’offensiva che non ha precedenti contro la stampa e più in generale contro le opinioni non ortodosse. Secondo l’organizzazione indipendente Reporters sans frontières, «i media pakistani, che hanno una tradizione di grande vivacità, sono diventati un bersaglio prioritario per il “deep state”, un eufemismo che indica i militari e la loro principale organizzazione segreta, l’Inter Service Intelligence o ISI, e il forte controllo che esercitano sull’esecutivo».

L'Occidente affida al Pakistan

RSF aggiunge che gli attacchi contro media e giornalisti indipendenti si sono intensificati da quando Imran Khan è diventato primo ministro. Un recente, grave caso, è quello del reporter Asad Ali Toor, aggredito e picchiato nella sua abitazione da uomini mascherati che – secondo la testimonianza dello stesso Toor – si sono dichiarati agenti dell’ISI. Un altro giornalista che è stato minacciato di essere sbattuto in carcere, il popolare conduttore televisivo Hamid Mir, ha affermato in un un’intervista alla BBC che Imran Khan – un ex campione di cricket passato alla politica – «non è un primo ministro molto potente, non è in grado di aiutarmi».

Asad Ali Toor e Hamid Mir

La presa dei militari sui governi pakistani non è una novità. L’ esercito ha governato il paese direttamente dal 1958 al 1971, dal 1977 al 1988 e dal 1999 al 2008. Per tutto il resto della sua vita indipendente – il Pakistan è nato nel 1947 dalla dissoluzione dell’Impero Britannico – i militari hanno esercitato un pesante controllo sui governi civili del paese.

Secondo la narrazione ufficiale il Pakistan stesso rappresenta l’islam “buono”, che comprende anche alcuni combattenti, mentre i “cattivi” terroristi sono sostenuti, se non addirittura “creati” dall’“Occidente”,

un termine che viene usato per indicare gli Usa e il loro alleati. I Taliban sono “buoni”: tutti i terroristi che combattono contro le forze di sicurezza indiane nel territorio conteso del Kashmir sono “buoni’. Osama bin Laden – lo “sceicco” saudita responsabile dei massacri dell’11 settembre 2001 negli Usa e di molti altri – potrebbe essere il miglior esempio di terrorista islamico “cattivo”. Però è stato trovato e ucciso dalle forze speciali americane in territorio pakistano, dove si trovava indisturbato probabilmente da anni. La leadership dei Taliban – quando ancora erano “cattivi” – ha sempre operato senza ostacoli dal territorio pakistano.

Una ambiguità ospitalità

Quello di bin Laden è forse l’ esempio più chiaro della profonda ambiguità con la quale il Pakistan gestisce da decenni gli estremisti musulmani, sia quelli nati nel paese che i loro “ospiti” provenienti da altri paesi. Vivono apertamente nel paese, gestiscono organizzazioni caritatevoli – valga per tutti l’esempio di Hafiz Saeed, leader sia della “caritatevole” Jamaat-ud-Dawa che del gruppo terrorista della Lashkar-e-Toiba – e portano avanti sostanzialmente indisturbati le loro attività terroristiche, principalmente contro l’India ma non solo.

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Ogni tanto uno di loro viene arrestato e in alcuni casi addirittura consegnato agli americani come nel caso di Khalid Sheik Mohammad, un associato di bin Laden che ha partecipato sia agli attentati dell’Undici Settembre che al rapimento e all’assassinio del giornalista americano Daniel Pearl. Intanto, gli altri continuano a fare il loro comodo.

La storia dei Taliban è una chiara dimostrazione di questa politica basata sulla doppiezza. Secondo uno dei loro mentori, il generale e per alcuni anni ministro della Difesa Nasirullah Babar, essi avrebbero «portato la pace dovunque sono andati».

Il termine taliban vuol dire “studenti” nella lingua pashto, diffusa nel Nordovest del Pakistan (il singolare è talib). Il movimento fu tenuto a battesimo dallo stesso Babar e dal leggendario capo dell’ISI durante il jihad contro gli invasori sovietici, Hamid Gul, nel 1994. Quelli che sarebbero diventati i Taliban erano in gran parte giovani profughi afgani che studiavano nelle madrasas, le scuole islamiche gestite in Pakistan da religiosi della scuola integralista di Deobandh (una località che oggi si trova in India). I giovani si unirono a un gruppo di afgani di etnia pashtun che stavano cercando di mettere fine all’anarchia che regnava in Afghanistan dal 1989. Quel gruppo era guidato da un ex mujaheddin, un combattente contro gli invasori sovietici, il mullah Mohammed Omar. Appoggiati e armati dall’esercito pakistano, i Taliban sbaragliarono le milizie dei signori della guerra che si battevano nel paese, assumendo il controllo di quasi tutto l’Afghanistan nel 1996.

Afghanistan pacificato: progetti visionari

Un Afghanistan pacificato, questa l’idea dei militari e dei politici pakistani, avrebbe reso possibili una serie di visionari ma poco realistici progetti di sviluppo, primo fra tutti quello della costruzione di una serie di oleodotti che avrebbero potuto portare gas e petrolio dalle repubbliche ex sovietiche ai porti sull’Oceano Indiano e da qui nel resto del mondo, evitando i passaggi obbligati dall’Iran o dalla Russia.

Quegli ambiziosi progetti non sono mai stati realizzati e, in vece loro, sono arrivati lo “sceicco” Osama, la “guerra all’America” e tutto quello che ne è seguito.

Il Pakistan, allora governato dal generale Perevz Musharraf, tollerò a malincuore che gli Usa usassero il suo territorio per attaccare gli studenti islamici.

Il Pakistan è nato come patria per i musulmani dell’Impero Britannico per volere dell’avvocato e politico Mohammad Ali Jinnah, il capo della Lega Musulmana, in contrasto con l’India secolare ma a maggioranza hindu del mahatma Gandhi e di Jawaharlal Nehru. A partire dalla prematura scomparsa di Jinnah, nel 1948, il Pakistan è stato dominato dai militari, tanto da far dire ad alcuni commentatori che si trattava non di un paese con un esercito ma di “un esercito con un paese”. Il principale obiettivo dei militari – e dei politici di tutti i partiti pakistani è da allora quello di “liberare”, cioè di conquistare, quella parte del territorio dell’ex regno del Kashmir rimasto sotto il controllo indiano.

La “profondità strategica”

Il secondo è quello di allargare il proprio territorio, un’istanza che nel “politichese” pakistano si chiama “raggiungimento della profondità strategica”. L’Afghanistan era un ovvio candidato per il conseguimento di quest’obiettivo e gli alleati “naturali” del Pakistan erano le pittoresche tribù di etnia pashtun che vivono tuttora a cavallo tra i due paesi dalle due parti della Durand Line. Questa “linea”, che è lunga 2670 chilometri e segna il confine provvisorio tra l’allora Impero Britannico e l’Afghanistan, fu creata nel 1893 con un trattato tra la Corona britannica e l’Emiro Abdur Rahman Khan, che allora governava il paese. Da parte britannica, l’accordo fu firmato dal generale Mortimer Durand.
I pashtun sono circa 25 milioni in Pakistan e circa 11 milioni in Afghanistan, dove sono la maggioranza della popolazione (in tutto 36-38 milioni di persone). Con il ritorno dei Taliban al potere a Kabul dopo il ritiro dell’“Occidente”, i militari pakistani sono più vicini che mai a raggiunge la “profondità strategica”. Però, attenzione: se è vero che i legami tra le tribù pashtun e l’establishment militare pakistano sono antichi e forti – lo stesso Nasirullah Babar era un pashtun, come molti altri ufficiali dell’esercito di Islamabad – è vero anche che esiste da sempre una tendenza analoga e inversa, cioè quella dei governi afghani a espandersi nel Nordovest del Pakistan inglobando le aree tribali abitate dai pashtun. Sempre viva tra le tribù della “frontiera di nordovest” è anche l’idea che punta alla creazione di un Pashtunistan indipendente.

L'Occidente affida al Pakistan

La linea non riconosciuta e le alleanze

Infatti la Durand Line non è mai stata riconosciuta come confine tra Afghanistan e Pakistan da nessun governo di Kabul, nemmeno da quello dei Taliban. Hamid Karzai – il primo presidente dell’Afghanistan dopo la sconfitta dei Taliban – ha affermato che il governo di Kabul «non riconoscerà mai» la Durand Line come confine tra i due paesi. Oggi Karzai è uno dei leader indipendenti candidati a entrare nel governo dei “nuovi” Taliban che si stanno insediando al potere.
Ha scritto il giornalista indiano Rahul Bedi: «Gli analisti della sicurezza anticipano una collaborazione tra i Taliban afghani – una volta che questi avranno preso il controllo completo del paese – e l’alleanza di 13 gruppi che comprende il Tehrik-e-Taliban (Ttp) che opera prevalentemente sulla frontiera tra Pakistan e Afghanistan, che lancerà la rivendicazione del Pashtunistan». Prosegue Bedi: «Essi [gli esperti, probabilmente esponenti dei servizi indiani], sostengono che gli attuali legami simbiotici, logistici e materiali tra l’ISI pakistano e i Taliban sono, nel migliore dei casi, dettati dalla reciproca convenienza; ma, se si considera la complessa storia della regione, fatta di inganni, tradimenti e compromessi è probabile che verranno superati dalle più vaste ambizioni del nazionalismo dell’etnia dei pashtun». O, almeno, questa è la direzione nella quale lavoreranno i servizi segreti indiani.

I Talebani, strumenti pakistani

I Taliban sono dunque considerati dai militari pakistani lo strumento per raggiungere l’agognata “profondità strategica”. Per il Pakistan, i milioni di profughi afghani che si riversarono sul suo territorio negli anni dell’invasione sovietica sono stati una manna: gli aiuti internazionali erano infatti consegnati a Islamabad. Ora sta giocando, con successo, la stessa carta. La cancelliera tedesca Angela Merkel, certamente la principale leader europea, ha sostenuto recentemente che bisogna aiutare economicamente il Pakistan in modo che si tenga in casa i profughi afghani, evitando che si riversino a migliaia in Europa.

L'Occidente affida al Pakistan

Tutto torna come “prima” dunque. Prima di Osama bin Laden e della “guerra al terrorismo”. La gestione della “patata bollente” afgana viene affidata dall’Occidente al Pakistan, nella speranza che non si ripetano i tragici sviluppi dell’inizio del secolo.

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Syngué sabour: appunti per un’Orestiade afgana https://ogzero.org/l-occidente-non-ha-mai-compreso-larea-centrasiatica/ Sat, 04 Sep 2021 13:40:21 +0000 https://ogzero.org/?p=4811 L’Occidente non ha mai compreso l’area centrasiatica, perché l’ha assimilata nell’immaginario alla propria mentalità e alla propria filosofia, senza sforzarsi di collocare i sistemi delle comunità nella loro tradizione di riferimento. A decolonizzazione avvenuta si può forse tentare di inquadrare alcuni aspetti per intessere poi una tragedia pasoliniana che possa raccontare il Great Game come […]

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L’Occidente non ha mai compreso l’area centrasiatica, perché l’ha assimilata nell’immaginario alla propria mentalità e alla propria filosofia, senza sforzarsi di collocare i sistemi delle comunità nella loro tradizione di riferimento. A decolonizzazione avvenuta si può forse tentare di inquadrare alcuni aspetti per intessere poi una tragedia pasoliniana che possa raccontare il Great Game come è avvenuto e perché si è arrivati a questo epilogo. E di lì imparare a trovare la corretta e rispettosa forma relazionale con il mondo compreso tra l’Hindu-Kush e il deserto iranico.

Syngué sabour: la pietra paziente, la pietra ascolta, finché non si frantuma.


La clanicità esibita dal processo di talebanizzazione

Rassicuranti non lo sono mai stati e le loro biffe senza sorriso non lo saranno mai. Ma ora sono cambiati: i Talebani hanno imparato soprattutto il modo di promuoversi sugli schermi occidentali e quanto sia importante la comunicazione in un mondo mediatico, dove persino l’impressione levantina dei capi e quella orrifica dei tagliagole, nei loro stracci e barboni vecchi di due millenni nell’iconografia stantia e un po’ razzista, diventano folklore; se fanno la parte a loro assegnata da Trump, risultando credibili a Doha, perché svolgono il ruolo di negoziatori (attribuitogli dal circo mediatico per assicurare il business degli accordi geopolitici), consentono al mondo di sfilare gli scarponi costosi dal terreno e consegnare al Pakistan, loro mentore, di controllare il territorio su mandato americano.

Un ruolo quello di negoziatori che la loro cultura riconosce ai capiclan maschi e che è quella ricercata dalla controparte fatta di maschi americani. Ciò che li ha accomunati è l’appartenenza al più vieto conservatorismo di entrambe le società.
Certo l’evoluzione degli squadristi diventa la requisizione delle auto degli anziani hazara nella provincia di Ghazni, come ci racconta un afgano delal diaspora di ciò che è avvenuto a suo padre al villaggio durante un rastrellamento (a cui il fratello si è sottratto scappando in montagna), quando 30 anni fa avrebbero perpetrato l’abigeato di tutti gli armenti; ma in fondo anche i fascisti nostrani usano con spregiudicatezza i social, pur rimanendo buzzurri celoduristi.

Colonizzatori si nasce

La solita eccezione culturale francese si chiede se sia possibile confrontarsi, e quindi conferirgli un riconoscimento, con le posizioni talebane senza venir meno ai propri principi. Una posizione palesemente ancora fondamentalmente colonialista perché connota il gruppo in senso razzista e prevede una superiorità di principi da esportare: in realtà quei principi dovrebbero riuscire a comprendere come ragiona la controparte per poter individuare i punti su cui avviare la trattativa (ed eventualmente insinuare un elemento che possa fare da base a un sincretismo che permetta un’evoluzione di entrambi), perché senza il confronto non c’è che la soluzione di forza, visto che non si è potuta creare una alternativa nazionale credibile riconosciuta dagli afgani ai quali si sono volute imporre figure – corrotte e inconsistenti – ritagliate sul modello occidentale, alieno a chi rimaneva povero e sfruttato dagli occidentali come dai Signori della Guerra – tutti ugualmente fondamentalisti (uzbeki di Dostum, tajik di Massoud, hazara di Mazari, pashtun di Hekmatyar). E questo è il risultato.

L’anima feroce

Vero che il movimento politicamente retrivo dei Talebani ha due facce: una pashtun, quindi interna alla nazione – anche se proveniente dall’unica cultura dei monti del Waziristan divisi dalla Durand Line tra Pakistan e Afghanistan – le cui tribù si possono scoprire nel capitolo (collocato nel 1960!) dedicato al Pakistan da Eric Salerno nel suo volume Orizzonti perduti, orizzonti ritrovati – e guida politica di questo tradizionalismo che ambisce a dare vita a un governo che imponga tutte le convinzioni tribali, legittimate da un sunnismo invariato anche perché utilizzato per fungere da collante contro le molte aggressioni coloniali a cui ha fatto fronte proprio grazie alla sua chiusura; l’altra, in parte uzbeka e in buona parte araba – saudita, qatariota e tutta la compagnia di giro del jihadismo – che costituisce il nerbo dell’ala militare, feroce e pervasa di volontà di vendetta fanatica, che impone il giro di vite sui diritti all’interno della nazione… e questo potrebbe risvegliare le coscienze della società civile che mal tollerava la presenza straniera e ora guarda con altrettanto dispetto ai jihadisti di varia provenienza – con aggiunta di orrore nelle notti riempite da musiche inneggianti alla guerra santa sparate a tutto volume nei pressi dei quartieri hazara, minacciosa e incombente presenza che prelude a rastrellamenti e abusi come nelle notti kabuline subito dopo la fuga statunitense. Un disimpegno che ha permesso già molti abusi e atti di violenza: l’uccisione in diretta Fb di un hazara cittadino australiano che riprendeva violenze, apostrofato dagli squadristi e ucciso sotto gli occhi di moglie e figli; l’umiliazione di dover seguire un percorso attraverso le fogne per arrivare all’aeroporto e venire sollevati di peso e rigettati dai marines sul gregge vociante, ma incapace di ribellione (perché non è nelle modalità previste da nessun clan); essere sottomessi al trattamento dei militari addestrati dallo US Army, che nell’aeroporto ti fanno abbassare la mascherina per riconoscere i connotati hazara e a quel punto avvicinano l’arma al tuo orecchio, esplodendo colpi che sfiorano tua moglie… questi sono episodi narrati con indignato terrore da un hazara che usava le ferie per ottenere documenti per il ricongiungimento e che il Console buono ha sedotto e abbandonato.

Clan e tribù: la coazione a ripetere

Per capire come funziona un accordo che si va a stringere con una realtà simile a quella talebana ci si deve ancora una volta immergere nell’idea clanica, opposta a quella di comunità di individui postilluminista: ciò che accomuna gli afgani – a qualunque appartenenza culturale facciano riferimento (pashtun, tajik, uzbek, hazara, turkmeni, kirghizi, nuri, aimak, wakhi…) – è la consapevolezza che tutto si regge sulla tradizionale competizione tra tribù fondata sulla coazione a ripetere invariata di ogni singola consuetudine della struttura, e quindi dei riti, delle cerimonie, dei matrimoni combinati, ma soprattutto dei ruoli; ciò che l’Occidente non è in grado di capire, perché ha scardinato quel sistema secoli fa e non ne ha più memoria, è che nessuno dei fondamenti custoditi dai potenti del clan può venir meno, a rischio di implosione di tutto. E quindi, come ribadiscono testimoni abbandonati dai ponti aerei, le donne non devono poter accedere alla istruzione per più di 7 anni (perché la cultura è l’antidoto contro ogni forma di repressione), le barbe non vanno tagliate (perché si è sempre fatto così), le donne non possono indossare pantaloni bianchi (mamnu, perché il loro culo contaminerebbe il colore della bandiera talebana)… sciocchezze per altre tradizioni, ma metodi già ripristinati con il corredo di taglio di mani ai ladri e lapidazione alle adultere, per rassicurare chi ha introiettato un ordine prescrittivo forte che non tralascia alcun dettaglio per perpetuare invariato un mondo, preservandolo da incrinature che potrebbero rovesciare i rapporti di controllo sulla società.

L’articolo di Giuliano Battiston è stato pubblicato da “il manifesto” il 29 agosto 2021 e si trova tra gli articoli di analisi prodotti da “Lettera 22

La ribellione non è contemplata

Ma non è un caso che non ci siano state resistenze all’avvento delle orde talebane: erano già collaterali a una società che tra occupanti portatori di affari e tradizionalisti aveva già deciso come regolarsi. Sarebbe bastata quella incrinatura a minare il “cimitero degli Imperi” ben più di un’oliata macchina da guerra tecnologica. In realtà la ribellione, anzi anche solo la protesta, non è contemplata. Per esempio le donne (poche significative decine inizialmente e poi sempre di più, ma ancora minoranza, nonostante il supporto di molti uomini estranei alla tradizione patriarcale) che il 2 settembre hanno inscenato manifestazioni in particolare a Herat sono il risultato dei vent’anni di apparente vacanza dal controllo della tradizione: il fatto che abbiano potuto farlo senza una reazione significativa iniziale da parte dei fondamentalisti dimostra come non le considerino realmente pericolose e che i vent’anni di affari e traffici senza immaginare di poter consentire la creazione di un sistema alternativo non hanno emancipato che pochi individui… e che i Talebani hanno imparato anche come in certe situazioni conviene fingersi tolleranti: finisce che fa gioco mostrare che non si reprimono manifestazioni pubbliche. E non ci si può scandalizzare per un po’ di lacrimogeni il giorno successivo a Kabul, perché altrimenti gli stessi giornalisti inorriditi dai manganelli a Kabul, dovrebbero farlo anche in Val di Susa; piuttosto è da valutare l’imbarazzo e la reazione legata alla sorpresa di scoprire un mondo femminile sconosciuto, e così diventano le situazioni quotidiane, che vengono represse dal patriarcato, a fare la differenza rispetto alla predisposizione a un confronto dialettico impossibile, non avendo una lingua comune. Sparare nervosamente in aria, perché non si può (ancora) sparare addosso a questi che sono alieni per l’universo di riferimento talebano, è la più esplicita esibizione di lontananza dal mondo cresciuto in questi vent’anni a Kabul e nelle grandi città, spazi fuori controllo rispetto ai giochetti rassicuranti dei vilayet dei monti. Lo stesso distacco, che non può tollerare la ricetta oscurantista, produce un mondo separato di repressi, brutalmente – e quindi per la legge islamica giustamente terrorizzati dai poco lucidi e ancor meno rassicuranti filopakistani. E quelle donne a loro volta vengono sottoposte a minacce da parte dei confusi (dall’impatto con la metropoli) Talebani e sgomente al punto di indossare il burqa –anche manifestando – pur se nessuno lo ha prescritto.

Herat, manifestazione di donne 3 settembre 2021

Dal fronte femminile si registrano alcune ribellioni, contestazioni – impossibile sognare che si svolgano provocatoriamente senza veli: sarebbe davvero suicidio –, o prese di posizione che possano infastidire, ma non è vero che non agiscano “autonomamente”: sono sempre più numerosi i casi di mogli selezionate dal clan che – dopo un tempo più o meno lungo di permanenza nei paesi in cui i giovani afgani protagonisti della migrazione di 15 anni fa le hanno ricongiunte – abbandonano il tetto coniugale per raggiungere i paesi del Nordeuropa attraverso una rete che organizza il trasferimento. Fin dal primo momento insistono per ricollocarsi in paesi in cui le possibilità sono migliori di quelle del Sudeuropa – evidente la missione assegnata dal clan anche a loro, un incarico che non prevede il coinvolgimento del coniuge, ridotto a semplice passeur legale che spesso non è nemmeno a conoscenza dell’intenzione iniziale della famiglia, benché la blanda opposizione lasci intendere che l’epilogo era messo in conto, conoscendo i calcoli clanici. Anche in questo caso in cui apparentemente sembra che le donne prendano in mano il loro futuro, sono ancora una volta strumenti della volontà della famiglia patriarcale.

Una storia, tante storie

Figurarsi quanto possono radicarsi e durare i diritti mai realmente compenetrati nella società afgana, perché non è una società di individui: persino quando scrivono i libri che raccontano la loro storia, commuovendo l’Occidente, ciascuno dei giovani afgani, stimolati a far conoscere la loro storia dagli amici europei ammaliati dall’esotismo e colpiti dalle vicissitudini, non riesce a fare una biografia ma la figura dell’io narrante comprende tante storie di tanti esuli: tutti insieme costituiscono la comunità afgana della diaspora e la sua narrazione che è unica e collettiva e quindi è anche eticamente corretto per loro attribuirsi episodi non vissuti in prima persona, ma comuni ai “conoscenti” afgani che hanno incrociato nel viaggio e nell’inserimento nella società europea e contemporaneamente i nuovi rituali degli expat e le telefonate quotidiane con il clan.

Scatto di Seyf Karimi, Kabul – Chindawol, 4 settembre 2021

Una realtà che non si fonda sull’individuo riconosce solo il ruolo collettivo in cui il singolo è un numero la cui attività è regolata dalla tradizione: infatti ora i Talebani si trovano di fronte a un incrocio: i giovani che in questi 20 anni sono stati contaminati dalla frequentazione di mentalità e comportamenti estranei alla tradizione, o i ragazzi della diaspora costretti all’emigrazione – che tutti, nessuno escluso, hanno mantenuto i contatti con il clan e ne sono stati in qualche modo condizionati e manipolati, soprattutto per legami matrimoniali o per mantenere il ruolo che era loro prescritto già alla partenza – ora trentenni con metà della vita trascorsa in Europa, pur sempre avvolti o protetti o comunque coinvolti dalla comunità expat, sono portatori di modi di pensare e vivere che sarebbero letali per il meccanismo clanico, quindi vanno trattenuti per il loro know how tecnologico utile all’emirato di “trogloditi in turbante” come vengono concepiti da quelli intrappolati a Kabul dalla loro repentina avanzata, oppure è meglio consentirgli di abbandonare il territorio per continuare a mandare rimesse senza contaminare la restaurazione? Forse che vengano riconosciuti come elementi ormai irrecuperabili all’islam e quindi nocivi può consentire il successo dei corridoi umanitari; dopo probabilmente i restanti verranno eliminati, pena mantenere attivi e inglobati nella realtà congelata locale potenziali tarli capaci di minare il processo di conservazione.
Poi gli affari si fanno con chiunque anche da confini nei quali la cultura estranea non può insinuarsi, ma pecunia non olet.

Emanuele Giordana è attento da tempo alle potenziali esportazioni di califfati fuori dalla Mesopotamia, fin dal volume collettaneo pubblicato da Rosenberg & Sellier nel 2017: A oriente del califfo.

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Afghanistan: l’instabile cortile di Pechino in Asia Centrale https://ogzero.org/afghanistan-linstabile-cortile-di-pechino-in-asia-centrale/ Thu, 22 Jul 2021 10:14:17 +0000 https://ogzero.org/?p=4326 Il ritiro americano dei Boots on the afghan Ground somiglia un po’ in chiave geopolitica alla Teoria delle Catastrofi di René Thom che vedeva come si creassero laddove si veniva a creare un vuoto che andava in qualche modo riempito e di conseguenza avvenivano sconvolgimenti per il vortice di riempimento che si andava a creare […]

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Il ritiro americano dei Boots on the afghan Ground somiglia un po’ in chiave geopolitica alla Teoria delle Catastrofi di René Thom che vedeva come si creassero laddove si veniva a creare un vuoto che andava in qualche modo riempito e di conseguenza avvenivano sconvolgimenti per il vortice di riempimento che si andava a creare e lo spostamento a cascata. Per gli interessi americani probabilmente le tecnologie di controllo e intervento rapido sono ormai in grado di ritirare le truppe tradizionali da un territorio diversamente colonizzato; per gli interessi cinesi l’Afghanistan ha invece ancora un duplice “tradizionale” interesse, che richiede non truppe, ma accordi con chi deterrà il potere sulle infrastrutture – per le merci del Bri – e sul confine di 75 chilometri condiviso con lo Xinjiang – per poter contenere internamente il nazionalismo uiguro e assicurarsi il controllo del Corridoio del Wakhan. 

Questo articolo di Sabrina Moles incentrato sull’analisi degli interessi cinesi per l’Afghanistan si affianca ad altri due interventi contemporanei ospitati sul sito, uno di Emanuele Giordana, che documenta la situazione interna e i rapporti di forza attuali nei distretti afgani, e l’altro di Yurii Colombo sugli interessi russi a Kabul, completando la panoramica sulla situazione geopolitica afgana in seguito al ritiro delle truppe americane dal paese che abbiamo intrapreso cominciando da una tavola rotonda che li ha visti partecipi e trasmessa in diretta nella serata del 13 luglio da Radio Blackout, un’analisi che poi abbiamo cercato di approfondire nello studium “La solita musica afgana?”, chiedendoci se sarà un altro Afghanistan quello imbandito in questi due mesi di approcci internazionali..


Colmare gli svuotamenti irresponsabili con il basso profilo strategico

La Cina è apparsa come marginale nelle dinamiche afghane dall’inizio della guerra al terrorismo annunciata dagli Stati Uniti dopo i fatti del 2001, ma ha sempre agito con il basso profilo che ha caratterizzato la diplomazia cinese degli ultimi quarant’anni. Oggi più che mai, però, Kabul torna a risvegliare l’attenzione del vicinato e la dipartita delle forze armate americane contribuisce a lasciare un vuoto nel risiko dei nomi più influenti sull’area. Ecco che allora Pechino ritorna a far parlare di sé e del suo ruolo in Asia Centrale con uno sguardo particolare verso l’Afghanistan.

Guardando la cartina del continente asiatico, la distanza tra la capitale cinese e Kabul è quasi tre volte la distanza che separa l’Italia da Mosca. Eppure, alla Cina importa moltissimo dell’Afghanistan e di quei 76 chilometri di confine che dividono i due paesi. In questa breve striscia di territorio, che per la Cina è spesso sovradimensionata a 90 chilometri, corre la periferia dello Xinjiang. Già epicentro delle accuse della comunità internazionale contro Cina e snodo chiave dei progetti di connettività cinesi in Asia, con il ritorno dell’instabilità questo territorio è diventato un grattacapo per Pechino. Sebbene da un lato quello che la Repubblica Popolare indica come “abbandono irresponsabile” degli Stati Uniti sia un conveniente strumento per posizionarsi come partner regionale intenzionato a mantenere gli equilibri.

Ghani o Talebani, purché sian libere le mani

Gli interessi della Cina, come Pechino dichiara e tiene a ribadire nelle sue esternazioni pubbliche, sono la stabilità declinata attraverso la prosperità economica, il dialogo equo tra attori e il rispetto della sovranità. Non per niente questa posizione ha giovato nel rapporto storico che Pechino intrattiene con i Talebani e che recentemente è stato descritto dal portavoce Suhail Shaheen (anche parte attiva nei negoziati) come un saldo rapporto di amicizia. I rappresentanti dei Talebani sono anche stati ospitati in Cina, ancora non si conoscono i dettagli di questi incontri. L’intesa tra Talebani e Cina risale al dicembre 2000, quando Mullah Mohammed Omarera era capo del gruppo e governatore ufficiale dell’Emirato Islamico dell’Afghanistan. Nell’ultimo decennio la Cina ha continuato a tenersi tutte le porte aperte, palleggiando tra il governo riconosciuto di Ashraf Ghani e gli altri attori non statali diffusi sul territorio. Le diverse narrazioni, insomma, hanno una cosa in comune: il contatto dichiarato più o meno apertamente tra la Cina e un ampio ventaglio di attori, compresi quelli non statali.

Risorse succulente per la Bri e concorrenza agguerrita

I due grandi temi che sembrano emergere dal discorso cinese sullo sviluppo e stabilizzazione dell’Afghanistan sono quindi economia e sicurezza, un mix che non è nuovo nella proiezione estera di Pechino, ancora di più se questa coinvolge il vicinato. L’Afghanistan è di fatto una delle gemme incastonate negli ambiziosi piani della nuova Via della Seta (o Belt and Road Inititiative, Bri), la cui instabilità attuale non può essere ignorata da Pechino quando ragiona sull’avanzamento dei suoi progetti lungo il corridoio sino-pakistano. Investimenti che secondo le proiezioni accoglieranno almeno 62 miliardi di dollari da parte cinese. Per non parlare delle attività pensate dentro i confini afghani, dove esistono ancora grandi bacini di risorse sottosfruttate – secondo alcune stime si parla di un triliardo di dollari. Non solo corridoio per far passare scambi commerciali e infrastrutture, quindi: l’Afghanistan è il più grande bacino di rame della regione, oltre a essere ricco di carbone, ferro, gas, cobalto, mercurio, oro, litio e torio. Ci sono inoltre anche altri beni che iniziano a interessare agli investitori cinesi, come i jalghoza, un tipo di pinoli il cui commercio è esploso in Cina negli ultimi anni. Rimane da evidenziare, però, che la Cina è ancora lontana dall’essere il primo partner commerciale di Kabul, settore dove prevalgono Emirati Arabi (le cui importazioni dall’Afghanistan sono cresciute addirittura del 730 per cento tra 2018 e 2019), Pakistan e India.

Reti tribali e infiltrazioni cinesi in rete

A partire dal 2011 si registra una maggiore presenza di investimenti diretti esteri nel settore energetico, con l’ottenimento da parte della China National Petroleum Corporation (Cnpc) dei diritti di perforazione di tre giacimenti petroliferi per 25 anni, per un totale previsto di circa 87 milioni di barili di petrolio. Tra i giacimenti minerari assicurati, invece, figurano i diritti di estrazione del rame a Mes Aynak, nella provincia di Logar.

Il sito archeologico di Mes Aynak, la cui conservazione è in pericolo a causa degli interessi minerari cinesi.

Infine, il Badakhshan, la provincia afghana che confina con la provincia cinese dello Xinjiang, è una zona di forti traffici illeciti e non – in particolare di pietre preziose. Il caso delle infiltrazioni cinesi nella rete Haqqani dello scorso dicembre 2020 aveva, per esempio, fatto riemergere il tema delle attività “dietro le quinte” dei cinesi in Afghanistan. Tra i principali protagonisti degli attacchi terroristici a Kabul e sulla lista dei gruppi terroristi statunitensi, pare che il gruppo fosse coinvolto in attività di contrabbando di droga e armi, ma anche nella creazione di una finta cellula separatista uigura per incastrare i combattenti in arrivo dallo Xinjiang. È stata l’agenzia di spionaggio indiana Research and Analysis Wing (R&AW) a riferire all’intelligence afghana della presenza di cittadini cinesi sospetti a Kabul, e ora non è chiaro se alcuni sospettati siano rimasti in detenzione nel paese o se siano stati tutti trasferiti nella madrepatria. I progetti cinesi sono spesso soggetti a rallentamenti e non è una novità che possano cadere in un nulla di fatto. Oggi il Pil dell’Afghanistan dipende al 40 per cento dagli aiuti esteri [dati Banca Mondiale], ma si prevede almeno un dimezzamento entro il 2030: si pone quindi l’imperativo di affidarsi a progetti concreti, che permettano al paese di rendersi sempre più indipendente e autonomo sul piano economico.

Delirio securitario in attesa di liste di proscrizione comuni

La protezione dell’infiltrazione economica cinese in Afghanistan non può non prescindere dalla stabilità lungo il confine, ecco quindi che anche la tutela del territorio e l’incolumità dei cittadini cinesi diventano prioritari. Il ritorno a una situazione di relativa instabilità non giova alla Repubblica Popolare, che durante il mese di luglio 2021 ha evacuato 210 connazionali con voli charter. La Cina può ancora offrire aiuti nel processo di sviluppo e ricostruzione afghano, ma lo farà alle sue condizioni, in primis la sicurezza degli asset finanziati di banche e imprese cinesi. Sul piano della sicurezza, quindi, non spaventa tanto il cosiddetto “vuoto di potere” lasciato dagli Stati Uniti, quanto un generale senso di instabilità lungo il confine sino-afghano.

Wakhan Corridor

Moto donate dai cinesi a soldati afgani dislocati in un checkpoint sino-afgano nel corridoio Wakhan

In questo senso la ripresa dei Talebani diventa sia motivo di apprensione, che di sollievo. Tutto dipenderà dalla relativa stabilità che riusciranno a creare nel paese: anche per questo la Cina non chiude le possibilità di dialogo con nessuno. Gli accordi con i Talebani sono incentrati sulla promessa che le milizie controllino e impediscano gli ingressi degli uiguri dal confine con lo Xinjiang, e viceversa: la provincia occidentale cinese che condivide il breve tratto di confine con l’Afghanistan deve essere protetta dall’ingresso delle milizie di tutti i gruppi terroristici, da al-Qaeda allo Etim.

Il Badakhshan è stato infatti rifugio storico del Movimento indipendentista del Turkestan orientale (Etim), gruppo separatista di matrice islamica nato nel 1993 con l’obbiettivo di rendere lo Xinjiang uno stato indipendente da Pechino. Secondo le ultime stime il movimento raccoglierebbe poche centinaia di individui, che nell’ultimo periodo si sarebbero stabilizzati in Siria e che oggi starebbero invece ritornando in Asia Centrale. A complicare la situazione, però, è arrivata la bagarre diplomatica tra Cina e Stati Uniti sul tema Xinjiang. Mentre ai Talebani viene riconosciuto questo ruolo di “poliziotti oltreconfine” e l’Etim rappresenta per la Cina uno scomodo impiccio, gli Stati Uniti hanno deciso di rimuovere il movimento dalla Us Terrorism Exclusion List nel novembre 2020. L’Etim era stato schedato da Washington nel 2002, ma oggi gli Usa affermano che non esistono prove concrete dell’esistenza del gruppo oggi. Inoltre, la mossa arriva anche per lanciare un segnale a Pechino, finita nell’ultimo anno sotto lo scrutinio internazionale con l’accusa di internare gli uiguri in campi di lavoro forzato – accuse che si sono trasformate in sanzioni da parte di Unione Europea e Usa, a cui la Cina ha risposto con altrettante sanzioni a individui e società. La scelta statunitense non è piaciuta alla Repubblica Popolare, che ha accusato gli americani di portare avanti una logica di doppio standard sui diritti umani in Asia e «utilizzare [la lotta al terrorismo] fin quando fa comodo e poi scartarla quando non serve più». Anzi: secondo alcuni osservatori cinesi gli Usa hanno deliberatamente preso questa decisione per incoraggiare i miliziani dell’Etim a destabilizzare le attività cinesi nella regione.

Scommesse sul cambiamento dei Talebani

Altri analisti cinesi invece cercano di contrastare quella che chiamano una «strategia occidentale di esporre le presunte paure della Cina», ovvero: sarebbe tutto un tentativo mediatico per ridurre gli interventi della Repubblica Popolare a piani di difesa contro un pugno di terroristi uiguri. La situazione è molto più complessa. Cao Wei, un esperto di studi sulla sicurezza internazionale presso l’Università di Lanzhou, ha dichiarato al “Global Times” (megafono mediatico di Pechino in lingua inglese) che è altamente improbabile che estremisti e gruppi terroristici entrino in Cina dal corridoio del Wakhan.  Per il dottor Wei i talebani sono molto cambiati e dovranno prima o poi fare i conti con un paese da gestire oltre lo stato di guerra civile: il Badakhshan è già sotto il loro controllo, e per questo motivo la Cina dovrà fare più attenzione alle infiltrazioni dello Etim da altri paesi dell’Asia centrale.

Wakhan, ancora tomba degli imperi?

L’attenzione sul corridoio del Wakhan non è una prerogativa esclusivamente cinese: nella “tomba degli imperi” si alternano tanti attori diversi, ognuno con interessi differenti e che spesso cerca nella Cina una spalla su cui contare. Talvolta, è la Cina stessa che prende l’iniziativa, soprattutto ora che l’addio degli Stati Uniti rischia di far precipitare la situazione in tutta la regione.

Il Pakistan, alleato ad ammansire gruppi ribelli diversamente minacciosi

Ecco, quindi, che tra i primi nomi in lista compare quello del Pakistan, storico partner economico di Pechino con cui porta avanti un dialogo trilaterale insieme all’Afghanistan dal 2015. Il Pakistan lavora su tutti i fronti per porre in sicurezza il confine con l’Afghanistan e la Cina è stata di aiuto nel gestire, per esempio, quella che sembra la ristrutturazione del gruppo Tehreek-e-Taliban Pakistan (Ttp) nella provincia afghana Paktika. E qui ritorna la Cina, perché proprio i talebani e la rete Haqqani con cui dialoga Pechino sono strumentali anche per Islamabad a tenere sotto controllo la minaccia terroristica. Il Ttp è inoltre dichiaratamente antagonista della Cina, che condanna per la persecuzione degli uiguri. A sua volta, il premier pakistano Imran Khan ha ripreso il dialogo con i gruppi ribelli del Belucistan che si oppongono alla Belt and Road Initiative cinese: una mossa non scontata che potrebbe facilitare le cose a Pechino. In questo senso, per la Cina è importante il rapporto con il Pakistan (che viene definito tie gan “ferreo, solido come una roccia” – una nozione ancora dibattuta ma che tende a evidenziare la solidità che Pechino vede nella relazione) nel contesto mutevole dell’Afghanistan postritiro statunitense.

Mosca e gli “stan”: partner fondamentali nella questione afgana

Sempre parlando di politiche di vicinato, la Cina ha avviato da tempo il dialogo con i cinque stati centrasiatici sulla situazione afghana per combattere quelli che chiama i “tre grandi mali”: terrorismo, estremismo e separatismo. Gli stessi elementi che ricorrono nel discorso cinese sul terrorismo internazionale e i rischi a esso associati nella regione dello Xinjiang. In questo 2021 di cambiamenti per Kabul e, di conseguenza, per chi con l’Afghanistan condivide confini instabili e porosi, sono diventate centrali le visite del ministro agli affari esteri Wang Yi e il dialogo congiunto multilaterale. Talvolta questi incontri sono inseriti nel più ampio meccanismo di sicurezza regionale fondato dalla Cina e che vede partecipe anche la Russia: la Shanghai Cooperation Organization. La Russia rimane un importante alleato da mantenere nella regione, in quanto a sua volta promette di non cedere all’interventismo di stampo neoliberale promosso dagli Usa. Importanti per entrambi i giganti le partnership strategiche su tutto il territorio, dove contano sicurezza e interessi economici, ancor meglio se corredato di una buona relazione con gli stati centrasiatici. A essere favorita da entrambi rimane la soluzione politica del conflitto afghano, attraverso negoziati tra le parti. Rimane però un vuoto nella sostanza di queste operazioni, dove per ora sembra che Mosca e Pechino vadano ad agire individualmente.

La Cina appare cauta nei confronti dei gruppi di potere di matrice islamica, ma i fatti dimostrano una disposizione a scendere a patti mediata da negoziati in grado di soddisfare le parti. Lo scacchiere afghano dei mesi a venire rimane un ambiente molto complesso da interpretare, dove non si esclude che possano ancora avvenire dei cambiamenti decisivi. Per ora, quindi, niente rapporti di ferro definiti per Pechino, ma flessibili palleggiamenti tra gruppi di potere.

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Il dramma dimenticato degli hazara in Pakistan https://ogzero.org/gli-hazara-di-quetta/ Thu, 11 Feb 2021 17:27:11 +0000 http://ogzero.org/?p=2405 Emozioni elitarie ad alta quota Vuoi per “provocazione amichevole”, vuoi per sapere cosa ne penso (in riferimento al polverone sollevato l’anno scorso dal mio articolo sulla relazione tra alpinismo e colonialismo), qualche compagno ha voluto scomodarsi per aggiornarmi su alcune recenti “imprese” alpinistiche extraeuropee. Vedi sul K2 destinato – azzardo – a diventare la nuova, […]

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Emozioni elitarie ad alta quota

Vuoi per “provocazione amichevole”, vuoi per sapere cosa ne penso (in riferimento al polverone sollevato l’anno scorso dal mio articolo sulla relazione tra alpinismo e colonialismo), qualche compagno ha voluto scomodarsi per aggiornarmi su alcune recenti “imprese” alpinistiche extraeuropee. Vedi sul K2 destinato – azzardo – a diventare la nuova, costosa meta di prestigio per ricchi turisti in cerca di emozioni elitarie (e presumibilmente a trasformarsi nella seconda grande discarica d’alta quota, dopo l’ormai inflazionato Everest).

Cos’altro posso dire che non abbia già detto?  Forse soltanto: “A volte ritornano” (crisi d’astinenza o coazione a ripetere?).

Peccato comunque per i leopardi delle nevi che nel corso del 2020 – come sostenevano alcuni naturalisti – si stavano  riappropriando dei legittimi spazi e territori. Grazie alla consistente rarefazione di turisti-alpinisti (effetto collaterale – benigno – del Covid-19).

Peccato, ripeto. Resta sempre il problema di come si possa fare serenamente del turismo – se pure d’alta quota – in un paese che opprime e reprime donne, diseredati e minoranze.

In precedenza mi ero occupato dei beluci. Non sono gli unici naturalmente.

Una premessa di carattere generale: tutto il mondo è paese

Inoltrandosi nel complicato “groviglio” orientale può capitare, per quanto in buonafede, di trascurare alcune “minoranze” (termine riduttivo, in realtà si dovrebbe parlare di “popoli minorizzati”, in genere forzatamente).

Popolazioni che talvolta emergono dall’anonimato in cui le vorrebbe segregate qualche potenza regionale (magari cambiando denominazione: vedi l’epiteto di “turchi di montagna” usato per i curdi del Bakur) soltanto per qualche rivolta disperata a cui segue – fatalmente – un’impietosa repressione. Oppure quando qualche potenza concorrenziale cerca di utilizzarli per scopi non certo disinteressati.

O ancora, sempre pensando ai curdi (ma stavolta del Bashur), ripercorrendo quanto avvenne 30 anni fa con la prima guerra del Golfo, quando le rivolte curda (a nord) e sciita (a sud) stavano per abbattere autonomamente – sia pure come effetto collaterale dell’attacco statunitense – il regime (e non solo l’ormai impresentabile Saddam, alleato storico dell’Occidente). Temendo che la situazione sfuggisse loro di mano, gli Usa preferirono liberare e riarmare – con elicotteri e carri armati in parte di produzione italica – i soldati iracheni già sconfitti e catturati. Consentendo loro di scatenare l’ennesima, sanguinosa repressione. Fatte le debite proporzioni, ricordava quanto avvenne in Francia all’epoca della Commune. Quando i prussiani – temendo il “contagio” della grandiosa sollevazione popolare – ugualmente liberarono e riarmarono i soldati francesi. Per consentirgli di “ristabilire l’ordine a Parigi” massacrando i comunardi.

Gli hazara del Pakistan, minoranza nativa sciita

Messi da parte contrasti e inimicizie, alla fine – quasi sempre – i potenti trovano un accordo. Perlomeno quando si tratta di conservare il controllo, la sottomissione di classi subalterne, minoranze indocili e popoli ribelli.

Ma non tutti i popoli, purtroppo, approdano in maniera significativa alle pagine dei giornali o del web.

È questo – mi pare – il caso degli hazara insediati nella regione pachistana del Belucistan (la maggior parte, circa 500.000, a Quetta). Da considerare ormai alla stregua di “minoranza nativa” in quanto discendono da coloro che qui emigrarono dall’Afghanistan più di un secolo fa.

Di religione sciita, periodicamente sono sottoposti a uccisioni mirate, rapimenti e massacri.

Una mappa dei gruppi etnolinguistici dell’area, tratta da “La Grande Illusione”, a cura di Emanuele Giordana, Torino, Rosenberg & Sellier, 2019

E non da ora. Risalendo indietro nel tempo, vediamo che tra il 2001 e il 2011 almeno 600 hazara avevano perso la vita in attacchi settari. Solo nei primi tre mesi del 2012 altri 30.

All’epoca la maggior parte degli attentati vennero rivendicati dai fondamentalisti sunniti di Lashkar-e-Jhangvi Al-Alami, braccio armato del Sipah Sahaba Pakistan (Ssp), entrambi – presumibilmente – manipolati dai servizi segreti pachistani.

Dopo essere state dichiarate illegali, le due organizzazioni si ricostituirono come Millat Islamia Pakistan e Ahl-e-Sunnat Wal Jamat.

Quetta, attivisti di Ahle Sunnat Wal Jamat (ASWJ, fondamentalisti sunniti) cantano slogan contro la dissacrazione del Corano durante una protesta nel dicembre 2013 (foto Arsalan Naseer/PPI Images).

La ribellione senza velleità separatiste

Da parte loro, gli hazara rispondevano solo politicamente, con scioperi e proteste. E, particolare non irrilevante, senza particolari velleità separatiste (anche per non fornire alibi alla repressione governativa).

La manifestazione del 21 settembre 2011 – indetta per protestare contro una strage di pellegrini sciiti che viaggiavano in autobus – era entrata nella storia per la grande partecipazione popolare.

Ma solo dopo pochi giorni, il 4 ottobre 2011, la violenza settaria colpiva un altro autobus e diversi hazara – operai che andavano al lavoro – perdevano la vita.

Con le stesse modalità il 29 marzo 2012 venivano ammazzati otto hazara, mentre il 6 aprile altri sei venivano trucidati in una bottega artigianale. Nei primi mesi del 2013 si parlava addirittura di quasi 200 hazara morti in attentati settari.

In precedenza, nel 2010, era stato assassinato Hussein Ali Youssafi, presidente del Partito democratico hazara (fondato nel 2003). A lui subentrava Abdul Khaliq Hazara che – quando si recò a Islamabad per denunciare la situazione in cui versava il suo popolo – si sentì chiedere di sospendere le manifestazioni di protesta.

L’ingerenza saudita

Per la cronaca, circa nello stesso periodo i fondamentalisti sunniti tornavano a colpire anche gli hazara dell’Afghanistan (oltre due milioni), accusandoli – ovviamente – di essere “infedeli”. Venne poi accertato che alcuni degli attentati più devastanti erano opera non dei talebani afgani, ma di miliziani provenienti dal Pakistan legati a Lashkar-e-Jhangvi Al-Alami.

Intanto continuava lo stillicidio di omicidi settari e vere e proprie stragi nelle strade di Quetta (e alcuni osservatori vi intravedono ingerenze, infiltrazioni e finanziamenti sauditi).

A Quetta (2,3 milioni di abitanti) vivono sia pasthun che beluci e aimak, ma è fuori discussione che – almeno in percentuale – il maggior numero di vittime sono hazara.

Non solo. Per anni questa “comunità sotto controllo” è vissuta praticamente confinata, segregata in enclave circondate da posti di blocco (tipo Irlanda del Nord). In teoria potrebbero circolare liberamente per la città, ma a proprio rischio e pericolo.

Gli hazara di Quetta

E la comunità internazionale?

Quanto alla comunità internazionale – Usa e Unione europea in particolare – non sembra aver mai mostrato particolare interesse per le vicende di tale minoranza che in quanto sciiti venivano – e vengono – considerati potenziali alleati di Teheran. Così come, coincidenza o analogia, all’epoca nessuno mostrò particolare interesse per la “primavera” sciita nel Barhein (repressa con l’intervento di Arabia Saudita e Qatar e il tacito assenso dell’Occidente).

E invece l’Iran «non ci aiuta, cerca piuttosto di infiltrarci e controllarci tramite la religione».

O almeno così sosteneva, ritengo a ragion veduta, in una conferenza stampa Khaliq Hazara.

Comunque, proseguiva «grazie ai finanziamenti di Teheran, gruppi filoiraniani come Tehreik-e-NifazFiqa-e-Jafria avevano aperto a Quetta dozzine di scuole coraniche, ma noi siamo laici e lottiamo per la giustizia sociale, la democrazia, il rispetto della vita umana e la tolleranza».

Ricordando che «i due milioni di hazara (in gran parte rifugiati dall’Afghanistan N. d. A.) che vivono in Iran sono trattati come cittadini di serie C». In qualche modo ostaggi dei conflitti di influenza tra l’Iran sciita e l’Arabia saudita sunnita (e non si può escludere che talvolta i responsabili vadano individuati tra i beluci sunniti).

Le violenze continuano anche in Afghanistan

Ai nostri giorni le violenze ai danni degli sciiti hazara, delle loro scuole e luoghi di culto proseguono inesorabili.

Per esempio, nel settembre dell’anno scorso, un attentato suicida (rivendicato da Wahhabi Daesh e da Lashkar-e- Jhangvi) ha causato più di venti morti e oltre cinquanta feriti in un mercato.

Quest’anno, il 3 gennaio, 11 membri della comunità hazara sono stati prima sequestrati e poi assassinati dall’Isis nella città di Machh. Si trattava di minatori qui emigrati – spinti dalla miseria – da Daikondi (Afghanistan).

Le famiglie delle vittime avevano espresso la loro rabbia manifestando nelle strade contro il governo (definito “complice”). Addirittura si rifiutavano di seppellire i morti come forma di protesta per la mancata protezione.

Anche se poi, come hanno dichiarato alcuni familiari: «alla fine dovremo seppellirli e non avremo altra scelta che chiedere ai nostri parenti in Afghanistan e all’estero di aiutarci a pagare». Una ulteriore umiliazione per chi versa in condizioni di estrema povertà. Peraltro da entrambe le parti della Durand Line.

E non sono certo bastate a placare gli animi le pubbliche dichiarazioni – di circostanza – venute da vari esponenti dell’apparato politico-militare al potere. Comprese quelle del primo ministro Imran Khan che in varie occasioni ha espresso solidarietà alle vittime.

Nessuna risposta, nessuna protesta

Amnesty International ha condannato con forza le molteplici violazioni dei diritti umani subite dagli hazara. In particolare ha chiesto che «il capo di Stato maggiore dell’esercito venga a Quetta per vedere di persona la miseria e le difficoltà del popolo hazara».

Senza – almeno per ora – ricevere risposta.Tutto questo, ripeto, nel paese che un sempre maggior numero di scanzonati turisti benestanti d’alta quota (il cui livello di consapevolezza sociale e ambientale lascia quantomeno a desiderare) ha individuato come “parco giochi spettacolare”. Invece di boicottarlo come ai vecchi tempi si faceva con il Sudafrica dell’apartheid.

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Il piatto mare-monti tra Cina e Usa https://ogzero.org/il-piatto-mare-monti-tra-cina-e-usa/ Tue, 14 Jul 2020 13:25:48 +0000 http://ogzero.org/?p=462 Anche il recente scontro tra Delhi e Pechino va ricondotto a una battaglia più grande nella regione indo-pacifica. Un gioco globale su più tavoli soprattutto tra Usa e Rpc che passa persino per gli abiti talari Il faccia a faccia sino-indiano iniziato a maggio sulle vette himalayane, da sempre teatro di tensione per la questione […]

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Anche il recente scontro tra Delhi e Pechino va ricondotto a una battaglia più grande nella regione indo-pacifica. Un gioco globale su più tavoli soprattutto tra Usa e Rpc che passa persino per gli abiti talari

Il faccia a faccia sino-indiano iniziato a maggio sulle vette himalayane, da sempre teatro di tensione per la questione del Kashmir e per le mai sopite rivendicazioni di confine tra India e Cina, ha registrato la notte del 15 giugno il primo scontro violento tra i due eserciti da quasi 50 anni a questa parte seppur senza l’uso di armi da fuoco. Il bilancio dei morti resta incerto ma, nonostante le dichiarazioni che da ambo le parti, sostengono di voler riportare la questione nell’ambito di una pacifica e diplomatica risoluzione del contenzioso, la tensione resta elevata. E rischia di farla aumentare anche nelle relazioni sempre tese tra Delhi e Islamabad, alleata di Pechino.

Lo scontro economico tra Cina e India

Dietro allo scontro ci sono molti fattori che non riguardano solo i confini ma il confronto tra due grandi potenze mondiali – India e Cina – e, più in generale, la guerra dell’egemonia globale dove si affacciano ovviamente altri attori, soprattutto gli Stati Uniti (la Russia appare in Asia su posizioni arretrate). Con il premier Narendra Modi, l’India ha avuto una sterzata fortemente anticinese di cui si è avuta prova quando Delhi ha fatto fallire, nel novembre 2019, l’accordo di libero scambio Rcep: è l’acronimo del Partenariato economico globale regionale proposto nella regione indo-pacifica da dieci stati del Sudest asiatico riuniti nell’Asean e Australia, Cina, Giappone, Nuova Zelanda, Corea del Sud e appunto India. Fu la paura dei beni a basso prezzo cinesi sul mercato indiano a preoccupare Delhi. Uno spettro riassunto dalla giornalista indiana Barkha Dutt, autrice di This Unquiet Land: Stories from India’s Fault Lines (non a caso sul “Washington Post”) a commento degli scontri al confine sull’Himalaya, a oltre 4000 metri di altezza e lungo la Linea di controllo (Line of Actual Control: Lac) che fa da confine tra India e Cina. «Il deficit commerciale dell’India con la Cina è di 53 miliardi di dollari», scrive, aggiungendo che sarebbe «un suicidio consentire alla Cina di avere libero accesso ai mercati e ai consumatori indiani mentre costruisce strade e infrastrutture attraverso le parti del Kashmir occupate dal Pakistan».

Dall’altro lato del confine, in Pakistan, prevale la prudenza ma un editoriale di “The Dawn” del 18 giugno chiarisce come la vedono a Islamabad: «Sfortunatamente, l’India ha una storia di bullismo nei confronti dei suoi vicini e cerca di giocare a egemone regionale. Il Pakistan ha da tempo sottolineato la necessità di affrontare la questione del Kashmir al tavolo negoziale, una posizione che l’India ha arrogantemente respinto». Un fatto che purtroppo, al di là delle responsabilità anche pachistane nel conflitto, ha un fondo di verità.

Non solo riflessi regionali

Ovviamente, un conflitto tra Cina e India non ha solo riflessi regionali. Se tocca i vicini come il Pakistan, rientra nel grande gioco internazionale e non è difficile capire dunque come gli Stati Uniti possano servirsene nella neoguerra fredda, soprattutto commerciale, con Pechino. Una guerra fredda commerciale e a parole ma che, come vedremo, è anche armata. È un elemento che desta preoccupazione in tutta l’Asia come ha scritto ai primi di giugno su “Foreign Affairs” Lee Hsien Loong, primo ministro di Singapore: «L’Asia ha prosperato – scrive – perché la Pax Americana dalla fine della Seconda guerra mondiale ha fornito un contesto strategico favorevole. Ma ora, la travagliata relazione tra Stati Uniti e Cina solleva profonde domande sul futuro dell’Asia e sulla forma dell’ordine internazionale emergente».

Ma oltre alle montagne ci sono soprattutto i mari. La regione del Pacifico, o meglio dell’Indo-Pacifico (come ora viene chiamata), comprende la Cina, il Mar cinese orientale e il Mar Cinese meridionale, tutti i paesi che vi si affacciano (dal Giappone all’Indonesia) e il Golfo del Bengala, territorio marino presidiato dall’India che lo ritiene il suo cortile di casa acquatico. I mari sono vie di collegamento commerciali fondamentali, luoghi di caccia, presidi militari e infine riserve energetiche, come rivela la querelle sulle isolette Paracel e Spratly. Su tutta una serie di atolli cinesi a tutti gli effetti, Pechino ha allestito piste di atterraggio, magazzini, baracche militari e il contenzioso su Paracel e Spratly, rivendicati da più nazioni, ha fatto salire il livello di allarme ormai da anni. La storia è antica perché Pechino rivendica un’area estesa per circa mille miglia dalle sue coste e la controlla con navi militari, aerei e pescherecci. Una forza di pressione che nel 2018 obbligò Hanoi – che ha rivendicazioni territoriali in quello specchio di mare assieme a Malaysia, Brunei, Filippine e Taiwan – a sospendere i progetti di trivellazione petrolifera della spagnola Repsol. A fine aprile 2020 tra l’altro, il Vietnam ha protestato con Pechino contro l’istituzione di due distretti sull’isola cinese di Hainan col compito di governare Paracel e Spratly.

Piccole isole grandi problemi

Il contenzioso, come dicevamo, preoccupa un po’ tutti: i più teneri con Pechino sono i filippini, i più agguerriti sono i vietnamiti. E non è un caso se Hanoi stringe relazioni sempre più forti con Washington che sono invece ai minimi storici con Manila. Ma la partita è molto più ampia: la Nuova Via della Seta (Belt Road Initiative) si basa anche su un “filo di perle” marittime che sono i porti di Chittagong in Bangladesh, Sihanoukville in Cambogia, Hambantota in Sri Lanka e Gwadar in Pakistan più altri progetti (in Myanmar, Thailandia…) per la costruzione di nuove infrastrutture portuali e in alcuni casi anche militari. Una recente analisi di “Al Jazeera” ha fatto i conti in tasca alla potenza militare marittima cinese: fregate, portaerei, sottomarini, pattugliatori (acquistati ma sempre più costruiti in loco) con una forza militare navale di circa 100000 uomini, la seconda al mondo dopo gli Stati Uniti (quasi il doppio) e subito prima della Corea del Sud.

Gli americani non sono rimasti a guardare. Nell’area è dislocata la Settima flotta, la più grande di quelle dispiegate dalla marina statunitense con oltre 50-70 navi e sottomarini, 140 aerei e circa 20000 marinai in grado di reagire rapidamente. Il Comando generale dell’area (Usindopacom) conta infine oltre 370000 uomini tra personale di terra, aria, mare. Proprio recentemente sono state rafforzate una serie di manovre di pattugliamento, sorveglianza, osservazione che hanno innervosito i cinesi. Un esercizio muscolare mentre si scaldava il dossier Covid-19, il caso Hong Kong e quello mai chiuso su Taiwan.

Washington scalda i muscoli

L’idea di potenziare la difesa americana nel Pacifico ha cominciato per altro a circolare ai primi di aprile di quest’anno quando le conclusioni di un rapporto dell’ammiraglio Phil Davidson, a capo del Comando Usindopacom, hanno chiesto al Congresso 20 miliardi di dollari per rafforzare operazioni navali, aeree e terrestri nella regione (sistemi d’arma, logistica, training, intelligence…). Nel giro di 15 giorni la richiesta è diventata una proposta di legge, presentata al Congresso il 23 aprile dal repubblicano Mac Thornberry a capo dell’Armed Services Committee della Camera, comitato con compiti di sorveglianza su Pentagono, servizi militari e agenzie del Dipartimento della Difesa, compresi budget e politiche. Falco texano, Thornberry presenta la “Indo-Pacific Deterrence Initiative” come il corollario orientale necessario della “European Deterrence Initiative” che, per controbilanciare l’espansionismo russo a occidente, ha già messo sul tavolo fino al 2021 oltre 26 miliardi di dollari. Nel progetto di legge se ne chiedono più di sei per la sola regione indo-pacifica e per il solo 2021 con un piano che probabilmente arriverà ai 20 miliardi chiesti dall’ammiraglio Davidson nel giro dei prossimi esercizi finanziari.

Naturalmente, come nel “dialogo” tra Cina e India, anche in quello tra Usa e Cina le manifestazioni pubbliche sono sempre “costruttive”. Ma gli incontri faccia faccia danno più la sensazione che gli avversari vogliano soprattutto studiarsi più che mettersi realmente d’accordo. Ne sembra la prova il summit di metà giugno (la battaglia indo-cinese era appena avvenuta) tra il diplomatico cinese Yang Jiechi e il segretario di stato americano Mike Pompeo che si sono incontrati il 17 giugno per un colloquio alle Hawaii preparato in gran segreto, sembra soprattutto per volontà americana. Ma la montagna ha partorito un topolino. Al di là di dichiarazioni assai vaghe, le indiscrezioni emerse a seguito dell’incontro dicono chiaramente che l’unico fatto positivo è semmai che l’incontro c’è stato. Un incontro durato sette ore con cena. Taiwan, Hong Kong e la repressione nello Xinjiang avrebbero dominato il summit – definito appunto “costruttivo” – tra Mike Pompeo e Yang Jiechi. Pechino si sarebbe impegnata a migliorare il suo rapporto con Washington – ha scritto il ben informato “South China Morning Post” – ma avrebbe anche avvertito gli Stati Uniti che la Rpc difenderà risolutamente i suoi interessi. Alla fine l’incontro sembra aver solo offerto la prova di un desiderio condiviso di impedire che i rapporti si inaspriscano ulteriormente. Un modo forse per poter continuare a studiare l’avversario. Gli americani del resto hanno ottenuto che l’incontro si tenesse in un luogo non proprio neutro: le Hawaii dove è dislocato il Comando di Usindopacom in un momento in cui gli americani hanno rafforzato un esercizio muscolare navale davvero bizzarro se si vuole raffreddare il rapporto con la Cina. Un esercizio rafforzato da atteggiamenti sempre più anticinesi dell’alleato australiano e della Nuova Zelanda.

 

La guerra con la tonaca

Ma il virus della guerra Cina/Usa non passa solo dalle accuse di aver strumentalizzato l’Oms, dal quadrante marittimo del Pacifico o dalle battaglie sul commercio e, seppur indirettamente, dalle schermaglie sulle vette himalayane. Ci sono risvolti più o meno aperti e manovre più o meno sotterranee come rivela un caso recente che riguarda Hong Kong, tallone d’Achille della Rpc. “UcaNews”, la più diffusa e potente agenzia cattolica in Asia ha scritto recentemente che il cardinale Zen e il vescovo Ha Chi-shing, due leader religiosi cattolici di Hong Kong che non hanno mai nascosto il loro sostegno ai movimenti nell’ex colonia: «potrebbero essere inviati nella Cina continentale per essere processati» dopo che la nuova proposta legislativa sulla sicurezza a Hong Kong voluta da Pechino è diventata legge. Si tratta in realtà più di un’ipotesi che di una probabilità reale, ma quel che è certo è che i due prelati sono invisi alla Rpc per aver sempre remato contro. Zen, in particolare, che cercò di boicottare persino lo storico accordo tra Pechino e Santa Sede (Accordo Provvisorio sulla nomina dei Vescovi) firmato il 22 settembre 2018 sotto il pontificato di papa Francesco. Fu l’atto che segnava l’inizio della fine della guerra tra Roma e Pechino sulla cosiddetta Chiesa parallela (per cui la Cina sceglieva i vescovi e Roma non li riconosceva) e l’avvio di future relazioni diplomatiche tra i due paesi. Ora che anche l’ultimo vescovo è stato riconosciuto, la deportazione di Zen e Ha Chi-shing manderebbe all’aria la faticosa ma ben avviata riconciliazione tra i due stati.

La bozza ufficiale della legge sulla sicurezza nell’occhio del ciclone non è ancora ufficiale e il suo corpus dovrebbe essere approvato dal Comitato Centrale del Partito entro luglio ma, scrive l’agenzia cattolica: «Il dettaglio più recente – cioè che la Cina ha la possibilità di decidere di processare gli accusati in continente – è emerso in una conferenza a Shenzhen il 15 giugno», quando Deng Zhonghua, vicedirettore del gabinetto di Hong Kong e dell’ufficio affari di Macao, ha spiegato che «in circostanze molto speciali, il governo centrale manterrà la giurisdizione su alcuni casi che coinvolgono atti criminali che mettono gravemente a repentaglio la sicurezza nazionale». Da questo agli arresti di Zen ce ne corre: la mossa – che farebbe del cardinale un martire – inasprirebbe inutilmente i rapporti in via di sempre maggior distensione tra Rpc e Vaticano e non farebbe comodo a nessuno dei due: «probabilmente – dice una fonte vaticana – piacerebbe agli americani che hanno sempre ostacolato il processo e hanno sempre sostenuto Zen. C’è una partita geopolitica più ampia intorno ai rapporti tra Rpc e Santa Sede e che fa anche parte della guerra tra Washington e Pechino».

I piccoli tasselli del grande gioco

Joseph Zen Ze-kiun (classe 1932) è stato il sesto vescovo di Hong Kong ed è cardinale dal 2006. Molto duro con la Cina si è sempre esposto anche dopo che nel 2009 si è ritirato per limiti di età, senza per altro perdere influenza. Joseph Ha Chi-shing è uno dei quattro vescovi ausiliari di Hong Kong che assistono il cardinale John Tong Hon nella gestione della diocesi, al cui posto Zen avrebbe invece voluto il suo pupillo. Non sono gli unici ferventi anticinesi nel mondo cattolico asiatico. Recentemente, suscitando stupore e imbarazzo, si è schierato anche il cardinale Charles Bo, arcivescovo di Yangon e presidente della Federazione delle Conferenze episcopali asiatiche. In una lettera a proposito del Covid-19 apparsa il 2 aprile proprio su “UcaNews” ha accusato la Cina di «atteggiamento negligente, in particolare il suo dispotico partito… Attraverso la sua gestione disumana e irresponsabile, il Pcc ha dimostrato ciò che molti pensavano in precedenza: che è una minaccia per il mondo». Musica per le orecchie di Zen e per quelle di Washington. Probabilmente anche per quelle di Narendra Modi.

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