Nuri Al Maliki Archivi - OGzero https://ogzero.org/tag/nuri-al-maliki/ geopolitica etc Tue, 22 Jun 2021 11:17:42 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.4.6 n. 9 Iraq: Il Destino comune dei paesi mesopotamici. (I) La fine dello stato e il settarismo https://ogzero.org/una-mobilitazione-costante-in-iraq-il-destino-comune-dei-paesi-mesopotamici/ Tue, 22 Jun 2021 10:41:18 +0000 https://ogzero.org/?p=3949 Lo spazio dedicato alla sezione irachena non a caso cade a ridosso delle puntate siriane nella serie di articoli dedicati alle rotte mediorientali della raccolta di analisi stilate da Fabiana Triburgo sulla questione migratoria. Intanto evidenziamo come a completamento dell’area si assista agli stessi meccanismi condivisi tra Siria, Libano e Iraq, la cui frazione nella serie […]

L'articolo n. 9 Iraq: Il Destino comune dei paesi mesopotamici. (I) La fine dello stato e il settarismo proviene da OGzero.

]]>
Lo spazio dedicato alla sezione irachena non a caso cade a ridosso delle puntate siriane nella serie di articoli dedicati alle rotte mediorientali della raccolta di analisi stilate da Fabiana Triburgo sulla questione migratoria. Intanto evidenziamo come a completamento dell’area si assista agli stessi meccanismi condivisi tra Siria, Libano e Iraq, la cui frazione nella serie di articoli si compone di due interventi strettamente correlati. Anche in Iraq ovviamente mordono ancora i danni della divisione Sykes-Picot e infatti l’Isis simbolicamente si manifestò sul confine tirato senza criterio dalle potenze coloniali per spartirsi i territori dell’impero ottomano al suo crollo.

L’autrice ha dapprima analizzato nel presente articolo il settarismo religioso che ha visto la presa del potere sciita alla caduta di Saddam e le conseguenti proteste sunnite, veicolo della rivendicazione dei diritti civili, espresse in Libano in modo ecumenico con il Movimento popolare e in Siria con l’insurrezione contro al-Assad; tra la protesta repressa da al-Maliki e quella dei movimenti giovanili del 2019 l’Isis scorrazzò per ampia parte del territorio iracheno, sgozzando e perseguendo le minoranze religiose, in particolare gli yazidi; a corollario di ciò l’autrice analizza i risvolti geopolitici degli incontri interreligiosi promossi da Bergoglio.

Nel successivo articolo si occuperà delle tribù curde nel Kurdistan iracheno e della presenza del Pkk sui monti di  Kandil e della conseguente aggressione turca.


n. 9, parte I

I principali conflitti che attualmente interessano le migrazioni forzate e le prassi di esternalizzazione poste in essere dall’Unione Europea e dai singoli stati membri portano a una predeterminazione delle rotte dei migranti.

Quello che oggi è inevitabile chiedersi è se il nuovo Patto europeo sulla migrazione e l’asilo, proposto dalla Commissione UE, possa essere realmente considerato una soluzione della gestione del fenomeno migratorio o se invece vi siano soluzioni legali alternative maggiormente lungimiranti e coraggiose.  

Non c’è pace a 30 anni dalla Guerra del Golfo

Quest’anno ricorre il trentennale della prima guerra del Golfo ma la situazione geopolitica che oggi si riscontra in Iraq è fortemente diversa da quella di allora. Gli elementi peculiari sui quali occorre soffermarsi sono attualmente: il settarismo religioso, la questione curda con l’ingerenza della Turchia nel territorio iracheno, la recrudescenza dello Stato Islamico, l’ingerenza iraniana nel paese, gli scontri tra gli Stati Uniti e l’Iran nonché la mobilitazione costante della popolazione civile contro l’esecutivo al potere. L’Iraq che raggiunse l’indipendenza dal colonialismo inglese nel 1932 e nel 1968 vide l’ascesa del Partito socialista unico (Ba’at). E già si notano le rilevanti “contaminazioni” con gli altri paesi del Medioriente riscontrate nel corso dell’analisi geopolitica del Libano e della Siria, poi fortemente manifestate con le primavere arabe: infatti, nell’instaurazione dell’esecutivo baatista in Iraq non si può ignorare che nello stesso periodo, all’inizio degli anni Settanta, anche in quella Siria geograficamente prossima, il medesimo partito si impose con veemenza e diede inizio al regime degli al-Assad, con Hafiz padre dell’attuale presidente siriano. Nel contesto iracheno baatista però si stagliò in seguito la dittatura di Saddam Hussein salito al potere nel 1979. Da questo momento in poi la storia irachena seguì per alcuni anni un iter peculiare: dapprima lo scontro con l’Iran nel 1980 terminato solo nel 1988, dal quale il paese uscì fortemente indebolito, e successivamente l’invasione del Kuwait, a causa dell’abbassamento dei prezzi del petrolio, nel 1990, alla quale seguì lo scoppio della Prima guerra del Golfo del 1991.

una mobilitazione costante in Iraq

Colin Powell durante il Consiglio di Sicurezza dell’Onu sventola la prova falsa di una provetta di antrace, accusando Saddam di guerra chimica e scatenando la Seconda guerra del Golfo

Tale ultimo conflitto, su iniziativa statunitense e su legittimazione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite che vide il coinvolgimento dell’intervento armato di numerose potenze occidentali e che ebbe un’eco mediatica mai riscontrata fino a quel momento, fu totalmente diverso dall’intervento militare del 2003 per opera di Stati Uniti e Regno Unito – questa volta fortemente osteggiato dal Consiglio di Sicurezza – sulla base dell’esistenza di presunte armi di distruzioni di massa in Iraq, invero mai rinvenute. A ogni modo, ciò che è rilevante notare è che alla destituzione del regime di Saddam Hussein, individuato dalle truppe statunitensi nello stesso anno e impiccato nel 2006, si determinò l’instaurazione di un governo ad interim: un esecutivo basato sulla coalizione curdo-sciita guidato dal premier Nouri al-Maliki. Quando però quest’ultimo incentrò su di sé tutti i poteri con l’ossessivo controllo della popolazione irachena, nel 2011 il suo governo vacillò – come in Siria avvenne per Bashar al-Assad – per cui si pensò a una “primavera irachena”.

La protesta sunnita

In Iraq però la protesta popolare in quegli anni non si accese tanto sulla base della mancanza di riconoscimento delle libertà e dei diritti civili della popolazione come in Siria, quanto piuttosto sulla reazione violenta dei sunniti – stanchi della continua discriminazione religiosa subita dall’esecutivo sciita – che tuttavia non sfociò in un conflitto civile ma in una violentissima repressione del popolo sunnita da parte del governo centrale e alla quale seguì nuovamente la vittoria, nel corso delle elezioni provinciali del 2012, del premier Nouri al-Maliki. La storia irachena ritrova comunanza con la Siria per l’ascesa del sedicente Stato Islamico in entrambi i paesi e così, come in Siria Putin, anche Haydar al-Abadi in Iraq il 9 dicembre del 2017 dichiarò la sconfitta dell’IS in conseguenza dell’intervento armato da parte dell’esercito iracheno, delle milizie sciite e dei peshmerga (“combattenti fino alla morte”) curdi che in quell’anno riconquistarono la città di Mosul, la prima città a essere assediata in Iraq dal sedicente Stato Islamico. Gli anni seguenti, dopo la nomina nel 2018 di un’economista a primo ministro (Adil Abdul Mahdi), si caratterizzarono prevalentemente per una commistione con la situazione socioeconomica libanese. In particolare, nel 2019, così come in Libano, l’Iraq registrò una rovinosa discesa del Pil: venne reso noto dall’esecutivo un deficit economico di più di 50 miliardi di dollari, si attuarono tagli al settore pubblico – nel quale era impiegata il 40% della popolazione – e, infine, si determinò una riduzione dell’export iracheno. Le proteste popolari – delle quali simbolo è l’irachena piazza Tahrir – iniziate il 1° ottobre contro il governo, a causa della situazione economica, della corruzione e della disoccupazione nel paese, vennero promosse principalmente dal leader sciita Muqtada al-Sadr e portarono alle dimissioni a novembre del 2019 di Abdul Mahdi, come in Libano si dimise il primo ministro Saad Hariri in seguito alle proteste del 19 ottobre. Sia in Iraq che in Libano infatti a protestare contro la situazione di indigenza della popolazione e il governo furono prevalentemente i giovani, tuttavia la polizia e le milizie sciite estremiste filoiraniane in Iraq – i c.d. “squadroni della morte” – così come l’esercito libanese, furono sguinzagliati a soffocare la rivolta popolare giovanile con il terrore e con una repressione sanguinaria. Amnesty International intervenne in merito dichiarando che queste sono costate la vita ad almeno 300 iracheni. Al riguardo c’è da dire che il leader sciita Muqtada al-Sadr a capo del partito sadrista se in un primo momento si schierò con i manifestanti, istituendo una forza paramilitare per proteggere i civili scesi in piazza, successivamente utilizzò la medesima forza militare per reprimere le proteste. Tuttavia, nel mese scorso, dopo una momentanea riduzione della mobilitazione popolare, dovuta principalmente alla diffusione del Covid 19, le proteste dei giovani della “rivoluzione di ottobre” contro la corruzione e il regime settario nel paese sono tornate a infiammarsi e con esse anche le violente repressioni della polizia irachena e delle milizie armate sciite fondamentaliste.

una mobilitazione costante in Iraq

Autunno 2019, squadroni della morte di militanti sciiti filoiraniani attaccano e massacrano i giovani manifestanti antisistema a Kerbala e Najaf

La crisi dell’idea di stato condiziona lo scenario geopolitico mediorientale

Mustafa al-Kadhimi – ex capo dell’intelligence irachena, nominato premier nel maggio del 2020 – dopo cinque mesi di stallo politico seguito alle dimissioni di Abdul Madhi – pur dimostrando forti aperture verso le istanze delle proteste popolari e chiedendo che fossero giudicati tutti coloro che si macchiarono della violenta repressione; e oggi è in realtà a capo di un esecutivo  fortemente depotenziato allo stesso modo di quello libanese che, in seguito alle proteste del 2019, subì le dimissioni di tre premier nell’arco di un anno. Tuttavia la necessità dell’immutabilità e della stabilità degli attuali governi è resa esplicita dalle continue conflittualità e dalle ingerenze degli attori regionali e delle potenze internazionali presenti e riscontrata anche in altri paesi dell’area mediorientale, primo tra tutti quello siriano come precedentemente analizzato. Così come in Siria, quest’anno il prossimo 10 ottobre in Iraq sono previste le elezioni fortemente reclamate dai giovani manifestanti già dallo scorso anno, ma proprio come nella repubblica guidata da Bashar al-Assad, la popolazione civile non spera più che queste possano condurre a una svolta politica e sociale nel paese. Rimangono evidenti le difficoltà del presidente di gestire le tensioni politiche tra sunniti, sciiti filoiraniani e sciiti antiraniani. Nel 2021 la centralità dello stato iracheno è messa in discussione da numerosi fattori: tra questi tuttavia, rispetto all’obiettivo che tale sezione del saggio si propone, saranno analizzati soltanto quelli rilevanti perché realmente o potenzialmente induttivi del fenomeno migratorio forzato.

Il settarismo religioso ed etnico in Iraq. Le persecuzioni contro le principali minoranze religiose

Nel periodo della transizione “democratica” del paese dal 2003 al 2013, dopo la caduta di Saddam Hussein, seguì un esecutivo guidato da Nouri al-Maliki con funzioni prevalentemente securitarie che non solo provocò una crescente marginalizzazione della componente sunnita nel paese, ma anche continue intimidazioni nei confronti delle minoranze etnico religiose tra cui quella cristiana. A tale periodo seguì poi quello dell’occupazione del territorio iracheno da parte del sedicente Stato Islamico che aggravò ulteriormente la situazione ponendo in essere violenze generalizzate contro tutte le popolazioni appartenenti alle minoranze locali, in particolare contro i cristiani e gli yazidi ritenuti “infedeli”.

Queste azioni provocarono lo sfollamento di una moltitudine di persone appartenenti alle suddette minoranze dalla piana di Ninive (al confine con la Siria) verso le zone del Nord, in particolare quelle del vicino Kurdistan iracheno. Tale situazione agevolò, infatti, un rilevante aumento degli sfollati interni: più di tre milioni nel 2018 ma, essendo tale provincia autonoma un territorio considerato diverso da quello guidato dall’autorità centrale di Baghdad, gli Idp (Internally displaced persons) dovettero seguire, per vedersi riconosciuta una legittimazione della loro presenza sul territorio, procedure e iter burocratici simili a quelli ai quali sono sottoposti i richiedenti asilo. La costituzione approvata nel 2005 invero non ha mai ovviato alla frammentarietà, al settarismo e alla fragilità del sistema istituzionale del paese nel quale sono prevalenti le comunità sciite, sunnite e curde. Il 95 per cento della popolazione irachena infatti appartiene a due gruppi etnici: gli arabi – che costituiscono circa l’80 per cento della popolazione locale – e i curdi iracheni che costituiscono circa il 15/20 per cento della popolazione; tuttavia entrambi i gruppi sono prevalentemente musulmani: il 65 per cento sono sciiti mentre circa il 30 per cento sunniti.

Distinzioni etno-religiose

Gli sciiti sono quasi totalmente arabi mentre i sunniti comprendono arabi, curdi ma anche azeri e turkmeni. Il restante 5 per cento della popolazione irachena è costituito da cristiani, yazidi, kakai, sabeani, bahai, turkmeni – iracheni, turco-circassi, beduini, shabak, armeni, iracheni neri e romani. Cristiani– il cui luogo di origine è la piana di Ninive – sono i caldei (80 per cento dei cristiani presenti nel paese), i siriaci, gli armeni, gli assiri e gli arabi. In particolare, i caldei sono in comunione con la Chiesa cattolica di Roma, mentre gli assiri fanno parte di una chiesa sorella a quella cattolica di Roma ossia la Chiesa assira d’Oriente del quale patriarcato negli anni Quaranta si trasferì negli Stati Uniti mentre negli ultimi anni ha di nuovo ristabilito la sua sede a Erbil, capoluogo della provincia autonoma curda. A partire dal 2014, ossia dalla dominazione di buona parte del territorio iracheno dal sedicente Stato Islamico, i cristiani hanno subito deportazioni e massacri. Le comunità cristiane tuttavia vennero perseguitate, in ragione del proprio credo, già prima del 2014 quando 1,4 milioni di cristiani fuggirono dall’Iraq e oggi – pur costituendo una minoranza – continuano a essere perseguitate dalle comunità arabe presenti nel paese, soppiantate spesso dal ripopolamento delle tribù sciite nei loro “luoghi storici” e il cui ritorno in tali territori viene reso impossibile dal costante intervento delle diverse milizie arabe presenti nel paese.

Diplomazia pontificia: marzo 2021, Bergoglio incontra al-Sistani

In questo contesto di persecuzione delle minoranze cristiane in Iraq si inserisce la visita di Jorge Bergoglio del 5-8 marzo 2021: tale accadimento ha un valore non solo dal punto di vista religioso ma anche una forte rilevanza politico sociale. Sotto il primo profilo vi è da sottolineare che Bergoglio ha presenziato a una celebrazione nella Piana di Ur luogo nel quale è nato il profeta Abramo più precisamente nella regione meridionale irachena di Dhi Qar. L’evento si riveste di un’importanza religiosa non indifferente se pensiamo che una delle definizioni maggiormente impiegate per le tre religioni monoteistiche è quella di “religioni abramitiche”: Cristianesimo, Ebraismo e Islam condividono tutte la fede nel profeta Abramo anche se la vita e la storia del profeta è ricostruita in modo differente dall’Islam rispetto a quanto riportato nel Vecchio Testamento. In particolare, i musulmani non credono che Abramo appartenga a una delle tre religioni monoteiste ma che debba essere considerato piuttosto come “amico di Dio” e per questo padre di tutti i profeti che si sono succeduti nella storia compreso lo stesso Maometto. Il viaggio del Pontefice svolto con l’intento di ripercorrere le “tappe di Abramo” rievoca l’intenzione manifestata nella terza enciclica del 2020 Fratelli tutti. L’espressione va intesa in tale specifico scenario geopolitico anche nel senso di parità di diritti per ogni individuo a prescindere dall’appartenenza a una determinata etnia, comunità religiosa, politica nazionale o regionale, lasciando intendere anche la necessità di riconsiderare il ruolo delle milizie repressive nel paese nei confronti dei civili. Secondo il patriarca dei caldei in Iraq il termine fratellanza è nominato dal pontefice con l’intento di superare gli scontri religiosi tra le comunità sunnite e sciite da un lato, cristiane e musulmane dall’altro e infine quelli etnici tra arabi e curdi. Secondo aspetto rilevante del viaggio di Bergoglio è quello dell’incontro a Najaf con l’ayatollah sciita Ali al-Sistani, considerato la guida internazionale, spirituale e politica per eccellenza dell’Iraq e in contrasto con la Guida Suprema della rivoluzione iraniana, l’ayatollah Ali Khamenei, guida sciita della rivoluzione iraniana. Sistani, grato agli Usa per l’aiuto per la lotta contro Saddam Hussein ma sempre in opposizione all’ingerenza americana nel paese, nel 2014 legittimò l’uso delle armi da parte dei civili iracheni sotto la sua autorità – fatti confluire all’interno delle forze istituzionali di “Mobilitazione Popolare” – per difendersi dagli attacchi del sedicente Stato Islamico contro i principali luoghi sciiti iracheni. L’ayatollah Ali Sistani caldeggiò inoltre le sopraccitate mobilitazioni popolari del 2019 contro la corruzione e le politiche economiche e occupazionali del governo e lo strapotere delle milizie armate. Tale visita ha quindi una rilevanza maggiormente politica rispetto alla celebrazione liturgica compiuta nella piana di Ur essendo il pontefice ben consapevole che le proteste popolari sono state portate avanti negli ultimi anni non solo dai giovani iracheni ma anche da quelli libanesi, algerini e tunisini. Infine, sempre in tale ottica politico-sociale il papa ha visitato anche Erbil, Qaraqosh e Mosul città violentemente dominata dal sedicente Stato Islamico dal 2014 al 2017. Già a Ur il pontefice aveva detto: «Noi credenti non possiamo tacere quando il terrorismo abusa della religione».

Gli yazidi, ma soprattutto le yazide

una mobilitazione costante in Iraq

Premio Sackarov 2016: Nadia Murad e Lamiya Aji Bashar, due donne yazide vittime dell’Isis sono insignite del premio europeo per chi lotta per i diritti umani

Altra famiglia oggetto di persecuzione nel paese è quella degli yazidi, tribù indigena nei territori del Sinjar. Lo yazidismo inoltre è una religione più antica delle tre religioni abramitiche e i suoi seguaci vennero perseguitati e uccisi perché ritenuti dagli arabi musulmani adoranti il “diavolo”. La loro lingua è il Kurmanji ossia una variante della lingua curda. Quando nel 2014 l’Isis invase i territori del Sinjar molti membri furono uccisi, sfollati e ridotti in schiavitù, circa 7000 persone, principalmente per entrare a combattere tra le milizie del sedicente Stato Islamico o di quelle curde. Nel dicembre del 2014 tuttavia le unità irachene di “Mobilitazione Popolare”, i peshmerga e le stesse milizie yazide determinarono la sconfitta dell’Isis nella stessa zona del Sinjar. Gli Yazidi sfollati nei campi del Kurdistan iracheno si trovano tuttora in campi periferici alle principali città del Kurdistan ma questo non ha impedito un fenomeno di eccezionale ed esemplare peculiarità: diverse donne sfollate interne – nonostante molte di loro siano state in passato rapite e siano divenute oggetto di abusi da parte degli uomini del sedicente Stato Islamico nel periodo dal 2014 al 2017 – hanno ottenuto in tale dimensione autonomia e opportunità che non avrebbero mai avuto nei loro villaggi grazie a progetti educativi – anche sulla sessualità – nonché di alfabetizzazione che gli assistenti sociali nel paese hanno garantito a tutti gli sfollati interni nel Kurdistan. Diversi sono stati i corsi dedicati in particolar modo alle donne non solo di formazione professionale ma anche sull’uguaglianza di genere, sulla genitorialità e più in generale quelli d’informazione sui loro diritti tra cui quello sulla possibilità di denunciare le violenze domestiche.

L'articolo n. 9 Iraq: Il Destino comune dei paesi mesopotamici. (I) La fine dello stato e il settarismo proviene da OGzero.

]]>
La mezzaluna sciita si dissemina per raccogliere la svolta di Biden https://ogzero.org/il-proliferare-di-milizie-nella-mezzaluna-sciita/ Thu, 28 Jan 2021 11:55:02 +0000 http://ogzero.org/?p=2320 Il nastro si riavvolge riproponendo attentati Venerdì 22 gennaio, nel centro di Baghdad, 32 persone sono morte in un attentato suicida rivendicato dall’Isis. Suona come una notizia tristemente familiare, eppure erano quasi tre anni – 2018 sempre a gennaio, 27 vittime – che in Iraq non si verificava un attacco suicida di queste proporzioni. Attribuirlo […]

L'articolo La mezzaluna sciita si dissemina per raccogliere la svolta di Biden proviene da OGzero.

]]>
Il nastro si riavvolge riproponendo attentati

Venerdì 22 gennaio, nel centro di Baghdad, 32 persone sono morte in un attentato suicida rivendicato dall’Isis. Suona come una notizia tristemente familiare, eppure erano quasi tre anni – 2018 sempre a gennaio, 27 vittime – che in Iraq non si verificava un attacco suicida di queste proporzioni. Attribuirlo in modo esclusivo alla graduale compromissione delle condizioni e dei dispositivi di sicurezza in Iraq nel corso dell’ultimo anno è forse un’operazione prematura e parziale ma è significativo che l’attentato sia avvenuto in questo momento storico, in una città i cui quartieri e ingressi sono presidiati dall’Esercito iracheno e da una miriade di milizie governative e non, molte delle quali protagoniste della stessa sconfitta dell’Isis nel 2014, e finanziate dall’Iran.

Nelle settimane precedenti all’attentato le sensazioni di un cittadino iracheno potevano risultare contrastanti: da un lato l’idea che attorno al 2 gennaio, primo anniversario dell’assassinio del generale iraniano Qassem Soleimani e del suo luogotenente iracheno, il comandante Abu Mahdi Al Muhandis, molte delle citate milizie potessero organizzare una qualche forma di rappresaglia su obiettivi americani, insieme ai rischi di sicurezza storicamente connessi ai grandi assembramenti, proprio come quello organizzato per l’anniversario; dall’altro la consapevolezza, diffusa forse più sui media internazionali che nella società civile ma comunque fondata, che fino al 20 gennaio – giorno dell’insediamento di Joe Biden alla presidenza degli Stati Uniti – Teheran avesse diffidato le milizie dal compiere qualunque azione in grado di fornire all’uscente presidente Trump un pretesto per un’operazione militare last-minute contro l’Iran. Ha prevalso la seconda, se si escludono dei lanci dimostrativi di alcuni razzi da parte di formazioni sempre più fuori controllo.

L’eredità di Soleimani

Quel che però è successo lo scorso 22 gennaio può stimolare alcune riflessioni sulle conseguenze di lungo termine dell’assassinio di Soleimani: all’apparenza, e nella percezione americana, un duro colpo alla capacità di mobilitazione paramilitare in Iraq contro gli interessi statunitensi, per via della paternità e dell’ascendente di quest’ultimo su gran parte di quelle milizie. In realtà, e al di là degli aspetti di illegalità – Soleimani era in visita con passaporto diplomatico in un paese, l’Iraq, che lo aveva invitato –, l’assassinio di Soleimani e Al Muhandis ha contribuito a rendere ancor più imprevedibile una situazione già instabile. E che potrebbe sfuggire di mano anche all’Iran stesso.

Perché i due militari avevano sì il potere di coordinare gran parte delle milizie e le loro azioni contro le truppe americane ma di riflesso anche quello, sostanzialmente esclusivo, di contenerle o farle cessare. Di “razionalizzare”, e non solo “alimentare”, la diffusa ostilità alla presenza militare americana. Una capacità perlomeno utile, nella prospettiva di una possibile riapertura del negoziato sul nucleare da cui Donald Trump era uscito unilateralmente, inaugurando una nuova e per certi versi improvvisa stagione di crociera in nuove tensioni, a ridosso dell’escalation.

Le milizie, formazioni di difesa locale o di offesa globale?

L'eredità di Soleimani

Sebbene l’abbandono del Joint Comprehensive Plan of Action (Jcpoa) sul nucleare iraniano abbia costituito un fatto senza precedenti nella storia delle relazioni tra Stati Uniti e Repubblica islamica dell’Iran, anche per via della sua natura ufficiale e multilaterale, non è la prima volta che gli Stati Uniti fanno un passo indietro o recedono da una qualche forma di intesa formale con Teheran. La motivazione addotta è più o meno sempre la stessa: le attività di “destabilizzazione regionale” degli iraniani, la cui cessazione per gli Stati Uniti costituisce sin dagli anni Ottanta una sorta di presupposto implicito – quindi non formalizzato – di qualunque compromesso con Teheran. E quando le diverse amministrazioni americane – a cominciare da quella di Trump, soprattutto per bocca del suo segretario di Stato, Mike Pompeo – parlano di “espansionismo” e “attività terroristiche e destabilizzanti” dell’Iran in Asia occidentale, fanno riferimento proprio a quelle milizie che la Repubblica islamica ha finanziato, addestrato e mobilitato negli anni in diversi paesi della regione: dal Libano, passando per la Siria, fino allo Iraq, cioè l’arena in cui l’influenza di Teheran è forse più rilevante e visibile.

Esiste, a monte, una fondamentale questione di percezioni. Gli Stati Uniti considerano nella forma e nella sostanza le milizie filoiraniane e gli stessi Guardiani della Rivoluzione (Irgc) delle entità equiparabili all’Isis e ad Al Qaeda: soggetti con un’agenda prettamente offensiva, operatività potenzialmente globale e utilizzo sistematico del terrorismo, in una visione che non distingue nemmeno formalmente le vittime civili da quelle militari. Tutte caratteristiche che non appartengono alle milizie, che sono invece formazioni locali, nate per combattere l’invasione americana dell’Iraq nel 2003, alla stregua della nascita di Hezbollah in Libano agli inizi degli anni Ottanta contro l’invasione israeliana.

Il potere dal territorio, frammentato in sfere d’influenza…

Non si tratta solo di errate valutazioni circa la loro natura: il sostegno iraniano a queste milizie viene letto dagli Usa in ottica offensiva, come espressione di un cieco fanatismo espansionista e antioccidentale. L’Iran – esercitando un soft e hard power composito, e che in parte ha inglobato l’eredità reputazionale dello stato antagonista, di principale recipiente dell’“antiamericanismo” (prima riconducibile all’Urss) – ha invece usato le milizie come strumento difensivo avanzato. Lo ha fatto e lo fa in una regione frammentata dal punto di vista amministrativo e altamente militarizzata, nella quale Teheran coltiva alleati locali – o, nel caso del conflitto siriano, il regime contro le formazioni a esso ostili – per erodere il suo storico isolamento e costruire una sua sfera d’influenza, che rafforzi la sua “cintura” di sicurezza e le riconosca un ruolo di potenza regionale.

Quella delle milizie è un’arma asimmetrica e imprevedibile, funzionale a forme di deterrenza rispetto a paesi rivali – Arabia Saudita e Israele in particolare – che hanno spese militari molto più ingenti e armamenti più avanzati, rispetto alla presenza militare americana in diversi paesi confinanti con l’Iran e rispetto alle diverse formazioni dell’internazionale jihadista di matrice soprattutto wahhabita, notoriamente animate da radicale avversione per gli sciiti.

Centralità dell’Iraq nella strategia iraniana

È abbastanza facile capire perché sia l’Iraq il paese col più alto numero di milizie filoiraniane e non, tutte accomunate da gradi diversi di ostilità alla presenza militare americana: un confine di 1500 km con un paese che dal 2003 è in frantumi, privo di un vero stato, e nove basi militari americane al suo interno, alcune molto vicine al confine iraniano. Implicito è l’aspetto demografico, visto che l’Iraq del post-Saddam è tornato a essere un paese a maggioranza sciita come l’Iran, e che le milizie in gran parte – ma non tutte – sono animate da immaginario e simbolismo sciita.

Composizione delle milizie filoiraniane nella mezzaluna sciita

Le Forze di Mobilitazione popolare (Pmf, in arabo Hashd al Sha’abi) si presentano ufficialmente, in forma embrionale, tra il 2012 e il 2014, quando l’allora primo ministro Nuri Al Maliki inizia a reclutare piccoli gruppi di volontari nelle Brigate di Difesa Popolare (Saraya al Dif’a al sha’abi). Il “bollo di autenticità” arriva il 13 giugno 2014 – l’Isis quasi alle porte di Baghdad –, quando la principale autorità religiosa irachena, l’Ayatollah Ali Al Sistani, emette una fatwa che invita i cittadini iracheni (non solo sciiti) a combattere contro l’Isis: le Pmf assumono una forma ufficiale, che in seguito alle fondamentali vittorie militari nei confronti dell’Isis le porterà a essere inquadrate nell’Esercito iracheno. Come ricorda Michael Knights, se in un sondaggio del 2011 solo il 15% degli iracheni nutriva fiducia nelle Pmf per la gestione della sicurezza in Iraq, nel 2017 questa percentuale è schizzata al 91% per gli iracheni sciiti e al 65% per i sunniti.

Lo zoccolo duro delle milizie irachene direttamente collegate all’Irgc iraniana è composto dalla Kata’ib Hezbollah, “cugina” di Hezbollah in Libano e guidata fino a un anno fa proprio da Al Muhandis, che può contare almeno su 10.000 uomini, e la Kata’ib al Imam Ali, con circa 8000 effettivi. Entrambe molto attive contro l’Isis ma anche accusate di violazioni dei diritti umani ai danni della popolazione sunnita evacuata nelle aree controllate dall’Isis. Le altre milizie con rapporti di diverso grado con Teheran sono la Brigata Badr di Hadi Al Amiri – rilevante anche per i rapporti con le milizie sunnite nelle aree tribali – e Asa’ib Hal al-Haq (Aah, che è anche un partito con 15 seggi in Parlamento), con 10.000 effettivi e guidata da Qais Al Khazali, sul quale si tornerà più avanti. Alla fine del 2014 il numero stimato di miliziani delle Pmf era di circa 60.000, a cui sommare almeno 20.000 uomini non inquadrati ufficialmente nelle Pmf.

Ghaani, grigio funzionario e il sotterraneo lavoro di intelligence

Anche all’indomani dell’uccisione di Al Muhandis e Soleimani, i diffusi timori che innescasse una escalation erano stati in parte sopiti dalla reazione contenuta e in qualche modo “calcolata” di Teheran, che l’8 gennaio seguente aveva colpito con alcuni missili a lunga gittata la base americana in Iraq di Al Asad, ferendo un centinaio di soldati. Nel frattempo, il Parlamento iracheno aveva votato il ritiro delle truppe americane dall’Iraq, che chiaramente non è avvenuto. In tempi relativamente brevi, quindi, l’Iran ha nominato come successore di Soleimani a capo dei reparti Al Quds dell’Irgc. Ghaani però, a differenza di Soleimani, non parla arabo, conosce poco l’Iraq e non ha nessuna relazione personale con i capi delle milizie. Come ricorda Suadad Al Salhy, viene considerato un semplice messaggero, senza particolari prerogative o qualità diplomatiche e strategico-militari.

La sua nomina, che alla luce di queste informazioni è stata letta da alcuni come il segnale di un indebolimento delle milizie e soprattutto dell’influenza iraniana, è stata in effetti accolta dai comandanti delle principali milizie con sorpresa. Ma in realtà segnala qualcosa di più profondo, cioè il ritorno del ruolo dell’intelligence iraniana in Iraq. Durante gli anni Ottanta, quelli del conflitto tra Iran e Iraq, i servizi iraniani erano molto attivi a Baghdad e dintorni. Dal 2005, dopo la caduta di Saddam Hussein, il loro ruolo inizia invece a declinare. Vengono gradualmente sostituite dalle Forze Al Quds, guidate da Soleimani dal 1998, che organizzano alcune delle nascenti milizie popolari per combattere gli americani e scongiurare la possibilità che un paese in preda all’anarchia non si trasformasse né in una “base” statunitense per eventuali regime change a Teheran né in avamposto per gruppi jihadisti antisciiti. L’apice del potere delle Forze Al Quds dell’Irgc è nel 2014, quando Teheran per prima assiste militarmente Baghdad e il governo autonomo del Kurdistan, alle prese con l’invasione di Mosul e di larghe parti del paese da parte dell’Isis, e contestualmente attiva le sue milizie.

La barriera di giovani corpi del Movimento sulla strada delle milizie

L'eredità di Soleimani

In seguito alla sconfitta dell’Isis le milizie rafforzano progressivamente sia i loro rapporti con l’Iran che la loro preminenza politico-militare in Iraq: figlia dei loro successi bellici ma madre di diversi malumori generati negli iracheni, culminati con le proteste di fine 2019. Proprio le proteste, insieme all’assassinio di Soleimani e Al Muhandis, secondo una fonte irachena vicina all’Iran e citata da Al Salhy, avrebbero avuto l’effetto collaterale di arrestare un processo di ristrutturazione delle milizie innescato nel 2017, dopo che lo stesso Al Sistani aveva chiesto un ridimensionamento dell’influenza iraniana.

In particolare, Teheran stava avviando lo smantellamento di alcune formazioni (come la Brigata Khorasani) e una strategia basata sulla fiducia al premier iracheno Mustafa Al Khadimi, sulla diversificazione delle fonti di finanziamento dei suoi alleati politici iracheni e sul loro leverage nella politica economica locale; sul ricollocamento di migliaia di miliziani, non inquadrati nelle Pmf, in ruoli civili, sul rafforzamento delle fondazioni e imprese legate alla ricostruzione, sul modello della Jihad-e-Sazandegi dopo la guerra contro l’Iraq o Jihad al Bina in Libano dopo i bombardamenti israeliani. In generale, una maggiore enfasi sulla politica e la diplomazia (anche quella parallela delle Hawza, le scuole religiose sciite irachene e iraniane) rispetto al militarismo

La diversa “fedeltà” a Tehran delle milizie

Senza Qassem Soleimani, hanno preso forma due opposte tendenze centrifughe: una serie di milizie – come Liwa Ali Al Akbar, Firqat al Imam Ali Al Qitaliyah, Liwa Ansar al Marjaiya – si sono progressivamente sfilate dall’ombrello iraniano, alcune in aperta protesta contro la corruzione diffusa in alcune formazioni delle Pmf. Le cosiddette “fazioni del Mausoleo”, cioè particolarmente vicine all’Ayatollah Al Sistani, in una conferenza dello scorso 2 dicembre a Najaf hanno ribadito la propria richiesta di separarsi dalle Pmf, e di poter riportare esclusivamente al ministero della Difesa e al primo ministro.

Altre sono invece andate fuori controllo in senso opposto: è il caso della Aah di Qais al Khazali. Forte del suo peso politico – l’obiettivo è andare oltre gli attuali 15 seggi e guidare l’intera coalizione di Al Fatah – e militare, Aah negli ultimi tempi è stata protagonista di crescenti scaramucce sul controllo di alcuni checkpoint intorno a Baghdad con Kata’ib Hezbollah e con Harakat Hezbollah al Nujaba, anche per via della rivalità tra Al Khazali e Akram Al Kaabi, il capo della seconda, che peraltro è nata da una scissione da Aah nel 2013. In modo ancor più significativo, poi, ha più d’una volta contravvenuto all’ordine di non lanciare razzi verso obiettivi americani nelle ultime settimane del mandato di Trump: l’ultima volta lo scorso dicembre, dopo l’assassinio dello scienziato iraniano Mohsen Fakhrizadeh, spingendo lo stesso Ghaani a incontrare Al Khadimi proprio per recapitare agli Stati Uniti un messaggio sulla propria estraneità ai fatti. Nello stesso giorno a Baghdad sono stati arrestati Hossam Al Zerjawi di Aah (ritenuto responsabile dei lanci) e Hamed Al Jezairy e Ali Al Yasiri, comandanti della dismessa Brigata Khorasani (di cui una settimana prima erano stati arrestati altri 30 membri).

Sembra che Al Khazali fosse contrariato dalla nomina di Abu Fadak Al Muhammadawi (Kata’ib Hezbollah) a capo delle Pmf, e che pensi tuttora di meritare la leadership della muqawama (“resistenza”). Teheran, invece, lo considera poco gestibile militarmente e lo vedrebbe più come uno di quei politici da coltivare e con cui sviluppare la strategia accennata, puntando su un blocco parlamentare solido, specie se si considera il parziale raffreddamento delle relazioni politiche con il blocco di Muqtada Al Sadr, anch’egli orientato al contenimento del ruolo iraniano, oltre che di quello americano.

Il vento nucleare sospeso in attesa di Biden

Questa strategia, però, è vincolata all’idea che Joe Biden rientri quanto prima nell’accordo sul nucleare, e che lo faccia alle stesse condizioni del precedente, senza tentare di inserire il programma di missili balistici – che sono una linea rossa per Teheran – e le stesse milizie in un nuovo negoziato. È infatti assai possibile che alle elezioni presidenziali iraniane del prossimo giugno vinca un candidato principalista, più vicino alle prerogative dell’Irgc e meno incline a fidarsi nuovamente della diplomazia statunitense, motivo per cui il tempo per quest’ultima potrebbe essere più favorevole nei primissimi mesi della presidenza Biden.

Una presidenza che potrebbe ricalibrare all’insegna del realismo le sue percezioni sulle Pmf, abbandonando l’idea che esse costituiscano delle organizzazioni terroristiche globali e funzionali a supposti progetti di dominio dell’Iran. Provando magari a negoziare separatamente un loro ridimensionamento, in cambio del ritiro americano o perlomeno di uno speculare contenimento delle proprie attività in Iraq. Sarebbe in ogni caso opportuno operare nella consapevolezza che una politica non esplicitamente volta a sconfessare quella di Trump, o che decida di trattare egualmente le milizie come formazioni terroristiche, sortirebbe effetti prevedibili: perché si può anche “potare” qualunque legame con l’Iran, eliminare Soleimani o dichiarare guerra senza quartiere alle milizie irachene sue “orfane”, ma è molto difficile che l’hard power e le risorse belliche americane siano in grado di estinguere le ragioni della nascita e dell’esistenza di quelle stesse milizie, cioè proprio la presenza militare americana. Decisamente più probabile è che questa ragione ne esca rinvigorita. E che sullo sfondo, in un Iraq da troppo tempo non in condizione di controllare il proprio destino, attentati come quello di venerdì 22 gennaio tornino a essere routine.

L'articolo La mezzaluna sciita si dissemina per raccogliere la svolta di Biden proviene da OGzero.

]]>