Nazarbaev Archivi - OGzero https://ogzero.org/tag/nazarbaev/ geopolitica etc Fri, 29 Apr 2022 14:54:32 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.4.6 L’ordine regna in Kazakhstan e grande è la confusione sotto il cielo russo https://ogzero.org/lordine-regna-in-kazakhstan-e-grande-e-la-confusione-sotto-il-cielo-russo/ Sat, 15 Jan 2022 00:49:02 +0000 https://ogzero.org/?p=5851 Il bilancio dopo il ritorno all’ordine non è così scontato nei molti temi toccati dall’intervento di Yurii Colombo a completamento delle intuizioni incentrate sulla lotta di classe che ha inaugurato il 2022 kazako. Hanno fatto attenzione a reprimere senza umiliare i lavoratori kazaki, che ora attendono mobilitati che le promesse siano mantenute: infatti si è […]

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Il bilancio dopo il ritorno all’ordine non è così scontato nei molti temi toccati dall’intervento di Yurii Colombo a completamento delle intuizioni incentrate sulla lotta di classe che ha inaugurato il 2022 kazako.

Hanno fatto attenzione a reprimere senza umiliare i lavoratori kazaki, che ora attendono mobilitati che le promesse siano mantenute: infatti si è trattato di una reazione da un lato militare e spietata (con morti, arrestati, violenze…), condotta da reparti speciali, soprattutto contro i riot. E dall’altro traspare il sapore populista volto a blandire la piazza che impaurisce l’oligarchia – nella tradizione della satrapia  centrasiatica, che ha visto le stesse manovre precipitose nelle altre nazioni limitrofe che sono terra di conquista della Nato e che vedono gli oligarchi tentati di sfuggire al potere di Mosca. Salvo poi rivolgersi al Cremlino per soffocare rivolte e contese. Mentre Putin mira soltanto a mantenere una cintura di sicurezza, chiedendo attraverso i colloqui con la controparte di stilare un regolamento politico strategico che assicuri che non ci sia possibilità alcuna di confluenza nella Nato di un paese che condivida i confini occidentali della Federazione russa. Ma questo riguarda l’Ucraina, il mantenimento invariato del Kazakhstan non è in discussione.

A fronte di questa situazione internazionale ogni paese di quel cuscinetto di sicurezza ha una sua situazione particolare che rientra comunque negli standard delle risposte prevedibili: ciascuno diverso, ma ognuno uguale nel mantenimento degli equilibri. Il Kazakhstan in particolare è importante per le relazioni internazionali, tanto che non si è vista una reazione fatta di sanzioni o muscolare da parte di europei, che sfruttano le risorse; o di americani, che approfittano per provocare Mosca; o di cinesi , che ci devono far passare la Via della Seta. E allora è importante per tutti mantenere lo status quo, ma anche che i lavoratori producano quelle ricchezze che le potenze straniere e le multinazionali del petrolio intendono sottrarre.

Yurii, dopo gli aspetti sociali (assolutamente centrali) affronta subito, eliminandole, le letture complottiste dietro a cui Toqaev ha tentato di nascondersi. Ma la preoccupazione per i milioni di russofoni abitanti fuori dai confini russi, e anche i tanti provenienti dalle ex repubbliche e vivono in Russia, hanno richiesto uno studio della paura del jihad che dalla guerra in Cecenia in avanti ossessiona Putin.


«L’ordine regna in Kazakhstan» potremmo dire parafrasando Rosa Luxemburg. Dopo agitazioni e rivolte durate quasi una settimana – soprattutto grazie all’intervento delle truppe dell’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva (Csto) – il presidente Qasym-Jomart Toqaev è riuscito a riprendere il controllo della situazione e ha promesso anzi che entro la fine del mese di gennaio quest’ultime verranno ritirate completamente dal paese. Restano però aperte non solo molte questioni interne, ma anche riguardanti la sistemazione dell’ordine regionale e inevitabilmente di quello mondiale visto la dimensione strategica per il mondo occidentale del problema del contenimento del radicalismo islamico e del controllo delle rotte energetiche (il Kazakhstan ha riserve di petrolio per 30 miliardi di barili e di gas per 3 trilioni di metri cubi).

L’intervento del Csto è servito a stabilizzare la situazione che rischiava di sfuggire di mano dopo i vistosi fenomeni di “fraternizzazione” e “timidezza” della polizia (e persino dei reparti speciali) nei confronti dimostranti in varie zone del Kazakhstan. Per avere un quadro delle dimensioni degli avvenimenti kazaki basterà ricordare il bilancio finale degli incidenti in tutto il paese: 164 morti tra i dimostranti e 18 tra forze dell’ordine, oltre 8000 arresti, oltre tre miliardi di danni economici dovuti agli scioperi, al blocco delle comunicazioni e dei trasporti e per i danneggiamenti.

Come si evince dall’infografica è stata coinvolta dai disordini solo una delle tre città più popolate, ma tutti i grandi centri urbani industriali (a parte Alma Aty ovviamente) hanno visto manifestazioni egemonizzate da gruppi di lavoratori e dai sindacati. L’eterogeneità delle rivendicazioni e delle proteste non deve far dimenticare il tratto unificante di una richiesta generalizzata di maggior equità sociale.

Nei giorni successivi, il presidente kazako, soprattutto per giustificare l’intervento esterno, ha enfatizzato i caratteri “arancioni” delle dinamiche nel paese, ma ben presto ha dovuto drasticamente ridurre il numero di mercenari a suo dire attivi nelle manifestazioni da 20000 a 300. Lo stesso tasto, ma con meno vigore è stato premuto da Putin, il quale ha però immediatamente distinto «l’azione terroristica dalle proteste contro il carovita». Secondo i servizi speciali del Tagikistan, il numero di campi e centri di addestramento dei terroristi attivi ai confini meridionali del Csto nelle province nordorientali dell’Afghanistan sarebbero oltre 40, e complessivamente sarebbe composti da 6000 combattenti. Il 12 gennaio Toqaev per la prima volta ha indicato quali sarebbero i “mandanti” dell’“azione terroristica”: «Un atto di aggressione… che ha coinvolto combattenti stranieri provenienti principalmente dai paesi dell’Asia centrale, compreso l’Afghanistan. C’erano anche combattenti del Medio Oriente» ha precisato il leader kazako escludendo così l’ipotesi frettolosamente sostenuta dai vari raggruppamenti del cospirazionalismo internazionale sul ruolo dei paesi occidentali.

Secondo il direttore dell’Institute for Geopolitical Research e capo ricercatore presso l’Istituto di Storia ed Etnologia Asylbek Izbairov, i gruppi dell’estremismo islamico fin dalla loro comparsa nel paese intorno al 2011 sono sempre rimasti “ridotti” e “limitati” a gruppi giovanili capaci solo di realizzare attentati terroristici. Tali gruppi hanno assunto nomi spesso roboanti come “Soldati del Califfato” (Junud al-Califfato), “Difensori della religione” (Ansar-ud-din), Battaglione di Baybars ma il loro radicamento sociale è sempre rimasto incerto e il loro programma politico vago.

Questi gruppi avrebbero sviluppato «concetti quasi coloniali di tendenze sufi sincretiche, che a lungo termine portano a una pericolosa “sintesi” di misticismo pseudo-religioso e nazionalismo etnico di “sangue e suolo”».

Un quadro simile si coniugherebbe assai bene ad altre ipotesi circolate sui mass-media kazaki secondo cui soprattutto ad Alma Aty alcune “cellule dormienti” di questi gruppi siano stati il propulsore dei riot popolari dandogli quell’efficienza lamentata dal Toqaev, giunta fino alla prova di forza dell’occupazione dell’aeroporto internazionale a cui avrebbero partecipati circa 800 rivoltosi.

Questa dimensione sarebbe una delle ragioni che avrebbe spinto Putin a ritirare rapidamente le proprie truppe dal paese per evitare (anche in Kirgizistan e in Tagikistan) l’emergere di forti sentimenti antirussi che potrebbero avere ricadute poco piacevoli nelle metropoli russe dove lavorano milioni di migranti centroasiatici.

D’altro canto ciò spiega anche il sostanziale beneplacito al ristabilimento dell’ordine da parte del Dipartimento di stato Usa: non solo perché così vengono garantiti gli investimenti stranieri (161 miliardi di dollari dall’indipendenza del 1991 al 2020 principalmente nel settore energetico) ma anche soprattutto perché la Russia ha tolto le castagne dal fuoco a tutto il capitalismo internazionale in una fase delicata come quella attuale in cui si sta ancora elaborando il lutto della fuga dall’Afghanistan. In questo trentennio tutti i paesi della fascia centroasiatica dell’ex Urss hanno svolto un ruolo di contenimento della crescita dell’islam radicale e anche se molti foreign fighters si sono per un periodo trasferiti a combattere nell’Isis in Siria e in Iraq il ritorno in patria non ha prodotto fenomeni terroristici in tutta l’area e particolarmente in Russia dove l’ultimo attentato significativo resta quello dell’aprile 2017 a San Pietroburgo.

Malgrado ciò il primo intervento dalla sua fondazione nel 1992 del Ctso segna uno spartiacque dal punto di vista politico e tattico-militare.

«Comprendiamo che gli eventi in Kazakistan non sono il primo e tutt’altro che ultimo tentativo di interferire dall’esterno negli affari interni dei nostri stati. Le misure che abbiamo preso hanno dimostrato chiaramente che non permetteremo che la situazione in patria sia scossa e non permetteremo che si materializzino gli scenari delle “rivoluzioni colorate”», ha sostenuto Putin, durante la riunione con gli stati membri.

Il Csto si configurerebbe per certi versi come una sorta di “Santa Alleanza” come quella delle autocrazie europee dopo il 1815, per frenare ai confini dell’Urss l’insorgenza di rivoluzioni democratiche. Una forza non di occupazione però ma di pronto intervento, per frenare l’ulteriore disgregazione di quelli che furono i “confini naturali” dell’Urss e, per altri versi, della Russia zarista. Operazione complessa perché per ironia della storia era stato proprio il Kazakhstan qualche anno fa a proporre lo scioglimento dell’alleanza, per avere le mani libere nella trattativa con le potenze occidentali. Un raggruppamento comunque spurio, il cui asse fondamentale è basato tra Mosca e Minsk. Del resto il settimanale moscovita “Expert” ha dovuto riconoscere a denti stretti che il presidente tagiko Emomali Rakhmon insiste per la «creazione di una lista unificata delle organizzazioni riconosciute come terroristiche nel formato Csto che non è ancora stata redatta».

Secondo il settimanale moscovita «questa è davvero una questione difficile, perché alcuni paesi membri della Csto (specialmente il Tagikistan) amano classificare varie forze di opposizione che chiedono il diritto alla protesta pacifica come terroristi e islamisti», un approccio non condiviso da Mosca soprattutto dopo che è diventata una necessità tenere aperto un confronto con il governo di Kabul.

Mosca non sembra aver tratto un gran giovamento dalla crisi ha cercato in un primo tempo di far passare come “Vzglyad”, un portale russo di geopolitica filoputiniano, in chiave di egemonia sull’intera area. A differenza della Bielorussia, paese povero di risorse, il governo di Nursultan non è interessato – visti gli enormi interessi economici occidentali nel paese – a legarsi mani e piedi a Mosca anche perché ha i mezzi per sviluppare una politica riformista e relativamente redistributiva.

Putin appare costretto a giocare un ruolo interventista visto anche quanto bolle in pentola con l’Ucraina, a cui rinuncerebbe volentieri.

Secondo il politogo Georg Mirzjan: «Se Mosca si rivela non essere pronta a garantire la sicurezza nello spazio postsovietico, la Turchia e la Gran Bretagna possono assumere questo ruolo. Ci potrebbe essere una cintura di instabilità lungo tutti i confini meridionali della Russia, dal mar Nero alla Mongolia, infettando il Caucaso del Nord, la regione del Volga e altre parti della Russia con l’islamismo e il radicalismo».

Il ruolo di sceriffo del Centroasia in via del tutto teorica potrebbe essere assunto dalla Cina, che, a differenza di Gran Bretagna e Turchia, è interessata a stabilizzare la regione a tutela del progetto della “Via della Seta”, ma il problema è che i “pacificatori” cinesi non porteranno certo la pace perché la Repubblica popolare stenta a trovare una lingua comune con la popolazione musulmana della regione. Le attività aggressive (e talvolta predatorie) del business cinese in Kazakhstan e Tagikistan hanno ripetutamente portato a potenti manifestazioni anticinesi (che prima o poi potremmo vedere anche nella Russia siberiana). È proprio per questo che la presenza militare cinese potrebbe causare solo una nuova ondata di radicalismo, inguaiando ancora di più il Cremlino.

“Kazakhstan di lotta e di geopolitica”.
Il governo kazako sta ora correndo ai ripari. La scossa tellurica delle proteste ha smosso fin dalle fondamenta il paese e il regime intende introdurre un vasto pacchetto di riforme in primo luogo di carattere economico-sociale. Durante la riunione di gabinetto dell’11 gennaio, Toqaev ha soprattutto sottolineato quelle dai tratti più nettamente populistici come la riforma della Banca di sviluppo del Kazakhstan (Dbk).

«Dbk si è essenzialmente trasformata in una banca personale per una stretta cerchia di individui che rappresentano gruppi finanziari-industriali e di costruzione. Conosciamo tutti per nome», ha dichiarato il presidente kazako.

Ha proposto anche una moratoria di cinque anni sull’aumento degli stipendi dei deputati e dei funzionari di alto livello. Ha inoltre promesso che i lavoratori del settore pubblico avranno i loro stipendi aumentati assieme a una moratoria sull’aumento dei prezzi dei beni di prima necessità di tre anni. Sarà quindi istituito un fondo sociale pubblico per risolvere i problemi sociali.

«Dobbiamo dire grazie al primo presidente, Yelbasa (Nursultan Nazarbaev), se si è imposto nel paese un gruppo di aziende molto redditizie e una fascia di persone ricche, anche per gli standard internazionali. Credo che sia il momento di dare credito al popolo del Kazakhstan e di aiutarlo in modo sistematico e regolare», ha commentato sarcastico Toqaev, come se egli durante tutte le amministrazioni precedenti avesse vissuto su un altro pianeta.

Il giorno successivo Il ministro dell’economia del Kazakhstan Alibek Kuantyrov ha annunciato l’introduzione di una tassa supplementare sull’estrazione di minerali solidi. Non ha specificato però quale sarebbe la tassa aggiuntiva o quando entrerebbe in vigore (il Kazakhstan è il più grande produttore di uranio al mondo e ha grandi depositi di rame, di ferro e zinco). Si è ventilato anche un intervento sulla fuga dei capitali verso i paradisi fiscali di cui la famiglia Nazarbaev è sempre stata una gran specialista. Nulla invece sugli idrocarburi, in buona parte controllate da corporation americane, britanniche, olandesi – oltre all’Eni – così come sulla tassazione dei prodotti sui capitali stranieri che controllano il 70% dell’economia del paese. Si prospetta quindi una sorta di gestione “alla Pëtr Stolypin”, l’ultimo ministro delle finanze del potere zarista prima delle rivoluzioni russe: riforme dall’alto accompagnate dal pugno di ferro contro le opposizioni e il movimento operaio. Toqaev ha nominato come nuovo premier il cinquantenne di Alma Aty, Alichan Smailov, una scelta non certo di gran rinnovamento visto che nel passato Smailov è stato vicepremier e ministro delle finanze del paese. Il governo russo ha perfino accusato il nuovo ministro dell’Informazione del Kazakhstan, Askar Umarov, di avere «punti di vista nazisti e sciovinisti sui russi». Il sociologo di Kiev Volodymyr Ishchenko, esperto di dinamiche postsovietiche, è convinto che gli affari per la classe dirigente kazaka non si rimetteranno sui consueti binari dell’accumulazione predatoria tanto facilmente:

«Le tesi sulla “modernizzazione autoritaria”, sulla “rivoluzione passiva” e sull’“imperialismo” mal si adattano alla realtà del capitalismo patronale. Si tratta solo di una conservazione temporanea e intrinsecamente instabile della crisi politica postsovietica che non riesce ancora a trovare una vera soluzione al problema ricorrente della successione».

In questo quadro si deve valutare, il ruolo dell’attore principale di questo passaggio storico, cioè il movimento dei lavoratori. Come abbiamo già scritto su “OGzero” i lavoratori kazaki non da ieri sono entrati in movimento. Si tratta di una classe operaia giovane (soprattutto quella impiegata nei settori più propriamente industriali nella fascia di età giovanile rappresenta più del 30% del totale), concentrata in alcune zone del paese, sperimentata in oltre un ventennio di lotte. Una classe lavoratrice composta in buona misura da donne (il 60,2% delle donne kazake sono occupate) un fattore che rappresenta un baluardo contro la penetrazione del radicalismo islamico più reazionario. Una classe lavoratrice che ha ottenuto alcune vittorie parziali (compresa la riduzione del prezzo del gas) e ha saputo realizzare, seppur in un contesto difficilissimo, in pochi giorni, un ripiegamento ordinato in attesa di vedere se le promesse del governo diverranno realtà. Del resto le rivoluzioni si fanno strada non solo “come nel 1917”, ma anche “come nel 1905”, quando il potere magari regge ma non sa davvero riformarsi: quest’ultimo facendo concessioni significative alla piazza apre nuove contraddizioni nei diversi settori della società e condiziona le mosse delle potenze internazionali.

La classe operaia nell’ex Urss è tornata a essere uno dei fattori della contesa politica dopo una lunga eclisse. Dopo la timida ma in controcorrente apparizione dei nell’ascesa bielorussa, un altro contingente dell’ex Urss si è mobilitato: catapultato sulla scena della storia è divenuto sorprendentemente uno dei fattori del mutamento politico in Kazakhstan. Va sottolineato: non succedeva dai tempi dell’Iran e della Polonia a cavallo tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta del secolo scorso.

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Kazakhstan. La rivolta che montava da tempo inaugura il 2022 https://ogzero.org/kazakhstan-la-rivolta-che-montava-da-tempo/ Thu, 06 Jan 2022 22:51:02 +0000 https://ogzero.org/?p=5770 Nel Kazakistan dell’ultimo capo del Pcus locale, sopravvissuto al potere per 30 anni alla fine dell’Urss, il raddoppio delle tariffe energetiche è arrivato dopo che si è concluso il percorso in tre fasi di privatizzazione dell’energia. Alcuni analisti internazionali riconducono l’incremento di fabbisogno di energia in un paese che la produce (ed è straricco di […]

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Nel Kazakistan dell’ultimo capo del Pcus locale, sopravvissuto al potere per 30 anni alla fine dell’Urss, il raddoppio delle tariffe energetiche è arrivato dopo che si è concluso il percorso in tre fasi di privatizzazione dell’energia. Alcuni analisti internazionali riconducono l’incremento di fabbisogno di energia in un paese che la produce (ed è straricco di risorse energetiche) al fatto che le criptomonete hanno spostato i loro computer dalle sedi cinesi e i calcoli dell’algoritmo consumano talmente tanta energia ogni secondo che assorbono moltissima energia e hanno automaticamente fatto lievitare i prezzi delle fonti energetiche con l’aumento di richiesta. Ma la goccia di gpl è solo quella che ha fatto traboccare il vaso.

In realtà, qualunque contingenza abbia provocato questa emersione della rabbia del popolo kazako, la mobilitazione del proletariato che sta ribellandosi dura da molto più tempo che le privatizzazioni e la lotta di classe negli ultimi mesi aveva ottenuto importanti risultati e dunque ha solo proseguito la ribellione individuando la possibilità di ribaltare finalmente un sistema totalitario, corrotto, oligarchico e predatorio proprio dei proventi di quelle risorse che pretendeva di far pagare il doppio a un paese ricco dove si vive da poveri: una rivolta senza capi che subito è tacciata di intelligenza con gli Usa, ma questa somiglia troppo alla lotta di classe.

Yurii Colombo ha potuto analizzare la situazione attuale, avendo ben presente la rivolta del 2015-2016, ma anche badando agli interessi esterni – cominciando ovviamente da Mosca, ma anche dai paesi europei, dalla Cina partner commerciale, dai finanzieri svizzeri… – mettendo al centro l’evento quasi mitico di un paese in piazza che prende i palazzi del potere in poche ore, si scontra con le forze dell’ordine, un’insurrezione senza capi (probabilmente non ispirata da forze straniere, ma neanche spontanea perché montante da tempo), si ammanta di Storia per il suo divampare improvviso, ma è dotato della forza che le lotte precedenti le hanno infuso. Potranno soffocarla con l’intervento di Putin, ma il potere di Nazarbaev è stato definitivamente archiviato. Ora il problema è di Putin? 


“Ci sono giorni che valgono anni”, dice un vecchio motto. Ed effettivamente se non fossero eventi anche tragici quelli che in queste ore si stanno verificando in Kazakistan, si potrebbe desiderare che il tempo si fermasse per meglio fissare e analizzare i (rari) processi di accelerazione della storia. In soli quattro giorni le prime rivendicazioni operaie e popolari contro l’aumento dei prezzi del gas iniziate nelle regioni Sudoccidentali del paese si sono trasformate in un processo insurrezionale. Fino al punto che per essere sedate il Presidente in carica Quasym-Jormat Toquaev ha chiesto l’intervento dell’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva (Csto), il patto di Varsavia versione dopo il crollo dell’Urss, esattamente 30 anni fa.

Da più parti per spiegare quanto sta avvenendo stanno parlando di “rivolta spontanea”, ma è davvero così? Non proprio, la mobilitazione non è nata come Minerva dalla testa di Giove e mobilitazioni di tale portata forse possono essere improvvisate ma non create dal nulla.

Il focolaio della rivolta: non è la prima volta di Zhanaozen

La ribellione è iniziata il primo dell’anno nella provincia di Mangistau nel Sudest del Kazakistan che si affaccia sul Caspio nella cittadina di Zhanaozen e infettando poi la capitale regionale di Aktau. Tuttavia il cambio di passo è avvenuto il giorno dopo quando sono entrati in sciopero i minatori della regione di Karaganda e della Kazakhmys Corporation nell’ex regione di Zhezkazgan bloccando la ferrovia e l’autostrada a Taraz, Taldykorgan, Ekibastuz, Kokshetau e Uralsk. La rapidità dello sviluppo delle agitazioni non è stata però casuale.

Il movimento operaio kazako ha una grande tradizione di lotta nell’era postsovietica. Le prime ondate rivendicative soprattutto nel settore petrolifero ed estrattivo (oltre che metalmeccanico) condussero alla formazione nel 2004 dei primi sindacati indipendenti kazaki dell’era postsovietica. Il momento culminante di questa ondata rivendicativa (principalmente salariale) che proseguì in crescendo dal 2008 fu raggiunto nel 2011 con i gravi incidenti nella città di Zhanaozen, quando il 16 dicembre, la polizia sparò sugli operai, uccidendone 16, ferendone e arrestandone centinaia.

Malgrado la durissima repressione che ne seguì, forme di resistenza semiclandestina dei lavoratori non cessarono mai da allora. Nel 2021 il processo di ricomposizione delle lotte ha poi accelerato e il 30 giugno scorso i lavoratori dell’azienda di servizi petroliferi Kezbi Llp di Zhanaozen inscenarono una prima fermata “a gatto selvaggio”; gli scioperanti chiedevano aumenti salariali, cambiamenti nell’organizzazione dell’attività e miglioramenti delle condizioni lavorative. La lotta fu coronata da successo e i lavoratori in lotta ottennero un raddoppio salariale: il 100% di aumento, da 200.000 a 400.000 tenghe (da 400 a 800 euro). Visto il successo gli scioperi si allargarono rapidamente a tutta la zona. Il 13 luglio i lavoratori di Kmg-Security incrociarono le braccia seguiti due giorni dopo dai lavoratori dell’azienda di trasporti MunaiSpetsSnab Company. Anche qui breve mobilitazione e vittoria immediata con aumenti del 100% del salario e altre conquiste. Il 21 luglio fu poi la volta della Kunan Holding. In seguito a Zhanaozen è iniziato il primo sciopero delle donne della Nbc, con le stesse richieste di salari più alti e migliori condizioni di lavoro. Un crescendo rossiano di fermate; scioperi alla Aktau Oil Service Company e alla Oilfield Equipment and Service, alla BatysGeofizService, alla Eurest Support Services Llp (Ess), alla Ozenenergoservis, nel campo petrolifero di Karazhanbas, nella regione di Mangistau. E scioperi anche alla Industrial Service Resources Llp, alla Industrial Service Resources Llp, alla Kmg Ep-Catering, alla Ezbi, alla Emir-Oil Kmg Ep-Catering, alla Abuev Group. Scioperarono poi in piena estate anche i corrieri della Glovo di Alma Ata.

Operai in sciopero il 2 agosto 2021. Gli scioperanti vivevano in baracche e guadagnavano in media 200 euro al mese. Sfruttati da privati e aziende pubbliche.

Il 28 giugno un grosso gruppo di donne di Astana presero d’assalto il ministero dell’industria di Astana, chiedendo posti di lavoro, alloggi e maggiori benefici per i bambini. L’8 luglio i lavoratori delle ferrovie di Shymkent bloccarono la circolazione regionale, mentre sempre ad Alma Ata, il 20 luglio, decine di dipendenti dei servizi di soccorso delle ambulanze protestarono contro il ritardo nel pagamento delle indennità “coronavirus” e per le disastrose condizioni di lavoro (tutte queste informazioni sono tratta dalla pagina anarco-sindacalista russa “Kras”).

Abbiamo fatto un così minuzioso (ma in realtà la nostra lista è solo parziale) riassunto delle lotte dei lavoratori kazaki della scorsa estate per un motivo molto semplice. Perché dimostra che la teoria della “spontaneità assoluta” è fuorviante. Se oggi i lavoratori kazaki si stanno muovendo con tanta decisione ciò è dovuto in primo luogo ai successi parziali che ottennero durante quelle agitazioni e ciò ha sicuramente rafforzato in loro convinzione e fiducia.

Ma la “ribellione” si è trasformata in “rivoluzione” non solo per la discesa in campo della classe operaia industriale. Dal secondo giorno ad Alma Ata hanno iniziato a mobilitarsi i giovani delle periferie in veri e propri riot (spesso armati) che hanno conteso palmo a palmo alle forze dell’ordine e ai reparti speciali il territorio, facendo diventare una metropoli di due milioni di abitanti l’epicentro dello scontro, un subbuglio divenuto eminentemente politico visto che le autorità avevano a quel punto accettato di ridurre i prezzi del gas, sussidiare quelli degli alimentari e il governo si era formalmente dimesso.

Expert”, un autorevole settimanale moscovita non certo di sinistra, sostiene che le dimensioni della rivolta ad Alma Ata sono determinate dal fatto che «ci sono molti giovani sfaccendati e spesso disoccupati. Infatti secondo un censimento dell’autunno scorso il 53,69% della popolazione ha meno di 28 anni. Ed è proprio tra questi strati che la disoccupazione è particolarmente alta».

L’estensione geografica delle proteste segnala inoltre come si siano saldati diversi elementi di carattere anche locale. Non solo il Sud e l’Ovest, ma anche il Nord, solitamente depresso e calmo con popolazione russa dominante, sta ribollendo e questa è una novità assoluta. A Taldykorgan un monumento a Nursultan Nazarbaev è stato abbattuto: un’azione che sarebbe stata impensabile fino a pochi giorni fa.

In alcune zone occidentali del paese gli scontri sembrano addirittura cessati e il potere è stato preso dai manifestanti insieme ai funzionari locali e alle forze di sicurezza, per esempio a Zhanaozen. In questo quadro se entro 24-48 ore il governo centrale con l’aiuto delle truppe dell’Alleanza non dovesse riuscire a prendere il controllo della situazione – finora il numero di morti tra i manifestanti resta imprecisato ma nell’ordine minimo di decine di vittime – si potrebbe assistere a un vero e proprio crollo statale per certi versi simile a quello avvenuto in Afghanistan l’estate scorsa. In questo quadro va tenuto conto però conto che non sono apparsi segni di livore antirusso e neppure la variante del fondamentalismo islamico sembra giocare un ruolo significativo mentre non è chiaro dove si andranno a posizionare i vari clan tribali che negli equilibri del paese hanno sempre svolto un certo ruolo.

I segni di “cedimento strutturale” ci sono tutti.

Secondo il portale russo “Meduza” in queste ore «ci sono notizie di decine di jet privati che lasciano il paese, il Kazakistan dell’élite imprenditoriale sta lasciando il paese in fretta e furia»

E lo stesso Nursultan Nazarbaev dopo essere stato dimesso d’imperio dal presidente in carica si dice si sia rifugiato all’estero. Ma che si stesse ballando su un Titanic nessuno se lo immaginava.

In un articolo per “Foreign Policy” nel dicembre scorso Baurzhan Sartbayev, presidente del Consiglio di amministrazione di Kazakh Invest sosteneva con baldanza che «il Kazakistan è emerso come un attore importante nell’economia globale e una destinazione di investimento attraente. In definitiva, il Kazakistan è sulla strada per migliorare il clima degli investimenti e rafforzare la posizione del paese all’interno della comunità globale».

Del resto non sono solo la classe operaia e il sottoproletariato a essere stanchi di un potere che – forse unico insieme all’Azerbaigian – vanta una filiazione diretta dall’ex Urss, essendo stato Nazarbaev anche l’ultimo segretario del Pcus kazako fino proprio al 1991. In questi anni mentre la forbice delle ricchezze sociali si allargava a dismisura si è formato nelle grandi metropoli (Alma Ata e Astana – ora Nur-Sultan) un piccolo strato di classe media urbana che ha mostrato sempre più stanchezza per la corruzione, il nepotismo, l’autoritarismo e la scarsa mobilità sociale che affascia il paese. Questi strati sociali sono anche quelli più sensibili alle argomentazioni prettamente politiche come il fatto che non se ne poteva più di Nazarbaev, l’insoddisfazione per il governo di Tokayev, per un sistema di partiti rigido e antidemocratico, per l’esistenza di leader locali non eletti e così via. Se elementi di “rivoluzione arancione” ci sono nella vicenda kazaka si annidano in questi strati e in queste città dove da sempre sono state attive le ong occidentali, le associazioni culturali turche e la presunta base di Mukhtar Ablyazov, un ex banchiere bancarottiere che guida il partito della Scelta Democratica del Kazakistan, oggi in esilio a Kiev, la cui influenza è scarsa o nulla. Secondo i cospirazionisti di destra e di sinistra però sarebbe stato lui a orchestrare la rivolta per far giungere Putin alle trattative con la Nato – che iniziano il 10 gennaio – debole e impaurito. Tuttavia tutti gli organi informativi russi più accreditati continuano a ripetere che «non esiste alcuna prova o indizio» che la rivolta sia stata manovrata o perfino programmata dall’estero.

Le reazioni soft del resto del mondo

La tesi del “ruolo di forza straniere” viene rilanciata in queste ore per evidenti motivi anche dal ministero degli Esteri russo con un comunicato ad hoc ma senza troppa convinzione. Putin appare, dietro le quinte, convinto che i margini di manovra dell’attuale regime siano stretti, ma non sembra aver altra scelta oggi che sostenere il presidente in carica, un po’ come avvenne nel 2020 con la Bielorussia di Lukashenka. In Russia e a Mosca in particolare vivono molti migranti centroasiatici con cui il potere russo non vuole avere attriti. Anche per questo l’intervento dei soldati russi è stato presentato come un “intervento pacificatorio”.

«I pacificatori armati non portano pace»: infatti si parla di centinaia di morti, militari decapitati, feriti e migliaia di arresti, dopo l’arrivo delle truppe del Csto

Del resto anche i media occidentali hanno evitato – almeno finora – di suonare la grancassa della propaganda antirussa e i motivi sono evidenti: ci sono grandi investimenti stranieri nel paese che ora rischiano di sfumare o di subire pesanti perdite a causa del clima interno del paese – tra cui quelli dei Paesi Bassi, che rimangono il più grande investitore del paese con 3,3 miliardi di dollari, seguiti da Stati Uniti (2,1 miliardi di dollari), Svizzera (1,3 miliardi di dollari), Russia (704. 9 milioni di dollari), Cina, con i suoi 508,7 milioni di dollari. Quest’ultima come spesso le succede ha mostrato per ora il suo solito volto di softpower rifiutandosi di commentare gli avvenimenti.

La situazione per Putin già complessa ai suoi confini occidentali ora potrebbe diventare non agevole anche a oriente. Anche perché la resistenza della classe operaia che non arretrerà, potrebbe impedire quella “riforma dall’alto” del regime interno che la presidenza Toqaev ora sembra pronta a compiere.

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