Netanyahu Archivi - OGzero https://ogzero.org/tag/netanyahu/ geopolitica etc Fri, 03 Jan 2025 00:18:40 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.4.6 Le missioni di Peacekeeping. 3: la guardia al bidone di Unifil in Sudovest asiatico https://ogzero.org/le-missioni-di-peacekeeping-3-la-guardia-al-bidone-di-unifil-in-sudovest-asiatico/ Thu, 02 Jan 2025 21:47:02 +0000 https://ogzero.org/?p=13568 Con questa terza puntata si conclude per ora lo studio di Fabiana Triburgo sulla giurisprudenza internazionale che regola le missioni dell’Onu e che esemplarmente sono state analizzate nelle due puntate precedenti in Congo (Monusco) e nei Balcani (Unmik). La missione oggetto di studio è una delle più citate negli ultimi tempi, ma l’intera  sua storia […]

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Con questa terza puntata si conclude per ora lo studio di Fabiana Triburgo sulla giurisprudenza internazionale che regola le missioni dell’Onu e che esemplarmente sono state analizzate nelle due puntate precedenti in Congo (Monusco) e nei Balcani (Unmik). La missione oggetto di studio è una delle più citate negli ultimi tempi, ma l’intera  sua storia è stata travagliata, perché finché la diplomazia internazionale era regolata dai principi scaturiti dall’equilibrio scaturito con la fine della Seconda guerra mondiale Unifil aveva posto un apparente argine al neocolonialismo ebraico.


Risoluzione 1701: La ventennale Blue Line dell’Unifil libanese

Mediante il medesimo meccanismo è stato istituito il Tribunale speciale per il Libano creato nel 2007 dalle Nazioni Unite con il governo libanese. L’accordo tuttavia non è stato ratificato dal parlamento libanese per cui l’attività del tribunale è stata imposta dal Consiglio di Sicurezza ex Capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite con Risoluzione n. 1757 del 30 maggio 2007. Anche in Libano, terreno nel quale ancora oggi si scontrano Israele ed Hezbollah, è schierata dal 2006 una forza di pace delle Nazioni Unite: l’Unifil (United Nation Interim Force in Lebanon) per quasi vent’anni era riuscita a evitare che tra i due opposti schieramenti si verificassero più gravi eventi che avrebbero potuto far degenerare la situazione. Tuttavia i recenti scontri tra Hezbollah (o “Partito di Dio”) e Israele hanno portato a far riflettere più stati – a livello internazionale – sulla necessità di ritirare i propri soldati dalla Missione. La missione Unifil in realtà è stata originariamente istituita nel 1978 (Risoluzione n. 425/426) per confermare il ritiro delle forze israeliane, ripristinare la pace internazionale e assicurare che il governo del Libano riprendesse l’effettivo esercizio della sua autorità territoriale nell’area. Successivamente, nel 1982, con la Risoluzione n. 501 la missione è stata implementata e potenziata al fine di garantire la protezione e l’assistenza umanitaria alla popolazione. Il 1982 infatti è l’anno della prima guerra israelo-libanese, iniziata mediante l’operazione “Pace in Galilea” condotta da Israele per sradicare dal Sud del Libano la presenza di palestinesi armati che ipotizzava si nascondessero tra i profughi proseguendo poi fino a Beirut, città nella quale aveva sede l’Olp (Organizzazione per la liberazione della Palestina). Con l’intervento sotto il patrocinio delle Nazioni Unite si è cercato quindi di evitare un’ulteriore escalation della guerra per cui si è agevolata la partenza da Beirut per Tunisi del presidente dell’Olp Arafat e dei suoi uomini, costringendo gli altri appartenenti alle forze armate palestinesi a riversarsi nelle città limitrofe. Nel 2000 con il ritiro delle forze israeliane, la missione Unifil – mantenendosi nuovamente sul ripristino della pace e della sicurezza internazionale – è divenuta una missione di monitoraggio e di osservazione. Così nello stesso anno è stata istituita dalle forze dell’Onu la Blue Line ossia la demarcazione del confine tra i due stati lunga circa 51 chilometri come limite del ritiro delle forze militari israeliane dal Sud del Libano. Nel 2004 con la Risoluzione n. 1559 il Consiglio di Sicurezza ha richiesto il rigoroso rispetto dell’integrità territoriale e dell’indipendenza del Libano chiedendo ufficialmente il completo ritiro delle forze militari israeliane dal paese nonché il disarmo di tutte le forze militari sul campo, libanesi e non. Il 2006 invece è l’anno del secondo conflitto israelo-libanese iniziato con l’offensiva di Hezbollah contro una pattuglia dell’esercito israeliano e proseguito con la violenta reazione di Israele che aveva lo scopo di neutralizzare l’intero apparato di Hezbollah. È in questo contesto che l’11 agosto del 2006 il Consiglio di Sicurezza dell’Onu è intervenuto con la Risoluzione n. 1701 che ha imposto l’immediata cessazione delle ostilità, il ritiro di Israele dal Sud del Libano, il supporto allo spiegamento delle forze libanesi in tutto il Libano meridionale, la garanzia dell’accesso umanitario alla popolazione civile, l’assicurazione del ritorno volontario e sicuro degli sfollati, nonché l’assistenza al governo libanese per impedire l’accesso irregolare di armi e per  proteggere i suoi confini. Infatti ancora oggi lo scopo della missione Unifil è quello di presidiare la cosiddetta “Blue Line”, ossia quella zona cuscinetto nella quale è consentito solo all’esercito libanese e ai peacekeepers dell’Onu di possedere armi ed equipaggiamento militare.

La Risoluzione n. 1701 è stata rinnovata ad agosto del 2024 con la quale il Consiglio di Sicurezza ha mantenuto per Unifil lo stesso mandato della Risoluzione del 2006 ma prolungandolo fino ad agosto 2025. Alla fine di settembre del 2024 tuttavia le Forze di difesa Israeliane (Idf) hanno ucciso un numero di persone equivalente a un mese di combattimenti nell’estate del 2006: tra la notte di domenica 22 settembre e martedì 24 settembre le vittime libanesi sono state oltre 550. L’obiettivo di Netanyahu è indebolire Hezbollah e il suo alleato iraniano per eliminare la minaccia dei razzi sul nord di Israele e quello di offrire a decine di migliaia di civili israeliani, sfollati da oltre un anno, di tornare alle proprie case. Non solo, Israele vuole costringere Hezbollah a ritirarsi dal fiume Litani a circa 40 chilometri dalla Blue Line che separa gli schieramenti militari in quanto non esiste ancora un confine internazionale riconosciuto tra il Libano e Israele. Il “Partito di Dio” dalla fine di ottobre del 2023, in seguito all’inizio della guerra israelo-palestinese, ha affermato di voler aderire al fronte anti-israeliano per accelerare la fine del progetto coloniale sionista aprendo il valico del Sud del Libano e dando sostegno a Hamas e ai palestinesi. Tuttavia, a partire dall’estate del 2024 lo stato israeliano perpetra l’assassinio di diversi capi di Hezbollah. In primo luogo, viene ucciso da Israele Fuad Situkr, alto comandante di Hezbollah e successivamente Hassan Nasrallah, storico leader alla guida di Hezbollah che ha visto il gruppo trasformarsi da una fazione di guerriglia alla forza politica più potente del Libano.
Netanyahu ha anche eliminato altri miliziani del partito facendo esplodere migliaia di “cerca persone” e “walkie talkie”, in loro dotazione, dando l’ordine di esecuzione mentre si trovava a New York presso il palazzo delle Nazioni Unite. Infine, il 30 settembre 2024 l’esercito israeliano è entrato direttamente in Libano con carri militari oltrepassando la Blue Line.

La forza Onu di mantenimento della pace ha ribadito che «qualsiasi attraversamento della linea blu viola la sovranità e l’integrità territoriale del Libano nonché la Risoluzione n. 1701 del 11 agosto 2006 dopo la guerra tra il Libano e Israele».

Da qui l’attacco israeliano contro le basi dell’Onu nel Sud del Libano, il 13 ottobre 2024. L’attacco è avvenuto dopo che nei giorni precedenti Israele ha chiesto alle truppe Unifil di spostarsi 5 km più a nord ma i soldati della missione hanno deciso di non muoversi. Con un comunicato ufficiale l’Unifil – rispetto all’attacco subito – ha dichiarato che un carro armato israeliano ha sparato contro una torretta di osservazione di una delle basi della missione più precisamente a Naqura, facendo cadere due operatori di pace di nazionalità indonesiana che sono stati ricoverati in ospedale. È stata inoltre ripetutamente colpita dalle forze militari israeliane la base principale della missione di pace sempre a Naqura.

Si ricorda che attualmente la missione Unifil – impiegata nel sud del Libano – conta oltre diecimila soldati provenienti da cinquanta paesi di cui sedici dell’Unione europea. Netanyahu ha affermato che l’Unifil deve evacuare il Sud del Libano poiché ritiene che i militari stiano fornendo «uno scudo umano ad Hezbollah». Nel novembre del 2024 c’è stato un secondo attacco alla missione con tre distinte operazioni militari mediante razzi (la prima verso il quartier generale dell’Unifil a Shama, la seconda colpendo una base della missione a Ramyet e l’ultima verso una pattuglia Unifil nei pressi del villaggio Kharbat Silim). Dopo il terzo attacco contro l’Unifil mediante il lancio di due razzi contro la “base UNP2-3” di Shama, nelle prime ore del 22 novembre 2024, l’Unifil ha dichiarato che gli ultimi due attacchi alla missione «sono avvenuti per opera di attori non statali presenti sul territorio libanese». Tuttavia si ricorda che la Missione non ha capacità sovrana, Hezbollah non ha interesse a collaborare con le Forze Onu e Israele non ha fiducia che questa possa assicurare la liberazione dal Libano meridionale dalla presenza di Hezbollah. In tale ottica solo il Consiglio di Sicurezza – che tuttavia, come noto, ha posizioni contrastanti al suo interno rispetto a tale conflitto – può dissuadere lo Stato ebraico dall’intensificare i suoi attacchi contro Unifil.

Per ora la comunità internazionale si accontenta dell’accordo del cessate il fuoco raggiunto alla fine di novembre 2024 tra i miliziani di Hamas e il governo israeliano ma emerge tutta l’impotenza dell’impianto Onu a fronteggiare effettivamente le guerre internazionali per cui quella Carta redatta all’indomani della Seconda guerra mondiale, più che un coercitivo impedimento affinché la pace e la sicurezza internazionale non vengano mai violate, sembra essere un nostalgico ricordo scritto di intenti e di speranze spesso smentito dalla realtà dei fatti.

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n. 3 – Due Corti internazionali a confronto: il conflitto israelo-palestinese https://ogzero.org/corti-internazionali-a-confronto-il-conflitto-israelo-palestinese/ Sun, 23 Jun 2024 12:42:06 +0000 https://ogzero.org/?p=12735 Prosegue l’analisi di Fabiana Triburgo con approccio giuridico gli organismi sovrastatali come l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Questo saggio in particolare si concentra sulla Corte internazionali di giustizia e sulla Corte penale internazionale, due entità autonome e che seguono tipi diversi di istruttorie e possono emanare provvedimenti differenti. Vediamo il caso del conflitto israelo-palestinese. L’immobilismo […]

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Prosegue l’analisi di Fabiana Triburgo con approccio giuridico gli organismi sovrastatali come l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Questo saggio in particolare si concentra sulla Corte internazionali di giustizia e sulla Corte penale internazionale, due entità autonome e che seguono tipi diversi di istruttorie e possono emanare provvedimenti differenti. Vediamo il caso del conflitto israelo-palestinese.


L’immobilismo del processo decisionale determinatosi per diversi mesi all’interno del Consiglio di Sicurezza, in ragione del diritto di veto, relativamente all’ipotesi di una tregua o del passaggio degli aiuti umanitari nel conflitto israelo-palestinese è stato scosso dalla forza propulsiva delle risultanze giurisdizionali legate a due corti internazionali in particolare la Corte internazionale di giustizia e la Corte penale internazionale, più nello specifico l’ufficio del procuratore generale (Office of the Prosecutor, cosiddetto OTP), entrambe aventi sede all’Aja nei Paesi Bassi.

Ruoli e funzioni

Questo attivismo così precipuo nei provvedimenti emanati da entrambi nel 2024 – a seguito di due diversi tipi di istruttoria – consentono di delineare meglio le funzioni e i ruoli dell’una e dell’altra Corte nell’alveo delle dinamiche internazionali, pur essendo doveroso anticipare fin da subito che – in considerazione della base volontaristica che caratterizza l’adesione degli stati al diritto internazionale – spesso i provvedimenti delle medesime, pur essendo vincolanti secondo le norme del diritto internazionale, non producono conseguenze giuridiche effettive nei confronti dei soggetti verso i quali vengono emanate ma assumono piuttosto una valenza di natura politica. Ad ogni modo nel corso degli anni – si rammenta che la data di costituzione della Corte di giustizia internazionale è il 1945 mentre la Corte penale internazionale è stata istituita nel 1998 oltre 50 anni dopo – si sono potenziati meccanismi legati alle consuetudini internazionali e alla cooperazione degli stati aderenti ai trattati, per ovviare, sia pure parzialmente, alla mancanza di efficacia sul piano della realtà delle decisioni di tali Corti così diverse tra loro da poter operare contemporaneamente rispetto alla medesima situazione internazionale come sta avvenendo nel conflitto scoppiato da oltre otto mesi nella striscia di Gaza.

Rispetto al confitto israelo-palestinese, più precisamente per gli eventi avvenuti in seguito all’attacco di Hamas il 7 ottobre 2023, la Corte di giustizia internazionale è stata adita mediante ricorso d’urgenza presentato dal Sudafrica nel quale si dichiarava che la guerra condotta dall’esercito israeliano nella striscia di Gaza fosse qualificabile come un atto di genocidio contro il popolo palestinese e che quindi Israele avesse violato la Convenzione sul genocidio del 1948. A tal proposito, come vedremo più avanti nel dettaglio, la Corte di giustizia internazionale si è pronunciata con l’applicazione di misure cautelari nei confronti dello Stato di Israele. Rispetto ai medesimi avvenimenti, l’azione di impulso della Corte penale internazionale è invece avvenuta motu proprio da parte del procuratore generale presso la corte Karimi Khan, secondo una delle ipotesi previste dallo Statuto di Roma del 1998 ed entrato in vigore il primo luglio 2002. Il procuratore, svolgendo attività di indagine nello Stato di Israele e in Cisgiordania, ha concluso emettendo un mandato di arresto per crimini di guerra e contro l’umanità nei confronti di tre esponenti di Hamas ossia Yahya Sinwar, capo del movimento di resistenza islamica Hamas nella Striscia di Gaza, Mohammed Diab Ibrahim al-Masri, comandante in capo all’ala militare di Hamas, ossia delle cosiddette Brigate Al-Qassam e Ismail Haniyeh, capo dell’ufficio politico di Hamas, ma nello stesso tempo nei confronti del premier israeliano Benjamin Netanyahu e del ministro israeliano della Difesa attualmente in carica, Yoav Gallant.

Due Corti, due teste

La diversità della tipologia e delle conseguenze dei provvedimenti adottati dalla Corte di giustizia internazionale e dal procuratore generale presso la Corte penale è dovuta alle differenze ontologiche dei due organismi internazionali e delle loro diverse funzioni. La Corte internazionale di giustizia infatti è il principale organo giurisdizionale delle Nazioni Unite e il suo statuto è parte integrante della Carta delle Nazioni Unite. Essa ha come scopo principale – oltre alla funzione consultiva esercitata a favore dell’Assemblea Generale, del Consiglio di Sicurezza e delle Agenzie delle Nazioni Unite – quello di risolvere le controversie tra gli stati applicando il diritto internazionale o “secondo equità”, qualora le parti ossia gli stati lo richiedano espressamente. Si rammenta che i 17 giudici che la compongono, ognuno di diversa nazionalità in carica per 9 anni e rieleggibili nominati dall’Assemblea Generale e dal Consiglio di Sicurezza, non sono rappresentanti delle posizioni politiche dei diversi stati dei quali sono cittadini e le decisioni vengono assunte con la maggioranza dei voti dei giudici presenti. Premesso ciò, rispetto al ricorso d’urgenza presentato dal Sudafrica contro Israele, la Corte di giustizia con Ordinanza 192 del 26 gennaio 2024 non ha chiaramente deciso nel merito degli accadimenti verificatisi dal 7 ottobre 2023 – decisione che potrebbe richiedere anni per la sua emanazione – ma ha emesso misure cautelari nei confronti dello Stato di Israele chiedendogli al contempo di fare tutto il possibile per prevenire atti genocidari nella striscia di Gaza e di consentire l’accesso agli aiuti umanitari.

L’ipotesi di genocidio: la Corte di giustizia definisce le vittime

Se con tale decisione la Corte di giustizia internazionale non ha dato seguito alla richiesta del Sudafrica di interrompere i combattimenti, imponendo il cessate il fuoco, ha tuttavia implicitamente riconosciuto, decidendo per l’applicazione delle misure cautelari, il cosiddetto fumus boni iuris – ovverossia l’ipotesi di genocidio – rispetto alle azioni compiute da Israele, avendo oltretutto sostenuto che i palestinesi sembrano costituire «gruppo nazionale etnico razziale o religioso» richiamando in tal modo proprio l’esatta dizione mediante la quale, nell’art. 2 della Convenzione sul genocidio del 1948, vengono individuati i destinatari di tale delitto. La Corte di giustizia infatti può adottare in base all’art. 41 del suo statuto nei confronti di uno stato provvedimenti cautelari qualora ritenga che vi sia: il rischio di un pregiudizio irreparabile rispetto ai diritti oggetto del procedimento giurisdizionale, nell’ipotesi in cui la violazione di questi diritti potrebbe comportare conseguenze irreparabili o ancora nei casi di urgenza, ossia qualora ricorra un rischio reale e imminente che sia arrecato un pregiudizio irreparabile a tali diritti prima della decisione definitiva della Corte.

Nello specifico la Corte internazionale di giustizia ha emesso alcune misure cautelari nei confronti di Israele. In primo luogo, la Corte ha ordinato a Israele che il suo esercito non violi la Convenzione sul genocidio – ratificata sia dal Sudafrica che da Israele – evitando l’uccisione dei civili palestinesi nonché di causare loro danni fisici e morali; la Corte ha poi statuito che Israele dovrà punire i cittadini israeliani che pongono in essere atti vietati ai sensi della Convenzione sul genocidio, consentire l’ingresso degli aiuti umanitari sulla striscia di Gaza senza alcuna limitazione, impedire la distruzione di prove utilizzabili nel corso del giudizio di merito sul genocidio e dovrà anche presentarsi davanti alla medesima dopo un mese per dimostrare che tutte le succitate misure cautelari siano state effettivamente adottate.

Vale la pena dunque soffermarsi sul delitto che secondo il Sudafrica sarebbe stato compiuto da Israele nei confronti del popolo palestinese ossia il genocidio che può essere realizzato sia in tempo di guerra che in tempo di pace.

Come già detto la commissione di condotte riconducibili al succitato crimine sono vietate da una specifica Convenzione del 1948 non solo ai fini della repressione ma anche della prevenzione di atti di natura genocidaria. Inoltre, il genocidio come ogni reato è composto sia dall’elemento cosiddetto oggettivo, ossia gli atti compiuti materialmente dagli autori del reato, che dall’elemento soggettivo – in questo caso dolo specifico – ossia la condizione mentale dei medesimi autori del reato atta a sorreggere quei comportamenti vietati dall’ordinamento internazionale. Integrano a tal fine atti di genocidio nei confronti delle vittime di tale delitto le seguenti condotte: le uccisioni, le gravi lesioni dell’integrità fisica e di quella mentale, la sottoposizione a condizioni di vita insostenibili, l’impedimento alle nascite e il trasferimento forzato dei minori. Va altresì precisato che anche i comportamenti definibili quali complicità, concorso, istigazione o incitamento pubblico alla commissione di condotte genocidarie sono punibili ai sensi della Convenzione. Per quanto riguarda invece l’elemento soggettivo del reato è necessario (ai sensi della Convenzione) che l’autore / gli autori – in questo caso lo stato o gli stati – abbiano posto in essere gli atti genocidari «al fine di distruggere in tutto o in parte un gruppo nazionale etnico, razziale o religioso», gruppo che, come già anticipato in precedenza, può essere agevolmente considerato quello del popolo palestinese presente sulla Striscia di Gaza con circa oltre 2 milioni di abitanti.

Corti internazionali

Il riconoscimento di un singolo stato può minare i provvedimenti

Tuttavia, se da una parte è vero che tutti gli stati facenti parte dell’Organizzazione delle Nazioni Unite sono obbligati a conformarsi al contenuto dei provvedimenti emessi dalla Corte di giustizia, dall’altra ciò che è fondamentale sottolineare è che tale assunto è comunque subordinato al fatto che il singolo stato, facente parte della controversia dinanzi alla Corte, abbia accettato la giurisdizione della medesima mentre Israele non l’ha fatto, così come d’altronde gli Stati Uniti, la Russia e la Cina. Questa posizione mina evidentemente la reale efficacia giuridica di un provvedimento della Corte di giustizia verso Israele o verso qualsiasi altro stato che non abbia accettato la sua giurisdizione tenuto conto che – come vedremo anche per la Corte penale internazionale – non vi è un organo in seno alle Nazioni Unite che sia in grado di far applicare i provvedimenti delle Corti internazionali in modo coercitivo. Ciò si ricollega indirettamente anche alla consuetudine internazionale delle missioni di peacekeeping ed è strettamente collegato al fatto che le disposizioni di cui agli artt. 43 e seguenti della Carta delle Nazioni Unite che prevedono un organo di “polizia internazionale” non hanno mai trovato applicazione. Secondo gli artt. 43, 44, 45, gli stati membri avrebbero dovuto stipulare con il Consiglio di Sicurezza il numero, il grado di preparazione e la dislocazione delle forze armate da impiegare nell’alveo di tale organo di polizia internazionale mediante vari contingenti nazionali facenti capo a un Comitato di Stato Maggiore, sottoposto all’autorità del Consiglio di Sicurezza.

Quali differenze tra le Corti internazionali?

Prima di soffermarci sul contenuto del mandato di arresto emesso dal procuratore generale presso la Corte penale internazionale il 20 maggio 2024 occorre specificare le differenze di tale Corte – oltre a quelle temporali relative all’anno della sua istituzione mediante lo Statuto di Roma del 1998 – rispetto alla Corte di giustizia internazionale.

“Sterminio di Gaza: violazione di norme di consuetudine internazionale”.

La Corte penale internazionale non è infatti un organo giurisdizionale delle Nazioni Unite e non persegue gli stati per le violazioni delle norme di diritto internazionale bensì i singoli individui per alcune fattispecie di reati rilevanti ai sensi del diritto penale internazionale, più nello specifico il genocidio, i crimini di guerra, i crimini contro l’umanità e i crimini contro la pace e di aggressione.

Tale distinzione comporta delle conseguenze non trascurabili in quanto come visto

la Corte di giustizia internazionale ha invece come destinatari gli stati che, in quanto enti collettivi qualificabili come persone giuridiche, non possono – qualora vengano condannati per violazione delle norme internazionali – commettere crimini penalmente sanzionabili e quindi le pene a essi comminate, mediante i provvedimenti giurisdizionali, non potranno mai essere quelle previste comunemente negli ordinamenti penali ma avranno tutt’altro tipo di contenuto

come per esempio l’embargo o la rottura dei rapporti diplomatici con gli altri stati delle Nazioni Unite. D’altro canto, va altresì precisato che la competenza giurisdizionale della Corte penale internazionale – così come definita dagli artt. 17 e 18 dello Statuto di Roma – è sussidiaria o meglio complementare rispetto a quella degli stati.

Essa quindi sussiste solo nell’ipotesi in cui gli stati non vogliano o non possano punire le quattro fattispecie dei crimini internazionali di cui sopra e può essere attivata solo mediante le tre modalità previste dallo Statuto di Roma, ossia su iniziativa spontanea del procuratore generale presso la Corte penale, come nel conflitto israelo-palestinese, o mediante richiesta di uno degli stati membri della Corte (a oggi sono 123) oppure ancora su richiesta del Consiglio di sicurezza ma solo riguardo questioni che attengano alla violazione o alla minaccia della pace o ipotesi di aggressione che il Consiglio di sicurezza ritenga non siano di propria competenza. Inoltre, è necessario precisare che l’art. 12 dello Statuto di Roma stabilisce che la Corte penale internazionale – come si è visto per la Corte internazionale di giustizia – è competente soltanto nell’ipotesi in cui la sua giurisdizione sia riconosciuta dallo stato interessato dai suoi provvedimenti.

Tale disposizione di legge nel caso del conflitto israelo-palestinese è particolarmente rilevante perché, se da un lato Israele – così come gli Stati Uniti e la Russia – è tra gli stati firmatari, ma non ha ratificato lo Statuto di Roma per cui formalmente non ha riconosciuto la giurisdizione della Corte, nel caso della Palestina non si può giungere alla stessa conclusione. Infatti, già nel 2015 la Palestina ha richiesto di essere riconosciuta stato parte della Corte penale internazionale in conseguenza degli accadimenti avvenuti a opera di Israele nel giugno del 2014. Non è insolito infatti che gli stati che non percepiscano alcuna tutela da un organo giurisdizionale interno per condotte penalmente rilevanti – come diversi stati africani – sperino di ottenerla mediante l’adesione alla Corte penale internazionale.

Nel 2021 dunque a fronte di tale richiesta la Camera preliminare ha deciso che la Palestina debba essere riconosciuta a tutti gli effetti uno stato ai fini della giurisdizione della Corte penale internazionale e che essa è pienamente esercitabile rispetto ai territori occupati da Israele nel 1967 ossia la Striscia di Gaza, la Cisgiordania e Gerusalemme Est.

corti internazionali

146 stati (e lo Stato Città del Vaticano) appartenenti all’Onu su 193 riconoscono lo Stato di Palestina.

Nel mandato di arresto del 20 maggio del 2024 il procuratore generale presso la Corte penale internazionale – in seguito alle attività di indagine svolte – ha ritenuto che sia i tre esponenti di Hamas sopraccitati che il primo ministro israeliano Netanyahu e il ministro della Difesa dello Stato di Israele sono responsabili della commissione di crimini di guerra e di crimini contro l’umanità, ragione per la quale, ancor prima di analizzare il contenuto del provvedimento del procuratore occorre chiarire quali siano le fattispecie che vanno a integrare i suddetti crimini, perseguibili penalmente a livello internazionale.

Cosa sono i crimini di guerra?

Con crimini di guerra si fa riferimento alla violazione di quell’insieme di norme che disciplinano le condotte di quanti combattono nel corso delle ostilità. Tuttavia se è vero che non ogni violazione del cosiddetto Diritto bellico integri necessariamente un crimine internazionale, d’altro canto è vero che anche durante i conflitti armati debbano essere rispettate delle regole minime di civiltà non solo nei confronti della popolazione civile dello stato contro il quale si combatte ma anche rispetto ai prigionieri “dell’esercito nemico” che, non essendo più nella condizione di combattere, devono essere comunque rispettati nella loro condizione di esseri umani da cui discende come corollario il divieto assoluto di essere destinatari di qualsiasi forma ulteriore di violenza bellica, in esito alla loro cattura. Chiarito dunque quali sono i destinatari dei crimini di guerra occorre aggiungere che – così come per il genocidio – anche per i crimini di guerra è presente un complesso di norme internazionali scritte – più specificamente le quattro Convenzioni internazionali di Ginevra del 1949 – che indicano le fattispecie qualificabili come crimini di guerra. Come stabilito da tutte le quattro le Convenzioni di Ginevra del 1949 – trattandosi anche in questo caso di un reato – costituiscono l’elemento oggettivo del suddetto crimine le condotte di omicidio, di stupro, di tortura, la presa di ostaggi, la violazione della dignità personale e i trattamenti inumani e degradanti, ma solo se compiuti nel corso di un conflitto armato o comunque compiuti in ragione dello stesso ovverossia essi devono essere qualificabili come una forma di partecipazione al conflitto. Per quanto attiene all’elemento soggettivo del reato invece in questo caso non è richiesto il dolo specifico come nel caso del genocidio ma l’intenzione di reggere la condotta così come sopra delineata dal punto di vista fattuale.

Si ricorda inoltre che i crimini di guerra sanzionabili secondo le quattro Convenzioni di Ginevra del 1949 erano soltanto quelli internazionali, ossia tra due o più stati, mentre con lo Statuto di Roma del 1998 si sono fatti rientrare nel novero di tali crimini anche quelli compiuti nei conflitti civili ossia tra fazioni diverse ma appartenenti al medesimo stato.

Non un’unica definizione

Più nello specifico con riferimento alla competenza della Corte penale internazionale i crimini di guerra vengono definiti dall’art. 8 dello Statuto di Roma. Diversa analisi è quella che deve essere dedicata alla nozione dei crimini contro l’umanità disciplinati invece dall’art 7 dello statuto della Corte penale internazionale – ma rispetto ai quali non c’è una Convenzione internazionale di riferimento. I crimini contro l’umanità sono una tipologia di crimini che vennero delineati, dal punto di vista storico, mediante l’attività del Tribunale di Norimberga nel corso dell’accertamento dei crimini del regime nazista nel periodo antecedente la Seconda guerra mondiale nei confronti dei cittadini tedeschi come destinatari di condotte criminose, i quali – non essendoci un conflitto in corso – non potevano rientrare chiaramente nel novero dei prigionieri o dei civili dello stato nemico come nel caso dei crimini di guerra.

Ci troviamo sempre, ad ogni modo, dinanzi a reati di rilievo internazionale per cui come è stato individuato per altri crimini penalmente sanzionabili, occorre comprendere l’elemento oggettivo del reato ossia la condotta del “reo” e il suo elemento soggettivo.

Quando il contesto conta

Per quanto attiene al primo aspetto va preliminarmente chiarito – anche in funzione della comprensione del contenuto del mandato di arresto internazionale del procuratore Karimi Khan – che le condotte riconducibili a crimini contro l’umanità possono essere compiute tanto in tempo di guerra quanto in tempo di pace. Esse sono l’omicidio, la tortura, lo stupro, la violenza, la riduzione in schiavitù, e altri atti penalmente rilevanti ma considerati leciti dall’esecutivo al potere in un dato momento storico. Tuttavia, tali condotte vengono qualificate come crimini contro l’umanità solo se compiute nel corso di un attacco sistemico e massiccio, ragione per la quale non possono essere configurati crimini contro l’umanità atti isolati bensì soltanto gli atti che rispondono a una puntuale politica di governo, tollerata dalle autorità nazionali. Inoltre, per quanto riguarda l’elemento soggettivo del reato, anche nel caso dei crimini contro l’umanità ricorre la necessità di un dolo specifico – come si è visto per il genocidio – ossia non solo l’intenzione di porre in essere le condotte di cui sopra ma anche la consapevolezza che quanto si sta compiendo costituisca una violazione generalizzata dei diritti umani. Nel mandato di arresto del procuratore generale più nello specifico si ritengono responsabili – mediante diversi capi di accusa – gli esponenti di Hamas Yahya Sinwar, Mohammed Ibrahim al- Masri, e Ismail Haniyeh, tanto della commissione di crimini di guerra che di crimini contro l’umanità.

Corti internazionali

Quali crimini?

Con riferimento ai soli crimini di guerra (in conformità al succitato art. 8 dello Statuto di Roma) vengono annoverati nel mandato di arresto la presa in ostaggio, i trattamenti crudeli e gli oltraggi alla dignità personale perpetrati nel corso della prigionia mentre come crimini contro l’umanità – in base all’art. 7 – vengono indicati lo sterminio, l’omicidio, e altri atti disumani e degradanti anche se nel contesto della prigionia. Ricondotti ad entrambi i crimini invece sono la tortura, lo stupro e gli altri atti di violenza sessuale. Nel mandato di arresto, rispetto a tali fattispecie rilevanti penalmente a livello internazionale, viene specificato che i crimini di guerra sono stati compiuti nel corso di un conflitto armato qualificato al contempo come internazionale e non internazionale tra Israele e Hamas mentre i crimini contro l’umanità nel corso di un attacco diffuso e sistematico contro la popolazione civile di Israele, compiuto da parte di Hamas e di altri gruppi armati in conformità all’organizzazione del Movimento.

Tale contesto è il medesimo all’interno del quale il procuratore generale Karimi Khan ha ritenuto destinatari del mandato di arresto internazionale anche il Primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e il ministro della difesa Yoav Gallant in quanto responsabili penalmente, come i tre esponenti di Hamas, di crimini di guerra e contro l’umanità.

Più nello specifico vengono ascritti quali crimini di guerra dei due ministri israeliani: la fame dei civili e l’aver arrecato intenzionalmente grandi sofferenze, gravi lesioni al corpo o alla salute o trattamenti crudeli, nonché gli omicidi e di dirigere intenzionalmente gli attacchi contro la popolazione civile. Il primo ministro e il ministro della Difesa israeliano vengono inoltre ritenuti responsabili di aver provocato sterminio e omicidio anche nel contesto di morti per fame, la persecuzione e altri atti disumani e degradanti ossia crimini contro l’umanità. Tuttavia, poiché diverse delle condotte delle quali sono ritenuti responsabili Netanyahu e Gallant come crimini contro l’umanità sono le medesime idonee a integrare dal punto di vista oggettivo il crimine di genocidio non può passare inosservata in tale ricostruzione dei fatti l’affermazione del procuratore generale Khan mediante la quale si specifica che

«Israele ha intenzionalmente privato la popolazione civile in tutte le parti del territorio di Gaza di oggetti indispensabili alla sopravvivenza umana», ossia con dolo quale elemento soggettivo del reato.

L’integrale perfezionamento del crimine di genocidio – già sollevato dinanzi alla Corte di giustizia che ancora, ricordiamo non si è espressa con un provvedimento definitivo in esito a un giudizio nel merito, nel caso del mandato di arresto del procuratore generale presso la Corte penale internazionale difetta nell’accertamento unicamente della specificità del dolo ossia di quella «volontà di distruggere in tutto o in parte» i palestinesi che tuttavia si ricorda sono già stati considerati riconducibili alla nozione di «gruppo nazionale, etnico, razziale e religioso», unici destinatari di tale crimine secondo la Convenzione di Ginevra. Sulla valutazione dell’esistenza del dolo specifico potrebbero certamente pesare le dichiarazioni del ministro della difesa rilasciate il 9 ottobre del 2023.

Si vedrà solo con il passare degli anni se le due Corti addiverranno nel giudizio di merito a un’univoca ricostruzione dei fatti corroborata o meno dall’individuazione dell’integrazione del o dei medesimi crimini internazionali, sperando che l’attesa non sia ancora inondata di sangue versato da innocenti e che se giustizia non vi può essere perché l’efficacia del sistema di giustizia internazionale non è effettiva che quanto meno si dia una risposta politica così inequivocabile da tracciare non più confini ma filamenti di una maglia di integrazione così estesa e fitta da coprire – seppur con vivida memoria – gli orrori del passato e del presente.


In quanto a risposta inequivocabile a un mese circa dalla pubblicazione di questo articolo la Corte  internazionale di Giustizia dell’Aja ha dato un responso su cui le persone di buonsenso e qualsiasi approccio onesto in punta di Diritto internazionale non possono che concordare da 57 anni a questa parte: Israele ha saccheggiato territori non suoi, imposto un regime di apartheid su popolazioni che non dovrebbero dipendere dallo Stato ebraico, ha vessato, torturato, incarcerato, commesso crimini di guerra e perpetrato massacri, anche favorendo epidemie ed esecuzioni sommarie. Deve smantellare ogni colonia e ritirare le truppe di occupazione da Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme, rientrando nei suoi confini riconosciuti: quelli del 1967 antecedenti la Guerra dei sei giorni. Il fatto che 50.000 palestinesi siano stati uccisi nell’indifferenza generale, i feriti siano nell’ordine di centinaia di migliaia, Gaza distrutta, si continui a impedire la consegna di aiuti umanitari, medicinali salvavita, si diffonda scientemente la poliomielite è solo la dimostrazione che il Diritto internazionale è solo quello del più forte. Anche se – e proprio perché – le indicazioni della Corte comportano un obbligo preciso di boicottaggio, disinvestimento e sanzioni contro il paese incriminato, questo assunto – che dovrebbe portare alla soluzione definitiva della questione israelo-palestinese e alla fine dell’arroganza di Tel Aviv – è dimostrato come mera utopia dall’ultima sentenza della Corte internazionale di Giustizia che nel 2003 aveva condannato Israele per l’illegalità del Muro di separazione eretto unilateralmente, derubando tra l’altro i bantustan palestinesi dell’accesso all’acqua.

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L’equilibrista di Ankara sul filo del conflitto mediorientale https://ogzero.org/lequilibrista-di-ankara-sul-filo-del-conflitto-mediorientale/ Thu, 25 Apr 2024 20:18:45 +0000 https://ogzero.org/?p=12587 Le mosse strategiche nella regione Mena sono diventate più frenetiche dagli Accordi di Abramo in poi, fino alla reazione di Hamas del 7 ottobre, apparentemente avventata ma mirata a legittimarsi come movimento e contrastare l’accelerazione del governo Netanyahu volta a cancellare la presenza palestinese nella regione. I sei mesi di pantano genocida non sono stati […]

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Le mosse strategiche nella regione Mena sono diventate più frenetiche dagli Accordi di Abramo in poi, fino alla reazione di Hamas del 7 ottobre, apparentemente avventata ma mirata a legittimarsi come movimento e contrastare l’accelerazione del governo Netanyahu volta a cancellare la presenza palestinese nella regione. I sei mesi di pantano genocida non sono stati risolutivi per lo Stato ebraico e così si assiste al particolare dinamismo da parte di molti attori locali, in particolare di Erdoğan.
La diplomazia turca e il presidente stesso hanno intrapreso un tourbillon di incontri presso i vertici degli stati che compongono la regione mediorientale, proponendosi come mediatore, cercando di raccogliere il testimone lasciato cadere dal Qatar, logorato dal boicottaggio israeliano. Ma soprattutto Erdoğan ha individuato nel conflitto che si vuole estendere dal confronto tra Stato ebraico e Repubblica islamica la nuova centralità dell’Iraq, controllato da Teheran attraverso una ragnatela di accordi con la complessità delle formazioni e delle comunità che abitano il territorio iracheno; insinuandosi nei contrasti interni, il presidente turco mira al petrolio di Erbil e a cacciare il Pkk dai monti del Kurdistan iracheno… Murat Cinar dispiega la sottile tela che si va tessendo, in particolare ricostruendo il ruolo turco e l’avvicinamento di Hamas (evidentemente più rassicurato dall’abbraccio di Ankara – contemporaneamente paese Nato e rivale di Israele – che non dalle petrocrazie arabe) sia nella complessa carneficina della guerra ormai esportata nel resto dei paesi all’interno dei quali le presenze filoiraniane dettano la politica, sia nella strategia per inserirsi nel controllo del territorio e dell’energia irachena, comprandosi Baghdad ed Erbil. E di nuovo, come spesso ci ha raccontato Cinar, spuntano gli oleodotti di Barzani [a proposito: l’immagine in copertina è la fortezza di Erbil pavesata a festa per l’arrivo del presidente turco]  e le dighe su Tigri ed Eufrate, le acque del Medioriente…


Erdoğan è vicino a tutti

 

“Da oltre cento anni, le acque nel Medioriente non trovano pace”, questo è un dato certo. Tuttavia, proprio nelle ultime settimane, siamo testimoni di un fenomeno straordinario. Un fenomeno che coinvolge diversi attori, ma tra essi uno spicca particolarmente: la Turchia.

Dal 7 ottobre fino a oggi, le relazioni tra il partito al governo in Turchia, l’Akp, e l’organizzazione armata Hamas, sono diventate una questione internazionale, chiara e trasparente. L’esponente più autorevole dello stato turco e del partito al potere da oltre vent’anni, ovvero il presidente della Repubblica, dopo alcune settimane di silenzio dal 7 ottobre, ha deciso di comunicare la sua posizione: «Hamas è un’organizzazione di patrioti, non un’organizzazione terroristica». Così, dopo l’Iran, la Turchia è diventata il secondo paese al mondo a esprimere un avvicinamento così netto a Hamas.


Una posizione che entra in contraddizione con i partner europei, con gli alleati Nato, nonché con la Lega Araba e l’Organizzazione della Cooperazione Islamica. In fondo, non si tratta di una novità assoluta. La linea politica ed economica rappresentata dall’Akp è sempre stata vicina ai movimenti fondamentalisti come i Fratelli Musulmani e a una serie di formazioni armate religiose nel Medio Oriente. Inoltre Hamas ha sempre trovato accoglienza, sostegno e riconoscimento presso l’Akp e sotto l’ala protettiva del presidente della Repubblica di Turchia. Tuttavia, questa esposizione così netta, in pieno conflitto, non ha provocato reazioni, sanzioni o embarghi da parte dell’UE e/o della Nato. Poche settimane dopo, nel mese di dicembre, il mondo ha appreso, grazie alle inchieste giornalistiche di Metin Cihan, che persino per Israele non costituiva un grande problema, poiché Tel Aviv continuava a fare acquisti presso aziende turche, incluse quelle statali.

Affannosamente al centro di ogni possibile accordo

Nel mentre Ankara ha tentato diverse volte di assumere il ruolo di “mediatore”, anche se finora senza successo; tuttavia, oggi sembra che questi sforzi stiano finalmente portando dei risultati. Il ministro degli Esteri turco, Hakan Fidan, ha incontrato in Qatar il leader politico di Hamas, Ismail Haniyeh, proprio quando Doha stava per abbandonare il suo ruolo di mediatore. Infatti il primo ministro del Qatar, Sheikh Mohammed bin Abdulrahman bin Jassim Al Thani, il 16 aprile aveva comunicato a Fidan che il suo governo stava per rinunciare. Tuttavia il tentativo del Ministro turco sembra poter ottenere dei risultati positivi. Le dichiarazioni di Fidan ci offrono spunti di riflessione su una serie di scenari:

«Come ho costantemente riferito ai nostri alleati occidentali, Hamas è a favore di uno stato palestinese basato sui confini del 1967 e, una volta creato, è disposto a rinunciare alle armi e a intraprendere la via della politica parlamentare», ha affermato Fidan. Tale dichiarazione prevede anche il riconoscimento di Israele da parte di Hamas, la possibilità di porre fine al conflitto armato, il rilascio degli ostaggi e lo scambio di detenuti politici. Si tratterebbe dell’inizio di una nuova era: «Questo segna il cammino verso la creazione di uno stato palestinese», ha concluso Fidan.

Quando e perché viene fuori una dichiarazione del genere?

Potrà una comunità fondarsi su un altro genocidio come quello di Gaza senza essere una caserma come lo Stato ebraico… o la Repubblica turca?

Senza dubbio il massacro a Gaza ha esaurito innanzitutto i principali protagonisti. Ci troviamo di fronte a un governo sionista, rappresentato da Benjamin Netanyahu, che sta perdendo sempre più il sostegno interno. Da mesi ormai, le strade di Israele sono attraversate da manifestazioni che chiedono le dimissioni di Bibi. In realtà, non è una novità, considerando che nel 2023 Israele aveva già vissuto un lungo periodo di proteste contro il governo per le sue proposte di cambiamento radicale del sistema giudiziario. Oggi Netanyahu è impegnato in una guerra che non sta producendo risultati. Gli ostaggi sono ancora in mano a Hamas, molti sono morti (anche a causa dell’esercito israeliano), e il governo israeliano continua a perdere sostegno a livello internazionale. Le critiche severe che giungono da Washington non sono sporadiche, soprattutto attraverso il più importante esponente politico degli Stati Uniti, ovvero Biden, che tra pochi mesi dovrà affrontare delle elezioni cruciali, dove la situazione israeliana avrà sicuramente un ruolo di rilievo.

Sintonie politico-militari tra leader nazionalisti-identitari

Quindi l’avvicinamento di Ankara a Hamas e il tentativo di portarla eventualmente al tavolo dei negoziati, ottenendo il riconoscimento dello Stato di Israele, la creazione di uno stato palestinese indipendente e il rilascio degli ostaggi, sicuramente portano all’Akp un notevole vantaggio politico. Biden si libera dalla pressione politica e mediatica avvicinandosi alle elezioni, mentre Ankara appare come un mediatore con un canale privilegiato verso un gruppo armato che ha legami diretti solo con l’Iran, attualmente molto isolato.
Infatti, proprio in questi giorni il presidente della Repubblica di Turchia ha paragonato Hamas alla formazione armata che ha fondato la Turchia, la Kuva-i Milliye (anche se con profili ideologici decisamente diversi). Lo stesso parallelo era stato tracciato dallo stesso presidente per l’Esercito Libero Siriano nel 2018, un gruppo di jihadisti che aveva supportato le forze armate turche nelle loro operazioni in Siria. Oggi Erdoğan sembra cercare di presentarsi nuovamente come l’unico intermediario per le organizzazioni terroristiche, a servizio della Nato, dell’Europa e persino di Israele. Non va dimenticato il tentativo di costruire un rapporto diretto con i Talebani nel 2021, quando Erdoğan disse:

«Abbiamo un pensiero ideologico molto simile».

Questo avvenne proprio mentre il mondo era sconvolto dalla fuga degli americani dall’Afghanistan e il ritorno dei Talebani al potere.

Tattiche e affari turchi; accoglienza senza schierarsi

Quindi Hamas rappresenta una nuova opportunità per Ankara, forse anche per garantire un certo sostegno a Bibi. Nonostante gli attriti e le dichiarazioni aspre, Erdoğan e Netanyahu hanno sempre mantenuto un rapporto commerciale molto proficuo, in costante crescita. Anche durante il conflitto, secondo il report dell’Istituto di Statistica turco, Tuik, il volume degli scambi commerciali tra Ankara e Tel Aviv è aumentato del 20%. Tra i prodotti venduti troviamo tutto il necessario per sostenere l’occupazione e l’invasione. Chi altro potrebbe offrire un aiuto così significativo a Netanyahu, in difficoltà al punto da tentare di coinvolgere persino l’Iran in una guerra?

Sì, l’accoglienza diretta e il sostegno a Hamas da parte di Ankara avvengono proprio mentre nel mondo crescono le preoccupazioni riguardo a una possibile guerra tra Iran e Israele.

Tattiche e affari iraniani, intrecci speculari con quelli israeliani

In questo momento di difficoltà interna e internazionale il governo israeliano decide di colpire le postazioni diplomatiche iraniane presenti in Siria, il 1° aprile. Ovviamente sarebbe stato assurdo pensare che l’Iran non avrebbe reagito. Ma in che modo e con quali tempi?

Teheran ha atteso ben due settimane prima di reagire. In Israele l’ansia era palpabile: si sono verificate lunghe code nei supermercati, la popolazione era pronta per la guerra e le critiche nei confronti di Netanyahu si erano intensificate. Tuttavia Teheran, considerando la propria situazione economica e l’instabilità politica interna da anni, non poteva permettersi una vera guerra. Alla fine sono stati lanciati più di 300 razzi/droni verso Israele, ma nessun bersaglio civile è stato colpito e solo una persona è rimasta ferita. Era prevedibile che Tel Aviv avrebbe neutralizzato questo attacco con il suo avanzato sistema di sicurezza? Forse sì. Allora, a cosa è servito tutto ciò?
Innanzitutto Teheran non è rimasto in silenzio dopo l’attacco subito, ha dimostrato al mondo che in qualche modo avrebbe potuto tentare di colpire Israele. Dopo il 7 ottobre, e per la prima volta dopo anni, uno stato ha cercato di colpire Israele mentre tutti i paesi del Golfo osservavano ciò che accadeva a Gaza. Israele ha fermato l’attacco grazie ai suoi alleati, non da solo. In primo luogo la Giordania, poi le forze americane e inglesi hanno dato una mano a Tel Aviv. Quindi, per il governo israeliano, questa non è una vittoria ottenuta da solo.

Inoltre per Israele potrebbe essere stato un tentativo, forse, di spostare l’attenzione da Gaza a Teheran. Forse cercava di coinvolgere gli Stati Uniti in questa guerra, o di ottenere nuovi alleati in un eventuale conflitto futuro. Alla fine della giornata, chi non ha qualche problema con l’Iran? Tuttavia, secondo fonti dell’agenzia di stampa Axios, Bibi non ha ottenuto il sostegno che si aspettava da Biden. «You got a win. Take the win» sarebbe stato il riassunto della posizione del presidente statunitense. In altre parole: “mo’ basta, non ti sostengo più”. Ora Israele molto probabilmente si sta preparando a colpire l’Iran. Non sappiamo ancora in che modo, ma Tel Aviv non è l’unico a cercare di mettere in discussione la presenza dell’Iran in quella zona in questi giorni. Anche Ankara sta cercando di eliminare Teheran dall’Iraq.

Affari e opportunità, rimestando nel caos iracheno

Lorenzo Forlani ci aiuta a inquadrare la mezzaluna sciita: “No “Mena” Land: lo strame di 30 anni di proxy war in MO”.

Erdoğan e l’ossessione anticurda

Pochi giorni prima delle elezioni amministrative tenutesi in Turchia il 31 marzo, una significativa delegazione turca si era recata a Baghdad, ottenendo un risultato di rilievo grazie alla firma di un accordo storico. Con questo accordo, il governo iracheno esprimeva la sua solidarietà ad Ankara nella “lotta contro il Pkk” e prometteva di impegnarsi anche militarmente in questa missione. Oggi è giunto il momento di valutarne i risultati.

Dodici anni dopo il presidente della Repubblica di Turchia si è recato in Iraq il 22 aprile per incontrare il governo centrale a Baghdad e successivamente gli esponenti dell’Amministrazione autonoma del Kurdistan a Erbil. Quali sono gli elementi in gioco e qual è il coinvolgimento dell’Iran?
Uno dei principali problemi che Baghdad fatica ad affrontare è quello economico. Infatti, nel mese di marzo di quest’anno, l’Iraq ha avviato il progetto della “Strada dello Sviluppo”, che prevede il coinvolgimento diretto della Turchia per una serie di prodotti, sfruttando anche la sua posizione geografica strategica. La “Development Road” sarebbe importante anche per diventare un’alternativa per una serie di paesi e aziende occidentali che negli ultimi tempi hanno incontrato difficoltà nel Mar Rosso, una zona controllata da Ansar Allah (Houthi), cioè dall’Iran. Quella formazione armata che spesso impedisce alle navi commerciali di attraversare la zona. Quindi si tratta di un progetto che avrebbe l’ambizione, almeno in parte, di minare il potere politico ed economico di Teheran. Naturalmente l’attuazione del progetto renderà la Turchia un attore importante, che sembra voler approfittare di questa occasione per introdurre ulteriori elementi nel gioco.

E l’ambigua ossessione antiraniana per conto dell’energivoro Occidente

Infatti tra i temi discussi da Erdoğan durante la visita in Iraq c’è anche il consolidamento dell’alleanza diretta per combattere il Pkk, una formazione armata definita “terroristica” dalla Turchia, con alcune sue basi e numerosi vertici situati proprio in Iraq. In questo contesto è importante ricordare che da circa tre anni, durante gli incontri tra Ankara e Baghdad, si discute anche di una possibile collaborazione per eliminare la formazione armata Hashdi Shabi dal territorio iracheno. Questo rappresenterebbe un nuovo gesto contro l’Iran, dato che l’organizzazione in questione è stata costantemente sostenuta e armata da Teheran ed è stata sempre considerata una “minaccia per la sicurezza nazionale” da parte di Baghdad. Pertanto unire la lotta contro il Pkk a quella contro l’Hashdi Shabi potrebbe diventare una missione comune per questi due paesi confinanti.

Quindi, per Ankara, l’attuazione del progetto “Development Road” rappresenta anche un’opportunità per trasformare Baghdad in un vero alleato nella sua missione di contrastare e forse distruggere il Pkk. Dopo che Baghdad ha definito il Pkk “un’organizzazione terroristica” nel mese di marzo, ora non ci sarebbero più ostacoli per avviare le operazioni militari. È importante considerare che un Iraq sicuro, non soggetto a bombardamenti da parte di nessuno, libero dal conflitto armato tra Pkk e Ankara e infine libero dalla presenza iraniana, consentirebbe a tutte le aziende europee e statunitensi di operare “in pace”. Pertanto l’operazione economica e militare proposta da Ankara non gioverebbe solo ai suoi interessi. Infatti, proprio il giorno dell’arrivo di Erdoğan in Iraq, il portavoce dell’Association of the Petroleum Industry of Kurdistan, Myles Caggins, ha dichiarato ai microfoni del canale televisivo iracheno Rûdaw TV:

«Mi aspetto che Erdoğan convinca i dirigenti iracheni a far giungere il petrolio del Kurdistan al mondo attraverso la Turchia».

Dalla padella della mezzaluna sciita filoiraniana alla brace della fratellanza filoturca?

È indubbiamente importante considerare una serie di dinamiche. In Iraq nel 2025 si terranno le elezioni e nel paese non c’è un consenso politico e/o popolare sulla posizione nei confronti del Pkk e sull’avvicinamento con la Turchia. Per esempio, Bafel Jalal Talabani, leader dell’importante partito politico curdo Puk, spesso dichiara che il Pkk non è il suo nemico. Inoltre, è ancora fresca la condanna subita da Ankara per il commercio petrolifero, definito “scorretto”, con l’amministrazione curda. Nel 2023, Ankara è stata multata di 1,4 miliardi di dollari dalla Icc, la Corte Internazionale di Arbitrato.

Ma evidentemente il presidente turco è stato convincente (forniture militari, sicurezza, risorse idriche, promesse varie…), tanto che il portavoce del governo iracheno, Basim el-Avvadi ha rilasciato una dichiarazione il 25 aprile: «Ai membri del Pkk sarà riconosciuto il titolo da rifugiato politico. L’organizzazione invece sarà definita illegale», un’altra diaspora attende i resistenti curdi; contemporaneamente Hamas può trovare ricovero proprio presso il persecutore del Pkk.

Dighe contro le popolazioni mesopotamiche: preludio a un nuovo focolaio di guerra

Oltre a questa questione ancora aperta c’è anche il problema dell’acqua, che rappresenta un tema cruciale. Secondo l’accordo del 1980 la Turchia è tenuta a gestire correttamente il regime dei fiumi che attraversano i suoi confini e scorrono verso l’Iraq. A causa del riscaldamento globale Baghdad cerca da anni di rinegoziare questo accordo, ma Ankara continua a rimandare la questione. Tuttavia, soprattutto durante l’estate, ciò causa un enorme disagio per l’intera nazione, e l’opinione pubblica è convinta che la Turchia stia usando l’acqua come un’arma contro l’Iraq.

La portata del Tigri e dell’Eufrate nel progressivo inaridimento fino alla foce, grafico tratto da Curdi, di Antonella De Biasi, Giovanni Caputo, Kamal Chomani e Nicola Pedde, Torino, Rosenberg & Sellier, 2019

Dopo l’incontro del 22 aprile è molto probabile che Erdoğan abbia ottenuto risultati significativi non solo dal punto di vista economico, ma anche in vista di un’operazione militare imminente. La sua prossima visita, fissata per il 9 maggio a Washington direttamente con Biden, probabilmente includerà anche l’ottenimento di una sorta di “lasciapassare” in Iraq. Non sarebbe fuori luogo aspettarsi un inizio di guerra entro fine maggio.

Perpetuazione del mondo caoticamente multipolare

Il governo turco è apparentemente molto determinato nel lavoro volto a portare Hamas al tavolo dei negoziati, per ottenere una serie di risultati a breve e lungo termine, sia politici che economici, diretti e indiretti. La fine della guerra probabilmente porterà benefici anche a Benjamin Netanyahu, permettendogli di restare al potere senza doversi dimettere. Quindi in Israele potrebbe rimanere un uomo che, tutto sommato, non ha creato grossi problemi a Erdoğan. Anzi, durante la sua carriera politica, il presidente turco ha beneficiato di un notevole benessere economico, sia per le aziende vicine al suo governo che per quelle della sua famiglia.

In quest’ottica, uno Stato ebraico stabile e una repubblica islamica che non esce dai suoi “confini” e rimane al di fuori del gioco in Iraq permetteranno ad Ankara e ai suoi alleati di continuare a giocare la stessa partita anche nei prossimi anni.

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L’invincibile intreccio tra industria bellica, finanza, politica e istituzioni americane https://ogzero.org/industria-bellica-e-finanza/ Thu, 02 Nov 2023 19:09:10 +0000 https://ogzero.org/?p=11798 Industria bellica e finanza, protagoniste dell’escalation in un’economia di sostegno alla guerra. Nella giornata di Halloween i principali leader militari e diplomatici degli Usa hanno esortato un Congresso sempre più diviso a inviare importanti aiuti immediati a Israele e all’Ucraina, sostenendo in un’audizione al Senato che un ampio sostegno all’assistenza darebbe un segnale di forza […]

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Industria bellica e finanza, protagoniste dell’escalation in un’economia di sostegno alla guerra. Nella giornata di Halloween i principali leader militari e diplomatici degli Usa hanno esortato un Congresso sempre più diviso a inviare importanti aiuti immediati a Israele e all’Ucraina, sostenendo in un’audizione al Senato che un ampio sostegno all’assistenza darebbe un segnale di forza degli Stati Uniti agli avversari in tutto il mondo.
La testimonianza del Segretario alla Difesa Lloyd Austin e del Segretario di Stato Antony Blinken è arrivata mentre la massiccia richiesta di aiuti d’emergenza dell’amministrazione per i conflitti nei due paesi, pari a 105 miliardi di dollari, incontrava ostacoli.

Eccitatissima la finanza: balzano nuovamente i titoli del comparto dell’industria pesante, dopo i dividendi a 9 cifre dopo la guerra in Ucraina;  si tratta di investimenti sicuri che provengono da contratti governativi a lungo termine e sicuri, finché prevale l’economia e la politica di guerra dell’amministrazione democratica. Altri miliardi di dollari gettati in guerre destinate a non trovare soluzione, perché non devono risolversi fino allo scoppio provocato di un nuovo orizzonte di guerra; foraggiare le grosse industrie belliche (strettamente correlate con l’amministrazione Biden e con il Pentagono) e… causare massacri di civili. In Usa vengono arrestati i manifestanti israeliti (300) contro questo dispendio di denaro; in Italia si estendono le servitù militari e le vendite di armi, le relazioni tra Idf, politecnici, industria delle armi.

Non può non stravincere la manovra guerrafondaia della amministrazione di Washington, perché l’economia di guerra è l’unica strategia rimasta a Biden per mantenere agli Usa il predominio sul mondo; dunque per chi avversa l’economia di guerra aprire una breccia in quel muro di miliardi bruciati nei missili è l’unica salvezza per evitare l’escalation che consentirebbe al sistema armi-potere-istituzioni di sopravvivere alla propria implosione.

Perciò abbiamo ritenuto utile riprendere un articolo di Eric Salerno uscito su “il manifesto” del 22 ottobre 2023 (i link esterni e interni sono stati aggiunti da ogzero), perché sta tornando nei palinsesti il confronto sul bilancio federale, che si scontra con lo stanziamento di 100 miliardi in supporti bellici per i 3 teatri di guerra (60 a Kyiv, 10 a Tel Aviv, il resto a Taipei): i 3 sostegni dell’economia di guerra; poi ci sono gli altri conflitti che assorbono altre armi, altre strategie, altre economie di guerra speculari e dipendenti da quello che è lo sgocciolamento sui conflitti periferici della economia di guerra di riferimento, proxy della nazione predominante


Non può non vincere l’import-export delle armi statunitensi

Chi sta vincendo? Chi vincerà?

Israele, certamente una grande potenza, ricca di un arsenale di armi nucleari di ultima generazione che non può utilizzare? Hamas, un movimento integralista, dotato, come si è visto, di armi a sufficienza per andare avanti almeno due settimane? Prima di cercare di rispondere credo che valga la pena raccontare un mio incontro, di molti anni fa, con il premier israeliano Benjamin Netanyahu. Non era ancora stato eletto premier ma aveva già scritto e pubblicato un libro – edito anche in Italia da Mondadori – sul terrorismo.
Per lui erano terroristi anche i combattenti, donne e uomini, del Fronte di liberazione algerino – Fln – che erano riusciti a costringere i francesi a lasciare il loro “territorio d’oltremare” e cercare, senza molto successo, di aprire un capitolo nuovo nella loro a dir poco devastante relazione con il popolo magrebino.
La nostra conversazione fu interrotta da una telefonata. C’era stato un attacco di militanti di Hezbollah contro una pattuglia israeliana. Se ricordo bene alcuni militari furono uccisi o feriti. Per lei sono terroristi?, chiesi. «Per me quelli di Hezbollah sono terroristi anche se, questa volta, attaccando una pattuglia di militari in divisa, hanno compiuto un’azione militare». I militanti di Hamas che hanno ucciso donne, bambini, uomini azioni, sono terroristi; quelli che hanno ucciso o catturato militari israeliani in divisa, dunque, hanno compiuto un’azione militare.

Non hanno vinto la loro guerra e anche se è presto per tirare le somme, dubito che usciranno vincitori da questo conflitto. E nemmeno, se parliamo di azioni armate, il popolo palestinese riuscirà a vincere. Israele allora? Sta vincendo? Ci vorranno molti anni, forse più di una generazione perché il popolo ebraico di quel giovane paese mediorientale possa considerarsi vincente.
E allora, chi vincerà? Quello che il generale americano Eisenhower, eroe della guerra in Europa e presidente degli Stati Uniti disse lasciando la Casa bianca: mise in guardia il popolo americano sul grande potere del “complesso politico-militare”. Mentre ora Biden chiede più di 100 miliardi di dollari al Congresso per le guerre in corso, per Israele, l’Ucraina e in vista per Taiwan, la grande industria americana degli armamenti ha già incassato miliardi, negli ultimi due anni, con la guerra in Ucraina e ora si prepara a guadagnare ancora di più con il conflitto Hamas-Israele.

Pacchetti di armi americane e proteste di americani

Il presidente Biden, interessato da sempre al benessere di Israele ma, comprensibilmente, oggi ancora più interessato a far vincere al suo partito (Democratico) le presidenziali dell’anno prossimo. Vorrebbe, dice, restare alla Casa bianca o quanto meno mantenere l’ambita poltrona per un suo collega di partito. Non tutti i democratici sono d’accordo con la politica di Biden e non solo quella che riguarda la sua politica e le sue alleanze incerte spesso contraddittorie. E proprio ora che ha promesso un nuovo pacchetto di armi per Israele arrivano una marea di proteste da sostenitori americani, molti dei quali ebrei.

Fedeli funzionari

Un funzionario del Dipartimento di stato americano con un ruolo chiave negli accordi sulle armi ha annunciato mercoledì le proprie dimissioni, citando le decisioni «miopi, distruttive, ingiuste e contraddittorie» dell’amministrazione Biden che lo hanno costretto a innumerevoli «compromessi morali». Josh Paul – così si chiama – per undici anni ha lavorato all’Ufficio per gli affari politico-militari del dipartimento che supervisiona proprio il commercio di armi con altri paesi e ha definito la risposta della Casa bianca all’attacco di Hamas

«una reazione impulsiva costruita su pregiudizi, convenienza politica, bancarotta intellettuale e inerzia burocratica».

Analisti finanziari

Gli analisti dei mercati finanziari, però, sono super-eccitati. Come leggiamo sul sito di uno dei grandi gestori di fondi e investimenti:

«Il National Defense Authorization Act per l’anno fiscale 2024 prevede 886,3 miliardi di dollari di spesa per la difesa statunitense, in aumento del 3,3% rispetto ai livelli del 2023. La guerra in Ucraina ha già incrementato la spesa degli Stati Uniti e dei suoi alleati, ma le dinamiche nel settore della difesa sono cambiate radicalmente dopo che Hamas ha attaccato Israele il 7 ottobre, portando alla successiva dichiarazione di guerra di Israele».

L’analista della Bank of America, Ronald Epstein afferma che

«la guerra in Medio Oriente potrebbe costringere il governo degli Stati Uniti ad aumentare gli investimenti nell’industria della difesa, e alcuni titoli del settore della difesa hanno registrato un balzo dall’inizio del conflitto. I titoli della difesa sono investimenti interessanti – spiega – perché spesso hanno contratti governativi prevedibili e a lungo termine».

Le cifre del Sipri

Dal Sipri, un po’ di cifre. Tre dei primi 10 importatori nel 2018-22 sono in Medio Oriente: Arabia Saudita, Qatar ed Egitto. L’Arabia Saudita è stata il secondo più grande importatore di armi al mondo nel 2018-22 e ha ricevuto il 9,6% di tutte le importazioni di armi in quel periodo. Le importazioni di armi del Qatar sono aumentate del 311% tra il 2013-17 e il 2018-22, rendendolo il terzo importatore di armi al mondo nel 2018-2022.

La grande maggioranza delle importazioni di armi in Medio Oriente proveniva dagli Stati Uniti (54%), seguita dalla Francia (12%), dalla Russia (8,6%) e dall’Italia (8,4%). Includevano più di 260 aerei da combattimento avanzati, 516 nuovi carri armati e 13 fregate. Gli Stati arabi della sola regione del Golfo hanno effettuato ordini per altri 180 aerei da combattimento, mentre 24 sono stati ordinati dalla Russia e dall’Iran (che non ha ricevuto praticamente armi importanti durante il 2018-2022).

L’escalation innescata da fanatici innominabili

Un dato molto interessante, quest’ultimo, quando si ascoltano voci che vorrebbero Teheran il maggiore sostenitore di Hamas mentre nessun, per ora, incolpa alcuni grandi acquirenti arabi notoriamente vicini all’organizzazione che ha sferrato l’attacco a Israele. Attacco che rischia di trascinare una parte del mondo in un conflitto di più vaste proporzioni.

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G7 – G8 – G20 – G77+1… G8miliardi https://ogzero.org/g7-g8-g20-g771-g8miliardi/ Mon, 18 Sep 2023 20:48:14 +0000 https://ogzero.org/?p=11622 Le famose bande di ragazzini. C’è quello grande e grosso che si tira dietro i suoi e botte da orbi a chi li contrasta. In questa strada non ci dovete mettere piede! Una banda vicina invece l’attraversa, anche se di corsa. Il capo è meno corpulento, ma sa il fatto suo. Altri gruppetti sono incerti, […]

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Le famose bande di ragazzini. C’è quello grande e grosso che si tira dietro i suoi e botte da orbi a chi li contrasta. In questa strada non ci dovete mettere piede! Una banda vicina invece l’attraversa, anche se di corsa. Il capo è meno corpulento, ma sa il fatto suo. Altri gruppetti sono incerti, con chi stare? Un po’ con l’uno un po’ con l’altro. All’aria aperta la situazione è abbastanza caotica. Diversa da prima dove c’era la banda più forte e non ce n’era per nessuno. In più adesso succede che un giorno il sole è rovente e nessuno ha voglia di venir fuori dall’ombra. Un altro diluvia che appena ti affacci in strada quasi anneghi. Un disastro. Non si capisce più niente. Bisogna solo aspettare che i ragazzini, ragazzine incluse, crescano. Ma cresceranno?


Quando sarai grande…

Sì, diventeranno grandi. Anzi G(randi)20. Una specie di super banda che cerca di spartirsi le zone di influenza. Assenti XI Jinping e Putin. Presente! però Giorgia M. e questo ci rincuora.
Il padrone di casa, Modi si è indaffarato moltissimo, senza fare i pignoli su come per l’occasione ha ripulito le periferie di Nuova Delhi. Vuole che l’India sia chiamata Bharat, e su questo niente da dire. Sta già scritto nella Costituzione. Per noi di una certa età va anche meglio perché nel nostro immaginario gli indiani continuano a essere i nativi americani (stavo per scrivere i peller…).
Poi ha ufficialmente siglato la Global Biofuel Alliance a cui aderiscono Brasile, Stati Uniti, Bangladesh, Argentina, Sudafrica, Mauritius, Emirati Arabi e Italia, oltre a Bharat. Mi propongo a Giorgia come servitore della patria ai prossimi incontri nelle Mauritius. Ci tengo ai biocarburanti.

Non è passata inosservata la dichiarazione fatta da Stati Uniti e IBSA – India, Brasile, Sudafrica – sul potenziamento degli aiuti finanziari al Sud Globale.
La geografia sta slittando verso il meridione del mondo. Da un punto di vista delle aspirazioni geopolitiche, delle prese di parola, non può non piacere. Dirà l’avvenire se sarà un guadagno per la Terra e l’Umanità.

 

Nel quartiere c’è sempre qualcuno dei ben piantati che invece di farsi vivo in piazza con lo sguardo strafottente se ne sta non si sa dove. Perfino quelli della sua banda sono sconcertati. Cosa starà macchinando?


… saprai perché…

Xi Jinping perché non è venuto? Se ne fotte? Il suo ruolo se lo gioca nei Brics? Cioè Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica e prossimi Argentina, Egitto, Etiopia, Iran, Emirati arabi uniti e Arabia saudita. Augurandosi che non si trasformino in Bricsaeeieauas.  L’erede di Mao lascia intenzionalmente il G20 all’India? Sembrerebbe di sì.

Modi ha così organizzato gli accordi, fossero anche solo pacche sulle spalle, senza la Cina. Tutta questa sua agitazione sta in piedi? Amico di tutti e di nessuno? Putin ha fatto bene a starsene dov’è, deve salvare l’eterna anima russa con i carrarmati e questo disturba le calorose strette di mano.

Sta finalmente cambiando la faccia geopolitica del Mondo, detta anche multipolarismo, oppure sono solo geometrie variabili destinate ad essere ormai perennemente variabili? In altre parole, la novità è il movimento continuo e non la configurazione che assume?

… è un gioco strano: devi imparare…

L’IMEC è una prima risposta. Un baccanale di acronimi da imparare a memoria. India-Middle East-Europe Economic Corridor. Lo promuovono il principe saudita Mohammed bin Salman Al Saud, il presidente degli Emirati Arabi Uniti Mohammed bin Zayed Al Nahyan, il presidente francese Emmanuel Macron, il cancelliere tedesco Olaf Scholz, la presidente dell’Unione Europea Ursula von der Leyen, la primo ministro italiana Giorgia Meloni, il capo della Banca Mondiale Ajay Banga e, ovviamente, Joe Biden e Narendra Modi. Treni, porti, fibre ottiche, pipeline, autostrade, ponti, hub.

Applausi a scena aperta.

Uno per tutti, quello di U.v.der Leyen: «È un ponte verde e digitale tra i continenti e le civiltà».

All’esterno del G20 un encomio altissimo.

Viene da Netanyahu: «Israele è al centro di un inedito progetto internazionale che unirà infrastrutture dall’Asia all’Europa, realizzerà una antica visione e cambierà il Medio Oriente, Israele, e influenzerà il mondo intero».

Coro stellare per un mondo a più facce? Risposta robusta, dieci anni dopo, alla Via della Seta cinese? Entusiasmo a buon mercato? Trionfalismo fuori posto?

… è un gioco strano: devi imparare…

Calma, dice la Cina: «Il tempo mostrerà la differenza tra un’iniziativa che abbraccia tutti con cuore aperto [la Belt and Road Initiative cinese] e una di idee ristrette che divide le nazioni. Noi speriamo che l’IMEC non diventi così».

Risposta secca e stizzita.

I giochi sono aperti e soprattutto il quadrante del mondo si è messo in moto. Una cosa è sicura, il Medio Oriente torna ad essere uno snodo delle politiche mondiali.

Se qualcuno poi, sprovveduto di finezze geopolitiche, osserva un po’ più da vicino i Grandi 20, presenti e assenti, il modo con cui governano i loro paesi e come fanno e disfanno le loro società, qualche brivido giù per la schiena gli corre. Allora il sempliciotto inesperto sceglie di chinarsi sulla minuteria storica e scopre, per esempio, che un treno merci con 36 vagoni container è partito dal sud della Russia, ha attraversato l’Iran, già nemico numero uno dell’Arabia Saudita, e poi dallo Stretto di Hormuz è stato travasato via mare a Gedda, in… Arabia Saudita. A fine agosto.

Oppure viene informato che a Ryad, capitale dell’Arabia Saudita, lo scorso 11 settembre grazie all’Unesco  era in visita ufficiale una delegazione del governo israeliano, anteprima di una possibile normalizzazione tra i due stati mediorientali. Il candido osservatore inoltre si stupirà vieppiù nel vedere che Erdoğan, il sultano turco, si sia subito scagliato contro il corridoio in questione proponendone uno di gamma superiore. Provvisoriamente definito – che strano! – corridoio turco.

… è tutto scritto, catalogato: ogni segreto, ogni peccato…

Non stanno mai fermi i Grandi, anche i Meno Grandi. Saltabeccano da un summit, da un vertice all’altro un po’ qua un po’ là. Finito uno, di corsa all’altro [Brics, 21/24 agosto, G20, 9/10 settembre, G77+Cina a Cuba, dal 15 settembre]. Gli farà bene tutto questo sbattimento? E se prendono aria? E se fanno indigestione? E se perdono l’orientamento? E il jet lag? Cos’è, fregola di contrasto alla depressione?
C’è un moto ondulatorio o sussultorio nella geopolitica? Preludio ad eventi tettonici più duri e consistenti?

Se scendo dai vertici e lo chiedo a una immigrata filippina a Ryad, a un palestinese di Nablus, a una giornalista kurdo-turca in carcere, mi guardano con un certo disincanto. Eppure.

… quando sarai grande, saprai perché

Qualcuno si perde, altri mettono su famiglia, qualcuno ricorda con nostalgia e parla male dei nuovi ragazzini di strada, certi fanno carriera.

Tutto il GMondo è paese.

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Hamas, il principe di Gaza https://ogzero.org/hamas-il-principe-di-gaza/ Mon, 17 May 2021 00:41:29 +0000 https://ogzero.org/?p=3496 La tempesta perfetta per israeliani e palestinesi. Un’analisi dell’organizzazione al comando nella Striscia e del vantaggio che ne trae la destra israeliana Due forze di destra ultraconservatrice, entrambe sostenute dalle rispettive superstizioni confessionali nelle frange più estremiste, si confrontano legittimandosi a vicenda. Abbiamo chiesto ai sodali di “Atlante delle guerre” di riprendere l’articolo di Eric […]

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La tempesta perfetta per israeliani e palestinesi.

Un’analisi dell’organizzazione al comando nella Striscia

e del vantaggio che ne trae la destra israeliana

Due forze di destra ultraconservatrice, entrambe sostenute dalle rispettive superstizioni confessionali nelle frange più estremiste, si confrontano legittimandosi a vicenda.

Abbiamo chiesto ai sodali di “Atlante delle guerre” di riprendere l’articolo di Eric Salerno publicato il 15 maggio per arricchire il nostro Studium sulle Terre resistenti e la comunanza tra le realtà oppresse intorno al Mediterraneo risulta sempre più valido. Quello che ci è sembrata una sorta di cancrena, che continua a riproporsi da più di trent’anni di impunità sancita dal blocco di ogni organismo di controllo, è dimostrata dagli articoli scritti da Eric a suo tempo – e qui riprodotti – che fotografano esattamente il momento in cui è scattata la trappola.

Trentaquattro anni fa la popolazione della Striscia era un quinto dell’attuale e l’estensore dell’articolo era già stupito della densità e della precarietà della condizione delle esistenze in quell’inferno, che già nel 1987 era chiaramente inquadrato come un sistema di apartheid («Qui siamo come a Soweto»), ma “la bomba a orologeria” è stata fatta brillare più volte senza fare danni, se non riducendo diritti, producendo vittime palestinesi e mettendo le radici di quella società bi-etnica che ora anima la guerra civile in corso nelle città israeliane abitate da arabi ed ebrei.

Eric Salerno, “Il Messaggero”, 1° giugno 1987

Non è peregrino che il titolo alluda a Belfast, come vedremo nel prosieguo del dossier sulle Terre resistenti

Oltre alla società bi-etnica i Servizi israeliani hanno scientemente messo le radici per costruire il nemico adatto, quell’avversario strategicamente perfetto che consente di rimanere impuniti anche a fronte di qualsiasi nefandezza. Il Golem però potrebbe rivelarsi esiziale, come nel mito ebraico?


Machiavelli, quel nostro principe che amava raccontare e suggerire gli intrighi più complessi, si sarebbe divertito a guardare il conflitto israelo-palestinese e le palesi contorsioni di alcuni suoi protagonisti che gli osservatori non solo italiani, spettatori sempre più relegati al ruolo di commentatori inutili, non sembrano capaci – o non vogliono? – denunciare. Eppure quello che si svolge davanti ai nostri occhi ricalca un nostro – antico romano e non italico – progetto: Dīvĭdĕ et ĭmpĕrā. Il modo migliore per controllare un popolo è dividerlo, provocando rivalità e fomentando discordie.

Hamas, che in queste ore, è nell’obiettivo dei bombardieri israeliani, deve molto a Israele. Per almeno dieci anni, tra il 1978 e il 1987, il movimento fondamentalista, costola dei Fratelli musulmani egiziani, è riuscito a sviluppare nella striscia di Gaza una base formidabile di consensi, grazie anche ai servizi segreti di Tel Aviv. Gaza, allora, era territorio occupato come la Cisgiordania. Nella striscia si erano istallati undicimila coloni israeliani tra i più radicali. Protetti da un apparato militare imponente la cui amministrazione vedeva di buon occhio l’avvento di un movimento islamico religioso come contraltare ai laici dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp) guidata da Yasser Arafat e tendente a sinistra. Un funzionario israeliano, intervistato nel 2009 dal “Wall Street Journal”, raccontò molto di quell’operazione che, spiegò, appariva convincente ma che si sarebbe dimostrato, «per molti di noi», un errore. O no?

Tel Aviv vedeva nel leader del movimento, il paraplegico Sceik Yassin, un uomo di fede da contrapporre all’Olp. La sua “Mujama”, una organizzazione caritatevole con scuole, cliniche, una biblioteca e una università, poteva alleggerire la pressione sugli occupanti e ridurre la tensione che rischiava di esplodere. «Se fossi nato e cresciuto qui – mi disse allora Giulio Andreotti durante una visita nella Striscia – diventerei un terrorista». Tornai a Gaza appena scoppiata la prima Intifada e vi incontrai i leader di Hamas che erano usciti allo scoperto aggiungendo alla loro attività di assistenza sociale una Carta intrisa di antisemitismo e votata alla distruzione di Israele.

Eric Salerno, “Il Messaggero”, 9 gennaio 1988

Dopo Oslo

Poi vennero gli accordi di Oslo (agosto 1993), la bozza di pace firmata da Rabin, Peres e Arafat sotto gli occhi di Clinton sul prato della Casa bianca. Il mondo esultò. O quasi. I ricordi sono sempre utili: ne ho uno di quel pomeriggio, dopo la firma, particolarmente significativo. Ero presente al ricevimento offerto dall’ambasciata israeliana per i suoi leader e i giornalisti accreditati in Israele. Un giornalista ebreo americano, molto noto per le sue posizioni, affrontò Rabin con un’accusa: «Come hai potuto fare questo a noi!». Pace sì, voleva, ma senza i palestinesi. Anche Hamas voleva la pace, ma senza gli israeliani. E lo fece capire diventando sul piano militare la più grossa minaccia all’occupazione israeliana. E alla credibilità di Arafat, in quegli anni chiuso nella sua fortezza di Ramallah circondato dalle forze israeliane e che lasciò per farsi curare in Francia e dove tornò per essere sepolto. E con lui gli accordi che aveva firmato a Washington e che non piacevano al centro-destra israeliano o, direi, alla maggioranza degli israeliani.

Rabin (paragonato a un traditore anche da Netanyahu) venne assassinato e le sue ceneri riportarono al potere i discepoli di Jabotinsky, sionista di estrema destra, discepolo-protetto di Mussolini. 

Vladimir “Ze’ev” Jabotinski

E torniamo a Gaza. A Hamas. Ariel Sharon, ex generale diventato politico, responsabile (quanto meno indirettamente) dei massacri nei capi palestinesi di Sabra e Shatila (Beirut) da premier si lanciò in ciò che poteva apparire come un passo avanti verso la fine dell’occupazione israeliana dei Territori. «Lasciamo Gaza, – annunciò al mondo, – via le nostre truppe e via gli undicimila coloni con i loro insediamenti».

Abu Mazen, il successore di Arafat, si congratulò ma, quasi in ginocchio, esortò Sharon a concordare con lui il ritiro per consentire all’Autorità nazionale palestinese e alla nuova politica del dialogo di guadagnare punti invece di far apparire il ritiro come una vittoria della lotta armata, o terrorismo, portata avanti con fervore dai militanti di Hamas. La risposta fu un netto rifiuto. E alla elezioni successive in Palestina, le ultime [14 anni fa], Hamas vinse non soltanto a Gaza ma anche in molti centri abitati della Cisgiordania compresa la capitale, Ramallah.

Israele non ha mai voluto distruggere Hamas. Probabilmente dopo aver ridotto per l’ennesima volta il suo potenziale militare, la lascerà ancora viva.

E con i palestinesi sempre più disperati e divisi, i vari Netanyahu continueranno a imperare.

Der Golem

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King Bibi in declino: un complesso effetto domino https://ogzero.org/la-crisi-politica-king-bibi-in-declino-un-complesso-effetto-domino/ Sat, 02 Jan 2021 14:47:34 +0000 http://ogzero.org/?p=2171 Israele si avvia alle quarte elezioni politiche in meno di 2 anni. La data prevista è il 23 marzo. La crisi della coalizione di governo era prevedibile fin dal suo nascere. I due principali partiti di governo, il Likud di Benjamin “Bibi” Netanyahu e Kahol Lavan (Blu e Bianco), l’alleanza di vari partiti guidata dall’ex […]

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Israele si avvia alle quarte elezioni politiche in meno di 2 anni. La data prevista è il 23 marzo.

La crisi della coalizione di governo era prevedibile fin dal suo nascere. I due principali partiti di governo, il Likud di Benjamin “Bibi” Netanyahu e Kahol Lavan (Blu e Bianco), l’alleanza di vari partiti guidata dall’ex capo di stato maggiore Benny Gantz, otto mesi fa avevano dato vita a un’alleanza su basi molto fragili. Dopo tre elezioni in un anno che non avevano permesso di costituire un governo perché né Bibi né Benny era riuscito a prevalere sull’altro, era stata la lotta contro l’epidemia di Covid-19 a fornire il pretesto per uscire dall’impasse e formare un governo contro natura. Infatti in campagna elettorale Gantz si era impegnato a non allearsi per nessuna ragione con Netanyahu ed aveva raccolto i voti di quanti si riconoscevano nello slogan “chiunque meno Bibi”.

Un’ancora di salvezza per Netanyahu

La manovra aveva fatto uscire il paese dall’inutile serie di elezioni, che avevano comunque mantenuto al potere Netanyahu con un governo di transizione. Per il primo ministro in carica si trattava anche di un problema personale. Dovendo affrontare una serie di processi per corruzione, frode e abuso di potere, da semplice parlamentare si sarebbe trovato in una posizione di debolezza che non si poteva permettere. Inoltre, avendo il controllo sul governo, avrebbe potuto condizionare le decisioni relative alla nomina dei giudici, cosa che negli 8 mesi di coabitazione con Gantz ha effettivamente tentato di fare.

Un governo frammentato

Gantz avrebbe potuto formare un governo senza Netanyahu, ma con l’appoggio esterno della Lista Araba Unita, la terza formazione come numero di seggi in parlamento e che rappresenta la minoranza palestinese con cittadinanza israeliana. Non ha osato farlo, per timore di essere accusato di “connivenza con il nemico”.

Si è trovato però subito in una posizione di debolezza. Infatti 16 dei 33 deputati di Kahol Lavan non hanno seguito Gantz e sono passati all’opposizione. Per arrivare a 61 voti la coalizione ha dovuto includere alcuni piccoli partiti laici di centro, vari partiti religiosi e parte dei Laburisti. Il governo che ne è nato ha battuto ogni record quanto al numero di ministri e sottosegretari, ben 52 per un parlamento di 120 deputati.

Un’alternanza con le gambe corte

Naturalmente l’operazione non è stata a costo zero neppure per Netanyahu. Ha dovuto accettare di cedere a Kahol Lavan i principali ministeri: Difesa, Esteri, e, fondamentale per lui, Giustizia. Inoltre ha dovuto accettare l’alternanza nella carica di primo ministro dopo un anno e mezzo. Come detto, per lui, che è stato capo del governo ininterrottamente dal 2009, cedere il potere rischiava di metterlo in una situazione di debolezza di fronte ai giudici.

Molti in Israele avevano previsto che Bibi non avrebbe mai rispettato questa parte dell’accordo, e così è stato. Formalmente il governo di coalizione è caduto per il disaccordo tra Likud e Kahol Lavan sulla legge di bilancio, ma pochi dubitano che la vera ragione sia stata la decisione di Netanyahu di andare a elezioni in un momento che ha ritenuto favorevole.

Vittime del virus

Un’ulteriore debolezza del governo era legata proprio alla sua principale ragione di esistere: la lotta contro l’epidemia da Covid-19. Si diceva che fosse urgente avere un governo di unità nazionale per combatterlo efficacemente. Otto mesi dopo il bilancio è quanto meno deludente: il governo ha dovuto decretare il terzo blocco totale a partire da domenica 27 dicembre.

La protesta antigovernativa a Tel Aviv per la gestione della pandemia

La gestione è stata confusa e conflittuale a livello politico, con decisioni prese e smentite nel giro di qualche giorno. In un territorio grande più o meno come Piemonte e Val d’Aosta (includendo Israele, Cisgiordania e Gaza) ma con una densità di popolazione molto maggiore, i contatti tra israeliani, compresi i coloni nei territori occupati, e palestinesi sono inevitabili. E, mentre Israele ha un ottimo sistema sanitario, lo stesso non si può dire dell’Autorità Nazionale Palestinese, a causa della scarsità di mezzi per via dell’occupazione. Soprattutto, le aperture affrettate dopo i lockdown hanno portato a un rapido aumento dei casi.

I leader di governo hanno fatto a gara per attribuirsi il merito dei successi e a scaricare sui rivali le colpe dei fallimenti nella lotta all’epidemia, aumentando l’impressione di incompetenza e confusione.

Un dilettante allo sbaraglio

La principale vittima della caduta del governo è sicuramente Benny Gantz. Avendo tradito un vasto consenso esclusivamente grazie all’impegno a non allearsi mai con Netanyahu, non c’è da stupirsi se i primi sondaggi danno al suo partito solo 5 seggi sui 33 delle elezioni di marzo. Oltre al tradimento, sconta la scarsa affidabilità dimostrata da lui e dai suoi ministri, e non solo riguardo alla gestione della pandemia. Nella storia di Israele sono stati molti i generali al potere, ma nessuno ha dimostrato una simile sprovvedutezza.

e una vecchia volpe che perde il pelo

Ma anche Netanyahu è in difficoltà. Per liberarsi di Gantz ha scatenato effetti a catena che rischiano di sconvolgere il quadro politico che finora gli ha consentito di rimanere al potere. È indebolito dai guai giudiziari, dal fallimento del governo di coalizione e dalle continue manifestazioni contro di lui, violentemente represse dalla polizia. Da 26 settimane migliaia di israeliani, quasi esclusivamente ebrei, manifestano in tutto il paese. Si tratta di un movimento agguerrito quanto eterogeneo. Vi partecipano militanti di sinistra, persone che hanno perso il lavoro a causa del Covid, i delusi da Kahol Lavan, cittadini disgustati dalla corruzione e dall’attaccamento al potere di “King Bibi”. Oltre alla repressione della polizia, contro i dimostranti ci sono state anche aggressioni da parte di sostenitori di Netanyahu, dando l’impressione che il paese si trovi sull’orlo di una guerra civile.

Una grave perdita

Persino i successi di Netanyahu in politica estera gli si stanno ritorcendo contro. La normalizzazione dei rapporti con Israele sta coinvolgendo sempre più paesi arabi (con cui peraltro Israele aveva già solidi rapporti segreti), sconvolgendo le alleanze ed evidenziando la marginalità della causa palestinese. Per EAU e Bahrein si tratta soprattutto di creare un fronte contro il comune nemico, l’Iran; per altri, come il Sudan e il Marocco, del risultato dei ricatti e delle lusinghe di Trump. L’avvicinamento degli EAU ha comportato anche un accordo sulla Spianata delle Moschee che altera lo status quo e tende ad escludere l’influenza della Turchia e della Giordania sulla gestione dei luoghi santi musulmani.

Murales, West Bank di Betlemme: l’appoggio americano (non del tutto perso con il cambio della guardia) al governo israeliano

Ma proprio ora emerge il punto debole di Netanyahu in politica estera. Egli ha privilegiato i rapporti con il presidente Usa più filoisraeliano di sempre. Questa posizione ha coinciso con il grande favore che Trump riscuoteva nell’opinione pubblica israeliana, ma ignorava i timori della comunità ebraica Usa, tradizionalmente democratica e preoccupata della vicinanza ai suprematisti e dei discorsi antisemiti dell’ex presidente.

Netanyahu si trova senza il cavallo su cui aveva puntato, con la crescente ostilità dell’opinione pubblica statunitense nei confronti delle politiche israeliane e con un nuovo presidente almeno sulla carta meno acquiescente. È improbabile che altri, in particolare l’Arabia Saudita, si uniscano alla corsa per normalizzare i rapporti con Israele, tanto più che la possibile distensione tra l’Iran e l’amministrazione Biden potrebbero ridefinire il contesto regionale.

Convegno dell’Aipac: lobby americana in sostegno allo Stato di Israele

Ricomposizione della Destra

Come squali attirati dal sangue, i molti nemici di Bibi si stanno lanciando all’attacco di un leader che ritengono ormai in declino. L’8 dicembre Sa’ar, suo avversario interno, ha lasciato il Likud e ha fondato un nuovo partito, Tikva Hadasha (Nuova Speranza), a cui hanno subito aderito altri deputati del partito. La più clamorosa è quella di Zeev Elkin, che faceva parte del cerchio magico di Netanyahu. Come spesso capita agli apostati, essi stanno sparando a zero contro il loro ex leader, accusandolo delle stesse colpe dalle quali finora lo avevano difeso.

Tikva Hadasha non rappresenta un’alternativa politica al Likud. Appoggia la colonizzazione nei territori occupati, è contrario alla Soluzione a due stati e intende proporre una legge per imporre un maggiore controllo dell’esecutivo sul potere giudiziario. Rappresenta la stessa politica del Likud ma senza Bibi. Si porta in dote una parte dell’elettorato del Likud, stanco di Netanyahu, ma attira anche voti dell’estrema destra dei coloni. Il partito che li rappresenta, Yamina (La Destra), era dato in forte crescita. Il suo leader, Naftali Bennett, laureato in legge e finanziere, ha pubblicato un fortunato saggio su come combattere il virus. Forte di questa popolarità e della fama di politico onesto e competente, si è candidato a primo ministro contro Netanyahu, di cui prima dell’accordo di quest’ultimo con Gantz era alleato di governo. La comparsa di Sa’ar, che ottiene anche il gradimento di ex elettori delusi da Gantz e di quanti nel Centrosinistra lo ritengono l’unica alternativa plausibile all’odiato Netanyahu, potrebbe tarpagli le ali.

Centrosinistra residuale…

Il cosiddetto Centrosinistra rischia di subire l’ennesima sconfitta. Già Kahol Lavan era stato definito il partito dei generali. Come se non fosse servita la disastrosa esperienza di Gantz, ora pensa di candidare un altro ex capo di stato maggiore, Gadi Eisenkot. Durante la Seconda guerra del Libano fu l’ideatore della cosiddetta Dottrina Dahiya, dal nome di un quartiere sciita di Beirut. Essa prevede «una risposta sproporzionata ed enormi danni e distruzioni contro ogni zona abitata da cui vengano attaccate le forze israeliane». Non a caso Richard Falk, docente di diritto internazionale a Princeton e rapporteur dell’Onu, l’ha definita una forma di terrorismo di stato. Insomma, dopo Gantz, che durante la campagna elettorale si era vantato di aver fatto tornare parti di Gaza «all’età della pietra» durante l’operazione “Margine protettivo” del 2014, il Centrosinistra israeliano intende rincorrere la Destra sul suo stesso terreno.

Ma com’è noto, in genere gli elettori preferiscono gli originali alle copie.

…Sinistra sionista e coalizione dei partiti arabi in crisi

Quanto al Meretz, il partito storico della Sinistra sionista, ha ufficialmente accolto un nuovo candidato alla leadership: Yair Golan, un ex generale, che ha sostenuto di voler fare il possibile per silenziare quanti lo vogliono far diventare un partito arabo-israeliano. A suo favore può vantare il fatto di aver paragonato nel 2016, durante una manifestazione pubblica e in veste di vicecapo di stato maggiore, la situazione politica di Israele a quella della Germania dei primi anni Trenta.

Si prevede anche che la “Lista Araba Unita”, data la sua impossibilità di incidere sul quadro politico, perderà voti tra i molti elettori palestinesi con cittadinanza israeliana ormai disillusi. Oltretutto è indebolita da dissidi interni: recentemente la sua componente islamista ha addirittura avviato colloqui con Netanyahu per cercare di risolvere il problema della criminalità all’interno della comunità araba. Quindi probabilmente i vari partiti che la compongono si presenteranno separati.

Primarie della Destra

La tradizionale frammentazione del quadro politico israeliano è ulteriormente accentuata da uno schema che ancora una volta ruota attorno a Netanyahu. Ma una cosa è certa. Non sarà sulla soluzione del conflitto e sulle prospettive di pace con i palestinesi che verterà la campagna elettorale. Si prevede che i partiti di destra, di estrema destra e religiosi otterranno più di 80 seggi su 120. Il giornalista israeliano Gideon Levy ha scritto: «Il 23 marzo si terranno le grandi primarie della Destra, un evento che per qualche strana ragione viene ancora chiamato elezioni politiche per la Knesset».

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Ultimi colpi di coda di un baro e dei suoi complici? https://ogzero.org/devastante-viaggio-diplomatico-in-medio-oriente-di-pompeo/ Sat, 21 Nov 2020 09:39:55 +0000 http://ogzero.org/?p=1800 Ormai sembra inevitabile che il riottoso Trump sia costretto a breve a traslocare dalla Casa Bianca, salvo colpi di scena al momento imprevedibili. Ma l’assurdo sistema statunitense riguardo al cambio di amministrazione federale consente a lui e ai suoi complici di imbastire nei mesi di interregno trame e perseguire progetti di politica estera che non […]

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Ormai sembra inevitabile che il riottoso Trump sia costretto a breve a traslocare dalla Casa Bianca, salvo colpi di scena al momento imprevedibili.

Ma l’assurdo sistema statunitense riguardo al cambio di amministrazione federale consente a lui e ai suoi complici di imbastire nei mesi di interregno trame e perseguire progetti di politica estera che non si possono certo definire nel quadro della “amministrazione ordinaria”, come sarebbe previsto dalle regole di correttezza e dalla legalità istituzionale. Lo dimostra anche lo scenario disegnato in questi giorni dal viaggio in Medio Oriente del segretario di stato Mike Pompeo.

Rottura della tradizione diplomatica Usa

Lo scenario regionale, in particolare il conflitto israelo-palestinese, è stato il contesto in cui più attiva e dirompente è stata la politica estera dell’amministrazione Trump. Interrompendo una tradizione consolidata di equidistanza, formale quanto fittizia, dei governi statunitensi tra le parti in conflitto, il presidente Usa e i suoi consiglieri si sono apertamente schierati a favore delle pretese israeliane: riconoscimento dell’annessione delle alture del Golan, spostamento dell’ambasciata Usa a Gerusalemme, affermazione del diritto di esercitare la sovranità israeliana su gran parte dei territori palestinesi occupati, attacco esplicito al diritto al ritorno dei profughi palestinesi, imposizione di un piano di pace (il cosiddetto “accordo del secolo”) che recepisce quasi tutte le richieste di Israele, senza peraltro preoccuparsi neppure di consultare l’altra parte in conflitto. Non che gli Usa siano mai stati mediatori imparziali e abbiano imposto a Israele il rispetto degli accordi firmati. Persino Obama, il presidente che è stato considerato il più ostile e a cui il governo israeliano ha fatto sgarbi diplomatici e una sorda guerra di posizione, alla fine del suo mandato ha firmato la concessione di aiuti militari più generosa da sempre. Ma nessuno era mai intervenuto in un contesto così delicato ignorando leggi internazionali, risoluzioni Onu, cautela diplomatica. Non a caso Trump si è circondato di personaggi direttamente implicati nel progetto di colonizzazione israeliana della Cisgiordania, e costoro si sono comportati di conseguenza.

Pompeo: l’uomo del secondo mandato a Trump

Almeno in Medio Oriente, gli uomini di Trump si comportano come se quest’ultimo avesse vinto le elezioni. Dopo aver affermato che «ci sarà una facile transizione verso un secondo mandato di Trump», il segretario di Stato ha intrapreso un devastante viaggio “diplomatico” in Medio Oriente. Benché l’obiettivo più ambizioso di questa iniziativa riguardi un possibile attacco contro l’Iran (che pare Trump intendesse intraprendere qualche giorno fa), arrivato in Israele Pompeo ha espresso le sue convinzioni riguardo ai presunti diritti israeliani e ha inanellato una serie di esternazioni, visite di grande significato simbolico e iniziative molto concrete. Non è sembrato il viaggio di commiato di un segretario di stato che stesse per lasciare il proprio incarico, quanto motivato piuttosto dalla volontà di rilanciare su varie questioni cruciali. Di per sé le affermazioni di Pompeo, così come il disprezzo delle leggi e della diplomazia internazionale, non hanno fatto altro che confermare quanto già si sapeva. È noto che Pompeo, come il vicepresidente Mike Pence e una parte consistente dell’elettorato di Trump, aderisce a una congregazione cristiano-sionista. Ma è stato l’atteggiamento protervo e al contempo proattivo a lasciare sconcertati molti osservatori.

Lotta al BDS, legittimazione delle colonie, divisione dei territori

Le prime hanno riguardato critiche alla legge dell’UE che prevede l’etichettatura che specifichi la provenienza di prodotti importati dalle colonie israeliane, non identificabili come israeliani. Invece secondo Pompeo le esportazioni, sia dei palestinesi che dei coloni che vi vivono, provenienti dall’Area C (secondo gli accordi di Oslo sotto totale ma temporaneo controllo da parte di Israele) devono essere considerate israeliane. Ovviamente non si tratta solo di una questione commerciale, quanto soprattutto del riconoscimento formale della situazione di fatto e dell’illegittima occupazione dei territori palestinesi da parte di Israele. In più, con un’iniziativa tragicamente grottesca, ha anche annunciato l’intenzione di etichettare in modo differenziato i prodotti palestinesi provenienti dalla Cisgiordania rispetto a quelli di Gaza. In questo caso si tratta invece della sanzione ufficiale di un altro obiettivo della politica israeliana: la separazione tra i due territori palestinesi come mezzo per favorire l’annessione della West Bank e modificarne il rapporto demografico a favore dei palestinesi. Per esempio, Israele favorisce gli spostamenti dalla Cisgiordania verso Gaza, rendendo invece particolarmente difficile il flusso in senso opposto.

Inoltre Pompeo ha definito “antisemita” e “un cancro” il movimento BDS (Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni), che lotta in modo nonviolento in difesa dei diritti dei palestinesi e del rispetto delle leggi internazionali. Ha anche promesso iniziative del governo Usa per combattere il movimento, suscitando le proteste di ong come Amnesty International e Human Rights Watch, che pure non aderiscono alla campagna ma difendono il diritto di opinione degli attivisti BDS. Poi, primo segretario di stato a farlo, si è recato sulle alture del Golan, ribadendo che si tratta di un territorio israeliano, e ha visitato l’impresa vitivinicola israeliana di Psâgot, che sorge su terreni di proprietari privati palestinesi e raccoglie le uve provenienti da altre zone palestinesi occupate ed espropriate. Lì è stato omaggiato di un vino che porta il suo cognome. In realtà il proprietario dell’azienda visitata da Pompeo non solo non avrebbe di che lamentarsi dell’obbligo di specificare la provenienza del suo vino dai territori occupati, in quanto ha dichiarato anzi che ciò gli ha permesso di aumentare le vendite. Comunque, per chi avesse qualche dubbio, Pompeo ha definito la sua visita «il semplice riconoscimento [della colonia] come parte di Israele», aggiungendo che «oggi il Dipartimento di stato degli Stati Uniti è decisamente favorevole al riconoscimento del fatto che le colonie si possono costruire in modo legale, giusto e corretto».

Insediamenti ebraici

Pompeo ha visitato da segretario di stato la colonia illegale di Psagot

Reazione disperata alla sconfitta o un passo verso il futuro?

I commentatori politici si chiedono quali possano essere le ragioni di questa iniziativa di un’amministrazione (non certo solo di Pompeo) ormai destinata a sloggiare. Oltre alle convinzioni religiose del segretario di stato, la spiegazione più banale, anche se probabilmente non del tutto ininfluente, è quella sostenuta da Douglas Macgregor, colonnello e consulente del Pentagono: «Dovete andare a vedere le persone che fanno donazioni a questi individui. [Pompeo] chiede soldi alla lobby israeliana, ai sauditi e ad altri», ha affermato in un’intervista rilasciata alla CNN. Naturalmente lo stesso discorso vale a maggior ragione per Trump, il cui principale finanziatore è stato il miliardario Sheldon Adelson, che è anche un sostenitore delle colonie e di Netanyahu.

Una pesante eredità

C’è anche una ragione più strettamente politica che può spiegare il comportamento del segretario di Stato: la sua ambizione di presentarsi come candidato repubblicano alle elezioni del 2024. La sua (ultima?) mossa potrebbe permettergli di conquistare i favori dell’elettorato filoisraeliano di Trump, a cominciare dall’Aipac, la più potente associazione della lobby filoisraeliana negli Usa.

Infine, queste iniziative lasciano un’eredità piuttosto pesante da gestire all’amministrazione entrante. Non sarà facile per Biden rinnegare quanto fatto da Trump e dai suoi consiglieri a favore di Israele, tanto più che sia lui che Kamala Harris, la vicepresidente entrante, durante la loro vita politica e la campagna elettorale hanno più volte manifestato la propria vicinanza allo Stato di Israele. Biden vanta anche un’amicizia personale con Netanyahu. Come ha scritto un commentatore del sito ebraico di notizie “Mondoweiss”: «Per poter annullare queste iniziative dell’ultimo momento, intese a legittimare ulteriormente l’annessione e delegittimare l’opposizione all’apartheid israeliana contro i palestinesi, Biden dovrà pagare costi politici molto pesanti per poterli annullare».

Come afferma Barak Obama in un brano nelle sue memorie citato dal sito “JewishInsider”: «I parlamentari e i candidati che hanno criticato la politica di Israele in modo troppo deciso hanno rischiato di essere etichettati come “anti-israeliani” (e magari anche antisemiti) e nelle elezioni successive hanno dovuto fare i conti con avversari molto ben finanziati».

Non è detto che Biden sia disposto a correre il rischio e a smantellare il quadro idilliaco dei rapporti tra Usa e Israele dipinto in questi 4 anni dall’amministrazione Trump.

 

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Un complesso militar-industriale rinnovato e senza remore https://ogzero.org/nuovi-armamenti-e-suk-dell-usato-sicuro/ Thu, 12 Nov 2020 14:36:10 +0000 http://ogzero.org/?p=1722 A volte ritornano… le tangenti Lockheed Guerra e Pace. Pace e guerra. Distruzione e ricostruzione. Elementi fondamentali delle economie e delle contorte politiche mondiali. Appena incassati i cosiddetti “Accordi di Abramo” tra gli Emirati arabi e Israele, Donald Trump ha informato il Congresso della sua intenzione di vendere al piccolo stato arabo di fronte all’Iran […]

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A volte ritornano… le tangenti Lockheed

Guerra e Pace. Pace e guerra. Distruzione e ricostruzione. Elementi fondamentali delle economie e delle contorte politiche mondiali. Appena incassati i cosiddetti “Accordi di Abramo” tra gli Emirati arabi e Israele, Donald Trump ha informato il Congresso della sua intenzione di vendere al piccolo stato arabo di fronte all’Iran 50 caccia-bombardieri Lockheed Martin F-35-II, per una cifra che potrebbe aggirarsi attorno ai 10 miliardi di dollari (8421514000,00 euro). L’operazione ha bisogno dell’approvazione del Congresso e, indirettamente, di Israele che per bocca del suo premier Netanyahu, amico e complice del presidente uscente che farà i bagagli a fine gennaio, ha chiesto soltanto di far in modo che venisse mantenuto, come da accordi ormai consolidati dalla legislazione Usa, la superiorità militare del suo paese su tutte le altre nazioni arabe e del Vicino Oriente. E per mantenere questa superiorità serviranno nuove armi. Un funzionario della difesa israeliana ha atteso soltanto la conferma ufficiosa della sconfitta di Trump per dire al “Jerusalem Post” che non appena sarà possibile Tel Aviv vuole negoziare un nuovo pacchetto multimiliardario di assistenza militare da mettere in coda a quello stilato con Barak Obama e che scade nel 2027. Sicuramente dovrà tenere in considerazione la corsa degli arabi al F-35 e l’enorme quantità di armi acquistate dall’Arabia saudita negli ultimi anni. Sono stati che Israele considera alleati nella guerra all’Iran ma di cui si fida poco soprattutto per quanto riguarda la stabilità dei loro regimi. Stati clientelari per gli Usa che vi hanno basi militari importanti e che con i loro petro/gas-dollari continuano ad arricchire l’industria bellica americana. Spesso contro la volontà di una parte dell’establishment Usa, apparentemente incapace di contrastare la Casa bianca. Nel giugno di quest’anno l’Ispettore generale del Dipartimento di Stato (ossia il ministero degli esteri) fu licenziato su due piedi da Trump. Il presidente lo aveva scoraggiato dall’indagare sulla massiccia vendita di armi all’Arabia saudita portata avanti nonostante l’opposizione di una parte del Congresso. Il Regno era nel mirino dei parlamentari per il suo ruolo criminale nella guerra in Yemen; per l’assassinio del giornalista del “Washington Post” Jamal Khashoggi; e anche per i finanziamenti diretti o indiretti a organizzazioni islamiste collegate al terrorismo internazionale antioccidentale.

Nuovi armamenti sofisticati e suk dell’usato sicuro

È presto per capire cosa Joe Biden, sostenitore senza incertezze d’Israele, cambierà nella confusa politica Usa nei confronti di quella regione. È probabile un ritorno ai negoziati sul nucleare con l’Iran e forse ci sarà qualche passo per fermare l’idea – la “Abraham Peace” perorata da Trump e dal suo entourage di ebrei americani vicini a Netanyahu e alle sue idee estremiste – di mettere fine al conflitto arabo-israeliano, abbandonando completamente il popolo palestinese a un destino incomprensibile. Non è detto, però, che il Congresso bloccherà la vendita degli F-35 agli Emirati: non ha mai vietato una vendita già decisa al livello governativo. Di sicuro, se come probabile andrà avanti, favorirà una rinnovata corsa a nuovi più sofisticati armamenti da parte di tutti i giocatori, grandi e minuscoli, della regione. E con l’arrivo delle nuove armi, si movimenterà il solito grande suk dell’usato che come più di una volta in passato potrebbe portare armi “superate” ma più che efficienti nelle mani dei nemici degli Usa e dell’intero mondo occidentale.

Un filo di acciaio imbastisce l’industria bellica con la politica americana

Donald Trump, a differenza del suo predecessore Barak Obama, responsabile quanto meno della devastazione della Libia e, in qualche modo, anche della Siria, mantenendo le sue promesse pre-elettorali non ha avviato nuovi conflitti ma questo non significa che non abbia mantenuto quello stretto rapporto che da anni lega il mondo degli armamenti alla politica americana. E non solo americana. Oltre mezzo secolo dopo il famoso discorso-ammonimento d’addio dell’allora presidente Usa Dwight D. Eisenhower, i timori del generale passato alla politica sono diventati una realtà che influisce su tutti gli inquilini della sala ovale. E su chi aspira ad abitarci.

Dwight D. Eisenhower

Image from the broadcast of President Dwight D. Eisenhower and his farewell address to the nation on January 17, 1961, from the White House in Washington, D.C. (National Archives)

«Nei concili di governo dobbiamo guardarci dall’acquisizione di influenze che non diano garanzie, sia palesi che occulte, esercitate dal complesso militare-industriale. Il potenziale per l’ascesa disastrosa di poteri che scavalcano la loro sede e le loro prerogative esiste ora e persisterà in futuro».

Ike didn’t like weapons?

Pochi allora vollero attribuire molta importanza a quelle parole di Eisenhower – il generale che aveva portato alla vittoria l’alleanza contro il nazifascismo – pronunciate il 17 gennaio 1961 nel momento in cui stava lasciando la Casa bianca. Era stato eletto nelle liste del Partito repubblicano, lo stesso di Donald Trump e di altri outsider alla politica come l’attore Ronald Reagan, di ben altro spessore grazie a una squadra di consiglieri più capaci. Ike, così era chiamato da tutti, era l’uomo più popolare degli Stati Uniti. Sei anni prima, il 17 giugno 1945, mia madre volle portarmi – avevo sei anni – dalla nostra casa nel Bronx fino a Manhattan per essere con i quattro milioni di americani che accolsero al suo ritorno negli Usa l’eroe della guerra. Indossavo orgoglioso una giacca “modello Ike” – di moda perché era stato adottato dal generale e da molte truppe – che la mamma aveva tagliato e cucito con le sue mani.

Per Eisenhower, furono sufficienti i due mandati, otto anni, alla Casa Bianca, per comprendere i rischi insiti in un’industria bellica capace di influenzare la politica di una grande potenza come erano diventati gli Stati Uniti. Voleva un’America in grado di difendersi dagli orrori che aveva visto con i suoi occhi in un’Europa devastata dalla ferocia delle menti e delle armi ma nutriva molto più di un sospetto sul mostro che era cresciuto in casa per combattere quei mali.

«Un elemento vitale nel mantenimento della pace sono le nostre istituzioni militari. Le nostre armi devono essere poderose, pronte all’azione istantanea, in modo che nessun aggressore potenziale possa essere tentato dal rischiare la propria distruzione…

Questa congiunzione tra un immenso corpo di istituzioni militari e un’enorme industria di armamenti è nuovo nell’esperienza americana. L’influenza totale nell’economia, nella politica, anche nella spiritualità è sentita in ogni città, in ogni organismo statale, in ogni ufficio del governo federale. Riconosciamo il bisogno imperativo di questo sviluppo. Ma tuttavia non dobbiamo mancare di comprenderne le gravi implicazioni. La nostra filosofia ed etica, le nostre risorse e il nostro stile di vita sono coinvolti; la struttura portante della nostra società.

Non dobbiamo mai permettere che il peso di questa combinazione di poteri metta in pericolo le nostre libertà o processi democratici. Non dobbiamo presumere che nessun diritto sia dato per garantito. Soltanto un popolo di cittadini allerta e consapevole può esercitare un adeguato compromesso tra l’enorme macchina industriale e militare di difesa e i nostri metodi pacifici e obiettivi a lungo termine in modo che sia la sicurezza che la libertà possano prosperare assieme».

Corruzione e finanziamenti nel traffico di armi

I rischi insiti nella politica degli armamenti Usa sono stati documentati e denunciati nel 2018 da uno studio approfondito di due ricercatori – A. Trevor Thrall e Caroline Dorminey – del Cato Institute: Risky Business: The Role of Arms Sales in U.S. Foreign Policy. Tra i pericoli illustrati e ampiamente documentati, le situazioni di guerra in cui le armi americane vendute a “paesi amici” finiscono nelle mani di nemici degli Usa e vengono usate contro le truppe americane. Il caso recente più clamoroso riguarda l’Iraq dove interi arsenali hanno armato gruppi di islamisti in lotta contro le forze occidentali in quel paese.

Tangenti Lockheed Martin nei decenni

Corruzione e finanziamenti sono all’ordine del giorno nel mondo degli armamenti. Per restare nella regione che ci interessa, Netanyahu e alcune personalità israeliane del mondo militare e civile sono sotto inchiesta per tangenti che sarebbero state pagate per un affare miliardario di sommergibili tedeschi. Qualcuno si chiederà se l’affare degli F-35 e le massicce vendite di armi all’Arabia saudita in questi ultimi anni sono servite a rafforzare economicamente le campagne elettorali del presidente uscente o di altri politici impegnati nelle lunghe costose campagne per presidenza, congresso e senato. Ipotesi basate su fatti avvenuti in passato. Gli stessi costruttori degli F-35 furono incriminati negli anni Settanta quando il Congresso americano accertò che la corruzione era un sistema diffuso da parte della Lockheed Corporation e della più piccola Northrop. Nel 1976 il “New York Magazine” scrisse che il senatore Church, capo della commissione d’inchiesta, «ha prove che la Lockheed ha pagato tangenti in almeno quindici paesi, e che in almeno sei paesi ha provocato gravi crisi di governo». L’Italia fu una di questi. Mario Tanassi, ministro della difesa, fu silurato per aver intascato una tangente di 50000 dollari su circa 2 milioni di dollari, destinati dalla Lockheed alla corruzione in Italia. Furono condannati anche il generale dell’aeronautica Duilio Fanali, il segretario di Tanassi Bruno Palmiotti, i faccendieri Ovidio Lefebvre e Antonio Lefebvre, e il presidente di Finmeccanica Camillo Crociani.

Nuovi armamenti e suk dell’usato sicuro

Torniamo in Vicino Oriente e dintorni. Non soltanto perché è il più grande mercato di armi di ogni tipo ma perché è il perfetto testing-ground, il terreno su cui le armi nuove possono essere sperimentate prima di finire sulla linea di produzione e poi sul mercato. Usa, Russia, Francia e Israele sono qui in prima linea. In tutti i sensi. Secondo una delle più recenti ricerche del Stockholm International Peace Research Institute (Sipri), nella regione in guerra – dalla Siria, allo Yemen, dall’Iraq alla Palestina e poi al più distante Sud Sudan – le commesse sono aumentate del 61 per cento dal 2015 al 2019. Gli Usa sono in cima alla lista dei venditori lì e nel mondo: hanno ben 96 paesi-clienti. La Russia, ex superpotenza, ha perso una fetta importante del mercato dopo che l’India con un leader nazionalista di destra ha stretto rapporti con Israele dove ha trovato non soltanto una politica simile ma anche una delle più grandi, moderne e immorali delle industrie belliche pronte a vendere senza fare troppe domande. Nel maggio 2019 Amnesty International ha sottolineato che le armi israeliane vengono vendute a nazioni notoriamente colpevoli di violazioni dei diritti umani delle proprie popolazioni come Myanmar, Filippine, Sud Sudan e Sri Lanka. Negli ultimi mesi, bombe a grappolo israeliane, vietate dalle convenzioni internazionali, hanno seminato morte e feriti nella regione del Nagorno-Karabakh contesa tra Azerbaijan e Armenia. Grazie a testimonianze raccolte da giornalisti e analisi delle immagini dei bombardamenti nella capitale dell’autoproclamata repubblica dell‘Artsakh, Stepanakert, gli esperti di Amnesty hanno potuto confermare l’uso di bombe a grappolo di tipo M095 Dpicm, di fabbricazione israeliana. «Vecchi stock», hanno risposto da Tel Aviv per difendersi dalle critiche in uno scacchiere in cui le sue alleanze sono confuse. La guerra è guerra: la logica del potente apparato militare-industriale israeliano è strettamente controllato e gestito ai massimi livelli del governo.

Ma, ancora più importante della disponibilità a non fare domande o giudicare chi deve comprare, Israele offre (anche rispondendo a richieste specifiche quando possibile) di provare le armi nei conflitti dietro casa, da Gaza al Libano, alla Siria. Ci sono segnalazioni di richieste precise da parte di paesi acquirenti (gli Usa tra questi) perché certe armi sofisticate (come i droni e i loro armamenti ormai entrati in prima linea nelle moderne guerre) vengano usate in combattimento e approvate prima di finire sul mercato. La distruzione senza senso di abitazioni e altri edifici nella striscia di Gaza è spesso servita a questo scopo. E c’è chi – in Israele e fuori – vorrebbe assistere ad almeno uno scontro limitato con il meglio armato Hezbollah in Libano per mettere alla prova nuove generazioni di ordigni contro i bunker in profondità.

Nel 2017 le esportazioni di armi israeliane hanno raggiunto la cifra record di 9 miliardi di dollari. Questo non include il reddito delle società paramilitari che operano nel settore dell’informatica e della sicurezza. Un settore accusato di aver collaborato con regimi noti per i loro bassi voti nel rispetto dei diritti dei loro cittadini. E di spiare anche paesi amici.

L'articolo Un complesso militar-industriale rinnovato e senza remore proviene da OGzero.

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