Naypyidaw Archivi - OGzero https://ogzero.org/tag/naypyidaw/ geopolitica etc Sun, 15 Sep 2024 22:17:38 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.4.6 Armi a regimi feroci: storia della diplomazia israeliana in Myanmar https://ogzero.org/armi-a-regimi-feroci-storia-della-diplomazia-israeliana-in-myanmar/ Thu, 27 Oct 2022 16:11:17 +0000 https://ogzero.org/?p=9267 Il 24 ottobre Israele ha bombardato i siti iraniani che riforniscono di armi la Russia: una scelta di campo precisa e non scontata, visti i rapporti tra le due potenze militari di reciproca tolleranza e spesso di collaborazione a prescindere da qualunque considerazione morale, che arriva a otto mesi dall’inizio della invasione dell’Ucraina. Infatti è […]

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Il 24 ottobre Israele ha bombardato i siti iraniani che riforniscono di armi la Russia: una scelta di campo precisa e non scontata, visti i rapporti tra le due potenze militari di reciproca tolleranza e spesso di collaborazione a prescindere da qualunque considerazione morale, che arriva a otto mesi dall’inizio della invasione dell’Ucraina.
Infatti è prassi per i governi di Tel Aviv intrattenere traffici con le peggiori dittature e i regimi più brutali, rifornendoli – spesso in gran segreto – di sofisticati sistemi di morte. Attingendo anche a un recente dossier pubblicato su “Haaretz” a firma dell’attivista Eitay Mack e ai dossier dell’attivismo di Justice for Myanmar, Eric Salerno ricostruisce la storia emblematica dei rapporti tra Israele dalla sua nascita con  Burma-Myanmar. Sul filo di eventi di sessant’anni fa si vede in tralice come il sistema della condivisione di armi e sistemi bellici con i regimi più autocratici sia rimasta invariata per Israele fin dalla sua fondazione; e un nuovo rapporto sull’uso di armi biologiche nel 1948 da parte dell’Haganà per avvelenare interi villaggi arabi in Palestina confermerebbe questa predisposizione. «Le cose da allora non sono cambiate», chiosa Eric, ed è interessante andare a scoprire i meccanismi ripetuti fino a oggi, che forse non a caso ora sono oggetto di studi accademici seri e circostanziati come quello di Benny Morris della Ben Gurion University e Benjamin Z. Kedar della Hebrew University di Gerusalemme sulla Guerra biologica dei sionisti.


«Sapevano, o avrebbero dovuto sapere, di essere coinvolti nella corruzione e nella cospirazione in Myanmar»

Così scrive Eitay Mack a proposito di una società in Myanmar implicata in crimini e corruzione – i cui responsabili ai massimi livelli sono stati arrestati in Thailandia con l’accusa di riciclaggio di droga e denaro. Avrebbe svolto un ruolo da intermediario tra gli esportatori di armi israeliani e la brutale giunta militare che governa il paese secondo i documenti svelati da Justice for Myanmar. Gli alti dirigenti della società mantengono legami d’affari e familiari con esponenti di spicco della giunta e dell’esercito del Myanmar. La Gran Bretagna ha imposto sanzioni alla società, Star Sapphire Trading, per i suoi legami con l’esercito di Naypyidaw durante la pulizia etnica dei Rohingya.

I documenti trapelati, e di cui l’organizzazione è entrata in possesso, sono oggetto di una lettera inviata dall’avvocato israeliano Eitay Mack al procuratore generale Gali Baharav-Miara, chiedendo l’avvio di un’indagine contro l’industria aerospaziale israeliana, Elbit e Cantieri navali israeliani per aver procurato sistemi d’arma usati per crimini contro l’umanità e genocidio , e contro figure di spicco dei ministeri della Difesa e degli Affari Esteri, incaricate di supervisionare, regolamentare e approvare commercializzazione ed esportazione di quei sistemi d’arma in Myanmar. Risulta che siano stati trasferiti a Tatmadaw anche droni, venduti da Elbit Systems e usati per commettere crimini di guerra, e i pattugliatori veloci Super Dvora MK III venduti da IAI (entrambe compagnie pubbliche controllate dal governo israeliano).

La tradizionale (e criminale) cooperazione militare

La denuncia è sempre la stessa. E l’alleanza Israele-Myanmar è soltanto un tassello di un quadro molto più vasto e inquietante. Tutti i governi israeliani, da quando è stato fondato lo stato nel 1948, hanno visto la corruzione di alcuni eserciti, certe guerre civili, la violenza di taluni regimi dittatoriali come una importante opportunità diplomatica per Israele e affaristica per l’esercito di quel paese mediorientale nonché per le industrie militari israeliane. Uno dei casi più eclatanti è stato recentemente raccontato sul quotidiano di Tel Aviv, “Haaretz”, da Eitay Mack, avvocato e attivista per i diritti umani, che ha analizzato 25.000 pagine degli archivi del ministero degli Esteri di Gerusalemme recentemente resi pubblici. Quello che deriva è un comportamento, o meglio una politica, che va avanti da sempre. Da pochi anni dopo la sua nascita, Israele infatti ha mantenuto relazioni militari con il paese asiatico che si chiamava Burma all’epoca e soltanto dal 1989 è noto come Myanmar.

«Una guerra civile assassina? Tortura? Massacro? Per Israele è terreno fertile per la cooperazione»

Riproponiamo qui con lo stesso ruolo uno dei sottotitoli del lungo e circostanziato articolo pubblicato dal quotidiano di Tel Aviv nel quale Mack, citando documenti ufficiali, dimostra come Israele ha armato, addestrato e per decenni rafforzato i regimi militari del Myanmar.

«Israele ha aiutato l’esercito a riorganizzarsi come una forza moderna, lo ha armato e addestrato e ha contribuito in modo drammatico a costruire la sua potenza e consolidare la sua presa come l’elemento più potente del paese. Quel potere inizialmente permise all’esercito di gestire il paese da dietro le quinte, e in seguito di rimuovere la leadership civile e forgiare una varietà di diversi regimi militari».

Mack è preciso, le carte che cita ufficiali e circostanziate. Non interessava ai successivi governi israeliani, scrive, che l’aiuto militare non fosse inteso a scopo di difesa contro nemici esterni, ma fosse usato per fare la guerra contro gli abitanti di quei paesi: «In tutte le migliaia di pagine, che coprono 30 anni di relazioni, non c’è nemmeno un rappresentante israeliano che esprima un’obiezione alla vendita di armi al Myanmar». Vale la pena riprendere alcune delle affermazioni di Mack tratte dalla documentazione ufficiale.

«Un cablogramma inviato dall’ambasciatore israeliano in Birmania nel dicembre 1981 riassume bene l’essenza delle relazioni tra i paesi dal 1949. L’ambasciatore, Kalman Anner, ha riferito al direttore dell’Asia Desk del ministero degli Esteri di aver incontrato il ministro degli Esteri birmano nel tentativo di persuaderlo a sostenere Israele nelle votazioni delle Nazioni Unite. “Israele è uno dei paesi più amichevoli con la Birmania, e la Birmania è un paese estremamente amichevole con Israele”, scrisse nel 1955 Mordechai Gazit, membro dello staff dell’ambasciata israeliana a Rangoon (ora Yangon), mentre riferiva di un incontro con il capo segretario del primo ministro birmano U Nu. “[Il segretario capo] ha osservato che i due paesi stanno cooperando strettamente nell’arena delle Nazioni Unite. Spiegando da dove deriva questa amicizia, ha notato che Israele e la Birmania sono gli unici paesi socialisti in Asia”».

La parola “socialismo” fu ampiamente usata, direi abusata, per giustificare la vicinanza politica dei due paesi: «Un cablogramma – scrive Mack – fu inviato al primo ministro David Ben-Gurion dal ministero degli Esteri nel settembre 1952 in cui affermava che la guerra civile in Birmania aveva causato fino ad allora 30.000 vittime e che “il 55% del bilancio statale è stanziato fino a oggi per scopi di difesa”».

Parlamento birmano negli anni Cinquanta

Gli accordi del 1955

Nel 1955, i due paesi arrivarono a un accordo: armamento massiccio e addestramento militare, in cambio di spedizioni annuali di migliaia di tonnellate di riso dalla Birmania. La corrispondenza vista da Mack e resa pubblica in Israele offre un quadro preciso e dettagliato dell’accordo. Da Tel Aviv, in cambio delle spedizioni di riso, sono arrivati nell’ex Birmania 30 aerei da combattimento, munizioni, 1500 bombe al napalm, 30.000 canne di fucile, migliaia di ordigni di mortaio e equipaggiamento militare, dalle tende all’attrezzatura per il paracadutismo. Inoltre, dozzine di esperti israeliani venivano inviati in Birmania per addestrare i soldati mentre ufficiali dell’esercito birmano furono condotti in Israele per un’istruzione completa sulle basi dell’Idf. Dai documenti risultano l’addestramento dei paracadutisti e quello per i piloti di caccia dell’aviazione birmana. In collaborazione con l’esercito birmano, Israele ha anche fondato in Myanmar società di navigazione, agricoltura, turismo e costruzioni.

«I birmani menzionavano spesso il grande aiuto che ricevevano da noi», risulta questo scritto da un delle carte del ministero degli Esteri, Shalom Levin, un diplomatico israeliano a Rangoon, inviata al direttore generale del ministero della Difesa Shimon Peres nel dicembre 1957. «L’equipaggiamento arrivava proprio quando ne avevano bisogno, per le operazioni contro i ribelli».

La società militarizzata, un modello targato Idf

Risulta che Israele abbia istituito una scuola per il combattimento aereo e terrestre in Birmania e la Birmania attinto all’assistenza di Israele per organizzare il suo esercito sulla base del modello dell’IDF di una divisione in corpi e in forze regolari e riserviste. Una serie di cablogrammi inviati alle legazioni israeliane nell’Asia orientale e citate da “Haaretz” ha fornito dettagli su una delegazione birmana di alto rango che era venuta in Israele per «imparare i metodi dell’Idf». La delegazione ha visitato una base di assorbimento e addestramento, il produttore di armi Israel Military Industries, basi di addestramento per l’amministrazione militare e per le nuove reclute, il comando centrale, una brigata di fanteria e il corpo di artiglieria. Inoltre, secondo un documento, «ufficiali di stato maggiore sono stati inviati per studiare la questione della mobilitazione della manodopera in Israele, i metodi di mobilitazione, la legge sul servizio di difesa [coscrizione obbligatoria] e simili».

Nel 1958 all’ombra di una profonda crisi politica ed economica e sullo sfondo della guerra civile in corso – infuriava da un decennio – il governo birmano crollò e subentrò un regime guidato dal gen. Ne Win. «L’esercito sta prendendo il controllo di molte aree della vita», ha scritto Zvi Kedar, il secondo segretario dell’ambasciata israeliana a Rangoon, in un cablogramma del dicembre dello stesso anno. «La stessa stampa è stata anche colpita dalla promulgazione di leggi di emergenza che limitano la libertà di scrittura… Sono stati effettuati ampi arresti tra i leader di gruppi di sinistra che hanno legami con i ribelli».

Ben Gurion passa in rassegna le truppe con Ne Win nel 1959

Israele, tuttavia, ha visto dei benefici nell’arrivo di un generale a capo del governo:

«Nonostante le numerose crisi interne che hanno afflitto la Birmania negli ultimi anni, l’amicizia Israele-Birmania rimane salda ed è stata in realtà notevolmente rafforzata nell’ultimo anno, da quando il governo è effettivamente passato nelle mani dell’esercito», ha scritto un ministero degli Esteri del giugno 1959. «Gli amici più fedeli di Israele sono principalmente nei circoli dell’esercito».

Ne Win visitò Israele quel mese. Incontro il primo ministro Ben-Gurion e il capo di stato maggiore, il capo della polizia, alcuni ufficiali dell’Idf, ha visitato le basi dell’esercito e, rilevano i documenti ufficiali dell’epoca, ha ricevuto in regalo un centinaio di fucili mitragliatori Uzi. Armi moderne considerate le più efficienti dell’epoca. Mark cita un episodio che definisce particolarmente strano nel coinvolgimento di Israele in Birmania. «I birmani, a quanto pare, consideravano Israele un’ispirazione per i programmi di insediamento di terre e tentavano di insediare personale militare in regioni abitate da minoranze etniche ribelli, nello stile degli avamposti della Brigata Nahal dell’Idf». Un’indagine del giugno 1959 redatta dall’Asia Desk del ministero degli Esteri citava un piano in Birmania per stabilire «locali di insediamento costruiti secondo il piano del distretto di Lachish, nel formato di un moshav dei lavoratori cooperativi israeliani, con i gruppi principali [di coloni] composto da ex militari». Agli esperti agricoli israeliani inviati nel cuore della patria della minoranza etnica shan, che si era ribellata al governo centrale era subito chiaro che la popolazione locale era ferocemente contraria al piano, vedendolo come un tentativo di invasione. «Lo stato Shan non ha assolutamente alcun desiderio per un piano di insediamento birmano o israeliano, e certamente non il nostro piano congiunto», scrisse Daniel Levin, ambasciatore di Israele in Birmania, nel 1958.

Col tempo cambiano i leader, non le prassi

Cambiarono i leader politici ma non la politica e la collaborazione tra il paese asiatico e Israele. «Questa sera l’esercito ha preso il potere», riferì a Gerusalemme in un cablogramma nel marzo 1962 l’ambasciata israeliana in Birmania. «Secondo notizie non confermate, tutti i ministri tranne il primo ministro e i ministri dell’istruzione e delle finanze sono agli arresti domiciliari. Tutto il traffico aereo è stato interrotto. Pattuglie dell’esercito in tutti gli angoli della capitale. Prevale la quiete assoluta». Tre mesi dopo quel colpo di stato, il viceministro della Difesa, Shimon Peres giunse in Birmania per incontrare i vertici del governo militare. «Il signor Peres ha dichiarato a nome del primo ministro che Israele è interessato, come sempre, ad aiutare su ogni argomento e in qualsiasi modo deciderà il generale», si legge in un memorandum.

Poche settimane dopo l’incontro con Peres, Ne Win, a quel punto capo del Consiglio Rivoluzionario, ordinò il massacro degli studenti che stavano tenendo manifestazioni a Rangoon: «I soldati hanno sparato sulla folla», scrisse Michael Elitzur, un consigliere dell’ambasciata israeliana, nel luglio 1962. Raccontò come l’esercito avesse demolito un edificio universitario dove gli studenti si erano barricati. Le autorità hanno fatto in modo che non si tenessero funerali pubblici per le vittime. È stato uno spettacolo scioccante vedere centinaia di persone – molte delle quali genitori e parenti di coloro che sono stati uccisi e feriti – riunirsi nel silenzio più totale intorno al Policlinico… Due giorni dopo, è stata ordinata la chiusura di tutti gli istituti di istruzione in tutto il paese. Elitzur riferì inoltre che i servizi di sicurezza avevano fatto sparire dozzine di altri studenti. I massacri da parte di Tatmadaw non sono mai stati sospesi fino all’ultimo raid –per ora – del 24 ottobre 2022: 4 bombe su un concerto per celebrazione dell’organizzazione per l’indipendenza kachin sganciate da un aereo militare che hanno ucciso 80 persone, ferendone almeno 70.

Kansi, una cittadina del distretto di Hkpant nello Stato nordorientale del Kachin, bombardata dall’aviazione birmana durante un concerto in corso per celebrare la resistenza Kachin il 23 ottobre 2022

Molti altri i documenti citati da Mack che ha rilevato come «La rottura, per periodo breve, del rapporto economico non ha portato Israele a smettere di sostenere la Birmania all’Onu, né ha comportato la cessazione degli aiuti militari al regime. Una parte considerevole delle esportazioni israeliane verso la Birmania è destinata all’esercito birmano (equipaggiamento militare, provviste, prodotti chimici delle industrie militari israeliane e così via)», scrisse Daniel Levin, allora direttore dell’Asia Desk, nel gennaio 1966.

Consiglieri militari, addestratori all’antiguerriglia… e al pogrom

In un cablogramma dell’aprile 1966, l’addetto militare israeliano in Birmania, il colonnello Asher Gonen, chiese l’approvazione al colonnello Rehavam Ze’evi, all’epoca assistente capo della divisione operativa dell’Idf, per un nuovo programma per addestrare i comandanti del battaglione birmano in Israele, con l’obiettivo di combattere i ribelli. Il programma includeva un corso da quattro a sei mesi in Israele con addestramento per una brigata di fanteria e una brigata aviotrasportata, integrazione della difesa territoriale, operazioni con il paracadute, problemi di manutenzione, artiglieria, comunicazioni, combattimento e partecipazione alle manovre. Nel marzo 1966, l’allora capo di stato maggiore Yitzhak Rabin visitò la Birmania. Un anno più tardi – giugno 1967 –, il diplomatico Zeev Shatil, rilevò che «a partire dalle 11:00 [AM], iniziò un pogrom organizzato e sistematico contro i residenti cinesi di Rangoon, che è davvero difficile da descrivere. Gruppi organizzati andavano di casa in casa e di negozio in negozio, buttavano via tutti i loro averi, li ammucchiavano e vi appiccavano il fuoco per le strade. Dalle finestre dei piani superiori sono stati lanciati oggetti in strada e nelle strade sono state date alle fiamme le auto… Fonti, non confermate, parlano di circa 30 morti e più di 100 feriti, alcuni gravemente».

La situazione non migliorò e pochi anni dopo, nel gennaio 1982, un funzionario dell’ambasciata, Avraham Naot, scrisse di aver parlato con un alto funzionario del ministero degli Esteri birmano di un’altra “crisi”: «Era chiaro … che il paese deve fare tutto il possibile per impedire alla popolazione musulmana in Birmania di crescere attraverso l’immigrazione dai paesi vicini». Nel mirino c’erano e ci sono ancora i Rohingya. Israele e Birmania hanno creato un collegamento tra servizi segreti e ambasciata israeliana in Birmania che ha ricevuto una busta dal Mossad contenente materiale di intelligence da trasmettere alla sua controparte birmana in merito alla attività «sotterranea musulmana nel Sudest asiatico [che opera sotto l’ispirazione] dell’Iran e della Libia». Le cose da allora non sono cambiate e nel novembre 2019, Ronen Gilor, ambasciatore di Israele in Myanmar, ha twittato un messaggio di sostegno e auguri di successo ai capi dell’esercito del Myanmar in merito alle deliberazioni in corso contro di loro presso la Corte internazionale di giustizia a L’Aia con l’accusa di genocidio contro il popolo Rohingya. «Incoraggiamento per un buon verdetto e buona fortuna!» Gilor ha scritto.

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Le città visibili https://ogzero.org/studium/le-citta-visibili/ Fri, 29 Apr 2022 16:47:51 +0000 https://ogzero.org/?post_type=portfolio&p=7172 L'articolo Le città visibili proviene da OGzero.

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OGzero nelle città

È possibile individuare un genius loci che rappresenti una costante nel tempo e negli spazi urbani utilizzati? Nella collana “Le città visibili”, sì.

Città rese visibili attraverso la narrazione dell’esperienza personale degli autori, coadiuvati dalle voci dei testimoni e degli abitanti che forniranno un’interpretazione del territorio, della sua trasformazione e degli elementi alieni che proliferano tramite flussi di merci e di persone a provocare le contrazioni di spazi, come le loro estensioni, urbane e demografiche. Autori che esamineranno le strategie di conservazione monumentale e di “reinterpretazione delle rovine” viaggiando tra smart cities, improntate alla sicurezza digitale, che accentuano – costituendosi come ascensori e discensori sociali – la differenza nella struttura e nella mobilità urbana tra periferie e downtown. Esploreranno i luoghi di aggregazione attorno allo scambio di merci, come i mercati popolari e i centri della grande distribuzione, cercheranno di illustrare il cambio di destinazioni d’uso che prelude ai grandi progetti di infrastrutture e di conseguenza l’impatto sul tessuto urbano. Impossibile non collegare a tutto ciò i flussi migratori, con l’inclusione di nuovi arrivi e l’evoluzione della loro tipologia e l’eventuale marginalizzazione dei migranti – interni o esterni che siano; a cui si correlano anche l’esclusione di massa e lo svuotamento di aree, le ghost-town e i quartieri già progettati e costruiti come ghetti, o la gentrificazione causata da interessi immobiliari.
Gli autori di questa serie ci porteranno per mano nei loro luoghi del cuore, come guide capaci di farci sentire l’atmosfera delle città, permettendoci di intuirne realmente le attuali peculiarità senza dimenticare la Storia passata per quelle strade.

Clicca qui sotto sul nome della città per approfondire



Già Visibili in libreria


GERUSALEMME NAIROBI FREETOWN LUSAKA BANGKOK BRAZZAVILLE BOBO-DIOULASSO

In questa sezione venite indirizzati a materiali e indicazioni inerenti ai volumi già pubblicati nella collana dedicata alle città rese visibili attraverso la penna e gli occhi di autori che conoscono bene il genius loci di ciascuno di quei territori che han dato luogo a quella realtà urbana identificata dal nome della città in copertina.



Visibilità ancora in preparazione


ISTANBUL BEIRUT BUENOS AIRES BAMAKO PECHINO KIGALI PANAMÁ y COLÓN

La produzione di un libro proviene da un lungo percorso di individuazione della città che può suscitare interesse all’interno della collana, del suo potenziale autore e poi lo sviluppo del testo a seguito della raccolta degli argomenti e delle testimonianze, delle immagini e delle mappe da integrare. Ma anche del confronto e della elaborazione della sostanza che sta costituendo la base del futuro volume in via di realizzazione. Queste sono per ora le città su cui abbiamo cominciato a focalizzare la nostra attenzione e che sono già state affidate alla penna di esperti conoscitori di quelle comunità urbane.

Intanto traspaiono potenziali visibilità altrove…


Esistono poi situazioni urbanistiche e di agglomerazione umana particolarmente interessanti e che non riusciamo ancora a ricondurre a un formato editoriale di pubblicazione da proporre in libreria. Però assumono già una forma tale che… racchiudono già in embrione una… svolgono una narrazione riconducibile a… colgono una particolare situazione metropolitana che… riteniamo abbiano diritto a venire divulgate in questa sezione delle nostre proposte. Insomma finiscono con l’essere tutte collegate dal filo rosso della abitabilità di un territorio, dallo sviluppo della forma “città” e potrebbero contenere in sé un’idea che informa l’intera superficie metropolitana a cui ricondurre magari una nuova impresa libraria.

Per ora aggiungiamo queste suggestioni al dossier dedicato alle comunità urbane, come proposte di lettura collaterali ai volumi:

_ L’ultimo racconto di Diego Battistessa si dipana tra Savador de Bahia, Liverpool/Mancheser e prende spunto da Gorée/Saint-Louis. Il Triangolo del Mercantilismo

_ Avevamo cominciato con le favelas brasiliane. Il racconto di Diego Battistessa si dipana tra Rio de Janeiro, São Paulo e Brasilia

_ E proseguito con il 40ennale della costituzione di Yamoussoukro, la capitale della Costa d’Avorio, descritta da Angelo Ferrari e fortemente voluta da Boigny

400 anni di modello geopolitico schiavista

_ Per fondare un Capitalismo duraturo bisogna “scoprire” territori da “colonizzare” esterni al mondo regolato da diritti, i cui abitanti vanno deumanizzati per motivare la loro schiavizzazione.
E questo è stato perpetuato dal sistema negli ultimi secoli con poche varianti, dettate soprattutto dalle esigenze della tecnologia e dalle richieste di beni da depredare e di genti da sfruttare.

_ La terra dei caporali: dovunque lo schiavismo perpetua il suo orrore c’è un Eichmann che obbedisce?
Quando Diego ci ha proposto di analizzare questa triangolazione di porti nel colonialismo storico abbiamo pensato che poteva essere utile individuare in quali meccanismi il capitalismo si è andato perpetuando fin dalle sue basi date dall’allargamento dei potenziali mercati di merci e braccia con le scoperte geografiche della modernità (che non a caso viene datata da quel periodo di nuove tecnologie come la polvere da sparo, e le nuove rotte marittime più convenienti), adattandoli via-via alla “tecnologia” più attuale che sostiene la logistica da un lato – tracciando le rotte –, e quali organizzazioni possono sovrintendere all’approvvigionamento di manodopera schiavizzata nell’interno, che si avvale di percorsi paralleli o subalterni alle stesse vie battute da armi, droga, merci grezze dall’altro. Questi sono i meccanismi innaturali che tengono in piedi il capitalismo, senza i quali quel sistema energivoro e oligarchico non potrebbe reggersi. E l’operazione di Diego funge molto bene da memoria di quel che è stata la culla dell’attuale sfruttamento globale della migrazione, ma anche a rievocare quegli stessi meccanismi inventati con il mercantilismo e che regolano tutt’ora economia, politica e morale.
Ovviamente maggiore è l’investimento e la conseguente copertura degli stati-nazione, più ampi sono gli interessi e più si allarga il coinvolgimento finanziario, incontrastabile anche se nocivo quando la soglia del capitale profuso supera il livello di rischio di rientro qualora l’operazione fallisse: sia essa incentrata su estrazione, sfruttamento, riduzione in schiavitù, saccheggio e occupazione di territorio, ammantato da regole di controllo commerciale adattate agli stati più potenti. E tuttora diversamente – ma non meno ferocemente – coloniali, a cominciare dall’apartheid israeliano.

_ Saccheggio e debito infrastrutturale: le triangolazioni imperialiste descritte dal presidente del Burkina Faso Ibrahim Traoré sembrano – nel tentativo di collegarsi all’insegnamento anticoloniale di Sankara – ricalcare le stesse impronte triangolari su cui si fonda il capitalismo dal mercantilismo Secentesco in poi, che è l’argomento di questa serie di articoli di Diego Battistessa attorno a tre città: Salvador de Bahia, Gorée/Saint-Louis, Liverpool/Manchester.
La triangolazione si ripete identica con i medesimi meccanismi del mercantilismo emerso con la nascita dell’epoca industriale, perché il depauperamento dei territori di provenienza è prodotto dal saccheggio delle risorse da parte del capitalismo globale che attinge ai beni africani attraverso l’estrattivismo e impone infrastrutture che creano debito per paesi che sono così schiacciati dalla finanza mondiale; attraverso l’ipocrisia della Comunità europea che stanzia fondi contro la fame e poi sottrae ai pescatori proprio di Saint-Louis i prodotti dell’Oceano per farne mangimi per salmoni destinati a tavole non esattamente affamate (film di Francesco De Agustinis, Until the end of the world); lasciando “sgocciolare” soltanto la gestione della manodopera ai livelli inferiori di mera manovalanza mantenuta nella miseria e marginalità – e in alcuni casi nemmeno quella –, in modo da essere spinta a emigrare nella terra dei caporali dove il marchio “clandestino” cancella i diritti, riproponendo il modello dell’apartheid; e dovunque abbassa i livelli di contrattazione delle classi lavoratrici. Una migrazione gestita attraverso le organizzazioni di intermediazione che usano gommoni quando va bene, se non scafi assemblati con saldature di pezzi di acciaio, imbarcazioni assimilabili alle galere dello schiavismo seicentesco. Ma più pericolose.

_ Meglio le stive delle galere di quelle dei barconi? Una tratta gestita da scafisti africani, ma organizzata grazie alle leggi degli europei che realizzano le condizioni perché i padroni possano usufruire di manodopera schiava a basso o nullo costo, facendo finta di chiudere le frontiere per lasciar passare solo i sopravvissuti tra i disperati pronti a tutto e privi di diritti, senza documenti e quindi inesistenti come umani: non pesano in nessun bilancio di spesa e nella stessa condizione degli africani deportati in America sulle galere.

_ Capitali europei, merci esotiche… schiavi africani. Forse per seguire il bandolo storico della matassa ordita da Diego Battistessa si può partire da Liverpool, dove si sono stanziati i denari per armare i vascelli, usando i proventi derivanti dal commercio di schiavi – e, se ci si chiede ancora come sia stato possibile che una cultura come quella inglese (in grado di pensare di ripulirsi la coscienza riconoscendo in un museo le sue colpe, esibendole e così annientando nuovamente la cultura africana, collocata in bacheca e resa innocua) abbia potuto ordire una tratta così razzista, bastano le immagini di agosto 2024 che ritraggono i fanatici sovranisti britannici impegnati nel loro sport preferito, la caccia all’emigrato.


Triangolo britannico Scousers Ransom in Liverpool Manchester

Anche se, mettendo al centro la manovalanza, salpare da Gorée (o meglio Saint-Louis) è probabilmente il moto più immediato, perché viene umanamente spontaneo seguire il destino dei deportati africani.


Gorée Maison des Esclaves Perpetua schiavitù Saint-Louis

O piuttosto considerare centrale Bahia, dove si assorbiva la manodopera schiavizzata e si caricavano preziose merci per i porti occidentali… Liverpool/Manchester in testa, a chiudere il cerchio di The Birth of a Capitalism (per parafrasare il film di Griffith, forse il più nazionalista, e razzista, della storia del cinema).


Salvador de Bahia Pelourinho Sincretismo Elevador Lacerda

Sta di fatto che l’importanza dei porti lievita con l’apertura di rotte commerciali globali che spostano sugli oceani gran parte del commercio dell’interno, che si configura come percorso per raggiungere il porto attrezzato più vicino e competitivo. Infatti questa triangolazione documentata da Diego Battistessa si inserisce in un sistema che creò molte altre triangolazioni e tutte si vanno conglobando all’interno di un unico sistema che sullo Schiavismo costituì (e continua a costituire) l’embrione dello sfruttamento globale chiamato Capitalismo.


Salvador de Bahia Pelourinho Sincretismo Elevador Lacerda

Gorée Maison des Esclaves Perpetua schiavitù Saint-Louis

Triangolo britannico Scousers Ransom in Liverpool Manchester

Le grandi capitali senza storia 

Capitali: sono le città che ospitano le sedi del governo di uno stato. Spesso sono rappresentative anche dello spirito del paese che le ospita, quando non capita è perché sono frutto di una operazione artificiale. Abbiamo già considerato l’atto di erigere capitali dal nulla, in particolare dando un quadro del sistema di potere militare birmano con la capitale Naypyidaw; oppure con la altrettanto spettacolare Brasilia –  comunque in questi 60 anni di “vita” maggiormente percorsa dalla Storia, non foss’altro perché il visionario che le ha insufflato lo spirito si chiamava Niemeyer.

Tutti esempi accomunati dalla pretesa di imporre una agglomerazione dove manca la comunità, tenuta insieme da cultura, storia, riconoscimento nazionale, riferimento amministrativo e commerciale, vie e snodo di traffici… tutte prerogative mancanti a Yamoussoukro

Tutto questo è sviluppato da Angelo Ferrari che coglie l’occasione del quarantesimo anniversario della hybris di Boigny, che volle far assurgere il suo villayet avito al rango di grande capitale. Ma ciò che non può vantare una grande tradizione, non è stata attraversata dalla storia o non può vantare grandi produzioni culturali è destinato a trasmettere un senso di vacuità, di artificioso e una freddezza che deriva dalla mancanza di sostrato culturale e di storie. Oltre che di Storia. Questa la descrizione di una capitale – Yamoussoukro – voluta dal dispotico padre della patria ivoriana.  


Yamoussoukro

Favelas nelle città

Favela: una parola brasiliana che oramai è entrata nel nostro lessico e nell’immaginario collettivo. Sei lettere che descrivono un luogo che abita una dimensione marginale, periferica e volontariamente dimenticata dallo stato. Favelado/a colui o colei che è costretto a una (non) vita nella favela.
La spinta all’industrializzazione dell’Estado Novo di Getúlio Vargas trascinò centinaia di migliaia di migranti nell’ex Distretto Federale all’interno del disegno del Estado Novo, creando un’esplosione delle baraccopoli, il cui nome istituzionale era ormai diventato favelas.

La sconfitta delle elite pauliste a livello nazionale con la dittatura di Getulio Vargas non portò però a uno stop di quell’impulso che trasformò completamente il volto urbano di São Paulo, coprendo i terreni delle vecchie fazendas con nuovi e moderni quartieri e proiettandosi verso un grande salto industriale che si sarebbe pienamente compiuto durante la Seconda guerra mondiale. São Paulo aveva già iniziato dunque quel cammino che l’ha portata oggi a essere la città più popolosa del Brasile e suo vero centro economico e finanziario. Negli stessi anni in cui a Rio de Janeiro, l’amministrazione pubblica istituzionalizzava le favelas, a São Paulo entrava in scena il futuro, sotto forma di un edificio oggi iconico, Esther…

Negli anni Quaranta su Rio si riversò un potente flusso migratorio. Su questi migranti stava però per abbattersi una nuova grande “disgrazia” economica, manifestatasi sotto il nome di Brasilia. Progettata infatti come una metropoli futuristica nel mezzo della pianura dello stato del Goiás, Brasilia fu inaugurata il 21 aprile 1960 dall’allora presidente Juscelino Kubitschek.

Un Brasile che viaggiava dunque a due velocità e che negli anni Settanta, con la dittatura militare, inaugurò un progetto politico di sradicamento della favela: furono cacciati fisicamente dalle loro case centinaia di migliaia di residenti. Durante l’amministrazione di Carlos Lacerda, molti furono trasferiti in progetti di edilizia popolare come Cidade de Deus.

Negli anni Ottanta si assistette invece allo scoppio della violenza associata al fiorente commercio di droga, che aveva fatto diventare le metropoli snodi logistici molto importanti per i carichi di cocaina destinati all’Europa. Le favelas, luoghi nei quali lo stato non esisteva, si riempirono di armi e lo spazio lasciato vuoto dalle istituzioni venne presto riempito da gruppi criminali.

Le favelas in Brasile, possono essere caratterizzate con ordini di grandezza diversi a seconda per esempio della densità demografica o dello sviluppo urbano delle stesse: in estensione verticale sulle colline (come quella di Vidigal a Rio de Janeiro) o in estensione orizzontale (come Cidade de Deus a Rio de Janeiro o Paraisópolis a São Paulo, in modo paradossale perché a ridosso di un’estensione verticale di un grattacielo di lusso al di là del muro – apparentando questo dossier con quello che OGzero va sviluppando sulle Barriere).

La tensione tra le due dimensioni abitative della città, quella delle favelas e quella “ordinata” del Brasile proiettato nel futuro, rimane alta. Un esempio di questo è il Parco Nazionale di Tijuca, situato nella zona Sud di Rio de Janeiro, considerato la più grande “foresta urbana” del mondo e dichiarata Riserva della Biosfera dall’Unesco nel 1991. L’integrità di quest’area è stata minacciata dall’avanzare degli insediamenti informali, che sono cresciuti esponenzialmente sulle pendici delle montagne e delle colline che formano il Parco Nazionale.

Il 19 novembre 2008 nella città di Rio de Janeiro venne installata la prima UPP – Unità di Polizia di Pacificazione, il germe di un nuovo paradigma di presenza militare del governo in aeree fino a quel momento completamente dimenticate. Da quella cultura repressiva sono usciti quelli che hanno ucciso Marielle Franco, filha da Maré (figlia carioca della favela Maré). Marielle come Carolina Maria de Jesús, voce afrobrasiliana delle favelas paulista che negli anni Sessanta prese letteralmente “a pugni” il Brasile e il mondo squarciando il velo che copriva le reali condizioni di vita dei favelados.

Tutto questo è sviluppato da Diego Battistessa in un flusso analitico e narrativo che abbiamo cadenzato nelle 6 pagine accessibili attraverso i pulsanti che trovate qui


RIO DE JANEIRO SÃO PAULO BRASILIA CIUDADE DE DEUS PARAISÓPOLIS ROCINHA MARÉ GÁVEA CANINDÉ RECIFE

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]]> Rohingya: il genocidio silenzioso di una comunità musulmana nella sua città https://ogzero.org/rohingya-il-genocidio-silenzioso-di-una-comunita-musulmana-nella-sua-citta/ Tue, 08 Dec 2020 18:49:27 +0000 http://ogzero.org/?p=1991 Questo reportage è il frutto di un viaggio a Sittwe, capitale del Rakhine, nel luglio 2020. È stato pubblicato nell’ottobre 2020 sul n. 44 de “Il Reportage”, trimestrale diretto da Riccardo De Gennaro. Qui se ne riporta la versione integrale dell’Autore. Il duplice volto di Sittwe Sittwe (Stato del Rakhine). Quanto tempo ci vuole per […]

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Questo reportage è il frutto di un viaggio a Sittwe, capitale del Rakhine, nel luglio 2020. È stato pubblicato nell’ottobre 2020 sul n. 44 de “Il Reportage”, trimestrale diretto da Riccardo De Gennaro. Qui se ne riporta la versione integrale dell’Autore.

Il duplice volto di Sittwe

Sittwe (Stato del Rakhine). Quanto tempo ci vuole per dimenticare il dolore? E quanto ce ne vuole perché il dolore diventi abitudine, sistema di vita, quotidianità? Un musulmano di Sittwe lo sa anche se in questa città settentrionale del Myanmar le apparenze possono ingannare. La capitale del Rakhine, lo stato birmano da cui tra il 2012 e il 2017 almeno 850.000 musulmani rohingya sono stati obbligati a fuggire da una sistematica persecuzione, sembra una città tranquilla e invitante. Il lungomare porta a un belvedere affacciato da una parte sul Golfo del Bengala e dall’altra sul delta di un grande fiume limaccioso che confonde le sue acque con quelle del Mar delle Andamane. Lungo la passeggiata, coppiette mano nelle mano, bambini festosi e giovani che si allenano. Qualche surfista occidentale e giovani allegri che nuotano su pneumatici gonfiati come enormi salvagenti. Sulla spiaggia decine di baracchette con birra, gamberi arrostiti, piacevolezze da weekend e sorrisi. Sullo sfondo, pagode ristrutturate con lamine dorate.

Tempi dorati Rakhine

Il capo sul mar delle Andamane. Foto di Svetva Portecali

La città vecchia non dimentica

Nel cuore della città vecchia però si respira tutt’altra aria. Se l’occhio va oltre l’alto muro di cinta che circonda la grande moschea di Sittwe, l’antica costruzione ottocentesca – un piccolo gioiello dell’arte islamica con suggestioni mogul – è ora un ammasso di rovine. La struttura esterna ha resistito ma dentro tutto è devastato. Le piante si arrampicano rapide lungo i muri sbrecciati, corrosi dall’umidità e dall’incuria. E se dimenticare è difficile, alla natura bastano otto anni per cominciare a ripigliarsi ciò che era suo. Succede lo stesso per altri luoghi di culto islamici della città ed è accaduto anche a monasteri e templi buddisti, seppur in maniera minore. Non lontano dalla moschea si apre il ghetto islamico. Non ci si può entrare e non ci si può uscire. Quanti sono? Una stima dice 4000. Quanti erano? Forse 80.000. Come sopravvivono? È un altro mistero di una città divisa da una guerra per bande scoppiata nel 2012 che, nel giro di qualche mese, ha chiuso un bilancio per il solo Rakhine – dice un rapporto del 2013 di Pysichians for Human Rights – di almeno 280 morti, circa 135.000 sfollati e la distruzione di oltre 10.000 abitazioni, decine di moschee, madrase e monasteri.

Antica moschea abbandonata a Sittwe

La grande moschea devastata e chiusa. Foto di Svetva Portecali

La scintilla che scatena i pogrom

Se buddisti, cristiani e musulmani rohingya (una comunità di lingua bengalo-assamese ed etnicamente indo-ariana che vive qui da secoli) convivevano più o meno pacificamente, al netto di qualche ricorrente dissidio, nel 2012 uno stupro mortale di cui sono accusati tre musulmani scatena il caos. Un autobus viene assalito e vengono giustiziati dieci rohingya. Parte la caccia all’uomo dalle due parti ma con due grossi svantaggi per la comunità islamica: sono minoranza in un paese devoto a Budda il compassionevole e l’esercito chiude un occhio. Un occhio lo chiudono anche le autorità religiose buddiste che solo in seguito prenderanno le distanze dal movimento “969” del monaco oltranzista Ashin Wirathu, i cui infiammati sermoni istigano all’odio e alla violenza etnico-religiosa. Una violenza che si espande in decine di siti in tutto il paese – Meiktila, Yamethin, Mandalay – ma che ha il suo fulcro nel Rakhine, a Sittwe, dove i musulmani vengono “evacuati” nei campi sfollati fuori dalla capitale.
Il pogrom antimusulmano si ripete cinque anni dopo, nel 2017, quando un gruppo islamico (Arakan Rohingya Salvation Army – Arsa) attacca alcuni siti delle forze di sicurezza birmane nel Rakhine. È la loro risposta al 2012, ma per l’esercito birmano – conosciuto come Tatmadaw – è l’occasione per far piazza pulita. Nel giro di un mese quasi 700.000 rohingya scappano in Bangladesh a ingrossare le fila nei campi profughi oltre confine. Presto se ne aggiungono altri. Il Myanmar non è più casa loro: per Naypyidaw sono bengalesi immigrati, quindi clandestini, senza diritto a un documento. La parola rohingya è bandita dal vocabolario in quella che diventa la prima grande operazione di pulizia etnica del XXI secolo che si consuma, dopo 50 anni di governo militare, all’ombra del primo esecutivo civile con a capo un premio Nobel, la signora Aung San Suu Kyi. Poi, tra la fine 2018 e l’inizio del 2019, per Tatmadaw appare un’altra sfida: l’Arakan Army, autonomisti arakanesi per lo più buddisti e armati. Sono nati nel 2009 e sono attivi dal 2015 ma questa volta fanno sul serio. Non sono gli straccioni armati di machete e moschetto dell’Arsa. Una nuova guerra si riaccende tra le pianure del Rakhine e le montagne dello stato Chin, dove l’AA mantiene le sue basi operative.

Sfollati e vulnerabili

A fine 2019 il più recente aggiornamento dell’Ufficio Onu per gli affari umanitari (Ocha) diceva che circa la metà della popolazione sfollata in Myanmar a causa del conflitto vive nello stato del Rakhine: circa 241.000 sfollati – il 77% sono donne e bambini – vivono in campi o in situazioni simili a campi negli stati Kachin, Kayin, Shan e Rakhine. Ciò include – sempre secondo Ocha – circa 92.000 persone nel Kachin, 15.000 nello Shan, 5600 nel Kayin e quasi 130.000 persone nel Rakhine, in gran parte sfollate a causa delle violenze del 2012. Numeri che crescono e che il sito dell’Unhcr stimava nel 2019 a oltre 700.000 persone (prese in carico a diverso titolo, tra cui 600.000 rohingya). La condizione in cui vivono gli sfollati nei campi è di estrema vulnerabilità: persistenza dei conflitti armati, apolidia, restrizioni di movimento, malnutrizione, malattie. Le agenzie umanitarie fanno quel che possono ma «l’accesso ai campi sfollati viene impedito dall’esercito a qualunque straniero. Possiamo arrivarci – dice il funzionario di un’organizzazione internazionale che chiede l’anonimato – solo con personale locale». C’è una diffusa reticenza a parlare coi reporter da parte delle varie strutture internazionali – dalle Nazioni Unite alle Ong – presenti a Sittwe. Probabilmente è dovuta anche al fatto che nel 2014 ci fu una vera e propria sollevazione contro gli internazionali ritenuti pro-rohingya e a un episodio dell’aprile di quest’anno, quando è stato ucciso nel Rakhine un autista dell’Oms. Nessuno se la sente di parlare con un giornalista, nemmeno off the record. «Argomento troppo sensibile», è la vaga risposta quando una risposta viene data.

Una casa musulmana abbandonata. Foto di Svetva Portecali

Accesso vietato

A Yangon un funzionario Onu accetta di parlare ma anonimamente: «La situazione si è molto complicata dal 2019: in termini di flussi, stiamo parlando di 70 nuovi siti – difficile, dice, chiamarli “campi” – con 45.000 sfollati che nei primi sei mesi del 2020 sono raddoppiati: 150 siti con un totale di 90.000 sfollati. In queste aree del Rakhine il nostro lavoro è ostacolato da una burocrazia di permessi che comincia col governo ma finisce con i militari. E il Western Comand, che controlla l’area, ha sempre l’ultima parola. Per il personale non birmano l’accesso è praticamente impossibile e anche per i locali non è facile: ci sono cinque livelli da superare per avere un permesso nelle aree off limits salvo che il primo check point non ti rispedisca a casa. L’accesso è migliore nelle aree urbane ma in quelle rurali – nelle zone di Paletwa, Rathedaung e Buthidaung – non c’è niente da fare. Il mantra è “sicurezza” cui si sono aggiunte – conclude – le restrizioni del Covid». È abbastanza chiaro che non è molto piacevole dover ammettere di non aver quasi nessuna capacità di controllo sull’emergenza umanitaria degli sfollati che richiede comunque una spesa di circa 150 milioni di dollari l’anno. È possibile solo un monitoraggio a distanza che lascia libero Tatmadaw di controllare la situazione e la segregazione. Va aggiunto poi che, al di fuori di Sittwe, la regione è da oltre un anno isolata da Internet. Impossibile dunque persino comunicare, figurarsi controllare.

Impossibile comunicare: isolamento e mancanza di controllo

Anche ottenere i dati è complesso e i siti internet, cui le organizzazioni rimandano, non sono di grande aiuto. Quel che è certo e che la statistica non è di casa nel Rakhine. E difficile sapere con certezza le variazioni demografiche di Sittwe, l’unico posto che uno straniero possa raggiungere. In aereo. La città è sigillata e non si può uscire perché attorno si spara e «a volte in città scoppia qualche bomba», confida una fonte locale. L’Arakan Army è più vicino di quanto non si pensi e nel primo quadrimestre del 2020 ha messo a bilancio oltre 80 azioni armate al mese. A inizio agosto ci sono stati scontri con vittime tra Tatmadaw e l’AA nelle città di Rathedaung e Buthidaung, a Nord di Sittwe e, a fine luglio, due raid aerei dell’esercito birmano hanno bombardato l’area tra Kyauktaw e Mrauk U – a circa 150 chilometri Est da Sittwe per rispondere a un attacco dell’AA. Il giorno dopo, vediamo una colonna di camion trasporto truppe attraversare la capitale. Una cinquantina di soldati per camion usciti da una delle tante caserme di Sittwe. Molti residenti, si dice, avrebbero abbandonato l’area: la zona dista una sessantina di chilometri in linea d’aria dal territorio di Paletwa, nel Chin, dove, con la popolazione civile, sono intrappolati dai continui scontri armati anche alcuni sacerdoti cattolici. È l’altro fronte della guerra nei due “stati caldi” dove il processo di pace tra Naypyidaw e gli eserciti armati degli stati periferici birmani (l’ultimo vertice si e tenuto in agosto) non funziona. Con le fazioni che hanno firmato l’accordo di cessate il fuoco c’è tutt’al più qualche scaramuccia. Nel Chin e nel Rakhine si combatte. Quotidianamente.
Una fonte locale confida che «la guerra è purtroppo una realtà quotidiana anche nelle aree di Myay Bon e di Min Bya», sempre a Est di Sittwe, dove «si combatte tutti i giorni». A Nord della capitale è forse ancora peggio: a giugno «la situazione della sicurezza nelle aree settentrionali dello stato Rakhine rimane instabile, con continui combattimenti e una maggiore presenza di forze di sicurezza nel distretto di Rathedaung – scrive un rapporto congiunto Ocha-Unhcr – tuttavia i numeri sono difficili da verificare a causa della fluidità della crisi» ma quasi 3000 persone avrebbero lasciato la zone degli scontri. «È stata fornita assistenza agli sfollati, ma l’accesso per valutare e rispondere ai bisogni rimane una sfida, in particolare nelle zone rurali… aggravata dal Covid-19». Se il controllo sugli aiuti è difficile, quello sulle attività di Tatmadaw lo è ancora di più: «Molto semplice: bruciano tutto, passano coi bulldozer e dopo qualche settimana la foresta ricopre tutto», sostiene un’altra fonte a Yangon. Lo confermano le riprese satellitari che Amnesty o Human Right Watch fanno ciclicamente per monitorare, dal 2017, cosa succede da queste parti dove è facile sparire senza che se ne sappia più nulla.

Ambala: un lager a cielo aperto

All’ingresso di Aung Mingalar o “Ambala”, com’è conosciuto il quartiere musulmano di Sittwe, i gabbiotti azzurri della polizia presidiano mucchi di spazzatura e impediscono che ci si avvicini a un’area in cui non è permesso entrare e da cui non è permesso uscire. Un lager a cielo aperto col titolo di quartiere «in cui vivono circa 4000 persone», secondo Nay San Lwin, cofondatore della Free Rohingya Coalition: «Solo poche persone – dice – possono uscire dal quartiere per fare spesa ogni due settimane. Sorvegliati dalla polizia». Molte case musulmane sono semplicemente abbandonate, altre sono diventate caserme o aree di rispetto interdette. In una settimana a Sittwe incontriamo non più di tre quattro donne con l’hijab e quando ci imbattiamo in un gruppetto di ragazzi dai tratti somatici indiani, specificano subito di essere “indostani”, vale a dire non rohingya. Secondo le statistiche ufficiali del 2016, rielaborazione dei dati del censimento del 2014, nel Rakhine il 96,2% degli abitanti è buddista (il dato nazionale è 87,9%) mentre i musulmani sarebbero solo l’1,4% contro il 4,3% nazionale. Ma nel Nord Rakhine la percentuale cambia: 60% di buddisti contro 30% di musulmani (70% a 29 o 67% a 24 secondo altre fonti) anche se ormai la bilancia etnico-religiosa è cambiata. Con la fuga di quasi un milione di rohingya negli ultimi anni, i pochi che restano sono i prigionieri di Sittwe e dei campi sfollati.

Sittwe

Fuori dal mercato di Sittwe. Foto di Svetva Portecali

Il distretto di Sittwe conta oltre un milione di abitanti e per Sittwe città la stima è attualmente di oltre 150.000 di cui circa il 70% vive nell’area urbana. Quanti musulmani sono andati via dalla città e quanti ne sono rimasti, se gli sfollati a giugno 2017 erano – scrive il Sittwe Camp Profiling Report* – ancora quasi 100.000 distribuiti in 15 campi nell’area rurale di Sittwe e altri 20.000 dispersi in un’altra ventina di campi nel Nord Rakhine? La fotografia del 2017 non dice quanti di loro abbiano raggiunto, prima o dopo il 2017, l’ondata di profughi rohingya riversatasi in Bangladesh o abbiano scelto la via del mare verso Thailandia o Malaysia. Quel che si sa con certezza è che la piccola minoranza dei Kaman – una popolazione musulmana del Rakhine che è però riconosciuta tra le 135 nazionalità ufficiali (da cui i rohingya sono esclusi) – sarebbe sfollata a Yangon. Un provvedimento cui nel 2018 si oppone un ex ministro vicino ai militari, sostenendo che così si «esporta il cancro» nella parte sana del paese. Quanto ai musulmani nei campi attorno a Sittwe, nel 2017 l’84% proveniva dalla città che ne doveva dunque ospitare, prima del pogrom, almeno 80.000. Se contare i musulmani prigionieri a Sittwe è un’operazione incerta, qualche dato comunque illumina: per esempio il numero di trattamenti all’ospedale generale della città nel periodo settembre-dicembre 2019 che ha a bilancio 26.046 interventi per “razze nazionali” contro 814 per “musulmani”. Con una divisione razziale dei pazienti che, da sola, messa nero su bianco, mette i brividi.

Un conflitto senza soluzione?

Il Myanmar – ha scritto International Crisis Group nel suo ultimo rapporto sul Rakhine (giugno 2020) – «ha anche sviluppato una strategia legale per difendersi dalle accuse di genocidio (per il dossier rohingya [N.d.A.]) alla Corte internazionale di giustizia. Ma sembra non avere una più ampia strategia per risolvere la crisi di fondo… dovrà riconoscere che il conflitto con l’AA e la crisi dei rohingya sono collegati, ed entrambi devono essere affrontati per stabilizzare il Rakhine e migliorare significativamente le sue prospettive di sviluppo. Senza fine al conflitto con l’AA, il rimpatrio volontario dei rohingya (dal Bangladesh [N.d.A.]) è inconcepibile. Inoltre, qualsiasi progresso sostenibile nel miglioramento della vita dei rohingya richiede una consultazione con la popolazione del Rakhine per ottenere il suo via libera. Eppure nel contesto attuale, tutto ciò sembra quasi inconcepibile, dato che l’impegno a livello politico tra il governo e il popolo del Rakhine – conclude Ics – è del tutto assente».

Rohingya: il genocidio silenzioso

A Sittwe, mentre sul lungomare si gustano calamari e gamberoni, si consuma in sostanza un genocidio silenzioso dove i killer nei lager a cielo aperto sono anonimi: fame, malattie, depressione, prigionia. E tempo. Lo sterminio attraverso un lento stillicidio di quel che rimane di una comunità.

* Dati raccolti con questionario da CCCM, Danish Refugee Council, Unhcr. Il Rapporto (155 pagine più annessi) utilizza una sola volta il termine “rohingya” a testimoniare quanto l’argomento resti “sensibile”: «For the purposes of this paper, the term Muslims is used to refer to the population the Government refers to as “Bengali” and who refer to themselves as “Rohingya”. The labelling of this group in Rakhine State is a contentious issue and continues to fuel misunderstanding».

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