Nagorno Karabakh Archivi - OGzero https://ogzero.org/tag/nagorno-karabakh/ geopolitica etc Tue, 10 Oct 2023 07:38:16 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.4.6 Il crogiolo caucasico tra i confini fittizi dei vincitori https://ogzero.org/il-crogiolo-caucasico-tra-i-confini-fittizi-dei-vincitori/ Mon, 09 Oct 2023 23:43:29 +0000 https://ogzero.org/?p=11677 Dopo il corridoio di Lachin, ora c’è quello di Meghri nel mirino e l’Iran non potrà limitarsi a non gradire l’aggressione turco-azera. L’Artsakh avrebbe dovuto essere un caso di indipendente convivenza di comunità cristiane e musulmane, altaici azeri turcofoni e indoeuropei armeni di ceppo greco-germanico; non è mai stata una esperienza realmente paritaria, perché – […]

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Dopo il corridoio di Lachin, ora c’è quello di Meghri nel mirino e l’Iran non potrà limitarsi a non gradire l’aggressione turco-azera. L’Artsakh avrebbe dovuto essere un caso di indipendente convivenza di comunità cristiane e musulmane, altaici azeri turcofoni e indoeuropei armeni di ceppo greco-germanico; non è mai stata una esperienza realmente paritaria, perché – soprattutto dall’esterno – si sono fatti prevalere contrasti etnici a condivisione di territorio tradizionalmente abitato da famiglie eterogenee, condizionate da invasioni e dominazioni variabili e costanti. E quando soffiano i venti nazionalisti si scompaginano le comunità per creare stati usati per soffocarle, ognuno secondo la propria tradizione verso il vicino; in questo caso è sintomatico come i paesi islamici più lontani come l’Algeria definiscano gli armeni cristiani colonizzatori, mentre l’Iran sciita come il popolo azero appoggi Erevan per mere questioni di metri di confine da salvaguardare, mentre il miglior alleato dei “fratelli altaici” azeri è il vicino sunnita Erdoğan, interessato alla creazione di un unico territorio ottomano senza interruzioni di confini.
Ciò che rende ancora più impellente l’abbandono della terra avita da parte della ex maggioranza armena fuggita dall’Artsakh è la ferocia autoritaria del regime dinastico ex sovietico… mentre perdurano i bombardamenti turchi sui curdi e i sionisti passano per vittime, pur essendo Nethanyauh dalla parte dei carnefici, come gli Aliyev o il despota Erdoğan; tutti in qualche modo collegati e con interessi intrecciati, tra le vittime dei contenziosi decennali mancano solo i saharawi. 


La secolare replica del genocidio armeno

L’attuale violenza (massacri, deportazioni…) subita dagli armeni rievoca fatalmente il genocidio del 1915.
C’ è ancora spazio per una qualsivoglia “soluzione politica” che garantisca minimamente i diritti della popolazione armena del Nagorno-Karabach?
Meglio non raccontarsi balle. Ormai – a meno di imprevedibili eventi di portata planetaria – la questione è chiusa definitivamente. Anzi, potrebbe anche andare peggio.
Non si può infatti escludere che dopo l’Artsakh venga invasa anche la stessa Armenia, in particolare il corridoio per congiungere l’esclave azera di Karki al confine con l’Iran (e la Turchia).

Vediamo intanto di riepilogare la tragica catena degli ultimi tre anni.
I bombardamenti azeri del 19 settembre avevano riportato nella cronaca un conflitto forzatamente dimenticato, tuttavia l’attacco di Baku contro il Nagorno-Karabach e quanto poi avvenuto ai danni del popolo armeno non calava inspiegabilmente dal cielo. Come già si era ipotizzato in agosto.
Era perlomeno probabile.
Il Nagorno Karabakh era una repubblica autoproclamata (ribattezzata con l’antico nome di Artsaj) abitata in prevalenza da armeni, ma posta forzatamente all’interno dei confini dell’Azerbaijan. E che già prima del 1991 si batteva per la propria indipendenza.

Pulizia etnica alternata

Nel conflitto del 1988-1994 la vittoria era andata agli armeni con la conseguente espulsione di migliaia di azeri.

Nella Seconda guerra del Nagorno-Karabach (autunno 2020) le parti si invertirono e per oltre 40 giorni l’esercito azero si scatenò sulla popolazione civile compiendo ogni genere di efferatezze. Qualificabili come una brutale pulizia etnica.
Al punto che molti armeni in fuga riesumarono i loro cari dalle tombe e fuggirono con le bare fissate al portapacchi delle auto dopo aver incendiato la propria casa.

L’evanescente interposizione russa

In realtà solo un terzo della provincia indipendentista era passato sotto il controllo di Baku, ma erano chiare le intenzioni di completare l’opera quanto prima. Nonostante la poco convinta opera di interposizione dei soldati di Mosca, soprattutto dopo che l’Armenia aveva accettato di partecipare a esercitazioni congiunte con truppe Nato (direi un autogol di Erevan).
Ovviamente anche all’odierna (definitiva?) sconfitta degli Armeni (anche per essere stati isolati e privati di mezzi di sussistenza da circa nove mesi) di fronte alle preponderanti forze azere, date le premesse, era fatalmente scontata.

Neottomanesimo via Baku

Smantellata l’amministrazione armena della enclave ribelle, Baku ha dichiarato di volere «integrarla totalmente nella società e nello Stato azeri».

Quanto alle voci di una possibile concessione di “autonomia”, la cosa appare piuttosto fantasiosa. Se nell’Azerbaigian non gode di alcun riconoscimento la consistente “minoranza” Talish (una popolazione di lingua iraniana che supera il milione di persone) cosa potrebbe toccare ai circa 120.000 armeni del Nagorno-Karabach? Peraltro ormai fuggiti nella quasi totalità e poco propensi a rientrare nonostante le rassicurazioni del governo di Baku.

La coltre di gas

Dal canto suo l’Unione Europea si guarda bene dall’intervenire pensando ai consistenti accordi con l’Azerbaijan in materia di gas.

Solidarietà al popolo armeno è stata espressa vigorosamente dal Consiglio esecutivo del Congresso nazionale del Kurdistan (Knk).

Nel comunicato ha denunciato «la tragedia umana che avviene sotto gli occhi del mondo nell’Artsakh (Alto Karabach) dove un centinaio di migliaia di Armeni sono costretti all’esilio». E il Knk ricordava anche le immagini terribili del 2020 con «i soldati azeri che tagliavano nasi e orecchie ai civili e vandalizzavano i monasteri».

Ovvio il parallelismo con quanto avviene “nelle zone curde occupate dalla Turchia” (il principale alleato dell’Azerbaigian).
Ma esiste anche un altro timore, ossia che “se cade l’Artsaj, cade anche l’Armenia”.

Una lingua di terra turca a unire Caspio e Mediterraneo

Già nel 2020 l’Azerbaijan aveva occupato territori ufficialmente dell’Armenia nella regione di Syunik. Una lingua di terra che si frappone alla dichiarata intenzione di Turchia e Azerbaijan di unire il Mediterraneo con il Caspio via terra. Ricordo che Turchia e Azerbaigian sono già confinanti grazie all’enclave azera di Najicheván che – toh, coincidenza! – Erdogan ha appena visitato per la prima volta.

Forse paradossalmente (visto che gli azeri sono in maggioranza sciiti come gli iraniani) l’unico paese con cui l’Armenia mantiene stabili e diretti rapporti commerciali (nel 2020 forse s’aspettava anche sostegno militare, ma invano) è l’Iran. La perdita della regione di Syunik le sarebbe quindi fatale.

L’analogo trattamento turco destinato ai curdi

Per il Knk comunque non ci sono dubbi «Si tratta di pulizia etnica orchestrata dall’Azerbaigian e dalla Turchia., motivata dall’ambizione geopolitica pan-turca che intende riunire queste due nazioni (…). Dopo 108 anni il popolo armeno si ritrova di nuovo vittima di massacri e deportazioni orchestrati dalle forze statali animate da odio razzista verso la cultura e il popolo armeno. Di conseguenza la pulizia etnica attualmente in corso nell’Artsakh deve essere considerata come la continuazione del genocidio armeno del 1915 perpetrato dai Giovani Turchi».
E conclude paragonando le attuali sofferenze degli armeni a quelle analogamente patite dai curdi a Shengal, Afrin e Serêkaniyê: «Nomi e vittime di questi massacri possono cambiare, ma le motivazioni rimangono identiche».

Diretto interventismo turco nell’area curdo-armena

Risalendo all’ottobre 2020 già allora appariva evidente come il conflitto tra Armenia e Azerbaijan fosse propedeutico all’intervento diretto della Turchia contro l’Armenia.
Nella guerra intrapresa dall’Azerbaijan, il ruolo di Ankara si andava sempre più definendo. In particolare con la fornitura di migliaia di mercenari e jihadisti (sunniti) provenienti dalla Siria (e forse anche dalla Libia) per combattere a fianco degli azeri (sciiti) contro gli armeni cristiani.
Un destino, quello della cittadina al confine turco-armeno di Kars, analogo a quello delle città frontaliere di Ceylanpinar e di Reyhanli nel conflitto siriano. Ugualmente utilizzate per smistare le milizie islamo-fasciste.

Per il giornalista curdo Mustafa Mamay non ci sarebbe stato quindi di che stupirsi se «da ora in poi vedremo i salafiti passeggiare per le vie di Kars».

D’altra parte era quasi scontato che Erdogan intervenisse a gamba tesa nella questione del Nagorno-Karabakh ai primi segnali di ripresa del conflitto, mettendo a disposizione di Baku, oltre ai già citati mercenari e terroristi, aerei F-16, droni Bayraktar TB-2, veicoli e consiglieri militari.

Niente di nuovo

2009

Ancora nel 2009 (10 ottobre) a Zurigo la firma – già concordata – dell’accordo di “normalizzazione diplomatica” e per la riapertura delle frontiere tra la Turchia e l’Armenia era rimasta per molte ore in sospeso. Il motivo? La legittima contrarietà della delegazione armena per il previsto discorso del ministro degli Esteri turco, Ahmet Davutoglu. Addirittura, la berlina di Hillary Clinton – già in viaggio verso l’Università di Zurigo per raggiungere le delegazioni svizzere, francesi, russe ed europee – aveva fatto repentinamente dietrofront per ritornare all’hotel da dove – secondo alcune versioni direttamente dal parcheggio – avrebbe tempestato di telefonate i ministri turco e armeno per sbloccare la situazione.
Poi la cosa era rientrata e il discorso rimasto nel cassetto. Ma il giornale “Hurriyet” ne era ugualmente entrato in possesso appurando che il contenzioso verteva proprio sulla questione del Nagorno-Karabakh. In sostanza Davutoglu esigeva il ritiro di Erevan dalla provincia, formalmente sottoposta all’Azerbaijan, ma controllata dall’Armenia dal 1993. Posizione ribadita – anche per rassicurare il governo di Baku – nei giorni successivi dal primo ministro turco Recep Tayyp Erdoğan. Storicamente amico e alleato di Ankara, l’Azerbaijan vedeva tale accordo come fumo negli occhi.
Ostilità che trovava precise assonanze nel Parlamento turco che avrebbe dovuto poi ratificare l’accordo. Anche per il parlamentare kemalista Onur Oymen (esponente dell’opposizione nazionalista, quasi un progressista, comunque non un seguace di Erdoğan) si trattava nientemeno che di una «abdicazione, di un cedimento alle pressioni esterne» esprimendo «inquietudine per l’avvenire del paese» (senza però specificare se si preoccupasse più della Turchia o dell’Azerbaijan).

Contestazioni, se pur in tono minore, provenivano anche dall’Armenia, in particolare dal partito nazionalista Dachnak. Migliaia di persone avevano partecipato a una manifestazione indetta a Erevan, chiedendo che prima di ogni accordo la Turchia riconoscesse le proprie responsabilità in merito al genocidio del 1915.

1988

Risalivano al febbraio 1988 le manifestazioni degli armeni nella città di Stepanakert per la riunificazione con l’allora sovietica Repubblica d’Armenia.
E il 20 febbraio 1988 – dopo essere echeggiata anche per le vie di Erevan – la richiesta dei manifestanti veniva approvata dal parlamento regionale del Karabakh con 110 voti contro 17. Rigettata da Mosca, forniva comunque l’innesco per le prime avvisaglie del lungo, aspro conflitto armeno/azero. Il 22 febbraio una marcia – non certo spontanea – di migliaia di azeri si muoveva da Agdam in direzione di Askeran (nel cuore dell’entità autonoma: oblast, provincia) prendendo di mira sia la popolazione, sia le proprietà armeni. Nei disordini di Askeran si conteranno decine di feriti (sia armeni che azeri) e almeno due azeri uccisi. È il segnale per una miriade di scontri “settari” tra le due comunità, sia nel Nagorno-Karabakh che nell’Azerbaijan, ai danni soprattutto delle rispettive minoranze.

Mosca intanto permaneva nella sostanziale incomprensione del problema ponendo, nel novembre 1989, la provincia autonoma sotto il diretto controllo dell’amministrazione azera.
Quanto alla richiesta ufficiale di riunificazione, proclamata con una sessione straordinaria del Soviet supremo armeno e del Consiglio nazionale del Nagorno-Karabakh, resterà lettera morta. Nel novembre 1991 lo statuto di autonomia veniva definitivamente abolito e il Nagorno-Karabah si ritrova interamente sottoposto al totale controllo di Baku.

1991

In un referendum organizzato per il 10 dicembre 1991 – boicottato dalla minoranza azera – la proposta di uno stato indipendente sarà approvata con il 99% dei voti.
A questo punto anche la proposta di ripristino di un’ampia autonomia – tardivamente avanzata da Mosca – veniva rispedita al mittente (sia dagli armeni che dagli azeri, anche se per ragioni opposte). La parola passava definitivamente alle armi al momento dell’indipendenza dell’Armenia (23 settembre 1991) e dell’Azerbaijan (18 ottobre 1991).
Mentre la situazione andava precipitando e il conflitto si alimentava con la partecipazione di migliaia di combattenti, per la provincia – erroneamente definita “separatista” – il sostegno militare dell’Armenia indipendente risulterà nevralgico.
A fianco degli azeri, oltre ai Lupi Grigi turchi, anche combattenti afgani e ceceni.
Con gli armeni miliziani provenienti dall’Ossezia e – discretamente e solo a livello logistico – la Grecia.
Entrambi i belligeranti inoltre avrebbero fatto ricorso a mercenari provenienti dai territori dell’ex Urss (russi e ucraini).

Quanto alla Russia, sembrava volersi mantenere equidistante vendendo armi a entrambi i belligeranti.
Le vittime, combattenti e civili, alla fine del 1993 si contavano a migliaia. Centinaia di migliaia, come previsto, gli sfollati e rifugiati interni su entrambi i fronti. Ai primi di maggio del 1994 gli armeni ormai controllavano circa il 14% del territorio dell’Azerbaijan e i primi negoziati (cessate il fuoco del 12 maggio) prendevano il via sotto la supervisione di Mosca.

Il fallimento del Gruppo di Minsk

1994

Con la creazione nel maggio 1994 del Gruppo di Minsk per la Conferenza sulla sicurezza e la cooperazione in Europa (attualmente denominato Osce) Francia, Russia e Stati Uniti (a cui successivamente si uniranno Italia, Turchia, Germania…) avevano inteso promuovere una soluzione pacifica del conflitto.
Tuttavia – almeno col senno di poi – con scarsi risultati, vista l’attuale deriva.

Qualche considerazione in merito alle efficaci operazioni propagandistiche (soprattutto da parte di Baku e Ankara) rivolte principalmente ai media europei. Con qualche discreto risultato. Forse perché – tutto sommato – già allora conveniva schierarsi con l’Azerbaijan (e con la Turchia) piuttosto che con la piccola, quasi insignificante sullo scacchiere internazionale, Armenia.
Per esempio, spesso gli armeni del Nagorno-Karabakh vengono impropriamente definiti “separatisti”. Una definizione mai utilizzata per il Nord di Cipro occupata dalla Turchia fin dal 1974. Per non parlare della continua evocazione di una – non documentata – partecipazione di militanti del Pkk ai combattimenti (a fianco degli armeni ovviamente).

Nel frattempo (gli affari sono affari) la Francia non smetteva di vendere armi e tecnologia militare all’alleato della Turchia, l’Azerbaijan. Non era e non è l’unico paese a farlo naturalmente (vedi l’Italia che dovrebbe fornire anche minisommergibili). Ma la cosa appariva stridente pensando al ruolo di antagonista storico di Ankara assunto periodicamente da Parigi. Per esempio, all’epoca, nella querelle sulla questione dell’espansionismo turco nelle acque del mar Mediterraneo.
Armi sofisticate, comunque. Forse le stesse con cui le forze militari di Baku colpivano direttamente la popolazione di Stepanakert.

E già allora in qualche modo il conflitto tra Armenia e Azerbaijan appariva propedeutico all’intervento diretto della Turchia contro l’Armenia (o ne era addirittura la “vetrina”). Intravedendo una prosecuzione (magari “con altri mezzi”, ma poi neanche tanto) di quella politica e di quella strategia che nel 1915 avevano determinato lo sterminio della popolazione armena.

Due parole poi sul ruolo assunto da Teheran

Anche se poteva apparire incongrua, da più parti si formulava l’ipotesi di un Iran deciso a schierarsi con l’Armenia nel conflitto con l’Azerbaijan.
Incongrua soprattutto pensando che in entrambi i paesi, Iran e Azerbaijan, è prevalente la fede sciita.

Ma poi (come forse era lecito aspettarsi) alcuni autorevoli esponenti politici iraniani erano intervenuti dichiarando che «l’Iran non sceglie l’Armenia a sfavore dell’Azerbaijan».

Il giornalista Raman Ghavami si diceva convinto che «sia probabile che dovremo assistere a una significativa collaborazione tra l’Iran, la Turchia, l’Azerbaijan (e presumibilmente anche la Russia a questo punto, N.d.A.) sia sull’Armenia, sia su altre questioni che interessano la regione».

Si sarebbe andato infatti configurando un nuovo livello di sostanziale collaborazione nelle relazioni tra Azerbaijan e Iran. Addirittura Teheran avrebbe (notizia non confermata) richiesto all’Armenia di “restituire” (nientemeno ?!?) il Nagorno-Karabakh a Baku.

Per Raman Ghavami in realtà l’Iran «da sempre preferisce rapportarsi con gli azeri sciiti piuttosto che con gli Armeni». Come avveniva già molto prima dell’insediarsi del regime degli ayatollah.

Nuovo intreccio dei destini armeni e curdi

A tale riguardo riporta l’esempio della provincia dell’Azerbaijan occidentale (posta entro i confini iraniani) che in passato era abitata prevalentemente da curdi e armeni.
Ma tale demografia venne scientificamente modificata, nel corso del Ventesimo secolo, dai vari governi persiani che vi trasferirono popolazioni azere. Sia per allontanarvi i curdi, sia per arginare gli effetti collaterali del contenzioso turco-armeno entro i confini persiani.
Molti armeni e curdi vennero – di fatto – costretti a lasciare le loro case.
Inoltre, in tale maniera, si creava una artificiosa separazione tra le popolazioni curde di Iraq, Turchia e Siria e quelle in Iran. Cambiando anche la denominazione geografica. Da Aturpatakan a quella di Azerbaijan occidentale.

Altro elemento di tensione tra Erevan e Teheran – sempre secondo Raman Ghavami – deriverebbe dal ruolo della chiesa armena nell’incremento di conversioni al cristianesimo da parte di una fetta di popolazione iraniana.

Legami finanziari Teheran-Baku

Da sottolineare poi l’importanza vitale, per un paese come l’Iran sottoposto a sanzioni, dei legami finanziari con l’Azerbaijan. Ricordava sempre Raman Ghavami come, non a caso, la succursale della Melli Bank a Baku è seconda per dimensioni soltanto a quella della sede centrale di Teheran.
Un altro elemento rivelatore sarebbe il modo in cui, rispettivamente, Baku ed Erevan hanno reagito alla cosiddetta “Campagna di massima pressione” sull’Iran in materia di sanzioni: mentre gli scambi commerciali tra Armenia e Iran si riducevano del 30%, quelli con l’Azerbaijan si intensificavano.
Ad alimentare la tensione poi, il riconoscimento da parte dell’Armenia di Gerusalemme come capitale di Israele. Una avventata presa di posizione di cui Erevan potrebbe in seguito essersi pentita. Vedi il successivo contenzioso (e ritiro dell’ambasciatore) a causa della vendita da parte di Israele di droni kamikaze IAI HAROP all’Azerbaijan.

Ulteriore complicazione (ma anche questa era forse prevedibile) la notizia che erano già in atto scontri armati tra i mercenari di Ankara inviati in Azerbaijan (presumibilmente jihadisti, sicuramente sunniti) e gli azeri sciiti.

Insomma, il solito groviglio mediorientale.

La spartizione di Astana: Russia e Turchia e gli oleodotti dell’Artzakh

Nel novembre 2020 si concretizzava poi un vero capolavoro di cinico realismo: gli accordi con cui Russia e Turchia si spartivano il Nagorno-Karabakh garantendosi il controllo della vasta rete di oleodotti che attraversano (o attraverseranno) il territorio storicamente conteso tra Armenia e Azerbaijan. Paese, quest’ultimo che fornisce alla Turchia un quinto delle sue importazioni di gas naturale (oltre a ingenti quantità di barili di petrolio dal Mar Caspio) direttamente all’hub di Ceyhan.
E qualche briciola non di poco conto andava anche al Belpaese (se abbiamo interpretato correttamente le dichiarazioni di Di Maio).
Ricapitoliamo. Il 10 novembre 2020 l’Armenia (il paese sconfitto) e l’Azerbaijan (il vincitore) firmavano un “accordo di pace” sotto la tutela ufficiale di Mosca e ufficiosa di Ankara.

Mentre le colonne dei profughi dal Nagorno-Karabakh) si allungavano per abbandonare il paese invaso dagli “alleati” (ascari?) di Ankara (l’esercito azero e le milizie mercenarie jihadiste qui inviate dai territori già invasi della Siria), iniziava il dispiegamento lungo la linea di contatto dei duemila – inizialmente – soldati russi (presumibilmente integrati con truppe turche, sul modello delle “pattuglie-miste” nel Nord della Siria). Durata prevista della loro presenza, cinque anni rinnovabili.

Un risultato niente male per Erdogan che vedeva ratificata la sua alleanza strategica con Baku. Così come venivano confermate le conquiste azere (almeno trecento insediamenti tra cui Susi, strategicamente rilevante). Non meno rilevante, l’acquisizione da parte dell’Azerbaijan di un collegamento diretto con Nachichevan (la sua enclave) e quindi con la Turchia.

Ovviamente gli armeni non l’avevano presa bene. A farne le spese il primo ministro Nikol Pashinyan (un leader “di plastica” secondo alcuni commentatori, messo su dall’Occidente un paio di anni prima per allontanare l’Armenia dal suo alleato tradizionale russo) di cui la piazza ha richiesto le immediate dimissioni.
Gli eventi sono noti: il palazzo del governo letteralmente preso d’assalto, il parlamento occupato e il presidente Ararat Mirzanyan che quasi rischiava di essere linciato dalla folla inferocita. I manifestanti erano anche andati a cercare direttamente a casa sua il primo ministro (presumibilmente non per una pacata conversazione), ma senza trovarlo (buon per lui, naturalmente).

L’interesse italico

a sei zampe…

Si diceva delle vaghe (o svagate?) dichiarazioni di Di Maio («Monitoreremo con attenzione gli sviluppi nelle aree dove si registra un particolare attivismo turco, vigilando affinché siano tutelati il rispetto del diritto internazionale, gli interessi italiani anche economici e con l’obiettivo di scongiurare qualsiasi escalation»). E chi vuol intendere...intenda.

Del resto, con buona pace della piccola Armenia, la cooperazione con l’Azerbaijan è da tempo consolidata. L’Italia – oltre che il maggior destinatario delle esportazioni petrolifere – risulta essere uno dei principali partner commerciali di Baku con un interscambio annuale – si calcola – di sei miliardi di euro. Sarebbero almeno tremila le imprese italiane che hanno investito nella repubblica caucasica. Risaltano in particolare Eni e Unicredit con interessi stimati in seicento milioni di dollari.

… e Leonardo-Finmeccanica

Cooperazione quindi ben consolidata, si diceva. Ma non solo in campo energetico. Magari indirettamente, anche militare. Risale, per dirne una, al 2012 la vendita di una decina di elicotteri Augusta Westland (società controllata da Leonardo-Finmeccanica), ufficialmente per uso civile (ma vengono in mente gli elicotteri venduti alla Turchia negli anni Novanta, su cui poi venivano applicate le mitragliere vendute separatamente). Nel 2017 l’amministratore delegato di Leonardo firmava a Baku – sotto lo sguardo del ministro Calenda – un accordo con la Socar (società statale petrolifera azera) per incrementare la sicurezza e l’efficienza delle infrastrutture energetiche grazie appunto alle tecnologie italiche.

Con un diretto riferimento al gasdotto di 4000 chilometri che la Socar stava realizzando per far giungere in Puglia e quindi in Europa (vedi la questione del Tap), dopo aver attraversato la Georgia, la Turchia, la Grecia e l’Albania, i previsti 20 miliardi di metri cubi (annuali) di gas di provenienza dall’Azerbaijan. Particolarmente rilevante e significativo il ruolo assunto da alcune aziende italiane (Snam S.p.A. di San Donato Milanese, Saipem, Eni, Maire Tecnimont…). Appare evidente come in tale contesto l’Armenia sia ormai fuori gioco, estromessa, marginalizzata (nonostante – a titolo di parziale consolazione – qualche ipocrita piagnisteo sul genocidio subito da parte della Turchia).

L’onnipresente invasività israeliana

Tornando alla breve, ma comunque devastante, guerra intercorsa nel 2020 tra Erevan e Baku, andrebbe poi approfondito il ruolo assuntovi da Israele.
Se la Turchia sembra aver fornito a Baku – oltre ai mercenari jihadisti – aerei e droni, cosa avrà fornito Israele? In qualche modo deve aver comunque contribuito visto che durante i festeggiamenti per la schiacciante vittoria, i manifestanti azeri inalberavano e sventolavano, oltre al vessillo nazionale e alle bandiere turche, numerosi drappi con la Stella di David.

Risalgono invece ai primi di ottobre (2023) le rivelazioni dell’intelligence francese sul fatto che i comandi militari azeri avrebbero ringraziato sentitamente Israele per il sostegno nel recente attacco al Nagorno-Karabach. Sia a livello espressamente militare (armamenti vari, soprattutto droni della Israel Aerospace Industries, della Rafael Advanced Defense Systems e della Israel Militari Industries), sia di intelligence (Mossad e Aman’s Unit 8200).
Sempre da fonti dell’Esagono risulta che nel corso del conflitto di settembre una quindicina di aerei cargo azeri sono atterrati nell’area militare di Ouda (Negev). Circa un centinaio di altri aerei cargo azeri erano ugualmente qui atterrati nel corso degli ultimi sei-sette anni. Presumibilmente non per rifornirsi di pompelmi. Inoltre Israele avrebbe fornito anche sostegno nel campo della Cyber Warfare (tramite l’Nso Group).
A ulteriore conferma dello stretto rapporto con Baku, il ministro israeliano della difesa si è recato recentemente nella capitale azera per verificare di persona l’efficacia del sostegno israeliano all’Azerbaijan.

Un bel caos geopolitico comunque

Proxy war disequilibrata

E arriviamo al febbraio di quest’anno, quando mentre a Erevan si ricordavano le vittime del pogrom del 1988, in Iran gli armeni manifestavano a sostegno della repubblica dell’Artsakh. Niente di strano.
Anche all’epoca dell’attacco dell’Azerbaijan ai territori armeni della Repubblica dell’Artsakh (con il sostegno di Ankara) nel 2020, c’era chi si aspettava un maggiore sostegno all’Armenia da parte dell’Iran, in linea con una certa tradizione. Dal canto suo Israele non mancava di mostrare sostegno (fornendo droni presumibilmente) alle richieste azere, ovviamente in chiave antiraniana. Misteri della geopolitica. Anche se poi sappiamo che le cose andarono diversamente, resta il fatto che comunque in Iran gli armeni costituiscono una minoranza tutto sommato tutelata, garantita (sicuramente più di altre, vedi curdi obeluci) e anche la causa dell’Artsakh gode ancora di qualche simpatia.

Commemorazioni dei massacri passati, in preparazione di quelli presenti

O almeno così sembrava leggendo la notizia del raduno di solidarietà con la popolazione armena della Repubblica dell’Artsakh (Nagorno Karabakh) che si era tenuto presso il monastero di Sourp Amenaprguitch (Santo Salvatore) di Ispahan nella mattinata del 24 febbraio 2023 (nonostante, ci dicono, le condizioni atmosferiche inclementi). Oltre alle comunità armene di Nor Jugha (Nuova Djulfa, un quartiere di Ispahan fondato dagli armeni di Djulfa nel Diciassettesimo secolo) e di Shahinshahr, erano presenti molti armeni provenienti da ogni parte dell’Iran.
Numerosi gli interventi e i messaggi arrivati a sostegno alla causa della popolazione armena della Repubblica (de facto, anche se non riconosciuta in ambito onusiano) dell’Artsakh.

Quasi contemporaneamente, due giorni dopo, in Armenia venivano commemorate le vittime del massacro di Sumgaït (quartiere industriale a nord di Baku). Il presidente armeno Vahagn Khatchatourian con il primo ministro Nikol Pašinyan, il presidente del parlamento Alen Simonyan e altre figure istituzionali si sono recati al memoriale di Tsitsernakaberd a Erevan deponendo una corona e mazzi di fiori.
Il memoriale ricorda le persone uccise nei pogrom avvenuti (con la probabile complicità delle autorità azere) nel febbraio 1988 a Sumgaït, Kirovabad e Baku. Il massacro (in qualche modo un preludio alla guerra del 1992 in quanto legato alla questione del Nagorno Karabakh) sarebbe stato innescato da rifugiati azeri provenienti dalle città armene. Almeno ufficialmente. In realtà i responsabili andrebbero identificati tra i circa duemila limitčiki (operai immigrati delle fabbriche chimiche) a cui le autorità avevano distribuito alcolici in sovrabbondanza.
Se le fonti ufficiali azere parlarono soltanto di trentadue vittime, per gli armeni queste furono centinaia. Addirittura millecinquecento secondo il partito armeno Dashnak (oltre a centinaia di stupri).
Inoltre i militari inviati per fermare i disordini impiegarono ben due giorni per percorrere i circa trenta chilometri che separano Baku da Sumgaït. Vennero arrestate centinaia di persone, ma i processi si conclusero senza sostanziali condanne.

Guerra annunciata, forza di pace distratta

Tutti defilati… tranne i curdi

Nel marzo 2023, pressata da più parti affinché intervenisse, finalmente Mosca aveva parlato tramite il ministero della Difesa, accusando Baku di aver violato gli accordi sul Nagorno-Karabakh del 2020. Meglio tardi che mai, anche se la Federazione Russa appariva sempre più incerta (o disinteressata?) al destino dell’Armenia, praticamente abbandonata a se stessa (quasi da tutti sia chiaro, non solo dalla Russia; con la nobile eccezione dei curdi).
Eppure i segnali della possibilità di un ennesimo conflitto (guerra a relativamente “bassa intensità”) non erano mancati. Il 5 marzo si era registrato un altro scontro armato nel corridoio di Lachin (per gli azeri, di Zangezur) tra Stepanakert e Goris, bloccato ormai da tre mesi da presunti “manifestanti ecologisti” azeri. La sparatoria era avvenuta tra la polizia armena e i militari azeri che avevano arbitrariamente fermato un veicolo e – nonostante fosse costata la vita di cinque persone – era passata quasi inosservata.
Invano Nikol Pašinyan, primo ministro di Erevan, aveva richiesto, rivolto anche al tribunale internazionale dell’Onu, l’istituzione di una missione internazionale di indagine sulla situazione in cui veniva a trovarsi l’unica via di collegamento tra l’Armenia e la repubblica del Nagorno-Karabakh, ormai ridotta alla condizione di enclave sotto assedio, con oltre 120.000 persone di etnia armena sprovviste di cibo e medicinali. In base all’accordo trilaterale del 9 novembre 2020 (e riconfermato per ben due volte nel 2021 e ancora nell’ottobre 2022), alla Russia spettava il compito di controllare e assicurare i trasporti nel “corridoio” con una sua forza di pace.

Estrattivismo abusivo e pretestuoso ecologismo

Il pretesto avanzato dai sedicenti “ecologisti” azeri che da mesi bloccavano il passaggio sarebbe quello di poter controllare le miniere (private, non statali) di Gyzylbulag (oro) e di Demirl (rame e molibdeno) dove gli armeni avrebbero compiuto “estrazioni illegali”.
Dopo le ripetute accuse di “mancata osservanza dell’impegno di controllo”, fino a quel momento da parte di Mosca erano giunte soltanto rassicurazioni verbali (dicembre 2022). Ma anche la dichiarazione che «le forze di pace possono agire soltanto quando entrambe le parti sono d’accordo».

«Gli azeri continuano ad avanzare pretese massimaliste, senza concedere alcuna forma di compromesso», aveva denunciato Vagram Balayan, presidente della commissione affari esteri dell’assemblea nazionale del Nagorno-Karabakh. Sostanzialmente in quanto Baku “non intende riconoscere l’esistenza del Nagorno-Karabakh e del popolo dell’Artsakh”. Ossia, detta fuori dai denti, “vogliono soltanto farci scomparire dalla storia” (come sembra confermato dagli ultimi eventi). Costringendo gli armeni a scegliere tra un’evacuazione “volontaria” e la deportazione.

Fine annunciata

E intanto con il mese di agosto il tragico epilogo si profilava all’orizzonte.
Con gli Armeni del Nagorno-Karabakh ormai presi per fame, in un articolo di quei giorni mi ero chiesto se «si può già parlare di genocidio o dobbiamo aspettare qualche migliaio di morti per inedia?».
Domanda retorica ovviamente.

A un certo punto l’evidente, colpevole, latitanza della Russia (storicamente “protettrice “ della piccola Armenia) sulla questione del Nagorno-Karabakh sembrava aver lasciato campo aperto all’intervento pacificatore – o perlomeno a un tentativo di mediazione – di Unione Europea e Stati Uniti.
Ma l’irrisolta questione del Corridoio di Lachin (unico corridoio tra Armenia e Nagorno-Karabakh) conduceva fatalmente al nulla di fatto. E intanto per gli armeni del Nagorno-Karabakh la situazione continuava a peggiorare.
Chi in quei giorni aveva avuto la possibilità di percorrere le strade di Stepanakert parlava di lunghe file di persone che – dopo ore di attesa – ottenevano letteralmente un tozzo di pane. Per non parlare di quanti crollavano – sempre letteralmente – a terra a causa della fame. Almeno 120.000 persone colpite dall’isolamento totale e dalla conseguente crisi umanitaria (sia a livello sanitario che alimentare).
Senza dimenticare che – ovviamente – l’Azerbaigian da tempo aveva provveduto a interrompere il rifornimento di gas. Difficoltoso, in netto calo, anche quelli di energia elettrica e di acqua. A rischio le riserve idriche con tutte le prevedibili conseguenze.
Quanto all’alimentazione ormai si era ridotti alle ultime scorte di pane e angurie. Il peggioramento si era andato accentuando da quando veniva impedito (con posti di blocco installati illegalmente dall’Azerbaigian) l’accesso anche alla Croce Rossa e alle truppe russe di interposizione che comunque finora avevano rifornito di cibo – oltre che di medicinali – la popolazione armena.

Silenzio tombale e pennivendoli distratti

Bloccato da mesi alla frontiera anche un convoglio di aiuti umanitari (oltre una ventina di camion) inviato da Erevan.
In pratica, un grande campo di concentramento.
Al punto che un cittadino armeno gravemente ammalato, mentre veniva trasportato dalla Croce Rossa in un ospedale dell’Armenia (e quindi sotto protezione umanitaria internazionale), veniva sequestrato, privato del passaporto, sottoposto a interrogatorio e spedito a Baku dove – pare – sarebbe stato anche processato per eventi risalenti al primo conflitto scoppiato in Nagorno-Karabakh negli anni Novanta.

E ogni appello rivolto alle autorità e organizzazioni internazionali (Unione Europea, Consiglio di Sicurezza dell’Onu, Russia, Gruppo di Minsk…) era destinato a restare inascoltato.
Con un preciso riferimento al blocco del Corridoio di Lachin operato dall’Azerbaijan, un ex esponente della Corte Penale Internazionale, l’avvocato argentino Luis Moreno Ocampo, aveva espressamente evocato un possibile genocidio.
Ma la sua appariva la classica “voce che grida nel deserto”. Quello dell’informazione almeno.

Poi la conferma dei peggiori timori con il tragico epilogo avviato il 19 di settembre.


Il giorno dopo la Guerra lampo dei fratelli turcofoni avevamo sentito Simone Zoppellaro, la cui analisi consentiva di comprendere nei dettagli cause e conseguenze delal dissoluzione dell’indipendenza dell’Artzakh

“Cala un sipario plumbeo sull’Artsakh”.

L'articolo Il crogiolo caucasico tra i confini fittizi dei vincitori proviene da OGzero.

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Il “nuovo” ordine mondiale e il gioco delle parti da Astana a Kyiv https://ogzero.org/il-gioco-delle-parti-e-il-nuovo-ordine-mondiale/ Sun, 27 Mar 2022 21:52:07 +0000 https://ogzero.org/?p=6901 Confrontandoci tra complici di “OGzero” sulla complessa situazione ucraina, che è (sì!) una delle decine di guerre in corso nel mondo, ma è anche la parte per il tutto del confronto globale ereditato dalla transizione attraverso il multilateralismo verso un Nuovo ordine mondiale, destinato a venire spostato verso l’Indo-pacifico, abbiamo tratto dall’ultima puntata di Transatlantica24 […]

L'articolo Il “nuovo” ordine mondiale e il gioco delle parti da Astana a Kyiv proviene da OGzero.

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Confrontandoci tra complici di “OGzero” sulla complessa situazione ucraina, che è (sì!) una delle decine di guerre in corso nel mondo, ma è anche la parte per il tutto del confronto globale ereditato dalla transizione attraverso il multilateralismo verso un Nuovo ordine mondiale, destinato a venire spostato verso l’Indo-pacifico, abbiamo tratto dall’ultima puntata di Transatlantica24 spunti offerti da Eric Salerno e Sabrina Moles, che ci hanno rievocato le intuizioni messe in gioco in Astana e i 7 mari di Antonella De Biasi. Così “OGzero” nel momento dell’annuncio di un tavolo di pace imbandito a Istanbul comincia a credere che lo spirito di Astana non è sfumato del tutto e su questo dubbio ha cercato di ricostruire i cocci prodotti dall’esplosione del multilateralismo nei rapporti tra stati, dallo scardinamento di alleanze esili, dalla individuazione del momento in cui il Cremlino ha pensato che fosse più opportuno far saltare gli equilibri. Un istante che Antonella nel suo scritto, steso a ottobre, preconizzava individuando nella ignominiosa ritirata americana dall’Afghanistan il segnale della debolezza per cui era possibile azzardare il morso del serpente.

Salvo poi accorgerci che ciascuno ha tratto vantaggio o imponendo spese militari, o annettendosi nuovi territori rivieraschi, o soffiando su un nazionalismo sovranista, cancellando piani ecologisti e ridistribuendo energia con un maggior profitto per i produttori. Distribuito sciovinismo e testosterone in tutti i paesi del primo mondo.

Perciò a partire dalla chiosa del libro, proviamo con questo editoriale a mettere in fila gli eventi di queste ultime 5 settimane sulla scorta di quello che il volume di Antonella De Biasi aveva già individuati come potenziali snodi critici; andremo a trovare nel libro verifiche delle analisi prodotte a posteriori dagli equilibri scaturiti dalla “spezial operazy” di Putin, così da inserirla nell’annoso flusso geopolitico senza gli isterismi cavalcati dal profitto guerrafondaio. Infatti il volume si chiude con una frase emblematica: «Il gioco di Astana, seppur precario, in fondo è anche un gioco delle parti» e le dichiarazioni e le mosse diplomatiche di fine marzo seguono il canovaccio.


Il conflitto in corso è figlio della interpretazione data da una nazione come la Russia al periodo governato da una sorta di multilateralismo: se ne riconoscono i metodi inseguendo i gangli della dottrina Gerasimov (mai realmente scritta o teorizzata, ma resa evidente dalla prassi bellica russa), il cui scopo principale era quello di spezzare l’unilateralismo derivato dalla fine della Prima guerra fredda, in particolare: la soluzione cecena, da cui deriva la carriera del generale; Georgia e Crimea, rimaste senza risposta da parte delle altre potenze… ancora più palese l’uso strumentale del Donbass oggi, come 8 anni fa a suffragio della considerazione dei territori a est del Dnepr come giardino di casa.

Nel caso del conflitto in Nagorno-Karabakh gli armeni hanno pensato erroneamente che Mosca li avrebbe difesi “contro una minaccia turca e musulmana”, come sostiene il professore francese esperto di islam Olivier Roy. Così non è stato perché in fondo l’immagine di una Russia cristiana, ultimo argine all’islam di cui l’Armenia si sente avamposto, serve solo a intermittenza e sempre più raramente come topic/pedina intercambiabile per la personale partita a scacchi di Putin, per ristabilire la grandezza della Russia agli occhi degli occidentali e dei paesi rappresentati dalle economie emergenti. Alcune reazioni caute e sottotono lasciano pensare che Putin non solo fosse al corrente dell’offensiva azera ma che ne abbia addirittura discusso i limiti con il regime di Aliyev così da riprendere solo i territori che, secondo il diritto internazionale, sono azeri. L’estrema destra occidentale ha sempre visto la Russia di Putin, costruita a sua immagine e somiglianza negli ultimi vent’anni, come il baluardo dei valori cristiani minacciati dall’islam. Il Cremlino sfrutta quando servono queste simpatie da sempliciotti. L’obiettivo di Putin è riprendersi e controllare his back-yard.

(Antonella De Biasi, Astana e i 7 mari, OGzero, Torino 2021, p. 49)

Ma anche e soprattutto andava preso nella giusta considerazione l’interventismo in Siria. E in Libia: non si dimentichi il voto del 3 marzo all’Onu che ha visto la metà di paesi africani compromessi per armi, sicurezza e traffici con la Russia compattamente astenuti, in particolare allarmanti le astensioni dei paesi maghrebini fornitori di gas e con interessi – anche militari – intrecciati con il Sud dell’Europa; tutto questo dinamismo del Volga sullo scacchiere internazionale è un prodotto degli accordi di Astana, che è l’altro snodo diplomatico-pragmatico attraverso cui passa la strategia russa di questo periodo e che ha finora imposto i dossier al mondo.

Ma la preparazione alla guerra classica, dotandosi di armi sofisticate, da parte dell’Ucraina attraverso gli stessi meccanismi di alleanze e accordi ibridi con ciascuna potenza locale (e talvolta globale, ma cambiando ogni volta campo contrapposto) ha scombinato il disegno di Shoigu, Gerasimov e Putin. Questa si può considerare una conseguenza del fatto che la Nato si è risvegliata dal coma (indotto da Trump, sodale della deriva reazionaria putiniana mondiale) di cui parlava Macron, ma lo ha fatto predisponendosi a rispondere alla guerra che Bruxelles (e soprattutto Arlington e Langley) sapeva sarebbe stata scatenata: in che modo si preparava? armando gli ucraini con ogni ordigno convenzionale o meno, sia attraverso le armi in dotazione agli alleati europei (baltici in primis), sia con i droni turchi, che con alcune armi di fabbricazione israeliana – ma non tutte, come vedremo – e producendo una propaganda nazionalista identitaria per sollevare lo spirito bellico dell’Europa. Addirittura gli S-400 che furono motivo di sanzioni americane contro la Turchia potrebbero diventare paradossalmente strumenti di difesa per gli ucraini se Ankara si farà convincere a passarle a Zelensky, o le porrà sulla bilancia della trattativa: la tecnologia di cui sono dotate sicuramente è efficace contro le macchine belliche del cui impianto sono parte.

L’amministrazione Biden è ben consapevole che deve tenere la Turchia dentro l’asse Nato per impedire che passi nell’orbita russo-cinese. Così Erdoğan userà questo punto per ottenere vantaggi almeno nelle relazioni bilaterali. La questione critica più importante per gli Usa è il sistema missilistico S-400 che Erdoğan ha acquistato da Putin, non compatibile con quello Nato

(Antonella De Biasi, Astana e i 7 mari, OGzero, Torino 2021, p. 84).

Si può dunque parlare di una proxy war combattuta in territorio europeo e con obiettivi gli interessi europei, che vede gli Usa defilati e non interventisti, ma guerrafondai e impegnati a far esporre l’UE, tagliando così tutti i ponti (e gli oleodotti) euro-russi che in particolare la Germania merkeliana (e di Schroeder) avevano costruito: doppio risultato per gli americani che vendono all’altra sponda atlantica il loro gas poco ambientalista, piazzando (o affittando a caro prezzo) anche le navi che trasportano i rigasificatori.

Ora che gli altri protagonisti in commedia hanno appreso come prendere le misure al sistema bellico ordito da Mosca dalla Cecenia in avanti, accettando una vera e propria guerra con migliaia di morti e smaltimento di magazzini di armi novecentesche; ora che si è dimostrata la marginalità della UE e la sua riduzione a mera potenza locale succube della Nato, mentre la Russia – pur non sfondando e rimettendoci in immagine guerresca e di efficienza militare, piangendo molti più morti e dissanguandosi in spese  – si prende tutte le coste del Mar Nero settentrionale e del mar d’Azov; ora rimane in piedi il modello di rapporti e accordi spartitori; scambi e traffici multilaterali che han funzionato per spartirsi territori di confine, operazioni militari e aree di riferimento tra potenze locali: quel sistema di accordi, che Antonella De Biasi ha correttamente descritto nel suo testo dedicato agli Accordi di Astana, e dove si possono rintracciare in nuce le dinamiche e gli equilibri che ora dopo la guerra spiccano nella narrazione della resistenza ucraina, trova una riproposizione nella fornitura di armi e nelle candidature alla composizione del conflitto da parte di potenze “locali”. Insomma: gli Accordi di Astana vedono trasformati gradualmente i ruoli dei singoli attori e la chiave che ne promana vede protagonisti Turchia (che ospita sia gli yacht degli oligarchi – magari sfuggiti al Novichok dell’Fsb –, sia le denunce dei dissidenti) e Israele (che accoglie ebrei russi e ebrei ucraini), nella totale assenza di strategia Usa/EU.

In fondo la prospettiva di incontri bilaterali russo-ucraini riferita da David Arakhamia, leader parlamentare ucraino e partecipante ai negoziati, previsti per il 28-30 marzo a Istanbul (e/o successivamente a Gerusalemme, probabilmente) con padrini gli equidistanti Turchia e Israele che stanno facendo avance l’un l’altro per ritessere reciproci rapporti diplomatici dopo l’incidente della Mavi Marmara evocato da Murat Cinar nel suo articolo, appare come i memoranda d’intesa stipulati durante il vuoto trumpiano riempito ad Astana, evocati da Antonella De Biasi:

Erdoğan e Putin per primi, e a seguire l’appena eletto Raisi, cercheranno di mantenere l’influenza guadagnata negli ultimi quattro anni della presidenza Trump facendo buon viso a cattivo gioco. Si sa che le alleanze non sono per sempre – anche e soprattutto tra leader autoritari e populisti –, ma ogni volta che ci sarà una crisi, e quindi anche un’occasione per aumentare l’influenza nello scacchiere internazionale, si farà sempre in tempo a scrivere inediti memorandum d’intesa e scegliere una nuova suggestiva località per sottoscriverli.

(Antonella De Biasi, Astana e i 7 mari, OGzero, Torino 2021, p. 85)

 

E il terzo protagonista degli Accordi di Astana, l’Iran, che vi ha partecipato da potenza locale impegnata a mantenere la preminenza sulla mezzaluna sciita e con l’intento di contribuire alla marginalizzazione delle potenze europee, non ha avuto reazioni dopo la crisi afgana e non prende posizione in quella attuale: è apparso chiaro che la repubblica islamica viene tenuta in sospeso per il fatto proprio che a Putin serve l’appoggio di Bennett e quindi potrebbe far pesare un veto alla ripresa degli accordi Jcpoa, nel momento in cui pare che l’amministrazione Biden sarebbe invece disponibile a riprendere i negoziati sul nucleare iraniano, per focalizzarsi sull’indo-pacifico. Come per gli altri teatri delle guerre scatenate e composte ad Astana, il ruolo iraniano è stato in genere di supporto non attivo agli accordi: una sorta di notaio che assicura il proprio assenso in cambio della non intromissione nei propri affari.

Gilles Kepel su “Le Grand Continent” anticipando stralci del suo ultimo libro: «L’amministrazione Biden, il cui primo impulso diplomatico è consistito nel relativizzare il peso del Medio Oriente nella sua agenda politica estera a favore delle questioni cinesi e russe, e nel far prevalere nella regione la riattivazione del Jcpoa sull’antagonismo israelo-palestinese, le cui asperità si pensava fossero state cancellate dagli Accordi di Abramo, si trova così costretta a giocare dietro le quinte durante la guerra del maggio 2021», chiamata dal professore francese “la guerra degli undici giorni”. In questo nuovo caos con gli smottamenti nei paesi dell’area mediorientale, caucasica e mediterranea la Libia e quel che accadrà a cavallo del nuovo anno, determineranno i confini geopolitici degli attori di Astana, nello specifico la Turchia e la Russia.

 (Antonella De Biasi, Astana e i 7 mari, OGzero, Torino 2021, p. 85).

Applicazione di un modello

Qui infatti ritroviamo attivo come sempre il compare di Putin di tanti incontri ad Astana: Erdoğan ha mantenuto lo stesso atteggiamento ambiguo che lo ha contraddistinto in Siria, in Libia, in Nagorno-Karabakh – non a caso di nuovo gli azeri stanno sfruttando l’occasione che impedisce a Mosca di difendere l’alleato armeno – quando ha sostenuto in genere la parte avversa al fantoccio locale di Putin, salvo poi comporre ogni questione attraverso una spartizione de facto di territori, interessi, occupazioni. Anche in questo caso Erdoğan ha fornito a Zelensky armi e sostegno da appartenente alla Nato, ha mantenuto un ruolo ambiguo sui Dardanelli e sull’accesso al Mar Nero in relazione alla Convenzione di Montreux – e anche in questo caso la sottolineatura di Antonella De Biasi di p. 48 di Astana e i 7 mari, relativa all’appoggio russo ad abkhazi e agiari che solleva questioni ataviche in contrapposizione russi e turchi, sostenitori dell’etnia tatara, poneva già il problema di schieramenti – ma poi non aderisce a sanzioni ed embarghi… e questo consente ad Ankara di proseguire la diplomazia di Astana verso Mosca e di proporsi come mediatore, forse per la sua esperienza di occupazione del Rojava e strage di curdi. Ruolo che è in grado di svolgere l’altro campione di democrazia: Israele che da 55 anni occupa territorio palestinese e applica l’apartheid. Anche Israele compare 49 volte nel libro di Antonella De Biasi, pur non essendo tra gli ospiti di Astana, se non in veste di Convitato di Pietra: infatti Tel Aviv ha mantenuto un profilo basso, senza contrariare il Cremlino, sia per i milioni di russi e ucraini immigrati in Israele, sia per gli innumerevoli interessi che legano i due paesi; peraltro ha fornito qualche ordigno a Kyiv, senza consentire l’uso di Pegasus o di Blue Wolf, e tantomeno Iron Dome, sistema di difesa antiaerea richiesto dall’Ucraina fin dal 2019 (per dire da quanto si stavano preparando alla “sorprendente” aggressione russa). E soprattutto, come dice Eric Salerno: «Israele ha bisogno di alleati» e questo è reso ancora più evidente dall’accoglienza per gli Accordi di Abramo che ha stipulato prontamente con alcuni paesi arabi.

Israele e Turchia evidenziano il proseguimento sotto altre forme del multilateralismo sotto il cappello della crisi russo-ucraina: come ci ha detto Eric Salerno nella puntata di Transatlantica24 per quanto riguarda Tel Aviv – ma vale anche per Ankara, nonostante il disastro economico: se va in porto l’occupazione coloniale di tutte le zone in cui la Turchia è impegnata, il colonialismo predatorio può rimpinguare le casse. A entrambe il ruolo di potenze locali va stretto e sia nell’area interessata dalle operazioni belliche, sia nel resto dei 7 mari presi in considerazione nel volume dedicato da OGzero ad Astana, si propongono come interlocutori privilegiati, spesso in sostituzione degli interessi delle potenze coloniali europee classiche, assurgendo a un ruolo di potenze più ampia di quella locale mediterranea.

Il ridimensionamento del ruolo dell’Occidente nel panorama internazionale è determinato soprattutto dalla radicale contestazione del suo modello politico, economico e culturale attuata dalla Cina e in secondo luogo dalla Russia. Non è un caso che Cina e Russia siano tra i principali sostenitori di due organizzazioni multilaterali come i Brics e la Shangai Cooperation Organization (Sco). Di recente i due paesi hanno iniziato a collaborare per ridurre la loro dipendenza dal dollaro.

(Antonella De Biasi, Astana e i 7 mari, OGzero, Torino 2021, p. 73).

Dunque di nuovo le potenze asiatiche evidenziano la inadeguatezza della prosopopea dell’UE, che preferisce riarmarsi, dissanguandosi e riducendo a nulla il sistema welfare liberal-democratico, pur di rincorrere sul piano militare le altre potenze guerrafondaie e venditrici di tecnologie militari per sostenere le industrie belliche anche europee, ringalluzzite dalla guerra per procura al confine eurasiatico, evocativo di altre invasioni, ma che sembra preludere a un ridimensionamento tanto dell’Europa, quanto della Russia stessa, ridotti a belligeranti locali di una guerra a cui stanno alla finestra le due vere potenze globali, che preparano il confronto in ambito indo-pacifico. Gli Usa ottengono – dopo che da due amministrazioni lo richiedono – che tutti gli europei destinino il 2% del pil alla “sicurezza”, sgravando gli americani di parte della spesa militare; la Cina – come ci spiegava Sabrina Moles nell’incontro di Transatlantica24 – senza schierarsi, ma lanciando segnali di propensione per l’invasore, pur facendo attenzione a non confondersi con una potenza sull’orlo del fallimento come la Russia che ha il pil di una provincia cinese (il Guandong), può trarre vantaggi, se non si prolunga troppo la crisi e se non si propone come mediatrice, perché rischierebbe di venire degradata al rango di potenza intermedia come appunto Turchia e Israele. I mediatori nel gioco delle parti.

Dopo la normalizzazione delle relazioni sino-russe alla fine della Guerra Fredda, la Russia è emersa come un importante fornitore di armi e tecnologia per la Cina. Quella relazione era un’ancora di salvezza finanziaria per l’industria della difesa russa in un momento in cui gli ordini di approvvigionamento nazionali si erano prosciugati. Ma da allora le vendite russe alla Cina sono diminuite man mano che l’industria della difesa cinese è maturata «in misura significativa grazie al trasferimento di tecnologia e al furto dalla Russia», commentano Eugene Rumer e Richard Sokolski sul sito di Carnegie Endowment for international peace. La Cina ora compete con la Russia nei mercati delle armi. Attualmente le vendite di armi dalla Russia alla Cina rappresentano solo il 3% del commercio totale annuo dei due paesi, che supera i 100 miliardi di dollari. Con l’accesso alla tecnologia occidentale tagliato a causa delle sanzioni, l’industria della difesa russa ha guardato alla Cina come una fonte alternativa di innovazione che non ha la capacità di sviluppare a livello locale.

 (Antonella De Biasi, Astana e i 7 mari, OGzero, Torino 2021, p. 73).

Può essere che il prossimo teatro di questo “Risiko per procura” torni in zona balcanico-caucasica (Nagorno Karabakh ed enclave etniche della Repubblika Srpska, oppure le tensioni panslavistein Bosnia); può darsi si inaspriscano le dispute che in Africa vedono impegnati militari turchi e miliziani della Wagner in contrasto – soprattutto in Françafrique – con gli eserciti coloniali classici; sicuramente Russia e Cina stanno collaborando assiduamente per spartirsi il Sudamerica, grazie alla distrazione di Biden che prosegue il disimpegno del suo predecessore.

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La guerra in Ucraina cambierà le scelte di Ankara? https://ogzero.org/la-posizione-di-ankara-nel-conflitto-russo-ucraino/ Fri, 18 Mar 2022 14:40:19 +0000 https://ogzero.org/?p=6806 Mar Nero settentrionale con la tatara Crimea; Mar Nero meridionale con gli Stretti strategici per la navigazione. Gli accordi di Astana, che già adombravano un ridimensionamento della Russia al rango delle altre due potenze regionali che li animano, facevano pensare che la Turchia fosse destinata a trarne maggiori vantaggi, mentre Mosca appariva alla ricerca di […]

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Mar Nero settentrionale con la tatara Crimea; Mar Nero meridionale con gli Stretti strategici per la navigazione. Gli accordi di Astana, che già adombravano un ridimensionamento della Russia al rango delle altre due potenze regionali che li animano, facevano pensare che la Turchia fosse destinata a trarne maggiori vantaggi, mentre Mosca appariva alla ricerca di accordi per spartire senza problemi le aree lasciate “libere” dal disimpegno dell’America trumpiana, dimostrando forse un inizio di affanno a svolgere il ruolo di grande potenza. Forse si può inquadrare la “spezial operazy” come una delle tappe delle spartizioni di Astana, che hanno visto diversamente impegnati gli eserciti e le milizie di Ankara e Mosca e quindi l’equidistanza  tra i contendenti da parte di Erdoğan fa il paio con l’interposizione di Putin in finale di conflitto in Nagorno Karabakh concluso a favore dell’Azerbaijan dai droni Bayraktar, protagonisti anche nel confronto bellico in Ucraina. L’equilibrio di Ankara, apparentemente sbilanciato a favore di Kiev (in chiave atlantista), ma attento a lasciare ampi spiragli di apertura a Mosca per proporsi come mediatore – forse per esperienza diretta nell’occupazione imperiale di territori limitrofi al proprio come il Rojava –, può ottenere riconoscimento internazionale, premiando l’ambiguità e la politica dei due forni di Erdoğan? Ed è vera competizione tra Israele e Turchia per ottenere il ruolo di paciere («proprio loro!?!», diranno curdi e palestinesi), o non è il gioco delle parti, per cui ognuno appare come campione valido per ciascuno dei due contendenti, perché tutti legati a filo doppio dallo scambio delle armi?

Vera rivalità tra Israele e Turchia per il ruolo di mediatore?

L’ossessione di OGzero per Astana arriva fin qui, lasciando spazio alle intuizioni di Murat Cinar…


Due paesi importanti per la Turchia sono in piena guerra; Ucraina e Russia. Dai droni ai pomodori, dalla centrale nucleare agli S-400, dal turismo al grano… e dal gas al riciclaggio di denaro. Per il governo centrale della Turchia, Mosca e Kiev sono due partner strategici con i quali ha consolidato dei rapporti economici, politici e militari in questi ultimi anni.
Ora invece questi due vicini stanno attraversando un forte conflitto armato tra loro. Dunque qual è stata, finora, la posizione di Ankara?

Le prime scelte

La politica della Turchia, dal 24 febbraio, quando la Russia ha iniziato a invadere l’Ucraina, mostra che rimarrà in armonia e coordinamento con l’occidente e la Nato, ma senza mettere in pericolo il suo legame con questi due paesi.

Atlantismo

La Turchia, che ha attuato la Convenzione di Montreux e ha impedito a più navi da guerra russe di accedere al Mar Nero, attraverso il mar di Marmara e gli stretti dei Dardanelli e del Bosforo, afferma che non intende imporre sanzioni alla Russia e che farà del suo meglio per mantenere aperti i canali di dialogo con Mosca per la soluzione del problema, accolto con favore anche dall’Occidente.
Con le dichiarazioni rese il giorno dell’inizio dell’operazione, che la Russia definisce “operazione militare speciale”, la Turchia ha chiesto il rispetto dell’integrità territoriale e dell’unità politica dell’Ucraina e ha dichiarato di rifiutare l’attacco russo. La Turchia, che non ha riconosciuto l’invasione e l’annessione della Crimea da parte della Russia nel 2014, ha rivelato che continuerà ad agire insieme all’opinione pubblica internazionale con questa posizione che ha assunto. La Turchia ha anche appoggiato il testo della risoluzione di condanna della Russia all’Assemblea generale delle Nazioni Unite (Onu).

Oltre a condannare la Russia, la Turchia ha anche fornito all’Ucraina il massimo livello di sostegno. Il presidente Recep Tayyip Erdoğan, il presidente dell’Ucraina Volodymyr Zelensky e i ministri degli Esteri e della Difesa turchi si sono incontrati spesso con le loro controparti ucraine e hanno discusso degli sviluppi riguardanti l’occupazione russa esprimendo il sostegno della Turchia alla sovranità dell’Ucraina.
L’uso efficace dei droni armati “made in Turkey”, Bayraktar venduti dalla Turchia, che negli ultimi anni ha approfondito la cooperazione con l’Ucraina nel campo dell’industria della difesa, ha reso ancora più importante il dialogo tra i ministri della Difesa dei due paesi. Le dichiarazioni delle autorità ucraine di voler acquistare più droni dalla Turchia si sono riflesse anche sulla stampa durante questo processo.

Droni autarchici turchi: l'esercito di Ankara si fornisce di ogni dettaglio tecnologico dall'industria nazionale per equipaggiare il proprio gioiello bellico: i sistemi aerei senza pilota

Bayraktar-TB2 Sịha, che fanno strame dei carri armati russi incolonnati.

Sin dall’inizio della guerra, la Turchia ha annunciato di aver iniziato a inviare aiuti umanitari in Ucraina. Con tutti questi passi, la Turchia ha dimostrato di sostenere l’Ucraina.

Caro amico Putin

Il presidente della Repubblica di Turchia, prima e dopo l’inizio dell’operazione, ha dichiarato: «Non rinunceremo alle nostre relazioni speciali né con l’Ucraina né con la Russia» e ha lanciato il messaggio che cercherà di mantenere una politica equilibrata anche se la crisi approfondisse.

Tuttavia, ciò non ha impedito ad Ankara di «invitare Mosca a interrompere l’operazione il prima possibile». Nelle loro dichiarazioni, il presidente Erdoğan e il ministro degli Esteri Mevlüt Çavuşoğlu hanno sottolineato che l’operazione militare ha messo in pericolo la sicurezza sia regionale che mondiale e che la Russia dovrebbe rinunciarvi il prima possibile. Nelle dichiarazioni rilasciate alla stampa è stato anche affermato che Çavuşoğlu ha trasmesso direttamente questo richiamo al ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov, con il quale aveva parlato al telefono.
La Turchia è stata anche tra i paesi che hanno criticato le minacce sventolate da Putin sull’eventuale utilizzo delle armi nucleari. İbrahim Kalın, il consulente per la politica estera del presidente Erdoğan, ha definito “sconcertante” il fatto che Mosca abbia messo sul tavolo la carta nucleare.

Con la Nato ma…

La dedizione della Turchia al patto transatlantico è molto discutibile da parecchi anni. Sia Trump sia Biden, diverse volte hanno criticato Ankara per le sue scelte militari e politiche in Siria e per le sue relazioni con la Russia. Mentre gli Usa sono arrivati anche alle sanzioni economiche e militari, con la Grecia e la Francia ci sono stati dei momenti di grande tensione e reciproche minacce in questi ultimi 2 anni.

La posizione di Ankara nel conflitto russo-ucraino

Settembre 2020, dispute tra appartenenti alla Nato nel Mediterraneo orientale: Grecia e Francia contro Turchia.

Tuttavia dalla guerra in Libia fino al caso degli uiguri, dall’Afghanistan alla produzione militare joint venture con gli alleati, dall’occupazione russa in Crimea e ora con l’appoggio a Kiev, possiamo dire che la Turchia ha seguito molto fedelmente la linea politica, economica e militare della Nato.

… It’s the economy…

La guerra in Ucraina arriva in un momento molto importante per la Turchia; sia per le sue relazioni forti con Mosca sia per la devastante situazione economica e politica che Erdoğan deve affrontare a casa. Un governo ai minimi storici nei sondaggi (meno di 35%) un anno prima delle elezioni presidenziali e parlamentari, sia per il lavoro di grande successo che portano avanti i sindaci delle opposizioni eletti nelle grandi città nel 2019 sia per l’enorme corruzione sempre più conosciuta e evidente che rappresenta il governo e la famiglia del presidente della Repubblica. Ovviamente a questa situazione catastrofica politica bisognerà aggiungere anche la crisi economica senza precedenti. Un’inflazione che supera la soglia del 130%, una Lira che perde il suo valore ogni giorno davanti alle monete straniere, una povertà diffusa e terribile e un vuoto nel fisco che spinge Ankara a svendere qualsiasi cosa al capitale russo, cinese e mediorientale.

… l’intermediario

Insomma: le scelte discutibili, radicali e pericolose di Erdoğan, operate in questi ultimi anni per consolidare un rapporto forte con Putin, fanno paradossalmente sì che la Nato trovi in Ankara un alleato a cui attribuire un ruolo chiave in questo conflitto. Quello del mediatore. Dall’altro lato Erdoğan non vorrebbe assolutamente perdere l’occasione per fare una forte propaganda elettorale nella politica interna portando a casa prestigio, rispetto e forse anche un po’ di soldi, vista la situazione economica e elettorale devastante.

Mediazione

Infatti l’incontro importante ma non fruttifero, avvenuto ad Antalya in Turchia, tra il ministro degli Esteri russo Lavrov e quello ucraino Kubela il 10 marzo è una delle dimostrazioni del fatto che il governo centrale vorrebbe lavorare come mediatore in questo conflitto, molto probabilmente per portare a casa un paio di carte vincenti. L’impegno apprezzato sia da Zelensky sia da Putin ha ricevuto anche gli applausi dal segretario generale della Nato, Stoltenberg che ha espresso la sua gratitudine direttamente al presidente della repubblica di Turchia quando l’ha incontrato durante la sua visita ad Ankara l’11 marzo.
Inoltre, la Turchia si era astenuta, il 26 febbraio, dal votare contro la sospensione della Russia nel Consiglio d’Europa, sulla base del fatto che «una completa interruzione del dialogo e la demolizione dei ponti non sarebbe vantaggiosa». Il ministro Çavuşoğlu ha dichiarato: «Non dovremmo concordare sull’interruzione del dialogo. C’è qualche vantaggio per il Consiglio d’Europa nel rompere i legami con la Russia qui? No. Ecco perché ci siamo astenuti nella votazione. Perché questo comporterebbe la chiusura del dialogo». Tuttavia il 17 marzo, durante una riunione straordinaria: «Il Comitato dei Ministri ha deciso, nel quadro della procedura avviata in virtù dell’articolo 8 dello Statuto del Consiglio d’Europa, che la Federazione russa cessa di essere membro del Consiglio d’Europa a partire da oggi, 26 anni dopo la sua adesione».

La diplomazia di Twitter e le telefonate private

Ankara, sin dall’inizio della guerra, ha mantenuto l’opinione secondo la quale tenere aperti i canali di dialogo con Mosca avrà un impatto positivo sul processo negoziale avviato tra funzionari russi e ucraini. Il consulente per la politica estera del presidente Erdoğan, İbrahim Kalın, in una dichiarazione alla stampa turca, ha affermato che la Turchia segue da vicino il processo negoziale tra le parti in guerra e trasmette i suoi suggerimenti alla Russia, soprattutto grazie al dialogo in corso.
A tutti questi passi e dichiarazioni ovviamente dovremmo aggiungere il continuo traffico di telefonate tra Ankara, Mosca e Kiev e i ringraziamenti di Zelensky direttamente verso Erdoğan comunicati ripetutamente su Twitter, per il suo sostegno

Importanti relazioni sia con Kiev sia con Mosca

In un’intervista rilasciata alla Cnn International, İbrahim Kalın ha dichiarato di non volere che i loro forti legami economici con Mosca, inclusi settori come l’energia, il turismo e l’agricoltura, siano danneggiati, e ha sottolineato che credono nei vantaggio provenienti da una condizione di dialogo alternativa all’imposizione di sanzioni.

La Turchia, che l’anno scorso ha ospitato circa 5 milioni di turisti russi (e 2 milioni di ucraini), ha preferito non assecondare i paesi occidentali che hanno chiuso il loro spazio aereo.

La Russia è il più grande fornitore di gas naturale della Turchia e sta anche costruendo la prima centrale nucleare del paese. I primi reattori dovrebbero essere messi in servizio nel 2023. Il volume degli scambi tra Turchia e Russia supera i 20 miliardi di dollari. I due paesi puntano ad aumentare questa cifra a 100 miliardi di dollari.

Questo rapporto commerciale in crescita vale anche per l’Ucraina. Secondo la Camera di Commercio di Istanbul (Ito) nel 2021 il volume commerciale superava i 7,4 miliardi di dollari Usa e nel 2022 l’obiettivo è raggiungere i 10. Solo nell’ultimo incontro avvenuto il 3 febbraio sono stati firmati ben 8 accordi commerciali tra Erdoğan e Zelensky. La collaborazione tra questi due paesi è in forte crescita anche nel campo militare.

Mediatori sì ma non da soli

La crisi energetica, l’interruzione dei rapporti commerciali, degli investimenti finanziari e del gigantesco riciclaggio di soldi nelle banche europee e in collaborazione con le mafie europee e la minaccia sulla sicurezza cibernetica sono solo alcuni punti che necessitano un piano B nel caso in cui le cose si mettessero molto male a lungo termine con Mosca. Dunque a questo punto insieme ad Ankara subentrano nel gioco due altri attori insospettabili: Grecia e Israele.
La Turchia, ultimamente, sembra che stia ricucendo i suoi rapporti con questi due “alleati”/vicini.

Israele, una volta “razzista” e ”terrorista” per Erdoğan

Infatti non è un caso che il presidente della Repubblica d’Israele, Isaac Herzog, abbia visitato la Turchia, incontrando il suo omologo turco il 9 di marzo. Una visita che era stata già organizzata ma ovviamente ha assunto un’importanza particolare in questo periodo esattamente come il contenuto delle dichiarazioni finali.

«Sia l’inizio di una nuova fase nelle relazioni tra questi due paesi. Dobbiamo rafforzare i nostri obiettivi commerciali soprattutto nel campo dell’energia»: erano alcune parole pronunciate da Erdoğan alla fine dell’incontro. Herzog invece ha voluto parlare anche della convivenza dei popoli, la pace tra le religioni e ha pure citato una poesia di Hikmet.

Secondo il conduttore televisivo israeliano, Mohammad Micedle, questi due paesi hanno obiettivi in comune in Siria e in Ucraina. Quindi devono lavorare insieme. Invece secondo, Jonathan Freeman, uno dei professori dell’Università di Gerusalemme il ruolo di questi due paesi acquisisce un valore aggiunto derivante dalla guerra in Ucraina soprattutto nell’ambito della sicurezza, dell’energia e dal punto di vista economico.

«Grecia e Cipro avranno le risposte che meritano» (Erdoğan, 14 ottobre 2020)

Lo stesso tipo di visita a Istanbul è stato effettuato il 13 di marzo anche dal primo ministro greco Kyriakos Mītsotakīs con Erdoğan.

L’incontro si è concluso con una serie di buoni intenti e progetti legati al «nuovo piano di sicurezza in Europa alla luce della guerra in Ucraina, lotta contro l’immigrazione irregolare e rafforzamento dei rapporti commerciali».

Una nuova fase, una nuova era positiva e felice meno di 2 anni dopo quel famoso momento di crisi registrato nelle acque dell’Egeo che portava quasi alla guerra questi due vicini storici; come l’incontro tra Erdoğan e Herzog mette la parola fine ai dissapori sorti nel maggio 2010 con la vicenda della Freedom Flotilla e l’assalto alla Mavi Marmara, nave turca assaltata dai servizi israeliani che causarono la morte di 9 marinai turchi.

La posizione di Ankara nel conflitto russo-ucraino

Assalto del Mossad alla nave turca Mavi Marmara in rotta verso Gaza nel maggio 2010: causarono 9 morti tra l’equipaggio e il pretesto al presidente turco per ergersi a paladino della causa palestinese.

Oligarchi e oppositori già in Turchia

Approfittare della fuga dei capitali dai paesi in conflitto e isolati è una scelta ormai molto diffusa in diversi angoli del mondo. Esattamente come quello di aprire le porte agli oppositori che a lungo andare potrebbero rappresentare una “carta” politica importante nei confronti dell’alleato di oggi. La Turchia ha fatto queste mosse ospitando quell’enorme quantità di denaro dello stato libico e di quello venezuelano nei momenti di grande crisi economica, politica e militare. Questa scelta fatta da Tripoli e Caracas comporta fedeltà e collaborazione e per Ankara la parziale disponibilità di questi due paesi rappresenta anche un elemento di forza nei confronti dei suoi alleati. In merito alla presenza degli oppositori invece possiamo citare il caso degli uiguri in fuga dallo Xinjiang e dei tatari scappati dalla Crimea in due tempi diversi in questi ultimi anni, rendendo così la Turchia rifugio degli oppositori e degli oppressi per quegli attivisti che rappresentano “minaccia e problema” per gli alleati Cina e Russia.

La storica attrazione per Istanbul

Secondo il professore universitario, Aydin Sezer, la vicinanza geografica della Turchia fa sì che per chi volesse portare via il suo capitale dalla Russia la rende più accessibile e attraente rispetto alla Cina e ai paesi del Golfo. Nel suo intervento fatto in diretta il 7 marzo, organizzato dal portale di notizie “Gazete Duvar, Sezer sostiene che numerose aziende russe stanno già avviando operazioni di acquisto dei beni di lusso, immobili costosi e vari investimenti finanziari a Istanbul. La stessa notizia è stata approfondita il 15 marzo in un articolo di Nuran Erkul Kaya ed Emre Gurkan Abay anche sul sito dell’agenzia di stato “Anadolou Ajansi” e un’esaustiva carrellata di patrimoni investiti in Turchia da parte di oligarchi russi molto vicini a Putin è stata redatta da su “medyascope”.
In una notizia firmata da “Euronews”, il 15 marzo, invece si parlava di quelle migliaia di “benestanti” russi che hanno deciso di lasciare la Russia per via della loro opposizione contro la guerra ma anche perché pensano che una catastrofe economica sia in arrivo. Lo stesso argomento era stato reso pubblico il giorno prima anche da “The New York Times”. In questo articolo, firmato da Anton Troianovski e Patrick Kingsley, si citavano i principali paesi di destinazione come Armenia, Georgia, Uzbekistan, Kirghizistan e Kazakistan ma anche la Turchia. Perché?

Profughi russi a Istanbul

Un turco trasporta nella neve stambulina materassi comprati da organizzazioni umanitarie per aiutare profughi russi contrari alla guerra e timorosi della catastrofe economica russa.

I motivi sono parecchi. Per esempio, nonostante il fatto che i paesi europei abbiano chiuso i loro spazi aerei agli aerei russi, la Turchia non l’ha fatto e questa scelta rende Istanbul una delle alternative per i russi che vogliono lasciare il paese. Solo la Turkish Airlines continua a organizzare 5 voli al giorno per Mosca e, insieme ad altre compagnie, questo numero supera i 30 in alcuni giorni. Kirill Nabutov, un commentatore sportivo di 64 anni fuggito a Istanbul, nell’intervista rilasciata al quotidiano statunitense afferma che la storia si ripete. Anche la cugina della madre di Nabutov fuggì a Istanbul nel 1920 e da lì andò in Tunisia. Anche se non grande come gli ucraini, questa fuga ricorda quelle 100.000 persone in fuga dalla guerra civile negli anni Venti, dopo la rivoluzione bolscevica, rifugiate a Istanbul.

Politica interna appesa ai colpacci internazionali

Il ruolo della Turchia, da diversi punti di vista, possiede un peso importante in questa fase storica che sta attraversando prima di tutti l’Ucraina poi il resto del mondo. Questo ruolo senz’altro è dovuto alle relazioni che Ankara ha costruito in questi ultimi anni, quelle relazioni basate sul reciproco sfruttamento, esattamente come diversi leader mondiali fanno da tempo. A questo fattore sarebbe opportuno aggiungere anche la crisi diplomatica, economica, energetica e politica in cui si trovano alcuni alleati della Turchia. Come abbiamo visto nell’esperienza della “gestione dei migranti” e nei conflitti armati in Libia e Azerbaigian/Armenia, dove l’incapacità oppure l’indifferenza dell’Unione europea e della Nato subalterna, Ankara approfitta dell’occasione. Infine la situazione economica e politica, devastante, in cui si trova il governo di Erdoğan deve fare qualcosa. Un leader che ha sempre fatto alimentare la politica interna con quella estera non può perdere quest’occasione sperando di perdere a casa qualche vittoria. Ce la farà? Questo dipende anche dagli alleati e dai partner della Turchia.

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n. 11 – Cosa può fermare il caos libico? https://ogzero.org/la-soluzione-del-caos-libico-e-ancora-lontana/ Mon, 26 Jul 2021 15:26:28 +0000 https://ogzero.org/?p=4430 Questo saggio dedicato alle rotte nordafricane appartiene alla serie di contributi in cui Fabiana Triburgo approfondisce la questione migratoria: proseguiamo con la Libia, giungendo – attraverso l’analisi della situazione politica ed etnica interna e degli interessi internazionali che non aiutano l’unificazione e la pacificazione del paese. Campi di detenzione, respingimenti e schiavitù rendono difficile la […]

L'articolo n. 11 – Cosa può fermare il caos libico? proviene da OGzero.

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Questo saggio dedicato alle rotte nordafricane appartiene alla serie di contributi in cui Fabiana Triburgo approfondisce la questione migratoria: proseguiamo con la Libia, giungendo – attraverso l’analisi della situazione politica ed etnica interna e degli interessi internazionali che non aiutano l’unificazione e la pacificazione del paese. Campi di detenzione, respingimenti e schiavitù rendono difficile la soluzione del caos libico: a quando i corridoi umanitari?


I principali conflitti che attualmente interessano le migrazioni forzate e le prassi di esternalizzazione poste in essere dall’Unione Europea e dai singoli stati membri portano a una predeterminazione delle rotte dei migranti.

Quello che oggi è inevitabile chiedersi è se il nuovo Patto europeo sulla Migrazione e l’Asilo, proposto dalla Commissione UE, possa essere realmente considerato una soluzione della gestione del fenomeno migratorio o se invece vi siano soluzioni legali alternative maggiormente lungimiranti e coraggiose.  


Etnie, tribù e clan nel puzzle libico

La Libia o piuttosto le “Libie” – Cirenaica, Fezzan e Tripolitania – da sempre si è distinta per la pluralità, all’interno del suo territorio, di differenti identità etniche e tribali, tra cui arabi, arabo-berberi, tuareg e berberi-amazigh, appartenenti ai clan o alle realtà cittadine e rispetto alle quali la popolazione libica avverte ancora oggi un forte senso di appartenenza superiore a un sentimento unitario di identità nazionale.

Ciò era valido tanto con Gheddafi quanto ancora oggi e rappresenta una delle prime questioni da prendere in considerazione se si vuole portare a compimento un effettivo processo di pacificazione del paese al di là delle dimensioni istituzionali create ad hoc per dare una parvenza di democratizzazione della Libia, come è avvenuto mediante  la formazione di un governo ad interim – istituito a Ginevra nel febbraio 2021 – approvato nel mese successivo dal parlamento di Tobruk riunitosi a Sirte e finalizzato a condurre il paese verso un trasparente e sicuro processo elettorale previsto il  prossimo 24 dicembre.

Mappa elaborata da OGzero e Chiara Alessio, dal volume di Alfredo Venturi, Il casco di sughero (Rosenberg & Sellier, 2020)

Dopo la caduta di Gheddafi, nessuna unità nazionale

Tali diverse realtà etniche rette all’epoca di Gheddafi da un sistema clientelare consolidato da quarant’anni che prometteva vantaggi all’una o all’altra tribù, in concorrenza tra loro, volto ad assicurare un consenso politico a favore dell’allora dittatura, emersero in tutta la loro irruenza con la caduta del regime – sull’onda delle rivolte tunisine ed egiziane – nel 2011. Da allora il conflitto civile ha provocato un sistema di anarchia caratterizzato dalle violenze e dagli scontri tra le diverse milizie legate all’una o all’altra realtà etnica – con sporadici tentativi di istituzionalizzazione del paese – quando i diversi clan hanno avuto accesso agli armamenti del regime ai quali si sono aggiunti quelli delle forze regionali e di quelle internazionali che sono oggi le vere protagoniste dello scenario libico. I precedenti round elettorali nel 2012 e nel 2014 infatti non hanno portato mai alla creazione di uno stato libico unitario sia per la presenza nell’esecutivo legittimamente eletto, con riferimento al 2012, della componente islamista dei Fratelli Musulmani – ricordiamo che nel 2013 il Parlamento dichiarò la volontà dell’applicazione della legge islamica nei confronti della popolazione libica – sia nel 2014, quando il governo eletto, con un’esigua partecipazione alle urne, è stato fortemente contestato dalle milizie islamiche che hanno acquisito il potere sulla città di Tripoli.

I due governi: Giano bifronte

Più specificatamente nel 2014 il precedente Congresso all’esecutivo si trasformò, senza cedere il potere, in un nuovo Congresso di Unità Nazionale e si contrappose alla Camera dei Rappresentanti e al nuovo governo legittimamente eletti che furono costretti a rifugiarsi nell’est del paese nella città di Tobruk mentre Tripoli finì nelle mani delle milizie musulmane. Venne creandosi così quel “Giano bifronte” del potere libico che vide contrapporsi la parte Est a quella Ovest: in questo contesto si impose il generale Haftar – ritornato nel 2011 dall’esilio negli Stati Uniti dopo l’estromissione dal regime a opera di Gheddafi – mostrandosi come unico uomo forte in grado di scacciare la componente estremista islamica dell’Isis e delle milizie islamiche, cominciando ad acquisire il controllo di un numero sempre maggiore di aree del territorio libico, in particolare in Cirenaica e nel Fezzan, a sud del paese, ponendosi a capo dell’Esercito di Liberazione nazionale.

L’appoggio internazionale diviso e divisivo

Successivamente in Tripolitania nacque – su sostegno della comunità internazionale oltre a quello dell’Italia e della Turchia – un Governo di Accordo nazionale guidato da Fayiz al-Serraj. Tuttavia, la situazione così determinatasi si rivelò da subito fallimentare: Haftar appoggiato da Francia, Russia, Emirati Arabi, Egitto non volle mai riconoscere il nuovo governo, per cui la comunità internazionale avviò senza successo un’opera di riconciliazione, fino a che nell’aprile del 2019 Haftar tentò il secondo colpo di stato, dopo quello del 2014 con “ l’operazione dignità”,  assediando la città di Tripoli – sostenuto dalle potenze di cui sopra – che venne scongiurato, non a caso, soltanto mediante l’intervento della Turchia.

Gli interessi geopolitici

Queste fasi del conflitto libico, essenziali per capire la situazione attuale nel paese, già fanno emergere quel ruolo fondamentale delle potenze internazionali che fin dall’inizio proiettarono nello scenario libico i propri interessi geopolitici ed economici: basti pensare all’intervento Nato con la Francia, gli Usa e la Gran Bretagna nel 2011 e  l’influenza politica delle potenze regionali dispiegata fin da subito in Libia da un lato dalla Turchia e dal Qatar, paesi vicini a un islam politico, ed Emirati arabi ed Egitto dall’altro a sostegno di una stabilizzazione del paese attraverso un processo di militarizzazione. Con il passare del tempo questo ruolo delle potenze internazionali e regionali si è talmente acuito che nei punti all’ordine del giorno della Conferenza di Berlino sulla Libia – in particolare della seconda tenutasi il 23 giugno 2021 – vi è tra i principali obiettivi posti al governo ad interim l’eliminazione delle presenze internazionali nel conflitto. Non sono stati sufficienti infatti né la prima conferenza di Berlino a gennaio del 2020, né la tregua dell’agosto dello stesso anno, né il cessate il fuoco permanente dell’ottobre del 2020 e da ultimo il Governo di Unità Nazionale di Ginevra – istituito grazie al Forum internazionale di dialogo sulla Libia – a concretizzare tale obiettivo. Si ricorda in particolare che al secondo appuntamento del giugno scorso alla Conferenza di Berlino nel quale hanno partecipato 17 stati tra cui Russia, Usa, Francia, Italia ed Egitto, la Turchia ha posto la riserva proprio sul punto riguardante il ritiro dei propri militari dalla Libia.

La Turchia non leva i “boots on the ground”

La Turchia nel paese nordafricano ha mosso le proprie fila non solo per interessi economici-commerciali legati ai giacimenti petroliferi e alla ricostruzione del paese, ma soprattutto per il perseguimento del proprio espansionismo nel Mediterraneo.

Infatti, con il precedente governo di accordo nazionale libico la Turchia ha stretto un patto che legittima la Zee turca da sempre osteggiata dalla comunità internazionale schierata a favore delle rivendicazioni marittime della Grecia e di Cipro. La Turchia inoltre – che ricordiamo aver avuto il “merito” di aver provocato l’ingresso in Libia di migliaia di mercenari siriani che si sono aggiunti a quelli ciadiani e sudanesi – ritiene che la permanenza del proprio potere militare nel paese sia in qualche modo autorizzata dal precedente patto sottoscritto con il governo di accordo nazionale di al-Serraj. Si ricorda che l’attuale primo ministro Dbeibah dall’inizio del suo mandato ha ricevuto in Libia diverse diplomazie internazionali ma il primo paese nel quale si è recato personalmente con 14 membri del nuovo governo è la Turchia.

Inoltre, sia l’attuale primo ministro – ex imprenditore ed ex capo del fondo “Lybian Local Investment and Development Company” varato da Gheddafi nel 2007 – sia il presidente del Consiglio presidenziale Mohammed Yunus al Manfi – ex ambasciatore libico in Grecia– sono figure vicine ideologicamente alla Turchia. Intanto gli altri stati, in particolare i paesi dell’UE e gli Stati Uniti, pur opponendosi alla reticenza turca sul ritiro delle proprie forze militari spesso sono troppo intimoriti da una possibile stabile quanto strategica presenza nel Mediterraneo della Russia. Russia e Turchia schierate rispettivamente a sostegno della parte est e della parte ovest del paese sono rivali nello scenario libico ma questo è solo uno dei contesti internazionali in cui i due paesi, pur essendo in contrapposizione tra loro, non arrivano mai allo scontro diretto condividendo troppi interessi comuni come quelli sul turismo, sul piano energetico, sul nucleare e sugli armamenti militari.

Milizie e contractors russi: il ritiro è lontano (nonostante l’accordo)

Non si dimentichi il ruolo delle due potenze nel conflitto riguardante il Nagorno Karabakh, la Siria e la Georgia. Quindi anche nel corso della seconda Conferenza di Berlino, Russia e Turchia hanno trovato un accordo convenendo sul ritiro di 300 tra mercenari siriani e contractors delle milizie Wagner, la Società russa di sicurezza paramilitare privata vicina al presidente Putin. Si ricorda tuttavia che l’ultimatum per il ritiro delle forze internazionali era previsto per il 23 gennaio del 2021 e che secondo le Nazioni Unite al momento vi sono ancora circa 20.000 mercenari sul territorio libico.

E la nuova Costituzione?

Non solo, oltre al progressivo allontanamento delle potenze estere dal conflitto libico, il Governo di Unità Nazionale deve portare a compimento alcuni altri importanti obiettivi in vista dell’appuntamento di dicembre per il ritorno della popolazione civile alle urne: l’approvazione di una nuova Costituzione, di una legge elettorale e la riforma del sistema di sicurezza nel paese con la creazione di un esercito nazionale libico unito che rappresenta il presupposto fondamentale per un corretto svolgimento delle elezioni e l’unico strumento che possa scongiurare che esse non vengano inficiate da una spirale di violenza determinata dalle milizie appartenenti alle diverse fazioni. Proprio per tale ragione è necessario che l’approvazione della nuova Costituzione prima delle votazioni sia il più possibile inclusiva delle minoranze etniche – alle quali spesso corrispondono altrettante milizie – attraverso il loro riconoscimento all’interno della costituente ma ciò non è un processo di facile attuazione, basti pensare che la componente amazigh-berbera ha già rifiutato un referendum di ratifica di un trattato costituzionale.

 

Se tali questioni non vengono risolte prime delle elezioni il rischio è che un nuovo governo eletto, pur se legittimo, si ritrovi dinanzi le stesse tare dei precedenti governi. Si rammenta a tal fine che l’approvazione del governo tecnico ad interim, di cui il primo ministro è Dbeibah, accolta con un plauso internazionale condiviso si deve leggere attraverso la lente di un alleggerimento delle tensioni tra Turchia ed Emirati, Egitto e Francia e soprattutto in ragione del fatto che tale governo è provvisorio per definizione in quanto gli attuali membri che ne fanno parte non potranno candidarsi alle prossime elezioni. Qualche dubbio che ciò non sarà così emerge sia dal comportamento del primo ministro rispetto alle cancellerie internazionali, sia dai processi di riforma finora attuati, essendo alquanto improbabile che nell’arco di sei mesi possano realizzarsi i succitati obiettivi, anche perché attualmente il governo ad interim sembra aver altri intenti soprattutto di carattere economico, stringendo accordi commerciali con ogni paese con cui può incontrarsi a livello diplomatico.

Europa e Stati Uniti: è davvero pacificazione e ricostruzione?

Cosa può dirsi quindi cambiato in esito a queste tappe politiche e militari così importanti che hanno interessato il paese nel 2020 e nel 2021?

Poco, come detto, sotto il profilo sostanziale per il rafforzamento delle istituzioni rispetto al passato, in un’ottica di una Libia unita pur essendo chiaramente da non sottovalutare la condizione attuale di distensione e di unicità della rappresentanza governativa. Si può però affermare che oggi l’Unione Europea abbia una politica comune in Libia, dato il momentaneo superamento delle contrapposizioni dell’Italia e della Francia nel paese e che gli Stati Uniti, governati dall’amministrazione Biden, anche se mantengono comunque in Libia una posizione non interventista – la stessa che ha caratterizzato le precedenti amministrazioni – con il loro sostegno verbale al processo di democratizzazione del paese hanno indirettamente accelerato la spinta internazionale comune alla ricostruzione dello scenario libico, anche se non sappiamo ancora quanto questo sarà effettivamente determinante per la pacificazione della Libia.

Ciò che sicuramente non è cambiato è l’attenzione al tema delle migrazioni soltanto sfiorato nella recente conferenza di Berlino e delle gravissime violazioni dei diritti umani che continuano a compiersi in Libia. Quello che preoccupa fortemente e che ogni potenza internazionale, impegnata in questa svolta del processo di pacificazione, sembra far finta di non vedere, sono i centri detentivi libici dei quali ventiquattro sono ufficiali mentre trentuno risulterebbero quelli non ufficiali. Alcuni dati possono sicuramente aiutare a comprendere meglio la situazione anche se non danno la reale e drammatica portata umana del fenomeno: più di 700.000 sono i potenziali richiedenti asilo presenti nel paese, 200.000 gli sfollati interni, 5.000 i potenziali richiedenti asilo presenti nei centri detentivi ufficiali, due dei quali Medici Senza Frontiere è stata costretta recentemente ad abbandonare e circa 10.000 quelli stimati presenti nei centri non ufficiali.

Detenzioni e schiavitù

Nei centri i migranti vengono torturati e sono vittime di violenti abusi e gravi sfruttamenti sia sessuali che lavorativi fino spesso alla riduzione in una condizione di schiavitù. Quello che è importante avere in mente è che le persone detenute in questi centri non sono protagonisti di attuali ondate migratorie provenienti dall’Africa Subsahariana transitanti per Agadez come un tempo – essendo stato bloccato il transito dei migranti negli ultimi anni dal Niger alla Libia con la Legge nigerina 36-2015 che criminalizza il traffico umano in accordo con le politiche di esternalizzazione europee – ma persone che sono presenti in Libia in uno stato di detenzione da almeno cinque anni.

Oggi i migranti che passano per il Niger vengono fermati e abbandonati in quel “mare di sabbia” del deserto del Sahara contiguo al Fezzan libico, pericoloso nel suo attraversamento quanto il Mediterraneo centrale.

Rifugiati attraversano il deserto da Agadez in Niger alla Libia, per arrivare in Europa (foto Catay / Shutterstock)

Attualmente inoltre occorre segnalare che l’Unhcr sta cercando di compiere un’attività di evacuazione dei migranti dai centri detentivi libici al Niger, attraverso delle domande di reinsediamento di questi soprattutto in Canada negli Stati Uniti e in alcuni paesi dell’UE. Si rammenta tuttavia che questa procedura non consente garanzie ferme e ufficiali in ordine alla tutela dei richiedenti asilo non essendo né il Niger né la Libia firmatari della Convenzione di Ginevra.

La situazione assume i caratteri della catastrofe umanitaria se analizziamo le attività di respingimento soprattutto a opera della cosiddetta “guardia costiera libica” per cui i migranti detenuti, dopo aver pagato attraverso i propri familiari il prezzo della propria libertà, vengono intercettati e riportati nelle coste libiche e successivamente reinseriti nei centri, in questo caso quasi esclusivamente in quelli detentivi non ufficiali, chiamati più notoriamente Safe House o Connection House.

A quando i corridoi umanitari?

Da quanto sinora esposto sotto profili diversi è chiaro dunque che la Libia non possa ritenersi un paese sicuro, per il quale sarebbe opportuno implementare sistematicamente le pratiche dei corridoi umanitari tenendo conto delle continue notizie delle morti in mare, consentendo lo svuotamento completo dei lager libici, e bloccando subito le pratiche dei respingimenti collettivi delegati e dei finanziamenti europei a esse finalizzati che interessano le attuali  rotte migratorie tra cui quella del Mediterraneo centrale di cui si tratterà immediatamente di seguito.

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Stabilizzare Eurasia passando da Erevan https://ogzero.org/tenere-fuori-dal-gioco-washington-e-stabilizzare-l-eurasia/ Sun, 27 Jun 2021 10:00:23 +0000 https://ogzero.org/?p=4050 Sembra che ci sia ancora qualche sparuto paese al mondo in cui la dittatura delle società che realizzano i sondaggi elettorali non spadroneggi: tra questi c’è sicuramente l’Armenia. Nelle settimane precedenti alle elezioni legislative anticipate del 20 giugno, resesi non più procrastinabili dopo la disfatta nella guerra nel Nagorno Karabakh, il premier Nikol Pashinyan era […]

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Sembra che ci sia ancora qualche sparuto paese al mondo in cui la dittatura delle società che realizzano i sondaggi elettorali non spadroneggi: tra questi c’è sicuramente l’Armenia.

Nelle settimane precedenti alle elezioni legislative anticipate del 20 giugno, resesi non più procrastinabili dopo la disfatta nella guerra nel Nagorno Karabakh, il premier Nikol Pashinyan era infatti dato perdente da tutte le rilevazioni delle principali società demoscopiche. Il partner della prestigiosa Gallup International in Armenia – la società Mpg – prevedeva una corsa sul filo di lana di Pashinyan con il suo avversario, l’ex presidente del paese e capo del Blocco Armeno, Robert Kocharian è l’agenzia Ria Novosti, che aveva condotto una rilevazione solo 6 giorni prima del voto, aveva perfino stimato per Kocharyan il 32% delle preferenze contro il 24% di Pashinyan. Inaspettatamente invece il Contratto Civile guidato proprio dal primo ministro Nikol Pashinyan ha fatto saltare il banco ed è decollato al 53,92% dei voti espressi, detronizzando il suo rivale che pur chiamando alla rivalsa contro il disprezzato nemico azero, si è fermato al 21,04%. La terza forza a entrare in parlamento è stata quella guidata dall’ex capo del servizio di sicurezza nazionale del paese Artur Vanetsyan che pur non avendo superato lo sbarramento del 7% (come altri 22 partiti che avevano partecipato alla campagna elettorale) dato che per legge il numero di partiti rappresentati non può essere meno di tre, con il suo 5,2% farà parte lo stesso del consesso legislativo.

Robert Kocharian, lo sconfitto leader del Blocco armeno

Il Blocco armeno ha denunciato brogli ma non è stato preso sul serio neppure dai suoi sostenitori e nessuno è sceso in piazza a protestare a Erevan come invece era successo massicciamente dopo la cocente sconfitta militare dello scorso autunno.

Sviluppi internazionali dopo la sorpresa elettorale

Cosa dunque è successo nelle settimane precedenti al voto da rendere inefficaci le interviste delle società di sondaggio?

Ipotesi sull’incidenza dell’armistizio sul voto

Le elezioni erano in primo luogo un plebiscito sull’armistizio che ha fatto perdere all’Armenia tre quarti del territorio conteso con l’Azerbaijan. La maggioranza degli elettori da questo punto di vista non ha probabilmente cambiato opinione e continua a considerare ancora oggi una “capitolazione” l’accordo di pace firmato sotto l’egida di Mosca, tuttavia è cambiata con il raffreddarsi delle emozioni del momento, la sua percezione della dinamica politica in corso.

«Le elezioni si sono concluse inaspettatamente per molti in Russia, ma questa sorpresa è stata dovuta a sondaggi dubbi o alle valutazioni di alcuni esperti che si sono schierati piuttosto con una delle forze politiche e non hanno fornito un’analisi obiettiva della situazione», ha affermato il ricercatore presso l’Istituto di studi postsovietici e interregionali (Riac) Alexander Gushchin. «Le elezioni hanno dimostrato che la vecchia élite e i suoi leader non sono stati in grado di consolidare attorno a sé la quota principale dell’opinione pubblica armena nemmeno sull’onda dell’insoddisfazione per la sconfitta militare nella seconda guerra del Karabakh. La scia di pubblica negatività verso l’“ex” si è rivelata troppo grande, mentre l’elettorato di Pashinyan è stato mobilitato al massimo» ha osservato ancora Gushchin.

«Le elezioni in Armenia hanno confermato il sostegno alla formula per la futura pace nella regione, elaborata con la mediazione di Mosca lo scorso novembre», sostiene inoltre Andrej Fedorov, direttore del Centro russo per la ricerca politica, su “Kommersant” del 22 giugno 2021. «Se il corso verso la normalizzazione continuerà, per la Russia significherà la possibilità di neutralizzare ai suoi confini meridionali un focolaio di instabilità a lungo termine potenzialmente pericoloso. Allo stesso tempo, il percorso per ridurre il confronto tra Armenia e Azerbaijan dovrebbe facilitare il compito di coinvolgere Baku nei processi di integrazione in Eurasia». Pertanto secondo Fedorov «dopo le elezioni in Armenia, nella nuova fase, la crescente influenza della Russia può essere determinata sia dal mantenimento della pace sia da un ruolo più attivo nella costruzione di nuove relazioni tra le parti coinvolte nel conflitto del Karabakh».

L’emotività dei sondaggi seppellita dalla Realpolitik nelle urne

Ciò che non è risultato credibile – soprattutto ai cittadini armeni che vivono nelle campagne e proverbialmente più saggi e moderati di quelli urbani – è che si possa rimettere in discussione l’accordo raggiunto con il cessate il fuoco o persino riprendere la guerra. Il fatto che Pashinyan, nato e divenuto celebre come attivista dei diritti umani filoccidentale e sostenitore delle esigenze degli strati del lavoro intellettuale, abbia potuto attecchire nell’Armenia profonda e perfino trasformarsi in un politico che guarda a Mosca come ciambella di salvataggio anche nel futuro, è interessante per capire come opinione pubblica e leader possano cambiare pelle rapidamente nel mondo attuale, ma ciò ancora non spiega lo iato tra i polls virtuali che lo davano al 20% e il più del 50% di voti veri ottenuti nei seggi. In realtà – come ha sottolineato Gevorg Mirzayan, professore di Scienze politiche all’Università di Mosca – la maggior parte degli oppositori di Pashinyan è rimasta a casa, e sarebbero loro in maggioranza a formare l’esercito costituito da 1,2 milioni di elettori armeni che non si sono presentati al voto, a cui di fatto va aggiunto quel 17% che ha votato per liste che non avevano alcuna possibilità di entrare in parlamento: due modi di protestare contro la scarsa concretezza di Kocharian piuttosto che un sostegno al premier uscente.

Strategia russa di stabilizzazione e controllo

Questo quadro darebbe qualche chance a Putin di giocare il ruolo di facilitatore del coinvolgimento di Baku nei processi di integrazione in Eurasia e in misura minore di stabilizzazione dei difficili rapporti con la Turchia.

Il fattore più importante del voto, è che la “sacralizzazione” del problema del Karabakh e l’idea di vendetta nazionale non sono già più in cima ai pensieri di ampi strati della società armena, che hanno già altre priorità, in primo luogo la ripresa economica.

Tenere fuori dal gioco Washington

Ad aprile era stata annunciata la costruzione congiunta di una centrale nucleare russo-armena, ulteriore segnale dell’abbraccio economico-energetico russo

Inoltre, la maggioranza degli armeni si è dimostrata più realista del re, comprendendo che nelle condizioni attuali nel Caucaso meridionale e intorno al Artsakh, i partiti “bellicisti” armeni, anche se avessero vinto le elezioni, difficilmente sarebbero stati in grado di capovolgere la situazione a loro favore.

Mosca ha effettivamente tirato un sospiro di sollievo dal voto a Erevan perché garantisce la road-map tripartita definita in autunno e soprattutto la presenza di proprie truppe nella regione per anni. Non è un caso che il giorno dopo il voto senza attendere la conferenza stampa dell’opposizione, il Cremlino ha annunciato il suo «sostegno alla scelta del popolo armeno». Del resto Mosca non solo ha visto quanto Pashinyan nei suoi confronti abbia abbandonato i modi del bizzoso destriero e ora vada al passo come un ubbidiente pony, ma si sia dimostrato negli ultimi mesi un politico accorto. Infatti mentre la diaspora di Parigi e New York si batteva il petto per il Karabakh perduto e l’orgoglio nazionale infranto ma restava a osservare da lontano le vicende patrie, il popolo armeno dimostrava nell’urna più voglia di “normalità” e “pace”, se non proprio con gli invisi azeri almeno con gli altri popoli della regione, russi compresi.

Pashinyan allineato e coperto con il Cremlino

È interessante notare che nel suo primo discorso alla nazione dopo le elezioni, Nikol Pashinyan, da parte sua ha fatto un bel po’ più che un gesto dimostrativo nei confronti della leadership russa. «Esprimo la mia gratitudine alla Federazione Russa, al presidente russo Vladimir Putin e al primo ministro Mikhail Mishustin per il sostegno che hanno fornito all’Armenia e al popolo armeno in questa situazione», ha affermato Pashinyan in Tv. «L’Armenia dovrà approfondire seriamente la cooperazione militare e strategica con la Russia – ha aggiunto il leader armeno – a fronte della politica aggressiva dell’Azerbaijan», ha perfino aggiunto.

Su scala regionale il ruolo di Erevan del resto visto lo stato in cui versa la sua economia e il suo esercito, si riduce a cercare di contrastare l’alleanza sempre più stretta tra Ankara e Baku brandendo come può l’arma del genocidio turco.

Strategia turca di stabilizzazione e controllo

Le cose dalla parte della barricata turcofona si stanno muovendo rapidissimamente. Mentre in Armenia si chiudeva la campagna elettorale, il 15 giugno, il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan giungeva a Şuşa, città simbolo della vittoria militare azera di qualche mese fa, dove con Ilham Aliyev, ha firmato una dichiarazione di Alleanza che d’ora in poi per i contraenti si chiamerà “Storica Dichiarazione di Şuşa”. Dietro ai titoli pomposi, a Şuşa si sono fatti comunque dei concreti passi avanti per quanto riguarda la cooperazione bilaterale nel campo della sicurezza, accordandosi perché l’Azerbaijan crei un «modello ridotto dell’esercito turco». Ankara e Baku conducono regolarmente e già da tempo esercitazioni militari congiunte e operazioni antiterrorismo ma per ora Baku non ha dato alcun segno di voler aderire alla Nato, segno che Ankara potrebbe desiderare avere nelle proprie disponibilità un arsenale e delle truppe autonome e fuori dal controllo Usa.

Allargamento di Astana?

In questa occasione il leader turco ha voluto anche mostrare la sua versione dialogante, diventata la sua postura dominante dell’ultimo periodo: ha chiesto ad Aliyev la normalizzazione delle relazioni con Erevan e ha proposto un format di cooperazione a sei nel Caucaso meridionale, che veda la partecipazione di Turchia, Russia, Azerbaijan, Armenia, Georgia e Iran. L’aver aggiunto nel menù anche l’Iran è un gesto di non poco conto che al Cremlino hanno preso in seria considerazione non solo in vista dei nuovi passi americani di apertura nei confronti del paese islamico ma soprattutto del realismo e del gradualismo con cui la Turchia voglia sviluppare la sua politica egemonica nella regione.

Qualche ora prima, del resto, Erdoğan aveva incontrato il presidente Usa Biden e si era dimostrato anche in questo caso assai disponibile e quasi remissivo malgrado lo “sgambettino stellestrisce” del riconoscimento ufficiale dell’“Olocausto armeno”. Il presidente turco ha promesso a Biden di restare “alleato sincero della Nato” ma non ha ceduto di un palmo né sulla questione del suo ruolo in Siria e Libia né sull’acquisto di sistemi missilistici antiaerei russi S-400.

Biden era venuto in Europa anche per verificare lo stato delle relazioni con Georgia e Ucraina in vista di una loro futura adesione alla Nato ma anche su questo terreno, dovrà tenere conto delle mosse bilaterali degli attori regionali.

Fatale attrazione caucasica per Erdoğan

Recentemente il primo ministro di Tblisi, Irakli Garibashvili, ha visitato Ankara proponendosi ai turchi come potenziale secondo alleato regionale, malgrado la Georgia sia un paese cristiano: una eventualità che sembra piacere ad Erdoğan proprio in vista dell’ingresso del paese ex sovietico nella Alleanza atlantica.

Tenere fuori dal gioco Washington

Ma la Georgia è attiva anche in direzione di un altro paese chiave della zona e cioè l’Ucraina anch’essa predestinata a diventare membro della Nato nonché dell’Unione europea. Tblisi è più avanti nel processo di adesione ma grazie al “fattore Donbass” che potrebbe tornare a essere dirimente in Europa in qualsiasi momento, Kiev potrebbe superarla al fotofinish, malgrado la Georgia abbia anch’essa in Abkhazia e Ossezia del Sud dei contenziosi aperti con la Russia e proprio la comune avversione a essa è il mastice che tiene insieme i due paesi ex sovietici.

Siamo a un passaggio fondamentale. L’ascendente di Ankara cerca di emarginare la declinante Mosca nella regione senza però per il momento farsela nemica come invece è nelle corde di Ucraina e Georgia: tenere fuori dal gioco Washington è nel loro comune interesse.

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La guerra cambia https://ogzero.org/la-guerra-cambia-o-no/ Wed, 14 Apr 2021 07:14:44 +0000 https://ogzero.org/?p=3072 Blinken annuncia per il September/Eleven 2021 la fine del conflitto più lungo nella storia degli Usa. Con il ritiro degli ultimi 2000 boots on the ground dall’Afghanistan si concludono vent’anni di guerra che sono costati più di 100.000 morti civili e qualche migliaio di combattenti solo nel conflitto afgano. Dove sono stati utilizzati massicciamente quei […]

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Blinken annuncia per il September/Eleven 2021 la fine del conflitto più lungo nella storia degli Usa. Con il ritiro degli ultimi 2000 boots on the ground dall’Afghanistan si concludono vent’anni di guerra che sono costati più di 100.000 morti civili e qualche migliaio di combattenti solo nel conflitto afgano. Dove sono stati utilizzati massicciamente quei militari professionali appartenenti ad agenzie che forniscono servizi, anche e soprattutto bellici (ma pure logistici) in ogni situazione di conflitto: i “contractor”, quei prezzolati che seguono regole di ingaggio specificate nei contratti – spiegati con precisione da Stefano Ruzza nel video inserito nell’articolo – stipulati anche con governi, che non si possono permettere le “spese” di una guerra o di apparire come invasori. “La guerra cambia” è il titolo di questo splendido contributo di Eric Salerno, che descrive il mondo di questi militari di professione a partire da una sua intervista di sessant’anni fa a un soldato di ventura tedesco, impegnato nell’operazione coloniale contro il Congo di Lumumba… e così si insuffla il dubbio che la trasformazione della forma in cui si presenta la “Guerra” sia reale. Il discorso poi si dipana in giro per tutto il mondo e in ogni guerra più o meno dichiarata, mentre in parallelo scorrono racconti e figure inquietanti del passato, come il racconto dell’incontro vecchio di 50 anni di Roman Gary con un ex agente dell’Oas impazzito nella sua tana a Gibuti. E allora il dubbio su quanto sia cambiata la guerra diventa certezza in questa carrellata degna di Ermanno Olmi e del suo Il mestiere delle armi… che non cambia mai a dispetto di quanto sia cangiante l’idea di guerra.


Mercenari, legionari, contractors e… droni

La verità sulla morte di Lumumba

«I am a mercenary coming from the Congo. I want to tell you how Lumumba was killed». Così Gerd Arnim Katz – il suo nome dichiarato – si presentò alla redazione di “Paese Sera” una mattina del febbraio 1961. Ascoltai la sua storia (in parte vera in parte fantasia) e il quotidiano romano di sinistra uscì con un titolo a piena prima pagina sulla morte del leader africano, trucidato per ordine della Cia. Katz era una pedina minore in un campo di battaglia vasto come sta tornando a essere l’Africa di oggi.

"Paese Sera" - 23 e 24 febbraio 1961

Intervista a Gerd Arnim Katz, testimone dell’assassinio di Patrice Lumumba nella sede di “Paese Sera”

Non era certo un Mike Hoare, il più celebre dei mercenari del Novecento, che nel 1964 ebbe da Moise Ciombe, presidente dell’autoproclamato stato di Katanga, una provincia del Congo, l’incarico di reprimere la rivolta dei Simba, un esercito popolare di liberazione di ispirazione maoista che era riuscito a conquistare l’importante città di Stanleyville, prendendo in ostaggio oltre 1500 cittadini europei. E tanto meno poteva, quel mercenario approdato al quotidiano romano, essere paragonato a Rolf Steiner, ex legionario, ex capo dei mercenari in Biafra, ingaggiato come consulente militare dai ribelli cristiani Anya Nya impegnati con l’aiuto del Mossad israeliano nella guerra secessionista nel Sudan meridionale e finito in carcere dopo un lungo processo a Khartoum.

Legionari resi folli dall’inaccettabile fine dell’impero coloniale…

Katz fu, però, il primo di non pochi soldati di ventura che incontrai nei miei giri per l’Africa e altrove dove oggi, nel continente nero come nel resto del mondo, la guerra sta assumendo nuove forme e impiega nuovi-vecchi attori. I mercenari si chiamano contractors (suona meglio) ma spesso sono quelli di sempre; i drone operators si chiamano piloti anche se stanno seduti per ore davanti a uno schermo ben distante dal campo di battaglia. I fanti del prossimo futuro sono robot sofisticati come quelli di cui leggevo da bambino nei racconti di fantascienza di Isaac Asimov o Ray Bradbury. La guerra cambia. «In meglio!», asserisce chi ha investito nella nuova faccia del military-industrial complex, come lindustria degli armamenti o, diciamo, della guerra fu definita dal generale poi presidente degli Usa Eisenhower. «In peggio!», sostengono coloro che trovano difficile pensare a un robot o a un pilota della nuova generazione e tanto meno all’amministratore delegato di una società, che offre manodopera armata come se fossero colf, badanti o operatori del sesso, trascinato sul banco degli imputati per crimini di guerra.

Il mercato del lavoro a disposizione del quale si era messo quel Katz con cui parlai sessanta anni fa era ben diverso da ciò che offre il mondo d’oggi. All’epoca molti sbandati o pregiudicati come lui trovavano spazio nella vecchia Legione straniera francese, una specie di esercito parallelo a quello ufficiale di Parigi, formalmente sottoposto alle medesime regole di comportamento ma, come si vide nelle sue avventure in Vietnam o in Algeria, molto più elastico, per usare un eufemismo, nel trattamento del nemico.

Imaginez le drapeau tricolore sortant de ce nulle part. Un autre traîne sans vie au-dessus dune tour de guet que je reconnais immédiatement: cest celle des postes isolés en territoire viet. Une cabane de pierres entassées et autour Eh bien, oui: des sacs de sable contre les balles et une mitrailleuse qui pointe

Vous ne me croyez pas. Tant mieux. Je garderai mieux pour moi cette pierre qui brille de tous les éclats dune belle et pure folie Un homme vit là-dedans depuis six ans: lex capitaine Machonnard. Je dix ex: privé de son grade pour son action dans lOas. Devenu fou: cest ainsi quon appelle ceux qui ne peuvent se faire à la réalité. Un an dinternement. Un Homme pur qui le temps sest arrêté et ne se remettra plus jamais en marche : vous comprendrez dans un istant

Le capitaine sort une bouteille de champagne de sa serviette.

– Pour célébrer la victoire de Dien Bien Phu

[…]

Car, vous lignorez peut-être, mais Machonnard vous le dira : lIndochine et lAlgerie sont toujours françaises, le général Salan est président de la République, dans tout lAfrique  française les enfants noirs continuent à apprendre en chœur les premières lignes dIsaac et Malet : «Nos ancêtres les Gaulois avaient de longues moustaches blondes…»

(Roman Gary, Les Trésors de la mer Rouge, Gallimard-Folio, Paris, 1971)

… e i crimini incarnati in una figura di mercenario

Rolf Steiner

Ritratto di un mercenario realizzato da Eric Salerno il 21 agosto 1971 per “Il Messaggero”

Le nuove compagnie di ventura

Oggi la legislazione a livello internazionale distingue tra i mercenaries – tutti fuorilegge – e i contractors, ossia dipendenti delle numerose società private o semigovernative che operano saltellando da un conflitto a un altro. Certamente l’esempio più clamoroso risale ai momenti più caldi delle guerre in Iraq e in Afghanistan quando gli Usa impiegarono oltre 260.000 di questi contractors, in gran parte ex militari o ex agenti di polizia. Spesso erano più dei militari stelle e strisce schierati nei due fronti. I loro compiti andavano dalla costruzione delle basi e dei campi rifugiati al servizio mensa e al mantenimento delle armi; dalla sicurezza degli impianti a quella dei diplomatici. E anche all’interrogatorio dei detenuti non sempre condotto con il rispetto delle convenzioni internazionali sul trattamento riservato ai prigionieri di guerra.

I due fronti, afgano e iracheno, sono ancora vitali per l’industria militare (anche come testing ground per armi e sistemi) e ai contractors Usa si sono aggiunti molti altri. La famosa – o infame – Blackwater fondata nel 1997 da Erik Prince, un ex Navy Seal con un grande patrimonio di famiglia fu costretta a cambiare nome nel 2011 dopo numerosi scandali che coinvolgevano loro operativi e almeno un processo. L’incidente più clamoroso risale al 16 settembre 2007 quando a Baghdad 17 iracheni, di cui almeno 14 civili, rimasero uccisi dal fuoco dai contractors della compagnia militare privata: la Blackwater ora si chiama Academi. Ed è sempre la prima per importanza di un lungo elenco.

Erik Prince

Forze militari in affitto: Erik Prince, fondatore della Blackwater-Academi

Dall’altro lato di quella che era la cortina di ferro negli anni della contrapposizione Usa-Urss, gli fa concorrenza la misteriosa Wagner Group, una organizzazione paramilitare che secondo alcuni farebbe capo al ministero della difesa di Mosca. Formalmente, per quanto si riesce a capire, è di proprietà di un uomo d’affari (Yevgeny Prigozhin) con legami con il presidente russo Putin. Seppure a distanza (relativa) quelli di Academi e di Wagner si scontrano-sfiorano nel vasto, complicato, scacchiere della guerra in Siria la cui popolazione, peraltro, è diventata un grande serbatoio di reclutamento di mercenari. Il gruppo privato russo li usa sia nei conflitti indiretti non solo in Siria ma anche nella guerra in Donbass in Ucraina e in Libia. E secondo molte fonti anche in Sudan, Repubblica centroafricana, Zimbabwe, Angola, Madagascar, Guinea, Guinea Bissau, Mozambique e forse nella Repubblica democratica del Congo.

Sudan 1971

Mercenari già allora russi nel conflitto sudanese 1971 in un articolo di Eric Salerno per “il Messaggero” del 21 giugno 1971

Un altro esercito di mercenari (soprattutto ma non solo siriani) è quello creato dalla Turchia nel quadro dei suoi progetti egemonici. Almeno quattromila sono in Libia e altri furono utilizzati da Ankara a sostegno dell’Azerbaijan nel conflitto con gli armeni sul Nagorno-Karabakh. Questi i grandi attori ma non gli unici. Gli Emirati si sono serviti di mercenari provenienti dalla Colombia (addestrati dagli Usa) e da alcuni stati africani per la loro guerra a fianco dell’Arabia saudita in Yemen. Rifugiati afghani furono utilizzati dall’Iran in Siria a fianco di Assad. Lo stesso Gheddafi reclutava mercenari nei paesi africani a sud della Libia.

Mercenari subsahariani di Gheddafi

Gheddafi reclutava mercenari nelle zone dell’Africa subsahariana.

Milizie private, dunque, milizie al servizio di stati che cercano di nascondere il loro coinvolgimento ufficiale nei conflitti oppure ridurre-nascondere l’impatto economico o in termini di costo umano delle imprese volute dai rispettivi governi. Ma a parte queste considerazioni che riguardano la legalità dei contractors rispetto alle convenzioni internazionali viene da chiedersi cosa faranno questi mercenari quando non serviranno più ai loro committenti. Dove andranno a lavorare? Per chi?

Nuovi prodotti bellici e nuova carne da cannone

Quando l’industria della guerra riuscirà a sfornare i suoi nuovi prodotti quei mercenari sfruttati e mandati al macello non serviranno più. Nei campi di battaglia attuali si sperimentano gli eserciti del futuro. Stati Uniti, Russia e Israele sono all’avanguardia nello sviluppo di Sistemi d’Arma Autonomi Letali (Laws) che consentiranno di togliere gli esseri umani dai campi di battaglia. Recentemente uno dei responsabili del ministero della difesa di Londra si è detto convinto che nel giro di pochi anni il grosso delle forze armate del suo paese sarà rappresentato da robot-fanti in grado di uccidere in base all’input della loro intelligenza artificiale. Si parla di un’autonomia – con tutto quello che implica anche dal punto di vista legale – superiore a quella dei droni-suicida già operativi come l’Harop israeliano usato dall’Azerbaijan ripreso mentre distruggeva una batteria anti-missile russo in Armenia.

Harop Drone

Il drone suicida di fabbricazione israeliana Harop è utilizzato in ogni scenario di guerra

E qui vale la pena tornare ai contractors, a quanto possono essere considerati responsabili delle loro azioni e del controllo sui mezzi autonomi. Oggi mantenere in azione per 24 ore una pattuglia di droni armati Predator e Reaper delle forze armate americane richiede la “presenza” di 350 esseri umani molti dei quali dipendenti delle società militari private. La legislazione introdotta per
regolamentare il comportamento dei contractors Usa viene considerata da molti esperti di diritto internazionale insufficiente.

Negli altri stati che si servono di personale civile (non necessariamente cittadini di quei paesi) per operazioni militari la questione è ancora più complessa e controversa. E ci mette di fronte al futuro, quello in cui si vorrebbe affidare a un algoritmo il compito di cercare, identificare e uccidere il bersaglio giusto (umano o non) in un campo di battaglia complesso alla presenza di civili non combattenti. «Non bisogna dare retta a coloro che garantiscono che queste armi saranno intelligenti», il commento preoccupato di Noel Sharkey, presidente del Comitato internazionale per il controllo delle armi robotiche. Altri come lui sottolineano come queste nuove tecnologie sono tutte soggette a hacking e dunque possono sfuggire al controllo del committente. Un tentativo di studiare il fenomeno e creare una serie di regole d’uso è stato compiuto dal Sipri (2020). «Vi sono imperativi legali, etici e operazioni per il controllo umano dell’uso della forza e, dunque, sui sistemi di armamenti autonomi», si legge nelle conclusioni di Limits on Autonomy in Weapon Systems. Identifying Practical Elements of Human Control.

Tutto questo per quanto riguarda il mondo, diciamo, delle Nazioni disposte ad assumersi le proprie responsabilità in tempo di guerra. Pochi, finora, hanno voluto addentrarsi nel reame sempre più fluido dei conflitti per procura e degli eserciti di mercenari. Per non parlare del mondo parallelo della criminalità organizzata che oggi ancora più di ieri attinge al vasto mercato libero delle armi siano convenzionali che del futuro. Droni di fabbricazione israeliana sono stati segnalati sia nelle mani della polizia messicana che a disposizione dei grandi cartelli dei narcotrafficanti (trasporto di cocaina e altro). E le stesse organizzazioni si fronteggiano spesso grazie ai servizi di società private (molte di quelle israeliane formati da ex delle forze armate e dei servizi segreti sono sotto inchiesta a Tel Aviv) capeggiate da esperti nel mondo della cibernetica e dell’Intelligenza artificiale.

Paramilitari in Mexico

 

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L’influenza russa si estingue nelle case incendiate a Karvachar? https://ogzero.org/il-vincolo-di-un-solco-inciso-tra-armenia-e-russia-negli-accordi-del-nagorno/ Sat, 28 Nov 2020 16:30:54 +0000 http://ogzero.org/?p=1862 Fantasie occidentali su Astana, droni reali su Stepanakert Tutta la grande stampa italiana ha sostenuto la tesi secondo cui l’accordo di pace nel Nagorno-Karabach sarebbe stato l’ulteriore capitolo di una alleanza tra Putin ed Erdoğan. Una chiave di lettura tutta ideologica – l’unità dei dittatori contro le democrazie – costruita sulla presunta unità d’intenti dei […]

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Fantasie occidentali su Astana, droni reali su Stepanakert

Tutta la grande stampa italiana ha sostenuto la tesi secondo cui l’accordo di pace nel Nagorno-Karabach sarebbe stato l’ulteriore capitolo di una alleanza tra Putin ed Erdoğan. Una chiave di lettura tutta ideologica – l’unità dei dittatori contro le democrazie – costruita sulla presunta unità d’intenti dei due capi di stato in Medio Oriente. La guerra iniziata nell’enclave a maggioranza etnica armena ha avuto due inoppugnabili vincitori (Turchia e Azerbaigian) e due sconfitti (Armenia e Russia), su questo però non si può non concordare. Gli accordi di pace firmati in fretta e furia la notte del 9 novembre mentre era in corso una vera e propria rotta dell’esercito armeno che stava rischiando di perdere persino Stepanakert, la capitale dell’Artsakh, rappresenta una vera e propria débâcle per il governo di Nikol Pashinyan.

Il vincolo di un solco inciso tra Armenia e Russia

Il giudizio che abbiamo dato a caldo sulle colonne de “il manifesto” l’11 novembre 2020 resta sostanzialmente corretto: «L’accordo è un boccone amaro per l’Armenia che deve dire addio all’idea di giungere a una unificazione con la regione contesa. Il documento siglato dai tre governi afferma che le parti in conflitto rimangono nelle posizioni raggiunte e ciò significa che buona parte del territorio del Nagorno-Karabakh torna in mano azera e pone le truppe di Baku a pochissimi chilometri da Stepanakert, la quale sarà ora collegata all’Armenia solo da un corridoio che attraversa la zona di Lachin. Lo status di Stepanakert non viene definito – come avrebbe voluto Mosca – e questo darà la possibilità successivamente all’Azerbaigian di rivendicarla». La Russia, avendo collocato i suoi caschi blu tra i contendenti piange con un occhio solo perché potrà dire la sua sulla sistemazione definitiva della regione ma segna un suo ulteriore arretramento geostrategico.

Per molti ordini di motivi. Il primo perché malgrado l’Armenia faccia parte pienamente del sistema di difesa euroasiatico (Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva, Csto) capeggiato dalla Federazione, Putin non è intervenuto a sostegno di Erevan neppure quando negli ultimi giorni del conflitto – prima attraverso il ministro degli esteri Zohrab Mnatsakanyane poi direttamente dal premier armeno – era stato espressamente richiesto, sottolineando più di una volta la propria neutralità nel conflitto (mentre Erdoğan sosteneva non solo formalmente il “fratello azero” fornendo combattenti foreign fighters siriani e soprattutto quei droni che hanno avuto, come più in là vedremo, un ruolo importante nel conflitto).

Il vincolo di un solco

I caschi blu russi prendono posizione

… poi la ferita suppurerà nell’equidistanza

Per restare nel gioco e avere un ruolo centrale nella trattativa di pace, Mosca ha dovuto pagare un prezzo politico fondamentale: il futuro definitivo allontanamento dell’Armenia in un “fronte Europeo” della Federazione dove Bielorussia e Moldavia finiranno – a medio termine – per pencolare inevitabilmente verso la Nato. È evidente quanto il “ruggito” di Putin a sostegno di Lukashenko in agosto sia stato seguito dall’equidistanza nel conflitto nel Nagorno-Karabach, il cui motivo principale della tiepidezza russa non può essere ricercato nell’antipatia personale di Pashinyan – che pure c’è – o nella doppiezza con cui Erevan ha condotto negli ultimi due anni la sua politica estera. Per riequilibrare l’evidente crescente peso turco nella regione che permette ora di collegare Ankara direttamente al Karabach, Mosca ha mostrato per ora solo di voler far rientrare dalla finestra i mediatori francesi e americani, lasciati fuori formalmente dall’armistizio del 9 novembre.

Nell’intervista concessa a “Rossia1” dopo l’armistizio, il presidente russo ha voluto togliersi un sassolino dalle scarpe: «Il 19-20 ottobre, ho avuto una serie di conversazioni telefoniche sia con il presidente Aliyev che con il primo ministro Pashinyan, dopo che le forze armate azere avevano ripreso il controllo di una parte insignificante, la parte meridionale del Karabach. Nel complesso, ero riuscito a convincere il presidente Aliyev che fosse possibile fermare le ostilità, ma una condizione obbligatoria da parte sua era il ritorno dei profughi, anche nella città di Shushi. Inaspettatamente… il primo ministro Pashinyan mi ha detto direttamente che lo vedeva come una minaccia per gli interessi dell’Armenia e del Karabach. Anche adesso non mi è molto chiaro quale sarebbe stata questa minaccia, tenendo presente che il ritorno dei civili sarebbe stato supposto mantenendo il controllo da parte armena su quella parte del territorio del Karabakh, Shushi compreso, e tenendo presente la presenza dei nostri caschi blu».

Una dichiarazione che può essere letta come un modo per indebolire il premier armeno, ora contestato dall’opposizione interna come “capitolatore”, ma di cui non vanno dimenticate le valenze interne russe. Non solo perché nella Federazione russa vivono 2 milioni di armeni (ma anche 2 milioni di azeri) ma perché le simpatie dei russi “autoctoni” erano tutti per l’“alleato cristiano”. Se Putin non ha alcun interesse ora a far saltare Pashinyan, non ha neppure interesse che in Armenia si possa battere il tamburo propagandistico del tradimento russo.

Il vincolo di un solco

Armeni bruciano le case prima di lasciare il Nagorno

Forniture sbilanciate: pessima propaganda per l’industria bellica russa

Il destino del primo ministro armeno resta legato alla posizione che assumeranno i militari (anche se l’insperato appello del senato francese al riconoscimento di Artsakh del 26 novembre 2020 gli ha fatto riprendere un po’ di vigore). L’esercito che sembrava sostenere il primo ministro in carica appare ora diviso. Qualcuno nello stato maggiore sta iniziando a pensare che debba essere salvato l’essenziale a fronte delle proteste che si levano a livello popolare, e Pashinyan debba essere sacrificato sull’altare della riconciliazione nazionale. Si tratta dell’opinione, per esempio, espressa dall’ex ministro della difesa dell’Armenia. Secondo il militare «non è stato l’esercito a perdere la guerra e la responsabilità dovrà essere assunta in solido dall’attuale leadership politica». Del resto la discussione sull’impreparazione militare nella disfatta armena continuerà a tenere banco ancora per parecchio. Subito dopo il cessate il fuoco è stato per primo a Stepanakert il presidente Arayik Aratyunyan a sollevare la questione dell’arretratezza delle armi a disposizione dei suoi combattenti. Una denuncia di sbieco nei confronti degli alleati russi che avrebbero lasciato in condizioni di degrado l’esercito di un paese alleato. Ma non solo. Si tratta di un tema delicato che tocca – come già nella guerra in Georgia del 2008, mitigata però dal facile successo – l’eventuale inefficienza delle armi russe, ovvero un eventuale spot negativo per il mercato dell’industria bellica della Federazione e per i suoi volumi di esportazione.

Collaudo per guerre di droni

I siti specialistici si sono concentrati sul ruolo inedito avuto dai droni nel conflitto azero-armeno ma che ha interessanti ricadute politico-militari visto che l’aggressività turca non è destinata certo a ripiegare nei prossimi mesi e anni.

Dopo la guerra nel Karabach, molti esperti hanno iniziato a sostenere che sarebbe in corso una rivoluzione nelle questioni tattico-militari, che sta per cambiare persino le strategie degli eserciti – non solo dei paesi in via di sviluppo, ma anche di quelli più potenti. Stiamo parlando dell’uso massiccio di veicoli aerei senza pilota da parte dell’Azerbaigian nel recente conflitto, sulla base degli sviluppi tecnici e strategici turchi. La teoria secondo cui i droni cambieranno radicalmente l’arte della guerra ha incontrato, a dire il vero anche molte perplessità. Secondo queste scuole i droni in Karabach non hanno mostrato nulla di nuovo: l’esercito turco e azero avrebbero semplicemente approfittato della debolezza del sistema di difesa aerea armeno e hanno mostrato al mondo un modo convincente di come si sconfigge un esercito debole ma l’uso massiccio di droni non funzionerebbe contro un esercito “strutturato”.

Ordigni di diversa fabbricazione (e di varia efficacia)

Le ostilità sono iniziate con vari tipi di attacchi di droni. Sono stati usati da parte azera, in primo luogo, i turchi Bayraktar TB2, detti anche hunter-killer, che montano missili e bombe ad alta precisione e droni Harop kamikaze di fabbricazione israeliana, antiradiazioni contro la difesa aerea armena.

Il vincolo di un solco inciso

I droni forniti dai turchi a Baku

Nei primissimi giorni del conflitto, l’esercito del Karabach ha perso dozzine di installazioni di difesa aerea, perlopiù obsolete, ereditate dall’Armenia dopo il crollo dell’Urss. Gli assalti alle sue difese antiaeree sono poi proseguiti: in ottobre e novembre sono stati colpiti diversi elementi dei sistemi missilistici antiaerei a lungo raggio S-300 (ampiamente superato visto che ora è in fase di progettazione nei laboratori russi l’S-500) e un lanciatore del più moderno complesso Tor-M2KM, sempre di fabbricazione russa. Dopo aver messo fuorigioco le difese antiaeree, i droni azeri sono passati al campo terrestre distruggendo sistematicamente carri armati, autoblindo, artiglieria e camion che trasportavano munizioni avversari. Seguiti da una serie di attacchi diretti alle postazioni della fanteria armena e ai depositi di munizioni. La diseguaglianza delle forze in campo – già nota prima del conflitto – è apparsa evidentissima. A seguito delle pesanti perdite di armeni a causa di attacchi aerei, il fronte nel sud del Karabach è stato sfondato in più punti, e in seguito (all’inizio di novembre) la fanteria azera, avanzando attraverso il terreno montuoso, che l’Armenia considerava la sua “fortezza naturale”, ha raggiunto le aree vitali della repubblica non riconosciuta, cioè le città di Shushi e Stepanakert. A questo punto, come risulta dai discorsi dei leader della difesa armena pubblicati al termine del conflitto, a causa degli attacchi dei droni, il loro esercito aveva perso quasi tutta l’artiglieria.

Tuttavia però negli ultimi giorni di guerra, gli attacchi aerei sono diventati più radi. Ciò potrebbe essere attribuito alla nebbia e alle nuvole basse ma secondo i giornalisti israeliani, che citano l’intelligence del loro paese, l’uso dei droni avrebbe potuto essere ostacolato da forniture urgenti di guerra elettronica russa. Questa sarebbe giunta sì in largo ritardo ma avrebbe evitato alla ritirata armena di assumere i caratteri della rotta (Sergej Lavrov aveva più volte dichiarato negli ultimi giorni di conflitto di “non guardare con piacere” a un trionfo militare turco-azero). Arayik Aratyunyan ha dichiarato da parte sua che «recentemente eravamo stati in grado di risolvere il problema dei droni, ma l’ultimo giorno il nemico è riuscito di nuovo a usarli e a sferrare attacchi pesanti».

Valutazioni a consuntivo per sviluppi del sistema industrial-militare

Così, la guerra transcaucasica è diventata la prima in cui i compiti principali, di solito risolti con l’aviazione “tradizionale”, sono stati realizzati dai droni. Molti esperti ritengono che questa non sia solo la sostituzione di un tipo di velivolo con un altro, ma una svolta decisiva, una vera rivoluzione negli scontri militari.

Il vincolo di un solco inciso

Caratteristiche dei droni kamikaze israeliani

Secondo il giornale moscovita “Kommersant”: «Il vantaggio principale dei droni, soprattutto di classe piccola e media, sarebbe il basso costo di funzionamento. I droni d’attacco di piccola e media portata sono piattaforme per l’utilizzo di armi ad alta precisione e strumenti di sorveglianza e ricognizione abbastanza avanzati. Sono in grado di colpire la maggior parte dei bersagli sul campo di battaglia e dietro le linee nemiche, pur rimanendo velivoli molto semplici rispetto ai moderni aerei e elicotteri con equipaggio». I progressi della tecnologia hanno reso possibile la produzione di missili e bombe di piccole dimensioni e massa, che, nonostante le dimensioni e il prezzo, possono colpire i bersagli più tipici sul campo di battaglia.

Il secondo vantaggio dei droni è che non c’è un pilota a bordo e sono controllati da operatori che sono a decine, centinaia e persino migliaia di chilometri dal fronte. Ciò consente di renderli economici anche sotto il profilo del “capitale umano”: se il pilota non può essere ucciso o catturato durante la missione, questa può essere molto più rischiosa. Il terzo vantaggio è la possibilità di svolgere missioni di molte ore. I droni a turbogetto che volano a velocità molto basse (meno di 200 km/h) – spiegano gli esperti – sono estremamente economici in termini di consumo di carburante.

Il last but not least tra i vantaggi dei droni è che sono stati originariamente concepiti come una parte importante della rete informativa sul campo di battaglia. I droni sono una piattaforma per vari sensori che studiano la situazione e identificano i bersagli. Condividono queste informazioni in tempo reale con gli operatori, che, a loro volta, le condividono anche in tempo reale con l’intera rete di controllo del combattimento. Inoltre, è possibile insegnare facilmente ai droni a interagire tra loro. Entrambe le opzioni sono state mostrate nel video del Ministero della Difesa azero del Karabach. Non è un caso che durante la guerra il Canada ha vietato la fornitura di stazioni elettroniche ottiche alla Turchia, di solito risolti con l’aviazione “tradizionale” ma che in questo caso sono state eseguite da droni.

Adattabilità a guerre con caratteristiche diverse

Gli aerei senza pilota presentano comunque anche evidenti svantaggi rispetto alle piattaforme con equipaggio. Il carico utile dei droni di piccole e medie dimensioni è limitato a causa dei motori di potenza relativamente bassa. In parole povere, i sistemi con equipaggio sono in grado di lanciare simultaneamente molti più bombe o proiettili sul nemico rispetto ai droni. E questo può essere importante in una “guerra ad alta intensità” – un conflitto tra potenze militari avanzate.

Per 38 anni, da quando furono usati per al prima volta dall’aviazione israeliana, i droni si sono trasformati da uno strumento di nicchia per operazioni speciali in parte integrante della ricognizione e della designazione del bersaglio. Fino a pochi anni fa, infatti, i droni d’assalto venivano usati (principalmente dagli americani) per effettuare attacchi mirati contro “bersagli leggeri”: leader politici o “terroristi”, petroliere dello Stato Islamico…

Come ha dimostrato l’esperienza della guerra in Karabach, i droni di altri produttori possono essere rapidamente inclusi in questo sistema: in particolare, i droni kamikaze di fabbricazione israeliana e gli aerei d’attacco Su-25 di progettazione sovietica fanno parte integrante dell’arsenale azero ma guarda caso non di quello armeno.

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La Siberia tra il Dragone e il Sultano https://ogzero.org/la-luna-di-miele-turco-russa-e-finita/ Sat, 14 Nov 2020 19:09:43 +0000 http://ogzero.org/?p=1765 La luna di miele turco-russa è finita La linea di faglia apertasi nel Nagorno-Karabakh ha dimostrato, se ce ne era ancora bisogno, che la luna di miele tra Turchia e Russia è ormai archiviata malgrado proprio sull’enclave a etnia armena Putin sia stato costretto – con gli accordi del 9 novembre – a un nuovo […]

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La luna di miele turco-russa è finita

La linea di faglia apertasi nel Nagorno-Karabakh ha dimostrato, se ce ne era ancora bisogno, che la luna di miele tra Turchia e Russia è ormai archiviata malgrado proprio sull’enclave a etnia armena Putin sia stato costretto – con gli accordi del 9 novembre – a un nuovo compromesso tattico per impedire il completo collasso del fronte. L’intraprendenza di quello che alcuni osservatori già chiamano “imperialismo ottomano” è sotto gli occhi di tutti e a Oriente i danni maggiori di tale intraprendenza li potrebbe subire proprio la Federazione. Non a caso sulla Moscova hanno da tempo iniziato a ricalibrare la politica nei confronti di Ankara: Sergej Lavrov, il ministro degli esteri russo, ha recentemente sostenuto di non aver mai considerato la Turchia “un alleato” ma solo un “partner”.  Il massiccio bombardamento russo a Idlib contro la guerriglia filoturca in Siria della fine di ottobre 2020, da questo punto di vista, è probabilmente stato un parlare a moglie perché suocera intenda. Ma la Transcaucasia è solo la punta dell’iceberg di uno scontro ben più ampio che parte dalla Crimea e si estende fino all’estremo Oriente russo ai confini con la Cina.

L’intelligence turca a caccia di spie

Il 16 ottobre scorso nell’incontro tra Volodomyr  Zelenskij e Recep Erdoğan non solo quest’ultimo ha dato il suo via libera alla cosiddetta “piattaforma di Crimea” promossa dal governo di Kiev (un’offensiva diplomatica volta al recupero della penisola annessa dalla Russia nel 2014, a cui guarda caso aderisce anche l’Azerbaijan) ma ha anche siglato degli accordi di collaborazione commerciali con l’Ucraina nel settore degli armamenti. La settimana successiva poi esplodeva una vera e propria spy-story tra Turchia e Russia. L’intelligence turca annunciava di aver arrestato il vicedirettore delegato di Bosphorus Gaz Emel Oztürk e altri quattro suoi collaboratori, che da tempo, secondo l’accusa, passavano informazioni riservate a un agente di Gazprom. Il gigante russo dell’energia avrebbe ottenute notizie sui volumi di acquisti di gas non russo della Turchia e dati sui giacimenti scoperti dalla Turchia nel Mar Nero quest’estate.

La guerra del gas

Al momento Putin fornisce a Erdoğan – via Turkish Stream – 7,75 miliardi di metri cubi all’anno di gas ma è chiaro che “l’indipendenza energetica” anelata da Erdoğan – se divenisse realtà – potrebbe rappresentare un duro colpo ai volumi di esportazioni russe, già in forse in Europa dopo che il progetto di North Stream 2 è entrato in stand-by in seguito al “caso Navalny”. Per tutta risposta la Duma russa ha fatto baluginare il blocco del turismo russo verso la Turchia, un business da qualche miliardo di dollari annuo. Più che punzecchiature tra i due eterni rivali con possibili conseguenze geopolitiche più vaste. La leva di un nuovo fondamentalismo islamico, di un califfato sui generis in cui la Turchia diventi la “protettrice di tutti i sunniti nel mondo”, potrebbe produrre una divisione insanabile tra i due stati. Si tratta di suggestioni – quelle dell’“imperialismo ottomano” – che vengono confermate negli ambienti diplomatici dei paesi balcanici anch’essi preoccupati dell’incipiente aggressività turca: «Indubbiamente, se analizziamo ciò che leggiamo e vediamo oggi, diventa chiaro che in alcuni circoli islamici radicali e organizzazioni religiose vaga l’idea che l’Europa dovrebbe essere un califfato islamico. Ciò che sta accadendo oggi in Francia, in Svezia, in altri stati dell’Europa occidentale, mi sembra che dovrebbe destare grande preoccupazione tra questi stati. Non mi occupo di attività di spionaggio in particolare, ma di tanto in tanto leggo in note analitiche che i servizi speciali turchi sono molto attivi», ha sostenuto l’ex ambasciatore serbo a Mosca, Slavenko Terzič.

Il Caucaso e il “laicismo irresponsabile dell’Occidente”

Il riflesso dello scontro con la Francia sulla questione dei limiti del laicismo si è subito sentito a Mosca dove la preservazione degli equilibri, faticosamente costruiti dal regime di Putin, in una federazione multiconfessionale, sono considerati intangibili. Le manifestazioni antifrancesi guidate prima di tutto dai migranti azeri nella capitale russa sono state sì stroncate con durezza dalla polizia sul nascere, ma Putin ha voluto al contempo anche denunciare il “laicismo irresponsabile dell’Occidente”. Il terrorista che ha ucciso a Parigi l’insegnante francese faceva parte della diaspora cecena, e quindi formalmente antirussa, ma la reazione del presidente della Repubblica cecena Rusman Kadyrov, scagliatosi con forza contro Macron nei giorni successivi all’attentato, dimostra quanto gli umori dei musulmani del Caucaso restino antioccidentali: non è un caso che nel Caucaso russo furono migliaia i reclutati dall’Isis per la guerra in Siria. Del resto, non si soffia sulla “guerra di civiltà” solo da una parte: anche il primo ministro armeno Nikol Pashinyan aveva invitato gli stati europei a sostenere l’Armenia cristiana nel Nagorno-Karabakh in funzione antiturca, anche se sia Macron sia Trump hanno preferito fare orecchie da mercante.

Lo sguardo russo verso lo Xinjiang

Dmitry Ruschin, Professore Associato del Dipartimento di Teoria e Storia delle Relazioni Internazionali all’Università di San Pietroburgo sostiene che “l’internazionalismo sunnita” di Ankara è veramente su scala globale: «Erdoğan sta perfino interessandosi della regione autonoma uigura dello Xinjiang dove Xi ha più di un problema. È del tutto possibile che in questo modo voglia diventare un unificatore dei popoli turchi e un leader islamico su scala globale. Curiosamente, lo scontro della Turchia con la Cina significa supporto automatico per Ankara da Washington perlomeno in quel contesto». E a medio termine ciò potrebbe condurre a un confronto diretto tra Russia e Turchia.

Siberia: la protesta anticentralista

In questo quadro la Siberia può diventare uno dei teatri più importanti. Dallo scorso luglio Khabarovsk, la più grande città dell’Estremo oriente russo, a un paio di centinaia di chilometri da Vladivostok, “porta bianca” ai mercati orientali, sono in corso delle manifestazioni di massa dopo che Sergej Furgal il governatore della provincia, outsider e antiPutin, è stato arrestato con l’accusa di essere il mandante di alcuni omicidi risalenti a un’epoca in cui non aveva ancora in carico l’amministrazione. Il protrarsi e le dimensioni del movimento di protesta segnala però in maniera evidente che le sventure del governatore sono state solo la miccia dietro cui covano a livello di massa spinte anticentraliste (oblastničestvo) nei confronti di Mosca se non apertamente secessioniste. “The Diplomat” ha riassunto così la situazione: «Sin dai tempi della Russia imperiale, i suoi paesi e città sono stati visti come una semplice estensione della nazione europea, una frontiera asiatica da colonizzare e domare. Come parte dell’Unione Sovietica, le deportazioni di massa verso est e il suo status di destinazione per i prigionieri dei GULag hanno rafforzato questa nozione. Ma ora, come dimostrano i manifestanti a Khabarovsk, l’estremo Oriente russo potrebbe formare la propria identità».

proteste pro-Furgal in Siberia

Un punto importante della contesa è che, mentre la Russia orientale detiene gran parte delle risorse naturali del paese – inclusi petrolio, gas e metalli preziosi – i proventi della loro estrazione sono ampiamente usati per rimpolpare i forzieri di Mosca piuttosto che arricchire le comunità locali.

E la terra va ai cinesi

Che la Cina sicuramente sia interessata a sfruttare a suo vantaggio la situazione che sta montando nell’estremo Oriente russo non è un segreto. In questa zona della Siberia gli investimenti del Dragone sono massicci e alla fine del 2018, proprio a Khabarovsk, un’azienda russa ha annunciato l’intenzione di affittare ben 100.000 ettari di terreno paludoso coltivabile a soia e affittarlo a imprese cinesi. Alexander Bortnikov, il presidente del Fsb, ha più volte segnalato l’attivismo di servizi di molti paesi in tutta la Siberia. E se il nome della Cina non è stato fatto ufficialmente, la presenza discreta di informatori cinesi nelle zona è stata più volte confermata da più parti.

Dietro la provocazione, la mano dei turchi

Chi invece sicuramente opera in quell’area è l’intelligence turca. Questa può fare affidamento su un vasto retroterra di gruppi fondamentalisti islamici nel Centro Asia allo sbando dopo il crollo dell’Isis. L’Fsb (Federal’naja služba bezopasnosti – Agenzia federale per la sicurezza interna) nell’ultimo anno ha contato ben 22 tentativi di organizzare azioni terroristiche e diversive in Siberia. Si tratta per lo più di incidenti provocati da foreign-fighters di ritorno ai confini del Tagikistan e del Kazakhstan collegati a contingenti più folti del fondamentalismo islamico afgano. Ma alcune di queste avrebbero segni e obiettivi diversi e rimanderebbero a un inedito protagonismo turco. In particolare parliamo di una fallita provocazione organizzata proprio a Khabarovsk questa estate nel momento più caldo delle dimostrazioni di strada, il cui mandante sarebbe da ricercarsi proprio ad Ankara. Secondo quanto riportato da Semyon Pegov – un reporter russo di guerra che da molti anni gravita tra il Medio Oriente e la Siberia – quest’estate l’organizzazione terroristica siriana Hayat Tahrir Al-Sham, supervisionata dai servizi speciali turchi, aveva reclutato due residenti di Khabarovsk, guarda caso di origine uzbeka e di fede musulmana, per organizzare il lancio di bottiglie molotov contro la manifestazione a sostegno di Furgal, al fine di far ricadere poi la responsabilità sul governo russo e rendere ancora più incandescente di quanto non sia la situazione nella provincia. Un’azione diversiva fallita in seguito all’arresto dei due provocatori prezzolati da parte della polizia russa, ma che dimostrerebbe quanto la Turchia intenda sfruttare le contraddizioni interne russe.

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Un complesso militar-industriale rinnovato e senza remore https://ogzero.org/nuovi-armamenti-e-suk-dell-usato-sicuro/ Thu, 12 Nov 2020 14:36:10 +0000 http://ogzero.org/?p=1722 A volte ritornano… le tangenti Lockheed Guerra e Pace. Pace e guerra. Distruzione e ricostruzione. Elementi fondamentali delle economie e delle contorte politiche mondiali. Appena incassati i cosiddetti “Accordi di Abramo” tra gli Emirati arabi e Israele, Donald Trump ha informato il Congresso della sua intenzione di vendere al piccolo stato arabo di fronte all’Iran […]

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A volte ritornano… le tangenti Lockheed

Guerra e Pace. Pace e guerra. Distruzione e ricostruzione. Elementi fondamentali delle economie e delle contorte politiche mondiali. Appena incassati i cosiddetti “Accordi di Abramo” tra gli Emirati arabi e Israele, Donald Trump ha informato il Congresso della sua intenzione di vendere al piccolo stato arabo di fronte all’Iran 50 caccia-bombardieri Lockheed Martin F-35-II, per una cifra che potrebbe aggirarsi attorno ai 10 miliardi di dollari (8421514000,00 euro). L’operazione ha bisogno dell’approvazione del Congresso e, indirettamente, di Israele che per bocca del suo premier Netanyahu, amico e complice del presidente uscente che farà i bagagli a fine gennaio, ha chiesto soltanto di far in modo che venisse mantenuto, come da accordi ormai consolidati dalla legislazione Usa, la superiorità militare del suo paese su tutte le altre nazioni arabe e del Vicino Oriente. E per mantenere questa superiorità serviranno nuove armi. Un funzionario della difesa israeliana ha atteso soltanto la conferma ufficiosa della sconfitta di Trump per dire al “Jerusalem Post” che non appena sarà possibile Tel Aviv vuole negoziare un nuovo pacchetto multimiliardario di assistenza militare da mettere in coda a quello stilato con Barak Obama e che scade nel 2027. Sicuramente dovrà tenere in considerazione la corsa degli arabi al F-35 e l’enorme quantità di armi acquistate dall’Arabia saudita negli ultimi anni. Sono stati che Israele considera alleati nella guerra all’Iran ma di cui si fida poco soprattutto per quanto riguarda la stabilità dei loro regimi. Stati clientelari per gli Usa che vi hanno basi militari importanti e che con i loro petro/gas-dollari continuano ad arricchire l’industria bellica americana. Spesso contro la volontà di una parte dell’establishment Usa, apparentemente incapace di contrastare la Casa bianca. Nel giugno di quest’anno l’Ispettore generale del Dipartimento di Stato (ossia il ministero degli esteri) fu licenziato su due piedi da Trump. Il presidente lo aveva scoraggiato dall’indagare sulla massiccia vendita di armi all’Arabia saudita portata avanti nonostante l’opposizione di una parte del Congresso. Il Regno era nel mirino dei parlamentari per il suo ruolo criminale nella guerra in Yemen; per l’assassinio del giornalista del “Washington Post” Jamal Khashoggi; e anche per i finanziamenti diretti o indiretti a organizzazioni islamiste collegate al terrorismo internazionale antioccidentale.

Nuovi armamenti sofisticati e suk dell’usato sicuro

È presto per capire cosa Joe Biden, sostenitore senza incertezze d’Israele, cambierà nella confusa politica Usa nei confronti di quella regione. È probabile un ritorno ai negoziati sul nucleare con l’Iran e forse ci sarà qualche passo per fermare l’idea – la “Abraham Peace” perorata da Trump e dal suo entourage di ebrei americani vicini a Netanyahu e alle sue idee estremiste – di mettere fine al conflitto arabo-israeliano, abbandonando completamente il popolo palestinese a un destino incomprensibile. Non è detto, però, che il Congresso bloccherà la vendita degli F-35 agli Emirati: non ha mai vietato una vendita già decisa al livello governativo. Di sicuro, se come probabile andrà avanti, favorirà una rinnovata corsa a nuovi più sofisticati armamenti da parte di tutti i giocatori, grandi e minuscoli, della regione. E con l’arrivo delle nuove armi, si movimenterà il solito grande suk dell’usato che come più di una volta in passato potrebbe portare armi “superate” ma più che efficienti nelle mani dei nemici degli Usa e dell’intero mondo occidentale.

Un filo di acciaio imbastisce l’industria bellica con la politica americana

Donald Trump, a differenza del suo predecessore Barak Obama, responsabile quanto meno della devastazione della Libia e, in qualche modo, anche della Siria, mantenendo le sue promesse pre-elettorali non ha avviato nuovi conflitti ma questo non significa che non abbia mantenuto quello stretto rapporto che da anni lega il mondo degli armamenti alla politica americana. E non solo americana. Oltre mezzo secolo dopo il famoso discorso-ammonimento d’addio dell’allora presidente Usa Dwight D. Eisenhower, i timori del generale passato alla politica sono diventati una realtà che influisce su tutti gli inquilini della sala ovale. E su chi aspira ad abitarci.

Dwight D. Eisenhower

Image from the broadcast of President Dwight D. Eisenhower and his farewell address to the nation on January 17, 1961, from the White House in Washington, D.C. (National Archives)

«Nei concili di governo dobbiamo guardarci dall’acquisizione di influenze che non diano garanzie, sia palesi che occulte, esercitate dal complesso militare-industriale. Il potenziale per l’ascesa disastrosa di poteri che scavalcano la loro sede e le loro prerogative esiste ora e persisterà in futuro».

Ike didn’t like weapons?

Pochi allora vollero attribuire molta importanza a quelle parole di Eisenhower – il generale che aveva portato alla vittoria l’alleanza contro il nazifascismo – pronunciate il 17 gennaio 1961 nel momento in cui stava lasciando la Casa bianca. Era stato eletto nelle liste del Partito repubblicano, lo stesso di Donald Trump e di altri outsider alla politica come l’attore Ronald Reagan, di ben altro spessore grazie a una squadra di consiglieri più capaci. Ike, così era chiamato da tutti, era l’uomo più popolare degli Stati Uniti. Sei anni prima, il 17 giugno 1945, mia madre volle portarmi – avevo sei anni – dalla nostra casa nel Bronx fino a Manhattan per essere con i quattro milioni di americani che accolsero al suo ritorno negli Usa l’eroe della guerra. Indossavo orgoglioso una giacca “modello Ike” – di moda perché era stato adottato dal generale e da molte truppe – che la mamma aveva tagliato e cucito con le sue mani.

Per Eisenhower, furono sufficienti i due mandati, otto anni, alla Casa Bianca, per comprendere i rischi insiti in un’industria bellica capace di influenzare la politica di una grande potenza come erano diventati gli Stati Uniti. Voleva un’America in grado di difendersi dagli orrori che aveva visto con i suoi occhi in un’Europa devastata dalla ferocia delle menti e delle armi ma nutriva molto più di un sospetto sul mostro che era cresciuto in casa per combattere quei mali.

«Un elemento vitale nel mantenimento della pace sono le nostre istituzioni militari. Le nostre armi devono essere poderose, pronte all’azione istantanea, in modo che nessun aggressore potenziale possa essere tentato dal rischiare la propria distruzione…

Questa congiunzione tra un immenso corpo di istituzioni militari e un’enorme industria di armamenti è nuovo nell’esperienza americana. L’influenza totale nell’economia, nella politica, anche nella spiritualità è sentita in ogni città, in ogni organismo statale, in ogni ufficio del governo federale. Riconosciamo il bisogno imperativo di questo sviluppo. Ma tuttavia non dobbiamo mancare di comprenderne le gravi implicazioni. La nostra filosofia ed etica, le nostre risorse e il nostro stile di vita sono coinvolti; la struttura portante della nostra società.

Non dobbiamo mai permettere che il peso di questa combinazione di poteri metta in pericolo le nostre libertà o processi democratici. Non dobbiamo presumere che nessun diritto sia dato per garantito. Soltanto un popolo di cittadini allerta e consapevole può esercitare un adeguato compromesso tra l’enorme macchina industriale e militare di difesa e i nostri metodi pacifici e obiettivi a lungo termine in modo che sia la sicurezza che la libertà possano prosperare assieme».

Corruzione e finanziamenti nel traffico di armi

I rischi insiti nella politica degli armamenti Usa sono stati documentati e denunciati nel 2018 da uno studio approfondito di due ricercatori – A. Trevor Thrall e Caroline Dorminey – del Cato Institute: Risky Business: The Role of Arms Sales in U.S. Foreign Policy. Tra i pericoli illustrati e ampiamente documentati, le situazioni di guerra in cui le armi americane vendute a “paesi amici” finiscono nelle mani di nemici degli Usa e vengono usate contro le truppe americane. Il caso recente più clamoroso riguarda l’Iraq dove interi arsenali hanno armato gruppi di islamisti in lotta contro le forze occidentali in quel paese.

Tangenti Lockheed Martin nei decenni

Corruzione e finanziamenti sono all’ordine del giorno nel mondo degli armamenti. Per restare nella regione che ci interessa, Netanyahu e alcune personalità israeliane del mondo militare e civile sono sotto inchiesta per tangenti che sarebbero state pagate per un affare miliardario di sommergibili tedeschi. Qualcuno si chiederà se l’affare degli F-35 e le massicce vendite di armi all’Arabia saudita in questi ultimi anni sono servite a rafforzare economicamente le campagne elettorali del presidente uscente o di altri politici impegnati nelle lunghe costose campagne per presidenza, congresso e senato. Ipotesi basate su fatti avvenuti in passato. Gli stessi costruttori degli F-35 furono incriminati negli anni Settanta quando il Congresso americano accertò che la corruzione era un sistema diffuso da parte della Lockheed Corporation e della più piccola Northrop. Nel 1976 il “New York Magazine” scrisse che il senatore Church, capo della commissione d’inchiesta, «ha prove che la Lockheed ha pagato tangenti in almeno quindici paesi, e che in almeno sei paesi ha provocato gravi crisi di governo». L’Italia fu una di questi. Mario Tanassi, ministro della difesa, fu silurato per aver intascato una tangente di 50000 dollari su circa 2 milioni di dollari, destinati dalla Lockheed alla corruzione in Italia. Furono condannati anche il generale dell’aeronautica Duilio Fanali, il segretario di Tanassi Bruno Palmiotti, i faccendieri Ovidio Lefebvre e Antonio Lefebvre, e il presidente di Finmeccanica Camillo Crociani.

Nuovi armamenti e suk dell’usato sicuro

Torniamo in Vicino Oriente e dintorni. Non soltanto perché è il più grande mercato di armi di ogni tipo ma perché è il perfetto testing-ground, il terreno su cui le armi nuove possono essere sperimentate prima di finire sulla linea di produzione e poi sul mercato. Usa, Russia, Francia e Israele sono qui in prima linea. In tutti i sensi. Secondo una delle più recenti ricerche del Stockholm International Peace Research Institute (Sipri), nella regione in guerra – dalla Siria, allo Yemen, dall’Iraq alla Palestina e poi al più distante Sud Sudan – le commesse sono aumentate del 61 per cento dal 2015 al 2019. Gli Usa sono in cima alla lista dei venditori lì e nel mondo: hanno ben 96 paesi-clienti. La Russia, ex superpotenza, ha perso una fetta importante del mercato dopo che l’India con un leader nazionalista di destra ha stretto rapporti con Israele dove ha trovato non soltanto una politica simile ma anche una delle più grandi, moderne e immorali delle industrie belliche pronte a vendere senza fare troppe domande. Nel maggio 2019 Amnesty International ha sottolineato che le armi israeliane vengono vendute a nazioni notoriamente colpevoli di violazioni dei diritti umani delle proprie popolazioni come Myanmar, Filippine, Sud Sudan e Sri Lanka. Negli ultimi mesi, bombe a grappolo israeliane, vietate dalle convenzioni internazionali, hanno seminato morte e feriti nella regione del Nagorno-Karabakh contesa tra Azerbaijan e Armenia. Grazie a testimonianze raccolte da giornalisti e analisi delle immagini dei bombardamenti nella capitale dell’autoproclamata repubblica dell‘Artsakh, Stepanakert, gli esperti di Amnesty hanno potuto confermare l’uso di bombe a grappolo di tipo M095 Dpicm, di fabbricazione israeliana. «Vecchi stock», hanno risposto da Tel Aviv per difendersi dalle critiche in uno scacchiere in cui le sue alleanze sono confuse. La guerra è guerra: la logica del potente apparato militare-industriale israeliano è strettamente controllato e gestito ai massimi livelli del governo.

Ma, ancora più importante della disponibilità a non fare domande o giudicare chi deve comprare, Israele offre (anche rispondendo a richieste specifiche quando possibile) di provare le armi nei conflitti dietro casa, da Gaza al Libano, alla Siria. Ci sono segnalazioni di richieste precise da parte di paesi acquirenti (gli Usa tra questi) perché certe armi sofisticate (come i droni e i loro armamenti ormai entrati in prima linea nelle moderne guerre) vengano usate in combattimento e approvate prima di finire sul mercato. La distruzione senza senso di abitazioni e altri edifici nella striscia di Gaza è spesso servita a questo scopo. E c’è chi – in Israele e fuori – vorrebbe assistere ad almeno uno scontro limitato con il meglio armato Hezbollah in Libano per mettere alla prova nuove generazioni di ordigni contro i bunker in profondità.

Nel 2017 le esportazioni di armi israeliane hanno raggiunto la cifra record di 9 miliardi di dollari. Questo non include il reddito delle società paramilitari che operano nel settore dell’informatica e della sicurezza. Un settore accusato di aver collaborato con regimi noti per i loro bassi voti nel rispetto dei diritti dei loro cittadini. E di spiare anche paesi amici.

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Astana agli sgoccioli. Chi ha più filo da filare tra Mosca e Ankara? https://ogzero.org/astana-agli-sgoccioli-chi-ha-piu-filo-da-filare-tra-mosca-e-ankara/ Thu, 22 Oct 2020 08:38:32 +0000 http://ogzero.org/?p=1563 Traiettorie diverse di attraversamento transcaucasico-mediorientale L’alleanza tra Vladimir Putin e Recep Erdoğan è sempre stata a tempo e i due contraenti non ne hanno fatto mai mistero. Isolati e osservati con diffidenza da buona parte della comunità internazionale, strategicamente concorrenti e avversari in Medio Oriente, hanno fatto di necessità virtù per cinque anni ma ora […]

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Traiettorie diverse di attraversamento transcaucasico-mediorientale

L’alleanza tra Vladimir Putin e Recep Erdoğan è sempre stata a tempo e i due contraenti non ne hanno fatto mai mistero. Isolati e osservati con diffidenza da buona parte della comunità internazionale, strategicamente concorrenti e avversari in Medio Oriente, hanno fatto di necessità virtù per cinque anni ma ora la politica di appeasement tra i due paesi seguita alle scuse del presidente turco per l’abbattimento del Su-24 russo sui cieli siriani nel 2015, potrebbe essere agli sgoccioli.

Il ritorno di fiamma della guerra in Nagorno-Karabach lo dimostra con evidenza. Non a caso in una recente intervista il ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov ha voluto sottolineare di considerare la Turchia «non un alleato ma un interlocutore stretto».

Mosca e Ankara sono le due principali potenze regionali nell’area che va dal mar Nero al Medio Oriente, passa per la Transcaucasia e lambisce la Persia. Con due traiettorie però assai diverse.

Ascolta “La Russia è solo una potenza regionale” su Spreaker.

 

Confrontando le parabole di Turchia e Russia

L’economia turca a partire dall’inizio del nuovo millennio è cresciuta costantemente, triplicando il proprio Pil. Un decollo economico accompagnato da un potente incremento demografico che ha fatto passare la sua popolazione complessiva da 67 a 83 milioni (a cui va aggiunta la diaspora). Il “neoimperialismo ottomano”, in questo quadro, è il prodotto di una crisi di crescita del paese a cui ormai vanno stretti i confini definiti nel primo Dopoguerra.

La Russia invece, dopo il boom del primo decennio del XXI secolo basato essenzialmente sugli alti prezzi degli idrocarburi sul mercato mondiale e la stabilizzazione sociale interna, vede da molti anni la propria economia stagnare. Dal 2018 la sua popolazione è tornata a contrarsi malgrado milioni di ucraini e centroasiatici abbiano acquisito il passaporto della Federazione: la Banca Mondiale stima che se non ci sarà una svolta, la Russia passerà dagli attuali 145 milioni di abitanti a 131 nel 2050. Dopo la facile vittoria nella guerra con la Georgia del 2008 – che aveva mostrato però dei limiti soprattutto logistico-satellitari – dagli anni Dieci in poi il declino dell’egemonia strategico-militare di Putin sul vicino estero ex sovietico è continuata con la perdita definitiva dell’Ucraina (compensata solo in parte dall’annessione della Crimea) e ora esiste il rischio concreto – a seguito dello sviluppo del movimento di opposizione in Bielorussia – di perdere un altro alleato fondamentale proprio laddove la Nato, grazie all’integrazione di Polonia e paesi baltici, è più aggressiva.

La partnership economica tra le due potenze locali (turismo, abbigliamento, prodotti alimentari e soprattutto forniture di gas russo attraverso Turkish Stream) ha reso più fluide anche le relazioni diplomatiche. La luna di miele tra i due paesi ha raggiunto il suo zenit nel periodo che va dall’acquisto da parte turca del sistema difensivo antiaereo russo S-400 (preferito ai Patriot americani con gran dispetto di Washington) e il sostegno convinto di Erdoğan a Nicolas Maduro nella crisi venezuelana del 2019 e suggellato dagli accordi di Astana per la sistemazione della matassa siriana. Dopo di allora però, lentamente ma inesorabilmente, il corso delle relazioni turco-russe è andato via via peggiorando e la guerra nel Nagorno-Karabach, qualunque sarà il suo esito, marcherà il passaggio in una fase che potremmo definire “postAstana”, foriera di nuove tempeste e procelle nella regione.

In quali intrecci si sta azzoppando Astana?

Le prime avvisaglie che si stava entrando in una fase nuova emerse a inizio 2020 quando ci fu più di una scaramuccia tra Siria e Turchia che vide coinvolto il contingente russo. Qualche mese dopo i due paesi si trovavano a confrontarsi ancora su fronti avversi in Libia. La Turchia sostiene da sempre il governo libico riconosciuto dalle Nazioni Unite, guidato da Fayez al-Serraj, che sta lottando da più di un anno per resistere a un assalto alla capitale Tripoli da parte del comandante ribelle Khalifa Haftar. Quest’ultimo è sostenuto, anche se non formalmente, dalla Russia grazie alla penetrazione dei suoi gruppi di foreign fighters organizzati nell’ormai celebre agenzia dei “wagneriani”, già presente in vari teatri, non ultimi quelli africani. Un modo per la Russia, quello dell’uso di compagnie di ventura, per giocare un ruolo di ago della bilancia in diverse crisi senza esporsi direttamente e soprattutto dai costi economici relativi.

Sia la Russia che la Turchia hanno investito molto in Libia: la Federazione in termini di reputazione, influenza e potenziali accordi petroliferi e la Turchia con interessi commerciali ed energetici ancora più ampi, ma hanno evitato in ogni modo di confrontarsi direttamente. «Quella libica potrebbe essere la loro più grande divergenza, ma ce ne sono altre. Sono a disagio per il ruolo crescente dell’Iran nella regione, che Putin generalmente sostiene fintanto che infastidisce gli Stati Uniti. I turchi odiano il regime di al-Sisi in Egitto che Putin giudica invece positivamente. E sono da sempre ai ferri corti anche con gli israeliani, con i quali Putin ha un solido rapporto di partnership», sostiene Jonathan Schanzer della Foundation for Defense of Democracies, un think tank con sede a Washington.

Presenze strategiche dei due contendenti sullo scacchiere internazionale

Ma nel complesso la partnership rischia di crollare a causa dell’inconciliabilità delle ambizioni geopolitiche. Schanzer, a tale proposito, segnala la grandiosa visione ottomana delineata da uno dei massimi consiglieri di Erdoğan, il generale in pensione Adnan Tanrıverdi, che interpreta la Turchia emergente come una superpotenza islamica con capacità di esercitare autorità e influenza su 61 paesi musulmani con Istanbul a capitale di un inedito califfato.

Putin ha forse obiettivi meno ambiziosi – più tattico che stratega è abituato a misurare ogni passo di politica estera – ma non meno importanti per gli equilibri internazionali. A fronte dell’ulteriore sgretolamento dell’influenza nell’area ex sovietica, Mosca è interessata a inserire dei cunei di propria presenza su scala globale che le permettano di restare al centro di quanto si va definendo nei diversi scacchieri. Un approccio parzialmente diverso da quello del tradizionale contenimento sviluppato dal Cremlino fino a qualche anno fa e che poggiava in gran parte sul suo ruolo di potenza nucleare. La ripresa della guerra in Nagorno-Karabach non sta facendo che accelerare, da questo punto di vista, delle tendenze già in atto.

Un Anschluss turco-azero?

Ma se le scaramucce tra Armenia e Azerbaigian del luglio potevano lasciare presagire che lo scontro ruotasse intorno ai gasdotti azeri Baku-Tbilisi-Ceyhan e quello nel Caucaso meridionale ovvero sulle rotte del reperimento di risorse energetiche alternative a quelle russe nella regione, la guerra iniziata il 27 settembre 2020 dall’alleanza turco-azera ha ben altri obiettivi, in primo luogo di ridefinizione complessiva degli equilibri nella regione. Evidentemente, Erdoğan intende saggiare la reazione russa e dei paesi Nato a fronte di un chiaro tentativo espansionista: in questo senso l’alleanza turco-azera basata sulla teoria “un popolo, due stati” sta realizzando seppur in trentaduesimi, la stessa politica che la Germania negli anni Trenta del XX secolo portò avanti con l’Anschluss e l’occupazione della Cecoslovacchia. Da questo punto di vista Erdoğan ha ricevuto segnali positivi riuscendo a mettere sotto scacco l’Europa con il ricatto dell’ondata migratoria dalla Siria e paralizzando una Russia già alle prese con la crisi in Bielorussia e la querelle di Navalny. Malgrado Francia, Usa e Russia abbiano chiesto con due dichiarazioni comuni il cessate il fuoco, malgrado siano arrivati segnali di inquietudine da parte di molti altri stati, la macchina bellica turco-azera non si è fermata.

Valore “locale” del conflitto caucasico

Allo stesso tempo non va però dimenticato che l’offensiva in Nagorno-Karabach ha obiettivi tutti interni al quadro transcaucasico. Sin dall’inizio del conflitto, malgrado l’Armenia sia parte integrante del Trattato di sicurezza collettiva (l’alleanza militare guidata dalla Russia dopo la fine del Patto di Varsavia), a differenza che in Bielorussia, la Federazione non ha minacciato interventi a fianco di Erevan se non nel caso estremo di aggressione diretta dentro i confini armeni. Una postura che non è certo piaciuta a Nikol Pashinyan, il premier armeno asceso al potere dopo la Rivoluzione di Velluto del 2018. Pashynian è un ex difensore dei diritti civili che guarda per sua formazione e cultura a Occidente. Tuttavia in nome della Realpolitik e delle forniture di idrocarburi a prezzi low-cost è restato legato finora a Mosca, ma l’evidente neutralità assunta dalla Russia nel conflitto nel Nagorno-Karabach potrebbe fargli riconsiderare – a medio termine – il legame con Mosca, ripiegando su una posizione di neutralità. Non è un caso che tutti i suoi sforzi per giungere al cessate il fuoco nelle prime settimane del conflitto abbiano cercato di far leva sui timori della UE (e di Merkel in particolare) per la crescente aggressività turca, anche se Berlino in realtà ha le mani legate perché – piaccia o no – la Turchia resta un membro imprescindibile della Nato.

In questo quadro proprio l’Alleanza Atlantica sta accelerando il suo programma di allargamento a Est. Due settimane dopo l’inizio del conflitto, il segretario generale della Nato Jens Stoltenberg ha invitato apertamente la Georgia ad aderire al sistema difensivo occidentale: «Siamo concentrati sulla regione del Mar Nero, stiamo sviluppando le nostre capacità marittime, la difesa costiera della Georgia e stiamo conducendo visite di navi Nato nei porti georgiani. Nei nostri negoziati sottolineiamo l’importanza strategica della regione del Mar Nero sia per la Georgia che per gli stati della Nato e siamo pronti ad accoglierla nell’alleanza», ha affermato il segretario generale. Un quadro fosco per la Russia soprattutto in caso di sgancio della Bielorussia e dell’Armenia.

Si tratta ora di capire se il punto di caduta dello scontro nel Nagorno-Karabakh, escludendo la catastrofe di un confronto diretto tra Russia e Turchia, sarà una vittoria completa azera o se, come continuano ad affermare gli esperti di strategia russi, Ilham Aliyev si accontenterà di sedersi al tavolo della trattativa dopo essersi ripreso i corridoi che collegano il Nagorno-Karabakh all’Armenia. In entrambi i casi, Mosca ne uscirà indebolita e dovrà ripensare seriamente ai suoi rapporti con Ankara. A settembre Erdoğan ha annunciato di aver trovato giacimenti di gas nel Mar Nero che dovrebbero garantire entro il 2023 l’autonomia energetica al suo paese. A quel punto allora, i buoni rapporti con Putin, potrebbero per lui essere solo un intralcio.

I timori dell’Occidente per l’attivismo turco

L’Azerbaijan ha fatto intendere che non vuole iniziare alcuna trattativa per risolvere la contesa sull’enclave etnico armeno, senza che vi partecipi direttamente la Turchia. Una posizione che manderebbe in soffitta definitivamente il format del “gruppo di Minsk” a cui partecipano, oltre ai paesi coinvolti nel conflitto, la Francia, gli Usa e la Russia. Un Diktat a cui è seguito l’inevitabile stop di Erevan mentre il segretario di stato Mike Pompeo esortava Erdoğan «a evitare di interferire nel conflitto». La presa di posizione dell’Eliseo, seppur non ufficiale, è stata particolarmente dura. «Il presidente francese ha già espresso preoccupazione per il ruolo della Turchia nel conflitto in Nagorno-Karabach. È motivo di preoccupazione che Erdoğan stia moltiplicando le sue avventure, non tenendo conto della necessità di garantire una sicurezza comune», si legge in un comunicato fatto circolare dalla diplomazia francese nella giornata del 18 ottobre. Macron teme che Erdoğan voglia tastare il polso alla Comunità europea per capire fino a che punto possa spingersi nella propria impunità.

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Strategie turche in preparazione del conflitto caucasico… https://ogzero.org/strategie-turche-in-preparazione-del-conflitto-caucasico/ Wed, 07 Oct 2020 15:31:57 +0000 http://ogzero.org/?p=1439 … e considerazioni sull’esasperazione dei nazionalismi in Azerbaijan, Armenia, Artsakhi Abbiamo ricevuto un articolo da Gianni Sartori a proposito del coinvolgimento turco nelle nuove operazioni militari in Nagorno Karabach, e poi Murat Cinar ha animato una puntata del suo Caffè turco su Radio Blackout e prima avevamo sentito anche Teresa Di Mauro, corrispondente per l’“Atlante […]

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… e considerazioni sull’esasperazione dei nazionalismi in Azerbaijan, Armenia, Artsakhi

Abbiamo ricevuto un articolo da Gianni Sartori a proposito del coinvolgimento turco nelle nuove operazioni militari in Nagorno Karabach, e poi Murat Cinar ha animato una puntata del suo Caffè turco su Radio Blackout e prima avevamo sentito anche Teresa Di Mauro, corrispondente per l’“Atlante delle Guerre” e conoscitrice della realtà armena e di alcune zone di Artsakhi: alterniamo i loro contributi in questo spazio embrionale – destinato ad arricchirsi con altri interventi, utili a raccontare tutti i variegati punti di vista e gli intrecci di interessi.

Nessun confine separa le persecuzioni di armeni e curdi

 

Nella guerra intrapresa dall’Azerbaijan, il ruolo di Ankara si va sempre più definendo. In particolare con la fornitura di migliaia di mercenari e jihadisti provenienti dalla Siria (e forse anche dalla Libia) per combattere a fianco degli azeri contro gli armeni.

Ascolta “2020-10-15_Murat-Cinar_zampa turca sulla spalla azera” su Spreaker.

Snodi curdi al margine della logica militare turco-azera

Kars subisce un destino analogo a quello delle città frontaliere di Ceylanpinar e di Reyhanlı nel conflitto siriano. Ugualmente utilizzate per smistare le milizie islamo-fasciste. Per il giornalista curdo Mustafa Mamay non ci sarebbe quindi da stupirsi se «da ora in poi vedremo i salafiti passeggiare per le vie di Kars».

D’altra parte era quasi scontato che Erdoğan intervenisse a gamba tesa nella questione del Nagorno-Karabakh ai primi segnali di ripresa del conflitto, mettendo a disposizione di Baku, oltre ai già citati mercenari e terroristi, aerei F-16, droni Bayraktar TB-2, veicoli e consiglieri militari.

Non certo impropriamente era stato definito “un autentico genocidio politico” in Bakur (territori curdi sotto amministrazione-occupazione turca). In riferimento alla destituzione – dopo le elezioni del 2019 – dei legittimi rappresentanti politici eletti nelle liste dell’Hdp (Partito Democratico dei Popoli) e l’arresto di centinaia di militanti dell’opposizione ed esponenti di associazioni curde.

Ma oggi la faccenda si va caricando di ulteriori e peggiori implicazioni.

La città di Kars (in Bakur) è destinata a diventare un centro di smistamento per jihadisti e mercenari di Ankara? Tutt’altro che casuale – per esempio – la repentina imposizione da parte del Ministero dell’Interno del governo Akp-Mhp di Turker Öksüz come fiduciario (governatore, prefetto, podestà…?) alla città curda di Kars. Dopo che i sindaci regolarmente eletti (Ayhan Bilgen e Şevîn Alaca, esponenti dell’Hdp) erano stati preventivamente arrestati insieme a una quindicina di altri esponenti politici nell’ambito delle “indagini di Kobane” (ossia per le proteste del 2014). Cinque membri del consiglio comunale e due membri dell’assemblea generale provinciale venivano sospesi dal servizio o costretti alle dimissioni.

L’arresto del co-sindaco Ayhan Bilgen e di altri esponenti dell’Hdp risaliva al 25 settembre. Le sue dimissioni da sindaco (praticamente un’autosospensione proprio per evitare l’imposizione di un governatore turco) a cinque giorni dopo. Ma – in contrasto con la stessa legislazione turca – questo suo gesto non era stato tenuto in considerazione e la nomina – illegittima – del governatore seguiva il suo corso.

Giustamente si era parlato di una “confisca dei diritti democratici”. Allo scopo, molto presumibilmente, di controllare totalmente questa cittadina ai confini con l’Armenia.

Ascolta “2020-10-01_Teresa-Di-Mauro_Nagorno-Karabach_episodio di luglio” su Spreaker.

Niente di strano e niente di nuovo

Ancora nel 2009 (10 ottobre) a Zurigo la firma – già concordata – dell’accordo di “normalizzazione diplomatica” e per la riapertura delle frontiere tra la Turchia e l’Armenia era rimasta per molte ore in sospeso. Il motivo? La legittima contrarietà della delegazione armena per il previsto discorso del ministro degli Esteri turco, Ahmet Davutoğlu. Addirittura, la berlina di Hillary Clinton – già in viaggio verso l’Università di Zurigo per raggiungere le delegazioni svizzere, francesi, russe ed europee – aveva fatto repentinamente dietrofront per ritornare all’hotel da dove – secondo alcune versioni direttamente dal parcheggio – avrebbe tempestato di telefonate i ministri turco e armeno per sbloccare la situazione.

Poi la cosa era rientrata e il discorso rimasto nel cassetto. Ma il giornale “Hurriyet” ne era ugualmente entrato in possesso appurando che il contenzioso verteva proprio sulla questione del Nagorno-Karabakh. In sostanza Davutoglu esigeva il ritiro di Erevan dalla provincia, formalmente sottoposta all’Azerbaijan, ma controllata dall’Armenia dal 1993.

Posizione ribadita – anche per rassicurare il governo di Baku – nei giorni successivi dal primo ministro turco Recep Tayyp Erdoğan. Storicamente amico e alleato di Ankara, l’Azerbaijan vedeva tale accordo come fumo negli occhi.

Ostilità che trovava precise assonanze nel Parlamento turco che avrebbe dovuto poi ratificare l’accordo. Per il parlamentare kemalista Onur Oymen (esponente dell’opposizione nazionalista) si trattava nientemeno che di una «abdicazione, di un cedimento alle pressioni esterne» esprimendo «inquietudine per l’avvenire del paese» (senza però specificare se si preoccupasse più della Turchia o dell’Azerbaijan).

Contestazioni, se pur in tono minore, provenivano anche dall’Armenia, in particolare dal partito nazionalista Dachnak. Migliaia di persone avevano partecipato a una manifestazione indetta a Erevan chiedendo che prima di ogni accordo la Turchia riconoscesse le proprie responsabilità in merito al genocidio del 1915.

Ascolta “2020-10-01_Teresa-Di-Mauro_Nagorno-Karabach_narrativa del conflitto” su Spreaker.

L’esplosione al declino dell’Urss

Risalivano al febbraio 1988 le manifestazioni degli armeni nella città di Stepanakert per la riunificazione con l’allora sovietica repubblica d’Armenia.

E il 20 febbraio – dopo essere echeggiata anche per le vie di Erevan – la richiesta dei manifestanti veniva approvata dal parlamento regionale del Karabakh con 110 voti contro 17. Rigettata da Mosca, forniva comunque l’innesco per le prime avvisaglie del lungo, aspro conflitto armeno-azero. Il 22 febbraio una marcia – non certo spontanea – di migliaia di azeri si muoveva da Ağdam in direzione di Askeran (nel cuore dell’entità autonoma: oblast, provincia) prendendo di mira sia la popolazione, sia le proprietà armene. Nei disordini di Askeran si conteranno decine di feriti (sia armeni che azeri) e almeno due azeri uccisi. È il segnale per una miriade di scontri “settari” tra le due comunità, sia nel Nagorno-Karabakh che nell’Azerbaijan, ai danni soprattutto delle rispettive minoranze.

Mosca intanto permaneva nella sostanziale incomprensione del problema ponendo, nel novembre 1989, la provincia autonoma sotto il diretto controllo dell’amministrazione azera.

Quanto alla richiesta ufficiale di riunificazione, proclamata con una sessione straordinaria del Soviet supremo armeno e del Consiglio nazionale del Nagorno-Karabakh, resterà lettera morta. Nel novembre 1991 lo statuto di autonomia veniva definitivamente abolito e il Nagorno-Karabah si ritrova interamente sottoposto al totale controllo di Baku.

In un referendum organizzato per il 10 dicembre 1991 – boicottato dalla minoranza azera – la proposta di uno stato indipendente sarà approvata con il 99 per cento dei voti.

E a questo punto anche la proposta di ripristino di un’ampia autonomia – tardivamente avanzata da Mosca – veniva rispedita al mittente (sia dagli armeni che dagli azeri, anche se per ragioni opposte). La parola passava definitivamente alle armi al momento dell’indipendenza dell’Armenia (23 settembre 1991) e dell’Azerbaijan (18 ottobre 1991).

Guerra dichiarata (1991-1994)

Mentre la situazione andava precipitando e il conflitto si alimentava con la partecipazione di migliaia di combattenti, per la provincia – erroneamente definita “separatista” – il sostegno militare dell’Armenia indipendente risulterà nevralgico.

A fianco degli azeri, oltre ai Lupi Grigi turchi, anche combattenti afgani e ceceni.

Con gli armeni miliziani provenienti dall’Ossezia e – ma discretamente e solo a livello logistico – dalla Grecia.

Entrambi i belligeranti inoltre avrebbero fatto ricorso a mercenari provenienti dai territori dell’ex Urss (russi e ucraini).

Quanto alla Russia, sembrava volersi mantenere equidistante vendendo armi a entrambi i belligeranti.

Le vittime, combattenti e civili, alla fine del 1993 si contavano a migliaia. Centinaia di migliaia, come previsto, gli sfollati e rifugiati interni su entrambi i fronti.

Ai primi di maggio del 1994 gli armeni ormai controllavano circa il 14 per cento del territorio dell’Azerbaijan e i primi negoziati (il cessate il fuoco è del 12 maggio) prendono il via sotto la supervisione di Mosca.

Con la creazione nel maggio 1994 del Gruppo di Minsk per la Conferenza sulla sicurezza e la cooperazione in Europa (attualmente denominato Osce) Francia, Russia e Stati Uniti (a cui successivamente si uniranno Italia, Turchia, Germania…) avevano inteso promuovere una soluzione pacifica del conflitto.

Tuttavia – vien da dire – con scarsi risultati, vista l’attuale deriva.

Ascolta “2020-10-01_Teresa-Di-Mauro_Nagorno-Karabach_situazione incancrenita” su Spreaker.

Per i media occidentali rimane impigliata la definizione “separatisti”

Qualche considerazione in merito alle operazioni propagandistiche in atto (soprattutto da parte di Baku e Ankara) e rivolte principalmente ai media europei. Con qualche discreto risultato, pare. Forse perché – tutto sommato – conviene schierarsi con l’Azerbaijan (e con la Turchia) piuttosto che con la piccola Armenia, quasi insignificante sullo scacchiere internazionale.

Per esempio, spesso gli armeni del Nagorno-Karabakh vengono impropriamente definiti “separatisti”. Una definizione mai utilizzata per il Nord di Cipro occupata dalla Turchia fin dal 1974 (e direi illegalmente, così a naso). Per non parlare della continua evocazione di una – al momento inesistente – partecipazione di militanti del Pkk ai combattimenti (a fianco degli armeni, ovviamente).

Ascolta “2020-10-01_Teresa-Di-Mauro_Nagorno-Karabach_Nazionalismo dal basso o usato dal potere per compattare” su Spreaker.
Magari! verrebbe da dire. Ma temo che con tutti i problemi che al momento li affliggono (aggrediti come sono da ogni parte, soprattutto dalla Turchia e dai suoi ascari) molto difficilmente i partigiani curdi avranno la possibilità di prendere parte alla resistenza dei loro fratelli armeni. Anche se – presumo – ne sarebbero lieti e fieri.

In fondo di fronte avrebbero l’ennesima versione dei massacratori ottomani, dei responsabili del genocidio degli armeni (poi reiterato) e dei tentativi di genocidio nei confronti di greci, curdi (yazidi in particolare), alaviti, assiro-caldei.

Ascolta “2020-10-01_Teresa-Di-Mauro_Nagorno-Karabach_Dalla rivoluzione di Velluto ai proclami bellicisti di Pashinyan” su Spreaker.

Il business delle armi oltrepassa ogni schieramento: corsi e ricorsi storici

Nel frattempo (gli affari sono affari) pare che la Francia – come Israele (droni Elbit) e l’Italia (M-346 di Leonardo) – non abbia smesso di vendere armi e tecnologia militare all’alleato della Turchia, l’Azerbaijan. Non è l’unico paese a farlo naturalmente. Ma la cosa appare stridente pensando al ruolo di antagonista storico di Ankara assunto periodicamente da Parigi. Anche recentemente nella querelle sulla questione dell’espansionismo turco nelle acque del mar Mediterraneo.

Armi sofisticate, comunque. Forse le stesse con cui le forze militari di Baku stanno colpendo direttamente la popolazione di Stepanakert.

Una cosa comunque va detta. In qualche modo l’attuale conflitto tra Armenia e Azerbaijan appare propedeutico all’intervento diretto della Turchia contro l’Armenia (o ne è addirittura la “vetrina”). Mi auguro di sbagliarmi, ma intravedo una prosecuzione (magari “con altri mezzi”, ma poi neanche tanto) di quella politica e di quella strategia che nel 1915 avevano determinato lo sterminio della popolazione armena.

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La spartizione delle risorse nel Mediterraneo https://ogzero.org/accordo-tra-erdogan-e-serraj-e-la-spartizione-delle-risorse-nel-mediterrano/ Fri, 24 Jul 2020 00:24:15 +0000 http://ogzero.org/?p=99 24 luglio 2020 Con le esplicite intenzioni espresse ad alto livello dai due responsabili degli Affari esteri turco e russo in relazione alla soluzione libica, che da opposte fazioni sarebbe individuata nella diplomazia da trovare in un prossimo incontro a Mosca, appare sempre più evidente un più ampio piano comune globale giocato nel centinaio di […]

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24 luglio 2020

Con le esplicite intenzioni espresse ad alto livello dai due responsabili degli Affari esteri turco e russo in relazione alla soluzione libica, che da opposte fazioni sarebbe individuata nella diplomazia da trovare in un prossimo incontro a Mosca, appare sempre più evidente un più ampio piano comune globale giocato nel centinaio di incontri tra Putin e Erdoğan nei quattro anni intercorsi dal fallito golpe del 15 luglio 2016 e sancito dagli Astana Papers. Dovunque nello scacchiere mediorientale le due potenze locali occupano campi avversi e in ciascuno di questi teatri di guerra, dopo scaramucce per procura, giocano il ruolo dei pacificatori, spartendosi risorse e territori, economie e infrastrutture, governance e vie di comunicazioni… Hanno cominciato il gioco in Siria, dove la Turchia, appartenente ancora alla Nato, ha coperto il maggiore interesse russo – procurandosi la striscia antikurda che richiedeva e congelando Idlib, bacino di milizie jihadiste da svuotare per utilizzarle in Libia,  dove risulterà il vincitore accaparrandosi il petrolio dell’Eni (come nel quadrante del Mediterraneo orientale), pur beneficiando l’“alleato” russo del controllo di parte del territorio sottraendolo all’influenza occidentale tanto paventata da Putin all’indomani dell’abbattimento di Gheddafi; e ora il connubio tra zar e sultano si va a occupare del Nagorno Karabakh, resuscitando una disputa trentennale nei piani di Putin utile a bloccare il South Caucasus Pipeline, impossibile da far passare in mezzo a una nuova guerra tra armeni (fieri nemici dei turchi per il genocidio e alleati dei russi per affinità religiosa) – che infatti hanno iniziato le provocazioni belliche nel giugno 2020 – e azeri, appoggiati dai turchi.

Il prossimo palcoscenico della pantomima che apparentemente divide Russia e Turchia, ma non i loro interessi finali si gioca attorno al reale interesse dei due tiranni: le pipeline, quelle da boicottare per l’interesse di Gazprom, a cominciare da quella che passerebbe attraverso la Grecia a partire da Israele per giungere in Salento, che si configura come concorrente del South Stream turco, ma anche delle pipeline russe, da cui dipendono gli approvvigionamenti energetici occidentali.  

Le prime reazioni internazionali al sempre maggiore dinamismo turco nell’area si ebbero con l’accordo intercorso tra Erdoğan e Sarraj per spartirsi il petrolio del Mediterraneo, un vero e proprio abuso, sono state minime: una fregata italiana a difendere i giacimenti che l’Eni si era aggiudicata nel mare prospiciente Cipro – dimenticata in questa operazione, forse perché comunque la Turchia la considera integralmente di sua proprietà – e infatti  la Grecia ha espulso l’ambasciatore turco. Ma cosa si può immaginare in trasparenza dietro a questa sorprendente iniziativa? In quale contesto nei due paesi si va a inserire?

 

Il maresciallo libico Khalifa Haftar e il ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov a Mosca, il 13 gennaio 2020 (Ufficio stampa del ministero degli Esteri russo via AP)

Murat Cinar analizza i meccanismi che il 12 dicembre 2019 regolavano gli interessi nell’area

Da quell’episodio si è potuto allargare il campo, ai molti motivi di scontro e guerra aperta, di repressione e strategie, alleanze e affinità religiose (piegate a fare da foglia di fico per gli interessi geopolitici): il parlamentare Demirtaş malato non curato nel carcere di Edirne dove è ostaggio del regime, banche nazionalizzate per svuotarne i forzieri e sovvenzionare le infrastrutture che fanno da bacino di voti per l’Akp, e poi l’arabizzazione forzata del Rojava negli intenti di Erdoğan – e in questo ambito si registrano le affermazioni di Assad, disponibile a incontrare il presidente turco ma solo per ricordargli che è un invasore (ma in fondo anche Assad padre aveva operato un’arabizzazione della regione ai danni dei curdi); le due fazioni che si contendono il potere in quella che era la Libia sono sempre più internazionalizzate, con precisi appoggi agli uni o agli altri, con la presenza russa che condiziona protagonisti di entrambi i campi di questa guerra per procura, che è un risvolto di quanto è successo e sta accadendo in Siria, un paese che sta diventando modello anche per una nazione che non esiste più dalla fine di Gheddafi; l’attenzione turca si sta da tempo concentrando anche sul Nordafrica e la Libia dove Arabia Saudita ed Emirati, insieme all’Egitto del generale al-Sisi, sostengono il capo della Cirenaica Khalifa Haftar. Mentre Ankara, con il Qatar e in parte l’Italia, appoggia il governo di Tripoli, la città di Misurata e la Fratellanza Musulmana.

La guerra in Libia non è più guerra civile, è diventata regionale. A sostegno di Haftar si prodigano militarmente Egitto, Emirati Arabi e Russia. A oggi l’unico attore forte regionale è la Turchia che non ha mai cambiato posizione e non ha problemi a dichiarare il suo approccio interventista, riaffermando il suo ruolo nella regione anche in relazione a quanto accade in Siria (lì si riproduce lo stesso meccanismo insito nel rapporto di Ankara con la Russia).
La Francia auspica una risoluzione politica-diplomatica ma è, insieme alla Nato, sul campo a combattere a fianco di Haftar. L’Italia – che politicamente appoggia Tripoli (e ha interessi economici in Tripolitania) – è in realtà statica, non ha “amici” in Libia, ma in realtà non è ostile a Haftar. Al-Sarraj aveva bisogno di sostegno militare, ma a parte la missione in difesa dell’ospedale di Misurata sicuramente una certa attività di intelligence, l’Italia non si è poi attivata più di tanto. La Turchia invece è disposta a farlo e al-Sarraj è stato obbligato ad accettare l’aiuto della Turchia. Le reazioni a catena dimostrano che ormai in quel territorio si sta svolgendo una proxy war, una guerra per procura.

Nancy Porsia spiegava il carattere regionale della guerra in Libia nel dicembre 2019

Il governo di Tripoli, ha reso noto di temere la “minaccia” di intervento egiziano in Libia dopo che il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi, in una dichiarazione pubblicata, ha definito il Governo di accordo nazionale libico (Gna) “ostaggio di formazioni armate e terroriste”. Il Consiglio del Gna afferma di comprendere “il diritto dello Stato egiziano” alla “sicurezza nazionale ma non accetta alcuna minaccia alla propria sovranità” e “invita le autorità egiziane a rivedere le proprie posizioni circa la crisi libica e a giocare un ruolo positivo che rifletta la profondità delle relazioni storiche fra i due Paesi fratelli”.

E mentre a Tripoli si combatteva e le milizie misuratine lanciavano lo stato di mobilitazione contro l’ennesima fase dell’offensiva del generale cirenaico Haftar sulla capitale, il presidente turco Erdogan incassava l’approvazione da parte della commissione parlamentare Esteri dell’accordo di cooperazione militare con il Gna (il governo tripolino, inventato dall’Onu) siglato il 27 novembre a Istanbul con il premier Serraj.

Quanto la guerra libica sia sempre legata alla profonda crisi in atto nel Mediterraneo Orientale sui confini marittimi delle Zone Economiche Esclusive lo si evince anche dal rischieramento di un drone turco armato BayraktarTB2 all’aeroporto di Gecitakle nella regione di Famagosta, nella Cipro del Nord.

Come affermava Chiara Cruciati su “il manifesto” del 17 dicembre 2019:

Se con il memorandum Ankara si impegna a inviare materiale e consulenze (cosa che con i droni già fa da tempo, violando l’embargo libico), ora Erdogan promette anche truppe, in cambio del controllo sullo specchio di mare tra Creta e Cipro.

Il cosiddetto “accordo di demarcazione” regalerebbe ad Ankara la giurisdizione in acque che ospitano giacimenti di gas naturale tra i più ricchi al mondo, da quelli ciprioti (su cui minaccia anche Israele: è di domenica la notizia dell’allontanamento di una nave dell’Istituto di Oceanografia israeliano da parte della marina turca nelle acque di Cipro) e su quelli nordafricani.

Lo fa sfidando apertamente l’altro attore regionale della crisi libica, l’Egitto, che sta sulla barricata opposta, con Haftar. E sfida anche l’Italia, convinta da aspirazioni neocoloniali, più che dalla vicinanza geografica, che la Libia sia doverosamente affar suo: oggi il ministro degli Esteri Di Maio dovrebbe volare a Bengasi per vedere il generale renegade perché, come dicono in tanti, è tempo di mediare tra le due parti (fossero solo due…) e uscire dal guado. Il probabile incontro è stato preparato nei giorni scorsi dall’Aise, i servizi segreti italiani, già a Bengasi.

Insomma, ormai Haftar va rivalutato (questa sembra la visione dell’Italia che teme di perdere il malloppo a favore della Francia) sebbene da mesi stia stringendo d’assedio il governo voluto dall’Onu e riconosciuto come il solo legittimo dalla comunità internazionale, a partire da Roma.

Identica narrazione, indirettamente, la dà il governo egiziano: «Il governo a Tripoli – ha detto da Sharm el Sheik il presidente al-Sisi – è ostaggio di milizie armate e terroriste». Non li nomina, ma nel mirino di al-Sisi ci sono i Fratelli musulmani, considerati i veri reggenti tripolini e riferimento politico dell’Akp di Erdogan e del Qatar, l’altra potenza regionale alleata di Sarraj che nei giorni scorsi, per bocca dell’emiro Al Thani, ha detto di voler/poter intervenire «sul piano economico e della sicurezza» al fianco di Tripoli.

Dall’interventismo turco in mezzo Vicino Oriente non poteva mancare la stoccata al nemico-amico statunitense. Brucia ancora il riconoscimento da parte della Camera Usa, il 31 ottobre, del genocidio armeno. Ma bruciano di più la sospensione della vendita degli F35 e le sanzioni che Washington ha paventato se Ankara proseguirà nell’acquisto del sistema di difesa missilistico russo S-400.

E così Erdogan ha pensato bene di minacciare gli Usa di «chiudere la base aerea di Incirlik e la stazione radar di Kurecik, che ospitano i militari americani». Nella seconda c’è la Nato, nella prima bombe atomiche Usa. Erdogan non vede l’ora di metterci le mani: da Incirlik è partito un pezzo del tentato golpe del 2016.

L’aeroporto di al-Watiya a sudovest di Tripoli diventerà una base militare turca

Intanto, in seguito all’accordo bilaterale di cooperazione militare sottoscritto lo scorso novembre tra Ankara e il Gna, la Turchia occuperà due basi militari in Libia: il grande aeroporto di al-Watiya (nella foto), vicino al confine tunisino, 125 chilometri a sudovest di Tripoli, da dove sono state cacciate da poco le forze dell’Lna che la controllava dal 2014) e nel porto di Misurata. Forse la base verrà occupata anche dalle forze statunitensi dell’Africa Command (Africom) dopo le intese tra Ankara e Washington dei giorni scorsi e il colloquio tra Donald Trump ed Erdoğan. Mentre a Misurata verrebbe invece creata una base navale: la presenza di navi turche è considerata essenziale per la sicurezza delle attività di perforazione (petrolio e gas) nella regione.

Il porto di Misurata dove la Turchia installerà la sua base navale

 

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