Namibia Archivi - OGzero https://ogzero.org/tag/namibia/ geopolitica etc Mon, 16 Jan 2023 15:28:45 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.4.6 Litio, legno e… tamponare l’emorragia africana https://ogzero.org/litio-legno-e-tamponare-lemorragia-africana/ Mon, 16 Jan 2023 12:46:24 +0000 https://ogzero.org/?p=10094 La Svezia ha scoperto l’11 gennaio a Kiruna quello che sembra uno dei più significativi giacimenti di terre rare, valutato in circa un milione di tonnellate di ossidi; sicuramente la più grande miniera europea di metalli strategici per la transizione ecologica e digitale. Ma ci vorranno almeno una dozzina di anni prima che si possa […]

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La Svezia ha scoperto l’11 gennaio a Kiruna quello che sembra uno dei più significativi giacimenti di terre rare, valutato in circa un milione di tonnellate di ossidi; sicuramente la più grande miniera europea di metalli strategici per la transizione ecologica e digitale. Ma ci vorranno almeno una dozzina di anni prima che si possa procedere all’estrazione. Quindi è necessario nel frattempo approvvigionarsi altrove, magari continuando a saccheggiare l’Africa.
Il 21 dicembre 2022 il governo di Harare ha adottato il decreto “Base Minerals Export Control” forse con l’obiettivo di imporre restrizioni all’esportazione del litio grezzo; apparentemente è una disposizione volta a imporre alle potenze straniere – in un momento di estremo bisogno di materia prima – di impiantare stabilimenti di lavorazione in territorio africano, prima di portarlo in Occidente. Specifichiamo i porti di destinazione, perché una nota di Reuters, ripresa da “GreenReport” ha segnalato la deroga nei confronti di tre importanti compagnie minerarie cinesi che hanno investito 678 milioni di dollari nel 2022.

E poi c’è l’emorragia del contrabbando da cui ha preso le mosse questo informatissimo articolo di Angelo Ferrari, che in un unico flusso di minerali con numero atomico compreso tra 51 e 71 lega nel discorso l’intera Africa australe, ma poi assumendo come criterio i meccanismi di saccheggio del continente raggiunge il mercato dell’ammoniaca autoctona del Maghreb, attraverso il legno grezzo rapinato dai cinesi al Congo. In questo Angelo è affiancato da Massimo Zaurrini nel breve podcast inserito dove, partendo dalla travagliata regione in cui il 15 gennaio le bombe hanno risvegliato per un giorno le coscienze mondiali, si legano facilmente scontri, tensioni e milizie agli interessi minerari.

OGzero


Le arterie pulsanti dell’Africa

Lo Zimbabwe ha vietato l’esportazione del litio grezzo. Un materiale preziosissimo utilizzato per la fabbricazione delle batterie. Senza il litio è impossibile pensare a un futuro di energie rinnovabili e per l’auto elettrica su vasta scala. La decisione dello Zimbabwe può essere storica e diventare punto di riferimento anche per altri paesi africani ricchi di materie prime e terre rare. Il paese dell’Africa australe intende avviare con questa decisione una propria industria di trasformazione.
Le materie prime vengono esportate grezze per poi essere trasformate altrove. Inoltre la decisione dello Zimbabwe vuole mettere un freno ai minatori “artigianali” che lo estraggono più o meno illegalmente e poi lo esportano all’estero. Secondo le stime fatte dal governo tutto ciò costa 1,7 miliardi di mancati guadagni a causa del contrabbando in Sudafrica e negli Emirati Arabi Uniti. A trarne maggiore beneficio, dunque, sono le multinazionali del settore e in particolare quelle cinesi che ne hanno praticamente il monopolio. Se questa scommessa avrà successo, molti consigli di amministrazione delle multinazionali non dormono sonni tranquilli, ma soprattutto i governi africani potranno cominciare a pensare a uno sviluppo dell’industria mineraria non più sbilanciata verso l’esterno, tesa piuttosto ad avviare processi di trasformazione nei paesi di estrazione.

I preziosi dello Zimbabwe: oro, diamanti e… litio

Per Harare il litio è una risorsa enorme: lo Zimbabwe è il terzo produttore africano e detiene le più grandi riserve di minerale del continente che, nei calcoli del governo, dovrebbero essere sufficienti per soddisfare un quinto del fabbisogno mondiale. Il paese poi si spinge ancora più in là: gli operatori minerari che operano nel paese dovranno pagare alcune delle royalties in metallo raffinato anziché in denaro contante. È lo stesso presidente dello Zimbabwe, Emmerson Mnangagwa, ad annunciarlo attraverso un articolo pubblicato del “Sunday Mail”; il paese, infatti, ha abbondanti riserve di minerali come l’oro e i metalli del gruppo del platino (Pgm), ma i problemi di approvvigionamento energetico, la mancanza di industrie ausiliarie per supportare l’estrazione mineraria e le fluttuazioni valutarie rendono complicato tranne profitto dal boom del mercato. L’iniziativa, dunque, riguarda quattro principali minerali estratti nel paese: oro, diamanti, Pgm e litio.
L’obiettivo è quello di costruire una riserva nazionale di metalli preziosi e “riserve critiche” a beneficio della popolazione attuale e delle generazioni future. Il presidente scrive così sul “Sunday Mail”:

«Non possiamo, come governo attuale e come generazione attuale, gestire risorse limitate in modo dissoluto, senza alcun riguardo per le generazioni a venire».

Se tutto ciò diventerà realtà, potrà rappresentare un cambio di paradigma per l’intero continente. Quindi le compagnie che operano nel settore, come le sudafricane Impala Platinum e Anglo American Platinum, dovranno adeguarsi così come quelle cinesi che hanno il monopolio del litio.
Le restrizioni imposte dallo Zimbabwe non riguarderanno, con molta probabilità, le miniere a livello industriale perché dovrebbero esportare solo materiale trattato, un “concentrato di litio”. Miniere, però, che sono ancora in fase di realizzazione, dato che l’unica importante produttrice di litio è quella di Bikita.

E la Namibia apre all’UE: uranio, diamanti e… litio

Sono anche altri i paesi, sempre rimanendo nell’Africa australe, che stanno lanciando timidi segnali di volersi svincolare dallo sfruttamento selvaggio delle risorse. La Namibia ha infatti interrotto le operazioni di esplorazione dell’uranio affidate dal 2019 a One Uranium, sussidiaria dell’agenzia statale russa per l’energia atomica Rosatom, dicendosi preoccupata per la potenziale contaminazione delle acque sotterranee. La One Uranium, infatti, non è riuscita a dimostrare che il suo metodo estrattivo non causa inquinamento.

La Namibia poi ha ambizioni anche in altri settori minerari; l’Europa sta cercando partner per lo sfruttamento delle terre rare in Africa, finora detenuto dalla Cina. In questo quadro si inserisce l’accordo concluso tra la Namibia e l’Unione europea per la vendita delle terre rare, minerali essenziali per lo sviluppo del settore delle energie rinnovabili come le turbine eoliche e le batterie delle auto elettriche. Windhoek, capitale della Namibia, sta sviluppando con la canadese NCM un progetto per lo sfruttamento e la trasformazione del disprosio e del terbio. Più in generale, il paese dell’Africa meridionale intende posizionarsi come attore globale nella transizione verso le energie verdi.
Mentre la Cina detiene il monopolio virtuale della produzione di terre rare nel mondo, molti paesi sono alla ricerca di alternative (e la Svezia ha annunciato l’11 gennaio la scoperta di imponenti giacimenti di terre rare, ma non in tempi brevi). Per gli europei il progetto Lofdal, attualmente in fase di sviluppo da parte di un’azienda canadese, rappresenta un serio vantaggio. La miniera potrebbe produrre negli anni a venire più di cento tonnellate di disprosio e 17 tonnellate di terbio, due metalli usati nei magneti per le turbine eoliche e le batterie delle auto. La concorrenza in questo settore è molto forte: infatti anche il Giappone è in corsa per acquisire parte della produzione.
Windhoek desidera che la lavorazione industriale avvenga in loco e vede nello sviluppo di questa miniera un’opportunità per diversificare un settore minerario che sta guadagnando slancio.
Oltre ai diamanti e all’uranio, già operativi, il paese si sta posizionando anche come attore nel mercato del litio. Più in generale, la Namibia spera di diventare un hub per fornire idrogeno verde privo di emissioni di carbonio all’Europa. Un grande progetto misto, eolico e solare, mira a produrre idrogeno verde che verrebbe poi esportato in Europa. La Germania ha collaborato con diversi paesi africani per sviluppare un atlante del potenziale idrogeno e stanziato 45,7 milioni di dollari per la Strategia nazionale di sviluppo dell’idrogeno verde proprio in Namibia. L’idrogeno verde, secondo gli esperti giocherà un ruolo cruciale nella futura economia europea decarbonizzata.

Infrastrutture, il problema di fondo

Ma tutto dipenderà dalle infrastrutture che verranno realizzate per il trasporto. Questo è uno dei nodi. Anche per questo l’Europa sta cercando di sviluppare partenariati con i paesi della costa sud del Mediterraneo, in particolare il Marocco e in seconda battuta la Tunisia. Inoltre qualsiasi strategia per sviluppare le esportazioni di idrogeno – come scrive Massimo Zaurrini su “Africa e Affari” – dovrà tenere conto dell’uso interno africano e delle ambizioni di politica industriale di importanti attori del continente.

“Terre rare nella polveriera Africa”.

Fertilizzanti, ammoniaca e tecnologie dell’idrogeno

Il Marocco, uno dei principali esportatori di fertilizzanti, prevede di sostituire le importazioni di ammoniaca convenzionale (utilizzata per la preparazione di questi prodotti) con ammoniaca verde nazionale, grazie a un progetto che dovrebbe vedere la luce a breve che immagina, appunto, l’impiego di idrogeno pulito anziché a base di idrocarburi. Analogamente, l’Egitto sta investendo in un impianto per la produzione di un milione di tonnellate di ammoniaca verde all’anno. Il Sudafrica ha lanciato una strategia finalizzata non solo alla produzione di idrogeno, ma anche alla produzione nazionale di tecnologie e prodotti legati all’idrogeno.

L’inutile sacrificio di ettari di legno congolese

Sull’Africa, dunque, aleggia una nuova aria? Forse, ma le regole si possono aggirare con facilità. In Congo Brazzaville, per esempio, è vietata l’esportazione dei tronchi interi, ma solo di prodotti semilavorati, proprio per favorire l’industria locale. Un’iniziativa che, però, non ha avuto grande successo, o l’ha avuto solo in parte, perché le aziende cinesi del settore che operano nel paese, sono riuscite ad aggirare il divieto attraverso “oculate strategie di convincimento” delle autorità. In una parola: corruzione. Dal porto di Pointe Noire, sull’oceano Atlantico, continuano a partire i tronchi interi e non i semilavorati. La Cina sia nella Repubblica del Congo sia in Gabon – insieme rappresentano circa il 60% dell’area del Bacino del Congo – taglia in maniera indiscriminata e, soprattutto, importa legno grezzo, non i semilavorati come vorrebbero le regole. Tutto ciò oltre a distruggere milioni di ettari di foreste, non porta alcun beneficio alla popolazione, perché viene saltato un passaggio fondamentale, quello che crea lavoro, perché i semilavorati vanno elaborati nei paesi produttori. Dopo quattro anni di investigazioni sotto copertura, terminate nel 2019, la ong britannica, Environmental Investigation Agency (Eia), ha evidenziato come il legname africano tagliato illegalmente sia stato poi trasformato in prodotti che venivano venduti come “eco-frendly” negli Stati Uniti.

Fatta la legge, trovato l’inganno

Tutto ciò è imputabile a un gruppo cinese, il Djia Group che controlla oltre 1,5 milioni di ettari di foresta del Gabon e della Repubblica del Congo. Ettari di foresta ottenuti attraverso pratiche corruttive. Il gruppo cinese, attraverso queste elargizioni di denaro, ha potuto sovrasfruttare le concessioni, esportando tronchi interi, per un valore di 80 milioni di dollari in violazione della legge nazionale in un periodo di quattro anni e avrebbe eluso le tasse per diversi milioni di dollari in ogni anno di attività. Quei tronchi “illegali”, poi, potrebbero essere finiti anche in Europa, attraverso i semilavorati, visto che la Cina è il maggior fornitore di legno dell’Europa. Insomma, la morale è: una volta fatta la legge si può comodamente aggirarla proprio grazie agli stessi legislatori a cui sono state “regalate” valigette stracolme di denaro.

Il solito serbatoio che non diventa mercato

Per tornare allo Zimbabwe, il governo di Harare, con le restrizioni che ha imposto, intende favorire aziende locali per la trasformazione in loco del minerale così che possa essere utilizzato direttamente dall’industria dei veicoli elettrici. Per decenni, infatti, così come altri stati africani ricchi di minerali e risorse naturali, lo Zimbabwe ha permesso che le sue risorse fossero estratte dalle multinazionali, senza sviluppare industrie locali che potessero lavorarle e creare posti di lavoro dignitosi. Vedremo se questa iniziativa avrà il successo sperato o non si troverà il modo, anche qui, di aggirare i divieti e le restrizioni.

L’Africa, più in generale, risulta essere un grande serbatoio di risorse energetiche ma non ancora un mercato “interessante” per chi vende energia. Gli investimenti in infrastrutture non sono ancora adeguati e molta parte del continente rimane al buio. Ecco perché occorre trovare un bilanciamento: il continente è caratterizzato da un’ampia disponibilità di risorse minerarie, ma anche di potenziali risorse verdi, idroelettrico per i grandi fiumi, fotovoltaico nelle ampie zone desertiche, eolico e anche geotermico. Se ben valorizzata politicamente, la grande disponibilità di risorse rinnovabili può mitigare la competizione tra l’esigenza di vendere energia e quella di usarla per il proprio sviluppo. È una strada da percorrere; il divario di competenze tecniche tra occidente e paesi africani sta diventando progressivamente meno esclusivo. Per queste ragioni i paesi africani, come sta cercando di fare la Namibia, cercheranno dei partner con cui stabilire un rapporto più equo.

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Competizione africana tra Usa e Cina sul litio https://ogzero.org/competizione-africana-tra-usa-e-cina-sul-litio/ Sat, 07 Jan 2023 12:23:14 +0000 https://ogzero.org/?p=10014 Competizione africana tra Usa e Cina sul litio La corsa al litio nascosto nel suolo delle nazioni-minerarie africane prosegue, nonostante alcuni governi cerchino di “proteggere” l’emorragia di terre rare; certi giacimenti sono già controllati e di proprietà cinese. Forse su imbeccata americana, oppure invece solo innescando meccanismi di confronto tra poteri interni ai paesi, si […]

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Competizione africana tra Usa e Cina sul litio

La corsa al litio nascosto nel suolo delle nazioni-minerarie africane prosegue, nonostante alcuni governi cerchino di “proteggere” l’emorragia di terre rare; certi giacimenti sono già controllati e di proprietà cinese. Forse su imbeccata americana, oppure invece solo innescando meccanismi di confronto tra poteri interni ai paesi, si è operato in modo da imbrigliare l’esportazione per aggirare il monopolio che stavano costituendo i possedimenti stranieri dei minerali più ricercati. Una corsa che ha accelerato negli ultimi mesi la sua corsa, perché indispensabili nelle lavorazioni delle nuove tecnologie e dei prodotti collegati al superamento dell’energia fossile. Da un lato il bell’articolo che Marco dell’Aguzzo ha scritto per “StartMag” il 2 gennaio si sofferma sull’episodio dell’export ban del litio adottato dal governo dello Zimbabwe, con la anodina e conseguente decisione di Pechino di aprire raffinerie di litio in loco (ma episodi di precedenti cantieri lasciano immaginare che anche le maestranze saranno importate), anche se si ha notizia di una deroga al bando delle esportazioni nel caso di investimenti annosi – e dunque le miniere cinesi risulterebbero in gran parte esentate; dall’altro Giuseppe Gagliano il 6 gennaio ha ripreso l’argomento sempre su “StartMag”, approfondendo gli aspetti collegati al boom della richiesta di litio che ha fatto lievitare i prezzi di 10 volte in 2 anni, con gli episodi di corruzione (in particolare in Namibia) che hanno interessato i governi di quel paese. Abbiamo chiesto di riprendere i due articoli (le immagini non appartengono agli articoli originali) perché completano il quadro che OGzero ha realizzato nel dossier sulle armi da cui sta prendendo forma un libro dedicato al traffico nel 2022 come paradigma delle modalità dello spaccio di armi, mettendo in relazione quale compra-vendita di macchinari bellici si può riscontrare a fronte del frenetico estrattivismo in terra africana innescato dalla guerra in Ucraina e dalla conseguente diversificazione energetica.

 


2 gennaio 2023,

di Marco dell’Aguzzo

Export ban del litio in Zimbabwe

Il 20 dicembre il ministro delle Miniere dello Zimbabwe, nell’Africa meridionale, ha annunciato un divieto di esportazione di litio grezzo, un metallo utilizzato per le batterie dei veicoli elettrici.
Le esportazioni di minerali valgono circa il 60 per cento delle entrate zimbabwesi legate alle esportazioni; il settore minerario, invece, contribuisce al prodotto interno lordo per il 16 per cento.

Harare punta a sfruttare le materie prime di cui dispone per stimolare la crescita, sul territorio nazionale, di una filiera industriale completa, che non si limiti cioè all’estrazione del litio ma comprenda anche la sua raffinazione e la produzione di batterie, le due attività a maggior valore aggiunto.
Lo Zimbabwe possiede i depositi di litio più grandi di tutta l’Africa. La miniera di Bikita, la più importante del paese, contiene riserve per 10,8 milioni di tonnellate.

Dopo che lo Zimbabwe ha comunicato la decisione le aziende cinesi che hanno investito nella nazione dovranno costruirvi anche degli impianti di raffinazione del materiale.

La miniera di litio di Bikita, in Zimbabwe.

Quali sono gli interessi coinvolti?

È uno sviluppo rilevante, perché il litio è un metallo critico per la transizione energetica, essendo fondamentale per la produzione delle batterie dei veicoli elettrici. Lo Zimbabwe ne è il sesto maggiore produttore al mondo, e si pensa che possieda i depositi inesplorati più grandi di tutta l’Africa. La Cina, invece, vale da sola circa il 60 per cento della capacità di raffinazione globale.

Gli intenti dello Zimbabwe (e altre nazioni)

Attraverso il ban all’esportazione del litio grezzo, lo Zimbabwe punta a sfruttare le materie prime di cui dispone per stimolare la crescita sul proprio territorio di una filiera industriale completa: ossia di una supply chain che non si limiti all’estrazione del metallo, ma comprenda anche la sua raffinazione e la produzione di batterie, le due attività a maggior valore aggiunto.

La mossa dello Zimbabwe non è unica: anche l’Indonesia ha fatto grossomodo la stessa cosa, e con gli stessi obiettivi, con l’esportazione di nichel (un altro metallo critico per le batterie) e più recentemente di allumina (un minerale necessario alla produzione di acciaio). È un approccio che i critici hanno definito “nazionalismo delle risorse”.

Cosa comporta per gli interessi cinesi…

Le aziende cinesi che operano nell’industria zimbabwese del litio, e che in passato hanno effettuato acquisizioni di asset dal valore complessivo di miliardi di dollari, hanno due opzioni per continuare a esportare il metallo: aprire degli stabilimenti di raffinazione nel paese, oppure ottenere dal governo l’autorizzazione all’export della materia grezza per casi eccezionali.

 «L’apertura di raffinerie in Zimbabwe avrà un costo di centinaia di milioni di dollari e richiederà un periodo di due-tre anni tra costruzione e messa in servizio» (Chris Berry, presidente della società di consulenza sulle commodities House Mountain Partners, al quotidiano cinese “South China Morning Post).

… e per i prezzi…

Berry ha aggiunto che se altri paesi dovessero seguire l’esempio dello Zimbabwe, i prezzi del litio e degli altri metalli per la transizione energetica, come il cobalto, potrebbero aumentare. Negli ultimi due anni quelli del litio sono già cresciuti di circa il 1100 per cento a causa dello squilibrio tra offerta e domanda. In Cina (il mercato delle auto elettriche più grande al mondo) il prezzo spot del carbonato di litio ha raggiunto il valore record di 84.000 dollari a tonnellata lo scorso novembre.

… e per i mercati

Secondo Lauren Johnston, che si occupa dei rapporti tra Cina e Africa all’Istituto sudafricano di affari internazionali, «se un numero maggiore di paesi africani vieterà l’esportazione di minerali chiave per l’energia rinnovabili, ma non sono ancora pronti per lavorarli in patria a causa di problemi di governance, infrastrutture, energia e manodopera, questo potrebbe ostacolare lo sviluppo delle rinnovabili a livello globale».

La reazione cinese

L’anno scorso tre società estrattive cinesi – Huayou Cobalt, Sinomine e Chengxin Lithium – hanno acquisito progetti sul litio in Zimbabwe per un valore complessivo di 679 milioni di dollari. Due di queste – ossia Huayou Cobalt e Chengxin Lithium – stanno già lavorando allo sviluppo di stabilimenti di lavorazione, e dunque verranno esentate dal divieto di esportazione.

Huayou Cobalt, in particolare, ha acquisito la miniera di Arcadia, dove si estrae litio dalle rocce, dall’azienda australiana Prospect Resources per 422 milioni di dollari. Il governo zimbabwese aveva imposto a Huayou Cobalt la condizione che il minerale estratto dovesse venire lavorato nel paese per produrre batterie.

A settembre la compagnia cinese aveva detto al “South China Morning Post” che stava investendo 300 milioni nello sviluppo del sito, con l’obiettivo di aumentare la produzione di materiali per l’industria dell’auto elettrica. Aveva inoltre assicurato che non avrebbe esportato litio grezzo.

Chengxin Lithium, invece, ha speso 77 milioni per l’acquisizione dei diritti minerari nel progetto Sabi Star, nello Zimbabwe orientale, che contiene giacimenti di litio e di tantalio (un metallo utilizzato nella produzione di componentistica elettronica) perlopiù inesplorati. Ha destinato 130 milioni all’apertura di una raffineria di litio.

La Competizione USA-Cina sui metalli africani

A dicembre gli Stati Uniti hanno siglato un memorandum d’intesa con la Repubblica democratica del Congo e con lo Zambia per lo sviluppo di una “catena del valore dei veicoli elettrici”: i due paesi ospitano importanti giacimenti importanti di cobalto.

In occasione della firma del documento, il segretario di Stato Antony Blinken disse che Washington «esplorerà meccanismi di finanziamento e di sostegno agli investimenti nelle catene del valore africane dei veicoli elettrici».

Le aziende cinesi possiedono gran parte delle miniere di cobalto in Congo, che vale oltre il 70 per cento della produzione mondiale di questo metallo. Gli Stati Uniti, dunque, potrebbero voler cercare di contrastare l’enorme influenza di Pechino sul mercato delle materie prime per la transizione energetica.

Il Kivu: un non-luogo


Perché il prezzo del litio schizza in alto

6 gennaio 2023,

di Giuseppe Gagliano

L’aumento della domanda di litio manterrà alti i prezzi

Il prezzo del litio, ingrediente chiave nelle batterie dei veicoli elettrici, è salito del 1000% dal 2020 a 82.000 dollari per tonnellata a dicembre. L’aumento della domanda, man mano che la produzione di veicoli elettrici si espande, manterrà i prezzi alti.

Ci sarà carenza di litio?

Gli esperti del settore prevedono una carenza mentre le aziende occidentali e cinesi combattono con le unghie e con i denti per avere più risorse. Alla conferenza annuale Mines and Money a Londra il 29 novembre è stata sottolineata la necessità di dare priorità ai collegamenti della catena di approvvigionamento ai nuovi depositi più lo sviluppo della capacità produttiva intermedia.

Altrimenti, hanno avvertito gli esperti, la desiderata transizione energetica verde di molti paesi verso il trasporto a emissioni zero non sarebbe realizzabile entro il 2030.

Il ruolo della Cina e della Namibia

Mentre la Cina domina la produzione di batterie agli ioni di litio utilizzate nei veicoli elettrici, per le quali è il mercato più grande, rappresenta solo una piccola quantità di produzione mineraria di litio.

Infatti la Namibia e gli altri paesi africani con risorse di litio finora non sfruttate e altri “metalli per le batterie” – tra cui cobalto, grafite e nichel – sono stati presi di mira da aziende occidentali e cinesi alla disperata ricerca di nuove fonti di approvvigionamento.

Ad esempio la Lepidico australiana sta sviluppando una miniera di litio da 63 milioni di dollari e un impianto di lavorazione nei vecchi giacimenti di Helikon e Rubikon vicino a Karibib nella regione centrale di Erongo;

l’impianto in loco realizzerà concentrato per l’esportazione in un nuovo impianto di conversione chimica di 203 milioni di dollari ad Abu Dhabi. L’azienda prevede un tasso di rendimento interno annuo del 42% in 15 anni.

La Namibia indaga sulla Cina

Nel frattempo, le autorità namibiane stanno indagando sulle circostanze in cui un’azienda cinese finora sconosciuta, Xinfeng Investments, è riuscita ad acquisire una licenza al litio. La Commissione anticorruzione indipendente sta indagando sulle accuse secondo cui i funzionari del ministero delle Miniere e dell’energia (MME) hanno impropriamente facilitato l’acquisizione da parte di 50 milioni di dollari della Namibia (2,3 milioni di dollari) da parte di Xinfeng dei diritti di esplorazione e esportazione del litio vicino a Omaruru nel nord-ovest di Erongo.

Ad agosto all’azienda cinese è stata concessa una licenza mineraria fino al 2042 per metalli di base e gli addetti ai lavori affermano che i funzionari MME sono ampiamente sospettati di utilizzare i loro parenti e associati per richiedere diritti di esplorazione in aree con depositi minerari di alto valore, specialmente quando c’è interesse da parte di investitori cinesi e altri investitori stranieri.

Nel frattempo, Xinfeng ha attirato polemiche tentando presumibilmente di esportare grandi volumi di minerale di litio – tra 54.000 e 135.000 tonnellate – come “campioni di prova” in Cina senza test locali o elaborazione di prova.

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Dalla Perestrojka al Commonwealth in Africa https://ogzero.org/dalla-perestrojka-al-commonwealth-in-africa/ Sat, 17 Sep 2022 23:23:21 +0000 https://ogzero.org/?p=8921 Archiviando epoche: gli imperialismi seppelliscano gli imperi Parlando con Angelo Ferrari dei due suoi articoli scritti ultimamente per Agi che qui riproponiamo ci siamo convinti che seguendo queste tracce si possono avanzare ipotesi: se non tutte saranno verificabili, aiutano comunque nell’individuazione e valutazione di possibili strategie globali in ambito africano. Senz’altro queste comparazioni tra caratteristiche […]

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Archiviando epoche: gli imperialismi seppelliscano gli imperi

Parlando con Angelo Ferrari dei due suoi articoli scritti ultimamente per Agi che qui riproponiamo ci siamo convinti che seguendo queste tracce si possono avanzare ipotesi: se non tutte saranno verificabili, aiutano comunque nell’individuazione e valutazione di possibili strategie globali in ambito africano. Senz’altro queste comparazioni tra caratteristiche di periodi storici rendono conto di un passaggio epocale, scandito simbolicamente dalla morte di due ultranovantenni protagonisti della politica degli anni Ottanta: Michail Sergeevič Gorbačëv ha incarnato la fine della Guerra Fredda – con tutto ciò che la sua archiviazione ha significato per la spartizione di tasselli sullo scacchiere internazionale che facevano rigidamente riferimento all’una o all’altra grande potenza. La contrapposizione per blocchi è apparentemente un modello di rapporti tra grandi potenze che torna a riconfigurarsi, e di cui dovremmo analizzare cosa può riproporsi e in quali modalità, considerando anche il progresso delle comunità da depredare a trent’anni dalla caduta del muro e dalla trasformazione dei regimi marxisti-leninisti sostenuti dall’Urss in Africa.
Elisabeth Windsor-Mountbatten è stata la più rigida conservatrice dell’impero britannico così come le era stato consegnato, opprimendo con brutalità (fin dall’inizio soffocando le richieste di emancipazione dei Mau-Mau in Kenya); la spasmodica attenzione dei media francesi per le sue esequie è una buona cartina al tornasole, perché evidenzia la sensazione dei regicidi francesi che i destini delle due ex potenze coloniali siano strettamente correlati, angosciando gli ancora tanti nostalgici della grandeur, ma anche galvanizzando gli anticolonialisti come “Mediapart”, che preconizzano che, dopo il bagno di folla ebete dei funerali «Con la morte della regina Elisabetta II, il velo di oblio o di cecità intenzionale che ha coperto la mente pubblica britannica sul suo passato imperiale e coloniale scomparirà. I dannati della memoria si alzeranno in piedi e parleranno». E dopo il processo indipendentista a cavallo tra anni Cinquanta e Sessanta – che ha richiesto la trasformazione dell’approccio e dei processi di occupazione di territori, il loro saccheggio e il condizionamento economico –, ora non è l’emancipazione delle comunità autoctone ma la ripresa dell’espansione di quel colonialismo russo nel Continente nero (che i processi di apertura di Nikita Sergeevič Chruščëv prima e poi di Gorbačëv avevano trasformato, ridimensionandolo) a premere sulle acciaccate potenze coloniali europee.
E di nuovo l’impegno di Mosca sorge nel momento in cui la tensione ha il sopravvento sul multilateralismo. Queste pulsioni, assimilabili alle esigenze che spingono la Realpolitik turca a espandere la propria sfera di influenza su alcuni angoli africani, aggiungono un elemento che configura il neoimperialismo, echeggiando altri momenti epocali in cui si è assistito a conflitti di blocchi contrapposti: neo-ottomanesimo e neozarismo possono sperare che la divisione europea ridimensioni l’egemonia occidentale, approfittando di una nuova Guerra Fredda da cui trae linfa l’espansionismo autocratico nella realtà africana.
Fin qui OGzero, ma questo sproloquio attinge alle suggestioni e ai dati esibiti da Angelo Ferrari nei suoi due originali obituary. E non a caso iniziamo dallo studio sul rilancio del Commonwealth (l’espressione imperiale britannica rivale di quella zarista e dei sultani) che paradossalmente ottiene nuovo slancio dalla morte della simbolica depositaria per 70 anni della potenza inglese, dacché era già sovrana – ingombrante figura difficile da adeguare alle istanze indipendentiste dell’impero senza modificarne l’icona (interessante come nell’articolo di Angelo non venga citata, ma aleggi il venir meno di una prassi pluridecennale caratteristica del suo lungo regno) – quando gli stati decolonizzati entrarono nell’organizzazione grazie alla Dichiarazione di Londra che riformava il vecchio Commonwealth con un compromesso costituzionale, proprio in quegli stessi primi anni Sessanta che costrinsero alla apertura con la prima parziale sospensione della Guerra Fredda.

Ora il Commonwealth rappresenta una valida alternativa per la cooperazione economica tendente a 2 trilioni di scambi. Per gli altri c’è l’“amicizia” predona della Wagner, che non chiede conto alle leadership cresciute militarmente a Rostov (o disposte a scommettere di restituire i prestiti ai cravattari cinesi), di certo non è l’epilogo immaginato dalla perestrojka africana.


Il Commonwealth sempre più africano

Londra sta intensificando la sua presenza nel continente africano attraverso rapporti bilaterali, vuole – è stata la promessa fatta da BoJo nell’ultimo vertice afro-britannico a Londra il 20 gennaio 2020 – incrementare i suoi investimenti ed espandere il suo mercato. Vuole diventare il maggior investitore sul continente africano e superare gli altri membri del G7 e stiamo parlando di Stati Uniti, Canada, Francia, Germania, Giappone e mettiamoci anche l’Italia.

Carta d’identità dell’organizzazione

Il Commonwealth è il più grande gruppo di nazioni che non coinvolge la Russia o la Cina e gli conferisce, sono parole della Truss, «un peso crescente sulla scena mondiale». Quanto può valere entrare nell’ormai grande famiglia? Secondo Patricia Scotland, segretario generale dell’organizzazione nata sulle ceneri dell’impero britannico e andata ormai oltre le ex colonie di Londra, già oggi il commercio tra i paesi membri vale 700 miliardi di dollari. Ma l’obiettivo, anche guardando gli ultimi ingressi, Togo e Gabon, è di superare i 2 trilioni di dollari entro il 2030.
Il Commonwealth è un’organizzazione che conta 56 nazioni per un totale di 2,5 miliardi di abitanti, con un Prodotto interno lordo che si prevede salirà a 19,5 trilioni di dollari nei prossimi cinque anni.


Il Gabon, che si affaccia sul Golfo di Guinea, ultimo arrivato nell’organizzazione è un paese con una superficie boscosa molto rilevante ed è destinato a svolgere un ruolo importante nel commercio dei crediti di carbonio per combattere il cambiamento climatico. E questo, per Londra, è un vantaggio non da poco.

Strategia in chiave anticinese

Londra vuole aprire le sue porte all’Africa e il Commonwealth (oggi conta 21 paesi africani: Sudafrica, Ghana, Nigeria, Sierra Leone, Uganda, Kenya, Malawi, Tanzania, Zambia, Gambia, Botswana, Lesotho, eSwatini, Seychelles, Namibia, Camerun, Mozambico, Nauru, Ruanda, Gabon, Togo) potrebbe diventare la chiave di volta. Ma non solo. Nelle strategie di Londra rientra anche il contrasto alla Cina e in Africa la sfida sembra quasi improba. Ciò era negli intenti dell’ex premier Boris Johnson, ma ribaditi dall’attuale prima ministra, Liz Truss, che è stata molto chiara.

Il Regno Unito deve aumentare l’interscambio commerciale con i paesi del Commonwealth per contrastare la «grave minaccia della Cina ai nostri valori e al nostro modo di vivere, e firmare accordi commerciali con procedure accelerate con gli stati così da aiutare il Regno Unito e altre democrazie a vincere la lotta contro gli stati autoritari».

Truss ritiene che legami economici più stretti aiuteranno ad annullare lo schema della Belt Road Initiative della Cina in base alla quale Pechino ha finanziato progetti in dozzine di paesi in via di sviluppo che si sono rivelati come una “coercizione economica”.

Per allargare il mercato cade la pregiudiziale democratica

Tutti vogliono entrare nel Commonwealth e Londra apre le porte a chiunque, rinunciando anche ai principi fondativi dell’organizzazione delle ex colonie britanniche. Non guarda se è un paese è democratico, se rispetta i diritti fondamentali delle persone. Tutto questo, dopo la Brexit, non conta. Londra sembra avere mani libere, tanto da accettare nell’organizzazione membri che non hanno legami storici con il Regno Unito. Contano gli investimenti e le potenzialità di mercato che offre chi entra nell’organizzazione.

«In passato alcuni paesi africani non avevano relazioni con i paesi del Pacifico o con i paesi anglofoni», ha spiegato il ministro degli Esteri del Gabon – ex colonia francese – Michael Moussa-Adamo, ma ora «ci stiamo allargando e stiamo ottenendo nuovi partner internazionali, rafforzando la nostra economia».

Dinastie africane nell’organizzazione della dinastia britannica

Dati gli obiettivi che si prefigge è evidente che qualsiasi stato è ben accetto. «Il Commonwealth – ha spiegato Scotland – ha iniziato con otto nazioni nel 1949, è cresciuta fino a raggiungere 56 nazioni. La nostra continua crescita, al di là della nostra storia, riflette i vantaggi dell’appartenenza al Commonwealth e la forza della nostra nazione. Sono entusiasta di vedere questi vivaci paesi unirsi alla famiglia e dedicarsi ai valori e alle aspirazioni della nostra Carta» (“360Mozambique”).

È del tutto evidente che la “Carta”, oggi, conta ben poco. Se l’organizzazione dovesse tenere fede ai suoi principi non potrebbe accettare nelle sue file paesi come il Gabon e il Togo che non hanno nulla a che fare con una democrazia moderna.
Il Gabon più che uno stato è una monarchia governata da sempre dalla dinastia dei Bongo Ondimba, padre e figlio, stiamo parlando di oltre cinquant’anni di regno (però i Windsor sono avvezzi a questo tipo di regime, ma proprio il Gabon può rappresentare un ponte tra gli imperi, visto che era in quota sovietica fino al crollo del Pcus). E anche il Togo non è da meno: l’attuale presidente, Faure Gnassingbé detiene il potere dal 2005, ma lo ha ereditato dal padre che lo gestiva in maniera dittatoriale dal colpo di stato del 1967.
Ma anche il Ruanda, che ha ospitato l’ultimo vertice del Commonwealth a fine giugno 2022, non sarebbe un paese “idoneo”, perché nelle sue carceri sono ancora detenuti oppositori, giornalisti indipendenti e youtuber critici con le autorità ruandesi.

Centro congressi di Kigali, sede della convention del Commonwealth 2022

Paul Kagame è presidente del Ruanda dal 1994 quando entrò a Kigali da trionfatore e liberatore, ha modificato la Costituzione così da permettergli di governare il paese fino al 2034. Per non parlare di un altro membro del Commonwealth, il Camerun. Il paese è “guidato” dal 1982 da Paul Biya, ma se aggiungiamo i sette anni da primo ministro, 1975-1982, è al potere da 47 anni.


Le aree di interesse evidenziate dalle citazioni di paesi aderenti alla sfera britannica, poste a confronto con quelle evocate dal mondo sovietico africano, mostrano una vera e propria spartizione tra i due imperialismi che non sovrapponevano i domini. Le incursioni russe e turche in Sahel, Centrafrica e Corno d’Africa entrano in diretta concorrenza soprattutto con l’imperialismo francese, quello più debole e impreparato, perché ancora troppo fondato sull’occupazione militare, ambito in cui i contractor russi e i miliziani turchi sono più efficaci su quel terreno.


Con la fine dell’Urss cambiarono i giochi di potere in Africa… erano solo sospesi?

Cosa ha comportato la scomparsa dell’Urss e quali le conseguenze per chi deteneva il potere? I regimi alleati del blocco orientale, per esempio, furono costretti a riformarsi o cadere.
L’opera intrapresa da Michail Gorbačëv di riforma del sistema sovietico negli anni Ottanta e di disgelo delle relazioni internazionali, cambiando radicalmente la situazione internazionale, ha avuto ripercussioni ed effetti importanti anche per il continente africano. La scomparsa dell’Urss dallo scacchiere africano ha costretto i regimi alleati del blocco orientale a riformarsi o cadere. Nella prima categoria, Angola e Mozambico sono stati costretti a entrare in processi di democratizzazione che hanno posto fine alle guerre civili, prima Maputo e poi Luanda.

Superamento del colonialismo lusitano

Frelimo/Renamo

In Mozambico il sostegno dell’Unione Sovietica si è rivelato fondamentale per la sopravvivenza del paese negli anni Ottanta del secolo scorso. Le spinte anticoloniali portarono i movimenti indipendentisti a coalizzarsi nel movimento armato Frelimo (Fronte di Liberazione del Mozambico) e dopo dieci anni di guerriglia contro i coloni portoghesi, il paese ottiene l’indipendenza nel 1975. Iniziò una campagna di nazionalizzazione delle piantagioni e furono costruite scuole e ospedali per i contadini. Una rivoluzione di stampo sovietico. Il Frelimo sostenne le forze rivoluzionarie in Rhodesia e Sudafrica. I governi di questi paesi, appartenenti al blocco occidentale, risposero sostenendo i ribelli mozambicani della Renamo. Ne scaturì un’atroce guerra civile che terminò con gli accordi di pace di Roma del 1992 da cui nacque una nuova costituzione di stampo multipartitico. Il Frelimo, nelle elezioni libere tenute negli anni successivi si confermò sempre il primo partito del Mozambico.

Mpla/Unita

In Angola la situazione era abbastanza simile. Il Movimento per la liberazione dell’Angola, che lottò con determinazione contro i colonizzatori portoghesi, ottenendo l’indipendenza nel 1975, portò il paese nell’orbita sovietica e instaurò un regime totalitario. Di contro il blocco occidentale, per far valere i suoi interessi, sosteneva un gruppo di ribelli sotto il nome di Unione nazionale per l’indipendenza totale dell’Angola.
Da questo scontro iniziò una guerra civile durata oltre un ventennio al termine della quale vennero firmati gli accordi di pace che portarono alle prime elezioni nel 1992. Le ostilità, tuttavia, continuarono e terminarono solo dopo l’uccisione del leader dell’Unita, Jonas Savimbi, nel 2002. Il paese, dall’indipendenza è sempre stato governato dall’Mpla e l’Unita ha sempre svolto un ruolo di opposizione. Ma il padre della patria, Eduardo dos Santos, si è trasformato presto in un cleptocrate, governando il paese con pugno di ferro fino al 2017.

Il passaggio dalla geopolitica alla geoeconomia

In Mozambico e Angola i regimi, riformati, sono sopravvissuti, mentre in Etiopia, nel 1991, Menghistu, soprannominato il “Negus rosso”, viene estromesso dal potere.

Mandela/Mobutu

Proprio in quegli anni anche il Sudafrica è costretto a riformarsi ed è nel contesto della fine della Guerra Fredda che cade l’apartheid, che porta alle prime elezioni multirazziali del 1994 e la Namibia trova l’indipendenza. Anche gli interessi degli Stati Uniti per l’Africa cambiano di conseguenza, meno legati alla geopolitica e più all’economia. Il loro grande alleato nell’Africa centrale, Mobuto Sese Seko, dittatore dello Zaire, è costretto ad aprire il sistema politico e cedere, su pressione degli Stati Uniti, al multipartitismo. Soluzione che non porta alcun beneficio al paese, perché è sempre il dittatore che muove i fili, ma il paese crolla nel giro di pochi anni e si apre una fase di guerra permanente.

La perestroika africana

Benin, Congo, Mali, Niger…

Nel mondo francofono, sempre in quegli anni, soffia un vento di libertà. Era l’epoca delle Conferenze nazionali che avevano lo scopo di creare un clima democratico con la partecipazione di tutti. Il Benin fu il precursore nel 1990, il marxista Mathieu Keredoku fu sconfitto alle elezioni e si ritirò. Ma non andò così nella Repubblica del Congo, dove il presidente di allora, Denis Sassou Nguesso, continua a governare il paese. Fasi alterne vivono i paesi come il Mali, il Niger. Ma hanno una caratteristica comune: sono regimi poco democratici e accentratori del potere. La “perestrojka africana” che si poteva leggere tra le righe delle Conferenze nazionali non ha mai attecchito, anche se aveva suscitato molte speranze nelle popolazioni di questi paesi.

Rimane, tuttavia, il fatto che Gorbačëv si era adoperato per porre fine al mondo bipolare in cui l’Africa era alla mercè del gioco strategico di Washington e Mosca.

Secondo lo scrittore Vladimir Fedorovski, molto vicino all’ultimo leader sovietico, ai paesi africani mancherà il suo messaggio a favore di un mondo equilibrato: «Aveva un grande rispetto per il continente africano, che considerava il continente del futuro. Gorbačëv diceva che bisognava tener conto degli interessi delle diverse nazioni e trovare equilibri, e anche e forse essere prima di tutto africani. Sprecheremo somme da capogiro per la guerra, dimenticando che l’Africa è minacciata dalla carestia».

I primi a dimenticarsi delle parole di Gorbačëv sono stati proprio quei presidenti africani che si ispiravano all’Unione Sovietica. La Guerra Fredda non c’era più, ma le contrapposizioni rimangono e diventano sempre più complesse. Da una parte il mondo occidentale che cerca di frenare le aspirazioni di Mosca che, piano piano, sta rosicchiando pezzi di influenza occidentale. Il messaggio di Gorbačëv vale ancora oggi.

Dal 24 al 27 luglio, il ministro degli Esteri della Federazione russa, Sergej Lavrov, ha visitato quattro stati africani: Egitto, Repubblica del Congo, Uganda ed Etiopia. Non ha parlato di progetti o interventi. La sua missione era chiedere agli africani di schierarsi con la Russia contro l’Occidente, con un unico argomento: l’Occidente ha un passato coloniale e ha tuttora delle mire coloniali e imperiali.

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