Nato Archivi - OGzero https://ogzero.org/tag/nato/ geopolitica etc Sat, 24 Dec 2022 14:03:43 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.4.6 Il ruolino di marcia di un sistema basato sull’escalation bellica https://ogzero.org/il-ruolino-di-marcia-di-un-sistema-basato-sullescalation-bellica/ Fri, 23 Dec 2022 15:58:01 +0000 https://ogzero.org/?p=9888 La messinscena delle prime mosse per un negoziato Consumati un po’ di arsenali, uccise 250.000 persone tra civili e militari nella pianura sarmata, misurate alleanze e potenzialità di imporre la propria supremazia, sembra che 3 incontri contemporanei lancino segnali precisi alle cancellerie internazionali: Zelensky con il cappello in mano a Washington, Putin a organizzare le […]

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La messinscena delle prime mosse per un negoziato

Consumati un po’ di arsenali, uccise 250.000 persone tra civili e militari nella pianura sarmata, misurate alleanze e potenzialità di imporre la propria supremazia, sembra che 3 incontri contemporanei lancino segnali precisi alle cancellerie internazionali: Zelensky con il cappello in mano a Washington, Putin a organizzare le truppe a Minsk, Medvedev a ricevere ordini a Pechino. Bisogna trovare una nuova area dove proseguire la guerra ibrida mondiale con lo scopo di misurarsi in preparazione del redde rationem.

Come si è arrivati qui

Si sono definitivamente composti in un unico giorno (il primo del gelido inverno nella steppa di famose ritirate della Storia) gli schieramenti e i ruoli dei singoli in questa che, come si era capito dal 24 febbraio, era la prima fase di una lunghissima guerra ibrida tra potenze – intrecciate dalla medesima ideologia neoliberista che impone complicati legami – da combattere sulla estesa scacchiera globale, con interessi ed economie dipendenti l’una dall’altra, ma a un punto di rottura dato dall’impressione di essere equiparabili e dunque entrambe le fazioni ritengono di potersi candidare al controllo globale come potenza di riferimento: gli Usa a difendere la propria supremazia, le potenze non democratiche a proporre il loro modello di sviluppo – comunque all’interno della visione capitalista del mondo.

La disposizione sul palcoscenico

E allora si usano media e incontri per marcare il territorio in vista della lenta composizione della disputa. Localmente: Biden prepara il terreno a un nuovo piano Marshall da aggiungere agli 85 miliardi già erogati per ricostruire e “mangiarsi” l’Ucraina come gli Usa hanno iniziato a fare dal 2014 di Maidan, quando Kiev era un satellite di Mosca (ha cominciato a parlarne “Fortune” già il 7 dicembre).
Intanto i russi attivano anche Lukašenka per annettersi quanto più territorio possibile e fare da cuscinetto al confine con la Nato, arrivando alle trattative con il massimo risultato possibile («La Russia fornisce alla Belarus’ petrolio e gas a condizioni molto favorevoli e preferenziali», ha commentato Interfax a proposito della visita a Minsk, ma come fa notare “ValigiaBlu“, Putin ha dichiarato che avevano concordato di «dare priorità all’addestramento delle nostre truppe… ci forniremo reciprocamente le armi necessarie e produrremo insieme nuovo materiale militare… per l’eventuale uso di munizioni aviotrasportate con una testata speciale») e arrivando gradualmente all’annessione della Bielorussia. Ognuno potrà investire in piani di ricostruzione che faranno girare denaro utile per una nuova spirale virtuosa economico-finanziaria.
Globalmente la Cina si schiera, schermendosi – probabilmente anche per partecipare agli appalti – e senza impegnarsi direttamente in questa Prima guerra del confronto del mondo contro la Nato (che Trump aveva azzerato e Biden resuscitato, investendo una quantità di miliardi inimmaginabile), detentrice di una primazia in parte erosa dal multilateralismo di forze intermedie pronte a schierarsi in modo autonomo volta per volta, come la Turchia – appartenente alla Nato! – o l’India (due specchiati esempi di democratura), o anche i paesi del Golfo sempre più impegnati in attività di maquillage, ma anche di autonomizzazione dallo schieramento filoamericano.

«Servitor vostro»

Medvedev non è omologo di Xi, ma può ricevere indicazioni che tutte le diplomazie interpretano come invito a ritornare a una situazione in cui si possano scambiare merci con minori sanzioni o dazi; la guerra si deve spostare su altri piani, in modo che la Cina possa acquisire ulteriori avanzamenti; per uscire dalla sindrome del Giappone targata 1990 – incapace di progredire con lo stesso ritmo e quindi imploso nella sua scalata al cielo. Esistono altre potenze indopacifiche che stanno crescendo d’importanza e infatti si rinnovano i periodici scontri alla frontiera himalayana con l’India.

Lukashenka non è omologo di Putin, ma si adatta bene al ruolo di subordinato nella alleanza militare – utile per mostrare quel che resta dei muscoli di Mosca per arrivare a un primo negoziato che chiuda il contenzioso in quell’area, in attesa che si sposti altrove (e si stanno ammassando armi attorno all’Iran). Intanto è utile mostrare che almeno sulla Bielorussia il Cremlino può ancora contare ed è l’area che in questo momento è geograficamente fondamentale controllare e dove accumulare minacciosi missili logistici e strumenti ipersonici.

Zelensky non è omologo di Biden, ma è il terzo fantoccio (dagli occhi umani, non come quelli da killer come Putin nei folkloristici ritratti di Biden, fintamente gaffeur) che serve ai tre potenti della terra per lanciare messaggi agli altri due. Zelenski va a prendere gli spiccioli, oltre ai Patriot da schierare contro le dotazioni nucleari collocate contemporaneamente alla frontiera bielorussa dall’esercito russo, sapendo che poi arriveranno i soldi per la ricostruzione. E rilancia le richieste nel monologo al parlamento, mancava solo un elenco alla Leporello (ma questa volta come lista della spesa); dei tre incontri quello davvero mediatico e diffuso su ogni media è il kolossal americano, dove anche i dettagli come gli abiti indossati dai due protagonisti sono funzionali a lanciare messaggi precisi e assegnare ruoli. Zelensky è il buffone di corte in ogni senso, comprendendo pure la facoltà di asserire verità scomode, ovviamente a maggior lustro del monarca e Biden non è re Lear infatti Zelensky non ha mai la medesima statura, non solo fisicamente.

Uno schema bellico inesorabile

La concomitanza dei tre eventi non si configura come complotto globale di un’oligarchia che interpreta in modi diversi il neoliberismo e che quindi trova contrapposti gli interessi delle potenze che si misurano per spartire aree di influenza e ruoli in concorrenza e individuano volta per volta territori che si prestino al confronto perché si tratta di aree di crisi incancrenite (da anni si assisteva alle provocazioni sulle pipeline ucraine; il conflitto in Nagorno Karabakh da decenni volutamente irrisolto e costantemente rinfocolato dai vincitori; come quello del Kosovo, dove sta montando da un paio di mesi la tensione che cova dalla “fine” della guerra di Clinton tra opposti nazionalismi, coccolati apposta dai rispettivi riferimenti…); oppure nuovi protagonisti molto potenti e militarmente approvvigionati e minacciosi come le petropotenze emergenti che usano vetrine diverse – per ora strategicamente collegate con una facciata culturale (il marchio Louvre nel deserto in cambio dell’acquisto di Rafele e altre connessioni vantaggiose per Parigi), velata da megaeventi sportivi (il mondiale di football invernale, imposto a suon di corruzione e interpretando in modo ancora diverso il verbo unico capitalista) e che hanno una concezione del sistema socio-politico ancora più oligarchico e fondato sull’oppressione e la cancellazione della maggior parte dei diritti civili, usando la tradizione come collante per i poteri forti interni.

Automatismi di un ruolino di marcia bellico

Piuttosto che un accordo per svolgere ciascuno un ruolo in commedia distribuito da una regia collettiva (una pièce complottista), si può concepire questo snodo epocale come il processo innescato che non può non passare attraverso tappe inevitabili costituite da molteplici guerre. Quei conflitti che, finché non hanno coinvolto equilibri europei, erano rimasti nella percezione occidentale a bassa intensità, mentre ora si manifestano con distruzioni di arsenali e migliaia di vittime civili anche in Europa, non più solo nel Sud del mondo, dove si sparge il sale sulle ferite non rimarginate mai, per suppurare periodicamente e far esplodere furiosi combattimenti utili per sostituire localmente il predatore di turno: infatti Biden è stato spinto a finanziare potentemente il continente africano per tentare di contrastare la penetrazione di Cina, Turchia e Russia, proprio mentre non è ancora del tutto sopita la guerra in Tigray ed esplode un nuovo focolaio nel Sud dell’Etiopia per l’insorgenza dell’Oromia.

Un’ipotesi che si può avanzare sulla base delle prime mosse di incontri diplomatici ad alto livello tra non omologhi, che usano gli incontri per dettare la politica delle macrofazioni e assistere alla conseguente disposizione delle alleanze, è che si cerchi ora di comporre molto lentamente la questione ucraina, lasciandola però accuratamente non del tutto risolta; contemporaneamente preparando nuovi conflitti in aree significative per il confronto tra le maxipotenze, che possano montare ben più che per una proxy war, a impattare su una nuova emergenza (energetica, lievitando prezzi per fibrillazioni borsiste? religiosa, per induzione jihadista?…) e poi confrontarsi in un nuovo scacchiere (Taiwan?) più vicino al confronto diretto e risolutivo.

Il senso del capitalismo per la guerra

Dunque fa tutto parte della vera Guerra tra Usa e Cina, che non finirà se non trovando un’uscita dal sistema capitalistico, motore mobile che necessita e si alimenta di quel costante conflitto, perché il capitalismo ha bisogno sempre di incrementare il profitto, triturandovi tutto: industria del divertimento, alimentare, consumo di beni… industria bellica.

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Giappone: la tollerabile gravità del nulla https://ogzero.org/abe-shinzo-e-il-giappone-la-tollerabile-gravita-del-nulla/ Sat, 23 Jul 2022 00:04:29 +0000 https://ogzero.org/?p=8252 Già Wim Wenders aveva sottolineato in Tokyo-ga il carattere inciso sulla tomba di Ozu Yazujiro: mu, che vuol dire “nulla” (sequenza a cui fa riferimento l’immagine in copertina); Roland Barthes ragionava sul fatto che al centro dell’impero nipponico ci sia un’immensa oasi di vuoto attorno alla casa dell’imperatore. Il senso di assenza di materia come […]

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Già Wim Wenders aveva sottolineato in Tokyo-ga il carattere inciso sulla tomba di Ozu Yazujiro: mu, che vuol dire “nulla” (sequenza a cui fa riferimento l’immagine in copertina); Roland Barthes ragionava sul fatto che al centro dell’impero nipponico ci sia un’immensa oasi di vuoto attorno alla casa dell’imperatore. Il senso di assenza di materia come motore culturale dell’arcipelago giapponese può essere una delle chiavi adottate in questa analisi di Carlotta Caldonazzo riguardo a strategie geopolitiche e forme di lutto nazionale per la morte di un simbolo come Abe Shinzo.

Tokyo è forse il fulcro della talassocrazia statunitense ed è l’alleato chiave per Washington tanto nella strategia di contenimento dell’intraprendenza geoeconomica (e geopolitica) cinese, quanto su un eventuale fronte russo sul Pacifico. Sul piano interno, intanto, un’apparente «continuità» cela un tessuto sociale devastato dalle diseguaglianze e da fratture storiche, che affondano le radici soprattutto nella tensione tra la necessità di accettare la propria condizione di sovranità mutilata e l’aspirazione allo status di potenza.


Molto rumore per nulla?

Come ha osservato Marco Zappa in un’intervista trasmessa da Radio Blackout, al di là delle riflessioni di buona parte della stampa internazionale sulla sua importanza storica e sulla sua eredità, l’uccisione dell’ex primo ministro giapponese Abe Shinzo ha avuto sulla popolazione un impatto emotivo minimo. Lo si evince dai risultati delle elezioni senatoriali del 10 luglio, vinte in larga misura dal Partito liberaldemocratico (Pld, partito di Abe), e dalla sua coalizione, come preannunciato dai sondaggi, e dal basso tasso di affluenza alle urne, rimasto sostanzialmente invariato rispetto alle precedenti consultazioni del 2019.

Eppure, l’uccisione dell’ex primo ministro ha rivelato le falle di un sistema di sicurezza basato sul controllo capillare del tessuto urbano da parte della polizia, al quale le istituzioni attribuivano una buona parte del merito del basso tasso di criminalità nel paese. In sostanza, sul piano politico-elettorale sembra dunque aver prevalso la linea della continuità, già tracciata a ottobre 2021, al momento della successione tra Abe Shinzo e l’attuale primo ministro Kishida Fumio, ministro degli Esteri dal 2012 al 2017. Scelta oculata, che ha rassicurato Washington sulla fedeltà dell’alleato nipponico, il cui peso geostrategico continua a crescere in ragione dell’inasprimento delle relazioni internazionali, in particolare tra Stati uniti e Russia, per ora impegnati sul fronte europeo orientale, e tra Stati uniti e Cina, il cui terreno di scontro privilegiato è l’Indo-Pacifico.

La teoria degli oceani comunicanti

La stessa espressione Indo-Pacifico, in realtà, suggerendo una continuità tra oceano Pacifico e oceano Indiano, sintetizza la visione strategica di Abe, che ha sempre sostenuto i vantaggi di un coinvolgimento dell’India nel contenimento della proiezione di potenza di Pechino sui mari. Una mossa che, di fronte a un avversario come l’Impero del Centro, che storicamente è una potenza di terra, dovrebbe contribuire a preservare la talassocrazia statunitense, ostacolando l’aspirazione cinese sia al controllo dei traffici marittimi nel Pacifico, sia al potenziamento della propria capacità offensiva per mare.

Abe Shinzo: il nazionalista riluttante

Rapporti indopacifici

In fondo, benché non si siano create, almeno finora, le condizioni per la costituzione di un’alleanza militare sul modello dell’Organizzazione del trattato dell’Atlantico Nord (Nato/Otan), Abe aveva cercato di elaborare un piano efficace per impedire l’ascesa della potenza cinese; tanto sul piano commerciale e finanziario, tentando di sottrarre partner asiatici a Pechino, quanto a livello geopolitico e militare, trovando una possibile chiave nel coinvolgimento di New Delhi. Contestualmente, sempre allo stesso scopo, Abe aveva intensificato la cooperazione economica e di sicurezza, oltre che con gli Usa, anche con Australia, Regno unito (i tre componenti dell’asse denominato Aukus, dalle loro iniziali) e Nuova Zelanda. Quanto all’economia interna, la cosiddetta “Abenomics” e i toni trionfalistici che avevano accompagnato la realizzazione delle riforme neoliberali in essa incluse, nonostante il loro discutibile impatto sociale e i dubbi sulla reale uscita dalla stagnazione decennale che avrebbero comportato, avevano diffuso nel panorama mediatico internazionale l’immagine di un Giappone pronto a cavalcare una straordinaria ripresa economica, pur continuando a rinunciare allo status di potenza regionale e pur restando subordinato agli interessi strategici statunitensi.

Tre frecce
«La strategia economica, fiscale e finanziaria della “Abenomics” consisteva nelle cosiddette “tre frecce”: 1. quantitative easing (QE) della banca centrale (BoJ), 2. Massiccio stimolo fiscale e 3. Riforme strutturali. Come è emerso, tuttavia, due di queste tre politiche – quantitative easing e stimolo fiscale – dopo aver avuto successo nel breve termine appaiono oggi sempre più insostenibili e troppo costose, con possibili danni ben più gravi nel lungo termine. L’unica freccia della ‘Abenomics’ in grado di poter creare ancora maggior valore rimane quella delle riforme strutturali. Molte delle riforme che Abe ha promesso devono però ancora essere implementate mentre ne rimarrebbero altre utili per il paese che però non sono ancora nell’agenda politica di Tokyo» (Axel Berkofsky).

Neoimperialismo tradizionalista

Tuttavia, l’adozione, da parte dell’ex primo ministro giapponese, della tradizionale dialettica imperiale nipponica, contestuale all’ascesa delle correnti più nazionaliste del Pld, per le quali Abe era un riferimento politico importante, da un lato aveva deteriorato le relazioni non solo con la Cina, ma anche con la Corea del Sud, utile alleato degli Usa. Con la Russia, invece, Abe aveva portato avanti i negoziati per giungere a un accordo definitivo sullo status delle isole Curili, ma i colloqui sono stati interrotti a seguito dell’esplosione del conflitto russo-statunitense in Ucraina, in merito al quale Tokyo si è subito schierata al fianco di Washington. Una presa di posizione che, peraltro, ha isolato in un certo senso l’India all’interno del Quad (dialogo quadrilaterale) indo-pacifico. New Delhi, infatti, che nel conflitto sino-statunitense appare disponibile ad assecondare gli interessi di Washington, sul fronte russo finora ha scelto una sostanziale neutralità, preferendo mantenere gli storici rapporti con Mosca, soprattutto in ambito militare. D’altronde, a differenza di Usa, Giappone e Australia, l’India è membro fondatore del Movimento dei paesi non-allineati.

Il giorno dell’auto(in)determinazione

Intanto, coltivando l’aspirazione a fare del Giappone una potenza almeno regionale, durante i suoi vari mandati, Abe aveva riportato in auge il dibattito politico sulla modifica della costituzione pacifista imposta dal generale Douglas McArthur nel 1947, soprattutto dell’articolo 9, che obbliga Tokyo a rinunciare alla guerra e a dotarsi di forze armate proprie, condannandolo di fatto alla dipendenza da Washington. Tra i primi ad affrontare apertamente questo tema, fu, nel 1985, sul finire della guerra fredda, il primo ministro Nakasone Yasuhiro (anch’egli appartenente al Pld), che, in precedenza, aveva adottato la strategia, più prudente, della reinterpretazione, analoga a quella scelta a più riprese da Abe: aumento progressivo delle spese militari, sempre ufficialmente con finalità difensive; ipotesi di dotare il paese di un arsenale atomico proprio o, laddove ciò fosse impossibile, di ospitare testate nucleari gestendone in modo congiunto con gli Usa; istituzione, nel 2013, di un Consiglio di sicurezza nazionale (ufficialmente finalizzato alla difesa da eventuali attacchi cinesi). Da parte sua, l’ex primo ministro Koizumi Junichiro (Pld), nei primi anni Duemila, rafforzando l’alleanza militare con la superpotenza statunitense impegnata nella «guerra al terrorismo», aveva proposto un emendamento costituzionale per consentire al Giappone un maggior coinvolgimento nelle sfide di sicurezza globale. Parole allettanti per Washington, soprattutto perché provengono da un paese che aveva fornito la più cospicua assistenza finanziaria all’invasione dell’Iraq nel 1991 (come riporta il ministero degli Esteri giapponese). Nella prospettiva dei nazionalisti nipponici, infatti, la pesante ingerenza Usa, oltre a essere un impedimento è anche, in certa misura, un alibi per portare avanti gli interessi strategici del paese, considerati sempre più in chiave nazionalista e militarista. Un’evoluzione, che, d’altronde, non riguarda solo il Giappone degli ultimi decenni, stando alle stime dello Stockholm International Peace Research Institute (Sipri). La peculiarità nipponica è stata, invece, l’abilità di trarre sistematicamente vantaggio dalle convergenze strategiche con la potenza occupante, sapendone interpretare anche le virate reali o apparenti. Almeno finora, anzi, fino al periodo della presidenza statunitense di Donald Trump. Quest’ultimo, infatti, aveva lasciato intendere a satelliti e alleati che Washington intendeva diminuire il più possibile la propria presenza diretta in prossimità delle varie faglie geopolitiche, Pacifico in primis. È stato proprio Abe a cogliere l’occasione per aumentare le proprie «capacità difensive», forse inducendo Tokyo a illudersi della possibilità di un percorso verso l’autodeterminazione.

«È naturale per il governo garantire una spesa per la difesa equivalente al 2 per cento del Pil» (Abe Shinzo, 27 maggio 2022)

Illusione che l’attuale presidente Usa Joe Biden non sembra intenzionato a coltivare, se non altro per scongiurare il rischio di trovarsi di fronte una Turchia del Pacifico, tanto più che il Giappone ospita importanti basi militari statunitensi, tra cui quella di Yokosuka, la più grande al di fuori del territorio statunitense, sede del comando della potente Settima flotta. Senza considerare che Tokyo è tra i grandi detentori (recentemente, peraltro, ha conquistato il primo posto) del debito statunitense.

Tra metus hostilis e bellum factionum

In effetti, come ha rilevato Marco Zappa nella medesima intervista, Abe era l’esponente più «carismatico» delle fazioni più militariste e nazionaliste del Pld. Inoltre, in quanto fervente scintoista, era una figura di raccordo e di equilibrio tra il mondo politico e la sfera del culto: un ruolo importante, in un paese dove il potere e l’influenza delle sette religiose sono significativi. Intanto, la frantumazione sociale, aggravata nell’ultimo decennio dalla diffusione esponenziale del lavoro precario e somministrato, promossa dalla Abenomics come misura di modernizzazione neoliberista e produttivista, si riflette nello scontro latente e a bassa intensità tra le fazioni politiche (e religiose), in particolare tra quelle che compongono il Pld. Per esempio, una delle fazioni concorrenti di quella che faceva riferimento ad Abe, si raduna intorno a Kishida, che prima di essere nominato primo ministro, in campagna elettorale, aveva indicato diversi elementi di discontinuità rispetto al suo predecessore. A partire proprio dalla Abenomics, di cui ammetteva la responsabilità nell’acuirsi delle diseguaglianze, lanciando un appello (generico) a concepire e a mettere in atto un nuovo capitalismo in grado di trovare una soluzione efficace alle questioni sociali più cogenti. Anche nelle relazioni internazionali, da ex ministro degli Esteri, Kishida ha sin da subito mostrato un atteggiamento più moderato, lasciando la porta aperta a una visita del presidente cinese Xi Jinping, dopo l’annullamento dell’ultima, fissata nel 2020, ufficialmente a causa delle restrizioni dovute all’emergenza sanitaria.  Nondimeno è probabile che l’attuale primo ministro si trovi, in autunno, ad affrontare, anche nel dibattito parlamentare, il delicato tema della modifica della costituzione.

«Vorrei proseguire gli sforzi per giungere alla proposta di una revisione il prima possibile» (dell’articolo 9 della costituzione pacifista; dichiarazione di Kishida Fumio ripresa da “Kyodo News”, durante una conferenza stampa sui risultati elettorali dell’LDP e riportata da Deutsche Welle”).

Malgrado le critiche riguardo la gestione delle diseguaglianze sociali e della pandemia da Covid-19, infatti Abe aveva reso il Giappone capace, in termini di tecnologia e di competenze, di dotarsi di armi nucleari nel giro di poche settimane, come sottolineato a più riprese dagli autori della rivista “Limes”. Anche per questo è stato definito da molti analisti il personaggio più importante della storia giapponese degli ultimi decenni, tanto a livello di gestione politica interna, quanto sul piano geopolitico. Le sue dimissioni nel 2021, ufficialmente per motivi di salute, avevano già lasciato intendere il declino della sua fazione politica, cui ha probabilmente contribuito una diminuzione del sostegno di Washington: anzitutto durante la presidenza Trump, caratterizzata dal disimpegno, poi dall’insediamento di Biden, che sembra adottare l’equazione, che Pechino definisce «da guerra fredda», tra l’impegno e un controllo che rasenta l’asservimento. Abe e la sua fazione, da parte loro, sembravano invece premere nella direzione di una maggiore autonomia strategica di Tokyo, in ragione del suo peso geostrategico crescente.

Il nazionalismo «moderato» di Kishida Fumio

L’attuale primo ministro, invece, oltre a ostentare toni meno aggressivi e un atteggiamento più pragmatico nei confronti della Cina e, soprattutto, della Corea del Sud, si mostra anche più propenso a fare a meno dell’autonomia strategica, e maggiormente concentrato sulla crescita economica, sulla gestione del malcontento sociale (un tema quasi sconosciuto al dibattito pubblico giapponese) e sul progresso e l’innovazione tecnologici. Inoltre, almeno finora, è parso meno insistente del suo predecessore nel chiedere agli Usa di rompere la storica ambiguità strategica riguardo Taiwan e di prendere una posizione più netta in suo sostegno. Una postura politica, forse, più rassicurante per Washington, la cui considerazione per il Giappone dal punto di vista geostrategico si comprende anche dalla scelta di Tokyo come luogo dell’ultima riunione del Quad, tenutasi alla fine di maggio.

Cinque pilastri per un Indo-Pacifico libero e aperto
«Questo si basa essenzialmente su cinque pilastri che andranno a ispirare l’azione politica giapponese sul piano internazionale: promuovere lo stato di diritto internazionale, rafforzare le capacità di difesa nazionale, impegnarsi per la denuclearizzazione, lavorare a una riforma del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e migliorare la cooperazione internazionale soprattutto in materia economica» (Kishida al meeting di Shangri-La a Singapore).

Un vertice di fondamentale importanza strategica, perché incentrato sul contenimento della potenza cinese dal punto di vista, simultaneamente, militare e finanziario, con l’annuncio da parte di Biden dell’Indo-Pacific Economic Forum (Ipef). Il piano, o meglio, la cornice economica mediante la quale Washington, con una strategia analoga a quella di Abe, intende mettere i bastoni tra le ruote alle nuove vie della seta cinesi, note con l’espressione inglese Belt and Road Initiative (Bri), che sintetizzano la politica di potenza di Xi Jinping. Di conseguenza, sarebbe meglio per gli Usa non correre il rischio che l’Impero del Sol Levante, sia pure nell’impossibilità di modificare il testo costituzionale, introduca il concetto di «attacco preventivo» (analogo a quello sbandierato dall’ex presidente Usa George W. Bush nei primi anni Duemila) nella nuova Strategia per la sicurezza nazionale, che sarà promulgata entro il prossimo autunno. Questo concetto, infatti, rischierebbe di erodere il pacifismo giapponese dall’interno, offrendo il fianco a un’ulteriore, e soprattutto più offensiva, corsa al riarmo. Nondimeno, anche un riarmo sotto l’egida statunitense, soprattutto in una fase di inasprimento delle relazioni internazionali, rischia di spingere l’Impero del Sol Levante verso un nuovo pericoloso imperialismo.

Fratture scomposte

Infine, Marco Zappa ha notato che, in un contesto di declino demografico, dopo tre decenni di stagnazione economica, l’uccisione di Abe da parte del quarantunenne Yamagami Tetsuya ha aperto due piste di riflessione sociologica e socio-politica sul Giappone: anzitutto la commistione tra partiti politici e movimenti religiosi (la madre di Yamagami aveva donato un’ingente somma di denaro alla Chiesa dell’Unificazione, con cui Abe aveva legami indiretti); in secondo luogo, un disagio sociale diffuso, soprattutto tra le fasce di popolazione non coperte neppure dal welfare. Si pensi, per esempio, che la madre di Yamagami, secondo quanto reso noto da Tokyo, ha cresciuto da sola due figli, dei quali il maggiore sarebbe morto suicida, come riporta lo stesso Marco Zappa.

“Mondi e disagi intrecciati nel Pacifico: il caso del Giappone”.

La compresenza di estrema innovazione tecnologica e superstizione arcaica

D’altra parte, il Giappone è caratterizzato dalla costante tensione non solo tra subalternità e autonomia geostrategiche, ma anche tra un forte avanzamento tecnologico accompagnato da uno strenuo impegno nell’innovazione, soprattutto nei settori della robotica e dell’intelligenza artificiale, e consuetudini e credenze arcaiche. Un’altra dicotomia peculiare della cultura giapponese sin da tempi remoti è quella tra tatemae, il volto pubblico, e honne, la vera essenza, ossia la dimensione interiore. Per esempio, nel dibattito pubblico interno, stampa inclusa, non solo non viene affrontato il tema del disagio e del malcontento sociali, ma non si discute neppure del disagio mentale all’interno di una società ossessionata tradizionalmente dalla codificazione e dal controllo, in cui negli ultimi decenni, in particolare con le riforme liberali lanciate all’inizio del millennio, si sono accentuati gli aspetti più disfunzionali, soprattutto quelli legati all’iperproduttivismo. Nel corso dell’intervista a Marco Zappa a Radio Blackout, per esempio, si è fatto riferimento al karoshi, la morte causata da iperlavoro, ma si potrebbe citare anche il fenomeno, emerso con la crisi economica dell’inizio degli anni Novanta, degli hikikomori, individui che trascorrono la propria vita reclusi nelle rispettive abitazioni, contando sui familiari per il sostentamento.

Banzaiii…! ma troppo vecchi per combattere?

In Giappone, dunque, un paese che sin dalla Rivoluzione/Restaurazione Meiji della seconda metà del Diciannovesimo secolo ha saputo conservare intatta la propria essenza, pur in una continua e febbrile metamorfosi materiale, numerose sono le forze contrastanti che covano sotto l’aspetto di un tessuto sociale stabile e controllato. Terreno fertile per le strumentalizzazioni della dialettica imperiale da parte delle forze politiche, anche se quando si parla di disposizione alla guerra non si può prescindere dal cosiddetto fattore umano. In altri termini, anche se Tokyo arrivasse a modificare la costituzione del 1947, non è detto che una popolazione con un alto tasso di senescenza possa favorire l’ascesa di partiti e movimenti che porterebbero il paese a impegnarsi in un conflitto armato.

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Mediterranean Shield: espansione Nato a sud https://ogzero.org/mediterranean-shield-espansione-nato-a-sud/ Fri, 08 Jul 2022 08:05:03 +0000 https://ogzero.org/?p=8103 Riprendiamo due articoli scritti da Angelo Ferrari per l’agenzia Agi correlati alla corsa al controllo del territorio saheliano, a partire dall’esigenza di contrastare l’avanzata di potenze coloniali alternative a quelle occidentali con la perentoria reazione di un’espansione Nato in epoca globalizzata: la sua estensione oltre le sponde meridionali del Mediterraneo attraverso accordi con potenze locali […]

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Riprendiamo due articoli scritti da Angelo Ferrari per l’agenzia Agi correlati alla corsa al controllo del territorio saheliano, a partire dall’esigenza di contrastare l’avanzata di potenze coloniali alternative a quelle occidentali con la perentoria reazione di un’espansione Nato in epoca globalizzata: la sua estensione oltre le sponde meridionali del Mediterraneo attraverso accordi con potenze locali a fungere da satrapi ma sotto l’egida di un’alleanza che si estende sull’intero pianeta. Il vecchio approccio francese che fino a pochi mesi fa non poteva immaginare qualunque forma di autonomia locale va cestinato e ripensato completamente. Ma da nuovi protagonisti. 


Lo Scudo Nato a Sud

La Nato volge il suo sguardo anche a sud del Mediterraneo, in particolare verso il Sahel. E questa sembrerebbe una novità se non fosse che già nel passato la Nato è intervenuta nella gestione delle crisi su richiesta dell’Unione Africana (Ua). L’esordio è del 2005 quando, con l’acuirsi della crisi del Darfur, la Nato ha accolto la richiesta della Ua di supportare la sua missione di peacekeeping in Sudan. Poi nel 2009 la richiesta, sempre da parte della Ua di sostenere la missione in Somalia. Poi nel 2009 con l’operazione “Ocean Shield” per la lotta contro la pirateria nel Corno d’Africa. Per non dimenticare ciò che è successo in Libia a partire dal 2011. Sono solo alcuni esempi.

Con l’ultimo vertice della Nato a Madrid, che ha ridisegnato la postura dell’Allenza a livello globale puntando con più forza alla deterrenza e alla difesa collettiva, resta l’impegno verso la prevenzione e la gestione delle crisi con un focus significativo sul Nordafrica e il Sahel. Di sicuro l’Italia può dirsi soddisfatta del linguaggio usato nel nuovo Concetto strategico – come scrive su “Affarinternazionali.it”, Elio Calcagno – rispetto a una regione di primario interesse per il paese. Tuttavia il capitale politico, militare ed economico dell’Allenza verrà inevitabilmente incanalato verso est e verso la minaccia russa. L’Italia, dunque, dovrà giocare un ruolo più propositivo e concreto sul fianco sud in ambito Nato di quanto abbia fatto fino a oggi. Roma non può permettersi di stare a guardare e non può essere uno spettatore passivo come in Libia.

Necessari nuovi approcci alle crisi nelle marcoaree

La gestione e la prevenzione delle crisi, in particolare nel Sahel, dovranno necessariamente passare attraverso una “richiesta” dell’Unione africana e il consenso dei paesi coinvolti. E visto il clima antioccidentale che regna in questa regione dell’Africa è abbastanza complesso che i governi saheliani si affidino all’Alleanza per risolvere le crisi interne, senza dimenticare, poi, la forte presenza della Russia in quell’area.

Detta in parole povere la lotta al terrorismo nel Sahel non può essere camuffata come deterrenza nei confronti della minaccia russa. Insomma, i paesi dell’area saheliana hanno dimostrato, finora, di privilegiare il rapporto con Mosca. Un esempio eclatante è il ritiro dal Mali dei francesi con l’operazione Barkhane e di quella europea Takuba. Un bel rompicapo.

Soldati dell’operazione Barkhane in Mali (foto Fred Marie / Shutterstock)

Fino ad ora tutto è sulla carta ma alcune fughe in avanti di qualche ministro degli Esteri europeo, fanno già discutere nel Sahel. In particolare in Mali dove l’ambasciatore spagnolo a Bamako, Romero Gomez, è stato convocato dal ministro degli Esteri maliano, Abdoulaye Diop, dopo le parole del suo omologo spagnolo, Manuel Alvares che in una dichiarazione non escludeva un possibile intervento della Nato in Mali.

Diop non le ha mandate a dire e in un’intervista ha spiegato: «Oggi abbiamo convocato l’ambasciatore spagnolo per sollevare una forte protesta contro queste affermazioni. L’espansione del terrorismo nel Sahel è principalmente legata all’intervento della Nato in Libia, le cui conseguenze stiamo ancora pagando».

Parole dure, ma Diop non si ferma qui, ha infatti definito le affermazioni del suo omologo spagnolo “ostili, gravi e inaccettabili”, perché «tendono a incoraggiare l’aggressione contro un paese indipendente e sovrano». L’ambasciata spagnola, in un tweet, ha cercato di smorzare i toni spiegando che la «Spagna non ha richiesto, durante il vertice della Nato o in un qualsiasi altro momento, un intervento, una missione o qualsiasi azione dell’Alleanza in Mali». L’occidente dovrà abituarsi a questa ostilità che, in parte, è persino giustificata dalle missioni militari francesi ed europee nell’area.

Secondo il direttore del Centro studi sulla sicurezza dell’Istituto francese di relazioni internazionali (Ifri), Elie Tenenbaum, la Francia, ma anche l’Occidente nel suo insieme, deve “pensare” una nuova strategia, perché attualmente la «dinamica strategica produce l’opposto di ciò che si è prefissa». L’analista sostiene che i tentativi di entrare in partenariato con gli attori locali ha prodotto attriti – il Mali ne è un esempio –: i francesi hanno cercato di arginare il deterioramento della sicurezza in Sahel ma non ci sono riusciti. Nel difendere i propri interessi la Francia non ha fatto altro che alimentare un sentimento antifrancese.

Ma il problema su tutti è quello di avere trascurato le ambizioni russe, turche e cinesi

Attori nello scacchiere africano molto più spregiudicati e soprattutto meno interessati alle politiche interne dei paesi con cui diventano partner. La Francia, invece, non ha fatto altro che continuare, anche “sottobanco”, a determinare le politiche interne delle ex colonie, a “scegliere” chi di volta in volta avrebbe governato. Insomma, un’ingerenza inizialmente mal sopportata e ora totalmente avversata da buona parte delle popolazioni saheliane, certo con gradazioni diverse, ma pur sempre penetrante.

È chiaro che l’occidente dovrà ripensare completamente la sua strategia globale nel Sahel e nell’Africa occidentale se non vuole essere “sfrattato”. Ciò lo chiedono anche le opinioni pubbliche, in particolare quella francese, che cominciano a non capire più le politiche postcoloniali della Francia e quelle dell’Europa che sembra avere come unico obiettivo quello di spostare sempre più a sud il confine del Mediterraneo per arginare i flussi migratori.

Parigi vs Mosca in Françafrique

In Niger per rendere meno urticante la presenza francese in Sahel

La Francia cambia strategia nel Sahel, almeno ci prova. Dopo il ritiro dal Mali, che dovrebbe completarsi entro l’estate, Parigi trasferisce la sua presenza in Niger, paese diventato strategico per tutta la comunità occidentale. La sfida di Parigi è quella di mantenere una presenza nell’area per non vanificare la sua influenza storica, anche se è ormai messa a repentaglio da un sentimento antifrancese diffuso e alimentato ad arte dalla Russia, che esprime nella regione una politica molto aggressiva.

Dunque, un cambio di passo. L’esercito francese intende intervenire a “sostegno” e non più in sostituzione degli eserciti locali. Ma questo dipenderà, soprattutto, dalla volontà degli stati africani. Sono frenetiche le consultazioni e gli scambi tra capitali saheliane, Parigi e le capitali europee. Francesi ed europei si stanno muovendo in direzione di una maggiore cooperazione a seconda delle richieste dei paesi africani.

Dopo lo schiaffo maliano, Parigi intende operare non più da “protagonista” ma in seconda linea. Un modo per ridurre la visibilità della sua azione che finora ha dimostrato di essere un “irritante” per le opinioni pubbliche africane, ma di certo manterrà una presenza nella regione di influenza storica. L’attenzione si concentrerà in Niger, nuovo partner privilegiato, dove i francesi manterranno una presenza con circa mille uomini e capacità aeree. Quindi verrà avviato un partenariato strategico spiegato dal comandante del quartier generale, Hervé Pierre:

«Oggi invertiamo completamente il rapporto di partnership: è il partner che decide cosa vuole fare, le capacità di cui ha bisogno e controlla lui stesso le operazioni svolte con il nostro supporto. È il modo migliore per continuare ad agire efficacemente al loro fianco».

L’obiettivo di Parigi sarebbe quello di non irritare i partner e operare con discrezione, ma occorre anche sottolineare una mancanza di direttive chiare dell’esecutivo francese sulla prosecuzione delle operazioni. Si attendono “ordini” dalla politica in un quadro interno, dopo le legislative, molto complicato. L’opinione pubblica d’oltralpe non comprende più la politica postcoloniale della Francia.

Ciad, Burkina e sospettosamente il Golfo

Il quartier generale francese dell’operazione che succederà all’estinta Barkhane sarà mantenuto, per il momento, a N’Djamena, in Ciad, con cui la Francia ha un accordo di difesa. Ma la sua forza lavoro sarà ridotta. Per quando riguarda il Burkina Faso, dove altri civili sono stati uccisi per mano dei jihadisti nel fine settimana, sta ricevendo l’aiuto francese ma rimane perplesso sul fatto di una intensificazione della presenza sul terreno. Anche qui la propaganda antifrancese, ma soprattutto il sentimento che ne deriva, hanno attecchito molto bene.
Oltre a contribuire a contenere la violenza jihadista che minaccia di diffondersi nel Golfo di Guinea, la sfida per Parigi nel mantenere una sua presenza militare è quella di evitare un declassamento strategico, in un momento di accresciuta competizione sulla scena internazionale. In Africa occidentale i russi stanno perseguendo una strategia di influenza aggressiva, anche attraverso massicce campagne di disinformazione antifrancesi.

Le mosse Wagner

L’intelligence, infatti, sta monitorando gli attacchi compiuti da Wagner sui i social network che hanno superato i confini del Mali, e si stanno diffondendo in Africa. Un’ossessione francese? Non proprio, perché Mosca è riuscita a strappare all’impero d’oltralpe il Mali, si appresta a fare altrettanto in Burkina Faso, la Repubblica Centrafricana è saldamente nelle mani dei russi, e si stanno moltiplicando gli accordi militari con molti stati dell’area. Una penetrazione, tuttavia, che non è dell’ultima ora. È tempo che i russi stanno cercando di tornare ad avere un ruolo decisivo e strategico in Africa, dopo il crollo del Muro di Berlino e la fine della Guerra Fredda, consapevoli che non hanno molto da offrire sul piano commerciale ed economico, ma su quello militare e degli armamenti sì.

L’irritazione di Parigi è evidente. I nervi sono scoperti e lo chiarisce bene, in un’intervista a Radio France International, l’attuale comandante dell’operazione Barkhane, il generale Laurent Michon:

«La manipolazione della popolazione esiste, si diffondono enormi bugie sul fatto che armiamo gruppi terroristici, rapiamo bambini, lasciamo fosse comuni. È facile fare da capro espiatorio a persone che stanno attraversando situazioni umanitarie e di sicurezza estremamente difficili. C’è stata una manovra di disinformazione sulle reti, con mercenari Wagner che seppellivano cadaveri a Gossi, per accusare i francesi. Per la prima volta l’esercito francese ha deciso di spiegare come si fanno le cose nella vita reale, declassificando e mostrando le immagini dei droni. Vivono nel paese (i Wagner, N. d. A.), depredano, commettono abusi, hanno le mani sull’apparato di comando dell’esercito maliano e fanno le cose alle spalle dei leader. La reazione migliore è rispettare i nostri valori, essere chiari su ciò che stiamo facendo e lasciare che i giornalisti africani ed europei vengano a vedere, fare qualche verifica sui fatti. L’arma migliore è l’informazione verificata e sottoposta a controlli incrociati».

Approccio militare o cooperazione: il dilemma dell’Eliseo

La confusione regna sovrana e Parigi, anche senza ammetterlo, si rende conto che un declassamento strategico è in atto, ciò che si chiede è se è un fatto inesorabile oppure si possono, ancora, recuperare posizioni e, soprattutto mantenere una presenza che salvaguardi i propri interessi. L’operazione Barkhane, per essere gentili, è stata un fallimento. La Francia, invece, dovrebbe chiedersi se la strategia militare, che prevale su quella della cooperazione allo sviluppo, sia vincente.

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Risorse e rotte artiche in tempo di guerra https://ogzero.org/risorse-e-rotte-artiche-in-tempo-di-guerra/ Sun, 01 May 2022 21:58:15 +0000 https://ogzero.org/?p=7227 L’inviato speciale Ue per l’Artico, Michael Mann ha commentato il 30 aprile 2022 le decisioni del Consiglio artico rispetto alla collaborazione con la Russia, ritenendo che nonostante le tensioni, «grazie ai fondi europei l’Artico può diventare un laboratorio di sviluppo di tecnologie e risorse sostenibili con cui vincere la sfida della crisi energetica», però un […]

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L’inviato speciale Ue per l’Artico, Michael Mann ha commentato il 30 aprile 2022 le decisioni del Consiglio artico rispetto alla collaborazione con la Russia, ritenendo che nonostante le tensioni, «grazie ai fondi europei l’Artico può diventare un laboratorio di sviluppo di tecnologie e risorse sostenibili con cui vincere la sfida della crisi energetica», però un sempre maggior numero di navi russe navigano nell’Artico.

L’importanza delle risorse artiche a cui il riscaldamento globale consente di accedere (per le tecnologie e per la transizione energetica – che ridurrebbe la capacità di ricatto russo) e lo scontro per la Northern Sea Route che si va liberando dai ghiacci e che Mosca intende controllare considerandola parte integrante del proprio territorio, producono anche nel Grande Nord ribaltamenti geopolitici e costringono a trovare soluzioni alternative alla cooperazione sostenibile finora perseguita tra le potenze mondiali. Ciò che è destinato a patire di questa contingenza è l’ambiente, l’accesso a energia sostenibile… e gli interessi cinesi. Alessandra Colarizi fornisce qualche elemento per comprendere quali fossero i progetti e la pianificazione di Pechino riguardo al Mar Glaciale Artico e cosa ne rimane dopo la crisi ucraina.


L’“amicizia senza limiti” e le forniture di gas russo. È quanto le cronache internazionali ricordano dell’ultimo – ormai storico – incontro tra Vladimir Putin e il presidente cinese Xi Jinping. Ma, durante quelle ore trascorse insieme a ridisegnare l’ordine internazionale, i due leader si sono soffermati su un’altra questione centrale tanto per la stabilità energetica mondiale, quanto per i futuri assetti geostrategici: la necessità di promuovere una Cooperazione sostenibile e pratica nell’Artico, come recita il motto della presidenza moscovita iniziata nel maggio 2021.

L’estremo Nord rappresenta, insieme all’Asia centrale, lo scacchiere regionale in cui i due giganti collaborano più attivamente. È anche una delle aree più colpite dal colpo di coda della crisi ucraina. Compiendo un passo decisivo, il 24 marzo 2022 i membri del Consiglio Artico (Canada, Danimarca, Finlandia, Islanda, Norvegia, Svezia e Stati Uniti) hanno sospeso tutti i colloqui con Mosca. Non una cosa di poco conto: la Russia controlla oltre metà della costa bagnata dall’Oceano Artico ed è al centro delle principali iniziative multilaterali, dalla ricerca scientifica allo sviluppo economico passando per la collaborazione militare. Ora la sua estromissione rischia di paralizzare il funzionamento della principale organizzazione regionale.
Per Pechino, non è una buona notizia.

La Cina un “paese quasi artico”

Geograficamente parlando un outsider, la Cina si definisce un “paese quasi artico”.  Dal 2013 è membro osservatore del Consiglio (paradossalmente, dal punto di vista geografico, lo è anche l’Italia). Ma frequenta la zona addirittura dal 1925, ovvero da quando siglò il trattato delle Svalbard che disciplina le attività commerciali nelle isole a metà strada tra la Norvegia e il Polo Nord. Il perché è spiegato nel libro bianco sull’Artide pubblicato dal governo cinese quattro anni fa (dove si dispiega l’Operazione Dragone Bianco): nonostante la distanza, le «condizioni naturali dell’Artico e i loro cambiamenti hanno un impatto diretto sul sistema climatico e sull’ambiente ecologico della Cina e, a loro volta, sui suoi interessi economici nell’agricoltura, la silvicoltura, la pesca, l’industria marina e altri settori».

Non è quindi solo un fenomeno di interesse scientifico. ll riscaldamento ambientale sta causando un progressivo scioglimento dei ghiacci, rendendo sempre più navigabili acque un tempo impercorribili. Proprio alla creazione di nuove rotte commerciali tra l’Asia orientale, l’Europa e il Nordamerica passando attraverso l’Artide, guarda la cosiddetta “Via della seta polare”, declinazione artica della Belt and Road Initiative, la strategia di politica estera con cui Pechino sostiene la penetrazione internazionale delle aziende statali cinesi e dei suoi standard industriali attraverso la costruzione di grandi vie di comunicazione marittime e terrestri in Eurasia.

I nuovi corridoi settentrionali non solo permetteranno di aggirare “lo stretto di Malacca”, l’impervio passaggio (uno dei chokepoint mondiali) sotto il controllo degli Stati Uniti e dei suoi alleati asiatici. Contribuiranno anche ad accorciare i tempi di percorrenza delle merci tra i porti cinesi e gli scali europei. Passando per Suez oggi una nave che parte da Shanghai diretta a Rotterdam impiega circa 50 giorni; attraverso la rotta nordica e la Via della Seta Polare lo stesso viaggio durerebbe circa 33 giorni. Per il momento la tratta è ancora in fase di test: il colosso cinese China Ocean Shipping Company (Cosco) effettua circa nove spedizioni all’anno. Ma il numero è destinato a salire e alcune società sono già in trattative per garantire un volume di transazioni prestabilito ogni anno.

La Cina come player responsabile

Commercio a parte, gli interessi cinesi nel quadrante includono scopi scientifici, ambientali, e diplomatici. Inserita nell’ultimo “piano quinquennale” 2021-2025, la strategia polare cinese annovera tra gli obiettivi la realizzazione di esplorazioni in acque profonde, la pianificazione di missioni spaziali, e la tutela del diritto internazionale marittimo. Conscia del suo nuovo status internazionale, negli ultimi anni la Cina ha utilizzato il Consiglio Artico per presentare un’immagine di sé più responsabile, soprattutto alla luce delle accuse che dall’altra parte dell’Eurasia accompagnano l’espansionismo cinese nelle acque contese con i vicini rivieraschi.

Nel white paper Pechino spiega che il suo coinvolgimento nel quadrante è teso a «comprendere, proteggere, sviluppare e partecipare alla governance dell’Artico, in modo da salvaguardare gli interessi comuni di tutti i paesi e la comunità internazionale e promuovere lo sviluppo sostenibile» della regione. Ne consegue un’immagine rassicurante ma parziale della Polar Silk Road. A giudicare dai report comparsi sulla stampa cinese, infatti, gli aspetti militari, sebbene mai espliciti, sono altrettanto fondamentali per comprendere la crescente assertività di Pechino nell’area.

La marina cinese vede nel passaggio a Nordest una scorciatoia per spostare truppe dal Pacifico all’Atlantico, in mancanza di basi militari (la più vicina è a Gibuti, nel Corno d’Africa) da cui tenere a tiro la costa americana con i propri bombardieri e missili balistici intercontinentali. Un sogno vagheggiato da Mao nel 1959 e che l’Unione sovietica di Chruščëv congelò per decenni. Secondo il tabloid nazionalista “Huanqiu Shibao”, se i sottomarini cinesi dotati di armi nucleari riuscissero ad accedere indisturbati al Mar Glaciale Artico, i rapporti di forza con gli States e gli alleati Nato cambierebbero radicalmente rendendo la Cina una “potenza militare mondiale”.

Se la Cina perde la Russia

Consapevole dei suoi limiti geografici, fino a oggi la Cina ha puntato a cementare la propria presenza nello scacchiere polare in partnership con Mosca. Passando dentro la zona economica esclusiva russa, la Rotta del Mare del Nord è in balia delle decisioni del Cremlino in termini di tariffe e accesso alle infrastrutture marittime lungocosta. Soprattutto dopo l’occupazione della Crimea e il crescente isolamento internazionale di Mosca, la Cina è riuscita a sfruttare il proprio ascendente su Mosca per ottenere importanti quote di partecipazione nei principali progetti energetici in Siberia. A partire dal 2016 la statale China National Petroleum Corporation (Sinopec) e il Silk Road Fund hanno affiancato la russa Novatek e l’azienda francese Total nello sviluppo di un giacimento di gas naturale liquefatto nella penisola di Yamal. Società petrolifere statali cinesi stanno lavorando all’ultimazione di Arctic LNG-2 e del giacimento di Payakha, mentre Pechino ha già messo gli occhi sulle infrastrutture di trasporto, vero fiore all’occhiello della Silk Road: secondo un accordo del 2016, la costruzione di un porto d’altura vicino ad Arkhangelsk, sul Mar Bianco, doterà Cosco di un’importante base logistica lungo la rotta a Nordest. E, nonostante sia in fase di stallo da circa vent’anni, la Cina ha espresso interesse anche per la ferrovia di Belkomur, con cui le autorità locali puntano a creare un sistema di trasporto unificato nei territori settentrionali.

Non è solo una questione di business. L’allineamento con la Russia è servito, come in altri frangenti, a sostanziare la postura cinese con una visione strategica di più ampio respiro. Senza Mosca la Cina nell’estremo Nord rimane un intruso, anche piuttosto sgradito. In tempi recenti, nel resto dell’Artide, la Via della Seta Polare ha incontrato notevoli ostacoli, spesso a causa delle preoccupazioni di paesi, come Canada e Svezia, con cui Pechino ha rapporti politici tesi. Gli Stati Uniti non hanno nascosto il proprio disagio per le mire del gigante asiatico sull’industria mineraria in Groenlandia – prima che la vittoria nel 2021 della sinistra ambientalista di Inuit Ataqatigiit sospendesse le attività estrattive.

Cosa succederà adesso? 

C’è chi, guardando al passato recente, pronostica un attivismo anche maggiore del gigante asiatico nel quadrante artico. Secondo gli ottimisti, senza alternative, la Russia sarà costretta a darsi mani e piedi alla Cina: gli yuan sostituiranno i capitali sborsati delle multinazionali europee e giapponesi, continuando a foraggiare i piani artici di Mosca. Non tutti concordano, però. Non solo perché, aldilà della sbandierata pseudo-alleanza, dall’introduzione delle misure punitive le aziende cinesi hanno mostrato una maggiore cautela nel fare affari con l’Orso. Lo dimostra il rallentamento delle attività di Sinopec in Russia, nonché il calo delle importazioni di carbone russo nei primi mesi dell’anno.

Mentre, per alcuni esperti cinesi, la rottura tra gli otto stati membri del Consiglio Artico non comprometterà automaticamente la strategia cinese nella regione, le sanzioni internazionali contro Mosca potrebbero eccome. Soprattutto considerati i divieti (diretti e indiretti) sull’export di tecnologia americana, da cui il progetto di Yamal dipende enormemente.

I risvolti politici non sono meno insidiosi. Per l’Artic Institute Pechino pagherà il prezzo di quella che i vertici Ue hanno definito una “neutralità filorussa”: secondo il think tank con base a Washington, infatti, «è difficile immaginare che gli Stati Uniti, il Canada o i cinque paesi nordici del Consiglio acconsentiranno ad approfondire la cooperazione economica o a integrare la Cina nei forum regionali se [Pechino] continuerà a schierarsi con la Russia». Fattore che potrebbe inficiare di riflesso la “diplomazia omnidirezionale” condotta dal governo comunista con Svezia, Finlandia e Norvegia nei settori aerospaziale, dei cambiamenti climatici e dell’esplorazione scientifica. Ora che – contrariamente alle intenzioni di Putin – la crisi ucraina ha intensificato la cooperazione tra la Nato, Helsinki e Stoccolma, separare la ricerca pacifica dalla sicurezza armata risulta sempre più difficile. Collaborando con Mosca nella regione polare, Pechino rischia di dover rispondere ad accuse che trascendono il presunto supporto militare in Ucraina.

C’è poi un problema più profondo, che riguarda la natura stessa della cooperazione sino-russa. Mosca non ha mai visto di buon occhio lo sconfinamento cinese nel proprio cortile di casa. Anche dopo l’ingresso della Cina nel Consiglio Artico, la partnership polare tra i due giganti ha continuato a risentire della diffidenza che storicamente contraddistingue le relazioni sino-russe. Nel 2020 il direttore dell’Arctic Civic Academy di San Pietroburgo è finito agli arresti per aver passato a Pechino informazioni classificate sulla ricerca idroacustica e il rilevamento di sottomarini. L’invasione russa dell’Ucraina irrompe in una crisi di fiducia che il mancato coordinamento dei rispettivi vertici sul fronte europeo rischia persino di esacerbare.

Le considerazioni economiche aggiungono ulteriori incognite all’equazione polare. Perché se è vero che gli investitori cinesi potrebbero trarre benefici dal ripiegamento dei competitor occidentali dai giacimenti russi, la sostenibilità dei finanziamenti nei combustibili fossili è tutt’altro che scontata. Da quando Pechino ha annunciato l’obiettivo emissioni zero entro il 2060, i prestiti cinesi destinati al comparto energetico lungo la Belt and Road sono crollati verticalmente. Nelle terre dei ghiacci prevarranno i calcoli politici o le valutazioni ambientali?

La politica estera o l’agenda interna?

Cambiano gli equilibri mondiali, ma cambiano soprattutto le priorità cinesi. È il grande limite dell’“amicizia senza limiti” tra Cina e Russia.

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La guerra in Ucraina cambierà le scelte di Ankara? https://ogzero.org/la-posizione-di-ankara-nel-conflitto-russo-ucraino/ Fri, 18 Mar 2022 14:40:19 +0000 https://ogzero.org/?p=6806 Mar Nero settentrionale con la tatara Crimea; Mar Nero meridionale con gli Stretti strategici per la navigazione. Gli accordi di Astana, che già adombravano un ridimensionamento della Russia al rango delle altre due potenze regionali che li animano, facevano pensare che la Turchia fosse destinata a trarne maggiori vantaggi, mentre Mosca appariva alla ricerca di […]

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Mar Nero settentrionale con la tatara Crimea; Mar Nero meridionale con gli Stretti strategici per la navigazione. Gli accordi di Astana, che già adombravano un ridimensionamento della Russia al rango delle altre due potenze regionali che li animano, facevano pensare che la Turchia fosse destinata a trarne maggiori vantaggi, mentre Mosca appariva alla ricerca di accordi per spartire senza problemi le aree lasciate “libere” dal disimpegno dell’America trumpiana, dimostrando forse un inizio di affanno a svolgere il ruolo di grande potenza. Forse si può inquadrare la “spezial operazy” come una delle tappe delle spartizioni di Astana, che hanno visto diversamente impegnati gli eserciti e le milizie di Ankara e Mosca e quindi l’equidistanza  tra i contendenti da parte di Erdoğan fa il paio con l’interposizione di Putin in finale di conflitto in Nagorno Karabakh concluso a favore dell’Azerbaijan dai droni Bayraktar, protagonisti anche nel confronto bellico in Ucraina. L’equilibrio di Ankara, apparentemente sbilanciato a favore di Kiev (in chiave atlantista), ma attento a lasciare ampi spiragli di apertura a Mosca per proporsi come mediatore – forse per esperienza diretta nell’occupazione imperiale di territori limitrofi al proprio come il Rojava –, può ottenere riconoscimento internazionale, premiando l’ambiguità e la politica dei due forni di Erdoğan? Ed è vera competizione tra Israele e Turchia per ottenere il ruolo di paciere («proprio loro!?!», diranno curdi e palestinesi), o non è il gioco delle parti, per cui ognuno appare come campione valido per ciascuno dei due contendenti, perché tutti legati a filo doppio dallo scambio delle armi?

Vera rivalità tra Israele e Turchia per il ruolo di mediatore?

L’ossessione di OGzero per Astana arriva fin qui, lasciando spazio alle intuizioni di Murat Cinar…


Due paesi importanti per la Turchia sono in piena guerra; Ucraina e Russia. Dai droni ai pomodori, dalla centrale nucleare agli S-400, dal turismo al grano… e dal gas al riciclaggio di denaro. Per il governo centrale della Turchia, Mosca e Kiev sono due partner strategici con i quali ha consolidato dei rapporti economici, politici e militari in questi ultimi anni.
Ora invece questi due vicini stanno attraversando un forte conflitto armato tra loro. Dunque qual è stata, finora, la posizione di Ankara?

Le prime scelte

La politica della Turchia, dal 24 febbraio, quando la Russia ha iniziato a invadere l’Ucraina, mostra che rimarrà in armonia e coordinamento con l’occidente e la Nato, ma senza mettere in pericolo il suo legame con questi due paesi.

Atlantismo

La Turchia, che ha attuato la Convenzione di Montreux e ha impedito a più navi da guerra russe di accedere al Mar Nero, attraverso il mar di Marmara e gli stretti dei Dardanelli e del Bosforo, afferma che non intende imporre sanzioni alla Russia e che farà del suo meglio per mantenere aperti i canali di dialogo con Mosca per la soluzione del problema, accolto con favore anche dall’Occidente.
Con le dichiarazioni rese il giorno dell’inizio dell’operazione, che la Russia definisce “operazione militare speciale”, la Turchia ha chiesto il rispetto dell’integrità territoriale e dell’unità politica dell’Ucraina e ha dichiarato di rifiutare l’attacco russo. La Turchia, che non ha riconosciuto l’invasione e l’annessione della Crimea da parte della Russia nel 2014, ha rivelato che continuerà ad agire insieme all’opinione pubblica internazionale con questa posizione che ha assunto. La Turchia ha anche appoggiato il testo della risoluzione di condanna della Russia all’Assemblea generale delle Nazioni Unite (Onu).

Oltre a condannare la Russia, la Turchia ha anche fornito all’Ucraina il massimo livello di sostegno. Il presidente Recep Tayyip Erdoğan, il presidente dell’Ucraina Volodymyr Zelensky e i ministri degli Esteri e della Difesa turchi si sono incontrati spesso con le loro controparti ucraine e hanno discusso degli sviluppi riguardanti l’occupazione russa esprimendo il sostegno della Turchia alla sovranità dell’Ucraina.
L’uso efficace dei droni armati “made in Turkey”, Bayraktar venduti dalla Turchia, che negli ultimi anni ha approfondito la cooperazione con l’Ucraina nel campo dell’industria della difesa, ha reso ancora più importante il dialogo tra i ministri della Difesa dei due paesi. Le dichiarazioni delle autorità ucraine di voler acquistare più droni dalla Turchia si sono riflesse anche sulla stampa durante questo processo.

Droni autarchici turchi: l'esercito di Ankara si fornisce di ogni dettaglio tecnologico dall'industria nazionale per equipaggiare il proprio gioiello bellico: i sistemi aerei senza pilota

Bayraktar-TB2 Sịha, che fanno strame dei carri armati russi incolonnati.

Sin dall’inizio della guerra, la Turchia ha annunciato di aver iniziato a inviare aiuti umanitari in Ucraina. Con tutti questi passi, la Turchia ha dimostrato di sostenere l’Ucraina.

Caro amico Putin

Il presidente della Repubblica di Turchia, prima e dopo l’inizio dell’operazione, ha dichiarato: «Non rinunceremo alle nostre relazioni speciali né con l’Ucraina né con la Russia» e ha lanciato il messaggio che cercherà di mantenere una politica equilibrata anche se la crisi approfondisse.

Tuttavia, ciò non ha impedito ad Ankara di «invitare Mosca a interrompere l’operazione il prima possibile». Nelle loro dichiarazioni, il presidente Erdoğan e il ministro degli Esteri Mevlüt Çavuşoğlu hanno sottolineato che l’operazione militare ha messo in pericolo la sicurezza sia regionale che mondiale e che la Russia dovrebbe rinunciarvi il prima possibile. Nelle dichiarazioni rilasciate alla stampa è stato anche affermato che Çavuşoğlu ha trasmesso direttamente questo richiamo al ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov, con il quale aveva parlato al telefono.
La Turchia è stata anche tra i paesi che hanno criticato le minacce sventolate da Putin sull’eventuale utilizzo delle armi nucleari. İbrahim Kalın, il consulente per la politica estera del presidente Erdoğan, ha definito “sconcertante” il fatto che Mosca abbia messo sul tavolo la carta nucleare.

Con la Nato ma…

La dedizione della Turchia al patto transatlantico è molto discutibile da parecchi anni. Sia Trump sia Biden, diverse volte hanno criticato Ankara per le sue scelte militari e politiche in Siria e per le sue relazioni con la Russia. Mentre gli Usa sono arrivati anche alle sanzioni economiche e militari, con la Grecia e la Francia ci sono stati dei momenti di grande tensione e reciproche minacce in questi ultimi 2 anni.

La posizione di Ankara nel conflitto russo-ucraino

Settembre 2020, dispute tra appartenenti alla Nato nel Mediterraneo orientale: Grecia e Francia contro Turchia.

Tuttavia dalla guerra in Libia fino al caso degli uiguri, dall’Afghanistan alla produzione militare joint venture con gli alleati, dall’occupazione russa in Crimea e ora con l’appoggio a Kiev, possiamo dire che la Turchia ha seguito molto fedelmente la linea politica, economica e militare della Nato.

… It’s the economy…

La guerra in Ucraina arriva in un momento molto importante per la Turchia; sia per le sue relazioni forti con Mosca sia per la devastante situazione economica e politica che Erdoğan deve affrontare a casa. Un governo ai minimi storici nei sondaggi (meno di 35%) un anno prima delle elezioni presidenziali e parlamentari, sia per il lavoro di grande successo che portano avanti i sindaci delle opposizioni eletti nelle grandi città nel 2019 sia per l’enorme corruzione sempre più conosciuta e evidente che rappresenta il governo e la famiglia del presidente della Repubblica. Ovviamente a questa situazione catastrofica politica bisognerà aggiungere anche la crisi economica senza precedenti. Un’inflazione che supera la soglia del 130%, una Lira che perde il suo valore ogni giorno davanti alle monete straniere, una povertà diffusa e terribile e un vuoto nel fisco che spinge Ankara a svendere qualsiasi cosa al capitale russo, cinese e mediorientale.

… l’intermediario

Insomma: le scelte discutibili, radicali e pericolose di Erdoğan, operate in questi ultimi anni per consolidare un rapporto forte con Putin, fanno paradossalmente sì che la Nato trovi in Ankara un alleato a cui attribuire un ruolo chiave in questo conflitto. Quello del mediatore. Dall’altro lato Erdoğan non vorrebbe assolutamente perdere l’occasione per fare una forte propaganda elettorale nella politica interna portando a casa prestigio, rispetto e forse anche un po’ di soldi, vista la situazione economica e elettorale devastante.

Mediazione

Infatti l’incontro importante ma non fruttifero, avvenuto ad Antalya in Turchia, tra il ministro degli Esteri russo Lavrov e quello ucraino Kubela il 10 marzo è una delle dimostrazioni del fatto che il governo centrale vorrebbe lavorare come mediatore in questo conflitto, molto probabilmente per portare a casa un paio di carte vincenti. L’impegno apprezzato sia da Zelensky sia da Putin ha ricevuto anche gli applausi dal segretario generale della Nato, Stoltenberg che ha espresso la sua gratitudine direttamente al presidente della repubblica di Turchia quando l’ha incontrato durante la sua visita ad Ankara l’11 marzo.
Inoltre, la Turchia si era astenuta, il 26 febbraio, dal votare contro la sospensione della Russia nel Consiglio d’Europa, sulla base del fatto che «una completa interruzione del dialogo e la demolizione dei ponti non sarebbe vantaggiosa». Il ministro Çavuşoğlu ha dichiarato: «Non dovremmo concordare sull’interruzione del dialogo. C’è qualche vantaggio per il Consiglio d’Europa nel rompere i legami con la Russia qui? No. Ecco perché ci siamo astenuti nella votazione. Perché questo comporterebbe la chiusura del dialogo». Tuttavia il 17 marzo, durante una riunione straordinaria: «Il Comitato dei Ministri ha deciso, nel quadro della procedura avviata in virtù dell’articolo 8 dello Statuto del Consiglio d’Europa, che la Federazione russa cessa di essere membro del Consiglio d’Europa a partire da oggi, 26 anni dopo la sua adesione».

La diplomazia di Twitter e le telefonate private

Ankara, sin dall’inizio della guerra, ha mantenuto l’opinione secondo la quale tenere aperti i canali di dialogo con Mosca avrà un impatto positivo sul processo negoziale avviato tra funzionari russi e ucraini. Il consulente per la politica estera del presidente Erdoğan, İbrahim Kalın, in una dichiarazione alla stampa turca, ha affermato che la Turchia segue da vicino il processo negoziale tra le parti in guerra e trasmette i suoi suggerimenti alla Russia, soprattutto grazie al dialogo in corso.
A tutti questi passi e dichiarazioni ovviamente dovremmo aggiungere il continuo traffico di telefonate tra Ankara, Mosca e Kiev e i ringraziamenti di Zelensky direttamente verso Erdoğan comunicati ripetutamente su Twitter, per il suo sostegno

Importanti relazioni sia con Kiev sia con Mosca

In un’intervista rilasciata alla Cnn International, İbrahim Kalın ha dichiarato di non volere che i loro forti legami economici con Mosca, inclusi settori come l’energia, il turismo e l’agricoltura, siano danneggiati, e ha sottolineato che credono nei vantaggio provenienti da una condizione di dialogo alternativa all’imposizione di sanzioni.

La Turchia, che l’anno scorso ha ospitato circa 5 milioni di turisti russi (e 2 milioni di ucraini), ha preferito non assecondare i paesi occidentali che hanno chiuso il loro spazio aereo.

La Russia è il più grande fornitore di gas naturale della Turchia e sta anche costruendo la prima centrale nucleare del paese. I primi reattori dovrebbero essere messi in servizio nel 2023. Il volume degli scambi tra Turchia e Russia supera i 20 miliardi di dollari. I due paesi puntano ad aumentare questa cifra a 100 miliardi di dollari.

Questo rapporto commerciale in crescita vale anche per l’Ucraina. Secondo la Camera di Commercio di Istanbul (Ito) nel 2021 il volume commerciale superava i 7,4 miliardi di dollari Usa e nel 2022 l’obiettivo è raggiungere i 10. Solo nell’ultimo incontro avvenuto il 3 febbraio sono stati firmati ben 8 accordi commerciali tra Erdoğan e Zelensky. La collaborazione tra questi due paesi è in forte crescita anche nel campo militare.

Mediatori sì ma non da soli

La crisi energetica, l’interruzione dei rapporti commerciali, degli investimenti finanziari e del gigantesco riciclaggio di soldi nelle banche europee e in collaborazione con le mafie europee e la minaccia sulla sicurezza cibernetica sono solo alcuni punti che necessitano un piano B nel caso in cui le cose si mettessero molto male a lungo termine con Mosca. Dunque a questo punto insieme ad Ankara subentrano nel gioco due altri attori insospettabili: Grecia e Israele.
La Turchia, ultimamente, sembra che stia ricucendo i suoi rapporti con questi due “alleati”/vicini.

Israele, una volta “razzista” e ”terrorista” per Erdoğan

Infatti non è un caso che il presidente della Repubblica d’Israele, Isaac Herzog, abbia visitato la Turchia, incontrando il suo omologo turco il 9 di marzo. Una visita che era stata già organizzata ma ovviamente ha assunto un’importanza particolare in questo periodo esattamente come il contenuto delle dichiarazioni finali.

«Sia l’inizio di una nuova fase nelle relazioni tra questi due paesi. Dobbiamo rafforzare i nostri obiettivi commerciali soprattutto nel campo dell’energia»: erano alcune parole pronunciate da Erdoğan alla fine dell’incontro. Herzog invece ha voluto parlare anche della convivenza dei popoli, la pace tra le religioni e ha pure citato una poesia di Hikmet.

Secondo il conduttore televisivo israeliano, Mohammad Micedle, questi due paesi hanno obiettivi in comune in Siria e in Ucraina. Quindi devono lavorare insieme. Invece secondo, Jonathan Freeman, uno dei professori dell’Università di Gerusalemme il ruolo di questi due paesi acquisisce un valore aggiunto derivante dalla guerra in Ucraina soprattutto nell’ambito della sicurezza, dell’energia e dal punto di vista economico.

«Grecia e Cipro avranno le risposte che meritano» (Erdoğan, 14 ottobre 2020)

Lo stesso tipo di visita a Istanbul è stato effettuato il 13 di marzo anche dal primo ministro greco Kyriakos Mītsotakīs con Erdoğan.

L’incontro si è concluso con una serie di buoni intenti e progetti legati al «nuovo piano di sicurezza in Europa alla luce della guerra in Ucraina, lotta contro l’immigrazione irregolare e rafforzamento dei rapporti commerciali».

Una nuova fase, una nuova era positiva e felice meno di 2 anni dopo quel famoso momento di crisi registrato nelle acque dell’Egeo che portava quasi alla guerra questi due vicini storici; come l’incontro tra Erdoğan e Herzog mette la parola fine ai dissapori sorti nel maggio 2010 con la vicenda della Freedom Flotilla e l’assalto alla Mavi Marmara, nave turca assaltata dai servizi israeliani che causarono la morte di 9 marinai turchi.

La posizione di Ankara nel conflitto russo-ucraino

Assalto del Mossad alla nave turca Mavi Marmara in rotta verso Gaza nel maggio 2010: causarono 9 morti tra l’equipaggio e il pretesto al presidente turco per ergersi a paladino della causa palestinese.

Oligarchi e oppositori già in Turchia

Approfittare della fuga dei capitali dai paesi in conflitto e isolati è una scelta ormai molto diffusa in diversi angoli del mondo. Esattamente come quello di aprire le porte agli oppositori che a lungo andare potrebbero rappresentare una “carta” politica importante nei confronti dell’alleato di oggi. La Turchia ha fatto queste mosse ospitando quell’enorme quantità di denaro dello stato libico e di quello venezuelano nei momenti di grande crisi economica, politica e militare. Questa scelta fatta da Tripoli e Caracas comporta fedeltà e collaborazione e per Ankara la parziale disponibilità di questi due paesi rappresenta anche un elemento di forza nei confronti dei suoi alleati. In merito alla presenza degli oppositori invece possiamo citare il caso degli uiguri in fuga dallo Xinjiang e dei tatari scappati dalla Crimea in due tempi diversi in questi ultimi anni, rendendo così la Turchia rifugio degli oppositori e degli oppressi per quegli attivisti che rappresentano “minaccia e problema” per gli alleati Cina e Russia.

La storica attrazione per Istanbul

Secondo il professore universitario, Aydin Sezer, la vicinanza geografica della Turchia fa sì che per chi volesse portare via il suo capitale dalla Russia la rende più accessibile e attraente rispetto alla Cina e ai paesi del Golfo. Nel suo intervento fatto in diretta il 7 marzo, organizzato dal portale di notizie “Gazete Duvar, Sezer sostiene che numerose aziende russe stanno già avviando operazioni di acquisto dei beni di lusso, immobili costosi e vari investimenti finanziari a Istanbul. La stessa notizia è stata approfondita il 15 marzo in un articolo di Nuran Erkul Kaya ed Emre Gurkan Abay anche sul sito dell’agenzia di stato “Anadolou Ajansi” e un’esaustiva carrellata di patrimoni investiti in Turchia da parte di oligarchi russi molto vicini a Putin è stata redatta da su “medyascope”.
In una notizia firmata da “Euronews”, il 15 marzo, invece si parlava di quelle migliaia di “benestanti” russi che hanno deciso di lasciare la Russia per via della loro opposizione contro la guerra ma anche perché pensano che una catastrofe economica sia in arrivo. Lo stesso argomento era stato reso pubblico il giorno prima anche da “The New York Times”. In questo articolo, firmato da Anton Troianovski e Patrick Kingsley, si citavano i principali paesi di destinazione come Armenia, Georgia, Uzbekistan, Kirghizistan e Kazakistan ma anche la Turchia. Perché?

Profughi russi a Istanbul

Un turco trasporta nella neve stambulina materassi comprati da organizzazioni umanitarie per aiutare profughi russi contrari alla guerra e timorosi della catastrofe economica russa.

I motivi sono parecchi. Per esempio, nonostante il fatto che i paesi europei abbiano chiuso i loro spazi aerei agli aerei russi, la Turchia non l’ha fatto e questa scelta rende Istanbul una delle alternative per i russi che vogliono lasciare il paese. Solo la Turkish Airlines continua a organizzare 5 voli al giorno per Mosca e, insieme ad altre compagnie, questo numero supera i 30 in alcuni giorni. Kirill Nabutov, un commentatore sportivo di 64 anni fuggito a Istanbul, nell’intervista rilasciata al quotidiano statunitense afferma che la storia si ripete. Anche la cugina della madre di Nabutov fuggì a Istanbul nel 1920 e da lì andò in Tunisia. Anche se non grande come gli ucraini, questa fuga ricorda quelle 100.000 persone in fuga dalla guerra civile negli anni Venti, dopo la rivoluzione bolscevica, rifugiate a Istanbul.

Politica interna appesa ai colpacci internazionali

Il ruolo della Turchia, da diversi punti di vista, possiede un peso importante in questa fase storica che sta attraversando prima di tutti l’Ucraina poi il resto del mondo. Questo ruolo senz’altro è dovuto alle relazioni che Ankara ha costruito in questi ultimi anni, quelle relazioni basate sul reciproco sfruttamento, esattamente come diversi leader mondiali fanno da tempo. A questo fattore sarebbe opportuno aggiungere anche la crisi diplomatica, economica, energetica e politica in cui si trovano alcuni alleati della Turchia. Come abbiamo visto nell’esperienza della “gestione dei migranti” e nei conflitti armati in Libia e Azerbaigian/Armenia, dove l’incapacità oppure l’indifferenza dell’Unione europea e della Nato subalterna, Ankara approfitta dell’occasione. Infine la situazione economica e politica, devastante, in cui si trova il governo di Erdoğan deve fare qualcosa. Un leader che ha sempre fatto alimentare la politica interna con quella estera non può perdere quest’occasione sperando di perdere a casa qualche vittoria. Ce la farà? Questo dipende anche dagli alleati e dai partner della Turchia.

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Che ci fa la Turchia in Ucraina? https://ogzero.org/che-ci-fa-la-turchia-in-ucraina/ Wed, 09 Feb 2022 17:16:54 +0000 https://ogzero.org/?p=6229 Il presidente della repubblica di Turchia, Recep Tayyip Erdoğan, ha incontrato il presidente dell’Ucraina, Volodymyr Zelensky, il 3 febbraio, ufficialmente con l’intento di svolgere il ruolo di mediatore nella crisi in corso tra Kiev, Mosca e Nato. L’apparente confusione frenetica dei movimenti strategici di ogni protagonista – le 5 ore di incontro tra Putin e […]

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Il presidente della repubblica di Turchia, Recep Tayyip Erdoğan, ha incontrato il presidente dell’Ucraina, Volodymyr Zelensky, il 3 febbraio, ufficialmente con l’intento di svolgere il ruolo di mediatore nella crisi in corso tra Kiev, Mosca e Nato.

L’apparente confusione frenetica dei movimenti strategici di ogni protagonista – le 5 ore di incontro tra Putin e Macron, il contemporaneo volo di Scholz da Biden; le agenzie e gli allarmi che fanno gioco alla pressione della Nato sui confini russi, che spingono Putin a partecipare alle cerimonie olimpiche di Xi Jinping; la Nato è la pietra dello scandalo, e un suo membro scandalosamente energivoro, che ormai da alcuni anni gioca da fuori, s’insinua in ogni conflitto per vendere i suoi micidiali ordigni senza pilota, o per appropriarsi di energia – di cui è ghiotto. La Turchia, in crisi economica e con inflazione a due cifre abbondanti, è protagonista a tutto campo e quindi anche nello scacchiere più esplorato dall’inizio del 2022 troviamo l’attivismo di Erdoğan e dei suoi droni. Perché? Murat Cinar s’ingegna a spiegarcelo e per farlo ha bisogno di mantenere l’aspetto economico scevro dalla fuffa di pseudolegami tra Ucraina e Turchia: crisi, bilancia commerciale, traffici di armi, droga e gas… la capacità di trasformare le crisi in opportunità.


Perché Ankara?

Il governo turco ha preso posizione schierandosi dalla parte di quello ucraino quasi sin dall’inizio del conflitto, 2004, soprattutto sostenendo i tentativi di autonomia della popolazione tatara che si trova in Crimea e dopo dieci anni di scontri è passata sotto il controllo di Mosca.

Ankara sostiene la tesi della sistematica discriminazione che la popolazione tatara subisce dagli abitanti russi presenti in zona. Ormai è risaputo come Ankara si propone come “portavoce del mondo musulmano” su molte piattaforme e in differenti zone. Anche se questo ruolo ha registrato svariati problemi di coerenza (e anche di opportunità politica che ha dettato le scelte in momenti diversi) in Egitto, Cina, Siria e Palestina. Considerando che la maggior parte dei tatari sono musulmani, le strategie di Ankara assumono una forma vicina al governo centrale ucraino e rientrano quasi automaticamente nell’ottica “antirussa”.

Non è solo una questione romantica

Ovviamente la posizione, a livello geopolitico, molto interessante dell’Ucraina ha fatto sì che questi due paesi condividessero una serie di punti in comune. Il processo per l’integrazione nell’Unione europea, l’Onu, l’Osce, la Blackseafor e l’Operazione Black Sea Harmony sono alcune realtà molto importanti in cui Kiev e Ankara si trovano alleate.

Senz’altro un’eventuale guerra tra Russia e Ucraina danneggerebbe fortemente la Turchia prima di tutto in termini economici poi a livello politico: il paese è soffocato da una profonda crisi economica in corso dal 2018 e il rapporto commerciale che ha costruito il governo centrale con Mosca in questi ultimi dieci anni è enorme. Come era stato comunicato nell’ultimo incontro pubblico del Consiglio di Lavoro Turchia-Russia, l’obiettivo è raggiungere per il 2022 la soglia dei 100 miliardi di dollari statunitensi come volume commerciale.

Dipendenze asimmetriche

Ankara dipende fortemente dalla Russia prima di tutto nel campo energetico ma anche in altri settori. All’inizio di questa crisi economica la svalutazione della Lira nel 2018 aveva colpito il prezzo della carta dei giornali perché la Turchia paga circa 53 milioni di dollari all’anno per acquistarla dalla Russia, questo volume costituisce circa il 65% del fabbisogno nazionale. Il discorso si espande senz’altro su altri campi come il turismo, il nucleare e le spese militari soprattutto tenendo in considerazione che Ankara in questi ultimi anni si è allontanato sempre di più, a livello politico e commerciale, dai suoi storici partner economici: Unione europea e Washington.

Questo rapporto commerciale in crescita vale anche per l’Ucraina. Secondo la Camera di Commercio di Istanbul (Ito) nel 2021 il volume commerciale superava i 7,4 miliardi di dollari Usa e nel 2022 l’obiettivo è raggiungere i 10. Solo nell’ultimo incontro avvenuto il 3 febbraio sono stati firmati ben 8 accordi commerciali tra Erdoğan e Zelensky. La collaborazione tra questi due paesi è in forte crescita anche nel campo militare.

Droni Bayraktar Siha turchi venduti all'Ukraina

Bayraktar SİHAs, che Ankara ha venduto all’Ucraina lo scorso anno, ha suscitato la reazione della Russia. Mosca aveva avvertito che questi UAV non dovrebbero essere usati contro i filorussi nell’Ucraina orientale.

Come ha specificato qualche giorno fa il primo ministro ucraino, Denys Šmihal’, tra i progetti c’è anche quello di costruire una fabbrica sul territorio ucraino per produrre i droni armati Made in Turkey. Quei famosi droni infami che in diverse parti del mondo stanno cambiando l’andamento dei conflitti armati. In particolare quelli che vende Ankara sono prodotti della famiglia Bayraktar, quella del genero di Erdoğan. Questi droni armati, i Bayraktar SİHA, che Kiev aveva già acquistato e usato contro i separatisti filorussi nell’Est, saranno utilizzati durante l’esercitazione militare del 10 febbraio.

Il tema dei droni è un tema molto caldo. Infatti nel mese di aprile del 2021, Mosca in un video in cui presentava il suo nuovo drone kamikaze simulava un attacco fatto contro un drone armato, prodotto dalla Turchia. Diverse volte i vertici del governo russo si sono espressi per comunicare la loro amarezza in merito alla vendita dei droni turchi a Kiev. La questione è diventata ultimamente molto interessante perché John Kirby, il portavoce del Ministero della Difesa nazionale statunitense, ha sostenuto, il 4 febbraio, durante l’ordinaria conferenza stampa, che Mosca si stava preparando per divulgare un finto video in cui avrebbe sostenuto che i droni turchi comandati da Kiev avrebbero colpito le postazioni russe così la Russia avrebbe legittimato un eventuale intervento militare in Ucraina. Un po’ come le foto taroccate che l’ex segretario di stato statunitense, Colin Powell, mostrò il 5 febbraio del 2003 dinanzi al Consiglio di sicurezza dell’Onu per legittimare l’invasione dell’Iraq da parte degli Usa.

Un conflitto, un problema e un guadagno per Ankara?

Ovviamente un’eventuale guerra in Ucraina metterebbe Ankara in una posizione molto difficile dato che in questi ultimi anni ha provato a fare tutto il possibile per curare rapporti sia con Kiev sia con Mosca. Per via della sua posizione all’interno della Nato, Ankara potrebbe trovarsi con la necessità di attuare un embargo commerciale nei confronti di Mosca e questo sarebbe il colpo di grazia per mandare in bancarotta l’economia turca e molto probabilmente confermerebbe la fine della carriera politica di Erdoğan che è già molto vicina al capolinea, visto il malessere collettivo e gli ultimi sondaggi elettorali (elezioni presidenziali si svolgeranno nel 2023).

In particolare questo scenario per la famiglia Erdoğan sarebbe una disgrazia poiché è fortemente coinvolta nel commercio di droga, lo spaccio di petrolio illegale e la forte corruzione.

L’incontro avvenuto tra Erdoğan e Zelensky è stato il decimo incontro sotto l’ombrello del Consiglio Strategico di Alto Livello. Si tratta di un incontro che era stato anticipato da numerosi inviti inoltrati dal presidente della repubblica di Turchia, rivolti a tutte le parti interessate da questa crisi. A prima vista sembra che Erdoğan abbia una forte intenzione di svolgere quel ruolo di “mediatore”. Tuttavia non va ignorata anche l’esistenza di quella posizione complicata e difficile in cui si trovano le relazioni internazionali di Ankara. Dunque oltre la crisi economica, che è un punto fondamentale da tenere in considerazione, molto probabilmente anche il gioco di “mantenere gli equilibri sensibili” è stato uno degli obiettivi perseguiti da Erdoğan.

Bombardamenti nella regione di Idlib.

Gli azzardi bellici nell’ultimo lustro

Infatti le scelte politiche, militari ed economiche che Ankara ha fatto in questi ultimi 5 anni, prima di tutto in Siria poi in Libia, sono state molto pericolose e fragili. Ankara, pur in conflitto politico ed economico con il regime di Assad, sostenuto da Mosca, è riuscita a ottenere l’autorizzazione da Putin di entrare sul territorio siriano almeno 5 volte con un gruppo di mercenari jihadisti. Una scelta e un’alleanza molto critiche che hanno causato addirittura la morte di 33 soldati turchi nel mese di febbraio del 2020 a causa di un bombardamento russo.

La presenza della Turchia anche in Libia è una scelta molto delicata dato che Ankara ufficialmente, economicamente, politicamente ma soprattutto militarmente ha sempre sostenuto il governo di Tripoli ossia al-Sarraj che è stato in guerra aperta con il generale Haftar sostenuto in tutti i modi da Mosca.

Oltre questo “equilibrio” molto delicato anche in Libia il ruolo dei droni turchi è stato determinante perché al-Sarraj potesse vincere il conflitto armato.

L’ultima mossa pragmatica e molto delicata di Ankara è stata quella di sostenere Baku nel conflitto armato tra Azerbaijan e Armenia. Un’altra guerra in cui, in teoria, Ankara e Mosca si sarebbero trovate in conflitto dato che Erevan riceveva il sostegno politico di Putin. Tuttavia anche in questo conflitto l’appoggio militare ed economico della Turchia è stato determinante, almeno a livello mediatico, e la guerra si è conclusa con una serie di “vittorie” per Baku. L’accordo per la “pace” è stato firmato a Mosca e in  seguito e per il futuro il territorio sarà controllato da Mosca collegando l’Azerbaijan tramite un corridoio con la Turchia.

Il ruolo assunto da Ankara non si è concluso ancora, il rischio per un conflitto armato che potrebbe coinvolgere altri attori anche al di fuori del territorio ucraino esiste tuttora. Ma per Ankara è assolutamente necessario che la situazione si calmi dato che ha bisogno sia di Kiev sia di Mosca per motivi politici, economici e militari. Inoltre Ankara resta ancora un membro importante della Nato e risulta un partner strategico per Washington.

Infatti il primo messaggio di congratulazioni è già arrivato da Jens Stoltenberg, il segretario generale della Nato: «Ho sentito il presidente Erdoğan e l’ho ringraziato per il suo personale e attivo sostegno volto a trovare una soluzione politica e per il suo sostegno pratico all’Ucraina».

Se non funziona?

Ovviamente gli scenari sono tanti ma se la mediazione di Ankara non funzionasse e la crisi diventasse più profonda senz’altro Mosca potrebbe decidere di usare la carta del “gas” contro l’Unione europea. Esattamente come ha fatto in tutti questi anni, Erdoğan, insieme al suo partito e ai suoi imprenditori, potrebbe decidere di attivare nuovi piani per trasformare la crisi in un’opportunità. Si è visto con che velocità, lo scorso autunno, sono stati ripristinati i rapporti politici, economici e militari con gli Emirati, quel paese ch’era stato accusato da Ankara di essere uno dei progettisti del fallito golpe del 2016.

Alternative

Infatti sono giorni che Ankara dedica spazio e tempo alla diplomazia per capire se il gas azero, qatariota o addirittura quello israeliano può essere portato in Turchia e rivenduto ai paesi europei. Nel mese di gennaio, Kadri Simson, Commissaria europea per l’Energia, aveva annunciato che la Commissione stava sondando anche Baku per valutare l’opzione del gas azero. Si tratta del famoso Corridoio meridionale del gas (conosciuto come Tap Tanap) che attraversa tutto il territorio della Turchia per concludere il suo flusso in Salento.

Il progetto del gasdotto Tap Tanap.

Una seconda opzione sarebbe il gas israeliano. Infatti nella sua visita in Albania il presidente della repubblica di Turchia aveva parlato di quest’opzione, rilasciando quest’affermazione apodittica: «Non si può portare il gas israeliano senza coinvolgere la Turchia». Lo stesso tema è stato riproposto dallo stesso presidente anche al rientro in Turchia dopo la visita in Ucraina:

«Nel mese di marzo il presidente israeliano Herzog sarà in Turchia, parleremo dell’idea di portare il gas israeliano in Turchia. Dopo averne usato per la nostra necessità nazionale siamo disposti a rivenderlo all’Europa».

Quindi anche in questo caso il disegno economico e politico che strozza la Turchia da più di 20 anni è un attore importante e potrebbe acquisire maggior ruolo soprattutto grazie a una cultura politica, economica e militare perversa e distruttiva che diventa sempre più dominante nel Medio Oriente e in Europa.

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Russia-Ucraina: la possibile guerra del dottor Stranamore https://ogzero.org/russia-ucraina-la-possibile-guerra-del-dottor-stranamore/ Sat, 05 Feb 2022 18:46:06 +0000 https://ogzero.org/?p=6152 Come promesso, ecco il secondo intervento di Yurii Colombo sulla situazione ucraina. Si ripercorrono qui gli snodi principali dell’evoluzione della crisi, tra risorse energetiche irrinunciabili, la paura delle potenze internazionali di dispiacere all’alleato americano, le disomogeneità tra la Russia e l’Ucraina, nonché i veri motivi della protesta sociale russa che spesso è stata superficialmente collegata […]

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Come promesso, ecco il secondo intervento di Yurii Colombo sulla situazione ucraina. Si ripercorrono qui gli snodi principali dell’evoluzione della crisi, tra risorse energetiche irrinunciabili, la paura delle potenze internazionali di dispiacere all’alleato americano, le disomogeneità tra la Russia e l’Ucraina, nonché i veri motivi della protesta sociale russa che spesso è stata superficialmente collegata al fascino di leader come Navalny o Zyuganov. Tutti dettagli di un quadro che ancora non è definito e che rischia di sfociare in futuro in un conflitto sebbene questo sia esattamente quello che tutte le parti in gioco vogliono evitare.


La scontro tra Usa e Russia sull’Ucraina non avrà immediate ricadute belliche come avevamo già previsto nel precedente articolo su OGzero. Le forze in campo ai confini non sarebbero mai state sufficienti come rivela in articolo pubblicato molto ben documentato su “Novaya Gazeta” da Valery Shiryaev.

Mostrare i muscoli

Malgrado ciò molti media e social russi hanno continuato a dispensare a piene mani immagini nel web dove si vedono attrezzature militari russe che si spostano su treni dalla Siberia e dall’Estremo Oriente verso ovest sostenendo persino che l’esercito russo potrebbe giungere ad ammassare sul confine ucraino circa 500.000 soldati (ma nessuno smentisce e neppure segnala che il complesso delle forze armate della Federazione è a oggi composto complessivamente da circa 280.000 uomini!).

Che un’incursione russa non sia all’ordine del giorno ne è convinto anche LInstitute for the Study of War, uno dei think tank più aggressivi degli Stati Uniti, sostenuto dalle donazioni dei giganti dell’industria militare, che a dicembre ha pubblicato uno studio sui possibili sviluppi del negoziato. Nel rapporto del 27 gennaio intitolato Putin’s Likely Course of Action in Ukraine: Updated Course of Action Assessment si sostiene una linea di ragionamento che è tutta l’opposto di quella della propaganda dell’establishment americano. In particolare si legge che: «Uno sguardo più ravvicinato su cosa comporterebbe una tale invasione […] e ai rischi e ai costi che Putin dovrebbe correre […] ci porta a prevedere che è improbabile che quest’inverno verrà lanciata un’invasione dell’Ucraina. Potrebbe lanciare un’invasione limitata del Sudest non occupato dell’Ucraina che non sarà all’altezza di un’invasione su vasta scala […]. Un’invasione russa su vasta scala dell’Ucraina sarebbe di gran lunga l’operazione militare più importante, più audace e più rischiosa che Mosca abbia lanciato dall’invasione dell’Afghanistan nel 1979. Sarebbe molto più difficile delle guerre statunitensi contro l’Iraq del 1991 o del 2003. E sarebbe un netto allontanamento dagli approcci su cui Putin ha fatto affidamento dal 2015 (come racconto nel mio libro La spada e lo scudo). Ciò costerebbe alla Russia molti soldi e probabilmente molte migliaia di vittime».

Reticenza e cautela

Si tratta di timori fondati che attraversano anche l’opinione pubblica russa in gran parte poco propensa a “morire per Kiev” e comunque comporterebbe il ritorno a stili di vita autarchici dell’epoca sovietica che inevitabilmente si imporrebbero in seguito alle messe di sanzioni finanziarie già promesse dagli Usa in caso di “escalation”.

L’assetto degli schieramenti nella disputa (fonte Ispi / The Washington Post)

Ma anche per Joe Biden, in questo momento, mantenere la tensione alta sull’Europa orientale risulta difficile.

In primo luogo perché i paesi dell’Unione Europea risultano sempre più reticenti a infilarsi in una guerra “calda” in cui hanno ben poco da guadagnare. Il gioco potrebbe eventualmente valere la candela se una pressione anche militare portasse a un crollo del regime putiniano facendo diventare la Russia terreno di caccia per le multinazionali internazionali, ma allo stato dell’arte la cosa è altamente improbabile. La Germania in particolare attraverso il leader della Cdu tedesca Friedrich Merz ha segnalato forte preoccupazione in caso di fuoriuscita della Russia dal sistema Swift: «Se disconnettiamo la Russia da Swift, c’è un grande pericolo che il sistema crolli e potremmo dover passare al sistema di pagamento cinese. Ci faremmo un grande torto», ha sostenuto alla fine di gennaio. Si tratta di preoccupazioni condivise anche al cancellierato.

La Cina da parte sua sta nicchiando come al solito, ma all’Onu non ha fatto mancare il suo sostegno al Cremlino.

Nella notte del 1° febbraio il Consiglio di Sicurezza si è riunito a New York per discutere di Ucraina su proposta degli Stati Uniti. Gli americani avevano bisogno di 9 voti su 15 dei membri permanenti e provvisori del Consiglio di Sicurezza, escluse le astensioni, per mettere il tema in agenda. Ci sono riusciti per il rotto della cuffia ma hanno dovuto incassare il netto no di Pechino e una più cauta astensione di Delhi, un’astensione che però nella circostanza era un sostanziale voto contrario.

L’India insiste per la soluzione negoziata, preoccupata anche per la sua importante comunità di studenti presente oggi a Kiev e dal suo ruolo di bilancia in Asia che l’ha portata ad acquistare ingenti forniture militari russe.

Ancora più netta è l’ultraconservatrice Ungheria di Orban, la quale spacca il fronte di Visegrád per schierarsi «nettamente contro ogni intervento Nato».

Orbán giunto a Mosca all’inizio di febbraio ha lasciato stupefatti quando ha avanzato la sfrontata proposta: datemi più gas a prezzi stracciati che ci penserò io a venderlo… all’Ucraina! Nello stesso giorno l’Ungheria iniziava a fornire gas russo all’Ucraina approfittando del fatto di poterlo ottenere grazie a un contratto stipulato fino al 2036 a prezzi 5 volte inferiori a quelli del mercato attuale.

Non c’è alternativa al gas russo

Tutto ciò mette a nudo una prosaica realtà che quasi nessuno in Europa vuol guardare in faccia pur di non dispiacere all’alleato americano: al netto delle prospettive fumose della green economy planetaria non ci sono a oggi alternative al gas russo neppure per l’Ucraina. Per ora Zelensky ha sostituito le forniture di idrocarburi russi con armi americane (l’ultima fornitura di fine gennaio è per un miliardo di dollari), ma com’è noto queste ultime rappresentano solo una zavorra per il bilancio, se non vengono utilizzate in un conflitto. Anche perché presto il contribuente europeo potrebbe essere messo al corrente di un’amara realtà:

che il riarmo ucraino viene pagato da Bruxelles con la nuova tranche di prestiti all’Ucraina per un miliardo e mezzo di euro appena fornita, proprio mentre gli Usa vendevano armi a Zelensky.

La triangolazione Mosca-Budapest-Kiev non può non avere ricadute politiche su più vasta scala. L’escalation con Putin a questo punto diverrebbe una sola esigenza americana per tenere insieme un’Europa sempre più sfrangiata nell’atteggiamento da tenere con la Russia. Da questo punto di vista c’è da ritenere che la guerra militare e non solo diplomatica e commerciale in Europa – in prospettiva – non sia solo un’ipotesi di scuola.

Come se l’Ucraina fosse un membro della Nato

Per la prima volta nella storia della Nato, lo scorso 11 dicembre un aereo da ricognizione strategica statunitense Boeing RC-135 partito dalla base aerea britannica Mildenhall ha effettuato un profondo raid lungo i confini della Federazione Russa. Ha raccolto informazioni sulla configurazione del sistema di difesa aerea e sulla struttura della difesa russa, volando lungo il confine della Bielorussia: Kharkov, Dnepropetrovsk, regioni di Zaporozhye e finendo in Crimea. In questo caso, l’esercito americano ha agito esattamente come se l’Ucraina fosse un membro a pieno titolo della Nato. Un approccio che coinvolge appieno la Nato visto che i droni da ricognizione RQ-4 Global Hawk, che regolarmente volano sul Donbass partono dalla base aerea di Sigonella. Da parte sua la Csto, il Patto di Varsavia versione XXI secolo, dopo il blitz in Kazakhstan, svolge un’esercitazione operativa congiunta non programmata delle forze armate di Bielorussia e Russia denominata “Allied Resolve-2022”. Le prime unità (non più di 15.000 uomini in totale, 12 caccia e 2 battaglioni S-400) sono già arrivate in zona. War games, si dirà, ma che si collocano in una crisi, quella Ucraina, che non trovando soluzione si è incancrenita sempre di più.

 

Manifestazione contro la guerra a Kiev

La visione russa

La radice dei problemi delle relazioni tra Ucraina e Russia affonda nelle relazioni tra i due paesi slavi sin dalle origini, sin dalla formazione della Rus’ nel X secolo. Il comune ceppo e l’appartenenza a una comune area territoriale è stato segnalato non a caso da Vladimir Putin in un lungo articolo (qui nella sua versione inglese) che giustamente è stato definito “strategico”, in quanto il leader osserva le relazioni tra i due popoli non nella contingenza ma in prospettiva.

Tuttavia il lungo excursus storico che passa attraverso la vicenda della dominazione mongola fino ai giorni nostri, appare rozzo, russocentrico, incapace di relazionarsi con una identità nazionale ormai pienamente formata.

In particolare, pesa nella ricostruzione del presidente russo, soprattutto il mancato riconoscimento del ruolo nefasto giocato dallo stalinismo in epoca sovietica per quanto riguarda il vero e proprio genocidio (Holomodor) nei confronti della popolazione contadina negli anni Trenta durante la collettivizzazione forzata delle terre imposta dal potere sovietico e con le repressioni dei tatari di Crimea. Tuttavia il comune ceppo slavo e la lunga coabitazione per settant’anni aveva reso fortemente integrate le due repubbliche: dal punto di vista economico ma anche sociale con la formazione di un gran numero di famiglie “miste” dentro un paese che conservava forti tratti di disomogeneità. Basti pensare alle differenze culturali e etniche tra gli ex cittadini polacchi o rumeni integrati nell’Urss dopo il “Patto Molotov-Ribbentrop” e gli abitanti delle zone del Donbass, definite da sempre “Piccola, Nuova Russia” (Malaja, Novaja Rossija). L’indipendenza ucraina, giunta alla fine del 1991 ebbe da questo punto di vista conseguenze nefaste: lungo 30 anni l’economia ucraina non si è più ripresa forgiando un’oligarchia parassitaria tanto quella russa ma senza il vantaggio di poter esportare le materie prime.

La visione ucraina

Da questo punto di vista l’Ucraina fino al grande crack del 2014 con l’insurrezione reazionaria della Maidan, la guerra nel Donbass e l’annessione della Crimea hanno sempre oscillato tra attrazione verso la UE e fattivo legame economico e sociale con la Russia (per una ricostruzione dettagliata della storia ucraina dal 1991 a oggi si veda il mio libro su questa tema Svoboda).

La necessità da parte della nuova nomenklatura antirussa emersa dopo il 2014 esigeva che si creasse una narrazione storica lontana dagli stilemi sovietici che per una serie di motivi si è andata ad agglutinare nelle ideologie del nazionalismo indipendentista di Stepan Bandera, collaborazionista del nazismo durante la Seconda guerra mondiale ma spacciato come “terzocampista” equidistante tra Urss e nazismo. Ciò permetteva, tra l’altro, di usare come volontari militari e guardie nazionali, quei militanti neofascisti formatisi con quelle ideologie negli anni Duemila. Come si può cogliere, si tratta di un intricato groviglio storico-economico-politico difficile da districare, una bomba pronta a riesplodere in ogni momento.

Addestramento ucraino nelle foreste di Kharkiv (fonte Euronews).

L’Ucraina colonia delle potenze occidentali

Anche perché la situazione interna dei due paesi resta difficile. Contraddizioni sociali interne nei due paesi, alimentano spinte nazionaliste e belliciste come arma di distrazione di massa. L’Ucraina dal punto di vista socio-economico continua a essere il fanalino di coda europeo. Il suo Prodotto interno lordo è ripartito negli ultimi anni ma sta raggiungendo solo ora la parità in termini assoluti (e tenendo conto delle amputazioni della Crimea e del Donbass). Con 130 miliardi di dollari di debiti soprattutto nei confronti del Fondo monetario internazionale, gli Usa e la UE (che rappresentano circa l’81% del Pil nazionale annuo secondo i dati della Banca Mondiale) l’Ucraina si è trasformata in una vera e propria colonia delle potenze occidentali dimostrandosi solerte nel pagare le rate trimestrali ai suoi creditori ma schiacciando sempre di più i redditi di un’economia che come quella russa resta in buona parte dipendente dallo stato. I salari superano a stento i 150 dollari mensili mentre il reddito medio supera di poco i 4000 collocando il paese al 133° posto della classifica dei paesi più abbienti, ben dietro Iraq, Guatemala o Belize. E, non a caso, il paese resta quello a più ampia conflittualità rivendicativa nel Vecchio continente, benché snobbata dalla stampa internazionale. Dopo le grandi manifestazioni dei minatori nel paese di ottobre che pretendevano il pagamento dei salari arretrati non pagati (come riporta “Apostroph”), alla fine di novembre si sono tenute dimostrazioni a Kiev, sfociate in scontri con la polizia contro gli aumenti delle tariffe elettriche. Il degrado economico è tale che il presidente Zelensky si è potuto permettere di rimbrottare Joe Biden per aver spinto l’acceleratore sui pericoli di guerra con la Russia che alla fine di gennaio stavano affossando il mercato finanziario interno, come immediatamente rilevato il 2 febbraio dal “Financial Times”.

Il peso e il ruolo della Difesa nel bilancio russo

La Russia ha problemi diversi da quello del vicino slavo. Nei primi dieci anni del millennio – negli anni della ripresa economica – Putin fu in grado di pagare per intero il debito estero e di accumulare grandi riserve di oro e di valuta occidentale per far fronte alla volatilità del rublo. Si tratta di un approccio a lungo termine se è vero quanto è scritto nel 46° Rapporto sull’economia russa della Vsemirnyj Bank uscito il 1° dicembre, dove si legge che buona parte degli utili determinati dall’aumento dei profitti dovuti all’aumento dei prezzi delle materie prime energetiche sono stati investiti.

Ora però, malgrado i “fondamentali” (a parte l’inflazione) restino eccellenti, da un decennio l’economia ristagna, i redditi diminuiscono e si coglie soprattutto nelle città europee uno iato sempre più profondo tra le aspettative e le promesse elargite a piene mani dal regime e la realtà corrente.

Questa è stata la base sociale della protesta intercettata in modo diverso da Navalny e dal Partito comunista di Zyuganov.

Al fondo resta il peso improduttivo di quel 25% di bilancio dello stato investito in sicurezza; in primo luogo nella Difesa che alimenta il ruolo dei Dottor Stranamore all’interno del Cremlino e riduce la possibilità di grandi investimenti nelle infrastrutture ancora particolarmente carenti nel Nord europeo del paese e in buona parte della Siberia.

Ecco perché la guerra russo-ucraina, che nessuno è così pazzo da voler scientemente perseguire, resta un’ipotesi possibile nel futuro anche prossimo.

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Ucraina, frenetici dialoghi tra sordi https://ogzero.org/ucraina-frenetici-dialoghi-tra-sordi/ Fri, 28 Jan 2022 22:50:01 +0000 https://ogzero.org/?p=5994 Pubblichiamo il primo di due interventi di Yurii Colombo volti ad analizzare dal punto di vista geopolitico giochi di guerra e trattative in corso tra le varie diplomazie per la situazione in Ucraina: frenetici dialoghi tra sordi, ovvero silenzi prolungati nel secondo articolo. Un vecchio proverbio ucraino (conosciuto anche in Russia) dice che  “C’è un […]

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Pubblichiamo il primo di due interventi di Yurii Colombo volti ad analizzare dal punto di vista geopolitico giochi di guerra e trattative in corso tra le varie diplomazie per la situazione in Ucraina: frenetici dialoghi tra sordi, ovvero silenzi prolungati nel secondo articolo.


Un vecchio proverbio ucraino (conosciuto anche in Russia) dice che  “C’è un sambuco in giardino e uno zio a Kiev” per indicare quando tra due interlocutori non c’è nulla in comune, ognuno dice la sua e non ascolta l’altro. Un dialogo tra sordi, potremmo tradurre in italiano. Sarebbe questo il consuntivo di frenetiche settimane di incontri bilaterali, messaggi diffusi sulla stampa in codice agli avversari, scambi di accuse e naturalmente ammassamenti di truppe e war games tra Russia e Nato con al centro l’Ucraina e per certi versi il destino del vecchio (e malandato) continente.

La vecchia “dottrina Breznev”

Mercoledì 26 gennaio 2022, dopo i round di trattative dei primi giorni dell’anno a Ginevra, gli Usa hanno consegnato la risposta alla proposta di accordo fatta circolare pubblicamente dalla Russia già il 17 dicembre scorso e leggibile qui. Nella “bozza” del ministero degli Esteri russi si sosteneva che «La Russia e gli Usa […] non dovrebbero dispiegare le loro forze armate e armi in aree in cui tale dispiegamento sarebbe percepito dall’altra parte come una minaccia alla loro sicurezza nazionale» ma soprattutto si chiedeva alla Nato di escludere l’ipotesi un’ulteriore espansione verso Est. Si tratterebbe di una versione rivista e corretta della vecchia “dottrina Breznev” che prevedeva il riconoscimento di un’area di “influenza russa” nell’Est-Europa dopo l’invasione della Cecoslovacchia nel fatidico 1968. Ma se negli anni Settanta ciò implicava il riconoscimento del controllo degli stati d’oltre cortina da parte sovietica, ora a Mosca ci si accontenterebbe di impedire a Kiev e Tblisi di allearsi militarmente all’Occidente.

Per Putin l’Ucraina rappresenterebbe quella linea rossa da non superare che l’Alleanza Atlantica non dovrebbe varcare, pena la «rottura verticale delle relazioni».

Visto dalla Moscova il ragionamento non fa una grinza: negli ultimi 24 anni, 14 stati dell’Europa orientale hanno aderito alla Nato in barba alle promesse (a parole) che erano state fatte a Gorbačëv ai tempi dell’unificazione tedesca, e questa non solo bussa ora sul fronte occidentale ma rischia – in prospettiva – di infettare il Centro-Asia in particolare il Turkmenistan e l’Uzbekistan che dopo il disfacimento del Patto di Varsavia non hanno aderito all’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva.

La risposta americana – per ora non pubblicata dal Cremlino – è stata interlocutoria. Il “New York Times” sostiene che gli Stati Uniti hanno proposto di rilanciare il Trattato sulle forze nucleari a medio raggio (Trattato Inf), dal quale si sono ritirati nel 2019. La pubblicazione dell’East Coast riporta la risposta degli Stati Uniti la quale «afferma chiaramente che la Russia non avrà potere di veto sulla presenza di armi nucleari, truppe o armi convenzionali nei paesi della Nato», ma «apre le porte a negoziati sulle restrizioni reciproche per quelle a corto e medio raggio». Il piano sarebbe quello di giungere ad accordi “realistici” compreso quello sui “cieli aperti” che con una certa leggerezza erano stati lasciati scadere dall’amministrazione Trump e che invece Joe Biden considererebbe imprescindibili per evitare crisi impreviste dell’ordine globale.

L’espansione della Nato verso est

Ma la trattativa in realtà è ancora più ampia. Andrey Kortunov, direttore generale del Consiglio per gli affari internazionali della Russia (Inac) ha sottolineato che un’altra componente necessaria degli attuali negoziati tra Russia e Occidente sulle garanzie di sicurezza dovrebbe essere il rinnovo del Trattato sulle forze armate convenzionali in Europa (Cfe). «Dovremo sviluppare una nuova versione del Trattato Cfe, che dovrebbe certamente contenere la tesi di limitare l’espansione verso est della Nato. La nuova versione del Cfe dovrebbe contenere anche clausole relative ai droni e una serie di altri nuovi tipi di armi che non erano nel precedente trattato, firmato nel 1990», sostiene Kortunov.

Che questo sia il canovaccio – e buona sostanza della vera trattativa in corso tra le due potenze – lo si desume anche dalle parole di Sergey Lavrov, ministro degli Esteri russo, il quale ha stigmatizzato Washington sostenendo che sulla “ciccia” (ovvero lo stop all’espansione della Nato) non c’è “nessuna risposta positiva”. Allo stesso tempo però, il diplomatico russo, ha osservato che il contenuto della risposta degli Stati Uniti ci consente di contare su una discussione seria, ma su questioni secondarie. La decisione sugli ulteriori passi della Russia sarà presa da Vladimir Putin, ha precisato il ministro degli Esteri. E anche il Consiglio della Federazione ritiene che la risposta degli Stati Uniti contenga una volontà di compromesso in alcune aree. La replica americana in sostanza si condenserebbe in ciò che aveva affermato Jens Stoltemberg qualche ora prima e che era stato letto negativamente dalla City russa provocando una caduta poco piacevole del mercato azionario e del rublo. Era del resto anche quanto affermato da Biden il 20 gennaio: «L’adesione dell’Ucraina alla Nato è improbabile nel prossimo futuro. Per unirsi all’Alleanza, l’Ucraina deve fare molto lavoro dal punto di vista della democrazia e di una serie di altre cose». In linguaggio corrente significa che l’Ucraina dovrebbe abbandonare ogni richiamo alle ideologie neofasciste di Stepan Bandera sui cui tristemente in parte poggia oggi (invise alla Polonia e alla lobby ebraica a Washington) ma garantire la possibilità di un accesso limpido al suo mercato per gli occidentali, riducendo il tasso di corruzione interna.

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Armi Nato in arrivo in Ucraina.

Le minacce “ibride” di Putin

Come ha segnalato correttamente il politologo ucraino Volodmyr Ishchienko, lo stesso “Center of Defense Strategies”, un think tank ucraino guidato da un ex ministro della Difesa, «aveva affermato in modo persuasivo che qualsiasi invasione russa di massa con l’occupazione di grandi territori e grandi città ucraine è molto improbabile non solo nelle prossime settimane ma anche durante il 2022». Secondo Ishchienko «l’accumulo di truppe russe alle frontiere non è superiore a quello della primavera del 2021 e i preparativi logistici non sono nemmeno lontanamente al livello di sostenere un’operazione militare di questa portata. In tali condizioni tale operazione sarebbe semplicemente suicida per Putin, le minacce più realistiche dalla Russia nel breve termine sono di natura “ibrida”», come per esempio la ripresa in grande stile delle scaramucce nel Donbass.

L’obiettivo primario della campagna mediatica non sarebbe quindi probabilmente nemmeno l’Ucraina, ma la Germania e non solo.

Ci raccontano di questo del resto anche le dimissioni imposte al comandante della Marina tedesca Kay-Achim Schönbach dopo che aveva fatto coming out la settimana precedente sostenendo che «la penisola di Crimea non tornerà ai suoi legittimi proprietari». Aveva anche definito «una sciocchezza» che Mosca possa presumibilmente pianificare di destabilizzare l’Ucraina. Secondo lui, India e Germania hanno bisogno della Russia per contrastare la Cina. Schoenbach aveva chiosato persino affermando che il presidente russo Vladimir Putin vuole «rispetto alla pari» dall’Occidente, ed «è facile dargli il rispetto che chiede – e probabilmente – merita». La stampa tedesca più attenta ha commentato che il generale sarebbe caduto in un “trappolone”. Infatti le dichiarazioni “bomba” erano state rilasciate durante un discorso all’Istituto indiano per gli Studi e l’Analisi della Difesa intitolato a Manohar Parrikar (Idsa) a Nuova Delhi, cioè in uno dei paesi più interessati a mantenere una politica di appeasement tra Mosca e Washington.

Del resto forse basta uscire dall’Europa per percepire la crisi intorno all’Ucraina con tutt’altre lenti più segnate dalla Realpolitik e meno dalle ideologie correnti.

Tuttavia le affermazioni del capo della Marina tedesca – benché pronunciate a migliaia di chilometri da casa e proprio in quei giorni – non potevano non produrre reazioni forti e ciò rimanda alle contraddizioni presenti dentro la cancelleria tedesca e più in generale nei circoli teutonici del business. In primo luogo ovviamente la questione delle rotte energetiche di cui anche cittadini e imprese tedesche quest’inverno hanno potuto constatare l’importanza con il salasso dovuto all’aumento delle bollette del gas (+69% nel giro di un anno). Gazprom controlla una serie di impianti di stoccaggio del gas in Germania e in Europa. Naturalmente, in Europa, soprattutto nella sua parte orientale e centrale, temono che in caso di guerra in Ucraina e con l’imposizione di sanzioni “infernali” contro la Russia, Mosca possa chiudere completamente la valvola del gas come risposta. Come annota il moscovita “Expert” nel numero in edicola, «Berlino ha fatto investimenti molto cospicui nell’energia pulita, ma la transizione dai combustibili fossili alle rinnovabili è lenta e irregolare. Il gas nel bilancio energetico della Germania rappresenta ora circa il 25%. Con la chiusura delle centrali nucleari e delle centrali a carbone, questa quota aumenterà. La quota di gas nella produzione di elettricità lo scorso anno ha già superato la quota del 1990. Al gas russo oggi non c’è alcuna alternativa».

Mosca, l’insegna della Gazprom svetta sui palazzi governativi russi (foto Aleksey H / Shutterstock).

Alleati e rivali europei

Ma non si tratta solo di “North Stream 2” a cui a Berlino in fin dei conti non vorrebbe rinunciare, ma anche del ruolo dell’Europa in una trattativa in cui il pallino sembra finito in mano americana. Qui però la Germania trova un alleato – ma anche rivale – nella Francia, che in questi giorni ha esibito iniziative autonome in incontri bilaterali con Putin. Andrey Kortunov, direttore generale del Consiglio per gli Affari internazionali della Russia è convinto che «la questione ucraina va considerata principalmente nel contesto delle elezioni presidenziali di aprile in Francia. Macron, nell’ambito della campagna elettorale, convincerà tutti che può diventare il leader d’Europa, avendo uno scenario per risolvere i problemi con l’Ucraina. Dirà che Parigi ha il diritto di guidare il dialogo con Mosca e che queste tradizioni sono state stabilite sotto De Gaulle». Non è solo la vecchia idea dell’Europa da Vladivostock a Lisbona che trovò proseliti anche nella destra neonazista europea degli anni Sessanta a tornare in auge, ma anche un rilancio del confronto tra locomotiva franco-tedesca e carro di Visegrad sull’approccio da tenere con Putin. Il Formato Normandia probabilmente ripartirà anche se i russi si sono convinti che senza l’adesione formale anche degli Usa (a cui si sono detti favorevoli) non si faranno dei grandi passi avanti.

La Croazia fuori dal coro

Che non tutta l’Unione europea si pronta a mettersi in fila indiana dietro Biden è saltato all’occhio con la posizione assunta durante la crisi dalla Croazia.Il presidente Zoran Milanović ha sostenuto che se il conflitto tra Russia e Ucraina crescerà, il paese ritirerà i suoi militari dal contingente Nato nella regione. Ha sottolineato anche che la Croazia non ha nulla a che fare con ciò che sta accadendo tra i due paesi slavi, e ha collegato la situazione stessa al rinnovato attivismo dell’amministrazione statunitense in chiave elettorale visto che inesorabilmente si avvicinano le elezioni di mid-term. Ciò che sta succedendo per Zagabria «non ha niente a che fare con l’Ucraina o la Russia, ha a che fare con le dinamiche della politica interna americana… nelle questioni di sicurezza internazionale vedo un comportamento pericoloso. Non solo la Croazia non invierà, ma in caso di escalation richiamerà fino all’ultimo soldato croato. Fino all’ultimo!».

Il presidente croato ha avuto parole di duro rimprovero anche per Bruxelles: «L’Ucraina è ancora uno dei paesi più corrotti, l’UE non ha dato nulla all’Ucraina». Si tratta, in linea di massima, della stessa posizione di tutti i paesi ex jugoslavi e balcanici e probabilmente malgrado il superatlantista Draghi anche dei facitori della politica estera alla Farnesina che devono dare da un lato un colpo al cerchio russofobo ma anche uno alla botte dei pur cospicui interessi commerciali italiani in Russia.

Rulli di tamburi o partite a scacchi?

Insomma tanto rullare di tamburi di guerra delle scorse settimane si sarebbe trasformato in una sorta di partita a scacchi stile Fischer-Spassky. Tutto bene quindi? Per nulla, anche perché la scintilla di un conflitto in piena Europa resta sempre dietro l’angolo, vuoi per caso, vuoi per provocazione, ma soprattutto perché la crisi ucraina resta aperta, come resta aperta la questione della sistemazione complessiva della “frontiera naturale” russa che va dalla Transnistria fino alla Bielorussia, passando per l’Armenia.

Sarà quindi importante fare un passo indietro per farne due avanti ed evitare una lettura appiattita sulle tattiche delle diplomazie. Lo faremo tra qualche giorno proprio qui su Ogzero per meglio inquadrare la crisi ucraina e i potenziali pericoli per la pace e la stabilità internazionale nei prossimi mesi e anni che restano squadernati sotto i nostri occhi.

Qui un approfondimento dell’autore in un intervento ai microfoni di “Bastioni di Orione” sulle frequenze di Radio Blackout:

Ascolta “L’Ukraina rimane un pendolo tra Est e Ovest?” su Spreaker.

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L’ordine regna in Kazakhstan e grande è la confusione sotto il cielo russo https://ogzero.org/lordine-regna-in-kazakhstan-e-grande-e-la-confusione-sotto-il-cielo-russo/ Sat, 15 Jan 2022 00:49:02 +0000 https://ogzero.org/?p=5851 Il bilancio dopo il ritorno all’ordine non è così scontato nei molti temi toccati dall’intervento di Yurii Colombo a completamento delle intuizioni incentrate sulla lotta di classe che ha inaugurato il 2022 kazako. Hanno fatto attenzione a reprimere senza umiliare i lavoratori kazaki, che ora attendono mobilitati che le promesse siano mantenute: infatti si è […]

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Il bilancio dopo il ritorno all’ordine non è così scontato nei molti temi toccati dall’intervento di Yurii Colombo a completamento delle intuizioni incentrate sulla lotta di classe che ha inaugurato il 2022 kazako.

Hanno fatto attenzione a reprimere senza umiliare i lavoratori kazaki, che ora attendono mobilitati che le promesse siano mantenute: infatti si è trattato di una reazione da un lato militare e spietata (con morti, arrestati, violenze…), condotta da reparti speciali, soprattutto contro i riot. E dall’altro traspare il sapore populista volto a blandire la piazza che impaurisce l’oligarchia – nella tradizione della satrapia  centrasiatica, che ha visto le stesse manovre precipitose nelle altre nazioni limitrofe che sono terra di conquista della Nato e che vedono gli oligarchi tentati di sfuggire al potere di Mosca. Salvo poi rivolgersi al Cremlino per soffocare rivolte e contese. Mentre Putin mira soltanto a mantenere una cintura di sicurezza, chiedendo attraverso i colloqui con la controparte di stilare un regolamento politico strategico che assicuri che non ci sia possibilità alcuna di confluenza nella Nato di un paese che condivida i confini occidentali della Federazione russa. Ma questo riguarda l’Ucraina, il mantenimento invariato del Kazakhstan non è in discussione.

A fronte di questa situazione internazionale ogni paese di quel cuscinetto di sicurezza ha una sua situazione particolare che rientra comunque negli standard delle risposte prevedibili: ciascuno diverso, ma ognuno uguale nel mantenimento degli equilibri. Il Kazakhstan in particolare è importante per le relazioni internazionali, tanto che non si è vista una reazione fatta di sanzioni o muscolare da parte di europei, che sfruttano le risorse; o di americani, che approfittano per provocare Mosca; o di cinesi , che ci devono far passare la Via della Seta. E allora è importante per tutti mantenere lo status quo, ma anche che i lavoratori producano quelle ricchezze che le potenze straniere e le multinazionali del petrolio intendono sottrarre.

Yurii, dopo gli aspetti sociali (assolutamente centrali) affronta subito, eliminandole, le letture complottiste dietro a cui Toqaev ha tentato di nascondersi. Ma la preoccupazione per i milioni di russofoni abitanti fuori dai confini russi, e anche i tanti provenienti dalle ex repubbliche e vivono in Russia, hanno richiesto uno studio della paura del jihad che dalla guerra in Cecenia in avanti ossessiona Putin.


«L’ordine regna in Kazakhstan» potremmo dire parafrasando Rosa Luxemburg. Dopo agitazioni e rivolte durate quasi una settimana – soprattutto grazie all’intervento delle truppe dell’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva (Csto) – il presidente Qasym-Jomart Toqaev è riuscito a riprendere il controllo della situazione e ha promesso anzi che entro la fine del mese di gennaio quest’ultime verranno ritirate completamente dal paese. Restano però aperte non solo molte questioni interne, ma anche riguardanti la sistemazione dell’ordine regionale e inevitabilmente di quello mondiale visto la dimensione strategica per il mondo occidentale del problema del contenimento del radicalismo islamico e del controllo delle rotte energetiche (il Kazakhstan ha riserve di petrolio per 30 miliardi di barili e di gas per 3 trilioni di metri cubi).

L’intervento del Csto è servito a stabilizzare la situazione che rischiava di sfuggire di mano dopo i vistosi fenomeni di “fraternizzazione” e “timidezza” della polizia (e persino dei reparti speciali) nei confronti dimostranti in varie zone del Kazakhstan. Per avere un quadro delle dimensioni degli avvenimenti kazaki basterà ricordare il bilancio finale degli incidenti in tutto il paese: 164 morti tra i dimostranti e 18 tra forze dell’ordine, oltre 8000 arresti, oltre tre miliardi di danni economici dovuti agli scioperi, al blocco delle comunicazioni e dei trasporti e per i danneggiamenti.

Come si evince dall’infografica è stata coinvolta dai disordini solo una delle tre città più popolate, ma tutti i grandi centri urbani industriali (a parte Alma Aty ovviamente) hanno visto manifestazioni egemonizzate da gruppi di lavoratori e dai sindacati. L’eterogeneità delle rivendicazioni e delle proteste non deve far dimenticare il tratto unificante di una richiesta generalizzata di maggior equità sociale.

Nei giorni successivi, il presidente kazako, soprattutto per giustificare l’intervento esterno, ha enfatizzato i caratteri “arancioni” delle dinamiche nel paese, ma ben presto ha dovuto drasticamente ridurre il numero di mercenari a suo dire attivi nelle manifestazioni da 20000 a 300. Lo stesso tasto, ma con meno vigore è stato premuto da Putin, il quale ha però immediatamente distinto «l’azione terroristica dalle proteste contro il carovita». Secondo i servizi speciali del Tagikistan, il numero di campi e centri di addestramento dei terroristi attivi ai confini meridionali del Csto nelle province nordorientali dell’Afghanistan sarebbero oltre 40, e complessivamente sarebbe composti da 6000 combattenti. Il 12 gennaio Toqaev per la prima volta ha indicato quali sarebbero i “mandanti” dell’“azione terroristica”: «Un atto di aggressione… che ha coinvolto combattenti stranieri provenienti principalmente dai paesi dell’Asia centrale, compreso l’Afghanistan. C’erano anche combattenti del Medio Oriente» ha precisato il leader kazako escludendo così l’ipotesi frettolosamente sostenuta dai vari raggruppamenti del cospirazionalismo internazionale sul ruolo dei paesi occidentali.

Secondo il direttore dell’Institute for Geopolitical Research e capo ricercatore presso l’Istituto di Storia ed Etnologia Asylbek Izbairov, i gruppi dell’estremismo islamico fin dalla loro comparsa nel paese intorno al 2011 sono sempre rimasti “ridotti” e “limitati” a gruppi giovanili capaci solo di realizzare attentati terroristici. Tali gruppi hanno assunto nomi spesso roboanti come “Soldati del Califfato” (Junud al-Califfato), “Difensori della religione” (Ansar-ud-din), Battaglione di Baybars ma il loro radicamento sociale è sempre rimasto incerto e il loro programma politico vago.

Questi gruppi avrebbero sviluppato «concetti quasi coloniali di tendenze sufi sincretiche, che a lungo termine portano a una pericolosa “sintesi” di misticismo pseudo-religioso e nazionalismo etnico di “sangue e suolo”».

Un quadro simile si coniugherebbe assai bene ad altre ipotesi circolate sui mass-media kazaki secondo cui soprattutto ad Alma Aty alcune “cellule dormienti” di questi gruppi siano stati il propulsore dei riot popolari dandogli quell’efficienza lamentata dal Toqaev, giunta fino alla prova di forza dell’occupazione dell’aeroporto internazionale a cui avrebbero partecipati circa 800 rivoltosi.

Questa dimensione sarebbe una delle ragioni che avrebbe spinto Putin a ritirare rapidamente le proprie truppe dal paese per evitare (anche in Kirgizistan e in Tagikistan) l’emergere di forti sentimenti antirussi che potrebbero avere ricadute poco piacevoli nelle metropoli russe dove lavorano milioni di migranti centroasiatici.

D’altro canto ciò spiega anche il sostanziale beneplacito al ristabilimento dell’ordine da parte del Dipartimento di stato Usa: non solo perché così vengono garantiti gli investimenti stranieri (161 miliardi di dollari dall’indipendenza del 1991 al 2020 principalmente nel settore energetico) ma anche soprattutto perché la Russia ha tolto le castagne dal fuoco a tutto il capitalismo internazionale in una fase delicata come quella attuale in cui si sta ancora elaborando il lutto della fuga dall’Afghanistan. In questo trentennio tutti i paesi della fascia centroasiatica dell’ex Urss hanno svolto un ruolo di contenimento della crescita dell’islam radicale e anche se molti foreign fighters si sono per un periodo trasferiti a combattere nell’Isis in Siria e in Iraq il ritorno in patria non ha prodotto fenomeni terroristici in tutta l’area e particolarmente in Russia dove l’ultimo attentato significativo resta quello dell’aprile 2017 a San Pietroburgo.

Malgrado ciò il primo intervento dalla sua fondazione nel 1992 del Ctso segna uno spartiacque dal punto di vista politico e tattico-militare.

«Comprendiamo che gli eventi in Kazakistan non sono il primo e tutt’altro che ultimo tentativo di interferire dall’esterno negli affari interni dei nostri stati. Le misure che abbiamo preso hanno dimostrato chiaramente che non permetteremo che la situazione in patria sia scossa e non permetteremo che si materializzino gli scenari delle “rivoluzioni colorate”», ha sostenuto Putin, durante la riunione con gli stati membri.

Il Csto si configurerebbe per certi versi come una sorta di “Santa Alleanza” come quella delle autocrazie europee dopo il 1815, per frenare ai confini dell’Urss l’insorgenza di rivoluzioni democratiche. Una forza non di occupazione però ma di pronto intervento, per frenare l’ulteriore disgregazione di quelli che furono i “confini naturali” dell’Urss e, per altri versi, della Russia zarista. Operazione complessa perché per ironia della storia era stato proprio il Kazakhstan qualche anno fa a proporre lo scioglimento dell’alleanza, per avere le mani libere nella trattativa con le potenze occidentali. Un raggruppamento comunque spurio, il cui asse fondamentale è basato tra Mosca e Minsk. Del resto il settimanale moscovita “Expert” ha dovuto riconoscere a denti stretti che il presidente tagiko Emomali Rakhmon insiste per la «creazione di una lista unificata delle organizzazioni riconosciute come terroristiche nel formato Csto che non è ancora stata redatta».

Secondo il settimanale moscovita «questa è davvero una questione difficile, perché alcuni paesi membri della Csto (specialmente il Tagikistan) amano classificare varie forze di opposizione che chiedono il diritto alla protesta pacifica come terroristi e islamisti», un approccio non condiviso da Mosca soprattutto dopo che è diventata una necessità tenere aperto un confronto con il governo di Kabul.

Mosca non sembra aver tratto un gran giovamento dalla crisi ha cercato in un primo tempo di far passare come “Vzglyad”, un portale russo di geopolitica filoputiniano, in chiave di egemonia sull’intera area. A differenza della Bielorussia, paese povero di risorse, il governo di Nursultan non è interessato – visti gli enormi interessi economici occidentali nel paese – a legarsi mani e piedi a Mosca anche perché ha i mezzi per sviluppare una politica riformista e relativamente redistributiva.

Putin appare costretto a giocare un ruolo interventista visto anche quanto bolle in pentola con l’Ucraina, a cui rinuncerebbe volentieri.

Secondo il politogo Georg Mirzjan: «Se Mosca si rivela non essere pronta a garantire la sicurezza nello spazio postsovietico, la Turchia e la Gran Bretagna possono assumere questo ruolo. Ci potrebbe essere una cintura di instabilità lungo tutti i confini meridionali della Russia, dal mar Nero alla Mongolia, infettando il Caucaso del Nord, la regione del Volga e altre parti della Russia con l’islamismo e il radicalismo».

Il ruolo di sceriffo del Centroasia in via del tutto teorica potrebbe essere assunto dalla Cina, che, a differenza di Gran Bretagna e Turchia, è interessata a stabilizzare la regione a tutela del progetto della “Via della Seta”, ma il problema è che i “pacificatori” cinesi non porteranno certo la pace perché la Repubblica popolare stenta a trovare una lingua comune con la popolazione musulmana della regione. Le attività aggressive (e talvolta predatorie) del business cinese in Kazakhstan e Tagikistan hanno ripetutamente portato a potenti manifestazioni anticinesi (che prima o poi potremmo vedere anche nella Russia siberiana). È proprio per questo che la presenza militare cinese potrebbe causare solo una nuova ondata di radicalismo, inguaiando ancora di più il Cremlino.

“Kazakhstan di lotta e di geopolitica”.
Il governo kazako sta ora correndo ai ripari. La scossa tellurica delle proteste ha smosso fin dalle fondamenta il paese e il regime intende introdurre un vasto pacchetto di riforme in primo luogo di carattere economico-sociale. Durante la riunione di gabinetto dell’11 gennaio, Toqaev ha soprattutto sottolineato quelle dai tratti più nettamente populistici come la riforma della Banca di sviluppo del Kazakhstan (Dbk).

«Dbk si è essenzialmente trasformata in una banca personale per una stretta cerchia di individui che rappresentano gruppi finanziari-industriali e di costruzione. Conosciamo tutti per nome», ha dichiarato il presidente kazako.

Ha proposto anche una moratoria di cinque anni sull’aumento degli stipendi dei deputati e dei funzionari di alto livello. Ha inoltre promesso che i lavoratori del settore pubblico avranno i loro stipendi aumentati assieme a una moratoria sull’aumento dei prezzi dei beni di prima necessità di tre anni. Sarà quindi istituito un fondo sociale pubblico per risolvere i problemi sociali.

«Dobbiamo dire grazie al primo presidente, Yelbasa (Nursultan Nazarbaev), se si è imposto nel paese un gruppo di aziende molto redditizie e una fascia di persone ricche, anche per gli standard internazionali. Credo che sia il momento di dare credito al popolo del Kazakhstan e di aiutarlo in modo sistematico e regolare», ha commentato sarcastico Toqaev, come se egli durante tutte le amministrazioni precedenti avesse vissuto su un altro pianeta.

Il giorno successivo Il ministro dell’economia del Kazakhstan Alibek Kuantyrov ha annunciato l’introduzione di una tassa supplementare sull’estrazione di minerali solidi. Non ha specificato però quale sarebbe la tassa aggiuntiva o quando entrerebbe in vigore (il Kazakhstan è il più grande produttore di uranio al mondo e ha grandi depositi di rame, di ferro e zinco). Si è ventilato anche un intervento sulla fuga dei capitali verso i paradisi fiscali di cui la famiglia Nazarbaev è sempre stata una gran specialista. Nulla invece sugli idrocarburi, in buona parte controllate da corporation americane, britanniche, olandesi – oltre all’Eni – così come sulla tassazione dei prodotti sui capitali stranieri che controllano il 70% dell’economia del paese. Si prospetta quindi una sorta di gestione “alla Pëtr Stolypin”, l’ultimo ministro delle finanze del potere zarista prima delle rivoluzioni russe: riforme dall’alto accompagnate dal pugno di ferro contro le opposizioni e il movimento operaio. Toqaev ha nominato come nuovo premier il cinquantenne di Alma Aty, Alichan Smailov, una scelta non certo di gran rinnovamento visto che nel passato Smailov è stato vicepremier e ministro delle finanze del paese. Il governo russo ha perfino accusato il nuovo ministro dell’Informazione del Kazakhstan, Askar Umarov, di avere «punti di vista nazisti e sciovinisti sui russi». Il sociologo di Kiev Volodymyr Ishchenko, esperto di dinamiche postsovietiche, è convinto che gli affari per la classe dirigente kazaka non si rimetteranno sui consueti binari dell’accumulazione predatoria tanto facilmente:

«Le tesi sulla “modernizzazione autoritaria”, sulla “rivoluzione passiva” e sull’“imperialismo” mal si adattano alla realtà del capitalismo patronale. Si tratta solo di una conservazione temporanea e intrinsecamente instabile della crisi politica postsovietica che non riesce ancora a trovare una vera soluzione al problema ricorrente della successione».

In questo quadro si deve valutare, il ruolo dell’attore principale di questo passaggio storico, cioè il movimento dei lavoratori. Come abbiamo già scritto su “OGzero” i lavoratori kazaki non da ieri sono entrati in movimento. Si tratta di una classe operaia giovane (soprattutto quella impiegata nei settori più propriamente industriali nella fascia di età giovanile rappresenta più del 30% del totale), concentrata in alcune zone del paese, sperimentata in oltre un ventennio di lotte. Una classe lavoratrice composta in buona misura da donne (il 60,2% delle donne kazake sono occupate) un fattore che rappresenta un baluardo contro la penetrazione del radicalismo islamico più reazionario. Una classe lavoratrice che ha ottenuto alcune vittorie parziali (compresa la riduzione del prezzo del gas) e ha saputo realizzare, seppur in un contesto difficilissimo, in pochi giorni, un ripiegamento ordinato in attesa di vedere se le promesse del governo diverranno realtà. Del resto le rivoluzioni si fanno strada non solo “come nel 1917”, ma anche “come nel 1905”, quando il potere magari regge ma non sa davvero riformarsi: quest’ultimo facendo concessioni significative alla piazza apre nuove contraddizioni nei diversi settori della società e condiziona le mosse delle potenze internazionali.

La classe operaia nell’ex Urss è tornata a essere uno dei fattori della contesa politica dopo una lunga eclisse. Dopo la timida ma in controcorrente apparizione dei nell’ascesa bielorussa, un altro contingente dell’ex Urss si è mobilitato: catapultato sulla scena della storia è divenuto sorprendentemente uno dei fattori del mutamento politico in Kazakhstan. Va sottolineato: non succedeva dai tempi dell’Iran e della Polonia a cavallo tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta del secolo scorso.

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Variante turca nella recrudescenza dei bagliori della Guerra Fredda 2.0 https://ogzero.org/variante-turca-in-un-bagliore-di-guerra-fredda-2-0/ Tue, 26 Oct 2021 11:41:13 +0000 https://ogzero.org/?p=5237 Una rinnovata intensa attività dell’intelligence mondiale (con la variante turca) ha allarmato ultimamente gli esperti di spionaggio. In particolare decisioni di pubblico dominio, come il dimezzamento dei rappresentanti russi nell’ufficio di collaborazione tra Nato e Russia – indicati come agenti sotto copertura –, s’intrecciano con manovre più nascoste che preludono a un muscolare confronto militare […]

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Una rinnovata intensa attività dell’intelligence mondiale (con la variante turca) ha allarmato ultimamente gli esperti di spionaggio. In particolare decisioni di pubblico dominio, come il dimezzamento dei rappresentanti russi nell’ufficio di collaborazione tra Nato e Russia – indicati come agenti sotto copertura –, s’intrecciano con manovre più nascoste che preludono a un muscolare confronto militare e dunque a operazioni di spionaggio di cui i più raffinati analisti si stanno occupando per rilevare indiscrezioni e metterle in fila nel tentativo di restituire un quadro più chiaro dell’intricato mosaico che si va disegnando sullo scacchiere internazionale. Tutto ciò capita in occasione dell’uscita del primo volume frutto degli approfondimenti di OGzero, La spada e lo scudo, scritto per noi da Yurii Colombo per tentare di chiarire storia, modalità e tensioni interne ed esterne ai servizi segreti russi.

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Questo articolo va a illustrare il doppio binario su cui si trovano a lavorare i servizi russi: l’offensiva occidentale volta a ridimensionare l’influenza di Mosca sui paesi ai confini europei all’indomani del ritiro dall’Afghanistan sta producendo un piano di contenimento e difesa globale per l’area europea nel caso di attacco russo (il primo dopo la fine della Guerra Fredda). Contemporaneamente i servizi si trovano ad affrontare un rinnovato attivismo del controspionaggio turco che ha a sua volta operato arresti di agenti russi, che tradizionalmente stanziano a Istanbul con l’incarico di individuare ed eliminare i leader ceceni; arresti riconducibili all’epilogo della Guerra siriana con lo sgombero degli alleati turchi da Idlib, ma che collocano i servizi di Ankara in una posizione di battitore semilibero, in opposizione e collegato da accordi sia con l’Occidente (la Nato) sia con la Russia (Astana, non ancora messa in soffitta).


Tensioni tra apparati spionistici, preludio di confronti militari?

Lo scontro tra Russia e i paesi della Nato, con la recentissima sospensione delle reciproche rappresentanze a Mosca e Bruxelles è entrata in una nuova fase. Dal 1° novembre infatti la Federazione ha sospeso ufficialmente la sua rappresentanza presso la Nato e contemporaneamente ha posto sotto sfratto l’ufficio informazioni dell’Alleanza a Mosca. A partire da quella data – come ha ricordato il ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov – per i contatti con Mosca, la Nato dovrà rivolgersi all’ambasciatore russo in Belgio. La decisione del Cremlino è giunta come reazione alla decisione della Alleanza Atlantica di ridurre da 20 a 10 i membri della rappresentanza russa a Bruxelles, rendendo impossibile di fatto l’operatività dell’ufficio. La rappresentanza russa era già stata ridotta da 30 a 20 funzionari ai tempi del caso Skripal [il tema è stato sviluppato dall’estensore dell’articolo nel volume La spada e lo scudo]; otto dei dieci funzionari russi rispediti a casa, sarebbero una ritorsione per il presunto coinvolgimento del Gru (i Servizi russi militari per l’attività all’estero) in un attentato contro un deposito di munizioni nella Repubblica Ceca del 2014 [anche per questo episodio si trovano approfondimenti nel volume La spada e lo scudo] anche se il segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg ha sostenuto che «non esiste un motivo particolare per le espulsioni dei diplomatici russi», rimandandole semplicemente alla perdurante politica aggressiva russa in Europa.

«La politica della Nato nei confronti della Russia rimane coerente. Abbiamo rafforzato la nostra deterrenza e difesa in risposta alle azioni aggressive della Russia, mentre allo stesso tempo rimaniamo aperti per un dialogo significativo» ha dichiarato a Sky News un funzionario della Nato.

La ricostruzione di Bellingcat dell’attentato del 2014.

Il difficile equilibrio caucasico indispensabile per Mosca

Mosca, dal canto suo, si sente sempre più accerchiata e non si può dire che questa percezione possa essere semplicemente derubricata alla voce “vittimismo” (anche se il Cremlino ha dimostrato di soffrirne talvolta). Le vicende del recente passato, l’addio quasi definitivo della Moldavia dall’area d’influenza russa (il governo filoccidentale di Chişinău comunque è tornato dopo l’esplosione dei prezzi degli idrocarburi di quest’autunno a chiedere con il cappello in mano a Putin gas a prezzi calmierati), la faglia bielorussa e l’instabile alleanza con l’Armenia, impongono alla Russia la massima vigilanza.

Il portavoce presidenziale russo Dmitry Peskov ha affermato con nettezza che la decisione della Nato di espellere i diplomatici russi e le accuse di “attività ostili” hanno completamente minato le prospettive di normalizzazione delle relazioni e di ripresa del dialogo.

Il ministro della difesa russo Sergej Šoigu ha aggiunto – a muso duro – come «l’attuazione del piano di “contenimento” della Nato in Afghanistan è finito in un disastro, che tutto il mondo sta ora affrontando» e ha voluto ricordare a Berlino come andò a finire l’ultima volta che la Germania cercò di trovare uno “spazio vitale” a est.

«Sullo sfondo delle richieste di una deterrenza militare della Russia, la Nato sta costantemente sospingendo le proprie forze verso i nostri confini. Il ministro della difesa tedesco dovrebbe sapere molto bene come nel passato ciò si concluse per la Germania e l’Europa», ha sottolineato il ministro della difesa russo.

Quest’ultima dichiarazione è giunta dopo che il ministro della Difesa tedesco Annegret Kramp-Karrenbauer, il 21 ottobre, alla domanda se la Nato stesse contemplando scenari di dissuasione della Russia per le regioni del Baltico e del Mar Nero, anche nello spazio aereo con armi nucleari, ha risposto che dovrebbe essere reso molto chiaro alla Russia che anche i paesi occidentali sono pronti a usare tali mezzi. I media tedeschi hanno anche riferito che la Nato si starebbe preparando per un conflitto con la Russia. Il piano di difesa della alleanza occidentale avrebbe definito perimetri e parametri su come replicare a possibili attacchi dalla Russia e alla minaccia terroristica. Un tale piano – se confermato – rappresenterebbe una vera novità visto che tali ipotesi dopo il crollo del muro di Berlino erano stati messi in soffitta, ha fatto rilevare la “Suddeutsche Zeitung”. Del resto come sottolinea il portale russo “Vzglyad” già un mesetto prima, il 22 settembre 2021, i ministri della difesa della Nato avevano firmato un accordo per un fondo tecnologico militare da 1 miliardo di euro. Secondo la Nato questo piano di difesa rappresenta anche una risposta alla decisione di Mosca di mettere in cantiere la produzione di nuove armi nucleari a medio raggio e sviluppare nuovi sistemi d’arma. Le forze armate russe avrebbero persino recentemente testato i robot da combattimento nelle esercitazioni, lavorando all’uso dell’intelligenza artificiale in campo militare e sull’aggiornamento dei sistemi spaziali.

In questo quadro «I ministri della difesa della Nato a Bruxelles hanno adottato giovedì un nuovo piano di difesa globale per l’area europea e nordatlantica dell’alleanza. In esso l’alleanza occidentale definisce come risponderà a possibili attacchi dalla Russia, così come la minaccia del terrorismo in corso. È il primo piano globale di questo tipo dalla fine della Guerra Fredda: copre scenari che vanno da attacchi militari convenzionali e guerra ibrida ad attacchi informatici e disinformazione, così come combinazioni e attacchi simultanei, per esempio nelle regioni del Baltico e del Mar Nero», ha sostenuto Paul-Anton Krueger in un intervento su “RIA Novosti”.

Nave da ricognizione russa nel mar baltico (foto Adriana_R / Shutterstock).

Segnali di riposizionamenti geopolitici dietro il controspionaggio turco

A complicare lo scenario per la Russia, c’è l’attivismo sul piano del confronto spionistico della Turchia, sempre più battitore libero e sempre meno affidabile alleato della Nato. L’8 ottobre a Istanbul (ma la notizia è stata divulgata solo il 22 ottobre) sono state arrestate sei persone accusate di essere agenti dei servizi di intelligence russa. Si tratta di quattro cittadini russi – Abdulla Abdullayev, Ravshan Akhmedov, Beslan Rasaev e Aslanbek Abdulmuslimov – oltre a un cittadino ucraino, Igor Efrim, e un cittadino uzbeko, Amir Yusupov. Il gruppo è accusato di aver violato l’articolo 328 del codice penale turco (“spionaggio politico o militare”), e ora rischiano da 15 a 20 anni di prigionia. Secondo Giancarlo Elia Valori in un articolo pubblicato sul portale “Le Formiche”. L’offensiva ottomana nei confronti della Russia sarebbe da rimandare a un rinnovato asse tra Erdoğan e il consigliere per la sicurezza nazionale degli Emirati arabi uniti, Tahnun bin Zayed al-Nahyan. Secondo Valori, ci sarebbe «voglia di voltare pagina su otto anni di gelide relazioni, cristallizzate dal rovesciamento nel 2013 dell’egiziano Mohamed Morsi, un membro dei Fratelli Musulmani vicino alla Turchia e fermamente osteggiato dagli Emirati Arabi Uniti». In realtà, come rileva il giornale russo “Gazeta.ru”, oggi forse la voce più vicina al Cremlino, il nucleo di intelligence (che sarebbe stato trovato in possesso anche di armi e passaporti falsi) stava lavorando al fine di eliminare alcuni rappresentanti dell’“opposizione cecena” rifugiatisi in Turchia. Ricordiamo che già negli ultimi anni alcuni dei più noti oppositori al regime di Kadyrov a Grozny erano stati oggetti di misteriosi attentati in Germania e in Austria.

Ciò che sorprende in questa vicenda è che per ora il governo di Ankara non ha confermato la notizia e tutte le informazioni provengono dall’agenzia “Anadolu”, anche se il ministero degli esteri russo ha di fatto confermato gli arresti. Una fonte anonima di “Gazeta.ru” sostiene che al centro dell’operazione del controspionaggio turco ci sarebbe in realtà il tentativo della Russia, dopo le sconfitte micidiali degli armeni nei cieli durante la guerra con gli azeri dello scorso anno, di raccogliere informazioni dettagliate sui droni Bayraktar TB2, così come altri nuovi progetti riguardanti altri tipi di armi avanzate. Va ricordato però che questa crisi tra i due paesi non è un temporale scoppiato a ciel sereno. Come abbiamo già rilevato in altri nostri pezzi scritti per OGzero, dopo Astana i rapporti tra Russia e Turchia hanno continuato a volgere al brutto. All’inizio di ottobre, il capo della diplomazia turca Mevlüt Çavuşoğlu è intervenuto al Forum sulla sicurezza di Varsavia ribadendo necessità di sostenere l’Ucraina nel suo tentativo di entrare nella Nato. Inoltre, si è venuto a sapere in quell’occasione che i militari turchi starebbero addestrando i loro colleghi ucraini in tattiche di guerriglia urbana e secondo l’agenzia di stampa siriana “Sana”, ulteriori unità dell’esercito turco sono state spostate nella provincia siriana di Idlib e si parla insistentemente di una possibile operazione militare contro i paramilitari curdi a Tel Rifat.

I droniBayractar TB2

«A causa di ciò che sta accadendo a Idlib, Turchia e Russia stanno iniziando ad avere ulteriori attriti, ulteriori problemi». Questo è già successo in passato, ha commentato l’analista politico Yashar Niyazbayev: i rapporti dei media turchi «inizialmente suonavano – ha dichiarato – più come una gaffe informativa che come spiegazioni intelligibili in relazione alle spie russe».

La versione che l’arresto dei sei a Istanbul sia da rimandare a possibili omicidi politici contro ex oppositori ceceni è messa in discussione da Ivan Starodubtsev, un esperto di Turchia, autore del libro Russia-Turchia: 500 anni di vicinato tormentato il quale sul suo canale Telegram ha affermato: «deve essere innanzitutto una questione di possesso illegale di armi». Starodubtsev si dice convinto che la mafia cecena e, più in generale quella caucasica, opera attivamente a Istanbul da tempo immemore, e le “rese dei conti” criminali al loro interno sarebbero abbastanza frequenti. Del resto casi di morte di vari boss criminali caucasici per mano dei loro complici e concorrenti non sono rari a Istanbul. Si tratta di una tesi – da non escludere – che però è stata più volte usata dal Fsb ceceno per allontanare da sé accuse e sospetti.

In passato, al contrario, i servizi segreti turchi hanno ripetutamente collegato l’uccisione di ex comandanti di campo e militanti ceceni a Istanbul alle attività dei servizi di sicurezza russi che avrebbero “vendicato” la loro partecipazione a bande e attacchi terroristici dei primi anni Duemila, quando la guerriglia indipendentista raggiunse il suo apice.

Uno dei primi omicidi di più alto profilo ebbe luogo nel dicembre 2008, quando l’ex signore della guerra Islam Dzhanibekov fu ucciso sulla soglia della sua casa nel quartiere Ümraniye di Istanbul. Il killer in quel caso aveva usato una pistola con il silenziatore a doppia canna “Groza”. Nel 2009, l’ex signore della guerra Musa Asayev fu anch’egli ucciso a Istanbul. A quel tempo era noto per essere un rappresentante del terrorista Doku Umarov, coinvolto nella raccolta di denaro per i militanti del radicalismo musulmano.

Infine, nel 2011, tre membri della diaspora cecena, Berg-Khazh Musayev, Rustam Altemirov e Zaurbek Amriyev, erano stati associati al terrorista Doku Umarov e successivamente erano stati uccisi sempre a Istanbul. In Russia, però i tre erano a quell’epoca ricercati in quanto sospettati di aver organizzato un attacco terroristico all’aeroporto internazionale Domodedovo nel gennaio dello stesso anno.

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Afghanistan: tolto il ciocco che attizza il fuoco, il vuoto si riempie di caos https://ogzero.org/il-vuoto-che-si-riempie-di-caos/ Tue, 15 Jun 2021 07:32:13 +0000 https://ogzero.org/?p=3819 Gli anni del Great Game afgano superano ormai la quarantina, la popolazione è stremata da scontri e Signori della guerra e non ne può più di scontri. E forse su questo si può contare affinché le forze talebane non ripetano l’esperienza di un regime oscurantista intollerabile. In un articolo per “Atlante delle Guerre” Emanuele Giordana […]

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Gli anni del Great Game afgano superano ormai la quarantina, la popolazione è stremata da scontri e Signori della guerra e non ne può più di scontri. E forse su questo si può contare affinché le forze talebane non ripetano l’esperienza di un regime oscurantista intollerabile. In un articolo per “Atlante delle Guerre” Emanuele Giordana espone queste speranze, ribadite ai nostri microfoni nel podcast estratto da Radio Blackout, mentre Giuliano Battiston si aggira per Kabul, registrando umori, scelte di campo, decisioni che gli afgani di ogni comunità, stirpe, ceto o credo religioso si ripromettono di seguire nel momento in cui lo straniero se ne sarà andato. E lo fa stilando un diario di appunti quotidiano, pubblicato su “Lettera22“, che riporta le molteplici ricostruzioni dei giochi di potere, a seconda dell’interlocutore. Intanto la violenza cresce e il vero pericolo è questo: il vuoto che si riempie di caos.


Il futuro dell’Afghanistan

Emanuele Giordana ci ricorda che in passato, in questi 40 anni di guerra continua e occupazioni, i “ritiri” non sono mai stati indolori e auspica un livello di cooperazione internazionale che permetta sostegno vero alla popolazione, a guida Onu e non della Nato che comprenda anche i paesi musulmani, per evitare che il vuoto non porti a una soluzione pacifica.

La dipartita completa delle truppe straniere dall’Afghanistan prevista a settembre solleva una serie di preoccupazioni, in parte condivisibili in parte forse sovrastimate, che sembrano a volte sottintendere che, magari… sarebbe stato meglio restare. Tensione e timori sono comprensibili, assai meno una specie di racconto del caos in cui l’Afghanistan precipiterebbe proprio perché noi ce ne andiamo. Con un ragionamento molto semplice e quasi banale, viene infatti da pensare che, se si leva dal fuoco il ciocco più grosso (la guerra contro gli stranieri), dovrebbe esser più facile governare le ceneri per quanto ancora calde. La Storia può dare una mano.

1989: Quando le donne non portavano il burqa

Quando nel 1989 dopo dieci anni di una guerra fallimentare l’Urss si ritirò dall’Afghanistan, nessuno si preoccupò del baratro su cui il paese era sospeso: con una guerra civile in corso, uno stato fallimentare ormai privo di aiuti (che l’Urss cominciò a sospendere dal ritiro) e un futuro oscuro per donne che, all’epoca del soviet afgano, erano ministre o direttrici di giornali che non portavano il burqa. Proprio quanto avvenne ai tempi dell’Urss dovrebbe servire di lezione perché col ritiro delle truppe andrebbe previsto un piano a lungo termine, una visione per ricompensare almeno in parte i danni di un conflitto durato vent’anni. Allora non era semplice farlo ma oggi si può.
Quando dopo gli accordi di Ginevra dell’aprile 1988 Urss, Usa e Pakistan si accordarono sul ritiro dell’Armata rossa, a patto che nessuno più finanziasse la resistenza, a maggio iniziò il ritiro dei soldati che si concluse in febbraio. Il governo di Najibullah però resisteva: è nota la battaglia di Jalalabad dell’aprile 1989 quando i mujahedin, che Usa e Pakistan continuavano a rifornire violando gli accordi, non riuscirono a prendere la città che sta sulla frontiera col Pakistan, retroterra dell’intera coalizione guerrigliera. Fu solo dopo il 1990 che le cose si complicarono: gli Usa smisero di sostenere i combattenti islamici (ma non cosi Islamabad e Riad) mentre Gorbachov si rifiutò di continuare a pagare Najibullah. Non potendo più erogare gli stipendi, il suo esercito si sciolse come neve al sole e i mujahedin, gente non molto più progressista dei Talebani, entrarono vittoriosi a Kabul dove iniziarono a guerreggiare tra loro.

Un gruppo di mujaheddin nella provincia di Kunar nel 1987 (foto erwinlux).

2021: il consenso dei Talebani al lumicino

Trent’anni dopo, pur con tutte le differenze, siamo a un punto simile. I Talebani controllano in parte campagne e piccoli centri ma hanno un consenso al lumicino, fiaccato da vent’anni di guerra. Non possono prendere le città e, in presenza di un piano di reclutamento nelle file dell’esercito nazionale, si troverebbero senza manodopera. Continuando a finanziare l’esercito afgano con stipendi decorosi e stimolando la creazione di un partito politico (non sarebbe il primo partito radicale dell’Afghanistan), i Talebani potrebbero essere coinvolti nel gioco parlamentare, con qualche ministero e posti nell’amministrazione pubblica e nell’esercito. Quanto alle donne afgane, esse hanno da temere dai Talebani non molto più di quanto già non debbano temere da una società maschile che non ha risparmiato loro, nemmeno in democrazia, la negazione dei diritti fondamentali.

Kabul 2004 (foto timsimages.uk).

Naturalmente è necessario continuare a sostenerle, finanziando i loro progetti e rafforzando una società civile cui i governi Karzai e Ghani hanno sempre riservato uno spazio esiguo.

Jalalabad 2021, proteste delle donne del Nangarhar.

L’Italia, per esempio, ha speso per l’apparato militare 8,4 miliardi di euro in 20 anni (cui vanno forse detratti spiccioli della cosiddetta cooperazione civile-militare). Solo 320 in cooperazione civile, nemmeno il 5 per cento…

Il quadro di accompagnamento

La comunità internazionale e l’Italia potrebbero allora lavorare a un piano che preveda un forte aumento della spesa di cooperazione, un sostegno politico alle istituzioni, riconfermando un contributo finanziario per molti anni con dei paletti, e l’appoggio alle ong – locali e internazionali – attive nel paese. Andrebbe aggiunto un quadro di “accompagnamento” guidato dall’Onu – non certo dalla Nato – con l’allargamento a partner regionali (Russia compresa) finora tenuti fuori dai negoziati. Una riformulazione dell’impegno potrebbe anche passare dall’impiego, se davvero necessario, di una forza di interposizione a guida Onu che coinvolga anche i paesi musulmani, dall’Indonesia al Marocco. Ma di tutto ciò, a parte un’iniziativa turca – che proprio perché nelle mani di Erdogan lascia perplessi – nulla si vede tranne qualche frase di rito che appare un po’ retorica. Se tornare a casa lascerà un vuoto sarà più facile che a riempirlo sia il caos.

Kabul: l’attentato del 13 giugno 2021.


Diario afgano

E a riempire il caos con voci dissonanti raccolte estemporaneamente ci pensa Giuliano Battiston con l’esordio del suo diario kabulino, pubblicato da “Lettera22”, la prima e la seconda puntata raccontano la nascita della “seconda resistenza” all’oscurantismo talebano.

«Piuttosto che finire sotto i Talebani prendo un’arma anche io». Abdul (nome di fantasia) è avvocato, lavora in un progetto per la riforma della giustizia, con fondi americani. Parla di transitional justice, ma se si mette male si dice pronto a fare quello che non ha mai fatto: “prendere un’arma”. Il giovedì pomeriggio il caffè Simple, nel quartiere di Kart-e-Char, si riempie di giovani come lui. Ventenni e trentenne istruiti, che parlano inglese e chiacchierano nei caffè del quartiere, a poche centinaia di metri dall’università di Kabul, chiusa per Covid.

È un tardo pomeriggio prefestivo. Tavolini e panchetti esterni sono pieni. Incontriamo quattro ragazzi, tre hanno avuto il Covid. Uno indossa la mascherina. Molto meno congestionata del solito, la città non si spenge. «Come potranno i Talebani controllare una città come questa, cinque milioni di abitanti, oppure Herat, la stessa Kandahar?».

Sotto i Talebani, qui non ci vogliono stare. Come altrove nel paese. «Siamo pronti alla pace ma anche alla guerra», ripetono tutti. È tempo di “moqawamat-e-do”, di una seconda resistenza. Contro l’eventuale offensiva militare dei Talebani, si sta formando un’alleanza armata simile a quella che ha resistito negli anni Novanta all’Emirato islamico.

«Retrospettivamente, con prima resistenza si intende quella condotta contro i Talebani dalla cosiddetta Alleanza del Nord, soprattutto il Jamiat-e-Islami, il Jumbesh-e-Milli e il Hezb-e-Whadat. La “seconda resistenza” è un termine diffuso da qualche mese dagli stessi protagonisti», ci spiega Ali Adili, ricercatore dell’Afghanistan Analysts Network, che sul tema ha appena pubblicato un articolo informato.

La seconda resistenza nasce dall’impasse del processo negoziale intra-afghano. «Mi pare che nessuno dei due attori, Talebani e fronte repubblicano, consideri più il processo di pace come il piano A», ci dice Ali Adili. «Entrambi hanno intensificato il conflitto. I Talebani occupando nuovi distretti, il governo concentrandosi sulle capitali provinciali». Il fronte repubblicano è più diviso che mai. «Non c’è una strategia comune, nessun consenso su cosa fare». Lo dimostra l’impasse sul Consiglio Supremo di Stato.

Kabul divisa, periferie in fermento

Il ritiro delle truppe innesca dinamiche nuove: si gonfiano i muscoli e ci si arma. Rivendicando sui social le milizie, oltre l’autorità di Kabul. «Restando attaccato al potere Ghani ostacola la soluzione. L’unico modo per uscire dall’impasse è convincerlo a farsi da parte, facendo nascere un governo a interim», ci raccontano due abituali interlocutori qui, nella capitale afghana. La sovranità centrale del governo e delle stesse forze di sicurezza viene apertamente sfidata. «Se non è in grado di proteggerci, lo faremo da noi», si dice. Sul cancello non lontano dall’ingresso della scuola Sayed al-Shohada, nel quartiere sciita di Dasht-e-Barchi, dove un mese fa un attentato ha ucciso 85 studentesse, uno striscione funebre chiede giustizia, «o ci prenderemo la nostra vendetta».

Alla scuola Sayed al-Shohada, i familiari delle studentesse ferite nell’attentato chiedono sostegno (foto Giuliano Battiston).

Ci si protegge da sé. Il processo di pace mal gestito da Washington ha rafforzato i Talebani, «che rimangono un movimento sostanzialmente pashtun», sottolinea ai tavolini del caffè Simple Abdul, la cui famiglia viene da Bamiyan. «Per noi sono come i fascisti che voi avete combattuto in Europa», sostiene Jawad, che lavora in una ong. Canteranno pure vittoria, ma non si illudano di prendere Kabul e le città, i Talebani. La seconda resistenza nazionale è pronta.

Nel suo articolo Ali Adili elenca una serie di casi. A Herat, nella sua residenza il dominus della provincia Ismail Khan, Jamiat-e-Islami, celebra i vecchi mujahedin, accoglie nuovi uomini armati e si dice pronto: «Abbiamo più di 500.000 uomini, difenderemo questa terra. Il governo centrale ci lasci fare». Ahmad Massud, figlio del comandante Massud, si dice pronto a «restaurare il vero sistema islamico che era obiettivo dei nostri martiri e mujahedin». L’ex peso massimo del Jamiat e ora fuoriuscito, Atta Mohammad Noor, dice ai Talebani che è bene «capiscano che siamo ancora vivi e che la nazione si difenderà».

L’hazara Mohammed Mohaqeq manda messaggi simili. Nell’Hazarajat spunta la milizia “Dai Chahar”. L’ex presidente Karzai dichiara a “Der Spiegel”: «stiamo serrando i ranghi e organizzando la resistenza. Dico al Pakistan: siate ragionevoli». A Maimana, capoluogo della provincia nordoccidentale di Faryab, gli uomini del generale Dostum e del suo Jombesh-e-Melli si oppongono con le armi all’insediamento del governatore provinciale, scelto dal palazzo presidenziale.

Sull’“Atlantic Council”, Tamim Asey, già viceministro della Difesa afghano, scrive che i Talebani «vanno dissuasi militarmente dall’idea di cercare la vittoria con la guerra». La “resistenza 2.0 è inevitabile” e sarà fatta anche di milizie, sostenute dagli attori regionali anti-Talebani.

«Ci aspettano tempi bui», dicono i ragazzi del caffè Simple. Sulla strada per casa, superato il passo Gardanah-ye Sakhi e scendendo verso la grande arteria Salang Wat, sventola un bandierone. Non è nero, rosso e verde. Non è la bandiera nazionale della Repubblica islamica d’Afghanistan. È verde, bianca e nera: la bandiera dello Stato islamico d’Afghanistan. Il governo di Rabbani e dei mujahedin anti-Talebani.

Le voci sul presidente Ghani

Kabul – Incontro Seema– nome di fantasia – nel suo ufficio con aria condizionata di Qala-e-Fatullah. È direttrice di una ong che ha fatto propria la liturgia liberale del periodo post-Talebano: democracy, empowerment, good governance, civil society. Progetti, progetti, progetti. Partner o donatori sono Usaid, le ambasciate britannica, danese e statunitense, tra gli altri. Ha ricoperto incarichi importanti nelle istituzioni. Lamenta il disimpegno diplomatico e finanziario della comunità internazionale, parallelo al ritiro delle truppe. Sa che i fondi verranno meno. Sul fronte interno dice che «c’è una sola soluzione: convincere Ghani a farsi da parte».

Il negoziato tra Talebani e fronte repubblicano è lento. La violenza cresce. Le posizioni negoziali sono più rigide di prima. I Talebani capitalizzano il ritiro delle truppe straniere, guadagnano distretti, fanno propaganda. Il governo riproduce il conflitto intorno a sempre nuovi corpi istituzionali che servivano a disinnescarlo. Contenitori costruiti per concedere potere a chi non lo aveva. L’Alto consiglio per la riconciliazione nazionale, l’organismo creato per far ingoiare ad Abdullah Abdullah il nuovo mandato di Ghani dopo le ultime contestate elezioni, ancora non è del tutto formato. Eppure ora ci si accapiglia su struttura, mandato e nomi del Consiglio supremo di stato.

(Foto Giuliano Battiston)

Previsto nell’accordo del maggio 2020 «per accomodare chi era rimasto escluso dall’accordo tra Ghani e Abdullah, soprattutto Rabbani, Karzai, Hekmatyar», ci spiega Ali Adili, dell’“Afghanistan Analysts Network”.

Una seconda resistenza

Nel paese intanto si parla apertamente di una seconda resistenza, come quella dei mujahedin contro i Talebani. Milizie sostenute da attori regionali anti-Talebani, suggerisce qualcuno. In posti come Sar-e-Pul, Samangan, che non sono mai finiti sotto il controllo degli studenti coranici, ci si attrezza.

«Una parte del quadro politico imputa al presidente una resistenza eccessiva. Ghani ritiene di poter inglobare i Talebani nelle strutture esistenti, concedendo porzioni di potere. Ed esclude invece il governo a interim», sostiene Adili. Già prima delle elezioni presidenziali, Ghani aveva resistito alle pressioni per rinunciarvi in favore di un governo di transizione. Cercava un mandato forte da giocare sul tavolo negoziale con i Talebani. Ne è uscito con elezioni contestate e un mandato debole. «Il governo non è migliore dei Talebani», dice più di uno, qui a Kabul. Ci si fida poco dei Talebani quanto del governo.

Per Seema, Ghani è il problema. Talmente attaccato al potere da essere «pronto a trasferire il palazzo presidenziale a Paghman e continuare a governare da lì, anche se i Talebani prendessero Kabul… Ma sono solo rumors», precisa. Uno dei ragazzi hazara del caffè Simple, ieri raccontava una storia diversa, su Ghani: «Pur di non lasciare il paese in mano a non-pashtun, è disposto a darlo ai Talebani e a tornarsene negli Usa».

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Biden Aggiustatutto: “Can you fix it?” https://ogzero.org/gatte-da-pelare-per-biden/ Thu, 28 Jan 2021 11:53:53 +0000 http://ogzero.org/?p=2325 Joseph Robinette Biden Jr., meglio noto come Joe Biden, è il 46º presidente degli Stati Uniti d’America dal 20 gennaio 2021. Si chiude o si interrompe l’epoca dell’amministrazione bizzarra guidata dall’imprenditore Donald John Trump. La vittoria elettorale, anche se non schiacciante, di Biden, soprattutto con la maggioranza in entrambe le Camere, sembra che porterà il […]

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Joseph Robinette Biden Jr., meglio noto come Joe Biden, è il 46º presidente degli Stati Uniti d’America dal 20 gennaio 2021. Si chiude o si interrompe l’epoca dell’amministrazione bizzarra guidata dall’imprenditore Donald John Trump.

La vittoria elettorale, anche se non schiacciante, di Biden, soprattutto con la maggioranza in entrambe le Camere, sembra che porterà il vento del Partito democratico 2.0 in terra americana.

A questo punto le relazioni tra i due storici alleati della Nato, Ankara e Washington, molto probabilmente subiranno dei cambiamenti.

Trump loved Erdoǧan

In questi ultimi quattro anni, la sempre più diffusa politica del post truth mescolata a una notevole crescente cultura razzista e militarista ha scombussolato radicalmente la politica interna degli Usa. Contemporaneamente la figura del “one man” o “ghe pensi mi” di Trump ha fatto sì che la sua personalità schiacciasse anche la consolidata e forte cultura istituzionale statunitense in politica estera.

Sicuramente, sia per via dell’età di Biden sia per la sua posizione e cultura politica, in questa nuova fase gli Usa assumeranno un atteggiamento ben diverso rispetto all’amministrazione uscente e questo cambiamento avrà effetto anche nei confronti di quegli alleati che, da tempo, governano i loro paesi un po’ come faceva Trump negli Usa.

In un suo articolo di approfondimento, Carl Bernstein, giornalista statunitense di Cnn, il 30 giugno del 2020, specificava che il presidente della Repubblica di Turchia, in certi periodi chiamava Trump al telefono anche due volte a settimana e qualche volta anche mentre giocava a golf. Secondo Bernstein questo è un esempio significativo di come Trump abbia calpestato spesso varie prassi diplomatiche.

Da questo punto di vista questi due leader, molto carismatici e altrettanto pragmatici, si assomigliano molto. Erdoǧan, anche grazie al sistema presidenziale introdotto con il referendum del 2017, ama (è obbligato) a concentrare un po’ tutto sulla sua figura. Erdoǧan “si intende” di istruzione, sanità, tatuaggi, religione, politica estera, parto, abbigliamento, edilizia, calcio, giornalismo, giustizia e persino demografia. Due maschi, bianchi e over 70, su certi argomenti molto lontani tra loro, si sono invece trovati molto bene nel coordinare una serie di affari e nascondere sotto il tappeto diversi temi fonti di conflitti importanti.

Quindi, molto probabilmente, Erdoǧan con l’arrivo di Biden non avrà più a Washington un presidente che gli sarà vicino con una telefonata in qualsiasi momento. Saranno gli assistenti del presidente o i ministri a occuparsi della Turchia, non sempre e direttamente il nuovo leader democratico.

La giustizia è un’opinione

Uno dei punti di cui la nuova amministrazione Usa deve occuparsi è il famoso e lungo processo anticorruzione che vede coinvolta la banca statale turca Halkbank e l’imprenditore turco-iraniano Reza Zarrab. Questi due soggetti sono accusati di far parte di un progetto di riciclaggio di denaro ed evasione fiscale che è stato utilizzato dalle istituzioni, banche e aziende turche, e non solo, per aggirare l’embargo statunitense imposto all’Iran.

Zarrab si trova negli Usa, sotto protezione, dal 2016 ed è ormai un collaboratore di giustizia. È difficile dimenticare la sua storica dichiarazione rilasciata nell’aula del tribunale, dopo aver disegnato e raccontato perfettamente questo progetto diabolico: «Di tutto questo era al corrente anche l’attuale presidente della Repubblica». Grazie alle dichiarazioni di Zarrab è stato arrestato e trattenuto in carcere l’ex direttore generale della Halkbank, Mehmet Hakan Atilla, nel 2017, per trentadue mesi.

Tra le accuse importanti attribuite a Zarrab, ad Atilla e al governo turco c’è anche quella di frode ai danni del sistema bancario statunitense.

Questo processo, apparentemente un valido motivo di conflitto tra gli alleati, invece era uno dei punti che accomunavano Trump ed Erdoǧan. Entrambi i leader hanno sempre provato palesemente a esercitare una notevole influenza sulla magistratura quindi mettendo in discussione la separazione dei poteri. Infatti Trump aveva provato a far dimettere Geoffrey Berman, il procuratore capo di New York che si occupava del maxiprocesso, e secondo alcuni giornalisti ed ex collaboratori del presidente tutto questo era per accontentare Erdoǧan, proprio come anche quest’ultimo spesso fa rifiutandosi, verbalmente e pubblicamente, di riconoscere non solo le decisioni della Cedu ma anche quelle della Corte Costituzionale della Repubblica di cui lui risulta tuttora il presidente.

Ci si attende, con l’insediamento di Biden, più spazio di manovra e libertà per la magistratura su questo maxiprocesso. Nel caso in cui venissero fuori dei dettagli più imbarazzanti ed evidenti non sarebbe fuori luogo pensare a una nuova ondata di sanzioni nei confronti della Turchia oppure di alcuni membri del governo.

Gli S-400, pomo della discordia

Uno dei punti dolenti tra gli storici alleati del Patto atlantico è stato l’acquisto nel 2017 da parte di Ankara del sistema antiaereo S-400, di nuova generazione e produzione moscovita.

Questa mossa ovviamente non era stata digerita da Washington: il secondo esercito più importante della Nato aveva deciso di investire in una tecnologia militare molto avanzata, comprandola proprio da uno dei suoi più importanti antagonisti. Mentre invece Ankara giustificava la scelta sostenendo che il sistema analogo, ma di produzione statunitense, le era stato negato dall’amministrazione Obama e quindi non aveva altra scelta, dovendo difendersi dalla minaccia costituita dalla guerra in Siria.

Dopo una serie di ultimatum e lievi minacce la Turchia è stata infine espulsa dal progetto di produzione degli F35 e nei confronti di Ankara sono state attivate, parzialmente, la sanzioni Caatsa. Tuttavia possiamo dire che le posizioni dell’ex presidente americano Trump non sono mai state abbastanza critiche in relazione alla questione.

Oggi, con l’amministrazione Biden, troviamo Tony Blinken sulla poltrona di ministro degli Affari esteri: quasi braccio destro di Obama per il Medio Oriente, uno degli esperti, in seno al Partito democratico, di politica estera.

Oltre questi dettagli biografici spicca senz’altro la dichiarazione last minute del nuovo ministro: «La Turchia è un nostro presunto alleato strategico ma non si comporta da vero alleato. Un alleato vicino a Mosca, che è il nostro più grande avversario strategico, non serve. Valuteremo le nuove sanzioni contro Ankara».

Pochi giorni dopo questa netta dichiarazione è risuonata una comunicazione del presidente della Repubblica di Turchia: «Siamo decisi a firmare un secondo accordo per il sistema S-400 con Mosca. Non so come accoglierà questa decisione l’amministrazione Biden ma non chiederemo il permesso a nessuno».

In poche parole, sembra che il metodo del bastone e della carota, utilizzato spesso da Trump per sopire i conflitti con Ankara e che non ha dato i suoi frutti nel caso degli S-400, non sarà quello scelto dalla nuova amministrazione Usa.

Guerra in Siria: il filo sottile con Mosca

Quello siriano è decisamente uno dei motivi di allontanamento politico sorto tra Ankara e Washington in questi ultimi tempi.

Nell’arco di tre anni il governo centrale turco ha deciso di inviare le sue truppe sul territorio siriano e ha avviato quattro operazioni in collaborazione e coordinazione con l’Iran, la Russia e indirettamente con la Siria, trascurando gli Stati Uniti.

La lettera amara di Trump a Erdoǧan, in cui chiedeva di non fare “sciocchezze” non era quella reazione forte che le forze armate e politiche siriane si aspettavano. Pochi giorni dopo quella missiva i soldati statunitensi pian piano hanno lasciato il terreno all’esercito della Repubblica di Turchia per avviare l’operazione Sorgente di Pace nel mese di ottobre del 2019.

Ormai era chiaro e ufficiale che sul territorio siriano fosse Mosca a decidere e coordinare le manovre in collaborazione con Damasco e Tehran. La presenza della Turchia è solo il frutto di quel rapporto politico ed economico perverso, legato a un filo sottilissimo, tra Ankara e Mosca.

Le operazioni militari della Turchia sono state realizzate anche con il sostegno dell’Esercito libero siriano composto da combattenti mercenari, ex soldati dell’esercito siriano e numerose brigate jihadiste.

L’esperimento fallito: milizie e tradimenti

Questa forza paramilitare è anche il frutto di un progetto fallito e guidato da Lloyd Austin. Nel 2013 Ankara e Washington dopo un breve periodo di addestramento avevano preparato un gruppo armato sul territorio turco, per combattere l’Isis. Tuttavia, una volta entrati in Siria, questi hanno deciso di aderire a diversi gruppi jihadisti come al-Nusra. Forse questo fu il momento in cui l’amministrazione Obama decise di cambiare alleanze sul territorio siriano. Oggi Austin è il primo segretario alla Difesa afroamericano della storia degli Stati Uniti, una novità che potrebbe avere impatto sulle scelte di Washington in Siria.

Un altro nome interessante è Brett McGurk, rappresentante speciale della Casa Bianca per il Medio Oriente e il Nord Africa. Figura non amata dai media mainstream della Turchia per via dei suoi stretti rapporti con le forze armate “curde”. Nel 2017, il ministro degli Esteri, Mevlut Cavusoglu aveva chiesto all’amministrazione statunitense di sospendere l’incarico a McGurk dopo la sua visita di persona alle Unità di Difesa Popolari, Ypg, in Rojava. Dovutoglu, senza troppi giri di parole, in diretta tv sul canale Ntv aveva accusato McGurk di “sostenere” le forze armate del Pkk, organizzazione definita “terroristica” da Ankara e Washington. Un anno dopo, nel 2018, Trump decise di togliere l’incarico a McGurk. Oggi, questa figura “problematica” molto probabilmente avrà un ruolo determinante nella nuova amministrazione statunitense.

Con la Cina accordi commerciali e sanitari…

Cina e Iran sono in cima alle priorità della politica estera di Biden e in tutti e due i casi Ankara svolge un ruolo abbastanza importante.

La collaborazione economica tra Ankara e Pechino è in continua crescita. Il volume commerciale tra questi due paesi, nel 2019, superava la soglia dei 20 miliardi di dollari americani, registrando un notevole aumento rispetto agli anni precedenti.

Nei primi giorni del 2021 è stato firmato un nuovo accordo commerciale che prevede un notevole rafforzamento da parte di Ankara della rete ferroviaria, operazione che porterebbe a un aumento del volume commerciale sulla Via della Seta: 11.438 chilometri che collegherebbero Xi’an con Praga, ovviamente la Turchia – che si trova in mezzo – avrebbe un ruolo importante. Grazie a questa novità le tonnellate di merci trasportabili salirebbero da 400.000 a 1 milione. Inoltre nel progetto è prevista la costruzione di una nuova linea di 230 km che porterebbe fino alla Repubblica autonoma di Naxçıvan, accessibile ormai grazie all’accordo firmato da Armenia, Russia e Azerbaigian alla fine del conflitto armato del Nagorno.

Sempre nei primi giorni del 2021 arrivano due notizie importanti dalla Cina. I famosi produttori dei cellulari “intelligenti” – Tecno, TCL, Xiaomi e Vivo – hanno deciso di aprire nuove fabbriche in Turchia. Grazie a una nuova legge, introdotta nel 2020, i cellulari importati dall’estero subiscono un’ulteriore tassazione in Turchia; dunque la strategia di Pechino è quella di produrre in Turchia e prendere in mano il mercato.

La pandemia causata dal virus SarsCov2 ha aperto una storica fase di collaborazione economica e sanitaria tra questi due paesi. Uno dei primi acquirenti del vaccino SinoVac, produzione cinese, è la Turchia. Verso la fine del mese di gennaio saranno acquistati circa 20 milioni di dosi. La campagna di vaccinazione già avviata era stata anticipata in realtà con la sperimentazione di massa della terza fase del vaccino, sempre in Turchia.

… e una mano lava l’altra

A una tale armonia ovviamente bisognerebbe associare anche un allineamento politico. Sempre nei primi giorni del 2021 Ankara ha deciso di avviare operazioni di polizia presso le abitazioni dei cittadini cinesi di origini uigure residenti in Turchia. Secondo l’Osservatorio dei Diritti umani nel Turkistan orientale (Ethr) si tratterebbe dell’attuazione dell’accordo sul rimpatrio dei criminali firmato con Pechino nel 2017 e durante queste operazioni sarebbero stati arrestati diversi cittadini uiguri. Pochi anni fa, nel 2009, l’attuale presidente della Repubblica, presso il canale televisivo Ntv, aveva definito le politiche di Pechino contro i cittadini uiguri come un “genocidio”.

Questo graduale avvicinamento di Pechino e Ankara senza precedenti sarà molto probabilmente per Biden tra le questioni da tenere in considerazione.

Iran: il tavolo di Astana

Forse l’elemento più importante che lega Teheran e Ankara è il fatto che si siano seduti allo stesso tavolo per una ventina di volte nella città di Astana per disegnare il futuro della Siria. In quest’ottica (tenendo in considerazione anche il maxiprocesso Halkbank) per Biden Ankara potrebbe avere un ruolo chiave nel “dialogo” con Teheran. Ovviamente tenendo conto che questi due alleati all’interno della Nato hanno poi in mano diverse carte per ricattarsi a vicenda: sembra quindi che la partita sarà molto delicata.

Quando è minacciata la libertà, e non solo quella di espressione

Una delle cose che accomunava Trump e Erdoǧan era avere nel cuore la continua crociata contro il mondo del giornalismo. Sono ormai molto conosciute le invettive aggressive e arroganti di Trump nei confronti di alcuni giornali e canali televisivi statunitensi accusati di divulgare “notizie false”.

Oltre a un numero sempre alto di giornalisti in carcere o obbligati a vivere in esilio, in questi ultimi venti anni la Turchia è diventata anche un vero cimitero di emittenti televisive, radiofoniche e giornali che hanno dovuto chiudere i battenti oppure che sono stati chiusi con i decreti di legge durante lo stato d’emergenza dal 2016 al 2018. A tutto questo ovviamente aggiungiamo anche le posizioni personali di Erdoǧan nei confronti dei giornali dell’opposizione, espresse, per esempio, in quella dichiarazione rilasciata in diretta Tv, proprio il primo gennaio del 2021, contro uno dei più importanti giornali di opposizione, “Sozcu” (tra i primi tre per numero di copie vendute): «Io non leggo quel giornale e consiglio a tutti di non comprarlo, è inutile». “Sozcu” aveva fatto infuriare Erdoǧan quando aveva pubblicato il bilancio governativo del 2020 in prima pagina: “lacrime e sofferenza”.

La libertà di stampa è uno dei punti cardine del programma di Biden. Non solo per via di quanto è stata minacciata da Trump ma anche per come viene sistematicamente oltraggiata in diversi paesi del mondo.

Proprio nel 2016, in pieno stato d’emergenza, Biden aveva pronunciato queste parole sulla situazione in Turchia: «È importante, in tutto il mondo, avere il diritto alla critica libera. Le libertà di espressione e di stampa in Turchia sono garantite con la Costituzione e vanno protette». Infine nel mese di gennaio del 2020, in un’intervista rilasciata al “New York Times” aveva definito chiaramente la sua posizione dicendo: «Erdoǧan è un leader autocratico, dobbiamo sostenere le opposizioni in Turchia per allontanarlo dal potere utilizzando modalità democratiche».

Un (non)conclusione

Ci sono numerosi elementi che hanno distanziato questi due alleati negli ultimi anni: dalla richiesta di estradizione sempre rifiutata di Fethullah Gülen (leader della comunità di Hizmet residente in Pennsylvania, accusato di essere ideatore del fallito golpe del 2016) fino al rapporto di Ankara con gli altri alleati della Nato come Parigi e Berlino e numerosi sono i capitoli della Storia che possono essere riaperti e reinterpretati dall’amministrazione Biden.

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Turchia: cosa bolle in pentola con i missili S-400? https://ogzero.org/turchia-cosa-bolle-in-pentola-con-i-missili-s-400/ Fri, 23 Oct 2020 23:14:38 +0000 http://ogzero.org/?p=1592 Russia e Turchia sono potenze grandi o regionali? A voler trovare sempre e comunque un piano preordinato, collocare ogni singolo evento all’interno di un progetto coerente si rischia – talvolta – di affondare nel complottismo. Resta comunque il dubbio. Nel caso della Turchia alcune recenti iniziative potrebbero costituire la prova provata che Ankara ormai si […]

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Russia e Turchia sono potenze grandi o regionali?

A voler trovare sempre e comunque un piano preordinato, collocare ogni singolo evento all’interno di un progetto coerente si rischia – talvolta – di affondare nel complottismo.

Resta comunque il dubbio. Nel caso della Turchia alcune recenti iniziative potrebbero costituire la prova provata che Ankara ormai si muove (o almeno si rappresenta) come una superpotenza in grado di trattare da pari a pari con i due colossi (Usa e Russia) oltre che con le altre entità rilevanti (Iran, Arabia Saudita…). Sarebbe quindi fuori luogo cercare di ridimensionarla specificando “potenza a livello regionale”, visto che qui si parla sia di Medio Oriente che di Mediterraneo e Caucaso. Un rilancio – la prosecuzione – dell’Impero ottomano con altri mezzi?

Potrebbe anche essere. Ma procediamo con ordine.

Prove di sistemi di difesa russi a Sinop, Nato

Risaliva ai primi di ottobre il gentile preavviso (per garantire la sicurezza dei voli nella zona) del lancio di un missile (senza specificarne la gittata) nell’area del Mar Nero. Più precisamente in prossimità di Sinop da dove il 16 ottobre veniva girato un video rivelatore (con l’evidente colonna di fumo prodotta dall’esplosione dell’ordigno).

Gli esperti che lo hanno analizzato ritengono di avervi identificato un missile S-400 di tipo 40N6E (con una gittata presunta di circa 400 chilometri).

E allora? Quale sarebbe il problema?

Il problema consiste nel fatto che tali missili sono una componente del sistema di difesa venduto alla Turchia da Mosca. Più che una ostentazione di forza – o di indipendenza dall’Occidente – il gesto di Ankara assumeva quasi l’aspetto di uno sgarro. Soprattutto nei confronti di Washington, in lampante contraddizione con il ruolo della Turchia. Per il momento ancora alleata degli Usa e membro della Nato.

Messaggi alla Casa Bianca

Ankara aveva operato il test missilistico incurante della minaccia di ulteriori sanzioni. Formulata esplicitamente da Mike Pompeo quando l’anno scorso aveva definito “semplicemente inaccettabile” la sola ipotesi di una attivazione del sistema degli S-400.

Sanzioni che tuttavia – va precisato – Trump non sembrava molto propenso a imporre.

Non mancavano i precedenti. Ancora l’anno scorso in una base nei pressi di Ankara (dove si trovano alcune batterie di S-400) venivano messi in attività aerei da combattimento F-16 e F-4. Allo scopo – si presume – di testare altre componenti (probabilmente i radar).

Un passetto alla volta, la Turchia sembrerebbe intenzionata a integrare – anche ufficialmente – il sistema di difesa S-400 nella sua struttura di difesa contraerea e di combattimento.

Dislocazioni strategiche

Quanto a dove tali batterie di missili verrebbero collocate definitivamente, il mistero è ancora fitto.

Una – molto probabilmente – dovrebbe rimanere nei pressi di Ankara. Le altre a sorvegliare mar Egeo e Mediterraneo orientale. Oppure alle frontiere con la Siria e con l’Armenia.

Una maggior cautela nel procedere mostrata da Erdoğan successivamente al test potrebbe dipendere dall’attesa per i risultati delle elezioni negli Usa.

Pur non dando ufficialmente conferma dell’avvenuto test missilistico del 16 ottobre, il Dipartimento di Stato aveva ribadito la possibilità di “gravi conseguenze” qualora il sistema fosse divenuto operativo a tutti gli effetti.

Se fin dall’inizio il Pentagono si era dichiarato totalmente contrario all’acquisto da parte di Ankara del sistema S-400, l’esponente repubblicano Jim Risch si spingeva oltre affermando fuori dai denti che «la Turchia ha superato il limite» e invitando l’amministrazione statunitense a dare un “forte segnale” per indurre Ankara a liberarsi del recente acquisto.

Minacce che – come è noto – erano destinate a rimanere lettera morta.

Esiste anche un’altra ipotesi. Ossia che Erdoğan abbia semplicemente alzato la posta per ottenere da Washington (anche in caso di vittoria da parte di Joe Biden) concessioni di altro genere. Per esempio la sostanziale, definitiva accettazione degli interventi nel Nordest della Siria contro i curdi e ora contro l’Armenia. In questo caso, agitare la minaccia dell’impiego operativo dei missili S-400 funzionerebbe come merce di scambio (o, se preferite, ricatto).

Messaggi interni

Ma comunque l’esercitazione del 16 ottobre era stata rivendicata pubblicamente dai dirigenti di Akp (il partito di Erdoğan).

Bulent Turan in particolare si era complimentato per l’avvenuto test cogliendo l’occasione per dichiarare che «il problema principale di questo nostro bellissimo paese sono quei miserabili che si fan passare per intellettuali, ma non sono in grado di riconciliarsi con i valori della nazione e non hanno fiducia nello stato; così come gli insignificanti esponenti politici dell’opposizione incapaci di comprendere quali siano gli interessi nazionali». Affermazioni piuttosto nebulose, ma che potrebbero risultare chiare e precise per chi, in Turchia, deve sentirsi nella condizione di “uomo avvisato”.

Da parte di quella che ormai, almeno nella testa di Erdoğan, è destinata a diventare definitivamente una potenza autoreferenziale e indipendente.

Per non parlare dell’effetto galvanizzante riversato sugli strati sociali turchi (soprattutto il ceto medio, ma non solo) che pur appoggiando Erdoğan si sentono colpiti, travolti dalla crisi economica.

E quindi necessitano di compensazioni (almeno a livello immaginario, di falsa coscienza).

Messaggi al Cremlino

Torniamo ora un attimo al discorso introduttivo, ossia al voler trovare qualche motivo recondito in ogni gesto compiuto da Erdoğan. Per alcuni osservatori non sarebbe per niente casuale che l’esperimento missilistico sia avvenuto quasi in contemporanea con l’incontro (e la firma di accordi anche di cooperazione militare) tra Erdoğan e Volodymyr Zelensky, il suo omologo ucraino. Anche in questo caso potrebbe essersi trattato di una ostentazione di indipendenza, ma stavolta da Mosca.

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La montagna di Doha e il topolino del dialogo intra-afgano https://ogzero.org/la-montagna-di-doha-e-il-topolino-del-dialogo-intra-afgano/ Wed, 07 Oct 2020 09:38:26 +0000 http://ogzero.org/?p=1432 A quasi un mese dallo storico incontro di settembre tra Talebani e governo di Kabul l’unico passo avanti lo fa la guerra. Mentre il presidente afgano Ashraf Ghani reiterava il 21 settembre dal podio virtuale delle Nazioni Unite la sua richiesta di un cessate il fuoco nel paese, le statistiche del Ministero dell’Interno di Kabul […]

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A quasi un mese dallo storico incontro di settembre tra Talebani e governo di Kabul l’unico passo avanti lo fa la guerra.

Mentre il presidente afgano Ashraf Ghani reiterava il 21 settembre dal podio virtuale delle Nazioni Unite la sua richiesta di un cessate il fuoco nel paese, le statistiche del Ministero dell’Interno di Kabul stimavano a un centinaio le sole vittime civili in 24 province nelle ultime due settimane seguite allo storico incontro del 12 settembre a Doha. In quella data, formalmente per la prima volta, il governo di Kabul e i Talebani si sono incontrati dando vita al tanto sospirato dialogo intra-afgano. Ma da allora le bocce sono rimaste ferme, segnate da combattimenti e incidenti il cui bilancio è di decine di morti anche tra le forze di sicurezza afgane e la guerriglia. Le due delegazioni, rappresentate da altrettanti “gruppi di contatto”, hanno da allora cercato faticosamente di stabilire l’agenda di discussione che dovrebbe impegnare l’Alto Consiglio di pace – che ha da Kabul il mandato a trattare – e gli inviati della shura di Quetta, che dovrebbero rappresentare la variegata e disomogenea galassia talebana. Ma all’inizio di ottobre le tante riunioni preliminari hanno prodotto scarsi risultati mentre il calendario continua invece a segnalare raid aerei, incursioni nei villaggi, uccisioni mirate, accuse reciproche un po’ ovunque nel paese. Se il primo obiettivo doveva essere una tregua o almeno una diminuzione delle ostilità, il risultato è ancora uguale a zero.

All’interno: una pace scomoda

I punti in discussione dell’agenda negoziale dovrebbero essere una ventina ma il primo scoglio (a parte il sospirato cessate il fuoco) sembra sia il dovuto riconoscimento dell’accordo tra Talebani e americani, siglato sempre a Doha in febbraio. Per i Talebani è la premessa, per Kabul invece un riferimento da evitare poiché assegna al governo afgano un ruolo da comprimario e non certo da protagonista. Un protagonismo che i Talebani vogliono tenere per sé. Vogliono e debbono, poiché al loro interno l’ala radicale (non si sa per ora quanto forte) incalza il gruppo dirigente che rischia, con la pace, di lasciare disoccupati decine di capibastone e di militanti cui premono più le singole rendite di posizione che non il futuro equilibrio pacifico del paese. Cosa altrettanto vera tra i sostenitori del governo che si stanno comunque armando, semmai le cose dovessero precipitare.

Dall’estero: denaro e forze militari

C’è dunque una dinamica interna (intra-afgana appunto) che si interseca con una dinamica esterna che riguarda attori primari e secondari del conflitto le cui sedi si trovano fuori dal paese. In primis gli Stati Uniti con le incombenti elezioni presidenziali. Poi tutti gli altri, alleati di questo (il governo) o di quella (la guerriglia) e a volte di entrambi. Cominciamo da Ashraf Ghani e dal suo litigioso esecutivo: molto dipenderà, a novembre, oltreché dall’esito delle elezioni americane, dall’esito della Conferenza dei donatori di Ginevra dalla quale si capirà quante risorse Europa e Stati Uniti intendono ancora impegnare nel paese. Il flusso di cassa, sia per l’economia nazionale sia per le forze di sicurezza (circa 300.000 uomini tra esercito e polizia), diventa essenziale per Ghani poiché può garantire al governo di Kabul un elemento di forza da opporre alla temerarietà dei Talebani che pure si trovano nelle stesse difficili acque. Anche la guerriglia corre infatti il rischio di una “donor fatigue” dei suoi sostenitori abituali, dal Pakistan all’Arabia saudita al Golfo, senza contare le donazioni private o il sostegno di Iran, Russia e Cina che possono aprire o chiudere i rubinetti a seconda delle convenienze. Con pochi denari anche la guerriglia potrebbe trasformarsi in una presenza militare più debole nelle campagne afgane, caposaldo militare degli studenti coranici. Nonché in un indebolimento della leadership del loro capo “ufficiale”, quel Mawlawi Hibatullah Akhundzada, criticato da quanti si sentono traditi dal negoziato o che vedono nella pace una diminuzione dei propri poteri di controllo territoriale su diverse aree del paese. È su queste basi (i soldi e la forza militare) che si giocherà probabilmente la vera partita tra Talebani e Kabul: più ancora che sulla futura forma di governo, sui diritti civili e di genere, sull’istruzione, sul voto, sul ruolo dell’islam. Temi gravati dall’incognita Covid-19 che ufficialmente – ma le riserve sul dato sono molte – conta pochi casi (39.422 al 6 ottobre) e poche vittime (1466) ma che resta una variabile con cui tocca fare i conti.

Il ritiro delle truppe condizionato

Su tutto ciò regna incontrastata la guerra anche se, questa volta, ai combattimenti partecipano solo afgani e il conflitto sembra essere tornato nell’alveo di una guerra civile, senza più l’aiuto di forze esterne – almeno ufficialmente – anche se le forze esterne (Usa, Nato) restano nel paese se non altro per “osservare”. Senza utilizzare le armi ma anche senza smettere di addestrare l’esercito afgano e continuando a pagare gli stipendi, un elemento fondamentale per tenerlo insieme. Al momento dunque nessuno abbandona gli afgani al loro destino e se, sulla base dell’accordo Usa-Talebani firmato il 29 febbraio 2019 a Doha, gli Stati Uniti hanno deciso di lasciare l’Afghanistan entro 18 mesi e hanno iniziato a far tornare a casa parte della truppa, il segretario di stato Mike Pompeo ha messo le mani avanti. Ha sottolineato che Washington cercherà di ritirare i soldati entro la primavera del 2021 ma anche che il ritiro è condizionato dalla completa cessazione delle ostilità dei gruppi terroristici come al-Qaeda e Stato Islamico nel Khorasan (Isis), per ora ancora attivi in Afghanistan. Una carta di riserva, insomma.

La Nato rimane sul terreno

Quanto alla Nato, per ora si resta con quasi 16.000 uomini (8000 statunitensi, 1300 dalla Germania, 950 dalla Gran Bretagna, 895 dall’Italia, 860 dalla Georgia, 600 dalla Turchia e così a scalare tra i 38 membri Nato della missione Resolute Support. Missione no-combat anche se in questi anni l’Alleanza ha operato anche militarmente, pur senza fanfare, al fianco dell’esercito afgano. Ora dovrebbe limitarsi ai consigli in attesa che gli americani decidano quel che succede o deve succedere. Le incognite restano tante in attesa che si sblocchi (ovvero inizi) il negoziato tra le due delegazioni. Mentre il paese continua a pagare il suo tributo al conflitto più lungo della Storia recente a cavallo di due secoli.

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