Niger Archivi - OGzero https://ogzero.org/tag/niger/ geopolitica etc Sat, 16 Sep 2023 16:50:18 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.4.6 Sudan: cinque mesi di inutile sofferenza https://ogzero.org/sudan-cinque-mesi-di-inutile-sofferenza/ Sat, 16 Sep 2023 16:47:40 +0000 https://ogzero.org/?p=11593 Quando il Fmi diventa “modello di solidarietà” significa che la situazione è ormai oltre ogni accettabilità e a nessuno importa di una condizione infernale. Distratti da altre guerre, da altre bombe su mercati, i 46 morti del mercato di May a Khartoum non meritano un trafiletto, laddove invece Angelo Ferrari va oltre l’orrore per uno […]

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Quando il Fmi diventa “modello di solidarietà” significa che la situazione è ormai oltre ogni accettabilità e a nessuno importa di una condizione infernale. Distratti da altre guerre, da altre bombe su mercati, i 46 morti del mercato di May a Khartoum non meritano un trafiletto, laddove invece Angelo Ferrari va oltre l’orrore per uno scontro tra Signori della Guerra che produce cadaveri civili ancora una volta trasportati dal Nilo a valle con il poco limo residuo dalle barriere a monte della Gerd il cui riempimento dell’invaso è stato terminato in questi giorni: infatti metà dell’intervento dell’africanista è dedicato al vicino Ciad, già in “cattive acque”, che si sobbarca la fuga dei profughi di guerra.


La tradizionale arroganza di entrambi i militari…

La guerra in Sudan non si ferma. Le sofferenze, numero di morti e sfollati, si moltiplicano in un insensato scontro tra due generali che hanno solo a cuore la conquista del potere. Ma non si vedono, nemmeno, spiragli per una soluzione negoziata. Il generale Abdelfattah al-Burhan, a capo dell’esercito regolare, e le Forze di supporto rapido di Mohamed Hamdan Dagalo, detto Hemedti, non hanno nessuna intenzione di sedersi a un tavolo negoziale per risolvere la crisi. Anzi, negli ultimi giorni i combattimenti si sono intensificati, si sono fatti, se è possibile, ancora più cruenti estendendosi a molte regioni del paese. Entrambi vogliono arrivare alla vittoria “assoluta” in Sudan. Per che cosa? Difendere interessi economici da sempre nelle mani dei militari. Ogni attività, infatti, è governata dall’esercito e dalle milizie armate: dalle banche alle materie prime, in una suddivisione, tra i due uomini forti che, evidentemente, non bastava più a entrambi. I due generali vogliono mettere mano su tutto e non importa se la gente soffre.

… diventa massacro

Il 13 settembre sono trascorsi cinque mesi di guerra e di inutile sofferenza, morte, perdita e distruzione.

L’Alto commissario delle Nazioni Unite, Volker Turk, ha spiegato che non c’è alcuna tregua in vista: «Il mio staff si è recato in Ciad e Etiopia tra giugno e luglio per raccogliere informazioni di prima mano dalle persone fuggite dalle violenze in Sudan. Le loro testimonianze evidenziano le informazioni che il mio ufficio ha ottenuto sulla portata e sulla brutalità di questo conflitto. Abbiamo ascoltato storie di familiari uccisi o violentati. Storie di parenti arrestati senza motivo. Di pile di corpi abbandonati nelle strade. Di una fame disperata e persistente».

Il conflitto, come prevedibile, ha paralizzato l’economia, spingendo milioni di persone sull’orlo della povertà, i servizi essenziali sono sull’orlo del collasso, quasi bloccati, come istruzione e assistenza sanitaria. Più di 7,4 milioni di bambini sono privi di acqua potabile e almeno in 700.000 sono a rischio malnutrizione grave.

Il Ciad nella morsa

Sul fronte dei profughi a subire pesanti conseguenze è soprattutto il Ciad, un paese che è preso a tenaglia a suoi confini, oltre alla crisi sudanese, il colpo di stato in Niger è la chiusura dei corridoi commerciali, sta provocando notevoli problemi di approvvigionamento di materie prime. E la situazione dei profughi che arrivano dal Sudan sta aggravando ulteriormente la situazione. Stando ai dati riportati delle Nazioni Unite, in Ciad sono arrivate 418.000 persone tra rifugiati e ciadiani che hanno deciso di ritornare a case. Circa l’85% dei profughi sudanesi e il 93% delle persone ritornate in patria sono donne e bambine. In questo contesto, la Banca mondiale ha annunciato una tranche di aiuti da 340 milioni di dollari per sostenere N’Djamena nella gestione dell’accoglienza, nonostante le Ong denuncino che solo il 34% degli aiuti richiesti è arrivato per sostenere gli aiuti umanitari.
Anna Bjerde, direttrice generale per le operazioni della Banca mondiale, ha annunciato il pacchetto di sostegni economici da un campo profughi nel Ciad orientale durante una due giorni di visita congiunta con l’Alto commissario per i rifugiati delle Nazioni Unite, Filippo Grandi.

Secondo Bjerde, «la crisi dei rifugiati nell’Est del paese sta aggiungendo ulteriore pressione alla fornitura di servizi sociali e alle risorse naturali. Collaborando con l’Unhcr e altri partner, restiamo impegnati ad aiutare le persone più bisognose e a sostenere la ripresa economica a lungo termine e la resilienza della regione».

Grandi, che a N’Djamena è stato ricevuto da diversi ministri del governo di transizione militare retto dal presidente Mahamat Idriss Déby Itno, si è augurato che «l’esempio della Banca Mondiale ispiri altri attori dello sviluppo a intensificare i loro interventi, poiché il Ciad non può essere lasciato solo ad affrontare questa grave crisi».

Aiutare il Ciad, per la comunità internazionale, dovrebbe essere prioritario. In una regione martoriata da guerre, colpi di stato e cambio di regimi. L’opinione pubblica ciadiana sta già soffrendo ed è in subbuglio. Difficoltà a reperire le materie prime, crisi dei profughi sudanesi, inoltre, potrebbe avere ripercussioni sull’inflazione del paese, già elevata. L’ultimo dato disponibile – riferito ad aprile 2023 – parla di un +12,5%, e di quella alimentare che è arrivata al 18,8% in aumento rispetto al dato precedente, +16%. Le difficolta di approvvigionamento delle merci, dunque, potrebbe pesare ulteriormente sulle entrate dello Stato, ma soprattutto già provata per via di un potere di acquisto che sta progressivamente diminuendo e, quindi, esacerbare ulteriormente gli animi di una società civile che non vede di buon occhio l’attuale regime “ereditato” dopo la morte di Deby padre, dal figlio.

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Niger: la diplomazia al lavoro, mentre Niamey tace https://ogzero.org/niger-la-diplomazia-al-lavoro-mentre-niamey-tace/ Sat, 02 Sep 2023 22:17:57 +0000 https://ogzero.org/?p=11535 Niger, un aggiornamento: la diplomazia al lavoro, mentre Niamey tace. Nelle ultime ore si sono accavallate numerose proposte di transizione rivolte al regime di Tchiani,. Un’azione diplomatica che, inoltre, ha il significato di scongiurare un intervento armato nel paese che infiammerebbe tutta l’Africa Occidentale. Di questo ne sono consapevoli sia i leader africani sia i […]

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Niger, un aggiornamento: la diplomazia al lavoro, mentre Niamey tace. Nelle ultime ore si sono accavallate numerose proposte di transizione rivolte al regime di Tchiani,. Un’azione diplomatica che, inoltre, ha il significato di scongiurare un intervento armato nel paese che infiammerebbe tutta l’Africa Occidentale. Di questo ne sono consapevoli sia i leader africani sia i ministri degli Esteri dell’Unione europea che, infatti, invocano prudenza. Ma le proposte di transizione, formulate da Algeria e Nigeria, per ora rimangono lettera morta e quella nigeriana viene bollata dalla Comunità economica degli Stati dell’Africa Occidentale (Ecowas) come una fake news. Ecowas, infatti, ribadisce, che la soluzione è il ripristino dell’ordine costituzionale e la reintegrazione del deposto presidente Mohamed Bazoum, che diventa una figura simbolica, insieme all’ambasciatore francese: due paradigmi del sistema coloniale utili per aizzare contro la percezione di ogni grandeur (e saccheggio) francese. Poi è facile su questa ondata antifrancese trovare le corde giuste per rovesciare  gli amici dei francesi, ma una volta giunti al potere – a parte resistere alla stigmatizzazione internazionale – non ci sono piani per gestirlo al meglio. Si direbbe non sia chiaro in che direzione andare una volta rimossi i fantocci di poteri altri e le mosse per fare gli interessi della popolazione civile non siano state insegnate nelle scuole militari frequentate dai golpisti.


La proposta nigeriana

Il presidente nigeriano Bola Tinubu, che è anche l’attuale presidente dell’Ecowas, giovedì ha citato come esempio la transizione di nove mesi avvenuta nel suo paese nel 1999. «Il presidente non vede alcun motivo per cui ciò non possa accadere di nuovo in Niger, se le autorità militari sono sincere», si legge in un comunicato della presidenza nigeriana. Più che una proposta è un suggerimento e Tinubu l’avrebbe espresso ricevendo presso la State House di Abuja (capitale della Nigeria) una delegazione guidata dal sultano di Sokoto, Muhammad Sa’ad Abubakar III, personalità molto influente anche in Niger. «Il presidente Tinubu ha osservato che la Nigeria, sotto il generale Abdulsalami Abubakar, ha istituito un programma di transizione di nove mesi nel 1998, che si è rivelato un grande successo, portando il paese in una nuova era di governo democratico», si legge nella nota emessa dalla presidenza nigeriana al termine dell’incontro. Un suggerimento, quindi, non una proposta ufficiale da parte dell’Ecowas che comunque ha tenuto a chiarire la sua posizione, definendola una fake news e comunque non una posizione dell’organizzazione sovranazionale africana anche se Tinubu ne è il presidente di turno.

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La proposta algerina

All’inizio della settimana, l’Algeria, un altro influente vicino del Niger, è stata ancora più specifica nell’offrire al regime militare un “piano di transizione di sei mesi” sotto la supervisione di una “autorità civile”. Per il momento, i generali al potere a Niamey non hanno reagito a queste proposte e il loro unico intervento sull’argomento risale al 19 agosto, quando il nuovo uomo forte del paese, il generale Abdourahamane Tchiani, aveva indicato di volere una transizione da tre anni al massimo. Molti giudicano poco credibile, o troppo lungo, questo periodo di transizione e, dopo i colpi di stato in Mali e Burkina Faso, ma anche in Guinea, le transizioni annunciate, per arrivare a nuove elezioni e il ripristino di un governo democraticamente eletto si sono allungate nel tempo, allontanando il ritorno dell’ordine democratico.

Ultimatum e tensioni diplomatiche

Resta, poi, alta la tensione anche tra il regime di Nimaey e la Francia, ex potenza coloniale e partner del Niger soprattutto nella lotta antijihadista e con numerosi interessi economici nel paese. Le autorità hanno revocato l’immunità e il visto diplomatico all’ambasciatore francese e hanno annunciato l’intenzione di espellerlo in una lettera inviata martedì a Parigi. Venerdì scorso avevano inizialmente concesso 48 ore a Sylvain Itté per lasciare il territorio, ultimatum respinto da Parigi che ritiene questo governo illegittimo e quindi non ha l’autorità per fondare una simile richiesta. E la giunta militare sta facendo molta pressione sull’ambasciata, tanto che, secondo testimonianze raccolte sul luogo, le auto in uscita dall’ambasciata francese sono state perquisite sistematicamente dalla polizia. Un altro ultimatum potrebbe scadere nel finesettimana. Le autorità militari hanno minacciato di accompagnare l’ambasciatore in maniera coatta fuori dal paese.

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La piazza si muove

La tensione cresce anche nelle piazze. L’M62, una coalizione della società civile contraria alla presenza militare francese, ha lanciato un appello per un “sit-in popolare” nel centro di Niamey, già a partire da ieri e per tutto il finesettimana, per chiedere la “partenza delle forze francesi”. Un’altra organizzazione della società civile, il Fronte patriottico per la Sovranità del Niger (Fpsn), dal canto suo ha chiesto un “sit in permanente” da oggi “fino alla partenza di tutti i soldati francesi”. La presenza militare francese in Niger, infatti, è massiccia: 1500 militari, oltre a mezzi e intelligence. Senza contare la presenza americana e italiana, che vanno ad aggiungersi al contingente militare che ha come missione il contrasto al jihadismo e alla tratta di essere umani, per fermare le migrazioni verso il Mediterraneo. Da diversi anni il Niger si trova ad affrontare una violenza jihadista mortale che colpisce la parte sudoccidentale del paese, ai confini del Burkina Faso e del Mali – la cosiddetta area dei Tre Confini – e la sua parte sudorientale vicino al bacino del Lago Ciad e al confine con la Nigeria.

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Attività sospese e diplomazia al lavoro

Infine, le autorità hanno annunciato la sospensione delle attività delle Ong, delle organizzazioni internazionali e delle agenzie delle Nazioni Unite nelle aree delle operazioni militari «a causa dell’attuale situazione di sicurezza». Le zone interessate non sono state specificate, ma secondo l’ufficio locale dell’agenzia umanitaria dell’Onu (Ocha), sarebbero prese di mira le località attorno a Banibangou, Sanam, Anzourou e Bankilaré, tutte situate nella regione di Tillabéri (Sud-ovest), a causa la «recrudescenza della presenza e delle attività» dei gruppi jihadisti. Le Nazioni Unite hanno annunciato di voler contattare i militari dopo questa decisione per «comprendere meglio cosa significa e quali sono le conseguenze per l’attività umanitaria».

Insomma permane una situazione di stallo. Ma le diplomazie sono continuamente al lavoro per scongiurare ogni possibile innalzamento della tensione che potrebbe portare a un intervento armato che infiammerebbe tutta l’Africa occidentale, e non solo, e in prima linea su questo fronte diplomatico c’è la nuova ambasciatrice americana a Niamey che, pur non presentando le sue credenziali alla giunta perché Washington non la riconosce, ha presso possesso della rappresentanza diplomatica.

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Il Sahelistan dall’Atlantico al Mar Rosso https://ogzero.org/il-sahelistan-dallatlantico-al-mar-rosso/ Mon, 21 Aug 2023 20:51:37 +0000 https://ogzero.org/?p=11453 La rapida fuga dei francesi cacciati dalla Françafrique, con i doverosi distinguo, richiama alla mente – soprattutto per la rapidità del dissolvimento di un potere coloniale – la precipitosa fuga americana da Kabul. La regione immediatamente subsahariana – che molto è intrecciata con i movimenti irredentisti del Maghreb, esplosi con la crisi libica (scatenata da […]

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La rapida fuga dei francesi cacciati dalla Françafrique, con i doverosi distinguo, richiama alla mente – soprattutto per la rapidità del dissolvimento di un potere coloniale – la precipitosa fuga americana da Kabul. La regione immediatamente subsahariana – che molto è intrecciata con i movimenti irredentisti del Maghreb, esplosi con la crisi libica (scatenata da Sarkozy) che furono alleati del jihad che imperversa nel territorio su cui sono segnati i confini tra Mali, Burkina e Niger – ha assistito alla penetrazione di nuove potenze (in particolare Russia con la presenza di Wagner e Cina che ha aperto una sede per manutenzione di veicoli della Norinco a Dakar – pronta a difendere i vasti interessi di Pechino nei tre paesi dei golpe, ma operativa anche in Senegal, Costa d’Avorio –, ma anche Turchia e paesi della penisola araba), che hanno sfruttato dispute interne, sentimenti antifrancesi, insorgere del jihad per piegare a loro favore lo sfruttamento delle risorse del territorio e la collocazione strategica di cerniera tra Africa centrale (e Corno d’Africa) e Mediterraneo da sud a nord; tra l’Oceano e l’importantissimo corridoio del Mar Rosso sul classico asse ovest/est. L’incendio si va estendendo ormai da quel Triangolo di paesi attualmente retti da giunte militari golpiste fino a legarsi al sanguinoso conflitto sudanese ormai impossibile da comporre (che sta causando nuovi esodi di massa, coinvolgendo in questo modo altri paesi in sofferenza, perché non più in grado di accogliere profughi, creando così nuovi motivi di tensione nell’area dopo quelli che hanno scosso l’Etiopia negli ultimi due anni).
A chi serve creare un’area a forte instabilità sul modello afgano di dimensioni così enormi? è tutto parte di un disegno globale di ridimensionamento del predominio dell’Occidente, oppure è un percorso senza alternative di decolonizzazione, che fa della Realpolitik l’accettazione di potenze alternative, pur di disfarsi del giogo classicamente coloniale? le reazioni interventiste dei paesi limitrofi sono ispirate dalla paura dell’epidemia; oppure dagli sponsor europei, come il solito Eliseo (Adamu Garba, esponente dell’Apc ha accusato Usa e Francia di aver voluto mandare avanti l’Ecowas per innescare una guerra regionale e recuperare posizioni “coloniali”, sfruttando l’instabilità e l’ennesima guerra per procura che finirebbe con il distruggere l’Africa occidentale)
?  Oppure nascono dalla consapevolezza che la regione è stata integralmente posta in un caos per cui nulla sarà più come prima? Sicuramente si sta spostando in campo africano lo scontro anche militare che contrappone gli interessi dei Brics allargati all’egemonia occidentale.
Angelo Ferrari ha cercato di fare il punto mettendo in relazione tutti gli elementi in campo per dipanare l’ingarbugliata matassa.


Il golpe nigerino sblocca definitivamente il modello afgano per l’intero Sahel?

A ovest del lago Ciad

Rulli di tamburi…

Tutti i riflettori della diplomazia internazionale sono puntati sul Niger, dopo il colpo di stato del 26 luglio. Mentre ciò accade il Sahel rischia di piombare in un caos senza precedenti che potrebbe coinvolgere tutta l’Africa occidentale e non solo: l’intera  striscia saheliana è attraversata da tensioni che vanno dal sentimento antifrancese e antioccidentale, che sta montando un po’ ovunque, a una crisi politica, umanitaria e di sicurezza senza precedenti. La decisione della Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale (Ecowas) di intervenire militarmente in Niger sta esacerbando ulteriormente le opinioni pubbliche di diversi stati della regione; non più, dunque, una minaccia, ma un piano militare messo a punto dopo due giorni di vertice ad Accra, capitale del Ghana. Non si conoscono i dettagli dell’operazione, si sa solo che dovrebbe essere “lampo” perché nel Sahel c’è stato “un colpo di stato militare di troppo”, a detta dei generali riuniti ad Accra. Intervento armato, tuttavia, che non avrebbe alcuna legittimità internazionale: l’Unione africana infatti ha già detto il suo no e le Nazioni Unite non hanno nessuna intenzione di autorizzarlo.

… timide mosse diplomatiche…

Mentre si parla di piani militari, la diplomazia è ancora al lavoro. Una delegazione dell’Ecowas è arrivata a Niamey dove ha potuto incontrare il presidente destituito, Mohamed Bazoum; non solo, a Niamey è arrivata anche la nuova ambasciatrice degli Stati Uniti, Kathleen FitzGibbon, anche se non presenterà le credenziali alla giunta militare – perché Washington non la riconosce – esprimendo tuttavia l’intenzione americana di perseguire la via diplomatica e «per sostenere gli sforzi che aiutino a risolvere la crisi politica in questo momento». Un segno, dunque, che la giunta militare non respinge del tutto il dialogo.
tanto che in un discorso alla televisione pubblica nigerina, Télé Sahel, il generale Abdourahamane Tchiani, a capo della giunta militare, ha annunciato l’istituzione di un «dialogo nazionale inclusivo» entro 30 giorni e ha annunciato una transizione che «non può durare oltre i tre anni». L’obiettivo è formulare «proposte concrete per porre le basi di una nuova vita costituzionale».
Un mantra, quest’ultimo, che ha precedenti in Mali, Burkina Faso e Guinea, paesi che sono stati teatro di colpi di stato negli ultimi due anni e dove le transizioni si prolungano senza che vengano convocate elezioni per un ritorno dei civili al governo di questi paesi. Il generale Tchiani, tuttavia, non accetta la minaccia dell’Ecowas di un intervento militare e rilancia: «L’Ecowas si prepara ad attaccare il Niger allestendo un esercito di occupazione in collaborazione con un esercito straniero», ha detto Tchiani senza citare il paese “straniero”, ma in molti pensano alla Francia.

… esibizione di muscoli

«Né il Consiglio Nazionale per la Salvaguardia della Patria né il popolo del Niger vogliono la guerra, ma se dovesse essere intrapresa un’aggressione, non sarà la svolta in cui alcuni credono» e ha ammonito: «Le forze di difesa del Niger non si tireranno indietro», sostenute da Burkina Faso, Mali e Guinea, ha detto. «La nostra ambizione non è quella di confiscare il potere», ha anche promesso.

A est del lago Ciad

Il conflitto tra al-Burhan e Hemedti si estende a tutti i Signori della guerra

Mentre ciò accade nell’estremo ovest della striscia saheliana, il Sudan è entrato nel quinto mese di guerra senza che si intraveda all’orizzonte una soluzione. Anzi, sembra proprio che i contendenti vogliano arrivare alle estreme conseguenze. Intanto il conflitto si è esteso, impantanato, aggravato provocando un dramma umanitario che nemmeno l’Onu è in grado di affrontare. La guerra contrappone l’esercito regolare del generale al-Burhan alle Forze di supporto rapido (Fsr) dei paramilitari guidati dal generale Hemedti. Il conflitto ha causato più di quattromila morti, anche se la cifra delle vittime è sottostimata, e milioni tra profughi e sfollati interni. Quando la guerra è scoppiata, il 15 aprile 2023, il generale al-Burhan ha detto che sarebbe finita in due settimane, mentre Hemedti prometteva la vittoria. Oggi nessuna delle due parti sembra prendere un vantaggio decisivo. I militari dominano ancora lo spazio aereo, mentre soffrono la debolezza della loro fanteria, un compito, ironia della sorte, che avevano affidato proprio alle Fsr. L’esercito ha subito battute d’arresto nel Sud Kordofan, nel Nilo Azzurro e nel Darfur, le Forze di supporto rapido sembrano avere nelle mani la maggior parte del territorio di Khartoum, la capitale.
Il conflitto dunque, anziché attenuarsi, si intensifica è sta coinvolgendo altri movimenti armati che partecipano ai combattimenti. Insomma, questo conflitto, iniziato tra due generali, rischia di trasformarsi in una vera e propria guerra civile, secondo l’Onu, volgendo verso una situazione di anarchia totale. I negoziati, inoltre, non sono mai decollati e sono in una fase di stallo e i cessate il fuoco non sono mai durati.

S’intrecciano le crisi umanitarie regionali

Profughi e sfollati, di nuovo sulle sponde del Nilo

Sul versante umanitario le cifre sono da capogiro con oltre 3 milioni di sfollati e quasi 1 milione di rifugiati. Inoltre, entro settembre si prevede che il 40% della popolazione soffrirà di insicurezza alimentare. Le organizzazioni umanitarie stanno affrontando una situazione a dir poco scoraggiante con una mancanza allarmante di fondi, all’appello mancano due miliardi di dollari per far fronte alla crisi. Le donne sono particolarmente colpite, sono vittime di violenze e stupri perpetrati dai combattenti e private di un’adeguata assistenza psicologica e medica, hanno spiegato i portavoce delle agenzie umanitarie durante una riunione a Ginevra. Le agenzie possono aiutare circa 19 milioni di persone in Sudan e nei paesi limitrofi, tuttavia gli interventi sono finanziati solo al 27%. Le Nazioni Unite hanno lanciato due appelli, uno per finanziare gli aiuti all’interno del paese per un totale di 2,57 miliardi di dollari e l’altro per i rifugiati fuggiti dal Sudan per un importo di 566,4 milioni di dollari. Ma dopo la crisi innescata dal colpo di stato in Niger, del Sudan sembra si siano dimenticati tutti e ciò rischia di aggiungere catastrofe a catastrofe.

Profughi e sfollati, di nuovo sulle sponde del Niger

Le conseguenze di un intervento militare dell’Ecowas a Niamey sarebbero devastanti sia sul piano umanitario sia sul piano della sicurezza dell’intera regione. Già si vedono spostamenti di persone sul fiume Niger nella parte che confina con il Benin, considerato, ancora, uno stato sicuro. Nel paese la crisi umanitaria si sta già manifestando. Le frontiere chiuse impediscono il passaggio di merci necessarie alla sopravvivenza della popolazione, così come l’elettricità scarseggia in più parti del paese per via delle interruzioni delle forniture che arrivano dall’estero. Una guerra, per quanto lampo sia, aggraverebbe ulteriormente la situazione umanitaria.

A Ovest (speriamo) niente di nuovo

Una guerra, che potrebbe estendersi a buona parte del Sahel – Mali e Burkina Faso hanno già assicurato il loro appoggio al Niger – avrebbe ripercussioni preoccupanti sul fronte della lotta al terrorismo e ai gruppi jihadisti che imperversano nell’area, in particolare nella regione dei tre confini – Niger (Tilaberi), Mali (Tessit) e Burkina Faso (Tamba), dove storicamente la pastorizia nomade si scontra con coltivatori stanziali – ma anche sulla capacità dei paesi del Golfo di Guinea, già colpiti dal terrorismo a nord dei loro confini – Costa d’Avorio, Benin e Togo – di farvi fronte. Una situazione, dunque, esplosiva.

Recrudescenza jihadista dopo Barkhane

Dal colpo di stato in Niger di fine luglio, infatti, sono stati registrati nove attacchi jihadisti. Una tendenza che preoccupa gli osservatori. Con la recrudescenza degli attacchi islamisti, il timore è di “un rapido deterioramento della situazione”, in primo luogo perché Parigi ha sospeso la sua cooperazione militare con il Niger. L’esercito nazionale quindi non beneficia più dell’appoggio dell’esercito francese. Non ci sono più operazioni congiunte, aerei e droni non danno più supporto e i terroristi approfittano del vuoto. Poi, le minacce di intervento armato dell’Ecowas hanno portato a una riduzione del sistema militare occidentale, che hanno sospeso le loro attività ai confini. Ciò potrebbe portare un calo della reattività dell’esercito nigerino e i gruppi jihadisti potrebbero approfittarne riconquistando la loro libertà di manovra con un radicamento dello Stato Islamico proprio nell’area dei tre confini. Le preoccupazioni vanno ancora oltre, con la possibile creazione di zone grigie, in parte controllate da gruppi armati, in Mali, Burkina, Niger, persino Sudan, che potrebbero destabilizzare il vicino Ciad. Il Ciad, pur non essendo membro dell’Ecowas, condivide con il Niger 1200 chilometri di confine e dispone, oltre ad avere solidi rapporti con la Francia, di un esercito tra i più potenti dell’area. Quindi il Niger ha necessità di assicurarsi rapporti di buon vicinato – il primo ministro nigerino, nominato dalla giunta militare, ha fatto visita al presidente ciadiano Mahamat Idriss Deby – anche se N’Djamena è alle prese con una crisi interna di legittimità del potere e con l’emergenza profughi che arrivano a decine di migliaia dal Sudan.

A rischio sconfinamenti i paesi del Golfo

Si teme, inoltre, che i gruppi jihadisti possano contagiare anche i paesi del Golfo di Guinea. Questa è la maggior preoccupazione della Costa d’Avorio che è già alle prese con sconfinamenti dal Burkina Faso e con centinaia di profughi burkinabé che cercano rifugio nel nord del Paese. Ciò, inoltre, potrebbe spiegare la ferma posizione del presidente ivoriano, Alassane Ouattara, che si è schierato con decisione per un intervento militare in Niger, dicendosi disponibile a fornire un battaglione del suo esercito al contingente dell’Ecowas. Occorre ricordare che Ouattara è uno dei pochi “fedeli” alla Francia rimasti nella regione. E il presidente ivoriano è preoccupato che anche nel suo paese possa montare un sentimento antifrancese alimentato, soprattutto, dal suo rivale di sempre l’ex presidente Laurent Gbagbo, 78 anni, che non nasconde le sue velleità di tornare alla presidenza della Costa d’Avorio, nel 2025, con il suo nuovo Partito dei popoli africani-Costa d’Avorio (Ppa-Ci), di ispirazione e orientamento socialista e panafricanista, nemmeno troppo velatamente antifrancese.

Scosso anche il gigante Senegal da sommovimenti interni

Non meno turbolenta appare la situazione nell’estremo ovest della striscia saheliana, in un Senegal che vive un periodo di forte crisi politica e di legittimità democratica, soprattutto dopo l’arresto dell’oppositore Ousmane Sonko, uno dei leader politici più amati dai giovani senegalesi. Arresto che ha provocato manifestazioni di piazza violente, che hanno lasciato sulle strade numerosi feriti ma anche morti. In conseguenza di queste proteste il ministro dell’interno senegalese, Antoine Diome, ha annunciato lo scioglimento proprio del partito di Sonko, il Pastef – Les patriotes. Il leader dei “giovani senegalesi” è stato condannato per diffamazione e per corruzione giovanile. Secondo le opposizioni queste condanne non hanno altro significato che escludere Sonko, che gode di un buon seguito, dalle elezioni presidenziali del 2024. Il Senegal è un altro paese in forte ebollizione e non è bastata la decisone di Macky Sall, attuale presidente, di non candidarsi per un terzo mandato alle presidenziali a inizio luglio per stemperare la tensione nel paese. In punta di diritto potrebbe farlo, anche se la Costituzione prevede solo due mandati, ma è stata riformata, con una rimodulazione della lunghezza del mandato, proprio sotto la presidenza Sall. Le opposizioni, infatti, si rammaricano del fatto che il presidente Sall e il suo governo rimangano sordi alle richieste di allentamento, pacificazione e fine delle restrizioni agli spazi di libertà. I mesi, dunque, che separano il Senegal alle presidenziali del febbraio 2024 saranno particolarmente difficili. Non è un caso, inoltre, che le opposizioni senegalesi si siano schierate contro l’intervento militare dell’Ecowas in Niger.
Sono molte le ragioni che dovrebbero dissuadere dal mettere in atto lo scenario peggiore per il Sahel e per l’intera Africa occidentale. Un conflitto armato su vasta scala potrebbe scatenare reazioni non proprio prevedibili e trasformare il Sahel in un “Sahelistan” di afgana memoria.

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L’ancora irrisolto colpo di stato in Niger https://ogzero.org/lancora-irrisolto-colpo-di-stato-in-niger/ Sun, 30 Jul 2023 22:51:19 +0000 https://ogzero.org/?p=11387 Intanto i differenti militari hanno sollevato il presidente, il potere però sembra sia gestito da svariati uomini forti a cominciare dal capo della Guardia presidenziale Tchiani e ora sembrano essere in attesa di capire in che modo schierarsi nelle relazioni internazionali; come se fossero sulla piazza, al miglior offerente… ma probabilmente divisi tra diverse forze […]

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Intanto i differenti militari hanno sollevato il presidente, il potere però sembra sia gestito da svariati uomini forti a cominciare dal capo della Guardia presidenziale Tchiani e ora sembrano essere in attesa di capire in che modo schierarsi nelle relazioni internazionali; come se fossero sulla piazza, al miglior offerente… ma probabilmente divisi tra diverse forze armate e le differenti “scuole d’armi” frequentate. Forse Bazoum aveva dato l’impressione di non voler mettere in discussione minimamente lo schieramento con la parte dell’Occidente e quindi il rischio per chi intendeva omogeneizzare le scelte antiatlantiste del resto del Sahel era quello di essere esautorati dagli incarichi autorevoli che ricoprivano. Forse ha prevalso l’idea che nel gran rivolgimento dell’intero continente risultasse perdente per la nazione non operare alcun cambiamento. Forse il timore che si mancasse anche stavolta la partecipazione all’ondata di rigetto antifrancese (molto popolare presso i giovani potrebbe aver spinto alla rimozione dell’ostacolo presidenziale… di certo l’incertezza sulla affidabilità e collocazione di uno stato chiave, l’ultimo nel Sahel ancora sotto l’egida di una Francia affamata di uranio, produce fibrillazioni in seno all’intera comunità internazionale, motivo per cui – al contrario del solito – abbiamo pensato fosse il caso di occuparsene quando ancora non si è depositato il polverone di ipotesi suscitate dal golpe. … Intanto Parigi ha dichiarato che – rispetto agli altri paesi sahelini (che non sono cassaforte di uranio) – da Niamey sarà più difficile cacciarli, però il governo golpista ha sospeso le forniture di oro e uranio alla Francia. E comunque sul territorio c’è il più grosso contingente americano in Africa e gli addestratori italiani (più di 300 giovani e forti, 13 mezzi terrestri e 5 aerei, inquadrati nella Misin che opera agli ordini del Comando operativo di vertice interforze (Covi), guidato dal generale di Corpo d’armata Francesco Paolo Figliuolo, sempre lui). Il blocco dell’Africa occidentale riunito a Abuja (Cedeao), ha dichiarato la sospensione delle relazioni con il Niger autorizzando l’uso della forza se il presidente non verrà reintegrato entro una settimana: l’emissario del messaggio è il non-allineato Déby (in carica dinasticamente per volontà dell’Eliseo), un pessimo segnale in una fase di rivolgimento totale, che la paura dell’epidemia si diffonda in tutta l’Africa occidentale, mettendo le premesse perché divampi una guerra estesa, concede pericolosi spazi per una nuova guerra per procura in terra africana.
Angelo Ferrari affronta l’evento cercando di districarsi tra le notizie ancora contraddittorie, analizzandole per capire almeno le intenzioni di ciascun protagonista, in primis i generali nigerini, ma poi anche le diplomazie mondiali e la manipolazione mediatica delle piazze locali, lasciando solo trapelare il malcontento giovanile
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Sbalorditivi risultati dopo il vertice di San Pietroburgo?

Una vicenda ancora dai contorni pochi chiari – non potevano mancare le affermazioni del capo dei mercenari della Wagner che ha applaudito alla presa di potere dei militari. Parole piene di retorica anticoloniale:

«Quello che è successo in Niger non è altro che la lotta del popolo nigerino contro i colonizzatori che stanno cercando di imporre loro le loro regole di vita”, ha detto Evgenij Prigožin in un messaggio a lui attribuito.

Parole che fanno intendere che la Wagner, qualora i golpisti lo volessero, è pronta a entrare nello scenario nigerino con un ruolo di primo piano. Non ci sono, per ora, segnali che dietro il golpe ci siano gli uomini della Wagner. Se fosse così sarebbe un doppio schiaffo per l’occidente che, è bene dirlo, si è fatto sorprendere proprio nell’ultima roccaforte della lotta antijihadista dopo l’uscita di scena dal Mali e dal Burkina Faso. Le domande sono molte.

 

La prima: come è stato possibile che nessuna cancelleria occidentale avesse avuto un sentore di ciò che sarebbe potuto accadere?

Non c’è una risposta e se c’è nessuno la vuole dare, forse perché sarebbe troppo imbarazzante. Sta di fatto che in Niger sono presenti migliaia di militari stranieri: 1500 francesi, più di mille americani e oltre trecento italiani, oltre ai mezzi militari, molti di questi di stanza a Niamey, la capitale. Di certo, nei prossimi giorni si chiariranno molte cose. Secondo i francesi il colpo di stato “non è definitivo”. Il presidente Emmanuel Macron ha parlato in più occasioni con il suo omologo destituito, Mohamed Bazoum. Forse da queste telefonate deduce che ci sia ancora uno spiraglio di trattativa tra il capo di stato democraticamente eletto e i golpisti che, intanto, hanno messo a guida del paese il capo della guardia presidenziale, il generale Abdourahamane Tchiani, in qualità di “presidente del Consiglio nazionale per la salvaguardia della patria”, la giunta che ha rovesciato il presidente eletto. Il capo della guardia presidenziale, il generale Tchiani, nuovo uomo forte del Niger, ha giustificato il golpe con “il deterioramento della situazione della sicurezza” nel paese minato dalla violenza dei gruppi jihadisti. Il presidente Bazoum, a detta sua, voleva far credere che “va tutto bene”, mentre c’è

«la dura realtà con la sua quota di morti, sfollati, umiliazioni e frustrazioni». Secondo Tchiani «l’attuale approccio di sicurezza non ha permesso di mettere in sicurezza il paese nonostante i pesanti sacrifici compiuti dai nigerini e l’apprezzabile e apprezzato supporto dei nostri partner esterni».

Rassicurazioni da militare

A ogni insorgenza si sentono sempre queste parole. Sono una consuetudine vissuta anche in altri scenari del Sahel: il Mali e il Burkina Faso, paesi governati da giunte militari frutto di 4 colpi di stato. Tutte le giunte militari, inoltre, si affrettano a sostenere che gli impegni presi dal paese non cambieranno e verranno rispettati. Un tentativo di rassicurare gli alleati, ed è capitato anche in Niger, per poi fare retromarce clamorose. In Mali – la nuova Costituzione stabilisce che il francese non è più la lingua ufficiale – come in Burkina Faso, hanno “cacciato” la Francia per mettersi totalmente nelle mani della Russia, affidandosi alla Compagnia Wagner per la lotta ai gruppi jihadisti che imperversano nel Sahel. Hanno preoccupato le manifestazioni, a Niamey, a sostegno dei golpisti, con la gente che sventolava le bandiere russe, per altro subito disperse dalla giunta miliare. I timori, dunque, delle cancellerie occidentali sono più che fondati. E la “guerra economica e diplomatica” tra Ovest ed Est del mondo sembra proprio essersi trasferita in Africa. I segnali ci sono tutti.

Il Sahel ha sancito la fine di un’epoca?

Dopo il Mali e il Burkina Faso, dunque, anche il Niger è caduto sotto il controllo di un regime militare che potrebbe sconvolgere la lotta contro i gruppi armati jihadisti nel Sahel. Di fronte all’avanzata dei terroristi, le giunte militari hanno preso il sopravvento su democrazie ritenute inefficienti e corrotte da parte delle popolazioni saheliane. I militari che hanno, infatti, preso il potere in Niger hanno già annunciato un nuovo orientamento strategico.

«L’attuale approccio non ha permesso di mettere in sicurezza il Paese nonostante i pesanti sacrifici compiuti dai nigerini», ha detto il generale Tchiani.

Il Niger e il suo presidente, eletto democraticamente, erano i principali alleati dei paesi occidentali nel Sahel travolto dalla violenza jihadista e da un’ondata di autoritarismo venato di sovranità russofila. Bamako si è rivolto ai mercenari della Wagner per far fronte ai gruppi jihadisti, provocando la partenza delle truppe francesi nel 2022. Le autorità di Ouagadougou, capitale del Burkina Faso, hanno optato per la mobilitazione di cittadini armati e hanno chiesto il ritiro delle forze speciali francesi nel paese, non senza l’appoggio della Wagner. Il presidente nigerino, invece, aveva scelto di mantenere sul suo territorio la presenza di soldati francesi, americani e italiani, temendo di essere coinvolto nel divorzio tra l’occidente e le giunte saheliane.
Queste giunte «tendono naturalmente ad addossare la responsabilità del deterioramento della sicurezza agli alleati dei regimi che hanno rovesciato. Questi colpi di stato sono sostenuti da una parte della popolazione che ha già mostrato un atteggiamento ostile nei confronti dei francesi o degli occidentali presenti nel Sahel», spiega Ibrahim Yahaya Ibrahim, ricercatore dell’International Crisis Group.
Fin dal suo primo intervento, il generale Tchiani ha preferito rivolgersi ai suoi omologhi saheliani, interrogandosi «sul senso e sulla portata di un approccio securitario alla lotta al terrorismo che escluda ogni reale collaborazione con Burkina Faso e Mali» nell’area nota come i tre confini.

L’auspicata cooperazione tra sahelini… ma antifrancese

A causa delle tensioni diplomatiche, i militari nigerini e francesi non hanno potuto operare liberamente contro le basi dello Stato Islamico dall’altra parte del confine con il Mali, dove l’organizzazione compie attacchi sul territorio nigerino. Questa crisi non potrebbe essere risolta senza la cooperazione con il Mali, secondo il generale Tchiani. Insomma, è facile prevedere che vi sia un “miglioramento” delle relazioni e una maggiore cooperazione tra i paesi vicini.
Dal lato dei partner occidentali le prospettive sono più fosche: l’Unione europea ha annunciato la sospensione di tutti gli aiuti di bilancio e le azioni di cooperazione nel campo della sicurezza. Le sanzioni internazionali potrebbero colpire il regime come nel vicino Mali. Una possibile partenza delle forze francesi, americane e italiane lascerebbe un vuoto in una regione particolarmente travagliata, secondo gli analisti.
Il Niger confina con il caos libico, la Nigeria con Boko Haram e Iswap, il nord del Benin molto colpito dal jihadismo e ovviamente Mali e Burkina Faso.

Niamey era un polo di stabilità nonostante i problemi di sicurezza sul territorio.

Il Niger sta vivendo un afflusso di rifugiati dal Mali e dalla Nigeria in preda alla violenza, stimato in 255.000 nel 2022 dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Unchr). Bazoum incarnava un modello di cooperazione in materia di sicurezza per le democrazie occidentali e i loro donatori. Il mantra del presidente nigerino era la “stabilizzazione” delle comunità prese di mira dal reclutamento jihadista e la reintegrazione dei loro combattenti, soprattutto i giovani. Il governo di Niamey stava attuando programmi in gran parte finanziati da partner internazionali, il cui futuro è ora sospeso. Contrariamente al potere civile che ha accettato di dialogare con alcuni leader di gruppi armati, il generale Tchiani ha denunciato nel suo discorso di “insediamento” la “liberazione extragiudiziale” di “capi terroristi” da parte del regime di Mohamed Bazoum. In Mali e Burkina Faso i militari al potere hanno optato per una strategia ultraoffensiva contro i gruppi jihadisti, viziata da accuse di abusi ricorrenti contro la popolazione. E a pagarne il maggior peso sono i civili.

Recrudescenza jihadista

Una strategia che contribuisce alla destabilizzazione e può alimentare tensioni intercomunitarie e intracomunitarie. Un approccio, inoltre, che non ha avuto l’esito sperato. Gli attacchi jihadisti in questa regione, ma anche nell’Africa occidentale, si sono moltiplicati. Solo nei primi sei mesi del 2023 si sono registrati più di 1800 attacchi di matrice terroristica, nei quali hanno perso la vita quasi 4600 persone e che hanno avuto conseguenze umanitarie disastrose. A riferirlo è Omar Touray, presidente della Commissione della Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale (Ecowas) intervenendo al Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite. Delle circa 4600 persone uccise in questi attacchi terroristici tra gennaio e la fine di giugno, 2725 morti sono avvenute in Burkina Faso, 844 in Mali, 77 in Niger e 70 in Nigeria. Touray ha citato anche il Benin e il Togo, due paesi della subregione storicamente risparmiati dagli attacchi terroristici ma che oggi vivono, invece, grandi preoccupazioni per la sicurezza. Questi paesi sono stati presi di mira, di recente, da una serie di attacchi, che Touray ha descritto come

«un’indicazione lampante della diffusione del terrorismo negli stati» del Golfo di Guinea, «una situazione che rappresenta un’ulteriore minaccia per la regione».

Touray ha detto anche che l’insicurezza continua a infliggere dolore e sofferenza a milioni di persone, con conseguenze di vasta portata: questi attacchi terroristici hanno provocato lo sfollamento di mezzo milione di rifugiati e quasi 6,2 milioni di sfollati interni. La Costa d’Avorio, solo per fare un esempio, ha già predisposto campi per l’accoglienza dei profughi provenienti dal Burkina Faso. Il numero di persone con necessità di sicurezza e assistenza, poi, salirà a 42 milioni «se non ci sarà un’adeguata risposta internazionale ai 30 milioni di persone attualmente bisognose di cibo».


I francesi e l’Occidente non si possono permettere di perdere il Niger: passa dalla soluzione di questa crisi il definitivo declino dell’Occidente, oppure la contrapposizione allo scacco del blocco antiatlantico… l’incrocio tra Sahel e l’area centrafricana è uno snodo essenziale, ben più critico del corridoio polacco verso Kaliningrad. E forse per evitare il contagio può essere un’interpretazione valida quella avanzata da Angelo Ferrari e Marco Trovato in un visdeo di “AfricaRivista”riguardo al successivo “golpe” con caratteristiche del tutto differenti che ha colpito il Gabon, stato quasi monarchico che la repubblica francese ha dato in affido alla famiglia Bongo da 57 anni e che avrebbe rischiato maggiormente se le sommosse per il malcontento nei confronti della cleptocrazia non fossero venute dalla guardia presidenziale, ma dai cittadini ridotti in miseria dal sistema neocoloniale – e c’erano tutti i prodromi di una reazione violenta ai brogli delle elezioni tenutesi senza internet funzionante e in stato di emergenza, senza osservatori. Invece Brice Clotaire Oligui Nguema, nuovo uomo forte – senza bandiere russe o stemmi con il teschio della fantasmatica Wagner – ha assegnato ad Ali Bongo Ondimba quella retraite per la difesa della quale i cittadini francesi sono scesi nelle piazze per mesi. Ma qui non siamo in Sahel, non si è ancora affacciato il pericolo jihadista, la Francia non si può permettere di perdere un alleato così fedele.

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n. 22 – Il nuovo patto europeo sulla migrazione e l’asilo (I). Respingimenti, Sar, esternalizzazioni https://ogzero.org/il-nuovo-patto-europeo-sulla-migrazione-e-lasilo/ Mon, 14 Nov 2022 10:05:54 +0000 https://ogzero.org/?p=9459 L’ipocrisia europea evita di dare indicazioni precise e umanitarie, lasciando ai singoli stati la manipolazione dell’opinione pubblica più retriva e identitaria; e così i politici fanno, usando a scopo interno episodi singoli per dimostrazioni muscolari con l’ossessione per la presenza delle ong (il 12 per cento dei salvati provengono dalle loro imbarcazioni, ma sono soprattuto […]

L'articolo n. 22 – Il nuovo patto europeo sulla migrazione e l’asilo (I). Respingimenti, Sar, esternalizzazioni proviene da OGzero.

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L’ipocrisia europea evita di dare indicazioni precise e umanitarie, lasciando ai singoli stati la manipolazione dell’opinione pubblica più retriva e identitaria; e così i politici fanno, usando a scopo interno episodi singoli per dimostrazioni muscolari con l’ossessione per la presenza delle ong (il 12 per cento dei salvati provengono dalle loro imbarcazioni, ma sono soprattuto un occhio su quello che avviene nel Mediterraneo), sia facendo leva sulla ferocia innata nella propria fazione di radice fascistoide, sia intervenendo internazionalmente per isolare la nazione rivale, restituendo però un modello che non si discosta molto per grado di accoglienza, per non esporre il fianco ai razzisti interni. I paesi già distintisi per la propensione ad adottare norme draconiane per rastrellare voti esasperati – quelli  esposti agli sbarchi (Cipro, Grecia, Malta e sovranisti italiani) – aggirano il diritto e spingono per creare hotspot (Lager); in Libia Minniti fu il primo, ora Piantedosi in Tunisia, con l’idea di creare un fortilizio contro i disperati resi tali dal neoliberismo, dalle politiche predatorie europee ed estrattiviste, da carestie nate dal cambiamento climatico provocato dall’Occidentalismo. Il governo di estrema destra italiano storna fondi della cooperazione per potenziare il controllo delle frontiere (tanto Shengen è sospeso da 9 anni). Addirittura in questi giorni l’abitudine allo squallore ha permesso l’impunità per un ministro che ha parlato di carico residuo, depositato sul fondo del setaccio per umani, schiuma ottenuta dalla valutazione del grado di vulnerabilità, che non considera come il concetto comprende non solo donne incinte, bambini e mutilati, ma anche le vittime di tortura, quelli resi deboli psichicamente dagli anni di umiliazioni, lavori in condizioni estreme, violenze, stenti, stupri, visioni apocalittiche per deserti e mari.

Il doppio articolo di Fabiana sembra fatto apposta sulle ultime idee di esternalizzazione, ma in realtà era in gestazione da un paio di mesi, perché approfondisce enormemente le dirimenti questioni giuridiche di Diritto internazionale, individuando nell’intento di questa pantomima una moltiplicazione degli accordi simili a quelli stipulati con Istanbul, fino a che il contorno delle frontiere saranno divenuti muri, cortine, filo spinato…


Premesse storiche e fallimenti

Consuetudini di confinamento e respingimenti

Il 23 settembre del 2020 la Commissione europea presentò la proposta per un nuovo Patto sulla migrazione e l’asilo insieme a un pacchetto di nuove proposte di regolamenti europei alquanto preoccupanti come:

  • la Proposta di regolamento che introduce il procedimento di accertamento di preingresso ossia il cosiddetto “Regolamento screening”;
  • la Proposta che modifica la procedura in materia di riconoscimento e di revoca della protezione internazionale;
  • la Proposta di regolamento sulla gestione dell’asilo e della migrazione;
  • la Proposta che istituisce procedure per affrontare situazioni di crisi e di forza maggiore in ambito migratorio;
  • la Proposta di regolamento che modifica il regolamento Eurodac.

Si precisa che tutte le proposte, essendo appunto “proposte di regolamento”, qualora venissero approvate dal parlamento Ue e dal Consiglio sarebbero immediatamente applicabili in ogni stato dell’Unione, non avendo il regolamento – come invece avviene per le direttive – necessità di alcuna legge di recepimento da parte degli stati membri per la propria vigenza. Ursula von der Leyen, nel corso della presidenza tedesca della Commissione UE, ha sottolineato come tale Patto mettesse d’accordo i vari stati membri e si ponesse in chiave di rottura rispetto al passato. Nulla di più falso. Non solo il nuovo Patto non introduce nulla di particolarmente innovativo ma viene meno – nella quasi totalità dei casi di richiesta di protezione internazionale – l’esame individuale della domanda; è invece affermata inequivocabilmente la logica dei campi di confinamento dei migranti; e soprattutto – ancora una volta – l’Unione fallisce nella modifica del regolamento di Dublino per l’individuazione dello stato Ue competente a trattare le richieste d’asilo.

Come primo criterio di individuazione della competenza continua infatti a essere applicato quello del paese di primo ingresso con il consueto ed evidente svantaggio per quei paesi che geograficamente sono maggiormente esposti agli arrivi dei cittadini dei paesi terzi.

Ricollocamento inesistente, rimpatri ed esternalizzazione delle frontiere

Nel nuovo Patto inoltre non vi è poi ancora alcuna previsione sul ricollocamento obbligatorio e automatico dei migranti nei paesi membri ma come vedremo solo su base volontaria e in casi eccezionali. Si persiste nell’ignorare la portata effettiva e incondizionata che dovrebbe avere il principio di solidarietà tra i paesi membri, indicata nell’art. 80 del trattato sul funzionamento dell’UE, anzi si potrebbe affermare che tale principio è stato quasi del tutto svuotato essendo prevista, come strumento di solidarietà, la cosiddetta Sponsorizzazione dei rimpatri dei cittadini dei paesi terzi ossia il finanziamento o il supporto di uno stato membro all’altro affinché i migranti possano essere espulsi più rapidamente dal territorio dell’Unione. Come noto già con l’Agenda europea del 2015, a fronte della crisi migratoria derivante dal conflitto siriano, e con il Summit della Valletta dello stesso anno, la Commissione europea aveva manifestato come la propria politica in materia di migrazione e asilo fosse volta – con la complicità di buona parte degli stati membri – al rafforzamento della dimensione esterna dell’Unione mediante il meccanismo comunemente definito “esternalizzazione delle frontiere”, ossia quelle azioni politiche, militari, diplomatiche e “giuridiche” che mirano a impedire che i cittadini dei paesi terzi arrivino nel territorio dell’Unione.

  (Elaborazione openpolis su dati Edjnet. ultimo aggiornamento: mercoledì 13 aprile 2022)

Il sotterfugio delle intese tecniche

La Commissione ben consapevole che non avrebbe potuto attuare tale sistema senza la collaborazione dei paesi terzi – perlopiù in via di sviluppo – ritenne necessario offrire loro “un incentivo” per la delega di tali attività illegittime stornando parte sostanziale dei fondi per lo sviluppo dalla lotta alla povertà alla gestione delle frontiere. È quanto avvenuto con il cosiddetto Fondo fiduciario per l’Africa – un insieme di vari piccoli fondi per lo sviluppo – istituito ad hoc con il Summit della Valletta nel corso del quale veniva rimarcato il ruolo centrale affidato ai paesi terzi nell’ambito delle politiche migratorie dell’Unione. Secondo le più consuete logiche coloniali tuttavia i paesi terzi non hanno assunto di fatto alcun ruolo nel processo decisionale di tali meccanismi ma sono stati semplicemente finanziati – facendo leva sulla loro condizione di indigenza – perché svolgessero tali attività in modo che l’Unione, i suoi organi, le sue Agenzie e gli stati dell’UE apparissero immacolati. La parvenza di legittimità giuridica di tale macchinoso impianto è stata affidata alle cosiddette intese tecniche dell’Unione o dei singoli stati membri con i paesi terzi e non invece con la sottoscrizione di accordi internazionali che non solo sarebbero dovuti passare per il parlamento per l’approvazione ma anche resi pubblici e accessibili alla società civile.

(Fonte Unione Europea 2022)

 

Criminalizzazione globalizzata dei processi migratori

Allora come oggi occorreva alla Commissione un sistema finanziario flessibile e immediato per raggiungere tali intenti. Secondo questi presupposti ideologici quindi si inserivano l’accordo Ue-Turchia del 2016 e il Memorandum Italia-Libia del 2017 già ampiamente analizzati negli articoli relativi alla rotta dell’Egeo e a quella del Mediterraneo centrale. Tale approccio non si è limitato al controllo dei confini ma si è audacemente spinto addirittura al controllo della mobilità umana come è avvenuto con il Niger e con il Gambia. In particolare, è nota la pressione che l’Unione ha esercitato nei confronti del Niger per l’emanazione di una legge – la n. 36 del 2015 – che criminalizzasse “il traffico dei migrantiper evitare lo snodo della mobilità migratoria da Agadez verso la Libia e soprattutto gli arrivi verso l’Unione mediante la rotta del Mediterraneo centrale.

Il ricatto dell’aiuto vincolato

Interessante è poi l’intesa tecnica che l’Unione nel 2018 ha sottoscritto con il governo gambiano perché si consentisse e si agevolasse la riammissione dei gambiani espulsi dal territorio europeo: più nello specifico a partire dal 2019 sulla base di tale intesa tecnica il governo gambiano si impegnava a rimpatriare i propri cittadini presenti nel territorio dell’Ue.
Da alcuni paesi dell’UE cominciavano così a partire voli charter con a bordo cittadini gambiani che nel corso del 2020 venivano sospesi in ragione della diffusione del virus da Covid-19. Il governo gambiano nel 2021 decideva però di interrompere tali flussi migratori di espulsione dall’Europa dei propri cittadini dichiarando di non avere più le capacità di sostenere un ingresso così numeroso di soggetti espulsi anche perché tale prassi stava creando disordini sociali nel paese.

A questo punto l’Unione decideva di sospendere il Codice visti nei confronti del Gambia: veniva messa in atto in tale modo una sorta di ricatto sulla base del quale

se un paese terzo contravviene all’impegno di riammissione dei propri concittadini o di altri migranti presenti nel territorio dell’Ue, non solo, non riceve l’incentivo ossia il denaro proveniente dai fondi per lo sviluppo – che si precisa sarebbe uno strumento di cooperazione e non di ritorsione – ma viene anche drasticamente ridotta la possibilità per tutti i cittadini di quel paese terzo di ottenere visti di ingresso nel territorio dell’Unione.

Proposta di regolamento sulla gestione dell’asilo e della migrazione

La vicenda anticipa nella prassi quanto è attualmente disposto a livello normativo in una delle cinque proposte di regolamento che accompagnano il nuovo patto. In particolare, con la Proposta di regolamento sulla gestione dell’asilo e della migrazione che verrà in seguito analizzata in modo più approfondito – si afferma il cosiddetto Principio di condizionalità nei rapporti tra paesi terzi e Unione europea. Infatti oltre all’art. 3 (“Approccio globale alla gestione dell’asilo e della migrazione”) e all’art. 4 (“Principio dell’elaborazione integrata delle politiche”) mediante i quali si regolamentano le politiche esterne dell’Unione per farle coincidere maggiormente con i suoi obiettivi interni,

all’art. 7 (“Cooperazione con i paesi terzi volta a facilitare il rimpatrio e la riammissione”) si richiama la modifica del Codice Visti del 2019 in particolare l’introduzione dell’art. 25 bis con il quale si prevede – nell’ipotesi in cui un paese terzo non sia particolarmente incisivo in termini di riammissione dei migranti irregolari – che la Commissione possa deliberatamente decidere di limitare i visti verso il territorio dell’Unione per tutti i cittadini di quel paese terzo.

Esternalizzazione a “paesi terzi sicuri” dell’iter per la concessione della protezione

La rotta libica

Comunque qualora le proposte di regolamento che accompagnano il patto venissero approvate ci si spingerebbe ben oltre. Più nello specifico la delega ai paesi terzi potrebbe non essere più circoscritta alle ipotesi già gravi del controllo delle frontiere o della mobilità umana – come nel caso del Niger – ma anche all’esternalizzazione della trattazione delle domande d’asilo. Al riguardo è interessante notare preliminarmente come le procedure di esternalizzazione si possono legare alle procedure di screening, previste da una delle proposte che accompagnano il patto e ad alcune nozioni contenute nella Proposta di modifica del regolamento sulle procedure in materia di riconoscimento e revoca della protezione internazionale che introduce – come vedremo – il concetto di protezione sufficiente con riferimento al cosiddetto “paese terzo sicuro”.

nuovo patto europeo

Al confine Tunisia-Libia

La rotta tunisina

Peraltro negli ultimi anni l’Unione europea nella prassi ha già reso moltissimi paesi di transito sufficientemente sicuri: per esempio la Tunisia che sebbene abbia sottoscritto la Convenzione di Ginevra non ha una legge interna sull’asilo. Infatti, nonostante sia presente nel suo territorio l’Unhcr che si occupa della registrazione della domanda e di tutta la procedura di protezione internazionale, di fatto il rifugiato riconosciuto tale in Tunisia non ha accesso poi ad alcun diritto, proprio per l’assenza di una normativa interna in materia (e la contingenza attuale vede una progressiva autocratizzazione del potere tunisino sotto la pressione della presidenza Saied e una delegittimazione delle istituzioni e quindi si vanno creando i potenziali prodromi – perciò proponiamo la considerazioni raccolte da Tunisi con Arianna Poletti – per accogliere un’“economia” e una filiera di strutture d’ispirazione “libica”: hotspot al di là del Canale di Sicilia).

“La periodica collera non è un rito di piazza in Tunisia”.

L’evidenza della rotta atlantica

Per comprendere meglio il rischio dell’esternalizzazione del diritto d‘asilo occorre analizzare alcune dinamiche che hanno interessato un’altra rotta ossia quella atlantica. Come noto questa rotta è stata caratterizzata negli ultimi anni da patti dell’Ue in particolare della Spagna con il Senegal, il Marocco e la Mauritania per l’intercettazione dei migranti nelle loro acque territoriali affinché venissero riammessi in tali paesi con il supporto di Frontex. L’ipotesi in cui però il migrante si trovasse già di fatto in acque internazionali rendeva illegittima tale prassi. Per tale ragione è stato previsto uno status Agreement con il Senegal che permetterà di superare la questione in merito al luogo in cui riportare i cittadini stranieri intercettati in acque extraterritoriali: più specificamente i migranti intercettati in esse si potranno riportare in Senegal in quanto definito di fatto nello status Agreement paese sicuro per i propri cittadini e soprattutto un paese sicuro per tutti i richiedenti asilo e rifugiati. Tale meccanismo è proprio quello che consente l’esternalizzazione del diritto d’asilo in paesi come il Senegal semplicemente per il fatto che è prevista una normativa interna sull’asilo, perché è presente l’Unhcr – anche se non all’interno delle Commissioni che si occupano dell’esame della domanda – e perché alla fine viene rispettato il principio di non refoulement!! Quindi l’individuo intercettato in acque internazionali dovrà fare tutta la procedura di riconoscimento della protezione internazionale in Senegal, in luogo della Spagna.

Search and Rescue

Le contestuali raccomandazioni sulle operazioni Sar e l’accresciuto ruolo delle Agenzie europee Frontex e Euaa

Ipocrita equidistanza tra ong e aguzzini libici

Rispetto alle operazioni Sar – Search and Rescue – la Commissione invece non ha ritenuto di avanzare una proposta di regolamento bensì di emanare semplicemente delle raccomandazioni che se da un lato possono essere valutate prima facie positivamente, in quanto in esse si dichiara espressamente che l’assistenza umanitaria anche svolta da ong – ossia da privati – nel corso di tali operazioni non può essere criminalizzata, in quanto conforme al diritto internazionale e al diritto di soccorso in mare, dall’altro però in esse si ribadisce che i flussi migratori in mare non si sono mai fermati e che occorre contrastare il traffico dei migranti. La Commissione deliberatamente ignora però la collaborazione con la cosiddetta “Guardia Costiera Libica” (la collaborazione con la quale è stata tacitamente rinnovata a inizio novembre 2022 per altri tre anni) che in cambio dell’addestramento e dei finanziamenti dell’Europa e dell’Italia continua a intercettare i migranti in mare per poi riportarli nei lager libici.

Tacito consenso a disattendere le regole umanitarie

Insidiosa diventa così l’altra affermazione della Commissione con la quale si ribadisce che le operazioni Sar devono essere gestite a livello normativo dagli stati come tema di politica pubblica, che finisce con consentire a un governo razzista di immaginare impunemente lo sbarco selettivo; riflettendo su tali affermazioni, da parte italiana non si può non pensare a quanto sia già stata molto grave invece la legislazione interna sul tema emanata con il cosiddettoDecreto Sicurezza bis”, ora persino peggiorato dai decreti di inizio legislatura.

Infine, appare chiaro come dalla lettura delle proposte di regolamento che accompagnano il Patto, il ruolo delle Agenzie Ue in particolare di Frontex– ossia l’Agenzia della guardia di Frontiera e costiera europea – e dell’Euaa (ex EASO) ossia l’Agenzia dell’Unione europea per l’asilo – venga notevolmente accresciuto. Si precisa al riguardo che le due agenzie sono già state interessate dalle modifiche dei regolamenti che disciplinano l’ambito delle loro competenze rispettivamente nel 2019 con il Regolamento (UE) 2019/1896 del 13 novembre 2019 e nel 2021 con Regolamento (UE) 2021/2303 del 15 dicembre 2021.

Frontex manu militari nelle attività antimigratorie, congiuntamente

In particolare, ciò si evidenzia nella procedura di preingresso o screening – rispetto alla quale sarebbe stata più opportuna la previsione della presenza dell’“Agenzia Europea per i diritti fondamentali” – e nel corso dell’attivazione dei meccanismi di solidarietà visto che entrambe le agenzie sono disgregate per individuare le persone da ricollocare o da sottoporre a misure di sponsorship. Più nel dettaglio la dimensione operativa delle agenzie che prima si identificava in un’implementazione indiretta delle misure e dei provvedimenti messi in atto dagli stati in ambito migratorio ora può essere definita a tutti gli effetti un’implementazione congiunta e condivisa: ovverossia le autorità esecutive dei paesi membri implementano le azioni in ambito migratorio a fianco degli uomini delle due agenzie europee di cui sopra. Da qui addirittura anche il reclutamento da parte di Frontex di agenti di pubblica sicurezza dei singoli paesi membri per inserirli tra le proprie fila.

Euaa istruisce domande d’asilo, congiuntamente

Per quanto riguarda l’Euaa invece si può affermare che essa guadagna sempre maggiori margini per entrare nel merito delle decisioni delle domande d’asilo per cui diversamente dal passato l’istruzione della domanda d’asilo viene svolta dalle autorità nazionali degli stati membri congiuntamente a essa anche se poi la responsabilità delle decisioni rimane comunque in capo ai soli stati membri. Infatti si stabilisce con la modifica del regolamento interno dell’Agenzia Easo del 15 dicembre 2021 che essa debba assistere i paesi membri nel registrare le domande d’asilo, facilitare l’esame da parte delle competenti autorità nazionali all’esame della domanda e fornire a quelle autorità la necessaria assistenza alle domande di protezione internazionale. Viene poi accresciuta anche la dimensione di monitoraggio delle agenzie: entrambe oggi infatti hanno ampie prerogative sulla raccolta delle informazioni dei flussi migratori e sulla valutazione dello stato di “vulnerabilità” delle frontiere di ciascun paese membro nonché del suo sistema d’asilo e d’accoglienza fino al punto che – nell’ipotesi in cui si ravvisino rischi nei rispettivi settori di competenza – le due agenzie adottano raccomandazioni che gli stati membri sono chiamati a rispettare. Infine, aumenta anche la dimensione politica delle agenzie: esse sono divenute infatti importanti centri di raccolta informazioni in ambito migratorio sulla base delle quali vengono elaborate poi le decisioni politiche dell’Unione e dei singoli stati membri. Basti pensare che l’Euaa non solo può adottare indicatori per misurare l’efficacia del sistema d’asilo ai quali i paesi membri devono adeguarsi ma elabora anche le Country of Origin Information influendo non poco sulle decisioni delle singole Commissioni Territoriali.

nuovo patto europeo

(Fonte Osservatorio Diritti)

Fronte(x) disumanitario

Questo comporta la necessità, considerate le accresciute competenze anche con riferimento alla proposta del Nuovo Patto sulla migrazione e l’asilo di aumentare anche la loro responsabilità (ossia la cosiddetta “accountability”), non semplicemente a livello giudiziario – per le violazioni dei diritti umani commesse dallo Staff delle agenzie nel loro operato (vedi Frontex) sulle quali ha già una funzione di monitoraggio il Parlamento UE – ma anche a livello politico, tenuto conto delle informazioni rilevanti che le due agenzie forniscono ai singoli stati sulla base delle quali spesso questi determinano il loro indirizzo politico in ambito migratorio (tanto che messo alle strette per i respingimenti operati direttamente da uomini in quel momento assunti da Frontex, Leggeri ha dovuto dimettersi dalla dirigenza dell’agenzia di stanza in Polonia).

Si aggiunge infine che, anche se è previsto un meccanismo di reclamo che ogni individuo può avanzare per la violazione dei propri diritti da parte delle due agenzie indirizzato al direttore esecutivo delle stesse, questo nei fatti continua a essere poco efficace soprattutto nei confronti degli agenti di Frontex che non fanno pienamente parte dello Staff ma che sono distaccati ossia reclutati dall’agenzia temporaneamente tra le forze di sicurezza dei singoli stati membri. Fin qui dunque il substrato sul quale sono state gettate le fondamenta per il così scarsamente coraggioso ma allarmante Patto del 2020 nonché le sue conseguenze altrettanto poco audaci rispetto alle raccomandazioni sulle operazioni di soccorso e salvataggio ma fin troppo temerarie nel già accresciuto ruolo delle Agenzie Frontex e Euaa rafforzato nelle già citate proposte di regolamento complementari a esso della cui analisi giuridica si rimanda al successivo approfondimento.

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Mediterranean Shield: espansione Nato a sud https://ogzero.org/mediterranean-shield-espansione-nato-a-sud/ Fri, 08 Jul 2022 08:05:03 +0000 https://ogzero.org/?p=8103 Riprendiamo due articoli scritti da Angelo Ferrari per l’agenzia Agi correlati alla corsa al controllo del territorio saheliano, a partire dall’esigenza di contrastare l’avanzata di potenze coloniali alternative a quelle occidentali con la perentoria reazione di un’espansione Nato in epoca globalizzata: la sua estensione oltre le sponde meridionali del Mediterraneo attraverso accordi con potenze locali […]

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Riprendiamo due articoli scritti da Angelo Ferrari per l’agenzia Agi correlati alla corsa al controllo del territorio saheliano, a partire dall’esigenza di contrastare l’avanzata di potenze coloniali alternative a quelle occidentali con la perentoria reazione di un’espansione Nato in epoca globalizzata: la sua estensione oltre le sponde meridionali del Mediterraneo attraverso accordi con potenze locali a fungere da satrapi ma sotto l’egida di un’alleanza che si estende sull’intero pianeta. Il vecchio approccio francese che fino a pochi mesi fa non poteva immaginare qualunque forma di autonomia locale va cestinato e ripensato completamente. Ma da nuovi protagonisti. 


Lo Scudo Nato a Sud

La Nato volge il suo sguardo anche a sud del Mediterraneo, in particolare verso il Sahel. E questa sembrerebbe una novità se non fosse che già nel passato la Nato è intervenuta nella gestione delle crisi su richiesta dell’Unione Africana (Ua). L’esordio è del 2005 quando, con l’acuirsi della crisi del Darfur, la Nato ha accolto la richiesta della Ua di supportare la sua missione di peacekeeping in Sudan. Poi nel 2009 la richiesta, sempre da parte della Ua di sostenere la missione in Somalia. Poi nel 2009 con l’operazione “Ocean Shield” per la lotta contro la pirateria nel Corno d’Africa. Per non dimenticare ciò che è successo in Libia a partire dal 2011. Sono solo alcuni esempi.

Con l’ultimo vertice della Nato a Madrid, che ha ridisegnato la postura dell’Allenza a livello globale puntando con più forza alla deterrenza e alla difesa collettiva, resta l’impegno verso la prevenzione e la gestione delle crisi con un focus significativo sul Nordafrica e il Sahel. Di sicuro l’Italia può dirsi soddisfatta del linguaggio usato nel nuovo Concetto strategico – come scrive su “Affarinternazionali.it”, Elio Calcagno – rispetto a una regione di primario interesse per il paese. Tuttavia il capitale politico, militare ed economico dell’Allenza verrà inevitabilmente incanalato verso est e verso la minaccia russa. L’Italia, dunque, dovrà giocare un ruolo più propositivo e concreto sul fianco sud in ambito Nato di quanto abbia fatto fino a oggi. Roma non può permettersi di stare a guardare e non può essere uno spettatore passivo come in Libia.

Necessari nuovi approcci alle crisi nelle marcoaree

La gestione e la prevenzione delle crisi, in particolare nel Sahel, dovranno necessariamente passare attraverso una “richiesta” dell’Unione africana e il consenso dei paesi coinvolti. E visto il clima antioccidentale che regna in questa regione dell’Africa è abbastanza complesso che i governi saheliani si affidino all’Alleanza per risolvere le crisi interne, senza dimenticare, poi, la forte presenza della Russia in quell’area.

Detta in parole povere la lotta al terrorismo nel Sahel non può essere camuffata come deterrenza nei confronti della minaccia russa. Insomma, i paesi dell’area saheliana hanno dimostrato, finora, di privilegiare il rapporto con Mosca. Un esempio eclatante è il ritiro dal Mali dei francesi con l’operazione Barkhane e di quella europea Takuba. Un bel rompicapo.

Soldati dell’operazione Barkhane in Mali (foto Fred Marie / Shutterstock)

Fino ad ora tutto è sulla carta ma alcune fughe in avanti di qualche ministro degli Esteri europeo, fanno già discutere nel Sahel. In particolare in Mali dove l’ambasciatore spagnolo a Bamako, Romero Gomez, è stato convocato dal ministro degli Esteri maliano, Abdoulaye Diop, dopo le parole del suo omologo spagnolo, Manuel Alvares che in una dichiarazione non escludeva un possibile intervento della Nato in Mali.

Diop non le ha mandate a dire e in un’intervista ha spiegato: «Oggi abbiamo convocato l’ambasciatore spagnolo per sollevare una forte protesta contro queste affermazioni. L’espansione del terrorismo nel Sahel è principalmente legata all’intervento della Nato in Libia, le cui conseguenze stiamo ancora pagando».

Parole dure, ma Diop non si ferma qui, ha infatti definito le affermazioni del suo omologo spagnolo “ostili, gravi e inaccettabili”, perché «tendono a incoraggiare l’aggressione contro un paese indipendente e sovrano». L’ambasciata spagnola, in un tweet, ha cercato di smorzare i toni spiegando che la «Spagna non ha richiesto, durante il vertice della Nato o in un qualsiasi altro momento, un intervento, una missione o qualsiasi azione dell’Alleanza in Mali». L’occidente dovrà abituarsi a questa ostilità che, in parte, è persino giustificata dalle missioni militari francesi ed europee nell’area.

Secondo il direttore del Centro studi sulla sicurezza dell’Istituto francese di relazioni internazionali (Ifri), Elie Tenenbaum, la Francia, ma anche l’Occidente nel suo insieme, deve “pensare” una nuova strategia, perché attualmente la «dinamica strategica produce l’opposto di ciò che si è prefissa». L’analista sostiene che i tentativi di entrare in partenariato con gli attori locali ha prodotto attriti – il Mali ne è un esempio –: i francesi hanno cercato di arginare il deterioramento della sicurezza in Sahel ma non ci sono riusciti. Nel difendere i propri interessi la Francia non ha fatto altro che alimentare un sentimento antifrancese.

Ma il problema su tutti è quello di avere trascurato le ambizioni russe, turche e cinesi

Attori nello scacchiere africano molto più spregiudicati e soprattutto meno interessati alle politiche interne dei paesi con cui diventano partner. La Francia, invece, non ha fatto altro che continuare, anche “sottobanco”, a determinare le politiche interne delle ex colonie, a “scegliere” chi di volta in volta avrebbe governato. Insomma, un’ingerenza inizialmente mal sopportata e ora totalmente avversata da buona parte delle popolazioni saheliane, certo con gradazioni diverse, ma pur sempre penetrante.

È chiaro che l’occidente dovrà ripensare completamente la sua strategia globale nel Sahel e nell’Africa occidentale se non vuole essere “sfrattato”. Ciò lo chiedono anche le opinioni pubbliche, in particolare quella francese, che cominciano a non capire più le politiche postcoloniali della Francia e quelle dell’Europa che sembra avere come unico obiettivo quello di spostare sempre più a sud il confine del Mediterraneo per arginare i flussi migratori.

Parigi vs Mosca in Françafrique

In Niger per rendere meno urticante la presenza francese in Sahel

La Francia cambia strategia nel Sahel, almeno ci prova. Dopo il ritiro dal Mali, che dovrebbe completarsi entro l’estate, Parigi trasferisce la sua presenza in Niger, paese diventato strategico per tutta la comunità occidentale. La sfida di Parigi è quella di mantenere una presenza nell’area per non vanificare la sua influenza storica, anche se è ormai messa a repentaglio da un sentimento antifrancese diffuso e alimentato ad arte dalla Russia, che esprime nella regione una politica molto aggressiva.

Dunque, un cambio di passo. L’esercito francese intende intervenire a “sostegno” e non più in sostituzione degli eserciti locali. Ma questo dipenderà, soprattutto, dalla volontà degli stati africani. Sono frenetiche le consultazioni e gli scambi tra capitali saheliane, Parigi e le capitali europee. Francesi ed europei si stanno muovendo in direzione di una maggiore cooperazione a seconda delle richieste dei paesi africani.

Dopo lo schiaffo maliano, Parigi intende operare non più da “protagonista” ma in seconda linea. Un modo per ridurre la visibilità della sua azione che finora ha dimostrato di essere un “irritante” per le opinioni pubbliche africane, ma di certo manterrà una presenza nella regione di influenza storica. L’attenzione si concentrerà in Niger, nuovo partner privilegiato, dove i francesi manterranno una presenza con circa mille uomini e capacità aeree. Quindi verrà avviato un partenariato strategico spiegato dal comandante del quartier generale, Hervé Pierre:

«Oggi invertiamo completamente il rapporto di partnership: è il partner che decide cosa vuole fare, le capacità di cui ha bisogno e controlla lui stesso le operazioni svolte con il nostro supporto. È il modo migliore per continuare ad agire efficacemente al loro fianco».

L’obiettivo di Parigi sarebbe quello di non irritare i partner e operare con discrezione, ma occorre anche sottolineare una mancanza di direttive chiare dell’esecutivo francese sulla prosecuzione delle operazioni. Si attendono “ordini” dalla politica in un quadro interno, dopo le legislative, molto complicato. L’opinione pubblica d’oltralpe non comprende più la politica postcoloniale della Francia.

Ciad, Burkina e sospettosamente il Golfo

Il quartier generale francese dell’operazione che succederà all’estinta Barkhane sarà mantenuto, per il momento, a N’Djamena, in Ciad, con cui la Francia ha un accordo di difesa. Ma la sua forza lavoro sarà ridotta. Per quando riguarda il Burkina Faso, dove altri civili sono stati uccisi per mano dei jihadisti nel fine settimana, sta ricevendo l’aiuto francese ma rimane perplesso sul fatto di una intensificazione della presenza sul terreno. Anche qui la propaganda antifrancese, ma soprattutto il sentimento che ne deriva, hanno attecchito molto bene.
Oltre a contribuire a contenere la violenza jihadista che minaccia di diffondersi nel Golfo di Guinea, la sfida per Parigi nel mantenere una sua presenza militare è quella di evitare un declassamento strategico, in un momento di accresciuta competizione sulla scena internazionale. In Africa occidentale i russi stanno perseguendo una strategia di influenza aggressiva, anche attraverso massicce campagne di disinformazione antifrancesi.

Le mosse Wagner

L’intelligence, infatti, sta monitorando gli attacchi compiuti da Wagner sui i social network che hanno superato i confini del Mali, e si stanno diffondendo in Africa. Un’ossessione francese? Non proprio, perché Mosca è riuscita a strappare all’impero d’oltralpe il Mali, si appresta a fare altrettanto in Burkina Faso, la Repubblica Centrafricana è saldamente nelle mani dei russi, e si stanno moltiplicando gli accordi militari con molti stati dell’area. Una penetrazione, tuttavia, che non è dell’ultima ora. È tempo che i russi stanno cercando di tornare ad avere un ruolo decisivo e strategico in Africa, dopo il crollo del Muro di Berlino e la fine della Guerra Fredda, consapevoli che non hanno molto da offrire sul piano commerciale ed economico, ma su quello militare e degli armamenti sì.

L’irritazione di Parigi è evidente. I nervi sono scoperti e lo chiarisce bene, in un’intervista a Radio France International, l’attuale comandante dell’operazione Barkhane, il generale Laurent Michon:

«La manipolazione della popolazione esiste, si diffondono enormi bugie sul fatto che armiamo gruppi terroristici, rapiamo bambini, lasciamo fosse comuni. È facile fare da capro espiatorio a persone che stanno attraversando situazioni umanitarie e di sicurezza estremamente difficili. C’è stata una manovra di disinformazione sulle reti, con mercenari Wagner che seppellivano cadaveri a Gossi, per accusare i francesi. Per la prima volta l’esercito francese ha deciso di spiegare come si fanno le cose nella vita reale, declassificando e mostrando le immagini dei droni. Vivono nel paese (i Wagner, N. d. A.), depredano, commettono abusi, hanno le mani sull’apparato di comando dell’esercito maliano e fanno le cose alle spalle dei leader. La reazione migliore è rispettare i nostri valori, essere chiari su ciò che stiamo facendo e lasciare che i giornalisti africani ed europei vengano a vedere, fare qualche verifica sui fatti. L’arma migliore è l’informazione verificata e sottoposta a controlli incrociati».

Approccio militare o cooperazione: il dilemma dell’Eliseo

La confusione regna sovrana e Parigi, anche senza ammetterlo, si rende conto che un declassamento strategico è in atto, ciò che si chiede è se è un fatto inesorabile oppure si possono, ancora, recuperare posizioni e, soprattutto mantenere una presenza che salvaguardi i propri interessi. L’operazione Barkhane, per essere gentili, è stata un fallimento. La Francia, invece, dovrebbe chiedersi se la strategia militare, che prevale su quella della cooperazione allo sviluppo, sia vincente.

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Cambi della guardia in Africa, e la Russia suona Wagner https://ogzero.org/cambi-della-guardia-in-africa-e-la-russia-suona-wagner/ Thu, 24 Feb 2022 08:45:35 +0000 https://ogzero.org/?p=6471 In un quadro che vede il ritiro dell’“Impero francese” dall’Africa, il continente diventa una tavola imbandita per chi intravede possibilità di sfruttamento, per chi cerca di farne una piazza del mercato delle armi, per chi porta avanti traffici illeciti con la connivenza di dittatori fantocci. La lotta al terrorismo nasconde l’esigenza di poter condurre affari […]

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In un quadro che vede il ritiro dell’“Impero francese” dall’Africa, il continente diventa una tavola imbandita per chi intravede possibilità di sfruttamento, per chi cerca di farne una piazza del mercato delle armi, per chi porta avanti traffici illeciti con la connivenza di dittatori fantocci. La lotta al terrorismo nasconde l’esigenza di poter condurre affari in un paese stabile, l’indigenza delle popolazioni è funzionale all’assoggettamento del tessuto sociale, basta frenare le partenze per oltremare… con le buone (accordi capestro e che calpestano i diritti umani) o con le cattive (presenza militare mercenaria ben pagata).

[fin qui… OGzero]

Qui una rielaborazione di due articoli di Angelo Ferrari pubblicati su Africa Rivista e Agi, ampliati per OGzero. Aggiungiamo un podcast realizzato con Edoardo Baldaro (ricercatore alla Scuola Sant’Anna di Pisa, esperto di Sahel) e Stefano Ruzza (professore associato in Scienze politiche all’Università di Torino, responsabile di T.wai – Torino, esperto di agenzie di sicurezza).


Spostare il confine del Mediterraneo

Il Niger è e diventerà sempre di più il bastione italiano nel Sahel. L’Italia, nel suo piccolo – sia geografico sia diplomatico – ha deciso di rilanciare la sua presenza nel continente africano proprio privilegiando il rafforzamento di quella militare in parte a scapito della cooperazione allo sviluppo, soprattutto in chiave anti-immigrazione. L’obiettivo è fermare i flussi proprio alle porte della Libia, cioè in Niger, con la presunzione e l’illusione che blindando i confini i problemi possano restare dall’altra parte. Spostare, dunque, più a Sud il confine del Mediterraneo. Ci riuscirà? Non è del tutto scontato.

In Niger la presenza militare è rilevante. Si tratta di 290 militari, 160 mezzi terrestri e 5 aerei. Mentre il rapporto tra spese militari e cooperazione allo sviluppo è di 10 a 1. Un po’ quello che è successo in Afghanistan, con le conseguenze, dopo il ritiro occidentale, che sono sotto gli occhi di tutti dal punto di vista umanitario. Tutto ciò, evidentemente, confligge con un principio che dovrebbe accompagnare le missioni militari all’estero in generale, e in particolare in Africa, è cioè quello per cui creare le condizioni di sicurezza nelle aree di crisi è indispensabile per poter realizzare anche le missioni civili e di sostegno socio-economico che aiutino i paesi interessati a costruire o ricostruire i loro apparati pubblici e a sviluppare le loro economie, a loro volta premessa indispensabile per migliorare le condizioni di vita della popolazione e stabilizzare il contesto locale e regionale.

Il Mali lasciato dagli occidentali

Il sentimento antifrancese che è montato in buona parte del Sahel deriva proprio da questo. Cioè le popolazioni hanno visto un gran numero di militari occidentali, ma nessun cambiamento sostanziale, non solo nella sicurezza, ma soprattutto nelle condizioni di vita reale. La precarietà “umanitaria” si è aggravata. La lezione del Mali dovrebbe insegnare qualcosa anche a noi italiani. Non a caso il presidente del Niger, Mohamed Bazoum, si è detto molto “preoccupato” per il ritiro dei francesi e degli occidentali in generale dal Mali.

A questo punto può risultare utile ascoltare le considerazioni sulla situazione dopo la chiusura di Barkhane e il subentro conseguente dei contractor russi, oltre al confronto tra le diverse reazioni nei paesi subsahariani, con Stefano Ruzza ed @EdoardoBaldaro

 “Il senso di Wagner per le crepe: le interconnessioni con le giunte del Sahel?”.

La “fortuna” del Niger, il paese più povero al mondo

Il Niger, tuttavia, interessa moltissimo all’Italia e non si tira indietro, lo ha dimostrato nel recente passato aprendo un’ambasciata nel 2017 e dal 2018 con la “Missione bilaterale di supporto” – militare. Il Niger, dunque, è un partner strategico e, nelle intenzioni del governo italiano, può rappresentare un’opportunità di business per l’Italia. L’Italia è tra quei paesi che guardano con interesse al crescere di questo mercato e in generale a quello di tutta l’area saheliana e la presenza dell’ambasciata italiana a Niamey ha anche il significato di voler accompagnare quanto più possibile le imprese italiane che vorranno avviare affari in questo contesto relativamente ancora incontaminato. Queste le intenzioni del governo italiano. Ma, diciamo noi, occorre arrivare per tempo. Per l’Italia, dunque, il Niger è un paese stabile – e questo aiuta – ma non si può dimenticare il passato recente. Il paese è sempre stato il crocevia di traffici illeciti, dalla droga alle armi, dal riciclaggio dei soldi sporchi alla tratta degli esseri umani.

Le fortune del Niger – se così si può dire – e dei suoi governanti, sono derivate proprio da questo. Un paese che ha fatto dell’illecito la ragione dei propri guadagni.

È il paese più povero al mondo, ma, Mohammad Issoufou, ex presidente nigerino – ha governato il paese per dieci anni fino al 2021 – ha speso milioni e milioni di dollari per acquistare armi, elicotteri e aerei da combattimento russi e francesi, tradendo la sua piattaforma elettorale di stampo socialista-progressista, che lo ha portato al vertice dello stato, impoverendo ancora di più la sua gente. Il suo successore, Bazoum, va nella stessa direzione, non a caso sul finire del 2021 ha acquistato dalla Turchia nuovi droni. L’impegno e le spese militari prevalgono su tutte, pur di mantenere i privilegi ereditati dal suo predecessore. Le cancellerie di tutto il mondo conoscono a perfezione i due burattinai nigerini, sanno perfettamente con chi hanno a che fare, ma hanno deciso che del Niger si possono fidare. Ma alcune domande, tra le tante, vengono spontanee: per quale ragione le varie milizie e fazioni che controllano il territorio dovrebbero abbandonare i lauti profitti che arrivano dai traffici illeciti che siano di esseri umani, droga, armi o denaro? Quali garanzie sono state fornite? Quali accordi stipulati?

Il governo italiano dovrebbe rispondere a queste domande con il linguaggio schietto della politica e non con quello della diplomazia. Occorre, dunque, fare attenzione. Ma le parole chiave sono “arrivare in tempo”. Non possiamo dimenticare che il paese saheliano è strategico anche per la Francia che è ormai una presenza organica, ma sul quale Parigi rivolge lo sguardo, soprattutto ora che si è ritirata dal Mali. L’intenzione francese è proprio quella di rafforzare la sua presenza in Niger e sul fronte Sud del Sahel, paesi come Costa d’Avorio, Togo e Benin. Gli interessi strategici di Parigi sono noti: l’estrazione dell’uranio è fondamentale per un paese che vive di centrali nucleari. Il Niger è il quarto produttore di uranio al mondo e il sesto per riserve.

L’Italia, dunque, deve adottare una via pragmatica e diplomatica per non andare a cozzare con gli interessi di altri paesi che hanno radici solide in quel pezzetto di deserto.

Wagner: gli strumenti “non convenzionali ” della Russia

In Africa, per esempio, la Russia suona la musica di Wagner. La presenza dei mercenari di Mosca rappresenta per Vladimir Putin la guarnigione di “sfondamento” nella sua politica di espansione in Africa. Non è un mistero che la Russia stia cercando di tornare agli antichi fasti dell’Unione Sovietica e non lo fa impegnandosi direttamente sul campo militare, quello dove si combatte, ma inviando la Wagner che per Mosca fa il lavoro sporco. Lo si vede in maniera evidente, per esempio, nella Repubblica Centrafricana, che è diventata la base operativa russa in Africa centrale. Lì i mercenari combattono a fianco delle truppe regolari e sostengono il regime. La guardia presidenziale è tutta nelle mani del Cremlino, così come i consiglieri del ministero della Difesa. Il Centrafrica è diventata una sorta di portaerei nel mezzo dell’Africa che funziona come trampolino di lancio per l’espansionismo russo. Già nel passato questo paese ha avuto questa funzione, con la presenza di numerose basi della Francia, ex potenza coloniale, almeno fino alla metà degli anni Novanta del secolo scorso. Ora la storia è molto diversa e, come è normale che sia, Putin nega tutto. Si limita a spiegare che l’intervento russo in Africa riguarda la fornitura di armi e l’addestramento militare. Ma ogni evidenza porta da un’altra parte. Lo si sta vedendo in maniera plastica in Mali, dove il sentimento prevalente è quello filorusso. Così come in Burkina Faso dove si sono viste manifestazioni a sostegno dei golpisti, con la gente in piazza che sventolava le bandiere di Mosca.

L’Africa, per Putin, è diventato uno degli scenari privilegiati della sua competizione con il mondo occidentale.

Lo fa, appunto, attraverso la fornitura di armi e con il sostegno dell’industria bellica, come in Sudan terzo produttore di armi nel continente africano dopo Egitto e Sudafrica. Per raggiungere i suoi obiettivi, il Cremlino utilizza non solo i normali canali diplomatici ma anche strumenti non “convenzionali”: i famigerati mercenari della Wagner e la propaganda attraverso i social network, come accade in altre parti del mondo. E funziona.

L’impegno italiano: ridurre le partenze

Il governo italiano sta mettendo in atto un cambio di paradigma nel guardare a questo paese e alla regione del Sahel nel suo insieme, cercando di colmare la sua lacuna di presenza, intercettando in maniera tempestiva il crescere dell’attenzione internazionale. Il Niger guarda ormai all’Italia come un “partner di riferimento”, soprattutto nella gestione delle migrazioni, nella lotta all’avanzamento del terrorismo jihadista, nel contenimento delle sfide ambientali e nello sviluppo. Se sul piano militare l’Italia è ben posizionata e il rinnovo delle missioni all’estero voluto dal governo Draghi va proprio in questa direzione. L’Africa si conferma il continente in cui l’Italia è maggiormente coinvolta, con 17 missioni in corso. Tra quelle più rilevanti in termini di unità impiegate e risorse economiche c’è la Task Force Takouba, per il contrasto della minaccia terroristica nel Sahel, e l’impiego di un dispositivo aeronavale nazionale nel Golfo di Guinea in funzione antipirateria.

Le forze della missione Takouba si preparano a lasciare il paese (fonte Africa Rivista).

Sul piano, invece, della cooperazione allo sviluppo fa segnare il passo. Non si può dimenticare che oltre il 40 per cento della popolazione nigerina vive sotto la soglia di povertà e il paese si colloca in fondo alla ben poco onorevole classifica dell’indice di sviluppo umano. C’è da augurarsi, dunque, che il rinnovato impegno in Niger e in tutta la regione sia teso, anche, al rafforzamento di un impegno umanitario. L’impegno italiano è concentrato – almeno così sembra – alla riduzione delle partenze dei migranti (come racconta qui Fabiana Triburgo). Rimane, tuttavia, la domanda: “È sufficiente la cooperazione militare per impedire le partenze?”. È lecito chiedersi se controllo del territorio di questi paesi e lotta al terrorismo non passino anche e soprattutto attraverso politiche di sviluppo: cioè alla creazione di un welfare state che manca totalmente in questi paesi. Non si considera infatti che la maggior parte delle persone che fuggono da quelle situazioni lo fanno perché manca totalmente la percezione della possibilità di costruirsi un futuro solido per sé e la propria famiglia. Non è solo mancanza di cibo, spesso è la mancanza di welfare state, cioè di una rete sanitaria adeguata e di una rete scolastica capace di formare.

In quei paesi dove la cooperazione militare è importante, gli apparati di governo sacrificano, già di loro, gli investimenti per il welfare a scapito di una crescente spesa militare. Tutto ciò dovrebbe far riflettere.

L’impegno russo: fornire armi e sfruttare le risorse

L’arrivo in Centrafrica, tuttavia, rappresenta, uno spartiacque per Mosca. Le armi russe fanno gola un po’ a tutti: Mali, Niger, Ciad, Burkina Faso e Mauritania hanno lanciato appelli a Mosca perché aiuti le loro forze di sicurezza a combattere il terrorismo, appelli che hanno avuto risposte positive. Tutto ciò piace molto al Cremlino e preoccupa enormemente l’occidente che sta perdendo posizioni strategiche. L’opzione di Mosca è quella di rafforzare la presenza militare per poi passare all’incasso, anche in termini di risorse naturali. L’interesse militare si giustifica, inoltre, con il fatto che il Cremlino è consapevole della sua marginalità nei mercati africani e di non poter competere con l’espansionismo cinese. Le armi, quelle vere, per Mosca, tuttavia, funzionano ancora. Ma è del tutto evidente che l’aiuto militare è subordinato, nel futuro, ad avere un ruolo anche nello sfruttamento delle materie prime.

Non a caso il paradigma di collaborazione con l’Unione africana – emerso nel forum Russia-Africa – che Putin vuole, mira a migliorare i rapporti esistenti, rafforzare i legami diplomatici e aumentare la sua presenza economica nel continente, per avvicinarsi agli elevati livelli di scambi commerciali che già caratterizzano Cina, India, Giappone, Corea del Sud, Turchia, Europa e Stati Uniti.

La presenza russa in Africa (fonte Ispi).

La retorica di Putin definisce la sua agenda per l’Africa “positiva” e si contrappone, a detta sua, ai “giochi geopolitici” degli altri, spiegando che la Russia non è interessata a depredare la ricchezza dell’Africa, ma a lavorare a favore di una cooperazione “civilizzata”. Parola, questa, già usata da coloro che hanno colonizzato il continente.

Dal punto di vista economico, non è da trascurare la presenza in Namibia dove la Russia è impegnata nell’estrazione dell’uranio e in Angola nel settore diamantifero. Da qui, dall’Africa, Putin vuole ripartire per lanciare la sua sfida e tornare a vantare il ruolo di potenza mondiale. Ma la “prudenza” sta caratterizzando la presenza russa. Putin non arriverà a schierare l’esercito regolare e per questo si avvale di mercenari della Wagner, che fa il bello e cattivo tempo un po’ ovunque, in particolare nella Repubblica Centrafricana che, di fatto, è governata proprio dai russi. Il Mali, dopo il ritiro delle truppe occidentali, rappresenta una vittoria significativa per Putin che è riuscito a ridimensionare l’impero francese.

Attività russe in Africa nel 2019 (Fonte ISW).


Gruppo Wagner: un po’ di storia

Sul Gruppo Wagner, ovviamente, sono più le supposizioni che le certezze. Ciò che si sa è che nasce intorno al 2013 con il nome di Corpi Slavi. Il loro fondatore è l’ex colonnello dei servizi segreti militari Dmitry Utkin. Insieme a un piccolo contingente di ex appartenenti alle forze speciali russe, Utkin si schiera in Siria a protezione delle infrastrutture strategiche per la Russia e per il governo siriano di Bashar al-Assad. I mercenari non ottengono grandi risultati e ben presto rientrano in patria. Qui Utkin rifonda l’organizzazione ribattezzandola Gruppo Wagner in onore del compositore tedesco (Utkin ha forti simpatie naziste). È l’incontro con Yevgeny Prigozhin, oligarca con interessi nei comparti dell’alimentazione, dell’estrazione mineraria e nel mondo della gestione dei dati informatici, che fa compiere al Gruppo Wagner il salto di qualità. Prigozhin è legato a doppio filo a Putin che lo utilizza per portare a termine “operazioni delicate”. I mercenari di Utkin vengono quindi impiegati in Ucraina e a sostegno dei separatisti della Repubblica separatista di Lugansk. Poi di nuovo in Siria, dove si affiancano alle forze di Bashar al-Assad. Il momento più tragico avviene nel febbraio 2018 a Deir ez-Zor, quando un centinaio di uomini viene ucciso in un raid americano nei pressi del villaggio di al-Isba durante gli scontri con le forze curde dell’Sdf. Le imprese compiute in tre anni di guerra, permettono a Prigozhin di passare all’incasso. Un incasso chiamato Africa, dove, nel frattempo, la Russia sta conducendo una delicata partita per recuperare spazi di influenza. Mosca cerca di stringere rapporti con numerosi paesi offrendo assistenza militare in cambio di risorse minerarie. Ma in modo informale. Un gruppo di uomini viene quindi inviato in Sudan. Vengono schierati a protezione del presidente Omar al-Bashir e come presidio sul confine con il Sud Sudan. In cambio, i mercenari russi ricevono la gestione di alcuni impianti minerari. Un’operazione molto simile avviene anche nella Repubblica Centrafricana, dove nel luglio 2018 vengono uccisi tre giornalisti russi che indagavano proprio sulle operazioni di Prigozhin. Il magnate russo farebbe affari con almeno dieci paesi, tra i quali Repubblica democratica del Congo, Madagascar, Angola, Guinea, Guinea-Bissau, Mozambico e Zimbabwe. Uomini del Gruppo Wagner sono stati incorporati nelle milizie di Khalifa Haftar in Libia. Il resto è storia recente.


Per rinfrescarvi la memoria su come operano i contractors o le milizie mercenarie e su come funzionano le regole di ingaggio e quali sono i rapporti di forza con gli stati che li “assumono” guardate questa intervista di OGzero a Stefano Ruzza, regia di Murat Cinar.


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n. 16 – Rotta del Mediterraneo centrale: lo sbocco marino delle piste libiche https://ogzero.org/il-mediterraneo-centrale-la-rotta-delle-piste-libiche/ Wed, 22 Dec 2021 23:02:41 +0000 https://ogzero.org/?p=5605 Il Mediterraneo centrale è il palcoscenico che maggiormente è stato emblematico del fenomeno migratorio per l’Europa. Fabiana Triburgo prende spunto per occuparsi di Libia dalla evanescenza della data delle elezioni fissate un anno fa al 24 dicembre destinata a venire disattesa, poiché non è in agenda delle potenze locali, né per Mosca, né per Ankara […]

L'articolo n. 16 – Rotta del Mediterraneo centrale: lo sbocco marino delle piste libiche proviene da OGzero.

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Il Mediterraneo centrale è il palcoscenico che maggiormente è stato emblematico del fenomeno migratorio per l’Europa.

Fabiana Triburgo prende spunto per occuparsi di Libia dalla evanescenza della data delle elezioni fissate un anno fa al 24 dicembre destinata a venire disattesa, poiché non è in agenda delle potenze locali, né per Mosca, né per Ankara che occupano militarmente il territorio. Ma la situazione viene dipanata nel suo articolo cercando di cogliere le pieghe giuridiche che potranno impostare rapporti con la futura entità istituzionale libica, se mai ci potrà essere; e dunque anche dalla sua esperienza personale si analizzano i meccanismi geopolitici alla base di questa rotta aperta con il crollo del regime di Gheddafi.


I principali conflitti che attualmente interessano le migrazioni forzate e le prassi di esternalizzazione poste in essere dall’Unione Europea e dai singoli stati membri portano a una predeterminazione delle rotte dei migranti.

Quello che oggi è inevitabile chiedersi è se il nuovo Patto europeo sulla Migrazione e l’Asilo, proposto dalla Commissione UE, possa essere realmente considerato una soluzione della gestione del fenomeno migratorio o se invece vi siano soluzioni legali alternative maggiormente lungimiranti e coraggiose.  


La costa dell’insieme di regioni composite chiamato Libia

Nell’imminenza del rinvio delle elezioni previste in Libia – se e quando riusciranno a tenersi – sembra inevitabile chiedersi se (quando si formeranno i nuovi assetti istituzionali) saranno in grado di fare emergere figure con le quali l’Unione europea e in particolare l’Italia saranno in grado di improntare rapporti diplomatici diversi rispetto alla questione migratoria, svincolati dai concetti di invasione e di sicurezza di cui ormai sembra intrisa tutta la narrazione della politica estera dei paesi europei, gli stessi che hanno disegnato a forza confini reali solo nell’immaginario occidentale.

L’area libica: risorse, campi, infrastrutture, pozzi, etnie

Protagonisti in campo

Necessario tra tutti un superamento di patti, intese e accordi bilaterali, finora strumenti per mezzo dei quali si è realizzato un sistema aberrante nel quale in un’ottica di contenimento dei flussi migratori gli individui vengono utilizzati come merce di scambio per la soddisfazione degli interessi economici, in Libia principalmente legati all’estrazione del greggio.

Turchia, Russia, Cina

Molteplici sono infatti gli attori regionali e internazionali in gioco in questa porzione di area del mondo chiamata Mediterraneo centrale nella quale tutti i “partecipanti” vogliono ritagliarsi un ruolo: dalla Turchia che cerca di affermare la proiezione del proprio espansionismo geopolitico in queste acque, poiché ostili risultano quelle dell’ Egeo – blindate dagli accordi internazionali – che pongono la Grecia in una posizione di sovranità marittima nella quale difficilmente riesce a dimenarsi; alla Russia che cerca di recuperare in quest’area una contropartita per contrastare l’avanzamento delle forze Nato verso quella “nuova Cortina di ferro” rispetto alla quale gli stati-cuscinetto (Ucraina e Bielorussia) destano maggiori preoccupazioni che l’inserirsi di paesi baltici, Polonia e Romania; alla Cina che tenta di crearsi uno sbocco commerciale rilevante attraverso “le nuove vie della seta”.

Stati Uniti, Unione europea

Ancora: gli Stati Uniti che si sono ben resi conto di essersi disinteressati troppo a lungo di questa porzione di mare, chiamata non semplicemente Mediterraneo centrale, ma Medio Oceano. Infatti è posto nel mezzo tra Pacifico e Atlantico nei quali gli Stati Uniti hanno molto da perdere se continua ad affermarsi la posizione di Cina e Russia – ossia dei loro antagonisti per antonomasia – facendo stridere quell’immagine di baluardo di potenza egemone indiscussa sul piano militare e geopolitico alla quale gli Usa tengono molto.

Sono inoltre da non sottovalutare anche le potenze europee, prime tra tutte Italia e Francia, che a causa degli interessi confliggenti legati alle compagnie petrolifere Eni e Total hanno impedito la determinazione di una politica estera comune dell’Unione nel conflitto libico per molto tempo.

Potenze regionali: Tunisia, Algeria

Occorre infine citare le potenze regionali quali Tunisia e Algeria che al momento sono in una tensione diplomatica senza precedenti e che hanno risentito molto della prossimità geografica rispetto alla Libia.

Già, perché è proprio la Libia a rappresentare la sintesi di questo caleidoscopio marittimo di strategie e di tattiche regionali e non, ma di queste – già analizzate in parte negli approfondimenti precedenti relativi ai paesi del Nordafrica – quello che interessa in questo articolo è la questione giuridica al fine di comprendere con serietà come si sia arrivati a questa tragedia migratoria e soprattutto cosa si possa fare in concreto per cambiare queste dinamiche politiche malate.

Riflettori improvvisati spenti sui morti di Guerre ibridate

La questione non ha necessità di essere trattata perché fa tendenza come sta avvenendo negli ultimi mesi per la crisi migratoria al confine polacco/bielorusso o lungo la rotta balcanica, anche perché in questa logica come abbiamo visto per la situazione in Afghanistan i riflettori si spengono velocemente, ma perché invece questi scenari sono gravemente mortiferi: si parla di individui deceduti ogni giorno in mare e in terra (più specificatamente nel deserto del Sahara, nel caso di questa rotta) a causa di politiche assurde.

 

Si ricorda che nella prima parte del 2021 circa 1146 persone sono morte nel mar Mediterraneo nel tentativo di raggiungere l’Europa, un numero molto più elevato di quello registrato nei due anni precedenti.

Libia 2011

Intorno al 2011 in prossimità della caduta del regime di Gheddafi quello che mi sorprendeva durante gli ascolti legali dei migranti provenienti dall’Africa subsahariana, transitati in Libia prima di arrivare in Italia, era il fatto che si trovassero in questo paese del Nordafrica da molti anni e in conseguenza del conflitto libico avevano dovuto lasciare un impiego stabile in Libia – spesso nell’edilizia – che fino a quel momento gli aveva consentito di condurre una vita dignitosa e di mantenere il proprio nucleo familiare. La Libia per molto tempo aveva rappresentato per i profughi provenienti principalmente dall’Africa subsahariana e dal Corno d’Africa una sorta di vicino Eldorado nel quale avevano trovato “rifugio” rispetto alle situazioni di conflitto o di instabilità nel proprio paese di origine.

Quindi molti di loro erano in realtà migranti forzati anche se apparentemente economici poiché avevano da tempo un lavoro in Libia ma non avevano potuto beneficiare dello status di rifugiato in quanto la Libia non è firmataria della Convenzione di Ginevra.

Protezione per i migranti sostenitori  di Gheddafi

Va precisato che Gheddafi aprì, durante la ribellione, le carceri nelle quali erano stati rinchiusi i passeur e offrì loro denaro per fare arrivare i migranti in Europa, considerata – non a torto – responsabile del capovolgimento della dittatura. Le ragioni di tutto questo vanno ricercate nelle radici storiche della politica panafricana di Gheddafi che dalla fine degli anni Novanta fino ai primi anni 2000 aveva creato un paese di accoglienza, aprendo le frontiere principalmente a chi proveniva dal resto del continente, in quanto l’offerta di mano d’opera straniera era molto elevata nel paese grazie soprattutto alla presenza di giacimenti petroliferi e anche perché i cittadini libici potevano contare su stipendi pubblici. Tra i migranti che arrivavano in Libia solo una parte più esigua proseguiva il proprio viaggio verso l’Italia.

La “formidabile” idea di cambiare questa politica di integrazione arrivò al dittatore libico soprattutto grazie al trattato di amicizia Gheddafi-Berlusconi del 2008 quando si registrò un “picco di arrivi” nel nostro Paese, ossia circa 37.000 migranti. L’Italia berlusconiana ha la colpa di aver fatto da apripista alla logica delle politiche di esternalizzazione: in quel caso la cooperazione, oltre al miraggio di avere un canale privilegiato al petrolio legittimato dalle ancestrali quanto disastrose radici coloniali che legano Tripoli a Roma, ebbe come snodo centrale la necessità che il governo libico respingesse verso le coste i migranti che tentavano di attraversare il Mediterraneo centrale.

Cadaveri sulle coste libiche (fonte Adif, 2018)

Così alla stregua della legge Bossi-Fini ossia la n. 94 del 2009, la Libia nel 2010 approvò una legge che criminalizzava l’immigrazione clandestina prevedendo la detenzione per tale reato.

È importante scrivere ciò perché è proprio sulla base di questi accordi che si cominciarono a creare i centri detentivi libici, quei famigerati Lager che oggi rappresentano il simbolo più crudele di quanto l’essere umano possa macchiarsi di comportamenti atroci. Anche in questo caso vennero trasferiti fondi alla dittatura libica (5 miliardi di dollari in venti anni come risarcimento per gli orrori del colonialismo), insieme a quattro motovedette italiane per il pattugliamento delle coste libiche in collaborazione con la Guardia costiera italiana nei respingimenti collettivi dei migranti vietati, come già detto, secondo l’art. 4 del Protocollo n. 4 della Cedu. Così nel 2010 gli arrivi in Italia calarono del 90 per cento.

I respingimenti sono a priori illegali

Questa attività deplorevole come noto andò avanti per anni fino a che intervenne la cosiddetta sentenza Hirsi Jamaa e altri contro Italia. Con tale sentenza l’Italia venne condannata nel 2012 dalla Corte di Strasburgo per essersi resa responsabile del respingimento collettivo di alcuni migranti nel 2009: in quella circostanza i migranti intercettati dal personale delle imbarcazioni italiane vennero trasferiti su queste per essere riportati in Libia e consegnati alle autorità libiche.

Ecco, forse quello era il momento di fermarsi ma non è stato così vedendo cosa è accaduto qualche anno dopo, a parte la breve parentesi dell’operazione Mare Nostrum, con il Memorandum d’intesa Italia-Libia del febbraio del 2 febbraio 2017 – che richiama nel testo proprio il precedente trattato di amicizia italo-libico firmato a Bengasi nel 2008 – redatto su iniziativa dell’ex ministro dell’Interno Minniti e siglato dall’allora primo ministro Gentiloni e dal presidente libico al-Serraj, all’epoca a capo del governo di Unità nazionale sostenuto dall’Italia e, ironia della sorte, dalle Nazioni Unite.

Il problema era questo: come si potevano respingere i migranti senza essere responsabili legalmente in modo da non essere condannati di nuovo? Semplice, delegando il “lavoro sporco”, ossia i respingimenti collettivi, direttamente ai libici previo pagamento, e ovviamente sempre nel perseguimento di fini umanitari (!?) per contrastare “il traffico di esseri umani” e garantire “la riduzione dei flussi migratori illegali”, addestrando la guardia costiera libica e fornendole armamenti e di nuovo motovedette italiane.

Vacanza governativa: accordi capestro e respingimenti illegali

Non essendoci più un governo unitario in Libia al momento dell’accordo del 2017 la sedicente guardia costiera libica era soltanto espressione di una delle tante milizie armate presenti nel paese e capeggiata oltretutto da un ricercato dal Tribunale penale Internazionale, tale Bija (nome d’arte o meglio di guerra) sulla cui vicenda si richiama il lavoro eccellente svolto dal giornalista di “Avvenire” Nello Scavo autore di un’attività giornalistica di inchiesta che è riuscita a far luce su questioni completamente nascoste all’opinione pubblica italiana.

Secondo Idos nei primi mesi del 2021 la guardia costiera libica ha intercettato in mare 11.891 migranti riportandoli indietro sulle spiagge libiche e sottoponendoli – secondo Amnesty International – a sparizioni, detenzioni arbitrarie indefinite in luoghi ufficiali e non, a torture, a lavoro forzato ed estorsione, nonché a violenza sessuale. Soffermiamoci dunque sull’aspetto legale perché è sempre da lì che si deve partire per non portare avanti discussioni fini a sé stesse: l’accordo del 2017 è un accordo da considerarsi illegittimo.

La Open Arms lascia il porto di Barcellona diretta in Libia (2018, foto Marco Pachiega / Shutterstock)

Gli accordi internazionali, come già sottolineato nell’articolo giuridico sulla rotta balcanica di questa serie con riferimento al discusso accordo posto alla base delle riammissioni della Slovenia dall’Italia, devono essere presentati dal governo al parlamento italiano e approvati da parte di quest’ultimo tramite legge di ratifica ai sensi dell’art. 80 della Costituzione. A chi contesta che il memorandum del 2017 non si debba annoverare tra quelli previsti dall’articolo 80 basta leggerne il contenuto per rendersi conto che esso soddisfa già prima facie tutti i parametri definiti dal medesimo articolo che chiarisce la necessità di ratifica da parte delle Camere dei trattati di natura politica che “importano variazioni del territorio od oneri alle finanze o modificazioni di legge”. È noto infatti che all’accordo del 2017 seguì la definizione di una zona SAR libica rispetto ad acque che prima erano definite internazionali e nelle quali quindi l’Italia era chiamata al soccorso e che sono stati stanziati milioni di euro dall’Italia alla Libia per finalizzare questo accordo influendo sul bilancio dello stato e che con questo sistema sono state violate indirettamente diverse normative. In particolare è opportuno citare l’art.10 della Costituzione italiana, la Convenzione di Ginevra e più specificatamente il principio contenuto all’art. 33 della Convenzione ossia il principio del non refoulement, le norme sul soccorso in mare, nonché quelle stabilite dalla Convenzione Europea dei Diritti dell’uomo. Inutile poi dire che la Libia, paese non sicuro dove stupri e torture sono sistemiche, non è firmataria della maggior parte delle Convenzioni internazionali, tra le quali come detto quella di Ginevra, quindi la garanzia della presenza di Organizzazioni Internazionali in questo accordo è irrilevante e le pone in una posizione di ambiguità. Rispetto ai respingimenti si segnala la recente sentenza emessa dalla VI sezione della Corte di Cassazione n. 12/2021. Qualche mese dopo la firma dell’accordo inoltre l’ex ministro Minniti negoziava un codice di condotta con le ong che prestavano soccorso in mare che provocava il rallentamento delle operazioni di soccorso.

Palesi violazioni

Giunti a questo punto appare necessario richiamare alcuni degli strumenti giuridici impiegati per contrastare tali politiche. In primo luogo, occorre menzionare, oltre alla Missione d’inchiesta delle Nazioni Unite sulla Libia, per la violazione del diritto internazionale e dei diritti umani, il caso della nave Asso 29 che si affianca alla recente condanna del Tribunale di Napoli nei confronti del comandante della nave Asso 28 per aver ricondotto in Libia centinaia di persone soccorse in mare: entrambe le navi sono appartenenti all’Augusta Off-Shore uno spedizioniere marittimo con sede a Napoli.

Il 13 ottobre il Tribunale di Napoli ha condannato il comandante di una nave privata, la Asso 28 della compagnia Augusta Offshore, per aver ricondotto in Libia oltre cento persone soccorse in mare.

Rispetto a tale vicenda risalente al 2018 cinque cittadini eritrei hanno presentato ricorso al Tribunale di Roma – ivi ancora pendente – chiamando in giudizio oltre alla nave Asso 29 – in servizio presso una piattaforma petrolifera di una società partecipata di Eni – anche lo stato italiano più specificatamente il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti. Mediante il ricorso, partendo dal caso specifico, viene ben delineato come si determina in concreto questo sistema dei respingimenti collettivi verso le coste libiche ossia attraverso l’attività di intercettazione dei migranti da parte della cosiddetta guardia costiera libica. Ciò che desta maggiore preoccupazione tuttavia è che la regia di questo sistema provenga dall’Unità centrale di soccorso di Roma, organo dipendente a sua volta dal Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti italiano e che nell’intercettazione dei migranti siano coinvolte delle navi legate a compagnie petrolifere.

Inutile dire quanto sia complicato l’accesso ad atti che potrebbero essere utili per la ricostruzione dei fatti avendo lo stato italiano posto su essi il segreto per motivi di sicurezza perché riguardanti operazioni militari o di politica estera, la cui rivelazione potrebbe essere pregiudizievole per le relazioni interazionali con Malta e con la Libia.

Inoltre, va ricordato tra gli strumenti giuridici l’esposto presentato da diverse associazioni – tra cui Arci – per l’accertamento delle responsabilità del naufragio del 22 aprile del 2021 nel quale sono morte 130 persone nel Mediterraneo centrale.

Come dunque si è arrivati a tutto ciò? È importante preliminarmente sottolineare che l’accordo del 2017 viene rinnovato tacitamente ogni tre anni come stabilito nello stesso testo, come è avvenuto nel 2020, e che il 15 luglio di quest’anno è stato rinnovato il rifinanziamento della guardia costiera libica con 361 voti a favore, 34 contrari e 22 astenuti.

Scarico di responsabilità

Un risultato agghiacciante essendo tutti ormai a conoscenza di quanto avviene nei centri detentivi libici grazie al denaro italiano ed europeo. L’unica modifica che si è riusciti ad approvare a luglio di quest’anno è che dal 2022 la missione in Libia dovrebbe passare sotto la diretta responsabilità dell’Unione Europea. Ciò, anche se appare come un modo per lavarsene le mani – finché ancora si può –, ha un senso dato che tutto è iniziato dagli accordi della Valletta del 2015 e dall’Agenda Europea dello stesso anno in occasione della quale l’Unione si è concentrata sul ruolo strategico dei paesi terzi-con i quali poi ha stretto accordi sul rafforzamento delle frontiere dell’Unione e fuori dall’Unione – vedi Frontex – nonché sulla necessità di aumentare il numero dei rimpatri. In seguito, si è aggiunto l’ormai noto accordo Ue-Turchia del 2016, all’indomani del quale le milizie libiche si sono adoperate per mostrare la capacità di imprigionare i profughi, speranzose di ottenere anche loro un lauto riconoscimento economico per il loro “lavoro” come la creazione del nuovo Centro di detenzione libico di Tarik Al Sikka.

La campagna #notonourborderwatch lanciata dal Consiglio Olandese per i Rifugiati, BKB, Sea-Watch Legal Aid Fund, Jungle Minds e Prakken D’Oliveira Human Rights Lawyers, sostenuta dall’ASGI assieme ad altre ONG di tutta Europa

Detto fatto: è stato stanziato denaro dall’UE attraverso il fondo Africa – circa 140 milioni di euro – che solo in minima parte ha sovvenzionato i progetti di cooperazione allo sviluppo (5 %) poiché destinato prevalentemente al controllo e alla gestione delle frontiere per opera dei paesi terzi (61 %).

Tuttavia, anche relativamente a tale Fondo, la questione è stata riportata puntualmente sul piano giuridico per cui sia Arci che Asgi nel 2020 hanno presentato un esposto alla procura presso la Corte dei Conti europea.

Il ruolo del Niger

Sempre per comprendere come le norme siano in grado di cambiare le rotte migratorie occorre ricordare il ruolo fondamentale del Niger nel mutamento della rotta terrestre per arrivare in Libia al fine di attraversare il Mediterraneo centrale. Il Niger infatti è stato uno dei primi paesi beneficiari di un altro fondo, il Fondo Fiduciario europeo di emergenza per L’Africa, avendo presentato all’Unione già nel 2015 un piano d’azione per attrarre gli investimenti europei. All’epoca il paese, uno dei più poveri al mondo, si trovava in piena campagna elettorale all’esito della quale nel 2016 era stato rieletto Mahamadou Issoufou (presidente del Niger in carica dal 2011 al 2021) importante interlocutore per l’Unione rispetto ai flussi migratori verso le sponde del Mediterraneo centrale, nel momento in cui la Libia non solo non aveva più un unico leader ma oltretutto si trovava in una situazione di conflitto civile con presenze regionali e internazionali a complicare lo scenario. Va precisato che in seguito ai conflitti etnici civili in Niger negli anni Novanta e negli anni Duemila si tentò il reinserimento dei tuareg nella società nigerina e più nello specifico nell’apparato militare. Un’altra parte di loro, tuttavia, cominciò a svolgere – con il bene placido delle autorità nigerine – l’attività di passeur attraverso il deserto del Sahara del quale sono i principali conoscitori.

Nella maggior parte dei colloqui legali i migranti provenienti dall’Africa subsahariana riferivano di essere giunti in Libia passando attraverso il Niger in particolare per Agadez attraversando il deserto a bordo di pick-up nei quali venivano stipate decine di persone con due tre corse al giorno.

Tuttavia in Niger sulla base di tali concertazioni con i paesi dell’Ue, con la legge 2015/36 è stato introdotto per la prima volta nell’ordinamento giuridico nigerino il reato di attraversamento irregolare delle frontiere (Relative au trafic illicite de migrants) che entrò in vigore solo all’inizio del 2016 con la rielezione di Issoufou: da quel momento vennero arrestati gli ex combattenti tuareg che prima agevolavano il transito dei migranti e dei quali vennero confiscati anche i mezzi di trasporto. In seguito alla criminalizzazione di tale attività i dati del flusso dei migranti provenienti dall’Africa subsahariana e diretti dal Niger alla Libia dal 2017 al 2019 si riducevano dunque in modo drastico.

Profughi iniziano il loro viaggio nel Deserto del Sahara dalla città di Agadez in Niger per giungere in Libia fe poi in Europa (2019, Catay / Shutterstock)

In conseguenza di tale norma, solo tra il 2016 e il 2017, l’Oim ha registrato una diminuzione dei flussi in uscita dal Niger equivalente a meno del 70% rispetto al 2015. Quindi il blocco dei migranti in Niger, in prossimità di Agadez e Seguedine, e quello determinato con il memorandum italo-libico del 2017 hanno spinto i migranti subsahariani a optare negli ultimi anni per altre rotte marittime ossia principalmente attraversando l’Atlantico per raggiungere le isole Canarie, rotta della quale si è già ampiamente discusso nella parte precedente di questo saggio. I dati ufficiali del Ministero dell’Interno rivelano che nel 2020, le persone sbarcate dopo aver attraversato il Mediterraneo centrale provenivano principalmente dalla Tunisia, tanto che nello stesso anno l’attuale Ministro degli Esteri ha dichiarato – constatando un aumento dei flussi migratori in tale area – che se la Tunisia non avesse bloccato le partenze avrebbe tagliato i fondi della cooperazione stanziati a favore del paese nordafricano.

La professionalizzazione dei trafficanti in Libia e Niger

La gravità di tali politiche sta nel fatto che anche in Libia, così come in Niger, prima del 2017 vi era un rapporto di reciproca consensualità tra il migrante e i passeurs mentre oggi questi sono divenuti tutti trafficanti di professione. Quindi il paradosso è che gli ufficiali della guardia costiera libica che sulla base del Memorandum avrebbero dovuto combattere il traffico dei migranti sono divenuti loro stessi trafficanti. Inoltre, nelle maglie di un sistema sprovvisto di un governo stabile e unitario da più di dieci anni, quale quello libico, si è inserita la criminalità organizzata di Sudan e Nigeria personalmente riscontrata nei colloqui legali tenuti con le donne vittime di tratta detenute e abusate in Libia nelle Connection Houses simbolo della mafia nigeriana che tra l’altro propaga i suoi effetti fino in Italia attraverso i canali della prostituzione.

Tutto ciò finora esposto lascia intendere quanto sia pericoloso continuare con tali tipi di politiche il cui intento è apparso indiscusso con il nuovo Patto europeo sulla migrazione e l’asilo, sul quale ci soffermeremo in seguito, solo dopo aver analizzato le soluzioni emergenziali e – come tali limitate – che si stanno strutturando nel mentre della sua approvazione, ossia i corridoi umanitari e le molteplici attività di soccorso dei migranti per opera della società civile, spesso sottoposte a procedimenti penali.

L'articolo n. 16 – Rotta del Mediterraneo centrale: lo sbocco marino delle piste libiche proviene da OGzero.

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n. 1 – Corno d’Africa: Migranti e secolari conflitti etnici e coloniali https://ogzero.org/una-visione-di-insieme-degli-scenari-che-provocano-migrazioni/ Sun, 11 Apr 2021 08:22:39 +0000 https://ogzero.org/?p=2976 Questo saggio fa parte di una raccolta di articoli che fornisce una panoramica sulla questione migratoria: analizzeremo insieme a Fabiana Triburgo le varie rotte che si sono delineate nel tempo a causa di conflitti o e instabilità che provocano questo fenomeno per giungere infine a un’analisi della normativa europea e delle alternative che potrebbero emergere […]

L'articolo n. 1 – Corno d’Africa: Migranti e secolari conflitti etnici e coloniali proviene da OGzero.

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Questo saggio fa parte di una raccolta di articoli che fornisce una panoramica sulla questione migratoria: analizzeremo insieme a Fabiana Triburgo le varie rotte che si sono delineate nel tempo a causa di conflitti o e instabilità che provocano questo fenomeno per giungere infine a un’analisi della normativa europea e delle alternative che potrebbero emergere da politiche più coraggiose e lungimiranti. Qui il primo contributo, focalizzato sul Corno d’Africa.


n. 1

I principali conflitti che attualmente interessano le migrazioni forzate e le prassi di esternalizzazione poste in essere dall’Unione Europea e dai singoli stati membri portano a una predeterminazione delle rotte dei migranti.

Quello che oggi è inevitabile chiedersi è se il nuovo Patto europeo sulla migrazione e l’asilo, proposto dalla Commissione UE, possa essere realmente considerato una soluzione della gestione del fenomeno migratorio o se invece vi siano soluzioni legali alternative maggiormente lungimiranti e coraggiose.  


Le diverse culle dell’emigrazione dal continente africano e l’accoglienza in Europa

Occorre da principio analizzare alcuni dei conflitti e situazioni di instabilità politica che continuano a interessare diverse aree del Mondo per poter capire meglio quali siano le nazionalità coinvolte nelle attuali correnti umane quantomeno di quelle forzate. Gli accadimenti bellici determinatisi in Etiopia dal mese di novembre 2020 per esempio, con particolare riferimento alla regione del Tigray, hanno proiettato nuovamente il rischio di un’instabilità politica dell’area che si pensava superata con l’elezione del nuovo presidente Abiy Ahmed Ali e dagli accordi di non belligeranza del 2018. Tali accadimenti hanno di fatto riportato l’attenzione della Comunità internazionale in questa area del Corno D’Africa.

Il campo di Dadaab che il Kenya intende chiudere. Il Corno d’Africa è l’area del mondo che produce e accoglie il maggior numero di sfollati, circa 11 milioni.

Le dinamiche di tale conflitto che il Governo Federale Etiope cerca di tenere sotto controllo, nonostante le attuali guerriglie, anche in vista delle prossime elezioni, coinvolgono non solo L’Etiopia ma anche L’Eritrea, la Somalia, il Sudan, paesi già interessati tra l’altro da conflitti interni, nonché l’Egitto che, caratterizzato da un sistema autoritario, mantiene comunque forti interessi economici nella zona. Non solo, la Libia da diversi anni, in una situazione di assenza di un governo unitario del paese, è concretamente divisa in due aree d’influenza politica la Cirenaica e la Tripolitania nelle quali i rispettivi esponenti Khalifa Haftar da un lato e Fayez al-Sarraj dall’altro si contendono l’egemonia e le risorse del paese nel quale vi sono anche altre presenze internazionali ossia Russia, Egitto e Francia da un lato, Turchia e Italia dall’altro; l’idea al momento è quella di creare un governo transitorio che guidi il paese fino alle elezioni di dicembre del 2021.

La Tunisia, invece, dove ebbero inizio dieci anni fa le cosiddette primavere arabe, dal 2010 ha formalmente adottato un sistema democratico ma al contempo ha visto susseguirsi, negli ultimi anni, diversi governi ed è attualmente interessata da numerose e continue proteste popolari che denunciano il mancato rispetto da parte dell’attuale governo di alcuni diritti civili fondamentali. A tali scenari si aggiungono le situazioni geopolitiche non ancora risolte riguardanti più in generale l’Africa subsahariana ossia non solo paesi come la Nigeria ma anche l’area del Sahel in particolare il Mali e il Niger mentre sul fronte del Medio Oriente a destare maggiori preoccupazioni sono l’Afghanistan, l’Iraq e la Siria.

In tale contesto internazionale si inserisce la politica europea e dei singoli stati membri dell’UE in materia di immigrazione che, vista la perdurante applicabilità dal Regolamento di Dublino e dei criteri da esso stabiliti, ha determinato di fatto un condizionamento o meglio un vero impedimento per i migranti ad attraversare determinate frontiere. Ciò è avvenuto mediante la definizione da parte dell’UE o di singoli paesi dell’UE di accordi bilaterali, contraddistinti dai continui respingimenti dei migranti (dei quali i numeri per il solo anno 2020 sono impressionanti anche con riferimento alle vittime), con i paesi che geograficamente sono collocati alle porte dell’UE: l’accordo con la Turchia nel 2016 per fermare i flussi migratori verso la Grecia (rotta dell’Egeo), con la guardia costiera Libica, con il Niger e la Tunisia, per bloccare i flussi migratori verso l’Italia e Malta (rotta del Mediterraneo centrale), con il Marocco per fermare l’emigrazione verso la Spagna (rotta Atlantica). Il supporto finanziario per il contrasto al fenomeno migratorio di flussi misti si è spinto oltre: l’agenzia europea Frontex ha coadiuvato tali controlli e respingimenti delle frontiere insieme alla polizia croata, per i migranti provenienti dalla Bosnia, e anche a quella Italiana rispetto ai migranti provenienti dalla Slovenia (Rotta Balcanica) che hanno quindi così garantito la riuscita del cosiddetto “Game”.

Per quanto riguarda le “frontiere liquide”, ossia quelle marittime, occorre prestare attenzione alla definizione delle zone Sar (“Search and Rescue”) e alla criminalizzazione del diritto al soccorso in mare in evidente violazione delle Convenzioni internazionali in materia, nelle quali il soccorso in mare prima ancora di un diritto è un obbligo.

Divisione Sar mediterranee

In conclusione ci si chiede se sia corretta l’approvazione del parlamento europeo e del consiglio europeo di una proposta di una normativa della commissione che mira alla creazione di campi di confinamento, ossia grandi “hotspot” in prossimità delle frontiere UE, non solo per l’identificazione (attività di “screening”) ma anche per una valutazione accelerata della domanda d’asilo, che continua a mantenere il criterio gerarchico del primo paese d’arrivo e che infine considera l’obbligo del diritto al soccorso in mare come un diritto il cui monopolio spetta alle singole autorità statali dell’Unione Europea. Le minori garanzie per i diritti dei migranti e i rischi per la loro vita si potrebbero superare con una vera inversione di rotta: un sistema giuridico fondato principalmente, e non in via residuale, su “canali legali” quali i corridoi umanitari, su una maggiore concessione di visti di ingresso da parte dei paesi UE e da ultimo un sistema obbligatorio di ripartizione per quote delle domande d’asilo, pratiche sicuramente meno negazioniste del fenomeno dell’emigrazione.

Flussi della mobilità umana indotti da teatri di guerra

I conflitti e le situazioni di instabilità politica che attualmente interessano diversi paesi del Nordafrica, cosi come quelli riguardanti la zona del Sahel e dell’Africa subsahariana più in generale, e i paesi dell’Area Mediorientale, hanno ripercussioni inevitabili sulle correnti umane – definibili come flussi delle migrazioni forzate – alcune già in essere, altre invece che manifestano già ora il loro carattere di potenzialità di determinazione in un prossimo futuro. Tali situazioni geopolitiche non possono pertanto lasciarci indifferenti traducendosi in correnti che hanno come punto di arrivo la stessa Europa se non, come in molti casi, proprio l’Italia.  Prenderne atto o averne una conoscenza anche minima ci offre la possibilità di uscire dal nostro ristretto punto di vista ed entrare in contatto, in modo maggiormente consapevole, con un fenomeno che è quello della mobilità umana, in questi casi, chiaramente non volontaria, ma imposta da accadimenti esterni, da sempre presente nella storia.

Porre uno sguardo attento e senza pregiudizi verso i paesi per noi lontani o diversi può essere il modo di prendere atto dell’inarrestabilità del fenomeno migratorio e di come esso, anche nel tentativo di essere contenuto, non smetterà di esistere. Perché dunque non concederci una possibilità di riflessione e capire come a volte cambiare la nostra ottica voglia dire entrare maggiormente in contatto con la realtà senza doverla a tutti i costi rinnegare o soffocare?

Quello che si propone questa serie di articoli è dare una visione di insieme che cercherà di essere il più possibile inclusiva degli scenari internazionali che riguardano le aree maggiormente a rischio di implosione nel momento attuale e le ragioni di tali  rischi, per poi meglio comprendere le tappe delle migrazioni forzate fino a formulare una proposta di gestione alternativa del fenomeno migratorio che non può essere avulsa dall’analisi delle prassi, attualmente messe in campo dall’Unione Europea e da alcuni dei paesi membri, nonché  dalle proposte normative di contenimento delle correnti umane verso l’occidente ponendo attenzione a quanto è accaduto negli ultimi anni e chiedendosi non solo se tali prassi e proposte legislative siano eticamente orientate ma se prima di tutte siano logiche.

Il conflitto in Etiopia e nel Corno d’Africa

I massacri

Uno dei conflitti più recenti, al momento apparentemente sedato, ma interessato da una costante guerriglia, è quello riguardante l’area del Corno d’Africa e, più specificamente, l’Etiopia e la regione del Tigray posta al suo interno. Il 4 novembre del 2020 ha visto l’inizio delle operazioni militari ad opera del primo ministro etiope Abiy Ahmed Ali, a fronte di supposti attacchi da parte delle milizie della forza politica prevalente della regione del Tigray – il Fronte popolare di liberazione del Tigray (Tplf) – contro il governo centrale federale. Quello che doveva essere un intervento lampo, secondo il primo ministro etiope, non è stato così.

In particolare, Amnesty International riporta che il 9 novembre e il 10 novembre 2020 nella città di Mai- Kadra nello stato del Tigray, c’è stato uno spaventoso massacro di civili, circa 500, ufficialmente non identificato per quanto riguarda l’attribuzione di una responsabilità. Tuttavia, vi sono testimoni oculari che hanno chiamato in causa forze leali al Tlpf, tra cui la polizia speciale del Tigray, riportando che queste si sarebbero accanite contro la popolazione della città di Mai-Kadra (di etnia amhara) in risposta all’ attacco subito, il medesimo giorno, da parte delle Forze armate federali e della Forza speciale amhara nella regione del Tigray.

Mai-Kadra, Tigray

Il massacro di Mai-Kadra il 9 e 10 novembre ha contato 600 morti di etnia amhara

Inoltre, tra il 28 e il 29 novembre 2020, questa volta, le truppe eritree, presenti anch’esse nella regione del Tigray, già a partire dal 16 novembre 2020, hanno ucciso centinaia di civili nella città di Axum per il controllo della regione mettendo in essere esecuzioni sommarie, bombardamenti e saccheggi a danno dei civili tali da poter essere lecitamente qualificati, il 4 marzo 2021, come “crimini contro l’umanità”, da parte delle Nazioni Unite.

Gli eventi sono stati riportati da parte di alcuni etiopi sopravvissuti e da altri presenti nei campi rifugiati in Sudan. Nuove fosse comuni sono state identificate in prossimità delle due chiese di Axum, attraverso le immagini satellitari di Amnesty International, riportando che il massacro sarebbe avvenuto poco prima della celebrazione della Festa cristiana ortodossa etiope di Santa Maria di Sion. La festa ricorre il 30 novembre e vede partecipare ogni anno, oltre ai cittadini della città santa di Axum, diversi turisti e fedeli provenienti anche da altre zone dell’Etiopia. La documentazione di quanto avvenuto è resa quasi impossibile dalla reticenza del governo etiope a qualsiasi ingerenza, anche mediatica, a livello internazionale sulla questione locale.

Il superamento della coalizione di fazioni etniche

Dopo tali avvenimenti l’attenzione generale sulla “questione etiope” è quasi scomparsa – tanto che il conflitto è stato dichiarato ufficialmente cessato il 28 novembre 2020 – nonostante al momento sia ancora presente una situazione di guerriglia armata. Per capire quanto è avvenuto dunque occorre analizzare le cause storiche e politiche che hanno esacerbato il conflitto nella regione etiope del Tigray. Tale scenario attuale è maturato gradualmente a partire dal 2018, anno che può essere considerato rivoluzionario per gli equilibri politici del Corno d’Africa. Infatti, da più di due anni era presente in Etiopia lo scontro tra due gruppi dirigenti all’interno della medesima forza politica che ha guidato l’Etiopia negli ultimi trent’anni, ossia il Fronte democratico rivoluzionario del popolo etiope, una coalizione di partiti creata su base etnica all’inizio degli anni Novanta dal Fronte Popolare di Liberazione del Tigray e da questo controllata fino al 2018 quando è salito al potere il primo ministro Abiy Ahmed.

Il cambio di governo ha sancito l’ascesa di una nuova alleanza nella coalizione tra i partiti corrispondenti ad altrettanti gruppi etnici ossia amhara e oromo dal quale proviene lo stesso primo ministro, e che, fino ad allora, avevano giocato un ruolo secondario nel governo dell’Etiopia e che però dal 2018 divengono forze egemoniche. Da quel momento si determina un aspro processo di rinegoziazione delle sfere di influenza all’interno delle istituzioni federali del paese. Infatti il primo ministro Abiy Ahmed ha subito individuato il Fronte popolare di liberazione del Tigray come primo e unico responsabile delle malversazioni del passato, cercando sia di creare un terreno di sintesi delle forze di opposizione e determinandosi come uomo del cambiamento, celando quelle che invece erano le sue continuità con il passato regime, sia di legittimare un ricambio dei vertici tigrini delle istituzioni federali e delle Forze Armate con figure a lui fedeli.

Questo processo di ricambio ha raggiunto il suo apice alla fine del 2019 quando Abiy Ahmed ha sciolto la coalizione del Fronte democratico rivoluzionario del popolo etiope e, in sua vece, ha creato un partito autenticamente nazionale a guida fortemente centralizzata ossia il Partito della prosperità a cui però il Fronte popolare del Tigray si è rifiutato di aderire venendo così escluso da ogni incarico nel governo federale. Il Fronte popolare del Tigray ha risposto sottolineando che si stava determinando ideologicamente la costituzione di uno stato etiopico unitario e il superamento del principio di autodeterminazione dei gruppi etnici e dell’effettiva autonomia delle regioni etiopi rispetto al potere centrale. In questo modo il Fronte di Liberazione Popolare del Tigray, da un lato ha rotto l’autoisolamento in cui il Tigray versava dal 2018, dall’altro ha legittimato quello che gradualmente è divenuto il suo ruolo ossia uno stato nello stato, in nome del principio di autonomia regionale, al quale Abiy Ahmed ha risposto con ordini di cattura da parte della procura federale verso gli ufficiali politici tigrini e con il rinvio delle elezioni presidenziali del 2020 a causa della pandemia, elezioni che al momento sono previste per il 5 giugno 2021. Quindi è seguita la decisione del Tigray di indire elezioni in maniera autonoma nel solo stato regionale settentrionale che ha sancito il culmine di questo scontro istituzionale. L’amministrazione federale si è rifiutata di riconoscere il risultato delle elezioni regionali in Tigray che riconfermavano quasi all’unanimità il Fronte popolare di liberazione tigrino e da quel momento non ha riconosciuto più l’amministrazione regionale come interlocutore istituzionale. Il Fronte popolare a sua volta ha annunciato di non riconoscere più la legittimità dell’amministrazione federale in quanto decorso il termine di 5 anni dall’inizio del mandato di governo senza che vi fossero nuove elezioni. Quindi, come detto, la guerra civile è scoppiata il 4 novembre 2020 quando vi è stato un attacco delle forze militari tigrine contro una base dell’esercito federale etiope nel nord del paese. Il conflitto del Tigray dunque può essere letto come il tentativo del Fronte popolare di liberazione nazionale di resistere a una marginalizzazione dalla scena politica etiope.

Inoltre, va considerata anche la maggiore influenza nell’amministrazione federale etiope di forze militari nazionaliste, come quelle del partito legato all’etnia “amhara”, che già dal 3 novembre sono state posizionate tra lo stato dell’Amhara e quello del Tigray e che oggi sono ancora presenti nell’Ovest della regione. Ciò ha un rilievo storico non indifferente: tali territori dal 1991 fanno parte del Tigray, ma sono storicamente reclamati dallo stato regionale dell’Amhara, che, proprio in conseguenza del conflitto scoppiato nell’area del Tigray, oggi ha acquisito l’amministrazione, seppure temporanea di essi.

Internazionalizzazione del conflitto

Il Sudan

 

una visione di insieme

4000 rifugiati etiopi dopo aver attraversato la frontiera con il Sudan

Il conflitto della regione del Tigray è poi strettamente connesso con il conflitto tra Etiopia e Sudan (che si appresta a divenire uno stato federale) che da settimane ha provocato decine di morti e centinaia di sfollati. In evidenza il tentativo sudanese di sostenere l’intervento bellico condotto dal Fronte popolare di liberazione nazionale del Tigray che, quando negli anni precedenti al 2018 era al governo, aveva costituito un’asse privilegiato con il governo di Khartum. Inoltre, questo asse aveva implicato un accordo di confine tra Etiopia e Sudan, secondo il quale, proprio su alcuni territori reclamati dall’etnia amhara, era stata riconosciuta una sovranità sudanese ed erano stati militarizzati.

Infatti l’Etiopia e il Sudan condividono un confine di circa 1600 chilometri e questa contiguità ha provocato una tensione legata alla rivendicazione di taluni territori “comuni” da diversi anni. Nel 1902 fu stipulato tra la Gran Bretagna, allora potenza coloniale del Sudan, e l’Etiopia un accordo per individuare una frontiera ma non venne specificata una demarcazione territoriale ben definita tra i due paesi. Regolari riunioni tra Etiopia e Sudan, su tale questione, si sono svolte tra il 2002 e il 2006 mentre gli ultimi colloqui riguardanti i confini territoriali sono di maggio del 2020. È chiaro che oggi, quindi, ponendo il governo federale etiope le milizie dello stato regionale dell’Amhara come forza di controllo di alcuni territori al confine tra i due paesi, il conflitto civile etiope potrebbe trasformarsi in una guerra di più vasto rilievo.

La Diga della Rinascita e al-Fashqa

Lo scorso marzo lo scontro etiope con Il Sudan si è intensificato sulla piana di al-Fashqa, contesa da decenni dai due paesi, e almeno 50 soldati etiopi sarebbero stati uccisi proprio in ragione dello scontro in quest’area. Gli scontri sono iniziati il 4 febbraio 2021 quando l’Etiopia ha lanciato una serie di attacchi contro le forze sudanesi nell’area di Umm Karura. A metà gennaio il Sudan aveva denunciato lo sconfinamento di caccia etiopi nello spazio aereo sudanese aggravando le tensioni già alte per la diga sul Nilo e i problemi causati dai 56.000 profughi etiopi fuggiti dal Tigray, in seguito all’offensiva dell’esercito etiope lo scorso 4 novembre. Alla base rimane sempre la tensione che coinvolge Etiopia, Sudan ed Egitto per la “grande diga” sul Nilo che Addis Abeba sta terminando e sulla quale non si registrano progressi negli accordi.  Nell’area di al-Fashqa, inoltre, circa 2000 militari eritrei avrebbero attraversato il confine tra Etiopia e Sudan nei pressi di Wadi-al-Charab per supportare l’esercito etiope nella difesa dell’area contesa di al-Fashqa. Tuttavia, a fine marzo, il Governo di transizione del Sudan ha appoggiato la proposta degli Emirati Arabi Uniti di mediare nella disputa con Il governo etiope. Tale atteggiamento, assertivo di un tentativo di riconciliazione con l’Etiopia da parte del Sudan, è avvenuto solo in esito alle dichiarazioni del presidente Abiy Ahmed che ha affermato, martedì 23 marzo 2021, di non voler iniziare una guerra con Il Sudan ma di voler risolvere pacificamente le tensioni su al-Fashqa e sulla questione della grande diga (Grand Ethiopian Renaissance Dam).

Il Tigray. Tra Eritrea, Etiopia e Somalia

Va in seguito sottolineata chiaramente, soprattutto alla luce di questi eventi sovraesposti, il tipo di relazione che vi è tra Tigray, Governo Federale Etiope da un lato, ed Eritrea dall’altro. Nel 2019 è stata firmata dal governo federale etiope e l’Eritrea una pace storica che ha determinato il riconoscimento del Premio Nobel per la pace ad Abiy Ahmed Ali.

Tuttavia, la relazione tra i due paesi è ancora molto complessa e va ricercata in alcuni accadimenti avvenuti diversi anni prima dell’inizio del conflitto del 2020. I tigrini del Fronte popolare di liberazione del Tigray in passato erano di fatto il fronte armato gemello del Fronte di liberazione popolare dell’Eritrea e si erano alleati negli anni Ottanta tra di loro per condurre i rispettivi paesi verso la ribellione contro un governo di tipo sovietico. Dal 1991 al 1998, infatti, i due fronti avevano delle relazioni così pacifiche che gli etiopi utilizzavano su consenso eritreo gli sbocchi sul mare dei porti di Assab e Massaua per i propri interessi economici. Nel 1998 questa relazione pacifica è stata invece interrotta da una guerra tra il Fronte popolare di liberazione eritreo e quello etiope: questo creerà delle basi per la sedimentazione di una conflittualità e dei sentimenti di odio tra i due paesi oltre che un gran numero di morti e di persone deportate fino all’elezione dell’attuale presidente etiope.

Interessi eritrei in Tigray e spartizione degli aiuti e di aree di influenza

una visione di insieme

Interessi e presenze internazionali nel Corno d’Africa

Tutto ciò premesso, deve essere analizzata la partecipazione dell’Eritrea nell’attuale conflitto etiope, a sostegno di Abiy Ahmed Ali e, in opposizione al Fronte popolare di liberazione del Tigray, che possiede i caratteri di quello che si potrebbe definire un “regolamento di conti” nei confronti del popolo tigrino.

Sulla base di quanto avvenuto lo scorso novembre si può legittimamente affermare che la pace tra i due paesi – siglata nel 2019 – deve essere considerata soltanto l’inizio di un completo processo di pace tra i medesimi e che quindi, con riferimento all’intervento eritreo nell’attuale conflitto civile etiope, occorre tenere ben a mente il rapporto tra il Fronte popolare di liberazione nazionale Etiope e l’Eritrea a partire proprio dal 1998. In secondo luogo, devono essere analizzate le annose questioni degli aiuti internazionali, già in passato elargiti ai due paesi, da parte della Comunità internazionale e, infine, la questione dei rifugiati eritrei.

Per quanto concerne l’aspetto degli aiuti internazionali va detto che l’Eritrea e l’Etiopia ricevono circa 3,5 milioni di dollari annui, che implicano anche la stipula di accordi commerciali con altri paesi non presenti nel Corno d’Africa, e dei quali entrambi i paesi vogliono continuare a beneficiare. Questo rinfocola il sospetto che la guerra contro il Tigray sarebbe l’ultimo passo per una stabilizzazione degli accordi commerciali tra Addis Abeba e Asmara. Infatti, pur essendo l’Eritrea riconosciuta come un sanguinario regime militare, nel quale la leva è obbligatoria per tutti i cittadini, dai 18 ai 50 anni gli uomini, dai 18 ai 40 anni le donne, il suo attuale presidente gode di una legittimazione internazionale essendo stato coinvolto nella stipula di accordi commerciali con diversi paesi occidentali tra cui l’Italia. D’altra parte, anche l’Etiopia è beneficiaria di un fondo rilasciato dalla Banca Mondiale in cambio di un programma di privatizzazioni. Tuttavia, i partner di maggior rilievo a livello commerciale sono quelli mediorientali, in particolare l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti che hanno sponsorizzato l’accordo tra Etiopia ed Eritrea firmato simbolicamente a Gedda. In conseguenza del conflitto tra la regione del Tigray e lo Stato federale etiope, infatti, sono emerse accuse nei confronti degli Emirati Arabi Uniti per aver messo a disposizione dei droni, stanziati nella base militare ad Assab in Eritrea, a favore della repressione della rivolta da parte del Fronte popolare di liberazione nazionale.

Alla luce di tutto ciò deve essere riletto anche quindi il processo di pace tra Eritrea ed Etiopia con il dubbio, che si aveva già da principio, che sia prevalentemente un accordo di regolamentazione dei rapporti economico-commerciali tra i due paesi. Sul conflitto in Tigray, d’altra parte, oggi continua intanto la pressione internazionale per fare entrare in modo libero e accessibile gli aiuti umanitari internazionali in conseguenza del conflitto per tutta la popolazione tigrina a rischio denutrizione, come ribadito da molti allarmi delle agenzie umanitarie. Denutrizione causata anche dagli ostacoli provocati dal governo etiope all’ingresso di cibo e farmaci nella regione settentrionale. In un comunicato stampa pubblicato il 15 marzo “Medici senza Frontiere” ha condannato una serie di attacchi alle cliniche nella regione del Tigray che sono state saccheggiate, vandalizzate e distrutte.

Altra questione particolarmente rilevante, data l’ingerenza militare da parte dell’Eritrea nel conflitto tra la Regione del Tigray e l’Etiopia, è quella della condizione dei rifugiati: sono migliaia gli eritrei che si sono rifugiati nella regione del Tigray, dal 2001 – anno del golpe di Isaias Afewerki – fuggendo dalla dittatura di Asmara. Tale situazione ha oggi subito una drammatica deriva proprio in conseguenza dell’attuale conflitto e sembra rappresentare la tragica contropartita dell’Eritrea per il suo intervento militare di sostegno all’azione armata del governo federale etiope. Infatti, la guerra civile etiope non soltanto avrebbe provocato la presenza in Sudan di 56.000 rifugiati etiopi conseguenti al conflitto, così come di rifugiati eritrei, ma anche la deportazione in Eritrea da parte delle milizie di circa 6000/7000 eritrei rifugiati in Etiopia, che sarebbero stati prelevati dai campi rifugiati del nord dell’Etiopia, proprio in conseguenza del conflitto. A febbraio 2021, infatti, l’Alto Commissario Onu per i rifugiati, Filippo Grandi, ha denunciato la presenza di 20.000 rifugiati eritrei che, secondo testimoni da lui incontrati, sarebbero stati uccisi e deportati in Eritrea dai militari del regime di Afewerki.

Massacro di Debre Abbay

La Somalia

Va considerato, inoltre, non solo il coinvolgimento del Sudan e dell’Eritrea nel conflitto civile etiope ma anche quello della Somalia. L’Eritrea infatti, come riportato a gennaio del 2021, avrebbe inviato armi pesanti all’esercito somalo e una delle partite di scambio risulterebbe essere l’intervento dei militari somali nel Tigray. Secondo la rivista “Somali Guardian” in Eritrea sono stati addestrati almeno 10.000 militari somali, originariamente preposti per difendere il governo della Somalia dagli attacchi degli al Shabab, e una parte di queste reclute sarebbe stata inviata già a novembre del 2020 nella regione del Tigray. In corrispondenza di ciò le truppe etiopi sono state ritirate dalla missione Amisom in Somalia proprio per andare a combattere nella guerriglia contro il Fronte popolare di liberazione del Tigray a discapito della missione che sostiene il fragile governo somalo. L’ indebolimento di Amisom, così rischia di dare un seguito maggiormente rilevante alla destabilizzazione del governo federale somalo messa in atto dagli al Shabab.

Inoltre, nel mese di marzo 2021, in seguito alla pubblicazione il 26 febbraio scorso di un documento redatto  da Amnesty International sul conflitto etiope, in particolare sull’intervento delle truppe eritree nella città di Axum,  il capo dell’Alto Commissariato Onu per i diritti umani, Michelle Bachelet ha accettato la richiesta del governo etiope di avviare un’indagine congiunta nella regione a Nord del paese,  dove si presume siano stati commessi crimini di guerra e contro l’umanità. Infatti, in un lungo discorso al parlamento etiope il primo ministro ha recentemente dichiarato che “il popolo e il governo eritreo hanno fatto un favore ai nostri soldati durante il conflitto” e ha continuato dicendo “nonostante ciò, dopo che l’esercito eritreo ha attraversato il confine, qualsiasi danno abbia fatto al nostro popolo è inaccettabile. Non lo accettiamo perché è l’esercito eritreo, e non lo accetteremmo se fossero i nostri soldati. La campagna militare era contro i nostri nemici chiaramente mirati, non contro il popolo. Ne abbiamo discusso quattro-cinque volte con il governo eritreo”.

Sempre il 23 marzo di quest’anno, Abiy Ahmed ha ammesso che le truppe eritree sono state presenti durante il conflitto nella regione settentrionale del Tigray suggerendo che potrebbero essere state coinvolte in abusi contro i civili. L’ammissione è intervenuta dopo mesi di smentite, sia da parte dell’Etiopia che da parte dell’Eritrea, del coinvolgimento di uomini appartenenti alle rispettive forze armate nella violazione dei diritti umani, nei massacri e nei crimini di guerra compiuti i mesi scorsi.

Il 25 marzo, intanto, le Nazioni Unite hanno reso noto che almeno 516 casi di stupri sono stati segnalati da alcune cliniche presenti nella regione del Tigray e il presidente etiope – che ha preso molto seriamente tale comunicato –  il 26 marzo, secondo l’agenzia di stampa internazionale “Reuters”, ha annunciato su “Twitter” che l’Eritrea ha accettato il ritiro delle proprie milizie dal confine etiope. Tale dichiarazione è stata resa pubblicamente dal presidente etiope in seguito all’incontro in Eritrea con il presidente Afewerki ad Asmara.

una visione di insieme

L’amministrazione Biden

Inoltre, sempre nella guerra civile, che continua a dispiegare i suoi effetti, nel quasi totale silenzio – data anche la difficoltà ad ottenere informazioni in merito, per le restrizioni imposte dall’attuale presidente ai Media – sono recentemente intervenuti gli Stati Uniti con una reazione che può qualificarsi il più veemente interessamento della Comunità internazionale in merito a quanto avvenuto nei mesi scorsi nell’area. 

Gli Usa hanno dichiarato la loro presenza mediante l’intervento dell’agenzia umanitaria statunitense “Usaid”, notoriamente intrecciata con operazioni gestite dalla Cia, annunciando di aver schierato un “Disaster Assisance Response Team” nella regione del Tigray. Infatti il 27 febbraio il segretario di stato americano Blinken, ha imposto al presidente etiope di aprire il Tigray all’accesso degli aiuti umanitari e di essere preoccupato per i crimini di guerra che molto probabilmente sono stati compiuti in conseguenza del conflitto nell’area. Questo interessamento degli Stati Uniti per la regione del Tigray si è manifestato, in seguito, con la pubblica condanna, da parte del segretario di Stato Antony Blinken, degli atti di pulizia etnica avvenuti nella regione e per i quali ha chiesto la piena responsabilità del governo etiope e il ritiro delle truppe eritree.

Il 10 marzo scorso Blinken ha, altresì, espresso chiaramente di non accettare forze di sicurezza nella regione che si rendano responsabili della violazione dei diritti umani del popolo del Tigray o che commettano atti di pulizia etnica. Il giorno seguente Gizhachew Muluneh, docente alla Sharda University e portavoce amhara, ha condannato le dichiarazioni di Blinken considerandole fuorvianti, ritenendo che il territorio del Tigray, occupato dalle sue forze regionali, debba effettivamente essere considerato, da ora in poi, parte della regione dell’Amhara. Le dichiarazioni di Blinken sono state rilasciate in seguito sia alla pubblicazione del Rapporto di Amnesty International, sia alle dimissioni di Berhane Kidane Mariam, vicecapo della missione presso l’ambasciata etiope a Washington DC che ha sottolineato che il presidente Abiy Ahmed sta conducendo il suo paese verso un “sentiero oscuro verso la distruzione e la disintegrazione” e di essersi dimessa per “protestare contro la guerra genocida nel Tigray”.

Infine, l’attuale presidente degli Stati Uniti Biden, a fine marzo, ha deciso di inviare il senatore americano Chris Coons ad incontrare il primo ministro etiope per discutere delle accuse di pulizia etnica nella regione del Tigray. L’intervento americano, tuttavia, deve essere considerato in un’ottica più complessa: le operazioni del presidente etiope a partire dal conflitto dovrebbero essere analizzate valutando l’ambizione geopolitica degli Usa di controllare la regione del Corno D’Africa attraverso la manipolazione del presidente etiope, con la volontà di escludere la Cina e la Russia da quest’area di influenza.

In conclusione, anche in passato era già avvenuto in Etiopia che a una transizione politica facesse seguito un periodo di instabilità del paese, ma oggi l’Etiopia non si appresta a divenire uno “stato fallito” ed è invece in grado di chiamare altri poteri Internazionali in suo aiuto che probabilmente eviteranno un processo di “balcanizzazione” dell’attuale stato federale etiope.

Proponiamo infine un intervento di Angelo Ferrari, registrato il 15 novembre 2020 durante la trasmissione dedicata alla crisi etiope da I Bastioni di Orione, rubrica di affari internazionali di Radio Blackout

“Resa dei conti tra tribù etiopi”.

Fonti:

L'articolo n. 1 – Corno d’Africa: Migranti e secolari conflitti etnici e coloniali proviene da OGzero.

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n. 2 – Mali e Niger: conflitti e instabilità nel Sahel https://ogzero.org/n-2-mali-e-niger-conflitti-e-instabilita-nel-sahel/ Sun, 11 Apr 2021 08:22:10 +0000 https://ogzero.org/?p=2912 Questo saggio fa parte di una raccolta di articoli che fornisce una panoramica sulla questione migratoria: analizzeremo insieme a Fabiana Triburgo le varie rotte che si sono delineate nel tempo a causa di conflitti o e instabilità che provocano questo fenomeno per giungere infine a un’analisi della normativa europea e delle alternative che potrebbero emergere […]

L'articolo n. 2 – Mali e Niger: conflitti e instabilità nel Sahel proviene da OGzero.

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Questo saggio fa parte di una raccolta di articoli che fornisce una panoramica sulla questione migratoria: analizzeremo insieme a Fabiana Triburgo le varie rotte che si sono delineate nel tempo a causa di conflitti o e instabilità che provocano questo fenomeno per giungere infine a un’analisi della normativa europea e delle alternative che potrebbero emergere da politiche più coraggiose e lungimiranti. Qui il secondo contributo, focalizzato sulla regione del Sahel.


n. 2

I principali conflitti che attualmente interessano le migrazioni forzate e le prassi di esternalizzazione poste in essere dall’Unione Europea e dai singoli stati membri portano a una predeterminazione delle rotte dei migranti.

Quello che oggi è inevitabile chiedersi è se il nuovo Patto europeo sulla migrazione e l’asilo, proposto dalla Commissione UE, possa essere realmente considerato una soluzione della gestione del fenomeno migratorio o se invece vi siano soluzioni legali alternative maggiormente lungimiranti e coraggiose.  


Sahel: estrema povertà, crescita demografica e marginalità delle comunità periferiche

Secondo l’interpretazione dell’Unione Europea a far parte di quest’area sono i cosiddetti paesi del G5, ossia Mali, Mauritania, Burkina Faso, Ciad e Niger. Nell’area è presente un forte attivismo dei gruppi armati jihadisti in particolare nei territori del Mali, Niger e Mauritania, favoriti anche dai confini estremamente porosi tra i tre paesi. Ad ogni modo tutti gli stati appartenenti all’area del Sahel sono oggi interessati da traffici illeciti di armi, droga e di uomini nonché da massicci fenomeni migratori che spingono l’Europa a esternalizzare nella regione le sue frontiere, come vedremo in seguito. I paesi del Sahel infatti si trovano in una condizione di instabilità dalla caduta del regime di Gheddafi in Libia. Già nel 2014 emergeva la drammatica condizione del Sahel: estrema povertà dell’area, forte crescita demografica e marginalità delle comunità periferiche. Questi fenomeni sono stati acuiti proprio dalla caduta di Gheddafi, dalle Primavere Arabe determinate nel Nord del continente africano, e dalla diffusione degli estremisti di matrice fondamentalista.

Le missioni Onu

Soprattutto in ragione della presenza di gruppi terroristi nei territori del Sahel è dovuto l’intervento di forze internazionali ed europee nell’area con la missione Onu Minusma, missione di pace nella regione del Mali, e rispettivamente con le missioni europee: Eucap in Niger per fornire assistenza alle forze di sicurezza interne al paese e per un maggiore coordinamento con altri paesi del Sahel, in particolare con Mali e Mauritania, Eucap in Mali con lo scopo di difendere la democrazia già flebile per ristabilire l’autorità di uno stato in un territorio dove le forze jihadiste sembrano inarrestabili. Infine, si segnalano l’Eutm, ossia la missione europea per fornire assistenza e mentoring alle forze armate maliane, e la Racc missione europea per consentire in Mauritania e in Ciad una maggiore e più stabile presenza europea.

Missione Minusma in Mali (foto del Ministero della Difesa dei Paesi Bassi)

Il mese di marzo è stato interessato da diversi scontri tra le ramificazioni di al-Qaeda e l’Isis nel Sahel, nella regione delle tre frontiere tra Burkina Faso, Mali e Niger. Il conflitto si è verificato da ultimo tra il gruppo di sostegno all’islam e ai musulmani ossia lo Jnim affiliato ad al-Qaeda e l’Isgs ossia lo Stato Islamico nel grande Sahara. Secondo l’istituto per gli studi di politica internazionale tale conflitto può essere legittimamente qualificato come uno dei più cruenti al mondo.

Conflitti e instabilità nel Sahel

Video propagandistico rilasciato dalle milizie Jnim (foto Menastream)

Jnim e Isgs condividono origini comuni nella rete di al-Qaeda nel Maghreb islamico (Aqmi). Tra i due gruppi infatti vi erano legami personali e di lungo periodo basati anche su azioni coordinate per affrontare nemici che allora erano comuni, contraddistinti dalla mancanza assoluta di lotte intestine jihadiste tra loro.

Tuttavia, negli ultimi anni si sono strutturati in maniera diversa: l’Isgs si è fondato nel 2015 dopo essersi separato da al-Mourabiton, movimento affiliato ad al-Qaeda. Tuttavia, il suo rapporto con al-Qaeda non è mai terminato e anzi, ancora oggi, si riscontrano tra loro accordi, collusioni e relazioni di coesistenza nel territorio.  Lo Jnim, fondato invece nel 2017, ha riunito diversi gruppi jihadisti disparati in diverse aree, tra cui proprio il gruppo al-Mourabiton e il gruppo jihadista burkinabè Ansarul Islam.

L’Isgs, gruppo piccolo e oscuro, dotato di una rudimentale infrastruttura multimediale ha saputo sfruttare l’assenza dello stato nelle comunità remote, intercettando le sensazioni di abbandono della popolazione civile e gli interessi delle comunità pastorali presenti nell’area, al contempo non ha dimostrato alcuna reticenza a incorporare anche unità dello Jnim, indebolite o marginalizzate. Lo Jnim nello stesso periodo ha preferito maggiormente rafforzare il suo processo d’integrazione nell’Isis. Nel 2019 con un’azione simultanea le due forze jihadiste hanno preso possesso della regione al confine dei tre stati costringendo al ritiro gli eserciti locali. Oggi l’Isgs sfida apertamente lo Jnim vantandosi delle sue vittorie su questo. Lo Jnim scredita apertamente l’Isgs per le vittime civili a causa dei suoi militanti.  A questa situazione si aggiunge la pressione delle forze militari contro il terrorismo, guidate dalla Francia nella missione Barkhane. È necessario quindi interrogarsi come sia nata tale missione e a che punto si trovi oggi rispetto ai fini precostituiti in passato e che legittimano la sua esistenza nella regione del Sahel.

I francesi nel Sahel: i movimenti in Azawad

La Francia era stata già presente militarmente nell’area del Sahel con la missione Serval. Il presidente Hollande nel 2013 è intervenuto con tale operazione in esito ad alcuni accadimenti di particolare rilievo che avevano interessato il Mali. Dopo la caduta di Gheddafi, infatti, la maggiore instabilità del Sahel si era riscontrata nei territori sahariani del Nord del Mali, nella regione dell’Azawad, che dopo l’indipendenza dalla Francia nel 1960, sono passati a Bamako.

La caduta del regime dittatoriale libico infatti ha provocato la formazione di movimenti filoindipendentisti tuareg nei quali militavano non solo cittadini maliani, ma anche altri cittadini africani con un background militare non indifferente. Alcuni di loro provenivano proprio dalle fila militari lealiste di Gheddafi. Tali militanti insieme hanno fondato l’Mnla, ossia il Movimento di Liberazione dell’Azawad. Questo fenomeno e la concomitante condizione di malcontento nelle caserme militari e l’incapacità delle forze militari maliane di fermare gli stessi movimenti filo-indipendentisti, nonché l’appoggio fornito ai tuareg da parte di al-Qaeda, hanno contribuito in modo fondamentale alla determinazione del colpo di stato nel dicembre 2012 in Mali. Il colpo di stato è stato infatti condotto dai tuareg e dai gruppi estremisti islamici. Tuttavia, dopo il colpo di stato, i gruppi estremisti hanno sempre più limitato la presenza dei tuareg negli interventi militari e hanno portato il conflitto sempre più a sud del paese fino ad arrivare a Konna, località non lontana dalla capitale Bamako. A questo punto il governo maliano ha chiesto aiuto e supporto a Parigi e alle forze militari francesi, in accordo con la comunità economica degli stati dell’Africa occidentale.

Dall’operazione Serval a Barkhane

L’operazione Serval, quindi, prima attraverso dei bombardamenti aerei, poi con dei gruppi militari di terra, costringendo i ribelli a fuggire nuovamente a Nord, ha consentito che Bamako riacquisisse il controllo di quasi tutto il territorio del Mali. In seguito a tale operazione, nel 2014, i francesi con l’operazione Barkhane, sono intervenuti nuovamente a livello militare in Africa, non solo in Mali, ma anche in tutta la regione del Sahel comprendente i cinque stati sopracitati. L’operazione Serval, quindi, è stata ristrutturata e rinominata.

I colpi di stato

In ogni caso questa volta, nonostante la presenza militare della Francia, ad agosto del 2020, si è verificato un nuovo colpo di stato simile a quello del 2012. Infatti, vi è stato l’ammutinamento della base militare a Katim e il presidente Ibrahim Boubacar Keita è stato rimosso. Ritorna l’elemento comune al colpo di stato del 2012 del malcontento delle Forze armate del Mali rispetto al governo centrale.  Ad agosto del 2020 Amnesty International con un comunicato si è detta estremamente preoccupata per l’arresto dell’ormai ex presidente del Mali, Ibrahim Boubacar Keita, dell’ex primo ministro Boubou Cissé e di altri esponenti del deposto governo a opera del Comitato nazionale per la Salvezza del Popolo, autore del colpo di stato del 18 agosto 2020. L’organizzazione ha chiesto alla giunta militare che ha assunto il potere di liberare tutte le persone arrestate – tranne quelle per cui possono provare che siano state autrici di crimini riconosciuti dal diritto internazionale – e di impegnarsi a rispettare i diritti umani. Amnesty International ha espresso preoccupazione anche per la notizia riguardante la morte di 4 persone e il ferimento di 15 colpite da armi da fuoco in circostanze ancora poco chiare. Il colpo di stato si è verificato, come specifica l’organizzazione umanitaria, in un contesto di forte crisi politica, nata in seguito alla proclamazione dei risultati delle elezioni legislative dell’aprile del 2020 e acuitasi durante le proteste di massa, promosse e dirette, dal mese di giugno, dal Movimento 5 giugno Fronte patriottico di resistenza. Il 10 luglio scorso le proteste, infatti, ricorda Amnesty erano state soppresse dalle forze di sicurezza con estrema brutalità. Alla fine della giornata i morti erano stati almeno 14 e i feriti 300. La crisi istituzionale, infatti, è stata esacerbata dalla questione Covid, che ha provocato numerosi scioperi e un peggioramento del sistema educativo. Per tali motivi il presidente ha deciso il rinvio delle elezioni legislative in Mali e, in seguito, i giudici della Corte Costituzionale in Mali hanno accolto il ricorso dell’ex presidente Boubacar Keita assegnandogli 8 seggi in più rispetto a quanti ne risultavano dall’esito delle votazioni. Questo è stato uno degli elementi che ha portato al colpo di stato questa estate.

Milizie e gruppi terroristici

In tutta l’area del Sahel, ad ogni modo, si rileva la presenza costante di gruppi terroristi ed è per questo che molte forze internazionali ed europee hanno deciso di intervenire negli ultimi anni nella regione. Tra tali gruppi terroristici, tuttavia, ci sono state molte tensioni negli ultimi anni come tra al-Qaeda e Stato Islamico nel Sahel, per cui oggi, con riferimento alla regione, si parla di “terrorismo non unitario”. Tuttavia, vi sono anche moltissimi gruppi armati non terroristici (groupes armés non identifiès) che sono da considerarsi comunque pericolosi come quelli terroristici e così anche le forze armate maliane autrici di molteplici abusi che rappresentano un terzo delle violenze perpetrate nell’area. È bene, tuttavia, soffermarsi sui gruppi non terroristici presenti nell’area. La proliferazione di gruppi non statali armati nel Sahel ha determinato violenza e insicurezza nella regione; tali gruppi, come visto, oltre a quelli estremisti violenti, sono gruppi armati politicamente motivati, le milizie di autodifesa, i gruppi di sicurezza locali. L’aumento di tutti i gruppi armati presenti nella regione riflette in ogni caso l’incapacità degli stati del Sahel di esercitare il monopolio della forza in modo da proteggere efficacemente i loro cittadini e preservare l’integrità del territorio. Gli attori non statali infatti operano in modo scioccante in spazi in cui la presenza dello stato è debole o contestata, come per esempio le aree rurali e di confine, così come le aree maggiormente periferiche. Il Niger – nonostante una politica che afferma “tolleranza zero” verso le milizie locali e i gruppi di autodifesa – non è stato risparmiato dai gruppi estremistici violenti che stanno guadagnando sempre più terreno nel territorio nigerino. In Mali, invece, le regioni di Mopti e di Segon, interessate da conflitti secolari, da una limitata presenza delle forze di sicurezza dello stato e da un facile accesso alle armi, hanno condotto alla creazione di gruppi locali di autodifesa su base comunitaria e di milizie locali.

Ascolta “Le frontiere liquide del Sahel” su Spreaker.

I gruppi armati non violenti ed estremisti, ma politicamente motivati, invece in Mali sono stati ritenuti ufficialmente partner legittimi per lo stato con cui lavorare, come è avvenuto con gli accordi di pace e di riconciliazione del 2015.

Barkhane: una missione controversa

In questo scenario è importante capire quali siano dunque le prospettive per l’operazione Barkhane nel Sahel. Macron, infatti, ha ribadito l’impegno della Francia nell’area del Sahel con la missione, senza una diminuzione delle forze armate militari impiegate nell’area. L’obiettivo principale di Macron è quello di annientare militarmente i principali gruppi terroristi jihadisti che hanno fatto del Sahel la propria roccaforte. Barkhane è la più ingente missione europea su suolo africano e fornisce training, mentoring, supporto logistico ed intelligence alle forze armate e all’intelligence dei paesi del G5, in un’ottica di cooperazione governativa della politica di sicurezza contro il terrorismo. Tale ultima dichiarazione del presidente francese ha destato non poco stupore in ambito internazionale poiché Macron aveva precedentemente comunicato la volontà di ritirare circa 600 uomini facenti parte dell’unità di supporto in Burkhinabé, facendo trapelare l’intento di rimodulazione dell’intervento del contingente, in linea con parte dell’opinione pubblica francese che ha assunto opinioni critiche sulla missione.

Takouba: quando Barkhane non basta

Infatti, la Francia nella missione ha visto il verificarsi di molteplici incidenti e 55 vittime tra i militari francesi nonostante con Barkhane si siano riportati dei “successi” come l’uccisione di Abdelmalek Proukdel, il leader di al-Qaeda nel Maghreb islamico. La missione viene criticata perché concepita solo sotto il profilo militare e diversa dagli approcci degli stati G5 e delle Nazioni Unite che concepiscono come strumento utile per lo state-building, la riduzione dei conflitti e la capacità di negoziare con i principali gruppi insorgenti nell’area in quanto darebbe a Parigi la possibilità di strutturarsi come presenza di medio-lungo periodo nella regione del Sahel.

Conflitti e instabilità nel Sahel

Operazioni della Missione Takouba

Su queste basi infatti sembrerebbe nata l’idea della missione francese Takouba, ossia una missione che implicherebbe il coinvolgimento di altri paesi in sostegno alla propria attività militare nel Sahel alla quale hanno già aderito, a livello intenzionale, Belgio, Danimarca, Italia, Estonia, Olanda e Repubblica Ceca. Tuttavia, la missione Takouba sembra fondarsi più su un approccio massimalista che riflessivo, ossia poiché Barkhane non sta funzionando come previsto, occorre aggiungere altro supporto militare e quindi chiedere ad altri paesi europei di partecipare alla propria missione militare con forze congiunte.

Al proposito Antonio Mazzeo può approfondire l’aspetto relativo all’impegno militare, estendendo il discorso a strategie neocolonialiste

Ascolta “Missioni coloniali in Sahel: tassello della guerra globale e della spartizione del mercato africano” su Spreaker.

Le armi come aiuti umanitari

I conflitti armati nel Sahel hanno coinciso con un aumento di importazione delle armi da parte dei paesi G5, in particolare Mali e Burkina Faso. Alcuni di questi trasferimenti sono stati finanziati dall’Unione Europea o sono stati consegnati come aiuti umanitari da parte della Francia, del Qatar o degli Emirati Arabi Uniti. Secondo il Sipri, infatti, diverse grandi potenze stanno usando le forniture di armi come uno strumento di politica estera per aumentare l’influenza nell’area.

Inoltre, in Niger si è registrata negli ultimi giorni una recrudescenza dei conflitti che desta grande preoccupazione a livello internazionale. Il 15 marzo 2021 sono rimaste uccise 58 persone e si registrano molti feriti in seguito all’attacco sferrato contro gli abitanti dei villaggi che facevano ritorno dal mercato settimanale di Banibangou, nella regione di Tilabèri, in prossimità del confine con il Mali.

Insicurezza interna

Gli autori di questa strage anche in questa circostanza sono ritenuti “gruppi armati non identificati”; il medesimo giorno i gruppi hanno attaccato anche il villaggio di Darey Dey nel quale sono rimasti uccisi tutti gli abitanti e si sono verificati episodi di saccheggio, devastazioni e incendi. Lo scopo di tali attacchi è quello di costringere la popolazione locale, attraverso atti violenti e vandalici, a lasciare i territori di appartenenza. La sessa zona di Tilabèri, tra l’altro, era stata interessata a gennaio del 2020, da un’uccisione di massa rivendicata, in questo caso, dallo Stato Islamico nel Grande Sahara.

Ancora, il 21 marzo 2021 sono stati uccisi 40 civili nei villaggi di Intazayene, Bakorat, e AkiFakit nel distretto di Tillia, nella regione di Tahoua, sempre in prossimità del confine con il Mali. La regione stessa ospita diversi rifugiati maliani. In questa zona di confine normalmente operano diversi gruppi terroristi, in particolare lo Stato Islamico nel Grande Sahara. Anche la responsabilità di questo ulteriore drammatico evento viene attribuita a “non meglio identificati individui armati”.  In realtà, a causa dell’attacco nel distretto di Tillia, di domenica 21 marzo, è salito a 137 il bilancio delle vittime.

Tra dicembre 2020 e marzo 2021, mentre in Niger erano in corso le elezioni, infatti, sono state uccise complessivamente circa 262 persone, tutte civili, la maggior parte proprio da gruppi armati non identificati. La questione si incardina proprio nell’impossibilità di comprendere il fenomeno alla base di tali attacchi poiché quasi nessuno di essi è stato rivendicato. La tesi prevalente è quella, al momento, che tali gruppi armati non identificati vogliano operare, attraverso le proprie attività criminali, una sorta di pulizia etnica.

In questo momento storico dunque il Niger si trova ad affrontare, oltre agli atti di natura terroristica anche gli scontri politici determinati dagli esiti delle votazioni elettorali del 21 febbraio del 2021 che hanno decretato la vittoria ufficiale di Mahamane Bazoum, contestata fortemente dall’altro candidato, Mahamane Ousmane che ha denunciato brogli e ha promesso forti proteste nel paese. Per Bazoum, quindi, che assumerà la carica il prossimo, 2 aprile 2021, la questione securitaria è certamente la prima da affrontare.

Fonti:

L'articolo n. 2 – Mali e Niger: conflitti e instabilità nel Sahel proviene da OGzero.

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Tuareg, i curdi dell’Africa? https://ogzero.org/il-deserto-diventa-pantano-in-libia/ Fri, 02 Oct 2020 11:28:43 +0000 http://ogzero.org/?p=1333 L'indipendenza e autodeterminazione dei popoli del Fezzan e della Nigeria passa attraverso la collaborazione tra tuareg e tebu, ma anche contro il neocolonialismo occidentale, soprattutto francese, che mira a controllare oro, uranio, petrolio, acqua e vuole imporre la sua presenza militare attraverso missioni Onu con il pretesto di combattere il jihadismo, con cui brevemente e riconoscendo l'errore il popolo azawad si era alleato nel 2013

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Se non proprio malevola, almeno superficiale.

Così almeno mi era apparsa la semplificazione mediatica con cui si proiettava lo spettro jihadista sull’ultima – per ora – ribellione tuareg. Arrivando a sostenere che certe etnie del Mali non potevano essere altro che “vittime o complici dell’islamismo più feroce”.

Tertium non datur.

In realtà – credo – la questione è più complessa. Si doveva, almeno, precisare quale fosse – e quale sostanzialmente sia – la condizione in cui versano i tuareg. Quella di una “nazione senza stato” che vive, si sposta e – se del caso – combatte ben oltre i ristretti confini del Mali. Per inciso. Appare evidente l’analogia con la nazione curda, ugualmente frantumata da vari confini statali, più o meno artificiosi, a seguito dei ben noti processi di “decolonizzazione controllata” del secolo scorso.

Invece si è cercato di interpretare la diffusione, il dilagare dell’islamismo radicale come effetto collaterale del “rientro” (in realtà una dispersione) delle “milizie nomadi” (in parte costituite da combattenti tuareg) già “alleate del beduino Gheddafi”. Senza interrogarsi in merito alle ragioni che avevano spinto molti tuareg, legati o meno al Mnla (Movimento Nazionale di Liberazione dell’Azawad) in Libia.

Indipendenza e autodeterminazione azawad

Alla fine del Novecento le lotte per l’indipendenza (o almeno per l’autonomia, il decentramento) e gli scontri armati tra le milizie tuareg e gli eserciti di Mali e Niger risultarono deleteri soprattutto per le popolazioni civili, oggetto di repressione e brutali massacri.

Come per esempio nel 1990 a Tchin Tabaraden in Niger.

E forse non è un caso che anche attualmente nel Niger permangano gruppi armati che lottano per l’autodeterminazione. Tra questi il Mnj (Mouvement des Nigériens pour la justice).

Oltre alla liberazione dei prigionieri politici tuareg e alla possibilità di svolgere liberamente attività politica, il Mnj esige dal governo di Niamey la fine dello sfruttamento coloniale dei territori abitati dai tuareg (vedi le miniere di uranio, devastanti per la salute della gente, in mano alle multinazionali straniere come la francese Areva).

Altra organizzazione armata in parte ancora operativa (o almeno nel primo decennio del XXI secolo) il Front des forces de redressement. Avrebbe (meglio il condizionale in attesa di conferme) invece deposto definitivamente le armi il Front patriotique nigérien.

La svolta islamista: faida interna e non conversione religiosa

Comunque, tornando alla caduta di Gheddafi, all’epoca buona parte dei tuareg prese la via del ritorno. Talvolta portandosi appresso una discreta quantità di armamenti sofisticati. Salvo poi – magari incautamente – venderle a gruppi jihadisti ben riforniti di petrodollari. Peggio ancora. Qualche ex esponente del Mnla (vedi Iyad Ag Ghali) si era avvicinato da tempo alle milizie jihadiste, anche in contrapposizione con gli ex compagni di lotta.

Più che una conversione religiosa, la vedrei come il risultato di personalismi, concorrenze e faide interne.

Risaliva al 6 aprile 2012 la dichiarazione unilaterale di indipendenza dell’Azawad che di fatto aveva temporaneamente spaccato il Mali in due. Ma dopo nemmeno venti giorni – forse per inesperienza, stupidità o sotto minaccia come nei matrimoni forzati – alcuni referenti del Mnla presenti sul campo firmavano un accordo-capestro con Ansar al-Din, gruppo islamista finanziato da al-Qaeda nel Maghreb islamico. Con la velleitaria creazione di un Consiglio transitorio dello Stato Islamico dell’Azawad formato da 40 membri, 20 del Mnla e 20 di Ansar al-Din.

Risvolto grave, l’applicazione della sharia e la costituzione della polizia islamica (hisba).

A sua parziale giustificazione Bilal Ag Sherif, segretario del Mnla e firmatario dell’accordo, sosteneva di aver agito per evitare una guerra interna tra tuareg e convincere i fratelli integrati in Ansar al-Din ad abbandonarne i ranghi.

Un accordo che era lecito definire una “mostruosità” e appunto come tale veniva sconfessato dal coordinamento dei responsabili del Mnla.

Il portavoce del Mnla Habaye Ag Mohamed riteneva «inconciliabile con la linea politica del Mnla l’atteggiamento fondamentalista e in particolare il jihadismo salafita portato avanti da Ansar al-Din».

Bilal Ag Sherif, firmatario del documento, veniva richiamato all’ordine e costretto a rompere tale accordo.

Per Nina Valet Intalou, esponente dell’Ufficio esecutivo del Mnla, bisognava «rigettare categoricamente questo accordo, perché cercare di evitare una guerra fratricida non significa accettare il diktat imposto da gruppi oscurantisti».

Il documento, spiegava: «era stato firmato pensando che i nostri fratelli tuareg schierati con Ansar al-Din avrebbero lasciato questa organizzazione terroristica. Avremmo potuto accettare uno Stato islamico democratico, pensando che noi siamo già musulmani. Ma il documento proposto da Iyad Ag Ghali è veramente contrario agli obiettivi del Mnla e alla nostra cultura. Quello che lui vorrebbe è uno stato talebano».

Ovviamente nel 2012 il confronto veniva spontaneo con i talebani. Oggi probabilmente si evocherebbe lo spettro dell’Isis.

Donne e giovani protestano contro i fondamentalisti

A conferma dell’estraneità tra il movimento per l’autodeterminazione tuareg e l’integralismo islamista, già il 5 e il 6 giugno 2012 centinaia di donne e di giovani della città di Kidal scendevano in strada per protestare contro i fondamentalisti. Successivamente, nella notte tra il 7 e l’8 giugno, si registravano scontri armati tra i militanti di Mnla e quelli di Ansar al-Din.

Purtroppo la storia della lotta tuareg per l’autodeterminazione (sia indipendentista che autonomista) è da sempre attraversata da scissioni e conflitti interni.

Lo stesso leader di Ansar al-Din, Iyad Ag Ghali, in precedenza si era distinto come promotore delle rivolte degli anni Novanta del secolo scorso.

Ma, almeno fino al 2012, le istanze dell’islamismo radicale non avevano – pare – trovato spazio significativo all’interno del movimento tuareg, da sempre sostanzialmente laico.

Successivamente, nel giro di qualche mese, il Nord del Mali finiva quasi completamente in mani jihadiste (oltre ad Ansar al-Din, erano entrati in azione anche il Mujao (Movimento unicità e jihad nell’Africa dell’Ovest) e direttamente Aqmi, Al-Qaïda au Maghreb islamique). Ma con la riunione internazionale di Bamako del 19 ottobre 2012 si avviava quel «progetto di intervento militare credibile» richiesto nella settimana precedente alla Comunità economica degli Stati dell’Africa dell’Ovest (Cedao) e all’Unione Africana. La Francia riusciva a coinvolgere i 15 paesi membri del Consiglio di Sicurezza e porre la questione sotto il capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite (in quanto la situazione del paese africano costituiva «una minaccia per la pace e la sicurezza internazionale»). Il resto è cosa nota. Prima l’intervento diretto dell’esercito francese (aviazione, forze speciali…) per riprendere il controllo di Gao, Timbuctù, Kidal, Tessalit… con l’Operazione Serval (dal nome di un felino africano) dal gennaio 2013 alla metà del 2014.

Operativi da gennaio anche alcune centinaia di soldati africani (provenienti da Niger, Benin, Nigeria e Togo) della Missione internazionale di sostegno al Mali (Misma).

Barkhane e Takouba ma la guerra non si ferma

Poi – dopo la costituzione della missione onusiana Minisma (Mission Multidimensionelle Intégrée des Nations Unies pour la Stabilisation au Mali) e una serie di operazioni dai nomi più o meno pittoreschi (Dragon, Constrictor, Centaure, Epervier…) dall’agosto 2014 l’intervento contro le bande salafite assumeva la veste di un dispositivo regionale: l’operazione Barkhane (dal nome di una duna “migrante” nel deserto) a cui partecipavano Mauritania, Burkina Faso, Ciad, Mali e Niger (comunque sottoposti alla direzione dell’Esagono).

Ma la guerra non si è fermata. Nemmeno dopo migliaia di morti e centinaia di migliaia di sfollati. Un tragico bilancio a cui si deve aggiungere la denuncia di sistematiche violazioni dei diritti umani. Opera soprattutto di soldati africani nei confronti di civili arabi e tuareg (sbrigativamente – e comodamente – identificati come salafiti). Nel frattempo ha visto la luce anche Takouba (“spada di legno” – quella dell’Onore – in tamashek, la lingua dei tuareg), denominazione per le forze speciali europee che dovrebbero sostenere le truppe maliane nella lotta contro il terrorismo jihadista.

Stando alle dichiarazioni della ministra della Difesa francese Florence Parly, Takouba era già stata preannunciata da Macron in occasione dell’incontro di Pau, quello indetto proprio per tacitare le voci sul dissenso africano all’intervento francese.

Quanto al governo di Bamako, va riconosciuto che fin dal 2012 – in prossimità dei territori occupati dalle milizie jihadiste – venivano allestiti alcuni campi di addestramento.

Tuttavia – vuoi per mancanza di mezzi, vuoi per imperizia – risultavano alquanto scadenti. Con i volontari alloggiati in strutture provvisorie, senza armi e addirittura scarsamente riforniti di generi alimentari (letteralmente “alla fame” secondo alcuni visitatori, nemmeno in grado di compiere l’addestramento). Com’era prevedibile, molti disertarono per raggiungere Ansar al-Din e il Mujao, Organizzazioni ben finanziate, in grado di garantire «assistenza economica alle famiglie di ogni combattente vivo o morto e un’abitazione fino al momento in cui i figli saranno in grado di sposarsi».

Un copione che si va ripetendo su larga scala anche in questi giorni.

Contraddizioni in seno ai popoli

Un bel casino, certamente. Senza dimenticare che oltre ai durevoli, tenaci contenziosi tra popolazioni indigene e governi statali ne permangono altri – non meno devastanti – tra le popolazioni stesse.

Troppo spesso strumentalizzati dai governi (e anche in questo Gheddafi aveva fatto scuola) in nome del sempre attuale “divide et impera”.

Come quello tra tuareg e tebu (il “Popolo delle Rocce”) chiamati ikaraden dai tuareg.

Un breve riepilogo

Nei suoi 40 anni di permanenza al potere Gheddafi aveva abilmente alimentato le reciproche ostilità tra le tribù arabe e alcune “minoranze” (in realtà popolazioni minorizzate in quanto separate dai confini statali, come i curdi o anche i baschi) presenti nel Sud della Libia: tebu e tuareg. Utilizzando gli scontri interetnici per controllare, discriminare, emarginare e reprimere. E i tuareg – in particolare nelle zone di frontiera – per far pressione su Algeria, Niger e Mali.

Dopo il 2011, con la caduta del regime, esplodevano le istanze di maggior autonomia politica da parte dei tebu per il controllo delle zone petrolifere e aurifere e delle vie di comunicazione. In particolare dei check-point utilizzati per sfruttare proficuamente i vari traffici legali e illegali (armi, medicinali, derrate alimentari, droga, alcolici e anche esseri umani).

Mentre la Libia sprofondava nel conflitto, in questo decennio i Tebu si sono imposti – talvolta anche violentemente – alle altre tribù (sia arabe che tuareg, se pur in diversa misura e in maniera differenziata) per trarre benefico dalla nuova situazione generatasi con la caduta ingloriosa del Colonnello. Nei territori meridionali della Libia – lì dove coabitano le varie etnie – sono presenti in grande quantità non solo l’ambita risorsa petrolifera, ma anche minerali rari e perfino l’acqua (per la presenza di vaste falde freatiche). Acqua di cui usufruiscono le popolazioni (il 90 per cento dei libici) che vivono nel Nord del paese.

Tuareg e tebu: scontri etnici tra apolidi

Non si deve comunque generalizzare. Occorre valutare la complessità delle relazioni che si vanno instaurando di volta in volta, di luogo in luogo. Relazioni, si diceva, varie e variabili (differenziate, variegate…), sia politicamente che economicamente.

Per esempio nel contenzioso per il controllo delle risorse tra tebu e tuareg nel Fezzan (nel Sudovest del paese) per un certo periodo sembrava prevalere l’aspetto militare, lo scontro armato.

In passato, in quanto minoranze non arabe, sia tebu che tuareg avevano subito evidenti discriminazioni (entrambi manipolati in funzione della politica “panafricana” di Gheddafi), ma in diversa misura.

Così, mentre migliaia sia di tuareg sia di tebu si ritrovavano sostanzialmente nella medesima condizione di apolidi, per i primi esisteva la possibilità di integrarsi vantaggiosamente nel sistema della sicurezza interna. Godendo quindi della possibilità di armarsi adeguatamente e di facilitazioni in campo economico (permessi di lavoro, accesso all’amministrazione…).

Gheddafi il garante dei tuareg

Del resto Gheddafi si presentava talvolta come un “garante”, un “sostegno”, un protettore anche dei tuareg del Mali e del Niger. Perfino nei confronti dei loro governi dai quali effettivamente subivano discriminazioni e repressione.

Questo può spiegare la posizione assunta nel 2011 dai tuareg libici (a cui si aggregarono molti altri provenienti da Mali e Niger) che si schierarono con il regime.

Una scelta che in seguito avrebbero pagato duramente.

Ad aggravare ulteriormente il conflitto tra le due etnie, la chiusura nel 2014 della frontiera tra Libia e Algeria fino ad allora vantaggiosamente controllata dai tuareg. Di colpo questi si scoprivano privati di una preziosa fonte di reddito in quanto flussi commerciali, traffici e contrabbando venivano dirottati sulla frontiera con il Niger, tradizionalmente controllata dai Tebu. L’altra frontiera del Sud della Libia, quella con il Ciad, dal 2013 è interessata da un imponente traffico di oro estratto, spesso artigianalmente, dalle miniere del Fezzan. Anche questo un traffico gestito principalmente dai tebu.

La scelta infelice di una parte dei tuareg (ormai in difficoltà anche sul piano sanitario) di allearsi militarmente con elementi integralisti forniva ai tebu l’occasione per tacciarli di “terrorismo” (assimilandoli ai salafiti) e di presentarsi all’opinione pubblica internazionale come garanti della lotta al medesimo nel Sud della Libia. Così per esempio vennero interpretati gli scontri sanguinosi – con decine di vittime – del settembre 2014 a Ubari (storicamente feudo tuareg del Fezzan, ma con una forte presenza tebu) tra milizie tebu e tuareg. Scontri scoppiati inizialmente non certo per questioni ideologiche o religiose, ma semplicemente per il controllo dei check-point e di una stazione di servizio (oltre che, beninteso, dei cospicui giacimenti petroliferi della zona).

Il paradosso della riconciliazione

Per la cronaca. In un primo momento i tuareg ebbero la meglio, ma successivamente, nel 2019, persero nuovamente il controllo dei giacimenti, stavolta per mano dell’Esercito nazionale libico (Anl).

In questa circostanza le milizie tuareg e tebu si “riconciliarono” e costituirono un fronte comune per combattere contro l’esercito del generale Haftar.

Ennesimo paradosso del conflitto libico (talvolta, benevolmente, definito un ginepraio, ma più spesso un “autentico pantano”)?

Forse non proprio se pensiamo all’accordo di pace faticosamente conseguito e sottoscritto dalle due comunità nel 2015 a Doha.

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Lo Spirito del tempo che percorre il territorio del Sahel https://ogzero.org/lo-spirito-del-tempo-che-percorre-il-territorio-del-sahel/ Mon, 06 Jul 2020 07:28:38 +0000 http://ogzero.org/?p=393 Nei due anni che vanno dal maggio 2018 al giugno 2020 nel territorio del Sahel si sono verificati cambiamenti che forse oltrepassano i rivolgimenti di una pandemia, poiché sta recedendo la graduale estensione del controllo di Aqmi (al-Qaeda del Maghreb islamico), ma con appoggi saharawi laicissimi, tuareg nomadi che combattevano peul stanziali, con cui han […]

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Nei due anni che vanno dal maggio 2018 al giugno 2020 nel territorio del Sahel si sono verificati cambiamenti che forse oltrepassano i rivolgimenti di una pandemia, poiché sta recedendo la graduale estensione del controllo di Aqmi (al-Qaeda del Maghreb islamico), ma con appoggi saharawi laicissimi, tuareg nomadi che combattevano peul stanziali, con cui han finito con il convergere nella lotta contro gli invasori coloniali occidentali, dando una patina di legittimazione religiosa a conflitti le cui motivazioni vanno ricercate tra entità locali divise tradizionalmente, che cercano di controllare le vie dei traffici illeciti (la droga sovvenziona Daesh) e dei migranti, che sostanzialmente coincidono… e dall’altro lato ci sono settori di collaborazionisti con le politiche antiterroriste di potenze europee, in primis la Francia.

Importante è sottolineare che il Sahel comprende un’area periferica tra le più povere al mondo, con scarso accesso all’acqua, soprattutto a seguito del progressivo prosciugamento del lago Ciad, e con nessuna tradizione nazionale, in quanto fino a pochi anni fa molti erano privi di documenti che attestassero l’appartenenza a uno stato.

Il 4 maggio 2018 avevamo registrato un intervento radiofonico lucidissimo e ancora molto illuminante di Luca Raineri che qui trovate inserito in tre parti per avviare un’analisi incentrata sul Sahel nel momento in cui si assiste a frenetiche manovre a più livelli per sostituire le influenze. Qui è descritto il quadro relativo al contesto, fatto di frontiere liquide e guerre a bassa intensità, al contrario della Siria, dove i brand jihadisti si sono combattuti apertamente:

Ascolta “Giochi di influenze nel Sahel” su Spreaker.

Oltre al passaggio di merci tra Africa subsahariana e Maghreb, quali risorse del territorio sono appetibili ora? Luca Raineri parla di Uranio – più che di petrolio i cui giacimenti maliani sono di scarso valore –, una manna per la voracità delle centrali nucleari francesi, ma meno per il Niger dopo il tracollo del prezzo dell’uranio a seguito del disastro di Fukushima, che ha imposto la ricerca di alternative. Per cui va studiata anche la trasformazione di quell’area dedita alla pastorizia e ora crogiolo e snodo degli interessi globali per quel che riguardano i traffici di armi (crocevia delle guerre in Mali e in Libia), droga e migranti (tra i principali affari dei tuareg, alternativamente impegnati nel contenimento dell’espansione dell’Isis e nella alleanza con lo stesso Daesh contro le forze antiterrorismo del Fc-G5s)

 

Ascolta “Quali interessi economici si intersecano nel crocevia di traffici del Sahel?” su Spreaker.

Forse assistiamo ora al ridimensionamento di quell’interventismo del Marocco a cui alludeva nel maggio 2018 Luca Raineri, che vedeva la monarchia alawide contrapporsi all’Iran, che da sempre cerca di fomentare disordini nell’area per destabilizzarla, eversione avversata dal Marocco. Peraltro più che i gruppetti eversivi stavano cominciando a diventare maggioritarie talune fazioni che mirano a imporre la shari’ia per via di una spinta democratica delle popolazioni.

Ascolta “Le frontiere liquide del Sahel” su Spreaker.

Interessante la ricostruzione della storia del jihad in Sahel e della situazione attuale dopo l’eliminazione a Talahandak dell’emiro algerino Abd al-Malik Droukdel (leader di Aqmi, basata sulla promozione di alleanze claniche) e il conseguente rafforzamento della componente saheliana del jihad qaidista e la definitiva africanizzazione del jihad in Sahel (e infatti si stanno ampliando gli attacchi etnici nel Mopti che contrappone dogon e fulani), che Lorenzo Forlani ha fornito a OGzero con questo Punctum.

 

 

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La presenza militare cinese in Africa orientale https://ogzero.org/la-tanzania-tra-risorse-naturali-e-interessi-cinesi/ Sun, 12 Apr 2020 12:21:28 +0000 http://ogzero.org/?p=130 Boots on the ground La guerra fredda è un lontano ricordo. Eppure Russia e Usa hanno ripreso le ostilità, e dove? In Africa. Mosca sta cercando di riprendersi una qualche centralità nel continente africano, favorita, anche, dalle mutate condizioni politiche. Crollato il muro di Berlino, infatti, su tutto il continente si sono scatenate numerose guerre […]

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Boots on the ground

La guerra fredda è un lontano ricordo. Eppure Russia e Usa hanno ripreso le ostilità, e dove? In Africa. Mosca sta cercando di riprendersi una qualche centralità nel continente africano, favorita, anche, dalle mutate condizioni politiche. Crollato il muro di Berlino, infatti, su tutto il continente si sono scatenate numerose guerre che non avevano più nessun legame con gli amici di un tempo – America e Unione Sovietica – ma, semplicemente, rappresentavano il tentativo di riposizionarsi e trovare nuovi amici attraverso l’accaparramento delle risorse naturali. Finito, non del tutto per la verità, quel periodo, ora è “guerra” commerciale, ma anche militare, di tutti contro tutti. L’Occidente ha deciso che è giunto il momento di arginare l’influenza cinese che, ormai, ha le mani su tutto il continente, nessun paese escluso. La Russia non ci sta e non vuole, certo, rimanere ai margini. Mosca sta in maniera sistematica espandendo la sua incidenza militare e strategica nel continente. E tutto ciò allarma, e non poco, le cancellerie occidentali. Gli Stati Uniti, dal canto loro, hanno ben marcato il territorio attraverso il comando Africom. Oltre ai 4000 militari di stanza a Gibuti, la missione americana, dispone di 34 siti militari, 14 basi principali e 20 postazioni secondarie a supporto della lotta al terrorismo. In tutto oltre 7000 militari. Le presenze più significative sono in Somalia, Niger, Kenya, Mali e Camerun. 

Tornare a essere protagonisti in Africa, significa anche rafforzare la presenza militare. Un obbligo dettato dal fatto che la Cina ha già messo gli “scarponi” sul terreno attraverso le missioni di peacekeeping. I caschi blu cinesi, tuttavia, dispiegati in Africa – circa 2500 – sono concentrati nelle aeree di particolare interesse per Pechino. Non è un caso che mille di questi siano in Sud Sudan dove la Cina ha investito molto nel petrolio e altri 400 in Mali.

Frag tratto da Mal d’Africa, di Raffaele Masto e Angelo Ferrari, postfazione di Marco Trovato, Torino, Rosenberg & Sellier, 2020, disponibile in libreria e su tutte le maggiori piattaforme online.

 

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