Nursultan Archivi - OGzero https://ogzero.org/tag/nursultan/ geopolitica etc Fri, 29 Apr 2022 14:54:32 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.4.6 Kazakhstan. La rivolta che montava da tempo inaugura il 2022 https://ogzero.org/kazakhstan-la-rivolta-che-montava-da-tempo/ Thu, 06 Jan 2022 22:51:02 +0000 https://ogzero.org/?p=5770 Nel Kazakistan dell’ultimo capo del Pcus locale, sopravvissuto al potere per 30 anni alla fine dell’Urss, il raddoppio delle tariffe energetiche è arrivato dopo che si è concluso il percorso in tre fasi di privatizzazione dell’energia. Alcuni analisti internazionali riconducono l’incremento di fabbisogno di energia in un paese che la produce (ed è straricco di […]

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Nel Kazakistan dell’ultimo capo del Pcus locale, sopravvissuto al potere per 30 anni alla fine dell’Urss, il raddoppio delle tariffe energetiche è arrivato dopo che si è concluso il percorso in tre fasi di privatizzazione dell’energia. Alcuni analisti internazionali riconducono l’incremento di fabbisogno di energia in un paese che la produce (ed è straricco di risorse energetiche) al fatto che le criptomonete hanno spostato i loro computer dalle sedi cinesi e i calcoli dell’algoritmo consumano talmente tanta energia ogni secondo che assorbono moltissima energia e hanno automaticamente fatto lievitare i prezzi delle fonti energetiche con l’aumento di richiesta. Ma la goccia di gpl è solo quella che ha fatto traboccare il vaso.

In realtà, qualunque contingenza abbia provocato questa emersione della rabbia del popolo kazako, la mobilitazione del proletariato che sta ribellandosi dura da molto più tempo che le privatizzazioni e la lotta di classe negli ultimi mesi aveva ottenuto importanti risultati e dunque ha solo proseguito la ribellione individuando la possibilità di ribaltare finalmente un sistema totalitario, corrotto, oligarchico e predatorio proprio dei proventi di quelle risorse che pretendeva di far pagare il doppio a un paese ricco dove si vive da poveri: una rivolta senza capi che subito è tacciata di intelligenza con gli Usa, ma questa somiglia troppo alla lotta di classe.

Yurii Colombo ha potuto analizzare la situazione attuale, avendo ben presente la rivolta del 2015-2016, ma anche badando agli interessi esterni – cominciando ovviamente da Mosca, ma anche dai paesi europei, dalla Cina partner commerciale, dai finanzieri svizzeri… – mettendo al centro l’evento quasi mitico di un paese in piazza che prende i palazzi del potere in poche ore, si scontra con le forze dell’ordine, un’insurrezione senza capi (probabilmente non ispirata da forze straniere, ma neanche spontanea perché montante da tempo), si ammanta di Storia per il suo divampare improvviso, ma è dotato della forza che le lotte precedenti le hanno infuso. Potranno soffocarla con l’intervento di Putin, ma il potere di Nazarbaev è stato definitivamente archiviato. Ora il problema è di Putin? 


“Ci sono giorni che valgono anni”, dice un vecchio motto. Ed effettivamente se non fossero eventi anche tragici quelli che in queste ore si stanno verificando in Kazakistan, si potrebbe desiderare che il tempo si fermasse per meglio fissare e analizzare i (rari) processi di accelerazione della storia. In soli quattro giorni le prime rivendicazioni operaie e popolari contro l’aumento dei prezzi del gas iniziate nelle regioni Sudoccidentali del paese si sono trasformate in un processo insurrezionale. Fino al punto che per essere sedate il Presidente in carica Quasym-Jormat Toquaev ha chiesto l’intervento dell’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva (Csto), il patto di Varsavia versione dopo il crollo dell’Urss, esattamente 30 anni fa.

Da più parti per spiegare quanto sta avvenendo stanno parlando di “rivolta spontanea”, ma è davvero così? Non proprio, la mobilitazione non è nata come Minerva dalla testa di Giove e mobilitazioni di tale portata forse possono essere improvvisate ma non create dal nulla.

Il focolaio della rivolta: non è la prima volta di Zhanaozen

La ribellione è iniziata il primo dell’anno nella provincia di Mangistau nel Sudest del Kazakistan che si affaccia sul Caspio nella cittadina di Zhanaozen e infettando poi la capitale regionale di Aktau. Tuttavia il cambio di passo è avvenuto il giorno dopo quando sono entrati in sciopero i minatori della regione di Karaganda e della Kazakhmys Corporation nell’ex regione di Zhezkazgan bloccando la ferrovia e l’autostrada a Taraz, Taldykorgan, Ekibastuz, Kokshetau e Uralsk. La rapidità dello sviluppo delle agitazioni non è stata però casuale.

Il movimento operaio kazako ha una grande tradizione di lotta nell’era postsovietica. Le prime ondate rivendicative soprattutto nel settore petrolifero ed estrattivo (oltre che metalmeccanico) condussero alla formazione nel 2004 dei primi sindacati indipendenti kazaki dell’era postsovietica. Il momento culminante di questa ondata rivendicativa (principalmente salariale) che proseguì in crescendo dal 2008 fu raggiunto nel 2011 con i gravi incidenti nella città di Zhanaozen, quando il 16 dicembre, la polizia sparò sugli operai, uccidendone 16, ferendone e arrestandone centinaia.

Malgrado la durissima repressione che ne seguì, forme di resistenza semiclandestina dei lavoratori non cessarono mai da allora. Nel 2021 il processo di ricomposizione delle lotte ha poi accelerato e il 30 giugno scorso i lavoratori dell’azienda di servizi petroliferi Kezbi Llp di Zhanaozen inscenarono una prima fermata “a gatto selvaggio”; gli scioperanti chiedevano aumenti salariali, cambiamenti nell’organizzazione dell’attività e miglioramenti delle condizioni lavorative. La lotta fu coronata da successo e i lavoratori in lotta ottennero un raddoppio salariale: il 100% di aumento, da 200.000 a 400.000 tenghe (da 400 a 800 euro). Visto il successo gli scioperi si allargarono rapidamente a tutta la zona. Il 13 luglio i lavoratori di Kmg-Security incrociarono le braccia seguiti due giorni dopo dai lavoratori dell’azienda di trasporti MunaiSpetsSnab Company. Anche qui breve mobilitazione e vittoria immediata con aumenti del 100% del salario e altre conquiste. Il 21 luglio fu poi la volta della Kunan Holding. In seguito a Zhanaozen è iniziato il primo sciopero delle donne della Nbc, con le stesse richieste di salari più alti e migliori condizioni di lavoro. Un crescendo rossiano di fermate; scioperi alla Aktau Oil Service Company e alla Oilfield Equipment and Service, alla BatysGeofizService, alla Eurest Support Services Llp (Ess), alla Ozenenergoservis, nel campo petrolifero di Karazhanbas, nella regione di Mangistau. E scioperi anche alla Industrial Service Resources Llp, alla Industrial Service Resources Llp, alla Kmg Ep-Catering, alla Ezbi, alla Emir-Oil Kmg Ep-Catering, alla Abuev Group. Scioperarono poi in piena estate anche i corrieri della Glovo di Alma Ata.

Operai in sciopero il 2 agosto 2021. Gli scioperanti vivevano in baracche e guadagnavano in media 200 euro al mese. Sfruttati da privati e aziende pubbliche.

Il 28 giugno un grosso gruppo di donne di Astana presero d’assalto il ministero dell’industria di Astana, chiedendo posti di lavoro, alloggi e maggiori benefici per i bambini. L’8 luglio i lavoratori delle ferrovie di Shymkent bloccarono la circolazione regionale, mentre sempre ad Alma Ata, il 20 luglio, decine di dipendenti dei servizi di soccorso delle ambulanze protestarono contro il ritardo nel pagamento delle indennità “coronavirus” e per le disastrose condizioni di lavoro (tutte queste informazioni sono tratta dalla pagina anarco-sindacalista russa “Kras”).

Abbiamo fatto un così minuzioso (ma in realtà la nostra lista è solo parziale) riassunto delle lotte dei lavoratori kazaki della scorsa estate per un motivo molto semplice. Perché dimostra che la teoria della “spontaneità assoluta” è fuorviante. Se oggi i lavoratori kazaki si stanno muovendo con tanta decisione ciò è dovuto in primo luogo ai successi parziali che ottennero durante quelle agitazioni e ciò ha sicuramente rafforzato in loro convinzione e fiducia.

Ma la “ribellione” si è trasformata in “rivoluzione” non solo per la discesa in campo della classe operaia industriale. Dal secondo giorno ad Alma Ata hanno iniziato a mobilitarsi i giovani delle periferie in veri e propri riot (spesso armati) che hanno conteso palmo a palmo alle forze dell’ordine e ai reparti speciali il territorio, facendo diventare una metropoli di due milioni di abitanti l’epicentro dello scontro, un subbuglio divenuto eminentemente politico visto che le autorità avevano a quel punto accettato di ridurre i prezzi del gas, sussidiare quelli degli alimentari e il governo si era formalmente dimesso.

Expert”, un autorevole settimanale moscovita non certo di sinistra, sostiene che le dimensioni della rivolta ad Alma Ata sono determinate dal fatto che «ci sono molti giovani sfaccendati e spesso disoccupati. Infatti secondo un censimento dell’autunno scorso il 53,69% della popolazione ha meno di 28 anni. Ed è proprio tra questi strati che la disoccupazione è particolarmente alta».

L’estensione geografica delle proteste segnala inoltre come si siano saldati diversi elementi di carattere anche locale. Non solo il Sud e l’Ovest, ma anche il Nord, solitamente depresso e calmo con popolazione russa dominante, sta ribollendo e questa è una novità assoluta. A Taldykorgan un monumento a Nursultan Nazarbaev è stato abbattuto: un’azione che sarebbe stata impensabile fino a pochi giorni fa.

In alcune zone occidentali del paese gli scontri sembrano addirittura cessati e il potere è stato preso dai manifestanti insieme ai funzionari locali e alle forze di sicurezza, per esempio a Zhanaozen. In questo quadro se entro 24-48 ore il governo centrale con l’aiuto delle truppe dell’Alleanza non dovesse riuscire a prendere il controllo della situazione – finora il numero di morti tra i manifestanti resta imprecisato ma nell’ordine minimo di decine di vittime – si potrebbe assistere a un vero e proprio crollo statale per certi versi simile a quello avvenuto in Afghanistan l’estate scorsa. In questo quadro va tenuto conto però conto che non sono apparsi segni di livore antirusso e neppure la variante del fondamentalismo islamico sembra giocare un ruolo significativo mentre non è chiaro dove si andranno a posizionare i vari clan tribali che negli equilibri del paese hanno sempre svolto un certo ruolo.

I segni di “cedimento strutturale” ci sono tutti.

Secondo il portale russo “Meduza” in queste ore «ci sono notizie di decine di jet privati che lasciano il paese, il Kazakistan dell’élite imprenditoriale sta lasciando il paese in fretta e furia»

E lo stesso Nursultan Nazarbaev dopo essere stato dimesso d’imperio dal presidente in carica si dice si sia rifugiato all’estero. Ma che si stesse ballando su un Titanic nessuno se lo immaginava.

In un articolo per “Foreign Policy” nel dicembre scorso Baurzhan Sartbayev, presidente del Consiglio di amministrazione di Kazakh Invest sosteneva con baldanza che «il Kazakistan è emerso come un attore importante nell’economia globale e una destinazione di investimento attraente. In definitiva, il Kazakistan è sulla strada per migliorare il clima degli investimenti e rafforzare la posizione del paese all’interno della comunità globale».

Del resto non sono solo la classe operaia e il sottoproletariato a essere stanchi di un potere che – forse unico insieme all’Azerbaigian – vanta una filiazione diretta dall’ex Urss, essendo stato Nazarbaev anche l’ultimo segretario del Pcus kazako fino proprio al 1991. In questi anni mentre la forbice delle ricchezze sociali si allargava a dismisura si è formato nelle grandi metropoli (Alma Ata e Astana – ora Nur-Sultan) un piccolo strato di classe media urbana che ha mostrato sempre più stanchezza per la corruzione, il nepotismo, l’autoritarismo e la scarsa mobilità sociale che affascia il paese. Questi strati sociali sono anche quelli più sensibili alle argomentazioni prettamente politiche come il fatto che non se ne poteva più di Nazarbaev, l’insoddisfazione per il governo di Tokayev, per un sistema di partiti rigido e antidemocratico, per l’esistenza di leader locali non eletti e così via. Se elementi di “rivoluzione arancione” ci sono nella vicenda kazaka si annidano in questi strati e in queste città dove da sempre sono state attive le ong occidentali, le associazioni culturali turche e la presunta base di Mukhtar Ablyazov, un ex banchiere bancarottiere che guida il partito della Scelta Democratica del Kazakistan, oggi in esilio a Kiev, la cui influenza è scarsa o nulla. Secondo i cospirazionisti di destra e di sinistra però sarebbe stato lui a orchestrare la rivolta per far giungere Putin alle trattative con la Nato – che iniziano il 10 gennaio – debole e impaurito. Tuttavia tutti gli organi informativi russi più accreditati continuano a ripetere che «non esiste alcuna prova o indizio» che la rivolta sia stata manovrata o perfino programmata dall’estero.

Le reazioni soft del resto del mondo

La tesi del “ruolo di forza straniere” viene rilanciata in queste ore per evidenti motivi anche dal ministero degli Esteri russo con un comunicato ad hoc ma senza troppa convinzione. Putin appare, dietro le quinte, convinto che i margini di manovra dell’attuale regime siano stretti, ma non sembra aver altra scelta oggi che sostenere il presidente in carica, un po’ come avvenne nel 2020 con la Bielorussia di Lukashenka. In Russia e a Mosca in particolare vivono molti migranti centroasiatici con cui il potere russo non vuole avere attriti. Anche per questo l’intervento dei soldati russi è stato presentato come un “intervento pacificatorio”.

«I pacificatori armati non portano pace»: infatti si parla di centinaia di morti, militari decapitati, feriti e migliaia di arresti, dopo l’arrivo delle truppe del Csto

Del resto anche i media occidentali hanno evitato – almeno finora – di suonare la grancassa della propaganda antirussa e i motivi sono evidenti: ci sono grandi investimenti stranieri nel paese che ora rischiano di sfumare o di subire pesanti perdite a causa del clima interno del paese – tra cui quelli dei Paesi Bassi, che rimangono il più grande investitore del paese con 3,3 miliardi di dollari, seguiti da Stati Uniti (2,1 miliardi di dollari), Svizzera (1,3 miliardi di dollari), Russia (704. 9 milioni di dollari), Cina, con i suoi 508,7 milioni di dollari. Quest’ultima come spesso le succede ha mostrato per ora il suo solito volto di softpower rifiutandosi di commentare gli avvenimenti.

La situazione per Putin già complessa ai suoi confini occidentali ora potrebbe diventare non agevole anche a oriente. Anche perché la resistenza della classe operaia che non arretrerà, potrebbe impedire quella “riforma dall’alto” del regime interno che la presidenza Toqaev ora sembra pronta a compiere.

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Il Grande Gioco in Asia centrale: la Cina palleggerà da sola contro il muro? https://ogzero.org/la-bri-cambia-rotta-in-asia-centrale-la-cina-palleggera-da-sola/ Thu, 26 Nov 2020 15:32:30 +0000 http://ogzero.org/?p=1844 Ricordate il “nuovo Grande Gioco”? Agli inizi degli anni Duemila, qualcuno aveva etichettato così la competizione tra Cina, Russia e Stati Uniti in Asia Centrale, rievocando la rivalità regionale tra impero russo e britannico nel XIX secolo. Ebbene, negli ultimi anni il “Grande Gioco” è diventato un “singolo” tra i due ingombranti vicini: la Russia, […]

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Ricordate il “nuovo Grande Gioco”? Agli inizi degli anni Duemila, qualcuno aveva etichettato così la competizione tra Cina, Russia e Stati Uniti in Asia Centrale, rievocando la rivalità regionale tra impero russo e britannico nel XIX secolo. Ebbene, negli ultimi anni il “Grande Gioco” è diventato un “singolo” tra i due ingombranti vicini: la Russia, che da vecchia Madre ha continuato a garantire la sicurezza dell’area ex sovietica, e la Cina, la potenza emergente che con il suo peso economico si è gradualmente imposta nelle dinamiche interne, arrivando a esercitare un maggiore ascendente anche sugli equilibri politici e sul mantenimento della sicurezza nel quadrante minacciato dal terrorismo islamico. Con la pandemia di coronavirus c’è chi prevede che Pechino comincerà presto a palleggiare da solo contro il muro.

Pechino e i suoi rapporti diretti con gli “stan”

Ma facciamo un passo indietro. Dalla caduta dell’Unione Sovietica il gigante asiatico non ha lesinato gli sforzi per cercare di recuperare il tempo perduto stabilendo rapporti diretti con gli “stan”, gestiti fino agli anni Novanta attraverso il filtro di Mosca. Nel 2009, il Dragone ha soppiantato la Russia diventando primo partner commerciale dell’Asia Centrale con 10 miliardi di dollari di scambi contro i 527 milioni del 1992. Di più. Ha cominciato a ridisegnare il network di infrastrutture energetiche d’epoca sovietica entrando a gamba tesa negli affari di Mosca. Ormai la Cina controlla un quarto del petrolio kazako ed è il primo acquirente di gas turkmeno. Tiene a galla Kirghizistan e Tagikistan finanziando un terzo del debito estero di Bishkek e coprendo il 42 per cento dei conti in rosso accumulati da Dushambe.

L’Asia Centrale: un ponte tra Oriente e Occidente

La nascita della Belt Road Initiative (BRI) – annunciata nel 2013 in Kazakistan – si colloca alla fine di un lungo corteggiamento cominciato nel 1994, quando l’allora premier cinese Li Peng passò in rassegna tutta l’Asia Centrale – Tagikistan escluso – trascinandosi al seguito una truppa di imprenditori per promuovere lo sviluppo di “una nuova Via della Seta” a base di “infrastrutture moderne”. Il resto è storia recente. Sette anni fa, il presidente cinese Xi Jinping ha individuato nella regione, ricca di risorse naturali, uno snodo cruciale per stabilizzare e rilanciare economicamente le arretrate regioni della Cina occidentale, che condividono confini ed etnie con Tagikistan, Kirghizistan e Kazakistan. Per sua vocazione naturale, l’Asia Centrale si candidava a ponte tra Oriente e Occidente.

La Nato asiatica e il soft power cinese

Da allora Pechino ha guadagnato terreno a scapito di Mosca coltivando il proprio soft power (con borse di studio e l’istituzione di oltre 20 centri specializzati in studi centroasiatici), cementando la propria presenza militare con esercitazioni sulle alture del Pamir, e rafforzando la propria posizione all’interno della Shanghai Cooperation Organization, la “Nato asiatica” che dopo aver svolto per il primo decennio funzioni di antiterrorismo è stata arricchita di finalità economiche in previsione di possibili sinergie con la Bri e l’Unione economica eurasiatica. Nonostante l’iniziale reticenza di Mosca, la spartizione dei vecchi ruoli è andata sfumando. Agli attori regionali, inizialmente, la cosa stava anche bene. Nell’ottica di un processo di “derussificazione” nello spazio postsovietico, l’avanzata cinese serviva a controbilanciare l’influenza moscovita, fornendo un nuovo modello di riferimento a base di capitalismo di stato, sistema politico monopartitico e scarsa tutela dei diritti umani. Risultato: nel 2018, gli investimenti diretti esteri cinesi nei cinque “stan” hanno raggiunto i 14,7 miliardi di dollari rispetto agli 8,9 miliardi registrati al momento del lancio della Bri.

Il nuovo “impero” è economicamente e politicamente instabile

Poi è successo qualcosa. Come spiega Jonathan Hillman in The Emperor’s New Road: China and the Project of the Century, a oggi la nuova via della seta si presenta come un insieme di «iniziative mal coordinate più che una vera e propria strategia». Nonostante le ricorrenti accuse di “neocolonialismo”, il gigante asiatico non sembra gestire al meglio il nuovo “impero”. L’insostenibilità economica degli investimenti cinesi, in Asia Centrale, è stata amplificata dalla corruzione endemica, mentre la stabilità assicurata per anni dalla longevità politica dei leader sovietici non è più così scontata dopo la successione in Kazakistan e Uzbekistan, e la recente insurrezione popolare in Kirghizistan. A conti fatti, nell’ultimo lustro l’heartland ha perso terreno a vantaggio del Sudest asiatico, dove si concentra quasi un terzo degli investimenti complessivi della Bri. Ma questo non implica necessariamente un disimpegno del Dragone dalle steppe centroasiatiche, quanto piuttosto un cambiamento di rotta. Un cambiamento reso anche più necessario dall’arrivo di Covid-19 .

Il virus fa cambiare rotta ai cinesi

Con gli Stati Uniti in balia del coronavirus e la Russia schienata dal crollo dei prezzi del petrolio, la Cina rimane l’unica ancora di salvezza per la regione. Dopo un primo illusorio contenimento dell’epidemia, la chiusura dei confini di Kazakistan, Kirghizistan e Uzbekistan non solo non ha prevenuto la diffusione del contagio – secondo cifre sottostimate sono oltre 162.000 le infezioni in Kazakistan, il paese centroasiatico con il bilancio più elevato. Ma ha persino aggravato le difficoltà economiche della regione interrompendo la catena di approvvigionamento, impedendo il ritorno dei lavoratori migranti e facendo schizzare l’inflazione. Secondo la Banca Mondiale, l’Asia Centrale chiuderà il 2020 con una contrazione della crescita del 5,4%. Al contrario la locomotiva cinese ha ripreso a viaggiare in terreno positivo. Qualche incidente di percorso c’è stato. A giugno il ministero degli Esteri cinese aveva ammesso che il 20% dei progetti Bri è risultato “gravemente compromesso” dalla pandemia, mentre il 30-40% lo è stato parzialmente. Ma le ultime statistiche ufficiali danno gli investimenti cinesi lungo la via della seta in crescita del 30% nei primi tre trimestri. Secondo dati dell’Amministrazione generale delle dogane cinese il commercio estero con i paesi Bri è aumentato dell’1,5% fino a oltrepassare i mille miliardi di dollari.

Nuovi piani strategici

Nonostante le molte criticità, l’interessamento per l’Asia Centrale non sembra prossimo a svanire. Lo scorso 16 luglio, per la prima volta, Pechino ha chiamato virtualmente a raccolta i ministri degli Esteri di tutti e cinque gli “stan” replicando un format già utilizzato nella regione da Giappone, Corea del Sud e Unione europea. L’iniziativa, che rompe con l’usuale predilezione cinese per i bilaterali, ha spianato la strada per la visita fisica del capo della diplomazia cinese Wang Yi in Kazakistan e Kirghizistan poco prima che la contestazione del voto gettasse Bishkek nella peggiore crisi politica dagli scontri etnici del 2010. In quell’occasione, non è stata fatta nemmeno una parola dei nuovi investimenti da 600 milioni di dollari preannunciati a giugno da Pechino e Nursultan. In compenso, Wang ha promesso il supporto cinese «fino a quando la pandemia sarà completamente sconfitta».

La Nuova Via della Seta “sanitaria”…

In tempi di virus e difficoltà economiche globali, i capitali cinesi saranno in buona parte dirottati nel sistema sanitario locale, noto per le condizioni ospedaliere non ottimali, il limitato accesso ai farmaci e le carenze di un personale medico mal pagato. Dall’inizio dell’epidemia, la regione ha beneficiato di donazioni, forniture sanitarie e assistenza medica a distanza, messi a disposizione tanto dalle autorità provinciali quanto dalle aziende cinesi presenti nella regione, come Huaxin, Sany, Sinopec, China Construction e China Road and Bridge Corporation. Anche la Sco ha fatto la sua parte organizzando un seminario in tandem con Alibaba e l’Università di Medicina di Wenzhou. Secondo l’agenzia di stampa ufficiale Xinhua, a seguito dell’ultimo meeting tra i rispettivi ministri degli Esteri «Cina, Russia, Kazakistan, Kirghizistan e Mongolia hanno deciso di costruire insieme una fortezza antipandemia, una via della seta sanitaria e una comunità della salute per tutti». I partner regionali non hanno perso tempo. Solo pochi giorni fa l’Uzbekistan ha annunciato che 5000 volontari si sottoporranno alla sperimentazione del vaccino prodotto dalla Anhui Zhifei Longcom Biopharmaceutical nella speranza di ottenere un accesso privilegiato nel caso in cui il farmaco dovesse rivelarsi efficace.

Quello che sta avvenendo in Asia Centrale rispecchia su piccola scala il nuovo corso della Bri. Come spiega su “Eurasianet” Dirk van der Kley, Research Fellow presso l’Australian National University, Pechino non abbandonerà l’heartland, ma probabilmente cambierà la natura del suo attivismo economico puntando sempre meno sul finanziamento delle infrastrutture tradizionali per privilegiare gli investimenti diretti esteri, l’export di sovracapacità industriale e l’importazione di prodotti agricoli. Un segnale in tal senso giunge dal progressivo calo del debito accumulato da Tagikistan e Kirghizistan, i due paesi centroasiatici più dipendenti dai capitali cinesi. Secondo “Eurasianet”, l’ultimo prestito consistente concesso a Bishkek e Dushambe risale addirittura al 2014. Solo pochi giorni fa l’Asian Infrastructure Investment Bank (Aiib), la superbanca nata per colmare il deficit infrastrutturale dei paesi asiatici, ha annunciato la creazione di un dipartimento dedicato alla sanità e all’istruzione.

… e informatizzata

Con queste premesse è lecito attendersi un maggior protagonismo non solo della via della seta sanitaria ma anche della sua declinazione digitale: telemedicina, e-commerce, e-learning e fintech potrebbero in futuro sostituire le grandi opere. Il motivo lo sintetizza il Csis così: «Rispetto ai massicci progetti energetici e dei trasporti che hanno dominato i primi anni della Bri quelli che coinvolgono la tecnologia dell’informazione e della comunicazione sono generalmente a basso costo, meno visibili e destabilizzanti per le comunità locali, più semplici da realizzare e facili da monetizzare. Tutte qualità che li rendono meno rischiosi e più attraenti per gli investitori». Le cinesi Huawei, Ceiec, Citic Group e Costar Group sono già presenti da anni in Kirghizistan, Uzbekistan e Tagikistan con l’istallazione di sistemi di videosorveglianza contro il crimine e gli incidenti stradali. Tashkent, Dushambe e Nursultan hanno speso ciascuna tra i 21 e i 22 milioni di dollari per realizzare il progetto “Safe City” in partnership con Huawei.

Il rigurgito etnonazionalista anticinese

Quello della sicurezza è un tema che sta a cuore tanto alle autocrazie centroasiatiche quanto al regime comunista cinese. Assicurare la stabilità dei paesi partner è diventata una priorità per Pechino. Soprattutto da quando, nel 2016, l’ambasciata cinese di Bishkek è stata colpita da un attacco dinamitardo attribuito a militanti uiguri, la minoranza etnica musulmana che l’Asia Centrale condivide con la regione autonoma del Xinjiang aldilà del confine con la Cina.

Dopo un ventennio di guerra a bassa intensità, l’astio degli uiguri nei confronti delle politiche cinesi ha finito per contagiare anche le altre etnie centroasiatiche. La reclusione di kazaki e kirghisi nei “centri per la rieducazione” del Xinjiang hanno infiammato l’opinione pubblica nei paesi d’origine. A febbraio accese proteste anticinesi hanno costretto alla cancellazione di un progetto Bri da 275 milioni di dollari per la costruzione di un hub logistico ad At-Bashy, nel Kirghizistan settentrionale. Nonostante il controllo sulle informazioni da oltrefrontiera, ci sono le prime avvisaglie di un latente rigurgito etnonazionalista. Secondo Oxus Society for Central Asian Affairs, negli ultimi due anni e mezzo si sono verificate almeno 98 manifestazioni contro la penetrazione cinese nella regione. Non è facile quantificare l’impatto del malumore popolare sugli interessi economici del gigante asiatico. Con la Russia e gli Stati Uniti messi fuori gioco dal Covid difficilmente i “nuovi khanati” sapranno dire di no ai finanziamenti cinesi. Ma è indicativa l’assenza di Kazakistan e Kirghizistan tra i 50 paesi firmatari della mozione presentata da Pechino per difendere le proprie politiche etniche in sede Onu.

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