Natanz Archivi - OGzero https://ogzero.org/tag/natanz/ geopolitica etc Mon, 31 May 2021 11:46:27 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.4.6 n. 8 – Siria (IV): dopo la Guerra cosa può cambiare? https://ogzero.org/una-nuova-primavera-araba-siria-le-dinamiche-attuali-del-conflitto-2020-2021/ Wed, 26 May 2021 11:33:41 +0000 https://ogzero.org/?p=3634 Nella serie di articoli dedicati alle rotte mediorientali della raccolta di analisi stilate da Fabiana Triburgo sulla questione migratoria la sezione siriana si compone di quattro interventi, ognuno dedicato a uno dei molteplici aspetti che presenta questa diaspora, biblica per proporzioni, e vicissitudini toccate ai più di 12 milioni di individui siriani coinvolti nella catastrofe […]

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Nella serie di articoli dedicati alle rotte mediorientali della raccolta di analisi stilate da Fabiana Triburgo sulla questione migratoria la sezione siriana si compone di quattro interventi, ognuno dedicato a uno dei molteplici aspetti che presenta questa diaspora, biblica per proporzioni, e vicissitudini toccate ai più di 12 milioni di individui siriani coinvolti nella catastrofe umanitaria che ha fatto seguito allo scatenarsi del conflitto siriano dell’ultimo decennio. Dove porteranno questi anni di Guerra civile? Potrà riemergere una nuova Primavera araba?

L’autrice ha dapprima analizzato le attuali condizioni di siriani ormai integrati in realtà esterne al paese ai quali ora viene chiesto di rimpatriare, rischiando la vita e rinunciando alla nuova esistenza costruita faticosamente in esilio. L’analisi è proseguita valutando le condizioni economiche e umanitarie in cui si tengono le elezioni il 26 maggio, senza dimenticare la specificità della Primavera araba nelle diverse regioni siriane; ha proseguito poi collegando le modalità di protesta alla particolare peculiarità del regime alauita del clan al-Assad; le fasi della politica di Bashir – fino alla Primavera araba e il conflitto esploso nel 2011, che ha fatto del territorio siriano uno scenario usato dalle potenze globali e locali per imporre la propria supremazia. Da ultimo in questo articolo ancora più dedicato alla geopolitica si cerca di fare il punto dei conflitti nelle 4 partizioni di territorio tra i vari protagonisti scontratisi in particolare nell’ultimo biennio.


n. 8, parte IV

I principali conflitti che attualmente interessano le migrazioni forzate e le prassi di esternalizzazione poste in essere dall’Unione Europea e dai singoli stati membri portano a una predeterminazione delle rotte dei migranti.

Quello che oggi è inevitabile chiedersi è se il nuovo Patto europeo sulla migrazione e l’asilo, proposto dalla Commissione UE, possa essere realmente considerato una soluzione della gestione del fenomeno migratorio o se invece vi siano soluzioni legali alternative maggiormente lungimiranti e coraggiose.  

Il conflitto siriano: gli ultimi due anni di Guerra

Come già notato nel precedente articolo sulla situazione in Siria, in particolare con riferimento alle pregresse tappe del conflitto – ormai perdurante da oltre dieci anni –, appare evidente l’interazione in esso tra le milizie appartenenti alle forze governative, le potenze della regione mediorientale e quelle internazionali.

La ripartizione ottomana e le relazioni locali del territorio

Più specificatamente la presenza di attori regionali nel territorio siriano deve rinvenirsi in ragione di alcune dinamiche dal punto di vista storico. Prima della dissoluzione dell’Impero Ottomano le province mediorientali erano determinate non solo da suddivisioni meramente amministrative quanto anche da alcune realtà informali. Attigue alle regioni dominate da Istanbul infatti vi erano delle subregioni che venivano gestite dalle élites locali e che possedevano una certa autonomia rispetto al governo centrale dell’impero perseguendo abitualmente i propri interessi politici ed economici e interagendo tra di loro. Citiamo come caso esemplificativo del fenomeno in questione le relazioni tra le città di Damasco e Aleppo con Nablus, oggi città della Cisgiordania. Allo stesso tempo nelle zone rurali i gruppi comunitari stanziati in prossimità del monte druso-maronita, nell’attuale stato libanese, intrattenevano i loro rapporti con i gruppi residenti nelle montagne alauite a est di Latakia, nell’attuale territorio siriano. Tuttavia la creazione degli stati nazionali non prese in considerazione né le suddivisioni amministrative né quelle informali, sia cittadine che rurali, preesistenti nell’area.

A ogni modo molte delle relazioni di cui sopra sono rimaste intatte anche a fronte delle suddivisioni coloniali dei territori dell’impero ottomano: basti pensare agli scambi commerciali che vi sono oggi tra la pianura di Hims in Siria e Hermel in Libano, o tra la città siriana di Dara’a e quella giordana di Mafraq.

Le comunità locali sono in ogni caso ancora oggi consapevoli della sovrapposizione tra la realtà nazionale e quella locale caratterizzata dalla reciprocità con altre realtà dell’area mediorientale.

Tali comunità locali sono solite riferirsi all’una o all’altra a seconda degli interessi in gioco.

Con riferimento al conflitto in corso in Siria queste duplici dimensioni spiegano le ragioni per le quali molti miliziani sciiti, provenienti dall’Iraq, siano andati a combattere in Siria tra le milizie leali al governo di Assad sulla base di una presunta necessità di proteggere i luoghi santi sciiti dagli attacchi violenti della comunità sunnita. Stesso fenomeno si può considerare rispetto alle forze di opposizione sunnite al regime di Damasco nelle quali, dopo pochi mesi dall’inizio del conflitto, sono confluiti i militanti estremisti islamici provenienti da altri paesi del Medioriente per compiere il jihad che tuttavia non aveva alcun apparente legame con le proteste del 2011 da parte delle forze di opposizione contro Assad.

Protagonisti, accordi internazionali e…

Le potenze internazionali nel conflitto siriano riconducibili a strategie statali attualmente sono in particolare: l’Iran e la Russia a sostegno delle forze governative di Assad, la Turchia che combatte a favore di alcune delle forze ribelli che operano nel Nord del paese e gli Usa a supporto delle milizie curde. Quello che appare chiaro è che il governo del regime di al-Assad, così come d’altro canto le forze di opposizione, difficilmente possono attualmente determinare vittorie decisive nel conflitto in corso a loro favore senza l’appoggio delle potenze estere regionali del Medioriente e internazionali.

Tuttavia, a intervenire in Siria non vi sono solo attori regionali o internazionali – militari e politici statali – ma anche attori umanitari e militari internazionali non statali, nonché numerose ong straniere.

A tal proposito va menzionato il ruolo delle Nazioni Unite e specificatamente quello del Consiglio di Sicurezza – nel quale tra i membri permanenti vi è la Russia ma non la Turchia – nonché quello della Nato, nel quale invece tra i membri vi è la Turchia (dal 1952) e ovviamente non la Russia. Ricordiamo che Russia e Turchia sono al momento le due principali potenze straniere presenti nel paese. Inoltre la missione Onu di supervisione delle Nazioni Unite in Siria istituita dalla Risoluzione n. 2043 del Consiglio di Sicurezza del 21 aprile 2012 venne sospesa nel giro di pochi mesi. In tale conflitto l’Onu più volte è uscita sconfitta dal suo ruolo di risolutore pacifico. Al riguardo, occorre invece soffermarsi sul Processo di Astana nel quale le Nazioni Unite svolgono un ruolo di osservatore permanente.

Il processo di Astana è un processo finalizzato all’instaurazione di un sistema di pace in Siria siglato da Turchia, Russia e Iran – complementare a quello ufficiale dell’Onu a Ginevra – iniziato a dicembre del 2016 con i negoziati nella capitale del Kazakhistan, grazie all’iniziativa diplomatica dei suddetti paesi, dopo l’intervento armato della Russia e al fine di realizzare gli obiettivi della risoluzione n. 2254 delle Nazioni Unite con la quale sono state tracciate le linee guida verso una transizione politica del conflitto guidata dagli stessi siriani. Tale accordo nel 2017 ha portato alla definizione di quattro zone di “de-escalation” del conflitto. L’accordo avrebbe dovuto coinvolgere a partire dal 2018 (Accordo di Sochi) insieme ai diplomatici delle tre nazioni, anche i rappresentanti del regime di al-Assad e una parte delle forze di opposizione, ma, come detto in precedenza, l’accordo è stato più volte violato nel 2019 dalle potenze contraenti.

… ripartizione in 4 zone di controllo

Il 5 marzo del 2020 Mosca e Ankara – sempre all’interno del processo di Astana – hanno raggiunto un’altra importante intesa che prevede una zona di sicurezza lungo l’autostrada M4 che congiunge Aleppo alla costa e rispetto alla quale viene garantito il pattugliamento da parte di militari russi e turchi. Il 16 febbraio del 2021 si è siglato un ulteriore accordo tra le parti sempre in linea con lo spirito del Processo di Astana avente come oggetto l’elaborazione di una costituzione per il dopoguerra, la transizione politica nel paese nonché il ritorno in sicurezza dei rifugiati.

Tutto ciò premesso, si può affermare che nell’ultimo anno il conflitto siriano non si è caratterizzato per interventi militari dispiegati su larga scala da parte di tutti gli attori presenti nelle aree sotto il controllo del regime, ma il paese rimane comunque intrappolato nel conflitto armato per i continui scontri nell’area a Nordovest e di quella a Nordest, ossia due delle tre zone che costituiscono oggi la ripartizione del paese nelle cosiddette “Sirie”. Come accennato dunque occorre far riferimento per un’analisi degli accadimenti bellici più recenti – ossia quelli dal 2020 a oggi – a questa ripartizione geografica, analizzando contestualmente le azioni militari più rilevanti di ogni singolo attore regionale e internazionale presente in Siria che, come detto, sono i principali fautori delle dinamiche del conflitto iniziato nel 2011.

1) I recenti sviluppi nella zona sotto il controllo governativo e il Sud del paese:

Russia e Israele in Siria

Con lo Stato d’Israele il 18 febbraio 2021 il presidente Bashar al-Assad ha raggiunto un’intesa relativa allo scambio di prigionieri, un israeliano e due siriani, in conseguenza di negoziati condotti dalla Russia. Secondo alcune fonti israeliane, inoltre, sempre nel mese di febbraio del 2021 il premier Benjamin Netanyahu e il presidente Vladimir Putin hanno tenuto colloqui telefonici nel corso dei quali Tel Aviv avrebbe chiesto a Mosca l’assistenza per le questioni “umanitarie” riguardanti la Siria. Poco dopo la notizia della liberazione degli ostaggi da entrambe le parti è stato anche comunicato che il consigliere per la sicurezza israeliano si era recato a Mosca per una visita diplomatica. Non si comprende bene se questo possa essere considerato un primo passo verso un tentativo di ristabilire un rapporto di fiducia con la Russia:

in realtà passare da intese a livello umanitario a possibili intese tra le due nazioni sul piano militare risulta a oggi molto difficile, considerata la presenza regionale iraniana nel conflitto alla base dei continui attacchi israeliani, prevalentemente raid missilistici, nei territori siriani come avvenuto di recente.

Il 22 aprile 2021 nel Sud di Israele è esploso un missile terra-aria al quale Tel Aviv ha risposto con il lancio di raid aerei contro obiettivi in prossimità della capitale Damasco come aveva già fatto in passato: l’attacco siriano poiché realizzato in un’area vicino al reattore nucleare di Dimona aveva suscitato preoccupazione nello stato israeliano.

Successivamente però è stato accertato che il missile proveniente dalla Siria non era frutto di un intervento militare deliberato contro il territorio israeliano ma si trattava – secondo “The Time of Israel” – di un missile antiaereo vagante lanciato come reazione contro un caccia israeliano, durante uno scontro aereo tra i due paesi avente a oggetto alcuni obiettivi nelle Alture del Golan. Inoltre è stato successivamente precisato che il missile non ha colpito il reattore, avendo interessato un’area a 30 chilometri di distanza dallo stesso.

Iran e Israele in Siria

Le tensioni tra Israele e Iran si sono intensificate recentemente sia a causa della decisione iraniana di proseguire le ricerche del processo di arricchimento dell’uranio al 60 per cento – il livello più elevato finora raggiunto – sia per l’incidente presso l’impianto nucleare iraniano a Natanz del quale Israele ritiene responsabile l’Iran. In precedenza, Israele nel conflitto siriano si è più che altro resa responsabile di attacchi missilistici contro il gruppo libanese Hezbollah – alleato dell’Iran – cercando in ogni modo di evitare l’inserimento iraniano nelle fazioni militari presenti nel territorio siriano.

Israele percepisce l’Iran come una minaccia alla propria esistenza nell’area mediorientale. Le dichiarazioni del capo di stato maggiore dell’esercito israeliano Aviv Kochavi rilasciate nel 2021 e riprese da Reuters, sono state chiare: «Gli attacchi missilistici israeliani nel 2020 sono riusciti a evitare il trinceramento dell’Iran in Siria, ma abbiamo ancora molta strada da fare».

Il ministro degli Esteri iraniano ha replicato che Teheran continuerà la sua politica di resistenza contro il potere statunitense e israeliano nella regione mediorientale.

Dal 2020 a oggi gli attacchi israeliani, tuttavia, non si sono più limitati alle Alture del Golan o nella parte della Siria meridionale – al confine con lo Stato d’Israele – o vicino Damasco ma, come vedremo, anche verso Nordovest contro la città di Aleppo, quella di Hama, al confine con l’Iraq, e a Homs. Un esempio di questo espansionismo militare israeliano è l’attacco missilistico dello scorso 5 maggio verso Latakia.

Va invece qui menzionato l’attacco avvenuto 24 ore dopo, ossia il 6 maggio 2021, da parte di Israele contro il governatorato di Quneitra a Sudovest della Siria: gli obiettivi del raid israeliano, secondo gli attivisti umani presenti nella zona, sarebbero state le postazioni e le truppe a sostegno del governo di Assad.

L’Isis invece è riuscito a stabilire nel 2021 una sua roccaforte nella regione di Badia collocata in una zona desertica che va dal Sudest al Nordest del Paese difficilmente raggiungibile da carri armati o aerei da guerra da parte delle forze lealiste che proprio da qui subiscono gli improvvisi attacchi del gruppo terrorista.

2) I recenti conflitti nella Zona a Nord e Nordovest del paese:

Accordi e interessi contrastanti nel Gruppo di Astana

Il 5 maggio del 2021 le forze di difesa siriane hanno intercettato un attacco missilistico di Israele contro diverse aree a nordovest della Siria, e uno dei missili, ha causato un morto e sei feriti. L’esercito siriano ha dichiarato di essere riuscito ad intercettare più missili israeliani. Più precisamente alcuni di questi hanno colpito la città di Latakia, Hifa e quella di Maysaf. Secondo alcune fonti delle intelligence occidentali l’intento di Israele sarebbe quello di colpire obiettivi legati all’Iran e presenti in Siria. L’Iran infatti sostiene le milizie di Hezbollah che in Siria controllano non solo le aree meridionali e orientali, le zone di frontiera tra Siria e Libano e alcune aree intorno a Damasco, ma anche zone a Nordovest. A loro volta i militanti di Hezbollah sostengono le forze militari del regime di Assad.

La Russia già nel 2020 si è assicurata una presenza importante nel porto siriano di Tartus e ha mantenuto il suo quartier generale presso l’aeroporto tra Jabla e Latakia, ma deve prestare attenzione continuamente al suo alleato (vedi processo di Astana) e, allo stesso tempo, rivale turco in quanto milizie filoturche in Siria sono di fatto fortemente contrastate dalle forze siro-iraniane e da quelle russe.

Nell’area, a causa della scarsità di risorse finanziare, determinata dalla crisi economica sono diminuite le risorse a disposizione anche del governo di Damasco che si è fortemente indebolito. Tale indigenza ha prodotto delle conseguenze anche sul piano militare determinando una temporanea interruzione dell’intervento delle forze lealiste verso le altre zone (Nordovest e Nordest) che ancora sfuggono al controllo di Assad. Non solo, ma la zona è stata interessata dall’accordo del 5 marzo del 2020 tra Turchia e Russia che ha stabilito il “cessate il fuoco” nella provincia di Idlib e una zona “cuscinetto” – pattugliata dalle forze militari di entrambi i paesi – lungo l’autostrada M4 che congiunge Aleppo a Latakia. Tuttavia nel febbraio del 2021 ancora non era stata riaperta la strada internazionale M4 e i pattugliamenti russi e turchi sono stati spesso ostacolati da gruppi militanti locali costituiti anche da alcuni gruppi jihadisti legati ad al-Qaeda.

Il nodo jihadista

In conseguenza di tale accordo infatti si è sollevata una parte della popolazione locale che teme un’ulteriore avanzata delle forze lealiste nell’area; invece la coalizione filoturca del Fronte Nazionale per la Liberazione componente dell’Esercito nazionale siriano ha sostenuto l’accordo. Tuttavia, non sono mancati anche gli scontri diretti tra Russia e Turchia come quello compiuto nella giornata del 26 ottobre del 2020 dal governo siriano di Damasco e dalla Russia in una zona al confine tra Siria e Turchia, più precisamente nell’area di Jabal al Dweila nella quale moltissimi siriani sfollati si erano rifugiati.

Alla base della decisione dell’attacco vi sarebbe la volontà di Mosca di colpire uno dei principali gruppi armati sostenuto da Erdoǧan con un intento chiaramente ammonitivo nei confronti della Turchia.

Médecins sans frontières ha dichiarato tale evento fortemente preoccupante per i 78 morti e i numerosi feriti e per il fatto che l’attacco sia stato compiuto in una zona relativamente sicura che tuttavia già il 21 ottobre 2020, era stata oggetto dei bombardamenti in particolare nei villaggi di al-Magarah e di al-Rami occupati dal gruppo islamista militante Hts ossia Hayat Tahir al-Sham – un tempo legato ad al-Qaeda e, come detto sopra, dal Fronte nazionale di liberazione.

Quello del 26 ottobre è stato l’attacco più violento dall’entrata in vigore del cessate il fuoco nel marzo dello stesso anno. Anche nel marzo del 2021 sono aumentati in modo esponenziale gli attacchi da parte delle forze militari che sostengono il regime: in particolare è stato colpito un ospedale presso al-Atarib nei pressi di Aleppo, sono stati sferrati attacchi missilistici da parte dei russi, nella zona al confine con la Turchia, più precisamente in prossimità di Bab al-Hawa. Nel Nord della Siria al momento vi sono circa 60 postazioni militari turche stanziatesi sul territorio proprio in conseguenza dell’intesa tra Mosca e Ankara, in particolare a Idlib, ad Aleppo, a Hama e anche a Latakia.

Va precisato che nell’area l’Hts ha un ruolo prevalente e, dopo alcune tensioni con le forze militari turche, ha adottato un atteggiamento maggiormente distensivo nei confronti della Turchia non manifestato da parte di altri gruppi ancora affiliati ad al-Qaeda in particolare dal gruppo Tanzim Hurras al-Din che invece ha abbandonato l’Hts. Tali gruppi jihadisti estranei a Hts sono divenuti autori di diversi attacchi nell’area Nordovest del paese sia contro le truppe turche che contro quelle russe. In risposta il gruppo Hts nel 2020 ha sferrato una violenta offensiva contro il gruppo Tanzim Hurras al-Din e gli altri gruppi affiliati ad al-Qaeda.

Anche nel 2021 il gruppo HTS ha continuato a colpire le cellule di al-Qaeda presenti nel paese cercando di consolidare maggiormente la propria posizione nella provincia di Idlib, sia per assicurarsi il riconoscimento del ruolo di valido interlocutore locale da parte della Turchia, sia per dimostrare chiaramente di prendere le distanze dagli atti violenti compiuti dai militanti jihadisti d’ispirazione qaedista anch’essi nell’area.

Tuttavia il 12 aprile 2021 le forze militari siriane insieme a quelle russe hanno lanciato decine di raid dalla mattina contro le postazioni del sedicente Stato Islamico: in particolare a Nordovest nelle regioni di Hama e Aleppo. È dall’inizio del 2021, infatti, che l’organizzazione terroristica IS ha continuato ad attaccare l’esercito governativo causando vittime tra le milizie locali e, nonostante le attività di reazione militare poste in essere da Damasco e Mosca, le cellule del sedicente Stato Islamico continuano a permanere nel territorio siriano a Nordovest in particolare nei governatorati di Hama e Homs ma anche, come vedremo in seguito, a nordest a Raqqa e Dayr az Zawr.

Va precisato che l’offensiva delle forze governative e russe nel Nordovest si è verificata in conseguenza di un rapimento di 19 siriani, 11 civili e 8 agenti di polizia, in seguito a un attacco dell’IS, il 16 aprile del 2021 nella regione di Hama, mentre altre 40 persone risultano al momento disperse.

Gli scontri caratterizzati da lancio di missili e attacchi aerei dei gruppi armati locali quali Russia, Turchia, Hts (IS) e gruppi legati ad al-Qaeda continuano quindi a mettere a dura prova la popolazione civile.

3) I recenti conflitti nella Zona a Nordest del paese:

Zona controllata dai curdi: Pyd, Ypg/Ypj, Fds

L’area del Nordest è governata dall’Amministrazione autonoma del Partito dell’Unione democratica curda (Pyd) la cui ala militare è rappresentata dall’Ypg/Ypj, ossia dall’Unità di protezione popolare. Come accennato, in quest’area, più specificatamente nella parte compresa nella regione desertica della Badia, sono fortemente presenti le forze del sedicente Stato Islamico autrici di continui attacchi contro le Forze democratiche siriane (Fds), coalizione a guida statunitense comprendente le milizie governative ma soprattutto le forze curde dell’Ypj/Ypg.

L’IS in questo periodo sta portando avanti una guerriglia sia con le Sdf che contro le milizie filogovernative cercando in ogni modo di destabilizzare l’area e dimostrare che il regime non ha il controllo del territorio. Tuttavia, a marzo del 2021 alcuni jet russi hanno bombardato delle postazioni del sedicente Stato Islamico nella campagna di Hama, e nelle aree desertiche nelle quali il gruppo estremista è stanziato da diverso tempo, mentre lo scorso aprile un raid areo russo ha causato la morte di 200 terroristi nella regione.

Altra formazione estremista jihadista dell’area è il succitato gruppo legato ad al-Qaeda Tanzim Hurras al-Din responsabile nel 2021 di un’offensiva militare ai danni delle milizie russe nella campagna di Raqqa. Infine, sempre nel Nord-Est è divenuta preponderante la presenza della Turchia che ha stretto sotto il proprio controllo alcune importanti città precedentemente sotto l’amministrazione autonoma, come quella di Afrin, e che ostacola militarmente le forze dell’Ypj/Ypg per la loro attiguità con l’ideologia del Pkk – Partito dei lavoratori del Kurdistan – qualificato dalla Turchia ma anche da Stati Uniti e Unione Europea come organizzazione terroristica.

United States are back

Rispetto agli Usa va ricordato che la prima operazione militare del neoeletto presidente Biden nel 2021 è stata quella in Siria del 25 febbraio contro le postazioni delle milizie filoiraniane al confine con l’Iran; il Pentagono ha dichiarato che l’azione militare è stata compiuta come reazione al raid missilistico del 15 febbraio che ha ucciso un contractor e ha ferito militari statunitensi negli avamposti americani del Kurdistan iracheno, azione che sarebbe stata rivendicata da una milizia irachena legata all’Iran. Il Pentagono ha poi riferito che il presidente agirà nell’area per proteggere il personale della coalizione americana.

Il ritiro delle truppe statunitensi dalla Siria, fortemente promosso dall’amministrazione Trump è in fase di arresto con Biden.

Come nel caso dell’amministrazione Trump, Biden però non intende prendere parte alla destituzione del regime che garantisce la stabilità nell’area mediorientale, quindi da un lato gli Stati Uniti continuano a bloccarlo economicamente per indebolirlo, attraverso l’applicazione delle sanzioni Caesar, dall’altro danno la possibilità ad Assad attraverso la Russia di uscire dal conflitto, sempre tenendo sotto controllo Teheran e il programma sul nucleare.

Rojava e Kurdistan iracheno

Gravi tensioni si sono registrate nella zona del Nordest nello scorso anno, con l’accerchiamento delle città di al-Qamshli e di al-Hasaka, da parte delle Forze Democratiche, già sotto il controllo dell’Amministrazione autonoma curda, disconosciuta da Damasco e guidata dal Democratic union party (Dup). Nell’area persistono anche nel 2021 violenti scontri tra le milizie filogovernative ossia le Forze nazionali di difesa (Ndf) con le Forze democratiche siriane (Fds) a maggioranza curda.

Occorre altresì tener conto degli attacchi tra le Fds e le milizie filoturche: le Fds temono che la Russia e il regime possano giungere a un accordo che implichi la loro espulsione dalla zona. In particolare, il 20 aprile 2021 un veicolo delle Ndf è stato attaccato dalle forze di sicurezza curde Asayish (forze di sicurezza della coalizione delle Fds) e gli scontri si sono protratti in modo così violento da richiedere l’intervento della Russia come mediatore.

Il 26 aprile è stato quindi raggiunto un accordo secondo il quale le forze curde Asayish sono riuscite a ottenere l’allontanamento delle Ndf filogovernative da alcuni quartieri delle città di al-Qamshli e al-Hasaka nelle quali comunque il potere è ancora ripartito tra il regime di Assad e le Fds.

Il 5 marzo 2021 il Ministero della Difesa americano ha dichiarato che la presenza militare russa in Siria viola «il meccanismo di distensione del conflitto» non attenendosi agli accordi stretti con la colazione delle Fds per il contenimento degli scontri nell’area. Ciò risulta particolarmente pericoloso in quanto già nel 2020 si era giunti a uno scontro diretto tra militari russi e statunitensi. Alle accuse portate avanti dal Ministero della Difesa Usa tuttavia la Russia ha risposto affermando che la presenza militare statunitense nel Nordest del paese è illegale e ha dichiarato che «Washington non ha il diritto di criticare l’attività militare legale delle forze armate russe in Siria» in quanto operano «in accordo con il governo del paese».

Ultima questione da analizzare nell’area è quella del campo di al-Hawl nel Nord della Siria al confine con l’Iraq nel quale vivono circa 70.000 persone tra cui circa 11.000 familiari di presunti membri dell’IS: al momento 50.000 membri delle Forze curde sono impegnate in un’operazione di sicurezza volta ad arrestare sostenitori dell’IS nel campo profughi di al-Hawl.

Russia vs. Turchia / Iran vs. Israele

In conclusione le nuove situazioni che oggi preoccupano maggiormente sono: il possibile definitivo deterioramento dei rapporti tra Russia e Turchia rivali tra di loro ma finora sempre scesi a patti; tuttavia, dallo scorso anno i rapporti tra le due potenze si sono resi sempre più logori anche perché la Turchia ha deciso di assumere un ruolo strategico anche in Ucraina contro le milizie filorusse. Se nell’ultimo periodo Mosca aveva annunciato la riapertura dei valichi di frontiera tra le zone sotto il controllo dell’opposizione e quelle sotto il controllo del regime, per alleviare anche la crisi economica in cui si trova il paese, la Turchia ha smentito seccamente tali dichiarazioni.

Altro problema è il possibile affronto militare diretto tra Iran e Israele.

lo scontro tra i due paesi si è ulteriormente esacerbato come abbiamo visto dopo il ritrovamento del missile a Dimona nel quale si trova l’impianto nucleare israeliano. Infine, il governo è ormai arrivato a un tal punto di dipendenza sia dalla Russia che dall’Iran che sarà difficile continuare a sostenere le spese derivanti da tale sostegno in ambito militare, finora mantenuto grazie alla presenza di posti di blocco che estorcono denaro alla popolazione locale senza prospettare un sistema di erogazione di risorse pubbliche a beneficio dei principali alleati nel conflitto.

Un’altra Primavera?

Rispetto a quanto finora riportato si può affermare dunque non solo che il conflitto è tutt’altro che concluso ma che tra circa un decennio si potranno presentare nuovamente i moti del 2011, data la condizione nella quale si trova attualmente il paese: a protestare saranno individui nati e cresciuti durante il conflitto armato, vissuti in condizioni di indigenza, e che non hanno avuto acceso ad alcun tipo d’istruzione.

 

una nuova Primavera araba?

Una generazione abituata a combattere e sopravvivere (foto Mohammad Bash).

Appare così inevitabile prima o poi lo sgretolamento effettivo del regime oggi fortemente depotenziato e tenuto in vita da altre forze internazionali e regionali.

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Onda d’urto nucleare sull’Iran https://ogzero.org/dalla-esplosione-di-natanz-alla-bocciatura-allonu-di-nuove-sanzioni-a-tehran-sabotaggio-e-pressione-rohani/ Fri, 04 Sep 2020 12:17:22 +0000 http://ogzero.org/?p=1141 L'amministrazione Trump ha stracciato l’Accordo sul nucleare che l'Occidente con Obama aveva stipulato con il regime degli ayatollah; e Israele non perde occasione per sabotare gli impianti iraniani, da ultimo l'esplosione di Natanz il 2 luglio. Si crea così un duplice fronte, interno ed esterno all'Iran, insufficiente a mettere in crisi la Repubblica Islamica

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Sabotaggio: massima pressione su Rohani

L’ammissione è arrivata con quasi due mesi di ritardo. L’esplosione avvenuta il 2 luglio negli impianti nucleari di Natanz, in Iran, è il risultato di un atto di “sabotaggio”, ha dichiarato il 23 agosto un portavoce dell’Agenzia per l’energia atomica della repubblica islamica iraniana, citato dall’agenzia di stampa ufficiale Irna. Non ha precisato che tipo di esplosione e che materiali siano stati usati: questo «verrà annunciato a momento debito».

L’esplosione, che ha distrutto un intero edificio nell’impianto di Natanz, era stata preceduta da una serie di “misteriosi” incendi e esplosioni nei giorni e settimane precedenti in diverse altre installazioni di carattere militare in Iran, e aveva già suscitato un turbine di ipotesi: bombe, attacchi missilistici, attacco elettronico, sabotaggio? Da parte di dissidenti iraniani, degli Stati uniti, di Israele? Di sicuro l’ipotesi di incidenti fortuiti non ha mai convinto nessuno. In particolare, nel caso di Natanz già pochi giorni dopo l’esplosione il governo annunciava di aver determinato la causa, anche se non poteva per il momento rivelarla per “considerazioni di sicurezza”.

Chi tocca il reattore muore

La parola sabotaggio dunque non sorprende. Del resto non sarebbe la prima volta: sia gli Stati uniti che Israele hanno in passato condotto azioni coperte in Iran, come gli attentati in cui sono stati uccisi diversi scienziati nucleari iraniani (che molti attribuiscono a Israele), o le azioni di sabotaggio elettronico ai danni di impianti atomici attribuite agli Usa (ben prima dell’avvento di Donald Trump). Solo pochi giorni dopo l’esplosione del 2 luglio, il New York Times citava anonimi «agenti di intelligence mediorientali» (tra cui uno delle Guardie della Rivoluzione iraniane) secondo cui l’attacco a Natanz è stato compiuto da Israele con una bomba ad alto potenziale. Cosa in sé plausibile, ma difficilmente vedremo prove o ammissioni ufficiali. Da parte israeliana certo non verranno conferme, e di prassi neppure smentite (interrogato in proposito, il ministro della difesa israeliano Benny Gantz ha semplicemente detto alla radio di stato: «Non tutto quello che accade in Iran ha necessariamente a che fare con noi»: risposta che non è una smentita).

Natanz, regione di Esfahan

Il capoluogo dello sharestan omonimo ospita l’impianto nucleare più imponente dell’Iran

L’uranio di Natanz

Altri interrogativi riguardano l’entità del danno provocato. L’impianto di Natanz, costruito in parte nel sottosuolo non lontano dalla città di Isfahan nell’Iran centrale, è tra quelli soggetti a regolari ispezioni da parte dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea), l’ente delle Nazioni unite per la sicurezza nucleare. È a Natanz che a partire dal 2012 l’Iran ha cominciato a costruire le sofisticate centrifughe necessarie ad arricchire l’uranio. In luglio l’Agenzia atomica iraniana ha ammesso che l’esplosione ha ritardato il programma di arricchimento dell’uranio di alcuni mesi. Alcuni esperti occidentali sostengono invece che i danni all’impianto potrebbero aver ritardato il programma di un paio d’anni.

Che si voglia credere all’agenzia iraniana o agli esperti occidentali, pare chiaro che il sabotaggio potrà al massimo rallentare il programma atomico di Tehran – difficilmente riuscirà a fermarlo. Non ci sono riusciti i sabotaggi del passato. L’Agenzia atomica iraniana ha già annunciato che ricostruirà l’impianto distrutto, «con equipaggiamenti ancora più moderni».

Conviene ricordare che quando nel 2015 l’Iran e sei potenze mondiali hanno firmato il Joint Comprehensive Plan of Action (Jcpoa), più semplicemente chiamato l’“Accordo sul nucleare iraniano”, Tehran aveva accettato di rinunciare a buona parte della sua riserva di uranio già arricchito appunto a Natanz (intorno al 20 per cento, livello necessario alla ricerca medica ma lontano da quello che serve per confezionare armi atomiche); aveva inoltre accettato di non costruire nuove centrifughe per i successivi otto anni. In effetti l’uranio arricchito era stato spedito fuori dal paese, e la costruzione di centrifughe a Natanz era stata fermata, come hanno certificato le regolari ispezioni dell’Aiea. L’Iran ha sempre negato di voler costruire armi nucleari, mentre ha sempre puntato in modo abbastanza esplicito ad avere la “capacità atomica”, cioè la capacità di maneggiare il ciclo nucleare: considerando che dava migliori garanzie di “deterrenza” avere la capacità di costruire un ordigno in caso di necessità, piuttosto che costruirlo effettivamente. Ma anche a voler diffidare delle intenzioni di Tehran, bisogna osservare che dal punto di vista della non proliferazione, il Jcpoa aveva effettivamente messo un freno alle attività iraniane.

L’indipendenza europea sotto tutela

Finché nel maggio 2018 il presidente Trump ha annunciato il ritiro degli Stati uniti dal Jcpoa, ed è allora che a Natanz l’officina di fabbricazione delle centrifughe ha ripreso l’attività. Non subito, bisogna dire: per un anno e mezzo l’Iran ha continuato a osservare la sua parte dell’accordo, chiedendo piuttosto ai partner europei (Francia, Germania e Gran Bretagna sono i firmatari insieme all’Unione europea) di compensare l’Iran per i benefici persi. Sappiamo però che questo è il punto dolente: i paesi europei continuano ad affermare l’importanza del Jcpoa, della diplomazia multilaterale, e del dialogo con l’Iran, ma sul lato pratico non hanno saputo davvero contrastare le sanzioni economiche statunitensi: vivida illustrazione di quanto sia limitata l’autonomia europea in una economia mondiale dominata dal dollaro (ogni transazione rilevante che avviene in dollari, ovunque, è soggetta allo scrutinio delle autorità finanziarie statunitensi). Il meccanismo finanziario chiamato Instex, annunciato dall’Unione europea nel settembre 2018 (ma diventato operativo solo nel gennaio 2020) per offrire un canale per gli scambi commerciali con l’Iran, incluso il settore petrolifero, avrebbe dovuto permettere alle imprese europee di aggirare le sanzioni Usa: ma finora non è andato oltre una singola transazione dimostrativa. Lo stesso vale per un meccanismo che dovrebbe facilitare forniture “umanitarie”, farmaci e attrezzature mediche.

Insomma: di fronte agli indugi europei, nell’ultimo anno gradualmente Tehran ha ripreso ad arricchire uranio oltre il limite previsto dal Jcpoa (anche se resta ben al di sotto delle quantità di cui disponeva prima di firmare l’accordo). Passi molto graduali, definiti da parte iraniana una “riduzione degli impegni”; per il resto l’Aiea nota che Tehran continua ad attenersi agli accordi. Il presidente Hassan Rohani ha più volte ripetuto che le attività riprese sono facilmente reversibili, e che l’Iran è pronto a tornare indietro se gli Stati uniti rientreranno nel Jcpoa o se gli altri firmatari troveranno il modo di compensare il ritiro americano. Il presidente Rohani, e il ministro degli esteri Javad Zarif, sono convinti che restare nei termini dell’accordo sia nell’interesse dell’Iran.

Fronte nucleare interno

Ma è chiaro che la posizione di Rohani è sempre più difficile da tenere, in Iran. Quelli che hanno accusato Rohani di “svendere” gli interessi nazionali, ora possono dire “non bisognava fidarsi degli Stati uniti che firmano un accordo e non lo rispettano”. E dopo il sabotaggio a Natanz le voci contrarie all’accordo nucleare hanno alzato il volume. In parlamento è stato detto che il sabotaggio è frutto delle “infiltrazioni” di “spie” sotto la copertura dell’Aiea. Un gruppo di deputati sta raccogliendo firme su un progetto di legge per il ritiro “automatico” dell’Iran dall’Accordo nucleare nel caso che l’Onu torni a imporre le sue sanzioni come chiesto da Washington. Altri vorrebbero che l’Iran si ritirasse anche dal Trattato di Non Proliferazione, il Tnp, quello da cui discende l’Aiea con tutta la sua architettura di ispezioni e controlli (a cui l’Iran si è sempre sottoposto, si fa notare, al contrario di molti paesi della regione, Pakistan e India a est, Israele a ovest). C’è chi ha detto che l’Iran dovrebbe fare come la Corea del Nord, non subisce attacchi un paese che ha fatto davvero un test nucleare.

Posizioni simili ben poco realistiche, neanche ora che le correnti oltranziste dominano il parlamento: i processi decisionali su questioni di sicurezza nazionale non passano per il Majlis ma per un complicato equilibrio di poteri rappresentati nel Consiglio supremo di sicurezza nazionale, e in ultima istanza sono sanzionati dal Leader, prima autorità dello stato. Ma la crescente retorica antiaccordo è un segno del clima politico. E dopo il sabotaggio a Natanz, appare anche più giustificata.

Falchi americani e falchi iraniani

Il punto è proprio questo. Come in uno specchio, la guerra scatenata dall’amministrazione di Donald Trump ha fatto un enorme favore alle correnti più oltranziste della Repubblica Islamica. Attentati e sabotaggi infatti fanno parte di una vera e propria guerra: non dichiarata, non l’invasione spesso evocata dai falchi e sostenitori del “regime change” che albergano nella Casa Bianca (rappresentati ora dal segretario di stato Mike Pompeo). Ma pur sempre una guerra: in forma militare, come con l’attacco mirato che ha ucciso il generale iraniano Qassem Soleimani a Baghdad lo scorso gennaio, o la guerra economica condotta con le sanzioni. O ancora con le provocazioni, come i jet statunitensi che volano pericolosamente vicino a un aereo civile iraniano. Le provocazioni si moltiplicano: come quando Mike Pompeo è intervenuto alla Convention Repubblicana in videoconferenza da Gerusalemme rivendicando l’uccisione di Soleimani. L’ultima nomina della Casa Bianca alla carica di “inviato per l’Iran” è l’ennesimo segnale di ostilità: Elliott Abrams, è un autentico falco, già coinvolto nell’affare Iran-Contras durante l’amministrazione Reagan.

Ciò non farà crollare il regime. Il muro di sanzioni pesa sull’economia, certo, e sulla vita quotidiana degli iraniani; i sabotaggi e le provocazioni infliggono danni e alzano la tensione in modo pericoloso: ma tutto ciò non spingerà l’Iran a tornare al tavolo dei negoziati con gli Stati uniti (che sarebbe l’obiettivo teorico dichiarato dall’amministrazione Trump).

Invece, ha contribuito a cambiare l’equilibrio dei poteri a Tehran: a screditare i fautori del dialogo, l’amministrazione di Hassan Rohani, i “pragmatici” che avevano riaperto l’Iran al mondo (e allentato il clima di controllo interno: in un paese sotto attacco, anche le libertà civili sono schiacciate). Ha contribuito anche a rafforzare il potere e l’influenza della casta militare, che va ben oltre la difesa: le Guardie della rivoluzione hanno un ruolo essenziale nell’economia sotterranea che si espande proprio a causa delle sanzioni; gruppi industriali legati alle Guardie rilevano i contratti per grandi infrastrutture, petrolifere e non, abbandonate dalle imprese occidentali timorose di incorrere nelle ritorsioni americane.

Qualche scacco allo strapotere americano

In questo quadro però sorgono degli intoppi. Gli Stati uniti hanno subito una rara sconfitta al Consiglio di sicurezza dell’Onu, quando in agosto non sono riusciti a far passare una risoluzione per reimporre sanzioni delle Nazioni unite all’Iran, tra cui un embargo sulle vendite di armi (quello attualmente in vigore scade in ottobre, ai sensi del Jcpoa): la risoluzione Usa ha raccolto solo il voto della Repubblica Dominicana, mentre gli altri 13 membri del Consiglio di sicurezza hanno votato contro o si sono astenuti, inclusi i tradizionali alleati europei. [Sulla minaccia rappresentata dall’Iran, è utile ricordare che Tehran spende per la difesa una frazione rispetto ai paesi vicini, secondo il Stockholm International Peace Research Institute: il budget della difesa iraniano era stimato a quasi 13 miliardi di dollari nel 2019, contro i 62 miliardi dell’Arabia Saudita, i 20,4 miliardi per Israele (e lo stanziamento di 732 miliardi nel budget statunitense)].

Gli Stati uniti hanno allora tentato la carta di avviare il “meccanismo di arbitrato” (dispute mechanism) previsto dal Jcpoa, cioè il meccanismo legale che i firmatari dell’accordo possono avviare se uno dei partecipanti viola gli accordi, e che dovrebbe portare a sanzioni entro 30 giorni. Gli altri firmatari degli accordi però hanno osservato che Washington non è più un membro del Jcpoa, da cui si è ritirato nel 2018, quindi non ha il potere di avviare il meccanismo legale di sanzioni. Commentatori americani hanno osservato con disappunto che invece di isolare l’Iran, l’amministrazione Trump ha messo gli Usa in una posizione imbarazzante.

Mentre l’Iran ha avuto l’occasione di mostrare che in fondo sa prendere decisioni pragmatiche. Il 26 agosto infatti ha annunciato un accordo con l’Aiea, che chiedeva accesso a due siti atomici per ispezioni. L’accordo è stato annunciato insieme dal direttore dell’Agenzia iraniana per l’energia atomica, ali Akbar Salehi, e dal direttore generale dell’Aiea Rafael Grossi al termine di una missione di quest’ultimo a Tehran. L’Iran “dà volontariamente accesso” ai due siti interessati, è stato detto. Una data per la visita degli ispettori è stata concordata (“molto presto”, ha aggiunto Grossi). La questione non riguarda direttamente il Jcpoa (su questo, le ispezioni dell’Aiea non sono mai state interrotte). L’Iran applica un “Protocollo addizionale” che permette all’Aiea ispezioni ulteriori: ma in gennaio si era vista negare l’accesso per verifiche in due siti dove sarebbero state condotte nei primi anni Duemila attività di conversione dell’uranio e test su esplosivi che potrebbero alludere a attività belliche: dubbi che l’Aiea chiede di chiarire dopo aver ricevuto informazioni da Israele (sulla base, pare, di documenti che i servizi israeliani erano riusciti a trafugare dall’Iran). Il fatto che le illazioni siano arrivate da Israele aveva provocato le rimostranze iraniane. Durante la sua visita, Grossi ha precisato che l’Aiea non vuole “politicizzare” la questione. Il comunicato congiunto afferma che «sulla base delle sue informazioni, l’Aiea non ha ulteriori richieste di accesso» con l’Iran: la questione sembra chiusa.

La linea del dialogo dunque tiene – per ora. Ma è precaria: in attesa che gli europei facciano funzionare i canali commerciali con l’Iran, che la cooperazione prevalga sulle provocazioni. In attesa, soprattutto, delle elezioni presidenziali statunitensi: di sapere se alla Casa Bianca siederà il democratico Joe Biden, che promette di riportare gli Stati uniti nell’accordo nucleare con l’Iran, o il presidente Trump che continuerà a perseguire la sua “massima pressione”.

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